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L’unione (europea) non fa la forza

Un popolo unito può sconfiggere il mondo intero. È successo in passato più e più volte, la storia è piena di esempi. E non esistono popoli eletti, quello che conta è l’unità d’intenti, un ideale in comune, un senso d’appartenenza forte, coraggio e spirito di sacrificio.
Ebbene, tutto ciò è proprio quello che manca all’Italia. Quello che è sempre mancato del resto, anche nei momenti più bui della nostra storia. Persino quando siamo stati invasi dal nemico c’erano tra noi quelli che erano dalla parte dell’invasore.

L’Italia è un paese di fazioni, di rivendicazioni di parte, di piccoli egoismi, di invidie e di faide.
Un paese unito è un paese forte, un paese da temere e da rispettare.
L’Italia non lo è, e non può pretendere d’esser trattata come tale. Le colpe sono tante, così come i colpevoli. Correre ai ripari adesso è quasi impossibile, non senza lacrime e sangue almeno. Non senza pesanti sacrifici che nessuno, tra l’altro, pare voglia sobbarcarsi.
In una situazione ingarbugliata come quella italiana, alla fine, a farne le spese sono sempre i soliti: i più deboli. Quelli che subiscono le altrui decisioni, quelli che non hanno alcun potere contrattuale, che hanno meno degli altri o che quel poco che hanno rischiano di perderlo del tutto. Oggi queste persone non sono più gli emarginati di sempre, i reietti, gli esclusi dalla società. Gente che in ogni epoca ha rappresentato quella esigua parte di popolazione che non ce la fa, che per varie ragioni, sociali o esistenziali che siano, non riesce a inserirsi negli ingranaggi giusti della convivenza.
Questa volta non è più così. Questa volta a rischiare grosso è una gran parte della popolazione che nella società è inserita a pieno titolo. La maggioranza di tutti noi… decisamente!
Gente che è uscita suo malgrado dal mercato del lavoro e che non riesce più a entrarvi, gente che non ne è mai entrata, e qui fare distinzione tra vecchi e giovani diventa francamente irrilevante. Gente che un lavoro ce l’ha ma che teme di perderlo: lavoratori dipendenti indeboliti da questa nuova assenza di tutele e quotidianamente ricattati dai datori di lavoro. Poi piccoli imprenditori sempre più a rischio, vessati da tassazioni insostenibili, paralizzati da mille obblighi amministrativi, spesso costretti a competere con colossi industriali e multinazionali impossibili da contrastare, ostaggi di banche perché indebitati oppure scoraggiati a investire per questa rinnovata difficoltà d’accesso al credito. Ma anche giovani pieni di idee che non riescono a dar seguito a iniziative imprenditoriali perché privi di coperture e garanzie.
Gente che si sta impoverendo sempre di più nelle tasche e nello spirito. Con un futuro dove l’incertezza paralizza ogni progetto, dove entusiasmo, desideri e sogni hanno lasciato il posto a pessimismo, paure e rancori.
Il malcontento della gente è più che giustificato. Ma il malcontento da solo non basta a risolvere questi problemi, a superare questi nuovi ostacoli. Specialmente in un contesto dove il nemico da contrastare è nascosto, indefinito, sparpagliato. Dove a volte i nemici siamo noi stessi.
Chiediamoci allora come mai abbiamo questa classe politica, questi amministratori. Come mai non riusciamo a emanciparci da una classe dirigente che ci risulta tanto indigesta e oppressiva quanto incapace e ingorda. Ogni popolo ha i governi che si merita, soprattutto perché in democrazia chi fa politica è stato nominato dal popolo.
Eppure sembra sempre più evidente la distanza tra chi ha il potere e chi lo subisce, tra coloro che decidono nelle stanze dei bottoni e tutti gli altri che stanno fuori.
Negli ultimi trent’anni, in un costante crescendo, sono tante le cose successe sotto i nostri nasi che hanno modificato radicalmente la nostra società e la nostra economia in peggio. Spesso cose decise ed eseguite senza che nessuno contestasse nulla, o meglio senza che nessuno sospettasse di nulla. Sì perché si è trattato di cambiamenti epocali che i loro artefici hanno spacciato per progresso, facendoci credere che fosse l’unica strada possibile per il futuro. Del resto stampa e fior d’intellettuali si sono accodati alla politica, plaudendo ai cambiamenti e condizionando l’opinione pubblica.

Ma restiamo a casa nostra. Qualcuno di voi si ricorda di un governo, passato o recente, che abbia mai fatto nulla per contrastare, o per lo meno criticato, questo fenomeno drammatico (certamente il più drammatico nella storia della nostra economia) chiamato globalizzazione?
Qualcuno certamente dirà che si è trattato di un processo su scala mondiale, inevitabile e irreversibile, quindi impossibile da fermare. Sono d’accordo. Ma allora perché non correre ai ripari attuando politiche mirate a salvaguardare la nostra identità economica? Perché rinunciare al nostro potere decisionale consegnandolo a un ente estraneo come quello europeo? Perché illudersi che un’unione economica e finanziaria europea potesse proteggere la nostra economia dagli attacchi di competitors potenti come quelli provenienti dall’Estremo Oriente o da oltre oceano? Perché farlo quando i più grossi concorrenti ce li abbiamo proprio in Europa? Qualcuno crede veramente che Germania o Francia ci avrebbero dato la precedenza, che avrebbero protetto la nostra economia facendola progredire a discapito della loro? Qualcuno crede sul serio che un’Europa così frammentata politicamente potesse mai trovare una coesione economica stabile?
La verità è che si litiga su tutto. Sulle quote latte, sulle arance, sui pomodori, sul grano, sulle percentuali da assegnare, sui contributi da dare, sui regolamenti da rispettare, spesso vincoli assurdi che dimostrano quanto siano inique e di parte certe decisioni prese a Bruxelles. La verità è che l’Europa del nord non è quella mediterranea e i rispettivi interessi sono quasi sempre contrastanti. La verità è che a Bruxelles l’Europa del nord vince quasi sempre!

Ma se in Europa si litiga, in Italia ci si prende a pugni. Tutti contro tutti, come nella tradizione del nostro “Belpaese”.
Come potevamo pensare di vincere la “guerra” commerciale con la Cina, per esempio, quando dovevamo difenderci dai nostri stessi alleati europei? Quando in casa nostra non c’è stato un governo in grado di mettere tutti d’accordo per contrastare simili attacchi commerciali?
Il “made in China” è ormai la normalità. Dai giocattoli ai casalinghi, dagli oggetti d’uso comune agli attrezzi da lavoro, dall’abbigliamento alle apparecchiature elettroniche fino ai computer…
Tutti quanti i negozi sono pieni di prodotti cinesi, e non è più vero che si tratti soltanto di prodotti di scarsa qualità. Nel frattempo, migliaia di piccole aziende nostrane hanno dovuto chiudere, aziende che campavano producendo questi stessi prodotti. Stare in Europa a cosa è servito allora?

Adesso si ripropone lo stesso problema, anzi peggio. La minaccia è, se possibile, ancor più grande. Riguarda i prodotti d’eccellenza, l’ultimo vero baluardo della nostra economia. Se perderemo anche questa ennesima battaglia, saremo definitivamente sconfitti e dovremo accodarci alle economie povere di questo nuovo mondo globalizzato prossimo venturo.

Un giorno tra la destra ferrarese

Non avrei mai creduto di commentare un evento come quello di domenica scorsa a Ferrara. Non avrei mai creduto non perché non si potesse realizzare, ma non pensavo potesse riportare un successo del genere in una città che, appunto, era rossa. Ma andiamo con ordine. Nell’ampio spazio coperto  di Sala Borsar è andata in scena la “Festa del tricolore”, un evento che tornava a Ferrara dopo molti anni, organizzata da Fratelli d’Italia, e che ha visto come protagonista assoluta della giornata proprio il presidente del partito, Giorgia Meloni. La giornata è stata divisa in tre momenti.

Già durante il primo atto ho avuto modo di scoprire che a Ferrara, al contrario di quanto si possa pensare, la destra è forte ed ha le caratteristiche che mancano in questo momento alla sinistra per vincere, una su tutte l’unità. E proprio sul tema dell’alleanza nel centrodestra si è focalizzata la discussione tra Alan Fabbri, Mauro Malaguti e Paola Peruffo, tutti ospiti del senatore Alberto Balboni, in qualità di padrone di casa. Tutti  i partecipanti hanno dedicato il primo intervento a tastare il terreno e a lanciare segnali in vista delle elezioni della prossima primavera. Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, hanno passato quasi un’ora a complimentarsi vicendevolmente e a sottolineare come, ora più che mai, la destra sia compatta e unita anche a Ferrara. Una coesione che andava pubblicamente mostrata a livello locale – circa duecento gli ascoltatori –  e rimarcata anche davanti agli alleati nel governo giallo-verde. Infatti, lo stesso Balboni ha lanciato verso il Movimento 5 Stelle un appello-avvertimento: “Noi siamo disponibili ad un cammino insieme, purché ci siano obiettivi comuni”. Mancava, però, sul palco qualcuno che potesse raccogliere e rispondere a queste parole.

In sostanza, la prima tranche della festa del tricolore è stata una specie di braccio di ferro per stabilire chi merita e a chi spetterà la leadership nella corsa delle prossime amministrative, che verosimilmente però vedrà il Carroccio guidare la coalizione ed esprimere il candidato sindaco. Mauro Malaguti (Fratelli d’Italia) non ha però risparmiato una frecciatina all’indirizzo della Lega: “Siamo un piccolo partito di coerenza”, alludendo alla coerenza tradita da Salvini colpevole di aver abbandonato il patto siglato dal Centrodestra per andare al governo con un’alleanza sui generis con i pentastellati. Altra parola d’ordine della giornata è stata “cambiamento”, invocato a più riprese da tutti i convenuti,  perché “dopo 70 anni di guida di sinistra della città, l’alternanza al vertice sarebbe segno di democrazia”. Questo messaggio, lanciato in una città dove, appunto, il tessuto di centro sinistra è ancora molto forte, serve a far apparire il voto per il centrodestra come un gesto per salvaguardare la democrazia e riuscire a far cambiare rotta ad una realtà come Ferrara che, sono parole di Alan Fabbri, “ha bisogno di un nuovo respiro”.

In pratica le manovre della prima ora, tra molti convenevoli e qualche stoccata, sono servite ad ogni esponente politico a cercare di scoprire le carte degli altri due partiti potenziali alleati e, soprattutto, a dimostrare quanto forte sia l’alleanza di centrodestra in città. Operazione  che, almeno agli occhi del numeroso pubblico, sembra riuscita.

Il secondo blocco di interventi ha visto come protagonisti Anna Maria Bernini, capogruppo di Forza Italia al Senato, Gianluca Vinci, coordinatore regionale della Lega e Tommaso Foti, coordinatore regionale di Fratelli d’Italia. Anche qui la scelta di fondo è stata ostentare la coesione nelle differenze, come hanno detto gli ospiti. La particolarità di questo dibattito, dal titolo “C’erano una volta le regioni rosse” è stata la presenza del giornalista Stefano Lolli nelle vesti di intervistatore insieme ad un collega. Proprio Lolli, giornalista del Resto del Carlino, era stato di recente protagonista di una piccola ma significativa vicenda, avvenuta quando, durante una diretta social insieme all’assessore Modonesi,  si ironizzava su una manifestazione nella quale le associazioni Gad Sicura ed Insorgenti riaccendevano i riflettori sul caso “Siberiana”. La particolarità sta proprio nel fatto che proprio gli Insorgenti sono stati tra gli invitati della Festa del Tricolore –  infatti la parte conclusiva era riservata alla visione del loro film “Mi chiamo Ida”  – e non sono mancati i mugugni all’insegna del moderatore Lolli per la sua presunta “vicinanza” con l’amministrazione targata Pd. Dopo questo siparietto, è arrivato il turno dell’ospite d’onore della giornata. Alle ore 17 e 50 infatti è arrivata Giorgia Meloni. L’accoglienza  è stata quella delle grandi occasioni e il suo intervento è stato interrotto più volte dagli applausi. Da notare, però, che il suo arrivo ed il suo discorso ha visto la ‘scomparsa’ dei rappresentanti, tra il pubblico, degli altri due partiti del centrodestra. Aspetto da non sottovalutare.

La Meloni, come prevedibile, si è soffermata a lungo sul tema dell’immigrazione, o meglio, dell’islamizzazione che stiamo vivendo, non mancando di far riferimento al quartiere Gad e alle nuove mafie tra cui quella nigeriana. Stoccate a Macron sulla gestione dei migranti e colpe date ai cugini d’oltralpe per aver causato la crisi libica con le conseguenti ondate migratorie. Anche da lei frecciate alla Lega, accusando più  volte Salvini di incoerenza e invitandolo a tornare con chi gli ha consentito di andare al governo, mentre sui grillini è stata molto chiara: “I 5 Stelle non sono sulla nostra stessa linea. Spero ci sia un governo di patrioti di destra”. Anche sulla famiglia ha tenuto a dire la sua sul calo demografico e sullo Stato che deve aiutare le giovani coppie. In poche parole, tutto ciò che da lei ci si aspettava. Doveva essere un’intervista con il giornalista Alessandro Giuli, ma in realtà è stato un vero e proprio comizio nel quale la Meloni ha rimarcato più volte il ruolo fondamentale di Fratelli d’Italia: “Noi non abbiamo mai abbandonato il centrodestra, al contrario degli altri. Siamo i detentori di alcuni valori e proprio per questa nostra coerenza ci spetterebbe un ruolo primario”.

Questo il riassunto di una giornata molto particolare, vissuta da estraneo non essendo io  affine alle posizioni e alle politiche della destra, ma che ha lasciato un segno profondo. Sarà per l’accoglienza calorosa riservata alla leader di un piccolo partito in una città dove a governare è sempre stata la sinistra. Sarà perché quest’ultima, la sinistra al governo cittadino, ha totalmente mancato di far sentire la propria voce. Non un comunicato, non una contromanifestazione. Un silenzio assordante rotto solo dalla sezione ferrarese del Partito Comunista Italiano, che nelle parole del segretario Kiwan Kiwan, ha condannato l’autorizzazione da parte del Comune di questa festa perché “Ferrara è simbolo della lotta partigiana e della Resistenza e non dovrebbe accogliere manifestazioni di partiti che con le loro scelte di campo e azioni politiche si rifacciano all’ideologia fascista”.

Questo ‘esame’, al di fuori del Gad dove a regnare ormai è la Lega, ha funzionato. La destra si è dimostrata compatta, unita e, per alcuni versi, moderata. Moderazione dimostrata proprio con quella parola ripetuta da tutti gli ospiti come un mantra, “alternanza”. Alternanza che, salvo grandi sconvolgimenti, sembra alle porte, visto un PD sempre più allo sbando e in calo nei sondaggi. Le parole di Balboni sono significative: “Non avrei mai creduto di poter vincere a Ferrara con il sistema maggioritario. Ci sono cose che ci dividono, ma dobbiamo investire su ciò che ci unisce”. E questo investimento sembra già aver dato i primi frutti. Nel frattempo si aspetta l’altra parte, ancora troppo impegnata nel capire chi sia più a sinistra degli altri

Balboni, Lodi e Fabbri
La prima discussione tra Fabbri, Malaguti, Peruffo e Balboni
Momenti della festa
In sostegno dei marò
Il consigliere di FI Matteo Fornasini
Momenti della festa
Gli Insorgenti
Momenti della festa
La seconda discussione
Sul palco i giornalisti, tra cui Stefano Lolli e i politici Vinci, Foti e Bernini
Foti e Bernini
La copertina del film “Mi chiamo Ida”
L’arrivo di Giorgia Meloni
L’arrivo di Giorgia Meloni
L’arrivo di Giorgia Meloni
Interviste alla Meloni
Interviste alla Meloni
Interviste alla Meloni
Una panoramica sul pubblico
Balboni e Meloni
Il palco durante l’intervento di Giorgia Meloni con Alberto Balboni e Alessandro Giuli
Il palco durante l’intervento di Giorgia Meloni con Alberto Balboni e Alessandro Giuli
Il palco durante l’intervento di Giorgia Meloni con Alberto Balboni e Alessandro Giuli
Il ritorno alla sua auto di Giorgia Meloni

Foto di Valerio Pazzi

La musica nella fotografia

di Giordano Tunioli

È consuetudine ormai diffusa proporre le proprie creazioni fotografiche con proiezioni unite ad un sottofondo musicale. Normalmente definite “audiovisivi”, tali proiezioni possono acquisire un significato ambivalente; la consultazione di un vocabolario ci riferisce della coniugazione d’immagini e suoni ai fini di una particolare tipologia di comunicazione e non sempre chiarisce come la sinergia di mezzi espressivi diversi – immagine e musica – conducano ad un concetto multimediale più ampio da cui scaturisce un nuovo prodotto nel quale frammenti d’immagini in movimento si alternano con l’immobilità della fotografia, in un contesto in cui il suono è componente imprescindibile. In un secondo caso s’intende per “audiovisivo” la proiezione d’immagini statiche, corredate quasi sempre da un accompagnamento musicale apparentemente complementare e non essenziale. A mio parere, quest’ultimo punto di vista è riduttivo, e ci induce a considerare con maggiore attenzione il rapporto suono – immagine. Questo rapporto si è nel tempo consolidato ed è stato lungamente studiato nell’ambito cinematografico così da appartenere all’immaginario collettivo. Tra il film e l’audiovisivo fotografico emergono soprattutto due differenti elementi: la temporalità e il movimento (componenti che implicano l’evolversi di un nuovo linguaggio). Nondimeno la proiezione fotografica esige un’attenzione peculiare nel connubio tra fotografia e musica. Mi è capitato di assistere alla proiezione di fotografie perfette dal punto di vista tecnico e che possedevano un raffinato senso della composizione, tanto da rasentare la perfezione nella ricerca di un equilibrio grafico e una intuizione nell’uso del colore come raramente accade, ma… Già, c’è un “ma”! La rappresentazione era affrettata, con tempi per ogni singola immagine a dir poco insufficienti per poterla apprezzare nella sua interezza, certamente tali da non consentire il piacere di una ponderata percezione visiva.
L’aspetto, a mio parere, più negativo, fu proprio il commento musicale, del tutto improprio, disarmonico, perfino insensato nei confronti del linguaggio fotografico. Mi stupì poi la risposta dell’autore allorché gli chiesi quale criteri avesse seguito nella scelta musicale: “nessuno in particolare: mi piaceva quella musica”. Ora, premesso che ognuno è libero di pensare e agire come meglio crede, va detto che una presentazione musicale superficiale o impropria equivale ad una brutta cornice o ad una stampa non curata e può sminuire, come accadde, la poesia o il contenuto concettuale dell’immagine. Il fotoamatore dovrebbe sempre tener presente che fotografia e musica possono costituire un momento d’incontro-scontro fondamentale. Anzi! Sarebbe opportuno ricordare come la fotografia conservi nella sua composizione, tale e quale all’arte figurativa in genere e all’architettura, un senso ritmico, una “musicalità interiore” che andrebbe rispettata. Poi la fotografia è fatta anche di silenzi, di concentrazione, di sensazioni. Sarei comunque prudente nell’asserire che una visione pubblica di fotografie necessiti di un commento musicale, magari con l’unico scopo di non annoiare lo spettatore, anche perché ciò potrebbe voler giustificare un mediocre risultato o un lavoro tale da non essere in grado di coinvolgere lo spettatore, di conseguenza non meritevole di attenzione. Neppure è lecito difendersi dicendo che “non sono un musicista, non suono uno strumento, non ho studiato musica” poiché tutto ciò non è richiesto al fotografo, ma da questi, come a qualsiasi artista, ci si attende raffinatezza, gusto, cultura, sensibilità musicale necessaria, quest’ultima, ad una scelta oculata di brani conclusa in un efficace montaggio sonoro, senza che tutto ciò sottintenda una profonda conoscenza specifica. Per altro, molti fotografi del passato ne erano in possesso: Ansel Adams negli anni giovanili era un ottimo pianista classico che faceva preludere ad una brillante carriera musicale, Weegee suonava egregiamente il violino tanto da accompagnare i film del cinema muto, Florence Henri fu allievo di pianoforte a Parigi nientemeno che di Ferruccio Busoni, e molti altri ancora suonavano discretamente uno strumento o, comunque, erano uditori cólti, come William Eggleston, “Chim” Seymour, Lisette Model, James Coburn, Eugene Smith, alla stregua di fotografi che praticavano l’arte della pittura e del disegno (due tra i più grandi: Man Ray e Henri Cartier-Bresson) come vi furono musicisti a loro volta dediti alla pittura (Arnold Schönberg, per esempio) o alla fotografia.
Ovviamente non si fa qui riferimento all’impiego della sola musica cosiddetta “classica” o cólta, appartenente al passato, alle avanguardie del Novecento o al presente, ma alla musica nelle sue varie forme ed espressioni evolute in generale, appartenente sia al genere leggero (o di consumo) sia al jazz, alla musica popolare alla new-age o alla Muzak. Insomma, non è un problema di stile o di appartenenza ad un genere piuttosto che ad un altro, ma è un fattore di compenetrazione tra linguaggi diversi che, nel loro integrarsi, costituiscono una realtà complessa in cui si sviluppa una diversa poetica ed estetica. E’ il prodotto finale nella sua compiutezza che deve essere atteso, valutato ed apprezzato. E’ importante non disconoscere la fondamentale funzione semantica dell’immagine scissa da quella della musica affinché possa scaturire una nuova e diversa dimensione semantica. Non per tutti la fotografia è musica e non è detto che la fotografia debba “essere musica”; forse è meglio così. Neppure la musica deve obbligatoriamente essere al servizio dell’immagine fotografica, cinematografica o video.
Per questo mi sento di asserire che, in molti casi, è preferibile il silenzio o il commento, faceto od esegetico, alle proprie o altrui immagini piuttosto che un inopportuno rapporto sonoro tale da divenire fastidioso rumore.
D’altronde un fotoamatore evoluto non deve neppure essere un artista ad ogni costo; deve comunque possedere sensibilità artistica, curiosità, passione per la ricerca e la cultura. Deve soprattutto essere interessato a ciò che gli sta intorno; certamente può anche divertirsi scattando banali istantanee… purché non le presenti in pubblico.

FACCI CASO
La Borsa o la vita

SkyTg24 di una domenica d’agosto di qualche tempo fa apre l’edizione delle 22 collegandosi con il corrispondente da New York che informa i telespettatori sulle quotazioni dei titoli nella principale Borsa statunitense. Eppure non è successo nulla di particolarmente significativo quel giorno. Ma è una consuetudine di Sky: evidentemente quelle informazioni sono considerate di primario interesse. Qualche settimana prima, il cronista finanziario, commentando il ribasso delle quotazioni del barile di petrolio, affermava che era “il peggiore risultato degli ultimi mesi”. Perché peggiore? Se cala il prezzo del petrolio cala anche quello della benzina e io risparmio. Invece no. Ci abituano a guardare il mondo dalla parte dei padroni del vapore. Per loro se il prezzo del barile cala è un guaio perché calano i loro profitti. E a noi dovrebbe dispiacere! C’è qualcosa che non va, evidentemente. Anche nella facile e prevedibile obiezione: il problema non sono i guadagni dei petrolieri ma l’andamento dell’economia. Certo. Bisogna intendersi però su quali siano gli indici significativi: se valutiamo il Pil mi sa che hanno ragione “loro”, se invece consideriamo il benessere delle persone forse ho ragione io a pensare che siamo al delirio…

Dieci anni dopo il crollo di Lehmann Brothers

10 anni fa crollava la Lehman Brothers iniziando uno dei periodi più catastrofici dell’economia mondiale, crollava mentre le agenzie di settore le attribuivano il massimo del rating. Quando i responsabili di quelle agenzie furono chiamati a dare spiegazione dei loro giudizi al Senato degli Stati Uniti, si difesero dicendo che erano semplicemente dei “pareri”, era la loro opinione per cui non potevano essere addossate responsabilità, e così fu.
Tutti gli intrecci e gli interessi furono portati alla luce ma dopo 10 anni continuiamo a vivere con il terrore del rating, ci hanno detto chiaramente che sono “solo opinioni” di persone con degli interessi economici e finanziari, ma le nostre democrazie continuano a dipendere dai loro giudizi.

Nel frattempo, Mario Draghi con il Quantitative Easing della BCE ha comprato migliaia di miliardi di euro di Bond/BTP europei che hanno tenuto bassi i tassi senza creare danni a nessuno. Quindi ha dimostrato praticamente che una Banca Centrale non ha limiti nel comprare titoli di stato, che questo aiuta le persone, i cittadini, ma a dicembre il programma dovrà essere interrotto.

E allora bisogna correre ai ripari (??), Savona e Tria sembra stiano chiedendo assicurazioni a USA e Cina affinché comprino i nostri titoli. Ma perché andare così lontano quando abbiamo una Banca Centrale che ha appena dimostrato che può farlo senza problemi? Semplicemente perché bisogna preservare gli equilibri di mercato, perché gli equilibri di mercato contano più degli equilibri delle persone.

Viviamo dunque di illusioni, l’illusione che il giudizio di un’agenzia di rating con degli interessi privati possa essere obiettiva, l’illusione che il mercato possa avere un equilibro naturale e quindi ci si possa affidare, l’illusione che il sistema economico possa funzionare senza una guida, l’illusione che il benessere sia a portata di mano come in una sala del Bingo.

Mark Twain scrisse: “Non separatevi dalle vostre illusioni; quando esse sono scomparse, potete continuare ad esistere, ma avete cessato di vivere”. L’abbiamo preso sul serio!

L’appuntamento dopo la pausa estiva è per domani, mercoledì 29 agosto 2018 dalle ore 20.30 alle 22.30 in Via Ravenna 52 (entrata sul retro da Via Ferrariola) – CSV Agire Sociale di Ferrara. L’ordine del giorno:

– Ben ritrovati e facciamo il punto
– Come andiamo avanti con le riunioni

– Come concludiamo il 2018 e cosa prepariamo per il 2019

Claudio Pisapia

Sede G.ECO.FE

Via Ferrariola c/o C.S.V. Agire Sociale
FERRARA

Da: Gruppo Economia Cittadini di Ferrara

Lettera al Governo sulla vicenda della nave Diciotti.

“Le associazioni del Tavolo Asilo chiedono con urgenza al Governo italiano di autorizzare lo sbarco delle 150 persone ancora a bordo della nave Diciotti. I migranti soccorsi dalla nave italiana senza ulteriori indugi devono essere messi in condizione di ricevere assistenza adeguata e di beneficiare di tutte le garanzie definite dalla nostra Costituzione, dalla normativa nazionale, comunitaria e dalle convenzioni internazionali, a prescindere dai tempi e dagli esiti della contrattazione politica tra gli Stati Europei. Le risposte dell’Unione europea alla gestione dei flussi migratori, compresi quelli dei minorenni, nel Mediterraneo deve essere richiesta nelle opportune
sedi e non attraverso il trattenimento illegale di persone a bordo di una nave”.

Caritas Italiana, A Buon Diritto, ACLI, ActionAid, Amnesty International Italia, ARCI, ASGI, Casa dei Diritti Sociali, , Centro Astalli, CIR, Comunità di S.Egidio, CNCA, Emergency, Médecins du Monde Missione Italia, Mediterranean Hope (FCEI), MEDU, Save The Children Italia, Senza Confine, Oxfam Italia del Tavolo Asilo Nazionale

Il Documento inviato al Governo:

Ufficio Politiche Migratorie e

Protezione Internazionale

Da: Sara Cambioli

Ferrara: biblioteche alla riscossa

Il 16 di agosto, sotto “la luna” di un’estate rovente e insanguinata, entro nella splendida Biblioteca Bassani di Barco per ascoltare e partecipare alla tradizionale maratona di lettura, dedicata quest’anno al tema della pace e della nonviolenza. Mi aspettava una felice sorpresa. Sorpreso e felice di vedere in quanti avessero risposto all’appello: decine e decine di persone, conosciute e sconosciute, giovani e anziani. Mi è sembrato un piccolo segno di grande valenza: una specie di conferma che Ferrara può davvero aspirare al titolo di “Città d’arte e di Cultura”, una città della pace, dell’incontro, del dialogo.
Non solo libri: la biblioteca è una piazza
Al termine della maratona, un’altra gradita sorpresa. Angelo Andreotti, il nuovo dirigente del Servizio Biblioteche e Archivi, interviene per ringraziare i partecipanti, e per esprimere in pochi minuti alcuni concetti, in modo semplice e chiaro, senza enfasi, ma aprendo a uno scenario nuovo e promettente per la promozione della lettura (e della cultura) nella nostra città. Aspettavo queste parole da quasi 15 anni, tre lustri in cui le nostre biblioteche hanno conosciuto una progressiva eclissi, una marginalizzazione, una gestione improntata al risparmio e al basso profilo, fino ad arrivare alla recente e sconsolante calo dei fondi comunali destinati agli acquisti documentari e al conseguente crollo dei prestiti. Denunciavo più di un anno fa su Ferraraitalia questa preoccupante deriva (‘La nuova primavera delle biblioteche ferraresi’) augurandomi una svolta nella politica culturale cittadina.
Cosa ha detto Andreotti? Prima di tutto ha comunicato la sua “fede”, un calmo entusiasmo per l’importante incarico affidatogli e il suo impegno per il rilancio del Servizio di Pubblica Lettura a Ferrara. Poi ha spiegato un concetto elementare, che però in tanti anche nella nostra città non considerano o hanno dimenticato. E cioè che una biblioteca pubblica non è solo un luogo dove si va a prendere a prestito un libro, ma è prima di tutto una “piazza”, un luogo dove le persone si incontrano, si parlano, raccolgono e si scambiano informazioni. Per questa ragione le biblioteche pubbliche  – tante, diffuse in ogni quartiere e con una pluralità di servizi – rappresentano una pietra miliare per promuovere e animare una città civile, colta, accogliente.
Nuove biblioteche e nuovi bibliotecari
Molte cose stanno muovendosi, e rapidamente, tanto da incoraggiare l’idea che si possa davvero aprire una nuova primavera per le biblioteche ferraresi. Raccolgo le notizie dalla stampa locale, dal profilo Facebook del Vicesindaco e Assessore alla Cultura Massimo Maisto, dalle parole dei delegati e dei sindacalisti della Camera del Lavoro.
L’inaugurazione della Biblioteca di Casa Niccolini, dedicata ai bambini, ai ragazzi e alle famiglie, è ormai alle porte. Riempirà finalmente un “buco”, perché Ferrara (a differenza di Bologna, Reggio Emilia, Ravenna…) non disponeva ancora di un moderno spazio attrezzato e specializzato per servire questa fondamentale fascia di cittadini utenti. . Intanto, il progetto della “Nuova Rodari”, cioè di un grande spazio culturale polivalente per servire la popolosa Zona Sud di Ferrara, sta diventando realtà. Nell’area del finalmente abbattuto Palazzo degli Specchi i lavori di costruzione vanno avanti  e si parla di poter aprire la biblioteca con annessa sala polivalente già nel corso del 2019. Poter contare, oltre alla storica Ariostea, di una Biblioteca Ragazzi e di una “seconda Biblioteca Bassani” nella zona di via Bologna significa attuare un progetto di politica culturale di grande respiro. Manca ancora, credo, un importante tassello, ma di quello dirò più avanti.
Le biblioteche, le vecchie come le nuove, hanno però bisogno di due cose per funzionare. Di bibliotecari, ossia di personale specializzato e adeguatamente formato. E di carburante, cioè di un rifornimento costante di nuovi libri, documenti su supporto digitale, abbonamenti a banche dati… Anche su questo fronte la situazione che fino a un anno fa appariva perlomeno critica (un calo progressivo degli investimenti del Comune per l’acquisto documentario e la preoccupazione per la tenuta della pianta organica delle biblioteche a causa di alcuni pensionamenti) sembra registrare oggi una svolta. Anche a seguito delle precise richieste  del sindacato, l’Amministrazione Comunale ha comunicato di aver scelto la strada della gestione diretta del servizio di pubblica lettura e che quindi procederà a nuove assunzioni. Attraverso lo strumento della mobilità interna ed esterna, non solo verranno rimpiazzati i posti via via vacanti, ma verranno assunti nuovi bibliotecari per far fronte alla prossima apertura della Biblioteca Ragazzi di Casa Nicolini.
A questo importante impegno se ne aggiunge un altro altrettanto importante – lo ricavo sempre dalle dichiarazioni dell’assessore Maisto – e cioè l’impegno della Giunta a incrementare la somma da destinare annualmente agli acquisti per le biblioteche. Personalmente avevo avanzato una proposta: investire 1 euro per abitante, mettere cioè a bilancio una somma di circa 140.000 euro. Siamo ancora lontani da quell’obiettivo, ma la strada imboccata è quella giusta.
Lungo questo percorso, ci aspetta fra non molto un altro appuntamento decisivo. Per aprire, rifornire di documenti e gestire la nuova grande biblioteca pubblica in Zona Sud ci vorrà sicuramente altra benzina (fondi per gli acquisti ) e altri benzinai (nuovi bibliotecari, documentalisti, operatori culturali). Di questa seconda fase si dovrà però occupare il nuovo governo che i ferraresi si daranno con il prossimo voto di primavera. A leggere cosa combinano i sindaci leghisti in tutta Italia (assai noto l’episodio del siluramento della bibliotecaria di Todi), posso solo sperare che i miei concittadini non si affidino ad un “uomo di cultura” come Naomo Lodi.
Il tassello mancante
Intanto, già da ora, c’è molto da fare. La prossima apertura in città di due nuove e moderne biblioteche pubbliche e più in generale il rilancio del Servizio di Pubblica Lettura, porta con sé un grande lavoro ancora tutto da sviluppare. Faccio solo alcuni esempi  La necessità di dedicare più tempo e più attenzione alla formazione e all’aggiornamento professionale del personale impegnato nelle biblioteche, un maggiore impegno per coinvolgere nella vita quotidiana delle biblioteche le numerosissime realtà sociali e culturali presenti sul territorio, promuovere un rapporto più stretto – quotidiano direi –  tra biblioteche e scuole, dalle materne all’università.
Forse, è un’idea che lancio ad amministratori e funzionari, si potrebbe organizzare a Ferrara – magari in prossimità dell’apertura di Casa Nicolini – un grande Convegno-Seminario sul nuovi orizzonti delle biblioteche pubbliche nel terzo millennio, invitando docenti, bibliotecari e operatori italiani e stranieri. Abbiamo, infatti, tutti bisogno di ascoltare e confrontarci con idee nuove ed esperienze positive.
Al quadro generale manca, dicevo sopra, un tassello fondamentale. Dovete scusarmi se ritorno su un mio chiodo fisso: non avrebbe senso una “primavera delle biblioteche” se, come al solito, il quartiere dolente del Gad ne rimanesse escluso. Per “salvare” il GAD dal degrado, riportare legalità e sicurezza, tornare a un “quartiere giardino” dove i bambini possano giocare tranquilli nel parco del grattacielo, non serve o comunque non basta aumentare agenti, soldati o telecamere, né sono sufficienti i pur lodevoli appuntamenti al cinema di piazza Castellina. Occorre pensare e mettere in campo un piano straordinario, un grande progetto di rilancio economico, sociale e culturale di tutto il quartiere.
Da dove si comincia? Ad esempio da una biblioteca, come proponevo lo scorso ottobre: ‘Mettete dei libri nei vostri cannoni. Perché, come, dove e con chi fondare una biblioteca multietnica in Gad‘.  Paolo Marcolini, allora presidente di Arci Ferrara, si è fatto promotore di un appello che andava proprio in questa direzione, e un gruppo di volenterosi (bibliotecari e non) si è più volte incontrato per dar corpo a questa idea, accorgendosi però ben presto quanto aprire una grande biblioteca nel cuore del Gad  (magari proprio al piano terra del grattacielo) fosse un progetto delicato e complesso. Dunque una  strada tutta in salita – anche perché finora il Comune non ha dimostrato interesse a patrocinare l’idea – ma che non credo debba essere abbandonata.
Proprio qualche giorno fa, un amica ferrarese con casa al Gad ma che da molti anni lavora alla biblioteca di Cologno Monzese (MI) – e per chi conosce un po’ il settore sa bene che trattasi di una biblioteca di assoluta avanguardia – mi ha mandato sul cellulare una foto e un sms. Nella foto si vedono alcune vetrine chiuse di piazzetta Enrico Toti. Ecco il messaggino: “Passa a vedere lo spazio che magari ci viene il guizzo… Ho visto tutte quelle vetrine, il cartello vendesi, e me le sono sognate piene di libri. Si vuole dare una pennellata al quartiere? Ecco che passare e vedere dentro gente che legge sarebbe una piccola cosa sensata. Ci pensiamo un po’?”
In quanto ex bibliotecario, anzi, “bibliotecario forever” – perché è proprio vero che uno rimane bibliotecario tutta la vita – non potevo non rispondere a quell’invito/provocazione. Così sono andato a fare un giretto in piazzetta Toti e dintorni: di negozi chiusi, serrande abbassate, cartelli di vendesi e affittasi ce n’è da stancarsi. E ho pensato che l’idea della mia cara amica, minimale fin che si vuole, era tutt’altro che peregrina. Potrebbe essere invece un modo concreto per iniziare a riempire il “grande vuoto” del Gad. E per sollecitare il Comune ad assumere in proprio il progetto. Allora mi rivolgo ai tanti partigiani delle biblioteche che a Ferrara non mancano di certo. Vogliamo provarci? Io sono pronto a fare il mio turno di apertura.

AIUTIAMOLI
Le loro case distrutte dal terremoto, ma alla gente resta la forza per sorridere

È il 29 luglio, il giorno del mio compleanno, e al telegiornale sento: “Un terremoto di magnitudo 6.4 ha colpito l’isola di Lombok”. Panico totale. A Lombok ho una sessantina di amici e mi precipito immediatamente a cercare di mettermi in contatto con ciascuno di loro.
Per i pochi che la conoscono, Lombok è solamente una delle oltre 17mila isole che compongono l’arcipelago indonesiano, per me invece è una seconda casa, una seconda famiglia, il mio angolo preferito di mondo.
È da quando avevo 7 anni che trascorro ogni estate in questa meravigliosa isola tropicale che, nel corso degli anni, è diventata sempre più meta turistica, insieme alla vicina Bali e alle splendide isole Gili.
Lombok è un piccolo tesoro immerso tra l’Oceano Indiano e quello Pacifico, caratterizzato da un’alternanza di spiagge bianche e nere, da un particolare lago creatosi all’interno di uno dei crateri del vulcano Rinjani (che rappresenta il punto più alto dell’isola), da infinite risaie e piantagioni di tabacco, cacao, caffè, soia e cotone.
O meglio, questo è ciò che Lombok era fino a qualche settimana fa.
Dopo il terremoto di magnitudo 6.4 del 29 luglio, ne sono seguiti altri due: quello di magnitudo 7 del 5 agosto e quello di forza 6.2 del 9 agosto.
La terra continua a tremare, le persone a morire, le case a crollare.
Quest’anno, per la 18^ volta nella mia vita, sarei dovuta andare a Lombok come ogni estate, ma i numerosissimi amici che ho sull’isola mi hanno pregata di non andare, con messaggi del tipo “sembra di essere in territorio di guerra; ti prego resta a casa, qui non è sicuro”, ma anche con messaggi di supplica del genere “abbiamo bisogno di aiuto, ti prego dacci una mano, che Dio ti benedica”.
Ho amici che hanno perso la loro casa e che ora, notte dopo notte, si rifugiano nelle tende, terrorizzati, facendo a turno per dormire, poiché i ladri rubano tutto ciò che trovano.
Ho amici senza un tetto sulla testa e amici in ospedale; Lombok è quasi tutta da ricostruire.
Questi terremoti hanno causato la morte di oltre 390 persone, ma si tratta di un numero destinato ad aumentare. Quando tra una scossa e l’altra le persone riescono a scavare tra le macerie, rischiano continuamente di trovare nuovi corpi privi di vita. Inoltre, specialmente nel nord dell’isola, le persone stanno iniziando a morire di fame.
A Lombok infatti c’è un disperato bisogno di cibo, acqua, vestiti, coperte, tende e medicine. Interi villaggi sono stati rasi al suolo, intere zone non sono altro che un cumulo di macerie, come Kerandangan, la zona in cui ho sempre soggiornato.
La popolazione locale resta impressa per la generosità che la caratterizza. Anche chi vive con poco è infatti sempre pronto a offrire al prossimo un cocco fresco o una manciata di noccioline. Quando passi davanti ai loro villaggi ti invitano ad entrare perché, per loro, è un onore avere degli stranieri in casa propria.
Chi è mai stato a Lombok sa che la gente locale ha costantemente il sorriso sulle labbra.
Ad oggi, famiglie intere, interi villaggi, hanno perso tutto, ma il sorriso, quello lo conservano ancora. Ho amici che mi hanno mandato video di ragazzi locali che cercano di far ridere le migliaia di bambini sotto shock; altri, quelli più fortunati, mettono a disposizione la loro casa per chi ha perso la propria. È meraviglioso, in questo terribile inferno, vedere come la popolazione locale, ma anche gli italiani che vivono sull’isola, si stanno aiutando l’uno con l’altro.
“Bhinneka Tunggal Ika” è il motto dell’Indonesia e significa sostanzialmente “uniti nelle diversità”, proprio perché il paese, seppur a stragrande maggioranza musulmana, accetta ogni altra fede religiosa.
Purtroppo però, gli aiuti locali non sono minimamente sufficienti; a Lombok hanno bisogno dell’aiuto degli altri paesi.
Lombok è un’isola che vive di turismo, ma tutti sappiamo che per anni nessuno la sceglierà come meta di vacanze. Ce l’ho hanno insegnato eventi come la bomba nella discoteca di Bali, lo tsunami del 2004 o il terrorismo dell’Egitto. Per questo ora la popolazione di Lombok ha bisogno di aiuto per rialzarsi.
Ogni anno quando torno in Italia, lascio metà del mio cuore in quest’isola meravigliosa che mi ha accolta come una figlia da quando avevo 7 anni.
Ora è il mio turno di fare qualcosa per lei.

Di seguito vi sono diversi modi per fare una donazione, qualunque contributo sarà di fondamentale importanza. Vi ringrazio, dal profondo del cuore.

https://www.gofundme.com/sos-lombok-aiutiamo-i-terremotati
Sito per la raccolta fondi per Lombok lanciata da Silvia Malacarne qui, e altro sito per dare sostegno alla popolazione qui 

 

La STRAFERRARA, una compagnia teatrale dialettale lunga 87 anni

Di: Maria Cristina Nascosi Sandri



La Straferrara, la compagnia stabile dialettale tutta nostra e più ‘antica’, il 14 di agosto prossimo compirà 87 anni, tranche-de-vie capolavoro di una vita, di più vite, mai interrotto, come è noto, nemmeno sotto i bombardamenti della guerra.
Risale, infatti, al 14 di agosto del 1931 – è sempre giusto ricordarlo – l’atto costitutivo che sancisce la nascita della compagine sottoscritto da Ultimo Spadoni, il fondatore, già maturo attore di fama, insieme con un piccolo gruppo di amici, attori per diletto: Mario Bellini, Piero Bellini, Renato Benini, Leonina Guidi Lazzari, Arnaldo Legnani, Umberto Makain, Norma Masieri ed Erge Viadana, la prima e, per certi versi, insuperata Castalda.
La prima recita avvenne il 3 settembre di quell’anno al Teatro dei Cacciatori di Pontelagoscuro con la commedia Pàdar, fiòl e …Stefanìn e la farsa L’unich rimèdi, scritte entrambe da Alfredo Pitteri, grande drammaturgo, attore, figura di eccellente cultura: non è noto a molti che a novembre del 1921 Filippo Tommaso Marinetti, all’inaugurazione della Mostra d’arte futurista e d’avanguardia organizzata a Ravenna da Mario Hyerace, ne presiede il comitato d’onore cui collaborano Alfredo Pitteri e Gualtiero Medri. Le tracce native di questa intellettuale appartenenza ad uno degli -ismi culturali più importanti del Novecento, tutto Italiano si ritrovano, a tutt’oggi, presso la sua sede ‘naturale’, il mitico Caffè Storico – Letterario delle Giubbe Rosse, a Firenze.
Pitteri, scomparso più di 42 anni fa, da annoverare anche tra i ‘maestri del Maestro’ Michelangelo Antonioni – per sua stessa ammissione – è, così, il primo autore a scrivere opere per la Straferrara che, nel tempo, recitò veri ‘classici’ tradotti o, meglio, adattati, come, ad es., la già citata Castalda ( Giovanni Pazzi l’aveva tratta, nel 1902, da La Locandiera, di Carlo Goldoni).
L’opera è, tuttora, cavallo di battaglia della compagnia che, diretta dal 1967 dalla figlia di Spadoni, ‘Cici’ Rossana e dal marito Beppe Faggioli, subentrati al fondatore cav. Ultimo, ha riproposto nel tempo, opere ‘storiche’ come la sunnominata, con un occhio di riguardo al patrimonio culturale collettivo, scelta coerentemente privilegiata della Compagnia, ab ovo.
La storia della Straferrara è la storia di una compagnia di teatro dialettale, certo, ma ‘è’, anche, parte della Storia della ‘sua’ città, Ferrara, sua di origine e di ‘possesso’, trama ed ordito di uno stesso immortale ‘tessuto’, quello delle loro comuni radici. 
Una storia da non dimenticare di ricordare…

Eclissi

Nessun evento astronomico riesce ad agitare l’immaginazione umana più dell’eclissi del sole o della luna. Impressiona da sempre ed ancora la metamorfosi della luna argentea, algida e rassicurante in una sfera color rosso sangue, minacciosa, inquietante, e la perdita rapida della luce del giorno in un’oscurità fuori programma richiama le suggestioni di antiche leggende e credenze non ancora perdute. Le eclissi hanno determinato il destino di battaglie e dominazioni, hanno accompagnato la morte di re e confermato il pensiero umano nel campo scientifico. Per i testi religiosi, la grande eclissi è quella del giorno della Crocifissione di Cristo, così descritta da Jacopo da Varazze (1228-1298): “Essendo facte le tenebre sopra l’universo terra, non fu usuale eclipse del sole, perochè l’eclipse non remove el lume a tutte le parti della terra; sì etiam che non può durare l’eclipse per tre ore sopra la terra.”, fornendo l’idea dell’eccezionalità del fenomeno. Durante la spedizione ateniese a Siracusa, nell’agosto del 413 a.C. l’eclissi di luna ritardò la partenza dei marinai greci dal porto della città, spaventati dagli auspici negativi legati al fenomeno, favorendo così la vittoria dell’esercito locale. Nel marzo del 4 a.C. la morte di Erode a Gerico fu anticipata da un’eclissi di luna: una data luttuosa e non solo per la scomparsa del despota. Re Erode, infatti, temendo che alla sua morte nessuna lacrima sarebbe stata versata dal popolo, chiamò a raccolta molti insigni giudei e li fece rinchiudere nell’ippodromo, dando ordine che nel momento della sua scomparsa fossero trucidati e le lacrime scorressero almeno nelle loro famiglie. Una luna rosso sangue che marchierà le pagine della storia. Lo stesso Cristoforo Colombo, a nord della Jamaica, nel febbraio del 1504 si servì dell’eclissi per intimorire gli indigeni che, spaventati, accettarono di rifornire di viveri la flotta. E sicuramente il mistero e fascino spaventoso delle eclissi influenzò anche William Shakespeare che in alcune sue opere come Re Lear, Macbeth e Otello scrive della congiuntura astrale nei momenti più drammatici, colmi di attesa, inquietudine, irrazionalità e tragedia, legando la follia umana agli avvicendamenti astronomici. Ma non tutte le citazioni storiche attribuiscono all’eclissi connotazioni infauste, infatti la più influente prova sperimentale del Ventesimo secolo si basa su dati ottenuti durante l’eclissi solare del 29 maggio 1919, che diedero un contributo determinante alla Teoria della Relatività Generale, con lo studio della deviazione dei raggi luminosi da parte del Sole. Si trattava di pochi dati di non alta precisione ma fondamentali per provare la rivoluzionaria ipotesi gravitazionale di alcuni studiosi, primo fra tutti Albert Einstein, l’allora sconosciuto direttore dell’istituto di fisica Kaiser Wilhelm di Berlino. Un oscuramento del sole che diede origine a una grande stella, destinata a notorietà in tutto il mondo. Animali mitologici che sbranano il sole e la luna, eventi apocalittici, effetti di incantesimi magici, catastrofi, anomalie e distorsioni, punizioni divine e peccati da scontare, conflitti e tragiche ricadute sulla vita degli esseri viventi: ecco le immagini associate all’eclisse, da esorcizzare e allontanare con riti, cerimonie e perfino sacrifici nel passato, e con post più o meno allarmistici e ansiogeni sui social del presente. Perché il terrore ancestrale di un tempo non è scomparso: si è solo trasformato assumendo nuove forme. Sono di questi giorni le raccomandazioni con appelli accorati sui social, riguardanti l’opportunità di stare in casa durante l’eclissi lunare, non seguire il fenomeno in tutta la sua durata per ipotetici danni irreversibili e altre amenità, la più sbalorditiva di tutte, quella riguardante l’uso di cellulari, tablet e computer soggetti ad alta radiazione cosmica. Conseguenza, danni terribili all’incolumità fisica. Fondo di verità scientifica o fake news di dubbia provenienza? Per fortuna, in tutto questo esiste anche il popolo dei romantici, che dell’evento lunare ne ha fatto un momento di poesia e ammirazione disinteressata a tutte le speculazioni possibili, semplicemente sedendosi, alzando gli occhi al cielo, pronti a sorridere, grati dello spettacolo naturale.

Il tradimento di una banca nel romanzo di Nicola Cavallini

Sullo sfondo di Bankabbestia di Nicola Cavallini c’è Ferrara, la sua aria umida, i tic degli abitanti, una certa ripetitività del vivere e la fiducia nella stessa banca che tradisce tutti. Si rompe un patto di alleanza non solo tra i risparmiatori e chi doveva essere il custode dei risparmi, ma fra le persone che condividono un progetto, una vita insieme.
I personaggi tradiscono l’un l’altro, si ingannano ingabbiandosi in ruoli e facendo finta di crederci. Marco, Alice, Davide, Cristiana, Leonardo, Francesca sorreggono un grande bluff e lo sanno. Marco recita se stesso, accetta la finzione e la costruzione che ha fatto della propria identità, così la moglie Alice, ma la vita intanto procede per direzioni che non coincidono con la statuto che la coppia si è data, sfuggendo a ogni previsione.
Per Davide e Cristiana, invece, la vita li ha preceduti, inventandosi strade alternative in cui trovare rifugio. Ciascuno ha un vissuto nel vissuto che non è solo una storia parallela, ma una condizione pregressa che ha reso inevitabile la sofferenza del presente.
I confini dei diversi mondi in cui la stessa persona si muove non sono netti, le situazioni si ribaltano in continuazione in uno scambio inarrestabile tra la facciata che ha sempre più crepe e ciò che si vorrebbe vivere a pieno.
Marco ammette di avere messo la sua vita tra parentesi, una vita custodita, arginata, sorvegliata, ma non è l’unico, anche gli altri provano a mantenere un certo equilibrio formale, un bilico doloroso che non può reggere all’infinito.
Bankabbestia è anche un romanzo sui rapporti di coppia come impalcature che tentano di tenere in piedi palafitte pronte a essere travolte dalla prima mareggiata. Nella coppia, le visioni a specchio di lei e di lui viaggiano nell’incomunicabilità e completano un quadro rimesso nella mani di chi legge.
Tutti i protagonisti sono in qualche modo legati, anche senza saperlo, e quando si trovano a convergere nello stesso punto tragico, che è il momento della verità, ci pensa il caso a mandare tutto in frantumi. C’è qualcosa che scoppia e azzera, proprio quando era arrivato il momento di scegliere finalmente che strada prendere.

Bankabbestia sarà presentato lunedì 23 luglio alle 21,30 al Ray gelato di Santa Maria Maddalena, via Eridania 187

Bambini: i nuovi ostaggi della comunicazione

di Roberta Trucco

 

Il 10 luglio su Repubblica è apparso un articolo di Vittorio Zucconi dal titolo ‘L’estate Terribile dei Bambini’. In quell’articolo Zucconi tracciava un filo rosso che unisce vicende apparentemente lontane che hanno come comune denominatore la sofferenza, la vulnerabilità e a volte la morte dei bambini e cita fatti che sono assurti alla cronaca proprio per la loro drammaticità: i bambini annegati nel mediterraneo con le magliette rosse, unico segno visibile per i soccorritori, i bambini messicani strappati violentemente dai loro genitori a causa delle scellerate politiche estere dell’amministrazione Trump, i bambini thailandesi, guidati incautamente da un allenatore, un irresponsabile, a suo dire, “salvati come piccoli Lazzari dalla spelonca”. La tesi di fondo del suo articolo era che quando i bambini diventano protagonisti della cronaca è un brutto segno, segno che invece di correre felici e spensierati durante le vacanze estive, in modo anonimo, sono invece ostaggi di scelte scellerate di chi ha potere su di loro. E in parte ha ragione, ma solo in parte perché il punto è che i bambini sono, in realtà, ostaggi di una cultura che li ha confinati ovunque nel mondo, in particolare e grazie alle “illuminate” democrazie occidentali, in recinti dove correre felici e spensierati non è più lecito, a meno di non fargli correre qualche rischio come nel caso, un po’ estremo, ma del tutto naturale (nel senso che li abbiamo sfiorati tutti quei rischi) dell’allenatore di calcio thailandese. In quel correre felici, nelle avventure, ci sta tutta la palestra che fa dei bambini dei futuri adulti abili a rispondere alle difficoltà. Ma questo non si può più fare, nelle città, nelle stazioni balneari, nelle campagne. Per noi adulti oggi, ogni spazio libero, ogni prato, ogni marciapiede è popolato di mostri dai quali difenderli (i mostri li abbiamo creati noi e sono i nostri privilegi) e non li mandiamo in giro in modo autonomo a meno di non avere altra scelta, come nel caso delle madri/donne disperate che per sfuggire alla morte li imbarcano su bagnarole vestiti di rosso. Io, al contrario di Zucconi invece, credo che sia un bene se i bambini tornano ad essere i protagonisti delle cronache, se occupano spazio nelle prime pagine, anche se alcune loro storie sono drammatiche, perché abbiamo l’occasione di tornare a ripensare le nostre attitudini nei loro confronti, a ripensarci come loro guide. E credo che i buoni giornalisti dovrebbero interessarsi di più alle loro storie, raccontarle, approfondire le straordinarie risposte abili (etimologicamente responsabili) di cui sono capaci (penso al ragazzino thailandese che per primo ha risposto in inglese al soccorritore) se sono bene guidati ma non controllati. Sarebbe bene renderli dei veri protagonisti invece che riservare pagine e pagine a “semidei” (così lo definiscono per lo più i maschi) a un campione di calcio che oltre a far rotolare bene una palla in un recinto sicuro e a guadagnare una cifra spropositata e non eticamente accettabile, non sembra sappia fare molto di più. Penso alle scelte redazionali della maggior parte dei giornali in cui la figura di Ronaldo, che compare sempre in prima pagina, diventa, grazie e solo al dissertare degli adulti su di lui, una figura da emulare quando in realtà è uno sciagurato, molto di più del giovane allenatore thailandese. Perché Ronaldo non ha molto da insegnare ai nostri figli anche perché dei bambini non ha alcuna considerazione se non quella di acquistarli come fossero oggetti: li ha infatti commissionati a una madre surrogata, contribuendo ad arricchire il mondo d’affari che gira intorno a questa pratica aberrante (la surrogazione di maternità fa delle donne e dei bambini merce di scambio ed è un business in continua crescita). O alle prime/seconde pagine, di questi giorni in cui campeggia un Salvini sorridente con un fucile in mano, e che di certo è tutto tranne che educativa. Credo che i giornalisti in primis dovrebbero promuovere nuovi modelli, non piegarsi al potere della propaganda e del soldo, mettersi stampato sulla scrivania quanto diceva Maria Montessori “il bambino non è debole e povero; il bambino è il padre dell’umanità e della civilizzazione, è il nostro maestro anche nei riguardi della sua educazione. Questa non è un’esaltazione fuori misura dell’infanzia, è una grande verità” e coraggiosamente provare a ripartire da lì per costruire nuovi immaginari e nuovi simboli.

Quei due che hanno vinto il mondiale

Lo sanno tutti, Russia 18 è stato un affarone. Un mastodontico business economico e mediatico. Stadi colmi fino all’orlo e più di un miliardo di telespettatori. Un trionfo per lo zar Putin. Un’iniezione di popolarità per il declinante Macron.
Dopo il fischio finale, a Parigi una folla immensa ha festeggiato fino a notte fonda. Perché la Grande Francia ha battuto la piccola Croazia e si è laureata Campione del Mondo per la seconda volta nella storia secolare del “gioco più bello del mondo”.
Ma attenzione a quello che vi raccontano. Non è proprio vero che ha vinto la Francia. I vincitori, quelli veri, sono due uomini. Molto diversi tra loro. Uno è un mingherlino, 1.74 per 65 chili di peso, l’altro una torre di un metro e novanta. Il piccoletto è un croato, il gigante è un serbo. Tutti e due hanno 32 anni; erano bambini al tempo della guerra jugoslava, una delle più sanguinose della storia.
Luka Modric in quella guerra ha perso madre e padre, uccisi dalle milizie serbe, ha dovuto fuggire all’Ovest, un “rifugiato” come tanti altri, prima e dopo di lui. Ma era bravo a giocare a calcio. Anzi, era bravissimo. La sua favola ha un lieto fine: è diventato il regista del Real Madrid, la squadra più titolata del pianeta.
Mentre Modric, come capitano della nazionale croata, superava i quarti di finale e poi le semifinali di Russia 18, il gigante serbo Novak Djokovic, di professione tennista, era impegnato nel torneo più antico e prestigioso del mondo. Era arrivato a Wimbledon dopo un anno terribile: infortuni a catena, morale a terra, nessun torneo vinto. Ora Djokovic sembrava rinato, ma in semifinale doveva affrontare il numero uno del ranking, lo spagnolo Nadal.
A mosca, un giornalista ha chiesto al piccolo Modric per chi tifasse, per Djokovic o per Nadal? Per Djokovic, ha risposto il centrocampista croato. Stupore del giornalista: Ma è serbo! E Modric, l’orfano di guerra Modric, a spiegare che lui non voleva avere la testa nel passato ma nel futuro. Voleva pensare alla pace, non alla guerra,
Intanto, a Londra, un altro giornalista ha chiesto a Novak Djokovic per chi tifasse nella finale del campionato del mondo: per la Francia o per la Croazia? Per Modric e per la Croazia, ha risposto il grande tennista serbo.
In Serbia e Croazia, storicamente nemiche, con due governi fortemente nazionalisti, le dichiarazioni dei due campioni hanno scatenato un putiferio di critiche, polemiche, perfino minacce. Ma né Modric né Djokovic hanno ritrattato di una virgola.
Poi sappiamo com’è andata. Djokovic ha vinto la semifinale contro Nadal, quasi sei ore di gioco, e anche la finale, aggiudicandosi l’insalatiera d’argento di Wimbledon. La Croazia di Modric si è invece dovuta piegare alla fortissima Francia, anche se il regista istriano è stato eletto miglior giocatore del torneo, pallone d’oro di Russia 18.
Ma non c’era bisogno di coppe e insalatiere, il piccolo croato e il gigante serbo avevano già vinto. Per la loro amicizia, suggellata dalle foto in rete che li ritrae insieme sorridenti, e per quelle poche parole, così semplici, così normali ma che sanno di pace.

L’Australia di Elsa

 

Appena arrivata cominciò subito a chiedere in giro, e già questa non era impresa facile, trovare qualcuno a cui chiedere intendo. Ma Elsa era una grande camminatrice, lo era sempre stata, da bambina a lei venivano affidate le commissioni da fare in paese. Il paese era lontano alcuni chilometri dalla casa sopra la collina verde, Elsa andava a scuola tutte le mattine a piedi, e a piedi tornava in paese almeno un’altra volta al giorno, con la lista della spesa o per comprare il tabacco per il padre, e dopo, per il marito Franco. O per correre dal dottore quando suo figlio Nuccio aveva le crisi. Questo succedeva prima, ma anche ora, cioè adesso che era appena arrivata, anche ora provava gusto a camminare. Alla fine qualcuno a cui chiedere lo avrebbe incontrato in quel posto cosi diverso da come lo aveva immaginato, e le era tornata in testa la sua maestra della scuola elementare e quella lezione di geografia sull’Australia, la quale Australia, oltre ai canguri e agli aborigeni, aveva anche una bassissima densità di popolazione per chilometro quadrato. Qui è proprio come in Australia, pensava Elsa mentre non smetteva di camminare, le persone c’erano ma erano lontane l’una dall’altra, sparse in un grande mare di spazio.
Al principio non riusciva a crederci, ma le risposte erano sempre piuttosto pacate, tranquille anche, ma tutte dicevano la stessa cosa. Elsa non sapeva nulla di quel posto che qualche volta aveva solo immaginato, così si aspettava di tutto o quasi, ma questo assolutamente no che non se lo aspettava. Passava per una donna spiritosa, questo prima, ma un poco di spirito le era rimasto, anche ora che era appena arrivata, così quando dopo una serie di interviste dovette credere a quella realtà, le venne da pensare che quella non era proprio “una sorpresa da niente”, ma “la sorpresa del niente”, come dire il contrario o qualcosa del genere.
In quel niente, in quell’altipiano senza misura, in quel paese oceanico e rarefatto, Lui non c’era. Glielo avevano confermato tutti, anche chi era arrivato molto ma molto prima di lei. Un tizio con la barba lunga e lo sguardo autorevole l’aveva anche sgridata: “Troppo comodo cara mia, uno si comporta non dico bene, diciamo decentemente, evita le cazzate, una preghiera quando non se ne può proprio fare a meno, e alla fine pensa di arrivare qui e di trovarselo bello e pronto, scodellato nel piatto”. Lui non c’era, almeno non era lì, anche se Lui – qualcuno degli intervistati lo sosteneva con forza opponendo ragionamenti fisici o metafisici – Lui c’era, certissimamente, non lì ma nel Terzo Tempo, cioè alla fine, quando sarebbero stati finalmente dall’altra parte.
Peccato che Elsa, dopo una vita complicata, provvista di una fede vera anche se in bilico come a quasi tutti capita, quando se n’era partita e non senza dolore all’età di 82 anni, e quando era arrivata nell’altro mondo, era sempre stata certa di quella e quella cosa soltanto. Di trovare Lui, di raggiungere la pienezza – Vai in pace, quelle parole le aveva sentite in cento funerali – e non di trovarsi in un altro niente, non di dover riprendere a camminare, non di tornare a vivere un’altra vita, non di dover raggiungere un’altra fine. E per quanto tempo poi? Quanto sarebbe durato il Secondo Tempo? E con quali compagni di strada? E dopo che ci sarebbe stato?
Elsa, per la prima volta nella seconda vita, per la prima volta dopo la sua prima morte, si sentì stanca da morire. Si fermò. Sul lato della strada polverosa vide un grande masso rotondo, rosso e liscio come un pesce, e si lasciò cadere.

(Francesco Monini – tutti i diritti riservati)

Autori a Corte- presentazioni letterarie con degustazione.

Dopo il successo della passata stagione e dell’appuntamento natalizio, ritorna nella splendida cornice del Giardino Creativo del Factory Grisù di Via Mario Poledrelli 21 a Ferrara, la rassegna Autori a Corte- presentazioni letterarie con degustazione.
La manifestazione che gode del Patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Ferrara, della collaborazione con l’Istituto Città del Ragazzo e del sostestegno di Pressup Srl, Banca Mediolanum, Sara Assicurazioni, Hotel Carlton e della testata giornalistica Estense.com, è organizzata dall’Associazione Culturale Charles Bukowsky.
La kermesse letteraria che prevede 5 serate nell’arco del mese di luglio, vedrà l’alternarsi di 20 autori locali con anteprime assolute ed autori di respiro nazionale.
L’inaugurazione della rassegna avverrà Mercoledì 11 luglio alle ore 19.45 e vedrà protagonisti i danzatori della Jazz Studio Dance che si esibiranno in una coreografia ideata e diretta da Silvia Bottoni, ispirata al libro di Marco Gulinelli, “Il trapezista”.
Danzeranno: Vladislav Kniazev, Martina Saccenti, Sara Pozzati, Giulio Fortini, Cristiana Brunazzi, Eleonora Balleri, Giulia Perinati (con la partecipazione del piccolo Edoardo Bozzoli).
Alle ore 20.00 Marco Gulinelli presenterà il suo nuovo libro “Il trapezista” (La nave di Teseo Edizioni). Modererà Andrea Ansaloni.
Il romanzo di Marco Gulinelli è una storia di tradimenti, di amore, di “salti”. E di “cadute”. Protagonista è il chirurgo Marcello Codeluppi, detto Lupo, che prima di diventare un medico dalla brillante carriera, ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza tra i tipici inverni grigi di Ferrara e le fiabesche estati delle fiere tra l’Emilia e la Romagna. A rivoluzionare la sua vita sarà l’incontro con il circo di Alfio Brillante e l’affascinante Colette che lo inizierà all’arte del trapezio. Sogna di intraprendere una vita da circense, prima che una bruciante delusione lo costringa a tornare alla monotonia della vita cittadina. Dopo lunghi anni, l’incontro con Pilar farà rinascere in lui l’ingenuità e la spensieratezza dell’infanzia, capace di riaccendergli il desiderio di buttarsi come un trapezista in un sogno tutto da vivere. Con il nuovo romanzo, Gulinelli evidenzia le zone d’ombra nelle quali il recondito fallimento delle persone è sempre pronto a rivelarsi.
Alle ore 20.30 saranno presentati in anteprima il giallo del poeta e giornalista Sergio Gnudi, “La statua del potere” (La Carmelina Edizioni) e “La tradicesima Musa” (La Carmelina Edizioni) di Carlo Degli Andreasi.
Le protagoniste del giallo di Sergio Gnudi sono Chiara e Giulia, due giovani donne, amiche e colleghe. Grazie alla loro intraprendenza ed audacia, risolveranno uno strano caso ed affronteranno prove di coraggio e di resistenza psicologica che le porterà dalla nave da crociera “La regina Blu” alle porte del Sahara. Il romanzo è il primo, riuscito esperimento dell’autore, concepito per un pubblico young adult ma che risulta fruibile anche da un pubblico adulto.
“La tredicesima Musa” di Carlo degli Andreasi è una sorta di spice story che si sviluppa all’interno del treno che ospita i protagonisti del romanzo d’esordio dell’autore.
Modererà il Direttore editoriale Federico Felloni.
Ospite d’onore della serata sarà il giornalista padovano e scrittore noir Massimo Carlotto, che alle 21.30 presenterà il nuovo, atteso romanzo “Cristiani di Allah” (E/O Edizioni).
Siamo ad Algeri nel 1541. Da una parte l’armata di Carlo V, punta di lancia della Cristianità, dall’altra i corsari di Hassan Agha, rinnegati europei cristiani che hanno abbracciato l’Islam. Anche i protagonisti del romanzo, Redouane e Othmane, sono dei corsari rinnegati. Il primo albanese, il secondo tedesco, ex lanzichenecchi, hanno scelto la libertà di Algeri, da dove salpano sul loro sciabecco per le scorrerie e dove credono di poter vivere indisturbati la loro storia d’amore proibita. Othmane commetterà l’errore di invaghirsi di un giannizzero e trascinerà anche Redouane in un gorgo di vendette, agguati ed affascinanti intrighi.
Modererà il giornalista Sergio Gessi.
L’ intera serata sarà accompagnata dalla degustazione di birra artigianale offerta dal birrificio trevigiano Morgana.

Da: Autori a Corte

Scrivere di Marco
Prove letterarie negli anni settanta e ottanta in una terra di provincia

a cura di Laura Fogagnolo e Pier Luigi Guerrini

Nei primi anni settanta, si assiste ad un consistente cambiamento della poesia italiana che riflette il contesto politico in cui matura: ad es. l’esplosione del fenomeno terroristico e la nascita dei gruppi extraparlamentari, ma anche un forte impulso di liberazione dalla morale tradizionale.
Assistiamo ad un riposizionamento delle correnti poetiche, secondo nuovi canoni dove la poesia “tradizionale” sembra dover lasciare il passo a nuove esperienze, sperimentazioni, contaminazioni.
L’intensità linguistica riveste i panni politici, la poesia assume più marcatamente una coloritura sociale e insieme alla rottura della tradizione poetica muovono nuove esperienze che si formano, spesso, attorno a nuove riviste come ‘Altri termini’; ‘Tracce’; ‘Anterem’; ‘Niebo’.
Ad esempio, a commento della poesia di Patrizia Vicinelli (che aveva aderito al Gruppo ’63), Giorgio Linguaglossa in ‘L’ombra delle parole’, Rivista Letteraria Internazionale, scrive che “conformemente alla moda letteraria degli anni settanta, vocalità e testualità si imparentano in un mix di poesia visiva e sonora in un permanente gesto di rottura degli schemi poetici acquisiti di destabilizzazione del linguaggio poetico istituzionalizzato”.
Così la provincia, anche Ferrara quindi, scontando il ritardo nelle innovazioni letterarie per la sua sonnolenza tipica, riflette il panorama letterario nazionale. Di questo ed altro diamo conto, in una lettura sicuramente incompleta ma senza intenti censori in ‘Scrittura poetica in provincia negli anni ’70 – ’80: elementi per un itinerario ferrarese’ di Laura Fogagnolo e Pier Luigi Guerrini.
Negli stessi anni, un poeta fragile e nascosto come Marco Chinarelli (amico e compagno di scuola dei due curatori) raccoglie i suoi elaborati letterari (poesie e brevi scritti tra l’annotazione ed il racconto, scoperti casualmente dopo la sua prematura scomparsa) in anonimi quaderni, mescolati ad appunti di lezioni universitarie, critiche cinematografiche, approfondite annotazioni di analisi e critica politica, ecc. senza ambizioni letterarie come sfogo alla propria solitudine in un linguaggio essenziale, fortemente emotivo. In particolare, le prove poetiche di Marco sono versi distillati dai ricordi di un’infanzia mitica, dalle visioni padane, dalle immagini delle città, nella voglia di partire, nel tormento dei sogni, nella rabbia di un giovane uomo e nella disillusione politica che segnerà quegli anni. Nel 1988, nella collana ‘Testi’ della rivista ferrarese ‘Poeticamente’, è stata pubblicata una piccola raccolta di poesie di Marco Chinarelli che furono scelte da Laura Fogagnolo. Con questo breve lavoro di ricerca, intendiamo mantenerne il ricordo, valorizzando scritti che altrimenti sarebbero scomparsi nell’oblio, come il più delle volte accade per tanti altri aspiranti scrittori.

COMUNICATO STAMPA
Guide turistiche, il caos normativo penalizza il settore e i visitatori

Da: GTI – associazione Guide turistiche italiane

Lettera aperta al ministro per il Turismo, Gian Marco Centinaio

Gentile Signor Ministro,
i beni artistici, architettonici, naturalistici sono fra le principali attrattive del nostro Paese e rappresentano una risorsa fondamentale anche per l’economia nazionale. Le guide turistiche svolgono una funzione insostituibile nella promozione di questo patrimonio. Il loro operare garantisce una corretta conoscenza, favorisce la divulgazione delle informazioni e assicura un pieno godimento dei pregi e una appropriata comprensione delle peculiarità delle opere d’arte e dei beni culturali.
Nel settore, però, la situazione è caotica. La normativa vigente, che disciplina ruolo e operatività delle guide, presenta ambiguità, nodi irrisolti, ed è pertanto oggetto di difformi interpretazioni che ostacolano il regolare svolgimento della professione.
La normativa europea di riferimento è stata recepita dall’Italia nel 2013 con la legge 97, art. 3 che regolamenta e introduce la figura della guida nazionale, superando le frammentazioni derivanti dalla precedente disciplina. La valenza nazionale dell’attestato viene considerata da GTI (Associazione Guide Turistiche Italiane) come elemento imprescindibile per l’evoluzione e l’ammodernamento del ruolo professionale delle guide turistiche, anche al fine di un organico servizio di illustrazione e spiegazione, che in precedenza contrastato dal frazionamento, talvolta eccessivo, delle competenze territoriali. I continui cambi di guide imposti dal vecchio ordinamento, penalizzanti per i turisti, risultano conseguenza di una legge ormai obsoleta.
Pur consapevoli che la guida turistica esercita il proprio compito in stretto legame con un territorio che deve conoscere in maniera adeguata ed approfondita per rendere un servizio di qualità, riteniamo vadano superati tutti quei vincoli e quegli ostacoli di carattere normativo che impediscono alle guide turistiche italiane di essere una categoria professionale in grado di esercitare la propria funzione con quell’imprescindibile ampio sguardo che deve arricchire la conoscenza particolare.
Il settore necessita, perciò, del pieno e urgente compimento di una riforma che stabilisca regole chiare, uniformi e che metta i professionisti in condizioni di godere di un trattamento di parità ed uguaglianza sull’intero territorio nazionale.
A differenza del passato, ora la figura di “guida nazionale” preposta a fornire informazione e sostegno ai turisti, non è più vincolata all’autorizzazione che limitava l’esercizio della professione in un ristretto ambito territoriale. Coerentemente con una visione ampia e in previsione di fornire funzionalmente risposta alle esigenze dei tanti gruppi italiani e stranieri che attraversano spesso vaste aree del territorio nazionale si è resa operativa una figura professionale qualificata che possa fungere da riferimento costante per tutto il tour, sia che l’itinerario si compia in una sola provincia o, invece, in una intera regione; sia, infine, che vada a toccare più città anche distanti fra loro. Non è fatto banale: con la guida i visitatori spesso stipulano rapporti empatici e fiduciari, non indifferenti al reale godimento del viaggio. Anche per questo la legge ora prevede la possibilità di esercitare le funzioni di guida su tutto il territorio nazionale.
Tali normative sono state però, da subito, oggetto di contestazione da parte di coloro che si oppongono all’innovazione e rifiutano – talora anche a tutela di vecchi privilegi – di recepire questa moderna concezione del ruolo di guida turistica. A tali opposizioni, fortunatamente, è stato dato un freno con le sentenze del Tribunale amministrativo del Lazio e del Consiglio di Stato nel 2017, a seguito di ricorso contro due decreti del MIBACT volti a limitare gli effetti della legge 97/2013, ricorso promosso da GTI e altre associazioni di categoria, che hanno ribadito la piena validità della normativa e la legittimità ad operare sull’intero territorio nazionale senza alcuna restrizione.
Attualmente, purtroppo, restano aperte delle questioni che vanno risolte in maniera urgente al fine di mettere in atto una vera riforma professionale di cui tutti sentiamo la necessità. A titolo esemplificativo, guardiamo – come condizione per esercitare la funzione di guida – alla necessità del conseguimento della laurea a seguito di un coerente percorso di studi. In tal modo si valorizzano competenza, specializzazione e si eleva la qualità di un servizio che non può più prescindere dalle giuste esigenze di un turismo che richiede figure altamente qualificate.
Purtuttavia ci si dibatte in una condizione di estrema ambiguità, a seguito della quale non solo la qualifica di “guida nazionale” viene contestata, ma l’operato delle guide viene contrastato con azioni ostili da parte delle vecchie guide provinciali; si assiste a sconcertanti episodi di boicottaggio, complici anche più o meno consapevoli funzionari statali o appartenenti alle Forze dell’ordine. Di recente, per esempio, in Toscana una guida locale ha assunto i panni di ‘sceriffo’ svolgendo impropriamente una sorta di servizio di pattugliamento territoriale e, affiancata dalla polizia municipale, ha ostacolato il lavoro delle guide nazionali che regolarmente svolgevano le proprie funzioni. Qualcosa di analogo è capitato a Pompei pochi giorni prima ed episodi di questa natura sono assai frequenti.
Il danno non è solo per i professionisti. A rimetterci sono anche i turisti, con conseguenti negative ricadute sull’immagine del nostro Paese. Insomma, è urgente un’attenta riconsiderazione della situazione e una rapida chiarificazione che ponga fine al caos normativo attuale.

Auspichiamo pertanto che Lei, dottor Centinaio, in qualità di ministro che ha ora assunto la delega per il Turismo, possa farsi coscientemente carico del problema; e ci rendiamo immediatamente disponibili ad un incontro per poter meglio articolare e chiarire le problematiche che penalizzano il settore nonché le potenzialità che andrebbero meglio sviluppate.

Caricento: la nostra solidità non è in discussione

I vertici della Banca ribadiscono la stabilità della Cassa centese

Cento, 5 luglio 2018 – A seguito degli articoli pubblicati sulla stampa locale nel corso delle ultime settimane, contenenti dichiarazioni che insinuano dubbi circa la solidità della Cassa di Risparmio di Cento SpA, il Consiglio di Amministrazione e la Direzione della Cassa intendono ribadire la totale inconsistenza di tali affermazioni improvvide, dannose e senza alcun fondamento.

I dati del bilancio della Cassa di Risparmio di Cento SpA confermano la stabilità della Banca: l’esercizio 2017 si è chiuso con un utile pari a 9,453 milioni di euro e con la ulteriore crescita dei coefficienti di solidità patrimoniale. Al 31/12/2017 il CET1, Common Equity Tier One, si attestava al 13,52%, a fronte di un coefficiente minimo assegnato alla Cassa dalla Banca d’Italia pari al 6,875%.

Nel corso degli ultimi mesi, pur in coincidenza con la trattativa tra la Fondazione e la Banca Popolare di Sondrio, la Cassa non ha mai rallentato nel perseguimento dei propri obiettivi strategici. L’acquisizione di Ifiver ha sancito la costituzione di Cassa di Risparmio di Cento come Gruppo Bancario, in coerenza alla strategia di cercare nuovi margini di redditività nel mercato retail, grazie alle cessioni del quinto dello stipendio offerte da Ifiver, che si affiancano ai nuovi prestiti personali iWish! della Cassa.

Gli investimenti in tecnologia, in incremento nel 2018 e che cresceranno ulteriormente nel 2019, nonché il rimodellamento e potenziamento della struttura organizzativa, sono funzionali a garantire maggior flessibilità e velocità, oltre all’erogazione di un servizio di alta qualità alla clientela come è nella tradizione della Banca.

Infatti, nel 2017 sono stati oltre 4.400 i nuovi clienti che hanno scelto di affidarsi ai servizi di Caricento, ed oltre 2300 solo nel primo semestre del 2018. Pienamente funzionanti e già in utile anche le nuove filiali dell’area Romagna (Faenza e Lugo), aree di espansione della Cassa.

L’accresciuta solidità patrimoniale vede in ulteriore miglioramento i coefficienti di copertura dei crediti deteriorati nel corso del primo semestre 2018; attualmente è in corso un processo di cessione delle sofferenze che porterà la Cassa ad avere un rapporto crediti deteriorati su crediti totali allineato agli standard richiesti dalla BCE.

Sul piano delle sponsorizzazioni, importanti interventi sono stati deliberati, in particolare a favore del territorio centese.

Caricento quindi non si ferma, forte della propria solidità patrimoniale: il Consiglio di Amministrazione, la Direzione e tutto il personale, animati da profondo spirito di squadra, ribadiscono fermamente e con orgoglio la volontà di continuare ad interpretare il ruolo di banca locale in maniera coerente
con il contesto che si prefigurerà, con l’unico obiettivo di generare valore nel tempo per Soci e Clienti.

Da: Ufficio Relazioni Esterne – Cassa di Risparmio di Cento

Regresso e progresso, è tempo di agire

La parola d’ordine, oggi, è sicurezza. Il diritto al lavoro, alla pensione, all’assistenza, all’alloggio – tutte conquiste che nel secolo scorso, grazie alle politiche di sostegno attuate dallo stato sociale, apparivano acquisite e indiscutibili – ora vacillano. Ovunque – e anche in Italia – le certezze che hanno accompagnato le nostre esistenze sono svanite. E la vita attuale, per milioni e milioni di donne e di uomini, è densa di insidie e di preoccupazioni.
Anche per questo i fenomeni migratori vengono percepiti come una minaccia. Frutto essi stessi di profondi squilibri geopolitici – eredità delle vicende coloniali – e ora generati da situazioni di miseria estrema e da pericoli incombenti (spesso aggravati da conflitti armati o persecuzioni attuate da regimi dittatoriali nei confronti della popolazione), divengono motivo di tensione e di paura per i cittadini di quegli Stati, meta dei disperati esodi, che individuano negli “invasori” un ulteriore elemento di sottrazione alle già risicate risorse di cui dispongono. E’ la guerra dei poveri che torna ad affacciarsi. Ma il paradosso è che deprivazioni e indigenza colpiscono ampie fasce della popolazione, mentre ristretti gruppi di individui possiedono ricchezze superiori a quelle di intere nazioni. Basti pensare che oggi dieci persone possiedono da sole il cinquanta per cento delle ricchezze dell’intero pianeta.

Lo scenario, dunque, è drammaticamente dissestato. Gli squilibri sono vertiginosi. Il tessuto sociale è sfilacciato, al sentimento di solidarietà si è sostituito quello, prevalente, di paura. L’altruismo cede il passo a un egoismo difensivo. L’idea di un costante progresso nel cammino sociale si scontra con ostacoli imprevisti. La prospettiva per le generazioni future è di vivere in un mondo peggiore rispetto a quello che noi abbiamo ereditato, in condizioni di maggiore incertezza e di instabilità e privi di quelle tutele che hanno garantito a tutti (o quasi), per decenni, dignitose condizioni di vita.
In questa temperie prospera la criminalità, che in parte costituisce l’estrema derelitta risposta al disagio.

Il punto di ripartenza, per un umano consorzio che intende – e deve – recuperare i caratteri di civile e solidale convivenza, può essere la città, il luogo in cui i rapporti personali in parte si alimentano ancora della fiducia che scaturisce dalla conoscenza e il legame sociale, per questo, non si è del tutto dissolto.
Occorre però un salto di qualità per recuperare, da un filantropico mutualismo di prossimità, una dimensione di relazione e di azione collettiva, fondata su un più esteso patto di cittadinanza.

Un tempo si era arrivati a dire: tutto è politica… Oggi si è alla esasperazione opposta: il rifiuto della politica come cosa sporca, cosa inutile. E al respingimento tout court dei suoi attori (tutti uguali, tutti corrotti…). Ma la politica non è altro che l’autogoverno della comunità, e in questa prospettiva nessuno può sentirsi escluso e ciascuno ha il dovere di rendersi disponibile e partecipe a un progetto di rinascita civile, solido e concreto. Per conferire respiro a tale scenario – che parte dall’oggi e guarda al domani – serve però pure una visione utopica, la definizione di un futuro desiderabile che dia senso al cammino e ai sacrifici necessari per compierlo. Utopia non è l’astratta terra promessa. E’ la stella polare che orienta i nostri passi e delinea l’orizzonte verso il quale indirizzarci. E attraverso il progetto si definiscono concretamente le tappe di approssimazione alla meta.

Bisogna ripartire da quella che i tedeschi definiscono weltanschauung, una visione del mondo che tenga insieme valori, credenze, ideali. E’ ciò che potremmo tradurre in ideologia se il termine non fosse stato corrotto dall’improprio uso propagandistico e dogmatico che ne hanno fatto nel secolo scorso regimi illiberali d’ogni fronte per piegarlo al proprio interesse di potere, bollare d’eresia ogni manifestazione di dissenso e confiscare così la libertà di pensiero e di opinione.

E bisogna necessariamente agire per superare la deresponsabilizzante dicotomia “noi-loro” quando si ragiona di politica, perché l’evidente presenza di una casta separata – quella degli eletti – deputata a governare le comunità, se ora trova riscontro nella realtà dei fatti, non ha fondamento dottrinario poiché la dimensione politica va riconsiderata nella sua classica e appropriata concezione: governo della polis, cui ogni cittadino è idealmente preposto. Serve, allora, un impegno attivo, personale, propositivo da parte di tutti coloro che a questa situazione non intendono più sottostare.

Scrittura poetica in provincia negli anni Settanta e Ottanta: elementi per un itinerario ferrarese

di Laura Fogagnolo e Pier Luigi Guerrini

“Uno scrittore dovrebbe vivere in provincia, dicevamo: e non solo perché qui è più facile lavorare, perché c’è più calma e più tempo, ma anche perché la provincia è un campo di osservazione di prim’ordine. I fenomeni sociali, umani e di costume, che altrove sono dispersi, lontani, spesso alterati, indecifrabili, qui li hai sottomano, compatti, vicini, esatti, reali.” (L. Bianciardi, Il lavoro culturale, Ed Feltrinelli, 1974, p. 19)

Senza l’ambizione dell’esaustività, queste righe vogliono tentare una raccolta di autori e produzioni uscite negli anni settanta e ottanta nella provincia di Ferrara. Per scelta dei redattori di queste note, non si sono presi in considerazione gli autori dialettali. Nessuna spocchia intellettualistica ma solo una delimitazione del campo e degli autori.
A nostro giudizio, Lamberto Donegà è sicuramente un poeta che nasce artisticamente in questo periodo. Ad una prima ‘Domanda-confronto generazionale’, libro datato 1970, ne segue sei anni dopo ‘Il sollievo del sole’ in cui richiami/ricami bassaniani s’inseguono per tutta l’opera. Nel 1978 esce una piccola collettanea di poeti ferraresi di nascita o d’acquisizione. ‘Biottica delle parole superstiti‘, questo era il titolo, nelle intenzioni degli ideatori doveva essere una rivista di poesia e critica letteraria ma, come spesso accade e non solo nelle situazioni di provincia, si fermò al primo numero. Al suo interno, oltre a Donegà, c’erano tra gli altri Alberto Poggi e Pier Luigi Guerrini che idearono la rivista ‘Po/etica/mente‘, come testimonia un ciclostilato di due pagine con cenni poetici “mescolati” a spunti progettuali. Poi, il percorso di questa rivista prese una strada differente.Poeticamente‘ si ricompose in un’unica parola e la redazione di fondazione (1980), sotto la direzione responsabile di Donegà, vide la presenza di Emanuela Calura, Pier Luigi Guerrini e Roberto Guerra. La rivista venne diffusa in una rete di piccole librerie militanti dell’area della nuova sinistra e, dopo alcuni numeri in cui si pubblicavano diversi interventi in prosa o in poesia di vari autori, si scelse la strada dei numeri monografici. Ne ricordiamo tra gli altri: Selim Tietto, Alberto Bertoni, Carlo Villa, Roberto Guerra, Claudio Strano, Marco Chinarelli. ‘Poeticamente’ manterrà al proprio interno una vivacità intellettuale attraverso uno stretto legame con riviste pubblicate negli anni ottanta: i riferimenti saranno Anterem e Niebo.
Il poeta ferrarese Roberto Guerra inizia le sue prove poetiche alla fine degli anni settanta, partecipando alla redazione della rivista Poeticamente. Negli anni ottanta, ha partecipato (con Franco Ferioli), con Fiori della Scienza alla rassegna video U-Tape 1985, a cura del Centro Video Arte di Ferrara. Ha collaborato (anni ottanta e novanta) con il periodico Futurismo Oggi (a cura di Enzo Benedetto, Roma). La sua attività poetica e di produzione è tutt’ora molto fertile. E’ coordinatore del Llf, Laboratorio Letteratura Futurista (Ait).
Pier Luigi Guerrini, dopo la pubblicazione per le edizioni Ottantagiorni del libro di poesie ‘Il fenomeno scomposto’ (1984) e nell’antologia ‘Trame della parola’ (1985), Ed. Tracce a cura di Antonio Spagnuolo, ha lasciato segni di stampa collegati da vicino ai percorsi lavorativi intrapresi, mentre la produzione poetica è riemersa con decisione solamente dal 2010 in avanti.
Roberto Pazzi, scrittore e poeta di fama internazionale tutt’ora attivo e scrittore di romanzi che hanno incontrato i favori del pubblico, ha pubblicato le raccolte poetiche ‘L’esperienza anteriore’ (1973), Ed. I Dispari; ‘Versi occidentali’ (1976), Ed. Rebellato; ‘Il re, le parole’ (1980), Ed. Lacaita; ‘Calma di vento’ (1987), Garzanti Editore.
Verso la fine degli anni settanta, nasce la Coop. Charlie Chaplin che tenta senza successo di introdursi nel mercato editoriale con tre produzioni: il primo romanzo di Stefano Tassinari ‘Riflessi di ruggine’, una raccolta di poesie dialettali ‘Poesii fraresi’ e un’antologia sul cinema e la letteratura della science fiction curata da Alberto Poggi, a corollario di un convegno organizzato a Ferrara. Sotto la spinta determinante di Stefano Tassinari, nacque in quegli anni il mensile ‘Luci della città‘ che si rivelò anche un luogo di produzione e contaminazione poetica, letteraria e politica.

Qualche anno prima, era approdato in edicola ‘Porto Ferrara‘ (si rinvia agli articoli ‘Porto Ferrara: una sinistra plurale col desiderio di capire’ e ‘Porto Ferrara, una rivista non provinciale’ per un approfondimento a due voci) che aveva tra i redattori e collaboratori diverse persone che, poi, intrapresero l’avventura di ‘Luci della città’.
Di Gianni Goberti ricordiamo l’ottima prova poetica di ‘Logica del caos’ (1979), Forum/Quinta generazione e ‘A due passi da Itaca’ (1983), Casa Editrice Alba.
Uno “spazio” importante va dedicato alla poesia visiva (dal medium libro cartaceo al medium quadro più parola): Michele Perfetti, Maurizio Camerani, Enzo Minarelli, Lola Bonora, Romolina Trentini, Federica Manfredini, Luciana Arbizzani, sono alcuni dei protagonisti di questo ambito. Luciana Arbizzani è autrice, per le Edizioni Rebellato, di ‘In parti uguali’ – 1972 e ‘Argille d’esistenza’ – 1975, poi, entrando sempre più in affascinanti percorsi di contaminazioni sperimentali, ha pubblicato ‘Che la goccia sia sferica’ – 1979, Ed. Geiger e ‘Transuraniche’ – 1981, Ed. TamTam, rivista di poesia totale di livello internazionale dove ha fatto parte della redazione. In quegli anni, a Ferrara la Sala Polivalente del Palazzo Massari fu un centro molto attivo ed importante di performances audiovisuali e di readings di poesia con presenze di livello internazionale.
Anche la Stanza di San Giorgio, ebbe importanti momenti dedicati alla poesia visiva da parte degli autori succitati. Ricordiamo, di quegli anni ottanta, la performance in progress curata da Sergio Altafini in cui Federica Manfredini, presentò esperimenti di rara comunicazione, parole libere, riflesso della migliore neoavanguardia filtrata da un lirismo visivo-orale pieno di femminilità/femminismo con anti-rime molto divertenti usando parole e lingue differenti. Poeta impegnata dagli anni ottanta in una progressiva costante ricerca di “aggregazione-disgregazione” della parola, per ricreare realtà diverse nella scrittura, nella poesia visuale e nella poesia sonora.

La Manfredini fu protagonista anche in numerose pubblicazioni, ad esempio ‘Dif-frazioni’ (dismisura testi, 1985), oppure i suoi interventi per la rivista trimestrale Edigraf, 1985, 1989, ecc. diretta da Carla Bertola e Alberto Vitacchio, fino alla sua prematura scomparsa nel 1997. Numerose le performance in varie sedi, dall’inizio degli anni ottanta.
Significativamente ogni sua mostra o installazione era completata dall’esecuzione di una performance. Vengono segnalate: all’Arte Studio di Ponte Nossa nell’84, a Bondeno, a Ferrara in varie occasioni, all’Emporium Arte Contemporanea ad Ivrea ’87. Ha partecipato a ‘Rendez-Vous’ a Villorba ’89, alla Galleria delle Donne di Torino ha esposto ed eseguito performance nel 1988.
Con ‘Ipotesi per un teatro di poesia’, ha iniziato negli anni settanta una lunga produzione Ines Cavicchioli, Dirigente Scolastica, regista e attrice di teatro, scrittrice e scultrice. Negli anni ottanta, la Cavicchioli ha pubblicato ‘Parole in nero’ (1981), ‘Poesia e immagine’ (1983), ‘I messaggeri dell’inquietudine’ (1984), ‘Prove di recitazione’ (1989). Altro poeta ferrarese, che negli anni ottanta ha fatto parte dell’avanguardia poetica della poesia concreta che s’ispirava ad Adriano Spatola, è Sergio Gnudi che ha ripreso a produrre nel nuovo millennio, dopo una pausa di una ventina d’anni. I volumi pubblicati nel periodo da noi preso in esame sono: ‘Tra due fuochi’, ‘Scorie padane’ e ‘Iperbolia’.

Andate… a visitare Quel Paese

Dopo la marcia anti rom organizzata da Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia davanti al campo nomadi di via delle Bonifiche (un centinaio scarso di persone, ma assai arrabbiate e invadenti), dopo le iniziative di solidarietà promosse da una rete di associazioni ferraresi schierate per difendere il diritto di cittadinanza e la pacifica convivenza tra culture differenti (anche questa testata ha aderito), è forse il momento di riflettere più a fondo sulla nostra storia e su cosa si nasconde dietro la proposta d censire e schedare i nomadi.

La storia ce lo ha insegnato: chi vuole fare un censimento dei rom, in realtà vuole “schedare gli zingari” e chi vuole schedare qualcuno è perché lo considera diverso, pericoloso e lo vuole isolare, carcerare, allontanare.
Chi vuole far questo, oltre a proporre qualcosa di anticostituzionale, sceglie la pedagogia della paura, insegna l’odio verso chi è diverso e mette in pratica la didattica dello stereotipo: il suo metodo è quello della generalizzazione, il suo stile è quello di sussurrare alle pance piuttosto che parlare alle teste e ai cuori.
In pratica, chi vuol far questo estende la responsabilità di un fatto di cronaca legato a una persona di una certa nazionalità, di una certa etnia o di una certa categoria di persone a tutti gli appartenenti a quella nazionalità, a quella etnia, a quella categoria.
In sintesi, prende per vera un’ipotesi, crede in una una congettura, pensa che un luogo comune sia la verità.
È così che nasce l’idea bugiarda che tutti gli zingari siano ladri e rapiscano i bambini.
È così che molti vogliono far credere che tutti i musulmani siano terroristi dell’Isis, che tutti gli americani siano guerrafondai, che tutti i rumeni siano ladri, che tutti gli svizzeri siano puntuali, che tutti i turchi siano fumatori incalliti, che tutti gli ebrei siano avidi, che tutte le donne ucraine siano badanti, che tutti gli albanesi siano criminali, che tutti gli africani abbiano il ritmo nel sangue, che tutti gli olandesi fumino marijuana, che tutti i cinesi mangino i cani, che tutte le donne svedesi siano di facili costumi, che tutti gli irlandesi siano ubriaconi, che tutti i napoletani puzzino, che tutte le donne non sappiano guidare e potrei continuare a lungo con altri esempi.
Allo stesso modo, le persone che pensano le assurdità di cui sopra dovrebbero accettare l’idea di essere definiti mafiosi in quanto italiani… perché è questo che pensano di noi le persone straniere che generalizzano.

In pratica, chi pensa e insegna in questo modo, fa di tutta l’erba “un fascio”: volendo giocare con le parole, chi fa questo è doppiamente “fascista” (vedi:http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/F/fascista.shtml).
Gli stereotipi, i pregiudizi ed i luoghi comuni nascono dall’ignoranza, cioè dalla non conoscenza. Un buon antidoto per questo, oltre allo studio, è il conoscere attraverso il viaggio perché viaggiando si incontrano persone diverse, si possono conoscere nuove culture e, oltre alle naturali differenze, si potranno scoprire molte similitudini e imparare a spostare il proprio punto di vista.
A chi invece non vuole viaggiare, a chi non vuole conoscere, a chi vuole tenersi i suoi pregiudizi, agli insegnanti di odio, ai pedagogisti della paura, ai demolitori di accoglienza, ai distruttori di solidarietà, ai chiuditori di porti, agli schedatori di rom, ai guidatori di certe ruspe consiglierei sinceramente di andare a visitare almeno un paese: Quel Paese.
Andate a “Quel Paese”, ma andateci sul serio… farete sicuramente un favore alla cultura e a “questo Paese”.

Il nuovo corso della dialettica politica

L’ambito reale dello scontro intrapreso dal Ministro Di Maio non è tra i rider e la tecnologia, come dice l’amministratore delegato di Foodora Gianluca Cocco, ma tra i cittadini, gli esseri umani, e l’uso strumentale che della tecnologia alcuni, come lo stesso Cocco, fanno.
Al momento, infatti, funziona che questa è al servizio delle grandi aziende, delle multinazionali, dei pochi geniacci dell’app mentre i restanti 6.5 miliardi persone (… e il calcolo è alla buona) si connettono ad internet ed usano Whatsapp.
Un po’ come i vantaggi dell’eurozona. Da una parte pochi esercitano il potere, fanno affari, traggono interessi e aumentano il lusso, dall’altra la maggior parte delle persone grazie all’euro va in vacanza in Francia, Germania, Spagna e Grecia senza il fastidio di dover cambiare valuta.
Nel caso specifico, si impone nella discussione la “necessaria” flessibilità, la diminuzione dei diritti, delle tutele e degli stipendi in cambio del lavoro. O lo si accetta oppure l’arroganza del potere minaccia la fuoriuscita dal Paese alla ricerca di altri luoghi dove imporre la giungla del mercato. Ed è chiaro che in questo momento storico questo potere vincerà perché fuori dalla portata di Di Maio e del tentativo tutto italiano di mettere la dignità davanti al potere c’è il mondo. Un mondo neoliberista, flessibile, disuguale e classista che non sa che farsene della coscienza di un ragazzo di trent’anni che vuole fare il Ministro e vorrebbe andargli contro.
La tecnologia aiuterà l’essere umano solo quando sarà democratizzata ma in questo momento bisogna prendere atto che laddove non fossimo capaci di piegarla al nostro bisogno allora Foodora, come minacciato dal suo Amministratore, può accomodarsi alla porta, ce ne faremo una ragione. Non vogliamo avere uno schiavo a consegnarci la pizza, non necessariamente dobbiamo essere partecipi di questo obbrobrio, possiamo perfino scegliere di comprare le scarpe al negozio all’angolo e, forse, in questo sistema sbagliato di valori contribuiremmo a migliorare la vita di tutti.
Il bisogno di rivolgersi ad Amazon è un falso bisogno o, meglio, un bisogno indotto dalla necessità di contenere le nostre spese e gestire il nostro tempo. Ma questi purtroppo sono due aspetti della vita moderna scolpita nello stampo neoliberista che vuole lo scambio sociale al minimo al pari dei salari, in modo da avere più potere di contrattazione e controllo del dissenso.
E quindi la battaglia di DI Maio mi sembra una gran bella battaglia, dignitosa e onesta, che meriterebbe un sostegno forte almeno da parte di noi cittadini, anche di quelli che hanno un lavoro meglio pagato e tutelato dei “porta pizza”. Un momento, questo, in cui fare Paese e smetterla di attaccare l’operato di questo Governo, di tener conto sì dei 620 migranti indirizzati in Spagna ma anche considerare i 1.000 appena sbarcati e metter insieme le due cose, riflettere per indirizzare la lotta politica e di opinione, comprendere di cosa ha realmente bisogno la gente.
E prendere atto che la politica sta davvero cambiando, bisogna farsi forza e vedere cose che ci sono finora sfuggite. Il PD aveva torto e continua ad averne. Perché dell’impatto della tecnologia sulla dignità del lavoro, dello strapotere delle multinazionali, dei riders e dei migranti utilizzati nella raccolta dei pomodori e della frutta a 2 euro all’ora, della schiavitù sempre più evidente a cui il lavoratore italiano e straniero è sottoposto sul nostro territorio, non si è mai occupato veramente oppure l’ha accettata o, peggio, ha fatto finta di niente e l‘ ha nascosta dietro le belle chiacchiere di Saviano. Sono mesi che il PD parla dell’importanza di fare autocritica ma i suoi dirigenti continuano a sparlare e ad attaccare più gli altri che se stessi perché forse hanno già deciso di non avere niente di cui pentirsi o da rimettere in discussione.
E gli attacchi arrivano da tutte le TV dando l’impressione, viste le presenze, di aver occupato lì le poltrone che gli sono sfuggite a Palazzo Chigi.
Questo Governo non sta’ facendo campagna elettorale ma qualcosa a cui non eravamo abituati: sta facendo. Eravamo abituati alle grandi promesse prima e al silenzio dopo, invece Salvini sta procedendo come i treni, su binari tracciati in campagna elettorale. Sta mettendo in atto, lui come Di Maio quello che avevano annunciato di voler fare.
La cosa ci sconvolge talmente tanto che questo darsi da fare non sappiamo come chiamarlo e lo chiamiamo campagna elettorale, cioè, invece di appoggiarlo e rispettarlo e magari legittimamente criticarlo e indicare vie diverse senza dimenticare l’obiettivo, lo denigriamo. Rivogliamo dunque Renzi, Del Rio, Padoan e la Boschi? E per far cosa, perché tutto rimanga fermo e uguale seguendo quel processo che la sinistra ha iniziato negli anni ’80 quando ha abbandonato la gente, le persone, i lavoratori per dedicarsi al grande capitale e alla finanza?
In questi anni è stato creato un modello di società diviso in due, poveri e ricchi. Come non se ne vedevano dai tempi peggiori dei re e dei nobili con l’aggravante che i tribuni della plebe, negli ultimi decenni, parteggiavano per i ricchi. E questa situazione ci costringe a gridare al miracolo quando un partito, talmente liberista da proporre addirittura la Flat Tax di Milton Freedman, dimostra di tenere di più alla gente dei tribuni della plebe, mostra un volto umano e si preoccupa non di risanare a parole l’immagine del mondo ma nei fatti di migliorare l’esistenza di qualche milione di italiani e di coloro, non italiani, che ci vivono, di ridare dignità alle città e alla convivenza insieme ad un altro partito che vuole ridare dignità al lavoro rimettendo mano alle opere di “sinistra” come il Job Acts e la legge Fornero e tutti insieme rivedere i termini dell’Unione Bancaria per evitare la completa distruzione e precarizzazione del sistema bancario.
E magari ridare dignità al processo di unificazione europea guardandolo, finalmente, non dal solo punto di vista finanziario e di tutela delle élite, ma anche dal punto di vista delle persone reali e degli europei, se mai esistesse una identità in tal senso anche fuori dai confini del limes romano.

Porto Ferrara: una sinistra plurale col desiderio di capire

di Laura Fogagnolo

E’ un’interessante pubblicazione ‘Porto Ferrara‘ che chiude gli anni settanta in città. Un mensile d’informazione culturale che ha l’esordio interno alla CoopStudio nel gennaio ‘82, poi, dal numero due del marzo dello stesso anno, l’intera progettazione grafica sarà curata da Claudio Gualandi come libero professionista. Tiratura: cinquemila copie.
E’ un odore di polvere stantia quello che coglie le narici, quando si sfogliano le pagine di questa rivista dal taglio innovativo, unita ad un superbo corredo fotografico.
Anime redazionali ne sono: Luciano Bertasi, Mario Fornasari, Stefano Tassinari, Giuliano Guietti, Sandra Pareschi, Marco Tani, Alberto Tinarelli e Marilena Zaccarini, coadiuvati da una nutrita compagine di collaboratori fissi e saltuari che si alternano nel dibattito sull’attualità, sulle problematiche sociali nonché sul ruolo del sindacato e sulla cultura con incursioni nella critica cinematografica, teatrale e musicale.
Sono le voci e le espressioni dei futuri quadri professionali e dirigenziali dell’Ente Locale, dell’Università unite a quella del Sindacato.
In una nota rivolta alla critica dietrologica, il comitato redazionale afferma testualmente che “la pubblicazione nasce come iniziativa aperta, luogo di espressione e confronto di posizioni diverse dentro la sinistra. Suo scopo è di contribuire ad un innalzamento del dibattito politico e culturale della città e della provincia”.
Gli articoli economici registrano la grave crisi aziendale dell’allora Montedison, uscita da una Cassa Integrazione di dieci mesi nel 1981, quando si paventavano cinquecento licenziamenti per ridimensionamento nel Petrolchimico. L’ex sindacalista, segretario provinciale della Federazione Lavoratori Chimici, e futuro Sindaco della città nella seconda metà degli anni novanta, Gaetano Sateriale auspicava l’apertura di un dibattito culturale sulle scelte di politica industriale e sulle trasformazioni che il tessuto sociale stava subendo.
Negli stessi anni la Berco, l’industria metalmeccanica di Copparo, dopo aver conosciuto uno sviluppo senza precedenti dal ’75 all’80, a causa della saturazione dei mercati e del blocco delle opere pubbliche nei Paesi occidentali, era afflitta da una caduta e da una grave crisi che sboccava nella proposta di riduzione di mano d’opera di centosettantotto unità e l’avviamento alla Cassa Integrazione di duemila operai.
Sorge inevitabilmente, dalla lettura degli articoli economici, una riflessione amara sul destino e sulla sorte della classe operaia oggi, a quasi quaranta di distanza, che ci interroga sul futuro e sulle mutazioni in corso della forza lavoro.
Risolleva, per fortuna, l’umore la lettura dell’articolo di Francesco Monini sulla mostra: Ferrara a Parigi dal diciannove aprile alla fine di maggio dell’82. Rivolta al pubblico cosmopolita di Parigi, l’esposizione rappresentava un assaggio di Ferrara che permetteva alla città di affacciarsi al mondo e di incrementare l’industria turistica, mentre le aziende di casa se la passavano male.
Si delineano, in quegli anni, le direttrici della promozione turistica della città che daranno frutti duraturi con le grandi mostre di Palazzo dei Diamanti, patrocinate dal genio di Franco Farina, e le iniziative culturali che faranno conoscere Ferrara a livello europeo ed internazionale.

La fragilità come valore

“Fragilità, il tuo nome è donna” sosteneva Shakespeare, nonostante l’ombra della fragilità incomba su molti suoi personaggi maschili. Uomini fragili come Otello, travolto dalla passione e tormentato dal tradimento di Desdemona, come Amleto, in preda alle ossessioni e ai fantasmi, o come Macbeth, manipolato abilmente dalla moglie, indotto a pulsioni aggressive che sfociano in omicidi efferati. In realtà la condizione di fragilità riguarda il genere umano nella sua interezza, si manifesta con mille sfaccettature, a volte ci caratterizza per l’intera vita, in altri casi ci coglie alla sprovvista, senza preavviso alcuno. La vulnerabilità fa parte integrante della natura umana perché non siamo onnipotenti o supereroi e tutti dovremmo avere il diritto di sentirci coscientemente fragili, senza dover simulare cortecce o corazze che rappresentino un tentativo di difesa da un’immagine di invincibilità che la società spesso impone.

Lo spettro delle fragilità è molto ampio e va dal disagio creato dai piccoli patemi d’animo alle grandi questioni molto più impattanti, condizioni che meritano tutte attenzione e sostegno. Un tempo esisteva un codice di comportamento condiviso, ora mancano spesso legami e riconoscimento reciproco, persi come siamo in uno smarrimento esistenziale evidente, dove infelicità e insensibilità trovano terreno fertile. Spiragli di fragilità sempre più rimarcabili vengono categorizzati e gestiti troppo spesso come emergenze burocratiche piuttosto che attivare umanità autentica e senso di protezione, impedendo in questo modo a chi è debole di rimanere parte attiva e costruttiva della propria vita. Silenzio e indifferenza, omertà davanti a bullismo e violenza in generale, sgretolamento del sistema familiare e relazioni virtuali che passano come sostitutive dei reali rapporti personali, prospettano un’immagine di società disorientata, vicina al collasso relazionale e comunicativo, semiparalizzata nella sfera emotiva e spirituale.

La letteratura non mente sulle fragilità: le descrive, le racconta, le sviscera, le accompagna, le asseconda; ha la capacità di scavare silenziosamente dentro i personaggi scorticati dalla vita, fino ad arrivare negli abissi dell’interiorità. Ce lo dice Alda Merini che ci sbatte in faccia le sue fragilità gridandole. Ce lo scrive Cesare Pavese quando dichiara: “In sostanza chiedo un letargo, un anestetico, una certezza di essere ben nascosto. Non chiedo la pace nel mondo, chiedo la mia”. Ce lo scrive Giuseppe Ungaretti in ‘Veglia’, dove trascorre impotente la notte accanto al cadavere di un amico in trincea “massacrato, con la sua bocca digrignata”, nel 1915, alla vigilia di Natale. Lo scrive anche Moravia in ‘La romana’ (1949), dove Adriana, modella mancata, prostituta e madre per caso, confessa: “Avevo capito che la mia forza non era il desiderare di essere quella che non ero, ma di accettare quello che ero. La mia forza erano la povertà, il mio mestiere, la mamma, la mia brutta casa, i miei vestiti modesti, le mie umili origini, le mie disgrazie e, più intimamente, quel sentimento che mi faceva accettare tutte queste cose e che era profondamente riposto nel mio animo come una pietra preziosa dentro la terra.”
Anche Isabel Allende ci consegna le pagine più intime, profonde e intense della sua carriera letteraria, quando descrive la propria condizione di estrema fragilità al capezzale della figlia Paula, gravemente malata, nel romanzo che prende proprio il suo nome: ‘Paula’ (1995). “Ho passato quarantanove anni correndo, nell’azione e nella lotta, dietro mete che non ricordo, inseguendo qualcosa senza nome che era sempre più in là. Ora sono costretta a rimanere ferma e silenziosa; per quanto corra non arrivo da nessuna parte, se grido nessuno mi sente. Mi hai dato il silenzio per riflettere sul mio passaggio per questo mondo, Paula, per tornare al passato vero e recuperare la memoria che altri hanno dimenticato… Sono impaurita. Altre volte, prima, ho avuto molta paura, ma c’era sempre una via d’uscita, persino nel terrore del colpo di stato c’era la salvezza dell’esilio. Adesso sono in un vicolo cieco, non ci sono porte aperte sulla speranza e non so che fare”.
Il filosofo Seneca, in ‘La condizione umana’, richiama in modo molto moderno e attuale alla solidarietà verso tutti gli esseri umani, i più poveri, i disprezzati, schiavi, sofferenti, unico tra i filosofi pagani a pronunciarsi apertamente contro l’inumano e barbarico spettacolo delle arene. Vede gli uomini del suo tempo senza veli e mistificazioni: creature fragili, ignare, vittime di illusioni dovute dagli impulsi irrazionali. Un uomo inquieto, lacerato fra spinte contrastanti, conscio della sua stessa debolezza. ‘Fragilità’ deriva dal latino ‘frangere’, rompere: rompere un equilibrio, una condizione, una simmetria, un’armonia, un’unità dal punto di vista psicologico o fisico. Dovremmo dare fondo a tutte le nostre risorse per trasformare questa condizione in opportunità aiutandoci e facendoci aiutare.

In Giappone esiste una pratica, l’Arte del Kintsugi, dal profondo valore concreto e spirituale. Si dedica a riparare le fratture di un oggetto con l’oro e l’argento; la crepa diventa valore e rende l’oggetto unico e irripetibile e la linea di rottura diventa meravigliosa traccia luminosa di un solco dorato.

C’è un strada sul mare: lettera aperta al Ministro dell’Interno Salvini

Respingere, chiudere i porti, accelerare i rimpatri: la linea dura di Matteo Salvini e del governo giallo-verde, non è solo razzista e antiumanitaria. E’ anche sbagliata e fallimentare. Proprio come quella dei precedenti governi, a guida Forza Italia e Partito Democratico. Per affrontare davvero e seriamente la grande migrazione occorre percorrere una strada completamente diversa, quella della legalità. Occorre prima di tutto riscrivere i regolamenti per il rilascio dei visti nei paesi africani. Introdurre il visto per ricerca di lavoro, il meccanismo dello sponsor, il ricongiungimento familiare. E negoziare in Europa affinché siano visti validi per circolare e cercarsi un lavoro in tutta la zona Ue.
Sono queste le ‘proposte ragionevoli’ che da molte parti si levano, ma che non trovano ascolto da parte della nostra classe politica, sia nelle forze politiche che stanno ora al governo, sia in quelle che al governo ci sono state fino a ieri l’altro.
Lo spiega molto bene, nella lettera aperta che pubblichiamo, Gabriele Del Grande, blogger molto noto, regista, ‘contabilizzatore’ di stragi di migranti, autore di reportage nei paesi nordafricani e non solo.

Francesco Monini

Confesso che su una cosa sono d’accordo con Salvini: la rotta libica va chiusa. Basta tragedie in mare, basta dare soldi alle mafie libiche del contrabbando. Sogno anch’io un Mediterraneo a sbarchi zero. Il problema però è capire come ci si arriva. E su questo, avendo alle spalle dieci anni di inchieste sul tema, mi permetto di dare un consiglio al ministro perché mi pare che stia ripetendo gli stessi errori dei suoi predecessori.
Blocco navale, respingimenti in mare, centri di detenzione in Libia. La ricetta è la stessa da almeno quindici anni. Pisanu, Amato, Maroni, Cancellieri, Alfano, Minniti. Ci hanno provato tutti. E ogni volta è stato un fallimento: miliardi di euro persi e migliaia di morti in mare.
Questa volta non sarà diverso. Per il semplice fatto che alla base di tutto ci sono due leggi di mercato che invece continuano a essere ignorate. La prima è che la domanda genera l’offerta. La seconda è che il proibizionismo sostiene le mafie. In altre parole, finché qualcuno sarà disposto a pagare per viaggiare dall’Africa all’Europa, qualcuno gli offrirà la possibilità di farlo. E se non saranno le compagnie aeree a farlo, lo farà il contrabbando.

Viviamo in un mondo globalizzato, dove i lavoratori si spostano da un paese all’altro in cerca di un salario migliore. L’Europa, che da decenni importa manodopera a basso costo in grande quantità, in questi anni ha firmato accordi di libera circolazione con decine di paesi extraeuropei. Che poi sono i paesi da dove provengono la maggior parte dei nostri lavoratori emigrati: Romania, Albania, Ucraina, Polonia, i Balcani, tutto il Sud America. La stessa Europa però, continua a proibire ai lavoratori africani la possibilità di emigrare legalmente sul suo territorio. In altre parole, le ambasciate europee in Africa hanno smesso di rilasciare visti o hanno reso quasi impossibile ottenerne uno.
Siamo arrivati al punto che l’ultima e unica via praticabile per l’emigrazione dall’Africa all’Europa è quella del contrabbando libico. Le mafie libiche hanno ormai il monopolio della mobilità sud-nord del Mediterraneo centrale. Riescono a spostare fino a centomila passeggeri ogni anno con un fatturato di centinaia di milioni di dollari ma anche con migliaia di morti.
Eppure non è sempre stato così. Davvero ci siamo dimenticati che gli sbarchi non esistevano prima degli anni Novanta? Vi siete mai chiesti perché? E vi siete mai chiesti perché nel 2018 anziché comprarsi un biglietto aereo una famiglia debba pagare il prezzo della propria morte su una barca sfasciata in mezzo al mare? Il motivo è molto semplice: fino agli anni Novanta era relativamente semplice ottenere un visto nelle ambasciate europee in Africa. In seguito, man mano che l’Europa ha smesso di rilasciare visti, le mafie del contrabbando hanno preso il sopravvento.
Allora, se davvero Salvini vuole porre fine, come dice, al business delle mafie libiche del contrabbando, riformi i regolamenti dei visti anziché percorrere la strada del suo predecessore. Non invii i nostri servizi segreti in Libia con le valigette di contante per pagare le mafie del contrabbando affinché cambino mestiere e ci facciano da cane da guardia. Non costruisca altre prigioni oltremare con i soldi dei contribuenti italiani. Perché sono i nostri soldi e non vogliamo darli né alle mafie né alle polizie di paesi come la Libia o la Turchia.

Noi quelle tasse le abbiamo pagate per veder finanziato il welfare! Per aprire gli asili nido che non ci sono. Per costruire le case popolari che non ci sono. Per finanziare la scuola e la sanità che stanno smantellando. Per creare lavoro. E allora sì smetteremo di farci la guerra fra poveri. E allora sì avremo un obiettivo comune per il quale lottare. Perché anche quella è una balla. Che non ci sono soldi per i servizi. I soldi ci sono, ma come vengono spesi? Quanti miliardi abbiamo pagato sottobanco alle milizie libiche colluse con le mafie del contrabbando negli anni passati? Quanti asili nido ci potevamo aprire con quegli stessi denari?
Salvini non perda tempo. Faccia sbarcare i seicento naufraghi della Aquarius e anziché prendersela con le ong, chiami la Farnesina e riscrivano insieme i regolamenti per il rilascio dei visti nei paesi africani. Introduca il visto per ricerca di lavoro, il meccanismo dello sponsor, il ricongiungimento familiare. E con l’occasione vada a negoziare in Europa affinché siano visti validi per circolare in tutta la zona Ue e cercarsi un lavoro in tutta la Ue, anziché pesare su un sistema d’accoglienza che fa acqua da tutte le parti.

Perché io continuo a non capire come mai un ventenne di Lagos o Bamako, debba spendere cinquemila euro per passare il deserto e il mare, essere arrestato in Libia, torturato, venduto, vedere morire i compagni di viaggio e arrivare in Italia magari dopo un anno, traumatizzato e senza più un soldo, quando con un visto sul passaporto avrebbe potuto comprarsi un biglietto aereo da cinquecento euro e spendere il resto dei propri soldi per affittarsi una stanza e cercarsi un lavoro. Esattamente come hanno fatto cinque milioni di lavoratori immigrati in Italia, che guardate bene non sono passati per gli sbarchi e tantomeno per l’accoglienza. Sono arrivati dalla Romania, dall’Albania, dalla Cina, dal Marocco e si sono rimboccati le maniche. Esattamente come hanno fatto cinque milioni di italiani, me compreso, emigrati all’estero in questi decenni. Esattamente come vorrebbero fare i centomila parcheggiati nel limbo dell’accoglienza.
Centomila persone costrette ad anni di attesa per avere un permesso di soggiorno che già sappiamo non arriverà in almeno un caso su due. Perché almeno in un caso su due abbiamo davanti dei lavoratori e non dei profughi di guerra. Per loro non è previsto l’asilo politico. Ma non è previsto nemmeno il rimpatrio, perché sono troppo numerosi e perché non c’è la collaborazione dei loro paesi di origine. Significa che di qui a un anno almeno cinquantamila persone andranno ad allungare le file dei senza documenti e del mercato nero del lavoro.
Salvini dia a tutti loro un permesso di soggiorno per motivi umanitari e un titolo di viaggio con cui possano uscire dal limbo dell’accoglienza e andare a firmare un contratto di lavoro, che sia in Italia o in Germania. E dare così un senso ai progetti che hanno seguito finora. Perché l’integrazione la fa il lavoro. E se il lavoro è in Germania, in Danimarca o in Norvegia, non ha senso costringere le persone dentro una mappa per motivi burocratici. Altro che riforma Dublino, noi dobbiamo chiedere la libera circolazione dentro l’Europa dei lavoratori immigrati. Perché non possiamo permetterci di avere cittadini di serie A e di serie B. E guardate che lo dobbiamo soprattutto a noi stessi.
Perché chiunque di noi abbia dei bambini, sa che cresceranno in una società cosmopolita. Già adesso i loro migliori amici all’asilo sono arabi, cinesi, africani. Sdoganare un discorso razzista è una bomba a orologeria per la società del domani. Perché forse non ce ne siamo accorti, ma siamo già un noi. Il noi e loro è un discorso antiquato. Un discorso che forse suona ancora logico alle orecchie di qualche vecchio nazionalista. Ma che i miei figli non capirebbero mai. Perché io non riuscirei mai a spiegare ai miei bambini che ci sono dei bimbi come loro ripescati in mare dalla nave di una ong e da due giorni sono bloccati al largo perché nessuno li vuole sbarcare a terra.

Chissà, forse dovremmo ripartire da lì. Da quel noi e da quelle battaglie comuni. Dopotutto, siamo o non siamo una generazione a cui il mercato ha rubato il futuro e la dignità? Siamo o non siamo una generazione che ha ripreso a emigrare? E allora basta con le guerre tra poveri. Basta con le politiche forti coi deboli e deboli coi forti.
Legalizzate l’emigrazione Africa –Europa, rilasciate visti validi per la ricerca di lavoro in tutta l’Europa, togliete alle mafie libiche il monopolio della mobilità sud-nord e facciamo tornare il Mediterraneo a essere un mare di pace anziché una fossa comune.
O forse trentamila morti non sono abbastanza?
Gabriele Del Grande

Matteo Salvini: l’assalto all’Europa e gli ostaggi in mezzo al mare

E’ vero, l’Italia è stata lasciata sola, mentre la grande onda immigratoria è un problema e una responsabilità comune di tutti i paesi europei e dell’intero Occidente. Ma il ‘sistema Salvini’ , la chiusura dei porti, incammina il nostro paese verso una deriva illiberale, verso un’autarchia miope e suicida.

Per tutta la notte, poi sotto un sole infuocato, e non sappiamo ancora per quanto, la nave Aquarius è andata avanti e indietro tra l’Italia e l’isola di Malta con il suo carico dei 629 migranti. Abbiamo visto i video e le foto dei salvataggi in mare, le facce impaurite, i bambini, le donne incinte. Sono lì, aspettano. Il ministro dell’Interno Salvini ha chiuso i porti, decidendo di passare dalle parole ai fatti. Il suo è un braccio di ferro, una prova di forza, un messaggio non tanto a Malta, che i porti li ha già chiusi da un pezzo, ma all’intera Europa che “ha lasciato sola l’Italia davanti all’emergenza sbarchi”.

Ora, ci sono tanti modi per ‘far pressione’ per costringere l’Europa a farsi carico di una responsabilità che, ovviamente, non è solo italiana, ma europea, collettiva, di tutto il ricco Occidente. Probabilmente Pannella avrebbe iniziato uno sciopero della fame e della sete, qualcun altro avrebbe bloccato l’invio dei contributi italiani all’Europa, Matteo Salvini ha scelto invece un metodo antico – e il più odioso – lo stesso utilizzato da Billy the Kid, Renato Vallanzasca, o da qualsiasi rapinatore di banche. Per compiere la sua impresa, non ha puntato solo la pistola, ma ha preso degli ostaggi.
Mentre arrivano notizie di altre navi, altre centinaia di disperati, in viaggio per il Mediterraneo in cerca di approdo – per buona sorte la nuova Spagna del socialista di Sanchez ha aperto i suoi porti alla nave Aquarius – il nuovo governo giallo-verde vive la sua prima crisi d’identità. Alcuni esponenti pentastellati, e tantissimi simpatizzanti, non vogliono proprio mandar giù la ricetta draconiana imposta dalla Lega.

Intanto, sui social impazzano gli hashtag contrapposti. Da una parte #chiudiamoiporti, dall’altra #portiaperti , o anche #umanitaperta. E troppo semplicistico? Certo, scrivono i commentatori intelligenti, i problemi non si risolvono con gli hastag o con gli slogan, specie un tema enorme e complesso come quello della gestione di una imponente ondata migratoria. O quello di un’Europa mai come oggi incerta, divisa, periferica, sbeffeggiata: dalla Russia di Putin come dall’America di Trump.
Però – questa almeno è la mia idea – a volte, poche volte, nella storia di una nazione, prima ancora di approfondire, analizzare, mediare, viene il bianco e il nero. Occorre cioè prendere una posizione netta. Schierare la propria coscienza, i propri atti, la propria vita da una parte o dall’altra.
E’ successo con il fascismo e la Resistenza: rimanere buoni e zitti, accettare un regime illiberale o promuovere – e muoversi – per la libertà e la democrazia. E sta succedendo oggi. Il bianco e il nero. Senza sfumature. O vogliamo un’Italia blindata, sempre più vecchia e più povera di libertà (#chiudiamoiporti). Oppure crediamo in un’Italia aperta, coraggiosa, accogliente, capace di dialogo e integrazione (#portiaperti).
Le prossime settimane e i prossimi mesi non ci diranno solo o tanto la tenuta o la rottura dell’alleanza giallo verde. Morto un governo se ne fa un altro, e dalle nostre parti i governi muoiono molto più spesso dei papi, senza portare a necessarie sciagure. Ci aspetta invece un confronto – e uno scontro – molto più importante. Un quesito semplice quanto decisivo. Quale idea di Italia e di democrazia abbiamo in testa? Porti aperti o porti chiusi?

Porto Ferrara: una rivista non provinciale

di Pier Luigi Guerrini

Nel 1982, quando esce in edicola, a Ferrara si erano spente da tre anni le note musicali in fm di Radio Ferrara Centrale, dalla Torre dell’Orologio sulla piazza principale. Il Pci aveva traslocato da poco tempo da Via Carlo Mayr al “botteghino” di Via Porta Mare.
Fin dal primo numero, il mensile Arci dedica una forte attenzione al fattore culturale, la “mission” per eccellenza, dando spazio a ciò che si produceva sia dentro le Istituzioni, nel “palazzo”, sia nel tessuto associativo diffuso. Nelle due pagine centrali del numero d’esordio, Franco Farina (scomparso di recente), allora Direttore del Palazzo dei Diamanti e delle Gallerie d’Arte moderna e Musei, rispondendo alle domande pungenti di Stefano Tassinari, esprimeva con chiarezza il suo amore per Ferrara, presentava alcuni progetti in corso d’opera o in nuce, non nascondendosi però le difficoltà di rapporto col carattere dei ferraresi, generosi ma mai contenti di ciò che si proponeva.
Con un esempio paradossale, un po’ ruvido, Farina diceva “che se scomparisse il castello la gente se ne accorgerebbe soltanto perché verrebbe a mancare l’ombra durante le passeggiate in Corso Martiri. Si avverte molto la mentalità borghese del ‘cittadino’, quello che magari non si sente mai appagato dalle iniziative culturali, ma che se fosse proprietario del giardino situato dietro Palazzo dei Diamanti, penserebbe a costruirci un condominio”.
In ogni numero, ci sono rubriche fisse che danno conto puntualmente di avvenimenti, mostre, incontri attinenti l’ambito della poesia. I curatori di queste rubriche sono: Roberto Pazzi, che non disdegna di sviluppare piccoli bellissimi racconti tra fantasia, storia locale e attualità; Massimo Cavallina, di Ricerche inter/media (poesia fonetica e spettacol-azioni visive) che aveva sede presso la famosa agenzia libraria Einaudi gestita da Roberto Niceforo; Maurizio Camerani (mail art, biennali di arti visive e recensioni librarie).
Nel numero quattro si dà ampio spazio al ‘1° premio nazionale di poesia Castello Estense‘, promosso dalla rivista Poeticamente. Vengono riprodotte tre liriche di alcuni finalisti tra cui un’opera di poesia visiva di Romolina Trentini. Purtroppo, come spesso accade, alla prima edizione di un premio nazionale manca il seguito di una seconda edizione… Le responsabilità erano, a mio parere, da ricercare sia nel passo un po’ avventato degli organizzatori (che andavano comunque incoraggiati) e sia nelle Istituzioni che erano (sono?) ancora “ammalate” di un dirigismo culturale che decretava chi doveva essere sostenuto e chi, invece, no. Un esempio, una conferma di quanto abbiamo appena fermato sul foglio, lo troviamo nel numero successivo di ‘Porto Ferrara’ (il numero cinque). Si parla dell’organizzazione della manifestazione culturale di respiro nazionale ‘La nuova poesia’, curata dall’Assessorato alle Istituzioni Culturali del Comune di Ferrara. Viene annunciato l’arrivo a Ferrara (alla Sala Polivalente) di numerosi poeti e critici da tutta Italia. Tra i poeti attesi, in gran parte nati attorno al 1945, si citano Bianca Maria Frabotta, Alfonso Berardinelli, Vivian Lamarque, Sandra Petrignani, Adriano Spatola, Franco Cordelli, Valerio Magrelli, Giuliano Gramigna e Roberto Pazzi. Nel numero doppio (sei/sette) successivo, un ampio resoconto di Stefano Tassinari, dal titolo ‘La Polivalente in versi‘, analizzava senza sconti l’esito della manifestazione sulla “nuova poesia”. Accanto ad alcune, poche, valorizzazioni ovviamente soggettive (Magrelli e Pazzi), Stefano Tassinari descriveva la delusione, del folto pubblico accorso all’evento, per l’assenza di gran parte degli autori annunciati. Un’iniziativa lodevole, concludeva Tassinari, ma che “per attecchire deve mettere radici con un dipartimento specifico di cui facciano parte operatori artistici, persone in grado di dare continuità e profondità ad una ricerca”. Una proposta molto interessante che non sappiamo se sia stata presa positivamente in considerazione e l’eventuale durata nel tempo. Nel numero seguente, l’informazione è sul Convegno dedicato alla ‘Editoria femminista‘, organizzato dal Centro Documentazione Donna di Ferrara e coordinato da Luciana Tufani. Nel numero di dicembre (11/1982), Daniela Rossi, nell’articolo ‘Una rivista al femminile’, fa un resoconto critico di questa due giorni sulla stampa e l’editoria femminista. Il focus dell’articolo è sulla rivista Dwf (Donna Woman Femme). La direttrice Annarita Buttafuoco evidenzia il tema del rapporto sempre più difficile tra la sfera dell’ambito personale e la connessione col politico. Un politico che, anche e soprattutto, tra le donne appare sempre più frammentato. Col numero di gennaio 1983, la rivista chiude la propria breve storia. Una fine precoce, forse dovuta a difficoltà economiche del committente Arci.