Domani sera, sabato 12 agosto, il Clara Festival fa tappa a Comacchio, all’Arena di Palazzo Bellini, messa a disposizione dal Comune di Comacchio.
CLARA spa è la nuova società di gestione dei rifiuti, nata dalla fusione tra Area e Cmv Raccolta. CLARA, fedele alla sua missione di divulgare i valori legati alla salvaguardia ambientale e al riciclo, ha scelto di parlare al suo pubblico, e in particolare ai giovani, in modo moderno e informale. E così ha scelto la formula di un talent musicale, aperto a tutti i residenti della provincia ai Ferrara o che con Ferrara abbiamo comunque un rapporto di studio o di lavoro. La tappa di Comacchio è la seconda, dopo quella di Bondeno del 23 giugno scorso, vinta dalla giovanissima Giulia Disarò che si è aggiudicata di diritto un posto in finale. A queste seguiranno altre 3 tappe a Cento, Codigoro e Portomaggiore e poi la finalissima il 23 settembre a Copparo.
Al vincitore andrà la realizzazione e la registrazione di un inedito con relativo video, che l’artista potrà utilizzare per promuovere la sua carriera. L’evento è promosso e sostenuto da CLARA, organizzato da Made Eventi per la direzione artistica di Rossano Scanavini. Le iscrizioni sono ancora aperte telefonando al 335-6036360.
Alla serata di Comacchio parteciperanno 12 cantanti o gruppi, oltre a due ospiti del mondo della canzone: la cantante Monica Fantinuoli, leader del gruppo Dogato Sisters e Andrea Belfiori, vincitore del Sanremo Music Award 2016, scoperto e lanciato dal grande Ivan Graziani e con la partecipazione straordinaria di Roberto Ferrari, mentalista, ventriloquo ed illusionista al quale è affidato il campito di fare spettacolo e di far divertire il pubblico, coinvolgendolo sui temi della salvaguardia dell’ambiente. Presenta la serata Laura Sottili.
Oggi tuona di nuovo in lontananza uno spettro pazzesco, orrendo, cannibale. Una visione quasi profetica, come l’Agnello che apre il primo dei sigilli che ci catapulterebbe nell’Apocalisse, ma ci sarebbe poco di santifico. I 4 cavalieri li conosciamo bene sullo scacchiere internazionale: Donald Trump, Vladimir Putin, Kim Jong-un e Li Keqiang.
Il primo affossa la sua retorica nel più becero populismo, non mancando di arroganza e spesso ignorando totalmente i fatti (si veda il discorso inquinamento). Il secondo sta giocando una partita strategicamente perfetta. Un nuovo zar. Si prende pezzi di Ucraina senza far guerre (ufficiali) e aspetta quasi silenzioso i movimenti dei suoi avversari. Kim è il folle, accostato a un ‘cavaliere’ sarebbe sicuramente il secondo, armato di spada, mandato per far cadere la disperazione e la guerra sulla Terra: narcisista, con una sindrome di inferiorità che lo porta ad attaccare tutto e tutti. Ossessionato dagli Usa più che dalla parte meridionale della Corea è sicuramente il più pericoloso tra i quattro. Poi c’è il primo ministro cinese, Li, colui che sta tentando il tutto per tutto per la soluzione diplomatica. La Cina, non senza sorprese, ha firmato le ultime sanzioni alla Corea del Nord, facendo modificare alcuni parametri. La stessa Cina, infatti, è il maggiore (se non l’unico) partner commerciale del governo di Pyongyang e ha quindi molti interessi in quell’area, ma ha anche grossi affari con gli Stati Uniti. Non dimentichiamo che detiene una grossa parte del debito statunitense, anche se il primo detentore è il Giappone. Quindi Trump non può alzare la voce in maniera smisurata, rischierebbe di perdere altri alleati nella zona asiatica, che sta diventando teatro fondamentale per i giochi di potere commerciale, con il controllo di isole, tratti di mare e di terra.
Fa impressione vedere come tutto questo intrigato e interconnesso panorama vada a concentrarsi in pochi caratteri, gettati sui social da una parte e dall’altra. “La Corea del Nord dovrebbe mettere fine alle azioni che potrebbero portare alla fine del suo regime e alla distruzione della sua gente”. Sono le parole di James Mattis, capo del Pentagono, che non suonano come minaccia, ma come certezza, quella che se i ‘sigilli’ si spezzassero, l’Apocalisse cancellerebbe la Corea e la sua gente. E non solo quella del Nord perché “Il presidente Trump è stato molto chiaro su questo. Ha detto che non tollererà più le minacce della Corea del Nord. Per lui è intollerabile che abbiano armi nucleari che possano minacciare gli Usa. L’opzione militare è dunque sul tavolo. Una guerra molto costosa che potrebbe causare sofferenze immense soprattutto alla popolazione sudcoreana” e questo lo dice Herbert Raymond McMaster, consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca. Quindi una condanna già scritta, solo da attuare, per tutta la Corea. E fa riflettere che a dire queste parole siano alti rappresentanti dell’unico paese che abbia mai usato l’atomica per fini bellici, e pronunciate proprio, rispettivamente, nell’anniversario di Nagasaki e di Hiroshima. Una fatale coincidenza? O una voluta concomitanza per ricordare gli Usa di cosa sono capaci?
Trump, dall’alto della sua spavalderia, è stato chiaro “Speriamo di non dover mai usare questa forza ma non ci sarà un momento in cui non saremo la nazione più potente del mondo”. Questa è la situazione, questo lo scenario. Questa la retorica che puzza di anni Cinquanta. Da una parte veri e propri ‘cowboys‘ del nuovo millennio, pronti a mostrare i muscoli, e dall’altra un uomo che si crede un dio sceso in terra e che, con le sue parole e con quelle dei suoi ministri, fa capire che l’opzione nucleare non sarebbe una valutazione ‘in extremis’, ma che addirittura potrebbe essere una partenza per “Dare una lezione agli Stati Uniti”.
Tra tutto questo parlare, alla mente dovrebbe tornare un numero: 200.000. Duecentomila. Un numero, una rappresentazione visiva. Un dato, in realtà per difetto, quello delle vittime dirette delle due bombe atomiche sganciate in Giappone il 6 e 9 agosto del 1945 dagli Usa. Una forza mostruosa, un cambio di prospettive globali che avrebbe segnato non solo la fine della seconda guerra mondiale, ma l’inizio di un’epoca, quella conosciuta, appunto, come era atomica. E via con corsa agli armamenti, test nucleari, sperimentazioni, distruzioni di habitat oceanici (e non solo), creazione di ordigni sempre più potenti, piccoli, veloci, a lunga gittata. Via con guerre fredde, influenze geopolitiche, guerre vere e proprie. Tutto quello che si è giocato in questi decenni si è fatto più o meno seguendo sempre uno stesso filo, molto alla ‘Constantine’, si lotta con l’influenza, qualche azione diretta, ma tutto nella consapevolezza che la vera forza, quella nucleare, deve restare lì, solo a far paura. Sono passati 72 anni da quell’inizio agosto del 1945, quando due ordigni nucleari sono stati usati per la prima e unica volta per creare danni materiali e centinaia di migliaia di vittime; ora quella ‘certezza’, quella consapevolezza che le bombe ci sono, ma non si usano, si sta assottigliando. Oramai sembra quasi che l’agnello abbia aperto i 4 sigilli, i cavalieri sono arrivati, ora non ci resta che attendere lo squillo delle sette trombe e l’arrivo della Gerusalemme celeste.
L’aveva annunciato già alla fine di giugno, poi una settimana fa e ancora alla vigilia di quella che sarebbe stata una grande manifestazione di popolo: “Saremo in tanti, almeno in trecento per opporci all’invasione”. Peccato che giovedì 3 agosto in quel di Poggio Renatico dietro al coriaceo generale Nicola ‘Naomo’ Lodi (segretario comunale della Lega) erano in poco più di un centinaio. Comprese le segreterie al completo della Lega di tutti i comuni ferraresi. Compresi gli ospiti, i sindaci e i consiglieri venuti anche dal vicino Veneto. E gli abitanti di Poggio? Davvero pochi, non dimostrandosi così terrorizzati dagli ospiti già presenti e da quelli in arrivo, né arrabbiati con gli operatori e i volontari della cooperativa sociale Meeting Point che gestisce il centro di accoglienza. Insomma, se non un flop, un mezzo flop.
Sappiamo delle parole che Leonida rivolse ai suoi 300 spartani morituri. Bene, il generale Naomo – lo stesso impegnato nella battaglia contro il burkini in piscina e che invoca l’intervento dell’esercito per presidiare le strade di Ferrara – non ha voluto essere da meno e ha arringato la sua sparuta truppa: “Meglio razzisti che invasi!” Naturalmente Lodi non si riferiva all’esercito dei Persiani, ma ai disperati migranti che continuano a sbarcare nella nostra penisola.
Ma dov’è questa invasione? Secondo la Lega, tutte le destre, il centrodestra e anche un pezzo del centrosinistra, il 2017 sarebbe stato l’annus horribilis, il numero degli sbarchi doveva perlomeno duplicare rispetto all’anno scorso. Non sta andando così. Non sta andando come Salvini e i suoi temevano, o (forse) piuttosto speravano. Dati alla mano (fonte Unhcr e Ministero degli Interni), al 2 agosto 2017 i migranti sbarcati sono poco più di 95.000, contro i 98.000 del 2016. Il 3% in meno.
I problemi per dare una dignitosa accoglienza ai migranti (e qualcuno ci spieghi che differenza fa se fuggono dalla guerra o dalla fame) ci sono eccome. L’Italia ha sciaguratamente firmato il trattato di Dublino, in cambio di uno sconto sul debito. L’Europa continua a voltarsi dall’altra parte. Tanti Comuni italiani si rifiutano di fare la propria parte sovraccaricando i territori più disponibili e solidali. Tutto vero, ma perché intanto non la smettiamo di parlare di invasione? Non c’è stata nessuna invasione.
Invece sì, urla Matteo Salvini. Meglio razzisti che invasi, ripete il suo luogotenente Nicola Lodi. I migranti (rifugiati e migranti economici condividono la medesima sorte) dopo aver attraversato il mare sono oggi in Italia, poveri di tutto e con davanti un futuro incerto. Ma alla Lega – e più in generale alla politica italiana – non interessano i minori non accompagnati, gli uomini e le donne in carne e ossa. Interessano, invece, i migranti in generale, presi tutti insieme: la categoria, il fenomeno mediatico. Così i migranti vengono privati dei loro volti, delle loro drammatiche vicende individuali e diventano terreno di scontro, argomento di propaganda politica, ‘moneta sonante’ da spendere sul mercato dei sondaggi elettorali.
Fra non molto ci saranno le elezioni – in Italia ci sono sempre le elezioni – e i partiti, Lega in testa, ma anche tutti gli altri, sanno che il tema immigrazione occuperà il centro della scena. Così i migranti si trasformano in “clandestini” o in “delinquenti”. Così si cerca di alimentare la paura per un’immaginaria invasione fino a farla credere reale. Così si lancia lo slogan improbabile “aiutiamoli a casa loro”. Così si tenta di macchiare o di oscurare l’impegno di centinaia di migliaia di operatori e di volontari che in Italia continuano a salvare vite umane e lavorano sull’accoglienza, il dialogo e l’integrazione.
I migranti non votano, se votassero piacerebbero a tutti i partiti, ma già oggi sono diventati una preziosa ‘merce elettorale’. Per qualche punto nei sondaggi, per qualche voto in più, si sta combattendo una grande battaglia. Sulla testa dei migranti. E su quella dei cittadini elettori.
Il 1 agosto 2017, alle ore 14, una testata giornalistica, per la precisione VareseNews, pubblica un articolo. Fin qui nulla di particolare, nemmeno nei contenuti, i quali riguardavano una decisione della nuova giunta comunale di Tradate di eliminare l’usanza di cantare l’Inno di Mameli agli inizi delle sedute. Anche l’atto compiuto dalla coalizione in carica, a maggioranza leghista, non ha nulla di eccezionale: la Lega, almeno quella presalviniana, è sempre stata un’accanita rivale del tricolore (basti pensare a quante ne ha dette Bossi sulla bandiera italiana). Ma un normale articolo che descrive un fatto coerente con una certa corrente di pensiero, messo alla mercé di “legioni di imbecilli” [cit. Umberto Eco] può creare un fenomeno che ha un nome e cognome: analfabetismo funzionale. Osservare questo avvenimento oggi non è così difficile: la connettività e la libertà e facilità di dare opinione creata dai social ha dato la possibilità a tutti di dire la propria.
Dovrebbe essere diversamente? Eco (sempre Umberto) diceva per esteso “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Ma è importante poterlo osservare questo analfabetismo e un interessante articolo di Dailybest che analizza ciò che è successo.
Dopo la pubblicazione sui social, l’invasione di commenti è stata alta e, solo dopo pochi minuti, ecco uscire i primi ‘legionari’. Si parte con i comunisti: le accuse vanno dal “lo sostituiranno con l inter nazionale” (esattamente scritto così) al “canteranno bella ciao…un saluto, anzi,un addio all italia….”. Assolutamente evidente la questione: i leghisti sarebbero diventati comunisti. Oppure queste persone hanno soltanto letto il titolo? Ma un antropologo ci spingerebbe ad approfondire: ed ecco arrivare i musulmani con il loro “inno”, poi ci sono le accuse alla Boldrini (arrivate dopo la scrittura dell’articolo del Daily), sospetti della sostituzione con l’inno del Ghana e chi più ne ha più ne metta. Qualcosa di assolutamente fuori da ogni logica per chi avesse quantomeno aperto l’articolo, che ben spiega il fatto accaduto. Ma qui avviene l’incredibile. Qualcuno la briga di leggerlo se l’è presa e subito prova a riportare alla realtà dei fatti gli accusatori, facendo notare che chi ha preso questa decisione sicuramente non è di sinistra, amico di Renzi o della Boldrini e sicuramente non sostituirebbe l’Inno italiano con uno musulmano (che per chiarezza non esiste) o con quello del Ghana. Arrivati a questo punto qualsiasi tipo di scelta di un essere che abbia quanto meno a cuore la propria faccia imporrebbe di fare ammenda e chiedere scusa oppure, molto più saggiamente, eliminare il commento e dedicarsi a un po’ di silenzio, magari leggendo l’articolo.
L’analfabeta funzionale invece no: messo davanti al proprio errore, insiste, anzi arriva anche ad accusare il censore. E volano così le incriminazioni di collusione tra Lega Nord e comunisti, con i soliti “sono tutti uguali”. C’è chi colto in fallo va oltre, persino dopo gli avvisi del giornale stesso, che invita a leggere l’articolo prima di commentare (nel 2017 siamo ridotti a questo), e accusa il giornale stesso o il giornalismo in generale: la colpa sarebbe di fare dei titoli fuorvianti oppure sensazionalistici. Ma a questo punto la domanda sorge spontanea: con titoli del genere almeno lo si aprirebbe l’articolo?
Tutto questo fa riflettere: la comunicazione dove sta andando? Serve ancora cercare di fare del buon giornalismo e perdere ore per scrivere un buon articolo, o basta fare un titolo? Le risposte sarebbero semplici, ma non scontate.La questione c’è ed è seria.
Che l’informazione abbia un problema è chiaro, la figuraccia ‘Trump’ è una ferita ancora aperta, ma non può essere una giustificazione a un comportamento di massa come quello dell’analfabetismo funzionale, che crea conseguenze e ricadute nel reale come creazioni di bufale, false notizie, pseudoscienza, allarmismi (è di pochi giorni fa quello di una prossima ‘èra glaciale’) o addirittura, quando si esagera, il voler scavalcare le voci ufficiali. Su quest’ultimo punto è emblematico chi, dopo un terremoto accusa l’Ingv di abbassare la magnitudo di un sisma perché così lo Stato non pagherebbe i danni. E la conseguenza è grave perché il suddetto istituto è spesso costretto a rettificare il perché la magnitudo si può modificare. Ma l’analfabetismo ha fatto altri danni: meteorologi accusati di non aver previsto abbondanti nevicate quando semplicemente non si sanno interpretare i dati legati ai millimetri indicati sulle previsioni, scienziati che nasconderebbero la realtà dietro le ‘scie chimiche’, per non parlare delle improbabili ‘scoperte nascoste’ nel campo della cura dei tumori.
Insomma un mondo, quello dell’analfabeta funzionale, che è cresciuto a dismisura con la libertà data dai social. Libertà che non può e non deve essere tolta, ma che assolutamente va ‘educata’: chi usufruisce di simili strumenti deve essere educato a leggere ciò che si scrive, cercare di capirlo, capire se è un sito affidabile o meno e, soprattutto, non fermarsi al solo titolo di un articolo. Questo è un problema che si dovrebbe affrontare sin dalla scuola, che deve fare i conti con una realtà cambiata e sempre più interattiva, una realtà dove i robot parlano tra loro in lingue incomprensibili, come incomprensibili resteranno i testi dietro a titoli non aperti.
Si può avere il coraggio di prendersi in carico la gestione di un santuario shintoista in Giappone? Si può essere accettati in questo oneroso impegno benché straniero ed occidentale?
Sembra proprio di si, almeno per Leonardo Marrone che, dopo aver studiato culture orientali, arte e letteratura del Giappone presso l’Università di Roma, ha deciso di vivere a Fukuoka. Insegnante di lingua presso il Centro Italiano, è il primo connazionale scelto come custode di un santuario shintoista in Giappone. Il santuario di Uga era alla ricerca del custode dopo la scomparsa del precedente avvenuta circa 3 anni fa. In questi anni nessuno era stato considerato adatto per questo compito. Marrone è stato scelto dopo due colloqui di selezione tenuti dal sindaco di Fukuoka, il direttore del santuario e i rappresentanti dei cittadini. I suoi compiti comprendono l’organizzazione delle cerimonie, la gestione del santuario, la pulizia dei locali sacri e i rapporti con i visitatori. Sono proprio questi ultimi che rendono il lavoro di Marrone interessante, come lui stesso ha dichiarato alla stampa giapponese, che pochi giorni fa ha pubblicato la notizia.
Il lato più curioso del suo nuovo lavoro, che condivide con la sua famiglia (la moglie e due figli di 3 e 7 anni), è proprio quello degli incontri giornalieri con gli anziani visitatori che gli raccontano storie e aneddoti del passato recente. Una raccolta di numerosi vissuti culturali che rendono il lavoro di Marrone sempre più importante: un custode della memoria. E proprio questa sua posizione privilegiata di custode gli permette di mantenere attive le relazioni fra le persone, il santuario e la Natura secondo i principi shintoisti.
Per ordine del feudatario il santuario Uga venne costruito nel 1732 a seguito di una disastrosa carestia. Questo santuario è assai famoso a Fukuoka per la presenza di una statua equina che rappresenta una divinità protettrice degli studenti che tentano le selezioni per le scuole superiori e l’università. Se lo studente riesce a mantenere l’equilibrio sulla statua del cavallo avrà buone possibilità di superare la selezione scolastica.
Sembra insignificante e ridicolo questo uso improprio di una statua di cavallo che invece interpreto, forse con troppa fantasia, come ricerca dell’equilibrio culturale: difficile da raggiungere e complicato da mantenere. Marrone è riuscito nel suo intento: la ricerca culturale e la trasmissione della sua formazione italiana. Saper ascoltare, custodire la memoria, dimostrare curiosità, sono azioni sempre più complicate. L’adattamento culturale è equilibrismo, è abilità nel destreggiarsi fra tradizione e mutamento, tra comprensione ed esclusione, senza spostare troppo il baricentro per non rischiare la caduta.
Nonostante quello che Donald Trump pensa e dice delle notizie, degli studi e delle preoccupazioni riguardo il global warming, a metà mese il maxi iceberg Larsen C si è staccato dall’Antartide: con i suoi 5.800 chilometri quadrati supera le dimensioni della Liguria e l’acqua che contiene è pari a tre volte quella del lago di Garda ed equivalente a quella consumata in media nel mondo nell’arco di cinque anni.
Nel frattempo, per tornare – letteralmente – al giardino di casa nostra, l’Italia è alle prese con la siccità: il nostro Paese si trova a dover fronteggiare la mancanza di 20 miliardi di metri cubi d’acqua, una quantità pari all’intero lago di Como.
Per fortuna le istituzioni europee sembrano non pensarla come il Presidente Usa. Ecco perché, nell’ambito della strategia Europa 2020, il programma di azione per l’ambiente si chiama “Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta”. Al suo interno particolare attenzione è posta sulla trasformazione dei rifiuti in una risorsa, favorendo la prevenzione, il riutilizzo e il riciclaggio e rinunciando a metodi inefficienti e nocivi, come le discariche.
Ma in tutto ciò la domanda che sorge spontanea è: noi che possiamo fare?
Ecco un piccolo esempio, proprio su ciò che con ogni probabilità state usando per leggere questo articolo. Lo sapevate che si può smaltire gratuitamente il proprio smartphone, il proprio tablet o qualsiasi Raee – rifiuti da apparecchiature elettroniche ed elettriche – di piccole dimensioni nei punti vendita senza alcun obbligo di acquisto? È quanto prevede da luglio 2016 il decreto legislativo ‘uno contro zero’: consegna gratuita dei raee di dimensioni inferiori a 25 cm presso i punti vendita con superfici superiori a 400 mq (il servizio è facoltativo per i negozi più piccoli) senza alcun obbligo di acquisto.
I rifiuti da apparecchiature elettroniche ed elettriche rappresentano la categoria di rifiuti in più rapido aumento a livello globale, con un tasso di crescita del 3-5% annuo, tre volte superiore ai rifiuti normali. Ed è così anche nell’Unione Europea, dove i raee hanno un tasso annuo di crescita stimato tra il 2,5 e il 2,7%. Eppure secondo una ricerca realizzata da Ipsos Italia per Ecodom – consorzio italiano che si occupa del recupero e riciclaggio di elettrodomestici – e Cittadinanzattiva sui comportamenti degli italiani nella gestione dei raee, meno di un intervistato su 4 (18%) li riconosce correttamente e due su cinque (40%) ne hanno solo un’idea approssimativa, mentre la maggioranza relativa (42%) non li conosce affatto. La percezione sul grado di rischio di queste apparecchiature appare comunque elevata, anche tra chi non le conosce, per le conseguenze dannose che il mancato trattamento può avere sull’ambiente e per le sostanze inquinanti contenute in alcuni componenti.
A Ferrara e provincia, per lo smaltimento corretto dei raee secondo le normative vigenti, basta contattare il Settore Ambiente della Cooperativa Il Germoglio: “oramai una sicurezza” per imprese e privati, scherza Tania Gamberini, referente del settore insieme a Nicola Cirelli. La raccolta dei raee è “una delle attività storiche” di questo settore della cooperativa, insieme a quella di carta e cartone e allo smaltimento di ingombranti (per esempio armadi e scaffali) e alla raccolta e ritiro dei prodotti esausti della stampa elettronica (toner, cartucce e nastri per stampanti, fax e fotocopiatori). Il Germoglio è l’unica realtà sul territorio di Ferrara e Rovigo e relative provincie a fornire gratuitamente quest’ultimo servizio alle aziende pubbliche e private. Avete presente gli ecobox verdi che si vedono spesso negli uffici? Con ogni probabilità sono distribuiti e ritirati dalla cooperativa. Nel 2016 il Settore ambiente ha raccolto 51 mila kg di toner e 366 mila kg di raee.
Ma non è finita qui: l’obiettivo da raggiungere è ‘rifiuti zero’. Ecco perché ciò che viene raccolto spesso viene anche recuperato e riutilizzato, per esempio facendone arredi per i locali 381 del Settore ristorazione oppure, quando possibile, fornendo materiale per le attività dei Settori infanzia e minori. Tania mi mostra la legge regionale 16/2015, che non a caso si intitola “Disposizioni a sostegno dell’economia circolare, della riduzione della produzione dei rifiuti urbani, del riuso dei beni a fine vita, della raccolta differenziata”: “più recupero significa meno smaltimento, che dovrebbe essere ‘l’estrema ratio’, solo l’ultima fase della gestione dei rifiuti, prima vengono: prevenzione, preparazione per il riutilizzo, riciclaggio, recupero”. In più “noi qui differenziamo e smaltiamo separatamente anche ciò che non è possibile recuperare, riducendo al minimo l’impatto ambientale di rifiuti, come per esempio i toner o i raee, che se smaltiti a livello indifferenziato avrebbero un alto livello inquinante”. Ma in realtà Il Germoglio cerca di ridurre al minimo l’impronta ecologica in ogni aspetto della sua attività: “tutte le luci degli uffici e del magazzino di via Boito – la sede della cooperativa, ndr – sono state sostituite e ora sono a led, il 43% dell’energia che utilizziamo nelle nostre attività proviene da fonti rinnovabili, prodotta per esempio tramite gli impianti fotovoltaici che abbiamo realizzato qui e al nido Don Dioli fra 2008 e 2010”.
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Tania mi spiega poi che, proprio partendo dal tema dell’economia circolare, ora il Settore ambiente sta cercando di ampliare “l’attività più recente, quella dei prodotti rigenerati, anche attraverso uno shop online che sarà attivo sul sito della cooperativa entro la fine del 2017”. “L’elemento su cui dobbiamo fare ancora molta strada è l’importanza della componente della scelta ambientale”: “un toner rigenerato da noi costa circa il 50% del suo prezzo originale, se si acquistano i compatibili si scende al 15-20%”, spiega Tania, per questo è importante far aumentare la consapevolezza sulla loro pericolosità e l’importanza del loro recupero.
Una lavatrice, per esempio, può rappresentare una fonte d’inquinamento, per la presenza di sostanze dannose (come mercurio e PCB), ma se viene smaltita correttamente si possono ricavare molte materie prime utili. Da una lavatrice, composta in media per il 61% da ferro, per il 6,4% da plastiche di diverso genere, per l’1,7% da rame e per l’1,3% da alluminio, possono ‘rinascere’ 40 kg di ferro, pari a 19 pentole da cucina, 1 kg di alluminio, pari a 52 lattine, 1 kg di rame, con cui realizzare 2 metri di cavo elettrico e 4 kg di plastiche, con cui si potrebbe produrre una comoda sedia da giardino. Inoltre, il riciclo di una lavatrice permette di evitare l’immissione in atmosfera di 7,5 kg di anidride carbonica e il risparmio di 36,7 kWh di energia elettrica.
Inoltre, i prodotti de Il Germoglio – dalle bici con pedalata assistita alle lavatrici, ai pc, ai toner – hanno anche un altro valore aggiunto: “si fanno rientrare in circolo cose con un alto livello qualitativo, riducendo l’impatto ambientale e accrescendo invece l’impatto a livello sociale”.
Tutto il lavoro del Settore Ambiente viene svolto “con progetti di integrazione sociale” attraverso la legge 381 o la legge Smuraglia. Il Germoglio fa parte, infatti, del progetto regionale ‘Raee in carcere’, che permette di realizzare una parte del processo di trattamento-smontaggio dei raee provenienti dalle isole ecologiche e successivamente inviati agli impianti di trattamento rifiuti: “abbiamo due persone assunte in carcere che fanno tutto il lavoro di separazione dei materiali dei raee R2-grandi bianchi, le lavatrici per esempio”, spiega Tania. Nel solo laboratorio della casa circondariale di Ferrara dal febbraio 2010, anno della sua attivazione sono state assunte 12 persone e sono stati lavorati 1.584.782 kg di raee.
Quindi in un certo senso “si recuperano e si riattivano non solo le cose e i materiali, ma anche le persone” scherza Tania.
Nel pieno di una torrida estate vien voglia di altre e diverse stagioni. In autunno cadono le foglie, in inverno tutto si ferma e si va in letargo, in estate (specie negli ultimi anni) la terra crepa e si rischia di rimanere senz’acqua. Molto meglio la primavera, anche metaforicamente. Meglio la primavera: ammesso però che a una primavera culturale – quindi sociale, quindi politica – si arrivi con progetti e programmi adeguati, e con idee e investimenti capaci davvero di inaugurare una nuova e feconda stagione per la nostra città.
Mi scuso per le banali metafore stagionali. Tutto per tornare a parlare di biblioteche, guardando non solo a quanto si sta facendo e si può fare negli ultimi due anni scarsi di questa legislatura, ma alle ambizioni della prossima.
In un mio recente intervento pubblicato su questo giornale (Sul presente e il futuro delle biblioteche a Ferrara, leggi qui) sostenevo la centralità dell’impegno sul fronte delle biblioteche pubbliche, se si vuole promuovere non solo e non tanto una città più ‘dotta’, ma una cittadinanza più informata e consapevole. In quella sede chiedevo un rilancio dell’azione dell’amministrazione pubblica, dopo che negli ultimi anni le biblioteche sono entrate in una specie di cono d’ombra, tanto ai margini della azione culturale da rimanere ‘a corto di acqua’ (leggi: fondi per gli acquisti librari e per le attività culturali). Tentavo anche di avanzare qualche idea, di indicare qualche obiettivo su cui lavorare, in vista di una quanto mai necessaria primavera delle biblioteche e del servizio di pubblica lettura nel suo complesso. Sul tema ho ricevuto in queste settimane diversi apprezzamenti e, da molti, la richiesta di andare più a fondo, di mettere in fila le cose che si dovrebbero e potrebbero fare.
Prima però occorre rispondere a una domanda: esistono oggi le condizioni politiche e finanziarie per affrontare un piano di rilancio e riqualificazione dei servizi bibliotecari e culturali di base? Tutto sommato a me pare di sì. Dopo un vivace, ma proficuo, confronto sindacale e le dichiarazioni pubbliche di sindaco e vicesindaco, mi sembra di intravedere una sensibilità condivisa: l’impegno a mantenere aperte tutte le biblioteche, anche le più piccole. Garantire la qualità dei servizio e la qualità del lavoro per il personale incaricato ne sono una premessa indispensabile. C’è da sperare che alle parole seguano i fatti.
Ma c’è qualcosa di più all’orizzonte. Più del semplice mantenimento dello status quo per l’Ariostea, la Bassani e le altre biblioteche decentrate. E’, infatti, in dirittura d’arrivo il cantiere della Ex Casa Nicolini dove troverà posto la nuova biblioteca e mediateca cittadina interamente dedicata ai bambini, ai ragazzi, alle scuole. Finalmente: in ritardo di vent’anni rispetto a Bologna o Ravenna, ma finalmente.
Nel mio intervento lanciavo anche la proposta di aprire un grande spazio – nel complesso che sorgerà al posto del Palazzo degli specchi della vergogna – per dare una nuova casa alla Biblioteca Rodari e dotare così la Zona Sud di un adeguato polo culturale. Bene (e non certo per il mio piccolo suggerimento), proprio mentre partono i lavori di demolizione, leggo un’intervista del sindaco Tagliani dove si annuncia il progetto per una sala polivalente e una biblioteca pubblica, da collocare rispettivamente al piano terra e al primo piano della palazzina ex hotel del palazzo degli specchi.
Se dopo il due viene il tre, a completare il quadro di una rinascita mancherebbe solo l’apertura a Ferrara di una biblioteca e centro culturale multietnico. Anche di questo avevo già parlato, proponendo di prendere in considerazione gli spazi al pianterreno del grattacielo. Un progetto ambizioso per giocare una grande scommessa sull’integrazione e sul dialogo interetnico proprio nel cuore del degrado urbanistico e sociale. Non so come verranno spesi i due milioni appena assegnati a Ferrara per il Progetto Grattacielo. Certo, c’è da pensare prima di tutto alla statica dell’edificio e all’impianto antincendio, ma è necessario e urgente intervenire anche sul versante sociale e culturale.
Sul grattacielo per ora mi fermo qui, ma servirà tornarci chiamando al confronto tutti gli attori sociali coinvolti: gli abitanti singoli e organizzati, il Centro di mediazione sociale del Comune, le comunità straniere, le cooperative e associazioni di volontariato sociale.
Dunque: una nuova biblioteca ragazzi, una nuova sede per la biblioteca Rodari (con annessa sala polivalente) e – me lo auguro – una inedita biblioteca e centro culturale interetnico al Grattacielo. Siamo quindi alla vigilia di una nuova primavera delle biblioteche? Forse sì. A condizione che…
La prima condizione è il personale, gli operatori che dovranno gestire le biblioteche, quelle già in essere e quelle che si aggiungeranno. Già oggi la pianta organica risulta all’osso, non tanto per aprire i servizi al pubblico, ma per supportare le attività culturali di base (incontri, presentazioni, conferenze, spettacoli). Nei prossimi anni sono poi previsti alcuni pensionamenti. Se si vuole supportare un vero progetto di rilancio dei questi “presidi culturali di base” – quelli che continuo a chiamare con il termine storico di biblioteche – non basterà assicurare il turn-over con qualche trasferimento interno. Per qualificare e potenziare i servizi esistenti e per aprirne di nuovi serviranno perlomeno 10 o 15 nuovi operatori in più. Il Comune di Ferrara, in accordo con qualche centro di formazione professionale, potrebbe farsi promotore in regione di un Corso per Assistenti di Biblioteca e Documentalisti rivolto ai giovani diplomati o laureati. Da qui avremo una nuova linfa da immettere nei servizi. A questo dovrebbe poi accompagnarsi un vasto piano di aggiornamento professionale per i dipendenti comunali che già lavorano in biblioteca, molti dei quali arrivati in mobilità da altri e diversi settori e servizi.
Sarà poi fondamentale – prendendo spunto da tante esperienze in regione e fuori regione – dare più spazio, più responsabilità – e più potere – ai cittadini utenti. In ogni biblioteca gli “utenti attivi” (a Ferrara sono alcune migliaia) dovrebbero poter votare democraticamente i loro rappresentanti in un Consiglio o Comitato di gestione, dove gli si affiancheranno alcuni bibliotecari ed esponenti delle realtà sociali e culturali presenti sul territorio. Questo nuovo organismo partecipato potrà convogliare idee e progetti e proporre e gestire iniziative sociali e culturali. Si tratta in altre parole di “creare nuovi spazi di democrazia e partecipazione”, non parlamentini o micro-consigli comunali per la passerella di questo o quel partito, ma laboratori di idee aperti a tutti i cittadini. Si dovrebbe prevedere una dotazione finanziaria, se pur piccola, per l’organizzazione di iniziative culturali in ogni biblioteca. E si potrebbero organizzare brevi corsi di formazione per utenti volontari e volonterosi per poi consentire ai volontari stessi la gestione diretta delle iniziative negli spazi comuni di ogni biblioteca.
In terzo luogo occorre ripensare alle biblioteche come centri integrati per la democrazia informativa. E’ questa la scommessa più difficile, ma necessaria in una società 2.0, dove l’accesso all’informazione e alla conoscenza è diventato un bene prezioso per l’esercizio dei propri diritti di cittadinanza. Certo, nelle biblioteche si va per leggere un giornale, prendere a prestito un libro o un dvd, fare una ricerca in rete, ascoltare una lettura animata, ma dovremmo pensare sempre più a un luogo – una piazza – dove i cittadini (dai 3 ai 90 anni) possano trovare risposta ai loro crescenti bisogni informativi. In questi luoghi – le biblioteche distribuite su tutto il territorio cittadino – dovranno esserci strumenti idonei e personale preparato per orientare, supportare e rispondere a una grande e multiforme domanda informativa. Dei bambini, dei giovani e meno giovani disoccupati, dei pensionati…
Esistono, è vero, altri e diversi supporti, strumenti e sportelli (i patronati, i sindacati, i servizi in rete di Comune e Asl, Informagiovani, centri per l’impiego…) a cui rivolgersi, ma molto spesso non è facile orientarsi. Le biblioteche dovrebbero essere in rete con tutte queste realtà e funzionare come ‘primo sportello’, fornendo ai cittadini un servizio informativo di base, indicando a ognuno la mappa per orientarsi nelle difficoltà quotidiane.
Forse l’orizzonte che ho cercato di disegnare apparirà troppo ambizioso. Per incamminarsi su questa strada, per inaugurare una nuova primavera culturale, si dovrà metter mano al portafoglio pubblico (spese per investimenti e spesa corrente) e occorrerà assumere nuove prospettive, un’idea di cultura che nasce e si alimenta dal basso e non solo dall’alto. Sono però convinto di due cose. Solo due, ma credo importanti. Che la risposta e la partecipazione dei cittadini, oltre che degli operatori bibliotecari, sarebbe all’altezza della sfida. E che questa capillare apertura produrrebbe un grande protagonismo sociale e una cultura diffusa. Farebbe bene a Ferrara e farebbe bene alla democrazia.
Si sta affermando una nuova generazione di robot umanoidi dotati di una intelligenza artificiale dinamica, capace perciò di apprendere dall’esperienza proprio come avviene negli esseri umani.
Questi nuovi prototipi di creature progettate per servire l’uomo nei suoi bisogni, affrancandolo dalle mansioni più faticose o ripetitive, cominciano a somigliare in maniera sempre più inquietante all’essere al cui servizio si pongono. E questa similarità, oltreché affascinare e sorprendere, genera parecchi interrogativi e suscita inquietudine. Infatti, non solo i robot sono e sempre più saranno in grado di sostituirsi agli esseri umani nello svolgimento di compiti predefiniti, ma acquisiranno – o hanno già acquisito – e presto dispiegheranno la loro capacità di evolvere rispetto al prototipo originale. A conferma, ecco il dialogo intavolato in una lingua sconosciuta da due androidi, di cui si parla in questi giorni.
Da sempre scienza e tecnologia sono in relazione con l’uomo in termini di sussidio positivo, ma costantemente mostrano anche risvolti insidiosi e minacce. Nel caso dei robot il pericolo non è soltanto in termini occupazionali, per la manodopera che andranno a sostituire, come spesso si segnala. Inquietante è la possibilità di concepire esseri artificiali capaci di sviluppare entro certi limiti un pensiero autonomo.
La loro introduzione funzionale nell’ambito di attività intellettuali genera parecchie perplessità. E qui non si parla di futuro. Già sono stati sperimentati robot concepiti per essere utilizzati all’interno di contesti redazionali e coadiuvare (o in parte addirittura sostituire) i giornalisti nella elaborazione, per esempio, di testi facilmente standardizzabili, come i comunicati stampa, sulla base di protocolli che questi umanoidi mostrano di poter padroneggiare perfettamente.
Il rischio che si affaccia è facilmente intuibile: se la funzione del robot non si limiterà più solamente a sgravarci dal peso e dalla fatica delle faccende domestiche, della preparazione del pranzo o in altre mansioni di carattere pratico – secondo la tradizionale concezione del loro ruolo ausiliario – ma si estenderà al novero delle professioni intellettuali, il ‘suo pensiero’ potenzialmente potrà arrivare a sostituirsi al nostro, con una sottrazione del nostro dominio.
A tal riguardo si impongono due ordini di riflessione, in relazione allo status di questi umanoidi e alla loro effettiva autonomia di pensiero.
Se i robot sulla base delle informazioni ricevute in fase di programmazione si mostrano capaci di rielaborare i dati in forma creativa e sviluppare una propria evoluta conoscenza – fondamento della consapevolezza – come si potrà continuare a considerarli semplici utensili, macchine al nostro servizio?
Inoltre: la conoscenza scaturita dall’informazione rielaborata da un robot umanoide pur varcando i confini immaginati dal progettista (il caso del misterioso linguaggio sviluppato dai due androidi) sarà pur sempre in qualche modo ascrivibile alla matrice tracciata dal programmatore poiché si può immaginare l’evoluzione dell’intelligenza artificiale avvenga in maniera analoga allo sviluppo del l’intelligenza naturale, sulla base della rielaborazione dei dati esperienziali, secondo una traiettoria che non potrà mai totalmente prescindere dal punto di partenza: ciascuno evolve ma non può recidere le radici se vuol continuare a vivere.
I due aspetti, solo in apparenza contraddittori, sono complementari.
Da una parte c’è un problema etico connesso alla natura del robot umanoide che non sta più nei confini del bene strumentale ma assurge a un ruolo oggi difficilmente classificabile.
Dall’altra c’è il nodo della sua reale autonomia intellettuale: la sua intelligenza dinamica
può generare un libero arbitrio? Se anche l’uomo nel suo sviluppo intellettuale è condizionato da un imprinting mentale determinato da educazione ed esperienza, a maggior ragione l’intelligenza artificiale non potrà prescindere dai vincoli posti da colui che li genera e quindi l’evoluzione del pensiero, sviluppo dinamico di connessioni logiche, capace di originare ragionamenti non rigidamente predeterminati, non potrà tuttavia totalmente prescindere dallo schema originario, e inevitabilmente risponderà comunque a una serie di input e di condizionamenti che tracceranno il confine della sua capacità di spaziare intellettualmente fra opzioni alternative.
E questo inevitabilmente si traduce in una spaventosa insidia a una piena libertà di pensiero, che si sostanzia nella teorica capacità di sviluppare in maniera incondizionata le proprie convinzioni e di argomentare le proprie opinioni. È una frontiera questa forse irraggiungibile anche per gli umani. Ma ciò che più spaventa nel caso degli umanoidi è che per quanto evoluti e dinamici potranno sviluppare le proprie argomentazioni entro un confine predeterminato in ragione dei confini imposti dal programmatore, con tutti i rischi che questo implica.
Il nono dossier settimanale dell’estate 2017 di Ferraraitalia esce a ridosso del 37esimo anniversario della Strage di Bologna: la mattina di sabato 2 agosto 1980 la stazione era affollata di persone in partenza o di ritorno dalle vacanze, 23 kg di esplosivo rasero al suolo l’ala Ovest, ancora squarciata e con l’orologio fermo all’ora della detonazione perché nessuno possa dimenticare e chiunque sia di passaggio si fermi a ricordare, mentre l’onda d’urto investì da una parte il binario 1 il treno che vi stava fermo in sosta, dall’altra la piazzola dei taxi. Morirono 85 persone e ne rimasero ferite 200.
Era soltanto ieri, il 2 agosto 1980. Una mattinata torrida, “mai stato così caldo” dicevano radio e televisioni, l’asfalto si liquefaceva mandando fumi verso il cielo, le Due Torri da un momento all’altro potevano abbracciarsi, secondo loro antico desiderio, e poi crollare esauste, stanche di vedere ai loro piedi un popolo senza più idee, chissà forse stremato dal dover essere l’esempio, esempio di onestà civica, intellettuale, politica. C’era una strana aria calma in giro, i diplomatici di professione dicevano che il terrorismo era acqua passata. Io inorridivo, ma mi accusavano di essere un avventurista, come affermava un compagno cretino, o, peggio, un disfattista. In un saggio pubblicato su ‘I problemi della transizione’, il periodico del Pci di discussione filosofica, di cui allora ero direttore responsabile, scrissi che il peggio non era ancora arrivato, suscitando la meraviglia e anche l’ira del partito dei compagni seduti al tavolo dei dibattiti, loro parlavano sempre. Le donne si affannavano ai negozi dei primi saldi con fare frettoloso, un costumino “due pezzi o intero?”, un completino da spiaggia e vai, le testoline bitumate apparivano e scomparivano tra i sacchi di stracci. Io sapevo che il terrorismo non era morto con l’alleanza storica tra comunisti e democristiani, anzi poteva comparire più feroce di prima, le cosche partitiche non avrebbero mai mollato l’osso, il potere voleva scherani fedeli.
E così è stato: i cani fedeli erano lì, nascosti tra le pieghe di tutti i partiti, pronti ad azzannare chiunque volesse tentare di cambiare sistema e filosofia sociale. Questi pensieri si affollavano frementi nella mia testa calda sulla piazza davanti alla stazione e a quell’orologio fermo sulle 10.25. Le ambulanze arrivavano e ripartivano, un autobus, il 37, trasformato in obitorio ambulante. Pensai allora che il mio mestiere era inutile e stupido: che cosa vuoi raccontare? Nessuno ti ascolta, nessuno ti legge. Pensai che forse avevo una sola via d’uscita: lasciar perdere la cronaca, il giornalismo e tornare alla poesia, il mio primo amore. Non servì molto: il 2 agosto dell’anno successivo un giudice massone mi rinviò a giudizio per calunnia nei confronti della magistratura bolognese, poi, dopo una trattativa, ritirò il malfatto, ma compresi che nemmeno la poesia era gradita al potere costituito. I magistrati più coraggiosi continuarono a essere perseguitati da colleghi signorsì, l’inchiesta che avevano avviato e che forse avrebbe potuto portare ai mandanti venne archiviata, nessuno andò mai ad approfondire le ragioni dell’assassinio del giudice Amato a Roma, il quale aveva infilato il coltello dove non avrebbe mai dovuto. Morto, ammazzato. Questa è l’Italia fascista che non è mai morta. Oggi al Parco 2 Agosto di San Lazzaro di Savena, a partire dalle 18.30, il libro di poesie ‘Antologia per una strage. Bologna 2 agosto 1980’ (Minerva edizioni) di Gian Pietro Testa sarà protagonista insieme all’autore di percorso per ricordare le vittime della strage alla stazione di Bologna.
Per un partito della scienza
Dell’anno 2017: crisi economica internazionale che continua senza vere ricette politico-economiche interessanti all’orizzonte: degrado e/o sfida multietnica in Europa soprattutto senza ricette decenti a breve-medio-lungo termine. Europa in crisi e classi politiche e dirigenti ovunque (in Italia in particolare) distanti anni luce da qualsivoglia coscienza scientifica del nostro tempo in un mondo, piaccia o meno, dominato e dipendente dalla tecnoscienza. Infiniti dibattiti sterili se non mistificanti.
Con una battuta (e in Italia in particolare) le scimmie politiche governano il presente dell’Italia, fu sinistra al potere arcaica e fu destra al’opposizione con ricette debolissime alternative, entrambe essenzialmente ostili alla scienza e la tecnologia: la prima gira e rigira regredita a visioni del futuro a decrescita infelice o sostenibile estrema, la seconda o ancora liberista selvaggia o speculare sulla decrescita antiscientifica alla fu sinistra. In realtà anche per risolvere sul serio a medio lungo termine (ma non nel futuro remoto) la bomba anche demografica costante e alimentare in Africa (ovviamente collegata con il futuro stesso dell’Occidente evoluto) non solo in Italia ormai è necessario nel mondo un vero e proprio Partito della Scienza. Solo gli scienziati o intellettuali o semplici parlamentari in qualche modo, strettamente o culturalmente di formazione scientifica, possono risolvere le gravi problematiche contemporanee: ridando meritocrazie e basi conoscitive sia ai governi nazionali, sia all’Unione Europea che all’Onu, quest’ultimo nei fatti una ormai quasi entità metafisica.
Con veri scienziati al potere e una visione del futuro presente, prossimo, remoto, basata in ogni campo sulla conoscenza essenzialmente scientifica, la società aperta ma scientifica a livello strutturale di un Popper ad esempio, non sarà una utopia, ma la soluzione e innesterà finalmente un circuito virtuoso ed esponenziale per superare a medio termine la crisi economica e anche culturale in Occidente e quella endemica anche biopolitica nel terzo o quarto mondo. Il ruolo nella società aperta scientifica che si pone chiaramente come obiettivo chiaro, preciso e urgente, di artisti e filosofi e eventualmente religiosi sarà un altro, non strutturale pragmatico, come poi persino un ossimoro, vista la natura essenzialmente immaginaria di tali tipologie e forme di conoscenza, ma – appunto – altrettanto importante anche se decentrato e sottomenu in certo senso.
Come educazione scientifica al futuro attraverso certo potenziale linguaggio peculiare del loro immaginario (quello in certo senso archetipico) più orientato in certo modo verso il futuro/futuribile, sul piano sociale; simultaneamente come libera creatività ricerca “artistica”, sorta sia di antivirus dialettico e di scienze immaginarie di frontiera – eventualmente e potenzialmente suscettibili di eresie scientifiche ma a volte destinate ad allargare i confini stessi della scienza ufficiale.
Ma le macchine pragmatiche fu politiche, fu economiche, per pensare e fare siano finalmente essenzialmente scientifiche e conoscitive, riassumendo in tal senso.
Più o meno le ricette scientifiche, di numerosi scienziati sociali, puntualmente emerse da una amplissima pubblicistica editoriale, tra libri, convegni, Internet, strutturalmente sono simili: per una postpolitica di parlamentari scientifici, per una tecnoeconomia di nuovo sviluppo possibile con attenzione anche all’ecologia come antivirus del divenire tecnoscientitfco produttivo; ottimizzazione dell’AI (Intelligenza Artificiale), Robotica, Automazione, Telelavoro, Genetica alimentare e cosi via, ottimizzando al massimo ogni risorsa tecnoscientifica possibile, in divenire e futura: controllo pubblico e gratuito come obiettivo dei fondamentali bisogni primari, abolizione semivirtuale del lavoro, redditi o meglio bioredditi di esistenza e civiltà sempre come obiettivi. Libera ricerca scientifica e libera espressione estrema. Insomma una visione etica (ed estetica) scientifica essenzialmente libertaria, con il relativismo di ogni religione circoscritte alla sfera esclusivamente astratta e immaginaria, senza alcuna interferenza vera laica, come sarà la futura società democratica e scientifica. La macchina per pensare e fare (post)politica
Prima o poi, al di là della struttura organizzativa attuale in Italia cosiddetta transumanista o altri futuribili in ambito futurologico contemporaneo, per forza di cose essenzialmente culturale, una certa svolta operativa metapolitica diventerà inevitabile. Vuoi per il probabile ulteriore degrado generale psicosociale ed economico, vuoi per la sempre maggiore divulgazione dei memi trasumanisti e o futuribili nel dibattito intellettuale e mediatico. Facile prevedere, più si evolvono sopratutto i temi radicali, longevità potenziale, mind up loading, ingegneria genetica, crionica le ricerche scientifiche radicali, senza cambiamenti più evoluti e scientifici generali in politica e nella stessa opinione pubblica, in primo piano purtroppo amplificazioni bioetiche fondamentaliste ulteriori rispetto già a certi segnali concreti in tal senso, dall’eutanasia, all’AI (Intelligenza Artificiale), Automazione e Robotica stesse. Certa desiderabile macchina per pensare e fare quindi strettamente politica domanderà la discesa in campo della comunità scientifica nazionale con le avanguardie futurologiche transumaniste promotrici in tal senso con programmi, come accennato, strettamente scientifici e con la Società Aperta dello stesso Popper e altri come obiettivo.
Poco importa se magari gli stessi attuali popperiani o simili scienziati e ricercatori italiani esitano eventualmente scettici sulle visioni radicali futorologiche e transumaniste. Una forte apertura della comunità futuribi transumanista italiana alla Comunità scientifica nazionale è passaggio inevitabile per favorire i memi transumanisti stessi e all’interno della comunità scientifica nazionale sono già presenti anche ricercatori dialettici e aperti se non anche favorevoli anche ai temi più radicali e d’avanguardia. Va da sè: il possibile Partito della Scienza dovrà – per essere credibile e robusto a priori – coinvolgere i principali scienziati italiani e le principali dinamiche ufficiali scientifiche e organizzate italiane. Ovvero le Università, il Cnr, il Centro Majorana di Erice, il Cicap, l’Asi, la Fondazione Veronesi e cosi via, fino come contributi laterali e sinergici il gruppo Transumanista e altri gruppi o associazioni scientifiche operative in Italia, come ltalian Institute for the Future, Space Renaissance e nuovamente così via.
Per la cronaca, come noto anche ai grandi media europei, questa potenziale amplificazione metapolitica transumanista e futurologica, non sarebbe una novità assoluta, dopo il noto Transhumanist Party del futurologo americano Zoltan Istvan (già candidato quantomeno virtuale alle ultime presidenziali Usa e autore del bestseller Transhumanist Wager). Il suo è già un Partito della Scienza aurorale: per l’Italia almeno da relativizzare e potenziare con la fondamentale interfaccia prioritaria della Comunità Scientifica nazionale…
Info hPlus Magazine 2015
Intervista a Z. Istvan
Meteo Web
Futurismo e Transumanesimo recensione
Divenire 4 Superare l’umanismo
CICAP
Leggo sulla cronaca ferrarese del ‘Resto del Carlino’ l’intervista che ha rilasciato il geniale Lorenzo Cutùli, artefice della fasciatura del teatro Comunale che tanto successo sta ottenendo. In molte affermazioni mi sono ritrovato, specie nel rapporto con la città estense. Afferma Cutùli alla domanda sul suo rapporto con la città: “Facile da dire: amore e odio. Ne adoro la modernità, un fattore che peraltro risale agli Estensi. E’ una città spettacolare, con tanti punti di fuga, mai ovvii. Senza palazzi di facciata. Mi dispiace invece che abbia perso negli anni, quel primato di luogo di sperimentazione”. Questo primato, prosegue Cutùli, verrebbe poi eliminato da “una certa pavidità” nell’imboccare anche strade scomode, nel permettere a tanti di “coltivare il proprio orticello”. E ripercorrendo il concetto della ‘ferraresità’ l’artista centra l’essenza del problema: “Quando esci dalle Mura sei come abbandonato, dimenticato. Ogni volta perciò è una riconquista, è come re-iniziare daccapo. Forse c’è poca memoria storica, e forse gli stessi interlocutori politici non fanno, magari per pigrizia, il censimento dei talenti ferraresi che ci sono, in giro per il mondo”.
Sarà questione di memoria storica o ancor più specificatamente di memoria debole, ma il vero problema della cultura cittadina, di come farla, di come gestirla, sta in questa specie d’abbandono di ciò che è stato fatto fuori dalle Mura e poi dall’impossibilità di difenderla da una specie di stanchezza e di noia che prende corpo negli utenti e che li spinge verso altri interessi, altri luoghi, altre esperienze, cancellandone le spinte e le occasioni fino ad acquietarsi nel grembo di una forse mai esistita ‘Ferara’.
Le occasioni, montalianamente le occasioni, si sprecano nell’abbandono delle grandi lezioni che esse hanno prodotto in città. E non è stato solo questione di soldi, come risuona monotamente in tutte le dichiarazioni sulle possibilità perdute.
E questione di memoria, come afferma Cutùli.
La cronaca o la Storia naturalmente si evolvono o prendono percorsi diversi dalle primitive intenzioni, eppure quello che non dovrebbe venir meno è proprio la memoria. Nel campo frequentato dall’artista ferrarese le novità portate nel nostro tessuto culturale da Ronconi, Abbado e ancor indietro nel tempo da Carmelo Bene o dalla compagnia di Lindsay Kemp, che stabilirono proprio in città la sede delle loro sperimentazioni, cosa hanno lasciato? Nulla, al di là delle diatribe sulle spese sostenute nell’averle realizzate. Forse il ricordo affidato a qualche storia del teatro o al nome di Abbado che ha sostituito quello del teatro Comunale.
Cerchiamo di capirci.
Non è detto che il livello debba essere sempre quello attuato nel momento della produzione di un progetto. Ma se ne salvi la memoria. Può essere utile.
C’è stato un tempo non lontanissimo, quando i ferraresi avevano conquistato nell’Università di Firenze il primato: Lanfranco Caretti, Claudio Varese. Poi i loro allievi, che a loro volta produssero altri docenti ferraresi: Gianni Venturi, Guido Fink, poi Carla Molinari e Monica Farnetti. E ferraresi d’elezione quali Marco Dorigatti o Riccardo Bruscagli o Gino Tellini.
Che ne è stato di questo travaso di competenze? Nel campo universitario nulla. In quello cittadino la dedica di una via a Caretti o la titolazione del Fondo dei suoi libri alla Biblioteca Ariostea. E sì che si sarebbe potuto impiantare una scuola che avesse studiato il cosiddetto ‘Rinascimento’. Farne un centro d’eccellenza, tanto per usare una parola che, personalmente, abborro.
In città abbiamo avuto l’esperienza dell’Istituto di Studi Rinascimentali che ha impresso una grande spinta agli studi di quel periodo con la pubblicazione di più di 130 volumi essenziali. Ora sopravvive più modestamente dopo averne esaurito la spinta propulsiva.
E l’Ermitage? E il museo Antonioni? E la minaccia-promessa di trasferire la Pinacoteca dei Diamanti in Castello?
So già che dal Palazzo arriverà una parola non proprio di condivisione. Ma ancora una volta, al di là delle forse inutili e affannate diatribe che intercorsero tra Associazioni culturali e Amministrazioni, i risultati non sono confacenti alla memoria storica o alla volontà di percorrere ancora una possibilità di scatto in avanti, di riagganciare il treno della sperimentazione come propone Cutùli.
Non si tratta solo di ‘pigrizia’ dei politici, ma di una serie di problemi che hanno anche letteralmente distrutto la memoria, come è accaduto con il terremoto. I palazzi fasciati e le sedi museali stanno a testimoniarlo. Ma invece di produrre una reazione consapevole, ritorna quella specie di noia diffusa e la volontà di rivolgersi ad altre mète, ad altri lidi.
Non voglio né desidero indicare col dito alzato le colpe attribuibili a tanti, forse a troppi.
Ma la saggezza che cerco di recuperare, nonostante gli anni, mi spinge come un dovere morale a non abbandonare la memoria.
Proviamo a entrare nel dibattito sul conflitto di interesse in cui, secondo il consigliere governativo Marattin, si trova ad operare il nostro sindaco Tagliani. Ci entriamo con qualche riflessione non polemica, né pro né contro. Uno spunto per contribuire al dibattito politico con il non celato tentativo di riportarlo verso sponde più comprensibili e utili ai cittadini.
Tra la domanda di Luigi Marattin e la risposta del Sindaco Tagliani (entrambe formulate sulle pagine di estense.com) c’è, a mio avviso, un buco da riempire, con un po’ di memoria, un pizzico di dati, qualche pezzo della nostra Costituzione e, aggiungerei, anche con un po’ di rispetto per i cittadini italiani, di cui i ferraresi sono una parte.
Se partiamo dal presupposto che il conflitto di interessi si palesa quando un soggetto pubblico, che dovrebbe essere imparziale data la sua funzione, che ha potere di decisione su una determinata questione ha anche degli interessi privati, personali, professionali nella stessa questione, allora la domanda posta dall’ex assessore al bilancio è mal posta, non trova fondamento ed è fuorviante perché porta, ancora una volta, il discorso politico su falsi problemi, sui contorni che non sono sostanza.
Il conflitto di interessi su cui Marattin si interroga, e chiede conto, ci potrebbe essere solo se i sindaci (o il Sindaco Tagliani in questo caso) avessero interessi privati, prendessero soldi da Hera o da qualche altra azienda privata, ma escludo che Marattin volesse intendere questo.
Per il cittadino, se i soldi arrivano sotto forma di minor costi a fronte di un servizio efficiente e funzionale oppure nelle casse comunali attraverso i dividendi azionari, semplicemente non cambia niente perché il suo interesse è avere libero accesso alle cose pubbliche e che queste siano gestite nel migliore dei modi a costi accessibili.
E allo stesso modo e in quest’ottica non ha senso la risposta di Tagliani. Cassa Depositi e Prestiti lavora per lo Stato e di conseguenza per i cittadini italiani, in ogni caso quello che fa sotto forma di servizi, tutela del patrimonio, aiuto al credito, tutto ritorna al cittadino, quindi anche a Marattin o a Tagliani.
Come al solito il dibattito politico ci porta lontano dall’essenza del problema reale e i maligni potrebbero anche pensare che forse serve proprio a quello. Il punto, infatti, non è questo inesistente conflitto di interessi, ma la sostanza della politica che gira, gioca con le parole, ci confonde e ci porta a discutere del nulla allontanandoci dai reali problemi che invece dovremmo affrontare.
L’argomento sul quale si glissa sta alla base ed è l’argomento di cui realmente si dovrebbe discutere: pubblico o privato? Ovviamente e scontatamente privato! Così la pensa Marattin seguendo gli insegnamenti di Giuliano Amato, Prodi, Draghi, Monti, che hanno dato l’avvio o le hanno sostenute a spada tratta. Sono partite nel 1992, più o meno, e all’epoca lo Stato aveva in carico il 16% della forza lavoro del Paese, controllava l’80% del sistema bancario, tutta la logistica (treni, aerei, autostrade), la telefonia, le reti delle utility (acqua, elettricità, gas), pezzi importanti della siderurgia e della chimica, la Rai. E non è finita, c’erano le assicurazioni, meccanica, elettromeccanica, fibre, impiantistica, vetro, pubblicità, spettacolo, alimentare. Persino supermercati, alberghi e agenzie di viaggi.
Qualche tempo fa chiesi a Giuliano Amato, qui a Ferrara alla libreria Ibs, qualche conto su queste privatizzazioni, ma mi rispose che lui non ne aveva poi fatte così tante. Io ne cito una per tutte: la dismissione del sistema bancario e assicurativo, cioè Credito Italiano, Comit e Ina attraverso quella che fu chiamata ‘Legge Amato’. Insomma si completava quanto iniziato da Ciampi e Andreatta nel 1981 con il ‘divorzio’ tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, quel processo che iniziò l’innalzamento del nostro debito pubblico verso i traguardi attuali grazie al fatto che da allora, per il finanziamento dei bisogni statali (ovvero: vendita dei Btp), siamo costretti a rivolgerci al mercato senza poter decidere il tasso di interesse (come fa ad esempio il Giappone) e senza nessuna protezione dagli umori del mercato finanziario.
Scelte di questo tipo (cioè la scelta tra privato e pubblico, con capitolazione di quest’ultimo), in questo caso, per dare un’idea delle conseguenze, ci hanno portati a pagare qualcosa come 3.000 miliardi di interessi in trent’anni sul debito pubblico (per qualcuno non siamo affidabile ma per quelli che contano siamo buoni evidentemente da spremere come limoni). 3.000 miliardi e noi di cosa parliamo? Del conflitto di interessi tra il nulla cosmico e la materia invisibile che tiene insieme l’universo.
Poi appunto, dopo l’opera di Ciampi e Andreatta, arrivò Amato a privatizzare completamente la moneta e affidare i nostri destini allo spread e alle altalene della borsa.
E a chi sono state cedute e in quale modo i gioielli dello Stato, cioè di tutti noi cittadini italiani? Agli amici degli amici ovviamente e oggi per andare a farci un bagno al mare da Ferrara ad Ancona ci tocca pagare 20 euro all’andata e 20 al ritorno con sosta forzata perché da 3 mesi un ponte è venuto giù, ma l’efficienza ricostruttiva del privato ancora non si vede. Sarà per questo che in Germania se le sono tenute strette le autostrade. Come del resto sempre la Germania si è tenuto stretto la sua Banca Pubblica, la Kfv, con la quale finanzia a basso costo i suoi imprenditori, e le circa 1.500 Sparkassen pubbliche, semi pubbliche e a partecipazione statale.
Qui da noi invece le banche o le facciamo fallire oppure facciamo ripagare i danni ai risparmiatori. Carife è solo un timido esempio.
E cosa c’era di tanto sbagliato nel controllo statale delle aziende strategiche, dei beni comuni (trasporti, telecomunicazioni e acqua)? Ci sono beni e servizi che vanno tutelati e il privato non può e non deve essere chiamato a farlo, il privato fa i suoi interessi come è giusto che sia. Il debole, l’indifeso, chi non è furbo e intraprendente come i giovani renziani, chi è portatore di handicap o ha bisogno di cure, chi non riesce a competere con le leggi della giungla, nel mondo dorato dei liberisti viene affidato alla pietà o è relegato a margini.
Eppure mi piace ricordare che lo stesso Adam Smith, il padre delle teorie liberiste, scriveva nella ‘Ricchezza delle Nazioni’: “…la proposta di una nuova legge o di un nuovo regolamento di commercio che provenga da quest’ordine (uomini del commercio e delle manifatture), deve sempre essere ascoltata con grande precauzione, e non deve essere adottata se non dopo essere stata lungamente e diligentemente esaminata, non solo con scupolosissima, ma con sospettosissima attenzione. Essa proviene da un ordine di uomini di cui l’interesse non è esattamente lo stesso di quello del pubblico; che in generale hanno un interesse ad ingannare ed anche ad opprimere il pubblico, e che in molte occasioni l’hanno ingannato e oppresso…”.
Nel 1776 il ragionamento era molto più avanti e lungimirante di quello odierno operato dai neoliberisti incalliti del Pd, che tra privatizzazioni, globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia a tutti i costi sembrano davvero aver perso il senso della realtà oltre che dell’umanità.
E per finire, quanto abbiamo incassato da queste privatizzazioni, che chissà perché qualcuno osa chiamare “svendite” oppure “selvagge”? La cifra si aggira sui 100 miliardi, in pratica un tozzo di pane, rispetto ai danni ‘bellici’ subiti grazie alle scelte politiche di cui abbiamo prima parlato.
Immaginiamo invece per un attimo di avere ancora a disposizione tutte quelle aziende, quei posti di lavoro da gestire, una banca pubblica che finanzia le opere o i programmi di sviluppo. Immaginiamo… ma non ce la facciamo. Perché davanti agli occhi ci ritroviamo i reali problemi dell’Italia: la nostra inconcludente classe politica, ma anche la scarsa capacità di individuare i problemi da parte dei cittadini, la nostra scarsa memoria e quindi il nostro rimanere attaccati sempre agli stessi uomini che a volte si clonano e ti spunta un Marattin dal cappello invece del coniglio. Un Marattin che ti propone che “tutto deve cambiare perché nulla cambi”.
Pubblico o privato? Nel mezzo ci sono anche le tutele della nostra Costituzione, già scritte e che andrebbero messe in pratica, visto che sono sopravvissute all’ultimo tentativo di ‘deforma’ a furor di popolo (anche se in blocco il Pd ha fatto finta di niente). L’iniziativa privata è libera e va tutelata, ma ancor di più va tutelato l’impianto keynesiano della stessa, ovvero l’intervento e il controllo statale, la tutela dei più deboli e tutto l’impianto della res pubblica che ne scaturisce.
Creiamo un dibattito allora su questo, ci facciano intervenire sulle cose serie, chiedano a noi, che ne siamo i proprietari, se vendere o affidare o trattenere i beni pubblici e si ricordino, magari, che loro ne sono solo i momentanei gestori e di conseguenza, a voler essere onesti, non dovrebbero avere nessun conflitto di interessi. In un Paese a popolazione attiva e recettiva, ovviamente.
Ansia o entusiasmo? Slanci o reticenza? I lettori raccontano come si comportano in amore e come vorrebbero essere.
Incanto e cinismo
Cara Riccarda, grazie per la sua recensione, elegante e con una sua finezza che, per chi come me non ha letto il romanzo, si intuisce prima ancora di vederla messa alla prova da un rapporto diretto col testo di cui si parla. E prima di rispondere alle sue domande finali mi premerebbe fare qualche osservazione sulla sua proposta di lettura, ferma restando la precisazione già fattale in merito alla conoscenza mediata della trama del romanzo e dei temi narrativi che l’autore sviluppa: detto in altri termini, non escludo gli abbagli anche se non li riterrei dovuti a presunzione ma piuttosto a disinformazione. La prima impressione che ho avuto (e sottolineo il termine impressione) è che il protagonista del romanzo, malgrado la problematicità in cui si avvolge e contorce, pare riproporre il vecchio stereotipo del maschio egocentrico e sciovinista, incline a misurare tutto ciò che lo circonda (esseri umani inclusi) col metro della propria soggettività e dei propri bisogni. Un misto tra Woody Allen e uno qualunque dei tanti investigatori creati in questi ultimi anni dalla mediocre letteratura poliziesca che appunto di stereotipi abbonda. Malinconico è avvocato ma questo cambia poco perché a suo modo anche lui – par di capire – fa le sue indagini e ha a che fare con dei casi giudiziari sfoggiando il cinismo che tanto piace al lettore italiano medio, maschio o femmina che sia. Quello che conta è però ciò che caratterizza il suo personaggio, quella che lei chiama la sua “ansia di dominio assoluto della propria vita, qualcosa di simile all’anarchia domestica, a patto però di essere amati”. A patto però, se non fraintendo, di ricevere senza dare, come è tipico di questo cliché di macho dei sentimenti “che non ha bisogno di chiedere, mai”, e che si tiene ben stretta la propria libertà. Una volta, tanti anni fa, c’era di mezzo il mammismo, l’impossibilità di trovare una donna che fosse all’altezza della propria madre; oggi c’è l’ansia di doversi concedere troppo, anzi di essere troppo preziosi per farlo, perché nessuna (o nessuno) può valere un cotanto sacrificio di sé. Credo che in questa considerazione sia implicita la risposta alla sua domanda finale. Io sarei per l’entusiasmo (sopprimerei il che esagera) e darei il pollice verso all'”ansia che comprime”, anche per una questione di autocontrollo. Ma il mio sarebbe comunque un entusiasmo consapevole, come ci dicono debba essere il sesso: consapevole non tanto dei rischi sempre connessi a una condizione di coppia quanto dei miei limiti intrinseci. Che, mi creda, non è un modo per far rientrare dalla finestra l’egocentrismo prima cacciato dalla porta: quando parlo dei miei limiti mi riferisco soprattutto alla mia condizione anagrafica contro la quale “la ragion non vale”. E l’entusiasmo cui vanno le mie preferenze più che il frutto di uno stato d’animo corrente è la reminiscenza di ciò che è già stato: con la plausibile speranza che nulla vieta che possa essere ancora. Cuore perduto
Caro Cuore perduto,
ho conosciuto varie versioni, più o meno spinte, di Malinconico che almeno si salva per il fatto di non esistere. Le brutte copie, quelle reali insomma, sono davvero, come dice lei, quegli uomini che richiedono sacrificio. Al di là della presunzione che trasuda da questi tipi, credo sia ancora più sconfortante che una donna sia disposta a continui ex voto pur di ingraziarsi la divinità. E’ come se verso di loro un sacrificio fosse inevitabile per arrivare solo un po’ più vicino con il risultato, invece, di farli spostare di un altro passo e così via di nuovo nella rincorsa. Il fatto è che la donna lo sente dentro di sè che la reciprocità ha altre caratteristiche e che è una gran fatica questa caccia in cui chi ti dà, ti toglie anche. Eppure sembra che in tante ci passino, trascinate dall’entusiasmo che, per sua natura ed etimologia, si porta dentro passione, come ci fosse un dio a governarla. Per questo scrivevo che l’entusiasmo esagera, perchè falsa la nostra capacità di vedere l’altro. Non è facile cogliere il momento esatto del passaggio tra entusiasmo e presa di coscienza (una mia amica ha la coscienza che parla solo dalle 7.30 alle 7.45 del mattino davanti al caffè) di quanto quest’uomo stia costando. La tabella costi/benefici in amore non regge, si sa, ma l’inizio di un leggero disincanto dovremmo sempre accoglierlo a braccia aperte.
Riccarda
Malinconico ex…
Cara Riccarda, in Malinconico rivedo il mio ex, con cui ho passato momenti meravigliosi travolta dalla sua personalità mirabolante e affascinante, ma con cui sono stata altrettanto male per non riuscire a viverlo in pieno, sfuggente come è sempre stato. Rimane una persona meravigliosa come amico, ma assolutamente non il compagno di vita per me. L’amore come lo vivo non fa per lui, l’amore per me ‘da adulta’, è non sfuggire, non rincorrere, ma esserci l’uno per l’altra, sempre e incondizionatamente. E senza paura di essere travolti. M.
Cara M.,
una volta mi è capitato di scrivere un non elenco, una lista al contrario che contenesse le cose da evitare, o meglio da non ripetere. Mentre i propositi da realizzare stanno belli lì davanti come un faro su un sentiero che, quasi sicuramente, non imboccheremo, le cose da non fare vengono dal passato. Ne distinguiamo i contorni nitidi e vediamo ancora i segni, una specie di consulenza gratuita che forniamo a noi stessi.
Mettila così, il tuo ex Malinconico lo hai già spuntato nella lista dei mai più.
Riccarda
Poca fiducia o molta ansia? No, solo prudenza!
Cara Riccarda, mille idee, mille progetti, mille aspettative. Vivo l’amore con un entusiasmo esagerato verso quello che, immagino, avverrà per poi accorgermi che, al momento di agire, mi ritrovo spaventata. L’ansia di sbagliare, di non essere abbastanza, che qualcosa vada storto. Un’ansia che per fortuna riesco a dominare, ma che è sempre lì a fare perdere un po’ di colore a tutto ciò che è nuovo. Non sono sempre stata così. Ero sicura, decisa, poi un uomo ‘sbagliato’ ha fatto sì che io perdessi quella meravigliosa fiducia in me stessa di cui tanto andavo fiera, fiducia che spero di ritrovare accompagnata, passo dopo passo, da un altro uomo, sicuramente più giusto. D.
Cara D.,
e se la chiamassimo prudenza? Fossi in te, me la farei amica. Siccome abbiamo capito che il piano della realtà è altro rispetto a quello dell’immaginazione, da cui discende un’assetata aspettativa, la prudenza potrebbe essere un’ancella mitigatrice fra i due.
Se poi, questa ancella aspira a diventare matrona, la rimettiamo al suo posto.
Riccarda
Potete scrivere a: parliamone.rddv@gmail.com
In agosto I dialoghi della vagina va in ferie, a settembre vi dà appuntamento con altri spazi di dialogo e confronto.
A tutti i nostri lettori un augurio di buone vacanze, ciao a presto.
E’ di domenica 16 luglio la dichiarazione del Presidente del Consiglio che rimanda “a settembre” l’approvazione al Senato della legge sulla Ius soli. La legge è giusta, “ma non ci sono le condizioni” dice il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, dopo essersi consultato con Renzi. Così Alfano segna un punto dopo cento batoste. Forza Italia gioisce. E Salvini esulta: “è la prima vittoria contro l’invasione”.
In realtà la legge, già passata alla Camera, non c’entra molto con i disperati che approdano nei porti italiani. Si rivolge infatti ai bambini e ai ragazzi stranieri che sono da anni nel nostro paese, nelle stesse classi dei loro compagni italiani ‘doc’.
Non è un Ius soli puro, ma “temperato”, che concederà la cittadinanza italiana a una platea di circa 800.000 bambini nati in Italia e che frequentano da anni le nostre scuole. Ma far confusione, mettere insieme i rifugiati (clandestini li chiama la Lega) e i bambini nati e residenti in Italia e che non sono né rifugiati né tanto meno clandestini, rinfocola la paura del diverso e alza il vento sul fuoco doloso del razzismo.
Quattro anni fa, alle ultime elezioni politiche, il Pd prometteva come primo atto di governo una legge che concedesse il diritto di cittadinanza a tutti i bambini nati in Italia. Da allora sono cambiati sia il segretario del partito, sia – tre volte – il Presidente del Consiglio. Quella promessa di civiltà, mai revocata, non è stata però mantenuta.
Ora, rimandare la legge a settembre sembra l’anticipo di una bocciatura. O di una archiviazione.
Luca Boneschi è morto lo scorso ottobre e non può più difendersi. Fu parlamentare per un solo giorno, sufficiente a garantirgli il vitalizio. Ieri è stato chiamato in causa per questo da Luigi Di Maio, del Movimento 5 stelle, additato come simbolo del privilegio e appellato al presente come se ancora fosse vivo. La sua vicenda andò in tv un paio d’anni fa da Ballarò. E all’epoca l’avvocato fu interpellato da Ferraraitalia per comprendere i contorni di una storia che suscitava indignazione. Boneschi, avvocato di grido e politicamente impegnato, accettò di spiegare le sue ragioni e il quadro che emerse risultò più complesso di come fu tratteggiato.
Riportiamo qui integralmente l’intervista che ci ha rilasciato e che abbiamo pubblicato l’11 giugno 2015
IL CASO
Sbatti il mostro in prima pagina: il ‘re dei vitalizi parlamentari’ e il rovescio dell’informazione
“Luca Boneschi, proclamato deputato il 12 maggio 1982, è giunto al termine del mandato 24 ore dopo. Non ha mai partecipato a una seduta parlamentare, ma gode di una pensione da 3.108 euro lordi da 32 anni. È un avvocato di prestigio e si occupa, non casualmente, di diritto del lavoro”. La notizia, pubblicata dall’Eco, di Bergamo, è stata amplificata un paio di settimane fa dal popolare programma di Rai 3 Ballarò, in occasione di una puntata dedicata ai vitalizi dei parlamentari. Nella messa in onda, l’avvocato Boneschi, pedinato dagli inviati Rai che gli chiedono spiegazioni, reagisce con stizza e rimedia una pessima figura. Sembra la conferma di quanto emerge dalla cronache: il comportamento tracotante di chi si avvinghia ai propri privilegi e rifiuta persino il confronto.
Luca Boneschi
Boneschi però non è un signor nessuno piovuto dalla luna: ha un significativo percorso professionale e politico alle spalle, si è distinto per un costante impegno volto alla tutela dei diritti civili, del diritto all’informazione e dei diritti dei lavoratori, è stato eletto in Parlamento come rappresentante del libertario partito Radicale. Lo abbiamo quindi interpellato per domandargli ragione di un atteggiamento apparso irriguardoso nei confronti dei cittadini prima ancora che dei giornalisti che lo intervistavano. “Il problema – ci ha spiegato con cortesia – è che uscire dopo dodici ore di pesante lavoro alla mia abbastanza ragguardevole età (76 anni, ndr), essere pedinato per almeno trecento metri e bloccato per strada da tre persone ‘armate’ di microfono telecamera e lampada, che si mettono a farmi domande, ma che in realtà non vogliono risposte, con date e circostanze tanto suggestive quanto fuorvianti, ed essere impedito di proseguire, oppure continuamente seguito fino in ascensore, non è cosa da poco. Ho reagito male, lo so, e me ne sono subito pentito, perché ho capito quale uso sarebbe stato fatto delle riprese e delle poche frasi che ho detto (tra l’altro, di quelle poche sono state utilizzate solo quelle che facevano comodo agli intervistatori). Anche le cifre non corrispondono alla realtà, ma fare un’inchiesta giornalistica seria è faticoso”.
L’avvocato Boneschi ai tempi del processo Masi
L’avvocato ci ha fornito una serie di documenti dai quali emergono alcuni aspetti interessanti della vicenda: le repentine dimissioni dalla carica parlamentare risultano, secondo la sua versione e stando a quanto all’epoca scrisse alla presidente della Camera Nilde Jotti per motivarle, una scelta di responsabilità. L’avvocato era a quel tempo impegnato per parte civile nel processo relativo alla morte di Giorgiana Masi, studentessa diciottenne, simpatizzante di Avanguardia operaia, uccisa a Roma durante uno scontro con la polizia nel maggio 1977 a seguito di una manifestazione in difesa dei diritti civili. Il legale si era battuto con passione e determinazione per ottenere la condanna dei poliziotti che riteneva responsabili della morta della ragazza. Il coinvolgimento fu tale da costargli una denuncia per diffamazione da parte del giudice che aveva archiviato le indagini. E proprio per non intralciare un’eventuale riapertura del procedimento, Boneschi decise di rinunciare, pur a malincuore, al seggio (che gli sarebbe toccato secondo una prassi di rotazione delle cariche all’epoca in uso nel partito Radicale) e con esso alla conseguente immunità parlamentare che avrebbe determinato un rallentamento della macchina giudiziaria. Il risultato fu beffardo: la sua condanna e la definitiva archiviazione dell’inchiesta per l’omicidio di Giorgiana Masi, i cui responsabili restarono così impuniti.
Ma con questo ricordo, Boneschi ci dice che non ci fu speculazione da parte sua in funzione del futuro vitalizio, che al contrario quelle dimissioni gli pesarono ma furono una scelta doverosa concepita in uno spirito di servizio in ossequi alla propria deontologia professionale.
Peraltro, l’avvocato precisa che il vitalizio – che una legge certo opinabile prevede anche per coloro che hanno anche solo per brevissimo tempo assunto un incarico parlamentare – fu corrisposto non dal 1983 come riportato dalle cronache, ma dal 1999. Boneschi percepisce dunque l’indennità da 16 anni e non da 32. Inoltre, per avere diritto a quel vitalizio, riconosciuto al compimento del sessantesimo anno di età, ha preventivamente dovuto versare le indennità contributive necessarie, quantificate in 91 milioni di lire.
A margine delle sue argomentazioni va detto, comunque, che il baratto resta pur sempre molto vantaggioso (poiché con appena 15 mesi di ‘pensione’ ha pareggiato la somma da lui versata in contributi) e che la legge che concede questi privilegi appare scandalosa.
Però i termini della questione assumono altri contorni. Ma proprio per questo Boneschi avrebbe fatto bene a spiegare con precisione e pacatezza a chi glielo domandava quali furono i presupposti e le motivazioni della rinuncia. “Ho cercato subito di chiarire le circostanze con Massimo Giannini, ma inutilmente – replica -. Perché ho dato le dimissioni rinunciando a una carica prestigiosa che rappresentava un traguardo ambìto, perché le ho date in quel giorno e non qualche mese dopo, come mai molti anni più tardi io abbia versato i contributi e poi percepito il vitalizio, e via dicendo. Ma tutto questo non interessa alla trasmissione perché non fa audience, non è scandalistico: e quindi si cancella tutto. Non è la prima volta che mi succede, e ormai ho capito il meccanismo. Quando c’è qualcuno che vuole parlare seriamente, non ho problemi, ma certo giornalismo attuale preferisce questi metodi: non cercano di capire, hanno una tesi e devono dimostrarla”.
Opera di Maurits Cornelis Escher
Insomma, se la parte di vittima non si attaglia all’avvocato neppure quella di arrogante privo di scrupoli gli si confà. La sua vicenda è comunque la riprova di come la realtà sia sempre più complessa, sfaccettate e ricche di sfumature rispetto a come la si immagina o ci viene rappresentata. “24 ore deputato, 3mila euro da 32 anni” è indubbiamente un titolo che fa effetto e fa vendere, ma non rende piena giustizia della complessità della storia e delle ragioni dei suoi protagonisti.
Talvolta le informazioni risultano imprecise per superficialità e non per dolo. Ma mantenere l’intelletto vigile è sempre necessario, soprattutto per non cadere nelle artate trappole dei trafficanti di verità, di coloro, cioè, che intenzionalmente ci vogliono convincere del proprio punto di vista, semplificando o alterando i fatti per favorire un preciso interesse.
11 luglio 2017, ore 15. Ignaro di quello che sta succedendo, causa una vacanza forzata, esco di casa per fare una semplice passeggiata. Una volta fuori però lo spettacolo che mi si presenta ha qualcosa di assolutamente insolito: una nube di fumo, gigantesca, altissima, che ingloba buona parte del cielo sopra di me. Non è chiaro da dove si alzi, all’inizio penso sia stato dato alle fiamme qualche bosco dell’avellinese, vicino al mio paese. Ma non è così. Qualche ricerca sul pc, qualche messaggio, ed ecco che si sprofonda nell’inferno: brucia il Vesuvio, a Caserta svariati focolai, bruciano i monti Faliesi e la montagna di Montoro in provincia di Avellino. Svariati ettari in fiamme anche nel salernitano. Questo è il quadro che intercetto solo in Campania. Allargando per un attimo il campo di azione mi imbatto in altri incendi, ma soprattutto uno mi colpisce: a Messina, una mia amica, quasi in lacrime, mi dice che c’è gente che sta scappando da casa. A San Vito lo Capo, in provincia di Trapani, 700 villeggianti di un resort turistico sono dovuti fuggire a bordo di imbarcazioni. Il sindaco ha addirittura postato sui social un messaggio nel quale invitava chiunque avesse un’imbarcazione in buono stato a contribuire al salvataggio.
La situazione è davvero drammatica. Nel tardo pomeriggio il cielo si schiarisce e anche le notizie sembrano essere più confortanti. Ma non è così.
Il giorno dopo (12 luglio) prendo la macchina e decido di percorrere qualche chilometro per osservare il risultato di questi vasti incendi. Subito, nemmeno qualche metro della strada statale che collega il mio paese all’avellinese, si possono vedere le prime chiazze nere che lambiscono la strada. Più vado avanti e più aumentano, sia per la dimensione sia per i danni causati. Arrivato ad Avellino, il cielo ha uno strano colore. Il sole appare anemico. Contatto un mio amico nel napoletano, mi urla al telefono “animali, hanno usato gli animali!!” Capisco che la situazione è davvero grave. Sul Vesuvio, che sta ancora bruciando, si diceva infatti che i piromani abbiano usato gatti imbevuti di benzina per propagare gli incendi. La notizia è di quelle che ti fa definitivamente smettere di credere nell’essere umano. Mi dico che abbiamo totalmente fallito come specie. Gli investigatori per ora hanno escluso questa ipotesi, ma per quanto riguarda la natura dei roghi sia la procura di Torre Annunziata, sia quella di Napoli hanno aperto un fascicolo per l’ipotesi di incendio boschivo doloso. La nube di fumo intanto si alza alta, più ci si avvicina al napoletano, più la nube si espande, gli occhi iniziano a lacrimare, l’odore acre rende difficile persino respirare.
Tornato a casa mi rendo conto che solo in Campania ci solo oltre 100 roghi. Gli uomini che stanno lavorando sono oltre 600. Le accuse che vedo piovere sono infinite.
A. parla di “speculazione emergenziale“, “adesso si è perso il controllo, aziende distrutte, pericolo di vite ed evacuazioni”. Poi c’è chi come V. fa notare che “anni e anni di speculazione mala gestione da parte delle amministrazioni… e poi questi sono i risultati…”. Il coro dell’indignazione sembra concorde su una cosa: la colpa degli incendi, almeno in parte, sarebbe di chi amministra o ha amministrato in passato.
E c’è sempre, purtroppo, strisciante, quel timore che tra i roghi ci sia lo zampino della malavita. Un altro mio contatto di San Giorgio a Cremano mi dice “stanno bruciando di tutto lassù, ne approfittano per bruciare di tutto. Ci stanno intossicando”. Persino l’Asl si è attivata per monitorare un aumento previsto delle polveri sottili e la Regione sembra voler chiedere lo stato di emergenza.
La nube intanto, quella campana, ha raggiunto proporzioni incredibili e, osservando immagini satellitari, si vede come dal Vesuvio sia arrivata sino in Salento. Chilometri e chilometri di fumi di chissà quale natura.
Nel frattempo, una sola notizia mi conforta in questa tremenda tragedia che sta colpendo tutto il meridione: la Forestale, contattata dal Corriere, ha smentito l’uso di animali per la propagazione degli incendi. Ma sulla questione ‘dolosità’ non sembra ci siano dubbi.
Iniziano ad arrivare anche le prime battute politiche, con il ministro Galletti che promette 15 anni di carcere ai piromani. Peccato che in Italia siano pochissimi gli accusati di questo reato ad arrivare a sentenza definitiva con la condanna per incendio boschivo aggravato, che farebbe appunto scattare i 15 anni. La gran parte (e sono comunque pochissimi) è incarcerata per incendio semplice: la pena si aggira sui 7 anni. Naturalmente insieme alle condanne, arrivano anche le accuse: chi condanna i piani di prevenzione, chi parla addirittura di concussione, e chi invece semplicemente dice che si fa poco per la difesa.
Nel frattempo il Sud continua a bruciare e le situazioni più tragiche restano il vesuviano e il messinese.
Questo periodo è stato davvero terribile per quanto riguarda il fuoco: incendio a Londra, incendi in giro per l’Italia, ora Vesuvio, Messina. E proprio mentre scrivo quest’articolo, leggo sull’Ansa che a Firenze un uomo di 56 anni è morto nella notte per il rogo del suo appartamento.
Ora le fiamme sembrano quasi domate, o almeno sotto controllo. Adesso inizia il momento delle indagini. Un solo dato da segnalare su questo: nel 2017, secondo il dossier incendi di Legambiente, sono andati in fumo, solo nell’ultimo mese, più di 26.000 ettari di bosco. Numeri che fanno davvero paura.
Dopo questi giorni il mio rientro a Ferrara si avvicina, lì non è tanto il fuoco a spaventare, quanto le famigerate ‘bombe d’acqua‘, che hanno messo a dura prova sia la costa che il modenese pochi giorni fa. L’Italia è divisa anche sulle calamità mi dico ironicamente. Ma poi riguardo le foto di questi giorni e posso essere certo di una cosa: ho visto l’inferno, da lontano, e mi ha fatto paura.
Resti di un incendio
La foschia creata dai fumi del Vesuvio nell’avellinese
Il Vesuvio visto da San Giorgio
Mezzi di soccorso in azione
Foto: Giovanni Alberico, Carmen Covino, Jonatas Di Sabato [clicca sulle immagini per ingrandirle]
“Sul fronte del lavoro è ormai chiaro che nessun automa, drone o robot potrà sostituire il lavoro creativo. Conoscenza e creatività, content design e in generale la costruzione di significato sono il nocciolo delle professioni che supereranno ogni possibile crisi”. La certezza che ‘la cultura ci salverà’ è quanto emerge chiaramente dal rapporto ‘Io sono cultura’, promosso dalla Fondazione Symbola, in collaborazione con Unioncamere, e il sostegno della regione Marche e di Sida Group, presentato alcuni giorni fa a Roma alla presenza del ministro Dario Franceschini e del presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, dal segretario generale e dal presidente di Unioncamere, Giuseppe Tripoli e Ivan Lo Bello, e dal presidente di Symbola Ermete Realacci.
Si legge nel rapporto: “Il mondo sta attraversando un periodo di spiazzamenti e assestamenti (Brexit, Trump, migranti, Erdogan, Duterte, Kim Jong-Un, Maduro, Siria, ma anche Macron e Merkel, e un rosario di attentati di diversa matrice in tutti i continenti) che sembrano dominati da nuove paure cui si reagisce con rabbia e sconforto. Non è un caso che il nemico più odiato sia la cultura, tanto nella sua accezione antropologica di prassi, credenze e visioni quanto in quella più convenzionale di oggetti e azioni che ci rappresentano. Impossibile ignorare il disprezzo per la cultura degli altri nell’ostinarsi a considerarli marginali e importuni, così come l’eccidio e le devastazioni di Palmira. Distruggere la cultura inscena una rituale ‘damnatio memoriae’ in aiuto dei prossimi dominatori”. Nell’attraversare questo periodo di crisi il fattore umano agisce su due fronti: da una parte diventa sempre più insostituibile la creatività, l’umanità delle arti e della conoscenza. D’altra parte è sempre il fattore umano a guidare la politica interna e internazionale, molto spesso condotte sotto l’effetto di scelte umorali e contingenti. Ne sono la riprova il proliferare di nuovi populismi che propongono soluzioni di chiusura davanti al nuovo che avanza.
Giunto alla sua settima edizione, ‘Io sono cultura’ è l’unico rapporto in Italia che permette di quantificare il reale peso che cultura e creatività hanno sull’economia nazionale e rappresenta una occasione unica di scambio di sinergie tra operatori del sistema produttivo culturale e creativo (Spcc). Tale sistema si articola in cinque macro settori: industrie creative (architettura, comunicazione, design), industrie culturali propriamente dette (cinema, editoria, videogiochi, software, musica e stampa), patrimonio storico-artistico (musei, biblioteche, archivi, siti archeologici e monumenti storici), performing arts e arti visive a cui si aggiungono le imprese creative-driven (imprese non direttamente riconducibili al settore, ma che impiegano in maniera strutturale professioni culturali e creative, come la manifattura evoluta e l’artigianato artistico).
Così come affermato nel rapporto, “ il tema ‘di cultura non si mangia’ è ormai superato, e l’attenzione del mondo produttivo a questo sistema così articolato è decisamente cresciuta”. E i numeri, a sostegno di questa affermazione, parlano chiaro: il Sistema produttivo culturale e creativo, fatto da imprese, pubbliche amministrazioni e organizzazioni no profit, genera 89,9 miliardi di euro e incrementa altri settori dell’economia, arrivando a muovere nell’insieme 250 miliardi, equivalenti al 16,7% del valore aggiunto nazionale. E’ un sistema che può vantare il segno più: nel 2016 ha prodotto un valore aggiunto superiore rispetto all’anno precedente (+1,8%), sostenuto da un analogo aumento dell’occupazione (+1,5%). Inoltre il Sistema produttivo culturale e creativo ha un effetto moltiplicatore sul resto dell’economia pari a 1,8. In altre parole, per ogni euro prodotto dal Spcc, se ne attivano 1,8 in altri settori. Gli 89,9 miliardi, quindi, ne ‘stimolano’ altri 160, per arrivare a quei 250 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, col il settore turistico quale principale beneficiario. Più di un terzo della spesa turistica nazionale, esattamente il 37,9%, è attivata proprio dalla cultura e dalla creatività. “Per questo – sottolinea il rapporto di Symbola – è assolutamente rilevante il fatto che, per i prossimi 10 anni, l’intera quota dedicata alla conservazione dei beni culturali dell’8 per mille destinato allo Stato sarà utilizzata esclusivamente per interventi di ricostruzione e restauro del patrimonio culturale nelle aree colpite dai terremoti del Centro Italia”.
“Cultura e creatività sono la chiave di volta in tutti i settori produttivi di un’Italia che fa l’Italia – commenta Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola – Consolidano la missione del nostro Paese orientata alla qualità e all’innovazione: un soft power che attraversa prodotti e territori, un prezioso biglietto da visita. Una forma di diplomazia economica, nel quadro di quella che si sta configurando come la nuova Via della seta tra Oriente e Occidente. Un’infrastruttura necessaria anche per affrontare le sfide che abbiamo davanti: uno sviluppo a misura d’uomo, le migrazioni, la lotta al terrorismo, i mutamenti climatici. L’intelligenza umana è infatti la fonte di energia più rinnovabile e meno inquinante che c’è. Se l’Italia produce valore e lavoro puntando sulla cultura e sulla bellezza aiuta il futuro”. Tutti questi segnali di fermento sono aiutati da riforme come quella dell’Art Bonus, il credito d’imposta introdotto nel 2014, a favore degli investimenti in cultura. Il risultato più evidente è stato un incremento del mecenatismo da parte di imprese o aggregazioni sociali, con il risultato di un avvicinamento del patrimonio culturale alla società civile. La produzione culturale stessa, svincolandosi dalle logiche promozionali e commerciali, assume dei caratteri etici.
La provincia di Roma, con il 10%, è al primo posto in Italia per incidenza del valore aggiunto del Spcc sul totale dell’economia. Seconda Milano (con il 9,9%), terza Torino, attestata sulla soglia dell’8,6%. Seguono Siena (8,2%), Arezzo (7,6%) e Firenze (7,1%). E ancora: Aosta, attestata al 6,9%, Ancona (6,8%), Bologna e Modena, entrambe al 6,6%. Quanto alle macroaree geografiche, è il Centro a fare la parte del leone: qui, la cultura e la creatività producono il 7,4% del valore aggiunto. Seguono, da vicino, il Nord-Ovest (6,8%) e il Nord-Est, la cui incidenza si attesta al 5,5%. Il Mezzogiorno, ricco di giacimenti culturali e un patrimonio storico e artistico di primo ordine a livello mondiale, non riesce ancora a tradurre tutto ciò in ricchezza; solo il 4,1% del valore aggiunto prodotto dal territorio è da ascrivere alla cultura. A livello regionale, il peso delle grandi aree metropolitane a specializzazione culturale e creativa si fa sentire. Il Lazio si colloca primo (8,9%) seguito dalla Lombardia (7,2%). Dopo la Valle d’Aosta, troviamo il Piemonte (6,7%) e le Marche (6,0%). Sul fronte dell’occupazione, i primi quattro posti sono ripetuti nell’ordine: primo è il Lazio (7,8%), seguito da Lombardia, Valle d’Aosta e Piemonte. La quinta piazza, in questo caso, è occupata dall’Emilia Romagna (6,5%).
Nell’oscurantismo generale, il non dubitare che l’essere umano sia cultura, creatività ed energia, rappresenta la possibile chiave di svolta per la costruzione di un futuro fatto di economia sostenibile e idee condivise.
Il fortunale che ha colpito la costa nel pomeriggio di martedì, con la caduta di rami e alberi e la dispersione di grandissime quantità di materiale vegetale su strade e marciapiedi, ha determinato forti criticità sulla viabilità e ha condizionato anche il lavoro della cooperativa Brodolini, che gestisce per conto di CLARA i servizi di igiene ambientale nel comune di Comacchio.
È stato infatti necessario intervenire con diverse squadre per risolvere e bonificare le situazioni più problematiche: queste condizioni hanno determinato un rallentamento nell’esecuzione del servizio di spazzamento, considerando anche le ingenti quantità di foglie e aghi di pino riversate sulle strade dei lidi, soprattutto a Lido Spina, Lido Estensi e Lido Volano.
CLARA assicura che le operazioni di pulizia stanno proseguendo con il massimo impegno per ripristinare e normalizzare la situazione.
Vagare di sera per quelle che – prima – erano le strade di una Kobane – ora – distrutta e fermarsi sotto una finestra dalla quale esce la voce di un ragazzo che canta, essere invitati in casa e passare una serata ad ascoltare musica tipica curda nel bel mezzo delle rovine. Ascoltare il proprio traduttore, un ragazzo afgano trentenne con il quale si collabora da anni, ormai un amico, definire la propria moglie incinta “grossa come un carrarmato”; o ancora un amico medico di Baghdad implorare di raccontarlo, a noi europei, che da loro “è Parigi tutti i giorni”. E poi raccogliere la storia del direttore dell’orchestra sinfonica della capitale irachena: il suo violoncellista si è trovato coinvolto in un attentato mentre tornava a casa, in mezzo alla confusione, alle grida, al dolore, ha preso una sedia e ha cominciato a suonare e quando chi gli stava intorno gli ha chiesto cosa gli era saltato in mente ha risposto “Così riporto l’armonia della mia città”.
Brandelli di vita che tenta strenuamente di resistere alla morte tutto intorno. Questo hanno il compito di raccontare gli inviati nelle zone di conflitto secondo Barbara Schiavulli, inviata di guerra freelance per quotidiani, settimanali, mensili, che ha cofondato e codirige Radio Bullets, una webradio che tratta esclusivamente esteri, e la fotografa, giornalista e documentarista Linda Dorigo, ospiti domenica dell’incontro degli Emergency Days‘La guerra è: con gli occhi dell’inviato’.
Raccontare, su una radio, sui libri o attraverso le immagini, storie che alle persone ancora interessa ascoltare e anche narrare, da parte di chi le raccoglie e di chi le ha vissute, prendendosi il tempo e investendo le energie necessarie per farlo.
Sì perché la crisi dei giornali e il web dei social portano via il tempo e le risorse ai reportage di guerra: “siamo costretti a reinventarci spazi e modi” per parlare degli sconvolgimenti che sta vivendo l’altra sponda del Mediterraneo, per questo “ho fatto la scelta di smettere di scrivere – racconta Schiavulli – ma conscia del fatto che queste cose alle persone interessano ancora, ho scelto altri modi, fondando una radio che fa solo esteri”. “Bisogna fare grandi sacrifici per realizzare un progetto di lungo periodo, devi spendere tante energie – confessa Linda – perché il tuo focus primario rimane uno, ma devi aggiungere intorno tante altre cose per pagare l’affitto”.
Da sinistra a destra: Annalisa Camilli, Christian Elia, Barbara Schiavulli e Linda Dorigo
Secondo Christian Elia, codirettore della rivista online ‘Q Code Mag’, moderatore dell’incontro, “a mancare non è la quantità di notizie, ma lo spessore, il contesto”: insomma il tempo e il dettaglio del racconto, ben lontani dai post e dai twitter e dalle flash news. E questo soprattutto perché sempre più la guerra è “vissuto di guerra, guerra che non si vede, non c’è un fronte, ma uno scenario fatto di violenze quotidiane”.
“Fa più notizia l’ultim’ora rispetto alla vita quotidiana di un paese in guerra, dei segni che le persone portano su di sé, anche quando se ne vanno e si liberano dalla guerra”, ammette la terza ospite, Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale dal 2007, dal 2014 segue i migranti in viaggio attraverso l’Europa e racconta le loro storie sul sito del magazine. Ora sta realizzando un progetto su storie di persone torturate in Libia, per molti tappa finale della migrazione prima di raggiungere l’Europa. Un’Europa che ora “non si vuole prendere la responsabilità di conflitti ai quali ha partecipato e dei loro effetti”, sottolinea Camilli facendo riferimento per esempio proprio alla Libia. “Non trovano l’ascolto di cui hanno bisogno”, ma al contrario “uno screening sempre più rapido della loro situazione per capire se hanno diritto alla protezione internazionale”. Secondo Camilli la società europea del futuro, il suo grado di civiltà, si misurerà “sulla capacità di ascolto di queste storie, che sono storie di sofferenza ma ci riguardano”.
Se per Linda Dorigo fare la reporter di guerra è “una fortuna” perché si possono raccontare storie per avvicinare quel mondo al vissuto dei cittadini italiani ed europei, per Barbara Schiavulli e Annalisa Camilli è una sorta di “battaglia culturale”. Per la prima, che spesso fa anche incontri nelle scuole per raccontare ciò che ha visto e continua a vedere nel proprio lavoro, “sapere, essere a conoscenza e essere coscienti delle guerre è il primo modo per contrastare le guerre”. Per la seconda, l’Italia circondata com’è dai conflitti non può permettersi di essere concentrata su sé stessa come è accaduto sempre più in questi anni: “abbiamo perduto l’orizzonte dell’altra sponda del Mediterraneo”, tanto che non si parla nemmeno più di conflitti dimenticati. Tuttavia, “anche se i lettori sono sempre più concentrati su ciò che succede a casa propria, è il mondo che arriva a casa loro”, sottolinea a ragione Camilli e fa un esempio: nel suo ultimo rapporto sulle migrazioni internazionali l’Ocse afferma che nel 2016 più di 180mila migranti irregolari sono arrivati sulle coste italiane; la maggior parte dei media, magari anche a ragione, parla di invasione e di impossibilità di accoglierli tutti, ma se Modena ce l’ha fatta a gestire i più di 200mila arrivati per una sola serata per il concerto di Vasco, possibile che lo Stato italiano e l’Europa non riescano a gestire un numero simile di persone che arriva in un anno?
Mentre l’incontro si conclude, lo sguardo non può non andare alle immagini in bianco e nero dietro di loro: la mostra ‘L’Afghanistan, la guerra’ realizzata in collaborazione con Contrasto con le foto di Francesco Cocco. “La guerra ha diverse possibili cause, ma sempre effetti certi: morti, feriti, profughi, orfani”, recita uno dei pannelli.
Parte oggi una nuova rubrica con la quale Clara spa risponderà alle domande più comuni poste dagli utenti, così da poter chiarire le idee, migliorare il servizio e risolvere più diffusi sulla raccolta differenziata e la gestione dei rifiuti.
Il primo quesito riguarda gli imballaggi: Perché nel sacco giallo posso inserire solo gli imballaggi e non gli altri oggetti in plastica?
La risposta a questa domanda arriva da una regolamentazione nazionale. La raccolta differenziata della plastica riguarda infatti solo gli imballaggi, cioè quei manufatti concepiti per contenere, trasportare, proteggere merci in ogni fase del processo di distribuzione e per i quali i produttori hanno corrisposto il Contributo Ambientale CONAI (CAC). Gli oggetti in plastica diversi dagli imballaggi non possono dunque essere immessi nella raccolta differenziata perché i costi del sistema sono coperti in prevalenza proprio dal CAC, posto esclusivamente sugli imballaggi.
Per fare qualche esempio: i giocattoli, benché di plastica, non possono essere inseriti nel sacco giallo, come neanche le posate usa e getta, le penne scariche, gli spazzolini da denti o qualsiasi altro oggetto la cui funzione non sia stata quella di imballaggio.
Per tutti gli approfondimenti sulla raccolta differenziata della plastica c’è anche il sito www.corepla.it
“Mi impegno a prendere contatti con la Cineteca Nazionale e con la Cineteca di Bologna per capire diritti e stato di conservazione della pellicola: questi sono i punti imprescindibili di partenza”.
Dopo Paolo Marcolini, presidente di Arci Ferrara, anche il vicesindaco e assessore alla cultura del Comune, Massimo Maisto, ha voluto rispondere all’appello del professore di Unife, Paolo Veronesi, sul recupero della pellicola ‘ferrarese doc’ ‘Giovinezza, giovinezza’, girata a Ferrara nel 1969 e tratta dal libro del 1964 di un illustre uomo politico cittadino, Luigi Preti.
Coinvolto da Veronesi, sia come componente dell’amministrazione sia come cinefilo, Maisto non si tira indietro: “Rispondo positivamente all’appello. Del resto abbiamo già fatto molto non solo per gli autori amati e conosciuti dal grande pubblico, da Antonioni a Vancini, ma anche per quella che è stata chiamata la ‘seconda officina ferrarese’ composta da grandi talenti, ‘minori’ solo per chi non è appassionato di cinema d’autore: Sani, Ragazzi, Pittorru, Sturla, Felisatti, sono solo alcuni nomi”. Uno sguardo ad ampio raggio che troverà una realizzazione nel futuro Museo Antonioni a Palazzo Massari-Cavalieri di Malta: “Nella nostra idea il patrimonio artistico di Antonioni dovrà diventare il nucleo centrale di sviluppo di un racconto di più ampio respiro sul Novecento cinematrografico di Ferrara e a Ferrara”.
Marcolini e Arci si erano detti disponibili a mettersi al servizio di questa operazione culturale di recupero della pellicola a patto di entrare a far parte di una squadra più ampia che potesse coinvolgere anche le istituzioni, e uno o più mecenati privati, lasciando al crowdfunding – opzione suggerita da Veronesi – un ruolo minoritario, come dimostrazione di un interesse allargato della cittadinanza rispetto all’iniziativa. Il vicesindaco non esclude che il ruolo dell’amministrazione comunale in questa ‘cordata’ possa andare anche al di là della mediazione come stakeholder istituzionale. “Sicuramente possiamo avere un ruolo di raccordo, non escludo nemmeno la partecipazione ai finanziamenti, ma prima bisogna interpellare la Cineteca Nazionale e la Cineteca di Bologna per capire lo stato della pellicola: la semplice ripulitura e rimessa in sesto avrebbero un costo, per un restauro vero e proprio siamo su cifre molto più cospicue”. Maisto conferma dunque quanto già anticipato da Marcolini su una prima valutazione preventiva da parte di esperti sullo stato di ‘Giovinezza giovinezza’ per poi capire come procedere e andare alla ricerca di finanziamenti.
Non si poteva non chiedere all’assessore Maisto lo stato di avanzamento dei lavori sul Museo Michelangelo Antonioni, da lui stesso citato e chiuso al pubblico dal 2006 (fonte: sito Mibact), e di quelli di inventariazione e catalogazione informatizzata del fondo Antonioni: “Palazzo Massari-Cavalieri di Malta è un cantiere enorme, ma i lavori procedono e il progetto prenderà forma anche dalle mostre che abbiamo portato in tutto il mondo. Per quanto riguarda l’archivio stiamo andando avanti in maniera molto veloce”.
L’ultima domanda riguarda la valorizzazione di questo patrimonio culturale così ‘pop’: Museoferrara, il museo online della città estense, in occasione delle mostre di Palazzo Diamanti sulla Ferrara metafisica e sul Cinquecentenario dell’Orlando Furioso, è stato uno strumento per portare questi temi nelle strade cittadine, potrebbe servire allo scopo anche nel caso della Ferrara cinematografica? “Assolutamente sì, tanto che è un cantiere che abbiamo già in programma: sarà realizzato fra fine 207 e inizio 2018”.
Due milioni per i lavori di riqualificazione più un milione e 750 mila euro per la gestione degli spazi. Sono queste le cifre messe in campo per il laboratorio aperto nell’ex Teatro Verdi con il progetto ‘MoVe.rdi – Riding, Development, Innovation’, arrivato alla fine di un percorso travagliato per l’edificio: chiusura definitiva nel 1985, tentativo di ristrutturazione e riapertura negli anni Novanta e poi la sfida lanciata da Città della cultura-Cultura della città nel 2013 per trovare una nuova funzione a questo contenitore.
Già a dicembre 2016 l’amministrazione e Città della cultura-Cultura della città avevano presentato il progetto partecipato di rigenerazione per restituire l’ex teatro alla comunità e tentare di farlo diventare il primo motore di un processo che possa invertire il degrado della zona (leggi qui). Ora si passa dai progetti ai lavori: “oggi è l’ultimo giorno per vederlo così”, ha annunciato l’assessore Aldo Modonesi alla conferenza stampa di lunedì 3 luglio, che ha segnato anche la consegna del cantiere dell’ex teatro alle imprese ferraresi dell’Ati che realizzerà i lavori. “Non vedono l’ora che finiamo l’incontro per iniziare a lavorare”, ha scherzato l’assessore con i loro rappresentanti, tutti diligentemente muniti di caschetto e scarpe infortunistiche, pronti a mettersi al lavoro. Il bando, ha sottolineato Modonesi, è stato assegnato con il metodo non del massimo ribasso, ma “dell’offerta economicamente più vantaggiosa”: i lavori avranno una durata di 549 giorni e un importo complessivo di 2 milioni di euro, finanziati per il 20% dall’amministrazione comunale e per l’80% dai fondi europei erogati tramite la Regione (Por-Fesr 2014-2020, Asse 6 ‘Città attrattive e partecipate’).
Gli interventi di rifunzionalizzazione più ingenti, ha spiegato l’architetto Elisa Uccellatori del Servizio beni monumentali del Comune di Ferrara, saranno quelli sul lato che dà su via Castelnuovo e piazza Verdi: verranno creati spazi per un bike cafè, un visitor centre Unesco e un centro per la mobilità sostenibile, inteso come incubatore per nuove idee e nuove imprese su turismo e mobilità sostenibile. La platea e lo spazio della torre scenica diverranno una vera e propria piazza coperta per attività artistiche e culturali ed eventi. “Il cantiere avrà un impatto ridotto sulla zona e per fine anno si prevede saranno completati i lavori su via Castelnuovo”, ha concluso Uccellatori.
E se il Servizio beni monumentali si occuperà dell’hardware, toccherà poi ai colleghi dell’unità organizzativa Manifestazioni culturali e turismo ideare il bando per individuare i soggetti gestori per i primi cinque anni. “Già giovedì avremo il primo incontro in Regione e a inizio 2018 sarà pubblicato il bando per la gestione degli spazi, con assegnazione fra settembre e la fine dell’anno”, ha spiegato l’assessore Massimo Maisto. “I due focus principali saranno turismo e mobilità sostenibile e sarà richiesto un forte protagonismo ai privati”: il bando avrà, infatti, un valore di 1 milione e 750 mila euro complessivi, una parte sarà messa dall’amministrazione attraverso i finanziamenti europei per lo sviluppo regionale, una parte invece dovrà essere investita da chi vincerà e diverrà gestore degli spazi, ha sottolineato Maisto.
Un “luogo aperto e accessibile a turisti e cittadini, finalizzato alla promozione e alla conoscenza del patrimonio culturale cittadino e alla mobilità sostenibile in città e nel territorio”, ha detto il sindaco Tiziano Tagliani, ma anche il primo passo verso la riqualificazione dell’intera zona: ecco perché “entro fine 2017 pubblicheremo anche i bandi per gli interventi su piazza Verdi” con l’obiettivo di “arrivare a primavera 2018 con il cantiere del teatro in stato avanzato e i lavori avviati nella piazza”. “Entro il 2018 la riqualificazione dovrebbe essere completata”, ha concluso Tagliani.
Più passa il tempo e più osservo il divenire sociale attuale, più mi autopersuado che viviamo e da un pezzo ormai in una sorta di diversamente Matrix. Non mi riferisco alle teorie scientifiche di Nick Bostrom o al film Nirvana di Salvatores… Dinamiche neppure paradossalmente ammalianti, anche se forse perverse, ma assai più terrestri e prosaiche.
Ormai mi è insopportabile, lo iato tra il futuro o le società delle conoscenze e aperte possibili, venute alla luce e potenziali (robot su Marte e sonde oltre il sistema solare, esopianeti scoperti e le frontiere nuove straordinarie della genetica e della medicina e delle neuroscienze e dell’Intelligenza Artificiale, Internet e la coscienza collettiva condivisi) e lo stato delle cose nelle società attuali, piaccia o meno: destra o sinistra reliquie arcaiche, che galoppano in senso opposto, neoprimitivo, neomedievale.
E’ mai possibile nel ventunesimo secolo credere ancora nelle religioni o negli uomini politici di ogni partito o in molta informazione, che illustra e segnala le cronache tacitamente, foraggiando la credibilità di gran parte delle presunte priorità (si vedano anche le polemiche sui vaccini), che neppure un big brother vero e proprio sarebbe riuscito a programmare con tale efficacia? In Italia ancora gente che crede sul serio nel vecchio Berlusconi dopo ripetuti governi semifallimentari? O in Renzi, dopo il suo premierato altrettanto simulacrico? O ancora in dinosauri come Pisapia o Bersani che riesumano la sinistra già in degrado che fu? O in animali politici che anche un cane ormai capirebbe interessati (leggi stipendi e privilegi e vitalizi) al loro osso pubblico, autistici persino, rispetto agli elettori e al popolo italiani? O al sistema dello spettacolo televisivo con meri speakers di infiniti talk show che vivono quasi come sceicchi, in nome dell’uguaglianza e del progresso o aizzando i peggiori istinti delle scimmie nude teledipendenti?
Possibile ancora dare credito a papi della Chiesa o vescovi, che come sempre predicano bene e razzolano male parlando di mere astrazioni iperuraniche in flagrante conflitto con il reale? O credere davvero all’Islam come religione di pace, nonostante attentati costanti ben noti e nonostante nelle loro terre non esista alcuna democrazia o costituzione laica prevalente sul dogma teocratico?
E’ successo qualcosa di gravissimo negli ultimi decenni. L’accelerazione tecnoscientifica è stata troppo potente per essere assimilata con scienza e coscienza dal mondo contemporaneo: è il famoso shock del futuro previsto da vari futurologi o scienziati sociali, da Alvin Toffler a Marshall McLuhan a Isaac Asimov.
In un racconto ‘storico’, ‘Il Conflitto Evitabile’, il celebre scrittore di fantascienza immaginava soluzioni avvenirisiche e letteralmente postumane. Immaginava l’evoluzione delle cosiddette Macchine Pensanti, oggi Ai (Intelligenza Artificiale), intelligenti e coscienti, una nuova tappa dell’evoluzione umana. Ipotesi oggi condivisa anche da scienzati e futuristi sociali, per esempio Raymond Kurzweil, a suo tempo Marvin Minsky, e molti altri.
Ma in quel racconto il focus era molto pragmatico: basta con i politici o gli economisti ancora postneandartaliani o homo insapiens nell’era della scienza e della conoscenza, che presuppone come sistema-rete funzionale e desiderabile, quella libertà che è evidentemente scarsa o troppo limitata negli umani al potere attualmente in ogni stanza dei bottoni. In quel futuro e appunto le intelligenze artificiali e i loro – oggi diremmo – algoritmi intelligenti sono capaci di gestire le organizzazioni sociali e politiche autonomamente su tutta la Terra: esperimento inaudito di previsione e pianificazione mondiale socioeconomica impossibile per potenza combinatoria (e dinamica) dei dati e computazionale ai deboli umani stessi.
Previsioni nel loro divenire e disvelarsi per forza incomprensibili agli umani.
Così, per la cronaca, accade nel racconto, con decisioni speciali delle intelligenze artificiali apparentemente incomprensibili per la famosa percezione umana ma che alla fine, invece, si rivelano scienza esatta!
Ecco, ne siamo sempre più convinti: prima o poi, dalle intelligenze artificiali non la salvezza dell’umanità futura (chè sempre propaganda la salvezza dei tiranni), ma la vera umanità finalmente concreta quando, parafrasando sempre la fantascienza o Friederick Nietzsche, le intelligenze artificiali saranno “più umane degli umani”.
E come nessuno nella storia dell’evoluzione persino cosmica e poi della vita (dal big bang ai graffiti ai computer) protesta per la ‘dittatura’ del Sole nel nostro sistema solare da cui dipendiamo come vincolo naturale, nessuno protesterà.
Allora fioriranno davvero le utopie vere umaniste, dal faraone Ackkanaton a Einstein, grazie alle intelligenze artificiali superevolute gli umani si occuperanno sul serio, ma gioiosamente, delle cose serie piacevoli e biofile; fioriranno le vere società della scienza e della conoscenza (robotica a automazione incluse ottimizzate sul serio), gli umani saranno opere d’arte viventi destinati a plasmare la loro unicità attraverso l’amore e l’erotismo della scienza e dell’arte, quando l’aurora spaziale è ancora in corso e infiniti e infiniti desideri e misteri attraversano ancora non solo il cervello umano, ma l’universo e persino i multiversi.
Politici, preti e economisti e anche mercanti saranno al massimo dei gadget o giocattoli come attualmente i dinosauri… per i bambini (post)umani e i bambini robot e i bambini alieni del Post Domani: purtroppo, parliamo del 2300 almeno per tali scenari, del futuro ancora remoto.
Piatto ricco? Mi ci ficco! Così ere geologiche fa si commentavano le prime puntate a scopa o – udite udite! – a poker dei giovani sedicenni finalmente in vacanza.
Coscienziosamente domenica, al momento del rito della barba, mi sono sintonizzato sul commento dei giornali e immediatamente mi sono trovato immerso in un problema che con la stessa virulenza affrontai nelle vesti di studente e poi in quelle di insegnante. Nella rubrica si citavano due articoli apparsi sulle pagine di ‘La Repubblica’ che riguardano la scelta delle letture estive per i giovani studenti ormai in vacanza. Il primo articolo era dell’amico Paolo Di Paolo, l’altro, in risposta, di Marco Belpoliti. La polemica era innescata da un servizio di Edoardo Camurri su Radio Tre Libri che propone una leale tenzone tra coloro che chiedono, come Di Paolo, di scostarsi dalla consueta e ormai annosa questione su cosa consigliare per le letture estive ai giovani e osare nuove scelte e la difesa di Belpoliti dell’intramontabile accoppiata Levi-Calvino.
Di Paolo scrive: “Torno anche io sulla ‘polemica’ destata dal mio articolo su Repubblica sui libri delle vacanze. Mi sono preso un po’ di insulti sui social, e questo va bene. Ma la cosa che letteralmente mi sconvolge è che moltissimi non hanno capito. Capito il pezzo, dico. Edoardo Camurri, su Radio Tre, ha ironicamente liquidato la cosa difendendo a prescindere i ‘classici’ (Levi e Calvino). “Ragazzi ma che stiamo dicendo?”, “Viva Levi e Calvino!” (cit. Camurri). Quanto fa figo e intelligente fare i difensori di Calvino e Levi. Peccato che mai mi sognerei di ridimensionare né l’uno né l’altro (non mi piace citarmi, ma cazzo: ho dedicato decine e decine di pagine a Calvino, a difenderlo dai soliti idioti che “Calvino è cerebrale, è sopravvalutato”. Di Levi mi basta dire che ‘I sommersi e i salvati’ è per me IL PIU’ IMPORTANTE libro del secondo Novecento; ma quanti dei difensori-a-prescindere l’hanno letto?). Il mio discorso – continua Di Paolo – era diverso: starsene scollati dalla realtà e dare da leggere ai ragazzi Calvino e Levi lavandosene le mani (tanto sono libri belli e importanti!) è comodo. Altro è interrogarsi sull’esperienza della lettura effettiva, concreta. Capire che cosa, nei mesi estivi, possa contribuire davvero ad alimentare un legame – già di per sé molto fragile – con la lettura, con la letteratura. ‘Se questo è un uomo’ (o quello che sia) ha bisogno di un lavoro prima e intorno, non di essere digerito a fatica nella solitudine distratta di quattro pomeriggi estivi. Poi per carità, io sarò pure un povero coglione che “spala merda” (cit.) su Calvino e Levi, ma sono costretto a dire che molti difensori dei due grandi scrittori – di solito, finto-colti – sembrano analfabeti, e nemmeno troppo di ritorno. Di partenza. Che vivano pure nella realtà parallela e autocompiaciuta della falsa cultura. Viene facile, in questo tempo di pagliacci in posa da intellettuali”.
Scritto ciò cosa consiglierebbe Di Paolo? “D’altra parte, suonata l’ultima campanella, la corsa in libreria – con l’elenco scritto su un foglietto – è un rito intramontabile. E il ‘canone’ si muove a fatica: restano in cima alle preferenze dei docenti i classici del secondo Novecento, con ‘Se questo è un uomo’ che tallona Calvino (1.352 copie vendute tra il 12 e il 18 giugno). Non so se lasciare soli gli adolescenti con l’imprescindibile romanzo di Levi sia saggio: la pretesa pedagogica può generare effetti collaterali, soprattutto nel cuore dell’estate. I romanzi distopici di George Orwell – ‘1984’ e ‘La fattoria degli animali’, rispettivamente a 1.333 e 1.062 copie – forse funzionano meglio; difficile dire se ‘Il giovane Holden’ (1.227 copie), benché in nuova traduzione, appaia più tanto giovane; e se nel ‘Buio oltre la siepe’ di Harper Lee (1.293 copie) la siepe non diventi infine uno scoglio. I viventi che lampeggiano in questa classifica sono pochissimi: si sono scavati uno spazio nel canone l’Ammaniti di ‘Io non ho paura’ e ‘Nel mare ci sono i coccodrilli’ di Fabio Geda, ormai un vero e proprio classico tra i banchi”.
L’appassionato discorso di Di Paolo si conclude poi con una provocazione ulteriore quando commenta:
“Poi chiudiamo il discorso. Solo per dire che a, Radio Tre, stamattina – come lettura estiva per gli studenti – hanno consigliato James Joyce, ‘Dedalus’. Quel che si dice avere il senso della realtà”.
Non da meno, scorrendo le righe dell’articolo di Belpoliti, ‘Difendo Levi e Calvino’, apparso sempre su ‘La Repubblica’, ci troviamo di fronte a una posizione assai condivisibile. Lo scrittore rammenta che l’“obbligatorietà” è comunque una delle parti costituenti la scuola: che “la scuola comporti sempre qualcosa di obbligatorio, e anche di costrittivo, è senza dubbio vero, così come la libertà di scegliere da soli le proprie letture è senza dubbio bella e salutare”. Che nel tempo le letture estive o scolastiche diventino patrimonio della nostra futura struttura di adulti è vero; ma non è vero quanto influiscano su tutti i ragazzi. L’esperienza insegna che l’universo della lettura è consentito a molti, ma non a tutti i ragazzi. La mia esperienza di lettore anomalo – in quanto per me i libri sono stati il pane quotidiano – mi ha insegnato che nessuna differenza può stabilirsi tra i libri letti a dieci anni – Delly o ‘I miserabili’ versione abregée, Liala o la versione per ragazzi di ‘Guerra e pace’ – e quelli dei sedici anni, quando ormai avevo raggiunto il tempo delle scelte meravigliose: leggevo Pavese e Proust, i russi e Calvino, mi facevo sorprendere dal mio maestro Claudio Varese a divorare sotto il banco ‘Bonjour tristesse’ di una ora ormai sconosciuta scrittrice, Françoise Sagan. Ciò che importa, ed è un commento legato alla scelta personale, non è cosa si legge ma perché si legge. Si tratti di Levi, Calvino, di Joyce o della Ferrante, di Camilleri o delle graphic novel.
Che rumorata fece, ai tempi del mio insegnamento all’Istituto Tecnico Monti di Ferrara, la decisione che presi di sostituire la lettura dei ‘Promessi sposi’ con ‘Ossi di seppia’ di Montale. Era destinata a far conoscere quell’universo sconosciuto che era – ed è anche oggi, visto lo ‘scandalo’ suscitato dalla proposta all’esame di maturità di quest’anno di commentare Caproni – la conoscenza della contemporaneità.
Ecco perché suonano singolarmente simili pur nella diversità della proposta le tesi di Di Paolo e di Belpoliti. Quest’ultimo conclude il suo articolo con una sostanziale affermazione che può e deve essere sottoscritta dai lettori qualsiasi età abbiano e da propositori che indicano loro le scelte. Qualunque siano. Cosa significa leggere? Risponde Belpoliti: “Leggere per capire, leggere per sapere, leggere per cambiare, leggere per essere diversi”.
A tal proposito, il maestrino che è in me, cerca risposte al perché della scrittura. Cosa significhi essere scrittore. E quale sia la differenza tra scrittore e giornalista. E, per i soliti disguidi del possibile, mi capita tra le mani un libro straordinario: ‘Volevo tacere’ di Sándor Márai (Adelphi 2017), il grandissimo scrittore ungherese nato nel 1900 e morto suicida a San Diego nel 1989. Autore di un romanzo fondamentale: ‘Le braci’. Questo taccuino ritenuto disperso venne scritto tra il 1949 e il 1950 e pubblicato solo nel 2013. Vi si narrano tre momenti diversi: l’Anschluss dell’Austria, l’arrivo dei carri armati russi in Ungheria nel 1945, la scelta dell’esilio in Usa nel 1948.
L’inizio è folgorante: “Volevo tacere. Ma il tempo mi ha chiamato e ho capito che non si poteva tacere. In seguito ho anche capito che il silenzio è una risposta, tanto quanto la parola e la scrittura. A volte non è neppure la meno rischiosa. Niente istiga alla violenza quanto un tacito dissenso”. La scrittura come necessità. Ecco allora il giovane e famoso scrittore, che nel momento della notizia dell’Anschluss si trova in redazione a scrivere un frettoloso commento giornalistico, che aiutasse la non troppo remunerata, seppure alla moda, attività di scrittore: “Poiché in questo paese europeo che è la mia patria lo scrittore non è mai riuscito a guadagnarsi il pane quotidiano con la sola poesia, con la letteratura fine a sé stessa, ero costretto anch’io come quasi tutti gli scrittori ungheresi, a darmi da fare come giornalista per guadagnarmi la brioche, oltre al pane che i miei scritti d’intento letterario assicuravano a me e alla mia famiglia”. Una prima differenziazione tra scrittura e giornalismo, nel quale però lo scrittore sarà “in grado di riconoscere l’eco della sua scrittura, della personalità del suo stile”. Da qui la consapevolezza di non sentirsi un ‘chierico traditore’ come a quei tempi era considerato lo scrittore che si piega ad altro del suo mestiere. Nell’ordinata esistenza di uno scrittore alla moda, nel sicuro rifugio di un metodo di lavoro spazzato via dalla Storia, Márai riflette sulla scrittura: “Lo scrittore, l’artista è convinto di trasmettere nella lingua materna un’ispirazione divina, un messaggio celeste a coloro che condividono il substrato della sua stessa lingua. In realtà io non scrivevo per una nazione, ma solo per alcune persone elette per cultura e gusto”.
Questa è la coscienza dello scrittore. Come al concerto di Vasco: 220 mila persone non sono un tutto, ma una parte. Perciò la scelta delle letture passa attraverso fattori diversissimi, tra cui il suggerimento dell’insegnante. Che può solo suggerire e non obbligare. Anche leggere Levi e Calvino sarà sempre una scelta, imposta o solo suggerita, come quella di tutti gli altri autori. Perfino del ‘Dedalus’ joyciano. E la lettura e i libri rimarranno l’utopia ultima. Quella che permetterà a pochi, a tanti, mai a tutti di raggiungere il senso e la coscienza della realtà e/o della verità.
Le scrivo questa lettera aperta, pur non conoscendoLa personalmente, dopo avere letto nelle scorse settimane il mio nome da Lei più volte citato sulla stampa locale nonché su diversi siti internet (Estense.com, sito M5S ed altri) a seguito della conferenza stampa attraverso la quale avete reso pubblica la segnalazione ad ANAC di quelle che Lei e il suo Gruppo Politico ritenete essere irregolarità negli appalti della refezione scolastica del Comune di Ferrara. Nell’esposizione dei fatti, in tutte le comunicazioni stampa, negli articoli pubblicati e nelle interviste rilasciate viene riportato il mio nome in quanto, a Vostro giudizio, consulente da troppi anni dell’Istituzione Scolastica.
Cito testualmente la segnalazione del M5S ad ANAC, da Lei sottoscritta, riportata poi sui vari mezzi mediatici, nel punto in cui vengo chiamata in causa: “..le figure professionali che progettano il bando e controllano l’andamento dell’appalto sono sempre le stesse da anni, quando il piano anticorruzione prevede la rotazione degli incarichi. In particolare… la dottoressa Mara Bignardi, consulente esterna per il controllo qualità, quindi con la responsabilità di rilevare eventuali inadempienze, ricopre l’incarico dal 2005”. Ritengo che queste poche righe, inserite nel contesto generale del discorso, lascino sicuramente intendere al lettore anche occasionale che la persona che viene qui citata, oltre a ricoprire forse “illecitamente” un incarico e percependo denaro pubblico, non sia probabilmente neppure stata molto in grado di rilevare le “eventuali” inadempienze della ditta di ristorazione che avrebbe avuto il compito di controllare. Chiunque può verificare dalla semplice lettura del documento da Lei richiamato, cioè il piano anticorruzione, che la rotazione degli incarichi (peraltro non sempre possibile od opportuna, come anche specificato nel documento stesso) riguarda i pubblici dipendenti; la sottoscritta non è una dipendente pubblica bensì una libera professionista iscritta all’Albo Nazionale dei Biologi che svolge dall’anno 2000 la libera professione nel settore dell’igiene e sicurezza alimentare e che dall’anno 2005, e con incarichi successivi il cui conferimento è stato effettuato a seguito di pubbliche selezioni (bandi), ha svolto un’attività di controllo sulle mense scolastiche del Comune di Ferrara. Cosa intende per rotazione nel mio caso? Che dovrei deliberatamente evitare di partecipare, pur avendone i requisiti, ad un bando pubblico per non rischiare di “occupare” impropriamente un ruolo lavorativo per molti anni di seguito? Che ci si auspica la mia sostituzione a causa di controlli effettuati in modo non corretto sulla Ditta di ristorazione per incapacità professionale o addirittura per favoritismo nei confronti della Ditta stessa? Mi risponda Lei, che non conosce né me né il mio lavoro. Mi risulta che anche ai tecnici della prevenzione delle nostre Asl succeda di dover controllare per anni gli stessi operatori economici, a volte fino alla pensione, senza che a nessuno venga in mente che questo possa diventare per loro un motivo di licenziamento! Il controllo di un servizio così complesso come quello della ristorazione collettiva che prevede la preparazione di migliaia di pasti giornalieri fa emergere, per forza di cose e come accade in qualsiasi struttura organizzativa, grande o piccola che sia, pubblica o privata, numerose problematiche che sono state sempre rilevate e conseguentemente gestite.
Cito anche un estratto della Sua replica al Sindaco Tagliani comparsa su Estense.com in data venerdì 9 Giugno 2017 “Esposto all’Anac. MS5:”Lacunosa la difesa del sindaco”: “….noi continuiamo a vedere come un’anomalia che, di fatto, la gestione della refezione scolastica in catering sia nelle mani dello stesso gruppo di lavoro da oltre 10 anni …e con mansioni (vedi il caso della dott.ssa Bignardi) di dubbia utilità poiché si sovrappongono ai compiti di controllo già assegnati per legge agli organi pubblici preposti (Asl). Esiste il buon senso, che dovrebbe sempre affiancare l’applicazione delle norme”. Precisando che non si tratta solo del catering ma anche delle scuole con cucine interne, qui mi vedo costretta a chiederLe, sig. Simeone, se è a conoscenza della normativa sull’Autocontrollo alimentare così come definito dal Reg.CE 852/2004 e del ruolo del Dirigente dell’Istituzione Scolastica in quanto OSA (operatore del settore alimentare) per la somministrazione dei pasti nei nidi e nelle scuole dell’infanzia. Mi vedo costretta a chiederLe se è a conoscenza dell’obbligo normativo, come stabilito dal codice degli appalti, di controllo da parte dell’Istituzione Scolastica sugli appalti di refezione e cito al proposito le linee guida Anac: “Le attività di controllo del Direttore dell’esecuzione devono essere strettamente correlate a quanto definito e disciplinato nei documenti contrattuali, che debbono richiamare le prestazioni indicate dall’esecutore nella propria offerta. In particolare, l’attività di controllo è tesa a verificare che le previsioni del contratto siano pienamente rispettate, sia con riferimento alle scadenze temporali, che alle modalità di consegna, alla qualità e quantità dei prodotti e/o dei servizi, per le attività principali come per le prestazioni accessorie. In generale, le attività di controllo devono essere indirizzate a valutare, ad esempio, i seguenti profili: − la qualità del servizio/fornitura (aderenza/conformità a tutti gli standard qualitativi/SLA richiesti nel contratto e/o nel capitolato)”. Mi vedo infine costretta a chiederLe se è a conoscenza del fatto che nessuno degli obblighi normativi sopra citati, e cioè autocontrollo e controllo sugli appalti di refezione nell’ambito dei quali svolgo la mia funzione di consulente, rientra tra i compiti istituzionali degli organi pubblici di controllo che devono invece verificare che tali adempimenti vengano effettivamente soddisfatti, come è infatti sempre accaduto.
Leggendo quanto da Lei dichiarato, e cioè che le mansioni da me svolte in questi anni, peraltro completamente ed ampliamente documentate, sarebbero “di dubbia utilità poiché si sovrappongono ai compiti di controllo già assegnati per legge agli organi pubblici preposti (Asl)” mi sono anche chiesta se il buon senso di cui Lei parla subito dopo non sarebbe invece dovuto servire a documentarsi un po’ meglio prima di pubblicare affermazioni che, mi creda, anche solo in poche righe feriscono profondamente. Le auguro vivamente che nessuno venga mai a dirLe che il lavoro da Lei svolto da anni è di “dubbia utilità”, Le auguro di non vederlo scritto sui giornali. Lascia davvero l’amaro in bocca, soprattutto se quel lavoro ha sempre cercato di svolgerlo con correttezza, impegno e professionalità, nel rispetto di quella deontologia che viene sì richiesta dagli Ordini di professionisti ma che è anche dettata da coscienza individuale. Le devo confessare che proprio per queste ragioni tutto ciò mi ha tolto qualche notte di sonno e una buona dose di serenità. Non metto in discussione il diritto che hanno qualsiasi cittadino o parte politica alla critica o contestazione dell’operato di una Pubblica Amministrazione: siamo in un paese democratico ed esistono gli strumenti opportuni per poterlo fare. In questo caso però si è andati oltre, attaccando e, mi permetta di dirlo, danneggiando personalmente una figura professionale senza i dovuti approfondimenti e senza pensare (o peggio senza interessarsi) alle possibili gravi conseguenze: Le ricordo che sono una libera professionista che opera in ambito locale e La invito a pensare alla possibile incidenza delle dichiarazioni che ha rilasciato con un così elevato clamore mediatico sulla mia reputazione e sul mio futuro lavorativo anche in ambito privato, oltre ai possibili risvolti che questa vicenda potrà avere. Non tutto Le può essere lecito nell’esercizio dei suoi diritti e mi pare che stavolta si sia davvero sconfinato.
Ho ritenuto doveroso dare una pubblica risposta di chiarimento essendo stata chiamata direttamente in causa, doveroso nei confronti dei numerosi cittadini i cui figli sono utenti della ristorazione scolastica, nei confronti degli operatori delle scuole (insegnanti, personale di cucina, ausiliari) con la cui preziosa collaborazione ho sempre lavorato e doveroso anche nei confronti dei miei figli affinché non venga loro a mancare, una volta adulti, quell’etica del lavoro che cercherò certamente di trasmettere loro come valore; sforzo educativo che le Sue affermazioni, se fossero rimaste senza una mia risposta, avrebbero certo vanificato.
da destra- Maria Rita Storti, Ilaria Battistella, Marco Cassini, Stefano Muroni
“Ci sono esperienze, nella vita, che vale la pena di vivere e basta: bisogna solo non aver paura di mettersi in gioco”. Impossibile non dare ragione all’insegnante Maria Rita Storti, la prima a credere nel film sul terremoto dell’Emilia, ‘La notte non fa più paura’, opera prima del regista Marco Cassini. La docente ferrarese nel 2014 si offrì come produttrice di un progetto che stentava a decollare: un film per raccontare il terremoto del 2012, il senso di precarietà che il sisma aveva fatto avvertire ai ferraresi, descrivendo al tempo stesso l’incertezza delle condizioni sociali che rendono instabile la vita quotidiana. Insegnante di Filosofia e Scienze Umane al Liceo di Codigoro, abituata a lavorare e a rapportarsi con i ragazzi, Maria Rita Storti era così convinta di questa idea, così come del talento e della determinazione dei giovani professionisti coinvolti nel progetto, che decise di stanziare il contributo fondamentale per la realizzazione della pellicola, non curandosi di chi guardava con sospetto la sua ‘follia’.
“La ‘meravigliosa follia’ della ‘Notte’, è stata un’esperienza umana e conoscitiva importante – racconta Maria Rita -, che mi ha permesso di incontrare persone splendide e di imparare tante cose che non conoscevo del mondo del cinema”.
Autentica, spontanea, curiosa, profonda, empatica, l’insegnante tresigallese ama la cultura: adora leggere, viaggiare, condividere esperienze.
La foto delle sue scarpe da ginnastica immortalate sul ‘Red Carpet’ della Festa del Cinema di Roma (scelta come profilo sulla pagina Facebook) rivela la sua ironia e la sua capacità di essere ‘unconventional’, sopra le righe.
‘La notte non fa più paura’ dal 2015 continua a collezionare prestigiosi riconoscimenti. Ma Maria Rita ha scelto di non adagiarsi sugli allori e di rituffarsi in un nuovo progetto giovane.
Nei giorni scorsi a New York, in occasione della presentazione di New Young Cinema – una community di giovani professionisti del cinema, creata con lo scopo di conoscersi e scambiare esperienze tra italiani e statunitensi – è stato presentato il trailer de ‘La porta sul buio’, opera seconda del regista Marco Cassini. Questo nuovo film vede ancora il coinvolgimento di Maria Rita Storti: “Ho 58 anni, e ‘quelli del film’, che potrebbero essere tutti miei figli, affettuosamente mi chiamano ‘boss’ o ‘zia’. Adesso sono diventata ‘bi-boss’ o ‘superboss’ o ‘zinna’”.
Di che cosa parla ‘La porta sul buio’?
È una storia completamente diversa dalla ‘Notte’. È un film tratto da un testo teatrale scritto da Marco Cassini nel 2009 (il volume è disponibile su Amazon), già rappresentato con successo a teatro. Per il film, girato a Pescara nel maggio scorso, sono state scelte maestranze abruzzesi, ma con un respiro internazionale. È una storia di suspense, con tre protagonisti, ambientata in un appartamento; c’è paura e tensione drammatica ma anche commedia: la porta è il simbolo di un Altro e di un Altrove. ‘La porta sul buio’ si potrà vedere al cinema nel 2018.
Che cosa l’ha spinta a sostenere questa seconda pellicola?
È stata l’esperienza de ‘La notte non fa più paura’, unita alla stima e all’amicizia che ho per Marco, che mi ha fatto scegliere di essere coinvolta anche in questo film. Oltre al regista Cassini ci sono altri professionisti che ammiro e che hanno lavorato alla prima pellicola: Martina Colli per la colonna sonora (stupenda quella della ‘Notte’) e il tresigallese Stefano Muroni, uno degli attori protagonisti.
La prima ‘scommessa’ è andata a segno, con risultati che hanno superato le aspettative. Non ha paura di lanciarsi in una nuova avventura?
Ho deciso di nuovo di fidarmi della mia lungimiranza. Con ‘La notte’, per me la soddisfazione è aver intuito che valeva la pena dare fiducia a questo progetto culturale, che ispirava la mia sensibilità artistica. Amo leggere, sono una lettrice onnivora, mi piace il buon cinema, andare a teatro, viaggiare, oltre alla buona tavola (sorride). Ho scritto anche un testo che è stato messo in scena in teatro a Tresigallo il mese scorso.
Come è andata con ‘La notte non fa più paura’?
Il percorso del primo film è stato accidentato, ma alla fine ha portato risultati sorprendenti: ‘La notte non fa più paura’ ha ottenuto a giugno una menzione speciale ai Nastri d’Argento ed è stato ammesso ai David di Donatello 2018. Inoltre è stato acquistato da Sky Cinema, ed è uscito un libro in edizione limitata con le foto scattate sul set.
‘La notte non fa più paura’ rappresenta un punto di arrivo incredibile per un ‘piccolissimo-grandissimo’ film indipendente, girato in dieci giorni e con pochi soldi. Arrivare a questi risultati era impensabile, anche per me che l’ho finanziato per la maggior parte. Situazione quasi unica nel panorama del cinema raggiungere questi risultati con un’insegnante di un liceo di provincia come ‘produttrice-mecenate’!
Da destra- Maria Rita Storti, Walter Cordopatri, Giorgio Colangeli
Perché ha deciso di finanziare il film?
La storia è nota a tanti. Dopo il terremoto del 2012, Walter Cordopatri, Samuele Govoni e Stefano Muroni scrivono il soggetto di una storia ambientata ai tempi della crisi economica, a cui si aggiunge il terremoto che ne amplifica, in maniera tragica, le difficoltà. I ragazzi contattano un giovane regista di Teramo, Marco Cassini, che da abruzzese aveva vissuto il terremoto del 2009 a L’Aquila, e una produttrice esecutiva ferrarese, Ilaria Battistella.
Trovare i soldi per girare il film non era facile: dopo 47 ‘NO’ raccolti nel giro di un anno mezzo, alla fine io decido di versare parte dei risparmi personali (ventimila euro) perché questo film venga girato. Lo ritenevo, infatti, un film necessario per lasciare testimonianza di quel periodo, per onorare la memoria di chi è morto sotto i capannoni, per contribuire – attraverso una narrazione – alla rielaborazione delle ferite dell’anima in chi è rimasto. A questi miei soldi, poi se ne sono aggiunti altri sotto forma di piccoli finanziamenti provenienti da vari soggetti. Nel settembre 2014 il film è stato girato a Mirabello.
C’è un momento, tra i tanti vissuti in questi tre anni, che per lei resta indimenticabile?
Beh, è stato impagabile vedere il sorriso e il guizzo di commozione negli occhi blu di Marco Cassini mentre mi diceva ‘Grazie!’ il giorno in cui l’ho conosciuto.
Ma questo ormai fa già parte del passato…
Adesso che sono stati raggiunti traguardi importanti, sono in molti a complimentarsi, e questo mi fa piacere, ma io penso già alla nuova avventura della ‘Porta sul buio’. Con l’entusiasmo alle stelle.
E’ da tempo che penso di scrivere nuovamente qualcosa sul lavoro casalingo delle donne. E’ un il mio pallino, da quando ho perso il lavoro e sono andata ad ingrassare le fila degli ‘angeli del focolare’. Cercavo un appiglio, uno spunto, una moderna chiave di lettura ad un fenomeno, quello della donna che lavora a casa, che sembrava quasi un retaggio del passato, o di certe condizioni socio economiche ancora arretrate nel nostro Paese, ma che è andato invece crescendo negli ultimi tempi. Donne giovani messe a casa per la crisi economica o per la nascita di un figlio. Donne istruite, donne abituate a pensare a sè come ad un essere indipendente, donne illuse che il lavoro debba far parte della realtà quotidiana di ognuna ed invece si trovano calate, come in un fantastico viaggio nel passato, nei panni delle loro madri o nonne. Poi, come spesso accade, la chiave per interpretare la realtà presente è arrivata dal passato: da un documentario di TV7 del 1971 intitolato appunto ‘L’angelo del focolare’. “Ogni lavoro può diventare disumanizzante- recita la voce composta ed impostata del giornalista- la ripetitività, l’isolamento, la difficoltà di rapporto con gli altri, il dover essere sempre a disposizione per i bisogni degli altri, rendono stressante l’attività della casalinga. Il suo scontento è aggravato dal non riuscire a trovare, nel corso della giornata, uno spazio personale, una occasione di recupero”. Ed infatti una signora intervistata all’uscita dalla parrucchiera confessa timida “Mi sembra di rubare il tempo e portarlo via. Non ho tempo di curarmi ma so che lo dovrei fare” Perchè?”, chiede il giornalista “Perchè i mariti vogliono che le loro mogli siano delle bravi casalinghe ma devono essere anche sempre in ordine, non si debbono trascurare, devono essere piacevoli e sorridenti. Non c’è rivista femminile che non lo dice. Eppure io la mattina quando apro gli occhi e comincio a pensare a tutte le cose che vengono avanti nel corso della giornata, desidererei fosse già sera per tornare a dormire. Questa è una cosa avvilente per una donna: possibile che non ci sia niente altro che dormire?
“La monotonia la opprime- incalza il cronista- e allora anche l’amore per i figli diventa un compito gravoso che l’amore non riesce del tutto a ripagare”. Una mamma con una bambina al parco si confessa davanti al microfono “Sono una mamma, cosa devo fare? Si sono voluti i figli e bisogna tenerseli e dare tutto il possibile”. La voce narrante comme nta che persino i rapporti con i figli possono perdere di autenticità e di valore quando sono vissuti come un dovere alla cui ripetitività non ci si può sottrarre. “E ‘ un incubo per una madre- dice la donna mentre gioca con la sua bambina- sempre le stesse cose, le stesse chiacchiere, le stesse cose: figlioli, figlioli, figlioli. Non c’è che figlioli. Ma io sono una mamma e lo devo fare”. Intorno ad una tavola si consuma il quieto pasto di una tipica famigliola medio borghese: il padre, in maniche di camicia sorbisce la minestra prima di tornare al suo lavoro, probabilmente di impiegato. Il bambino è composto e mangia compito, la madre afferma “ Non credo che il ruolo di casalinga sia un ruolo realmente scelto dalla donna italiana. Anzi questo credo sia un discorso di comodo che viene fatto da chi vuole che la donna rimanga in casa e non entri con tutto il suo peso nella società. Le donne stanno in casa non hanno altre possibilità: anche quando trovi un asilo o una scuola che possono ospitare il bambino per certe ore della giornata spesso lo fa in maniera non soddisfacente”.
Interpellato sul fenomeno delle donne che non lavorano un medico parla di ‘nevrosi della casalinga, come di un fenomeno comune per l’epoca “Sboccia molto frequentemente ora perchè la donna che si trova a casa sempre di più, rispetto alle esigenze delle mamme e delle nonne di prima, a tante e molteplici esigenze e sollecitazioni che vengono da ‘fuori’ e non si sente più soddisfatta di chiudere i suoi interessi intorno alla vita della sua casa.Cerca nel sogno quello che manca nella sua vita. Si butta nel cibo o l’acquisto e il possesso di cose inutili. Quando gli affetti che la circondano non la ripagano della routine quotidiana l’ansia può divenire intollerabile”.
Questo spaccato di vita risale a 36 anni e fa e mi chiedo cosa sia cambiato. Niente, mi sento di rispondere. Al contrario, la situazione è peggiorata. Se in passato la condizione servile della donna era data per scontata, e solo con il ‘68 sono iniziate a vacillare le basi fondanti della società che voleva l’uomo capofamiglia e la donna asservita a marito e figli, ora, almeno formalmente, è diffusa l’idea di una parità tra i sessi che vuole la donna concorrere con l’uomo per la conquista di un proprio ‘posto al sole’. Eppure a fronte di una società che pone la tutela del bambino e della bambina quale obiettivo primario, una società che si interroga sulla discriminazione di genere fin dalla sua più tenera età, che riscrive le favole classiche perchè le bambine crescano autonome e non sognino più il principe azzurro, che modifica la pubblicità perchè non esistano più giochi da maschio o da femmina ma tutti possano, giustamente, esprimersi nel gioco senza barriere sessuali, in questa società che continua a ripetere alle bambine di poter fare ciò che sognano, ebbene è proprio questa società che condanna le madri di queste bambine ad una vita di non lavoro. E se nel 1971 si inizia a sentire forte da parte della donna il richiamo ad un ‘mondo esterno’ che le chiedeva di rompere le mura domestiche e far parte della società, quanto è più vera e terribile oggi la discrasia tra ciò che, con gli attuali mezzi di comunicazione, ci si illude sia a portata di mano e una vita da casalinga che in poco è cambiata da quella del passato?
La donna, come un mostro a più teste, deve ricoprire tutti i ruoli che le vengono richiesti: lavoratrice, madre, moglie. E deve farli al meglio visto che le riviste femminili dagli anni ’70 in poi sono ben poco cambiate e propongono sempre un modello di donna factotum vincente e bellissima. Se poi al ruolo di casalinga si somma quello di madre il peso è doppio. Un peso inflitto, come un invisibile burqua, da una società benpensante in cui la dea-madre è un essere mitizzato a tal punto da non prestare ascolto alle esigenze più che terrene di donne in difficoltà: il licenziamento che pende come una spada di Damocle sulla testa delle donne in età fertile, gli asili scarsi e carissimi, una diffusa solitudine dovuta al disgregamento del nucleo famigliare originale che, sempre più, negli anni, vede i membri di una stessa famiglia disseminati in posti spesso lontanissimi. Aspetti di modernizzazione della nostra società convivono, drammaticamente, con refusi del passato in una snervante altalena in cui alla donna viene detto “potresti ma non puoi”. Non rimane che augurarsi che le nuove generazioni, vedendo un documentario sugli ‘angeli del focolare’ del 2017, non pensino anche loro “nulla è cambiato”.
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