Skip to main content

NOTA A MARGINE
Dopo Casa Minerbi ora si aspetta la riapertura alla cultura di Casa Cini

di Maria Paola Forlani

Era da più di vent’anni che i ferraresi aspettavano questo momento: finalmente Casa Minerbi riapre i battenti, accogliendo la cittadinanza tra le sue mura. La città ritrova un grande contenitore colmo di capolavori. Mentre resta nell’assoluto abbandono Casa Cini e il suo patrimonio di biblioteche e opere d’arte.
Oltre alla parte museale con il ciclo di affreschi trecenteschi, il palazzo ospita una sala conferenze, l’Istituto di studi rinascimentali con la prestigiosa biblioteca Ravenna e il nuovo Centro studi bassaniani, inaugurato in occasione del centenario della nascita del noto scrittore ferrarese.

L’edificio è stato edificato attorno alla metà del Trecento dalla famiglia Del Sale. L’identificazione della committenza con questa famiglia è stata resa possibile grazie al riconoscimento dell’impresa araldica, un leone rampante con testa d’elefante, scolpita nei capitelli del loggiato e affrescata nei clipei della sala degli Stemmi.
Fino all’Ottocento i documenti e le notizie storiche, emersi da archivi e da indagini svolte in occasione dei restauri, sono insufficienti a definire i diversi passaggi della proprietà di casa Del Sale che si succedono nel corso dei secoli. Dalla seconda metà del Novecento la casa ha assunto per la sua identificazione il nome degli ultimi proprietari che l’hanno abitata: Minerbi e Del Sale. Nel 1995 il Comune di Ferrara e il Demanio dello Stato hanno acquistato dagli eredi Minerbi la proprietà dell’intero immobile.
L’edificio ha una pianta a forma di quadrilatero irregolare ed è esposto su due livelli, tra loro un tempo comunicanti probabilmente attraverso scale di legno.
Il piano terra presenta in facciata un portico a tre arcate dove, nei capitelli dei pilastri, è scolpito il simbolo araldico della famiglia Del Sale. In una delle due grandi stanze, con soffitti lignei, all’interno di una nicchia semitamponata è stato rinvenuto un affresco che raffigura San Cristoforo. Al primo piano in corrispondenza del portico è situato il salone delle Allegorie delle Virtù e dei Vizi. Da questo salone si può accedere attraverso un arco, di recente riaperto, a due ambienti. Sulla sinistra si trova la sala degli Stemmi, mentre sulla destra è situata un’altra sala le cui decorazioni sono completamente scomparse e resta solo un timpano affrescato con specchiature a finto marmo.
Casa Minerbi-Del Sale, oltre che per gli affreschi, riveste particolare importanza anche come testimonianza architettonica. Gli esempi di edifici privati trecenteschi che si sono conservati nella città di Ferrara e in generale nell’Italia Settentrionale sono, infatti, abbastanza rari e spesso hanno subìto trasformazioni tali da renderne difficile la lettura. Questo vale, per esempio, per il poco edificante restauro voluto dalla Diocesi di Ferrara della splendida (e ormai deturpata) Casa Cini in via Boccaleone Santo Stefano.
Gli studi del Salone delle allegorie delle Virtù e dei Vizi di Casa Minerbi, dal punto iconografico, sono incentrati prevalentemente sul rapporto di dipendenza tra il ciclo ferrarese e quello realizzato agli inizi del Trecento da Giotto nello zoccolo della cappella degli Scrovegni a Padova.
Il maestro di casa Minerbi, così denominato da Carlo Ludovico Ragghianti, ma che oggi viene chiamato Stefano da Ferrara, non ha lavorato da solo nella loggia superiore. Giustizia, Carità e Speranza, in rapporto alle altre allegorie, pur nella tenuta poetica sempre elevata, tendono a declinare in accenti più popolari e ciò si può ritenere dovuto all’intervento di un aiuto, pur ben inserito, negli stilemi del maestro. Si tratta comunque di immagini e di stesure gentilissime, in una composizione nuova e fresca per l’affacciarsi occhieggiante delle frotte angeliche degli esili profili e dai diafani colori.
Ancora da indagare resta l’iconografia delle teste inserite nei quadrilobi mistilinei che affiancano le allegorie.
Per quanto riguarda l’aspetto strutturale, la vicina sala degli Stemmi ha subito nel corso dei secoli diverse modifiche dovute all’apertura di porte e finestre che hanno distrutto in maniera irreparabile ampie porzioni degli affreschi delle pareti. Il tetto della sala è a capanna con capriate a vista e nelle pareti nord e sud ci sono timpani affrescati. Nel primo sono visibili decorazioni a finto marmo, nel secondo una scena di lotta o di gioco tra due personaggi affiancati dai rispettivi cani.
La decorazione pittorica ricopre tutta la superficie delle pareti. Nella parte superiore si trovano specchiature rettangolari a finto marmo, al cui interno sono disposte tredici losanghe romboidali contornate da cornici colorate di bianco, scorciate prospetticamente dal basso verso l’alto, che racchiudono una serie di teste di uomini e di donne raffigurati prevalentemente di profilo. Nella parte inferiore tutta la sala è avvolta da un finto velario giallo con bordo rosso appeso per punti così da formare profonde e ampie ricadute delle pieghe. La fascia centrale delle quattro pareti è composta da un reticolato a intreccio geometrico che può essere suddiviso in tre registri. Il registro in alto e quello in basso racchiudono una teoria di clipei dipinti a chiaroscuro a eccezione di due colorati presenti nella parete ovest che raffigura busti di profilo. Il registro centrale riporta in maniera seriale l’impresa araldica della famiglia Del Sale. L’effetto coloristico delle pareti è di grande impatto visivo e non si può non apprezzare il gusto per l’uso del colore presente in questa sala.
Quando i locali in cui si trovano gli affreschi furono adibiti a solaio, in epoca non precisabile, iniziò il degrado del ciclo ferrarese. Solo intorno al 1950 Giuseppe Minerbi, la cui famiglia possedeva la Casa fin dal secolo precedente, raccolse la sfida costituita dal recupero di tutto l’insieme dell’edificio, per renderlo vivibile. Esistono foto in cui Minerbi è immortalato in quegli ambienti tornati degni di una reggia, con gli affreschi curati sebbene non guariti.
In tali testimonianze intorno a lui si vedono celebrità come Giorgio Bassani insieme a sua madre Dora Minerbi, Riccardo Bacchelli con la moglie Ada, e ancora colui che operò l’esemplare restauro di casa Minerbi, l’architetto Pietro Bottoni.

Ora Casa Minerbi è tornata ‘luogo di cultura’, si apriranno le biblioteche e gli spazi agli studiosi ma, soprattutto, ai giovani in quell’armonia che con la ‘bellezza’ apre il cuore alla solidarietà e alla ricerca.
Resta il rimpianto, nell’antica Ferrara, dell’abbandono di quella donazione che il conte Cini fece alla città: la sua dimora, Casa Giorgio Cini, un tempo tempio della cultura e dell’accoglienza, ora distrutta da indefinibili e ambigue affittanze e spregevoli restauri, mentre all’interno splendidi saloni, caminetti e biblioteche piangono per il degrado architettonico e umano.
Questa è stata una scelta scellerata della diocesi estense che ha portato un edificio così caro ai ferraresi, al silenzio sulla sua storia.
Resta la speranza che, sotto la spinta all’amore, alla solidarietà e alla cultura di Papa Francesco, si decida di ricominciare dalla presto interrotta sperimentazione culturale di un tempo e di imboccare il prima possibile la strada così colma d’attese del suo mecenate, che l’aveva donata “ai giovani e alla cultura”, accendendo anche qui quei fermenti di entusiasmo ora così vivi nella nuova Casa Minerbi.
“Credono infatti che la vergogna più infamante
consista nell’annotare nei pubblici registri che
la città, allettata da una somma di denaro, e per
di più da una somma modesta, ha venduto e trasferito
legalmente su altri la proprietà di oggetti
ricevuti dagli antenati”.
(Cicerone, Quarta orazione contro Verre, 70 a. C.)

L’INTERVENTO
L’8 marzo delle donne: riflessioni, domande e desiderio di partecipazione

da: Annalisa Felletti, assessora alle Pari Opportunità Città di Ferrara

In questa giornata dell’8 marzo, a “soffiare nel vento” con l’odore delle mimose, più che le risposte, sono le domande. Una su tutte, quella di “futuro”, che le giovani generazioni, ma anche le meno giovani, pongono alla politica, alle istituzioni, e a chi governa.

Non può essere diversamente, se è vero – come confermano le statistiche ufficiali dell’Istat – che il livello d’istruzione femminile da molto tempo è più alto rispetto a quello maschile nella fascia d’età dai 25 ai 34 anni. Un “sorpasso” che è indice del grande desiderio di partecipazione che ci rende fiere protagoniste del cambiamento.

L’entusiasmo si scontra tuttavia con una realtà che i numeri fotografano solo in parte. L’investimento delle donne negli studi troppo spesso deve fare i conti con maggiori difficoltà all’ingresso nel mercato del lavoro, retribuzioni più basse rispetto a quelle maschili, problemi nella conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro.

Non a caso le donne occupate, in corrispondenza della maternità, si trovano a sperimentare in misura crescente la perdita o l’abbandono del lavoro.

Uno “svantaggio” che va a saldarsi in un abbraccio soffocante, con la crisi economica e finanziaria condita dall’ipocrisia di chi cavalca la fase di difficoltà per azzardare attuali (ma vecchissime) forme di discriminazione, come chi offre lavoro a personale femminile libero “da impegni familiari”, incurante delle norme di legge.

Ma il raggiungimento di una parità formale non è, purtroppo, garanzia della parità culturale, come dovrebbe essere in ogni società evoluta e virtuosa.

Per questa ragione, l’8 marzo è per tutte Voi, giovani donne.

La giornata internazionale delle donne è per tutte Noi, che abbiamo vite talvolta così diverse, ma accomunate da una storia scritta sulla nostra pelle, su quella delle nostre madri, delle nostre nonne.

Questa giornata non è semplicemente una “festa”, perché non ha la leggerezza di una ricorrenza, ma la profondità e il valore di una giornata “storica” per i diritti delle donne e per la pace internazionale.

Va calata nella nostra nuova realtà, ma tenuta saldamente legata alla memoria delle donne che in tutto il mondo si sono prese per mano, hanno lottato e hanno resistito per il sogno di un mondo migliore, più equo, più giusto.

Oggi più che mai, gli scenari di guerra e le migrazioni ci impongono di osservare e cogliere tutte le sfumature, oltre il giallo di una mimosa. Sapendo che se sono le donne a progredire nei differenti contesti di sviluppo, sarà la società nel suo complesso a crescere.

Tanti, troppi sono i capitoli aperti senza un lieto fine, dalla violenza di genere al mancato rispetto delle leggi sull’interruzione di gravidanza e all’obiezione di coscienza; dalla disoccupazione alle condizioni precarie di lavoro che di fatto rendono impossibile la maternità.

Il processo di sviluppo è nelle mani delle donne.

Le tante di voi che quest’anno, nel 2016, potranno votare per la prima volta, devono sapere che questo diritto, oggi così scontato, è stato conquistato dalle donne in Italia solo 70 anni fa. Oggi come allora non si può manifestare indifferenza: solo il protagonismo ci consentirà di crescere. È nel segno di questo auspicio e forti di questa consapevolezza che sabato 12 marzo dalle 10 nella Sala Consigliare del Palazzo Ducale, si terrà un’iniziativa alla quale invitiamo tutta la cittadinanza a partecipare, nel corso della quale “riporteremo sui banchi consiliari” quelle amministratrici che si sono succedute nella storia delle legislature della nostra Città dal 1946 ad oggi, invitandole a condividere i loro ricordi, e le loro esperienze.

Settant’anni fa le Italiane andarono al loro primo voto, quello che avrebbe segnato l’inizio della democrazia repubblicana, e la nostra Città si appresta a ricordarlo, senza dimenticarci che proprio la nostra città consegnò alla storia di questo Paese, un primato, quello incarnato dalla figura di Luisa Gallotti in Balboni: prima Sindaca in Italia di una Città capoluogo di provincia.

Sono certa che questa data e le celebrazioni predisposte non saranno percepite come un momento di rimembranza fine a se stesso, ma come espressione forte del desiderio di un cammino evolutivo che non riguarda unicamente la donna in quanto tale, ma è per tutti gli esseri umani. Buon 8 Marzo!

Annalisa Felletti, assessora alle Pari Opportunità Città di Ferrara

IL DIBATTITO
La sinistra intellettuale e le slide quotidiane

Il dibattito “Idee di Sinistra” su Ferraraitalia offre spunti interessanti.
Mi si perdoni questo intervento forse a gamba tesa, da esterno, un semplice lettore che, come si evincerà, non appartiene alla categoria degli osservatori professionisti della politica e neppure agli analisti delle tattiche partitiche, ma alcune poche e semplici considerazioni sembrano d’obbligo.
Io partirei dalla domanda che Lavezzi si è posto il 17 febbraio che mi pare rappresenti la madre di tutte le questioni: “Ma allora perché se tutte le premesse sociali ed economiche ci sono la Sinistra fatica a imporsi sul piano politico?” Ci sono anche le prime righe del bell’articolo a firma Carlo Tassi, del 2 marzo, o l’articolo successivo di Roby Guerra.
Si comprende bene che il destinatario ultimo di cotanta insoddisfazione del mondo intellettuale della Sinistra è con tutta evidenza l’attuale Presidente del Consiglio Matteo Renzi, e con lui quel giglio magico che vive all’ombra del grande imbonitore, il quale fra l’altro non più tardi di alcune settimane fa ha proclamato pomposamente: “con me ci sono cinquanta milioni di italiani”.
L’ha certamente sparata grossa, come è nel suo stile, ma io chiedo a chi dibatte sulla sua (di Renzi) congruità alla Sinistra: ricordate l’inizio? “Enrico stai sereno”. Con i tweet, come un pifferaio 2.0, vi ha assopito le coscienze e alle elezioni europee, ha zuccherato e convinto, spargendo gli ottanta euro, parte del 40% di votanti (con 50% di astensione) a dargli il voto.
Non avete percepito qualche fremito di troppo quando, intorno a Monte dei Paschi e Banca Etruria o Carife o Banca Marche, storiche roccaforti del potere ‘rosso’, oltre al parentado della ministra Boschi in contatto con faccendieri anni Ottanta, svolazzava il supporter della Leopolda, il finanziere Davide Serra, che Bersani apostrofava così: “ma perché non paga le tasse in Italia invece che dispensare consigli al Renzi ?”
La verità, da ciò che si fiuta, è che lui (il Renzi), con il cinismo e l’opportunismo, ha messo in un angolo gli intellettuali e molti cittadini (anche non di sinistra), gli stessi che in buona fede ancora continuano a dibattere con convinzione sui grandi principi del sociale, di ideali rimpianti e volatilizzati nel dibattito della Leopolda.
E torniamo alla domanda di Lavezzi per tentare una (mia) risposta non aulica, ma semplice (non semplicistica), anche se composita, e comprensibile agli italiani che lavorano, “la vera carne” del dibattito politico e sociale.
Il Renzi ha inculcato un concetto nuovo per la Sinistra (diciamo a una parte maggioritaria): si deve vincere e non importa come: cinismo? Opportunismo? Concetti superati: è il realismo dell’Italia che cresce! Si può comunicare anche il peggio, ma il messaggio deve bucare; ma quale ‘questione morale berlingueriana’? L’articolo 18? Voto di coscienza, quale? E cosi via.
Si deve passare in Parlamento anche con Verdini (il nemico giurato della Sinistra, se possibile fino a pochi mesi fa ancora più odiato di Berlusconi) insieme alla marmellata dei transfughi usciti da partiti di Centro, di estrema sinistra, di Scelta Civica. Le cooperative dell’accoglienza di Roma hanno truffato sotto gli occhi del Pd? Il Sistema cooperativo edile emiliano è crollato con migliaia di posti di lavoro persi?
La piazza dimentica presto quando poi si vince e si governano i Comuni, le Regioni e lo Stato. Le banche delle aree rosse possono fallire: colpa di qualche funzionario e dell’Europa! Il debito pubblico cresce inesorabilmente? Nessun problema: dal 2017 o 2018 lo risolveremo. Intanto diamo 500 euro ai diciottenni futuri elettori, smantelliamo il Senato con voti di fiducia, approviamo le Unioni Civili con Verdini. E adesso annunciamo un gigantesco obiettivo futuro: il Ponte sullo stretto di Messina!
Il Renzi ha puntato al linguaggio diretto, sulle slide: il senso è semplice, chiaro e comprensibile a tutti. Poco importa (per lui e per i suoi ) se saranno credibili e perseguibili, ma il gioco è fatto. Basta con la vocazione all’autoflagellazione della sinistra, diamo da bere al popolo ciò che vuole: immagine e promesse, in sintesi: panem et circenses.
Ecco perché io penso (da semplice lettore), che con Baumann, Bodei, Habermas, con Weber e altri si educano i futuri accademici, si mantiene alto il dibattito (che io apprezzo) fra le èlite di intellettuali che continueranno e dialogare fra di loro nel salotto buono di qualche sezione o in qualche blasonata biblioteca, ma non si comunica con il popolo della Sinistra.
Nonostante quanto accaduto in questi quasi tre anni senza elezioni, i senatori e i deputati del Pd continueranno a sostenere Renzi. Se si andasse al voto ora, molto probabilmente diversi di loro perderebbero il posto in Parlamento e pertanto dei vostri idealismi romantici, concentrato di tanta secolare cultura sociologica, se ne infischiano.
Continuando così, a sinistra la conta dei voti premierà Renzi grazie alle sue astute, semplici e ingannevoli slide di ‘sinistra’.

LA BELLEZZA CI SALVERÀ
Casa Minerbi-Dal Sale centro della cultura ferrarese tra passato e presente

Casa Minerbi-Dal Sale torna a essere il luogo dove il contemporaneo dialoga con il passato e con la memoria. È stato così negli anni Cinquanta con il restauro voluto dal proprietario e inquilino Giuseppe Minerbi; sarà così da ora in poi con il Centro Studi Bassaniani e l’Istituto di Studi Rinascimentali, che avranno qui la loro sede e con le loro attività torneranno ad animare gli splendidi ambienti di questo gioiello architettonico ferrarese. Proprio come è successo per tre giorni, da giovedì 3 a sabato 5 marzo, quando l’edificio di via Giuoco del Pallone ha riaperto eccezionalmente le sue porte al pubblico.

La lunga storia di questo complesso inizia nella seconda metà del Trecento, quando viene fatta edificare dalla famiglia Dal Sale (o Del Sale) e vengono realizzati gli eccezionali affreschi del salone dei Vizi e delle Virtù e della Sala degli Stemmi. A fine Ottocento l’edificio viene acquistato dalla famiglia Minerbi. Sarà Giuseppe Minerbi a decidere nel 1957 di restaurare parte degli ambienti, comprese le sale affrescate, per farne la propria abitazione, affidando il progetto al noto architetto milanese Piero Bottoni. Ed è qui che entra in scena Giorgio Bassani: amico e lontano parente di Giuseppe Minerbi, come spesso accadeva per i componenti dell’antichissima comunità ebraica ferrarese, come presidente di Italia Nostra, proprio per questo restauro chiede a “Beppe”, come veniva chiamato da chi lo conosceva bene, di guidare la sezione ferrarese dell’associazione. Minerbi rifiuta e la scelta ricade così su un altro grande animatore della realtà culturale ferrarese e non solo, l’avvocato Paolo Ravenna. Giorgio Bassani dedicherà poi al suo vecchio amico Beppe il suo ultimo romanzo: “L’airone”.
Il penultimo capitolo di questa secolare vicenda inizia nel 1995, quando il Comune di Ferrara e il Ministero per i beni culturali, mediante l’esercizio del diritto di prelazione, acquistano casa Minerbi-Dal Sale con lo scopo di renderla un luogo pubblico a disposizione dei cittadini.È così che Casa Minerbi-Dal Sale viene destinata a museo, per quanto riguarda le sale affrescate, e a sede dell’Istituto di Studi Rinascimentali.

Secondo Gianni Venturi, che sabato ha fatto gli onori di casa e ha accolto il pubblico, allo studio e alla cultura si è aggiunto “un atto d’amore”: quello di Portia Anne Prebys, compagna di Giorgio Bassani per 25 anni. Con la sua donazione, avvenuta a dicembre 2015, ha fornito il nucleo fondamentale del Centro Studi Bassaniani (di cui la Portia Prebys è curatrice, mentre il professo Venturi è il co-curatore), che non poteva avere la sua casa se non in via Giuoco del Pallone, in quelle stanze così spesso frequentate dallo scrittore. Circa 9.000 cartelle contenenti informazioni bio-bibliografiche relative a Giorgio Bassani fino al 2000 – raccolte in quarant’anni di ricerche da Portia Prebys – e 5.000 libri “appartenenti allo stesso Giorgio Bassani”, fra i quali “tutte le edizioni in lingua originale” delle sue opere, come spiega ancora Venturi. Il Lascito Prebys comprende anche una collezione di memorabilia personale, con mobili, sculture, stampe e acqueforti, porcellane e cristalleria, provenienti dalla casa di Roma, ma anche dalla casa natale di via Cisterna del Follo. È la stessa Portia ad accogliere il pubblico, seduta al tavolo da pranzo al posto solitamente occupato da Giorgio, e a spiegare che in questa stanza a pianterreno di Casa Minerbi ha voluto “ricreare l’ambiente dove l’uomo Bassani viveva”. Dietro di lei il ritratto di Bassani realizzato da Carlo Levi nel 1953, di fronte una serie di stampe con una pianta di Roma, realizzate nel Settecento da Giovanni Battista Piranesi e da Gianbattista Nolli: “ogni mattina Giorgio si alzava e dopo colazione sceglieva una meta, un quartiere da visitare”.

L’apertura definitiva al pubblico è prevista per maggio, dopo il trasloco del materiale dell’Istituto di Studi Rinascimentali: oltre 15.000 volumi disponibili a scaffale aperto, l’Archivio Giglioli, contenente “documenti che vanno dal 1260 al 1940”, e “i busti di gesso, compreso quello di Canova, che adornavano il Palazzo Giglioli Maffei”, come ha anticipato Gianni Venturi.
L’ultimo capitolo della storia di Casa Minerbi-Dal Sale è appena iniziato e nuove pagine aspettano di essere scritte.

Guarda il video su Casa Minerbi-Dal Sale realizzato da Mibact e Direzione Regionale per i beni culturali e paesaggistici dell’Emilia Romagna.

Clicca sulle foto per ingrandirle.

 

E’ nata Legacoop Estense, radici sul territorio e sguardo al futuro

Una nuova realtà associativa che unisce nello stesso progetto Il percorso cooperativo di Ferrara e di Modena, mantiene le radici ben piantate sul territorio e lo sguardo orientato al futuro.
Porta la data del 4 marzo la nascita di Legacoop Estense. Suo presidente è il ferrarese Andrea Benini. Luogo dell’evento la Pinacoteca Nazionale di Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Testimoni gli associati, i rappresentanti delle istituzioni e della stampa.
“Siamo qui oggi per festeggiare una unione importante: la Lega Coop Estense, che vede da oggi assieme Ferrara e Modena in un progetto che ci accomuna. – ha detto la direttrice delle Gallerie Estensi Martina Bagnoli, facendo gli onori di casa in Pinacoteca – Anche noi, nel settore della cultura, siamo diventati un’entità cooperativa, un nuovo modo di concepire il museo come una rete di luoghi: le Gallerie Estensi fra Ferrara e Modena, che diventano uno snodo sociale importante, radicato nel territorio, nella vita della comunità, per costruire un rapporto vivace fra pubblico e privato, dove la social economy si possa realizzare per la crescita della città”.

A salutare i presenti anche Patrizia Bertelli, vice presidente di LegaCoop Ferrara e il sindaco Tiziano Tagliani, che nel suo discorso alla platea ha sottolineato che “Gli Estensi costruivano costantemente alleanze con le diverse anime del territorio, per trovare una via migliore per esprimere la propria presenza sullo stesso territorio. Questo carattere culturale è lo stesso che ritroviamo qui oggi, con questa manifesta comunanza di storia e di intenti”.
“Dalla Casa del Popolo di Ravalle (dove nel congresso della Lega Coop del 2014 si iniziò il cammino per il progetto di fusione, ndr) a Palazzo dei Diamanti, mi sembra un percorso abbastanza simbolico dell’unione della vicinanza alla gente e della tradizione che la nuova Legacoop Estense vuole realizzare. – ha detto nel suo intervento Andrea Benini, presidente di Legacoop Ferrara – Con questa giornata noi manteniamo un impegno importante, quello della fusione, ma per tutti noi non è un punto di arrivo, bensì uno di partenza: stiamo fondendo due esperienze singolari, che hanno dato tanto ai loro territori, e che si mettono assieme per rispondere alle esigenze dei soci e delle comunità di riferimento, che evolvono assieme come imprese, che impostano un cammino comune per avere massa critica sul mercato.”

Nel presentare al pubblico i principi della neonata cooperativa, Benini ha anche ricordato l’impegno di solidarietà che ogni socio dovrebbe profondere per sostenere le realtà in difficoltà: “Approfitto di questo momento per ricordare la situazione della Cooperativa dei Lavoranti in Legno, verso i cui lavoratori vi chiederei di valutare il reinserimento presso le vostre aziende”.
“Secondo Unioncamere – ha poi spiegato – la competitività di un’azienda è direttamente proporzionale alla situazione del territorio e alla soddisfazione del lavoratore. Questo significa che le aziende funzionano bene se servite bene dal territorio, in un reciproco “dare e avere”. Il territorio di Ferrara e Modena conta più di 110.000 imprese, Legacoop Estense conterà invece un totale di 263 cooperative, per un fatturato aggregato di 6 miliardi di euro, 500.000 soci e 35.000 lavoratori, che costituiscono quasi l’8% degli occupati nei due territori. Le cooperative associate operano in tutti i settori, dall’agroalimentare ai servizi, dal sociale alla grande distribuzione. La nuova associazione avrà una governance rappresentativa dei due territori e prevede, accanto alla Direzione e al Consiglio di Presidenza composti dai rappresentanti delle cooperative associate, un Presidente a tempo pieno, un Vicepresidente part-time, che affianca l’incarico al proprio impegno all’interno della cooperativa che guida, un Direttore e un coordinatore territoriale, nonché due sedi, una a Ferrara l’altra a Modena, al fine di rispondere al meglio alle esigenze delle imprese associate. E’ risaputa la resistenza che noi ferraresi muoviamo verso le novità e gli accorpamenti e io so che è per la paura di perdere qualcosa delle nostre peculiarità: con la Legacoop Estense questo non potrà accadere, visto che metteremo in campo le reciproche eccellenze, in un nuovo assetto organizzativo che faccia più massa critica sul mercato ma conservi il legame con le città e le loro peculiarità.”

“Questa riorganizzazione – ha concluso Benini – rappresenterà un’opportunità non solo per l’associazione e le cooperative, ma anche per la comunità e il territorio, in risposta al riordino istituzionale e ai cambiamenti economici e sociali in atto. Non si può immaginare di rispondere ai problemi di oggi senza far evolvere le strutture di ieri.”
La giornata di lavori è poi proseguita con gli interventi dei soci di Ferrara e – dopo la pausa per il pranzo – c’è stato il trasferimento a Modena, dove si è tenuta l’Assemblea Costitutiva della Legacoop Estense. Qui, di fronte a una folta platea di rappresentanti delle cooperative associate e di ospiti, Andrea Benini, è stato nominato presidente della nuova Associazione, affiancato dalla Vice Presidente Francesca Federzoni, e dal Direttore Gianluca Verasani.
Lauro Lugli, dopo 5 anni alla guida di Legacoop Modena ha deciso invece di concludere la propria esperienza per favorire il rinnovamento ed ha espresso grande soddisfazione per la positiva conclusione di un percorso di unificazione da lui fortemente sostenuto, che lo ha visto per mesi in prima linea per favorirne la positiva conclusione.

Nel suo primo intervento da neo-presidente Andrea Benini ha sottolineato lo spirito di servizio col quale affronterà questa nuova sfida, e ha esortato tutti – cooperatrici e cooperatori, ma anche rappresentati delle Istituzioni e mondo associativo e imprenditoriale – a “non pensarci più come ferraresi e modenesi, ma come cooperatori e cooperatrici che cercano di affrontare problemi e cercare nuove prospettive. Evolvono i mercati di riferimento, evolvono le cooperative, evolvono le associazioni. Mettersi insieme è una scelta, una risposta, un’opportunità. Grazie a quest’unificazione le cooperative potranno trovare maggiori possibilità di sinergia, collaborazione, integrazione, eliminando vincoli territoriali nati per sostenere ma divenuti poi un ostacolo. E tutto questo lo faremo sempre con lo sguardo rivolto alla nascita, nel 2017, di un’unica Associazione nazionale delle Cooperative Italiane”.

Dopo la Tavola Rotonda, nella quale il Presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini, i Sindaci dei Comuni di Modena e Ferrara Giancarlo Muzzarelli e Tiziano Tagliani, e il Presidente di Legacoop Emilia Romagna Giovanni Monti, hanno discusso di riordino istituzionale dei territori, aree vaste, processi di aggregazione fra associazioni e fra imprese, il Presidente di Legacoop Nazionale Mauro Lusetti ha concluso una giornata storica.

officina-pasolini

LA SEGNALAZIONE
In mostra a Bologna l’Officina Pasolini

di Federico Di Bisceglie

Il 2 novembre 1975, all’idroscalo di Ostia, veniva trovato il corpo straziato e senza vita di uno dei più controversi, discussi, criticati e amati, autori del Novecento italiano: Pier Paolo Pasolini.
A quarant’anni di distanza Bologna, la città che gli diede i natali il 5 marzo 1922, ospita presso il MamBo, il museo d’arte moderna, una mostra in onore del “poeta” per usare una definizione di moraviana memoria, sebbene per Pasolini le definizioni si potrebbero sprecare. “Officina Pasolini”, promossa dalla Fondazione Cineteca di Bologna, in collaborazione con l’Istituzione Bologna Musei e l’Università di Bologna – Scuola di Lettere e Beni culturali, è ormai al suo ultimo mese di apertura: chiuderà, infatti, il 28 marzo 2016.

officina-pasolini
La locandina della mostra

Quello nelle sale del MamBo vuole essere un percorso tematico per trasportare il visitatore nell’intricato mondo di Pasolini, tra idee, appunti, frammenti di cinematografia, racconti della vita quotidiana. Il metodo usato è lo stesso del protagonista: una sequenza di scene per narrare l’universo poetico, estetico e culturale di questo artista e intellettuale precorritore dei suoi tempi: dalla formazione bolognese all’ultimo film uscito postumo, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, e al romanzo incompiuto “Petrolio”; dalla profonda critica alla classe borghese e dalle categorie politiche riscontrabili ne “Gli scritti corsari” alla dura realtà delle borgate di Roma, che l’autore magistralmente descrive nella sua opera del 1955 “Ragazzi di Vita”. Il poeta, il romanziere, il regista, il grecista, il drammaturgo, insomma: Pier Paolo Pasolini. È stato senza dubbio una figura che ha radicalmente cambiato la storia del nostro Paese, attraverso soprattutto narrazioni di realtà che in quegli anni si tendeva a nascondere, per preservare una sorta di falso perbenismo borghese che caratterizzava ampiamente la civiltà di quegli anni.

Anche il nome scelto per l’iniziativa non è assolutamente casuale, infatti richiama un altro interessante aspetto dell’opera pasoliniana, il giornalismo, che ha un forte legame proprio con la città felsinea. Pasolini, infatti, insieme a Roversi e Leonetti, fondò negli anni Cinquanta una rivista denominata “Officina”, termine impiegato nel 1934 per la descrizione della pittura ferrarese dallo storico dell’arte forse più famoso in Italia allora: Roberto Longhi, che è stato suo docente di estetica delle arti figurative a Bologna.

La mostra costituisce un unicum, sia per quanto riguarda la scelta di ciò che è esposto, sia per quanto riguarda la possibilità che offre di una maggiore conoscenza dell’inesauribile produzione artistica di un autore troppo spesso dimenticato e sottovalutato.

Clicca [qui] per maggiori informazioni e [qui] per orari e prezzi di ingresso.

NOTA A MARGINE
La rivoluzione degli ebook, una bomba ancora inesplosa

In tanti ancora faticano anche solo a concepirlo: innaturale, rigido, non si può sfogliare, non se ne possono collezionare file intere sugli scaffali di una libreria. Questo si dice di lui. E poi, la ‘scusa’ più originale di tutte: non profuma di carta.
Ovviamente stiamo parlando dell’ebook, il libro elettronico (o digitale che dir si voglia), diffuso ormai da molti anni, ma che a differenza di tante altre innovazioni nei campi della cultura (musica e cinema) fatica ancora a trovare il suo vero e proprio consolidamento. Tutto comprensibile se pensiamo alla lunga storia di un settore come l’editoria, di sicuro tra quelli dalla tradizione più longeva a livello globale e difficili da modificare per storia e tradizione, ma da anni in profonda crisi. Eppure già in tanti leggono in digitale e tutti noi, in fondo, sappiamo che prima o poi qualcosa accadrà e sempre più persone trasferiranno le proprie letture sui nuovi dispositivi.

Per fare il punto su questa fase di transizione nel mondo e nel nostro territorio, si è svolta un’interessante conferenza in Biblioteca Ariostea inserita nella rassegna “Viaggio nella comunità dei saperi” a cura dell’Istituto Gramsci e dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara. Titolo dell’evento “Le nuove frontiere dell’ebook”, relatore il responsabile delle attività culturali del servizio biblioteche e archivi del comune di Ferrara Fausto Natali, introdotto dal direttore della biblioteca Enrico Spinelli e da Daniela Cappagli del Gramsci. Un’occasione per conoscere più a fondo cosa sono e come si utilizzano i libri digitali, oltre che per discutere circa alcuni punti interrogativi ancora in sospeso: come sta cambiando il mondo del libro? Quali sono i pro e i contro? In quanti leggono digitale e attraverso quali dispositivi?

Natali, a quanto pare lettore digitale da parecchi anni, ha fatto una doverosa premessa: in Italia è ancora molto basso il numero annuale di lettori. Le statistiche più recenti indicano, infatti, che solo il 13% della popolazione legge almeno un libro al mese e ciò si ripercuote inevitabilmente sul mondo della cultura (di solito chi non legge è meno propenso a frequentare cinema, teatri, concerti) e sui lettori di domani (i figli sono più indotti a leggere se lo fanno anche i genitori).
Tuttavia le vendite di ebook in Italia non sono assolutamente in calo: sono 4 milioni e mezzo gli italiani che nel 2015 hanno letto almeno un libro elettronico, e se è vero che oltre il 90% di chi acquista libri online predilige il cartaceo, è vero pure che molti tra questi decidono di comprare anche in formato digitale.
Leggermente in calo, ma con numeri comunque molto alti, la situazione del libro digitale negli Stati Uniti: gli ebook rappresentano il 20% dell’intero mercato dell’editoria, con un’industria come Amazon (leader indiscusso del settore, nonché pioniere dell’editoria digitale e da qualche anno anche editore del Washington Post) in possesso del 65% di questa quota.

Se quindi, in linea di massima, il mercato degli ebook è stabile o in crescita, lo stesso si può dire dei lettori e-reader. Come spiegato anche da Natali, ciò non è casuale vista l’enorme diffusione dei tablet e soprattutto degli smartphone, che oggi sono più di sette miliardi in tutto il mondo. Una diffusione che non va assolutamente sottovalutata, dato che lo smartphone è il device oggi prediletto dalla maggior parte delle persone per fare qualsiasi cosa in ogni momento della giornata. A quanto pare, anche leggere libri. Non è forse un caso quindi il fatto che un colosso come Apple abbia deciso, a partire dal prossimo aggiornamento del proprio sistema operativo per dispositivi mobili, di integrare la ‘modalità notturna’ per non affaticare gli occhi durante la lettura al buio, sintomo di un’attenzione privilegiata ai tanti lettori che preferiscono lo schermo luminoso al più consigliabile (almeno per le letture scorrevoli e longeve) inchiostro elettronico degli e-reader.

Natali è poi entrato nei dettagli più tecnici, specificando quali dispositivi utilizzare a seconda delle esigenze, i formati da privilegiare per una più vasta fruizione, la gestione dei Drm e dei meccanismi di protezione dei diritti, la catalogazione delle librerie online e così via. Questioni scontate per i nativi digitali e per alcuni della generazione dei millenials, ma di difficile comprensione soprattutto per quella fascia di lettori più in età, la stessa che probabilmente pone la maggiore resistenza a questa innovazione. Tuttavia il profilo del lettore oggigiorno non sembra cambiare a seconda della tecnologia utilizzata per leggere: secondo Natali è davvero solo questione di abitudine, il prodotto finale ovviamente è sempre e solo il contenuto del libro in sé.
Interessanti anche i dati che riguardano i piccoli editori e le auto-pubblicazioni (tra quelli che hanno goduto maggiormente di questo cambiamento) e la pirateria, ancora poco diffusa in questo settore, ma una probabile bolla pronta a esplodere nel caso di un consolidamento.
In sintesi, è chiaro che il futuro degli ebook e degli e-reader è ancora estremamente imprevedibile: Natali ricorda come le previsioni che qualche anno fa volevano la completa transizione dal cartaceo al digitale nel 2017 non si siano in realtà avverate. Un errore da ricercare probabilmente nella mancata capacità degli operatori del settore nel trovare una formula davvero innovativa e soprattutto in grado di diffondere capillarmente la lettura digitale.

Nel frattempo Ferrara non è stata certo ad aspettare, si è rimboccata le maniche: il servizio bibliotecario offre il prestito di libri digitali, iniziative come “Pane e Internet” aiutano la diffusione di queste nuove tecnologie e tante altre idee sono in cantiere per favorire un futuro nel quale il magico mondo del libro sia in grado coniugare tradizione e innovazione.

LA LETTURA
Alla ricerca di un’amicizia perduta

Sara Salar
Sara Salar

Dal vetro della macchina guardo il cielo, il cielo color piombo di Teheran… Ho detto al dottore: – E’ come mi fossi persa anni fa, persa nel cielo nero stellato di Zahedan. (Probabilmente mi sono persa, Sara Salar)

Un libro coinvolgente, pagine che si leggono d’un fiato dribblando le macchine, gli incroci e i semafori di una Teheran affollata e persa nei suoi pensieri. Romanzo rivelazione di Sara Salar, nota al pubblico iraniano principalmente per le sue traduzioni di Haruki Murakami, “Probabilmente mi sono persa” (pubblicato nel 2009 e vincitore del prestigioso premio letterario Golshiri) è oggi, nella sua versione italiana, la prima traduzione straniera che esce dai confini dell’Iran.

La protagonista è un’inquieta giovane donna, di cui si ignora il nome, mai pronunciato, che si risveglia confusa e con un occhio pesto. Ignoreremo anche la causa di questo. Quello che la trentacinquenne sa è di avere un figlio di cinque anni, Samiar, ma quella mattina al riveglio non lo trova nella sua stanza. Crede di ricordarsi di averlo infilato in un taxi e spedito all’asilo. Un pensiero ricorre però sempre su tutti, potente come una voragine, insopportabile come una trottola che gira vertiginosamente e che ossessiona: Gandom, l’ex amica, conosciuta al primo anno di liceo e poi persa, scomparsa. Gandom si presenta nei sogni, si intrufola nei ricordi, si fa rimpianto e dolore, è sempre nella sua mente affollata dal quell’unico pensiero di un’amicizia che non c’è più. “Come era potuto succedere che quel giorno, al liceo, tra tutte quelle ragazze, lei guardasse proprio me, che sorridesse proprio a me?… ridicolo! In tutta la mia vita non mi era mai capitata una cosa così: tra tutte quelle ragazze, una mi guardava e mi sorrideva”. Gandom è bella, sfrontata, magnetica, eccitante, coraggiosa, colorata, solare, instancabile, elegante, ricca, piace ai ragazzi e agli uomini, ama la vita, sfida il destino, non teme nulla e nessuno. Ha tutto ciò che la protagonista sa di non avere, è tutto quello che sa di non essere e non poter mai essere.

Eccoci persi fra le strade di Teheran, quasi seduti accanto alla protagonista, che guida una macchina che sfreccia tra smog, traffico e cartelloni pubblicitari enormi, che sfilano lungo strade polverose e rumorose. E’ un viaggio a ritroso nel tempo, dove il presente si mescola con il passato, dove si intrecciano dialoghi di ora e di allora. La confusione è ovunque, ma i dialoghi si seguono, sbalzati destra e sinistra in una montagna di emozioni he travolgono, inframezzati da un dialogo/confessione con uno psicologo. Ma sempre c’è Gandom, luminosa come un miraggio, onnipresente come una stella in cielo. Lassù.

La copertina del volume

Straniamento, ossessione, fastidio per un corteggiatore insistente, Mansur, il socio del marito (in realtà timore che quell’avvicinamento non dispiaccia, mai i ruoli vanno mantenuti, i limiti rispettati), senso di inadeguatezza, paura di non essere una buona madre, nostalgia per un passato che se ne è andato e che non ritornerà. Tutto è difficile, ci si affanna, ogni cosa pare in salita, una salita che non vede arrivo, che non vede discesa, che non trova la sua fine naturale. Raccontare questi timori di donna non è sicuramente semplice, mai, immaginiamo in Iran, dove in effetti il libro è stato a lungo censurato. Ci si può perdere, e ci si perde, e in società che non ammettono cedimento o disorientamento sarebbe dura per chiunque. Invece qui si mettono a nudo fragilità e inquietudini, attrazione e repulsione, in una scrittura serrata e quasi compulsiva. “Dico, dice, ho detto, ho esitato, dissi, disse”, questo il ritmo, come se si picchiasse con forza e rabbia sui tasti di un pianoforte. Tin tin, ton ton, tum tum. Boom. Nell’utilizzo di tanti puntini di sospensione ritroviamo esitazioni, frenesia, fastidio. Una girandola di emozioni che giocherella con i nostri pensieri quasi parcheggiati in una rumorosa e pericolosa doppia fila. Bisogna essere pronti per una lettura non sempre semplice come questa, ma che resta raccomandata.

 

Sara Salar, Probabilmente mi sono persa, Ponte33, 2014, pagg. 119

NARRAZIONI
Incostituzionale

 di Cristiano Tonioli

Un giorno mi dichiareranno incostituzionale
Insieme ai tuoi abbracci
Alla sambuca e all’albero di Natale
Incostituzionale come i nostri capricci
Incostituzionale come le cose da dirci
Un giorno il Bene non sarà più sul dizionario
Con buona pace al cuore reazionario
Ci scalderemo in una coperta di legalità
E ogni carezza passerà al vaglio della legittimità
Anche l’odore che mi lasci a letto
Mentre ti faccio la colazione
Anche la moneta che dò a un senzatetto
Senza presentarne dichiarazione

Ma un giorno forse saremo incostituzionali
E ci fotteremo di queste noiose questioni
Che ci fanno ingoiare a gran bocconi
Rendendoci puntigliosi e cafoni.
Un giorno ci chiederemo come mai
La Costituzione più bella del mondo
Da un secolo ci dà tanti guai
Per il suo amaro problema di fondo:
Che per la morale non c’é manuale
Che è una presa per il culo la vostra legge universale
Che val poco una mattonata di Costituzione
Se bisogna adottarla come religione

Un giorno e spero presto saremo incostituzionali
Lo saremo tutti, belli e brutti
Perchè avremo capito la magagna:
La legge è per menti banali
Per animi crucchi e cuori farabutti
E io e te ce ne andremo in montagna

Amore e anarchia!
Un buon film e la maria

ECOLOGICAMENTE
Il vetro: interamente riciclabile all’infinito

Il vetro in terminologia chimica diventa tante cose, ma per gli imballaggi si parla prevalentemente di ossido di silicio (vetri silicei) e di vetro cavo (il vetro piano lo lasciamo all’edilizia). Le tipologie di imballaggio sono soprattutto bottiglie, ma anche flaconi (per esempio di cosmesi), fiale e vasi.
Le preferenze dei consumatori sulle bottiglie in vetro (di acqua, birra e vino) sono in leggero aumento soprattutto per la fascia medio-alta di prodotti.
Il vetro è un materiale riciclabile al 100% e all’infinito. Inoltre, al contrario di molti altri materiali riciclabili, la materia prima che si ottiene, tecnicamente chiamata materia prima seconda e, nel nostro caso, “vetro pronto al forno”, ha le stesse caratteristiche e proprietà della materia prima vergine.
Qualche giorno fa è stato presentato il rapporto “Il riciclo del vetro e i nuovi obiettivi europei per la circular economy”, realizzato dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile per conto di Assovetro.
In sintesi:
– l’industria del riciclo del vetro dà lavoro a 20.200 occupati e produce 1,4 miliardi di Pil;
– il settore ha generato 125.000 posti di lavoro e ha ridotto del 48% l’utilizzo di materie prime;
– la raccolta differenziata di questo materiale è arrivata al 77% e il tasso di riciclo è al 70,3%;
Esiste anche un percorso di ricondizionamento dei contenitori vuoti e di riutilizzo industriale di difficile quantificazione (parliamo di birre e acque per una quota di circa 200 mila tonnellate).
Il sistema della ripresa dei vuoti prevede che il cittadino, una volta consumato il contenuto della bottiglia, possa restituire quest’ultima al distributore e scegliere se riprendere la cauzione eventualmente versata o ottenere uno sconto sul prossimo acquisto dello stesso prodotto. Scopo di questo metodo, generalmente conosciuto come “vuoto a rendere”, è riutilizzare gli stessi contenitori per essere riempiti e rivenduti più volte.

Dice il Conai che sono stati immessi 2,3 Kton di vetro nel 2014 e ne sono stati avviati al riciclo 1,6 Kton, quindi oltre il 70 %: un importante risultato. Si sostiene che così si è ridotta l’importazione; tuttavia il settore ha molte questioni ancora da risolvere, a partire dalla crisi dei trasformatori (basta guardare lungo la via Emilia), nonostante l’aumento delle raccolte differenziate.
Grazie al vetro riciclato, ogni anno vengono prodotti in Italia circa 10 miliardi di contenitori, che portano il proprio valore aggiunto di trasparenza, inalterabilità nel tempo, igiene, impermeabilità e sostenibilità ambientale in innumerevoli aspetti della vita quotidiana.
Ma c’è un problema: dal rottame di vetro di colore misto – il solo generato in Italia dalla raccolta differenziata – non è possibile creare contenitori di colore bianco-trasparente. Infatti, per quanto riguarda la raccolta del solo vetro bianco siamo ancora molto indietro rispetto a paesi come Germania e Francia, costringendo così le nostre aziende ad importarlo.
Il Comune di Ferrara e la società Hera, con il patrocinio di Coreve, hanno avviato nel febbraio 2007 un progetto pilota per la raccolta monocolore del vetro, prevedendo la separazione del vetro bianco o incolore, dalle altre tipologie di vetro colorato. Non credo che il progetto abbia avuto successo.
Alle vetrerie conviene utilizzare il vetro usato, perché consente di risparmiare il 25% circa di energia nel processo di produzione. Il vetro usato è certamente un materiale di qualità, ma non consente di avere ricavi elevati. Per poter avere delle opportunità di vendita sul mercato internazionale, è necessario operare una raccolta differenziata per colori. Esportare vetro frantumato ha senso solo se può essere riutilizzato per la produzione di bottiglie. A questo scopo, si utilizzano preferibilmente cocci di vetro separato per colori. Sul mercato del vetro usato sono particolarmente richiesti cocci di vetro marrone o bianco.

Dall’ultimo rapporto Ispra sui rifiuti urbani (novembre 2015) risulta che il costo medio di gestione per kg di materiale, valutato a livello nazionale, è di 11,15 eurocent, in corrispondenza di un conferimento pro capite di 31,3 kg/abitante per anno, mentre il costo annuo pro capite risulta di 3,49 euro/abitante per anno. Nella Rd del vetro di imballaggio (Cer 150107) i costi di raccolta e trasporto incidono per il 90,1% sui costi totali.
Un altro problema è dato dalla presenza indesiderata della ceramica. Ci sono, infatti, materiali che sembrano vetro, ma vetro non lo sono. Il caso più insidioso è forse quello dei materiali inerti che fondono a temperature più alte del vetro, come la vetroceramica. È però importante ricordarsi di tenere la vetroceramica (tipo il “pirex”) – così come i piatti, le tazzine in ceramica o porcellana – ‘alla larga’ dal vetro perché è sufficiente un solo frammento di questi materiali mescolato al rottame di vetro pronto al forno per vanificare il processo di riciclo, dando origine a contenitori destinati irrimediabilmente a infrangersi. Per questo tra Coreve e Anci è stato siglato un accordo per abbattere i quantitativi di ceramica nella raccolta del vetro, annunciando la temporanea modifica delle le specifiche tecniche previste dall’Accordo Quadro, relativamente alla quota di inerti presenti nella raccolta differenziata del vetro.
In Emilia Romagna nel 2014 sono state raccolte in maniera differenziata 153.912 tonnellate di vetro, che corrispondono a 35 kg per abitante. Di queste, 152.503 t sono state raccolte dai gestori del servizio pubblico (60.868 t monomateriale e 91.635 t nel multimateriale) e 1.409 t sono rifiuti vetrosi assimilati che il produttore ha avviato direttamente a recupero. Una prima analisi dei flussi evidenzia che, rispetto al totale raccolto, pari a 153.912 t, il 5% dei rifiuti vetrosi ha seguito la via del libero mercato, mentre il 95% è stato avviato a effettivo riciclo tramite il sistema consortile CoReVe (Consorzio Recupero Vetro).

Poi c’è l’alluminio. Il vetro e l’alluminio riciclati mantengono quasi del tutto inalterate le proprie qualità, consentendo di risparmiare sia le materie prime sia l’energia necessaria a produrli. Per questo in molti casi si raccolgono insieme. Per la raccolta e il riciclo dell’alluminio è stato costituito uno specifico consorzio, il Cial. L’alluminio – identificato con il simbolo Al – è un elemento comune che costituisce l’8% della crosta terrestre e si presenta in natura sotto forma di minerale: la bauxite. E’ un metallo fondamentale dell’era dello sviluppo tecnologico. Da molti anni ormai l’industria italiana del riciclo dell’alluminio detiene una posizione di rilievo nel panorama mondiale per quantità di materiale riciclato. Il nostro Paese è infatti terzo nel mondo, insieme alla Germania, dopo Stati Uniti e Giappone.

Leggi il rapporto Il riciclo del vetro e i nuovi obiettivi europei per la circolar economy: Dossier-Assovetro

NOTA A MARGINE
Bullismo omofobico, legge sulle unioni civili e ideologia gender: perchè l’Italia non va avanti sulla strada dei diritti

Bullismo omofobico, ideologia gender, ddl Cirinnà sulle unioni civili: sono tre temi trattati durante l’ultima edizione del Tag festival di Ferrara, conclusosi domenica 28 febbraio. Non è un caso che li abbia citati insieme, sono strettamente legati fra loro in un circolo vizioso che ha creato nel nostro paese un sostrato culturale tale da viziare il dibattito di queste settimane e impedire che la società italiana possa compiere passi in avanti in termini di diritti.

Cominciamo dall’inizio. Sabato mattina in Sala Estense sono stati presentati i dati di un’importante ricerca, svolta nell’ambito di un progetto regionale di prevenzione e contrasto al fenomeno del bullismo omofobico promosso in Friuli Venezia Giulia da Regione, Ufficio Scolastico Regionale, Università di Trieste e associazioni Lgbt. La ricerca – che ha coinvolto 2.138 studenti degli istituti di secondo grado ed enti professionali, con un’età media del campione di 16,5 anni – ha indagato con quale frequenza “emergono le possibili tipologie di comportamenti di bullismo omofobico nei confronti dei/delle ragazzi/e omosessuali o ritenuti/e tali”, cercando anche di capire quali sono le “variabili socio psicologiche che promuovono o prevengono tali comportamenti”. Il questionario ha sondato la frequenza con cui gli studenti hanno assistito, hanno messo in atto o sono stati vittima di episodi di bullismo, intendendo aggressioni sia verbali sia fisiche, la conoscenza diretta di persone omosessuali, come i ragazzi percepiscono l’omosessualità e gli stereotipi legati all’orientamento sessuale. Ketty Segatti – funzionario della Direzione centrale lavoro, formazione, istruzione, pari opportunità, politiche giovanili, ricerca e università della Regione Friuli – ha spiegato che il 43,4% dei ragazzi ha assistito a fenomeni di bullismo nei confronti di maschi omosessuali o ritenuti tali (la percentuale scende al 33,3% nei confronti di femmine); l’11,7% – quindi uno studente su 10 – ha messo in atto aggressioni verbali e/o fisiche nei confronti di maschi, il 4,7% nei confronti di femmine; infine, il 27,8% degli intervistati ha subito aggressioni a sfondo omofobico. Risultati interessanti sono poi quelli riguardanti l’indagine sulle parole: “c’è una stretta correlazione – ha affermato Segatti – fra il linguaggio e gli atti di bullismo”, inoltre “gli epiteti omofobici come ‘frocio’ o ‘finocchio’ sono ritenuti più offensivi di ‘scemo’ o ‘stupido’ e tanto denigratori quanto ‘stronzo’ o ‘coglione’.”
Ketty Segatti precisa però che questa pur importante ricerca – è il primo tentativo di fotografare il fenomeno in un campione così esteso di popolazione studentesca – è solo un pezzo di un percorso di formazione più ampio, che ha incluso incontri degli studenti con ragazzi e ragazze omosessuali “per ridurre le barriere” e anche un lavoro di formazione con gli insegnanti, perché la percezione del loro comportamento nei confronti del bullismo da parte dei ragazzi è risultata cruciale nella riduzione nel fenomeno. La soluzione per la prevenzione del bullismo omofobico, secondo Segatti, è infatti “lavorare a più livelli: informazione e formazione per ragazzi, docenti e famiglie”.
Ecco il punto: sull’opuscolo del progetto, messo a disposizione durante l’incontro, si legge che anche in Friuli l’attuazione del comma 16 della “Buona Scuola” sulla prevenzione della violenza di genere e dl le discriminazioni e persino lo svolgimento di questo percorso sul bullismo omofobico hanno dato origine a polemiche contro l’introduzione dell’ideologia del gender nelle scuole. Uno spauracchio agitato ogniqualvolta si tenti di introdurre nelle scuole percorsi di educazione al rispetto delle differenze e di contrasto alle discriminazioni. Chi si oppone all’introduzione di questi programmi formativi lo fa in nome di un presunto diritto dei genitori di provvedere all’educazione dei propri figli secondo le proprie convinzioni filosofiche e religiose. Fermo restando che i genitori possono informarsi in qualsiasi momento sui percorsi seguiti dai figli tramite il Pof (Piano dell’offerta formativa), la Corte Europea di Strasburgo ha stabilito che la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non garantisce il diritto dei genitori affinchè i figli non vengano esposti nell’ambiente scolastico a opinioni non conformi alle proprie convinzioni; inoltre non bisogna dimenticare che compito primario della scuola è educare ai principi di cittadinanza e alla pari dignità sociale dei cittadini, senza discriminazioni fondate su origine etnica, fede religiosa o orientamento sessuale, e assicurare il benessere di ogni studente, creando un ambiente scolastico libero da ogni forma di discriminazione e violenza.

Ma non c’è nulla da fare, la cosiddetta ideologia gender è ormai entrata nella vita di ciascuno di noi; ma vi siete mai domandati che cosa sia, come sia entrata nell’immaginario comune e chi abbia formulato le teorie su cui si fonda? Questo è stato il tema del dibattito di sabato pomeriggio. Secondo la giornalista Caterina Coppola la ‘leggenda’ dell’ideologia gender si è propagata come la teoria per cui i vaccini causerebbero automaticamente l’autismo: “non ha fondamenti reali, ma i mass media hanno iniziato a mettere a confronto i suoi promotori con sociologi, psicologi, filosofi, accreditando così la percezione che avesse una dignità scientifica”. Per di più il dibattito riguarda la scuola e i bambini, cioè il futuro della nostra società, ecco così che si cavalcano le paure dei genitori e non solo.
La teologa Benedetta Selene Zorzi fa riflettere il pubblico sul fatto che nessuno sembra volersi attribuire la ‘paternità’ di questa teorizzazione dell’ideologia gender. E forse non è un caso: non è altro se non “un grossolano fraintendimento degli studi sul genere”; si accomunano il dato biologico e fisico del sesso e la costruzione sociale e culturale dei ruoli di genere e poi si sostiene che l’ideologia gender “vorrebbe cancellare la differenza fra i sessi”, ma “faccio appello all’intelligenza di ognuno di voi, è possibile che qualcuno possa mai sostenere che l’umanità non è divisa fra maschi e femmine?”
Secondo Michela Marzano – deputata Pd e autrice del volume “Papà, mamma e gender” – il problema è ancora più grave: “c’è anche un appiattimento dell’orientamento sessuale sulle pratiche sessuali, che a loro volta vengono spesso identificate con la perversione”. Dietro, secondo la filosofa, c’è “una confusione fra il piano valoriale del concetto di uguaglianza e quello descrittivo dell’identità”. Uguaglianza non significa cancellare le differenze, anzi, queste vengono valorizzate, si educa “al rispetto delle differenze per arrivare all’uguaglianza dei diritti”.
E proprio qui si rivela il disegno soggiacente al fantasma dell’ideologia gender, che ha contribuito ad affossare il ddl Cirinnà: si sono sancite differenze, che sono diventate “discriminazioni”, costruendo “un recinto dal quale sarà difficile uscire”. “Se si può dire che la Cirinnà è un’evoluzione giuridica, è però un’involuzione culturale”, “ha vinto chi pensa che esista un’ideologia gender” e che “ci sia un amore degno e un amore indegno”.
Ecco perché Marzano, che in nome del rifiuto dell’ideologia gender si è vista anche negare sale pubbliche per ospitare le presentazioni del suo libro, ha affermato di voler lasciare il Pd e ha ribadito più volte con forza che in Italia c’è bisogno di una vera e propria battaglia culturale per far sì che non ci siano più paure irrazionali da cavalcare e che nessuno, nel XXI secolo nel nostro paese, si possa permettere di dire nel silenzio generale che qualcun altro solo perché è diverso è “contro natura”.

Leggi anche
Il bullismo omofobico a Ferrara – La ricerca
Le identità contese – L’inchiesta

IL FATTO
Incendio colpisce il negoziante antiracket

Colpito un’altra volta il ‘ribelle’ Tiberio Bentivoglio, il negoziante antiracket di Reggio Calabria.
Nel 1992 ha messo in piedi con la moglie Enzala Sant’Elia, un negozio di sanitaria e puericultura, e da subito si è rifiutato di pagare il pizzo ai clan della ‘ndrangheta. E’ stato il primo a ribellarsi pubblicamente, denunciando alle forze dell’ordine i tentativi di estorsione, e la criminalità non ha né dimenticato né perdonato.

tiberio-bentivoglio
Tiberio Bentivoglio

Nella notte fra domenica e lunedì un incendio, l’ennesimo di cui la sua attività è stata vittima in questi anni, ha distrutto completamente il deposito e la merce della Sant’Elia. Secondo quanto riportato dalle testate locali, quando le fiamme sono state domate dalle squadre dei vigili del fuoco, gli uomini della Scientifica hanno trovato fra le macerie un tappo e i resti di una tanica: le indagini sono in corso e sembrano indirizzarsi verso la pista dolosa e quindi verso un atto di intimidazione.

Ferraraitalia aveva parlato di Tiberio Bentivoglio e della sua scelta di legalità nel settembre 2015, in occasione di un incontro di cui era stato ospite a “La Casona” di Cassana: leggi [qui]

da: Coordinamento Provinciale di Ferrara di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie

Nella notte fra domenica 28 e lunedì 29 febbraio è scattato l’allarme per un incendio di vaste proporzioni che ha completamente distrutto il deposito della Sanitaria Sant’Elia, il negozio che Tiberio Bentivoglio e la moglie Enza gestiscono da anni a Reggio Calabria, nonostante le minacce dei clan.
Le cause del rogo sono non sono ancora certe, ma secondo quanto riportano le prime notizie, gli uomini della Scientifica intervenuti sul posto avrebbero trovato fra le macerie un tappo e i resti di una tanica. Le indagini sono in corso.

Tiberio Bentivoglio ha deciso di non pagare il pizzo alla ‘ndrangheta per la sua attività, inaugurata il 25 aprile 1992: la Sant’Elia, un negozio di articoli sanitari e puericoltura.
A Reggio Calabria è stato il primo a dire pubblicamente no al pizzo. E i clan non glielo hanno perdonato. Da allora si sono susseguite “le punizioni”, come le chiama lui, perché “si arrabbiano quando c’è qualcuno che non si comporta come gli altri e va dai Carabinieri”. In questi anni atti intimidatori, incendi, telefonate minatorie: in tutto sono più di 40 le denunce che ha sporto e sette gli attentati che ha subito, uno persino alla sua vita, nel febbraio 2011, da allora vive sotto scorta.
Nel 2010, anche grazie a Libera e al suo referente regionale Mimmo Nasone, è nata “Reggio Libera Reggio”, un’associazione per il consumo critico che raggruppa realtà commerciali e vuole “sensibilizzare le persone a fare i propri acquisti nei negozi che ci hanno messo la faccia contro il pizzo”.

Il Coordinamento Provinciale di Libera di Ferrara ha conosciuto Tiberio e ha ascoltato la sua testimonianza durante un incontro organizzato a settembre 2015 in collaborazione con la cooperativa sociale Meeting Point.
Tutti i volontari sono rimasti colpiti dalla figura di Tiberio, che ha condiviso con noi la storia della sua scelta di vita, stare dalla parte della legalità, portata avanti a testa alta, con la dignità di chi sa in fondo al suo cuore e alla sua coscienza di aver fatto la cosa giusta.
“È in momenti come questo che bisogna fare fronte comune davanti alla prepotenza criminale, circondando Tiberio ed Enza Bentivoglio con la nostra solidarietà, che può e deve tramutarsi in impegno, generando aiuti concreti per ripartire, ancora una volta, ancora con maggior coraggio”, afferma Donato La Muscatella, referente per il Coordinamento di Ferrara di Libera Associazioni, nomi e numeri contro le mafie.
In questo difficile momento il Coordinamento Provinciale di Ferrara di Libera, il Presidio Studentesco Giuseppe Francese e il Presidio Barbara, Giuseppe e Salvatore Asta del Centopievese, vogliono quindi esprimere con forza la propria vicinanza a Tiberio Bentivoglio e a sua moglie Enza, perché non perdano proprio ora la speranza e il coraggio che li hanno animati in tutti questi anni: la battaglia per un’economia e una cultura di legalità è lunga e difficile, ma vale la pena combatterla, non siete soli, noi siamo al vostro fianco.

COORDINAMENTO PROVINCIALE DI LIBERA DI FERRARA
PRESIDIO BARBARA, GIUSEPPE E SALVATORE ASTA DEL CENTOPIEVESE
PRESIDIO STUDENTESCO GIUSEPPE FRANCESE DI FERRARA

IL RICORDO
Umberto Eco, i fumetti e la regina Loana

di Gian Luigi Zucchini

La scomparsa di Umberto Eco ha movimentato i computer di tutto il mondo. Pertanto tra rievocazioni e ricordi di tanti personaggi, anche importanti e famosi, questo mio breve scritto non vuol essere altro che una riflessione come ricordo per un docente con cui, insieme ad altri, sono stato in diverse sedute di laurea; e di cui ho anche ascoltato varie lezioni, che erano spesso una divertente passeggiata nei diversi meandri della cultura, oppure un gioco di incroci dove memoria, intelligenza, acume critico e levità di linguaggio concorrevano a tener vivo l’interesse anche degli studenti meno attenti.
Mi capitava, quando avevo un po’ di tempo, di entrare di soppiatto nell’aula dove lui faceva lezione e sedermi in fondo, ad ascoltare, soprattutto quando sapevo che avrebbe trattato certi argomenti, come per esempio il fumetto, o la letteratura rosa, o il romanzo d’appendice: tutta merce di scarto, se non addirittura di rifiuto. I cascami della cosiddetta cultura popolare, per di più banale, quindi da non prendersi neppure in considerazione. Invece Eco li ha trattati con un garbo e una finezza critica tali che, da cosucce da niente, sono divenuti ambiti di studio e di ricerca per molti, anche per me, che – debbo confessarlo – in un primo momento mi sentivo abbastanza turbato per quelle scorribande così fuori dalle consuetudini accademiche. Accadeva, infatti, a persone più o meno della nostra età, di ricordare le cautele che genitori, insegnanti, pii catechisti e candidi curati, raccomandavano circa queste pubblicazioni, spesso anche condannandole perché largamente ‘diseducative’, mentre ora se ne discute addirittura nelle aule universitarie e si fanno tesi di laurea su Topolino o Tin Tin o il duo Cino e Franco.

umberto eco
Umberto Eco

Tuttavia, anche per non attardarmi su argomenti ormai dilaganti sui media, scarto subito citazioni relative al ‘Nome della Rosa’, alla vastità di pensiero del professore e alle sue acutissime introspezioni nella filosofia medioevale e nella semiologia, e mi rannicchio in qualche angolino un po’ oscuro, in compagnia di alcune letture che, non molto citate nelle celebrazioni e nei corsivi di rito, hanno offerto a me occasione di riflessioni disordinatamente leggere, eppure culturalmente vaste e forse anche profonde. Furono intanto alcuni saggi sulla cosiddetta ‘letteratura per signorine’, altrimenti detta ‘rosa’, in particolare un’analisi sulla produzione di Carolina Invernizio, Matilde Serao e Liala, in un libretto edito dalla Nuova Italia nel 1979 con ampia introduzione di Eco, che lo stesso aveva allegramente intitolata “Tra donne intorno al cor mi son venute…”. Poi soprattutto il ‘romanzo illustrato’ “La misteriosa fiamma della regina Loana”. Qui si incrociano evocazioni musicali, con le canzonette del Trio Lescano o del Quartetto Cetra, le tronfie immagini del Fascismo, con manifesti, inni, rimette esaltate e idiozie pedagogiche, in cui, per far apprendere ai piccini di prima elementare le più ostiche regole ortografiche, si usava esemplificare con ‘gagliardetti’, ‘camicie nere’, ‘mitraglia’, ‘duce’, ecc. Ma c’erano anche i fogli di soldatini che evocavano Les Images d’Epinal e i fumetti con l’elegantissimo Fantomas, le varie avventure di Topolino, tra Legione Straniera e polizia americana. Su tutto questo nel libro, in particolare sui fumetti, Eco scrive interessanti riflessioni, come per esempio: “Mi sarò forse avvicinato a Picasso sullo stimolo di Dick Tracy?”
E, interrogandomi a mia volta, mi chiedo: le stampe popolari d’Epinal, o certe caricature di Jacovitti, non mi avranno forse un tempo avvicinato meglio a Honoré Daumier o alle sapide deformazioni espressionistiche di Otto Dix?
Ecco, chi l’avrebbe mai immaginato un tempo, quando le maestre requisivano questi documenti costruiti per le fantasie infantili, e li buttavano nel fuoco? Non c’era già lì, in quell’incomprensione verso il libero respiro della cultura della storia, un’inconsapevole valorizzazione dei roghi hitleriani, un valutare l’arte secondo modelli già prefigurati, eliminando quella troppo divergente, già vergognosamente definita ‘arte degenerata?.
“Era sui fumetti che probabilmente mi costruivo faticosamente una coscienza della storia”, scrive ancora Eco. Ed è probabile che la misteriosa fiamma della Regina Loana avesse già in quei momenti cominciato a bruciare nell’ancora infantile fucina dello scrittore, per diventare addirittura un grande rogo, che ha ravvivato tra il millennio scorso e quello appena iniziato il focherello della nostra ormai agonizzante fantasia con i due potenti combustibili della cultura e della ragione.

LA SEGNALAZIONE
Uomini visti dalla parte dei cani. Imperdibile Paolini al teatro Comunale

Contastorie come lui in giro non ce n’è altri. Stavolta Marco Paolini rilegge Jack London e, in “Ballata di uomini e cani”, attraverso la metafora della Grande Frontiera, mentre ci fa appassionare all’epopea dell’età dell’oro e ci rende partecipi della disperata ebrezza dei cercatori, in fondo in fondo parla a noi, ai tempi presenti e rivela i tic e le ansie di un’epoca – la nostra, appunto – costellata da esseri traviati, ora come allora: qualcuno all’inseguimento di un nuovo orizzonte di vita, altri più stoltamente abbacinati dal miraggio della ricchezza e pronti per essa a rinunciare a ogni cosa, sentimenti e dignità, fino al sacrificio ultimo della vita stessa.
Ma pure di altri uomini traccia il profilo. Uomini il cui passo è agitato dallo spettro della miseria e della disperazione. E la cui tormentata marcia di fuga è inevitabile. Così, in filigrana, si disegna l’odissea dei migranti, di coloro che, reietti come cani ma come i cani utili e asservibili, sono alla ricerca di un porto sicuro, attraversano le intemperie e patiscono il gelo della vita senza mai perdere la speranza. E ostinatamente proseguono il cammino.

La narrazione si gioca anche sull’ambivalenza dei sentimenti, lo scambio e la commistione dei ruoli. L’allegoria rende bestiali gli umani e umane le bestie, e viceversa, in ribaltamenti continui. E in questo ubriacante caleidoscopio, alla fine sono i cani che ci osservano e ci giudicano. E scorgono l’assurda ostinazione dell’uomo moderno, costretto da sé medesimo ad andare avanti senza requie, all’inseguimento di un imprescindibile obiettivo.

Alterna drammaticità e ironia, Paolini, com’è nelle sue corde. Gioca sui paradossi, come quello dei pionieri che intimano agli indiani di tornarsene a casa loro… E’ sarcasmo: una provocazione fatta con lo sguardo puntato sull’intolleranza e le mistificazioni del nostro presente. Fa il verso alle prepotenze di chi cela debolezze e fragilità alzando la voce e il tiro. Riporta il filo della narrazione al presente e alla realtà. E parla così di sacrifici e di vittime vere: ostaggi della storia, non dei miraggi. Allude ai morti sui quali nessuno può versare lacrime, freddi numeri buoni solo per le statistiche.

Affiora così, narrato sul palco e non solo evocato, l’irrealizzato sogno di riscatto di Zaer, “saldatore errante dell’Asia”, ragazzo sfuggito a guerra e miseria che ultima tragicamente la sua fuga verso la libertà travolto sul selciato di una strada nostrana dopo essere scivolato dal camion nel quale aveva cercato rifugio. Nel suo diario, ritrovato e tradotto, sono espresse parole che poeticamente testimoniano la consapevolezza della fragilità della vita. Paolini le canta, nella sua conclusiva originale appendice al testo di London, e rende così omaggio alla diaspora di questo nostro secolo. Ne fa un manifesto contro l’ingiustizia e l’incomprensione che colpisce uomini trattati da cani. E si pone dichiaratamente dalla parte delle vittime quando, infine, al pubblico confessa: in queste storie io sono sempre stato il cane. Usato, scacciato, bastonato.

In un proscenio essenziale e suggestivo, con la sua sola presenza l’attore regge magistralmente la scena. Ma non è solo. Gli orchestrali che danno note e ritmo ai racconti (Macchia, Bastardo e Preparare un fuoco) sono ben più che un complemento. Il canto finale di commiato dal pubblico, affidato a Lorenzo Monguzzi, è la voce ostinata e contraria di chi non si rassegna e sommessamente sussurra: “a tutti piace chiudere la porta, ma io vorrei tenerla aperta”. E’ ciò che prima o poi ci auguriamo di riuscire a fare davvero.

Chi può, non perda l’occasione per vedere questo spettacolo. Oggi alle 16 al teatro Comunale di Ferrara c’è l’ultima rappresentazione.


[La foto è di Marco Caselli Nirmal]

LA NOTA
Discorso per la terra

Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in maniera tale che non riescono a vivere né il presente né il futuro. Vivono come se non dovessero mai morire e muoiono come se non avessero mai vissuto. Dalai Lama

mujica-en-tapa
Copertina Internazionale

Tre parole e un nome, José Pepe Mujica, classe 1935, quarantesimo Presidente dell’Uruguay dal 1 marzo 2010 al 1 marzo 2015. Un uomo che ha fatto parlare di sé, anche se non se ne è mai scritto abbastanza, per uno stipendio da presidente, all’epoca del mandato, di circa 8.000 euro al mese, di cui il 90% donato a organizzazioni non governative e persone bisognose; per il viaggiare alla guida di un Maggiolino del 1987; per la scelta di vivere in una piccola fattoria alla periferia di Montevideo, anziché nel palazzo presidenziale. Con un passato da comandante guerrigliero del movimento dei Tupamaros, arrestato e poi liberato per un’amnistia, Mujica è stato prima ministro e poi presidente molto popolare, per la sua vicinanza alla gente, al popolo, alla vita normale. Paladino della sobrietà, concetto per lui ben diverso dall’austerità (termine che considera “prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro” e quindi spesso senza dignità), l’ex presidente uruguayano ammette la necessità di consumare, ma senza lo spreco, terribile piaga. Perché quando si compra una cosa, non la si compra con i soldi, ma con il tempo della vita servito a guadagnarli. Ecco perché oggi, vi riproponiamo due discorsi di Mujica che invocano rispetto per la terra e per il tempo prezioso della nostra vita. Due momenti intensi da riascoltare.

Uruguay's president Jose Mujica waves at the press upon his arrival at La Moneda presidential palace in Santiago, on March 10, 2014.
Jose Mujica, 10 Marzo 2014.

Il primo discorso è quello fatto al Summit Rio+20, il 5 luglio 2012 (vedi), quando Mujica sfidava una platea attonita (e impettita nella sua rigida uniforme diplomatica) dicendo che: 
”…. la sfida che abbiamo davanti è di dimensioni colossali e la grande crisi non è ecologica, è politica! L’uomo non governa oggi le forze che ha sprigionato, ma queste forze governano l’uomo… e la vita! Perché non veniamo alla luce per svilupparci solamente, così, in generale. Veniamo alla luce per essere felici. Perché la vita è corta e se ne va via rapidamente. E nessun bene vale come la vita, questo è elementare. Ma se la vita mi scappa via, lavorando e lavorando per consumare un plus e la società di consumo è il motore, perché, in definitiva, se si paralizza il consumo, si ferma l’economia, e se si ferma l’economia, appare il fantasma del ristagno per ognuno di noi. Ma questo iper consumo è lo stesso che sta aggredendo il pianeta.

Però loro devono generare questo iper consumo, producono le cose che durano poco, perché devono vendere tanto. Una lampadina elettrica, quindi, non può durare più di 1000 ore accesa. Però esistono lampadine che possono durare 100mila ore accese! Ma questo non si può fare perché il problema è il mercato, perché dobbiamo lavorare e dobbiamo sostenere una civilizzazione dell’usa e getta, e così rimaniamo in un circolo vizioso…..”. Un messaggio ai governi per ripensare le loro priorità. Inascoltato? Non da tutti, qualcuno sta riflettendo, noi per primi. Consumare meno e meglio, senza che questo significhi tornare all’età della pietra, un invito a non sprecare il nostro tempo e a passare la nostra corta vita a pagare rate continue per beni spesso inutili, case e macchine sempre più di lusso. Solo nella nostra infanzia, non poi tanto lontana, le cose si riparavano, con cura a attenzione. Oggi si butta, tutto. Il mercato fa sì che costi meno ricomprare che riparare. E montagne di rifiuti ci sovrastano.

pianeta-terra-cibo-mela-spreco
Green report

Il secondo discorso di Mujica, di soli 45 secondi, manda lo stesso identico messaggio, con semplicità: una critica che cerca di dare soluzione, in un piccolo video realizzato quando il regista Arthus Bertrand lo ha intervistato per il suo documentario “Human” (vedi), di cui abbiamo parlato (leggi). Anche qui si invita ancora a pensare a una sola cosa, a non sprecare: “Quello che stiamo sprecando”, spiega Mijuca, “è tempo di vita perché quando io compro qualcosa non lo faccio con il denaro, ma con il tempo di vita che hai dovuto utilizzare per guadagnare quel denaro. L’unica cosa che non si può comprare è la vita. La vita si consuma. Ed è da miserabili consumare la vita per perdere la libertà”. Quella libertà oggi toltaci da un mercato concorrenziale spietato, che non abbiamo saputo domare e che oggi ci governa come vuole. Abbiamo perso il controllo della nostra stessa creatura. Come l’ex presidente uruguayano ricordava anche a Rio, non è povero chi possiede poco, ma veramente povero è chi necessita infinitamente tanto, chi desidera e vuole sempre di più. Bisogna rivedere il nostro modo di vivere, lo sviluppo non può essere contro la felicità, ma deve essere in suo favore. In favore dell’amore per la terra, per le relazioni umane, a cura dei bambini, l’avere amici e tempo per loro, il possedere l’indispensabile, tutti, perché il primo elemento dell’ambiente è l’uomo e la felicità umana. Io ci sto pensando, sempre di più.

LA SEGNALAZIONE
Il Novecento e la seduzione dell’antico

di Maria Paola Forlani

seduzione dell'antico-mostra
Foto di Tiberio Zucchini

La mostra “La seduzione dell’Antico. Da Picasso a Duchamp, da De Chirico a Pistoletto” a cura di Claudio Spadoni narra l’ininterrotto richiamo dell’antico lungo tutto il nostro secolo.
Ecco allora che le opere esposte al Mar – Museo d’Arte della città di Ravenna fino al 26 giugno 2016, di grandi protagonisti italiani e stranieri, attraversano l’intera storia del Novecento documentando la ripresa della tradizione in una restituzione moderna di modelli e valori dell’antico: talora attraverso la citazione esplicita, in forma evocativa o come pretesto per una rilettura inedita di opere e figure mitizzate del passato, altre volte con la riproposizione in veste di icone contemporanee, fino a operazioni ironiche o dissacranti.
Il clima italiano fra le due guerre non è certo propizio alle avanguardie. Esso rimane sostanzialmente provinciale. Ad aggravarlo sono le mitologie nazionalistiche agitate dal Fascismo, che conquista il potere nel 1922. Il clamore delle manifestazioni futuriste, relativamente vicine nel tempo, va ormai spegnendosi: scomparso Boccioni, ritiratosi Carrà, che dopo l’esperienza della pittura metafisica si rivolge a una pittura caratterizzata da una severa sintesi arcaizzante, abbandonato virtualmente anche da Severini, che riconduce il proprio linguaggio in una diversa sfera di interessi, al Futurismo vengono a mancare dei contributi più qualificati.
Così alle speranze degli innovatori, si sostituisce un desiderio di ripensamento e di revisione dei valori ritenuti tradizionali. Quel vasto fenomeno che passa sotto il nome di “retour à l’ordre” e che investe tanta parte dell’arte europea si manifesta in Italia subito dopo l’armistizio. Nel novembre del 1918 viene pubblicata a Roma a cura di Mario Broglio, la rivista “Valori plastici”, alla quale collaborano fra gli altri Carrà, Savinio e De Pisis. “Valori plastici” insiste sulla necessità di un ritorno alla linea italiana e propone quali modelli Giotto e Masaccio.
Ѐ in quest’aria di restaurazione che nasce il Novecento. Il movimento viene fondato a Milano nel 1922. La denominazione di Novecento è coniata da Anselmo Bucci (1887-1955) e fra i primi aderenti si contano: Leonardo Dudreville, Achille Funi, Pietro Marussig, Emilio Malerba, Ubaldo Oppi e Mario Sironi.
È una denominazione ambiziosa, che sottintende il proposito di associarsi alle grandi epoche storiche – come dire: il Quattrocento, il Cinquecento – con ciò rendendo palesi gli intenti conservatori. Carlo Carrà dimostra ai tanti adepti di una tradizione malintesa quale fosse l’autentica lezione di Giotto e dei primitivi: un sapiente governo dei rapporti di linee, forme e colori nello spazio, una disciplina costante vissuta in pari tempo a livello artistico e morale. L’agire di Carrà nelle stagioni fra le due guerre illumina la misura raggiunta dal proprio linguaggio, la sua volontà cioè di costruire l’immagine sul dettato di una geometria ideale, capace comunque di assorbire i moti dell’animo, le variazioni del sentimento, l’urgere dell’emozione, per fissarli in un ordine superiore e incontaminato dall’accademismo esistenziale.
Dopo essere stato un pioniere delle avanguardie, Carrà avverte il bisogno di un ripensamento e di una revisione, soprattutto di ricondurre l’opera a quella ‘durata’ che l’artista riconosce appunto negli antichi. Sironi e Carrà: due casi, cui pochi altri s’aggiunsero.

seduzione dell'antico-mostra
Foto di Tiberio Zucchini

Morandi, nell’ambito della nota limitatezza dei soggetti – le composizioni con bottiglie e pochi paesaggi – ha saputo condurre il processo di interiorizzazione dell’immagine fino ai gradi più profondi, legittimandolo poeticamente attraverso sottili e sempre rinnovate combinazioni spaziali e rapporti tonali con un rigore morale : “una lunga instancabile, solenne ‘elegia luminosa’ – com’ebbe a dire Roberto Longhi – una così poetica ricognizione del mondo di natura da non trovar pari nel cinquantennio che gli toccò attraversare con la sua ombra densa di alto, austero viandante la cui ‘vox clamantis’ raggiungeva anche le plaghe più desertiche dell’arte che gli fu contemporanea”.
Con Campigli poi, all’arte italiana viene proposta una nostalgia di moduli arcaico-micenei passati attraverso la raffinatezza di un gusto coltivato nella temperie parigina: una magistrale eleganza di ritmi in un’aria di ‘tempo perduto’; con De Pisis, la miracolosa facoltà di concludere nel volgere rapidissimo di una ‘scrittura’ stenografica il senso poetico di un paesaggio, di una figura, di un interno, colti all’improvviso e fissati nella retina un istante appena sufficiente per essere eternati.
La mostra ravennate attraverso una sequenza di sezioni tematiche, presenta oltre 130 opere di grandi protagonisti e di alcuni ‘outsider’ particolarmente significativi, oltre ad un video di Bill Viola.
A introdurre la prima sezione, che riprende le parole di Carrà “Quel non so che di antico e di moderno” sono opere notissime come “Il figliol prodigo” di Martini, “Il vecchio e il nuovo mondo” di Savinio, “Composizione metafisica” di De Chirico, “Bagnanti” di Carrà, “Maternità” di Severini.
Attraverso le opere rappresentate in questa sezione, che coprono quasi l’intero arco del Novecento, si comprende come il tema della seduzione dell’antico non alluda a un recupero di temi o forme del passato in chiave nostalgica, ma si riferisca piuttosto a un’inconsapevole o deliberata rielaborazione di forme classiche che si trasformano in temi nuovi e originali.
L’ultima sezione racconta la sorprendente continuità dalle neoavanguardie al postmoderno attraverso alcuni grandi esponenti del rapporto tra Modernità e Antico, con opere e installazioni. L’Antico – rappresentato dall’arte classica e rinascimentale – è ormai veramente lontano e il distacco inevitabile.

seduzioni dell'antico-mostra
Foto di Tiberio Zucchini

Ecco allora Luigi Ontani, poetico Narciso, che si cala nei modelli del passato; gli stessi modelli proposti in chiave concettuale anche da Giulio Paolini con la sua scultura, intitolata “Mimesi”: due busti classici di Ermes posti in posizione speculare, si guardano e sembrano interrogarsi l’un l’altro.
Non di minore importanza Andy Warhol con la “Nascita di Venere di Botticelli” in versione pop e l’istallazione di Pistoletto nella quale una copia della “Venere con mela” dell’artista neoclassico Bertel Thorvaldsen, sembra lentamente avanzare verso un cumulo di stracci colorati.

ORIZZONTI
Cittadinanza attiva e tecnologie digitali: la nuova frontiera è l’internet delle cose

Il dibattito attorno alla privacy che vede schierati Apple contro Fbi suscita mille domande, alle quali probabilmente non siamo ancora in grado di dare risposte sufficientemente esaustive. Questo accade soprattutto a causa della crescita esponenziale ed estremamente veloce di internet che, negli ultimi anni, una volta raggiunti i tre miliardi di utenti nel mondo, è divenuta sinonimo di innovazione ma anche sintomo di complicazioni. Il web è un ambiente molto complesso, in perenne cambiamento e piuttosto ostile verso i più ‘pigri’ che ancora stentano ad avvicinarsi. Ma il fatto è che più questi tardano l’approccio più rischiano di non riuscire a colmare il gap e a mettersi al passo con le evoluzioni tecnologiche della rete. In un Paese come il nostro – dove le più recenti statistiche Istat indicano che un italiano su cinque supera i sessantacinque anni – un tema come questo dovrebbe essere al centro dell’interesse collettivo. E’ urgente un’opera di sensibilizzazione verso l’utilizzo delle nuove risorse digitali e la conoscenza delle dinamiche della rete, non solo nelle scuole ma anche per gli anziani, in particolare per quella generazione che più si allontana anagraficamente dai nativi digitali.

Tutto ciò è importante soprattutto nell’ottica dell’inevitabile transizione in rete di ogni nostra pratica quotidiana, un futuro che ha già anche un nome: ‘Internet delle cose’. Per ora siamo entrati nell’epoca della condivisione, dell’iperconnettività, della reputazione digitale (che su internet diventa un tassello importante, da non sottovalutare); e non è un caso se nella miriade di informazioni alle quali possiamo accedere in ogni momento e in ogni luogo prestiamo maggiormente attenzione alle recensioni, ai consigli degli utenti della rete, come non è un caso che i social media siano diventati contenitori dove potersi riunire e discutere anche e soprattutto di quelle tematiche che riteniamo essere più importanti poiché si ripercuotono nella nostra vita reale. Su Facebook nascono così gruppi dove poter organizzare ritrovi per la cura del proprio quartiere, del verde pubblico, creare eventi o manifestazioni, comunicare disagi e criticità, mentre Twitter diviene il canale privilegiato attraverso il quale interagire con enti pubblici e privati per segnalare e risolvere problemi in breve tempo. E navigando sul web si trovano infinite altre realtà, piattaforme, applicazioni nate e utilizzate per un unico scopo: andare verso una cittadinanza che sia davvero attiva, partecipe e – cosa più importante – sempre più ‘padrona’ della tecnologia. Una cittadinanza che sfrutta questi nuovi strumenti a suo vantaggio e non si lascia assoggettare da un mondo che, se non conosciuto, rischia davvero di creare alienazione piuttosto che innovazione.
Ecco quindi che la tecnologia, se utilizzata nel modo corretto, può contribuire in maniera sempre più positiva alla creazione delle ‘smart cities’, le città intelligenti: realtà urbane in grado di gestire le miriadi di informazioni prodotte dai propri cittadini, i quali diventano veramente gli utenti finali. Città in grado di creare e migliorare i propri servizi mediante il mondo digitale, luoghi reali dove l’interazione virtuale diviene veicolo di diffusione di cittadinanza attiva distribuita su larga scala e dove il web diviene il mezzo democratico alla base di un rinnovato accordo tra popolazione, amministrazione e politica.

Proprio di questo si è parlato nei giorni scorsi in un interessante videoconferenza dal titolo “E-participation: le tecnologie digitali e mobili per rinnovare l’alleanza tra cittadini e pubblica amministrazione”, organizzata da Fpa, società specializzata in relazioni pubbliche, comunicazione istituzionale e percorsi di assistenza alle pa nei processi di innovazione. Tra i relatori del seminario Alberto Muritano, Ceo di Posytron, società di consulenza Ict particolarmente attenta alla creazione di piattaforme web per le pa che siano in grado di integrare molteplici servizi interattivi per il cittadino nell’ottica dell’Internet delle Cose. Tra queste spicca ePart, un social network divenuto simbolo dell’interazione cittadino-pa: una moderna web app attraverso la quale gestire il flusso di informazioni in maniera estremamente bidirezionale.
Già attiva in molti comuni sparsi in tutto il suolo nazionale, ePart consente di creare una vera e propria mappa delle problematiche di ciascun paese e migliorare di conseguenza l’efficienza dei servizi: in questo modo, ogni utente (iscritto o no) può segnalare le criticità riscontrate che, attraverso un attento sistema di filtraggio, vengono immediatamente smistate e visualizzate dagli uffici di competenza dei vari comuni; questi a loro volta possono gestire con maggiore attenzione la risoluzione del problema stesso. Una soluzione che, se diffusa capillarmente, può essere in grado di facilitare molti di quei processi che oggigiorno richiedono sforzi e tempistiche spesso disumani.
Un esempio di successo nell’utilizzo di questo ‘urban social’ è stato illustrato da Antonio Scaramuzzi, Responsabile Servizio Sistemi Informativi e Telematici del Comune di Udine, città che ospita centomila abitanti e novecento dipendenti comunali, inserita su ePart dal gennaio 2011. A oggi sono circa tremila i cittadini (registrati e non) attivi sulla piattaforma e quarantadue gli operatori comunali (divisi tra sette dipartimenti) pronti ad occuparsi delle segnalazioni. Secondo Scaramuzzi questa sperimentazione ha portato notevoli benefici: oltre alla riduzione della distanza tra i ‘palazzi’ e la popolazione, significative sono state le migliorie sul versante dei costi e tempi di operazione, entrambi sensibilmente ridotti, oltre alla concreta possibilità di avere una mappatura costantemente aggiornata della situazione cittadina.

Insomma piccoli ma incoraggianti segnali, sintomo che fortunatamente qualcosa anche in Italia si sta facendo e un discreto numero di cittadini si dimostrano interessati a queste novità. Compito di tutti è dare continuità a questo interesse, anche se la strada è ancora tutta in salita e non è più il tempo di sottovalutare tali innovazioni: un adeguato sistema infrastrutturale e una diffusa educazione digitale sono e devono essere priorità assolute per il nostro domani.

L’EVENTO
Promess* Spos*: la terza edizione del Tag Festival a Ferrara

“Speravamo che il 26 febbraio fosse tutto finito, ma non è così”, anzi “stiamo navigando a vista” ed “è anche nel nostro interesse cercare di affrontare il tema senza creare ulteriori ostacoli”: queste parole del presidente nazionale di Arcigay Flavio Romani – lunedì mattina durante la conferenza stampa di presentazione del programma – dipingono il non facile clima nel quale è stato organizzato e si terrà “Promesse…e sposi”, il Tag-Festival di Cultura Lgtb, arrivato alla sua terza edizione, a Ferrara il 26, 27 e 28 febbraio.
Gli fa eco Massimiliano De Giovanni, presidente Arcigay Ferrara: “organizzare un festival come questo in questo dato momento storico non è facile”. E dal canto suo anche Massimo Maisto, vicesindaco di Ferrara e assessore alla cultura con delega ai giovani (proprio dai capitoli della cultura sono venuti i 3.000 euro contributo del Comune all’iniziativa), afferma che: “speravamo di trovarci qui a festeggiare una nuova legge”, invece “purtroppo il festival si terrà nel pieno di un dibattito” che, secondo il suo personale parere, è “una delle pagine più brutte della politica italiana” perché “si fanno tatticismi sulla vita e sulla pelle delle persone”.
Ecco allora che ad aprire il Tag Festival venerdì pomeriggio pare non sarà più la senatrice Monica Cirinnà, che ha legato indissolubilmente il suo nome al disegno di legge sulle unioni civili. Gli organizzatori sono in attesa di un nome alternativo: “Spero che verrà qualcun altro del Pd a spiegarci la situazione in Senato”, ha affermato Romani. Incalzato dai giornalisti, a proposito delle recenti affermazioni di Renzi sulla strategia per l’approvazione del ddl, il presidente nazionale di Arcigay spiega che, nonostante la comprensibile “amarezza”, la strada dell’alleanza trasversale con Sel e Movimento Cinque Stelle è ancora “l’unica”: “si vedrà articolo per articolo chi vota cosa e chi boccia cosa”. “Cercare l’alleanza con Ncd – continua Romani – significherebbe fare una legge di civiltà con il partito più omofobo d’Italia, che questa legge non la vuole”.

tag festival
Un momento della conferenza stampa

In un momento così delicato diventa ancora più necessario e importante, secondo gli organizzatori, approfondire le tematiche legate alle persone, alla comunità e alla quotidianità lgtb con “un programma di altissimo profilo”, secondo De Giovanni, che spazierà dall’ideologia gender all’omogenitorialità, dal bullismo omofobico nelle scuole al confronto con la religione.
Particolarmente importante l’appuntamento di sabato mattina alle 11: Ketty Segatti della Regione Friuli Venezia Giulia e Dario Accolla de Il Fatto Quotidiano illustreranno i “dati sconcertanti” del “primo studio scientifico di carattere internazionale” sul bullismo che ha coinvolto 2.138 studenti degli istituti superiori del Friuli Venezia Giulia, ha spiegato Luca Morassutto (avvocato di Articolo29 e nuovo componente del direttivo Arcigay di Ferrara). Seduti fra il pubblico ci saranno anche studenti di “diverse classi degli istituti superiori cittadini”, ha sottolineato l’assessora alla pubblica istruzione e alle pari opportunità Annalisa Felletti: “riteniamo utile la partecipazione dei ragazzi come segmento della cittadinanza su cui è importante lavorare sul piano della sensibilizzazione” per “educare alle differenza valorizzandole, non livellandole”.
Sabato pomeriggio la filosofa Michela Marzano e la teologa ed ex monaca benedettina Benedetta Selene Zorzi affronteranno insieme alla giornalista Caterina Coppola la fantomatica ‘ideologia del gender’, che Romani ha definito “una macchina di terrorismo psicologico, soprattutto all’interno delle scuole”. Domenica mattina, lo psicoterapeuta familiare Federico Ferrari, la bioeticista Micaela Ghisleni e Cristina Gramolini, tra le fondatrici dell’associazione nazionale Arcilesbica, parleranno invece di omogenitorialità e nuovi modelli famigliari.
Domenica pomeriggio dalle 16 circa, infine, si parlerà di religione e dei dilemmi con cui si confrontano i credenti gay, ma non solo: “non per fare polemica, per trovare punti di contatto”, ha affermato Massimiliano De Giovanni. Don Bedin, “rappresentante di una Chiesa madre e non matrigna, non potrà venire, forse perché la matrigna si è mossa”, ha scherzato un po’ provocatoriamente Flavio Romani. Arriverà però appositamente da Barcellona, dove si è trasferito dopo essere stato sospeso dal sacerdozio in seguito al proprio coming out, Krzysztof Charamsa, teologo ed ex insegnante al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum e alla Pontificia Università Gregoriana. Dialogherà con lui il magistrato, credente e omosessuale, Eduardo Savarese, autore del volume “Lettera di un omosessuale alla Chiesa di Roma”.
Ci sarà naturalmente spazio anche per il divertimento e “l’autoironia, che è uno dei nostri punti forti”, ha scherzato Romani. Venerdì pomeriggio alle 18 alla Sala Boldini, Veronica Pivetti presenterà il suo film d’esordio “Né Romeo né Giulietta”; alle 21,30 Mikaela Capucci di Mikamale Teatro salirà sul palco della Sala Estense con “L’importanza di lavarsi presto”: Suor Melodia, le sue orazioni ‘riparative’ e proposte ‘rieducative’ per lesbiche, gay e transessuali faranno trascorrere un’ora e mezza di sfrenata allegria. Sabato sera toccherà ad Alessandro Fullin e al suo il suo “Fullin legge Fullin” e, dalle 23, al party La Cage Aux Folles all’Arci Bolognesi. Infine, domenica dalle 18.30 Fabio Canino racconterà la genesi del suo nuovo romanzo distopico “Rainbow republic”, che racconta la rinascita economica della Grecia grazie alla partecipazione e al sostegno della comunità gay.

Il programma aggiornato sul sito www.tagfestival.it

PARADOSSI
“Io, insegnante di geografia di Ferrara con 18 classi e 400 studenti…”

Diciotto classi divise in due scuole (e altrettanti Consigli di Classe ai quali presenziare), di cui una con ben tre sedi da raggiungere e solo due con parcheggio, per un totale di circa quattrocento alunni da gestire: è questa la denuncia di Enrico Gherardi, docente di ruolo di geografia nella Scuola Secondaria Superiore di Ferrara. Un problema che secondo il professore non riguarda solamente la gestione interna dei vari istituti ma anche la sua materia, tanto importante quanto sempre più bistrattata negli ultimi decenni dalle ultime riforme scolastiche.

Proponiamo di seguito la video-denuncia integrale inviataci dal prof. Gherardi.

Bollicine nel fango

Sembrano secoli ormai. È passato tanto, troppo tempo da quel giorno. Però mi ricordo tutto, e se chiudo gli occhi posso sentire ancora gli odori di quella mattina di festa.
Era il trentuno dicembre del 1982 e avevo compiuto i miei sospirati diciott’anni già da qualche mese, in agosto per la precisione. Ovviamente era ancora fresca in tutti noi la gioia della finale dei mondiali vinta contro la Germania.

Apro una parentesi: l’estate di quell’anno fu una delle più felici della mia vita, sicuramente la più spensierata. Ricordo la vigilia di Ferragosto nella spiaggia di Gabicce, era ormai buio ed eravamo tutti intorno a un falò in attesa che partissero i fuochi dai barconi al largo. Io ero con Adina (in realtà il nome era un altro, simile ma assai difficile da pronunciare), era tedesca e aveva vent’anni, era bionda, alta e… si sarebbe sposata in settembre con un suo coetaneo di Colonia, la città dove abitava. Lei non spiaccicava una parola d’italiano e io altrettanto di tedesco, però i gesti e gli sguardi erano più che sufficienti e stavamo abbracciati come due innamorati. Il giorno dopo poi sarebbe ripartita per Colonia e naturalmente non l’avrei più rivista. Guardavo lei, guardavo la sua amica, che sospettavo essere lesbica perché aveva rifiutato la corte di tutti i maschietti del gruppo, e guardavo i miei amici spalmati sulla sabbia come me, come me rallegrati da una buona dose di birra che, a parte il far girar la testa, ci costringeva a ripetute missioni tra i cespugli tutt’intorno per svuotare vesciche sempre piene. Fissavo il fuoco e desideravo che quella notte durasse per sempre. Poi l’estate finì e ricominciò la scuola. Per me era l’anno della maturità, ancora un ultimo sforzo e una volta diplomato sarebbe arrivata finalmente la libertà… almeno pensavo.

Comunque torniamo a quella mattina della vigilia di Capodanno.
Mi ero svegliato presto e avevo chiesto a mia madre di prestarmi la macchina perché mi serviva per andare a fare spese per la festa che stavo allestendo col resto del gruppo, ero fresco di patente e mia madre acconsentì a malincuore. Del resto in quel periodo ero l’unico patentato tra i miei amici e la disponibilità di una macchina divenne per noi fondamentale. Addentai una fetta di ciambella che mia nonna aveva appena sfornato e ingollai al volo un sorso di latte direttamente dal cartone, afferrai le chiavi della 127 e uscii. Ricordo ancora la voce accorata di mia nonna che mi seguiva per le scale dicendomi: “Mi raccomando, stai attento! Vai piano con la macchina, che non la conosci ancora bene!”

Il cielo su Ferrara era coperto, come al solito. La pioggia cadeva a intermittenza ormai da giorni e, anche se non faceva troppo freddo, l’aria era umida e pungente. Tutto sommato, del tempo non mi fregava un granché: la festa era al coperto e io e i miei amici sapevamo che niente ci avrebbe rovinato la serata, nemmeno il diluvio!
Passai a prendere Andrea, il mio migliore amico, insieme andammo da suo cugino Marco. Marco abitava con la madre e la sorella in una casa enorme, con un grande cortile in fondo al quale si ergeva un capannone che all’inizio serviva come magazzino per macchine agricole, e che dopo alcuni anni, trasferite le attrezzature in campagna, trasformammo completamente facendolo diventare il nostro quartier generale. Ogni sera e ogni fine settimana ci trovavamo tutti lì, a bere una birra, a giocare o anche solo a fare niente, bastava esserci. Lì ci facevamo le feste, ci portavamo le ragazze, ascoltavamo la musica e, ogni tanto, qualcuno preparava un rilassante e innocuo spinello che democraticamente passava a tutti gli altri.

Avevamo organizzato tutto nei minimi particolari, già due mesi prima avevamo iniziato a spargere la voce tra le varie “cumpa” di periferia con cui avevamo rapporti di buon vicinato. Negli altri gruppi c’erano vecchi amici d’infanzia o ex compagni di scuola o semplicemente gente conosciuta in precedenti feste e poi rimasta in contatto con alcuni di noi. Lo scopo ultimo era procurare più ragazze possibili, meglio se carine: a tal proposito potevamo considerarci più che soddisfatti poiché, dalle adesioni ricevute, prevedevamo la partecipazione di un’ottantina di persone, di cui più della metà erano ragazze. Avevamo distribuito decine di biglietti, ognuno dei quali significava un incasso anticipato di diecimila lire, coi soldi avremmo comperato i cibi e le bevande per la festa, e il denaro che fosse avanzato l’avremmo speso in dischi e luci strobo.

All’epoca locali da ballo e discoteche erano roba da “anziani”.
Per noi e i nostri coetanei era più divertente farci la discoteca in casa organizzando feste private dove puntualmente conoscevamo e intortavamo ragazze nuove.
Per la musica erano anni importanti: c’era il rock delle ‘band immortali’, stava nascendo il pop della new wave inglese, mentre il funky americano dominava ancora le piste da ballo, poi lo ska, il reggae e qualche residuato di punk. Questo era il menù musicale delle nostre feste e più in generale delle nostre serate in compagnia. Andare ai concerti era un’abitudine costosa, ma irrinunciabile: si risparmiava sul cinema e la pizza, però quando gente come The Police o i Simple Minds capitava a fare concerti nei paraggi noi dovevamo esserci, con buona pace dei nostri vecchi.

Quel giorno io, Andrea e Marco andammo al supermercato a procurarci tutto l’occorrente. Uscimmo con tre carrelli carichi e ancora mi sorprendo per come siamo riusciti a far stare tutto nella 127 di mia madre.
Stipati all’inverosimile, ci stavamo dirigendo a casa di Marco quando per strada vedemmo un ragazzo che camminava quasi barcollando. Lo riconobbi, era Simone, un mio vecchio compagno delle medie, abitava nel nostro quartiere e per qualche tempo ci eravamo frequentati. Mi fermai, scesi dalla macchina e gli andai incontro. “Ehi vecchio come stai?” gli dissi.
“Ma ciao! Bene, te come va?” mi rispose.
“Tutto regolare Simo. Senti, ti ho visto e mi sono chiesto che facevi stasera… Noi organizziamo la festa da Marco, se vuoi passare noi siamo lì. Ti garantisco che faremo un gran casino”.
“Beh, ti ringrazio, è che stasera sarei a un’altra festa. Però magari dopo la mezzanotte mi libero e faccio un salto”.
“Ok! Senti: se poi passi e ti porti dietro qualche donzella ti offriamo doppia consumazione. Ci stai? Mi raccomando ci conto!”
“Vedrò cosa posso fare, ciao!”

Simone aveva diciannove anni, era un bel ragazzo, alto, con i capelli castani, ricci, portati lunghi sulle spalle. A scuola, almeno finché non si era ritirato, aveva fatto sfracelli con le ragazze. Qualche anno prima era conosciuto da tutti per la sua fama di ‘bello e maledetto’: arrivava con la sua moto e tutte le ragazze se lo mangiavano con gli occhi. Tra noi c’era chi non lo sopportava proprio. Non io.
Ci conoscemmo alla Tasso, io facevo la terza media e lui capitò nella mia classe come ripetente. Un pomeriggio, nel cortile della scuola, mi salvò da un sicuro pestaggio dopo una discussione con tre ‘cremini di piazza’. Da quella volta iniziammo a vederci spesso: mi insegnò a giocare a carambola in un baraccio di un suo lontano parente in fondo a Via Arginone, mi fece fumare il mio primo spinello dietro una siepe nei giardini dell’Acquedotto e mi fece condividere la sua particolare passione per i fumetti horror.
Parlavamo di tutto, gli argomenti spaziavano dalle tipe che te la danno subito all’estinzione delle tigri siberiane, da Alan Ford e il Gruppo Tnt a Baudelaire, Rimbaud e tutti gli altri maledetti.
Lui invidiava il mio talento a disegnare, io il suo coraggio.
Un giorno lo presentai ai miei amici, ma Simone era un solitario e preferiva starsene per i fatti suoi. Ancora oggi non so proprio perché mi prese in simpatia. In compenso usciva con un sacco di ragazze e spesso me le presentava.
Una sera mi fece conoscere Anna, un tipetto tutto pepe di un paio d’anni più grande di me. Era una biondina graziosa con due occhi chiarissimi dall’apparenza innocente, in realtà una punk scatenata, pazza per i Sex Pistols e i Clash. La prima ragazza che mi fece finalmente comprendere cosa volesse dire baciarsi con tutta la lingua.
Poi Simone cambiò, cominciò a frequentare quelli di Via Formignana, tossici convinti. Ci vedemmo sempre di meno fino a perderci di vista, per poi incontrarci casualmente in quella vigilia di Capodanno.
Ci salutammo, io me ne tornai nella 127 mentre sentivo su di me le occhiate perplesse dei miei due compagni, Simone si girò e proseguì il suo cammino. Quella mattina fu l’ultima volta che lo vidi.
La giornata proseguì frenetica. I preparativi per l’imminente serata erano la nostra unica preoccupazione. Ricordo che avvisai i miei che non sarei tornato per il pranzo e che sarei rimasto da Marco a sistemare il locale fino al tardo pomeriggio, sarei poi passato a casa a ora di cena a cambiarmi per la festa. Ci trovammo tutti lì, tutti noi della vecchia guardia: Andrea, Mek, Gepry, Mauro, Ruggy, Willy, Robur, Flipper, Carion, Forla, Ricci e io. In cuor mio però mi dicevo: “Ne manca uno…”
L’avevo incontrato proprio quella mattina.

Lavorammo sodo perché tutto fosse pronto per le nove di sera, l’ora ufficiale d’inizio della festa.
E forse fu proprio quel pomeriggio il momento più bello di quel Capodanno, più della sera e della notte di baldoria che ci aspettava, più delle ragazze e delle sbornie che sarebbero arrivate. Quel pomeriggio, forse come mai prima d’allora e come non sarebbe mai più stato dopo, ci sentimmo fratelli.
Non potrò mai dimenticare quella notte, la festa fu un successone, arrivarono più di un centinaio di persone e, tra esse, tantissime ragazze nuove. Ci sentivamo i padroni del mondo, e forse in quel piccolo angolo di mondo che avevamo trasformato nel nostro regno del divertimento lo eravamo per davvero.
Io feci pace con Isabella, la mia ex. Ci baciammo fino a un quarto d’ora dalla mezzanotte poi scattarono i festeggiamenti: il 1983 era iniziato!
Bastarono qualche birra e qualche liquore di troppo e io e Isabella ci mandammo nuovamente e reciprocamente al diavolo, stavolta in modo definitivo. In verità ero segretamente e disperatamente innamorato di Roberta, una morettina pallida e magrolina conosciuta un anno prima ad una festa di carnevale. Era di Tresigallo, ma i suoi si erano trasferiti in città da qualche anno. Portava i capelli corvini raccolti in un cerchietto di madreperla, i suoi grandi occhi neri dal taglio vagamente orientale e le sue labbra carnose facevano da contrasto con le lentiggini che ricoprivano il nasino a patata. Non era appariscente e per diverso tempo nessuno del gruppo se la filò più di tanto. Nonostante ciò, quando la vidi quella prima volta, la trovai subito bellissima. Quello con Roberta fu un vero e proprio colpo di fulmine, il primo e unico, purtroppo non corrisposto, credo. Un amore comunque destinato a rimanere platonico, poiché all’epoca, se pur tra alti e bassi, stavo con Isabella e decisamente non ero il tipo che ci provava con tutte. Roberta poi era una ragazzina assai timida, parlava poco e arrossiva facilmente, era costantemente controllata dai suoi e usciva di casa raramente. Lo shock arrivò nell’aprile del 1982, quando venni a sapere che Mek e Roberta s’erano messi insieme. Da quel giorno ebbi la certezza d’amarla, ma mi convinsi pure che non sarebbe mai più potuta essere mia.

Erano le tre di notte quando Andrea e Ruggy mi trovarono steso a terra nel cortile davanti all’ingresso del capannone. Sbronzo come poche altre volte nella mia vita, mi ero addormentato con la faccia semisommersa in una pozzanghera.
Fuori c’erano cinque gradi sopra lo zero e io avevo addosso solo un paio di jeans e la camicia, ero in uno stato pietoso: col respiro facevo le bollicine nel fango!
Mentre mi raccoglievano per portarmi al coperto e risparmiarmi una probabile polmonite, io chiamavo Roberta e piangevo. Mi tennero in disparte e ci misero un po’ per calmarmi. Ma alla fine mi passò, ci unimmo agli altri e Andrea e Ruggy non dissero niente a nessuno. Quell’episodio rimase una cosa tra me e loro, Mek non lo venne mai a sapere.

Il giorno seguente eravamo devastati!
Fortunatamente le scuole avrebbero riaperto dopo la Befana e noi avremmo avuto tutto il tempo per recuperare.
Ci ritrovammo da Marco nel tardo pomeriggio: ci eravamo ripromessi di ripulire e riordinare il capannone dagli effetti della bolgia di qualche ora prima, ma nessuno di noi era a posto, c’era chi aveva un tremendo mal di testa, chi continuava a entrare e uscire dal bagnetto in fondo al cortile, e chi come me era febbricitante e con la gola arsa dalla sete.
Per tutto il giorno, il prezzo da pagare per aver passato una notte di bagordi l’avremmo scontato nella testa e nello stomaco; ed era un conto parecchio salato! Vedere le bottiglie di liquore rimaste mi dava la nausea e avevo un continuo, assillante bisogno di bere acqua
Poi all’improvviso arrivò Forla, aveva un’espressione strana, capimmo che doveva dirci qualcosa.
«Che c’è Forla, che è successo?» lo incalzò Ruggy. Forla fece un sospiro, era scuro in volto, aspettò che tutti noi lo guardassimo con la massima attenzione, infine parlò: «Sentite gente, l’ho saputo adesso per radio… Simone è morto!»

Rimasi col bicchiere di carta pieno d’acqua in mano a guardare la faccia di Forla che, dette quelle parole, si sedette sul divano e rimase a testa bassa senza aprir più bocca. Non avevo più sete. Sentii la mia voce esclamare che non era possibile, che l’avevo incontrato la mattina precedente dopo tanto tempo e che c’eravamo pure parlati, ma quelle parole non uscirono mai dalla mia bocca. Rimasero nella mia testa e ci rimasero a lungo. Sapevo che si bucava, tutti lo sapevano, eppure ero fermamente convinto che ne sarebbe uscito, che si sarebbe salvato. O forse, crederlo mi aveva fatto comodo, mi era servito semplicemente per alleggerire la coscienza.
In realtà non avrebbe mai potuto salvarsi, non senza il nostro aiuto. In realtà gli avevamo voltato le spalle, avremmo dovuto fermarlo, riempirlo di botte se necessario. Magari non sarebbe cambiato niente, ma avremmo dovuto comunque provarci, io per primo. Invece non facemmo nulla, se non commiserarlo.

Simone era orgoglioso, era impavido e amava le sfide e l’avventura.
Simone era fragile, solo e insicuro, e non si fidava di nessuno.
Simone aveva perso i genitori da bambino e viveva con i nonni. La scuola non faceva per lui, non accettava ordini e fece del suo meglio per farsi cacciare. Iniziò a lavorare a sedici anni, coi primi guadagni si comprò una Cagiva 125, poi a diciotto passò alla RD 350, la moto più desiderata di tutte all’epoca.
Eppure per lui mancava sempre qualcosa, aveva un buco nero che non riusciva mai a riempire, lo capivo dalle tante confidenze che ci facevamo nelle serate birraiole dalla Gigina. Mi diceva che Ferrara gli stava stretta, che appena avesse messo da parte un po’ di soldi e fosse stato maggiorenne sarebbe andato via per sempre, mi parlava del Venezuela e di un suo improbabile cugino che abitava là. Non so quanto di quello che diceva fosse vero, ma so che mi piaceva ascoltarlo, era bravo a raccontare.
Anche se per breve tempo, Simone fu per me un vero amico, e credo di esserlo stato anch’io per lui, forse l’unico amico che abbia mai avuto. Almeno finché non conobbe colei che se lo portò via per sempre: si chiamava eroina!
La stessa che si portò via una decina di miei coetanei. Amici, compagni di scuola o semplici conoscenti, chi prima e chi anni dopo, se ne andarono tutti. Tutti allo stesso modo: accartocciati in qualche angolo sporco della città.

Il giorno dopo andai all’edicola sotto casa a comprare il Carlino: era il 2 gennaio 1983, i giornali riferivano gli avvenimenti risalenti alla notte di Capodanno poiché il primo dell’anno le testate non erano uscite. Sfogliai il giornale andando direttamente alla cronaca di Ferrara e vidi il titolo: “Giovane trovato senza vita la notte di Capodanno”.
Lessi l’articolo: “Alle prime luci dell’alba del nuovo anno una pattuglia di Carabinieri ha trovato il corpo senza vita di un ragazzo. Era rannicchiato ai piedi di una panchina nel parco adiacente ai Rampari di San Paolo in zona Acquedotto, si tratta del diciannovenne Simone B. residente in via Vignatagliata. Dai primi accertamenti pare che il decesso sia avvenuto per overdose di eroina. La scena ai Carabinieri è apparsa subito in tutta la sua drammaticità: il giovane giaceva esanime da alcune ore a pancia in giù sul terreno ghiaioso ai margini di una panchina col volto immerso quasi completamente nel fango di una pozzanghera e un giubbotto adagiato su un fianco, nel braccio era ancora infilata la siringa, le ginocchia piegate…”

Per un momento mi mancò il respiro.
Forse quella notte Simone fece sul serio un salto alla festa.
Forse quella notte venne a trovarmi per l’ultima volta, per l’ultima burla del destino.
E insieme, per un po’, ci divertimmo a fare le bollicine nel fango!

ALTRI SGUARDI
Le cose che i bambini mangiano e quelle che i grandi si bevono

Certi bambini mangiano molte cose ma, quando si tratta di bere, “non se le bevono tutte”.
Certi adulti mangiano poche cose ma quando si tratta di bere, spesso “se ne bevono molte”.
Mi spiego meglio…

A scuola, ci sono giorni in cui certi bambini mangiano soprattutto ciò che hanno nell’astuccio: ad esempio, diversi di loro si nutrono di colle, di gomme e di matite.
Secondo le mie osservazioni etologiche, ognuno segue varie tecniche di degustazione ed ha le proprie preferenze in fatto di forma e di marca.
Le matite che piacciono di più ai bambini sono quelle senza gomma sopra; esse vanno mordicchiate lentamente lasciando che il legno di pioppo rilasci il suo succo rinfrescante.
Non bisogna metterle in bocca dalla parte della punta, ma dalla parte opposta (anche se qualche buongustai@ preferisce prima predisporre il palato col sapore della grafite e poi mordere il legno).
Le colle stick vanno affrontate con tecnica da sommelier: prima si toccano velocemente con la punta della lingua per sperimentare il nuovo sapore, poi si può procedere con leccate più decise come se si mangiasse un gelato.
Il sapore della colla infatti varia se è nuova, se è a metà o se è quasi alla fine; naturalmente lo strofinio protratto sulla carta sembra modificare il suo gusto che, a seconda del tipo di supporto, può diventare via via più intenso.
Il galateo scolastico infine consente ai bambini di mangiare la gomma con le mani: essa va prima sminuzzata con le dita facendone delle briciole che poi devono essere lasciate a decantare sul banco, quindi vanno raccolte con la pressione del dito indice (inumidito prima in bocca), infine ingerite lasciandole per qualche minuto sulla lingua prima di deglutirle.

Davvero certi bambini mangiano molte cose ma non se le bevono tutte…
Infatti quando i bambini osservano che non ho i capelli, io gli racconto la storia della strega Seimenda (cattivissima perché è doppiamente Tremenda) e del sortilegio che mi ha fatto: lei, essendo molto ma molto invidiosa del colore unico dei miei capelli, con un incantesimo me li ha resi invisibili. Solo ogni notte, a mezzanotte, essi tornano incredibilmente visibili allungandosi a dismisura tanto che nessuno, se mi incontrasse, mi riconoscerebbe; purtroppo però la ricomparsa dura solo fino all’alba… e così tutte le notti.
Alla fine della storia, che hanno ascoltato attenti partecipi e divertiti, mi si avvicinano uno alla volta ed indicandomi mi dicono: “Tu non hai i capelli”… quasi a volermi dire: “Questa bella favola ha catturato la nostra attenzione ma la realtà è tutta un’altra cosa”.
Invece certi adulti mangiano poche cose ben selezionate ma quando si tratta di bere, spesso “se ne bevono molte”.
In ambito scolastico, fra gli argomenti che certi adulti si bevono, ci sono soprattutto quelli confezionati con parole “dolcificanti” oppure con vocaboli “esaltatori di sapidità”: bevande tipiche di questo tipo sono la “buona scuola”, l’ “organico potenziato”, la “valorizzazione del merito”, l’ “alternanza scuola-lavoro”, lo “school bonus”.
Certi grandi non guardano attentamente gli additivi che mettono in queste bevande e così le mandano giù senza accorgersi che la scuola invece di essere “buona” è “cattiva” perché edulcorata artificialmente per nascondere la puzza di incostituzionalità e di competizione, che l’organico non è “potenziato” ma “impotente” a risolvere gli obiettivi dichiarati, che la valorizzazione del “merito” in realtà corrisponde alla incentivazione della “ruffianeria”, che l’ “alternanza” scuola-lavoro può diventare “sfruttamento” degli studenti e che lo school “bonus” diventa il “malus” della maggior parte delle scuole collocate in ambienti meno “ricchi” di altri.
Consiglio a chi trangugia così avidamente di fare attenzione alla propria salute poiché c’è il forte rischio di “non avere più il fegato” per esprimere le proprie convinzioni e di “perdere di vista” il vero senso della scuola pubblica… infatti se si rivolgessero a chi si disseta con l’acqua della sorgente costituzionale si accorgerebbero pure loro che: “Questa bella favola ha catturato la nostra attenzione ma la realtà è tutta un’altra cosa”.

FRA LE RIGHE
L’amore “Adesso”

Se esistesse, il ‘curriculum vitae amatoriae’ dovrebbe essere un allegato alla carta d’identità. Il curriculum sentimentale conterebbe più del codice fiscale, più della denuncia dei redditi perché avrebbe un valore preventivo contro le brutte sorprese. Ma se anche Lidia e Pietro se lo fossero scambiati prima di tutto, prima di adesso, non si sarebbero forse trovati lo stesso al punto in cui sono? Ciascuno con il proprio tormento non scritto?

chiara-gamberale-adesso
Adesso di Chiara Gamberale

E se l’ostacolo alla felicità fossero proprio le persone che quella felicità la stanno cercando? Se fossimo noi a non saper stare senza quella condizione di ricerca e tensione continua? Una condanna eterna e intrinseca contro la quale Lidia ha costruito una sua consapevolezza: che dolore e felicità esistono e sono insegnamenti. Non si scansano, ti afferrano. Quando? Adesso.
Non servono l’affanno, lo schianto ripetuto contro gli altri e la negazione di ciò che si è e di tutto ciò che viene da dentro, mischiato tra paure, alibi, scorciatoie, legami, passato e presente.
Lidia si conosce, sa che un cuore ammaccato ne genera un altro, è convinta che investire l’amore di tutto, ma anche di niente, dia lo stesso risultato: la fine. Lidia sa, perché lo ha subito da un ex marito che non sarà mai veramente ex, che la paura dell’amore svuota la vita e fa perdere in inutili giri a vuoto.
Pietro sembra un gigante, ma di paura ne ha tanta: paura di capire il proprio passato, di rivederlo, riviverlo attraverso i luoghi e le persone che non ci sono più; paura di arrivare a se stesso come ci è arrivata Lidia in poco tempo. Pietro è impassibile di fronte a ciò che dovrebbe scuoterlo, di fronte ai limiti che non può ammettere a se stesso, in una farsa di equilibrio che non esiste. Con una come Lidia, che interroga se stessa e gli altri in uguale modo, qualcosa si infrange. È un piatto che viene sbattuto a terra in una sera d’estate, è un tonfo che finalmente arriva anche per lui, così bravo a gestire tutto ciò che non abbia a che fare con l’amore.
E Lidia, navigante e naufraga tra la vita ‘immaginata’ e la vita ‘quella vera’, ha bisogno di andare verso quell’arca senza Noè con gli amici che sono una boa quando le onde travolgono.
Ma dopo la fuga, solo adesso è il momento in cui rimanere e vivere.

gamberale
Chiara Gamberale

Adesso, Chiara Gamberale, Feltrinelli editore, 2016.

L’INTERVISTA
Marcello Darbo: l’arte come faticoso cammino

Originario di Codigoro, dove è nato nel 1957, e laureatosi in Scienze politiche a Bologna, Marcello Darbo è attivo artisticamente dal 1982: prevalentemente autodidatta, segue nel 1985 i corsi dello scultore codigorese Massimo Gardellini. Nel 1993 viene selezionato fra i dieci pittori di nuova tendenza della giovane arte italiana all’interno del “Circuito Giovani Artisti Italiani” per la Biennale Giovani di Kualalampur. Nel 1994 poi partecipa alla rassegna “EUROPA-AMERICA ‘360’ E-VENTI”(Roma/New York), 180 artisti segnalati da 60 critici italiani. Fra le sue attività personali si segnala anche la partecipazione nel 1992 al Centro Attività Visive del Palazzo dei Diamanti di Ferrara.

Marcello Darbo
Marcello Darbo

Darbo, come artista da anni protagonista nell’arte contemporanea, quella che a volte hai chiamato la ragnatela del nostro tempo, un approfondimento?
La ragnatela è, come noto, uno spazio dove qualcuno si trova a suo agio, fermo nel suo buco e prospera, mentre chi si muove resta invischiato nell’invidia, mista a mediocrità e provincialismo di ritorno di una massa di persone sbagliate al posto giusto. Pensate che un sedicente critico di Ferrara, guardando i ritratti che stavo facendo in quel periodo, mi disse che il ritratto è obsoleto. Allora gli ho mostrato il cavalletto con una tela bianca e gli ho detto che prima dire certe cose, doveva venire lui alle 9 di sera in inverno, al freddo e lavorare, lavorare e lavorare. Poi ha visto alcuni schizzi di mio figlio e, senza sapere che erano suoi, ha detto che quelli si erano interessanti. Prima di uscire dallo studio ha visto certe mie carte dada dove lavoravo con il mistero della macchia e del caso ed è rimasto entusiasta, quasi intimandomi di fare solo quelle cose. L’ho accompagnato volentieri alla porta.

Marcello, oggi avanguardia o retroguardia?
Questa storia dell’avanguardia ha strapazzato gli strapazzabili. E’ ovvio che non c’è avanguardia senza la retroguardia e anche che l’avanguardia a tutti i costi ha prodotto tanti cani che pensano di essere artisti perchè fanno qualcosa di mai fatto sinora. Che so: mettere insieme spago, sassi e fil di ferro, oppure fare delle pile di cassetti. A me, invece, sembra ovvio che se certe cose non sono mai state fatte prima è perchè non valgono nulla. L’artista si muove sulla ‘linea dell’arte’ che va dalle grotte del Perigord a Caravaggio, da Giotto all’arte povera, cercando di reinterpretare il tutto in un suo personale e faticoso cammino. L’Arte è fatica, è lavoro, non legare dei pupazzetti ai rami di un albero. Siamo arrivati alla sublimazione della merda d’artista e i risultati non possono che essere pretenziosamente deludenti e fetidi.

Ferrara ‘città d’arte’: mito o mistificazione?
Definirei Ferrara Città d’Urto, per la decadenza che permea ormai le azioni di una classe politica che vorrebbe staccarsi dalla gente e vivere in pace. Barche di cemento nel fossato del castello, La Montedison a un kilometro dal centro, mentre l’ospedale a dieci kilometri, inaccessibile. La casa di Biagio Rossetti, primo urbanista occidentale, trasformata in sala espositiva degli architetti americani. Un Sindaco che vuole chiudere Palazzo dei Diamanti. Non mi stupirei se facessero a Bologna la nuova stazione di Ferrara.
Ferrara è bella perché ancora i muri delle case reggono.

Mostre prossime venture?
R – Mostre ‘prossime s-venture’? Sì, una a Bondeno, grazie all’ultimo mecenate rimasto nel ferrarese: Daniele Biancardi. Il titolo è “Rifugi per l’Umanità”: umanità che scappa dalle guerre e dalla fame, piccoli quadri rossi e sculture pop fatte con i coperchi dei barattoli. Sembrano case tibetane. Naturalmente ci sarà la casa dei  Cristiani e dei Musulmani, quella degli Ebrei e dei Palestinesi, la parte umana dell’umanità, il resto sta sotto e di molto a balene, gorilla, delfini, orango, elefanti, tutti animali sociali che vivono senza uccidersi.

Mostre
1977 Memmingen(Germania) su invito della Associazioe Italo-Tedesca
1988 Firenze
1998 Kaufbeuren (Germania)
2000 Personale al’Istituto di Cultura Casa Cini di Ferrara
2002 Palazzo Borromeo di Cesano Maderno e poi ancora Kaufbeuren (Germania)
2006 “La bicicletta rossa”, Museo del Risorgimento di Ferrara
2007 “Ginestre”, Torre di Cento
2010 “Dove è pietà”
2012 Casa del Boia, Ferrara
2014 “Vite di frodo”

Hanno scritto di lui: Sergio Altafini, Serena Simoni, Gilberto Pellizzola, Erwin Byrnmeyer, Franco Patruno.

Penne migranti

DSCN7639-1-740x464La letteratura italiana dell’emigrazione ci porta alla riscoperta delle nostre origini e delle dolorose condizioni di vita dei nostri connazionali emigrati in altri Paesi a inizio del secolo scorso. Capire attraverso pagine dimenticate come i nostri italiani hanno vissuto da emigranti aiuta a comprendere cosa vive chi oggi cerca una via d’uscita in una terra chiamata Italia.
La diversità è sempre fonte di grande ricchezza e anche i nostri antenati sono passati per fasi e momenti molto simili a quelli che stanno vivendo molti immigrati di oggi. Scrivere può sicuramente aiutare a capire situazioni e risolvere problemi. Se questo vale sempre, può valere ancor di più quando si arriva in un paese straniero, dove si ha bisogno di integrarsi e buttare sulla carta i propri pensiero e le proprie preoccupazioni.

La letteratura dell’emigrazione, ieri e oggi

pascal_dangeloNegli ultimi anni, l’Italia e l’Europa sono attraversate da spinte razzistiche e dal rifiorire di rivendicazioni etniche regionali che spesso, attraverso richieste di autonomia, sembrano vanificare tutti gli sforzi compiuti alla ricerca di un’identità europea forte. Un’immigrazione incontrollata legata a fenomeni di crisi mondiali non sta certo aiutando. D’altra parte, la realtà dei nostri paesi sembra andare in direzione opposta: i flussi migratori continui mettono ciascuno di noi di fronte a una realtà multiculturale e, quindi, a un “meticciato” vero e proprio. I pareri sono discordi, non solo fra gli intellettuali, ma anche fra i politici e la gente comune: in generale si oscilla fra coloro che cercano di imporre un’assimilazione dei nuovi gruppi etnici alla cultura popolare dei paesi ‘ospiti’ e coloro che, spesso a ragion veduta, propongono un interessante e costruttivo ‘meticciato culturale’, ossia di “creolizzare l’Europa”. Una ‘creolizzazione’ che nasca dall’incontro di realtà differenti e che possa garantire un dialogo e un confronto fra culture. Inutile dire che, intellettualmente, questa pare la soluzione migliore, anche se di non facile realizzazione, richiedendo un’apertura mentale spesso inesistente in paesi abituati, come il nostro, a essere terra di emigrati e non di immigrati.
In tale ottica di apertura, Armando Gnisci, docente di letterature comparate, ha iniziato a interessarsi di letteratura della migrazione fin dal 1991, di una letteratura veicolo della voce dei popoli e dei migranti che, talora, si può essere più disposti ad ascoltare rispetto ai racconti per le strade. Gnisci fa conoscere in Italia ciò che in altri paesi già esiste da tempo: si pensi a Salman Rushdie in Inghilterra o a Tahar Ben Jelloun in Francia. In questi casi siamo nel quadro di un’eredità di passato coloniale, la situazione italiana è particolare e originale, proprio per la mancanza di una significativa storia coloniale. Lo scrivere in italiano nasce dunque da un elemento affettivo, da un vero e proprio amore, oltre che dalla curiosità, per la lingua di Dante, che nulla hanno a che vedere con eventuali retaggi passati. Pura passione.

9560457Con il termine ‘migrant writer’ si indica generalmente la produzione letteraria di scrittori stranieri che hanno scelto di esprimersi nella lingua del Paese “ospitante”, ma secondo Gnisci la letteratura della migrazione comprende tanto le opere scritte in italiano da immigrati quanto quelle di italiani emigrati in tutto il mondo. C’è anche chi, come Raffaele Taddeo, preferisce parlare di ‘letteratura nascente’ – per la novità e la sua fresca forza eversiva – o di ‘letteratura della creolizzazione’ – per il suo carattere di pluralismo culturale, che diviene lo spazio ove le culture si mescolano e si aprono al confronto e al dialogo. Indipendentemente dal termine che si voglia utilizzare, questa letteratura si caratterizza per i temi, come emarginazione sociale e razzismo, e per alcuni elementi come l’autobiografismo e l’ibridismo linguistico.

sessantatreesimo-post_pap-khouma-io-venditore-di-elefanti

In Italia, i primi testi scritti in italiano da immigrati  comparsi nelle librerie sono: “Chiamatemi Alì” del marocchino Mohamed Bouchane (Ed. Leonardo), “Immigrato”, del tunisino Salah Methnani (Ed. Thoeria) e “Io, venditore di elefanti” del senegalese Pap Khouma (Ed. Garzanti).In questa prima fase i testi sono scritti a quattro mani, poiché gli autori ancora non padroneggiano perfettamente l’italiano. La seconda fase vede apparire una scrittura femminile. Siamo nel 1993, quando esce “Volevo diventare bianca” dell’algerina Nassera Chohra o nel 1994, anno di “Lontana da Mogadiscio” della somala Shirin Razanali Fazel. Nel 1995 esce la prima edizione del Premio Ek&stra, concorso letterario per immigrati, nel 1996, Maria De Lourdes Jesus, che conduce il programma radiofonico “Permesso di soggiorno”, pubblica l’autobiografico “Racordai. Vengo da un’isola di Capo Verde”. La terza fase si ha nel 2000, quando la Fiera del Libro di Torino organizza incontri sulla nuova dimensione multietnica e multiculturale di un’Europa che si presenta ormai come “un mondo pieno di mondi”. Da qui nasce una nuova fase con successo di pubblico.

Carmine D’Abate, John Fante e Pascal D’Angelo

fumetto_itcteatro_pngSe l’Italia accoglie oggi tanti scrittori che, per amore della nostra lingua e per desiderio di comunicare la loro esperienza, si sono cimentati nella produzione letteraria in lingua italiana, esiste anche un’importante letteratura italiana dell’emigrazione, con una sua identità e tradizione, troppo spesso dimenticata. Gilberto Bonalumi dell’Istituto di relazioni internazionali ha detto che “quando i libri di storia verranno riscritti, si scoprirà che la diaspora italiana nel mondo è stata uno degli avvenimenti più significativi del secolo che muore. Il numero degli italiani che operano in ogni angolo della terra supera persino la popolazione attualmente residente in Italia”. Anche Furio Colombo ha sottolineato quanto tale diaspora sia (stata) importante, oltre a quella ebraica, a differenza del popolo ebraico però, l’Italia non si è mai interessata al destino degli italiani che vivono nel mondo e ha sempre percepito questa radice culturale trapiantata all’estero, come un qualcosa di povero, di non significativo, che ha perso la sua origine.

Ora, anche il campo della letteratura dell’emigrazione di lingua italiana o di italiani che si sono espressi nella lingua del Paese ospite è spesso dimenticato, oltre che inesplorato. Molti autori presentano affinità evidenti con gli scrittori che oggi vengono definiti come “migranti” tanto nei temi che nella scrittura. E non si tratta solo di opera aventi carattere di testimonianza di documento, ma di esempi di cultura, di ricerca dell’identità e di opere di grande valore letterario. Si pensi a Carmine Abate, scrittore italiano di origine arberësh, figlio di emigranti e a sua volta con un passato di emigrazione in Germania. Abate spiega di aver iniziato in Germania per combattere contro le ingiustizie dell’immigrazione, denunciandole attraverso poesie e racconti. Le sue opere sono il racconto di tante migrazioni: quella degli albanesi in Italia e quella degli italiani all’estero. Quest’ultima ha lasciato poche tracce nella letteratura, se si escludono opere come “Libera Nos a Malo” di Meneghello. Eppure esiste molta letteratura dell’emigrazione di lingua italiana o di scrittori di origine italiana. Si pensi a italo-americani come Joe Pagano, Pascal D’Angelo, John Fante, Pietro Di Donato, Nino Ricci e Helen Bartolini. “Avendo noi alle spalle una lunga storia di emigrazione – sottolinea Abate – dovremmo essere più solidali con chi viene da fuori. Ma sta proprio qui la spina. Chi viene da fuori ci ricorda troppo chi eravamo, chi erano i nostri padri, i nostri nonni. E noi invece vorremmo dimenticarlo. Forse se riuscissimo a rivalutare la nostra emigrazione e i nostri emigranti, a vederne gli aspetti positivi, il nostro atteggiamento nei confronti degli stranieri in Italia cambierebbe”.

2008-09-22_pascal_dangeloAnche John Fante fa parte di quegli italiani un poco dimenticati, ma che oggi sembra riemergere presso il grande pubblico, anche grazie ad alcune iniziative editoriali di alcuni importanti quotidiani italiani e alla riscoperta da parte di numerosi adepti della scrittura realista.
Fante nasce nel 1909, nell’“Italia dell’America dell’Ovest”, come veniva battezzato il verde Colorado dai primi emigranti italiani che approdavano a queste montagne. E gli italiani che arrivavano in queste terre erano montanari. John Fante con le sue origine abruzzesi (i genitori provenivano da Torricella Peligna) è uno degli scrittori che ha maggiormente contribuito alla diffusione della cultura italo-americana negli Stati Uniti.

Nel 1938, pubblica il suo primo romanzo, “Aspetta primavera, Bandini”, l’anno successivo “Chiedi alla polvere”. Dopo aver lavorato a Hollywood come sceneggiatore, pubblica altri tre romanzi: “Full of Life” (1952), “La Confraternita del Chianti” (1977) e “Sogni di Bunker Hill” (1982). Alla sua morte, avvenuta nel 1983 a Los Angeles, escono “Un anno terribile” e “A ovest di Roma”. Sarà Charles Bukowski a segnalare al grande pubblico dell’ultimo decennio questi “scritti con le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore…”. aspetta%20primavera

Da non dimenticare poi Pascal D’Angelo, che rappresenta un caso di letteratura della migrazione dimenticata, se non fosse per la riscoperta e la pubblicazione in Italia di “Son of Italy” (Ed. Il Grappolo), nel 1999. D’Angelo, che costituisce un vero fenomeno letterario, nacque a Introdacqua in Abruzzo nel 1894, per sbarcare poi a soli 16 anni a New York, raro caso di italiani immigrato in grado di leggere e scrivere. Impostosi uno studio ferreo dell’inglese, Pascal conobbe Mark Twain, che lo accolse sotto la sua ala protettrice, facendo conoscere il nuovo e giovane autore al pubblico americano. I due inventarono insieme una nuova forma di pubblicità letteraria: misero in scena una vera e propria tournée itinerante e uno spettacolo che desse risalto alle loro opere. Pascal si specializzò nel “Blatherskite” ossia in una specie di parodia di un discorso insensato. Nel 1924, pubblicò l’autobiografico “Pascal D’Angelo: Son of Italy”.

Ma non fu solo lui a scrivere sulla vicenda degli italiani in cammino. Luigi Ventura, nel 1886, scriveva “Peppino”, il primo romanzo sulla diaspora peninsulare. Risale al 1921, “The Soul of an Immigrant” di Constantine Panunzio. Il 1935 è l’anno del “The Grand Gennaro” di Garibaldi Lapolla. E ve ne sono molti altri. D’Angelo resta forse il più memorabile per aver trasformata una poesia autodidatta in una vera opera d’arte realista e toccante e per avere avuto la forza e la bellezza di dire che “quando scende la notte e il lavoro si ferma, badili e picconi restano muti e la mia opera è perduta, perduta per sempre. Se però scriverò dei bei versi, allora quando la notte scende e io poso la penna, la mia opera non andrà perduta. Resterà qui, dove oggi voi potere leggerla… Invece nessuno né oggi né domani leggerà mai quello che ho fatto col badile”. E così è. Oggi leggiamo e rileggiamo le righe di un grande autore che ha saputo descrivere con tanto realismo e pathos la vita e le sofferenze dei nostri migranti. Perché anche noi siamo stati migranti.

Da leggere

fante_annoterribileJohn Fante, Un anno terribile, Fazi Tascabili, 2001

Il libro, il più bello di Fante, racconta la storia del giovane Dominic Molise, figlio di un muratore italiano disoccupato, nella città di Roper, Colorado. Il protagonista, alla ricerca di un’occasione di riscatto dalla condizione proletaria della famiglia, incontra tutte le miserie quotidiane della vita di migrante in America, mettendo in scena tutto il mondo italiano qui trapiantato. Pagine toccanti, la storia di un ragazzo che non riuscirà a realizzare il suo sogno, in un Paese freddo e difficile, con un padre povero e incapace di aiutarlo.

Claudio Camarca, Migranti, Verso una terra chiamata Italia, Rizzoli, 2003

Le storie di uomini e donne che ogni giorno, per diverse vie, cercano di entrare in Italia nella speranza ed alla ricerca di una vita migliore e che spesso finiscono in campi profughi o a vivere una vita fatta di clandestinità ed accattonaggio. 9788817872027B

Per approfondire

El Ghibli – Rivista di Letteratura della Migrazione, clicca [qui]

NOTA A MARGINE
Idee, innovazione, futuro: le conferenze di Ted nei cinema di tutto il mondo

Palloni gonfiabili, simili a piccole mongolfiere, connessi tra loro via internet e in grado di sorvolare le zone più remote e irraggiungibili del mondo; racchiudere tutto, proprio tutto il codice del Dna di ogni singolo essere umano in una raccolta di 175 libri ciascuno; essere responsabili di oltre settanta ore di tv a stagione, amare il proprio lavoro e nonostante ciò trovare il tempo di dire sì ai propri figli. Questo e molto, molto altro, è Ted, il tradizionale ciclo di conferenze che annualmente si svolge a Vancouver e che negli ultimi anni ha spopolato in tutto il globo. La filosofia è semplice: ideas worth spreading, ovvero idee che vale la pena diffondere. Brevi ma intensi speech tenuti dalle personalità più innovative e brillanti del pianete in pillole di 18 minuti ciascuna, liberamente consultabili dal web e nelle quali vengono trattate le tematiche più svariate e interessanti che compongono il nostro globo, partendo da tre parole chiave: Technology, Enterteinment, Design. Ted, appunto.

Tutte le idee più geniali che interessano il nostro presente e il nostro futuro racchiuse quindi in una piattaforma che, nel tempo, ha raccolto oltre 8 milioni di fan e che martedì 16 febbraio è sbarcata per la prima volta via satellite in migliaia di cinema in tutto il mondo. A Ferrara la prima sessione di Ted2016 è entrata nelle sale del Cinema Apollo – “amico” di lunga data delle videoconferenze grazie alle passate proiezioni nell’ambito del festival di Internazionale – in lingua originale e in differita di ventiquattro ore rispetto alla conferenza che si sta svolgendo in questi giorni proprio a Vancouver.
‘Dream’, sogno, è la parola che viene accostata all’edizione 2016 dell’evento, perché “domani è un giorno promettente e pieno di possibilità”. Una di queste possibilità è stata illustrata da Astro Teller, capo di ‘X’, il laboratorio segreto di Google che attraverso la Moonshot Factory cerca di affrontare e risolvere grandi problemi: tra questi collegare in rete i quattro miliardi di abitanti del nostro pianeta che non hanno accesso a internet mediante i palloni gonfiabili prima citati, un folle e ambizioso progetto che solo l’eccentrico team X può prefigurarsi di realizzare in meno di dieci anni. A condividere la scena del teatro di Vancouver anche un italiano, lo scienziato Riccardo Sabatini, che nell’invitare sul palco una persona si trova davanti un’intera libreria: è questo il lavoro della Quantum Espresso Foundation, società da lui fondata e riuscita a ricostruire l’intera sequenza di un Dna umano in quasi trecentomila pagine, una tecnologia in grado di leggere il genoma per poter prevedere così il viso, il colore degli occhi e della pelle di una persona e così via. Si tratta di medicina personalizzabile, tanto estrema ma quantomai utile, come affermato dallo stesso Sabatini, per poter fare grandi passi in avanti nello studio di tante malattie.
E poi ancora i profondi interventi di un filantropo e imprenditore – Dan Pallotta – il quale ha ricordato quanto sia importante non far diventare i sogni fissazioni e di quanto questo nostro mondo necessiti di tornare ad essere curioso – e di Shonda Rhimes – conosciutissima sceneggiatrice e madre di serie tv del calibro di Grey’s Anatomy e Scandal, protagonista di un esperimento: dire sempre di sì ai figli e a tutte le cose che la spaventano nonostante il lavoro, che per quanto possa essere soddisfacente troppo spesso non ci permette di farlo.
Negli intermezzi spazio alla giovanissima scrittrice (dieci anni!) Ishida Katyal per ammonire gli adulti che non è più tempo di chiedere ai figli cosa vogliono fare da grandi ma cosa al contrario vogliono essere in questo momento e, infine, le melodie raga del compositore premio Oscar per The Milionarie A. R. Rahaman e la toccante performance di danza di Bill T. Jones, il quale alla venerabile età di sessantaquattro anni ha messo in scena 21 pose per illustrare lo sfondo del silenzio.

Insomma, sette preziosi interventi per dimostrare bellezze ed opportunità che la terra offre e potrà offrire. Un palco che nella sua storia ha visto avvicendarsi personaggi come Bill Clinton, Sergey Brin e Larry Page, Bill Gates e Jimmy Wales, e che inaugurando questo nuovo anno di conferenze promette interessanti novità. Un fenomeno in costante aumento e spesso uscito dalla sua sede canadese sbarcando in numerose località mondiali, Italia compresa (molti interventi sono consultabili anche su YouTube). In attesa del prossimo anno, tutto il mondo Ted è consultabile al sito ufficiale e, nello specifico, gli interventi della serata di martedì a questo indirizzo web.

IL DIBATTITO
Gli errori della sinistra nell’era del turbocapitalismo 2.0

Se si prende per buona la distinzione di Norberto Bobbio tra destra e sinistra (1994), e non pare ci siano buoni motivi per non farlo, la prima è tradizionalmente portatrice dei valori di libertà, mentre la seconda di quelli della giustizia.
Dovremmo perciò trovare nel campo culturale della destra impegno e attenzione per rimuovere prioritariamente gli ostacoli alle libertà personali, a partire dalla libertà d’iniziativa in campo economico. Quelle che tanta letteratura nelle scienze sociali e storiche ha chiamato le libertà borghesi. In quello della sinistra, invece, dovremmo trovare pari determinazione per affermare in primo luogo l’uguaglianza, la riduzione delle distanze, delle differenze.
Se fosse così, in un mondo nel quale ogni indagine e osservatore puntano il dito su distanze sociali ed economiche mai viste prima, ci si aspetterebbe, più o meno ovunque, la vittoria politica delle sinistre a mani basse. E invece non avviene, almeno non in misura schiacciante. Senza contare che laddove in Europa sono al governo più d’uno avrebbe dei dubbi nel definirle tutte ‘Sinistra’.
C’è, infatti, chi per sinistra intende che “anche i ricchi devono piangere” e chi, invece, al posto di un piagnisteo generale preferisce il modello più riformista di “tosare la pecora” capitalista, perché se si ammazza l’ovino poi non rimane più nemmeno la lana da redistribuire.
E’ il compromesso fra capitale e lavoro di cui parla anche Habermas in “Crisi di razionalità nel capitalismo maturo” (1973), in cui smentisce – come prima di lui Weber – l’analisi ortodossa marxista basata sul binomio struttura-sovrastruttura: non è per via razionale (cioè per lo scoppio endogeno delle contraddizioni economiche allevate dentro di sé: la struttura) che entra in crisi il capitalismo, ma per deficit di legittimazione, spostando così l’asse dell’analisi a quella che Marx avrebbe definito la sovrastruttura (per lui non determinante) del sistema socioculturale.
Ma allora perché se tutte le premesse sociali ed economiche ci sono la sinistra fatica ad imporsi sul piano politico?
Giuseppe Berta ha provato a dare una spiegazione nel suo “Eclisse della socialdemocrazia” (2009).
Osservando la parabola delle sinistre europee, principalmente nelle due declinazioni britannico-laburista alla Tony Blair e tedesca, lo studioso e docente bocconiano ha ravvisato due punti limite di quelle esperienze.
Nel tornante storico decisivo della globalizzazione dell’economia e dei mercati, sostanzialmente nel passaggio di secolo tra il XX e il XXI, la socialdemocrazia avrebbe compiuto l’errore fatale di credere che semplicemente assecondando un capitalismo che con la caduta delle barriere aveva messo il turbo ci sarebbe stata ricchezza per tutti.
Da qui la scommessa, blairiana e non solo, di puntare politicamente sugli skills, le capacità, su un deciso sforzo di formazione, per cogliere tutte le opportunità dell’economia della conoscenza, piuttosto che giocare difensivamente sui sussidi e altri strumenti del tradizionale asse Trade Unions – Labour. Da qui anche la stagione, tuttora in corso, di politiche del lavoro che chiedono cambiamenti, specie sul versante dell’offerta piuttosto che a quello della domanda, nel nome della flessibilità e della capacità di adattamento pretesa, e imposta, da mercati sempre più imprevedibili, volatili, just in time e delocalizzabili da un giorno all’altro secondo le convenienze.
La crisi, altrettanto globale, scoppiata tra il 2008 e il 2009, avrebbe rappresentato il capolinea (l’eclisse) di una socialdemocrazia teorizzata e declinata nella “Terza via” (Giddens), oltre che la fine politica del New Labour di Blair.
L’eccesso di fiducia in un sistema capitalistico che prometteva ricchezza illimitata, tutta giocata sul terreno delle opportunità piuttosto che su quello giudicato arcaico delle garanzie, nonché artificialmente basata sulla storica caduta del muro di Berlino che aveva bloccato il mondo novecentesco (la fine della storia), avrebbe fatto perdere di vista i mali di quel sistema. E dunque, lasciato correre a briglia sciolta, il capitalismo si è schiantato contro un nuovo muro di carta, più effimero ma non meno velenoso: quello della bolla finanziaria.
Luciano Gallino è stato fra quelli che con puntualità e linearità hanno descritto le radici di questa illusione, contestualizzando lucidamente in questa crisi strutturale del capitalismo anche le conseguenti, per nulla inevitabili, politiche del rigore che tuttora stanno abbattendosi sui sistemi di welfare, da sempre concettualmente strumento innanzitutto valoriale della cultura della giustizia sociale.
Sul versante del retroterra elettorale della sinistra, si è poi assistito al progressivo formarsi della società dei “due terzi”: quella che già Braverman in “Lavoro e capitale monopolistico” (1974) descrisse come l’evoluzione terziarizzata della società capitalistica dei servizi, più che delle fabbriche. Senza contare che ciò che Pasolini definiva il sottoproletariato urbano delle periferie oggi è sempre più serbatoio (tirato come le corde di un violino) delle nuove destre con venature localistiche, egoistiche e xenofobe, in preda alle nuove paure dell’insicurezza, ai contraccolpi di politiche dell’integrazione etniche, ormai a corto di respiro e di risposte e alle prese con la coperta sempre più corta di un welfare assediato dal mantra del rigore e del risparmio.
Il filosofo Remo Bodei lo scorso 29 febbraio, proprio a Ferrara, ha ricordato i pericoli di un sistema capitalistico che col processo di automazione 2.0 ha accelerato a dismisura le potenzialità della produzione, espellendo lavoro ben oltre le capacità legislative di crearlo all’interno degli inadeguati spazi nazionali, nonostante tutte le possibili flessibilità.
E il sociologo Bauman in una recente intervista su L’Espresso (18 febbraio 2016) parla dell’era di internet (ulteriore sfondamento sul terreno immateriale del sistema di produzione globale) come di un mondo sì a portata di dito, ma nei termini non di una comunità, bensì di una realtà sempre più puntiforme, isolata, che intrattiene rapporti virtuali e in cui, per tornare al tema, prevalgono le ragioni della distanza, della differenza, di un’inarrestabile diversità plurale, policentrica e conflittuale.
Lo stesso storico Massimo Faggioli, in una recente riflessione sul dibattito attorno alle unioni civili, riflette come l’ambito dell’affermazione dei diritti civili si affermi – più o meno ovunque in Occidente – a scapito e prescindendo ormai dalle diseguaglianze economiche e sociali.
Tanto che Bauman conclude emblematicamente la sua intervista: “Bello, giusto, d’accordo, ma cosa c’entra con il significato della sinistra? Cosa c’entra con la giustizia sociale, che era la ragion d’essere della sinistra?”.
L’impressione è che se si vuole che quel tempo imperfetto usato da Bauman (“era”) continui a essere un indicativo presente (“è”), occorre molto di più che una vittoria alle elezioni.

L’APPUNTAMENTO
Un altro mondo è possibile: dal mutualismo alla sharing economy

La crisi ha indotto molti a mettere da parte il galoppante individualismo e riscoprire il valore delle relazioni, il senso della solidarietà, il concetto di mutualità, il reciproco aiuto, la disponibilità a spenderci per gli altri e l’umiltà di chiedere agli altri senza eccessivi imbarazzi, in una ritrovata dimensione di civile reciproco sostegno. Siamo diventati più sensati e meno frivoli, guardiamo più all’essenza e meno all’effimero.
Significativo è il progressivo affermarsi – in ambiti ancora minoritari, ma in costante crescita – di una economia basata sul fondamento del baratto, che valorizza saperi e competenze e si orienta sul bisogno reale, piuttosto che ridurre tutto a termini monetari, con il prezzo quale unico indice di misurazione e il denaro come solo strumento di remunerazione.
La cosiddetta ‘sharing economy’ è l’esempio più dirompente di questa ritrovata sensibilità comunitaria e la dimostrazione che qualcosa sta cambiano: prestare, scambiare, condividere sono i verbi della nuova economia. Mettere a disposizione, superare gli egoismi regala una gioia nuova: il piacere della solidale complicità.

Il prossimo appuntamento del ciclo Chiavi di lettura organizzato di Ferraraitalia ha per tema proprio l’economia di scambio. Titolo: “Solidali e felici: dal mutualismo alla sharing economy, un altro mondo è possibile”. Le cose stanno cambiano velocemente e gli orizzonti che si dischiudono potrebbero essere gravidi di sorprese interessanti. Coworking, bike sharing, car sharing, car pooling, couchsurfing, hospitality club stanno diventando espressioni che designano nuovi stili di vita. Ne parleremo insieme valutando punti di forza e criticità. E soprattutto verificando se questo vento nuovo sta riorientando non solo i nostri consumi ma, quel che più conta, le nostre coscienza.

 

Appuntamento lunedì 29 febbraio alle 17 nella sala Agnelli della biblioteca Ariostea

Solidali e felici
dal mutualismo alla sharing economy: un altro mondo è possibile

 

L’INTERVISTA
Il peso delle parole

Le parole hanno un peso, una storia, una loro precisa collocazione nel contesto di una frase, di un testo, della vita delle persone.
Puttana, violenza, aggressione, sono tre termini che ricorrono nella vita di tutte le donne, traducibili in ogni idioma esistente, applicabili a ogni stato socioeconomico, declinabili all’infinito e sempre portatori di una valenza negativa.
Dominio, potere, controllo, sono tre termini che ricorrono nella vita di tutti gli uomini, anche questi sono traducibili in tutte le lingue, sono ugualmente applicabili a ogni stato socioeconomico, sono declinabili all’infinito, ma la loro valenza può essere varia, non necessariamente negativa.
Il peso delle parole è uguale al peso delle azioni e, applicando questo assioma al fenomeno della ‘violenza sulle donne’, lo scenario che si apre davanti ai nostri occhi è spaventoso. Per i numeri sciorinati, che pure sono importanti (nel 2014 il 31,5% delle donne ha subito violenza fisica e una percentuale che nemmeno l’Istat può calcolare con precisione, ma che si aggirerebbe intorno al 64%, ha subito violenza psicologica), ma soprattutto perché ci muoviamo in un mondo palesemente violento e violentemente giustificato.

#DearDaddy, guarda il video

Capire il fenomeno della ‘violenza sulle donne’ non è cosa semplice, da decenni ci si impegnano sociologi, psicologi, scienziati di ogni sorta e le risposte sono eterogenee, spaziano dalla crisi dei ruoli familiari a quella economica, passando per la fisiologia e la sociodinamica. Ma mentre gli scienziati studiano e i governi glissano, ogni cinque minuti una persona – che potrebbe essere nostra sorella, nostra amica, nostra figlia – subisce una forma di violenza perché donna. E non c’è centro antiviolenza, casa famiglia, centro studi sulla donna, ministero o corpo di polizia che possa farci venire a capo di questo fenomeno.

“Per affrontarlo in maniera realistica, efficace, bisognerebbe condurre una rivoluzione culturale. L’alternativa sarebbe ritornare indietro del tempo all’epoca della caverna e della clava. Lavorando da lì si potrebbe ricostruire un equilibrio corretto nel rapporto fra uomo e donna”, ha detto Francesco, operatore del Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Ferrara. Lui, Laura e Alessandra sono impegnati da tempo ad accogliere uomini che hanno praticato violenza, che hanno percepito la necessità di capire se stessi e trovare una soluzione a un problema che – alla meglio – coinvolge la vita di tre persone: l’uomo, la sua vittima e chi è loro accanto, sia esso un figlio, un parente o un amico. Senza valutare le implicazioni sociali della questione.
“Noi lavoriamo molto sul modo in cui la donna viene percepita, sia nei rapporti di coppia che proprio all’interno della società. Il problema è che la figura della donna nella nostra società quasi sempre risponde a dei modelli imposti e anche gli esponenti di rilievo del mondo femminile spesso ricalcano e presentano la loro adesione a tali modelli”. Modelli ovviamente imposti da maschi.

Nel giorno della quarta edizione di “One Billion Rising”, manifestazione planetaria contro la violenza di genere, vale la pena raccontare un pezzo di questa realtà da un punto di vista che definirei insolito, non per la sua stessa esistenza, ma perché non è praticamente mai oggetto di narrazione e riflessione: quello di chi la violenza sulle donne la vive per interposta persona, attraverso i racconti di chi la attua. Il Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Ferrara fa parte di un network di centri di ascolto e sostegno, che dal 2013 si occupa di accogliere gli uomini che hanno comportamenti violenti nei confronti delle loro compagne o ex compagne.
“Il Centro di Ferrara prende a modello Alternative to Violence, centro che opera a Oslo dagli anni Ottanta. I fondatori della scuola, docenti ai corsi di formazione che abbiamo seguito, ci hanno raccontato di come la loro esperienza sia nata grazie al rapporto e allo scambio con il percorso femminista in Norvegia e che, anche se oggi c’è una realtà molto grave per numero di episodi di violenza, lì c’è una grande consapevolezza circa la necessità della denuncia personale alle autorità competenti, ma anche della denuncia sociale. Gli episodi di violenza ci sono ovunque, ma nei paesi del Nord Europa viene riconosciuta come cosa da denunciare, nel nostro Paese si tace a livello personale e si giustifica a livello sociale. Siamo figli di un percorso culturale molto diverso”.

Fra il novembre 2014 e ottobre 2015 si sono rivolti al Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Ferrara 35 uomini, di questi 19 hanno iniziato il percorso proposto dagli operatori. Il primo passo è una telefonata. “Solitamente chiamano uomini che sono stati abbandonati dalla compagna-vittima, che quindi si ritrovano soli, arrabbiati e incapaci di guardare avanti. Spesso a farli arrivare qui è la volontà di riconquista della donna. Lo stesso vale per quegli uomini che si rivolgono a noi su spinta della donna, che cerca di farsi promotrice di un cambiamento. – ha spiegato ancora Francesco – Cosa li porti qui in realtà diventa marginale: per noi l’importante è poter fermare il circolo vizioso, fare in modo che la violenza cessi e accompagnare queste persone in un percorso di auto-consapevolezza. Il momento decisivo nella storia personale di ciascuno è chiamare, crediamo che sia la cosa più difficile per ognuno di loro. A seguito del primo contatto solitamente c’è un colloquio singolo, soprattutto per valutare il reale coinvolgimento dell’uomo, capire il tipo di violenza che ha agito, valutare assieme a a lui la possibilità di intraprendere un percorso. Un percorso che inizia con una serie di colloqui individuali, successivamente si arriva alla fase più significativa e spinosa: far accede l’uomo a un gruppo di altri uomini che hanno intrapreso un percorso analogo al suo. Qui egli si dovrà confrontare, imparare ad ascoltare gli altri, mettersi in gioco, sentire critiche e giudici senza subirli, prendere le proprie posizioni e difenderle senza aggredire, incominciare a comportarsi in maniera più rispettosa con se stessi e con l’altro, con le donne. In ogni incontro abbiamo sempre due mediatori, uno è donna, proprio perché così viene data la possibilità di capire qual è il ruolo e l’importanza della donna, ascoltarla, confrontarsi con lei senza partire dal presupposto donna = serie B”.

E’ lecito chiedersi se gli uomini che si rivolgono al Centro davvero riconoscono nel dialogo e nel confronto la parità? “Onestamente no, dipende dagli uomini, da qual è la loro storia”, ha raccontato Alessandra, che segue i gruppi psico-educativi con il presidente dell’Associazione, Michele Poli. “Alcuni probabilmente riescono ad arrivare a un certo punto, ad avere maggiore consapevolezza, altri fanno fatica. Il nostro obiettivo primario e comune è che si interrompano le violenze, ma sul modo di vedere la donna, di relazionarsi ad essa, a qualunque ruolo ricada, è molto più difficile. Lavoriamo sugli approfondimenti sul vissuto della persona, perché ognuno di loro è tenuto a raccontarsi agli altri, in questo modo si riesce a creare confronti costruttivi, ma la donna – in quanto tale – resta sempre il nodo da sciogliere”.

Secondo gli operatori del Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Ferrara, dei 19 gli uomini presi in carico in un anno e che hanno sostenuto almeno il primo colloquio conoscitivo, 17 hanno dichiarato di aver subito o di aver assistito a violenza, soprattutto da parte del padre. “Si tratta di un dato importantissimo, tenendo presente che nella ricerca Istat del 2015 sul tema, un dato riguardava la trasmissione dei modelli: quando i bambini avevano assistito a fenomeni di violenza fra genitori, i maschi hanno perpetrato i modelli del padre, le bambine quelli della madre”. Quindi il fenomeno cresce a livello esponenziale. La rivoluzione culturale si può instillare nella società, partendo dai bambini? “E’ difficile perché per quanto si vogliano costruire diversi riconoscimenti di ruolo, resistono degli stereotipi fissi, immobili: alle bambine il ferro da stiro, ai bambini il fucile come giochi.”.

Con modelli e stereotipi così radicati diventa difficile individuare strumenti efficaci per interrompere il fenomeno. “Secondo me servirebbe più cultura femminile. Cultura al femminile: leggere le scrittrici, scoprire le pittrici, le artiste, le filosofe, far emergere un ruolo della donna che è stato nascosto per secoli. – ha detto Francesco – Questo possibilmente con la collaborazione degli uomini, che è la cosa più dura da ottenere. Da maschio posso dire che noi abbiamo molta paura delle donne, della possibilità che voi siate molto meglio di noi. E’ una paranoia, non un problema, ma è frutto di secoli di dominio, di controllo. Il maschio è innamorato del controllo e la violenza diventa l’estrema ratio di questo controllo. Quando scopro che la mia partner, che io credo che sia mia, trascende il mio controllo vado nel panico, mi destabilizzo e questo scatena la consapevolezza spaventosa della mia impotenza e quindi… la meno, per sentirmi di nuovo maschio, per sentirmi di nuovo saldo nel mio ruolo di potere, per ristabilire il mio ordine rispetto alla nostra relazione. E’ molto banale ma è così.”.

Lo strumento principale per portare a casa una vittoria sociale così importante sarebbe il dialogo. Questo termine andrebbe sostituito a controllo e potere, ma non è un fatto da poco conto. “Nella violenza il meccanismo mancante è l’ascolto. Imparare ad ascoltare, comprendere le ragioni dell’altro sarebbero passi fondamentali e risolutivi. Sembra una cosa semplice e semplicistica, ma come tutte le cose semplici risulta essere la più difficile da mettere in atto, soprattutto perché parliamo di relazioni in cui il coinvolgimento emotivo è importante”, ha aggiunto Francesco. Utilizzare il dialogo come strumento di parità e crescita è una cosa che si può insegnare ai bambini, come una buona prassi culturale di base, come imparare a scrivere. “Noi in genere facciamo lavoro nelle scuole e lavoriamo nei licei a 14, 15 anni; portiamo una riflessione sul riconoscimento della violenza, che è una cosa molto difficile poiché ammanta la cultura, il quotidiano. Non è solo fatta di me che ti sparo, ma anche di te che mi parli e io non ascolto, è la frase buttata là che discredita quello che stai dicendo o facendo, è il mio minimizzare il tuo problema perché non lo reputo come tale”. Questa è violenza e, in questo senso, siamo tutti violenti. Invece insegnare il dialogo, praticare e insegnare la comunicazione non violenta, sarebbe risolutivo. Così come risolutivo sarebbe imparare che non si ha il controllo di niente e di nessuno. “Dobbiamo imparare ad accettare l’impotenza, ma noi non siamo stati educati in questo senso, non riusciamo ad accettarci come impotenti nella relazione, soprattutto l’uomo non può percepirsi come tale. Invece è nella natura delle cose non avere il controllo, eppure questo è vissuto come un fallimento: l’impotenza cozza con quello che ci viene propinato ad ogni livello. – ha spiegato Laura – Per esempio, in una relazione un donna che non si alinea alle idee e decide di andarsene scatena l’impotenza e per l’uomo è difficile accettare di non poter aver controllo sulle sue scelte e di accettare questa impotenza come una cosa che sta nella nostra natura.”

Questa ipercitata, ostentata, a volte millantata parità può essere quindi “il problema”? “Non è il problema, ma probabilmente problematiche sono le modalità in cui essa si è realizzata e si realizza tuttora. – ha raccontato Laura – La parità è stata vissuta come un’imposizione, non c’è stata una evoluzione comune dei generi. Penso al femminismo che ha raggiunto conquiste importantissime grazie alla riflessione delle donne fra di loro, ma non sono frutto di una comune evoluzione della comunicazione fra uomini e donne. I traguardi di parità e integrazione raggiunti non sono stati il frutto di richieste fatte da uomini e donne, assieme, in maniera condivisa. Sono state in qualche modo “imposte” all’universo maschile e non riconosciute necessarie da parte degli uomini. Questi accettano la regola della parità, ma non avendola partecipata non è detto che la rispettino. La parità della donna, della sua figura nel sociale, dovrebbe essere vista come conquista anche da parte dell’uomo, finché questo non la vedrà come una conquista anche per se stesso rimarrà imposizione e quindi potrà ancora portare all’espressione dell’impotenza, che si traduce quasi automaticamente in violenza.”

“Qualcuno non ce la fa a sostenere il confronto e quindi non ce la fa ad agire il cambiamento. – conclude Alessandra – Altri fanno un percorso magari doloroso e lungo, ma ad un certo punto la consapevolezza del cambiamento prende forma, fornendo una nuova visione della propria vita di relazione, anche con le donne, magari anche con la propria compagna o ex compagna”. Quindi, utilizzando le giuste parole possiamo tutti alimentare il cambiamento e la speranza.