Skip to main content

Susanna Camusso a Ferrara:
il nemico non sono i migranti è il mercato

Tentare di dare un nome e una storia ad alcuni dei loro volti, per iniziare a considerare i migranti come persone con una dignità e dei diritti e non più come una categoria o, ancora peggio, un’emergenza che riguarda solo l’ordine pubblico. È questo il senso dell’iniziativa organizzata al Cinema Apollo sabato mattina, in occasione della Giornata internazionale dei Migranti, dal coordinamento di associazioni che ha dato vita a Ferrara che accoglie. Ospite d’onore: il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, intervistata dai ragazzi di Occhio ai Media e dagli studenti delle scuole superiori della provincia di Ferrara.
Il titolo dell’evento era “Oltre i muri dell’emergenza” e proprio da qui è partita Camusso: “fino a oggi abbiamo sempre parlato di immigrazione in termini di emergenza, cominciamo a parlare del tema del futuro. Non si può immaginare un futuro che non si confronti con i flussi migratori”, se non saranno – almeno si spera – le guerre a determinare i movimenti di popolazione, lo farà la demografia. Per il segretario “si può parlare ancora di emergenza solo nella misura in cui bisogna smettere di far morire le persone nel Mediterraneo”, per il resto dobbiamo rispondere a domande che riguardano “il mondo che dobbiamo disegnare” e per farlo serve “il coraggio della responsabilità”. Dobbiamo avere il coraggio di rispondere ad alcune domande: quali sono i principi in cui crediamo e che vogliamo affermare? In quale società desideriamo vivere? E, molto più pragmaticamente, “sono davvero queste persone a mettere in pericolo il nostro posto di lavoro, il nostro tenore di vita? Se non ci fossero i migranti la disoccupazione giovanile in Italia sarebbe allo 0%?”

La risposta di Camusso è un forte no: “il problema è che non si riesce a dare una risposta seria ai tanti disagi che attraversano la popolazione. La rottura però è avvenuta ancora prima: quando si è iniziato a dire che chi aveva più diritti era un privilegiato rispetto a chi è venuto dopo. Ora si sta facendo la stessa operazione con i migranti”. Per il segretario, insomma, alla base c’è l’incapacità di dare risposte serie alla complessità che stiamo vivendo e la soluzione trovata da chi vuole perpetuare questo modello di sviluppo e di crescita solo economica è la contrapposizione fra chi ne rimane escluso: prima erano i figli contro i padri, colpevoli di avere più tutele, ora sono gli italiani contro gli stranieri, colpevoli di sottrarre il poco lavoro che c’è.
Per fermare chi cavalca e fomenta le paure, strumentalizzandole politicamente, bisogna capire perché queste paure ci sono e parlare con chi ha paura per dirgli che “se non si accede alla sanità, ai servizi, se si fa fatica ad arrivare alla fine del mese, se diminuiscono le tutele e i diritti sul lavoro” sentirsi minacciati è comprensibile, ma “forse il tema è che abbiamo sbagliato a immaginare che le politiche sociali potessero essere progressivamente ridotte, che il mercato ci avrebbe fatto vivere tutti meglio e in perenne crescita. Il mercato fa un’altra cosa: arricchisce pochi e impoverisce i più”. Il nemico non sono i migranti, ma chi “ha pensato che si potesse continuare a ragionare in termini di riduzione dei costi, invece che giocare la sfida della qualità del lavoro”. “Non si può immaginare che se qualcun altro sta peggio di me, le mie condizioni di vita migliorino”, come “non si può introdurre una gerarchia dei bisogni sulle persone”. La soluzione, secondo Susanna Camusso, è “stare nelle scuole e nei luoghi di lavoro insieme, vivere lo stesso spazio e lo stesso tempo” sotto parole che si chiamano dignità , libertà, pace e lavoro, perché futuro e migliori condizioni di vita si conquistano e si sono sempre conquistati lottando con gli altri non contro gli altri.

Alcuni, neanche troppo tempo fa, l’avrebbero chiamata una rivendicazione di una nuova coscienza di classe da parte degli sfruttati, anche se in modi diversi, di coloro che sono lasciati indietro dalla ‘fiumana del progresso’. Quando però lo abbiamo chiesto al segretario, a lei l’espressione non è piaciuta, ha preferito chiamarla: “una nuova coscienza di giustizia, una coscienza che le diseguaglianze contrappongono gli ultimi con i penultimi, determinando sempre nuovi ultimi, mentre ricostruire uguaglianza permette di immaginare un percorso di crescita, libertà, benessere”.
E sulle priorità del nuovo governo Gentiloni riguardo a lavoro e immigrazione, Susanna Camusso afferma: “bisognerebbe cambiare le politiche fatte finora, politiche di sottrazione di diritti e di assenza di investimenti. Ciò di cui abbiamo bisogno è che si crei lavoro e si indichi quali sono le direzioni nelle quali si crea, non delegando solo al sistema delle imprese quali caratteristiche ha lo sviluppo. Bisogna affrontare il tema dell’interdizione di questo porcesso di impoverimento dei salari e dei diritti. La prima condizione è smettere di creare precarietà e porsi l’obiettivo di creare buon lavoro e lavoro di qualità”.

Foto di Patrizio Campi e Valerio Pazzi [clicca sulle immagini per ingrandirle]

Durante la mattinata sul palco, oltre al segretario generale Camusso, si sono avvicendati altri ospiti. Un commosso sindaco Tiziano Tagliani ha ricordato la notte tra il 24 e il 25 ottobre e le barricate a Gorino, “erano un po’ di anni che non piangevo”: “è una serata che non dimenticherò facilmente”. “Erano le 10 di sera, stavo guardando la televisione e mi hanno chiamato per dirmi che le dodici ragazze erano alla stazione dei Carabinieri di Comacchio perché nessuno le voleva. Mi è salita una rabbia tale che ho chiesto a mia moglie di accompagnarmi, perché non sapevo cosa avrei detto. Quando sono arrivato ho trovato in una stanza dodici persone mute e rassegnate”. Secondo Tagliani quello che abbiamo di fronte “è un problema di cultura: qualcuno continua a sentirsi fuori, a vedere le cose come se fossero lontane, in tv”. “Abbiamo vissuto l’immigrazione come un’emergenza, ma non è più così: è un processo internazionale: occorre ripensarla da tutti i punti di vista”. Infine il sindaco di Ferrara e presidente della Provincia ha ribadito la sua posizione sulla nuova intesa fra Anci e Stato e in particolare sull’incentivo economico per l’accoglienza: “non bisogna dare più soldi ai Comuni che accolgono, perché il rischio è che dicano che facciamo accoglienza solo per i soldi, bisogna togliere risorse a chi non lo fa” perché questo rifiuto, “per di più fatto con la fascia tricolore addosso”, “non è una forma di disobbedienza civile”.
Poi ci sono state le testimonianze della fotoreporter Annalisa Vandelli e di Grazia Naletto, presidente dell’associazione Lunaria. La prima ha raccontato i campi profughi di Giordania e Libano, persone di ogni età con i segni della guerra sul corpo e negli occhi che vorrebbero solo “tornare alla loro vita normale”, mentre la seconda ha evidenziato i problemi della mancanza, in Italia e in Europa, di “un sistema d’accoglienza ordinario predisposto per far fronte alla domanda di chi arriva”. E poi Andrea Morniroli, operatore sociale, che ha paragonato le migrazioni ai movimenti tellurici che scuotono il territorio e creano faglie: “una parte della politica cavalca la paura, mentre un’altra parte non ha il coraggio di affrontare questa complessità. Il compito di amministratori, operatori sociali, sindacalisti è stare in quelle faglie e costruire ponti per attraversarle, costruire mediazioni per superare le differenze e trovare i punti comuni”.
L’avvocato della Cgil Andrea Ronchi ha risposto alle domande su caporalato, migrazione e illegalità, “lavoro povero”. Se un lavoratore straniero è costretto ad accettare la tratta, il caporalato e un salario del 25% inferiore rispetto a un collega italiano, a parità di lavoro, perché altrimenti non riuscirà a presentare la documentazione per rinnovare il permesso di soggiorno, prima o poi questa competizione al ribasso si rifletterà sulle condizioni e sui diritti di tutti i lavoratori. In effetti sta già accadendo, da diverso tempo. Ma il nemico non sono i migranti, al contrario: difendere condizioni di lavoro dignitose e diritti per tutti, italiani e stranieri, non è una questione altruistica, ma la base per costruire una società basata sul valore del lavoro e dei lavoratori, non del consumo e del profitto.
E poi Zafer, un ragazzo rifugiato afghano, arrivato in Italia a solo a sedici anni, ha raccontato la propria storia: dal Pakistan dove era scappato con la madre e i fratelli, è passato in Iran, poi in Turchia e in Grecia, da qui “trenta ore aggrappato sotto un camion senza bere, mangiare e dormire, al freddo e al buio, con la puzza di gasolio e la paura di cadere e venire schiacciato dalle ruote” per arrivare in Italia. La polizia l’ha trovato ad Altedo e ha iniziato il difficile percorso di integrazione: la scuola per imparare l’italiano e poter lavorare e i mille lavoretti saltuari, in nero si intende. Poi ha trovato lavoro in un supermercato a Imola, ma quando sembrava che le cose avessero iniziato a ingranare è arrivata la notizia che sua madre si era ammalata gravemente: l’aveva lasciata in Pakistan con i fratelli, perché non c’era abbastanza da mangiare per tutti e lui è il fratello più grande. Il suo datore di lavoro gli ha concesso tre settimane per andare a trovarla: “quando sono tornato, il cuore colmo di angoscia per mia madre, il mio posto non c’era più, l’avevano dato a qualcun altro”. “Ora sono senza lavoro, ma spero un giorno di poter realizzare il mio sogno e tornare in Pakistan con la mia famiglia”.

La città della conoscenza su Telestense con Giovanni Fioravanti

da: organizzatori

Telestense Cultura presenta “Storie ferraresi – Cantieri per il futuro”, la nona puntata dal titolo: “La città della conoscenza”.
Venerdì 16 e 23 dicembre alle ore 21.30, martedì 20 e 27 dicembre alle ore 21.30, domenica 18 alle ore 19.30 su Telestense, e in replica mercoledì alle ore 22.00 e domenica alle ore 20.00 su TeleFerraraLive, sabato alle ore 22.20 e domenica alle ore 24.00 su Telesanterno, mercoledì alle 22.30 e giovedì alle ore 13.15 Telecentro.

Città della cultura e dei molti luoghi del sapere, Ferrara può aspirare ad essere definita una città della conoscenza? In questa nuova puntata cercheremo di mettere a fuoco questo “volto” della città, un volto che guarda al futuro, nella convinzione che senza una conoscenza vasta, profonda, diffusa, non possa esserci nessun futuro, che vada nella direzione di una sempre maggiore autonomia culturale ed economica dei cittadini.

A farci da guida sarà Giovanni Fioravanti, pedagogista e opinionista, autore di un e-book dal titolo “La città della conoscenza”, mentre nel corso della puntata incontreremo il direttore del Museo di Storia Naturale, Stefano Mazzotti, studenti del Liceo Artistico Dosso Dossi e del Liceo scientifico Roiti con i loro docenti, professoressa Gianna Perinasso e prof. Giorgio Rizzoni, infine i professori Gianfranco Franz, Massimiliano Mazzanti, Pasquale Nappi dell’Università di Ferrara,
Conduce Vittoria Tomasi, riprese, montaggio, direzione della fotografia Nicola Caleffi. Progetto e realizzazione a cura di Dalia Bighinati.

www.telestense.it
www.ferrarawelcome

IL DUO
In scena il duo Michel Portal – Bojan Z

Da: Jazz Club Ferrara

Sabato 17 dicembre, in collaborazione con la rassegna Off di Ferrara Musica, il Jazz Club Ferrara ospita la vibrante performance del duo formato dal clarinettista, sassofonista e bandoneista francese Michel Portal, figura unica della scena musicale contemporanea, affiancato dal talentuoso pianista serbo Bojan Z.

Se il jazz europeo può oggi vantare la sua originalità, il merito va anche a Michel Portal, polistrumentista francese di eccelso virtuosismo. In prima linea sin dalla fine degli anni Sessanta, Portal ha saputo mescolare il linguaggio del jazz con elementi della cultura europea, sia colta che popolare, tra tradizione e sperimentazione.
In questa direzione muove anche l’estetica del duo che vede Portal affiancato dal pianista serbo Bojan Zulfikarpašić, in arte Bojan Z, che avremo il piacere di ascoltare al Jazz Club Ferrara nella serata di sabato 17 dicembre (ore 21.30) grazie alla preziosa collaborazione con la rassegna Off di Ferrara Musica. Esibendosi con continuità, questo duo, nato ormai una decina di anni fa, è pervenuto progressivamente a rafforzare la propria espressività alla luce di un non comune interplay, dispensando ogni volta vibranti performance ricche di inventiva.
Clarinettista, sassofonista, bandoneonista, figura unica della scena musicale contemporanea, Michel Portal (Bayonne, 1935) nella sua lunga carriera è stato in realtà serissimo in tutti e due gli ambiti: interprete a livelli di eccellenza di pagine di Mozart e Brahms, strumentista di riferimento per l’esecuzione di nuovi lavori di compositori contemporanei come Boulez, Berio, Stockhausen e Kagel, Portal è anche tra i personaggi in assoluto più originali espressi dal jazz europeo, nel quale per tutta una lunga stagione si è mosso su posizioni audacemente d’avanguardia, ed è stato pure protagonista, in un territorio intermedio e anomalo, col gruppo New Phonic Art, dell’esperienza di un’improvvisazione estrema ma anche il più possibile svincolata dal linguaggio del jazz. Portal ha collaborato con musicisti come Albert Mangelsdorff, John Surman, Steve Lacy, Han Bennink, Dave Liebman, e con tutta la scena francese. Ha composto moltissime colonne sonore per il cinema, oltre ad essersi esibito accanto a solisti di danza contemporanea, esemplificativo in tal senso il lungo sodalizio con Carolyn Carlson. Vincitore di tre Cèsar e un Sept D’Or, dagli anni Ottanta dirige diverse formazioni. Negli ultimi anni si è interessato altresì al funk, collaborando con musicisti di Minneapolis vicini all’entourage di Prince.
Pianista virtuoso, sideman notato prima al fianco di Henri Texier e Julien Lourau ed ora solista con una carriera internazionale il cui talento immenso si confronta regolarmente con i migliori musicisti americani, Bojan Z è al tempo stesso capace di inventiva musicale sottile e delicata, come di grande energia e un ‘drive’ potente che tutti i solisti sognano per dar vita alle loro improvvisazioni.
‘Note in bianco e nero’ personale del giovane fotografo valtellinese Michele Bordoni, curata da Eleonora Sole Travagli in collaborazione con Endas Emilia-Romagna e iscritta nel progetto ‘Intrecciare cultura’ patrocinato dalla Regione Emilia-Romagna è fruibile al Jazz Club Ferrara fino al 23 dicembre, nelle serate di programmazione.

INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Infoline 339 7886261 (dalle 15:30)
Prenotazione cena 333 5077059 (dalle 15:30)
Il Jazz Club Ferrara è affiliato Endas, l’ingresso è riservato ai soci.

DOVE
Torrione San Giovanni via Rampari di Belfiore, 167 – 44121 Ferrara. Con dispositivi GPS è preferibile impostare l’indirizzo Corso Porta Mare, 112 Ferrara.

COSTI E ORARI
Intero: 20 euro
Ridotto: 15 euro (la riduzione è valida prenotando la cena al Wine Bar, accedendo al solo secondo set, fino ai 30 anni di età, per i possessori della Bologna Jazz Card, per i possessori di MyFe Card, per i possessori della tessera AccademiKa, per i possessori di un abbonamento annuale Tper, per gli alunni e docenti del Dipartimento Jazz del Conservatorio ‘G. Frescobaldi’ di Ferrara)
Intero + Tessera Endas: 25 euro
Ridotto + Tessera Endas: 20 euro
NB Non si accettano pagamenti POS
Apertura biglietteria: 19.30
Cena a partire dalle ore 20.00
Primo set: 21.30
Secondo set: 23.00

DIREZIONE ARTISTICA
Francesco Bettini

IBO ITALIA
Piccoli Volontari continuano a crescere

Da: Ibo Italia

Piccoli Volontari continuano a crescere
Presentato da IBO Italia il bilancio di un anno di impegno verso i giovani dai 14 ai 17 anni

Giovedì mattina, nella sede di Via Montebello, IBO Italia ha presentato i risultati raggiunti con il progetto Piccoli Volontari Crescono dedicato alla promozione del volontariato fra i giovani di età compresa fra i 14 e i 17 anni. Presenti, oltre al direttore Dino Montanari, anche alcune realtà che in questi anni hanno sostenuto l’impegno di IBO: Quisisana e Fondazione Santini Gaetano ed Elvira, rappresentati dal dott. Giorgio Piacentini e l’Associazione Buskers Festival, per la quale era presente il direttore organizzativo Luigi Russo.
“Sono davvero pochi oggi i punti di riferimento per ragazzi e ragazze alla ricerca della propria strada e della propria identità – ha introdotto Dino Montanari – Connessi con il mondo grazie a smartphone e app di ogni tipo eppure, spesso però privi di esperienze dirette con il mondo reale. Esuberanti e generosi, ma non sempre attenti alle conseguenze di un proprio gesto e inconsapevoli delle loro prime responsabilità. Travolti anche dalla fragilità e della vita precaria dei loro genitori e delle loro famiglie”.
Nel 2016 sono stati 130 gli adolescenti coinvolti in esperienze di volontariato. Di questi la metà sono ragazzi italiani, mentre l’altra metà sono arrivati da Grecia, Francia, Germania, Turchia, Stati Uniti, Belgio e Bulgaria. Ripristinare i muretti a secco a Vernazza, nel Parco delle Cinque Terre, lavorare sui terreni confiscati alla ‘ndrangheta a San Leonardo di Cutro vicino Crotone, conoscere da vicino realtà di accoglienza per profughi e migranti a Salvatonica di Bondeno e a Biancavilla, in provincia di Catania. Questi alcuni dei luoghi e delle attività principali che hanno visto protagonisti gli adolescenti, seguiti nelle loro esperienze da, complessivamente, dodici Camp Leader IBO. Alcuni dei ragazzi italiani hanno scelto inoltre di vivere la loro esperienza di impegno all’estero: in Estonia, Francia o Romania.
L’aspetto di incontro, scambio e confronto fra giovani volontari provenienti da varie parti del mondo è sicuramente uno degli aspetti più positivi di queste alternative alle vacanze tradizionali. Oltre ovviamente all’aiuto concreto verso chi ha bisogno o per la salvaguardia di beni comuni. Esperienze aperte a tutti e con particolare attenzione a quegli adolescenti provenienti da situazioni di difficoltà, disagio o a ragazzi con minori opportunità.
“Per Quisisana e Fondazione Santini è importante sostenere le associazioni del proprio territorio – ha ricordato il presidente Piacentini nel suo intervento – soprattutto quelle che hanno a cuore il capitale più importante che abbiamo per il nostro futuro: i nostri figli, i nostri ragazzi. Facendoli crescere attraverso il confronto, ma anche allargando loro gli orizzonti, offrendo esempi positivi e la possibilità di sentirsi responsabili verso gli altri”.
Insieme alle esperienze vissute dai giovani volontari sono stati presentati i tanti interventi, attività e collaborazioni portati avanti da IBO Italia nelle scuole di Ferrara e Parma. In particolare negli istituti superiori della nostra città fra i quali il Carducci, l’Ariosto, il Dosso Dossi, il Roiti e l’Einaudi solo per citarne alcuni. Quasi 2.000 complessivamente gli alunni incontrati oltre a più di 50 gli insegnati ai quali sono stati offerti momenti di formazione legati a tematiche di educazione interculturale e promozione del volontariato.
Molti anche i minori coinvolti in attività di volontariato in occasione delle iniziative di raccolta fondi di IBO Italia durante il mese di dicembre, come tanti i giovanissimi che in durante il Ferrara Buskers Festival hanno voluto donare alcune loro ore per la raccolta delle libere offerte alle ‘porte’ di ingresso.
“L’attenzione verso il sociale e le tante forme di impegno volontario è una delle nostre prerogative da sempre – ha affermato Luigi Russo, direttore organizzativo del Ferrara Buskers Festival – e la collaborazione con IBO Italia ci ha permesso di rafforzare questa attenzione e sensibilità. Il prossimo anno festeggeremo insieme i 30 anni di Festival ed i 60 anni di IBO”.
Momento toccante poi il ricordo di Lucrezia Rendina, la giovane volontaria IBO che ha perso la vita nel terremoto del 24 agosto a Pescara del Tronto e che era partita nell’estate 2016 per il Campo di Lavoro e Solidarietà di Nova in Estonia. E proprio l’impegno, anche in suo nome, per le popolazioni colpite dal sisma sarà uno dei prossimi obiettivi di IBO Italia.

Salvare le banche è di sinistra

di Alice Ferraresi

Giorgio Gaber cantava “se la cioccolata svizzera è di destra, la nutella è ancora di sinistra” e snocciolava altri luoghi comuni su cosa è considerato di destra e cosa di sinistra.
“Salvare una banca” non è considerato né di destra né di sinistra: è impopolare e basta. Il concetto è la conseguenza di due postulati, entrambi errati: che salvare una banca significhi salvare i banchieri; che la banca sia un’azienda come tutte le altre.

Primo postulato: salvare una banca significa salvare i banchieri. Dovrebbe essere il contrario. Infatti, se si riuscisse a riportare nel capitale della banca almeno parte dei denari sottratti dalla mala gestio o dalla malversazione dei cattivi banchieri, tra punizione e sanzione dei primi e cura delle seconde ci sarebbe una relazione diretta: recupero capitali sottratti alla buona gestione e li reimmetto nella banca. Purtroppo in questo recupero l’attuale legislazione di diritto privato commerciale (anche internazionale) è gravemente carente di strumenti idonei a colpire gli interessi di chi ha soldi da nascondere. Semplicemente, gli strumenti della “libera finanza” sovrastano gli anticorpi normativi.
Peraltro questa è solo una parte del problema. La cattiva gestione dilapida denaro aziendale che non può essere tutto recuperato dalle tasche dei top manager: l’azienda che perde valore e capitalizzazione perde infatti tanto denaro, perchè scelte sbagliate la depauperano profondamente. Tuttavia sarebbe già un grande passo in avanti se alcune retribuzioni milionarie venissero rigorosamente agganciate al raggiungimento di risultati di buona gestione (che non significa la massimizzazione dei profitti di breve periodo). Invece, anche in questi giorni di grandi crisi bancarie, assistiamo a scandali come il trattamento economico – preceduto da un incredibile “bonus in entrata” – dell’AD di Pop Vicenza Iorio, che in 18 mesi di reggenza in una banca in grave dissesto (e nella quale i dipendenti rischiano posto di lavoro e parte della retribuzione) ha percepito circa diecimila euro al giorno. Una follia, un insulto. Un pactum sceleris tra privati che dovrebbe essere reso giuridicamente impossibile, dentro aziende in crisi. Non parliamo delle banche commissariate: qui la gravità delle sperequazioni è accentuata dalla segretezza da cui vengono circondati i compensi della compagine commissariale – che non aiuta una banca a guarire, casomai la aiuta a sprofondare; ma di questo parleremo magari un’altra volta…
Secondo postulato: la banca è un’azienda, quindi se è in dissesto deve poter fallire, come qualunque altra azienda. La banca è un intermediatore di denaro: raccoglie i soldi di proprietà dei suoi clienti, e li impiega prestandoli al territorio che ne ha bisogno per svolgere le sue attività economiche. Se una banca viene lasciata fallire, le due conseguenze immediate sono le seguenti: primo, una parte dei risparmi dei clienti viene espropriata, esattamente alla stregua di un credito che viene succhiato ed attratto nella massa di crediti di una procedura fallimentare, che verranno pagati se e quando sarà realizzato un attivo (questo drammatico effetto si è già visto a Ferrara, con la crisi Carife); secondo, la banca chiede ai suoi clienti di rientrare (ad un certo tempo) dai prestiti erogati, ma soprattutto ed immediatamente interrompe il sostegno economico ai suoi affidati. Questo secondo effetto è ancora più drammatico, perchè si porta dietro l’implosione del tessuto economico di un territorio. E’ infatti strettissimo il legame tra sistema produttivo e banche (specie banche del territorio): le imprese del territorio funzionano a debito. Pochissime sono quelle che lavorano esclusivamente con mezzi finanziari propri.
Questa descrizione dovrebbe far percepire una banca per quello che è realmente: una infrastruttura del territorio, esattamente come un tessuto stradale, una fognatura, una ferrovia. Questo rischio è tanto più alto quanto più la banca che entra in crisi finanzia ancora (anche se non esclusivamente) la maggior parte delle aziende di un territorio. E’ questo il caso di banche grandi(come MPS) ma anche di banche più piccole ma di estrazione territoriale (le due venete, Cassa Ferrara), che sostengono in maniera decisiva, piaccia o no, le aree di riferimento. Lasciare andare una banca del genere al suo destino equivale a far crollare un’autostrada ad alta percorrenza, un sistema viario. Sarebbe come far deragliare i treni perchè ci sta sulle scatole l’AD di Ferrovie dello Stato. Equivale a staccare il bocchettone dell’ ossigeno alle aziende del territorio. E’ quindi mistificatoria l’opinione di chi ritiene che il salvataggio di una banca non debba gravare sulla collettività, perchè è esattamente il contrario: è il dissesto irrimediabile di una banca che scarica tutto il suo fardello sulla collettività.

Per liberamente interpretare Giorgio Gaber: credo che salvare un cattivo banchiere sia di destra, mentre credo che salvare una banca sia di sinistra, perchè significa salvare i risparmi dei cittadini e il tessuto economico. Il nuovo governo, che nasce nel segno della continuità con il precedente, afferma di essere di centro-sinistra. E’ auspicabile che decida di affrontare la crisi del sistema bancario con un salto di qualità rispetto alla passata gestione. Le premesse purtroppo non sono buone.

Bondi, un mese al buio: i motivi e le modalità per risollevarsi

di Cavallo Pazzo

Eravamo qui, poco più di un mese fa, a parlare della rinascita della Pallacanestro Ferrara targata Bondi, frutto di quattro esaltanti vittorie di fila che stavano facendo sognare i tifosi ferraresi. Dopo un anno deludente, tra incomprensioni società-tifosi e scarsi risultati sul campo, la nuova stagione sembrava essere iniziata al meglio. Grande entusiasmo, la gente di nuovo vicina alla squadra e una classifica che faceva sorridere. Il 13 novembre Ferrara affronta la difficile (quasi proibitiva) trasferta di Treviso senza il suo americano Bowers, costretto a saltare la gara a causa di un infortunio muscolare. La squadra perde il suo leader, e deve far fronte anche alle condizioni del centro Pellegrino e dell’ala Cortese, colpiti da un attacco influenzale. Ciononostante gioca una gara gagliarda, senza paura, trascinando Treviso punto a punto fino agli ultimi decisivi minuti che premiano i veneti. I 250 supporters estensi presenti al Palaverde applaudono i loro ragazzi, e tornano a casa consci di tifare per una squadra vera, nonostante la sconfitta.

La domenica successiva il calendario offre immediatamente una sfida sentita, il derby con Ravenna, per tornare ai due punti: e invece Ferrara sembra svogliata, molle, poco reattiva, “poco squadra”. I romagnoli scappano nel secondo tempo e la Bondi non riesce più a riprenderli. Potrebbe essere soltanto un passaggio a vuoto, pensano tifosi e addetti ai lavori, in fondo la squadra a Treviso aveva fornito l’ennesima prova di forza (nonostante la sconfitta). Cinque giorni dopo si torna in campo, e il PalaHiltonPharma di Ferrara si prepara ad accogliere una delle grandi della palla a spicchi italiana, la Fortitudo Bologna: gli estensi se la giocano fino all’ultimo possesso, quando purtroppo il tiro della vittoria di Cortese si infrange sul ferro e consegna i due punti alla “Effe”. Terza sconfitta consecutiva, la classifica comincia a preoccupare, anche se in fondo la squadra è stata costruita per raggiungere una tranquilla salvezza.

Domenica 4 dicembre Ferrara affronta la trasferta di Jesi: per tutti pare essere arrivato il momento di tornare a vincere. I marchigiani arrivano infatti da sei sconfitte consecutive, e sulla carta sono nettamente inferiori alla Bondi. I tifosi ci credono e seguono la squadra anche nelle Marche. Dopo un primo tempo punto a punto, è però ancora dopo l’intervallo (così come con Ravenna) che Ferrara crolla: Jesi allunga nel terzo quarto e la Bondi non ha la forza, né fisica né mentale, per riagguantarla. Nel finale viene espulso anche il playmaker titolare Moreno. Piove sul bagnato. Nel turno infrasettimanale dell’8 dicembre Ferrara ospita Piacenza senza il suo play (squalificato due giornate) e perde Cortese dopo pochi minuti per un infortunio al ginocchio. Niente di grave ma il giocatore ovviamente è condizionato e non può esprimersi al massimo delle proprie potenzialità. Quella con Piacenza è ancora una volta una gara punto a punto, che viene decisa da una tripla dell’ex Kenny Hasbrouck a quattro secondi dalla fine. La Bondi perde ancora, è la quinta di fila.

Arriviamo ai giorni nostri, trasferta a Udine. Cortese non è al meglio, così come Bowers. Il match vive sulla falsa riga di quelli precedenti: squadre a contatto nei primi 20 minuti, poi Ferrara si spegne alla distanza. In terra friulana arriva la sesta sconfitta consecutiva, ma ciò che preoccupa di più è l’involuzione sul piano del gioco vistasi soprattutto nelle ultime tre partite (Jesi, Piacenza e Udine appunto). Il gioco spumeggiante delle quattro vittorie di fila non si vede più. La coppia USA Bowers-Roderick, considerata da molti una delle più forti dell’intera Serie A2, non rende come ci si aspettava. La panchina non offre molti spunti, e fino ad ora il solo Mastellari ha ripagato le attese.

La sensazione è che la coperta sia un po’ corta, la squadra infatti crolla nei secondi tempi. La società al momento non apre al mercato, si aspetta prima che coach Trullo ottenga il massimo da chi c’è già. Le potenzialità per uscire da questa crisi ci sono tutte, la squadra è la stessa che fino a un mese fa regalava prestazioni più che convincenti. L’involuzione c’è stata, è sotto gli occhi di tutti, ma questo gruppo ha le capacità per tornare a divertire. Nonostante i pessimi risultati dell’ultimo periodo i tifosi continuano a stare vicino ai propri beniamini, convinti che da un momento all’altro possa riscattare quella scintilla che faccia tornare ai giocatori la voglia di giocare per divertirsi oltre che per guadagnarsi lo stipendio.

Sabato arriva Trieste, che sia la volta buona?

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Dove lo metto? La posta dei nostri lettori…

Dove lo metto? Abbiamo chiesto ai nostri lettori in quale posto, nella coppia, preferirebbero trovare l’altra persona, a quale distanza sarebbe meglio stare o lasciare perchè le cose funzionino.
Di lato, di fronte, vicino ma non troppo, una geometria variabile in cui ciascuno ha le proprie misure e dove sembra vitale potersi spostare.
Ecco le lettere arrivate in redazione:

Tra i piedi

Cara Riccarda,
Noi possiamo stare solo di fianco. Non al mio fianco, di fianco. A volte tra i piedi.
Possiamo stare solo così, non siamo neanche allineati, qualche volta lui capisce e lo trovo al mio fianco, a volte tra i piedi.
E’ un equilibrio precario, di due persone diverse, senza interessi in comune, idee diverse, obiettivi differenti. Entrambi ambiziosi. L’unica cosa che ci unisce è la consapevolezza che l’altro ha rinunciato a parecchie cose pur di stare “di fianco”.
V.

Cara V.,
essere tra i piedi non lo trovo così negativo perchè può fare inciampare nell’altro e, per me, è sempre meglio che un cammino in solitudine. E’ l’unione in nome di una rinuncia che mi lascia perplessa, soprattutto perché tu la senti come ‘l’unica cosa’ che vi connette. La vita in due richiede di lasciare da parte qualcosa, però poi c’è sempre una compensazione, a volte si tratta solo di averne coscienza, o se preferisci, ‘consapevolezza’.
Riccarda

L’amore vero trova da sé il proprio posto

Cara Riccarda,
dopo essere stata io, per molto tempo, a cercare un posto adatto intorno ai miei uomini, prima con un padre despota e poi con un marito egoista e narciso, ho sentito la necessità di collocarmi al centro!
Poi è arrivato l’amore… quello vero, quello in cui la coppia trova da sè il proprio posto, interscambiandosi.
Il mio uomo lo voglio lì, dove posso trovarlo quando mi giro e che sa stare un passo indietro quando necessito di fare “da sola”!
Ho imparato che lo spazio vitale è molto importante e necessario, è bello condividere spalla a spalla, confrontarsi, uno di fronte all’altro…esserci ma non opprimerci!
So che alle volte è complicato e siparietti come quelli descritti da te credo siano frequenti. Trovo stancante e imbarazzante cercare di collocare il proprio uomo in situazioni dove già si sa non troverà il giusto posto! E parlo per esperienza.
Il posto giusto, secondo me, è quando non ti chiedi….Dove lo metto?
Nadia

Cara Nadia,
che bella la tua centralità che è diventata la premessa di tutto il testo. Immagino la liberazione di non dovere più cercare un posto adatto a te, di non chiederti dove sia meglio stare e con quale ruolo. Quante energie a volte buttiamo in questo affanno che non soddisfa mai nessuno.
Il non pensare a dove mi metto, secondo me, ti ha permesso di non chiederti dove lo metto, e di trovare sempre chi vuoi vicino.
Riccarda

L’amore allo specchio

Cara Riccarda,
idealmente o razionalmente vorrei che tra me e il mio uomo i posti fossero continuamente intercambiabili a seconda dei momenti e delle situazioni.
Vorrei che lui stesse un passo indietro quando mi dedico a mio figlio o quando ho bisogno di ritirarmi in me stessa per sentirmi e ascoltarmi. Vorrei stesse due passi in avanti quando ho bisogno di lui per allargare il campo della mia visuale, perché mi possa offrire prospettive diverse dalle mie e mi indichi orizzonti più lontani.
Vorrei sentirlo spalla a spalla nella condivisione della quotidianità, della vita sociale e dell’intimità, nel supporto e sostegno reciproci.
Vorrei fosse il mio specchio ogni volta che discutiamo o ci arrabbiamo, perché so che ciò che in quel momento non sopporto di lui non sono altro che parti di me che non voglio vedere o accettare.
Mi chiedo però se tutto ciò si possa realmente scegliere…al cuor non si comanda ed proprio il cuore l’unico posto dove vorrei fosse il mio uomo.
Un abbraccio
Simona

Cara Simona,
ho la sensazione che tu stia scrivendo, o meglio, descrivendo, ciò che vivi e conosci. E se è così, non è solo fortuna, è impegno, scelta, tempo per guardare verso tutti i possibili posti. Una danza continua che però ha bisogno anche di qualche pausa in cui, come giustamente dici, occorre ritirarsi un po’ per poi riprendere, magari con un altro passo e un altro ritmo. C’è una cosa su cui concordo più di tutte: la distanza che può esserci fra due persone, se non scivola nell’abisso, può diventare un’opportunità per uno sguardo più ampio.
Riccarda

Maschi dispettosi e infantili?

Cara Riccarda,
siccome spesso sono insopportabili, gli uomini è meglio lasciarli fuori dalle amicizie fra donne, a meno che non ci si trovino per caso. Credo anche che siano dispettosi come quando avevano otto anni.
Daniela

Cara Daniela,
ti rispondo con un messaggio speculare che mi ha scritto un amico, ferraresissimo, commentando il tema: l’oman l’ha da star luntan da il vostar ciacar.
Riccarda

Dove stare?

Cara Riccarda,
no, il posto fisso non c’è. Ma com’è dura capire dove stare. Spesso le intenzioni migliori vengono male interpretate, specie se vuoi lasciare quella libertà che lei chiede. O fai la figura dell’appartato o quella di chi si vergogna di lei. E quando uno ha una vita propria e deve essere anche in grado di gestire il rapporto a due, dove può collocarsi? Le invasioni di campo sono sanzionate? Tollerate? Gradite? A seconda delle circostanze?
Filippo

Caro Filippo,
un posto cristallizzato è sempre pericoloso, rischia di non essere coincidente con la persona che si assume o è confinata in quella parte. Credo che la partita vada giocata, per entrambi, con la capacità di spostarsi al bisogno, accettando anche un posto diverso, panni nuovi e perchè no invasioni di campo. Il rischio maggiore, mi pare, sia obbligare e obbligarci alla stessa immutabile posizione.
Riccarda

Un posto mobile condiviso

Cara Riccarda,
dove lo vorrei… La premessa è avere lo sguardo nella stessa direzione, ma il posto fisso no, impossibile. Se saremo capaci di guardare sempre verso la stessa meta, quando io sarò in difficoltà, lui più forte e (spero) davanti, mi tenderà la mano per portarmi al suo fianco, così farò io quando sarà lui ad avere bisogno, facendo in modo che comunque ognuno di noi percorra la strada, con le proprie gambe. Il posto fisso no e forse pretenderlo porterebbe alla fine di tutto.
Ecco, accettare il posto non fisso, penso porti a rendere più forte il legame.
S.

Cara S.,
posso dire, in questo caso, viva il precariato? Ma è più efficace come l’hai definito tu “posto non fisso” come spazio necessario alla solidità fra due persone.
Riccarda

Accanto ma non troppo

Cara Riccarda,
credo che l’importante poi in fondo non sia dove metterlo, ma come, quando e in che modo.
Mi piace pensare che la persona con cui si ha deciso di condividere questa vita ti stia vicino, non troppo, ma vicino.
Sia vicina quanto basta per camminare magari affiancati ma senza urtarsi, uno di fronte all’altro anche, ma avendo sempre un punto di vista sgombero e libero. Lo metterei accanto, ma non troppo. L’impegno è quello di mantenere quella stessa distanza, nel tempo, senza allontanarsi troppo, senza avvicinarsi troppo.
Quanto basta.
Quanto basta per essere felici indipendenti, quanto basta per stendere il braccio e afferrarlo con la mano.
Buone feste
C.

Cara C.,
il tuo quanto basta è come quello delle ricette: bravo chi lo azzecca. Ma a forza di provare poi ci si prende la mano, giusto?
Riccarda

Un cambio in meglio

Cara Riccarda,
avevo un uomo al mio fianco che, nel momento del bisogno, si metteva dietro di me. Ora ho un uomo che sta dietro di me, ma che, nel momento del bisogno, mi sta davanti.
Debora

Cara Debora,
niente male come staffetta, ma non credo sia casuale.
Riccarda

Utopie? Direi di no

Cara Riccarda,
io vorrei un uomo laterale spalla alla spalla per essere protetta, supportata, sopportata e viceversa. Di fronte per potermi specchiare e confrontarmi. Ma questa è solo utopia.
A.

Cara sfiduciata A.,
ho volutamente lasciato la tua e-mail per ultima perchè le lettere pubblicate sopra possano parlarti meglio di quanto sappia fare io.
Riccarda

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

IL CONCERTO
Ultimo live dell’anno della Tjco

Da: Jazz Club Ferrara

Venerdì 16 dicembre spazio all’ultimo live 2016 dell’apprezzata Tower Jazz Composers Orchestra, l’orchestra residente del Jazz Club Ferrara. Gli oltre 20 venti elementi che la compongono, diretti da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon, proporranno composizioni originali e accattivanti rivistazioni di brani della tradizione afroamericana. In apertura di serata critico musicale e autore Franco Bergoglio presenterà ‘Sassofoni e pistole. Storia delle relazioni pericolose tra jazz e romanzo poliziesco’, edito da Arcana. Media Eleonora Sole Travagli.

Venerdì 16 dicembre, a partire dalle ore 21.30, spazio all’ultimo live 2016 dell’apprezzata Tower Jazz Composers Orchestra, l’orchestra residente del Jazz Club Ferrara.
Gli oltre 20 venti elementi che la compongono, diretti da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon, alterneranno composizioni originali ad accattivanti rivistazioni di brani della tradizione afroamericana che andranno ad infoltirne il repertorio, dando spazio ai talentuosi elementi di sperimentare e mettere in gioco le proprie idee musicali con creatività e sorprendente empatia.
In apertura di serata il critico musicale e autore Franco Bergoglio presenterà ‘Sassofoni e pistole. Storia delle relazioni pericolose tra jazz e romanzo poliziesco’ (Arcana Edizioni), con la mediazione di Eleonora Sole Travagli.
Cosa unisce Andrea Camilleri, Raymond Chandler, Michael Connelly, James Ellroy, Giorgio Faletti, Patricia Highsmith, Stephen King, James Patterson, Georges Simenon, Carlo Lucarelli, Jean Claude Izzo, Cornell Woolrich, e molti, molti altri? Elementare, Watson: gli oltre trecento scrittori approfonditi in questo volume hanno introdotto del jazz nei loro romanzi noir. ‘Sassofoni e pistole’ racconta, dunque, la storia della musica preferita dagli autori di thriller di ieri e di oggi; di sparatorie a ritmo swing, detective che si esercitano al sassofono invece che con la pistola, cantanti platinate e ispettori fanatici di Miles Davis. Una raccolta di memorabilia un po’ folle, comprendente scrittori, artisti, libri e canzoni.
L’ingresso a offerta libera è riservato ai soci Endas. È consigliata la prenotazione della cena al 333 5077059 (dalle 15.30).

INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Infoline 339 7886261 (dalle 15:30)
Prenotazione cena 333 5077059 (dalle 15.30)
Il Jazz Club Ferrara è affiliato Endas, l’ingresso è riservato ai soci.

DOVE
Torrione San Giovanni via Rampari di Belfiore, 167 – 44121 Ferrara. Se si riscontrano difficoltà con dispositivi GPS impostare l’indirizzo Corso Porta Mare, 112 Ferrara.

COSTI E ORARI
Ingresso a offerta libera riservato ai soci Endas.
Tessera Endas € 15
Non si accettano pagamenti POS
Apertura biglietteria 19.30
Cena a partire dalle ore 20.00
Incontro con l’autore 21.30
Concerto 22.00

DIREZIONE ARTISTICA
Francesco Bettini

L’INCONTRO
Giuseppe Sgarbi e Susanna Tamaro presentano i loro libri

Da: Ibs+Libraccio

Venerdì 16 dicembre alle ore 18:00
Presso la storica sala dell’Oratorio San Crispino
Libreria Ibs+Libraccio di Ferrara

Presentazione del libro di Giuseppe Sgarbi ‘Lei mi parla ancora’ (Skira)

“Hai sempre amato le attenzioni di Elisabetta. La tua voce cambiava quando parlavi al telefono con lei. Capivo chi era all’altro capo del filo dal tono che usavi. Quella dolcezza era riservata a lei. A Vittorio hai sempre parlato come parla un padre. A lei come una madre. A me come una donna. Possedevi il dono delle lingue. A ciascuno la sua. Nessuna mi aveva mai parlato così. Né nessun’altra l’ha mai fatto. Credo sia questa la cosa che mi ha fatto innamorare. La tua bellezza era l’esca, certo, ma è stata la tua testa a pescare nel mio cuore. Mai conosciuto una testa così. Lucida, vivida, fulminante. E io non sono mai stato tanto felice di aver abboccato a un amo. Un amore che vive anche adesso che tu non vivi più. Per questo il dolore è così grande.
‘Finché morte non vi separi’ è una bugia. Il minimo sindacale. Un amore come il nostro arriva molto più in là. E il tuo lo sento anche da qui.”

L’amore di Giuseppe Sgarbi per la moglie Rina, scomparsa un anno fa, è di quelli che non si trovano più. È stato un amore che ha dato pienezza, significato, profondità, valore e bellezza a una strada percorsa fianco a fianco negli anni, qui evocato in una “prosa piana, percorsa da echi e risonanze come ogni classicità” (Claudio Magris).
Dopo i successi di Lungo l’argine del tempo e Non chiedere cosa sarà il futuro, in questa sorta di romanzo-elegia ‘Nino’ Sgarbi racconta, in un delicato e appassionato dialogo a distanza, l’amore inesauribile per la sua sposa, compagna e anima di tutta una vita.

Giuseppe Sgarbi, padre di Vittorio ed Elisabetta, per quasi mezzo secolo ha esercitato la professione di farmacista nella campagna tra Veneto ed Emilia. Con Skira ha pubblicato il suo romanzo d’esordio Lungo l’argine del tempo. Memorie di un farmacista (2014, vincitore del Bancarella Opera Prima e del Premio Internazionale Martoglio) e Non chiedere cosa sarà il futuro (2015).

Presentazione del libro di Susanna Tamaro ‘La tigre e l’acrobata’ (La Nave di Teseo)

Piccola Tigre non è una tigre come le altre: è curiosa, fa molte domande, mette in discussione quello che la natura le offre e che i suoi simili semplicemente accettano. Piccola Tigre apre gli occhi e scopre la meraviglia della luce. Tende le orecchie e scopre la vasta gamma dei rumori della Taiga. Quando, molto presto, le si fa chiara la forza che compete a una tigre, inizia a cibarsi di altri animali. Ma con qualche dubbio. Impara a distaccarsi da sua madre, a viaggiare da sola, sino ad avventurarsi fuori dai confini della Taiga, in cui è nata e da cui le altre tigri non usciranno mai.

E, così, grazie a questa sua curiosità, infine, scopre anche l’uomo. L’hanno avvertita che dall’uomo bisogna guardarsi. Ma lei vuole conoscerlo. Con l’uomo, Piccola Tigre scopre l’essere più inquietante e mutevole, da amare e da cui difendersi. E da qui in poi la sua vita non sarà più la stessa.

Susanna Tamaro torna alla narrativa pura con una favola per tutti i lettori, adulti e ragazzi; una favola morale in cui, nel flusso di una grande e avvincente avventura, nella forma di personaggi del regno umano e animale, si raccontano valori universali: la curiosità, il desiderio inestinguibile di sapere, il senso insopprimibile di libertà.

IL LIBRO
Andrea Pagani presenta ‘Le idee vengono di notte’

Da: Organizzatori

Spesso l’invisibile è più essenziale delle cose che possiamo toccare
Andrea Pagani presenta ‘Le idee vengono di notte’, dialoga con l’autore Davide Bassi

Sabato 17 Dicembre 2016 alle ore 18, presso la Galleria ‘del Carbone’, Vicolo Carbone 18 (Ferrara), Davide Bassi presenterà ‘Le idee vengono di notte’ (ed. Ponte Vecchio) di Andrea Pagani.
“Questo racconto, che per certi aspetti richiama la tradizione delle short stories di Edgar Allan Poe e Robert Louis Stevenson, ci immerge in una dimensione che esercita una tenera seduzione, a metà strada fra sogno e realtà, magia e verosimiglianza. Un racconto poliziesco e sentimentale, ambientato in un misterioso paese del sud Tirolo (una specie di Valois di Nerval), che nasce da una singolare perizia stilistica, saturo di delicate allucinazioni e di sensuale simbolismo, ma adagiato nel ritmo nervoso di un poliziesco. Contrasto che ne delinea la speciale bellezza” (Antonio Castronuovo).

Andrea Pagani, nato a Ferrara, vive e lavora a Imola dove insegna Letteratura Italiana e Storia presso il Liceo Scientifico Alberghetti. È saggista, narratore e sceneggiatore. Ha pubblicato una ventina di saggi sul Rinascimento e sul Novecento, e otto libri di narrativa: Nel tempio di vetro, Book editore, 1990 con prefazione di Roberto Pazzi; La colpa oscura, Editore Mobydick, 1999 con prefazione di Carlo Lucarelli; Capriole di comico, Libro delle anime, anno 1701, Edizioni Pendragon, 2004 con postfazione di WuMing 2; L’alba del giorno seguente, Bacchilega editore, 2004; Blue Valentine, Bacchilega editore, 2005, vincitore del premio ‘Piccola editoria di qualità’, rassegna della Microeditoria italiana; L’alfiere d’argento, Mobydick editore, 2007; Il limite dell’ombra, Bacchilega Editore, 2010; La tana del coniglio, editrice La Mandragora, 2014.
Ha sceneggiato cortometraggi e collaborato con la Zanichelli.

Davide Bassi insegna Paleontologia e Paleoecologia all’Università di Ferrara. Amando l’Arte si occupa di paleoecologia delle comunità bentoniche fossili del Giurassico e del Cenozoico.
La ricerca scientifica universitaria e l’Arte lo hanno indirizzato verso il Giappone dove è stato professore ospite presso il Tohoku University Museum (Institute of Geology and Paleontology, Graduate School of Science) e l’Università di Nagoya.

L’ANNIVERSARIO
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Onorata con sessantotto anni di guerre

Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani il cui primo articolo recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Quest’anno si festeggiano i sessantotto anni di questo che fu un atto rivoluzionario per l’intera umanità, nato dalle macerie di una guerra devastante quale fu la Seconda Guerra Mondiale: per la prima volta venivano sanciti a livello mondiale i diritti fondamentali spettanti agli esseri umani.

Nel suo preambolo si legge: ”Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo”. Il disprezzo dei diritti umani porta inevitabilmente ad atti di barbarie che offendono l’umanità: sono sessantotto anni che il mondo assiste a guerre e genocidi che calpestano e rendono la Dichiarazione dei diritti dell’uomo quasi lettera morta.

Chissà se in Siria ci hanno pensato a questo anniversario: della guerra in Siria non interessa a nessuno. Il 15 marzo prossimo saranno sei anni che, sull’onda delle primavere arabe, scoppiarono in Siria manifestazioni senza precedenti contro la famiglia Assad che da quarant’anni detiene il potere (prima Hafez e poi, dal 2000, suo figlio Bashar). Scoppiò una guerra che tutt’oggi vede contrapposti il governo ufficiale di Assad, sostenuto dalla Russia e i ribelli anti governativi. In questo scenario già molto complesso si inserisce poi lo Stato Islamico (IS) che è riuscito a conquistare città strategiche come Kobane, poi liberata dai miliziani curdi. A farne le spese la popolazione civile: milioni di persone costrette a lasciare il proprio paese, rifugiandosi, prevalentemente, in Turchia e Libano; chi rimane è condannato a morire sotto le bombe o di fame. L’economia è al tracollo, la sanità non esiste praticamente più.

L’Occidente condanna e tentenna, di fatto non riesce a far niente di risolutivo. Sei anni di una guerra poco “popolare”: certo, ci sono le foto dei bambini siriani morti su Facebook sotto cui mettere tanti “like” o i video truculenti di bombardamenti ed esecuzioni capitali su Youtube, ma la coscienza civile non è coinvolta. E’ una guerra che non è penetrata dentro le nostre vite, non ci provoca il disgusto che meriterebbe. Forse perché concentrati su problematiche nazionalistiche oppure perché, strano ma vero, non sono coinvolti gli americani quali salvatori della democrazia occidentale. Se ne sta occupando la Russia e allora la faccenda sembra ancora più lontana da noi.

Forse si è troppo assuefatti ai bollettini di guerra: in Europa siamo sotto attacco terroristico da oltre un anno, non possiamo pensare anche ai siriani che muoiono come mosche in casa loro. E poi abbiamo i nostri clandestini a cui pensare: siamo buoni noi italiani e la nostra parte la facciamo abbondantemente. Abbiamo sempre le mani tese a soccorrere i naufraghi nel “mare nostrum”, ma non abbiamo braccia tanto lunghe da arrivare anche in Siria. Si fa quel che si può. All’epoca della guerra nella ex Jugoslavia la voce popolare si fece sentire: ci furono numerose manifestazioni e raccolte firme. Bono Vox cantava “Miss Sarajevo” e l’attenzione mondiale venne catalizzata su quella striscia di terra che si stava frantumando sotto i colpi di mortaio.

In Rwanda, dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994, per circa 100 giorni, vennero massacrate, a colpi di machete o bastoni chiodati, quasi un milione di persone. Un milione di persone in cento giorni. Anche allora le notizie arrivavano puntuali in Italia, e in tutta Europa, tramite i notiziari e la carta stampata. Cosa è stato fatto? Niente. In Bosnia la guerra era in casa, il Rwanda dove si trova? Purtroppo l’Africa è ancora organizzata in tribù che si scannano tra loro, l’Africa è un mondo a se stante che ci siamo lasciati alle spalle con la fine dell’era coloniale. Ogni 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria: sei milioni di ebrei uccisi dalla follia omicida di un dittatore che sognava l’Europa abitata solo da persone di razza ariana.

Ogni 27 gennaio l’Europa celebra il proprio olocausto al grido di “PER NON DIMENTICARE”. Nessuno dimentica il passato, ormai si dimentica il presente. Un giorno per espiare le proprie colpe passate e tornare a pensare, il 28 gennaio, che una cosa così terribile non potrebbe più accadere. Ci si auto compiace del fatto di aver raggiunto un grado di maturità collettiva tale da indurci a riflettere un giorno all’anno ai misfatti passati.

Tra tanti anni sarà eletto un giorno per celebrare il massacro del popolo siriano: sarà il 15 marzo, a ricordo dell’inizio ufficiale delle rivolte contro il governo di Assad oppure il giorno in cui è morto l’ultimo bambino rimasto in quella terra insanguinata. Sarà il giorno delle lacrime e della memoria: magari qualche bella fiaccolata e la proiezione di un film strappalacrime alla Schindler’s List. Si malediranno i Potenti della Terra che lasciano morire le povere persone, si sentiranno per tv le testimonianze di qualche sopravvissuto a quell’orrore: ci si auto assolverà come non colpevoli per l’ennesimo “atto di barbarie” che ha celebrato il requiem di quello “spirito di fratellanza tra gli uomini” che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo aveva stabilito come regola di vita universale.

LA STORIA
Il mostro è nudo (con la macchina fotografica a tracolla)

Il 25 Novembre è morto nella sua casa al VI arrondissement di Parigi l’ottantatreenne fotografo di origine inglese David Hamilton. Ufficialmente la morte è da ricondursi ad un cocktail di farmaci e, sembra, ad una busta in plastica che si era messo in testa prima di stordirsi e cercare la morte. Si tratta infatti di suicidio. Un suicidio che segue di pochissimo tempo l’uscita del libro “Consolation” della celebre conduttrice francese Flavie Flament nel quale accusava “un celebre fotografo” di averla violentata a tredici anni. Il fatto che la Flament avesse posato bambina per Hamilton ha facilitato la scoperta del nome del presunto stupratore.

Qualche giorno dopo l’uscita del libro, altre donne hanno testimoniato al settimanale L’Obs di essere state violentate da Hamilton negli anni ’80. Hamilton ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento, pubblicando anche un comunicato nel quale diceva che “L’istigatrice di questo linciaggio mediatico cerca il suo ultimo quarto d’ora di gloria. Sporgerò diverse denunce nei prossimi giorni”. Il suo suicidio invece ha tolto definitivamente la possibilità di far chiarezza sui fatti denunciati.

Ne parlo con una amica che abita a Parigi, la quale mi conferma che della vicenda se ne parla parecchio trattandosi lei di un noto volto della tv francese. Mi dice che addirittura Laurence Rossignol, ministra della Famiglia della Infanzia e dei Diritti delle Donne, aveva dato incarico alla stessa Flament di comporre una commissione per rivedere la prescrizione per il reato di pedofilia (la Flament infatti non ha potuto denunciare Hamilton in quanto il reato risultava prescritto). Sembrava che il mostro finalmente fosse stato incastrato ma, come è tipico del pedofilo che vuole il controllo assoluto sulle proprie vittime, Hamilton ha deciso di imporre loro il silenzio, come da bambine, uccidendosi. “La dinamica -racconta Flavie- era sempre la stessa: ragazzine di dodici o tredici anni, conosciute in strada o in spiaggia, e ricevute nel suo studio con il benestare delle madri. Prima ci fotografava e poi ci stuprava”.

“Siamo solo tre al mondo ad aver trattato la ricerca dell’innocenza e la bellezza delle giovani donne: io, Balthus e Nabokov”, amava ripetere. Le sue foto, dai contorni soffusi e quasi romantici, ritraevano ossessivamente bambine, preferibilmente bionde e con gli occhi azzurri, in pose lascive ed ingenuamente ammiccanti, come delle ninfette, all’epoca considerate artistiche, vennero raccolte in diversi libri, esposte in frequentatissime mostre, stampate in cartoline e magliette. Non si può non riflettere su quanto cambi la coscienza sociale, ed artistica, nei diversi periodi storici, e se negli anni settanta i ritratti di Hamilton che gli regalarono fama mondiale erano definiti come “arte”, per la sensibilità moderna maggioritaria non sono altro che pedopornografia.

Le Opere d’arte dai contenuti sessualmente espliciti prodotte in occidente prima del XX secolo come “L’origine du monde” (1866) di Gustave Coubert, che rappresenta una vulva femminile, non erano destinate all’esposizione pubblica. Il giudizio se un particolare lavoro è più artistico o più pornografico rimane, alla fine, del tutto soggettivo a seconda del momento storico e della cultura di appartenenza; alcuni individui giudicano ogni manifestazione del corpo nudo come inaccettabile, mentre altri possono trovare nell’arte erotica dei grandi meriti artistici.

Catherine Breillan, sceneggiatrice nel 1977 del film Bilitis, girato da Hamilton nella veste di regista, e che racconta le avventure erotiche di una ragazzina diciassettenne, esprime dolore per la morte del fotografo dicendo che: “era ossessionato dalla fotografia più che dalle bambine”. Come se l’amore per l’arte potesse giustificare tutto. Rimane il fatto che, alla luce di quanto emerso dalla denuncia di tante ex modelle bambine, guardando i ritratti “artistici” di David Hamilton non si può non provare un brivido di orrore per l’ennesima strumentalizzazione crudele che si fa del corpo e dell’anima di bambini innocenti.

Alla vicenda poi si aggiunge orrore nell’orrore se si pensa che ad accompagnare le giovani vittime dall’orco erano le madri stesse: “veniva ad aprire la porta dello studio nudo e con la macchina fotografica a tracolla”, dice Flavie, ”una situazione che avrebbe fatto inorridire qualsiasi madre degna di questo nome”.

Bambine vendute per fame di notorietà, per ignoranza, per arte…ma si può veramente giustificare ogni cosa che si accompagni all’aggettivo “artistico”?

L’APPUNTAMENTO
Al via al Liceo Ariosto gli incontri formativi per “giovani reporter” a cura di Daniele Modica di Ferrara Italia

di Chiara Argelli

Scrivere un articolo non è certo un’impresa semplice: trovare la notizia giusta ed interessare il lettore è la missione di ogni buon giornalista.Ma come si trovano le notizie? E quali sono i piccoli trucchi del mestiere per scrivere un articolo interessante?

Queste e tante altre domande hanno trovato risposta durante l’incontro svoltosi al liceo Ariosto lunedì 5 Dicembre nel corso del quale Daniele Modica, co-direttore del giornale online Ferrararitalia, ha parlato agli alunni interessati al mondo della redazione.Un ciclo di tre appuntamenti pensati e progettati dalla scuola stessa. in collaborazione con Ferrara Italia. Questi incontri non mirano semplicemente a formare nuovi giornalisti, ma hanno come obiettivo principale quello di offrire ai ragazzi i mezzi giusti per poter leggere ed interpretare la realtà che quotidianamente viene fornita dai media.

Tendiamo a fidarci di quello che ci viene proposto e che troviamo scritto, soprattutto se la fonte è attendibile. Ma quante notizie lette, poi sono state smentite? Quanti falsi miti sono stati sfatati?

Durante l’incontro ci si è interrogati sulla veridicità di un articolo, nonché sull’etica del giornalista, che deve riportare la realtà osservata nella maniera più oggettiva possibile, ma pur sempre attraverso i suoi occhi e le sue parole.
Risulta fondamentale la prospettiva che il giornalista sceglie per descrivere una vicenda, che sia di cronaca, sportiva o sociale.
“Tutto ciò che noi inglobiamo nell’articolo, è importante quanto quello che lasciamo fuori e questo vale nel giornalismo quanto nella vita di ognuno di noi. Siamo costretti a fare dei ‘tagli’ ”. afferma Daniele Modica affrontando l’argomento con piccoli spunti di riflessione, immagini e “giochi” che vedono i ragazzi protagonisti. “A volte siamo costretti a incentrare il nostro focus su altro rispetto alla nostra idea iniziale, il giornalista deve capire quale focalizzazione catturerà maggiormente l’attenzione del lettore”.
Assieme al focus, gli altri elementi fondamentali sono il titolo e l’attacco. Entrambi devono convincere e invogliare, ma allo stesso tempo essere esaustivi e contenere le ‘famose cinque W: what, when, who, where, why (cosa, quando, chi, dove e perché).
“Avete presente i gialli? – continua Modica- Ecco, nell’articolo di giornale dovete fare esattamente il contrario! Non tenetevi il più bello per la fine, altrimenti nessuno lo leggerà.” Questi semplici trucchi sono in realtà essenziali e decideranno il destino del pezzo scritto.

Formare i ragazzi su determinati argomenti significa renderli lettori consapevoli ed attenti, oltre che giornalisti in erba.
Alla fine dei tre incontri stabiliti, verrà infatti aperta una “stanza” su Ferraraitalia, dove gli articoli scritti dai ragazzi e considerati più meritevoli, potranno avere il giusto spazio.
Grazie a questa nuova collaborazione, il giornale vuole dare l’opportunità a giovani ragazzi di vedere il proprio nome come firma di un articolo pubblicato e collaborare con una redazione giornalistica.
Questa esperienza sarà utile anche per avvicinare gli studenti al mondo del lavoro. Un mondo che spesso “chiude le porte in faccia”, che non dà adeguato modo di sperimentare e mettersi alla prova.

Sperando che l’iniziativa possa avere un esito positivo, la redazione vuole ringraziare il Liceo Ariosto per questa collaborazione appena avviata, gli insegnati per il tempo che stanno dedicando al progetto e gli studenti interessati che hanno partecipato al primo incontro con grande attenzione.

Per concludere con le parole del direttore, incitiamo i ragazzi a mettersi in gioco, ma con un piccolo avvertimento “Non potete immaginate che potere immenso ha il giornalista tra le sue mani. L’importante, è che questo potere, non dia alla testa”

L’EVENTO
Creatività a confronto: la fotografia vista da Maria Chiara Bonora e Denise Ania

di Linda Ceola

 

Foto di Valerio Spisani
Foto di Valerio Spisani

Due donne. Un esplosione di tenera creatività. Due approcci emozionali divergenti supportati da due mezzi fotografici diversi, l’uno digitale, l’altro analogico. Due processi creativi a confronto che trovano però un punto comune. La sensibilità, carica di sensualità e dolcezza.
Sensibile è infatti il titolo che Riaperture, associazione ferrarese neonata, ha scelto di dare ad un appuntamento fotografico tutto al femminile, che ha visto protagoniste Maria Chiara Bonora e Denise Ania mercoledì 7 dicembre scorso, alle h 21 presso ilturco, spazio coworking.

Maria Chiara Bonora inizia ad usare la macchina fotografica all’università, nei rilievi architettonici di edifici fatiscenti da restaurare, per poi sviluppare un rapporto più appassionato con l’obiettivo lavorando in uno studio di architetti, che a conclusione dei lavori era solito commissionare e pubblicare un reportage fotografico delle proprie opere. E’ qui che Maria Chiara inizia a dare un’”identità architettonica” al suo rapporto con la fotografia che diventerà il distintivo dei suoi lavori: “La fotografia che stavo facendo e l’architettura che si trovava di fronte a me avevano molte cose in comune, entrambe dovevano essere composte, avere una struttura, una gerarchia, delle proporzioni”.

Dopo questa esperienza Maria Chiara percepisce il potenziale creativo del mezzo fotografico ma non sa ancora bene come accrescerlo; inizia così a frequentare un circolo dedito ad esso, scegliendo di prendere parte ad un progetto sul pane ferrarese intitolato “L’anatomia della coppia”, dove attraverso un obiettivo macro interpreta in chiave erotica la tradizionale coppia ferrarese. “Dopo questo lavoro non sapevo come sviluppare questa possibilità di esprimermi e così mi sono fermata per anni, poi ho incontrato delle persone che hanno risvegliato in me il desiderio di riprendere” dice Maria Chiara, che questa volta però ha un intento preciso: costruire la fotografia. Progettarla. “Disegnare un’idea, cosa che proviene dalla mia formazione di architetto, rende più comprensibili concetti che altrimenti sarebbero difficilmente visualizzabili, inoltre mi aiuta a ricordare e fissare il risultato che voglio ottenere”.
Tra una fase e l’altra, l’idea, la documentazione, la stesura degli scritti, l’organizzazione dello spazio e l’accaparrarsi gli strumenti necessari allo scatto, passa sempre del tempo che per Maria Chiara è di estrema importanza per capire se ciononostante continua a ritrovarsi nel progetto ideato inizialmente o se il filo conduttore si è perso, portandola quindi ad abbandonare il lavoro.

“‘Del labirinto dentro e fuori di sé’ è un progetto che mi ha appassionato molto e in cui ho individuato la metafora di un percorso mirante alla consapevolezza di un valore interiore” dice Maria Chiara riferendosi successivamente alla sua fonte di ispirazione per questo lavoro, ossia il celebre Labirinto di Cnosso in cui al suo interno non si nascondeva un tesoro bensì un uomo dalle mostruose sembianze: il Minotauro. Effettua così una trasposizione grafica, prima proiettata e in seguito immortalata fotograficamente del suddetto labirinto sul proprio corpo, che diventa esso stesso intrico in cui farsi spazio per arrivare alla propria essenza più intima. Anche in questa occasione Maria Chiara suggerisce di soffermare l’attenzione sui molteplici piani presenti, che lo scatto nel suo compiersi abbatte, ossia lo sfondo bianco, il soggetto, il proiettore e la macchina fotografica, che necessitano di essere posti ad una precisa distanza frutto di un accurato studio iniziale.
Attualmente Maria Chiara è impegnata in un lavoro intitolato “Oniricon” riguardante i sogni che l’artista ha realmente fatto e poi scelto di abbozzarli su carta attraverso disegni e parole: “questi sogni raccontano la storia di un ritorno di qualcuno che non c’è più, ma senza malinconia né dramma; essi servono a me per tirare fuori delle sensazioni che altrimenti non uscirebbero, analizzandole ed elaborandole”.

Come rappresentare dunque i sogni attraverso la macchina fotografica? Maria Chiara individua due
fasi della narrazione: il presente di oggi che vuole ricordare e il passato rappresentato dal sogno e quindi dal ricordo, che devono assolutamente coesistere in un’unica immagine. “Ho affidato alla diapositiva il compito di rappresentare il sogno o comunque l’evento principale dello stesso e poi ho proiettato questa diapositiva su superfici in spazi diversi; una volta proiettata al buio l’ho fotografata rendendo chiara la coesistenza tra le due diverse dimensioni”. Le connessioni tra diapositive e superfici sono dettate da suggestioni assolutamente personali e legate al mondo onirico pertanto illogiche. Potremmo dunque definire Maria Chiara Bonora autrice di architetture fotografiche al confine tra il sogno e la realtà, anticipate da una sapiente progettazione su carta, fatta di schizzi e parole intrise di sensuale femminilità.

Denise Ania diversamente da Maria Chiara Bonora sceglie di utilizzare un mezzo fotografico analogico costruendo intorno ad esso la sua “poetica fotografica”. Subito ci porta con sé ad Istanbul città in cui si recò per motivi di studio inerente alla fotografia, mostrandoci alcuni scatti correlati tra loro da un termine conduttore appositamente selezionato, Charme. “Non porto sempre la macchina fotografica con me, non sono una fotografa d’assalto, ho un rapporto particolare con questo mezzo che uso solo quando sento una spinta irrefrenabile”. Inizia infatti a scattare fotografie solo dopo tre mesi di permanenza ad Istanbul, nell’intento di cogliere il fascino della città, intriso di contrasti, che Denise associa al colore rosso, colore dell’amore, della morte, della sessualità. La desolazione degli edifici altissimi che si elevano con l’unico scopo di contenere persone senza prevedere un contesto circostante di vivibilità, diventano presto oggetto delle sue attenzioni, dichiarandosi molto più attratta dai luoghi rispetto alle persone che sceglie di evitare di fotografare temendo in qualche modo di violarle.

Denise compra proprio ad Istanbul una Yashica, la macchina che più si addice alla sua idea di fotografia, cioè il risultato di un attesa che il mezzo digitale annulla completamente. Un attesa che non sempre da i frutti sperati ma che a Denise piace molto, definendola “gioco imprevedibile”. “Non so mai se le mie fotografie verranno a fuoco e quindi ho sviluppato un certo amore e una fiducia reciproca nei confronti del mio mezzo. Accetto quello che mi da e talvolta mi stupisce”. In Cappadocia per esempio Denise si lascia attrarre da una signora anziana e dal suo sguardo intenso e dopo lo sviluppo della fotografia scopre che la sua macchina ha scelto di mettere a fuoco lo sfondo anziché la figura della signora, portando l’attenzione all’interno della sua casa.

Un altro ambito interessante per Denise è quello dell’autoritratto: “anche qui non progetto niente, appena arriva la chiamata dell’autoritratto sposto tutto, sistemo la macchina fotografica e io sono lì”. Il tempo è una tematica ricorrente negli scatti di quest’artista, che già a 27 anni inizia ad avvertire un principio di decadimento fisico, che la fotografia in questo caso aiuta a fissare. Nel suo primo autoritratto realizzato non casualmente nel giorno del suo compleanno, il volto di Denise a noi nascosto è rivolto verso un quadro rappresentante un vaso di fiori, simbolo della caducità che incombe. “Non faccio mai degli autoritratti con sguardo diretto in camera, non intendo provocare nè focalizzare la mia attenzione sul sesso, ciononostante non mi limito ad inserire delle parti di nudo”. Restando in quest’ambito Denise ha trovato interessante anche l’utilizzo della webcam come strumento fotografico al fine di realizzare degli autoritratti senza identità in quanto privati interamente della testa del soggetto. Trattasi in questo caso di un’idea di progetto ancora abbozzata che l’artista intende sviluppare, come quello focalizzata sulla città di Ferrara che al momento conta solo uno scatto e che ha già intitolato Grazia. Denise non ama progettare con largo anticipo, si definisce “disorganizzata” e preferisce scattare solo quando sente che il momento è propizio, spinta da una forte energia e sensibilità emozionale.

Due processi creativi singolari, quello di Maria Chiara Bonora e Denise Ania che hanno voluto raccontarci cosa si cela dietro alle loro immagini.
La strada verso il photofestival di Riaperture che si terrà a marzo 2017 è ancora lunga. Stay tuned per il prossimo appuntamento fotografico!!
http://riaperture.com/
http://www.ilturco.it/

(Tutte le foto sono di Valerio Spisani)

LA RECENSIONE
La lotta per non essere ultimi

gli-ultimi-saranno-ultimi-21-1000x600“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” (articolo 1 della Costituzione). “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (articolo 3 della Costituzione).

La dignità, questa sconosciuta, quella lotta contro la precarietà che non lascia scampo e che toglie ogni speranza, quella voglia di vivere con poco che molti non hanno il diritto di avere. Spesso non ci si guarda intorno abbastanza per comprendere che una quotidianità tagliente e sorprendentemente dolorosa attanaglia i pensieri di chi lavoro non ha o di chi l’aveva e che, perdendolo, non ha più spazio per camminare a testa alta.

In Gli ultimi saranno ultimi, Massimiliano Bruno disegna, a tratti netti e pungenti, la vita di Luciana Colacci (Paola Cortellesi), una moglie che ha una vita semplice e di poche pretese, che si vede sconvolgere il futuro d una gravidanza tanto attesa e desiderata: perché certe volte, in certe circostanze che sembrano ancora medievali, ma che purtroppo persistono, si perde ancora il lavoro se si è incinta. Un’Italia dei vinti, quella che viene presentata, quella di chi non ha diritti, di chi non ha potere negoziale e decisionale, di chi cerca spazio e voglia di famiglia che non sempre si ha il diritto di avere. Intorno a Luciana, la provincia romana (Anguillara), un marito scansafatiche, giocherellone e un po’ cialtrone, Stefano (Alessandro Gassman) che vive di piccoli espedienti e molte idee inconcludenti. E poi il solitario e pacato Antonio (Fabrizio Bentivoglio), il goffo e mammone poliziotto dal forte accento veneto su cui pesa un’onta lontana mai lavata, un piccolo uomo in cerca di verità e di grigio riscatto. In tutto questo, se si è la sola a lavorare, perdere il proprio piccolo e normale impiego da precari, in una grigia, polverosa e monotona fabbrica di parrucche, significa perdere tutto, non avere più il proprio posto nella società e nel mondo, il proprio angolino tranquillo…

“Era la vita che c’era capitata e ci piaceva così”, dice Luciana, una piccola ambizione che però viene tolta. Anche quella. La buona volontà e l’impegno non bastano, l’ingiustizia sociale prende il sopravvento. E una donna mite e responsabile cambia volto. Una donna che si ritrova, disperata e ferita, con una pistola in mano. Rabbia e un dramma nel dramma, con un finale inatteso. Per resistere. Sempre. Sulle note di Infinito di Raf, di Quello che non c’è degli Afterhours, con la chiusura affidata a Gli ultimi di Paola Turci.

Gli Ultimi saranno ultimi, di Massimiliano Bruno, con Alessandro Gassmann, Fabrizio Bentivoglio, Ilaria Spada, Paola Cortellesi, Stefano Fresi, Italia, 2015, 103 mn.

“Salvo per miracolo: ora voglio cambiare vita”. Parla il venticinquenne ferrarese uscito di strada dopo l’impatto con un tir

“Vivevo alla grande,forse mi sentivo di poter fare tutto. Mi è venuto sonno ma non mi sono fermato. Quando ho aperto gli occhi avevo un tir di fronte”. Sono passati più di 180 giorni, ma il ricordo di quella notte a cavallo tra il 5 e il 6 giugno difficilmente si potrà cancellare nella testa di Daniele Silandri, studente ferrarese di 25 anni che si è incidentato con la sua Audi A1 contro un tir lungo la statale 16, a pochi chilometri da casa. Le prime pagine dei giornali locali hanno riportato la notizia. Quella notte ha cambiato per sempre la sua vita: “Mi sento fortunato, miracolato. Ora voglio cambiare”, dice convinto.

Vorrei mettere le carte in tavola. Ci può raccontare realmente ciò che è accaduto? Di chi è la responsabilità?
Sono il primo a dirlo, la colpa è senz’altro mia. Era un periodo intenso della mia vita, avevo lasciato Rimini, dopo essermi trasferito lì per lavoro, per andare a Milano e seguire un master. Sia a Rimini che a Ferrara, città dove sono nato e cresciuto, ho amici e famiglia. Cercavo di fare la vita di sempre, ogni week end.

Come stava andando la sua vita?
Lavoravo come personal trainer in una palestra di Milano, studiavo e facevo avanti e indietro con la macchina. Ero stato catturato da un vortice di onnipotenza, credevo di poter fare tutto. All’inizio di giugno stavo lavorando al Rimini Wellness e alloggiavo in un hotel in città. Quale miglior occasione per rivedere i miei amici? Era stata una settimana bella intensa, legata già a un periodo frenetico anche se molto bello. Finito di lavorare, dopo il solito turno dalle otto del mattino alle diciannove della sera, mi lavavo e uscivo a mangiare e poi discoteca con amici e non tornavo a casa prima delle cinque del mattino.

Così è andata anche quella sera, prima dell’incidente?
Dopo il solito turno di lavoro, avevo deciso che sarei tornato a Ferrara dalla mia famiglia, per rimanere a dormire due tre ore e ripartire per Milano, perché alle otto avrei avuto lezione. Era l’ultimo giorno del Rimini Wellness e c’era molto traffico, decisi di andare a mangiare una pizza e poi partire qualche ora più tardi. Ero veramente stanco. Ma credevo di potercela fare. “Tanto -pensavo – è successo già altre volte che mi sentissi così stanco, ma non è mai successo niente ed è sempre andato tutto bene”.

sil
Daniele Silandri, ferrarese di 25 anni

Quindi a che ora è partito?
“Sono partito da Rimini intorno alle 23 già molto stanco. Sono rimasto in autostrada fino ad Imola al telefono con un mio amico. Ad imola ho imboccato le vie interne fino ad arrivare a Ferrara, ma non ci sono arrivato”.

Se non se la sente di continuare possiamo fermarci.
“No no ci sono. Dunque, ci ho messo circa due ore e mezza ad arrivare sulla via Ravenna, quando sono partito c’era ancora molto traffico. A dieci minuti da Ferrara, verso le 2, è successo tutto. Sapevo di essere molto stanco, mi è successo altre volte di esserlo così, ma mancavano pochi chilometri. “Ce la faccio!”,mi ripetevo. Ma la palpebra calava e mi sono addormentato. Mi sono svegliato al momento dell’impatto. Chiedo scusa, è un po difficile: ricordare fa male.

E’comprensibile. Le ripeto che possiamo fermarci.
“No no, grazie. Avrei potuto chiedere a chiunque un appoggio per dormire a Rimini, ma non sono capace di natura; non sono uno che chiede favori a qualcuno. Credevo davvero di essere immortale. Mi sono reso conto solo in seguito di essermi portato allo stremo delle forze, con il mio stile di vita, diciamo ‘fastlife’.

Cosa intende per ‘fastlife’?
Vita veloce, niente riposo, avevo annebbiato i miei principi. Mi sentivo grande, credevo di poter fare tutto. Con gli amici ero sempre in festa, poco sonno, poco tempo per me stesso e non avevo mai pensato di staccare.

Se la sente di tornare al momento dell’incidente?
Sì, non c’è problema. Quando ho aperto gli occhi, la macchina si era già scontrata contro il tir ed era in movimento, la prima cosa che ho pensato è stata: “Sono uno stupido”. Quando la macchina ha smesso di girare e si è fermata, la prima cosa che ho fatto d’istinto è stata toccarmi le gambe. Quella a destra era a posto, la sinistra aveva una sporgenza, ma con i pantaloni lunghi non la vedevo. Sapevo di avere una frattura esposta ma avevo troppa adrenalina per sentire il ben che minimo dolore. Avevo graffi ovunque, ematomi e abrasioni sulle braccia, sul collo e sul viso, ho scoperto ma solo in ospedale di avere due costole rotte. Ma sono vivo! Sono miracolato!.

Quando sono arrivati i soccorsi? Com’è andata?
Non so chi li abbia chiamati, ma sono stati velocissimi, anche se in quel momento per me il tempo era molto relativo. Ci avranno messo massimo cinque minuti ad arrivare. Sono arrivati ambulanza e vigili del fuoco. Hanno tagliato la portiera della macchina e mi hanno estratto prendendomi dal torace, mi hanno messo sulla barella e intanto che mi portavano via mi hanno chiesto dati e informazioni personali. Poi mi hanno addormentato. Ma negli attimi dell’incidente ero lucido, ho detto ai medici che mi ero addormentato. Cavolo, ero vestito ancora da lavoro, ero scioccato. Quella stessa sera sono stato operato d’urgenza all’ospedale di Cona e ricoverato in sala rianimazione per una settimana, per poi essere spostato in ortopedia. Avevo subito un’operazione transitoria con fissaggi esterni alla gamba sinistra. Sono tornato a casa due settimane, per poi tornare il sette luglio per una seconda operazione. Sono stato un mese con la gamba che non comprendeva le articolazioni del ginocchio, alcuni pezzi dell’osso si sono sbriciolati. Ma sono vivo, ancora non mi rendo bene conto.

Ed ora?
Ora sto facendo fisioterapia una volta al giorno e vediamo passo dopo passo di migliorare. Riesco un po’ a camminare, ma con le stampelle.

Com’è andata per l’autista del tir?
Non ha avuto nessun danno fisico, ma ancora non so chi sia, sicuramente ha avuto un grande choc. Da quello che mi hanno detto i carabinieri, è rimasto dieci giorni a casa dal lavoro e mi ha denunciato. Il 12 novembre sono andato in caserma per chiedere di conoscerlo di persona. Ma non è stato possibile.

Se potesse incontrarlo cosa gli direbbe?
Sicuramente mi scuserei. Ma poi chiederei i motivi della sua denuncia che aggrava una situazione per me già non leggera.

Grazie per il suo racconto. Prima di congedarci vorrebbe aggiungere qualcosa?
Ho tanti sensi di colpa, la prima cosa che ho detto a mia madre quando mi sono svegliato in ospedale è stata “Non l’ho fatto apposta!”. Avevo le lacrime agli occhi. Tutto quello che è successo mi ha fatto tornare bruscamente alla realtà. Non siamo i re del mondo, come credevo. Siamo padroni di noi stessi certo, ma fino ad un certo punto. La vita è una sola e va vissuta, è un dono. Ho fatto molti errori che molti ragazzi della mia età fanno, ora è tutto cambiato. Sto vivendo una vita che non ho scelto in un corpo che non si riconosce. Secondo me non è un caso che l’incidente mi abbia preso le gambe. Quando penso alle gambe penso al movimento, il mio è stato frenato. La mia fastlife è stato frenata. Ringrazio tutti quelli che mi hanno sostenuto e mi sono stati vicini, la mia famiglia e i miei amici. Grazie di cuore.

La prima pagina de Il Resto del Carlino Ferrara che riporta la notizia
La prima pagina de “Il Resto del Carlino Ferrara” che riporta la notizia
L'articolo e le fotografie riportate da Il Resto del Carlino
L’articolo e le fotografie riportate da “Il Resto del Carlino”

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Dove lo metto?

Avevo compiuto gli anni da pochi giorni. F., un’amica, era in arrivo a casa mia per portarmi il regalo e fare due chiacchiere davanti a un caffè. Dalla finestra, la vidi parcheggiare e scendere dalla macchina, in auto rimase M., il compagno, solo e imbronciato.
“E’ timido e non vuole venire”, mi disse F. un po’ imbarazzata sulla porta. Non commentai, ma la mia faccia evidentemente tradiva ciò che pensavo. F. capì e tornò in macchina per convincerlo. Li vidi discutere, forse litigare. M. finalmente entrò in casa, ci presentammo con una stretta di mano rapida e un mezzo sorriso di circostanza. La moka era pronta, ma M. non volle accomodarsi e non disse una parola costringendo F. alla fretta.
Non ricordo di cosa parlammo in quei pochi minuti, una leggera tensione dominava la nostra conversazione e fui presa da un altro pensiero, capire dov’era finito M.
Mi sembrò, a un certo punto, di non vederlo più, spostai lo sguardo e lo trovai già tra la soglia e l’uscita, posizionato due passi dietro di lei. Se ne andarono quasi subito, niente caffè.
Mi chiesi allora quale posto, nella coppia, vorremmo che un uomo occupasse: dietro seminascosto con il rischio di dimenticarlo? Due passi avanti che poi ci tocca correre? Laterale spalla a spalla? Di fronte in cui possiamo specchiarci? Voi dove lo vorreste? Ma poi, deve essere per forza un posto fisso?

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

LA RIFLESSIONE
Europa e burocrazia

di Grazia Baroni

La parziale bocciatura della riforma Madìa della Pubblica Amministrazione rende evidente quanto la riforma costituzionale, se pur imperfetta, sia necessaria e vitale per lo sviluppo dell’Italia a prescindere dal risultato referendario del 4 dicembre. Quando la Corte Costituzionale ha fermato la riforma Madìa, che poneva un limite temporale alle dirigenze delle amministrazioni e di fatto creava i presupposti per aumentare la produttività e l’efficienza della pubblica amministrazione, si è resa palese la volontà dei burocrati di difendere i propri privilegi, altrettanto ha fatto con vigore nella campagna per la bocciatura della riforma costituzionale, mostrando la potenza della struttura burocratica nei suoi propositi di autoconservazione.

D’altronde, votare Sì al referendum avrebbe rappresentato un tentativo di dare stabilità all’Italia e soprattutto all’Europa creando un dilemma per coloro che hanno votato, perché questa Europa, nella forma in cui si sta delineando, non piace quasi a nessuno, se non a chi si sta avvalendo di questa realtà per occupare un posto di lavoro che è anche prestigioso e ben remunerato. Oggi sappiamo come sono andate le cose e la fragilità dell’Unione Europea è proporzionalmente maggiore.

Il dilemma, però, oggi ancor più di ieri, rimane: come cambiare questa Europa senza distruggerla?

E perché non piace questa Europa? Sostanzialmente perchè si fa riconoscere dalla cittadinanza dei singoli Stati europei solo attraverso le regole procedurali emanate dal Parlamento che sono vincolanti a tal punto da finire per ingessare la sua economia impedendone lo sviluppo. Però, nonostante questo, gli Stati Nazionali si affidano a tale struttura burocratica proprio perchè non si fidano gli uni degli altri. La burocrazia porta alla deresponsabilizzazione e riduce al minimo le differenze; le caratteristiche nazionali che sono la ricchezza dell’Europa vengono appiattite togliendo il senso stesso del progetto europeo. Di questo si fanno forti le destre che infatti ultimamente stanno prendendo potere in Europa.

Purtroppo il Parlamento Europeo non ha un mandato legislativo non essendoci uno Stato d’Europa, può solo svolgere funzione di controllo su ciò che la Commissione Europea promulga e che non sono mai direttive finalizzate a creare lo sviluppo armonico di uno Stato unitario e democratico ma linee di confine per compromessi produttivi e commerciali tra Stati in competizione tra loro e unici veri mandatari di deleghe popolari elettive, quindi gli unici legittimati democraticamente a scelte politico- economico – sociali vere e proprie.

Il risultato è che l’Europa esiste soltanto in quanto burocrazia e in quanto tale non può essere democratica (lo dice la parola stessa: burocrazia è il potere delle procedure, non del popolo) e questa realtà è dovuta al fatto che ciascuno Stato Nazionale, nonostante due guerre mondiali e decine di milioni di morti, non sia ancora capace a cedere la propria a sovranità per un progetto più ampio e più adeguato ai tempi come sarebbe lo stato democratico degli Stati Uniti d’Europa. Uno stato che vada oltre ai nazionalismi e che possa rappresentare una nuova realtà politica, progettata interamente dal nuovo a partire dalla sua struttura amministrativa. Una struttura amministrativa fondata sul concetto di democrazia, intesa come libertà personale in uno spazio di libertà comune, che si sostituisca a quella attuale burocratica e massificante che identifica la democrazia con l’omologazione; questa sarebbe l’unica vera sfida per iniziare il terzo millennio, in modo democratico in un mondo globale.

Sarebbe il primo passo per un cambiamento universale perchè si può constatare oggi che il problema della burocrazia come struttura organizzativa delle società odierna, invece di facilitare il cambiamento e lo sviluppo, tende a frenarli, a creare una sempre maggior corruzione e a sostituirsi al potere legislativo politico in tutti gli stati, siano essi monarchie, repubbliche o dittature.

Questo accade perché, guardando la storia della burocrazia, si rende evidente come essa sia nata a servizio della monarchia assoluta. All’epoca è stata molto efficacie e funzionale, ma con l’evolversi delle forme di governo, dalla monarchia parlamentare alla repubblica, non si è rinnovata se non nella razionalizzazione delle sue procedure grazie alle quali è diventata sempre più pervasiva e invasiva senza deviare dalla sua funzione di organo di controllo.

In uno stato veramente democratico, la burocrazia dovrebbe essere sostituita da una Pubblica Amministrazione la cui definizione descriva lo scopo gestionale dell’organizzazione della quale sarebbe la struttura, cioè la democrazia parlamentare.

Per realizzare un cambiamento di tale portata è necessario riflettere su alcune questioni:
• Cosa è la burocrazia e a cosa serve?
• Cos’è l’amministrazione e a cosa serve?
• Burocrazia e democrazia possono convivere o sono antagoniste?
• Uno stato ha necessariamente bisogno della burocrazia?
• Come trasformare l’esoscheletro da scarafaggio Kafkiano nel quale ci troviamo prigionieri in endoscheletro di un organismo libero e capace di trasformarsi?

La questione è importante e complessa, richiede una collaborazione di creatività, un dialogo tra ipotesi perciò sento la necessità di condividere tali interrogativi e riflessioni.

Chi è Grazia Baroni – brevi note biografiche
Grazia Baroni, nata a Torino nel 1951. Ha ottenuto il diploma di liceo artistico e l’abilitazione all’insegnamento. Laureata successivamente in architettura, ha insegnato per decenni e con passione disegno e storia dell’arte nella scuola superiore di secondo grado, cercando di coniugare l’arte con la vita e la coscienza. Ha partecipato alla fondazione della cooperativa Centro Ricerche di Sviluppo del Territorio (CRST) e collaborato ad alcuni lavori del Centro Lavoro Integrato sul Territorio (CELIT). E’ socia e attiva collaboratrice del Centro Culturale e Associazione Familiare Nova Cana da decenni.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Chi ha paura della scienza?

Per capire il mondo e il suo universo avremmo bisogno di più scienza, ma non pare che la cultura della conoscenza si muova in questa direzione. Non ci inganni lo sviluppo delle nuove tecnologie, il mondo interconnesso, perché l’orizzonte scientifico è sempre più sfumato, implode l’eccesso di parole mentre la ragione sembra retrocedere dalla mente alla pancia.
È la cultura neoumanistica del pensiero veloce ma sempre più debole, sempre più affrettato che gioca a rimpiattino con la scienza e con la ragione. È la cultura della conversazione sui social network che si alimenta di un umanesimo straccione, di seconda e terza mano, che diffida dei vaccini, che fa del cancro una malattia psicologica, che considera l’HIV un’invenzione speculativa delle industrie farmaceutiche. Una cultura da letteratura, da narrazione d’appendice, da insufficienza mentale e vuoto scientifico.
Del resto siamo nel ventunesimo secolo e ancora non abbiamo risolto il problema della convivenza delle due culture, della cultura scientifica ed umanistica. Creazionismo ed evoluzionismo convivono come se l’uno non escludesse l’altro, come due possibili opzioni che non cambiano il paradigma del mondo, i modi di vivere e di guardare al presente come al futuro, si specula sui mercati, si fanno le guerre ma si crede in dio, meno probabile del fatto che il sole possa non sorgere.
Si fa appello all’etica, al dover essere ma non alla scienza, alla cultura scientifica della ragione e della consapevolezza, anzi si teme che la cultura scientifica possa attentare alla classicità della cultura umanistica, come se la nostra tradizione dovesse tutto ai poeti, ai santi e ai navigatori anziché alla ricerca scientifica e agli scienziati.
L’esperienza ha dimostrato, tanto negli Stati Uniti quanto nelle scuole moderne europee, come sia difficile porre lo studio della scienza sullo stesso piano dello studio della letteratura, dell’arte o della musica. D’altra parte è chiaro a tutti che dalle medie all’università lo studio della scienza e quello della letteratura non hanno sulla mente degli studenti lo stesso effetto.
È proprio questo effetto che si teme, che la scienza possa produrre menti libere, raziocinanti, meno disposte ai miti e alle illusioni. Le manipolazioni che possono produrre le suggestioni della cultura umanistica sono presto smontate dal rigore del pensiero scientifico. La cultura umanistica meglio si presta a un’idea di educazione che voglia forgiare le menti e le persone più che istruirle, renderle autonome, padrone dei processi mentali.
Crediamo di essere cresciuti nelle nostre conquiste democratiche, di essere liberi nell’esercizio dei nostri diritti, ma se le nostre menti non sono libere difficilmente sapremo da che parte sta la democrazia e fare un buon uso delle libertà conquistate.
È una questione di formazione delle generazioni, di partecipazione al patrimonio culturale e se in questo l’irrazionale continua a prevalere sul razionale gli strumenti della conoscenza e della cultura non saranno mai strumenti di liberà e di progresso, come infatti accade.
Basta guardare in casa nostra per scoprire come nel nostro sistema scolastico la scienza continui nella formazione dei nostri giovani a svolgere il ruolo della cenerentola.
Dalle scuole medie alle superiori nell’orario scolastico dei nostri studenti il rapporto tra materie scientifiche e tutte le altre sta mediamente in un rapporto di uno a cinque, un quinto dell’intero orario scolastico, per non parlare degli istituti professionali dove nell’ultimo triennio è uno a dieci, l’insegnamento delle scienze si riduce a due sole ore di matematica alla settimana.
Ciò che più inquieta è lo zelo con il quale il ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca si preoccupa di assicurare dall’eccesso di una eventuale formazione scientifica a scapito di quella umanistica. Basta leggere la presentazione che nel suo sito web il Miur fa del sistema dei licei, dove a proposito del liceo classico si ritiene necessario precisare che “il pensiero scientifico è collocato all’interno di una riflessione umanistica” come se di per sé fosse peccaminoso e per il liceo scientifico si informa che fornisce “una formazione culturale equilibrata nei due versanti umanistico e scientifico”.
La questione dell’educazione scientifica resta quanto mai aperta e soprattutto come potrebbe cambiare la nostra convivenza se anche chi non si dedica alla scienza potesse acquisire una migliore formazione e comprensione della scienza stessa.
Sarebbe come il passaggio dall’astronomia tolemaica a quella copernicana. Come ha scritto Thomas Kuhn, prima della rivoluzione copernicana, il Sole e la Luna erano pianeti, mentre la Terra no; dopo, La Terra era un pianeta, come Marte e Giove, il Sole era una stella e la Luna era un nuovo tipo di corpo, un satellite. Mutamenti simili cambierebbero il modo di percepire il mondo e le sfide che ogni giorno ci attendono.

Il dopo referendum
La scommessa di Renzi

“Oneri e onori”. Sta probabilmente in questa attribuzione – da parte di Renzi – “a chi ha vinto” la chiave di comprensione dello scenario politico dei prossimi mesi: gli onori per una vittoria virtuale, gli oneri per la gestione di una situazione oggettivamente complessa.
Renzi si è giocato tutto in questa partita, e ha perso: ma ha perso una battaglia, non la guerra… Avesse vinto, avrebbe potuto completare la legislatura agendo sostanzialmente incontrastato per il prossimo anno e mezzo, forte di un’investitura popolare resa tale dal carattere plebiscitario che per primo ha attribuito alla consultazione referendaria. Invece ha perso, incassando però un pesante 40 percento di consensi che, se da un lato costano la bocciatura della riforma, dall’altra lo autorizzano a tentare una nuova ciclopica scommessa, confortato nel suo ego da una potenziale base elettoralmente ampia, quel “popolo del sì” che ha ringraziato “con un ideale abbraccio, uno per uno…”: con il 40 percento si perdono i referendum, ma si stravincerebbero le elezioni.

Ecco perché il premier uscente potrebbe covare l’idea di tentare l’azzardo estremo e domani, alla direzione del partito, presentarsi dimissionario anche dalla carica di segretario del Pd, denunciando le resistenza e i freni al cambiamento opposti da una parte della nomenclatura interna. I partiti come macchine del consenso ormai non funzionano più. Da perderci realmente avrebbe la struttura organizzativa. Ma, nella società liquida, si ragiona di partiti leggeri e ciò che fa presa è la capacità di esercitare una forte leadership. Sarebbe certo un terremoto. Ma in termini strategici gli garantirebbe però una rigenerazione personale e mani totalmente libere per poter tentare l’avventura in solitaria, facendo leva sul suo carisma, con i fedelissimi accanto, al vertice di una nuova formazione politica, lasciando agli altri (Pd incluso) gli oneri della gestione da qui alle elezioni. In fondo con questo approdo darebbe una parvenza di senso alla sua proclamata intenzione di “lasciare la politica” in caso di sconfitta: sarebbe un tirarsi fuori e ricominciare daccapo. Potrebbe anche temporaneamente defilarsi per poi tornare in scena a furor di popolo… Ma quel che farà è per ora solo nella sua testa. Di certo non si lascerà logorare da un ipotetico reincarico per formare un governo elettorale dedito esclusivamente all’approvazione del bilancio e al varo (peraltro non semplice, dati i contrastanti interessi fra le forze parlamentari) di una nuova legge elettorale.

“Oneri e onori a chi ha vinto”, ha proclamato sicuro. Non sarà facile gestire la transizione. Un voto a primavera – come sarebbe logico e auspicabile per non trascinare l’incertezza, aggravare la crisi e affossare ulteriormente il Paese – non consentirebbe alla forze politiche di riorganizzarsi: il Pd già dilaniato e adesso ancor più lacerato, la sinistra radicale non trova un’identità solida e convincente, lo schieramento del centrodestra è diviso e litigioso, l’unico partito saldo sulle sue posizioni è la Lega di Salvini che però da sola conta solo su un ipotetico 12 per cento di consensi e fatica a stringere alleanze solide con gli altri rappresentanti del suo fronte elettorale.
Mentre un Renzi alleggerito dagli apparati ripartirebbe, appunto, da un 40 percento di elettorato in teoria non ostile e soprattutto avrebbe carta bianca. E libero sarebbe soprattutto di poter promettere (la cosa che meglio gli riesce) senza essere messo alla prova dei fatti, perché nei prossimi mesi toccherà agli altri, che già faticheranno a mettere insieme una qualche maggioranza parlamentare in grado di sostenere un governo di transizione. E lui potrà giudicare le incapacità altrui, le incertezze, gli sbandamenti. Ci sarà chi spinge per trascinare la legislatura per riorganizzare le fila o per garantire ai parlamentari la cospicua pensione. D’Alema, per esempio, già gracchia: “irresponsabile votare ora”. E Renzi sarà lì, con l’indice puntato, a segnalare le colpe e le incapacità.

Il nuovo Renzi si è già visto in tv, un’ora dopo una sconfitta che non deve essergli piovuta in capo come una meteora. All’evenienza era preparato. E l’ha affrontata con grande dignità e un discorso di commiato convincente ed efficace al punto da strappare un plauso pure a un nemico giurato come Peter Gomez, che con Marco Travaglio è la storica colonna del Fatto Quotidiano, giornale antirenziano per eccellenza.
E’ stato un Renzi ragionevole, quello della notte scorsa: almeno all’apparenza pacato, appassionato, generoso, responsabile al punto da caricarsi il fardello delle colpe e attribuire merito a chi si è impegnato – “spinto da pura passione” – nella battaglia per il cambiamento. Una battaglia che ora è pronto a ricominciare, forse addirittura senza nemmeno più la necessità di quella base di ancoraggio che è stato il Partito democratico all’inizio della sua avventura ai vertici della politica nazionale e poi nella immediatamente successiva esperienza di governo. Allora era uno sconosciuto, il “rottamatore” che gustava le logiche dei vecchi tromboni del Palazzo. Ora tutto il mondo invece sa bene chi è Matteo Renzi. E lui può pensare di mettersi in proprio. Convinto (con quel ‘pizzico’ di presunzione che non gli manca…) che chi lo ama lo seguirà.

Sporchi, invisibili fantasmi nelle strade turche

di Diego Stellino

Foto di Diego Stellino
Foto di Diego Stellino

Il lavoro minorile in Turchia è un problema reale e conosciuto: l’utilizzo di fornitori che utilizzano nei propri stabilimenti e laboratori bambini siriani (e non) da parte di grandi marche come H&M e Next è stato già dimostrato da tempo. In periferia ho visto personalmente tutto questo è amplificato con effetto frastornante, rendendo tutto, paradossalmente, assolutamente normale.

La prima volta che cammini per le strade di città come Kilis o Reyhanlii rimani travolto dal numero di bambini  di qualsiasi età che lavorano. Con alcune distinzioni. La prima è sicuramente quella “della origine”: i bambini turchi sono evidentemente inseriti in un contesto famigliare che li porta a crescere nella bottega di famiglia, insieme a fratelli e parenti, creando una catena generazionale di responsabilità e di impegno all’interno del proprio gruppo. Li vedi servire ai tavoli, pulire a terra, scaricare cassette di verdura o sacchi di vestiario, a qualunque ora, insieme alla propria famiglia. La stessa cosa accade in quelle strutture che molti siriani hanno potuto realizzare aprendo piccoli negozi di rivendita o ristorazioni più o meno diversificate.

Esiste poi una quantità innumerevole, disarmante, di piccoli abitanti delle strade che dalla mattina presto fino a notte inoltrata sono presenti per cercare di recuperare qualcosa. Soli, lasciati a se stessi, sono organizzati raramente in gruppetti di 3-4, spesso in coppia, il più delle volte da soli; molto dipende dal carattere e dalla loro età. I più piccoli girano timidi, sguardo basso, il loro successo è dato dalla possibilità di vendere delle merendine, dei biscotti, caramelle o fazzolettini di carta alle persone che passano per le strade del centro, che evidentemente faticano ad avvicinare.
Una volta in grado di trascinare un carretto, che aumenterà di volume in base all’aumentare della capacità del bambino, il lavoro si trasforma, spesso, in quello di raccoglitore di rifiuti di plastica o alluminio o qualcosa.

I bambini si trasformano, inesorabilmente, in sporchi piccoli fantasmi, sempre più chiusi e schivi con l’aumentare della propria consapevolezza e distanza dagli “altri” che popolano la strada.

Ogni giorno, tutti i giorni, ogni settimana da mesi, in attesa che qualcosa possa cambiare perdendo l’intera infanzia sulla strada.

Vite immaginate: narrazione e riflessione nel nuovo libro di Andrea Cirelli

Leggere romanzi consente di avventurarsi nelle vite degli altri, scoprire mondi sconosciuti, provare nuove emozioni. Andrea Cirelli dà l’impressione di essersi fatto scrittore per soddisfare un bisogno analogo, ma più profondo: non semplicemente calarsi in abiti differenti, ma essere demiurgo di esistenze possibili, magari sfiorate o sfuggite; per tratteggiare contorni e plausibili esiti alternativi alla vita reale, quella pazientemente costruita giorno per giorno, scelta dopo scelta… “I libri non finiscono mai”, titolo del suo ultimo lavoro pubblicato da Este edition, ha proprio questo significato: gli scenari che la vita rende potenzialmente praticabili sono inesauribili e di ognuno è protagonista un nostro personaggio mancato.
La tecnica utilizzata è inconsueta: alla narrazione l’autore alterna la riflessione e la digressione, secondo uno schema praticato da pochi, fra i quali in assoluto eccelle Milan Kundera.
Ed è un bel viaggio quello che Cirelli ci propone con quest’opera di confine: un viaggio in cui la scoperta di se stessi si compie attraverso una matura comprensione delle dinamiche di interazione con gli altri. Così introspezione e relazione non sono altro che complementari processi di comunicazione, tra sé e gli interlocutori, che fluttuano fra sguardo interiore e bisogno di socialità e soddisfano la pulsione che ci fa sentire parte del mondo degli umani e dell’intero universo.

Le considerazioni che l’autore sviluppa, in un piano parallelo a quello della narrazione, come in un gioco di specchi, rivelano sfaccettature celate dallo scorrere quieto della storia. Anche in questo, Cirelli – nella realtà esperto di questioni ambientali e prezioso collaboratore di Ferraraitalia – mostra un suo talento: il saper tratteggiare, con tono lieve e garbo quasi poetico, situazioni di apparente quotidiana normalità dalle quali trafilano però bisogni profondi e condivisi che albergano nell’animo e che conferiscono tono e intensità ai personaggi e alla trama.
Anche stavolta Cirelli ricorre all’espediente dell’alter ego, già utilizzato nella sua precedente trilogia “Segreti tossici”. Ma non per mettersi in maschera, piuttosto per designare un ipotetico “io” come tramite per ripercorrere strade battute, esplorare esistenze possibili e mutare direzione ai vari crocicchi della vita.
Pensieri e sensazioni con cui condisce il racconto si trasferiscono come un piacevole manto al lettore che se li sente addosso quasi fossero suoi, cullato da una scrittura distesa e da un disarmante argomentare che lo rende vulnerabile all’emozione e al sentimento, a compimento di un felice processo di identificazione e assunzione di ruolo che non tutte le narrazioni sanno propiziare.

murales-pontelagoscuro-cortazarIl volume di Andrea Cirelli “I libri non finiscono mai. Nemmeno i quaderni”, pubblicato da Este edition, sarà presentato mercoledì 7 dicembre alle 17,30 alla libreria Feltrinelli di via Garibaldi a Ferrara. Presenti l’autore, l’editore Riccardo Roversi e il direttore di Ferraraitalia Sergio Gessi

L’INTERVISTA
L’Assessora Annalisa Felletti risponde a SEL:”Un partito di litigiosi ormai collassato”

E’ innegabile che l’Assessora alla Pubblica Istruzione e alle Pari Opportunità del Comune di Ferrara Annalisa Felletti non stia attraversando uno dei suoi periodi migliori.
E’ di soli pochi giorni fa la notizia che il Coordinamento provinciale di Sel l’ha sfiduciata, esplicitando “con serena fermezza che l’Assessora non rappresenta più né il partito né il Gruppo Consiliare”. La decisione presa è stata giustificata dal fatto che “l’attività svolta dalla figura indicata per l’esecutivo dal partito nel 2014 è stata del tutto lacunosa, priva di dialogo con la forza politica che l’ha espressa e di efficacia nella città, e molto distante dal profilo politico che Sel prevede esprimano i propri amministratori”.
Abbiamo intervistato l’Assessora Felletti e con lei abbiamo parlato dell’uragano politico che le si è abbattuto contro, approfondendo i vari aspetti della vicenda.

Cosa pensa dell’attuale momento politico che sta vivendo?
Si tratta di un momento di particolare complessità. Le motivazioni non sono ascrivibili esclusivamente alla scena locale, ma hanno origine più profonda e lontana. Il Partito è progressivamente collassato su scala nazionale, perché il gruppo dirigente ai massimi livelli, aveva deciso di investire su un nuovo contenitore (Si-Sinistra Italiana) che tuttavia non riesce ancora tutt’oggi a decollare, archiviando a mio avviso molto prematuramente nella sostanza, Sel, anche se formalmente si scioglierà entro il 10 dicembre.

La sfiducia espressa dal partito nei suoi confronti è stata un fulmine a ciel sereno o aveva sentore di qualcosa?
Il dibattito, quando ancora c’era, era sempre stato caratterizzato da animosità. Le questioni sono piuttosto risalenti. Diversi accadimenti hanno minato sin da subito il rapporto di confronto interno al Partito. Anzi, prima ancora che la Coordinatrice Provinciale del Partito divenissi io, le dinamiche che ne descrivevano la vita interna erano tutte caratterizzate da estrema litigiosità, e dall’incapacità di giungere ad una sintesi in maniera condivisa e matura.

A cosa la imputa realmente?
Temo che per rispondere a questa domanda lo spazio concessomi per questa intervista non basterebbe…

Vorrei sapere qualche dato relativo al suo operato in questi anni
Appena in questi giorni ci stiamo appropinquando al giro di boa, siamo appena a metà legislatura; tuttavia credo che le cose fatte in questi anni, siano state tante ed importanti. Un lavoro che non ho certamente fatto tutto da sola, che rappresenta un risultato di tutta l’Amministrazione e per il quale devo ringraziare tutte quelle persone, funzionarie e funzionari del Comune, che ogni giorno lavorano al mio fianco, mettendo al servizio le proprie competenze e professionalità. Partendo dal settore della Pubblica Istruzione, abbiamo completamente innovato le proposte dei servizi educativi ed integrativi che il Comune di Ferrara offre, dall’estensione dell’orario di apertura, alla possibilità di effettuare il periodo estivo del mese di Luglio col personale educativo interno; in un quadro di risorse calanti, abbiamo trasferito maggiori risorse alle scuole. Abbiamo costruito un rapporto di confronto e scambio continuo con la comunità educativa dell’obbligo scolastico, investendo importanti energie nel rapporto di prossimità, e di conoscenza con il livello istituzionale di governo, credendo fondamentale costruire un’alleanza educativa con i piccoli cittadini, che sono il presente, ma soprattutto il futuro di questa città, lavorando a renderli il più consapevoli possibile del loro ruolo e della prospettiva.

E nel campo delle Pari Opportunità?
Importante anche il lavoro fatto sul fronte dei diritti civili e della parità: stiamo lavorando a partire dagli scorsi mesi, alla stesura del primo Bilancio di Genere di questa Amministrazione; lavoriamo quotidianamente in stretto contatto con le realtà associative femminili e della Comunità Lgbt della Città, allo scopo di costruire momenti di partecipazione e sensibilizzazione. Lo scorso 17 Maggio abbiamo inaugurato in Via Ripagrande, in uno spazio messo a disposizione dal Comune, la prima Antenna antidiscriminazione, riconosciuta dalla Regione Emilia Romagna, per le segnalazioni omofobe. Queste sono solamente alcune delle cose fatte e degli obiettivi raggiunti, ma che ritengo siano utili e di valore per la Città. Certo, c’è sicuramente ancora molto da fare!

Le chiedo una riflessione sul prossimo referendum.
Domenica mi recherò al seggio, sicura della mia scelta. Voterò No al Referendum; la mia è una scelta di merito, non politica o ideologica. Ritengo la proposta di riforma un’occasione persa, l’occasione per presentare una proposta che fosse davvero condivisa e non approvata a colpi di maggioranza. La ritengo una proposta di riforma pasticciata che creerà molti più conflitti di quelli che si proponeva di risolvere; una proposta che sposta eccessivamente il peso sulla capacità decisionale del Governo a scapito della partecipazione, all’insegna di un nuovo centralismo. Una proposta che non amplia gli spazi di democrazia, ma li restringe; una proposta di riforma che operando sulla seconda parte della Carta Costituzionale, in realtà interviene pesantemente sulla prima, nella quale sono affermati i valori importanti della Libertà, dell’Autonomia, del valore costituzionale del Lavoro. Per tutte queste ragioni, domenica voterò No!

Capo Nerd: nuove storie, recensioni e proposte ludico-creative

Capo Nerd non è un promontorio, e non si trova in un’isola norvegese del Mare di Barents all’estremo settentrione costiero del continente europeo, nient’affatto… Capo Nerd è una rubrica, e si trova su Ferraraitalia! Certo, l’assonanza inganna. Confonde il fatto che l’uno e l’altra siano luoghi remoti e affascinanti, luoghi da esplorare e ricordare, luoghi che stimolano la fantasia e i sogni.
Per questo, senza dover partire per la Norvegia, abbiamo pensato di offrirvi un passaggio per visitare l’immaginazione senza confini di Capo Nerd, e tutto questo rimanendo comodamente seduti a casa propria. Buon divertimento!

Postilla: la questione è controversa…
Nerd o geek? Secchione, genio incompreso, esperto introverso e asociale di tecnologia e di scienza, oppure semplice seguace di una cultura di nicchia, postmoderna e pulp? Eterno sfigato provvisto di occhiali o disinteressato precursore di tendenze? In fondo importa poco…
Ciò che realmente importa è dire qualcosa di interessante e soprattutto differente dall’ufficialità. E la cultura Nerd (perché di cultura si tratta), incurante e immune da ogni tipo di ingerenza ideologica, fa proprio questo!

La Riforma Costituzionale, che sanità sarà?

Ne parliamo con Cesare Brugiapaglia, presidente della Commissione Albo Odontoiatri presso l’Ordine dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri di Ferrara

Dottore, prima di parlare con Lei, ho chiesto qualche parere ad altri medici sull’impatto sulla sanità di un’eventuale vittoria del sì al prossimo referendum e la sensazione che ho avuto è che in realtà si preoccupassero più dei tagli indiscriminati, delle differenze tra prestazioni offerte dalle varie Regioni, della mancanza di controllo e della mancanza di persone competenti a dirigere il tutto che del sì o del no. Cioè, come dire, se il controllo della sanità l’hanno lo Stato centrale o le Regioni comunque c’è bisogno di razionalità e controllo, distribuzione equa delle risorse e attenzione al cittadino, al malato. E controllo e razionalità probabilmente non hanno funzionato prima del 2001 e non stanno funzionando adesso. Mi è sembrato, come dire, prima di cambiare il sistema ragioniamo bene su cosa non funziona e su come potremmo agire per farlo funzionare. La soluzione in questo momento non è nella riforma della Costituzione, è un messaggio sbagliato.
Guardando solo alla Riforma penso che questa leda i diritti delle autonomie. Essa abolisce le competenze concorrenti Stato-Regioni, riportando allo stato una serie di decisioni che, dal 2001, spettavano alle Regioni. Il motivo? Si dice che ci sono troppi conflitti tra stato e regioni, ma, per tornare a quanto diceva lei, le cause stanno davvero nel fatto che la Costituzione dà troppo potere alle Regioni? In realtà, nella legislazione concorrente lo Stato stabilisce i principi da rispettare, come i Livelli essenziali di assistenza in sanità e legifera riservandosi la tutela dei diritti legati a quei principi, ma entro la cornice della legge ordinaria fissa le competenze per le quali le regioni valorizzano la loro autonomia. Per sanità, servizi sociali od altro, lo Stato, in 15 anni, quali leggi quadro o cornice ha fatto? Oggi toglie autonomia alle Regioni – solo quelle a statuto ordinario, peraltro – ma ricordo che l’articolo 5 della Costituzione riconosce e garantisce le autonomie ed adegua i metodi della legislazione alle esigenze di queste.
Ministro della Salute e viceministro nei convegni sono ottimisti, con la riforma miglioreranno i diritti degli “ultimi”, ma io non ne sono assolutamente convinto: si parla di centralizzazione per rispondere alla lamentela secondo cui le regioni non sono tutte allo stesso livello nell’offerta di cure, ma si dimentica che le disparità e gli sprechi nascono più da fattori ambientali che dalle regioni come amministratrici della sanità.
Lo Stato ha forse una più alta tradizione di governo dei servizi sanitari? Per migliorare l’efficienza al centro e in periferia si deve responsabilizzare, dire alla regione: questi soldi hai e hai la massima autonomia nello spenderli, ma poi ne sei responsabile di fronte ai cittadini. La centralizzazione purtroppo tende a deresponsabilizzare.

Quindi favorevole alle autonomie. Pensa che dal 2001 le cose siano migliorate?
Non vorrei essere scambiato per uno favorevole ai vari carrozzoni regionali, ma mi domando come mai, in 15 anni, non è stato fatto nulla.
Prima della 833/78 (cioè 38 anni fa!) la sanità passava tutto a tutti; c’era un deficit, ma era di gran lunga minore di quelli che si sono accumulati negli anni successivi. Dovevano fare l’aziendalizzazione, allo scopo di contenere il deficit e con l’idea di riuscire ad avere, addirittura, un utile. Tutto è fallito; ma quello che è peggiorato – ed è la cosa più grave – è la qualità delle cure e dell’assistenza. Ma la politica è entrata pesantemente nella sanità, condizionando le scelte dei Direttori generali che hanno avuto quasi sempre il mandato di impartire le direttive sulla durata delle terapie, per cercare di conseguire una riduzione dei costi. Quanto sta accadendo a Ferrara proprio in questi giorni a causa della riduzione/condivisione degli spazi operativi e il disagio dei medici che operano nel reparto di medicina d’urgenza è una dimostrazione della palese miopia della Dirigenza a scapito della operatività dei medici di cui fanno le spese, in primis, i cittadini.

E torniamo al vero problema: controllo e responsabilità chiare. Sia che vengano dallo Stato centrale sia che siano affidate alle Regioni.
Quello che penso della questione attuale, è che si stiano facendo le solite promesse che non saranno mantenute o solo parzialmente attuate.

Diciamo che una soluzione ottimale potrebbe essere che lo Stato controlli e diriga il quadro generale, che la regione amministri con un budget definito e rendiconti. Responsabilità chiare per cui se lo fa male lo Stato interviene.
O meglio, dovrebbe intervenire. Adesso cosa succede, le regioni si mettono a piangere e convincono lo stato a dargli più soldoni, con la scusa che altrimenti non potrebbero più andare avanti e si vedrebbero costrette a ridurre prestazioni e qualità; alla fine, dopo trattative, la spuntano sempre.
Dopo il 2001 la legislazione in materia non ha funzionato o non è stata fatta (sempre per ritornare a quanto si diceva prima: non sono stati affrontati dall’inizio i problemi, si pretende di riformare ma non si pensa ai futuri problemi) per cui ha creato disfunzioni, spese superiori a prima e inefficienze.

Quindi, per sintetizzare, sostanzialmente ritiene giusto che le Regioni si occupino della sanità ma dovrebbero essere sottoposte a controlli più efficaci e stringenti (responsabilità nei confronti dei Cittadini chiare insomma). Ma cosa dice sulle differenze che si sono venute a creare tra le varie Regioni. La sanità dovrebbe essere uguale per tutti, come si evita che un federalismo sanitario provochi differenze nel l’erogazione dei servizi, voglio dire se lo Stato assegna un budget e dice agli amministratori che devono fare del loro meglio qualcuno farà meglio e qualcuno peggio. Si crea diciamo la concorrenza, bravi e meno bravi con in mezzo il cittadino. Personalmente nella sanità, come nell’istruzione, il principio di base non penso dovrebbe essere la concorrenza.
Vero, ma le regioni sono “gelose” e cercano di ridurre o evitare la migrazione perché ci rimettono in immagine e in soldoni; ma viene leso anche il diritto della libera scelta da parte del paziente e, alla fine, tutto resta all’incirca come prima: perché la sanità del veneto è meno burocratica della nostra? Avrà sicuramente sentito dire che il nostro SSN è il migliore o tra i migliori del mondo; sulla carta è anche vero; ma nella pratica…

Se invece tutti fanno bene allora lavorano tutti per lo stesso fine e allo stesso modo, quindi a che serve dare alle regione autonomia, può decidere lo Stato con indirizzi unici e obiettivi comuni. In che modo facciamo funzionare l’autonomia senza creare concorrenza interna e a chi o cosa serve? Non al cittadino credo.
Giusto!

Per concludere, se le dicessi che invece di fare questa specie di ping-pong delle riforme – nello specifico oggi a colpi di maggioranza, ieri per accontentare la Lega – sarebbe stato più serio affrontare serenamente i problemi sedendosi a un tavolo e discutendo con tutti? Partendo dagli operatori del sistema sanitario, magari. Voglio dire, oggi questa riforma sta bene solo a una parte del Paese come nel 2001 stava bene ad un’altra. Seguendo questo iter tra 10 anni possiamo prevedere una nuova riforma.
A essere in discussione è l’articolo 117 titolo V che recita: “Lo Stato avrà potere di dare disposizioni generali e comuni per la tutela della salute e le Regioni saranno incaricate della programmazione e dell’organizzazione dei servizi sanitari e sociali”.
Traduzione: niente cambierebbe con la riforma costituzionale, né sarebbe diverso dalla realtà che siamo costretti a vivere oggi. Attraverso i LEA, lo Stato individua già adesso i campi di intervento sanitario che dovrebbero essere garantiti a livello nazionale e attraverso le Finanziarie e le Leggi di Stabilità decide già ora quanti fondi stanziare per il sistema sanitario in tutto il Paese. La fumosa centralizzazione poi non riguarderà le modalità di assegnazione dei ruoli dirigenziali e di potere a livello locale, come non cambierà nulla nelle modalità di assegnazione praticate ad oggi dalle Regioni, per cui la corruzione, il clientelismo, l’incapacità gestionale e gli sprechi che abbiamo imparato a conoscere continueranno come prima.
I sostenitori del sì, ci dicono che le Regioni e le autonomie locali, però, potranno far valere le proprie ragioni direttamente in Senato, il “nuovo” Senato. Anche qui non si capisce quale sarebbe lo spazio di manovra dei senatori, dato che quanto atterrebbe alla discussione e all’approvazione delle Leggi di Bilancio non sarebbe più di loro competenza, se passasse il sì. Dunque neppure il Senato sarebbe lo spazio in cui discutere il finanziamento dei nostri servizi!

Va bene, grazie Dottore. Direi che la chiusura potrebbe essere che è inutile accapigliarsi tanto per il sì o il no, ma sarebbe molto più saggio ragionare su come migliorare i servizi e su cosa realmente si vuole ottenere. Mettere al centro il cittadino, il paziente e i suoi bisogni e questa riforma non da le necessarie garanzie perché si possa sperare in un reale miglioramento in tal senso.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Nate libere

Piccole libertà, dicevamo. Nella prima puntata de I dialoghi della vagina, abbiamo chiesto alle lettrici di farci conoscere il coraggio di quelle azioni che hanno comportato un cambiamento e che sono diventate abitudine. Qualcosa di minimo, ma di significativo per chi lo fa: piccoli passi, grandi conquiste.
Ecco le lettere arrivate alla redazione di Ferraraitalia.

La libertà di Vanessa

Cara Riccarda,
Non mi sono presa una libertà, sono nata libera.
I miei fratelli, i miei amici, i miei bambini, mio marito, la mia mamma, le mie amiche: non ho dovuto combattere, non ho fatto fatica.
Non mi sono arrabbiata, non mi hanno offesa.
Mio padre mi ha amato di più, mi ha protetto di più: ero la sua bambina.
Non ho dovuto difendermi.
Poi ci sono gli altri. Quelli poveri dentro. Con loro è una guerra persa.
Non mi sono presa una libertà.
Sono nata libera.
Mi è andata bene.

Vanessa

Cara Vanessa,
essere libera per natura è prezioso e quasi rivoluzionario. Non credo che ti sia solo ‘andata bene’, penso che tu, questa libertà, l’abbia riconosciuta e praticata, facendola tua ogni giorno. Leggendo ciò che scrivi mi viene questa domanda: e se libertà fosse anche rinunciare alla lotta contro i ‘poveri dentro’ e magari, poi, imparare a lasciare andare tanti altri conflitti inutili?
Riccarda

Correre libera, correre dove?

Cara Riccarda,
la mia libertà, a cui non rinuncerei mai e che mi ha cambiata, è correre.
Il mio è anche un correre via, nella quotidianità, dalla pesantezza e da ciò che non mi soddisfa abbastanza per ritrovare me stessa. Lo consiglio a tutti.

Debora

Cara Debora,
la tua libertà è addirittura doppia, fisica e mentale. E se anzichè correre via, fosse un correre verso?
Riccarda

Liberarsi dalle proprie catene… si può!

Cara Riccarda,
la violenza più grande che abbia mai subito me la sono inflitta da sola. Mi sono accontentata. Mi sono spaventata. Mi sono sminuita.
Non ho proseguito gli studi, nonostante mi piacesse molto studiare, ufficialmente per non gravare economicamente sulla mia famiglia. In realtà, per la paura del fallimento.
Ho sposato un uomo che non era il mio ideale ma che, allora, mi amava più di quanto lo amassi io e questo mi garantiva, secondo i miei assurdi calcoli, stabilità e tranquillità.
Desideravo amore, passione, condivisione, affiatamento. Ho avuto noia, indifferenza e rancore.
Ho cercato di soffocare ciò che sono ma ciò che sono è sempre lì, sotto i chili di troppo accumulati per riempire vuoti che non si riempiono con il cibo.
Cosa sono esattamente in realtà non lo so bene. Non mi sono mai cercata a fondo per non rimanere delusa da ciò che avrei potuto scoprire. So per certo, però, che io non sono questa perché altrimenti sarei felice.

M.

Cara M.,
quando ho deciso di fare coincidere l’esordio della rubrica con la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, non avevo riflettuto, lo ammetto, sul tipo di violenza di cui parli tu: quella autoinflitta. Quella che fa sentire responsabili dell’accaduto e un po’ incastrati negli anni a venire. Nel tuo caso, mi pare di capire, un gioco al ribasso che ti ha indotto a determinate scelte di vita.
La lucida consapevolezza che però hai raggiunto, credo ti dia il vantaggio di renderti libera dalle maschere dell’autoinganno. E non è poco.
Quanto alle deviazioni al corso delle cose che non sono state, tempo per recuperare ne hai ancora: riprendere a studiare si può, credimi. Lo studio potrebbe aiutarti a ritrovare quella te che stai cercando, una te che potrebbe piacerti.
Riccarda

La libertà negata: dal piedestallo alla gabbia

Cara Riccarda,
ho capito tardi che la violenza non è solo quella fisica, ma anche quella psicologica. Pensavo che se un uomo non alza le mani, un modo per difenderti e per tenergli testa ce l’hai sempre, si gioca alla pari, se si tratta di cervello.
Non è così. Lo stesso uomo che inizialmente ti corteggia facendoti sentire la più bella del reame e che ti illude di essere invincibile al suo fianco, può trasformarsi in un aguzzino.
Non ti accorgi come accade, ma il piedistallo su cui vieni posta, si trasforma in una gabbia. Mentre all’inizio ti senti ammirata e sei contenta che i suoi occhi si inorgogliscano nel guardarti, pian piano ti accorgi che quello non è orgoglio, ma senso di possesso e controllo.
Queste cose velocemente scivolano in gelosia, e la gelosia in rabbia, sospetto e mancanza di fiducia. Per arginare la tempesta e calmare le acque, tenti di assecondare le sue richieste di attenzione, anche le più assurde e bieche, allontanando familiari e amici. Ti si forma il vuoto attorno, così tanto che anche quando vorresti chiedere aiuto, non sai più a chi rivolgerti.
Paradossalmente ti attacchi ancora di più a lui, perchè credi che sia l’unico che ti sia veramente vicino e che ti ami sul serio, che ti possa resituire serenità. Ed è proprio in quel momento che lui, invece, sferza il colpo finale: non sei più una regina, non sei più niente, se non un grave errore vivente causa di tutte le sue frustrazioni. Nasce in te il senso di colpa per ogni cosa, anche indossare un tacco o prendere un caffè con un’amica diventa un oltraggio.
La violenza è anche questo: l’annientamento della tua persona, della tua libertà, l’uccisione dell’autostima.
Un uomo che ti ama, ti esalta e ti fa sentire fortissima, ti sta a fianco, senza nasconderti al mondo e senza isolarti.
Per fortuna l’ho imparato.

S.

Cara S.,
ora che ne sei uscita (brava!), riconosci come paradossale quell’attaccamento che, finchè ti stava stritolando, sentivi come necessario, conseguente a tutto quell’amore che credevi fosse. Hai descritto una parabola che solo chi l’ha vissuta può capire fino in fondo, una degenerazione quasi impercettibile che ti fa trovare, un giorno, dal piedistallo alla gabbia.
Hai ragione, la violenza è anche questa, feroce come le botte che ti lasciano un livido sulla pelle. È una violenza che ti riduce impotente soprattutto su quel piano, quello del cervello che dicevi, in cui pensavi di muoverti alla pari. Tu e quell’uomo non siete alla pari, tu sei di più: ti sei salvata.
Riccarda

Il flash mob “Pope is Pop” apre le porte del carcere di Ferrara al vento della normalità

Qualcuno guarda per terra contando il tempo, qualcun altro saltella a ritmo alzando le braccia al cielo. Qualcuno ha la faccia giovane e sorridente, qualcun altro ha il volto segnato da una vita dura e non è più giovanissimo. Hanno tutti una maglietta bianca con la scritta “Pope is Pop” e l’effetto è straordinario e coinvolgente. Parliamo dell’evento storico che si è svolto questa mattina alla Casa Circondariale “Costantino Satta” di Ferrara: il primo flash mob svoltosi in un carcere maschile. Guidati da Igor Nogarotto, creativo e ideatore del progetto, e dalla coreografa Roberta Micci, settanta detenuti del carcere ferrarese hanno ballato sulle note della canzone “Pope is Pop”, composta da Nogarotto, per celebrare il Giubileo dei carcerati, festeggiato lo scorso 6 novembre a San Pietro alla presenza di oltre mille detenuti.

Il clima di festa pervade le austere stanze del carcere e ruba un sorriso ai detenuti, ma anche al personale della polizia penitenziaria che si è adoperata al meglio perché questa storica manifestazione riuscisse nel migliore dei modi. “Siamo orgogliosi di poter ospitare questo storico evento nella nostra struttura – afferma durante la conferenza stampa il comandante del carcere, il Vice Commissario dott.ssa Annalisa Gadaleta – Grazie alla sua rilevanza mondiale sarà più facile far passare il messaggio che il carcere non è un microcosmo isolato rispetto alla società civile che sta fuori, ma le due realtà devono interagire. E’ un messaggio di integrazione: i detenuti che balleranno provengono da paesi, culture e religioni diverse eppure sono riusciti a collaborare insieme”.

L’ideatore del progetto Igor Nogarotto spiega che a spingerlo ad organizzare un simile evento è stata la figura carismatica di Papa Francesco: “Pur essendo ateo sento vicino a me Papa Francesco e il suo impegno affinché parole come perdono e misericordia divengano valori reali nella nostra società. Ho sempre visto la Chiesa e il carcere come due realtà simili, accomunate dal conservatorismo e dalla rigidità delle proprie regole interne. “Pope is pop” è una preghiera laica e multietnica per ringraziare un Papa che è al servizio della gente”. L’Arcivescovo di Ferrara Luigi Negri ricorda che la misericordia è un valore del tutto cristiano di cui Gesù Cristo è la personificazione: “L’uomo non può non fare l’esperienza del male: è una sua colpa atavica. Tuttavia Papa Francesco ci invita a ripensare al peso che diamo alla misericordia nella nostra vita. Ci sono religioni che passano l’esame e altre no. Questo di oggi è un evento storico che ci rende tutti più responsabili nel pensare che nessuno è fuori dalla misericordia di Cristo”.

I detenuti presenti all’interno della Casa Circondariale ferrarese sono circa 350, di cui oltre un centinaio di origine straniera, e a loro, nell’ambito di un programma di sostegno giuridico-pedagogico, è offerta la possibilità di studiare e diplomarsi presso la sezione della Scuola Alberghiera e di Agraria presente all’interno della struttura. Ci sono detenuti iscritti all’Università, altri che si impegnano nei laboratori interni di teatro, pittura e musica, altri ancora che curano il giornale del carcere “Astrolabio”. L’opera di umanizzazione e rieducazione, nella quale credono fortemente Paolo Malato, direttore del carcere, e il comandante Gadaleta, passa anche attraverso eventi come quello a cui si è assistito oggi. Comuni cittadini, detenuti, guardie carcerarie tutti intenti ad applaudire un’esibizione così piena di energia e coinvolgimento emotivo da richiedere il bis.

Oggi anche le robuste porte del carcere non hanno potuto niente davanti alla forza inarrestabile della musica e dell’allegria, in un anticipo di normalità che è ciò che sognano tutti i detenuti.

(Tutte le foto sono di Tommaso Trombetta)

Clicca sulle immagini per ingrandirle

Detenuti impegnati nel flash mob “Pope is Pop”
Il flash mob regala sorrisi
Momento del flash mob
Il Comandante Carcere Di Ferrara Vice Commissario Annalisa Gadaleta

La storia di Valentina Sgarbi
A diciotto anni pubblica il primo libro trasformando il suo sogno in realtà

Fin da bambini abbiamo tutti sogni o aspirazioni un po’ particolari: “Da grande vorrei fare la cantante, l’astronauta, la ballerina, l’attore…”. Chi non ha mai pronunciato una frase simile? Poi cresciamo e tendiamo a riporre i sogni che mirano alto nel famoso cassetto.
Valentina, nata a Ferrara nel 1997, ha detto: “Da grande vorrei fare la scrittrice” e così, a soli diciotto anni vede pubblicato il suo primo libro. Martedì scorso, poco prima della presentazione del suo libro, tenutasi in Biblioteca Ariostea, ci ha concesso una intervista, parlandoci di lei e del suo libro ‘Domani sarà un’altra possibilità. Mañana serà otra possibilidad’.

“Quando scrivo c’è sempre un groviglio che devo andare a snodare e questo avviene soltanto quando mi lascio andare alla bellezza delle parole”. Valentina è molto determinata nonostante l’evidente emozione per la sua prima conferenza. Una ‘penna matura’ come la definisce il suo editore (Faust Edizioni, che ha sede proprio a Ferrara) dato che nel suo libro tratta temi di evidente spessore quali la morte, la tossicodipendenza, la paura di vivere, accentuando così quelle sensazioni tipiche dell’adolescenza per le quali i ragazzi si sentono spaesati, non adatti alle situazioni, in una fase di passaggio e di conflitto dove ‘definirsi’ risulta veramente arduo.

Valentina ha superato questa fase assieme ad Amanda, protagonista del suo libro, nonché una sorta di alter ego. “La sua sofferenza era la mia sofferenza, le sue emozioni erano quelle che in quel momento stavo vivendo io, anche se non ho mai vissuto sulla mia pelle le sue vicende” – si lascia sfuggire un “per fortuna” dato che Amanda, nel romanzo, deve affrontare situazioni notevolmente pesanti.
“Ho iniziato a scrivere a 15 anni, mi piaceva scrivere, ma ovviamente mai avrei pensato di arrivare alla pubblicazione. Era semplicemente un mi piace, lo faccio!”. Un grande incentivo è arrivato da una sua insegnante di lettere delle superiori che ricorda con molto affetto: “Un giorno le dissi ‘Prof, vorrei scrivere un libro’ e lei mi rispose che secondo lei potevo farcela. Anche lei, come me, probabilmente non era troppo convinta, ma le piaceva come scrivevo e questo per me è stato un forte impulso per dire ‘adesso scrivo, poi vediamo come va’ ”

Curioso, il fatto che gli ultimi a sapere della vicenda siano stati i suoi genitori: “Sono andata da mio padre e gli ho chiesto se poteva darmi dei soldi. Giustamente, mi ha chiesto il motivo e io gli ho risposto che dovevo pubblicare il mio primo libro. L’unico ostacolo rimaneva solo far leggere il romanzo ai suoi: “Come gliel’ho detto sono rimasti sconvolti, poi hanno deciso di darmi una mano, ovviamente hanno letto il mio libro e ne sono rimasti entusiasti.”
Lo scrivere risultava molto difficoltoso per Valentina soprattutto nell’ultimo anno di superiori dove, tra esami e studio ha dovuto lasciare il suo libro in stand by concludendolo solo dopo gli esami di stato. Questa mancanza di tempo l’ha allontanata, a malincuore, anche dalla lettura della sua scrittrice preferita Valentina d’Urbano, colei che l’ha fatta appassionare al mondo della scrittura.Il primo libro che porta nel cuore è infatti “Il rumore dei tuoi passi” scritto dall’omonima, ‘divorato’ da lei in soli tre giorni.

Adesso invece, con l’avvenuta pubblicazione, Valentina rivela che la sua paura più grande è quella di puntare troppo sul libro: “Mi sono iscritta all’università qui a Ferrara ma non sto frequentando perché con l’inizio delle presentazioni del mio libro, ho altro per la testa. Ma non vorrei ritrovarmi un giorno, bloccata perché i miei romanzi magari non hanno preso piede e, senza una laurea”
A questo proposito rivela che ‘bolle altro in pentola’, anticipando così la stesura di un nuovo libro anche se non si espone troppo sull’argomento, ammettendo che l’andamento dei suoi scritti cambia svariate volte. “So la storia principale, ma non conosco ancora che piega prenderà”. Ecco perché quando ho iniziato a scrivere ‘Domani sarà un’altra possibilità’ il romanzo doveva terminare con un nuovo amore per la protagonista, cosa che invece alla fine non avviene.”
L’ispirazione per i suoi testi è sempre dietro l’angolo. “Scrivo in camera, a mano, poi trascrivo a computer. Ma sto attenta a tutto quello che ho attorno, anche solo ad una sensazione, perché sono proprio quelle che mi aiutano a scrivere, non tanto i fatti che succedono”

Relatrice alla prima presentazione, è una delle sue professoresse di lettere dell’ultimo anno, la professoressa Crepaldi, che parla di Valentina con particolare stima e ammirazione: “Tantissimi adolescenti scrivono, ma il più delle volte si fermano. In lei c’è stata quella determinazione di passare dallo sfogarsi sul diario personale, al raccontare una storia da condividere. Con Valentina, le nostre parole di insegnanti non sono cadute nel vuoto e oggi, posso vedere il concretizzarsi di un sogno”.
Nei loro messaggi, la docente spesso inseriva citazioni di Svevo, una delle quali è divenuta il promemoria personale di Valentina “Fuori dalla penna non c’è salvezza”.

A quanto pare non è l’unica citazione che la giovane scrittrice abbia seguito alla lettera “la penna mi aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere -Altra massima di Svevo-, ecco perché mentre io scrivevo, Amanda rifletteva con sé stessa, e la sua ‘Renaissance’ è stata anche la mia svolta”.
Concludendo, nella speranza che questa giovanissima scrittrice possa continuare ad inseguire i suoi sogni e realizzarli, il suo appello ai suoi coetanei è: “Se credete in qualcosa, seguite il vostro sogno, per quanto possa sembrarvi irraggiungibile” e riguardo al suo appena realizzato, incita: “ Se volete svelare i misteri che avvolgono Amanda… allora leggete il mio libro!”