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Ferrara film corto festival

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Le radici del conflitto tra Islam e Occidente

Suggerirei di rileggere o leggere, per chi non l’ha ancora fatto, il libro di Amin Maalouf, giornalista e scrittore libanese naturalizzato francese, pubblicato in Italia nel 1993, “Le crociate viste dagli arabi”.
È una lettura utile per chi voglia comprendere le ragioni del millenario conflitto tra Islam e Occidente. Il racconto delle crociate viste con gli occhi degli arabi è un’altra storia rispetto a quella che abbiamo appreso sui banchi delle nostre scuole. Ed è scontato che questo accada, a seconda che si stia dalla parte degli aggressori o delle vittime. Ma ciò che conta è la sensazione che resta al termine della lettura. E cioè l’impressione che prima o poi i nodi dovevano venire al pettine della storia. Solo una ottusa narcisistica arroganza dell’Occidente può ancora pensare di evitare questo appuntamento.
Il punto di partenza delle attuali tensioni può essere datato al 1095, quando i crociati europei lanciarono la guerra santa per conquistare la città di Gerusalemme. La loro invasione ha dato avvio alla guerra santa islamica, la jihad che continua tuttora.
Di fronte alla folle ferocia del Califfato che oggi sgozza i suoi prigionieri o li arde vivi in gabbie di ferro si ha l’impressione di una tragica legge del taglione, di una vendetta della storia nelle mani di un irriducibile fanatismo religioso.
Attraverso il mondo, dall’America all’Europa, dall’Africa al Medio Oriente, dal Pakistan all’Indonesia i fanciulli che frequentano le madrasa, le scuole islamiche, mandano a memoria gli stessi libri: il Corano in arabo antico e l’Hadith, il testo che contiene detti e aneddoti sulla vita del profeta Maometto. Analogamente ai testi Cristiani e di Confucio, queste letture hanno influenzato le menti di innumerevoli generazioni.
In Pakistan ci sono oltre 10.000 madrasa che preparano i futuri leader politici e religiosi. La scuola più importante è Haqqania che ha laureato i leader dei Talebani, e il gruppo dirigente dell’Afghanistan. Nell’ Haqqania gli studenti, dagli otto ai trent’anni, passano da sei mesi a tre anni a memorizzare il Corano in arabo coranico, unico veicolo ammesso per comprendere la parola di Dio, rivelata da Maometto. In questo modo gli studenti di Haqqania e gli studenti delle scuole islamiche nel mondo apprendono un linguaggio condiviso da oltre un miliardo di mussulmani. Non solo ciò consolida i legami tra le nazioni e le comunità islamiche, ma rende saliente il diritto all’apprendimento della propria lingua nei Paesi dove i mussulmani sono una minoranza.
La storia islamica e il diritto islamico completano gli studi degli studenti nella Haqqania. Il corso di storia islamica fornisce loro potenti promemoria dell’imperialismo occidentale. I Paesi islamici ancora sentono l’umiliazione dell’imperialismo occidentale, di conseguenza stupiscono circa la nostra pretesa di essere i progenitori e i difensori dei diritti umani nel mondo.
La giurista Ann Mayer cita il leader religioso Ayatollah Khomeini: “Quelli che sono chiamati diritti umani altro non sono che una collezione di regole corrotte tratte dal Sionismo per distruggere tutte le vere religioni”. All Khamene’i, attuale Guida Suprema dell’Iran, ha commentato, “Per noi la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani non è che una collezione di ‘Mumbo-Jumbo’ dei discepoli di Satana.”
La Dichiarazione del Cairo dei diritti umani, del 1990, si è resa, dunque, necessaria perché la nostra visione dei diritti dell’uomo non è compatibile con la concezione della persona e della comunità che ha l’Islam. Per l’Islam, il diritto all’istruzione è giustificato dall’esigenza religiosa di conoscere il Corano e non dalla dottrina occidentale del diritto naturale. Come risultato, la libertà di pensiero e di espressione nelle nazioni islamiche è ammessa solo in conformità ai dettami della legge di Dio o della Sharia.
Disgraziatamente, il Corano disegna un mondo diviso tra credenti e infedeli. In aggiunta c’è la lunga storia di persecuzioni dei mussulmani da parte dell’Occidente. Ma nello stesso tempo il Corano proibisce la compulsione religiosa, l’imposizione del credo religioso sugli altri.
D’altra parte non c’è nulla nel Corano che proibisca la pace tra i Paesi islamici e le altre nazioni, se nei fatti il Corano stabilisce, “Combatti nel nome di Dio coloro che combatti, ma non essere aggressivo: Dio non ama gli aggressori.” (2:190)
Il tempo e lo sforzo consapevole dell’Occidente come delle nazioni mussulmane potranno cancellare questo antagonismo storico e ridimensionare la dottrina del nazionalismo.
In questa direzione l’Occidente, a partire dal nostro Paese, può compiere da subito un passo in avanti relativamente ai diritti dei mussulmani nei Paesi dove sono minoranza. Non solo consentire la costruzione delle moschee, ma riconoscere il diritto ad apprendere l’arabo coranico come seconda lingua nelle scuole pubbliche. Si tratta di un’importante lingua internazionale che unisce una delle più grandi comunità culturali del mondo. L’arabo coranico potrebbe essere insegnato nelle scuole pubbliche laiche senza l’uso di testi religiosi, così come noi apprendiamo il latino a prescindere dalla chiesa cattolica. Se lo spagnolo, il latino, il tedesco, il francese, l’italiano, l’ebraico, il russo ecc. sono insegnati come seconda lingua nelle scuole pubbliche dell’Occidente, perché no l’arabo coranico?
Aiuterebbe veramente l’incontro tra le culture, quella occidentale e quella mussulmana, al di là di ogni sterile predica di integrazione e di pluralismo culturale.
Nel nostro paese, che consente l’insegnamento confessionale della religione cattolica a spese dello stato, questo diritto ha maggiore motivo d’essere garantito.
Non è accettabile che il diritto all’istruzione, sancito solennemente dalla nostra Costituzione, incontri delle limitazioni nei confronti dei tanti mussulmani che fuggono dalle discriminazioni e dalle imposizioni teocratiche dei governi e dei nazionalismi dell’Islam.

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Nota del sindaco Tiziano Tagliani sulla questione della caffetteria nel cortile di Palazzo Schifanoia

da: ufficio stampa Comune di Ferrara

E’ veramente singolare constatare come a pochi stia a cuore il definitivo restauro di Palazzo Schifanoia, mentre invece la paventata chiusura della caffetteria che si trova nel cortile del palazzo ha suscitato l’interesse dei mezzi di informazione, oltre a miriadi di interventi e commenti sul web. Da ultimo, anche alcuni esponenti di un paio di forze politiche di opposizione hanno pensato bene di salire sul carro della polemica, ergendosi a paladini di un imprenditore angariato, in difesa della continuazione della gestione della caffetteria da parte di quest’ultimo.
Prima di tutto, mi sia consentito dare una piccola notizia, che temo interesserà a pochissimi ma che è tuttavia necessaria per comprendere il contesto generale: il progetto per l’adeguamento sismico e il conseguente restauro di Palazzo Schifanoia sta terminando l’iter delle necessarie autorizzazioni. Vincoli delle finanze locali permettendo, speriamo di avviare il cantiere a cavallo della fine d’anno. A lavori conclusi, avremo un palazzo sicuro in tutte le sue parti (dopo i danni provocati dal sisma del 2012, che ne hanno ridotto gli spazi agibili), con un allestimento museale completamente nuovo e pensato per dare visibilità anche a tanta parte del nostro patrimonio artistico (ad oggi conservato nei depositi), e un ascensore, che finalmente consentirà a chiunque di accedere al piano superiore. Ma ora smetto di dilungarmi su queste “inezie”, e passo all’argomento che sta veramente a cuore al popolo del web, ad alcune forze politiche e – di conseguenza – ai mezzi d’informazione.
L’attuale concessione per il servizio di gestione della caffetteria scade ai primi d’aprile. Data la natura commerciale dell’attività (la caffetteria sarà pure un luogo dell’anima, ma rimane sostanzialmente una caffetteria), non si può provvedere ad affidare nuovamente il servizio se non attraverso un bando di gara. L’attuale gestore sostiene di aver maturato il diritto a vedersi riconosciuto un affidamento diretto. Nonostante sia stato invitato più volte, anche nel corso di numerosi incontri, a sostenere questa sua pretesa con valide argomentazioni giuridiche, l’invito è caduto nel vuoto. Forse se le motivazioni non arrivano è perché di valide – sul piano della legittimità – ve ne sono poche o nessuna.
La decisione presa dall’Amministrazione comunale è di non procedere con il bando per il nuovo affidamento del servizio fino al termine dei lavori. Il motivo è semplice: i lavori comporteranno la chiusura del Palazzo e anche il cortile sarà area di cantiere. Sarebbe sbagliato suscitare legittime aspettative in coloro che sono disposti a candidarsi per la gestione (di manifestazioni di interesse ne abbiamo avute parecchie, e chi le ha avanzate non ha – fino a prova contraria – minori diritti rispetto all’attuale gestore), per poi deluderle con un forzato periodo di chiusura, che purtroppo – considerata la complessità e delicatezza del restauro – non sarà breve.
Ma perché allora non prorogare l’attuale gestione fino all’inizio dei lavori? Il motivo, anche in questo caso, è semplice: l’attuale gestore è moroso, non paga il canone di concessione. Una morosità iniziata prima del sisma, quando cioè la gestione non poteva ancora aver risentito degli effetti negativi derivanti dal terremoto, che si è tradotta in un debito significativo nei confronti del Comune, cioè di tutti i cittadini ferraresi; e che apparirà, credo, scandalosa a tutti coloro che invece un canone lo pagano.
Il debito, dicevo, è rilevante, e permane tale nonostante: a) si sia concesso al gestore di riprendere l’attività – a furor di popolo, di associazione di categoria e di articoli di stampa – già a settembre 2012, sebbene il Museo fosse chiuso perché inagibile, dotandolo (ad onere del Comune) di bagni chimici perché i bagni del Museo erano irraggiungibili. Questo, dopo aver inutilmente tentato di prospettare al gestore e alla sua associazione di categoria che con il Museo chiuso la caffetteria ben difficilmente avrebbe avuto introiti adeguati; b) il gestore si sia tardivamente reso conto che con il Museo chiuso gli affari non andavano bene (sorprendente, vista la mole di testimonianze sul web attestanti il fatto che a Schifanoia ci si va per la caffetteria, e non per vedere gli affreschi del Salone dei Mesi); c) di conseguenza, il gestore si è nuovamente rivolto all’Amministrazione, e nel corso di incontri tra lui, un dirigente della sua associazione di categoria, il legale dell’associazione medesima e tecnici del Comune si è concordemente convenuto che la dirigente del Servizio Patrimonio del Comune e il legale di parte avrebbero condiviso una soluzione che contemperasse il sollievo alle difficoltà del gestore con l’esigenza imprescindibile di legittimità degli atti del Comune (non si ha qui la pretesa che questa esigenza sia compresa da tutti, ci basterebbe che la sentisse come propria chi siede in consiglio comunale come Paolo Spath di F.d.I./Alleanza Nazionale o in consiglio regionale, come Alan Fabbri della Lega Nord); d) la soluzione, condivisa dalla dirigente comunale e dal legale di parte, prevede, a decorrere dall’autunno 2012 e fino alla scadenza della concessione, uno sconto significativo sul canone, giustificato dal fatto che il Museo era stato solo parzialmente riaperto nella primavera 2013, e che quindi erano oggettivamente ridotte le potenzialità attrattive anche per la caffetteria (da notare: è vero che il Museo è riaperto solo parzialmente, ma il Salone dei Mesi è visitabile e nel corso del 2014 si sono avuti circa 52.000 visitatori, il picco da molti anni a questa parte); e) al gestore è stato proposto un piano rateizzato di rientro dal debito pregresso, a cui a tutt’oggi non è stata data risposta. Anzi, si è data risposta con un’abile campagna pubblicitaria, alla quale anche alcuni esponenti politici si sono accodati.
Questi i fatti, che lascio giudicare a voi. Per parte mia, posso solo dire che prorogare la concessione del servizio a un gestore pervicacemente moroso costituirebbe, oltre che un danno erariale, un’offesa al buon senso e a tutti coloro che faticosamente fanno fronte ai propri impegni. Aggiungo che il Comune agirà in tutte le sedi per recuperare un credito che appartiene ai cittadini, e che diffido il gestore dall’utilizzare la caffetteria e il nome di Schifanoia per campagne di informazione e di sottoscrizione che sono tutte squisitamente pro domo sua. Lancio, invece, una proposta agli esponenti di opposizione che hanno ritenuto di strumentalizzare questa vicenda: siccome dovrebbero conoscere molto bene quali sono i limiti posti all’agire di una Amministrazione pubblica, dico che sono disposto a considerare l’ipotesi di una proroga fino all’inizio dei lavori se garantiranno di tasca propria il puntuale pagamento del debito e dei canoni successivi, depositando anticipatamente l’intero importo quale cauzione,. Sarebbe anche un bel modo per dimostrare concretamente quella fiducia nelle capacità del gestore che sino ad oggi hanno sbandierato gratis.

Il Sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani

Lo yoga e l’arte del rispetto

“Siamo in questo mondo per portare pace e felicità a tutti gli esseri viventi. Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo adottare stili di vita pacifici e non dannosi e una non interferenza nella felicità degli altri”. Swami Nirmalananda

Quando ci si avvicina alla pratica dello yoga, inevitabilmente emerge il tema del vegetarianismo. Prima o poi la questione viene a galla, perché yoga e rispetto di ogni tipo di essere vivente sono strettamente legati e interconnessi. Pare difficile, infatti, prescindere dalla riflessione sul controllo del proprio corpo, della propria respirazione e del proprio battito se non ci si vede e ci si immagina immersi e facenti parte di un mondo naturale più esteso.
Parte di un ciclo, che si apre e si chiude, liberi ma rispettosi. Forse la riflessione non è immediata e arriva dopo qualche tempo e in seguito a una vera, intensa e cosciente dedizione alla pratica dello yoga, ma arriva. La simbiosi fra yoga e vegetarianismo è chiara laddove si pensi al fatto che la base dello yoga è la gentilezza, il rispetto della vita di ogni essere vivente, che deve essere libera e felice, e la considerazione che le azioni della propria devono contribuire in qualche modo alla felicità e alla libertà di tutti. Perché ciascuno di noi ha un ruolo da spendere e una responsabilità, ciascuno può fare qualcosa. Mai pensare che da soli non possiamo cambiare nulla. Mangiare carne o pesce significa privare della vita un altro essere vivente che spesso viene cresciuto e allevato proprio per soddisfare l’appetito umano, che si trova in batteria proprio per questo, alimentato con cibi di origine animale, quando per natura spesso è erbivoro. A nulla varrebbe la considerazione che gli animali si cacciano loro stessi per natura, perché non mangiamo tigri o leoni. Il latte, poi, anche quello viene sottratto al piccolo cui sarebbe dedicato, al quale la natura ha pensato, perché disponibile alle e dalle madri che hanno appena partorito, per i loro cuccioli, non certo per noi. Non è semplice sposare queste teorie né vogliamo farcene paladini (anche se, ammettiamo, ci ispirano una certa simpatia, o non ve ne parleremo), anche perché ognuno è abbastanza grande da comprendere ragioni e magari limiti di pensieri come questi. Certo è che le riflessioni di molti libri, fra i quali uno particolarmente interessante di Sharon Gannon, fondatrice del metodo Jivamukti Yoga (“Yoga and Vegetarianism”, Mandala Publishing, 2008, 144 p.), non vanno sottovalutate, soprattutto quando, dati alla mano, evidenziano anche il legame fra consumo di carne e riscaldamento globale (secondo le Nazioni unite l’allevamento di carne a uso alimentare comporta un aumento delle emissioni di gas a effetto serra maggiore di quello provocato dai trasporti), inquinamento idrico (la maggior parte dei rifiuti degli allevamenti, che contengono pesticidi, erbicidi, antibiotici e ormoni, finiscono in fiumi e oceani), uso dell’acqua (oltre la metà dell’acqua consumata negli Stati Uniti, ad esempio, è usata per l’allevamento di animali), terra e suolo (sempre negli Stati uniti, oltre l’80% dei terreni è utilizzato per allevare animali e grano/alimenti ad essi dedicati), deforestazione (aumenta per fare spazio ai terreni necessari per il punto precedente), grano (sempre sul suo, americano, l’80% del grano coltivato e il 95% di altri cereali, sono destinati ad alimentazione animale), petrolio (anche qui la percentuale di combustibile fossile destinato all’allevamento è altra, oltre un terzo di tutti i combustibili fossili usati in America), mari e oceani (si stanno svuotando di vita, spesso anche a causa di una pesca selvaggia, indiscriminata e non controllata). Senza dimenticare i benefici per la salute, in un’alimentazione povera di colesterolo, ormoni e grassi.
A mio avviso, tali riflessioni sono importanti, non vanno sottovalutate e, indipendentemente da un’applicazione più o meno rigorosa, credo che vadano conosciute. Sharon, nel libro citato, ricorda, poi, che gli uomini non sono biologicamente ‘disegnati’ come mangiatori di carne: anatomia e fisiologia suggeriscono il contrario, basti pensare che abbiamo bocche e denti piccoli. La vita, poi, è sacra, insegna lo yoga, siamo esseri spirituali grazie al nostro respiro. Ecco perché nello yoga la respirazione è tanto importante e va conosciuta, seguita e curata. Il respiro è connesso all’aria che tutti respiriamo. Se respirare significa vivere, allora non bisogna interrompere ‘l’alito di nessuno’, nemmeno quello degli animali. Respirare, quindi, ma connessi al tutto. Sempre.
Se lo yoga non pare, quindi, rappresentare solo un modo di essere, esso si riferisce piuttosto a un modo di vivere in armonia con il tutto dell’esistenza. Senza carne o pesce o solo con i frutti della terra, vale la pena mettersi in comunicazione con la vera essenza del mondo. Il suo respiro. Perché come trattiamo gli altri determina la nostra stessa realtà.

IL CASO
Troppa teoria all’Ipsia. E il preside introduce i laboratori creativi

L’Ipsia “Ercole I d’Este”, Istituto professionale per l’Industria e l’artigianato di via Canapa, negli ultimi 12 anni ha attraversato una serie di avversità che ne hanno un po’ offuscato l’immagine. Ma le cose stanno notevolmente cambiando, da un paio d’anni c’è una vera e propria ‘rivoluzione’ in atto: un gruppo molto motivato di docenti, sostenuti e coordinati dal nuovo preside Roberto Giovannetti, sta risollevando le sorti dell’istituto attraverso una progettazione innovativa. Con l’avvio del nuovo anno scolastico hanno avviato un progetto sperimentale triennale molto articolato, rivolto a tutta la scuola, e in particolare alle classi prime, nell’ambito del protocollo d’intesa per la prevenzione del bullismo e delle devianze giovanili che vede coinvolti, tra gli altri Promeco, Provincia, Prefettura, ufficio minori della Questura e l’Università di Bologna.

ipsia-prima-parteDocenti e preside hanno contattato la redazione di ferraraitalia, perché sentivano la necessità di raccontare il grande rinnovamento che vede protagonisti docenti e studenti e che merita di essere reso pubblico. La sfida è quella di cambiare la percezione che gli studenti stessi hanno della loro scuola, e ciò sta avvenendo grazie al fatto che si lavora per aumentare la loro autostima e per migliorare le relazioni all’interno dell’istituto, e di svelare ai concittadini e agli operatori del territorio quel gioiello che l’istituto sta diventando. Il cambiamento di impernia su laboratori creativi che coinvolgono le classi prime, un laboratorio teatrale con metodo Cosquillas; quello di musica rap/hip hop e il laboratorio di video.

Abbiamo intervistato le docenti Anna Guglielmetti e Monica Santoro, referente del progetto, che insegnano all’Ipsia da sette anni e che fanno parte del Gruppo tecnico del Progetto Sperimentale, il dirigente Roberto Giovannetti, Massimiliano Piva operatore del Metodo Cosquillas di cui abbiamo recentemente parlato [vedi], e gli stessi alunni, per capire meglio cosa abbia portato, nel passato, al degrado e oggi al rifiorire della scuola.
L’intervista si divide in tre parti, di seguito la voce delle insegnanti.

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Ipsia, Istituto professionale per l’Industria e l’artigianato: i ragazzi tutor, da sinistra in piedi il vicepreside Gianluca Rossi, il regista Massimiliano Piva, in basso da sinistra il preside Roberto Giovannetti, le prof. Anna Guglielmetti e Monica Santoro

Gli ultimi dieci anni hanno fortemente modificato l’immagine dell’istituto, quali sono state le cause più rilevanti?
In primo luogo, con le diverse riforme della scuola, tra cui quella Gelmini, tutti gli istituti professionali hanno subito notevoli modifiche nel quadro orario e la diminuzione di ore di attività pratica di laboratorio, perdendo così, in parte, la loro connotazione originaria e snaturandosi. Inevitabilmente i nostri ragazzi stanno subendo questo forte cambiamento, infatti quando si iscrivono al professionale si aspettano una scuola che dia loro la possibilità di acquisire sin dal primo anno competenze che orientino al mondo del lavoro, e invece si rendono conto ben presto che molte ore del biennio sono svolte in modo frontale e che i contenuti sono prettamente teorici. Solo nel triennio, infatti, il professionale assume la sua specifica connotazione. Inizialmente questo li disorienta e li delude perché vorrebbero che ci fossero più ore di laboratorio, più tempo da dedicare “al fare”, al “toccare con mano”, a sperimentare saperi da acquisire lavorando con motori, circuiti elettrici, macchine. Per noi è molto difficile sopperire alla mancanza di ore da dedicare all’attività manuale e pratica, tuttavia cerchiamo di venire incontro alle legittime richieste degli studenti attivando il maggior numero possibile di laboratori e attività extra. A causa della discrepanza tra aspettative e realtà, talvolta si avverte un clima di disagio non solo tra i ragazzi, ma anche tra gli insegnanti che non sempre possiedono strumenti adeguati per affrontare la situazione.

Quante ore di laboratorio c’erano nel biennio prima della riforma e quante ora?
Parliamo di un calo sensibilissimo: prima delle riforme c’erano circa 18 ore settimanali di attività pratica (su 42 totali), poi sono passate a 10 (su 36 ore settimanali), e adesso, nel biennio, ne sono rimaste 3 su un totale di 33 ore; inoltre le discipline sono aumentate.

I ragazzi come reagiscono?
Loro esprimono il disagio con comportamenti poco funzionali, talvolta scorretti, di protesta, perché faticano a rimanere 5/6 ore al giorno seduti in aula ad ascoltare lezioni teoriche, quando pensavano di poter trascorrere le mattine in un’alternanza tra aula e laboratori, in questo si sentono “traditi”. Ovviamente, essendo ragazzi non esplicitano il disagio, oppure lo fanno ma con atteggiamenti sbagliati che provocano conseguenze sul profitto; nelle situazioni più gravi si può presentare il rischio di abbandono scolastico. Anche prima della riforma abbiamo dovuto gestire classi vivaci e in qualche caso problematiche, ma dopo la riforma la situazione si è aggravata.

Ricorda un po’ la situazione in cui versava la Città del Ragazzo anni fa…
Esatto, siamo in una situazione simile ed è proprio al loro percorso di riqualificazione e valorizzazione che ci siamo ispirati.

Quali altri problemi hanno creato difficoltà alla scuola?
Ai disagi legati ad un’utenza a volte problematica con difficoltà di relazione e attenzione, alla drastica riduzione delle ore di laboratorio con la conseguente perdita di identità dell’istituto, al fenomeno delle ‘classi pollaio’ con 31 studenti, si sono aggiunti cambiamenti di dirigenza molto frequenti negli ultimi dieci anni, un turn-over altissimo degli insegnanti e del personale in generale, e lo spostamento della sede da via Roversella a via Canapa del 2003 che ha dato un duro colpo alle iscrizioni. Per anni, nel passato, abbiamo sofferto anche la mancanza di un fronte compatto che lavorasse sulla riorganizzazione della scuola, e ciò ha favorito il sorgere di preconcetti riguardo all’istituto che, in qualche caso, viene letteralmente stigmatizzato, al punto che alcune scuole medie, che non hanno compreso l’importanza del cambiamento in atto all’Ipsia, non ci aprono nemmeno più le porte per presentare la nostra offerta formativa agli alunni delle classi III nelle giornate dedicate all’orientamento.
Nell’immaginario collettivo il professionale corrisponde ad un luogo dove si fa poco o nulla e dove i ragazzi non hanno regole. In realtà non è affatto così: gli episodi gravi come l’ultimo fatto di cronaca del 29 gennaio (studente dell’Ipsia denunciato perché portava a scuola nello zaino un coltello di 33 centimetri) sono rarissimi, ma purtroppo solo quelli vengono amplificati, mentre emergono solo raramente i numerosi aspetti positivi dell’Istituto, ossia il fatto che ci sono insegnanti qualificati e motivati, con una grande capacità di ascoltare ed aiutare tutti i ragazzi, anche e soprattutto quelli in difficoltà, che i voti non sono regalati, che note e provvedimenti disciplinari vengono dati, se necessario, ma che si è sempre pronti a riconoscere e premiare gli studenti che si danno da fare, e che sono la maggioranza. Noi stiamo lavorando per mostrare questa, che è la vera immagine dell’istituto.

Quanti presidi avete cambiato negli ultimi anni?
Negli ultimi dieci anni si sono alternati sei presidi. Cambiamenti di dirigenza così frequenti ovviamente hanno destabilizzato la scuola e ostacolato interventi e attività anti-bullismo e antidispersione che ogni anno cercavamo di realizzare. Fortunatamente, da quando dirige l’Istituto il professor Giovannetti si è potuta realizzare una maggiore continuità di gestione e di conseguenza si riescono a mettere in atto le numerose strategie che ne stanno cambiando il volto.

Guglielmetti e Santoro chiamano una delle collaboratrici scolastiche storiche dell’istituto, Sandra Benassi, alla quale chiediamo di raccontarci com’era l’istituto negli anni d’oro.
Io lavoro all’Ipsia da 30 anni. Allora l’istituto era in centro, in via Roversella, una locazione molto più prestigiosa. C’era il bar all’interno e, all’esterno, un chiosco di cartoleria con prodotti dedicati alla nostra scuola. Avevamo circa 1500 studenti (a fronte degli attuali 300), molti dei quali sono diventati personalità importanti nell’ambito aziendale del territorio, e non solo. La scuola di via Roversella era un ex-convento, grandissimo, con cortili stupendi che si riempivano di ragazzi durante l’intervallo.

In cosa consiste il progetto con il quale avete cercato di invertire la rotta e come stanno andando le cose?

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I ragazzi durante il laboratorio teatrale
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Ragazzi di una classe prima e tre tutor del triennio

Il fulcro sono tre laboratori creativi che coinvolgono le classi prime, il laboratorio teatrale con metodo Cosquillas; il laboratorio di musica rap/hip hop; il laboratorio di video tenuto dagli operatori dell’Area giovani del Comune di Ferrara che realizza video-interviste e backstage delle attività delle altre classi. Stanno avendo tutti un grande successo. A questi laboratori partecipano anche gli studenti tutor del triennio che fungono da supporto e che si sono distinti per le loro notevoli qualità relazionali.

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La docente Anna Guglielmetti

Le attività che stiamo realizzando stanno andando benissimo. I ragazzi si stanno integrando, stanno meglio a scuola e i miglioramenti si stanno vedendo anche sul piano del comportamento. Gli studenti hanno accolto molto favorevolmente il progetto, al quale partecipano attivamente facendosi promotori di idee e proposte e rendendosi protagonisti di attività che si sono rivelate essenziali per l’obiettivo dello “star bene a scuola”. Ciò avviene anche grazie all’impegno di un gruppo studentesco che si occupa della cura degli ambienti e delle relazioni.

Oltre al progetto sperimentale, su cosa state lavorando per risollevare il nome e le sorti della scuola?

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La referente del progetto Monica Santoro e tre tutor, Federico Paone, Michela Canella e Cristina D’Agostino

Per aumentare il coinvolgimento e l’autostima dei ragazzi, per farli sentire importanti e incoraggiarli anche dal punto di vista dell’apprendimento, agiamo su più fronti: stimoliamo i ragazzi a sviluppare il senso di appartenenza alla propria scuola e puntiamo sul progetto accoglienza che si basa sul concetto di “educazione alla pari” e che consiste in attività di tutoraggio per le classi prime da parte di alcuni ragazzi del triennio. I ragazzi tutor vengono preparati dagli insegnanti in modo che siano autonomi nel gestire gli interventi i primi giorni di scuola nelle classi. Questi ragazzi sono davvero bravissimi, abbiamo verificato che quando viene data loro una responsabilità, la assumono e la sanno gestire molto bene. I tutor sono una risorsa importante per la scuola, perché rappresentano un canale di comunicazione diretto e uno strumento di mediazione con gli insegnanti.
Un’altra strategia che abbiamo messo in campo è il servizio di supporto a studenti, docenti e famiglie con la consulenza dell’educatore di Promeco, Alberto Urro. Inoltre, meritano certamente menzione alcune tra le iniziative più apprezzate, dai corsi di social network alle sfilate di moda, dal progetto promosso dalla Coop Ri-investimento-riuso creativo con scarti tessili, realizzato dal settore Moda, alle giornate di formazione e orientamento in collaborazione con la Cna, e poi attività di stage e cooperazioni con aziende dei settori meccanico, impiantistico elettrico, tessile-sartoriale.
Tutti insieme (insegnanti, studenti, tecnici, personale) siamo coinvolti ogni giorno per creare un clima positivo e propositivo, per riconfermare il ruolo della nostra scuola come luogo che prepara i ragazzi a diventare cittadini consapevoli, preparati e pronti ad entrate nel mondo del lavoro.

1. CONTINUA

Ricerca, insegnamento e impegno civile in ricordo di Mario Miegge

da: ufficio comunicazione ed eventi Unife

La sezione di filosofia dell’Università di Ferrara ha organizzato per giovedì 19 marzo, presso la Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea, una giornata in ricordo di Mario Miegge.

 

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Mario Miegge è stato docente di filosofia teoretica, preside della Facoltà di Magistero (1972-78) e direttore del Dipartimento di Scienze Umane (1997-1999).

Nel corso del convegno, grazie al contributo di amici e colleghi, sarà ripercorsa la sua attività di ricerca nei molti anni di insegnamento presso l’Ateneo.

L’OPINIONE
Tenetevi il brand e tutte le sue brandine

“Lo strumento fondamentale per la manipolazione della realtà è la manipolazione delle parole. Se puoi controllare il significato delle parole, puoi controllare le persone che devono usare le parole.”
Mi piace questa frase dello scrittore americano Philip Kindred Dick* perché prova a spiegare come alcuni politici usino appositamente certi termini in modo tale da condizionare il comportamento di chi li ascolta.
Ad esempio, nelle 136 pagine della proposta cosiddetta “buona scuola”, lo sfoggio di termini della lingua inglese è ridondante, come avevo già sottolineato in un recente articolo [leggi], perché intende suggerire un’idea di modernità, di progresso, di innovazione mistificando la reale natura competitiva, classista e anticostituzionale della proposta renzusconiana.
Nello stesso stile, il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone, sul suo blog intitolato Cambiamenti, scrive: “La buona scuola è diventata un brand in grado di attrarre su di sé l’attenzione dei privati. Sono state tantissime le imprese – da Samsung a Microsoft – che spontaneamente hanno contattato il Miur per “sponsorizzare” la scuola e le sue buone pratiche. E di questo sono molto contento: vuol dire che è chiaro a tutti che è sul futuro del nostro Paese che dobbiamo investire e che siamo chiamati tutti quanti a farlo perché la scuola è società e ne siamo tutti responsabili.”
Onde evitare equivoci, il brand è un nome, un simbolo, un disegno o una combinazione di tali elementi, con cui si identifica un prodotto al fine di differenziarlo da altri offerti dalla concorrenza; è anche la relazione emotiva e psicologica che suscita un certo prodotto sul cliente.
In parole povere il brand è la marca di un prodotto; ma se si dice brand si è più alla moda e si fa pesare agli altri il fatto di essere degli ignoranti 2.0. Una cosa è certa, alla pari di un prodotto commerciale, la cosiddetta “buona scuola” è una marca che è stata venduta bene.
Coltivo però un’ipotesi: penso che sarà molto diverso quando gli acquirenti più fiduciosi consumeranno il prodotto perché solo allora si accorgeranno che la cosiddetta “buona scuola” contiene tracce superiori alla norma di conservanti antidemocratici, di additivi aziendalistici, di elementi emarginanti, di esaltatori di competizione e di dolcificanti per contribuenti.
Se è normale, per chi governa questo Paese, che lo scuola possa diventare un brand e possa essere sponsorizzata, allora è enorme la distanza fra questa idea di società e quella di chi continua a ritenere la scuola un organo costituzionale, così come delineato da Piero Calamandrei e ripreso dalla “Legge di iniziativa popolare per una buona scuola per la Repubblica”.
È aberrante che la scuola di tutti e di ciascuno possa venir trasformata in un volgare bene di consumo; purtroppo però è quello che sta già succedendo. Ad esempio, qualche giorno fa, a scuola abbiamo ricevuto una bella lettera colorata in cui, fra le altre cose, c’era scritto: “Diventa anche tu un sostenitore della Scuola italiana! Acquista attraverso la piattaforma dai brand aderenti all’iniziativa e potrai dare un contributo concreto alla nostra scuola.
La piattaforma “Io Sostengo La Scuola” funge da punto di incontro tra aziende private e scuole italiane, pubbliche e private. All’interno della piattaforma “Io sostengo la Scuola” compaiono in vetrina i brand che aderiscono all’iniziativa, ciascuno con la propria proposta commerciale accompagnata da dichiarazione d’intenti. Tutti gli utenti: studenti, docenti, famiglie, simpatizzanti, ecc., una volta registrati, possono effettuare acquisti dalla piattaforma “Io Sostengo La Scuola” ricevendo in cambio i punti corrispondenti al valore dell’acquisto. L’utente potrà in qualsiasi momento verificare l’accumulo punti nella sua area riservata e scegliere la scuola o le scuole a cui destinarli.
Le scuole hanno a disposizione un catalogo premi dedicato composto da materiale didattico e multimediale: lavagne multimediali, libri, notebook, tablet, tastiere, chiavi Usb, licenze software, proiettori, ecc. Per redimerli sarà sufficiente raggiungere il numero di punti indicato. I punti che riceveranno le scuole saranno tutti volontariamente donati dagli utenti della piattaforma “Io Sostengo La Scuola”. Per le scuole e per gli utenti la piattaforma “Io Sostengo La Scuola” è totalmente gratuita e non comporta alcun contributo sotto alcuna forma. Il progetto vige nel rispetto dei principi di correttezza e di trasparenza ed è patrocinato dal Ministero della pubblica istruzione, dell’università e della ricerca.
È questa quindi la “buona scuola” in cui crede Matteo Renzi?
Quella in cui gli insegnanti dovrebbero distribuire ai genitori i consigli per gli acquisti suggeriti dal Ministero?
Quella che invita a consumare merci per sostenere il Piano dell’offerta formativa?
Quella che dovrebbe far felici i genitori di raccogliere punti e gli insegnanti di ricevere premi?
Quella che considera buone pratiche solo quelle sponsorizzate?
Quella che propone lo sviluppo dell’informatica e delle classi 2.0 ma solo se targate Microsoft o Samsung?
È questa dunque la cosiddetta “buona scuola” del brand?
Se è questa allora io, a modo mio, vi dico…
Tenetevi il brand e tutte le sue brandine perché, adombrandomi nel vedere la scuola ridotta a un brandello, sembrando Brando ne “Il selvaggio”, brandirei davanti a tutti l’articolo due della Lip, celebrando in tal modo la nostra Costituzione.
Comunque stiate librandovi, buona lettura del primo comma dell’articolo 2 della Lip sulle finalità generali del sistema educativo di istruzione statale: 1. Il sistema educativo di istruzione promuove l’acquisizione consapevole di saperi, conoscenze, linguaggi, abilità, atteggiamenti e pratiche di relazione, visti come aspetti del processo di crescita e di apprendimento permanente, con un’attenzione costante all’interazione ed all’educazione interculturale, che si caratterizza come riconoscimento e valorizzazione delle diversità di qualsiasi tipo ed è intesa come metodo trasversale a tutte le discipline.

* Philip Kindred Dick è l’autore, fra gli altri, del libro che ispirò il film Blade Runner, “Il cacciatore di androidi” (titolo originale “Do Androids Dream of Electric Sheep?”)

Il fatturato oncologico

Si costruiscono macchine indistruttibili che resistono nello spazio fino al raggiungimento della luna e di altri pianeti e non si riesce a trovare la cura per combattere il cancro? Incredibile e impossibile Ogni tanto ci “sfornano” un successo nella ricerca: Bene, anzi, benissimo. E poi? Silenzio… E noi tutti stiamo in attesa… Perché si sa la speranza è l’ultima a morire… Si potrebbero anche costruire automobili indistruttibili, che salverebbero da morte certa le persone, ma il problema non si pone… Perché? Perché tutto questo potrebbe (uso il condizionale) far parte di un’aggregazione di poteri molto forti, anzi fortissimi, insuperabili. Per esempio: che fine farebbe il mercato delle automobili che hanno bisogno di “sfornare” modelli di continuo? Ma chi se ne frega se la mortalità in incidenti sale di continuo. Anzi, meglio… Per non parlare delle assicurazioni… Quanto ci perderebbero? Rischierebbero la chiusura dell’attività.
Ricapitoliamo: spesso si leggono titoli come “Trovata la molecola anti-tumore” ecc.., ma poi, per svariati motivi, tutto si placa. Sorge il dubbio che potrebbe essere presa in considerazione solo se portasse maggiori utili alle case farmaceutiche. Poverine, se dovesse ridursi il loro fatturato, come potrebbero reagire? Una domanda sorge spontanea: quanto costa, alle strutture sanitarie, ogni malato di cancro? Migliaia di euro, anzi, centinaia di migliaia di euro all’anno. Al fatturato oncologico non si può togliere la principale ragione del fatturato poiché si rischierebbe di mettere in crisi tutto il sistema. Ci troviamo di fronte ad un’aggregazione di poteri.
Chissà perché mi viene in mente il Metodo Di Bella e la “sospetta” sperimentazione “fallita”. Non intendo ripercorrere tutta la “storia”, poiché ognuno di noi la ricorda benissimo. Si è parlato di “bluff” o davvero esisteva un complotto che intendeva non rivelarci la rivoluzione nel campo della cura del cancro?
Un malato di cancro costa moltissimo perché ai chemioterapici vengono associati altri farmaci per combattere gli effetti “sgradevoli” di tali terapie. E’ una catena e una giostra che va e viene e fa vomitare, in tutti i sensi. Però potrebbe far comodo così.
Veramente vi è qualcuno che pensa che siamo tutti stupidi? I soldi della ricerca non sono mai sufficienti? I nostri ricercatori non sono all’altezza? Tutte balle, balle, semplicemente balle.

LA STORIA Smiling, liceo internazionale col marchio del sorriso

All’ingresso ci sono due pappagalli, Giorgio e Sandra, un’inusuale presenza per una scuola, ma non per lo Smiling, da quest’anno anche liceo internazionale, dove gli animali, a cominciare dai gatti, sono una presenza familiare. Lo sportello della gabbia è aperto, Giorgio, otto mesi, s’arrampica sulla grata aiutandosi con il becco e le zampe, poi vola sul trespolo e punta gli occhi sull’ospite di passaggio. Sulla porta un cartello bilingue recita “Attenzione, pappagalli in fuga”. La comunicazione è informale, proprio come quella tra le persone abituate a condividere la vita di tutti i giorni. E’ un dettaglio, ma restituisce un’atmosfera e chi ha buona memoria della propria infanzia, sa quanto sia importante sentirsi di casa in un luogo che casa non è. “Lo Smiling è una scuola privata paritaria, che insegna in inglese il programma italiano ed è a misura di bambini e ragazzi. Sono loro il centro di questo piccolo grande mondo”, spiega Caterina Azzini, fondatrice e ‘principal’ di una realtà educativa ‘in progress’, giocata sull’apprendimento delle lingue, inglese in pole position, frequentata da quasi 300 alunni di età compresa tra i 2 e i 17 anni. Dall’asilo al liceo il mondo è Smiling.

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Presentazione del Liceo internazionale dello Smiling

Nato nel 1997 e distribuito in due differenti edifici, uno in Porta Mare e l’altro in via Roversella in un’ala dell’ex Canonici Mattei, lo Smiling è oggi un’impresa sociale di successo per il respiro internazionale di cui la lingua inglese, la più parlata e utilizzata nel business, è un punto di forza. Una bella soddisfazione per la fondatrice, invitata qualche tempo fa dall’Università di Bologna per illustrare lo story case dell’azienda. “Quando ho cominciato non mi aspettavo certo uno sviluppo del genere – racconta sorridendo – Inizialmente era una realtà dedicata ai bimbi più piccoli, oggi abbiamo completato l’offerta formativa nel segno della continuità. Una decisione presa per raggiungere l’unico vero obiettivo che mi sta a cuore: dare agli allievi gli strumenti e le competenze richieste dall’attualità, dalla globalizzazione per crearsi un futuro”. I timori di fare il passo più lungo della gamba con un ampliamento dell’istituto si sono dissolti in meno di un anno. “I ragazzi si divertono, imparano e sono contenti – continua – Il liceo non era nei miei progetti, neppure lo immaginavo, ma oggi ne vado fiera”.

Nel ’97 fatta la prima elementare, su richiesta delle mamme, formò la seconda. “C’erano solo cinque piccoli allievi”, ricorda. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti. “Ogni singolo momento è stato di crescita, ma anche di grande impegno, il mio è il lavoro più bello del mondo – dice – ma impone una presenza costante e investimenti continui. Tutto ciò che entra, finanziariamente parlando, viene riutilizzato per migliorare la scuola e a volte serve anche qualcosa di più”. Il segreto della buona riuscita del progetto, insiste, sta proprio nel trovare il giusto equilibrio tra istruzione di tradizione e innovazione di cui la tecnologia è un tassello fondamentale insieme al know how che ne valorizza le potenzialità. “Inutile dotarsi di una modernissima smart board se poi la si usa come una comune lavagna – sottolinea – proprio per questo ci vogliono persone competenti, capaci di sfruttarne le caratteristiche per preparare le lezioni e stimolare la creatività dei ragazzi”. Giusto un esempio per ricordare quanto sia importante lavorare con un team preparato e attento alle esigenze degli alunni. “Il fatto di essere una scuola privata, piccola se vogliamo, permette un rapporto più stretto tra insegnanti e allievi – prosegue – C’è poi da sottolineare il grande apporto dei miei collaboratori, bravi e determinati a raggiungere i risultati che ci prefiggiamo”.

Nella “staff room”, nella “library”, nelle aule colorate dai lavori di bimbi e “teachers”, in giardino, nel laboratorio di informatica, lungo le scale la lingua più parlata è l’inglese. Gli insegnanti di madre lingua dalla Gran Bretagna, dal Canada, dagli States sono il cuore della scuola, il tocco internazionale, lo staff “in motion”: vengono, vanno, cambiano con il passare degli anni. Il turnover è parte dell’”identità Smiling”: “Lo considero un po’ la nostra ricchezza. Chi va lascia comunque un segno, un’eredità raccolta da chi resta”, dice. Lo Smiling è dunque la scuola che fa la differenza? Più che altro è differente, il perché è subito detto: “Noi siamo piccoli e autonomi, è più facile prendere delle decisioni, in questo siamo privilegiati – conclude – La pubblica dipende da un apparato mastodontico, per questo fatica a muoversi. Personalmento credo sia da difendere, ha avuto aspetti positivi, ma ora come il resto del Paese, fa i conti con molteplici problemi, non ultimo quello economico. Poi, non lo si può negare, è stata trattata con trascuratezza, ciò non toglie che vi siano ottimi insegnanti chiamati a confrontasi con la pochezza di mezzi e risposte”.

LA CURIOSITA’
Samovar amore mio

da MOSCA – L’Enciclopedia Treccani fornisce la seguente definizione di ‘samovàr: s. m. [dal russo samovar, comp. di samo- «sé stesso, da sé», e tema di varit′ «bollire», attrav. il francese]: ‘Apparecchio costituito da un recipiente a forma di vaso con manico e coperchio, di rame o d’altro materiale, incorporato a un fornello a spirito; è usato in Russia e in altri paesi dell’Europa orientale per tenere sempre pronta l’acqua bollente, spec. per la preparazione del tè’. Qualcosa che bolle da solo, dunque, autonomo e deciso. Molti di noi hanno visto questo interessante oggetto in Russia, nei paesi slavi, in Turchia o in Iran. Chiunque abbia viaggiato in uno di questi Paesi, ne sarà rimasto sicuramente affascinato e incuriosito. La sua origine è piuttosto controversa: chi sostiene che il samovar provenga dall’Asia centrale, chi ritiene che sia stato inventato in Russia visto che in Iran non apparve prima del XVIII secolo e la stessa parola samovar, universalmente utilizzata, è di origine russa. Tante le ipotesi per un oggetto curioso.

samovarIeri mi trovavo in un confortevole e tranquillo ristorante georgiano, al centro di Mosca, quando, d’un tratto, sono incuriosita da un tè ambrato che, in realtà, è una bevanda speziata e profumata a base di miele e di un frutto che si trova solo qui (‘ablipicha’). La gentile signorina che serve ai tavoli mi confessa che è salutare e benefico. Vero. Sapore delicato, intenso e paradisiaco. Il tutto è comodamente adagiato sua una teiera di vetro scaldata da una piccola candela. Ecco allora che mi viene in mente il precursore del samovar, di cui avevo letto, lo ‘sbitennik’, un oggetto che serviva per preparare lo ‘sbiten’, una bevanda calda a base di miele e spezie. Assomigliava a un bollitore con le gambe e riscaldato da un tubo e ricordava un samovar. Eccomi immersa, allora, nella ricerca di qualche particolare in più. Scoprirò, quindi, che, alla fine del XVIII secolo, un armaiolo russo, Fedor Lisitsyn, aveva aperto una piccola officina a Tula, a sud di Mosca, dove s’iniziarono a produrre industrialmente i samovar che conobbero quasi subito un grande successo. Su tale onda nacquero numerose altre fabbriche che portarono Tula, nel 1830, a diventare la capitale della fabbricazione dei samovar. Nel XIX secolo, l’uso del samovar divenne popolare tanto a San Pietroburgo che a Mosca, e iniziò a rappresentare un forte legame e simbolo della cultura russa (Pushkin, Tolstoj, Gogol, Dostoevskij e Checkhov lo citarono regolarmente nelle loro opere). Se Tula rimaneva il luogo di produzione principale, si aprivano fabbriche anche in Siberia e negli Urali. Le ferrovie russe ne riconobbero la praticità e, dopo aver prima sperimentato il samovar sulle carrozze lusso della Transiberiana, lo resero ancor più popolare installandolo su tutti i vagoni dei treni a lunga percorrenza. In seguito furono sostituiti gradatamente con bollitori conosciuti in Unione Sovietica come ‘Titani’. Installati all’estremità del corridoio, erano a disposizione dei viaggiatori che desiderassero dell’acqua calda durante il lungo viaggio. I tradizionali samovar sopravvivevano solo nelle carrozze lusso, sotto l’attenta sorveglianza del personale. Durante la prima guerra mondiale, design e tecnologia furono semplificati e adattati all’uso militare. Tipici di questo periodo furono i samovar cilindrici saldati e privi di decorazioni, mentre gli anni venti e trenta vennero caratterizzati dalla collettivizzazione e dall’industrializzazione stalinista. Le piccole officine che fabbricavano samovar furono integrate in grandi industrie oppure dismesse.

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Antico modello di samovar

Gli anni Cinquanta e Sessanta introdussero l’invenzione del samovar elettrico in metallo nichelato. Finiva così il regno incontrastato del samovar a combustibile solido. Il sottile aroma del fumo lasciava il posto ai benefici derivanti dalla facilità d’uso e dall’economicità: si riduce il tempo per la pulizia e la preparazione del tè, inoltre la nichelatura protegge l’ottone dalla corrosione molto più a lungo. Le famiglie e la ristorazione collettiva adottarono rapidamente la nuova tecnologia, solo le ferrovie rimasero, e rimangono, fedeli al tradizionale, fumoso samovar a combustibile. Durante l’epoca Brezhneviana i samovar non subiscono alcuna modifica, solo in occasione dei giochi olimpici del 1980 ne furono venduti ai visitatori stranieri moltissimi e l’oggetto divenne simbolo della Russia. Un samovar tradizionale può essere a urna o a cratere, cilindrico, sferico, liscio, dorato o cesellato, ma essenzialmente si tratta di un contenitore metallico munito di un rubinetto sulla parte inferiore con all’interno un tubo, sempre metallico, che lo attraversa verticalmente. Il tubo è riempito con del combustibile solido che bruciando scalda l’acqua circostante. In alto, un camino di 15-20 centimetri ne assicura il tiraggio. La capacità di un samovar varia da uno a 400 litri.

Le regole d’oro di una cerimonia tradizionale russa prevedono, ancor oggi, il samovar al centro della tavola, ma, oltre ad esso, anche un’altra teiera per l’infuso. Di solito si prepara un tè molto forte e ogni ospite può versare nella propria tazza la quantità necessaria e poi allungarla con l’acqua bollente del samovar. Il tè va servito d’obbligo con lo zucchero: oggi si aggiunge nella tazza, ma originariamente si mettevano dei pezzettini di zollette in bocca, centellinando la bevanda bollente, addolcita dai frammenti di zucchero, usanza che arrivava dalla Siberia. È un’abitudine tipicamente russa. In Russia esiste, oltre alla tradizione di bere il tè dolce, quella di accompagnarlo con una sottile fettina di limone, del miele, alcuni ‘baranka’ (un tipo di panino dolce a forma d’anello) e anacardi. Negli ultimi anni è comparsa una grande varietà di dolci da servire con il tè: biscottini, cioccolatini, panpepato, marmellata, caramelle. I russi spesso s’incontrano ‘per una tazza di tè’ in piccole o grandi e allegre compagnie di parenti, amici o buoni conoscenti, perché ciascuno si possa riposare, rilassare, fare due chiacchiere in tranquillità. Di norma in Russia il tè si beve dopo pranzo, insieme a dolce o frutta. Se, invece, s’invitano ospiti apposta per il tè, questo viene accompagnato da una gran varietà di stuzzichini: salatini multiformi, panini con formaggio, salame, salmone, olive e torte dolci. Se siete invitati in Russia a prendere un tè, vi attende un’accoglienza gentile e squisita, lunghi racconti e rivelazioni confidenziali, forse persino canzoni oltre che allegri e piacevoli ricordi. Provare per credere.

Serie di francobolli del periodo dell’Urss a tema Samovar (1989)

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Oltre la retorica dell’8 marzo

I discorsi sull’8 marzo mi sono sembrati quest’anno un po’ meno retorici. Il filo comune mi pare il riconoscimento che le disuguaglianze non risiedono sul piano dei diritti formali, bensì su quello, opaco e apparentemente inossidabile, della vita quotidiana. Un richiamo al fatto che il superamento di discriminazioni non si limita ad una formale questione giuridica, ma richiede un lento processo di cambiamento sociale. Il dato che mi ha colpito di più riguarda le persistenti differenze nelle performance scolastiche, i migliori risultati delle ragazze in termini di titoli e di rendimenti scolastici (le ragazze sono più puntuali e dedicano tre ore in più alla settimana ai compiti) e la minore attitudine delle ragazze verso la matematica e le materie scientifiche (il divario è calcolato in circa tre mesi). Le ragazze leggono di più narrativa, i ragazzi preferiscono i quotidiani, i ragazzi giocano molto di più ai videogiochi. Sembrano delinearsi spazi di vita differenti, scenari di lavoro e interessi orientati verso luoghi separati: da una parte la scienza, la tecnologia e l’attualità e, dall’altra, le materie umanistiche e la letteratura.
Le attese e i modelli sociali condizionano gli orientamenti, visto che i dati sono diversi nei Paesi europei. Il tema della differenza parte ancora dalla scuola, quindi, quanto meno rispetto al mondo del lavoro. Alcune differenze vengono socialmente trasmesse e contribuiscono a perpetuare disuguaglianze.
L’approccio inclusivo è profondamente cambiato, l’attenzione si sposta sui processi reali, sulla vita quotidiana e i comportamenti. Su questo piano le riflessioni non sono confortanti. Resta una persistente disparità nel peso delle responsabilità domestiche tra uomini e donne, nel senso che sono queste ultime, anche nelle giovani coppie, a sopportare il maggiore onere di responsabilità. Questa differente fatica si riflette inevitabilmente dello spazio mentale e pratico dedicato all’investimento professionale. Storia nota si dirà, inoltre i cambiamenti sono sempre graduali e lenti.
Ma talvolta mi sorge il dubbio che le giovani donne oggi considerino le differenze in un certo senso naturali. Un dato contenuto nell’ultimo rapporto presentato dal Censis indica che il genere non è più un riferimento identitario. In una tabella che riporta le “opinioni sui fattori su cui si fonda l’identità, il 53% risponde l’educazione ricevuta, il 45% risponde la cultura e la stessa percentuale ottiene il carattere personale, mentre il 35% indica gli interessi e le passioni come fattore distintivo: questo ultimo dato vede una differenza rilevante per età, infatti supera il 50% tra i più giovani. La lista dei fattori è lunga e comprende, con valori decrescenti, il territorio in cui si è nati, la famiglia di origine, il lavoro, la nazionalità, il territorio in cui si vive. All’ultimo posto vediamo il reddito, considerato un fattore su cui si fonda l’identità solo dal 3,4% degli italiani. Al penultimo posto il genere, vale a dire l’essere maschio o femmina, con pesi diversi tra maschi (il cui 3% considera il genere rilevante) e le femmine (tra le quali l’8% lo considera tra i fattori di identità). Si tratta di percentuali molto basse, bassissime tra i millenials (3% medio).
Potremmo immaginare che i più giovani considerano il problema delle differenze di genere inesistente? Oppure cambia la prospettiva da cui lo si guarda e, semplicemente, l’essere maschio o femmina non viene più vissuto come elemento distintivo del sé?

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi. Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

IMMAGINARIO
Occhi di vetro.
La foto di oggi…

“Picnic ad Hanging Rock” di Peter Weir stasera sul grande schermo ad Argenta. La proiezione fa parte della rassegna cinematografica legata alla mostra fotografica “Occhi di vetro nel labirinto dei giganti”, in parete al Centro culturale mercato di Argenta.
I giganti sono Michelangelo Antonioni e Stanley Kubrick, registi che, per ragioni differenti, sono intimamente legati all’universo della fotografia. Il labirinto è quello dei tanti riferimenti sottesi ai loro film e in particolare a “Blow up” e “Shining”. Gli occhi di vetro, invece, sono gli obiettivi dei 17 fotografi che hanno partecipato a due insoliti workshop fotografici, promossi da Fotoclub Ferrara e Osservatorio nazionale sulla fotografia del Comune di Ferrara, dai quali sono poi venute fuori le due mostre ora riunite negli spazi dell’ex mercato di Argenta: “Ai margini della realtà”, di inspirazione antonioniana, e “Giallo Noir e perturbante”, dedicata idealmente al film kubrickiano. Oltre 160 i pezzi in mostra a cura di Emiliano Rinaldi e Roberto Roda che, oltre alle foto, includono oggetti di scena, abiti, dipinti, sculture. Cataloghi di Sometti editore di Mantova.
Il tema dell’inquietudine, del perturbante freudiano, è quello che lega qui idealmente “Blow up” a “Shining”, nonché a altre pellicole citate nella mostra fotografica. Per questo, durante l’esposizione, il Centro culturale mercato organizza proiezioni di film, come quello di stasera, legati alla narrazione espositiva e pure alcune serate speciali dedicate a fotografi e sodalizi fotografici.
Artisti in mostra: Alfredo Castelli, Claudio Chiaverotti, Guido Crepax, Elisabetta Dell’Olio, Gianni De Val, Ferruccio Gard, Titti Garelli, Lanfranco, Arnika Laura Gerhard, Anna Silvia Randi, Plinio Martelli, Alessia Pozzi, Antonello Silverini, Silvia Vendramel, Gianfranco Vanni “Collirio”, Ivano Vitali, Matteo Zeni e altri.
Interpreti: Luna Malaguti, Laura D’Angelo, Damiano Varzella, Sarah Gabrielle Scheider, Sonia Santini, Gio Scalet, Luna Vago, Leonardo Ferrioli e altri.
Fotografi: Ilaria Borraccetti, Carlo Boschini, Deborah Boschini, Paolo Cambi, Lucia Castelli, Franca Catellani, Sara Cestari, Roberto Del Vecchio, Greta Gadda, Pieranna Gibertini, Anna Maria Mantovani, Stefano Pavani, Stefania Ricci Frabattista, Emiliano Rinaldi, Maurizio Tieghi, Luca Zampini, Nedo Zanolini.
Ingresso gratuito oggi alle 21, sala Piccolo teatro del Centro culturale Mercato, piazza Marconi 1, ad Argenta.

OGGI – IMMAGINARIO CINEMA

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Occhi negli occhi in una scena di “Pic nic ad Hanging Rock” di Peter Weir

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic sulla foto per ingrandirla]

L’INTERVISTA
I racconti umoristici di Marco Bottoni: venti tipi di italiani, dal ‘lumbard’ al napoletano

Un giro d’Italia per venti regioni e per tipi umani. Il medico scrittore Marco Bottoni ha pubblicato, in questi giorni, “Venti buone regioni… per sorridere ancora”, edito da Festina Lente Edizioni, una raccolta di racconti umoristici ispirati alle regionalità che compongono il Paese. Storie di personaggi e di luoghi, carrellate di pensieri in un crescendo di sorrisi che portano a spasso il lettore da nord a sud.

Bottoni, come nasce l’idea di parlare dell’Italia in modo, per così dire, etnografico più che geografico?

Sono un grafomane, mi diverto da anni a scrivere di varie cose, da opere teatrali a componimenti di natura più intimistica. Mi sono reso conto che la geografia è materia, oggi, studiata poco e allora ho pensato di proporre le nostre regioni attraverso la realtà umana più che quella dei fiumi o dei monti.

Si dice che il paesaggio e le bellezze attorno influiscano inevitabilmente sul carattere e sulla mentalità degli uomini. Nel suo libro troviamo, in effetti, una certa ‘tipizzazione’ su base regionale…
Ho provato a inventare venti storie autonome caratterizzando, per citarne alcuni, il veneto bevitore, il lombardo secessionista, il ligure un po’ tirchio, il napoletano ottimista e tutti gli altri pennellati come io li vedevo. La loro mentalità permea, davvero, il racconto e lo fa sviluppare.

Abbiamo parlato di diversità, o meglio, di specificità, ma c’è qualcosa che accomuna tutti i personaggi dei racconti?
C’è un elemento che attraversa il libro e che credo sia una caratteristica comune a tutti gli italiani: il sorriso. Il punto di vista ironico è la chiave di lettura principale con cui ho concepito “Venti buone regioni… per sorridere ancora”.

Dall’ironia all’inaspettato, l’opera è anche piena di sorprese…
Non è forse così la vita? Chi più della vita ha il gusto di sorprendere? L’inaspettato c’è sempre, qualcosa che si rovescia non manca mai e il bello, credo, sia proprio questo.

Marco Bottoni, “Venti buone regioni… per sorridere ancora”, collana Piccola biblioteca del sorriso, Festina Lente Edizioni

SETTIMO GIORNO
‘George Taylor’, ovvero l’arte rara di deridere comicamente

GEORGE TAYLOR – Ritengo George Taylor, in arte Soffritti (o viceversa), l’ultimo dei grandi spiritacci di una Ferrara da sempre annichilita nella sua malinconia dalla quale Antonioni trasse l’ispirazione per film-capolavoro da vedere dopo aver ingoiato un po’ di bicarbonato. Ferrara è una città presuntuosamente triste, grigia, spesso falsa e dedita alla piaggeria, una città tutto sommato un po’ erudita ma non molto colta, che crede di saper tutto: i bolognesi hanno definito noi ferraresi “a fagh tut mi e i fa nient”. Si, è vero che in questa bellissima palude (più bella di quanto i suoi cittadini credono) nascono sovente soggetti intelligenti, sapidi d’animo artista, ma devono poi emigrare perché qui c’è sempre qualcuno pronto a tagliargli la testa se dimostra le sue capacità, “sa vol quel lì” e via col taglio jihadista. Un tempo i signori amanti dell’automobile compravano le Ferrari, prima ancora le Maserati o le Isotta Fraschini, le tenevano ben nascoste in un garage, da dove le estraevano per andare, faccio un esempio, a Bologna pavoneggiandosi per via Rizzoli, oppure andavano direttamente a Cortina e sfoggiavano la fuoriserie davanti al Posta: a Ferrara quell’auto non doveva essere vista. Benvenuto Cellini scrisse “ferraresi gente buonissima et avarissima”, aggiungerei sarcastica ma tristissima, a Ferrara è bello soltanto ciò che non è ferrarese. Una volta ero in autobus e passando con il “2” in piazza, l’amico che era con me guardò fuori e poi disse “non c’è nemmeno da mettere con Firenze”. Avevamo appena oltrepassato il Castello e stavamo giungendo davanti al Duomo, considerato il più importante esempio di romanico-gotico. Che cosa c’entrava con Firenze? Nulla, ma il masochismo ferrarese doveva essere soddisfatto. I ferraresi sono persone depresse, ma non George Taylor. Ecco perché lo amo. E’ grande e grosso, veste in modo vistoso, cappelli stravaganti, stivali o scarpe bicolori, porta con sé da anni ormai il cagnolino felice. George Soffritti ha fatto l’attore, spesso nei film di Fellini, e attore è rimasto: attore comunista aggiungo, e spesso si esibisce per strada, urla al vecchio e simpatico ragazzo, odia il Milan e tutto ciò che ha a che fare con Berlusconi, che deride comicamente, di recente ha aggiunto alla sua galleria di personaggi comici Brunetta (ma con una sola “t”). Giorni fa dentro un supermercato: “L’è inutil, urlava, Bruneta non è all’altezza”, poi rideva e il suo ridere sbertucciante risuonava da un capo all’altro dell’edificio trascinando le sghignazzate dei presenti. Non ce n’è più di attori come George Taylor, siamo sempre più depressi, sempre più vili nei nostri pensieri. Viva Soffritti. L’attore.

COMUNISTI – Ci si è messo anche Sepulveda, lo scrittore, a cantare il de profundis del comunismo. Lo fanno tutti ormai, è di moda parlar male del comunismo, anche da parte di coloro che dicono di essere stati comunisti. Sono un ex comunista, dicono: forse erano “ex” anche quando sventolavano bandiera rossa. Com’era di moda.

SCUOLE – Renzi sta lentamente privatizzando la scuola, un passo alla volta si tornerà alla formazione clericale, gli ordini religiosi avranno prebende, sovvenzioni, regalie pubbliche, le tasse scolastiche proibiranno l’accesso alle classi meno abbienti e la lunga, sacrosanta lotta per un’istruzione aperta, democratica, verrà archiviata definitivamente. E’ una delle grandi riforme del governo rottamatore.

Lo splendido ‘lupo cattivo’ di Edward Albee

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Edward Albee, regia di Gabriele Lavia, Teatro Comunale di Ferrara, dal 7 al 12 febbraio 2006

Dopo la rodatissima coppia attoriale Albertazzi-Proclemer della scorsa settimana, la stagione di prosa del Teatro Comunale ospita ora – e stavolta per la prima volta insieme – altri due grandi protagonisti della drammaturgia italiana: Gabriele Lavia e Mariangela Melato, questa sera interpreti di uno dei capolavori del teatro americano del Novecento, il celeberrimo “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, opera in passato interpretata da altre famose ‘coppie’ del teatro italiano quali: Pani-Malfatti, Ferzetti-Proclemer, Salerno-Ferrati. Entrambi, sia Gabriele Lavia che Mariangela Melato, sono per nostra fortuna assidui del palcoscenico ferrarese; solo per ricordare alcuni più o meno recenti titoli, Lavia ha qui rappresentato “Il padre”, “Una donna mite”, “La storia immortale”, e la Melato “Fedra”, “Un tram che si chiama desiderio”, “Madre Courage e i suoi figli”.
Edward Albee (nato nel 1928 a Washington) scrisse “Chi ha paura di Virginia Woolf?” nel 1962, poco dopo l’altro suo famoso precedente dramma “Il sogno americano”; l’opera divenne poi universalmente nota grazie all’omonimo e splendido film diretto da Mike Nichols e con l’indimenticabile interpretazione di Richard Burton ed Elizabeth Taylor. Testimone della solitudine dell’uomo nell’opulenta e lassista società contemporanea, Albee è da molti ritenuto ‘trait d’union’ fra i drammaturghi americani della generazione a lui precedente (Eugene O’Neill, Arthur Miller) e quelli della generazione successiva (David Mamet, Sam Shepard). La vicenda, ambientata nel New England, racconta dello spietato ‘gioco al massacro’ fra due coniugi insegnanti universitari, sottolineando il disfacimento dell’‘american dream’ nell’angoscia di una malata quotidianità. Il geniale titolo si basa sull’assonanza fra il nome della scrittrice Virginia Woolf e Big Bad Wolf (il lupo cattivo) nella nota canzonetta ‘Chi ha paura del lupo cattivo?’ sarcasticamente modificata.
Cataste di monitor, pile di libri, una Cadillac, un pianoforte verticale, dei divani, un jouke-box, un bar-specchiera, un letto sfatto, rampe di scale di servizio metalliche, una serie di carillon e altre suppellettili eterogenee: il tutto semisprofondato nella sabbia o accumulato e straripante dal proscenio fin quasi sulla prima fila della platea. Sono questi gli elementi che compongono (e in parte incombono) la scena di “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, per la regia dello stesso Lavia.

Conferenza al Liceo Ariosto, relatore Don Luigi Ciotti

da: Liceo Classico Statale Ludovico Ariosto Ferrara

Martedì 10 marzo dalle ore 15:00 alle ore 17:00 presso l’atrio Bassani del Liceo Ariosto si terrà una conferenza organizzata dagli studenti del Presidio di Libera “Giuseppe Francese” in collaborazione con l’Unione degli Studenti di Ferrara.

Relatore d’eccezione sarà Don Luigi Ciotti, fondatore dapprima del gruppo “Abele”, impegnato nel recupero dei tossicodipendenti e delle persone affette da altre dipendenze, e successivamente dell’Associazione “Libera” contro i soprusi delle mafie in tutta Italia.

L’incontro è aperto a tutti, con particolare attenzione agli studenti, e tratterà dell’importanza dell’informazione sulle mafie e della lotta all’indifferenza nei confronti dell’illegalità.

Perché le mafie ci sono e noi vogliamo combatterle!

L’incontro è aperto alla cittadinanza.

LA STORIA
Vita di contrada, “Il Palio dura tutto l’anno, San Luca è la nostra seconda casa”

E’ una serata fredda, da passare sul divano, avvolti in un plaid, nel calore di casa. Eppure sono circondata dai contradaioli di San Luca, riuniti per le prove settimanali. Dopo una giornata di studio o lavoro, musici, sbandieratori e sarte si incontrano, per i preparativi del Palio e non solo. Andrea e Giulia hanno 23 anni, sono studenti universitari e dopo le lezioni si ritrovano in contrada per fare le prove.
“Ci sono molte gare che rientrano nell’organizzazione del Palio – dice Andrea -. Per questo ci alleniamo sempre, per incontri locali e nazionali. A settembre, infatti, partecipiamo alle gare nazionali e, al termine, ricominciamo subito a prepararci. Si studia un nuovo progetto, lavoriamo in gruppi separati: musici e sbandieratori, e prima del Palio uniamo il tutto. Siamo qui tutte le volte che possiamo, ma non ci pesa, anzi, siamo qui anche quando non dobbiamo provare, questa per noi è una seconda casa”.

contrada-san-lucacontrada-san-lucaFare parte di una contrada significa impegno costante, divertimento ma anche esercizio e tanta pratica. Non sono tutte rose e fiori perché, proprio come nelle famiglie, si litiga e, a volte, ci si allontana per sempre. A differenza di Siena, in cui i contradaioli ricevono il battesimo, che li lega alla contrada per tutta la vita, a Ferrara si ha la possibilità di cambiare gruppo o far parte di quello che non è per nascita il proprio rione.
“Io facevo parte di un’altra contrada – racconta Giulia – ma non ero certa di volerci restare. Alla fine un mio amico mi ha portato qui a San Luca e mi sono resa conto di volerne fare parte. Quando ti leghi ad un gruppo di persone con cui condividi passioni ed emozioni e da cui ti senti amata, capisci di aver trovato il luogo che sarà la tua seconda casa”.

DSC_0002Certo, passare da una contrada all’altra non è sempre così facile. Le rivalità esistono, anche se non portano a sanzioni. Vivere la contrada non significa solo sfidarsi con gli avversari, ma principalmente creare un legame solido con i compagni, lavorando insieme per ottenere il massimo risultato ad ogni incontro. Non bisogna neanche trascurare, come ci ricorda Andrea, il significato che tutto questo ha per la città: “Il Palio di Ferrara è tra i più antichi, nasce nella seconda metà del 1200, ma non è amato da tutti i cittadini. O meglio, durante le giornate del Palio, piazza Ariostea è sempre pienissima e i ferraresi amano partecipare ad ogni evento in città, sia quelli di piazza Municipio che quelli in piazza Castello.

contrada-san-lucacontrada-san-lucaI problemi nascono durante il resto dell’anno, quando non ci sono spettacoli da vedere ma solamente le prove. A quel punto siamo visti come i disturbatori, quelli che fanno rumore da mattina a sera. Fortunatamente non la pensano tutti così, abbiamo anche gruppi di tifosi che ci seguono durante le gare in trasferta, legati al Palio ma sopratutto alla nostra contrada che, tra quelle cittadine, è una delle più grandi”.
contrada-san-lucaIl legame alla storia cittadina è ovunque, dai costumi, curati nei minimi dettagli, agli stemmi. Il simbolo della contrada San Luca è una zucca legata ad uno steccato, antico idrometro utilizzato per capire quando il fiume era in piena. Questo stemma, che spicca sul fondo verde e rosso, era lo stemma del marchese Lionello d’Este e rappresenta l’impresa del paraduro, legata alla bonifica del Polesine. Lo stendardo è ripreso nei colori dei contradaioli, posizionato sugli strumenti e raffigurato sulle bandiere.
La leggenda vuole che, molti anni fa, la contrada fosse la casa di un giovane ferrarese di nome Leopoldo,che, dopo la morte, non ha lasciato la struttura. Lo spirito aleggia tra le sale e, a volte, se ne può percepire la presenza, sentendosi osservati in stanze deserte.
I ragazzi però non si lasciano intimorire da queste storie, si allenano nelle coreografie attenti a non perdere mai di vista l’asta della bandiera, sollevata con agilità, come se fosse leggerissima. Giulia mi porta lascia godere lo spettacolo e mi spiega che per le donne non vogliono essere sbandieratrici, perché è molto faticoso compiere quei movimenti a lungo.
“Le coreografie possono durare diversi minuti e anche se una bandiera di per sé non è troppo pesante, eseguire i movimenti ripetutamente è molto faticoso, sopratutto perché ci si deve coordinare con gli altri. Per questo si deve provare costantemente, per restare allenati”.

Girovago per le stanze, osservo le sarte chiacchierare in sala costumi, gli sbandieratori che scherzano tra di loro e i musici provare tra una risata ed un’altra e capisco che questa è più che una seconda casa, è una vera e propria famiglia.

1. CONTINUA
Il nostro viaggio proseguirà alla scoperta di tutte le contrade ferraresi

Di seguito una carrellata di foto delle prove settimanali, clicca l’immagine per ingrandirla.

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IL FATTO
Al Festival internazionale di cinema e poesia di Modica un pezzetto di Ferraraitalia: Molducci in gara per la sezione videoclip

Nello splendido scenario barocco di Modica, in provincia di Ragusa, dal 20 al 22 marzo si svolgerà la 7ª edizione del Festival internazionale di cinema e poesia “Versi di luce”, organizzato dalla Coop. Elpis in collaborazione con il Club Amici di Salvatore Quasimodo, il CineClub 262, Officina Kreativa e Cineteca SOMS.

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I videoclip musicali in gara al Festival di Modica

La manifestazione è inserita tra le iniziative culturali promosse e patrocinate dalla Commissione nazionale italiana per l’Unesco, in occasione della giornata mondiale della poesia. Il festival è nato nel 2009 per approfondire il rapporto tra cinema e poesia e per celebrare la figura dell’illustre premio Nobel Salvatore Quasimodo, nativo di Modica. Al centro dell’evento c’è il concorso dei cortometraggi, suddivisi nelle sezioni video poesia, fiction e videoclip musicali.
Nelle parole di Luis Buñuel, poste nel sito ufficiale della rassegna, troviamo il manifesto culturale dell’evento: “Il cinema è strumento di poesia con tutto ciò che questa parola può contenere di significato liberatorio, di sovvertimento della realtà, di soglia attraverso cui si accede al mondo meraviglioso del subconscio”. Il Festival nel corso degli anni è diventato meta di cinefili, poeti e studenti, che partecipano attivamente agli incontri e alle proiezioni del concorso. Il 21 marzo si terrà la seconda edizione del “Poetry slam”, concorso di poesia riconosciuto dall’omonima Lega Italiana e valido per le finali regionali. I poeti declameranno testi scritti di proprio pugno, composti in qualsiasi stile, in lingua italiana o in dialetto italiano o in idiomi parlati in Italia.

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La locandina di ‘Face to face’

Di qualche giorno fa è la notizia che tra i selezionati del concorso Internazionale, riservato ai videoclip, c’è anche il nostro collaboratore William Molducci* (che su ferraraitalia scrive di cinema e musica), con un video musicale basato sulla canzone “Face to face”, interamente realizzata al computer dallo stesso regista. La protagonista del video fugge dalla metropoli per rifugiarsi in un luogo dove musica, sole e allegria hanno la meglio sui mostri (rappresentati da giganteschi murales) e sulla solitudine. “Face to face” è stato girato in varie località dell’Emilia-Romagna: Bologna, Ravenna, Premilcuore, Porto Corsini, Medicina, Cervia e Marina di Ravenna. Le altre nazioni rappresentate, nella sezione videoclip, sono Francia, Spagna, Germania, Svezia e Gran Bretagna.

William Molducci ha frequentato il Laboratorio di sceneggiatura di Tonino Guerra a San Marino. Nel 1986 ha vinto il Bellaria Film Festival con “Change”, presentato anche a Taormina Arte, PS 122 Festival Work di New York e U-Tape ’87, organizzato a Ferrara da Lola Bonora (selezione Tape-Connection). Tra le altre sue produzioni segnaliamo “Black out” e “Blu Cocktail”, entrambi in concorso al Torino Film Festival (1987 e 1988).

Cinemaitaliano [vedi]
Torino Film Festival [vedi]
Centro Nazionale del Cortometraggio [vedi]

* William Molducci è nato a Forlì, da oltre 25 anni si occupa di giornalismo, musica e cinema. Scrive sul Blog “Contatto Diretto” e sulla rivista americana “L’italo-Americano”.

JAZZ CLUB
Wayne, quartetto di musica anche per gli occhi

Musica anche per gli occhi quella di sabato scorso al Jazz club Ferrara con il quartetto di Wayne Escoffery. La presenza scultorea del sassofonista che guida il gruppo si alterna alle esibizioni quasi acrobatiche di Ralph Peterson alla batteria, a quelle di David Kikosky al pianoforte e di Ugonna Okegwo al contrabbasso. A raccontarlo ci sono le immagini scattate da Stefano Pavani nel Torrione di San Giovanni. La stagione concertistica prosegue con “main concerts” e serate a tema fino al 27 aprile.

[clic su un’immagine per ingrandirla e vedere poi tutta la galleria]

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Wayne Escoffery (foto Stefano Pavani)
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Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Ralph Peterson alla batteria nel Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Ralph Peterson alla batteria nel Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Ugonna Okegwo col Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Ugonna Okegwo col Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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David Kikosky al pianoforte col Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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David Kikosky al pianoforte col Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Ralph Peterson alla batteria nel Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Ralph Peterson alla batteria Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Wayne Escoffery al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
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Ralph Peterson alla batteria Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Ralph Peterson alla batteria Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Ugonna Okegwo col Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
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Ugonna Okegwo col Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)

Enzo Minarelli, la poesia sonora

Nel primo Novecento Marinetti e i futuristi inventarono la cosiddetta poesia sonora basata
sull’abbandono del supporto cartaceo e sull’utilizzo delle nuove tecnologie, all’epoca radio e
radiodrammi furono chiamati tali esperimenti futuristi.
In seguito, verso il 1940, Carlo Belloli ha elaborato il pionierismo futurista in tale nuova poetica,
infine negli e dagli anni Sessanta, sempre del secolo scorso, le neoavanguardie da Umberto Eco a Sanguineti a Zanzotto a Adriano Spatola e Enzo Minarelli – hanno codificato le sperimentazioni parafuturiste adattate alle nuove tecnologie, dal magnetofono infine al computer e al digitale, ispirati non più dalla rivoluzione artistica ma da nuove scienze quali semiotica e linguistica.
Due sono attualmente le rotte principali della nuova poetica sonora anticartacea: la prima consiste nella poesia sonora neoprimitiva un poco come i graffiti di Basquiat neopop; la seconda nella poesia sonora cibernetica basata sulle nuove tecnologie del XX secolo, dal Futurismo all’arte programmata fino all’arte elettronica, video, computer art, compresa la tecnomusic da discoteca e generi affini.
A partire dagli anni Ottanta a Ferrara, in particolare, spicca a livelli internazionali il centese Enzo Minarelli tra poesia sperimentale, sonora doc, live set: unico e inconfutabile il ruolo pionieristico e forse ineguagliato dello stesso Minarelli, le stesse riviste sonore Baobab e V3/Tre di Reggio Emilia e Cento, lavori sperimentali, presentati in Italia, Europa, Usa e anche conferenziere ufficiale per alcune università, Messico, Sud America, non ultimo il lavoro autobiografico “Polipoesia mon Amour” (Campanotto, 2005). In tale opera, quasi un libro messaggio alla McLuhan, la parola tra Neofuturismo e Neodadaismo appare definitivamente filtrata dalla ricerca scientifica, sorta di linguistica o semiotica immaginaria con esiti pure sorprendentemente ironici e freddamente micidiali per le poetiche cartacee.
Minarelli ha prodotto anche videopoesie sonore per il Centro Video Arte di Ferrara, il manifesto
della Polipoesia (1987) e Renato Barilli, non caso, gli ha dedicato un saggio critico.
Tutt’oggi, ormai con un background vastissimo, è protagonista internazionale della nuova poetica totale/elettronica di cui il suo manifesto della cosiddetta Polipoesia (anni 80) resta anno zero di riferimento obbligato.

Per saperne di più visita la pagina dedicata a Enzo Minarelli nel sito Archivio di Polipoesia [vedi].

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Editon-La Carmelina ebook 2012 [vedi]

L’IDEA
Contro lo spreco

Mamma mi ha sempre insegnato che non si deve sprecare il cibo, soprattutto il pane. Mai gettarlo via, nemmeno se vecchio, nemmeno se avanzato, raffermo o terribilmente duro. Può sempre essere buono e poi, nel mondo, ci sono tante persone che non ne hanno. Un po’ come “chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane”. Se poi andate in alcuni paesi, come quelli nordafricani, il regalo più grande che vi può fare un amico o un conoscente è una bella e fresca pagnotta di pane. Spesso fatta nei forni a legna, a volte preparata in casa da madri, sorelle o mogli. Ricordo la meravigliosa, rotonda, sottile e gialla kesra di Algeri, che non arrivava mai intera a casa, la più buona era quella che mi veniva regalata dal mio amico Hassem, che la trovava in un forno meraviglioso, quando non era la madre a prepararmela. Era un onore riceverla, allora mi è stato insegnato che per un arabo regalare il pane è un grande gesto di amicizia, stima e generosità. Si regala la base della vita. Mai rifiutare il regalo che si riceve, quindi: sarebbe una vera e propria offesa. Se, poi, il pane ha un valore simbolico in tutto il mondo, esso rappresenta da sempre l’alimento base di tutti, ricchi e poveri. Non va sprecato, in un mondo dove a tanti manca.

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Cartello del fornaio di Taranto che regala il pane la sera a chi ha bisogno

Per questo abbiamo deciso di lanciare un piccolo appello, partendo dalla scoperta di una lodevole iniziativa di un fornaio di Taranto, in una via che si chiama Emilia, guarda caso come la nostra bella regione. Questo fornaio regala il pane che rimane nel suo negozio a chi ne abbia bisogno, dopo le 19.30. Di sera, specifica lui. Se qualcuno, in rete, ha criticato la parola ‘avanzato’ che compare sul cartello della vetrina, noi non lo notiamo affatto, perché, termini a parte, l’idea ci pare ottima.

Da studenti, a Parigi, andavamo a recuperare gli ‘scarti’ di fine giornata dei mercati rionali di frutta e verdura, che venivano venduti a poco prezzo. Eravamo in quattro o cinque a dividerci chili di patate e pomodori che erano troppi per uno solo e che venivano solo smerciati a basso prezzo a condizione che si prendesse la grande quantità rimasta. Lì ho capito l’importanza del risparmio, di non sprecare. Non che mamma (anche qui lei) non me lo avesse insegnato, ma allora, con sempre meno soldi, da giovane borsista universitaria squattrinata quale ero, faceva davvero comodo. Ecco quindi che questo fornaio tarantino ci piace, e tanto. Magari lo si fa già anche nel nostra bella città. Se così fosse, chiedo venia per non averlo scoperto subito e comunicato a tutti. Se così non fosse, invece, invito a seguire l’esempio.

Acli Roma ha sviluppato il progetto ‘pane a chi serve’ [vedi], volto a recuperare dai panifici convenzionati pane e prodotti da forno ‘del giorno prima’ (meglio del termine’avanzato’?) per metterli a disposizione delle associazioni caritative e creare una rete di sostegno nel territorio (ad oggi il progetto recupera circa 1000 kg di pane a settimana dai 20 forni aderenti e distribuisce a 120 associazioni). Tante associazioni si stanno organizzando in tal senso. Ma il fornaio tarantino ci piace particolarmente, perché è uno, da solo, e nel suo piccolo rappresenta un segno di una grande solidarietà attiva che caratterizza molti italiani normali, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.
Cogliete l’attimo, allora, cari amici fornai ferraresi. Con quel bel ‘volentieri’.

Pane è la più gentile, la più accogliente delle parole. Scrivetela sempre con la maiuscola, come il vostro nome.
(Insegna di un caffè russo)

Galeotto fu il profumo del pane

L’intellettuale insoddisfatto Martin Joubert (un sempre meraviglioso Fabrice Luchini che avevamo recensito in “Moliere in bicicletta”), lascia Parigi per trasferirsi in Normandia, dove decide di riaprire la panetteria paterna e vivere in solitudine, equilibrio, serenità e tranquillità, in mezzo alla natura (l’elemento del misantropo che caratterizza spesso i personaggi di Luchini torna ancora).

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La locandina

Martin ha una grande passione per la lettura e la letteratura, Gustave Flaubert su tutti. Sereno quasi fino alla noia, Martin impasta, crea nuove forme e tipi di pane, ascolta France Culture che ‘legge’ “Madame Bovary”, il suo romanzo preferito. Tra il pane aromatico sfornato e una pagina sfogliata piano piano, il panettiere ancora non sa che la vita può davvero avere più fantasia della finzione. L’equilibrio raggiunto a fatica non tiene: viene sconvolto dall’arrivo improvviso e del tutto inaspettato della nuova coppia inglese di vicini di casa, Charles (Jason Flemyng) e Gemma Bovery (Gemma Arterton), ma, in particolare, da quello di Gemma, una vera e affascinante chimera. Il nome della coppia è, poi, una strana e sorprendente coincidenza. Flaubert, sempre Flaubert, anche qui. La coppia (lui restauratore, lei sensuale arredatrice d’interni), aprirà nella vita di Martin quell’inatteso e sconvolgente squilibrio che passa attraverso il parallelo della vita della giovane Gemma con il romanzo “Madame Bovary”, tanto adorato dall’uggioso, nevrotico e pieno di tic Martin.

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L’affascinante Gemma

Sarà, infatti, proprio nella bellezza semplice e seducente della ragazza, nella sua capacità di attirare l’attenzione maschile e, soprattutto, nella sua manifesta inadattabilità alla noiosa vita di provincia a indurre nella mente di Martin un confronto tra la vita della sua conturbante vicina e le vicende narrate nel romanzo dello scrittore francese, che scrisse e ambientò “Madame Bovary” proprio in quella splendida Normandia.

Sedotto dalla vicina e follemente incuriosito dall’aderenza della vita della donna al suo amato testo letterario, l’uomo sarà, dunque, spinto a seguire con sempre maggiore interesse le vicende della ragazza, pur di constatare fino a che punto vita e romanzo tenderanno realmente a sovrapporsi. Romanzo e vita che si mescolano, si confondono.

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L’intellettuale-panettiere Martin

Commistione, fusione, persino confusione. Una commedia leggera, ironica e divertente che gioca con la letteratura e la sua primaria fonte d’ispirazione, per riflettere sulla capacità delle passioni/ossessioni di travisare o addirittura di modificare la fisionomia della realtà. Una commedia pudica e semplice che fa riflettere sulle strane casualità della vita, ma ancor di più sul piacere, sulla bramosia dei desideri, sull’impossibilità del sogno e l’ineluttabilità di certe scelte. Film elegante, piccolo ma grande. In un ambiente delizioso, fatto di una profumata panetteria artigianale, un château e un vecchio casale.

Gemma Bovery, di Anne Fontaine, con Fabrice Luchini, Gemma Arterton, Jason Flemyng, Isabelle Candelier, Niels Schneider, Francia, 2014, 99 mn.

IL RICORDO
Paolo Morelli e il tramonto degli Alunni del sole

Paolo Morelli, musicista, pittore, poeta e leader de Gli Alunni del Sole, il gruppo italiano le cui canzoni ci hanno accompagnati nella vita di tutti i giorni dalla fine degli anni Sessanta, si è spento ormai un anno e mezzo fa, il 9 ottobre 2013. Ma la sua scomparsa è passata quasi inosservata, annunciata soltanto da qualche lancio di agenzia e da flash dei telegiornali nostrani. Abbiamo perso un autore che ci ha descritto le sue passioni, per mezzo di canzoni dotate di una musicalità particolare, riconoscibili già dal primo accordo, ricche di parole che descrivevano amori, gesti, oggetti, ricordi e ossessioni.

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Gli Alunni del sole

Paolo era semplice nelle sue espressioni, una semplicità che ne misurava proporzionalmente la grandezza. Le sue parole nascondevano processi di pensiero non convenzionali ma unici e allo stesso tempo recepiti dalla maggiore parte delle persone, come parte del proprio immaginario; da qui il successo, l’amore e la stima per questo artista.
Ci piace ricordare le parole che lui stesso ha scritto nel libretto del suo ultimo album di inediti: “Per molto tempo ho fatto un sogno fantasioso e ricorrente. Una bambina cammina lungo una spiaggia senza fine tra cielo e mare e, con una decisa interpellazione di tipo cinematografico, mi dice: Ciao… io sono la tua storia… tutte le canzoni di questa mia nuova raccolta sono legate a questo tema del sogno a me tanto caro. Ho sempre scritto canzoni d’amore e ho cantato sempre l’amore”.
L’idea del sogno forse è la stessa della bambola di cartone di “Jenny” o di “Dov’era lei a quell’ora”, un originale concept album che racconta la storia di un uomo accusato di omicidio, parlando delle sue riflessioni di uomo, non importa se colpevole o innocente. Per chi non lo sapesse, il nome del gruppo è stato tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Marotta.

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L’ultimo album di inediti

Qualche mese fa è uscito in sordina l’ultimo doppio Cd degli Alunni del sole, intitolato “La storia… il sogno”. Nel primo disco sono rappresentati 45 anni di storia, con quindici tra i maggiori successi del gruppo napoletano. La track list inizia con “L’aquilone” (il primo 45 giri pubblicato nel 1968), per chiudersi con “Liù” (vinse il Festivalbar nel 1978), passando per “Cantilena”, “La stanza dei ricordi”, “’A Canzuncella”, “Concerto” e tanti altri successi. Tutti i brani sono in versione originale, molto gradita la presenza di “Carezze”, che rappresenta la produzione realizzata sotto il marchio Rca, dopo gli anni in Ricordi, raramente proposta in digitale. Un’altra caratteristica degli Alunni è di non avere mai inciso cover straniere, come facevano abitualmente i gruppi della loro epoca. Naturalmente non poteva mancare “Jenny”, brano principale di “Jenny e la bambola”, ermetico concept album del 1974, ristampato soltanto recentemente su Cd (direttamente dal vinile), che racconta l’uscita dall’adolescenza di una ragazza, passando per metafore e figure ricorrenti quali maschere, sguardi, bambole, specchi e fiori.
La perla di questo cofanetto è senza dubbio l’album intitolato “Il sogno che svanisce” (quasi una premonizione), che contiene dieci tracce inedite. Si tratta di canzoni d’amore, come nella sua consuetudine, tra queste “‘Na canzone”, incisa anche da Patty Pravo, nel suo album intitolato “Meravigliosamente Patty”.
Le canzoni sono in lingua italiana e napoletana, tutte scritte da Paolo Morelli, che il fratello Bruno definisce “un cantautore all’interno di un gruppo”. Il disco d’inediti è intrigante, malinconico, allegro, poetico, frutto d’ispirazione e coinvolgimento da parte del suo autore.
Forse la nostalgia può avere influito su questo giudizio, ma ascoltando ” ‘Na Canzone” o “Ci vorrebbe un altro caffè”, i dubbi spariscono: “… ci vorrebbe un altro caffè, sposo così anche te, volo con nostalgia, a un soffio di malinconia, ma son sicuro che tu, ti prendi gioco di me…”. E come non emozionarsi con “La storia infinita”, sound anni ‘70 e un testo quasi sussurrato, tra il gioco e il sogno: “Conoscerai una stella cadente e un amore blu, finché la stella sarà lucente, la seguirai di più… fino alla fine di un dolce sogno, forse t’illuderai”.
Dalla fine degli anni ‘60 sino all’inizio del decennio successivo, le melodie e le parole de Gli Alunni del Sole hanno riempito l’etere radiofonico e televisivo, per poi uscire dalla scena dei grandi network, ma restando sempre a portata di fan e con qualche album uscito in punta di piedi.

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I dieci Cd del repertorio storico pubblicati da Sony nell’ottobre 2014

Lo scorso ottobre l’opera quasi integrale de Gli alunni del sole è stata racchiusa in un boxset di 10 Cd, venduti a un prezzo speciale. Tra gli inediti, in digitale, anche gli album “Jenny e la bambola”, “Dov’era lei a quell’ora” e quelli della Rca Italiana. Le canzoni di Paolo Morelli sono state interpretate, tra gli altri, da Ornella Vanoni, Enrico Ruggeri, Patty Pravo, Franco Simone, Placido Domingo e Joe Dassin, quest’ultimo ha inciso in lingua francese “‘A canzuncella”, con il titolo di “Quand on sera deux”, inserita nell’album “Les femmes de ma vie! del 1978: “Faut mettre des rideaux et des coussins fleuris des rayons pour les livres, un grand canapé-lit où il fera bon vivre, où l’on aura bien chaud, quand il y aura du givre ou de la pluie sur les carreaux… “.

LETTERA APERTA
Sottrazione di Stato, caro Renzi ti scrivo…

…Ma qualcosa ancora qui non va. È una vita che con le tasse, che ogni mese lo Stato mi trattiene abbondantemente alla fonte, contribuisco a pagare quell’oscenità dell’insegnamento confessionale della religione cattolica nelle scuole di uno stato laico.
Ora apprendo che dovrò anche contribuire alle spese delle scuole private e di quanti intendono frequentarle. In questo paese laico, si fa per dire, le uniche scuole private che si conoscano sono quelle confessionali. Quelle così rassicuranti per l’odore di tradizione che emanano, quelle con il grembiulino e la preghiera del mattino, quelle dove i figli delle famiglie che contano imparano a familiarizzare tra loro, anche se figli di evasori fiscali e tangentisti, ma tutto fa molto fino.
Non sto a richiamare l’art. 33 della nostra Costituzione, quello che dice “senza oneri per lo Stato”, perché tanto lo so come viene schivato dagli ossimori del politichese quali il “privato pubblico”.
E non sto neppure a parlare del furto che in questo modo si perpetua ai danni della scuola pubblica da decenni in un vergognoso e criminoso abbandono materiale e culturale, a cui certo la tua strombazzata “buona scuola” non porrà rimedi, perché un‘idea di scuola proprio non ce l’ha, se non l’invito a darsi una mossa contenuto nella famigerata lettera della Bce del 5 agosto 2011.
E qui, caro Renzi Matteo, finisce il tempo di Hamelin e del pifferaio magico.
E secondo te i miei soldi dovrebbero contribuire a finanziare il sistema delle pareggiate e parificate, che l’unica cosa a cui sono parificate è la morale della Conferenza episcopale italiana?
Eh no. Prima voglio una legge per l’obiezione di coscienza dei laici, perché che valga solo per i cattolici è già di per sé una discriminazione.
Io dovrei finanziare chi nel documento “La Chiesa per la Scuola”, usa ancora “vocazione” a proposito della professione docente? Chi pensa che nella scuola pubblica “è in gioco la libertà dei genitori circa l’educazione dei propri figli”? Chi rivendica “un’educazione che non sia solo acquisizione di competenze” ma “percorso verso l’autenticamente umano”. Cos’è l’autenticamente umano? Quello che milioni di poveri nel nostro paese neppure si possono permette di pensare, ai quali ora intendi sottrarre altri soldi per passarli all’hortus conclusus delle scuole private?
Gli autori di “Liberi di educare-Detrazione fiscale scuole paritarie”, nella lettera che ti hanno inviato il 3 febbraio sostengono: “I genitori devono poter scegliere una scuola adeguata per i loro figli, senza che questo risulti troppo oneroso. Devono poter scegliere una scuola adatta come contenuti, come cultura e come trattamento umano.”
Ma questi, se vogliono la loro scuola, perché poi la pretendono pari pari alla statale che tanto li urta? Insomma più che di valori sono a caccia di soldi, non da pagare di tasca propria, ma da fare pagare all’intera comunità.
Strana morale quella di questi cattolici, soprattutto un’opinabile carità cristiana.
La società deve comunque pagare per loro, niente medici abortisti negli ospedali, niente divorzio, niente eutanasia, niente coppie di fatto, niente unioni omosessuali, niente educazione gender, insomma niente di niente. E quando c’è da pagare le loro scuole invece devono pagare tutti.
Vogliono il finanziamento alle scuole parificate? Bene, non prima che in Italia sia passata una legge sull’eutanasia e sul matrimonio omosessuale.
Caro Renzi, io non sto a discettare se il Pd è un partito di sinistra o di centro sinistra, non ho più tempo da perdere. Io so solo una cosa, che nella vita ci devono essere dei principi su cui non si transige se no, non hai identità, non sei né carne né pesce. La destra i suoi per i vent’anni di berlusconismo ce li ha, senza timidezze, anzi con molta arroganza, sbattuti quotidianamente in faccia.
Per me i valori non negoziabili per dirsi di sinistra sono il lavoro, la tutela dei diritti dei lavoratori, essere dalla parte dei più poveri e dei bisognosi, la laicità che è rispetto della libertà dell’altro, che sarebbero i valori anche della nostra Costituzione.
Se si decide che su questi si può negoziare, come hai già fatto tu con il jobs act e ora intendi fare con il finanziamento alle scuole cattoliche, tu non solo non hai neppure la più lontana parentela con la sinistra, ma l’unica parentela che puoi vantare è quella con il pifferaio di Hamelin, che però al tuo confronto altro non era che un dilettante.

Sconfiggiamo il mal di schiena

Soffrire di mal di schiena è una condizione comune che tende ad acuirsi con l’avanzare dell’età ma è riscontrabile di frequente anche in persone giovani. Il “mal di schiena” è la causa più comune di assenza dal lavoro e di inabilità nella vita quotidiana. Molti mali di schiena sono il risultato di un uso improprio della colonna lombare nell’attività quotidiana (lavoro, lavori in casa, sport amatoriali etc.) che provoca stiramenti e la rende vulnerabile. L’aumento di peso aggrava questa situazione.
Inoltre, tra le cause della lombalgia si possono evidenziare: scorretta deambulazione per cattivo appoggio di un piede (esempio per una distorsione recente o anche passata), una vecchia pubalgia non trattata, problemi alle cervicali, dolori alle spalle, deglutizione atipica, un dente estratto o un dente incluso, malocclusione, un trauma ad un dito della mano, disbiosi (alterazione della flora batterica intestinale), diaframma molto teso per alterata respirazione durante lo sport o per eccessivo stress della vita quotidiana; attività lavorative disagevoli, sedute scorrette, posture viziate, sport violenti inadeguati all’età o alla persona, scarso movimento, cervicalgia, interventi chirurgici, cicatrici, alterazioni posturali, alterazioni della colonna vertebrale, alterazioni della funzione visiva (problemi dell’ occhio) etc.
Tutti questi elementi che generano i sintomi del mal di schiena hanno in comune l’aumento del tono muscolare come difesa e l’irritazione delle radici nervose. Ad ogni stress o problema, il tono muscolare aumenta inevitabilmente ed il perdurare di tale situazione fa sì che il tessuto connettivo fissi le posizioni dei muscoli in tensione, così che questi diventano permanentemente corti, cioè “retratti”. Proprio le retrazioni sono la spiegazione delle patologie articolari. Di fronte a tali fenomeni, l’azione più corretta, più profonda e radicale è rappresentata dal riequilibrio delle tensioni muscolari e dal riequilibrio della postura. Stare molte ore al lavoro seduti davanti al computer può provocare indolenzimento dei muscoli, formicolii alle mani, mal di schiena e, alla lunga, può causare depressione e disturbi dell’umore.

Alcuni consigli per migliorare la postura al lavoro
– Fare spesso esercizi per le spalle e per il collo, anche appoggiandosi al muro, tenendo allineate le orecchie con le spalle: quando si sta seduti, si tende a curvare la schiena in avanti o indietro, ma solo se le orecchie sono allineate con le spalle allora si è nella giusta posizione;
– evitare di tenere le gambe accavallate: per avere una postura corretta la pianta dei piedi deve essere ben piantata a terra;
– mettere le mani conserte dietro la schiena e provare ad alzarle verso le scapole;
– usare un cuscino lombare può essere utile per non incurvare la schiena in avanti;
– alzarsi spesso, fare delle piccole pause, muoversi ogni tanto;
– mentre si è seduti alla scrivania, fare esercizi per rilassarsi.

Alcuni consigli per fare correttamente i sollevamenti
– piegare le ginocchia, non la schiena;
– sollevare i pesi usando le gambe, afferrare gli oggetti e portali vicini al corpo;
– portare gli oggetti non più in alto del petto, usare gli sgabelli se necessario;
– quando il carico è molto pesante, cercare aiuto e non alzarsi di scatto.

Alcuni consigli per fare correttamente i lavori di casa
Anche i lavori di casa possono scatenare dei disturbi alla schiena, infatti sono le casalinghe a soffrire spesso di lombalgia. Di seguito le abitudini da correggere in modo da avere una schiena sana.

Spolverare le mensole
NO Quando si devono spostare oggetti o togliere la polvere su armadi e mensole, non bisogna incurvare la schiena all’indietro, per non caricarla eccessivamente e irrigidire oltre misura i muscoli.
SI’ La soluzione migliore è quella di utilizzare una scala.

Lavare la vasca da bagno o utilizzarla per fare il bucato
NO Lavare la vasca da bagno o utilizzarla per fare il bucato a mano corrisponde spesso ad abbassare la schiena mentre si è in piedi, rischiando di sollecitarla troppo.
SI’ Per evitare qualsiasi tipo di problema, ci si deve inginocchiare davanti alla vasca, alzandosi ogni tanto per non sforzare eccessivamente i muscoli della schiena.

Cucinare
NO Capita, quando si cucina, di ruotare il tronco su un lato, senza muovere le gambe, per prendere un barattolo o un oggetto che si trova di fianco: in questo modo, però, si sforza la schiena.
SI’ E’ necessario girare tutto il corpo (gambe e piedi compresi) verso l’oggetto da prendere.

Stirare
NO L’asse da stiro non deve essere né troppo basso né troppo alto, per evitare di incurvare o di tendere eccessivamente la schiena.
SI’ L’altezza ideale è quella per cui l’asse si trova a livello dei fianchi. Non bisogna mantenere a lungo la stessa posizione, ma si deve cercare di spostarsi ogni tanto, per esempio appoggiando un piede su un rialzo.

Rivolgersi ad un osteopata
Ormai ne sentiamo parlare da qualche tempo. Magari abbiamo sentito qualche amico che ha risolto un brutto mal di schiena o un fastidioso torcicollo rivolgendosi a questa fantomatica figura: l’osteopata. Resta però poca conoscenza di un mondo che, così come in Italia non ha ancora preso piede, in altri Paesi europei ed americani è già una realtà affermata. A dimostrazione di questo, in Italia la professione dell’osteopata non è riconosciuta, ma è tollerata; al contrario è riconosciuta ufficialmente negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in Nuova Zelanda, in Israele, in Gran Bretagna, in Belgio, in Svizzera ed in Francia.
L’intervento dell’osteopata può rivelarsi molto utile contro il mal di schiena. L’osteopatia è una scienza che si avvale di trattamenti manuali, intervenendo proprio sui dolori muscoloscheletrici, che possono interessare varie zone della schiena (lombare, dorsale, cervicale) oppure spalle, braccia, gambe. Tratta in particolare il tessuto connettivo, quello che avvolge ogni organo, lo collega agli altri e alle varie parti del corpo. L’osteopata prende in esame il movimento: non soltanto quello che si esegue grazie ai muscoli e alle articolazioni, ma anche quello che avviene all’interno, la respirazione e la trasmissione dei messaggi nervosi. È questa visione d’insieme delle cause e degli effetti che permette all’osteopatia di essere preziosa ed efficace contro il mal di schiena.

Il trattamento osteopatico, che utilizza diverse tecniche (l’osteopata le sceglie a seconda della persona che ha di fronte e dei problemi da risolvere), comincia con l’esame di eventuali referti già in possesso della persona (radiografie, ecografie), con una serie di test muscolari posturali e con l’osservazione e valutazione della colonna vertebrale e dell’equilibrio complessivo del corpo. In molti casi, un intervento adeguato può risolvere il mal di schiena anche trattando zone del corpo lontane da quella dove si sente dolore.

Se l’osteopata lo ritiene opportuno, può indirizzare la persona da uno specialista per un consulto. Qualunque sia il problema da risolvere, l’osteopata non consiglia l’assunzione di farmaci né di sostanze di alcun tipo. L’obiettivo fondamentale del trattamento osteopatico è di restituire all’organismo il ritmo e la mobilità che garantiscono il buon funzionamento degli organi e degli apparati. In linea di massima, un disturbo acuto o cronico richiede da tre a cinque sedute.

* Nuccio Russo è osteopata, esercita a Trapani e a Ferrara
nucciorusso@hotmail.com

PAGINE DI GIORNALISMO
Vita da giornalista, la volta che Enzo Biagi mi rispose: “Io non ho mai detto di no a nessuno”

2. SEGUE – “Giornalisti si nasce e io lo nacqui”, diceva, parafrasando Totò, un altro collega e amico, anch’egli romagnolo della banda Fellini, con il quale aveva diviso nei tempi poveri romani l’appartamento. Enzo Lucchi collaborava allora con “Paese sera”, era uno dei più acuti, coraggiosi e curiosi cronisti con cui io abbia lavorato, ma la direzione del “Giorno” di Milano, dove alla fine aveva trovato stipendio sicuro, non lo amava, è matto, dicevano di lui al secondo piano, il centro del potere del quotidiano e così gli affidavano servizi di bassa cronaca, sicuri, comunque, del risultato del suo lavoro: vestiva di nero, pantaloni neri, giacca di pelle nera, e arrivava su una moto nera di grossa cilindrata, una Bmw, Tonino Guerra e Federico il Grande si erano ispirati a lui per l’impareggiabile personaggio di “Scureza”, quello che attraversa la scena in moto in mezzo alla neve nel film “Amarcord”. I romagnoli sono dei pataca intelligenti ma strambi, così non mi meravigliai quando Lucchi mi disse vado in pensione, ho comprato una roulotte e vado a fare l’archeologo, lasciò la famiglia e partì, mi scrisse pochi mesi prima di morire ancor giovane, era sempre in Puglia, al caldo scrisse, lui che, quando lo mandarono con me a Vienna, dove i terroristi avevano sequestrato venti ministri dell’Ocse, riuniti per spartirsi il mercato mondiale del petrolio e deciderne il prezzo per noi poveri consumatori, si era presentato con addosso un pelliccione bianco candido con cappuccio che gli eschimesi gli avevano regalato una volta che era andato al Nord su una nave rompighiacci: io risi, ma dove vai così conciato?, gli chiesi, e lui, serio serio: non si sa mai, rispose, sperando in una grande avventura. Era inverno, d’accordo, ma non andavamo al Polo: Lucchi , che aveva il viso esquimese, era fatto così, gli piaceva esagerare.

Anch’io giornalista “lo nacqui”, ne ero convinto fin da ragazzino, quindi entrai sparato nella gloriosa carriera dello scribacchino, pensando che l’immortalità fosse lì ad attendermi, mi immaginavo la celebrità bellissima, eterea, pura, l’amante della mia vita futura: gloria, successo, fama, lasciando al mondo capolavori di scrittura originale, di inchieste inarrivabili, coraggiose, inoppugnabili, tutte rivolte contro l’ingiustizia e la falsità, credevo, allora, che esistesse una verità nelle cose e nei fatti, non avevo ancora imparato che la verità è sempre soggettiva, relativa, legata ai tempi e, anche, ai personaggi e agli interessi diversi che in essa si muovono. Mi accorsi più tardi che il mio era un madornale errore iniziale di valutazione della vischiosa, ingarbugliata trama umana, tu credi nella Madonna, mi diceva un mio caro amico, rimproverandomi di non essere realista. Credevo che bastasse essere onesti, meritevoli, che fosse sufficiente lavorare e saper scrivere per arrivare lassù, nell’Olimpo dei Grandi. Niente di più errato.

Grande errore cominciare questo strano mestiere di servitore galante, con la laurea di Sissignore, pensando a Emile Zola o a Hemingway, miti di un giornalismo che non ha patria in Italia, Paese in cui si pensa che la cultura e la ricerca della verità appartengano a emisferi non umani. Realismo ci vuole, non sogni. Come mi disse un giorno dell’inizio del 1970 Enzo Biagi, appena nominato direttore del “Resto del Carlino”: mi aveva chiesto di formare, assieme a Gian Franco Venè e a Maurizio Chierici , una specie di task-force milanese, ogni giorno un pezzo, un’inchiesta, un commento. Gli risposi che, dovendo fare il vice capocronista al “Giorno” e dovendo seguire le indagini sulla strage di piazza Fontana, non avevo la possibilità di rispondere alla sua chiamata. E Biagi, stizzito: “Ma ho chiesto il permesso di collaborare con me al suo direttore Pietra, il quale mi ha detto che va bene, lei può lavorare anche per me, ho già un accordo con lui”. “Sono abituato a fare le cose seriamente – replicai duro come spesso fanno i giovani e molto seccato per l’impertinenza (o mancanza di educazione) di aver parlato prima col mio direttore e poi con me, sicuro della mia risposta – non me la sento di fare due cose importanti nello stesso giorno, sarei disonesto con lei se dicessi di si.” “Lei sbaglia – sentenziò – io non ho mai detto di no a nessuno”. Una lezione.

Ecco, nel mestiere di giornalista, per fare carriera, non bisogna mai dire no. Sissignore è l’unica parola che il buon giornalista deve imparare e saper pronunciare: sissignore, agli ordini, si buana, signorsì al padrone di destra, signorsì al padrone di sinistra, la logica del potere non deve essere indagata, è un affare delle alte sfere, scrivi e basta. Una volta, al “Corriere Lombardo”, il primo quotidiano uscito a Milano subito dopo la Liberazione, arrivò la notizia, terribile, che un ponte nella Bergamasca era crollato mentre passava un pullman carico di scolaretti in gita, non ricordo quanti morti ci furono: mandammo come inviato un giovane e bravo cronista, Fernando Mezzetti, il quale scrisse che “il ponte di cemento armato aveva ceduto sotto il peso della corriera”. Il giornale era uno dei due (l’altro era “La Notte”) posseduti nel capoluogo lombardo da Pesenti, il re del cemento. Mentre passava il pezzo, il mio co-capocronista Bruno Castellino scosse il capo, “Mezzetti – chiamò – quanto giornalisti ci sono qua dentro?” e Mezzetti “Circa quaranta”, Castellino: “e quanti impiegati? e quanti correttori di bozze? e quanti tipografi? e quanti spedizionieri?”, Mezzetti guardava il suo capo con aria confusa, interdetta. Castellino riprese: e ti pare che se il cemento può sostenere il peso di tutta questa gente non possa sopportare una corrierina con dei bambini? Mezzetti: ma il ponte era di cemento! Castellino: e chi lo dice? Tu? E poi cancellò la parola cemento, quel ponte non aveva mai visto il cemento del padrone.

La censura comincia e spesso finisce così nel giornalismo, non c’è nemmeno bisogno dell’intervento diretto del potere, gli intermediari sono fidati Signorsì, per questo sono scelti scrupolosamente tra le tante teste che credono di essere segnate da un destino di gloria e, invece, sono semplicemente teste di cavolo, pronte a vendere la propria pelle (e, soprattutto, la propria testa) per dei soldi, avere un padrone è fastidioso ma anche rassicurante, basta fare lunghi esercizi di lingua. Se la sai usare bene la carriera è fatta. I meriti, nel giornalismo, sono mezzi spesso secondari, non dico inutili, ma non di primaria importanza per fare la sospirata carriera, come in tutti i settori del resto. Almeno un tempo era necessario saper scrivere correttamente, sapere di lettera come si diceva, oggi l’avvento del computer ha fatto giustizia di questo orribile orpello del saper scrivere. Sul desk arriva già tutto fatto, così viene tolta automaticamente anche la curiosità di approfondire, l’ultima speranza della tua intelligenza è stata cancellata, annullata dallo spietato strumento, che si è sostituito alla tua mente, tu devi usare le dita, spingere leggermente sui maledetti tasti e la realtà virtuale ti compare davanti in tutta la sua complessa parzialità, chini la testa e non fai nulla per cercare di sapere se quello che ti racconta il computer è vero o falso, la realtà vive dentro il computer ed è l’unica possibile umana verità.

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Angelo Andreotti: “Museoinvita, un tavolo attorno al quale sedersi”

da: Angelo Andreotti *

Colgo l’occasione dell’intervento pubblicato sugli organi di informazione locale del professor Ranieri Varese per chiarire che, nel mio articolo di apertura della neo rivista Museoinvita pubblicata dai Musei di Arte Antica, richiamando la rivista fondata da Varese stesso nel lontano 1971, intendevo omaggiare l’opera meritoria di chi mi ha preceduto, non certo esprimere l’intento di riproporre lo stesso modello. Anche a volerlo sarebbe impossibile sia per contesto sia per forma.

Per quanto riguarda il contesto, e trovando ormai inutile chiamare in causa ancora una volta la crisi economica (e conseguente riduzione di personale), basterebbe elencare quanto da quei tempi è entrato in corpo ai Musei d’Arte Antica facendoli diventare anche Storico Scientifici. L’elenco sarebbe molto lungo e avrebbe un’aria pretenziosa, ma al di là di tutto, questi sono segni dei tempi che non possono non influire anche sul concetto di “museo”, abituando chi come me – formato all’interno dei musei d’arte – deve ora confrontarsi nel concreto con problematiche tipiche, per esempio, di un Museo del Risorgimento e della Resistenza, di un Museo di Storia Naturale, e anche di un Centro Studi Bassaniani, quest’ultimo peraltro all’interno di un edificio (Casa Minerbi) che sarà condiviso dall’Istituto di Studi Rinascimentali, e da affreschi di pertinenza del MIBACT. Aggiungo per completezza anche il mio incarico (gratuito e su mandato dell’Amministrazione) come Segretario dell’Associazione Beni Italiani Patrimonio Mondiale Siti UNESCO.

Angelo Andreotti è dirigente del servizio Musei d’arte antica e storico-scientifici
Angelo Andreotti è dirigente del servizio Musei d’arte antica e storico-scientifici

La domanda a questo punto è la seguente: visto il contesto, posso davvero pensare di riproporre un modello di rivista che sia quello pensato nel 1971? Certo che no. L’impressione che lo sia è dovuta, credo, al fatto che il primo numero parla di argomenti che riguardano i Musei d’Arte Antica, e che l’intera rivista è stata progettata esclusivamente dagli stessi Musei. Sorvolo sul fatto che ci sono pure altre riviste che trovano la loro collocazione in un ambito museale preciso, salvo poi collaborare alla pari con altre realtà territoriali, semplicemente “facendosi capofila” di un progetto, e sottolineo invece un’altra condizione del contesto odierno: il dissolversi lento e non del tutto chiaro e definito delle Amministrazioni Provinciali (che tanta ripercussione avrà sul territorio), e il mutamento sostanziale ma ancora in divenire delle Soprintendenze (che verranno separate dalla gestione museale). In queste circostanze cercare di iniziare un percorso comune sarebbe intempestivo, oltretutto non va dimenticato che molti spazi museali attendono ancora lavori di messa a norma antisismica, che coincideranno con una rivisitazione anche globale della loro identità.

Museoinvita è una rivista che abbiamo fatto nascere. Tutto qui per ora, ma è ovvio che andrà implementata attraverso il confronto diretto con le varie espressioni museali del territorio. Occorre tempo, e piuttosto che consumarne nell’attesa di renderla possibile, l’abbiamo resa reale in una modalità fluida, rimandando al dopo il confezionamento di un progetto comune. Come a dire che intanto abbiamo costruito il tavolo, e adesso che esiste possiamo tutti sederci attorno a esso. Faccio inoltre presente che altri tavoli di lavoro, che vanno nella nostra stessa direzione per quanto con altre finalità, sono in corso da tempo, come quello di coordinamento dei musei cittadini gestito in prima persona dal vice Sindaco Massimo Maisto, che peraltro ha già prodotto buoni risultati.

La forma stessa della rivista consente un’agilità che il modello cartaceo non potrebbe avere, e che può senza sforzo alcuno trasformare il tavolo di lavoro a seconda delle necessità. Essere stati noi a progettarla è di poca importanza, poiché la sua struttura ha caratteristiche fluide, non solide. Di più: la modalità online è una forma non soltanto che si adegua ai contenuti, ma anche li costringe a essere dinamici, a rimodularsi secondo realtà, a generare connessioni diversamente impraticabili o addirittura impensabili. Il bello di Museoinvita sarà proprio la sua capacità di trasformarsi nel tempo. Ma a tempo debito, soprattutto facendo sistema senza preordinare un sistema che, in tal modo, rischierebbe di interpretare pregiudizialmente la realtà, e dunque di paralizzare la comprensione del naturale corso degli eventi, in questo particolare periodo decisamente complesso e dai mutamenti spesso repentini.

* Angelo Andreotti è dirigente del Servizio Musei d’Arte Antica e Storico-Scientifici

L’INTERVISTA
Malacarne su Santa Maria in Vado: “Il terremoto ha ridotto i beni culturali a cenerentole”

La chiesa e il convento di Santa Maria in Vado è tra i complessi ecclesiastici più belli e meglio conservati di Ferrara, carico di valore storico testimoniale. Purtroppo però, a causa dei gravi danni riportati con il terremoto e dei ritardi negli interventi post-sisma, lo stato del bene sta peggiorando di giorno in giorno e i danni, con il parziale disuso, rischiano di aggravarsi in modo esponenziale.

Subito dopo le scosse del maggio 2012 l’architetto Paola Rossi e l’ingegner Giuliano Mezzadri vengono incaricati dalla diocesi di occuparsi del progetto di restauro: in pochi mesi sono resi agibili, con fondi per opere provvisionali urgenti, chiesa e chiostro adiacente e redatto un progetto preliminare molto dettagliato, quasi operativo, per cercare di abbreviare i tempi tecnici che precedono i lavori di recupero. Il progetto viene presentato in Regione a inizio ottobre 2014 ma solo in questi giorni, dopo quattro mesi dalla richiesta e due anni e mezzo dal sisma, è arrivato il primo parere “parzialmente favorevole”.
Della necessità di accelerare i finanziamenti da parte della Regione Emilia Romagna e di partire con una seria riflessione sul tema “terremoto e beni culturali” abbiamo parlato con l’architetto Andrea Malacarne, consulente al progetto. Per renderci conto delle reali condizioni di degrado di Santa Maria in Vado, abbiamo visitato il complesso con l’architetto Paola Rossi, titolare del progetto, che ci ha anche reso note una serie di importanti scoperte fatte durante i rilievi e le campagne di sondaggi.

Siete preoccupati, i tempi si stanno facendo molto lunghi, l’intervento di recupero non parte e il degrado aumenta. Cosa fare?

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Il chiostro della parrocchia di Santa Maria in Vado
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Lo scalone monumentale in stato di degrado

Malacarne: Sarebbe necessario fare una riflessione su “terremoto e beni culturali” perché questi ultimi rischiano di diventare la cenerentola di questo terremoto, nel senso che sono in coda a tutto il resto e la Regione cerca di limitare i finanziamenti alla semplice riparazione dei danni. Ma come si fa a metter mano su edifici di questa importanza senza considerare tutta una serie di aspetti storici e architettonici complessivi e senza una riflessione anche di prospettiva? E’ insensato tamponare soltanto, senza procedere con interventi più consistenti, non solo per un discorso di messa in sicurezza (perché il sisma purtroppo potrebbe verificarsi di nuovo, e anche più forte), ma anche perché si tratta di edifici delicati e complessi, che quasi sempre ospitano attività con grande affluenza di pubblico. E poi da sempre i terremoti, pur nella loro drammaticità, sono stati l’occasione per importanti operazioni di recupero e miglioramento del comportamento antisismico degli edifici monumentali presenti in tutto il territorio del nostro paese, che non ci possiamo permettere di perdere. Nell’incertezza dell’entità dei finanziamenti si rischia di far partire tanti cantieri che resteranno tali per chissà quanti anni. Questo Ferrara non se lo può permettere.

A quando risale il vostro progetto e a che punto siamo?

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Il primo chiostro con l’accesso alla sagrestia e alle palestre

Rossi: Il progetto preliminare è stato presentato ai primi di ottobre 2014 alla Regione Emilia Romagna e solo la settimana scorsa, dopo quattro mesi, abbiamo ricevuto la conferma che il progetto è passato, seppure con molte osservazioni e limitazioni. Ora comincia la fase dell’elaborazione e della consegna dei progetti esecutivi e solo con la loro approvazione definitiva si capirà quanti fondi saranno effettivamente assegnati. Il problema è che nel frattempo il degrado procede e i danni rischiano di aumentare. E’ una questione grave che riguarda non solo Santa Maria in Vado, ma anche tanti altri edifici e chiese importanti della città che hanno subito danni con le scosse del maggio 2012.

Sono ormai 17 mesi che la parrocchia e la contrada di Santa Maria in Vado sono inagibili, con un grande disagio per la comunità e un preoccupante degrado della struttura. C’è qualche possibilità che i restauri procedano?

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Veduta di chiesa e primo chiostro dal campanile

Noi stiamo lavorando per rimettere in moto la vita della comunità: assieme all’ingegnere strutturista ci siamo adoperati nel primo anno per riaprire, con poche opere di messa in sicurezza, prima buona parte della chiesa, poi il chiostro con alcuni locali, ossia gli ambienti essenziali per riprendere le attività parrocchiali. In seguito, per mesi, si è rimasti in attesa che la Direzione regionale del Ministero dei beni culturali fosse in grado di valutare con proprie schede i danni e lavori da eseguire nei singoli edifici, con i relativi costi; poi la Regione ha emesso le ordinanze con l’indicazione delle priorità degli interventi sui beni culturali danneggiati. Solo allora è stato possibile cominciare a lavorare ai progetti. Va tenuto presente che a Santa Maria in Vado ci sono tanti danni diffusi da terremoto ma anche situazioni di degrado pregresso delle quali non si può non tener conto.

Dopo i primi lavori per rendere agibili la chiesa e il chiostro, siete riusciti a fare qualche altro intervento?
Praticamente nulla. Solo sondaggi ed indagini preliminari. Finché non si è certi dell’approvazione dei progetti (il preliminare, il definitivo e l’esecutivo) e di quanto stanzierà la Regione non è possibile aprire il cantiere.

Cosa comporta il vostro progetto?

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Veduta aerea dell’intero complesso

Si tratta di un progetto di recupero dell’intero complesso che ha comportato campagne di sondaggi diretti e approfondimenti storici e d’archivio. E’ stato inoltre eseguito un rilievo completo dell’edificio monastico che non era mai stato fatto prima (esisteva solo un buon rilievo della chiesa commissionato anni or sono dalla Soprintendenza). Un lavoro quindi lungo e approfondito, attraverso il quale è stato possibile conoscere l’edificio nella sua evoluzione storica, farne riemergere l’impianto originario, scoprire anche l’esistenza di decorazioni e affreschi prima sconosciuti.

Di che scoperte si tratta?

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Una delle palestre: tracce di affreschi sulla parete e il soffitto abbassato
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Dettaglio degli affreschi rinvenuti durante i sondaggi

Nella parte dell’edificio che era stata adibita a palestre (anche per ricavare reddito per sostenere le attività della parrocchia) abbiamo fatto le scoperte più belle. Le due palestre erano in origine un unico grande ambiente: l’antico refettorio del monastero. Nel progetto vorremmo ripristinare lo spazio originario, ma conservandone l’uso per attività di vario tipo, quindi mantenendo negli ambienti limitrofi i servizi necessari. Dai sondaggi è poi emerso che tutti i soffitti cinquecenteschi di quel corpo di fabbrica erano decorati e che la parete di fondo del refettorio era affrescata (forse tra il Seicento e il Settecento). Si tratta quindi di un complesso di ambienti di grande qualità e bellezza.

Come avete capito che le palestre erano l’antico refettorio dei monaci?

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Prospetto est (dal campetto), con segni di capichiavi
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Le travi originali che componevano il soffitto della mensa

Da una serie indizi: le quote dell’attuale soffitto non funzionano rispetto alla dimensione degli ambienti, sono troppo basse; nella facciata orientale, quella che prospetta sul campetto sportivo, compaiono segni di capichiave ai quali non corrisponde attualmente alcun solaio interno; nel sottotetto sono collocate magnifiche travi composte in posizione anomala, utilizzate oggi solo per sostenere controsoffitti in arellato; poi documenti e mappe antiche ci dicono che i muri che separano le palestre sono relativamente recenti, quindi posticci. Sulla base di tutte queste osservazioni abbiamo eseguito un sondaggio al primo piano, nel muro che attualmente divide gli ambienti, ritrovando all’interno, intatta, una trave rimasta nella posizione originaria. Tutte le altre travi del solaio principale sono quelle oggi impropriamente collocate nel sottotetto. I solai attuali, più bassi, sono sorretti da travi in ferro, ma tutta l’orditura secondaria e l’assito sono stati recuperati dai soffitti originari. Quindi il soffitto dell’antico refettorio, ligneo e completamente decorato, era collocato circa due metri sopra le quote attuali ed esistono in loco tutti gli elementi per rimontarlo completo nella posizione originaria. C’è però il rischio che questa operazione, volta a ricomporre l’antico assetto strutturale dell’edificio, non venga finanziata perché non direttamente collegata ai danni da sisma. E’ pensabile, in casi come questo, limitarsi a consolidare la situazione esistente anche se palesemente deturpante ed incongrua? Sarebbe uno spreco di denaro inutile e assurdo.

In che periodo sarebbe stato fatto lo smembramento e l’abbassamento del solaio?
Pensiamo nel primo dopoguerra, o forse tra le due guerre, ma è al momento difficile indicarne la data precisa.

Sono visibili le travi rinvenute nel sottotetto?

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Trave originaria rinvenuta durante i sondaggi
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Quota originaria rinvenuta al primo piano

Certo, e anche la trave rimasta dentro al muro al primo piano. Poi nel sottotetto, che la contrada di Santa Maria in Vado ha utilizzato fino al terremoto del 2012 come deposito, ci sono altre scoperte interessanti. Il disegno del pavimento in cotto definisce l’antica scansione di ambienti che altro non erano che le celle dei monaci. Il volume di una cella rimane visibile, attraverso un pertugio, sul lato verso il chiostro. Alle pareti affiorano, anche a questo livello, tracce di decorazioni e di affreschi.

Avete fatto scoperte davvero sensazionali…

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Sottotetto, arco decorato che dava accesso alle celle
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Segni che evidenziano la ripartizione delle celle

Non sensazionali, ma sicuramente di grande interesse, sia storico che artistico. Quando si mette mano seriamente ad edifici di questa importanza non è raro trovarsi di fronte a belle sorprese. Nel progetto di fatto riproponiamo la scansione degli ambienti principali e l’assetto strutturale dell’antico monastero ed il recupero dell’apparato decorativo. Tutto questo lasciando inalterato l’uso consolidato negli ultimi decenni, anzi potenziandolo perché di fatto renderemmo totalmente agibile il sottotetto che ad oggi e utilizzabile solo in parte. Recuperare in modo organico il convento è anche l’occasione per riorganizzare gli spazi e gestirli al meglio, sia quelli parrocchiali, che quelli della contrada e quelli destinati alle attività sportive-ricreative.

Sarebbe bellissimo…
Sì, ma se i finanziamenti non corrisponderanno a quanto previsto nelle schede della Direzione regionale, e tutto oggi lascia temere che sarà proprio così, non si potrà fare un intervento complessivo per riportare a vita piena questo gioiello. Una riflessione complessiva sul futuro dei nostri edifici monumentali dopo il terremoto è quindi più che mai necessaria.

Le foto sono di Paola Rossi (tranne la veduta aerea del quartiere che è scaricata da Google), cliccaci sopra per ingrandirle.

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La planimetria del progetto preliminare
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Veduta aerea con delimitazione dei corpi di fabbrica interessati

Si ringraziano gli architetti Andrea Malacarne e Paola Rossi dello Studio Malacarne per averci accompagnato nella visita al complesso, per la concessione del materiale fotografico, per averci messo a disposizione la Relazione storico e archivistica e, infine, per l’accurata revisione dell’articolo per quanto riguarda gli aspetti tecnici e specialistici.

DOCUMENTAZIONE
La struttura, così come si presenta oggi nel complesso, risale alla metà del XV secolo (1494 la data probabile di inizio lavori) e venne commissionata dal duca Ercole I d’Este a Biagio Rossetti (ingegnere ducale), Bartolomeo Tristano e Ercole de’ Roberti. Ercole I volle contestualizzarla e inserirla nel piano di rinnovamento che investiva a quei tempi tutta la città [vedi estratto della Relazione storico e archivistica a cura dell’arch. Paola Rossi e del dott. Giuseppe Lipani].

Foto arch. Paola Rossi

Mito, magia e qabbalah: Cacciari e Bertozzi dibattono dell’eccentrico Pico Della Mirandola

da: organizzatori

Eccentrico già agli occhi dei contemporanei, Pico è sempre stato un pensatore difficile da collocare. Ricco, esibizionista, uomo di mondo e “dilettante di genio”, il conte della Mirandola è, a più di cinque secoli, una sorta di ospite illustre e scomodo della cultura italiana. Lorenzo de’ Medici, tra i pochissimi che riuscirono a confrontarsi con lui (quasi) alla pari, lo definì “istrumento di sapere fare il bene e il male” e Pico, di cui tanto si è parlato e scritto, ci appare ancora come un enigma.

Giovanni Pico della Mirandola soggiornò a Ferrara, in giovanissima età, e qui cominciò a muovere i primi passi nelle discipline filosofiche. Ebbe come maestro e amico Battista Guarini, figlio del famoso umanista Guarino, ed ebbe modo di conoscere Girolamo Savonarola, che ritroverà poi a Firenze.

mirandolaVenerdì 20 Marzo alle ore 18, presso il Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia, Marco Bertozzi e Massimo Cacciari presentano il libro “Giovanni Pico Della Mirandola. Mito, magia, Qabbalah” (Einaudi, 2014), scritto da Giulio Busi e Raphael Egbi.

Il libro tratta i temi del mito e della magia nel pensiero di Giovanni Pico della Mirandola, illustrati magistralmente anche nelle pareti del Salone dei Mesi. Lo stesso fratello di Giovanni Pico, Galeotto della Mirandola, è raffigurato nell’affresco di Luglio.

Per ragioni di sicurezza connesse alla capienza della sala (max 70 persone), verrà consentito l’ingresso esclusivamente a chi sarà munito del biglietto gratuito distribuito il giorno stesso dal personale del Museo a partire dalle ore 17,30 secondo l’ordine di arrivo.

Gli autori:

Giulio Busi insegna Cultura ebraica alla Freie Universität di Berlino ed è fra i maggiori esperti mondiali di ebraismo medievale e rinascimentale. Per Einaudi ha pubblicato altri cinque Millenni: “Mistica ebraica” (con Elena Loewenthal), “Simboli del pensiero ebraico”, “Qabbalah visiva”, “Zohar e Giovanni Pico della Mirandola” (con Raphael Ebgi). Per Aragno ha pubblicato “La vera relazione sulla vita e i fatti di Giovanni Pico della Mirandola.” Collabora con il «Sole 24 Ore». È presidente della Fondazione Palazzo Bondoni Pastorio.

Raphael Ebgi è ricercatore presso la Freie Universität di Berlino. Esperto di filosofia dell’Umanesimo italiano, ha curato per Bompiani l’edizione critica del trattato “Dell’ente e dell’uno di Pico”. Tra le sue recenti pubblicazioni, l’edizione italiana di H. Corbin, “Le combat pour l’Ange (Torre d’Ercole)”, e “Giovanni Pico della Mirandola”, uscito nei Millenni Einaudi nel 2014 (con Giulio Busi).

La locandina dell’evento [vedi]