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Chi ha vinto?

Chi ha vinto? 

Israele vuol convincere il mondo che sta per auto compiere un doppio miracolo: riuscire a vincere perdendo.
Chi in ogni parte libera del mondo interpreta l’Ebraismo sentendosi forte della propria storia e non delle proprie armi, nei confronti di quell’Israele lì, sionista, razzista, militarista, fanatico, di estrema destra, prova un sentimento misto di pietà e vergogna, rimorso e condanna.

Come sempre l’aveva vista giusta e lunga Naji al Ali in una delle sue tante magistrali e profetiche vignette.

 

 

 

 

Presto di mattina /
Jon Fosse e il teatro degli sconfinamenti

Presto di mattina. Jon Fosse e il teatro degli sconfinamenti

Quel che ci serve oggi: sconfinare

«Ci serve questo: una cultura che allarga i confini, che non è settaria – e voi non siete settari – né si pone al di sopra degli altri ma, al contrario, sta nella pasta del mondo portandovi dentro un lievito buono, che contribuisce al bene dell’umanità. Questo compito, questa speranza più grande, è affidata a voi».

«Allargate i confini! Siate inquieti cercatori della verità e non spegnete mai la passione, per non cedere all’accidia del pensiero, che è una malattia molto brutta». «Siate protagonisti nel generare una cultura dell’inclusione, della compassione, dell’attenzione verso i più deboli e verso le grandi sfide del mondo in cui viviamo» (Papa Francesco ai docenti dell’Università cattolica di Lovanio, Belgio, 26 – 29 settembre 2024).

I confini si allargano non spostandoli o rimuovendoli, ma attraversandoli: sconfinando, andando e venendo da sé agli altri, da loro a noi. Relazioni che creano sconfinatezza, come quella dello sguardo, non senza tuttavia un criterio di riferimento etico: Ubi amor ibi oculus, ricorda Riccardo di san Vittore (PL 196, col. 10 A).

Dov’è compassione samaritana lì converge lo sguardo, lì diventiamo, conosciamo l’altro. Amore e conoscenza vanno insieme, perché solo l’amore conosce perfettamente (s. Paolo) e si conosce solo ciò che si ama (s. Agostino).

Teatro: verbum visibile, signum audibile

Così ho osato anch’io sconfinare in un ambito quasi mai frequentato e per me straniero: il Teatro.

Veramente un buio luminoso. Luogo di sconfinamenti performativi. Le parole in voci, che fanno quello che dicono. I corpi e i gesti espressivi voce dell’azione. Nell’atto teatrale vi è corrispondenza e intreccio delle qualità e limiti dei differenti idiomi, linguaggi, gesti, segni. Di più. Si dà uno scambio di funzioni tra opposti vettori e agenti: uno fa ciò che dovrebbe fare l’altro, sta in vece sua.

Un mirabile commercio e uno scambio che disorienta al punto che “le parole si vedono” e “i gesti si ascoltano”: verbum visibile, signum audibile. L’espressione è di s. Agostino per far cogliere il carattere performativo dell’evento sacramentale e dell’atto liturgico: l’enunciazione coincide con la sua attuazione. Nell’assemblea convocata dalla Parola e dai Segni, come un invito a teatro, si ripresenta, si attua, vive e rivive allo stesso tempo, per tutti l’unico evento sempre nuovo di un mistero narrato e celebrato.

Teatro: sconfinamento che coinvolge in una totalità che non si possiede, ma è cercata ogni volta perché si percepisce esistente, misteriosamente presente in una comunanza di vita, di differenze plurali ed estranee tra loro. Autori, attori e le persone del pubblico; palcoscenico e platea figure e luoghi così differenti tra loro sono chiamati ad incontrarsi, nonostante il sipario si apra e si chiuda, oscuri o illumini, come un varco, fessura possibile all’incontro perché Qualcuno verrà.

Penso che a teatro accada come quando un fiume entra nel mare e le acque dell’uno si scontrano con quelle dell’altro; contrastano, ribollono, crescono come fronteggiandosi tra loro per un attimo, per un attimo solo, ma lunghissimo, che fa tenere il fiato sospeso e poi, poi come il lievito nella pasta, un’onda è abbracciata dentro all’altra a portare vita e a riceverla e forse a ricrearla. Il teatro è come un mare che apre il guscio di relazioni soffocanti senza gli altri, senza sbocco al mare.

Quando il mare si fa bianco e nero
e pensa come farà freddo in casa
quando il vento passa tra i muri
e pensa quanto è lontana dagli altri
pensa al buio che c’è
al silenzio che ci sarà
e pensa come soffia il vento
come infuriano le onde
E laggiù c’è il mare
con tutte le sue onde
il mare
è bianco e nero
con le sue onde
con le sue profondità
morbide e scure
E noi che volevamo solo restare
l’uno di fianco all’altro
(Jon Fosse)

Il teatro degli sconfinamenti

E niente è stabile
tutto è in movimento
come le nuvole
una vita è un cielo percorso da nuvole
prima che scenda l’oscurità
(Jon Fosse, Teatro, Editoria & Spettacolo, Spoleto (PG) 2006, 62-63; 215).

Ho così varcato la soglia della biblioteca comunale al civico 5 di Corso Martiri della libertà a chiedere due testi: Teatro una raccolta di alcune sue opere teatrali e uno studio sulla sua drammaturgia.

Subito scorrendo la prefazione del primo mi hanno preso le parole di Rodolfo Di Giammarco: «leggere o veder realizzato il teatro di Fosse equivale ad abbandonarsi a zone della psiche che vengono di volta in volta molestate, affascinate, turbate, trascinate in altre dimensioni. E tuttavia si stabilisce sempre un rapporto con qualcosa di naturale, con un flusso vitale e al tempo stesso contemplativo» (ivi, VII).

Ma è stato da Leif Zern, giornalista nonché uno dei più importanti critici teatrali europei contemporanei, che, come un non vedente, mi sono lasciato guidare tra le quinte del palcoscenico in Quel buio luminoso che è la drammaturgia di Jon Fosse.

Scrive Leif Zern: «Vedere un suo dramma è come vedere qualcuno che si affretta a passare, come se l’unico compito della scena fosse rendere possibile questo passaggio. E quindi questi movimenti, come ombre, attraversano soglie, porte aperte, andando di stanza in stanza. Fosse scrive con amore e comprensione sui molti che non ce la fanno, quelli che non vogliono o non possono accettare la felicità dell’autorealizzazione» (Quel buio luminoso. Sulla drammaturgia di Jon Fosse. Cue Press, Imola 2023, 31).

“Io non so, ma Tu sai” e non ci separeremo mai

Fosse si interessa di quello che non può essere detto, dell’indicibile appunto; così anche l’immobilità, le pause i silenzi le attese sono fatte di movimento, segnate dall’inquietudine. Risposte il più delle volte sospese a due frammenti di parole “Non so”, “non lo so”; è la risposta ricorrente nei suoi testi sconfinanti nell’oltre- ed intra- umano, luoghi non luoghi che come nei mistici rappresentano la via negativa della conoscenza del mistero.

La notte canta è un testo dell’autore in cui una scintilla è nascosta in essa. Così pure E non ci separeremo mai rappresenta e interpreta il legame che tiene uniti dentro e nonostante gli sconfinamenti, le sospensioni, le separazioni, lo stare fuori di sé (estasi).

Non so cosa sia
che fa sempre succedere qualcosa
Ma qualcosa deve pur essere
Perché di fatto succede sempre qualcosa
Non voglio che succeda qualcosa
ma di fatto succede
qualcosa
Cos’è che fa succedere tutto
Sono io
Qualcun altro
Non lo so
(ivi, 173).

Qualcuno verrà titola un altro testo, come a dire che quello di Fosse è un teatro dell’attesa. «Teatro della sospensione» lo chiama Zern, appunto come qualcuno in equilibro instabile che attende di essere mosso da qualcun altro. E continua: «Nei drammi di Fosse l’anonimità è una speranza. So bene che altri sono di parere diverso, ma il mio viaggio nel suo teatro mi ha portato sempre più vicino a quello che considero il cuore della sua drammaturgia: il misticismo, il fragile equilibrio fra vuoto e senso» (ivi, 9).

Lao Tse filosofo cinese del sec. V a. C. scrisse: «La via (Tao) che si può nominare non è la vera via».

Una volta, durante la malattia di don Sandro, egli mi disse: «Non so cosa vuole il Signore da me». Rimasi in silenzio, ma alla sera, alla preghiera di compieta, gli lessi un detto dei Padri del deserto che avevo trovato pochi giorni prima circa un tale, Abba Giuseppe, che come lui andava ripetendo: “non lo so”. E ritornò il silenzio tra noi.

Quella sera pensai che anche don Sandro in quella oscurità stesse già camminando nella “via”, anzi fosse uno della “via”, come gli Atti degli Apostoli chiamano i cristiani (“quelli della via): «Un monaco egiziano del IV secolo disse ai fratelli: “Veramente Abba Giuseppe ha trovato la via poiché ha detto non lo so”». E tra le pieghe della notte, ascoltando quel silenzio, mi sembrò che ruminasse i segreti pensieri di don Sandro: “Io non so, ma Tu sai”.

E s. Atanasio, commentando l’ultimo versetto del monumentale salmo alfabetico sulla parola di Dio [118 (119), 176], ha scritto: «Mi sono smarrito, abbandonando te che sei il vero pastore; ma tu sai dove sono: vieni a riprendermi!» (I Padri commentano il Salterio della tradizione, Gribaudi, Torino 1983).

Sconfinando nella notte

In quei “non so” vi è qualcosa di genuinamente evangelico, di mistico: la forma stessa del credere. Il nascondersi tra gli ultimi e, nella notte oscura, l’affidarsi nelle mani dell’Indicibile. Questa fede «non si dà né come spettacolo, né come esempio, non fa commercio né di certezze di un discorso di verità (supposte come valide una volta per tutte e per tutti), né di assicurazioni per l’eternità.

Essa ha a che fare con la notte, il silenzio, la debolezza, essa si avventurerebbe sul cammino oscuro, non tracciato, “tutto interiore”… La fede suppone una fiducia che non ha garanzia di ciò che la fonda: l’altro», (Luce Jard, Cercando Dio, in Michel de Certeau, Debolezza del credere Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2006, XXVII).

E in Fabula, mistica I de Certeau scrive: «È mistico colui o colei che non può fermare il cammino e, con la certezza di ciò che gli/le manca, di ogni luogo e oggetto sa che non è questo, che qui non si può risiedere né contentarsi di quello. Il desiderio crea un eccesso. Eccede, passa e perde i luoghi. Fa andare più lontano, altrove. Non abita da nessuna parte. Dice ancora Hadewijch (mistica e poetessa fiamminga di Aversa sec XII), [luogo] che è abitato da “un nobile “non so” che né questo, né quello, che ci conduce, introduce e assorbe nell’Origine”» (Il Mulino, Bologna 1987, 404-405).

Un incontro inatteso come un bagliore

Nella scrittura Jon Fosse scopre il senso dell’esperienza religiosa, mistica pure come esperienza di smarrimento e di ritrovamento, di movimento e di immobilità, di trasformazione e identità; un’esperienza di consolazione, forse una grazia che come tale non è cercata, inseguita ma si riceve, è donata, si dona essa stessa. Non è l’uomo che la trova, ma è questo bagliore di bellezza che trova lui: un incontro inatteso, come una sorpresa indefinibile.

Il suo ultimo testo Un Bagliore (La nave di Teseo, Milano 2024) si conclude come una Fabula mistica certeliana, intrisa dello stesso linguaggio dei mistici. Una storia apparentemente ordinaria, quasi banale, diventa cifra di un’esperienza universale del mistero dell’umano e del divino nell’umano.

Narra di un uomo che viaggia con la sua auto senza una precisa direzione e senza sapere dove va; l’auto vien bloccata dal fango, scende repentina la sera; poi la neve, il freddo e la notte fanno il resto ed egli si sente spinto ad entrare in una foresta e in quell’oscurità impenetrabile accade un bagliore misterioso.

«E ora non vedo quasi più niente, tanto è diventato buio tra gli alberi. E poi questa neve. E questo freddo … Ora, però, si è fatto così buio, Mi fermo. Guardo davanti a me, dentro il buio nero, è come se non si vedesse nulla, solo il buio nero. Guardo in alto, dritto in alto, e vedo un cielo nero senza stelle» (ivi, 22; 25).

«Poi un bagliore indefinibile, sempre più nitido. È bello a guardarsi e non fa male», poi la luce scompare ma ad essa subentra una voce e inizia un dialogo con quella misteriosa voce che fa percepire sempre un’indefinibile sensazione di prossimità e compagnia che alla fine rivela la sua identità con parole simili a quelle della teofania del roveto ardente nel libro dell’Esodo: “Io sono chi sono” (ivi, 42).

Sulla soglia di qualcos’altro

«[Un] uomo con l’abito nero tende la mano, tende la mano verso di me e lo guardo… prendo la sua mano protesa e mi accorgo di essere immerso nella luce bianca e splendente che adesso percepisco come una specie di nebbia luminosa, ma in un certo senso morbida, e nulla è chiaro, o meglio sono dentro una specie di chiarità, in un certo senso lo sono, poi l’uomo con l’abito nero inizia a camminare lentamente ed è come se stesse uscendo dal bosco, ma per dove non lo so… È come se stessimo camminando nell’aria sottile, sì, sì. Stiamo davvero camminando nell’aria sottile e non sembra nemmeno che camminiamo anche se ci stiamo muovendo. Sì in un certo senso lo stiamo facendo ed è un po’ come se non fossi più me stesso ma fossi diventato parte dell’entità splendente che non è più scintillante nel suo bagliore splendente. E come se tutto fosse privo di significato come se il significato, sì, il significato non esistesse più perché tutto è solo quello, tutto è significato ed è come se non stessimo più camminando, sì, come se avessimo smesso completamente di muoversi, siamo come in movimento senza esserlo ed è come se io non vedessi più, sono come dentro una griglia che mi abbraccia, sì, che abbraccia tutto ciò che esiste davvero, sì, è come se tutto fosse solo nella sua grigità, non esiste niente, poi all’improvviso sono immerso in una luce così forte che non è una luce, no, non può essere una luce, ma un vuoto, un nulla e, sì, non è forse l’entità splendente quella che c’è davanti a noi, sì, l’entità che fulge radiosa nel suo biancore e dice seguimi e la seguiamo, lentamente, passo dopo passo, respiro dopo respiro, l’uomo con l’abito nero, senza volto, mia madre, mio padre ed io, usciamo a piedi nudi nel nulla, respiro dopo respiro, e all’improvviso non esiste più neanche il singolo respiro, ma solo l’entità splendente, scintillante che dal suo biancore illumina un nulla che respira, che adesso è ciò che respiriamo» (ivi, 72; 74).

Anche gli angeli sconfinano

Jon Fosse ama ricordare che quando il teatro è veramente buono, e si esprime in momenti chiari e intensi seppure inspiegabili «un angelo attraversa la scena». Saggi gnostici (Saggi gnostici, Cue press, Imola 2018, 72-74).

Ascolterò gli angeli che provengono dai miei amici morti
silenziosi come la neve evidenti come la neve
Vedrò la neve sciogliersi e diventare acqua
La vedrò scomparire
e tornare, come aquile
Vedrò le aquile arrivare
Scomparire
e sentirò la musica
nel movimento che creiamo
e che ci crea, così evidenti, nel buio

Ma gli angeli mi traggono ogni giorno fuori
dalla mia pietrificazione
nello splendore e nella pietrificazione li mio movimento
non è minaccioso
La gioia è senza gioia
Per tutto posso ringraziare gli angeli
(Ascolterò gli angeli arrivare, Crocetti editore, Milano 2024, 67; 97).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Cpr (centri di permanenza per il rimpatrio): disumani e dispendiosi.
La denuncia nel rapporto di ActionAid “Trattenuti 2024”

Cpr (centri di permanenza per il rimpatrio): disumani e dispendiosi.
La denuncia nel rapporto di ActionAid “Trattenuti 2024”

di Patrizia Pallara
da Collettiva del 25 ottobre 2024 

I costi

Partiamo dai costi, che sono astronomici. 39 milioni di euro è la spesa che lo Stato ha dovuto affrontare nel 2022-2023 per l’intero sistema. Una cifra che è cresciuta a dismisura, se si considera che nel quadriennio 2018-2021 era di 53 milioni. Il costo medio annuo di un posto raggiunge quasi 29 mila euro, a cui vanno aggiunte le cosiddette spese accessorie.

A Macomer (Nuoro), per esempio, costa di più garantire il vitto e alloggio delle forze dell’ordine a presidio del Cpr che gestirlo: 5 milioni 800 mila euro nel 2020-2023 che, sommati a quanto speso per la sola struttura, portano il costo medio di un posto a superare i 52 mila euro nel 2023.

Manutenzione troppo straordinaria

Poi c’è la manutenzione dei centri: oltre 33 milioni spesi tra il 2018 e il 2023, di cui oltre il 76 per cento usato per interventi straordinari, cioè ristrutturazioni dovute a danneggiamenti. A conferma che il prolungamento dei tempi di trattenimento comporta solo la crescita delle spese.

“Questo è un indicatore delle condizioni di vita interne ai Cpr, che non sono dignitose – afferma Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni per ActionAid e curatore del report -. Le persone che sono recluse senza aver commesso alcun reato, sono portate a compiere atti di autolesionismo e alla rivolta, provocati dalle condizioni di estremo disagio e dalla privazione dei diritti basilari. Negli ultimi due anni la situazione è anche peggiorata. Danni e distruzioni che rendono indisponibili gran parte dei posti e a cui si risponde con opere straordinarie”.

Nel 2018, 33 giorni di permanenza media in un Cpr corrispondono quasi 1,3 milioni di euro per costi di manutenzione straordinaria; nel 2022, a fronte di 40 giorni di permanenza, i costi sono balzati a 9,6 milioni.

Sistema fallimentare

Cifre spese per un sistema che è disumano e che per di più si è dimostrato fallimentare. Queste strutture hanno la missione di rimpatriare le persone recluse, ma ne rispediscono a casa molto poche: nel 2023 il 10 per cento degli stranieri colpiti da un provvedimento di espulsione, ovvero 2.987 su 28.347.

Eppure, questi centri di detenzione vengono spacciati come una soluzione per aumentare il numero dei rimpatri, sebbene i dati dicano l’esatto contrario: dal 2017 si rimpatria meno, a costi più alti e in maniera sempre più coercitiva.

“Questo dimostra che il vero obiettivo dei Cpr non è rimpatriare le persone – riprende Coresi -, ma data la loro inefficacia, assimilarle ai criminali. Siamo di fronte a un sistema che esiste dal 1998, che è sempre stata un fallimento e che non è mai stato cambiato”. Anzi, si cerca di potenziarlo, investendo su un modello che addirittura delocalizza in Paesi extra europei.

L’hub siciliano

Stiamo parlando dei nuovi Ctra, centri di trattenimento per richiedenti asilo sottoposti a procedure di frontiera, sistema creato con il decreto Cutro. Oltre a quelli in Albania, in terra italica ci sono quelli di Modica inaugurato nel 2023 (1 milione 650mila euro spesi), Porto Empedocle (Agrigento) sorto nel 2024. Altri due entro fine anno, ad Augusta (Catania) e Trapani: 16 milioni di euro sul bilancio 2024 del ministero della Difesa.

In questo modo la Sicilia è diventato il nuovo hub per il trattenimento leggero. E proprio dai Cpr siciliani parte il 54 per cento dei rimpatri nazionali, l’85 dei quali di soli cittadini tunisini: il sistema nei fatti trattiene persone in frontiera, in particolare in Sicilia, e si fonda sul solo accordo bilaterale con la Tunisia. I tunisini però nel 2023 sono stati meno dell’11 per cento degli arrivi complessivi in Italia.

Gestione disastrosa

Anche sul fronte della gestione, i Cpr sono un disastro. “Cooperative e soggetti for profit, tra i quali anche una multinazionale, conducono le strutture detentive tra confusione amministrativa e mancanza di trasparenza – conclude Coresi di ActionAid – . Questi enti producono un guadagno non erogando quanto previsto dal contratto e facendo leva sui mancati controlli delle prefetture. Anche per questo, visti i monitoraggi come il nostro, sono sempre meno i soggetti disposti a gestire questi luoghi, che spesso si alleano con i propri concorrenti per vincere le gare”.

Nota:
Tutti gli articoli di Periscopio sui Cpr e sulla mobilitazione per abolirli [leggi Qui]

In copertina: Cpr carcere di Lampedusa – foto di Antonello Nusca

 

Palestine Cinema Days : film palestinesi in tutto il mondo.
1° appuntamento a Ferrara: 2 novembre ore 11 al Grisù

Palestine Cinema Days : film palestinesi in tutto il mondo.

Sabato 2 Novembre 2024, alle Ore 11.00
Alla Factory Grisù
IN COLLABORAZIONE CON SUBCULTURE FESTIVAL, EMERGENCY FERRARA, ANPI

Naila and the Uprising

un film di Julia Bacha

– evento gratuito –

Naila and the Uprising racconta lo straordinario viaggio di Naila Ayesh e di una comunità di donne in prima linea, le cui storie si intrecciano con la mobilitazione più vibrante e non violenta della storia palestinese: la prima Intifada alla fine degli anni ’80.

I Palestine Cinema Days sono organizzati il 2 novembre di ogni anno dal Film Lab Palestine, in occasione dell’anniversario della Dichiarazione di Balfour, il documento che, forse più di ogni altro, ha segnato la storia del Medio Oriente moderno. L’evento nasce per amplificare narrative e voci poco sentite.
Dal 2023, nell’impossibilità di proiettare i film in Palestina, nasce, con la collaborazione di Aflamuna, un evento globale che nell’ultima edizione ha coinvolto 41 paesi con più di 171 proiezioni. Quest’anno saranno più di 250 in tutto il mondo > su aflamuna.org la mappa completa!

 

 

Un universitario in pandemia

Un universitario in pandemia

Rivolgo questo articolo principalmente a noi giovani che abbiamo trascorso ben due anni di sessioni di esami con l’ansia di contrarre il covid. La pandemia ovviamente non è stata facile per nessuno, ma volevo provare ad esternare il mio punto di vista di universitaria (presentato con giusto un pizzico di ironia, perché la realtà così com’è  è già pesa di suo).

Febbraio 2020. Finalmente, dopo le solite ansie da esame e un bel sospiro di sollievo di fine febbraio, e quindi di fine sessione, si sta per dare inizio al nuovo semestre, ergo lezioni, nuovi incontri, aperitivi con amici, libertà da post esami e giusto un pizzico di spensieratezza, quella tanto agognata tra una sessione e l’altra.

Ma, ecco i primissimi casi di Corona virus nel nord Italia. “Vabbè, due o tre casi, non andrà oltre, passerà in fretta” – dicevamo, o meglio speravamo, mentre quello che era inizialmente un piccolo timore, che di tanto in tanto bisbigliava dentro di noi i più terribili presagi, stava diventando vero e proprio terrore.

I casi aumentano, scendono velocemente in tutta Italia, e in pochissime settimane ci ritroviamo in lockdown. Trauma. Ci ritroviamo tutti chiusi in casa a fare pizze, fingendo che in fondo vada tutto bene .“Sopravviveremo. Basta rimanere in casa e usare l’Amuchina. Passerà presto” – ripetiamo a noi stessi, illudendoci.

Iniziano le lezioni on line, c’è chi le ama, chi le odia, a chi non cambia nulla, perché le lezioni fanno schifo comunque. Le connessioni vanno e vengono, i professori spiegano, ricordando vagamente un rigido C3PO mentre tenta di farsi capire il più possibile, anche se le difficoltà sono tante.

Intanto siamo chiusi in casa. Si comunica per messaggi, chiamate whatsapp o meet, niente più birrozzo e piadina su una panchina a chiacchierare al parco, niente più gruppi di “studio” in aula studio, niente più passeggiate, serate al cinema, niente più vita vera.

Molti si sono isolati, cercando di rispettare il più possibile le regole, alcuni hanno tentato di resistere all’isolamento totale, provando a incontrarsi al reparto surgelati al supermercato, oppure “casualmente” facendo attività fisica (mai fatta prima, ma pur di uscire di casa si sarebbe stati disposti anche a fare “sport”, poco importava se con un kebab in mano al passo di lumaca).

I casi aumentano, il covid avanza imperturbabile, senza pietà, nemmeno davanti ai cadaveri cremati in serie. I telegiornali non fanno che ricordarci il numero di morti, gli intubati, quanto rischiamo se usciamo di casa.

Nel frattempo però, dobbiamo ancora dare i nostri esami. Dobbiamo studiare, mantenere la calma, il controllo, la concentrazione, l’ottimismo. L’OTTIMISMO, come no. Più volte potremmo aver considerato, ma solo di sfuggita eh, la rinuncia agli studi.

“Niente più ansie! Nel peggiore dei casi mi apro una pizzeria, tanto mi sono esercitato durante il lockdown!” – potremmo aver solo pensato di mollare tutto per un attimo, perché quello che ci veniva richiesto in quel momento ci sembrava decisamente più grande di noi.

Mantenere la calma, essere ligi al dovere, rispettare tutte le regole, quando fuori c’era una pandemia e avremmo potuto rischiare la vita in qualsiasi momento, magari andando a comprare proprio il lievito, oppure mentre il disgraziato di turno ci tossiva in faccia durante la fila in cassa.

Dovevamo rimanere segregati a seguire lezioni al pc per ore, studiare dando il meglio di noi. Ma l’isolamento e l’enorme stress sicuramente non avranno influito positivamente sulla nostra già altalenante autostima da studente universitario.

Non uscendo, l’ansia, già presente in noi dal momento in cui abbiamo avuto la brillante idea di iscriverci all’università, non ha fatto altro che aumentare, le insicurezze sono triplicate, la paura di non farcela era il buongiorno del nostro caro Super Io (quello str**zo pignolo).

Sono usciti anche i vaccini. Una/due dosi e passa la paura. Qualche morto è scappato anche lì, pochissimi – dicono, ma vallo a spiegare alla mia amigdala, stressata già di suo, che tra un esame e l’altro si deve ricordare ogni volta, tipo schiaffone allegorico, che “ah sì si può morire di covid, NON DIMENTICARLO, MAI”.

Ma non c’è due senza tre e ci sarà la terza dose anche per te! Così tutti salvi saremo, finché un’altra dose non faremo! (forse, chi lo sa, le stime sono pur sempre stime, la scienza sembra diventata un’opinione, una chiacchiera dal parrucchiere, tra un “secondo me” e un “lo scopriremo solo vivendo, se vivremo”).

E poi spunta il green pass, che ti dice dove andare e dove non puoi andare, cosa puoi fare e cosa no (cosa che probabilmente, a sentirla un paio di anni fa, ci avrebbe fatto accapponare la pelle), per tutelare la salute del cittadino, OVVIAMENTE.

Un sunto velocissimo è che se sei in regola con il set di vaccini completo puoi fare quello che ti pare, se ne hai solo due di dosi ti scade la libertà dopo sei mesi, con una dose non conti nulla e se sei un lurido no-vax sei peggio dello sterco sotto lo zoccolo di un cavallo, “irresponsabile!” – dicono.

Da questo ormai famosissimo pass dipende il lavoro, l’università, la vita sociale e la cosa più importante, la tua sanità mentale. In pratica un po’ tutto. E ci sta anche che qualcuno la perda di tanto in tanto, direi che è giustificato. Ma vabbè, noi ci proviamo a mantenere il controllo.

Anche se resta piuttosto difficile: se accendi la tv vedi la conta dei morti, presentata e ripresentata senza sosta. Ma che morti? Tutti i morti, di covid, per covid, l’ultracentenario investito da una bici, tutti, perché lì non si esclude nessuno. Escludiamo solo i non vaccinati, quelli sì, bastardi.

Persino Sanremo, il festival della canzone italiana che ha ben poco a che fare con tutto ciò, quella che sarebbe dovuta essere una delle più nobili forme della celebrazione artistica italiana, uno svago, un tentativo leggero quanto piacevole di staccare, anche se per poco, dall’irrefrenabile lista di chi non ce l’ha fatta, ha dedicato a chi, per libera scelta o per ragioni di salute, ha deciso di non vaccinarsi, o a chi ha avuto effetti avversi, un siparietto a dir poco meschino, di livello misero, che ha sfoggiato “comicità” da saltimbanco o da giullare di corte disperato che, poveretto, se non si esibisce il re gli taglia la testa!

Tutto questo non aiuta di certo a scrivere un elogio sulla società che stiamo vivendo, che avrebbe da rivedere un paio di cosucce, dalla gestione dell’informazione, la lievissima tendenza alla discriminazione, la sanità, al governo che sembra voler giocare con la nostra pazienza, imponendoci dei rebus sgrammaticati, altrimenti detti dpcm, sfornati come biscottini, pensando sicuramente di farci divertire un po’, facendoci trascorrere quei dieci minuti di tempo libero a decifrare i lampi di genio concepiti in una notte (e si vede) dalla cabina di regia.

Intanto i casi aumentano (non hanno mai smesso in realtà, in un saliscendi continuo, fatta eccezione per l’estate – meriterà una vacanza anche il covid e che cavolo!) e insieme a loro anche l’ansia, non sia mai che ti abbandoni un attimo. Nuova variante, nuovi casi, anche i vaccinati (e lo sono quasi tutti, quindi accipicchia!) si contagiano, ma è solo influenza! Ma non bisogna abbassare la guardia! Ci contagerà tutti! Nessuno finisce più in terapia intensiva! Moriremo tutti (prima o poi, sia chiaro)!

In tutto ciò dobbiamo anche sostenere qualche esame, perché, anche se è tremendamente difficile, non dobbiamo dimenticare che, in questo mondo che ormai sembra fatto solo di covid, ci sono anche gli esami, il lavoro, la famiglia, la speranza che tutto questo gigantesco incubo prima o poi finirà (meglio prima che poi).

E l’universitario medio, in tutto ciò, continua a studiare, forse con un (bel) po’ di concentrazione in meno (che già si andava elemosinando prima del covid), tra un attacco d’ansia e l’altro, fa i suoi esami, o almeno ci prova, qualcuno va bene,  qualcun altro un po’ meno, ma che importa, siamo ancora qui, a studiare sì, ma vivi, e se stiamo qui a lamentarci leggendo questo articolo si vede che non abbiamo nient’altro di più importante a cui pensare, o di cui preoccuparci se non ridere (anche se un po’ amaramente) di questo articoletto da strapazzo, scritto per la stessa ragione per cui voi lo state leggendo, per staccare un po’, per sentirsi capiti, per condividere uno stato d’animo o per sentirsi simbolicamente solidali.

Solitudine, senso di frustrazione, paura di non riuscire a raggiungere i propri obiettivi, di non stare nei tempi prestabiliti, angoscia, insicurezza, sono tutti sentimenti normalissimi, che hanno sempre fatto parte dell’universitario medio dall’alba dei tempi e che sicuramente hanno acquistato un considerevole peso specifico con questa pandemia, pesando sulle nostre spalle e sui nostri polmoni come macigni.

Con questo piccolo articolo invito chi sta leggendo a condividere, se vuole, la sua piccola storia personale della pandemia, un sentimento, delle semplici sensazioni o opinioni su quello che ha vissuto e che sta ancora vivendo in questo periodo difficile, con il solo scopo di non sentirsi soli, di sentirsi compresi da tanti altri studenti, che probabilmente ci sono già passati, o che stanno vivendo lo stesso tipo di esperienza anche ora.

Per leggere gli articoli di Giusy De Nittis su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Parole a capo /
Stefania Giammillaro: alcune poesie da “Errata complice”

L’autrice, nel raccontare l’esperienza autobiografica di un rapporto amoroso insano (uno dei tanti in cui l’amante, verbalmente e gestualmente violento, considera il corpo dell’amata come oggetto di desiderio e di dominio, senza la grazia di uno sguardo autentico rivolto alla persona), sembra quasi innestare le sue parole nell’intrico spinoso di una memoria ancora sanguinante di delusione, amarezza, disperazione, supplica, tormento, trovando infine una risoluzione nel perdono divino e nell’auto-perdono, tema che viene sviluppato nell’ultima delle tre sezioni del libro e ribadito nell’epilogo (un testo in dialetto siciliano, quasi con l’intento di recuperare la purezza anche sonora dell’infanzia), in cui la vittima si emancipa finalmente dal giudizio della società dei benpensanti (compresa la cerchia parentale) (…) Il titolo della silloge “Errata Complice“, ricalcando l’espressione errata corrige non senza un chiaro rimando di senso, riassume bene il percorso di recupero della propria autonomia e libertà, stigmatizzando senza incertezze una relazione sbagliata di cui l’autrice riconosce di essere stata complice con il suo comportamento troppo lungamente tollerante.” (dall’introduzione di Franca Alaimo)

Ringrazio Stefania Giammillaro per aver autorizzato la pubblicazione in “Parole a capo” di alcune sue poesie.

(dalla sezione “Il peccato”)

Ai sensi di una legge non scritta
appesa al baratro senza risposta
è vietato venire al mondo
in un qualunque giorno di pioggia

Senza tuono rimbomba
il dire del mare
che soffia e soffia un ruggito ancestrale
tra cosce nude e stoffe bagnate

L’appetito nasce senza fame.

 

*

 

Hai votato la sacra bellezza
al tabernacolo di amanti senza tempo

Hai ingoiato scelte e rimorso la lingua
prima dell’ultimo bacio a strappo
stendendo panni di ghiaccio
su gomiti viola
appesi al balcone
delle marionette

Oggi dimentichi la tua forza
e se esiste giustizia che riscatta
la perdi al rigore dei birilli
nel travaglio di un parto, senza nascita

 

*

(dalla sezione “La colpa”)

Disegnare a matita
l’incombenza di una minaccia
e cancellarne i granuli
acerbi di miele

Così l’addiaccio
attira ogni senso
d’impasto di terra
brulla bruciata
su cui vivo e tremo

E mi arresto
a conoscerne il pianto
E mi stendo
a respirarne il freddo

(dedicata alla strage di Cutro 26 2 2023)

 

*

Era proibito il cortile
agli schiamazzi
quando le ginocchia sbucciate
bruciavano di vita
appena iniziata

Era proibito urlare in protesta
contro addii mortali
alla coscienza
quando puntare i piedi
era occasione di crescita

Da un vetro di roccia
si penetrava il mondo
io pesce rosso
con diritto di parola

 

*

(dalla sezione “Il perdono”)

 

Lo sguardo gira ancora intorno
in cerca di un ricordo
che mi sveli essere legata a te.

Ma muta è la risposta
delle spallette su Lungarno
nessun abbraccio che spaventi la piuma
né nodo di tristezza a vomitare saliva

È l’impossibile successo
ora che appartengo
al vuoto del tuo grembo

*

 

Nulla è perduto
tutto è adesso

Non sono viva nel ricordo
nell’ossessione
di quel che avrei potuto

La carne è in questo pizzicotto
che giro di traverso per sentirmi
quando non distrae il mare

La parola è ponte che attraversa
la possibilità di perdonarmi
allo specchio dei rimorsi

E se sanguino
sanguinerò per partorirmi

 

*

(EPILOGO)

 

Muta sugnu
comu pisci senza sangu
ca trema a schina ghigata
Littra strazzata
pi na lisca lissata
n’mezzu ai renti
Sula, sittata
ravanti a tavula cunzata
cu tutti i cumannamenti
Figghia sugnu
e matri mi ciamu
senza iabbu né maravigghia pi parenti
senza patiri i dulura
ra nascita
m’arricampu cunzumata
pi chiddi ra morti
sorti mavara
ca m’accumpagna
Matri sugnu
e figghia nasciu n’autra vota
pi vuatri ca nun cririti a na parola rata
surda e malacavata…
Nun viru nun parru nun sientu
ma vi lassu a testamento
na cunnanna
na ninna nanna d’amuri
ca comu sciroccu
ciusciando rina, vi ricuorda:
L’uocci aggiuvanu a taliari
sulu quannu ru cori
nun c’è chiù nenti ri pigghiari”.

“Muta sono / come pesce senza sangue / che trema a schiena piegata /
Lettera strappata / per una lisca lasciata / tra i denti // Sola, seduta /
davanti alla tavola apparecchiata / con tutti i sacramenti (apparecchiata
a puntino) // / Figlia sono / e madre mi chiamo / senza stupore né
meraviglia per i parenti / senza patire il travaglio del parto / vi raggiungo
consumata per quello della morte / sorte cattiva / che m’accompagna //
Madre sono / e figlia nasco un’altra volta / per voi altri che non credete
alla parola data / sorda e malfatta… / Non vedo, non parlo, non sento
/ ma vi lascio a testamento / una condanna // una ninna nanna d’amore
/ che come scirocco / soffiando sabbia, vi ricorda: / “Gli occhi servono a
guardare / solo quando il cuore / non ha più nulla da donare”.

 

Stefania Giammillaro (Messina, 1987). Avvocato. Si avvicina alla poesia già all’età di otto anni, ha all’attivo nove sillogi poetiche, di cui solo le ultime tre finora sono state pubblicate: Metamorfosi dei Silenzi, Edas, Messina, 2017, e L’Ottava Nota – Sinfonie Poetiche, Ensemble, Roma, 2021 e Errata complice, peQuod- Casa editrice Italic, 2024.
Ha conseguito diversi riconoscimenti negli anni, tra cui menzioni d’onore al premio nazionale di poesia Colapesce di Messina, con i componimenti Appartenersi, Incastri; terza classificata al premio indetto dalla Proloco di Castroreale (ME) con la poesia in vernacolo Bedda; prima classificata al Premio Pittura e Poesia Emozioni in Armonia con la poesia Vergine dal Cuore Grande.
Nell’ultimo anno, si è esibita in diverse performance poetiche, delle quali si ricorda Ciuri ri puisia che l’ha vista protagonista nell’ottobre 2021 a Torino, nell’ambito del Festival Indipendente di Poesia Trasfusioni, ideato ed organizzato dall’associazione teatrale Lo scatolino – Ars in code. Cura la sezione poesia della Libreria Civico 14 a Marina di Pisa.

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 253° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Emmanuel Carrère: un incontro in Biblioteca Ariostea tra ‘lettori accaniti’

Emmanuel Carrère: un incontro in Biblioteca Ariostea tra ‘lettori accaniti’.

Chi ha letto opere di Emmanuel Carrère? Vi piace? Qual è il segreto di questo stile di scrittura che in parte divaga e in parte porta dritto dentro ai fatti della cronaca più vera? Un incontro per parlarne insieme è organizzato venerdì 25 ottobre 2024 alle 17 in Biblioteca Ariostea (via Scienze 17, Ferrara). Sarà lo spunto per confrontarsi tra lettori del romanzo “Limonov” rilanciato sull’onda della trasposizione cinematografica, della storia del pluriomicida “L’Avversario”, delle peripezie filosofico-esistenziali di “Yoga”, dell’appassionante resoconto del processo sulle stragi del Bataclan (“V13”), per non dire della biografia di uno scrittore di culto come Philip K. Dick – autore di “Blade Runner” e “Ubik” – raccontato in “Io sono vivo, voi siete morti”.

Locandina dell’incontro in Biblioteca Ariostea

Emmanuel Carrère è un giornalista e scrittore con un talento per le storie, che sa riportare con una voce tutta sua, pronunciata, per lo più, in prima persona. La sua scrittura evoca qualunque fatto in un modo che afferra e fa entrare dentro le curve della vicenda e dei suoi personaggi.

Non so se io ho iniziato dalla parte giusta. Certo è che quel suo modo di scrivere e raccontare mi ha fatto precipitare nella lettura delle sue opere. Come un viandante che approda su una vetta al termine di una salita, sono stata accolta da un orizzonte inaspettato: una duna di sabbia che scende verso l’oceano. Difficile essere cauti. La forza di temi, sentimenti ed emozioni mi ha trascinata dentro i suoi libri. In quelle pagine si gode dell’ebbrezza della discesa, si ascolta la velocità dei colpi di scena della vita, si percepisce l’aria agghiacciante del nord e quella filosofeggiante dell’estremo oriente che soffiano dalle sue parole.

Emmanuel Carrère con lo staff di Adelphi al Festivaletteratura

Il desiderio di confronto si è fatto ancora più grande quando ho saputo che stava leggendo i libri di Carrère un uomo di talento narrativo, acume e così forte capacità espressiva come il regista argentino Horacio Czertok. Mi è parso tanto più stimolante il fatto che lui abbia un approccio critico, volenteroso di contrapporre le letture personali dei fatti di Carrère alle profondità visionarie di Dick.
Analoga stimolo mi ha suscitato il confronto con un romanziere come Valerio Varesi, che con Carrère condivide anche il mestiere di giornalista. Varesi ha, in aggiunta, uno speciale legame con il mondo della letterario francese. In Francia, i suoi romanzi polizieschi della serie del commissario Soneri sono molto conosciuti e amati, e nel 2023 Varesi è stato insignito del ‘Grand prix de littérature policière’, assegnato ogni anno anche a un’opera straniera.

Il firma copie al Festival (foto GioM)
Emmanuel Carrère coi lettori
Festivaletteratura di Mantova 2024

Alla luce di tutto ciò, venerdì si parlerà di Carrère, insieme a Varesi e Czertok, nella sala Agnelli della Biblioteca comunale Ariostea. Un confronto come quello che si fa nei circoli di lettura ma che – in questo caso – è volutamente aperto a tutti. Perché, all’insaputa uno dell’altra, ci si può ritrovare a confrontarsi anche senza conoscersi, ma come reduci delle stesse pagine, percorse con sensazioni, percezioni e attitudini diverse.

In una recensione di qualche anno fa Gabriele Romagnoli diceva che il coraggio di Carrère “consiste nel dirci che nessun altro essere umano è davvero lontano da noi, irraggiungibile, anche se ha ucciso moglie e figli, se crede in un furioso cocktail di fascismo e comunismo, se sta morendo”. Un talento dell’impresa di farci entrare insieme a lui dentro a “Vite che non sono la mia”.

Per leggere gli articoli di Giorgia Mazzotti su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

La pedagogia violenta della destra italiana

La pedagogia violenta della destra italiana

di Anna D’Auria
articolo originale sulla rivista Gli Asini del 12 ottobre 2024

(Questo articolo è una rielaborazione della relazione presentata alla plenaria di apertura dei Cantieri per la formazione MCE 8° edizione “Gioco e potere”, formazione residenziale tenutasi a Bologna dal 2 al 6 luglio 2024)

La caverna degli abbracci, illustrazione di Andrea De Franco

La scuola è uno dei luoghi privilegiati del sistema politico per condizionare i valori, gli stili di vita, i linguaggi delle masse e produrre consenso verso la propria ideologia per mantenere il potere politico.

Antonio Gramsci ha ben analizzato il modo attraverso il quale la politica consolida i rapporti di potere. Nel paragrafo del quaderno 19 in cui affrontava il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia, scriveva: «Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare a essere anche “dirigente”».

Il sistema politico deve cioè potersi garantire la direzione intellettuale e morale del Paese; formare il popolo (soprattutto il popolo della scuola: insegnanti e dirigenti) a un determinato senso comune in linea con la propria concezione dell’uomo e della donna, della società e del mondo.

“Deve cioè essere capace – scrive Massimo Baldacci di creare consenso entro il sistema educativo circa la prestazione che richiede, ossia persuadere gli attori della bontà e legittimità etica e culturale di tale prestazione modificando così la loro cultura dell’educazione e il loro senso comune didattico”.

Il grande attivismo nelle politiche scolastiche di questo governo ha questo scopo: realizzare un’egemonia etico-politico-culturale sul sistema educativo. Questo spiega i numerosi interventi legislativi delle destre al governo compiuti o annunciati dall’inizio di questa XIX legislatura che, in maniera chirurgica, stanno intervenendo sull’impianto già estremamente fragile della scuola italiana di ispirazione democratica.

A dicembre 2022 la legge di bilancio n.197, rispondendo a una logica di risparmio, ha previsto per i prossimi tre anni la riduzione delle autonomie scolastiche, i cui effetti negativi ricadranno soprattutto nelle aree interne del Paese, in quelle con un’alta percentuale di dispersione, abbandono e povertà educative.

Dall’a.s. 2024/2025, a fronte di istituti con un elevato numero di classi, divisi in più plessi, sparsi tra più comuni e municipalità, il lavoro di insegnanti e dirigenti sarà ancora più burocratizzato, stressante e i collegi dei docenti troveranno ancora più difficoltà a farsi “comunità educante” in dialogo con gli studenti, le famiglie e il territorio.

Eppure, questo governo continua a parlare di superamento dei divari territoriali. Nello stesso mese è stato riformato il sistema di orientamento che ha previsto l’introduzione di 30 ore obbligatorie affidate a un tutor e a una piattaforma digitale per riconoscere talenti, attitudini, meriti.

Ma, per essere realmente al servizio del progetto di vita di ognuno, l’orientamento non può che essere un “orientamento didattico”, coinvolgere tutti gli insegnanti e, soprattutto, investire tutto il percorso scolastico. Così concepito e istituzionalizzato risponde al solo scopo di allineare la scuola alla domanda del mercato del lavoro.

È la stessa direzione politica che a dicembre 2023, un anno dopo, ha determinato sia l’approvazione del disegno di legge Disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy in cui l’articolo 18 istituisce il Liceo del made in Italy (prevedendo che il mondo delle imprese entri nella progettazione dell’offerta formativa), sia l’approvazione del progetto nazionale di sperimentazione relativo all’istituzione della filiera formativa tecnologico-professionale di soli 4 anni.

Si tende alla canalizzazione precoce dei soggetti, infatti la riduzione del tempo scuola insiste sulla funzione di riproduzione sociale della scuola opposta a quella di scuola emancipatrice, impegnata a rimuovere gli ostacoli e per la quale tutti gli individui devono poter essere formati come “potenziali dirigenti”.

Un progetto quest’ultimo che richiederebbe una scuola unica e un obbligo esteso ai 18 anni per assicurare a ognuno un patrimonio culturale di base, grazie alla continuità dei curricoli e degli approcci. Un progetto in cui la scuola secondaria non è finalizzata alla preparazione al lavoro ma concepita come un percorso per liberare le intelligenze, formare a stili di vita e valori democratici, superare le disuguaglianze e darsi il tempo necessario per garantire l’acquisizione delle competenze per una piena cittadinanza.

A marzo 2024 il Decreto Legge n°19 ha previsto che i risultati Invalsi siano inseriti nel curricolo dello/a studente/essa. Una disposizione che di fatto tende a svilire il valore legale del titolo di studio e delegittima la valutazione degli insegnanti.

Quegli stessi insegnanti in merito ai quali il Disegno di Legge S.924-bis sulla revisione della disciplina in materia di valutazione – già approvato in Senato e in discussione alla Camera – prevede l’inasprimento delle pene per chi offende i lavoratori della scuola mentre sancisce la revisione del voto in condotta portandolo a incidere pesantemente sulla valutazione complessiva, determinando bocciature e il non riconoscimento dei crediti scolastici.

Una logica regressiva del punire per adattare, trascurando il fatto che le abilità sociali, le capacità per assumere comportamenti adeguati e di rispetto nella relazione con gli altri, sono competenze che anche la scuola è chiamata a sviluppare.

Ma, soprattutto, trascurando il fatto che la possibilità di educare alla convivenza ha a che fare con la concreta opportunità per i soggetti in crescita di vivere e sperimentarsi in contesti istituzionali “sicuri” sul piano emozionale, affettivo, relazionale, culturale. Contesti in cui ognuno può veder garantiti, per sé e per gli altri, l’ascolto, il riconoscimento, il rispetto e veder realizzata giustizia sociale.

Quando questo non accade (si pensi alla lezione frontale per tutti, alla pratica dei compiti a casa, alla spesa per i libri di testo, per i viaggi scolastici, alle nuove forme di segregazione scolastica, al non riconoscimento della cittadinanza e ad altre forme di esclusione e discriminazione…) sono proprio i più fragili a uscirne sfiduciati, confermati in un destino di esclusione che genera a volte rabbia e risentimento. Allora a nulla serve istituire la giornata nazionale contro la violenza nei confronti del personale scolastico per recuperare l’autorevolezza degli insegnanti.

Serve invece qualificare la formazione iniziale e in servizio, i salari, l’organizzazione del lavoro; aumentare le risorse, qualificare il welfare studentesco, dare stabilità e valore all’autonomia scolastica. Soprattutto, serve liberare la scuola dalla presa in ostaggio della burocrazia e delle continue riforme incompiute, come si verificherà ancora una volta con il ritorno ai giudizi sintetici nella primaria, dopo soli tre anni dall’O.M. 172/2020, proposta che smantellerà tutti i presupposti pedagogici e docimologici dell’ordinanza e il percorso di cambiamento nella cultura valutativa già avviato.

Tanto meno si recupera l’autorevolezza di insegnanti e scuola con provvedimenti come il decreto legge 71 approvato a maggio 2024, che ha previsto il mantenimento del docente di sostegno per l’anno successivo su richiesta delle famiglie. Una deriva pericolosissima che assegna a soggetti esterni, i genitori, il potere della valutazione dei docenti e del loro destino professionale. Soprattutto, un provvedimento che mentre rafforza un’idea di scuola come servizio alla persona, sconfessa il ruolo dell’insegnante di sostegno come insegnante della classe, relegandolo nella sola relazione con la persona disabile.

Ma non c’è mai fine al peggio: proprio in chiusura dell’anno scolastico, il 19 giugno 2024, è stato approvato il decreto Calderoli che prevede, per le regioni che ne faranno richiesta, la regionalizzazione dell’istruzione: dall’allocazione delle risorse per il funzionamento, alla gestione del personale con i contratti di lavoro, al rischio di curricoli regionali. Allo Stato resteranno solo le linee generali dell’ordinamento scolastico.

Qualora non avessero successo i referendum abrogativi, nei prossimi anni il diritto allo studio sarà declinato per ambiti territoriali, aumenteranno i divari, le differenze tra il nord e il sud del Paese e tramonterà il progetto costituzionale di una scuola della e per la Repubblica: aperta a tutti, pluralista e garante dell’unità e della coesione sociale del Paese.

A questi interventi legislativi si aggiungono quelli che il governo sta portando a compimento. Tra questi il DDL n. 845 sull’introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive. Un paradosso quello dello sviluppo delle competenze non cognitive, come se i processi di apprendimento possano essere separabili dalle competenze di vita, dall’affettività, partecipazione, apertura al dialogo e agli altri. Competenze che invece vanno sollecitate e integrate in ogni azione didattica perché l’apprendimento è un processo globale, che investe tutta la persona e il suo stare al mondo.

Ma la tensione al separare più che a cogliere la complessità dell’insegnamento e dell’apprendimento è un tratto distintivo delle politiche scolastiche del governo. Anche il disegno di legge n° 180, in corso di esame in commissione cultura, opera ulteriori distinguo nella popolazione scolastica introducendo una nuova categoria di studenti e studentesse, quelli con alto potenziale cognitivo e di conseguenza nuovi referenti, nuove specializzazioni.

La scuola non ha bisogno di ulteriori etichette diagnostiche che si aggiungono alle numerose già esistenti, ma di più pedagogia, di più professionalità, di più tempo scuola. Ha bisogno, per rispondere ai bisogni formativi di ognuno, di superare il deficit di democrazia che c’è nella didattica depositaria, nella lezione simultanea uguale per tutti, nel tradurre i bisogni formativi individuali in bisogni educativi speciali, in una valutazione dell’apprendimento che diventa luogo in cui le differenze di ingresso si trasformano in disuguaglianze scolastiche.

In ultimo, oltre alla legge annuale di semplificazione, che dà al governo una delega in bianco per il riordino delle norme sulla scuola, tra cui il raddoppio dei membri di nomina ministeriale del Consiglio superiore di pubblica istruzione, che indebolirà la composizione democratica di questo organo collegiale, è stata annunciata la revisione delle Indicazioni nazionali.

Il Ministro ha istituito una commissione coordinata dalla docente universitaria Loredana Perla. La stessa che con Ernesto Galli Della Loggia ha scritto Insegnare l’Italia, un libretto in cui gli autori affermano che ad aver provocato un vulnus psicopedagogico nelle giovani generazioni sia stata la rinuncia all’asse formativo dell’identità italiana. Una messa in discussione chiara, dirompente della visione universalistica, globale e multiculturale delle Indicazioni Nazionali, nelle quali, si legge, l’elaborazione dei saperi necessari per comprendere l’attuale condizione dell’uomo planetario, definita dalle molteplici interdipendenze fra locale e globale, è dunque la premessa indispensabile per l’esercizio consapevole di una cittadinanza nazionale, europea e planetaria.”

Tutto l’impianto delle Indicazioni Nazionali si basa sul principio dell’incontro, dell’interazione e del dialogo: tra soggetti, tra differenze, tra il dentro e il fuori della scuola, tra le discipline facendo proprio il paradigma della complessità e una logica che include, interconnette, coglie interdipendenze.

In un tempo difficile, di violenze e guerra, di povertà e discriminazioni, di crisi ambientali, di sfide che richiedono soluzioni globali, dove l’emergenza da affrontare è educare alla cooperazione e solidarietà tra individui, popoli, paesi, le destre al governo ci propongono la chiusura dei confini; di fronte all’esigenza di coniugare il diritto formale all’uguaglianza con il diritto a veder riconosciuta la differenza, parlano di classi separate; in contesti di vita sempre più multiculturali e multilinguistici in cui si assiste a episodi di etnocentrismo e razzismo nei giovani, per far fronte ai quali servirebbe un approccio educativo intenzionale per un’educazione all’interculturalità e alla convivenza, i politici al governo rivendicano l’identità italiana, il “prima gli italiani” e l’assimilazionismo.

Interculturalità, identità planetaria, dialogo scientifico, nuovo umanesimo sono temi che attraversano tutto il testo delle Indicazioni Nazionali e mal si coniugano con il pensiero reazionario delle destre che è l’espressione di una logica disgiuntiva, in cui a prevalere è il binomio amico/nemico – noi e gli altri, lo scontro e la prevaricazione, le gerarchie e le disuguaglianze.

Distinzioni che nutrono etnocentrismi, razzismi, ingiustizie sociali e guerre. Le destre di questo paese intendono riscrivere la cultura della scuola proponendo una visione autoritaria, regressiva, antidemocratica e pedagogicamente violenta. Una visione questa, che determinerà una fuga dal futuro, perché incapace di dare risposte alle domande e alle vere questioni educative, culturali, politiche del nostro tempo.

Per gli educatori democratici è tempo di uscire dall’innocenza, per assumere un più forte protagonismo attraverso un uso politico consapevole e determinato della professionalità di insegnante, tra i colleghi, a scuola, con le famiglie, nel territorio. È tempo di occupare decisamente gli spazi del possibile, di assumere una posizione apertamente critica e di dissidenza verso quanto imposto dal sistema politico, rivendicando gli spazi di autonomia lasciati dalla norma per affermare l’impegno per un’educazione volta allo sviluppo umano, senza la quale non c’è democrazia.

Come ha scritto Massimo Baldacci ne La scuola al bivio. Mercato o democrazia (FrancoAngeli, 2019): “agli insegnanti rimane sempre un certo “gioco” entro i quadri stabiliti da sistema politico e dall’establishment pedagogico ad esso organico”.

Per gli insegnanti democratici è fondamentale l’impegno per liberare l’apprendimento da formule di addestramento che corrompono le intelligenze, il pensiero critico e le creatività. Lavorare alla costruzione di conoscenza come processo collettivo di ricerca e alla classe cooperativa, con la sua organizzazione materiale e i suoi dispositivi istituzionali, per educare alla democrazia, a un’etica pubblica. Sono semi per la crescita di uomini e donne migliori, capaci di sottrarsi alle manipolazioni e al pensiero unico di cui i populismi si servono.

Ma non basta. Oggi è necessario più che mai fare insieme con le famiglie, gli amministratori locali, un terzo settore sano, non mercanteggiante, per far cadere il diaframma scuola-società. Serve un impegno individuale e collettivo per s-catenare nuove forme di partecipazione, di rappresentanza, di conduzione delle politiche pubbliche, affinché i territori possano rigenerarsi.

Curare il rapporto scuola territorio è una formula indispensabile non solo per riorientare la cultura complessiva del Paese, agire sul senso comune, sulle idee di società, individuo, scuola. Ma è anche una formula politico-pedagogica per riaffermare il valore della Scuola come bene comune, istituzione della Repubblica, in una fase in cui il progetto di scuola unitaria, organo di democrazia è fortemente minacciato.

Come la didattica, anche il dialogo con il territorio va quindi interpretato come un atto politico per attuare una lotta contro-egemonica, nella direzione, indicata sempre da Baldacci, del “circolo virtuoso tra democrazia ed educazione, sapendo che: senza l’una non può darsi pienamente l’altra e viceversa. Sono facce della stessa medaglia”.

Contrapporci al progetto politico delle destre è per noi insegnanti oggi una responsabilità storica, come lo è stata quella assunta dai pionieri MCE che si impegnarono, a partire dalla scuola, alla ricostruzione morale e civile del Paese uscito dal nazi-fascismo.

In questa fase serve più che mai una pedagogia della Resistenza. Fare di ogni plesso, di ogni scuola, di ogni quartiere un’officina sociale per una pedagogia della resistenza è l’impegno cooperativo che deve unirci con tutti e tutte coloro che operano per il futuro democratico della Scuola e del Paese.

 

Vite di carta /
Gli occhi su Malta

Vite di carta. Gli occhi su Malta

Gli occhi su Malta li ho messi e ho cercato di vedere e di capire. Sono arrivata in una luminosa mattina di dieci giorni fa, con il viatico di poche letture e molti racconti di amici che la frequentano da anni per turismo. Ho poi avuto cinque giorni per esplorarne baie, coste fatte di roccia e città.

Mi è arrivato ora il link con tutte le foto che ha scattato durante la nostra vacanza di gruppo il prezioso amico Daniele. Le guardo confermandomi sui suoi superpoteri: ogni momento del viaggio sembra colto con la curiosità di chi è innamorato della vita e la vuole riprodotta in immagini e voci puntualmente registrate.

Gli sono grata di questo repertorio che mi restituisce Malta, anche se ho da fare i conti con quello che di lei mi sfugge.

Sento che ho molto visto, ma ancora di più avverto lo scarto tra quello che ho letto nel libro straordinario di Nello Scavo, Le mani sulla guardia costiera, e le immagini vive di paesaggi bellissimi, città cariche di storia e località cresciute col turismo e con l’aggressività edilizia che ne consegue.

Non avessi letto l’inchiesta giornalistica con cui Scavo è stato finalista all’ultimo Premio Estense, Malta sarebbe ora solo questo ai miei occhi: un arcipelago di grande bellezza nel centro del Mar Mediterraneo, tra la Sicilia e il Nordafrica. Un’isola attraversata dalle conquiste di molti popoli che hanno lasciato il loro stigma nelle costruzioni religiose e in quelle civili, nella lingua e nella cucina.

Potevo andare a conoscere i templi megalitici di Gozo, che risalgono al quarto millennio a.C., ma non ce l’ho fatta. Ho virato sulla domus romana di Rabat, sui mosaici del peristilio che esprimono il livello artistico raggiunto dagli artisti dell’epoca classica e sugli oggetti di uso domestico che mi hanno ricordato il nostro prezioso Museo del Belriguardo a Voghiera, specie le lucerne e i deliziosi balsamari in vetro.

Spiagge e strutture turistiche della costa maltese

Abbiamo visitato La Valletta accettandone la bellezza mista al caos dei turisti in movimento: dopo la veduta sulle Tre città che in basso si intrecciano con bracci di mare blu, eccoci alla ricerca della Concattedrale di San Giovanni Battista oltre il mare di teste lungo Republic Street.

Attendo di entrare insieme agli amici e la coda è lunga. Dentro ci aspetta il quadro che Caravaggio ha dipinto qui nel 1608, quando trovò asilo presso i Cavalieri della Croce di Malta ed entrò per breve tempo a far parte dell’ordine stesso.

La Decapitazione di San Giovanni Battista nella sua enormità di cinque metri per tre ci aspetta nell’Oratorio, a destra rispetto all’ingresso. È collocato in fondo: un’immagine magnetica che ci guida lo sguardo tra penombra e luce e lo fissa in basso sulla figura del santo agonizzante ai piedi del boia e di due figure di donna.

La scena trasuda realismo e orizzontalità con lo spettatore, manca il segno confortante del divino e le figure umane si sono ritratte negli angoli senza più occupare il punto centrale della composizione.

In questa pala, davanti alla quale fu letta la bolla con cui l’artista veniva poi radiato dall’ordine,  si leggono i segni inconfondibili della nuova mentalità barocca col suo sguardo ambiguo sulle cose, con l’inquietudine e il senso di precarietà che faranno esplodere l’arte in immagini di sfarzo e insieme di morte.

Barocco è lo stile predominante di Malta: dall’autobus su cui corriamo da una parte all’altra dell’isola per cinque giorni vediamo passare chiese e case dal giallo tufaceo impreziosito di balconi e stemmi elegantissimi. Una rassegna di bellezza interrotta dalla mole sgraziata di alberghi e altre strutture turistiche, senza soluzione di continuità.

E poi ci sono i traffici opachi documentati da Nello Scavo, che sono la parte di Malta che non si vede, che non vedo. Mi sono apparse davanti piccole barche dai colori vivaci, i luzzi, yacht spropositati e grandi navi ancorate al al largo.

Non ho visto, o non ho saputo vedere, le motovedette o i pescherecci che nella inchiesta di Scavo emergono come attori fondamentali nel processo che da anni è in atto nel Mediterraneo, nel respingimento cioè dei migranti e nella loro deportazione di massa verso i paesi di origine, ma soprattutto in Libia, dove i centri di raccolta riservano a chi deve ancora partire come a che è dovuto tornare privazioni e torture, nella totale negazione dei diritti umani.

Sulla situazione libica conoscevo quanto rivelato da Francesca Mannocchi in Io Khaled vendo uomini e sono innocente, il libro vincitore del Premio Estense 2019. Khaled ammette di essere un trafficante di esseri umani, usa parole semplici per mettere in chiaro ciò che fa: compra gommoni e ci mette sopra “cento negri…Carico cento negri e ci metto pure i salvagenti. E sono uno dei pochi”.

Guadagna molti soldi, dice che nel mestiere suo e di altri come lui “i negri sono la nostra garanzia di liquidità”, e con quei soldi paga gli uomini che lavorano per lui e che hanno famiglia. Sostiene in questo modo chi va a chiedergli aiuto per mantenere i propri bambini.

Nel caos del dopo Gheddafi, Khaled the smuggler sa come muoversi in un universo in cui della rivoluzione, dice, è rimasto ben poco. Paga funzionari e guardiacoste, conosce uomini nei ministeri giusti.

I barconi che Khaled ha messo in mare sono quelli che nella inchiesta di Scavo vengono respinti una volta arrivati in prossimità delle coste maltesi e italiane, come sappiamo. Qui siamo a Malta e io scatto una foto all’imponente palazzo in stile neoclassico che ospita la Corte di Giustizia a La Valletta.

Esattamente tre anni fa Nello Scavo è stato qui, in un paio di udienze, a testimoniare contro Neville Gafà, un personaggio di spicco nelle gravi vicende di corruzione che hanno investito l’isola in questi anni. Accusato dalla polizia maltese di avere minacciato per le sue inchieste il nostro inviato di Avvenire, che da 2019 vive sotto tutela delle forze dell’ordine, Gafà è poi stato assolto.

E sì che la sua è stata una parte di rilievo anche nella campagna denigratoria ai danni della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia, che indagava su corruzione, discriminazioni e abusi di potere ed è stata uccisa con un’autobomba nell’ottobre del 2017, proprio vicino a casa sua a Bidnija, un paese che non ho visitato, anche se non è lontano dalla Baia di San Paolo in cui era il nostro hotel.

Il suolo di Malta, tipico del Mediterraneo

L’inchiesta di Nello Scavo apre un orizzonte grande sull’intero Mediterraneo, sul “palcoscenico della più vasta operazione di distrazione di massa mai conosciuta negli ultimi decenni”, dove è in atto il tentativo di egemonizzazione ad opera delle principali potenze politiche, militari ed economiche: “Turchia, Russia, Egitto, Arabia Saudita, Qatar, l’intera Nato con l’ambiguità degli Usa, l’incertezza dell’Italia, il cinismo della Francia e le ripercussioni della guerra in Ucraina”.

E col concorso della piccola Malta, che ha fatto e fa la sua parte nella gigantesca rete di traffici di persone, petrolio, armi e droga che occupa le acque del Mare Nostrum.

Il titolo del libro di Scavo è una perfetta sineddoche, indica cioè attraverso il caso italiano una parte del quadro, questo sì più grande della pala che ha dipinto Caravaggio e altrettanto carico di ambiguità barocca: il quadro che dipinge la politica nel suo atto di minaccia ai danni della grande Istituzione Nazionale della Guardia Costiera, che da oltre 150 anni presta aiuto a chiunque rischi la vita in mare e si occupa nel senso più ampio della salvaguardia dell’ambiente marino e della sicurezza nella navigazione. In una parola, degli usi civili del mare.

Nota bibliografica:

  • Nello Scavo, Le mani sulla guardia costiera, chiarelettere, 2023
  • Francesca Mannocchi, Io Khaled vendo uomini e sono innocente, Einaudi, 2019

Cover: Palazzo della Corte di Giustizia a La Valletta – Malta.

Foto di copertina e nel testo di Daniele Gonelli

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Parole e figure /
Vorrei un’altra storia

Fresco di stampa, “Vorrei un’altra storia”, di Rascal e Michel Van Zeveren, edito da Babalibri ci porta nel mondo delle favole, di quelle che ci vengono raccontate ma, soprattutto, di quelle che vorremmo veramente sentire.

“Perché una vita senza amore è una vita senza storie” – Aubin Mienanzambi

I racconti della buonanotte, questo momento magico che avvicina genitori e figli, che fa dialogare senza parlare, comprendere senza spiegare, volare senza le ali.

Molti di noi ricordano quel momento, tanti non ne hanno avuto regalo per via di genitori troppo indaffarati e stanchi, un privilegio negato a molti, soprattutto nel mondo di oggi, che lascia a noi stessi l’onere e l’onore di raccontarci da soli i nostri sogni.

I bambini sono curiosi, non credo che, nemmeno in una società da autodidatti su tutto, pure sui sentimenti, abbiano perso la voglia di sentirsi raccontare storie da chi amano.

Ecco allora una bella storia, dove una bambina curiosa e sensibile, Carola, dà una lezione non poi tanto inattesa o sorprendente.

Il padre le propone una dolce storia per farla dormire tranquilla. Lei ascolta.

“C’era una volta un grazioso unicorno di nome Rosamundo, delicato come una carezza”. No, grazie! Carola lo interrompe subito: ne ha davvero abbastanza di storie sdolcinate, orsacchiotti gentili, coniglietti, bacini e cuoricini! Fosse nata maschio, nessuno avrebbe mai pensato di raccontarle storie simili…

Vorrei un’altra storia
Vorrei un’altra storia
Vorrei un’altra storia
Vorrei un’altra storia

Allora una storia con un grande lupo cattivo e affamato che non mangia da tre giorni? Non se ne parla! Suo padre dovrebbe sapere che lei è ipersensibile e ama gli animali! Via il lupo, allora.

La storia di una principessa? E perché mai, solo perché è bella, alta, magra, bionda e con immensi occhi blu? Storie superate, basta eroine piagnucolose e obbedienti.

Una terribile storia di orchi affamati? Ma… si è forse dimenticato che è vegetariana?!

Chang che mangia nella sua ciotola di riso profumato? E perché non Paolo, Edoardo, Vladimir o Karim? Che storia razzista.

Le storie che Carola vorrebbe ascoltare sono altre… ed hanno a che fare con la vita di tutti i giorni e, soprattutto, con gli affetto più grandi. A partire dal giorno in cui i suoi genitori si sono incontrati…

Di storie così ce ne sono mille e una notte, sorride il papà.

Parlare d’amore è forse la storia giusta, quella vera.

Vorrei un’altra storia

Rascal nasce in Belgio nel 1959 e trascorre l’infanzia a Namur. Si forma da autodidatta e, dopo aver lavorato nel campo della pubblicità, realizzato manifesti teatrali e fatto diversi lavori, decide di dedicarsi ai libri per bambini. È autore e illustratore, ma più spesso scrive storie per altri artisti. Per la sua opera è stato insignito del Grand prix triennal de Littérature de jeunesse de la Communauté française 2009-2012.

Michel Van Zeveren nasce nel 1970 a Gand. Si iscrive alla Scuola di Ricerca Grafica per seguire i corsi di film d’animazione ma poi, interessato soprattutto all’editoria per l’infanzia, decide di frequentare quelli d’illustrazione. Attualmente divide il suo tempo tra i libri per bambini, il fumetto e molteplici collaborazioni con varie riviste.

Rascal, Michel Van Zeveren, Vorrei un’altra storia, Babalibri, Milano, 2024, 36 p.

Reggio Calabria: Il nuovo murale di LBS dedicato all’attivista curdo-iraniana incarcerata Maysoon Majidi

Diritti Umani e Immigrazione:
a Reggio Calabria il nuovo murale di LBS racconta la storia dell’attivista iraniana incarcerata Maysoon Majidi. 

Maysoon Majidi nel murale di LBS (Bruno Salvatore Latella)

L’opera raffigura una donna, simbolo di Majidi, con un braccio alzato avvolto nel filo spinato, rappresentazione della sua lotta per la libertà e della sofferenza inflitta da un sistema che criminalizza chi si batte per i diritti umani.
Sullo sfondo, un mare rosso sangue, con figure che lottano per non affogare, richiama il dramma dei migranti che attraversano il Mediterraneo, mentre le montagne nere alludono alla costa calabrese, simbolo di un territorio che da secoli è frontiera tra salvezza e tragedia per migliaia di persone in fuga da guerre e oppressione.

L’attivista curdo-iraniana Maysoon Maijdi (Foto Comitato Free Maysoon)

Maysoon Majidi, attivista curdo-iraniana, è detenuta da oltre 9 mesi nelle carceri calabresi con l’accusa di scafismo.
Il suo caso, insieme a quello di Marjam Jamali, evidenzia come molte persone vengano ingiustamente arrestate e accusate di traffico di migranti secondo la Legge Bossi-Fini e il Decreto Cutro. Queste leggi, volte a contrastare l’immigrazione illegale, criminalizzano anche chi guida i barconi per necessità. L’appello invita alla mobilitazione e alla solidarietà per la liberazione di Maysoon e di tutte le persone accusate ingiustamente di scafismo.

Maysoon Majidi è stata fermata dalle autorità italiane e accusata di traffico di migranti mentre cercava di salvare vite umane. La sua storia, che sta suscitando indignazione a livello internazionale, rappresenta un caso emblematico delle problematiche che affliggono il sistema di accoglienza e le politiche sull’immigrazione in Italia. L’opera di Latella si inserisce in questo dibattito, proponendosi come un potente messaggio visivo contro l’ingiustizia e la criminalizzazione dei difensori dei diritti umani.

Bruno Salvatore Latella (LBS), che da anni esplora attraverso la sua arte i temi dell’oppressione, dell’umanità silente e delle disuguaglianze sociali, dichiara: “Con quest’opera voglio dare voce a chi non ha voce, a chi è stritolato da un sistema che non riconosce il valore della vita umana e dei diritti fondamentali. Maysoon Majidi è un simbolo di resistenza e di coraggio. Non possiamo restare indifferenti.”

Guarda il Video social:
https://www.instagram.com/reel/DBOy8NItL1_/?igsh=d3M5ZXp0NWkzeXhu

In copertina: particolare del murale dedicato Maysoon Majidi

Poveri ma brutti:
il ritratto sulle famiglie italiane della Banca d’Italia.

Poveri ma brutti, il ritratto sulle famiglie della Banca d’Italia.

L’indagine sulle famiglie italiane[1] della Banca d’Italia appena uscita con i dati relativi al 2022, mostra un paese impoverito. Nessuno di noi nei gloriosi anni ’70, ispirati dall’idea di progresso, si sarebbe mai aspettato che ci saremmo trovati in condizioni così pessime, non solo per i soldi ma per tutto il resto (che in questo articolo lasciamo perdere perché parliamo solo di soldi). Recita trionfalmente lo studio: “il reddito medio annuo familiare e quello equivalente sono cresciuti in termini reali dell’1,4 e 1,8% rispetto al 2020”, ma poi sommessamente deve aggiungere: “anche se risultano ancora inferiori a quelli osservati nel 2006 prima della crisi finanziaria globale (del 10% e 5%, rispettivamente)”.

Poiché tutto il reddito disponibile delle 26,5 milioni di famiglie (che hanno in media 2,3 componenti) è di circa 1.200 miliardi di euro, significa che gli italiani hanno perso in 20 anni circa 120 miliardi di reddito. Ma non tutti ci hanno perso perché il 20% delle famiglie più abbienti (e soprattutto i ricchi) che hanno il 45,5% del reddito, hanno continuato a crescere e ciò significa che per l’ 80% delle rimanenti famiglie italiane che producono un reddito di 660 miliardi, la perdita è stata di circa il 18-20% in media, e più si è poveri più la perdita è grande.

I redditi da capitale sono cresciuti (al solito) più del Pil e del lavoro (+5,7%) e hanno contribuito a difendere chi li ha, cioè quel 10% di famiglie abbienti che possiede i 2/3 di tutto il patrimonio finanziario del paese (la finanza è ancora più concentrata della ricchezza[2].

La crescita (media) sul 2020 è dovuta anche ad un anno (quello della pandemia) dove i redditi sono calati e occulta il fatto che le medie mitigano i forti aumenti di chi ha redditi alti con chi li ha stazionari o in calo. Peggiorano pensionati e dipendenti poveri, ma migliorano gli autonomi. Scrive la Banca d’Italia per “indorare la pillola”: “Per effetto di questi andamenti, il reddito medio delle famiglie con principale percettore pensionato è peggiorato in termini relativi, passando tra il 2020 e il 2022 dall’86 all’82% della media generale. Nel complesso, la posizione relativa dei nuclei con la persona a più alto reddito lavoratore dipendente è rimasta sostanzialmente stabile (dal 109% al 108%). Per le famiglie che dipendono maggiormente dal lavoro autonomo, invece, il reddito medio familiare è divenuto ancora più elevato rispetto alla media (dal 147% al 149%)”. Continuando ad alzare la flat tax (15% di imposte) per i lavoratori autonomi (fino a 75mila euro di redditi all’anno), il reddito reale di questi lavoratori cresce anche perché aumenta l’evasione fiscale (le sotto dichiarazioni sono cresciute dal 2021 al 2022 da 90 miliardi a 101 miliardi, +9,1%)[3].

Nel biennio, l’indice di Gini (che indica quanto cresce o cala la disuguaglianza) misurato sui redditi equivalenti è aumentato dal 32,8% del 2020 al 33,6% del 2022. Se si considera invece la ricchezza netta pro-capite esso sale al 66%, un dato mostruoso che indica quanto sarebbe importante una tassazione sui patrimoni oltre un certo ammontare (come sta pensando di fare anche in Francia il primo ministro Barnier) e come propongono Ocse, G20 e molte Istituzioni mondiali da anni.

Analizzando la distribuzione delle famiglie per decili vediamo che il 10% delle famiglie più povere (1° decile) guadagna in media 9mila euro all’anno (sono quelle che Istat classifica come poveri assoluti che sono appunto il 9,7% delle famiglie italiane), seguite da quelle che guadagnano 15.500 euro e dal 3° decile che guadagna 19.877 euro. Queste ultime famiglie sono di fatto i poveri relativi (23% delle famiglie dice Istat) che assieme ai poveri assoluti formano il terzo più povero degli italiani che guadagnano da 9mila euro (stiamo parlando di famiglie non di singoli) a poco più di 19mila euro. Poi segue il 10% delle famiglie operaie che guadagnano 24mila euro seguiti da un ceto assimilabile agli operai (insegnanti, etc.) che prendono 28.225 euro. Siamo sempre a livelli modesti anche col 6° e 7° decile, che guadagna rispettivamente 32.874 euro e 38.789. Bisogna far parte dell’ 8° decile per guadagnare 46.502 euro e del 9° per avere 57.945 euro. E’ il nostro ceto medio impoverito, come del resto è avvenuto per tutti gli altri. Solo il 10° decile può dirsi ricco, quello del 10% delle famiglie che guadagnano 105.298 euro in media all’anno e che detengono il 28% del reddito nazionale.

Uno spaccato di un paese impoverito in modo impressionante rispetto a quello che era l’Italia solo 30 anni fa, se si considera il potere d’acquisto di questi redditi.

Come abbiamo visto, il reddito medio è cresciuto per i lavoratori autonomi il triplo (+2,8%) rispetto a quello dei dipendenti (+0,8%), mentre cala quello dei pensionati (-2,6%) e soprattutto per di chi contava su trasferimenti pubblici statali (poveri, disabili, etc.: -15,4%). Dopo il brusco calo registrato durante la pandemia, nel 2022 la spesa media familiare è tornata ad aumentare del 5,7% in termini reali rispetto al 2020, sostenuta soprattutto dalla componente dei beni durevoli. La spesa delle famiglie appartenenti al quinto (20%) più alto della distribuzione del reddito è aumentata di circa l’11%, in connessione con il forte recupero degli acquisti più voluttuari e di lusso, mentre quella delle famiglie appartenenti al quinto più basso ha continuato a diminuire (-2%). E ciò spiega la crescente presenza di marchi di lusso che lavorano per quel 10% di famiglie che hanno redditi che vanno da 80mila euro a un milione all’anno.

 

Il recupero della spesa (in aumento sul 2020, anno della pandemia) è stato solo parzialmente compensato dall’incremento del reddito; ne è conseguita una riduzione del risparmio familiare[4], pari in media al 7%, nonostante che la rilevazione dica che più della metà delle famiglie ha avuto un risparmio nullo: questa quota sale al 70% per le famiglie appartenenti al quinto più basso della distribuzione del reddito e scende al 28% per quelle appartenenti al quinto più alto.

 

La ricchezza e la sua distribuzione

La ricchezza media netta era nel 2022 di 296mila euro a famiglia (comprende anche il valore della casa che in Italia cresce poco), in crescita a prezzi costanti dell’1,8% rispetto al 2020; quella mediana (che separa la metà meno ricca delle famiglie dalla metà più ricca) era pari a 152mila euro ed è invece diminuita del 2%. La quota detenuta dal 10% più abbiente è salita di circa 2 punti, al 52%. Se consideriamo il 30% più ricco esso possiede il 77,2% dell’intera ricchezza nazionale.

Il 10% più povero possiede solo lo 0,1%, del resto sappiamo dall’Istat che i poveri assoluti in Italia sono nel 2023 il 9,7% della popolazione (5,694 milioni, di cui 1,7 stranieri) che corrispondono grosso modo al 1° decile (10% della popolazione), 20mila in più del 2022 (5,674 milioni), ma la percentuale delle famiglie povere assolute che hanno un “capofamiglia” operaio sale dal 14,7% del 2022 a 16,5% del 2023 (era del 2,8% nel 2006). Tra tutte le famiglie povere con occupati salgono dall’1,9% del 2006 all’8,2% del 2023. Una crescita dovuta ai bassi salari e all’elevata inflazione degli ultimi anni che li avvicina ai poveri assoluti con capofamiglia disoccupato/a (20,7%). Il dato più elevato è nelle famiglie di stranieri (35,1%) quattro volte quella degli italiani. La Calabria è la regione con il 27% di popolazione in povertà assoluta seguita da Puglia e Campania, ma è al Nord che la povertà sta crescendo (+ 115mila famiglie povere tra Trentino A.A., Emilia-R., Lombardia e Piemonte). Stiamo parlando di poveri assoluti così calcolati dall’Istat: per un adulto (di 30-59 anni) che vive solo e risiede in comune centro dell’area metropolitana in Piemonte, la soglia di povertà è pari a 932 euro mensili; in Sicilia è pari a 757 euro mensili; se risiede in comune centro dell’area metropolitana della Lombardia, a 1.217 euro; mentre se risiede in un piccolo comune della Puglia tale soglia è pari a 717 euro. Se quindi cresce l’occupazione in Italia[5], di pari passo crescono i poveri[6], permane una vasta economia sommersa e crescono i lavoratori poveri. E ciò spiega perché cresce il lavoro nero tra le famiglie[7]. Alla situazione di bassi salari nel lavoro regolare si aggiunge il lavoro irregolare che è ancora nel 2022 pari a 3 milioni di unità d lavoro (2,986 milioni lo stima Istat), seppure in calo di mezzo milione rispetto al 2019 per via della “bonifica in edilizia”[8].

Si conferma quindi come siamo passati in 50 anni dalla società dei 2/3 alla società di 1/3, nel senso che solo un terzo delle famiglie beneficia (in termini di soldi) di questo modello di sviluppo e 2/3 si vanno impoverendo anche nei decili del ceto medio (6, 7°, 8°).

Questa figura evidenzia in un’ottica di lungo periodo (1987-2022) i redditi delle famiglie di alcuni decili (suggeriti dalla Banca d’Italia). Le due linee più alte sono il 9° decile (quello appena sotto i ricchi che stanno al 10°) che rappresenta il ceto medio alto e il 3° quartile (ceto medio), entrambi in caduta. Seguono media e mediana, mentre le due linee più basse sono il 1° quartile e il 1° decile, in lieve ripresa ma sotto i livelli del 1989 e del primo decennio del 2000.

 

Per quanto riguarda la proprietà della casa, è noto che gli italiani sono molto legati all’idea di averne una propria, quindi appena possono la comprano. Tutte le famiglie con un minimo di possibilità sono proprietarie di casa[9]. Nella colonna successiva ho indicato (è una mia stima) il numero di seconde case possedute in base ai quinti. Come si poteva immaginare il 40% dei più abbienti possiede 4,7 milioni di seconde case (su 5,6 milioni che sono in totale in Italia). Un fenomeno che si estende (anche se molto meno) tra le famiglie povere, le quali sono più spesso in affitto. Politiche che favoriscono la seconda casa sono ovviamente regressive, com’è stato col superbonus, mentre quelle che favoriscono case popolari e affitti contenuti sono il modo migliore per aiutare poveri e operai (che ancora esistono). I lavoratori dipendenti in affitto nelle grandi città (specie se giovani o donne sole con figli) sono annoverabili ormai tra i lavoratori poveri[10]. In Italia l’8,5% di chi è in affitto in città spende più del 40% del proprio reddito (10,6% la media UE, Grecia e Danimarca sono le più costose con 27% e 22%, Housing in Europe, 2023) e nessun piano esiste a differenza degli anni ’60 e ’70.

Se si considera invece solo il patrimonio finanziario (azioni, obbligazioni, depositi bancari) il 10% più ricco detiene i 2/3 (64%) di tutta la ricchezza finanziaria, il 2° decile più ricco il 12,1%, il 3° decile il 7,1%. In sostanza il 20% più ricco detiene il 76,1% e il 30% più ricco 83,2%, mentre il restante 70% degli italiani possiede il 16,8%. Il gruppo dei più ricchi si è difeso meglio dall’inflazione in quanto i rendimenti finanziari (gestiti da banche e fondi specializzati) hanno reso negli ultimi 3-4 anni più dell’inflazione.

La quota di famiglie indebitate è rimasta stabile al 26%. Il 25% delle famiglie più povere hanno una rata media di 3.754 euro all’anno (che incide del 21% sul loro reddito), la rata annua del 25% delle più ricche è 8.718 euro (che incide del 14,5% sul loro reddito). E più la famiglia ha un reddito elevato più aumenta la percentuale delle famiglie che si indebitano per acquistare una casa, come dimostra il mercato delle case di proprietà che è più dinamico di quello degli affitti (per la mancanza di case in affitto). Il che indica quanto sarebbe necessario un programma di edilizia pubblica popolare (sono 800mila le case attuali ma almeno la metà inabitabili)[11].

Per la povertà relativa usiamo alcuni dati relativi agli individui a basso reddito, pari al 60% della mediana in serie storica. Come si vede nella tabella allegata crescono dal 19,6% del 2006 al 23,9% del 2022, in lieve calo rispetto al periodo 2012-2016 (26,9%) nel quale si era dispiegata la recessione italiana dopo il 2008. Il dato sale al 41,5% per gli stranieri ma rimane alto anche per gli italiani (22,4% e in crescita sul 2006). E’ più basso al Nord (14,3%) ma è quasi raddoppiato rispetto al 2006, in quanto probabilmente include molti stranieri che hanno lavori stagionali e precari, di cui il Nord ha sempre più bisogno.

In conclusione una società in cui finanza ed economia (il nuovo “Dio quattrino” al posto del “Dio trino”) generano sempre più disuguaglianza, inquinamento, distruzione della Natura e i cui vantaggi (in termini solo di soldi) vanno a sempre meno persone.

 

[1] Campione di 9.641 famiglie (erano 6.239 nel 2020) viene svolta ogni 2 anni dalla Banca d’Italia https://www.bancaditalia.it/media/notizia/indagine-sui-bilanci-delle-famiglie-italiane-nell-anno-2022/ (

[2] Per esempio sono 3 milioni gli italiani che posseggono bitcoin per circa 2,5 miliardi che sono tassati (in caso di plusvalenze) al 26% e non si vuole portarli al 42%. Sono in gran parte nel portafoglio azionario del 20% delle famiglie più ricche.

[3] Vedi il rapporto Istat sull’ “Economia non osservata” (sarebbe il lavoro nero e irregolare, le fatture non fatte per 101 miliardi) che è pari al 10% del totale dell’economia. Il lavoro irregolare pesa per 69 miliardi e altri 20 miliardi sono per droga e prostituzione.

[4] Le motivazioni del risparmio sono la volontà di mettere da parte risorse in vista della vecchiaia o per fronteggiare eventi inattesi o incerti; le famiglie più abbienti vi aggiungono il sostegno economico per i figli eredi.

[5] L’occupazione è cresciuta negli ultimi 12 mesi di 494mila unità (agosto 2024 su agosto 2023), ma non dobbiamo dimenticare che siamo al 62,3% di tasso di occupazione, quando nei paesi europei floridi è prossima all’80% e che non sono giovani e donne a beneficiare dii questo “boom” ma adulti e anziani con bassi salari.

[6] Nel 2023 il reddito di cittadinanza è stato ridotto a 7 mesi per le famiglie “occupabili” e nel 2024 si vedranno probabilmente gli effetti della riduzione dell’”assegno di inclusione” (ora si chiama così) che passa da 1,4 milioni di famiglie a 700mila.

[7] Le famiglie sono da un lato impoverite, dall’altro hanno sempre più bisogno di colf e badanti, che sono il doppio dei dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale (1,5 milioni), di cui la metà in nero. E l’immigrazione irregolare e anche la non regolarizzazione dei 600mila immigrati presenti in Italia favorisce sia le imprese che le famiglie che cercano lavoratrici e badanti in nero.

[8] Permane alto in agricoltura (17% sul totale occupati), nei trasporti, turismo e commercio (15%) e cresce nei servizi alla persona, colf , badanti dove è al 39%.

[9] 94% nel quinto delle famiglie più ricche, 86% nel 4° quinto, 79% nel 3° quinto e 69% nel 2°. Solo il 1° quinto (20%) delle famiglie più povere scende al 43% come proprietari di casa.

[10] L’affitto medio pagato dalle famiglie povere in Italia è di 351 euro al mese, 435 euro quello delle famiglie operaie.

[11] Sarebbe stato molto più efficace a favore dei ceti deboli se al posto dell’incentivo del superbonus (122 miliardi di spesa) si fossero ristrutturate tutte le 800mila case popolari facendole salire di classe energetica e poi costruendole o, meglio, ristrutturandone altre 400mila per una spesa media di 100mila euro cadauna, considerando che metà sono ben messe.

 

Cover photo: Cristo che porta la croce, dettaglio, Hieronymus Bosch

La Sinistra e le elezioni a Ferrara: perdere e non capire il perché

La Sinistra e le elezioni a Ferrara: perdere e non capire il perché.

L’intervento di Gaetano Sateriale su questo giornale [Qui], stringato, scritto per punti, ma senza sconti per nessuno, mi spinge a mettere in pubblico alcuni pensieri che già mi giravano in testa durante la campagna elettorale. Considerazioni confermate e maggiorate di segno nel dopo elezioni,  Anche io, senza partito e soldato semplice della società civile, ho “tifato” perché il Centrosinistra riuscisse a strappare alla Destra il governo di Ferrara.  Come si sa, non solo non c’è riuscito ma non c’è andato neppure vicino, incassando una sconfitta di proporzioni storiche. Dunque i miei pensieri, le mie critiche – spero non troppo urticanti per qualcuno – non vengono dall’esterno ma dall’interno: non abbiamo capito, abbiamo sbagliato, abbiamo perso. Noi Tutti, e mi ci metto anch’io.  Per non farla troppo lunga, anche io andrò per punti

1 –  Prima di tutto il PD. Anche se non sono mai stato del PD – credo anche di non averlo mai votato. Perché solo un cretino (e ahimè in Italia ce ne sono)  può pensare di poter vincere (a Ferrara come in Italia) senza o addirittura contro il PD.  La preminenza del Partito Democratico (in Emilia e a Ferrara in particolare) assegna automaticamente a questo partito la responsabilità maggiore delle scelte compiute in campagna elettorale, come del disastroso risultato elettorale.

2 – La scelta del Tavolo dell’opposizione, presentata dal PD ferrarese come “la grande novità”, ricalcava il tentativo nazionale del “campo largo” e si è risolta in una serie di riunioni, rinvii e trattative segrete per “mettere insieme tutti”. L’operazione è fallita, ma ciò che è peggio, il tavolo ha raccolto ed accolto nel suo seno visioni differenti e ha lasciato nel vago temi importanti (per non scontentare nessuno dei commensali) e impedito così l’adozione di un programma chiaro con obbiettivi precisi ed innovativi.  L’opposizione (o le opposizioni riunite)  si sono presentate ai ferraresi senza una nuova idea di Ferrara e del suo governo. Ovvio quindi che prevalesse la Ferrara e il governo esistente.

3 –  Il dopo voto è stato forse anche più deprimente. Davanti a una sconfitta così netta ci si poteva aspettare dal PD un radicale esame di coscienza, un ripensamento profondo sui contenuti e i modi di fare politica in città. Non c’è stato niente di tutto questo. Si è dimesso il segretario cittadino, proprio come era successo 4 anni fa dopo le elezioni del 2019, ma un capro espiatorio non serve ad aprire un diverso futuro.

4 – Tre formazioni politiche ferraresi – Sinistra Italiana, +Europa e Verdi Europa – hanno abbandonato il Tavolo dell’ opposizione (un’ulteriore prova di una scelta sbagliata) per divergenze sul metodo e non condividendo la candidatura del PD di Fabio Anselmo, sostenendo poi la candidatura di Anna Zonari de La Comune di Ferrara. Con una decisione inedita e di una gravità inaudita le direzioni nazionali dei tre partiti hanno tolto l’uso del simbolo ai gruppi ferraresi.  E’ indubbio che questa decisione ha ulteriormente indebolito le forze di opposizione.

5 -Fuori dal tavolo si è mossa la lista civica La Comune di Ferrara. con una proposta nuova sia nel metodo (incentrato su una partecipazione dal basso e aperta a tutti) sia nel merito (con un programma profondamente innovativo che proponeva una svolta nel governo della città). Il risultato modesto raggiunto nelle urne (meno del 3%) credo sia dovuto dall’incapacità di portare la propria proposta fuori da una ristretta cerchia di militanti.

6 – Per capire però le ragioni di una sconfitta così eclatante ((la peggiore di sempre, come è stato osservato) credo occorra concentrarsi sulle ragioni della vittoria della destra. Certo, a Ferrara il sindaco uscente è sempre partito da una posizione di vantaggio per la rielezione (così era stato per Tiziano Tagliani, Gaetano Sateriale e  per il lungo regno di Roberto Soffritti), ma per vincere occorre con-vincere  i cittadini ferraresi. Molti a sinistra hanno gridato contro la propaganda messa in campo da Alan Fabbri e dalla destra. La propaganda, la campagna di comunicazione c’è stata e poderosa (penso soprattutto alla lenzuolata a pagamento che ha coperto Ferrara alla vigilia della campagna elettorale) ma da che mondo e mondo la comunicazione elettorale e la  propaganda da sole non fanno vincere le elezioni. Ci vuole altro, con-vincere appunto.

7 – Questo non toglie che la sinistra sia stata carente anche sul versante della comunicazione. E’ partita tardissimo (per le note ragioni) e si è affidata quasi unicamente ai canali tradizionali. A Ferrara ci sono 5 organi di informazione locale (Carlino, Nuova Ferrara, Estense.com, Ferrara Today e l’emittente televisiva Telestense), e tutti hanno ospitato in modo massiccio argomenti, liste e candidati in lizza. Alla luce del risultato elettorale, appare evidente quanto queste vie di comunicazione (lo sanno anche anche i sassi) siano ormai poco efficaci se non addirittura ininfluenti, non riescano cioè a raggiungere la grande maggioranza degli elettori.

8 – Ma la destra ferrarese, l’Amministrazione uscente, non ha fatto solo propaganda, ma aveva in testa un’idea di città ben precisa e su questa base aveva sviluppato in questi anni una serie di azioni urbane (micro e macro), una strategia che si è rivelata vincente. I ferraresi, la maggioranza in città e nelle frazioni, a questa idea di città hanno aderito. Così nel 2024, al termine della prima consiliatura, la destra si è presentata come una forza autorevole, “governativa”, molto più forte di quanto lo era nel 2019, quando la scena era occupata dalle marce di Naomo Lodi.

9 – Combattere (e vincere) con una destra che ha conquistato una sorta di egemonia culturale (o comunque il consenso della maggioranza della cittadinanza) è compito che fa tremare i polsi. Quel che è certo è che non possono bastare i presidi intonando Bella ciao, le riunioni con i soliti noti, le biciclettate, le polemiche spicciole, le foto in primo piano sul Carlino, gli slogan elettorali triti e ritriti, gli sfottò (faccio un esempio) al geometra-assessore Gulinelli, eccetera. Se l’idea di città annunciata e messa in opera dalla destra piace ai ferraresi,  l’unico modo per vincere è studiare, proporre è  comunicare porta a porta  una diversa idea di città. Non certo il ritorno al passato pre Fabbri, ma una proposta nuova, coraggiosa e attrattiva.

10 – Di cosa deve essere fatta questa nuova idea di città?  In effetti qualcuno – penso al lavoro del Forum Ferrara Partecipata e al programma di La Comune di Ferrara– ha avanzato alcuni temi innovativi: erano l’abbozzo di una nuova idea di citta. Ecco dunque il nodo dei Beni Comuni da riportare in mano pubblica, l’urgenza della Decarbonizzazione e di una mobilità sostenibile liberando la città dalla morsa delle auto,  la proposta di nuove forme di democrazia partecipativa e di accoglienza. Queste indicazioni potevano diventare i caposaldi di una nuova e diversa visione della Ferrara futura. Purtroppo queste intuizioni non sono diventate patrimonio di tutto il campo delle opposizioni. E sono rimaste intuizioni,  invece di diventare un dettagliato progetto urbano da mettere in atto.  Se però non vogliamo rassegnarci a una destra padrona per sempre. su queste cose  occorrerà studiare, lavorare, coinvolgere intelligenze e competenze, ascoltare la voce e i bisogni dei cittadini. Abbiamo 4 anni davanti, non sprechiamoli.

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

 

 

Perché la politica in Italia parla solo del presente e non del futuro?

Perché la politica in Italia parla solo del presente e non del futuro?

Perché siamo in una campagna elettorale permanente e quindi per garantire il consenso è meglio parlare di cose di attualità, … che è più facile, che di futuro.

La politica dovrebbe invece occuparsi del futuro, progettare, anticipare i tempi, creare le condizioni per garantire il benessere delle generazioni future e scongiurare le calamità ,… vale anche per i disastri ambientali sempre più frequenti nel nostro paese.

Il comportamento della politica è pericoloso e gli ultimi argomenti all’ordine del giorno (in questi giorni si parla tanto della recessione del settore automobilistico con in particolare la crisi delle auto tedesche, il dramma di Stellantis e le ripercussioni sulla occupazione in Italia) sono un esempio, stigmatizzato ogni volta (da tutti) ma mai affrontato.

La politica rimane al traino degli avvenimenti e delle decisioni assunte dalle potenze economiche, commerciali, industriali, finanziarie che hanno un potere che supera quello degli Stati.

Apple ha un fatturato di 3.000 miliardi di dollari, circa il PIL della Francia, meno della Germania e della Gran Bretagna, ma più di Italia, Brasile, Canada, Russia, Spagna, ecc.

Della crisi dell’auto se ne parla da almeno venti anni per motivazioni legate alle politiche ambientali e per il manifestarsi nelle popolazioni di un diverso approccio nei confronti della mobilità che ha modificato anche la graduatoria dei valori nelle giovani generazioni.

La necessità di passare ad una alimentazione delle auto che minimizzi gli inquinamenti ambientali ha imposto l’abbandono dei motori termici con la ricerca di nuove soluzioni che nella fase della ricerca tecnologica non potranno che essere più costose, una valutazione più “risparmiosa” della mobilità ha indotto le famiglie a riconsiderare l’investimento nell’auto mentre, a differenza di quanto prefigurato negli ultimi decenni del secolo scorso, l’automobile sta rappresentando sempre meno l’oggetto del desiderio per i giovani e non rappresenta più un simbolo di libertà.

Su queste motivazioni si sono assommate poi le crisi internazionali (conflitti soprattutto) con effetti negativi sul costo dell’energia, lotta per le materie prime strategiche, l’entrata fra i produttori di paesi in via di sviluppo che hanno costi del lavoro molto basso e notevole capacità concorrenziale, ecc.

Ci sono paesi che hanno cominciato a entrare nell’auto (Cina, Giappone, Stati Uniti, ecc.) già da diversi anni, l’Europa è lenta e sconta le divisioni interne e nelle scelte, l’Italia è “indietrissimo” sia per una incapacità di innovare, manifestatasi soprattutto negli ultimi venti anni, che per il fatto che essendo un paese sostanzialmente subfornitore subisce i problemi dei paesi produttori, Germania in primis, e affronta gli avvenimenti al momento della rottura (vedi le recenti proposte di deindustrializzazioni di Berco e Rexnord), quando trovare soluzioni efficaci è più difficile.

Analogo discorso può essere fatto per la chimica o meglio per la Petrolchimica a seguito della modifica del quadro di riferimento, con l’entrata in produzione, negli ultimi venti anni, di aziende proprietarie delle materie prime, sostanzialmente il petrolio e di una sovra produzione che danneggia soprattutto i produttori europei.

Il futuro della petrolchimica in Europa e soprattutto  nel nostro Paese non sarà coronato da successo se non si avvierà un ciclo virtuoso di innovazioni e di breakthroug concreti come quelli già vissuti negli anni ‘80 del secolo scorso, abbandonando la rincorsa ai prezzi nei confronti di che ha le materie prime (proprietario) direttamente dalle raffinerie, i cracker o addirittura dalla bocca di pozzo.

Ferrara e il suo Petrolchimico

E qui torniamo ancora alla opportunità che Ferrara e il suo Petrolchimico sta perdendo non sfruttando l’innovazione messa a punto nel Centro Ricerche Giulio Natta di Lyondellbasell con il processo di riciclo molecolare MoReTech, in corso di industrializzazione a Wesseling, in Germania.

Non è ricorrendo i miglioramenti, seppure doverosi, che si affronta il futuro ma innovando i processi perché le parole d’ordine quotidiane come cambiamento climatico, transizione ecologica, economia circolare, rivelano una nuova consapevolezza: i prodotti dell’economia futura saranno sempre di più i processi e l’innovazione è fondamentale.

Per intervenire sui cambiamenti, per governare le transizioni e per essere davvero economicamente, socialmente e ambientalmente sostenibili, siamo in ritardo (a Ludwigshafen in Germania la BASF nel suo petrolchimico produrrà 500.000 tonnellate annue di vapore per i suoi impianti utilizzando elettricità proveniente da fonti rinnovabili, … senza produzione di CO2) ma si può ancora invertire la rotta se c’è la volontà di guardare avanti, … ma non sembra sia questa l’intenzione della nostra politica.

Manca purtroppo una politica industriale, la voglia e la capacità di guardare al futuro,  e senza la politica non si va da nessuna parte.

Anche il futuro del Petrolchimico di Ferrara deve essere inserito in tale ottica e in particolare l’economia circolare rappresenta una opportunità alla nostra portata.

Processi circolari come ad esempio il riciclo della plastica di LYB ma anche di ENI Versalis, che CDS Cultura sostiene da diversi anni, rappresenterebbero per Ferrara, non solo per il Petrolchimico, importanti atout, ossia opportunità di sviluppo che l’immobilismo attuale purtroppo non può concedere.

 

 

Testimoni di nonviolenza da Israele e Palestina:
Un tour in Italia dal 16 al 26 ottobre

Obiezione alla guerra

Testimoni di nonviolenza da Israele e Palestina
insieme per dare voce a chi rifiuta la violenza e progetta la pace

Un tour in Italia dal 16 al 26 ottobre

Vengono da Israele e Palestina, dove il diritto internazionale viene calpestato, per rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza! Lavorano insieme e rifiutano la guerra, l’esercito, le armi, l’odio.

Sofia Orr e Daniel Mizrahi (israeliani, hanno rifiutato armi e divisa, sono obiettori di coscienza e per questo reduci dal carcere), Tarteel Yasser Al Junaidi e Aisha Amer (palestinesi, sono attiviste nonviolente e difendono i diritti umani, contro l’occupazione) sono quattro testimoni di pace che credono nel dialogo e lavorano insieme, come “gruppo misto” israelo-palestinese, e rappresentano due importanti movimenti: Mesarvot (una rete di giovani attivisti israeliani che rifiutano di prestare il servizio militare obbligatorio), e Community Peacemaker Teams – Palestina (CPT) (sostiene la resistenza di base nonviolenta guidata dai palestinesi contro l’occupazione israeliana).

Invitati in Italia dalla Campagna di Obiezione alla guerra, su iniziativa del Movimento Nonviolento, saranno ospiti, con conferenze stampa e iniziative pubbliche, dal 16 al 26 ottobre: un tour di 10 giorni, da Milano a Bari, per far conoscere all’opinione pubblica italiana i volti e la voce di chi, dentro alla follia della guerra, già realizza progetti di pace, a partire dal rifiuto della violenza e delle armi. Lo scopo del tour è di sostenere concretamente e politicamente i movimenti nonviolenti, gli obiettori di coscienza, i pacifisti che lavorano per la convivenza dei due popoli. La richiesta di pace che si alza dalle popolazioni civili, è l’unica alternativa alla violenza cieca dell’esercito e dei gruppi armati che a Gaza, in Cisgiordania, in Libano e in Israele stanno seminando odio e vendetta. La spirale che ci sta portando al terzo conflitto mondiale può essere spezzata: l’obiezione alla guerra è il primo passo. Per questo chiediamo alle istituzioni, all’Unione Europea, al nostro governo, di riconoscere lo status di rifugiati politici a tutti gli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva, che fuggono dalle guerre e chiedono asilo e protezione.

Questo il programma del tour:

martedì 15, arrivo a Milano Malpensa

mercoledì 16, a Milanoconferenza stampa (ore 11, Cascina nascosta di Parco Sempione) e un incontro pubblico (ore 17:30 sede Acli, via della Signora 3);

giovedì 17Veronaconferenza stampa (ore 12:40, Palazzo Barbieri, Sala Arazzi), incontri istituzionali con Sindaco e Vescovo, e proiezione del docu-film “Light” (ore 21, Teatro Modus);

venerdì 18Verona: incontro con gli studenti (ore 8:30, Liceo Classico Maffei), partecipazione al Festival “Poeti Sociali” della Diocesi di Verona (ore 15, Piazza dei Signori);

sabato 19Bolognaincontro con gli studenti e proiezione docu-film (ore 10:30, Cinema Perla) e incontro pubblico (ore 15 al Parco storico di Monte Sole, Marzabotto);

domenica 20Parmaincontro con la comunità giovanile (ore 11, Il Punto in Piazza Garibaldi);

domenica 20Reggio Emiliaincontro pubblico (ore 15:30, Casa di quartiere Orti-Spallanzani);

lunedì 21Firenze: conferenza stampa (ore 11:30, sede Cgil via Borgo dei Greci 3), incontro con le associazioni e proiezione docu-film (ore 21, circolo Arci le Vie Nuove, via Giannotti 13);

martedì 22Firenzeincontro con gli studenti (ore 9, Auditorium Istituto Comprensivo Rosai, via dell’Arcovata 4/6), incontro con vicesindaca e presidente del consiglio comunale (ore 14:00 presso Palazzo Vecchio), incontro pubblico (ore 21, Circolo Arci 25 aprile, via Bronzino);

mercoledì 23Romaincontro con gli studenti universitari (ore 10, Aula Blu 5, Università Sapienza), incontro con il Servizio Civile (ore 15, sede Engim via Etruschi 7, San Lorenzo);

giovedì 24Roma: Audizione Commissione permanente per i Diritti Umani (ore 8:30, Camera dei Deputati), incontro pubblico (ore 10:30, presso la sede del CSV Lazio, via Liberiana 17, in dialogo con Donatella Di Cesare e Luigi Manconi, prevista la diretta live sulle pagine FB del Movimento Nonviolento e del CSV Lazio), ore 13 ricevimento presso il Dicastero Vaticano per lo Sviluppo Umano e integrale, conferenza stampa a Montecitorio (ore 16, Sala stampa, con on. Laura Boldrini, on. Nicola Fratoianni, on. Stefania Ascari e rappresentanti Rete Pace Disarmo);

venerdì 25Roma: giornata libera con trasferimento a Bari;

sabato 26Bari: partecipazione alla Giornata di mobilitazione “Fermiamo le guerre. Il tempo della pace è ora” (ore 9:30, ritrovo in Piazza Massari); incontro pubblico (Fondazione “Rita Maierotti”, Via Giuseppe Volpe 4– Bari, Quartiere Madonella);

domenica 27: partenza da Bari Palese.

Durante tutto il tour, i 4 testimoni saranno accompagnati e tradotti da Daniele Taurino, presidente di EBCO/BEOC (Ufficio Europeo Obiezione di Coscienza).

Molte le associazioni, nazionali e locali, che hanno aderito e collaborato attivamente per la migliore riuscita del tour:

Rete italiana Pace e Disarmo, Un Ponte Per, Europe for Peace, Acli Milanesi, Legambiente Lombardia, Caritas Ambrosiana, Fondazione Toniolo, Festival Poeti Sociali della Chiesa di Verona, Portico della Pace di Bologna, Spi Cgil di Bologna, Scuola di Pace di Monte Sole, Parma candidate European Youth Capital 2027, Il Punto hub creativo, Giro del Cielo di Reggio Emilia, Cgil Firenze, Donne insieme per la pace, Arci Firenze, Anpi Firenze, Cospe, Cristiani insieme per la Pace, Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale Università Sapienza di Roma, RuniPace, Le vie della Nonviolenza – Servizio Civile, CSV Lazio, Cnesc (Conferenza nazionale Enti Servizio Civile), Comitato per la Pace di Terra di Bari.

Movimento Nonviolento

Mao Valpiana
Presidente

A Ferrara il 24 ottobre:

in un gruppetto del Movimento Nonviolento di Ferrara abbiamo partecipato all’incontro con quattro giovani obiettori di coscienza e pacifisti israeliani e palestinesi che si è svolto il 19 ottobre a Monte Sole, tappa di un tour più ampio organizzato dal Movimento Nonviolento nazionale, con numerose partnership, all’interno della Campagna di Obiezione alla guerra.

L’incontro con Sofia, Daniel, Aisha e Tarteel è stato molto significativo, di apertura, di speranza e di conoscenza, e desideriamo condividerlo. Proprio per questo invitiamo gli amici e le amiche alla proiezione di una delle tappe del tour, per ascoltare la testimonianza diretta di giovani che, pur vivendo sulla loro pelle la guerra, la demonizzazione del nemico, la militarizzazione estrema delle loro società, hanno il coraggio e la forza di sperimentare la pace pagandone il prezzo, con il carcere e con l’esclusione. Qui in Italia si sono incontrati per la prima volta: “Se il dialogo tra noi è possibile, lo è anche in una scala più grande”, ci hanno detto, e ci hanno chiesto di far conoscere le loro storie.

Ci vediamo giovedì 24 ottobre alle 20,30 presso la sede di Viale K in Via Mura di Porta Po 9.

In questi giorni il tour dei giovani israeliani e palestinesi continua, facciamolo sapere ai nostri contatti in altre città: domenica 20/10 a Parma e Reggio Emilia, lun. 21 e mar. 22 a Firenze, mer. 23, giov. 24 e ven. 25 a Roma, sab. 26 a Bari nella manifestazione per la pace.

Il Movimento Nonviolento, Centro di Ferrara

 

ALU, un sindacato contro Amazon

ALU, un sindacato contro Amazon

Nell’ambito della ricca offerta del Festival Internazionale 2024 a Ferrara, vorrei segnalare un evento che mi ha particolarmente colpito : il documentario Union di Brett Story e Stephen Maing (Stati Uniti, 2024) .  Il film-documentario mette in scena una  storia vera di lotta operaia dal basso e la risposta, a suo modo feroce, di Amazon, gigante della produzione multinazionale capitalista.

Union documenta la sfida di un gruppo di magazzinieri a Staten Island (New York) nel tentare di formare una rappresentanza sindacale in una sede di Amazon. Impresa particolarmente difficile negli Stati Uniti, dove l’ottenimento del riconoscimento di sindacato è subordinato alla raccolta delle firme di adesione del 30% dei lavoratori dello stabilimento.

L’iniziativa parte da un eterogeneo gruppetto di lavoratori, che la lotta prolungata trasforma in compagni di vita, capeggiata da Christian Smalls, black american, che concentra i suoi sforzi a favore dei diritti dei lavoratori in un magazzino di Amazon.

Le condizioni di lavoro che emergono dal documentario sono pessime: dai turni di dodici ore con pause brevissime, alla precarietà di contratti di sei mesi, per mantenere un turn over continuo che scoraggia la sindacalizzazione dei lavoratori.

Una scena dell’avvincente documentario riprende una lavoratrice che dorme in macchina nel parcheggio dello stabilimento, attrezzata con coperte in pieno inverno, avendo solo cinque ore di riposo tra un turno e l’altro. E poi il pullman che porta al lavoro in un’alba grigia l’esercito dei dipendenti del centro di distribuzione Amazon semiaddormentati, lavoratori precari del sottoproletariato americano multietnico, sfinito e spesso rassegnato.

Le modalità di lotta del gruppo di cui Smalls è leader sono anticonvenzionali: tenda permanente fuori dallo stabilimento, mensa alternativa a base di pizza e “erba”, ricerca continua del dialogo e di un vero e proprio rapporto umano con gli altri lavoratori, divulgazione con tutti i mezzi possibili delle proposte sindacali. Il gruppo promotore appare caratterizzato dalla tenacia di una lotta permanente durata mesi, e da una simpatia  trasgressiva e contagiosa.

Amazon dal canto suo ha adottato tutte le possibili contromisure contro ALU (Amazon Labor Union), specie dopo lo smacco del 2022 che porta al sorprendente raggiungimento del numero minimo delle firme e alla costituzione del sindacato aziendale.

Le risorse messe in campo da Amazon consistono in vere e proprie campagne di comunicazione interna volte a spaventare e intimorire i lavoratori, in pressioni e ricatti individuali con la minaccia della perdita del posto di lavoro, in ingenti investimenti legali ingaggiando i migliori avvocati per contestare la legittimità delle attività sindacali e delle votazioni. Oltre, ovviamente, ad un intensificato turn over provvidenziale nell’eliminare i personaggi scomodi e impedire la negoziazione dei contratti ad ALU.

La strategia di Amazon, azienda multinazionale che conta circa un milione e mezzo di lavoratori nel mondo, è quella di mantenere ad ogni costo il controllo delle relazioni con i dipendenti, monitorando le richieste dei lavoratori, concedendo alcuni miglioramenti per dimostrare così  l’inutilità del sindacato.

Il documentario registra come Amazon si voglia mostrare ai propri dipendenti come azienda esemplare del capitalismo “buono”, in una sorta di rappresentazione tanto totalizzante, quanto lontana dalla realtà. L’obiettivo principale di ALU sembra invece il “risveglio” dei lavoratori, la rivendicazione di essere “umani”, in un’azienda che alla crescente automatizzazione del lavoro accompagna la trasformazione dei lavoratori in automi.

Lotta particolarmente significativa perché Amazon sta aggressivamente definendo lo standard delle condizioni di lavoro nel mercato globale, definito da automazione, stretta sorveglianza, e tassi di turnover fino al 150%. Questa singola azienda controlla gran parte dell’infrastruttura di Internet, definisce i termini della vendita al dettaglio online a livello globale, svuotando le strade di città e paesi di tutto il mondo dalle locali attività commerciali.

La lotta a questo gigante della globalizzazione, da parte di un improbabile, ma vivissimo gruppo di lavoratori, assume le dimensioni della sfida ad un modello di vita alienante, mercificato e disumano che tenta di omologare non solo i lavoratori, ma anche i consumatori.  Pur nelle crescenti difficoltà ALU esiste e lotta ancora oggi, anche se, per le regole sindacali americane, solo nei singoli stabilimenti.

Per leggere gli articola di Eleonora Graziani su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Giacomo Matteotti cultore d’arte ferrarese in un ritratto inedito di Scardino

Giacomo Matteotti cultore d’arte ferrarese in un ritratto inedito di Scardino

Un Giacomo Matteotti baldanzoso e appassionato, che scende in strada a testa alta tra i manifestanti avversi e che ama la pittura e la cultura fino a trasformarsi in guida per accompagnare operai e lavoratori ad ammirare i palazzi e i monumenti di Ferrara. È questo il ritratto inedito del politico, sindacalista e deputato italiano ucciso cento anni fa per le sue idee di libertà, tratteggiato dal critico d’arte Lucio Scardino. Questa immagine vivida e “fuori dagli schemi del martirologio” è stata tratteggiata in occasione dell’incontro su “Giacomo Matteotti estimatore dell’arte ferrarese”. L’appuntamento, che si è tenuto sabato 19 ottobre 2024 nella Sala Estense di piazza Municipio a Ferrara, rientrava nell’ambito della manifestazione Autunno Ducale. L’interesse per l’arte – ha spiegato Scardino – emerge visitando la sua casa natale a Fratta Polesine. È lì che lui ha subito notato, appeso in cucina, un dipinto di Giovanni Battista Crema: “Un paesaggio con un ponte di vago sentore divisionista eseguito dall’artista ferrarese attorno al 1920”.

Paesaggio di Giovanni Battista Crema dalla cucina di casa Matteotti, a Fratta Polesine

Da questo importante indizio è partito lo studio di Lucio su questi aspetti culturali meno scandagliati dalla storiografia, che fanno emergere con vivacità un personaggio storico e introducono anche aspetti inediti della vita culturale ed emotiva di Matteotti. Un’immagine piena di vitalità, capace di evocare un soggetto con la forza coinvolgente di una trasposizione cinematografica. A introdurre e arricchire l’incontro, la guida turistica Alessandro Gulinati, che si è detto “lusingato di avere avuto Matteotti come predecessore in questo mestiere”, in veste di padrone di casa di un incontro che rientra nella manifestazione organizzata con l’associazione Pro loco ferrarese, particolarmente attenta agli aspetti d’arte e cultura cittadina.

Locandina incontro su “Matteotti estimatore dell’arte ferrarese”

Arte e bellezza per Giacomo Matteotti – spiega Scardino – diventano uno degli strumenti di emancipazione e giustizia sociale, ma anche passione coltivata e condivisa con l’amata moglie Velia Titta. A testimoniarlo ci sono le lettere di una loro ininterrotta corrispondenza, che testimonia il forte legame di interessi e predilezioni, condivisi negli anni anche durante le tante trasferte e lontananze di lui, impegnato nella Prima Guerra mondiale ma anche in viaggio per l’Italia come militante del partito socialista.

Scardino ha ricordato il forte legame del politico italiano nato a Fratta Polesine (1885) e la città di Ferrara, che è stata il suo collegio di elezione come deputato per il mandato parlamentare dal 1919 fino all’anno della morte (1924). Dopo l’eccidio del Castello Estense, dove il 20 dicembre 1920 restarono uccise sei persone, Matteotti viene infatti mandato a Ferrara in veste di segretario della Camera del Lavoro cittadina, impegnandosi con audacia e in prima persona nella lotta antifascista. Scardino ha rievocato episodi in cui con audacia scende nelle strade di Ferrara e affronta, faccia a faccia, situazioni avverse. Un uomo di principi e di lotta senza paura, insomma, con l’immediatezza impavida del “fanciullino pascoliano”. Ma che non deve – secondo il critico d’arte ferrarese – far tralasciare il suo spirito di amante delle arti e di appassionato divulgatore culturale.

A testimoniare questo aspetto, c’è l’articolo pubblicato dal periodico del socialismo polesano “La Lotta” (23 ottobre 1920, pagina 3) su ‘La visita a Ferrara’: ‘Domenica scorsa i giovani socialisti di Polesella e San Pietro in Valle visitarono Ferrara. Ricevuti nel magnifico Castello Estense (…). Visitarono quindi la Cattedrale e gli affreschi del Palazzo Schifanoia. Il pomeriggio fu dedicato a Palazzo dei Diamanti e alla sua Pinacoteca, a San Cristoforo e alla Certosa; e furono ammirate Piazze, Corsi e Palazzi. Dappertutto la guida fu l’on. Matteotti”.

Nel 1920 – ricorda Scardino – Matteotti commemora alla Camera la morte di Gaetano Previati: un originale tributo e un invito a rivendicare a patrimonio nazionale la sua opera, che ne documenta l’ammirazione e la conoscenza diretta. Nonostante i gravosi impegni ministeriali e sindacali, secondo l’esperto d’arte “Matteotti si dedicò a questo approfondimento estetico soprattutto dopo il matrimonio con Velia Titta, autrice di poesie di gusto pascoliano e autrice di un paio di romanzi, come quello, rimasto inedito, dedicato a Ugo e Parisina”.

Madre su sfondo di periferia industriale
Altro particolare del soffitto – foto Roberto Targa

Giunto a Ferrara nel gennaio 1921 in veste di segretario della Camera del Lavoro, Matteotti in quel turbolento periodo avrebbe poi compiuto un singolare salvataggio di un’opera d’arte. “Si deve probabilmente a lui – conclude Scardino – la controsoffittatura della sala che allora era la sede della Camera del lavoro”, nel Palazzo Todeschi (o Tedeschi) che si trova in cima allo scalone di quell’angolo affascinante e misterioso di Ferrara che è piazzetta Bertolucci, adiacente a piazzetta Schiatti.

Scalone di Palazzo Todeschi, a Ferrara
Il portale d’ingresso – foto Roberto Targa

Questa decorazione superstite del tempo di Matteotti a Ferrara è stata quindi illustrata durante l’incontro, con la proiezione delle immagini realizzate dal fotografo ferrarese Roberto Targa. Un’opera di cui non c’era conoscenza, decorata sul soffitto da Ildebrando Capatti e Leone Caravita. Sulle volte della sala appaiono scene del lavoro, ma anche i simboli dei segni zodiacali, i volti dei padri del Socialismo e la messa in scena di un’ideale di buon governo. Insomma, una Schifanoia socialista decorata a tempera, con tanto di slogan ideologico che ne identifica la finalità: “Internazionale. Il Sole dell’Avvenire”.

Figure femminili su sfondo industriale
Lavoratori, soffitto Palazzo Todeschi
Corteo di lavoro – foto Roberto Targa

Una controsoffittatura ha tenuto l’opera nascosta fino al 1996. La copertura ha preservato l’opera dalla possibile distruzione dopo l’avvento fascista, con uno stratagemma che Scardino ipotizza vada attribuito a Matteotti stesso. La Camera fu soppressa e la sede venduta all’inizio del 1924. Il richiamo all’iconografia dei Mesi di Schifanoia ha destato il particolare interesse di Marco Bertozzi, direttore dell’Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara, che in chiusura dell’incontro ha ipotizzato la possibilità di legami tra ambienti socialisti e massonici.

Fotoservizio di Roberto Targa

Ecco il reading di poesia di Ultimo Rosso:
Appuntamento alla Rotonda Foschini, 26 ottobre dalle 16 alle 18

“Le parole del silenzio”
Reading di poesia: sabato 26 ottobre, dalle ore 16 alle 18, alla Rotonda Foschini a Ferrara

Ascolta…il silenzio.
E’ un silenzio ondulato,
un silenzio,
dove scivolano valli ed echi
e che inclina le fronti
al suolo.
(Federico García Lorca)

Di letture collettive di poesia, denominate anche reading, come Associazione Culturale Ultimo Rosso  ne abbiamo fatte ormai parecchie. In diversi momenti dell’anno. Nel tempo, abbiamo modificato la forma. Da una versione diffusa tra centro e periferia del primo anno nel 2021, abbiamo sperimentato altre modalità, altre locations (diversi punti nel centro città; la Piazza Municipale assieme a gruppi di studenti dell’Istituto Einaudi; agli spazi verdi attorno al bar Paradiso Verde; alla Rotonda Foschini. In collaborazione con il giornale on line “Periscopio”, ARCI Ferrara e il negozio di dischi “Pistelli & Bartolucci”, anche il 26 ottobre prossimo saremo alla Rotonda Foschini dalle ore 16 alle ore 18. Sarà un Reading poetico collettivo aperto a tutti. Chi vorrà leggere una propria poesia, un proprio pensiero potrà farlo!

Il tema conduttore sarà “Il silenzio“. In una realtà quotidiana sempre più rumorosa dove il silenzio è quasi percepito come ingombro imbarazzante, ci incrociamo spesso coi silenzi imperfetti.
Ugo Volli ne mette insieme, ne sovrappone parecchi. “Il vuoto di discorso in una conversazione, la meditazione solitaria, la pausa dell’oratore, la rottura delle categorie comunicative in un’opera poetica che impegna al massimo della tensione il proprio linguaggio, il silenzio ostinato all’interno di una relazione sociale, la regola che proibisce la parola all’interno di grandi comunità monastiche, la pausa di “concentrazione” che un atleta o un attore si prendono prima della loro prova, il rifiuto di un prigioniero, la resistenza passiva di una città, tutti questi sono esempi della politica del silenzio, e della sua molteplicità”.

Sarà una proposta di condivisione del linguaggio poetico come forma di orientamento alla pace.
Tutte e tutti sono invitati a leggere e ascoltare!

 

 

E’ mancato Paolo Micalizzi, Giornalista, critico e storico del cinema

Questa è mancato Paolo Micalizzi, amico, socio e collaboratore del CDS, critico e storico del cinema.
Per ricordatlo riporto un breve riassunto della sua intensa attività, ripreso da “Ferrara e il suo Petrolchimico, volume 2°” del 2019 (pag. 506).
Recentemente Paolo era anche Responsabile del “Centro Documentazione Studi e Ricerche Cinema Ferrarese”.

Paolo Micalizzi, Giornalista, critico e storico del cinema.

Nato a Reggio Calabria nel 1938 viene assunto dallo Stabilimento Montecatini di Ferrara il 1° maggio 1959, svolgendo il compito, come diplomato in chimica, di assistente tecnico al Centro Ricerche nel settore della polimerizzazione e successivamente di assistente tecnico del Vice Direttore. Dal marzo 1969, entrato a far parte della Funzione Personale ha sviluppato attività di Relazioni Pubbliche per la Scuola Aziendale e per la Direzione dello Stabilimento organizzando iniziative culturali di P.R. ma anche per il Dopolavoro di cui è stato Presidente per una decina di anni e per l’Intercircoli aziendali che ha anche presieduto.

OSSESSIONE E IL NEOREALISMO (a cura di Paolo Micalizzi, 2023)

Per la Direzione, in modo particolare, ha curato anche le visite scolaresche e delle Autorità allo Stabilimento, i rapporti con la Stampa. È stato anche per un anno a Milano a curare il “Notiziario per il Personale” per lo Stabilimento di Ferrara e per altri di DIPE. Appassionato di giornalismo e di cinema sin dal periodo in cui viveva a Reggio Calabria, giunto a Ferrara ha iniziato a collaborare, dal 1959 e per circa un anno, come critico cinematografico del Quotidiano “Gazzetta Padana”, attività che poi nel tempo ha svolto anche per periodici specializzati nazionali: una decina, tra cui Giornale dello Spettacolo, Cinema d’Oggi, Cineclub (di cui è stato Direttore per 3 anni), Cinema International (di cui è stato Corrispondente per l’Italia).

Oggi, collabora con “Il Resto del Carlino” (ha iniziato nel 1969), tiene una Rubrica di cinema su “La Voce di Ferrara e Comacchio” ed è Direttore della Rivista online “Carte di Cinema”. Ha pubblicato una quindicina di libri sul Cinema ferrarese e sui suoi Autori, tra cui “Al di là e al di qua delle nuvole. Ferrara nel cinema”, “Là dove scende il fiume. Il Po e il cinema”, “L’Orlando furioso nel cinema italiano”, “Autori Fedic alla ribalta” (2 volumi) e monografie su Florestano Vancini, Gianfranco Mingozzi, Antonio Sturla, Massimo Sani, Ezio Pecora, Renzo Ragazzi. L’ultimo libro è “Giorgio Ferroni/Calvin Jackson Padget: dai documentari ai film di genere ed ai western spaghetti”. Ha avuto a Ferrara, il Premio della Camera di Commercio (1994), il Premio Stampa alla carriera (2009) ed il Premio Carlo Rambaldi.

Negli ultimi tre anni ha ricevuto alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, tre importanti Premi della critica. Ed in questa importante Mostra organizza da 25 anni il Premio Fedic e da 23 il Forum Fedic.

 

Una intervista di Paolo Micalizzi sulla sua attività di critico cinematografico e di appassionato di cinema.

 

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Per certi versi / La vita di una parola

La vita di una parola

L’essenza
Di una parola
Vive tre volte
La prima
Sì genera
La seconda
Esce dalle labbra
La terza insegue
L’eco
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Sabato 26 ottobre, le città d’Italia in piazza:
“Fermiamo le guerre, il tempo della Pace è ora”

 

Presentata oggi in una conferenza stampa online la Giornata di mobilitazione nazionale “Fermiamo le guerre, il tempo della Pace è ora”. Sabato 26 ottobre 7 piazze italiane (come i colori di un arcobaleno pacifista) grideranno a gran voce le proposte della società civile che chiede percorsi di pace, disarmo, giustizia sociale e climatica.

In un contesto internazionale sempre più militarizzato e segnato da guerre, sofferenze e scelte politiche senza investimenti reali in diplomazia, è essenziale dire insieme: “Basta con l’impunità. Basta con  la complicità. Basta con l’inazione”.

La modalità di mobilitazione scelta dalle cinque Reti promotrici della Giornata (Europe for Peace, Rete italiana Pace e Disarmo, Fondazione PerugiAssisi per la cultura della pace, AssisiPaceGiusta, Sbilanciamoci) vede l’organizzazione di manifestazioni su tutto il territorio nazionale, per raccogliere e rendere evidente come la grande maggioranza dell’opinione pubblica italiana voglia un cambio di rotta delle istituzioni nazionali ed internazionali: le guerre che devastano il mondo devono essere fermata, per iniziare a costruire un tempo della Pace possibile. Ora.

Nella giornata di sabato attivisti e membri delle oltre 300 organizzazioni che hanno dato la propria adesione alla Giornata, insieme a tante cittadine e cittadini preoccupati delle situazioni che stiamo vivendo, si ritroveranno nei cortei in preparazione a Bari, Cagliari, Firenze, Milano, Palermo, Roma e Torino. Dal mattino al pomeriggio grazie agli interventi previsti nelle piazze e sui palchi verranno rilanciati i contenuti della Piattaforma di convocazione della Giornata. Un vero e proprio elenco dei temi fondamentali e cruciali per costruire una prospettiva di Pace: da qui si partirà per campagne e azioni quotidiane della società civile italiana.

Il nostro lavoro non si limita alla Giornata di Mobilitazione, che è invece segno e strumento di una larga convergenza su proposte e richieste di Pace, Disarmo e Nonviolenza che le istituzioni italiane ed europee non possono più ignorare. Perché non si possono più ignorare i troppi morti e le tante distruzioni che caratterizzano le decine di guerre (non solo le più visibili) in corso nel mondo.

 

Rete Italiana Pace e Disarmo
La Rete Italiana Pace e Disarmo nasce il 21 settembre 2020 dalla unificazione di due organismi storici del movimento pacifista e disarmista italiano: la Rete della Pace (fondata nel 2014) e la Rete Italiana Disarmo (fondata nel 2004). Entrambe le reti hanno potuto contare fin dalla loro fondazione sul sostegno di decine di associazioni, organizzazioni, sindacati, movimenti della società civile italiana. Lo scopo è quello di creare insieme la pace a partire dall’unione delle nostre forze, degli obiettivi comuni, per rafforzare e far crescere il lavoro collettivo per la pace ed il disarmo.

 

 

Superbonus: una retrospettiva, tra meriti e disastri

Superbonus: una retrospettiva, tra meriti e disastri.

 

Richiamo quanto avevo scritto in aprile 2024, aggiungendo nuove considerazioni emerse dal fatto che il Superbonus ha contribuito (fonte Corte dei Conti) per il 93% alla crescita reale del 2021 e che ha consentito un aumento degli occupati e del Pil con i seguenti effetti:

  1. inflazione (che tutti i Governi hanno sempre usato per ridurre il debito pubblico)
  2. aumento degli occupati (che pagano imposte)
  3. revisione in aumento Istat del nostro PIL

Così questo Governo potrà disporre di 50 miliardi aggiuntivi di spazio fiscale così distribuiti: 9 miliardi nel 2025, 15,5 miliardi nel 2026, 25,6 miliardi nel 2027. Ecco perché si permette di chiedere poco alle banche come extraprofitti (e nulla alle società energetiche), perché sa che potrà disporre di un “tesoretto” che nessun Governo ha mai avuto. Non male per chi (Meloni) aveva dichiarato che il Superbonus aveva creato un “enorme buco di bilancio”. Ciò conferma che politiche “keynesiane” di spesa pubblica (se ben fatta) siano positive per sviluppo e crescita dell’occupazione. Ciò non significa che la misura del Superbonus non potesse essere disegnata meglio, escludendo per esempio dagli incentivi i 5,6 milioni di seconde case, favorendo i ceti meno abbienti (e non i più ricchi com’è avvenuto), dando meno incentivi (70%?) in modo che anche i privati controllassero i prezzi, più le altre critiche che anche noi abbiamo fatto. Della serie: bisognerebbe prima sperimentare in alcuni Comuni e poi, fatte le correzioni di cui sempre necessitano le sperimentazioni, promulgare una legge nazionale. Ma ciò contrasta con gli interessi elettorali dei partiti, per cui le sperimentazioni non si fanno mai. Da un lato il Governo Meloni incassa questo tesoretto di 50 miliardi, dall’altro dovrà spiegare ai suoi elettori che sta facendo una politica economica allineata a quella del Governo Draghi, che più che favorire lo Stato favorisce i grandi privati vendendo azioni delle aziende pubbliche (Eni, Enel, Poste, Ferrovie,…) per incassare più soldi possibili, ma vendendo parte dei gioielli di famiglia che erano di proprietà dello Stato. Ma non era “sovranista”?

A criticare il Superbonus sono ora quasi tutti, ma all’inizio tutte le forze politiche erano favorevoli in quanto in condizioni di recessione (2020) il rilancio dell’edilizia ha effetti moltiplicatori anche sugli altri settori. Misure radicali finanziate dal debito pubblico sono auspicabili ma devono essere fatte ovviamente con discernimento. Anche Keynes, che ne descrisse l’importanza anche a costo di impiegare i disoccupati a “scavare delle buche”, era certamente favorevole a costruire ferrovie o alloggi popolari piuttosto che scavare semplicemente delle buche per terra.

Avevamo sollevato molte perplessità su una misura che fino ad ora è costata allo Stato 122,6 miliardi di euro di detrazioni fiscali a favore di 495mila edifici (tra condomini e case singole o plurifamiliari) e che ha generato alcune centinaia di migliaia di occupati e una crescita del Pil. Gli edifici coinvolti sono stati il 4,1% del totale. Non sappiamo quanti interventi siano stati fatti sulle seconde case ma, tramite la Corte dei Conti, sappiamo che in base alle dichiarazioni dei redditi Irpef relative all’anno di imposta 2021, le detrazioni hanno interessato solo il 5,6% dei contribuenti con meno di 40mila euro, il 57% tra 40 a 150mila e il 37% di quelli con oltre 150mila euro. Una manovra quindi regressiva, nel senso che a beneficiarne sono stati soprattutto i più ricchi.

Scrive CGIA: “Se lo Stato avesse investito questi 122,6 miliardi per realizzare alloggi pubblici ad un costo ipotetico di 100mila euro cadauno, potremmo contare su 1,2 milioni di nuove unità abitative. Pertanto, in linea puramente teorica, avremmo potuto demolire tutte le 800mila case popolari presenti in Italia, molte delle quali versano in condizioni fatiscenti, e ricostruirle con tecniche innovative e con classi di efficienza energetica elevate e disporremmo di 400mila alloggi pubblici in più di quanti ne contiamo adesso”. Ciò spiega la stretta in atto del Governo che spalma su 10 anni le detrazioni e le critiche dell’Europa per un provvedimento giudicato pessimo (“all’italiana”).

Secondo il Censis, le famiglie che abitano in alloggi popolari sono 3,5 milioni di persone e se fosse stato fatto a favore di queste persone povere sarebbe stato certamente un ottimo intervento. Invece è stata una sorta di Robin Hood al contrario: ha tolto ai poveri per dare ai ricchi. “Ha tolto”, nel senso che con una spesa di oltre 122 miliardi, nei prossimi anni sarà difficile far quadrare i nostri conti pubblici, in quanto si pregiudica la possibilità di reperire nuove risorse aggiuntive da destinare alla sanità pubblica, all’edilizia sovvenzionata, al contrasto della povertà e dell’esclusione sociale (quest’ultima dichiarazione del Censis, in corsivo, è sbagliata alla luce dei notevoli vantaggi derivanti proprio dalle entrate fiscali e dalla crescita del PIL).

Dati sicuri non ci sono ma pare che anche i risultati ottenuti sotto il profilo ambientale (abbattimento delle emissioni di CO²) siano molto contenuti. Tra il 2021 e il 2022 gli investimenti in edilizia residenziale sono aumentati del 60% e poiché la quota sul Pil nazionale del settore delle costruzioni è poco meno del 6%, il contributo del Superbonus alla crescita della ricchezza del Paese in questo biennio dovrebbe essere stato di circa 1,8 punti, di cui 1,2 nel primo anno (su 7 punti di crescita totale) e circa 0,7 nel 2022 (su 3,8 punti complessivi). Il numero degli occupati nel settore in questi ultimi anni, invece, ha subito un deciso aumento. Non poteva del resto essere altrimenti, con un investimento di oltre 122 miliardi di euro in cui abbiamo “drogato” il mercato, facendo esplodere la domanda e, conseguentemente, anche gli occupati in edilizia ma anche i prezzi (alle stelle) degli altri lavori in edilizia. Ora che il ricorso al Superbonus sta “scemando”, gli occupati di questo settore stanno diminuendo.

Anche in questo caso sarebbe opportuno fare una retrospettiva dei maggiori errori che, a mio avviso, sono stati:

1) quello di eliminare qualsiasi forma di partecipazione dei beneficiari al costo (che avrebbe determinato un controllo e contenimento dei prezzi dal basso);

2) includere anche le seconde case;

3) esagerare col bonus (che poteva fermarsi al 60-70%, differenziato in base al reddito del beneficiario e alla tipologia della casa);

4) non indicare sin dall’inizio una detrazione di 10 anni, e non 4;

5) non favorire i condomini e le case dei più poveri, con benefici anche in base al reddito;

6) non lasciare la misura per più anni, evitando così di ingolfare il settore e far salire alle stelle i prezzi.

Venuto meno il contrasto di interessi tra cliente e costruttore, c’è stato infatti un aumento a dismisura dei prezzi delle materie prime e dei prodotti/servizi correlati, con una ricaduta sui costi di costruzione degli edifici residenziali del tutto ingiustificata e con conseguenze molto negative anche sugli appalti pubblici e tutte le altre costruzioni non agevolate. L’impennata dei costi di moltissimi materiali sta imponendo ora una revisione dei prezzi per un gran numero di opere pubbliche già cantierate, causando alla Pubblica Amministrazione enormi difficoltà ad adeguarsi per il deciso aumento del costo dell’opera e in molti casi provocando il rallentamento o addirittura la sospensione dei lavori nei cantieri. In molti casi il costo delle opere pubbliche oggi è  per un terzo superiore a quello di 3-4 anni fa.

 

L’aggravio burocratico, comprensibile per un ammontare così elevato di fondi gratuiti a singoli cittadini, ha creato frodi per 15 miliardi, di cui 8 sono stati recuperati. Ogni intervento è costato mediamente 247mila euro: si va dagli oltre 400mila euro in Valle d’Aosta ai 183mila della Toscana. Le regioni che l’hanno usato di più sono ovviamente quelle più ricche e, al loro interno, le famiglie più abbienti. I valori medi (247mila euro di detrazione in Italia) comprendono tutti gli immobili ovvero sia i condomini, per i quali l’importo medio è più elevato (in Italia 593mila euro), sia edifici unifamiliari di singola proprietà (in Italia 117mila euro), sia unità immobiliari indipendenti ma dotate di almeno 3 proprietà (in Italia 98mila euro).

 

 

PAOLO MONTI a cinquant’anni dal censimento fotografico di Ferrara.
Convegno a Palazzo Bonacossi, sabato 19 ottobre ore 9,30

PAOLO MONTI a cinquant’anni dal censimento fotografico di Ferrara

Convegno a Palazzo Bonacossi  – Sabato 19 ottobre 2024  ore 9:30   

Sabato 19 ottobre 2024  ore 9:30 si terrà presso Palazzo Bonacossi  il Convegno: ”PAOLO MONTI a cinquant’anni dal censimento fotografico di Ferrara”.

L’iniziativa promossa dal Comune di Ferrara, dai Musei di Arte Antica e dall’Accademia d’Arte Città di Ferrara APS vedrà la presenza di studiosi e professionisti che, nelle rispettive competenze, hanno collaborato o interagito con l’opera di Paolo Monti.

L’introduzione del Convegno sarà dell’Assessore alla Cultura del Comune di Ferrara Marco Gulinelli e di Ethel Guidi Dirigente del servizio Musei d’arte poi si avvicenderanno: Silvia Paoli, Benedetta Cestelli Guidi, Piero Orlandi, Luca Massari, Pierluigi Cervellati e come moderatore Ulrich Wienand dell’Accademia d’Arte Città di Ferrara APS. In questa sede sarà possibile vedere il video: “Paolo Monti fotografa Ferrara 1974” (15 min.) di Paolo Ravenna.
Il programma del convegno:

A conclusione del Convegno la Galleria del Carbone (via del Carbone 18/A) effettuerà un’apertura straordinaria della mostra “Paolo Monti e Ferrara: 50 anni dal censimento fotografico del Centro Storico”. 

Periscopio ha già recensito nei giorni scorsi la magnifica mostra della Galleria del Carbone: vedi Qui

In copertina: Via Terranuova (foto Paolo Monti)

 

 

“Partire da qui” di Stefano Modeo: una nota critica

Partire da qui di Stefano Modeo: una nota critica

È sfuggito alla cronaca, come è normale, la presentazione dell’ultima raccolta poetica di Stefano Modeo.

È normale perché è nella norma considerare la poesia o, davvero, “solo poesia” (come, per dire: “roba nella mente degli angeli”), oppure solo “parolume” autoreferenziale, così inflazionato e pervadente da non potergli stare dietro e credergli.

Tanto più e comunque sapendo che alla cronaca sfuggirebbe sempre l’essenziale.

Ed è proprio per questo …”sfuggire sfuggente” che l’essenziale resta sempre e solo immaginato.

Così già durante la presentazione ferrarese della sua raccolta, Partire da qui (Interno Poesia, 2024), nel mese (eliotiano) di Aprile si poteva immediatamente immaginare la “fortuna” del poeta in questione, catturandone l’essenzialità dello sguardo.

È stato Wallace Stevens a parlare in termini “pratici” di questo sguardo, quello dell’angelo invisibile che “annuncia ai pastori non una nascita divina ma una rivelazione terrestre”; lo sguardo dell’angelo della realtà che si limita a indicare la strada: l’angelo necessario che fa rivivere, il mondo, nello sguardo della poesia.

Qui terminerebbe questa modesta nota critica che , come si capisce, critica non è e, in quanto “nota”, non può che predisporre e condurre alla musica. Quella dei versi. E a questi arriveremo dopo alcune necessarie righe di … critica alla critica poetica.

Parlare di un poeta è un compito ingrato in quanto: e quello che si sa scrivere su di loro è, nella maggior parte dei casi, superfluo” [Hannah  Arendt, Il futuro alle spalle, Il Mulino, 2011].

Al poeta in quanto “…testimone dell’onestà, spetta il compito di forgiare le parole con le quali dobbiamo vivere”.

È sul poeta che pesa, consapevolmente o meno, la responsabilità di sondare il presente, inviando uno stesso identico segnale (la parola) per ricevere un’eco di ritorno (la cosa), anche quando la pesantezza (per dire gravità) del momento è tale da impedire l’esercizio stesso di un canto poetico e di rinunciare a una sua elaborazione, relegando quel che resta della nostra “umanità” a una “cieca” obbedienza (a volte incivile perché costretta).

I poeti esistono per essere citati è un verso di Auden.

Il poeta inglese, attraverso questo verso, denunciava una “triste realtà della nostra cultura”, secondo la quale un poeta riesce a farsi conoscere e ad avere successo molto di più scrivendo o parlando della propria arte piuttosto che praticandola. E così un poeta correrebbe il rischio di “perderla”, l’arte di scrivere poesia, proprio a furia di parlarci e scriverci sopra.

Costretto da poeta a svolgere il ruolo di critico, Auden così riassunse il suo ideale di “critica letteraria”: “…qualsiasi critico coscienzioso sa perfettamente che, dovendo recensire in uno spazio esiguo l’ultimo libro di versi, presentare una serie di citazioni astenendosi da ogni commento sarebbe l’unica soluzione onesta: se però lo facesse davvero, il suo direttore direbbe che non si guadagna lo stipendio”[W. H. Auden, La mano del tintore, Adelphi, 1999].

[NdA: Il direttore di questo web magazine non lo potrebbe dire (mancando il…nome della cosa) e in ogni caso, potendolo, non lo direbbe mai. Ne sono sicuro 😊.]

E allora, ciò detto, ecco la mia quote critica su Partire da qui di Stefano Modeo vincitore del Premio poesia Città di Legnano Tirinnanzi per la sezione Opera Prima o Opera di Giovane Poeta:

Risale per le vie una verità
un risentimento delle case,
delle strade. Ma la speranza
non si prende i suoi torti,
restiamo ostili con desiderio
se il vento riprende, nostro tormento.

[da Due mari, pg.11]

 *******

 Seduti con le ginocchia nere,
non sanno cos’è un bosco di faggi,
né come fugge una volpe.
Ma in questa, di foresta,
sono come uccelli…

[da Nel vicolo, pg.13]

 *******

Ma loro non cedono al tempo
che vogliono. Piuttosto
con un tuffo restano fedeli
a quella loro limpida sapienza.

[da La tartaruga, pg.15]

*******

Dimmi se può venire
Una parola ancora
Che sappia descrivere
Il percorso della spigola
Che si caccia sulla riva,
perché se lei parla
ti prego dice,
lasciami andare.

[da Lasciami andare, pg. 27]

 *******

All’orizzonte minuscole vele
procedevano lente come coltelli


                                                   Dal margine
È più semplice immaginare di andarsene.

[da  Diario dell’inconscio, pg. 28]

 *******

Mio padre in mare si allontana
E pensa che solo il numero
Delle bracciate importi
E non quando dovrà tornare.

[da Mio padre in mare si allontana, pg 32]

*******

Proteggi lui che incespica
e sospendi ogni giudizio
ora che guadagna il silenzio,
viaggio dopo viaggio.

[da Preghiera per il figlio, pg. 38]

*******

Ora mentre fuori la tramontana
spinge i remi di una galea,
la città vuole rifare le sue strade
ma nessuno sembra capire né avvertire
sotto i colpi alle ginocchia, alle caviglie
che è già ridotta in polvere di conchiglie.

[da Noi siamo dove non ci vedete, pg. 61]

*******

…       Cosa aspettiamo a dirci addio?
Quando finisce la guerra può l’uomo
forse con più facilità tradire la terra?
Faccio testamento, depongo lascia:
mare, restituiscimi le braccia
a questa riva mi sono abituato
a non amare a non sentirmi amato.

[da Ulisse sulla spiaggia, pg. 66]

*******

Noi siamo l’aldilà della natura
espulsi con lo sguardo, assaliti
dalle frenesie. Qui non esistiamo,
come migliaia di piccoli tentativi
che scongiurano il vuoto dopo di sé.

[da I monti, pg. 73]

*******

Da lei ho imparato a seguire
l’avanzare delle stagioni sui rami,
attendere l’ultima partenza del glicine,
le prime infiorescenze del pruno.

[da Nel giardino, pg. 75]

______________________________

Stefano Modeo (Taranto 1990) vive e lavora come insegnante a Treviso. La Terra del Rimorso (ItalicPequod, 2018 è la sua opera prima. Ha curato le antologie di poesie di Raffaele Carrieri Un doppio limpido zero (Interno Poesia 2023) e di Pasquale Pinto La terra di ferro e altre poesie. 1971-1992 (Marcos y Marcos, 2023). È coautore del libro Conversazione (Industra&Letteratura, 2023) insieme a Paolo Febbraro. Compare nel volume collettivo Poesia contemporanea. Sedicesimo quaderno italiano (Marcos y Marcos, 2023); nelle antologie Abitare la parola-Poeti nati negli anni ’90 (Ladolfi, 2019) e in I cieli della preistoria. Antologia della nuovissima poesia pugliese (Marco Saya, 2022). Fa parte della redazione della rivista di poesia Atelier e della redazione del blog Universo poesia-Strisciarossa. Si occupa di poesia italiana contemporanea per la rivista di critica letteraria norvegese Krabben-Tidsskrift for poesikritikk.

 

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Limbo giuridico:
90 mila migranti in attesa da 4 anni del permesso di soggiorno

Limbo giuridico. Permessi di soggiorno, 90 mila migranti in attesa da 4 anni.

I dati sono quelli che emergono dal dossier della campagna Ero straniero per valutare l’efficacia della misura introdotta circa quattro anni fa e che evidenziano “gravissimi ritardi da parte della pubblica amministrazione” e “i limiti del ricorso periodico a tale misura emergenziale”. I numeri sono aggiornati al 30 giugno 2024 e relativi allo stato delle domande presentate tra giugno e agosto 2020 da parte degli uffici coinvolti nella procedura.

Danesh Kurosh, responsabile dell’Ufficio immigrazione della Cgil, ricorda che il provvedimento sulle regolarizzazioni nasce in un periodo, quello della pandemia da Covid-19, che aveva fatto emergere il ruolo che hanno i lavoratori domestici, motivo per il quale “quella regolarizzazione aveva un peso, c’era un’evidente esigenza”, volendo inoltre “incentrare su questo tipo di assistenza il welfare italiano”. 

A quel tempo la Cgil, insieme a Cisl e Uil, “aveva previsto una piattaforma nella quale si chiedeva una regolarizzazione in modo particolare per il lavoro domestico, proprio per la particolarità di quel periodo, ma il rimedio a quella esigenza è stato gestito malissimo” .

“Il problema – prosegue Kurosh – è nella macchina burocratica e amministrativa che fa acqua ovunque. Nel dare una risposta alle domande di regolarizzazione avanzata i tempi sono stati lunghissimi, la cittadinanza ha un tempo di attesa di due anni, che però possono diventare tre o quattro”.

Anche il rinnovo del permesso di soggiorno per chi non ha usufrutto della sanatoria ha tempi lunghissimi, lo stesso per i ricongiungimenti familiari: “La Cgil – dice Danesh – ha promosso azioni comuni che richiamano una class action. Uno strumento, però, che in Italia ha una sua particolarità, vale a dire che l’esito della class action vale esclusivamente per chi presenta i ricorsi e non per tutti coloro che stanno nelle stesse condizioni”.

“Siamo di fronte a un disastro complessivo, che nasce da una logica che possiamo definire ‘più guadagno con meno spese’. Se guardiamo i dati demografici, ci accorgiamo che senza la presenza degli immigrati la società italiana si troverebbe in grande difficoltà, conclude Kurosh: “C’è un bisogno molto pronunciato del loro lavoro in alcuni settori, da quello della cura all’edilizia, ma anche nell’amministrazione pubblica. Dicono che i soldi non ci sono, ed è il primo argomento che viene preso in considerazione in termini di risposta da una parte delle istituzioni”. 

In copertina: foto da stranieri.it

Parole a capo /
Evaristo Seghetta Andreoli: alcune poesie da “Il geranio sopra la cantina”

“Alle volte è dentro di noi qualcosa
(che tu sai bene, perché è la poesia)
qualcosa di buio in cui si fa luminosa
la vita: un pianto interno, una nostalgia
gonfia di asciutte, pure lacrime. ”
(Pier Paolo Pasolini)

Ringrazio Evaristo Seghetta Andreoli per aver autorizzato la pubblicazione in “Parole a capo” di alcune sue poesie.

 

Assapora molti tipi di rosso
la giovane inglese di grigio fumo
vestita, già abbronzate le gambe

al sole latino, dopo un Bolgheri
mi sorride, labbra rosso rubino
come sangue, come sole al tramonto

come il geranio sopra la cantina.

 

*

 

Preghiamo che il nostro stato di grazia
perduri senza fine, che oltrepassi
il confine breve dell’esistenza.
Non è così male se ci sorprende
con l’evento oramai inaspettato
con la felicità data al soldato
dalla guerra finita, abbandonato
il fucile, ora che la vita ci offre
uno specchio nuovo, il ritorno della
purezza, perché la bellezza vera
penetra nel cuore senza riserve
semplicemente penetra.

 

*

 

Ora mi sono abituato a visioni
di corto raggio, di breve gittata.
Ho capito tardi che si può anche
procedere senza lanci stellari.

Vivo così, di poco e anche di tanto:
di un suo sorriso e di occhi ricolmi
di felicità. Vivo per poche ore
a settimana e nella mia mente
balzana nascono fiori impazziti
che profumano di filosofia.

Rifletto un po’ su come riprendere
la via usata, la mia, la nostra
già sprofondata nel non senso poi
rifiorita così per caso dietro
a un dipinto di un profilo olandese,
per un collo fiammingo che cattura
gli occhi e meraviglia ancor più lo sguardo
anche ora che sta calando la sera.

 

*

 

Ho innaffiato le rose gialle, il pesco
e la siepe ormai poco verde della
mia fantasia con acqua fresca
attinta dal pozzo scavato nella
roccia viva che non si sfalda. Troppa
bellezza stordisce, non siamo pronti
per l’impatto con l’assoluto
scivoliamo nella strettoia della
limitatezza. Un petalo di rosa
e una carezza è ciò che resiste,
fragile stelo della poesia.

 

*

 

Sono un cocktail di tutto, una miscela
di storia, un vuoto di memoria dentro
al buio del non senso: richiedevo
le carezze da un corpo senza mani.

 

Sono strani i desideri senili
che pretendono la luna nel secchio.
E pensare che sono troppo vecchio
per cambiare pozzo o cambiare luna.

 

Occorre tanta fortuna nelle notti
in cui brillano solo gli occhi dei gatti,
quando il buio respira di nero
e i lampioni distratti in fila indiana
illuminano la fine delle illusioni.

 

*

 

Quanto è pesante questa stagione
con le sue guerre, il suo frigore,
con i suoi virus scorrazzanti, i prezzi
fluttuanti, e questo peso in fondo al cuore
che non va più via.

 

Perché non mi abbandoni tempo infausto?
Già sono esausto e di cattivo umore.
Ma il benzinaio egiziano mi ha fatto
dono di un amuleto a suo dire
appartenuto a Nefertiti (forse
Made in China o in Haiti). Le proprietà
taumaturgiche, evitano rovina
e scacciano i pensieri neri.

 

Ci voglio credere. Chissà che questo
ragazzo giunto col barcone sia
il tramite tra noi e gli dei del Nilo?
Ci voglio credere e spero nei mesi
del colore, del calore e anche della
felicità.

 

*

 

Tutti i gatti hanno paura dei botti
mi sarebbe piaciuto il palindromo
come quello “i topi non avevano
nipoti” ma qui non si torna indietro
ai gatti scoppia l’udito e il cuore.

 

Essi hanno il terrore del botto come
del rombo del tuono, del suono acuto
dello squillo improvviso che scuote anche
il Paradiso Terrestre, creato
e tramandato, forse tramontato,
finché l’uomo nel suo furore
futurista non aprisse la pista
al fragore incontrollato.

Così insonorizzo la legnaia,
le fascine a proteggere le cucce
di cartone, vicine alle bottiglie
di Malvasia, poi il telo di versi,
il filtro fatto solo di parole,
e l’eloquente silenzio della
poesia.

 

Evaristo Seghetta Andreoli è nato nel 1953 a Montegabbione, in provincia di Terni, dove vive. Le sue raccolte di versi: I Semi del Poeta (prefazione di Patrizia Fazzi, Polistampa, 2013), Morfologia del Dolore (prefazione di Carlo Fini, Interlinea, 2015, Premio Confindustria Rovigo), Inquietudine da Imperfezione (prefazione di Franco Manescalchi e Giuseppe Panella, Passigli, 2015, Premio Mario
Luzi), Paradigma di Esse (prefazione di Franco Manescalchi e Carlo Fini, Passigli, 2017, Premio Certamen Apollinaris Poeticum Università Pontificia), In tono minore (Passigli, 2020), Il geranio sopra la cantina (Puntoacapo Editrice, 2023). È presente in varie riviste e in antologie italiane e straniere.

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 252° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.