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Acqua, bene comune per appetiti privati

di Marcella Ravaglia

Il dibattito sui beni comuni nasce e si espande a livello internazionale negli anni ’70, in opposizione ai processi di smantellamento dello stato sociale e della società dei diritti – si ricordi la battaglia contro il Gatt, l’Accordo generale sul commercio dei servizi.
L’economia capitalista di mercato sin dagli anni ’80 è promotrice di un modello di globalizzazione basata sulla mercificazione di ogni bene, la predazione delle risorse naturali, la privatizzazione di beni e servizi pubblici di interesse generale collettivo. Margaret Thatcher all’epoca declinò in modo molto nitido il sistema neoliberista come quello in cui “la società non esiste, esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie”; un sistema rispetto al quale “there is no alternative” (ovvero, non c’è alternativa). Spesso si fa coincidere la nascita del neoliberismo con la dittatura di Pinochet, il quale fra i suoi primi atti nel 1981 privatizzò tutte le acque della cordigliera cilena.
La dichiarazione di Dublino del 1992, per mano delle Nazioni Unite, trasforma l’acqua da “diritto” a “bisogno”, che perciò da bene universale ed esigibile si trasforma in bene economico da acquistare sul mercato. Dall’enunciazione all’applicazione di questo principio nelle politiche dell’acqua il passo è breve, e a compierlo sono primariamente Banca Mondiale, Fondo monetario internazionale, Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e grandi corporations dell’acqua (Suez, Veolia gia Vivendi, Rwe-Thames water, per citare solo le più note). Nel 1999 l’Unione Europea chiede l’inserimento dell’acqua nel Gats (risorto dalle ceneri del Gatt per mano dall’Omc). Non è un caso se le più grandi multinazionali dell’acqua sono europee, le quali intravedono l’apertura di un mercato mondiale degli acquedotti. Da allora, a 72 paesi del Sud del mondo è stata chiesta la piena liberalizzazione dei servizi idrici, nonostante le fortissime contestazioni dei movimenti altermondialisti (Seattle 1999, Cancun 2003).
Nei paesi del Sud del mondo il servizio idrico ha seguito una diversa evoluzione da quella del continente europeo. Infatti, mentre i paesi imperiali ampliavano le reti pubbliche nelle città europee (attraverso le municipalità), nelle colonie l’erogazione dell’acqua era riservata alle élite. Con l’indipendenza, il Sud del mondo si è trovato con infrastrutture insufficienti, e la mancanza di amministrazioni decentrate ha portato i governi centrali ad affidarsi ai finanziatori internazionali strettamente legati ai paesi europei di precedente dominazione coloniale.
L’acqua, come bene comune pubblico e diritto umano necessario alla vita, è stata oggetto di grandi battaglie ovunque, a partire proprio dalle regioni del Sud del mondo. Prima in America Latina, con la memorabile vittoria del popolo boliviano, che nel 2000 a Cochabamba costringe il proprio governo a cancellare la legge di privatizzazione dell’acqua. In Uruguay, dove dopo un decennio (1994-2004) di tentativi, un plebiscito nazionale blocca le privatizzazioni e inserisce in costituzione il diritto di accesso all’acqua come diritto umano e la gestione esclusiva del servizio idrico da parte dello stato. In seguito le lotte per l’acqua attraversano Honduras, Sudafrica, Guinea, Ghana, Indonesia, Filippine. A fronte delle mobilitazioni popolari e dello scarso ritorno economico, dal 2003 si osserva un blocco e parziale ritiro delle multinazionali da quelle regioni del mondo. Ma è solo un cambio di strategia, le multinazionali si concentrano infatti sui paesi occidentali.
In Italia la privatizzazione dell’acqua comincia nel 1994, attraverso la legge Galli, e prosegue a grandi balzi fino al 2009 con il decreto Ronchi, sotto governi di ogni colore. L’obiettivo è quello di sottrarre la gestione del servizio idrico agli enti locali e portalo in mano ad aziende private di portata sovraregionale, ovvero aziende misto pubblico-privato, che sottraggono ai territori sapere e patrimonio, facendo profitto con la mercificazione di un bene essenziale come l’acqua, esponendosi in molti casi alla finanza globale attraverso la quotazione in Borsa.
Le lotte contro la privatizzazione dell’acqua in Italia nascono a livello territoriale, specie nelle regioni del centro-sud: Sicilia, Sardegna, Lazio, Campania, Toscana, Abruzzo, sono regioni dove prima che altrove si sviluppano le contestazioni per l’entrata dei privati e l’aumento incontrollato delle tariffe. La Toscana è la prima regione a sperimentare il partenariato pubblico-privato, portando Arezzo ad essere la provincia con le tariffe più alte a livello nazionale (oggi è Grosseto). I movimenti per l’acqua pubblica si incontrano proprio in Toscana, nel 2002 in occasione del Forum sociale europeo, e poi nel 2003 in occasione del Forum mondiale alternativo dell’acqua. Nel 2005, con l’intensificarsi delle vertenze territoriali, viene lanciato l’appello per la costituzione del Forum italiano dei movimenti per l’acqua: la prima iniziativa del Forum consiste nella costruzione di una legge di iniziativa popolare per la ripubblicizzazione del servizio idrico, legge che ancor oggi è il manifesto dei movimenti per l’acqua. Nel 2007, in sei mesi più di 700 comitati territoriali raccolgono oltre 400 mila firme sulla legge di iniziativa popolare, che viene poi presentata al Parlamento, dove starà a prender polvere per due legislature. In questo contesto sociale opera la Commissione Rodotà, la quale nel 2008 consegna un disegno di legge delega per la riforma delle norme del codice civile sui beni pubblici, lavoro fortemente innovativo, quanto inattuato. Nel 2008 inizia la campagna per la modifica degli statuti comunali attraverso delibere di iniziativa popolare, per il riconoscimento dell’acqua bene comune diritto inalienabile e per la definizione del servizio idrico come servizio di interesse generale privo di rilevanza economica: oltre 200 comuni introducono questa modifica. Nel 2009 il governo Berlusconi fa approvare a colpi di fiducia il decreto Ronchi, che impone la privatizzazione del servizio idrico entro il 2011. Per questo motivo il Forum promuove la campagna referendaria – Rodotà è fra i costituzionalisti estensori dei quesiti – che culmina col voto del 12-13 giugno 2011, quando 27 milioni italiani si esprimono a larghissima maggioranza (98,5% dei votanti) contro la cessione ai privati e contro i profitti fatti sull’acqua. Un risultato frutto di una coalizione vastissima (si dirà “dalle parrocchie ai centri sociali”) e di una mobilitazione capillare fatta tutta dal basso. Va ricordata anche la risoluzione Onu del 2010, che dichiara per la prima volta nella storia il diritto all’acqua “un diritto umano universale e fondamentale”. Il resto è storia recente, in cui i governi (non eletti) che si sono susseguiti in Italia hanno tentato variamente di annullare il risultato referendario, trovando sul loro cammino le contestazioni dei movimenti e spesso anche le bocciature della Corte Costituzionale. Ultima in ordine di tempo, la sentenza di incostituzionalità per il decreto Madia sui servizi pubblici, di cui nell’estate 2016 era stato chiesto il ritiro con una petizione popolare su cui sono state raccolte 230 mila firme.
Il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, forte del risultato referendario, ha promosso la nascita della Rete europea dei movimenti per l’acqua, grazie alla quale vengono portate avanti importanti iniziative a livello internazionale. Nel 2012 quasi 2 milioni di firme hanno sostenuto l’iniziativa dei cittadini europei per il diritto all’acqua (Right2Water). Negli ultimi anni poi si sono intensificate le spinte privatizzatrici provenienti da organismi sovranazionali, e dunque è necessario contrastare , oggi più che mai, tutti quei trattati che mirano alla apertura di un mercato mondiale dell’oro blu, in particolare il Ttip e il Ceta. La mobilitazione contro il Ttip, attuata fin dalla sua presentazione nel 2014, ha permesso di vederne la sospensione (non la cancellazione) nel 2015; stessa sorte speriamo avrà il Ceta, l’accordo fra Ue e Canada, ma serve la partecipazione di tutti, ognuno nel proprio contesto e con le proprie competenze. Si scrive acqua, si legge democrazia.

Spunti di lettura
1. Acqua in movimento, Marco Bersani – Edizioni Alegre (2010)
2. Come abbiamo vinto il referendum, Marco Bersani – Edizioni Alegre (2011)
3. Salvare l’acqua, Claudio Jampaglia e Emilio Molinari – Feltrinelli (2010)
4. L’acqua (non) è una merce, Luca Martinelli – Edizioni Altreconomia
5. Il Servizio idrico integrato, 11° indagine di Cittadinanzattiva (marzo 2016)
6. Il Ceta e l’acqua, European water movement (settembre 2016)
7. Fondo campagna referendaria per l’acqua pubblica e contro il nucleare, Fondazione Lelio Basso (2016)

“La forza è nel collettivo, il talento è al servizio del gruppo”. Parola di Arrigo Sacchi

Ricordato soprattutto per aver rivoluzionato il modo di interpretare il calcio e riconosciuto, proprio per questo, fra i migliori allenatori nella storia di questo sport, Arrigo Sacchi, tecnico del Parma, del Milan e della Nazionale, poi dirigente sportivo e opinionista, ha ripercorso per Ferraraitalia le tappe delle sua straordinaria carriera.
Il “Profeta di Fusignano”, piccolo paese della provincia di Ravenna, nasce nell’aprile del ’46 e si affaccia su un Italia ferita dalla guerra, prossima a intraprendere il cammino della democrazia. La sua ascesa come allenatore ha inizio nell’87, lui appena quarantenne, quando Silvio Berlusconi lo sceglie come allenatore del Milan. In seguito diventerà commissario tecnico della Nazionale italiana e vice campione nei mondiali del ’94, al culmine di una manifestazione ricordata per il fatal rigore fallito da Baggio nella finale con il Brasile.
Per realizzare questa intervista abbiamo coinvolto i lettori del nostro quotidiano, invitandoli a postare sulla nostra pagina di Facebook le domande a cui avrebbero desiderato avere risposta.

Da molti anni ormai ha scelto di interrompere la sua carriera di allenatore. Le manca la panchina?
No, assolutamente. Io al calcio ho dato la vita e quando non mi sono sentito più pienamente coinvolto non era giusto che continuassi a pretendere dai giocatori ciò che io per primo non riuscivo più a dare. Ho comunque continuato a svolgere altri ruoli sempre nel contesto calcistico: sono diventato direttore tecnico del Parma e del Real Madrid, lavoravo in televisione, scrivevo sulla Gazzetta, facevo delle convention per banche e aziende, ruoli che svolgo tutt’ora, e ho continuato comunque ad allenare squadre giovanili nazionali.

In chi si rivede maggiormente tra gli allenatori odierni?
In tutti quelli che cercano di proporre un calcio positivo e propositivo mettendo al centro la squadra, il gioco e poi i giocatori. Se la squadra ha lo spirito giusto, non si può sbagliare. Se poi si ha la fortuna di avere qualche giocatore di talento, si avrà la possibilità di fare qualcosa di grande.

Come deve fare un bravo allenatore a trasmettere la voglia di giocare?
Intanto l’allenatore deve avere la fortuna di trovare una società paziente, competente e organizzata, poi in relazione alle disponibilità economiche, andare a prendere le persone più affidabili, intelligenti, con grande entusiasmo e senso dell’appartenenza.
Personalmente, a motivare i miei ragazzi c’era la stima che io provavo nei loro confronti e che loro provavano nei miei.

Cosa conta di più in campo? L’estro, la tecnica o il gioco di squadra?
In quanto sport di squadra, è logico che il collettivo debba venire prima di tutto, con le caratteristiche che dicevo prima e con una società competente alle spalle. Al che si può puntare ad avere le persone giuste, quindi andare a prendere i giocatori che hanno una grande motivazione, entusiasmo e un forte spirito di gruppo. Poi arriva la funzionalità tattica, quindi la competenza e per ultimo il talento.
Bisogna sempre tenere a mente che il giocatore deve essere presente con la squadra e per la squadra a tutto campo, tutto il tempo. Talenti che si muovono per proprio conto è un po’ come quando in un coro un cantante fa l’acuto, ma di un’altra canzone.
Di certo, fare squadra in Italia non è semplice perché siamo purtroppo un popolo prevalentemente individualista, malato di protagonismo eccessivo.

Qual è il calciatore che apprezza maggiormente come professionalità e impegno?
Rolland (il riferimento è a Romain Rolland, scrittore e drammaturgo francese, ndr) diceva “Un eroe è chi fa quello che può”. Io ero molto esigente con me stesso e con gli altri, ma nel tempo ho sviluppato la capacità di valutare ogni situazione. Quindi potevamo anche perdere la partita, ma se ognuno aveva dato tutto quello che poteva, non potevo che dire “grazie”.

È cambiata la mentalità dei calciatori negli anni?
No, posso dire di non avere notato grossi cambiamenti. A parere mio, prima di tutto nel calcio vale la persona e non il giocatore e quindi l’intelligenza è molto più importante rispetto ai piedi.
Il gioco poi, equivale al motore per l’auto: il pilota sono i giocatori. Possono anche non essere così bravi, ma quando hanno tutte le altre componenti, qualcosa di dignitoso lo fanno sempre. E lo stesso fa la squadra.
Io ho cominciato dai dilettanti facendo tutte le categorie, arrivando poi in serie A senza mai allenare dei campioni, ma ci sono arrivato perché la nostra squadra giocava un calcio nuovo, che divertiva, che migliorava i giocatori e che li ha portati per questo in serie A e in Nazionale.

Ora che ha tante esperienza sulle spalle, si pente di qualche scelta tecnica che ha fatto?
Quando una persona da tutto quello che può dare non può avere dei rimpianti. Io ho dato tutto e ho lasciato nel momento in cui non riuscivo più a dare altro.
Il successo è quando non hai nulla da rimpiangere.

Se non avesse fatto l’allenatore, che mestiere avrebbe fatto?
Ho giocato a calcio fino ai vent’anni, e anche bene! Poi lavoravo nella fabbrica di mio padre, quindi se non avessi fatto l’allenatore avrei continuato a lavorare nella sua fabbrica.

Seguiva anche altri sport?
No, o almeno, volevo che i giocatori fossero dei professionisti perfetti ed ero molto severo con loro. E quando sei severo con gli altri bisogna che tu sia anche molto intransigente con te stesso, quindi seguivo solo quegli sport che potevano portarmi delle idee per il calcio.

Ha un aneddoto particolare da raccontarci?
Ricordo volentieri, la prima coppa dei campioni soprattutto un episodio che accadde prima di giocare contro il Real Madrid. Il grande Gianni Brera (che allora era il più famoso giornalista sportivo ndr) scrisse che giocavamo contro i maestri del calcio e suggeriva il classico atteggiamento del gioco all’italiana “difesa e contropiede”. Non ero d’accordo con quello che aveva scritto, ma lessi comunque il suo articolo ai giocatori per capire se loro lo erano, al che si alzò Gullit che a nome di tutta la squadra disse: “Noi li attaccheremo dal primo secondo finché avremo le energie”… E così fu.

Guardiamo all’oggi. I nostri lettori sono curiosi di sapere da lei se l’eventuale acquisto di Verratti e Donnarumma potrebbe giovare alla Juve…
Li conosco bene, e per le ragioni che dicevo prima, voglio parlare di loro come persone piuttosto che come giocatori. Loro sono ragazzi positivi, generosi, equilibrati e intelligenti, quindi possono indubbiamente fare la fortuna di tutti, ma bisogna sempre ricordarsi che nel calcio, per avere successo, prima del singolo vale la squadra.

Altro quesito dei lettori, relativo stavolta all’orizzonte internazionale. La Cina sta acquistando giocatori a cifre esorbitanti. Pensa che questa tendenza continuerà fino a sovvertire gli attuali equilibri del pianeta calcio?
No, credo che sia un evento destinato ad arrestarsi dato che non è la prima volta che accade qualcosa del genere. L’hanno fatto prima di loro gli italiani, poi la Spagna, la Colombia, gli Arabi… adesso è il tempo dei cinesi, ma non è certo quella del denaro la strada giusta per costruire qualcosa di solido.

Che progetti ha per il futuro?
Faccio ancora tre lavori e vorrei smettere.. lavoro con la televisione, scrivo sulla Gazzetta, faccio parecchie convention con aziende e banche dove i temi sono quasi sempre gli stessi “come si gestisce la leadership, come si fa squadra…”

E che ci dice della Spal?
Sono contento della Spal per tanti motivi, intanto perché Ferrara è una città molto civile ed educata. Vidi la squadra giocare proprio a Ferrara quando ancora ero un bambino, mio padre è stato un giocatore della Spal prima della guerra e sono veramente contento del percorso che sta compiendo. La città ha una grande storia e una grande civiltà, e poi Fusignano un tempo era sotto il dominio Estense, quindi c’è qualcosa che ci lega profondamente. Spero che la Spal possa arrivare in serie A! Purtroppo la B la vedo assai poco poiché il sabato sono quasi sempre impegnato h visionare partite di serie A o di altri campionati d’Europa. Però mi sono ripromesso di tornare a Ferrara per vederla in campo… Abbraccio tutti i ferraresi e i tifosi della Spal e do loro appuntamento al Paolo Mazza. E’ una promessa.

L’immaginario di Ariosto esalta Ferrara capitale del Rinascimento

di Maria Lucrezia Costantino

Ferrara: culla rinascimentale, ricca d’arte e di strade ciottolate dove ci si può passeggiare in compagnia o anche da soli. Incantevole a maggio e gotica a novembre. Con i suoi colori caldi ti accoglie con amore e calore. Attraversandola ti fa conoscere la sua storia, te la racconta in silenzio. Con il suo castello che sorge nel centro della città circondato da acque, ha qualcosa da raccontarti, qualcosa su chi ci abitava, su chi l’ha Vissuta, o semplicemente vuole solo farti tornare indietro nel tempo. Ferrara può regalarti anche un diamante, due, tre, quattro e così via, persino un palazzo, il Palazzo dei Diamanti, il quale ogni anno accoglie mostre importanti. Da De Chirico ad Ariosto. Quest’anno ha accolto un ospite famoso a Ferrara, un certo Ludovico Ariosto con il suo poema cavalleresco l’Orlando Furioso. Ariosto, ispirato da scrittori del passato, scrisse questo poema cavalleresco nel ‘500. Ma cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi? Questo è il quesito principale della mostra. Tutti conoscono l’opera ariostea, ma non tutti sanno cosa vedeva il poeta quando componeva il poema. Ciò è possibile constatarlo con opere di Raffaello, Leonardo Da Vinci, Paolo Uccello, e Tiziano. Questi sono solo alcuni dei grandi artisti presenti. L’immaginario del poeta, però, non è visibile solo grazie ai vari dipinti, ma anche da manoscritti autentici, strumenti, armi e oggetti preziosi dell’epoca. Attraversando i corridoi soffusi, oltre a ciò che vedeva il poeta, si sentono quasi i profumi dell’epoca. Con un po’ di immaginazione ci si può tele trasportare in quell’epoca cavalleresca così buia ma allo stesso tempo così affascinante e romantica. La mostra è curata nei minimi dettagli, con un’audioguida che racconta la storia di Orlando, ma allo stesso tempo spiega e racconta la storia di quel quadro, o di quella spada che è lì, davanti a te. Inoltre queste storie sono raccontate anche sulle mura del palazzo, all’interno della mostra. Frasi scritte dal poeta ferrarese, frasi stampate lì, per raccontare la storia dell’Orlando in quell’epoca cavalleresca dominata da guerre e amori, il Suo di amore, quello per Angelica. Quella del Palazzo dei Diamanti è la classica mostra per chi è curioso di scoprire, conoscere e assaporare nei minimi dettagli quella che era Ferrara, o semplicemente la vita, in quell’epoca in cui rinasceva la vita di corte.

Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi
Mostra dedicata all’Orlando Furioso, opera di Ludovico Ariosto, presso il “Palazzo dei Diamanti” a Ferrara

Fortapàsc dei Biscuits

Fortapàsc è il nome con cui negli anni ’80 viene chiamata Torre Annunziata per via della sanguinosa guerra di camorra che segna la vita della cittadina napoletana.

Fortapàsc è il titolo del film di Marco Risi (2009) che racconta gli ultimi mesi di vita di Giancarlo Siani, giornalista del Mattino di Napoli ucciso dalla Camorra nel 1985, a 26 anni appena compiuti, per aver scoperto e scritto gli intrecci che legano gli interessi politici con quelli malavitosi dei clan di Torre Annunziata.

Fortapàsc diventa titolo di brano e videoclip che il gruppo rap dei Biscuits nel 2009 dedica alla storia raccontata dal film. Musica, parole e immagini ripercorrono a bordo di un motorino le strade da Torre Annunziata al Vomero, sulle tracce degli intrecci malavitosi che costarono la vita a Giancarlo Siani. Clicca per ascoltarlo:

Fortapàsc dei Biscuits

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Dopo le montagne russe si torna sempre a casa

Assaggiare, gustare… e imparare a nutrirsi

Cara Riccarda,
nella vita, a meno che non si sia così fortunati da essersi imbattuti subito nella persona che ci accompagna e ci accompagnerà per tutto il percorso, si fanno diverse esperienze.
Certamente si possono distinguere due macrocategorie, quella delle montagne russe e quella delle passeggiate tranquille.
Premesso però che in entrambi i casi c’è una piccola parte dell’altra caratteristica – e non sempre quando emerge è indolore – posso dire che è tappa obbligata per tutti fare almeno un giro sulle montagne russe.
Poi, scegliamo. Dopo l’esperienza, la scelta.
Non voglio dire che il caso non ci metta lo zampino, ma una volta assaggiate le montagne russe e anche la passeggiata tranquilla, raggiunta una certa maturità “anagrafica”, sappiamo cosa ci piace e cosa no.
E un po’ come si fa con i cibi, ricerchiamo quello che ci soddisfa di più, schifiamo ciò che proprio ci disgusta e ogni tanto ci invogliamo di qualcosa che sicuramente ci farà venire mal di stomaco, ma che ci attrae a tal punto che siamo disposti a soffrire.
La cosa preoccupante è che la scelta non è una e per sempre. Troppe variabili ci influenzano, troppi impulsi ci stimolano.
Noi e anche il nostro partner.
Poi… magari siamo state convinte di aver scelto una passeggiata tranquilla e invece riscopriamo che accanto a X la nostra passeggiatina è uno strapiombo.
Oppure pensiamo di essere noi la passeggiatina, mentre Y ci tira fuori il lato pericoloso (ma davvero ce l’ho anch’io? Ma chi è quella pantera che allo specchio ricambia il mio sguardo?)
Quindi, fondamentalmente, cerchiamo ciò che in quel dato momento della nostra esistenza abbiamo bisogno di trovare, e siamo noi stessi ciò che in quel momento abbiamo bisogno di essere.
D.

Cara pantera allo specchio,
la metafora gastronomica che utilizzi mi pare azzeccata: crescendo, cambiamo gusti, diventiamo più raffinati, o forse solo più selettivi. Aggiungerei che impariamo ad amarci di più e abbandoniamo quel ‘cupio dissolvi’ che spedisce dritti da chi non ci fa stare bene.
Concordo con te, da lì ci si deve passare, da quell’esperienza che ti mette sotto sopra, ma che poi ti fa dire ok scendo e vado a fare due passi. Una mia amica mi ha ricordato che non si resta vittime per sempre e ha ragione, dopo un po’ ci si stanca e si sceglie. Essere stati a testa in giù, però, un fattore positivo lo ha: vedi il mondo capovolto e poi te lo ricordi.
Riccarda

Le montagne russe, fuori e dentro di noi

Cara Riccarda,
credo di aver preso le montagne russe o forse le montagne russe sono io.
Poi nel tempo abbiamo preferito la tranquillità, la passione che sa aspettare, i piccoli gesti, la quotidianità.
Adesso che mi guardo attorno mi accorgo che le montagne russe sono la vita che mi circonda: gli imprevisti, la malattia, le gioie, la ricerca del tempo libero, il lavoro, gli amici veri e i lunatici.
Forse siamo cambiati per questo: per stare insieme sempre, nelle montagne russe.
V.

Cara V.,
è la prima lettera che arriva in cui il paesaggio davanti è da gustare in due e anche i verbi sono coniugati al plurale. Le montagne russe sono fuori di voi, mentre per la maggior parte delle persone io credo siano dentro e spesso ingovernabili perchè ad attivarle è un altro che ci gioca come con un trenino elettrico.
Riccarda

Il prezzo e il premio dell’esperienza

Cara Riccarda,
che belle domande… domande che in un attimo ti fanno passare la vita davanti… e in un attimo cerchi d’istinto di dare una risposta che possa soddisfare il tuo bagaglio, la tua strada, il tuo percorso. Risposta però non banale, merita una riflessione di testa e di cuore, una risposta che chi ascolta il cuore, sa. Non esiste un giusto o sbagliato, un meglio o un peggio, ogni esperienza ha la sua radice e il suo frutto.
Ho sempre sentito dire che il primo amore non si scorda mai, è vero, io ho ancora ben presente l’entusiasmo di quella giostra, le giravolte, l’adrenalina, ma ricordo molto bene anche la delusione del suo inaspettato e rapido finale.
Un finale che ha segnato ogni altro passo della mia vita, un finale che ha aiutato a crescere e a maturare la mia identità, il mio frutto, il mio perché, la mia risposta: io volevo essere la montagna russa per il mio uomo, io volevo essere il suo sospiro sospeso, la sua adrenalina, la sua aria.
Ho concentrato tutto su di me, su quello che volevo essere e su quello che volevo e posso dire che ho trovato un uomo che mi fa sentire la sua montagna russa ed è la mia certezza più grande.
P.

Cara P.,
leggendo le vostre lettere scopro che le montagne russe non sono la stessa giostra per tutte. Per alcune sono uno sballo, per altre un’esperienza da archiviare tra gli azzardi da non fare più. C’è poi chi, come te, riesce pure a pilotarle ed è meraviglioso se non ti scappa di mano il volante. Perchè questo è il rischio, una vertigine che all’altro, a lungo andare, potrebbe anche non piacere.
Riccarda

Vivere sospesi? No grazie!

Cara Riccarda,
il passato è stato da montagne russe e a forza di stare sospesi è venuta a mancare la stabilità. Oggi vorrei avere un ‘narcisista solido’, uno che ogni tanto mi accompagna sulle montagne russe…ma siccome non si può avere tutto, sulle montagne russe ci vado con le amiche.
Debora

Cara Debora,
ma sei proprio sicura di volere un narcisista solido? Ti consiglio le amiche, il narcisista, per definizione solido nelle sue certezze di comando, decide lui quando e quanto in alto lasciarti sospesa. Spero tu abbia un paracadute che ti accompagni a terra.
Riccarda

Uomini o omìni? A ognuna il suo

Cara Riccarda,
ci sono uomini pieni di paure, insicuri, che non vogliono giocare rischiando un po’ del loro.
Mezzi uomini insomma, omìni.
Per mia esperienza, se ne incontrano a stormi in fase adolescienziale, come è giusto che sia secondo natura; poi crescendo rimangono comunque la prevalenza, ma diminiscono lievemente di numero per la normale maturazione di alcuni.
Il sesso opposto, sempre alla ricerca dell’anima gemella per eccellenza, rimane affascinato dai colori sgargianti delle mezze calzette, abili camuffatori, mai poi con la tenacia che contraddistingue la categoria, riesce solitamente, nella stragrande maggioranza dei casi, a catturare l’uomo giusto per sè, quello che le farà star bene per la vita o per buona parte di essa si spera.
Poi ci sono donne a cui piacciono gli omìni, ma quella è un’altra storia ancora.
Carla

Cara Carla,
siccome tra omìni, camuffatori e mezze calzette, il panorama è da brividi, che ne dici di puntare all’indice di maturazione che avviene tra alcuni esemplari nello stormo?
Riccarda

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

La Mehari in mostra

La Mehari è una macchina aperta, senza protezioni, una carrozzeria leggera e sportelli con l’aria che passa in mezzo. Il modello (Citroën) è quello che aveva e guidava Giancarlo Siani, il giovane giornalista de “Il Mattino” ucciso dalla camorra mentre rientrava a casa sua, ucciso a causa degli articoli che scriveva. E proprio la Mehari di Siani è quella che arriva a Ferrara oggi,  venerdì 27 gennaio, con una giornata dedicata al giornalista assassinato a 26 anni perché raccontava cosa stava succedendo tra i boss della sua città. Si chiama “Il viaggio legale” e fa tappa a Ferrara con la macchina vera di Giancarlo recuperata, riverniciata e usata per fare il film sulla sua storia. Di un colore verde fosforescente come quello che serve a evidenziare le cose che si vogliono tenere a mente, la Mehari è in mostra in piazza del Municipio dalle 10 alle 17.30.

“Il viaggio legale” porta con sé anche un incontro di formazione su “Cittadinanza attiva e informazione” rivolto ai volontari del servizio civile (ore 9, Sala del Consiglio comunale, piazze del Municipio 2, Ferrara) e il pubblico dibattito sul “Testo unico sulla legalità e la sua rilevanza nel contrasto alle economie criminali” (ore 15.30, Sala dei Comuni, Castello estense, largo Castello 1, Ferrara).

IL CONCERTO
Ad esplorare l’universo degli standards è il David King Trio feat. Bill Carrothers & Billy Peterson

Da: Jazz Club Ferrara

Sabato 28 gennaio David King – noto ai più come spericolato batterista dei Bad Plus – torna al Jazz Club Ferrara in veste di leader di un trio straordinario che esplora, da un punto di vista totalmente originale, l’universo degli standards. Avvalendosi delle soluzioni armoniche di Bill Carrothers al pianoforte e della perizia di un accompagnatore mai scontato come Billy Peterson al contrabbasso, King presenterà, tra gli altri, alcuni brani che confluiranno a breve in un nuovo cd prodotto da ECM.

Sabato 28 gennaio (ore 21.30) il batterista statunitense David King (Minneapolis, 1970) torna al Jazz Club Ferrara in veste di leader di un trio che vive della sua sconfinata fantasia, delle straordinarie soluzioni armoniche di Bill Carrothers al pianoforte e della perizia di un accompagnatore mai scontato come Billy Peterson al contrabbasso.
Tolte le vesti di spericolato batterista dei Bad Plus, King esplora, con toccante originalità, l’universo degli standards: astrazione melodica e un libero approccio alla ritmica che scioglie il groove per lasciare spazio a squarci di romantico intimismo, sono le carte messe in gioco da King e compagni nel reinterpretare grandi classici come “People Say We’re in Love”, o “Lonely Woman” di Ornette Coleman.
Una valida risposta per chi avesse dubitato delle reali capacità di King, artista poliedrico che, oltre ad aver formato i Bad Plus insieme a Ethan Iverson e Reid Anderson, ha dato il proprio prezioso contributo al mondo della danza, della moda e del cinema sia come musicista sia in veste di compositore. Da citare in tal senso i brani realizzati ed eseguiti dal vivo per le campagne dello stilista Isaac Mizrahi, o per il celebre regista Tom Schroeder.
Anche in ambito prettamente musicale, emerge l’attitudine trasversale di King che spazia da contesti free jazz all’elettronica e che lo ha portato a collaborare con artisti del calibro di Bill Frisell, Tim Berne, Joshua Redman, Joe Lovano e Chris Speed tra gli altri.
Dopo I’ve Been Ringing You (Sunnyside Records, 2012), disco d’esordio del trio registrato con autentico trasporto in sole quattro ore all’interno di una chiesa di Minneapolis affittata per l’occasione, i tre approderanno al Torrione per presentare le nuove composizioni che confluiranno a breve in un cd prodotto dalla prestigiosa etichetta ECM.

INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Infoline 339 7886261 (dalle 15:30)
Prenotazione cena 333 5077059 (dalle 15:30)
Il Jazz Club Ferrara è affiliato Endas, l’ingresso è riservato ai soci.

DOVE
Torrione San Giovanni via Rampari di Belfiore, 167 – 44121 Ferrara. Con dispositivi GPS è preferibile impostare l’indirizzo Corso Porta Mare, 112 Ferrara.

COSTI E ORARI
Intero: 20 euro
Ridotto: 15 euro (la riduzione è valida prenotando la cena al Wine Bar, accedendo al solo secondo set, fino ai 30 anni di età, per i possessori della Bologna Jazz Card, per i possessori di MyFe Card, per i possessori della tessera AccademiKa, per i possessori di un abbonamento annuale Tper, per gli alunni e docenti del Dipartimento Jazz del Conservatorio “G. Frescobaldi” di Ferrara. Pari al 10% per i possessori di Jazzit Card)
Intero + Tessera Endas: 25 euro
Ridotto + Tessera Endas: 20 euro
NB Non si accettano pagamenti POS
Apertura biglietteria: 19.30
Cena a partire dalle ore 20.00
Primo set: 21.30
Secondo set: 23.00

AL TORRIONE
Cena ebraica e la musica dei Naigarten Klezmern per celebrare la Giornata della Memoria

Da: Jazz Club Ferrara

In occasione della Giornata della Memoria, venerdì 27 gennaio, il Jazz Club invita ad immergersi nella cultura ebraica in compagnia dei Naigartèn Klezmer. Anticipa la performance dell’ensemble la cena a tema elaborata dal wine bar del Torrione che esplora la tradizione gastronomica di quel popolo seguendo le regole della Kasherut.

In occasione della Giornata della Memoria, venerdì 27 gennaio (a partire dalle ore 20.00), il Jazz Club invita ad immergersi nella cultura ebraica, tra musica e sapori, in compagnia dei Naigartèn Klezmer. Anticipa la performance del gruppo la cena a tema elaborata dal wine bar del Torrione che esplora la tradizione gastronomica di quel popolo seguendo le regole della Kasherut.
Quello dei Naigartèn, collettivo formato da Filippo Plancher alla voce, Emilio Vallorani al flauto e ottavino, Gianluca Fortini al clarinetto, Salvatore Sansone alla fisarmonica, Agostino Ciraci al contrabbasso, Gianluigi Paganelli al basso tuba e Giovanni Tufano alla chitarra e percussioni, è un viaggio attraverso la musica di antiche culture, di voci e suoni che paiono scomparsi. Ma ecco che spazzando via la polvere del tempo, pizzicando le corde di un contrabbasso e spingendo il mantice di una fisarmonica, se ne recupera l’essenza. Infondere nuova linfa quindi è l’ambizioso progetto dei Naigartèn attraverso composizioni originali che recuperano e rielaborano il vasto repertorio della musica klezmer, la musica degli ebrei dell’Est Europa, degli zingari Manouche e Rom, e quella dei vicini Balcani, all’insegna di un concerto vivo e pulsante, frenetico e meditativo al tempo stesso.
Naigartèn è un gruppo di recente formazione che fonde le diverse esperienze dei componenti maturate in storici gruppi di musica klezmer e balcanica come la TheaterOrchestra di Moni Ovadia, i Dire Gelt e i TriMuzike, per ampliarle attraverso una ricerca che tocca svariati ambiti sonori, nella convizione che la musica possa valicare confini geografici e culturali. Con questo spirito nascono i Naigartèn , band (anzi banda, visto che di banda italiana si tratta) il cui nome si riferisce ad un vitigno del bolognese quasi scomparso, zona di residenza o di frequentazione “in-stabile” del gruppo.

Ingresso riservato ai soci Endas. Per informazioni 339 7886261 (dopo le 15.30). È consigliata la prenotazione della cena al 333 5077059 (dalle 15.30).

INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Infoline 339 7886261 (dalle 15:30)
Prenotazione cena 333 5077059 (dalle 15:30)
Il Jazz Club Ferrara è affiliato Endas, l’ingresso è riservato ai soci.

DOVE
Torrione San Giovanni via Rampari di Belfiore, 167 – 44121 Ferrara. Con dispositivi GPS è preferibile impostare l’indirizzo Corso Porta Mare, 112 Ferrara.

COSTI E ORARI
Intero 10 euro
Ridotto 5 euro (la riduzione è valida prenotando la cena al Wine Bar, accedendo al solo secondo set, fino ai 30 anni di età, per i possessori della Bologna Jazz Card, per i possessori di MyFe Card, per i possessori della tessera AccademiKa, per i possessori di un abbonamento annuale Tper, per gli alunni e docenti del Dipartimento Jazz del Conservatorio “G. Frescobaldi” di Ferrara. Pari al 10% per i possessori di Jazzit Card)
Intero + Tessera Endas: 15 euro
Ridotto + Tessera Endas: 10 euro
NB Non si accettano pagamenti POS
Apertura biglietteria: 19.30
Cena a tema partire dalle ore 20.00
Concerto ore 21.30

DIREZIONE ARTISTICA
Francesco Bettini

IL SEMINARIO
Quando i ragazzi sbagliano

Da: Organizzatori

Sabato 11 febbraio 2016, presso la Sala del Consiglio Comunale (Piazza Municipale,2)
Dalle 9.30 alle 13.30

L’attenzione dei media, la risposta educativa e giudiziaria

Che cosa succede quando un minorenne commette un reato? Quali le conseguenze per lui e per la sua famiglia, e soprattutto in che modo renderne gli adolescenti consapevoli in un’ottica di prevenzione?

Su questo si confronteranno alcuni attori della giustizia minorile con l’ausilio di video che presenteranno l’esperienza di un giovane autore di reato e lo svolgimento di un processo, simulato ma del tutto realistico.

Sarà anche l’occasione per interrogarsi sul contributo che i media possono offrire nel costruire una opinione pubblica attenta, sensibile e correttamente informata.

L’incontro, aperto a tutti, è rivolto in particolare a operatori sociali, giornalisti, avvocati, educatori. Nell’occasione verrà presentato il kit didattico “Non era un gioco. Riflessioni e proposte didattiche sulla giustizia minorile”, realizzato dal Comune di Ferrara in collaborazione con la Procura e il Tribunale per i Minorenni di Bologna e la Regione Emilia-Romagna. Un materiale pensato per aprire il dibattito con gruppi di adolescenti, nella scuola e nei luoghi d’incontro.

L’evento è promosso dal Comune di Ferrara (Ufficio Sicurezza Urbana, Centro di Mediazione, Ufficio Diritti dei Minori) in collaborazione con il Tavolo Adolescenti (Ausl-Comune di Ferrara) e la Camera Minorile di Ferrara.

L’appuntamento è stato inserito dall’Ordine dei Giornalisti nel programma di formazione permanente. Per ottenere il riconoscimento dei crediti i giornalisti potranno iscriversi gratuitamente sulla piattaforma Sigef.
E’ in corso di accreditamento da parte dell’Ordine degli Avvocati e dall’Ordine degli Assistenti Sociali.

Introducono:

Chiara Sapigni, Assessore Servizi alla Persona, Comune di Ferrara
Giorgio Benini, Ufficio Sicurezza Urbana, Comune di Ferrara

Intervengono:
Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale per i Minorenni di Bologna
Teresa Sirimarco, direttore USSM di Bologna
Elena Buccoliero, Ufficio Diritti dei Minori del Comune di Ferrara e giudice onorario Tribunale per i Minorenni di Bologna

Modera l’incontro Alessandro Zangara, Ufficio Stampa, Comune di Ferrara

Durante l’incontro verranno proiettati i video:
“Come rinascere”, testimonianze sulla messa alla prova minorile
“Non era un gioco”, processo minorile simulato

I relatori:
Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2013. Entrato in magistratura nel 1990, prima di questo incarico è stato a capo della sezione penale di Lamezia Terme e giudice minorile a Catanzaro. Nel video che verrà proiettato veste i panni di un adolescente imputato per spaccio di sostanze e lesioni aggravate.

Teresa Sirimarco, pedagogista e assistente sociale, mediatrice familiare e penale. Dirige l’USSM di Bologna, l’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni del Ministero della Giustizia che, in Emilia Romagna, assiste i minori imputati di reato in tutte le fasi del procedimento penale. Insegna “Metodi e tecniche del servizio sociale” presso la Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Bologna.

Elena Buccoliero, sociologa e counsellor, dal 2008 è giudice onorario al Tribunale per i Minorenni di Bologna dove per oltre 7 anni ha partecipato al collegio dibattimentale. E’ inoltre referente dell’Ufficio Diritti dei Minori del Comune di Ferrara e iscritta all’Albo dei Giornalisti Pubblicisti dell’Emilia Romagna. Ha curato il kit didattico “Non era un gioco. Riflessioni e strumenti didattici sulla giustizia minorile”.

PER INFORMAZIONI E ISCRIZIONI:
Centro di Mediazione
0532/770504
centro.mediazione@comune.fe.it

Paride e Aldo Falchi: l’arte di famiglia in mostra a Bologna

Una bottega di artisti, una famiglia in cui il figlio apprende l’arte sin da bambino prima di tutto dal padre e la sviluppa fino a raggiungere una spettacolare autonomia espressiva. C’è tempo sino a tutto giovedì prossimo, 26 gennaio, per ammirare nelle sale della Galleria Sant’Isaia, via Nosadella 41/A di Bologna le opere di Paride e Aldo Falchi, una cinquantina in tutto, racchiuse nella mostra Maestri Mantovani. E’ stato sapientemente impostato un percorso completo con gli esempi della produzione di entrambi gli artisti: il padre, Paride, pittore, nato nel 1908 e scomparso nel 1995, e il figlio Aldo, scultore, oggi ottantaduenne, dagli anni Trenta alla contemporaneità. Arte figurativa con linguaggi espressivi diversi, ma sempre in una cornice di grande attualità artistica.
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La storica galleria di via Nosadella 41/A, gestita dal pittore Cristiano Zanarini, ospita sia le sculture di Aldo sia i paesaggi, e non solo, del padre Paride. Si nota un fil rouge che collega i due artisti mantovani: nel segno, nell’educazione, nel coinvolgimento emozionale, nelle passioni, nelle declinazioni delle tecniche figurative postimpressioniste. Da un lato i corpi e i volti, anche onirici, in terracotta e in bronzo, dall’altro, sulle tele, i colori, spesso ovattati, della terra mantovana e delle anse fluviali padane. Paride Falchi insegna al figlio la ‘poesia’ dell’arte, oltre che la tecnica e il concetto di bottega, come pratica creativa. Aldo, dopo avere frequentato l’Accademia di Brera, diventa scultore nella prestigiosa fabbrica tedesca delle porcellane Rosenthal, mentre negli anni Sessanta è negli Stati Uniti dove esegue gruppi commemorativi per i duecento anni della dichiarazione di Indipendenza. Entrambi hanno opere esposte in permanenza in diversi importanti musei (Ferrara, Mantova ecc.).
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I quadri di Paride Falchi risentono delle tecniche dell’Ottocento, impiegandole non soltanto nella produzione pittorica legata all’ambiente locale. Ecco apparire i paesaggi nebbiosi delle zone bagnate dal Po, le campagne, gli sguardi attenti e tranquillizzanti sulle scene di vita e nei ritratti o nelle nature morte. Una luminosità spesso accennata ma sempre vivida perché intrisa di memorie, di poesia, di naturalezza, in una sintesi cromatica che non manca di originalità.
Le sculture di Aldo, invece, partono dalla stessa matrice culturale, ma utilizzano materiali e tecniche differenti. Sono la manifestazione di uno spirito di ricerca, dell’esito di tensioni e incontri, di una forza evocativa interiore che si sviluppa grazie a un’indubbia genialità artistica, coniugando forma e contenuti, concetti ed espressioni. Mentre guardando le opere di Paride sembra di essere immersi in un sogno talvolta languido, per quelle di Aldo prevale, nella bellezza quasi neoclassica, l’idea sottostante all’immagine e alla forma in un dinamismo concettuale ancor prima che espressivo.
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Paride e Aldo Falchi, due post impressionisti che hanno risentito delle tecniche dell’Ottocento e che, insieme, sviluppandole in percorsi autonomi, lasciano una traccia nell’arte contemporanea, perché vi prevale il talento coniugato alla qualità tecnica. Fino a giovedì 26 gennaio, la mostra è aperta dalle 10 alle 12.30 e dalle 16.30 alle 19.30. Mercoledì solo al mattino.

LEGALITA’
“Il viaggio legale”: mostra e incontri sulla libertà d’informazione e sulle economie criminali

Da: Comune di Ferrara

Venerdì 27 gennaio (ore 10-17.30) la Mehari del giornalista Siani in piazza Municipio, mattinata di formazione e alle 15.30 dibattito
“Il viaggio legale”: mostra e incontri sulla libertà d’informazione e sulle economie criminali

Venerdì 27 gennaio 2017 farà tappa nella nostra città “Il viaggio legale”, un progetto con l’obiettivo di realizzare un percorso di cittadinanza e contrasto alle mafie che attraversando la via Emilia miri a creare cittadini consapevoli e responsabili attraverso percorsi culturali, di formazione e informazione. Un obiettivo condiviso anche da Giancarlo Siani, che da giovane giornalista del “Il Mattino” di Napoli, ogni giorno lavorava con passione e senza sosta per descrivere la realtà in cui viveva, brutalmente ucciso dalla camorra nella sua Citroen Mehari, nel 1985.
La Mehari di Siani unitamente ad una mostra, verrà allestita in piazza Municipale e visitabile nella giornata di venerdì 27 gennaio (dalle 10 alle 17.30) come simbolo del contrasto alle mafie, all’illegalità ed un impegno a costruire nuove relazioni nella società civile e del lavoro.
Al mattino si terrà un incontro (sala del Consiglio comunale) di formazione rivolto ai volontari del Servizio Civile sul tema “Cittadinanza e informazione: la libertà di informare e di essere informati” a cura di Alessandro Zangara, responsabile Ufficio Stampa Comune di Ferrara; seguirà la visita alla mostra dedicata a Siani (iniziativa del Comune di Ferrara in collaborazione con il Copresc di Ferrara).
Alle 15.30 Cgil Ferrara organizza l’iniziativa pubblica di dibattito nella Sala dei Comuni del Castello Estense (accesso dalla scala elicoidale) dal titolo “Testo unico sulla legalità e la sua rilevanza nel contrasto alle economie criminali, al lavoro irregolare, allo sfruttamento e per una maggiore qualificazione del tessuto socio economico produttivo”, con gli interventi del sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, Donato La Muscatella di Libera – Coordinamento di Ferrara, Gian Guido Nobili dirigente Regione ER e Mirto Bassoli segretario Cgil ER. Coordinerà l’evento Cristiano Zagatti, segretario provinciale Cgil Ferrara.

Un Germoglio di economia sostenibile: le bici di Ricicletta nate dagli scarti

FullSizeRender-14“Il capitalismo fine a se stesso è morto. In questo tempo di crisi si deve mettere al centro l’uomo e dall’uomo stesso partire per creare una nuova economia”. E’ che con queste parole che Mauro Giannattasio, segretario generale della Camera di Commercio di Ferrara, apre la conferenza stampa di presentazione del bilancio di sostenibilità della Cooperativa Sociale “Il Germoglio”, tenutasi questa mattina proprio presso la sala conferenza della Camera di Commercio.
La sala è piena di gente e tantissimi sono gli imprenditori presenti. La conferenza stampa, alla quale sono intervenuti Sabrina Scida, presidente della cooperativa, Ruggero Villani, direttore delle Confcooperative Ferrara, il vice sindaco Massimo Maisto, Roberto Ricci Mingani, responsabile dell’Ufficio Qualificazione delle Imprese dell’Emilia Romagna, Paolo Fabbri, presidente della società Punto 3, Gianluca Gardi della cooperativa Il Germoglio e Aldo Modonesi, assessore ai Lavori Pubblici, è stata l’occasione per celebrare i 25 anni di attività della cooperativa Il Germoglio e parlare delle tante attività portate avanti dalla stessa.

riciletta 2Tra le tante spicca Ricicletta, laboratorio di inserimento lavorativo che si occupa di riciclare vecchie biciclette costruendone di nuove con i pezzi di scarto, che ha vinto il premio Responsabilità sociale d’impresa, anno 2016, in considerazione del fatto che, come recita la motivazione: “Il progetto ha saputo raccogliere un patrimonio di cultura e artigianalità locale realizzando una nuova attività imprenditoriale orientata ai valori della mobilità sostenibile e del riuso”.

Il Germoglio costituisce un esempio virtuoso tra le cooperative con i suoi 188 soci dipendenti, regolarmente assunti, di cui ben 141 donne e 47 uomini, e il 72% di lavoratori svantaggiati. Inoltre quasi la metà del fatturato proviene da privati, risultato quasi incredibile in considerazione del fatto che le cooperative di solito lavorano con proventi pubblici.

I temi centrali affrontati durante la conferenza stampa sono stati la responsabilità sociale d’impresa e la sostenibilità come nuovo modello produttivo. Il vice sindaco Maisto ricorda come “Spesso la cooperativa sociale viene vista coma la ruota di scorta dell’economia o come qualcosa di poco trasparente. Invece, dati alla mano, le cooperative sono forme d’impresa che riescono, meglio di tutte, a fronteggiare la crisi economica. Il concetto di sostenibilità, fondante per il Germoglio, deve diventare d’esempio per una città come Ferrara che, puntando sulle sue risorse (turismo e agricoltura tra tutte) può aspirare a diventare esempio del “buon vivere” ”. Nel suo intervento Roberto Ricci Mingani sottolinea come “la responsabilità sociale non significa solo restituire il mal tolto al territorio in cui si opera ma bisogna credere, anche a livello di istituzioni, nella connessione tra impresa e territorio”. La Regione Emilia Romagna promuove la cultura della responsabilità sociale di impresa e l’innovazione responsabile sostenendo economicamente progetti che coinvolgono le imprese di qualunque settore produttivo, le parti sociali e gli enti che operano per la promozione della responsabilità sociale e dell’innovazione sociale.

L’importanza dell’economia cooperativa viene ribadito da Ruggero Villani, direttore delle Confcooperative Ferrara, il quale si dice felice dei risultati conseguiti dal Germoglio che rappresentano “un orgoglio per le Confcooperative. Il modello economico per cui prima si fa economia e poi si pensa al sociale ha fallito. Bisogna unire le due cose ma non per un senso di buonismo ma perchè la cooperativa diventi un modello su cui si basa il sistema economico in tempo di crisi. La società funziona se c’è più diffusione della ricchezza”. Dopo la proiezione di un video che raccoglie le impressioni di chi lavora presso l’officina di Ricicletta e la spiegazione dei dettagli tecnici del bilancio di sostenibilità presentato dal Germoglio e curato dalla società Punto 3, è tempo di formulare dei buoni propositi perchè Ferrara possa davvero rilanciare la propria economia attraverso modelli economici sostenibili. L’assessore Modonesi ricorda i tempi in cui la cooperativa il Germoglio è stata costituita “tempi eroici: io c’ero. Non sono mai mancati entusiasmo e professionalità ma è stata dura”. Anticipa poi che il Germoglio potrebbe occuparsi del recupero delle aree circostanti la stazione ferroviaria, con la creazione di una vera velostazione, e dell’area intorno all’ex teatro Verdi. Nei programmi del Comune poi c’è la creazione di nuove piste ciclabili che possano consentire ai cittadini un sempre maggior utilizzo della bicicletta e agli amanti del turismo su due ruote di trovare una città che possa accontentare le loro richieste a livello di viabilità e strutture ricettive.

Il futuro esige che si parli sempre più di riciclo e sostenibilità economica: il guanto di sfida è lanciato e Ferrara non si tira indietro.

 

LA LETTURA
Il confine fra Giulia Bassani e Ignazio Silone nell’Europa squassata da totalitarismi e venti di guerra

confine di giuliaGennaio 1931. Giulia Bassani, giovane poetessa raffinata e tormentata, vive in un hotel di Zurigo come in esilio, lontana da tutti e indifferente a quanto le accade attorno. È in cura dallo psicoanalista Carl Gustav Jung, nella speranza che la psicologia del profondo la aiuti a superare il suo malessere interiore. Tra i frequentatori dello studio di Jung c’è anche un rivoluzionario italiano rifugiato in Svizzera, Ignazio Silone. La sua esistenza è a una svolta: è accusato da Togliatti di tradimento e doppio gioco, vuole abbandonare il lavoro politico e diventare uno scrittore. Ha terminato il suo primo romanzo, Fontamara, ed è in cerca di un editore.
Giulia e Ignazio si conoscono in una fredda mattina al parco Platzspitz e per un anno, nel pieno dell’ascesa del nazismo e della crisi della democrazia, si amano. Si amano nonostante un’incolmabile distanza intellettuale e uno sguardo antitetico sul mondo, che li condurrà verso destini divergenti.
Con una scrittura accurata e sensibile, Giuliano Gallini si muove tra finzione e verità storica per raccontare, attraverso una vicenda intima, un momento cruciale della storia europea del Novecento, e le vicende e contraddizioni di una delle figure più rappresentative della letteratura italiana di quel periodo.

Il romanzo “Il confine di Giulia” sarà presentato venerdì 27 gennaio alle 17,45 alla libreria Feltrinelli di Ferrara. Con l’autore dialogherà Sergio Gessi, direttore di Ferraraitalia

L’autore: Giuliano Gallini è nato a Ferrara e vive a Padova. È dirigente di una delle maggiori aziende italiane di servizi, dove si occupa di sviluppo e marketing. Il confine di Giulia è il suo primo romanzo.

Vai al sito del libro

 

“Tra realtà e invenzione, Gallini, attraverso l’intimità di una passione, ricostruisce un momento cruciale della storia europea del Novecento, delineando il ritratto di una giovane, focosa, confusa, promessa della letteratura italiana. Me ne sono innamorata subito. Leggetelo.”
Giulia Ciarapica – Il Messaggero [Leggi la recensione]

IL JAZZ
David Torn ‘Sun of goldfinger’, unica tappa italiana del tour europeo

Da: Ferrara Jazz Club

Sabato 21 gennaio il Jazz Club è pronto ad ospitare in esclusiva nazionale Sun of Goldfinger, progetto firmato da David Torn, uno dei più rivoluzionari chitarristi jazz degli ultimi trent’anni. Nell’inoltrarsi in questo imprevedibile viaggio sonoro il leader si avvale di altri due protagonisti assoluti della scena creativa newyochese come il sassofonista Tim Berne ed il batterista Ches Smith.

Sun of Goldfinger, progetto che sarà presentato sabato 21 gennaio (ore 21.30) al Jazz Club Ferrara in esclusiva nazionale, rappresenta il grande ritorno di uno dei più rivoluzionari chitarristi della storia del jazz degli ultimi trent’anni, David Torn.
Torn (Amityville, NY, 1953) è un personaggio difficile da inquadrare per l’incessante e vulcanica vena creativa che lo conduce da sempre a realizzare, instancabilmente, nuovi progetti musicali, colonne sonore per cinema (Traffic, Il Grande Lebowski, Kalifornia…) e videogames, loop e samples per software musicali.
‘Chitarrista strutturale’, così si definisce, Torn è artefice di una ricerca musicale che non solo ha rivoluzionato l’uso dello strumento, ma che ha reso esplorabili territori sonori finora sconosciuti. Questi ultimi, attraverso distorsioni ed effetti che producono una palette di toni incomparabile, si nutrono tanto di jazz ed improvvisazione, quanto di rock e musica folk.

A metà degli anni’80 Torn esordisce per l’etichetta ECM con ‘Best Laid Plans’, a cui segue di lì a poco ‘Cloud About Mercury’: due geniali tasselli dell'evoluzione di un jazz-rock d'avanguardia, spigoloso e cerebrale, ma assolutamente personale e originale.  Il secondo, in particolare, gli apre le porte a collaborazioni con artisti quali David Sylvian, David Bowie, Ryuichi Sakamoto e Ravi Shankar tra gli altri.
Nel 1992 la carriera dell’artista registra un brusco stop a causa di una perniciosa malattia, superata la quale Torn, come fortificato, ha ripreso la produzione discografica innescando nuovi proficui sodalizi con John Zorn, Jeff Beck e Tim Berne.
Proprio con quest’ultimo, amico di lunga data e già in ‘Prezens’ (ECM, 2007), penultimo disco del chitarrista, Torn forma Sun of Goldfinger, straordinaria triade completata dalla presenza di un altro folgorante protagonista della scena creativa newyorchese, il batterista Ches Smith.

INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Infoline 339 7886261 (dalle 15:30)
Prenotazione cena 333 5077059 (dalle 15:30)
Il Jazz Club Ferrara è affiliato Endas, l’ingresso è riservato ai soci.

DOVE
Torrione San Giovanni via Rampari di Belfiore, 167 – 44121 Ferrara. Con dispositivi GPS è preferibile impostare l’indirizzo Corso Porta Mare, 112 Ferrara.

COSTI E ORARI
Intero: 20 euro
Ridotto: 15 euro (la riduzione è valida prenotando la cena al Wine Bar, accedendo al solo secondo set, fino ai 30 anni di età, per i possessori della Bologna Jazz Card, per i possessori di MyFe Card, per i possessori della tessera AccademiKa, per i possessori di un abbonamento annuale Tper, per gli alunni e docenti del Dipartimento Jazz del Conservatorio ‘G. Frescobaldi’ di Ferrara. Pari al 10% per i possessori di Jazzit Card)
Intero + Tessera Endas: 25 euro
Ridotto + Tessera Endas: 20 euro
NB Non si accettano pagamenti POS
Apertura biglietteria: 19.30
Cena a partire dalle ore 20.00
Primo set: 21.30
Secondo set: 23.00

Le storie che fanno la Storia: così Ferrara narra la sua Giornata della Memoria

A più di settant’anni da quel 27 gennaio 1945, quando i cancelli di Auschwitz sono stati aperti, testimoni e sopravvissuti se ne stanno andando e siamo ormai entrati nell’età della ‘post-memoria’: una sedimentazione costituita sempre più da rappresentazioni degli eventi della Shoah, non dagli eventi stessi o dalle testimonianze scritte oppure orali di quegli accadimenti.
E dato che l’oblio del genocidio è stato parte integrante del genocidio stesso, la Shoah fin dall’inizio ha richiesto maggiori sforzi collettivi per la sua trasmissione e rappresentazione: ciò che sfida le tradizionali categorie concettuali e interpretative è la tensione creata dalla contemporanea presenza della necessità di arrivare una verità storica e del problema rappresentato dall’opacità dell’evento. “Dire l’indicibile” o “comprendere senza spiegare”, espressioni spesso sentite a proposito dell’Olocausto, non sono solo retoriche.
A tutto questo si aggiunge la spersonalizzazione delle vittime, prima come crudele strategia dei carnefici durante lo sterminio, e poi come trappola nella quale rischia di cadere chi si confronta con la narrazione e la memoria di una ‘tragedia’ divenuta paradigmatica di quello che viene chiamato il ‘secolo dei genocidi’.

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Anna Quarzi

Per tutte queste ragioni le celebrazioni ferraresi della Giornata della Memoria 2017 hanno al contrario lo scopo di “personalizzare” la Storia, raccontandola attraverso storie di persone che hanno vissuto da prospettive diverse quegli anni drammatici per l’Italia e l’Europa. È la professoressa Anna Quarzi, direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, a darci questa chiave di lettura del programma del Comitato Provinciale 27 gennaio, del quale – oltre all’Istituto da lei guidato – fanno parte: il Comune, la Questura e il Comando Provinciale dei Carabinieri e della Guardia di Finanza di Ferrara, l’Archivio di Stato, l’Università degli studi e l’Ufficio scolastico provinciale di Ferrara, la Comunità ebraica cittadina e la Fondazione Meis, il Museo del Risorgimento e della Resistenza e le associazioni ferraresi dei partigiani, dei combattenti e dei reduci, delle vittime civili e dei dispersi in guerra.
In particolare, ci spiega Anna Quarzi, “quest’anno parleremo delle vittime e dei giusti, non solo quelli ufficialmente riconosciuti dallo Yad Vashem in Israele”. Ecco il senso del Convegno “La memoria della Shoah e i Giusti fra le Nazioni”, organizzato da Istituto di Storia Contemporanea, Fondazione Meis e Università di Ferrara in collaborazione con la Comunità Ebraica, nel pomeriggio di giovedì 26 nell’Aula Magna del dipartimento di Giurisprudenza in Corso Ercole I d’Este: “un momento scientifico importante per ricostruire la nozione di ‘giusto’ dal punto di vista filosofico e giuridico, ma anche per narrare le storie di giusti”. Durante la mattinata, la cerimonia ufficiale di deposizione di una corona presso il cippo che ricorda i cittadini ebrei ferraresi reclusi nella Caserma Bevilacqua in corso Ercole I d’Este nel gennaio 1944 racchiude entrambi i temi, dei giusti e delle vittime: il presidente della Comunità Ebraica Andrea Pesaro ricorderà i componenti della comunità qui detenuti dopo il bombardamento del carcere in via Piangipane, il Questore Antonio Sbordone “nel suo intervento “Il dovere verso la legge e il dovere verso l’uomo” parlerà agli studenti di persone delle Istituzioni che si sono prese la responsabilità personale di salvare cittadini italiani di origine ebraica andando contro le leggi che avrebbero dovuto rispettare”, sottolinea la professoressa. “Inoltre – prosegue Quarzi – continuiamo il lavoro di ricerca sugli internati militari e civili, perché dobbiamo ricordare che la legge del 2000 include tutti “gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte”. Quest’anno consegneremo ai famigliari tre Medaglie d’Onore, conferite dal Presidente della Repubblica agli ex internati militari e civili ferraresi nei lager nazisti e destinati al lavoro coatto durante il secondo conflitto mondiale. Fino a oggi ne abbiamo consegnate circa duecento”. La cerimonia è prevista per venerdì 27 gennaio alle 10.00 presso la Sala Estense in piazza Municipale. Infine nella mattinata del 31 gennaio alla Sala Agnelli della biblioteca Ariostea si parlerà del ruolo della Guardia di Finanza negli aiuti ai profughi ebrei e ai perseguitati: “saranno presentate nuove ricerche su questo tema. Una cosa che forse non tutti sanno, per esempio, è che Vittore Veneziani, importante direttore di coro italiano fra le due guerre di origine ebraiche ferraresi e al quale è intitolata la conosciuta accademia Corale della nostra città, è stato salvato proprio dalla Guardia di Finanza”. E proprio l’Accademia Corale Vittore Veneziani dedicherà anche quest’anno un concerto alla Giornata della Memoria (sabato 28 alle ore 11 e domenica 29 alle ore 16,30 presso l’Auditorium Santa Monica dell’IT Bachelet in via R.Bovelli): attraverso la storia di tre bimbe ebree, di una bimba rom e di un preadolescente afgano si ripercorreranno vicende drammatiche in cui la salvezza degli uni si muove sullo sfondo della sventura di altri.
Un omaggio alla memoria delle vittime, ma anche un’occasione per conoscere un pezzo di storia ferrarese, è “Touch-Toccare alcune storie di cittadini ferraresi ebrei deportati”, 
installazione a cura di Piero Cavagna e Giulio Malfer, la cui inaugurazione martedì 24 gennaio alle 18 presso il Meis in via Piangipane, darà inizio alla settimana delle celebrazioni: dieci storie di componenti della comunità ebraica cittadina di tutte le età deportati ad Auschwitz e mai più tornati. A dare voce alle loro biografie saranno un racconto in prima persona e la loro foto, ricoperta da uno strato di inchiostro termo-cromico nero, che entrando in contatto con il calore delle dita delle mani dei visitatori, lascerà tornare alla luce i loro volti almeno temporaneamente.
Mercoledì 25 alle 11 nei locali del Museo del Risorgimento e della Resistenza sarà poi inaugurata la mostra “Una famiglia ferrarese ebrea: la storia d’Italia raccontata dai “Calabresi” (1867-1945)” a cura di Antonella Guarnieri. Ancora una volta una storia forse poco nota ai più: “Enrica Calabresi, scienziata e professoressa ebrea ferrarese trasferitasi a Firenze, ha avuto come allieva una giovane Margherita Hack, testimone della sua cacciata dopo l’introduzione delle leggi razziali nel 1938. Enrica è morta suicida nel 1944 per non essere deportata”, racconta la professoressa Quarzi.
Un altro evento dedicato alle vittime è “Anche “i sommersi” ebbero una voce: testimonianze di resistenza civile dai ghetti polacchi
”, intervento della professoressa Marcella Ravenna della Comunità Ebraica di Ferrara domenica 29 gennaio alle 21 presso la saletta del Centro Sociale Ricreativo Culturale Doro in viale Savonuzzi.
E a chi continua a interrogarsi sul significato della ricorrenza del 27 gennaio per le giovani generazioni, Quarzi risponde: “deve essere preceduta da un lavoro di preparazione con i ragazzi, come del resto facciamo con i viaggi della memoria. Si deve fare con loro una riflessione critica, non solo suscitare una reazione emotiva passeggera. Devo dire che riscontriamo una risposta di grande impegno da parte di tutte le scuole ferraresi: saranno circa 140 gli studenti che parteciperanno alla cerimonia in Sala Estense del 27 gennaio e tutti hanno partecipato a progetti sulla memoria. Infine c’è l’evento dell’8 febbraio, “Da Ferrara a Fossoli”, durante il quale alcuni studenti del Liceo Scientifico Roiti esporranno il lavoro che stanno facendo da più di un anno sui deportati ferraresi nel campo modenese in collaborazione con l’Archivio di Stato di Ferrara”.

Birkenau
Birkenau

Fin qui il programma ufficiale del Comitato 27 gennaio, ma la Giornata della Memoria verrà celebrata anche da altre realtà culturali ferraresi.
La collaborazione Ferrara Sintonie, fra Ferrara Musica e Ferrara Off, darà vita a due appuntamenti il 27 e il 29 gennaio. Venerdì alle 21 in Sala Estense, l’opera “Exil” del compositore georgiano Giya Kancheli, scritto per soprano, flauto, violino, viola, violoncello, contrabbasso, sintetizzatore e nastro magnetico, composto nel 1994 con testi della Bibbia, di Paul Celan e di Hans Sahl. I testi sono selezionati da Monica Pavani e interpretati da Diana Höbel e Marco Sgarbi, protagonisti anche della serata di domenica alle 18 nello spazio teatrale di via Alfonso I d’Este: “Troviamo le parole”, una mise en espace a cura di a cura di Giulio Costa e Monica Pavani. Ingeborg Bachmann e Paul Celan, due fra gli autori più significativi del Novecento, si incontrano nel 1948 quando lui, a soli ventisette anni è già un poeta conosciuto, mentre lei, più giovane di sei anni, non è ancora nota ma ha già deciso di vivere di scrittura; fra loro si creerà un rapporto di amicizia, amore, comprensione e disperazione che trovando respiro nello scambio epistolare che diventa man mano il racconto di due vocazioni.
In occasione della Giornata della Memoria, il Jazz Club del Torrione San Giovanni ospita poi l’ensemble Naigarten Klezmer che condurrà il pubblico attraverso un viaggio nelle tradizioni musicali degli ebrei dell’Est Europa, degli zingari Manouche e Rom e dei vicini Balcani.

Il programma del Comitato Provinciale 27 gennaio

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I DIALOGHI DELLA VAGINA
L’effimero piacere delle montagne russe…

Spazio diviso tempo, uguale velocità. La formula dimenticata è stata la prima àncora di salvezza a cui la mente si è aggrappata quando B. si è sentita dire che era finita perché lui aveva bisogno di spazio e di tempo. Non volendo credere che sei anni stessero sfumando senza una litigata, un’incomprensione o un tradimento, B. si è concentrata sulla formula della velocità. Doveva razionalizzare, avere un perché. E la formula si è presentata l’unica risposta possibile: se io divido il tempo trascorso con lui per la strada fatta assieme, ottengo la velocità con cui può finire la nostra storia, quindi non basterà questa telefonata, dovrà darmi altre spiegazioni, darmi il tempo e lo spazio per capire o almeno accettare.
Se per lui tempo e spazio si moltiplicavano con la velocità con cui se ne stava andando, per lei erano diventati i confini del pantano dove era caduta. B. non capiva davvero, pensava che quella storia avesse raggiunto un equilibrio abbastanza solido, avvisaglie di stanchezza non ce n’erano, o almeno non le aveva viste. Per forza, mica era lei quella stanca tra i due.
B., allora, sente il bisogno di raccontare tutto ad A., un’amica schietta che non si è mai risparmiata affondi, ma anche grande vicinanza.
“Lo so che lui ti piaceva, ma se ci pensi non era la storia della tua vita” dice A.
“E quale sarebbe la storia della vita?”
“Quella che, alla fine, ti fa meno male”.
“Saperlo…”
“Credo che ci siano uomini sani, che non fanno male, magari un po’ opachi se paragonati a certe stelle, ma che ti permettono di fare un cammino sereno e pianeggiante. Certo, devi rinunciare all’adrenalina e alle capovolte delle montagne russe, ma credimi che dopo un paio di giri è meglio scendere, abbiamo bisogno di respirare. Hai passato fin troppo tempo a testa in giù, è ora che tu stia con i piedi per terra”.
“Non sarà facile” risponde B.
“Devi ricordarti che lui ti ha liquidata con una telefonata. E sai perché lo ha fatto? Perché doveva compiere, ancora una volta, il suo narcisismo che nulla deve all’altro”.
E a voi, che uomini o donne sono capitati? Da montagne russe o da passeggiata tranquilla? Narcisisti o persone che non fanno male?

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

DIARIO IN PUBBLICO
Dimmi come si veste e ti dirò cosa vota. Moda e politica

Le guardo pensoso mentre coloro che le detengono s’aggiustano riccioli e cernecchi. Tutti attenti al passo mentre infilano la porta delle rispettive sedi di partito o movimento: si voltano di scatto e mostrano con sapiente noncuranza facce sorprese e un po’ annoiate. Nella ‘postura’ grande importanza ha lo zainetto portato preferibilmente su una spalla, mentre per magistrati, avvocati e politici legati al diritto e alla legge i media inquadrano la borsa di pelle rigorosamente usurata e assai gonfia. In leggero calo lo sciarpone annodato in molteplici giri (immutabile al collo di Brunetta o di qualche Cinque Stelle di secondo grado). Le facce quasi sempre rigorosamente sporche di barba, che non dovrebbe superare i tre o quattro giorni, evidentissima metafora di uno sprezzo per il viso nudo ormai  appannaggio solo del Presidente della Repubblica. Inoltre si sposa con evidente simmetria al ricciolo scomposto o al cranio perfettamente lucido, antitesi della barba incolta. Ormai detentore del copyright il critico-politico che con un secco colpo della mano s’aggiusta la chioma imbiancata, ma pur sempre fluente.
E mentre corro a rileggermi nelle “Operette morali” il dialogo di Giacomo tra la Moda e la Morte entrambe “figlie della caducità” ripenso a questo straordinario pensiero che fa della moda, anche in politica, una necessità:

“Moda. Benché sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si usi di parlare per essere uditi, pure perché siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi rispetti, parlerò come tu vuoi. Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali.[corsivo mio] Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v’improntino per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in America e in Asia; storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l’amore che mi portano. Io non vo’ dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani e il petto con quei di tela, e fare di ogni cosa a mio modo ancorché sia con loro danno”.

Avrebbe del miracoloso questo elenco di ciò che la moda può, se non sapessimo che quasi sempre la poesia antivede la verità e la consegna al futuro.
Va da sé dunque che la faccia alla moda deve essere necessario complemento del fare del politico in quanto, specie ora nell’età del vedere, chi ti guarda deve ri-conoscersi. Una resilienza, se si vuole usare questo termine così abbondantemente frainteso, che induce il politico a dare di sé un’immagine positiva. Ecco allora che il vestirsi in un certo modo (e tutti noi sappiamo bene come l’immagine di Renzi sia stata dettata da sarti fiorentini che gli hanno ‘cucito addosso’ un’immagine positivamente corretta di un’eleganza borghese, lontana sia dal casual praticato dal suo avversario più temuto, Beppe Grillo, sia dall’uniforme ormai abusata del politico prima Repubblica) rappresenti un’idea del fare politica; perfino un’ideologia.
Certo la scoperta della camicia bianca con manica arrotolata, allegoria assai scontata del proverbio “rimbocchiamoci le maniche”, proviene da un ben più importante uomo politico: quel Barack Obama di cui si è sempre messo in luce il significato metaforico della gestualità, della postura, dell’abbigliamento.
Il gesto meccanico dei politici che quando escono dalla macchina immediatamente s’allacciano il bottone della giacca risulta negativo quando vengono ripresi sul lato B che di solito risulta stazzonato e a volte singolarmente respingente, come per Hollande dotato di una protuberanza quasi imbarazzante.
Il colpo di genio è stato però quello di Angela Merkel che si è inventata un’uniforme a cui adatta anche l’espressione del viso. La qualità dei colori delle giacchette ‘merkelliane’ è risultato vincente in qualsiasi occasione pubblica. Quasi concorrenziale all’elegantissima divisa di scena, su un’idea di Giorgio Armani, adottata dalla nostra Lilli Gruber.

Tuttavia il più condizionante adeguamento della politica alla Moda, leopardianamente concepita, si ha con l’adozione tra le più giovani signore in politica del tacco 12, che porta a ciò che il poeta di Recanati chiama “storpiare la gente colle calzature snelle”. Il durissimo adeguarsi a una moda che richiede sacrificio intenso porta sul volto delle politicanti, dopo i lunghissimi tempi di indossatura di simili strumenti, una piega di dolore, una vacuità degli occhi, un tic che rimpicciolisce le labbra e una smorfia finale che viene finalmente espressa e intesa come condanna e disprezzo accompagnati talvolta da un pensoso scuoter di capo.
E’ vero poi che nel secolo scorso l’intuizione leopardiana si sposta sul binomio moda-modernità. E al proposito si pensi al fondamentale saggio di Walter Benjamin “Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’epoca del capitalismo”, che ora è possibile leggere nell’e-book edito da Neri Pozza. In questo saggio la moda diventa il corrispettivo della modernità cioè, come è stato autorevolmente sostenuto, che attraverso la premonizione del “Dialogo della Moda e della Morte” si arriva a, cito, “una dimensione della cosa come vessazione”, un paradigma della modernità. E come tale corre e si consuma con la velocità stessa del presente.

Sarebbe dunque corretto che il discorso leopardiano si attui nella politica, nella ‘modernità’ della politica.
Tra barbe incolte, crani lucidi e boccoli scomposti s’incornicia il volto della politica al maschile. Tra fluenti capigliatura e tacco 12 quello delle signore della politica.
Comunque se ne pensi è evidente che la Moda è non solo condizionante, ma necessaria all’esercizio della politica.
Sta poi ai miei 25 lettori applicarne i paradigmi ai politici e agli amministratori che conosce.

EVENTUALMENTE
Nel 2017 al Torrione non solo Jazz

Per il 2017 di “Ferrara in Jazz”, la rassegna di appuntamenti musicali al Torrione San Giovanni giunta alla sua diciottesima edizione, l’associazione culturale Jazz Club Ferrara apre le porte ad altre forme di espressione, musicali e non. Il programma è stato presentato in una gelida conferenza stampa nella mattinata di lunedì: saranno gli oltre 40 concerti in programma da gennaio ad aprile a riscaldare l’atmosfera, con protagonisti nuovi talenti e figure già consolidate, dando libero sfogo anche ad altre forme artistiche quali il teatro, la fotografia e, perché no, la gastronomia.

L’apertura di questa seconda parte della stagione di concerti è prevista per venerdì 20 gennaio e spetta al celebre trio statunitense formato da Larry Goldings all’organo, Peter Bernstein alla chitarra e Bill Steward alla batteria.
A seguire, torneranno i lunedì del “Monday Night Raw” arricchiti da jam sessions e dedicati alla scoperta di nuovi talenti e progetti musicali. Non solo, immancabile il live mensile della Tower Jazz Composers Orchestra, la grande band del Torrione guidata da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon.
I venerdì saranno invece accesi dagli appuntamenti di “Somethin’Else” nei quali si esploreranno nuovi sentieri gastronomico-musicali e persino una punta di elettronica, grazie anche alla neonata collaborazione con l’Associazione Reverb. Particolare importanza, come hanno sottolineato gli organizzatori, avrà il primo concerto, venerdì 27 gennaio, in occasione della Giornata della Memoria, che vedrà esibirsi l’ensemble Naigarten Klezmer: Filippo Plancher, voce; Emilio Vallorani, flauto e ottavino; Gianluca Fortini, clarinetto; Salvatore Sansone, fisarmonica; Agostino Ciraci, contrabbasso; Gianluigi Paganelli, basso tuba; Giovanni Tufano, chitarra e percussioni. La serata inizierà con una cena a base di piatti tradizionali della cultura ebraica.

Imperdibili gli appuntamenti del grande jazz che si terranno ogni sabato sera. Dave King Trio, Ben Wendel Group, Eddie Henderson Quartet sono solo alcuni nomi dei musicisti che si alterneranno sul palco del Torrione.
Non mancherà una serata all’insegna del grande jazz italiano con il Trio Bobo che si esibirà il 4 febbraio. A partire da questa data inoltre, verrà inaugurata la personale del fotografo Roberto Cifarelli dal titolo “Le strade del jazz” che andrà a sostituire l’attuale esposizione “Note in bianco e nero” di Michele Bordoni.

Con “Jazz goes to college” il Ferrara Jazz Club rinnova le collaborazioni con il Conservatorio G. Frescobaldi e l’Associazione Musicisti Ferraresi: produzioni originali in cui alcuni dei migliori allievi affiancheranno non solo i docenti, ma anche gli ospiti speciali. E poi ci sono i nuovi arrivi, come Ferrara Off, grazie al quale si compone una vivace sinfonia tra teatro e musica: domenica 26 febbraio alle 18.00 lo spazio teatrale di viale Alfonso I d’Este ospiterà una serata di musica e poesia con il clarinettista romano Marco Colonna e Alberto Masala, poeta e scrittore sardo.

Tante proposte diverse, ognuna di grande qualità, che hanno portato al riconoscimento dell’americano DownBeat Magazine, ottenuto per il secondo anno consecutivo dal nostro Torrione come una delle migliori location di musica jazz. Con orgoglio ne ha parlato in conferenza l’assessore alla cultura e vicesindaco di Ferrara Massimo Maisto: “Il Jazz Club vince premi perché è in un posto bellissimo di cui la gente si innamora, ma soprattutto per la qualità della proposte che offre. Qualità non solo dell’accoglienza, ma anche dei rapporti che il Jazz Club intrattiene fra nuove e vecchie collaborazioni.”
L’associazione non può che ritenersi soddisfatta non solo per la qualità della musica, ma anche per l’affluenza del pubblico alle sessioni precedenti, confermata dal cospicuo numero degli iscritti: “Con le nuove collaborazioni e con i suoi più di 3000 soci –  ha concluso Maisto – sarebbe un errore pensare al Jazz Club come un posto elitario e per pochi appassionati”.

“La città? Un bene comune”. Storia del sindaco che ha sbaragliato i partiti

Hanno tolto l’assessorato alla Cultura e loro hanno reagito portando in città una serie di eventi culturali. Lo hanno chiamato “Lievito” e come fa la sostanza utilizzata per il pane, l’appuntamento – organizzato dall’associazione “Rinascita civile” – è cresciuto. Come loro, i promotori degli eventi, trasformati in un progetto politico che ha conquistato Latina, la seconda città del Lazio, in nome del “Bene comune”. Latina, un capoluogo di provincia che si porta dietro qualche nostalgico dell’Agro redento dalle paludi (molti i ferraresi che arrivarono a lavorare in cambio dei poderi dell’Opera nazionale combattenti) o del nome originario di Littoria; il peso di essere stato fondato dal Duce e per quanto riguarda la politica due grandi monoliti dal dopoguerra a oggi: prima la Democrazia Cristiana, poi il centro-destra nelle sue varie forme. La Dc fino al 1993, con percentuali “bulgare”, Alleanza nazionale, Forza Italia e le altre realtà di quell’area politica fino a giugno del 2016 con analoghi plebisciti, passando per un paio di commissariamenti causati dalle insanabili fratture – dovute più agli affari, come dimostrano recenti indagini – che a scelte politiche per la città.

LA RIVOLUZIONE
Dal 19 giugno il sindaco è Damiano Coletta, un cardiologo di 56 anni, capace di laurearsi in medicina mentre faceva il calciatore professionista (ha giocato fino alla serie B), uno di quelli che diede vita a “Lievito” nel 2012. Insieme a lui professionisti, imprenditori, docenti universitari, gente passata anche per i partiti ma tenuta all’angolo dalla politica tradizionale, dove continuano a contare le tessere più che le idee. I consensi – quelli che si avevano fino a qualche mese fa – più che la visione di una città. “Latina bene comune” ha ribaltato questi concetti, ha vinto una sfida che sembrava impossibile anche a chi pensava che il sogno potesse realizzarsi, figuriamoci agli osservatori esterni. Invece il sogno è diventato realtà, un’alleanza realmente civica e basata sul rilancio culturale ora guida una città complessa, con un territorio vasto quanto quello di Napoli, il centro storico perla del razionalismo, con le architetture di Oriolo Frezzotti, e i “palazzoni” immaginati negli anni ’80 al di là della Pontina che da Roma conduce fino al mare. Un Lido, quello di Latina, avulso dal resto del tessuto urbano, distante, e i Borghi che continuano a essere una sorta di realtà autonome, con in molti casi usi e tradizioni – spesso anche i dialetti -che provengono dai padri e dai nonni, arrivati per la bonifica. Un capoluogo alle prese con una criminalità autoctona, quella del clan nomade stanziale dei Ciarelli-Di Silvio smascherato da indagini che lambiscono la politica che ha amministrato fino a qualche tempo fa, che si lega spesso agli affari di camorra e ‘ndrangheta per i quali il Tribunale ha riconosciuto specifiche associazioni a delinquere.
In questo quadro, rappresentato inevitabilmente con un “flash”, ha vinto un’alleanza civica. Un’associazione per partire – Latina bene comune – e tre liste: la stessa Latina bene comune, Lbc Giovani e Lbc Latina rinasce. Il giorno nel quale si dovevano raccogliere le firme per presentare le candidature la sede di Corso della Repubblica, in pieno centro, è stata presa d’assalto. Un primo segnale che era possibile raggiungere il sogno, “Cambiare libro” – come hanno ripetuto in una fortunata campagna elettorale.

IL SINDACO
“Abbiamo scelto di andare senza partiti perché sentivamo questa esigenza, nostra e del territorio – spiega Damiano Coletta – si era completamente interrotto il rapporto di fiducia tra cittadino, i partiti per quello che hanno saputo rappresentare qui, la politica e l’amministrazione”.
Come definirebbe questa scelta?
“Di libertà, sin dai primi momenti di questa esperienza e fino all’ultimo abbiamo avvertito la necessità di essere lontani da un modo di fare politica che è stato trasformato, dai partiti, in gestione di altre vicende attraverso la politica”.
I cittadini hanno capito il vostro messaggio e vi hanno premiato, ma al di là della richiesta di cambiamento come siete riusciti a convincerli, secondo lei?
“Tutti i nostri avversari ostentavano una verginità politica che non era tale, anche chi non aveva governato come il Pd, di questo i cittadini si sono resi conto. Lo abbiamo notato nell’accoglienza che ricevevamo, nelle richieste relative al nostro progetto, alle nostre idee, alla nostra storia”.
Partendo dalla cultura, quasi un paradosso in una città dove si è fantasticato di porto, metro leggera e dove l’urbanistica ha spaccato due volte il centro-destra. Ve lo aspettavate?
“Ci credevamo. Quando siamo partiti con Lievito abbiamo dato una risposta alla mancanza di un assessorato alla cultura, abbiamo provato a dare alla città qualcosa che non aveva. Per noi è stata un’occasione di incontro, un modo per rapportarsi e aggregare che è diventato strada facendo un messaggio politico”.
Arrivato forte e chiaro, come quando avete cominciato a denunciare il cosiddetto “Sistema Latina”. Cosa avete trovato?
“Noi lo abbiamo detto in tempi non sospetti, l’operazione Olimpia lo ha confermato, una volta all’intero ti rendi conto di un sistema sfilacciato, i tanti interessi privati che riguardano concessioni, contratti, l’attenzione al particolare e non alla comunità”
E come vi state muovendo?
“Il lavoro più importante è il rapporto con la macchina amministrativa, far capire che va recuperata la dignità del loro compito”
Dopo gli arresti per l’operazione Olimpia una prima risposta l’avete avuta, un’assemblea affollata come mai si era vista prima in Comune. Un bel segnale, no?
“La vicenda ha dato una scossa, è evidente, a chi lavora in Comune ma anche alla città. All’assemblea non abbiamo usato slogan, non siamo andati a pontificare, ma a dire rimbocchiamoci le maniche insieme e ricostruiamo. Ho avvertito da parte dei dipendenti il bisogno di esserci, in quel momento, un’attenzione alla cosa pubblica che prima era indifferenza pericolosa”
Sindaco, non vi aspettavate certo di vincere quando avete iniziato questa avventura. Però vi siete trovati al posto giusto, al momento giusto. Centro-destra spaccato, Grillini che non presentano liste, Pd che alle primarie si è massacrato uscendo a pezzi. Questo lo avete sicuramente analizzato, che dice?
“Sì, onestamente abbiamo avuto una serie di fattori a nostro favore. Prima ancora della campagna elettorale dicevamo se chi ha governato si divide, se i grillini non ci sono, se, se…. Ma sapevamo benissimo che con le ipotesi non vai da nessuna parte. Abbiamo messo in campo un metodo e lavorato bene, mettendoci la faccia di chi non aveva mai avuto a che fare con la politica, riscoprendo la spontaneità, il contatto che la politica aveva perso e che continuerà a esserci”.
In che modo?
“Il primo anno di mandato non lo trascorrerò nel palazzo, ma per strada. Lo sto, lo stiamo facendo con gli assessori e i consiglieri comunali. Abbiamo un territorio vasto, i Borghi che sono una specie di mini città e per i quali immaginiamo una reale integrazione, anche qui una rivoluzione culturale”.
Quando nel ’93 vinse Ajmone Finestra si parlò di “laboratorio del centro-destra”, oggi nascono in provincia realtà locali “Bene comune”, puntate a diventare un modello locale e, perché no, nazionale?
“Piano, piano… Noi dobbiamo pensare al Comune che siamo stati chiamati a governare, con la massima umiltà e mettendoci le nostre capacità. È vero, in provincia abbiamo allacciato diversi rapporti, a livello nazionale qualcuno ha provato a tirarmi per la giacca ma è prematuro. Va fatto un passo alla volta, l’impegno adesso è quello di dare a questa città una buona amministrazione. Abbiamo promesso che cambieremo libro, per farlo servono testa e applicazione totale”.
Dall’ospedale al Comune, com’è cambiata la vita di Damiano Coletta?
“Era già impegnativa, oggi è più stressante, senza dubbio. Ero abituato a gestire le tensioni, ma in ospedale ero padrone del mio destino, in sala operatoria dipendeva da me, qui il discorso è diverso, ci sono innumerevoli fattori e le cose non vanno sempre come vorresti. Ho parlato con sindaci più esperti, mi hanno detto che serve almeno un anno per capire tutti i meccanismi, cercherò di accorciare i tempi. Comunque è totalizzante, con riflessi sulla vita sociale e familiare, ma era inevitabile. Però mi sono dato come regola quella di mantenere degli spazi, lo facevo da medico, prima ancora da calciatore, continuerò ad averli”.
Cultura e legalità sono state e restano la vostra bandiera, come pensate di affermarla?
“Facendo quello che abbiamo detto ai cittadini. Di legalità parlavamo in campagna elettorale, dicevamo che era un’idea da affermare ma venivo criticato perché denunciavo le infiltrazioni criminali. Mi fecero notare che un sindaco non dovrebbe dire certe cose del proprio territorio. I fatti ci hanno dato ragione. Un’amministrazione deve aprire gli occhi e non tenerli chiusi, continueremo ad affermare i nostri principi lavorando”.

IL MOVIMENTO
C’era un’assemblea al giorno durante la campagna elettorale, dopo la vittoria qualcuno si è chiesto “E adesso?”. Il movimento che ha portato all’elezione di Damiano Coletta non si ferma, la sede di Corso della Repubblica continua a essere luogo di confronto e di attività dei gruppi di lavoro. Perché adesso le idee tracciate nel programma devono diventare realtà. Altrimenti il libro non cambierà mai.

 

LINK UTILI

Coletta sindaco
http://www.ilmessaggero.it/latina/latina_al_ballottaggio_la_citta_sceglie_tra_coletta_e_calandrini_segui_la_diretta-1806342.html
http://www.ilmessaggero.it/latina/latina_coletta_sindaco_la_storia_del_medico_ex_calciatore_che_ha_cambiato_la_citta-1807011.html

Operazione Olimpia arresti
http://www.ilmessaggero.it/latina/arresti_comune_latina_di_giorgi_di_rubbo-2079772.html

Operazione Olimpia scarcerati
http://www.ilmessaggero.it/latina/olimpia_tutti_scarcerati_dal_riesame-2109766.html

Operazione Olimpia assemblea con i dipendenti
http://www.ilmessaggero.it/latina/scandalo_in_comune_a_latina_il_sindaco_incontra_i_dipendenti_ora_si_riparte-2082211.html

Latina bene comune

Homepage

Lievito
http://www.lievito.org/

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L’INTERVENTO
Senza vie d’uscita

Da: Gianni Belletti

di Gianni Belletti, responsabile Comunità Emmaus S.Nicolò – Ferrara

Partiamo dalla conclusione: la libera circolazione delle persone non conviene a chi può sfruttare la mano d’opera a basso costo che si può facilmente reperire dallo Sri Lanka al Bangladesh, dal Kenya alla Cina.

Non conviene neanche a chi compra i prodotti finali ottenuti con quella mano d’opera.
Se il costo di un operaio tessile negli USA è di circa 20 dollari l’ora, nei paesi suddetti siamo attorno ai 50 centesimi l’ora.
Chi sfrutta questa differenza, sia l’imprenditore o il consumatore finale, non ha interesse naturalmente che il lavoratore cingalese abbia la possibilità di spostarsi negli USA per aspirare ad un salario più alto. A meno che quello stesso lavoratore ci possa arrivare illegalmente negli USA e possa quindi prestarsi al lavoro nero, forzando al ribasso il salario legale.

La libera circolazione delle persone nel mondo, quindi, è ‘fuori discussione’ perché darebbe fastidio in questo senso, a chi coltiva un certo titpo di interessi.
La versione che i media e la gran parte dei politici ci propinano però è differente: lo scontro di civiltà e la guerra di religione sottendono al bombardamento quotidiano a cui siamo sottoposti.

Mi permetto di proporre una angolo di lettura diverso, con la speranza di far trapelare uno spiraglio di luce non colto.
Vorrei fare due premesse per essere certi di parlare la stessa lingua:
1 – Viviamo in un apartheid globalizzato: nel mondo, circa un quinto della popolazione, fra cui noi italiani, può spostarsi praticamente liberamente e andare dove vuole, quando vuole. Gli altri quattro quinti (80%) non lo possono fare.
2 – Il migrante non è né un potenziale delinquente, né un potenziale deficiente. Se la pensiamo come Orban, il premier ungherese, che un anno fa dichiarò che tutti i migranti sono terroristi, allora non possiamo dialogare.

Il punto di partenza dovrebbe sempre essere la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, scritta nel 1948, da donne e uomini che uscivano da due guerre spaventose: ebbene hanno scritto un testo bellissimo, un vademecum per l’umanità, cercando di raccogliere tutte le precauzioni da mettere in pratica se si vuole tutelare la collettività umana e la casa che la ospita.
In particolare gli articoli 13 e 14 ci ricordano che la libera circolazione delle persone nel mondo deve essere una priorità. Addirittura l’articolo 15 suggerisce il diritto di cittadinanza… fantascienza oggi per noi, ma realtà, per esempio in Argentina.

Bene, alla luce di questi presupposti stiamo assistendo a due follie.

La prima: l’unica possibilità che ha uno straniero (appartenente ai quattro quinti di cui sopra) di entrare legalmente nell’Unione Europea e in Italia, oggi, è di fare domanda di asilo politico, anche se proviene da un paese in cui non c’è dittatura, in cui non rischia la vita, in cui non ci sono carestie o pestilenze particolari.
Questa condizione ha prodotto 470.000 ingressi illegali nel nostro territorio in tre anni, 170.000 domande di asilo politico (ma i dati andrebbero aggiornati quasi quotidianamente).
Vi lascio immaginare cosa vuole dire organizzare un’audizione per un richiedente asilo: la Convenzione di Ginevra giustamente stabilisce dei passi da compiere per rispondere adeguatamente a una simile richiesta. Così, ad oggi, siamo a tempi di attesa che superano i due anni , considerando sia la prima audizione che l’eventuale ricorso.
Tra parentesi, come alternative al diniego, il richiedente asilo ha due possibilità nell’ambito dell’UE: ottenere lo status di rifugiato politico (perché viene provato che è direttamente coinvolto in dinamiche che mettono a repentaglio la sua vita), oppure ottenere la “protezione sussidiaria” (in quanto coinvolto indirettamente nel rischio, per essere, per esempio, un familiare, un amico, un collega della persona veramente a rischio).
L’Italia per fortuna ricorre ad una terza via, la “protezione umanitaria” per tutti quei casi al limite, ai quali non sapremmo dare, come società civile, una collocazione diversa.

La seconda follia è che oggi facciamo gestire questa permanenza ai privati. Siamo talmente manipolati dal punto di vista informativo che siamo convinti che lo Stato non sia assolutamente in grado di gestire direttamente tutte quelle situazioni che riguardano il benessere dei propri cittadini.
Non voglio dire che lo Stato opera sempre al meglio, ma voglio affermare che in certi ambiti il privato è bene che non entri e non ci possa lucrare sopra, quindi a mio avviso non ci dovrebbero essere alternative alla gestione pubblica. Oggi li chiamano “beni comuni”, più o meno impropriamente. I migranti sono un “bene comune”.
Ora se la gestione dei migranti la affidiamo alla Caritas, a Viale K, ad altre associazioni o cooperative sane, siamo sicuri che non c’è nessun profitto. Purtroppo non lo possiamo sempre supporre e tanta “cronaca nera” degli ultimi tempi lo ha dimostrato.
Per ogni richiedente asilo lo Stato garantisce 35 euro al giorno, di cui 3 vanno direttamente alla persona, e gli altri servono per organizzare la sua permanenza quotidiana.

Sociologi importanti in Italia e nel mondo tentano faticosamente di veicolare alternative a questo modo di gestire la spinta migratoria verso quei paesi dell’un quinto della popolazione mondiale a cui accennavamo sopra.
Potenziamo le nostre delegazioni nel mondo, emettiamo visti di ingresso temporanei, condizionati a caparre, collegati a persone già presenti nel nostro territorio, permettiamo viaggi sicuri, legali, agli stessi nostri prezzi; diamo altre opportunità di entrare legalmente nel nostro territorio ed eventualmente, di lavorare nel rispetto della legalità.

Non ci sono alternative né vie d’uscita: dobbiamo mettere in condizione tutte le persone del mondo di muoversi liberamente. Dobbiamo dare l’opportunità a chiunque di venire nel nostro territorio, naturalmente con delle condizioni e con modalità che non diano spazio alla illegalità, al traffico ed allo sfruttamento di chi aspira legittimamente ad una vita migliore.

Non dimentichiamo che, negli ultimi 3 anni, sono più di 100 mila i nostri ragazzi con meno di 25 anni che hanno espatriato per cercare un lavoro e una opportunità che stiamo negando loro in Italia. Come genitori ci dispiace che vadano via, ma allo stesso tempo siamo contenti che possano trovare, da qualche parte, uno spazio dove affermarsi.

Ebbene, possiamo ancora pensare due pesi e due misure?

Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova

di Maria Paola Forlani

La mostra – allestita fino al 12 marzo 2017 alle Scuderie del Quirinale – racconta tutte le fasi di un importante pezzo di storia del nostro paese attraverso autentici capolavori provenienti dalle migliori collezioni italiane: da Raffaello a Tiziano, da Carracci a Guido Reni, da Tintoretto a Canova. Ventotto agosto 1815: lo scultore Antonio Canova arriva a Parigi per restituire all’Italia i beni artistici sottratti da Napoleone in seguito al trattato di Tolentino del 1797. Dopo mesi di trattative, tra la fine del 1815 e il 1816, alcune delle opere rientrano in patria, dopo avventurosi viaggi via terra o via mare. Un ritorno il più delle volte accolto dalla popolazione in festa. Da questo momento l’Italia avrà quindi una coscienza sempre più forte del valore del suo patrimonio, ponendosi il problema della sua conservazione e della sua valorizzazione in modo sempre consapevole.

Sono passati 200 anni da quello straordinario ritorno a casa. Oggi l’avventura che vede in Europa un grande movimento di quadri e sculture, diretti prima a Parigi e poi in quegli stessi luoghi da cui erano stati trafugati, è raccontata, per quel che riguarda l’Italia, in un affascinante mostra intitolata “Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova” a cura di Valter Curzi, Carolina Brook e Claudio Parisi Presicce. Il primo piano del palazzo è occupato da alcune delle opere scelte dalle commissioni mandate da Napoleone nello Stato Pontificio, per decidere quali capolavori avrebbero potuto far parte del suo museo ideale, il nascente Louvre. Tutte rientrate dopo l’intervento di Canova.

L’imperatore aveva un gusto ben preciso e non portava via niente che non fosse di qualità eccellente. Sceglieva con grande sapienza il suo bottino di guerra, o meglio di pace – perché era all’interno degli accordi che definivano la fine delle ostilità, che con grande furbizia, si “legalizzava” il furto. Quindi molti dei prestiti ottenuti in questa mostra sono di straordinaria bellezza. Lo si vede dall’incipit, che vede La strage degli innocenti di Guido Reni, artista molto amato (e dunque molto sottratto). Il dilemma del Reni consiste nel <<desiderio in lui acutissimo, di una bellezza antica, ma che racchiuda un’anima cristiana>> (Longhi). Egli torna all’ideale di bellezza assoluta del rinascimento, che, a sua volta, ha la sua più lontana origine non nel classicismo greco ma in quello romano, e che permane anche nel Seicento, trovando la sua formulazione nelle parole del teorico Giovanni Pietro Bellori, il quale, nella seconda metà del secolo, scriverà che, essendo gli oggetti creati dalla natura sempre imperfetti, << li nobili pittori…si formano … nella mente un esempio di bellezza superiore, ed in esso riguardando emendano la Natura >> (1672).

Accanto a Reni appare un gesso del Lacoonte. L’opera, che Plinio vide nel palazzo dell’imperatore Tito, venne alla luce, nella primavera del 1506, nelle rovine delle cosiddette Terme di Tito, sull’Esquilino a Roma. Secondo il mito, Lacoonte, sacerdote di Apollo, fu uno dei pochi che, diffidando del cavallo di legno lasciato dai greci sotto le mura di Troia, cercò di dissuadere i troiani dal portarlo dentro la città. Due serpenti, venuti dal mare, lo aggrediscono, mentre compiva sacrifici in onore di Poséidon, e lo stritolarono insieme ai due figli. Studi recenti sembrano dimostrare che i tre autori, Aghesàndro, Polydòro, Athenodoro, sarebbero eccellenti copisti dell’età di Tiberio e che l’originale sarebbe stato realizzato in bronzo. Riproposto in mostra in un calco del XIX secolo proveniente dai Musei Vaticani, aveva significato l’irrompere di un’antichità da cui non era escluso il pathos, la drammatizzazione dell’avvenimento. Ed ecco che, secoli dopo, questo contorcersi di braccia e di muscoli, arriva fino alla figura sul fondo del dipinto di Reni, quell’uomo che tira i capelli di una madre in fuga per difendere il suo bambino. La strage di Reni giunge a Parigi da Bologna nel 1896, il Lacoonte fu trasportato su carro con 12 bufali al traino e arrivò in Francia con un vero e proprio corteo trionfale.

Il mondo classico consentiva a Napoleone di considerarsi parte di quella storia, di autoincoronarsi erede dell’antica Roma. A Parigi arriva quasi al completo ciò che aveva realizzato Raffaello. Sono i francesi a far nascere il mito dell’artista. Basti pensare a Ingres che lo considerava il più grande di tutti. Qui c’è un capolavoro come il Ritratto di Leone X con il cardinale Giulio de’ Rossi accanto ad una bella copia della Deposizione della Galleria Borghese, eseguita dal Cavalier d’Arpino. In questo caso non era stato trafugato l’originale perché il principe Borghese era cognato di Napoleone, ma anche perché per 13 milioni l’imperatore si era accaparrato – e per sempre – la sua meravigliosa collezione di marmi antichi. Nel frattempo, perché fosse dichiarata la sua origine culturale, si era portato a Parigi anche la Venere Capitolina e il Giove di Otricoli, altri due pezzi importanti dell’esposizione delle Scuderie.

Accanto alla pittura “ideale” bolognese di Reni, Carracci, Guercino, Domenichino, Albani presentati in mostra con pale d’altare di grande impatto e intensità, nel museo universale di Napoleone, quello in cui tutta l’Europa avrebbe dovuto identificarsi, non poteva mancare il colore della scuola veneziana: ecco l’agitazione di Tintoretto, la luce di Tiziano e la bellezza cromatica di Veronese. Al piano di sopra delle Scuderie c’è la seconda puntata di questa storia, ovvero l’Italia che si accorge che il suo patrimonio ha valore civico. Con le opere già conservate nei depositi, dopo la soppressione degli ordini religiosi e con quelle rientrate si pensano ai musei come luoghi identitari.

Tra i capolavori di queste sale ecco la Madonna con il Bambino di Cima da Conegliano, la Lastra sepolcrale di Guidarello Guidarelli realizzata da Tullio Lombardi nel 1525: un prestito importante, non era mai uscita dal Museo della città di Ravenna. Al centro della sala del secondo piano troneggia la Venere Italica di Canova che nell’intento dello scultore doveva onorare il genio dell’Italia. Vicino alla splendida scultura, come chiusura della mostra, troviamo un’opera particolare e suggestiva, il dipinto di Hayez dove l’Italia non ha le sembianze di una divinità, ma quelle di una fanciulla del popolo. Bella e con lo sguardo fiero, ma oltraggiata. Un’allegoria della nazione dolente dopo i fatti del 1848 e che invita ad una profonda riflessione ancora oggi.

Lacoonte
Deposizione
Venere
Ritratto di Leone X
Dipinto di Hayez
Venere
Testa di Giove
Lastra sepolcrale di Guidarello Guidarelli
Lacoonte
Lastra sepolcrale di Guidarello Guidarelli

IL REPORTAGE
Sorrisi, luci e volti di una Thailandia autentica

di Giuliano Gallini, Chiara Levorato, Maria Bordini, Tito Cuoghi

Sorriso 1

L’ultimo Wat che visitiamo a Lampang, una benestante città del nord, è un bizzarro complesso di edifici religiosi con vertiginosi pinnacoli bianchi e leziose colonne dorate. Un corteo rumoroso riempie i suoi cortili: segue un uomo giovane, dall’espressione estasiata e che cammina a passo di marcia. E’ protetto da un rigido ombrello (d’oro come le colonne del tempio) alto sul suo capo rasato, retto da un ragazzo che ride a crepapelle.

Mentre ci chiediamo il significato dell’allegra processione veniamo avvicinati da una signora che si qualifica come una docente universitaria. Ci chiede se può intervistarci: ha visto le biciclette che abbiamo noleggiato in albergo, è incaricata dal governo di realizzare una inchiesta sulla percezione della sicurezza di chi si muove in bicicletta in Thailandia ed è curiosa di conoscere anche l’opinione dei turisti.

Ci regala un oggetto di artigianato di Lampang (una sorta di comò in miniatura) per ringraziarci del tempo che perderemo con lei e ci impegniamo a rispondere a un lungo questionario, anche se siamo continuamente distratti dai girotondi festosi del corteo, che vibra tra il Virham (la sala che contiene la statua maggiore del Buddha) i mondopo (templi minori) e i chedi (stupe con le reliquie del Buddha o ceneri dei monaci)

L’uomo alla testa della processione indossa una tunica bianca, ricamata, e cammina sempre più velocemente; dietro di lui il corteo è sempre più numeroso e la sua allegria è contagiosa. Vorremmo abbandonare la docente per unirci ai seguaci dell’uomo, ci piacerebbe reggere l’ombrello d’oro e condividere tanta popolare felicità. Ma la docente è inflessibile e dobbiamo condurre in porto l’intervista.

L’ultima domanda è sulle nostre motivazioni: perché siamo venuti in Thailandia? Per il cibo? Per le meraviglie archeologiche? Per il mare?
O per la famosa cortesia dei Thailandesi? Per il loro buon umore?

Per il loro sorriso?

Cibo 1

Alla pervasività di monaci e templi si oppone con più prosaica ma non meno massiva presenza il cibo.

Chiunque viaggi sa che nella grande maggioranza dei paesi del mondo la penuria di cibo non esiste più. I desolati mercati che quarant’anni fa frequentavamo nei paesi dell’est Europa, o del nord africa o in India o Cina sono appunto un ricordo lontano, per i più anziani, o una cosa da non credere per i più giovani.

L’abbondanza di cibo è particolarmente evidente in Thailandia perché ogni giorno, in ogni strada e sulle barche dei floating market si cucina e si vende all’aperto.
Con un caleidoscopio di prodotti innumerabili, di ricette profumate, di abilità provette.

Accanto agli spiedini più tradizionali, simili a tutti i souvlaky o raznici della nostra vita, abbiamo visto schidioni che nessun masterchef o germidisoia avrebbe il coraggio di tentare. Ma accanto agli spiedini: pesci, carni, zuppe, ravioli, noodles, riso bollito, riso crispy – e riso sticky, lucido con mango, una dolcezza dorata come i Buddha dei templi.

Olio

Olio nel cibo, poco. Tanto sulla pelle. Il massaggio migliore lo proviamo a Sukkotay dove un parco archeologico meraviglioso non ci stanca gli occhi nemmeno dopo quattro giorni ma muscoli e ossa sì. E per questo ricorriamo al massaggio – pronuncia: masaaaasc.

Un materasso a terra, una ragazza dalle mani di ferro, tenaglie ammorbidite dal profumato unguento che il nostro corpo assorbe in un’ora di carezze robuste.

Il ritmo è dettato da insegnamenti – crediamo, speriamo – antichi e sapienti. I nostri corpi comunque escono dai massaggi rinfrancati e pronti a nuovi Wat, Chedi, Mondop, Buddha giganti, stagni verdi di trifogli o rossi di bacche, fiori di loto, frangipani, alberi dell’illuminato, acacie che grattano il cielo, palme, prati intensi che gli inglesi se li sognano.

Angelo del nostro soggiorno a Sukkotai è l’eterea Moon, receptionniste di classe, un filo di ragazza svanente davanti alla rotonda massaggiatrice Laa.

Sorriso 2

Nel Wat assolato e attraversato da un festoso corteo al seguito di un uomo vestito di bianco, l’ultima domanda di una inchiesta governativa cui abbiamo accettato di collaborare – perché siete venuti in Thailandia? Per il sorriso dei suoi abitanti? Ci riporta alla memoria tutti i sorrisi di tutti i Tahilandesi che abbiamo finora incontrato.

E’ un popolo che sorride. Più di noi europei, più di altri popoli asiatici. Sorridono sempre, se incontri il loro sguardo, se chiedi una informazione – sorridono anche se non lasci mance, sorridono snche se non compri al loro banchetto. Sorridono e ti aiutano se ti vedono in difficoltà.

E sorridono e ridono tutti dietro l’uomo vestito di bianco e protetto da un rigido e alto ombrello d’oro, e tutti i sorrisi ci invitano a unirci alla felice processione che finalmente ora ci svela, al diapasono dell’allegria, il suo significato.

E’ la cerimonia di ordinazione di un monaco, un rito di passaggio celebrato con passi di danza, braccia al cielo e grida di gioia.

Dall’alto dei cinque gradini del Virham il monaco ora premia chi lo ha seguito lanciando coriandoli di plastica, stelle colorate, eliche, pianeti luminosi, lune di ogni forma a creare sopra di noi una galassia di sorrisi celesti.

Cibo 2

Abbiamo visto spiedini: di uova, di semi di zucca, di granchi e di cosce di rana, di piselli e fagiolini, di bacche, di dolci bignè.

Infilzare una cosa dentro l’altra è un rito dettato da un pensiero che ama unire ogni essere del creato, da un pensiero che ama infilzarne altri e gustarli nel nirvana dell’indifferenza.

Questo cibo di strada è un cibo in cammino che si gusta prima con gli occhi, così onesto nei suoi processi produttivi da essere scostumato – e per chi ama l’igiene in gran parte inavvicinabile.
Che cosa ci sia nelle cucine dei ristoranti, anche i più pretenziosi, non è dato sapere. Come in molti ristoranti occidentali. Il cibo in cammino invece si offre sinceramente, attraverso mani spolverate di spezie e di infiniti batteri.

Trasporti 1

Il tuk tuk tradizionale è qui aumentato dai songthaew, ovvero “due file”, pick up con tendone e attrezzato di due panche dove possono sedersi anche dieci passeggeri (magri). Ma operano anche per due passeggeri, o per uno solo: e la loro concorrenza ai tuk tuk è quindi spietata.

Non mancano moderni e costosi taxi, tutti senza taxametro, suv toyota con il predellino; e scendendo a sud si può salire su tuk tuk con moto a spingere invece che ape a tirare, una variante che offre quattro comodi posti a sedere e zona per le valigie invece dei tre e mezzo dei tuk tuk tradizionali.

Le città, pianeggianti, invitano alla bicicletta; anche a piedi si passeggia gradevolmente. E’ più afosa la pianura padana. Tutto è dolce, come le crepes di cocco arrotolate e imbustate ancora calde, preparate sulla strada da sorridenti chef chini su piastre a gas incrostate di ogni sudiciume immaginabile.

Luci 1

Il re è morto a ottantasette anni dopo settanta di regno e ha voluto regalare, a sudditi e turisti, durante il lungo lutto sei mesi di musei e parchi archeologici gratuiti. Anche lo spettacolo del parco archeologico di Sukkotai illuminato di sera non si paga. Il grandioso palcoscenico viene allestito anche per i pochi turisti presenti in questa stagione. Luci artificiali colorate e centinaia di candele avvicinano Chedi, Prang e statue di Buddha ai nostri occhi sorpresi e ammirati. Ci incanta anche il kitsch.

A piedi e in bicicletta, in tuk tuk o sui bus non dobbiamo far nulla per evitare le orde di turisti che le nostre guide minacciano. Dove sono finiti i turisti? Ci sono: qualche sparuta coppia anziana con zainetti in spalla e rare coppie di giovani con valigie. E le gite organizzate? Sparite. Che cosa è successo?

Il silenzio e l’assenza illumina la nostra Thailandia come le luci notturne di Sukkotai. I sorrisi e i cibi si sporgono verso di noi con tenerezza.

Trasporti 2

Grandi strade, autostrade, superstrade. Corriere, corriere VIP, minivan, taxi. Treni di terza classe, treni storici. Treni coraggiosi che affrontano il passo della morte costruito dai prigionieri di guerra tra il 1942 e il 1945.

Ma il mezzo di trasporto più bello, per noi, è il “long tail”, la piccola barca di legno con un motore a poppa che è una scultura barocca, un intricato costrutto meccanico di bobine e candele, alberi motore e pistoni. A vista. Sul costrutto è innestata una lancia di quattro metri che termina con l’elica, e che serve anche da timone. Dura, pesante: e il marinaio la manovra infatti con l’aiuto delle gambe e dei piedi.

Ne prendiamo uno sotto il ponte del fiume Kwei, zufolando come nel film. Decidiamo di rornare così al nostro albergo. La breve traversata è una avventura della velocità e della destrezza, uno sport estremo a basso rischio (e basso costo), una cavalcata che ci dà energia e buon umore. Long Tail for ever!

Persi e trovati 1

Niente si perde, tutto rimane. Nel mondo, nella realtà, in vita. Questa è la convinzione della filosofica religione di questo pezzo di universo.

Le cose, gli affetti, i ricordi. Il passato. Niente finisce, tutto continua a esistere.

Ma quando perdiamo alcune delle nostre cose l’insegnamento del buddhismo non ci viene in aiuto. Ci disperiamo.

Perdiamo: un orologio d’oro di valore (sentimentale e di mercato) al controllo dell’aeroporto di Bangkok. Una valigia, scambiata a Chiang Mai con quella di una bambina (a giudicare dal contenuto). Perché non ci sorregge la serena accettazione che quelle cose non si sono distrutte ma continuano, pur senza di noi, la loro esistenza da qualche parte dell’universo?

Acqua 1

In barca andiamo non solo per una veloce cavalcata dal ponte sul Kwai al nostro albergo, ma anche sul fiume che circonda la vecchia Ayuttaya. Il marinaio ci fa scender tre volte per visitare i templi fluviali, meraviglie antiche e venerabili. Sullo sfondo dell’ultimo avremo il tramonto.

Paese di acque interne la Thailandia è una palafitta tropicale che nonostante gli interramenti e le grandi autostrade continua ad aprirsi a fiumi, canali, stagni laghi e paludi, di cui controlla bene la ricchezza e i capricci, la bellezza e la fragilità.

Si dice che le alluvioni siano diventate più frequenti e disastrose con il progresso dell’asfalto, ma c’è anche chi contesta il dato.

L’uomo cresce sulla terra e la addobba con i suoi manufatti come un albero di Natale. E’ la festa del progresso – e anche una sopportazione: ormai è Natale tutto l’anno.

Persi e trovati 2

La valigia e l’orologio perduti ci vengono avventurosamente restituiti dalla grande ruota del destino che in Thailandia pare girare anche all’indietro, producendo effetti controintuitivi.

Con la freccia del tempo direzionata solo in avanti come vogliono le leggi della termodinamica i nostri beni non sarebbero riapparsi; con le fantasmatiche interpretazioni di Bohr (e di Buddha) invece il tempo e le cose possono tornare indietro.

Recuperati i nostri oggetti gridiamo per la felicità, più forte ancora di quanto gridammo per la disperazione. Dovremmo essere più sobri: non avevamo detto che nulla si perde? Non erano i nostri oggetti in altre mani? Non esistevano anche là, insieme a una bambina polacca e a una addetta al controllo bagagli dell’aeroporto Suvarnabhumi? Perché per noi esiste solo ciò che possediamo?

Animali 1

Cani cinesi, gatti rossi, merli parlanti, gechi, zanzare, serpenti…ma ci innamoriamo degli elefanti. Del loro passo felpato, del loro perenne sorriso, delle loro orecchie che ci immaginiamo li facciano volare, quando gli uomini non li stanno a guardare.

Sogni realizzati della nostra infanzia.

Viene voglia di toccare le zampe di questi bestioni, proprio la pianta dei piedi, per saggiarne la consistenza, carezzarne la pazienza. Immaginiamo portino pantofole morbide di preziosa lana di montagna, doni della natura che conferiscono un incedere elegante e sereno.

Avessimo noi quelle pantofole per avanzare nella vita con passo sapiente e sorridente, sbruffando quando ci vuole ma lanciando lontano le amarezze, virtù che ci deriva dalla nostra lunga proboscide, naso d’ironie, eredità di una selezione naturale per una volta non frenetica come quella che ha generato le zanzare, instancabili evoluzioni del fastidio.

Acqua 2

A Erewan le famiglie salgono le sette cascate riposandosi tra una e l’altra su grandi panchine di bambù, tavole per pic-nic.

Anche qui palafitte di sorrisi si moltiplicano specchiandosi nelle acque fresche. Lo vediamo anche nei mercati galleggianti dove sulle barche si prepara il cibo. Barche, donne e cibo: una visione indivisibile. Barche, donne e cibo sono arabescati sulla vita trasparente dei fiumi.

Sorriso 3

I sorrisi spontanei, teneri, dolci e sereni che i Thailandesi non mancano mai di dispensare pensiamo traggano ispirazione e necessità dalla iconografia che ogni abitante di questo paese ha davanti agli occhi.

Buddha è in ogni luogo, e in ogni luogo, posizione, situazione Buddha sorride.

Una iconografia religiosa sorridente ha creato un popolo sorridente; impossibile pretendere che una iconografia religiosa tragica come la nostra possa fare altrettanto.

Infine, però, non sappiamo quanto il sorriso traduca la realtà. Quanta sofferenza sopportino i miserabili, gli sfruttati e gli oppressi di questo paese. Quanto il sorriso dell’accettazione comporti anche una accettazione delle ingiustizie.

Trasporti 3

Ci mancava il tuk tuk con moto laterale, da due passeggeri, uno dei quali seduto sul seggiolino della moto.

E: il tuk tuk innovativo, al comando di una app che organizza il pick – up dei turisti nei luoghi di maggior interesse, con precisione teutonica e puntualità svizzera; e anche: il tuk tuk number one di Bangkok, un folle che scivola tra il traffic-jam della città come burro sciolto sul pane da toast. Se ne esce vivi, ma con le ossa ridotte a una marmellata.

Maltempo

A Bancrud (o Ban Krut, le traslitterazioni non sono mai univoche) viviamo l’esperienza magica di camere a pochi metri dal mare, di ristorante sulla spiaggia, di quiete assoluta nel giardino tropicale in un piccolo villaggio senza nessun altro ospite oltre noi.

La sera, durante la cena (solo gatti rossi ci fanno compagnia) una luna rossa e piena sorge davanti a noi a coronare l’incanto. Decidiamo di non muoverci da Ban Krut fino alla fine del nostro viaggio.

Ma non possiamo disporre di tutto. La notte viene la tempesta e il giorno dopo vento, pioggia, cielo pesante di nuvole basse e mare pauroso. Rifacciamo le valigie orgogliosamente disfatte il giorno prima e partiamo per Bangkok, per la città.

Acqua 3

Il fiume Chao Phraya è l’anima di Bangkok. Abbiamo scelto un albergo sulla riva e ci muoviamo in città con il servizio pubblico di traghetti o con veloci long-tail privati.

Chao Phraya e numerosi klong (canali) aiutano questa ormai moderna metropoli a mantenersi nell’acqua, nei riti della trasparenza e del cambiamento naturale, della serenità per il ritorno continuo al flusso originario dei nostri primi nove mesi di vita. Dell’umano della specie umana.

Per quanto ancora?

Bisogna morire per essere vivi
messa in ricordo di Don Franco Patruno

da Maria Paola Forlani

Don Franco Patruno
Don Franco Patruno

Don Franco Patruno 1938-2007
Solo nel momento del congedo ci siamo accorti di quanto ci mancasse.
Perchè la fine è lo specchio di chi siamo veramente.

A dieci anni della scomparsa di don Franco Patruno (17 gennaio 2007), sarà celebrata una messa, martedì 17 alle ore 18, nella chiesa di Santa Maria Nuova – San Biagio ( via Aldighieri, 40, Ferrara), per ricordare il sacerdote, lo studioso, l’artista, il direttore di Casa Cini, ma soprattutto il fratello che accoglieva ed ascoltava tutti con tenerezza e solidarietà.
Il rito sarà celebrato dal parroco don Renzo Foglia, mentre l’omelia sarà introdotta dal diacono don Daniele Balboni.

LA CHIUSURA
Duck Juice, giovani leoni del jazz-funk italiano, chiudono Downtown Tower #4

Da: Jazz Club Ferrara

Lunedì 16 gennaio, a chiudere Downtown Tower #4, riuscita rassegna organizzata da Clandestino Birra Cibo e Vino in collaborazione con Jazz Club Ferrara, spetta al trascinante groove dei Duck Juice. Il sestetto, formato da giovani leoni del jazz-funk italiano come Gian Piero Benedetti al sassofono, Luca Chiari alla chitarra, Lorenzo Locorotondo alle tastiere, Andrea Grillini alla batteria e Guglielmo Campi alle percussioni, presenterà l’omonimo esordio discografico. Segue il concerto l’imprevedibile jam session.

Lunedì 16 gennaio (ore 21.15), a chiudere Downtown Tower #4, riuscita rassegna organizzata da Clandestino Birra Cibo e Vino in collaborazione con Jazz Club Ferrara, spetta al trascinante groove dei Duck Juice. Il sestetto, formato da giovani leoni del jazz-funk italiano come Gian Piero Benedetti al sassofono, Luca Chiari alla chitarra, Lorenzo Locorotondo alle tastiere, Andrea Grillini alla batteria e Guglielmo Campi alle percussioni, presenterà l’omonima, prima fatica discografica.

L’album d’esordio di una band è un vero e proprio punto di non ritorno. È dall’uscita di quel progetto che ci si rende conto se gli artisti hanno davvero le carte in regola per emergere sulla scena che conta. Quello dei Duck Juice è un frutto già maturo in cui nulla è lasciato al caso. I musicisti si muovono a perfetto agio tra svariati stili attingendo dal linguaggio latin con “Black Mamba”, abbracciando atmosfere intimiste con “All I See are…”, per concludere con “Smooth Feel”, vero e proprio tributo alla black music.
Audacia, tecnica e fantasia sono caratteristiche che derivano dall’ottima preparazione di ogni membro del gruppo che con sorprendente vitalità sa coinvolgere il pubblico ad ogni brano. Segue il concerto l’infuocata jam session.

INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Infoline: 0532 767101

DOVE
Clandestino, via Ragno 50 – Ferrara

COSTI E ORARI
Ingresso libero
Concerto 21.15
Jam session 22.45

Dopo il referendum: Europa e sovranità nazionale

E’ passato poco più di un mese dal referendum e dalle feroci polemiche che lo hanno accompagnato. La sconfitta è stata chiara, ma a fronte di questa non si vede (o non si vuol vedere) una corrispondente vittoria, mancando i vincitori di una rappresentanza politica qualificata capace di dare sostanza e concretezza agli esiti del voto. Non c’è stata un’analisi della vittoria del No da parte degli sconfitti, né si è ragionato sulle richieste latenti dei cittadini che forse chiedevano un segno chiaro, capace di rispondere alla necessità di nuove politiche su lavoro, sul welfare, sull’immigrazione, sulla scuola e la ricerca; che cercavano e cercano ancora giuste risposte in merito alla certezza dei diritti sanciti dalla Costituzione. L’etichetta di ‘populismo’ ha coperto rapidamente ogni doverosa discussione e ha finito col sussumere a sé i significati profondi di questo esito affatto scontato: non a caso è stato formato un nuovo governo fotocopia del precedente ben intenzionato – sembra – a perseguire sulla strada tracciata dall’esecutivo che è stato pesantemente sconfitto alle urne.

Fermi restando i numerosi e impegnativi obblighi istituzionali da rispettare, questa acclarata continuità solleva più di una perplessità sia in quanti sono abituati a pensar male sia in chi si attendeva di ritornare rapidamente alle urne. La risposta data dai cittadini sembra ormai archiviata e rubricata tra le celebrazioni inutili di una democrazia rappresentativa decisamente moribonda. Non a caso al posto di una seria discussione civile sulla Carta Costituzionale, nei media riemerge con forza il tema tecnico dei meccanismi di voto e della legge elettorale.
Ciò nonostante non vi è dubbio che uno dei problemi di fondo sotteso al referendum permanga in tutta la sua drammatica evidenza non già come dimensione della più becera politica politicante nazionale, ma come componente essenziale del futuro dell’Italia all’interno dell’Europa. Al centro di questo tema stanno i rapporti con il sistema finanziario che di fatto governa la Ue mediante i suoi bracci operativi, la Commissione Europea, la Bce e il Fmi.
E’ noto, infatti, che questa Europa richiede tassativamente (e il nuovo governo lo ha ribadito con decisione) una forte e ulteriore cessione di sovranità da parte degli stati nazionali. In tal senso fin dal 2010 la CE e il Consiglio europeo hanno promosso un piano di trasferimento di potere dai paesi membri con un esproprio inaudito della sovranità statale. Il culmine è stato toccato forse nel 2012 con l’istituzione del Fiscal Compact, che in Italia è stato assunto, a parere di molti, nel peggior modo possibile: il 18 aprile 2012 il parlamento della Repubblica Italiana, con voto a maggioranza assoluta (contrari Lega e M5S), modificò l’articolo 81 della Costituzione Italiana introducendo il principio del pareggio di bilancio che di fatto sanciva definitivamente la perdita da parte dell’Italia della sovranità economica-fiscale.
Come potesse l’Italia con il suo enorme debito pubblico, senza sovranità monetaria e con tale obbligo aggiuntivo riuscire a stare in piedi senza tagli feroci, privatizzazioni selvagge, crollo del consumo interno e nuove tasse è cosa che molti non comprendevano e tuttora non capiscono. Ma quella decisione di enorme rilevanza costituzionale fu comunque presa, velocemente, in modo piuttosto riservato, senza nessun dibattito pubblico e con scarsissimo contributo informativo da parte dei media.
Eppure quella scelta ha consegnato, di fatto, il controllo della finanza pubblica italiana in mano di entità sovranazionali, costringendo lo Stato, in caso di bisogno, a chiedere moneta a quell’ente privato che è la Banca Centrale Europea (La Bce è di proprietà delle Banche Centrali degli Stati che ne fanno parte, che a loro volta sono composte in maggioranza da istituti privati).

Resta però il fatto che in Italia esiste ancora una Costituzione e un organismo, la Corte Costituzionale, che è il luogo più alto del controllo reciproco dei poteri e garanzia che la nostra Carta fondamentale non venga tradita: esso vigila proprio onde garantire che le leggi promulgate siano coerenti e conformi alla Costituzione. Il 19 ottobre scorso con la sentenza 275/2016 – passata sotto assoluto silenzio dai media – la consulta ha acclarato che l’equilibrio di bilancio introdotto nell’articolo 81 della Costituzione non può condizionare la doverosa erogazione dei diritti incomprimibili, che sono peraltro posti a fondamento della stessa Carta costituzionale: essi in sostanza devono essere garantiti e non rimanere mere dichiarazioni di principio.
Il pronunciamento ricorda con forza che nell’equilibrio dei diritti su cui si regge il nostro ordinamento, in caso di conflitto, prevalgono quelli che la Carta stessa indica come fondamentali. Questo non implica assolutamente che il pareggio in bilancio, inserito nell’art.81 non sia valido, ma piuttosto che deve essere rispettato senza comprimere altri valori fondamentali. Il ‘come’ farlo resta ancora compito importantissimo della politica, ammesso ma non concesso che essa non sia ormai diventata completamente succube dei poteri finanziari e delle lobby di potere.

Con l’ingenuità del semplice cittadino e senza entrare in considerazioni tecniche troppo complesse, potremo azzardare e dire che la Pubblica Amministrazione non può semplicemente e automaticamente tagliare i fondi che servono a garantire diritti fondamentali quali la salute, l’istruzione, il lavoro, l’equa giustizia, solo per garantire l’equilibrio di bilancio e senza renderne conto in modo trasparente ai cittadini. Tuttavia la possibilità di violare, se necessario, i vincoli di bilancio derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea per garantire i diritti tutelati dalla Costituzione, rischierebbe di mettere lo Stato stesso nella situazione possibile di indisponibilità finanziaria nel caso i mercati negassero il credito o la Bce non intervenisse per sostenerlo.
Se questo è vero si capisce immediatamente la cifra del conflitto, non solo potenziale, che esiste tra la dimensione nazionale e quella europea, tema che appunto molti elettori intravvedevano dietro il fumo sollevato delle retoriche e dalle narrazioni che hanno animato lo scontro sul referendum.
Un conflitto che sarebbe assai meno aspro se l’Europa non avesse perso quei valori, quelle idee e quell’entusiasmo piuttosto diffuso che aveva accompagnato il suo nascere e suo lento affermarsi. Invece, da almeno dieci anni, essa sembra avere smarrito la rotta e sempre più la speranza e la visione: essa appare ormai ai più come una gigantesca burocrazia, dominata dalla finanza e guidata da un cieco credo neoliberista, caratterizzata da una neolingua che la stragrande maggioranza dei cittadini non capisce, popolata di politici più attenti ai loro interessi particolari che alla crescita comune. Un’Europa deludente e senza cuore, che a parere di molti italiani non è per nulla vicina a quello che avrebbe potuto e dovuto essere.
In tal senso si può perfino capire l’ostinata (e strana per l’Italia) difesa della Costituzione da parte di quanti sono spaventati e non si riconoscono più in questo progetto europeo dove la finanza è tutto e i ‘popoli’ non sembrano contare nulla (Grecia docet).

Ora, se si vuol rimanere in Europa, delle due l’una: o i nostri politici hanno la forza, l’amor di patria e il talento per difendere e promuovere i valori e i diritti fondamentali sanciti dalla nostra Carta Costituzionale, facendosi portatori di una diversa e più sana idee di Europa; oppure bisognerà cedere ulteriore sovranità e mettersi con fiducia (?) nelle mani di questa Europa (dei burocrati, dei mercati e del potere finanziario) convincendo i cittadini che è necessario modificare (magari poco alla volta) la Carta costituzionale diventata ormai obsoleta e inadeguata.
L’alternativa, sostengono alcuni e in numero crescente, è quella di uscire dall’euro pur restando in Europa, fuggire da una moneta diventata ormai una gabbia di ferro che, in assenza di profondi cambiamenti, rischia di portare alla distruzione definitiva dell’economia nazionale (e di quel che resta dello Stato sociale).
Uscire dall’Europa e dall’Euro, ipotesi estrema, appare oggi decisamente insostenibile.
Di tutto questo però nelle discussioni post referendum non si trova traccia. La tensione rimane tuttavia fortissima e ai (pochi) cittadini consapevoli converrà essere molto vigili, soprattutto nel richiamare con forza il ruolo della politica che non può sperare di prosperare su questa ambiguità né continuare a giustificare le proprie scelte dietro al paravento del “ce lo chiede l’Europa”.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Lottare senza paura… battere il cancro e i suoi fantasmi si può!

Vichinga e le altre…

Cara Riccarda
Ho letto la storia di T. la vichinga e come spesso accade ho ripensato alle storie che tante ‘guerriere’ mi hanno raccontato in questi anni, i loro volti non li ricordo nitidamente, sono tante, tante davvero, ma le loro parole sì, mi sono entrate nel cuore. E la forza con cui davanti a me ricordano, parlano, ricostruiscono la malattia tirando fuori quello che c’è stato di più doloroso, mentre a volte stanno ancora facendo le terapie, a volte le hanno appena finite e ironizzano su quello che è stato (i capelli… beh sono caduti così che adesso crescono più forti, e magari cambio anche colore eh).
Assieme cerchiamo di capire se la causa della malattia può essere genetica, se c’entrano i “geni dell’Angelina Jolie”, ormai li chiamiamo così i due geni che predispongono al tumore al seno (BRCA1 e 2) che suona meglio di questi acronimi inventati dagli americani.
Perché se l’analisi è positiva, allora i controlli devono essere di più, perché è importante giocare in attacco sempre, perchè anche l’Angelina lo ha fatto e ha fatto informazione, perché bisogna sapere, sempre.
E perché le vichinghe sono tante, tante di più di quello che immaginiamo.
Marcella Neri

Cara dottoressa,
e allora chiamiamoli “i geni dell’Angelina Jolie”. Se proviamo a dare un nome a una cosa incomprensibile, se anzichè usare la sigla, parliamo dei geni dell’Angelina, forse non cambierà nulla nella sostanza, ma l’approccio sarà più umano. Fa meno paura ciò che conosciamo e che possiamo nominare, ci sembra di capirlo, almeno un po’.
Sentire da un medico che le parole di quelle donne, le nostre vichinghe, rimangono e colpiscono anche chi per mestiere ci vive in mezzo, conferma che le pazienti sono prima di tutto persone, storie di battaglie e vissuti. Come la nostra T. che mi ha scritto “la vita ti mette di fronte a prove che non puoi dribblare, non ti resta che giocartela tutta e al meglio”.
Riccarda

Combattere senza paura

Cara Riccarda,
il cancro è un’esperienza che, nel migliore dei casi, lascia perenni cicatrici, visibili invisibili. Sono un medico e sto dall’altra parte, dalla parte di chi deve comunicare la malattia e accompagnare le persone nel loro percorso di “lotta”. Combattere senza paura vorrei che non fosse solo uno slogan da potere dire a chi si trova a dovere affrontare la malattia, ma fosse un modo convinto di mettersi in cammino nelle tappe da vivere su una strada che non è mai breve né semplice.
La chirurgia senologica è spesso solo una tappa del processo di guarigione che prevede la partecipazione anche della oncologia con farmaci chemioterapici, endocrini ed immunologici e della radioterapia.
L’approccio multidisciplinare ha portato negli anni costanti miglioramenti nella qualità della vita delle operate e percentuali di guarigione più alte. Al momento in Italia vi sono più di 600 mila donne sopravvissute al cancro mammario.
I tempi di guarigione del cancro al seno non sono brevi, solitamente dopo l’intervento chirurgico la paziente viene presa in carico, per un periodo minimo di 5 anni, da un oncologo che la seguirà nel follow-up: una serie di controlli periodici programmati utili a intercettare eventuali recidive o ricaduta in malattia.
Chi diventerà un’operata al seno? Si è parlato di una vichinga, di una combattente, una che non si arrenderà mai al male. Tale domanda trova diverse e svariate risposte, così come tante e diverse sono le culture dell’umanità.
Nelle popolazioni del nord Europa, le donne tendono a esibire senza problemi le cicatrici o l’amputazione perché la femminilità, dicono, è un valore che le donne si portano dentro, nel proprio intimo.
Nelle popolazioni mediterranee, prevale invece il ricorso ad interventi ricostruttivi che portano le operate a scegliere una mastoplastica additiva al fine di ricostruire e ripristinare la propria femminilità.
Di vichinghe ne incontro diverse nella mia quotidianità di medico, e mi auguro che tante trovino la stessa forza di T.
Francesco Pellegrini

Caro dottore,
ho volutamente scelto di lasciare il titolo che lei ha dato al suo intervento: combattere senza paura. È il senso che ho colto nella determinazione di T ed è la stessa impronta che lei, mi pare di capire, tende a comunicare quando si approccia a una paziente oncologica.
La storia di T è per tutte quelle donne che sono in prima linea e lottano, solo loro possono sapere quanto.
Riccarda

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

EVENTO
Vittorio Sgarbi a Ferrara per presentare il suo ultimo libro e parlare di arte e capre

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“Capre!” Quante volte lo abbiamo sentito apostrofare così i suoi interlocutori? Ora sono anche sulla copertina del nuovo libro di Vittorio Sgarbi: la riproduzione di un dipinto di Rosa da Tivoli, che rappresenta appunto delle capre al pascolo.
E nemmeno alla conferenza che si è tenuta ieri nella sala dell’Oratorio San Crispino il celebre opinionista ha perso l’occasione di proferire una delle sue parole più ‘amate’ e ricorrenti, che ormai lo contraddistinguono. Questa volta però non le ha pronunciate in riferimento a qualcuno, anzi, Sgarbi si è mostrato molto più docile rispetto alla classica visione che i mass media ci offrono, ricoprendo in pieno le vesti di critico d’arte. Ha così presentato il suo ultimo libro “Dall’ombra alla luce. Da Caravaggio a Tiepolo” dedicandosi, senza troppe divagazioni alla sua passione: l’arte.

Baciccio, Guercino, Mastelletta: sono solo alcuni dei pittori che hanno reso l’Italia tanto ricca, di cui però non conosciamo l’identità. “Siamo invece certi delle opere, ma soprattutto dell’esistenza di Cimabue, Giotto, Brunelleschi, Leonardo, i classici “pittori toscani”, famosi per decisione del Vasari, che ha conferito loro il primato”. Siamo quindi, secondo il celebre critico, davanti ad una storia dell’arte conosciuta in maniera molto imperfetta e molto inefficiente rispetto a quello che dovremmo vantare. “Noi siamo il primo paese nel mondo ad avere tante opere d’arte. E non lo sappiamo nemmeno!”
Per questo ha pensato di rivelare i tesori dell’arte italiana e da qui prende il nome la serie di volumi di cui Sgarbi ha presentato il quarto tomo, aggiungendo che per terminare la sua opera, ne scriverà anche un quinto arrivando fino a De Chirico.

“Per realizzarlo, ho immaginato la storia dell’arte italiana tagliata a fette. E in questo libro in particolare, ho voluto parlare di una serie di artisti meravigliosi, ma totalmente sconosciuti. Pittori che, non solo non vengono mai citati, ma sono addirittura chiusi in chiese strane, remote e la gente non sa nemmeno che esistano”. Ecco perché nasce questo libro dal titolo profondamente metaforico, “Dall’ombra alla luce”, che rimanda a un duplice significato: il passare dalle ombre  di Caravaggio alla luce di Tiepolo, ma allo stesso tempo la volontà dell’autore di far riemergere, far “venire alla luce” tutte quelle opere che sono rimaste nell’ombra per troppo tempo.

Certo, il nostro opinionista non si è lasciato sfuggire qualche critica, soprattutto a proposito della situazione nella quale versano alcune architetture della zona. “Non possiamo avere le chiese chiuse, soprattutto per noi che ci troviamo nel ‘Nord produttivo’, le chiese di Ferrara devono essere aperte! Il ministro – ha detto Sgarbi riferendosi a una sua conversazione con l’ex ministro Bray, ma alludendo forse anche all’attuale titolare del Mibact, il ferrarese Franceschini – ha il dovere di aprirle tutte, una per una. Da questo punto di vista, sento Ferrara un po’ inerte, ma non per questo la odio, come erroneamente si crede, anzi la amo e sono felice di esser tornato nella mia città”.

Sgarbi ribadisce più volte l’amore e l’orgoglio che prova per la città natia, anche se i suoi rapporti con questa non sono stati tra i più felici. Il popolo ferrarese sembra non avvertire questo distacco, riempiendo la sala nella quale si è svolta la presentazione e restando ad ascoltare in religioso silenzio, fino all’ultimo fragoroso applauso. Anche il padre Giuseppe e la sorella Elisabetta non potevano mancare all’appuntamento, sostenendo Vittorio con una determinata ammirazione.

Insomma, chi si aspettava lo Sgarbi critico, agitato e polemico della televisione questa volta se n’è andato insoddisfatto, ma per tutti quelli interessati all’arte, il nostro opinionista ha dato una lezione coinvolgente e sentita, degna di un vero divulgatore del nostro immenso e in larga parte sconosciuto patrimonio.

Chi tutela il bene comune? Lunedì 16 voci a confronto in Ariostea

“Il bene comune: politiche pubbliche e interessi collettivi” è il titolo del primo incontro del terzo ciclo di conferenze “Chiavi di lettura – Opinioni a confronto sull’attualità”, organizzate da FerraraItalia con l’intento di “leggere il presente”. Ogni mese il quotidiano online, fedele al proprio impegno di sviluppare l’“informazione verticale”, proporrà un approfondimento su un tema di attualità, locale o nazionale. Lo farà mettendo a confronto voci e opinioni diverse, per alimentare dibattiti costruttivi che contribuiscano ad ampliare la conoscenza dei fatti, a favorire l’elaborazione di fondati punti di vista, nella convinzione che l’autonomia di giudizio sia imprescindibile condizione per l’esercizio dei diritti di cittadinanza e stimolo per una partecipazione attiva alla vita pubblica.

Quello sul “Bene comune”, in programma lunedì 16 gennaio alle 17 alla biblioteca comunale Ariostea, sarà un confronto a più voci, coordinato dal direttore di Ferraraitalia Sergio Gessi, con il contributo di cittadini che hanno svolto percorsi professionali e operato scelte di vite differenti fra loro.
Al prologo, seguiranno (sempre di lunedì alle 17) il 27 febbraio “Ferrara violenta? La criminalità fra realtà e suggestione”, il 27 marzo “Moriremo moderati? Il ritorno della Balena Bianca”, il 24 aprile “Ma la coop sei veramente tu? Cooperazione e impresa ai tempi della collera”, il 29 maggio “Uomini o caporali? Storie di dignità e vassallaggio”.