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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


IL FATTO
Retromarcia del Comune, “la casa terremotata è agibile”. Ma il perito: “Può crollare”

Da tre anni vivono in un appartamento in affitto. La loro casa, colpita dal terremoto, è stata dichiarata inagibile con ordinanza comunale e classificata a grado di rischio E, il più alto. Ma un paio di mesi fa il Comune di Vigarano è ritornato sui suoi passi e il sindaco Barbara Paron ha emesso una nuova ordinanza, stavolta di revoca della precedente, collocando l’abitazione in classe A (nessun danno e rischio) e autorizzando la famiglia, composta da padre, madre e due figli, uno dei quali minorenne, a rientrare come se nulla fosse accaduto.
In mezzo però ci sono stati tre lunghi anni di abbandono dalla residenza e soprattutto la paura di tornarci a vivere. Perché tutti i tecnici e i periti consultati dalla famiglia Zaniboni certificano che la struttura è gravemente danneggiata e inagibile e una nuova scossa potrebbe essere fatale e porre a repentaglio la vita degli occupanti. Metterla in sicurezza e riparare i danni del sisma ha costi esorbitanti, nell’ordine di centinaia di migliaia di euro.

Più che comprensibile, dunque, lo sconcerto, l’avvilimento e la rabbia dei proprietari. I quali hanno tentato in ogni modo di spiegare le proprie ragioni. Ma in Municipio continuano a sbattere contro una stessa risposta, sempre la stessa, un diniego senza appello. Così si sono rivolti al Tar, al Prefetto, al Difensore civico e a qualificati periti. Fra questi  l’architetto Stefano Gatti, che opera anche come consulente del Tribunale di Perugia. Interpellato per la sua riconosciuta autorevolezza, in 72 pagine di perizia giurata conferma i danni strutturali e i conseguenti rischi e legittima la richiesta formulata dai signori Zaniboni, che attendono un contributo per provvedere al ripristino delle condizioni di agibilità. Ciò che afferma coincide sostanzialmente con il contenuto della relazione dei tecnici incaricati dalla protezione civile che hanno compilato la famigerata scheda Aedes confermata anche dai tecnici incaricati dai proprietari. Tutto quadra, insomma; salvo che ora il Comune, a tre anni di distanza, ha cambiato idea ed è tornato sui propri passi ricusando ciò che per primo aveva certificato dopo il terremoto.

“Ricordo quella notte con sgomento – racconta la signora Gloria. Già nel pomeriggio l’orologio a pendolo si era fermato due volte: si tratta di meccanismi molto sensibili e questo strano fatto – mai accaduto prima – mi aveva inquietata, mi era parso presagio di qualcosa la cui drammaticità però certo non potevo immaginare. La notte ho avvertito quel boato spaventoso avvicinarsi e immediatamente sono corsa nella stanza dei miei figli, li ho abbracciati stretti mentre sentivo cadere su di noi la sabbia dalle tavelle del soffitto. Non credevo saremmo sopravvissuti…”.

Le tracce della violenza del sisma sono visibili anche nel giardino che cinge la casa, a ridosso della ciclabile del Burana. Il cappello di un camino in pietra si è staccato dal basamento e ha fatto un giro di novanta gradi su se stesso. Evidenti crepe passanti hanno tagliato la base di numerose colonne che sorreggono il tetto e non c’è stanza del fabbricato che non porti il marchio della violenza subita. Fa impressione vedere l’ abitazione abbandonata a se stessa, due volte vittima di una sorte malevola, muta testimone di una situazione grottesca e paradossale, che la famiglia Zaniboni sta vivendo come un nuovo terremoto esistenziale.

“Proviamo un miscuglio di sconcerto e ribrezzo passando per le strade del nostro paese quando osserviamo che stalle e fienili fatiscenti e inutilizzati prima della scossa ora sono stati totalmente ricostruiti grazie ai contributi per il sisma.  Non capiamo sulla base di quale criterio si siano utilizzati i fondi pubblici, visto che a noi viene negata la possibilità di rientrare in sicurezza nella nostra abitazione, compromessa proprio dal terremoto” commentano amaramente i proprietari.
Il nostro immobile oltretutto, ristrutturato fra il 1995 e il 1998, era in perfette condizioni. A questo punto, esasperata, la famiglia Zaniboni rivolge a noi e – ancora una volta – a se stessa tutti gli interrogativi che la tormenta. Perché ben quattro tecnici della protezione civile hanno stimato il danno pericoloso al punto da dichiarare la casa inagibile? Perché tutti i tecnici ai quali l’hanno fatta vedere (ben nove, tra ingegneri e architetti) l’hanno considerata compromessa dal punto di vista strutturale e per questo bisognosa di un indispensabile intervento di messa in sicurezza?”.

A questi rovelli se ne aggiungono altri, relativi alle recenti decisioni assunte dal sindaco che, sconfessando le precedenti ordinanze, ha dichiarato la piena agibilità della casa. “Perché – si domandano ancora i proprietari – se il criterio adottato dai nostri amministratori è di far rientrare i terremotati nelle proprie case ‘in sicurezza’ per noi questa cautela non vale e ci viene beffardamente risposto che il rientro in casa che il Comune ora ci consente ‘è una facoltà e non un obbligo’?”.

L’ impresa 3M Costruzioni – a cui la famiglia Zaniboni si è rivolta per chiudere le tante crepe e provvedere a un ripristino di minima – si è addirittura rifiutata di intervenire, confermando che il fabbricato è compromesso strutturalmente e l’impresario non avrebbe svolto il lavoro per non assumersi responsabilità su quel che potrebbe capitare in futuro…

“Ma tutto questo ai responsabili del Comune evidentemente non interessa – concludono sconsolati -. Tanto se la casa dovesse un giorno crollare a seguito di altre scosse e in conseguenza al fatto di non essere stata messa in sicurezza, peggio per chi ci rimane sotto… Tanto nessuno ha mai colpa di niente”.

La frustrazione, però, non ha generato inerzia. La famiglia Zaniboni sta combattendo con determinazione la partita per vedere riconosciuti i propri diritti. Ha fatto ricorso al Tar, si è rivolta al Prefetto, al Difensore Civico e non è intenzionata a fermarsi.
“Siamo anche pronti a mettere persa la casa, ma vogliamo batterci con tutti gli strumenti e le nostre forze contro chi, con il proprio comportamento, atti e decisioni, sta mettendo a repentaglio la nostra vita. Lo facciamo per i nostri figli, affinché almeno loro possano credere negli ideali e nelle istituzioni. Vogliamo ottenere un ripristino della legalità che in tutta questa vicenda è stata arbitrariamente travisata e negata.
Per questo motivo abbiamo deciso di rendere pubblica la nostra storia, magari simile a tante altre. Vogliamo far sentire la nostra voce pensando  possa rappresentare anche coloro che per mancanza di coraggio, forza, determinazione oppure per sfiducia non hanno potuto o voluto parlare e lottare”.

LA SEGNALAZIONE
Perché ci vuole orecchio

Sembra incredibile ma è tutto vero. Provate a chiedere oggi ai giovani chi è Jimi Hendrix, o John Coltrane, oppure i Led Zeppelin: in molti risponderanno facendo spallucce. Accade quindi che “Smells like teen spirit” diventi una geniale trovata di Miley Cyrus e “These boots are made for walking” un quotato brano originale di Jessica Simpson. Il disinteresse nei confronti della musica del Novecento ha comportato inevitabilmente un arretratezza culturale diffusa soprattutto nelle nuove generazioni (ma non solo), le quali si trovano impreparate nel momento in cui decidono di avvicinarsi ad uno strumento.

La locandina con gli eventi della rassegna
La locandina con gli eventi della rassegna

Con la rassegna “Guida all’ascolto” è l’Associazione Musicisti di Ferrara a cercare di colmare queste lacune, riproponendo per il tredicesimo anno consecutivo una serie di eventi per meglio approfondire tutti i principali periodi musicali degli ultimi decenni. “Ci piace pensare che la musica è linguaggio – ha spiegato il presidente di Amf Roberto Formignani durante la presentazione della rassegna – certo si può ascoltare tutto senza sapere bene con cosa abbiamo a che fare, ma bisognerebbe sempre cercare di avere più riferimenti culturali possibili per essere sicuri di comprendere meglio ciò che si ascolta. Per chi poi si avvicina nella pratica alla musica, conoscere bene ciò che si suona aiuta indubbiamente a trasmettere meglio al pubblico le sensazioni che si provano durante gli ascolti”.
Undici sono gli appuntamenti (tutti di sabato alle 15:30, a partire dal 14 novembre) proposti dagli organizzatori: lo storico batterista di Vasco Rossi, Daniele Tedeschi, parlerà dell’evoluzione della batteria attraverso un focus su Gene Krupa e Vinnie Colaiuta, mentre Claudio Ceroni racconterà le gesta del grande chitarrista ‘fulmine a due dita’ Django Reinhardt, che Formignani ricorda essere il “protagonista di Sultan of Swing dei Dire Straits, legato anche a Ferrara poiché utilizzava una chitarra del liutaio di Cento Mario Maccaferri”.
Spazio poi all’armonica – strumento spesso in secondo piano ma dalle grande storia – al basso nella Black Music, ai grandi cantanti, alla canzone napoletana raccontata da Sergio Jacuvella e ai tre grandi ‘Kings’ del blues, Albert, B.B. e Freddie. Infine un confronto tra il Progressive italiano e internazionale spiegato da Antonello Giovanelli e Limite Acque Sicure, Morrissey & The Smiths raccontati da Roberto Roversi e l’immancabile ricordo attraverso filmati originali e testimonianze del festival di Woodstock, narrato da Ricky Scandiani.
“Guida all’ascolto” si conferma quindi una panoramica ampia e assolutamente completa sulla storia della musica moderna, gestita da persone sia interne che esterne alla scuola e impreziosita quest’anno, ogni primo e terzo giovedì del mese (a partire da dicembre), dalle session di musica d’insieme guidate e aperte a tutti.
Entusiasta dell’iniziativa e dei grandi numeri raggiunti dalla Scuola di Musica Moderna (già raccolti oltre 560 iscritti, dei quali la maggior parte giovani e giovanissimi) è anche l’assessore Massimo Maisto, il quale ha ricordato che la scuola ferrarese è “la realtà di maggior successo in tutta l’Emilia-Romagna e una delle più apprezzate a livello nazionale. Numeri importanti – ha proseguito – non solo per quanto riguarda le iscrizioni ma anche e soprattutto per l’intento riuscito di avvicinare in questi spazi tantissime persone desiderose di approcciare con la contemporaneità, oltre che per aver dato a tanti giovani, oggi bisognosi di orientarsi, i giusti punti di riferimento”.

Riferimenti: ww3.comune.fe.it/amf

Ascolta il brano intonato:

https://youtu.be/UBI49UTmxII

A teatro Off il riscatto dell’uomo senz’ombra

libro Si inizia e si finisce al buio, sul palco di Teatro Off; quell’oscurità tanto cara a Hoffmann e a Friedrich, a Schlegel e a Novalis.
Piccola perla del romanticismo tedesco, “Storia meravigliosa di Peter Schlemihl” di Adalbert von Chamisso è andata in scena a Teatro Off venerdì e sabato nello spettacolo “Una vita senz’ombra” diretto e interpretato da Giulio Costa e già presentato in occasione del Festival della Fiaba di Modena nella seconda edizione, il cui tema era “Ombra e male nella fiaba”.

schlemihl_uomo in grigio_ombra “Volevamo riportare la fiaba alle origini – racconta Costa – ovvero un racconto orale fantastico che affonda le proprie radici nelle tradizioni più antiche. A questa storia mi sono appassionato molto, mi interessava mettere a fuoco i sentimenti di Peter Schlemihl, il protagonista, nei confronti della società. Mi sono calato nella narrazione, lavorando sul modo in cui, scoprendo il mondo e le vicissitudini negative che affronta, il protagonista sviluppa qualcosa di sé; come riesca a riscattarsi senza ombra. La solitudine a cui è condannato non è vissuta come una colpa, bensì come una via di uscita, al pari di una possibilità di uscire da se stesso e trovare una soluzione alla propria vita. Il mio Peter è un uomo che deve essere privato di tutto per potersi rimettere in gioco”.
Da un punto di vista linguistico, il testo è attualizzato grazie a una proposta verbale che glissa sulle forme letterarie arcaiche, più pure e ostiche, smussato quanto basta per rendere il testo originale più intelligibile e colloquiale.

Lo Schlemihl di Chamisso è l’autore stesso che si trova a fare i conti con l’essere un senza patria, lui letterato poetico e malinconico prima costretto a scappare dalla Francia allo scoppio della rivoluzione, poi a prendere le armi nell’esercito prussiano, infine respinto dal grande amore di gioventù Cérès Duvarnay. Si avvicina in questo al Kafka della “Metamorfosi”, che arriverà a pensare a se stesso come insetto, anche lui apolide nell’animo e dalla tormentata personalità; e a Goethe, suo contemporaneo, che già affronta il tema di vendersi l’anima al diavolo nel suo celebre “Faust”, cronologicamente a metà tra quello breve e fastoso dell’elisabettiano Marlow, e quello filosofico e cerebrale di Thomas Mann.
Eppure non è un uomo senza qualità, questo Peter. Il suo cognome anticipa la sua sorte, che sembra stabilita nel momento stesso in cui incontra il riccone Thomas John che già si è venduto all’offerente in grigio: lo “Shlemiel”, maschera del folklore ebraico, rappresenta il candido, l’ingenuo, lo sfortunato. Chi vive ai margini e non riesce a integrarsi con qualsivoglia classe sociale, tanto da non poter quasi essere considerato un essere di questo mondo – banalmente un uomo, altro legame di kafkiana memoria.

L’ombra non ha vita propria, ma è merce di scambio inconsapevole, srotolata via in un perturbante amalgama di voracità e totale indifferenza; è di una sostanza diversa da quella di Peter Pan che scappa dal suo proprietario, argento vivo che fa di testa propria. Nel testo originale, diventa ennesima prova di accettazione sociale e soprattutto della realizzazione di sé come individuo: in questo piccolo capolavoro, l’autore rielabora il tema della mancanza dell’ombra tipico di fiabe e racconti popolari come quello del Diavolo di Salamanca in cui il demonio tenta di rubare l’anima a un uomo ma riesce a portargli via solo l’ombra. Prendendogliela, lo condanna a essere privato dell’unica cosa che accomuna tutti, e di cui tutti vengono privati solo quando arriva la morte, e solo allora: chi scoppia di salute e chi è morente, chi è ricco e chi non ha un tetto sulla testa, chi è giovane e chi è vecchio. Somiglia a una metafora in cui si mette in guardia che è pericoloso desiderare qualcosa, e ancora di più lo è ottenerlo; l’unica speranza di salvezza reale è offerta da un bene super partes, dalla bellezza che si configura come pace armonica e laboriosa – non è un caso che Schlemihl trovi la serenità solo una volta venuto a conoscenza dell’ospedale costruito grazie al suo denaro.

L’uomo in grigio che si trova sulla strada del protagonista è un Mary Poppins che sciorina meraviglie dalla sua borsa magica piccola ma senza fondo; non per fare qualcosa di buono e utile, ma per comprare anime. Un satanasso che diventa il deus ex machina dell’ingenuo Peter che, disprezzato dagli uomini per la sua povertà e ignorato dalle donne per la sua timidezza, vede nell’offerta dell’uomo misterioso la possibilità di lasciare le sue misere spoglie: la ricchezza perpetua in cambio della sua ombra. Senza presagire che quella che sembra essere la soluzione a tutti i suoi problemi diventa foriera di un problema ben più grosso, un contrappasso a cui non può sfuggire. Una volta ottenuto prestigio economico, Schlemihl viene messo al bando e temuto proprio per quella particolarità che lo rende unico, certo, ma soprattutto diverso; una diversità non comprabile neppure con tutto il denaro del mondo, e a causa della quale non può sposare Mina, la donna che ama. Di nuovo bandito dal mondo della superficie, Schlemihl saprà riscattarsi in due modi: regalando al fedele servitore Bendel la prodigiosa borsa dispensatrice di denaro e problemi, e rifiutando un ennesimo patto che gli avrebbe portato via l’anima.

Ma Costa, nel momento stesso in cui le luci si abbassano e lui esce lentamente di scena, offre al pubblico la sua ombra, che pur lui non vede. L’attore sceglie due espedienti particolari per calarsi nella parte del protagonista: togliendosi le scarpe non appena entrato in scena, ribaltamento del fatto che alla fine della storia Peter entra in possesso degli stivali delle sette leghe; e dando le spalle al pubblico, voltandosi per andarsene per sempre. Incanto e ambiguità si alternano in una lettura che fa i conti con interiorità e pensiero di Schlemihl, ne propone una lettura-monologo intensa, dinamica e a tratti ironica.

Lo spettacolo sarà di nuovo portato in scena venerdì 13 e sabato 14 novembre, sempre alle 21.

LA SEGNALAZIONE
Spezie e paesaggi per un viaggio di fantasia

Trovi cose strane, profumate e buone, come le noci moscate chiuse dentro il loro guscio, da schiacciare e poi grattugiare nella loro inusuale e speziata morbidezza. Ci sono cioccolate fondenti allo zenzero, altre alla menta e alcune con riso soffiato e quinoa, che sono cereali senza glutine. Poi quadri grandi o piccoli che sulle prime potresti trovarli smaccatamente esagerati e kitsch, con tutta quell’abbondanza di piante, quella vivacità di colori, quella sovraccarica quantità di verde e di piume variopinte; ma sono dipinti della foresta amazzonica del Brasile, dove la natura è davvero così, smodata, come a noi – qui dalla pianura – appare inverosimile possa essere. Prosegui e trovi bambolotti che ti guardano dai loro seggiolini, passeggini e carrozzine di seconda mano, ambientati nel bel mezzo del porticato dei carmelitani della Ferrara medievale. Vai oltre e una griglia filtra le antiche arcate con sfilze di collane e bracciali in legno e perline.

E’ il “Mercatino della fantasia” con le cose in vendita per aiutare le persone della cittadina brasiliana di Parauapebas, che si trova quasi dentro la foresta pluviale dell’Amazzonia. Il mercatino lo organizza, come avviene ormai ogni anno, don Roberto Sibani della parrocchia ferrarese di Pilastri. Ha cominciato a farlo nel 1995, adesso sono vent’anni esatti. Nel frattempo con il ricavato di questa e altre iniziative, là, sono state costruite case per ragazze madri, laboratori e anche una piscina. Gironzoli e attraversi un mondo parallelo tra ciabattine, giacche e gioielli vintage tutto intorno al pozzo del chiostro di San Paolo, in pieno centro città ma così estraniante, esotico, confusamente generoso.

“Mercatino della fantasia”, aperto tutti i giorni ore 8-19 fino al 3 dicembre. Nel Chiostro grande di San Paolo, tra piazzetta Schiatti e corso Porta Reno 60, Ferrara.

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Seggiolini e giocattoli nel chiostro pro Brasile (foto Giorgia Mazzotti)
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Pantofole nel Chiostro di San Paolo, Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)
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Tele dipinte dal Brasile a Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)
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Tele e roba di stoffa a Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)
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Spezie al Mercatino della fantasia (foto Giorgia Mazzotti)
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Cioccolate equo solidali (foto Giorgia Mazzotti)
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Spezie e tè nel Chiostro di San Paolo (foto Giorgia Mazzotti)

LA SEGNALAZIONE
Tenebre d’Occidente. Oltre Conrad nel cuore del nuovo imperialismo

“Era come se si fosse lacerato un velo. Vidi su quel volto d’avorio l’espressione dell’orgoglio cupo, del potere spietato, del terrore vile – di una disperazione intensa e irreparabile”. Forse un ultimo barlume di coscienza in cui Kurtz rivive la sua esistenza prima di lanciare quel “grido che non era più di un sospiro”: “Che orrore! Che orrore!”

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La locandina di Tenebra

E’ Marlow che descrive la fine di Kurtz in “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad: è come la fine di un incubo. Ma se non fosse andata così? Se Kurtz fosse riuscito a fuggire, Marlow dietro di lui a inseguirlo? È questo lo spunto da cui sono partiti Natasha Czerok e Davide Della Chiara per ideare “Tenebra”, il loro nuovo lavoro dopo I.n.f.e.r.n.o.: un “dramma pop liberamente ispirato al testo del signor Joseph Conrad” prodotto da Teatro Nucleo in collaborazione con CrowdArts. Natasha e Davide sono in scena insieme a Lorenzo Magnani, che ha anche collaborato alla realizzazione delle musiche originali, in un certo senso le chiavi di lettura di quanto accade durante la performance.
Dopo averlo inseguito a lungo, Marlow ritrova Kurtz nel salotto di un appartamento fra videogiochi, sit-com e junk-food: simboli eletti a rappresentanza del benessere frutto di un nuovo imperialismo senz’anima. Al centro Natasha e Davide portano l’avidità: l’avidità innanzitutto di Kurtz che lo porterà alla pazzia, ma anche l’avidità di Marlow nel conoscere la tenebra di Kurtz.

Il primo studio di “Tenebra” andrà in scena da oggi a sabato 7 novembre al Teatro Julio Cortazar alle ore 21.30 (per maggiori info clicca qui). Prima della prima abbiamo fatto qualche domanda ai registi-protagonisti, Natasha e Davide.

Da dove nasce la scelta di “Cuore di tenebra” di Conrad?
La risposta alla domanda è intrinseca allo spettacolo. Ci siamo chiesti da dove partire per analizzare il “nostro” problema con l’Africa e “Cuore di Tenebra” è la lente di ingrandimento che abbiamo usato. Un testo reazionario e rivoluzionario insieme, se pensiamo che venne pubblicato a episodi su una rivista, il “Blackwood Magazine”, letta dalla borghesia conservatrice inglese di fine Ottocento. La denuncia che traspare dalle parole di Conrad è insidiosa, perché non esprime un giudizio diretto in un’unica direzione, ma pone molti dubbi: il testo, infatti, è stato severamente criticato da alcuni intellettuali africani, Chinua Achebe in primis. Sono però proprio questi dubbi a rendere “Cuore di tenebra” interessante per noi donne e uomini bianchi del terzo millennio. Conrad mette a nudo i nostri vizi e i nostri demoni, primo tra tutti l’avidità.

Già il celeberrimo “Apocalypse Now” era un’attualizzazione di “Cuore di tenebra”, come critica al nuovo imperialismo statunitense, nel vostro “Tenebra” quali legami avete trovato con l’attualità? O meglio quali imperialismi prendete di mira?
Eni è tra le principali compagnie petrolifere presenti in Nigeria e a Ferrara pare ci sia un serio problema con i nigeriani che girano in bicicletta… Assistiamo a una lunga serie di situazioni paradossali, di cui siamo perfettamente coscienti e complici. L’imperialismo che prendiamo di mira è quello che tutti noi ci portiamo dentro, quando ci chiudiamo nei nostri salotti per godere di un ‘benessere-maleavere’ che vediamo sempre più pericolosamente minacciato.

Come avete lavorato sul testo e sui personaggi? C’è qualche aspetto che avete privilegiato?
Per quanto riguarda “Cuore di Tenebra”, il testo in inglese ci sembrava suonasse meglio, per questo abbiamo deciso di muoverci su entrambe le lingue: l’originale inglese e la traduzione italiana. Abbiamo inserito anche alcuni testi più didascalici e di attualità, e una chiave di lettura fornitaci da Kipling con il suo poema “Il fardello dell’uomo bianco”.
Per quanto riguarda i personaggi, ci siamo concentrati sul conflitto tra i due protagonisti del romanzo, Marlow e Kurtz, configurandone i vizi e le banalità a scapito degli aspetti epici ed eroici.

Dopo il lavoro site specific “I.n.f.e.r.n.o.”, una nuova collaborazione alla regia fra te, Natasha, e Davide…
Il laboratorio teatrale “Succede Qui” dal quale è nato “I.n.f.e.r.n.o.” era l’inizio di un percorso che stiamo sviluppando e di cui “Tenebra” è uno step ulteriore. Per esempio, da quel laboratorio ci siamo avvicinati a nuovi allievi e compagni di lavoro, tra cui Lorenzo Magnani che in “Tenebra” cura la parte tecnica e sonora in scena, sue anche le letture dei testi off.

Anche in questo caso lo spettacolo ha il proprio luogo di rappresentazione migliore fuori sale non convenzionali, in spazi ampi e senza palco.
Sì, è vero. Non abbiamo potuto evitare di immaginare il salotto di Kurtz in mezzo a un grande parcheggio, a una piazza o in un distributore di benzina. Detto questo, il teatro si presta a situazioni polimorfe, perché non sfruttarle? In questo senso, ci interessa studiare allestimenti che possano incontrare il più ampio range di pubblico possibile.

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Natasha e Davide.© Erika Palmieri
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Una scena di Tenebra.© Erika Palmieri

L’ANALISI
Dopo Expo: numeri, ricadute e prospettive

Cosa resta di Expo 2015? Ancora poche ore e la macchina meneghina dell’esposizione mondiale chiuderà i battenti al pubblico, lasciando sul terreno numeri, conti, opportunità colte e opportunità perse.
Nella girandola di cifre che si rincorrono in queste ore fa molta eco il numero di biglietti venduti, che dovrebbero aver superato i 20 milioni: parrebbe quindi che il traguardo delle presenze auspicato dagli organizzatori sia stato raggiunto. Invece, in una conferenza stampa dello scorso aprile, Giuseppe Sala – Commissario Unico di Expo e amministratore delegato della società Expo (i cui soci sono ministero dell’Economia e delle Finanze, Regione Lombardia, il Comune, la Provincia e la stessa Camera di Commercio di Milano) aveva chiaramente spiegato che per “un pareggio di bilancio sarebbe necessario vendere 24 milioni di biglietti.”. Forse i conti non tornano ancora, ma le cifre esatte verranno comunicate dalla stessa Expo nelle prossime settimane.
Il bilancio di Expo non sarà dunque chiaro e leggibile già da domani, ma cosa resterà di Expo per l’economia italiana è fin d’ora tema di dibattito. Da una ricerca commissionata dalla Camera di Commercio ed Expo Spa, coordinata nel 2013 da Alberto Dell’Acqua (docente di Finanza aziendale alla Sda Bocconi) con Giacomo Morri ed Enrico Quaini, il giro d’affari che ha ruotato e ruoterà intorno ad Expo è e sarà di circa 23 miliardi di euro.

Per quello che riguarda l’indotto, fra i risultati degli investimenti della società Expo e dei Paesi partecipanti e l’effetto dei flussi turistici, la stima era di circa 14 miliardi, ma questa è ovviamente una cifra ipotetica, che si potrà verificare solo nei prossimi anni, a consuntivo delle ricadute reali. Altro capitolo è il valore della legacy – l’eredità – che secondo lo studio di Dell’Acqua supererebbe di poco i 6 miliardi di euro: in questo campo Expo si andrà a scontrare con la reputazione pre-Expo del Paese. L’effetto delle nuove relazioni industriali e imprenditoriali portate da Expo stesso saranno soggette alle politiche economiche nazionali e locali dei prossimi anni e questo pone oggettivamente dei dubbi. Se le stime venissero confermate, il ‘Pil’ dell’Expo sarebbe di 10 miliardi, spalmati da qui al 2020: a conti fatti aggiungerebbe solo un paio di decimali di punto all’anno alla crescita nazionale. A fronte di un investimento pubblico di 1,3 miliardi di euro e data la relatività dei dati di previsione sui benefici futuri, i dubbi sul successo reale per il sistema Italia portato avanti da alcuni economisti non sembrano del tutto infondati.

Altra voce interessante da valutare la nascita di circa 190.000 posti di lavoro: un dato rilevante, anche se si tratta di una stima che va dal 2012 al 2020, quindi anche gli effetti sull’occupazione saranno stimabili solo sul lungo termine e verranno valorizzati e consolidato solo a fronte di politiche nazionali incisive. La Cgil Lombardia, in una lettera aperta alle istituzioni, ha richiesto di certificare le competenze dei lavoratori di Expo. “Chi ha lavorato in Expo ha diritto a vedersi certificate le competenze acquisite. Molti lavoratori erano giovani alla prima o primissima occupazione o disoccupati in fase di riconversione professionale. Per potersi ricollocare non servono promesse, ma poter spendere il valore della professionalità acquisita”. Secondo Benaglia, segretario lombardo del sindacato, la Regione Lombardia, a fronte di un protocollo con cui tutte le parti sociali avrebbero accettato di mettere in campo più flessibilità per il lavoro in Expo, aveva promesso 20 milioni di euro per sostenere l’ingresso e il riorientamento dei lavoratori. Nel frattempo l’agenzia Openjobmetis ha siglato un accordo sindacale per un progetto di continuità professionale per i circa 400 lavoratori impegnati a Expo, con corsi di riqualificazione e ricollocazione. Qualcosa si muove.
Da lunedì faremo i conti con il dopo-Expo e – bilanci a parte – sbirciare cosa succede quando un’esposizione mondiale come questa finisce è interessante. Ci sono da smontare i padiglioni e bonificare un milione di metri quadri di terreno, innanzitutto. Poi bisognerà capire come riutilizzare tutta l’area espositiva, estesa quanto 140 campi di calcio.

Alcuni Paesi non hanno ancora ben definito cosa accadrà delle loro strutture, una volta smantellate e caricate sui cointeners, mentre altri hanno le idee chiare. Qualche Stato le riporterà a casa per farne centri di ricerca, mall, biblioteche, monumenti, altri invece li hanno destinati ad altri usi, come il Principato di Monaco che trasferirà la propria in Burkina Faso, per diventare la sede della Croce Rossa. O come l’oasi degli Emirati Arabi, che andrà a Masdar City, la città green progettata dall’archistar Norman Foster e le sfere di vetro che ospitano la biodiversità dell’Azerbajan saranno installate in un parco pubblico di Baku.

E noi? Per adesso si sa per certo che Palazzo Italia rimarrà in piedi nel post evento, come spiegato da Diana Bracco, commissario dei contenuti del Padiglione Italia. “La mostra allestita dentro la struttura si dovrebbe prolungare oltre il 31 ottobre”, ha spiegato la Bracco, ma bisogna capire chi dovrebbe gestire la mostra e come si può rendere accessibile in mezzo ai cantieri di smontaggio, che proseguiranno almeno fino al 30 giugno 2016. Probabile una chiusura temporanea e la riapertura a fine lavori. Anche il Padiglione zero – quello che documenta il rapporto uomo-cibo e la filiera alimentare – dovrebbe restare.

Il governo, nel frattempo, per bocca del ministro all’Agricoltura Maurizio Martina, durante la giornata dedicata all’eredità di Milano 2015 ha ufficializzato la sua volontà di entrare nella società Arexpo, proprietaria dei terreni di Expo. Questo perché entrerà a fare parte del progetto di realizzazione di un polo della ricerca e dell’innovazione, che dovrebbe sorgere proprio sul milione di metri quadrati sui quali sorge Expo. A quanto pare, inoltre, la gestione del sito potrebbe restare allo stesso gruppo di lavoro che ha guidato la nave di Expo e curerà la smobilitazione del sito entro il 2016, via ai lavori nel 2017 e conclusione entro il 2020.

La prospettiva più accreditata vede metà dell’intero sito riutilizzato come polo tecnologico-universitario. L’idea di Assolombarda è di creare una Silicon Valley tutta italiana e – a quanto dichiarato da Fabio Benasso, Ad di Accenture e responsabile per Assolombarda di “Milano post-Expo” – lo Stato dovrebbe investire circa un miliardo, i privati i fondi necessari per le loro strutture. Le manifestazioni di interesse raccolte da Arexpo sono però anche altre: l’università Statale, Consob, Coni e Coop.

LA STORIA
Caccia ai tornado in questa e altre pianure

Cacciatore di nuvole, cacciatore di vento, a volte anche cacciatore di storni. Sì, quegli uccelli simili a passeri, che proprio in queste settimane si muovono tutti insieme come ammassi di puntini scuri e – nel cielo – formano figure cangianti e immense sopra ai nostri occhi. Un cacciatore armato, però, sempre e solo di macchina fotografica, magari pure di teleobiettivo o grandangolo; cartucce mai. Un’attività, la sua, che raggiunge fama, professionalità e gloria soprattutto negli Stati uniti d’America, che consacrano la figura dei “cacciatori di tornado” con romanzi, film e vere e proprie figure professionali dedicate ad avvistamenti meteorologici e alla loro prevenzione. Eppure questa vocazione ritrova ispirazione, spazi e materia prima anche in questa nostra pianura padana, versione ridotta delle grandi pianure americane, ma comunque non avara di occasioni tempestose.

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Dino Gasparetto è il quarto da sinistra, durante un Tornado tour (foto Gino De Grandis)

A giocare in casa nel ruolo di cacciatore di tornado è Dino Gasparetto, classe 1979, ingegnere ambientale che in orario di ufficio lavora per la Regione Veneto, poi esce, alza gli occhi al cielo e insegue meccanismi ingovernabili e stupefacenti che si scatenano nell’aria. La sua passione originaria è quella per i fenomeni atmosferici e se le scelte di studio, prima, e di lavoro poi, l’hanno portato ad analizzare rischi meccanici e idrologici, il suo primo amore resta legato ai grandi fenomeni naturali, alla fisica che scatena tempeste e alla chimica che crea mescolanze che possono esplodere così come rimanersene miracolosamente tranquille.

Raccontare l’esperienza di un cacciatore di tornado, però, non è facile. Guardi le foto che scatta ed è un attimo trovarsi a nominare cicloni e uragani. Guai, invece, a usare questa superficialità nel parlare di fenomeni atmosferici tanto precisi e seri attribuendo caratteristiche catastrofiche a quella che, magari, è solo una pioggia più intensa del solito. Gasparetto ti mette in guardia ed entra nel merito e nelle sfumature del maltempo tirando fuori un vocabolario più complicato che, sulle prime, ti spiazza. Ti fa capire che c’è un’eccessiva e sbagliata tendenza a chiamare “tornado” tutto quello che potrebbe vagamente diventarlo e casomai non lo diventerà mai; stessa cosa per le famose “trombe d’aria” con cui si definiscono sferzate ventose poco più violente del normale. Come chiamare, allora, tutto questo? «Alcuni temporali – spiega Gasparetto – possono diventare supercellulari e tra questi tipi di temporali di livello più violento ci può essere una supercella che genera un tornado». Ecco, una “supercella”: è questo il termine corretto che non utilizziamo mai. Qualcosa di più forte di una tempesta, che contiene la forza bruta della tromba d’aria e del tornado, ma che non è detto che la tiri fuori.

Anche commenti e definizioni di intensità del maltempo – che tendiamo a tradurre con aggettivi spaventosi o grandiosi – nel linguaggio dell’esperto, si trasformano in una terminologia di precisione matematica che lascia un po’ interdetto chi non se ne intende. «Come avviene per i terremoti – racconta Dino Gasparetto – i tornado si classificano secondo una scala numerica, la Enhanced Fujita Scale (EF-Scale), che si basa sui danni provocati e sulla velocità raggiunta dal vento. Questa scala va da EF0 ad EF5 e gli effetti al suolo sono esponenziali. Un EF0 può danneggiare tetti o alberi, un EF5 è in grado di radere al suolo una casa».

Una decina di anni fa questo ingegnere con la vocazione per l’avventura segue il corso da “cacciatore di tornado” al Centro meteo dell’Arpa di Teolo, l’Agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale del Veneto, a una manciata di chilometri da Abano Terme, in provincia di Padova. Dalla teoria alla pratica, nel 2007 si iscrive al suo primo tornado-tour e sbarca a Oklahoma city, Stati uniti del sud. «Durante quel viaggio – racconta – una notte si scatena una supercella a 200 metri di distanza e vediamo sollevarsi in aria uno di quei fienili in metallo che lì vengono usati per tenere gli attrezzi. Una specie di grande igloo che inizia a volare, fortunatamente dalla parte opposta a quella dove eravamo accampati noi». Sempre in quell’occasione – ricorda – «ho visto cadere in mezzo ai campi dei tronchi e degli alberi interi, che svolazzavano come fossero foglie».

Un’esperienza impressa in modo indelebile. E che poi rende intollerabile sentire parlare in maniera sensazionalistica di trombe d’aria ogni qualvolta semplicemente ci sono temporali. «Nella maggior parte dei casi – dice l’esperto – ci sono in effetti dei danni materiali, ma si tratta della conseguenza di violente raffiche lineari (non associate a vortici), che fuoriescono dal fronte avanzante del temporale, cioè dal vento che si forma davanti al fenomeno temporalesco (il “downburst”)».

La critica principale di Gasparetto riguarda l’invenzione di «termini privi di senso come “bomba d’acqua”, l’attribuzione di nomi fantastici alle alte o basse pressioni, titoli sui giornali che richiamano fantomatiche trombe d’aria quando in realtà sono solo raffiche di vento lineari e non vorticose, la confusione tra fenomeni totalmente differenti come uragani e tornado, la distinzione inesistente tra tornado e tromba d’aria». Parole – dice – che rivelano una cultura meteorologica nazionale ancora molto distante da quella statunitense, e che però crea confusione anche in termini di prevenzione. Perché, a forza di creare allarme, poi non si riescono più a fronteggiare in maniera seria i casi davvero allarmanti.

Capito che bisogna essere più cauti quando si scrive e si commentano casi di maltempo, cerchiamo di capire da che parte cominciare. Dov’è che ha visto gli spettacoli naturali più memorabili? «Gli Stati uniti offrono lo spazio perfetto, in particolare il Kansas, con le sue distese infinite di campi, dove i temporali più violenti si scatenano tra maggio e giugno. Ma anche nelle nostre pianure è possibile vederne. Io ho cominciato a interessarmi a queste cose perché ero affascinato dai racconti che facevano i miei nonni di una tromba d’aria terribile a cui avevano assistito. Per la prima volta, poi, a 12 anni, mi sono trovato in mezzo a un fenomeno del genere in una frazione di Rovigo vicinissima a dove abitavo io, era il 1991. Nella zona costiera della provincia di Ferrara, di Rovigo e di Venezia le condizioni potenzialmente si sono, perché dall’Adriatico arriva abbastanza umidità che si può scontrare con le correnti fredde del nord Europa. A quel punto l’elemento decisivo è il vento, che deve essere variabile sia in velocità (“shear”) sia in direzione». E’ quel tipo di vento lì, imprevedibile e bizzoso, che può fare da detonatore al mix esplosivo di umido e freddo.

Anche nel bel mezzo della pianura padana ci si può trovare in situazioni pericolose. Quali precauzioni bisogna prendere? «Bisogna tenere la giusta distanza di sicurezza – dice Gasparetto – che deve essere sempre funzionale all’intensità del fenomeno che si sta inseguendo. Qualche centinaio di metri può bastare per tornado deboli, mentre occorrono almeno un paio di chilometri di distanza per quelli violenti. Superare certi limiti diventa inutile e pericoloso. L’obiettivo di un “cacciatore di tornado” è quello di cristallizzare l’emozione in una foto o in un filmato, quindi deve essere sempre garantita la migliore visibilità, che significa rimanere fuori dalla zona di pioggia e di grandine. E’ la grandine la cosa peggiore, perché può raggiungere dimensioni e forza di proiettili, in grado di disintegrare il parabrezza di un’auto».

E che sensazioni prova, fisicamente, il cacciatore di tornado, quando gli capitano veri tornado o trombe d’aria? «La sensazione più forte che mi resta impressa è sicuramente il ricordo del rumore, un suono cupo e profondo, simile a quello di un treno merci che ti sta per travolgere. Poi c’è la forza del vento in entrata nel temporale (quello che si chiama “inflow”), che è un vento caldo e umido che va ad alimentare la cella temporalesca e che, specie prima della formazione di un tornado, raggiunge notevole intensità. Diverso è il vento in uscita dal temporale (“outflow”), che è freddo e secco, ma altrettanto intenso. Ma quello che un buon cacciatore deve evitare sempre è di trovarsi nell’area investita dal downburst, l’area più fredda. E’ lì che si scatena l’inferno. Non è più spettacolo, ma disastro, una forza naturale che non lascia scampo a cose né a persone».

Bene. Quando il vento soffia e fischia la bufera cercheremo di fare tesoro di queste informazioni. Intanto ci godiamo le nuvole che passano e che Gasparetto cattura, bianche o minacciosamente scure che siano, purché abbastanza contrastanti per occhi abituati al predominante grigiore indistinto della nebbia. E magari alzeremo il naso in su, a goderci il fluire spettacolare degli stormi di storni che in queste settimane passano, diretti verso le zone più calde del sud, sperando di non trovarne troppe tracce su finestre, terrazze o parabrezza della macchina. Niente di meglio, allora, delle immagini del cacciatore di tornado e altre tempeste, da guardare ben riparati.

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Storni in questi giorni nel nostro cielo (foto Dino Gasparetto)
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Storni (foto Dino Gasparetto)
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Nuvole (foto Dino Gasparetto)
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Un’intensa nuvola-muro sopra Rovigo fotografata da Dino Gasparetto

Racconti italiani al teatro Off: Maria Paiato legge Landolfi e Flaiano

Giuseppe entra in una casa di cura per guarire da un leggero malessere. Anna si trova di passaggio in una città straniera. Quello che succede a due persone comuni dopo l’incipit è grottesco, forse strapperebbe un sorriso a Marco Ferreri.
Anna e Giuseppe sono i protagonisti di “Sette piani” e “Non aspettavano altro”, i due racconti di Dino Buzzati letti da Maria Paiato in una delle serate dedicate dall’attrice italiana – premio Duse e due volte Premio Ubu – alla narrativa italiana, dal titolo “Racconti italiani”, nella stagione da poco inaugurata di Teatro Off di Ferrara.

buzzatiIl fantastico e il surreale, chiavi di lettura adatte per gli universi di Buzzati, si alternano parimenti nella serata. Giuseppe e Anna sono allora due vittime inconsapevoli e sopravvissute (ancora per poco), o forse solo due problematici inetti, non capaci di ribellarsi a un destino ha già deciso per loro?
Nell’interpretazione dell’attrice trovano spazio tanto il kafkiano e forse incolpevole protagonista, quanto il carnefice che lo rinchiude in uno spazio entropico di silenzio, o in uno dilatato da urla e pregiudizi, con la precisione chirurgica di un bisturi, dove l’incapacità di intendersi tra il protagonista e chi gli sta intorno è un problema linguistico e semiotico.
“Amo i testi che ho scelto perché amo i loro autori, che rappresentano una letteratura del ‘900 poco frequentata e che vale la pena riscoprire” racconta l’artista.

Nel primo racconto Giuseppe Corte, un avvocato il cui cognome è svergognato da ciò che subisce, sente niente altro che che un leggero malessere diffuso nel corpo entra in una linda casa di cura dai sette piani in cui la parola d’ordine è gerarchia: dall’alto verso il basso, la salute dei pazienti va lentamente scemando dal settimo al primo piano.
Barbablù è dietro l’angolo, non ci si può sottrarre alle regole del bizzarro ospedale; e così
Tra il processo del signor K e la metamorfosi di Gregor Samsa si avvia la fine dell’avvocato che di piano in piano trova la sua fine. Ogni volta per un motivo diverso, per una scusa diversa, Giuseppe passa di giorno in giorno dal piano più alto, un panottico ombelico del mondo con vista sulle fronde verdi e opulente, a quelli intermedi (compreso il temutissimo quarto piano di quelli che non sono né sani né gravissimi, una sorta del dantesco “cammin di nostra vita”), in mano a medici negligenti e lassisti, mentre la sua salute va inspiegabilmente peggiorando e da un semplice eczema arriva presto all’ora dell’addio, steso su di un letto dal quale si vede il mondo fuori diventare più scuro, le chiome degli alberi nascoste per sempre. Come avvolto nel suo sudario, il malato non più immaginario spira vaneggiando nel buio, in un letto al primo piano, in cui si trova per una serie di sfortunate coincidenze; oramai tagliato il flebile cordone che separava lui, “quasi sano”, da tutti gli altri, “malati”.
Immanente discesa lenta e inesorabile, lontana dal buffo mistero di una discesa verso l’ignoto, l’ospedale accoglie un progressivo mutare delle stagioni dell’uomo fino al capitolo finale, dove il letto diventa simbolo della bara. “Questo racconto è una metafora della vita: l’ultimo passaggio del testo racconta delle finestre che si chiudono ermeticamente, fino all’ultima: la fine è giunta”.

coverIl secondo racconto vede la viaggiatrice Anna che si ritrova con l’amico Antonio in una città straniera. Chiede un bagno, ma stranamente non lo trova, nessuno sembra disposto a cederglielo.
Il suo bisogno negato e il suo legittimo tentativo di essere ascoltata le valgono un pubblico linciaggio, morale e fisico. Quella folla che la osserva prima stranita esprimersi in italiano standard a fronte del dialetto popolano si rivela poi inferocita arrivando al linciaggio, sotto l’incredulità immobile del suo compagno di viaggio. Straniera in terra consolidata, sfida le regole bagnando un piede nella fontana riservata ai bambini mentre la canicola estiva non impedisce agli abitanti di restarne religiosamente ai bordi, bagnandosi solo le mani. La straniera sfida non tacitamente le regole più e meno tacite della comunità e mette il piede in acqua; alla richiesta di toglierlo, non cede e continua imperterrita. La situazione però precipita all’improvviso: è presa di peso e punita per quella sua limpida presa di posto di sé contro il mondo, che si rivela popolato di mostri ben nascosti sotto spoglie di persone per bene, persino tranquille.
La folla inferocita è la stessa delle esecuzioni seicentesche, dei linciaggi dei neri americani negli anni Trenta negli Stati Uniti; ma è anche quella da cui metteva in guardia Elias Canetti del capolavoro sociologico “Massa e potere”.
paiato%20grandeLa timida richiesta iniziale di Anna è seguita dalle urla e si chiude con un nuovo silenzio, questa volta sintomo inequivocabile di morte. Le braci sono ormai spente, si vede solo levarsi un fil di fumo che non è sinonimo di speranza ma del resto di un pasto feroce. “In questo racconto c’è tutta la ferocia dei totalitarismi che hanno devastato il secolo scorso, in cui l’essere stranieri decretava una vera e propria esclusione dal gruppo, dalla società”.

Le letture del ciclo “Racconti italiani” di Maria Paiato proseguiranno domani sera a Teatro Off con testi di Tommaso Landolfi e il 30 ottobre con testi di Ennio Flaiano.

ALTRE METE
Kazakistan, sogni e ricordi nel delicato equilibrio tra passato e futuro

Mentre Expo 2015 a Milano si avvia a salutare gli ospiti che ne hanno visitato i padiglioni da tutto il mondo, si configurano già i luoghi più amati.
Ai primi posti quello dedicato al Kazakistan, la cui capitale Astana ospiterà la prossima esposizione universale programmata per il 2017, dedicata all’energia del futuro. Ore di attesa per vedere mele, tulipani e storioni, prodotti-bandiera del Paese che ha ottenuto l’indipendenza dalla ex Unione Sovietica nel 1991, ospite di uno dei più grandi giacimenti petroliferi al mondo.
Diversi Paesi hanno già garantito la propria presenza all’evento, che focalizzerà l’attenzione sul futuro sostenibile ricordando l’inevitabile transizione energetica verso un futuro sostenibile, mentre il commissario generale Anuarbek Mussin attende la risposta dell’Italia, fiducioso che ci sarà, in virtù dei rapporti che la legano al Kazakistan.
Ma anche per motivi meno economici e più sottili.

Motivi che bene evidenzia l’etnologo e regista Andrea Segre nel suo ultimo documentario, “I sogni del mare salato”, presentato nell’ambito Documentari dell’ultima edizione del Festival di Internazionale a Ferrara. Il film, appartenente al progetto Fuorirotta (www.fuorirotta.org), che accoglie diari, reportage, documentari e fotografie, raccontando i migranti e suggerendo nuove mete di viaggio e di scambio con gli altri.
Il film “non ha pretese di inchiesta”, racconta il regista Andrea Segre; bensì ha la foggia di “un viaggio in una umanità che sta vivendo ciò che in Italia si è vissuto cinquanta anni fa.
Quello che si può scoprire facendo domande ai propri genitori, o ai propri nonni, sempre tutelando le persone che vivono la realtà che visito – e che non potranno più farsi una volta scomparse le memorie storiche.”

Tessendo in maniera tecnica una analogia di fondo che rende difficile essere positivi. Perché ora, in Italia, la festa è finita; sembra i soldi siano fuggiti, così come le promesse e le speranze che accompagnavano la generazione nata nel secondo Dopoguerra. E non è un caso se al racconto di viaggio di oggi di Segre in Kazakistan si alternano fotografie d’epoca tratte dall’archivio personale del regista e da quello storico dell’Eni, dove è ritratto il boom degli anni Sessanta, il miracolo economico, finalmente la ripresa dopo stenti e difficoltà finita la guerra.
Ragazze in dolcevita e cappotto a quadri che scherzano e ridono, ragazzi in comitiva si abbracciano pensando al futuro dietro l’angolo, con la certezza di essersi lasciati alle spalle un passato ingombrante e disseminato di pezzi da ricomporre. Passato che in Kazakistan è ancora così forte e accentuato dala “jurta” in una campo desolato, dove per sette giorni si saluta mangiando, bevendo e cantando un figlio delle steppe che se ne è andato. Pescatori kazaki di Jambai nel fotogramma successivo a quello in cui compaiono pescatori di Chioggia, quei laghi salati che custodiscono i sogni di una intera popolazione.

Paese in ascesa, dove la crescita economica procede spedita, il Kazakistan di oggi somiglia infatti molto all’Italia degli anni Sessanta. Una gallina le cui uova d’oro si chiamano petrolio e gas (il cui primo importatore è attualmente proprio l’Italia), in cui non c’è più posto per essere poveri, mentre si spera di diventare sempre più ricchi. Il successo di chi se ne va verso le città per lavorare in multinazionali, di chi guadagna quattro volte la pensione dei propri genitori cozza contro la realtà vista da chi per scelta o necessità – pastori, contadini, bambini – è rimasto nelle immense steppe che ruotano immobili intorno al Mar Caspio, l’occhio di acqua salata che ricorre nel titolo.
Lo scetticismo degli anziani è latente, opposta alla realizzazione in itinere dei più giovani; non bastano gli stipendi alti dell’oro nero per spazzare via un senso di malinconia che pervade chi è rimasto ad abitare città fantasma, oramai dominate da trivelle instancabili, custodi giganteschi di un Paese i cui abitanti ritornano solo per costruire nuove sentinelle di ferro e acciaio; dove se uno torna è solo per costruire altri fatiscenti palazzi del petrolio che svettano sulla steppa desolata, e non per restare: questo significherebbe ammettere che il sogno ha delle falle aperte, che l’acqua comincia a sgorgare da tubi lasciati aperti per errore. E non si tratterebbe dell’acqua salata del sogno.
Ciò che domina è il miracolo economico, la paura di essere esclusi e il desiderio di farne parte.

I primi operai che lavorano per l’energia dei Paesi satellite dell’Est; l’entusiasmo di chi apre una nuova attività, caschi da lavoro e tute in bianco e nero di fianco a impiegati usciti da master londinesi che vanno all’ufficio in taxi con autista, tutto scorre parallelo al Kazakistan di oggi.
Dove per ogni ristorante inaugurato c’è una apprendista (non più giovane) che lavora in un caffè.
E c’è il desiderio, un giorno non lontano, di aprire un ristorante, magari alla moda occidentale – magari lasciandoci accanto il “kuyrdak”, piatto tradizionale del posto. Ma ancora c’è da correre, mentre la giornata termina facendo i conti a matita su un pezzo di carta.
Corre veloce il progresso, somiglia a quello che un passo dopo l’altro ci porta a rimpiazzare, l’iPhone 6 al posto del 5, sembra raccontare tra le righe il documentario di Segre.
L’importante sembra essere non avere tempo per ricordare o provare nostalgia, di rallentare e chiedersi dove si sta andando, e in che modo. E pensare che Godot lo hanno aspettato invano non aiuta. Spesso però aiuta ricordare che il viaggio è tanto importante quanto l’arrivo, nonostante spesso tutto quello che si trova sia solo una porta a vetri appannati con la scritta “Chiuso”.

IL FATTO
Distruzione dei monumenti storici, un crimine di guerra

E’ un avvenimento unico, storico, un’apertura sperata e attesa. Finalmente. Lo avevamo auspicato qualche tempo fa (leggi) e in questi giorni la Corte Penale Internazionale (Cpi) dell’Aia pare andare nella giusta direzione. Davanti a essa, infatti, è apparso per la prima volta, lo scorso 30 settembre, Ahmad Al Faqi Al Mahdi, accusato di aver commesso crimini di guerra nella città di Timbuktu, nel nord del Mali, attaccando e distruggendo monumenti storici ed edifici religiosi, tra il 30 giugno e il 10 luglio 2012. Per la prima volta nella storia, la Corte (tribunale internazionale, istituto nel 1998, competente a giudicare individui che abbiano commesso gravi crimini di rilevanza internazionale come genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra) persegue un imputato per il crimine di guerra di distruzione di monumenti storici ed edifici religiosi. Era ora. Un buon segno, un buon inizio, un passo necessario e urgente verso una tutela di beni dimenticati. Ma vediamo i fatti.

Da gennaio 2012, il Mali (paese povero ma bellissimo e culturalmente ricco) è attraversato e “scombussolato” da un conflitto armato non-internazionale di difficile comprensione. La città di Timbuktu, che, nell’immaginario collettivo, evoca tempi lontani, luoghi remoti e favole misteriose, è controllata da vari gruppi islamici terroristici legati ad “Al Qaeda in the Islamic Maghreb” (Aqim). L’imputato di oggi, Al Faqi (soprannominato Abou Tourab), nato ad Agoune, a un centinaio di chilometri da Timbuktu), circa trent’anni fa, era membro di uno di questi gruppi (“Ansar Dine”, movimento tuareg associato a Aqim) e capo della brigata “Hesbah” (“brigata dei costumi”), coinvolta nella distruzione di 9 mausolei costruiti tra il XIII e il XVII secolo, di una moschea e di oltre 4.000 manoscritti originali. Siti Unesco, fra l’altro.

Chi non ha visitato il Mali difficilmente può immaginare il tesoro che esso racchiude, per la storia dell’uomo e della civiltà. Quando, nel 2009, ho varcato la soglia di Timbuktu, ho percepito la forza di quella storia, visitando i luoghi che custodivano centinaia di antichi manoscritti. Era come entrare in una caverna di una favola, quella che contiene il tesoro che si cerca da lungo tempo. Il solo pensiero di una loro possibile violazione e distruzione fa male, mani nemiche che osano toccare e intaccare le tradizioni e le storie passati dei popoli. Macchiarle di oblio, sfregio, terrore e distruzione. Per cercare di punire tale vergogna, la Camera Preliminare della Cpi ha quindi fissato la data di inizio dell’udienza per la conferma delle accuse (18 gennaio 2016) a carico di Al Faqi, nell’ambito della quale si deciderà se le prove presentate dal Procuratore integrino i presupposti ragionevoli al fine del riconoscimento della sussistenza della responsabilità penale, individuale o in concorso, in capo all’indagato, per aver commesso il crimine di guerra di distruzione di monumenti storici ed edifici religiosi. In caso positivo, avrà inizio il processo vero e proprio. Tale caso è il primo (The Prosecutor v. Ahmed Al Faqi Al Mahdi, ICC-01/12-01/15) riguardante il conflitto in corso in Mali attualmente in esame presso la CPI. Il Governo del Mali ha riferito la situazione alla Corte il 13 luglio 2012 (con la lettera del Ministero della Giustizia n.0076/MJ-SG, leggi qua). Il 16 gennaio 2013, il Procuratore aveva aperto un’indagine inerente i presunti crimini di rilevanza internazionale commessi sul territorio maliano a partire dal gennaio 2012. Il mandato di arresto di Al Faqi era stato spiccato il 18 settembre 2015 e il 26 settembre le autorità del Niger lo avevano consegnato al Centro di detenzione della Corte nei Paesi Bassi. I monumenti distrutti sono: i mausolei Sidi Mahmoud Ben Omar Mohamed Aquit, Sheikh Mohamed Mahmoud Al Arawani, Sheikh Sidi Mokhtar Ben Sidi Muhammad Ben Sheikh Alkabir, Alpha Moya, Sheikh Sidi Ahmed Ben Amar Arragadi, Sheikh Muhammad El Micky, Cheick Abdoul Kassim Attouaty, Ahamed Fulane, Bahaber Babadié, e la moschea Sidi Yahia.

Aspettiamo gennaio 2016, e vedremo. Seguiremo l’affaire. Auspicando che sia solo l’inizio per la punizione di tali crimini. Contro un integralismo inaccettabile.

 

IL FATTO
“Tempi non brevi” per la riapertura del padiglione italiano ad Auschwitz

Il blocco 21 di Auschwitz – quello italiano, chiuso dal 2011 – “riaprirà, ci mancherebbe altro…”, assicura il ministro alla Cultura Dario Franceschini, “ma i tempi – precisa Daniele Ravenna, direttore generale del Mibac – non saranno brevi”. La vicenda è surreale e costituisce uno sfregio alla memoria dei 7.500 ebrei italiani deportati. Ferraraitalia l’ha raccontata già nel gennaio scorso [leggi qua].
In sintesi, è accaduto questo: nel 2007 la direzione del museo di Auschwitz ha approvato nuove linee guide per le opere esposte, prevedendo allestimenti di taglio pedagogico-illustrativo. Dopo quattro anni di infruttuosi contenziosi con i vari governi italiani che si sono succeduti alla guida del Paese, il padiglione è stato chiuso d’autorità dai responsabili museali perché ‘il Memoriale’ (questo il titolo dell’installazione artistica multimediale, proprietà dell’Associazione nazionale ex deportati) “non corrispondeva più agli standard richiesti”.
“L’opera, collocata nel blocco 21 alla fine degli anni Settanta, in effetti è molto connotata culturalmente e storicamente – afferma Ravenna – è fatiscente e in ogni caso non è più ritenuta adeguata dai responsabili del museo, perciò va trasferita. Il padiglione è ancora chiuso perché si deve provvedere alla rimozione”.
Sono però già trascorsi otto anni da quando il problema è stato posto, quattro da quando è stato chiuso il blocco 21. E già da tempo la Regione Toscana si è offerta di dare ospitalità all’opera sfrattata, tant’è che a fine gennaio scorso era stata annunciata la sua “imminente collocazione” in uno spazio espositivo dell’Ex3, centro d’arte contemporanea.
Evidentemente c’è stato il solito intoppo, perché il trasferimento non è stato fatto. A confermarlo è ancora Ravenna: “Individuata la nuova collocazione, si sono dovute trovare le coperture economiche, reperite nei fondi del ministero della Cultura. Ora il ‘Memoriale’ verrà smontato, trasportato e rimontato a Firenze a cura dell’Istituto centrale dei beni culturali e dell’Opificio delle pietre dure”.

Però ancora nulla si sa del futuro allestimento al blocco 21. “Verrà costituito un comitato scientifico che se ne occuperà”. Ma il fatto che non siano stati designati neppure i componenti della commissione fa supporre che la questione non si risolverà in fretta. “I tempi prevedibilmente non saranno brevissimi – ammette Ravenna – di buono però c’è che i fondi già ci sono perché la Presidenza del Consiglio ha già da tempo riservato una somma importante al riparo dalle varie manovre finanziarie”.
Ma se nessuno decide di accelerare, la vergogna del padiglione italiano chiuso si protrarrà ancora per chissà quanto.

NOTA A MARGINE
Alzare lo sguardo: ecco gli ingredienti per cambiare volto a Ferrara

Dipende. Si è speso l’aggettivo “storico” per definire l’accordo siglato questa mattina a Ferrara alla presenza dei ministri Franceschini, Giannini, Pinotti e del sottosegretario all’Interno Bocci. Ma il buon esito non è proprio scontato. Oggetto: l’attuazione di un programma di valorizzazione di tredici “aree e immobili pubblici di eccellenza” della nostra città. Alla base c’è un’intesa ampia e trasversale fra apparati dello Stato. Si tratta di edifici e luoghi storici cittadini, le cui traversie sono ben note e si trascinano da decenni. Proprio per questo la speranza si accompagna alla cautela. I presupposti ci sono, ma la prudenza è d’obbligo. Il fatto che si siano mossi alcuni pesi massimi delle istituzioni, ciascuno ribadendo la convinzione che questo sperimentato a Ferrara è “un modello”, sembra un positivo auspicio. Ma l’esito non è scontato. L’esperienza insegna.

Oltre al Comune di Ferrara sono coinvolti nei progetti di valorizzazione l’Agenzia del Demanio, i ministeri dell’Interno, della Difesa, dell’Istruzione, dei Beni culturali, le Agenzie del Demanio e delle Entrate, la Regione Emilia Romagna. I commensali sono qualificai. Gli ingredienti per ridisegnare il volto della città ci sono tutti, ma se il risultato sarà dolce o amaro dipenderà dalla reale dedizione di chi li dovrà combinarli in un appetitoso menu. E i cuochi non sono ministri, sindaci e presidenti che oggi affollavano la Pinacoteca di palazzo dei Diamanti per la firma dell’atteso accordo: come sempre siamo nelle mani dei funzionari, alcuni solerti, altri pigri. Vedremo.

Di cosa stiamo parlando precisamente? Di immobili e aree che passano finalmente “nella disponibilità dell’amministrazione locale”; una formula che significa sostanzialmente una cosa: edifici e aree in disuso saranno recuperati, altri occupati saranno liberati e restituiti alla pubblica fruizione.
Quattro sono dislocati lungo il perimetro delle mura sud: si tratta di una porzione dell’ex Mof (destinato a verde e residenze), dell’ex carcere di via Piangipane nel quale già si sta realizzando il museo dell’Ebraismo italiano e della Shoah, del teatro Verdi (“sarà una piazza coperta”, spiega il vicesindaco Maisto), i locali della dismessa caserma Caneva ricavata all’interno dell’ex convento di Sant’Antonio in Polesine.
Altri due si trovano sull’asse centrale di congiunzione fra la città medievale e quella rinascimentale, lungo la direttrice Cavour-Giovecca: l’ex casa del Fascio (poi Genio civile) e la cella di Torquato Tasso (sarà aperta e inserita nei percorsi di visita turistici) con il contiguo auditorium in previsione della sua riapertura al pubblico; a margine di questo comparto è l’area della stazione ferroviaria e dei grattacieli, anch’essa ricompresa nell’accordo.
Tre si affacciano su corso Ercole d’Este (secondo lord Byron “la strada più bella d’Europa”): parliamo di palazzo Furiani (attuale sede della Polstrada), della caserma Bevilacqua (dove si trova l’ufficio passaporti della Questura, di fronte a palazzo Prosperi-Sacrati, nel quadrivio rossettiano) e del poligono di tiro del ministero della Difesa che una volta sgombrato libererà un suggestivo corridoio verde per l’accesso al centro storico dalla porta degli Angeli, parallelo per un tratto a corso Ercole d’Este.
Poi ci sono l’ex convento di San Benedetto (per il cui recupero c’è già un adeguato stanziamento economico garantito dall’Agenzia delle Entrate), l’aeroporto (“sarà il parco sud della città”, precisa l’assessore Fusari) e l’area di Pratolungo, in prossimità di Cona.

Insomma, la razione è ottima e abbondante. Ce n’è abbastanza per ripensare la città, ridefinirne gli usi e le prospettive. Servono per questo idee e denaro. Date per scontate le prime (anche se in verità la ‘visione’ in passato talvolta è parsa appannata), i soldi  – si dice solitamente – “non sono un problema”, ma in genere lo dicono quelli che li hanno. Nel caso specifico, alcuni interventi sono già finanziati, altri invece necessiteranno dell’elaborazione di un piano di investimenti.

firma accordo
Il sindaco Tiziano Tagliani ha parlato di “emozione e grande soddisfazione” sostenendo che si dischiude un orizzonte nuovo per la città. E’ uno sforzo paziente che oggi giunge a risultati concreti – ha aggiunto -. Chiudiamo una fase storica caratterizzata da incertezze e conseguenti difficoltà di gestazione dei progetti degli enti locali. Accordo di oggi è un punto di arrivo su obiettivi condivisi: Pinotti, Giannini Franceschini e Bocci rappresento il governo, Bonaccini testimonia il pieno coinvolgimento della Regione. Attiviamo un volano di dinamismo per la città e la sua economia, che implica lavoro, sviluppo e valorizzazione del patrimonio. Calano sulla città i pezzi di un immenso puzzle che ora prende forma“.

“E’ un accordo che consente di guardare al futuro – ha dichiarato l’assessore all’Urbanistica Roberta Fusari – porta nuova linfa ai cantieri (quelli in cui si elaborano le strategia e quelli in cui materialmente si realizzano le opere) e consente di orientare il riassetto urbanistico“.

Dario Franceschini, ricordando il “legame personale con tutti i luoghi oggetto di questa valorizzazione” ha segnalato come “di solito quando c’è un progetto che coinvolge immobili dello Stato comincia un andirivieni con i ministeri che mette a rischio il sistema nervoso degli amministratori locali. Per giungere a questo importante risultato è stato prezioso il lavoro svolto dal ferrarese Daniele Ravenna, figlio di Paolo (alla citazione scatta l’applauso dei presenti a sottolineare l’affetto e la gratitudine per il rimpianto presidente di Italia nostra, ndr) che lavora con me al ministero. L’accordo riguarda luoghi significativi, come il monastero di Sant’Antonio in Polesine e la cella del Tasso ove si fece rinchiudere lord Byron alla ricerca dell’ispirazione del poeta.
Con l’acqusizione delle caserme Furiani  e Bevilacqua e del poligono di tiro si prospetta la possibilità di definire il percorso del borgo rinascimentale, a completamente dell’itinerario storico della città, al quale il Meis aggiungerà una perla preziosa. Se il modello qui varato funzionerà, lo esporteremo dicendo orgogliosamente è stato sperimentato a Ferrara”.

“E’ un modello che stiamo cercando di applicare in ogni città del Paese – conferma Roberto Reggi direttore dell’Agenzia del demanio. Qui è stato compiuto un passo per coordinare e integrare gli interventi di numerosi soggetti. Esiste un solo patrimonio pubblico del Paese – ha sottolineato – che va a valorizzato in maniera adeguata al di là di chi sono i soggetti proprietari. C’è un baratto anche di natura tecnica e amministrativa perché oltre ai beni si scambiano anche conoscenze e competenze tecniche. Impegno deve essere di tutti nella piena consapevolezza degli interessi del Paese.
Questa operazione porterà lo Stato a risparmiare risorse importanti in locazioni passive perché verrà razionalizzato l’utilizzo degli spazi. A Ferrara è prevista minore spesa per affitti per un milione e duecentomila euro. Sulla base di quanto realizzato qua potremo rilanciare questo modello su scala nazionale”.

Rossella Orlandi direttrice dell’Agenzia delle entrate, parla nello specifico del complesso di San Benedetto, “che sarà recuperato grazie a interventi e a uno specifico impegno finanziario dell’Agenzia. Firmiamo con convinzione questo accordo, è un esempio tipico di tutela dell’eccellenza, una base solida su cui costruire il futuro del Paese”.

Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia Romagna, ricorda come “già nel 2008 venne sottoscritto un programma d’area per il recupero di aree storiche. Oggi si incrementa quel piano. Questa è la dimostrazione che c’è un’Italia che funzione. Qui, pezzi dello Stato che si mettono insieme per valorizzare il patrimonio comune attraverso un progetto di riqualificazione e rigenerazione urbana. Si mettono in condizione il territorio e la comunità di recuperare valore grazie alla rivitalizzazione del patrimonio culturale e artistico. In prospettiva deve tornare in campo l promozione del turismo all’estero come ‘prodotto-Italia’ nella sua unitarietà. Ogni regione e ogni località ne avrà di riflesso un beneficio.
Questo è davvero un esempio – ha concluso – un modello che vorrei fosse replicato in tutte le città dell’Emilia Romagna”.

Anche per Giampiero Bocci, sottosegretario del ministero dell’Interno, “il patrimonio pubblico rappresenta una grande opportunità per il Paese: sottoscriviamo gli impegni consapevoli che si opera per ottimizzare le risorse dello Stato superando l’attuale dispersione. E’ il buon senso prima ancora dell ‘spending review’ a suggerire questi comportamenti e queste scelte. Per noi non vedo ricadute negative, perché anche la sicurezza si può gestire meglio investendo sugli uomini e risparmiando sulle sedi”.

“Torno con molto piacere in questa città e lo sottolineo – ha dichiarato il ministro Stefania Giannini, oggetto di contestazioni nella sua recente visita a Ferrara – Presentiamo un modello che vorremmo esportare. Ripartire dalla valorizzazione della città come sede di rilancio del Paese, integrando patrimonio tangibile e intangibile. L’Auditorium di Ferrara da 40 anni attende il recupero. E’ un dovere rendere fruibili questi frammenti di storia e di bellezza. Qui sta la capacità di risposta concreta della buona politica”.

Infine, il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, indica il “tema della valorizzazione dei  beni eccellenti del patrimonio pubblico di una città” addirittura come un “dovere patriottico. Sono beni – spiega – che hanno fatto la storia e sono nel cuore”. Nello specifico riconosce: “Non ha più senso che tratteniamo in seno alla Difesa luoghi come il poligono di tiro, in pieno centro storico, la cui indisponibilità preclude la fruizione di percorsi e itinerari funzionali al totale godimento della città. Luoghi così vanno liberati nell’interesse di tutti. Abbiamo già rimesso in movimento 500 immobili da quando siamo in carica. Sosteniamo le necessità della difesa quando sono reali, ma i beni e le strutture utili allo sviluppo del Paese vanno restituiti e resi disponibili”.
Per concludere, un’indicazione di marcia: “Bisogna alzare lo sguardo e dare orizzonti di riferimento – dichiara convinta -. Sottoscrivo l’esortazione del vostro sindaco Tagliani”.

LA RIFLESSIONE
In inglese è sexy, ma l’italiano è più figo

E’ meglio organizzare workshop o laboratori? Mandare un tweet o un cinguettio? Parlare di argomenti popolari o mainstream?
Il dilemma tra la voglia di usare termini in voga e quella di essere chiari può mettere in difficoltà. Se uno vuole vedersi un film, la scelta è abbastanza ovvia e difficilmente preferirebbe dedicarsi alla visione di una pellicola, ma nemmeno di un lungometraggio. Anche per chi ‘twitta’ non è forse il caso di cominciare a cinguettare. Magari – però – della musica mainstream potremmo fare a meno, e ascoltare semplicemente gruppi o cantanti più di tendenza.
Un angolo dedicato a questa riflessione sul linguaggio e sull’uso o l’abuso di parole in inglese – la lingua straniera dominante – lo riserva il festival Internazionale, a Ferrara nel weekend appena passato, in un incontro organizzato in biblioteca Ariostea. Il titolo è già una bella cosa: “In parole semplici”. Due termini brevi, chiari, in italiano. La scheda informativa precisa poi che l’iniziativa va ad affrontare “Anglicismi, calchi e neologismi. Come tradurre restando dalla parte del lettore”.
A parlare di questo tre esperte come la traduttrice Bruna Tortorella; Licia Corbolante, blogger che per Microsoft si è occupata di terminologia; Serena Di Benedetto, che traduce documenti per la Commissione Europea. Con in più il contributo inaspettato di Tullio De Mauro – il linguista italiano forse più noto, nonché socio dell’Accademia della crusca, l’istituzione che da quattro secoli mette insieme gli studiosi della lingua italiana che fanno un po’ da guardiani per mantenere un italiano pulito e dignitoso.

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Tullio De Mauro, docente di linguistica e accademico della crusca

Chiarezza per chiarezza, De Mauro interviene per fare notare come già il termine “anglicismi” sia di per sé un eccessivo omaggio alla lingua inglese: “In italiano – dice il linguista, presente tra il pubblico della biblioteca comunale – si dice anglismi, come del resto francesismi o italianismi. Anglicismo è la trasposizione letterale del termine inglese ‘anglicism’”. Ma la gente – si prova a obiettare – ormai usa anglicismo, e non anglismo… “La gente – risponde lui deciso – se proprio deve esprimere questo concetto, dice semplicemente che sono parole inglesi”. Accidenti, ecco quanto siamo sottomessi a questa tendenza a piegare l’italiano verso la predominanza inglese.

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La traduttrice Bruna Tortorella (foto da Internazionale)

Ma di chi è la colpa di questa dipendenza anglofila? “Una delle cause – spiega Licia Corbolante – può essere la pigrizia, perché si trova un termine già confezionato altrove e si evita di fare la fatica di pensare bene cosa significhi per tirarlo fuori dal mondo da cui proviene e calarlo nel nostro linguaggio. Nella maggior parte dei casi la traduzione è possibilissima ed efficace. Come nel caso di coffee-break. Basta dire pausa-caffè!”. La traduttrice Ue, Serena Di Benedetto, spezza una lancia a favore della capacità di sintesi dell’inglese, pronto a esprimere un’idea in poche e brevi parole, che magari indicano qualcosa di tecnologico e per il quale non c’è un termine equivalente. “E’ il caso di weekend per indicare il fine settimana o dello scanner, che sennò bisognerebbe chiamarlo apparecchio-che-si-usa-per-riprodurre-documenti-o-immagini in formato digitale. Oppure del catering per la ristorazione portata in un posto da una cucina esterna o del badge che si timbra per entrare in ufficio”. Quello – suggerisce però qualcuno in sala – è poi il cartellino. “Sì – ribatte la Di Benedetto – ma ormai è diventato meno usuale chiamarlo così, tant’è che si è creato anche il verbo che indica l’azione di badggiare (anche se non si sa poi bene come si debba scrivere)”. Il rischio, fa notare la traduttrice Bruna Tortorella, è quello di creare termini farlocchi, a forza di usare troppe parole di cui non si padroneggia bene l’origine. “Lo stage – dice la Tortorella – per noi è una specie di tirocinio, ma per americani e inglesi è solo il palco del teatro. Oppure living, derivato dal termine ‘living room’ che vuol dire soggiorno, ma che così spezzato come titolo di una testata di arredamento in realtà definisce solo l’attività di vivere”.

parole-traduzione-italiano-inglese-internazionale-ferrara-giorgia-mazzottiA dar man forte all’inglese, oltre a pigrizia e snobismo, ci si mette – infine – un modello imposto tante volte dall’alto, addirittura dal governo italiano o da definizioni create a livello istituzionale. Ecco allora i ticket, per indicare il contributo da pagare per avere prestazioni sanitarie o farmaci convenzionati. Oppure il Jobs act che definisce la nuova legislazione in materia di contratti di lavoro. Tra gli ultimi nati ci sono gli hot spots per dire campi di raccolta per gli immigrati. In tutti questi casi l’inglese sembra un po’ un velo pietoso per alleggerire la brutalità di parole più dirette e più chiare. Come se si sentisse il bisogno di stemperare la necessità di pagare le cure, quella di ridimensionare i diritti dei lavoratori o di evocare la presenza di campi profughi. Ben venga l’italiano, allora, con la schiettezza di un bell’incontro al posto dei meeting, un buon panino al posto di hamburger e sano cibo anziché artificioso food. E che non si dica che non è sexy, perché l’italiano può essere sinteticamente e semplicemente figo!

Ascolta il brano intonato: Renato Carosone, Tu vuo’ fa’ l’americano

L’INCONTRO
Reati in presa diretta. Così nasce un’inchiesta

Un’inchiesta giornalistica raccontata dietro le quinte: il lavoro della redazione, la ricerca di fonti attendibili, interviste, sopralluoghi, ma anche dichiarazioni e frasi scottanti registrate con telecamere nascoste. A rivelare i segreti del mestiere arrivano a Ferrara tre inviati di “Presa diretta”, la trasmissione di Rai3 condotta da Riccardo Iacona.

I temi che verranno affrontati saranno quelli di inquinamento ambientale, smaltimento illegale di rifiuti, traffico e abbandono di materiale radioattivo. L’incontro – aperto a tutti – è in programma per domani, giovedì 8 ottobre 2015, a Ferrara con alcuni giornalisti del programma tv e con il parlamentare ferrarese Alessandro Bratti, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle Attività illecite legate al ciclo di smaltimento dei rifiuti.

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Lo studio di “Presa Diretta” con Ricardo Iacona e Giulia Bosetti durante la puntata sulle cooperative
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La giornalista di “Presa Diretta” Giulia Bosetti

Un’occasione sia per gli addetti ai lavori sia per i curiosi per scoprire il lavoro giornalistico svolto dalla redazione Rai nella cosiddetta “terra dei fuochi” (la zona tra le province di Napoli e Caserta), dove c’è stato un massiccio scarico illegale di rifiuti anche tossici da parte della criminalità organizzata. La definizione di questo tipo di reato, compiuto dalle ecomafie in quell’area della regione campana, è stata resa di dominio pubblico anche grazie alla popolarità del libro “Gomorra” in cui Roberto Saviano ne documenta la storia.

A spiegare come avviene e quali conseguenze ha questo traffico di materiali terribili che avvelenano appunto la “terra dei fuochi” saranno i giornalisti televisivi Giulia Bosetti, Federico Ruffo, Elena Stramentioli. Perché quelle sostanze che vengono gettate in campi e fossi finiscono per intaccare tutto l’ambiente intorno, dai prodotti agricoli alle falde sotterranee fino alle produzioni alimentari più rinomate. Un disastro che viene allo scoperto anche in seguito all’improvvisa e crescente diffusione di tumori precoci, soprattutto tra le donne che abitano in quel territorio.

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Scena del film “La mafia uccide solo d’estate” con Pif e Cristiana Capotondi

Coordina l’incontro il responsabile dell’ufficio stampa del Comune di Ferrara, Alessandro Zangara. L’appuntamento fa parte del calendario della “Festa della legalità e della responsabilità”, partita a fine settembre e che proseguirà anche con la proiezione di film sul tema al cinema Boldini, dove già stasera (ore 21) verranno proiettati alcuni documentari e sarà disponibile un banchetto (dalle 19,30) con i prodotti dell’associazione Libera.

Il programma dettagliato della “Festa della legalità e della responsabilità” si può consultare su CronacaComune, il quotidiano online del Comune di Ferrara.

“Le leggi sui delitti ambientali e le inchieste giornalistiche” è in programma per domani, giovedì 8 ottobre 2015, alle 18 in Sala della musica, Chiostro di San Paolo, via Boccaleone 19, a Ferrara. L’incontro – riconosciuto come formativo dall’Ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna – è gratuito e aperto a tutti.

INTERNAZIONALE
Giardini da immaginare: tour nella storia

Giardini che c’erano e che ci sono ancora un poco. Sono quelli che ti porta a vedere la visita guidata “Verde estense”, organizzata all’interno di Internazionale, a Ferrara da ieri e fino a oggi pomeriggio. Il giro è gratuito, ma per partecipare bisogna prenotarsi all’Infopoint sul listone, in piazza Trento Trieste (oggi, domenica 4 ottobre 2015, ore 9-11). Oppure ci si può provare, a presentare sul posto, sperando che qualcuno che si è prenotato non ci sia.

Il giro vale il rischio. Perché quelli che si vanno a vedere non sono tanto i giardini che ci sono, ma soprattutto quelli che avrebbero potuto esserci, quelli favolosi di un tempo andato e quelli che qualcuno – come Giorgio Bassani o i duchi estensi – ha immaginato. Luoghi che magari si conoscono anche già, dove si è passati tante volte, ma da riguardare con occhi nuovi.

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Giardino delle duchesse a Ferrara con l’attrice e regista del Teatro Ferrara off, Roberta Pazi (foto Giorgia Mazzotti)
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Giardino delle duchesse a Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)

Si parte dal Giardino delle duchesse, il cortile in cui si entra sia dal portone aperto su via Garibaldi 6 sia da piazza Castello. Qui la prima, bella sorpresa adesso è di trovarlo sgombro, vuoto, senza tutte quelle panche, bancarelle, casette tirolesi che tante volte lo affollano. Vabbè: in un angolo ci sono delle transenne e una ruspa; il terreno è chiazzato di pozzanghere che colmano il terreno sconnesso; la ghiaia si alterna a un praticello sparuto. Però, finalmente, si può spaziare con lo vista e immaginare questo luogo che accoglieva gli ospiti di Palazzo ducale (ora Municipio) e – soprattutto – ci si può riempire gli occhi dell’albero che troneggia lì in un bell’angolo, con le sue foglie rigogliose e i rami carichi di pomi verdi e tondi, che tra un poco si trasformeranno in cachi arancioni.

Il percorso prosegue dentro al castello e poi giù in corso Ercole I d’Este, la strada ferrarese dei giardini. A partire dal cortile con chiostro e pozzo del palazzo più celebre, che è Palazzo dei Diamanti, con una sbirciatina a quelli di tutti gli altri signori che accolsero l’invito ducale di dotarsi di un palazzo circondato da fronde, fiori e frutti. In mezzo c’è Parco Massari, giardino pubblico da diversi decenni. Lo storico Francesco Scafuri, in veste di guida, spiega perché è un luogo sempre così piacevole. Nel 1852 i conti Massari lo comprano e decidono di trasformare le aiuole rigide e i sentieri retti in uno spazio curvilineo e il più possibile simile a qualcosa di naturale, quasi selvatico. Non più giardino all’italiana, geometrico e schematico, ma parco di alberi e sentieri tortuosi, un luogo dove perdersi e fantasticare; dove riflettere, gioire o lasciarsi andare alla malinconia in sintonia con la natura.

Infine il giardino di palazzo Trotti Mosti. Niente di speciale, tutto sommato, a vedere questo prato con un po’ di alberi e un muretto intorno che affianca la sede del dipartimento di giurisprudenza, in corso Ercole I d’Este 37. Così, almeno, lo si può giudicare se ci si passa distratti e superficiali. La spiegazione dello storico rivela invece che proprio questo potrebbe essere uno dei giardini più cercati della città, da parte tanto dei ferraresi quanto dei visitatori di Ferrara: il romanzesco parco che dà il titolo al “Giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani. Proprio quello, sì. A rivelarlo a Scafuri un signore ormai molto anziano, che gli ha raccontato la sua frequentazione dell’edificio negli anni ’30, all’epoca abitazione della famiglia Pisa, di origine ebraica. E che ha voluto fargli sapere come nella lettura del romanzo più famoso di Bassani lo avessero colpito tanti particolari della case e del giardino che aveva visto proprio lì dentro. La distesa verde, certo, era un po’ diversa da adesso, molto più grande, tanto da scavalcare vie ed edifici arrivando fino in via Pavone.

La realtà e l’espansione edilizia cittadina hanno ristretto lo spazio del verde, ma la mente può partire da questi luoghi aperti e ricominciare a spaziare.

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Bicicletta per altoparlanti accompagna la visita guidata ai giardini (foto Giorgia Mazzotti)
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Parco Massari di Ferrara raccontato dallo storico Francesco Scafuri (foto Giorgia Mazzotti)
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Intervento del Teatro Nucleo a Parco Massari (foto Giorgia Mazzotti)
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Giardino di palazzo Trotti Mosti, a Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)

La fantasia che diventa gesto ed emozione: prove tecniche di teatro per aspiranti attori

“Parlare della minestra è inutile, assaggiarla è meglio”. Con verve tipicamente toscana, Massimo Malucelli non disdegna la battuta neppure quando parla di teatro, infrangendone la sacralità così solennemente proclamata e platealmente praticata in scena da tanti suoi colleghi… “Il teatro è esperienza, l’invito è a fare un assaggino”. L’occasione per sperimentare il menu è offerta, lunedì 5 ottobre, dalla lezione che fa da anteprima al laboratorio teatrale che si dipanerà sino a maggio con incontri a cadenza settimanale.
“Si può presentare chi è curioso, liberamente, senza impegno. Sentirà due chiacchiere sulla filosofia che c’è dietro questo progetto e sulla mia concezione del teatro – spiega Malucelli che alterna al palco la ‘cattedra’ – ma soprattutto avrà la possibilità di mettersi alla prova, sperimentare direttamente, facendo un’esperienza minima ma pratica – non intellettuale – sentendo le parole e le emozioni attraversare il proprio corpo e diventare recita”.
E se la minestra piace?
Se la minestra, dopo l’assaggio, piace c’è possibilità di continuare a degustarla una volta alla settimane sino a maggio
Come è strutturato il corso e a chi è rivolto?
A tutti coloro che desiderano partecipare, senza alcun limite o vincolo. La prima parte è più prettamente pedagogica. Se il giochino diverte poi lo si applica, con una serie di esercitazioni finalizzate ad acquisire le tecniche di recitazione fino a metterle in pratica riunendo fantasia e contenuti in un personaggio.
Il crogiolo di questa esperienza è lo spazio teatrale…
La fantasia diviene concreta nel corpo e il teatro offre una grande opportunità: quando il contenuto transita dalla testa al corpo diventa storia teatrale. Dobbiamo fare diventare veri i fantasmi. Gli allievi si impratichiranno quindi attraverso appropriati esercizi. E applicheranno poi le loro acquisizioni a un personaggio e a una storia, fino a presentarsi in scena per raccogliere il riscontro del pubblico. Così la recita completa il suo itinerario e diviene esperienza comunitaria.

Avviata in battuta, la conversazione in battuta si chiude. Alla nostra richiesta di un giudizio sui suoi colleghi, un grande attore contemporaneo, un modello da indicare ai suoi allievi, Malucelli replica pronto: “Il signor Matteo Renzi! E’ un teatrante nato, riesce come pochi a trasformare con l’intonazione il senso dell’espressione verbale, creando magistralmente l’effetto del sottinteso: il signore in questione avrebbe dovuto fare teatro… Eh si, il teatro andrebbe rivalutato, potrebbe essere una grande potenzialità per il Paese!”.

Per info:
www.foneteatro.it
massimo.malucelli@gmail.com
347 5997889

IL RICORDO
L’ultimo battito. Se ne va Pietro Ingrao, ha testimoniato cosa significhi politica

Di Pietro Ingrao si deve ora parlare al passato. Non è più. Ma viva, attuale e imperitura resta la sua cristallina testimonianza di cosa significhi impegno politico.

Lo ricordiamo con il ritratto tracciato da Fiorenzo Baratelli su Ferraraitalia il 30 marzo scorso, in occasione del suo centesimo compleanno [vai all’articolo originale] che riportiamo anche qua sotto:

“Il secolo di Ingrao, passioni e dubbi di un comunista eretico”
di Fiorenzo Baratelli *

Oggi Pietro Ingrao compie cento anni: auguri di cuore! E’ stato un politico anomalo, difficilmente catalogabile, soprattutto se ci guardiamo attorno in questo tempo di crisi della politica. Comunista italiano, eretico, pacifista, utopista, dirigente politico, poeta, critico cinematografico, uomo delle istituzioni, sempre vicino ai movimenti nuovi della società civile, difensore della Costituzione aperto alle proposte di una sua riforma. Tante definizioni, e tutte insufficienti. E’ stato uno dei massimi dirigenti del Pci, ma fu più amato che seguito. E molti ‘ingraiani’, come spesso succede ai discepoli, non hanno sempre reso un bel servizio al Maestro. Ciò che costituiva l’elemento fondamentale del suo fascino, l’elogio del dubbio, era anche ciò che gli creava attorno un alone di sospetto e di inaffidabilità per i numerosi nipotini di Machiavelli: i ‘totus politicus’ di marca togliattiana. Fu più gramsciano che togliattiano.

Per sintetizzare il suo approccio alla politica ricordo una riflessione di un filosofo comunista e amico di Ingrao, Cesare Luporini: “Le cose non hanno un fondamento, hanno un fondo. Il ‘Grund’ di Marx non è un fondamento, è un fondo. Bisogna andare al fondo delle cose.” E per Ingrao questo fu sempre l’assillo del suo fare politica. Ci sono due concetti chiave del suo pensiero: l’attenzione per il molteplice e il dubbio permanente. Sono due ingredienti che fanno esplodere un concetto lineare della politica ridotta a puro esercizio del comando, o a carriera personale.
Facciamo parlare don Luigi Ciotti a commento di questi due pilastri dell’ingraismo. “Sono la base dell’etica e della conoscenza. ‘Attenzione per il molteplice’ significa coscienza della varietà e diversità della vita, del suo divenire, capace sempre di sorprenderci al di là delle previsioni, dei programmi, e delle spiegazioni che tutti pretendono di dare. ‘Dubbio permanente’ è l’atteggiamento di chi s’inoltra in questo cammino di conoscenza che non è solo intellettuale, ma esistenziale. Dubita chi non resta in superficie, chi sa che c’è sempre un ‘oltre’ e un ‘altro’ in attesa, chi rifiuta la scorciatoia delle risposte facili e dei pensieri sbrigativi, chi, più della verità, ama la ricerca della verità. Riassumo tutto questo nella parola ‘eresia’, intesa come scelta. L’eretico sceglie, si assume una responsabilità, un rischio, non si conforma per opportunismo, per paura o per quieto vivere all’andazzo generale. Ascolta la sua coscienza e difende, anche a caro prezzo, la sua dignità di persona libera. Che è quello che Pietro Ingrao ha fatto per tutta la vita.”
Eppure non fu facile, né lineare la sua militanza in un partito serio e duro come fu il Pci durante il novecento, il secolo ‘grande e terribile’. Ricordiamo due episodi esemplari. L’invasione dell’Ungheria nel 1956, quando Ingrao come direttore dell’Unità scrisse un articolo intitolato “Da una parte della barricata”, nel quale prendeva posizione a favore dell’intervento repressivo dell’Urss, e che giudicò il più grande errore della sua vita. E il momento della nascita dell’ingraismo come stile etico di un modo di stare nel partito quando all’XI congresso del Pci (1966) rispose all’assedio di critiche alla sua richiesta di ammettere la presenza del dissenso nella vita quotidiana del partito: “non mi avete convinto…”.

Non è il luogo per citare e commentare i numerosi libri e saggi che Ingrao ha scritto e pubblicato. Mi limito a riportare alcune frasi di un breve articolo che dedicò ad uno dei suoi eroi: “Charlot: l’antagonismo dell’eroe buffo” (“La Città futura”, 11 gennaio 1978). “Charlot non è solo un comico. Non è solo una vittima; è uno che combatte sempre, e ‘resiste’. Ricordate il gesto charlottiano: il gesto della mano con cui egli, anche quando si ritira per non buscarle, fa il segno al prepotente di starsene lontano, di stare attento: ribadisce una dignità e una autonomia. Ricordate i finali dei film chapliniani: l’omino si allontana in campo lungo, scrollandosi le spalle, rifiutando l’integrazione; ma non si vede dove porta la strada su cui cammina, ed è un’apparizione solitaria nella strada, anche quando (come nel finale di “Tempi moderni”) sono in due: lui e la donna, quest’immagine tante volte sognata. A voler adoperare un termine gramsciano, si potrebbe dire che nell’omino, anche quando è sconfitto e ripiega, resta sempre viva la dignità dello ‘spirito di scissione’.” Ai baldanzosi vincenti della politica di oggi suggerisco la lettura della sua raccolta di poesie: “Il dubbio dei vincitori” (Mondadori). Auguri, caro Pietro, politico democratico, colto e gentile. Con affetto e riconoscenza…

* direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

L’APPUNTAMENTO
Legalità e responsabilità: binomio indissolubile

Una democrazia si alimenta di anime inquiete, instancabili nella ricerca di verità e giustizia.
(don Luigi Ciotti)

Secondo Gherardo Colombo la libertà è una cosa impegnativa, è un percorso che si conquista giorno per giorno, bisogna lavorare quotidianamente sul nostro stare assieme responsabilmente. Le leggi da sole non servono se non ci sono cittadini che le facciano proprie nelle loro coscienze prima ancora che pretenderne l’applicazione nella vita quotidiana.
Nando Dalla Chiesa sottolinea con forza che dobbiamo prendere coscienza che “la vera forza della mafia sta fuori dalla mafia, in tutto ciò che loro riescono a ottenere dalla società non mafiosa”: i fronti dell’antimafia in realtà sono la connivenza e la corruzione e l’antimafia è “un affare anche di chi non ha toghe e divise addosso”, una responsabilità di tutti e di ciascuno di “sentirci difensori della democrazia di questo paese e della sua Costituzione”.
Libertà, legalità e responsabilità, servono tutte e tre per ottenere vera giustizia. Ecco perché don Ciotti ha chiesto che si chiamasse “Festa della legalità e della responsabilità”. Quest’anno è giunta alla sua sesta edizione e sono sempre più gli eventi e i temi in programma e le realtà coinvolte: il Centro di mediazione-Progetto “Ferrara città solidale e sicura” del comune di Ferrara, il Coordinamento di Ferrara di Libera e il Presidio studentesco “Giuseppe Francese”, l’Ufficio stampa e l’Ufficio diritti dei minori del comune di Ferrara, la Pro Loco Voghiera e l’Università con il laboratorio MaCrO, Arci Ferrara e la Regione Emilia Romagna.

LOCANDINA
La locandina della Festa della legalità e della responsabilità

Si parlerà di come “insegnare” la mafia (26 settembre) e del rapporto tra amministrazione pubblica e legalità (4 ottobre), facendo il punto sull’inchiesta Aemilia con Enzo Ciconte e parlando degli amministratori sotto tiro grazie al rapporto redatto da Avviso Pubblico. Fra i temi c’è anche il gioco d’azzardo: si approfondiranno le sue conseguenze sociali (martedì 6 ottobre), ma si tenterà anche di smascherare le sue dinamiche con la conferenza-spettacolo “Fate il nostro gioco”: l’idea di un matematico e un fisico torinesi è di usare la matematica come strumento di prevenzione, una specie di “antidoto logico”.
Verrà dedicato spazio anche a tematiche di grande attualità come quella delle ecomafie, è solo del 22 maggio scorso, infatti, l’inserimento degli eco-reati, come inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, impedimento del controllo e omessa bonifica, nel Codice Penale. Al seminario di formazione, aperto ai giornalisti e a tutti gli interessati, “Le leggi sui delitti ambientali e le inchieste giornalistiche” (8 ottobre) interverranno Alessandro Bratti, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle Attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su Illeciti ambientali ad esse correlati e i giornalisti della redazione di “Presa diretta”, la trasmissione condotta su Rai Tre da Riccardo Iacona: Giulia Bosetti, Federico Ruffo, Elena Stramentinoli.
Lo sfruttamento illecito del territorio sarà al centro anche di un altro appuntamento: la presentazione del “Rapporto zoomafia” della Lav (venerdì 9 ottobre) su truffe nell’ippica e corse clandestine di cavalli, macellazioni abusive, abigeato (furto di animali da allevamento), bracconaggio e pesca illegale, lotte tra cani, business dei canili, quanto da nuove frontiere criminali, in particolare i traffici di animali via internet e il traffico di cuccioli.
Grazie alla collaborazione con ARCI Ferrara il programma comprende anche una rassegna cinematografica al cinema Boldini che inizierà il 7 ottobre con la proiezione del film “Anime Nere”, preceduta da un aperitivo con i prodotti di Libera Terra e dai cortometraggi “#VitaallaTerra” e “Rotolando verso il profondo sud – Viaggio di consegna 2015” sul progetto “Voghiera e Libera per ridare vita alla terra” del Coordinamento di Libera di Ferrara e di Pro Loco Voghiera. Si continuerà poi a novembre con: “La mafia uccide solo d’estate”, “La nostra terra” e “Noi e la Giulia”.
“Le ecomafie e le zoomafie sono aspetti apparentemente collaterali – ci spiega Donato La Muscatella, referente del Coordinamento di Libera di Ferrara – spesso vengono visti e trattati come marginali, ma proprio per questo nascondono insidie ancor più pericolose e speculazioni che rischiano di restare nell’ombra. Inoltre, la possibilità di vedere “Anime nere” costituirà un momento di approfondimento culturale importante, preceduto da due brevi cortometraggi che raccontano un impegno concreto al fianco di chi lavora i terreni confiscati: una testimonianza che spiega come sia possibile un rapporto con l’ambiente diverso, che da fonte di sfruttamento lo rende luogo di diritti”.

Per il programma completo della Festa della legalità e della responsabilità clicca qui

EVENTUALMENTE
Alla Mlb Home Gallery le pietanze stravaganti di Marcello Carrà

Nell’immaginario collettivo la dispensa della nonna, piena di prelibatezze e manicaretti, rappresenta un luogo incantato al quale hanno accesso solo i bambini meritevoli. Marmellate, conserve e dolci di ogni sorta nascosti dalle ante di un antico mobile cigolante, riposte in attesa delle manine dei nipoti più golosi. Una credenza, che potrebbe benissimo essere arrivata da una vecchia casa di campagna, è esposta nella sala principale della MLB Home Gallery, in Corso Ercole I d’Este; è spalancata, quasi a invitare i curiosi a spiare ciò che custodisce: elisir di pesce pietra, infuso di armadillo gigante, essenza di tigre del bengala ed estratti di altre specie in via d’estinzione. I colorati intrugli sono riposti in bottiglie trasparenti e l’animale da cui proviene il contenuto è illustrato con i tratti precisi che contraddistinguono le opere di Marcello Carrà. L’artista ferrarese, in questa personale “Ricettario Visionario” come in esposizioni precedenti, richiama l’attenzione sulla salvaguardia della biodiversità e sulla caducità della vita.

Nell’anno dell’alimentazione, in cui siamo stati bombardati dallo slogan dell’Expo “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, dal quale derivano gli obiettivi della manifestazione internazionale milanese – educare a una corretta alimentazione, innovare la ricerca e risolvere i problemi della fame del mondo – Marcello Carrà spinge a soffermarsi su cosa, o chi, mangiamo e sul processo che l’ha portato fino alla nostra tavola. Proprio da una visita all’Expo nasce la voglia di soffermarsi a riflettere su come le nostre abitudini alimentari stiano contribuendo alla distruzione dei territori coltivati e all’estinzione di molte specie animali. Decide perciò di proporre una versione personale e ironica della mascotte Foody, la composizione di frutta e verdura che forma un volto sorridente: l’artista lo immagina triste e incravattato, un ibrido rappresentate del business e dell’economia mal nascosta dietro l’evento. La ridistribuzione del cibo, tra i principali messaggi dell’esposizione milanese, non è sfuggito all’artista che lo reinterpreta senza perbenismi e ipocrisie. Ispirandosi alla “Parabola dei Ciechi” di Bruegel, evidenzia con humor nero la cattiva distribuzione delle ricchezze, facendoci assistere a un goffo scontro in “Miseria ed Opulenza”: un levriero scheletrico tenta, inutilmente, di strappare un panino dalle zampe di un grasso maiale, entrambi inconsapevoli che questa lotta li porterà a precipitare in un burrone.

È giusto sottolineare che il messaggio non è un sostegno indiretto per una dieta priva di carne e derivati, piuttosto le opere vogliono essere uno spunto di riflessione sullo sfruttamento degli animali e del territorio. La carne e i vegetali arrivano sugli scaffali del nostro rivenditore di fiducia passando attraverso allevamenti intensivi, acque inquinate, disboscamenti e sprechi. L’artista vuole renderci consapevoli di questo percorso e, con le sue penne biro e i suoi pennini a china, raffigura animali ormai quasi scomparsi a causa nostra. Non solo specie in via d’estinzione, Carrà prepara fantasiose pietanze in cui l’ingrediente fondamentale è introvabile: un dodo decorato come un tacchino il giorno del Ringraziamento, una testa di varano gigante con ciliegine e un enorme arrosto-mammut. Originale l’abbinamento opera-ricetta che spiega nel dettaglio come preparare questi piatti, indicando tempi di cottura e difficoltà: preparatevi cuochi provetti, di questi tempi non è molto facile recuperare un dodo! L’occhio ancora vigile del mammut osserva i visitatori che si muovono nella sala e che, a loro volta, si avvicinano e ricambiano lo sguardo attratti dalle dimensioni dell’opera, soffermandosi sulle ombreggiature e sui singoli tratti neri, colpiti dalla realizzazione precisa e pulita di ogni dettaglio. La decisione di produrre le sue opere direttamente con l’inchiostro è la messa in pratica di un concetto astratto: come si affrontano le conseguenze di un’azione compiuta, non si possono cancellare i segni dopo averli prodotti, rendendo così il lavoro lento e ponderato.
La riflessione non è solo sulle specie animali, ma anche sulla distruzione dei terreni usati per le colture, sull’utilizzo di prodotti chimici e sulla tossicità delle acque, tinte con colori accesi, innaturali. Le carote e i cavoli in vetrocamera affondano le loro radici in questi liquidi nocivi, per ricordarci che anche gli alimenti che consideriamo sani possono essere dannosi per la nostra salute a causa dell’inquinamento, che sta avvelenando il pianeta.

“Ricettario Visionario”, a cura di Eva Beccati, è stata inaugurata domenica 20 settembre e rimarrà aperta alla MLB Home Gallery, in via Ercole d’Este, fino a domenica 8 novembre 2015.

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Ricettario visionario
Foody reinterpretato da Marcello Carrà
Ricettario visionario
Arrosto Mammmut con Maria Livia Brunelli, Marcello Carrà ed Eva Beccati
Ricettario visionario
La ricetta “Dodo in casseruola”
Ricettario visionario
La ricetta “Dodo in casseruola” e l’opera che la raffigura

L’APPUNTAMENTO
Unifestival: per tre giorni l’Università di Ferrara fa ‘lezione’ in piazza

Era il 4 marzo 1391 quando il marchese Alberto V d’Este, grazie alla bolla concessa dal papa Bonifacio IX, fondava l’Università di Ferrara. Da allora sono passati 625 anni e l’ateneo vuole festeggiare con tutta la cittadinanza questo importante anniversario: lo fa con Unifestival, il festival universitario che dal 25 al 27 settembre porta l’università fuori dalle sue mura per incontrare la città di Ferrara. Perché Unife rivendica “con orgoglio” il suo carattere di “università pubblica”, come ha affermato il rettore Pasquale Nappi durante la conferenza stampa di presentazione, ma anche perché Ferrara diventa sempre più una città universitaria: con i suoi 18.000 studenti, il 60% dei quali provenienti da fuori regione, l’ateneo ferrarese “è una delle università italiane con il maggiore indice di attrattività”.
Unifestival perciò non è solo un’occasione per adempiere un dovere di trasparenza e rendicontazione alla cittadinanza di come vengono usati i finanziamenti pubblici per la ricerca e le attività didattiche, è soprattutto un’occasione di confronto e dialogo fra comunità che quotidianamente incrociano le proprie strade a Ferrara: comunità universitaria, comunità studentesca, comunità economica e comunità cittadina. Il tema principale è il trasferimento di conoscenze, nel senso più ampio del termine, come strumento per accrescere culturalmente ed economicamente il tessuto del territorio, ma soprattutto per “la costruzione di cittadinanza e sapere critico” che permettano “una partecipazione attiva” alla vita della comunità.
Aprendo le proprie porte e portando all’esterno le proprie attività e competenze è dunque un’osmosi di “stimoli, sollecitazioni e sollecitazioni” che Unife propone ai cittadini: “vogliamo ricevere domande, ma anche farle”, ha sottolineato Nappi.
Proprio dalla volontà di coprire a 360° tutte le sfaccettature dalla vita dell’ateneo ferrarese deriva la difficoltà a sintetizzare il programma di questa tre giorni: 200 persone coinvolte e circa 100 eventi organizzati. Si va dagli incontri, dagli esperimenti e laboratori clinici e fisici, tra i quali anche Drain Brain del professor Zamboni portato nello spazio da Astrosamantha, agli appuntamenti sul bilancio di genere e la pink economy, a quelli sulla concorrenza e la legalità, senza dimenticare di fare il punto sul terremoto e nemmeno le attività e gli studenti che portano Unife nel mondo e il mondo a Unife. E poi proiezioni e spettacoli, per grandi e piccoli.
Unifestival si aprirà e chiuderà con due camminate per la città. La prima è una vera e propria celebrazione dei 625 anni dell’ateneo: si partirà venerdì mattina alle 6.25 per percorrere 6,25 km in città. Alle 9.30 si terrà poi l’inaugurazione ufficiale del festival. Domenica 27 alle 21 sarà Francesco Scafuri, “preso a prestito” dall’ufficio ricerche storiche del comune, ad accompagnare chi lo vorrà in un’escursione culturale nei luoghi storici dell’università di Ferrara.

Il programma completo di Unifestival è disponibile alla pagina www.unife.it/primo-piano/unifestival

EVENTUALMENTE
Un mondo più accessibile: giocando con le idee si può

MEme
L’entrata del mercato coperto in via Boccacanale di S. Stefano

“Possiamo giocare con le idee? Certo che sì”. È con questo ideale che si apre il manifesto della seconda edizione di MEme: per due giorni il mercato coperto di via Boccacanale di S. Stefano torna a essere il centro di ritrovo dei makers, i moderni artigiani che coniugano tradizione e innovazione, incorporando creatività e idee negli oggetti che realizzano. Quest’anno c’è una sfida in più, non più solo “Makers Exposed”, ma “Learning Exposed”. Quello che il team di organizzatori, vuole realizzare è un vero e proprio esperimento di ecosistema innovativo temporaneo. “Nella prima edizione avevamo giocato con gli oggetti, in questa del 2015 vogliamo giocare con le idee, esporre la conoscenza, la capacità di progettare e rispondere a esigenze concrete e bisogni reali con i quali aziende che operano nel campo della cultura e della cooperazione sociale si scontrano tutti i giorni”, ci spiega Maurizio Bonizzi di Città della Cultura/Cultura della Città, la cooperativa culturale ideatrice e curatrice del progetto MEme.
“Meme.Learning exposed” è dunque uno spazio fisico e virtuale nel quale novanta partecipanti, tra progettisti, designer, sviluppatori, si incontrano e contaminano i rispettivi saperi per progettare soluzioni innovative, rispondendo a specifici bisogni appositamente espressi da imprese. “Per sedici ore, otto ore venerdì 18 e 8 sabato, il mercato coperto si trasforma in un grande laboratorio di lavoro”, continua Bonizzi.
Tema portante di questa edizione è l’accessibilità, come “caratteristica di un dispositivo, di una risorsa, di un servizio o di un ambiente urbano o turistico, che deve poter essere fruito da qualsiasi tipo di utente”. “Nuove idee” che considerino l’accessibilità non solo tecnologica, ma anche culturale e sociale, come punto di partenza per una maggiore condivisione, cooperazione, innovazione, in altre parole una maggiore democratizzazione dell’ambiente socio-culturale in cui viviamo.
Per farlo in questi due giorni si svolgono sei seminari, dalle opportunità offerte dagli open data ai piccoli comuni, ai modelli innovativi di organizzazione mutualistica per i nuovi lavori, fino al tema dell’open hardware e delle tecnologie democratiche, corporee e immersive, cinque “challenge”, a cui partecipano cinquanta makers, e tre “hackathon”, cioè maratone di programmazione, con quaranta partecipanti.

MEme
Lo spazio per le challenge e le hackathon

Le aziende emiliano romagnole e laziali che hanno deciso di “lanciare la sfida” per la risoluzione dei delle proprie esigenze riguardo una maggiore accessibilità sono: CIDAS per una serie da ausili da utilizzare durante lo svolgimento delle proprie attività nei confronti di soggetti con differenti patologie o necessità; Impronte sociali con bisogni legati ad attività relative all’agricoltura sociale; SAMA scavi archeologici e CoopCulture per attività relative alla condivisione del patrimonio culturale con diverse tipologie di fruitori; Camelot per la costruzione di un ecosistema tecnologico che proponga da un lato la raccolta di informazioni utili alla caratterizzazione delle persone che si trovano nella condizione temporanea di migranti e dall’altro fornisca informazioni rispetto al luogo in cui si trovano.

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I makers al lavoro. Dal profilo twitter di MEme

A fine giornata, dalle 17 in poi, i vari team o i singoli partecipanti che hanno deciso di raccogliere la sfida o di “correre” la maratona di progettazione presentano i propri progetti. “I vincitori di ciascuna challenge riceveranno un assegno di 800 euro e la possibilità di sviluppare la propria idea, mentre per le hackathon ci sono in palio premi tecnologici. In questi due giorni le persone dedicheranno tempo e lavoro ai progetti e, contrariamente a una tendenza sempre più dilagante, noi pensiamo che il lavoro vada pagato”, sottolinea Bonizzi.
“Giocare con le idee non è una ricetta per ricominciare a crescere perché non crediamo nelle ricette”, ci dice Sergio Fortini, anche lui in Città della cultura/Cultura della città: “è un’attitudine mentale, una modalità di pensiero, che dovrebbe aiutare la comunità a crescere traendo linfa dal cortocircuito fra gioco e realtà”. “L’innovazione – continua Fortini – per inverarsi ha bisogno sì di pensiero alto, quindi di lavoro e competenze, ma anche della capacità di prefigurare scenari diversi da quelli già in essere, proprio come potrebbe fare un bambino. Il motore primo sono le visione altre della realtà, temperate poi con la perizia tecnica e il ragionamento”.

Maggiori informazioni e programma completo su: memexposed.com

L’EVENTO
Sofri, Fresu, Zerocalcare e il Pulitzer Jared Diamond per la nona di Internazionale

Il vignettista Zerocalcare con Adriano Sofri, l’autore di “Congo” Van Reybrouck, l’economista Andrea Baranes, il vincitore del Premio Strega Nicola Lagioia, i giornalisti Serge Michel (Le Monde) e Howard Waring French (New York Times), il geografo premio Pulitzer Jared Diamond e il blogger bangladese vincitore del premio “Anna Politkovskaja” Asif Mohiuddin: questi solo alcuni dei 230 ospiti della nona edizione del festival di Internazionale, frutto del fortunato sodalizio tra il settimanale diretto da Giovanni de Mauro e Ferrara che si terrà nella città estense dal 2 al 4 ottobre.

La locandina dell’edizione 2015
La locandina dell’edizione 2015

Nella conferenza stampa di presentazione del programma, svoltasi stamane presso la sala Lorenzo Natali della Rappresentanza in Italia della Commissione Europea a Roma, è emerso come l’attualissimo tema delle nuove frontiere, sia geografiche ma anche riguardo ai diritti e alle libertà collettive e individuali, sia il filo conduttore di questa edizione 2015, assieme a tematiche come le discriminazioni di genere e la libertà di stampa che da sempre caratterizzano il festival. In rilievo, vista la concomitanza con Expo, saranno anche i dibatti su cibo e sostenibilità; a parlarne, tra gli altri, gli scrittori Martin Caparros e David Rieff e l’ambasciatrice dell’alimentazione sana Alice Waters. Torneranno inoltre i grandi documentari di Mondovisione e la rassegna di audio-documentari Mondoascoliti, oltre che l’appuntamento con i film d’essai di Mondocinema. Tra gli immancabili workshop ed alcuni spazi dedicati ai bambini, ci sarà anche spazio per la musica di Paolo Fresu.

Appuntamento quindi per il primo weekend di ottobre con Internazionale a Ferrara, la più grande redazione fatta a città presente nel mondo. A questo link il programma completo della manifestazione.

LA NOVITA’
Roadissea, un’opera rock per raccontare un eroe sempre attuale

Ulisse un uomo che non va mai giù di moda. All’eroe di Omero è dedicata Roadissea, opera rock italiana scritta e diretta da Ricky “doc” Scandiani, pianista e insegnante della Scuola di Musica Moderna di Ferrara, produttrice dello spettacolo teatrale a cui è dedicato un doppio cd in presentazione alla Sala Estense il 7 novembre. Si tratta del primo appuntamento ufficiale con musica e canzoni dello spettacolo, una sorta di assaggio dell’opera teatrale in programma il 28 novembre al Teatro De Micheli di Copparo.

Un cast di 52 allievi, tra musicisti e cantanti, a cui si aggiungono 10 ballerini di pole dance, mix di danza e ginnastica acrobatica con pertiche e nastri, che sotto la guida di Ingrid Cassani di A.S.D Attiva Med di Portomaggiore, arricchiscono lo spettacolo. I numerosi cambi scena e i differenti costumi curati da Virna Comini assicurano l’incedere incalzante del viaggio di Ulisse. “Una figura epica di cui ho sempre subito il fascino, in parte per la sua modernità e in parte per quella veste da eroe nella quale si è ritrovato suo malgrado – spiega Scandiani – non era un patito della guerra, ma ha cercato di venirne fuori il più in fretta possibile lavorando d’astuzia. Non dimentichiamo l’invenzione del cavallo di troia, cose da Ulisse, un po’ truffaldino se vogliamo, ma in fondo è proprio il suo modo di essere, di affrontare la vita, di venirci a patti a renderlo interessante”. Cucirgli addosso il panni di un hippy anni ’70 è stato il “gioco” con cui 33 anni fa, alcuni degli attuali docenti della Scuola di Musica Moderna si sono cimentati per poi riprendere in mano il progetto. Da insegnanti.

Il viaggio on the road fa tappa in molti dei mondi attraversati da Ulisse, sono universi liberamente ispirati all’opera di Omero tanto da metterci di fronte a una Circe femminista il cui pensiero estremo, la induce a trasformare il maschio esattamente in quello che lei crede sia: un porco. C’è poi una Calipso depressa, figlia del nostro tempo e un Polifemo ipnotizzatore, antimilitarista. “Abbiamo cercato soluzioni, anche fantasiose, che potessero sposarsi alle esigenze di un palcoscenico, dove i ragazzi cantano dal vivo, senza alcuna base. E’ tutto alive”.

Né trucchi né inganni per l’opera rock, la prima in Italia, che fatta a spizzichi e bocconi in questi anni ha avuto le sue soddisfazioni. Il brano “Aspettando l’alba”, si è aggiudicato il primo posto in classifica grazie ai voti della rete, che hanno mandato in tilt la scaletta di Cielo, promotrice della trasmissione dedicata ai pezzi canori preferiti dagli ascoltatori. Ma non dalla conduttrice, che ha letteralmente ignorato il risultato del sondaggio. Segno che tra tv e rete, c’è una voragine incolmabile da parte di certe professionalità incapaci di valutare e far fronte al lato divertente delle sorprese on line.

EVENTI
Ferrara e il fiume, un legame da riscoprire

Vista dal fiume, Ferrara e un’altra cosa. Si scopre la sua antica dimensione, quella di città nata sull’acqua. Una genesi rimossa, cancellata come un fastidio, al punto da celarne l’essenza nel tessuto urbano. Financo fontane e fontanelle scarseggiano in città e di quelle che esistono, talune, rinsecchite, sono trasformate in fioriere o in impropri depositi per rifiuti…

Eppure l’acqua è vita, ancestrale il richiamo che esercita. La sua forza si sprigiona già nella polimorfa vegetazione che ricopre le sponde del Po di Volano. E’ sufficiente percorre in battello il tratto che dalla darsena porta a San Giorgio e osservare gli argini: è uno spettacolo. Gli arbusti celano la vista di strade e case che si affacciano appena pochi metri più sopra, lungo la via Putinati, ed offrono un paesaggio inconsueto, rurale, che ottunde i tratti dell’urbanizzazione.

Ridare vita al fiume che, ignorato, attraversa il centro cittadino; riscoprirne il fascino e indulgere alla suggestione dell’acqua: questa la missione di “Smart dock”, progetto scaturito da una pluralità di associazioni e gruppi cittadini impegnati a proporre “tattiche di riuso intelligente della darsena di Ferrara”. L’intento è promuovere una “rigenerazione urbana dal basso” e favorire la “riappropriazione del fiume”.

Coerente e intelligente l’idea di ospitare sulla Nina, il vaporetto del Po ferrarese, la conferenza stampa di presentazione delle iniziative: così oltre a enunciare si può mostrare. Gli eventi, immaginati per catalizzare l’attenzione sul fiume dimenticato, sono concentrati fra il 18 settembre e il 30 ottobre. Si svolgeranno a palazzo Savonuzzi, che ospita il vivace consorzio Wunderkammer, e negli spazi antistanti.

Da elemento di cesura fra il centro antico e la città nuova si vorrebbe tradurre il Volano in alveo di connessione: le sponde come ventri accoglienti, i ponti come braccia che uniscono e propiziano l’incontro.

Leonardo Delmonte, coordinatore del progetto, illustra con passione lo spirito delle iniziative messe in calendario in questo frangente d’autunno. “Ferrara è riconosciuta dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità anche per il suo Delta” – sottolinea – richiamando l’acqua come elemento che qualifica l’eccellenza del territorio. “C’è tanto da fare”, afferma. Lo slancio è sorretto da robusti cardini valoriali e ottime intenzioni: consapevolezza, potenzialità, tutela, valorizzazione, confronto, collaborazione, sono le parole chiave che ricorrono nei vari interventi.

Massimo Maisto, vicesindaco, nonché assessore alla cultura e al turismo, sempre attento ai fermenti del territorio, sprona gli attori in forza della sua triplice veste istituzionale e della convinta adesione al disegno. Sagace, l’architetto Moreno Po, in rappresentanza della Provincia, stigmatizza l’allergia dei ferraresi per l’acqua, implicitamente invitandoli a riconsiderarne la forza vitale.
Un altro architetto, Romeo Farinella dell’Università di Ferrara, parla di acqua come patrimonio e dell’esigenza di una rigenerazione urbana.
Meritevoli tutti di citazione i soggetti che contribuiscono all’organizzazione: Basso profilo, Fiumana, Encanto, Associazione musicisti di Ferrara, Wunderkammer, Canoa Club Ferrara, Citer (di Unife) con la collaborazione di Nena, Altrosguardo, Centro per le famiglie, Andos e il patrocinio di Comune e Provincia di Ferrara.

Con il festival Risonanze, venerdì, si accendono idealmente i riflettori. Mostre, balli, concerti, pic-nic e aperitivi, compongono il caleidoscopico spettacolo che avrà teatro sulle rive del fiume. Imprescindibili gli ambiti di confronto e di riflessione, previsti nelle modalità tradizionali e in quelle più informali: al “world caffé” del 10 ottobre, per esempio, si ragionerà a piccoli gruppi di soluzioni per il fronte fluviale, proprio come in una qualsiasi caffetteria. A chiudere, il 30 ottobre, un insolito concerto con i suoni del fiume, performace sperimentale dell’artista Dominique Vaccaro.

Per impedire che a conclusione degli eventi sul Volano calino di nuovo le tenebre e tutto torni come prima, le intelligenze dovranno continuare a correre “come corre quest’acqua di fiume – ce lo ricorda il canto di De Gregori – che sembra che è ferma, ma hai voglia se va…”.

I brani intonati [clicca per ascoltare]:
Fiorella Mannoia, Il fiume e la nebbia
De Gregori, Mimì sarà

Leggi anche
La proposta – Un percorso ciclopedonale lungo il Volano fra San Giorgio e la Darsena

LA CURIOSITA’
Memorie d’estate: grilli cantanti in città

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Gabbie per grilli in vendita in una bancarella orientale (foto Alessandro Vecchi su Il Girovago)

Nel buio senti cri-cri. Ma in casa. Poi lo vedi che saltella. Prima uno – nel bel mezzo del soggiorno – poi un altro tra la cucina e la terrazza. Verso sera ne saltano fuori altri due, tre, quattro. Grilli, pensa un po’. Chi abita nella campagna attorno a Ferrara conferma: “Ce ne sono davvero tanti, quest’estate di grilli. Quando si taglia l’erba ne escono centinaia”. Anche chi ha un giardino urbano, li nota numerosi. Più curioso averli in casa, in pieno centro. Ma anche questo fatto, da una piccola indagine cittadina condotta nei giorni passati, non è inusuale .

I grilli, nei racconti orientali, sono considerati una gran bella cosa. Per questi insetti in Cina costruiscono addirittura piccole gabbie, dove vengono nutriti e abbeverati amorevolmente utilizzando minuscole ciotole in ceramica con vezzose decorazioni in scala. Lo scopo è quello di ascoltare il loro canto. E ogni esemplare sembra che emetta un suono un po’ diverso rispetto agli altri. Sono un bel po’ di secoli che, in Oriente, li prendono, addomesticano, vezzeggiano. Mi ricordo un racconto letto tanto tempo fa, e lo spiega e documenta bene con tanto di fotografie di bancarelle con gabbiette per grilli Alessandro Vecchi nel blog “Il girovago”.

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Particolare di un grillo fra gli “Insetti” dipinti da Jan van Kessel il vecchio su it-wikipedia

Meno scontato era trovarceli in casa, questi animaletti. Colore marrone chiaro-beige e dimensione medio-piccola. Sarà stato il grande caldo. Viene da cacciarli, ma se pensi quanto ci teneva, al suo grillo, il protagonista di quell’antico racconto orientale, ti sembra quasi un peccato. Cri-cri, di notte. Sempre più aggraziato, in effetti, del craaa-craaa a squarciagola che fanno durante il giorno le cicale. Pezzi di campagna in città. Qualche entomologo potrà forse spiegare come e perché…

IL FATTO
Anche Ferrara accoglie la marcia della solidarietà a piedi scalzi

Questa mattina nel centro di Ferrara non c’erano soltanto gli sbandieratori arrivati da tutta Italia in città per gareggiare. Per le vie c’erano anche diverse persone che camminavano senza scarpe, a piedi nudi o con i calzini, forse vi sarà capitato di vederli lungo via Mazzini o in piazza Trento Trieste. Si trattava dei partecipanti alla “Marcia delle donne e degli uomini scalzi”, nata per iniziativa di intellettuali e artisti che hanno chiesto ai cittadini di sfilare senza scarpe in segno di solidarietà ai migranti in fuga dai loro paesi. Da Trento fino a Napoli passando per il tappeto rosso del Lido di Venezia, per Roma e per il Festival della letteratura di Mantova, sono state 71 le città aderenti, nelle quali ieri si sono tenuti diversi cortei.
“È arrivato il momento di decidere da che parte stare. È vero che non ci sono soluzioni semplici e che ogni cosa in questo mondo è sempre più complessa. Ma per affrontare i cambiamenti epocali della storia è necessario avere una posizione, sapere quali sono le priorità per poter prendere delle scelte. Noi stiamo dalla parte delle donne e degli uomini scalzi. Di chi ha bisogno di mettere il proprio corpo in pericolo per poter sperare di vivere o di sopravvivere”. Questo l’incipit dell’appello, da cui sono scaturite le manifestazioni per chiedere “cambiamenti delle politiche migratorie europee e globali”, perché “la storia appartenga alle donne e agli uomini scalzi e al nostro camminare insieme”. In particolare, secondo gli organizzatori, le prime azioni da mettere in atto sarebbero: “certezza di corridoi umanitari sicuri per vittime di guerre, catastrofi e dittature”, “accoglienza degna e rispettosa per tutti”, “chiusura e smantellamento di tutti i luoghi di concentrazione e detenzione dei migranti”, “creare un vero sistema unico di asilo in Europa superando il regolamento di Dublino”.
A Ferrara, fra gli altri, hanno aderito il Forum Terzo Settore, Emergency, Cgil, Cisl, Città del Ragazzo Opera Don Calabria, il Movimento Nonviolento, Cittadini del Mondo, Arci, Agire sociale Csv, Libera, Uisp, Associazione Badanti Nadiya Onlus, Associazione Viale K, il Pd, Sel, l’Altra Emilia Romagna, la Caritas Diocesana, Acli, Aci-Alleanza Cooperative Italiane. Passo dopo passo, lungo il percorso da via Saraceno fino in piazza Duomo, alcuni cittadini si sono tolti le scarpe e si sono uniti al corteo. “Oggi è un segno”, hanno affermato “gli scalzi” a fine marcia, “dobbiamo continuare a fare qualcosa ogni giorno per portare la nostra solidarietà non solo ai migranti, ma a tutte le persone in difficoltà nel nostro paese”. “Vogliamo lanciare un segnale, soprattutto a chi la pensa in modo diverso, per dire che non si può continuare a instillare solo paura nelle persone, ma che ci sono alternative, perché la paura porta solamente all’isolamento”. Per questo durante la manifestazione è stata lanciata la proposta di un tavolo per l’accoglienza: “Ferrara che accoglie” dovrebbe essere uno strumento per “rendere l’accoglienza nella nostra e nel nostro territorio la migliore possibile, consapevoli che i problemi sono tanti, ma che prima di tutto viene la vicinanza alle persone e che insieme si possono risolvere meglio le cose”. “Aiutiamoci e aiutiamo gli altri” è l’impegno con cui ci si saluta alla fine. Poi un minuto di silenzio in memoria delle vittime dei viaggi della speranza e “per ricordare le fatiche che compiono tutti i giorni le donne e gli uomini scalzi” in tutto il mondo.

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marcia scalzi
La partenza
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via Saraceno
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via Mazzini
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Lettura
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piazza Trento Trieste
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piedi partecipanti
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piedi partecipanti
marcia scalzi
piedi partecipanti
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In marcia
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piazza Duomo

LA SEGNALAZIONE
Tutti i graffi dell’anima di Janis Joplin nella biografia in pellicola di Amy Berg

Freedom’s just another word for nothing left to lose.
“Bobby McGee”, da Pearl (1971, postumo)

Lei qualcosa da perdere non ce l’aveva mai avuto, ma sarebbe stata la musica a perdersi qualcosa se non avesse conosciuto Janis.
Presentato fuori concorso alla 72esima edizione del Festival del Cinema di Venezia e nei cinema dall’8 ottobre, “Janis” di Amy Berg è il film documentario che, attraverso testimonianze audiovisive, lettere ad amici e familiari, fotografie, racconta la vita di Janis Joplin.
La pellicola della Berg riesce a privilegiare l’aspetto personale e intimo della donna e quello emotivo dell’artista, senza mai cadere in una falsariga retorica né nostalgica, né tanto meno censoria, del suo modo di essere totalmente inadatto, vero, autolesionista, tanto oggi quanto negli anni in cui è esplosa. Perché nascere in una tranquilla famiglia borghese degli anni Quaranta in una provincia battista del Sud e non riuscire a essere come tutti gli altri – partite di football e bella faccia anonima da poter esibire vicino ad altre mille uguali e insignificanti – voleva dire, e vuole dire tutt’oggi, essere fuori dal mondo, messa in un angolo. Ma mettere in un angolo una come lei è cosa ardua. Cacciata dal coro in cui canta, abbandonata la scuola all’ultimo anno di college, sempre al centro di risse, che scatena durante le scorribande con inseparabili amici rigorosamente uomini, preferenza di genere che manterrà un po’ ironica e un po’ seria negli anni a venire. Giocando a fare quella cattiva ragazza che in realtà non è. Solo così riesce a difendersi e a non lasciarsi ammazzare da una sensibilità emotiva completamente, stupidamente inadatta per chi come lei nasce con la dote di essere diverso, ma nello stesso tempo con il desiderio di essere accettata e apprezzata.
Lei il suo sogno americano lo vuole comunque. E se lo conquista con i rischi e le critiche del caso, abbandonando l’abito al ginocchio, la villetta a schiera e la famiglia seduta al tavolo rotondo in una sbiadita fotografia per diventare una ribelle beatnik che beve, fuma e canta con una voce che viene da chiedersi se davvero sia bianco il corpo dal quale esce.
Per lei, conquistarsi la copertina della rivista più in voga significa avere fatto qualcosa per cui meritare di sentirsi dire “brava”. Ma “brava”, al pari di “bella”, sente di esserlo solo quando lascia Port Arthur per San Francisco e trova i primi ingaggi, con quella voce sporca e sincera, scoperta per caso cantando un brano di Odetta, il suo primo grande amore insieme a Big Mama Thornton e Bessie Smith. Poi Aretha Franklin e Billie Holiday, quelle che dopo tre note ti hanno già fatto rapito. E ancora Otis Redding, che ascolta per caso una sera a un concerto, prendendogli a prestito il groove vocale della ripetizione.
Si presenta all’audizione con i Big Brother and the Holding Company e ne diventa la vocalist, trascinandoli in un successo dietro l’altro a partire dal debutto nel Festival di musica pop di Monterey, fino a intraprendere la carriera solista con gruppi di supporto tra cui la Kozmic Blue Band.
Folk, rock, country, bluegrass, il blues, per cui ha una empatia particolare, e il soul, forse il genere che le appartiene più di ogni altro. Li attraversa tutti, i generi musicali; se li fa tutti, nello stesso incondizionato modo in cui si abbandona all’altra grande compensatrice della sua anima: l’eroina, che la stona per l’ultima volta il 4 ottobre 1970. L’ultima fermata del treno che taglia la campagna assolata – immagine ricorrente nel film della Berg – correndo verso nuovi traguardi senza lasciarsi mai davvero alle spalle quella arrabbiata malinconia, graffiata di continuo dall’amore di cui è alla perenne ricerca e che non trova mai fino in fondo. Non importa essere ormai un simbolo indipendente, forte e deciso, quanto sensibile e devastato dalla solitudine in cui ripiomba ogni volta che lo spettacolo finisce, non importa avere lo stesso manager di Bob Dylan, né avere un contratto con la Columbia, né avere conquistato il disco d’oro dopo tre giorni dalla pubblicazione del nuovo album. La musica è semplicemente il mezzo, il “la”, attraverso cui si dà completamente, sofferente e delicata, scoprendo sul palco quello che c’è fuori e dentro di lei.JANIS JOPLIN “Quando canti entri in contatto con la tua immaginazione e la sua verità, cose che difficilmente proveresti passando da una festa all’altra, facendotela con chi ti pare.” È sempre e solo una questione di sentire, quando canti e quando vivi. Te lo dice quel “Ce n’è ancora” urlato dal palco di Woodstock a fine canzone, rivolto al pubblico e a se stessa, prima di ogni altro.
Perché se di te stesso dai solo una parte, allora, come essere umano e come artista, nella vita di graffi ne hai ricevuti troppo pochi.

L’APPUNTAMENTO
Nel segno della molteplicità: la nuova stagione di prosa della Fondazione Teatro Comunale Claudio Abbado

Dopo la pausa estiva riapre il 12 settembre la campagna abbonamenti della stagione di prosa 2015-2016 della Fondazione Teatro Comunale Claudio Abbado. Tornano sul palco estense grandi nomi dello spettacolo dal vivo e non, da Angela Finocchiaro a Gioele Dix a Paolo Rossi, e del teatro civile, come Marco Paolini e Ascanio Celestini. Autori e personaggi classici del teatro come Molière e Goldoni, Cyrano e Carmen, vengono riletti in chiave contemporanea per mettere in luce tutta la loro attualità. Infine la sperimentazione del ravennate Teatro delle Albe e le produzioni di compagnie affermate come il milanese Teatro dell’Elfo.
L’avvio di stagione è affidato a una commedia tutta al femminile, a Ferrara in prima nazionale: “Calendar Girls”, che vede per la prima volta insieme Angela Finocchiaro e Laura Curino, esponente di spicco della sperimentazione teatrale, dirette da Cristina Pezzoli. Poi due graditi ritorni: Gioele Dix nei panni del “Malato immaginario” di Molière, in una produzione che riprende l’allestimento cavallo di battaglia dell’indimenticabile Franco Parenti, e Jurij Ferrini, che nel suo “Cyrano de Bergerac” utilizza un linguaggio quasi cinematografico per sottolinearne la profonda contemporaneità. In gennaio vedremo il nuovo lavoro del Teatro delle Albe, “Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi”, e la giovane compagnia Il mulino di Amleto alle prese con “Gl’innamorati” di Goldoni con musiche originali dei Marlene Kuntz. In febbraio e marzo saliranno sul palco estense tre giganti del teatro italiano: Paolo Rossi, che prende spunto da uno dei lavori meno conosciuti di Molière, “La recita di Versailles”, per raccontare le “fatiche” dell’uomo di spettacolo con il supporto di una compagnia composta da 10 attori e 4 musicisti; Marco Paolini con “Ballata di uomini e cani”, tributo a Jack London; Ascanio Celestini con “Laika”, spettacolo in cui vestirà i panni di un Dio tornato sulla terra per vedere che ne è stato dell’umanità. Infine il Teatro dell’Elfo con il dramma di Arthur Miller “Morte di un commesso viaggiatore” e il gran finale con l’unica tappa in regione della “Carmen” del drammaturgo partenopeo Enzo Moscato e del regista Mario Martone, coproduzione della Fondazione del Teatro Stabile di Torino e del Teatro di Roma: nei ruoli principali Iaia Forte e Roberto De Francesco, mentre la partitura musicale di Bizet, rielaborata da Mario Tronco, sarà eseguita in scena dai musicisti/attori dell’Orchestra di Piazza Vittorio.
È difficile sintetizzare la molteplicità delle espressioni culturali e artistiche racchiuse nei dieci spettacoli di questa nuova stagione di prosa, ma è proprio questa “pluralità di accenti”, come scrive il direttore artistico Marino Pedroni nell’introduzione al calendario della stagione, a rendere “il teatro snodo della riflessione politica e sociale”. Gli abbiamo posto qualche domanda alla vigilia della riapertura della campagna abbonamenti.

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Il logo della stagione di prosa 2015-2016

Qual è la chiave di lettura della stagione di prosa 2015-2016?
Non essendo un teatro di tendenza o un teatro gestito da una compagnia, ma un teatro pubblico, “comunale” appunto, abbiamo come obiettivo quello di presentare un ventaglio di esperienze piuttosto ampio, tenendo comunque conto di alcuni valori. Innanzi tutto la proposta di testi e drammaturgie che, pur confrontandosi con il passato, vengono rimessi in scena con un occhio alla contemporaneità, quindi non una mera riproposizione, ma un richiamo al passato per dire qualcosa di proprio. Sto pensando al “Cyrano” di Ferrini o a “Morte di un commesso viaggiatore” del Teatro dell’Elfo. Un secondo elemento che cerchiamo sempre di inserire sono compagnie di rottura, che cioè tendono a costruire nuove forme di linguaggio teatrale. Quest’anno presentiamo Il mulino di Amleto, compagnia costituita da trentenni che porterà un allestimento di Goldoni, e il Teatro delle Albe di Ermanna Montanari e Marco Martinelli, che abbiamo già avuto in passato con “Pantani” e torneranno con “Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi” che si richiama a Brecht e affronta tematiche legate al potere, alla democrazia e all’arte di estrema attualità. Da ultimo la chiusura con Martone, che verrà solo da noi per quanto riguarda l’Emilia Romagna e che abbiamo voluto inserire nonostante lo sforzo organizzativo che comporta perché è una rilettura intelligentissima della “Carmen”, sia dal punto di vista musicale sia dal punto letterario. Grazie a questa figura femminile emblematica di donna ogni volta riletta e scavata da grandi autori riusciamo anche far dialogare fra di loro i linguaggi delle stagioni del teatro: la “Carmen” è presente infatti anche nella programmazione della danza, con la coreografia della giovane sudafricana Dada Masilo. Un’operazione che faremo anche con la stagione di danza e quella lirica, che presenteranno entrambe l’opera wagneriana “Tristano e Isotta”.

Ci sono anche grandi nomi del teatro civile italiano
Sì, questo è un altro elemento del panorama ampio di cui parlavamo prima. C’è Laura Curino, un’esponente di spicco della sperimentazione teatrale italiana, che farà “Calendar girls” con Angela Finocchiaro. Poi avremo Celestini e Paolini, ma anche quello del Teatro delle Albe è un lavoro che affronta temi civili molto forti

Scorrendo il programma si nota però l’assenza di quelli che potremmo chiamare “appuntamenti con la storia”, in particolare ferrarese: sto pensando al centenario della nascita di Giorgio Bassani oppure al cinquecentenario della pubblicazione dell’Orlando Furioso. Sono solo appuntamenti rimandati al prossimo autunno oppure avete pensato ad altri spazi per queste ricorrenze?
Per quanto riguarda l’Orlando Furioso di Ariosto è solo un rinvio: la mostra a lui dedicata da Ferrara Arte aprirà nell’autunno 2016, perciò sia musicalmente sia sotto il profilo teatrale e laddove possibile coreografico ci siamo concentrati su quel periodo e quindi sulle stagioni 2016-2017. È vero che ci sono diversi anniversari e per quanto possibile cerchiamo di muoverci anche nella direzione di queste occasioni di riflessione, ma non partiamo da lì per costruire la programmazione: in altre parole non cerchiamo di inserire a tutti i costi spettacoli guardando il calendario degli anniversari, anche se c’è chi lo fa, l’elemento discriminante è l’interesse e l’approfondimento reale dei lavori. Per quanto riguarda l’Ariosto, per esempio, ho individuato alcune cose legate al teatro di figura, come i pupi siciliani dei Cuticchio, mentre per quanto riguarda Bassani mi è arrivato un copione di un drammaturgo sul “Giardino dei Finzi-Contini”: anche in questo caso potrebbe essere perciò un rinvio legato alla speranza di trovare un lavoro di valore e di qualità.

Tutte le informazioni su abbonamenti e biglietti su: www.teatrocomunaleferrara.it