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Vicina all’ambiente e ai cittadini: Area-Clara, l’amica virtuosa della porta accanto

Migliorare la qualità dell’ambiente in cui viviamo ottimizzando il ciclo dei rifiuti e promuovendo un sistema virtuoso che coinvolga attivamente i cittadini. Questo l’impegno di CLARA, la società che sta per nascere dalla fusione di AREA e CMV Raccolta, i due gestori del ciclo dei rifiuti che attualmente servono 21 dei 23 Comuni della provincia di Ferrara, con le sole eccezioni di Ferrara e Argenta.

Nell’ottica dei princìpi dell’economia circolare, per CLARA è fondamentale generare consapevolezza oltre che nei cittadini, anche fra soci e dipendenti e agire di concerto con le istituzioni per favorire la creazione di un condiviso modello di sviluppo sostenibile, sostenibile sotto il profilo sociale ed economico. Per raggiungere questo traguardo è indispensabile rendere la collettività cosciente dell’interesse comune in gioco; ed è altresì opportuno premiare i cittadini per incentivare i loro comportamenti, ad esempio garantendo la possibilità di tangibili risparmi sulle bollette.

La consolidata esperienza maturata nei lunghi anni di attività sia di AREA sia di CMV, unitamente alla conoscenza dettagliata delle necessità e delle esigenze del territorio e dei suoi abitanti, costituiscono la base di partenza di CLARA, che si qualifica così già come azienda specializzata e responsabile, impegnata per il progressivo miglioramento delle performance.
Grazie a una evoluta organizzazione del servizio, basato sul sistema di raccolta porta a porta, CLARA punta ad aumentare le percentuali di raccolta e di materiali avviati a recupero, e a ridurre la produzione di rifiuti urbani per raggiungere i massimi livelli di efficienza, minimizzando l’impatto ambientale.

La genesi di CLARA trae avvio nel maggio 2015 dal processo di fusione operato fra AREA e CMV (le due società oggi attive nella gestione e raccolta dei rifiuti rispettivamente nei territori del Basso e Alto Ferrarese). Un percorso intrapreso allo scopo di creare una società capace di rispondere a tutti i requisiti richiesti dalle normative comunitarie, regionali e nazionali per l’in-house, azionalizzare risorse e attività, e apportare maggiori benefici ai cittadini in termini di attenzione e cura dell’ambiente.

Nome e logo di CLARA sono stati presentati ufficialmente a media e cittadini già nel marzo dello scorso anno, l’operatività è imminente: l’assemblea costitutiva è infatti programmata per il mese di marzo 2017.
La nascita di CLARA assicurerà anche notevoli miglioramenti e benefici sia di carattere gestionale che economico per i cittadini: miglioramento delle prestazioni nella gestione dei servizi offerti attraverso l’integrazione e la condivisione in una società unica di know-how, esperienze e competenze appartenenti a entrambe le imprese costituenti; condivisione del modello di misurazione per la “Tariffa su misura” che si traduce in una riduzione dei costi a favore dei cittadini virtuosi e in un miglioramento dell’ambiente, grazie all’incremento della raccolta differenziata e a una corretta gestione dei rifiuti; mantenimento di un soggetto locale preposto al servizio e del controllo pubblico sulla gestione dei rifiuti: i cittadini, infatti, pur relazionandosi con una nuova società potranno contare sull’impegno e sulla qualità dei servizi che hanno sperimentato già con AREA e con CMV, soggetti presenti da anni sul territorio e a loro ben noti e vicini. La prospettiva è la predisposizione di un sistema attrattivo anche per i comuni di Ferrara e Argenta, che favorisca la creazione di un unico bacino provinciale.

Al vertice di AREA oggi c’è il presidente Gian Paolo Barbieri, laureato in sociologia, con master di formazione manageriale nella gestione dell’economia e dell’impresa. Sindaco di Portomaggiore dal 2001 al 2011, ha svolto incarichi di rilievo all’interno di amministrazioni pubbliche anche a livello regionale.
Direttore generale è Raffaele Alessandri, laureato in Ingegneria, ha lavorato al Comune di Codigoro come responsabile dell’ufficio Tecnico municipale, e successivamente al Comune di Cento come responsabile del servizio gas. Dal 2000 entra a far parte dell’azienda CMV Servizi come Direttore Generale. Dal 2009 è direttore generale di AREA. Dal gennaio 2009 è ad AREA S.p.A.

INSOLITE NOTE
“Si vo’ Dio”, i classici della canzone napoletana interpretati da Rosa Chiodo

Quella di Rosa Chiodo è una carriera in ascesa: nel 2013 ha vinto il Festival “Premio Mia Martini – Nuove proposte per l’Europa” di Bagnara Calabra, con il brano “Il tuo respiro” scritto da Saverio D’Andrea, l’anno successivo ha partecipato al Festival della canzone italiana a New York e recentemente si è aggiudicata il premio della critica al Festival di Napoli, oltre ad avere aperto i concerti di Edoardo ed Eugenio Bennato.

Rosa, conosciuta anche con il nome d’arte di Kiodo, ha pubblicato “Si vo’ Dio”, il suo primo EP, in cui propone cinque classici della canzone napoletana e un inedito, avvalendosi di soli due strumenti: il pianoforte e la voce.
L’album trae il titolo da “Si vo’ Dio”, di Salvatore Palomba e Rino Afieri, la nuova canzone con cui ha vinto Il Festival di Napoli – New generation, svoltosi nel 2015 al Teatro Politeama di Napoli. Palomba, collaboratore storico di Sergio Bruni, è l’autore di alcuni classici inseriti nel disco, quali “Carmela” e “Amaro è ‘o bene”, firmati con lo stesso Bruni.

In “Si vo’ Dio”, il pianoforte, suonato da Francesco Oliviero, accompagna la voce di Rosa, che dona passione e cuore all’interpretazione. Nel brano firmato Palomba-Alfieri, s’intravede un piccolo spiraglio di speranza, sufficiente per fare nascere un sorriso: “Certo ce vo’ coraggio oggi a se vulè bene, oggi ca ‘e sentimente, pare ca so’ ‘e passaggio. Ma per ce senti vive oversamente, nun ‘o perdimmo maie chistu coraggio! Si vo’ Dio…”.

Rosa Chiodo
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Gli altri brani dell’EP sono eseguiti al pianoforte da Aldo Fedele, collaboratore storico di importanti artisti tra cui Lucio Dalla, Stadio, Gianni Morandi, Roberto Vecchioni, Ron, Edoardo Bennato.
“Voce ‘e notte” è un classico della canzone napoletana, composto all’inizio del secolo scorso da Edoardo Nicolardi ed Ernesto De Curtis. La canzone racconta di un uomo che dichiara il suo sentimento alla donna amata, anche se lei è già promessa a un altro. Rosa si aggiunge a Lina Sastri, stupenda interprete di una precedente versione al “femminile”; mentre tra i gli artisti uomini citiamo Massimo Ranieri, Peppino di Capri e Claudio Villa.
Oramai non si contano più le incisioni di “Canzone appassionata” (Canzone appassionata), scritta nel 1922. La versione della cantante campana si aggiunge alle tante, buona l’interpretazione guidata al pianoforte da un ispirato Aldo Fedele.
“Carmela” e “Amore è ‘o bene”, i due brani firmati Palomba-Bruni, sono diventati dei classici, anche se abbastanza recenti. La collaborazione tra Sergio Bruni e il poeta Salvatore Palomba creò un sodalizio molto importante per la canzone napoletana, bene ha fatto Rosa ad attingere da questo repertorio, che si presta all’esecuzione al solo pianoforte ed esalta il timbro dell’interprete.

“Passione” è una delle canzoni più conosciute, una struggente storia d’amore scritta da Libero Bovio e musicata da Ernesto Tagliaferri e Nicola Valente. La versione di Rosa e Aldo Fedele mette l’accento sulle due anime del brano, diviso tra estasi e sofferenza, la voce della cantante sembra più matura della sua giovane età, un complimento se riferito a un brano del 1934, riportato ai giorni nostri dalle note di un pianoforte suonato con… passione.
“Si vo’ Dio” è il primo EP “senza rete” di Rosa Chiodo, dotata interprete di classici napoletani e canzoni che si legano alla tradizione. La voce c’è ed è tanta, il talento, la passione e l’applicazione non mancano, sicura ricetta per rendere al meglio potenza e sensibilità. Ottimi i collaboratori, splendido il repertorio. Se son Rose…

Rosa Chiodo: Se vo’ Dio (video ufficiale)

I DIALOGHI DELLA VAGINA
L’illusione delle “ipersoluzioni”

Quando ostinatamente abbiamo bisogno di risposte, quando trasformiamo le richieste in ‘ipersoluzioni’ come le definisce Paul Watzlawick, andiamo incontro a fallimenti certi.
Le ipersoluzioni raccontate dalle nostre lettrici.

Mettersi un nuovo rossetto, perché no? Basta poco…

Cara Riccarda,
nel tuo articolo ho, purtroppo, ritrovato il mio modo di agire nei momenti di crisi…ma come fare altrimenti? Hai ragione, si ricercano, o meglio si pretendono le ipersoluzioni, spesso delegando a chi è vicino a noi la responsabilità di realizzarle. E immancabilmente ci ritroviamo, mi ritrovo, in situazioni ancora peggiori, in cui io sono sempre più preda dell’ansia (“Le cose non vanno, come mai non vanno? Cosa devo fare? Perché gli altri non reagiscono come vorrei?”) e chi mi è vicino inizia anche lui a barcollare, sovraccaricato dalle mie aspettative e richieste. E talvolta mi si annebbia la vista, e tutto ciò che non è “iper”, perde di importanza, o addirittura, diventa un problema.
Allora, come uscire da questo loop negativo? Una mia amica una volta mi ha detto: “Rompi gli schemi! Mettiti un rossetto rosso, un vestito che di solito non hai il coraggio di mettere, fai qualcosa, anche di piccolo, ma di insolito, e ascolta quello che succede.” A cosa potrebbe servire? Forse, semplicemente e finalmente, a riportare l’attenzione su di me, a restituirmi il piacere e la responsabilità di prendermi cura di me stessa, di trovare le soluzioni e non le ipersoluzioni, che mi si addicono. La risoluzione della crisi, ovviamente, non sarà immediata né semplice, ma intanto si inizia!
Un abbraccio
E.

Cara E.,
hai mai letto Per dieci minuti di Chiara Gamberale? Un libro bellissimo che dimostra quanta ragione abbia la tua amica: qualcosa di nuovo (lei aveva iniziato con lo smalto fucsia) ogni giorno per dieci minuti, può innescare un cambiamento, tra l’altro irreversibile.
La chiosa della tua amica, poi, ti invita a usare non l’occhio, ma l’orecchio interiore per cogliere quel che succede: non basta la vista, quella ci dice solo se il rossetto è meglio rosso o rosa, ma serve un senso diverso, in grado di mandarti quel segnale che solo tu puoi ascoltare e accogliere. Scommetto che funziona, funziona sempre quando evitiamo di smarrirci in mezzo agli altri e recuperiamo un po’ di noi.
Quanto alle iperosoluzioni che ti annebbiano la vista, ormai hai capito che sono una strada presa contromano e a fondo chiuso. La imboccheresti mai? Non credo.
Riccarda

Il meglio per me… e per nessun altro

Ciao Riccarda,
niente di più vero per quel che riguarda le “ipersoluzioni”.
Io ho sempre fatto le cose in funzione della mia aspettativa di crearmi una famiglia, finché un bel giorno ho scoperto che per me non sarebbe stato un percorso semplice.
La mia “ipersoluzione” è stata quella di rinnegare tutto: mi sono convinta che non avevo figli perché non volevo e non perché non potevo.
Questo mi ha portato ad avere atteggiamenti superficiali e a trovare il senso della vita in cose superflue.
Ad un certo punto ho avuto un problema ad un ginocchio (tutto o quasi succede per un motivo) che mi ha obbligato a fermarmi e a bloccare tutte le attività fatte fino a quel momento.
Mi sono così avvicinata allo yoga che mi ha aperto un mondo fatto di consapevolezza, pazienza e serenità interiore.
Non esiste il “non riuscire” ma il riuscire in modo diverso da quel che ci si aspettava, non c’è un “meglio degli altri” ma solo il “meglio di noi stessi”.
Chissà adesso la vita dove mi porterà o dove sceglierò di andare.
El.

Cara El,
parto dalla fine della tua lettera perché in quel ‘chissà adesso la vita dove mi porterà o dove sceglierò di andare’ c’è tutta la meraviglia e non lo spavento di fronte a ciò che non si conosce. Credo che le due prospettive coincidano: che sia la vita a proporti qualcosa o tu a scegliere dove andare non fa differenza, ci sei sempre tu di qua e di là rispetto a un confine sottile che siamo noi a porre, come se la vita non fossimo noi e viceversa. E’ solo un modo di chiamare in terza persona quando facciamo fatica a dire io.
Hai ragione, nulla avviene per caso, o meglio, le cose e le persone, non capitano senza lasciare traccia, nel tuo caso dal ginocchio, allo yoga a una serenità interiore che spero tu non abbandoni.
Quando mi chiederò cosa sia meglio, ricorderò di quanto scrivi: il mio meglio non è detto sia quello degli altri, sarà il mio.
Riccarda

Il coraggio del cambiamento

Cara Riccarda,
credo tu abbia ragione: più chiedi e meno ottieni, ma allora cosa dobbiamo fare? Stare a guardare e non chiedere mai? Aspettare? Accettare? Non so.
Nel corso delle varie storie della mia vita, ho notato un filo comune tra gli uomini. Quando qualcosa non andava, io ho sempre chiesto ma, ripensandoci, ho la netta sensazione di avere sempre ricevuto dei ‘ci proverò’ tanto per farmi stare zitta. Due moine, un gesto carino e poi tutto come prima, altro che ipersoluzione! Forse un cambiamento, anche se sbagliato, eccessivo o fuori tempo, sarebbe stato più apprezzato da parte mia.
Debora

Cara Debora,
peggio del ‘ci proverò’ c’è il ‘vediamo’. Una volta credevo che il ‘vediamo’ fosse solo una frase-fase di transizione verso il cambiamento, invece, è la stasi più mediocre camuffata da una finta accondiscendenza. Chi ti risponde ‘vediamo’ è un vigliacco che ti lascia lì ad aspettare ancora, pur sapendo che non ti darà mai ciò che chiedi, e intanto evita ulteriori discussioni.
Quando, allora, ci si accorge che la richiesta sta diventando ipersoluzione bisognerebbe fermarsi per non peggiorare le cose. Difficilissimo, lo so. Ma ancora più difficile è poi riprendersi dalla degenerazione delle discussioni, dalla radicalizzazione, dai ‘se io..allora tu’, insomma da quelle contrapposizioni che increspano il rapporto ancora di più.
Aspettare? No, andare avanti.
Riccarda

Inviate le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

Roma, 20 2 2009 – 2017 Futurismo 100+8

Da Roby Guerra

Anniversario compleanno 108° per la più importante avanguardia italiana e non solo, ovvero il Futurismo di Marinetti, con il leggendario manifesto fondatore. E continua l’interesse storico culturale per gli inventori dell’estetica scientifica con tacite celebrazioni di carattere soprattutto meramente celebrativo ma anche relativamente innovative, tra il centenario di Boccioni, mostre su Balla, la nuova pubblicazione del Dizionario Aereo di Azari e Marinetti stesso, eccetera, saggi o contributi “revisionisti” vari. Dopo la stagione eroica con capitale Milano, il futurismo continuò nella Capitale e tutt’oggi è Roma il centro propulsivo e aggiornato per l’avanguardia di Marinetti. Se ogni nuovo contributo – diciamo – persino filologico- è il benvenuto e conferma la fine (anche se restano zoccoli duri attardati e ideologici nella sempre attardata cultura italiana) dell’incredibile negazionismo del secondo novecento, continua un negazionismo anche tra gli addetti ai lavori sul presente e il futuro prossimo già certificato dai nuovi futuristi viventi. Ancora recentemente per il 70° anniversario della scomparsa di Marinetti, l’alta pubblicistica editoriale, Armando editore, casa editrice che lanciò Popper e McLuhan in Italia, quando imperversava sopravvalutata certa vulgata gramsciana (al di là di Gramsci che al contrario era a modo suo futurista con anche analisi sorprendenti live sul futurismo italiano) il futurismo contemporaneo è stato certificato. A cura di Antonio Saccoccio, ricercatore ciberculturale di Tor Vergata Università, ancora giovane il primo a metà anni duemila a rilanciare il futurismo su Internet, e del sottoscritto, poeta futurista dagli anni ’80 e tra gli ultimi futuristi ancora del secolo scorso con gli stessi Antonio Fiore Ufagrà e un certo Vitaldo Conte, scrittore e critico d’arte oggi doc proprio sul nuovo futurismo (tutti di Roma tranne Guerra di Ferrara in Emilia), è uscito Marinetti 70. Sintesi della critica futurista che oggi sintetizza la revisione “scientifica” più autorevole per l’avanguardia di Marinetti e la sua in certo senso continuità. Continuità culturale controcorrente e controintuitiva, di grande importanza valoriale quando l’andazzo dei tempi segnala certamente la vittoria solo parziale del futurismo, in ambito soprattutto scientifico, mentre la dimensione estetica altrove e generale appare inquinata da manierismo e mercantilismo eccessivo e quella politico sociale economica – come si sa- testimonia uno sconcertante nuovo medioevo se non neoprimitivismo incombenti. Fu sempre Roma a memorizzare nel secondo novecento buio il futurismo ibernato che continuava aggiornato con la rivista Futurismo Oggi, Enzo Benedetto, Luigi Tallarico e pochi altri. Marinetti 70 ha coinvolto tra gli autori anche i critici d’area stretta più importanti, almeno parecchi. Da G.B. Guerri a G. Agnese, a G. Di Genova, a G. Berghaus e P. Ceccagnoli, allo stesso G. Carpi e diversi altri ben noti, ad esempio R. Campa, ad esempio P. Bruni (del Mibact), si veda elenco completo in fondo link. Fu sempre Roma inoltre nel duemila a rilanciare mediaticamente il futurismo con il celebre blitz della Fontana Rossa (di Trevi) dell’artista futurista vivente Graziano Cecchini, romano doc. Insomma, mentre altrove, l’implosione dei tempi, spesso nega l’avvenire, al massimo copia e incolla soprattutto di un secolo d’avanguardia, il futurismo contemporaneo, erede “diversamente minimale e “elettronico” del futurismo storico, canta digita ancora la memoria del futuro perduto da riformattare e downloadare in nome della rivoluzione informatica e scientifica contemporanea. Nel panorama attuale segnaliamo in Italia alcune eccezioni non a caso affini al futurismo, ovvero e sempre anche a Roma (oltre ad altre città italiane) oltre proprio al gruppo ormai microstorico degli stessi Saccoccio (fondatore) e Guerra e lo stesso Conte, ovvero Netfuturismo (con contaminazioni neosituazioniste e neodada e neopop)…. il Movimento Arte Vaporizzata di S. Balice e altri, la fantascienza connettivista di S. Battisti ed altri. Evidenziamo anche a altrove e a Milano, tra un bordo teorico radicale sociale, il cosiddetto transumanesimo futuribile dei vari R. Campa e S. Vaj (anche qua un romano nell’area, l’architetto E. J. Pilia) e il bordo squisitamente artistico del Metateismo neorinascimentale di D. Foschi.

Qua e là nella penisola certamente altre astronavi dell’avanguardia, tra musica o poesia elettronica, computer o net art, arte postcontemporanea, ma, media o non media, certa arte o certi storici dell’arte sempre distratti o nichilistici autocompiaciuti o peggio esteticamente penosamente corretti, incredibilmente poco aggiornati e preda del solito io minimo liquido dei tempi, se oggi ha un senso ricordare il pluricentenario Manifesto di Marinetti (eufemismo visto che ancora le cronache di regime ci parlano di improbabili resurrezioni di certe aree politiche pseudoprogressiste), ebbene, riassumendo, oltre a ricordare che non tutta Roma è quella miseria politichese che caratterizzano sempre le cronache, ma appunto Capitale del Nuovo Futurismo, la storia attuale dell’avanguardia italiana fondata da Marinetti ha oggi una password oggettiva. Appunto Marinetti 70. Sintesi della Critica Futurista.

INFO

http://www.armando.it/marinetti-70

Jheronimus Bosch a Venezia

Da Maria Paola Forlani

“Che cosa significa, o Hieronymus Bosch, /

Il tuo sguardo attonito, che cosa / il pallore del

Tuo volto? Come se tu / avessi visto svolazzare

dinanzi a te i Lemuri, / gli spettri dell’Erebo!

Per te, io credo, si sono / aperti i recessi / di

Dite impenetrabili / e le dimore del Tartaro:

poiché la tua mano / ha saputo dipingere

bene ogni segreto anfratto dell’Averno”

Domenicus Lampsonius, 1572

Visioni inquietanti, scene convulse, paesaggi allucinati con città incendiate sullo sfondo, mostriciattoli e creature oniriche dalle forme più bizzarre: è questo l’universo di Jeronimus Bosch affascinante ed enigmatico pittore vissuto tra il 1450 circa e il 1516 a ‘s-Hertogenbosch (Boscoducale) in Olanda, ricordato in occasione dei 500 anni dalla morte con due grandi mostre monografiche, rispettivamente nella città natale e al Prado di Madrid.

A questo straordinario artista, Venezia, unica città in Italia a conservare suoi capolavori, dedica a Palazzo Ducale fino al 4 giugno 2017 una mostra, a cura di Bernard Aikema (catalogo Marsilio), di grande fascino per il pubblico e di notevole rilevanza per gli studi, il cui punto focale sono proprio le grandi opere di Bosch custodite in laguna alle Gallerie dell’Accademia – due trittici e quattro tavole – riportate all’antico splendore grazie ad attenti e sapienti restauri.

Fondamentale nella ricostruzione del rapporto di Bosch e Venezia, risulta la testimonianza precocissima di Marcantonio Michiel, conoscitore e critico d’arte, il quale nel 1521, nel descrivere la collezione “lagunare” del Cardinale Domenico Grimani, nomina, accanto a una straordinaria serie di dipinti nord europei, tre opere di Bosch con mostriciattoli, incendi e visioni oniriche: opere che il cardinale alla sua morte, due anni più tardi, lascerà in eredità alla Serenissima Repubblica, insieme ad altre pitture e sculture. Casse piene d’opere rimasero nei sotterranei di Palazzo Ducale fino al 1615, quando un nucleo fu recuperato ed esposto nella residenza dogale.

I restauri effettuati mostrano come due delle tre opere conservate a Venezia – La santa Liberata e inferno e Paradiso –fossero inizialmente destinate a committenze nordeuropee, modificate in seguito per adeguarsi a una raffinata clientela italiana e a un nuovo destinatario: probabilmente proprio il patrizio veneziano Domenico Grimani, cardinale e figlio di Antonio, il 76esimo Doge di Venezia.

La mostra si sofferma sulla figura di Domenico – effigiato in un tondo di Palma il Giovane insieme al nipote Marino e nella bellissima medaglia realizzata dal Camelio – e sui suoi interessi collezionistici, con opere di grande suggestione come alcune statue greche appartenute alla raccolta del nobile veneziano e soprattutto la placchetta argentea con la Flagellazione di Cristo – capolavoro del Moderno commissionato dal cardinale (Kunsthistoriches di Vienna) – e l’eccezionale Breviario Grimani con le sue 110 miniature (1515- 1520 c.), probabilmente il più bello e il più importante tra i manoscritti miniati prodotti nelle Fiandre durante l’estrema fioritura dell’ars illuminandi, in un tempo in cui i libri a stampa erano ormai accessibili e le opere manoscritte una rarità.

Quindi, la tematica del sogno, cara all’entourage di Domenico Grimani.

Personalità di elevata statura e di svariati interessi, dalla filosofia alla teologia, amante della scultura greca antica, di Tiziano, di Raffaello e di Leonardo da Vinci, il cardinale era attratto infatti anche dall’arte delle Fiandre e soprattutto interessato fortemente a quelle visioni oniriche immaginate negli ambienti colti della Venezia dell’epoca.

Il tema del sogno ricorre nel famoso romanzo-visione pubblicato nel 1500 a Venezia da Aldo Manuzio Hypnerotomachia Poliphili e nell’incisione Il Sogno (1506-1507) di Marcantonio Raimondi – tratta forse da un perduto dipinto di Giorgione – con due donne svestite dormienti e vari mostriciattoli.

Secondo il curatore della mostra Bernard Aikema, le immagini oniriche di demoni e mostri in questi casi non deriverebbero da Bosch – Riflettendo semmai il fascino esercitato dalle stampe tedesche di Dȕrer, Martin Schongauer e Luca Cranach il Vecchio, tutti in mostra – ma viceversa la presenze di Bosch in laguna sarebbe la conseguenza di una precisa “moda”, di un interesse già diffuso negli ambienti intellettuali, basti guardare ai piccoli bronzi di soggetto mostruoso e fantastico che decoravano gli studioli del tempo come il calamaio in forma di mostro marino di Severo da Calzetta (1510-1530), attivo nel VI secolo a Padova alla Basilica del Santo, o come il Satiro seduto che beve di Andrea Briosco detto il Riccio.

Così come lo stesso Bosch e molti altri artisti d’oltralpe avrebbero attinto certi personaggi “surreali” dalle grottesche caricature di Leonardo (in mostra anche alcuni bellissimi fogli del corpus grafico leonardesco, realizzati probabilmente da Francesco Melzi, dal Gabinetto dei Disegni e Stampe della Galleria dell’Accademia).

Grimani dunque consapevolmente ricerca opere fiamminghe; consapevolmente vuole Bosch, con le sue panoramiche notturne da incubo e le sue creature mostruose ma anche le sue ambiguità e stranezze; e le vuole – vero principe rinascimentale – per ragioni estetiche, per farne il pretesto di una discussione erudita, l’occasione di un confronto intellettuale come momento di diletto e di formazione per il suo “cenacolo”, così come avveniva con le opere giovanili di Lotto, Tiziano e soprattutto Giorgione.

Trova dunque un itinerario importante con le Fiandre negli ambienti ebraici che frequentava, vicino com’era al sincretismo di Giovanni Pico, tra speculazioni neoplatoniche e cultura giudaica.

In particolare, tra i principali contatti ebraici vi era il suo medico personale Meir de Balmes che, che a sua volta, manteneva stretti rapporti con il più importante editore di libri in ebraico, poliedrico uomo d’affari, con spiccato interesse per le arti figurative, Daniel van Bomberghen, stabilitosi a Venezia intorno il 1515.

Bamberghen sarebbe stato il tramite per gli acquisti neerlandesi del cardinale, con il nipote Cornelis De Renialme, che risulta aver gestito le trattative per le opere rimaste in bottega di s’-Hertogenbosch dopo la morte del pittore, nel 1516.

In mostra, un’infilata di anonimi seguaci del grande artista presenti in laguna ci dà conto della nascita di un mito; così come la diffusione dei motivi boschiani anche nella grafica. Con l’enorme tela di Jacob Isaacz van Swanenburgh si ha la percezione della apoteosi seicentesca di Bosch in patria, mentre nella città dei Dogi sarà Joseph Heintz il Giovane a far rivivere con i suoi “stregozzi” l’universo cupo e onirico, le creature deformi e grottesche di Bosch, in perfetta sintonia con il clima negromantico e gli interessi di molti esponenti dell’Accademia degli Incogniti.

Ma i tempi ormai erano cambianti. Ora questa pittura è puro estetismo, di effetto: non ci sono più messaggi da ricercare e capire, non più retaggi religiosi o morali; la dimensione del sogno lascia il posto al manierismo e alla meraviglia del barocco.

INSOLITE VISIONI
“L’appuntamento”, il cortometraggio di Gianpiero Alicchio ora su YouTube in versione integrale

Gianpiero Alicchio è il regista del cortometraggio “L’appuntamento”, interpretato, oltre che da lui stesso, da Camilla Bianchini, Stella Saccà e Manuel Ricco. Il film ha ottenuto una menzione d’onore al Festival Los Angeles Movie Awards del 2013 e ha vinto il premio per il migliore attore (assegnato allo stesso Alicchio), attribuito dall’American Movie Awards 2014.
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Il 26 aprile 2014 il film di Alicchio è stato proiettato in concorso al Chinese Theatre, nell’ambito della 14° edizione del Beverly Hills Film Festival di Los Angeles. Da quel giorno ne ha fatta tanta di strada, sino ad arrivare al 2017, quando è stato reso liberamente disponibile su YouTube in versione integrale.

Gianpiero Alicchio è nato a Bari nel 1980, si è laureato in DAMS e Comunicazione al Link Campus University di Roma. Ha frequentato corsi di recitazione, regia, produzione e sceneggiatura presso la Link Academy, con la direzione artistica di Alessandro Preziosi. Ha vinto il primo premio al RIFF 2012 di Roma con il trailer del film “Gli occhi di una vita” in qualità di attore. Ha lavorato a Parigi con i registi Jérémy Lopes e Marielle Gautier. È stato protagonista del cortometraggio “Chiara” diretto dal regista americano Drew Walkup. Nel 2013 ha diretto il suo primo cortometraggio “L’Appuntamento”. La sua formazione di attore è legata anche ai laboratori e ai corsi tenuti a Roma da Vincent Riotta e Nikolaj Karpov, a Londra da Bernard Hiller e a Milano da John Strasberg figlio di Lee Strasberg.

“L’appuntamento”, ambientato a Roma, propone in chiave brillante e ironica uno spaccato di oggi sull’incomunicabilità tra i sessi, raccontata attraverso un primo appuntamento tra due coppie di trentenni. La storia nasce dalle esperienze dirette dei protagonisti che hanno unito il loro vissuto al servizio di una vera e propria “prova d’attore”. La sceneggiatura è firmata dallo stesso Alicchio e da Stella Saccà.
Due amici invitano due ragazze a cena e lasciano decidere a loro in quale locale recarsi. La scelta ricade su un ristorante vegetariano abbastanza costoso. I ragazzi cercano di ricorrere alla galanteria per fare terminare la serata in “intimità”, con l’obiettivo di ripetere quanto prima l’uscita, ma al momento di salutarsi la situazione prende una direzione non prevista.
I dialoghi sono scritti con un taglio realistico, con tanto di inflessioni dialettali e imprecazioni tipiche del modo di parlare “di tutti i giorni”. La storia si svolge fra trentenni, ma può benissimo rappresentare altre categorie generazionali.
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Le musiche, di Alex Britti e Marco Guazzone & Stag, accompagnano efficacemente la narrazione e lo spettatore nello svolgersi della trama. La spensieratezza di “Sabato simpatico” di Guazzone & Stag introduce a dovere i contenuti del film, mentre “Oggi sono io” di Britti, con il suo messaggio (politically correct) che invita a essere sempre se stessi in amore, contrasta nettamente con il comportamento dei due protagonisti maschili nei confronti delle donne e anche di loro stessi. Un terzo brano: “Sex sax” dell’Italo-americano Drop the lime (Luca Venezia), ha il compito di “stordire” lo spettatore, per portarlo con il suo ritmo dance e ossessivo a comprendere la direzione (andare al sodo), che i due ragazzi vogliono dare alla serata.

Dopo alcune selezioni nelle rassegne europee, come nel caso del Bootleg Film Festival of Endinburgh in Scozia e del Gijón International Film Festival in Spagna, il film è stato inviato nei festival statunitensi, dove ha ottenuto subito un ottimo riscontro.

Il salto di qualità è venuto grazie alla vittoria ottenuta alla 53° edizione del Globo d’Oro a Roma, dove la stampa estera che opera in Italia, ha premiato “L’appuntamento” come migliore cortometraggio.
La premiere americana si è svolta il 12 maggio del 2013, all’interno del Comedy Festival di Los Angeles, una delle più importanti manifestazioni per questo genere cinematografico. Dopo quella partecipazione, le selezioni nei festival americani si sono moltiplicate comprendendo anche Richmond International Film Festival (Virginia), Love Your Shorts Film Festival – Sanford (Florida), Best Actors Film Festival di San Francisco (dove ha ottenuto una nomination), oltre a quelli già citati.

L’appuntamento (visione integrale):

https://www.youtube.com/watch?v=CGtA7sIpq7E

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Chiedere, chiedere ancora, chiedere troppo

A un’amica che si lamentava del suo uomo, di quanto poco rispondesse alle sue aspettative, ho detto, un po’ distrattamente, più chiedi e meno ottieni. Senza commentare, lei mi ha guardata con un’espressione di delusione come se per gustare qualcosa bisognasse solo attendere in silenzio una manciata di briciole, sperando di saziarsi.
Poi mi sono imbattuta nella lettura di Paul Watzlawick e del suo saggio “Di bene in peggio, istruzioni per un successo catastrofico” (Feltrinelli), che mi ha fatto capire quanto, nelle situazioni di crisi, sia irresistibile chiedere, fino a chiedere troppo.
Watzlawick, filosofo, sociologo, psicologo austriaco le chiama ‘ipersoluzioni’: sono i tentativi di avere subito una risposta, di sapere come va a finire, di andare oltre il presente che ci fa stare male pretendendo una soluzione. Il guaio, come spiega Watzlawick, è che in questi momenti la soluzione richiesta può essere solo iper, troppa, sballata e fuori tempo. Quando ci si intestardisce in una ipersoluzione che pensiamo possa appagare l’inquietudine dovuta a un problema, il fallimento è certo. Più soffriamo e più diventiamo eccessivi, bisognosi di una totalità immediata in cui stare meglio. Ecco che allora, tentando si risolvere il conflitto, si precipita ‘di bene in peggio’, e tutte le strategie falliscono perchè pensiamo che se questa cosa ci fa stare male, il suo contrario ci farà stare bene e, quindi, lo vogliamo ottenere subito.
Watzlawick invita a superare questo dualismo e ad abbandonare la tendenza a radicalizzare, in favore di strade alternative, un tertium che da qualche parte ci sarà. L’aut aut, insomma, chiude alle possibili e inaspettate soluzioni perchè estremizza e non si pone nella posizione del comprendere. Tutto e subito non va bene, è solo una corsa verso la disfatta perchè troppo veloce rispetto ai tempi dell’altro che, di fatto, stiamo travolgendo. Ma nulla pare fermarci, convinti che tanto impegno meriti una ipersoluzione.
A voi è mai successo di cadere nelle ipersoluzioni pensando fossero la strada giusta per ottenere attenzione, amore, presenza o il ritorno di qualcuno che stavate perdendo?

Inviate le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

Il sindaco Tagliani si congratula con Mons. Giancarlo Perego

Da ufficio stampa

Eccellenza Reverendissima la città di Ferrara accoglie con gioia la notizia della Sua nomina ad Arcivescovo dell’Arcidiocesi di Ferrara Comacchio.

 

Abbiamo colto dalle Sue parole il riconoscimento alla bellezza delle nostre zone ma anche tanta attenzione alle problematiche dei malati e di coloro che nella nostra terra hanno maggiore bisogno di speranza: un’attenzione e una vicinanza che ci permetteremo di valorizzare con l’auspicata collaborazione tra il Comune e Vostra Eccellenza.

 

Non le nascondiamo le difficoltà di lavorare in una terra tanto ricca di testimonianze culturali e di bellezze quanto, ultimamente, tormentata da problematiche solo apparentemente di carattere economico ma anche d’identità e di radicata speranza nel futuro.

L’augurio è di avviare un percorso comune, d’impegno e sinergia, per realizzare l’obiettivo di una comunità più coesa e solidale, che metta sempre di più al centro la persona.

Nel portarle i saluti di benvenuto dell’amministrazione comunale e dell’intera città mi permetto di raccomandarle le speranze dei nostri giovani che sono alla ricerca di certezze, di minori precarietà e maggiori punti di riferimento.

Con l’occasione Le manifesto il mio personale desiderio e voglia di costruire insieme a Lei un cammino che, a partire dalle relazioni personali, Le consenta le migliori condizioni per la sua opera pastorale.

 

Buon cammino, caro Vescovo, buon cammino a tutti noi.

Digital Trump

Getty Images/Ringer illustration
Getty Images/Ringer illustration

Si parla molto di Donald Trump, delle sue dichiarazioni, delle sue vecchie e nuove politiche e anche delle sue provocazioni, stravaganze e stramberie. La stampa americana di settore è recentemente molto interessata anche alla presenza che Trump ha, e vuole avere, in rete, ossia alla sua “presidenza digitale” e al diverso orientamento, rispetto all’amministrazione Obama, nella gestione della strategia comunicativa della Casa Bianca.

Arrivato alla presidenza, nel 2009, Barack Obama aveva trovato il sito web della Casa Bianca (vedi) funzionale ma datato, una totale assenza di profili social e la mancanza di canali di collegamento online che potessero far comunicare i cittadini con l’amministrazione. Zero attenzione, insomma, alla possibilità di interloquire con il governo e di riceverne feedback. Da qui la necessità di varare una Casa Bianca 2.0. Detto, fatto, soprattutto grazie alla sua vice digital officer della Casa Bianca, Kori Schulman.

Negli otto anni di mandato Obama è diventato un vero “social media president”, rivoluzionando il modo di comunicare e creando un patrimonio digitale ora messo a disposizione del suo successore. Una grande dimestichezza con YouTube, Twitter e Facebook, in un mondo che ormai non può più prescinderne. Dai live su Facebook dallo Studio Ovale alle risposte ai cittadini su YouTube, dal nuovo sito della Casa Bianca con tanto di blog ed email-list fino alla piattaforma “We the people” (vedi) per inviare petizioni all’amministrazione, le iniziative digitali del 44esimo presidente sono state infinite. Nel 2013 la first lady Michelle ha postato la sua prima foto su Instagram dove oggi conta oltre 7 milioni di follower.

Nel 2015, Obama è sbarcato su Twitter con l’account @POTUS (da President of the United States), seguito da 11 milioni di utenti (oggi ne conta oltre 15) Nel 2016, la Casa Bianca ha debuttato su Snapchat per portare gli americani dietro le quinte dei preparativi per il discorso sullo Stato dell’Unione. Per non parlare delle strepitoso album di immagini dalla Casa Bianca su Flickr o di video su Vimeo. Fotografie spesso molto belle e coinvolgenti. Questa infrastruttura digitale è un immenso patrimonio degli e per gli americani. Su Twitter, ad esempio, @POTUS è stato messo a disposizione di Trump dal 20 gennaio 2017 (giorno di passaggio delle consegne); la pagina manterrà i suoi oltre 11 milioni di follower ma non avrà i precedenti tweet sulla timeline. I vecchi post passerano su un nuovo account, @POTUS44 che fungerà da archivio accessibile al pubblico. Stesso discorso per first lady (i vecchi post confluiranno sul nuovo @Flotus44) e vicepresidente (@Vp44). Il meccanismo è uguale anche per Facebook e Instagram, dove la nuova presidenza avrà accesso a username e url, mantenendo i follower.

L’archivio dell’era Obama sarà visionabile su Facebook.com/ObamaWhiteHouse e Instagramcom/ObamaWhiteHouse. Tutto il patrimonio digitale verrà conservato e gestito dal National Archives and Records Administration: milioni di foto, migliaia di ore di video, le oltre 470mila petizioni inviate sulla piattaforma “We the people” e tutti i vecchi tweet e post sui social, oltre agli account istituzionali personali. Detto questo, ci si è un po’ allarmati quando si è notato che nelle prime settimane di Presidenza Trump la presenza social languiva. L’interlocuzione scarseggiava. Forse era solo un momento di transizione, di riorganizzazione.

Quello che era certo era che al profilo ufficiale Twitter del Presidente si affiancava quello personale, @realDonaldTrump, che si portava con sé ben 25 milioni di followers, che alla pagina ufficiale facebook della Casa Bianca (vedi) si affiancava quella personale (vedi) da cui il nuovo inquilino della Casa Bianca spesso comunicava e comunica direttamente. Il “we the people” sembra non ricevere molte risposte. La regola precedente era di lasciare i profili personali per lavorare solo su quelli ufficiali. Se non altro per evitare confusione. Anche i membri dello staff che se ne vanno devono lasciare account e followers dei profili usati durante l’amministrazione, perché considerati di proprietà del governo americano. Ma Trump ha annunciato che continuerà a twittare dal suo profilo personale @realDonaldTrump. E’ chiaro che anche le sue pagine sono fonte di informazione di rilievo. Contenuti anche più diretti e spesso basati pure su dati e fonti personali. Vedremo come andrà a finire. Da seguire.

Segni e disegni di don Franco Patruno: la mostra del sacerdote che amava le arti

Alle pareti ci sono i ritratti: segni veloci formano un volto, un’espressione, un carattere e, in fondo al foglio, altri segni si condensano in parole sintetiche e rapide, come un riassunto verbale della personalità raffigurata ed elemento che a sua volta completa l’armonia della composizione. “Don Franco li faceva di continuo, questi schizzi – racconta Paolo Volta della galleria del Carbone – andavi a trovarlo nel suo studio di Casa Cini e magari uscivi che lui ti aveva fatto il ritratto con in fondo quella frase, che era un po’ la sintesi della sua idea della persona”.

Don Franco Patruno ritratto da Luca Gavagna a Casa Cini nel libro "Obiettivo Ferrara" (foto libreria EcceLibro di Ferrara)
Don Franco Patruno ritratto da Luca Gavagna a Casa Cini nel libro “Obiettivo Ferrara” (foto libreria EcceLibro di Ferrara)

E’ una carrellata sulla produzione artistica di don Franco Patruno quella messa insieme da alcuni dei suoi collaboratori più stretti per la mostra ‘La libertà di dire, la verità di fare’ che – a dieci anni dalla morte – nella sede museale civica di Casa dell’Ariosto racconta la creatività fervida e incessante del sacerdote e dell’uomo, direttore dell’istituto di cultura e persona colta, artista dal tratto veloce che nell’arte ha trasferito molte sue riflessioni, suggestioni, confronti. Interessato a ogni manifestazione culturale e in modo particolare a quelle pittoriche e di arte visiva, don Franco è a sua volta produttore incessante di opere.
La via Crucis è uno dei temi più presenti e più attinenti alla vocazione religiosa di don Franco, ma anche alla sua profonda capacità di empatia umana. Sofferenza e itinerario verso la morte: un soggetto sul quale Patruno torna anno dopo anno. Il segno denso che racconta questo percorso scandisce le opere esposte in sequenza sulle pareti della sala al primo piano della Casa di Ariosto.
Al piano terra le sale ripercorrono invece le tematiche associate a diverse tecniche. Nella saletta con il camino vicino al cortile sono gli acrilici: tele medie e grandi, dove spiccano segni rossi e tratti vivaci blu, verdi, gialli. “Sembrano vetrate”, commenta ancora il gallerista e amico Paolo Volta. Conferma l’analogia tra queste tele e le opere in vetro Massimo Marchetti, docente di storia dell’arte, collaboratore di don Franco a Casa Cini fino alla sua scomparsa e tra i curatori dell’iniziativa espositiva. “Le vetrate però – sottolinea Marchetti – sono precedenti”, quasi che poi don Franco abbia pensato di progettarne e realizzarne altre e, su quelle tele, abbia dato forma a degli studi.

Patrizia Fiorillo e Francesco Lavezzi davanti alle opere di don Franco Patruno in mostra a Casa dell'Ariosto (foto Giorgia Mazzotti)
Patrizia Fiorillo e Francesco Lavezzi davanti alle opere di don Franco Patruno (foto Giorgia Mazzotti)

Nella prima sala al piano terra che si trova sulla sinistra entrando da via Ariosto ci sono i collage: figure a colori ritagliate, calligrafia fitta fitta che diventa segno e forma e – come supporto – i fogli con i bordi bucherellati che servivano per le vecchie stampanti ad aghi, quelle da collegare ai primi computer. “Don Franco amava la cultura umanistica, ma era attratto e affascinato anche da tutto ciò che è tecnologico e innovativo”, sorride Francesco Lavezzi, capo ufficio stampa della Provincia di Ferrara, che ha affiancato don Franco e don Francesco Fiorini come assistente all’istituto di cultura dal 1985, anno in cui viene costituito, fino al 1997.
I ritratti su una parete della seconda sala affiancano le opere dove parola e scrittura si fanno protagoniste. “Queste elaborazioni su carta sono quasi poesie visive, segni che accompagnano alcuni versi di Mario Luzi”, racconta Patrizia Fiorillo, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Università di Ferrara. Il tratto calligrafico è infatti elemento forte della composizione e in un paio di tele diventa protagonista assoluto. “La centralità del segno, utilizzato come valore scritturale e spaziale – prosegue la professoressa – è presente in ogni sua opera. Nelle illustrazioni della via Crucis il segno fatto con il pastello nero regge tutta la composizione; negli acrilici va verso il paesaggio astratto; nei ritratti diventa un segno morbido e fluido con forte contrasto bianco-nero che evoca la contrapposizione di luce-buio; in alcuni collage il segno diventa calligrafico, quasi una serie di ideogrammi”.

Patrizia Fiorillo e Gianni Cerioli davanti a una tela di don Franco Patruno in mostra a Casa dell'Ariosto (foto Giorgia Mazzotti)
Patrizia Fiorillo e Gianni Cerioli davanti a una tela di don Franco Patruno (foto Giorgia Mazzotti)

La scelta delle opere presenti in questa esposizione la descrive bene il critico Gianni Cerioli nel testo di accompagnamento e nella presentazione della mostra fatta sabato insieme con il dirigente del Servizio dei Musei civici Angelo Andreotti. “Queste opere – dice Cerioli – confermano tutte il ruolo di don Franco Patruno come sapiente sperimentatore di segni”. E ricorda che “don Franco Patruno (Ferrara 1938-2007) rappresenta una delle voci più significative del dibattito artistico, culturale, religioso e civile del secondo Novecento ferrarese. Per questo, nel decennale della morte, l’esposizione vuole ricordarlo a quanti lo hanno stimato e allo stesso tempo farlo conoscere a quanti non lo hanno conosciuto mettendo insieme momenti significativi della sua produzione grafica e pittorica: dai ritratti di grande formato realizzati su carta con il pastello nero, agli Angeli caduti, ai Crocefissi, dai collage materici alle chine preziose”.
L’esposizione è a cura di Maria Paola Forlani, Massimo Marchetti, Patrizia Fiorillo e Gianni Cerioli, con la collaborazione del Comune di Ferrara. Un’antologia di disegni, quadri e collage che Franco Patruno realizza a partire dagli anni ’60 fino a poco prima della sua morte, avvenuta nel 2007.

“La libertà di dire, la verità di fare”, antologica dell’opera di don Franco Patruno, Casa di Ludovico Ariosto, via Ariosto 67, Ferrara. Da sabato 11 febbraio a domenica 12 marzo 2017. Aperta da martedì a domenica ore 10-12.30 e 16-18. Chiuso il lunedì. Ingresso libero.

Maria Paola Forlani accanto a un ritratto di don Franco Patruno in mostra a Casa dell’Ariosto (foto Giorgia Mazzotti)
Massimo Marchetti alla mostra di Casa dell’Ariosto (foto Giorgia Mazzotti)
Patrizia Fiorillo e le via Crucis di don Franco Patruno al primo piano di Casa dell’Ariosto (foto Giorgia Mazzotti)
Collage di don Franco Patruno in mostra a Casa Ariosto, Ferrara, 11 febbraio-12 marzo 2017
Collage di don Franco Patruno in mostra a Casa Ariosto, Ferrara, 11 febbraio-12 marzo 2017

Lettera di un cane qualunque al Signor Sindaco Illustrissimo

da: Fumo

Mi hanno detto che anche il canile dovrà subire la dura regola dell’abbattimento dei costi sociali. Ne sono molto amareggiato perché è stata la mia casa per molti anni.
Ormai, voi umani, siete tragicamente abituati a vedervi ridurre i servizi, ma noi pensavamo ormai di fare una vita da cani e basta. Poveri i cani che ora sono ancora in canile.
Un saluto e un grande ringraziamento a tutte le persone che hanno reso il canile municipale in questi anni un importante punto di riferimento; grazie alla presidentessa, alla direttrice e a tutti coloro che vi hanno lavorato. A molti mancherà una occasione di volontariato per far fare una passeggiata a questi cani infelici; a molti genitori mancherà una occasione per rendere migliori i loro figli.
Ci mancherà la cocomerata d’estata, la festa di Natale. Ci mancherà tutto.
Grazie a voi, io ora per fortuna sono un cane felice.

Vita da cani: prima…
…e dopo

Italia un modello per l’Europa, ma ora i Tribunali per i minorenni rischiano di sparire

Una volta tanto in Italia siamo i primi, i più bravi, tanto che l’Ue ha emanato una direttiva per prescrivere a tutti i paesi membri di seguire il nostro esempio. E non è finita qui: vengono da diversi paesi anche fuori dall’Europa per studiare il nostro sistema e cercare modi di replicarlo. Di cosa stiamo parlando? Della giustizia minorile italiana. Forse l’unico settore del sistema giudiziario del nostro Paese nel quale l’obiettivo è rimasto quello sancito dai Padri Costituenti, che all’articolo 27 della Costituzione hanno scritto: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Ebbene: “l’unico processo che ci viene invidiato in tutto il mondo verrà probabilmente soppresso”. È l’allarme lanciato dal presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna Giuseppe Spadaro, intervenuto sabato mattina nella sala del Consiglio Comunale di Ferrara all’incontro ‘Quando i ragazzi sbagliano. L’attenzione dei media, la risposta educativa e giudiziaria’.
(Leggi l’articolo di Simona Gautieri)

Giuseppe-Spadaro
Giuseppe Spadaro

La sua non è affatto una difesa corporativa: entrato in magistratura nel 1990, prima di approdare a Bologna, ha esercitato per più di venti anni nel tribunale ordinario di Lamezia Terme, “poi ho avuto la fortuna di tuffarmi nella giustizia minorile”, dove “puoi realmente incidere”, ma proprio per questo “se sbagli i tuoi provvedimenti possono essere devastanti”. Così si è trasformato da fine giurista, esperto di tecnicismi, in un “giudice-uomo” che sbaglia, ma “sbagliamo perché ci proviamo”.
“Il processo penale minorile è connotato di una valenza educativa”, ha sottolineato Spadaro per far comprendere come la giustizia minorile non possa essere trattata, descritta, considerata come la giustizia degli adulti. Non è un caso che si chiamino tribunali per i minorenni: “il processo non è contro, ma per: per la persona che ci troviamo a giudicare e per la vittima”. “Siamo giudici della persona, non dei fatti”, questa secondo Spadaro è “la rivoluzione”: non valgono i tecnicismi e il distacco da fini giuristi, da principi del foro, ciò che serve è “l’equidistanza, che evoca il concetto di empatia”.

Nella giustizia minorile non ci si accontenta di fornire una risposta sanzionatoria “che a fronte di un errore commesso è imprescindibile, ma da sola non è sufficiente: deve essere accompagnata da un percorso, da occasioni di crescita, da un’opportunità di vita”. Da qui tutta una serie di strumenti extragiudiziari come la messa alla prova e la mediazione penale, strumenti che tra l’altro si sta pensando di utilizzare anche nella giustizia ordinaria. “Il confronto è un momento chiave per chi ha sbagliato e per chi ha subito: quest’ultimo ha l’occasione di dire in faccia al responsabile gli effetti devastanti delle sue azioni e il primo guarda in faccia la sofferenza umana che ha provocato. Di fronte a questo, non c’è pena che tenga”, afferma con forza Spadaro.
Tutto ciò rischia di essere cancellato a causa di “una riforma epocale”, attuata “nel silenzio quasi totale del dibattito pubblico”.

Nel 1908 l’allora Guardasigilli Vittorio Emanuele Orlando dava disposizioni affinché fosse istituita la figura di un giudice specializzato per i minorenni, dando inizio all’esperienza della giustizia minorile italiana. Oggi un altro Orlando, che occupa la stessa posizione, dà il suo nome a una riforma che, per aumentare l’efficienza del sistema giudiziario, prevede la soppressione dei tribunali per i minorenni e delle procure presso i tribunali per i minorenni, a favore di sezioni specializzate presso i tribunali ordinari. È il ddl 2284, “Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile”: il provvedimento già approvato alla Camera è ora in discussione alla Commissione Giustizia del Senato.
La stessa riforma, spiega Spadaro, “l’aveva tentata a inizio 2000 il ministro-ingegnere del governo Berlusconi (Roberto Castelli, ministro della giustizia nei governi Berlusconi dal 2001 al 2006, ndr): allora ci furono le barricate, da parte di chi ora ne è fautore”.

Ciò che stupisce è che tale soppressione avvenga nonostante il riconoscimento, appena un mese fa, dei risultati ottenuti dalla giustizia minorile in Italia. Nel documento di sintesi della ‘Relazione del Ministero sull’amministrazione della giustizia anno 2016’, citato da Spadaro sabato mattina, si legge infatti: “Il consolidamento di una cultura che pone i diritti dei minori al centro di tutte le attività processuali che a vario titolo li vedono protagonisti, ha condotto ad eccellenti risultati, come dimostrato dalle recenti rilevazioni statistiche che indicano l’Italia come il Paese con il più basso tasso di delinquenza minorile rispetto agli altri paesi dell’UE ed agli Stati Uniti. Tale effetto è certamente da ricondursi all’efficacia sia programmi di prevenzione adottati, che delle misure trattamentali alternative alla detenzione”.

Spadaro è molto preoccupato, come del resto la quasi totalità degli attori della giustizia minorile – dall’Associazione italiana magistrati minori e famiglia all’Associazione nazionale magistrati, dall’Unione delle camere minorili all’Ordine degli assistenti sociali e degli psicologi, a tutte le maggiori sigle del Terzo Settore – della logica e del messaggio insiti in questo provvedimento: “la logica è spersonalizzare e mandare all’ordinario” e “il messaggio culturale è una visione adultocentrica”. Un aspetto condiviso nientemeno che da Gherardo Colombo: l’ex magistrato del pool di Mani Pulite, che da quando si è dimesso gira per l’Italia incontrando i ragazzi e parlando loro di giustizia e Costituzione. Riferendosi alla riforma Orlando, Colombo ha detto che renderà la giustizia minorile incapace di trattare bambini e adolescenti come tali, ma che li assimilerà agli adulti.
Questa riforma, per far fronte a esigenze organizzative tese a ripianare carenze di risorse negli uffici per gli adulti, rischia di ridurre drasticamente la specializzazione dei giudici chiamati a intervenire in materia civile, amministrativa e penale minorile. Con l’accorpamento ai tribunali ordinari, chiarisce Spadaro, “necessariamente non si potrà più garantire l’esclusività delle funzioni che mi consente di parlare con i servizi sociali come con i ragazzi imputati”: “quando sarò accorpato al tribunale ordinario di Bologna mi occuperò un po’ di più della chiamata del colonnello che mi dice “Guardi che c’è stato un omicidio”, piuttosto che della chiamata dell’assessore che mi segnala un caso di dispersione scolastica”. “Quello che cambierà – continua Spadaro – è l’approccio, l’atteggiamento, la mentalità dei magistrati che verranno accorpati: quando diventerò un giudice del tribunale di Bologna spero che il presidente del tribunale ordinario possa farmi fare solo questo, ma ho i miei dubbi e penso che farò qualcos’altro”. “E’ inevitabile perché le competenze del tribunale ordinario sono una miriade e le risorse e i mezzi e i carichi di lavoro sono tali da non consentire di occuparsi solo di minori: è così lineare questo discorso che non riesco a capire come possa sfuggire”, dice il magistrato amareggiato.

Non è che già ora le cose vadano poi così bene: il sistema di protezione dell’infanzia è duramente provato dai tagli alla spesa pubblica. In Emilia Romagna il tribunale per i minorenni di Bologna, l’unico per tutta la regione, deve operare con solo “il 60%” di copertura del fabbisogno di personale, mentre l’Ufficio di servizio sociale per i minorenni del capoluogo regionale a fronte di 3.115 ragazzi presi in carico (dei quali il 5% residenti a Ferrara e provincia) ha un organico composto da undici assistenti sociali e un solo educatore.
Spadaro ammette che esiste sia un problema di “frammentazione delle competenze” in materia di persona, famiglia e minorenni, sia un problema di distribuzione delle risorse, se “il tribunale per i minori dell’Emilia Romagna opera con sei magistrati e un presidente, per una popolazione di quasi cinque milioni di abitanti, a fronte di ventinove magistrati in Puglia”. Quindi ci sono “ragioni economiche sottostanti che sono vere e proprie ragioni”.

La soluzione giusta non è però il provvedimento che si sta discutendo alla Commissione giustizia del Senato. Quello che gli operatori e le associazioni che operano nella giustizia minorile propongono è un ‘tribunale della famiglia’, peraltro originariamente previsto nel testo della legge poi modificato: “un tribunale che si occupa di tutte le vicende della famiglia”, accorpando le competenze in capo ai tribunali per i minori per “concentrare l’attuale frammentazione che effettivamente arreca un danno” e avvicinarsi “all’utenza e all’avvocatura mandando un magistrato altamente specializzato nei centri maggiori, ridistribuendo così in maniera intelligente l’organico con un costo abbastanza contenuto”. Questa sarebbe una “vera riforma epocale” secondo Spadaro, che ribadisce infine: “quello che conta è mettere al centro non gli adulti, ma il minore, come noi siamo abituati a fare”.

Il giudice dei minori: “Tutti noi siamo vittime e carnefici, in aula servono amore ed empatia”

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“Sono mezzo esaurito, non credo di poter continuare a fare il giudice minorile per molto tempo”, dice ironicamente Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna e vero mattatore del seminario sulla giustizia minorile tenutosi sabato alla sala consigliare del Comune di Ferrara. “Sarà che non sono il fine giurista da cui si pretende il distacco assoluto nel giudicare un fatto di reato: sono un giurista di cuore e l’amore e l’empatia devono entrare nella giustizia”, continua Spadaro e il pubblico presente, composto di comuni cittadini, ma anche di tecnici della materia – assistenti sociali, avvocati e giornalisti – applaudono per quasi un minuto al suo intervento. E le sue parole, infatti, lungi dall’avere la freddezza e il distacco dei principi del foro, contengono tutta la preoccupazione per un sistema giudiziario nel quale “c’è qualcosa che non va”: “qualcuno se n’è accorto”, da Amnesty Internatonal all’Unione Europea, che per questo continua a bacchettarci. E se per la giustizia degli adulti le cose non vanno bene, “il sistema è destinato a implodere” afferma Spadaro, il presidente lancia  l’allarme anche per quanto riguarda la giustizia minorile: la riforma Orlando (ddl. 2284), già passata alla Camera e ora ferma al Senato, nella sua brama di rendere più efficiente il processo civile progetta di accorpare i tribunali per i minorenni a quelli ordinari, di fatto abolendoli. (Leggi qui l’articolo di Federica Pezzoli)

‘Quando i ragazzi sbagliano. L’attenzione dei media, la risposta educativa e la giustizia’ è il titolo dell’incontro e del tema parlano, oltre a Spadaro, l’assessora ai Servizi alla persona del Comune di Ferrara Chiara Sapigni, Giorgio Benini dell’Ufficio sicurezza del Comune di Ferrara, Elena Buccoliero, referente dell’Ufficio diritti dei minori del Comune di Ferrara e giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna, e Teresa Sirimarco, direttore dell’ Ufficio servizi sociali per i minorenni di Bologna. Dopo i saluti dell’assessora Sapigni e l’intervento di Giorgio Benini, che sottolinea l’importanza di insegnare ai ragazzi il concetto di responsabilità – “bisogna ragionare con loro sul legame tra azioni e conseguenze che esse comportano: in ogni contesto educativo ci sono delle regole che vanno rispettate” – si entra nel vivo ad affrontare il tema del rapporto tra giustizia e media con Elena Buccoliero e la sua analisi del caso di Carolina Picchio: aveva quattordici anni quando nel 2013 si è suicidata buttandosi dalla finestra della sua camera da letto.

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“Il caso di Carolina – spiega il giudice onorario – è emblematico di come i media, nello specifico la carta stampata, riportino una notizia di cronaca. Diventa Verità solo ciò di cui parlano i giornali”. Carolina si è suicidata il 5 gennaio del 2013 per delle angherie subite dall’ex fidanzato e da altri amici a una festa svoltasi nel novembre del 2012, dove era stata filmata ubriaca. Il video poi era stato diffuso in rete. I giornalisti hanno scritto di “prima vittima del cyberbullismo” e di “femminicidio”, si è passati indifferentemente dal suicidio all’omicidio in una ricerca sempre più spasmodica di etichette e primati. “Perché è così importante arrivare per primi?”, si chiede la Buccoliero: “I primi studi sul bullismo risalgono agli anni ’Settanta e sono nati in Inghilterra e nei Paesi scandinavi, proprio a seguito di una serie di casi di suicidio tra giovanissimi”. Il giudice Buccoliero sottolinea le tante incongruenze e inesattezze operate dai giornalisti nella ricostruzione dei fatti: il nome errato della madre, l’età della vittima, la ricostruzione approssimativa della sua situazione famigliare e del suo probabile disagio psicologico.

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“I giornalisti scomodano, in un primo momento, il clichè della bambina-angelo – continua la Buccoliero – riportando le dichiarazioni del padre e degli amici presenti al funerale che la descrivono come “l’angelo più bello”. Successivamente viene introdotta un’incrinatura a questo ritratto: l’ex fidanzato dice che “aveva un carattere difficile”, gli amici iniziano a parlare di una festa in cui si era ubriacata. La vittima merita pietà solo se la sua immagine risulta pulita, in caso contrario, specie i giovani, pensano che la ragazza “se la sia andata a cercare””. Dall’altra parte però, sottolinea, “il titolo sensazionalistico schiaccia la persona e chi si sente definire ‘mostro’ sul giornale farà maggiore fatica a rielaborare ciò che ha fatto in un’ottica di pentimento”. Di particolare interesse risulta il modo errato in cui i giornalisti hanno riportato la pena inflitta ai minori coinvolti nel procedimento per la morte di Carolina: “Alcuni titoli riportano ‘invece che il processo c’è stata la messa alla prova’. Per alcuni giornalisti la messa alla prova è paragonabile ad una assoluzione, per altri è peggio di una condanna. La verità è che nessuno conosce questo fondamentale istituto del processo minorile” conclude il giudice Buccoliero.

L’istituto della messa alla prova prevede la possibilità di sospendere il procedimento penale a carico del minore con affidamento di quest’ultimo ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia che, anche in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali, svolgono nei suoi confronti attività di osservazione, sostegno e controllo volto al suo completo recupero, ed è proprio per far capire la sua importanza che viene proiettato il video “Come rinascere”: intervista fatta a un ragazzo ferrarese che ha brillantemente superato la propria messa alla prova reinserendosi nella società. “Sentivo molto buio dentro di me”, spiega il ragazzo intervistato che parla a voce bassa e muove continuamente le mani, “sapevo di sbagliare e se avessi continuato su quella strada sono sicuro che mi sarei rovinato la vita. Con me ci sono andati giù pensante per farmi capire ciò che stavo facendo. Gli amici ti coinvolgono a fare delle cose, ma devi essere tu a dire no. Il carcere rovina le persone. Quando il mio avvocato mi ha parlato della possibilità di andare in comunità credevo fosse uguale al carcere. Invece qui ho avuto modo di costruire me stesso, conoscere persone che mi hanno aiutato veramente e non come gli amici con cui pensavo solo a divertirmi. Ora ho un lavoro e sono felice”.

L’Ufficio servizio sociale minorenni per l’Emilia Romagna, si occupa dei minori e giovani adulti di qualsiasi nazionalità, residenti o presenti nelle regioni di competenza, sottoposti a procedimento penale da parte dell’autorità minorile dell’Emilia Romagna – spiega la dottoressa Sirimarco, direttore dell’Ussm, ufficio che di raccordo con le autorità di giustizia minorile, magistratura e assistenti sociali, svolge una attività finalizzata al reinserimento sociale dei minori che entrano nel circuito penale. L’Ussm si attiva dal momento della denuncia e accompagna il ragazzo in tutto il suo percorso penale. Per la Sirimarco: “Il reato deve essere visto come un’occasione di crescita. Il minore sbaglia ed è giusto ci sia una sanzione ma bisogna non far mai mancare una possibilità. La messa alla prova può essere strumentalizzata e non solo dagli avvocati: tanti minori fanno finta di essersi ravveduti e pentiti per quanto fatto. Io però non mi scoraggio: se si parla di “processo” è necessario pensare che il pentimento è il risultato di un processo appunto di rielaborazione e costruzione che quasi sempre arriva.Ecco perchè il progetto di messa alla prova deve essere studiato sul reale caso, per non correre il rischio di far fallire il ragazzo che ad essa viene sottoposto. Deve essere un progetto consensuale, adeguato per lo specifico caso in esame e flessibile, cioè modificabile a seconda delle necessità del minore”.

A conclusione del seminario viene proiettato “Mettersi in gioco” un video, realizzato presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, nel quale si assiste alla simulazione dello svolgimento di un procedimento penale a carico di un minore reo di aver ceduto una pasticca di droga alla propria fidanzatina, interpretato proprio da Giuseppe Spadaro. “Mi è venuto semplice interpretare una persona che sbaglia, perchè tutti noi sbagliamo. Noi ci proviamo e sbagliamo. Il processo è vita – conclude Spadaro – chi di noi non ha sbagliato e ha avuto chi lo giudicava, chi lo assisteva e chi lo accusava?”.

L’INTERVENTO
Tagliani: “Investire sulla creatività dei nostri giovani”

Da ufficio comunicazione

In questo frangente, ove la speranza è rimasta solo a denominare sulle carte il capo a sud dell’africa, mi sono fatto convinto che ai menagrami  capaci di demolire con arguzia e tempismo ogni ipotesi costruttiva e di alzare spallucce di commiserazione e sufficienza di fronte a qualsivoglia progetto che non li veda committenti, d ancor meglio protagonisti nella esecuzione,  occorrerebbe imporre, per ogni badilata impegnata a seppellire l’dea altrui,  un’opera forzata di bene: una semina, un innesto, un concreto contributo che illumini sul cosa si vuole e  sul come fare diversamente,  per restituire bellezza e senso a questa nostra comunità.
Non mi accingo certo a questa riflessione spinto dalle quotidiane beghe di bottega, quanto piuttosto  ancora oggi tormentato dalle  vicende locali nelle quali giovanissimi protagonisti hanno toccato l’abisso del matricidio e del parricidio.
Lascio ai genitori come me, alle nostre famiglie  il compito di guardarsi dentro ed osservare i ragazzi, gli adolescenti soprattutto, per insinuarsi fra un “like” ed una risposta assente davanti all’ipad, con uno sguardo od una parola che ci dica “nuovamente connessi”. 
Mi preoccupo invece di rifletter sul modello di sviluppo in queste nostre terre collocate in un angolo di pianura lontana dai fari della via Emilia e dei viali Ceccarini della Romagna, dove i ragazzi, come sempre i più sensibili,  non a torto, si sentono “ ai margini” della crescita economica, ai margini della cultura, in una parola ai margini della vita;  così dinamicamente irresistibile vista sul web dopo una serata al bar del paese.
Per anni noi amministratori abbiamo ritenuto che il nostro dovere fosse quello di portare a Ferrara risorse economiche:  tradotte in strade, ponti, ciclabili, parchi, sagomature di canali, contributi alle aziende e questo era vero e giusto: si è trasformato in lavoro, in sicurezza idraulica, in agricoltura avanzata,  serve ancora, ma oggi non basta più.
Non basta lavorare sull’hardware della nostra comunità ossia le infrastrutture, la sfida nel mondo è nel  software ossia sulla conoscenza : è qui che si vince la competizione per “abitare in centro”.
E’ successo nel mondo dei computer dove sono i produttori di  sistemi operativi ad aver vinto sui produttori di processori e così anche qui saranno le persone, le loro menti, le loro capacità di relazione e di analisi a vincere le distanze ma anche la sfida delle nuove occupazioni .
Non tanto diversa dovette essere la ragione del successo per l’abazia di Pomposa  attorno al mille, così come oggi lo è per le software house indiane, fino a ieri  in polverose e sudice periferie oggi leaders nella competizione globale.
Per questa ragione la candidatura di Comacchio come capitale italiana della cultura, banalmente letta da alcuni come velleitario tentativo di utilizzo strumentale della cultura per la promozione turistica del territorio, è invece, per quanto mi riguarda, un segno importante e lungimirante di guardare oltre.
Certo anche qui hanno giocato e giocano un ruolo  fondi europei, risorse regionali per il restauro di edifici e capanni, ma a nulla servirebbe tutto questo se la cultura, che ti permette di conoscere la storia , la conformazione del tuo territorio, le straordinarie risorse della natura, ma anche i linguaggi per comunicare questa ricchezza, lingue straniere e linguaggi della tecnologia, non divenisse la vera protagonista del progetto.
Lo stesso ragionamento appena accennato su Comacchio  vale per tutto il nostro territorio, i giovani rischiano di rimanere distaccati osservatori della costruzione di nuove arterie di comunicazione,  siano d’asfalto o d’acqua, assai più urgenti quelle telematiche, se in quei contesti non saremo capaci di innestare progetti di sviluppo che sviluppino conoscenza, investano sulle persone, sulle loro idee, la loro fantasia, l’amore per la loro comunità.
Per questo, siccome siamo all’interno di una  programmazione europea e nazionale che tra fondi strutturali e diretti alle “aree interne” ci beneficerà di risorse rilevanti, dobbiamo investire sul nostro software che è l’intelligenza e la creatività dei nostri giovani, sulle scuole, sulla loro formazione, sui sistemi di “connessione”  a distanza fra le persone con i migliori linguaggi di oggi, magari chiedendo ai grandi operatori come Oracle o IBM di collocare a Ferrara scuole di alta formazione.
Se, su altro profilo, alla presidenza del Nuovo Parco Interregionale del Delta fossimo in grado di designare una persona di grande spessore culturale, un uomo capace di rappresentare il desiderio di queste terre e di questi ragazzi di diventare protagonisti della scena europea, dove di luoghi così straordinari non ce ne sono, magari rinunciando alla usuale soluzione standard buona per tutte o tante altre stagioni, daremmo un segnale bello qualcuno comincerebbe a crederci.
Se poi la più grande infrastruttura turistica italiana, ovvero la ciclovia VEN (ezia) TO (rino) incontrasse sul suo percorso un paesaggio straordinario non sarebbe merito nostro, ma se incontrasse una generazione che parla le lingue del mondo, capace di accogliere a Serravalle danesi nostalgici del Mississippi  o a Codigoro un gruppo di artigiani innovativi che realizzano borse con la canapa o mille altre diavolerie e le vendono on line in tutto il mondo, insomma  una realtà “che abita in centro” perchè capace di annullare le distanze e di trasformarla in nuove occasioni di lavoro e di incontro,  allora ciò sarebbe perché ci abbiamo pensato oggi e forse le ferite di Pontelangorino e dintorni ci avrebbero insegnato qualcosa. 
Tiziano Tagliani

FERRARA, EUROPA
Per Marine Le Pen approccio “entre-nous” e immigrati senza diritti né assistenza

di Achraf Kibir

Una Francia liberale, anti-sistema e soprattutto xenofoba: negli ingredienti della ricetta presidenziale di Marine Le Pen annunciati questo week-end a Lione si ritrovano tutti gli elementi tipici dell’estrema destra europea.

La questione immigrazione rappresenta la causa mobilizzatrice che circa quarantacinque anni fa portò in Francia alla nascita del Front National e anche oggi è il tema cardine del programma politico del partito di estrema destra francese. Ciò che emerge dal week-end di apertura delle sue presidenziali a Lione non fa che confermare questo trend. Il Fn infatti non ha alcuna intenzione di cessare la lotta contro ciò che la candidata frontista Marine Le Pen definisce come una “migrazione dilagante totalmente incontrollata”, proponendo un “saldo migratorio annuale” di 10.000 persone unito a una “semplificazione e automatizzazione” delle espulsioni. Nell’ipotesi in cui Le Pen prendesse le redini del paese, gli stranieri illegali sul territorio francese vedrebbero la loro regolarizzazione o naturalizzazione bloccata e la loro espulsione automatizzata. L’abolizione dello ius soli (acquisizione automatica della nazionalità per un bambino nato sul suolo francese da genitori stranieri) resta un pilastro del programma elettorale frontista, così come come lo sono “la fine dell’automaticità del ricongiungimento familiare” e la stretta sul riconoscimento della nazionalità (in particolare quella acquisita ipso facto per matrimonio con cittadino francese). Agli occhi della candidata frontista l’immigrazione rappresenta, così come l’Unione Europea, una “fonte di spesa pubblica cattiva e inefficiente” che è necessario arginare. È sotto quest’ottica che Marine Le Pen vuole eliminare l’assistenza medica “riservata ai clandestini”. Poco importa se l’accesso alle cure per queste persone rappresenta un diritto fondamentale costituzionalmente riconosciuto, che permette di individuare e trattare moltissimi casi di malattia, proteggendo tra l’altro gli stessi francesi.
La priorità frontista è il primato dei francesi. L’obiettivo è quello di creare una suddivisione sociale in base alla cittadinanza normata da una costituzione “corretta”, di cui il Front National ha distribuito qualche fac-simile lo scorso week-end. Il nuovo testo integrerebbe anche “la difesa dell’identità di popolo” e “la lotta contro il comunitarismo” fra i suoi principi. In sostanza: l’“attribuzione prioritaria” degli alloggi sociali tornerebbe ai francesi. Idem per il lavoro, poiché Marine Le Pen conta di applicare una sorta di tassa addizionale su tutti i contratti di lavoro stipulati con cittadini stranieri (ivi compresi gli europei, ha specificato il vice-presidente Florian Philippot presso un’emittente radio francese). Un modus operandi che non risparmierebbe neppure l’ambito sportivo, imponendo ai club professionali un tetto minimo di giocatori francesi all’interno delle proprie rose. Insomma, precisamente “Liberté, Egalité, Fraternité”

L’EVENTO
Piero Angela all’Università di Ferrara per parlare di orizzonti della comunicazione

Da ufficio comunicazione ed eventi

Piero Angela torna all’Università di Ferrara  venerdì 24 marzo alle 10 per inaugurare il secondo ciclo di seminari “L’etica in pratica”, organizzato dal prof. Sergio Gessi di Unife a integrazione del suo corso di Etica della comunicazione e dell’informazione.

Al più celebre giornalista-divulgatore italiano l’Università di Ferrara ha conferito la laurea honoris causa in Scienze Biologiche nel 1992 nel corso di una seguitissima cerimonia durante la quale tenne una memorabile Lectio magistralis dal titolo “Scienze, società ed informazione”. Data l’eccezionalità dell’evento che lo vedrà di nuovo protagonista a marzo si sta valutando la disponibilità del Teatro Comunale Abbado. La sua lezione seminariale ha per titolo: “L’orizzonte empatico della comunicazione”.

Gli altri incontri del ciclo si terranno, sempre di venerdì fra le 10,15 e le 12, all’aula magna Drigo del dipartimento di Studi umanistici che ha sede in via Paradiso12. Potranno partecipare non solo gli studenti che hanno scelto il corso di Etica, ma chiunque sia interessato, studenti e cittadini, per propiziare un’ampia diffusione della conoscenza.

Fra gli ospiti che già hanno confermato la loro presenza: Mattia Feltri della Stampa, Annalena Benini del Foglio, Pier Luca Santoro di DataMedia Hub, Jacopo Tondelli fondatore di linkiesta.it e glistatigenerali.com, Luca De Biase direttore di Nova, l’inserto su nuovi media e tecnologie del Sole24ore.

 

Piero AngelaNella foto: Piero Angela con l’allora Magnifico Antonio Rossi durante il confermento della laurea ad honorem

 

 

Ferrara è un palcoscenico: Off, Nucleo, Fonè e Ctu animano la scena

Il teatro a Ferrara è di casa fin dai tempi della signoria estense. Ercole I d’Este, per esempio, era un grandissimo appassionato, tanto che fu proprio il nostro duca a consegnarci un indubbio primato culturale sulle corti italiane ed europee del tempo promuovendo la rappresentazione dei ‘Menaechmi’ di Plauto, primo dramma dell’antichità a essere rimesso in scena dopo l’avvento dell’era cristiana. E non è finita qui: lo spettacolo venne realizzato nel cortile del Palazzo Ducale – l’odierna piazza municipale – e quindi, oltre a dignitari e personalità da tutta Europa, allo spettacolo potè assistere tutta la cittadinanza ferrarese.
Non stupisce dunque che ancora oggi il territorio estense, come un unico grande palcoscenico, ospiti diverse realtà teatrali, dal Teatro Comunale Claudio Abbado, riconosciuto dal Mibact come ‘teatro di tradizione’, al Teatro Nuovo, con una programmazione più vicina al cabaret, fino al Teatro De Micheli di Copparo e al Teatro Comunale di Occhiobello: ognuno in grado di avvicinare il pubblico ferrarese con un’offerta diversa, togliendogli ogni scusa per starsene chiuso in casa a fissare la tv. Su questo grande palcoscenico poi, si sono guadagnate il proprio spazio anche diverse realtà che si occupano di sperimentazione e ricerca teatrale e che danno spazio alla creatività di compagnie e artisti emergenti, che rimangono fuori dai grandi circuiti, oppure che si occupano di formare gli attori di domani.
Su il sipario allora: per questa volta i riflettori sono puntati su di loro.


Ferrara Off: Marco Sgarbi & Co.

Il nome è un rimando alle realtà underground di Broadway o di Londra: spazi nati per raccogliere le nuove tendenze, le sperimentazioni che non trovavano posto all’interno delle programmazioni dei grandi teatri, luoghi di rappresentazione che uscivano dalle logiche economiche dei grandi circuiti. Una scommessa controcorrente in un momento di crisi economica, per non parlare della cronica mancanza d’attenzione per il settore culturale in Italia. Una scommessa che Marco Sgarbi, Roberta Pazi, Monica Pavani e Giulio Costa a quanto pare hanno vinto: Ferrara Off è ormai una realtà più che (ri)conosciuta, il cui valore aggiunto sta nella volontà e nella capacità di costruire collaborazioni non solo con gli altri attori culturali della città, ma soprattutto con il pubblico e i cittadini, come hanno dimostrato la campagna di crowdfunding ‘Biblioteca itinerante di letteratura. Omaggio a Giorgio Bassani’ o la ‘Maratona Orlando’ dedicata al celebre poema di Ludovico Ariosto.
La prossimità fra pubblico e attori offerta da Teatro Off, complici anche le dimensioni raccolte della sala, è nello stesso tempo una possibilità e una sfida: i dialoghi che concludono le serate vogliono essere come le impressioni scambiate dopo lo spettacolo davanti a un buon calice, ma nello stesso tempo spingono lo spettatore a riflettere su ciò che ha appena visto, su cosa il testo, le soluzioni sceniche e le persone in carne e ossa davanti a lui gli hanno trasmesso.
Il nuovo spazio performativo di Ferrara ha aperto nel dicembre 2013 in viale Alfonso I d’Este, dove prima sorgeva il centro sociale Dazdramir, tenuto a battesimo dall’attore e autore Gianni Fantoni, da Massimo Navone, direttore della Scuola Paolo Grassi di Milano, dall’attrice e docente Roberta Pazi e da Marco Sgarbi, attore e direttore artistico del Teatro Comunale di Occhiobello.

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foto di Giorgia Mazzotti

A tre anni di distanza, l’associazione ha chiuso il 2016 con numeri di tutto rispetto: settanta eventi e quasi duemila spettatori, undici corsi di formazione e più di mille associati. Mentre la maratona di lettura integrale e senza interruzioni del poema di Ariosto, che si è svolta presso la Pinacoteca Nazionale tra venerdì 2 e sabato 3 dicembre ed è durata 36 ore, ha coinvolto mille lettori, con 1400 spettatori e 70mila persone raggiunte tramite social network, connesse alla diretta streaming.
E non è finita qui perché Marco Sgarbi e la sua squadra hanno partecipato e vinto come Associazione culturale Arkadiis – che da anni cura in collaborazione con l’amministrazione comunale la stagione del Teatro Comunale di Occhiobello – il bando nazionale Funder35, promosso da 18 fondazioni associate ad Acri – l’organizzazione che rappresenta le Casse di Risparmio Spa e le Fondazioni di Origine Bancaria, ndr – con l’obiettivo di rafforzare imprese culturali giovanili non profit impegnate principalmente nell’ambito della produzione artistica/creativa in tutte le sue forme, premiando l’innovatività e favorendo la sostenibilità. Il 1 febbraio a Roma, presso il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini ha premiato le 57 imprese culturali vincitrici del bando 2016. “L’Associazione Arkadiis fa parte delle sette provenienti dal Veneto, solo due delle quali imprese culturali teatrali”, sottolinea Marco. “Il premio porterà finanziamento di 35.000 euro in tre anni” per realizzare il progetto ‘Next Generation’ che “mira a educare le nuove generazioni alla cultura teatrale e a rigenerare così l’attuale pubblico attraverso due azioni: una nuova proposta culturale che vuole coinvolgere ed educare la nuova generazione di piccoli spettatori presenti sul territorio e uno svecchiamento dell’associazione da un punto di vista comunicativo e di immagine”, ci spiega ancora Sgarbi. L’obiettivo è “il raggiungimento di un nuovo target composto dai giovanissimi potenziali spettatori presenti sul territorio della fascia compresa tra i 6 e i 12 anni” e attraverso di loro “anche altre fasce potenzialmente interessate, come quella dei genitori che va dai 31 ai 40 anni e la fascia dei nonni, over 65”.
www.ferraraoff.it


Il Nucleo sulle rive del Po: il teatro come comunità

Sono passati ormai quarant’anni da quando il Teatro Nucleo – allora Comuna Nucleo – è arrivato in Italia da Buenos Aires, costretto all’esilio dal golpe di Videla. Fondato nel 1974 da Horacio Czertok e Cora Herrendorf, nel 1978 Teatro Nucleo si è stabilito a Ferrara, chiamato dallo psichiatra basagliano Antonio Slavich per collaborare nel processo di chiusura dell’ex-ospedale psichiatrico della città, che è divenuto anche la sua prima sede. Alla base dell’attività del Nucleo c’è la concezione del teatro non come puro intrattenimento, ma come portatore di un’etica sociale, come momento di profonda condivisione di un’esperienza fra attori e spettatori: nel momento in cui avviene lo spettacolo si crea una comunità. E se, come fa il Nucleo, al centro si pone il rapporto con l’essere umano in quanto tale, il teatro diventa un potente strumento di inclusione e trasformazione sociale: “Non vede un pubblico preferenziale, identifica nell’essere umano di qualsiasi genere, etnia, età, classe sociale un possibile interlocutore – si legge sul loro sito – Da un imperativo di giustizia elementare e dall’idea che proprio in costoro è possibile trovare nuova linfa e nuovo senso all’arte, è spinto a rivolgere grande attenzione a tutti gli esclusi dalla fruizione e dalla produzione artistica”.
Con questo spirito negli anni sono nati i tanti progetti di teatro in carcere, nelle strutture terapeutiche e nelle istituzioni legate al lavoro sulla salute mentale e all’integrazione sociale. Il progetto Teatro Carcere, nel quale Horacio Czertok lavora con alcuni detenuti della Casa Circondariale di Ferrara, insignito nel 2012 con la medaglia premio di rappresentanza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il progetto Arte e Salute mentale con pazienti psichiatrici del Dipartimento Salute Mentale di Ferrara e la Scuola di Formazione per Operatori Teatrali nel Sociale, diretta da Cora Herrendorf, sono solo alcuni esempi.
Elemento fondamentale del Nucleo è stato Antonio Tassinari, fino a quando una malattia se lo è portato via, troppo presto, nell’estate del 2014. È stato lui a ideare e coordinare il Teatro Comunitario di Pontelagoscuro: forma teatrale della e per la comunità, basata sull’integrazione intergenerazionale e su un’idea di recupero della memoria collettiva, non la storia scritta sui libri, ma la narrazione costituita dai ricordi delle persone che la comunità la costituiscono e la vivono.

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foto D. Mantovani
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Nel frattempo il Teatro Nucleo è stato riconosciuto ‘organismo stabile’ dalla Regione Emilia Romagna e, nel 2003, ha ricevuto dal Comune di Ferrara quella che è diventata la sua nuova sede a Pontelagoscuro, intitolata due anni dopo allo scrittore Julio Cortázar, in onore delle proprie radici argentine. Dal 2015 è diventato ufficialmente anche sede di ‘residenza artistica’, trasformandosi ancora di più in un cantiere di ‘Cose Nuove’: ospita, infatti, la ricerca e la sperimentazione creativa di diverse giovani compagnie e artisti emergenti che poi restituiscono il risultato del proprio lavoro in workshop, spettacoli e laboratori con la cittadinanza.
“All’epoca di scegliere dove poter portare il mio lavoro e il mio teatro – spiega Horacio Czertok – ho scelto l’Italia perché nessuno è venuto a dirci cosa fare e come farlo: in Italia ho potuto continuare a fare teatro come lo facevo in Argentina, non mi sono mai sentito straniero sul terreno del teatro in questa che è la patria della commedia dell’arte”.
www.teatronucleo.org


Fonè Teatro: gli attori di domani

Massimo Malucelli, attore e insegnante di commedia dell’arte, è protagonista della scena ferrarese da più di venticinque anni. Nella sua Foné Scuola di Teatro ha formato diversi professionisti, come il giovane Stefano Muroni. Proprio con lui nel 2014 ha dato vita al Centro Preformazione Attoriale di via Arianuova, una scuola per ragazzi dai 14 ai 20 anni che intendono intraprendere la professione di attore. La scuola è riconosciuta e appoggiata dal Centro sperimentale di cinematografia e dal Giffoni Film Festival, ha al suo attivo gemellaggi con l’Escuela de artes escenicas Pábulo, la Sylvia Young Theatre School di Londra e l’Erac – scuola regionale per attori – di Cannes, e nel 2015 e 2016 nella delizia estense di Villa Mensa ha organizzato il Tenda Summer School, la prima Summer school d’Europa dove si dorme in tenda e gli allievi sono giovani aspiranti attori e adolescenti appassionati di recitazione.
Il 31 gennaio scorso poi si è chiuso il bando per la quarta edizione di ‘Fest-Festival delle Scuole di Teatro’, organizzato da Fonè in collaborazione con il Comune di Comacchio, il Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara e altri comuni e teatri del territorio, che si terrà fra maggio e giugno 2017. Tutto è nato con l’idea di organizzare un incontro per le varie scuole di teatro del territorio, che fosse anche un concorso e nello stesso tempo una festa del teatro e di chi lo fa. Un’occasione per festeggiare chi fa esperienza di teatro e per far incontrare chi assiste allo spettacolo e chi fa teatro come professionista. Fest, infatti, è contraddistinto dal fatto che si fanno fare giochi teatrali al pubblico stesso.

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Massimo Malucelli con Stefano Muroni e Claudio Gubitosi

Nel novembre 2016, inoltre, Fonè Teatro ha dato avvio alla scuola di teatro e audiovisivi ‘Dal teatro al cinema: un viaggio fra due mondi’: una “scuola di racconti teatrali e digitali”, come la definiscono gli stessi organizzatori. Non un corso dunque, ma di una vera e propria scuola della durata di due anni: “la filosofia che ispira il nostro lavoro è tracciare un percorso che fonda nella forza del teatro, capace di raccontare storie nello spazio, quella di raccontarle anche su di uno schermo, che sia quello del computer, del video o del cinema. Recitare è “essere veri in una situazione finta”, una definizione bella e semplice, che descrive il processo profondo che sta alla base del lavoro creativo, in teatro e su uno schermo, ovunque vi sia una storia raccontata attraverso gli attori ed i personaggi cui essi danno vita”. “Caratteristica che riteniamo unica della scuola – continuano gli organizzatori sul sito di Fonè – sarà presentare, come esercitazione di fine anno, una performance teatrale dalla quale trarremo spunto per creare un video su quello stesso soggetto, ma questa volta sceneggiato e montato secondo il linguaggio dell’audiovisivo, e quindi come racconto filmico per lo schermo.”
www.foneteatro.it
www.centropreformazioneattoriale.it


Centro Teatro Universitario: il teatro come scoperta di sé

ctuDaniele Seragnoli, delegato del Rettore alle attività relative alle pratiche teatrali in ambito sociale, e Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro, sono rispettivamente il direttore e il responsabile dei laboratori teatrali del Ctu-Centro teatro universitario: un luogo di sperimentazione del teatro e dei suoi linguaggi attraverso una visione ampia che favorisce tramite il “gioco” teatrale la scoperta di sé, della creatività individuale, una maggiore consapevolezza del proprio corpo e delle proprie emozioni, mettendo in relazione ogni singolo allievo con il gruppo di lavoro e il mondo circostante. Il teatro dunque per il Ctu non è il fine, ma uno strumento per (ri)conoscere se stessi e le proprie capacità creative e immaginative, per gestire meglio le proprie emozioni e di conseguenza per comunicare meglio con le altre persone e interagire in modo migliore nel contesto in cui si vive e si opera, un mezzo di formazione della propria ‘persona’.

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Machalis Traitsis

Le attività sono rivolte non solo agli studenti dell’ateneo ferrarese, ma a tutta la cittadinanza, inclusi gli alunni delle scuole di ogni ordine e grado di Ferrara e provincia.
Fra le attività del Ctu ci sono: la gestione di laboratori di formazione per il Master di I livello dell’Università di Ferrara ‘Tutela, diritti e protezione dei minori’; la collaborazione al progetto pedagogico per scuole primarie e secondarie ‘(R)esistenze’, ispirato al libro di Nico Landi ‘Una storia di storie’, che dal 2006 propone un lavoro teatrale e incontri sul tema della Resistenza nella pianura ferrarese; la collaborazione al progetto di pedagogia teatrale ‘Voci da un’avventura leggendaria’ per scuole primarie e secondarie; il partenariato e la collaborazione al progetto ‘Passi sospesi’ che realizza percorsi e pratiche di laboratorio teatrale con detenuti e detenute nell’ambito del recupero e del trattamento penitenziario, con numerosi episodi di incontro e scambio con gruppi di allievi e allieve del Centro Teatro Universitario.
www.unife.it/centri/ctu
www.balamosteatro.org

Nel ‘Tritacarne’ di Giulia Innocenzi gli allevamenti italiani e qualche politico cialtrone

di Linda Ceola

Carne in scatola mangiata direttamente dalla latta. Tonno. Mais. E ancora tonno. Abitudini alimentari tipiche di una studentessa indaffarata e noncurante. Il corpo inizia a urlare a squarciagola: ciocche di capelli cadono, un rene s’infetta e il preludio di una svolta necessaria si manifesta. Dicono che un libro sia capace di aprirti gli occhi e ‘Se niente importa’ di J. S. Foer sembra essere un buon titolo per voltare pagina in una situazione come questa. Giulia Innocenzi, conduttrice del talk televisivo Announo, parte da qui e, mossa dal disgusto suscitato dai racconti di Foer sugli allevamenti intensivi americani, avvia un’indagine approfondita sulla situazione italiana. Nasce così ‘Tritacarne’, presentato domenica all’Ibs+Libraccio di Ferrara, ultimo suo libro dopo ‘La stella più lontana’ dedicato a Margherita Hack. Giulia scende dalle stelle per visitare la bassezza delle stalle e capire cosa si cela dietro l’abusata espressione ‘Made in Italy’, scoprendo che i prodotti di origine animale provengono per l’80% da allevamenti intensivi, che negano assolutamente le condizioni naturali dell’animale, sottoposti a torture legalizzate.

L’espressione “Benessere animale” utilizzata dalla legge italiana si fa beffa delle creature a cui si rivolge e nella realtà indagata da Giulia e dal suo team, perde credibilità svuotandosi e restando solo nero su bianco. All’interno degli allevamenti avvengono cose orribili perciò, per legge, l’allevatore è obbligato a compiere delle azioni risolutive. A questo proposito Giulia Innocenzi fa riferimento a un allevamento di suini della provincia di Brescia, dove si è trovata di fronte ad una situazione inconcepibile: maiali di nove mesi pesanti 160 chili, chiusi in un recinto così piccolo da non consentire loro il minimo movimento e privati in alcuni casi della possibilità di toccare il suolo. Sovraffollamento indecente. I maiali, che per natura sono animali molto curiosi e bisognosi di muoversi, non possono fare niente se non resistere, così per passare il tempo iniziano a mangiarsi vicendevolmente le estremità: orecchie, genitali, code. In questo contesto subentrano gli allevatori che, pur di mantenere la loro merce “sana” fino alla macellazione, ricorrono ‘legalmente’ a una serie di mutilazioni folli per il ‘benessere animale’ sopracitato, nonostante siano a conoscenza che la paglia, per esempio, stimolerebbe quella sete di esplorazione innata del suino, evitando di inciampare in spiacevoli scene cannibalistiche, che invece sono all’ordine del giorno. La paglia ha un costo. La manodopera necessaria a stenderla, anche. Non si può nemmeno correre il rischio che s’insinui nelle fessure del pavimento adibite al deflusso dei liquami. Troppi costi! Sacrificare code sembra essere la scelta migliore. “A una aberrazione si risponde dunque legalmente con un’altra aberrazione” afferma Giulia Innocenzi.

Il testo pone in rilievo non solo la questione etica, bensì anche quella sanitaria. In Italia oltre il 70% degli antibiotici in commercio finisce negli allevamenti intensivi; inoltre il nostro paese si colloca al terzo posto dopo Cipro e Spagna per il consumo di questa categoria di farmaci. Giulia Innocenzi non fa parlare solo gli animali e gli allevatori, dà voce anche ai numeri, consapevolizzando gli ignari e arricchendo gli informati. Il rischio di questo abuso di farmaci conduce tutti noi, nessuno escluso, all’inevitabile emergenza sanitaria detta antibiotico-resistenza, che ci ritroveremo a dover affrontare negli anni a seguire. Nasceranno nuovi batteri capaci di resistere a questi farmaci, annullandone completamente l’efficacia ed esponendoci alle malattie senza possibilità di difesa.
A proposito di salute: “In un macello del mantovano vengono uccisi 350 maiali all’ora dopo aver condotto una non vita – afferma Giulia Innocenzi –; un operaio su quattro, costretto a mantenere così elevato il ritmo di questa infernale macellazione, contrae malattie professionali alle spalle, gomiti e polsi”. Non si tratta semplicemente di un’insostenibile mole di lavoro, ma di una situazione disumana. Lavoratori impossibilitati a bere perché non c’è tempo, costretti a usare maggiore forza perché non sempre i coltelli sono affilati come dovrebbero. “C’è stato un periodo nel quale per tornare a casa dovevo accendere il Tom Tom – racconta un operaio del macello Martelli di Dosolo (Mn) nel libro di Giulia – ero così fuori, così stanco […] Mio figlio vuole essere preso in braccio e io non so come spiegargli che il papà, grande e grosso, non può”.

Con il sostegno di Paolo Bernini, Claudio Cuminardi e Mirko Busto, parlamentari appartenenti al Movimento 5 Stelle, Giulia, dopo aver vissuto sulla sua pelle tutto questo, intende presentare alla Camera tre proposte legislative di grande interesse per la nostra salute, che di questo passo sembra di certo non venir mangiando, e per quella degli animali, costretti alle torture legalizzate di cui siamo circondati. La prima riguarda l’etichettatura, al fine di raggiungere una certa trasparenza nel metodo di allevamento e macellazione; la seconda prevede una riforma sui controlli veterinari; mentre la terza e ultima intende rendere obbligatoria la presenza di telecamere all’interno degli allevamenti, una misura risolutiva che la Francia sta già sperimentando a seguito della pubblicazione virale di alcuni video, girati di nascosto nei mattatoi, dall’associazione animalista L214.
Come si fa a tacere di fronte a tutto questo? Eppure nonostante l’evidenza di una realtà ignobile, il Parlamento Europeo decide ‘saggiamente’ di stanziare cinque milioni di euro per una campagna promozionale che incentivi l’uso della carne. Gli animali continuano a essere spremuti come spugne e modificati geneticamente per aumentarne la produttività. Quella della ‘vacca a terra’ diventa pure una sindrome, quasi per discolpare l’uomo dalla ‘malattia’ contratta, quando in verità si tratta di una mucca massacrata da ritmi di produzione forzati, che superano i limiti della decenza portandola ad accasciarsi, sfatta.
Non tutte le situazioni esalano odore di verro. L’autrice non si risparmia e dà rilevanza anche a esempi degni di nota: è il caso di Luigi Chierico, meglio conosciuto con l’appellativo di ‘Noè delle Mucche’ che a partire dalla fine degli anni Ottanta si è dato una missione, ossia salvare le razze bovine in via d’estinzione.

‘Tritacarne’ vuole essere un testo informativo senza presunzioni. Giulia Innocenzi mette sul piatto della bilancia un sistema marcescente spingendo semplicemente il lettore a una maggiore consapevolezza.
“Possiamo scegliere quello che vogliamo seminare – dice un proverbio cinese – ma siamo obbligati a mietere quello che abbiamo piantato”.

Un futuro migliore con i bambini del Cocomero

Di Natasha Fikri

Parola d’ordine: imparare, esprimere, creare. È questa la dichiarazione d’intenti de “I bambini del Cocomero”, l’associazione di promozione sociale non-profit, costituita dai genitori e dagli insegnanti della scuola primaria “Bruno Ciari” di Cocomaro di Cona, che lo scorso mercoledì 1 febbraio ha tenuto una conferenza stampa presso la bottega biologica Giro Bio a Ferrara. In questa occasione, sono intervenuti i membri del Consiglio Direttivo: il segretario Mauro Presini (maestro), la presidentessa Roberta Migliore (genitore), il vicepresidente Rodolfo Grechi, (genitore), la consigliera Patrizia Angeloni (maestra), la consigliera Lorella Liverini (maestra), la tesoriera Chiara Nanni (genitore) e la consigliera Laura Soavi (maestra). Essi hanno illustrato l’originale scopo di questa interessante iniziativa, che consiste nel dare il giusto spazio alla fantasia e alla libertà d’espressione dei bambini, rendendo disponibile la loro ‘letteratura’ a tutti coloro che hanno voglia di conoscere ed imparare, a qualsiasi età.

Nonostante sia stata fondata solo il 10 gennaio 2017, l’associazione vanta una storia che dura ormai da venticinque anni. Era infatti il 1992 quando l’idea di creare un vero e proprio laboratorio creativo, curato interamente dai bambini con l’attento aiuto degli insegnanti, divenne realtà. Nacque così il primo giornale autoprodotto della scuola “Bruno Ciari”, ossia “La Gazzetta di Cocomaro”, oggi conosciuta con il nome de “La Gazzetta del Cocomero”. Un gioco di parole che, oltre ad essere simpatico, rende anche omaggio al ‘Grande Cocomero’, personaggio del noto fumetto ideato da Charles Monroe Schulz e metafora dello spirito stesso dell’iniziativa: un futuro migliore e pieno di sorprese in cui i bambini possano cooperare e crescere come alunni, come figli dei propri genitori e della propria terra, e come cittadini, sviluppando le proprie capacità espressive oltre i confini della scuola.

Per rendere possibile tutto questo, “I bambini del Cocomero” promuove incontri, riunioni, seminari, convegni ed assemblee sulla cultura dell’infanzia, e si propone di garantire la continuità della pubblicazione del proprio giornalino scolastico e dei suoi supplementi: quaderni, calendari, trascrizioni di conversazioni ‘filosofiche’, libriccini di storie create in gruppo e ristampe riviste ed arricchite da una raccolta di filastrocche per la conta provenienti da tutto il mondo.

Se credete anche voi che i bambini hanno molto da insegnarci, potete sostenere l’associazione abbonandovi o comprando una copia de “La Gazzetta del Cocomero” presso la scuola “Bruno Ciari” (e prossimamente in libreria), diventando soci ordinari (per saperne di più, visitate il blog https://ibambinidelcocomero.wordpress.com/), oppure mettendo un ‘like’ alla pagina Facebook https://www.facebook.com/ibambinidelcocomero/.

Case popolari, Acer puntualizza: “Forniamo alle famiglie meno abbienti un alloggio confortevole a canone sociale”

da: Diego Carrara, direttore Acer Ferrara

Egregio Direttore,
desideriamo intervenire in merito alle considerazioni comparse sul vostro quotidiano lunedì 6 febbraio, dal titolo: ”Nelle case popolari la vita non si riduce a numeri”, di Jonatas Di Sabato.
La Conferenza organizzata da Acer Ferrara venerdì 3 febbraio, alla Camera di Commercio, aveva una finalità ben precisa: quella di illustrare, sia pure in modo sintetico, i principali interventi di riqualificazione urbana realizzati negli ultimi 15 anni dall’Azienda Casa della Provincia di Ferrara, in una logica di continuità rispetto alle iniziative intraprese già qualche anno prima dallo Iacp .
Il titolo del volume presentato durante la Conferenza non a caso è: “Acer Ferrara – 15 anni di interventi edilizi per i Comuni dopo la L.R. n-24/2001”.
Inevitabile , quindi, che si sia parlato molto di fondi, investimenti, appalti, ma anche in diversi passaggi (come quelli dell’Assessore Regionale Patrizio Bianchi) di qualità dell’abitare, di rapporti sociali e di nuove comunità che si possono determinare in quartieri riqualificati.
Inevitabile anche che i relatori abbiano usato un linguaggio condito di qualche tecnicismo, che pero’ non ha creato particolari imbarazzi ai numerosi intervenuti, per lo più operatori del settore delle politiche abitative o amministratori di enti locali.
D’altra parte, le politiche abitative si fanno anche con fondi, investimenti e appalti….
Altrimenti, si scade nella semplice analisi sociologica dei fenomeni, senza poter mai declinare risposte o proposte ai bisogni indagati.
Ci preme tuttavia ribadire il nostro impegno in ambito sociale dove Acer Ferrara ha molto a cuore i propri utenti, la qualità del loro abitare, la comunità in cui vivono e le relazioni di inclusione e integrazione che la irradiano.
Lo dimostrano le numerose iniziative in tal senso: la Festa dei Vicini annuale, i Convegni organizzati su queste tematiche, il Portierato Sociale al Barco, l’attività di mediazione sociale e dei conflitti che da anni svolgiamo nei palazzi popolari che gestiamo, la creazione di una rete regionale dei Mediatori sociali nell’erp (i Mediattivi ), le relazioni quotidiane con i Servizi Sociali del territorio per i nuclei famigliari più fragili, la figura dell’Agente Accertatore -che per primi in Regione abbiamo attivato – per essere più vicini alle persone e alle loro problematiche del vivere in condominio..
Ultimo, ma non per importanza, la pubblicazione della 2° edizione del Bilancio di sostenibilità – anni 2014/2015, a conferma della radicata sensibilità di Acer Ferrara rispetto alle tematiche della sostenibilità sociale, ambientale, oltre che economica, del proprio operato.
Anche l’attenzione ai consumi domestici degli inquilini di alloggi popolari, è una declinazione di come Acer interpreta il proprio ruolo: fornire alle famiglie meno abbienti un alloggio confortevole, a canone sociale e con servizi dai costi sostenibili, per migliorare la qualità di vita degli assegnatari stessi.
Ci scusiamo quindi se tale dimensione sociale non è emersa nella Conferenza di venerdì pomeriggio, vero è che non solo il tema era un altro, ma in poco più di un’ora e mezza non si poteva rappresentare tutto il nostro lavoro e la sua complessità.
Crediamo invece possa essere stimolante, per noi oltre che per Jonatas Di Sabato, un confronto sulla qualità abitativa dei diversi quartieri di Erp di cui si tratta nel libro, magari attraverso un viaggio da intraprendere insieme nei prossimi giorni per toccare con mano del fatto che trattiamo sempre e solo di persone e non di numeri o statistiche.
Un Cordiale Saluto
Diego Carrara

“La libertà di dire, la verità di fare”: sabato 11 febbraio, alla Casa dell’Ariosto, inaugurazione della mostra dedicata a Don Franco Patruno

da: organizzatori

Inaugurazione mostra: sabato 11 febbraio alle ore 18.00 (Casa di Ludovico Ariosto, via Ariosto 67, Ferrara)
Don Franco Patruno (Ferrara 1938-2007) rappresenta una delle voci più significative del dibattito artistico, culturale, religioso e civile del secondo novecento ferrarese.
Nel decennale della morte un’esposizione vuole ricordarlo a quanti lo hanno stimato e allo stesso tempo farlo conoscere a quanti non lo hanno conosciuto. L’oggetto della mostra è costituito da momenti significativi della sua produzione grafico pittorica: dai ritratti di grande formato realizzati su carta con il pastello nero, agli Angeli caduti, ai Crocefissi, dai collage materici alle chine preziose. Ogni opera d’arte diventa per don Franco il momento di un dialogo culturale e teologico con il mondo attuale. È proprio il suo modo di operare all’interno del mondo dell’arte del Novecento, che ha utilizzato spesso delle categorie teologiche senza nessuna teologia di fondo, a permettergli di mettere in circolazione idee e riflessioni in piena coscienza e di sviluppare un atteggiamento di ascolto verso una umanità in cui prevalgono istanze perturbatrici.
Il gioco della mano e del supporto che l’artista mette a punto con grande libertà di espressione e pertinenza critica, agisce nello spazio/tempo in modo del tutto caratteristico. Se nella serie dei ritratti la resa introspettiva e l’indagine psicologica fanno affiorare sul volto di amici, colleghi, artisti e intellettuali, stati d’animo, umori esistenziali e creaturali, è nei tasselli rarefatti dei collages che si creano non solo echi dei mosaici bizantini ma anche rielaborazioni di un dibattito culturale e spirituale più ampio, fatto di aperture autentiche. È però un tempo che va inteso non in senso antropologico ma in senso teologico in cui la valenza cristologica diventa la connotazione fondamentale. La categoria della Salvezza modifica allora in modo sostanziale ogni concezione di essere nel tempo dell’uomo. Questo modifica e dà senso a tutta la produzione di don Franco.

Alla Casa di Ludovico Ariosto, in via Ariosto 67 a Ferrara, dal 11 Febbraio al 12 Marzo 2017.
Sabato 11 Marzo, alle ore 16. “Concerto per Franco” del duo Claudio Miotto (clarinetto) e Paolo Rosini (chitarra).
Orari di visita: 10.00 – 12,30 /16.00 – 18.00 martedì – domenica (lunedì chiuso).
Ingresso libero

E alla fine arriva l’outlet: DeltaPo Family Destination, anima commerciale e occhio al territorio Unesco

Vado all’appuntamento, come d’accordo, per l’incontro con DeltaPo… il Delta del Po… parole che risvegliano in me vecchie memorie di studi scolastici.
Per certi versi, la storia del Delta del Po è a dir poco singolare. Per secoli una terra fertilissima e allo stesso tempo inospitale, con un passato travagliato, fatto di annosi conflitti, periodiche alluvioni e la perenne piaga della malaria. Un territorio conteso per l’importanza strategica e commerciale del suo fiume, lo stesso fiume che ciclicamente portava distruzione e morte alle popolazioni che abitavano le sue sponde.download
“Diamante! Diamante! Per l’acqua e per il sale!” era il grido di battaglia dei fanti dell’esercito di Ercole I d’Este che, assieme agli alleati mantovani e bolognesi, difendeva le sponde settentrionali del Po dall’attacco dell’armata della Serenissima nel lontano 1482. Forse proprio lì, nel luogo dell’appuntamento, infuriò una delle tante battaglie tra Estensi e Veneziani, nei due anni di guerra per il controllo dei traffici commerciali (soprattutto del commercio del sale) dal mare ai Ducati della Pianura Padana fino al Ducato di Savoia. La vasta pianura alluvionale si è sempre prestata alla perfezione come teatro ideale di battaglie campali.
Alluvionale, appunto… Esattamente lì, infatti, a Malcantone nei pressi di Occhiobello, sessantasei anni fa si ruppero gli argini provocando la più disastrosa alluvione che l’Italia ricordi.
Per fortuna, i drammi di quest’angolo di territorio sono ormai retaggio di un passato morto e sepolto per sempre.
E se il buon giorno si vede dal mattino, quel giorno è iniziato con una splendida mattinata di sole benaugurante.
Era mercoledì 25 gennaio quando si è tenuto l’incontro tra lo staff di DeltaPo e i giornalisti. goccia
La prima cosa che mi colpisce è il logo: una goccia d’acqua, ma potrebbe essere anche una fiamma, una foglia, in ogni caso un richiamo alla natura; l’acqua è comunque il riferimento d’obbligo per un progetto espressamente legato al Po e al suo territorio. Questo logo, dalle linee curve e avvolgenti, mi piace molto. L’impressione è che la strada che DeltaPo sta per intraprendere sia iniziata sotto i migliori auspici.
DeltaPo - Apriamo
Un’organizzazione impeccabile ci ha dato appuntamento nell’ampia sala illuminata dell’edificio principale del moderno Centro Direzionale di DeltaPo Outlet, dove veniamo accolti per assistere alla presentazione dell’evento condotto da Gianluca Gerosa, Direttore Generale del Marketing del grande complesso commerciale.
Ma che cos’è DeltaPo Outlet?
L’errore più comune sarebbe proprio definirlo un grande centro commerciale, in effetti non è così: DeltaPo Outlet nasce ed è stato pensato come un centro di aggregazione e di promozione delle molteplici realtà presenti nel vasto territorio del Delta del Po. Il nome scelto non è casuale e rispecchia quella che è la filosofia del progetto, cioè fare conoscere al mondo il grande potenziale attrattivo di un’area fino ad oggi quasi ignorata, persino dai suoi stessi abitanti. Eppure la ricchezza storica, culturale e ambientale del Delta è stata ufficialmente riconosciuta anche a livello internazionale proprio dall’Unesco, che nel 2015 ha proclamato il Parco del Delta Patrimonio dell’Umanità, inserendo gli oltre 140 mila ettari del suo territorio nella propria rete di riserve ambientali protette.Fiume_Po_a_Boretto
Quindi, che fare per valorizzare questo patrimonio?
In proposito quelli di DeltaPo Outlet hanno le idee chiare. Innanzitutto creare una rete di promozione internazionale rivolta ai mercati emergenti. E per questo è stata avviata da tempo una stretta collaborazione con esperti operatori internazionali in grado di far conoscere le innumerevoli attrazioni del nostro territorio. I paesi coinvolti appartengono soprattutto all’area dell’est europeo, come i nuovi stati dell’Ex Jugoslavia, poi l’Ungheria, la Repubblica Ceca e la Russia, ma anche l’Austria e la Francia. Le prospettive sono interessanti, in un territorio che comprende essenzialmente le province di Ferrara e Rovigo, con una popolazione complessiva intorno al mezzo milione di abitanti, ma con un afflusso di turisti che negli ultimi anni ha toccato punte di oltre cinque milioni di presenze l’anno. Quest’ultimo dato ci fa comprendere bene che l’interesse attorno al Delta c’è eccome, nonostante ancora oggi questo territorio continui ad essere considerato da molti un’area “depressa” e, per ciò che riguarda il tasso occupazionale, resti tuttora tra i meno virtuosi del nord-est.
Tuttavia, il potenziale valore del territorio è indiscutibile, l’offerta è vasta e variegata.
Tanti sono i motivi d’interesse: la storia ricca e avventurosa di una terra di confine; il valore architettonico e artistico di una importante città rinascimentale come Ferrara; le specialità tipiche della gastronomia veneta e emiliana; il fascino e l’atmosfera senza tempo, eterea e ammantata di mistero, delle valli del Delta, col suo reticolo di corsi d’acqua, le sue lagune e le sue pinete; e per finire, l’attrazione dei centri balneari posti sul litorale, partendo da Rosolina e l’Isola di Albarella a nord, arrivando fino a Comacchio e ai suoi sette Lidi a sud. Questi sono i principali punti di forza del nostro territorio che gli ideatori di DeltaPo vogliono promuovere, proponendoli nell’Outlet di Occhiobello attraverso un fitto calendario di eventi in programma nei prossimi mesi.
In fondo la definizione di outlet, in questo caso, è a dir poco riduttiva. Gianluca Gerosa parla di luogo d’incontro e aggregazione per famiglie.
IMG-20160414-WA0006-smallNel progetto, giunto a compimento dopo una travagliata gestazione, è prevista una vasta area dedicata alla ristorazione e al divertimento, con un occhio di riguardo all’aspetto naturalistico attraverso la realizzazione di un percorso attrezzato con aiuole e piante uniche, che sarà arricchito prossimamente da una serie di presentazioni e approfondimenti a tema ambientale.
Insomma, non solo un’area commerciale in cui comprare risparmiando, ma anche e soprattutto un luogo di svago e di incontro per famiglie; per i viaggiatori e i turisti, così come per gli abitanti del posto. Un luogo in cui trascorrere il proprio tempo libero scoprendo le bellezze insospettabili di un territorio con prospettive ancora tutte da esplorare.
Una posizione ideale, strategica, posta al confine tra Veneto ed Emilia, a metà strada tra Venezia, Ravenna e il mare, a due passi da Ferrara e proprio davanti all’uscita dell’autostrada Bologna-Padova.
Come dicevo, i presupposti per un futuro roseo e di successo ci sono tutti.
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146.567 visitatori in 128 giorni per l’Orlando al Diamanti

Da organizzatori

Domenica 29 gennaio si è conclusa la mostra Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi, organizzata a Palazzo dei Diamanti dalla Fondazione Ferrara Arte e dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in occasione del quinto centenario della prima edizione del poema.
La mostra, a cura di Guido Beltramini e Adolfo Tura, affiancati da un comitato scientifico internazionale di autorevoli storici dell’arte e della letteratura, ha voluto evocare le fonti visive che insieme a quelle letterarie hanno ispirato Ariosto nella redazione di questa pietra miliare della letteratura del Rinascimento. I capolavori dei più grandi artisti del periodo – da Mantegna a Leonardo, da Botticelli a Raffaello e Tiziano – oltre a sculture antiche e rinascimentali, miniature, arazzi, armi, libri e oggetti preziosi hanno fatto rivivere il fantastico mondo cavalleresco del Furioso e dei suoi paladini.
A questa innovativa proposta hanno risposto in modo molto positivo sia la critica che il grande pubblico, in particolare le scuole, come conferma l’affluenza ampiamente superiore alle aspettative.
Vista l’eccezionalità dei prestiti raccolti e la conseguente unicità di un’esposizione come
Orlando furioso 500 anni, oltre al gradimento espresso dai visitatori in tutte le sedi – dalle interviste in mostra ai commenti sui social network –, gli organizzatori hanno deciso di prorogare la mostra di 3 settimane fino al 29 gennaio.
Al termine dei 128 giorni della rassegna i visitatori sono stati 146.567, con una media giornaliera di 1.145 biglietti staccati.

Molto rilevanti da un punto di vista culturale e al contempo di grandissimo successo sono le pubblicazioni realizzate da Ferrara Arte, una delle poche istituzioni che non affida a editori esterni questo aspetto essenziale nell’organizzazione di un’esposizione e della diffusione dei suoi contenuti.
Il catalogo ha riscosso un così ampio successo da renderne necessaria la ristampa per ben tre volte ed è stato comunque esaurito pochi giorni prima della fine della mostra. È stato molto alto anche il gradimento degli altri materiali realizzati da Ferrara Arte per l’occasione: in particolare quello di Orlando Pazzo nel Magico Palazzo, il libro per bambini di Luigi Dal Cin e Pia Valentinis, che ha ottenuto un risultato di vendite senza precedenti.

La proposta di Ferrara Arte, come di consueto, si è arricchita di un programma di iniziative didattiche e culturali che hanno accompagnato l’esposizione. Oltre a presentazioni, incontri, concerti e proiezioni, ha avuto un riconoscimento grande e inaspettato la Maratona Orlando, 38 ore di lettura integrale e continuativa del poema durante le quali si sono alternati quasi 1.000 lettori: classi di studenti, associazioni, cittadini che hanno letto da soli e in gruppo alla presenza di 1.400 spettatori dal vivo e di oltre 70.000 persone raggiunte dai canali social di Palazzo dei Diamanti o che hanno seguito l’evento in streaming.

Le interviste ai visitatori hanno consentito di raccogliere diversi dati interessanti, presenti nel dossier completo sull’esposizione. In particolare si conferma la centralità del passaparola, insieme agli strumenti promozionali e ai social network, nella promozione di una mostra apparentemente non facile, ma che ha letteralmente conquistato il pubblico (basti pensare che solo lo 0,82% degli intervistati non ha apprezzato Orlando furioso 500 anni).
Significativo, in questo senso, anche l’incremento (+3%) dei visitatori che dichiarano di essersi recati per la prima volta a vedere una mostra dei Diamanti, a testimonianza dell’efficacia di una proposta culturale rigorosa, ma capace di ampliare con costanza il proprio bacino di utenti. Con conseguenti, importanti ricadute sul comparto turistico e sulla città tutta.

Da sempre i Diamanti si connotano per la qualità dell’offerta didattica, che si declina in un articolato programma di iniziative, realizzato grazie al partenariato con Eni. L’accoglienza molto positiva delle varie proposte educative ha premiato ancora una volta la scelta di investire in metodologie sperimentali, multidisciplinari e fondate sul coinvolgimento attivo.

Entrambi i dossier di Ferrara Arte sono scaricabili in forma completa dal nostro sito www.studioesseci.net


Al lupo! Al lupo! Ma a far paura adesso è l’uomo

Chi ha paura del lupo italiano? Cattivo, brutto e mangiatore di bambini, il lupo delle fiabe è sempre stato la rappresentazione animale di ogni genere di male. Nella vita reale, invece, si torna a parlare della sua salvaguardia. Il lupo italiano è considerato una specie protetta dal 1971, anno in cui ha quasi rischiato l’estinzione. Ora, dopo 46 anni, si è tornato a parlare di abbattimento controllato per tutelare le attività agricole e l’allevamento.

Oggi, 2 febbraio, si discuterà infatti il Piano di Conservazione e Gestione del Lupo, preparato dal Ministero dell’Ambiente, un suo istituto di ricerca, dall’Ispra e da settanta consulenti esperti, già approvato in sede tecnica durante la Conferenza Stato-Regioni del 24 gennaio.
Il Piano è composto da 22 misure, che toccano punti come l’inserimento di recinti elettrificati, rimborsi per gli allevatori, la lotta agli incroci tra cani e lupi, le campagne di informazione sui sistemi di prevenzione naturali e la gestione dei pascoli.
A scuotere gli animi di chi ha a cuore gli animali, della associazioni e di alcuni presidenti regionali è l’ultima misura considerata: l’abbattimento controllato fino al 5% della popolazione complessiva di lupi in Italia, nel caso che le misure precedenti non portino a risultati.

Il Wwf ha creato una petizione, che ha già raccolto le firme di 190 mila cittadini, lanciando un appello diretto ai venti presidenti di regione e invitandoli a votare no, sottolineando la mancanza di registri con dati precisi e attendibili sulla popolazione dei lupi italiani. Nel nostro Paese si contano dai 100 ai 150 esemplari sulle Alpi e tra i 1070 e i 2475 sull’Appennino. Sempre il Wwf ha stimato che ogni anno in Italia muoiono circa 300 lupi per atti illegali, uccisi a colpi d’arma da fuoco da bracconieri o allevatori, ma anche a causa di incidenti stradali.
Inoltre in tutta Italia diverse associazioni, tra cui l’Enpa, Legambiente, la Lav e la Lipu, hanno invitato i cittadini a manifestare contro questa decisione, sia attraverso i social network, con un piano di Mail Bombing diretto al Ministro dell’Ambiente Galletti e al Presidente del Consiglio Gentiloni, sia organizzando proteste su tutto il territorio.

Anche qui a Ferrara, ieri pomeriggio davanti al Duomo, si è tenuta la manifestazione “Giù le mani dal lupo”, a guidarla è stato il Movimento Etico per la Tutela di Animali e Ambiente, Meta, per sensibilizzare l’opinione pubblica. A presenziare i volontari, accompagnati dai loro amici a quattro zampe, fieri nipoti dei lupi, pronti a dare informazioni e a difendere i diritti dei lupi.
“Sono molto soddisfatta della manifestazione – dichiara Giada Benasciutti, dirigente provinciale Meta Ferrara – perché abbiamo raggiunto il nostro obiettivo: informare molti cittadini a riguardo della modifica del Piano di conservazione e tutti hanno mostrato interesse e hanno immediatamente firmato la petizione “Salva il Lupo” su charge.org. La modifica al piano non ha alcun valore perché mancano i dati su cui calcolare il 5% e, inoltre, se venisse ucciso un membro di importanza vitale in un branco, si potrebbe causare la morte di tutti i componenti. Il nostro dovere e quello di pensare alla salvaguardia della natura.”

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Nel frattempo il governatore della regione Lazio ha dichiarato di essere contrario all’attuazione del Piano, insieme ai governatori della Puglia e dell’Abruzzo, seguiti da quelli della Liguria, del Piemonte e del Veneto.
A difesa del Piano invece il ministro Galletti, che ha dichiarato: “La conservazione del lupo è un tema troppo serio perché possa essere piegato al clamore mediatico o al populismo di qualcuno”.

Tanti gli hashtag usati per promuovere le azioni locali e nazionali sul web, come #sparaunNo, #SALVAiLUPI o #SOSLUPO.
A battersi per la difesa della sua specie anche uno dei lupi italiani più celebri, Lupo Alberto che, attraverso la mano del suo disegnatore Silver, alla possibilità di uccidere i suoi simili afferma: “Ma siamo matti?!”

Alcuni momenti della manifestazione di mercoledì pomeriggio. Foto di Valerio Pazzi

Io, rifugiata pakistana, denuncio il rischio dei falsi profughi

di Meera Jamal*

Secondo i dati dell’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), nel 2015 circa 47.840 pakistani hanno presentato domanda di asilo in Europa e la maggior parte di loro ha trovato sistemazione in Germania. Il Pakistan non è al primo posto nella graduatoria delle richieste di asilo. La maggioranza degli esuli in Europa proviene dalla Siria (362.775), seguita da Afghanistan (178.230) e Iraq (121.535). Ma questi stati sono teatro di guerre o conflitti interni. Poi ci sono flussi di migrazione interni al continente, dovuti a ragioni di natura economica, alimentati da cittadini extracomunitari, primi fra tutti quelli del Kosovo e dell’Albania. Quello del Pakistan, che si colloca al sesto posto e sopravanza nazioni come Eritrea e Nigeria, è un caso particolare degno di attenzione. Il Pakistan, dal quale io stessa provengo, non è un paese devastato dalla guerra, benché sia scosso da persecuzioni nei confronti delle minoranze religiose: sorge spontaneo, allora, chiedersi perché vi sono così tante persone che vogliono venire in Europa. Posso testimoniare infatti per diretta conoscenza che molti dei richiedenti asilo non sono vittime di persecuzioni di alcun tipo.

L’Europa, continente in cui vivo da otto anni, è ormai frequentemente oggetto di attacchi compiuti da rifugiati che generano morti, feriti, dolore e paura. Nonostante io stessa sia una rifugiata, credo ci sia molto di più del cercare un asilo nei cosiddetti “cercatori di rifugio”.
Ciò che spaventa, per esempio, è che, da una conversazione che ho avuto con un conoscente pakistano, ho scoperto che – proprio come l’aggressore tunisino Anis Amiri, il terrorista tunisino ritenuto l’autore della strage di Berlino del dicembre scorso, morto nel milanese a seguito di un conflitto a fuoco con la polizia – anche molti dei rifugiati pakistani arrivati in Germania, hanno presentato la domanda di asilo (alcuni di loro anche quattro o cinque volte), utilizzando pseudonimi diversi. Si dirà: questa situazione potrebbe essere evitata semplicemente prendendo le impronte digitali, ma capisco che, con un numero così elevato di rifugiati, l’amministrazione abbia difficoltà a farlo.
Ciò che finora è stato preso così “alla leggera”, potrebbe però facilmente trasformarsi in un rischio alla sicurezza, dal momento che sappiamo che i talebani e altre organizzazioni islamiche dilagano in Pakistan. E’ solo una questione di tempo prima che anche loro trovino il modo di combattere la battaglia dell’Islam nei paesi europei.
Non dimentichiamo che lo stesso Osama bin Laden visse in Pakistan per parecchi anni. In Pakistan ci sono ancora studenti che predicano apertamente l’odio e incitano a quella violenza che, negli ultimi due decenni, ha stroncato tante vite preziose.

La realtà è che il Pakistan ha molte regioni e alcune, come il Balochistan, sono quasi zone di guerra; nonostante ciò, durante i miei otto anni di esilio in Germania, non ho quasi mai visto dei balochistani fare domanda di asilo (a parte per quelli arrestati, per errore, dalla polizia tedesca nel corso delle indagine relative all’attacco di Berlino). Inoltre, le minoranze religiose in Pakistan, sono state brutalmente prese di mira nel corso degli ultimi anni. Vi sono stati molti atti di persecuzione contro i cristiani e gli ahmadi (propaggine della religione islamica); molti induisti sono stati convertiti con la forza, resi vittime di violenza carnale e assassinati.
Ciò nonostante, non ho mai incontrato un rifugiato pakistano che non appartenesse ad altra minoranza religiosa se non a quella ahmadiyya. Questo avviene perché circa il 90% di queste persone appartiene alla classe medio-bassa e non può permettersi di pagare tra i 13.000 e i 18.000 euro ad un agente, per ottenere un visto per un qualunque paese europeo.
Il paradosso sta nel fatto che lo stesso Pakistan ospita circa 1.621.525 di rifugiati afgani; alcuni di loro sono anche riusciti ad ottenere un passaporto pakistano con le buone o le cattive maniere e, dal momento che vi sono pochi controlli alle frontiere, molti di questi passaporti potrebbero essere opera dei talebani afgani.
Quindi, chi è la maggioranza delle persone che riesce a oltrepassare il confine e arrivare in un paese così lontano dal proprio? Stando alle mie osservazioni, la maggior parte di chi cerca asilo proviene dal Punjab. Dal momento che non è facile trovare lavoro e l’educazione non è un punto di forza della regione, la maggior parte degli uomini della classe medio-alta aspira a raggiungere paesi europei, dove sa di poter fare fortuna anche facendo mestieri “bizzarri” (che nella mentalità pakistana sono considerati degradanti). Molti di loro infatti hanno parenti che abitano in Europa o in America e sono attratti dalle migliori condizioni di vita in cui vivono.

Lusingati da tale prospettiva, questi uomini si mettono in contatto con trafficanti noti come ‘agenti’, i quali hanno avviato business e instaurato contatti con le industrie di diversi paesi come la Polonia, l’Italia o la Spagna, riuscendo così a procurare ai pakistani diversi tipi di visti, in base a quanto denaro sono disposti a spendere. Solitamente si tratta di visti di viaggio, visita o lavoro. Una volta che la persona giunge nel paese europeo assegnato, l’agente non ha più alcun tipo di responsabilità e occuparsi del resto del viaggio spetta al rifugiato o ai familiari che si trovano già nel paese dell’Ue. Coloro che desiderano spendere meno, raggiungono la Grecia in barca.
Una volta in Europa, non contattano un avvocato, ma vanno direttamente in un campo profughi, dove fare domanda di asilo. L’aspetto più interessante è che per paura di venire rispediti nel proprio paese appena il proprio caso viene respinto, usano un nome falso e una finta identità nella carta d’asilo, cosicché le proprie radici non possano essere rintracciate. Inoltre, dato che le loro identità non possono essere verificate dal database nazionale del paese, anche l’ambasciata pakistana non è in grado di rilasciare un passaporto per loro o di rintracciarli nel proprio database. Siccome il governo pakistano non è in grado d’identificarli, il governo tedesco non sa cosa fare e molti continuano così a vivere in Germania nonostante le loro richieste di asilo siano state rifiutate.

Durante il soggiorno nel campo profughi, i familiari consigliano loro di parlare il meno possibile e raccontare che sono fuggiti dal paese perché attaccati da un gruppo di talebani.
Quel che accade successivamente è più o meno uguale per tutti loro. Una volta acquisito il Doldung (accettazione) vanno a vivere con le proprie famiglie o negli ostelli per i rifugiati, in varie città. Dal momento che quasi a tutti viene negato il diritto di ottenere un lavoro, non perdono tempo a trovare ciò che localmente viene chiamato ‘schwarzarbeit’ (lavoro in nero) con il quale guadagnano circa 5 euro all’ora, nonostante il minimo salariale sia di 8,50. Inoltre, approfittando della frequente apertura delle frontiere italiane, questi pakistani si dirigono verso l’Italia e, attraverso la corruzione, ottengono un visto sul passaporto che però nascondono alle autorità, così da poter tornare a casa ogni volta che lo desiderano.

Bisogna prendere in considerazione il fatto che la maggior parte di questi uomini rende difficile anche la vita dei rifugiati effettivi.
Conosco una famiglia pakistana che viveva a Brema che perse due membri della propria famiglia; questi individui dovettero chiudere la propria attività e mettersi in salvo poiché la polizia non era in grado di proteggerli. Tuttavia non falsificarono la loro identità, né evitarono di fornire le prove di ciò che era loro accaduto: la loro domanda di asilo venne chiaramente approvata dal governo.
Anche nel mio caso, non ho mai usato una falsa identità; fornii tutte le informazioni relative alla mia famiglia e alla mia posizione e l’inviato Ohne Grenzen verificò la mia situazione di pericolo in Pakistan.

Ciò che più mi spaventa è che il Pakistan è stato, ed è tuttora, terreno fertile per i gruppi militanti religiosi che hanno preso di mira il popolo pakistano. Inoltre, da 30 anni o più, l’estremismo religioso è ormai incorporato nel terreno pakistano e la ricerca del paradiso e delle 70 vergini rende gli estremisti più pericolosi che mai. Dal momento che il problema dei rifugiati è già molto rilevante, penso che quei pakistani e afghani a cui sono stati rifiutate le richieste d’asilo dovrebbero essere rispediti a casa. I dati relativi alle impronte digitali dovrebbero venir condivisi tra i paesi dell’Ue per evitare casi di falsa identità, poiché la maggior parte di loro entra nell’Ue richiedendo un visto.

Il mio cuore è con le famiglie di coloro che hanno perso la vita e coloro che sono stati feriti nei vari attentati. E’ un modo triste e ingiusto di vivere, che genera lutti e paura in tutto il mondo.

* giornalista pakistana attualmente residente in Germania. Traduzione dall’inglese di Silvia Malacarne

L’OMAGGIO
Una mostra e un concerto per don Franco Patruno

da: Maria Paola Forlani

Don Franco Patruno
La Libertà di dire
La Verità di fare

Casa di Ludovico Ariosto
Via Ariosto, 67 – Ferrara
Inaugurazione: sabato 11 febbraio, ore 18

Dall’11 febbraio al 12 marzo 2017

Orari di visita:
10 – 12,30 / 16 – 18 dal martedì a domenica (chiuso lunedì)

Sabato 11 marzo alle ore 16
Concerto per Franco
Del duo Claudio Miotto (clarinetto)
E Paolo Rosini (chitarra)

“ … C’è da dire che questa solerzia quieta, questo controllo messo in campo dai collages, come da quelle forme convenute che giocano sulla materia aliena, si presentano anche come consolidate e progettate avversità che è doveroso interpretare in quanto opposte alle numerose, sovrapposte fasi di liberazione e di confessione che hanno luogo nella mano di Patruno e soprattutto grazie alla forza improvvisa del disegno. Un tratto forte e risentito, oppure morbidamente espressivo, per il cui itinerario – in gran parte spezzato – vale la striscia tenera del colore a cera e della matita pesante. Non c’è da temere, nel rapido segno eloquente che spesso sembra lanciarsi come una freccia, in un’arcata di luce o di vento verso il cielo, Patruno esprime ed evidenzia la sua ferma attenzione verso il mondo delle aspirazioni: delle volontà, dei segni che si levano cercando una metafora nella violenta ascesa, dell’impatto quotidiano che egli cerca con la possibilità di essere e di concentrarsi entro una possibile coerenza, a segnare il margine di un itinerario nuovamente fantasioso, talvolta ironico, inatteso.
Ritengo che la figurazione che Patruno, pur con tante diverse forme e fantasmi, finisce per mettere in atto, sia in prevalenza una meditazione sull’uomo.
La misura ne sostiene l’utilità che è morale, oltre che estetica. Tra le due nozioni si traccia sempre un’alleanza, che rifiuta la condizione del puritanesimo.
Il nostro critico d’arte, un narratore talvolta torrentizio, sa bene come condursi con l’onore della prevalente ragione esistenziale.

I segni di una meditazione, di Andrea Emiliani (Franco Patruno Percorsi 2006)

La locandina dell’esposizione
LOCANDINA A3