Nel cortometraggio “Vecchio”, del regista lucano Dino Lopardo, un fantastico Leo Gullotta veste i panni di Aldo, un anziano signore che vive in una RSA. Il dramma della solitudine.
“La morte non arriva con la vecchiaia ma con la solitudine”, diceva Gabriel Garcia Marquez.
E il cortometraggio“Vecchio”, del regista lucano Dino Lopardo, parte proprio da qui.
Sullo schermo scorrono immagini in bianco e nero di un uomo alla finestra che aspetta. Aspetta i familiari che non arrivano, amici che non ci sono, gesti e attenzioni che non arrivano, note che non suonano, libri che non si aprono, il momento senza ritorno.
Aldo, interpretato da Leo Gullotta, non parla. Davanti a uno specchio esegue gesti di rituali quotidiani. Barba e profumo. In quella RSA senza colori, è solo, con lui solamente i ricordi di compleanni e feste in famiglia, la musica, i rimpianti, le fotografie, il passato che non ritorna. Non servono parole, sono i primi piani e i piccoli passi a parlare.
La sceneggiatura è semplice, non ha forti contrasti, ma la regia si sofferma con potenza e forza sui particolari del volto di Aldo, sulle sue rughe scavate come solchi, sui gesti, sugli occhi, sui movimenti lenti, goffi e pesanti, sui piedi che si trascinano, sul pigiama sgualcito.
Tutto è, in realtà, sgualcito, lo stesso utilizzo del bianco e nero dà una sensazione di vita che se ne va, rimasta senza toni, senza più passioni. Di abbandono senza un perché.
Una musica fra i ricordi e gli oggetti, regalati dai figli e dai nipoti all’anziano signore, assumono un significato speciale e divengono il simbolo di un sentimento autentico e cristallino. Dolcezza infinita nello scartare un regalo nel giorno del proprio compleanno.
Nell’immensa malinconia che le immagini di tanta solitudine ci portano, c’è, tuttavia, un’infinita tenerezza in questo anziano che attende, ormai al crepuscolo.
Un messaggio per tutti, il grido di non abbandonare coloro che ci hanno cresciuto e amato. Tema drammaticamente attuale.
Un corto che parla all’anima. Porgendoci una rosa, con un sorriso che lascia sperare.
Da qualche mese è uscita la nuova prova poetica di Maria Mancino, in arte “Maggie”. Un titolo “La memoria della betulla” (Il Babi Editore, gennaio 2024) che unisce ricordi/memoria con l’immagine della betulla, una pianta flessibile, molto resistente e capace di resistere anche in luoghi molto poveri di risorse. C’è un costante confronto, incontro, allontanamento tra l’illusione e la realtà. Un paio d’esempi:
Gioco d’azzardo
Punto sul nero degli occhi
e non vinco
Punto sul rosso del sangue
e perdo
Gira e gira la ruota
si ferma su numeri senza valore
riempie le tasche di falsi denari
e sfida la sorte
che ha negli occhi la morte
Gioco d’azzardo con la mia vita
punto tutto su quella che sono
e gioco a difendere
ogni illusione
Mentre tornava la luce
Avverto il destino di un filo
che penzola tra due tralicci
senza energia
Non vi è amore nello spazio
tra il metallo e il taglio
solo i battiti d’ali
di un falco che non sa
Ho scritto parole feroci
per condannare lo squarcio
L’illusione ha cancellato il significato
mentre tornava la luce
Tra le parole chiave, emerge “prepotente” il tema della notte. La notte è spesso fonte di ricordo, di sogni che si combinano in maniera strana. Appaiono persone, situazioni paradossali. Non so se succede anche a “Maggie” ma a me succede di alzarmi nel cuore della notte e prendere una matita e un foglio per impressionarvi parole che mi chiedono di non essere dimenticate dall’arrivo del mattino. A volte emerge il dolore e fare i conti con questo stato d’animo è difficile, troppo spesso impari, ma il cuore mi/ci dice che non ci si deve arrendere mai, per cercare di rinascere.
Che era notte
Ho sentito il dolore
squarciarmi dentro
come un aratro che
affonda il terreno
Ho annusato il sangue
l’ho assaporato
come fosse cibo
Ai piedi della morte
ho seppellito la paura
e dal suo ventre
sono rinata
Che era notte
Aspetto l’alba
Si riversa nel cuore la pioggia
come fosse di pianto e di sangue
Dalle pozzanghere farà sparire
il ristagno
e ai fiumi ruberà gli argini
Aspetto l’alba bagnata
e il sorriso umido
di chi della notte
ne ha fatto il suo giorno
Il duro richiamo della realtà, della brutalità di un mondo bugiardo e insensibile emerge, in particolare, in due poesie:
Come avvoltoi
Come avvoltoi le nuvole
possiedono il cielo
in un volo di morte
La solitudine si prostituisce
all’aria nuda del mattino
Un uomo vestito di silenzio
rovista nelle tasche
in cerca di parole
Sui sedili di un treno
Occhi saldati sulle pieghe
sporche di vestiti rotti
dal lungo viaggio
e tra lunghi capelli
unti di indifferenza
Nessuna possibilità s’intravede
tra le catene che cingono colli e polsi
e negli sguardi fissi che osservano
Come fosse l’adolescenza
una vetrina del particolare
Eppure sono così belli
sotto l’ingenuo addobbo
di una violenta apparenza
Testimone del pregiudizio
buco l’aria con il respiro
mentre il treno annuncia
la mia fermata
In quest’ultima poesia s’intreccia anche il tema degli adolescenti questi sconosciuti.
“La memoria della betulla”, nella sua apparente semplicità, ci riporta immagini e situazioni d’infanzia. L’infanzia di Maggie quando “crescevano poesie”. A conclusione di questo breve excursus, voglio ripartire dal filo naturale che dà corpo a questa intensa silloge.
La memoria della betulla
Ti scioglierò le trecce vita mia
ai piedi di una betulla nera
ti slegherò dai lacci di falasco
aggrovigliati intorno al capo
Terrò legati i tuoi tormenti
al tronco dell’albero maturo
e su corteccia bianca
scriverò come fosse carta
Ti aspetterò nutrendomi
di linfa zuccherina
e quando una notte tornerai
ti leggerò nuove poesie
e del passato soltanto la betulla
se ne ricorderà
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
La casa editrice bolognese Pulce porta a casa due importanti riconoscimenti: vince il premio nazionale Nati per Leggere con il libro “Dov’è il drago?” di Leo Timmers, talentuoso e ironico autore e illustratore belga, amatissimo dai bambini che l’hanno votato nella categoria “Crescere con i libri”.
Tre cavalieri un po’ tonti vanno alla ricerca di un drago perché il loro re non può andare a letto finché non saprà che la bestia è stata sconfitta. I due uomini sanno tutto sui draghi e, armati fino ai denti, iniziano la ricerca. Alla luce fioca di una candela, si incamminano nella notte buia e trovano qualcosa che assomiglia molto a un drago… Carica! Ma non è il drago! Da Bridgman a Maria Enrica Agostinelli, la consolidata tradizione del “sembra ma non è”, tra ombre e sagome da indovinare, si conferma fonte di preziosi stimoli per i piccini, ma soprattutto un grandissimo divertimento.
Un ingegnoso gioco di luci e ombre che generano un equivoco dopo l’altro, incantando grandi e piccini, perché niente è mai come sembra.
Il secondo traguardo è la vittoria del premio nazionale Nati per Leggere nella categoria 6-18 mesi con il libro “Mela Merenda” con la seguente motivazione: per le immagini fotografiche calde e di immediata riconoscibilità e per la qualità sonora del testo che incoraggia la produzione verbale, la ripetizione e la lettura dialogica.
Il titolo fa parte di un progetto editoriale rivolto alla primissima infanzia, nato dalla collaborazione tra Elisa Mazzoli, Elena Spagnoli Fritze e Cristina Petit. Dopo “Mela Merenda”, il progetto si prefigge di accompagnare i piccoli lettori in tutte le fasi successive della crescita con una serie di titoli di prossima uscita.
Alla semplicità di “Mela Merenda” è sottesa una grande attenzione allo sviluppo del linguaggio che procede, pur nelle diversità tra i bambini, per tappe consecutive e naturali. Quando alle prime vocali emesse si aggiungono le consonanti, dalla vocalizzazione si passa alla lallazione, e ci si diverte a sentire la propria voce che ripete, accosta, riproduce, canta, dice. Lo sbocciare di queste competenze di linguaggio e ascolto è concomitante all’affinarsi della vista e i neuroni specchio si attivano immediatamente quando gli occhi agganciano un’immagine familiare. Da qui la scelta di utilizzare delle immagini fotografiche, selezionate prima di tutto in relazione alla sillaba scelta e raffiguranti oggetti conosciuti e di uso comune e quotidiano come la mela, la banana, il ciuccio, la palla… La scelta del tipo di fotografie, dello sfondo bianco, dell’inquadratura, della prospettiva e del colore è a servizio della massima leggibilità e accessibilità.
Il cartonato “Mela Merenda” è uno dei primi libri dell’abbraccio fra adulto e bambino. Educativo.
“l’Angolo del caffè”, un posto dove si beve, si legge, e si conversa
Un dato positivo, nella generale transizione culturale che stiamo attraversando con l’egemonia della tecnologica comunicazione “veloce e breve”, è che pare che la cultura del libro abbia una sua tenuta. Alla chiusura del salone internazionale del libro di Torino, il Sole 24 ore, sulla base dei dati dell’ Associazione italiana degli editori riporta un aumento nella vendita di 13 milioni di libri rispetto al 2019.
Il dato interessante è che le librerie consolidano nel 2023 la loro posizione come primo canale di vendita, mentre calano gli acquisti online. Il dato viene interpretato come una precisa scelta dei lettori che preferiscono un contatto fisico con la libreria e con il libro, oggetto culturale per eccellenza, nel momento dell’acquisto. Crescono parallelamente le esperienze di lettura senza acquisto sia promosse dalle biblioteche, sia dai Comuni (come il libro lasciato a disposizione sulla panchine, o le casette dei libri a Trento). L’esperienza del “book bar”, diffusa da anni nel nord Europa e in via di affermazione nelle principali città italiane, si inserisce in questa offerta di lettura gratuita nei momenti di relax, contaminandola con la consumazione di un drink e di qualcosa da mangiare.
È questa la filosofia a cui si ispira la titolare de “l’Angolo del caffè”, Giulia Alice Cristofori, che destina una parte dell’ampio locale (170 m2) alla conversazione e alla lettura, fornendola di tavoli, divano e librerie ad albero, riempite da libri ricevuti in dono dai clienti , che a loro volta possono leggere sul posto i libri o portarseli liberamente a casa.
La coraggiosa impresa di Giulia Alice è ancor più lodevole per collocarsi nel quartiere Corti di Medoro, quartiere riqualificato, sorto sulle ceneri del tristemente famoso (per i ferraresi) Palazzo degli Specchi.
Il locale (fornito di tavolini all’aperto) si affaccia una graziosa piazzetta, curata e miracolosamente silenziosa, essendo collocata a pochi metri dalla trafficata via Beethoven, circondata da gradevoli condomini residenziali. Si affacciano sulla piazzetta, oltre al bar di Giulia, un negozio di ottica e una lavanderia a gettoni; poco distante, uno studentato e una palestra in via di ristrutturazione. Nel complesso la sensazione, recandomi sul posto, è stata di tranquillità e pace, di quei luoghi che sorgono nelle caos cittadino come luoghi protetti, ma non isolati.
Un dato molto sentito per me come donna è la possibilità di stare sola e in sicurezza al bar, luogo che nel passato era tradizionalmente riservato agli uomini e che, se non per una passaggio velocissimo, frequentavo sempre accompagnata.
Si nota che la riqualificazione del quartiere è ancora in itinere, e in questo senso il locale di Giulia Alice si può definire come un vero e proprio servizio al quartiere, luogo di socializzazione, dove è possibile incontrarsi, consumare il pranzo a prezzi modici, stare in pace leggendo un libro.
Le potenzialità del locale, vanno comunque ben oltre quello di essere un prezioso luogo di aggregazione per i residenti, ma possono svilupparsi nella direzione di essere luogo di promozione di eventi culturali, presentazione di libri, dibattiti e conferenze. L’idea con cui Giulia Alice ha avviato il suo locale è quella infatti di offrire alla clientela un luogo di crescita culturale, di condivisione e di scambio, di confronto e di studio. Le dimensioni del locale e la disponibilità di Giulia Alice sono dei punti di partenza favorevoli allo sviluppo dell’iniziativa. Un luogo da scoprire e frequentare: la prossima parola spetta alla cittadinanza.
La flessibilità fa aumentare i profitti e riduce i salari, non aumenta l’occupazione. Lo spiega l’economista Emiliano Brancaccio
di Roberta Lisi (pubblicato su Collettiva del 13.06.24)
Negli ultimi venticinque anni sono state molte le leggi che hanno favorito la precarizzazione del lavoro in Italia. L’ultima, forse la più crudele, è il Jobs Act. Tutto questo è stato contrabbandato come strumento per favorire l’occupazione, in realtà determina un calo delle retribuzioni reali e della quota salari sul prodotto interno lordo e, contemporaneamente, un aumento della quota profitti e della quota rendite sul prodotto interno lordo.
E per di più, forse soprattutto, ha indebolito fortemente il sistema produttivo italiano. Emiliano Brancaccio, docente di politica economica presso l’Università del Sannio, autore di ricerche sugli effetti della precarietà del lavoro pubblicate da varie riviste accademiche internazionali, illustra come sia la ricerca scientifica a certificare che i fautori della precarietà avevano e hanno obiettivi diversi dal creare lavoro di qualità. E i referendum della Cgil sono un utile strumento per cominciare a cambiare modello sociale ed economico.
È vero, come dicono i sostenitori del Jobs Act, che la libertà di licenziamento crea lavoro?
I sostenitori del Jobs Act si basano sul fatto che negli anni successivi all’approvazione di quella legge si è verificato un incremento dell’occupazione. A loro avviso, questo sarebbe in quanto tale sufficiente per sostenere che queste norme che precarizzano il lavoro creano occupazione. Questo modo di ragionare è totalmente estraneo al metodo scientifico. Non sta in piedi perché trascura tutte le altre variabili che sono in gioco e che concorrono a determinare l’occupazione. Non tiene conto, ad esempio, del fatto che dopo l’approvazione del Jobs Act si è messa in campo una politica economica sempre più espansiva, che chiaramente ha favorito l’occupazione. In un certo senso, il modo di pensare degli apologeti del Jobs Act somiglia al discorso dello stregone. Uno stregone dice: se fai la danza della pioggia e magari subito dopo cade la pioggia, allora deve essere la danza ad aver provocato la pioggia. Un ragionamento ridicolo, eppure molto diffuso. Se invece guardiamo alle evidenze scientifiche?
La letteratura scientifica, che cerca di capire se la precarizzazione del lavoro abbia accresciuto i livelli di occupazione, ci dice che una relazione statistica tra precarizzazione e maggiore occupazione non esiste. L’88 percento degli studi scientifici pubblicati su riviste accademiche internazionali nega che il precariato crea posti di lavoro. È un risultato empirico talmente forte che persino istituzioni notoriamente favorevoli alla liberalizzazione del mercato del lavoro come il Fondo Monetario Internazionale, l’Ocse e la Banca mondiale, magari a denti stretti e malvolentieri, lo hanno dovuto ammettere.
Se non è funzionale all’occupazione, allora a che cosa serve la precarietà e a chi conviene?
L’evidenza empirica anche su questo punto è lampante: ogni volta che si riducono le tutele delle lavoratrici e dei lavoratori, cioè ogni volta che si accresce la flessibilità e la precarizzazione del lavoro, si verifica anche un calo delle retribuzioni reali e una diminuzione della quota salari sul prodotto interno lordo, il che comporta pure un aumento della quota profitti e della quota rendite sul prodotto interno lordo. Richard Freeman, dell’autorevole National Bureau of economic Research, sintetizza questi risultati empirici dichiarando che la flessibilità del lavoro non aiuta l’efficienza della produzione, non accresce i volumi di produzione, ma determina semplicemente la distribuzione del reddito tra capitalisti e lavoratori che si crea con quella produzione. In altre parole, la flessibilità del lavoro non ha a che fare con l’efficienza del capitalismo ma con la lotta di classe nel capitalismo, che è cosa ben diversa.
Si può affermare, allora, che l’aumento della precarietà nel lavoro è una delle ragioni per le quali in Italia i salari sono saliti meno che in altri Paesi europei e sono comunque sono tra i più bassi?
In un quarto di secolo, l’Italia ha visto precipitare gli indici di protezione del lavoro in misura molto più accentuata rispetto alla media dei Paesi europei. Questo è certamente uno degli elementi che hanno concorso alla stagnazione salariale italiana. Però il problema è per certi versi più generale. Di fatto, in Italia abbiamo adottato una politica economica che ha assecondato lo sviluppo di un sistema di piccole imprese frammentate, scarsamente efficienti, molto spesso capaci di restare sul mercato solo grazie a prebende pubbliche, evasione fiscale, bassa sicurezza e precariato. Da qui è scaturita la crisi di produttività, il declino competitivo e quindi anche i bassi salari.
I referendum della Cgil, oltre a restituire maggiori tutele e maggiore e dignità al lavoro, possono essere anche un elemento di contraddizione in questo meccanismo perverso del capitalismo italiano, un modo per invertire la tendenza?
Da decenni abbiamo a che fare con una tendenza al degrado del capitalismo nazionale. Potremmo dire che è tempo di mettere “una zeppa” nell’ingranaggio, un “granello” di sabbia nel meccanismo generale della crisi di produttività. Possiamo interpretare l’iniziativa referendaria anche in quest’ottica.
E potrebbero anche innescare quel movimento che contribuisce a svegliare un po’ le coscienze?
Indubbiamente le giovani generazioni stanno offrendo testimonianze di un risveglio delle coscienze, delle iniziative politica, delle istanze di lotta. I referendum della Cgil potrebbero rappresentare anche un modo per intercettare questo nuovo vento di rinnovamento, di ripresa di lotte di emancipazione che vengono dai più giovani. Sarebbe una delle rare occasioni in cui, come dire, gli adulti si mettono in sintonia con questo nuovo vento che viene dai più giovani. Sarebbe anche ora, direi.
Serata Dance Party a sostegno di Anna Zonari Sindaca
Una serata di musica ‘70-’80 con Lufer al Circolo Black Star per contribuire alla campagna elettorale di Anna Zonari Sindaca. Ferrara, mercoledì 15 maggio – dalle ore 19,00La lista La Comune – Anna Zonari Sindaca è lieta di annunciare una serata speciale di musica degli anni ’70 e ’80 con Lufer, alias Luca
Ferraglia, eclettico artista e designer, nonché appassionato DJ per le occasioni speciali. L’evento si terrà mercoledì 15 maggio, a partire
dalle ore 19, presso il Circolo Black Star, situato in via Ravenna 104.
Durante la serata, gli ospiti avranno l’opportunità di gustare un delizioso apericena (al costo di 5€ presso il bar del circolo), mentre
saranno intrattenuti da una selezione di musica vintage, curata personalmente da Lufer. Inoltre, sarà possibile partecipare a una
lotteria per contribuire al finanziamento grass-roots della campagna elettorale di Anna Zonari, candidata Sindaca alle prossime elezioni
amministrative. Il primo premio della lotteria sarà un emozionante giro sul famoso tandem simbolo di Anna Zonari.
Questa serata promette di essere divertente e coinvolgente per tutti i presenti e vi invitiamo a partecipare. La musica diventa qui un
linguaggio universale di pace.
Ringraziamo Lufer e il Circolo Black Star per la loro generosità nell’organizzare questa iniziativa a sostegno della campagna elettorale
Dopo tante guerre combattute (e troppe ancora in corso), in teoria, tutti dovrebbero votare per la pacee deporre tale voto almeno nell’urna invisibile della propria coscienza di essere umano. Ma in molti casi non si è certi che questo voto, a favore dell’unico programma elettorale sensato, venga accompagnato da una effettiva consapevolezza di quali problemi seri e profondi, uno “stato di pace” comporti.
Lo stesso si può dire per quelli che continuano a sostenere la cosiddetta real politik della guerra e che, in nome di Qualcosa ( evidentemente e inspiegabilmente più Grande della vita stessa), ne difendono la causa: anche in questo caso il voto per la guerra non sembrerebbe accompagnato dalla coscienza e dalla conoscenza degli scenari che alla fine dello “stato di guerra” bisognerà affrontare e comunque: di tali scenari se ne perde subito memoria!
Perché la questione non è semplicemente che ci sia pace (ovvero che non ci sia guerra) ma è stabilire la vita in vista di uno “stato” che chiamiamo “di pace” (ovvero “di dopoguerra”). E la pace non è mai solo una “semplice” assenza di guerra ma è molto di più e solitamente del tutto differente da quanto immaginato.
La pace è innanzitutto un modo di vivere, un modo di abitare il pianeta, un modo di essere… esseri umani.
La filosofa Maria Zambrano nel 1990 scrisse già tutto questo (I pericoli per la pace in Le parole del ritorno pubblicato in Italia da Città aperta Edizioni, nel 2003) è definì la pace come quella “…condizione primaria per la realizzazione dell’ essere umano nella sua pienezza…” perché la vera promessa non è un astratto vagheggiamento al diritto di vivere in pace ma un vero e proprio obbligo: diventare un… essere umano.
Dopo la guerra, dopo qualunque guerra, entrare in uno stato di pace potrebbe essere paragonato a una transizione di fase quella che in fisica è riconoscibile grazie alla formazione di una superficie che si crea, ad esempio, nel passaggio da uno “stato” solido a uno stato liquido (o viceversa).
Nel nostro caso una tale superficie dovrebbe separare nettamente una storia già trascorsa e passata – e dunque un “essere umano” vecchio – con un’altra storia, nuova e ancora da cominciare – e di conseguenza con un nuovo “sentire” e un altroessere umano.
Si tratterebbe dunque dice la Zambrano “…del duplice compimento di quel sogno di rivoluzione pacifica che hanno sognato tanti…” esseri umani compiuti, esseri cioè obbligati a mantenere quella promessa di compiutezza umana.
Compimento duplice perché oltre ad essere una rivoluzione pacifica, avrebbe come contenuto, appunto, la pace. Compiutezza anch’essa duplice perché oltre a mostrarne la possibilità di mantenerla, consente a tutti gli altri esseri umani di potersi confrontare con la “propria capacità e volontà” di realizzarla.
Retrocedere davanti a questa soglia non è possibile. Essere o non essere, vivere in pace o cessare di vivere, questo è il problema. Perché in questa circostanza è la necessità che obbliga alla morale.”
E come non pensare, a proposito di quest’ultima affermazione della Zambrano, ad un’altra grande intellettuale del secolo scorso, Simone Weil?
Tra gli scritti londinesi del 1943 (tradotti in Italia da Franco Fortini nel 1954 con il titolo La prima radice), la filosofa francese introduce un ripensamento critico della nozione di diritti umani. La Weil parlando dei bisogni dell’anima introduce l’obbligo come un valido sostituto radicale e naturale del diritto: “L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano , per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia ad intervenire…” [ La prima radice, SE Milano, 1990].
E dunque è questo obbligo verso ogni altro essere umano e, più in generale, verso una vita (in pace), che stabilisce la morale.
Fin quando sarà la paura a determinare l’assenza di guerra continueremo a parlare di uno stato ambiguo e pericoloso, uno stato di non guerra. Perché la storia, ci ricorda la Zambrano, ha sempre dimostrato che i timori più fondati, le deterrenze meglio architettate, possono essere cancellati immediatamente in un solo istante di follia.
Una situazione che si sostiene solo sulla paura è priva di sostanza morale, di quella sostanza irrinunciabile che nasce, non dal diritto individuale (quello di vendicarsi, quello di difendersi, etc…), ma dall’obbligo che tutti gli altri, responsabilmente, sanno di avere nei confronti di un essere vivente solo e in quanto tale.
La pace non è un diritto posseduto da qualcuno e come tale suscettibile di essere imposto, persino con la guerra o con la paura. No. La pace è un dovere al quale tutti gli altri devono sentirsi obbligati per mantenere la promessa di un’umanità davvero compiuta, per consentire la cura della prima e più profonda delle radici: la vita.
Quijote! del Teatro Nucleo in piazza a Ferrara: manifesto spettacolare contro le ingiustizie
La favolosa opera del Don Chisciotte della Mancia di Cervantes è tornata a vivere nei giorni scorsi nelle piazze di Ferrara grazie al Rabicano – festival di teatro per gli spazi aperti. Il titolo riassume in modo sintetico quello della lingua d’origine: Quijote!. Ed è una versione corale e spettacolare delle avventure del cavaliere delle cause impossibili. Narrazione caratterizzata dalla colorata, vivida e roboante coreografia del Teatro Nucleo. Il protagonista è affidato, o forse meglio incarnato, in Horacio Czertok, che ne firma anche la regia assieme a Natasha Czertok.
Quijote e il suo fido Sancho sono così tornati protagonisti, ma in sella a improbabili destrieri meccanici dotati di ruote: mezzi quanto mai degni della città capitale delle biciclette. Da lì e da altri marchingegni spassosi, che comprendono pure un attualissimo benché scalcagnato monopattino, sono stati rilanciati i messaggi di lotta contro le ingiustizie, trasmessi insieme al piacere per gli occhi e le orecchie degli spettatori.
Nel romanzo Don Chisciotte il protagonista dichiara di lottare contro tre giganti. Per il regista teatrale argentino Horacio Czertok, che di Cervantes e della sua opera ha fatto un pilastro della sua impegnata attività culturale e drammaturgica, i giganti sono molti di più. Oltre alla Paura, all’Ingiustizia e all’Ignoranza, che lo stesso Don Chisciotte cita nelle pagine del libro come nemici da sconfiggere, Czertok ha trovato altri cinque pericolosi avversari dell’umanità. Secondo il teatrante studioso, sono quindi almeno otto i giganteschi mostri che l’eroe della Mancia si mette in testa di combattere in quell’opera che si può considerare a pieno titolo uno dei capolavori della letteratura mondiale e che per prima – tra il 1605 e il 1615 – ha dato forma al concetto moderno di romanzo.
Una scena del “Quijote!” in piazza Castello a Ferrara (foto Luca Pasqualini)
Chi ha avuto la fortuna di assistere al monologo-spettacolo-lezione di Czertok intitolato Contra Gigantes, può avere sicuramente apprezzato anche di più quella macchina acrobatica, comica, circense e spettacolare che è stata messa in scena domenica sera nell’area pedonale accanto al Castello Estense di Ferrara.
Horacio Czertok (foto GioM 2022)
“Contra Gigantes” a Pontelagoscuro (foto GioM 2022)
Ho assistito come spettatrice alla rappresentazione Contra Gigantes che Horacio ha tenuto l’11 settembre 2022 nella sede del Teatro Nucleo di Pontelagoscuro, a Ferrara. Una visione che, a me, ha rivelato un’angolazione del tutto inedita di questa storia, che ho sempre pensato più che altro come ingegnosa e fantasiosa.
Non avevo capito – fino a quella sera – quanto fosse in realtà un lavoro di forte denuncia sociale e politica, costruito con coraggio stupefacente in pieno dominio dell’Inquisizione spagnola e di una monarchia assoluta, basata su un potere aristocratico che schiacciava e sfruttava la povera gente.
Danze con il fuoco
“Quijote!”
foto di Luca Pasqualini
Il romanzo, pubblicato in Spagna da Miguel de Cervantes Saavedra nei primi anni del ’600, usa infatti la finzione, la comicità e la fantasia per dire cose diversamente indicibili. Per farlo – ha spiegato Czertok con quella sua capacità affabulatoria e coinvolgente da grande uomo di teatro – Cervantes usa l’espediente narrativo del ritrovamento di un manoscritto arabo che lui avrebbe tradotto, riportandone le vicende di don Chisciotte.
L’invenzione di questo narratore, peraltro spesso inaffidabile, e di altri espedienti narrativi destinati a creare ambiguità nel racconto, è sicuramente una geniale trovata letteraria. Ma è anche un filtro fondamentale per poter dire cose che non sarebbero state accettate se dette in maniera diretta, in uno stile non romanzato e non acrobaticamente costruito.
Messaggi di una modernità rivoluzionaria che sono infilati dentro questo libro, camuffati da buffe lotte, dove c’è così tanta sproporzione tra l’eroe e i nemici contro i quali combatte. Perché la lotta di Don Chisciotte ha come obiettivo tutte le ingiustizie concrete che lui individua nella società del tempo e che, almeno in parte, possono essere ancora ricondotte a problematiche attuali.
Sancho Panza
Dulcinea – foto Luca Pasqualini
Scena del “Quijote!” – foto Luca Pasqualini
Prendiamo i mulini a vento. Suona assurdo, e quindi anche ridicolo e comico, il fatto che il cavaliere scambi questi manufatti per nemici. Ma non c’è nulla di folle nello slancio dell’eroe accompagnato dal fido scudiero Sancho. Perché i Mulini a Vento – spiega Horacio Czertok nella lezione spettacolo e anche (con voce fuori campo) nella mirabolante rappresentazione di strada – sono marchingegni che potrebbero aiutare a ottenere più farina macinando in modo sistematico il grano, ma diventano lo strumento per portare via soldi ai poveri contadini e metterli nelle tasche dei banchieri olandesi.
Scena del “Quijote!” diretto a Ferrara da Czertok del Teatro Nucleo
Altri temi scandalosi e rivoluzionari riguardano la condizione della donna (capitolo dedicato a Marcella e Crisostomo) e quello della giustizia nel capitolo sui galeotti. Horacio Czertok ha fatto anche notare come lo studio strutturale del romanzo rivela un don Chisciotte vincitore della metà dei 40 conflitti che affronta come cavaliere errante. Un traguardo che contrasta con l’immagine che si è imposta di lui, che è quella di un vecchio pazzo destinato alla sconfitta.
Scena della processione (foto LPasqualini)
“Quijote non è un vincente – dice il regista e teatrante – ma non è nemmeno un perdente: proprio in questo preciso equilibrio sta la consistenza del romanzo. Quasi ad ogni capitolo il Don risulta bastonato e ferito nel corpo, tant’è che alla fine ne muore. Ma è una morte di sacrificio”.
Scena finale del “Quijote!”
Ferrara – foto Luca Pasqualini
Una chiave innovativa di lettura e un invito per approfondire la conoscenza di quello straordinario romanzo al quale la rappresentazione di piazza ha dato una sostanza spettacolare. Un messaggio avvolto e arricchito dai suoni avvincenti, come quelli tratti dall’aria ritmatissima e contagiosa del Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini, dai fuochi, dalle danze corali e dalla meraviglia. Per adulti e bambini che affollavano tutta la platea popolare, creata sull’asfalto tra il Castello e i giardini di corso Cavour. Per divertirsi e poi, magari, anche per pensare.
Reportage fotografico di Luca Pasqualini
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Questo giorno Di libertà Lo dedico Al mio cuore Per quello Che mi fa sentire E per tutte le volte Che non lo sento Proseguire La sua fatica Con discrezione Sei speciale Conservi tutto Ma proprio Tutto L’essenziale
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Ecco in anteprima , la bozza del nuovo Decreto legge del Governo sull’Industria casearia, che entrerà in vigore nel Giugno 2024, ideato e fortemente voluto dal Ministro Lollobrigida.
1 – E’ istituito l’organo di promozione e controllo dei latticini italiani denominato F.O.R.M.A. (Formaggi Ovini Ricotte di Mucca e Affini), che agirà su tutto il territorio nazionale e nelle Colonie d’Etiopia, Eritrea, Libia e Somalia.
2 – I formaggi Squacquerone e Stracchino saranno da ora in avanti denominati “Creme d’Italia”, in quanto i precedenti nomi sono da considerarsi molli e di conseguenza, non abbastanza virili.
3 – I contadini sapranno finalmente quanto è buono il formaggio con le pere, ma saranno seguiti dal SERT.
4 – Accanto alle confetture, nelle degustazioni di formaggi stranieri, sarà servito abbondante olio di ricino, per esaltarne al meglio i sapori.
5 – E’ abolito il Provolone “Auricchio” perché dal nome non abbastanza mascolino e dall’identità promiscua.
6 – E’ reso obbligatorio l’uso dell’italico “Camoscio d’oro” al posto del Brie, subdolo prodotto transalpino.
7 – Il formaggio “Philadelphia”, disfattista alle alte temperature, sarà ribattezzato “Roma” e consumato solamente ghiacciato.
8 – E’ abolito il “Parmigiano Reggiano” in funzione del “Grana Padano”.
9 – E’ fortemente consigliata la mozzarella “Santa Lucia”, in quanto ha effetti benefici sulla vista.
10 – Allo scopo di facilitarne il consumo, Gorgonzola e Strapuzzone di Moena sarannno serviti con l’ARO (Auto Respiratore ad Ossigeno), dei gloriosi incursori della Regia Marina.
A Mario Draghi l’Unione Europea ha dato l’incarico di rappresentare uno scenario sul futuro dell’Europa, e le conseguenti scelte. Da alcune sue conferenze possiamo desumere il succo del rapporto che verrà presentato.
Su alcune impostazioni strategiche Draghi dice che ha “cambiato radicalmente idea”. La realtà si è incaricata di fiaccare la visione liberista del mercato come generatore di benessere condiviso degli ultimi 20 anni, a cui lo stesso Draghi ha partecipato da grande protagonista. Dice ora Draghi, in quella che suona come una sorta di autocritica: “Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale pro-ciclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale. Ci siamo rivolti verso l’interno, vedendo i nostri concorrenti tra di noi. Ma ora il mondo sta cambiando…altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando politiche per migliorare la loro posizione competitiva”.
In sostanza Draghi vuole creare nuovi “campioni europei”, cioè grandi imprese che contrastino quelle americane e cinesi e quindi rafforzare politiche di concentrazione industriale e accordi tra imprese europee di diversi Paesi. A tutta prima sembra una buona idea: pensiamo che oggi l’europea Airbus negli aerei è diventata leader mondiale battendo l’americana Boeing. Occorre sapere però che, in questo modo, verrà dato un ulteriore colpo a quella miriade di piccole imprese (specie italiane) e di piccoli artigiani che piuttosto che “finire sotto padrone”, fanno un sacco di ore di lavoro con cui compensano la loro bassa produttività, ma garantendo alle medie e grandi imprese quella flessibilità che Germania e Francia non hanno (e che spiega, in parte, il grande successo dell’export della manifattura italiana). Ci sarebbe quindi bisogno, se passa l’idea della ulteriore concentrazione, di una qualche forma di aiuto a questi “piccoli” che sono da sempre il “tesoro” dell’Italia, anche se sono i “grandi” e i “cavalieri del lavoro” a prendere i titoli dei giornali (e a pagare la pubblicità dei grandi media, da cui sono ricambiati). Inoltre, se ciò fosse fatto senza ridurre salari e occupazione nulla da obiettare: altrimenti, sarebbe una ulteriore forma di distruzione del modello sociale europeo, che coniugava alta produttività con (mediamente) alti salari e welfare, un unicum nel mondo.
Draghi spiega che dopo la crisi del 2009, che lui chiama del “debito sovrano”, ma che è stata innescata in Europa dalla speculazione finanziaria americana dei subprime, è stato un errore svalutare il lavoro e avviare una politica di austerità. In realtà più che “errori” sono state scelte deliberate: come quelle di allargare la UE nel 2004 a 100 milioni di lavoratori dell’Est che avevano un salario pari a un terzo o un quarto degli italiani, spagnoli, portoghesi, greci (per non parlare dei nordici e tedeschi); come approvare una direttiva sui “lavoratori dislocati” che consentiva ai Paesi di provenienza (dell’Est) di poter usare la loro legislazione e i loro contratti di lavoro anche nei paesi di destinazione (la “vecchia Europa”, Germania, Italia,…), facendo fallire decine di imprese sotto la pressione del dumping salariale dell’Est Europa. E’ questa, peraltro, una delle ragioni principali per cui i salari italiani non crescono da 15 anni. Situazione poi aggravata da un’altra direttiva (Bolkestein): tutte scelte pensate attentamente e deliberate, altro che “errori”.
Articolo 41 della nostra Costituzione: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Si potrà notare che il mercato unico europeo non si muove affatto nella logica dei fini sociali. Anzi, con l’ipotesi di allargamento a 36 Stati, si persevera nell’errore di far entrare altre decine di milioni di lavoratori (in un mercato unico senza politica) che hanno un salario medio di 300 euro al mese. Ciò ovviamente, come avvenuto dopo il 2004, accentuerà le delocalizzazioni e la pressione per tenere bassi i salari nella “vecchia Europa”. Se si vuole aiutare l’Ucraina si crei un “Piano Marshall”, senza farla entrare in Europa (come gli altri 8 candidati).
Che sia necessario passare attraverso una competizione “gli uni contro gli altri” in cui uno è l’Europa siamo d’accordo: ma ciò implica accordi comuni sulla difesa, sulla politica estera, su politiche industriali comuni che presuppongono, più che un libero mercato ancora più esteso ad altri nove Stati, una politica europea che non c’è.
La costruzione di imprese che possano essere “campioni europei” deve avvenire nella difesa degli attuali livelli salariali e introducendo più welfare. Se invece è un modo per concentrare la conoscenza in poche mani e quindi favorire pochi grandi oligopolisti europei, non ci siamo. Una spia in tal senso è la bocciatura da parte della Commissione europea della proposta di costruire una infrastruttura pubblica comune per farmaci et similia, come avrebbe consigliato il dopo Covid. Anzi l’idea è usare i dati dei pazienti UE per accelerare gli extra profitti delle grandi imprese private.
Siamo invece ancora succubi degli Usa, senza capire che siamo entrati in un nuovo secolo che non sarà più quello “americano”. Si ignora l’importanza di costruire un rapporto paritario con l’Africa, costruendo filiere che riducano la dipendenza da materie prime possedute dai Cinesi, Asiatici o Russi; una follia isolazionista, quell’isolazionismo di cui si accusa Trump senza vedere il nostro. Poi c’è il riarmo europeo: come se dovessimo necessariamente andare verso nuove guerre. Un conto è infatti una difesa europea, che può costare molto meno della somma dell’attuale budget dei 27 Stati e che si basi più sulla diplomazia che sulla forza militare, un altro conto è stare dentro un riarmo deciso dalla Nato (con un mix letale tra segreti militari e proprietà intellettuale) in cui spendiamo un sacco di soldi per seguire le follie degli Stati Uniti.
Bisognerebbe anche decidere se i fondi pubblici (e l’eventuale debito comune) devono servire per allargare il Welfare o per essere usati da privati; se la rete pubblica dei computer debba servire a supportare start-up private sull’AI oppure a favorire una prosperità diffusa a tutti i cittadini. La fine dell’interconnessione delle reti energetiche europee è servita (lo abbiamo visto con la fine del mercato tutelato di gas e luce in Italia, voluto proprio da Draghi) più per favorire il libero mercato che i cittadini.
Draghi non fa mai cenno al vantaggio comparato che abbiamo invece sulle filiere verdi europee.
In futuro ci sarà un enorme problema per le imprese di carenza di lavoratori che implicherebbe l’organizzazione europea di una immigrazione legale programmata: di questo non si fa cenno nel Rapporto. Così come sbagliata è l’idea della iper specializzazione nell’istruzione, che rischia di essere la più grande topica del futuro, in quanto specializzeremo diplomati e laureati per qualcosa, che andranno a fare in massima parte qualcos’altro. Ciò che servirebbe è invece una forte preparazione culturale di base, tecnica ed umanistica, che consenta adattabilità e libertà.
Draghi fa cenno anche all’importanza di “dare più potere ai lavoratori”, ma rimane un afflato che non si traduce in indicazioni pratiche (per es. con le compartecipazioni ai profitti delle imprese). E ciò appare in grave distonia con l’intero impianto, che è in realtà una forma nuova di rilancio del cosiddetto “libero mercato”.
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Presto di mattina. Poesia e profezia per riedificare perennemente l’uomo
A commento di Novogodnee (‘Vigilia del nuovo anno’), poema scritto da Marina Ivanovna Cvetaeva in morte di Rainer Maria Rilke, Iosif Brodskij definisce il poeta come «qualcuno per cui ogni parola non è la fine ma l’inizio», «qualcuno che, avendo pronunciato la parola raj (‘paradiso’) o tot svet (‘l’altro mondo’), deve mentalmente fare il passo successivo e trovare le rime adatte.
Così nascono kraj (‘paese’) e otsvet (‘riflesso’) e così viene prolungata l’esistenza di coloro la cui vita si è interrotta… [Poeta] è qualcuno che prolunga la prospettiva della sensibilità umana, che mostra un varco, una strada da seguire, a chi non vede vie d’uscita» (Il canto del Pendolo, Adelphi, Milano 1987, 203; 85).
Cercando parole, il poeta dà corpo ad un’assenza, prolunga una presenza, dove ogni parola diventa aurora e non crepuscolo, vigilia e non conclusione inizio senza fine: una via d’uscita.
Non diversamente da una profezia, la poesia è sempre nella possibilità di aprire verso un testo, una parola e un orizzonte nuovi. Perché direbbe Maria Zambrano «La poesia è un aprirsi dell’essere verso dentro e verso fuori al tempo stesso. È un udire nel silenzio e un vedere nell’oscurità. È un uscire da sé, un possedersi per essersi dimenticati, un dimenticarsi per aver guadagnato la rinuncia totale.
Un possedersi per non aver più nulla da dare; un uscire da sé innamorato; un darsi a ciò che non si sa ancora, né si vede. Un ritrovarsi integri per essersi interamente dati. La poesia, configurandosi come uscir da sé dell’anima dal suo steccato e come apertura dell’essere − verso dentro e verso fuori − non può calcolare i passi che dà, né tantomeno soffermarvisi. Ciò che per essa si verifica è qualcosa di assoluto» (Poesia e filosofia, Pendragon, Bologna 2010, 120-121).
Poesia pura: credere alla parola, vivere della parola
Le parole sono nella poesia e nella profezia in status nascendi e in cammino al tempo stesso, oscillando in un movimento di pendolo tra assenza e presenza. Per questo, secondo la Zambrano, il poeta è un mistico, dando luogo a una coincidenza che non di rado si è incarnata nella storia come nel caso di Giovanni della Croce.
Poeta e mistico, con la loro parola, penetrano sempre di nuovo, parola dopo parola, lentamente nella notte oscura dell’inesprimibile per passare dall’assenza alla presenza, così da dare corpo all’indicibile, senza rassegnarsi alla superficiale apparenza.
Il poeta, il profeta e il mistico vedono l’infinitezza e la consistenza inconsunta di ogni cosa oltre l’oscurità del nulla. Nell’abissale notte della fede sono interpellati dal riverbero di una Parola che non passa, essi sentono tutto il peso di immortalità: «Sento un calore impressionante tutto intorno al cuore – come un peso di Immortalità» (J. Keats, Lettere sulla Poesia, Mondadori, Milano 2014, 164).
Scrive ancora la Zambrano: «Poesia pura significa affermare la poesia, credere in essa, alla sua sostantività, alla sua solitudine, alla sua indipendenza»; significa dire che «la poesia è tutto. Al poeta è sufficiente far poesia per esistere; è la forma più pura di realizzazione dell’essenza umana» (Poesia e filosofia, 98).
Questa espressione − dice la Zambrano − benché sia stata formulata da Mallarmé, prende corpo e si definisce con il poeta Paul Valéry. Formula felice, la definisce, perché «è un acuirsi estremo della coscienza del poeta che, forse per la prima volta, sente chiaramente come funziona la sua poesia. E non trovando con che cosa compararla, sentendo la differenza tra la parola poetica e quella del linguaggio della vita e anche della scienza, parla di “assenze”.
Le cose sono nella poesia per assenza, che è il loro lato più autentico. Infatti, quando qualcosa ci lascia, rimane più vera perché è incancellabile: sua pura essenza. E la stessa realtà si cela a se stessa. Inoltre, con questo gioco di assenza e presenza, le cose ci appaiono immerse nel flusso del tempo; si mostrano a noi come sempre nascenti. La loro presenza è un miracolo, il miracolo originario dell’apparire delle cose. Poesia è sentire le cose in status nascens» (ivi, 129-130).
Per Henri Brémond, storico del sentimento religioso e critico letterario francese, con l’espressione “poesia pura” è da intendersi un appello nell’interiorità, che precede e prescinde da un senso e da un significato definiti; per tale misterioso incanto, l’intuizione del poeta viene così a coincidere con l’ascesi del mistico.
Egli, mettendo in luce i rapporti tra esperienza religiosa ed esperienza estetica, riscontra la stretta connessione che intercorre tra la poesia, l’arte in genere e la preghiera. È solo nell’ambito psicologico che entrambe, le esperienze della preghiera e della creatività poetica, funzionano in modo simile e tuttavia permangono irriducibili tra loro le differenze circa la loro natura propria e singolarità (Preghiera e poesia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010).
Poesia e profezia per riedificare umanamente “vita d’uomo”
Da pertinaci fumi risalito
Fu allora che intravvidi
Perché m’accende ancora la speranza…
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo
(G. Ungaretti, Vita d’uomo. Tutte le poesie, Oscar Mondadori, Milano 1992, 227; 299-230).
La speranza, che è la forza per tornare a vivere, viene dalla parola. È quella parola che perennemente principia e s’incarna a riedificare umanamente l’uomo. Così la parola profetica è inizio della speranza e il profeta «è un realista delle distanze», nel senso che vede molto vicine le cose distanti e discerne in quelle a portata di mano i prolungamenti e le ramificazioni del loro significato nascosto (M. Flannery O’Connor).
La speranza, come la profezia e la poesia, non può essere descritta ma solo vissuta, perché la speranza è ineffabile come la Presenza di Dio percepita dai mistici: non si rivela nella chiarezza, ma nell’oscurità,
Il profeta è colui che ha a che fare, venendone coinvolto fino all’eccesso, con la sollecitudine di Dio per l’umanoe per il mondo: giustizia e compassione. Viene afferrato nel vortice di una parola seducente, irresistibile e trasformante.
“Tu mi hai sedotto” dice Geremia ed “io mi sono lasciato sedurre”. Egli diviene così un traghettatore che tiene unite due rive nella divaricazione abissale, lacerata dell’umano; garante della promessa e della sollecitudine santa e sentinella del suo venire, che nell’attesa ascolta il grido degli oppressi e non cessa di difendere i poveri, ammonire i re, denunciare i potenti, condannare i sacerdoti che riducono la preghiera a una vuota ripetizione di parole e sacrifici.
“Sentinella, quanto resta della notte?”
La speranza profetica, come la parola poetica, non smettere di attendere, di iniziare sempre di nuovo l’attesa di un’altra parola, di un altro mattino, così dopo ancora una notte occorre non stancarsi di vegliare e di attendere e interrogandosi.
«Mi gridano da Seir: “Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?”. La sentinella risponde: “Viene il mattino, ma presto di nuovo la notte. Se volete fare altre domande, tornate di nuovo”» (Is 21, 11).
Così il commento del biblista L. Alonso Schökel: «è notte nello scenario della storia, le tenebre non lasciano comprendere né è dato calcolare quando giungerà l’aurora liberatrice (Sal 130,6-7). Ma c’è qualcuno che con gli occhi penetra l’oscurità e misura i tempi: è il profeta.
A lui ricorrono anche i popoli stranieri e nemici: che ora è? Che sta succedendo in questa lunga notte? Quando finirà? Il profeta non ha una risposta liberatrice. Conosce soltanto un ciclo dominato dall’inesorabile ritorno della notte; per quanto essa cessi e albeggi, siamo nell’ora delle tenebre. Ma invita a domandare di nuovo, casomai ricevesse nel frattempo una risposta precisa del Signore. E l’oracolo torna “al silenzio”, “all’attesa”» (L. Alonso-Schökel, J.L. Sicre Diaz, I profeti, Borla, Roma 2000, 216).
Profeti di pace
Tra questi vi è Olga Karač, candidata al Nobel per la pace, più volte incarcerata dal regime di Lukashenko per aver gridato gli orrori del regime. In un’intervista ad Avvenire (Dorella Cianci, lunedì 29 aprile 2024) ammonisce: «La cultura della guerra getta via la tolleranza e il rispetto per l’altro, ci vuole coraggio per parlare di pace. Non tirarti indietro e non arrenderti, anche se la maggioranza non è d’accordo con te. La situazione è molto difficile: parlare di pace è diventato tossico. Le organizzazioni che lottano per la pace sono sotto attacco».
Olga Karach, 45 anni, è un’attivista bielorussa, politologa e direttrice dell’organizzazione per i diritti umani Our House (‘La nostra casa’), fondata nel 2002 sotto forma di giornale autofinanziato. È attiva nella rete dei difensori dei diritti umani e civili oppressi nel suo Paese dal regime di Lukashenko. Per questo è stata più volte incarcerata e anche torturata. Oggi vive in esilio a Vilnius, in Lituania, da dove prosegue la sua preziosa attività nonviolenta.
«Oggi ci vuole un coraggio speciale per parlare di pace, indipendentemente dal tipo di conflitto militare da citare. La società è polarizzata e radicalizzata. Non appena si dice qualcosa sulla pace, si inizia a essere perseguitati, sospettati dei peccati peggiori, e le conseguenze non sono così innocue. La cosa più sorprendente è che ciò accade non solo nei Paesi baltici, che ora si appoggiano fortemente all’estrema destra, ma anche nei Paesi dell’Europa occidentale.
Qualcosa sembra esserci rotto nel sistema europeo di valori e nelle già inespresse regole dei diritti umani. Dove è finita la libertà di parola, di cui tutti erano orgogliosi? Perché il dialogo politico si è trasformato in un punto di vista dominante, mentre altri punti di vista sono etichettati a priori come sbagliati? La cosa peggiore è che non abbiamo notato come, in due anni, la cultura europea sia radicalmente cambiata da una cultura di pace e nonviolenza a una cultura di violenza e romanticizzazione della guerra».
Come fece nel 2023 alla consegna del Premio internazionale Alexander Langer, la nomination al Nobel è stata un’occasione per Olga Karach di riparlare della situazione in Bielorussia, della violenza e della tortura subita anche dagli obiettori di coscienza, rispetto ai quali essa auspica un programma di assistenza:
«Si tratta di una campagna strategicamente rilevante: la guerra non può continuare se gli uomini si rifiutano di entrare in guerra. Tutti possono farlo, e la scelta personale di ognuno ha un impatto colossale sulla guerra e sulla militarizzazione. Ci vuole coraggio anche per rifiutarsi di andare in guerra, perché la società è strutturata per la guerra».
Poesia e preghiera dimora appassionata del dolore d’altri: “D’un pianto solo mio non piango più”
Il tema della guerra nella raccolta Il Dolore di Ungaretti appare come “un canto aperto, solenne corale” dice Leone Piccioni; una poetica che si illumina fino a divenire preghiera, una poesia oranteche è insieme resistenza ed attesa, perché non vana sarà l’ospitalità di amore, la sua dimora. Santità ospitale è quella che accoglie l’altrui dolore la sola che “perennemente” riedifica “umanamente” vita d’uomini.
Il mondo d’abissale pena soffoca;
Ora che insopportabile il tormento
Si sfrena tra i fratelli in ira a morte;
Ora che osano dire
Le mie blasfeme labbra:
«Cristo, pensoso palpito,
Perché la Tua bontà
S’è tanto allontanata?»
Ora che pecorelle cogli agnelli
Si sbandano stupite e, per le strade
Che già furono urbane, si desolano;
Ora che prova un popolo
Dopo gli strappi dell’emigrazione,
La stolta iniquità
Delle deportazioni;
Ora che nelle fosse
Con fantasia ritorta
E mani spudorate
Dalle fattezze umane l’uomo lacera
L’immagine divina
E pietà in grido si contrae di pietra;
Ora che l’innocenza
Reclama almeno un’eco,
E geme anche nel cuore più indurito;
Ora che sono vani gli altri gridi;
Vedo ora chiaro nella notte triste.
Vedo ora nella notte triste, imparo,
So che l’inferno s’apre sulla terra
Su misura di quanto
L’uomo si sottrae, folle,
Alla purezza della Tua passione.
Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l’uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell’amore non vano.
Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D’un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.
(Vita d’uomo, ivi, 228-230)
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
IL COMPLESSO BOLDINI E LA BIBLIOTECA/VIDEOTECA COMUNALE VIGOR: STORIA E PROSPETTIVE.
L’edificio del Complesso Boldini fu realizzato tra il 1935 e il 1939, sull’area precedentemente occupata dall’ala ovest della Sala di Degenza maschile dell’Ospedale Sant’Anna.
Il Piano Regolatore del quartiere cosiddetto “Novecentista”, che ha il suo cuore nella piazzetta (oggi Largo) dedicata a Michelangelo Antonioni, risale al 1931, anno in cui fu progettato da Carlo Savonuzzi con la supervisione del fratello Girolamo.
L’edificio, dotato di sala per gli spettacoli, venne destinato a sede del Dopolavoro Provinciale Fascista.
Dagli anni ’50 agli anni ’70, i locali della futura biblioteca vennero utilizzati come sede di una palestra di pugilato, la “Padana Vigor”.
Dopo una lunga ristrutturazione tutto il complesso è diventato di proprietà del Comune di Ferrara mantenendo la funzione di polo culturale per l’intera cittadinanza, grazie a una programmazione diversificata per linguaggi (cinema d’essai, teatro, Teatro Ragazzi, mostre, convegni, conferenze, mercatini organizzati da diverse associazioni di volontariato, ecc.) e per target (scolaresche, famiglie, adulti, appassionati, ricercatori, studenti delle scuole superiori e universitari).
Il 29 novembre 2003, nel complesso Boldini di via Previati 18, fu inaugurata la “Videoteca Biblioteca Vigor” del Comune di Ferrara. Il programma prevedeva la visita del nuovo spazio culturale e, dopo il brindisi inaugurale, la videoproiezione del film ‘Toro Scatenato’, interpretato da Robert De Niro per la regia di Martin Scorsese. Un film scelto non a caso per mantenere un legame di memoria storica con il precedente utilizzo dello stabile.
In questa parte di città ci sono altri edifici che, unitamente al Complesso Boldini, costituiscono la cosiddetta “Addizione Novecentista”. Parliamo del Museo di Storia Naturale (ex Istituto di storia naturale, 1935-37), del Conservatorio Statale di Musica “G. Frescobaldi” (ex Conservatorio e Auditorium, 1935-39) attualmente transennato per lavori dalla tempistica finale incerta, come del resto tutto il comparto e la Scuola primaria statale “Alda Costa” (ex “Umberto I”, 1932-33).
La Videoteca Biblioteca “Vigor”, chiusa al pubblico dall’estate del 2021, come del resto tutto il Complesso Boldini, per lavori di ristrutturazione, era una biblioteca Comunale specializzata nella raccolta e nella conservazione di documenti sul cinema, con lo scopo di documentarne la storia e di favorirne lo studio e la conoscenza. Un vero e proprio punto di riferimento per un numeroso pubblico di appassionati e studiosi. La “Vigor” accoglievaoltre 4000 documenti video tra film italiani e stranieri, documentari e audiovisivi didattici sul cinema, 1200 VHS, centinaia di filmati digitalizzati, oltre 5000 volumi sul cinema e i suoi protagonisti, centinaia di riviste italiane e straniere in gran parte catalogate su OPAC. Si potevano inoltre consultare anche opere di autori ferraresi e la documentazione sugli spettacoli e sui concerti tenutisi al Teatro Comunale di Ferrara. Dopo la chiusura sine die, tutto il materiale è stato trasportato in un capannone di Via Marconi, 37. Lo stato di conservazione di questi preziosi documenti è incerto, e la mancanza di aggiornamenti da parte dell’Assessorato competente è molto preoccupante.
Quale futuro per la sala Boldini e la biblioteca videoteca Vigor? A oltre tre anni dalla chiusura il loro stato di abbandono è totale. Ferrara si è voluta dare una identità di città del cinema. Com’è possibile che il luogo che è stato per tanti anni un punto di riferimento per il cinema ferrarese sia lasciato in questo stato di degrado?
Uno dei tanti compiti della prossima Amministrazione Comunale dovrà essere la restituzione alla città di questi spazi di cultura, di memoria, prevedendo ovviamente finanziamenti adeguati per il futuro.
Pier Luigi Guerrini
Ex bibliotecario videoteca Vigor Candidato per la lista La Comune di Ferrara per Anna Zonari Sindaca.
Nota: La lista La Comune di Ferrara ha organizzato un flash mob davanti al complesso Boldini sabato 11 maggio alle ore 10,30.
Delle violenze ai danni dei detenuti si sono registrate al carcere minorile Beccaria di Milano. Un carcere che ha una lunga storia e, al suo attivo, esperienze positive di custodia e di recupero della devianza minorile. Sembra che questo brillante passato sia stato clamorosamente dimenticato.
Allo stato attuale, il buon nome dell’Istituto è stato cancellato a favore di una situazione insostenibile caratterizzata da maltrattamenti e soprusi ai danni di persone non maggiorenni. La giovanissima età dei maltrattati acuisce la gravità della situazione, in quanto ai minori dovrebbe essere garantita la massima tutela e tutte le strategie possibili per il recupero e il reinserimento nella società civile, una volta scontata la pena.
I minori non hanno i diritti dei maggiorenni, ne hanno di più. Non possono votare, stipulare contratti dal notaio, però hanno una tutela rafforzata della personalità e delle manifestazioni del loro agire. Questo serve a garantire loro una crescita psicofisica sana ed equilibrata, un fondamentale diritto della persona umana che viene loro riconosciuto, insieme a molti altri diritti.
L’inchiesta che si è svolta al Beccaria ha portato a 21 misure cautelari. Tredici agenti della Polizia penitenziaria sono stati arrestati, per altri otto il giudice per le indagini preliminari ha disposto la sospensione. Sui detenuti ci sarebbero state inaudite violenze. Pestaggi con bastoni ai danni di ragazzi ammanettati con le mani dietro la schiena. Per picchiare sarebbero stati utilizzati metodi tali da non lasciare il segno, come ad esempio dei sacchetti di sabbia.
Secondo la Procura, “emergono profili rilevanti di omessa vigilanza da parte del personale rispetto a plurimi episodi violenti anche di natura sessuale accaduti fra i detenuti all’interno delle celle, con una frequenza temporale particolarmente significativa”.
Da quando a settembre 2023 è entrato in vigore il decreto Caivano, ci sono più minori nelle carceri, anche se il numero di reati è il medesimo dell’anno precedente, inoltre un numero maggiore di ragazzi che hanno appena compiuto diciott’anni sta scontando la misura cautelare nelle carceri per adulti, cosa diseducativa. Le misure cautelari personali consistono in limitazioni della libertà personale e sono disposte da un giudice nella fase delle indagini preliminari o nella fase processuale.
Il decreto Caivano, cosiddetto perché concepito come risposta agli episodi di criminalità minorile registratisi nel comune campano, è in realtà il DECRETO-LEGGE del 15/09/2023, n. 123. Nel decreto si introducono alcune novità che riguardano il trattamento della delinquenza minorile. Tra queste si trova il cosiddetto daspo urbano, definito dalla legge come “misura a tutela del decoro di particolari luoghi”.
In pratica, un sindaco (con il prefetto) può multare e stabilire un divieto di accesso ad alcune aree urbane per chi “ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione” a importanti infrastrutture quali strade, piazze, ferrovie e aeroporti. In base al provvedimento, la notifica del divieto verrà fatta ai genitori o a chi esercita la patria potestà. La comunicazione verrà inoltre trasmessa al Procuratore presso il tribunale del luogo di residenza del minore.
L’obiettivo dichiarato del Daspo è quello di difendere la “sicurezza urbana”, e di contribuire alla “vivibilità e al decoro delle città, da conseguire anche attraverso il contributo degli enti territoriali attraverso i seguenti interventi: riqualificazione e recupero delle aree o dei siti più degradati, eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, prevenzione della criminalità – in particolare di tipo predatorio – , promozione del rispetto della legalità, più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile” (cfr. art 4 D.L. 14/17).
Il decreto introduce altre novità, ne riporto alcune:
La pena massima del divieto di rientro nei comuni da cui si è stati allontanati aumenta di un anno, mentre passa da nove a sei anni il limite temporale per la custodia cautelare, che riguarda sia gli indagati sia gli imputati minorenni.
Le pene di durata non superiore ai cinque anni, durante le cui indagini il Pubblico Ministero potrà optare per un percorso rieducativo o la messa in prova, passano da uno a sei mesi.
Aumenta da tre a quattro anni la pena nel caso di porto non giustificato di armi o di strumenti atti ad offendere, mentre la soglia edittale per il traffico e la detenzione di sostanze stupefacenti è compresa da un minimo di un anno ad un massimo di cinque.
Nei casi di associazione mafiosa o associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, il Tribunale, su richiesta del Pubblico Ministero, potrà revocare la patria potestà dei genitori.
Per soggetti di età superiore ai quattordici anni, il Questore potrà proporre all’Autorità giudiziaria il divieto dell’utilizzo di telefoni cellulari o altri dispositivi per le comunicazioni, qualora possano servire per condividere le condotte contestate.
Per evitare l’abbandono scolastico, le famiglie saranno ritenute responsabili per le assenze ingiustificate e possono rischiare fino a due anni di reclusione.
Detto che un reato è un reato e come tale vada definito e riconosciuto, credo che esistano alcune considerazioni che fanno riflettere. Il percorso in carcere, in modo particolare per i soggetti minorenni, deve essere rieducativo, cioè deve lavorare per il riconoscimento dell’errore e la messa in essere di tutte le strategie che permettano al ragazzo/a, una volta uscito dal carcere, il reinserimento nella società civile.
Se questo non succede, il sistema non funziona e il processo di accompagnamento va ripensato e organizzato. Se a ciò si aggiungono violenze e maltrattamenti in carcere, non solo il processo educativo va ripensato, ma va implementato ex novo. Non esiste infatti alcun tipo di educazione associabile alla violenza e ai maltrattamenti.
Qualunque pedagogista è in grado di spiegare questo con dovizia di teorie ed esempi concreti. Ciascuno di noi sa che per insegnare qualcosa ad altri, la strategia migliore è quella dell’esempio, dimostrare con comportamenti concreti quanto si può ottenere semplicemente intraprendendo uno stile di vita che si ispira all’eticità delle azioni quotidiane.
È attraverso l’esempio concreto e buone relazioni improntate alla fiducia reciproca, che si rieducano le persone. Chi non ha chiaro questo non deve fare l’educatore perché, molto pragmaticamente, non lo sa fare. Ed è buona cosa che uno stato che si vuole definire civile affidi percorsi educativi e rieducativi a persone e istituzioni competenti.
Se questo non succede le istituzioni dello stato vanno ripensate. In tale consapevolezza non c’entra alcuna appartenenza politica, se non una condivisione d’intenti che si basa sull’adesione alle carte costituzionali e a quelle dei diritti degli esseri umani e dei minori (ancor di più).
Ridare una vita normale alla persona che è stata in carcere e ha scontato la pena, è una missione sociale importante che viene spesso disattesa. Chi ha sbagliato è condannato in eterno a portare lo stigma dell’ex detenuto, di colui che non può più essere come gli altri. Sfido chiunque a sostenere che questo è giusto.
Maltrattare minorenni reclusi non ha alcuna giustificazione, non ce l’ha nemmeno se le carceri sono sovraffollate e quindi le persone che là vivono si trovano in uno stato di acuita insofferenza; non ce l’ha nemmeno se chi è a diretto contatto con l’utenza non è preparato per farlo e si arrabatta come può per arrivare a fine giornata e portare a casa lo stipendio.
Esistono persone “normali” che pensano che uno stipendio giustifichi dei maltrattamenti sui minori? Meglio che cambino lavoro, ci sono molte aziende di produzione che cercano operai e non riescono a trovarli. Mi chiedo se aldilà di quello che hanno registrato le telecamere del Beccaria, i fenomeni di maltrattamento delle persone in carcere non siano più diffusi di quel che pensiamo e se tali brutti eventi non riguardino spesso proprio i minori. I dati che abbiamo a disposizione non sono affatto confortanti in questo senso.
Secondo il VII Rapporto di Antigone sulla giustizia minorile pubblicato a metà febbraio 2024, erano 10 anni che non si raggiungeva quota 500 minori detenuti nei 17 Istituti penali per minorenni italiani. Gli ingressi sono in netto aumento. Erano stati 835 nel 2021 e 1.143 nel 2023, la cifra del 2024 è la più alta degli ultimi quindici anni.
I ragazzi presenti negli IPM, gli Istituti Penali per i Minorenni, in misura cautelare erano 340 nel gennaio 2024, contro i 243 del gennaio 2023. Ma, contrariamente a quanto superficialmente si potrebbe pensare, la criminalità minorile è più o meno stabile. I dati forniti dall’Istat e dal Ministero dell’Interno relativi ai minorenni arrestati e/o indagati nel periodo 2010–2022, mostrano un picco nel 2015 seguito da un costante decremento.
Ciò che sembra aver fatto la differenza è quindi il decreto Caivano. Raddrizzare i giovani, far capire subito come funziona la legge e quanto costa aver sbagliato. Un approccio in contrasto con il nuovo codice di procedura penale entrato in vigore nel 1988, fondato sull’interesse superiore del minore.
Interesse superiore del minore significa che in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del minore deve avere una considerazione preminente. Già il sovraffollamento delle carceri è un cancro tipicamente italiano, che poi all’interno di tali istituzioni totalizzanti si verifichino situazioni di ripetuta violenza ai danni di detenuti, è cosa assai riprovevole.
Se poi i detenuti sono minori è davvero orribile.
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Il mondo del lavoro torna al cinema da protagonista, con le sue distorsioni e i suoi problemi. La politica, il disprezzo del diritto ad un ambiente sano e l’ILVA di Taranto, con le sue crisi mai risolte, sono al centro di “Palazzina Laf”, opera prima di Michele Riondino.
“Palazzina Laf” trionfa ai David di Donatello, con tre premi prestigiosi: migliore attore protagonista a Michele Riondino, miglior attore non protagonista a Elio Germano – a dieci anni dalla Palma d’Oro – e miglior canzone originale a Diodato per “La mia terra”.
Il mondo reale della Palazzina Laf (Laminatoio a freddo) dell’ILVA di Taranto, racconta di mobbing collettivo, di lavoratori scomodi qualificati “confinati” a non fare nulla, lasciati lì a giocare a carte, a fumare, a guardare il soffitto, a mettere i piedi sopra i tavoli, a innaffiare piantine smunte, a pregare e quasi ad impazzire, per il solo fatto di essere sgraditi.
Palazzina Laf, foto BIM Distribution
A loro non viene chiesto di produrre, di lavorare, ma di stare semplicemente lì a non fare, a non disturbare, un’inazione che diventa vera e propria forma di violenza e di ricatto.
Se dal reparto confino (all’epoca chiamato “lager”) si vuole uscire, o si accetta una mansione per la quale non si è professionalmente preparati o si va dritti alla cassa integrazione, anticamera del licenziamento. Gli esuberi si possono gestire solo così.
“Il problema nasce con il ricatto occupazionale”, ha detto il regista in un’intervista, “il ricatto sotto il quale noi tarantini siamo costretti a vivere dal 1995, da quando è entrato nella partita il privato: Emilio Riva. Tutti i fatti narrati nel film sono frutto di interviste fatte a ex lavoratori ILVA ed ex confinati. E i passaggi finali sono presi dalle carte processuali che hanno determinato la condanna degli imputati e il risarcimento delle vittime”.
Il caso esplose, infatti, nel 1997, quando, dopo un’ispezione dell’ispettorato del Lavoro, si scoprì che, nella palazzina Laf, i Riva confinavano impiegati, capisquadra, tecnici specializzati e magazzinieri, che non accettavano il declassamento attraverso la cosiddetta “novazione” del contratto. Chi non aderiva veniva pagato per non far nulla.
Nel novembre del 1998, l’allora procuratore Franco Sebastio, insieme con i carabinieri, “liberò” i 79 lavoratori caduti in quella trappola, privati di ogni diritto. La storia finì in un processo per tentata violenza privata a carico di titolari, dirigenti e quadri dello stabilimento. L’8 marzo del 2006 la sesta sezione penale della Cassazione confermò la condanna di undici persone, tra i quali il presidente del Consiglio di amministrazione dell’ILVA, Emilio Riva, e il direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso: al primo furono inflitti un anno e sei mesi di reclusione, all’altro un anno e otto mesi.
Michele Riondino, Vanessa Scalera, foto BIM Distribution
Di Taranto si vedono il quartiere Tamburi, e in particolare, la Parrocchia Gesù Divino Lavoratore, con il mosaico che raffigura Cristo che dal ponte girevole, sullo sfondo di navi e ciminiere, benedice operai, pescatori, massaie, professionisti. L’ingresso dell’acciaieria, la cokeria e la stessa Palazzina Laf sono stati, invece, ricreati nello stabilimento siderurgico ex Lucchini di Piombino, in Toscana.
In questi luoghi spettrali, grigi, polverosi e fumosi, dopo l’ennesima morte sul lavoro, nel 1997, si aggira l’operaio Caterino Lamanna (Michele Riondino), cane sciolto, uomo di fatica che cerca spazio. Il dirigente Giancarlo Basile (Elio Germano) lo promuove a caposquadra e gli dà qualche beneficio in più, solo per “farsi un giro e raccontargli quanto succede in fabbrica”. Caterino è sgraziato e curvo, un poveraccio orgoglioso in cerca di gloria, di qualcosa in più, di qualche briciola. Andare in quella Palazzina, invece che faticare agli altoforni, gli pare il vero privilegio, per pochi eletti.
Michele Riondino, foto Maurizio Greco
Non sa, non si rende conto, non vede alcuna spada di Damocle, non nota stranezze, non coglie inganni, non protesta, non capisce, tossisce e ignora il perché.
“ILVA is a killer”, si legge sui muri. Di uomini, della loro salute, dell’ambiente che li circonda. Ma anche della loro dignità.
Ma per Caterino non conta. Un critico lo ha definito “un Giuda inconsapevole che è a suo modo anche un povero Cristo”. Illuminante.
Un film intenso che ci fa riflettere sui diritti dei lavoratori ma anche su come alcune fantomatiche ristrutturazioni siano sempre lì, in agguato, in attesa. Ma in attesa di cosa?
Palazzina Laf, di Michele Riondino, con Michele Riondino, Elio Germano, Vanessa Scalera, Domenico Fortunato, Gianni D’Addario, Michele Sinisi, Fulvio Pepe, Marina Limosani, Eva Cela, Anna Ferruzzo e Paolo Pierobon, Italia, 2023, 99 mn.
Un piccolo gruppo di ragazze dell’Istituto “Einaudi” di Ferrara ha svolto un’esperienza importante e significativa presso la Casa Circondariale di Ferrara. Quello che hanno fatto, per diversi giorni, non è cosa da tutti e da tutte. In questo articolo raccontano le loro emozioni, i loro pensieri e le loro convinzioni. (Mauro Presini)
Di Fatima Zahra Lahmidi e Gabriela Olaru
Avete presente il carcere? Quel luogo dall’energia sinistra, con condizioni disumane, scarsità di igiene, dalle pareti grigie che ti tolgono anche quel briciolo di speranza e dove chi ci finisce viene privato di identità ed etichettato con un numero di serie per distinguerlo dagli altri? Bene, dimenticatevi di tutto ciò, come abbiamo fatto noi dal momento in cui abbiamo messo piede all’interno di un carcere per la prima volta. Difatti, il 5 febbraio del 2024, grazie alla disponibilità della Direttrice della Casa Circondariale “Costantino Satta” di Ferrara Dr.ssa Maria Nicoletta Toscani e alla nostra scuola, l’Istituto di Istruzione Superiore “Luigi Einaudi” di Ferrara, abbiamo avuto modo di vivere la realtà del carcere. Dal primo momento abbiamo capito che ciò che ci si immagina fuori è completamente diverso dalla realtà. Solitamente si tende a pensare che, nel momento in cui una persona viene messa in questa struttura è lasciata a sé, ma non è così, anzi, sin dal primo momento, si è affiancati da tante figure distinte, che si occupano da subito della salute fisica e psicologica dei detenuti, nel rispetto della dignità della persona. Loro non vengono privati di identità, e non vengono chiamati con un numero di serie ma con il loro nome, come ogni essere umano. Nel nostro percorso siamo stati affiancati dalla Dr.ssa Mariangela Siconolfi, funzionario giuridico-pedagogico, che ci ha aperto gli occhi su un’altra realtà della quale fuori si sa poco, quella che riguarda il grande lavoro che ogni figura all’interno del carcere svolge, a partire dalla polizia penitenziaria fino ai volontari che si prendono la responsabilità di offrire il loro tempo per la costruzione di attività e progetti rivolti alla popolazione detenuta. E sapete qual è la cosa bella? Il carcere non è grigio, anzi: è verde, come la speranza, e blu, colore del viaggio, del cambiamento, ma anche della conoscenza e dell’intelligenza. E, quindi, ora, dopo che vi abbiamo raccontato dei colori del carcere e di chi sta dietro a questa struttura, vi starete chiedendo: “E i detenuti?”.
Il nostro primo incontro con i detenuti non lo dimenticheremo mai, come non dimenticheremo mai il rumore dei cancelli che si chiudevano dietro di noi la prima volta o il rumore di una cella quando viene chiusa a chiave. La prima volta nella quale ci siamo trovati davanti ai detenuti non sapevamo come comportarci o cosa dire, ma poi siamo rimaste piacevolmente sorprese nel vedere come loro si confidavano con noi e prendevano addirittura l’iniziativa nel parlarci senza farci sentire come se stessimo invadendo i loro spazi, come temevamo di fare. Molti di loro lavorano, studiano o coltivano passioni come ognuno di noi. Altri hanno dei sogni, come il poter mettere su una famiglia e avere una casa con un cane, sogni forse semplici, per alcuni, ma grandi per altri, perché capaci di rendere umani al di là del luogo in cui ci si trova. Fuori dal carcere, sono in molti ad avere pregiudizi e timori su questa realtà, ma non sanno che anche le persone detenute hanno i loro timori e le loro paure: la paura di non riuscire a reinserirsi nella società una volta fuori o di essere giudicati e allontanati per il proprio passato. Bisogna sempre ricordare che il carcere non è un luogo esclusivamente punitivo, ma rieducativo. Esso è un luogo per crescere e capire, per accompagnare chi sbaglia nel cammino verso la libertà. Per questo bisogna spendere risorse ed energie, per migliorare le persone, per migliorare la nostra società. Grazie a questo stage abbiamo avuto l’opportunità di abolire stereotipi e pregiudizi sulla detenzione.
È importante capire che i detenuti sono esseri umani come noi e allontanare le idee che possono offuscare la mente. Appena si incontra una persona che è stata dentro partono i pregiudizi, anche se non sappiamo il perché. Cos’ha fatto? Perché? Come? Quali sono i suoi sogni? Quando è uscito? Tutto ciò non importa, eppure ci si focalizza sempre sul pensiero che “era un ex detenuto”, senza rendersi conto della “cella di parole” nella quale ci chiudiamo. Proprio per questo bisogna provare ad andare oltre ai nostri pregiudizi, a sconfinare e a superare le categorizzazioni. Solo così potremo essere veramente liberi. Dentro e fuori dal carcere.
Immagine di copertina: murales di Banksy sul carcere inglese di Reading
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“Molta gente scrive poesie che non sente pienamente. Lo faccio anch’io, a volte. Vita dura genera verso duro e con verso duro intendo un verso vero privo di orpelli.”
(CHARLES BUKOWSKI)
La mia Emilia
Emilia ti respiro
a strozzo il cuore
travolge il maestoso
seppur dormiente
accarezzato orizzonte.
Se salgo su quel ricordo
al galoppo
fulgido e profumato di grano
si espande.
Tondo il mappamondo
si appunta il mio cammino
solo di passi gli è concessa la conta
mentre la distanza tra qui e l’altrove
si misura a peso di campi arati
di volti invecchiati
di risate assordanti
di argini e pioppi argentati.
Emilia ti saluto
stappo la bottiglia
sola e solenne
ne conservo il sughero tinto
tra le mani come un gioco
scivola giù.
a sanare va quel foro
visibile tra il petto.
Amore son pronta
ti aspetto.
(Lidia Calzolari)
*
Idrogeno solforato
soffio di morte,
non lo sapevamo
non lo conosciamo.
Ma qualcuno lo poteva conoscere?
nessuna sfortuna
non una pallottola vagante
ma il contante.
C’è fretta,
ottimizziamo i tempi
va abbassato il costo orario
occorre fare lo straordinario.
Prima o poi
mi faranno fisso
io accetto tutto
anche l’abisso.
Non mancano le leggi
non mancan gli ispettori
manca il rispetto per la vita
dei lavoratori.
(Cristiano Mazzoni)
*
I giorni del glicine
All’improvviso
un profumo sorride
regala
una grazia di pace sopra il cuore.
Cascata gloriosa
colore d’orizzonte antelucano.
Fiorisce di memorie il muro antico:
sono i giorni del Glicine.
(Marta Casadei)
*
La sera
Tardi la sera
una luna rossa
riempie la valle
Senza sapere
penetra
tiepido sangue
nei campi
I nostri corpi stesi
e sotto l’erba
una terra bruna
Se Dio c’è
geme e trema
insonne
(Rita Bonetti)
*
Ricordi di maggio
E dopo un po’ di tempo
ritorna maggio.
Da bambino
era il mese del fioretto.
Ogni giorno
ad ogni scendiletto
mi guardavo attorno
per dare della gentilezza
un assaggio.
La bontà era un gioco
la fatica era poca,
bastava poco.
Alla fine del mese
come in un premio a punti
nella chiesa del paese
eravamo tutti compunti
per il raggiunto traguardo
sotto gli occhi della mamma
e del suo dolce e religioso sguardo.
(Pier Luigi Guerrini)
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
L’emergenza qualità dell’aria. Note e commenti al Rapporto “Mal’Aria di città 2024” di Legambiente
La lotta allo smog nelle città italiane è ancora in salita. I livelli di inquinamento atmosferico sono troppo lontani dai limiti normativi previsti per il 2030 e soprattutto dai valori suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. La salute dei cittadini è a rischio. Così inizia il comunicato di presentazione del rapporto di Legambiente Mal’Aria di Città 2024, presentato i primi giorni dello scorso mese di febbraio.
Il 2023, si legge in premessa del rapporto, “è stato un anno interlocutorio per le città italiane dal punto di vista dell’inquinamento atmosferico. Un anno con qualche luce e molte ombre”[Vedi qui la versione integrale del rapporto]
I valori complessivamente più bassi rispetto al 2022 sono infatti quasi esclusivamente riconducibili alle favorevoli condizioni metereologiche che hanno caratterizzato i mesi invernali di inizio anno e il periodo autunnale del 2023, specie per quanto riguarda le polveri sottili (PM 10 e PM 2.5 ) e gli ossidi di azoto (NO 2 ) registrati nei monitoraggi. “Questa la spiegazione, continua la premessa al report di Legambiente, che viene data dalle varie Agenzie Regionali per la Protezione Ambientale nei comunicati stampa usciti nelle prime settimane del 2024 relativamente ai dati dell’inquinamento dell’aria dell’anno appena trascorso”. Ciò è indubbiamente positivo per cittadine e cittadini che ogni giorno sono costretti a respirare aria con concentrazioni di inquinanti dannose per la salute. Meno positive sono le azioni, e la loro reale efficacia, introdotte da Governo nazionale, Regioni e amministrazioni comunali nel corso degli anni per fronteggiare questa emergenza ormai cronica che investe ogni anno il nostro paese.
Nonostante la leggera riduzione dei livelli di inquinamento di cui si è detto la “lotta allo smog nelle città italiane è ancora in salita” e, si legge nel comunicato stampa di Legambiente, “si fatica ad accelerare il passo verso un miglioramento sostanziale della qualità dell’aria”. I livelli attuali di inquinamento della maggior parte delle città italiane sono infatti stabili ormai da diversi anni, in linea con la normativa attuale, ma molto distanti da quelli che a breve (sono previsti per il 2030), verranno approvati dall’Unione Europea, ma, soprattutto, dai valori suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Tutto ciò evidenzia la necessità di un impegno più deciso e non più rimandabile da parte delle istituzioni nazionali e regionali per tutelare la salute delle persone [Guarda su Youtube]
Senza dubbio sono molto chiari i contenuti del report [1] che analizza i dati, riferiti ai capoluoghi di provincia italiani, dei livelli raggiunti, nel corso del 2023, dalle polveri sottili PM10 e PM2.5 e dal biossido di azoto NO2. Su 98 città monitorate 18 hanno superato i limiti normativi per gli sforamenti di PM10[2], mentre nel 2022 le città “fuorilegge” erano state 29 e 31 nel 2021. Con 70 giorni di sforamento (il doppio rispetto ai valori ammessi) è Frosinone la città in testa a questa poco meritevole classifica, seguita da Torino con 66, Treviso 63 e Mantova, Padova e Venezia con 62. Altre tre città venete superano il limite dei 35 giorni di sforamento: sono Rovigo, Verona e Vicenza, con rispettivamente 55, le prime due e 53 l’ultima. Milano registra 49 giorni, Asti 47, Cremona 46, Lodi 43, Brescia e Monza 40. Chiudono la lista Alessandria con 39, Napoli e Ferrara con 36 giorni di raggiungimento del limite di 50 microgrammi/m3, quest’ultima unica provincia dell’Emilia Romagna ad averli oltrepassati.
Nuovi limiti drasticamente più bassi rispetto a quelli in vigore in Europa sono stati suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2021 quando sono state aggiornate le linee guida sulla qualità dell’aria in seguito ai numerosi studi che hanno dimostrato come i gravi danni sulla salute non si presentino solo in seguito all’esposizione a livelli elevati di inquinanti, ma anche in caso di concentrazioni minori, raccomandando l’abbassamento della media annuale del particolato fine, PM2.5, a 5 µg/m3, quella del particolato inalabile, PM10, a 15 µg/m3, mentre per il biossido di azoto, NO2, a 10 µg/m3. In considerazione di tali raccomandazioni la Commissione Europea nel 2022 ha pubblicato una proposta di revisione delle direttive sulla qualità dell’aria che prevede diversi scenari di riduzione delle emissioni, propendendo però un’opzione intermedia rispetto ai limiti proposti da OMS. Quelli europei propongono entro il 2030 una riduzione per il PM10 da 40 a 20 µg/ m3, per il PM2.5 da 25 a 10 µg/ m3 e per NO2 da 40 a 20 µg/ m3. Viene inoltre prevista l’introduzione di una soglia di 25 µg/ m3 per la media giornaliera per il PM2.5 e di 50 µg/ m3 per l’NO2, da non superare per più di 18 giorni all’anno, mentre l’abbassamento della soglia preesistente per il PM10, passerebbe da 50 a 45 µg/ m3 per un massimo di 18 superamenti in un anno.
Il report di Legambiente afferma quindi che, rispetto ai valori più stringenti proposti dalla revisione della Direttiva europea sulla qualità dell’aria, che entrerà in vigore dal 2030,le città italiane, da Nord a Sud, presentano ancora notevoli ritardi, una tendenza la cui rotta difficilmente potrà essere invertita. In “aiuto” alla complessa realtà italiana può venire la posizione negoziale del Consiglio Europeo che, al fine di garantire una maggiore flessibilità agli Stati per attuare la direttiva, ha introdotto una proroga al 1° gennaio 2040, indebolendo notevolmente però l’iniziativa della Commissione molto più in linea con gli obiettivi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’8 marzo scorso da parte del Consiglio Europeo è stato emesso un comunicato stampa[3] titolato Qualità dell’aria: Consiglio e Parlamento raggiungono un accordo per rafforzare le norme nell’UE, dove, a inizio documento, viene scritto che “La presidenza del Consiglio e i rappresentanti del Parlamento europeo hanno raggiunto oggi un accordo politico provvisorio su una proposta tesa a definire a livello di UE standard di qualità dell’aria da raggiungere nell’ottica di realizzare l’obiettivo di inquinamento zero, contribuendo così a un ambiente privo di sostanze tossiche nell’UE entro il 2050”. L’accordo provvisorio, pur ribadendo i principi espressi dalla Commissione nel 2022, offre agli Stati membri la possibilità di chiedere, entro il 31 gennaio 2029 e per motivi specifici e a condizioni rigorose, un rinvio del termine per il raggiungimento dei valori limite di qualità dell’aria[4].
Tornando a quanto contenuto report Mal’Aria di città, risultano di notevole interesse alcune infografiche presenti, che, riportando le 11 città italiane più inquinate da PM10 e le 9 da PM2.5, mostrano le riduzioni percentuali necessarie per il rispetto dei nuovi limiti al 2030 (fatte salve le eventuali eccezioni del Consiglio Europeo sopra citate). Per ambedue gli inquinanti considerati non sono presenti città della nostra regione, ma va fatto notare che ben 10 sulle 11 città con maggiore inquinamento da PM10 sono quelle collocate nelle regioni padane, che sono il Veneto con 6, la Lombardia con 3 e il Piemonte con 1[5], mentre per le PM2.5 le 9 città maggiormente inquinate sono 5 in Lombardia e 4 nel Veneto. Nel primo caso le città che necessitano della maggioreMal’Aria di città percentuale di riduzione sono Verona, Vicenza e Padova (37%), mentre nel secondo è Padova con il 58%. Per quanto riguarda il biossido di azoto NO2 i risultati peggiori in termini di riduzioni sono stati registrati in 4 città dell’area padana (3 lombarde e 1 piemontese) e poi da Napoli (che con il 48% presenta il valore massimo di riduzione), Palermo, Catania e Roma sulle 8 considerate nell’infografica.
Oltre ai valori che riguardano la concentrazione giornaliera di PM10, 50 μg/m3, da non superare
per più di 35 volte nell’arco dell’anno, un altro parametro da tenere presente è quello che misura l’esposizione della popolazione nel lungo periodo, cioè la concentrazione media annua di tutte le centraline presenti in un comune, il cui limite è fissato dalla legge italiana a 40 μg/m3. Come negli anni precedenti, è scritto nel rapporto, nessuno in Italia ha superato tale limite, anche se numerose sono le città che presentano valori elevati: Padova, Verona e Vicenza hanno fatto registrare valori medi di 32 μg/m3, Cremona e Venezia 31 μg/m3, mentre per Brescia, Cagliari, Mantova, Rovigo, Torino e Treviso la media è stata di 30 μg/m3. Si noti che a parte Cagliari, tutte le altre città fanno parte della pianura Padana.
Ma, come fa notare Mal’Aria di città, la situazione cambia totalmente se si considerano i nuovi limiti previsti dalla revisione della direttiva, i quali, fissando la soglia in 20 μg/m3 a partire dal 2030 portano oltre il 70% delle città a superare la soglia ritenuta più sicura per la salute dei cittadini. E’ allora necessario assumere al più presto quelle soluzioni che permetteranno un taglio netto delle concentrazioni nel minor tempo possibile. Viene stimato che la riduzione necessaria a raggiungere i valori fissati al 2030 si attesti attorno al 33% per le città con concentrazioni medie di 30 μg/m3 e al 37% per quelle con valori superiori (32 μg/m3).
Stesse considerazioni possono essere fatte per il particolato PM2.5, tra i più dannosi per la salute umana: a causa delle sue dimensioni inferiori a 2,5 micrometri, esso è in grado di penetrare in profondità nei polmoni, e, secondo le stime dell’Agenzia Europea dell’Ambiente, si stima che nel 2021 in Europa siano state circa 253 mila le morti premature a causa del PM2.5. L’Italia detiene, in questa triste classifica, il secondo posto, con circa 46.800 morti, ed è questo il motivo per cui è fondamentale tenere il PM2.5 sotto osservazione. Questo inquinante, nell’ambito di questa indagine, è stato misurato in 141 centraline distribuite in 87 città. La nota positiva, conclude il report, è che il limite normativo attuale di 25 μg/m3 è stato rispettato da tutte le città, anche se sono molte quelle dove sono stati registrati valori molto prossimi: Padova (24 μg/ m3); Vicenza (23 μg/ m3); Cremona e Treviso (21 μg/ m3); Bergamo e Verona (20 μg/ m3); Brescia, Pavia e Piacenza (19 μg/ m3). Ma anche in questo caso le prospettive non sono rosee, dato che nel momento in cui il limite adottato sarà quello dei 10 μg/ m3 solo 14 città rispetterebbero tale soglia. Ancora più negativa appare la situazione se si considera il limite stabilito dall’OMS di 5 μg/m3 come soglia per la tutela della salute.
Anche per il biossido di azoto si possono fare considerazioni analoghe a quelle fino ad ora descritte. Per l’OMS questa è tra le sostante più inquinanti, la cui esposizione eccessiva risulta dannosa per la salute umana, sia nel breve periodo, causando problemi all’apparato respiratorio e alle mucose, sia nel lungo termine: secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, in Italia, 11.300 sono le morti attribuite a un’esposizione eccessiva all’NO2 nel 2021, e questo è uno tra i numeri più alti in Europa. L’NO2 inoltre presenta un rilevante impatto sull’ambiente, in quanto contribuisce ai fenomeni di smog fotochimico, eutrofizzazione e piogge acide. Nell’ambito di questa indagine sono stati raccolti dati sui livelli medi di concentrazione di biossido di azoto, utilizzando 205 centraline distribuite in 91 città. Nel 2023 il limite normativo di 40 μg/m3 è stato rispettato da tutte le città monitorate, e anche in questo caso la situazione cambia considerando il valore di riferimento di 20 μg/m3 previsto dalla revisione della direttiva per il 2030: ad oggi ben 45 città (il 50% del campione analizzato) non rientrerebbero nei nuovi limiti, e, come nei casi precedenti, la situazione appare ancor più critica se si prende in considerazione come valore di riferimento il limite proposto dall’OMS di 10 μg/m3. In questo caso ben il 92% delle città superando tale soglia risulterebbero fuori norma. Situazione molto preoccupante quindi se si pensa che per rientrare nei limiti previsti per il 2030, il doppio di quanto proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per una città come Napoli sarebbe necessario ridurre la concentrazione di NO2 del 48%, mentre Milano e Palermo nei prossimi 6 anni dovrebbero diminuirla rispettivamente del 42% e 40%.
In conclusione, e in continuità con quanto scritto nel recente articolo[6]La qualità dell’aria a Ferrara. Il 2024 inizia in modo preoccupante, vengono riportati e commentati i dati degli sforamenti del particolato PM10 degli ultimi 4 anni (2020-2023) relativi alle provincie emiliano romagnole, premettendo che il conteggio è stato effettuato considerando il totale degli sforamenti annui indipendentemente dalle centraline che hanno registrato il superamento del limite giornaliero. Nel report di Legambiente invece vengono riportati i risultati dei monitoraggi delle ARPA regionali che sono riferiti alla sola centralina che ha registrato il massimo numero di sforamenti per ogni provincia. Come esempio si consideri che ARPAE, per la provincia di Ferrara nell’anno 2023, indica 36 giorni di superamento registrati dalla centralina denominata Ferrara Isonzo, senza considerare che, oltre a queste, vi sono state 2 giornate nel corso dell’anno che hanno registrato un superamento del limite dei 50 microgrammi/m3 da parte di altre centraline della provincia. Secondo questo calcolo il numero di sforamenti considerato risulta quindi maggiore e corrisponde a 38.
Di seguito viene riportato in numero di sforamenti annui delle annate dal 2020 al 2023. In grassetto i valori che hanno oltrepassato o raggiunto il limite dei 35 giorni previsto dalla normativa.
2020
2021
2022
2023
Piacenza
53
54
60
34
Parma
58
51
51
27
Reggio Emilia
63
58
71
38
Modena
79
69
89
45
Bologna
45
39
48
22
Ferrara
73
45
65
38
Forlì-Cesena
49
29
34
23
Ravenna
60
38
41
32
Rimini
56
36
41
34
* in grassetto i giorni che hanno superato i limiti previsti dalla normativa (35)
Si noti che, ad esclusione della provincia di Forlì-Cesena, fuori norma solo nel 2020, nel triennio 2020/22 tutte le provincie della regione oltrepassano il limite, in alcuni casi anche di oltre il doppio (Modena e Ferrara nel 2020, Modena e Reggio Emilia nel 2022), mentre altre mostrano valori molto elevati. E’ altrettanto evidente il “miglioramento” registrato nel 2023, quando, ad esclusione di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, le rimanenti provincie rimangono al di sotto dei 35 giorni di sforamento. Miglioramento però, come detto in altra parte dell’articolo, quasi certamente causato dalle favorevoli condizioni meteorologiche piuttosto che da azioni virtuose intraprese nella direzione della diminuzione delle emissioni degli inquinanti presenti nell’aria che respiriamo. L’osservazione dei dati, quindi, non lascia dubbi su quanto ancora ci sia da fare. Un’ultima annotazione riguardo a Ferrara. Pur in calo, ma con un dato alquanto elevato nel 2022, come del resto per quasi tutte le provincie emiliano romagnole, la nostra provincia, nel 2023, ultimo anno di osservazioni, assieme a Modena e Reggio Emilia, registra il superamento del limite dei 35 giorni, come da normativa, di “soli” 3 giorni, almeno fino a quando questa saranno adottati gli aggiornamenti secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale di Sanità.
Infine, un accenno all’inquinamento da Ozono (O3), che merita particolare attenzione, e che, lo si ricorda, per tossicità e per i livelli di concentrazione che possono essere raggiunti è tra quelli che maggiormente incide sulla salute umana. Negli ultimi cento anni la concentrazione di ozono negli strati più bassi dell’atmosfera è raddoppiata e sono sempre più ricorrenti e pericolosi i picchi estivi. La provincia di Piacenza, la più “continentale” della regione, dal 2019 è quella che ha visto una sostanziale crescita della quantità di ozono nell’aria e dei conseguenti giorni di superamento dei limiti consentiti dalla normativa[7], che nel 2023 sono stati 90. Le provincie della regione che lo scorso anno hanno raggiunto livelli elevati di questo inquinante, i cui sforamenti sono concentrati nei mesi con le temperature più alte, in pratica da maggio a settembre, sono state Reggio Emilia (79), Parma (77) e Modena (68). Le altre, più vicine al mare, pur oltrepassando i valori di sicurezza, hanno presentato valori più ridotti (Ravenna e Forlì-Cesena le più basse con 37). Ferrara con 57 giorni di superamento nel 2023 ha mostrato, negli ultimi cinque anni di rilevazioni, un certo equilibrio dei livelli di inquinamento, a differenza di altre provincie dove invece si è assistito ad una crescita costante della presenza di ozono, specie nel triennio2021-23.
Gian Gaetano Pinnavaia, candidato nella lista La Comune di Ferrara per Anna Zonari Sindaca
[7]Il Decreto Legislativo 155/2010 stabilisce per la protezione della salute umana un valore limite orario (200 µg/m³ di concentrazione media oraria da non superare più di 18 volte in un anno) e un valore limite annuale (40 µg/m³).
Vite di carta. Alfonsina Strada, la regina della pedivella.
Sabato 4 Maggio ha preso il via l’edizione numero 107 del Giro d’Italia: 3.400 km di percorso in bicicletta distribuito in 21 tappe e con due giorni soli di riposo per i 176 partecipanti.
Esattamente cento anni fa anche una donna, Alfonsina Strada, si presentò alla partenza in una grigia alba milanese, numero 72 su 90 corridori presenti, pronti ad affrontare la fatica di dodici lunghe tappe su strade dissestate e salite impervie. Una tappa e un giorno di riposo, fino all’arrivo a Milano il 1° Giugno.
Il 26 maggio, data in cui il Giro della edizione 2024 si concluderà, Alfonsina ebbe un incidente grave, cadde e riportò diverse contusioni e tagli. Di più: ruppe la bicicletta e per ripararla alla meno peggio riportò un enorme ritardo all’arrivo e fu squalificata.
Ma. Ci sono due ma: il primo è che arrivò al traguardo a Perugia con un pezzo di legno montato al posto delmanubrio, aiutata da una contadina che si era privata della propria scopa per ripararle la bici e le aveva fatto coraggio in un dialetto sconosciuto.
Il secondo è che spese fino all’ultima goccia di sudore e di fatica pur ditenere fede all’impegno che aveva preso con se stessa: arrivare fino in fondo. Arrivò fuori classifica ma finì tutte le tappe come si era ripromessa.
Cosa voleva dimostrare. Voleva seguire quella passione che le si era rivelata da bambina, quando aveva sottratto la bici al padre e di notte aveva provato l’ebbrezza più bella, pedalare per andare oltre i confini dellasua infanzia nella miseria della campagna bolognese.
Voleva dimostrare a sé prima che agli altri di non essere “carne di scarto” in quanto donna, di avere diritto a seguire il proprio talento. Superare i limiti per un di più di conoscenza e di esperienza, questo la spingeva a sopportare la fatica.
Come racconta Simona Baldelli nel suo bel libro Alfonsina e la strada, uscito presso Sellerio nel 2021, pedalare è stato lo stigma di una vita per la corridora di Fossamarcia di Castenaso.
Labicicletta, avrebbe detto Montale, il suo amuleto per passare tra le insidie della grande guerra e poi del fascismo, dei lutti familiari e della miseria nel secondo conflitto mondiale. E per farcela.
Il 30 maggio 1924, mentre Alfonsina disputava la terzultima tappa del Giro, Giacomo Matteotti avevadenunciato in Parlamento che le elezioni di due mesi prima erano state inficiate da gravi brogli, “dunque andavano annullate e rifatte da capo.
In molti erano pronti a scommettere che non l’avrebbe passata liscia e che il Duce avrebbe trovato il modo di zittirlo per sempre. C’era nell’aria il preambolo di un futuro terribile e la gente cercava di nascondere nell’entusiasmo per il Giro la paura di qualcosa di brutto, vicino a venire”.
In questo frangente della storia, la corridora fece il giro d’onore al Velodromo Sempione e incassò finalmente il plauso della folla. Quanto a Mussolini, che diceva di volerla incontrare, ma poi aveva avuto altro a cui pensare, Alfonsina “si risparmiò volentieri” la sua stretta di mano.
Pedalando per una vita aveva dovuto sopportare ben altre fatiche, fatiche psicologiche ed emotive più pesanti ancora di quelle fisiche. Aveva raccolto forse più ostilità che sostegno intorno a sé, a cominciare dallasua famiglia.
Veniva spesso chiamata la pazza per la sua passione che era da maschi e per la spinta a osare, a guardare verso la luna. Raccoglieva offese durante le gare, anche dalle donne stesse che non le perdonavano l’abbigliamento maschile e il taglio inusuale dei capelli.
Va letto il libro di Simona Baldelli per assorbire le cento traversie della sua vita e apprezzare le vittorie riportate sulla bicicletta, per conoscerne la sensibilità generosa verso gli altri e la capacità di fare anche le scelte più dolorose.
I suoi due mariti, Luigi e poi alla morte di questi Carlo, l’avevano davvero sostenuta. Del primo era lei stessa a ricordare le parole di incoraggiamento, nei momenti più bui: “Come sei bella sulla bicicletta, Fonsina, non scendere mai”.
Pare che davvero Alfonsina non scenda più, specie da quando, l’11 Luglio 2017, porta il suo nome una strada di Milano.
Nota bibliografica:
Simona Baldelli, Alfonsina e la strada, Sellerio, 2021
Le immagini della cover e nel testo sono tratte da Wikipedia
Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice
L’Italia delle armi: cresce la spesa militare sia in Italia che in tutta Europa
Le spese militari dei paesi Nato membri dell’Unione Europea sono aumentate negli ultimi 10 anni di quasi il 50% (da 145 miliardi del 2014 ai 215 miliardi di euro nel 2023 (230 mln di dollari) a prezzi costanti 2015 (fonte: Nato). Si tratta di un importo superiore al Pil annuale del Portogallo. Con la guerra in Ucraina, le spese militari per il 2023 dovrebbero aumentare di quasi il 10% in termini reali rispetto al 2022.
I paesi Nato dell’Ue spendono l’1,8% del loro Pil per le forze armate. In un decennio, l’Italia ha aumentato la spesa militare reale (a prezzi costanti) del 26%.
Le spese più in crescita sono per acquisto di armi ed equipaggiamenti e le importazioni di armi da paesi esterni sono triplicate tra il 2018 e il 2022, metà delle quali proviene dagli Stati Uniti (fonte: Sipri).
Non stupisce quindi che gli Usa spingano per arrivare al 2% del Pil della spesa militare in Europa in quanto ciò significa aumentare l’import di armi dagli Usa.
Nel decennio 2013-2023, la spesa militare è cresciuta in Italia, come si diceva, del 26%, mentre il Pil cresceva del 9%, l’occupazione del 4%, la spesa pubblica del 13%, la spesa per la salute dell’11% e quella per l’istruzione del 3%. La priorità per le risorse pubbliche è stata il sistema militare anziché la spesa sociale.
Per documentare queste politiche di riarmo e le loro conseguenze Sbilanciamoci! e Greenpeace hanno realizzato l’ebook “Economia a mano armata 2024. Spesa militare e industria delle armi in Europa e in Italia” che si può scaricare dal 2 maggio sul sito Sbilanciamoci.info.
L’ebook ha la prefazione di Carlo Rovelli (che anche il Corriere della Sera ha pubblicato il 1° maggio), il quale rammenta che siamo in una situazione molto rischiosa in quanto la valutazione periodica degli scienziati del Buletin of the Atomic Scientistis indicano un livello di rischio (di conflitto nucleare) mai raggiunto in passato. Si parla apertamente di conflitto atomico tra Russia e NATO. Si tratta di darsi tutti una calmata e come dice Rovelli “trovare leader ragionevoli che cercano soluzioni e non soffino sul fuoco. La maggiore responsabilità è sulle spalle dell’Occidente, perché detiene ancora, per ora, il potere dominante e può decidere se accettare la rinegoziazione dell’equilibrio resa inevitabile dalla diffusione della prosperità diffusa nel mondo o rimanere arroccato a qualunque costo alla sua attuale posizione di dominio. L’Europa al momento sembra spersa e purtroppo l’Italia è in prima linea (nel riarmo), mentre altri paesi come Irlanda, Spagna, Austria cercano posizioni di equilibrio e neutralità”. Peccato perché l’Italia ha avuto per 50 anni nel dopoguerra una posizione molto apprezzata dal resto del mondo e dai paesi “non allineati” (nonostante fossimo nella NATO): un patrimonio di fiducia e di ruolo diplomatico strategico nel mondo che stiamo gettando al vento.
Una parte rilevante dell’ebook è dedicata alla traduzione italiana del Rapporto di Greenpeace “L’Europa delle armi. La spesa militare e i suoi effetti economici in Germania, Italia e Spagna”, pubblicato in inglese nei mesi scorsi, da cui sono tratti i dati sopra riportati. Lo studio analizza la crescita della spesa militare in Europa nel quadro dell’andamento delle economie, mettendo a confronto gli effetti su crescita e occupazione della spesa per armi e della spesa sociale e ambientale. I risultati mostrano che spendere per le armi è un “cattivo affare” – anche solo in termini puramente economici – rispetto a investire in campi civili.
L’intreccio tra spese militari e industria delle armi è analizzato da Francesco Vignarca, responsabile della Rete italiana per la pace e il disarmo. Raul Caruso esamina la questione dell’integrazione europea nella spesa militare. Sofia Basso, che ha coordinato il lavoro per l’ebook, presenta un quadro delle missioni militari all’estero che hanno l’obiettivo di proteggere le fonti energetiche nei paesi in conflitto. Un contributo importante è quello di Gianni Alioti che presenta la struttura del settore, la classifica delle maggiori imprese delle armi – da Leonardo a Fincantieri -, la gerarchia esistente tra i produttori, la scala multinazionale delle attività, la dimensione finanziaria che diventa sempre più importante, i dati sull’occupazione. Un approfondimento sul caso del nuovo caccia Tempest, un’inconsueta co-produzione internazionale che coinvolge l’Italia, è offerto da Guglielmo Ragozzino, mentre Giorgio Beretta presenta il quadro delle esportazioni italiane di armamenti, mostrando le responsabilità del nostro paese nei conflitti in corso.
I contributi del volume documentano come la maggior spesa militare non porti a una maggior sicurezza ma al contrario conduca l’Italia e l’Europa lungo una traiettoria di minore prosperità economica, minore creazione di posti di lavoro e peggiore qualità dello sviluppo. Le alternative – maggiori spese per l’ambiente, l’istruzione e la sanità – avrebbero effetti economici più positivi sulla produzione e sull’occupazione, e contribuirebbero ad affrontare i problemi sociali e ambientali che abbiamo di fronte.
Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore
Negli Stati Uniti l’ondata di solidarietà con la Palestina continua nonostante la dura repressione. Secondo l’Associated Press, la polizia ha arrestato finora più di 2.500 studenti che si erano accampati nelle loro università, chiedendo di disinvestire dalle aziende che traggono profitto da gravi violazioni dei diritti umani e/o dall’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Gli ultimi arresti sono avvenuti all’University of Virginia, all’Art Institute di Chicago e all’University of Southern California.
Alla Columbia University gli Independent student workers invitano ad aderire a uno sciopero mettendosi in malattia fino a quando non verranno accolte le richieste di amnistia per gli studenti pro Palestina e di allontanamento della polizia dal campus.
Sabato all’Università del Michigan, studenti che tenevano in mano bandiere palestinesi hanno brevemente interrotto le cerimonie di laurea, mentre un aereo volava sopra di loro con uno striscione con gli slogan: “Disinvestite da Israele ora! Palestina libera!”. All’Università dell’Indiana alcuni studenti hanno abbandonato la cerimonia di consegna dei diplomi di sabato e hanno fischiato il preside. Un aereo ha sorvolato la cerimonia trascinando uno striscione con una bandiera palestinese e la scritta “Lasciate vivere Gaza”.
Non tutti gli atenei scelgono la linea dura: quattro grandi università americane – Brown, Northwestern, Rutgers e UC Riverside – hanno concordato la pubblicazione e la “revisione” di tutti gli investimenti legati a Israele, come richiesto dagli studenti.
La protesta continua anche in Europa. Al Trinity College di Dublino uno studente ha reagito alle critiche per aver costruito una barricata di panche per impedire l’accesso all’edificio che ospita l’antico manoscritto detto Book of Kells (ora chiuso a tempo indefinito) dichiarando: “Le panche possono tornare alla loro posizione originale, ma le migliaia di uomini, donne e bambini palestinesi assassinati da Israele no. Loro non ci sono più.” “Non si può andare avanti come se nulla fosse davanti a un genocidio. Il Trinity College deve tagliare ogni relazione con lo Stato d’Israele” ha affermato László Molnárfi, presidente del sindacato studentesco.
Foto di https://twitter.com/TCDSU_President
Nel Regno Unito alle università di Manchester,Sheffield, Newcastle, Bristol, Warwick, Liverpool, Londra, Edimburgo e Leeds si sono unite quelle di Cambridge e Oxford. Il gruppo Cambridge for Palestine ha montato un accampamento dichiarando: “Ci rifiutiamo di restare a guardare mentre l’università sostiene il genocidio attuato da Israele a Gaza.”
Foto di Cambridge for Palestine
A Edimburgo è stato montato un accampamento davanti al Parlamento scozzese. Gli attivisti chiedono l’embargo sulle armi, il disinvestimento pubblico e accademico, il riconoscimento del genocidio di cui il Regno Unito è complice, il diritto di protestare e la tutela del diritto di boicottaggio. Decine di loro hanno intrapreso uno sciopero della fame a tempo indeterminato.
Foto di copertina : accampamento solidale ad Edimburgo – Resistance News Network
Fonti:
Democracy Now!
CU Apartheid Divest
Cambridge for Palestine
Resistance News Network
Ieri lunedì 6 maggio si è tenuto un festoso aperitivo di inaugurazione della sede del comitato elettorale della candidata sindaca Anna Zonari, situata in via RIPAGRANDE 28. Le risorse per finanziare la sede arrivano direttamente dall’autofinanziamento di candidate/i e attiviste/i, nonché dalla raccolta fondi promossa attraverso sito e social.
Ringraziamo chi ha contribuito e chi vorrà farlo nei prossimi giorni. La sede ci serve come luogo di incontro, dove le persone interessate potranno trovare
materiale informativo e un orecchio attento, in ascolto dei bisogni e delle sensazioni di chi abita la città. La sede sarà aperta mattina 9-12 e pomeriggio 15-18 indicativamente, secondo la disponibilità di candidate/i e attiviste/i.
L’inaugurazione della sede è stata impreziosita dalla mostra personale della pittrice Stephani Nwobodo. Stephani Nwobodo nasce a Ferrara nel 1997 da genitori nigeriani risiedenti in Italia dalla fine anni Settanta.
Il legame con la famiglia e le proprie radici è da sempre un elemento fondamentale per l’artista. Dal 2012 fino al 2017 studia presso il Liceo Artistico Dosso-Dossi di Ferrara dove si specializza in Discipline Pittoriche e scultoree. Dal 2017 fino al 2022 prosegue gli studi all’Accademia di Belle Arti di Venezia, si laurea in Arti Visive specializzandosi in Tecniche dell’Incisione calcografica. La ricerca
effettuata durante gli anni accademici si è incentrata sul concetto di afrocentrismo come affermazione della cultura africana ed esaltazione dei valori tradizionali che le appartengono. I lavori si sviluppano attraverso la rappresentazione di forme astratte collocate in ambienti indefiniti.
Ufficio Stampa La Comune di Ferrara per Anna Zonari Sindaca
“Forse non tutti sanno che”, di Michela Nodari e Matilde Tacchini, è un nuovo albo di Kite edizioni uscito in libreria ieri, che racconta come arrivare a destinazione.
Forse non tutti sanno che c’è modo e modo di viaggiare, di arrivare a destinazione.
Uno è dirigerci lì direttamente, l’altro è arrivarci per vie traverse, indirette, non lineari.
E se viaggiassimo insieme a una cicogna, ammirando con lei la terra da lassù, osservando mari, monti, prati, colline, pianure e deserti, con libertà, leggerezza, coraggio e curiosità?
Sembra che gli antichi egizi adorassero le cicogne, credendo che queste si prendessero cura dei propri genitori ormai anziani. Dall’Asia all’Europa, passando per il Medio Oriente, la cicogna è, da sempre, simbolo dell’amore tra genitore e figli.
Se fa freddo, la cicogna parte, attraversa il mare per giorni e giorni. Sempre dritto, senza distrarsi, senza giocare con le nuvole, senza chiacchierare con le rondini, senza fermarsi a guardare i buffi animali del deserto. Senza perdersi. O quasi, perché se, per caso, perde la strada, la ritrova immediatamente. Riconoscendo gli animali giusti a cui chiedere.
Si tende spesso a pensare che il modo diretto sia preferibile, sia il migliore, il più rapido e sicuro, ma il modo trasversale permette di ottenere altre ricchezze, anche se costa più tempo, impegno, sforzo e fatica. Andare su e giù per il mondo, con la curiosità che tutto guida ed è il vero sale della vita, zigzagando fra gli ostacoli e dribblando le difficoltà, è la vera ricchezza che ci è stata regalata. Senza mai arrendersi. Scegliendo. Si torna sempre lì.
Un albo che racconta cosa fanno tutte le cicogne, tranne una, allegra, curiosa e impavida.
Il voler essere quell’una sarà la sola e unica soluzione.
“Forse non tutti sano che, per arrivare in Africa, alcune cicogne volano sempre dritto. Altre, invece, no”
Michela Nodari (Autore), Matilde Tacchini (Illustratore), Forse non tutti sanno che… , Kite edizioni, Padova, 2024, 32 p.
Periscopio si definisce “quotidiano glocal”, perché parte spesso dall’analisi di un fenomeno locale per allargare lo sguardo alla situazione globale. Questo dibattito, che parte dalla situazione della sanità nel vicino Polesine – terra affine al ferrarese molto più di certe realtà emiliane – per poi toccare problemi e prospettive comuni a tutto il territorio nazionale, ci è sembrato calzare perfettamente alla nostra filosofia editoriale.
In questi giorni la stampa rodigina ha ospitato un botta e risposta sullo stato della sanità pubblica nel Polesine. Al grido d’allarme di Riccardo Mantovan, segretario provinciale della Funzione Pubblica CGIL Rovigo,qui, ha replicato piccato il DG della ULSS 5 Pietro Girardi, qui. Abbiamo quindi chiesto a Riccardo Mantovan di esplicitare ulteriormente le sue preoccupazioni.
Periscopio: Riccardo, faccio finta di essere un alieno catapultato sul pianeta Terra, destinazione ospedali del Polesine. Leggo sulla stampa locale il tuo grido di allarme su: ferie sospese, aspettative non concesse per carenza di personale e contemporaneamente il paradosso delle graduatorie per assunzioni bloccate o che vanno al rallentatore, coordinatori che rinunciano all’incarico. Poi leggo il DG dell’Ulss 5 che dice che in tre anni i medici sono aumentati di 49 unità, più 141 infermieri in cinque anni, più 30 OS, più 34 amministrativi. Aiutami a capire.
Riccardo Mantovan: il DG ha fatto volutamente un primo confronto con l’anno pre-pandemia, nel quale i numeri del personale in servizio avevano raggiunto i minimi storici. Se poi consideriamo che dopo l’unione delle due ULSS Polesane si erano aggiunte nuove unità operative, le insufficienze di organico avevano assunto accenti drammatici. La tragedia della pandemia ha esacerbato i problemi di un sistema sanitario infinitamente deficitario già nella gestione ordinaria, in maniera particolare nel settore risorse umane. In quel frangente era inevitabile procedere ad assunzioni di ogni tipologia per tamponare una situazione gravissima di carenza di personale. Pertanto, utilizzare come riferimento i numeri pre-pandemia per evidenziare un aumento di organici può essere considerata una furba strategia mediatica di veicolazione di un messaggio pro domo propria. Resta il fatto oggettivo che la Direzione Generale ha formalmente comunicato alla parte sindacale la carenza di 100 medici. Noi non abbiamo fatto altro che comunicarlo anche alla cittadinanza, per segnalare la gravità della situazione. Aggiungiamo che in ULSS 5 la percentuale dei part time assegnati tocca mediamente l’8%, quando il CCNL prevede un tetto del 25% con possibilità di aumento di un ulteriore 10% attraverso la contrattazione aziendale. Questo otto per cento non dipende dalla mancanza di richieste. Le richieste ci sono eccome e provengono da lavoratrici madri con una famiglia ed una necessità di equilibrare il tempo di lavoro con il tempo di vita. Queste richieste di part time vengono spesso negate e con quale motivazione? La carenza di organici! E’ questa amministrazione stessa ad affermarlo. In questa ULSS, sempre per lo stesso motivo, non trovano risposta le richieste di ferie o di permesso. Diventa persino complicato concedere un permesso per motivi di lutto! Ci sono turni di lavoro che variano giorno per giorno, e sapete perchè? Perchè gli organici non sono adeguati in previsione delle assenze “improvvise” che in ogni luogo di lavoro si verificano e dovrebbero, invece, essere messe in conto e fronteggiate in anticipo. Se a questo aggiungiamo il numero elevato di dipendenti con il diritto all’utilizzo dei 3 giorni di permesso mensili e l’altissimo numero di dipendenti con limitazioni mediche, la carenza di personale diventa vertiginosa e di conseguenza salgono i carichi di lavoro, lo stress ed il clima diventa rovente. Ecco: forse adesso i numeri forniti dal DG assumono un valore ed un significato diversi.
P: per l’opinione pubblica, in epoca Covid affamata di retorica e impaurita dalla pandemia, il personale sanitario era composto da “eroi”. Fammi qualche esempio di come è stato riconosciuto il loro eroismo: nella realtà che conosci, i sanitari sono messi nelle condizioni adeguate per lavorare in sicurezza in termini di dotazioni e risorse? Le retribuzioni sono state adeguate al loro eroismo?
RM: la pandemia è stata causa di enormi cambiamenti che hanno investito una società già alle prese con tante difficoltà quotidiane. In una specie di vortice psichiatrico ha creato momenti di grande aggregazione e molti altri di grande paura, sofferenza e rabbia. Questi stati d’animo si sono consolidati nella società di oggi, più attenta alle questioni personali che a quelle collettive. Da fannulloni ad eroi e da eroi a fannulloni è stato un attimo. Siamo già rientrati in un presente che aumenta in maniera importante il rischio di aggressioni in ambito lavorativo. I servizi di front office sono quelli più a rischio: tra questi evidenzierei i Pronto Soccorso ed i Consultori, dove le condotte aggressive sono all’ordine del giorno. È chiaro che le carenze di organico diminuiscono in maniera esponenziale i livelli di sicurezza operativa sia dal punto di vista personale che professionale. Peraltro, proprio in queste due unità operative i sistemi di tutela e sicurezza messi a disposizione dall’ULSS sono impercettibili. Diminuzione della sicurezza e aumento di responsabilità e rischi operativi non sono andate di pari passo con un adeguamento degli stipendi. Tutt’altro. Nel nostro paese, gli stipendi dei sanitari sono molto al di sotto della media europea. A questo proposito, con specifico riferimento all’ULSS 5, pur avendo firmato un accordo aziendale sulle progressioni economiche 2023 che avrebbe dovuto portare qualche soldino nelle tasche dei lavoratori, al 30 di aprile 2024 è ancora tutto bloccato. Piccola parentesi da valutare in ordine al significato dei numeri snocciolati dal DG: per la copertura delle assenze improvvise si impegnano ogni anno circa 300.000 euro (non dal bilancio aziendale, ma dai fondi di “comparto” che servirebbero da CCNL a pagare tutte le voci extra stipendio base) per incentivare i lavoratori a fare doppi turni. Ecco, quei lavoratori stanno ancora aspettando i soldi dei turni aggiuntivi del 2023.
P: leggo anche di una vostra accusa di “immobilismo” della Direzione Professioni Sanitarie. Al solito alieno che cerca di capire, potresti chiarire cosa intendi per “immobilismo”?
RM: il primo luglio 2022 é stata attivata per la prima volta in questa ULSS la Unità Operativa Complessa della Direzione delle Professioni Sanitarie. Unità Operativa prevista strategicamente dalla regione per il coordinamento, la programmazione operativa, l’organizzazione del lavoro, la gestione ordinaria e straordinaria di tutto il personale del comparto di area sanità e sociale. In pratica, tolti amministrativi e tecnici non sanitari parliamo di circa 2000 lavoratori, tre ospedali e punti sanità presenti nei 2 Distretti del territorio. Dopo esattamente 22 mesi dall’attivazione di questa U.O. nulla ancora si è visto uscire da quell’ufficio. Pensate che in 22 mesi di “operatività” ci sono Coordinatori che neanche sanno che faccia abbia il loro Direttore. Sta su una nuvola,occupa uno spazio fisico nell’ospedale HUB di Rovigo ma di fatto nessuno si è mai accorto della sua esistenza, lontano anni luce dai problemi contingenti: il problema della carenza degli organici e della deficitaria organizzazione del lavoro nasce anche da questa distanza.
P:I dipendenti pubblici del settore sanitario sempre più spesso scelgono di abbandonare un impiego sicuro nel pubblico per andare a lavorare nel privato, nonostante nel cambio non abbiano, a volte, nemmeno un miglioramento retributivo. Le ragioni di questo travaso in parte le hai già dette. Ce ne sono altre?
RM: negli ultimi 15 anni la pubblica amministrazione in generale ha subito un attacco inaudito, capitanato dal signor Brunetta, quando faceva il ministro. Lui ha dato il via ad una campagna denigratoria del servizio pubblico che ha avuto la conseguenza di renderlo meno attrattivo ed interessante. Se a questo aggiungiamo: stipendi più bassi rispetto a molti contratti di tipo privato; maggiori responsabilità e rischi, che trovano sempre più spesso rilevanza penale; condizioni di lavoro nettamente peggiori; viene spontaneo pensare che oggi il rapporto di lavoro privato sia migliore del lavoro pubblico anche a parità di stipendio.
P: lo scivolamento verso la privatizzazione di fatto della prestazione sanitaria sembra inarrestabile. E’ così? Cosa possono fare lavoratori e cittadini utenti per contrastare questa china?
RM: Questa sarà la piaga che, purtroppo, dovranno vivere le prossime generazioni. Già oggi il Veneto risulta essere la 4° regione per richieste di finanziamenti a carico dei cittadini per poter accedere alle cure!Il 6,4% dei cittadini del Veneto “rinuncia” alle cure sempre per motivi economici. I sistemi per evitare questa deriva esistono e sono ben conosciuti dalla politica in genere. Manca evidentemente la volontà o i riferimenti di interesse. E’ materia che avrebbe necessità di molto spazio: provo a rappresentarla con qualche numero. L’85% del bilancio della regione Veneto fa capo alla voce sanità. Corrisponde esattamente a 10 miliardi e 600 milioni. Di questi, 10 miliardi e 300 milioni sono finanziati dal governo. I 300 milioni che mancano vengono coperti da un sistema che fa capo alle donazioni. Credo risulti evidente che la Regione Veneto, che si vanta di essere ticket free, non investa neanche un centesimo per migliorare il sistema sanitario veneto, pur considerando che su questa materia ha già pieni poteri. Ecco, una cifra molto considerevole di quei 10 miliardi la regione la gira alla sanità privata. Tutti dobbiamo lavorare per costringere chi lo può fare ad invertire il trend. Tra tutti, il massimo potere è a disposizione proprio dei cittadini, ai quali probabilmente dobbiamo risvegliare le coscienze.
Terremoto Friuli 1976: la scoperta del volontariato
Il 6 maggio del 1976 il Friuli veniva sconvolto da due forti movimenti sismici.
Alle 20.59 con un’intensità 4,9 della scala Richter e un minuto dopo, alle 21.00 ancora più forte (6,5), il terremoto fece crollare intere costruzioni seppellendo spesso gli occupanti sotto le macerie, provocando vari incendi, interrompendo la rete fognaria.
Durante quella terribile notte quasi 1.000 persone persero la vita, più di 2.400 furono ferite e quasi 100.000 restarono senza tetto.
Nel complesso subirono danni rilevanti circa 50 cittadine, il 75% delle quali situate nella provincia di Udine e il 25% in quella di Pordenone.
I paesi principalmente colpiti furono tutte frazioni racchiuse in un diametro di sessanta chilometri: Buia, San Daniele, Maiano, Gemona, Tarcento, Montenars, Osoppo, Amaro, Artegna, Ragogna, Magnano in Riviera ed altri.
Immediati i soccorsi e gli aiuti che arrivarono sul luogo del disastro solo poche ore dopo. A loro si unirono nei giorni successivi anche reparti militari italiani, soldati di altre nazioni appartenenti alla Nato, inclusi reparti statunitensi di stanza in Italia. I territori del Friuli colpiti si trovavano infatti in un’ area caratterizzata da una forte presenza dell’Esercito Italiano e delle forze Nato.
Questo evento è anche ricordato per la forte partecipazione diretta dei superstiti alle operazioni di emergenza e per l’arrivo di una ingente quantità di civili volontari. Prima di allora, una così forte motivazione della popolazione a intervenire direttamente si ricorda solo per l’alluvione di Firenze del 1966, con la stampa che celebrò i cosiddetti “angeli del fango”.
Tutt’altro sviluppo, ad esempio, si ebbe per il terremoto del Belice (14 Gennaio 1968), dove l’esercito e i vigili del fuoco faticarono nel raggiungere la zona colpita. Ancora oggi questo terremoto si ricorda per l’inadeguatezza del Governo non solo nell’intervenire in soccorso ma anche nel ricostruire, cosa che anche oggi si fatica a comprendere e giustificare (il terremoto nelle Marche del 2016 ha una aspettativa di fine lavori ipotizzata al 2033).
La valorizzazione del volontariato e della necessità di un coordinamento delle forze di emergenza si deve all’On. Giuseppe Zamberletti (più volte eletto come deputato nella Democrazia Cristiana e infine nel 1976 come senatore), che partendo dalla sua esperienza come sub-commissario per il terremoto in Friuli porterà avanti la creazione di una struttura di Protezione Civile Italiana, ufficializzata poi nel 1982.
Sono almeno duemila gli studenti arrestati nei campus americani durante le proteste pro-Gaza in decine di atenei, con la polizia che non ha esitato a usare la forza contro i manifestanti, sparando anche proiettili di gomma. A Los Angeles si sono verificati scontri anche tra gli studenti in difesa del popolo palestinese e quelli che difendono invece Israele. Era dai tempi della guerra del Vietnam che non si assisteva ad azioni e reazioni di questo tenore.
Di questo parliamo con Alessia De Luca, giornalista e analista dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), esperta di Stati Uniti, nonché responsabile del daily focus dell’Istituto. “Vedere le immagini circolate in questi giorni sui social media indubbiamente fa riflettere – ci dice –, benché siano soltanto le ultime di una serie in un Paese che si vuole proporre come modello a livello internazionale”.
De Luca si riferisce alle immagini dell’assalto al Congresso americano, a quelle dell’omicidio di George Floyd dove un uomo bianco tiene il ginocchio sul collo di un uomo nero fino a ucciderlo per soffocamento, alle immagini dei migranti alla frontiera separati dai bambini e, per ultime, a quelle, appunto, della polizia che entra nei campus o degli scontri tra manifestanti.
Tutto ciò, sottolinea, “all’interno di quelli che sono i templi della cultura liberal e progressista della Ivy League. Queste istantanee danno il senso di una democrazia in affanno e che si sta scontrando con alcune storture al suo interno che ne impediscono il corretto funzionamento”.
Tante fratture
A pochi mesi da dalle elezioni, inoltre, i leader politici americani non fanno altro che alzare il livello di scontro. “Joe Biden – ricorda l’analista – ha fatto un discorso che mi ha colpito per i toni usati. Dopo settimane in cui soprattutto i repubblicani lo tiravano un po’ per la giacca, l’entourage democratico ha ritenuto opportuno che lui si esprimesse in maniera chiara su quello che stava succedendo”.
“È stato un discorso scomodo – prosegue –: la conferma che la libertà di espressione va tutelata, ma poi anche l’affermazione che la violenza non verrà tollerata. Un discorso che era chiamato a fare, ma che non avrebbe voluto pronunciare perché per i democratici ciò che sta accadendo nelle università americane è un argomento spinoso e che li espone alle fratture al loro interno. La guerra a Gaza è stata, infatti, un momento di grande frattura per l’establishment democratico”.
Temi identitari
Nei mesi scorsi esponenti del dipartimento di Stato e anche della Casa Bianca si sono espressi nettamente contro quella che era la posizione americana nei confronti di Israele e il sostegno al governo di Benjamin Netanyahu. Per De Luca si tratta dei sintomi di fratture “in un anno elettorale che rende ancora più tossici argomenti che hanno a che fare con l’identità degli Stati Uniti. Ma sul piatto c’è anche il sostegno a un paese come Israele che è un partner speciale nella storia degli Stati Uniti, con il rapporto che ha costruito dal ‘48 a oggi. Sono argomenti fortemente identitari, capaci quindi di sollevare le reazioni più forti, più emotive. D’altra parte siamo in presenza di una campagna elettorale che è già molto emotiva e che quindi comporta a esporre le linee di rottura che oggi sono molto evidenti nel tessuto sociale e di elettorale americano”.
Un problema generazionale
La studiosa del’Ispi fa notare poi che “non è un caso che queste linee di faglia corrano lungo delle direttrici che sono generazionali, tema che tocca questa campagna elettorale: siamo in presenza di due candidati che allontano un elettorato giovane che non si riconosce in due ultra ottuagenari. Questa frattura corre lungo la linea generazionale anche sullo stato di Israele. Quello che sta succedendo potrebbe contribuire a spostare gli equilibri in maniera imprevedibile. C’è un refrain abusato secondo il quale la politica americana non decide le elezioni e alla fine la gente vota secondo quelli che sono chiaramente i suoi interessi più personali”.
De Luca illustra quella che pare essere la strategia di Joe Biden spiegando che il presidente uscente “sta puntando tutto sul fatto che prima o poi la guerra finirà, le lezioni degli studenti termineranno in estate e per quando inizierà il prossimo semestre autunnale, che peraltro coinciderà con le settimane più critiche della campagna elettorale, la fase peggiore della guerra Gaza sarà finita e quindi gli animi si saranno stemperati. Se così non dovesse essere i democratici si troveranno un grosso problema tra le mani”.
Non solo Stati Uniti
Le manifestazioni degli studenti universitari in difesa del popolo palestinese si stanno però moltiplicando anche in altri Paesi: in Messico come in Francia e in Italia. “La Francia per forza di cose ha una sensibilità particolare per quello che sta succedendo a Gaza – afferma l’analista dell’Ispi -, perché è un Paese dove c’è la più nutrita comunità ebraica d’Europa e una fortissima immigrazione dai Paesi del Nord Africa, dalle ex colonie, che ha un rapporto difficile con il mondo arabo e che però chiaramente da quando è scoppiata la guerra è attraversata da scariche elettriche che contribuiscono a disturbare le notti di Emmanuel Macron”.
Per l’analista le richieste degli studenti sono legittime e molto circostanziate: “Si chiede di valutare l’opportunità dei progetti in condivisione con le università israeliane, di sospendere eventualmente progetti che possano approdare a tecnologie dual use, quelle cioè che vengono utilizzate in campo sia tecnologico che militare. D’altra parte abbiamo una folta letteratura su come l’industria militare tecnologica israeliana sia anche profondamente legata ai dipartimenti universitari e quindi al mondo dell’Accademia. Sicuramente ci sono stati degli slogan antisemiti, ci sono state delle posizioni oltranziste, ma soltanto chi non ha mai partecipato a una manifestazione non sa che questi estremismi ci sono”.
De Luca ricorda poi che alla Brown University il rettore e i presidi di facoltà hanno optato per un altro approccio e infatti “il sit-in si è sciolto in maniera pacifica. Le istituzioni universitarie hanno accolto le richieste degli studenti dicendo che il corpo docenti valuterà tutta una serie di progetti di collaborazione in atto con le università israeliane. Questa è una piccola vittoria perché è stata riconosciuta la legittimità delle richieste degli studenti, cosa che mi pare finora non sia accaduta nelle altre università”.
Invece, continua, “alla Columbia University di New York, all’università dell’Alabama a Tucson e in tanti altri luoghi ci sono stati degli approcci molto muscolari. E francamente pensare che l’unico modo per sgomberare sit-in di universitari che fino all’altro ieri non sembravano dei pericolosi antisemiti sia quello di mandare la polizia in assetto antisommossa, non mi convince”.
Quanto alle proteste nelle università italiane, De Luca conclude sottolineando che le autorità hanno fatto subito capire come girava il vento e quindi dopo quanto accaduto durante le proteste di Pisa, Napoli e Roma “non si è mossa più una foglia”.
Ostregheta Uomo Tu mi vuoi Annegare nell’aria Io pago l’affitto Al mare Nella conchiglia Si sta Come nella pancia Della mamma Senza maniglia Poi coltivata Dolore Estrazione O pescatore O traditore Adesso Sono finita Sotto i denti Di una Bocca grande Paura Xanax Ho bisogno Di Xanax Vodka Grappa Ostregheta Kappa zeta Ubriacata Di brutto Così la morte Sarà Un rutto
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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