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Monti, Cottarelli, l’austerità, le partite correnti, il lavoro e la movida ferrarese.

“Well, we are gaining a better position in terms of competitiveness because of the structural reforms. We’re actually destroying domestic demand through fiscal consolidation. Hence, there has to be a demand operation through Europe, a demand expansion.
As you pointed out, most clearly, we, for example, in Italy, are having problems because we have achieved very good fiscal results, but will they really be sustainable in the longer term unless the dominator, GDP, increases through growth.”
È la trascrizione di una famosa intervista della Cnn a Mario Monti avvenuta il 20 maggio 2012. E’ stata usata dai sovranisti per dimostrare che l’allora Presidente del Consiglio si vantava demoniacamente di aver distrutto la domanda interna ma anche dai difensori dell’austerity per dimostrare che i sovranisti distorcevano a propri fini le sue parole. Come sempre tutto e il contrario di tutto, motivo per cui l’ho riproposta in originale e senza traduzione. Ma cosa vuol dire distruggere la domanda interna?
La questione diventa importante perché il 9 luglio scorso Carlo Cottarelli, in uno degli articoli periodici sulle pagine dell’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani di cui è presidente, ha messo giù delle riflessioni davvero interessanti, e che al netto delle interpretazioni del testo di cui sopra, si riallacciano necessariamente, e suo malgrado, a quelle parole.
La domanda interna, o domanda aggregata, in macro economia rappresenta la capacità di spesa di un paese. Ed è ovvio che se un paese è in salute spende di più, sia dal lato della spesa pubblica sia dal lato della spesa privata. Un po’ un termometro all’incontrario, quando il mercurio va su vuol dire che il paese spende e sta bene, quando cala il paese spende poco e sta male. Il mercurio, in questo caso, è l’inflazione. Un po’ di inflazione rappresenta la ripresa in atto e, come dice il prof. Sapelli economista e docente all’Università degli Studi di Milano, il 2% previsto dai Trattati europei non è ancora inflazione.
Nel 2012 venivamo da due momenti di crisi, il 2008 e il 2011, che avevano piegato l’Italia, la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda e la Spagna in particolare ma un po’ la maggioranza dei paesi industrializzati. Gli Usa, la Gran Bretagna ed il Giappone ad esempio. Ma mentre proprio questi ultimi tre intraprendevano subito la via della monetizzazione dei debiti pubblici per aumentare il denaro in circolazione e quindi la capacità di spesa dei loro cittadini e a tutela delle loro imprese, a noi veniva imposta l’austerità e la conseguente “distruzione della domanda interna”.
Il motivo principale della differenza tra le due risposte alla crisi stava nel fatto che in quei paesi c’era coincidenza tra l’autorità monetaria con l’autorità fiscale (cioè esisteva ed esiste un minimo di controllo da parte del Tesoro sulle banche centrali). Nei 19 paesi dell’eurozona invece non esistono più queste relazioni istituzionali. Di conseguenza per avere tale stimolo si è dovuto aspettare il 2015 e il famoso “whatever it takes” di Mario Draghi.
In eurozona comunque ci si è arrangiati e si è proceduto all’italiana proprio mentre l’Italia decideva di germanizzarsi e quindi si decideva il rispetto dei parametri mentre gli altri come Irlanda, Francia, Spagna e persino Germania baravano alla luce del sole. Gli uni spendendo in deficit fino al 33,1%, gli altri eccedendo sulla quota permessa di surplus della bilancia commerciale. Chiaramente nessuno è stato mai multato dalla solerte Commissione europea mentre lo si voleva fare quest’anno all’Italia che, come si vede, ha sforato meno di tutti e per soli tre anni il fatidico 3%.

Dunque, in piena crisi, Monti doveva scegliere se fare tanto deficit come stavano facendo gli altri colleghi dell’eurozona oppure “distruggere la domanda interna”. Non aveva le possibilità del Giappone, della Gran Bretagna o degli Usa ovvero decidere autonomamente politiche monetarie, non poteva agire sul cambio e non poteva nemmeno fare politiche fiscali accomodanti.
Quindi scelta obbligata a carico dei cittadini. Il problema fondamentale in quel momento era il riequilibrio delle partite correnti, cioè avere un risultato positivo nel rapporto tra import ed export. I paesi del mondo, tranne i 19 dell’eurozona, hanno gli strumenti propri e legittimi della politica economica per poterlo fare (cambio, banca centrale, politica fiscale), e questo gli ha permesso di operare per aumentare la domanda interna. Il contrario di quello che abbiamo fatto noi, costretti a “distruggerla”.
Distruggere la domanda interna vuol dire limitare il credito alle aziende, tenere gli stipendi bassi, poter licenziare più facilmente. Tenere una disoccupazione “strutturale” abbastanza alta in modo da poter contrattare al ribasso sui salari e sui diritti dei lavoratori. Basta guardarsi indietro dal 2012 e osservare cosa hanno fatto dopo Monti i governi Letta, Renzi e Gentiloni per una plastica dimostrazione di quanto appena scritto.
L’operazione riuscì perfettamente e siamo passati da un deficit di bilancia commerciale di 68 miliardi di dollari nel 2011 ad un surplus di 51 miliardi nel 2018.

Tutti gli economisti e i politici del mainstream ad elogiare questa crescita e il nuovo miracolo italiano. L’export come soluzione a tutte le crisi, anche se la maggioranza della popolazione, in considerazione dell’aumento del numero dei poveri, dei disoccupati e dei salari fermi ai livelli della fine degli anni Novanta sembrava non accorgersene. Ma si sa, gli italiani sono distratti e sarà per questo che paghiamo Cottarelli, per ricordarci cosa ricordare.

Detto questo, cosa aggiunge Cottarelli con il suo articolo? Ebbene, come a dimenticare tutto quello successo dal 2012 ad oggi e soprattutto che i risultati ottenuti sono dovuti alle scelte fatte da coloro che lo sostengono e che lui sostiene, ci informa che i nostri attuali avanzi sulla bilancia commerciale sono in realtà una specie di fake news. Questo perché se dal 2008 i salari avessero seguito un normale trend di crescita e quindi gli italiani avessero continuato a comprare almeno quanto erano soliti comprare fino al 2008, ed ovviamente se lo Stato avesse seguito lo stesso trend di spesa, non avremmo l’attuale avanzo di bilancio tra import ed export.
Il surplus della bilancia commerciale e quindi l’avanzo delle esportazioni rispetto alle importazioni è dovuto piuttosto che alle buone capacità delle nostre aziende esportatrici, al fatto che agli italiani era stata sottratta la capacità di spendere e quindi acquistavano meno prodotti italiani e tanto più meno prodotti stranieri.
Insomma per aggiustare un bilancio si è distrutto un pezzo di vita reale. Per noi niente di nuovo sotto le stelle ma per i Cottarelli una nuova storia distorta da vendere al popolo ignorante (nel senso che ignora).
In perfetta lingua orwelliana si lamenta del fatto che l’aumento dell’export è dovuto alla nostra mancanza di capacità di spesa, piuttosto che ad un reale aumento delle esportazioni. Abbiamo un surplus perché sono diminuite le importazioni, e solo per questo. Sembra quasi che per l’ennesima volta la colpa sia nostra, o del tempo che è cambiato e si sta mettendo al brutto. Chi può controllare del resto il cambiamento del tempo? Tutto per far dimenticare che in economia succedono invece cose prevedibili, che dipendono dalle politiche economiche messe in atto che a loro volta dipendono dalle teorie economiche che le supporta. Quello che sta succedendo è solo la logica conseguenza della scelta di tutelare tutto tranne i cittadini e i lavoratori.
La giusta analisi dovrebbe appunto prendere in considerazione le politiche economiche messe in atto dall’era Monti e portate poi avanti dai governi di sinistra che si sono succeduti fino a Gentiloni. Ci si è piegati alle logiche austere volute dall’Europa della finanza e degli speculatori che vogliono una banca centrale autonoma e che non solo ogni paese faccia da se in caso di crisi ma lo faccia senza utilizzare gli strumenti propri della macroeconomia, che sono cambio e politica fiscale. Una mission impossible, dunque.
Chi ha ancora a disposizione questi strumenti ha ottenuto i seguenti risultati nel 2018 sul piano della disoccupazione: Usa 3,9% (nel 2010 era 9.6%), Uk 4% (nel 2010 era 7,8%), Giappone 2,4% (nel 2010 era 5%).
È andata bene anche a chi ha speso a deficit nei 19 paesi dell’eurozona preferendo tutelare i propri cittadini piuttosto che i parametri (forse non hanno il Pd): Irlanda 5,7% (nel 2010 era 14,5%), Spagna 15,3% (nel 2010 era 19,9%); Francia 9,1% (nel 2010 era 8,9%); Portogallo 7% (10,8%); Belgio 5,9% (nel 2010 era 8,3%); Olanda 3,8% (nel 2010 era 5%)
Insomma tutti hanno diminuito la percentuale di disoccupazione, la Francia più o meno stabile, l’Italia peggiora. Di seguito graficamente la situazione

L’analisi dovrebbe tener conto del perché questo è successo, e non si dovrebbe prescindere dal confronto con gli altri paesi e sul fatto conseguenziale che questi hanno potuto mettere in campo strumenti che noi abbiamo deciso di non utilizzare sacrificandoli sull’altare… di cosa?
Cottarelli cercando di dire altro e sviare come al solito l’attenzione, non fa che confermare che la politica dell’austerità non ha fatto bene al paese e quindi che chi ne ha fatto una fede ha sbagliato e ha trascinato l’Italia alle soglie del baratro. La tutela della domanda interna, sinonimo di benessere soprattutto per le classi medie e basse, dovrebbe essere la bandiera della sinistra ma è stata invece lasciata in mano alla Lega e ai 5s mentre Cottarelli e l’Osservatorio Cpi oggi attentano ancora alla memoria storica.
La sinistra dopo aver perpetrato all’infinito le ricette sbagliate di Monti si è inventata Cottarelli e Fazio, la difesa dei migranti e della movida ferrarese, tralasciando le istanze di giustizia sociale e di difesa della Costituzione, quindi del credito, dell’uguaglianza e dei confini nazionali, ultimo baluardo al movimento del capitale e della finanza speculativa.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
La scuola delle carenze

Grande disadattata per Bruno Ciari, classista per i ragazzi di Barbiana, nel corso di mezzo secolo la nostra scuola da fabbrica di esclusione sociale si è mutata in apparato di emarginazione culturale.
Non adatta né al recupero sociale né alla compensazione degli svantaggi, non utile, in definitiva, ad assolvere al dettato costituzionale di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Del resto l’insipienza politica che in questi decenni ha accompagno la questione dell’istruzione nel nostro paese non poteva che condurre qui, forse dobbiamo ringraziare i nostri insegnanti se non è accaduto di peggio.
Una scuola a disagio di fronte al disagio dei giovani. Una scuola malata che non cura i malati, una scuola sanatorio, considerate le percentuali con le quali si moltiplicano alunne e alunni con disturbi specifici dell’apprendimento dalla primaria alle superiori.
Se gli ospedali non funzionano, non sono i pazienti che hanno sbagliato ad ammalarsi, eventualmente è il sistema che deve essere in grado di correggersi. Più preparazione professionale, più strutture, più ricerca, e soprattutto più risorse che consentano di mettere in opera tutto questo.
Così, se l’Invalsi, l’istituto nazionale che si occupa di monitorare l’andamento dell’istruzione, continua a verificare che non tutte le ciambelle escono con il buco, anzi i processi sono in netto peggioramento, non è che dobbiamo cambiare le nostre ragazze e i nostri ragazzi, che sono quello che sono, ma, con ogni evidenza, sarà necessario capire cosa non va nella pratica dell’insegnamento-apprendimento. Non è che la cosa è nuova, neppure di ieri o dell’altro ieri, è da tempo che i segnali si manifestano e gli appelli si sprecano.
Solo due anni fa, ad esempio, fece scalpore l’allarme lanciato da 600 docenti universitari che, con lettera indirizzata al governo, sollecitavano interventi urgenti per rimediare alle carenze con cui gli studenti escono dalle nostre scuole. Da allora: silenzio.
La novità di quest’anno non fa che peggiorare il quadro. Per la prima volta l’Invalsi ha testato gli studenti al termine delle scuole superiori. Ne è uscita la prova provata che non solo il sistema non funziona a conclusione del primo ciclo di istruzione, ma che la situazione resta invariata, se non più grave, anche alla fine del secondo ciclo. Le carenze accumulate a tredici anni sono le stesse a diciotto.
Di cure e di medici al capezzale non se ne vedono. I cerusici in giro pare che siano più propensi all’ignoranza che all’istruzione. C’è chi sostiene che la scuola non funziona perché non è più quella di prima, dimenticando, o sottacendo, che quella di prima era la scuola di Dio, Patria e Famiglia. Qualcuno invoca il ritorno all’uso dei grembiuli, qualcun altro pensa che tutto si possa risolvere con l’autonomia regionale differenziata.
Le responsabilità, accompagnate all’inettitudine politica, sono gravissime. Da un ministro all’altro la situazione della scuola nazionale è andata via via sempre più deteriorandosi e la crescita del debito pubblico ha ridotto all’osso le risorse da destinare all’istruzione di giovani e adulti. Del resto i voti si prendono promettendo meno tasse anziché più istruzione.
Il quadro è presto fatto, crescono la dispersione scolastica e la generazione neet, le competenze linguistiche e matematiche degli adulti italiani sono tra le più basse dei paesi Ocse, oltre un terzo delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi giungono al compimento del loro ciclo di studi con gravi carenze in lettura, matematica e inglese in un paese sempre più divaricato tra nord e sud.
Il modo ci sarebbe per uscire da questa situazione: ripensare tutto il sistema dell’istruzione in chiave di apprendimento permanente e coinvolgere gli insegnanti a partire dalla loro formazione. Nessuna rivoluzione scolastica oggi può prescindere da queste condizioni.
Nulla di particolarmente nuovo. È tempo, almeno venticinque anni, che a casa nostra, tra varie distrazioni, ce lo andiamo ripetendo. Ma nella continua inerzia.
Non servono più molti discorsi, ciò che è veramente necessario è cambiare l’idea novecentesca dell’istruzione, rivelatasi ormai ampiamente inadeguata e soprattutto convincersi che occorre puntare sulla selezione, sul protagonismo e sulla valorizzazione degli insegnanti, perché solo loro che lavorano dentro alla scuola la possono salvare.
Non c’è riforma che possa cambiare l’istruzione, se non la professionalità e la passione di chi ogni giorno incrocia gli occhi delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Insegnanti che di queste doti ne hanno da vendere ce ne sono in giro per le aule del nostro paese, basterebbe darsi da fare a cercarli, a riconoscerli e a chiedere il loro aiuto. Ma, per favore, evitiamo di lasciar sproloquiare i soliti soloni.

Slow Food: rapporto ONU sui progressi verso fame zero

Da: Ufficio stampa Slow Food

Slow Food commenta il rapporto ONU sui progressi verso Fame Zero: «Servono politiche più coraggiose per il contrasto alla povertà, alle disuguaglianze e all’emarginazione, che partano da un modello di produzione alimentare agro-ecologico, inclusivo e socialmente equo»

Secondo il rapporto ONU il numero di persone nel mondo che soffrono la fame continua lentamente ad aumentare, il continente più colpito è l’Africa.
È stato presentato oggi a New York il nuovo rapporto ONU su Lo Stato della Sicurezza Alimentare e della Nutrizione nel Mondo (SOFI), frutto della collaborazione di FAO, IFAD, OMS, UNICEF e WFP. Uno studio che fornisce una stima aggiornata sul numero di persone che soffrono la fame nel mondo, su rachitismo e deperimento nei bambini, nonché sull’obesità.

Si tratta di una stima importante relativa al progresso verso l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile Fame Zero. Obiettivi che, stando proprio ai dati di questo rapporto, sembrano diventare sempre più difficili da raggiungere, poiché dal 2015 in poi, dopo decenni di costante declino, la tendenza si è invertita e il numero di persone che soffrono la fame è tornato (pur se lentamente) ad aumentare. Più di 820 milioni di persone nel mondo hanno sofferto la fame nel 2018 e, se si considerano anche coloro che sperimentano condizioni di insicurezza alimentare, si stima che oltre 2 miliardi di persone non abbiano accesso regolare a cibo sicuro, nutriente e sufficiente. Numeri che comprendono l’8% della popolazione del Nord America e dell’Europa.

Le cause, secondo l’ONU, sono da ricercare nel sistema economico: la fame è aumentata in molti paesi in cui l’economia ha rallentato, soprattutto nei paesi a medio reddito. Inoltre, le crisi economiche aggravano quelle alimentari causate da guerre e shock climatici.

Di fronte a questo quadro allarmante, Carlo Petrini, presidente internazionale di Slow Food e ambasciatore del programma Fame Zero per la FAO, commenta: «Per il quarto anno di seguito il rapporto evidenzia una situazione in peggioramento, il che significa che siamo in presenza di una tendenza. Sembra incredibile che nel 2019 l’homo sapiens sia ancora alla prese con la lotta contro la fame, e ancor più incredibile è constatare che stiamo perdendo! Slow Food ormai da molti anni è impegnata in questa lotta: il quadro che emerge oggi dalla nuova edizione del rapporto ONU ci chiama a un ulteriore impegno, con forza e urgenza. Il rapporto ci dice anche che il problema non è la quantità di cibo globalmente a disposizione, come sostengono le multinazionali dell’agro-industria, ma la sua disponibilità per chi è in condizioni economiche e sociali svantaggiate. È un tema di diritti negati e non di incremento della produzione. Servono quindi politiche coraggiose dei governi di tutto il Pianeta, per il contrasto alla povertà, alle disuguaglianze e all’emarginazione, che adottino e promuovano un modello di produzione alimentare agro-ecologico, inclusivo e socialmente equo».

Riguardo al continente ancora oggi più colpito dalla piaga della fame, l’Africa, Edie Mukiibi, agronomo ugandese e membro del Comitato Esecutivo Internazionale di Slow Food, aggiunge: «I 3207 orti agroecologici che Slow Food ha creato in 35 Paesi africani costituiscono oggi un piccolo ma significativo contributo al problema della malnutrizione, un modello positivo di partecipazione e di organizzazione dal basso. E soprattutto un modello facilmente replicabile: noi, con le nostre forze, (relativamente scarse rispetto a quelle delle istituzioni e dei governi) siamo riusciti a realizzare oltre 3 mila orti. E ognuno di questi orti coinvolge circa 120 persone in maniera continuativa, contribuendo in molti casi a evitare che questi individui vadano a far lievitare le già drammatiche cifre che oggi l’ONU ci ha consegnato».

Attraverso il progetto degli orti Slow Food in Africa sono stati realizzati finora 1585 progetti nelle scuole e 1622 progetti nelle comunità, per un totale di 3207 orti attivi. Essi coinvolgono circa 305.000 studenti (la metà sono donne) e oltre 40.000 adulti (in questo caso le donne sono il 72%). Questi orti sono un chiaro segno che gli africani sono impegnati ad affrontare in prima persona i problemi di fame e malnutrizione.

Ancora Edie Mukiibi: «Gli orti Slow Food non sono solo fonti di cibo per le comunità, ma anche strumenti educativi e culturali per tutti i soggetti coinvolti. Aumentano la quantità e la varietà di cibo fresco disponibile per l’autoconsumo, diminuendo la dipendenza dal mercato per i semi e le integrazioni della dieta. La riscoperta degli ecotipi vegetali locali e la reintroduzione della loro coltivazione – più adattabile all’ecosistema locale – può inoltre essere fondamentale per assicurare la resilienza delle comunità che devono affrontare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici. Un sistema alimentare che si basa su un’ampia varietà di piante coltivate infatti è più forte, non solo perché permette di superare i problemi che in ogni stagione possono colpire alcune piante, ma garantisce anche maggiore salubrità della dieta e del contesto ambientale in cui l’orto è realizzato».

PER CERTI VERSI
Amori e figli

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

DALLA FINESTRA

E tu che sbirci
Dalla finestra
La mia coscienza nuda
Passeggiare
Tra le cimase
Hai sempre una mano
Per il mio dolore
Ingordo e bruciante
Che lo raffredda
Lo scolpisce
In un attimo
Senza crepe
Sorriso di spuma
Ferite e unguenti
Così si placa
E diventa amore

L’ABBRACCIO

Figlio mio
È stato l’abbraccio più bello da quando sei nato
Quello che all’alba mi hai dato
Con tanta energia
Avendo capito tutto
Con le tue poche parole
Di coraggio di presa con la vita
Non lo dimenticherò mai
Questo amore così secco
Così profondo

“Lettera a Fabbri e Lodi “

Da: Marianna Alberghini

Cari signor Fabbri e Lodi
Vi scrivo, perché, non possedendo il vostro strategico sistema di usare la rete, per informare i cittadini di fatti e misfatti che avvengono in città, userò “alla vecchia” il magico uso liberatorio della penna e del foglio.

Premetto che, non sono di nessun partito politico, ma un cane sciolto, e onde evitare le solite battute evidenzio il fatto che non sono del PD, ne del movimento 5 stelle né tantomeno di un partito di destra a cui sono altamente allergica.
Signor Fabbri volevo dirle che lei come primo cittadino, e il suo vice come secondo, siete tenuti per legge e per carica istituzionale ad essere promotori di un sano senso civico.
Ogni cittadino è tenuto a mantenere un profilo civico che sia nel rispetto, dei diritti e anche dei doveri morali, etici, per la valorizzazione di se stesso e degli altri nel rispetto della dignità umana.
Ritengo che dovreste essere da esempio per ognuno di noi, che anche se non siamo più cittadini ma solo consumatore, voglio denunciare formalmente il non sano principio etico e morale che state intraprendendo sia prima che dopo la vostra ascesa.
Sottolineo che io Marianna Alberghini, non accetto in nessun modo , questo continuo e infestante metodo da voi utilizzato, attraverso i video e la rete e l’ausilio e l’appoggio di alcuni quotidiani locali.. che vi sostengono e vi hanno sostenuto in campagna elettorale.
Il video di ieri in cui chiedete i documenti ad un ragazzo nigeriano, con evidenti problemi di salute mentale e quello in piazza Verdi sono qualcosa che offendono la dignità umana.
E voi siete tenuti a proteggerla a quanto mi risulti..
E quanti mi risulta riguardo la movida signor Fabbri, considerando che ha fatto uso dei bar per la campagna elettorale lei non è propriamente astemio.
Vi invito a riflettere.
Sono madre di due figli, e non ho nessuna intenzione, che i miei figli e anche quelli degli altri, guardino video come quelli di Solaroli, e quelli di ieri così liberamente in rete
Quale esempio!
Sa come si chiama quello che state facendo?
Bullismo.
Prendersela con una persona più debole è bullismo non politica.
Per sanare il vostro perpetuo comportamento da bulli ce ne vorrebbero 20 di miliardi destinati all’istruzione, non tagli.
Educare significa tirare fuori.
Cioè valorizzare i talenti di ogni singolo individuo, e per fare ciò servono competenze e sano occhio teso all’osservazione, per sviluppare talenti, empatia e amore.
Voi invece mi sembra che facciate esattamente il contrario.
Tirate fuori il peggio dalle persone, educandole all’intollerenza, al razzismo, al sessismo e al bullismo.

Non sono le telecamere nelle scuole e l’arresto di qualche sputa pallini nigeriani quello che voi chiamate sicurezza.
Ma bensì lo smantellamento delle mafie, delle nostre mafie, che subappaltano ai nigeriani il lavoro sporco, sono solo schiavi della droga. Perché le mafie sono insinuate nella politica, negli appalti, nel traffico internazionale delle droghe e vestono in doppio petto e giacca e cravatta, non con le ciabatte e le scarpe della Nike.
Sa signor Lodi quando lei giocava nei Maceri a San Carlo io abitavo nel Bronx, ai tempi della coca connection, e c’era il coprifuoco.
Ricorda l’Armandon e Gnani?
Erano bianchi.
E ferraresi.
Quando l’eroina faceva strage da piazza Verdi a Krasnodar, e colpiva innocenti disagiati anche a 12 anni si facevano al de pisis nella scuola che frequentavo.
Il problema si risolve creando spazi di aggregazione, nelle scuole facendo prevenzione, come fece l’insuperabile preside Cerioli, facendo prevenzione si spendono poi meno soldi nelle cure dispendiose.
Si fa prevenzione sull’uso dell’alcol, delle droghe chimiche tra i giovani, cui diventano tutti casi psichiatrici.e nessuno è indenne anche quelli che sono e appartengono da ” buone famiglie”.
A casa mia la sicurezza è casa, lavoro e tre pasti al giorno, per tutti non per i ferraresi o gli italiani, il disagio si combatte non lo si fomenta.
Servono soldi non per l’esercito e uno Stato di polizia ma per diffondere la cultura della musica, dell’arte, della danza, del cinema del sapere.
Invece no coi vostri metodi,la società che è alla scataFascio, che ha perso il senso della comunità e della convivenza, voi diffondete il vostro verbo nei bar, facendo finta di ascoltare le persone e strumentalizzando i disagi, avete costruito e innescato la diffusione di paure che non esistono..
Ed io non lo accetto.
Accetto la sconfitta e la trasformo, non la sconfitta del PD ma del buon senso.
E la vittoria di chi usa i mezzi di comunicazione per meri scopi narcisistici e individualistici per la sistematica cultura dell’apparenza e della mancanza di memoria.
Tempi tuitteriani i nostri, in un nanosecondo si dimentica tutto, l’importante è il messaggio deviante.
Ma siamo anche servi di un regime che non usa olio di ricino e manganelli, ma armi più potenti chiamasi televisione, giornali e rete.
Io credo che qui abbiamo un esemplare divorzio tra la realtà reale e la realtà virtuale, che i mezzi di comunicazione mostrano come unica realtà possibile.
E quando verrà il signor Salvini gli comunichi da parte mia che la cultura sessista che sta diffondendo è un’arma a doppio taglio.
Che si adoperi a investire e sottrarre igli 8 miliardi di evasione fiscale che i veneti sottraggono alle nostre casse per i centri antiviolenza.
E smettete di diffondere dati erronei sulla violenza domestica, sono i nostri uomini che ci uccidono e ci fanno violenza che si informi. Che con le bufale non si mangia.
Se le donne si aggregano e giustamente affilano le armi della parola e dell’Unione, si ricordi bene che non ce ne sarà più per nessuno
E faremo tabula rasa, la stessa tabula rasa che avete fatto nel tempo voi alle persone, privandole di logica e ragionamento
Ma con lo scopo però della creazione di una nuova società, e non dello smantellamento della dignità umana e della disgregazione della società..
Ho diritto ad usare i miei metodi come fate voi con il potere.
Ma in positivo.
Da donna e madre non sto zitta e non starò mai zitta
Buon lavoro mi saluti il ministro.

Save the children: “350 ragazzi da tutta Italia”

Da: Save the Children

Al via a Bari dal 16 al 18 luglio il Festival SottoSopra 2019 del Movimento giovani per Save the Children: 350 ragazzi da tutta Italia per una tre giorni sul tema dei diritti e del protagonismo

Azioni di cittadinanza attiva, una serata dedicata allo spettacolo e al dialogo tra adulti e ragazzi, che vedrà anche la partecipazione di Anna Foglietta, Gianrico Carofiglio, Amir Issaa e i ragazzi di Friday 4 Future

Si terrà a Bari dal 16 al 18 luglio la prima edizione del Festival Sottosopra, il Movimento giovani per Save the Children attivo in 15 città italiane. Trecentocinquanta ragazzi e ragazze provenienti da tutto il Paese, insieme per tre giorni dedicati all’ascolto, al confronto e la condivisione di diversi punti di vista e una riflessione sul tema dei diritti dei minori, a partire dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia. Il festival è patrocinato dal Comune di Bari e dall’Università degli Studi di Bari Aldo Moro.

“Non si è mai troppo piccoli per fare la differenza”, come ha detto la giovanissima attivista svedese Greta Thumberg: l’obiettivo della manifestazione è coinvolgere coetanei, adulti e istituzioni in un dialogo costruttivo sul ruolo che i giovani possono giocare, da protagonisti, sui grandi nodi del futuro del nostro Paese, dallo sviluppo sostenibile alla lotta ad ogni forma di discriminazione, dal contrasto alla povertà educativa alla riqualificazione delle periferie urbane.

Azioni di sensibilizzazione e riqualificazione, una serata dedicata allo spettacolo e al dialogo tra adulti e ragazzi e una riflessione sui temi della Convenzione ONU saranno i pilastri principali di questa prima edizione del Festival, dal titolo “We ALL RIGHTS”, dedicato ai 30 anni della Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (CRC).

L’apertura del Festival si svolgerà martedì 16 luglio alle 16 presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” con le Istituzioni locali (Dipartimento di Giurisprudenza, piazza Umberto I).

Proseguirà con un evento serale speciale aperto al pubblico presso i giardini di piazza Garibaldi, dedicato ai ragazzi e al protagonismo giovanile: oltre alle performance artistiche e musicali che si susseguiranno nel corso della serata, un talk show dedicato proprio al tema dei diritti e del ruolo dei giovani. A discuterne, oltre ad alcuni rappresentanti del Movimento SottoSopra, del Movimento Friday 4 Future e di Save the Children Italia, il rapper romano Amir Issaa (che chiuderà lo spettacolo con una sua performance musicale), lo scrittore Gianrico Carofiglio e l’attrice Anna Foglietta. Condurrà la serata il giornalista di SkyTg24 Gianluca Ales.

Il giorno successivo le strade e le piazze della città saranno protagoniste dell’Urban Game, una caccia al tesoro per promuovere tematiche e articoli della CRC in collaborazione con realtà del territorio quali Retake, OrtoCircuito, Avanzi Popolo e TouPlay. Inoltre, a conclusione del Festival, il 18 luglio, i ragazzi si confronteranno in tavoli tematici anche con esperti esterni sui temi a loro vicini, tra i quali gli stereotipi, il cambiamento climatico, l’Agenda 2030, le migrazioni e diritti, il Cyber bullismo e le nuove tecnologie.

Il festival vede inoltre la collaborazione di Mama Happy, Casa Centro ANSPI, Spazio 13 e il supporto di Kreattiva.

Stop armi Italiane in Yemen

Da: Save the Children

Conflitto in Yemen: ”Stop armi italiane in Yemen”, flash mob a Montecitorio

della società civile italiana

Le iniziative di Amnesty International Italia, Fondazione Finanza Etica, Oxfam Italia, Movimento dei Focolari, Rete Italiana per il Disarmo, Rete della Pace, Save the Children

Oggi a Roma iniziative organizzate da Amnesty International Italia, Fondazione Finanza Etica, Oxfam Italia, Movimento dei Focolari, Rete Italiana per il Disarmo, Rete della Pace, Save the Children Italia per chiedere che le armi italiane non finiscano nel conflitto in Yemen, nell’Anniversario dell’approvazione della Legge 185/90 che regola l’export di armamenti.

Si è tenuto questa mattina in Piazza Montecitorio, a Roma, un flash mob per chiedere lo stop alle esportazioni di armi italiane utilizzate nel conflitto armato in Yemen.

L’azione è stata promossa da un coordinamento di organizzazioni della società civile – composto da Amnesty International Italia, Fondazione Finanza Etica, Oxfam Italia, Movimento dei Focolari, Rete Italiana per Disarmo, Rete della Pace, Save the Children Italia – che hanno portato davanti al Parlamento una simbolica “pioggia di bombe” per tenere alta l’attenzione su quella che oggi rappresenta la più grave crisi umanitaria al mondo.

Il flash mob cade nel 29esimo anniversario dell’approvazione della Legge 185/90 che regola l’export italiano di armamenti e a pochi giorni dell’approvazione, il 26 giugno scorso, di una Mozione da parte della Camera dei Deputati che impegna il Governo ad “adottare gli atti necessari a sospendere le esportazioni di bombe d’aereo e missili che possono essere utilizzati per colpire la popolazione civile e loro componentistica verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sino a quando non vi saranno sviluppi concreti nel processo di pace con lo Yemen”.

Più di 7.500 bambini sono stati uccisi o feriti dall’inizio del conflitto in Yemen, per quasi la metà in seguito ai bombardamenti aerei condotti per la grande maggioranza dalla Coalizione militare a guida saudita.

La mozione recentemente votata alla Camera, sottolineano le Organizzazioni, rappresenta un primo, importante passo positivo ma è ora fondamentale che il Governo (anche andando oltre il dettato specifico della Mozione) intraprenda immediatamente le azioni necessarie per giungere ad uno stop effettivo delle esportazioni e spedizioni di tutte le tipologie di armi non solo verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ma nei confronti di ogni attore (statale o meno) che partecipa alle ostilità in corso in Yemen. In tal senso chiediamo che l’Italia si faccia in promotrice in seno al prossimo Consiglio Europeo di un’iniziativa formale per giungere ad un embargo UE sugli armamenti diretti verso il conflitto in Yemen, come richiesto in numerose Risoluzioni votate dal Parlamento Europeo negli ultimi anni.

In tal senso le Organizzazioni ribadiscono la propria richiesta di incontro con il Presidente del Consiglio Conte, recentemente avanzata con una lettera formale che al momento attuale non ha ancora ricevuto riscontro. Al Presidente del Consiglio vorremmo domandare non solo rassicurazioni sull’immediato stop all’invio di armi, ma anche un maggiore sostegno dei processi diplomatici e di intervento umanitario che passi anche per un aumento delle risorse e dei fondi per porre sollievo alle condizioni della popolazione (come richiesto da tempo dalle nostre Organizzazioni).

Da: Save the Children

PER CERTI VERSI
Campi di grano

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

Trebbiano il frumento
È come se la campagna voltasse pagina
Cambiasse argomento
Rimangono i malgoni per qualche tempo
Poi la prima aratura
Parlerà nel caldo con voce d’autunno
Sarà già sera
Quando le nostre labbra si cuciranno il nostro silenzio
Come abbandono
E le braccia
Vorranno la loro parte di fede
Che ci siamo
Che esistiamo

La polvere è giallognola quasi ocra nel vento teso da oriente
Stanno ancora trebbiando
Alla metà dell’anno quasi in incognita nella campagna senza uomini senza donne chissà dove sono
L’autista mi saluta
Gli ho sorriso
Segretamente sappiamo entrambi che una volta era una festa era un rito
Un airone s’invola dal suo nascondiglio
Sento un nodo alla gola
Mi vengono incontro i miei morti
Come un passeggio
E sento le voci
Ancora una volta
Raccontare in dialetto la fatica il sudore la polvere la festa il vino della trebbiatura
Non esiste assolutamente più nulla di ciò
Solo noi mia dolce amata
Abbiamo fatto in tempo a trattenere il margine prima che la pagina venisse voltata
Per sempre

Criminalità Internazionale in mare, Unife e Malta insieme per il Master

Da: Comunicazione Istituzionale e Digitale Unife

Criminalità internazionale in mare.
Unife e Malta insieme per il Master che ne studia le norme per la prevenzione e la repressione.

Il dibattito sul recente sbarco della Sea Watch a Lampedusa ne è soltanto la più recente e “mediatica” dimostrazione: sui temi del diritto internazionale, della criminalità in mare, della tutela dei diritti, è necessario oggi più che mai accendere una riflessione. Lo fa il Master MICAS, Master sulle norme per la prevenzione e la repressione della criminalità internazionale in mare, appena istituito grazie a un accordo tra il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara e l’Università di Malta.

Master congiunto di primo livello, interamente in lingua inglese, il corso partirà nell’a.a. 2020/21 con lezioni che si terranno a Malta ma che poi si sposteranno anche in Italia. Il Master si inserisce fra le iniziative didattiche del nuovo Centro studi giuridici europei sulla grande criminalità – Macrocrimes, recentemente istituito presso il Dipartimento di Giurisprudenza nell’ambito del progetto Dipartimenti di Eccellenza 2018/22, vinto dal Dipartimento.

Destinato ai neolaureati, compresi quelli della Laurea triennale in operatore di polizia giudiziaria del Dipartimento di Giurisprudenza, ma anche ai professionisti, in Italia si rivolge a membri della Guardia costiera, Forze di polizia e Forze armate, operatori di ONG. Ma vista la portata globale dei problemi legati alla criminalità marittima internazionale, il Master vuole richiamare studenti provenienti da tutta Europa e da Paesi extraeuropei e coinvolgere le organizzazioni governative più direttamente impegnate su questi temi.

Diritto internazionale del mare, tutela dei diritti fondamentali a livello internazionale, UE e statale, diritto penale, cooperazione giudiziaria e di polizia, diritto dell’Unione europea, diritto dell’immigrazione, ma anche Scienze della sicurezza e della difesa sono alcune delle discipline che si intersecano in questa complessa tematica. Gli argomenti toccati – solo a titolo esemplificativo – sono i problemi legati al contrasto al terrorismo e alla pirateria marittimi o a forme di criminalità particolarmente gravi, come quelle legate al traffico di migranti e alla tratta di persone.

Grande soddisfazione esprime la Prof.ssa Serena Forlati, Direttrice di Macrocrimes e da tempo impegnata, insieme alla Prof.ssa Alessandra Annoni, nella promozione e nel coordinamento del Master congiunto: “Il complesso lavoro di strutturazione del programma, iniziato nel 2013 in collaborazione con i colleghi dell’Università di Malta, giunge infine a compimento: il Master tratterà di temi estremamente delicati ed attuali offrendo, crediamo, un’ottima opportunità di formazione ai nostri laureati e ad altri studenti provenienti da tutto il mondo. Un corpo docente internazionale coniugherà un solido approccio teorico a presentazioni ed iniziative di taglio più pratico, grazie anche all’intervento di operatori specializzati – fra cui funzionari delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea, membri dei corpi di polizia, operatori di ONG, avvocati ed altri esperti”.

“Una nuova sfida – si associa il Direttore del Dipartimento, prof. Daniele Negri – per il Dipartimento di Giurisprudenza che ha fatto dell’internazionalizzazione della ricerca e della didattica una delle chiavi di volta del proprio successo come Dipartimento di Eccellenza”.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
La confraternita del rosario

Pare che non ci sia nessuna remora ad esibire rosari al collo e medagliette di Maria ausiliatrice da parte dei giornalisti della Tv nazionale. È del tutto normale, sta nella libertà che ognuno ha d’acconciarsi, specie se fervente cattolico. Ciò significa che per il futuro vedremo giornalisti esibire in diretta televisiva cordigli e scapolari dei terz’ordini francescani e carmelitani, le icone delle loro appartenenze sociali, politiche e religiose, come forme di identità e coerenza, attraverso la testimonianza coraggiosa della propria fede e delle proprie convinzioni. Il sovranismo politico si accompagna al sovranismo delle proprie appartenenze. Attendiamo i Pastafariani con il colino in testa. Evidentemente non siamo un paese laico, siamo molto di più, un paese pluralista e multiculturale, dove ognuno è libero di esibire le insegne della propria tribù.
La fede come garanzia dell’autenticità delle proprie radici. I crocifissi con i Cristi sempre più agonizzanti e sanguinolenti da esporre come sulle barricate in tutti i luoghi pubblici dalle scuole agli ospedali, dalle dogane agli aeroporti. Non è l’avvento dell’oscurantismo, al contrario è l’apertura alla pluralità delle tradizioni, delle culture e delle sensibilità.
Presto in tv vedremo giornaliste in chador leggere le notizie, oltre ai quotidiani ragguagli sul verbo e sui viaggi del pontefice, avremo informazioni anche sul grande rabbinato di Israele e sull’Imam capo della comunità islamica, sulle chiese Avventiste, Metodiste e Ortodosse.
Sono i segni e le loro significazioni che storicamente fanno la cultura dell’uomo e i segni, come la parola, sono i mediatori della comunicazione, che se passa per la televisione pubblica non è più privata, non riguarda più soltanto le identità personali, il proprio vissuto, riguarda la storia di tutti.
La corona del rosario si accompagna alla preghiera a carattere litanico, alle Confraternite del Santo Rosario istituite dall’ordine dei frati predicatori per via che la Madonna apparve al loro fondatore, raccontano, san Domenico, facendogli dono del rosario. La vicenda è narrata dal ciclo di tutte le Madonne del rosario che si trovano raffigurate un po’ in tutte le chiese.
Siamo alla gratuita esibizione di un atto di culto, di una pratica devozionale, all’ostentazione della preghiera e del proprio bigottismo, che non c’entrano nulla con il lavoro e la deontologia professionale di un giornalista del servizio pubblico.
Se il crocifisso viene rivendicato come simbolo delle pretese radici cristiane, la corona del rosario proprio con le radici non c’entra nulla, per di più consacrata come pratica devota da Pio V all’indomani del Concilio di Trento, con un afrore di controriforma.
Viene il sospetto che tra il capo della Lega, che da un lato impugna vangeli, bacia rosari e invoca madonne e dall’altro la televisione pubblica che espone rosari al collo di giornaliste folgorate sulla via di Damasco, si sia volutamente scelto di sponsorizzare l’integralismo cattolico, le sagrestie devotamente votate a recuperare il terreno perduto, una sorta di risarcimento alla tradizione apostolica e romana.
A noi non piace la prepotenza dei vangeli che invece di porgere l’altra guancia impongono robustamente la loro buona novella. La questione degli dei, anche se ostentata da crocifissi e corone del rosario, resta primitiva, mitologica, offensiva per ogni mente razionale e soprattutto umiliante per le intelligenze che non accettano di essere abbindolate dai pifferai magici delle teologie.
Una caduta di stile, uno scivolone nel becero che anche i chierici più proni alla Conferenza episcopale italiana dovrebbero avere il buon gusto di evitare.
Il rispetto della dignità delle persone passa innanzitutto nel tenere per sé superstizioni e scaramanzie, evitare di ostentare croci come gobbi e cornetti rossi, in un carnevale di paccottiglie religiose come una sorta di sfida, di urto in faccia a chi osa non credere o non condivide la tua stessa fede.
Di fronte allo zelo religioso uno spirito laico prova disagio per la mortificazione della libertà personale che rappresenta, per l’angustia di pensiero che l’accompagna, tuttavia è volterrianamente disposto a dare la propria vita purché a ciascuno sia garantito il diritto di esprimersi.
La televisione pubblica è un’altra cosa. La condizione di utenti che pagano una tassa per avere un servizio pubblico non ammette né deroghe né scivoloni, perché in questo caso il carattere di “pubblico” del servizio pagato con i soldi dei cittadini viene meno e quei soldi si traducono nei proventi di un furto perpetrato a danno di chi è costretto a pagare una tassa per consentire propagande di parte, oltre il disegno di subliminali messaggi di superstizione e di ignoranza.
Evidentemente la commissione di vigilanza della Rai per la laicità del servizio pubblico ha una sensibilità come la pelle degli elefanti, e nessuno dei suoi componenti, a partire dai pentastellati novelli vessilliferi del cambiamento, è in grado di accorgersi di quanto strida e sappia di villania quella corona, ridotta a monile, al collo di una dipendente dell’azienda, tanto anche questi sono imbevuti di superstizioni e di cattolicesimo d’accatto, a partire dal loro capo politico devoto di san Gennaro e del culto del suo sangue.

Fossato del castello estense: indice di criticità

Da: Marco Falciano

Cartoline da Ferrara.

Oggi il bellissimo castello estense fiorisce… si ma di alghe nel suo fossato! A causa dello scarso ricircolo di acqua, alte temperature, anossia, ed alti livelli di sostanze azotate assistiamo malauguratamente all’insorgere di quest’eutrofizzazione fuori norma.

Con adeguata manutenzione al fossato, con il suo necessario dragaggio, unito a una gestione più oculata dell’afflusso e deflusso di acqua, ció non avverrebbe.

Il fossato del castello rappresenta perfettamente il cattivo stato delle acque superficiali di tutto il territorio ferrarese, inquinate dalle attività agricole, di allevamento e dai liquami fognari dei centri abitati. Ben 800 Comuni italiani sono stati deferiti alla Corte di Giustizia EU per infrazioni relative a scarichi illegali. Le fogne non reggono il carico di reflui e scaricano abusivamente in acque superficiali o in suolo, soprattutto in occasione di forti piovaschi. Secondo l’ONU, procedendo con questo ritmo di consumo ed inquinamento idrico, entro il 2030 perderemo il 40% delle risorse di acqua potabile rispetto ad oggi sull’intero pianeta. E noi siamo i primi a seguire alla lettera questo trend negativo.

Non si tratta semplicemente di un brutto spettacolo per la città, ma è un segnale di allarme che impone una riflessione approfondita sullo stato di conservazione delle nostre acque. Chi ci governa ha il dovere morale, sociale e la responsabilità politica di occuparsi dell’acqua. La partita del futuro si giocherà tra quei paesi che sapranno depurarla, tutelarla e gestirla in maniera più efficiente.

Fotografia: Stefano Diegoli

Articolo: Marco Falciano

La politica popolare e le camicie sudate

Che cos’è la politica che oggi governa l’Italia e che cos’è la politica che oggi si oppone a chi governa l’Italia? Come si potrebbe rappresentare e a che cosa ci potrebbe portare? Domande a cui dovremmo cominciare a dare delle risposte, visto che il futuro è nostro e realisticamente è già iniziato. Potrebbe essere il momento di fermarsi a riflettere seriamente, piuttosto che lasciarci trasportare dalla corrente e dai sondaggi che danno continuamente in crescita uno dei partiti di maggioranza, la Lega.
E più i sondaggi sono favorevoli alla Lega, più Salvini si trasforma in padre della Patria. La stessa Patria che fino a poco tempo fa, quando la Lega era Nord, non sembrava andare più in là del Po, mentre adesso difende i confini siciliani dall’invasione africana.
“Se mio figlio ha fame non posso negargli il pane”, così parla il Capitano che però studia da comandante supremo. E un comandante, si sa, non lascia indietro nessuno.

Salvini il rivoluzionario, vuole abbattere gli schemi, fa di tutto per mostrarsi uno del popolo e come il popolo agisce. Usa i social sempre e la cravatta solo in caso di necessità. Cavalca i temi della gente e non si nega mai un bagno di folla. Coinvolge e urla. E si tira tutto il Paese dietro le sue camicie sudate e, grazie al suo eterno show, la Lega vince anche nelle città del Sud.
Perché la Lega oggi è il popolo, come poco tempo fa lo è stato il Movimento 5 Stelle. E questo perché in politica, come nel trading, ci sono due modi di giocare. Seguire il trend oppure andare contro il trend. Salvini sta seguendo il trend, la pancia dell’elettorato stufo delle cattiverie sociali del Pd e delle vuote parole della Sinistra in generale. Il M5S, invece, vuole rimanere fedele alle origini che non sono più il trend giusto. I no che dovevano aiutare a crescere – per dirla alla Paragone – e che avevano caratterizzato la sua ascesa non sono stati riempiti di contenuti e non pagheranno nel lungo periodo proprio perché oramai la gente è stufa e vuole empatia immediata.
Basti guardare alle vicende delle Olimpiadi 2026, che seguono di poco gli eventi del Tav, un successo per il trend rialzista di Salvini e un’ulteriore battuta d’arresto per i M5S. Basta inseguire sogni a lunga scadenza, le persone hanno aspettato il cambiamento per troppo tempo e ora vogliono dei risultati. Lavoro, sicurezza e pochi discorsi. Cose semplici insomma.
I vuoti dei no andavano riempiti al momento giusto, dedicarsi adesso alla riflessione sarebbe chiedere troppo e, obiettivamente, appare un compito impossibile per un partito senza storia e senza scuola. Compito che dovrebbe spettare alla Sinistra del resto, che ha sia l’una che l’altra. Ma non può perché è orientata anch’essa ai grandi eventi, ai grandi appalti e quindi al capitale. Dimenticando che sarebbe tanto più utile dare a tutti i cittadini la possibilità di andare in palestra e praticare qualsiasi sport magari in forma gratuita. Tanti piccoli passi certo, ma per tutti, meglio di grandi e veloci salti che alla fine premiano solo qualche politico e i grandi imprenditori. Certo, temporaneamente anche lavoratori impiegati negli appalti e a negozianti impegnati a vendere qualche souvenir. I danni delle grandi opere e dei grandi eventi, invece, sono sempre stati ben distribuiti tra i contribuenti.

Il Movimento 5 Stelle non può sostituirsi alla Sinistra, è confuso politicamente e non ha un suo posto chiaro, per i grillini le ‘cose’ di destra o di sinistra sono pensieri vecchi mentre le ‘cose fatte bene’ sono buone per tutti. Come dire che non esistono più i conflitti sociali e che la politica a favore di Jeff Bezos è anche a favore di Mario Rossi, operaio siderurgico all’Ilva. Nel mondo reale sei costretto a dichiarare per chi stai lavorando, oppure urli, cavalchi l’onda e menti. Ma prima o poi ti scoprono.
E la Sinistra, quella che avrebbe gli strumenti, continua nella sua arroganza a inseguire l’altra parte della pancia degli elettori e quando il Capitano urla da una parte, lei va a dormire sulla Sea Watch per poter essere identificata dalla parte ostile alla Lega, ma la maggioranza non apprezza, anzi si distacca da loro sempre di più. Più si camuffa da migrante, da buonista o da lgbt e più viene emarginata.
Non siamo noi che “non abbiamo capito” le ragioni del Pd di Calenda o del qualcosa di Fratoianni. Noi abbiamo capito e sappiamo che dietro l’ossessione della tenuta dei bilanci, del debito pubblico e del rigore c’è il mostro neoliberista disegnato nei trattati europei. E Salvini ha capito che molti hanno cominciato a intuirlo e cavalca l’onda creando empatia con il suo fare antieuropeo da cui il Movimento si è tirato fuori. Ma, purtroppo per noi, il neoliberismo non si combatte da dentro, proprio come l’Europa che genera tassi di disoccupazione ‘strutturale’ troppo alti per qualsiasi paese normale al mondo.

Il neoliberismo e l’Europa delle élite e della finanza si combattono senza tentennamenti e con chiarezza, con la filosofia e il dialogo. Perché le persone devono comprendere il reale motivo per cui perdono il lavoro oppure non lo trovano, per cui le banche falliscono e le aziende chiudono. Quindi c’è bisogno di spiegare bene i fattori in campo, il che include anche gli esponenti politici e la loro posizione nel mondo reale, tralasciando l’incapacità di gestire quaranta migranti. Bisogna, insomma, uscire dalla propaganda che oggi guida il mondo politico.
Ma chi ci aiuterà a districarci tra le urla del Capitano, il naufragar dolce del Movimento e l’abbaglio neoliberista della sinistra moderna?

Che politica ci sta governando e che politica si sta opponendo a chi ci governa? Nessuna a mia avviso. Stiamo seguendo l’istinto, la ricerca dell’aggiudicazione del piatto, dell’elezione perfetta che azzererà tutto il dissenso, già molto basso, futile e perso nell’attenzione alla nave, mentre i porti d’approdo stanno bruciando. Ma siccome il momento buono per prendere il piatto potrebbe passare velocemente, allora i toni si alzeranno sempre di più fino a quando Conte e Di Maio dovranno scegliere se passare ai sì in ogni caso, e lasciare di fatto il Paese nelle mani del Capitano, oppure lasciare che le urne ne sanciscano la vittoria elettorale. Insomma, c’è solo la vittoria nel futuro prossimo della Lega.

A meno di sorprese dell’ultimo minuto, ovviamente.

Save the Children: via libera alla mozione contro l’esportazione di armi italiane

Da: Save the Children

Yemen: Save the Children, soddisfazione per il via libera alla mozione contro l’esportazione di armi italiane. Primo passo importante, ma ora il Governo dia seguito immediato

Oltre 103.000 firme già raccolte con la petizione lanciata dall’Organizzazione per chiedere all’Italia lo stop alla vendita di armi italiane usate contro i bambini in Yemen

“Accogliamo con favore la notizia dell’approvazione, da parte della Camera, della mozione per chiedere la sospensione delle esportazioni di bombe d’aereo e missili italiani verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti e che possono essere utilizzati nella terribile guerra in corso in Yemen. Un primo passo importante al quale però ora il Governo è chiamato a dare seguito immediato, impegnandosi concretamente perché nessun armamento, e non solo bombe d’aereo e missili, prodotto nel nostro Paese venga più utilizzato contro civili inermi e bambini vulnerabili vittime del conflitto in Yemen”, ha dichiarato Filippo Ungaro, Direttore Comunicazione e Campagne di Save the Children.

“La mozione approvata oggi va nella giusta direzione ed è positivo che richiami il governo italiano ad esercitare un ruolo importante, anche in sede europea, in vista della possibile adozione di un embargo da parte dell’Ue contro la vendita di armamenti ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Tuttavia, apprendiamo con rammarico che il testo approvato non contenga alcun riferimento a impegni diretti e concreti a sostegno dei processi di riconversione produttiva dell’industria militare, come invece previsto nella legge 185/1990”, ha proseguito Ungaro.

Dall’inizio del conflitto in Yemen almeno 6.500 bambini sono rimasti uccisi o feriti dai bombardamenti e più di 19 mila radi aerei hanno colpito scuole e ospedali. Per tenere alta l’attenzione sul conflitto in Yemen e sulle sue terribili conseguenze sulla vita e sul futuro dei bambini, Save the Children – l’Organizzazione internazionale che da 100 anni lotta per salvare la vita dei bambini a rischio e garantire loro un futuro – ha lanciato, nell’ambito della campagna “Stop alla guerra sui bambini”, una petizione on line per chiedere all’Italia di fermare la vendita di tutte le tipologie di armi italiane usate contro i bambini in Yemen. Una petizione che è già stata firmata da più di 103.000 persone e alla quale continuiamo a chiedere di aderire al sito https://www.savethechildren.it/cosa-facciamo/campagne/stop-alla-guerra-sui-bambini/petizione-armi-yemen

“I bambini dello Yemen non possono più attendere oltre e non possono più continuare a subire sulla propria pelle il prezzo di un conflitto del quale non hanno alcuna responsabilità. La risoluzione di questa guerra non può certamente essere soltanto nelle mani dell’Italia, ma è fondamentale che il nostro Paese non si renda in alcun modo complice delle gravi violazioni dei diritti dei minori e, da parte nostra, continueremo a fare tutto il possibile per mantenere i riflettori accesi su quanto accade in Yemen e a monitorare le misure che prenderà il nostro governo”, ha concluso Filippo Ungaro.

Da: Save the Children

Ferrara International Piano Festival 2019

Da: Ferrara Musica

FERRARA INTERNATIONAL PIANO FESTIVAL 2019

Quattro concerti e due masterclass a Palazzo Costabili con solisti, docenti ed allievi che provengono da tutto il mondo: torna l’edizione 2019 di Ferrara International Piano Festival, rassegna promossa e organizzata dal pianista Simone Ferraresi, da più di dieci anni residente a New York dove insegna e svolge attività concertistica.

Dal due al dieci luglio il Festival sarà momento di spicco dell’attività culturale ferrarese, con una nuova serie di eventi di grande interesse per tutti gli appassionati di pianoforte classico. Martedì 2 alle 21 a Palazzo Costabili, sede del Museo Archeologico Nazionale diretto da Paola Desantis, si esibirà Sonia Rubinsky, pianista brasiliana dalla prestigiosa carriera internazionale e dalla ricca discografia. Bach, Mendelssohn e Villa-Lobos saranno i tre compositori affrontati da un’interprete pluripremiata anche per le loro incisioni discografiche. Domenica 7, sempre alle 21 a Palazzo Costabili, sarà la volta del giovane britannico Alexander Ullman. Ha vinto numerosi premi tra i quali il Concorso Liszt 2011 di Budapest. Eseguirà musiche di Haydn, Liszt e due monumentali Sonate come l’Appassionata di Beethoven e la Seconda Sonata di Chopin.

La sesta edizione della manifestazione viene organizzata in collaborazione da Ferrara Piano Festival di New York e dagli Amici di Ferrara International Piano Festival, l’associazione italiana costituita a Ferrara nel 2018.

Ospiterà a Palazzo Costabili le masterclass dei celebri professori Piotr Paleczny (Accademia di Musica di Varsavia) e Dina Yoffe (pianista e didatta lituana, per la prima volta a Ferrara): gli allievi effettivi Pavle Krstic, Susanna Braun, Andrea Molteni, Daniel Nemov, Leonardo Pierdomenico, Elia Cecino, Sayaka Nakaya, Sophia Zhou, Noa Kleisen e Yui Yoshioka provengono da Serbia, Svizzera, Russia, Olanda, Cina, Giappone e Italia. I loro concerti/saggio sono programmati alle 18.30 di venerdì 5 e mercoledì 10 luglio sempre nei magnifici spazi di via XX Settembre 122. Alle due masterclass si aggiungerà, dal 2 al 10 luglio, quella tenuta dello stesso Simone Ferraresi.

Si accede ai concerti del 2 e 7 luglio con il biglietto di ingresso al museo, adulti 6 euro, gratuito fino a 18 anni e ridotto 2 euro dai 18 ai 25 anni. Soci Coop e Romagna Visit Card 3 euro. Godono dell’ingresso gratuito: i Soci delle associazioni Amici di Ferrara International Piano Festival, GAF e Bal’danza; gli allievi e i docenti di Conservatorio e i possessori di MyFE Card.

Per l’occasione la direzione ha disposto l’apertura continuata fino alle 20.30 del Museo Archeologico Nazionale, dove sarà possibile seguire un percorso tematico sulle immagini della musica sui vasi attici di Spina.

Il costo del biglietto di ingresso al museo per i concerti/saggio del 5 e 10 luglio alle 18.30 è di € 1.

Ferrara International Piano Festival si svolge nella nostra città dall’estate del 2014, ospitato nella splendida cornice di Palazzo Costabili sede del Museo Archeologico Nazionale. E’ stato ideato per permettere a giovani e promettenti pianisti di tutto il mondo di frequentare, in una città italiana Patrimonio dell’Umanità, master classes di pianoforte tenute da Maestri di altissimo livello; durante il Festival sono stati eseguiti concerti dai Maestri stessi, dagli allievi e da artisti di fama internazionale appositamente invitati a Ferrara. Particolare significato ha assunto l’iniziativa (anche questa fortemente voluta da Simone Ferraresi) di ospitare gli allievi presso famiglie locali, offrendo così ai giovani talenti un’esperienza unica della bellezza e dell’ospitalità della città estense. Partner istituzionali del Festival sono il Polo Museale dell’Emilia-Romagna, il Museo Archeologico Nazionale di Ferrara, la Fondazione Teatro Comunale, Ferrara Musica e il Comune di Ferrara. Le associazioni culturali del territorio ferrarese che sostengono il Festival sono il Garden Club Ferrara, l’Associazione Amici della Biblioteca Ariostea, l’Associazione Culturale Jazz Club Ferrara, e l’Associazione Culturale Bal’danza. Inoltre il Festival collabora strettamente con il Conservatorio Statale di Musica “G. Frescobaldi”, il quale mette le proprie aule a disposizione degli allievi del Festival. Partner tecnico è la fabbrica di pianoforti Fazioli di Sacile, famosa in tutto il mondo, che garantisce la massima qualità di strumenti per tutti i corsi e concerti.

Da: Ferrara Musica

Save the Children: 40 organizzazione scrivono al presidente Conte

Da: Save the Children

Sea Watch: 40 Organizzazioni scrivono al presidente Conte chiedendo con urgenza un porto sicuro per i minorenni e per le altre persone a bordo della Sea Watch 3

“Apprezziamo che nei giorni scorsi l’Italia abbia consentito lo sbarco di bambini, donne incinte e altre persone vulnerabili. Resta tuttavia di urgenza inderogabile che tutte le persone a bordo, in particolare i minorenni e le altre persone vulnerabili, possano toccare terra in un porto sicuro nel minor tempo possibile e che alle valutazioni politiche venga anteposta la tutela della vita e dell’incolumità degli esseri umani.”

Questo il messaggio contenuto nella lettera inviata venerdì al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte da oltre 40 associazioni e organizzazioni impegnate per la tutela dei diritti dei minorenni e di rifugiati e migranti, in riferimento alle 42 persone a bordo della nave Sea Watch, giunta ormai al suo 12° giorno nel Mediterraneo.

Ricordando le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, i 40 firmatari chiedono che l’Italia adempia ai suoi doveri di solidarietà, assistenza e accoglienza, così come previsto dalla Costituzione Italiana e dal diritto internazionale.

Sottolineando come la Sea Watch non possa ottemperare all’ordine di ricondurre le persone salvate in Libia, in quanto porto non sicuro, le Organizzazioni firmatarie dell’appello evidenziano la necessità che l’Italia e gli altri Stati coinvolti collaborino attivamente al completamento delle operazioni di soccorso con il rapido approdo in un porto sicuro di tutte le persone a bordo e chiedono al Presidente Conte di ricorrere alle sue responsabilità per fare sì che le operazione di sbarco possano essere condotte nelle prossime ore, assicurando l’opportuna immediata presa in carico dei minorenni ancora a bordo e di tutte le altre persone bisognose di cure e supporto.

Da: Save the Children

Il geometra e l’architetto… Alan Fabbri presenta la sua Giunta

Sindaco, vicesindaco e otto assessori. La squadra di governo di Alan Fabbri ha preso corpo oggi alle 13, in una delle conferenze stampa più brevi della nostra storia municipale, poco più di una decina di minuti. Sala degli Arazzi piena ma pochi sorrisi, contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettato dai rappresentanti di coloro che hanno appena vinto le elezioni, con uno storico cambio della guardia alla guida del Comune: volti tesi e sguardi accigliati, che si sono sciolti solo nel finale, per la foto di rito. Evidentemente le schermaglie per la composizione della squadra hanno lasciato qualche ematoma, ben visibile persino nelle espressioni dei designati, oltre che – naturalmente – dei trombati, rimasti fuori dalla porta non solo in senso metaforico: parecchi degli aspiranti, delusi, sono infatti mestamente confluiti nell’attiguo salone d’onore, per l’occasione ridotto ad anticamera dello scorno.

Dunque, i nomi.

Il sindaco Alan Fabbri (Lega) ha riservato a se stesso le deleghe alla Sanità, all’Agricoltura, agli Affari generali, alle Relazioni istituzionali e alla Comunicazione: “Competenze cruciali”, commenterà poi, a margine.

Vicesindaco è Nicola Lodi (Lega), il famigerato Naomo dai vivaci trascorsi, spesso alla ribalta delle cronache per le sue gesta. A lui sono state attribuite deleghe pesanti (Sicurezza e Mobilità), un incarico politicamente redditizio (Frazioni) e un cotillons (Protezione Civile).

Quel ruolo (da vice) era stato in qualche modo promesso (e atteso) dal felpato Andrea Maggi (Ferrara cambia), artefice, con la sua lista, del traghettamento di quasi seimila voti moderati sulla sponda leghista: un capolavoro politico, poiché la civica nata dal nulla è risultata terza – dopo Lega e Pd – nelle preferenze dei ferraresi ed è stata determinante per l’esito elettorale, poiché se il voto di quegli elettori (perlopiù centristi, espressione del ceto medio-alto) fosse andato a Modonesi gli averebbe permesso di pareggiare il conto…
All’assessore Maggi vanno Lavori Pubblici, Urbanistica, Edilizia, Rigenerazione Urbana e Sport (forse in omaggio alla sua passione per il golf!): di estrazione accademica (per anni e sino al recente pensionamento è stato addetto alla comunicazione della nostra università), dovrà ora misurarsi con quel saper fare pratico che odora di bitume più che di antichi manoscritti o di moderni computer.

Al contrario, il geometra Marco Gulinelli (lista Forza Italia – Rinascimento), che di quegli ambienti – in quanto tecnico – ha pratica diretta, come ampiamente preannunciato ha ottenuto le deleghe a Cultura, Musei, Unesco, Monumenti Storici e Civiltà Ferrarese. Ma non avrà necessità di cercasi un insegnante per il doposcuola, poiché può confidare su un potente nume protettore: su di lui infatti si staglia l’ombra benevola di Vittorio Sgarbi, che in campagna elettorale gli ha tirato la volata e che ora potrà abilmente architettare e ispirare le strategie culturali di Ferrara. D’altronde il geometra se la cava brillantemente anche fra le righe e per questo ha conquistato pure i favori di Elisabetta, sorella di Vittorio e direttrice editoriale della lanciatissima ‘Nave di Teseo’, che a Gulinelli ha pubblicato “Il trapezista”, romanzo che narra vicenda e rimpianti di un brillante chirurgo e del suo sogno svanito di far vita circense. Vedremo, ora che per Gulinelli invece il sogno s’è fatto realtà, come il nostro geometra saprà destreggiarsi nei suoi voli pindarici.

Da ‘Bunden’, dove fino a ieri è stata assessore alle politiche sociali e abitative, arriva Cristina Coletti (Forza Italia – Rinascimento), consulente legale ed ex impiegata di Equitalia, fedelissima del sindaco Fabbri. A ‘Frara’ (prepariamoci, la toponomastica vernacolare al nuovo sindaco piace) avrà le medesime deleghe con contorno di Servizi Demografici e Stato Civile.

Dorota Kusiak (Lega), giovane pugile di origine polacca, insegnate in un nido per l’infanzia con laurea a Unife, che fra le sue passioni nella pagina Facebook indica “moda, cucina, salute e benessere”, avrà cura di Pubblica istruzione, Formazione e Pari opportunità.

Al giovane virgulto di casa Balboni (lui è Alessandro, esponente di Fratelli d’Italia e presidente di Azione universitaria; mentre il padre è l’avvocato Alberto, che fu senatore del Movimento sociale italiano), vanno Ambiente, Rapporti Unife, Progetti Europei, Tutela degli animali.

Il coordinatore provinciale di Forza Italia, Matteo Fornasini – anch’egli sovente accanto al Vittorio di Ro ferrarese – è stato nominato assessore a Bilancio, Partecipazioni, Commercio e Turismo, una delega che viene sganciata dalla cultura e (almeno apparentemente) ricondotta nell’alveo delle attività mercantili: può essere un indizio significativo della direzione di marcia…

Ad Angela Travagli (Ferrara cambia), commercialista e moglie del suo omologo Riccardo Bizzari (ora sindaco di Masi Torello), va la supervisione di Personale e Lavoro (ambiti dei quali ha certo competenza, almeno sul piano tecnico), nonché Attività Produttive, Patrimonio, Fiere e Mercati. Si tratta di vedere se alla conoscenza saprà coniugare la visione che dovrebbe essere propria del politico e del pubblico amministratore.

Infine, Micol Guerrini (Ferrara civica) che, per dirla ‘alla Cevoli’, ha ottenuto la delega ‘alle varie ed eventuali’, avrà cura di Politiche giovanili, Cooperazione internazionale, Palio e Servizi informatici. Battute a parte, per favorire l’inserimento lavorativo dei giovani bisognerà seriamente ragionare in termini originali e lungimiranti. E lo sviluppo delle tecnologie informatiche è un presupposto al miglioramento della qualità dei servizi. Scopriremo se la Micol dei nostri giorni avrà la necessaria tenacia.

Fuori lista, non presente ma già designato per un ruolo fondamentale, direttore generale sarà Sandro Mazzatorta, avvocato, eletto senatore per la Lega nel 2008, sindaco di Chiavari dal 2004 al 2014 e ora consulente a Unife.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Lapsus rivelatori e sguardi complici: due lettori si confessano

Situazioni in bilico in cui scegliere se cogliere o abbandonare, carpire uno sguardo o tirare dritto, rivolgere una domanda o tacere. I lettori rispondono a Riccarda e Nickname.

Le verità indigeste…

Cara Riccarda, caro Nickname,
eravamo a cena io e lui, mi raccontava di un suo recente viaggio che credevo avesse fatto da solo e invece gli è scappato un verbo al plurale, smozzicato, quasi ritirato mentre lo diceva.
Ho fatto finta di niente, ho preferito passare per scema perché non sono stata capace, in quel momento, di approfondire o anche solo alzarmi e andare via, ma non sono stata neanche capace di dimenticare di averlo sentito.
Dopo qualche mese, sono stata pronta per difendermi dalle mezze verità e abbandonare quel tavolo.
M.

Cara M.,
a volte scegliamo di rimanere a un banchetto fino a provare nausea. Se fossimo capaci di abbandonare subito, al primo segno di disgusto, non conosceremmo quella sensazione di saturazione, che è poi quella decisiva. A noi donne, generalmente, piace proprio essere ultra convinte (e nauseate) prima di alzarci e andare via.
Puoi stare sicura che un uomo così non ti farà più gola.
Riccarda

Cara M.,
i lapsus degli uomini sono celebri. Non abbiamo memoria, siamo stronzi senza premeditazione.
Nickname

Galeotto fu il concerto!

Cara Riccarda, caro Nickname,
capita di incrociare lo sguardo con una sconosciuta, ma subito si fugge, specialmente se si è folla su un prato in attesa di un concerto, se lei ha lo sguardo più dolce del mondo, se tu sei con un amico e anche lei è in compagnia. Capita di incrociarlo di nuovo, quello sguardo, e magari, dopo un altro incrocio, di soffermarsi un istante di troppo, l’uno che guarda negli occhi dell’altro. Quell’istante che fa strappare a lei un lieve sorriso e a te lo stesso, e non hai proprio idea di che cosa sia quel sorriso, lanciato da una ragazza con lo sguardo più dolce del mondo, che come te aspetta l’inizio di un concerto sul prato. Capita che la musica inizi, tutti comincino a ballare e, per caso, per fatalità, o per volontà, lei si trovi a ballare proprio davanti a te, mentre il suo compagno è qualche metro più avanti. Si sa come vanno i concerti, tra uno spintone della folla e le braccia alzate al cielo per un assolo di chitarra, siete schiacciati l’uno contro l’altro. Capita che la testa inizia a girarti, vorresti dirle qualcosa, ma il volume è troppo alto, non sentirebbe mai, e poi c’è lui, non sai chi sia. Capita che le sfiori il collo con la mano e lei si lasci andare, appoggiandosi per un attimo a te. Mescolati alla calca, tu hai perso il tuo amico, nemmeno il suo lo vedi più. Capita che l’unica cosa che ti viene disperatamente in mente, è che in tasca hai un biglietto da visita, le prendi la mano e glielo passi. Il concerto finisce, gli sguardi si incrociano ma ora sono complici e quando si allontanano, tu col tuo amico e lei col suo, sono come vecchi amici che si salutano. Capita che un mese dopo, suoni il telefono dell’ufficio, tu rispondi e dall’altra parte “Ciao, sono la ragazza del concerto di Pino Daniele”.
Luigi

Caro Luigi,
“Abbracciami perché mentre parlavi
Ti guardavo le mani
Abbracciami perché sono sicuro
Che in un’altra vita mi amavi
Abbracciami anima sincera
Abbracciami questa sera
Per questo strano bisogno
Anch’io mi vergogno
Che male c’è
Che c’è di male”
Pino Daniele

Caro Luigi,
secondo me Riccarda potrebbe contattarti in privato per avvicendarmi con te. Hai della stoffa. Salutaci la ragazza del concerto.
Nickname

I Dialoghi della vagina vanno in vacanza, ci rivediamo venerdì 6 settembre con nuove storie e scambi A due piazze.

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

LETTERA APERTA DI UNA VENTENNE
Noi e voi… Lasciateci sognare, lasciateci sbagliare

di Jessica Mantovani

Tra noi giovani chi è un sognatore è solo. Vorrei provare a farmi portavoce dei miei coetanei, pur senza che nessuno me lo abbia esplicitamente chiesto. Pensavo fosse un atto pretenzioso, ma dagli sguardi rassegnati che incrocio quotidianamente tra i corridoi dell’Università ho capito che scegliere di non parlare sarebbe un errore. È come se tra noi giovani e voi grandi si ponesse un alto velo trasparente, una membrana sottilissima ma insuperabile, una sorta di tenda capace di isolare i suoni; e per quanto da una parte si cerchi di parlare forte, nessuna voce è in grado di oltrepassare la barriera. Ci guardate come se fossimo degli incompetenti, come se sapessimo sempre come rovinare tutto, come se fossimo persi e pensate pure che non ci importi ritrovare la strada.

Secondo l’opinione comune, i giovani non hanno ideali e se ne fregano di tutto e di tutti, gli importa solo del loro telefono e di fare festa. I giovani non si impegnano abbastanza, non hanno voglia di fare niente, non gli importa di studiare e non sanno fare nessun lavoro. Vi guardiamo mentre vi disperate tenendovi le mani nei capelli quando pensate al futuro che vi aspetta, un futuro non molto lontano nel quale noi saremo gli adulti e voi invece sarete vecchi. Vorrei provare a tranquillizzarvi: vi sembriamo smarriti, ma qualcosa in mente ce lo abbiamo e ce lo abbiamo tutti. Il rischio, a mio avviso, è che pian piano passeremo dall’avere in testa un grande focolare ardente, al conservare solo un piccolo cumulo di cenere grigia, unico rimasuglio di un grande fuoco che con il passare degli anni si farà sempre più debole fino a spegnersi.
Il nostro fuoco è pieno di idee, di speranze, di sogni… Sogni che abbiamo paura di raccontare perché fin da piccoli ci hanno insegnato a stare con i piedi per terra, a comportarci come fanno gli altri, a pensare razionalmente, a non cadere mai troppo lontano dall’albero se questo ha sempre dato buoni frutti. Se finora tutti si sono sempre comportati in un certo modo e a tutti questi è andata bene, noi dovremmo comportarci esattamente come loro, altrimenti siamo certamente destinati a fallire.

Abbiamo grandi piani per le nostre vite ma non li raccontiamo spesso perché non ridiate di noi, non ci va che non ci prendiate sul serio per gli inediti progetti in cui speriamo. Quello che ci serve sono parole di sostegno, sarebbe bellissimo sentire che finalmente qualcuno crede in noi, per una volta ci servirebbe non dover ascoltare la voce di chi mette in conto i possibili fallimenti conseguenti alle nostre aspirazioni.
Di queste tristi possibilità siamo già a conoscenza e ne abbiamo già fin troppa paura, nonostante voi pensiate che non siamo in grado di capire cosa potrebbe accadere se qualcosa del nostro piano andasse storto.
Lo sappiamo, lo abbiamo già messo in conto e se decidiamo di andare avanti comunque, se non abbandoniamo la sfida nonostante siamo consapevoli dei rischi, non è perché siamo degli sciocchi ma è perché il fuoco che abbiamo dentro brucia di speranza, freme di voglia di fare del bene vero. Per una volta non ridete di noi se vi raccontiamo di voler salire in cima alle montagne più alte, per una volta non scoraggiateci e non metteteci nemmeno in guardia, lasciateci andare. Smettetela di dirci che dobbiamo seguire il sentiero battuto, quello dove le trappole sono già tutte scattate ed hanno ucciso chi è passato prima di noi, lasciate che siamo noi i primi a rischiare, anche se questo può farvi paura. In fondo è meglio soffrire per la delusione che non provare nessuna emozione, è meglio scivolare e poi rialzarsi che rimanere sempre distesi per evitare di cadere.
Sperate insieme a noi, tornate giovani e incoscienti, lasciatevi emozionare dal nostro fuoco e tifate per noi anche se ci sono alte probabilità di vederci fallire. La delusione non ci fermerà se invece di cercare di fermarci ci avrete insegnato che il fallimento non è la fine di tutto, non è la prova che non avremmo mai dovuto tentare ma è solo un normale fatto che si presenta a chi desidera tanto e si muove per ottenerlo.
Gli adulti sembrano sempre così avviliti, dicono che peggio di così non potrebbe andare, li sentiamo borbottare su quanto questo mondo faccia schifo. Se non c’è nulla da perdere, allora perché non provare qualcosa di nuovo? Perché non fare un tentativo e credere in noi? Piuttosto di crogiolarvi nella vostra rassegnazione, fateci capire che c’è qualcosa in cui sperare. Se raggiungeremo la vetta o se ci fermeremo a metà, avremo sempre ottenuto più di quanto non avremmo fatto se avessimo deciso di non agire per paura di fallire.

DIARIO IN PUBBLICO
Cambio di mano. Di fronte al nuovo

Un silenzio assai breve il mio in attesa di capire come Ferrara verrà governata dalla nuova amministrazione e di intuire, almeno per il momento, quale sarà la via che verrà intrapresa nell’ambito che meglio conosco: quello della cultura. Non mi devo rimproverare molto nel ripensare a come ho seguito, accompagnato, proposto l’evolversi di un’idea della cultura che prendeva piede e consistenza man mano che crescevo e mi si offrivano tante occasioni per vederla realizzata nella città che non a caso per un periodo si fregiò del titolo di ‘città d’arte e di cultura’. La nascita di associazioni come gli Amici dei Musei e Monumenti Ferraresi o il Garden o gli Amici della Biblioteca. L’impegno assiduo allo sviluppo e alla organizzazione dell’Istituto di Studi Rinascimentali di cui fui per anni presidente e direttore e ora la co-curatela del Centro Studi Bassaniani. Sempre con l’entusiasmo proprio a chi svolgeva un compito in perfetta assonanza con il lavoro che si era scelto e che ha amato moltissimo, nonostante le solenni bacchettate che la ‘mia’ parte m’infliggeva regolarmente.

Con la nuova amministrazione, il cosiddetto ‘cambio di mano’, come mi proporrò nel gestire i rapporti con l’amministrazione entrante? Per ora è troppo presto per avanzare ipotesi, soprattutto fino a quando non si saprà chi ricoprirà l’incarico di assessore alla cultura, e quindi disegnare un modus operandi specifico. Sicuramente è assai confortante sapere che almeno sulla carta i ruoli dei funzionari che hanno a che fare con il Centro Studi, le dottoresse Ethel Guidi e Maria Teresa Gulinelli, sono i medesimi. Bisognerà sapere se il futuro assessore li riconfermerà.

Questi problemi pratici mi hanno indotto a una pausa di silenzio che ora, dopo l’importante articolo di Fiorenzo Baratelli apparso su questo giornale – Sinistra: intransigente nei principi, innovativa nei metodi, radicale nelle proposte – viene interrotto per commentare una disfatta lungamente annunciata e mai presa di petto. Si è discusso molto se fosse più utile proporre un mea culpa che finalmente riavvicinasse le idee (o ideologie?) della sinistra a quel ‘popolo’ che si diceva trascurato, oppure si reclamasse una maggiore incisività e pregnanza in quelle figure politiche che di seguito si sono accampate tra le proposte fino alla scelta di Aldo Modonesi. Frattanto ciò che mi procurava (e mi procura) fastidio è il ritornello con cui i vincenti in modi diversi coniugano la frase “Era ora!” Ma perché prima dove stavano? Tutti acquattati in Gad a ripetere il falso ritornello “Basta con i comunisti!”? E tanti di noi a ripetere “Ecco sono arrivati i fascisti!” Banalità pericolosissime messe in luce dall’ottimo articolo di Baratelli, che semmai pecca di eccesso di cultura, provocando in tanti avversari la reazione pronunciata con la bocca impostata a ‘cul de poule’, “il solito culturame della sinistra”.

E mentre sotto il sole feroce della Bassa la città è in attesa del cambiamento, si spegne Franco Zeffirelli e declina Andrea Camilleri, due vecchi della generazione precedente la mia, che ho conosciuto e che ho ammirato (e per Camilleri amato). Nella Firenze della colonia inglese, quella degli ‘anglo-beceri’, Zeffirelli era amatissimo, invitatissimo, seguitissimo. Non tanto per le sue indubbie capacità quanto perché declinando l’origine di Firenze come capitale del Rinascimento, convalidava la tesi delle radici angliche di Firenze capitale del Rinascimento. Una tesi che piacque moltissimo fino a consolidarsi nella presenza di Berenson ai Tatti, o di Violet Trefusis a Bellosguardo, o dei Browning a passeggio per le vie e piazze di Firenze. Il mito di Firenze nasce inglese e Zeffirelli ne fu il cantore. E si veda il mediocre film ‘Un thè con Mussolini’ che ben ha illustrato questo principio. E quante serate da Doney al seguito dei grandi Maestri nella mia giovinezza fiorentina!

Mentre Zeffirelli ha i giusti onori di un grande a cui viene tributato il massimo dei riconoscimenti da una città governata dalla sinistra, Camilleri si sta spegnendo tra gli insulti schifosi di chi non perdona il suo credo politico, la sua dirittura umana e civile, il suo saper essere non solo il padre di Montalbano, ma una figura di riferimento di fronte alle esitazioni della sinistra. Lordare la memoria e il rispetto a chi ha svolto il suo ruolo civile non lasciandosi travolgere dalla fama, dalla ricchezza, è un segno della preoccupante incapacità degli ‘itagliani’ di sapere, una volta tanto inchinarsi al merito.

Spero che il nuovo sindaco Alan Fabbri sappia raccogliere l’invito tante volte proclamato, ma quasi mai messo in pratica di essere il Sindaco di tutti.

virtù-felicità

Save the Children: 1,2 milioni di bambini ancora in povertà assoluta

Da: Save the Children

Infanzia, Save the Children: 1,2 milioni di bambini ancora in povertà assoluta sono la vera emergenza del Paese. Indispensabile e urgente un piano nazionale per contrastarla

“Un milione e duecentomila bambini in Italia vivono ancora in povertà assoluta e questa è la vera emergenza del Paese che non può più essere ignorata. I dati Istat confermano la triste realtà che vediamo ogni giorno nei nostri interventi in Italia: la povertà minorile rappresenta una piaga diffusa che affligge il presente e il futuro dei bambini e delle bambine in tutto il Paese e in modo particolare in quei luoghi dove minori sono le opportunità di crescita e di sviluppo. È sempre più urgente e indispensabile che la politica lavori a un piano nazionale di contrasto alla povertà minorile che non può più essere procrastinato”. Questo il commento di Raffaela Milano, Direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children – l’Organizzazione internazionale che da 100 anni lotta per salvare i bambini a rischio e garantire loro un futuro – in relazione ai nuovi dati sulla povertà diffusi oggi dall’Istat.

Più di 1,2 milioni di minori, nel nostro Paese – rilevano i dati Istat – oggi vivono in condizioni di povertà assoluta, pari al 12,6% del totale dei bambini, con un’incidenza in aumento di mezzo punto percentuale rispetto al 2017 (12,1%) e che si traduce in 52 mila minori in più, rispetto allo scorso anno, che vivono senza l’indispensabile per una vita quotidiana dignitosa.

Una piaga, quella della povertà, che colpisce in particolar modo proprio le famiglie con figli minorenni. “Parliamo di 725 mila famiglie con minori che vivono in povertà assoluta e per le quali gli interventi di contrasto alla povertà non hanno avuto l’efficacia desiderata. Ad essere maggiormente colpiti, in particolare, sono i nuclei monogenitoriali: di questi, infatti, quasi 1 su 6 è in povertà assoluta, con un aumento di 5 punti percentuali tra il 2017 e il 2018”, ha proseguito Raffaela Milano.

“La povertà materiale si associa alla povertà educativa che blocca sul nascere le prospettive di crescita dei bambini e il loro futuro. In questo modo, va avanti la catena intergenerazionale della povertà. Questi dati non possono passare sotto silenzio. È quindi indispensabile un impegno straordinario per garantire a tutti i bambini e alle bambine le opportunità di crescita e di sviluppo alle quali hanno diritto, attraverso un intervento deciso di contrasto alla povertà minorile che incida su più ambiti: la povertà materiale delle famiglie, l’accesso alla istruzione fin dalla prima infanzia, la cura della salute, lo sviluppo di opportunità educative e culturali nei territori più colpiti”, ha concluso Raffaela Milano.

Da: Save the Children

I minibot spiegati in modo chiaro

Per comprendere i minibot è necessario comprendere ciò che viene prima.
Un’economia è la somma delle transazioni che la costituiscono. Una transazione non è altro che uno scambio di merce o servizio all’interno di un sistema economico.
Le transazioni avvengono all’interno di un determinato mercato e poiché esistono diversi tipi di mercato (ad esempio frutta, azioni o valute vengono scambiati all’interno dei loro rispettivi mercati) è la loro somma che costituisce l’economia.
Ad effettuare le transazioni sono i cittadini e le imprese oppure le banche e lo Stato. Tutti scambiano, i cittadini comprano scarpe dal calzolaio ma anche lo Stato compra anfibi per le sue Forze Armate. Le banche comprano scrivanie per i loro impiegati e vendono consulenze allo Stato. I cittadini sono impiegati dalle imprese, dalle banche e dallo Stato e da essi ricevono uno stipendio oppure acquistano dei servizi. Tutto avviene all’interno del sistema economico, viene conteggiato sotto il nome di Prodotto Interno Lordo e questo viene poi messo in relazione al debito pubblico dello Stato.
Per convenzione si è deciso qualche millennio fa di effettuare questi scambi, queste transazioni, utilizzando un mezzo denominato moneta.
La moneta più vicina alla nostra comprensione è il biglietto da 5 fino a quello da 500 euro oppure le monete in circolazione che vanno da 1 cent. a 2 euro. Quando invece paghiamo la camicia nuova con il bancomat stiamo utilizzando il nostro conto corrente, moneta elettronica insomma. Attraverso un sistema di compensazione il nostro conto corrente diminuirà di 100 euro mentre quello del negoziante aumenterà dello stesso importo.
Del primo tipo di moneta, cartaceo e metallico, ne viene emesso davvero poco rispetto all’economia in cui viene immesso, ed è autorizzato a farlo solo una Banca Centrale.

Come si può vedere dal grafico (fonte Banca d’Italia) in questo momento ne abbiamo in circolazione poco più di 181 miliardi. Somma che è conteggiata come passivo e quindi debito pubblico. Per intenderci, il debito dello Stato italiano ammonta a 2.315 miliardi comprensivo della moneta cartacea e metallica di cui sopra. Se togliessimo dalla circolazione quei soldi il debito pubblico scenderebbe di 181 miliardi portando il suo rapporto con il Pil al 123%, più o meno.
Chiaramente si potrebbe anche pensare di non toglierli dalla circolazione ma, per esempio, restituirle alla Bce e decidere di immettere nel nostro sistema economico la stessa cifra senza però conteggiarla come debito, magari seguendo le orme delle 500 lire create qualche decennio fa da Aldo Moro. Ma questo non è possibile perché l’emissione di moneta a “corso forzoso” oggi può farla solo la Bce. A corso forzoso vuol dire che una volta emessa tutti i cittadini devono accettarla in pagamento delle obbligazioni che sono insite in ogni transazione. Pago 1 euro per estinguere l’obbligazione contratta quando ho chiesto il quotidiano all’edicolante.
Riepilogando, fino ad adesso abbiamo individuato due tipi di moneta utile per le transazioni e quindi per tenere in piedi l’economia: quella della Bce e quella elettronica che si muove attraverso il sistema bancario delle compensazioni.
La parte più importante dell’economia è costituita da una terza forma di moneta: il credito.
Il credito compare quando si ha voglia di comprare qualcosa che normalmente non potremmo permetterci tipo una casa, un’auto o una ristrutturazione dell’appartamento. Si chiede un prestito ad una banca che eroga appunto quella forma di moneta che si chiama credito e che quando arriva al richiedente diventa debito.
Questa transazione, richiesta credito, si chiude alla restituzione del prestito più gli interessi. Nel frattempo quel credito permette al debitore di effettuare un certo numero di transazioni e ogni volta che lui spende crea un reddito per chi gli avrà venduto qualcosa. Il credito, quindi, permette di muovere l’economia, permette le transazioni. Permette che queste continuino e non si fermino causando una crisi (economica).
La somma di tutti i crediti delle banche diventa sostanzialmente l’ammontare complessivo del debito privato dei cittadini e delle imprese.
In ogni caso quando una persona, o un soggetto qualsiasi, all’interno del sistema economico di riferimento, spende, questa spesa diventa reddito per qualcun altro.
Il credito è dunque creato dalle banche che, se lasciate a se stesse o al mercato e ai cicli economici, lo faranno in funzione dei propri interessi e solo quando l’economia va bene. Questo per assicurarsi di rientrare di quanto emesso e relativi interessi, il che non è sbagliato ovviamente.
Quando il ciclo è positivo, è soprattutto il credito ad oliare il circuito e a farlo scorrere regolare, le transazioni avvengono e la produttività generale cresce. Alcuni vendono e altri acquistano. Alcuni producono e altri usufruiscono volentieri di quanto prodotto.
È importante dunque che le persone spendano, che abbiano abbastanza moneta in tasca o in banca o sotto il materasso per poterla utilizzare, perché il fine è far girare l’economia, non la moneta utilizzata per farla girare. La spesa di qualcuno diventa reddito per altri che a loro volta potranno spendere ed acquistare alimentando positivamente il ciclo. Fino a quando l’olio finisce o scarseggia e la macchina si inceppa, ovvero fino a quando si entra in un ciclo economico negativo (crisi economica).
Spero a questo punto di aver chiarito alcuni aspetti della faccenda, ovvero: l’economia si basa sugli scambi, per fare gli scambi in un sistema economico basato sulla moneta è fondamentale avere… moneta. Tutta la moneta che viene fornita ai cittadini è a debito, crea debito pubblico oppure debito privato. Comunque crea debito. E per avere moneta qualcuno la deve fornire, magari con regolarità, oppure preoccuparsi di controllare che il flusso sia regolare.
Poi abbiamo compreso che la moneta esiste sotto varie forme e che tutte quelle attuali sono debito ma anche reddito e che tutte servono allo stesso scopo: permettere gli scambi. Inoltre, che i cittadini e le imprese non possono creare moneta ma solo spostarla.
Io spererei che avessimo chiarito implicitamente anche un altro aspetto: la moneta non ha un valore in sé ma serve in funzione di qualcosa, ha uno scopo che è quello di far girare l’economia. E che l’economia è la somma delle transazioni che avvengono in un determinato sistema economico, cioè le transazioni determinano il Pil di una Nazione.
E ai più attenti non sarà sfuggito che il fine ultimo di tutti queste parole che ho scritto è per dimostrare che ciò di cui un popolo necessita è la produttività generale del sistema, cioè produrre beni e servizi da potersi poi scambiare, perché ognuno di noi non è autosufficiente. Il fine non è la moneta, il mezzo di pagamento, ma la possibilità di avere accesso a beni e servizi prodotti. Di poterseli scambiare.
Se riusciamo ad avere un punto di partenza accettato da tutti, cioè se riusciamo ad essere semplicemente logici, allora possiamo passare al punto successivo e che ci riporta al titolo di questo articolo: i minibot.
Non è importante se i minibot creino debito pubblico o meno, perché non è la domanda giusta da porsi. L’importante è uscire dalla crisi economica e quindi fornire ai cittadini un mezzo che possa far riprendere gli scambi. Un mezzo che possa rendere accessibile i beni prodotti a chi li vorrebbe acquistare. Se si accettasse semplicemente il presupposto dei minibot poi si potrebbero sviluppare i Certificati di Credito Fiscale, se dovessero piacere di più. Oppure tante monete complementari secondo gli insegnamenti dell’economista belga Bernard Lietaer. Ma anche sviluppare un sistema completamente nuovo e proposto addirittura dal Pd o da Forza Italia.
Oggi il problema non sono i minibot, ed è totalmente inutile andare ad analizzare se possano creare debito o meno oppure se siano simili ai soldi del monopoli, come dice qualcuno. Perché qualsiasi moneta è tale se viene accettata come pagamento, come diceva l’economista Nando Ioppolo. Ma se devo preservarmi la possibilità di poterla utilizzare a mia volta, allora deve essere lo Stato a darle validità. Quindi la deve accettare in pagamento delle tasse, cosa che in questo caso sarebbe garantito. E se lo Stato accettasse in pagamento delle tasse i soldi del monopoli allora anche questi sarebbero buoni per acquistare le scarpe o la frutta.
Sarebbe invece carta straccia la banconota firmata da Draghi se non fosse garantita dallo Stato. Ricordate quando con i gettoni telefonici ci si poteva comprare il gelato? Succedeva perché poi le persone li accettavano come resto, e perché tutti, prima o poi, entravamo in una cabina telefonica per telefonare ridandoli alla Sip (Società Italiana Per le Telecomunicazioni).
Creano debito? Crea debito pubblico la moneta emessa da Draghi, eppure non ci poniamo il problema. E creano debito tutte le monete che devono essere restituite a qualcuno ma non abbiamo mai pensato di farle emettere direttamente dallo Stato. Ci sono debiti che accettiamo e altri che rifiutiamo, chiediamoci il perché e rivediamo le nostre priorità. Magari la nuova scoperta ci piacerà.
Come scrive l’economista Marco Cattaneo, “Sì, i minibot possono creare debito.”
“Ma non secondo Maastricht Debt,” continua, “che è l’unico rilevatore per i parametri di controllo presi in considerazione nell’ambito dell’Eurozona.”
Lo creerebbero per perdita di gettito fiscale se chi lo ricevesse lo utilizzasse immediatamente per pagarci le tasse, ma a questo punto lo Stato lo potrebbe cedere ad altri per tentare di far partire il ciclo.
Di sicuro non sono illegali perché circolerebbero su base volontaria aggirando i vincoli della Bce.
Ma se solo la Bce può creare moneta, se gli Stati devono attenersi scrupolosamente ai parametri europei e se le banche devono essere libere di creare credito allora vuol dire che non si può oliare il circuito economico e quindi permettere all’economia di risollevarsi attraverso l’aumento delle transazioni. Quindi si sta legalizzando la crisi economica e rendendo illegale cercare vie d’uscita. Ed è questo che dovrebbe sembrare pazzesco, di questo si dovrebbe parlare.
Smettiamo di chiederci se i minibot creano debito o se sono moneta. Sono discorsi inutili e non portano a niente se non alla confusione e all’inasprimento dei rapporti sociali. Chiediamoci piuttosto se vogliamo uscire o meno dalla crisi.
E se qualcuno pensa che si possa farlo senza un intervento degli stati e delle banche centrali allora ci sta prendendo in giro. Perché è vero che potremmo farlo. Seguendo la strada indicata dai mercati, dallo spread e dalla finanza: l’austerity e i sacrifici (nostri). Possiamo continuare a vivere immersi in cicli economici altalenanti e distruttivi e soprattutto continuare a spostare sempre più ricchezza reale dalla maggioranza dei cittadini ad uno sparuto gruppo che muove i fili e ci dà in pasto argomenti come: i minibot creano debito?
Potremmo… ma vogliamo veramente farlo?

PER CERTI VERSI
Di Anna, Enrico e d’altre memorie

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’.

ANNA FRANK

Vi scongiuro
non rilascio interviste
a novant’anni
faccio fatica
a fare la bisnonna
e nonostante tutte
le tecnologie
i fili e i satelliti
non arrivano di là dal cielo
lo so che parlano di me
sono in tanti
che ringrazio
mi chiedono perché il male si ripeta
non si guarisce mai
dal male fatto
e patito
gli uomini hanno dentro di loro
le stelle
per meravigliarsi
o per usare il loro fuoco
per mandare in fumo la storia e le vite
di altri uomini
con truce e fulgida
alternanza
non chiedetemi perché
ho novant’anni
faccio fatica a fare la bisnonna
e niente funziona bene
di là dal cielo

LAKOTA

Era la memoria del popolo Sioux
Me lo hai detto tu caro amico
O dei Dakota dei Lakota
Dei loro bambini
Scomparsi come una nuvola nel cielo rosso
Di gelo e sangue
Poi nevicava
Ma non era Dio che la mandava
Dio era assente
C’erano solo bambini indiani
E camicie blu
Sì i soldati blu
Con le loro mani madide di morte
Nuvola Rossa Alce Nero Toro Seduto
No lui non c’era non c’era più
Il cuore sepolto come gli altri a caccia mentre i soldati blu falciavano gli indifesi per una guerra alle spalle
Vigliacca e decorata di merda e feccia gialla come piscio
A Washington
Loro non chiedono mai scusa
La storia però non è chiusa
Vivono ancora i Lakota fieri discendenti
Nelle riserve
Della memoria
Della vita
Della loro arte
Di oggi e di ieri

ENRICO BERLINGUER

Prima veniva il noi
Prima dell’io
L’ombrello della Nato
Piuttosto che Mosca
La questione morale
Intuita e già fosca dentro ai partiti
Pensando ad oggi come sono finiti
Statista vero
E uomo di stato
Il socialismo dal volto umano
Come una stretta di mano
Uomo del dialogo
Della solidarietà nazionale
Nobile d’animo
Figura universale
Una persona perbene
Amato dal popolo
un milione di persone gli dissero addio
Morto sul palco
Morto di politica
Pertini la sua bara baciò
trentacinque anni or sono
Berlinguer Enrico
Uomo antico
Fermo e mite
Se ne andò

Le ragioni della sconfitta? Autoreferenzialità ed equivoci su buon governo e diritti

Nei commenti di questi giorni a proposito della sconfitta del centro-sinistra e, segnatamente, del Pd, nella tornata elettorale amministrativa nella nostra città, è ormai diventato un ritornello quello di individuare la responsabilità primaria nell’opzione di continuità politica e programmatica rappresentata dalla scelta di aver candidato a sindaco Aldo Modonesi e nell’atteggiamento di “arroccamento” del Pd locale. Tutto ciò è senz’altro vero e indica gravi errori di impostazione della vicenda elettorale da parte del Pd ferrarese, cui è necessario che seguano coerenti interventi. Ritengo però quest’analisi un po’ troppo sommaria, con il rischio che essa finisca persino quasi auto assolutoria per troppi. Intendo dire che, forzando solo un poco questo ragionamento, si potrebbe arrivare alla conclusione che, se si fosse avanzata la proposta di un candidato “civico” sostenuto dal Pd, ciò sarebbe stato da solo in grado di produrre un altro risultato oppure che, oggi, il pur indispensabile azzeramento e ricambio dei vertici locali del Pd sortirebbe di per sé un effetto risolutivo rispetto ai problemi aperti. In realtà, a me pare che la scelta di continuità operata dal Pd ferrarese anche in quest’ultima vicenda elettorale non sia altro che la “punta di un iceberg” di questioni ben più profonde e che datano da non poco tempo. Infatti, se, da una parte, è evidente che il voto amministrativo nei Comuni discende sia da elementi di contesto nazionale che da specificità locali, dall’altra, non c’è dubbio che, in una fase di forte mobilità del voto e di frammentazione sociale e politica in particolare nel campo del centro-sinistra e della sinistra, queste ultime acquistano particolare rilevanza. Detto in altri termini, se il Pd paga fortemente gli errori del renzismo e della stessa nuova stagione a guida Zingaretti che non riesce a distaccarsi sufficientemente da esso, quelli che l’hanno portato a separarsi da una parte molto significativa dal “popolo della sinistra”, è altrettanto chiaro che, a livello locale, sempre dal Pd, sono state avanzate ipotesi politiche e di governo che non si discostavano da quell’impostazione e che, in un contesto economico e sociale non semplice come quello ferrarese, hanno rappresentato ulteriori ragioni per alimentare il distacco con le persone che storicamente sono state rappresentate dalla sinistra, a partire dai settori più deboli e fragili della società.

Vale la pena, allora, indagare alcune di queste ragioni. Lo faccio in modo certamente incompleto e in termini esemplificativi ma, spero, sufficientemente chiaro, anche a costo di essere un po’ schematico. Il primo tema riguarda le politiche economiche, sociali e di bilancio realizzate in tutti gli anni dei mandati del sindaco Tagliani dal 2009 ad oggi, di cui peraltro sono stati artefici anche esponenti – penso ad esempio a Marattin – oggi tra i più impegnati a prendere le distanze dalle scelte del Pd ferrarese.

Intanto, penso si possa dire che, in questi anni di crisi economica e sociale, la ricetta del “buon governo”, gravata anche da forti vincoli nazionali, ha assunto come priorità anche a Ferrara la riduzione del debito, sacrificando ad essa la spesa del lavoro pubblico, che è stata presentata come costo e non come risorsa che produce servizi, e la stessa spesa sociale, che pur non riducendosi in termini significativi, ha finito tuttavia per risultare insufficiente rispetto alle povertà, vecchie e nuove, che la crisi produceva. Tutto ciò, oscillando, tra l’altro, tra rappresentazioni ottimistiche – la crisi è alle nostre spalle – e asserzioni “rinunciatarie” – le risorse sono scarse, non possiamo più permetterci le tutele e le protezioni precedenti – ha ulteriormente rafforzato l’effetto di rendere più vulnerabili, e anche più sole, le fasce di reddito medio-basse.

Una seconda fondamentale questione è quella relativa al discorso sulla sicurezza e al legame improprio costruito con l’immigrazione, in particolare quella extracomunitaria. Qui, da parte di chi ha governato la città in quest’ultimo decennio, dapprima – e anche giustamente- si è voluto contrastare un’idea per cui Ferrara o almeno una sua parte era strumentalmente diventata “città invivibile e sotto assedio”, per poi, però, successivamente, dimostrarsi subalterni ad una lettura per cui essa andava affrontata prevalentemente come problema di ordine pubblico. Non si è costruita una “narrazione” alternativa e tantomeno politiche efficaci di legalità, accoglienza e inclusione, che fossero contemporaneamente capaci di produrre contrasto alla criminalità, rigenerazione del territorio e creazione di dialogo interetnico e interculturale. Lasciando spazio ad una “narrazione” di stampo sostanzialmente razzista e xenofoba, quella del “prima gli italiani”, su cui il populismo estremista di destra sta costruendo un egemonia culturale anche nei ceti sociali deboli. Che, non a caso, ha anch’essa come substrato l’idea che, in una situazione di “scarsità delle risorse”, non è possibile ragionare sul rispetto e l’estensione di diritti universali, ma qualcuno, necessariamente, starà indietro e, in questo caso, meglio gli ultimi che i penultimi.

Infine, terzo punto che merita una riflessione, e che ha a che fare con l’impostazione politica di fondo che il centro-sinistra ha messo in campo anche a Ferrara, è quello dell’autoreferenzialità del Pd e dell’Amministrazione comunale di questi ultimi anni, che, proprio per essere messo in discussione, va vista come corollario di una lettura sbagliata della società e delle sue dinamiche dentro la crisi. Detto in altri termini, è evidente che quando si usano lenti che non sanno cogliere i processi e le trasformazioni in atto e questi vanno in una direzione diversa da quanto si supponeva, ciò che mette in discussione dall’esterno le  certezze consolidate (e questo è valso non solo per il Pd, ma anche per settori della sinistra cosiddetta “radicale”, in specie quella di derivazione partitica) viene percepito come potenzialmente minaccioso, le critiche vengono vissute come attacchi strumentali e la partecipazione diffusa viene, nella migliore delle ipotesi, confinata e ricondotta lungo percorsi predefiniti.

Ho ben presente che già la sostanza del ragionamento che ho avanzato indica che risalire la china non sarà compito agevole e di breve durata. Non solo perché dobbiamo aspettarci che la nuova Amministrazione a trazione leghista, al di là di quello che potrà essere un “buonismo” di facciata, non potrà, come del resto succede a livello nazionale, che mettere insieme l’ incapacità di risolvere i problemi di fondo della città (imputati ovviamente ad altri) al fatto di fare strame di diritti umani fondamentali e produrre ulteriori regressioni sul piano culturale. Non solo perché le questioni da affrontare, a partire dai punti di criticità che ho sollevato, sono impegnative e necessitano di risposte complesse, non tutte risolvibili solo a livello locale. Soprattutto perché, se sono almeno parzialmente vere le considerazioni che ho avanzato, ciò significa predisporsi  ad un lavoro importante sul piano culturale, su quello sociale e su quello politico. Non si tornerà ad essere egemoni se non si lavorerà con un progetto sufficientemente definito sull’insieme di questi piani.

Ciò a me pare implichi almeno due terreni di impegno, da far vivere entrambi: un nuovo pensiero, che progressivamente faccia emergere un progetto rinnovato per la Ferrara degli anni a venire, ripartendo e potenziando il lavoro con cui diversi soggetti si sono cimentati anche nella vicenda elettorale (ho in mente, per esempio, i punti programmatici che Il battito della città, La città che vogliamo e Addizione civica avevano condiviso a suo tempo), e una nuova pratica, prima di tutto sociale. Che metta insieme su decisive questioni di scontro culturale e politico, a partire dall’antirazzismo e dall’antifascismo, le tante realtà che sono presenti in città e che possono convergere su contenuti condivisi e precisi, superando le spinte alla frammentazione e le tentazioni della primogenitura. Ma di questo, se il dibattito continuerà, si potrà tornare a parlare in modo più approfondito.

Il neoliberismo non è la fine della storia, serve un’uguaglianza sostenibile

Ottimo consiglio quello di Giangi Franz, lanciato via social, di leggere l’intervista di Fabrizio Barca a Gea Scancarello e pubblicata su Business Insider Italia. L’incipit è già un programma: “Oggi la sinistra è più moderata dei liberali: mancano i valori e una classe dirigente capace”. Un titolo che sembra cadere a fagiolo su un dibattito aperto anche a Ferrara, all’indomani dello storico risultato del ballottaggio alle elezioni amministrative di domenica 9 giugno.

Giuro che ignoravo quest’analisi quando ho scritto il pezzo che Ferraraitalia ha pubblicato con il titolo: “Voto e discernimento: strumenti democratici contro l’internazionale sovranista”, ma conforta verificare che la ben più autorevole lettura della realtà dell’ex ministro per la coesione territoriale del governo Monti, non fa sembrare frutto di allucinazioni le righe che ho messo in fila lo scorso 7 giugno. “Quando si raggiungono certi livelli di disuguaglianze e il malessere è così diffuso – dice Barca – l’idea stessa del capitalismo non può reggere, perché il capitalismo dà il meglio di sé quando è stimolato dalla riduzione delle disuguaglianze”.

A scanso di equivoci, il cofondatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, è perfettamente consapevole che “il capitalismo è sfruttamento per definizione”, ma subito dopo aggiunge che “è questione di bilanciamenti”. È l’antico adagio socialdemocratico del tosare la pecora. Se quindi da decenni si sono prodotte disuguaglianze mai viste prima è perché “sono state fatte scelte politiche sbagliate”. Anziché tosarla, la pecora è stata pettinata.

E qui arriviamo al cuore delle critiche mosse alla sinistra. “La prima è culturale: 30 anni fa, non ieri, molti partiti socialdemocratici – afferma – hanno comprato l’ideologia del “Non c’è alternativa: il capitalismo è uno solo” e se si pensa che non ci siano più i margini per lavorare sui meccanismi di formazione della ricchezza, non lo faccio; non per interesse ma perché mancano i valori”. La seconda è rivolta alle classi dirigenti: “quelle venute su in questi 30 anni sono state selezionate su questo credo, senza più la convinzione di un cambiamento che toccasse i sentimenti delle persone”. Di questo passo i partiti sono diventati “non valoriali”, quasi ossessionati dalla “mitologia del centro”, del “bisogna governare”, dei governi del fare, lasciando stare le visioni. Se si concorda che il ragionamento fila, si può osare un passo avanti.

Si discute, comprensibilmente, di ripartire in casa Pd dopo la caduta di Ferrara, con un dibattito già nelle prime battute plurale di posizioni, opinioni, riflessioni e analisi. Ora, se la questione di fondo è di uscire dallo schema “Non c’è alternativa”, per mettere al centro la necessità di un riequilibrio del sistema capitalista che così com’è non sta in piedi, per la stessa logica capitalista, allora parrebbe logico pensare di trovare un rilancio sfatando quella che Barca chiama la “mitologia del centro”, per riabitare, innanzitutto culturalmente, lo spazio che Bobbio definì quello naturale per la sinistra: l’uguaglianza. Vale a dire quel concetto che sottende un retroterra valoriale, che in questa lunga fase storica è stato svuotato da una drammatica e insostenibile situazione di disuguaglianza e di suicida concentrazione di ricchezza.
Per non parlare della spaventosa concentrazione di potere per il mancato governo dello sviluppo tecnologico e in particolare di internet, che fa dire ad Alex Zanotelli intervistato da Ferraraitalia: “Attraverso i nostri smartphone sanno tutto di noi, ci spiano di continuo. Quelle informazioni sono oro, chi le possiede comanda il tavolo. È ridicolo e grottesco che poi ci riempiono di moduli da firmare a garanzia della privacy”.

Quello di Barca non pare essere il solito appello per una sinistra di testimonianza, dei pochi ma buoni, perché dall’alto della sua osservazione registra che “c’è un pezzo del mondo del business, rappresentato dall’Economist, cioè un giornale liberale, che dice apertamente che così non si può reggere e sta dicendo che è tempo di accettare cambiamenti significativi”. E prosegue citando come esempio concreto l’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria sulla “necessità di una partecipazione strategica attiva dei lavoratori nelle aziende”, perché “bisogna ridare al lavoro una parola significativa nelle scelte strategiche imprenditoriali”.
Ci sarebbe – così afferma – anche parte del mondo imprenditoriale “che non vuole un mondo autoritario, che ha incassato i benefici di un brutto mondo e adesso si accorge della degenerazione”.
Un segnale che si aggiunge in questa direzione è il documento prodotto dal gruppo socialdemocratico europeo intitolato “Uguaglianza sostenibile”, presentato a Bruxelles il 27 novembre 2018. Fabrizio Barca è inoltre cofondatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, impegnato a studiare e proporre soluzioni concrete che restituiscano senso ai concetti di uguaglianza, pari opportunità e dignità del lavoro, garantiti dalla Costituzione.

Una sfida, quella di uscire dal vicolo cieco neoliberista del “Non c’è alternativa”, che si gioca sul piano europeo, ma che non vede completamente disarmati i contesti nazionale e persino locale, tanto che Barca si dice sicuro che “ogni livello ha spazi di manovra: chi dice il contrario semplicemente non vuole cambiare”. Anche il tempo per aprire questi nuovi fronti ci sarebbe e non pare neppure consegnato a un futuro indistinto: “un arco di tempo di tre, cinque anni”, se ci fosse la volontà delle “forze più avanzate della produzione, del mondo del lavoro e della cittadinanza attiva” di costruire nelle città “piattaforme aperte, collettive, tecnologiche e trasparenti”, di avviare “consigli di lavoro e cittadinanza” e di “sperimentare una strategia sulle periferie”. Un insieme di azioni “che farebbe la differenza e costruirebbe un’alternativa, che diverrebbe poi anche un’alternativa elettorale”.

Senza sapere leggere né scrivere, io un orecchio lo presterei a queste proposte, studiandoci sopra e magari invitando anche gente così a un congresso o a un convegno, giusto per avere un’idea di come ripartire dopo una sconfitta, si dice, non qualunque. Altrimenti occorre prepararsi a “una spirale di meno libertà, meno crescita e più disuguaglianza – è la conclusione – in cui vince il peggio del nostro paese, non il meglio”.

L’Eremo di Camaldoli: fuori dal tempo… per trovare un nuovo tempo

La mia recente esperienza, limitata a qualche giorno, all’interno di un monastero dalla tradizione millenaria, l’Eremo di Camaldoli, cercando di vivere il quotidiano ‘nella prossimità‘ della vita monastica potrebbe apparire a prima vista anacronistica per quella parte di donne e di uomini che mai l’hanno vissuta. È un percorso che non appartiene in generale alle persone, me compreso, che vivono la contemporaneità troppo spesso distratte dalla velocità delle proprie azioni e che non si accorgono, se non tardi, dello scorrere rapidissimo del tempo e di ciò che ci lasciamo di prezioso della Vita irrimediabilmente alle spalle.

All’inizio del Millennio precedente, ma ancora secoli prima, una certa nobiltà si rifugiava nei monasteri per obbligo o per necessità, mentre ora il sentire comune, alimentato dai media di ogni ordine e grado, giudica l’estraniarsi dalla roboante società che ci circonda un esercizio corroborante per la mente e per lo spirito.
Se escludiamo le sincere vocazioni, l’esperienza viene generalmente intrapresa da diverse categorie di esseri umani di vita laica: imprenditori e alti manager dell’industria afflitti nel profondo dallo stress da frenesia di obiettivi o da politici presi da sincera autocritica o da persone comuni attratte all’interno delle mura del monastero dal dubbio esistenziale circa la possibilità di un distacco dall’incombente quotidiano in un diverso equilibrio di vita basato sul silenzio e, perché no, sulla meditazione. Oppure, come il sottoscritto, interessato alla celebre e antica biblioteca dell’Eremo, fondata nell’XI secolo e ampliata nel Cinquecento, ricca di migliaia di preziosi manoscritti, cinquecentine, incunaboli e alla conoscenza del secolare quotidiano dei monaci, utile per un mio lavoro di scrittura in preparazione, ma poi presto coinvolto emotivamente nel temerario tentativo di comprendere il mistero che da circa due millenni motiva donne e uomini a pregare per la salvezza di altre donne e uomini.

Il Sacro Eremo di Camaldoli è stato ‘il mio quotidiano’ per alcuni giorni. Lo si raggiunge dopo circa quaranta minuti di auto uscendo dalla E45 a Bagno di Romagna con direzione Passo dei Mandrioli. Le alte e aride rocce stratificate della prima parte del percorso si trasformano percorrendo la strada tortuosa in pochi attimi in un bosco continuo denso di alberi ad alto fusto fra i quali si intravedono all’ultimo istante, e prima di un pianoro, le alte mura di sasso e malta che cingono le costruzioni monastiche.
Fondato a metà dell’XI secolo da San Romualdo a 1200 metri di altitudine in un’area isolata, di grande emotività, fra i boschi secolari del Casentino che lo hanno protetto come un confine naturale, il complesso dell’Eremo è circondato da mura che si elevano per oltre tre metri e abbracciano la foresteria, la chiesa, l’orto dalle piante officinali e, all’interno di un’area non accessibile ai visitatori, le tante singole cellette che ospitano i monaci di clausura.
Nei suoi quasi mille anni di storia l’Eremo ha ospitato i pellegrini in viaggio verso la Terrasanta e ha conservato immutato per i fedeli più ferventi lo status di luogo di preghiera e di meditazione. Per il sottoscritto, un laico, un luogo di grande fascino, attrazione interiore, misticità e anche curiosità.
Un tempo forse troppo limitato di permanenza il mio, ma l’ho deciso in funzione del mio crescente dubbio di non riuscire a resistere dentro un modello di vita che per certo volevo indagare e conoscere meglio, ma che avevo solamente appreso nei libri letti sul tema storico-politico del monachesimo medievale e dalle informazioni fatte circolare da chi con probabilità ne aveva solamente sentito parlare.

La vita monastica occidentale, eremitica o di comunità nel cenobio, pur nei secoli declinata dai diversi ordini è ancora riferibile alla Regola di San Benedetto, scritta a Montecassino dal santo nel VI secolo d.C. La prima stesura poneva forti limitazioni nella vita quotidiana ai monaci quali la povertà, la castità, l’obbedienza. Tutta la vita si svolgeva all’interno del monastero e, in larga parte, ancora si svolge nella preghiera e nella meditazione per la salvezza degli uomini e, nel passato, nel lavoro interno all’orto e nelle attività collegate che per alcuni ordini rappresentavano la fonte di sostentamento: “ora et labora”. Le attività lavorative si sviluppavano poi anche all’esterno grazie alla popolazione contadina e alle risorse e ai frutti che nei secoli si erano resi disponibili al monastero in ragione le consistenti donazioni di terreni e immobili da parte di nobili o proprietari terrieri locali.

Il lato forse meno conosciuto del monachesimo medievale, e certamente di valenza più terrena, fu l’influenza che famosi abati, il più noto l’Abate Bernardo poi diventato San Bernardo di Clairvaux, esercitarono a partire dall’ XI fino al XIV secolo su papi, re e imperatori. Fu decisivo il loro ruolo giocato nell’epopea delle Crociate in Terrasanta, dall’epica liberazione di Gerusalemme nel 1099 nella prima crociata e nelle successive, e in seguito la presenza si rafforzò con la filiazione delle abbazie in Europa e oltre e con il controverso clamore ottenuto con gli ordini dei monaci guerrieri/cavalieri fra cui il più famoso il potente ordine dei Cavalieri Templari.

La Storia si evolve. Oggi all’interno delle mura l’ambiente della foresteria camaldolese nel quale ero ospitato mantiene i caratteri invalicabili dell’estremo silenzio utile a ripercorrere, nei momenti del quotidiano riposo combinato alla mancanza di ‘connessione’, i cardini della nostra esistenza, il dolore, l’amore, la speranza, la gioia o le profonde amarezze della vita. Questi pensieri venivano bruscamente interrotti dal violento suono delle campane che nei secoli hanno scandito, e ancora oggi scandiscono e organizzano, la giornata dei monaci.
Nel nostro contemporaneo, cosi come nel Medioevo, i momenti della preghiera dei monaci sono regolati con il primo forte scampanio di possenti campane per le preghiere prestissimo il mattino quando ancora è buio. Le Lodi e poi attraverso l’ora sesta, la nona, il Vespro fino alla serale Compieta, verso le 20, che conclude la giornata monastica dedicata alla preghiera per monaci e laici all’interno delle abbazie, ma che secoli orsono gestiva anche la vita lavorativa nei campi dei contadini e degli abitanti dei villaggi non impegnati, come tutti noi oggi con continuità, alla schiavitù (ora irrinunciabile) del telefono portatile o delle conferenze via Skype.
Un mondo monastico quello dell’Eremo di Camaldoli oggi aperto all’esterno con monaci, quelli di Comunità, che insegnano nelle Università, vicini e sempre disponibili al dialogo con le persone ospitate, ma che all’interno delle alte mura di sasso ha conservato nei secoli i principi fondanti originari, declinati in parte alla vita contemporanea ma protetto per i credenti e per i monaci da un filtro antico che è quello della fede e della preghiera.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Alfabeto di sguardi, le parole silenti

Sguardi fugaci e muti mentre si aspetta il treno possono essere la metafora di una voglia di evasione, un tentativo di seduzione, ma anche di una incomunicabilità che non trova parole.

N: In attesa del treno, uomini e donne in attesa del treno. Peccato sia chiaro, guardando anche distrattamente, chi è maschio e chi è femmina; almeno nella grande maggioranza dei casi. Sarebbe divertente mascherare tutti, uomini e donne, con un analogo burkini nero, che lasci scoperti solo centimetri di pelle, per giocare a individuare chi è maschio e chi è femmina solo dall’atteggiamento.
Vedresti individui che lasciano passare altri individui e concentrano lo sguardo su di loro solo dopo che sono passati: e lo sguardo si posa, come uno scanner, prima sui piedi, poi sale lungo le gambe, indugia sul sedere come a soppesare mentalmente una fulminea equazione, infine risale fino alla testa, non prima di una ulteriore tappa intermedia di tre quarti.
Vedresti altri individui che, invece, ti catturano con un’occhiata fugace, fulminea, lunga quella frazione di secondo in più che non ti lascia scampo: o capisci tutto lì o non capisci niente, e non ti sarà data un’altra possibilità.

R: Sulla banchina del treno o dove vuoi tu, se non capisci in quel momento, non lo capirai mai. Un po’ manicheo, ma è così. Prova a pensare a qualcosa di importante che tu non hai afferrato in un certo momento, puliscilo dal contesto in cui eravate (lo sai vero che è solo con l’altro che capita di prendere o perdere per sempre?) e fatti venire in mente tutte le volte che poi è successa la stessa cosa. Chiaramente vale anche il contrario: quando cogli lo sguardo e il messaggio, ci sei. E credo stia davvero tutto lì, centrare quell’occhiata fugace e fulminea, farla tua oppure guardare da un’altra parte, facendo finta di non avere visto.

N: A dire il vero di occhiate fugaci e fulminee ne colgo troppe per seguirle tutte. Credo che spesso siano davvero la spia di una fuga istantanea dalla propria vita, di un altrove che non verrà mai sperimentato, di un invito al quale il proprietario stesso dello sguardo si sottrarrebbe, imbarazzato o sdegnato.

R: Caro Nickname, ci piace anche giocare con l’immaginazione delle nostre possibilità: attirare l’altro, vedere quanto siamo capaci in pochissimo tempo di agganciare uno sguardo, pensare che sì potrebbe essere, ma questa banchina del treno non mi permette altro tempo e non voglio fermarmi proprio ora. Che tu sia proprietario dello sguardo o il destinatario, in stazione o a una cena con chi conosci da sempre, è un attimo decidere di non andare avanti e non fare quella domanda che potrebbe metterti su un altro binario.

Vi è mai capitato di essere in situazioni in cui uno sguardo, un gesto, una parola avrebbero deciso o cambiato il corso delle cose?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

PER CERTI VERSI
Ode inversa per Ferrara leghista

Ferrara
Che strazio
Ha perso la testa
Ha verniciato il suo cuore
Sepolto in un angolo di miseria
Gettando nel fango la memoria il prestigio di una storia ora venduta alla paura
E all’ebbrezza del vuoto
Di una cupio dissolvi
Furente e indifferente
Ha perso la testa
Verniciato il suo cuore
La pancia no
Ha trionfato
Di odio risentito
Di bieco sentore provinciale della gente bramosa di nemici
Ribollente