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Un presente e un futuro dominato ovunque dall’economia di guerra

Stati Uniti, Europa, Italia: un presente e un futuro dominato ovunque dall’economia di guerra

Man mano che passa il tempo, rischiamo di assuefarci sempre più al fatto che la guerra è tornata ad essere una vicenda normale nel nostro scenario e immaginario quotidiano. Si moltiplicano le voci oscene che dicono che dobbiamo preparare le generazioni di oggi all’idea di vivere in un periodo prebellico, che il nuovo mondo sarà contrassegnato dall’ineluttabilità della guerra, che il periodo che è andato da dopo la seconda guerra mondiale ad oggi in assenza della stessa (in realtà solo per l’ Occidente civilizzato) è stato solo una parentesi.
Del resto, i dati di realtà già parlano di questa nuova situazione: nei giorni scorsi è uscito il rapporto SIPRI, l’ Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, che ci mette di fronte ad un’evidenza drammatica ed inquietante. La spesa militare mondiale nel 2023 è arrivata a 2.243 miliardi di dollari, con un incremento in termini reali del 6,8% rispetto al 2022, in aumento per il nono anno consecutivo. Gli Stati Uniti rimangono il Paese con la spesa militare più alta del mondo, pari a 916 miliardi di dollari, seguiti dalla Cina che si stima destina a questa voce 296 miliardi. Terzo Paese al mondo, in questa nefasta classifica, è la Russia, che ha impiegato 109 miliardi nelle spese militari. Magari meno noto in questo panorama è il dato per cui i Paesi europei appartenenti alla NATO nel 2023 hanno destinato agli armamenti ben 375 miliardi di dollari, 3,4 volte la spesa della Russia.

Ma questo rischia di essere solo l’inizio di ciò che ci aspetta. Mettiamo da parte un attimo – anche se non è certamente un particolare secondario- quello che comporta il ricorso alla guerra in termini di restringimento degli spazi democratici e della libertà d’espressione. Basta pensa al fatto che la voce di chi ha chiesto una soluzione diplomatica rispetto alla guerra tra Russia e Ucraina è stato volgarmente etichettato come “filoputiniano” oppure di chi ha sollevato il rischio del genocidio del popolo palestinese bollato come “antisemita”.
Per stare solo sul piano delle scelte di politica economica, possiamo dire che siamo già entrati in un’epoca di “economia di guerra”.

Se guardiamo all’Europa, non solo dobbiamo constatare l’assoluta inanità di azione per un’iniziativa diplomatica per il cessate il fuoco e una soluzione di pace tra Russia ed Ucraina e la subalternità nei fatti ad Israele
che impedisce la costruzione di una soluzione positiva per il popolo palestinese. In realtà, quello che è in campo è comunque il tema del rafforzamento delle scelte in materia delle politiche di difesa e di riarmo dell’Unione Europea. Non ci sono, al riguardo, politiche univoche in materia, anzi, ma tutte vanno in questa direzione.

Esiste un’opzione, che potremmo definire più ”tradizionale”, che è quella rappresentata dal nuovo Patto di stabilità e crescita, un po’ più lasco di quello precedente nella fase della prepandemia, ma che si basa sempre sul controllo del deficit e del debito pubblico, avendo di mira la spesa corrente (a partire da quella sociale). Caldeggiata in primo luogo da buona parte della classe dirigente della Germania e dai Paesi cosiddetti frugali, ma che non è vista di cattivo occhio neanche dai Paesi dell’Est e che ripropone una ricetta di austerità, con l’unico capitolo di spesa che in quest’ottica può crescere ed essere preso in considerazione come debito comune (come fu la Next Generation UE) è quello proprio per la spesa militare. Non a caso, nei mesi passati, Ursula von der Lyen ha più volte insistito su questa prospettiva, che sembra essere quella maggiormente a portata di mano per uscire da una visione non troppo confliggente con il primato dei singoli Stati nazionali.

C’è poi un’altra strada che, in particolare, in questi ultimi giorni è stata indicata da Draghi (e da Letta) e sulla quale poggia il Rapporto sulla competitività che lo stesso Draghi dovrebbe presentare subito dopo le prossime elezioni europee. Essa muove da un’analisi realistica dell’attuale situazione geopolitica ed economica europea, dall’essere giunta ad un punto di svolta per cui una pura continuità con il passato non è riproponibile – la difesa proveniente dagli Stati Uniti, il grosso delle esportazioni in Cina, l’energia a basso costo dalla Russia -, uno schema che poteva funzionare nel mondo che è alle nostre spalle, quello della globalizzazione aperta, e non quello odierno, del protezionismo e del nazionalismo economico.

Da qui diparte un progetto ambizioso, quello di realizzare una trasformazione dell’intera economia europea e anche della sua architettura istituzionale. Ciò dovrebbe avvenire tramite una forte concentrazione dell’industria e dei capitali (con annessa spesa comune dell’Unione Europea) proprio nei settori strategici della difesa, dell’energia e dell’economia digitale.
Per esemplificare, viene utilizzata la vicenda del settore delle telecomunicazioni, dove viene e
videnziato che in Europa esistono 34 gruppi di reti mobili, contro 3 negli Stati Uniti e 4 in Cina. A sostegno di questa nuova fase di concentrazione del capitale, viene detto che occorre investire in fondamentali beni pubblici, intendendo con ciò in particolari le reti infrastrutturali energetiche e di supercalcolo (altro che parlare di beni pubblici e/o comuni rifacendosi a istruzione, salute, previdenza ecc., sic!). Ora, a parte la difficoltà di trovare un consenso largo in Europa su quest’ipotesi che viene presentata come “innovativase non addirittura “progressista”, e che, allo stato attuale, può essere sostenuta da gran parte della famiglia socialdemocratica e, a livello statuale, forse dalla Francia, dalla Spagna e da pezzi di establishment italiano e tedesco, non si può non vedere che anche questa è un’opzione incentrata sul mercato (e sul suo ampliamento), che mette tra parentesi la priorità del rientro dal deficit e dal debito pubblico, ma assume come settori di sviluppo strategico proprio il riarmo, l’autosufficienza energetica e lo sviluppo dell’economia digitale.
Insomma, una visione per cui l’Europa può provare a competere con gli USA e la Cina, ma in cui il recinto della competizione è quello di un mondo suddiviso in grandi potenze in lotta per l’egemonia, a partire da quella militare ( con buona pace del modello sociale europeo).

Non è facile prevedere l’evoluzione di questa discussione e quale sarà il modello che prenderà il sopravvento tra quello “tradizionale” e quello “innovativo” o il punto di compromesso, assolutamente possibile, anzi probabile, che si potrà trovare tra i due, dato che essi non costituiscono assolutamente strade alternative. Infatti, ciò che è chiaro è che entrambi stanno dentro l’economia di guerra, che non a caso mette in conto un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro della gran parte delle persone – visto che è inevitabile che le maggiori risorse per il riarmo derivino da una compressione del sistema di Welfare- e anche un ridimensionamento delle politiche che guardano alla conversione ecologica ( tendenza cha abbiamo anche questa già vista concretamente in opera nelle scelte della UE nei mesi passati), per riconfermare la centralità delle fonti fossili.

Non c’è peraltro bisogno di aggiungere che, in questo scenario, il nostro Paese figura come il classico “vaso di coccio” tra presunti vasi di ferro. A partire dai dati strutturali dell’economia per cui il nostro deficit pubblico a fine 2023 si attesta al 7,4% sul PIL (il più alto in Europa), mentre il nuovo Patto di stabilità indica al 3% il riferimento da non superare; in più, la nostra spesa militare nel 2023 ha raggiunto l’1,46% sul PIL, mentre il target minimo di riferimento per i Paesi Nato è fissato al 2%. Insomma, per l’Italia si prefigura una nuova stagione di politiche di austerità, di meno Stato sociale e più spese militari, dopo che già tra il 2021 e il 2024, in termini reali, la spesa sanitaria è calata del 6,2% e quella dei redditi da lavoro dipendente nella Pubblica Amministrazione del 4%. Una situazione che, al di là delle classiche furbizie preelettorali in cui le nostre forze politiche, a partire da quelle di destra, sono specialiste, spiega molto bene il retroterra del voto di astensione di quasi i tutti i gruppi parlamentari italiani al Parlamento europeo sul nuovo Patto di stabilità e crescita.

C’è una possibile alternativa a questi foschi scenari? Al di là dell’espressione di voto alle prossime elezioni europee, dove comunque si possono sostenere quelle forze che sono pienamente pacifiste, come si dice “senza se e senza ma”, non c’è dubbio che dobbiamo puntare e lavorare per un risveglio della società e dei movimenti. Qualche segnale in giro esiste – basta vedere ciò che succede nelle Università, a partire da quelle americane oppure, per stare a noi, la grande partecipazione alla manifestazione nazionale di Milano del 25 aprile- e, man mano che la realtà dei fatti mostrerà il suo volto più duro, possono esserci le basi per far crescere la consapevolezza della centralità della lotta per la pace e per un diverso modello produttivo, sociale ed ambientale. In ogni caso, non possiamo esimerci dal provarci.

“CAMBIARE LE CITTÀ PER CAMBIARE IL MONDO. LE DONNE AL CENTRO DELLA PIANIFICAZIONE URBANA PER NUOVI MODELLI DI CONVIVENZA”
Incontro pubblico del Forum Ferrara Partecipata:
Ferrara, mercoledì 8 maggio ore 17

Proseguendo le riflessioni sulla visione di città futura che vogliamo, Mercoledì 8 Maggio alle ore 17.00 presso la Parrocchia di S.Giacomo, via Arginone 161, promuoviamo l’incontro pubblico rivolto alla cittadinanza e alle forze politiche e sociali sul tema della “città a misura delle donne”, dal titolo “CAMBIARE LE CITTÀ PER CAMBIARE IL MONDO. LE DONNE AL CENTRO DELLA PIANIFICAZIONE URBANA PER NUOVI MODELLI DI CONVIVENZA”.
Introduce: Dalia Bighinati che presenterà il tema a nome del Forum.
Interviene come esperta per guidarci nella riflessione: Elena Granata, Docente di Urbanistica del Politecnico di Milano, autrice del libro “Il senso delle donne per la città” (Einaudi, 2023)
Modera il dibattito: Irene Bortolotti del Forum.

Obiettivo: in vista delle prossime elezioni amministrative, invitiamo i cittadini, le forze politiche e i candidati a sindaco a confrontarsi su una visione di città futura che ponga al centro lo sguardo delle donne sugli spazi urbani per un nuovo modello di progettazione urbana e di convivenza più inclusivo.

La conferenza stampa di presentazione dell’incontro si terrà lunedì 6 maggio alle ore 12.30 c/o Centro Documentazione Donna, via Terranuova 12/b

La locandina dell’incontro. 

 

La Comune di Ferrara: 5 maggio ore 10.30 Sala Estense

 

La Comune di Ferrara: 5 maggio ore 10.30 Sala Estense

 

Questo è un invito speciale alle cittadine e cittadini di Ferrara:
incontriamoci domenica 5 maggio alle ore 10.30 in Sala Estense, piazza
Municipale. La candidata sindaca Anna Zonari insieme alle candidate e ai
candidati della lista de La Comune racconteranno la visione di città che
sottende al programma.
In un progetto, infatti, la visione è un aspetto fondamentale: raccoglie
gli ideali, le aspettative, fissa gli obiettivi sullo scenario futuro
desiderato e permette lungo quella direzione di programmare le singole
azioni necessarie a concretizzare il cambiamento. Per questo, prima di
presentare il programma, parleremo di questa visione, che è patrimonio
di un gruppo che è andato costruendosi in maniera aperta da giugno dello
scorso anno, poi lavorando insieme a tante persone diversamente
impegnate ogni giorno nella vita di Ferrara. Questa visione è diventata
una proposta politica tangibile.
La bellezza di Ferrara sta nel conservare e rivelare il frutto di un
pensiero che si è fatto mattone, giardino, crocevia; una visione che nei
secoli  – oltre dodici- si è trasformata nel nostro abitare e vivere un
luogo. Il cambiamento è insito nelle cose vive, così per la nostra città
occorre oggi pensare, da domani pianificare e concretizzare il
cambiamento necessario a fare fronte alle sfide di dopodomani. Il
programma de La Comune, oramai arrivato ad un punto fermo, è già
disponibile sul sito web e verrà presentato pubblicamente punto per
punto nelle prossime settimane in occasioni specifiche.

Storie in pellicola / “The Old Oak”

Ken Loach resta Ken Loach, unico, inimitabile, emozionante, toccante. Il suo ultimo film, “The Old Oak”, parla sempre (e ancora) della sua Inghilterra periferica, dei silenzi e grigiori di quella parte di società dimenticata e abbandonata.

Possiamo lamentarci perché i cespugli di rose hanno le spine o gioire perché i cespugli spinosi hanno le rose. Abraham Lincoln

Un film necessario. Oggi più che mai. Un viaggio in luoghi dimenticati da tutti, il nord-est dell’Inghilterra, dove le tonalità del bianco e del grigio fuliggine parlano di disoccupazione, disagio, isolamento, solitudine. Quel grigio che riporta alle miniere di un tempo che fu, alle ciminiere, alle lotte sindacali, al sudore e alle lacrime, a fotografie in bianco e nero che riposano sulle pareti del retro di un pub dove ancora si sta insieme a passare le giornate.

Sono questi i luoghi di elezione dei film di Ken Loach (Kenneth Charles Loach), classe 1936, regista che tratta della “working class” inglese (ma non solo) per eccezione. Ha iniziato con “Piovono pietre” (1993), fino al meraviglioso e intenso “Bread and Roses” (2000) del “noi vogliamo il pane ma vogliamo anche le rose” (le cose belle della vita), dedicato al tema delle organizzazioni sindacali.

C’è Newcastle in “Io, Daniel Blake” (2016), Palma d’Oro a Cannes, e in “Sorry We Missed You” (2019), sul mondo spietato e frenetico dei corrieri, e c’è anche in “The Old Oak, o meglio le sue vicinanze, scritto insieme al fedele Paul Laverty. In tutti e tre questi ultimi film, poi, ritroviamo il bravissimo Dave Turner.

“The Old Oak” (la vecchia quercia), distribuito in Italia da Lucky Red, è il nome di un pub, l’unico luogo pubblico in cui la gente può incontrarsi, in una fiorente località mineraria di un tempo e che oggi attraversa momenti duri, dopo 30 anni di ininterrotto declino. Un luogo davvero speciale, in una cittadina di appartamenti sfitti, dove le imprese immobiliari comprano a poco prezzo, e a scatola chiusa, svalutando il frutto di una vita di lavoro.

Ebla Mari. Foto Lucky Red
Ebla Mari, foto Lucky Red

Il proprietario di quel pub, TJ Ballantyne (Dave Turner) non sa se chiuderlo o no, perché la quotidianità è difficile e lo diventa ancora di più quando nel villaggio arrivano dei rifugiati siriani e lui diventa amico della giovane Yara (Ebla Mari), che, con la sua macchina fotografica, farà miracoli. Le antiche querce qui sono molte: lui, il pub, i siriani, i resistenti della cittadina. Tutti coloro che si sono sentiti, in qualche modo, ingannati, dalla società, dai poteri forti, dalla politica, dal sistema, dal mondo. Lo stesso regista.

C’è intolleranza, nel dover accogliere profughi siriani che, secondo i più, sono mandati nelle periferie, allontanati dai centri cittadini ricchi e fiorenti dei potenti (nelle città italiane, l’affermazione è spesso la stessa), per non essere visti, per lasciarli a qualcun altro.

Ci sono diffidenza, scarsa conoscenza, timore dell’altro, paura di dover dividere il poco rimasto, la lotta fra poveri. E poi ci sono frigoriferi vuoti, opere di carità che forniscono scatolame e pannolini per bebè, pensieri di suicidio per mancanza di speranza e il bullismo dei più ottusi campanilisti. Il voler accogliere entra in forte conflitto con i pensieri degli amici di un tempo, legami che rischiano di spezzarsi.

Ma TJ Ballantyne crede nel dialogo, e, riesumando la frase “quando mangi insieme si rimane uniti”, un motto che viene da quando, negli anni ’80, i lavoratori delle miniere in sciopero contro la Thatcher, che le voleva chiudere, organizzavano mense comuni per resistere più a lungo, mette tutti attorno alla stessa tavola.

Lui crede nella solidarietà, quella che nasce dal basso e che lega tutti, perché tutti, qui, hanno le stesse identiche difficoltà. Da vecchia quercia – simbolo, peraltro, del Regno Unito e luogo dove Robin Hood dimorava con i suoi sodali nella Foresta di Sherwood – vuole mettere le due comunità in relazione. Una corrispondenza di sensi e sentimenti che si può creare e costruire. Perché comprendersi si può. Sempre.

 

“The Old Oak”, di Ken Loach, con Dave Turner, Ebla Mari, Claire Rodgerson, Trevor Fox, Chris McGlade, Col Tait, Jordan Louis, Andy Dawson, Debbie Honeywood, Reuben Bainbridge, Joe Armstrong (II), Rob Kirtley, Chris Gotts, Abigail Lawson, Chris Braxton, Laura Lee Daly, Andrea Johnson, Lloyd Mullings, Laura Daly, Maxie Peters, Neil Leiper, Lorenzo McGovern Zaini, Francia 2023, 113 mn.

Dai confini estremi della città:
vivere abbandonati a Bova di Marrara

Dai confini estremi della città: vivere abbandonati a Bova di Marrara

Non abito in “Città” ma in una piccola frazione del Comune di Ferrara. L’ultima al confine sud-est del territorio – Cinquantaquattro famiglie, all’incirca.

É un posto dimenticato da Dio e dagli uomini. Progressivamente (ci abito da più di trent’anni) ci hanno tolto tutto, chi e perché non ve lo so dire. So però che onoriamo  urbanamente le tasse dovute.

Non abbiamo trasporti pubblici, hanno chiuso la scuola, non ci sono bar, figurarsi luoghi di aggregazione e di incontro.  Non abbiamo neppure la chiesa. L’unico negozio forno e alimentari ha abbassato le serrande.

Questo cosa comporta? Un isolamento tale che fa diventare difficile per tutti gli abitanti fare le cose più semplici.

Per andare a scuola se sei piccolo, dall’asilo alle medie, ci sono gli scuolabus ma i punti di raccolta non sono sempre vicini e i trasporti non sono gratuiti. Se vai alle superiori devi organizzarti con autobus rari e che fanno percorsi “stravaganti”. Uno studente che non abbia la disponibilità di essere accompagnato, lo vedi camminare alle 6,30 del mattino con in spalla lo zaino che lo incurva dal peso, per raggiungere la fermata più vicina.

E questo se va a Ferrara, perché se deve raggiungere la più vicina Portomaggiore (beh, è un altro Comune!) la corsa non esiste,  deve andare a San Nicolò (che è del Comune giusto) a prendere una corriera che lo porta a Ferrara stazione dove c’è un trenino che lo porta finalmente a destinazione.

Oppure c’è la variante per Santa Maria Codifiume, se uno può permettersi di perderci una mezza giornata.

Rivedrai gli stessi ragazzi al ritorno verso le 16,00 con i compiti da fare, tanto per il tempo libero non c’è niente. Niente di niente.

Non molto diverso per gli anziani. Per andare alle visite mediche, in farmacia, che alla Bova non c’è, dal medico di base, che alla Bova non c’è, a fare la spesa, che negozi vicini non ce ne sono, o si è ancora in gamba da usare la bici oppure si deve  ricorrere ai famigliari, ma, lo sapete no, i nostri vecchi si imbarazzano a “essere di peso” sui figli che lavorano, loro hanno “le loro difficoltà” e quasi sempre abitano altrove.

Esiste il servizio di qualche volontario, ma non ripaga il sentimento di sentirsi soli nelle sale d’attesa e in balia alle volte, perché non “performanti”, dei borbottamenti e l’impazienza degli operatori sanitari. Non tutti tollerano di essere  mortificati e così vengono definiti maleducati, alcuni si scusano preventivamente, di cosa? di dare disturbo per essere vecchi, lenti, e impauriti?

Era stata trovata una bella soluzione. Non so se è durata, alcuni Bovani si sono messi a disposizione facendo una specie di servizio taxi su chiamata, un servizio di buon vicinato! Il limite? Che una iniziativa personale e responsabile, ha permesso alla P.A di non porsi più di tanto il problema.

Per tutti gli altri adulti è d’obbligo l’auto che vuol dire spese, inquinamento e rischi.

Di poco più di un centinaio di persone di questo antico borgo  alla destra del Po di Primaro, la maggior parte è costituita da anziani. Nel giro di pochi chilometri intorno ci sono tre residenze per loro, ovviamente tutte private.

I pochi giovani autoctoni o temerari, alla raggiunta età scolare dei figli si spostano nei paesi più grandi e più serviti.

E noi superstiti ci  accontentiamo della natura (trascurata se non è quella dei nostri giardini o dei campi), del silenzio, della compagnia degli animali dei  cortili e di quelli selvatici, perché andare al cinema, a teatro e fare vita sociale vuol dire andare in Città. Vuol dire fare 20 chilometri all’andata e 20 al ritorno, con il sovraccarico di dover ipotecare tempo e aggiungere fatica alla routine quotidiana: “come andare al lavoro anche se più bello”.  Se si vincono tutte le resistenze il risultato è quello di essere “accolti” dal traffico, dalla mancanza di parcheggi e da un crescente senso di colpa per aver lasciato soli i vecchi e i bambini per cose futili come la cultura e il divertimento.

Bova di Marrara ha una sola strada principale, le case sono case coloniche disperse nella campagna. É però zona per i percorsi ciclistici, la natura intorno è bella anche se abbandonata a se stessa. Percorrerla è un piacere, non fosse che le strade sono piene di buchi,  senza dissuasori per le auto (poche per fortuna!) che mettano in sicurezza gli abitanti umani e non,  che la transitano “pedibus”.

La Bova è anche zona di pescatori, ma il Po di Primaro ha gli argini che franano e l’acqua si sta prendendo sempre più terreno. Sì certo le nutrie… ma il Demanio Comunale?

Però alla fine vi  racconto una bella storia.

Rosa, vicina alla pensione, ha comprato casa qui. Vicino a lei c’è un altarino con la Madonnina, abbandonato da mò e rovinato.

Pazientemente e con cura, Rosa l’ha restaurato, ha messo fiori e luci.

Di fronte, sul lato opposto della strada, in un piccolo spazio ombreggiato che dà sul Primaro ha messo una panchina e poi due e poi un tavolino e una poltrona, tutto fatto con materiale di recupero, con grande creatività e perizia.

Adesso questo piccolo giardino, rispettato da tutti, è diventato il posto per le chiacchiere, la sosta corroborante  per i ciclisti e i corridori, per le mamme che portano a spasso le carrozzine. Adesso la gente si ferma, qualcuno a pregare la Madonnina, qualcuno per ammirare il ricco e curato giardino.

Nessuno ha chiesto niente a Rosa e Rosa non è stata ad aspettare che un primo cittadino, o chi per lui, intervenisse. Spontaneamente, con semplicità e senso civico ha dato il suo contributo alla nostra piccola comunità rendendola più accogliente e gentile.

Non possiamo sperare che “spuntino  altre Rose”  ma, di certo, possiamo pretendere che sia chi governa la città e tutti i suoi cittadini a prendersi carico dei loro bisogni, in modo eguale in ogni angolo del suo comune, avendo cura dei loro  interessi e del loro benessere.

Giovanna Tonioli
Candidata nella lista La Comune di Ferrara

Parole a Capo /
Lucia Paparella: “Radici” e altre poesie

Il tempo è il compagno che sta giocando di fronte a noi, e ha in mano tutte le carte del mazzo, a noi ci tocca inventarci le briscole con la vita.
(JOSÉ SARAMAGO)

Radici

Campi di gioia, piante musicali
e geniali, teneri animali padroni
dello spazio, con voi sto vivendo
la stagione fiorita della vita;
sono parte di quest’angolo di mondo,
sulla pelle ho tatuate le fiabe d’altri tempi.
I miei capelli stormiscono al vento, foglie ribelli;
le mie gambe conoscono lo scatto della lepre,
elettriche molle.
La pianura nasconde sedimenti di segreti,
cuori fossili sepolti dal tempo;
i detriti della vita riempiono il golfo
dell’anima; il vento smussa
i profili del paesaggio dai molti volti, ne pettina i capelli.
Sul mio corpo trascorrono i segni del tempo
ma il corpo della Terra è sempre giovane:
il ventre ferito dall’aratro si risana
e produce sempre frutto, neppure
delle ustioni notturne dei falò rimane traccia.
Opere e giorni procedono lenti
quali sogni di antichi dormienti
e un sonno di pietra m’invita a restare,
verso me si protendono le braccia degli alberi
che muti mi trattengono, il vento mi abbraccia
e io come posso partire?

 

L’ignoto

Sera gravida di ombre
e profumi perduti di passato,
con occhi rassegnati mi scruti
in cerca di esili conferme.
Il tempo stanco si sfoglia
un giorno via l’altro;
dalla profondità di strade
mai percorse
l’ignoto mi rincorre,
mi assale rabbioso
con latrati infernali,
gole fameliche protese a divorare
le infinite possibilità di vita
che ho mancato di cercare.

 

Carpe diem

 

“La rosa che non colsi”,
così si dolevano i poeti in certi versi…
ah, i rimpianti, cattivi rampicanti,
edere maligne avviticchiate alle vene
e al cuore, a soffocare quel poco di vita
che rimane!
Come giovani morti in battaglia,
speranze uccise appena nate,
i desideri non realizzati hanno una voce
incessante e sottile che sussurra
e che grida di giorno e di notte;
sono viaggi mai fatti, amori non vissuti,
bambini mai nati, amicizie perdute
o lasciate sfuggire.
E così fugge il tempo, e le lapidi dei rimpianti
diventano opache di polvere; tu seppellisci
i tuoi sogni, e quelli che restano ti sembrano
ben povera cosa.
L’entusiasmo è un soffio via via
più fioco al passare degli anni, una lucciola
che muore tra i fiori del prato.
E tu hai già vissuto, non ti resta che un’unica
lacrima per piangere il bene perduto:
il mattino acceso da un’alba radiosa,
la casa inondata di luce,
e tu che la guardi cadere.

(Poesie tratte dalla silloge “Luci e ombre”)

 

LUCIA PAPARELLA  Dopo aver trascorso buona parte della mia vita in campagna, di recente mi sono trasferita a Ferrara. Ho lavorato come docente nella Scuola Secondaria di Primo grado per numerosi anni; ora, dopo aver frequentato corsi specifici, sto muovendo i primi passi nell’ambito dell’editoria, un mondo che mi ha sempre affascinata. Credo nei nuovi inizi.
Nel tempo libero mi dedico alle mie passioni: leggere, scrivere, dipingere paesaggi, ascoltare musica, passeggiare in mezzo alla natura, visitare mostre e musei, uscire con gli amici, partecipare a eventi, laboratori e attività creative. Amo il mare, i cani, mi lascio pervadere e commuovere dalle emozioni suscitate in me da un dettaglio, da un ricordo…sono un’inguaribile romantica e sentimentale ma riesco a conservare sempre quella punta di ironia e autoironia necessarie per non prendere le cose troppo sul serio.
In passato ho partecipato a numerosi concorsi poetici, guadagnando qualche podio: prima classificata al Premio “Città di Caivano” (2003); primo posto al Concorso “Maria Francesca Iacono” (Casamicciola Terme) nel 2005; prima classificata al Premio “Donna” (Fasano, BR) nel 2012; seconda classificata al Concorso “Coluccio Salutati” (Borgo a Buggiano, PT) nel 2012.
Luci e ombre” (Tripla E, 2023) è la mia prima silloge edita.
Questa è la pagina che la Tripla E mi ha dedicato in qualità di autrice:
Paparella Lucia – Edizioni Tripla E
Questa è invece la pagina dedicata alla silloge, disponibile in e-book e in versione cartacea:
Luci e ombre – Edizioni Tripla E

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

TikTok… c’era una volta l’America

TikTok… c’era una volta l’America

 

Senato e Camera degli Stati Uniti hanno votato una legge la quale stabilisce che, entro fine gennaio 2025, l’app TikTok US vada ceduta: per la precisione, che Bytedance ceda la sua quota, pena la messa al bando della app negli Stati Uniti per “ragioni di sicurezza nazionale”.

La proprietà di TikTok è per il 20% dei fondatori cinesi Bytedance, un altro 20% è dei suoi dipendenti e il 60% è stato comprato dal fondo speculativo finanziario americano BlackRock. Il motivo della legge è il timore che i dati dei consumatori americani vengano usati dal Governo cinese (Bytedance nega). I cinesi però non vogliono vendere, ma non solo: se costretti, si terranno di certo il formidabile algoritmo che è il vero valore dell’app e faranno una battaglia legale contro la norma, che considerano anticostituzionale. La faccenda appare molto protezionistica e poco da “libero mercato” e non piace a tutti gli statunitensi, mentre invece TikTok piace a molti: è popolarissima tra i giovani ed è comunque usata da 170 milioni di americani.

Che si debbano porre vincoli e regole ai big tech è sacrosanto, ma bisogna farlo con tutte le app, non solo quelle cinesi. Vedremo come andrà a finire. Ma questo era solo uno spunto per parlare di un Impero che sembra al tramonto.

Gli Stati Uniti hanno 200 anni di democrazia. Noi italiani al suo confronto, in termini di consolidamento della democrazia, siamo perdenti, usciti come siamo dal fascismo da ottant’anni, e senza averci realmente fatto i conti. Tuttavia, America ha avuto volti e fasi molto diverse le une dalle altre, per questo il giudizio su di essa è controverso. Ha salvato l’Europa due volte, nella prima e seconda guerra mondiale, ma l’ha anche condizionata due volte. La prima con quella pace maledetta del presidente americano Woodrow Wilson che, mettendo sulle spalle tedesche enormi oneri di guerra, sembrava fatta apposta per indebolire la Germania (cioè l’Europa) e che ha contribuito non poco alla nascita del nazismo. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, l’errore non è stato ripetuto, ma si è optato per aiutare (anche col piano Marshall) a far “mettere le brache” agli europei in modo da doverla seguire, l’America, come i bambini seguono la mamma (cosa che avviene tuttora dopo 75 anni).

Dal 1850 al 1914 America ha vissuto un’epoca di straordinaria crescita economica all’insegna del “libero mercato” e di incredibili disuguaglianze (vedi Rothschild col suo petrolio) che portò però anche ad una legge (Sherman Act) che introdusse nel mondo per la prima volta l’idea di una Autorità pubblica che deve regolamentare i mercati, contrastare monopoli e oligopoli se si vogliono tutelare i consumatori. In Italia una legge analoga è arrivata nel 1970, cento anni dopo.

L’America è sia quella del libero mercato, sia quella dell’intervento dello Stato nell’economia. Dopo 70 anni di crescente libero mercato, cade in depressione nel 1929 proprio a causa del liberismo. Con 10 milioni di licenziati (un terzo degli occupati) e un impoverimento di massa, seppure dopo 4 anni (1933) Roosevelt cambia registro: avvia il New Deal, facendo proprie le idee di Keynes (dopo aver seguito Adam Smith per 153 anni) e introduce il ruolo dello Stato nell’economia per avere più occupati e maggiore crescita. Roosevelt divide le banche commerciali (buone) da quelle d’affari (cattive). Le prime erano aiutabili dallo Stato se fallivano, le seconde no. Dunque è la patria del libero mercato ma anche dell’importanza del ruolo dello Stato nell’economia. Lo sviluppo delle imprese private nell’high tech (da Internet al digitale all’AI) è anche il frutto di massicci investimenti pubblici. Il paradosso è di avere abbandonato queste politiche pubbliche (riprese però nel 2023 con l’Inflaction Reduction Act:mille miliardi di investimenti pubblici) proprio mentre la Cina le andava sviluppando, creando così una leadership mondiale nelle auto elettriche, nei pannelli solari e nelle principali tecnologie green.

L’America è anche la patria della difesa dei consumatori e di una libera stampa che non fa sconti ai potenti. E se vogliamo saperne di più sulla guerra Russia-Ucraina conviene leggere il New York Times, il Washington Post o il Wall Street Journal, i quali spiegano da 2 anni, diversamente dai nostri, come sia impossibile battere la Russia anche mandando tutte le armi di questo mondo agli ucraini.

L’America è la patria delle più importanti innovazioni tecnologiche ed organizzative. Agli americani però piacciono molto anche i dollari, e il potere. Qualche dubbio viene, se nel 1961 il capo ingegnere della Olivetti, il visionario cinese Mario Tchou, muore in un’incidente dalla strana dinamica a bordo della sua auto. Qualche dubbio viene, se nel 1962 il fondatore dell’ENI, l’ex partigiano Enrico Mattei, muore in un misterioso incidente aereo, le cui indagini verranno ripetutamente soggette a depistaggio. L’America è anche quella del 1999 che abolisce la divisione delle banche con il democratico Clinton, quando il suo collega di partito Roosevelt le aveva divise, e le fa diventare tutte speculative, avvia la globalizzazione e una serie di guerre finalizzate a difendere la sua leadership mondiale. Ma l’America è anche quella del 1962, quando il Congresso approvò una legge che limitava la libertà degli americani di abbonarsi a periodici comunisti. Il clima era quello della crisi Cuba-Usa. Tre anni più tardi la Corte suprema all’unanimità ritenne però la norma illegittima e contraria al diritto degli americani di leggere ciò che desideravano.

Insomma, una America a due facce. Mi sono persuaso che gli americani sono così perché hanno sviluppato l’auto-coscienza e l’individualizzazione (l’uomo che si fa da sé) ma nello stesso tempo hanno sviluppato (forse per contrasto) la “paura”, da cui il desiderio di controllare tutto e tutti. Basta vedere il sito del Pentagono, ma anche cosa è scritto “apertis verbis” sul retro della cartamoneta del dollaro attorno ad una piramide  – simbolo dell’impero – sovrastata dall’occhio del Dio (denaro?) che “favoreggia le nostre imprese” (annuit coeptis) nel novus ordo saeculorum.

Ma tutti gli Imperi hanno una crescita e un declino. Dopo aver governato il mondo nel secolo ventesimo, varrebbe la pena per America darsi una calmata nel ventunesimo, così forse passerebbe la paura per un mondo multipolare, che comunque arriverà.

 

 

Photo Cover: America Beautiful Country by James Bo Insogna

TABUCCHIANA.
Quando il caso diventa destino.
Antonio Tabucchi, la vita, le opere, la passione, il Portogallo

TABUCCHIANA. Quando il caso diventa destino. Antonio Tabucchi, la vita, le opere, la passione, il Portogallo

“A volte può prendere il via con un gioco”. Così Tabucchi nell’incipit del racconto che apre l’Angelo nero, un racconto che è anche un meta-racconto, visto che parla delle tecniche dell’invenzione (quanto meno della sua), adombrando anche le ragioni segrete che a un tratto piegano verso l’essenziale qualunque iniziale pretesto.

In fondo persino nella biografia tutto può prendere il via davvero così, “con un gioco”, tutto può iniziare per caso o quasi, senza che si possano prevederne le conseguenze. Per lui (a credere almeno al libro delle sue interviste: Zig-zag, Milano, Feltrinelli, 2022) tutto cominciò con un film, La dolce vita.

Aveva appena finito il liceo, ma gli bastò quella pellicola di Federico Fellini per fare crollare il suo mondo e spingerlo a partire. Davanti all’Italia lì raffigurata (non vi apparivano che “intellettuali da strapazzo”, un’intellighènzia autodistruttiva, aristocratici ‘imbecilli’, una borghesia corrotta, un proletariato credulone, mezzi di comunicazione cinici e opportunisti), insomma riflettendo su un paese che da quella rappresentazione cinematografica “usciva con le ossa rotte”, il giovane Tabucchi si disse: “voglio andar via di qui”.

Il mito della Francia lo portò a Parigi, nel mondo magico di Saint-Germain-des-Prés, a seguire come uditore libero le lezioni della Sorbona, mentre per campare faceva il lavapiatti alla mensa della Cité Universitaire.

Dopo un anno, partendo per tornare in Toscana, trovò su una bancarella nei pressi della Gare de Lyon, tradotto in francese, un piccolo libro di un autore sconosciuto che parlava di una tabaccheria vista da un personaggio collocato alla finestra di una casa di fronte.

Era una poesia che iniziava con un’amara riflessione metafisica (“Non sono niente. / Non sarò mai niente. / Non posso voler essere niente. / A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo”) e si chiudeva con il ritorno alla realtà e con una disincantata speranza al saluto di Esteves e all’enigmatico sorriso del padrone della tabaccheria. Il caso gli aveva messo davanti quelle pagine, e quel caso creò per lui un destino.

Incantato dal quel poemetto che gli ricordava forse anche un’attività familiare (il caso opera a volte seguendo persino suggestioni inconsce), Tabucchi si chiese chi mai ne fosse l’autore, scoprì che a Pisa alla Facoltà di Lettere insegnava Letteratura portoghese la bravissima Luciana Stegagno Picchio, e mentre ne seguiva i corsi cominciò a frequentare il Portogallo, allora sotto la dittatura di Salazar (se ne sarebbe ricordato in Sostiene Pereira) e a conoscere e fare amicizia con scrittori dissidenti.

Incontrò lì perfino una bella ragazza bruna, Maria José de Lancastre, che condivideva con lui la passione della letteratura e che qualche anno dopo sarebbe diventata sua moglie. Poi tutto sarebbe seguito, come avviene con le vocazioni e il destino.

È stato in Italia il primo, grande traduttore dell’opera di Pessoa (si ricordino in particolare, pubblicati da Adelphi, i due volumi di Una sola moltitudine, le Poesie, il Libro dell’inquietudine…) e di tanti altri scrittori di lingua lusitana; ha insegnato per tutta la vita letteratura portoghese nelle università italiane (Roma, Genova, Siena…); ha scritto in quella lingua diventata per lui familiare uno dei suoi romanzi più belli (Requiem); è sepolto a Lisbona, nella cappella degli scrittori portoghesi, per desiderio del Portogallo che, grato, l’ha sentito e riconosciuto sempre come uno dei suoi.

In questi ultimi mesi, a consolidare quel che già si sapeva sui rapporti con il suo paese di elezione. sono usciti due libri preziosi: uno pubblicato a Lisbona dalla Fundação Cupertino de Miranda (Mário Cesariny e Antonio Tabucchi, Cartas e outros textos, a cura di Fernando Cabral Martins con la collaborazione di Maria José de Lancastre), l’altro proposto da uno dei nostri più raffinati editori di poesia, il genovese Giorgio Devoto, per le Edizioni di San Marco dei Giustiniani (Concrezioni di Saturno. Antonio Tabucchi traduce Mário Cesariny).

I due testi ruotano intorno a uno dei più significativi poeti del surrealismo portoghese, Cesariny appunto, di cui Tabucchi si era occupato già al tempo della sua tesi di laurea dedicata a un movimento nato in terra portoghese solo nel 1947, con enorme ritardo rispetto all’esperienza francese, destinato, nonostante questo, a essere perseguito e impedito nel suo anelito di novità e libertà.

Un movimento a cui il nostro scrittore, appena laureato, avrebbe dedicato un ricco libro/antologia (La parola interdetta. Poeti surrealisti portoghesi, Torino, Einaudi, 1971) che si giovava anche della conoscenza e frequentazione degli autori trattati (in particolare Cesariny e Alexandre O’Neill, di cui soprattutto sarebbe diventato amico).

Il rapporto con il più anziano dei due, pittore e scrittore, capofila del movimento, per questo avversato dalla censura, non sarebbe sempre stato facile. Lo documenta bene il volume di cartas (di lettere inedite) di cui si diceva, che sulla cover ricorda una giornata di sole sulla spiaggia di Fonte da Telha. Tre figure si rivolgono con sguardo intenso a chi sta loro dinanzi: sono il giovane baffuto, divertente, ironico, mingherlino Antonio, la sua sorridente compagna e il più serio e maturo scrittore portoghese.

Il rapporto infatti si sarebbe interrotto presto, nel ’78, per divergenze letterarie proprio in merito al libro sul surrealismo pubblicato da Tabucchi e alla rifiutata partecipazione di Cesariny a un numero di Quaderni portoghesi da lui curato.

Ciò non toglie che fosse rimasto al fondo un legame tra i due; lo testimonia il bel pezzo Fra noi e le parole di Maria José che apre il volume italiano, ricco anche di testi tabucchiani dispersi, che offrono un inedito quadro del surrealismo portoghese e dei suoi protagonisti.

Antonio avrebbe continuato nel tempo lo studio degli spazi privilegiati della poesia di Cesariny (da lui collocati tra fuga e evento all’interno di evidenziate costanti: mito, parodia, eros, massime), così come avrebbe continuato a tradurlo, convinto della sua importanza nel quadro della poesia europea del secondo Novecento.

Ce lo provano queste Concrezioni di Saturno (il suggestivo titolo è desunto da un frammento poetico) che, riunendo con testo a fronte tutte le versioni dell’autore fatte da Tabucchi (comprese le disperse e inedite), consente di ripercorrere un universo poetico dove a grotte di oscurità si contrappongono continuamente luminescenze di sole, mare, giardini…

Difficile non annoverare in una nostra personale auto-antologia testi come A Edgar Allan Poe (con le sue concrezioni preziose e ibridate: “… mio granchio di diamante fra la vita e la morte la grazia e la disgrazia la verità e l’errore… […] mio fiume nero aspro velenoso scintillante e tremantesmeraldo e violetta […] parete bianca di apparizioni fumanti […] fermi ragni d’argento”), A António Maria Lisboa (“Da qui a Saturno c’è sempre stata molta strada / a meno che non si prenda il cammino più ripido…”), Un canto telegrafico…; difficile dimenticare le liriche dalle quali emerge il contrasto tra la vita condotta in una caverna di cui il sole illumina solo per intermittenze il recinto e una luce improvvisa che libera. Parimenti quelle in cui a risaltare è il contrasto tra l’ansia d’infinito e un quotidiano (che pure ‘meritiamo’) che stride clamorosamente con aspirazioni e speranze.

Nessun dubbio che al centro di quelle di Cesariny (sorvegliato e censurato dal regime), come del nostro Tabucchi, ci fosse il desiderio della libertà (giacché “dov’è il mondo se non qui?”), la pulsione verso una “città futura / dove la poesia “non ritmerà più l’azione / perché camminerà davanti ad essa” (Voce di una pietra), il ripetuto invito a discutere l’ovvio, a parlare, a impegnarsi (“Fra noi e le parole i murati vivi / e fra noi e le parole, il nostro dover parlare”: You are Welcome to Elsinore), come Antonio in qualunque sede non si sarebbe mai dimenticato di ricordare.

Cover: particolare della copertina del volume portoghese “Mario Cesariny e Antonio Tabucchi. Cartas e outros textos” 

Per leggere gli articoli di Anna Dolfi su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Parole e figure / La visita

Vivere serenamente il silenzio ed essere capaci di stare bene da soli sono al centro di questo originale albo. In un mondo sempre più saturo di rumore, una proposta che è una risorsa.

Un altro bellissimo albo illustrato esce con Kalandraka, “La visita”, di Núria Figueras, vincitore del XVI Premio Internazionale per albi illustrati Compostela 2023

La storia di una piccola volpe rimasta sola nella sua tana con una raccomandazione della mamma: non aprire agli sconosciuti.

Fuori cala il buio, anche se si sentono ancora gli schiamazzi allegri dei passeri e di altri animaletti felici e curiosi.

A bussare alla porta, toc toc, delicatamente, il Silenzio. Ma come si fa, se non si deve aprire a nessuno? Ma lui non è nessuno, è il Silenzio. Alto e grosso, imponente. Che paura, mamma mia, e se la divorasse? La curiosità però è grande e supera ogni remora. Insieme, volpe e silenzio, condividono alcune more, dolci e succose. Stare con lui non è poi tanto male, basta provarci ed è davvero bello riuscirci.

Ballare, allora, insieme? Certo, risponde il Silenzio, ma senza musica, o sarà costretto ad andarsene. La volpe non ne è capace. Il ritmo della danza sarà scandito solo dai battiti del cuore. Fuori non si ode più nulla, dentro di lei la piccola volpe sente una voce, sono i suoi pensieri, e, a volte, bisogna stare in silenzio per sentirli. È arrivato un nuovo amico.

Che bello sapere accogliere il silenzio, questo sconosciuto, questo dono oggi così raro e prezioso. Ricordo che tempo fa ne avevo scritto. L’ho sempre amato. Oggi è un privilegio, esserne avvolti e saperlo aspettare e accogliere. Un albo unico.

Per sfogliarne alcune pagine:

Núria Figueras, La visita, Kalandraka, Firenze, 2024, 36 p.

Leggi anche Per certi versi / Il silenzio inaudito”, di Roberto Dall’Olio

Genocidio e antisemitismo, due parole da usare con grande cautela

Genocidio e antisemitismo, due parole da usare con grande cautela

 

“Appartengo all’unica razza che conosco, quella umana”

Albert Einstein

 

La famosa frase di Einstein è in risposta a una domanda contenuta in un questionario sull’immigrazione che dovette compilare per rimanere negli Stati Uniti, dove si trovava in visita. Era il 1933, in Germania Hitler era appena salito al potere. Il cittadino tedesco Albert Einstein era di famiglia ebraica.

Non mi metto a fare l’esegeta della frase. Tuttavia a me sembra chiaro che Einstein usi la parola “razza” (race) in questo contesto per riprendere ironicamente lo stesso vocabolo contenuto nel questionario, ma la intenda come “genere” o come “specie”: il genere umano, appunto. La razza umana intesa come l’insieme di tutte le presunte razze, costruite via via nella storia dell’uomo sulla base di assiomi prima parentali, poi biologici e fenotipici. Chiunque sia dotato di buon senso sa che non è possibile costruire un concetto di razza, perché non esiste alcun marcatore che permetta di individuare un gruppo di persone accomunate dalla medesima genetica. Piuttosto, esistono persone che sia dal punto di vista genetico che culturale si mescolano continuamente, ed è esattamente questa la bellezza del mondo.  Visitare un luogo che si pensa debba essere connotato dai segni di un tipo umano prevalente, e scoprire che in quel luogo ci sono vestigia (somatiche, linguistiche, culinarie e artistiche) del passaggio di una miriade di popolazioni, alcune le più lontane da quello che è il loro luogo di origine – pensiamo, per fare un esempio “nostrano”, alle tracce dei Normanni in Sicilia –  è parte fondamentale della fascinazione del viaggio.

Per queste ragioni, il “genocidio” si definisce non in relazione alla popolazione che ne è vittima, ma in relazione all’idea di razza che ne ha chi lo definisce tale, o chi lo pratica intenzionalmente. Se è fallace la nozione di razza, è dubbia anche la definizione di “popolo”. Chi è che stabilisce qual è il genos (greco) o il genus (latino) da sterminare? Sulla base di quali caratteristiche? Inoltre genos vuol dire stirpe, ma l’idea di sterminare un popolo è diversa: un’intera popolazione non può essere assimilata ad una stirpe, almeno per la ragione che manca il legame di sangue tra tutti i suoi membri. La parola “genocidio” va utilizzata con molta cautela, perché azzera il ragionamento, impedisce le distinzioni.  Quello che sta facendo lo Stato di Israele ai danni della popolazione della Striscia di Gaza viene da più parti definito “genocidio”. La profondità di questo assunto è pari a zero. Semplicemente, viene facile dire che chi ha subito il più celebre “genocidio” della Storia adesso si vendica commettendo lo stesso crimine. Che grado di approfondimento delle ragioni del persecutore – ci sono sempre delle ragioni, anche se non le condividiamo – può praticare chi se la cava con l’accusa di “genocidio”? E’ un’accusa che si colloca nel solco dell’integralismo, dell’intolleranza. Sarebbe più sensato parlare al limite di etnocidio, cioè di volontà di cancellare le tracce di un’etnia – concetto meno vago di popolo e meno farlocco di razza, in quanto include persone che condividono lingua, religione, costumi e (a volte) territori, e che quindi possono essere di una certa etnia pur avendo caratteri somatici minoritari (in questo senso una donna siciliana bionda e con gli occhi azzurri è sicuramente di etnia sicula).  Ma “genocidio” va di moda: evidentemente il suono evoca qualcosa di talmente terribile da esercitare una sinistra seduzione.

Allo stesso modo, chi con ottime ragioni stigmatizza e condanna le azioni persecutorie e criminali dello Stato di Israele viene spesso accusato di antisemitismo. E’ lo stesso ragionamento di prima, visto dall’altra parte: non si può prendere posizione contro Israele perché gli ebrei sono il genos più perseguitato della Storia, e questo germe è sempre pronto a contagiare le menti fanatiche. Ergo, se te la prendi con Israele sei antisemita, o almeno fiancheggi chi lo è. E’ un’accusa che azzera ogni discussione. Un’accusa che sta anch’essa nel solco dell’integralismo e dell’intolleranza.

Non è vero che lo Stato di Israele punta allo sterminio di massa di tutti gli arabi di Palestina, così come non è vero che le voci critiche che, all’interno stesso di Stati Uniti e Israele, si levano contro la politica dell’attuale governo siano da considerare dei fiancheggiatori di Hamas. E’ auspicabile che le proteste che si stanno allargando come una macchia d’olio nei più famosi campus statunitensi, a partire dalla Columbia University di New York che ha una rettrice musulmana di origini egiziane –  e che la polizia sta soffocando con goffa brutalità, probabilmente influenzata da un establishment politico ed economico che non può tollerare il dissenso contro Israele, quando esce fuori dalle pagine accademiche per diffondersi nella società – abbiano la capacità di non farsi strumentalizzare. E parlare di genocidio dei palestinesi è probabilmente il modo migliore per farsi accusare di antisemitismo.

 

Cover photo: manifestazione alla George Washington University, a Washington, 25 aprile 2024 (AP Photo/Jose Luis Magana)

 

29 aprile 1945. Piazzale Loreto.

29 aprile 1945. Piazzale Loreto.

 

Le giornate che seguono il 25 aprile fino al vero e finale armistizio, entrato in vigore il 2 maggio, sono intrise di sangue da entrambe le parti: tedeschi che in ritirata uccidono selvaggiamente civili, donne e bambini, anziani, bruciando e saccheggiando le città e partigiani che combattono scendendo a valle per liberare le città ancora occupate. I racconti di quelle lunghe giornate sono riportati alla storia da diverse prospettive, soprattutto negli anni a seguire, spesso in un tentativo di revisionismo che vuole mettere partigiani e fascisti sullo stesso piano.

L’Italia è divisa in due. A sud gli angloamericani hanno già liberato il paese. Al nord fascisti e tedeschi cercano di tener loro testa con le ultime unità ancora presenti. Non sanno di fatto cosa fare, schiacciati al nord anche dai Russi che avanzano inesorabili verso ovest.

Durante un penoso tentativo di fuga verso la Svizzera, Il Duce, la Petacci e circa 50 gerarchi fascisti vengono individuati e arrestati.
Durante la loro prigionia i partigiani li spostano più volte, preoccupati da una parte del possibile tentativo dei fascisti di liberarli e dall’altra da quello degli alleati di graziarli. Il 29 aprile è il giorno in cui Benito Mussolini e Claretta Petacci, assieme ad altri gerarchi fascisti, vengono appesi a testa in giù in piazzale Loreto. Sono stati giustiziati il giorno prima, 28 aprile. I loro corpi vengono lasciati al mattino sul piazzale dai partigiani. Le persone che man mano si radunano iniziano a capire di chi sono i corpi. Le scene che ne seguono sono talmente violente che lo stesso Sandro Pertini dichiara: “Linsurrezione si è disonorata”.

Piazzale Loreto non fu scelto a caso. Era e rimane un luogo simbolo della barbarie dei nazi-fascisti, che un anno prima, il 10 agosto 1944, avevano lì fucilato e lasciato esposti al pubblico quindici partigiani.

Nel dopoguerra la piazza prese anche il nome di piazza dei quindici.

In un comunicato il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) rivendica l’uccisione di Mussolini rifacendosi all’art. 5 del Decreto per l’amministrazione della giustizia: “i membri del governo fascista e i gerarchi fascisti colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d’aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi con l’ergastolo”.

Il 29 aprile è anche il giorno della resa incondizionata dei Tedeschi. La firma avviene presso la Reggia di Caserta, alla presenza di delegati della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e di un osservatore dell’Unione Sovietica.

I tedeschi vennero dotati di delega dal ministro della Difesa fascista Rodolfo Graziani, perché nel documento redatto, le forze armate tedesche rappresentavano anche quelle della Repubblica Sociale Italiana, stato non riconosciuto dagli alleati e quindi non in grado di stipulare degli accordi internazionali, nemmeno la propria resa.

«Con la presente io, Maresciallo dItalia Rodolfo Graziani, nella mia qualità di Ministro delle Forze Armate, do pieni poteri al Generale Karl Wolff, Capo supremo delle SS e della Polizia e Plenipotenziario delle Forze Armate germaniche in Italia, a condurre, per mio conto, trattative alle stesse condizioni praticate per le Forze Armate Germaniche in Italia con intese impegnative riguardo alle truppe regolari dellEsercito Italiano, dellArma Aerea e della Marina, come pure Reparti militari fascisti».

 

 

E i fascisti che fine fecero? In questi giorni ho rivisto le immagini di una Tribuna politica dell’aprile 1972.

Mario Pucci, redattore capo de Il Secolo d’Italia, il giornale del Movimento Sociale Italiano, chiede ad Enrico Berlinguer: “Quando si chiede di discutere con voi non trovate altro sistema che la fuga

Berlinguer, da pochi mesi segretario del Partito Comunista Italiano, risponde:

Sarebbe meglio che i dirigenti del Movimento Sociale Italiano non parlassero di fughe. Voi siete stati coraggiosi soltanto quando stavate dietro la protezione delle SS, allora siete stati coraggiosi, nel massacro dei giovani, dei partigiani. Quando vi siete trovati di fronte, voi fascisti repubblicani, i partigiani, siete sempre scappati”.

 

Foto di copertina di Luigi Ferrario, tratta da Lombardiabeniculturali.it

 

 

CHIAMATA ALL’OBIEZIONE DI COSCIENZA, CONTRO LA GUERRA
LA CAMPAGNA NONVIOLENTA PER DIRE NO ALLA MOBILITAZIONE MILITARE

CHIAMATA ALL’OBIEZIONE DI COSCIENZA, CONTRO LA GUERRA
LA CAMPAGNA NONVIOLENTA PER DIRE NO ALLA MOBILITAZIONE MILITARE

Dichiaro fin da questo momento, con atto formale, la mia obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione. Non sono disponibile in alcun modo a nessuna chiamata alle armi“.
Viene lanciata oggi la Dichiarazione di Obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione, rivolta ai Presidenti della Repubblica e del Consiglio, che tutti i cittadini italiani, giovani o adulti, uomini o donne, possono sottoscrivere. E’ la risposta immediata che il Movimento Nonviolento offre a tutti coloro che vogliono esplicitare con atto formale la loro dissociazione totale dai venti di guerra, dal rischio di una mobilitazione militare che coinvolga anche l’Europa e il pericolo del ripristino della leva anche nel nostro paese.
La maggioranza degli italiani non vuole la guerra, è contro l’invio di armi, desidera politiche di pace.
I venti e i rumori di guerra sono sempre più forti. Droni, missili, bombe, solcano i cieli. E anche il movimento pacifista alza il tiro delle iniziative di pace.

Come partecipare?

Campagna coordinata dal Movimento Nonviolento. È possibile aderire in uno dei seguenti modi:

1) Compilare il format che si trova in fondo alla pagina dedicata al link https://www.azionenonviolenta.it/obiezione-alla-guerra-2/  ed inviare direttamente da lì.
2) Copiare il testo in email, con i propri dati, e inviare a obiezioneallaguerra@nonviolenti.org e autonomamente ai seguenti indirizzi:
protocollo.centrale@pec.quirinale.it – presidente@pec.governo.it – segreteria.ministro@difesa.it – sgd@postacert.difesa.it

3) Stampare in cartaceo, compilare e spedire a Movimento Nonviolento, via Spagna 8, 37123 Verona.

Anche chi aveva aderito alla prima fase della Campagna nel 2022 e 2023 è invitato a partecipare!

Qui il testo della Dichiarazione da sottoscrivere
Obiezione-DEF-3.pdf (azionenonviolenta.it)

Qui i materiali della Campagna
https://www.azionenonviolenta.it/obiezione-alla-guerra-2/

Qui il comunicato stampa
Chiamata all’obiezione di coscienza, contro la guerra (azionenonviolenta.it)

Per informazioni, scrivere a obiezioneallaguerra@nonviolenti.org

Movimento Nonviolento

Quella cosa chiamata città /
La mia scoperta di Ferrara

La mia scoperta di Ferrara

Iniziai ad occuparmi di Ferrara tardi ed in maniera discontinua. Mi resi conto che era una città storica particolare verso la fine del mio percorso universitario, quando conobbi un professore greco dell’Università della California ad un workshop all’IUAV di Venezia. Panos Koulermos nel corso di una chiacchierata, durante una pausa dei nostri lavori, mi chiese da quale parte d’Italia venivo e quando gli dissi che ero ferrarese, dopo una breve riflessione, mi disse: «Ferrara, l’unica città dove dal centro si vede la campagna». Non ci avevo mai pensato. Si riferiva al rettifilo che dal castello, posto nel centro della città, arriva alle mura, «catturando l’infinito» a nord, verso il fiume Po, come avrebbe detto Leonardo Benevolo.

Conoscevo il libro di Bruno Zevi dedicato alla città, mi aveva anche stupito che un intero saggio arancione della prestigiosa casa editrice Einaudi fosse dedicato alla città che identificava il mio territorio di nascita, ma essendo originario del «contado» non mi ero mai reso conto dell’importanza del suo ruolo nei processi di costruzione delle città storiche italiane. Fu l’affermazione di Koulermos che accese la mia curiosità, associata anche alla scelta compiuta verso la fine del mio percorso universitario di dedicarmi allo studio (e al progetto) delle città, più che dell’oggetto architettonico. Un po’ alla volta mi si aprì un mondo da approfondire, nel quale si intrecciavano arte e architettura, pensiero urbano e dimensione sociale, letteratura e cinema.

Ferrara, città patrimonio Unesco (foto Romeo Farinella)

Non impiegai molto tempo a rendermi conto che la città storica era ricca, articolata ma anche incompiuta. La città in passato aveva avuto l’ambizione di diventare grande, lo testimonia l’estensione delle mura che ancora oggi nascondono numerosi vuoti. Si tratta di pause nel costruito che lanciano molti messaggi. Dei vuoti parlanti di lefebreviana memoria, che mi hanno portato a pensare che in fondo la sua incompiutezza è anche la sua forza, ma questo carattere va colto, misurato e ricomposto. Michel Butor aveva colto il fascino di questo «non finito» parlando di ruines d’une cité future qui n’eut jamais lieu […] morceaux réel d’une ville rêvée. Queste sono le parole che usa per definire i frammenti incompiuti di quel nuovo cuore rinascimentale che a Charles Dickens, un secolo prima, era sembrato, mentre ne percorreva i grandi assi incompiuti, unreal and spectral. Anche Chateaubriand, in giro per Ferrara alla ricerca del fantasma del Tasso, la descrive quasi disabitata.

Un tempo, più di oggi, a Ferrara, come a Mantova o a Reggio Emilia, camminando in città respiravi l’odore della campagna. È una sensazione bella e suggestiva e il racconto di queste atmosfere suscita spesso ammirazione. Il racconto di via Salinguerra di Giorgio Bassani ci parla di un dentro mura che si intreccia con il fuori grazie ai suoi rumori e odori rurali. Ci ricorda che in fondo in Italia il limite tra queste due dimensioni continua ad essere labile. Peccato che in alcuni mesi dell’anno questo odore fosse di aldamar (letamaio) mentre oggi è di gas di scarico.

Corso isonzo, il boulevard ferrarese (foto Romeo Farinella)

Quando venne costruito il Quartiere giardino le teorie urbanistiche europee trovarono uno spazio in città. Gli angoli a 45° degli edifici negli incroci stradali ci rimandano a Ildefonso Cerdà e alla sua Ensanche di Barcellona, i cottages ci trasportano nella città borghese suburbana anglosassone e nordeuropea mentre il modello che ha guidato la costruzione del Corso Isonzo è stato certamente il boulevard parigino.
Vi sono però alcune differenze, se a Parigi questi sono caratterizzati da filari di alberi perfettamente allineati e dritti come un fuso mentre sui marciapiedi troviamo distese di bistrots, boutiques e una folla che li percorre, dove Yves Montand amava zigzager. A Ferrara nel “boulevard Isonzo” gli alberi sono tutti storti e attorniati da aiuole di terra secca, i marciapiedi quasi non esistono essendo dei parcheggi, tanto meno le botteghe e i bistrot. Zigzagano solamente le auto e le mote che di notte fanno le gare di velocità.

Del resto, sappiamo che le città sono fatte di spazi e di regole che ne stabiliscono la forma e la fruizione, nel rispetto del diritto di tutti di usufruirne. Ma le regole si possono trasgredire e le città italiane costituiscono un compendio di trasgressione spaziale. Chi le abita non si pone spesso il problema delle regole, chi le amministra è interessato solamente a stabilirle, nel rispetto delle leggi e delle ordinanze, ma poi sorvola sull’effettivo rispetto. E mentre il mondo si sta interrogando sempre più sull’idea di città car-free, mettendo in rilievo l’impatto negativo della motorizzazione privata sull’ambiente, il mio corso/boulevard si sta trasformando in una autostrada urbana che attraversa il centro storico e in una pista di accelerazione per motoristi notturni. Il viale è perennemente sporco, e i rifiuti si accumulano nei luoghi di raccolta.

Le cause sono due: un sistema di raccolta inefficiente e lo scarso senso civico di molti “cittadini”. Le notti sono un incubo in particolare d’estate quando le finestre sono aperte perché nel cuore della notte mezzi meccanici rumorosissimi passano per ore a pulire una strada che al mattino appare sempre sporca. Il frastuono generato dallo sversamento del cassone del vetro è impressionante ma se questa operazione viene effettuata alle sei del mattino genera dei veri e propri traumi da risveglio improvviso come sanno bene Theo e Cleo, i miei gatti turbati dai rumori molesti. Quando esco in strada spesso saluto Peter, un giovane immigrato africano che pulisce con la ramazza la strada, come si faceva un tempo. «Sono un immigrato, e non voglio dare fastidio e pesare su di voi», mi dice, «e per questo pulisco, di mia iniziativa, le strade del quartiere, se vi va potete lasciarmi qualche spicciolo nella scatola sul marciapiede».

Siamo nel centro storico e perimetrare urbanisticamente un “centro storico” non è facile, in particolare se la città è racchiusa da una cinta muraria storica, ma con, all’interno, delle periferie novecentesche alternate ad aree inedificate.
Il caso di Ferrara da questo punto di vista è emblematico perché dentro le sue mura ritroviamo una serie di trasformazioni e adeguamenti legati alle esigenze poste dalla moderna crescita urbana, che in alcuni casi hanno compromesso spazi e luoghi di singolare fascino (come i giardini e gli orti retrostanti i palazzi e le cortine edilizie di corso Ercole d’Este), o come gli “sventramenti” che hanno riguardato l’area gravitante attorno alla strada medioevale di San Romano), mentre in altri settori urbani la realizzazione di progetti di grande modernità ha consentito l’innesto nel centro storico di interventi di architettura contemporanea di grande interesse.  Un esempio è La scuola Alda Costa, progettata dall’Ing. Carlo Savonuzzi, con i suoi evidenti rimandi stilistici alle architetture dell’olandese Willem Marinus Dudok.

La Ferrara del futuro (foto Romeo Farinella)

Non si tratta di un oggetto ma di un pezzo di città, uno spazio urbano d’angolo  che attraverso allineamenti e arretramenti, orizzontalità e verticalità determina la qualità della strada.  Su via Previati la scuola mostra il suo portale monumentale mentre entrando dal Corso Giovecca colpisce la verticalità della sua torre. Un settore urbano che con il cinema Boldini, il museo e il conservatorio dovrebbe essere valorizzato come piazza/giardino novecentesca, mentre ahimè è un parcheggio.

Le mura ferraresi delimitano quindi un ambito storico fortemente connotato, ma anche attraversato da contraddizioni che, del resto, costituiscono uno dei punti fondamentali di ogni esperienza urbana complessa e storicamente articolata. Bassani in suo intervento ad un convegno di Italia Nostra del 1972 esprime una posizione chiara a questo riguardo:

«Quale è, dopo tutto, il centro storico di Ferrara? […] Fin dove arriva? Non esistono, ancora, a Ferrara (pur se ridotte, a tratti, in uno stato abbastanza precario) le mura di Biagio Rossetti? Io riterrei che proprio a Ferrara, dunque, qualsiasi incertezza circa i limiti del centro storico non abbia senso. Il centro storico di Ferrara è da identificare in tutto ciò che sta al di qua delle mura, dentro le mura rossettiane. Tutto ciò che sta dentro di esse, è centro storico».

Bassani comprende anche quei «quartieri orrendi» che ormai «stanno dentro, fanno parte. Inutile tentare di estrapolarli, di considerarli tra parentesi. Per quanto deplorevoli, diventeranno tra brevi storici anch’essi. Anzi lo sono già».
Del resto, se potremmo convenire che tutto lo “storico” è patrimonio siamo certi che tutto lo storico è bello?

In Copertina: Ferrara, le mura tra città e campagna. Foto di Romeo Farinella.

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DiCoBruMa: le belle storie

Favole africane a Flora Cult

Un’antica favola africana racconta del giorno in cui scoppiò un grande incendio nella foresta. Tutti gli animali abbandonarono le loro tane e fuggirono spaventati. Mentre fuggiva veloce come un lampo, il leone vide un colibrì che stava volando nella direzione opposta. “Dove credi di andare?”, chiese il Re della foresta. “C’è un incendio, dobbiamo scappare!”. Il colibrì rispose: “vado al lago per raccogliere acqua nel becco da buttare sull’incendio”. Il leone sbottò: “sei impazzito? Non crederai di poter spegnere un incendio con quattro gocce d’acqua!?” Il colibrì rispose: “io faccio la mia parte”.

A ognuno, dunque, la sua parte, per quanto piccola, una parte che può contare e fare la differenza, goccia dopo goccia (per restare al colibrì e al mio motto gutta cavat lapidem).

Partendo da questa bellissima favola (d’altronde, adoriamo le favole), incontriamo, alla manifestazione romana Flora Cult (che si tiene a I Casali del Pino dal 24 al 28 aprile), chi, questa parte ha deciso di farla. Con determinazione.

È Simonetta Di Cori, fondatrice del progetto DiCoBruMa. Accoglie i visitatori da un discreto, piccolo ma coloratissimo banchetto che parla di Africa e di quelle tonalità intense che chi ha bazzicato per questo meraviglioso continente ha negli occhi e nell’anima.

Non sono solo i colori dei pittori congolesi di strada ma, oggi, sono quelli delle stoffe, di quei pagnes dai toni accesi che finiscono in opere di sartoria confezionate da mani femminili. Cosa non comune, in Africa, dove i sarti appartenenti al genere maschile sono la regola maggioritaria. In Mali, il mio preferito era Mamadou.

Le stoffe di oggi sono storie di rivalsa, di rinascita, di riscatto, di capacità di uscire dall’ombra in cui malattia, povertà e discriminazione lasciano molte donne svantaggiate.

Il progetto DiCoBruMa, che deve il suo nome ai genitori della fondatrice (Bruno e Mariella Di Cori), nasce nel dicembre 2020, in collaborazione con Bambini nel Deserto onlus, con l’obiettivo di sostenere la produzione dell’artigianato africano femminile attraverso la diffusione in Italia dei prodotti provenienti, inizialmente, da Kenya, Mozambico, Senegal, Sudan e Tanzania. A questi si sono aggiunti, nel tempo, Etiopia, Mali, Togo, Chad e Gambia. Altri ne arriveranno.

Ecco allora bellissime sgargianti tovaglie double face, realizzate in Kenya con molta cura dall’artigiana Evelyne, un’imprenditrice illuminata, una self made woman. E poi ci sono le creazioni di Epheta, dalla Tanzania, stessa determinazione. DiCoBruMa l’ha aiutata a rifare la sua casa. Con la stessa determinazione.

Altre confezioni sartoriali, come borse, zainetti, astucci e grembiuli da cucina provengono dalla collaborazione con Tuinuke na Tuendelee Mbele, “Alziamoci e Andiamo Avanti”, un’associazione di donne sieropositive che, dal 2005, si sono unite in un gruppo di mutuo aiuto, per loro stesse e altre giovani dello slum di Korogocho, a Nairobi, in Kenya.

Rosemary, foto Alberto Favero, AICS

Tuinuke nasce con Rosemary, cresciuta nella stessa Korogocho, dove, incinta, ha scoperto di essere HIV positiva, iniziando così un lungo percorso fatto di dolore fisico, a causa della malattia, ma soprattutto psicologico, perché la discriminazione, l’emarginazione e lo stigma legato al pregiudizio fanno male, quasi quanto la malattia.

Nel momento della diagnosi, la sola certezza pare la morte. Già madre di tre figli, viene esclusa da parenti e amici, isolata, al punto che pure l’accesso al bagno pubblico della baraccopoli le è precluso. Ma la forza di vivere è più forte. Ed ecco la svolta, Tuinuke.

Si uniscono a lei, Lucy ed Esther, quest’ultima oggi contabile dell’associazione, con la stessa volontà di prendere in mano il proprio destino e di non fermarsi davanti a quel muro di indifferenza e violenza sottile che la vita nello slum, se sei sieropositiva, ti mette davanti. Hanno iniziato, nelle proprie case, cucendo tessuti e realizzando collane di perline e piccolo artigianato, per stare insieme e condividere il tempo e la loro condizione. Ma hanno poi iniziato a vendere i loro prodotti e questo infonde fiducia, determinazione e voglia di fare, per cui decidono di insegnare l’arte del cucito anche ad altre ragazze e donne sieropositive, per offrire loro la stessa opportunità.

Prodotti DiCoBruMa

Oggi l’associazione è cresciuta e, oltre a produrre manufatti di cucito e oggettistica con carta riciclata, ha una sede e un laboratorio dove le donne possono incontrarsi, lavorare e progettare le attività future, una piccola realtà che, anche con il supporto della Cooperazione Italiana (AICS) e dell’ONG “No One out”, è diventata un esempio di inclusione socioeconomica e di storia di successo per l’imprenditoria femminile. L’artigianato di Tuinuke è uscito dai confini dello slum ed è arrivato a Nairobi e oltreoceano, con l’aiuto di partner e sostenitori. Perché nulla è impossibile.

Fra vocii di bambini accanto al laboratorio, passi sul marciapiedi e rumore del traffico, il suono delle operose macchine da cucire si apre al cielo e concilia calma e serenità.

Una piccola mostra degli oggetti prodotti è allestita all’entrata del laboratorio. Tutto sa di buono. Storie di donne protagoniste che osano, storie di coraggio e di rivalsa, da condividere e da raccontare. E, soprattutto, da sostenere. Facendo la nostra piccola parte.

Simonetta Di Cori, dal 1983, lavora all’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS). È responsabile dei progetti di cooperazione a favore dei Paesi in Via di Sviluppo nel settore statistico, ICT e modernizzazione della pubblica amministrazione. Lavora prevalentemente per i paesi africani. Ha partecipato, quale membro della delegazione ufficiale italiana a diverse Conferenze internazionali organizzate dalle Nazioni Unite. Dal 2004, è la responsabile dell’iniziativa CinemArena che porta il cinema in piazza allo scopo di informare ed educare la popolazione su temi di drammatica attualità: la prevenzione e diffusione delle principali malattie che colpiscono il continente africano, i diritti di donne e bambini. Una nuova modalità di cooperazione e una diversa funzione del film, che diventa strumento di informazione sociale e divulgazione. Dal 2020, porta il progetto DiCoBruMa in varie manifestazioni. Prima di Flora Cult è arrivato, fra gli altri, alla Biblioteca Interculturale Cittadini del Mondo, alla Casa Internazionale delle Donne e al Casale dei Cedrati di Roma. Il ricavato della vendita dei prodotti viene interamente inviato nei paesi africani ed è utilizzato per l’acquisto di nuove macchine da cucire, per la costruzione di nuove strutture (tettoie, bagni), per stampare materiale informativo e pagare costi di funzionamento. Solidarietà senza confini.

Per certi versi /
A Giacomo Matteotti

A Giacomo Matteotti

No Giacomo
Da Fratta Polesine
Non ti dimentichiamo
No Giacomo
Uomo della gente
Disfatta
Da migrazioni
Violenze squadriste
Alluvuoni
Non ti dimentichiamo
Deputato indefesso
Prima di tutti
Capisti
Chi fossero
Quei criminali
Che poi
ti fecero
A pezzi
Morto ammazzatoChe vergogna
da questo governo
Del made in Italy
Sovranista
Non sarai ricordato

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Oliva Denaro: femminile plurale
Lo spettacolo di Ambra Angiolini al Teatro dei Fluttuanti di Argenta

Oliva Denaro: femminile plurale. Lo spettacolo di Ambra Angiolini al Teatro dei Fluttuanti di Argenta

Prima di andare a teatro, non riuscivo ad immaginare come fosse possibile trasformare un libro bellissimo come Oliva Denaro di Viola Ardone in uno spettacolo teatrale, mantenendone la potenza espressiva.

Nel suo libro, Viola Ardone è riuscita nell’opera complicata di raccontare, in modo meraviglioso, una storia difficile utilizzando tutta la sua forza narrativa al “femminile singolare”.

«Donna: nome comune di persona femminile singolare… A me però non suonava bene questa cosa.
Maestra, ma l’esercizio è sbagliato – avevo detto prendendo coraggio […]
– Che cosa vuoi dire, Oliva? Non capisco.

La donna non è mai singolare […] La donna singolare non esiste. Se sta in casa, sta con i figli, se esce va in chiesa o al mercato o ai funerali e anche lì si trova assieme alle altre. E se non ci sono femmine che la guardano, ci deve stare un maschio che l’accompagna. […] Io una donna femminile singolare non l’ho mai vista” avevo proseguito timidamente […]

– Forse hai ragione tu, Oliva. Però la grammatica serve a modificare la vita delle persone.
– E che significa, maestra?
Che dipende da noi, il femminile singolare, anche da te.”

Oliva Denaro (anagramma del nome e cognome della sua autrice) racconta liberamente la storia di Franca Viola che, negli anni sessanta dopo aver subìto violenza, rifiutò il matrimonio riparatore e divenne un simbolo dell’emancipazione femminile.

Grazie al suo coraggio, anche se a distanza di tempo, sarà abrogato l’articolo del codice penale che vedeva il matrimonio come mezzo per estinguere la violenza sessuale e lo stupro verrà riconosciuto come reato “contro la persona” e non più “contro la morale”.

Il libro inizia con una frase, pronunciata dalla madre della protagonista, che aiuta il lettore a contestualizzare il racconto in una famiglia contadina della Sicilia: “La Femmina è come una brocca, chi la rompe se la piglia”.

Con la stessa frase inizia lo spettacolo teatrale di Ambra Angiolini con la regia di Giorgio Gallione e la collaborazione alla sceneggiatura di Viola Ardone.
Poi però l’adattamento teatrale assume una propria fisionomia e, pur mantenendo l’attinenza al libro, si caratterizza per una sintesi coerente ed armoniosa.

Ambra Angiolini interpreta questo monologo intenso e coinvolgente, in modo limpido, incisivo e straordinario. Si muove sul palcoscenico, dentro ad una scenografia essenziale, riempiendo la scena con un ritmo narrativo originale che dimostra tutta la sua bravura.

Grazie alla carica empatica, Ambra diventa il soggetto che interpreta e, nello stesso tempo, diviene ogni donna.

Con la sua stupenda energia, riesce a far sorridere e a far indignare, a scuotere e a provocare, a far riflettere e a commuovere. Lo fa con una carica di emotività contagiosa e trascinante che cattura l’attenzione del pubblico dall’inizio alla fine.

Il suo “NO” finale, gridato a squarciagola in platea di fronte al pubblico, contiene tutta la forza dirompente del dolore, della rabbia e della tenacia di una donna che, andando contro tutti e contro tutto, ha voluto rompere le convenzioni del tempo.

Oliva denaro femminile plurale spettacolo di ambra angiolini al teatro dei fluttuanti di argenta

Il lunghissimo applauso finale ha accompagnato le lacrime che il pubblico e l’attrice hanno versato insieme; lei visibilmente commossa dopo un’interpretazione faticosa ed eccezionale, gli spettatori altrettanto emozionati per il forte coinvolgimento emotivo.

Durante le parole finali di ringraziamento, di saluto e di commento sulla tremenda realtà della violenza sulle donne sembrava che a parlare non fosse solo l’attrice, ma Ambra Angiolini, Viola Ardone, Oliva Denaro, Franca Viola, e con loro tutte le donne e tutti gli uomini che credono fermamente che l’Amore non possa prescindere dal Rispetto.

Cover e foto nel testo di Mauro Presini

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Presto di mattina /
Ansia per l’uomo

Presto di mattina. Ansia per l’uomo

Ansia per l’uomo fuori rotta

Poesia è la vita
che attraversiamo in ansia
aspettando colui che porta
la nostra barca senza rotta.
(F. G. Lorca, Tutte le poesie e tutto il teatro, Newton, ebook Roma 2011,

Nel mare del dubbio in cui remo
non so neppure in cosa credo;
tuttavia queste ansie mi dicono
che io porto in me
alcunché di divino.
(Gustavo Adolfo Bécquer, da Rimas)

“Nel mare del dubbio in cui remo”, anche noi navighiamo senza rotta verso un dove, un orizzonte che non si vede ancora, confine lontano, invisibile. E tuttavia quel che saremo e dove andremo, un qualche approdo deve pur esserci, mi dico.

Ce lo dice anzi l’inquietudine che ci anima, il fatto che siamo viandanti sospinti dal vento dell’ansia che mai si quieta. Da dentro sento mancante sempre qualcosa, che come un’onda si abbassa nel fondo in un gemito e scompare per poi rialzarsi in un sospiro d’infinito.

Prima ancora del vangelo la poesia è remo che batte onde di speranza fatte di spasimi e aneliti, ma che attende inesausta il Passatore della vita, della barca senza quiete. Queste ansie mi dicono che porto in me qualcuno che non procede da me, presente nella forma di una parola udita, eco di risacca che fu alla partenza, promessa portata dal vento che gonfia le onde e che si rinnova ad ogni spruzzo del mare che si frange sulla chiglia.

Ansia dell’uomo per la pace

Ansia per l’uomo (Morcelliana, Brescia 1969) è il titolo di un libro di Romano Guardini in cui si fa corrispondere a quella dell’uomo «l’ansia dell’uomo per la pace». Questa diventa una questione vitale: non solo una questione di saggezza ma di audacia. Non fa ripiegare, ma si fa resistenza che nascostamente avanza.

L’ansia per l’uomo ci fa osare la pace per evitare «la consumazione dell’uomo per mezzo della sua propria opera», che avviene quando la tecnica, imponendosi come assoluto, si sostituisce a lui; quando la sua opera, con cui edifica la realtà grande del mondo e della vita, da strumento diventa il fine, capovolgendo o annullando il suo orizzonte di senso e di valori per imporre se stessa e il suo potere svincolato dall’uomo e dalla sua dignità.

La tecnica diviene così il valore assoluto, al di sopra dell’uomo stesso, un mondo altro in posizione di dominio, a cui l’uomo è sottomesso, assoggettato, uno strumento, un esperimento del suo stesso potere tecnico.

Tutto il potere dell’uomo diventerà suo nemico se non lo si collocherà di nuovo in dialogo e nella relazione con l’umano. Così l’ansia per l’uomo sta lì come scolta in cerca di tracce per uscire dalla rassegnazione e indicare sentieri di senso che riportino l’uomo a riconciliarsi con la sua opera.

Sottomettendo alla necessità l’uomo, la tecnica lo scalza dalla sua stessa dignità, limita e compromette la sua libertà di significare, orientare, valorizzare la vita. E, nel mondo della tecnica e nel cuore umano confinato ai margini, anche la guerra diventa necessaria per accrescere un potere risvegliato alle sue proprie esigenze di assolutezza.

Si domanda così Guardini: «Questo uomo cresce? Non lo vediamo forse invece nel pericolo di diventare sempre meno libero, sempre più esposto direttamente o indirettamente all’inesorabilità del processo scientifico, tecnico, sociale? La falda vitale, da cui l’uomo vive, non si assottiglia forse sempre più? Il suo contatto con la grande realtà non diviene sempre più insicuro, egli perciò sempre meno capace di percepire avvertimenti, di afferrare indicazioni e di sentire che l’ora giusta per qualcosa è venuta?

Le forze della contemplazione non diminuiscono sempre più, e la tranquillità interiore, il raccoglimento, l’energia dell’intimo rinnovamento? Non cade sempre più la capacità di porsi in distanza, di liberarsi dalle costrizioni d’ogni specie, di percepire nel corso del divenire la mano di Dio?», (Guardini, 21- 22).

La mano di Dio

Va qui ricordata l’immagine di Teofilo di Antiochia, nel testo Ad Autolico, 1,5-7 che spiega la simbolica della mano di Dio: «Come la melagrana, avvolta dalla buccia, contiene dentro di sé molte cellette e alveoli separati da membrane e innumerevoli granelli, così l’intera creazione è circondata dallo spirito di Dio che, a sua volta, insieme con la creazione è circondato dalla mano di Dio.

E come il granello della melagrana, rinchiuso dentro, non può vedere ciò che si trova fuori della buccia, proprio perché sta dentro, così pure l’uomo, circondato con l’intera creazione dalla mano di Dio, non può vedere Dio.»

Penso pure alla “mano di Dio”, quella scolpita da August Rodin, che rappresenta la creazione di Adamo ed Eva. Il poeta Rainer Maria Rilke lo definì il “sognatore il cui sogno saliva lungo le mani”, a simboleggiare il processo creativo dell’artista, dell’uomo che comprende e si comprende in relazione al tutto; in Rodin un itinerario creativo espresso dalla forma dialogica dei personaggi o delle mani, compattezza di forme e quell’impossibilità di disgiungersi. Mai la materia è sembrata raggiungere il profondo di sé e manifestarlo, e il marmo narra visivamente, senza verbo, ciò che vi è ancora di nascosto.

Libertà e responsabilità sacrificate alla necessità

«Se nella guerra moderna va svelandosi sempre più chiaramente qualcosa di incondizionato, questione di vita e di morte per l’uomo, allora anche la pace deve acquisire un carattere che prima non aveva. Questa guerra assume via via una caratteristica sempre più acutamente rilevata.

Soprattutto confluisce in essa tutto ciò che va sotto il nome di tecnica: il dominio scientificamente fondato delle energie naturali e dell’uomo. Così essa acquista quel carattere che è proprio del pensiero ispirato alle scienze naturali e dell’attività tecnica: il rapporto con la necessità.

La libertà perde il proprio spazio. L’individuo cessa di essere combattente nel senso antico e diviene funzionario addetto alla macchina. Si impone la logica dei rapporti tecnici, economici e sociologici. La guerra stessa appare sempre più come un processo che emerge da tensioni date e che, una volta avviato, non può più essere fermato finché non si sia concluso. Ciò non vuol dire che tale processo sia anche realmente così.

Se gli eventi passati dovevano di necessità generare una conoscenza, di certo essa è questa: la formula “Doveva succedere così” è menzogna e viltà. In realtà è successo così, perché lo si è voluto o non lo si è impedito.

Tuttavia il processo ha a tal punto il carattere di un divenire autonomo che ne nasce una tentazione infinita di sottrarsi alla responsabilità con il pretesto della necessità. Nella guerra è vero che ci sono sempre uomini a prendere la risoluzione; ma la struttura degli avvenimenti è tale che sembra si debbano ricondurre non a persone ma a necessità. Tutto ciò si collega senza dubbio con il carattere della responsabilità» (Guardini, 11-12).

Lasciarsi raggiungere dalla mediazione dell’esperienza umana

Nel suo libro L’etica del viandante Umberto Galimberti mostra come questa si opponga all’etica antropologica del dominio della Terra, ammonendoci che l’umanesimo del dominio è un umanesimo senza futuro.

Quella del viandante «è un’etica che non si appella al diritto, ma all’esperienza, perché, a differenza dell’uomo del territorio che ha la sua certezza nella proprietà, nel confine e nella legge, il viandante non può vivere senza elaborare la diversità dell’esperienza, cercando il centro non nel reticolato dei confini, ma in quei due poli che Kant indicava “nel cielo stellato e nella legge morale”, che per ogni viandante hanno sempre costituito gli estremi dell’arco in cui si esprime la sua vita in tensione».

Ricordando poi che l’uomo è “un’esistenza possibile”, viandante appunto, ciò che è possibile, in quanto possibilità, diventare reale. E questo “possibile realizzabile” è la fraternità.

«Per questo la fraternità, estesa a tutte le creature, sarà il terreno su cui far crescere le decisioni etiche in grado di porre fine alle leggi del territorio che, dopo aver spartito in un clima di ostilità non solo la terra ma anche il cielo e il mare, hanno reso impossibile la nascita di quell’uomo più difficile da collocare, perché viandante inarrestabile, in uno spazio che può essere dischiuso solo da quello sguardo che vede la Terra non più come semplice materia prima da usare fino all’usura, ma come nostra dimora da salvaguardare, perché, lo ripetiamo, qui e non altrove ci è concesso di vivere» (ivi, 58).

È interessante notare come anche Galimberti porti la sua analisi sulla tecnica, chiamata a prendere il posto all’uomo, riducendo l’orizzonte della sua libertà ed esperienza ad una funzione che non ritrova il suo scopo, il suo senso.

«Così la tecnica da mezzo diventa fine, non perché la tecnica si proponga qualcosa, ma perché tutti gli scopi e i fini che gli uomini si prefiggono non si lasciano raggiungere se non attraverso la mediazione tecnica. A questo punto la tecnica non è più un mezzo, ma un mondo, e il concetto di “mezzo” è radicalmente diverso dal concetto di “mondo”. La tecnica si sostituisce all’uomo che, in una simile situazione, può scegliere solo all’interno delle possibilità che la tecnica rende disponibili» (ivi, 23).

«Il viandante non incontra il prossimo, si fa prossimo»

Perché rispondere a qualcuno è già rispondere di qualcuno e farsi carico della sua sorte (E. Lévinas): «L’etica del viandante suggerisce un’altra strada lungo la quale io riconosco la differenza tra la mia e la tua cultura, ma riconosco anche le vittime del mio e del tuo sistema di valori». Queste vittime sono chiamate da Lévinas il “Terzo” che scuote le certezze poste alla base del rapporto bilaterale tra me e te, e fa di tutti noi degli stranieri alla ricerca del vero e del giusto, di ciò che ci divide e di ciò che ci unisce.

Questa ricerca del prossimo, «questa ricerca non può avvenire tramite la guerra, ma tramite quell’incontro che trova la sua espressione istituzionale nella politica. Per “politica” non si deve intendere l’accordo tra me e te, che può avvenire su qualsiasi base, fatti salvi i nostri interessi, ma quell’accordo tra me e te che si fa carico di quel “Terzo” che sono le vittime del tuo e del mio sistema» (ivi, 367-368).

E Guardini riferendosi alla risposta di Gesù al dottore della legge afferma che «il tuo prossimo è colui che necessita del tuo aiuto. Ma, poiché allora il precetto diventerebbe illimitato, il concetto di prossimo deve essere determinato ancora più precisamente, cioè praticamente, dagli avvenimenti concreti e quindi significa: Il tuo prossimo è colui che ti è assegnato dalla situazione concreta» (Guardini, 79).

Continuiamo insieme ad affinare i sensi e ad acuire l’ascolto

La direzione dei miei passi ubriachi. Racconti e poesie (Nuovecarte, Ferrara 2019) è un testo di un caro amico, Daniele Borghini, edito postumo. Ogni volta che scriveva un racconto o una poesia mi mandava il testo via mail, e così la raccolta cresceva, e con essa l’amicizia. Ho ritrovato nel computer la lettera che gli scrissi in occasione della poesia che allego in chiusura e che fa eco d’onda a quelle dell’inizio: Passi ubriachi e tuttavia non privi di direzione, né senza una meta.

«Caro Daniele

ho ricevuto il tuo testo poetico: ed è sempre una sorpresa che stupisce sentire come le tue parole aderiscano alla realtà, rinchiusa dietro muri e silenzi, prigioniera, invisibile, afona, e tuttavia riportata libera allo sguardo e ai sensi di chi legge.

È con gratitudine vedere che tu centri una questione che è di tutti i credenti e che coglie ciò che è patrimonio dell’ansia di tutti; questa capacità di portare alla luce ciò che ci accomuna nell’umano e nel credere quando altri non riescono è proprio, io credo, di colui che fa poesia, di colui che non smette di affinare i sensi e di porsi in ascolto profondo per sé e per gli altri.

Viene alla luce così il dramma che è l’esperienza assenza/presenza di Qualcuno che ci viene incontro e si fa vicino, come aquila alla nube, come un sentiero appena tracciato nel cielo o scoprirlo intrecciato al proprio inquieto respiro.

Continuiamo insieme ad affinare i sensi e ad acuire l’ascolto, perché i simboli reali del pane del vino e della Parola, dei respiri soffocati, crocifissi, risalendo alla luce con le parole creino consapevolezza e spessore di vita. Non vi è ricercatezza estetica nei tuoi testi, ma quella che si scopre è una figura di bellezza la quarta virtù teologica la chiama Cristina Campo: “la segreta, quella che fluisce dall’una e dall’altra delle tre palesi”».

Muri e silenzi
mi accerchiano e mi sfiniscono
L’aquila compie traiettorie
limpide e cristalline
mentre io mi disperdo
come una nuvola
sfilacciata da un vento di tempesta
caotico a me stesso
Dove sei
Messia consolatore?
Mi attendi alla fine dei tempi
quando i giochi sono fatti
o sei presente
già e ancora
intrecciando il Tuo respiro col mio
crocifisso alla scaturigine delle mie ansie
per dar loro un senso?
Se solo potessi avere una risposta
nel Pane e nel Vino
o nella Parola
che sembrano venire da così lontano!
Affinerò i sensi
acuirò l’ascolto
o sarò albero rinsecchito e senza frutto.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Le storie di Costanza / Intervista alla zia Costanza

Ieri è venuto un giornalista di La casa indipendente a intervistare la zia Costanza. L’oggetto dell’intervista era l’ultimo libro di poesie della zia che s’intitola Alba sul fiume. Una raccolta di liriche che ha scritto stando seduta sugli argini del Lungone e che risente di dell’atmosfera rarefatta e meditativa che il fiume genera e porta con sé verso la foce. A differenza di molti racconti per cui ha usato lo pseudonimo di Alba Orvietani, in questo caso Costanza ha firmato la raccolta con il suo nome di battesimo. Le ho chiesto il perché di quella scelta e lei mi ha detto:

– Cara Valeria, non sempre si vivono le cose nello stesso modo. In questo caso ho pensato che ciò che sono riuscita a scrivere sia molto introspettivo e personale, così personale che non può essere attribuito a nessun altro, nemmeno ad un alias. Le possibilità erano quindi due, o non pubblicare nulla e mettere la raccolta in un cassetto per poi lasciarvela in eredità, oppure pubblicarla con meno filtri possibili, nome dell’autrice compreso

Mah, mi sembra un discorso che può valere anche per tutte le altre cose che ha scritto, sono tutti lavori suoi, non capisco questa necessità di usare a volte un alias e altre volte no, ma comunque non importa, se lei è contenta così, va bene così. Del resto, si sa che la zia Costanza è un po’ strana e ha un modo di vedere le cose molto originale. È straordinaria proprio per questo, nonostante affermi sempre che lei ama la normalità, in realtà lei la normalità non sa assolutamente cosa sia. Si illude da sola, come a volte facciamo tutti.

Il giornalista che è venuto a casa nostra è un signore sulla sessantina, di media statura, con i capelli grigi e gli occhi azzurri. Si chiama Luciano Cigog ed è uno dei capiredattori del giornale. Un signore gentile che si è trovato subito a suo agio nella casa di via Santoni Rosa 21.

Prima di mettersi a parlare della nuova pubblicazione, Costanza gli ha mostrato le sue ortensie ormai sbocciate e gli ha spiegato il perché delle varie sfumature di colore che i sepali stanno assumendo. Nel giardino ci sono ortensie bianche, azzurre, rosa chiaro e scuro, bordeaux. Quest’ultimo colore è il più nuovo della collezione e la zia continua ad ammirare l’arbusto con molto orgoglio.

Inoltre, ha un’ortensia azzurra davvero particolare. I petali dei sepali non sono tondeggianti ma acuminati e l’inflorescenza a palla assume una strana forma con più punti di luce ed ombra che dipendono dalla posizione dei sepali lanceolati. Una novità e una rarità. L’ha comprata la nonna Anna lo scorso anno da uno dei tre fioristi di Pontalba e l’ha regalata alla zia per il suo compleanno, il 20 aprile.

Dopo il giro in giardino, la zia e il giornalista sono entrati in casa e si sono seduti in soggiorno. Costanza sul divano giallo a fiori e il suo intervistatore sul divanetto d’Adelina, che si trova esattamente di fronte.

– Perché si è seduto lì? – gli ha chiesto la zia

Perché mi è sembrato un divano comodo e poi è di un bel rosa antico

– Mi dica cosa vuole sapere da me –

Come lei sa bene, il suo ultimo libro Alba sul fiume sta avendo molto successo. Sono venuto a parlare con lei proprio di questo. C’è una domanda che ho nella testa e che precede tutte le altre, la faccio sempre quando mi capita di incontrare qualcuno particolarmente bravo. Uno scrittore chi è? Cosa distingue uno scrittore da chi non lo è?

– Bella domanda – dice la zia – Uno scrittore è una persona che usa la parola scritta come mezzo privilegiato per comunicare. C’è chi parla, chi suona, chi danza … e così via. Uno scrittore scrive.

Ma ci sono molte persone che scrivono e che non saranno mai degli scrittori. Non foss’altro perché a nessuno interessa leggere le loro opere – dice il giornalista.

– Si è vero. Oltre a usare la scrittura come mezzo privilegiato per la comunicazione, serve una forte dimestichezza con il mezzo che si usa. Tale dimestichezza deriva in parte dallo studio e in parte da un esercizio costante. Io, ad esempio, scrivo tutti i giorni e quelle poche volte che mi capita di stare una settimana senza scrivere sento subito la differenza. È come se le parole non fluissero più, come se fossero più rigide e meno disposte ad adattarsi alla frase che si sta componendo. Una difficoltà di armonizzazione che con una sola settimana di stop si sente. Mi accorgo che quel che ho scritto funziona quando, leggendolo, avverto una sensazione di musicalità. Come se le parole a loro modo suonassero, quando succede questo so che il lavoro è buono.

Quindi uno scrittore è uno che ha forte dimestichezza con le parole scritte? – dice il giornalista.

– No, non è solo questo, uno scrittore deve avere qualcosa da dire. Deve avvertire quella forte necessità di comunicare con gli altri. Uno scrittore è sicuramente un comunicatore. Non si scrive mai per sé stessi, si scrive per gli altri. Per trasmettere pensieri e scoperte che possono far pensare le persone, che possono reindirizzare alcune tendenze, o comunque allargare gli orizzonti verso nuove verità e nuove strade.

Quindi lo scrivere ha anche un valore etico?

– Secondo me sì, ma non sono sicura che tutti gli scrittori pensino questo e comunque ognuno di etica ha la sua. Per quel che mi riguarda non credo di aver mai scritto nulla per convincere le persone ad essere negative, pessimiste o cattive. Se l’ho fatto era inconsapevole e sicuramente non voluto. Io credo nella tolleranza, nell’equità e nella trasparenza. Ho messo tutto questo in ogni cosa che ho scritto. Ed è per questo che spero che tante persone mi leggano, è un modo per diffondere ideali che ritengo giusti.

Quindi, riassumendo, uno scrittore è una persona che usa la parola scritta come mezzo privilegiato per comunicare, che scrive in maniera accattivante in modo che tante persone lo leggano e che trasmette principi etici che lui ritiene fondamentali

– Si esatto. Uno scrittore è tutto questo –

Ma come si diventa scrittori?

– Credo che serva bravura, amore per il proprio lavoro, costanza (qui la zia sorride da sola), determinazione. Non bisogna lasciarsi scoraggiare se arriva qualche fallimento, non sempre quello che si scrive viene capito e apprezzato subito. Ma col tempo le cose si sistemano, è come se un po’ alla volta tutto andasse al suo posto, come se i vari tasselli di un mosaico si assemblassero in belle forme.

Che consigli darebbe a un giovane che vuole fare lo scrittore?

– Nessun consiglio, ognuno deve trovare la sua strada. È un lavoro impegnativo e pochi riescono a farlo. Ma è difficile capire prima chi ci riuscirà, quindi, nessun consiglio se non quello di non lasciarsi scoraggiare se arriva qualche fallimento –

Lei di fallimenti non ne ha avuti.

-No, per ora. Ma nessuno sa cosa riserva il futuro. –

Li guardavo mentre discorrevano, la zia vestita di viola con un foulard verde al collo, il giornalista con i jeans, una camicia bianca e il PC sulle ginocchia. Scriveva mentre la zia parlava e si sentiva il rumore delle sue dita che pigiavano sui tasti. Tec, tec, tec ….

Un bel quadretto in quel soggiorno antico che vede transitare le più svariate professionalità, tutti amici della zia. Pittori, musicisti, fotografi ma anche cuochi, fioristi, botanici e anche ingegneri e architetti. Un’umanità varia e curiosa che si diverte con i discorsi della zia e che lei accoglie con cordialità e ascolta con attenzione.

Costanza cerca sempre di capire quello che i suoi ospiti dicono, ritiene un dovere prestare la massima attenzione ai loro problemi. Spesso anch’io partecipo a quelle conversazioni, cercando di dire qualcosa, facendo qualche domanda quando non colgo il nocciolo della questione.

La zia mi permette sempre di stare là e si accerta che tutti mi rispondano cordialmente. Lei ospita volentieri amici nel suo soggiorno, ma loro devono ospitare me nei loro discorsi. Quelle conversazioni che avvengono sui divani gialli di via Santoni Rosa 21 sono il suo esperimento antropologico quotidiano. Buona parte delle sue riflessioni sulle stranezze umane ma anche sulle sue potenzialità, nascono proprio là.

È così che le vengono idee che le permettono di scrivere racconti e poesie adatte a scalare le classifiche dei libri più venduti. È la gente che frequenta la sua casa che viene trasformata in parola, pensiero, sentimento e diventa un personaggio che anima le sue opere. Poi lei sa usare, a parer mio, una grazia e una sensibilità degna di candidature a premi importanti. Adesso è stata candidata all’Elen di Stoccarda. Non che le importi molto di tutti quei riconoscimenti, ma se glieli danno, li va a ritirare. Le sembra giusto fare così.

Nel frattempo, la zia e il giornalista hanno parlato un po’ dell’Alba sul fiume, il libro in uscita. Stanno continuando a discorrere e il giornalista scrive. Tec, tec, tec …. La zia è protesa in avanti per fare il modo che il suo interlocutore senta bene le sue parole e lui sta bello dritto davanti al suo PC mentre scrive sempre più veloce e annuisce con la testa.

Se lei dovesse iniziare un nuovo romanzo in questo momento come lo inizierebbe? – chiede

– Mah .. non so. –

La zia guarda nel vuoto per qualche minuto, mentre con una mano si attorciglia una ciocca di capelli lunghi e dritti come un mazzetto di spaghetti.

Poi dice: – La protagonista sono io, entro in una stanza completamente vuota, con una finestra sul fondo. Dalla finestra si vede una pianta piena di foglie verdi e tra le foglie verdi si intravede il cielo azzurro. Attraverso la stanza vuota e mi avvicino alla finestra. La apro e guardo meglio la pianta. Mentre guardo l’albero vedo annidata tra i rami una volpe verde

Poi si ferma e scoppia a ride.

– Bell’inizio – dice

E poi cosa succede? – la incalza il giornalista

– In questo momento non lo so e non so se lo saprò mai –

Luciano Cigog si ferma, guarda la zia, guarda me, si guarda le scarpe. Smette di scrivere, chiude il pc, si alza in piedi e dice:

Grazie davvero per la disponibilità

– Prego – dice la zia

Se mai ci fossero sviluppi sulla volpe verde, la prego di farmelo sapere

– Certo – dice bugiardamente la zia e poi si mette a guardare il muro bianco del suo soggiorno con un atteggiamento assorto e i pensieri chissà dove. Io che la conosco bene so cosa sta facendo. Sta inseguendo una volpe verde.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore.

Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Storie in pellicola / Ciò che resta può sempre servire

“Quel che resta”, un cortometraggio di Domenico Onorato che parla di responsabilità condivisa e lotta agli sprechi. Perché consapevoli, si può cambiare

Presentato, nel luglio 2022, al Giffoni Next Generation, l’evento sull’innovazione organizzato nell’ambito del Giffoni Film Festival, e alla Sesta edizione del Ferrara Film Corto Festival, il cortometraggio “Quel che resta”, voluto da CONAI, il Consorzio Nazionale Imballaggi, racconta come la sostenibilità parta dalle nostre azioni quotidiane.

Prodotto da Giffoni Innovation Hub con la regia di Domenico Onorato, la sceneggiatura di Manlio Castagna e la partecipazione di Andy Luotto, questo cortometraggio riprende tanto le riflessioni che facevamo qualche giorno fa sull’importanza delle nostre scelte, recensendo i due albi di Kite edizioni “La scelta” e “Cavalca la tigre”.

Mai come prima, il confronto e il dialogo con i giovani sui temi della sostenibilità sono così cruciali. Sono loro il futuro, loro che, spesso, sono ben più consapevoli di molti di noi di quanto scegliere bene sia fondamentale, per il pianeta ma non solo.

Tutelare il pianeta è compito nostro e possiamo farlo ogni giorno, con ogni gesto, attitudine e comportamento. Lo scarto può avere nuova vita, può dare luogo ad altri significati, ciò che qualcuno getta, qualcun altro ricicla. Da cosa nasce cosa, a volte migliore.

Valorizzare ciò che resta è dunque il potente messaggio del lavoro di Domenico Onorato, un corto che racconta un mondo in modo distopico, dove le differenze (e barriere) sociali sono enfatizzate da scelte azzeccate di costumi e scenografia e dove il riutilizzo del cibo rimasto alla tavola di qualche privilegiato genera ricchezza e convivialità. Annullando, alla fine, le differenze. Tutto porta alla metafora di come i rifiuti, gli avanzi, possano rinascere a nuova vita. Contro la cultura dello scarto.

Qui potete vedere il corto nella sua integralità. Buona visione!

Giffoni Innovation Hub è un polo creativo d’innovazione, fondato da Luca Tesauro, Orazio Maria Di Martino e Antonino Muro nel 2015. Il progetto nasce con l’obiettivo di guidare e favorire la trasformazione culturale e digitale in Italia e all’estero e, sulla scia del patrimonio del Festival di Giffoni, fa della creatività la sua bandiera. Collega, supporta e fa crescere talenti e startup nel settore delle industrie creative e culturali. Lo scopo è quello di implementare prodotti e servizi per le aziende, attraverso percorsi di formazione specializzata e framework audiovisivi, generando azioni ad alto impatto sociale e valoriale che coinvolgono le nuove generazioni.

Parole a Capo /
Shasa Pellicciari “Cosmo sommerso” e altre poesie

Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non é superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore.
(ITALO CALVINO)

 

Cosmo sommerso
Mamma cosa brilla laggiù, nell’abisso buio e profondo del mare?
No piccino mio, non sporgerti a guardare!
Mamma cos’è questo lamento, questo pianto atavico e intenso?
Amore mio non ascoltare, è il suono d’un dolore immenso!
Mamma, ti prego non tacere, sono abbastanza grande per sapere.
Le acque salate custodiscono segreti d’infanzia negata,
in un abbraccio gelido, senza più carezze, senza più piacere,
si tormentano le anime perse, della mediterranea traversata.
Quelle non son stelle cadute nel buio dell’oblio,
mi dispiace amore; siamo tu ed io
e con noi un intero universo di possibilità negate
sulle onde infrante d’infinite storie spezzate.
La costa si tinge di lacrime e disperazione,
nel blu del Mediterraneo, dove il sole s’immerge.
Mentre il mondo assiste inerme e senza compassione,
tra le onde della speranza, un triste destino emerge.
Esuli d’un mondo che il dolore ha segnato,
navigavamo su legni fragili, sognando un domani negato.
Ma il mare ha raccolto le nostre voci, in un silenzio lontano,
un cosmo di potenzialità inespresse, nel palmo della sua mano
(Il testo “Cosmo sommerso” è stato premiato al concorso “L’alloro di Dante” sezione
studenti edizione 2023-2024.)

 

Elena

 

Una luce dolce, un’ombra delicata,
ci racconta ricordi di una vita passata.
Ancora vive nei nostri cuori il tuo calore,
un amore che sfida l’assenza e il dolore.

Tra mute risate e sogni, gridati in silenzio,
danzavi leggera, anima luminosa.
I tuoi occhi, riflessi di cieli rosa,
sguardi d’amore, ricordi d’immenso.

Il tempo avvolge il tuo sorriso gentile,
nella tela del passato, un ritratto sottile.
Il vento il tuo nome  sussurrerà
a chi attento lo ascolterà.

Non sei morta, m’ hai preso il volo ,
tra le stelle, nell’eterno, senza più un ruolo.
Che la tua anima trovi pace nell’infinito,
dove il tempo non è più un nemico.

 

Mancanza

Nella notte buia s’ode un gran pianto
gemito cupo eco d’abbandono
rimbomba nel cuor un suono di tuono
danza nell’anima un grande rimpianto

Tra le ombre si perde il senso del tempo
un sottile fruscio scende lieve
ma il gelido petto come la neve
si consola per l’abbraccio del vento.

Il cuore palpita, silenzio immenso
singhiozzi riempiono il vuoto totale
vorrei non farlo, però se ti penso

sento nell’anima un calore astrale,
allora, di nuovo, mi do il tormento
perché soltanto desidero amare.

 

Palla Ovale

Ruvida vita, adorata, bramata, dolce e amara
dal rimbalzo imprevedibile come il destino.
Eroica quando sgusci tra i piedi della mischia
per finire tra le mie mani.

Beffarda quando, carica d’aspettative,
manchi d’un soffio la grande H svettante.
Io ti desidero ardentemente
e quando ti conquisto non ho alcun timore.
Anche se sbaglio non c’è disonore
tu non mi giudichi e quando ti stringo
io mi sento a casa.

 

Shasa Pellicciari frequenta la classe 2T  dell’Istituto “L. Einaudi” di Ferrara.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Garofani rossi

Garofani rossi

Che onore che mi fai, amica mia,
mi inviti a casa di tua mamma e babbo,
via Saragozza alta, i portici, la casa
che stai vuotando con la tua famiglia,
il lutto che sfocia nell’aprile,
nel rifiorire sul balcone altissimo
oltre libri lenzuola piatti e pentole
che presto prenderanno le loro vie,
e quadri alle pareti che anche loro
aspettano.
E mi regali un mazzo di fiori freschi
come da secoli nessuno – margherite
ginestre alloro e garofani rossi –
e ci sediamo un po’ e guardiamo fuori:
aprile il verde i colli l’occidente
e abbiamo entrambe gli occhi verdi mentre
parliamo non di fiere mostre saloni
eventi o comparsate nel demi-monde
bensì della valigia di Dovlatov,
di madri e di Madreterra esasperata
da Homosapiens con tutte le sue pompe.
In corridoio pacchi, ancora chiusi
stante il precipitare degli eventi,
di pannoloni per anziani, che un po’ alla volta
tu porti a qualcuno nel tuo quartiere,
anche oggi, e pure quattro borse
di cose che hanno vissuto in questa casa
con la tua mamma, e mi dai uno strappo in auto.

Fuori dal portico il tramonto esonda
verso Casaglia come un abisso di luce
come un commento alle Porte regali.
Vedo te con le borse, vedo me stessa
nella vetrina di un negozio presso
il parcheggio, in una mano il mazzo di fiori
bellissimi e nell’altra, a righe blu e verdi,
un pacco di pannoloni Lines specialist:
Eccomi – ti dico – sai quelle allegorie
delle età della vita, sai quei vecchi
memento mori, eccomi, e ridiamo.

Una strada per Mimma, staffetta partigiana, martire della Resistenza.

Intervento di Anna Chiappini e Davide Nanni

Il 25 aprile 1945 è la data fondativa della nostra democrazia. Oggi che i testimoni diretti di quegli anni, per ovvie ragioni anagrafiche, sono sempre meno crediamo sia importante valorizzare appieno il significato di quel momento storico senza cadere in una stanca retorica celebrativa: non è festa “della libertà” ma della liberazione, ovvero di una libertà ritrovata e conquistata a caro prezzo dopo un ventennio di dittatura fascista che terminò in un conflitto disastroso, nell’occupazione nazista della penisola e in una feroce guerra civile tra italiani.

La nostra Costituzione, ricordava in un celebre discorso il giurista Piero Calamandrei, è nata “ovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità” conculcate dai nazifascisti. Furono tanti, spesso giovani, e tra loro non mancarono le donne, protagoniste di una resistenza a lungo taciuta nel dopoguerra quando una società ancora conservatrice volle “normalizzare” quell’esperienza di libertà ed emancipazione femminile che fu anche lotta partigiana.

Se durante il regime fascista le donne erano state per lo più confinate in casa, dipinte come “angeli del focolare” e sottomesse alla rigida autorità maschile, negli anni della Resistenza molte di loro combatterono, nascosero partigiani, ebrei e militari alleati, svolsero il prezioso ruolo logistico di “staffette” portando cibo, armi e materiali di propaganda clandestina ai nuclei combattenti.
Non rischiavano solo la vita: 4.653 di loro vennero arrestate e torturate; oltre 2.750 furono deportate nei campi nazisti; 3.882 furono giustiziate o caddero in combattimento.

Almeno 70 mila donne furono impegnate nella Resistenza e circa 35 mila vennero riconosciute “partigiane combattenti”, ma probabilmente il loro numero è maggiore.

Tra le diciannove donne decorate con Medaglia d’Oro al Valor Militare ricordiamo Irma Bandiera, fucilata a Bologna il 14 agosto 1944 dopo sette giorni di terribili torture e sevizie. “Mimma” aveva 29 anni, era una ragazza bella e benestante, poteva attendere in tranquillità la fine della guerra ma non lo fece: aderì alla Resistenza e divenne “staffetta” partigiana, rimanendo coerente al suo impegno per un’Italia più libera e giusta.
Fu catturata dai fascisti la sera del 7 agosto, poi sottoposta a un vero e proprio calvario con l’obiettivo di ottenere informazioni sui suoi compagni di lotta. Il suo bellissimo viso venne sfigurato dalle torture, i suoi occhi accecati, subì indicibili violenze: tuttavia,
Irma non parlò. Tacque anche davanti alla casa dei suoi genitori, dove l’improvvisato plotone di aguzzini la finì a colpi di mitra. Il coraggio e la tenacia di Irma Bandiera sono un simbolo potente di resistenza a qualsiasi forma di oppressione, ieri come oggi.

Per questo abbiamo impegnato il Consiglio comunale a dedicare una via, piazza o altro luogo pubblico di Ferrara alla sua memoria. Un ricordo vivo, perché “Mimma” aveva ragione: “i morti passano, i sogni restano”. A lei e a tutte le donne che stanno lottando per la libertà, la pace e la giustizia vogliamo dedicare questo 25 aprile.

Anna Chiappini e Davide Nanni

 

 

In copertina e nel testo due immagini di Irma Bandiera, “Mimma”, staffetta partigiana, martire della Resistenza.

Far sloggiare lo Stato dall’economia:
la “libera” concorrenza che affama le famiglie e ingrassa gli azionisti

Far sloggiare lo Stato dall’economia: la “libera” concorrenza che affama le famiglie e ingrassa gli azionisti

 

Prima le notizie, poi il commento, come vuole il buon giornalismo.

Le notizie:

  1. da gennaio 2024 è finito il servizio pubblico della maggior tutela per gas e luce per chi (5 milioni di famiglie) non si era ancora trasferito nel “libero mercato”. Rimangono ancora in questo mercato tutelato 4 milioni di famiglie fragili con disabili, anziani, poveri.
  2. Il prezzo del gas (che incide anche sull’elettricità) quotato alla borsa Ttf di Amsterdam oscilla da 6 mesi tra 0,40 e 0,28 cent al metro cubo, quasi un terzo di un anno fa quando i prezzi erano ancora alti (1-2 euro).
  3. Un’analisi Arera (l’Autority garante) dice che negli ultimi 10 anni in media il servizio a maggior tutela ha avuto prezzi più bassi del “libero mercato”.
  4. Il passaggio al “libero mercato” si è dimostrato disastroso per queste ultime famiglie “fragili”, in quanto le Utility ne hanno approfittato per aumentare i prezzi. Qui si riporta il caso dell’Enel, ma così è per quasi tutte le Utility.
  5. L’Antitrust ha avviato una istruttoria per accertare le pratiche commerciali scorrette dei rinnovi contrattuali ottobre 2023-gennaio 2024. E ha multato Enel Energia per 10 milioni.
  6. Enel Energia si difende dicendo che a maggio 2023 sono cambiati i vertici dell’azienda e che gli attuali vertici stanno cercando di porre rimedio ai forti aumenti registrati dai clienti.

Il mio commento.

Basta guardare la figura sotto per capire che il prezzo del gas (e dell’elettricità) negli ultimi 12 mesi si è più che dimezzato e quindi non si giustificano gli aumenti in bolletta (anche di 3-4 volte) rispetto a quelli dello scorso inverno. Infatti il prezzo al “grossista” si è ridotto da una media di 1,13 euro del trimestre ottobre-dicembre 2022 a 0,43 euro dello stesso trimestre del 2023. Ma le bollette viaggiano all’incontrario. Per questo le Associazioni dei consumatori hanno ricevuto migliaia di denunce, da cui è scattata l’istruttoria dell’Antitrust che finirà, se va bene, con una multa di 10 milioni per Enel Energia che, nel frattempo, ha incassato circa un miliardo in più del dovuto. La multa sarà quindi pari all’1% dell’extraprofitto.

Enel dice che dei 6,5 miliardi di profitto netto del 2023 solo la metà viene dai risultati in Italia. E’ vero ma rimane il fatto che Enel (come le altre utility) sfrutta la fine del servizio pubblico di maggior tutela aumentando le tariffe a scapito dei propri clienti. Nel momento infatti in cui si elimina un grande operatore pubblico che faceva buoni prezzi acquistando grandi volumi di gas all’estero, si formano accordi tra le aziende in modo da avere prezzi diversi ma sempre all’interno di una certa “forbice”. Nel comunicato di Enel Energia si giustificano gli incrementi delle bollette in quanto “dovuti al forte rialzo del costo delle materie prime che hanno risentito delle note tensioni geopolitiche”.

In primo luogo nel corso degli ultimi 12 mesi c’è stato un forte ribasso del costo della materia prima (e non un aumento).

 

In secondo luogo le “note tensioni geopolitiche” non c’entrano nulla, perché la Russia faceva e fa contratti a lungo termine e chi ha prodotto il forte aumento del prezzo del gas è stata la grande finanza occidentale che è entrata in massa con 54 banche e 154 fondi finanziari ad acquistare tutto il possibile alla borsa di Amsterdam 8 mesi prima dell’invasione della Russia in Ucraina, portando il prezzo del gas da 0,20 di febbraio 2021 (come era da 10 anni) a 1,20 a dicembre (6 volte tanto). Così si fanno i soldi, altro che pulire i treni tutti i giorni.

Il che vuol anche dire che erano bene informati sull’invasione della Russia che sarebbe avvenuta in febbraio 2022.

Sulla base di questo caso esemplare avvenuto in Italia, possiamo capire come stia ulteriormente cambiando il capitalismo europeo, il quale, rispetto a quello americano, aveva sempre avuto una forte presenza dello Stato o di aziende pubbliche sia nella manifattura che nella gestione dei servizi (si pensi alla sanità, scuola, pensioni, energia,…).

Con la globalizzazione finanziaria avviata nel 1999 il capitalismo vuole fare un ulteriore “salto” eliminando quei “residui” di gestione pubblica sia nella manifattura che nei servizi. Questa è la ragione per cui si sta privatizzando la sanità pubblica e si stanno smantellando le poche industrie manifatturiere statali. La logica è sempre quella del massimo profitto che deve andare ai soci azionisti (quasi tutti privati) e della possibilità dei “politici” di favorire certi privati potendo poi ricevere (a tempo debito) i dovuti ringraziamenti. Vendere poi parte del patrimonio pubblico consente di ridurre il debito pubblico e disporre di nuove risorse da distribuire (pro tempore) per accrescere i consensi elettorali.

Prendiamo l’esempio di ENEL, il più grande gruppo “pubblico” italiano con 95 miliardi di fatturato e 6,5 miliardi di profitti netti nel 2023, controllato ancora dal MEF (Ministero dell’Economia e Finanza) per il 23,6% del capitale. Il 56,7% sono investitori istituzionali (un modo per dire che si tratta di banche e fondi di investimento, peraltro quasi tutti esteri), mentre i singoli cittadini (italiani e stranieri) hanno solo il 19,7%. I vertici sono ancora nominati dal nostro Governo che ha il 23,6% del capitale e la maggioranza degli azionisti di controllo, anche se di fatto (vedi vicenda del gas e luce) si comporta come un privato alla ricerca del massimo profitto. Enel distribuirà nel 2024 il suo profitto per 2/3 ai soci istituzionali azionisti (4 miliardi), un miliardo andrà allo Stato italiano e poco meno ai singoli azionisti. Ai lavoratori dell’Enel, che sarebbero i veri co-produttori non andrà nulla e tantomeno ai clienti (3,4 milioni di utenze domestiche, cioè famiglie italiane che da sempre si fidano di ENEL), i quali hanno subìto aumenti fuori scala di gas e luce.

Il mercato tutelato è stato avviato nel 2007 con la riforma Bersani, la quale prevedeva che anche nei settori del gas ed elettricità ci fosse un mercato concorrenziale e la libertà per i cittadini-clienti di passare da un mercato all’altro (tutelato vs libero e viceversa), ma non l’obbligo come avviene ora. Inoltre, prevedeva che ci fosse un ruolo dello Stato – calmieratore dei prezzi – tramite la presenza di un grande operatore pubblico (Acquirente Unico) che comperava all’ingrosso gas e luce e garantiva così bassi prezzi a chi non vuole rompersi la testa e perdere un sacco di tempo nelle moltissime e opache clausole che hanno i contratti del libero mercato: contratti complicati, al punto che tutti i miei amici (anche laureati) non ci capiscono nulla.

Per difendere le fasce più deboli Bersani aveva introdotto, come prevede la buona teoria economica, di dare la possibilità a questi clienti (che non hanno tempo e conoscenze per potersi districare nelle mille offerte di un mercato opaco) di poter scegliere l’Acquirente Unico, una società pubblica che, acquistando gas e luce sul mercato internazionale e contando sul potere di mercato di milioni di consumatori, garantiva prezzi bassi e tutelati dallo Stato.

L’Acquirente Unico partecipa infatti al mercato come uno dei tanti soggetti ma rende i prezzi più vantaggiosi per tutti, anche per quei clienti che sono nel “libero mercato”, in quanto le aziende private devono tener conto dei bassi prezzi offerti dal mercato tutelato.

La fine del servizio pubblico del mercato tutelato è stata un’idea di Renzi del 2014, voluta fortemente da Draghi e portata avanti dalla Meloni come “riforma” italiana richiesta dall’Europa (della moneta e dei mercati, mi verrebbe da dire) per avere in cambio i soldi del PNRR.

Non ho nulla contro il libero mercato, che in alcuni casi funziona (vedi coi telefonini, anche perché sono solo 4 operatori), ma non sempre funziona e tantomeno con 700 utility, specie se viene meno il ruolo calmieratore di un grande operatore pubblico che agisce nell’interesse del bene pubblico e che non ha logiche di profitto.

Adam Smith, fondatore del libero mercato, aveva scritto che in alcuni casi è opportuno che sia lo Stato a gestire certi affari (come il commercio delle Indie) e scrisse che non bisogna trascurare che “appena si trovano 2-3 imprenditori privati la prima cosa che fanno è tramare per rubare allo Stato altri soldi”. Ma i nostri neo liberisti sono più liberisti dello stesso Smith e lo Stato lo vogliono proprio sloggiare dal mondo degli affari, specie se c’è una grande impresa (o servizio) che per ragioni di scala (e di scopo) produce più vantaggi di singoli privati o impedisce a loro di poter fare i prezzi che vogliono in quanto la sua presenza funziona da calmiere, com’è stato per decenni con il servizio di maggior tutela sia nel gas che nell’elettricità e anche nella sanità pubblica.

La lotta di classe c’è ancora e la stanno vincendo i ricchi: lo dice il miliardario Warren Buffet.

 

 

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore.

Vite di carta /
Abitare al “Piano nobile” nel romanzo di Simonetta Agnello Hornby.

Vite di carta. Abitare al “Piano nobile” nel romanzo di Simonetta Agnello Hornby.

Ho sentito gli echi dal Gattopardo, meglio dirla subito questa bella sensazione. Piano nobile, pubblicato presso Feltrinelli nel 2020 da Simonetta Agnello Hornby, è un affresco sulla società palermitana del pieno Novecento, tra il 1942 e il 1955. È la fotografia di gruppo di una famiglia nobile tra le più in vista della città, quella del barone Sorci.

Come non pensare alla figura possente del Principe di Salina, il Gattopardo patriarca come Enrico Sorci di una numerosa famiglia, di un entourage di nobili e di dipendenti, e al pari di lui padrone di molti feudi e di palazzi. Non si può non riassaporarne la sicilianità sanguigna e disillusa, vissuta come un marchio fissato nelle carni e immutabile al passare della Storia.

La Storia in Piano nobile, però, ci trasporta più avanti di alcuni decenni. I Savoia che nel primo romanzo stavano annettendosi la Sicilia, in questo secondo sono i regnanti ormai consolidati dell’isola e sono poco amati. I Sorci nei loro interventi li considerano degli occupanti stranieri al pari degli altri popoli invasori che hanno segnato la storia siciliana.

Si parla dell’indipendentismo come della vera vocazione per i siciliani, come la realizzazione di una loro costante antropologica che Peppe Vallo, il più fortunato dei figli bastardi nati da Enrico Sorci, chiama “individualismo” e alla pari “autolesionismo“.

Gli interventi dei Sorci nel libro ne fanno un romanzo corale: in assenza di una voce narrante esterna si alternano le storie (con la minuscola) e i punti di vista dei protagonisti: del barone Enrico, che apre con una panoramica sulla famiglia dal suo letto di morte,  di Peppe Vallo che osserva dall’esterno il palazzo dove non è mai stato ammesso e la camera del padre che non lo ha riconosciuto.

Poi intervengono altri componenti dall’interno della famiglia: dei quattro figli maschi parlano il primogenito Cola e l’ultimo nato, Andrea, il più problematico, tormentato da un disturbo della personalità che nel libro resta senza una diagnosi e che oggi chiameremmo probabilmente autismo. Parla la nuora più giovane di Enrico, Laura, più vittima che moglie di Andrea e amante amata del cognato Cola.

Parlano alcuni dei nipoti: Rico, figlio di Cola, destinato a diventare anche lui, un giorno, il capofamiglia, e infine i due cugini inseparabili. Sono la sensibile Mariolina, figlia di Filippo, e Carlino, che è nato dall’amore fra Cola e Laura e rappresenta in seno alla famiglia ciò che più diverge dalle tradizioni ataviche, in quanto omosessuale e al contempo spirito libero.

Esiste in realtà un narratore che sa tutto e tutto concerta: quello che cede la parola di volta in volta al narratore o alla narratrice di turno e si rivela nei titoli dei capitoli che suonano così: “Dice Enrico Sorci”, “Dice Peppe Vallo”, e via dicendo.

Uno dei punti di forza della narrazione di Simonetta Agnello Hornby sta nel cedere al lettore il compito di aggregare ciò che raccontano le voci narranti e al tempo stesso nel facilitargli l’operazione con una scrittura limpida e che trascina.

Come in una sorta di delta narrativo, i rami del racconto finiscono per confluire nell’alveo grande di un solo ampio affresco sui nobili siciliani, sulla Sicilia e sull’Italia della metà del Novecento.

Insieme a Il Gattopardo, Piano nobile non ha tuttavia la vocazione del romanzo storico. Per tutto il tempo e lo spazio che ho dedicato alla lettura ho avvertito come prevalente il diario intimo di ciascun narratore, la sua psicologia che è consapevolezza prima di tutto degli stereotipi famigliari.

Quello che resta dai condizionamenti della casta e della casa è lo spazio lasciato alla costruzione autentica di sé, spazio esiguo per qualcuno, specie se donna. Lo dimostra Laura, sposata al violento Andrea per volontà del barone Enrico e caduta in disgrazia presso gli altri Sorci quando si scopre che aspetta un figlio del fratello maggiore del marito. Il disdoro generale non abbatte, tuttavia, in lei la spinta a mantenersi salda e a gioire insieme a Cola della personalità libera del loro figlio Carlino.

Dal tiro incrociato dei racconti prendono forma anche le personalità degli altri parenti, caratteri complessi di cui come lettori apprendiamo i tratti più forti e determinanti. In quanto confermati da più di una voce narrante, assumono per noi carattere di oggettività e ci rendono vive e riconoscibili queste altre figure, anche se non dicono.

Rileggo la quarta di copertina per confrontarla con ciò che ho inteso del libro e, per finire, trovo una eco gattopardesca che era rimasta impigliata nel fondo delle mie reazioni di lettura. Cito il passo:” È come se il piano nobile di palazzo Sorci fosse il centro del mondo, del mondo che tramonta – fra i bombardamenti alleati e la fine del fascismo – e del mondo che sta arrivando, segnato da speranze, ma anche da una diversa e più aggressiva criminalità”.

Nihil sub sole novi, mi sfugge di pensare.

Nota bibliografica:

  • Simonetta Agnello Hornby, Piano nobile, Feltrinelli, 2020
  • Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, 1963

Cover: Villa Palagonia a Bagheria (PA)

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Parole e figure / La libertà di scelta

Escono oggi in libreria, con Kite Edizioni, due albi importanti, “La scelta” di Valentina Mai e Lera Elunina e “Cavalca la tigre”, di Davide Calì e Raúl Guridi Nieto. Li abbiamo letti per voi in anteprima

Ebbene sì, noi di Periscopionline abbiamo un grande privilegio, quello di avere tra le mani alcuni albi illustrati prima dell’ora zero, lo sbarco in libreria. Ci siamo guadagnati sul campo questo regalo, grazie a tenacia, dedizione e attenzione ma anche, e soprattutto, grazie all’immensa disponibilità di illuminati editori che, con la fiducia che ci hanno accordato, stanno diventando una piacevole consuetudine. Una collaborazione che si sta rilevando fruttuosa e meravigliosa avventura intellettuale. Kite edizioni è fra questi editori e con Giulia Belloni, alla Bologna Children’s Fair Book, abbiamo selezionato i due albi di oggi. O meglio, la selezione è stata molteplice, ma poi ho deciso di presentarveli insieme per il filo conduttore che vi ho subito visto, prontamente condiviso con Giulia. Curioso, poi, che la parola ‘scelta’ sia una sorta di mantra della mia umile esistenza. Lo capirete presto.

I due albi “La scelta” e “Cavalca la tigre” sono intrinsecamente e strettamente legati dalla vera ricchezza donata all’essere umano, ciò che lo distingue da ogni altro essere vivente: la libertà di scegliere, nel bene e nel male. Sempre e comunque.

Ciascuno di noi può fare la differenza, se vuole. Quella minima ma anche quella abissale, quella che può salvare una vita, tante vite, il pianeta, la natura. Libero arbitro, si direbbe. Ognuno sia artefice del proprio destino, ma, se vuole, anche di quello del mondo intero. Se vuoi, puoi, o “se puoi sognarlo puoi farlo”, avrebbe detto il buon Walt Disney, poco importa, il concetto non cambia.

Di un punto siamo fermamente convinti e tenaci sostenitori. Non è vero che non c’è scelta, non è vero che non si può ancora salvare la terra, che le nostre azioni non abbiano un impatto, che quel che è fatto è fatto, che la frittata non si possa rivoltare.

Non è vero che non si possano vedere le cose con altri occhi e cuore. Basta scegliere la direzione giusta. A volte basta un non davanti a una frase e la prospettiva cambia, radicalmente. Il destino si adegui. Mi spiace per lui.

E la libertà di scelta resta, quindi, il vero potere dell’essere umano. Ciò che lo contraddistingue, che lo differenzia dall’istinto puro.

Quanto contano allora i nostri pensieri? C’è chi dice moltissimo, chi sostiene che solo quelli possono cambiare le cose. Se fosse così, allora, il modo in cui noi pensiamo al mondo, potrebbe lasciare le cose come stanno, o cambiarle. Le visioni del mondo possono essere opposte, siamo noi a dover scegliere quale sia la nostra.

Qualche giorno fa rimanevo profondamente colpita da un post sui social che ricordava come l’animale più pericoloso sulla terra sia stato individuato e presentato ad una mostra realizzata dallo zoo del Bronx nel 1963. Avvicinandosi ad una gabbia riservata agli oranghi e ai gorilla di montagna, si leggeva “stai guardando l’animale più pericoloso del mondo.

È l’unico, di tutti gli animali mai vissuti, che può sterminare (e l’ha già fatto) intere specie animali. Ora ha il potere di distruggere ogni forma di vita sulla terra”. Dietro le sbarre, un semplice specchio. Nulla di più terribilmente attuale. Mala tempora currunt.

Scegliere di non essere quella cruda rappresentazione si può. C’è ancora tempo.

Dopo “La scelta” anche “Chi cavalca la tigre” ci porta (nuovamente) allo stesso punto.

C’è, infatti, chi opta per andare a piedi e chi a cavallo, mentre un tizio cavalca la tigre.

C’è poi chi sceglie giallo o nero, chi di essere ricco o povero, chi di uccidere o di essere ucciso, scelte, spesso, sbagliate. Ma chi lo sa, chi può saperlo. È sempre il tizio che cavalca la tigre, a tratti la doma. Si uccide. Qualcuno si dispiace un poco.

Fino quando ci si ferma a riflettere e si resta attoniti. Si poteva scegliere in diverso modo, optare semplicemente per l’essere liberi? Si poteva, certo che si poteva, si può.

Pensiamoci su allora. Quanto basta. Perché possiamo sempre fare la differenza e perché … ci sia sempre colui che, imperterrito e impavido, cavalchi la tigre!

Valentina Mai, Lera Elunina, La scelta, Kite edizioni, Padova, 2024, 32 p.

Davide Calì e Raúl Guridi Nieto, Cavalca la tigre, Kite edizioni, Padova, 2024, 32 p.

 

Valentina Mai, lasciata la professione forense per assecondare il suo temperamento artistico, capisce che il mondo dell’illustrazione la interessa più di altri. Da allora collabora come illustratrice con riviste e case editrici italiane ed estere, cura mostre e tiene corsi di illustrazione e di diritto d’autore. Nel 2011 assume la direzione artistica del marchio Kite, alla quale nel 2018 aggiunge anche quella editoriale.

Lera Elunina è nata a Kaluga, in Russia, ha studiato pittura e arti grafiche presso l’Università statale di arti tipografiche Ivan Fedorov di Mosca. Nel 2021, i suoi lavori sono selezionati alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna e vince il Premio Ars in Fabula Grant. I suoi lavori sono stati esposti in molte mostre d’arte.

 

Davide Calì è uno scrittore di letteratura per ragazzi e fumettista italiano, conosciuto anche con gli pseudonimi di Taro Miyazawa e Daikon. Originario della Svizzera, è cresciuto in Italia, dove ha intrapreso la carriera di fumettista. Dal 1982 al 2008 ha collaborato con la rivista mensile “Linus” come disegnatore e dal 1998 ha cominciato a pubblicare libri per ragazzi, ottenendo un buon successo in Francia. I suoi lavori sono stati tradotti in più di 30 lingue. Nel 2016 è stato nominato art director di “Book on a Tree”, un’agenzia letteraria londinese.

Raul Nieto Guridi ha studiato alla Facoltà di Belle Arti di Siviglia e dal 1995 ha lavorato in molti campi artistici, dal design alla pubblicità. I suoi lavori, tra cui anche libri per bambini, sono stati pubblicati in diversi paesi, come Stati Uniti, Germania, Francia e Italia.

 

 

 

La Liberazione, oggi e tutti giorni. Ecco la nostra festa

La Liberazione, oggi e tutti giorni. Ecco la nostra festa

Il 25 aprile 1945 è il giorno della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, oggi più che mai è fondamentale ricordare per mantenere vivo un percorso di memoria storica.

Continuare a dar vita a una speranza attiva ad una resistenza quotidiana capace di riconoscere e combattere i processi di fascistizzazione socio-culturale che in questo periodo di guerra e crisi economica, trovano terreno fertile.
Razzismo e politiche di emarginazione, criminalizzazione del dissenso, l’isolamento dell’individuo e la continua costruzione mediatica di capri espiatori verso cui convogliare l’insoddisfazione sono pratiche che vengono messe in atto ogni giorno dalla nostra amministrazione cittadina e dal governo.
La storia si ripete e queste strategie hanno lo stesso scopo: conservare quei privilegi politici ed economici di un potere autoritario, sempre più organico a banche e finanza mondiali.
Quasi 6 milioni di italiani sono in povertà assoluta, l’ 8,5% del totale delle famiglie residenti, ma lo stato, succube degli USA e della NATO, i soldi da investire in armamenti militari li trova sempre e comunque, e anche quelli per le grandi opere insostenibili, che distruggono l’ambiente e foraggiano le mafie.
Condanniamo il genocidio in atto nella Striscia di Gaza occupata e siamo solidali con la rabbia che si è espressa nelle università e nelle piazze a fianco del popolo palestinese.
Occorre opporsi a logiche e culture patriarcali, che ancor oggi impongono un sistema iniquo per le donne e la comunità LGBTQIA+.
È necessario quindi riappropriarsi di momenti e spazi dove potersi confrontare e discutere sulle priorità e necessità trasversali affinché il conflitto spontaneo che sta nascendo dia vita a pratiche e soluzioni dal basso.
Oggi, continuare a lottare per una vita degna di essere vissuta, come ci insegnò chi ha combattuto il regime fascista, significa lottare contro la devastazione ambientale, contro il militarismo e la società capitalista.

Il 25 Aprile non è una ricorrenza,
invitiamo tutte e tutti
a praticare la Liberazione ogni giorno!

INFORMAZIONI SULLA GIORNATA

Corteo:
ritrovo alle 9:30 al parco Coletta, partenza ore 10:30, arrivo in Piazza Castello.

Pranzo sociale
dalle 12:30: prenotazioni al link https://forms.gle/jZxjci81ysriBMWM8  oppure contattare numero 351 920 2691

Concerti
dalle 15:00 alle 23:00: Coro mondine di Porporana, The Stando, Lemore, Plastic Rubbers, Catarsi, L’Istrice, Good Night Irene, Le Iene.

Luogo: Circolo Blackstar, via Ravenna 104

INGRESSO LIBERO

25 APRILE: 4° ANNO DI CHIUSURA DEL MUSEO DEL RISORGIMENTO E DELLA RESISTENZA

25 APRILE: 4° ANNO DI CHIUSURA DEL MUSEO DEL RISORGIMENTO E DELLA RESISTENZA

Digitando “Museo della Resistenza Ferrara”, esce questa comunicazione dal sito del Comune: “Il Museo è chiuso al pubblico fino a data da destinarsi per trasferimento sede”.
Dall’estate 2020 tutto ciò che conteneva è stato rimosso, gli uffici trasferiti a Porta Paola fino a data da destinarsi, in attesa della nuova sede, individuata nel Palazzo Pico Cavalieri, la cui ristrutturazione è in corso e lo è dall’estate 2023.

Negli ex spazi del Museo c’è da tempo il bar del Palazzo dei Diamanti. Si poteva scegliere di spostare il Museo in altra sede idonea o di lasciarlo in un limbo. E’ stato scelto il limbo.

25 aprile 2024: chiediamo che la riapertura del Museo diventi una priorità, con l’individuazione di in una sede adeguata, ripensando il tutto, per dare finalmente alla città un museo sulla sua storia in una sede ampia, con spazi per la didattica.
Chiediamo che chi oggi si occupa di ricerca e documentazione storica sia messo nelle condizioni di poter usare gli strumenti di cui la città già dispone, per sopperire alla perdita del patrimonio umano e morale costituito dai partigiani in carne e ossa. Senza sede fisica il Museo non può esprimere le sue potenzialità, come le attività di divulgazione e formazione.

Le memorie della storia, dell’antifascismo, della Resistenza, devono essere uno strumento per interpretare l’oggi! Antifascismo è una parola importante, che va pronunciata, promossa e praticata con tutti gli strumenti possibili.
Si tratta di chiedersi, oggi, cosa significa riconoscere e prevenire le radici del fascismo e farlo, interpellando la realtà che viviamo nel presente: tutelando la libertà di espressione e il pluralismo, difendendo le minoranze e riducendo le ingiustizie, denunciando le discriminazioni e la repressione del dissenso.

Il Museo è stato inaugurato nel 1903, in onore dei patrioti ferraresi Giacomo Succi, Domenico Malagutti e Luigi Parmeggiani: raccoglie armi, uniformi, cimeli, fotografie, manifesti e documenti di Ferrara e nazionali dei secoli XIX e XX. Nel 1954 venne aggiunta la sezione dedicata alla Resistenza italiana; nell’occasione l’originario “Museo del Risorgimento” cambiò nome in “Museo del Risorgimento e della Resistenza”.

Il Museo, anche in questi ultimi faticosissimi quattro anni, ha continuato a collaborare con le Scuole superiori della città: la coraggiosa mostra “Tutti colpevoli, tutti assolti” sulle atrocità compiute dal regime fascista nel periodo coloniale, realizzata in collaborazione con il Liceo “L.Ariosto” e il recente progetto di PCTO con una classe di Informatica dell’Iti “Copernico – Carpeggiani”, che ha consentito di impostare un programma informatico di catalogazione e visione dei materiali del Museo, ora nei depositi. Importanti anche le collaborazioni mantenute con l’ANPI e con l’Istituto di Storia Contemporanea.

Senza una sede, però, le potenzialità di un Museo che potrebbe e dovrebbe ampliare la propria attività di ricerca e di divulgazione sono, di fatto, quasi azzerate, nonostante l’impegno di chi lì lavora.

Ferrara quest’anno festeggerà per la quarta volta la Liberazione con il Museo del Risorgimento e della Resistenza senza sede.
Giovedì 25 aprile alle ore 12.00 ci troveremo davanti alla sede del Museo in Corso Ercole I d’Este, 17, per chiedere la riapertura del museo in una sede idonea. W l’Italia antifascista!

 

Anna Zonari
Candidata Sindaca di Ferrara