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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


LA CURIOSITA’
Quando la casa della musica parla italiano

da MOSCA – E’ sempre una grande emozione quando si entra nel tempio della musica di una città estera, che di solito si chiama Casa della musica, Parco della musica o Auditorium e si ritrova l’Italia, immancabilmente. Anche qui, al Dom Musyki di Mosca, è successo, lo scorso venerdì sera. Non credo sia retorica dire che la nostra opera e la nostra musica sono un successo mondiale da sempre, che le note dei nostri grandi musicisti, compositori, baritoni o tenori risuonano in quei corridoi eleganti e moderni. Se poi all’entrata ti accoglie una fotografia gigante di Luciano Pavarotti, sei ancora più felice, anche perché quel grande artista proveniva dalla tua stessa regione (un po’ di sano campanilismo).

casa-della-musicacasa-della-musicaCi sediamo, quasi sprofondiamo, nelle comode poltrone della sala Svetlanov, io e la mia dolce metà (o, come si direbbe qui, la mia ‘vtoraya polovina’) e, poco dopo, le note dell’orchestra sinfonica Novaya Classica e del giovane pianista Nikita Galaktionov si librano leggere nell’aria. La musica di Arthur Rubinstein è una vera magia. La serata è dedicata a lui. Ma il bello deve ancora venire. Appare sul palco il baritono, un uomo abbastanza imponente, in elegante abito nero, dai capelli pettinati all’indietro, tenuti ben incollati da una tonnellata di gel che presto striderà con una voce angelica. Perché lui, Igor Manashirov, dopo un exploit iniziale da baritono, si trasforma in un mezzo-soprano, la sua voce sembra quella di una donna. Se si chiudono gli occhi è una donna che canta, ne siamo sicuri. La leggerezza è nell’aria. Sembra di stare altrove.

casa-della-musicacasa-della-musicaQuasi sicuramente poco noto in Italia, Manashirov è nato a Mosca, il primo gennaio 1964 (già nascere il primo gennaio può avere un certo significato…) e si è laureato alla facoltà di teatro musicale. Ha lavorato come insegnante di canto e chitarra, ha studiato in Italia con i migliori insegnanti di canto lirico, e preso lezioni da grandi maestri del bel canto, tra i quali anche da Luciano Pavarotti. Quando esegue le arie d’opera è unico, ha un repertorio classico ma anche jazz e moderno, è stato, ed è, ospite solista di importanti teatri d’opera in Russia e all’estero. Vincitore di tre concorsi internazionali di rilievo (Yugoslavia, nel 1993, ‘Mosca-transito’, nel 1995, e Concorso animatori, nel 2008), per la sua eccellenza e il suo servizio all’arte del canto ha ricevuto il titolo onorifico in Italia di Maestro.

Curiosando sul web, ho scoperto che è stato lanciato da un talent tipo The Voice (o, meglio, lo stesso talent, l’equivalente russo ‘Golos’) e che molti suoi virtuosismi si trovano in rete [ascolta] [ascolta ancora]. Io sono rimasta particolarmente colpita e commossa dal suo splendido e intenso “Parlami d’amore Mariù”, che il grande Vittorio de Sica aveva cantato nel film “Gli uomini, che mascalzoni”, su un testo scritto, nel 1932, da Cesare Andrea Bixio e Ennio Neri. Altri grandi l’avrebbero magistralmente interpretata, come Tino Rossi, Giuseppe Di Stefano, Mario Del Monaco, Mario Lanza, Fred Buscaglione, Luciano Pavarotti, Placido Domingo, José Carreras, Johnny Dorelli, Beniamino Gigli, Natalino Otto, Luciano Tajoli, Ferruccio Tagliavini, Mina, Luigi Tenco, Achille Togliani, Claudio Villa, Giorgio Gaber. Igor non è da meno. Se ero venuta per Rubinstein, ho scoperto altro. E se l’artista moscovita non è ancora troppo noto, vorremo che anche voi iniziaste a conoscerlo. Certi che noto lo diventerà presto.

Per saperne di più su Igor Manashirov visita il sito [vedi] e la pagina Facebook [vedi].

Mosca, Dom Musyki, fotografie Simonetta Sandri

Sorridi, il silenzio è d’oro

“Smile” ci mostra un mimo, vestito da pagliaccio, che ha sempre il sorriso sulle labbra, soprattutto durante il suo spettacolo in strada. Il mimo è sordomuto ma con la sua forza e la simpatia dimostra come ogni persona si può esprimere facendo leva sulle proprie qualità, al di là di ogni impedimento.

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Il mimo porge un fiore di plastica alla commessa

Il film introduce, con delicatezza, lo spettatore nel mondo della sordità, facendo emergere le discriminazioni di cui sono vittime molte delle persone che hanno questo problema. “Smile” non ha toni vittimistici, anzi, offre allo spettatore spunti di riflessione consentendogli di rendersi conto del pregiudizio allo scopo di superarlo, anche con un semplice gesto d’amore come lo può essere un colloquio tra un padre e suo figlio. Una chiave di lettura poetica che incontra l’amore, un sentimento vissuto nel suo difficile quotidiano.
Il mimo vive in una grande città dove ha amici e amiche, in particolare la commessa della pasticceria, che forse prova un sentimento per lui, a cui dona un fiore di plastica; ha anche un figlio, che vive qualche disagio a causa del suo stesso problema fisico.

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Sara Sartini interpreta la parte della commessa

Giunto a casa trova ad attenderlo il figlio, seduto sul divano, con ancora sulle spalle lo zaino della scuola. Il bambino è triste, non vuole più andare a scuola perché i compagni lo prendono in giro a causa della sua “diversità”. Il padre, con estrema dolcezza e soprattutto con verità, gli spiega che lui è un bambino uguale a tutti gli altri, che è bellissimo, forte e coraggioso: “le persone dicono un sacco di stupidaggini, meno male che io e te non dobbiamo sentirle”. Le sue parole entrano nel cuore del piccolo, pronto ad affrontare le difficoltà della vita.

“Smile” più che un cortometraggio è un atto di amore, che in fondo è la chiave di lettura di questa storia, come ha affermato anche lo stesso Pianezzi: “L’amore avvolge lo spettatore come una coperta, coccolandolo, facendolo sentire a suo agio, libero di emozionarsi”. Il soggetto e la sceneggiatura sono dello stesso Pianezzi, mentre le belle illustrazioni che impreziosiscono il film sono di Francesco Venturi. Un plauso va riservato al protagonista Martino Apollonio (ha recitato nell’episodio “Cuori randagi” del film “Eden” del regista Johnny Triviani), a tratti davvero commovente e all’ottima fotografia di Dario Di Mella. Il cortometraggio ha vinto la prima edizione del Festival Cinethica e il premio come miglior corto al Festival Internazionale di Mompeo 2012 oltre al premio come miglior attore assegnato a Martino Apollonio, per la sua straordinaria e “silenziosa” interpretazione.

“Smile” di Matteo Pianezzi, con Martino Apollonio, Fabio Raimondi, Sara Sartini, Fotografi di scena: Marco Mastrojanni e Claudio Cesarano, Direttore della fotografia Dario di Mella, 2011, Italia, durata 8’

Il film è visibile in edizione integrale su YouTube [vedi]

LA CURIOSITA’
Davanti all’università un “vaffa” poco accademico

IMG_1920Un vero e proprio tazebao in grande stile, un “vaffanculo” a tutto e tutti. È stato questo, stamattina, il risveglio del dipartimento di Studi umanistici di via del Paradiso che, sulla strada davanti ai cancelli dell’ingresso principale, si è ritrovato questa enorme scritta ad accogliere studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo.
Un’opera curiosa che stuzzica qualsivoglia passante a fermarsi e leggerla integralmente, una dichiarazione di sicuro tutt’altro che banale. Un semplice messaggio? Una bravata giovanile? Uno sfogo originale? Gli spunti di riflessione che vengono proposti sono molteplici e diversi: si condannano allo stesso modo l’amore e gli iPhone, l’identità di genere e i dopo-sbornia, il senso di responsabilità e il wi-fi lento. Una generazione e una gioventù arrabbiata o annoiata? Un modo insolito per manifestare il disagio diffuso dei giorni nostri o il solito atto di vandalismo frutto del gusto a trasgredire?
Il dibattito è aperto..

VAFFANCULO A:
Fra, l’amore, me, la vita, la morte, l’aspettativa, l’attesa, al dovere, ai piatti da lavare, te, al wi-fi lento, ai ritardi, al pressing, alla fottuta percezione, al futuro, ai SOLDI, alla birra che cade, alle cagaminchia, agli stronzi, ieri, alla testa, l’università, ad Alex l’Ariete, alle fighe di legno, all’identità di genere, alle galere(?), alla “c” che non si legge, al jazz dei fighetti, al senso del dovere, all’iPhone, al dopo sbornia, a chi ci vuole male, le responsabilità, allo sport!

Sabato 7 marzo si terrà un dibattito con Ignazio De Francesco dal titolo “Violenza in nome di Dio?”

da: organizzatori

Sabato 7 marzo ore 16, Monastero del Corpus Domini,via Campofranco 1

Intervengono: Ignazio De Francesco (monaco e esperto di islam) e Piero Stefani

Violenza in nome di Dio? Sembra un’assurdità, mentre in varie parti del mondo è un dato di tremenda attualità. Un tempo fu così anche nel nostro Occidente. “Le guerre di religione” sono storia non leggenda. Riflettere in prospettiva storica più ampia significa aiutare a comprendere anche il nostro difficile presente. Particolarmente rilevante il contributo di De Francesco, nella sua relazione egli infatti affronterà i seguenti temi: 1. Uno sguardo panoramico sul dibattito sul jihad nell’islam nell’ultimo secolo 2. Il caso specifico dell’Isis 3. La morte del jihadista come prova principe di una battaglia condotta nel nome di Dio

L’INCHIESTA
Rimborsi per il sisma, anche le banche tirano il freno

2.SEGUE – Superato in Comune l’esame della richiesta di rimborso per i danni del terremoto, balena all’ingenuo cittadino l’illusione di poter avere finalmente i soldi. Errore. C’è ancora da aspettare. La via crucis delle nostre pratiche, infatti, oltrepassata la prima stazione del calvario, approda allo scoglio delle banche. E anche gli istituti di credito ci mettono la loro arte. Dal momento in cui ricevono dal Comune le somme, al momento in cui ne prendono atto possono passare vari giorni, subito – poverine – subissate come sono di incombenze non ce la fanno a prenderne atto. Poi pigramente informano il creditore che i soldi sono arrivati: in tesoreria (o all’ufficio mutui e finanziamenti secondo i casi). A quel punto, dalla sede centrale devono passare alla filiale. Hai voglia… Sembra uno scherzo invece trascorrono normalmente otto-dieci-quindici giorni. D’altronde i soldi non hanno le gambe e da soli non camminano. Peraltro le banche (tutte) si giovano di uno splendido (per loro) machiavello inventato dalla Regione: i creditori si pagano solo al 10 oppure al 25 del mese. La giustificazione ufficiale è che si procede per pacchetti di pratiche, il che non impedirebbe però la possibilità di liquidare le spettanze negli altri giorni, ma questo è stato deciso e così va la storia.
Così, se “disgraziatamente” i soldi arrivano in filiale l’11, sino al 26 “purtroppo” non possono essere erogati. E questo ‘casuale’ inciampo forse ci fa capire la ratio del grimaldello… I malpensanti immaginano che le banche lucrino sulla liquidità e sui relativi interessi. “Ma non è così – obietta Alvaro Barbieri, responsabile mutui e finanziamenti di Carife – perché anche se la pratica è conclusa noi non abbiamo mai soldi in giacenza: la Cassa depositi e prestiti ce li rende disponibili solo in prossimità delle scadenze di pagamento. In banca restano tutt’al più due o tre giorni e noi non tocchiamo nulla. Certo lucrare sui capitali per le banche sarebbe vantaggioso, ma questo non accade”. Così assicura il responsabile Carife.
Anche le banche però entrano nel merito e vanno a ricontrollare i conti del Comune. “Se anche ci fosse la differenza di un centesimo io non posso pagare”, sostiene l’inflessibile Barbieri. Evidentemente la storia del centesimo non dev’essere un modo di dire, perché proprio di pagamenti bloccati perché nei conti “non tornava un centesimo” si aveva parlato con sconcerto l’architetto Marco Vanini, responsabile dell’ufficio sisma del Comune.

E infine, ultima chicca, per ricevere i soldi non è sufficiente avere un normale conto corrente nella filiale di destinazione. Ci vuole un “conto dedicato”. “Al cliente non costa nulla – spiega Barbieri -. In tutta questa faccenda le banche non ci guadagnano proprio niente”. Molti funzionari (e direttori) consigliano ai creditori di aspettare ad aprire questo “conto tecnico” fino a che non ci sono i soldi (“tanto che fretta c’è”), così capita magari che al termine dell’odissea descritta, quando il malloppo giunge a Itaca manca il salvadanaio. Ma ormai, fatto trenta… E passa qualche altro giorno, ma che vuoi che sia.
La morale di questa edificante italica vicenda può trarla ciascuno di noi.

2. FINE
leggi la prima parte dell’inchiesta [clic qua]

L’INTERVISTA Roberto Antonelli alla ‘palestra’ ferrarese degli attori: “Molto entusiasmo fra i ragazzi”

“Una bella esperienza che sarei felice di ripetere”, sono queste le parole di Roberto Antonelli, attore e docente del Centro sperimentale cinematografico di Roma, a Ferrara sabato per una full immersion di tre ore al Centro preformazione attoriale, il primo in Italia indirizzato agli adolescenti. Antonelli, che ha recitato sotto la direzione di registi come Monicelli, Zeffirelli, Festa Campanile, vede nella scuola un progetto di grande interesse: “Oltre all’entusiasmo dei ragazzi, che conferma quanto il teatro possa dare forza e divertire, lo spazio ha una buona acustica e si presta a molteplici attività artistiche”. In uno scatolone aperto ai lati, illuminato dalla luce dei telefonini, dentro il quale i visi degli allievi si sono arricciati nelle più differenti espressioni di micro e macro mimica, il docente ha trovato il piacere di un scambio di emozioni e conoscenze: “Ho visto delle faccette interessanti”, dice Antonelli.

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Un corso al Centro preformazione attoriale di Ferrara

Certo per fare il mestiere dell’attore, sostiene, oltre alla passione e al sacrificio ci vuole il guizzo del talento, l’occasione giusta, la capacità di calarsi nel personaggio al punto di suggerirne alcuni vezzi sempre che si abbia la fortuna di lavorare con un regista disposto ad accettarli in virtù di un feeling speciale con l’interprete. “Bisogna essere dentro il viaggio del cinema, del teatro, avere una pazienza infinita – spiega – Può capitare di restare sul set dall’alba al tramonto senza neppure recitare e magari farvi ritorno il giorno successivo. Ci possono essere progetti che partono e poi si arenano, è il gioco del cinema”. L’esempio arriva puntale e ha contorni ferraresi: “Mi è successo con Antonioni, mi vide recitare e, senza alcun provino, mi scelse per un suo film – racconta – parlammo per un paio d’ore, era un uomo con un grande senso dell’ironia nonostante fosse il regista dell’incomunicabilità. Fu un bellissimo incontro, ma poi del progetto non se ne fece nulla”. Come dire: nel cinema, in teatro e nel mondo dello spettacolo più in generale, nulla è scontato. E’ la sfida dell’attore, dell’artista. Ne era consapevole fin da quando frequentava l’Accademia nazionale di arte drammatica, dove fu allievo di Giorgio Bassani: “Mi interrogò su “I persiani di Eschilo”, non avevo studiato ma lo avevo ascoltato e andai benissimo. Per tre anni non mi chiamò più – prosegue – Gli stavo simpatico, era una fortuna, e quando i registi venivano a cercare gli attori faceva sempre il mio nome. All’esame finale sbagliai qualcosa e lui me ne chiese il motivo tanto era convinto della mia attenzione, non sapeva che quando lo fissavo dal primo banco, spesso il mio pensiero era altrove”.

Attore però lo è diventato, e persino insegnante, forse per questo oggi ha parole di elogio per il suo ex allievo Stefano Muroni e per la “gioiosa serietà”, testuale, con cui si spende per costruire una scuola a misura di adolescenti. Per parte sua Stefano Muroni, 25 anni, un portfolio professionale di spessore, non nasconde la soddisfazione di quanto messo in campo finora: “In quattro mesi abbiamo fatto il percorso di cinque o sei anni – spiega – oltre alla collaborazione col Giffoni film festival abbiamo concretizzato il gemellaggio con “l’Escuela de artes escénicas Pàbulo di Santiago de Compostela. Ogni anno i ragazzi avranno uno stage con un docente del Centro di cinematografia sperimentale di Roma, ciò significa offrire ai nostri allievi, adolescenti tra i 14 e i 20 anni, opportunità di qualità senza costi aggiuntivi”. L’intreccio di rapporti con realtà nazionali, internazionali e locali offre a quattro ragazzi del secondo anno di partecipare al Giffoni festival con altrettanti lavori senza dover passare la preselezione; due del primo, spesati di viaggio e alloggio, andranno in Spagna per una full immersion di recitazione in lingua spagnola e nove video degli allievi saranno trasmessi da Telestense.

In poche parole, insiste Muroni, la scuola ferrarese, già divenuta centro di produzione, è un’azienda culturale in attivo: “Un valore aggiunto per Ferrara – conclude – Proprio per questo speriamo di diventare parte di un investimento culturale delle istituzioni e di avere, attraverso il nuovo sportello dedicato della Camera di commercio, delle sponsorizzazioni per crescere sempre di più”.

Raccolta differenziata, la credibilità è fondamentale

Il tema è ampiamente affrontato da molti e da molto tempo, ma credo possa ancora richiamare l’attenzione di un lettore sensibile all’ambiente e per questo lo riprendo volentieri.
La credibilità del sistema di raccolta differenziata e delle aziende operanti nel settore è fondamentalmente basata sulla necessità di offrire garanzie circa il rispetto degli obiettivi, non solo in termini di percentuali di rifiuti raccolti in modo differenziato, ma anche in termini di qualità del differenziato stesso. Per coniugare questi vari fattori è necessaria l’adozione di strumenti collaudati e credibili, finalizzati ad aiutare le aziende ad organizzare le attività, razionalizzando i processi e riducendo le diseconomie ma, che al tempo stesso, offrano gli opportuni canali per valorizzare gli sforzi profusi e i traguardi raggiunti. Maggiore trasparenza deve essere posta ad esempio sui criteri con cui raggiungere dette percentuali, smascherando in alcuni casi risultati apparentemente positivi, ma ambientalmente discutibili. Confondere ancora tra raccolto e riciclato non conviene a nessuno, né utilizzare differenti criteri per definire le percentuali dei quantitativi raccolti.
A livello normativo vi sono direttive e norme specifiche da oltre un decennio; si ricorda solo che la normativa italiana ha indicato obiettivi graduali (ovunque disattesi) richiamando oltre ad elementi quantitativi anche la opportuna necessità di attenzione agli impatti del riciclaggio.
Da parte di molti esperti e dall’analisi economica di molti studi emerge ormai in modo chiaro come elemento centrale del sistema integrato dei rifiuti sia la complementarietà e non certo la contrapposizione fra diverse tecniche e soluzioni; la complessità del settore richiede dunque che siano messe in campo tutte le soluzioni possibili in modo sinergico ed integrato. La questione critica e fondamentale è allora con quali proporzioni e con quali obiettivi e questo lo si deve ritrovare attraverso una approfondita analisi delle peculiarità di quel determinato territorio (quali risorse, quali strumenti, quali criticità, quali possibilità, etc).
E’ complesso stabilire quale sia la soglia oltre la quale i benefici del recupero di materia sia vantaggiosa rispetto ai costi da sostenere e dunque cercare di far emergere la convenienza delle forme di recupero; ciò dipende anche in buona misura dall’effettiva risposta dei cittadini alle raccolte differenziate, dalla praticabilità di soluzioni come la raccolta porta a porta o il compostaggio domestico, ma anche da altre circostanze; l’opportunità di valorizzare il calore generato dagli impianti di incenerimento oltre che l’energia elettrica; la disponibilità di flussi di altri materiali che, miscelati ai rifiuti urbani, possono renderli più facilmente collocabili; le condizioni locali dei mercati dei materiali più difficoltosi da trasportare come gli inerti. Rimane allora da valutare quali sia la migliore soluzione possibile e per fare questo serve un’analisi di dettaglio sia del materiale immesso sia della capacità di raccolta differenziate e della possibilità di reale riciclo. A questo proposito, vale la pena ricordare che per “raccolta differenziata” si intende quanto separato alla raccolta in base al tipo e alla natura dei rifiuti (anche alla fine di facilitarne il trattamento), mentre per “recupero” si intende ogni operazione utile all’utilizzo di materiale in sostituzione di altri.
Al fine di offrire un contributo al complesso tema delle raccolte differenziate, di seguito si esprimono alcuni pareri e si pongono all’attenzione alcune osservazioni che si ritiene possano essere elementi di utilità nella predisposizione dei piani e nella impostazione dei sistemi di gestione. Naturalmente non si ha la presunzione di aver esaurito le questioni aperte né di avere soluzioni pronte, anzi si auspica che, anche con questo documento, sia possibile sviluppare un più ampio ed approfondito confronto su questi temi complessi, non più rinviabili. L’impostazione proposta, molto sintetica e puntuale, si auspica possa permettere l’arricchimento di ulteriori contributi.
Lo spirito guida della programmazione deve tendere alla ricerca del massimo riciclo (non della massima raccolta differenziata), indipendentemente o comunque senza limitarlo dal raggiungimento di uno specifico obiettivo generale che potrebbe essere non il massimo raggiungibile. E’ importante allineare tutti gli ambiti su livelli omogenei di raccolta differenziate, sempre però senza limitare le iniziative laddove tale obiettivo è stato raggiunto ed in cui è possibile ottenere risultati ancora migliori. Opportuno dunque definire con criteri innovativi le raccolte differenziate (possibilmente con obiettivi di riciclo per materiale, calcolato sulla base dell’immesso in sintonia con le direttive europee).
Le diverse tipologie di raccolta (differenziata e indifferenziata) vincolano infatti e spesso e dipendono dal tipo di trattamento che si intende avviare nella seconda fase e dal livello di rifiuto indifferenziato che viene avviato direttamente all’impianto. I livelli di recupero sono a loro volta funzione della capacità di riciclaggio dei materiali (carta, vetro, plastica, legno) che dipendono dal mercato del riciclaggio.
Dalla scelta di queste opzioni deriva la fase finale di uso ed impatto sul territorio. La scelta tra le diverse opzioni viene a dipendere dall’effettiva capacità del sistema di riciclare materia e recuperare energia usando il rifiuto come combustibile o ammendante, oltre che dalla specifica struttura territoriale. L’area provinciale nella definizione di questi criteri potrebbe ridurre l’opportunità di trovare soluzioni di area più vasta e dunque la possibilità di una generale pianificazione di un sistema integrato regionale.
Per quanto attiene più in generale le raccolte differenziate si ritiene che possa essere utile richiedere l’obbligo di certificazione di avvenuto riciclaggio. L’analisi della destinazione dei materiali derivanti dalle operazioni di raccolta differenziata è diventato un elemento fondamentale per la trasparenza del servizio prestato e per la garanzia di rispettarne le regole. I cittadini talvolta infatti sono scarsamente motivati alla collaborazione perché temono che poi il risultato finale non corrisponda a quello dichiarato; per troppi permane infatti ancora il dubbio che “tutto poi finisca in discarica”. Abbiamo dunque il dovere di certificare l’avvenuto riciclaggio con procedure e regole chiare, meglio se controllate e appunto certificate da terzi autorizzati per tale attività (vedi tracciabilità).
Anche la qualità del materiale raccolto legato ai concetti di impurità e scarto è un tema che richiederebbe maggiore attenzione. Deve crescere la consapevolezza che il materiale pulito da impurità (altri materiali) ha una migliore possibilità di riciclo e dunque un valore maggiore. Tale impostazione è già da anni presente negli accordi Conai che appunto remunerano la qualità del materiale, ma non pare sia stata sufficientemente sollecitata ai cittadini, spesso poco attenti su questo tema che deve essere meglio promosso. Un approfondimento si ritiene utile fare sul problema delle quantità totali degli imballaggi immesse sul mercato: poiché gli imballaggi rappresentano circa un terzo in peso e la metà in volume, si ritiene possano essere favoriti accordi con associazioni di categoria ed eventuali incentivi alla selezione ed alla riduzione dei volumi, valutando anche la eventuale possibilità di ampliare gli accordi con le associazioni dei gestori.
Argomento conseguente e di grande importanza è la realizzazione di concrete forme di incentivazione o di premio ai cittadini particolarmente virtuosi, solo per chi supera con il proprio contributo la media ottenuta sul territorio.

L’APPUNTAMENTO
A Ferrara torna l’Altroconsumo, un festival per affrontare il mercato con consapevolezza

La prima volta si sperimenta, la seconda si corregge il tiro, la terza si va a bersaglio. E’ quel che conta di fare il festival di Altroconsumo che, forte del significativo consenso tributato dai 25mila presenti all’edizione 2014, mira a consolidare il proprio successo. “Stiamo organizzando tantissime iniziative”, annuncia Rosanna Massarenti, storica direttrice della rivista che promuove prassi di consumo consapevole, sostenibile e intelligente secondo il modello del cosiddetto consumerismo. L’associazione Altroconsumo, attiva fin dal 1973 sull’onda delle istanze partecipative di quella vivace fase politica – è un’autorità in materia. E soprattutto ha affermato la propria credibile indipendenza. “Lobby e poteri forti non ci provano nemmeno più a condizionarci, sanno che non ci sono possibilità”.

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Rosanna Massarenti direttrice di Altroconsumo

A Ferrara, nel week end compreso fra il 23 e il 25 maggio, si terrà la terza edizione del festival del consumo critico. “La nostra forza sta anche nella rete: facciamo parte di un network internazionale con il quale condividiamo protocolli di lavoro e test sui prodotti”. Già, i test e ora i gruppi di acquisto sono due degli elementi di traino: “Con i gruppi d’acquisto contrastiamo il potere delle multinazionali opponendo loro la massa di aggregazione dei consumatori: tanti e uniti hanno la capacità di negoziare tariffe e condizioni sulle quali i singoli non possono ovviamente incidere”. I test, pezzo forte della rivista, si sono rivelati attrattivi oltre ogni previsione anche nelle due precedenti edizioni ferraresi del festival. “Le persone vengono, verificano, domandano. Abbiamo notato che persino dimostrazione estremamente pratiche, come l’uso di strumenti e prodotti, muovono l’interesse del nostro pubblico. Per questo intensificheremo i laboratori, come pure arricchiremo le consulenze su strumenti e servizi”. Arricchiremo le degustazioni di vino, caffè e altri alimenti, proposte stavolta a ciclo continuo. E si pensa a una nuova versione della mostra dell’inganno e delle illusioni, che tanta curiosità e tanto successo ha destato lo scorso anno”.

Al contempo saranno sviluppati anche dibattiti a livelli di eccellenza. Al riguardo, fra le novità del 2015, l’intensificazione dei rapporti con l’Università: “A Giurisprudenza e a Economia si parlerà di banche, di diritti dei consumatori, di soldi e finanziamenti”, conferma Rosanna Massarenti, ribadendo il ‘must’ dell’associazione: “Il cittadino deve sapere”. L’informazione, dunque, come base imprescindibile per una scelta consapevole. Un focus sarà sui diritti in rete, “una giungla nella quale tutti entrano, senza conoscere rischi e trappole”.
E un’altra chicca sarà l’approfondimento sulla ‘sharing economy’, che ormai va ben oltre l’utilizzo promiscuo delle auto. “A Milano è un successo, il boom è iniziato da un paio d’anni: prendi la vettura individuando la più vicina al luogo in cui ti trovi grazie ad un’apposita app, la lasci in qualunque parcheggio (anche riservato ai residenti) nelle zona di arrivo, non paghi la sosta, né la benzina, né il costo di iscrizione al servizio; è richiesta solo una quota fissa a chilometro percorso, con una spesa inferiore di circa otto volte a quella di un taxi…”.
Ma in tanti settori ormai ci si sta indirizzando verso il modello “sharing”, cioè di condivisione d’uso anziché di possesso. “Noi stessi, sul sito, suggeriamo ai lettori che ci seguiranno a Ferrara lo scambio di casa per ottenere ospitalità, e indichiamo le disponibilità qui in loco”.
E infine, ma non certo per importanza, al festival di Altroconsumo si parlerà anche di edilizia sostenibile. E dei patti segreti Usa-Europa, i cosiddetti accordi Tisa (o T-tip) “dei quali pochi scrivono”, stipulati a vantaggio delle multinazionali [leggi al riguardo l’articolo di Ferraraitalia]. Prevedono, fra l’altro, intese per la deregolamentazione del mercato dei dati che mettono a rischio la privacy di ciascuno di noi.

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IL FATTO
Muore Talus Taylor, l’ideatore dei Barbapapà: “Resta di stucco, è un barbatrucco”

Chi di noi, da bambino, non l’ha pronunciata almeno una volta, alla mamma che rimproverava per la marachella compiuta o a un amichetto che chiedeva indietro qualcosa che non si voleva restituire. “Resta di stucco, è un barbatrucco”. La frase cult dei bellissimi fumetti dei Barbapapà (dal francese ‘Barbe à papà’, zucchero filato) ci salvava dalle situazioni più difficili. Oggi quella frase la ricordiamo e la pronunciamo con un velo di tristezza, perché il creatore della colorata, gommosa e morbida famiglia di Barbapapà, Barbamamma e i sette Barbottini (o barbabebè), è scomparso a Parigi all’età di 82 anni. Talus Taylor, artista statunitense (nato a San Francisco) di origine irlandese, da sempre residente a Parigi, è stato uno dei fumettisti più noti degli ultimi tempi. Con un passato giovanile hippy, Taylor aveva creato, con la futura moglie Annette, i personaggi dei Barbapapà nel pieno del Maggio francese, ma di politico quella storia ha ben poco. Era un giovane insegnante di matematica e biologia e la sua Annette era una studentessa di architettura alla Sorbona. In un’intervista Taylor aveva detto che in quel bistrot francese, mentre gli studenti parlavano di filosofia e rivoluzione, lui cercava di conquistare Annette, iniziando a fare disegni semplici sulla tovaglia. Era nato così il personaggio e anche il loro matrimonio. Una storia carina e romantica.
Il fumetto di Barbapapà, è stato anche considerato come una delle prime opere portatrici di un messaggio ecologista, nato per caso in quel bistrot parigino dalla fantasia di quei due autori, l’architetto e designer francese Annette Tison e il professore di matematica e biologia americano. Dopo oltre 45 anni, il mondo di Barbapapà continua ad affascinare: semplice e coccoloso, con una vocazione ambientalista d’attualità. La serie a fumetti, firmata da Annette e Talus, fu pubblicata in Francia a partire dal ’70, edita in tutto il mondo in 30 lingue (in Italia da Mondadori) e ha dato vita a un film e a varie serie televisive ancora oggi molto amate, trasmesse anche dalla Rai: la famiglia dei Barbapapà sembra non conoscere crisi. Il cuore di tutti ne è stato toccato, non solo di noi bambini negli anni ’70 e ’80 ma anche di quegli stessi bimbi oggi genitori. Un messaggio che si trasmette a figli e che si trasmetterà ai figli dei figli, perché abbraccia un forte senso di appartenenza a una famiglia calda e accogliente, oltre che e a un ambiente da rispettare.

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Barbapapà

Ricordiamo tutti quel Barbapapà, una sorta di grosso e amichevole “blob” a forma di pera dal curioso colore rosa, che nasce spuntando dal sottosuolo del giardino di una normale casa di provincia. L’arrivo di questo essere alto quanto la loro casa spaventa gli adulti che vi risiedono ma non i due bambini che vi abitano, Francesco e Carlotta (in originale François e Claudine), che diventeranno i primi amici di Barbapapà. Questo nuovo amico diventerà uno speciale compagno di giochi, capace di modellare a suo piacimento il proprio corpo, assumendo la forma della cosa o dell’animale più indicato per risolvere una situazione. Guadagnatasi la fiducia del mondo in cui vive, il secondo problema è quello della solitudine: egli infatti è l’unico essere della sua specie che si conosca. Con l’aiuto di Francesco e Carlotta, Barbapapà parte per uno stralunato e poetico viaggio alla ricerca di una “Barbamamma”. La ricerca si conclude felicemente proprio nella casa dei due bambini: dallo stesso giardino da cui un giorno è misteriosamente spuntato lui, nasce infatti anche la Barbamamma, dalle forme più aggraziate, più “femminili”, di colore nero, alla quale Barbapapà dona subito un mazzetto di fiori rossi che andranno a comporre la vezzosa coroncina che Barbamamma porta sul capo. Barbapapà e Barbamamma decidono, dunque, di crearsi una famiglia: dall’unione dei due nascono quindi sette barbabebé, ognuno con una caratteristica ben definita: Barbabella, viola, la bella della famiglia che ama gioielli e profumi e odia gli insetti; Barbaforte, rosso, lo sportivo della famiglia; Barbalalla, verde, la musicista di casa che sa suonare praticamente ogni strumento; Barbabarba, nero, l’artista di casa, con una pelliccia nera imbrattata dei colori che usa per dipingere; Barbottina, arancione, stereotipo dell’intellettuale, che porta gli occhiali e ama leggere; Barbazoo, giallo, amante della natura, un ecologista convinto, anche dottore e veterinario; Barbabravo, blu, scienziato e inventore della famiglia.

Erano davvero carini, teneri, simpatici, allegri, curiosi, divertenti, originali. Abbiamo tutti giocato con quelle figurine, le abbiamo plasmate con Pongo e Das, le abbiamo colorate, disegnate, guardate alla TV o sfogliate nei giornalini di fumetti. Ci mancheranno, ci mancherai Talus. Sparito come in un barbatrucco. Buon viaggio.

L’OPINIONE
La Lega e il linguaggio dopo Auschwitz

Ho letto la cronaca della manifestazione della Lega a Roma. Un corteo composto di presenze inquietanti: croci celtiche, striscioni con il volto di Mussolini, Casa Pound. Le frasi pronunciate da Salvini: violente, intolleranti, volgari. L’isteria dell’on. Melloni in rappresentanza dei “Fratelli d’Italia”, altra sigla di nostalgici di una destra aggressiva e anti-europea. Sì, perché non bisogna dimenticare che la peggiore destra italiana ha le sue radici nella coppia Mussolini-Hitler che scatenò una guerra mondiale contro le democrazie e contro l’Europa. Se possedessero un minimo di pudore e di senso della storia tragica del novecento, i leghisti e i “Fratelli d’Italia” modererebbero il linguaggio da crociata contro l’euro e contro l’Unione Europea.
Ma vorrei tornare al tema del linguaggio. Chiedo soccorso ad una delle nostre più capaci filosofe: Donatella Di Cesare. Cito da un suo libro importante: “Bisogna pensare il linguaggio a partire da Auschwitz, dopo Auschwitz. Si potrebbe chiedere: che cosa c’entra Auschwitz? E’ a partire da ‘quello che è accaduto’, e dopo ‘quello che è accaduto’; è da quella situazione-limite, dove il limite della ‘conditio humana’ è divenuto centro della ‘conditio inhumana’, e l’eccezione si è fatta regola, che è indispensabile ripensare il linguaggio, riflettere responsabilmente sul parlare e sul comprendere. Ogni questione di linguaggio e di uso delle parole è sempre questione eminentemente morale e politica.” ( “Utopia del comprendere” Il Melangolo). Dedico questa riflessione ai disinvolti dirigenti della Lega che, per una miserabile manciata di voti, intossicano le menti dei loro seguaci con veleni razzisti e slogan violenti che possono creare solo guai.
Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

IL FATTO
Dopo 12 anni di restauri riapre il Museo nazionale di Baghdad

Di fronte ai terribili recenti saccheggi e distruzioni delle antichità conservate nel Museo di Mosul (statue, fregi e altri oggetti d’arte pre-islamici qui esposti, ma in parte, per fortuna, copie in gesso), una buona notizia: il 28 Febbraio il Museo nazionale di Baghdad ha riaperto i battenti. A fondare quello che è considerato uno dei più importanti musei del mondo fu, nel 1923, re Feisal I, in una sede provvisoria nell’antico serraglio. Tre anni dopo Gertrude Bell, direttore onorario delle antichità, ottenne il trasferimento del primo nucleo della collezione in una sede più ampia, in Ma’mun Street, ma col tempo l’edificio si rivelò angusto e, nel 1957, iniziò la costruzione dell’Iraq Museum, inaugurato dieci anni dopo, nel 1967.

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Ali Al-Saadi/AFP/Getty Images

Nella collezione vengono documentate, in ordine cronologico, tutte le epoche della Mesopotamia, dalla preistoria alla dominazione islamica. Ben 12 anni di lavori, restauri, difficoltà e traversie burocratiche e economiche (fra le quali anche una riapertura parziale e provvisoria grazie a contributi dello Stato italiano, nel 2009), le preziose testimonianze della storia mesopotamica, a cominciare dai monumentali tori alati, sono oggi ancora visibili. All’epoca di Saddam Hussein, qualcuno l’aveva battezzato come il “negozio” del dittatore, perché inaccessibile ai cittadini comuni, elitario. Chiuso allo scoppio della seconda guerra del Golfo (2003), con l’arrivo delle truppe americane, nel pieno caos furono i saccheggiatori e i ricettatori di tutto il mondo ad avere la meglio. Si stimavano in circa 15.000 i reperti trafugati, un terzo dei quali è, però, stato recuperato durante questi anni di chiusura, grazie anche a collaborazioni internazionali. Il premier iracheno in persona, Haider al-Abadi, è intervenuto all’inaugurazione del 28 febbraio, quella di una collezione che copre almeno 7.000 anni di storia, nei quali la Mesopotamia viene considerata “la culla” della civiltà.

riapertura-museo-baghdadDopo il tradizionale taglio del nastro rosso, il premier iracheno ha dichiarato: “Oggi il messaggio che arriva da Baghdad, dalla terra di Mesopotamia, è chiaro: tuteleremo la civiltà e daremo la caccia a quanti vogliono distruggerla’. Il museo ha riaperto al pubblico il 1° marzo, il biglietto costerà 1.500 dinari iracheni (poco più di un dollaro), 10 dollari per i visitatori arabi e 20 dollari per gli altri stranieri. Al momento della riapertura, ha scritto la Reuters, il museo era “pieno di visitatori che volevano vedere un passato che appartiene a momenti migliori”. Ma cosa si può vedere nel museo? Reperti di una fase del periodo ellenistico (dal 312 al 139 a.C.), tra cui una statua di Eracle con in mano una clava e una pelle di leone, ritrovata a Hatra, un sito Unesco oggi nelle mani dell’Isis. Un altro manufatto di un certo interesse è una statua di Re Sanatruq I, che regnò sempre a Hatra dal 140 al 180 d.C. La simbologia è quella regale, con un’aquila sul capo ad ali aperte. Si può vedere ancora poco, si dice, e i timori per la riapertura restano. Ma la miglior risposta agli attacchi alla cultura resta la cultura stessa.

Sono stati molti i progetti di cooperazione italiana mirati al recupero e al restauro dei numerosissimi reperti archeologici dispersi dopo le guerre. Il Ministero italiano degli affari esteri ha in larga misura contribuito alla riapertura del Museo nazionale di Baghdad, ma ha anche dato vita al museo virtuale, nelle cui numerose sale sono stati anche ricostruiti “pezzi” imperdibili della ricca civiltà mesopotamica [vedi].

LA STORIA
Concerto in rosso per Anna Guarini, rievocazione dei drammi della corte estense

Nella preziosa cornice di Casa Romei un evento davvero eccezionale è stato proposto da Bal’danza con la regia e la conduzione di due eminenti studiosi di musica rinascimentale: Elio Durante ed Anna Martellotti. E’ il concerto drammatico per Anna Guarini, cantatrice estense, che è stato messo in scena per ricordare la figura straordinaria e tragica della grande virtuosa.
La vicenda, che sembra inserirsi perfettamente nella leggenda nera della corte estense, si svolge negli ultimi anni del dominio degli Estensi a Ferrara quando implacabilmente ci si avvia alla devoluzione allo stato della Chiesa di questa città che per due secoli è stata tra gli esempi più singolari della cultura rinascimentale che sembra estinguersi in quei “lampi sublimi” caratterizzati, secondo la formula longhiana, da quei pittori, come il Bastianino, che operarono a Corte negli ultimi decenni del Cinquecento.
Alfonso II è l’ultimo duca legittimo di Ferrara: non ha eredi e ancora una volta, secondo la politica matrimoniale del tempo sposa, in terze nozze, la quindicenne Margherita Gonzaga che diventa duchessa di Ferrara dopo Lucrezia de’ Medici e Barbara d’Austria. Nell’entourage del duca si sa che Alfonso non ha possibilità di generare ma si insiste affinché venga preservata la dinastia con questi matrimoni politici.
Nel 1563 nasce a Ferrara Anna Guarini, figlia del celebre poeta Battista. Viene educata al canto e alla poesia, passioni esplicite del duca che già a corte si avvale dell’opera del grande Luzzasco Luzzaschi e di altri musici eccellenti. Dolo le nozze con Margherita nel 1579, fa il suo ingresso a corte un’altra dama cantatrice la cui fama già correva per le corti italiane: Laura Peperara. Le due giovani sono al servizio della duchessa. Comincia così la stagione della “ musica secreta”, concerti riservati agli intimi della corte a cui daranno il loro contributo poeti e musicisti estensi. Dopo poco tempo nel 1583 una terza cantatrice si unisce a loro, la grande Livia d’Arco della celebre famiglia mantovana. Così tre donne che cantano e suonano, Anna il liuto, Laura l’arpa, Livia la viola da gamba, costituiscono l’ensemble perfetto del concerto delle dame. Tarquinia Molza (e chi non si ricorda il grande dialogo tassiano?) sarà assunta come consigliera delle musiche. Val la pena di evocare questa “aura” culturale che spira dalle severe mura del Castello ormai divenuto Palazzo estense. E Battista Guarini, Torquato Tasso, Angelo Grillo, tra gli altri, scrivono madrigali e poesie per le musiche di Luzzaschi e dal 1594 per quella sublime di Gesualdo da Venosa. Frattanto si prepara e scoppia la tragedia feroce dell’uccisione di Anna Guarina. Si mormora a corte che la Guarina abbia una relazione segreta con il conte Ercole Bevilacqua, lo spericolato e fascinoso comandante dei cavalieri ducali. Furioso, il marito, nonostante la diffida del Duca, cova la sua vendetta. Dopo la morte di Alfonso II e l’elezione di Cesare d’Este non riconosciuta dal Papa con la conseguente devoluzione alla Chiesa di Ferrara, Ercole Trotti, marito di Anna l’uccide nella sua villa di Zenzalino il 3 maggio 1598. “Il Sig. Ercole Trotti […] trovando a dormire Anna Guarini sua Moglie […] con un rasoio li tagliò la gola e con lui avendo un montanaro con un manarino la fece finire di vivere.” Al barbaro omicidio segue anche la ‘damnatio memoriae’. Il padre fa seppellire Anna nella chiesa di santa Margherita Martire con una lapide che il legato papale fa rimuovere in quanto potrebbe essere foriera di altri “scandali”.
Ma la stagione dei concerti segreti è alla fine. Luzzasco nel 1601 dedica a Pietro Aldobrandini, nipote del Papa, i Madrigali per cantare e sonare dove per sempre sono raccolte le musiche di quelle “Dame principalissime”.

concerto-drammatico-anna-guariniSu questa traccia da cui ricavo queste note, in attesa di leggere e presentare il libro che i due studiosi dedicheranno a Anna e alla musica segreta delle Dame, si è svolto il concerto raccontato dagli autori e interpretato da tre sensibilissime “cantatrici” che potrete riconoscere nella foto: a sinistra Santina Tomasello, al centro Miho Kamiya, a destra Gloria Banditelli accompagnate ai clavicembali da Valeria Montanari e Chiara Cattani. Di estrema efficacia Anna Guarini (Santina Tomasello) che avvolta in un velo nero canta di Luzzasco “Ad Dominum cum tribularer clamavi” che difende la sua dignità o il sublime madrigale di Gesualdo, “Dolcissima mia vita”. Una grande performance di queste preziose occasioni che Bal’Danza ci offre e che illuminano di una nuova vita i luoghi, le opere, l’arte di una non dimenticata stagione della nostra storia. La nota più delicata. La bambina di Miho Kamiya silenziosissima che ascolta la mamma cantare poi, quando ritorna a ringraziare il pubblico, fieramente le regge lo strascico. Potenza della bellezza e della vita che comincia.

Dall’Expo a Espoo, ecco il cibo per la mente

Mi viene da giocare tra Expo e Espoo. Grafie e assonanze sono così intriganti che è difficile vincere la tentazione. Ma cos’hanno a che fare Expo e Espoo tra loro così distanti? Da un lato l’esposizione universale sulla alimentazione e la nutrizione, dall’altro Espoo, una grande, importante città della Finlandia. Pare che ‘espoo’ in finnico significhi ‘pioppo’. Proprio come quelli delle nostre campagne e delle nostre golene, così la quadratura è glocale. Espoo si occupa di nutrire l’intelligenza delle persone, è conosciuta come una delle più importanti città d’apprendimento del mondo.
È successo quando l’Unione europea ha dichiarato il 1996 anno della formazione permanente. Sul tema a Espoo si è tenuta la conferenza internazionale “The Joy of Learning” e questo evento ha indotto gli amministratori della città di Espoo a riconsiderare le attività di apprendimento e a guardare alla formazione continua come strumento di sviluppo della comunità. L’amministrazione della città ha nominato un comitato per promuovere l’apprendimento permanente e per migliorare la consapevolezza della sua importanza per lo sviluppo della città.
Nel 1997 Espoo è entrata a far parte dell’Associazione internazionale delle città educative, del progetto europeo ELLI, relativo all’apprendimento permanente, collegandosi a partner provenienti da sedici paesi differenti e aventi come focus la formazione degli adulti.
Prende così avvio un processo che ha come punto d’arrivo quello di creare il più ampio contesto di conoscenze e di apprendimenti possibili. Le strategie di apprendimento permanente si integrano con i valori e la visione della città. Se ne analizzano i vantaggi e gli svantaggi. Si individuano i bisogni formativi di tutti i soggetti attivi, dai giovani, agli adulti, alle imprese. Gli impegni dell’Amministrazione e i possibili partner per fare della città una comunità che apprende.
Le attività del progetto Learning city sono uno strumento per lo sviluppo della città, e, come tali, vengono incluse nei normali procedimenti amministrativi, nelle strategie e nel bilancio della città. C’è un gruppo esecutivo e c’è un gruppo dirigente, un’ampia partecipazione di differenti settori della città. Il gruppo dirigente è guidato da un delegato del sindaco o da un delegato dell’assessore all’istruzione e alla cultura. Inoltre ci sono gruppi di consulenza e gruppi di lavoro formati da esperti soprattutto nel campo dell’istruzione e dell’amministrazione comunale. Questi gruppi variano a seconda delle problematiche da sviluppare o dei progetti nazionali o internazionali da realizzare. C’è anche un comitato di rappresentanti di aziende e di fornitori di apprendimento. Di grande importanza è la cooperazione con partnership della vita economica della città e della regione, il vantaggio reciproco di questa sorta di cooperazione nel condurre in porto comuni progetti concreti. Il “Learning city project” è diretto da un manager il quale è responsabile dell’intera realizzazione del progetto, oltre che della cooperazione internazionale e dell’implementazione dell’agenda della learning city.
L’obiettivo è quello di fare della cultura operativa parte integrante della vita quotidiana dei cittadini di Espoo. Istituzioni educative e ambienti di apprendimento puntano a fornire saperi di alta qualità, dalle conoscenze, alle capacità, alla preparazione, alla condivisione di valori, agli atteggiamenti necessari per realizzare uno stile di vita a dimensione delle persone e della tutela dell’ambiente. L’idea è promuovere a partire dall’infanzia e per tutta la vita l’aumento della consapevolezza degli abitanti di Espoo rispetto ai temi dell’ambiente, del benessere, dell’economia, della cultura e delle loro relazioni per uno sviluppo sostenibile.
La formazione permanente è incorporata nei piani per la cura e l’educazione della prima infanzia, nei curricula delle scuole, dall’istruzione primaria a quella superiore. È parte integrante dell’attività quotidiana di tutte le organizzazioni educative in Espoo.
L’obiettivo è fornire un apprendimento di alta qualità, di implementare valori e atteggiamenti indispensabili alla comprensione e alla realizzazione di un diffuso stile di vita sostenibile. Il progetto di Espoo è sostenuto da una rete a cui collaborano le istituzioni scolastiche, i servizi culturali, i servizi sociali e sanitari, i tecnici dell’ambiente, i servizi del Comune, l’Università di Scienze Applicate, la Metropolia university, l’Università di Helsinki, così come ricercatori, diverse aziende private e associazioni impegnate per la promozione del benessere.
L’impegno riguarda allo stesso modo l’apprendimento non formale e informale, come quello formale. Lo scopo della rete creata a Espoo è quello di sviluppare una strategia per aiutare tutte le persone nella formazione permanente, a vivere in modo sostenibile nel presente e in futuro.
Il progetto è, dunque, pensato e realizzato come strumento di crescita per l’intera città e comunità, non solo per le istituzioni scolastiche e culturali, andando oltre gli ambienti tradizionali dell’apprendimento e i modi di pensare il ruolo e i compiti dell’apprendimento stesso.
L’apprendimento è creativo in una città creativa. Tutta la città è ambiente di apprendimento, perché esso si realizza attraverso le opportunità offerte nei campi più disparati, perché il successo della coesione sociale ha il suo fondamento principale nei processi di apprendimento, perché la preoccupazione è quella di essere una città al servizio dell’apprendimento per l’intero arco di vita dei suoi abitanti.
L’apprendimento avviene ovunque e in tutti i luoghi della vita quotidiana, a scuola, al lavoro, in famiglia, nel tempo libero e nella vita comunitaria.

L’INCHIESTA
Rimborsi per il sisma, l’odissea dei creditori

Tempi lunghi per i rimborsi dei danni del sisma. Lunghissimi. Il Comune di Ferrara svolge un’istruttoria accurata, al punto da ripetere per almeno due volte tutte le verifiche: la pratica presentata viene esaminata da un primo nucleo di valutazione che la istruisce e poi la trasmette al gruppo incaricato di predisporre l’ordinanza del sindaco che ripete di nuovo tutti controlli, magari eccependo sul lavoro fatto nel grado precedente. E alla fine se l’importo erogato è relativo a lavori in corso, a conclusione si deve verificare di nuovo che tutto quadri. E’ un po’ come in tribunale, con vari gradi di giudizio. E gli effetti non sono tanto differenti: si sa quando un ‘processo’ incomincia, non quando finisce. L’unica certezza è che il creditore dovrà avere pazienza, molta pazienza.

Trecentonovantatré sono le richieste di contributo accettate dal Comune di Ferrara su 2.102 presentate al 30 gennaio scorso. Venti milioni e trecentomila gli euro assegnati, dei quali dieci milioni 663mila già erogati ai primi 280 beneficiari. Gli altri sono in attesa. “Ora ci stiamo occupando degli interventi più onerosi, quelli relativi alle ricostruzioni vere e proprie: parliamo di importi sino a due, tre milioni ciascuno”. Marco Vanini è il responsabile dell’ufficio sisma e assieme ad altri undici colleghi, ingegneri o come lui architetti (e un amministrativo), già dal giugno 2012 si occupa delle pratiche relative ai rimborsi per i danni causati dal terremoto. “All’inizio eravamo solo in cinque, poi quando dopo circa un anno sono cominciate ad arrivare numerose istanze il numero è aumentato”.
Da più parti arrivano lamentele per la lentezza con cui procedono le istruttorie e si assegnano i soldi a chi ne ha diritto. Cosa dice la la normativa regionale a riguardo? “Dalla presentazione dell’istanza dovrebbero trascorrere massimo 60 giorni, ora portati a 90”. E invece? “Invece poi quasi sempre le domande sono incomplete e richiedono dunque integrazioni che allungano l’attesa”. In media quanto si aspetta? “Difficile fare una media”. In realtà un media matematica non è così difficile da calcolare, ma il prudente architetto Vanini non si sbilancia. Di certo c’è chi ha atteso anche un anno e mezzo prima di avere i soldi sul conto corrente.

Ma perché tanto tempo? Il Comune prevede due livelli di controllo. Il primo di merito. “Valutiamo le spese, la correttezza dei computi metrici, il rispetto delle normative sulla sicurezza, gli aspetti strutturali”. Se tutto è in ordine scatta il benestare e si predispone l’ordinanza del sindaco che sancisce il diritto al rimborso. A quel punto l’atto viene notificato alla banca che prenota alla Cassa depositi e prestiti la somma stanziata. “Quando però si procede a Sal (cioè a rimborsi in stato progressivo di avanzamento dei lavori, ndr) come avviene di norma, si rende ovviamente indispensabile un’ulteriore verifica, che comprovi il rispetto delle previsioni”. Comprensibile. Meno comprensibile invece è che lo stesso criterio si applichi anche a chi richiede il rimborso di lavori già effettuati e magari pure pagati. Anche in questo caso il fascicolo passa da un primo nucleo di istruttori a un secondo, con le medesime competenze (trattandosi sempre di architetti ed ingegneri) che prima di emettere l’ordinanza ripassa al setaccio per la seconda volta la documentazione già analizzata dai colleghi del medesimo ufficio, con un significativo e poco giustificato incremento dei tempi di attesi”. Anche perché un’ordinanza può richiedere tre mesi per essere prodotta. “Troppi?” ci domanda il responsabile, e di rimando ci mostra un faldone così pesante da sembrare un arma impropria… “D’altronde i controlli sono necessari, stiamo assegnando soldi della comunità, denaro di tutti, ci vuole senso di responsabilità”.
“E poi ci sono le telefonate – aggiunge – Ne arrivano tantissime. Rispondere a tutti e con cortesia è un dovere, ma richiede anche parecchio tempo”. Finirete entro l’anno l’esame delle pratiche pendenti? Vanini spalanca le braccia. “Forse sì, forse no. Io di certo terminerò il mio lavoro, perché a dicembre vado in pensione”.

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PAGINE DI GIORNALISMO
Vita da giornalista (meglio che lavorare)

Etaoin etaoin etaoin: sono nato professionalmente, giornalisticamente, quando questa frase iterativa aveva un significato, oggi è soltanto un oscuro messaggio, cento milioni a chi sa dire che cosa significhi, per facilitare posso aggiungere la parola asfongobeis. Ora tutto chiaro, no? Sovente, negli articoli dei giornali di una volta (poche pagine, quasi niente pubblicità se non quelle di un callifugo che si trovava su tutti i fogli oppure della miracolosa pomata per rassodare i seni stanchi e afflosciati delle donne e farli ergere come a sedici anni), dicevo che spesso gli articoli dei quotidiani finivano misteriosamente con la frase incriminata. Per esempio: “…e con tre coltellate il marito malfidente ha ucciso, accusandola d’infedeltà, la moglie. Etaoin etaoin etaoin asfongobeis”. Pareva un saluto in greco antico. Invece, era semplicemente una riga di piombo, anzi due, che il linotipista faceva scendere sulla colonna ancora bollente, ma non più allo stato fuso, per pareggiarla e con la mano sinistra faceva una strisciata in verticale sui primi tasti delle sei file della consolle e usciva la riga con tre etaoin, poi, con la mano destra, compiva lo stesso gesto ma in orizzontale e sulla colonna rovente cadeva la riga di piombo con asfongobeis, ora sarebbe necessario spiegare che cos’era la linotype, com’era fatta, che funzioni aveva nella stampa a caldo, ma andremmo fuori tema, c’era la linotype e basta, e c’erano i linotipisti, coloro che trasferivano sul piombo i manoscritti (si scriveva molto a mano, soprattutto i collaboratori intellettuali) e i dattiloscritti: erano bravissimi i linotipisti, veloci, precisi. Etaoin etaoin etaoin asfongobeis. Pensieri vaganti in un momento in cui i ricordi vanno a quando molto lavoro umano era ancora manuale, il cellulare non era il telefonino ma semplicemente il furgone per il trasporto dei detenuti, i telefonini non esistevano e per chiamare il giornale da fuori città si chiedeva alla centralinista una “R”, una “rovesciata”, voleva dire avere la precedenza sulle interurbane normali e far pagare la chiamata al giornale. Era tutto più faticoso e più semplice. Adesso che tutto è semplice le cose sono maledettamente complicate.

Forse la vita comincia quando e dove finisce la ragione, era una massima di mia nonna Adele, nata Sgallari, ma potrebbe anche essere di Kierkegaard o, ancora più indietro, di Giordano Bruno in attesa del rogo purificatore che la Chiesa riserva a chi parla o pensa troppo. L’apostema (termine scelto con cura maniacale per la sua bruttezza) personalmente l’avrei affisso all’entrata delle grandi città dei morti, e pure dei piccoli cimiteri, creati, in nome di Dio, per la gloria dei vivi, meglio di quell’orribile motto che i nazisti mettevano sui cancelli dei loro lager, “Arbeit macht frei”, stupido, arrogante, feroce: il lavoro stanca l’uomo, mica lo rende libero, i padroni hanno sempre fatto lavorare i loro servi, ritagliando per se stessi ampi spazi di libera inettitudine, mascherata sotto l’ipocrita formula “il signore sta studiando”, mai visto un signore (o una signora) zappare la terra, al massimo sono stati notati, i signori, mentre curano le camelie, operazione che, come si sa, comporta molta fatica. Camelie oppure orchidee. Se i padroni avessero amato lavorare, certamente a curare le camelie avrebbero mandato i loro operai, ai quali viene raccomandato di non pensare, pensare, infatti, è pericoloso e il padrone ha il dovere di salvaguardare la salute psicofisica dei dipendenti. E avrebbero riservato a se stessi, i padroni, l‘ambita fatica negli altiforni. E’ una delle ragioni principali dell’atteggiamento paternalistico e protettivo degli editori nei confronti dei loro giornalisti, che sono gli zappatori del pensiero, i manovali dell’intellettualità, guai se un giornalista comincia a pensare, il suo capo servizio subito lo guarda con sospetto, il sospetto poi viene comunicato al direttore, da questi all’editore e, alla prima occasione propizia, il cogitante viene allontanato con le buone o con le cattive maniere, messo da parte, confinato nel limbo degli impuri rivoltosi nemici della società: c’era un mio collega per il quale era stato ritagliato un solo compito, trascrivere, mandandoli poi in tipografia, gli annunci del mercatino dell’usato dei lettori, centinaia ogni giorno e lui scriveva, scriveva, di tanto in tanto qualcuno gli passava dietro, gli batteva con la mano su una spalla e gli diceva “beato te, Paolo, che fai il giornalista e viaggi”.

Parlare dei giornalisti e del giornalismo oggi significa tentare di spiegare le ragioni di una società stupida, violenta, ignorante, in cui i giornalisti sono gli strumenti del potere per imporre alla gente il proprio interesse. Il potere è un’enorme, furba, indifferente bestia pelosa. E il popolo moderno non viene educato secondo regole del buon comportamento, siccome voleva un antico codice borghese, anche questo ormai dimenticato – la formula era: come un buon padre di famiglia – ma dai programmi televisivi pensati per le casalinghe meno attrezzate culturalmente e dalle centinaia di settimanali-bagascia nei quali gli argomenti più impegnati riguardano le tette siliconate di ragazze decerebralizzate e i muscoli taroccati di qualche maschio enfiato con gli anabolizzanti, come le galline e i vitelli da macello, la cui carne si sgonfia e si affloscia appena sente il brucior del fuoco. Il buon giornalista è quasi sempre colui il quale vende meglio la propria carne e il proprio cervello e il grande giornalista è un intellettuale che conosce meglio degli altri l’inesauribile gioco del mercato delle idee, non si deve prestar fede a chi presenta figure romantiche di scrittori che hanno saputo opporsi con il proprio petto agli insulti della violenza del potere, gettare la stampella contro il nemico, chi veramente lo ha fatto è stato impallinato, umiliato, avvilito, confinato e insultato: un grande giornalista, Guido Nozzoli, forse il migliore tra gli italiani inviati durante la guerra in Vietnam, venne richiamato in patria, scriveva cose sconce, cioè la verità su quella nefanda avventura del capitalismo non soltanto americano, ecco, Nozzoli diceva di avere un unico censore, il suo barbiere di Rimini, nella cui bottega tornavano di tanto in tanto anche Federico Fellini e Sergio Zavoli, amici antichi, sì che il negozio era diventato luogo di ritrovo, di discussione, di dibattito ed era sempre il parrucchiere a dirigere, a giudicare, a condurre come un Santoro da bottega e, a volte, a ironizzare sui tre suoi amici famosi: quando ero in Vietnam – raccontava Guido – e descrivevo un’operazione bellica e mi accorgevo di aver usato una parola desueta, immaginavo di vedere il mio barbiere uscire dalla sua boutique e urlare il mio nome facendo seguire il grido da una sonora pernacchia. A quel punto Nozzoli cancellava il termine sostituendolo con uno più popolare, “che Dio benedica il mio barbiere”, concludeva. L’eretico anticapitalista Nozzoli fu punito, il suo raggio d’azione non poteva andare oltre le mura della pur grande Milano, “sono un inviato in tram”, diceva sorridendo amaro. Un giorno venne a salutarmi, eravamo in redazione al giornale, torno a Rimini, disse, vado in pensione a fare l’ebanista, mi piace fare l’ebanista, un giorno vieni a vedere come ho sistemato un cassettone antico a casa mia. Il giornalismo del potere lo aveva mandato in pensione anzitempo, ma non credo che abbia poi fatto l’ebanista. Di lui rimane nella mia biblioteca il bellissimo libro “I ras del fascismo”. Rividi qualche anno dopo, seduto a un bar davanti all’Embassy, glorioso baladùr riminese, stravaccato su una poltroncina di vimini, sembrava uscito dal film “I vitelloni” del suo amico Fellini, pantaloncini bianchi corti, maglietta, ciabatte da spiaggia: “cosa fai qui?”, mi chiese, mi hanno tolto i servizi politici, mi hanno tolto le inchieste sul terrorismo, risposi, ora seguo le vacanze degli italiani, i nostri sguardi s’incontrarono. Comprese. Non c’era bisogno di altri commenti.

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JAZZ CLUB
La magia di Potter al sax

Un nome che è magico per tutti gli amanti del jazz, e non c’entra nulla con il maghetto creato dalla fantasia della Rowling. E’ Chris Pottter, il sassofonista e compositore statunitense, definito da Down Beat “uno degli artisti più studiati (e copiati) del pianeta”. Venerdì scorso il tour europeo del Chris Potter underground quartet ha fatto tappa a Ferrara. Nel Torrione affollatissimo che ospita il Jazz club Ferrara Potter ha presentato “Imaginary Cities”, secondo album realizzato per l’etichetta Ecm. A completare la formazione Adam Rogers alla chitarra, Fima Ephron al basso elettrico e Nate Smith alla batteria. E Stefano Pavani dietro all’obiettivo per immortalare l’evento con la magia dei suoi scatti.

[clic su un’immagine per ingrandirla e vedere tutta la galleria]

 

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Chris Potter Underground a Ferrara (foto Stefano Pavani)
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Chris Potter Underground a Ferrara (foto Stefano Pavani)
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Chris Potter Underground a Ferrara (foto Stefano Pavani)
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Chris Potter Underground a Ferrara (foto Stefano Pavani)
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Adam Rogers alla chitarra per i Chris Potter Underground (foto Stefano Pavani)
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Fima Ephron al basso elettrico accompagna Chris Potter (foto Stefano Pavani)
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Nate Smith alla batteria per i Chris Potter Underground (foto Stefano Pavani)
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Chris Potter al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
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Chris Potter Underground a Ferrara (foto Stefano Pavani)
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Chris Potter Underground a Ferrara (foto Stefano Pavani)
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Chris Potter Underground a Ferrara (foto Stefano Pavani)
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Chris Potter al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
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Chris Potter al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
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Fima Ephron al basso elettrico accompagna Chris Potter (foto Stefano Pavani)
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Adam Rogers alla chitarra per i Chris Potter Underground (foto Stefano Pavani)
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Nate Smith alla batteria per i Chris Potter Underground (foto Stefano Pavani)

NOTA A MARGINE
La traversata di Moisé nel mare del dolore

La settimana scorsa ho avuto l’occasione di ascoltare la storia di un uomo che, durante la sua infanzia, ha dovuto confrontarsi con una realtá feroce e scioccante. Il suo nome è Cesare Moisè Finzi, oggi ha 85 anni, ma ricorda perfettamente la data del 3 settembre 1938, come se quel giorno fosse stato scolpito nella sua mente in maniera indelebile. Da un po’ di tempo ormai il signor Finzi ha deciso di diffondere la storia della sua vita; vuole che i giovani non dimentichino le persecuzioni razziali che negli anni ’40 hanno causato la morte di milioni di persone, la disintegrazione di interi nuclei familiari, la tortura di un numero indescrivibile d’innocenti. Oggi tiene incontri nelle scuole dove parla agli studenti, costringendosi ogni volta a confrontarsi con la sofferenza vissuta, ripercorrendo un viaggio a ritroso nel dolore, nell’incredulitá, nella vergogna.

Con “Il giorno che cambió la mia vita”, titolo del suo ultimo libro, Cesare Finzi si riferisce proprio a quella fatidica data, prima della quale conduceva una vita tranquilla e serena. Nacque nel 1930, anno in cui a Ferrara, sua cittá natale, vi era circa un ebreo ogni cento abitanti. A quel tempo Cesare si sentiva una bambino come tutti gli altri, andava alla scuola ebraica e al pomeriggio giocava al parco con i suoi amici. Per lui la differenza tra un bambino cattolico e uno ebreo stava solamente nel fatto che il primo andava in chiesa la domenica, il secondo in sinagoga il sabato; il primo recitava le preghiere in latino, il secondo in ebraico, entrambi senza comprendere una parola delle rispettive ‘lingue religiose’. Per il resto non vedeva molte differenze tra gli uni e gli altri, se non le diverse festivitá e l’obbligo d’indossare la divisa scolastica in giornate prestabilite. Finita la terza elementare Cesare chiese ai genitori di poter cambiare scuola; voleva lasciare quella ebraica e frequentare quella pubblica per il semplice motivo che, così, si sarebbe ritrovato in una classe più numerosa, con più amici con cui poter giocare. Ma il 3 settembre 1938, quando aveva solamente otto anni, andó ad acquistare il quotidiano per il padre e sulla prima pagina non poté fare a meno di leggere una frase: “Insegnanti e studenti ebrei esclusi dalle scuole governative e pareggiate”. Rimase colpito da quelle parole, ma il pieno significato lo comprese solamente qualche giorno dopo quando si recó, come d’abitudine, al parco Massari per incontrare gli amici. Ad una ad una le madri allontanarono i propri figli da Cesare e lui si ritrovò completamente solo. “Riuscite ad immaginare come può sentirsi un bimbo nel vedersi portar via tutti gli amici e sapere di essere la causa di quell’abbandono?” ha chiesto Cesare agli studenti dell’Einaudi durante il suo ultimo incontro. Dovette quindi proseguire i suoi studi alla scuola ebraica, ma da quel giorno smise di sentirsi come i suoi coetanei. Quel giorno la sua vita cambiò. Ogni ebreo fu in un certo senso costretto a “condannare” se stesso: era necessario compilare un documento in cui si dichiarava di essere ebrei. Provate ad immaginare il dolore di un genitore costretto a mettere nero su bianco che il proprio figlio appartiene ad una razza considerata inferiore. Quelle persone vennero bollate così che, quando la “caccia all’ebreo” divenne spietata, nessuno potesse sfuggire ai rastrellamenti. Paradossale è che il padre di Cesare fu uno dei primi fascisti italiani e combattè per l’Unità d’Italia. Già nel 1923 però cancellò il suo nome dal Partito perchè intuì che le cose sarebbero cambiate.

Tra le assurdità delle leggi italiane ve ne era una che stabiliva che gli studenti ebrei dovessero frequentare la scuola ebraica, ma sostenere l’esame di stato alla scuola pubblica, insieme agli altri studenti cattolici. Il 10 giugno 1940 l’Italia entrò in guerra e Cesare si recò, assieme al suo caro amico Nello Rietti, a dare l’esame di quinta elementare. Mussolini fece installare altoparlanti in ogni angolo della città, cosicché tutta la popolazione potesse ascoltare il suo discorso. Due frasi rimasero a Cesare molto impresse: “Vincere, e vinceremo” e “A me servono poche centinaia di morti per sedermi al tavolo dei vincitori”. Quest’ultima frase lo fece raggelare e lo pose davanti ad un grande dilemma: “Sono italiano e dovevo sperare che l’Italia vincesse, ma se così fosse stato le leggi razziali sarebbero rimaste. Dovevo quindi sperare che il mio stesso Paese venisse sconfitto?” ha domandato agli studenti, rapiti dal suo racconto.

Nonostante al tempo la scuola dell’obbligo terminasse con la quinta elementare, Cesare proseguì i suoi studi, sempre alla scuola ebraiaca di via Vignatagliata. Giorgio Bassani fu il suo professore di italiano e latino, che lui ricorda come un insegnante straordinario. Dopo i tre anni di scuola media si recò nuovamente alla scuola pubblica per sostenere l’esame finale. Quel giorno però, mentre il preside leggeva i nomi degli studenti in ordine alfabetico per accertarsi che fossero tutti presenti, il nome di Cesare e quello del caro amico Nello Rietti non si udirono. Dopo lunghi minuti di attesa i due nominativi vennero trovati nel retro dell’ultimo foglio, scritti in piccolo nell’angolo. “Nemmeno i nostri nomi potevano stare con quelli degli altri” racconta Cesare con afflizione e tristezza. Vennero così fatti sedere dal preside in fondo all’aula, ma la professoressa pensò fosse una scelta dei due studenti, così da potersi aiutare a svolgere l’esame. Quando domandò loro perchè si fossero isolati da tutti gli altri, Cesare rispose: “Siamo stati messi qui perché siamo ebrei”. Nell’aula scoppiò il caos: i due amici ricevettero fischi ed insulti dai loro stessi compagni. L’insegnante li spostò così in prima fila, affermando “Tanto non attaccherete la malattia”. Parole forti, accusatorie, dolorose, ma che nella sua tenera ingenuità, Cesare non comprese. Domandò allora a quale malattia ci si riferisse e la maestra, stupita, rispose: “Ma come, voi ebrei non avete la coda?” Una donna di cultura, laureata, un’insegnate di scuola media credeva ad uno dei tanti e stupidi pregiudizi del tempo, come quello che sosteneva gli ebrei fossero mezzi-animali. Nonostante tutto Cesare venne promosso a pieni voti e proseguì gli studi fino al conseguimento di una laurea in medicina, mentre per il caro amico Nello fu tutto inutile: morì a Buchenwald nell’aprile del 1945.

La disavventura dell’esame era stata per Finzi solamente l’inizio di una serie di tragedie.
Il 25 luglio del 1943 il Gran Consiglio dei Ministri, quello stesso organo che 5 anni prima aveva deciso che i ragazzini ebrei come Cesare non potevano frequentare la scuola pubblica, mise Mussolini in minoranza. L’8 settembre l’Italia firmò l’armistizio, ma la guerra continuò. Vennero imposte le leggi razziste tedesche, molto più rigide di quelle italiane perchè colpivano chiunque venisse classificato come “diverso”. Sulla testa di ogni ebreo pendeva una taglia, di conseguenza chiunque aveva interesse a denunciare uno di loro perchè in cambio avrebbe ottenuto un premio in denaro. Ciò che spinse la famiglia Finzi a fuggire fu la notizia della cattura dei loro parenti di Bolzano, tra cui la cuginetta Olimpia, di appena tre anni. Solo 30-40 anni dopo seppero che erano stati deportati in Austria in un campo di concentramento, poi ad Auschwitz, da cui non fecero ritorno.
Se Cesare è sopravvissuto è perchè ha avuto la fortuna di incontrare persone che hanno aiutato lui e la sua famiglia. Fuggiti da Ferrara hanno trascorso la prima notte a Ravenna dove, un conoscente dello zio di Cesare, li ospitò nella sua casa e per un anno li protesse (erano in 10, 4 adulti e 6 bambini). Se quell’uomo, il signor Muratori, li avesse denunciati, avrebbe guadagnato una somma di denaro enorme, per quell’epoca. Il giorno seguente proseguirono il viaggio e trovarono rigufio a Gabicce Mare. Quì un uomo, di cui Cesare non conobbe mai nè il volto nè il nome, li aiutò senza volere nulla in cambio. Procurò loro carte d’identità (con nomi falsi e senza il timbro di appartenenza alla razza ebraica) e la tessera annonaria, necessaria prima di tutto per ottenere generi alimentari. Purtroppo però a Gabicce i membri della famiglia Finzi erano conosciuti con i loro veri nomi; furono così costretti a fuggire nuovamente e arrivarono a Mondaino, un piccolo centro vicino a Rimini. Quì vissero mescolandosi con la popolazione locale, imparando a fare il segno della croce, andando in Chiesa e recitando l’Ave Maria. Presto però la popolazione civile fu allontanata da Mondaino e dovette attraversare la linea del fronte. Finirono nella cosidetta terra di nessuno: “le bombe che non cadevano sugli inglesi o sui tedesci, cadevano su di noi” racconta Cesare, con gli occhi lucidi per il dolore del ricordo. Una di quelle bombe colpì il piede del fratello e la situazione divenne drammatica. Dovevano a tutti i costi rischiare di attraversare la linea del confine per cercare aiuto. Cesare, quattordicenne, camminò così per 13 chilometri con il fratelllino di nove anni sulle spalle. Tornarono a Mondaino, liberata dalle truppe anglo-americane, e lì trovarono un ospedale da campo che poteva però curare solamente i feriti e i malati dell’esercito. Ancora una volta, nella tragedia che stavano vivendo, ebbero un colpo di fortuna. Un medico, capitano dell’esercito nemico, rischiò la sua vita e la sua carriera per salvare la vita di un bambino. Operò il fratello di Cesare da sveglio, senza alcun tipo di anestesia. “Ho fatto il medico, di operazioni ne ho viste tante, ma quell’intervento non lo scorderò mai”, così Cesare rammenta quel giorno infernale.

Finalmente la famiglia Finzi era libera, ciascun membro potè riprendere il proprio vero nome. Solamente dopo il 25 aprile 1945 fecero ritorno a Ferrara dove ritrovarono la loro casa e il negozio del padre. Cesare frequentò il liceo scientifico di Rimini, poi il Roiti di Ferrara, dove incontrò compagni meravigliosi che lo accolsero senza alcun pregiudizio. Cesare Moisè Finzi, 85enne dal volto rigato da delicate rughe, una voce dolce e piena di dolore, ha deciso di parlare ai giovani perchè in loro vede la speranza. Finito il racconto della sua vita, uno studente gli ha domandato quale fosse stato per lui il momento più difficile. Senza esitazione Cesare ha raccontato l’orrore del momento in cui durante il passaggio del fronte vedeva le bombe esplodere intorno a lui e ai suoi famigliari. Quel giorno però si aggrappò alla speranza di trovare un rifugio e mettersi in salvo. Ma niente è stato tragico e doloroso come il ritorno a casa, scoprire tutto ciò che era successo e perdere completamente la fiducia nell’Uomo. Se oggi Cesare è ancora vivo è grazie a tutte quelle persone che ha incontrato lungo il suo cammino e che hanno rischiato la vita per difendere chi al tempo era considerato il “nemico”. Ecco perchè serve la speranza; questa lui la ripone nei giovani d’oggi e li invita, con la voce rotta dal pianto, a combattere per la ragione, la giustizia e l’umanità.

L’intelligenza connettiva

L’intelligenza, intesa nelle sue varie declinazioni, si sviluppa in un contesto sociale, caratterizzato dal dialogo e dall’interazione. Il linguaggio è stato un fattore evolutivo importante proprio perché ha consentito alla specie di stabilire una coesione comunicativa, sia emozionale che cognitiva. Attraverso il linguaggio scambiamo informazioni, sentimenti, memorie, esperienze e pensieri che consentono di interagire con gli altri. L’insieme di questi scambi costituisce la cultura. Attraverso il linguaggio ci coordiniamo, anche se non sempre efficacemente, a dire il vero. Alcuni insetti, come le formiche, le api, gli stormi di uccelli, sono dotati di meccanismi biologici per il coordinamento, meccanismi che sono studiati da coloro che si occupano di intelligenza artificiale.
Le connessioni consentite da Internet fanno compiere un enorme passo avanti alla nostra capacità di coordinare informazioni. Chi ha visto il film “The imitation game”, sulla macchina di Alan Turing ha avuto, in una forma (un po’ troppo) romanzata, il senso di come un essere umano, per quanto intelligente, non sia in grado di processare il numero di informazioni di una macchina che calcola. Ora siamo molto oltre i risultati dei primi anni Quaranta, la scienza dei Big Data elabora le tracce che lasciamo in rete e consente di costruire modelli di previsione sofisticati in molti campi, dal traffico all’epidemiologia.
Le informazioni ricevute e scambiate permettono azioni che richiedono coordinamento e sincronismo e che nessun essere umano da solo è in grado di compiere. Una grande serie di attività in rete si basano sulla cooperazione creativa degli utenti che contribuiscono a produrre conoscenze, per effetto di apporti minimi, ma costanti e di una continua interazione. Le connessioni che si producono, al pari delle sinapsi cerebrali, si rafforzano grazie alla ripetizione di singole attività e dei legami che queste instaurano. Si può ipotizzare, allora, che Internet contribuisca a formare un’intelligenza connettiva che scaturisce proprio dalla densità degli scambi e delle comunicazioni? Si può immaginare che contribuisca a produrre capitale sociale, vale a dire risorse scaturite dalle relazioni e spendibili nella vita individuale e collettiva?
Affermare questo non significa ignorare le forme oscure che la densità comunicativa della rete propone: le nuove diseguaglianze digitali, le asimmetrie di potere, il peso di influenze, o la trappola della personalizzazione, per cui Google costruisce attorno a noi bolle personalizzate che ci offrono un mondo su misura, un universo che gira intorno alle nostre scelte per inviarci le informazioni su cui siamo d’accordo.
Ma, obiettivamente, avanza un meccanismo di interdipendenza nelle nostre scelte. Ciò che desideriamo e facciamo è sempre più correlato a ciò che desiderano e fanno gli altri. Soprattutto le nostre scelte vengono compiute in uno scenario costantemente mobile. È questo il senso della metafora delle formiche che abbiamo di recente proposto per ragionare sulle dinamiche della scelta nell’ambiente del web, con il libro che presenteremo al Senato il 12 marzo, ore 11-13 (M. Franchi, A. Schianchi, “L’intelligenza delle formiche. Scelte interconnesse”, Diabasis).

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi. Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.

maura.franchi@gmail.com

L’IDEA
I fuochi della passione e della legalità

Un’industria chimica che ha avviato la produzione di detergenti in eco-dosi idrosolubili e completamente eco-compatibili e un consorzio di cooperative sociali che, attraverso la cultura dell’inclusione e della legalità, mira alla creazione di lavoro dignitoso per le persone in difficoltà.
Sono Cleprin e NCO-Nuova Cooperazione Organizzata e hanno più di una cosa in comune: entrambe hanno sede nella provincia di Caserta, entrambe sono emblemi della legalità in quel territorio, entrambe pensano che il modo migliore per combattere la camorra sia un percorso di riappropriazione e rigenerazione del territorio campano attraverso la creazione di un sistema economico legale ed etico come antidoto all’economia criminale.

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Prodotti etici contro le mafie

Ieri mattina nella sede dello show-room di AltraQualità in via Toscanini a Ferrara, Antonio Picascia, amministratore delegato Cleprin, e Simmaco Perillo di NCO hanno raccontato, oltre ai propri prodotti, la storia di un progetto di riscatto per un intero territorio che li porterà addirittura a Expo 2015, con il progetto “We are”.

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Antonio Picascia

Antonio ha cominciato raccontando i tentativi prima di infiltrazione nella Cleprin e poi di estorsione da parte del clan di Sessa Aurunca, affiliato ai Casalesi. Aver scelto la propria dignità e la propria libertà di imprenditori denunciando l’accaduto alle forze dell’ordine ha significato un cambiamento radicale: “15 Km separano la Cleprin dalla stazione dei Carabinieri di Mondragone, ma mentre percorrevo quella breve distanza mi rendevo conto che non stavo attraversando solo uno spazio fisico, stavo lasciando la vita come l’avevo condotta fino ad allora, senza conoscere la camorra”. Antonio sottolinea che quello è stato un cambiamento in meglio perché ha incontrato “persone capaci, professionisti, uomini sensibili”, a cominciare dai Carabinieri fino ad arrivare a Raffaele Cantone, allora procuratore della Dda di Napoli. Antonio racconta che, contrariamente a quello che spesso si sente dire, “io ho verificato che lo Stato era presente e efficace, era la società civile a essere assente: io e il mio socio ci siamo trovati nella più profonda solitudine”. Ma è stato un’altro cambiamento in meglio, anche perché da allora, era il 2007, è cominciata la sua storia di “impegno sociale e civile che mi fa stare in pace con la mia etica e con la mia coscienza e questo mi fa lavorare meglio”, senza contare che ha incontrato Simmaco e tante altre persone impegnate sul fronte della legalità. Certo, esiste anche il rovescio della medaglia: denunce anonime per presunte problematiche inerenti l’attività aziendale e nell’agosto del 2010, per un mese intero, lo sversamento di percolato davanti all’azienda.
Il problema però, sottolinea Antonio, non sono loro, ma le persone comuni che dicono “era proprio necessario tutto questo?”. Anche da qui nasce il percorso con Simmaco e NCO per scalfire questo modo di pensare e di agire e creare quelle condizioni che permettono alle persone “di affrancarsi e non essere soggette al clientelarismo”.

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Antonio Picascia e Simmaco Perillo

E sul tema della possibilità di un riscatto torna anche Simmaco: un riscatto che parte dal far conoscere il “movimento di resistenza che esiste in provincia di Caserta da più di 30 anni”, “gli sforzi che si fanno e da dove nascono”, poco raccontati perché fanno molta più audience la “bruttura”, la “monnezza” e “il morto ammazzato”. Quello di Simmaco è l’orgoglio di chi tiene alla propria terra e quindi denuncia il sistema della criminalità organizzata, ma il giorno dopo, partendo da quella stessa terra e dalle sue contraddizioni, propone delle soluzioni per andare oltre, per dare a chi ci abita una possibilità di scegliere una strada diversa dall’illegalità. Anche lui afferma che il problema non è più, o non è tanto, l’organizzazione militare, ma il sistema culturale e le forti connessioni con il sistema economico legale, il che significa che “ognuno di noi la mattina si alza e ha a che fare con questa gente” andando al lavoro. Per questo l’antidoto è “un’economia sociale, una proposta economica solida, concreta, efficace” e nello stesso tempo basata sulla qualità e su valori etici e sociali.
Accanto a questo c’è il cambiamento da provocare a livello culturale. L’idea di entrare e riutilizzare i beni confiscati nasce dall’idea di farli diventare simboli di qualcosa di diverso dal potere mafioso: “ce l’abbiamo fatta”, oggi sono diventati centri di incontro e di elaborazione di una nuova cultura. E una cultura ha bisogno di parole, per questo Simmaco afferma con forza “riprendiamoci i termini”, togliendoli alla camorra per “rigenerarli”: da qui l’idea di chiamare il consorzio delle cooperative NCO, lo stesso acronimo di quella Nuova Camorra Organizzata che negli anni ’70 e ’80 ha segnato una svolta nella storia criminale del casertano.

 

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Pacco di prodotti anti-mafia

Dal 2012 Nco significa Nuova Cucina Organizzata, Nuovo Commercio Organizzato e Nuova Cooperazione Organizzata, perché “ la parola è oggetto di cambiamento e se ognuno di noi utilizza le parole giuste veicola il cambiamento”. “Proviamo insieme ad alimentare il cambiamento”, è l’appello finale di Simmaco. Ha ragione Simmaco: bisogna riappropriarsi delle parole e trovare il modo di usarle a vantaggio del territorio. E allora riutilizziamo l’ormai stereotipata definizione di “terra dei fuochi”, perché nel casertano a bruciare non sono solo i cumuli di rifiuti tossici illegalmente sversati nelle campagne del casertano, ma anche la passione che anima persone come Antonio e Simmaco e chi lavora con loro, tante scintille che giorno per giorno cercano di innescare nel proprio territorio e nella società civile il fuoco della legalità.

Alcune foto dell’incontro, clicca sull’immagine per ingrandirla.

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L’EVENTO
Al Festival Lgbt stereotipi, pregiudizi e voglia di normalità: l’orizzonte pubblicitario dell’omosessualità

Incalzano gli incontri di Tag, il festival di cultura Lgbt che si sta svolgendo in questo fine settimana alla Sala Estense. Incontri e spettacoli su temi fondamentali non solo dell’identità sessuale Lgbt, ma dell’intera società.

Venerdì con intelligente ironia, Rita de Santis, una mamma dell’associazione delle famiglie con figli omosessuali, ha raccontato come la maggior parte dei coming out avvengano a tavola, e le reazioni siano le più disparate, dall’abbuffata all’abbandono del desco. E Chiara Reali del progetto Le cose cambiano, ha chiarito una volta per tutte la differenza tra outing, ovvero quando gli altri rivelano che una persona è omosessuale, e coming out ovvero quando è la persona stessa ad annunciarlo.

Sabato invece, dopo un incontro che ha contribuito a fare chiarezza sull’iter legislativo in materia di diritti delle persone omosessuali in Italia, e di cui abbiamo parlato qui (http://www.ferraraitalia.it/levento-festival-lgbt-i-miei-figli-hanno-gli-stessi-doveri-ma-uno-non-ha-gli-stessi-diritti-36719.html) c’è stato un incontro, dal titolo “Le nuove famiglie italiane della pubblicità”

“La presenza di omosessuali nelle pubblicità è spesso strumentalizzata, per cui quello che da pubblicitaria posso dire è di evitare manipolazioni. C’è un eccesso di estetica nelle pubblicità che ritraggono coppie dello stesso sesso. Il rischio dell’utilizzo di queste storie negli spot rischia di avere un carattere ideologico ed estetico e non di normalità”.

“Il punto centrale è proprio quello della normalità. Noi abbiamo 42 milioni di visitatori nei punti vendita che abbiamo in Italia, la coppia gay o lesbica è la normalità, per cui altrettanto normale per noi è rivolgerci a loro nei nostri spot”, ha confermato Valerio di Bussolo di Ikea, riferendosi alla campagna pubblicitaria gay friendly dell’azienda svedese per la casa, che ha suscitato le ire di Giovanardi.

“In verità non è la normalità che dobbiamo inseguire, ma la naturalità. Inoltre bisogna fare una differenza tra utilizzo e sfruttamento”, ha poi corretto il tiro Fulvio Zendrini, esperto di comunicazione per Gf Group, “a me non interessa lottare per la normalità, ma per le differenze, che sono più importanti”.

“Ci sono pubblicità irrilevanti, altre dannose, alcune però, possono cambiare un po’ le cose, penso ad esempio alla bellissima campagna di Dove, Real beauty, che rivede il classico concetto di bellezza femminile e mostra donne di ogni età e fattezza. Non si può però chiedere alla pubblicità ciò che non può fare, ovvero delle sofisticate analisi della realtà sociale, ma le si può chiedere di essere un fattore di sviluppo e non di arretratezza. La pubblicità lavora sugli stereotipi, perché è la nostra mente per prima che lo fa. Noi mettiamo insieme delle idee del mondo che ci aiutano a prendere decisioni rapide nella vita quotidiana. Il problema non è lo stereotipo, ma il pregiudizio, cioè lo stereotipo che si fossilizza in una visione del mondo che non si confronta con la realtà dei fatti. Purtroppo la pubblicità tende a consolidare pregiudizi brutti e stupidi sulle persone. Invece lavora bene quando usa gli stereotipi come strumenti narrativi e non come vincoli. La creatività nasce dalla diversità, per questo va difesa”.

“In effetti noi possiamo aiutare un cambiamento, ma non determinarlo. All’Ikea io posso dare le ore di congedo ad un dipendente per andare a trovare il suo compagno in ospedale, però poi all’ospedale non lo fanno entrare perché i due non sono riconosciuti come parenti. Qui è dove noi ci fermiamo e deve intervenire lo Stato”.

“Ma io penso che questo cambiamento sia in atto, sta cambiando il mito degli anni ’80, dove gli esempi erano personaggi alla Fabrizio Corna o Silvio Berlusconi, per intenderci. Oggi il mito è: la mia vita è bella, ovvero la bellezza della raggiungibilità delle cose”.

Dopo questa bella lezione di comunicazione e marketing che è andata molto al di là dello spunto iniziale legato all’omosessualità, dal pubblico una domanda riporta però al tema del festival: la parità. E allora perché negli spot ci sono sempre coppie gay e quasi mai lesbiche?
La risposta degli esperti è che la pubblicità cerca il paradosso per cui effusioni tra uomini fanno più impressione di quelle tra donne, che invece sono più frequenti, anche tra amiche. Ma rimane anche strisciante il sospetto che forse una donna che rinuncia completamente agli uomini sia più difficile da accettare di un uomo che tutto sommato sceglie un altro uomo. Chissà, il quesito rimane aperto.

Ma non c’è tempo per farsi troppe domande che sul palco della sala Estense, già arriva Mario Venuti, a presentare il suo ultimo album “Il tramonto dell’Occidente” scritto a sei mani con Bianconi dei Baustelle e Kaballà.

“Questa volta non parlo d’amore, ma mi metto alla finestra e guardo fuori”, il cantante siciliano racconta così questo nuovo lavoro, con molte implicazioni sociali, ed è questo il motivo per cui gli organizzatori del festival hanno voluto la sua presenza.
Sono storie di periferia, come quella di Scampia che si vede nel video del singolo Ventre della città.
“E’ il tentativo di capire cosa siamo, dove stiamo andando, in mezzo a certezze che si stanno sgretolando”.
Come reagire a questo declino?
“Reimpostando un sistema di valori”, dice Venuti, “questo momenti difficile deve diventare un’opportunità, anche se ho la sensazione che noi siamo assolutamente controcorrente e la tendenza sia ad un non pensiero, se fai pensare sei messo da parte. L’insostenibile leggerezza dei testi di Sanremo mi ha colpito molto, sentimentalismo bieco e campato in aria ha pervaso tutte le canzoni”.

“Se ti senti contro tendenza, sei nel posto giusto” ha scherzato Salvo di Arcigay che lo stava intervistando.

E questo ha dato il là a Venuti per un racconto personale.
“Un mio amico insegnante aveva fatto richiesta per insegnare all’estero e ha ricevuto una proposta da Asmara in Eritrea. Lui si è sposato con un ragazzo cileno a Madrid, e una volta là, stava facendo in modo che il suo compagno avesse i documenti per raggiungerlo. Un giorno è stato chiamato dal preside e si è trovato due militari armati che gli hanno intimato di lasciare la nazione entro 36 ore. Il motivo, anche se non dichiarato era la sua unione gay. Lui si è rivolto all’ambasciatore, e il Ministero della pubblica istruzione, cioè lo Stato italiano, non ha fatto nulla, non lo ha difeso, ha perso il lavoro ed è dovuto tornare in Italia”.

Poi ci è voluta un po’ di musica per riportare il sorriso tra i presenti, con la consapevolezza che molto c’è ancora da fare per ottenere la parità di diritti in questo paese.

Il festival prosegue fino a questa sera.
Qui il programma

Fotoservizio di Stefania Andreotti

Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)
Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)
Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)
Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)
Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)

IL FATTO
Michele Cortese vince il Festival di Viña del Mar e conquista il Sudamerica

Lo avevamo intervistato due mesi fa [vedi], di ieri la notizia che Michele Cortese ha vinto due importanti premi al Festival di Viña del Mar in Cile, il più importante del Sudamerica, una porta d’oro aperta sul mercato dell’intero continente, che ogni anno può contare su circa 500 milioni di telespettatori. Cortese è stato selezionato, per la competizione internazionale, tra ben 1.200 candidati, unico rappresentante europeo su un totale di sei finalisti, e ha vinto come migliore canzone (nella gara internazionale) e migliore interpretazione, con il brano “Per fortuna” di Franco Simone, arrangiata da Alex Zuccaro, un brano con tinte rock che ha subito attirato l’attenzione della giuria del Festival, di cui faceva parte anche Pedro Aznar, uno dei musicisti più stimati al mondo, noto per la sua carriera solista e per l’attività svolta nel Pat Metheny Group.
Tra lo stupore generale, Cortese ha cantato parte della canzone in perfetto spagnolo, utilizzando il testo che gli aveva scritto Franco Simone pochi giorni prima della sua partenza per il Cile.
La stampa cilena ha evidenziato il buon livello delle canzoni e degli interpreti della gara internazionale e di quella etnica, sottolineando favorevolmente la scelta della canzone italiana “Per fortuna”, come vincitrice e rendendo il giusto merito anche a Franco Simone, un autore e un interprete molto popolare da quelle parti. Secondo la rivista cilena “La Segunda”, la canzone vincitrice del Festival è una delle migliori degli ultimi 15 anni perché possiede lo spessore, l’inciso, la melodia e il romanticismo: “… dije desde un comienzo que era de las mejores canciones que habían sonado en la competencia en la última década, porque en al menos 15 años no hemos tenido una para recordar. Y esta tiene el tamaño, el coro, la melodía, el romanticismo”.
Michele Cortese ha pubblicato pochi mesi fa l’album “Vico Sferracavalli 16”, seconda opera solista dopo “Il teatro dei burattini” (2011). Il singolo “La questione”, di cui è autore insieme a Francesco Gazzè, è accompagnato da un video recentemente premiato al Premio Roma Videoclip 2014. In precedenza, insieme al gruppo Aram Quartet, aveva vinto la prima edizione di X-Factor (2008).
Nei prossimi giorni, Michele Cortese sarà protagonista, insieme a Franco Simone e al tenore Gianluca Paganelli, di “Stabat Mater”, l’opera rock sinfonica composta da Simone sul testo originale attribuito a Jacopone da Todi. Il 6 marzo l’opera sarà rappresentata nella Basilica di San Lorenzo a Firenze, mentre il 2 aprile è in programma al Teatro Romolo Valli di Reggio Emilia.

La premiazione su YouTube [vedi]
Viedo clip ufficiale [vedi]
L’articolo su Stabat Mater pubblicato su ferraraitalia [vedi]

SETTIMO GIORNO
Renzi e Berlusconi, gioco di coppia

Il PATTO CHE NON C’E’ – Poveri illusi. Parlo di tutti coloro che si aspettavano e si aspettano ancora che Renzi litighi, o faccia finta di litigare com’è successo finora con il suo maestro Berlusconi, lo sketch fra i due ha e avrà tempi lunghi, una sola cosa non ho capito, chi dei due sia la spalla dell’altro. Chi è Totò e chi è Pappagone, cioè Peppino De Filippo? Il fatto è che, come nella migliore tradizione della commedia dell’arte, i due si scambiano abilmente le parti quando sono sul palcoscenico, un giorno Totò, un giorno Pappagone. Dice: ma il “patto del Nazareno”? Tranquilli, non è mai esistito, non esiste una carta, una sorta di contratto, che so, un pizzino, un promemoria, non c’è, esiste soltanto nella mente dei due attori, i quali pare abbiano raggiunto un solo accordo: terminare l’operazione dettata da Licio Gelli (P2) con il “Piano di rinascita nazionale” del 1978, dopo l’uccisione di Aldo Moro. Finora è andato tutto liscio per gli attori della commedia, che non finisce qui. Un esempio? Battuta di Renzi quindici giorni fa: devo sistemare la Rai. La spalla risponde: compro la Rai. Replica di Renzi: Ma non più del 51 per cento. E così si privatizza uno dei settori chiave della democrazia moderna. Non è tutto: Berlusconi ha già dato inizio al piano per diventare il monopolizzatore dell’informazione, avviando l’acquisto della Rizzoli e accorpandola alla sua Mondadori, che significa mangiare i quotidiani e i settimanali più importanti dell’Italia. Il signore di Segrate vuole tornare da padrone in Parlamento, gli manca il lasciapassare della magistratura. Come fare? Intanto, si ricorre alla filosofia di Licio Gelli, si responsabilizza il giudice. Chi mai potrà più incriminare, o soltanto non assolvere un uomo il quale può inchiodare un magistrato a pagare milioni di euro dichiarandolo civilmente responsabile? No, c’è del marcio in Danimarca, diceva Shakespeare, tutto è stabilito, preconfezionato. A noi cittadini non rimane che conoscere, giorno per giorno, i paragrafi di un patto che ci è stato tenuto gelosamente nascosto. Anche perché non è mai stato scritto: il patto c’è, ma è un patto orale i cui capitoli sono conosciuti da due sole persone. A qualcuno non piace? “Io vado avanti”, dice l’attore. Vai, risponde la sua spalla. Questa è democrazia

BUROCRATI – Rapidissima comunicazione ai signori burocrati dipendenti da Stato, Regioni, Comuni, Banche etc.: per favore non diteci più che la burocrazia di cui siete padroni è stata resa agile, anzi, dal momento in cui, solennemente, è stato detto ai cittadini che era cominciato lo snellimento della burocrazia, la medesima (burocrazia) è diventata ancor più impraticabile, vergognosamente antiquata, inadeguata, irresponsabile. Chi crede il contrario vada pure, a suo rischio e pericolo, in un ufficio pubblico: verrà burocraticamente respinto, ma dovrà riempire un modulo…

I sei personaggi da Nobel

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello, regia di Carlo Cecchi, Teatro Comunale di Ferrara, dal 15 al 19 dicembre 2004

E siamo all’ultimo spettacolo del 2004 per la stagione di prosa, che riprenderà nella seconda metà di gennaio del 2005. È il celeberrimo “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello a chiudere l’anno teatrale del Teatro Comunale. Luigi Pirandello (1867-1936), premio Nobel nel 1934, drammaturgo e narratore, dopo l’esordio con romanzi di ambito ‘veristico’, approfondì nel corso della sua opera narrativa e soprattutto drammaturgica il tema dell’uomo isolato in una realtà a cui egli è fondamentalmente estraneo. “Sei personaggi in cerca d’autore”, composto dal maestro nel 1922, appartiene al suo filone detto del ‘teatro nel teatro’ e, al debutto in scena, venne sonoramente fischiato dal pubblico e maltrattato dalla critica, prima che ne fosse compresa la tematica della dicotomia persona/personaggio e considerato quel capolavoro che in effetti è.
La vicenda dei “Sei personaggi…” è abbastanza complessa. In teatro una compagnia di attori sta provando svogliatamente “Il gioco delle parti”, altra commedia di Pirandello; d’un tratto si presentano sul palcoscenico sei ‘personaggi’ (si badi bene, e non attori-persone che interpretano personaggi), rifiutati e lasciati incompiuti dal loro autore. I personaggi chiedono al regista di rappresentare almeno una volta la loro storia, affinché si realizzi compiutamente la loro esistenza; ma il problema nasce quando il regista pretende di inscenare la loro vicenda facendone interpretare le parti agli attori della sua compagnia, incapaci di diventare, di ‘essere’ davvero i protagonisti di quei ruoli. Fra i due gruppi: gli attori e i personaggi, si evidenzia una distanza incolmabile, nei primi infatti scorre la mutevole vita, mentre i secondi sono sorta maschere immutabilmente fissate nella parte per cui l’autore li ha creati.
L’allestimento è diretto da Carlo Cecchi, affermatissimo attore e regista; fra i suoi spettacoli si ricordino almeno “L’uomo, la bestia e la virtù” di Pirandello, “Il misantropo” di Molière, “Il compleanno” di Pinter, “Finale di partita” di Beckett, oltre a numerose commedie di Shakespeare e molto altro. Cecchi è anche interprete, insieme a Paolo Graziosi e ad una schiera di affiatati attori. Le scene e i costumi sono di Titina Maselli, le luci di Paolo Manti.

L’EVENTO
Festival Lgbt, “I miei figli hanno gli stessi doveri, ma uno non ha gli stessi diritti”

“E’ più facile disintegrare un atomo che un pregiudizio”, diceva Einstein. Lo ha ricordato Paolo Veronesi, professore associato di diritto costituzionale dell’Università di Ferrara, introducendo l’incontro “Sposi in Europa, coinquilini in Italia”, che si è svolto alla sala Estense, nell’ambito di Tag, festival di cultura Lgbt.
“Ora che siamo nel pieno del dibattito sulle unioni tra persone dello stesso sesso, emergono pervicaci resistenze basate sul rispetto della tradizione, e che si rifanno al concetto di diritto naturale. Ma questo, come diceva Bobbio, è tra i concetti più ambigui, non c’è niente di più artificiale. Le Corti statunitensi, per esempio, lo usavano per impedire i matrimoni interrazziali”.
Poi però gli americani hanno saputo andare oltre, e adeguare il diritto ai cambiamenti sociali, tanto da eleggere per due volte un presidente afroamericano. E noi?
“In Italia stiamo scontando carenze legislative, ma anche qui, molto lentamente, le cose stanno cambiando. E’ una rivoluzione molecolare, per dirla con Gramsci, fatta di piccoli passi”.

“Nel nostro paese abbiamo due strumenti per riformare il diritto di famiglia – ha detto Marco Gattuso, giudice presso il tribunale civile di Bologna e direttore del portale giuridico Articolo29 – la via giurisprudenziale, dove si procede a colpi di sentenze, e quella legislativa, alla quale si arriva quando le Corti rimandano la decisione al Parlamento. In alcuni casi, il Parlamento si è espresso, hanno fatto le riforme, e si è tornati davanti alle Corti.
Fondamentalmente è una questione di coraggio. Occorre dire che quello della Corte Costituzionale italiana è un atteggiamento eccentrico, unico rispetto agli altri paesi a noi vicini. Fin dagli anni ’60 in materia di famiglia si è contraddistinta per timidezza. Alcune sentenze fanno addirittura inorridire, come quelle che sancivano che l’infedeltà della donna era da punire, e quella dell’uomo no. Ora sarebbe inaccettabile, forse lo stesso si potrà dire un giorno per il divieto di matrimonio fra persone dello stesso sesso. Se oggi la Corte continua ad esprimersi in modo ambiguo su questa materia, è perché ha un’idea di matrimonio che non risponde più al contesto sociale, che è già cambiato”.

Di fatto, se si prende l’articolo 29 della Costituzione, quello che si occupa di matrimonio, non c’è scritto nulla a proposito del genere dei coniugi. Se ne deduce che ognuno ha il diritto di sposarsi con chi ama e non con chi decide il Parlamento.
Sono stati proprio i cattolici a volere questa norma garantista in sede di Assemblea Costituente, per difendere il nucleo familiare da interventi statali ed ideologici, come era successo col fascismo. Ed ora è paradossale che usino la stessa norma in modo opposto. Per la precisione fu Togliatti a volere la dizione dell’articolo 29, prevedendo che le forme familiari si sarebbero evolute e avrebbero poi dovuto essere riconosciute dal legislatore. Ma furono i cattolici a fargli da sponda, in particolare Dossetti ed Aldo Moro, che intervenne con veemenza contro gli estremisti contrari.

A riportare l’incontro alla strettissima attualità, ci ha pensato Monica Cirinnà, la senatrice del Pd, relatrice del testo base sulle unioni civili che tra il 16 ed il 21 marzo dovrà essere votato alla commissione giustizia del Senato per la delibera definitiva.
“Ieri alla riunione di segreteria del Pd a Roma, Renzi mi ha chiesto a che punto eravamo, dimostrando il suo interesse”.

Chiuse la settimana scorsa le audizioni, con l’abbandono dell’aula da parte di Cirinnà e Lo Giudice, a seguito degli interventi delle associazioni in difesa della famiglia tradizionale che paventavano con il Ddl “unioni multiple o fra specie diverse” e lo paragonavano agli istinti di morte dell’Isis, ora è il momento del toto voti.
“A favore ci sono i nove senatori del Pd, quelli del M5s, e il gruppo misto Sel. Se non ci sono defaillances, dovremmo avere la maggioranza. Visto però che tra i senatori Pd c’è chi, come Lepri che rappresenta i clericali del partito, è contrario, faremo una riunione con i senatori del Pd, durante la quale esporrò nuovamente il testo e si dovrà votare. La regola è che se la maggioranza decide una cosa, tutti si devono attenere, e quelli che non sono d’accordo, si faranno sostituire in commissione, perché io voglio l’appoggio di tutti i miei senatori”.

E dopo la votazione che succederà?
“In caso di esito positivo come tutti ci auguriamo, si apre il termine emendamenti entro una ventina di giorni. Poi ci sarà un mese dove potrà succedere di tutto. Se ci arrivano 50 emendamenti, riusciamo ad andare avanti, se ce ne arrivano 50 mila da chi vuole fare ostruzionismo, ovviamente i tempi si allungheranno. Poi io come relatrice dovrò dare i pareri sugli emendamenti e disporre le votazioni, in quella sede i presentatori hanno diritto all’esposizione. Qui l’unica soluzione per non andare avanti all’infinito, è la calendarizzazione in aula. Quando saremo in commissione e in aula ci saranno anche le associazioni di difesa dei diritti omosessuali, voglio vedere se i colleghi avranno il coraggio di continuare a sostenere le cose schifose che hanno detto finora!”.

Una volta uscito dalla commissione giustizia del Senato, il testo passerà alla commissione giustizia della Camera, dove non ci saranno emendamenti, ma solo dichiarazioni di voto e questo dovrebbe accorciare i tempi.
“Cercheremo di non andare oltre l’estate con tutto l’iter”si augura la Cirinnà.

“Io ho cinque figli, tutti hanno gli stessi doveri, ma uno non ha gli stessi diritti, è il mio figlio gay”, è intervenuta al termine dell’intervento della Cirinnà, Rita de Santis di Agedo.

“Io non voglio le unioni civili, è una cosa ormai superata, io voglio il matrimonio legale per mio figlio gay, voglio poter pianificare con lui le sue nozze, perché comincio ad essere in là con l’età, non voglio dover pagare una trasferta familiare ad Oslo per vederlo felice”.
Lo stesso chiedono Antonella e Sarah alle quali Pisapia aveva trascritto il matrimonio, poi cancellato per ordine del prefetto. “Ce lo hanno notificato la scorsa settimana con due raccomandate diverse, come a voler ribadire che non siamo una coppia”.
“Avete ragione, ma bisogna procedere per piccoli passi perché in questo paese c’è una grande avversione al tema, anche a causa del Vaticano. Intanto voi fate bene a continuare a volere di più”, è la risposta della stessa Cirinnà.

“L’Italia è al 32° posto per il riconoscimento dei diritti Lgbt” ha tristemente ricordato Luca Morassutto, avvocato della Rete Lenford. “Chi si sta opponendo alle trascrizioni dei matrimoni omosessuali all’estero lo fa per tre motivi: è un atto contro natura, ma non si può ricorrere a teorie medievali come ha stabilito pochi giorni fa il Tribunale di Grosseto; crea un problema di ordine pubblico, ma non si può paragonare un matrimonio gay al vandalismo della Barcaccia; è un problema unire due persone dello stesso sesso, ma questo si configura come discriminazione per orientamento sessuale”.

Il dibattito è aperto, la battaglia civile anche. Quella che sta venendo avanti è una delle più grandi rivoluzioni sociali e culturali degli ultimi tempi.

Le foto sono di Stefania Andreotti

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Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)
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Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)
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Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)
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Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)

LA STORIA
L’arte del silicio

Nel 1985, quando Windows non esisteva ancora e Macintosh disponeva soltanto di un’interfaccia grafica monocromatica, i computer Amiga si avvalevano del multitasking (la capacità di eseguire più programmi simultaneamente), avevano 4096 colori sullo schermo invece dei consueti 2, 8 o 16 e flussi audio fino a 14 bit invece degli 8 bit della concorrenza. Queste caratteristiche, che in seguito permisero di definire il termine multimedialità, furono introdotte nel mondo dell’informatica home nel 1985 con il computer delle meraviglie, acronimo di Advance Multitasking Integrated Graphics Architecture.
Amiga è giunta sino ai giorni nostri grazie a uno zoccolo duro di appassionati, fedeli allo spirito pionieristico che l’ha sempre caratterizzata: “Only Amiga make it possibile”.
Andy Warhol ha realizzato alcune interessanti elaborazioni grafiche con Amiga, come nel caso del ritratto di Debbie Harry [vedi], cantante del gruppo pop Blondie, durante il lancio ufficiale, organizzato dalla Commodore, al Lincoln Center di New York il 23 luglio 1985 [vedi].
Nel 2001, accuratamente memorizzata su floppy disk, è stata scoperta una brevissima sequenza digitale animata “You are the one” creata da Andy Warhol con Amiga 1000. Oggi quest’animazione è visionabile solo durante mostre o eventi particolari. Del lavorare con Amiga l’artista americano disse: “La cosa che mi piace di più del fare arte sul computer è che sembra il mio lavoro” (The thing that I like most about doing art on the computer is that it looks like my work).
A volte un computer può fare nascere forti passioni e trasformare i suoi circuiti in percorsi e linee artistiche. Questo è il caso di Amiga, una piattaforma che per un decennio ha rappresentato un punto di partenza per molti artisti digitali grazie a mezzi quali le BBs (il mondo telematico prima di Internet), riviste specializzate e concorsi come “Bit Movie” di Riccione, “Immaginando” di Grosseto, “Pixel art expò” di Roma.
Nella galleria fotografica che segue abbiamo cercato di creare un percorso di storia e di arte, seguendo le strade tracciate dalle piste elettroniche e popolate da chip, integrati, condensatori, diodi, gusto del retrò e anche poesia.

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Espansione di memoria Commodore, file verticali di chip in varie sfumature e colori
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Scheda acceleratrice GVP GForce 030. La visione: “le città del futuro composte da ordinati integrati e veloci vie di comunicazione”
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Motherboard Pegasos2: “Pegasos carino , come un bambino conoscevo la gioia di salire su un cavallo rosso, in una notte di festa… “ Poesia di Antonio Machado
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Scheda grafica Picasso II: nel mondo Amiga i chip hanno spesso nomi propri di persona
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Digitalizzatore Vlab e scheda espansione memoria di Amiga 4000, come palazzi che si ergono dalle fondamenta della città
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Emulatore FPGA Minimig by Acube Systems: illusione artificiale, non è un’immagine sfuocata ma un computer ricreato all’interno di un chip
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Motherboard Sam440ep by Acube System, il calore viene trattenuto dai dissipatori, circondati da un rosso colore
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Amiga 2000, un quarto di secolo di storia, l’origine della tecnologia di oggi

Fotografie di William Molducci

Il mondo orizzontale

Il modo in cui guardiamo il mondo non è indifferente rispetto all’idea che del mondo ci facciamo. Da un po’ di tempo molti siti web sviluppati con il software più diffuso in questo momento, WordPress, ci propongono immagini a sviluppo orizzontale, perché questo è il format privilegiato da quel programma applicativo. Così capita di vedere anche primissimi piani in cui la figura ritratta appare come elemento al centro di una scena che, a differenza del solito, ha un corollario: a destra e a sinistra del soggetto si scorgono elementi ambientali. Questo ampliamento fornisce informazioni ulteriori rispetto a quelle focalizzate dal protagonista ritratto nella foto. La nostra percezione di quell’immagine, di quel soggetto e di quel volto sarà dunque condizionata anche dall’acquisizione degli elementi che lo contestualizzano. Aldilà di questo, che appare l’elemento più eclatante, osservare il mondo secondo una prospettiva orizzontale o verticale (o quadrata o circolare) influenza, condiziona e suggestiona le nostre modalità di apprendimento e di relazione con la realtà esterna. Vi pare una elucubrazioni filosofica e astratta? Fateci caso…

A man talks on his cell phone after taking part in the 10th Annual No Pants Subway Ride in New York City

 

 

 

 

 

Non è proprio la stessa cosa, che ne dite?

 

IL RITRATTO
Il palazzo dei sognatori

Un palazzo colorato mi viene incontro, ha da dirmi qualche cosa, mi vuole spiegare. Gli sorrido, sono disponibile ad ascoltare, come ogni volta che mi ritrovo di fronte a una porta o a una finestra aperte. Mia madre dice sempre che sono curiosa come una scimmia, accetto il complimento, non solo perché arriva da lei ma, soprattutto, perché adoro le persone curiose. Questo edificio è interessante, intrigante, sono sicura che nasconde storie, segreti, avventure uniche, entusiasmanti, coinvolgenti e avvincenti.
Una coppia di fidanzati si scambia promesse davanti a un antico portone semiaperto, un signore curioso li osserva dal balcone, una coppia di amiche gioca a mondo nel cortile. Le due ragazze si interrompono solo per scherzare sui loro innamorati o per organizzare la lezione di ballo del giorno dopo. Un simpatico signore zoppicante esce piano piano da una porta quasi ovale, appoggiandosi solo al suo bastone. Non sa ancora dove andare, ma l’importante è uscire a prendere una boccata d’aria fresca. Camminare, sempre camminare, mai fermarsi, perché camminare è la virtù dei forti, a camminare s’impara. File indiane di vestiti colorati abbelliscono finestre e balconi, appesi come i sogni, e, sventolando al ritmo delle leggera brezza pomeridiana, salutano i passanti, quasi in un fragoroso battito di mani. Clap clap, perché dietro a essi, al secondo piano, si sta suonando e ballando jazz, come a voler imitare la rumorosa, allegra e simpatica banda degli amici degli Aristogatti. Clap clap, perché in un altro appartamento si fanno prove di passi di danza, alla sbarra, passi rigorosi, decisi, precisi, leggiadri, come quelli di una libellula che sogna di volare lontano. Clap clap, perché un giovane musicista si allena accarezzando il suo violino. Mentre il gatto bianco arruffato e indisciplinato si raggomitola un attimo per ascoltarlo, quasi rapito. Clap, clap, perché in un ambiente poco illuminato un giovane fotografo prepara la sua prima esposizione pubblica, quella che potrà cambiare il suo destino per sempre. Clap clap, perché un bacio delicato suggella un amore dietro tendine per il corredo ricamate da un’anziana nonna che non c’è più. Clap clap, perché nel seminterrato Giovanni ripara la sua bicicletta per poter partecipare a una gara importante. Clap clap, perché, in una mansarda, alla luce di candele fioche e profumate, una scrittrice chiosa il suo romanzo. Mancano solo i ringraziamenti. Clap clap, perché dietro quelle porte e finestre, in quel palazzo colorato, si partoriscono sogni. Che un giorno diventeranno meravigliosa realtà. Basta saperlo.