“E’ destino di ogni verità di essere oggetto di derisione quando viene proclamata per la prima volta. Un tempo era considerato folle supporre che gli uomini di colore fossero realmente degli esseri umani e dovessero venir trattati come tali. Ciò che era un tempo una follia è divenuto ora una verità riconosciuta. Oggi si considera esagerato dichiarare che il costante rispetto per ogni forma di vita è la seria esigenza di un’etica razionale. Ma verrà il tempo in cui la gente si meraviglierà che la razza umana abbia impiegato tanto tempo a riconoscere che l’offesa alla vita per mancanza di riflessione è incompatibile con la vera etica. L’etica è in senso generale responsabilità estesa a tutto ciò che ha vita: uomini e donne, animali, natura.” (Albert Schweitzer “Etica”, tratto da “Rispetto per la vita” Edizioni di Comunità ).
“A cinquant’anni dalla morte (4 settembre 1965 – 4 settembre 2015) – dice Fiorenzo Baratelli, presidente dell’istituto Gramsci di Ferrara – ricorderemo la vita e l’opera di una fra le più grandi figure ‘etiche’ del Novecento. Fu medico, teologo, filosofo, musicologo… Ma, soprattutto, creò nel cuore dell’Africa equatoriale (Lambaranè, Gabon) un villaggio-ospedale per curare le gravissime malattie (malattia del sonno, lebbra, dissenteria, malaria…) che colpivano gli abitanti più poveri di quelle zone. Albert Einstein disse di lui alla radio americana: “Nella foresta equatoriale vive e lavora uno dei più grandi uomini dei tempi moderni, se non il più grande”. Nel 1952, la sua grande opera fu riconosciuta a livello mondiale con l’attribuzione del premio Nobel per la Pace.”
La figura di Albert Schweitzer sarà celebrata a Ferrara proprio nella ricorrenza della scomparsa, venerdì 4 alle 21, nella chiesa di santa Francesca Romana di via XX settembre, con musiche per organo su partiture di Bach, precedute da una riflessione di Fiorenzo Baratelli.
Si svolgerà l’11 Settembre a Ferrara il “One day against brain tumors”, convegno internazionale sui tumori al cervello. La giornata è stata organizzata e fortemente voluta da Gian Paolo Cestari, presidente de “Il Quadrifoglio Verde P.S. P.S.”, associazione no profit cittadina, nata per sostenere e finanziare gli scienziati nella ricerca oncologica: “Questo progetto nasce da una mia idea in seguito alla contrazione del glioblastoma da parte di un mio caro: da quel momento ho girato diversi ospedali dove ho avuto la possibilità di confrontarmi con medici che, con sensibilità e professionalità, mi hanno spiegato in maniera accurata la malattia. Con questo evento vogliamo dare la possibilità anche ad altri pazienti di avere un colloquio con gli esperti del settore così da sensibilizzare l’opinione pubblica”, ha spiegato Cestari alla conferenza stampa svoltasi questa mattina presso la Torre di san Paolo in Castello.
Il meeting tratterà delle più recenti e importanti scoperte scientifiche sui tumori cerebrali, in particolare sul glioblastoma, tumore “nato” negli ultimi dieci anni e sempre più presente nella fascia degli over 55 anni, ma in alcuni casi anche nei bambini. “E’ un male particolarmente aggressivo che ha origine in una zona di congiunzione tra cervello e midollo spinale – non si diffonde quasi mai all’esterno – e di conseguenza risulta difficilmente debellabile chirurgicamente. Lo contraggono circa quattro individui all’anno su un campione di centomila persone e può manifestarsi con crisi epilettiche prima mai avvenute, perdita di sensibilità negli arti e forme di dislessia. In Italia sono alcune migliaia i pazienti coinvolti” specifica il dr. Finocchiaro, direttore dell’unità operativa di neurologia VIII del dipartimento di neuro-oncologia dell’Istituto Besta di Milano.
Innovativa la scansione della giornata, pensata per soddisfare più esigenze: “E’ fondamentale creare un evento scientifico che sia costruttivo anche per i pazienti e i propri familiari. In queste situazioni di difficoltà il rischio è quello di affidarsi troppo a Internet e perdersi in false speranze. In quest’occasione invece, per la mattinata è previsto un workshop “a porte chiuse” tra i più autorevoli esperti della neuro-oncologia (provenienti da Stati Uniti, Francia, Svizzera, Regno Unito e Italia) durante il quale potranno parlare e confrontarsi con altri medici provenienti da tutta la penisola sugli sviluppi delle ricerche effettuate fino ad oggi, mentre nel pomeriggio i dottori saranno a disposizione del pubblico che vorrà cogliere l’occasione per cercare risposte a domande relative questa patologia”, aggiunge Cestari.
Sarà un momento molto importante per lanciare un messaggio d’incoraggiamento e infondere una “ragionevole” speranza a chi ha contratto tale tumore, espone il dr. Finocchiaro: “Al giorno d’oggi, con il lavoro che siamo riusciti a fare sulla biologia del Dna della cellula malata, abbiamo constatato come il sistema immunitario dell’essere umano sia un’arma formidabile molto più di quanto ci si possa aspettare: è in quest’ottica che sosterremo i nostri pazienti cercando di debellare il tumore passo dopo passo, sostanzialmente prolungando l’esistenza dell’individuo, grazie a nuovi farmaci attivatori del sistema immunitario che recentemente hanno dato segnali incoraggianti e a ‘marker’ nel sangue che segnalano eventuali valori non consoni”.
L’appuntamento dunque è per l’11settembre in Castello, data non scelta a caso, visto che si vuole dare una valenza positiva ad una giornata che nel passato recente viene collegata ai tremendi attentati alle Torri gemelle, rendendo così onore alla comunità di medici americana, formidabile nel mettere in atto network indispensabili per lo studio di queste malattie.
Un fenomeno non prettamente italiano, ma decisamente frequente in Italia è la cosiddetta “fuga dei cervelli”. In realtà a fuggire sono i giovani in generale, consci delle poche opportunità che offre il proprio Paese e col desiderio di partire verso un futuro più positivo. In molti decidono di tentare questa strada, partendo anche con poco, con il minimo necessario e portandosi, dopo aver messo a confronto carte prepagate (info su http://www.apprendistatoprovinciaroma.it/confronto-carte-prepagate/) la cifra giusta per vivere qualche mese. Spesso l’avventura si conclude con un nuovo posto di lavoro, ma non tutti hanno questa fortuna e in certi casi, anche se ha il sapore della sconfitta, si torna indietro verso casa.
Ci sono però diverse opportunità che possono essere colte ancor prima di partire all’avventura e quindi progettando con un certo margine di sicurezza quella che può diventare un’esperienza all’estero non solo positiva, ma anche proficua. Questo è quello che accade grazie al progetto America Latina promosso da Unioncamere Emilia-Romagna e PromoFirenze in collaborazione con la Interamerican Investiment Corporation. In cosa consiste il progetto? In poche parole nel dare l’opportunità a degli imprenditori desiderosi di provare quei mercati di inserirsi in tali sistemi di affari.
Più nel dettaglio si tratta di una missione commerciale in Cile e Perù, nello specifico nelle città di Santiago e di Lima della durata di una settimana. In questa settimana i partecipanti all’iniziativa potranno prendere contatti e cogliere le opportunità commerciali in America Latina grazie a tutta una serie di incontri organizzati ad hoc per ciascuna impresa e mirati allo scopo. In questo modo gli imprenditori italiani che parteciperanno alla missione potranno conoscere realtà locali dell’America Latina, nonché imprenditori e fornitori del luogo. I settori che offrono maggiori opportunità sono quelli dell’abbigliamento di lusso, edilizia, medicale, design e arredo, macchinari energia e ambiente.
Si tratta quindi di un ventaglio abbastanza ampio dove le possibilità potrebbero essere davvero molte. Per partecipare l’impresa interessata deve compilare un’apposita scheda del proprio profilo che verrà visionata dagli uffici di Santiago. Se tutto procede al meglio e l’adesione viene accettata si deve formalizzare l’iscrizione entro il 28 settembre. La quota di partecipazione prevista è di 1.400 euro, una cifra abbastanza abbordabile a fronte della quale ci si possono aprire diverse possibilità.
* Giornalista, attualmente cura la sezione news su siti a tema finanza, tecnologia ed informazione.
E’ di ieri la notizia della firma, da parte del presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, di un accordo di pace con i ribelli capeggiati dall’ex vice presidente Riek Machar. Da più di venti mesi nel Sud Sudan è in corso una sanguinosa guerra civile che vede uno scontro tra le etnie Dinka e Nuerdi, di cui sono rappresentanti supremi (rispettivamente) proprio il presidente e il generale ribelle.
Machar aveva già siglato l’intesa la settimana scorsa in Etiopia, mentre Kiir aveva chiesto tempo. Il 27 agosto ha ceduto, in particolare dopo le minacce Usa di imporre nuove sanzioni e le pressioni esercitate dalle Nazioni Unite. In base all’accordo, entro 90 giorni dovrà essere formato un governo di coalizione. Una speranza di pace per il Paese, dopo tanto sangue. Un buon motivo per tornare a parlare ora di questo Paese dimenticato.
Tempo fa avevamo riferito di Avsi e dell’esperienza di Anna Sambo qui nel Sud Sudan [leggi]. Meritano di essere segnalate alcune altre interessanti realtà, che offrono piccole testimonianze di un grande impegno volto ad aiutare questo Paese disastrato. Colpiscono e destano attenzione, in particolare, due progetti di svilupporivolti alle donne, promossi anch’essi da Avsi.
Le foto che pubblichiamo, immagini di alcuni vestiti cuciti a mano, tipicamente africani, dai colori accesi e vivaci, sono quelle di un centro di formazione professionale a Juba, “molto bello – dice Anna – una struttura costruita da Jaica (la cooperazione giapponese) e gestita dal governo”. Avsi fa parte del forum di coordinamento dei Vocational training center, centri di supporto all’istruzione e alla formazione professionale, unici strumenti che possono veramente far evolvere una società. “Questi progetti sono molto importanti – continua Anna – perché il lavoro è il modo che abbiamo per essere umani e usare la testa, creare cose nuove, mostrare cosa sappiamo fare, crescere. Nel centro di formazione di Juba ci sono corsi di tailoring, edilizia, carpenteria, meccanica, elettrotecnica, idraulica, agricoltura. È in una zona disastrata, ma poi varchi il cancello e vedi una possibilità per il futuro di questa gente”.
Altre immagini ritraggono ragazze giovani che seguono alcuni corsi, nello Stato dei Lakes. Il progetto triennale implementato da Avsi da marzo 2014 è finanziato dall’Unione europea, un centro di formazione professionale che prima era solo maschile (con corsi di edilizia e carpenteria) e ora invece ospita anche 20 ragazze, 10 delle quali alloggiate lì. Il progetto prevede attività di educazione, attività agricole e di sensibilizzazione al ruolo degli adulti nei confronti dello sviluppo di loro stessi e dei loro figli. Avsi implementa il progetto con una ong locale (Ireneo Dud Foundation) e con una onlus italiana (Sudin), al fine di sviluppare progetti che siano sostenibili. La zona, ai confini dei territori in guerra, è estremamente isolata e pericolosa per i continui conflitti tra sottogruppi della stessa etnia, che è quella Dinka (una tribù che vive nelle regioni di Bahr al Ghazal, Kordofan del sud, Jonglei e Alto Nilo, circa 1,5 milioni di persone, corrispondenti al 18% della popolazione totale del Sud Sudan). In queste aree, come in tutto il Sud Sudan, le bambine sono merce di scambio per ottenere mucche, che sono la cosa più preziosa per i Dinka, ben più delle donne stesse e dei bambini. Qui il tasso di analfabetismo è davvero altissimo, ancor più alto per le donne, ovviamente. Anna dice che queste bambine, molte delle quali orfane, sono stupende, infinitamente felici di poter andare a scuola. “Speriamo in un futuro per loro. E in un presente in cui si incominci a considerarle come esseri umani”.
Galleria fotografica, Centro di Juba. Clicca le immagini per ingrandirle.
Centro di formazione di Juba
Fotografie di Anna Sambo
Vedi anche frase del giorno e foto correlata [clicca qui].
Domani giovedì 27 Agosto riprende dopo la pausa estiva il Mercato BioperTutti in P.zza XXIV Maggio (Acquedotto) dalle 8.00 alle 14.30 all’insegna della musica degli artisti di strada e con la degustazione delle bontà del mercato. In collaborazione con il Buskers Festival, il mercato BioperTutti ospiterà giovedì 27 Agosto, dalle ore 10.30, il bravissimo e pluripremiato chitarrista ungherese Andràs Petruska. L’artista, che fonde suoni e melodie tipiche della musica folk ungherese con il groove dell’hiphop, accompagnerà con la sua voce intensa e armoniosa i consumatori nella degustazione delle golosità del mercato per un’esperienza davvero unica ed originale [vedi].
Già dalle 8 potrete trovare IL PANE E I GOLOSI BISCOTTI di Zenzero Candito, FRUTTA E VERDURA FRESCHISSIMI dell’ Azienda Ai Pavoni e dell’Agriturismo Arcadia, IL FRITTO CROCCANTE E I FILETTI DI PESCE di Biofish! E naturalmente vino senza solfiti, succhi di fragola, mela, mirtillo, miele,nocciolinda e tanto altro!
Vi aspettiamo per il consueto appuntamento settimanale per farvi gustare tutte le bontà del mercato e regalarvi una bellissima giornata di gioia e allegria!
DA GIOVEDI’ 27 AGOSTO OGNI SETTIMANA DALLE ORE 8.00 ALLE 14.00
Giuseppe Peveri, in arte Dente, ospite d’eccezione al Puedes Summer Night per l’ultimo incontro di “Libri da Bere-Autori a Corte Outside” di stasera, martedì 25 agosto al Ferrara Buskers Festival 2015.
Nell’ambito del Ferrara Buskers Festival 2015, ospite d’eccezione martedì 25 agosto (alle 20,15 circa) al Puedes Summer Night, in occasione dell’ultimo incontro di “Libri da Bere-Autori a Corte Outside”, con uno dei più popolari cantautori italiani dell’ultima generazione: Giuseppe Peveri in arte Dente, che giunge a Ferrara per presentare il suo libro “Favole per bambini molto stanchi” (Bompiani Editore). Nato a Fidenza nel 1976, Dente, ha all’attivo cinque dischi che gli sono valsi un’accoglienza calorosa del pubblico e della critica. Il libro, diviso in dodici “capitoli”, illustrato da Franco Matticchio che è già alla terza ristampa, parla di solitudine, di paure, di lupi, di amore per risvegliare lo stupore, la meraviglia, la fantasia di grandi e piccini, facendoli entrare in un universo di pianeti curiosi e impertinenti, che rifiutano la logica, giocano con la morale, rovesciano le leggi della fisica e della sintassi. Eppure, come accade nella vita di tutti i giorni, i personaggi che li abitano si innamorano e si odiano, si parlano e non si capiscono, sono fragili e un po’ spietati, ma soprattutto ridono molto, rimanendo serissimi. A condurre l’incontro sarà la giornalista e scrittrice Giorgia Pizzirani, del quotidiano Ferraraitalia.
“Preferisco interpretare piuttosto che registrare” (Art Kane, 1982)
Il suo primo incarico è stato nel 1958 un servizio per Esquire: “Avevo due settimane per andare a Las Vegas e fotografare Louis. L’ho portato nel deserto e l’ho messo sulla sedia a dondolo […] Non volevo la sua immagine stereotipata […]. Il sole stava tramontando, l’ho allineato ai suoi occhi, il tramonto della sua vita: molto banale, ma credo che abbia funzionato. Tutti lo ricordano esuberante e allegro, io invece volevo ritrarlo come era realmente, un uomo arrivato all’età in cui ci si volge a considerare il passato. […] è probabilmente l’immagine più significativa della mia vita. Mi ha trasformato da art director in fotografo, cosa di cui non mi sono mai pentito”. Louis era il celebre jazzista Louis Armstrong, ritratto nel deserto del Mojave, dando inizio alla serie di “Harlem 1958”: questo è il titolo della fotografia scattata in una domenica d’agosto riuscendo a raggruppare ben 57 leggende del jazz su un marciapiede della 126ma strada a Harlem, diventata forse l’immagine più significativa della storia del jazz.
E’ stato così che Art Kane ha reinventato la sua vita professionale, passando dall’essere il più giovane art director della storia – incarico ricoperto a soli 27 anni per la rivista Seventeen – all’essere uno dei fotografi più innovativi della seconda meta del Novecento. A vent’anni dalla sua scomparsa e nel novantesimo della sua nascita l’esposizione “Art Kane. Visionary” porta per la prima volta alcuni dei suoi capolavori in Italia, a Modena, e li rende visibili gratuitamente, senza il pagamento di un biglietto.
Le sue immagini sono entrate nell’immaginario comune, soprattutto in quello del mondo della musica. È lui, infatti, ad aver intrappolato nel 1966 Bob Dylan accucciato nell’angolo fra due candide pareti con un’aria a metà tra l’impudente e il sognante, ad averci regalato nel 1967 un poetico ritratto in bianco e nero di Aretha Franklin, ad aver catturato il grido disperato di Janis Joplin (1968). Celeberrimi anche i suoi lavori con i RollingStones, FrankZappa, i Doors e gli Who, frutto di un lavoro di ricerca su e con tutti questi artisti.
Il suo lavoro però non si è fermato alle icone della musica jazz, pop e rock, ha attraversato gli anni Sessanta e Settanta delle lotte per i diritti civili e della guerra in Vietnam ideando immagini dal linguaggio allo stesso tempo drammatico e popolare. Negli anni Ottanta ha rivoluzionato la fotografia commerciale, l’immagine di moda, il ritratto di celebrità e il nudo, grazie a un utilizzo spericolato del grandangolo, di pellicole dai colori ipersaturati e di un umorismo surreale. Il suo lavoro è stato pionieristico non solo dal punto di vista della ricerca estetica, ma anche da quello tecnico: trent’anni prima di photoshop, armato solo di un tavolo luminoso e di una lente di ingrandimento, Kane ha inventato l’immagine “sandwich” montando due diapositive a registro nello stesso telaio. Sviluppando questa tecnica oltre ogni limite, Kane è divenuto un vero e proprio anticipatore della narrazione fotografica, che ha condotto avvalendosi anche di metafora e poesia, trasformando di fatto la fotografia in illustrazione. Commoventi le immagini sandwich della serie “Our indian heritage” del 1971 e sorprendenti quelle della serie su Venezia di poco precedenti.
Il suo scopo è sempre stato fuggire dal fotorealismo e, nello stesso tempo, da uno stile riconoscibile: le sue sono immagini pensanti, visioni che comunicano sempre un personalissimo punto di vista, sul razzismo, sulla guerra, sulla società, sulla moda o sulla musica. “Penso ad Art Kane come a un colore acceso, diciamo, come un sole color zucca in mezzo ad un cielo blu. Come il sole, Art fissa il raggio del suo sguardo sul suo soggetto, e quel che vede, lui fotografa, e di solito si tratta di un’interpretazione drammatica della sua personalità”. Così lo dipingeva Andy Warhol, dopo aver collaborato con lui in alcune campagne pubblicitarie.
La mostra a cura di JonathanKane, Holly Anderson e Guido Harari, organizzata e prodotta dalla Galleria civica di Modena e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, in collaborazione con Solares Fondazione delle Arti di Parma e Wall of Sound Gallery di Alba, rimarrà aperta fino al 20 settembre nelle sale di Palazzo Santa Margherita in corso Canalgrande 103. Una parte è dedicata ai ritratti e alle celebri foto delle maggiori icone della musica, una all’impegno civile – soprattutto per i diritti civili degli afroamericani e degli indiani, il Vietnam, l’incubo nucleare di Hiroshima, il consumismo – e poi le visioni risultato dei “sandwich” e gli scatti per la moda.
Unico neo di questa bella operazione culturale, proprio in ragione della sua importanza, è forse l’orario di apertura un po’ limitato: l’esposizione è visitabile il giovedì e il venerdì dalle 17 alle 19.30, dalle 10.30 alle 19.30 sabato, domenica e nei giorni festivi, mentre rimane chiusa dal lunedì al mercoledì. Tuttavia per dimenticarsi di questo piccolo inconveniente basta fare un salto all’attiguo Museodellafigurina, nello stesso Palazzo Margherita e anch’esso gratuito: un grazioso gioiello dove ritrovare una parte dell’immaginario della propria infanzia.
Per maggiori informazioni su “Art Kane. Visionary” clicca qui
Sembra la sceneggiatura di un film, una storia degna di una favola – se non fosse per il triste evento che la origina – ma che di una fiaba ha, comunque, il finale. I protagonisti: due bambini, una mamma, un padre malato che vola in cielo. Una famiglia, come tante, colpita da una tragedia, di quelle che segnano e cambiano per sempre. E poi un asilo inglese, dei palloncini viola, un agricoltore e una generosa comunità lontana. I luoghi: Bordon, in Inghilterra, il cielo, le nuvole, le montagne, i laghi, i fiumi, la terra, la sabbia, il mare, il vento, Borgo Montone, in Romagna, e la città di Ravenna.
Questa è la storia vera di un palloncino viola con un bigliettino inserito al suo interno, scritto da due bambini inglesi, Oscar e Beth, per il loro papà morto qualche mese prima: “Vola alto Simon” e la richiesta a chi lo trovasse di avvertire l’asilo da cui era partito. Lo ha trovato Christian Grassi, un agricoltore di Borgo Montone, nel ravennate, lo scorso mese di gennaio: stava lavorando nel campo della sua azienda di prodotti biologici “Mater Naturae” [vedi], quando ha notato un palloncino afflosciato viola impigliatosi in un fossato, con attaccata una cartolina plastificata contenente la foto di una famiglia composta da padre, madre e due figli e il testo in inglese che invitava chi lo trovasse ad avvertire l’asilo dal quale era partito.
“Il bello del mio lavoro è che quasi ogni giorno fai un incontro (con una persona o un animale), o accade qualcosa che ti lascia un ricordo o un pensiero”, ha scritto l’agricoltore su Facebook. “Mentre lavoravo i campi ancora ghiacciati ho notato dentro a un fosso una macchia viola. Era un palloncino con appesa una cartolina. Era un messaggio in ricordo di Simon Cook, lanciato assieme a tanti altri palloncini dai bimbi della Bordon Garrison Pre-school & Creche. Sul retro “R.I.P. Simon. Love Robyn. Il mio pensiero a Simon Cook, ai suoi cari e ai piccoli che lo hanno salutato”. Scattano subito le ricerche sulla rete e il ritrovamento della pagina Facebook della scuola di Bordon, nell’Hampshire, dalla quale, lo scorso 18 novembre, quell’oggetto pieno d’amore era partito, la Bordon Garrison Pre-School & Creche [vedi].
I compagni di Oscar e Beth, con l’aiuto della madre Zoe, avevano lanciato nel cielo tanti palloncini viola, sperando che qualcuno, un giorno, ne ritrovasse ameno uno e li avvertisse. E il desiderio si è avverato, quel palloncino viaggiatore ha visto mari, laghi, montagne e colline ed è atterrato tranquillo, dopo quasi 1700 km, sul suolo italiano, la terra della bellezza, la terra della bontà e della solidarietà. Dal momento del ritrovamento, infatti, è iniziato il lavoro del Comitato cittadino di Borgo Montone [vedi] e della famiglia Grassi per ospitare la famiglia Cook. L’incontro è avvenuto a fine luglio: Zoe, la madre, coi suoi piccoli Oscar (3 anni) e Beth (7 anni) e la loro insegnante Lucy, sono arrivati a Ravenna per trascorrere una settimana in Romagna, visitando i monumenti Unesco della città, godendo delle spiagge e del mare e della buona cucina romagnola.
I titolari del ristorante La Campaza [vedi] che ha ospitalo la famiglia, ci riferiscono, via email, di essere stati contattati direttamente dal presidente del comitato cittadino, Ottaviano Rossi, e di aver riservato ai loro ospiti un tavolo allestito con fiocchi, palloncini viola e candele in tinta. Tutti felici e grati, anche per la scelta simbolica del colore. Una gioia dopo il grande dolore, che sicuramente non fa dimenticare ma che allevia, almeno un po’. Il calore, la tenerezza e l’umanità possono aiutare, e molto.
Un commosso e felice Christian Grassi, dalla sua pagina Facebook [vedi], ricorda come questo palloncino “sia riuscito a compiere la magia di far incontrare, conoscere e condividere emozioni, così tante persone come i protagonisti di questa storia. Lorenzo Ferrari, Sergio Belli, Filippo Donati, Massimiliano Reggio, Ottaviano Rossi, Amici Di Chichester, Galla E Teo, Comitato Cittadino di Borgo Montone, Elena Zanfanti, Lucy McDiarmid, Zoe Cook e tantissimi altri. Persone che prima non si conoscevano e che questa storia, scatenata da un palloncino, ha reso migliori. Mi piace pensare a questo oggetto come ad un qualcosa con una volontà propria che ha scelto noi e la nostra comunità con uno scopo. Un oggetto carico di significati simbolici e di positività che sentivo che doveva ritornare a casa con chi lo aveva lanciato. E’ per questo che prima di salutare i nostri amici d’oltremanica ho reso loro ciò che restava del palloncino e la cartolina che vi era appesa. Un ricordo e un portafortuna soprattutto per i bimbi. Scrivo qui ciò che non ho saputo esprimere prima data la mia pessima padronanza dell’inglese. Un grazie infine a tutte le realtà che hanno reso possibile questa storia: l’Hotel Diana di Ravenna, il Bagno Perla di Punta Marina, il ristorante La Campaza di Fosso Ghiaia, il Ristorante Molinetto, Mirabilandia, Bagno Azzurro, Easyasta, Zoosafari, la Casa delle Farfalle Milano Marittima, la Diocesi di Ravenna, Ravenna Pallanuoto, i Vigili del Fuoco di Ravenna, la Confesercenti Ravenna. Sperando di non aver trascurato nessuno”.
Una vera lezione di solidarietà e di empatia. Un volo d’amore. Per una vacanza da ricordare, un’esperienza umana che rimarrà per sempre nella memoria delle due famiglie e delle loro comunità.
Si ringrazia il ristorante La Campaza per le gentile concessione delle foto dei tavoli apparecchiati.
Le altre foto sono prese da Facebook e Internet.
Vivere l`isola di Simi (oppure Symi) può considerarsi un privilegio, un luogo dove trascorrere le vacanze circondati dal mare Egeo blu intenso, baie e rocce a strapiombo mozzafiato. Un cono irregolare di roccia lavorabile, un polipo emerso dai tentacoli allargati e immobile sul mare. Simi è parte del Dodecaneso, quella collana di isole piccole, medie e piccolissime che geograficamente e storicamente fanno capo a Rodi, l’isola più grande posta a sud-ovest dell`arcipelago. Ma di quanto sia magica Simi e della sua storia antica ne scriveremo più avanti, l`aspetto su cui ci soffermiamo oggi è l`evento storico che si svolse su questo scoglio esattamente settant’anni fa, nel 1945, al sipario finale di un periodo di turbolenze geopolitiche che condizionarono un capitolo di storia italiana da ricordare sempre, una pagina di luci e ombre durato oltre trent’anni, nella prima metà del Novecento. Ricordate la pellicola “Mediterraneo” di Gabriele Salvatores e il suo composito drappello di militari sbarcati su un’isola? Ad un tiro di schioppo dall`isola greca, sulla quale passa il tormentato confine greco-turco (ancor più evidente oggi per via delle numerose presenze di sbarchi migratori provenienti dall`oriente con in maggioranza siriani, pachistani e afgani), vi sono le prime balze turche. La notte, le baie della località turca Datcha che attanagliano come una chela di granchio la piccola isola greca, brillano di luci a intermittenza che in lontananza ricordano i tempi dei drammatici assalti notturni dei pirati costieri.
Fu proprio dalla guerra italo-turca, la guerra di Libia, combattuta e vinta dal Regno d’Italia contro l’Impero ottomano tra il 29 settembre 1911 e il 18 ottobre 1912 per conquistare le regioni nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica, che cominciò l`avventura italiana in questa parte nord-est del Mar Mediterraneo: il 12 maggio 1912 Simi vene occupata dall`esercito italiano come Colonia del Dodecaneso.
Da allora sull`isola si sono moltiplicati i segni indelebili dell`occupazione italiana che dal 1926 sarebbe appartenuta al nuovo Governo delle isole italiane dell’Egeo. All`arrivo a Simi via mare, nella baia di Gialos, l`immagine più evidente, oltre al colpo d`occhio irripetibile delle case pastello neoclassiche e da affascinanti ville dal tocco neoclassico italiano costruite a mezzacosta, è la sede della polizia ricavata da un palazzo signorile dal sapore rinascimentale-veneziano costruito da un commerciante italiano; le scuole elementari e medie sembrano un pezzo della nostra pianura fra Bologna e Ferrara, e l`aspetto più inaspettato è l`entusiasmo con il quale gli ottuagenari e oltre locali, vogliono parlarti nel loro perfetto italiano appreso quando durante il ventennio fascista (fino alla fine degli anni ’40 la lingua italiana si insegnava nelle scuole locali).
Ma la guerra è crudele e alcuni tragici episodi che videro protagonista il nostro esercito italiano sono documentati nella sede del Municipio. Il capolavoro di Gabriele Salvatores, premio Oscar nel 1992, affresca delicatamente questo pezzo di storia, dall`occupazione militare italiana del 1941 girata a Kastelorizo (ma potrebbe essere anche Simi) a molti mesi dopo l`armistizio del 1943, quando gli attoniti ufficiali inglesi recuperano sulla lancia di salvataggio i dimenticati militari del Regio esercito italiano e la mula.
I nostri militari loro malgrado verranno poi nuovamente coinvolti durante l`occupazione tedesca dei due anni successivi durante i cruenti e drammatici risvolti che conosciamo essere accaduti non solo a Simi ma anche in altre parti della Grecia. E siamo all’8 maggio del 1945, quando nel palazzo Kampsopoulou (oggi trasformato da un imprenditore privato simiota in Art Gallery-LOS) posto sul lungo-baia a sinistra di Gialos, viene firmato il trattato di resa delle isole del Dodecaneso agli Alleati.
Con il Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947, le isole passarono alla Grecia come prevedeva l’articolo 14 del trattato: “L’Italia cede alla Grecia in sovranità piena le Isole del Dodecaneso in appresso indicate e precisamente: Stampalia (Astropalia) Rodi (Rhodos) Calki (Kharki), Scarpanto, Casos (Casso), Piscopis (Tilos), Misiros (Nisyros), Calimnos (Kalymnos), Leros, Patmos, Lipsos (Lipso), Simi (Symi) Cos (Kos) e Castellorizo, come pure le isolette adiacenti.”
Dal 7 marzo 1948 le isole del Dodecaneso entrano a far parte a tutti gli effetti della Grecia e dopo pochi mesi scompare l’insegnamento della lingua italiana sull’isola a cono, circondata dal blu profondo del mare. La più che trentennale presenza italiana in Egeo si era ufficialmente e definitivamente conclusa.
In un paese come la Russia, dove il balletto fa da padrone e permea molte serate di intellettuali e gente comune, è quasi inevitabile riprendere in mano alcune letture sul tema. Un must, un richiamo vero e proprio a ripercorrere storie di ballo e di legami anche con il nostro Paese. Il ricordo va subito alla grande, unica e indimenticabile Carla Fracci e alle sue esperienze con i russi Michail Baryšnikov o Rudolf Nureyev.
Chi ama la danza non può non ricordare il suo primo libro “La mia vita sulle punte. Come diventare ballerina”. Per anni quelle pagine mi hanno accompagnato nei sogni più lontani, stropicciate tanto le sfogliavo, le guardavo e riguardavo. Non sono diventata una ballerina, ma molti di quegli insegnamenti su disciplina, tenacia e coraggio li ho portati stretti gelosamente a me. Con “Passo dopo passo“, Carla ci accompagna, con la dolcezza e la delicatezza che la contraddistinguono, nella sua storia che è allo stesso tempo personale e intergenerazionale. Anzi, se permettete, direi nazionale, perché parte importante della storia culturale del nostro paese, della sua splendida tradizione di bellezza e di arte.
Nel libro la Fracci ripercorre gli oltre duecento personaggi da essa interpretati nella sua lunga e ricca carriera, le loro storie, la varietà delle sensazioni e dei sentimenti da essi ispirati, le scene e i palcoscenici calcati e ricalcati, scavati dalla forza e dall’energia dei passi, pervasi da forti scambi di emozioni. Un’autobiografia intima e intensa che ci coinvolge e ci mantiene incollati alle pagine in queste serene feste natalizie. Un libro che letteralmente divoriamo.
Chi ama e segue questa donna, sa delle sue origini, del padre tranviere e della madre operaia, dei sacrifici di quei corsi che iniziavano alla mattina presto, quando si usciva di casa con poca luce, “schiscetta” in cartella e gelo che pizzicava le guance rosee. Sono belle quelle immagini di chi guarda all’insù nella piazza antistante La Scala per vedere e osservare curiosi le ballerine che si riflettono sui vetri delle finestre, pensando che dietro vi siano solo giovani fanciulle serene e leggiadre quando invece vi si nascondono ore e ore di esercizi alla sbarra, sacrifici, dura disciplina e impegno. Altrettanto magica è l’immagine di Carla bambina che vede una piccola figura elegante vestita di nero uscire dalla galleria Vittorio Emanuele e scomparire sotto il portico del caffè Biffi. Sembra un personaggio da fiaba, ed è Margot Fonteyn, divenuta maestra, collega e amica. Per un attimo ci siamo trovati immersi nella magia, abbiamo sfiorato anche noi un mantello e una bacchetta magica. Dai primi ruoli, come quello di Cenerentola di Prokof’ev (che caso, sottolinea anche Carla, quello di un primo ruolo, proprio di Cenerentola, dato ad una bambina povera che non sapeva cos’era la danza..), attraverso le grandi interpretazioni di Giulietta, Giselle, fino a quelle di Francesca, Odette, Gelsomina e della Filumena del grande Eduardo, il passo e’ breve. Festival di Nervi, London Festival Ballet, Teatro dell’Opera di Roma, American Ballet Theatre di New York, Teatro San Carlo di Napoli, l’Arena di Verona, il Bol’šoj di Mosca sono solo alcuni dei grandi palcoscenici che hanno accolto Carla, sempre a braccia aperte, sempre con un successo di pubblico caloroso e spesso clamoroso.
Il compagno e marito, Beppe, dice sempre a Carla che la sua anima di ballerina è fatta di tre G: Giselle, Giulietta e Gelsomina. Anima di donna intensa e forte, spirito di donna vera traboccante di amore e passione autentica. Quella stessa che non riesci a dividere donna e artista, perché danza ciò che è ed è ciò che danza. Una fusione totale e completa fra personaggi e artista, una trasposizione, quasi una trasfigurazione mistica e illuminata. La danza assomiglia alla poesia per il modo in cui supera ogni limite, l’assenza di parola, a differenza del teatro, rende il balletto più penetrante e per certo verso più potente. Alla sua chiusura si ride, si piange, ci si abbraccia, si condivide la forza e l’energia. Con la danza di Carla c’è però anche la famiglia, gli affetti, la maternità, l’amicizia. Tanto amore.
Gli incontri più emozionanti restano per me quelli con Rudy e Misha. Rudolf Nureyev, il primo, è lo scambio intenso di emozioni fra ballerini poco più che ventenni nell’autunno di una grande Londra. Rudy dal temperamento tenace e forte, desideroso di sfida che l’aveva portato a vincere l’ambiente duro in cui era cresciuto, soprannominato il Muzik, il paesano, perché veniva da una famiglia povera e semplice della Siberia. Rudy spesso capriccioso, vibrante, aggressivo, che obbligava ad impegnarsi fino allo spasimo per essere degni di lui, ma anche coraggioso, imprevedibile, partner generoso e, alla fine, amico-complice. E poi Misha, Michail Baryšnikov, e la Medea di Spoleto del 1975, un’altra donna, gelosa e tormentata, che vive la passione intensamente. Misha che chiamava Carla “la bella” e che rimaneva abbagliato da una Firenze illuminata, dalla quale era fuggito per la troppa bellezza. Forse colpito dalla Sindrome di Stendhal…
Mi piace vedere Carla mentre sceglie con accuratezza le sete del suo tutù, parte di un suo personale rituale. Mi piace sentire il profumo delle fresie e dei gelsomini emanare dalla sua corona di fiori che cinge i lunghi e lucidi capelli neri. Mi piace immaginarmela curare i fiori e le piante della sua terrazza, affondare le mani affusolate nella terra appena smossa dei vasi, quasi immersa nel ricordo della sua terra lombarda umida e nebbiosa. La vedo percorrere i corridoi della sua casa milanese piena di quadri e statue, le sue foto appese al muro, le cornici affollate di ricordi ed amici preziosi e vicini. Qui osserviamo tanti eroi di un mondo che non c’è più, valori antichi che stanno scomparendo, la nostra storia che se ne va. Un ricordo ed una memoria che dobbiamo sicuramente preservare e trasmettere.
Il libro si conclude con una riflessione che dovrebbe essere monito per tutti: l’impegno è la base del successo, in tutti i campi, serietà ed applicazione sono le parole chiave. E poi la disciplina, i programmi, le regole, l’eleganza, la semplicità, e un appello per tutti: “la cosa più importante in un paese è un impegno serio per il futuro dei giovani. Ogni italiano di buona volontà ha il diritto di farsi una cultura”. (…). Carla vorrebbe che in Italia nascesse una Compagnia nazionale di balletto, una compagnia che possa girare il mondo con le nostre eccellenze, perché la forza dei danzatori è il gruppo. Ma anche per questo serve il sostegno delle istituzioni che pare non arrivare. Se l’unione fa la forza, non possiamo pensare che il patrimonio che Carla porta con sé non si tramandi, che i suoi insegnamenti rimangano isolati e per pochi. Se la sua esistenza è circondata da poesia e musica bellissime, da indimenticabili e unici maestri di lavoro e di vita, lei vorrebbe che tutti i ragazzi avessero la sua stessa fortuna e la forza di non smarrire la strada. Bisogna agire per non farli sentire soli e abbandonati. Mai stanchi. Chi deve capire capisca. Carla Fracci, “Passo dopo passo. La mia storia”. Mondadori, 2013, 207 p.
La quarantacinquenne palestinese Salma Zidane (l’intensa Hiam Abbass) vive in Cisgiordania, dopo essere rimasta sola: il marito è morto e i suoi figli se ne sono andati in America. Qui sopravvive grazie ai suoi limoni, coltivando un giardino ereditato, appartenente alla sua famiglia, mai coinvolta in azioni terroristiche, da svariate generazioni.
Un bel (e triste) giorno, il Ministro della difesa israeliano, Navon (Doron Tavory) s’insedia nella super protetta abitazione limitrofa e, per ragioni di sicurezza, ordina lo sradicamento delle piante della vicina, proponendolo la concessione di un adeguato risarcimento in denaro. Triste giorno perché da qui inizierà una battaglia legale, ingaggiata dalla donna, che sarà lunga e stremante, con il rifiuto categorico di un risarcimento che solo il Ministro considera adeguato, perché per Salma quella terra è tutto ciò che le rimane, tutta la sua vita fatta di duro lavoro, di solitudine, di amore e di ricordi. Oltre che sua unica fonte di sostegno economico. Aiutata da un giovane avvocato in carriera, divorziato e immaturo, a tratti egocentrico e ambiguo, Ziad Daudv (Ali Suliman), con cui avvierà anche una relazione sentimentale, la donna intraprende una battaglia che la porterà fino alla Corte suprema dello Stato ebraico. Salma troverà, inaspettatamente, anche il supporto di Mira (Rona Lipaz Michael), la moglie del Ministro, che, stanca della sua vita solitaria per i continui e numerosi impegni del marito, prende a cuore il caso della sua vicina di casa palestinese.
E’ una storia semplice, quella di questo film del regista noto per “La sposa siriana”, quella di una donna e dei suoi alberi, di vicini di casa che possono essere davvero molto “invadenti”, di una storia che, nella sua semplicità, prova a parlare, sommessamente, delle complesse e intricate relazioni tra i popoli in Medioriente (non solo tra Israele e Palestina), coi suoi drammi, le sue contraddizioni, i suoi intoppi, le sue tragedie, la difficoltà totale al dialogo. Non si vede violenza (che resta fuori e sullo sfondo), se non quella psicologica, una lotta e una resistenza che si tentano di portare avanti con la strenua disobbedienza civile, un normale trascorrere delle vite precluso a causa di ataviche controversie politiche.
Lo spettatore è portato ad affrontare il tema della questione irrisolta del conflitto arabo-israeliano (“Non ci sono riusciti in tremila anni…”, si dice nel film), di cui il volto di Hiam Abbas, così come la sua condizione di cittadina israeliana di etnia araba, sono interpreti ideali. Ci sono poi gli affetti familiari, le tradizioni, il legame con la propria terra, la dignità e l’autodeterminazione dei popoli, il clima di sospetto reciproco e di paura a cercare di parlare. E un’altra donna, alla fine, la sola ad interessarsi seriamente del dramma della vicina cercando di superare il confine storico-politico oltre che fisico. Un ponte di amicizia, di pace e di coraggio che si cerca di costruire, con immensa fatica. Una narrazione che avvolge.
Non c’è l’happy end, anzi il finale lascia un po’ d’amaro in bocca (gli alberi di limone non sono abbattuti ma sono mozzati, resi inutili, decimati dalla sentenza e dalla stupidità degli uomini); non c’è un vero vincitore perché ognuno perde qualcosa nel gioco assurdo dei confini imposti, in una vita dominata da soprusi e da soverchierie gratuite e inutili. Quella vittoria parziale porta a un finale amaro e incompiuto.Tanti sono gli sguardi, i sorrisi, le lacrime, la fusione tra il bel sogno e la dura realtà.
La disputa su quel giardino profumato di limoni diviene la metafora della contrapposizione tra ciò che si vorrebbe veramente e quello che ciascuno è invece costretto a vivere nella quotidianità, stupido retaggio di un passato fatto di lutti e sofferenza. Dietro a un imponente e infinitamente lungo muro grigio che non lascia molte speranze. E poi, ricorda il regista, il limone è una pianta semplice e leggiadra, dai frutti bellissimi ma che praticamente non si possono mangiare e, soprattutto, non è carica del significato morale e storico dato all’olivo (e i film che raccontano della situazione tra Israele e Palestina trattano spesso il tema della devastazione del territorio e dello sradicamento degli olivi).
La lotta di Salma in difesa dei suoi limoni assume una valenza universale. La sua è la lotta di ogni popolo oppresso, di chi si batte per la libertà e per il futuro. Instancabilmente. Un film che non fa miracoli, che non racconta nulla di nuovo, per i territori occupati, che non ha messaggi politici, perché non si schiera da una parte o dall’altra o non manipola le diverse realtà, ma che si concentra solo sull’uomo, sul suo dramma esistenziale nei conflitti e la sua voglia di sopravvivere in serenità. Un bel messaggio, bello proprio perché universale.
Il giardino di limonidi Eran Riklis, con Hiam Abbass, Ali Suliman, Rona Lipaz Michael, Doron Tavory, Tarik Copty, Amos Lavie, Amnon Wolf, Smadar Yaaron, Ayelet Robinson, Danny Leshman, Israele, Germania, Francia 2008, 106 mn.
La musica è un viaggio, e non è una metafora. Il Ferrara Buskers Festival on tour oggi porta musicisti organizzatori e giornalisti a Milano per l’anteprima della kermesse di artisti di strada che domani sarà a Comacchio, e sabato, finalmente, approderà a Ferrara. Il viaggio in pullman è l’occasione per una chiacchierata con gli storici organizzatori del Festival.
“Dopo Venezia nel 2013, e L’Aquila nel 2014, quest’anno per l’anteprima on tour non potevamo che scegliere Milano” spiega Roberta Galeotti, responsabile dei rapporti con i musicisti per il Fbf. “Non è solo per l’Expo – le fa eco Luigi Russo, direttore organizzativo del Fbf – ma anche perché Milano è la terza città al mondo tra quelle più friendly con gli artisti di strada, e per noi questo fa la differenza”.
Saranno 19 gli artisti dislocati tra il Castello Sforzesco e il Duomo che porteranno la magia del Festival nel centro del capoluogo lombardo. Anche se il fascino della cornice estense, più raccolta e metafisica, è ineguagliabile.
Fotoservizio di Stefania Andreotti
Stefano Bottoni, ideatore e direttore artistico del Fbf, è seduto davanti nel pullman, in un silenzio assorto. Gli chiediamo se dopo 28 edizioni riesce ancora a emozionarsi.
“Certo che sono emozionato, mi emoziono ogni anno, sennò non lo farei! Quando cominciano ad arrivare tutti i musicisti sento le farfalle nello stomaco”.
E il Festival riesce ancora ad emozionare?
“Se ci pensi – risponde Bottoni – il segreto del Festival è quello che accade nel momento in cui una persona suona e un’altra si ferma ad ascoltarla”.
Ma anche la bravura e l’esperienza nel far succedere questo incontro.
“Lo spirito del Festival è lasciarsi andare davanti ad uno che non si conosce”.
Un benefico esercizio di fiducia nel prossimo, cosa tanto rara di questi tempi.
“Il primo a farlo fu il Comune, quando dal nulla proponemmo di realizzare questo evento, che non esisteva in nessun’altra città”.
Da allora la magia si ripete ogni anno.
Bottoni torna assorto. “Mi è tornato alla mente un ricordo, che forse è alla base dell’idea del Festival. Quando avevo 8 o 10 anni, veniva a Ferrara una banda di motociclisti acrobati. Mettevano il loro camion davanti al teatrino Nuovo, poi tendevano un cavo fino alla cima della torre della vittoria. Poi salivano con delle moto scarburate senza gomme lungo il cavo. Io stavo male pensando a quando sarebbero dovuti tornare indietro in retromarcia. Poi qualcuno passava a fare cappello. Quel ricordo deve aver silenziosamente lavorato nella mia testa! Chissà se qualcun altro ne ha memoria!”.
Ma ora è tempo di tornare al presente, il pullman è arrivato a Milano, una nuova edizione del Ferrara Buskers Festival sta per avere inizio.
Nuovi punti musica ufficiali – piazzetta Carbone e Bersaglieri del Po – arricchiranno l’edizione 2015 del festival della musica di strada più antico d’Europa, “quello che conta il maggior numero di imitazioni, come la settimana enigmistica”; omaggiato pure dai… reali: ultimo il sovrano belga, che dà seguito alla precedenti lodi espresse dalla regina di Inghilterra e dal re di Spagna.
A Ferrara l’attesa è terminata: e anche quest’anno, sulla strada che porta alla città estense sono in arrivo gli artisti ospiti del Buskers Festival. Vera protagonista, la musica. Venti i gruppi che partecipano come invitati ufficiali, provenienti da tutto il mondo: tre dal Belgio – Les Busiciens, Tram33 e The Belgian Bluebirds – la nazione ospite di questo anno, ma come di consueto gli artisti attesi saranno nel complesso circa duecento. Previste novità e graditi ritorni, tra cui Victor L. C. Young, felice di festeggiare al festival gli 80 anni già compiuti, e i cinematografici Cosmic Sausages. Tenori e violinisti, melodie arabe e jazz folk, humppa finlandese e klezmer, one-man-band e gruppi multietnici avranno casa tra Lombardia ed Emilia Romagna nelle prossime due settimane, proseguendo la tradizione dell’on tour: questo anno si parte da Milano: a Palazzo Marino avrà luogo, giovedì 20 agosto, l’anteprima del festival con il suonatore di hang Paolo Borghi, per poi proseguire a Comacchio (venerdì 21), a Ferrara (sabato 22 e domenica 23, poi da martedì 25 sino a domenica 30 agosto) e Lugo (lunedì 24), per un evento che calamita ferraresi, italiani e non solo: in conferenza stampa sono presentati due coniugi francesi assidui frequentatori del festival, tanto da acquistare casa in città per poter seguire ogni anno l’attesa kermesse.
Una particolare attenzione è rivolta anche al sociale, in modo particolare ai malati di Alzheimer e ai detenuti in casa circondariale dove si esibiranno alcuni degli artisti coinvolti.
Per il quinto anno consecutivo poi il progetto EcoFestival accompagna il festival della musica: le associazioni CleaNap e Viale K, il ride sharing di BlaBlaCar e il bus sharing GoGoBus sono alcune delle iniziative eco che andranno ad arricchire questa edizione, insieme al punto di ristoro vegano curato dallo chef Marco Jannotta.
Confermate le iniziative dell’anno scorso che uniscono poesia e tango, storie dei buskers che popolano Ferrara e artigianato, che animeranno punti strategici della città estense. Per turisti e appassionati, gli allievi dell’Istituto d’arte “Dosso Dossi” di Ferrara saranno a disposizione per illustrare le bellezze artistiche della città in un originale percorso di trekking urbano.
Sempre seguendo la strada.
La 28esima edizione del Ferrara Buskers Festival, è patrocinata dal ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo e dal ministero dell’Ambiente. Presentata dal suo ideatore e direttore artistico Stefano Bottoni, dal direttore organizzativo Luigi Russo, dal vicesindaco Massimo Maisto, dal responsabile servizi ambientali Hera per Modena e Ferrara Alberto Santini e dal presidente della commissione parlamentare sugli illeciti ambientali Alessandro Bratti, con gli interventi dell’assessore Simonetta Zalambani e del sindaco di Lugo Davide Ranalli,
Importanti sono i nomi di sponsor e sostenitori. A partire da Citroën – un marchio francese che onora gli ospiti belgi – a Darsena Office Park passando per Birra Peroni.
Gruppo Hera collaborerà a questa edizione con una serie di iniziative mirate a valorizzare il territorio tutelandone l’ambiente e promuovere le occasioni di socialità. In primis avendo un occhio di riguardo alla pulizia della città attraverso la raccolta differenziata in contenitori stradali, astucci portacicche e distribuzione gratuita di acqua nel punto Hera nella sorgente urbana.
A questo si aggiungono il progetto CiboAmico, nato da dicembre 2009, che redistribuisce pasti non consumati a persone in situazione di difficoltà, con il supporto di Last Minute Market (Università di Bologna) e la collaborazione della società Elior; e la promozione del compostaggio il 28 e il 29 agosto con laboratori creativi di opere florovivaistiche dedicati ai più piccoli.
Perché il festival è anche collaborazione e iniziative: uno su tutti Ibo Italia, il cui presidente racconta la filosofia dell’associazione finalizzata al Buskers festival. Priorità è creare una cultura della “mondialità”, grazie ai volontari che da ogni parte del globo arrivano a prestare servizio alle porte di ingresso del festival con il Grande Cappello: le offerte qui raccolte andranno in parte all’organizzazione dello stesso festival e ad altre attività mondiali.
da MOSCA – Mosca in questi giorni è fresca e colorata: 13 agosto è iniziato infatti uno dei più grandi eventi dell’estate, che si protrarrà fino al 23: il Festival estivo della marmellata, quest’anno alla sua seconda edizione. Un successo, oggi come allora.
Inmolte piazze e boulevard della città si possono trovare vasetti colorati, casette addobbate di fiori che vendono marmellate e mieli di ogni tipo, come quello bianco e cremoso della Crimea, eccellente. Ogni quartiere (raion) ha il suo frutto, se ci cerca la ciliegia basta andare alla Manezhnaya Square, l’anguria si trova sulla Tverskaya, l’uva sulla Arbat. Ce n’è per tutti i gusti. Tutto ruota intorno alle marmellate, dai concerti, alle master class, ai contest e ai divertenti giochi. Ogni momento è buono per gustare una dolce fetta di pane imburrata o per acquistare un vasetto delizioso che si potrà conservare per il freddo e lungo inverno, quando gli sgargianti colori estivi saranno solo un ricordo. Si possono assaggiare tanti tipi di conserve e miele e poi decidere.
Il centro principale dell’evento è la Manezhnaya Square, dove turisti e moscoviti si affollano, soprattutto nel fine settimana, per provare marmellate tradizionali ed esotiche preparate con petali di rose o olive. Statue alte circa sei metri fatte di arance, albicocche o mele decorano la via che conduce dalla Manezhnaya Square alla Ploshchad Revolyutsii, dove si può ammirare lo spettacolo-balletto sui roller “Cipollino”, di Gianni Rodari, diretto dal famoso pattinatore sul ghiaccio Pyotr Chernyshov. Cipollino è un piccolo di cipolla, il cui povero padre cade accidentalmente sul piede del principe Limone e per questo viene condannato all’ergastolo. Cipollino cerca di salvare il padre, ma deve scappare dalle grinfie del cavalier Pomodoro, del principe Limone e dell’esercito dei Limoncini. Un giorno incontra sor Zucchina che aveva una casa minuscola costruita sul prato delle Contesse del Ciliegio. Il cavalier Pomodoro si arrabbia, ma Cipollino lo provoca e il cavaliere gli strappa il ciuffo e scoppia a piangere. Il paese decide di nascondere la casina nel bosco. Ma il cavaliere ha la sua vendetta: dice ai Limoncini di catturare tutti i maschi del paese e portarli in prigione. Cipollino (e il tocco d’Italia) deve riuscire a salvare i prigionieri, ma per farlo passa un sacco di avventure… e qui, le avventure si possono davvero immaginare davvero tutte. Con la gallina fatta di zucchine, mele, arance e peperoni, la tartaruga di limoni e arance, la casetta costruita con peperoni rossi e gialli oltre che con tante belle zucchine. Vernici speciali le ricoprono, per evitare che si rovinino. E poi ci sono la bambola tipica russa, la farfalla multicolore che comprende anche delle piccole zucche e un vasetto immenso di marmellata. Sullo sfondo un cocomero verde gigante (la stessa struttura che d’inverno si trasforma in luminosa e splendente palla d’albero di Natale.
La creatività è alla sua massima rappresentazione ed ha il suo massimo sfogo. Il 19 agosto, l’apple pie più grande del mondo (250 kg) sarà preparato e offerto al pubblico nel Novopushkinsky Park; per i più piccoli ci sarà un piccolo zoo sul Tverskoi Bulvar. Tanti eventi simili sono anche sulla Arbat, lungo il Krimskaya Embankment.
A fare da contorno produttori di vari Paesi e di oltre 40 regioni della Russia che vendono i loro prodotti sotti i delicati chalet. Un tripudio di sapori. Qui tutto è fantasia, colore, spensieratezza, leggereza, fantasia, immaginazione, allegria e divertimento. Ecco allora una simpatica e piacevole carrellata fotografica, per voi, perché possiate partecipare a questo simpatico evento.
Lo hanno perseguitato, picchiato, ferito, arrestato. Hanno spento il suo blog, cercato di ucciderlo, di rubargli la voce e il pensiero. Ma non è servito. Il bengalese Asif Mohiuddin, 30 anni, vincitore dell’edizione 2015 del Premio giornalistico Anna Politkovskaja, istituito nel 2009 in occasione del festival di Internazionale, che si svolge a Ferrara in ottobre, non ha mai smesso di scrivere, parlare, difendere i diritti di donne e bambini del suo Paese, il Bangladesh. Di denunciare le aberrazioni di ogni fondamentalismo religioso, in particolare di quello islamico che, giorno dopo giorno guadagna terreno nel suo Paese. Lo ha fatto in modo laico e nel nome di una libertà d’espressione costata la vita a molti suoi colleghi e amici. La sua è un’esistenza a rischio, come quella di altri blogger, che seppure hanno lasciato il Paese, restano nell’occhio del ciclone, minacciati dagli estremisti di Allah sparpagliati in Europa.
“Non mi aspettavo di vincere il premio, è un riconoscimento che mi rende orgoglioso e mi spinge a fare il mio lavoro con sempre maggior professionalità”, dice con un pizzico di emozione. Sulla sua testa pende un processo per blasfemia, è accusato di essere un nemico dell’Islam e di aver diffamato il governo con i suoi commenti in rete. Il suo nome è finito insieme a quello di altri 83 colleghi in una lista nera stilata da una commissione di nove Imam nominata dalle autorità. Niente di buono, tanto che si è ritrovato dietro le sbarre dopo aver subito ogni sorta di interrogari. “Quando ero in carcere, hanno tentato di accoltellarmi, le prime settimane sono state davvero spaventose – racconta – erano tutti ragazzi, volevano uccidermi senza sapere il vero motivo per cui lo stavano facendo. Dietro a quel gesto c’era ignoranza, per questo sono convinto dell’importanza di incidere sul sistema educativo. La religione va insegnata come qualsiasi altra materia, non deve essere l’unico input e soprattutto non deve assoggettare le persone”. Una volta uscito dal carcere è espatriato, l’unica mossa per uscirne vivo, ma non senza rischi.
Amnesty International, Reporter senza frontiere, il gruppo bengalese di Bielefeld e dell’Hamburg Foundation for Politically Persecuted People, hanno fatto il possibile per dar voce al suo caso e garantirgli un anno “protetto” lontano dal Bangladesh. Far conoscere il caso di Asif non ha significato azzerare completamente i pericoli che ne accompagnano l’esistenza e la paura che li accompagna. I brutti ricordi sono sempre una presenza scomoda. Nel 2013 davanti alla porta del proprio studio, fu aggredito e accoltellato alle spalle per ben 53 volte, lo trovarono in una pozza di sangue. E a molti suoi colleghi e attivisti andò peggio. “Ho perso tanti amici, assassinati, ma altri sono ancora in Bangladesh e continuiamo a sentirci attraverso la rete e il profilo face book. La situazione è molto pesante – racconta – Personalmente convivo con la paura da diverso tempo, sapevo di essere nella lista nera dei fondamentalisti, che mi hanno cercato anche all’estero”. Il diritto all’informazione, allo studio, alla libertà di espressione, però possono più della paura. E vivono sulla sua tastiera di blogger.
Tredicimila sono i progetti che lo scorso anno in Italia hanno fatto ricorso al sistema di crowdfunding (finanziamento comunitario). Meno della metà, 5.500 (cioè il 42,3% del totale) sono quelli che hanno raggiunto l’obiettivo prefissato. La raccolta generata attraverso le piattaforme specializzate, autorizzate sulla base delle normative attuali, ha registrato un ammontare complessivo calcolato in circa 30milioni di euro, per un valore medio di 2.300 a progetto, attribuito sulla base della totalità dei soggetti che si sono attivati. I dati sono stimati dagli analisti del settore, non sono dunque ufficiali, ma considerati pienamente attendibili.
Ferraraitalia può quindi essere particolarmente soddisfatta del risultato conseguito. Ha fatto centro la nostra pubblica richiesta di sostegno a un modello di “informazione verticale” pluralista, libera da preconcetti e indipendente da potentati e interessi di parte; un’informazione che privilegia l’approfondimento, favorisce la conoscenza e sollecita il confronto oltre i pregiudizi.
Il crowdfunding di Ferraraitalia si è concluso ieri con un attivo di 5.385 euro raccolti, pari al 108% dell’obiettivo, prefissato in cinquemila euro. Facciamo parte della minoranza dei proponenti (meno di uno su due) che ha realizzato il proprio scopo. E abbiamo conseguito, grazie alla generosità dei donatori, un risultato superiore al doppio della somma media versata.
Di questo straordinario successo siamo grati a tutti voi lettori, che avete voluto testimoniare anche concretamente l’apprezzamento al nostro lavoro. E’ uno stimolo in più per migliore il nostro quotidiano.
Da settembre ci riproponiamo di offrirvi un giornale più ricco e meglio ordinato nei contenuti. Questo periodo estivo in cui si lavora a ritmi un po’ più blandi ci consente di riorganizzare le idee e di tare al meglio la macchina. Grazie alla somma raccolta attraverso il crowdfunding per l’autunno Ferraraitalia avrà una redazione, un luogo fisico di lavoro e di incontro con la comunità. E’ il primo fondamentale passo per andare oltre la fase pionieristica e dare stabilità all’impresa, che tale diverrà anche in termini propri, aggregando in forma cooperativa il gruppo di giornalisti che concretamente garantisce la sviluppo di Ferraraitalia.
Pubblicamente esprimiamo la nostra gratitudine a tutti coloro che hanno contributo: i pensionati dello Spi Cgil Ferrara, i partigiani dell’Anpi provinciale di Ferrara, l’Istituto di Storia contemporanea di Ferrara, l’Associazione amici dei musei e dei monumenti ferraresi e Federmanager Ferrara, oltre ai cento-cittadini-cento che citiamo qua sotto uno per uno (ad eccezione di coloro che hanno scelto di non divulgare l’identità). Grazie anche al team Ginger [vedi sito] per l’imprescindibile ausilio tecnico e i preziosi suggerimenti offerti a supporto di tutta l’operazione.
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“Oggi si vola”. Tanti – in questi giorni – volano: mare, montagna, lidi esotici o città internazionali. Ma il volo di questo resoconto, oggi, non va tanto lontano. E’ un volo in ultraleggero, un velivolo biposto che sale sulle nostre teste, si alza sulle case, il fiume e il paesaggio di tutti i giorni. Il pilota è Michele Ferrigato, ferrarese, che lavora per una grande casa editrice e che – oltre alla macchina in garage – tiene un P92, versione italiana del Cessna. Il parcheggio, ovviamente, richiede un po’ più di spazio e lui lo ha trovato insieme con altri due fratelli ugualmente appassionati di volo, che hanno un’azienda agricola nella campagna di Fiesso Umbertiano, provincia di Rovigo, quindici di chilometri da Ferrara. Nel campo coltivato a mais, vite e orto spicca una striscia lunga di terra, piana e rasata. E’ il campovolo Stella, che si trova appunto in via Stella e che da qualche tempo è stato riconosciuto come aviosuperficie a tutti gli effetti, segnalata da cartelli stradali e mappe aeree.
“Allora sei pronta?”, dice Michele, mentre fa salire la saracinesca dell’hangar lungo e bianco dove sono parcheggiati il suo piccolo aereo privato con gli altri due. Questi velivoli spiccano il volo spesso per destinazioni dove in tanti facciamo gite e viaggi, a Venezia, in Croazia o a Roma. Solo che Michele e i fratelli Mantovani, in questi casi, non prendono la macchina o il treno, ma fanno come oggi. Alzano il portellone, aprono il piccolo cofano del loro mezzo e controllano che i livelli di acqua e olio siano a posto. Michele fa girare un po’ l’elica manualmente poi spinge fuori il piccolo aereo che è parcheggiato in fila davanti al suo. Sì, basta spingerlo a mano e l’aereo cammina. “Pesa come una Panda”, commenta Michele. Provo, e penso che una Panda sarebbe più pesante per me. “Prego – dice a questo punto – adesso puoi salire. Prima devi infilare il piede sinistro, abbassi la testa e quindi appoggi dentro anche la gamba destra”. Fatto, sono a bordo. “Appoggiati bene allo schienale, che ti fisso le cinture”. Una volta fissate, non mi muovo più, non riesco mica ad avvicinarmi al vetro dell’abitacolo. “Sì, è così che deve essere”, sorride Michele, che intanto sale al posto del pilota e mi passa delle cuffie da infilare in testa. Controlla che la piccola barretta che fa da sicura della mia portiera sia abbassata e spiega: “Tieni il microfono ben vicino alla bocca, adesso metto in moto e ci parleremo attraverso le cuffie. L’unica cosa è che è meglio che non dici nulla quando mi metto in collegamento radio con Padova, perché sennò ti inserisci nel canale radio di comunicazioni aeree e ti sentono in tutta Italia!”. Ok.
Piccola inversione a U e poi via, sulla pista gialla che costeggia le piante di mais maturo. Appena sali un po’, vedi un’intera distesa di pannelli fotovoltaici e poi il fiume. Com’è secco il Po, lunghe strisce bianche di sabbia restringono il flusso verde scuro dell’acqua. “Se ti va – dice Michele – scendiamo a Rovigo a prenderci un gelato”. Bello. Ma la voglia di vedere dall’alto Ferrara prevale. “Tieni presente – continua Michele – che a Ferrara non posso scendere sotto i 2500 piedi, che sono circa 800 metri, e quindi vedrai tutto un po’ più da lontano, mentre qui possiamo abbassarci fino a 1500 piedi, cioè 500 metri”. Va bene, inversione di rotta e lui sbotta: “Ma quello è un mezzo del 118!”. Un elicottero giallo sfreccia in direzione Rovigo e Michele dice: “Se vedi aerei in giro, avvertimi, mi raccomando. Quattro occhi vedono meglio di due”. Ah però, è proprio vero che in ultraleggero si naviga a vista…
Pochi minuti ed ecco Ferrara. “Vedi, quello è il parco urbano, poi ci sono le mura e il cimitero”. Devo fare un attimo mente locale. Già, quelli che sembrano cespugli verdi sono gli alberi del parco Bassani. Ma il cimitero…? Oh, già, minuscola distesa di lapidi, ma siamo già di nuovo oltre. Un corso d’acqua, una nave, un ovale grigio-verde grande grande, un rettangolo di prato verde squillante. “Sono il Po di Volano con sopra il Sebastian pub, l’ippodromo e lo stadio”. Cavolo, ma allora, lì c’è la mia casa. Minuscola. Chissà perché, pensavo che avrei potuto ficcare il naso dentro le mie finestre. No, invece, è un po’ come guardare su Google maps quando fai lo zoom sulla versione satellitare. Solo che quassù grondi di sudore. Letteralmente. “Gira un po’ quel foro nel finestrino”, suggerisce lui. In effetti dal punto di ventilazione entra aria bella fresca, ma l’abitacolo di questo pomeriggio d’agosto padano è un fornetto. Il cielo, invece, sembra quello di un giorno di foschia tardo autunnale. “E’ l’umidità – dice Michele – bisogna che torniamo in una giornata più tersa”. Fa il giro, si piega un po’ per scattare una foto dal suo cellulare a castello e duomo formato mini-plastico, l’aereo si inclina tutto dalla mia parte verso terra. Mi rincuoro pensando che poco prima aveva controllato bene che la sicura della mia porta fosse abbassata. E si ritorna di nuovo al campo Stella. Wow, sembra fresco, adesso, quaggiù. Grazie Michele!
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Il P92 pronto a decollare (foto Giorgia Mazzotti)
Il P92 in volo sul Po (foto Giorgia Mazzotti)
P92 in manovra (foto Giorgia Mazzotti)
Il P92 nell’hangar (foto Giorgia Mazzotti)
L’hangar del P92 affacciato sul frutteto (foto Giorgia Mazzotti)
Il P92 (foto Giorgia Mazzotti)
Il campovolo Stella di Fiesso Umbertiano (foto Giorgia Mazzotti)
Pronti al decollo sul P92 (foto Pava)
Ferrara con ippodromo e Po di Volano vista dall’aereo (foto Giorgia Mazzotti)
Castello e duomo di Ferrara visti dall’ultraleggero (foto Giorgia Mazzotti)
Se si osserva la società dal punto di vista dei bisogni, liberi per quanto possibile dai preconcetti del pensiero unico economico che quotidianamente ci assedia con PIL, Spread, Dow-Jones, FTSE e simili amenità, il nostro sguardo si apre su prospettive e paesaggi molto diversi da quelli che siamo abituati a vedere solitamente. Liberati un poco dal pregiudizio, da molti cliché e fors’anche da qualche strisciante ideologia, possiamo perfino immaginare che il fine della società nel suo insieme possa essere espresso con un linguaggio e con criteri differenti da quello della crescita, della riduzione del debito pubblico, dell’aumento dell’occupazione.
Possiamo ad esempio ipotizzare che il fine della società non possa e non debba essere disgiunto dalla sua capacità di risolvere i bisogni dei suoi membri, possiamo immaginare che esso non possa essere pensato come completamente indipendente dal più vasto sistema ecologico dal quale le società sono emerse e traggono sostentamento, possiamo vedere la gabbia d’acciaio che Max Weber ci ha insegnato a riconoscere e mettere in dubbio la presunta certezza di vivere in un mondo disincantato, indifferente alla sorte degli umani.
Siamo tuttavia così immersi nel brodo dell’informazione mainstream che un simile passaggio (mettere tra parentesi l’ideologia economica imperante) risulta essere molto difficile, ed è percepito dai più come un esercizio poco utile, se non completamente insensato. Cosa possiamo scoprire se osserviamo il nostro mondo da questa prospettiva particolare e, nell’osservarlo, immaginiamo di farlo assumendo diversi punti vista che possano essere rappresentativi di differenti posizioni dentro la struttura sociale?
1. Lo spirito del consumismo All’alba del pensiero diventato oggi egemone (siamo nel 1955, l’epoca dipinta nei suoi aspetti positivi dalla situation comedy Happy Days), un economista allora molto autorevole Victor Lebow, membro del gruppo di analisti economici del Presidente degli USA Eisenhower, se ne uscì con questo asserto, che è la chiave di volta dell’intero edificio della “nostra” società del consumo:
«La nostra economia incredibilmente produttiva ci richiede di elevare il consumismo a nostro stile di vita, a trasformare l’acquisto e l’uso di merci in rituali, di far sì che la nostra realizzazione personale e spirituale venga ricercata nel consumismo. Abbiamo bisogno che sempre più beni vengano consumati, distrutti e sostituiti ad un ritmo sempre maggiore».
Questa prospettiva, nella quale viviamo oggi completamente immersi come il pesce nell’acqua, al punto di non sapere neppure più cosa si intendesse (e si intenda) con il termine consumismo, pone la nozione stessa di bisogno su una base che ne determina in buona sostanza la dissoluzione. In un contesto di sovra-produzione, tutte le vecchie nozioni che si fondavano sulla penuria di beni e i rischi derivanti da eventi esterni imponderabili, sull’esigenza di mantenere una centratura rispetto alle esigenze basilari dell’esistere, vengono messe in discussione e presto cadono nell’obsolescenza; di fatto parlare di bisogno, almeno al livello di politica economica, diventa inutile poiché la prospettiva più importante, se non unica, diventa quella del consumo.
In che modo dunque, all’interno di questa prospettiva, le nostre società rispondono al bisogno? Superata la soglia della produzione di una massa di beni statisticamente sufficiente a coprire i bisogni primari di sussistenza, sostanzialmente attraverso 7 meccanismi fondamentali il cui scopo è appunto quello di aumentare i consumi:
la manipolazione sistematica dei sistemi di desiderio attraverso l’educazione al consumo che inizia fin dai primi anni di vita (“consumo quindi sono”);
l’obsolescenza programmata delle merci prodotte (i beni devono durare poco per essere sostituiti spesso) che si coniuga con il fascino dello sviluppo tecnologico;
la moda con tutte le sue implicazioni (ciò che ha ancora piena funzione d’uso deve essere rigettato in quanto non socialmente adatto);
lo specialismo esasperato e diffuso, dove il ruolo dell’esperto porta allo svuotamento sistematico delle capacità che possono rendere autonoma la persona e alla loro sostituzione con prestazioni a pagamento (“non so fare nulla che esca dal mio ambito ma so a chi rivolgermi”);
la sostituzione di attività prima svolte informalmente nelle reti comunitarie e familiari, con prestazioni specialistiche a pagamento;
la credenza acritica che la crescita del PIL sia l’unica via ed indispensabile per far crescere la torta da spartire, creare lavoro e quindi far entrare sempre nuovi consumatori nel sistema (è necessario crescere indefinitamente);
l’estensione forzosa del modello ritenuto (unico) portatore di benessere in tutto il pianeta e, con esso, dello stile di vita occidentale, ovviamente presentato come (unico) portatore di libertà e di democrazia.
2. Siamo ancora in grado di riconoscere i nostri bisogni? Lasciamo i suggerimenti del consigliere del presidente degli anni ’50 e proviamo ora a recuperare una sana prospettiva soggettiva, cambiamo punto di vista e consideriamo il tema del bisogno (nella duplice accezione di carenza e di motivazione all’azione) secondo ciò che percepiamo e sentiamo come persone, come singoli esseri sociali dotati di corpo, di emozioni e di pensieri. Con un impegno che ci è stato insegnato dalla fenomenologia, cerchiamo di mettere tra parentesi il nostro ruolo sociale e tentiamo di individuare in cosa consistono i nostri bisogni: ne scaturirà un elenco simile al seguente, proposto da un altro economista, Manfred Max-Neef (per non citare sempre il citatissimo Maslow), un personaggio decisamente diverso da quello citato in precedenza:
Sopravvivenza
Protezione
Affetto
Partecipazione
Ozio
Creazione
Identità
Libertà
Spiritualità
Osserviamo questo elenco, liberi per quanto possibile da soluzioni precotte e preconfezionate, affrontiamolo in modo creativo, e chiediamoci in quali modi possa essere affrontato da singoli soggetti e in quali modi concretamente lo affrontiamo nella nostra vita. Da questo punto di vista, chiamati in causa direttamente, siamo decisamente più propensi a credere che l’economia debba servire alle persone, piuttosto che le persone servire all’economia.
3. Il marketing ovvero l’arte di vendere e costruire nuovi bisogni In che modo la nostra società tende attualmente ad interpretare ed onorare tutti ed ognuno di questi bisogni? Secondo l’ipotesi mainstream o neoliberista, proprio e solo attraverso i mercati, la crescita forzosa del PIL e la conseguente corsa sfrenata al consumo (ben espressa dalla famosa PublicitàProgresso (!) “Fai girare l’economia”). Questa visione è esemplarmente sintetizzata in alcuni detti recentissimi (verbatim) che girano nel mondo (affascinante) del marketing, il sottosistema economico deputato per antonomasia a far crescere le vendite (e i consumi) che, sul tema dei bisogni, ha uno sguardo tanto originale quanto interessato:
“la pubblicità non è più l’anima del commercio, ma il commercio dell’anima”;
“senza sogno non c’è bisogno”;
“il consumatore compra emozioni, non materia: un marchio senza emozione è solo merce”;
“siamo ciò che compriamo”.
Considerati a prescindere dal loro appeal creativo ed attuale, questi motti esprimono perfettamente l’idea di un consumismo ormai orientato a dare risposte proprio a quelle che sembrerebbero essere le aspirazioni più alte e “spirituali” dell’uomo (il modello Marketing 3.0 dal prodotto, al cliente all’anima, discusso da P. Kotler nell’omonimo libro).
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Corman Cullinan, un avvocato sudafricano esperto di “governance” ambientale (socio fondatore della Cullinan&Associates Inc., studio legale di Città del Capo), firma il testo che Vandana Shiva definisce come una pietra miliare del percorso volto a garantire la sopravvivenza della specie umana e la salute della Madre Terra. La giurisprudenza creata dall’uomo non basta più, è giunto il momento di sottostare e rispettare la legge universale della Natura, pensa Cullinan.
Diviso in quattro parti, il libro insiste sulla necessità di allineare il pensiero ambientalista moderno con il diritto, facendoli convergere in una visione innovativa che possa far uscire il mondo dall’emergenza ecologica e umanitaria che ci si trova a vivere oggi. Principalmente sono criticati i falsi presupposti dei nostri sistemi amministrativi, secondo i quali gli esseri umani sarebbero separati dal loro ambiente e per i quali la prosperità sarebbe indipendente dalla salute della Terra. In realtà, la nostra salute e benessere non dipendono dallo sfruttamento della Terra, ma al contrario dalla conservazione dell’ecosistema globale. Strutture di governance, giurisprudenza e leggi consolidano, invece, l’illusione della separazione e dell’indipendenza. Gli esseri umani sono, nei sistemi legali attuali, gli unici soggetti dell’universo. Bisognerebbe, invece, pensare come il professor Christopher Stoner, che già nel 1972 scriveva un articolo innovativo, “Should Tree Have Standings? Toward Legal Rights for Natural Objects”, base della riflessione sul tema dei diritti nella prospettiva di una Terra al centro di tutto. Accettare e capire che la Terra è una partecipazione di soggetti e che i diritti nascono dove nasce l’universo e non solo dalla giurisprudenza significa che non è più possibile affermare che gli esseri umani abbiano dei diritti senza concedere che anche gli altri membri della comunità Terra abbiano i loro. Questo perché i diritti esistono nel contesto delle relazioni.
La sfida della giurisprudenza della Terra sarà, allora, quella di sviluppare metodi di governo che impediscano agli esseri umani di violare i diritti fondamentali della natura. Perché, come brillantemente conclude Cullinan, c’è qualcosa di ribelle nei germogli, riservati per natura e che non si vede mai quando spuntano. E se le idee sono come i germogli, questo libro “ribelle” potrà essere il seme di una nuova filosofia. E perché anche un albero ha un diritto di denuncia…
C. CULLINAN, I diritti della natura – Wild law, Zeitgest, Piano B edizioni, Prato, 2012, p. 261.
Un evento imperdibile per i cultori dell’arte medievale e per gli amanti del bello in generale, quello che si sta svolgendo nel Battistero di Firenze.
Fino all’8 settembre prossimo rimarrà esposta, e soprattutto visibile da pochi metri di distanza, la grande vetrataistoriata, legata al piombo, dell’occhio centrale della cattedrale di Santa Maria del Fiore, posta dietro il rosone centrale da oltre sei secoli e restaurata in questi ultimi mesi dalla storica ditta vetraria artistica Polloni di Firenze.
La vetrata circolare raffigura l’Assunzione della Vergine e venne collocata sul portale principale della Cattedrale nel 1405. È un gioiello dell’arte medievale: i cartoni furono disegnati da Lorenzo Ghiberti alle fine del Trecento, come parte di un ciclo di oltre quaranta vetrate istoriate ideate fin verso la metà del Quattrocento. Nei suoi Commentari Ghiberti riporta: “Disegnai nella faccia di Santa Maria del Fiore, nell’occhio di mezzo, l’assunzione di Nostra Donna e disegnai gli altri [vetri che] sono dallato”. Il Maestro fiorentino, scultore già famoso per le formelle della porta del Battistero, creò qui un’opera in vetro destinata a brillare per secoli di luce multicolore: il rubino, il topazio, lo smeraldo, lo zaffiro si alternano in tasselli in vetro dipinto assiemati con i listelli in piombo, dall’altrettanto celebre maestro vetraio del tempo Niccolò di Piero Tedesco.
La vetrata ha dimensioni da record: oltre 6 metri di diametro, circa dieci braccia fiorentine, divisa in 28 antelli. Per questo è da sottolineare l’ardita operazione di smontaggio, considerandone anche il posizionamento in altezza, a circa quaranta metri; il delicato contesto urbano entro cui si trova la cattedrale; il peso e naturalmente la preziosità artistica.
Il restauro della vetrata si è reso necessario per fronteggiare gli aggressivi fenomeni secolari di degrado superficiale, chimico e fisico, sul vetro dell’epoca, che hanno causato la perdita delle grisaglie fissate a caldo negli incarnatie e nei panneggi e lo scurimento per deposizione di patine, che pregiudicavano la vivacità dei colori dei vetri. In aggiunta, era necessario recuperare la stabilità e la verticalità dei piombi rilassati dal vento e dai cedimenti strutturali del telaio metallico.
Al termine dell’esposizione la vetrata tornerà al suo posto, lassù a oltre quaranta metri, per illuminare e guidare, come avrebbe voluto Ghiberti, i pellegrini e i visitatori che a migliaia ancora affollano la cattedrale oggi come nel Quattrocento.
A “pochi passi” dal Battistero c’è un altro gioiello medievale, unico come il primo e altrettanto imperdibile, tanto da costringere a una visita: si tratta della grande vetrata absidale istoriata del XIIIsecolo installata nel Duomo di Siena, attribuita definitivamente a Duccio di Buoninsegna negli anni Cinquanta del Novecento, e restaurata all’inizio del Duemila dal Maestro restauratore bolognese Camillo Tarozzi.
La vetrata circolare, gigantesca come la precedente di Ghiberti, di 6 metri di diametro e frazionata in 14 grandi antelli, raffigura le Storie Mariane: i tre pannelli centrali raffigurano la Dormitio, l’Assunzione e l’Incoronazione della Vergine, accompagnate dalla raffigurazione laterali degli Evangelisti e di Santi e Patroni locali.
Se escludiamo alcune ipotesi fatte sull’occhio absidale dell’Abbazia di San Galgano, ora testimonianza scheletrica e affascinante, la vetrata di Duccio legata al piombo da un maestro vetraio rimasto sconosciuto è nel Duecento un unicum per le sue dimensioni e i soggetti.
L’originale vetrata policroma dagli sgargianti colori giallo blu e rossi è attualmente conservata al Museo dell’Opera, a fianco della cattedrale, mentre una copia prodotta con le tecniche duecentesche domina l’abside con la propria luce prorompente e mistica e dopo secoli ancora cattura l’attenzione dei nostri occhi e della nostra anima.
Due opere senza eguali nel mondo occidentale per colori e maestria compositiva che ispireranno posteri illustri. Il sacerdote e alchimista fiorentino Antonio Neri alla fine del Cinquecento scrive: “e se bene si dice, e pare sia vero, che l’arte non può arrivare alla natura, tuttavia l’esperienza in molte cose mostra e in questa particolarmente de i colori nel vetro, che l’arte non solo arrivi e adegui la natura: ma di gran lunga la superi e passi.
“Perché Anna, la protagonista de “La ragione dei sensi”, è una donna così indipendente e serena? Vorrei che tante sognassero di essere come lei… sarebbe già uno stimolo a desiderare l’autoaffermazione e la ricerca del proprio benessere”.
Grazia, “La ragione dei sensi”, una storia erotica diversamente infinita?
Più che una storia infinita sembra essere una storia sempre attuale: all’epoca della prima edizione, pubblicata nel 2010 da Rusconi, scrivere di relazioni virtuali era piuttosto innovativo perché non era ancora così diffuso l’utilizzo dei social network e dei siti per instaurare un rapporto virtual-erotico. Adesso è attualissimo! Dopo aver ripreso i diritti dalla Rusconi ho tenuto “La ragione dei sensi” nel classico cassetto, rifiutando proposte da parte di altri editori. Poi l’estate scorsa ho deciso di scrivere a Stefano Mauri, proprietario del Gruppo Editoriale Mauri-Spagnol, per una questione che definirei “affettiva”: il primo romanzo erotico che mi ha segnata, in senso letterario, è stato “Le età di Lulù” di Almudena Grandes, edito proprio da TEA, e pensare al mio romanzo con apposto quel marchio, mi dava una sensazione di completezza!
Il testo è stato valutato personalmente da Stefano Res, direttore editoriale della casa editrice TEA, ed è stato pubblicato nella veste che avevo immaginato. In TEA ho trovato professionalità e collaborazione davvero onorabili, ho fatto i miei complimenti a Stefano Mauri per la cordialità e la competenza dello staff, non perché abbiano pubblicato il mio romanzo, ma per il loro metodo lavorativo e il rapporto che hanno con gli scrittori. Davvero un’ottima esperienza.
Grazia, le donne al potere, rivoluzione o ultima beffa patricentrica?
Le donne al potere sono una farsa, salvo pochi casi eccezionali, nei quali comunque hanno ottenuto potere per concessione maschile, innegabile. Con questo chiaramente non intendo affermare che le donne non abbiano le capacità e la determinazione per arrivare, ma semplicemente che ancora oggi sono un veicolo: vengono piazzate laddove servono alla macchina del potere per aumentare consensi, dove è necessario dimostrare che si è aperti e progressisti, ma non vedo ancora un effettivo riconoscimento delle capacità femminili. D’altro canto io sono tutt’altro che comprensiva con il modo di agire delle donne, ancora troppe vivono all’ombra della comodità, non si mettono realmente in gioco e non riescono a sopraffare quel senso di inferiorità che è stato attribuito al nostro genere dalla notte dei tempi. Posso sembrare acida, ma sono anni che dico alle donne che nessuno mai andrà a cercarle per dar loro il potere, che nessuno avrà per loro riconoscimento gratuito! Prendi me: sono in tante a dirmi che sono fortunata perché ho un marito che mi lascia fare questo lavoro, perché posso parlare di sessualità senza avere problemi con la gente, che posso frequentare ambienti culturali importanti, personaggi noti e altre cose del genere. Fortuna? Vogliamo fare un’altra intervista dove racconto i miei ultimi cinque anni? Più che avere la fortuna di poter vivere queste esperienze, ho avuto il coraggio di affrontarle e anche di affrontare la fatica che ha comportato e comporta! Ferrara non mi dava spazio, sono andata a cercarmelo a Roma, a Milano, ovunque ci fosse la possibilità di guadagnare affermazione. E tutto questo avendo una famiglia, difficoltà di salute, e mettiamoci pure la situazione post-terremoto, che mi vede ancora abitare nel giardino di casa dentro un modulo abitativo, in attesa che la Regione decida se la mia casa va abbattuta o solo ristrutturata. Non mi sto lamentando, semplicemente voglio che le donne capiscano che per uscire dalla condizione in cui la società ci vuole, siamo noi a doverci impegnare perché nessuno ci verrà a cercare. Il sistema è di chiara gerenza maschile e gli uomini al potere non sono poi così interessati a favorire le donne: vorrei che questo fosse chiaro alle donne!
Verranno restituite con l’assegno previdenziale di agosto le somme spettanti in qualità di rimborso della mancata indicizzazione delle pensioni operata per gli anni 2012 e 2013 ai trattamenti superiori a tre volte il minimo per effetto del decreto Salva Italia (Dl 201/2011).
In futuro si andrà in pensione a 80 anni, l’anno dopo aver trovato il posto fisso.(Maurizio Crozza)
Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…
I mesi estivi sono per molti di noi l’occasione per prendere una pausa, più o meno lunga, dalla frenesia della vita quotidiana. Ci sono diversi modi di rilassarsi e ricaricarsi. Di seguito vi proponiamo alcuni semplici esercizi per mantenere e aumentare la forza vitale intrinseca nel corpo umano non solo in vacanza, ma durante tutto il tempo dell’anno. Eseguiti giornalmente, questi esercizi consentiranno una salute migliore e di aumentare la propria vitalità.
Respirazioni
Seduti diritti e confortevolmente, posizionare la lingua appena sopra i due incisivi contro il palato. Chiudere la bocca e inspirare attraverso le narici, espandendo completamente i polmoni, e mantenendo l’apnea inspiratoria per circa 7 secondi. Espirare attraverso la bocca, con il proprio ritmo, mantenendo la lingua contro il palato. Eseguire questo esercizio per 7 respirazioni due volte al giorno. Questo è l’esercizio più semplice ma è anche il più importante.
Sollevamento delle braccia
In piedi con le gambe divaricate in linea con le spalle, braccia in fuori all’altezza delle spalle.
Palmo della mano sinistra verso l’alto, palmo destro verso il basso.
Mantenere la posizione il più a lungo possibile, eseguendo delle respirazioni ampie e profonde. La durata ideale e di 5-10 min, ma bastano anche 5-6 min.
Al termine dell’esercizio, mantenendo le braccia tese, portarle in alto passando per fuori, non permettendo alle braccia di andare in avanti; in fine abbassare le braccia.
Rotazione delle anche
Supini, braccia in fuori all’altezza delle spalle con il palmo sinistro rivolto in alto ed il destro verso il basso. Prendere contatto insieme con le ginocchia distese.
Sollevare la gamba sinistra mantenendola tesa e ruotare l’anca e la gamba sinistra sopra quella destra. Mantenere entrambe le spalle a contatto del terreno e respirare profondamente fissando la posizione fino a 5 minuti o finché si avverte dolore.
Eseguire l’esercizio fino a che non si e in grado di mantenere la posizione per 5 minuti senza avvertire dolore.
Ritornare alla posizione di partenza ed eseguire l’esercizio sul lato destro. Mantenere la posizione per 5 minuti o fino alla soglia del dolore su ogni lato una volta al giorno.
L’esercizio dovrebbe essere eseguito senza provare dolore.
Stretching spinale
Seduti su una sedia con schienale diritto, in modo che le cosce siano parallele al pavimento e le gambe perpendicolari.
Flettersi in avanti in modo che i gomiti si vengano a trovare tra le ginocchia.
Ruotare le palma delle mani in fuori da ciascun lato e piegare le dita sotto ciascun arco plantare, posizionando i pollici sulla parte superiore del piede.
Lasciare che il rachide si stiri completamente in questa posizione. Respirare lentamente e completamente fino a 5 minuti. Eseguire una volta al giorno iniziando con cautela.
Esercizio in piedi n.1
In piedi contro il muro in modo che talloni, colonna lombare, dorsale e nuca tocchino la parete.
Sollevare le braccia in avanti con i pollici che si toccano, fino all’altezza delle spalle. Poi il più lentamente possibile portare le braccia tese sopra la testa e infine, toccare il muro. Più lenti si va meglio è.
Abbassare le braccia ritornando alla posizione di partenza.
Respirare lentamente e profondamente. Eseguire una, due volte al giorno.
Esercizio in piedi n.2
In piedi, a 1 / 1.5 metri di fronte ad un muro, con i piedi a distanza delle spalle, appoggiare le palma alla parete all’altezza delle spalle.
Piegare ii piu possibile le ginocchia, mantenendo i talloni a contatto del pavimento.
Mentre le ginocchia sono piegate, respirare profondamente per un minuto. Eseguire cinque ripetizioni, una volta al giorno.
Esercizio in piedi n.1
Esercizio in piedi n.2
Circonduzione delle spalle
Seduti su una sedia con la schiena diritta ed entrambi i piedi appoggiati sul pavimento.
Flettere i gomiti e appoggiare i polpastrelli sulle spalle.
Respirando lentamente e profondamente, nella fase di inspirazione sollevare i gomiti verso il soffitto e flettere in basso il capo, mentre nella fase espiratoria, ruotare i gomiti in fuori e dietro verso la posizione di partenza, sollevando indietro il capo.
Parigi, estate 1942, una Francia sotto l’occupazione tedesca, con il governo collaborazionista di Vichy del maresciallo Petain, una pagina nera della storia francese, una macchia che resta per molti indelebile. Le vite dei francesi che scorrono lente, nella paura e nel sospetto del tradimento, molte che incappano in avventure che salveranno altre vite. Il caso di Edmond Batignole, simpatico macellaio titolare dell’omonimo negozio, che viene suo malgrado coinvolto dal futuro genero, arrogante e attivo collaborazionista, nell’arresto della famiglia ebrea dei Bernstein, suoi vicini di casa.
Simon, uno dei giovani figli dei Bernstein, riesce a scappare ma, presentatosi alla soglia di casa, convinto di trovarne i genitori, scopre che Edmond e la sua famiglia ne hanno preso possesso e vivono lì. Edmond, sentendosi in colpa, decide di nascondere il ragazzo, il quale viene presto raggiunto da due cuginette i cui genitori sono stati a loro volta deportati. La permanenza dei ragazzini nella soffitta del palazzo si protrae per lungo tempo, finché Batignole decide di aiutarli nella loro fuga di salvezza verso la Svizzera, con l’aiuto dei soldi ricavati dalla vendita di un quadro di valore appartenuto al padre di Simon.
Le avventure saranno tante, con screzi, incomprensioni e divergenze ma anche con tanti divertenti scambi di battute ironiche e pungenti fra un ragazzino colto dell’alta borghesia parigina (figlio di un noto medico, Simon parla tedesco, inglese e russo, oltre a suonare benissimo il violino) e un bottegaio sempliciotto. Un film che, per certi aspetti, assomiglia a “La Vita è bella”, una tragi-commedia che sa parlare di un dramma come l’Olocausto con toni leggeri che arrivano ogni tanto anche ad avere il sapore della farsa. Simon non è in realtà la classica vittima, ma un ragazzino saccente e petulante, a volte troppo conscio della sua superiorità culturale rispetto a Edmond.
L’originalità del film sta anche nell’affrontare il tema della Shoah non dal di dentro, come spesso avviene, ovvero dalla parte del popolo ebreo, ma dal di fuori, con lo sguardo di quella piccola e media borghesia francese che vi rimase indifferente, che scelse di non voler sapere, che restò a guardare silente per non perdere i propri privilegi, preoccupata solo del quieto vivere e di mantenere una sorta di tranquillità apparente. Se Edmond era uno di loro, il film è però la storia della sua trasformazione, della sua presa di coscienza, del suo riscatto. Un eroe per caso, come ve ne sono stati tanti. Con un lieto fine e una mano leggera che risparmia sentimentalismi e immagini forti o violente.
“Monsieur Batignole”, di Gerard Jugnot, con Gerard Jugnot, Michele Garcia, Jules Sitruk, Jean-Paul Rouve, Francia 2002, 100 mn.
Ferrara in questi giorni è bellissima, pesantemente afosa, ma bellissima. In alcune ore della giornata è deserta, un paesaggio quasi surreale. Solo le cicale sembrano avere il fiato che manca a quelle poche anime che si aggirano accaldate per i vicoli della città. Se poi è un venerdì sera di fine luglio, l’effetto è amplificato dall’assenza di chi è scappato verso i lidi alla ricerca di un qualche refrigerio lontano.
Tornando ogni tanto, dai freschi fine settimana moscoviti, mi piace aggirarmi per i viottoli antichi da sola, in compagnia della mia fulminea macchina fotografica e del mio taccuino curioso e colorato. Anche un lampione ha la capacità di incuriosirmi e di scatenare la mia fantasia libera e leggera in questi ultimi scampoli di vacanze. Non è il caldo che dà alla testa, ma il fascino del girovagare senza pensieri. I lampioni sono tanti, pronti a illuminare la città, in attesa di lanciare qualche raggio di luce a una coppia che lì sotto si bacerà romanticamente e appassionatamente, a due amici chiacchierini che parleranno del loro futuro, a un’anziana e simpatica signora che passeggerà con il suo cocker dolorante.
Quei lampioni hanno visto tanto, storie di una città che ride e che soffre, aliti di parole di chi si è lasciato e di chi si è ripreso, al fioco bagliore di quella luce incantata. Sotto di loro domande di fidanzamento, un bacio appassionato, promesse di amore eterno. Un bambino che apre una caramella, un braccialetto donato all’amichetta dai boccoli biondi, una lettera misteriosa aperta all’improvviso, una pagina di giornale che comunica un lieto evento, un cagnolino che fa pipì. E poi una zanzara schiacciata, una mosca scacciata, un signore che cerca di pulirsi la scarpa dal chewing-gum lasciato cadere da un punk scriteriato, una carezza nell’ombra rubata al tramonto della sera. Un viaggio che si progetta, un film che è piaciuto, un libro sfogliato che ha ridato una forza perduta, un messaggio lasciato in una bottiglia di birra, un biglietto del pullman regalato a chi percorrerà centinaia di chilometri per rivedere la sorella in Ucraina. Scambi di doni, scambi di pensieri, di parole, di speranze, di gioie, di dolori, di amori, di amicizie, di giorni e di vite. Questo sono i lampioni di Ferrara. Sotto di essi il tutto. Che felicità.
“L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.” (Costituzione della Repubblica Italiana, art.41).
Nel panorama della teoria e della pratica aziendale è sempre più facile imbattersi in espressioni come bilancio sociale, bilancio di sostenibilità, codice etico, accountability e certificazione degli standard di qualità dell’impresa: tutti documenti attraverso i quali l’azienda tenta di rileggittimare la propria attività, dichiarando la propria attenzione verso la comunità di riferimento, enfatizzando il proprio legame con il territorio e il proprio impegno per la sua tutela, dal punto di vista culturale e/o ambientale. In altre parole si asserisce di essere un soggetto economico che, perseguendo il proprio interesse prevalente, contribuisce a migliorare la qualità della vita dei membri della società in cui è inserito.
Salvo poi scoprire che nella realtà dei fatti spesso questi rimangono solamente documenti, dichiarazioni d’intenti formali, che non si traducono nella vita quotidiana delle aziende o, sarebbe meglio dire, di coloro i quali in quelle imprese lavorano, delle loro famiglie e dei territori sui quali avviene la produzione.
Insomma la “fabbrica per l’uomo” di olivettiana memoria rimane una bella utopia. Spesso, ma fortunatamente non sempre. Stando a “Corriere Imprese”, l’inserto economico del Corriere della Sera, in particolare in Emilia Romagna si possono contare alcuni imprenditori impegnati come l’industriale di Ivrea a “distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia”, attraverso finanziamenti per progetti sociali e istituzioni culturali e scientifiche erogati direttamente o attraverso fondazioni di impresa.
Fra questi c’è Lino Aldrovandi, ad di Renner Italia, che nel 2015 ha deciso di strutturare i propri interventi a favore del no-profit addirittura attraverso una piattaforma di responsabilità sociale: “La buona vernice”. L’elemento innovativo de “La buona vernice” è che i finanziamenti verranno erogati attraverso un sistema di votazione on-line su www.labuonavernice.it.
Il nome deriva forse dal core business di Renner: vernici all’acqua per legno. L’azienda è nata dal 2004, quando Adrovandi viene licenziato dalla multinazionale statunitense che ha acquisito l’azienda da lui amministrata. Lui non ci sta, raggiunge un accordo con gli eredi del fondatore della sua ex azienda e il maggiore azionista della Renner Sayerlack, società brasiliana detentrice di know-how nell’ambito delle vernici per il legno e leader di mercato in Sudamerica. A credere in questo nuovo progetto sono anche i ricercatori chimici e diversi dipendenti dell’altra azienda, che si dimettono per seguire Aldrovandi. In questi anni Renner è diventata la dimostrazione che business ed ecosostenibilità non sono binari divergenti; con i suoi prodotti ha restaurato gratuitamente le parti lignee dell’antica Torre Prendiparte di Bologna e ha rivestito l’Albero della Vita di Expo Milano 2015. E soprattutto ha davvero messo in pratica un sistema di produzione etico e sostenibile per l’ambiente e per i suoi dipendenti: grazie a un accordo sottoscritto con Filctem Cgil dal 2012 nelle bustepaga viene incluso anche il 50% del risparmio energetico, mentre dal 2013 ha preso il via “Uno stipendio in più per tutti” che prevede la suddivisione tra tutti i 250 dipendenti del 15% degli utili.
Dunque, a quanto pare, davvero una “buona vernice” di nome e di fatto.
Dal 15 maggio su www.labuonavernice.it è stato indetto un concorso, che si concluderà martedì 1 settembre, attraverso il quale Renner destinerà una donazione complessiva di 35.000 euro a 10 progetti di rilevanza sociale presentati da organizzazioni no-profit impegnate sul territorio della provincia di Bologna in ambiti di solidarietà e servizi di assistenza, promozione della cultura, incentivazione alla pratica sportiva fra i giovani. Sono 76 le associazioni candidate al finanziamento, i cui progetti si possono consultare e votare sul sito. L’associazione Nuovamente ha per ora conseguito il maggior numero di preferenze. Propone la realizzazione di laboratori sui temi della legalità e della corruzione, con studenti delle scuole superiori e dell’università di Bologna, che diventeranno protagonisti di una campagna comunicativa per e nella comunità; Bologna Studenti vorrebbe rendere il suo doposcuola gratuito sempre più inclusivo attraverso figure specifiche che aiutino in tutte le materie e nell’insegnamento dell’italiano, per combattere dispersione scolastica e emarginazione; l’associazione SenzaSpine vuole realizzare spettacoli che includono anche la presenza di attori, ballerini ed effetti visivi e portare con la sua orchestra di under 30 la musica classica in luoghi in cui è difficile da incontrare; mentre l’associazione Banco di Solidarietà di Bologna ha presentato “1€ = 1kg” per acquistare pacchi di pasta e generi alimentari per le oltre 260 famiglie che assiste a Bologna. Questi sono solo alcuni esempi, fra i partecipanti ci sono anche Avvocati di Strada Onlus e la circoscrizione regionale di Amnesty International e molti altri.
Cinquemila volte grazie. Forte del sostegno dei propri lettori, Ferraraitalia ha centrato in anticipo l’obiettivo di raccolta del crowdfunding. E non è finita! Il bersaglio era decisamente ambizioso, il conseguimento per nulla scontato. Anzi, rappresentava per noi una sfida e un banco di prova. La nostra gratitudine, sincera e profonda, va a tutti coloro che hanno contribuito a realizzare questo straordinario risultato: cinquemila euro già donati. Oltre novanta cittadini hanno finora aderito all’appello, sottolineando così l’affinità di valori con Ferraraitalia e il proprio apprezzamento. Non potendo citarvi uno per uno esprimiamo a ciascuno di voi la nostra autentica riconoscenza. La stessa che nutriamo per chi, nei giorni scorsi, ha contribuito in forma associativa, riconoscendo le radici di un impegno condiviso: ci riferiamo allo Spi Cgil, sindacato pensionati di Ferrara; all’Anpi, associazione partigiani provinciale ferrarese; e agli Amici dei musei e dei monumenti ferraresi.
Rimangono ancora 12 giorni per incrementare la raccolta e irrobustire le basi di questo nostro atipico quotidiano che ha scelto di praticare la strada dell’approfondimento informativo e si pone al servizio della comunità stimolando il confronto, contrastando il pregiudizio e cercando di alimentare le basi della conoscenza. Domani sera dalle 20 saremo al Giardino delle duchesse, in occasione dell’ultimo appuntamento del ciclo Autori a corte. Sarà una bella cornice di incontro, Chi vorrà potrà versare direttamente il proprio contributo a sostegno dell’informazione libera e indipendente, quella che Ferraraitalia si impegna praticare con coerenza ogni giorno.
Nei dodici giorni restanti confidiamo lieviti ancora il budget che contribuirà all’acquisizione di uno spazio redazionale, concepito come luogo di lavoro e al contempo come punto di incontro e di riflessione condivisa con i lettori. Un surplus di cassa consentirebbe l’organizzazione di una grande conferenza pubblica alla quale pensiamo da tempo. Vorremmo ragionare, senza scontati rituali e sulla base di proposte concrete, dello sviluppo e del futuro della nostra città, riprendendo il filo sviluppato sulle nostre pagine online e intessuto già lo scorso gennaio durante il ciclo di appuntamenti alla biblioteca Ariostea.
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