Un presente e un futuro dominato ovunque dall’economia di guerra
Stati Uniti, Europa, Italia: un presente e un futuro dominato ovunque dall’economia di guerra
Man mano che passa il tempo, rischiamo di assuefarci sempre più al fatto che la guerra è tornata ad essere una vicenda normale nel nostro scenario e immaginario quotidiano. Si moltiplicano le voci oscene che dicono che dobbiamo preparare le generazioni di oggi all’idea di vivere in un periodo prebellico, che il nuovo mondo sarà contrassegnato dall’ineluttabilità della guerra, che il periodo che è andato da dopo la seconda guerra mondiale ad oggi in assenza della stessa (in realtà solo per l’ Occidente civilizzato) è stato solo una parentesi.
Del resto, i dati di realtà già parlano di questa nuova situazione: nei giorni scorsi è uscito il rapporto SIPRI, l’ Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, che ci mette di fronte ad un’evidenza drammatica ed inquietante. La spesa militare mondiale nel 2023 è arrivata a 2.243 miliardi di dollari, con un incremento in termini reali del 6,8% rispetto al 2022, in aumento per il nono anno consecutivo. Gli Stati Uniti rimangono il Paese con la spesa militare più alta del mondo, pari a 916 miliardi di dollari, seguiti dalla Cina che si stima destina a questa voce 296 miliardi. Terzo Paese al mondo, in questa nefasta classifica, è la Russia, che ha impiegato 109 miliardi nelle spese militari. Magari meno noto in questo panorama è il dato per cui i Paesi europei appartenenti alla NATO nel 2023 hanno destinato agli armamenti ben 375 miliardi di dollari, 3,4 volte la spesa della Russia.
Ma questo rischia di essere solo l’inizio di ciò che ci aspetta. Mettiamo da parte un attimo – anche se non è certamente un particolare secondario- quello che comporta il ricorso alla guerra in termini di restringimento degli spazi democratici e della libertà d’espressione. Basta pensa al fatto che la voce di chi ha chiesto una soluzione diplomatica rispetto alla guerra tra Russia e Ucraina è stato volgarmente etichettato come “filoputiniano” oppure di chi ha sollevato il rischio del genocidio del popolo palestinese bollato come “antisemita”.
Per stare solo sul piano delle scelte di politica economica, possiamo dire che siamo già entrati in un’epoca di “economia di guerra”.
Se guardiamo all’Europa, non solo dobbiamo constatare l’assoluta inanità di azione per un’iniziativa diplomatica per il cessate il fuoco e una soluzione di pace tra Russia ed Ucraina e la subalternità nei fatti ad Israele che impedisce la costruzione di una soluzione positiva per il popolo palestinese. In realtà, quello che è in campo è comunque il tema del rafforzamento delle scelte in materia delle politiche di difesa e di riarmo dell’Unione Europea. Non ci sono, al riguardo, politiche univoche in materia, anzi, ma tutte vanno in questa direzione.
Esiste un’opzione, che potremmo definire più ”tradizionale”, che è quella rappresentata dal nuovo Patto di stabilità e crescita, un po’ più lasco di quello precedente nella fase della prepandemia, ma che si basa sempre sul controllo del deficit e del debito pubblico, avendo di mira la spesa corrente (a partire da quella sociale). Caldeggiata in primo luogo da buona parte della classe dirigente della Germania e dai Paesi cosiddetti frugali, ma che non è vista di cattivo occhio neanche dai Paesi dell’Est e che ripropone una ricetta di austerità, con l’unico capitolo di spesa che in quest’ottica può crescere ed essere preso in considerazione come debito comune (come fu la Next Generation UE) è quello proprio per la spesa militare. Non a caso, nei mesi passati, Ursula von der Lyen ha più volte insistito su questa prospettiva, che sembra essere quella maggiormente a portata di mano per uscire da una visione non troppo confliggente con il primato dei singoli Stati nazionali.
C’è poi un’altra strada che, in particolare, in questi ultimi giorni è stata indicata da Draghi (e da Letta) e sulla quale poggia il Rapporto sulla competitività che lo stesso Draghi dovrebbe presentare subito dopo le prossime elezioni europee. Essa muove da un’analisi realistica dell’attuale situazione geopolitica ed economica europea, dall’essere giunta ad un punto di svolta per cui una pura continuità con il passato non è riproponibile – la difesa proveniente dagli Stati Uniti, il grosso delle esportazioni in Cina, l’energia a basso costo dalla Russia -, uno schema che poteva funzionare nel mondo che è alle nostre spalle, quello della globalizzazione aperta, e non quello odierno, del protezionismo e del nazionalismo economico.
Da qui diparte un progetto ambizioso, quello di realizzare una trasformazione dell’intera economia europea e anche della sua architettura istituzionale. Ciò dovrebbe avvenire tramite una forte concentrazione dell’industria e dei capitali (con annessa spesa comune dell’Unione Europea) proprio nei settori strategici della difesa, dell’energia e dell’economia digitale.
Per esemplificare, viene utilizzata la vicenda del settore delle telecomunicazioni, dove viene evidenziato che in Europa esistono 34 gruppi di reti mobili, contro 3 negli Stati Uniti e 4 in Cina. A sostegno di questa nuova fase di concentrazione del capitale, viene detto che occorre investire in fondamentali beni pubblici, intendendo con ciò in particolari le reti infrastrutturali energetiche e di supercalcolo (altro che parlare di beni pubblici e/o comuni rifacendosi a istruzione, salute, previdenza ecc., sic!). Ora, a parte la difficoltà di trovare un consenso largo in Europa su quest’ipotesi che viene presentata come “innovativa” se non addirittura “progressista”, e che, allo stato attuale, può essere sostenuta da gran parte della famiglia socialdemocratica e, a livello statuale, forse dalla Francia, dalla Spagna e da pezzi di establishment italiano e tedesco, non si può non vedere che anche questa è un’opzione incentrata sul mercato (e sul suo ampliamento), che mette sì tra parentesi la priorità del rientro dal deficit e dal debito pubblico, ma assume come settori di sviluppo strategico proprio il riarmo, l’autosufficienza energetica e lo sviluppo dell’economia digitale.
Insomma, una visione per cui l’Europa può provare a competere con gli USA e la Cina, ma in cui il recinto della competizione è quello di un mondo suddiviso in grandi potenze in lotta per l’egemonia, a partire da quella militare ( con buona pace del modello sociale europeo).
Non è facile prevedere l’evoluzione di questa discussione e quale sarà il modello che prenderà il sopravvento tra quello “tradizionale” e quello “innovativo” o il punto di compromesso, assolutamente possibile, anzi probabile, che si potrà trovare tra i due, dato che essi non costituiscono assolutamente strade alternative. Infatti, ciò che è chiaro è che entrambi stanno dentro l’economia di guerra, che non a caso mette in conto un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro della gran parte delle persone – visto che è inevitabile che le maggiori risorse per il riarmo derivino da una compressione del sistema di Welfare- e anche un ridimensionamento delle politiche che guardano alla conversione ecologica ( tendenza cha abbiamo anche questa già vista concretamente in opera nelle scelte della UE nei mesi passati), per riconfermare la centralità delle fonti fossili.
Non c’è peraltro bisogno di aggiungere che, in questo scenario, il nostro Paese figura come il classico “vaso di coccio” tra presunti vasi di ferro. A partire dai dati strutturali dell’economia per cui il nostro deficit pubblico a fine 2023 si attesta al 7,4% sul PIL (il più alto in Europa), mentre il nuovo Patto di stabilità indica al 3% il riferimento da non superare; in più, la nostra spesa militare nel 2023 ha raggiunto l’1,46% sul PIL, mentre il target minimo di riferimento per i Paesi Nato è fissato al 2%. Insomma, per l’Italia si prefigura una nuova stagione di politiche di austerità, di meno Stato sociale e più spese militari, dopo che già tra il 2021 e il 2024, in termini reali, la spesa sanitaria è calata del 6,2% e quella dei redditi da lavoro dipendente nella Pubblica Amministrazione del 4%. Una situazione che, al di là delle classiche furbizie preelettorali in cui le nostre forze politiche, a partire da quelle di destra, sono specialiste, spiega molto bene il retroterra del voto di astensione di quasi i tutti i gruppi parlamentari italiani al Parlamento europeo sul nuovo Patto di stabilità e crescita.
C’è una possibile alternativa a questi foschi scenari? Al di là dell’espressione di voto alle prossime elezioni europee, dove comunque si possono sostenere quelle forze che sono pienamente pacifiste, come si dice “senza se e senza ma”, non c’è dubbio che dobbiamo puntare e lavorare per un risveglio della società e dei movimenti. Qualche segnale in giro esiste – basta vedere ciò che succede nelle Università, a partire da quelle americane oppure, per stare a noi, la grande partecipazione alla manifestazione nazionale di Milano del 25 aprile- e, man mano che la realtà dei fatti mostrerà il suo volto più duro, possono esserci le basi per far crescere la consapevolezza della centralità della lotta per la pace e per un diverso modello produttivo, sociale ed ambientale. In ogni caso, non possiamo esimerci dal provarci.