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I fumi sulla città

E alla fine si è dovuto attivare il prefetto. Magari sollecitato, probabilmente indotto a convocare un tavolo di confronto che vedrà riunite istituzioni, aziende e organi di controllo per capire cosa sta succedendo al petrolchimico e quali sono i rischi per la popolazione. L’accensione delle torce e le alte colonne di cupi fumi sono ormai uno spettacolo quotidiano tutt’altro che edificante. Fra il 19 e il 30 novembre e poi ancora fra il 7 e il 9 dicembre, quindi il 14 dello stesso mese e infine l’8 e il 10 di gennaio le lingue di fuoco fuoriuscivano dalle ciminiere degli stabilimenti. Si tratta di un’emergenza, poiché l’accensione delle torce è consentita solo in casi straordinari. Il problema ora è comprenderne le ragioni e stabilire i pericoli. Yara e Versalis sono le imprese più attentamente monitorate. Loro per prime dovranno fornire spiegazioni.
Le istituzioni per ora si sono limitate a generiche rassicurazione. Non c’è stata una presa di posizione netta. La scelta è stata forse quella di trasferire al rappresentante del governo l’impegno di mediare e sollecitare i chiarimenti. Una strategia accorta, improntata alla prudenza, per qualcuno finanche eccessiva. E’ il caso del Movimento 5 stelle, per esempio, che sollecita una presa di posizione politica e snocciola fondate ragioni di inquietudine.
Peraltro le inquietudini destate dal petrolchimico a Ferrara si assommano all’emergenza che in questi ultimi due mesi ha interessato tutto il Paese e in particolare la pianura padana a seguito del drammatico aumento del livello di polveri sottili presenti nell’aria.
“E’ piovuto un po’ e questo ha indotto qualcuno a considerare sbrigativamente risolto il problema, ma non è così e lo sappiamo bene – commenta il deputato 5 stelle, Vittorio Ferraresi – Gli ultimi dati sono molto preoccupanti. Per affrontare la situazione servono interventi strutturali e misure mirate. Non si tratta di allarmismo ma di rischi reali. A Gela di recente il tribunale ha emesso una sentenza che presuppone il nesso causale fra morti e miasmi petrolchimici. Teniamone conto. Ferrara in questa fase è simultaneamente oppressa da problemi sindacali e rischi per la salute. Il prefetto si è mosso giustamente e lo ha fatto per primo”.

Il Movimento 5 stelle punta l’indice sul ricatto occupazionale. “Si è perennemente in bilico fra produttività e sicurezza. Su questo terreno la politica non fornisce alcuna risposta. E’ ovvio che le aziende, nei limiti posti dalla legge, facciano tutto ciò che conviene loro per trarre il massimo”. Sono entità economiche e tutelano i loro interessi. E’ la politica – sostiene Ferraresi in conferenza stampa – che dovrebbe condizionarne l’operato “incentivando chi attua comportamenti virtuosi e sanzionando pesantemente chi inquina”. Tali non si possono certo considerare, per esempio, le ammende inflitte in passato a Yara e Basell per una serie di ripetute infrazioni: emissioni non autorizzate (fra il 2007 e il 2010) e improprio utilizzo torce (fra 2010 e 2011). In totale 41 mila euro: una sanzione ridicola, un regalo.

Manca un piano economico energetico-produttivo che abbia valenza strategica, fa notare anche il deputato ferrarese del Movimento 5 stelle. Denuncia come per estrarre petrolio, allettati da una manciata di euro, si vogliano violare il paradiso delle isole Tremiti. E addita Ferrara come capitale delle Pm10, le terribili polveri sottili. All’inquinamento altissimo certificato dai dati Istat corrisponde un alto tasso di mortalità. Si è registrato un aumento dei casi di tumore, ben 2980 in più. E le risposte sono insufficienti. Alle nostre latitudini – riferisce – l’aspettativa di vita è di tre anni inferiore al resto del Paese. Vergognoso e allarmante il silenzio. Il problema riguarda prima di tutto la salute dei cittadini. Ma ha anche ricadute economiche, sottolineano ancora i 5 stelle. In Emilia Romagna c’è un costo di tremila euro procapite che gravano sulle spalle di ognuno di noi, dovuto ai danni arrecati all’ambiente e agli interventi attuati per attenuarne gli effetti.

Servono interventi mirati a livello nazionale, con specifico riguardo per la pianura padana. Che fare? “Incentivare la raccolta differenziata. Stop ai propellenti fossili (invece si punta ancora sugli idrocarburi). Per contrastare l’inquinamento ambientale, stop ai veicoli diesel. Favorire la diffusione di vetture a gpl, metano e ibride. M5s ha proposto incentivi solo per questo tipo di auto. Invece hanno incentivato tutti”.
Poi c’è il dito puntato sulle infrastrutture e l’ostilità per la Cispadana. “Stiamo per costruire una strada assolutamente inutile fra Ferrara e Reggiolo, proprio quando l’Europa chiede un potenziamento del trasporto ferroviario. Serve la sensibilità del governo”.

Alle questioni prettamente locali torna il neoconsigliere comunale Sergio Simeone: “Chiediamo che il tavolo convocato per martedì dal prefetto sia allargato alla presenza di un organismo terzo indipendente e rappresentante società civile”. Il soggetto proposto è l’associazione Isde di cui è esponente il medico Luigi Gasparini, simpatizzante del Movimento 5 stelle, anch’egli presente in conferenza stampa. “Chiediamo all’Amministrazione comunale cosa fatto per migliore la qualità aria. Sul problema torce noi ci siamo mossi tempestivamente senza ottenere risposte. E’ stata ignorata da Arpa la nostra richiesta di chiarimento. Sono arrivate generica rassicurazioni ed eluse le reali problematiche. Ferrara subisce tutte le problematiche proprie della pianura padana. In aggiunta ci sono petrolchimico e inceneritore: la situazione è particolarmente pesante”.

Simeone solleva poi una questione non secondaria: Arpa ha fornito dati rilevati da Yara, sono stampati sulla loro carta intestata. Possiamo fidarci? Chi controlla il controllore. Di questi tempi ci vorrebbero verifiche scrupolose, al di sopra di ogni sospetto. La situazione del petrolchimico è preoccupante. Oltretutto Versalis è in fase di vendita e potrebbe esserci un allentamento controlli… Per questo, pur apprezzando l’iniziativa del prefetto che ha invitato aziende, organismi di controllo e istituzioni, sosteniamo che sia importante coinvolgere la società civile. Quella di Iside è una proposta, ma siamo aperti ad altre soluzioni. La nostra è una richiesta non polemica, un contributo costruttivo. Speriamo si possa dare questo segnale importante.
E in tema di contributi fattivi, Simeone aggiunge un’annotazione e la conseguente proposta: “l’inquinamento delle caldaie incide più di quello delle auto. Spesso negli uffici pubblici le temperature sono eccessive. sarebbe il caso di verificare e intervenire. Se si iniziasse dagli uffici pubblici a dare il buon esempio forse poi si sarebbe più autorevoli a chiedere l’impegno dei cittadini. Servirebbe anche un fondo pubblico per la mobilità sostenibile, immediatamente disponibile. E, al riguardo, a livello di comportamenti virtuosi bisognerebbe per esempio che tutti quanti spegnessimo il motore ai semafori. Tante piccole cose utili che sommate possono contribuire a migliorare la situazione…”.

Infine Luigi Gasparini, in attesa del nulla osta per partecipare al vertice in prefettura di martedì, snocciola i dati delle polveri sottili rilevati in città. E fa notare come i valori non siano rassicuranti. “La situazione epidemiologica di Ferrara conferma vecchie tendenze. L’eccesso di micropolveri causa malattie cardiocircolatori e tumori. “Ieri le pm10 in corso Isonzo erano a 74 microgrammi di media. I danni alla salute, secondo l’Organizzazione mondiale per la sanità, iniziano già dai 20 microgrammi per metro cubo. E poi, analizzando la serie storica del 2015 ci si accorge che i valori più alti e il maggior numero di sforamenti 2015 sono al Barco non in città”. Alla radice del problema, dunque, più che il traffico automobilistico ci sarebbe proprio il petrolchimico.

IL FATTO
Ferrara perde il festival di Altroconsumo ma lancia quello della Sharing economy

Ferrara perde il festival di Altroconsumo. La quarta edizione non sarà ospitata dalla città estense ma si terrà a Milano in autunno. Il vicesindaco Massimo Maisto non nasconde il rammarico: “Dispiace molto, era una stimolante occasione di confronto e conoscenza, proponeva interessanti temi di discussione e stava crescendo”. In effetti i numeri indicando un trend positivo: 15.000 spettatori nel 2013, 25.000 nel 2014, mentre non furono ufficializzati quelli dello scorso anno, un particolare questo che riletto a posteriori appare come un potenziale indizio. “Nonostante il meteo non sia stato favorevole abbiamo registrato una buona affluenza di pubblico”, si limitò ad osservare a consuntivo il responsabile delle relazioni esterne Marco Pierani, senza snocciolare dati. Una soddisfazione evidentemente di facciata, insufficiente per convincere gli organizzatori a confermare una scelta sulla quale da tempo gravavano perplessità. Così, ecco il radicale cambio di rotta per abbracciare le lusinghe della grande città. Decisione controcorrente, se si considera che quasi tutti i più importanti festival hanno le loro sedi in località di medie o piccole dimensioni: oltre a Ferrara (che già ospita Buskers, Internazionale e Libro ebraico) Mantova, Modena, Trento, Rimini, Pesaro, Perugia, Sarzana… La scelta interna è stata sofferta e contrastata, e a dolersene è anche la direttrice della rivista che promuove prassi di consumo consapevole, sostenibile e intelligente secondo il modello del cosiddetto consumerismo: Rosanna Massarenti era e resta convinta che la nostra città rappresentasse un’ottima soluzione per coltivare questi ragionamenti e sviluppare le idealità proprie di un associazione attiva fin dal 1973. “Diritti dei consumatori, consapevolezza, trasparenza sono questioni importanti e di grande interesse – commenta Maisto -. Anche questa è cultura e la sua diffusione favorisce la crescita di una comunità edotta e responsabile”.

Il disappunto lascia comunque spazio a un’interessante novità. A fine maggio, fra dal 20 al 22, proprio nel periodo riservato all’appuntamento con i consumatori, Ferrara quest’anno lancerà un nuovo accattivante festival: quello della sharing economy. Un tema peraltro al centro dell’edizione 2015 di Altroconsumo, quasi un ideale passaggio di testimone. Troveranno spazio ed espressione tutte le tipiche forme del nuovo modello di condivisione: si discuterà delle piattaforme web che consentono di mettere in comune case, auto, disponibilità di oggetti. Ma soprattutto si rifletterà sugli orizzonti sociali di riassetto delle forme aggregative che queste pratiche sollecitano, espressione proprio di un nuovo modo di concepire i consumi e della capacità dei cittadini di fare rete nel mondo e di farsi parte attiva del mercato, mettendo in comune cose, servizi, idee.

BORDO PAGINA
La ‘Street art poetry’ di Pier Francesco Betteloni

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Pier Francesco Betteloni

Pier Francesco Betteloni, originario di Bonn (Germania) e discendente da una famiglia antica di poeti, da diversi anni a Ferrara, è noto letteralmente come poeta di strada, una sorta di on the road 2.0. Da oltre un decennio anima periodicamente la città estense con numerose azioni poetiche performative, che mette in scena anche nel resto d’Italia. Una ‘tour-vita’ poetante non stop, che evoca la grande stagione della beat generation o dei contemporanei poeti-writers.
Ha partecipato e partecipa a vari Festival e inaugurazioni culturali: Buskers Festival, Festival Celtici, Festival Medioevali. La Nuova Ferrara l’ha definito “il poeta della gente”.

Da alcuni anni protagonista a Ferrara, come poeta contemporaneo e animatore, gli proponiamo uno zoom retrospettivo. “Da quindici anni vivo a Ferrara, città che amo molto – afferma -. Da undici anni cerco di far vivere nei cuori dei ferraresi, la poesia. Sono discendente di una antica famiglia di poeti, ho avuto nonno, bisnonno e trisnonno poeti, amici di Carducci, Aleardo Aleardi, Govoni, e di altri poeti. Sin da piccolo creo poesie e da undici anni vivo creando poesie per la gente, attraverso le quali cerco sempre di dare un poco di speranza, di positività, di felicità. Ho partecipato a molte iniziative a Ferrara e nei dintorni, dal Buskers Festival al Bundan, alla Giostra del Monaco, al Made in Fe: con i molteplici significati dei colori, di carte e inchiostri, che faccio sceglier, abbinati alla fisiognomica, estrapolo i vari significati, e con empatia, creo una poesia in cui gioie, sofferenze, dolori, speranze, delle persone, prendan vita in modo… felice, per crear un sorriso, una speranza, una lacrima di gioia”.

La sua poetica e il suo stile di vita poetico evocano la leggendaria stagione della Beat Generation… “L’arte della Street Art Poetry nacque in America attorno agli anni Cinquanta – precisa – con artisti del livello di Jack Kerouac e Allen Ginsberg, io non posso esser paragonato a loro, ma come loro amo crear la poesia per chiunque. In Italia, come ben sapranno i lettori, fino al 1800 e anche oltre, i poeti erano anche in strada, pronti a creare emozioni, io cerco da molti anni di far lo stesso, facendo tornar in vita una delle cose più belle: la poesia di strada. Comunque, ai poeti americani degli anni Cinquanta si deve la creazione di alcune delle più belle poesie, sociali, di lotta, come fossero una rivoluzione, vorrei avvicinarmi a quanto facevano con il mio stile. Uno dei poeti che amo di più dell’epoca era senz’altro Jack Kerouac”.

Info: http://it.blastingnews.com/cultura-spettacoli/2016/01/pierfrancesco-betteloni-la-poesia-delle-citta-aperte-00726685.html

LA LETTURA
Un Iran sempre più letterario e femminile

Fariba Vafi
Fariba Vafi

Vincitore in patria del prestigioso premio Golshiri (lo Strega iraniano), assegnato dalla Fondazione Golshiri, la più importante istituzione letteraria dell’Iran contemporaneo, e del premio Yalda, uno dei principali riconoscimenti letterari iraniani, Come un uccello in volo, di Fariba Vafi (uscito in Iran nel 2002), è un romanzo diverso, coinvolgente e toccante, lontano dagli stereotipi sull’universo femminile mediorientale cui la stampa e la propaganda ci hanno nel tempo abituati.

Nata nel 1962 a Tabriz, nel nord del paese, e formatasi alla scuola della polizia femminile islamica a Teheran (rientrata a Tabriz, viene impiegata come guardia carceraria ma abbandona il servizio dopo tre mesi), Fariba Vafi è oggi una delle scrittrici di maggior successo in Iran: ha pubblicato una raccolta di racconti (il primo racconto Rohat shodi pedar, Ora sei in pace, papà, risale al 1988) e quattro romanzi diventati dei best seller in breve tempo e rappresenta una nuova generazione di scrittori (in gran parte scrittrici, per la precisione) apparsi sulla ribalta letteraria dopo la Rivoluzione islamica del 1979 (da allora molte donne tornano sulla scena).

Come il precedente libro di altra bella scoperta letteraria iraniana (A quarant’anni, di Nahid Tabatabai, vedi), siamo immersi ancora una volta in un mondo femminile delicato e complesso, quello di una giovane donna come tamte (il cui nome non compare ma che ha molte somiglianze con l’autrice), alla ricerca della propria identità di casalinga stretta fra quattro strette mura che cerca di ridefinire il proprio ruolo di madre riluttante, di moglie stanca e di figlia insofferente, cui difficilmente ormai si riconosce. Siamo in Iran, lo si immagina, considerata la nazionalità dell’autrice e i nomi dei protagonisti (i figli Shadi e Shahin, le sorelle Shahla e Mahin e il marito Amir), anche se questo non viene mai scritto chiaramente. Questo il segno di una storia che potrebbe ancora una volta, essere universale, quella di molte donne nel mondo. Come lo era stato per Alaleh (vedi).

In una realtà che non è in bianco e nero, almeno non più. Fossilizzata in una condizione di inerzia, soggezione e insoddisfazione alla quale pare condannata dal suo difficile passato familiare rimasto avvolto nel mistero e nella paura (“io avevo paura del buio, delle cantine, delle ombre, di zio Qadir e perfono di mamma e di zia Mahbub e perciò non mi usciva la voce”), la protagonista comincia a prendere coscienza di sé stessa nel confronto con un marito sempre inquieto, la cui unica risposta al malcontento e alle difficoltà del vivere quotidiane pare fossilizzata nel sogno ossessivo di emigrare lontano, in Canada, terra di speranze, per tutti. E che, a un certo punto, se ne va a lavorare in Azerbaigian, a Baku. E’ stanca di combattere con la vita di ogni giorno e un marito indifferente (“sono stufa di dovermi occupare costantemente dei bambini, del muro scrostato, dello scaldabagno rotto, degli scarafaggi che non scompaiono con nessun insetticida”), si sente un po’ come “un uccello migratore”, “rinchiuso in gabbia”, finché trova dentro di sé la via per uscirne, cantando (Alaleh vi era riuscita riprendendo a suonare il violoncello. Ah, la musica!). Una donna che non si guarda allo specchio, che si rifugia nel silenzio, che, tuttavia, non è passivo né aggressivo. È un silenzio critico, pieno di domande. Nel suo silenzio, la protagonista guarda gli altri, osserva, s’interroga, e infine trova sé stessa. È una sorta di riflessione che le serve per valutare la sua vita, per capire come proseguire. Viaggia in sé stessa, con sé stessa e attraverso sé stessa. Devota e lavoratrice ma stanca, davanti a una calda tazza di caffè o a un intenso e aromatico the odoroso.

uccello in voloIl libro ha uno stile asciutto e denso, le immagini colorate e le descrizioni vive dei quartieri e della vita che vi ruota intorno sono di forte impatto ed empatia; tutto mi ricorda i colori, le sensazioni, i rumori, gli oggetti, le cianfrusaglie, i negozi, i fiori, il brusio, il rumore e gli odori di molti quartieri sovraffollati di paesi nord-africani. Mi vengono in mente Tripoli, Algeri o Il Cairo, i loro vecchietti sdentati per le strade, i giovani che chiacchierano, le donne che fanno acquisti, i venditori di verdure, i fornai che fanno il pane. Come dimenticarle. Una storia toccante e coinvolgente, per tutti.

Fariba Vafi, Come un uccello in volo, Ponte33, 2010, 136 p.

L’APPUNTAMENTO
N€uro, lo schizofrenico dibattito sulla moneta e le banche

Dentro o fuori dall’euro? L’interrogativo ricorre quotidianamente nei dibattiti politici ma anche nelle chiacchierate che si fanno al bar o al mercato rionale. Il tema divide partiti e cittadini. E non è l’unico dilemma insoluto. Oggi più che mai è forte la preoccupazione relativa alla tutela del risparmio e alle garanzie offerte dalle banche. La crisi ha diminuito la ricchezza e aumentato i dubbi, dilatando i margini di insicurezza su molti fronti, anche perché economia e finanza sono temi ostici, difficili da maneggiare.
‘Chiavi di lettura’, il ciclo di incontri organizzato da FerraraItalia, ritorna in bliblioteca Ariostea lunedì prossimo, 25 gennaio, alle 17, con un appuntamento dedicato proprio all’euro e alle banche. A dipanare la matassa saranno un docente universitario, il professor Lucio Poma, del dipartimento di Economia dell’ateneo di Ferrara, e due storici esponenti del Gruppo Cittadini Economia, Claudio Pisapia con l’ausilio di Fabio Conditi.
Il tema della moneta unica e il ruolo degli istituti di credito sono elementi centrali nella riflessione relativa alle cause della crisi che ci attanaglia: quanto ha inciso l’euro, quanto pesa il ruolo della Bce e l’assenza in Italia di un banca centrale dello Stato? Da più parti si richiama l’esigenza di ricostituire una banca pubblica e qualcuno invoca il ritorno alla lira… Altri osservatori ritengono invece dannosa un’eventuale fuoriuscita dall’euro e non considerano sostanziale il ruolo che potrebbe svolgere la Banca d’Italia, neppure se fosse ricondotta sotto il controllo statale. Insomma su questi argomenti si dice tutto e il suo contrario.
Lunedì il confronto sarà estremamente lineare: i due interlocutori esporranno con chiarezza i loro punti di vista. In principio ciascuno puntualizzerà in maniera facilmente comprensibile il quadro di riferimento e illustrerà la proprie opinioni. Seguirà un breve dibattito fra Poma e Pisapia. E poi il pubblico potrà porre le proprie domande. Obiettivo di questi incontri, come sempre, è favorire una maggiore conoscenza e comprensione delle variabili in gioco, affinché ciascuno possa maturare un’edotta e autonoma opinione in proposito.

IL DIBATTITO
Se la Sinistra facesse la Sinistra

La Sinistra, per essere almeno un po’ di sinistra, dovrebbe prestare meno attenzione agli interessi del potere delle imprese e degli affari. Come si fa ad essere di sinistra e citare come esempio di successo chi delocalizza, chiede maggiore libertà di licenziamento, allarga la forbice della diseguaglianza, vive di finanza deregolarizzata e poi aumenta l’Iva e diminuisce le aliquote Irpef?

E la Sinistra dovrebbe prestare attenzione alla gestione democratica dello Stato, ad una distribuzione leale e condivisa del potere, piuttosto che aumentare le distanze tra chi gestisce la cosa pubblica e i cittadini. Quella che conosciamo promuove invece riforme elettorali e contemporaneamente riforme costituzionali che accentrano il potere.

La Sinistra dovrebbe lottare per una equa distribuzione del reddito, anche attraverso politiche sociali di sostegno alle classi meno agiate o in difficoltà. Promuovere assistenza e non tagliarla, garantire abbastanza posti letto negli ospedali, aiutare i disabili con interventi ad hoc e le vecchiette ad attraversare la strada.

Darsi da fare per diminuire la disoccupazione ma senza diminuire diritti pretendendo magari, come dice la prof. Pennacchi dalle righe del Manifesto, che lo Stato diventi “employer of last resort” e promuovendo opere e spesa pubblica per rimettere in moto l’economia quando si blocca.

E la competizione? In quali termini dovrebbe occuparsene la Sinistra, o dovrebbe invece inseguire la cooperazione e lo sviluppo sostenibile rifiutando gli schemi di una globalizzazione malata, che fa vincere chi produce peggio e a minor costi, chi delocalizza dove si pagano meno tasse e si sfrutta lavoro non sufficientemente garantito?

Gaber diceva “il pensiero liberale è di destra, ora è buono anche per la sinistra” quindi chi privatizza e dà in gestione pezzi di Stato ai privati non è di sinistra. Eliminati allora Prodi, Amato, Andreatta e Renzi che a volte hanno fatto finta di esserlo. E poi come si fa ad essere di sinistra ed essere in armonia con l’interesse economico predominante? È una contraddizione in termini, specialmente se poi limiti apertamente il sindacato che dovrebbe aiutarla, in un mondo perfetto, per diminuire la forbice della diseguaglianza tra operai e capitalisti.

Allora di sinistra ci resta “la mortadella”, Guccini e quella sensazione strana che ci fa indignare quando i bambini muoiono nel Mediterraneo perché scacciati dalle loro terre dalle guerre e dal debito creati dagli interessi finanzcapitalisti che a volte vincono premi Nobel.

Il dibattito sulla proprietà della moneta di Giacinto Auriti è di destra come la critica dell’usura di Ezra Pound, ma le implicazioni, le conseguenze e le soluzioni sono di sinistra. Perché l’una implica la proprietà condivisa, popolare e democratica dello strumento di scambio e l’altra l’abbattimento del debito che crea schiavitù. E chi decanta la fine delle ideologie in favore del pensiero unico, liberista e conformista, non è di sinistra.

La Sinistra oggi non è rappresentata perché il suo impegno non è la gente, e la società che intende realizzare è una società divisa tra ricchi e poveri. E i poveri di oggi sono quelli che vivono di stipendi troppo bassi e di “tutele crescenti”. Hanno poco tempo per riflettere di politica e ragionare sul loro futuro perché devono sbattersi per arrivare a fine mese mentre i loro figli frequentano una scuola che non dà strumenti ma voti e detta le differenze tra bravi e poco bravi, una scuola costretta ad inseguire la competizione e non ha tempo né strumenti per insegnare accoglienza, condivisione e cooperazione.

dibattito-sinistraInvitiamo i lettori a sviluppare il confronto, incardinato su alcuni nodi politici: cos’è diventata oggi la Sinistra, quali valori esprime, quale personale politico la rappresenta, a quali aree sociali fa riferimento, per quali obiettivi sviluppa il proprio impegno, quali sono la visione e il progetto di società che intende realizzare.
Il tentativo è di andare oltre l’analisi, spingendosi sul terreno della proposta.
Attendiamo i vostri contributi. Scrivete a: direttore@ferraraitalia.it

LA CITTÀ DELLA CONOSCENZA
Formazione: Italia sempre alla rincorsa, è ora di confessarci il perché

Lo scadere di ogni anno porta con sé il tempo dei bilanci. Sul terreno dell’istruzione e della formazione ci forniscono spunti di riflessione l’annuale rapporto dell’Ocse “Education at a Glance” e, in casa nostra, il “Rapporto sul benessere equo e sostenibile” dell’Istat. Da tempo le ricerche internazionali utilizzano il livello di istruzione come misura indiretta del capitale umano, hanno dimostrato che le persone con un alto livello di istruzione in genere godono di una salute migliore, sono socialmente più impegnate, il loro tasso di occupazione è maggiore e i guadagni più elevati. Da questo punto di vista dovremmo essere davvero preoccupati del nostro 41% di popolazione, tra i 25 e i 64 anni, con un livello di istruzione al di sotto della secondaria superiore, contro la media Ocse del 24%. Per non parlare del nostro esiguo 17% con un livello di istruzione terziario contro la media Ocse del 34%, esattamente la metà. Nel conto va considerato che l’accesso all’università da noi è ostacolato dal numero chiuso e dai test di ammissione, non è gratuito come in Germania e i nostri studenti non godono di supporti economici.
Ma guardiamo le cose in positivo, il rapporto dell’Istat in materia di istruzione esordisce con un titolo rassicurante: “Migliorano i livelli di formazione e si riduce il divario con l’Europa”. Non dice però che, da dieci anni a questa parte, tutti i paesi dell’Ocse registrano un progressivo miglioramento, ma i tassi di incremento nel nostro paese sono tra i più bassi, pertanto inadeguati a colmare la distanza accumulata.
Si ha l’impressione che gli ‘zero virgola’ più che una tendenza al miglioramento registrino gli effetti del naturale avvicendarsi generazionale. Man mano che nei rilevamenti statistici ci si approssima a popolazioni che hanno beneficiato dell’istruzione di massa, anche gli indici di percentuale sono destinati a mutare. A non mutare invece è la capacità di aggredire ciò che del nostro sistema formativo continua a non funzionare. L’Italia si conferma un paese che in materia di cultura e istruzione ha due velocità tra Nord e Sud, un paese in cui le condizioni di partenza per censo e cultura fanno ancora la differenza.
I dati non ci dicono nulla di diverso da quanto già non sapessimo; ci saranno anche quelli che spasimano per uno zero virgola in più o in meno, ma il dato di fondo non cambia: ci troviamo di fronte a politiche formative mal disegnate, incapaci di garantire equità e mobilità sociale.
Siamo lontano dall’obiettivo, uscito dal summit mondiale sull’istruzione tenutosi a novembre a New York, di garantire entro il 2030 un’istruzione di qualità, inclusiva ed equa per tutti, accrescendo le opportunità di apprendimento permanente per le persone di ogni età.
Una cosa, per esempio, che non viene detta nei rapporti statistici di casa nostra, è che l’Italia non partecipa alle indagini Ocse sui livelli di competenza della popolazione adulta, il Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies). L’istruzione degli adulti, che incide sui livelli culturali complessivi del paese, è un capitolo da noi ancora ampiamente trascurato. L’Italia, tanto per incominciare, non fornisce dati circa la padronanza delle tecnologie informatiche e la capacità di problem solving da parte della sua popolazione adulta, su questo terreno preferiamo non confrontarci con gli altri paesi dell’Ocse. Misuriamo invece i nostri livelli culturali computando i libri che leggiamo, con quanta frequenza andiamo al cinema e a teatro, per non parlare della lettura dei giornali, che pare essere crollata. Insomma nei casi migliori rimaniamo aggrappati ai cliché culturali della tradizione, disdegnando le opportunità offerte dalle nuove tecnologie della comunicazione.
Quando si arranca per recuperare strada, per raggiungere gli altri, difficilmente si è in grado di vedere cosa c’è oltre la linea d’arrivo dei nostri sforzi. E questo è l’errore che ci manterrà sempre in ritardo, perché mentre noi siamo impegnati nella rincorsa, gli altri partono per traguardi più avanzati, lasciandoci così sempre più indietro. Allora, forse, cambiando la macchina anche noi potremmo darci obiettivi nuovi e più ambiziosi, anziché continuare a inseguire quelli ormai mancati.
Fotografare il presente resta una buona pratica, registrare gli output del nostro sistema formativo è utile per dirci quanta distanza ci separa dagli altri, ma non ci aiuta a guardare più lontano. Se il sistema formativo non cambia non possiamo attenderci performance molto differenti da quelle che ormai da anni registrano sia i dati Ocse che i dati Istat.
Inseguire indicatori come il numero di diplomati, di laureati, di abbandoni scolastici, eccetera è come il serpente che si morde la coda, perché si continuano a rilevare e misurare i sintomi senza mai aggredirne le cause. Alla narrazione degli output dovremmo imparare ad accompagnare la narrazione degli input e degli indicatori di processo, quelli che potrebbero davvero cambiare la trama dei racconti e assicurare un finale una volta tanto diverso da quelli già conosciuti. Quali sono questi indicatori? La qualità degli insegnamenti e di chi insegna, la qualità degli ambienti dove si impara e come si impara. Attori e politiche dell’istruzione, questo è il nostro teatro dei pupi che ogni anno mette in scena il copione della formazione nel nostro paese.

STORIE
Progetto Rondine: e chi non ha gambe può volare

Volare nonostante le difficoltà, nonostante le diversità, nonostante le avversità. Ma volare, anche senza l’uso delle gambe, anche in un mondo per molti difficile e diverso. LOGO PROGETTO RONDINE

Il volo da sempre ha significato libertà, curiosità, coraggio, sfida, voglia di tiepida primavera. La rondine ha sempre simboleggiato felicità e prosperità, salute, speranza, purezza, messaggi dagli altri mondi, rinascita e anch’essa libertà. Cosa li unisce, allora? Ancora l’onlus Vola nel Cuore (vedi il sito internet e la pagina facebook) e il suo “progetto Rondine” (vedi): una nuova iniziativa, dopo il “progetti Cipolla” di cui abbiamo parlato (vedi). L’iniziativa nasce insieme al Gruppo Volo di Aguscello (GVA), associazione sportiva dilettantistica aggregata all’Aeroclub d’Italia e titolare della scuola di volo da diporto sportivo (vedi), con lo scopo di far volare bambini in difficoltà in modo totalmente gratuito e dare, quindi, la possibilità a persone diversamente abili di prendere il brevetto di volo, passando dalla carrozzina al cielo.

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Il progetto è articolato e toccherà importanti temi sociali importanti:

– La nascita della scuola di volo per disabili;

– L’acquisto di un velivolo specifico opportunamente modificato per il pilotaggio da parte di disabili con disabilità limitata agli arti inferiori;

– La possibilità di far volare gratuitamente bambini disabili o con problematiche che possano avere giovamento da un’esperienza simile;

– La messa a disposizione del velivolo in caso di emergenze (ricerca persone, sorveglianza…).

Il progetto sarà portato avanti in memoria del Generale Mario Renzo Ottone, che, nell’agosto del 2010, aveva assunto il comando del Comando operazioni aeree Coa e Caoc 5 della Nato presso la base di Poggio Renatico. Avendo questo doppio incarico nel 2012, all’epoca del terremoto, Ottone si era fatto promotore della raccolta fondi e aiuti a favore delle famiglie colpite dal sisma nel cratere ferrarese. Nel suo periodo in terra estense, aveva anche supportato molte iniziative benefiche, rivolte in particolare ai bambini in condizioni di bisogno: iniziative ancora attive tramite “Le streghe di Smirne”, mogli di subalterni che resiedono ancora in zona, che fondarono l’associazione fin da quando, insieme all’alto ufficiale erano con le famiglie dislocati nella base in Turchia. In sua memoria questo gruppo si sta attivando per promuovere azioni a favore dell’associazione Vola nel Cuore, fra cui Progetto Rondine.

In ossequio al testamento spirituale del pilota della Raf, Douglas Bader, privato di entrambi gli arti inferiori a causa di un incidente aereo, suo testimonial sarà Lorenzo Major, l’atleta disabile che ha incantato con le sue avventure in canoa, scherma, tiro a segno, basket in carrozzina, nuoto e arrampicata (vedi).

Lorenzo Major
Lorenzo Major

Tutto per reagire al dolore e “rialzarsi in piedi” attraverso un percorso nuovo: Ultra Asperitates Volare, anche senza l’uso delle gambe, perché il corpo non sia un ostacolo.

D’altra parte, la rondine è l’annunciatrice della primavera, una creatura che ama sfrecciare sulle acque dei fiumi, tuffandovisi di tanto in tanto, una gioia per gli occhi e per il suo bizzarro chiacchiericcio che fa sorridere e intenerire. In Cina, si narra che la rondine trascorra l’inverno all’interno di una conchiglia in fondo al mare (yin), per poi ridiventare un uccello e accompagnare il movimento ascendente del sole (yang). La presenza dei suoi nidi sotto i tetti delle case annuncia vita matrimoniale serena, salute dei figli, felicità e successo.
Anche da noi è così, quante volte ci siamo rallegrati di un nido sotto il tetto della casa di campagna. Anticamente, i contadini appendevano agli usci delle gallette in forma di rondine e nel giorno del ritorno di questi delicati uccellini, l’Equinozio, si svolgevano i riti di fecondità. Come annunciatrice della primavera, divenne nel Cristianesimo l’emblema della speranza, data anche la sua forma ad àncora, che fin dalle catacombe è stata il simbolo di questa virtù teologale. I simbolisti cristiani elessero poi il volatile ad annunciatore della resurrezione di Cristo, che si festeggia, non a caso, quando le rondini compaiono nei nostri cieli. Una leggenda armena narra che le rondini della Giudea si riunirono intorno alla tomba di Gesù e all’alba della Pasqua, quando egli resuscitò, partirono tutte insieme in coppia e ad ali spiegate verso il mondo, per diffondere la buona novella.
Divenne infine, il simbolo della libertà, poiché non sopporta la gabbia, dell’unione fraterna, in quanto nel pericolo le rondini si soccorrono vicendevolmente, e della dignità, che induce a rifiutare compagnie riprovevoli.

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Non dimentichiamo, infine, Icaro o Leonardo da Vinci: quest’ultimo spiegava la sua passione per il volo raccontando di averne ricevuto il presagio fin dall’infanzia, quando un uccello lo aveva visitato nella culla… il primo ricordo che il genio fiorentino serbava nel cuore e nella mente, un ricordo, un sogno, che non abbandonerà mai. Per “mettere le ali” all’uomo, permettergli di andare lontano anche senza gambe, proprio come il nostro Progetto Rondine.

 

INSOLITE NOTE
Gli Orizzonti celtic rock dei Sunset

Per il loro secondo album “Orizzonti” i Sunset sono andati fino in Scozia a cercare il quintetto folk tradizionale The Blazin’ Filddles. La rock band lombarda propone undici brani firmati da Simon “Byron” Locatelli, cantante e compositore, insieme con Demetrio “Axe” Caracciolo, chitarrista e produttore. Completa la track list “Il lupo e il bracconiere”, la favola per bambini e adulti scritta da Ivan Graziani: “Curiosi aveva gli occhi il lupo mentre lo guardava, l’uomo puntò invece il fucile pietà non provava, sparò una sola volta, sparò per ammazzare, svanì nel nulla il lupo davanti al bracconiere”.

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La copertina dell’album Orizzonti

In tempi di note “scontate” e banalità musicali fa piacere imbattersi in un gruppo che unisce tradizioni rock e contaminazioni etniche per il gusto di ballare e scatenarsi magnificando corpo e pensieri.
Apre il disco il misticismo di “Uno spazio per pensare”, con un travolgente assolo di violino in stile celtic rock, in cui passione ed energia accompagnano le riflessioni sulle occasioni offerte dalla vita: “Ricomincerò a raccontare di vecchie sfide vinte, di nuove strade”.
“Tornerò, tornerò da te desiderando un peccato impossibile”, recita l’inciso dell’omonimo brano, una dichiarazione d’amore scandita dal ritmo, privo di artefici da post-produzione, di chitarra e batteria.
“Orizzonti” è un disco di frontiera, come suggerisce il brano “Verso Timbuctù”, alla scoperta dell’ignoto in compagnia di un amico e dei propri pensieri. “Al di là delle nuvole” viaggia in sella a una favola, esplorando territori sconosciuti dove potere vivere e mettersi alla prova. “Oltre il confine” è un omaggio al Kit Carson dei fumetti d’antan: ambientato in un deserto senza regole, dove il caldo tormenta l’anima dell’uomo di frontiera, intento a raggiungere il Rio Grande, simbolo della speranza dell’emigrante, per varcarne il confine.

foto di gruppo Sunset
Foto di gruppo

L’atmosfera country del brano “Le tue verità” si discosta solo apparentemente dal contesto del disco. Il filo rosso che li lega è la voce di Locatelli, che in alcune tonalità ricorda Pelù, inequivocabilmente Rock! Il ritmo riprende con “Rebelde”, dedicata al lato umano e allo spirito ribelle di Gesù Cristo: “Io vi libererò dalla schiavitù del buio, sulla scia del mio pensero vi solleverò”.
“Danger Zone” chiude, in inglese e con qualche traccia di blues, questo secondo lavoro dei Sunset, diviso tra desiderio e peccato, attraversando deserti e autostrade, dove attenzione e adrenalina si confondono e rendono più vulnerabili.
“Orizzonti” contiene 38 minuti di rock, con contaminazioni folk e blues, ma soprattutto propone una ricerca interiore delle proprie emozioni, una sosta per ripensare al passato prima di ripartire verso nuove vite. Voce, chitarra e batteria suonano quasi senza soluzione di continuità, con ritmi forse già conosciuti ma resi unici dalla metafora del viaggio, visto come allontanamento da tutto ciò che è conosciuto, un po’ come “Bateau livre”, il poema di geografia immaginaria di Arthur Rimbaud.

Guarda il video di “Nuovo Orizzonte”

LA SEGNALAZIONE
Galleria primaluce, scrigno d’arte nel magico giardino di palazzo Scroffa

Quando, anni fa, mi trasferii a Ferrara alcuni amici mi consigliarono di spiare attraverso i portoni delle vie del centro. La cosa mi stupì non poco ma loro, osservando la mia espressione dubbiosa, mi spiegarono che i veri gioielli nascosti della città erano le corti interne dei palazzi storici, dove si celano giardini degni di una favola, ma di proprietà privata e difficilmente visitabili. Col passare del tempo ho avuto la fortuna di scoprire anche io alcuni di questi splendidi cortili, che attraggono coloro che li scoprono,facendo sì che venga dimenticata la città, distante solo un portone. Così ho scoperto la bellezza del palazzo Scroffa, edificio rinascimentale in via Terranuova, e la magia del suo giardino, incantevole anche in pieno inverno.
All’interno di questa cornice senza tempo, una porta finestra spalancata ti invita a scoprire un altro genere di bellezza. Il palazzo, infatti, ospita la Galleria d’Artè Primaluce, associazione culturale nata a Milano e trasferitasi a Ferrara, che con esposizioni, corsi e visite guidate, desidera diffondere l’arte come elemento di crescita del territorio. Il sole sta calando, le ombre nel giardino si allungano e i punti più nascosti sono già avvolti dall’oscurità della sera: la luce proveniente dalla sala più ampia della galleria colpisce i colori sulle tele e illumina le istallazioni, richiamando i curiosi all’interno delle sale, perché le opere possano mostrarsi. Venerdì, infatti, è stata inaugurata la nuova esposizione, curata dal critico d’arte Nadia Celi, visitabile fino al 12 febbraio. Sarà possibile ammirare non solo la collettiva, che ospita artisti emergenti e altri di fama internazionale, ma anche la personale “Le mie donne” del pittore ferrarese Enrico Gherardi.
La curatrice Nadia Celi accompagna i visitatori all’interno delle sale, segna il percorso soffermandosi su ogni opera, per mostrarla al meglio, raccontandone l’essenza. Così le creazioni di Stefania Bertini Cavelti, artista di origini fiorentine trasferitasi in Svizzera, acquistano vita, evidenziando la potenza dell’unione dei quattro elementi, del sacro e del profano, le differenze tra i sessi, in un’unica opera. Ci vuole attenzione per scoprirne tutti i dettagli ma anche pazienza, come se l’artista volesse che ciò che ha creato si sveli lentamente, lasciando che colui che osserva si faccia trasportare dai sensi. L’artista fiorentina divide la sala con altre due donne che hanno trovato nel colore travolgente e nel simbolismo la base con cui esprimersi.
Le opere di Gabriella Teresi, pittrice napoletana di fama internazionale, hanno un impatto più diretto con chi guarda, sembrano volerlo avvolgere, trasmettendo, con l’esplosione di colori, una visione complessa e personale del mondo che ci circonda. Ultima artista raccontata dalla curatrice è Serena Martelli, bolognese, che, giocando con i materiali, crea riflessi di luce e giochi di colore.

Forza, spiritualità e contrasti sono anche i temi degli artisti scelti per la collettiva del mese, in cui gli aspetti più contrastanti dell’essere umano vengono esposti con fare di sfida. Di grande impatto l’opera di Simonetta Barini, che rappresenta due giovani, con corpi atletici, intenti a stringersi, cercando però, in questa spirale infinita, una via di fuga. Totalmente diverse, invece, le sculture di Donato Ungaro, ricavate da tronchi d’ulivo, blocchi da cui non è l’opera ad uscire ma è lo spazio ad entrare in essi.

L’ultima sala, dedicata all’artista Gherardi, ospita cinque delle sue opere, che rappresentano donne dai corpi minuti e dagli sguardi taglienti che pretendono la dovuta attenzione, invitano ad unirsi a loro nei momenti d’intimità, ma anche nelle sfide.

“L’artista obbedisce all’ispirazione- afferma Enrico Gherardi, presente all’inaugurazione- non può fare altro. Anche io a volte, dopo aver finito un’opera, la riguardo con attenzione, per capirla meglio. “Le mie donne” non sempre hanno successo, o si amano o si odiato. C’è chi vede in questi corpi troppo magri uno stereotipo culturale, altri non apprezzano l’intimità che c’è tra loro. Secondo me il mondo femminile è sacro,sempre, anche nel suo lato più oscuro. Questo perché le donne hanno una complessità a cui noi uomini possiamo solo aspirare. In tutto ciò che fanno c’è un insieme di sentimenti: dove c’è invidia c’è ammirazione, dove c’è attrazione non manca la paura, dov’è presente l’odio, c’è l’amore”.

La mostra sarà visitabile sino al 12 febbraio alla Galleria Artè Primaluce, in via Terranuova 25.

AUDIOCONFERENZA
Non sono solo parole: Baratelli illustra l’alfabeto della democrazia

“Nel Dna della democrazia c’è la promessa di emancipazione per tutti i cittadini, ai quali vengono attribuiti gli stessi diritti e i medesimi doveri. Tale premessa si regge su due pilastri: legalità e giustizia sociale. E’ un regime, quello democratico, che sfiora l’utopia. Alle spalle abbiamo due secoli di aspre lotte combattute per rendere concreto questo obiettivo. Ma evidente che se la democrazia ha questa connotazione la sua condizione sarà di crisi perenne perché l’ideale non sarà mai compitamente realizzato e al riparo da insidie. L’impegno di ognuno è prodigarsi in un continuo sforzo per ridurre la distanza fra i ideale e realtà. Accettando la crisi come necessaria eviteremmo il pendolarismo fra eccessi di entusiasmo e di scoramento”.

La si potrebbe definire a buon titolo una ‘lectio magistralis’ quella tenuta ieri in biblioteca Ariostea dal direttore dell’istituto Gramsci Fiorenzo Baratelli per illustrare il senso del ciclo di conferenze “Le parole della democrazia” organizzato in collaborazione con l’Istituto di storia contemporanea e il contributo del Comune di Ferrara e di Archibiblio Ferrara. Quattordici imperdibili appuntamenti per riflettere sui valori che danno senso e sostanza al modello di Stato e alle forme di governo.
Nella sua ‘prefazione’ Baratelli si è soffermato sulle peculiari ragioni della crisi attuale, connesse ai fenomeni di globalizzazione e al conseguente superamento del tradizionale concetto di Stato nazionale, per poi accennare alle ragioni di scelta dei termini attorno ai quali i conferenzieri svilupperanno la loro interpretazione del lessico della democrazia: fra i più noti, Gianfranco Pasquino, Laura Pennacchi, Vittoria Franco, Giuseppe De Rita.

Il prossimo incontro sarà con un maestro del pensiero filosofico, Remo Bodei, direttore scientifico del festival di Filosofica di Modena che venerdì 29 gennaio alle 17, sembra alla sala Agnelli dell’Ariostea tesserà l’ “Elogio della democrazia: ragioni e passioni”. Miglior avvio non sarebbe immaginabile.

 

Ascolta l’audio integrale della conferenza di Fiorenzo Baratelli

 

Leggi la presentazione del ciclo “La parole della democrazia”

PUNTO DI VISTA
Vita e agonia di Ferrara (al tempo del razzismo)

“Allora – mi fa l’amico che incontro al solito bar, da anni diventato il mio ufficio – allora, la Cassa di Risparmio ti ha restituito le tue 50 lire?”
Lo guardo male e poi gli dico che se mi volessero restituire quell’antico mio credito non avrebbero mai commesso il furto ai miei danni. “Vuoi dire che Ferrara è ladra, oltre che razzista come si sta insinuando su un quotidiano cittadino?”
“Voglio dire – gli rispondo – che Ferrara è una strana città”, i suoi cittadini sono razzisti, certo, ma il razzismo è un male che cresce vigoroso nella Valle Padana. Ricordo che quando arrivai a Milano, i cartelli appesi alle porte delle case facevano sapere in bei caratteri alti e neri che “Non si affitta a meridionali”. Quei cartelli mi inorridirono, mai nella rossa Ferrara un cittadino si sarebbe permesso una simile confessione di razzismo. Ma allora Ferrara aveva davvero un cuore rosso. Con quel cuore Ferrara era cresciuta, era diventata la città di provincia più colta d’Italia, Palazzo dei Diamanti era conosciuto in tutto il mondo per le grandi mostre d’avanguardia, gli artisti italiani, europei, americani, anche orientali non si dichiaravano arrivati se non riuscivano a ottenere da Franco Farina l’ok per una personale. Nel cinema erano cresciuti, a livello internazionale, Michelangelo Antonioni e Florestano Vancini (solo per citare i più famosi), mentre ardevano di sacro fuoco i giovani, e non più giovani, intellettuali, molti dei quali si aggregavano al carro di sinistra per fare carriera, ma spesso pronti a far garrire altre bandiere.

Il fatto è che, a leggere attentamente la storia, ci si accorge che mano a mano che sbiadiva il cuore rosso, diminuiva anche l’orgoglio civile della città, la quale riscopriva vecchi stilemi sociali sui quali adagiarsi e tra questi il più comodo di tutti per persone stanche di pensare era l’indolenza, imbottita di acquiescenza, di remissività culturale, di accettazione. La Sinistra veniva lentamente espulsa dal cerchio del potere, mentre avanzava una “cultura” di Destra riveduta e corretta, il buco rivoluzionario del dopoguerra andava riempendosi. Il giorno dopo l’eccidio del Castello il nuovo federale Vezzalini fece rimbombare la sua voce in tutte le plaghe ov’era esposto il gagliardetto nero: “Ferrarizzare l’Italia”, tuonò il terribile condottiero repubblichino (scusate, ho usato l’aggettivo dispregiativo, ma oggi gli storici dicono repubblicano e il loro animo si placa). Bene, non c’è stato bisogno di audaci colpi di mano o di altre stragi, bastavano i circa duecento morti e i 900 feriti del terrorismo di estrema destra per addomesticare le docili coscienze italiane e ferraresi, il potere dispensava panem et circenses: che vuoi di più? L’ignoranza demente di questi giorni aveva agio su ogni altra urgenza, finché un mattino (ora debbo essere un po’ volgare come in un film-commedia italiano), dopo aver finito di leggere i quotidiani, locali e no, molto sorpresi abbiamo esclamato: “cazzo, siamo fascisti!”

 

Leggi la prima parte di “Vita e agonia di Ferrara”

LA RIFLESSIONE
Il tempo, eterno sconosciuto

Mentre vado all’appuntamento rifletto. Come al solito avevo frainteso il tema. “Se solo non fossi sempre così precipitoso nelle conclusioni”, mi dico. La verità è che quando la lingua va più veloce del pensiero si rischia di prendere delle cantonate. Non mi considero lento di comprendonio, intendiamoci, è che spesso il desiderio e l’entusiasmo mi suggeriscono cose inesatte, ma fa nulla…
Credevo si parlasse di quella relazione ideale ed esclusiva che intercorre tra l’arte e la letteratura, di quel connubio oltremodo creativo tra scrittura e pittura che da sempre mi appassiona. Era il motivo per cui ho deciso di andare, ma mi sono sbagliato, il tema è tutt’altro. L’argomento del seminario riguarda il tempo.
Il tempo in tutti i suoi significati, noti e meno noti, in tutte le sue espressioni, interpretazioni e definizioni. Il tempo come fenomeno scientifico, come esperienza letteraria, ma soprattutto nella sua suggestione pittorica. In effetti arte e letteratura c’entrano eccome, anche se il vero protagonista è il tempo, appunto.
Ho trascorso un’ora e poco più ad ascoltare una dotta dissertazione sul ruolo che la corrente pittorica inventata da de Chirico più di un secolo fa, la Metafisica, ha avuto nella rappresentazione ideale del tempo. E certamente il capace docente non ha perso tempo a elencarne i principali aspetti, osservando e analizzando gli esempi pittorici che de Chirico ha voluto legare alla sua idea del tempo, giusto il tempo di un’ora, all’incirca, parlando rapidamente e guardando un paio di volte l’orologio, il tempo è prezioso.
Se non altro ora posso affermare, con meno incertezza di prima, che il tempo passato ad ascoltare l’interessante lezione è servito a comprendere una volta di più che a tutt’oggi nessuno può spiegare con assoluta esattezza, ne mai lo potrà, che cosa sia il tempo!
Il tempo lo nominiamo tutti, sempre, in ogni situazione, appioppandogli usi e significati a seconda del momento. Che tempo farà domani? Farà brutto tempo. Il tempo di arrivare. C’è un tempo per vivere e un tempo per morire. Non riuscire a fare in tempo.
In effetti sto prendendo tempo, non mi è ancora chiaro cosa dire, poiché il tema è sconfinato e il termine è sfuggente. Il tempo poi, come sappiamo, è tiranno.
Però diamo tempo al tempo e verrà il tempo di capire che leggere queste righe, alla fine ne sono convinto, non è stato tempo sprecato. Certo, qualcuno potrà pensare che questo giochino attorno alla parola tempo abbia fatto ormai il suo tempo, perciò facciamo un passo indietro e torniamo a de Chirico e al suo paradosso: com’è mai possibile, ci si domanda, poter fissare in una tela statica l’immagine ideale del tempo quando il tempo è, per definizione, dinamico? Forse la risposta può essere quella di rappresentarlo annullandone i presupposti? Intanto non facciamo l’errore, per carità, di considerare il tempo come fosse un concetto astratto o una convenzione: il tempo esiste, esiste eccome! Solo che tra le cose esistenti, scientificamente riconosciute e conclamate dalle leggi della fisica, è l’unica cosa che non si può né vedere né toccare, ma c’è, da sempre e dappertutto. È grazie al tempo e al suo incessante procedere in un’unica direzione che il mondo tangibile, quello in cui viviamo, esiste. In altre parole, l’esistenza del tempo determina l’esistenza di tutto il resto.
Il tempo quindi è indissolubilmente legato all’azione, all’evoluzione, alla trasformazione, al moto e, dulcis in fundo, allo spazio in cui l’azione stessa trova dimora. E allora perché nelle opere di de Chirico tutto appare così immobile, inanimato, sospeso?
De Chirico è un artista estremamente rigoroso, come direbbe la mia professoressa di storia dell’arte è un pittore figurativo, uno che dipinge rispettando i canoni della percezione visiva della realtà: la prospettiva, le ombre, le proporzioni, le figure, gli oggetti, i paesaggi, tutti questi elementi rispettano le regole date dalla raffigurazione classica della realtà, decisamente agli antipodi da ogni forma di astrazione. Eppure, ciò che de Chirico ci fa vedere non è affatto un mondo reale.
È questo il punto: come si può pretendere di rappresentare il tempo, e il dilemma che lo riguarda, offrendo allo spettatore un pezzo di realtà? Non si può, ma ecco l’idea: l’unico modo per rubare un’immagine del tempo è quello di aggirarlo, fuoriuscirne. Se la realtà tangibile ne è intrappolata e soggiogata, esiste un piano in cui il tempo non ha alcun potere, in cui è addirittura possibile contemplarlo senza doverlo rincorrere o doverne fuggire: questo piano è il sogno. Il sogno concepito come ambiente di coltura di tutto ciò che è inconoscibile, misterioso, vago, enigmatico.
In fondo, de Chirico non vuole svelarci alcunché, non ha alcuna intenzione di darci spiegazioni, interpretazioni o teorie psicanalitiche di sorta, ragionamenti filosofici o quant’altro. Nei quadri di de Chirico non c’è nessuna ambizione di rappresentare una verità rivelata, una visione alternativa e inconscia, come invece capita nelle opere dei surrealisti che analizzano e teorizzano e che a torto vengono accostate alla metafisica, c’è altresì l’apertura a una visione del mondo fatta di suggestioni in cui ognuno può riconoscere se stesso dandosi le risposte che crede. Una visione del mondo che non vuole sostituire il reale, semmai accompagnarlo e oltrepassarlo, e pure ampliarlo con le sue suggestioni: un meta-mondo per l’appunto. Per ovviare all’impossibilità di dare una forma riconoscibile al tempo, paradossalmente de Chirico ci trasporta in una dimensione, quella interiore, in cui il tempo è assente. In tale dimensione, una volta liberati dal vincolo temporale, dove passato e futuro si mescolano in un eterno presente, possiamo abbandonarci alla contemplazione e alla meditazione, l’unica azione consentita quando l’attimo corrisponde di fatto all’eternità.
Si parla di enigmi quindi. Il tempo, il sogno, l’esistenza, l’eternità, tutto ciò che è considerato assoluto in fondo è e rimarrà sconosciuto. Possiamo almeno sperare di afferrarne un pezzetto e cercare di comprenderlo gongolandoci per la nostra perspicacia, senza illuderci troppo però.
Alla lezione non si è parlato di queste cose, per cui mi scuso con chi credeva il contrario, queste sono solo mie riflessioni che non hanno nessuna pretesa di verità. Quella in cui mi sono venuto a trovare era una normale lezione d’arte, in cui sono stati descritti e commentati dei quadri con un paio di interessanti sconfinamenti tra poesia e narrativa, quel tanto che bastava per sviluppare poi un minimo di dibattito alla fine dell’ora. Bravura e competenza del docente non sono affatto in discussione, ma al solito me ne torno a casa con l’amaro in bocca.
Per adesso credo sia tutto, come si dice, il mio tempo è terminato.

BUROCRAZIA
Basta parlare in codice, poche parole buone per farsi capire

Io sono PTOF, figlio di POF, della tribù dei RAV, della terra desolata del MIUR; uno degli ultimi sette saggi: CUD, FIS, LIM, MOF, PON, TIC, USR.
PTOF, il grande PTOF, colui che HERA, colui che INDIRE e colui che VALES.
PTOF, l’innovatore PTOF, colui il quale ha sfidato e sconfitto i temibili DSA, che ora vagano per il mondo cercando qualcuno che gli possa regalare un BES.
PTOF, il risolutore PTOF, che è sceso nelle acque del lago INVALSI, si è cibato degli AFAM e, tra le ninfe OCSE, si è accoppiato con CLIL generando PNSD.
PTOF, il decisionista PTOF, che ha battuto gli otto draghi alati: ASL, DES, GLH, GLIP, PAI, PEI, PDF, PDP.
PTOF, il determinato PTOF, che si è immerso tra le alghe del CSPI e, con i suoi compari PDM e ANVUR, ha sconfitto i due demoni: TFR e TFS.
PTOF, l’incredibile PTOF nipote di ARAN, che ha visto le due creature mitologiche: DS e DSGA scendere tra le nebbie del CCNL e, con l’arma micidiale del PDM, distruggere i popoli provenienti dagli OOCC.
PTOF, il triennale PTOF, che si è alleato con il mitico ANP e le leggendarie FAQ e, calpestando i paesi di ATA, CTP e GAE, sta lottando contro le pericolose RSU.

Questo scherzo che ho scritto mi è stato ispirato da qualche vignetta che circola in rete e da uno sketch comico di Aldo, Giovanni e Giacomo, che trovate qui sotto.
Ecco ciò che penso: finché noi insegnanti continueremo ad accettare l’uso di odiosi acronimi rendendo il nostro modo di parlare sempre più esclusivo ed escludente, non riusciremo ad essere sufficientemente comprensibili al di fuori del nostro mondo.
Finché non sapremo spiegare con un linguaggio chiaro e semplice i nostri problemi e le nostre prospettive, non riusciremo a convincere con efficacia della bontà delle ragioni per cui lottiamo contro la cosiddetta “buona scuola renzusconiana”.
Finché non riusciremo a fare questa grande fatica necessaria, non sapremo contagiare efficacemente l’opinione pubblica con le nostre preoccupazioni e le nostre convinzioni.
Quindi concludendo: se “a parole lorde, orecchie sorde”, “a buon intenditor poche parole”… ma buone!

Legenda dei 45 acronimi usati:
AFAM: Alta Formazione Artistica e Musicale
ANP: Associazioni Nazionale Presidi
ANVUR: Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca
ARAN: Agenzia per la RAppresentanza Negoziale
ASL: Azienda Sanitaria Locale
ATA: Amministrativo, Tecnico ed Ausiliario
BES: Bisogni Educativi Speciali (ma anche bacio in dialetto romagnolo)
CCNL: Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
CLIL: Content and Language Integrated Learning
CSPI: Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione
CTP: Centro Territoriale Permanente
CUD: Certificato Unico Dipendente
DES: Disturbi Educativi Specifici
DS: Dirigente Scolastico
DSA: Disturbi Specifici di Apprendimento
DSGA: Direttore dei Servizi Generali e Amministrativi
FAQ: Frequently Asked Questions
FIS: Fondo di Istituto
GAE: Graduatorie Ad Esaurimento
GLH: Gruppi di Lavoro sull’Handicap
GLIP: Gruppi di Lavoro Interistituzionali Provinciali.
HERA: Multiutility che si occupa di rifiuti, acqua, gas ed energia elettrica (non è un acronimo)
INDIRE: Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa
INVALSI: Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e Formazione
LIM: Lavagna Interattiva Multimediale
MIUR: Minitero Istruzione Università e Ricerca
MOF: Miglioramento Offerta Formativa
OCSE: Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico
OOCC: Organi Collegiali
PAI: Piano Annuale per l’Inclusività
PDF: Profilo Dinamico Funzionale
PDM: Piano Di Miglioramento
PDP: Piano Didattico Personalizzato
PEI: Piano Educativo Individualizzato
POF: Piano dell’Offerta Formativa
PON: Programma Operativo Nazionale
PNSD: Piano Nazionale Scuola Digitale
PTOF: Piano Triennale dell’Offerta Formativa
RAV: Rapporto di Auto Valutazione
RSU: Rappresentanza Sindacale Unitaria
SIDI: Sistema Informativo Dell’Istruzione
TFR: Trattamento di Fine Rapporto
TFS: Trattamento di Fine Servizio
TIC: Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione
USR: Ufficio Scolastico Regionale
VALES: VALutazione E Sviluppo

LA STORIA
Il suicidio di Luana, vittima di un sistema marcio

di Salvatore Belcastro

“Luana s’est pendue. Elle n’est plus…” dice il chirurgo di Parigi dove Luana aveva lavorato per un decennio. “Luana s’è impiccata. Luana non c’è più”.
Il dramma di Luana Ricca si è consumato un paio di settimane fa: catanese, chirurga che aveva coniugato talento e capacità, abbandonati su una corda all’età di 38 anni. La notizia sui giornali è scivolata via. Invece c’è tanto da dire. Luana aveva dimostrato ampiamente all’estero le sue qualità di chirurga, ma nelle strutture sanitarie italiane non era riuscita a trovare uno spazio adeguato.
Il suo non è soltanto il dramma di una persona, di una famiglia, di parenti e amici. Non è il caso di una persona depressa che pone fine alla sua esistenza. E’ un dramma che coinvolge l’intera società perché è una sconfitta della meritocrazia.
Luana era una giovane catanese laureata in medicina e specializzata in chirurgia all’Università di Roma. Dopo la specializzazione, era emigrata a Parigi per completare la formazione nella chirurgia dei trapianti d’organo, ma soprattutto per trovare uno spazio dove dimostrare il talento e le capacità. C’era riuscita, e a Parigi aveva lavorato per un decennio guadagnandosi stima e rispetto. Ma il tarlo della nostalgia dell’Italia, della famiglia (intanto s’era sposata e aveva avuto un figlio), la portò a cercare spazi in Italia. Era riuscita a trovare un posto nell’Asl dell’Aquila, anche se di profilo più basso rispetto alle sua aspettative e alle capacità. Ma per scelte aziendali inspiegabili, certamente lontane dalle norme della meritocrazia, Luana era stata trasferita a Sulmona. Era divenuta un semplice numero di un’azienda sanitaria.
Luana non ha retto allo stress. “Luana s’è pendue.” Su quella corda ha lasciato appesi i sogni, ma soprattutto le gravi accuse al sistema. E’ questo l’argomento che propone con forza il drammatico caso della giovane chirurga suicida.
L’Italia è un Paese diviso in lobby. Ormai lo sanno tutti e quasi non fa più notizia. Ma questa verità diventa drammatica quando è applicata a un sistema che ha il compito di proteggere e curare la salute.
Le lobby sono le entità nascoste, apparentemente senza nomi, ma sempre bene individuabili, che dietro le quinte decidono tutto, che stanno dietro tutti i poteri, dalle più alte cariche dello Stato fino alle amministrazioni più periferiche. Assumono, spostano persone da un compito all’altro, da un posto all’altro, nominano dirigenti, promuovono o bocciano senza possibilità di appello.
Di quali lobby parlo? Sono tante, politiche-partitiche, settali interne ai partiti, massoneria, lobby cattoliche di CL o di Opus Dei, finanziarie e professionali utili a chi comanda, ecc, ecc. In passato ci sono stati anche scandali sulle nomine di dirigenti della sanità basate esclusivamente sull’associazione a qualcuno di questi poteri occulti.
Tutte le scelte sono basate sul principio che un associato a una di quelle lobby o un amico va sempre preferito a tutti gli altri, comunque e ovunque.
Qualche giorno fa un amico mi ha informato che ci sono in atto spostamenti e arruolamenti in vista nel mondo della sanità nostrano. Tizio andrà là, Caio verrà qua, il Tal’altro avrà quel compito, ecc. ecc.
Conosco da sempre questo sistema di spartizione dei posti e del potere locale. Ma resto sconcertato ogni volta perché la domanda è sempre la stessa. Viene seguito il criterio delle competenze? La risposta, purtroppo, è sempre No. Viene seguito soltanto il criterio dell’interesse personale e di gruppi. Anche da noi esistono professionalità che altri ci invidiano, ma vengono sacrificate alle logiche delle lobby.
Il punto dolente conclusivo è che il sistema è marcio e non vedo alcuna iniziativa di risanarlo, perché il guasto sta in alto, nella testa di chi lo protegge, che nomina e mantiene lo statu quo. Le amministrazioni locali si accontentano di sentirsi dire che sono bene accette alla gente, ma non hanno alcuna voglia di intervenire, perché sono esse stesse integrate nel sistema.
Siamo tutti addolorati per Luana. Ci stringiamo ai familiari. Ma come si potrà spiegare al figlio, quando sarà adulto, che la madre è stata vittima e martire di questo sistema marcio?

IL RICORDO
Acuto e ironico, ma il suo bersaglio non era mai la persona. La ’bella politica’ di Paolo Mandini

Troppo da dire, ma lo sconforto e la commozione paralizzano. E poi le parole che si dicono in queste circostanze sono povera cosa. Come si fa a riassumere il senso di una vita? Chi è stato Paolo Mandini? E’ stato un uomo buono e giusto. Nella vita pubblica e nella vita privata. Attenzione, perché sembrano parole scontate e banali. Lo sono se le si pronuncia così tanto per dire, non se fanno riferimento ad una persona concreta che ha incarnato e praticato il significato di quelle grandi parole. Come politico, Paolo è stato fra i più amati dirigenti del Pci della nostra provincia. Era unanime l’apprezzamento per la sua intelligenza, la considerazione della sua autorevolezza morale, la simpatia per le sue risorse di uomo ironico, il riconoscimento per la sua generosità e lealtà. Era uomo puntuto e acuto nella polemica politica, ma il suo bersaglio non era mai la persona, sempre le posizioni sostenute. E’ per questo che tutti gli volevano bene e lo stimavano: amici e avversari. Eppure i passaggi difficili nella sua vita di coraggioso combattente non sono mancati. E’ stato funzionario del Pci, ma non ha mai corrisposto alla caricatura che molti hanno fatto di quella figura di ‘rivoluzionario professionale’ ormai figlia di altri tempi. I suoi interventi nelle riunioni di partito non erano giaculatorie servili verso la dirigenza, né verso la mitica ‘linea del partito’. Era una persona libera. Ha vissuto la politica come passione, non come mestiere. Mai sfiorato da calcoli personali, né dal pernicioso morbo del carrierismo. La politica per Paolo era scontro di idee, progetti, valori. Era un uomo etico. Paolo non era un teorico, era un uomo d’azione. E, senza sentire il bisogno di citarlo, possedeva le tre qualità che, secondo Max Weber, sono decisive per determinare la vocazione del politico di razza: la passione, nel senso di dedizione appassionata ad una causa; l’inscindibile nesso fra etica della convinzione (credere in certi valori) ed etica della responsabilità (valutare sempre le conseguenze degli atti che si compiono); infine la lungimiranza. Quante volte , nelle nostre appassionate discussioni quotidiane ci facevamo la domanda: se la politica è lotta, forza, potere, vale la pena cercare un ethos della politica? O la politica deve ridursi a nuda potenza? O peggio, a scambio di favori all’interno di una casta chiusa? O a miserabile corruzione? Paolo, non ha mai smesso di credere nella ‘bella politica’. Come amministratore pubblico, è stato un protagonista assoluto nella vita del Consiglio Comunale sia come consigliere, capogruppo, sia come assessore. Per quest’ultimo aspetto mi sento di affermare, senza timore di essere smentito, che Paolo Mandini è stato il più grande assessore allo Sport che finora ha conosciuto la nostra città. E, in conclusione, non posso non ricordare l’amico. Sono fra coloro che ha avuto il privilegio di godere della sua amicizia. Anche per questo prezioso bene, di cui a volte la vita ci fa dono, Paolo possedeva doti naturali. Era generoso, simpatico, conviviale. Attore assoluto nel gruppo amicale che si ritrovava ogni mercoledì per la sua capacità di narrazione di aneddoti e scherzi pensati e fatti ad altri cari amici nella sua lunga, impegnativa, ma anche gioiosa militanza politica. Il Pci è stato per Paolo, e per molti di noi, una dura scuola di vita, ma anche una solidale esperienza di comunità larga. Non era un idillio la vita in quel ‘partito-chiesa’. Fatti duri e dolorosi, errori seri e anche catastrofici ne hanno costellato l’esistenza. Ma quanta bella umanità abbiamo conosciuto: operai, lavoratori, insegnanti. Donne e uomini che credevano che la politica fosse uno strumento per trasformare gli individui in cittadini, non in spettatori tifosi e plaudenti del capo di turno. Questo è il mio ricordo di un uomo onesto e perbene, che ha sempre tenuto la schiena dritta senza arroganza, esibizioni inutili o stucchevoli narcisismi. La politica e la città hanno un debito verso Paolo. Negli anni ottanta del secolo scorso fu lui a denunciare il degrado della politica che un certo sistema di potere aveva prodotto e il cui simbolo è la cupa e ammonitrice presenza del Palazzo degli Specchi. Si sappia che Paolo è morto con una ferita aperta nel suo animo: la mancanza di riconoscimento della giustezza della battaglia morale e politica che insieme a pochi compagni e amici ingaggiò dentro l’allora Pci e poi Pds. Solo Roberto Montanari espresse pieno riconoscimento, in varie circostanze, per quello sparuto manipolo di coraggiosi che osarono la ‘scalata al cielo’ mettendosi contro una parte del potente gruppo dirigente del Pci e dell’allora fortissima coop-costruttori. Furono sconfitti, ma poi i duri fatti diedero loro ragione. E a Paolo va il merito principale. Ma quella vicenda segnò la sua fine pubblica e una dolorosa emarginazione. Oggi, gli sia restituito pieno onore politico. Inoltre, le Istituzioni pubbliche tengano presente il servizio decennale reso al bene pubblico da questo uomo capace e probo. E trovino il modo di ricordarlo con adeguati atti simbolici che ne perpetuino la memoria. Per ciò che mi riguarda, sono stato suo amico e lui è stato mio amico. Cosa c’è di più bello nella vita? La maggior parte dei morti tace. Per gli amici non è così. Gli amici continuano a parlare. Infine, un grato e commosso pensiero per la figlia Stefania, la moglie Paola, il genero Luca, il nipote Sandro che hanno sempre circondato Paolo, fino all’ultimo, di tanto amore, cura e affetto.

APPUNTAMENTI
De Chirico e Bassani s’affacciano al Teatro d’inverno: ecco la nuova stagione di Ferrara Off dopo un 2015 da incorniciare

Venti spettacoli tra i quali sette gratis, oltre ottanta allievi, cinque corsi annuali e altrettanti workshop gratuiti, un numero di soci che supera le 1300 unità: è questo il bilancio dell’anno appena trascorso per il teatro Ferrara Off, solida e vivace associazione culturale ferrarese, raccontato da Roberta Pazi durante la conferenza stampa di presentazione della prossima rassegna trimestrale svoltasi ieri proprio tra le mura del teatro di viale Alfonso d’Este. “Teatro d’inverno” è il titolo della rassegna invernale, che promette tante novità pur mantenendo l’impostazione tradizionale che da sempre contraddistingue gli spettacoli di Ferrara Off, quella ovvero del teatro performativo, che lascia quindi spazio all’interazione tra attore e pubblico mettendo al centro proprio quest’ultimo come vera parte attiva della rappresentazione.

Ospiti della conferenza stampa anche l’assessore al patrimonio del Comune di Ferrara Roberto Serra e il direttore artistico della Fondazione Teatro Comunale Marino Pedroni.
“Anche grazie al teatro Off si può riscontrare che Ferrara è una città che investe sulla cultura“ ha affermato Serra, felice che “attività culturali come questa riescano a trovare conferme poiché crediamo che la nostra città debba vivere di queste realtà”. Parlando degli spazi nei quali è situato il teatro, Serra ha poi ricordato che “come giunta riteniamo che tra questi spazi, oggi ambulatoriali e di proprietà del Comune, debba essere collocata e intensificata la ricca rete di attività culturali presenti nel nostro territorio”.
A confermare questa necessità anche Pedroni, il quale spiega quanto sia fondamentale “impegnarsi nell’intento di favorire la nascita di una Città Teatro. Abbiamo visto nascere Ferrara Off tre anni fa – ha continuato – e senza dubbio oggi possiamo dire che si conferma come una delle novità più interessanti sia per quanto riguarda proposte e numeri sia per quanto riguarda la qualità delle rassegne e delle attività proposte”.

IMG_0312A proposito di “Teatro d’inverno”, e quindi di tutto ciò che andrà in scena a partire da sabato 16 gennaio fino al mese di marzo, sono intervenuti Marco Sgarbi e Giulio Costa. Sgarbi ha sottolineato che “nell’impossibilità di creare una rassegna tradizionale di più mesi, la nostra scelta è ricaduta nel stilare una programmazione trimestrale che, tuttavia, ci permette di costruire tutto pezzo per pezzo, in modo tale così da poterla selezionare totalmente ascoltando anche soci e spettatori”. Uno sguardo su un teatro che parte proprio dallo spettatore, quindi, il quale è vera linfa vitale di teatro Off e “aiutato dallo spazio che il teatro stesso mette a disposizione – ha concluso – che aiuta sicuramente ad entrare completamente nel lavoro, che al dunque è la nostra finalità”. Costa ha poi aggiunto come “tutta la rassegna è volta alla dimostrazione del processo di creazione dello spettacolo, un modo per aprire le porte sul proprio lavoro che per noi significa mantenere l’identità di questo luogo e degli spettatori che lo animano”.

All’interno della nuova rassegna, tra i riconfermati “Sabati d’inverno”, tre sono i lavori teatrali e uno quello di danza. Tra questi viene proposta la trilogia “Arrivano dal mare!” di Gigio Brunello, artigiano a tutti gli effetti, veneto, che costruisce letteralmente con le sue mani opere e scena. Tre sono le storie che egli propone: “Vite senza fine” (16 gennaio) che narra storie di quotidianità operaia, “Teste calde” (13 febbraio) basato su racconti del Risorgimento ed infine “Lumi dall’alto” (12 marzo), tratto da una storia vera d’immigrazione; il 30 gennaio sarà la volta di “Homo ridens” della giovane e contemporanea compagnia del Teatro Sotterraneo, il 6 febbraio spazio a Elisa Mucchi e al suo spettacolo di danza “Poema degli atomi” e, infine, il contrabbasso di Simone Di Benedetto e l’ideatrice del fortunato Festival della Fiaba di Modena, Nicoletta Giberti, con “Il fedele Giovanni” racconteranno fiabe per giovani e adulti il 27 febbraio.
Presentate anche le “Domeniche d’inverno”, il tradizionale appuntamento gratuito della domenica di Ferrara Off con la pittura, le performance e la poesia. In questa rassegna Giacomo Cossio tornerà a parlare di De Chirico il 17 gennaio e il 14 febbraio, Monica Pavani farà immergere il pubblico nelle poesie di Giorgio Bassani nel centenario della sua nascita, infine il 6 marzo “Taciti ascolti”, performance di approfondimento sulla violenza contro la donna a cura di Marisa Antollovich, Rita Lovato e Roberta Pazi.
Un’ultima menzione per la rassegna nella rassegna “L’inverno dei bambini”, la conferma dello spazio per i più piccoli che Ferrara Off mette in scena con gli spettacoli “3 regine, 2 re, 1 trono”, “I musicanti di Brema” e “Lumi dall’alto”.

SEGNALI
Il licenziamento di Fiorini pericolosa svolta nei rapporti lavoratori-impresa

L’ultima volta che entrai nel Petrolchimico, nella seconda metà degli anni ’80, fu per capire il funzionamento di un impianto di nuova generazione, in compagnia del responsabile della produzione e di un delegato sindacale. Allora lavoravo all’Unità e mi occupavo spesso dell’industria chimica.
La mia visita fu possibile grazie all’intervento del consiglio di fabbrica. Precedentemente avevo cercato di documentarmi su un librettino, uno dei molti scritti dal sindacato unitario, sulle prospettive dello stabilimento di Ferrara e sulle sorti della chimica italiana e mondiale. Sì, mondiale: perché dal Petrolchimico sono scaturite analisi dettagliate e proposte di alto livello che, spesso, insieme alle iniziative di lotta, hanno costretto i rappresentanti delle aziende a cambiare opinione al tavolo delle trattative e, sovente, a rinunciare a propositi di riduzioni di personale e al taglio di produzioni.
Il sindacato unitario, espressione di Cgil, Cisl e Uil, ha saputo governare periodi di durissima ristrutturazione al “fabbricone” senza mai scendere su un terreno di scontro becero e violento, anche grazie ad un rapporto peculiare tra operai, tecnici, ricercatori, impiegati . Questa, e non un’altra, è la storia di decenni, e questa è la scuola sindacale in cui è cresciuto Luca Fiorini, che conosco da ragazzo e di cui ho sempre apprezzato la serietà, l’educazione, la riservatezza. Io sto con Luca, insieme a tanti altri.
La vicenda di Fiorini, delegato della Filctem-Cgil licenziato da Lyondell Basell per una diatriba al tavolo delle trattative sull’integrativo aziendale, non è un mero fatto personale: è emblematica di come talune aziende vogliono far andare le relazioni industriali a Ferrara e in Italia. Da una parte, con ciò che si conosce sino ad ora, la misura del licenziamento appare spropositata e illogica. Sarà il giudice del lavoro a stabilirne l’esatta portata. Dall’altra, si è rotto nel peggiore dei modi un clima che nei decenni ha permesso che la storia del Petrolchimico continuasse. Ci sono stati momenti molto aspri, nel conflitto sindacale, ma nessuna delle parti è mai andata oltre un limite considerato invalicabile.
Basell ha scelto invece lo scontro. Lo ha fatto dopo aver dichiarato, per esempio, che il Centro ricerche “Giulio Natta” è un’eccellenza a livello mondiale, ma mettendo in sordina che a quel Centro hanno dato intelligenza e vita, oltre che risultati industriali ed economici di valore, centinaia di persone, in diverse forme. Persone come Luca.

Adriano Olivetti ha scritto che i lavoratori traggono indubbiamente un vantaggio dall’impresa, ma che l’impresa, per un altro verso, ha un debito verso di loro. Per questo non credo che aver scelto lo scontro sia lungimirante. Né oggi, né domani.

IL FATTO
La casa del terremoto: arriva su Sky la vicenda del mancato risarcimento

E arrivata su Sky tg24 la vicenda relativa alla casa terremotata di Vigarano. I coniugi Zaniboni, che ne sono proprietari, nel 2012 sono stati costretti ad abbandonare il loro alloggio a seguito del sisma. I tecnici della Protezione civile, i vigili del fuoco e i periti del Comune l’avevano tutti concordemente dichiarata inagibile certificando il livello di rischio più grave (E) che significa pericolo di crollo. Ma qualche mese fa, a sorpresa, gli stessi tecnici comunali hanno ritrattato la loro precedente valutazione certificando che la casa – contrariamente a quanto affermato tre anni prima e in seguito confermato da numerosissime autorevoli perizie – è invece è perfettamente agibile. Di conseguenza il sindaco ha revocato l’ordinanza del 2012 dichiarando che la corretta classificazione è la “A” che non comporta alcun rischio e quindi nessun diritto di indennizzo.
Da qui è iniziata l’odissea della famiglia Zaniboni, che oltretutto si trova ora a dover vivere in una casa in affitto per la quale il Comune non riconosce più neppure il rimborso. Ma quel che è peggio nell’impossibilità di fatto di rientrare nella loro abitazione per il rischio concreto che una nuova eventuale scossa possa mettere in pericolo la loro vita e quella dei loro figli. Questo in lacrime ha raccontato la signora Gloria al giornalista Flavio Iserrnia di Sky in un lungo servizio, di ben quattro minuti, andato in onda ieri in più edizioni di tg di Sky 24.
Fino ad ora solo FerraraItalia si era occupata del caso. L’improvvisa ribalta nazionale si spera possa contribuire a fare chiarezza e rendere giustizia. Ha dichiarato Andrea Zaniboni all’intervistatore: “Chiedo solo che ci sia riconosciuto ciò che ci spetta: “Cinque se è cinque, cento se è cento, nulla se è nulla”.

Guarda il servizio di Sky tg24

Leggi gli articoli di FerraraItalia

LA NOTA
Azzurra libertà

Per fortuna esiste qualcosa che non si può abbattere, qualcosa che ha un colore trasparente, che trasuda energia da ogni sua diramazione, che infonde speranza ovunque ci si trovi e di fronte a qualsiasi avversità. Una parola magica, amica, a volte difficile da conquistare, ma unica, inafferrabile, inarrestabile, irrinunciabile, senza prezzo. Spesso siamo ignari di cosa significhi non averla; quando la si ha sempre avuta, quando per essa non si è dovuto lottare, quando ci è stata regalata fin dalla nostra nascita, quando non ci si misuri con la sua assenza. La libertà. Colorata di azzurro.
“C’era una volta un gigantesco albero azzurro al centro di una città. Era bellissimo e altissimo e più forte di qualsiasi altro. I suoi rami infiniti attraversavano le finestre e le porte delle case”. Questo è l’incipit del meraviglioso libro “L’Albero Azzurro”, del giovane scrittore iraniano Amin Hassanzadeh Sharif, pubblicato in Italia da Kite Edizioni, nella traduzione di Giulia Belloni.

Questi giovani autori iraniani non smettono di stupire. Amin è originario di Teheran, ma vive a Bologna, dove è approdato nel 2011 per perfezionarsi ai corsi dell’Accademia di Belle Arti. Le sue illustrazioni sono state pubblicate in tutto il mondo dall’editore Shabaviz e gli hanno portato vari riconoscimenti, fra cui il prestigioso premio “Golden Pen” della Biennale Internazionale di Belgrado, nel 2007.

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La copertina de “L’albero azzurro”

“L’albero azzurro” è la prima storia interamente ideata, scritta e illustrata dall’artista iraniano: narra di un grande albero dal colore azzurro, che segna le esistenze degli abitanti di un villaggio inventato e imprecisato, un racconto “senza tempo e senza luogo”, come lo definisce lo stesso Amin. È un libro di poche pagine, che si divora in pochi minuti, ma che si sfoglia e ri-sfoglia, che fa fermare gli occhi più volte sulle sue illustrazioni e i suoi colori delicati ma intensi. I disegni sono bellissimi, una rara perla di fantasia, grandi tavole realizzate con la tecnica dello scratch e con colori a olio. Resterete affascinati da quei tratti in cui i diversi toni di marrone mettono in risalto il blu della pianta, una pianta che pare arrampicarsi sulle pagine, senza paura, senza ritegno, senza vergogna, arrivando su su, in alto in alto, verso i vostri pensieri liberi, leggeri e affascinati. Lunghi rami snelli, che paiono le braccia di un’elegante e aristocratica signora d’altri tempi, sembrano volersi intrecciare con i vostri sogni avvolti dal colore.
Quell’albero speciale e innocente era testimone della vita tranquilla degli abitanti del paesino che vivevano a stretto contatto con lui, amandolo, rispettandolo e condividendone la crescita giorno dopo giorno. Ma come accade in molte favole, i cattivi attendono imperterriti e impavidi, annidati dietro l’angolo: in questo caso il perfido figuro è l’invidioso e fosco re del villaggio, che odia quell’albero imponente perché la sua fama e la sua bellezza offuscano quelle del palazzo reale. Ogni anno, quindi, ordina ai suoi uomini ubbidienti e servizievoli di alzare le mura di cinta e di tagliarne tutti i rami che si avvicinano troppo al palazzo, ma ogni volta qualcuno riesce a valicare le mura. Incurante del potere. L’invidia porta le persone a essere cattive e il re non fa eccezione. Le conseguenze del suo gesto saranno inaspettate.

Perché la libertà, preziosa, sempre svetta e alla fine trionfa. Non la si può abbattere, perché troverà comunque il suo magico spazio azzurro nei meandri di ogni cattiveria e perfidia umana. Bella morale, in un mondo in cui si parla tanto di libertà senza comprenderla veramente.

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LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Economia della conoscenza, etica della responsabilità

Da secoli la scienza economica poggia le sue teorie su ipotesi relative alle condotte umane, in particolare sulla pretesa razionalità dei comportamenti individuali. Ma è sufficiente esaminare la razionalità attribuita agli operatori economici, dal punto di vista dei fattori cognitivi ed emotivi, per demistificare l’homo economicus e la sua fede nell’autoregolamentazione del mercato.
Le conseguenze di quei presupposti sono oggi sotto i nostri occhi, lì a dimostrare l’insostenibilità materiale dell’attuale sistema di produzione, distribuzione e consumo. Lo sviluppo tecnico raggiunto, la dimensione della popolazione mondiale, richiedono ora il riallineamento delle nostre economie in funzione di una crescita sostenibile – crescita zero o addirittura de-crescita – con un forte accento sulla localizzazione, in contrapposizione alla globalizzazione.
Rimediare agli enormi guasti ereditati dalla cultura industriale richiede azioni correttive che vanno ben al di là delle politiche degli Stati, preoccupati di garantire gli equilibri sociali più che il benessere delle persone. Saranno probabilmente necessari grandi sforzi a livello ambientale, sociale e culturale per almeno un paio di generazioni.
Ci sarebbe una notevole quantità di buone ragioni per giungere a elaborare un nuovo modello economico, alternativo all’attuale. Sono diverse le strade che da varie parti si prova a intraprendere. Il mondo fortunatamente non sta fermo.
Nel secolo della conoscenza, nel secolo che ha ereditato dal precedente espressioni come “gestione della conoscenza”, “sviluppo basato sulla conoscenza”, divenute familiari anche al linguaggio dell’economia, sarebbe auspicabile un paradigma economico capace di descrivere una società i cui comportamenti, anziché essere fondati sul possesso e sullo scambio di beni, poggiassero sul valore della conoscenza.

In fondo al tunnel non pare di vedere la luce, se non ci viene in soccorso quella che ci può derivare dal sapere. E allora i legami tra economia e conoscenza sono di quelli molto stretti, non di quelli lasciati alla presunta razionalità degli individui, ma al loro sapere e alle loro competenze. Apprendimento, innovazione e competitività fanno tutti parte di una stessa filiera, che produce conoscenza, beni e risorse intangibili. L’economia è fatta di consapevolezze e di responsabilità, di saperi diffusi, che non possono stare solo da una parte, ma che devono appartenere a tutti, di modo che non vi sia chi sa e può e chi non sa e subisce. L’economia della conoscenza, fondata sulla conoscenza, è la rivoluzione della nostra epoca. Ma bisogna farla. Non possiamo stare ad attendere che un simile sistema economico giunga a poggiare su un solido terreno scientifico, perché di tempo ce n’è ancora tanto prima che questo possa accadere, nel frattempo occorre che iniziamo dal nostro quotidiano.
Economia fondata sulla conoscenza significa innanzitutto particolare attenzione per ogni fase di gestione della conoscenza, a partire dalla sua natura e creazione, passando alla sua diffusione, trasformazione e distribuzione, fino al suo utilizzo. Conoscere richiama consapevolezza e responsabilità. L’economia della conoscenza non è l’economia del profitto, dell’utile. È l’economia dell’etica, della responsabilità di ciascuno nei confronti degli altri. La consapevolezza della ricaduta delle mie scelte e del mio agire sui miei simili, nella produzione come nella distribuzione e nel consumo. La cultura della responsabilità sociale e politica, dell’accountability, direbbero gli anglosassoni, quell’accountability che è la precondizione dei diritti umani e dello stato di diritto, da cui discende l’etica d’impresa e delle condotte individuali.

In un recente articolo Richard Heede, cofondatore e direttore del Climate Accountability Institute, attribuisce il 64% delle emissioni mondiali di anidride carbonica e metano a sole 90 grandi aziende: questa è una chiara questione di etica della responsabilità, gravemente inevasa e senza conseguenze per i responsabili, che dalle loro condotte hanno tratto guadagni e ricchezze sulla pelle dell’umanità.
L’economia della conoscenza è anche questo, forse non ha bisogno di forconi per scendere in piazza, ma che funzioni la filiera delle informazioni, dei saperi e delle consapevolezze, perché queste stanno alla base di ogni agire che si proponga di cambiare ed innovare.
Se si pensa alla città come ad un sistema economico complesso, quanto abbiamo scritto finora appare rilevante dal punto di vista della vita urbana. Le persone abitano le città perché hanno naturalmente scelto di vivere insieme e di condividere tra loro cose, soprattutto beni immateriali.
Entrambe le questioni costituiscono il cuore della crescita fondata sulla conoscenza, hanno implicazioni economiche profonde. Anzi, questi due aspetti costituiscono i pilastri dell’economia della conoscenza: il valore della conoscenza, lo scambio di beni immateriali. Se l’esperienza della maggior parte dell’umanità di oggi è urbana, se le città sono oggi i motori dello sviluppo socio-economico e culturale, se la maggior parte delle nuove dinamiche è basata sulla conoscenza, sicuramente una scienza economica dello sviluppo urbano fondato sulla conoscenza diventa rilevante.
La vicinanza che comporta la città, il condividere insieme la vita, aiutano la formazione di una consapevolezza etica, aiutano il senso di responsabilità che portiamo gli uni nei confronti degli altri, fino alla condivisione di saperi e conoscenze, per apprendimenti e consapevolezze sempre più diffuse. È qui che la conoscenza e la città si incontrano: un nuovo motivo per interpretare e promuovere le transazioni di valore umano.

IL CASO
“Caro papa Francesco, il nostro vescovo non è misericordioso”: 300 i firmatari della lettera su Negri

La lettera è già arrivata in Vaticano. E il numero dei firmatari è sorprendente: in trecento, quasi tutti ferraresi, aderendo all’appello dell’associazione ‘Pluralismo e dissenso’, hanno sottoscritto la missiva rivolta a papa Francesco “per rilevare come le parole dell’Arcivescovo della nostra comunità di Ferrara, Mons. Luigi Negri, si discostino troppo frequentemente e su troppe questioni da quelle del Papa”. I firmatari manifestano il “diffuso e significativo senso di disagio sia fra i cattolici che fra i non cattolici”, dovuto alle frequenti esternazioni del vescovo, che “usa spesso parole non ispirate a misericordia e a carità ma, anzi, sembra, persino al loro contrario”.
La raccolta di firme è iniziata alla fine di novembre e in poco più di 15 giorni, attraverso il sito dell’associazione e il passaparola, si arrivati a una massiccia adesione. A testimoniare che le “affermazioni dell’Arcivescovo, distoniche quando non antitetiche addirittura” rispetto alle parole che si è soliti udire da papa Francesco, risultano “divisive” e generano sconcerto nella comunità ferrarese.
Conclusa la raccolta delle firme il 15 dicembre, la scorsa settimana la lettera è stata inviata in Vaticano: a papa Francesco, al cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei e a monsignor Nunzio Galantino, che della Conferenza episcopale italiana è segretario generale. Si attendono reazioni…

Il testo integrale della lettera è disponibile sul sito di Pluralismo e Dissenso [leggi]

Qui pubblichiamo il dossier che è stato spedito a papa Francesco [apri]

E qua puoi leggere l’articolo di Ferraraitalia in occasione del lancio dell’iniziativa [vai]

Ecco l’elenco completo dei firmatari:

Adriana Di Pietro
Alessandra Bertazzini
Alessandra Chiappini
Alessandra Talmelli
Alessandro carion
Alessandro Fusetti
Alessandro Malimpensa
Alessandro Vincenzi
Alessio Coletti
Alfredina Boldrini
alice aldrovandi
Alice Fogli
Alice pelucchi
Alice Vaccari
ambra ceccato
Amos Castaldini
Andrea Bandiera
Andrea Biolcati
Andrea Lazzari
Andrea Soloperto
Andrea Strocchi
Andreana Fioretto
Angela Luly
Anna Iacometti
anna lugaresi
Anna Maria Tagliati
Anna Rosa Pacchioni
Anna Toselli
Anna Zonari
Annalisa Sortini
Annamaria D’Ambrosio
antonella facchini
Antonella Pintarelli
antonietta marchetti
Antonio Fabbri
Barbara Mascellani
Barbara Strocchi
bartolomeo Zabato
Cristina Bencivelli
C. Maruzzi
Carla Lazzari
Carolina Maiocchi
Caterina Di Mitri
Caterina Ferrari
Cecilia Bandiera
Cecilia Chiappini
christian lucchiari
cinzia tebaldi
Claudia Bencivelli
claudia gradi
Claudio Capedri
Claudio Fabbri
Claudio Maruzzi
Claudio Mosca
Claudio Orsi
Corinna Vergara
Corrado Carletti
Corrado Padovani
Cosimo Alvati
Cristian Violani
Cristiana Sandri
Cristiano Zocchi
cristina Bovolenta
cristina carrara
Cristina Zanella
Daniela Camerini
Daniela Guidi
Daniela Peroli
daniela reginato
Daniele Cavallina
Daniele Droghetti
Daniele Lannini
Dario Capatti
Dario Giorgi
Dario Rocchi
Davide Albanesi
Davide Castaldi
Davide Ciriani
davide cotti
deila ferrari
Domenico Casellato
Domenico savio Seong
Donatella Lanuti
Elena Coatti
Elena Fornasari
Elisa Malerbi
elisa mazzoni
elisa soncin
Elisabetta Zapparoli
Emanuela Ghedini Maielli
Ennio Santolini
enrica casagrande
enrica moratelli
Enrica Villa
Enrico Barducco
Enrico Grandi
Erika Mantovani
Ernesto Arlotti
Ethel Guidi
Ettore Bandiera
Evolo Buosi
Fabiola Farina
federica bernagozzi
Federica gamberale
Federica Rossi
Federica Tosatti
Federico Mongardi
Felice Bruno
Ferdinando Origani
Filippo Marcello
Fiordalice Cenacchi
Flavia Lucarelli
Franca Guidi
Franca Parisotto
Francesca Pilitta
Francesco barigozzi
Francesco Cavalieri
Francesco Ganzaroli
Francesco Polesinanti
Franco Iannotta
Franco Zanotti
Gabriella Cavalieri
gastone bartoletti
Gelsomina Longobucco
Giacomo Roversi
Gian Paolo Benini
Gianna Stabellini
Gianoberto Gallieri
Gioacchino Leonardi
Giorgio Piva
giorgio santi
giovanna Vendramin
Giulia Gioachin
Giuseppe Fornaro
Giuseppe Giove
giuseppe gualandi
Giuseppe Luciani
Giuseppina Bertucci
Graziella Cervi
Guglielmo Russo
Guido Grisolia
Gustavo Collini
ilaria stecca
Irene Ferraresi
Irene Grassi
Irene Spagnolo
isabella stea
Ivana Cambi
Jean Gab
Jenny Giove
Laura Bregoli
Laura Chiappini
Laura Schlumper
leonardo bentivoglio
leonardo boarini
Leonardo Fiorentini
Lia Padovani
Lidia Bacilieri
lidia guidi
liviana rubbi
lorenzo bandiera
Luca Arlotti
Luca Battaglia
Luca Bianchi
luca Francesca
Luca Mercieca
luca putinati
Lucia Facchini
Lucia Marvelli
Luciano Romagnoli
Luigi Confessore
Luigi Grassi
M.Teresa Pistocchi
manuela salani
marcello cavicchi
Marcello Collini
Marcello Italiani
Marcello Piccolo
Marco Bellini
Marco Forlani
Marco Guarisco
Marco Paolo Previati
Marco Pareschi
Marco Pigozzi
Marco Segarini
Margherita Ascolano
Maria Antonietta Difonzo
Maria Calabrese
Maria carlotta Rossi
Maria Cavalieri
Maria Chiara Sabini
Maria De Stefani
Maria Elisa Campi
Maria Grazia Lonzi
maria raffaella mattioli
Mariella Mariotti
Marilena Lazzari
Marina Simoni
Marino Guidi
Mario Zamorani
Marisa Cecchetti
Marisa Toffanin
Marzia Sitta
Massimo Antonelli
Massimo Cariani
Maurizio Faggioli
Massimo Zanirato
Matteo Rescazzi
Mattia Vallieri
mauro ballola
Mauro Ferrari
Michele Alessandro Berselli
Michele Marinelli
Miriam Mariotti
Monica Barbieri
Monica Fabbri
Monica Malventano
monica soriani
Nadia Bisa
Orlando Pizzuti
Paola Artioli
Paola Borsetti
paola cavazzini
paola lodi
Paolo Mojoli
Paolo Niccolò Giubelli
Paolo Scopa
Pasquale Longobucco
paul anardi
pesce patriarca
pier giorgio
Pietro Patria
Pietro Ventura
Raffaello Berry
Renzo Macchioni
riccardo ferraresi
Riccardo Isoli
Riccardo Viaro
Roberta Elmi
Roberta santini
Roberto Buso
Roberto Ghetti
Roberto Mazza
Roberto Zaccaria
Roberto Zaccaria
Rodolfo Calzolari
Romeo Savini
Rosanna Constantini
Rosanna Maini
rosanna piva
salatore musacchia
Salvatore Cumia
Samantha Pullara
Sante Cavallini
Sara Calzolari
Sara Congorti
Sarà Franesi
Sergio Caselli
Sergio Frivoli
Sergio Gessi
sergio gnudi
Sergio Guglielmini
Silvana D’Errico
Silvia Cantelli
silvia mantovani
silvia pazzi
Silvia Peretto
Silvia Pulvirenti
Silvio Faria
Silvio Soffritti
Simona Bersanetti
simona massaro
Simona Travagli
Simone Totareo
Stefano Aspettati
Stefano Droghetti
Susi Bertasi
Liana Vaccari
teresa bazzani
Teresa Grassi
Thiago Santos
Thomas Pifferi
thomas stecca
Ubaldo Montisci
valentino calderoni
Valeria Vallieri
Vincenzo Farella
virna villani
Vita Ippolito
Vito Mazzara
Vittoria Colombani
Vittorina Braga
William Milani
Wim Collin
Xian Lu

LA NOVITA’
Ferraraitalia cambia pelle ma conserva la sua anima libera

Alla vigilia del suo secondo compleanno, Ferraraitalia cambia pelle ma non anima. Rinnoviamo la grafica e l’organizzazione dei contenuti per renderli più aderenti ala realtà di un giornale che in questi due anni è molto cresciuto. Ma i principi-guida restano gli stessi di sempre: vogliamo concorrere attraverso un’informazione libera, uno sguardo attento e non superficiale a fornire chiavi di interpretazione della realtà, affinché ciascuno possa maturare una personale opinione, edotta e consapevole.

Tante sarebbero le cose da dire in questo frangente, che è un po’ come un nuovo inizio. Le riassumo in un’unica espressione, essenziale e sincera: grazie.

Grazie ai lettori che ci hanno sempre dimostrato affetto e offerto concreto sostegno, come nel frangente del crowdfunding in virtù del quale oggi Ferraraitalia ha una casa e una concreta prospettiva di stabile realizzo davanti a sé. Al numero 88 di via Borgo dei Leoni opera il nostro gruppo di lavoro, in uno spazio laboratoriale di coworking, condiviso con gli amici sociologi di Sistemi umani. Per i giovani collaboratori è un’ottima palestra che mi auguro possa prepararli a una gratificante vita professionale: magari proprio al servizio di Ferraraitalia, un giornale che è anche comunità e spazio condiviso – non solo idealmente – e permeabile, fucina di idee e di concrete realizzazioni, nell’ambito editoriale e della comunicazione in senso più ampio.

Vorrei esprimere individualmente anche a ciascuno di loro e a tutti i collaboratori il mio personale ringraziamento, ma l’elenco sarebbe lungo e non potendo citare tutti preferisco non menzionare nessuno. Stringo però ognuno in un forte e sincero abbraccio.

Scoprirete online il nuovo Ferraraitalia, cari lettori, già da dopodomani: mercoledì 18 novembre rappresenta per noi una nuova data da ricordare. Mettiamo nel conto la possibilità di qualche disservizio per le prossime ore, in conseguenza degli interventi tecnici che si renderanno necessari per implementare il nuovo sito. Speriamo che la nuova veste che abbiamo scelto vi piaccia e soddisfi le vostre attese.

Restiamo insieme, restiamo uniti nel segno dei valori che ci contraddistinguono: il rispetto, la solidarietà, la giustizia, la lealtà, la continua ricerca della verità che per noi non sarà mai dogma.

Sono ore drammatiche per tutti. Viviamo una contingenza che rende incerto il futuro.
Ma, lo abbiamo scritto nelle ore immediatamente successive alle stragi di Parigi e lo ribadiamo qui, ora, con forza e convinzione: soprattutto, restiamo umani.

EVENTUALMENTE
Nel limbo magico della pittura metafisica

di Maria Paola Forlani

Come non rievocare quel ‘tempio di luce’, dopo l’insuperabile mostra a Palazzo dei Diamanti dedicata a “I de Chirico dei de Chirico” (1970) – con l’insigne maestro presente all’evento – che Franco Farina aveva creato a Palazzo Massari sulla storia della Metafisica per immagini luminose… Giulio Carlo Argan la definì, in un’intervista sull’Espresso, una delle più originali e geniali esposizioni-didattiche di quegli anni e così Calvesi ed Andrea Emiliani la citarono più volte, come straordinario esempio, in molte loro lezioni su la museologia.
Quell’esperienza originale ed unica è diventata nel tempo solo un ricordo e frutto di molte tesi di laurea.

Ora a cento anni dalla loro creazione tornano a Ferrara i rari capolavori metafisici che Giorgio de Chirico dipinse nella città estense tra il 1915 e il 1918. La mostra, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dalla Staatsgalerie di Stoccarda in collaborazione con l’Archivio dell’Arte Metafisica e curata da Paolo Baldacci e Gerd Roos celebra questa importante stagione dell’arte italiana e documenta la profonda influenza che queste opere ebbero su Carlo Carrà e Giorgio Morandi, e poco dopo sulle avanguardie europee del dadaismo, del surrealismo e della Nuova oggettività.
Giorgio de Chirico, nato a Volo in Tessaglia dove suo padre si era trasferito per incarichi inerenti alla sua professione di ingegnere, aveva frequentato il Politecnico di Atene, studiandovi ingegneria e belle arti. Deciso a consacrarsi definitivamente alla pittura, nel 1906 de Chirico si reca a Monaco, richiamato dall’opera dei romantici tedeschi, e soprattutto di Arnold Böcklin. Tre anni dopo raggiunge l’Italia, soffermandosi a Milano e a Torino e trasferendosi a Firenze.

Torino, che già aveva eccitato la fantasia di Nietzsche, turbò profondamente anche il giovane artista: essa favoriva in lui il sensibilizzarsi di quel nuovo rapporto con il reale in ragione del suo stesso ordinamento urbanistico, per il quale i Castellamonte avevano predisposto un geometrico disegno di lunghe prospettive di strade e di viali, interrotte dalle ampie e solenni pause delle piazze.
Fra il 1910 e il 1911, a Firenze, dopo aver accumulato tante esperienze insieme visive e spirituali, egli dipinge le prime opere metafisiche, come L’enigma dell’ora, e nel luglio dello stesso anno si reca a Parigi, dove esporrà al Salon d’Automne e agli Indépendants. Fioriscono così, quasi per prodigio, quei dipinti destinati a dischiudere un nuovo corso all’arte moderna: Melanconia e Stanchezza dell’infinito del 1912,
La torre, Composizione metafisica e Piazza d’Italia del 1913 e il 1914.
“Le piazze italiane” di de Chirico sono inaccessibili come un castello kafkiano;
similmente a un labirinto dispongono di cento aperture ma celano la chiave del proprio segreto. Esse dichiarano per prime la condizione dell’uomo diventato straniero al proprio mondo.
A Parigi de Chirico era entrato in relazione d’amicizia con gli esponenti delle avanguardie e, in particolare con Guillaume Apollinaire. Proprio nel 1914 egli dipinge il ritratto del poeta, detto anche Ritratto premonitore in quanto la testa di Apollinaire appare centrata da un proiettile, ciò che purtroppo accadrà di lì a qualche anno sul fronte occidentale. Apollinaire, come del resto Picasso, aveva subito intuito l’importanza della proposta metafisica di de Chirico, tanto che non esitò a definirlo “il più stupefacente pittore del suo tempo”.

Ritornato in Italia allo scoppio della guerra, de Chirico viene mobilitato e inviato a prendere servizio all’ospedale militare di Ferrara dove nel gennaio 1917, incontra Carlo Carrà, inviatovi in degenza per disturbi nervosi.
Il dialogo fra Carrà e de Chirico si svolge intenso, con reciproci contributi d’idee, ma, in particolare, sull’onda dell’entusiasmo per un rinnovato contatto con la grandezza della tradizione italiana, quella che riesce magicamente ad esprimere la “seconda realtà”.

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“Natura morta con manichino” di Giorgio Morandi, 1919 (Museo del ‘900, Milano)
“La condition humaine” di René Magritte, 1933

A Ferrara – “la più metafisica delle città d’Italia” come dice de Chirico – prende avvio così la Pittura Metafisica. Ai due artisti si affiancherà anche Giorgio Morandi (1890 – 1964), proveniente dalla vicina Bologna, egli pure interessato analista del muto dialogo delle forme e degli oggetti. Fra la quiete è il fratello di de Chirico, Andrea, in arte Andrea Savinio (1891–1952).
La cultura aggiornata e cosmopolita di Savinio, scrittore e musicista oltre che pittore, sarà di stimolo per tutti: i discorsi di Savinio contemplano infatti le cento significazioni diverse che una cosa può assumere ove sia rappresentata in modo tale da abdicare a quella misura di conoscenza che è costituita dalla sua stessa destinazione strumentale, ma si dilatano fino a investire le possibilità evocative insite nelle associazioni desuete delle immagini e ad inquisire l’arte visionaria del passato.
Il repertorio iconografico dei pittori metafisici intanto si allarga e si arricchisce con l’assunzione del manichino. I manichini potrebbero assumere a monumenti all’uomo senza qualità, condannato dal progresso meccanico di cui generalmente reca i simboli: la squadra, gli strumenti di precisione, la lavagna che attende le formule
che condizioneranno la nostra esistenza. L’artista, sempre più solo, si è rifugiato nella contemplazione delle cose e le ha trovate derubate del loro senso ordinario:
da loro non attende una risposta logica, ma occulta. Cerca di indovinare se stesso in quel mondo,e si trova, appunto, dinanzi a un manichino. Se un ultimo spunto dell’antica saggezza gli rimane, questo è l’ironia: e talora i manichini sono proprio intrisi d’un velo d’ironia. Se poi un ultimo slancio della perduta “humanitas” riaffiora, ecco il manichino tentare un abbraccio con un altro essere di analogo destino, come in Ettore e Andromaca.

Aveva detto Carrà: “Nell’opera d’arte c’è talvolta Iddio, più spesso vi si nasconde il diavolo”. La pittura metafisica sfugge al regno del sublime e a quello del demoniaco per situarsi in un’altra categoria: nel limbo del magico. Un limbo: il territorio ideale che non ha l’apertura per la fuga, né il baratro per la perdizione.
Altrettanto importante è la presenza di Giorgio Morandi, il cui percorso verso la sospensione metafisica e il realismo magico è documentato da un ristretto gruppo di tele realizzate tra il 1916 e il 1919: dalla famosa Natura morta rosa fino a quelle coi busti di manichino e con i vasi sul tavolo rotondo del 1919.
Attraverso poche ma essenziali opere di Filippo de Pisis, il primo e più fedele compagno ferrarese di de Chirico, si può seguire il singolare percorso che sviluppa una visione personale della metafisica, dai primi collage dadaisti fino alle opere degli anni Venti, dense di citazioni dalle opere dell’amico: Natura morta accidentale, 1919-20, I pesci sacri, 1926, Natura morta con gli occhi, 1923.
L’influenza capillare della pittura metafisica sulle avanguardie europee del dopoguerra, avvenuta soprattutto tramite la diffusione della rivista ” Valori plastici” e le mostre itineranti organizzate dal suo editore Mario Broglio – è documentata da una serie importante di opere di Man Ray, Raul Hausmann,
Gorge Grosz, René Magritte, Salvator Dalì e Marx Ernest, che realizzarono straordinari capolavori ispirati ai temi e alle iconografie ferraresi di de Chirico e Carrà.

“De Chirico a Ferrara. Metafisica e avanguardie”, in mostra al palazzo dei Diamanti di Ferrara da oggi al 28 febbraio 2016

IL FATTO
Il sindaco Paron: “Richieste infondate, la famiglia Zaniboni non ha diritto a risarcimenti per il sisma”

“Un sindaco ha il dovere di tutelare il Comune da richieste infondate e negare i contributi non dovuti”. Così Barbara Paron, primo cittadino di Vigarano Mainarda replica alla denuncia della famiglia Zaniboni, [leggi] che lamenta di essere stata discriminata nella gestione dei fondi assegnati per la ricostruzione post-sisma. La loro casa, infatti, classificata ‘E’ all’epoca del terremoto, con conseguente ordinanza di sgombero, è stata recentemente riclassificata come ‘A’: i tecnici comunali, cioè, hanno convertito la certificazione di inagibilità del 2012 in una di abitabilità senza che alcun intervento sia stato fatto. “Nell’emergenza del terremoto le cose si sono fatte in fretta, con l’ausilio di tanti volontari – spiega il sindaco – dando priorità alla sicurezza, nel dubbio si è preferito escludere rischi ed essere restrittivi”.

Da ‘E’ ad ‘A’, cioè da massimo rischio a nessun rischio, è un bel salto però…
Io mi fido dei nostri tecnici comunali. I proprietari hanno tentato di forzare la mano, cercando di convincerli che la casa era inagibile e che andava mantenuta la classe ‘E’. Ma loro assicurano che non ci sono problemi di natura strutturale in quell’abitazione.
I periti interpellati dalla famiglia Zaniboni però dicono il contrario, lo sa?
Ne hanno cambiati tanti di tecnici e avvocati in questo periodo. E’ da agosto che li riceviamo e li ascoltiamo. Abbiamo dedicato loro tanto tempo. Sono venuti con i periti, con il legale, abbiamo avuto molti incontri, ma si sono sempre comportati in modo ostile.
C’è però un documento particolarmente significativo: è la perizia giurata dell’autorevole architetto Gatti, che fra l’altro è consulente del Tribunale di Perugia: lui non ha dubbi e conferma che la casa è a rischio, che i danni sono strutturali e che la corretta classificazione è la ‘E’. Che ne pensa?
Noi questa perizia non l’abbiamo mai ricevuta.
Strano. Sta dicendo però che se gliela presentassero ora sarebbe disponibile a rivedere l’ordinanza?
Ho sempre detto: ‘non un euro di più, non uno di meno di ciò che è dovuto’. Noi siamo sempre stati aperti al dialogo e disponibili alla ricerca di una soluzione, loro hanno preferito percorrere altre vie, si sono rivolti al Tar. La strada ormai è segnata.
Quindi non offre alla famiglia Zaniboni alcuna disponibilità a rivedere la questione e considerare un risarcimento danni?
Quel che c’era da fare l’abbiamo fatto. Per noi la pratica è chiusa. La procedura seguirà il suo corso.

 

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IL FATTO
Retromarcia del Comune, “la casa terremotata è agibile”. Ma il perito: “Può crollare”

Da tre anni vivono in un appartamento in affitto. La loro casa, colpita dal terremoto, è stata dichiarata inagibile con ordinanza comunale e classificata a grado di rischio E, il più alto. Ma un paio di mesi fa il Comune di Vigarano è ritornato sui suoi passi e il sindaco Barbara Paron ha emesso una nuova ordinanza, stavolta di revoca della precedente, collocando l’abitazione in classe A (nessun danno e rischio) e autorizzando la famiglia, composta da padre, madre e due figli, uno dei quali minorenne, a rientrare come se nulla fosse accaduto.
In mezzo però ci sono stati tre lunghi anni di abbandono dalla residenza e soprattutto la paura di tornarci a vivere. Perché tutti i tecnici e i periti consultati dalla famiglia Zaniboni certificano che la struttura è gravemente danneggiata e inagibile e una nuova scossa potrebbe essere fatale e porre a repentaglio la vita degli occupanti. Metterla in sicurezza e riparare i danni del sisma ha costi esorbitanti, nell’ordine di centinaia di migliaia di euro.

Più che comprensibile, dunque, lo sconcerto, l’avvilimento e la rabbia dei proprietari. I quali hanno tentato in ogni modo di spiegare le proprie ragioni. Ma in Municipio continuano a sbattere contro una stessa risposta, sempre la stessa, un diniego senza appello. Così si sono rivolti al Tar, al Prefetto, al Difensore civico e a qualificati periti. Fra questi  l’architetto Stefano Gatti, che opera anche come consulente del Tribunale di Perugia. Interpellato per la sua riconosciuta autorevolezza, in 72 pagine di perizia giurata conferma i danni strutturali e i conseguenti rischi e legittima la richiesta formulata dai signori Zaniboni, che attendono un contributo per provvedere al ripristino delle condizioni di agibilità. Ciò che afferma coincide sostanzialmente con il contenuto della relazione dei tecnici incaricati dalla protezione civile che hanno compilato la famigerata scheda Aedes confermata anche dai tecnici incaricati dai proprietari. Tutto quadra, insomma; salvo che ora il Comune, a tre anni di distanza, ha cambiato idea ed è tornato sui propri passi ricusando ciò che per primo aveva certificato dopo il terremoto.

“Ricordo quella notte con sgomento – racconta la signora Gloria. Già nel pomeriggio l’orologio a pendolo si era fermato due volte: si tratta di meccanismi molto sensibili e questo strano fatto – mai accaduto prima – mi aveva inquietata, mi era parso presagio di qualcosa la cui drammaticità però certo non potevo immaginare. La notte ho avvertito quel boato spaventoso avvicinarsi e immediatamente sono corsa nella stanza dei miei figli, li ho abbracciati stretti mentre sentivo cadere su di noi la sabbia dalle tavelle del soffitto. Non credevo saremmo sopravvissuti…”.

Le tracce della violenza del sisma sono visibili anche nel giardino che cinge la casa, a ridosso della ciclabile del Burana. Il cappello di un camino in pietra si è staccato dal basamento e ha fatto un giro di novanta gradi su se stesso. Evidenti crepe passanti hanno tagliato la base di numerose colonne che sorreggono il tetto e non c’è stanza del fabbricato che non porti il marchio della violenza subita. Fa impressione vedere l’ abitazione abbandonata a se stessa, due volte vittima di una sorte malevola, muta testimone di una situazione grottesca e paradossale, che la famiglia Zaniboni sta vivendo come un nuovo terremoto esistenziale.

“Proviamo un miscuglio di sconcerto e ribrezzo passando per le strade del nostro paese quando osserviamo che stalle e fienili fatiscenti e inutilizzati prima della scossa ora sono stati totalmente ricostruiti grazie ai contributi per il sisma.  Non capiamo sulla base di quale criterio si siano utilizzati i fondi pubblici, visto che a noi viene negata la possibilità di rientrare in sicurezza nella nostra abitazione, compromessa proprio dal terremoto” commentano amaramente i proprietari.
Il nostro immobile oltretutto, ristrutturato fra il 1995 e il 1998, era in perfette condizioni. A questo punto, esasperata, la famiglia Zaniboni rivolge a noi e – ancora una volta – a se stessa tutti gli interrogativi che la tormenta. Perché ben quattro tecnici della protezione civile hanno stimato il danno pericoloso al punto da dichiarare la casa inagibile? Perché tutti i tecnici ai quali l’hanno fatta vedere (ben nove, tra ingegneri e architetti) l’hanno considerata compromessa dal punto di vista strutturale e per questo bisognosa di un indispensabile intervento di messa in sicurezza?”.

A questi rovelli se ne aggiungono altri, relativi alle recenti decisioni assunte dal sindaco che, sconfessando le precedenti ordinanze, ha dichiarato la piena agibilità della casa. “Perché – si domandano ancora i proprietari – se il criterio adottato dai nostri amministratori è di far rientrare i terremotati nelle proprie case ‘in sicurezza’ per noi questa cautela non vale e ci viene beffardamente risposto che il rientro in casa che il Comune ora ci consente ‘è una facoltà e non un obbligo’?”.

L’ impresa 3M Costruzioni – a cui la famiglia Zaniboni si è rivolta per chiudere le tante crepe e provvedere a un ripristino di minima – si è addirittura rifiutata di intervenire, confermando che il fabbricato è compromesso strutturalmente e l’impresario non avrebbe svolto il lavoro per non assumersi responsabilità su quel che potrebbe capitare in futuro…

“Ma tutto questo ai responsabili del Comune evidentemente non interessa – concludono sconsolati -. Tanto se la casa dovesse un giorno crollare a seguito di altre scosse e in conseguenza al fatto di non essere stata messa in sicurezza, peggio per chi ci rimane sotto… Tanto nessuno ha mai colpa di niente”.

La frustrazione, però, non ha generato inerzia. La famiglia Zaniboni sta combattendo con determinazione la partita per vedere riconosciuti i propri diritti. Ha fatto ricorso al Tar, si è rivolta al Prefetto, al Difensore Civico e non è intenzionata a fermarsi.
“Siamo anche pronti a mettere persa la casa, ma vogliamo batterci con tutti gli strumenti e le nostre forze contro chi, con il proprio comportamento, atti e decisioni, sta mettendo a repentaglio la nostra vita. Lo facciamo per i nostri figli, affinché almeno loro possano credere negli ideali e nelle istituzioni. Vogliamo ottenere un ripristino della legalità che in tutta questa vicenda è stata arbitrariamente travisata e negata.
Per questo motivo abbiamo deciso di rendere pubblica la nostra storia, magari simile a tante altre. Vogliamo far sentire la nostra voce pensando  possa rappresentare anche coloro che per mancanza di coraggio, forza, determinazione oppure per sfiducia non hanno potuto o voluto parlare e lottare”.

LA SEGNALAZIONE
Perché ci vuole orecchio

Sembra incredibile ma è tutto vero. Provate a chiedere oggi ai giovani chi è Jimi Hendrix, o John Coltrane, oppure i Led Zeppelin: in molti risponderanno facendo spallucce. Accade quindi che “Smells like teen spirit” diventi una geniale trovata di Miley Cyrus e “These boots are made for walking” un quotato brano originale di Jessica Simpson. Il disinteresse nei confronti della musica del Novecento ha comportato inevitabilmente un arretratezza culturale diffusa soprattutto nelle nuove generazioni (ma non solo), le quali si trovano impreparate nel momento in cui decidono di avvicinarsi ad uno strumento.

La locandina con gli eventi della rassegna
La locandina con gli eventi della rassegna

Con la rassegna “Guida all’ascolto” è l’Associazione Musicisti di Ferrara a cercare di colmare queste lacune, riproponendo per il tredicesimo anno consecutivo una serie di eventi per meglio approfondire tutti i principali periodi musicali degli ultimi decenni. “Ci piace pensare che la musica è linguaggio – ha spiegato il presidente di Amf Roberto Formignani durante la presentazione della rassegna – certo si può ascoltare tutto senza sapere bene con cosa abbiamo a che fare, ma bisognerebbe sempre cercare di avere più riferimenti culturali possibili per essere sicuri di comprendere meglio ciò che si ascolta. Per chi poi si avvicina nella pratica alla musica, conoscere bene ciò che si suona aiuta indubbiamente a trasmettere meglio al pubblico le sensazioni che si provano durante gli ascolti”.
Undici sono gli appuntamenti (tutti di sabato alle 15:30, a partire dal 14 novembre) proposti dagli organizzatori: lo storico batterista di Vasco Rossi, Daniele Tedeschi, parlerà dell’evoluzione della batteria attraverso un focus su Gene Krupa e Vinnie Colaiuta, mentre Claudio Ceroni racconterà le gesta del grande chitarrista ‘fulmine a due dita’ Django Reinhardt, che Formignani ricorda essere il “protagonista di Sultan of Swing dei Dire Straits, legato anche a Ferrara poiché utilizzava una chitarra del liutaio di Cento Mario Maccaferri”.
Spazio poi all’armonica – strumento spesso in secondo piano ma dalle grande storia – al basso nella Black Music, ai grandi cantanti, alla canzone napoletana raccontata da Sergio Jacuvella e ai tre grandi ‘Kings’ del blues, Albert, B.B. e Freddie. Infine un confronto tra il Progressive italiano e internazionale spiegato da Antonello Giovanelli e Limite Acque Sicure, Morrissey & The Smiths raccontati da Roberto Roversi e l’immancabile ricordo attraverso filmati originali e testimonianze del festival di Woodstock, narrato da Ricky Scandiani.
“Guida all’ascolto” si conferma quindi una panoramica ampia e assolutamente completa sulla storia della musica moderna, gestita da persone sia interne che esterne alla scuola e impreziosita quest’anno, ogni primo e terzo giovedì del mese (a partire da dicembre), dalle session di musica d’insieme guidate e aperte a tutti.
Entusiasta dell’iniziativa e dei grandi numeri raggiunti dalla Scuola di Musica Moderna (già raccolti oltre 560 iscritti, dei quali la maggior parte giovani e giovanissimi) è anche l’assessore Massimo Maisto, il quale ha ricordato che la scuola ferrarese è “la realtà di maggior successo in tutta l’Emilia-Romagna e una delle più apprezzate a livello nazionale. Numeri importanti – ha proseguito – non solo per quanto riguarda le iscrizioni ma anche e soprattutto per l’intento riuscito di avvicinare in questi spazi tantissime persone desiderose di approcciare con la contemporaneità, oltre che per aver dato a tanti giovani, oggi bisognosi di orientarsi, i giusti punti di riferimento”.

Riferimenti: ww3.comune.fe.it/amf

Ascolta il brano intonato:

https://youtu.be/UBI49UTmxII

A teatro Off il riscatto dell’uomo senz’ombra

libro Si inizia e si finisce al buio, sul palco di Teatro Off; quell’oscurità tanto cara a Hoffmann e a Friedrich, a Schlegel e a Novalis.
Piccola perla del romanticismo tedesco, “Storia meravigliosa di Peter Schlemihl” di Adalbert von Chamisso è andata in scena a Teatro Off venerdì e sabato nello spettacolo “Una vita senz’ombra” diretto e interpretato da Giulio Costa e già presentato in occasione del Festival della Fiaba di Modena nella seconda edizione, il cui tema era “Ombra e male nella fiaba”.

schlemihl_uomo in grigio_ombra “Volevamo riportare la fiaba alle origini – racconta Costa – ovvero un racconto orale fantastico che affonda le proprie radici nelle tradizioni più antiche. A questa storia mi sono appassionato molto, mi interessava mettere a fuoco i sentimenti di Peter Schlemihl, il protagonista, nei confronti della società. Mi sono calato nella narrazione, lavorando sul modo in cui, scoprendo il mondo e le vicissitudini negative che affronta, il protagonista sviluppa qualcosa di sé; come riesca a riscattarsi senza ombra. La solitudine a cui è condannato non è vissuta come una colpa, bensì come una via di uscita, al pari di una possibilità di uscire da se stesso e trovare una soluzione alla propria vita. Il mio Peter è un uomo che deve essere privato di tutto per potersi rimettere in gioco”.
Da un punto di vista linguistico, il testo è attualizzato grazie a una proposta verbale che glissa sulle forme letterarie arcaiche, più pure e ostiche, smussato quanto basta per rendere il testo originale più intelligibile e colloquiale.

Lo Schlemihl di Chamisso è l’autore stesso che si trova a fare i conti con l’essere un senza patria, lui letterato poetico e malinconico prima costretto a scappare dalla Francia allo scoppio della rivoluzione, poi a prendere le armi nell’esercito prussiano, infine respinto dal grande amore di gioventù Cérès Duvarnay. Si avvicina in questo al Kafka della “Metamorfosi”, che arriverà a pensare a se stesso come insetto, anche lui apolide nell’animo e dalla tormentata personalità; e a Goethe, suo contemporaneo, che già affronta il tema di vendersi l’anima al diavolo nel suo celebre “Faust”, cronologicamente a metà tra quello breve e fastoso dell’elisabettiano Marlow, e quello filosofico e cerebrale di Thomas Mann.
Eppure non è un uomo senza qualità, questo Peter. Il suo cognome anticipa la sua sorte, che sembra stabilita nel momento stesso in cui incontra il riccone Thomas John che già si è venduto all’offerente in grigio: lo “Shlemiel”, maschera del folklore ebraico, rappresenta il candido, l’ingenuo, lo sfortunato. Chi vive ai margini e non riesce a integrarsi con qualsivoglia classe sociale, tanto da non poter quasi essere considerato un essere di questo mondo – banalmente un uomo, altro legame di kafkiana memoria.

L’ombra non ha vita propria, ma è merce di scambio inconsapevole, srotolata via in un perturbante amalgama di voracità e totale indifferenza; è di una sostanza diversa da quella di Peter Pan che scappa dal suo proprietario, argento vivo che fa di testa propria. Nel testo originale, diventa ennesima prova di accettazione sociale e soprattutto della realizzazione di sé come individuo: in questo piccolo capolavoro, l’autore rielabora il tema della mancanza dell’ombra tipico di fiabe e racconti popolari come quello del Diavolo di Salamanca in cui il demonio tenta di rubare l’anima a un uomo ma riesce a portargli via solo l’ombra. Prendendogliela, lo condanna a essere privato dell’unica cosa che accomuna tutti, e di cui tutti vengono privati solo quando arriva la morte, e solo allora: chi scoppia di salute e chi è morente, chi è ricco e chi non ha un tetto sulla testa, chi è giovane e chi è vecchio. Somiglia a una metafora in cui si mette in guardia che è pericoloso desiderare qualcosa, e ancora di più lo è ottenerlo; l’unica speranza di salvezza reale è offerta da un bene super partes, dalla bellezza che si configura come pace armonica e laboriosa – non è un caso che Schlemihl trovi la serenità solo una volta venuto a conoscenza dell’ospedale costruito grazie al suo denaro.

L’uomo in grigio che si trova sulla strada del protagonista è un Mary Poppins che sciorina meraviglie dalla sua borsa magica piccola ma senza fondo; non per fare qualcosa di buono e utile, ma per comprare anime. Un satanasso che diventa il deus ex machina dell’ingenuo Peter che, disprezzato dagli uomini per la sua povertà e ignorato dalle donne per la sua timidezza, vede nell’offerta dell’uomo misterioso la possibilità di lasciare le sue misere spoglie: la ricchezza perpetua in cambio della sua ombra. Senza presagire che quella che sembra essere la soluzione a tutti i suoi problemi diventa foriera di un problema ben più grosso, un contrappasso a cui non può sfuggire. Una volta ottenuto prestigio economico, Schlemihl viene messo al bando e temuto proprio per quella particolarità che lo rende unico, certo, ma soprattutto diverso; una diversità non comprabile neppure con tutto il denaro del mondo, e a causa della quale non può sposare Mina, la donna che ama. Di nuovo bandito dal mondo della superficie, Schlemihl saprà riscattarsi in due modi: regalando al fedele servitore Bendel la prodigiosa borsa dispensatrice di denaro e problemi, e rifiutando un ennesimo patto che gli avrebbe portato via l’anima.

Ma Costa, nel momento stesso in cui le luci si abbassano e lui esce lentamente di scena, offre al pubblico la sua ombra, che pur lui non vede. L’attore sceglie due espedienti particolari per calarsi nella parte del protagonista: togliendosi le scarpe non appena entrato in scena, ribaltamento del fatto che alla fine della storia Peter entra in possesso degli stivali delle sette leghe; e dando le spalle al pubblico, voltandosi per andarsene per sempre. Incanto e ambiguità si alternano in una lettura che fa i conti con interiorità e pensiero di Schlemihl, ne propone una lettura-monologo intensa, dinamica e a tratti ironica.

Lo spettacolo sarà di nuovo portato in scena venerdì 13 e sabato 14 novembre, sempre alle 21.