A Ostellato oggi quasi 400 ragazzi dal territorio servito dalla nuova società
Si è conclusa con una festa gioiosa nella verdissima cornice delle Vallette di Ostellato, la prima edizione di ‘Pianeta Clara’, il progetto scuola promosso dalla nuova società frutto della fusione tra Area e Cmv Raccolta, operativa dal 1° giugno.
All’evento di oggi hanno partecipato 350 bambini di 16 classi, principalmente della scuola primaria, provenienti da diversi comuni del territorio servito dall’azienda. Si tratta di una piccola parte delle oltre 200 classi che hanno aderito, per l’anno scolastico 2016-17, al progetto voluto da Clara: quasi 4mila bambine e bambini che anche grazie a Pianeta Clara, aggiungeranno un tassello di cultura ambientale al loro percorso educativo e – questo è l’obiettivo e l’auspicio del progetto – diventeranno giovani adulti con una coscienza ecologica più solida rispetto a quella di molti adulti di oggi.
In occasione della festa sono state premiate anche le classi vincitrici del concorso “Chi è Clara?”: si tratta della 1^ e 1^ B di Comacchio e della scuola d’infanzia di Masi Torello, che hanno rappresentato attraverso l’uso di materiali riciclati o riutilizzati la loro idea di mascotte di Clara. Le tre classi hanno portato a casa materiali didattici e di cancelleria utili per le attività scolastiche.
Il programma di questa prima edizione di Pianeta Clara (che raccoglie l’eredità di ben tredici edizioni di ‘Progetto Quadrifoglio’) è stato particolarmente ricco e diversificato. Per la scuola d’infanzia, oltre al collaudato spettacolo teatrale “Io l’ambiente e tu” – una fiaba ecologica dove tutto, dai costumi agli oggetti di scena, è costituito da materiali riutilizzati o riciclati -, per la prima volta è stato realizzato un laboratorio didattico-scientifico anche per i più piccoli delle scuole dell’infanzia, “Magicabula”, che ha visto l’intervento in aula di uno scienziato a compiere delle vere e proprie magie con gli oggetti di scarto quotidiano, con l’intento di aiutare i bambini a riconoscere i materiali.
Per le primarie e le secondarie di I grado le proposte sono state numerosissime. Oltre alla riconferma dei percorsi interdisciplinari sui materiali (“Materiali secondo natura”), per conoscere sotto varie angolazioni carta, plastica, vetro, metalli e RAEE, sia con le elementari che con le medie si è indagato il rapporto tra ambiente e rifiuti, l’importanza di preservare la natura e l’impatto che l’abbandono dei rifiuti può avere sulla biodiversità. Questo tema è stato declinato nei due percorsi “Rifiuti che storia!” e “Stop and go” – caratterizzati da una innovativa metodologia di lavoro, che ha coinvolto i ragazzi nella realizzazione di un corto con la tecnica dello stop-motion. Un secondo tema è stato quello dei rifiuti organici, proposto alle classi tramite i laboratori “Un fantastico destino” e “Scarto matto” – per pensare ad utilizzi alternativi degli scarti alimentari prima di destinarli alla raccolta differenziata o per analizzare altre opportunità di trasformazione oltre al compostaggio. Per i territori che hanno recentemente nuovi modelli di raccolta, “Gira la ruota”, un incontro dedicato alla riflessione sul rapporto tra abitudini dell’uomo e territorio.
Alla premiazione erano presenti il Presidente di CLARA, Gian Paolo Barbieri, il Sindaco di Ostellato, Andrea Marchi, e il Presidente della Cooperativa Atlantide, Andrea Quadrifoglio.
Un itinerario attraverso la città per diffondere un’idea di turismo eco ed etico sostenibile: non turisti mordi e fuggi che galoppano dietro una guida e fagocitano tutto attraverso l’obiettivo di macchine fotografiche e smartphone, ma viaggiatori curiosi delle realtà e degli angoli meno conosciuti, consapevoli del proprio impatto sul territorio che visitano.
Un progetto per limitare lo spreco alimentare e la produzione di rifiuti, promuovendo la buona prassi di portare a casa senza imbarazzo eventuali avanzi dei pasti non consumati al ristorante.
Un laboratorio di pasta fresca con una sfoglina per studenti Erasmus.
Un’esposizione fotografica che racconta in bianco e nero il territorio del Delta, tra cielo, acqua e lembi di terra, uccelli in volo, reti e pali, barche e fari, onde e riflessi, mani come rami, conchiglie e meraviglie. Cosa hanno in comune? Il Ristorante 381 Storie da gustare di piazzetta Corelli gestito dalla Cooperativa Il germoglio Onlus. Non solo un bar-ristorante dove gustare buon cibo, ma un luogo dove si incontrano e si incrociano diverse esperienze, tutte accomunate dalle parole d’ordine: territorio, inclusione sociale, sostenibilità, eticità.
Chiara Nardone e Gaia Aragrande sono due dottorande del Dit, il dipartimento di interpretazione e traduzione del campus di Forlì dell’Alma Mater Studiorum di Bologna: “Quello che ci è piaciuto di 381 Storie da gustare, il motivo per cui lo abbiamo scelto è la capacità di coniugare sostenibilità etica, ambientale e sociale”. Ecco perché il ristorante di piazzetta Corelli è stata la tappa conclusiva del tour eco ed etico-sostenibile che Chiara e Gaia hanno organizzato lo scorso lunedì sera nell’ambito di It.a.cà. migranti e viaggiatori – Festival del Turismo Responsabile. “It.a.cà. (sei a casa? In dialetto bolognese, ndr) è un festival itinerante, la cui tappa più importante è Bologna, dove è nato, ma che nel tempo ha allargato la propria rete a Ferrara, Padova, Trento e altre ancora”, mi spiega Chiara. It.a.cà. mira a far considerare il viaggio non più solo vacanza e svago, ma un’esperienza capace di esaudire il desiderio di conoscenza e scoperta del mondo. E allo stesso tempo, a sensibilizzare i viaggiatori sull’impatto dell’industria turistica all’interno degli ecosistemi, naturali e cittadini. Così è nato il tour sostenibile di Chiara e Gaia, che ha portato i partecipanti nella Ferrara ebraica e nel Castrum e che si è concluso al 381 Storie da gustare, “per far conoscere una realtà che ha un impatto a livello sociale nella città”. “Abbiamo trovato un terreno comune nella costruzione di una maggiore consapevolezza”, aggiunge CarlaBerti de Il Germoglio: “far riflettere le persone su come le loro scelte come turisti, ma in fondo anche come cittadini, influiscano sulla realtà e sul territorio a breve e a lungo termine”.
Un momento dell’apericena
L’apericena di lunedì sera è stata anche un’occasione per Il Germoglio per far conoscere il valore aggiunto del cibo che si può gustare nel locale: il servizio di ristorazione viene gestito attraverso progetti di inserimento lavorativo di persone svantaggiate, nel senso più ampio del termine. Da qui il nome del ristorante, che fa sì che ormai a Ferrara in molti li chiamino “quelli dei numeri”. La 381 è la legge che nel 1991 ha creato, e da allora regolamenta, le cooperative sociali: lo scopo è “perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso la gestione dei servizi socio-sanitari ed educativi, lo svolgimento di attività diverse – agricole, industriali, commerciali o di servizi – finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
Al 381 Storie da gustare lavorano dieci persone, alle quali bisogna aggiungere le sei del 381 bar ristoro, in via Azzo Novello vicino alle mura cittadine e quelle dietro al bancone del bar dell’Ospedale del Delta a Lagosanto. Cristina, che lavora come operatrice con Il Germoglio da dieci anni, mi spiega che a suo avviso “il ristorante è il luogo ideale per coniugare attività imprenditoriale e inserimento lavorativo, ma forse per quanto mi riguarda è anche una questione affettiva: è il primo luogo dove abbiamo fatto inserimento”. “Il mio compito – continua Cristina – è trasmettere a chi sta con noi abilità e competenze nell’ambito lavorativo, ma in realtà diventano compagni di viaggio perché cerco sempre di mantenere un rapporto paritario, non replicare i rapporti asimmetrici che possono vivere fuori: se in cucina o al bar c’è da fare qualcosa, va fatta e basta, io li accompagno in un percorso che li renda autonomi nel farla. È un po’ quella che Amartya Sen chiama ‘capacità di vita’. Non è facile, anzi è talmente difficile che per chi lavora qui come dipendente o fa tirocinio qui diventa particolarmente bello e stimolante.” Me lo conferma Susy, l’aiuto cuoca: “Mi trovo bene con Cristina e tutti gli altri, anche i ragazzi che partecipano ai laboratori e che hanno fatto le cose che vedi qui. Prima lavoravo in profumeria, ma qui mi è scattato qualcosa dentro e ora non tornerei in negozio”. “Quello che mi piace del lavorare in una cooperativa come questa – mi dice Cristina – è che tentiamo di ridurre le disuguaglianze, spesso nate dai casi della vita: poteva capitare a me di nascere non normodotata o di vivere esperienze che mi rendessero particolarmente fragile, invece è capitato a qualcun altro. La cooperativa è uno strumento per fare qualcosa in prima persona per cambiare almeno un po’ quello che non mi piace in questo mondo. Se lavorassi in un’azienda che dà in beneficenza parte dei profitti non sarebbe la stessa cosa, qui la sostenibilità etica e l’inclusione sociale sono l’obiettivo primario, non una componente accessoria”.
Carla aggiunge: “il servizio di ristorazione si integra con la filosofia in senso ampio della cooperativa”, non solo per l’inserimento lavorativo, ma anche per quanto riguarda la sostenibilità ambientale: molti degli arredi del 381 sono frutto del riuso oppure sono prodotti con materiali di scarto durante laboratori per persone svantaggiate. Da qui anche l’adesione a RistoriAmo dell’associazione Officina dinamica: l’iniziativa mira a ridurre lo spreco alimentare e la produzione di rifiuti grazie al coinvolgimento di una rete di ristoranti virtuosi che danno la possibilità di portarsi a casa in modo sicuro e igienico ciò che si è ordinato ma non consumato. Il Germoglio è fra i primi aderenti. “Abbiamo conosciuto la cooperativa in occasione di AvanziAmo”, spiega Roberta Lazzarini, vicepresidente di Officina dinamica, “perciò abbiamo voluto coinvolgerla anche in RistoriAmo, perché la sua filosofia riflette i valori della nostra associazione”. “A ogni ristorante aderente a RistoriAmo vengono consegnate un certo numero di vaschette anti spreco, riportanti le corrette modalità di utilizzo di quanto asportato, secondo indicazioni fornite dall’Ausl, che patrocina il progetto insieme al Comune, il materiale promozionale da esporre nel locale e ognuno viene coinvolto in una sorta di co-redazione diffusa che poi pubblica notizie ed eventi sulla pagina fb del progetto”.
A tavola si mangia, si dialoga, si raccontano e si mettono insieme esperienze e differenze. Ogni atto legato al cibo, anche il più semplice e quotidiano, esprime una cultura. Dentro al cibo passano gusti e sapori, ma anche storie, saperi e valori. Sulle tavole di 381 Storie da gustare alla convivialità si accompagnano il desiderio di giustizia e inclusione sociale e l’attenzione per l’ambiente, il territorio e soprattutto le persone. “Cerchiamo di adattarci alle esigenze di chi usufruisce del nostro servizio e quindi le nostre diverse proposte nascono spesso come risposta alle necessità di chi si accosta a noi”, sottolinea Carla.
I prossimi appuntamenti sono l’8 e il 9 giugno. Giovedì 8 dalle 17.30 con il pastaLab per studenti Erasmus che si vogliono mettere alla prova con la ‘sfoglia’ e l’aperitivo ‘Learn, socialize and drink! Impara, socializza e brinda!’, organizzati da Elena Colombo e Mirco Pagliarani, laureandi della facoltà di architettura di Unife che hanno collaborato con Il Germoglio per la propria tesi. Venerdì 9 dalle ore 19, invece, con una nuova mostra del Fotoclub di Ferrara, da sempre un prezioso partner per il 381: l’esposizione si intitola ‘Quasi Mare d’aMare. La Sacca di Goro vista dalle Socie del FotoClub Ferrara: trittici di fotografie in bianco e nero’ e sarà visibile fino al 2 luglio.
In più, per tutto il mese di giugno si susseguiranno le cene speciali di ‘Una cena per raccontare un’emozione’, per conoscere e far conoscere tutti quelli che hanno collaborato quest’anno con il ristorante 381 Storie da gustare, dove le ricette sono soprattutto incontri.
Per maggiori info sugli eventi
320 2512214
0532 1866272
381@ilgermoglio.fe.it
La compagnia di taxi più grande del mondo, Uber, non possiede veicoli. La società di media più popolare del mondo, Facebook, non crea contenuti. Il più grande fornitore mondiale di alloggi, Airbnb, non possiede immobili. Il rivenditore più quotato al mondo, Alibaba, non ha inventario.
È l’economia della banda larga. Se le infrastrutture da sempre sono il fondamento della competitività economica, la banda larga è oggi l’infrastruttura regina dell’economia, e certamente la tecnologia che è cresciuta più rapidamente.
La banda larga permette città intelligenti: le smart city. Le tecnologie informatiche applicate alle nostre città le rendono migliori, consentono di gestire e monitorare accuratamente i processi urbani con risparmio di denaro, maggiore efficienza, offrendo un servizio migliore ai contribuenti.
Ma è proprio la diffusione della banda larga che ha alzato il livello della sfida, facendo della città intelligente una frontiera non più sufficiente. Non basta essere una smart city è necessario creare città migliori e per fare questo occorre divenire anche “comunità intelligenti”. Peter Drucker, economista, padre della scienza del management, nel 1973 aveva previsto che nel giro di due decenni sarebbe stato impossibile per la classe media mantenere il proprio stile di vita con il lavoro delle proprie mani. Già allora Drucker previde che il mondo che conoscevamo stava cambiando. Egli chiamò il nuovo lavoro che sarebbe stato richiesto alla classe media “lavoro di conoscenza” e le persone che l’avrebbero svolto “lavoratori della conoscenza”.
Nell’ultimo decennio del XX secolo e nel primo decennio del XXI la profezia di Drucker si è avverata. Oggi, tutti i posti di lavoro desiderabili nelle economie industrializzate, e anche in quelle in via di sviluppo, richiedono componenti sempre più elevate di conoscenza rispetto al passato. Le comunità intelligenti hanno come obiettivo quello di sviluppare una forza lavoro qualificata nel campo delle conoscenze, dalla fabbrica al laboratorio, dall’edilizia al call center o all’impresa.
L’opportunità di creare cittadini colti e competenti parte dall’infanzia e continua per tutta la vita, va dai programmi prescolastici alla scuola secondaria, dall’ istruzione tecnica superiore alle università. È compito dei governi delle comunità intelligenti coltivare e nutrire le risorse della conoscenza. Accrescere l’offerta di conoscenza sul proprio territorio, aprire campus dei saperi, promuovere programmi di arricchimento nel campo della scienza e della ricerca, portare risorse educative e investimenti culturali nella comunità. Cambia pure l’ottica del rapporto tra scuola e lavoro, perché il lavoro che è richiesto non è più la mano d’opera del passato ma il lavoro di conoscenza, per questo nelle comunità intelligenti il governo locale opera a stretto contatto con le scuole e con le imprese per offrire agli studenti esperienze di prima mano, corsi di specializzazione in grado di prepararli alle carriere nelle industrie leader ed emergenti della comunità. Crescere i propri lavoratori della conoscenza è una parte del compito, come mantenerli e attirarne di più è un altro. Le comunità intelligenti investono in risorse fisiche e digitali, ma l’investimento prioritario è sempre più quello nelle risorse umane, nel capitale umano come condizione per migliorare la qualità della loro vita.
L’economia a banda larga è un’economia basata sull’innovazione. Il primo requisito per l’innovazione è la conoscenza. La banda larga è diventata il grande oleodotto dove passa il patrimonio di conoscenze del pianeta, rendendo possibile agli innovatori di imparare più velocemente che mai. Un altro requisito critico per l’innovazione è l’accesso al talento. La banda larga ha consentito alle multinazionali e alle piccole imprese di accedere efficientemente ai migliori talenti del mondo.
L’innovazione è essenziale per l’economia interconnessa del XXI secolo. Le comunità intelligenti perseguono l’innovazione attraverso un rapporto tra impresa, governo e università. È il triangolo dell’innovazione o la “triplice elica” che aiuta a mantenere i vantaggi economici dell’innovazione a livello locale, creando un ecosistema di innovazione che impegna l’intera comunità in un cambiamento positivo.
Creare, attrarre e mantenere i lavoratori della conoscenza sono i passi più importanti che una comunità può intraprendere per aumentare il tasso di innovazione. A differenza delle attività tradizionali come la maggior parte di noi le concepisce, un’impresa innovativa è tutta di persone e costruita sulla forza lavoro della conoscenza. Sono le “gazzelle”, come le ha definite l’economista statunitense David Birch, piccole, agili e aggressive start-up con grandi ambizioni, affamate delle risorse necessarie per raggiungerle. Oggi le “gazzelle” di successo, questi hub della conoscenza, secondo l’Ocse, creano in tutte le nazioni industrializzate la crescita del reddito sul quale si alimenta il resto delle economie locali.
Le comunità intelligenti sono, dunque, diverse, le comunità intelligenti adottano la tecnologia ma non la producono. Al contrario trovano usi intelligenti delle tecnologie sulla base della loro visione e delle soluzioni da dare ai loro problemi più urgenti. Si assicurano di avere la banda larga e le infrastrutture informatiche necessarie per essere competitive, sapendo che si tratta solo di mezzi per raggiungere i propri fini. La maggior parte delle loro risorse ed energie è volta a produrre conoscenza, a sviluppare una forza lavoro della conoscenza.
Più sforzo entra nell’elaborazione di un ecosistema di conoscenza e di innovazione che coinvolge governi nazionali e locali, imprese e istituzioni, più si creano posti di lavoro di alta qualità e si soddisfano esigenze sociali. Molte smart city si limitano all’efficienza immediata, ai vantaggi delle nuove tecnologie, ma devono ancora intraprendere i primi passi verso la creazione di comunità intelligenti.
“Nevica in Danimarca e questi attori, i personaggi, attendono che il loro destino si compia”.
Quando poi della morte rimane solo il silenzio e l’odore, quando i personaggi hanno compiuto il loro tragico destino, quando il pubblico ha consumato il suo pasto e sazio dell’eroe ha lasciato il teatro per rientrare nella sua quotidianità, chi si occupa di seppellire i sogni perché il giorno dopo rifioriscano? E’ in questo interstizio fra l’attesa del proprio destino e il dopo il suo compimento che ha preso forma ‘Archivio delle anime. Amleto’, la riscrittura della tragedia shakespeariana andata in scena sabato sera al Teatro Cortazar nell’ambito del Totem Arti Festival.
La creazione di Naira Gonzalez e Massimiliano Donato, nella doppia veste di ideatore e unico interprete in scena, immagina un becchino, un po’ spettrale un po’ grottesco, che a tratti ricorda l’(A)Igor di Frankenstein Junior, che riallestisce per il pubblico che – suo malgrado – si trova di fronte l’Amleto di Shakespeare con l’aiuto delle ossa amorevolmente raccolte negli anni. Si fa – di nuovo suo malgrado – dinoccolato capocomico di marionette/attori/personaggi, mentre in realtà non è altro che in attesa, anch’egli, del protagonista: quell’Amleto condannato a rivivere per sempre la propria parte, il proprio tragico destino.
La piéce è un’Amleto stravolto, eppure riconoscibilissimo, e ri-creato nei dettagli che rendono la tragedia immortale: un continuo gioco meta teatrale, un linguaggio semplice e struggente, un ritmo forsennato, con Donato che non concede tregua a sè stesso e al pubblico, una maestria e una pazienza da artigiani nel lavorare su ogni particolare, sono gli ingredienti che rendono ‘Archivio delle anime’ poetico, popolare ed epico allo stesso tempo. Impossibile riportare tutte le originali e complesse scelte drammaturgiche, registiche e attoriali che fanno dello spettacolo una celebrazione, una esperienza di Amleto: come tale va esperita, punto.
C’è la tragedia dell’amore che non basta a salvare l’amore, c’è il cinismo che svela l’ipocrisia e l’imperfezione dell’uomo, c’è la poesia di chi non giudica tale imperfezione e c’è la denuncia che scopre il marcio degli uomini scoprendo così il tranello del mondo e di chi lo creò. Come i personaggi sono marionette manovrate in scena dal becchino capocomico, gli uomini sono marionette spinti da Dio sul palco della vita. E, infatti, Amleto entra come fosse spinto, senza essere spinto da nessuno, e duella con Laerte come fosse un pupo siciliano.
E alla fine di questa tragedia del disincanto, per placare il sangue, l’ira, la vergogna, l’amore, scende la neve a far calare il silenzio prima del sipario, a cancellare i segni del passare dei personaggi, perché la sera dopo li lascino come se non avessero mai percorso quella strada.
Chi da piccolo non ha giocato al gioco del “Facciamo che io ero”? Un astronauta, un medico, un insegnante, l’eroe o l’eroina preferiti: quando si diventa grandi si dice di ‘far finta’, ma da bambini per quel lasso di tempo lo si diventa davvero. Agli attori – ci avete mai pensato? – è permesso continuare a fare questo gioco anche da adulti. E i giovani componenti del collettivo bolognese Respirale teatro hanno deciso di sfruttare questa possibilità per costruire un gioco di riflessi sui Millennials, fra rappresentazione e autorappresentazione.
Sabato sera al Totem Arti Festival di Pontelagoscuro – organizzato da Teatro Nucleo con la direzione artistica di Natasha Czertok – è andato in scena il primo studio di questo esperimento intitolato ‘IOhERO’, dopo una residenza che ha visto gli attori Debora Binci, Michele Pagliai, Emanuele Tumolo e la regista Veronica Capozzoli ospiti delle sale del Teatro Cortazar nell’ultimo mese.
Alla ricerca di un’epica contemporanea, chiedendosi se in questo nuovo millennio esiste un nuovo Omero, individuale o collettivo che sia, i giovani componenti di Respirale sono arrivati a una narrazione, una rappresentazione che è in realtà una confessione della propria fragilità e delle proprie ansie di Millennials, i nati nel ventennio che va dal 1980 alla fine degli anni Novanta, che hanno attraversato il cambio di millennio convinti di esserne i nuovi eroi, pensando che ogni cosa fosse alla loro portata.
Ecco allora che l’Iliade, già di per sé ‘social’ come ogni mito e ogni narrazione orale trasmessi di generazione in generazione, diventa una battaglia navale 2.0, un gioco di ruolo on-line dove Achille e Paride sono i due profili scelti dai giocatori, con tanto di nickname e dichiarazione di social status. Gli eserciti schierati, pronti a confrontarsi presso le mura di Ilio sono “una generazione di fenomeni mobile (da leggersi all’inglese, naturalmente)”, tutti in scintillanti “armature recensite su Amazon”. A godersi “i duelli in streaming”, a guidare il gioco, allo stesso tempo algida dominatrice e fragile vittima, una Elena dai vertiginosi tacchi a spillo.
Poi cambio di scena, tre individui si muovono incerti come pedine su una scacchiera, affollando le orecchie del pubblico con i propri “io”, inconsapevoli l’uno dell’altro, per mancanza di capacità o volontà di conoscere e riconoscere le ragioni, i desideri, i sogni dell’altro: “sono qui”, “non ti vedo”.
Il mare della battaglia navale è diventato l’oceano di possibili scelte a disposizione dei Millenials nel quale è facile affogare se non si hanno gli strumenti adatti per la navigazione: esiste un’unica rotta da seguire, oppure ognuno deve tracciarsi la propria? In queste acque fanno capolino gli scogli di un’eterna formazione e di un lavoro che non è più strumento di emancipazione e le sirene che fanno impazzire “uomini e donne, laureati, formati, specializzati” nell’attesa di quella fama che non si raggiunge più – per fortuna – sui campi di battaglia a colpi di spada, ma dallo schermo a colpi di pixel e likes. Infine due minotauri contemporanei usano il filo di Arianna non per liberare, ma per ghermire e omologare: superata la soglia dell’homo videns, a che punto siamo ora?
Indovinato l’uso delle citazioni, in un intelligente mix di epica, pop e sottile provocazione. Ingegnoso uso delle luci e degli effetti sonori che tra teatro delle ombre e lampi pulsanti materializzano le inquietudini dei protagonisti e (forse) anche del pubblico.
“Biancoazzurro è il colore che amo: la Spal ieri, oggi e domani”: Mauro Malaguti del Resto del Carlino, Andrea Tebaldi della Nuova Ferrara, Alessandro Sovrani di Telestense e Costantino Felisatti dello Spallino, introdotti e interpellati da Sergio Gessi, direttore di Ferraraitalia, hanno riferito ricordi e pareri nel corso dell’ultima conferenza stagionale del ciclo “Chiavi di lettura, opinioni a confronto sull’attualità” organizzato da Ferraraitalia. Protagoniste nella sala Agnelli della biblioteca Ariostea, attraverso le voci dei cronisti sportivi e del pubblico, sono state le emozioni legate alle imprese della compagine biancoazzurra che, a compimento di due campionati entusiasmanti, ha ritrovato la serie A dopo 49 anni di attesa.
La scorsa settimana aveva scritto, come d’uso, un suo articolo per il settimanale di Ferraraitalia. L’intervista a una giovane cantante, Amelie. Nessuno poteva immaginare che quello sarebbe stato il suo ultimo scritto. William Molducci, giornalista, ci ha lasciati la notte scorsa mentre era in vacanza in Croazia, a seguito di un fatale malore. Musica e cinema erano le sue due grandi passioni, come cineasta ha ricevuto anche alcuni prestigiosi premi. La terribile notizia ci ha raggiunto questa mattina. Tutta la redazione di Ferraraitalia, sconvolta, partecipa al dolore dei familiari e rivolge al carissimo William un pensiero carico di affetto e di rimpianto.
All’approssimarsi dell’estate, come è ormai consuetudine, Ferraraitalia modifica in parte la propria proposta informativa. Così, anche quest’anno, il settimanale del venerdì lascerà spazio a una serie di dossier tematici, che riproporranno, ogni lunedì a partire dal 5 giugno e sino al 28 agosto, una selezione di articoli tratti dal nostro ricco archivio, che di volta in volta contribuiranno a fornire elementi di conoscenza spunti di riflessione in merito all’argomento affrontato. E’ un’opportunità per analizzare in maniera organica a approfondita un tema rilevante e magari un’occasione per molti di recuperare qualche intervento sfuggito nel corso dell’anno. Questa formula è stata particolarmente apprezzata in passato e la selezione di testi di archivio ancora attuali ha destato interesse e propiziato migliaia di letture. Confidiamo che lo stesso avvenga di nuovo. Qualche altra novità è allo studio e ci sarà presto l’occasione per presentarla pubblicamente.
Buona lettura
Lettrici, ma anche lettori, hanno definito quali sono gli uomini unici. Padri, mariti, amici, persone che fanno la differenza.
Rispetto e calcolo, a volte è difficile distinguerli
Ciao,
ho letto l’ultimo argomento sulla tua rubrica, molto interessante, credo che fornirà ottimi spunti di dialogo. Hai praticamente elencato tante di quelle qualità che dovrebbero essere patrimonio naturale di noi uomini, non tutti le hanno, siamo tutti carenti in qualcosa. A mio avviso, una delle qualità più importanti è quella di saper vedere una donna non solo come oggetto sessuale ma come persona, credimi, se si riesce ad andare oltre questa considerazione, molte strade si aprono per una reciproca comprensione e soddisfazione. La strada è ancora lunga e purtroppo anche ultimamente ho ricevuto conferme, infatti molti uomini non riescono a interagire con una donna se questa è gentile o premurosa, se per ragioni di lavoro si rivolge a loro in maniera educata, questi normalissimi comportamenti vengono ancora confusi con un’autorizzazione a provarci, chiedere il numero di telefono e scatenare tanti viaggi mentali. Mi piacerebbe che tutto questo venisse finalmente superato in modo tale da consentirci un rapporto più naturale e non di calcolo. Ho imparato molto dalle donne, qualcosa penso di averla data anche io, ma sicuramente è molto di più quello che ho ricevuto da loro, in particolare in quest’ultimo anno nel quale ho conosciuto amiche speciali. Con loro ho potuto apprezzare cosa vuol dire esserci sempre, non essere egoisti, volersi bene per quello che siamo, sorridere per le piccole cose, affrontare le proprie responsabilità senza tirarsi indietro, proteggere quando serve, ma soprattutto e questo grazie a un’amica veramente speciale, ho capito che a volte puoi creare imbarazzo a una donna se ti dimostri troppo protettivo, perché sembra che tu la consideri debole, incapace di fare da sola. Da allora agisco diversamente, offro il mio aiuto se serve, sono premuroso, facendole capire che sono pienamente cosciente del fatto che lei può fare qualsiasi cosa senza bisogno del mio aiuto, ma, qualora dovesse essere necessario, sa che può contare su di me e credo che questo soddisfi entrambi, sapere di esserci senza dover limitare la libertà e lo spazio d’azione dell’altra persona.
Detto questo, credo che sia essenziale saper ascoltare, cercare di essere attenti a piccoli particolari, gesti, che a volte possono essere richieste alle quali noi dobbiamo farci trovare pronti, in modo tale da esaudirle con discrezione. Quando si vuol bene alle persone, non dovrebbe essere difficile stare attenti a quello che ti dicono e non solo a parole, osservare se il sorriso arriva agli occhi, intuire lo stato d’animo, sapere quando tacere e quando invece una parola, un gesto, un abbraccio possono rivelarsi utili. Tutto questo discorso per concludere con l’unico vero atteggiamento che con una donna funziona sempre: il rispetto. Quando c’è questo elemento fondamentale, tutto il resto arriva facilmente
Buona giornata Riccarda.
Gigi
Caro Gigi,
il rispetto, appunto. Noi donne dovremmo imparare ad annusarli subito gli autentici per natura e quelli no. A guardarli bene, non sono proprio uguali, la spontaneità dei primi manca ai secondi. Nei non autentici c’è un’affettazione che è indizio di quel che succederà, dello scivolone in cui cadranno. Il bello è che fanno tutto da soli. La galanteria e la buona educazione precipitano se, poi si scopre, finalizzate ad altro. La cortesia calcolata dura poco, non ce la fa a resistere perchè viene sempre sopraffatta dal vero intento.
E allora crolla tutto e diventa una questione di rispetto. Mancato rispetto.
Riccarda
Ogni uomo è un vago ricordo del padre…
Cara Riccarda,
è vero, ci sono anche uomini unici, pilastri su cui contare. Pochi, ma ci sono. Uno è senz’altro mio papà, ma forse questo non vale. Poi c’è il mio grande amico G., uomo d’altri tempi, tutto d’un pezzo e con una parola sola. Lui ti dà tutto, ma se lo deludi, tutto ti toglie. Poche storie e forti, fortissimi principi morali. E’ capace di mille attenzioni per chi ama, su di lui puoi contare. Lui c’è sempre, nel bene e nel male.
Ho la fortuna di avere accanto altri due uomini speciali che stimo tantissimo, sempre gentili e attenti. Fanno le cose con il cuore e la loro dolcezza è innata. Uno è il marito dell’altra me, l’altro è la mia ‘donna mancata’. Adoro questi uomini unici.
Debora
Cara Debora,
in effetti il papà non vale. Non vale né cercarlo uguale perchè non esiste né, se non è proprio stato il massimo, tentare di ripararci con qualcun altro.
Eppure resterà sempre il nostro archetipo di uomo unico, di cui rincorreremo i tratti e gli spazi vuoti negli uomini che incontreremo.
Riccarda
Le debolezze degli uomini unici, questione di prospettive
Ciao Riccarda,
gli uomini unici ci sono, spesso si chiamano papà, ma a volte si trovano anche tra i comuni mortali.
Sono quelli che condividono le loro passioni e ti rendono partecipe della loro vita, quelli che perdonano i tuoi errori e ti chiedono scusa quando sbagliano, quelli che tornano a casa ogni sera e sono contenti di vederti, sono gli uomini che ti chiedono se sei felice e che nei piccoli gesti di ogni giorno dimostrano rispetto e discrezione.
Molto spesso gli uomini unici coincidono con quelli di cui tanto ci lamentiamo e forse i loro difetti dipendono un po’ da quale prospettiva li guardano i nostri occhi, ad eccezione ovviamente di quello definito da una tua lettrice “il maschio orango-disco rotto-sanguisuga-naufrago-mollusco-polipo” che quello, così è e così rimarrà sempre.
E.
Cara E.,
se tutto parte dalla prospettiva con cui li guardano i nostri occhi, occorre mettersi nella posizione, anzi predisposizione, giusta. E ancora più importante, è non guardare da un’altra parte.
Riccarda
Critiche, sberleffi, elogi… questione di merito!
Cara Riccarda
Dopo aver ironizzato e categorizzato il genere maschile eccomi di nuovo qui, stavolta con un messaggio diverso: il mio uomo “unico” l’ho trovato anzi è stato lui che ha trovato me. Ero “all’angolo coi pugni chiusi, con le spalle contro il muro pronta a difendermi“ incazzata e disillusa verso tutto quello che era xy.
Lui ha saputo ascoltare, parlare, aspettare, farmi vedere anche il lato positivo nelle cose, smussare il mio carattere difficile ( perché sì lo so che anche io ne ho di lati negativi eh), alleggerire il fardello che mi ero costruita negli anni.
Lui che è così come lo vedi, solido e trasparente, che non ha lati nascosti e che a pelle mi ha dato la sensazione che potevo fidarmi totalmente.
Poi anche lui ha i suoi difetti, mica è l’uomo perfetto! Però il suo essere imperfetto nella sua perfezione mi fa dire che fortuna che ho avuto a incontrarlo.
Perciò, uomini che la volta scorsa vi siete piccati vedete che in fondo non siamo solo capaci di criticare ma anche di elogiarvi… se ve lo meritate!
M.
Cara M,
gli uomini unici, dicevamo, sono quelli che fanno la differenza e mi pare che per te lui l’abbia fatta, ti ha tolta dall’angolo per abbracciarti al centro.
Riccarda
Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com
Sono trascorsi quasi cinquant’anni e nessuno, a Ferrara, ne parla più. Molti ricordano – ed è un bene – ‘La lunga notte del ‘43’ e ‘Amore amaro’: bellissimi film girati dal concittadino Florestano Vancini nel 1960 e nel 1974. E così pure ‘Il giardino dei Finzi Contini’ (1970), pellicola tratta dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani – il quale tuttavia rifiutò di firmare la sceneggiatura – che regalò a Vittorio De Sica l’Orso d’Oro al Festival di Berlino nel 1971, oltre che l’Oscar come miglior film straniero nel 1972. Quando va davvero bene, ma occorre fortuna, qualcuno rammenta inoltre che a Ferrara e dintorni sono stati girati squarci di due film sicuramente fondamentali per la storia del cinema, ‘Cronaca di un amore’ (1950) e ‘Il grido’ (1957), entrambi diretti da un altro concittadino divenuto giustamente e universalmente famoso: quel Michelangelo Antonioni che è persino riduttivo qualificare solo un regista e che – spero di sbagliare – molti stanno lentamente regalando all’oblio. Potrei continuare a lungo, ma gli elenchi mi annoiano: ho l’impressione che siano spesso snocciolati da chi ha poche idee.
La locandina di Giovinezza giovinezza
Di certo pochissimi ricordano invece che a Ferrara, nel 1969, si girò un altro film di pregio: si tratta di ‘Giovinezza, giovinezza’, tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Preti, uscito nel 1964 e poi tradotto in decine di lingue. E anche se nel libro l’autore trasfigurava la nostra città in una misteriosa Padusa, era peraltro chiarissimo che in esso si narravano vicende ferraresi. A firmare il film era Franco Rossi, assai noto in quegli anni per aver diretto ‘Odissea’, lo sceneggiato messo in onda dalla Rai nel 1968 con enorme successo di pubblico. Chi può mai dimenticare il terrificante Polifemo, realizzato da Mario Bava? Dietro la macchina da presa dipingeva la bellissima fotografia in bianco e nero del film ferrarese un ancor giovane Vittorio Storaro, il quale avrebbe vinto poi ben tre premi Oscar e contributo alla riuscita di alcuni lavori davvero preziosi, ne ricordo solo uno, il mio preferito: ‘Il conformista’ di Bernardo Bertolucci.
Tutte le pellicole che ho sopra menzionato sono state – fortunatamente – riversate in videocassetta (al tempo dei videoregistratori) poi in dvd (nell’era dei lettori); talvolta capita addirittura di scovarne qualcuna nella programmazione sempre più asfittica di Sky. Per ‘Giovinezza, giovinezza’ niente di tutto ciò. Il film è scomparso e la celluloide che lo componeva si è come metaforicamente sfarinata.
Molto ci sarebbe invece da dire su questo film, sul libro dal quale è stato tratto – pur discostandosene, se ben ricordo, in più d’un accento – e sull’autore di quest’ultimo: quel Luigi Preti, politico socialdemocratico ferrarese, membro dell’Assemblea Costituente e poi più volte consigliere comunale, oltre che deputato e ministro della Repubblica. Personalmente ho potuto assaporare la pellicola una sola volta, tanti decenni fa, nel corso di una rassegna organizzata da Paolo Micalizzi presso l’allora cinema Embassy, gestito dall’appassionato Antonio Azzalli. Poi il buio.
Eppure quel bianco e nero è ancora impresso sulla mia retina di (allora) troppo giovane cinefilo, così come taluni coraggiosi tagli d’inquadratura – indimenticabili quelli a perpendicolo del bugnato di Palazzo dei Diamanti o dell’ingresso della Sala Estense – l’inconfondibile sagoma liberty di Villa Melchiorri su Viale Cavour, utilizzata come abitazione di un protagonista (per gli interni pare che sia stata però utilizzata anche l’ex casa Quilici, di fronte all’Hotel Astra), o i set presso la Caserma di via Cisterna del Follo allora in pieno funzionamento o lungo la via Ripagrande. Ricordo una nebbia fumosa, all’epoca assai presente negli inverni cittadini, filmata con un’abilità tale da renderla materialmente e olfattivamente percepibile. E poi la storia, per nulla banale: un gruppo di studenti universitari, amici inseparabili, che per vie diverse raggiunge, nell’arco di un decennio, la progressiva consapevolezza del marciume e dei disastri provocati del fascismo, talvolta transitando dall’esaltazione inconsapevole del nuovo solo perché tale alla lotta nella Resistenza. Ricordo lo struggente finale che mi guardo bene dal raccontare. E rivedo, in un’eterna angolazione dal basso (ero un bambino), la troupe per le vie cittadine, riavvertendo lo sconcerto che colpì molti nostri conterranei allorché appresero che a interpretare uno dei protagonisti ferraresi era stato chiamato un attore parigino di bell’aspetto: quell’Alan Noury che sarebbe poi comparso anche nello scandaloso ‘Histoire d’O’ del 1975. Come dimenticare poi Olimpia Carlisi, divenuta famosa per aver presentato l’edizione del Festival di Sanremo del 1980 con Roberto Benigni, ma io preferisco rammentare le sue numerosissime interpretazioni cinematografiche per la regia di autori di gran classe: Giuseppe Bertolucci, Sergio Citti, Andrè Techine, Peter Del Monte, Rossellini, Ettore Scola, Fellini e chi più ne ha più ne metta.
Una curiosità: tra gli interpreti di ‘Giovinezza’ figura un tal Leonard Manzella che, con il nome d’arte di Leonard Mann, sarà qualche anno più tardi il protagonista maschile del già citato ‘Amore Amaro’ di Vancini, accanto a un’irresistibile Lisa Gastoni. E molti furono i ferraresi coinvolti nella lavorazione. Pensate solo a Beppe Faggioli o a Colomba Ghiglia, il cui nome figura in bella vista in tutte le schede del film e che (mi dicono) abbia abbandonato Ferrara già da qualche tempo, dopo aver gestito per tanti anni quell’indimenticabile ristorantino d’altri tempi che prendeva il suo nome in vicolo mozzo delle Agucchie.
La proposta è questa: perché non avviare una raccolta di fondi – crowdfunding si usa dire adesso – per restaurare questo film nell’approssimarsi dei suoi splendidi cinquant’anni? Presso la Cineteca Nazionale di Roma dovrebbe esserne conservata almeno una copia e, dunque, non pare impossibile rintracciare la ‘pizza’ da affidare poi agli esperti della Cineteca di Bologna. Potrebbe essere un modo per rivedere una città che non c’è più e respirarne l’aroma, oltre che l’occasione per recuperare un bel frammento di storia del cinema: chi l’ha detto che solo i capolavori hanno il diritto di vivere?
E, comunque, non mi va giù che ‘Giovinezza, giovinezza’ possa finire in polvere: se quest’esigenza sarà condivisa anche da altri e qualcuno potrà farsi carico di gestire la cosa (l’assessore Maisto, sempre molto sensibile su questi temi? Oppure l’Arci, che tanto ha dato alla programmazione cinematografica ferrarese?) l’obiettivo potrebbe essere a portata di mano. Altrimenti: scusate il disturbo.
*Docente di diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Ferrara (vrp@unife.it)
Mi rendo conto che quanto sto per dire può sembrare supponente o anche solo irrilevante. Può essere. Ma anche i semplici cittadini hanno il diritto di esprimere le loro opinioni e un vescovo è anche un’autorità civile; per questo come laico e agnostico (e un po’ anche come discendente di ebrei spagnoli migranti cacciati dalla Spagna da Isabella e Torquemada) mi fa piacere dire: benvenuto monsignor Perego! Con lei Ferrara sarà migliore!
Con il passaggio di testimone da Negri a Perego, a mio avviso, ci troviamo di fronte al passaggio da un vescovo che sta con le Crociate ad un vescovo che sta con il Vangelo. Lo so, è una semplificazione, ma, credo, non così errata.
Anche mi piace commentare l’ultimo intervento di monsignor Negri in merito alla recente tragedia di Manchester, intervento non distonico rispetto a tanti altri precedenti, e che quindi individua una definita cifra dell’uscente, e cito S. Paolo della Prima Lettera ai Corinzi: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei un bronzo risonante o un cembalo che tintinna. Se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla… Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte la più grande è la carità!”. Così Pasolini interpretava questo scritto: la fede e la speranza sono impensabili senza la carità:e non solo impensabili, ma rischiano persino di essere mostruose (cito a memoria).
Perego si batte a favore dei più deboli, chiunque essi siano, e fra questi, io credo, malgrado i danni che provocano, è giusto considerare anche quanti – come rosi da un tarlo interiore – scambiano il diverso, o ritenuto tale, per perverso o comunque per nemico. Forse fra costoro è da annoverare anche monsignor Negri.
A sinistra qualcosa si muove. E la direzione intrapresa, finalmente, sembra quella giusta. Campo progressista accelera il passo, conferma il suo fermo impegno per la rinascita di una forza politica che tenga ben saldi i valori fondanti della malconcia sinistra e sappia, sulla base di questi ideali, confrontarsi con le altre componenti interessate alla definizione di un progetto politico che propugna uno sviluppo concepito in senso civico e sociale e non economicista, che pone al centro della propria azione i temi del lavoro, dell’ambiente, della pace, dell’accoglienza e che si tiene al riparo da alleanze con chi difende gli interessi del capitale e innalza le bandiere del nazionalismo. No annunciato, in sostanza, a qualunque ipotesi di alleanza post-elettorale con Berlusconi (esito assai probabile in caso di affermazione del Pd di Renzi, intenzionato ‘obtorto collo’ a rinverdire la stagione delle larghe intese), e un fermo no pure alle piroette opportunistiche di D’Alema (e compagnucci) che dopo avere contribuito in maniera decisiva ad affossare la sinistra in Italia si propone ora come improbabile alfiere del suo riscatto. Insomma, il vuoto attuale a sinistra potrebbe essere colmato da una convergenza di soggetti attorno al progetto di Campo progressista che vede personalmente impegnati fra gli altri, accanto al’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, che ne è promotore, anche Laura Boldrini, ora Luigi Manconi, Claudio Fava, Miguel Gotor, forse Piero Grasso, Gad Lerner e magari domani pure Pippo Civati… (s.g.)
Ecco il documento-appello di Campo progressista: No alle larghe intese, lavoreremo per una nuova casa del centrosinistra Di fronte ai tentennamenti del G7 su clima e migranti, alla crisi sociale che devasta l’Europa e al ritorno dei nazionalismi, alla deprimente fotografia che ci ha consegnato l’Istat pochi giorni fa, le forze del centrosinistra avrebbero il dovere di costruire un programma comune, rinnovato e competitivo.
Purtroppo, il Partito Democratico sembra abbia abbandonato l’idea di ricostruire il campo dei progressisti, aperto al civismo, con valori condivisi e leadership scelta dal popolo del centrosinistra, per costruire, ancora una volta, le larghe intese con la destra. Quello che si va costruendo in queste ore è l’ennesimo forzoso tentativo di porre fine alla legislatura per iniziarne un’altra nello stesso modo in cui è finita la precedente: governando con la destra, accordandosi con Berlusconi. Con Pd, destra e Grillo, tutti uniti dal calcolo di interessi particolari, incuranti del superiore interesse generale.
Questo Paese merita di più. Il popolo del centrosinistra ha diritto a scegliere un’offerta che lo rappresenti, non a dividersi tra la sinistra che vuole governare con la destra E la sinistra che punta solo alla residualità, alla testimonianza fine a se stessa, buona solo per riportare qualche esponente politico in Parlamento.
Per questo, lavoreremo a una proposta elettorale e, soprattutto, a un progetto politico che punti a ricostruire un nuovo centrosinistra. Non la sinistra del rancore o ancora peggio della restaurazione, non un’alchimia elettorale, non la somma di piccoli o grandi partiti, ma una nuova e diversa prospettiva politica, concreta e contemporanea, che dia spazio a una nuova classe dirigente, alle tante competenze che impreziosiscono il Paese, che faccia tornare ad appassionare alla politica. Che non si arrenda alle larghe intese, che guardi al domani, non alla sopravvivenza dell’oggi. Chiediamo alle forze sociali, civiche, associative di lavorare insieme per un nuovo progetto che poggi i suoi piedi su due punti fondamentali: l’unità e la discontinuità. L’unità con un popolo: quello del centrosinistra, quello del civismo progressista, dell’ambientalismo, del cattolicesimo sociale, quello che da nord a sud sta già cambiando l’Italia ma che a livello nazionale sono anni che trova frustrati i suoi sogni. La discontinuità. Nel metodo di governo, nel decidere insieme anziché da soli, nel confronto con le parti sociali, nell’apertura al civismo. E nel merito: la lotta alla diseguaglianza e alla corruzione, la redistribuzione del reddito, la riconversione ecologica e solidale della nostra economia, la valorizzazione della dignità del lavoro.
Unità e discontinuità nell’orizzonte di un saldo e maturo europeismo, che si discosti sia da chi coltiva l’insensato proposito di abbandonare l’ancoraggio alle istituzioni e alla moneta unica – certo da adeguare – sia da chi fa dell’Ue il capro espiatorio di tutti problemi, praticando a metà quel sentimento antieuropeista. Un progetto che si batta per un’Europa che sappia essere punto di riferimento nel mondo contro i cambiamenti climatici, le povertà sociali, l’accesso all’istruzione e contro le guerre e per la pace.
Un nuovo progetto per mettere in campo la nuova casa del centrosinistra e per una politica che torni a dare speranza.
Il documento è sottoscritto da parlamentari appartenenti a vari gruppi (Partito Democratico, Articolo1-Mdp, Centro Democratico, Campo Progressista, Misto): Franco Bordo, Luisa Bossa, Roberto Capelli, Mario Catania, Eleonora Cimbro, Paolo Corsini, Donatella Duranti, Claudio Fava, Francesco Ferrara, Nello Formisano, Filippo Fossati, Miguel Gotor, Florian Kronblicher, Luigi Manconi, Giovanna Martelli, Toni Matarrelli, Gianni Melilla, Massimo Mucchetti, Franco Monaco, Marisa Nicchi, Giorgio Piccolo, Gaetano Piepoli, Michele Piras, Luis Alberto Orellana, Michele Ragosta, Lara Ricciatti, Michela Rostan, Arcangelo Sannicandro, Bruno Tabacci, Filiberto Zaratti, Davide Zoggia
Una dettagliata, interessantissima analisi di “Calcio e finanza” relativa ai bilanci della Spal: l’esercizio 2016 si è chiuso con un deficit di 1.326.104 euro, in lieve peggioramento rispetto al passivo 2015 di 1.156.483 euro. Negli ultimi tre anni la Spal ha perso complessivamente 2,9 milioni di euro, tutti ripianati dalla famiglia Colombarini. L’articolo riporta anche il dettaglio di spesa articolata voce per voce, con la specifica dei ricavi (biglietti, abbonamenti, pubblicità, contributi…) e delle uscite (cartellini e stipendi, materiali, servizi…).
“I giornali danno le notizie ma soprattutto devono facilitare la comprensione dei fatti, aiutando i lettori a cogliere le connessioni e il significato più profondo e strutturale degli avvenimenti, andando oltre la superficie e la mera apparenza”. Ospite di Telestense, per il programma “A tu per tu con…”, Sergio Gessi, direttore di Ferraraitalia e docente a Unife di Etica della comunicazione e dell’informazione, intervistato da Dalia Bighinati spiega il modello di “informazione verticale”, funzionale a favorire l’approfondimento delle notizie, necessario per garantire al cittadino adeguate chiavi di interpretazione dei fatti. In studio parla della crisi attuale e delle prospettive del giornalismo, e racconta la propria trentennale esperienza professionale di giornalista, comunicatore e formatore.
Dalia Bighinati
L’intervista a Telestense per il programma “A tu per tu con…”
Le enormi saracinesche nere abbassate sembrano due sonnolente palpebre chiuse. Nel centro cittadino l’ennesimo negozio è stato mandato ‘a riposo’: vuoi perché locato in altra sede – è il caso di Zara in via Mazzini, traslocato presso il centro commerciale ‘Il Castello’ – vuoi per definitivo abbandono, come i tanti nomi storici ferraresi, Pesaro, Mazzilli, Il Magazzinone, che hanno chiuso i loro battenti negli ultimi anni.
Dello stato di salute dei negozi del centro città parliamo con Giulio Felloni, imprenditore commerciale e titolare, insieme al fratello, della storica azienda di famiglia, dal 2012 presidente della Ascom.
Mi riceve nel suo ‘santa sanctorum’, come lo definisce lui stesso: un minuscolo ufficio pieno di carte e cimeli storici di famiglia. Gli premetto che si tratterà di un confronto sui ‘temi caldi’ riguardanti i negozi del centro che ho ricavato dalla chiacchierata con diverse persone fermate per strada, turisti e cittadini ferraresi.
Si ha l’impressione che i negozianti ferraresi si piangano addosso ma, in una città che si vuole definire ‘turistica’ sono i più restii ad aderire alle aperture domenicali e, soprattutto, a rinunciare al giorno di riposo settimanale del giovedì…
La chiusura settimanale serve per staccare dallo stress del lavoro. A differenza di quel che si pensa il negoziante il giovedì non riposa, ma ne approfitta per fare gli acquisti e gli ordini per il negozio che non riesce a fare durante la settimana. Il negozio tradizionale è l’unico che chiude il giovedì perché ha una forza lavoro più limitata rispetto ai monomarca, che possono permettersi un avvicendamento del personale. Inoltre sostengo che più importante del diritto del turista ci sia il diritto del lavoratore a potersi riposare nei giorni festivi. Se si tiene aperto qualcosa si fa sempre, ma bisogna chiedersi se ne valga la pena. Molto spesso il turista si aspetta di trovare i negozi aperti e la gente in strada, ma più per un fattore estetico che di reale bisogno. E’ necessario che in quei negozi ci entri e spenda.
Si può parlare di spopolamento dei negozi in centro per la concorrenza della grande distribuzione?
Ritengo che il centro sia ancora appetibile: è infatti difficile trovare un negozio libero da affittare. Ciò che è cambiato è il modo di operare perché a farla da padrone sono i grandi marchi e le formule in franchising, dove il rischio per l’imprenditore è più limitato. Il piccolo commerciante e i giovani fanno fatica. Non c’è più una banca del territorio e i giovani, per non parlare delle difficoltà dell’imprenditoria femminile, non riescono ad accedere al credito. Altro ostacolo, spesso insormontabile, è la burocrazia che rallenta anche valide iniziative private.
L’avvicendamento in centro dei negozi monomarca è poco significativo: l’importante è che il negozio non rimanga chiuso. Più grave è stata la chiusura, negli ultimi dieci anni, di nomi storici ferraresi: i centri cittadini sono tutti molto uniformati, omologati. Ovunque ci sono gli stessi marchi.
Sicuramente un grave problema è quello dei parcheggi…
Come presidente posso dire che Ascom si è battuta fino allo stremo perchè venisse accettato il progetto di un parcheggio sotterraneo in centro, come ormai è previsto in tutte le città turistiche. Si sarebbe trattato di un parcheggio non invasivo, disinquinante, necessario perchè sempre più persone possano usufruire del centro cittadino. Ci siamo scontrati con una mentalità inamovibile ancorata al passato. Se però Ferrara ha la velleità di voler essere una città turistica a tutti gli effetti, deve fare i conti con un cambio di mentalità, mettendo mano ai temi della viabilità e dei servizi da offrire ai turisti e ai propri cittadini. Ci sono poche persone, contrarie a prescindere a ogni innovazione, che aderiscono al motto per cui ‘non fare significa non sbagliare’.
In questo senso, quali sono i progetti della giunta comunale riguardanti il commercio?
Ci sono diversi progetti, ma il vero problema è la farraginosa macchina burocratica che rallenta tutto. In Italia si va a due velocità: l’imprenditoria vorrebbe più innovazione. Implementare la parte creditizia è fondamentale per impedire che tanti giovani vadano via.
Quale è il rapporto tra i grandi eventi cittadini e i negozianti del centro?
I grandi eventi culturali, come le mostre d’arte o il Palio, implementano di sicuro un turismo di qualità. In genere chi viene per assistere a un evento culturale è interessato poi a fare dello shopping. Nonostante i ferraresi, per carattere, siano negativi e appaiano dei detrattori nei confronti della propria città, in fondo la amano molto. Dobbiamo renderci conto del tesoro che abbiamo e dobbiamo riuscire a farlo fruttare, non sfruttare. Dovremmo puntare di più sulle nostre eccellenze enogastronomiche che tanti turisti apprezzano e ricercano.
E i Buskers?
Per i Buskers, così come per il festival di Internazionale, la gente è distratta dall’evento che calamita totalmente l’attenzione. Abbiamo provato a tenere aperti i negozi in centro ma non paga, proprio per i motivi che ho detto.
Un’ultima curiosità, che mi hanno fatto notare con insistenza diversi turisti: non si potrebbe curare di più l’arredo urbano? Molti notano la bruttezza delle fioriere di via Bersaglieri del Po usate come portacenere…
Hanno perfettamente ragione, ma noi negozianti non possiamo farci niente. Quella è competenza del Comune. Delle volte ci fanno problemi anche solo per mettere una pianta o un tappeto fuori dal negozio. Avevamo proposto anche di installare in via Mazzini, gli ombrelli ‘volanti’ bianchi e azzurri per festeggiare la promozione della Spal in serie A, ma niente…
Abbiamo ammiccato, categorizzato e d’istinto ne abbiamo parlato male. Le iperboli che sono uscite hanno divertito le donne, ma infastidito alcuni uomini dai quali ho ricevuto commenti piccati. Uomini che non si sono riconosciuti nelle categorie descritte e molto critici verso quei colleghi di genere che fanno di tutto perchè noi donne troviamo abbondanti esempi di egoisti, naufraghi, anaffettivi, immaturi et similia.
Sono gli uomini dalla nostra parte, che non vogliono stare in mezzo a quelli contro cui troppo spesso sbattiamo.
Sono gli uomini che rifiutano le classificazioni e le svuotano dall’interno della categoria tanto quanto noi le riempiamo da fuori.
Sono gli uomini della partecipazione perchè vogliono sapere e conoscere senza sfuggire.
Sono gli uomini che il disimpegno ostentato lo ritengono aridità.
Sono gli uomini per i quali restare a fianco non è debolezza ma solidità.
Sono gli uomini che non si vergognano se il loro baricentro è un punto condiviso con una donna.
Sono gli uomini della stima reciproca e non dell’utilità.
Sono gli uomini che ci sono e non come un’epifania.
Questo ho trovato nei loro messaggi.
E’ stato un gioco, ma possiamo, anzi dobbiamo, tentare di andare oltre.
Nelle categorie, scherzando, abbiamo messo il peggio che abbiamo conosciuto e c’è da chiedersi perchè il primo filtro sia stato negativo, quasi iconoclasta.
Vi propongo allora, amiche lettrici, di cercare il dettaglio, l’essenza che faccia la differenza. Per tutti gli egoisti che hanno preso più di quanto abbiano dato, ne abbiamo sicuramente trovato uno che non ha voluto niente in cambio, per i troppi narcisisti persi nella propria immagine, ci sarà stato qualcuno che ha saputo guardare oltre se stesso.
Avete voglia di raccontare un altro tipo di uomini, quelli unici?
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Saffie era una bella bambina di 8 anni che, dal concerto di Ariana Grande del 22 maggio a Manchester, non è uscita viva ma cadavere, falciata dalla follia kamikaze di Salman Abedi, anglo-libanese che ha scelto il foyer della Manchester Arena per portare a termine i suoi propositi suicidi. Fino ad ora sono solo 3 le vittime di cui è stata diffusa l’identità delle 22 complessive di cui ancora si sono perse le tracce. Giovanissimi recatisi al concerto della famosa pop star americana, insieme alle mamme o agli amici che ora cercano disperatamente, anche tramite i social media, loro notizie. Giovani vite spezzate: dietro le foto sorridenti, mostrate in tv, storie diverse.
Tante le parole di cordoglio ai feriti e ai famigliari delle vittime, dai grandi del mondo ai semplici cittadini che ieri si sono riuniti ad Albert Square per commemorare le vittime e condannare l’ennesimo, odioso atto terroristico. Una voce illustre si è levata anche dalla città di Ferrara ed è di ieri la lettera dell’ormai uscente arcivescovo di Ferrara, monsignor Luigi Negri, ripresa questa mattina dal Sole 24 ore e da Repubblica. “Figli miei – si legge – siete morti così, quasi senza ragioni come avevate vissuto” E continua “ Siete venuti al mondo, molte volte neanche desiderati, e nessuno vi ha dato delle ‘ragioni adeguate per vivere’ (…) ma vi faranno un ‘ottimo’ funerale in cui si esprimerà al massimo questa bolsa retorica laicista con tutte le autorità presenti – purtroppo anche quelle religiose – in piedi, silenziose”. Non mollando la presa Negri ribadisce la speranza che “incontriate il volto carissimo della Madonna che, stringendovi nel suo abbraccio, vi consolerà di questa vita sprecata, non per colpa vostra ma per colpa dei vostri adulti”.
La lettera prosegue poi con una invettiva quei guru – culturali, politici e religiosi che continuano a sostenere non si tratti di una “guerra di religione” e che che «la religione per sua natura è aperta al dialogo e alla comprensione». Ventidue vite sprecate, prive di ragione, da vive come da morte. Quasi inutile ogni commento. Non è la prima volta, d’altra parte, che il fedele discepolo di Don Giussani lascia senza parole: nella sua lunga carriera ecclesiastica, più volte è salito agli onori della cronaca per le sue invettive. D’altra parte, essendo un fervente ammiratore dei crociati “ Noi, cristiani del terzo millennio, alle crociate dobbiamo molto. Dobbiamo che non si sia perduta la possibilità dei grandi pellegrinaggi in Terra Santa. La fede dei crociati si è espressa nella violenza, ma non l’ha mai generata, una fede che è Una, e aveva bisogno del Corpo, di Gerusalemme”, si è lanciato lui stesso in diverse crociate: contro l’omosessualità e le unioni civili (“Chi celebra l’Eucarestia non può poi tollerare e consentire leggi che sono evidentemente eversive dell’antropologia personale e familiare che dall’Eucaristia scaturisce»), contro l’aborto (“Ebola spirituale”). Lo stesso Monsignor Negri avanzò l’ipotesi che dietro l’abbandono di Joseph Ratzinger ci fosse una congiura politica ordita da Barack Obama.
E come dimenticare, a livello cittadino, la volontà di inibire la piazza della Cattedrale ai giovani nottambuli dopo aver raccontato che “Tornavo a casa alle tre di notte. C’erano persone intente in atti di promiscuità. Ho visto scene di sesso tra due ragazzi e un gruppo, evidentemente ubriaco, coinvolto in atteggiamenti orgiastici. Io non ho mai visto un postribolo. Ma l’idea era quella”.
Al suo posto, a giugno, arriverà il cremonese Giancarlo Perego, direttore della Fondazione ‘Migrantes’ che si occupa della pastorale presso gli immigrati. Un cambio auspicato dai tanti, cittadini e fedeli, che nelle posizioni oltranziste di Negri non si sono mai riconosciuti.
La zona Gad è fra le più tristemente famose di Ferrara. Quasi ogni giorno si sente o legge di qualche scontro tra bande, spaccio, prostituzione, proteste dei cittadini che lì ci abitano. Basta scorrere un qualsiasi giornale che si occupi di cronaca locale per rendersene conto. E spesso i protagonisti sono cittadini di origine nigeriana. Allora proprio con una persona di questa comunità mi sono incontrato. E’ Yusuf Bello Osagie, titolare del negozio “In God we Trust” di via Ortigara. All’arrivo mi accoglie con un gran sorriso, mi fa entrare nel suo piccolo alimentari, con lui ci sono altri suoi conterranei, stanno festeggiando un compleanno. Mi fa cenno di sedermi e inizia una lunga conversazione, non c’è bisogno di fare domande. “La violenza che si verifica in queste zone io non me la so spiegare”, attacca. “Siamo venuti qui per migliorare la nostra vita e vorrei fare un appello a tutti i migranti: comportatevi bene”. Parole semplici, scandite in un italiano non del tutto spedito, ma chiaro. Yusuf è da sempre impegnato nella lotta al degrado del quartiere. Gli chiedo di continuare a parlare della situazione al Gad e del rapporto con gli italiani: “Dicono che gli italiani sono razzisti. Non è vero! Se ti comporti bene, ti trattano bene. Non è una questione economica o di colore della pelle, ma di comportamento”.
Rifletto molto su questa frase, lui sembra crederci, io un po’ meno. Ma lo lascio proseguire e gli chiedo la sua opinione sulle problematiche relative alla zona stazione: “Secondo me, per cambiare la situazione lì bisogna usare il pugno duro, bisogna controllare 24 ore su 24 quelle zone. Gli africani hanno paura della polizia. In Nigeria chi si comporta male viene sparato, chi ruba lo stesso”. Devo essere sincero, questa frase gliel’ho fatta ripetere svariate volte, ma approfondendo non credo voglia che si arrivi a questo anche qui. Continuando, Yusuf ritorna sui consigli per gli immigrati: “Tutti i migranti a Ferrara dovrebbero comportarsi bene, perché siamo persone, non animali. Ma spesso loro vivono come gli animali: pipì per strada, sporcano, buttano le bottiglie dal grattacielo”, e per i suoi colleghi commercianti aggiunge: “Anche loro devono seguire le regole, nel mio locale non ci sono delinquenti, non ci sono spacciatori né prostitute perché quando vedo un malvivente ho sempre chiamato le autorità. Anche gli altri alimentari dovrebbero farlo, non pensare solo ai soldi ma anche alla tranquillità.” Anche sugli orari di chiusura ha da dire la sua: “C’è un bar qui vicino che chiude in tarda notte e non crea tranquillità nella zona”. Poi per concludere aggiunge: “Non siamo tutti uguali, gli italiani non dovrebbero generalizzare, ci sono i migranti cattivi e quelli buoni, non bisogna accomunare tutti”. Non mancano poi ringraziamenti al sindaco e alle autorità, che dice essere sempre presenti e di aiuto a questa zona, ma che pure potrebbero fare di più.
Finita l’intervista lo saluto, esco fuori e camminando mi avvio verso il ‘giardino’, un gruppetto di ragazzi di colore è impegnato a parlottare. Si è fatto tardi, e noto così l’inizio del ‘turno’ di ronde delle biciclette, sulle cui selle sono sedute le vedette impegnate nel controllo delle zone di spaccio. Mi avvio verso l’auto, ma non è un addio, è solo un arrivederci…
Coltivare il proprio orto è esercizio che garantisce la sopravvivenza, del resto siamo deboli e dobbiamo prenderci cura di noi stessi.
Ferrara città di giardini è anche città d’orti, questi ultimi di solito un po’ defilati, situati in periferia e affidati alle mani operose di anziani cittadini.
Sarà che sono più cicala che formica, ma io amo i giardini, sono luoghi dove ci si incontra, si sta bene e fioriscono le idee, se poi uno ha la fortuna di avere un giardino nella propria infanzia quello non si scorda più. Sarà anche per l’effetto Bassani, ma i giardini a Ferrara hanno un grande potere evocativo, lo dimostra il successo dell’iniziativa “Interno verde”.
Ma orti e giardini qui sono un pretesto, una metafora per parlare d’altro, della mappa del territorio e semmai del territorio e della mappa che ancora non ci sono.
Ormai si sa che ce l’ho con la mania della Città della Conoscenza e, guarda caso, la metafora con cui gli studiosi della materia, dall’architetto Archigram Peter Cook a Francisco Javier Carrillo, la rappresentano è proprio il giardino, la città vista come un giardino dove dall’incontro delle persone nei differenti luoghi, per ragioni tra loro le più varie, indefinite o definite, fioriscono, s’incrociano, si diffondono pensieri e idee da condividere, da valutare, da usare per aprire strade nuove.
Nell’orto no. Pianti il tuo tubero e attendi che cresca, per te e i tuoi intimi.
L’orto non è un’idea di comunità, il giardino, sì.
Si dirà: l’orto è produttivo. È vero: produci e consumi. Sempre identico a se stesso. Vuoi mettere il giardino? Intanto non hai bisogno di spaventapasseri, non devi tenere alla larga nessuno.
Ragionavo di questi pensieri quando mi sono imbattuto in “Etopia”, il luogo dell’elettronica. È un Centro per l’Arte e la Tecnologia, realizzato da “Zaragoza City of Knowledge”, con il supporto del Ministero spagnolo dell’Industria, dell’Energia e del Turismo. È stato concepito come un centro mondiale per la creatività, l’innovazione e l’imprenditoria nella città digitale. Un modello di innovazione aperta in cui imprenditori, creatori, cittadini, imprese e ricercatori lavorano insieme per creare ricchezza, occupazione e conoscenza, al fine di affrontare le sfide urbane nell’era digitale. Tre grandi blocchi occupano una superficie di sedicimila metri quadrati, oltre agli spazi comuni che li connettono, ospitano altre strutture come: incubatore d’impresa, residenza per creatori e ricercatori, laboratori di creatività audiovisiva e tecnologica, laboratori individuali e di gruppo, aule, sale espositive, auditorium, caffetteria-ristorante, negozi, seminari e sale riunioni, uffici per progetti e spazi di collaborazione.
Non proprio un orto, ma un e-garden, direi.
La caratteristica di Saragozza è che la Municipalità nel 2004 ha dato vita alla Fondazione “Saragozza Città della Conoscenza” come progetto pubblico-privato per promuovere lo sviluppo della società della conoscenza. Attualmente oltre al Comune partecipano alla fondazione l’Università, la Fondazione Iberica per il Lavoro Sociale, Centri per la ricerca scientifica, docenti universitari, scrittori, personalità di rilievo nel mondo delle arti. Fin dalla sua istituzione, il finanziamento delle attività della Fondazione proviene in gran parte da fonti private. Il presidente del consiglio è il sindaco di Saragozza, né più né meno come il nostro sindaco presiede Ferrara Arte e Ferrara Musica.
Ferrara non è Saragozza, non montiamoci la testa, le dimensioni non sono confrontabili, ma le idee hanno il vantaggio di non avere dimensione, ma solo quello di essere buone o cattive.
Noi dalle pagine di Ferraraitalia abbiamo lanciato il Manifesto per Ferrara Città della Conoscenza, consapevoli che su questa strada si gioca buona parte del futuro sviluppo della nostra città, che il nuovo secolo chiede anche alla nostra città di ragionare in modo rinnovato sull’incontro tra economia e sapere, tra impresa e conoscenza, tra rivoluzione digitale e apprendimenti. La città della conoscenza è il nuovo territorio, basterebbe guardare oltre le nostre mura per rendercene conto. La nostra città ha risorse e cultura per disegnarne la mappa?
Io ritengo di sì, ma occorre che ognuno esca dal proprio orto, di associazioni, gruppi, amici di questo o di quello e incominci a pensare di essere parte attiva di un grande giardino, di idee, iniziative, e risorse, che possono migliorare e far crescere la città.
Ma chi deve unire gli orti perché compongano un grande giardino? Se non l’unico giardiniere che ha la responsabilità della città?
Con Saragozza abbiamo in comune le biciclette, potremmo anche tentare di avere in comune l’idea di Città della Conoscenza.
È il decano degli artisti ferraresi – Alfredo Filippini, 93 anni da compiere – a cui ora la Pinacoteca di Bondeno dedica una mostra personale con una carrellata di opere dagli anni Cinquanta ad oggi che mettono insieme dipinti e sculture. Nato a Ferrara il 22 ottobre 1924, Filippini inizia a dipingere molto giovane e il suo lavoro di impiegato in Ferrovia non lo distrae da una passione ininterrotta e arricchita negli anni da studi e specializzazioni in ambito artistico. «Ancora ragazzo – racconta il critico Lucio Scardino che ha curato la rassegna – prende lezioni dal pittore novecentista Ego Bianchi, in Valtellina, e poi già quarantenne si iscrive alla scuola di nudo dell’Accademia di belle arti di Bologna seguendo i corsi di Mascalchi e Montanari tra il 1968 e il 1971».
La statua di San Giovanni (foto GM)
A cinquant’anni inoltrati la voglia non dà segno di cedimenti ed è negli anni Ottanta che Filippini diventa allievo e poi collaboratore dello scultore Laerte Milani, docente nel laboratorio di arte allestito negli spazi fuori dal tempo dell’ex chiesa di piazzetta San Nicolò all’angolo con via Colomba, a Ferrara, dove ancora lo si può incontrare all’opera e in veste di maestro nei pomeriggi del fine settimana. Qui si dedica a creazioni ma anche a copie e restauro di opere antiche, come nel caso della statua in terracotta di San Giovanni Battista che si può ammirare in una strada del centro storico, nella nicchia della parete esterna del bar di via Cortevecchia (l’originale del ’400 è in Pinacoteca a Ferrara). La statua testimonia l’originaria presenza di una chiesa legata ai Templari in questo angolo di città: la chiesa della Trinità situata – si legge sulle pagine di “Ferrara nascosta” – nell’isolato compreso fra le attuali vie Cortevecchia-Boccaleone-Podestà-del Turco fino all’esproprio napoleonico (1798), citata in antichi testi come “Collegium hospitalis Sancti Johannis de Templo”, cioè dell’Ordine del Tempio.
Di stile invece personale la scultura di Filippini che si può vedere in un altro spazio pubblico di Ferrara, all’interno del Museo civico del Risorgimento e della Resistenza, ispirata al titolo del romanzo di Giorgio Bassani “Dietro la porta”. La terracotta realizzata nel 2010 mostra due adolescenti che origliano dietro una vetrata.
“Campagna dall’argine” di Filippini a Bondeno fino al 2 giugno 2017
A Bondeno sono esposti i dipinti che Scardino definisce di «un realismo atmosferico di grande finezza cromatica, con predilezione dell’ambiente ferrarese (come la veduta di via delle Volte e il Po di Pontelagoscuro dipinti nel 1950), ma anche di quello della costa romagnola (la foce del Bevano vicino a Cervia, del 2002) e delle montagne della Val Solda».
Alfredo Filippini (foto Giorgia Mazzotti)
Le statue partono invece dalla raffigurazione di antichi mestieri (lavoratrici della canapa, donne che vendono il pane, pescatori) «nel solco degli insegnamenti ricevuti dal suo principale maestro Laerte Milani», per arrivare fino alle più recenti produzioni plastiche di danzatori ma anche altre figure sportive come calciatori, pugili, sciatori, giocatori di basket.
I punti di riferimento artistici di Filippini sono il Rinascimento estense, il ferrarese Arrigo Minerbi (autore della statua dell’Acquedotto), Tiepolo, Donatello, Zurbaràn e sopra a tutti Michelangelo e Tiziano, di cui tiene copie di quadri a grandezza naturale appesi alle pareti della casa-laboratorio di via Boiardo, a Ferrara, come racconta Andrea Samaritani con parole e immagini in un articolo della Nuova Ferrara.
“Alfredo Filippini, dipinti e sculture” a cura di Lucio Scardino, Pinacoteca comunale Galileo Cattabriga, piazza Garibaldi 9, Bondeno (Ferrara), tel. 0532 899245. Visitabile a ingresso libero fino al 2 giugno, sabato ore 15.30-18.30, domenica e festivi ore 10.30-12.30 e 15.30-18.30.
Protagonista negli anni’ 70 e ’80 per la poetica sperimentale a Ferrara (e non solo, stagione di Luci della Città di S. Tassinari, della Poesia Visiva di M. Perfetti, L.Arbizzani, F. Manfredini e R. Trentini, della videopoesia di G. Toti, della scrittura anche verbovisiva di G. Berengan e M. Roncarà, del Teatro Nucleo nascente di C. Herrendorf e H. Czertok, del Centro Video Arte, dell’arte e-o la parola “rivoluzionaria” già di G. Testa e lo stesso M. Felloni) quando la Parola era ancora una Mappa non molto diffusa, a differenza del liquidismo non stop degli ultimi anni..: ovvero Pier Luigi Guerrini, poi dagli anni dieci del duemila ritornato in pista, sempre coerente con la sua scrittura di ricerca, anche sociale, ma mai banalmente tardorealista, sullo sfondo sempre l’archetipo del nuovo e del futuro, dall’immaginario.
D – Pier Luigi Guerrini, protagonista poetico a Ferrara negli anni ’70/80, un memo? R – Nel 1978 esce una piccola collettanea di poeti ferraresi di nascita o d’acquisizione. “Biottica delle parole superstiti”, questo era il titolo, nelle intenzioni degli ideatori doveva essere una rivista di poesia e critica letteraria ma, come spesso accade e non solo nelle situazioni di provincia, si fermò al primo numero. Al suo interno, c’era tra gli altri Alberto Poggi che ideò assieme a me la rivista “Po/etica/mente”, come testimonia un ciclostilato di due pagine con cenni poetici “mescolati” a spunti progettuali. Poi, il percorso di questa rivista prese una strada differente. “Poeticamente” si ricompose in un’unica parola e la redazione di fondazione (1980), sotto la direzione responsabile di Lamberto Donegà, vide la presenza di Emanuela Calura, Pier Luigi Guerrini e Roberto Guerra, oltre in seguito gli stessi C. Strano e il francese M. Kober. La rivista venne diffusa in una rete di piccole librerie militanti dell’area della nuova sinistra e, dopo alcuni numeri in cui si pubblicavano diversi interventi in prosa o in poesia di vari autori, si scelse la strada dei numeri monografici. Nel 1984 pubblicai, per le edizioni Ottantagiorni, il libro di poesie “Il fenomeno scomposto” e, l’anno dopo, in “Trame della parola”, Ed. Tracce, una piccola antologia poetica curata da Antonio Spagnuolo. Poi, pur continuando a scrivere parecchio, ho scelto di viaggiare poeticamente sotto coperta. Ho, invece, lasciato molti segni di stampa collegati da vicino ai percorsi lavorativi intrapresi (giovani, tossicodipendenze, disabilità). La mia produzione poetica è riemersa con decisione solamente dal 2010 in avanti.
D – Qual è il tuo pensiero sulla poesia sperimentale, oggi? R – Il mio non è un osservatorio dall’interno. Scrivere poesie, riflettere su questo strumento espressivo/comunicativo/creativo non significa avere “sotto controllo” o conoscere lo stato dell’arte poetica sia lineare che visivo-sperimentale. Colgo emersioni improvvise d’interesse sull’esperienza fantastica del Centro Video Arte di Ferrara e di tutto quello che vi si mosse intorno, ad esempio, poi cala di nuovo il silenzio. A proposito di quella bella e innovativa esperienza, ricordo quanto affermava nel 2001 la coordinatrice Francesca Gallo. “Negli anni ’70 e ’80 il Centro Video Arte è stata una struttura pionieristica nel panorama culturale italiano, proprio perché ha sostenuto e promosso non solo la conoscenza di questo linguaggio artistico in Italia, ma soprattutto per il suo impegno militante a fianco di sperimentatori che grazie a quel supporto (non solo logistico ma anche professionale e critico) hanno potuto produrre videotape e videoinstallazioni anche nel nostro paese, senza dover aspettare le borse di studio giapponesi o americane”. Io credo che ci sia ancora molto bisogno di sperimentare nella/con la parola. Penso sia un bisogno che non dovrebbe mai scomparire. Un bisogno di pensiero differente! Una parola fatta di suoni larghi, sintetici, di spazi/silenzi, di corse al rallentatore, di istantanee da rischiare anche se dovessero uscire “sfuocate”. Una parola che si trasforma in immagini. Una sperimentazione non accademica che non si arrenda ad una comunicazione che si concede troppo spesso alla velocità, alla “superficialità” e fatica a lasciare tracce significative, solchi. Una poesia che si presenta sempre più spesso sotto forma (e sostanza!) di chiacchiera dove “le parole non misurano niente, fanno giri inutili, mancano deliberatamente ogni bersaglio” (Tadini). Iosif Brodskij scriveva che “la poesia è anche l’arte più democratica – comincia sempre da zero. In un certo senso, il poeta è davvero come un uccello che canta senza guardare al ramo su cui si posa, qualunque sia il ramo, sperando che ci sia qualcuno ad ascoltarlo, anche se sono soltanto le foglie”.
D- Nuovamente operativo nel duemila. I tuoi lavori? R – Dal 2010 ho ripreso a pubblicare su alcune riviste on line e blog come, ad esempio, “Poetrydream” di Antonio Spagnolo. Nel 2014 ho realizzato l’ebook “In prosa per la foto”, Isnc Edizioni. Poi, ho pubblicato in numerose antologie tra cui:“Homo Eligens”, a cura di I. Pozzoni, deComporre Ed., 2014; “Sentire”, n. 44, Pagine s.r.l. Ed., Roma, 2014; “Chorastikà”, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis Ed., 2015; “Bustrofedica”, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis Ed. 2016; “XXXIV”, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis Ed., 2017.
D – Come definiresti la tua poesia? R – Per usare un linguaggio terminologico familiare a Deleuze, la mia è una ricerca costante tra il piano “virtuale” (che attiene ambiti quali la memoria, il sogno, le immagini del profondo, il fantasy) e un piano “attuale”, di contestualizzazione, di immersione nella quotidianità. Una poesia visuo-sociale, se mi è permesso definirla così.
Spesso, nell’esplorare i significati, le parole che diano il senso più vicino a quello che senti, c’è come uno svasamento dei bordi, un’interpenetrazione di tracce. Si cercano rimbalzi armonici e disarmonie. Sembra quasi di ricercare un senso fuori da un contesto qualsiasi, alla continua ricerca di un incontro tra ciò che si vede e ciò che si sente. Oltre ogni contesto conosciuto e/o di cui si è fatta esperienza.
In altre parole…
la lingua langue silenziosa
si genuflette riflessiva
accorpa pensieri, immagini, sogni
facendo ricorso
ai ricordi di ogni.
D- Pier Luigi, Ferrara città d’arte o anche mito e panem et circenses, visti i tempi liquidissimi anche in città? R – Gli esempi di vivacità culturale ci sono anche in una piccola città di provincia com’è Ferrara ma il linguaggio poetico stenta a bucare la crosta del panem. Causa la crisi economica e sociale che mette giustamente in testa il problema drammatico della mancanza di lavoro e di un futuro non solo per i giovani, a cui si aggiunge una classe politica che sembra non sapere in quale…verso dirigersi, dove orientare il proprio interesse perché composta anche di personale che non ha in agenda valori quali la solidarietà, l’umiltà e la competenza. Un personale politico che sceglie sempre più di rado tra gli operatori culturali dell’associazionismo disomogeneo ma competente. La tendenza, parere ovviamente personale che non pretendo sia condiviso, è verso un’autoreferenzialità politica rassicurante. La scorciatoia del pressapochismo è un mantra quotidiano. Una superficialità che, in assenza di preparazione culturale, si affida anche inconsapevolmente a forme di cinismo, snobismo o si rivolge ad improvvisati operatori culturali. Una cultura del “mi piace/non mi piace” con allegato l’indispensabile emoticon.
D – Quali progetti per il futuro? R – Sto ultimando il mio secondo libro di poesie che dovrebbe vedere la luce entro l’anno. Inoltre, assieme all’amica Laura Fogagnolo abbiamo intenzione di pubblicare un lavoro suddiviso in due parti. Nato come contributo/ ricordo postumo al poeta ferrarese Marco Chinarelli, precocemente scomparso negli anni ottanta (ricordo un quaderno monografico con alcune sue poesie uscito nel 1988 per le edizioni Poeticamente), abbiamo ritenuto potesse essere una cosa interessante fare una rilettura/riflessione degli anni ’70-’80 a Ferrara e provincia dal punto di vista culturale ed artistico, coinvolgendo alcuni protagonisti privilegiati di quel periodo.
Mi hanno raccontato una storia alquanto strana, ma molto divertente. Ve la voglio riferire: sarà vera? A voi l’ardua sentenza.
J era un tipetto sveglio sugli undici anni, simpatico, ma un po’ timido, non gli piaceva farsi notare troppo, ma era gentile con tutti e sempre il primo ad aiutare: i suoi compagni con i compiti a scuola, la mamma e il papà a casa. C’è chi chiede per non sbagliare e chi osa pur di continuare, J era fra i primi, tuttavia non si tirava indietro quando gli proponevano una nuova esperienza, una cosa mai fatta.
Da qualche tempo nel Paese dei mattoni gialli c’era qualcosa che non andava, tutto era sbiadito, grigiastro, ogni giorno sempre un po’ uguale all’altro. Eppure i più anziani si ricordavano di giornate spensierate, colorate, di risate squillanti e avventure impreviste.
Quando però cercavano di raccontare la loro infanzia ai nipotini questi non capivano:
“Ma come, voi non giocate?”, “Si nonno gioco: ieri nella mia camera ho giocato tutto il pomeriggio”, “E che gioco hai inventato?”, “Non l’ho inventato, era già pronto nella sua scatola!” O ancora: “Ma non stai insieme ai tuoi amici?”, “Ma certo nonna, a scuola siamo tutti nella stessa aula per tutta la mattina!”
Un giorno J stava tornando a piedi da scuola: aveva avuto compito in classe e per terminarlo aveva usato tutto il tempo a disposizione… più quei pochi preziosi minuti mentre gli altri consegnavano il proprio e al suono della campana facevano lo zaino, e così aveva perso il pullmino. Percorreva l’ultimo tratto della via prima del suo vialetto con la mente che tornava al compito: la geografia proprio non gli entrava in testa, chissà se aveva risposto correttamente a tutte le domande! All’improvviso una sagoma gli tagliò la strada andandosi a rifugiare dietro una siepe nel giardino dell’unica casa non abitata della strada. Ripresosi dallo stupore, J guardò dentro quella siepe: due occhi sbarrati dalle pupille a forma di spillo lo scrutavano. Era una micia a tre colori, bianca, rossa e nera, J si avvicinò e vide un buco nella siepe, lei si addentrò dentro il giardino: quando le si avvicinava, la gattina si allontanava, ma se J si fermava allora anche lei si sedeva e sembrava aspettarlo, la coda ricurva come un punto interrogativo, il fare altezzoso da piccola principessa.
J la seguì fin dentro quello che sembrava un capanno per gli attrezzi. Una volta aperta la porta però non c’era più traccia della gattina a tre colori. Si trovò in un luogo completamente diverso: era come se avesse attraversato una specie di portale, come quelli che solitamente si vedono nei film. Spaventato girò i tacchi e aprì la porta per filare dritto a casa, ma quando uscì si ritrovò in un piccolo parco sul retro di quella che sembrava una scuola. J aprì e richiuse la porta più e più volte, ma lo scenario non cambiava e lui era sempre più spaventato: dove si trovava? Come avrebbe fatto a tornare a casa?
Improvvisamente si sentirono delle voci, urla di gioia e di divertimento: di punto in bianco il giardino era stato invaso di tanti piccoli gruppetti di bambini. J decise di restare nascosto per il momento, in attesa di capire meglio cosa gli stava capitando. Mentre li osservava, notò che potevano avere più o meno l’età della sua sorellina più piccola, comunque non più di dieci anni, i loro capelli erano bizzarri, erano tanti fili sottili che con il vento si muovevano, e le loro mani avevano cinque strane protuberanze che usavano per afferrare le cose. “Ma in che posto sono stato catapultato?” Pensava J fra sé e sé. “Ciao! Come ti chiami?” J trasalì, tanta era stata la curiosità per quegli strambi bimbetti che, senza accorgersene, era uscito dal suo nascondiglio e ora una di loro, dai grandi, dolci, occhi scuri, gli tendeva la mano: “Io mi chiamo Tammie!” Lui, mentre tentava di capire come stringerle la mano, rispose titubante: “J”. “Che bello, come Junior e come Joy! Sai che sei buffo: è come se avessi i guanti, quelli senza le dita”: esclamò lei.
Quegli occhi profondi erano, chissà perché, rassicuranti e J decise di osare per continuare e provare a fidarsi: “Dove mi trovo?”. “Siamo a Ferrara, a Pontelagoscuro: questo è Il Castello, si chiama così dai tempi dei tempi. I grandi lo chiamano ‘centro socio-educativo’ e dicono che è retto da un tipo che si chiama Germoglio, noi non capiamo bene bene cosa voglia dire: qui non ci sono piante a dirci cosa dobbiamo fare, ma possiamo contare su ragazzi simpatici che d’inverno ci aiutano con i compiti e poi ci fanno giocare e d’estate inventano tante cose da farci fare e le fanno con noi”.
“Pontelagoscuro? Ferrara? Ma perché qualcuno dovrebbe costruire una città con un ponte su un lago dall’acqua scura? Mah! Maledetta geografia, la odio!”, pensava J mentre cercava di seguire le parole di Tammie. Intanto altri bimbi avevano fatto capannello intorno a loro, c’era chi ridacchiava guardando J, ma furono presto rimessi al loro posto, la maggioranza aveva già deciso: bisognava aiutarlo e l’unico modo era portarlo da Nando e Cami, gli educatori, loro avrebbero saputo cosa fare. Mentre attraversavano il parco, Tammie non la smetteva di parlare e spiegava a J tutte le cose che si facevano lì al Castello: “Ogni mattina facciamo qualcosa di diverso, stamani abbiamo fabbricato gli aquiloni, quelli che adesso stanno facendo volare là con Nando vedi?” Tammie indicava un gruppetto di bimbi intenti a far volare alcuni aquiloni con l’aiuto di un ragazzo più grande. “Usiamo solo cose riciclate, cioè cose che se noi non le adoperassimo, andrebbero buttate. Nando e Cami ci hanno detto che domani verrà un amico di un’associazione che si chiama Lipu per dirci tante cose sugli uccellini che cantano qui nel parco e insegnarci a costruire delle casette per loro e forse poi lo andremo anche a trovare dove lavora con gli altri volontari per vedere altri uccellini da vicino: non vedo l’ora! Il pomeriggio stiamo sempre tutti insieme qui in giardino per fare tanti giochi, ma il momento che mi piace di più è la mattina quando costruiamo le cose. Non c’è un momento delle giornate qui al Castello che non mi piace, ma forse quello in cui mi diverto un po’ di meno è quando dobbiamo fare le pulizie. Però so che se tutti ci diamo da fare per prenderci cura del posto dove giochiamo, sarà sempre bello e sarà un po’ come se diventasse anche nostro: me lo ha spiegato Cami e io mi fido!”
J era alquanto frastornato, era difficile seguire quel fiume di parole, entrarono nel Castello, a destra c’era la stanza della lettura e quella dei compiti, al muro ecco i turni per le pulizie e la mensa e il programma delle attività della settimana, accanto ai disegni dei bimbi, lungo il corridoio, fra gli armadietti personalizzati, Tammie e il resto della squadra di soccorso corsero incontro a una ragazza mora: quella doveva essere Cami.
Mentre Tammie spiegava a Cami la situazione – meno male che almeno lei sembrava averci capito qualcosa! – J pensava che i colori del giardino e dei disegni gli sembravano più sfavillanti rispetto a quelli del suo Paese dei mattoni gialli: chissà come mai?
Cami disse: “E’ un bel pasticcio. Devo parlarne con Nando, ma tranquilli troveremo una soluzione”. Al termine del consulto, Cami e Nando stabilirono che, anche data l’età di J, era meglio parlarne con “gli educatori dell’Indelebile”: “cosa centrava ora un pennarello? Saranno veramente in grado di aiutarmi?”, si chiese J.
E così lasciarono Nando con gli altri bimbi al Castello, mentre Cami, Tammie e J raggiunsero un altro edificio poco lontano.
“Ciao Peter!” esclamò Tammie correndo incontro a un ragazzino abbracciandolo. “Mollami Tammie! Non vedi che sono impegnato! E questo qui chi è?” “Si chiama J, come Jolly e come Joker” “E’ strano forte! Perché non ha le dita? E perché si guarda così intorno?” “Sto cercando il pennarello! L’Indelebile! Strano sarai tu con quelle cinque ‘cose’ che ti spuntano dalle mani e con la faccia piena di torta!”, rispose J, che – a dirla tutta – un po’ permaloso lo era. “Ma che pennarello! L’indelebile è il nome di questo centro, siamo tutti ragazzi dai 10 ai 14 anni e insieme ai nostri educatori abbiamo deciso di chiamarlo così perché volevamo un nome che restasse nel tempo, che non si potesse cancellare, proprio come le esperienze e le amicizie che viviamo qui!”
Peter era il fratello di Tammie, un tipo dai modi sbrigativi, ma sul quale si poteva sempre contare, e soprattutto molto curioso, non la smetteva mai di fare domande a Mel e Nic, proprio a loro Cami voleva parlare per riuscire ad aiutare J. “Perché hai la faccia piena di panna, Peter?”, chiese Tammie. “Non vedi che stiamo giocando maschi contro femmine? È un quiz musicale e quando riconosciamo la canzone dobbiamo prenotarci spiaccicandoci la torta sulla faccia. Le torte le abbiamo fatte noi questa mattina, L’indelebile si era riempito di farina, ma dopo mangiato abbiamo pulito tutto, altrimenti sai che confusione! Dai lasciami concentrare, che siamo in vantaggio”. Proprio mentre Peter stava finendo di parlare un altro ragazzo della sua squadra tuffò il viso nella panna e cominciò a ridere tantissimo, eppure non c’era nessuna canzone da indovinare. “Ma che fa?”, chiese J, “Ah, quello è Max – rispose Peter – ogni tanto fa di testa sua, ma è solo perché ha bisogno di giocare come vuole, basta lasciarlo fare per un po’ e poi ricordargli le regole del gioco. Lo abbiamo voluto in squadra con noi perché non si fa scappare una canzone, le sa praticamente tutte, pazienza se abbiamo dovuto preparare qualche torta in più!”. “Perché fate voi le cose che poi usate per giocare? Nel mio paese noi giochiamo con giochi già fatti: si fa prima!”, disse J rivolgendosi a Tammie e a Peter. “Sì, ma così possiamo crearli come piace a noi, come li abbiamo pensati con la nostra immaginazione. È divertentissimo perché non puoi sbagliare!”, gli rispose Tammie: in effetti il ragionamento non faceva una piega.
In quel momento arrivarono Cami, Mel e Nic: “Proviamo a sentire cosa ne pensano James e Alice, dell’Urlo”. “Come? Io non vengo in un posto dove si urla. Assolutamente no! E poi perché si urla?”, esclamò J: in fin dei conti li aveva appena conosciuti, tutti loro, va bene fidarsi, ma senza esagerare!
“Tranquillo! Non c’è nulla da temere – spiegò Mel, con tono rassicurante – l’Urlo è il nome del nostro centro di aggregazione giovanile qui vicino, in un posto che si chiama Barco, ci vanno i ragazzi più grandi di te, dai 14 ai 18 anni. Si chiama così perché cosa c’è di più liberatorio ed energetico di un urlo di gioia e di entusiasmo?” “Tranquillo sono tipi a posto! Noi dell’Indelebile e del Castello li conosciamo perché ogni tanto facciamo delle gite tutti insieme, come per esempio al mare”, aggiunse Peter. “Mmmh, un centro di aggregaz… cosa?”, chiese J. “Un centro di aggregazione giovanile: è uno spazio dove si può andare per incontrarsi fra amici, giocare in tanti modi diversi, partecipare o anche organizzare attività diverse e imparare a fare delle cose”, sorrise Mel.
J non aveva afferrato fino in fondo, ma capì meglio quando lui, Tammie e Peter, insieme a Mel, Nic e Cami, arrivarono all’Urlo: c’era un gran frastuono, ma non era fastidioso. Era come se qualcuno stesse suonando tanti ritmi tutti insieme: sbirciò da una porta e vide ragazzi più grandi di lui improvvisare su tanti tipi di tamburi diversi. “Vedi, questo si chiama laboratorio di percussioni”, spiegò Cami a J. Il nostro nel frattempo aveva notato che tutti stavano facendo tante esperienze diverse e si convinceva sempre più che tutto, qui in questa Ferrara, fosse più colorato rispetto al suo Paese dei mattoni gialli.
Improvvisamente eccola di nuovo: era la micina a tre colori, la causa di tutti i suoi guai. Dopo un’apparizione fugace nel corridoio si era infilata su per la scala: “Fermati tu, fermati brutta antipatica! Non so come, ma è tutta colpa tua se sono finito qui!”
“Colpa?” miagolò la gattina: “Hai vissuto un’avventura in un luogo in cui non eri mai stato, hai imparato che è più divertente dare sfogo alla fantasia e crearselo il gioco, invece che limitarsi a leggere le istruzioni sulla scatola, hai conosciuto tante persone simpatiche e gentili. E tutto in un solo giorno. Sei sicuro di non volermi ringraziare piuttosto? Non fa niente, ti aiuterò comunque a tornare a casa”. “Che presuntuosa! Però in fondo ha ragione!”, fu costretto ad ammettere J fra sé e sé mentre la seguiva dentro un vecchio armadio. Ed eccolo di nuovo nel vecchio capanno della casa disabitata nella sua via. Magico!
Nei pomeriggi seguenti J giocò all’aperto insieme ai suoi compagni di scuola e insieme si ingegnarono a ideare e costruire nuovi giochi colorati, mettendo ogni volta alla prova la loro fantasia. Ecco quello che mancava al Paese dei mattoni gialli: i caldi, sfavillanti colori dell’amicizia e dell’immaginazione.
“Oggi l’Europa e il mondo ci guardano, si aspettano che difendiamo ovunque lo spirito dell’Illuminismo a volte minacciato. La Francia li stupirà”. Queste le ispirate parole del neo eletto presidente della Francia Emmanuel Macron davanti ad una folla esultante di sostenitori, radunatisi il 7 maggio nella esplanade del Louvre per festeggiare la vittoria del suo ‘En Marche!’ su Marine Le Penn, con oltre il 66% di voti.
Il più giovane presidente della Repubblica dai tempi di Napoleone, né di destra né di sinistra, rappresenta di sicuro una chiara volontà dei francesi di non cedere alla tentazione dell’integralismo e dello spirito anti europeista, a dispetto dei recenti attacchi terroristici che rischiavano di influenzare il risultato delle elezioni presidenziali. Si pensava che le dichiarazione xenofobe della Le Pen avessero gioco facile, ed invece la voglia di nuovo che Macron rappresenta ha sbaragliato la concorrenza.
Di ciò che Emmanuel Macron rappresenta per la Francia abbiamo avuto modo di parlarne con Alexandra Dadier, parigina doc, attrice e regista teatrale nonché docente all’Universitè Paris Dauphnine (leggi anche http://www.ferraraitalia.it/un-anno-dopo-al-bataclan-la-testimonianza-di-alexandra-dadier-a-parigi-vince-la-vita-110087.html)
Ha vinto Macron o ha perso la Le Pen?
Ha perso le Pen semplicemente perché non poteva vincere. Non aveva le spalle per diventare Presidente della Repubblica. Si è chiaramente visto durante il dibattito fra loro due 15 giorni fa : non esponeva le sue idee, era solo aggressiva, non ha proposto niente di concreto. I francesi volevano un cambiamento. L’hanno avuto con Emmanuel Macron : giovane (39 anni), con un nuovo partito, né di destra né di sinistra, sorprendente e dinamico. Ormai ha il Paese fra le mani ma tutta la Francia rimane nell’attesa di quello che farà.
Dopo l’ultimo attacco terroristico sembrava che per la Le Pen la strada alla vittoria fosse spianata.Eppure i francesi si sono ribellati alla deriva nazionalista: come mai?
Una parte dei francesi hanno espresso la loro paura e il loro rancore nei confronti della politica votando per Marine Le Pen. Ma la maggiore parte dei francesi è troppo legata a l’Europa e scontra con le sue idee estremiste e nazionaliste. Hanno superato il nazionalismo semplicemente perché i francesi, nella maggiore parte, considera che la Francia deve rimanere un paese aperto sul mondo intero.
Emmanuel Macron, ex ministro dell’Economia ed ex banchiere: era un personaggio amato fin da allora?
E’ un volto nuovo, non lo conoscevamo proprio bene. Lo vedevamo un po’ come un ‘lupo della finanza’. Ormai la sua imagine è diventata più umana. Ma tutto è ancora da vedere…
Perché Macron ha convinto i francesi?
Perché i francesi volevano un cambiamento in politica, volevano uno che si impegnasse per loro. Non ne potevano più dell’assenza di dinamismo del governo precedente.
La Francia di Macron come risposta alla recente Brexit?
Si. La Francia non vuole rinchiudersi su lei stessa: è un paese di apertura, di cultura e di accoglienza.
E ora cosa ci si aspetta dal giovanissimo neo presidente?
Aspettiamo impegno, cambiamento e sopratutto ottimismo. I francesi hanno bisogno di vedere il futuro in un modo più positivo. Non dobbiamo mai dimenticare che è ben peggio altrove…
È la prima industria al mondo per impiego di manodopera, con una persona su sei che lavora nella filiera produttiva, e la seconda per inquinamento, preceduta solamente da quella petrolifera.
Di che settore stiamo parlando? Dell’industria della moda.
Quando parliamo di moda, pensiamo alle passerelle milanesi, ai fashion blogger e alla geniale creatività degli stilisti, ma oltre tutto ciò c’è l’industria che produce gli abiti che indossiamo tutti i giorni: jeans, magliette, felpe e maglioni. Solo guardando all’economia italiana, l’industria del tessile-moda è un comparto produttivo di enorme importanza: 52,4 miliardi di produzione nel 2015, 402.700 occupati e un saldo della bilancia commerciale di più di 8,5 miliardi, con un surplus secondo soltanto a quello della meccanica.
Tutti abbiamo sentito parlare – in maniera non troppo lusinghiera – del sistema dei fast-food: chi ha mai sentito parlare – nel bene e nel male – della ‘fast-fashion’? Chi si ricorda della tragedia di Rana Plaza, in Bangladesh, dove nel 2013 un edificio si è accartocciato su se stesso inghiottendo più di mille lavoratrici, forse il più grave disastro nella storia dell’industria tessile?
Ebbene, la ‘fast-fashion’ è la rivoluzione che ha portato nei negozi delle grandi catene di abbigliamento 52 stagioni l’anno al posto delle tradizionali autunno/inverno e primavera/estate, con nuovi modelli di capi di abbigliamento praticamente ogni settimana, e che ha prodotto una deflazione progressiva del prezzo di ciò che indossiamo, soprattutto grazie all’esternalizzazione della produzione verso paesi a basso costo di manodopera (basti pensare che fino agli anni Sessanta l’America produceva il 95% dei suoi vestiti, oggi ne produce solo il 3%). Ecco che, come per magia, attualmente compriamo più di 80 miliardi di capi di abbigliamento all’anno: +400% rispetto a 20 anni fa.
Il vero costo di questa rivoluzione al ribasso ce lo rivela il film documentario ‘The true cost’ del giovane regista americano Andrew Morgan (prodotto da Livia Firth, sì, proprio la moglie di quel Colin, da sempre impegnata in questo ambito). ‘The true cost’ racconta il mondo produttivo dietro le grandi catene del fast fashion, rivelando i costi umani, sociali e ambientali che possono celarsi dietro un abito, dalle operaie senza diritti del Bangladesh e della Cambogia, ai coltivatori di cotone del Punjab e del Texas, strozzati dai nuovi padroni delle sementi e costretti a violentare la terra con pesticidi e fertilizzanti. ‘The true cost’ dà anche voce a chi in quegli stessi luoghi a questo sistema si oppone, impedendoci di nasconderci dietro alla scusa che ‘è l’unico sistema possibile’ e aprendoci gli occhi sul consumismo eccessivo e indotto, che ci spinge a comprare a poco prezzo cose di cui non abbiamo davvero bisogno e che quindi butteremo a cuor leggero aumentando inquinamento e povertà, mentre ciò di cui necessitiamo davvero – casa, istruzione, servizio sanitario – quello sì diventa un lusso.
La locandina del documentario
Inutile dire quanto poco ‘The true cost’ abbia circuitato nelle sale, il 12 maggio arriva a Ferrara portato dalla cooperativa di commercio equo e solidale ferrarese AltraQualità nell’ambito della campagna ‘permanente’ Abiti Puliti: il film sarà proiettato alle 20.30 nello spazio teatrale di Ferrara Off, in via Alfonso I d’Este.
“Lo abbiamo visto per la prima volta nel 2015 alla Settimana mondiale del commercio equo e solidale di Milano: era la seconda volta che veniva proiettato i Europa, prima era stato solo al festival di Cannes, e la sua prima italiana”, mi spiega David Cambioli di AltraQualità. “Abbiamo voluto portarlo a Ferrara – continua David – perché ritrae in maniera precisa, persino cruda, come funziona il sistema della moda, su quali presupposti si basa oggigiorno: lo sfruttamento dell’ambiente e degli esseri umani. Come AltraQualità siamo soci della campagna Abiti Puliti, che possiede i diritti per alcune proiezioni italiane e ci ha concesso di farne una qui”. L’intento “non è colpevolizzare le persone, ma renderle consapevoli. Il film mostra come ambiente ed esseri umani in tutto il pianeta siano legati da un filo, in questo caso di cotone. È una questione di scelta: come consumatori non siamo colpevoli, ma responsabili”. “Sappiamo che in Italia è molto difficile comprare moda etica rispetto ad altri paesi europei, ma se chi acquista comincia a lanciare piccoli messaggi, a chiedere semplicemente dove e come sono fatti i vestiti, qualcosa pian piano si smuoverà: magari tanti piccoli produttori che hanno lanciato o vogliono lanciare linee di abiti ‘puliti’ diventeranno più forti. È una questione di mentalità: vogliamo far capire che le produzioni sostenibili non sono ‘sogni da anime belle’, sono un modo diverso di fare impresa e creare lavoro”. Quando gli faccio la classica obiezione sul costo a volte, anzi spesso, ‘di nicchia’ dei prodotti fair trade, intuisco subito che è un argomento al quale David è ormai abituato a rispondere. “Per certi aspetti è vero, ma la realtà è che manca un’economia di scala e soprattutto, il costo così basso, troppo basso, di quella maglietta qualcuno lo paga in ogni caso: la manodopera e i produttori sfruttati e avvelenati, l’ambiente inquinato dalle sostanze chimiche e dai rifiuti che aumentano, il consumatore stesso, che indossa cose prodotte con agenti chimici che spesso si dimostrano dannosi per la salute”.
Venerdì a presentare ‘The true cost’ a Ferrara, con David ci sarà Deborah Lucchetti, presidente di Fair, cooperativa sociale nata per promuovere economie solidali, attivista e coordinatrice della campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, coalizione internazionale che da trent’anni promuove i diritti del lavoro nell’industria tessile globale. “Clean Clothes è una rete che si snoda in 17 paesi europei e coinvolge più di 200 soggetti in tutto il mondo, una rete fatta di sindacati, ong, singoli attivisti, in molti casi donne”, mi dice Deborah, “l’obiettivo è la promozione e la tutela di tutti i lavoratori del settore dell’abbigliamento e delle calzature attraverso attività di advocacy e di lobby presso istituzioni nazionali e internazionali”.
Le chiedo quale sia la situazione nel nostro paese: esiste un made in Italy dall’approccio equo e sostenibile? “C’era un tempo nel quale molte delle fasi della produzione e del confezionamento venivano fatte in Italia, oggi la situazione è cambiata e molte produzioni sono state spostate all’estero a terzisti e a fornitori esteri, ma ci sono ancora tanti laboratori e terzisti che producono per grandi marchi. Produrre in Italia però non è sempre sinonimo di qualità sociale e rispetto delle regole, può accadere anche qui e non soltanto all’estero che ci sia convivenza fra sistemi di economia legale che rispettano regole e contratti e sistemi di economia illegale, con manodopera in nero e violazione di diritti dei lavoratori. Il problema è che il sistema comprime i costi al ribasso verso la parte bassa della filiera produttiva, verso terzisti e fornitori, quindi qui si creano situazioni di irregolarità che possono riguardare terzisti stranieri ma anche italiani, oppure ci sono casi di laboratori che chiudono perché i prezzi bassissimi imposti dalle griffes li costringono a violare le norme sul lavoro o a chiudere”.
Anche per lei c’è molto da fare dal punto di vista della crescita della consapevolezza: “l’attrazione che esercita la moda facile è molto forte e sicuramente la crisi che ha colpito il ceto medio in Italia, ma non solo, non favorisce questa crescita, anzi favorisce il consumo di merce a basso costo e qualitativamente scadente, e d’altra parte non siamo salvi nemmeno con il lusso: il lusso produce spesso esattamente negli stessi modi della fast-fashion”. Ma perché si sa ancora così poco di cosa c’è dietro lo sfavillante mondo della moda, o meglio perché se ne parla meno rispetto, per esempio, alla filiera produttiva che finisce sulle nostre tavole? “Nell’agro-alimentare si insiste da molto più tempo sui meccanismi distorti e non più sostenibili, dal punto di vista ambientale ed etico; mentre per quanto riguarda la moda, non la si considera ancora una vera e propria industria, potente, avida, con impatto pesante in termini umani e ambientali: si pensa ancora alle passerelle e alle modelle. È ancora poco visibile il suo impatto socio-economico, soprattutto perché si vende molto bene sul piano pubblicitario: la comunicazione è un fattore chiave. La moda lavora in maniera più silenziosa, ma più efficace sulle nostre identità. È come se ci fosse un cedimento emotivo perché siamo avvinti da questo bombardamento pubblicitario che va a toccare temi come l’affermazione di sé, a come ci si presenta e cosa dice di noi quello che indossiamo”.
Se ciò che indossiamo davvero comunica qualcosa di ciò che siamo o che vogliamo essere, se come si afferma nel film gli abiti sono la pelle che possiamo sceglierci, forse è ora di riflettere sull’immagine che vogliamo dare, è ora di rallentare e pensare a una slow-fashion accanto allo slow-food. Se come ‘consumatori’ siamo parte del problema, possiamo diventare parte della soluzione, scegliendo di non essere più solo consumatori, ma clienti consapevoli in grado di fare scelte responsabili.
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Ernesto Galli della Loggia, con un editoriale apparso sul Corriere della Sera, accusa la scuola italiana di aver abbandonato il merito, di aver abdicato alla selezione e quindi alla pratica delle bocciature. Così non sono più solo “i capaci e meritevoli” a proseguire negli studi, ma tutti indistintamente in nome di una mal concepita inclusione. Il fatto che il 15% degli studenti non termini le scuole superiori e che il tasso di drop out italiano sia tra i più alti in Europa, evidentemente per l’editorialista del Corriere della Sera non ha a che fare con le bocciature, come se l’abbandono scolastico fosse solo l’esito scontato di studenti disgraziati, privi di merito e di impegno.
Già questa percentuale dovrebbe essere sufficiente a far ragionare non tanto circa il merito o meno degli studenti, ma sulla natura delle nostre scuole. Un sistema scolastico che perde per strada il 15% dei suoi utenti dovrebbe essere immediatamente sottoposto alla lente di ingrandimento, interrogarsi sulla sua qualità e sulla sua produttività che qualunque esperto di economia assumerebbe come metro per misurarne efficienza e convenienza.
Ma se ci si preoccupa perché la scuola non boccia a sufficienza, il metro di valutazione della bontà della scuola non è più il numero dei promossi, bensì il numero dei respinti.
Nessuno potrà negare che la percentuale di quanti non giungono al compimento del corso di studi, se comunque nominalmente non può essere considerata alla voce bocciature, quantifica i tanti che la nostra scuola ancora respinge perché non in grado di trattenere.
Quindici ogni cento, tante classi ogni anno, a cui addizionare circa il 13% di studenti bocciati in prima nelle scuole superiori, spesso preludio di precoci abbandoni scolastici. È falso, dunque, che la scuola non boccia, è solo che seleziona in un modo diverso da quello che è capace di concepire l’intelligenza di Ernesto Galli della Loggia.
Cosa costa al paese perdere allo studio dal punto di vista delle risorse umane ed economiche così tante ragazze e tanti ragazzi, che andranno a ingrossare quel 27% di neet, giovani tra i 15 e i 29 anni, che non fanno nulla?
Perché dobbiamo continuare ad alimentare il pensiero negativo della scuola italiana che non serve perché non boccia?
Evidentemente il nostro teorico del pensiero ‘usa e getta’ deve appartenere a quella specie italiana a cui ancora viene l’orticaria alla sola espressione “Non uno di meno” o alla sola evocazione di don Milani e della sua “Lettera ad una professoressa”, considerati sciagure della scuola italiana.
Questi pensatori italici, però, potrebbero risparmiarci i luoghi comuni, i pensieri a scorciatoia, e considerare che quando si pretende di ragionare di scuola si entra in un campo complesso come tutti i sistemi. Non sorge il sospetto che dire che la scuola italiana non funziona perché non boccia sia una conclusione un po’ troppo affrettata? È davvero difficile pensare che nella scuola agiscono così tante variabili che prima di ogni altro discorso dovrebbero essere prese in attenta considerazione? Forse quando si parla di scuola non si vedono, ma basterebbe aprire un po’ di più gli occhi e allora apparirebbe una scuola fatta di studenti, famiglie, comunità, istituti, insegnanti e insegnamento; insomma il successo scolastico, la conquista dei saperi sono un itinerario molto più articolato e rischioso dei soli banchi, cattedre, voti e registri.
L’ha capito anche l’Ocse da tempo, basterebbe di tanto in tanto leggere qualche rapporto.
L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico sostiene che non è la sola preparazione e determinare l’insuccesso scolastico. E che sarebbe meglio, anziché bocciare, dedicare più attenzione agli studenti fragili. Gli esperti Ocse non hanno dubbi, la bocciatura, in pratica, non ha evidenti benefici per gli studenti e per i sistemi scolastici nel loro complesso. La bocciatura è solo un modo costoso di affrontare il problema degli insuccessi, perché fermando gli alunni la probabilità che abbandonino gli studi sale. Un modo di gran lunga migliore per sostenere gli studenti con difficoltà di apprendimento o problemi comportamentali è offrire loro più qualità, più ore di insegnamento, più occasioni di apprendimento, una scuola aperta e più flessibile e, soprattutto, più amica.
Nell’epoca della società della conoscenza, dei saperi diffusi, dell’educazione permanente per tutti preoccupa il codinismo degli intellettuali italici alla Galli della Loggia che non riescono a comprendere come una scuola che boccia è una scuola che fallisce e con essa l’intera società, a meno che non si ritenga, con un ragionamento francamente angusto, che la colpa sia esclusivamente dei discenti, i quali, mandati a scuola per crescere e maturare, si pretenderebbe che fossero già pienamente responsabili dei loro insuccessi.
Con l’attitudine scolastica credo non sia mai nato nessuno, è qualcosa che si conquista, ma se la scuola annoia, non è connessa alla nostra vita, e, soprattutto, se gli adulti si chiamano fuori da ogni responsabilità, sarà difficile comprenderne l’utilità, e la conquista del sapere sarà opera di pochi, non per merito ma solo per vantaggio o indifferenza.