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Kevin Spacey e la morte del pubblico

di Lorenzo Bissi

Sono profondamente amareggiato per ciò che in questi ultimi giorni sta accadendo a Kevin Spacey. Non riporterò qui tutti i fatti e le dinamiche di come lo scandalo delle molestie sessuali nei confronti di giovani ragazzi da parte sua sia venuto fuori, ma mi limiterò a parlare e a fare una riflessione più generale. Non è questione di essere a favore o contro Kevin Spacey, qui è in discussione il valore dell’Arte stessa.
L’attore Anthony Rapp, oggi 46enne, pochi giorni fa ha dichiarato al giornale americano ‘Buzzfeed News’ di essere stato molestato sessualmente da Kevin Spacey all’età di 14 anni. Ha detto di aver trovato la forza di parlare dopo la pubblicazione delle accuse, anche in questo caso di molestie sessuali, contro Harvey Weinstein. E la caccia alle streghe si è aperta.
La conseguenza è stata che Netflix ha interrotto la serie ‘House of Cards’, in cui Spacey aveva il ruolo principale, e la International Academy of Television Arts and Sciences ha revocato l’Emmy Award che Spacey avrebbe dovuto ricevere in dicembre a New York.
Le confessioni hanno dato avvio a un processo mediatico che, per definizione, non tiene conto degli elementi del processo vero e proprio (che non mi risulta sia ancora stato avviato, semmai dovesse esserlo), ma vede l’opinione pubblica come giuria e condanna l’imputato sulla base di simpatie o antipatie. Eppure è la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo, nell’articolo 11, ad affermare che “ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo”.
Senza contare che è inutile e ipocrita revocare un premio che riguarda i risultati creativi di un attore, giudicando la sua condotta di vita e non esclusivamente le sue performance: ciò di certo non cancella il passato, né, a mio parere, manda un messaggio positivo sulla concezione di Arte. Infatti, questa scelta sembra stabilire dei criteri di giudizio nell’assegnazione del premio in cui si legano inscindibilmente ala vita di un’artista alle sue performance. Una mossa, quella della International Academy, frutto di una aderenza cieca alla imperante morale contemporanea del ‘politicamente corretto’.

Ora veniamo a ciò che più mi interessa, il concetto di Arte; per definirlo partirò da lontano.
Gli Antichi Greci, nella loro falsa democrazia, nel loro imperante maschilismo, nella loro apertamente violenta società, non si sono lasciati sfuggire una cosa: la componente di superiorità che l’Arte porta con se nelle sue manifestazioni.
Platone nel ‘Fedro’ parla di quattro divine manie: profetica, mitica, artistica ed erotica. Mi soffermerò su quella artistica. Durante questo processo, l’artista, che è un essere umano, è visto come un vaso (da cui la parola ‘invasamento’) che passivamente riceve l’ispirazione dalle Muse. Queste, spiritualmente, entrano nell’essere umano e lo utilizzano come semplice mezzo attraverso cui produrre un’opera. Il risultato è un’opera a sé stante, di natura divina, e completamente scissa dalla volontà dell’artista, figurarsi poi dalla sua vita.
L’uomo che svolge la funzione di artista è un mero strumento nelle mani della divinità e quando si approccia la sua opera, ci si mette in contatto con la divinità senza alcuna considerazione per l’autore.
Se ciò non è abbastanza convincente, o troppo ‘mitico’ e surreale, ecco un altro esempio. Come facevano in antichità a interpretare ruoli femminili nelle recitazioni teatrali, se le donne non potevano recitare? Indossavano una maschera, che in latino era detta ‘persona’.
Nel momento in cui l’attore saliva sul palcoscenico, con la maschera sul volto, era richiesta la complicità del pubblico, lo sforzo di immaginare il personaggio stesso davanti a se, e non l’attore mascherato. Mediante questo, l’attore non era più il signor Tizio Caio, ma un’altra ‘persona’, per esempio Medea, Edipo, Oreste o chiunque altro.
Dicendo ciò non voglio paragonare gli attori Greci con quelli contemporanei. Voglio sottolineare che i Greci avevano capito che la maschera, intesa come ‘persona’, aveva la funzione di legittimare chiunque si sentisse in grado di svolgere il ruolo d’attore a fare.
Questo perché anticamente l’Arte richiedeva, anche da parte del pubblico, uno sforzo immaginativo, che evidentemente al giorno d’oggi non siamo più disposti a fare. La conseguenza è la perdita dell’essenza superiore dell’Arte. E pensare che Oscar Wilde ha dato la sua vita per insegnarci che l’arte non è morale né immorale, ma va al di là del Bene e del Male, e per questo non deve essere giudicata secondo criteri etici.
Non posso fare a meno di arrabbiarmi quando sento persone che liquidano Pasolini chiamandolo “sporco pederasta”, Woody Allen “pervertito”, Lewis Carrol “pedofilo fissato con la sua piccola Alice”, o Pirandello “leccapiedi fascista”. Con questa logica Caravaggio era un assassino e Socrate probabilmente un marito violento. Ciò non toglie che le loro opere vadano al di là della loro vita, e come tali debbano essere apprezzate nella loro indipendenza. Oggi per molti non è più così, perché non si è più capaci di estrapolare l’opera dal contesto.
Qui non è questione di Kevin Spacey colpevole o innocente. Se il pubblico non è più disposto a svolgere attivamente la parte dello spettatore, viene meno tutta l’impalcatura su cui si regge la sottile esistenza dell’Arte, il piccolo segreto che l’arte è tutta finzione, capace di mettere in contatto l’artista e il suo pubblico. Da quello che si vede, ahimè, questa illusione è già stata abbandonata da tempo, e non sembra ci siano le condizioni per praticare un’Arte vera, un’Arte autentica.

DIARIO IN PUBBLICO
Le parole, la scrittura, i fatti

Attendevo nell’ambulatorio del medico il mio turno. Entra una signora accompagnata dalla figlia e sento una conversazione in dialetto che mi riporta al tempo dell’infanzia: “Dutor, a iera andada a far i fatt e a i’ ho santì un dulor, ma un dulor a la schina ca son rimasta sanza fià”. Questa era la frase, che riporto nella mia improbabilissima trascrizione. Fare i fatti, ossia sbrigare le faccende. Ma un interrogativo complesso mi assale: cosa sono le faccende? Cose da farsi, quelle che in casa vanno sbrigate? E da lì una serie inquietante di derivazioni: ‘faccendiere’ dall’ormai consueto significato socio-politico, o il suo contrario ‘sfaccendato’. Sicuramente uno dei verbi principali della nostra lingua, ‘fare’, che si coniuga in una infinità di derivazioni lessicali e sintattiche, ma che nell’ormai antico ‘fare i fatti’ dimostra quanto siano mutati la società e i suoi bisogni. Ormai i fatti, quelli di casa, non li svolge quasi più nessuno sostituiti come sono dalle macchine, dalle badanti, dalle ‘donne di servizio’ che s’adeguano malvolentieri – e giustamente – a ‘fare i fatti’. Certamente, la nipote che accompagnava l’anziana (senti chi parla!) signora non si sarebbe espressa così. Fare i fatti rimane dunque un segno del passato.

Ma se dovessimo analizzare i fatti altrui quante belle novità ci attendono. Il duello tra i giganti (!) della politica – Di Maio contro Renzi – i commenti del governatore De Luca, non quello vero che, come sanno tutti, è quello che siede nel salotto di ‘Fratelli di Crozza’, ma quello finto che risiede in Campania. L’attività dei giudici che debbono vagliare la posizione di Berlusconi, o le reazioni del maschio Salvini che sbarca al Sud, decidendo con lo sguardo umido di rimpianto di eradicare dalla Lega la parola Nord. Tutto un rincorrersi di cene, cenette, pranzetti, mentre l’avvertito Matteo da Rignano sbarca in Usa a incontrare il suo amico Barack. Che fatti!!
Frattanto nello studio della soave Gruber, sempre attenta al look, si alternano come nell’episodio di ‘Alice nel paese delle meraviglie’ i sorrisi dello Stregatto che fioriscono e lentamente si dissolvono con impressionante lentezza sui volti di Vittorio Feltri, che tuttavia riserva una inquietante somiglianza con Za la Mort, e su quello incommensurabilmente ironico di Marco Travaglio, che sembra ammonirci che solo lui è e sarà sempre detentore delle verità nascoste.

Fatti dunque non parole come ci avvertiva la politica fino a ieri, per cui rivedere oggi ‘Palombella rossa’ di Nanni Moretti, che urla senza essere ascoltato che il rispetto delle parole significa un’altra vita, ci conferma che a forza di pensare ai fatti e di fare i fatti si perde il senso e l’uso della parola soprattutto quella scritta.
Ben lo sa un grande scrittore e critico, Hans Tuzzi, che si firma anche Adriano Bon che nella presentazione dei suoi due ultimi romanzi gialli pone questo interrogativo fondamentale: che differenza c’è tra la definizione di un colore/ tema con il senso e la consapevolezza del romanzo che è altro dalla Vita eppure che dalla vita trova la necessità di esistere come Arte? Tuzzi sostiene che il dire in forma di romanzo deriva dalla sacralità delle parole legate alla rivelazione degli dèi e che già in Omero tutto è stato detto. E per prima cosa spiega cos’è una ‘coincidenza’. Scrive e afferma: “E’ difficile trasporre nel romanzo il romanzesco della realtà senza ricorrere alla formula del romanzo-verità. Paradossalmente l’Arte non consente le comode coincidenze della Vita: queste non possono essere usate nel ‘verosimile’ letterario se non si vuole essere accusati di soluzioni ‘facili’” (Hans Tuzzi, ‘Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore’, Bollati Boringhieri, 2017, p.31).
La Vita dunque propone soluzioni o coincidenze che l’Arte non può accettare salvo per farle diventare a sua volta struttura del romanzo. Nel suo bellissimo ‘Al vento dell’Oceano’ (Bollati Boringhieri , 2017) un apolide montenegrino, l’investigatore Neron Vurkcic, indaga su un triplice omicidio avvenuto su un grande transatlantico nel 1926 e per illustrare come la Vita possa diventare struttura di Romanzo, propone in una coincidenza ferrarese due esempi. Nella cassaforte del primo assassinato sono custoditi una favolosa collana di perle nere e due importanti volumi antichi. Non dimentichiamo che Tuzzi/ Bon è uno dei più importanti studiosi di bibliofilia nel mondo e che ha collaborato, chiamato da Umberto Eco a Bologna, a insegnare quella materia. Questa coincidenza tra verità del libro e indizio dell’assassinio si punta su un volume ‘realmente’ esistito: “Questo vale ancor meno”, spiegò Alice, “però ha l’impresa di Renata d’Angiò, figlia di re Luigi XII di Francia e duchessa di Ferrara: Di real sangue nata. In Christo sol Renata” (p.108).
La Vita al servizio dell’Arte.
O ancor più raffinata la citazione del pane di Ferrara per cui la nostra città tuttora va famosa. I satrapi della prima classe amano molto mangiare e la cucina del transatlantico è favolosamente fornita: “I camerieri entrarono spingendo pesanti carrelli sontuosi di formaggi e carni. Servirono pane di ogni forma e tipo, pane in cassetta, baguettes francesi e pane integrale tedesco, pane bianco londinese e bretzel, pane arabo e friabili giochi rococò che risultarono essere pane ferrarese” (p.131).
Le parole della Vita dunque possono e debbono essere usate per l’Arte cambiandone tuttavia senso e destino. Così il tempo e le ore trovano un finale straordinario che definitivamente trasportano tempo e situazioni dalla realtà esistenziale a quella divina da cui per Tuzzi e non solo per lui la parola deriva dagli dèi:
“E alto sopra le nuvole, altro vento doveva passare, il vento cui nulla appartiene e che non appartiene a nessuno, mentre per lui, gravida di promesse, un’alba nuova sorgeva, segreta e strana, a Occidente” (p.160).

In ‘La belva nel labirinto’ (Bollati Boringhieri, 2017) le indagini dell’ispettore Melis, che ha dato fama ai gialli di Hans Tuzzi, portano a mettere in luce quanto sia sempre presente il problema del male che l’uomo fa all’uomo. Un tema fondamentale nella narrativa di Tuzzi, ma ancor più presente si rileva l’elemento politico. In tal modo, la vita prestando coincidenze permette di ‘narrare’ i delitti seriali più famosi d’Italia e al di là di trame nere e servizi deviati, vengono a galla distorte connivenze morali che fanno del nostro il Paese che è.
Perciò può concludere lo scrittore: “insomma, un giallo sì, ma anche e forse ancor più un romanzo che nel libro di teoria sembra parlare più di lettura”.
In fondo come leggere per poi scrivere. Il destino del romanzo: usare i fatti per trasformarli in parole. Un libro che è romanzo quando, come spiega l’autore, non si vogliano scrivere ‘libroidi’ in cui i fatti rimangono tali, ma libri.

I fiori di adesso

di Carla Sautto Malfatto

Sono sempre con me, i miei morti, più vivi che mai. Un esercito che mi protegge, mi sostiene. Con alcuni, i più vicini, parlo. Loro rispondono nella mia testa. Qualche volta mi bacchettano. Di solito, mi fanno compagnia. Li immagino nella loro veste umana migliore. Li sogno, ancora più belli. Non li tocco più, ma loro hanno grandi mani e ali per muovere l’asta della sorte a mio favore. Anche quando cado in disgrazia, so che potrebbe andare peggio. Quando tocco il fondo, loro mi assicurano che riuscirò ad alzarmi. Spero siano con me – conto almeno su tre o quattro – quando dovrò varcare quella porta, che tanto mi spaura. Mi spaura tanto – anche se loro sorridono. Loro sorridono sempre, e mi fa ben pensare.

I fiori di adesso

Mi hanno detto che dovrò morire,
prima o poi, e non sono contenta.
Ogni tanto, un dolore
una discrepanza
uno strappo
a sentinella
a monito
del meno tempo rimasto.
Prendo il foglio e detto le ultime volontà:
non mi interessa, giuro, non mi interessa
come spartirete le mie sostanze
e, credo, neppure i malumori
per quel chilo in più
assegnato a qualcun altro,
di cui si approprierà,
che cederete.
Vi chiedo la cortesia, intanto che sono,
di agire come agireste poi
quando il rimpianto del non compiuto
sarà prepotente.
Non mi serve a niente
se mi sarà decretato, dopo,
il bacio, la carezza, l’affetto,
lo stupore davanti al mio creato.
Parlatemi, come parlereste al mio ricordo,
fatemi, come fareste nel rimorso,
oppure depennatevi da soli
se nel pensiero non avrò lasciato nulla
o mi avrete già saccheggiato:
siete nulla anche per me,
non illudete il mio ultimo passo.
E i fiori, portatemeli adesso.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

Forme umane, animate e animali: la stagione teatrale di Ferrara Off

Da Organizzatori

Teatro, danza, cinema, arte e spettacoli per bambini: queste le proposte di Ferrara Off per l’autunno 2017. Venti appuntamenti, nell’arco di un mese e mezzo, riuniti in tre rassegne: “Forme umane” stagione per adulti, “Forme animate e animali” teatro per bambini, “Domeniche d’autunno”, appuntamenti dedicati al cinema e all’arte.
Tutti gli spettacoli, le letture, gli incontri avranno come filo conduttore il concetto di “forma”, declinato in domande esistenziali – chi sono? -, legate a un contesto sociale – che posto occupo nel mondo? -, incentrate su una ricerca stilistica – che fisionomia devo assumere?
A far emergere gli interrogativi saranno linguaggi differenti – parole, immagini, melodie, coreografie, burattini, pittura – il più delle volte permeati di ironia e comicità.

“Forme umane”, la sezione dedicata agli adulti, prevede otto spettacoli e si apre il 4 novembre alle 21 con un divertente testo di Alan Bennett, “La sua grande occasione”: sul palcoscenico, Diana Höbel interpreta il personaggio di Leslie, un’ambiziosa e ingenua attrice catapultata nello spietato mondo dello spettacolo.
Sabato 11 novembre alle 21 ci sarà un altro monologo comico, “Sogliole a piacere”, scritto e interpretato da Gloria Giacopini: un autoironico romanzo di formazione dove l’autobiografia dell’autrice si specchia nell’evoluzione delle sogliole. Il lavoro di Gloria Giacopini è stato molto apprezzato dalla giuria di BONSAI, distinguendosi fra le centoventi proposte pervenute.
Sabato 18 novembre alle 21, grazie alla collaborazione con il Teatro Comunale di Occhiobello, che permette di intercettare artisti di grande professionalità e richiamo, il brillante attore comico Ugo Dighero porterà a Ferrara Off “Mistero Buffet” di Marco Melloni: un divertente atto unico che, attraverso la metafora dell’uomo predatore davanti a un buffet, indaga la crisi economica e soprattutto morale degli italiani.
Il 25 novembre alle ore 21 (con replica alle 16 per i bambini) torna a Ferrara Off Gigio Brunello con il suo nuovo spettacolo “La grande guerra del sipario”: un atto unico dentro la ‘baracca’, dove i burattini si trovano a combattere contro dei peluche. Uno spettacolo originale e visionario che dimostra come il teatro di figura possa essere un’arte capace di parlare a tutti in modo profondo.
Sabato 2 dicembre alle 21, si passa dal comico a toni più riflessivi con “Clausura”, da La religieuse di Denis Diderot: ispirato a una storia vera (ripresa poi anche da Manzoni), è il racconto di una giovane monaca che tenta di sciogliere i voti pronunciati non volontariamente. Un potente monologo – diretto da Giulio Costa, interpretato con grande intelligenza e sensibilità da Elsa Bossi – che parla di reclusione e confini, per fare un’apologia della libertà e una critica alle imposizioni della società.
Sabato 9 dicembre alle 21 ci sarà un altro romanzo di formazione, un inno alla libertà e all’indipendenza: “Lunghe Notti” di e con Valerio Peroni e Alice Occhiali, racconta la vita di Chris McCandless, reso celebre dal film “Into the wild” di Sean Penn: lo spettacolo si ispira alla biografia scritta da Jon Krakauer e alle memorie della sorella, unico riferimento familiare del protagonista. Lo spettacolo è realizzato nell’ambito del progetto Residenze artistiche, in collaborazione con Teatro Nucleo.
Sabato 16 dicembre alle 21 ci sarà un altro spettacolo che si è distinto tra le proposte di Bonsai. “Kokoro” è un suggestivo spettacolo di danza, nel quale la coreografa e danzatrice Luna Cenere si interroga sui temi dell’essere e della percezione della realtà: un lavoro fisico di grande impatto visivo in cui il corpo, esposto nella sua nudità, si trasfigura e diviene veicolo poetico di immagini.
La programmazione dedicata agli adulti si chiude domenica 17 dicembre alle 21 con
“Marx a Soho”, scritto da Howard Zinn, interpretato da Marco Sgarbi: la surreale vicenda
di un redivivo Marx desideroso di riproporre le proprie idee è la perfetta conclusione di
un ciclo di spettacoli incentrati sul rapporto tra individuo e società.
L’ingresso agli spettacoli di “Forme umane” è di € 10 per i soci Ferrara Off, € 8 per i soci under30, € 5 per i soci under18, € 12 per i non soci (inclusa tessera associativa).

“Forme animate e animali”, la rassegna dedicata ai bambini, è composta da cinque titoli e si
apre il 5 novembre alle ore 11 con il “Flauto Magico” raccontato da Diana Höbel e con
l’accompagnamento musicale dal vivo di Claudio Rastelli: un’occasione per scoprire le
magnifiche melodie di Mozart, tramite le parole di una fiaba avventurosa, romantica e
comica.
Sabato 11 novembre alle 16, arriva in teatro “Ma cosa mi balena in mente”, scritto da Margherita Mauro e interpretato da tre giovani attori di Ferrara Off, Matilde Buzzoni, Giacomo Vaccari e Penelope Volina: un gioco serio con cui i ragazzi confrontano la propria crescita con l’evoluzione dei cetacei.
Sabato 18 novembre alle 16 torna “3 regine, 2 re, 1 trono”, produzione Ferrara Off che vede in scena cinque ragazzi nei panni di adulti ambiziosi di potere: la freschezza interpretativa e l’allegria dei giovanissimi attori – Matilde Buzzoni, Sofia Chioatto, Michele Graldi, Giacomo Vaccari e Penelope Volinia – risulta contagiosa e avvicina i più piccoli alla rappresentazione ironica del mondo ‘dei grandi’.
Sabato 25 novembre alle 16, il burattinario Gigio Brunello propone anche ai bambini lo spettacolo per baracca e burattini “La grande guerrra del sipario”: un gioco visionario e una profonda riflessione sul tema della guerra, nonché l’opportunità di scoprire il suggestivo linguaggio del teatro di figura.
La rassegna per bambini si chiude domenica 3 dicembre alle ore 11 con “Storie proprio così” di Rudyard Kipling, interpretate da Elsa Bossi: i bambini scopriranno perché il cammello ha la gobba, l’elefante la proboscide, l’armadillo la corazza, attraverso fantasiosi racconti sull’evoluzione degli animali e immagini pittoriche realizzate dal vivo dall’artista Giacomo Cossio.
L’ingresso agli spettacoli di “Forme animate e animali” è di € 8 per i soci Ferrara Off, € 5 per i soci under30, € 10 per i non soci (inclusa tessera associativa).

Accanto alla programmazione teatrale, Ferrara Off propone le “Domeniche d’autunno”, dedicate in questa stagione al cinema e all’arte: quattro film nell’ambito del progetto “Focus Africa o delle identità negate”, a cura del Teatro Comunale Abbado di Ferrara, e tre incontri dedicati al ‘600 e alla pittura di Carlo Bononi.
Il primo titolo di Appuntamenti al cinema, previsto per domenica 29 ottobre alle 18, è “Il colore della libertà” di Bille August; il secondo, domenica 12 novembre alle 18, è “Catch a Fire” di Philip Noyce; domenica 19 novembre alle 18 ci sarà “Le rencontre” di Seydou Boro, un documentario sull’incontro fra coreografi di culture diverse; l’ultimo film sarà “Samba Traoré” di Idrissa Quédraogo, domenica 26 novembre alle 18.
Per quel che riguarda l’arte, torna a Ferrara Off il pittore Giacomo Cossio per approfondire il percorso Verso il Seicento avviato con Monumenti Aperti. Domenica 5 novembre alle 18 farà una lezione dal titolo “È barocco o rococò? Barocco, sicuramente barocco!”, un viaggio alla scoperta del barocco nel senso più vasto, applicato alla letteratura, al teatro, alla pittura, alla scultura, all’architettura; domenica 3 dicembre alle 18 l’incontro verterà sul “Barocco da esportazione: il barocco emiliano”.
L’ultima domenica d’autunno si terrà fuori sede, domenica 10 dicembre alle 17, presso la Pinacoteca Nazionale, dove avverrà una performance intitolata “Un viaggio con Orfeo”: un percorso artistico multisciplinare, in concomitanza con l’esposizione del quadro “Goretto Goretti in veste di Orfeo” di Carlo Bononi, in occasione della mostra a lui dedicata presso Palazzo dei Diamanti.
Tutte le Domeniche d’autunno sono a ingresso libero. L’accesso alla Pinacoteca Nazionale prevede un biglietto intero di € 6, ridotto € 3, che permette la visita al museo.

Corruzione: prevenire è meglio che curare

“Oggi in Italia si parla molto di corruzione, per forza di cose”, ha affermato il giudice Gioacchino Polimeni, direttore di Unicri (Istituto internazionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia), aprendo lunedì mattina nella sala Consiliare del dipartimento di Giurisprudenza di Unife, l’incontro di ‘La Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione’, parte del programma della Festa della Legalità e della Responsabilità 2017.
La corruzione è ormai un tema fortemente presente, quasi martellante – purtroppo – nella cronaca quotidiana italiana: da gennaio a ottobre 2017 sono più di 560 i casi di corruzione riportati dai media. Inoltre l’Indice di percezione della Corruzione (Cpi) dell’associazione internazionale Transparency International, che misura la corruzione nel settore pubblico e politico di 176 paesi nel mondo, vede l’Italia al 60° posto nella classifica globale.
Tuttavia, a parere del magistrato, “è un momento importante per la lotta alla corruzione in Italia”, per “la sentenza sul caso di Mafia Capitale” che, pur non avendo riconosciuto la fattispecie di associazione mafiosa per l’organizzazione di Carminati, getta importanti elementi “a livello di intrecci fra reati di mafia e reati di corruzione” e soprattutto per le modifiche appena apportate al Codice Antimafia.
Polimeni si è detto, infatti, “colpito dell’apertura verso la corruzione del nuovo Codice Antimafia”, che ha definito – in senso positivo – “un’avventura” del legislatore italiano.
Oltre a nuove norme volte a riorganizzare e potenziare l’Agenzia nazionale per i beni confiscati e a forme di sostegno per consentire la ripresa e la continuità produttiva delle aziende sequestrate e misure a tutela dei lavoratori, con il nuovo Codice approvato in via definitiva a fine settembre 2017, si allarga il perimetro dei possibili destinatari cui possono essere applicate le misure di prevenzione personali e di natura patrimoniale: chi è indiziato di terrorismo o di assistenza agli associati a delinquere, ma anche chi è indiziato di associazione a delinquere finalizzata ad alcuni gravi delitti contro la pubblica amministrazione, tra cui peculato, corruzione propria e impropria, corruzione in atti giudiziari, concussione e induzione indebita a dare o promettere utilità.
Quindi, c’è una doppia estensione: “l’applicazione delle misure di prevenzione del sequestro e della confisca, oggi applicate agli indiziati di appartenenza alla mafia, non solo al condannato, ma anche all’indiziato di corruzione”.

La Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003 ed entrata in vigore a livello internazionale il 14 dicembre 2005, è la prosecuzione di un processo di costruzione di strumenti giuridici comuni per contrastare i crimini a livello internazionale iniziato con la Convenzione di Palermo sul crimine organizzato transnazionale del 2000. L’Italia “l’ha ratificata nel 2009” e attualmente è stata sottoscritta e adottata “da 183 paesi, quindi è uno strumento che possiamo definire mondiale”. Uno dei principali elementi distintivi, a parere del giudice Polimeni, è l’attenzione alla prevenzione: “le delegazioni che hanno lavorato alla sua redazione” erano cioè convinte che in materia di corruzione “la prevenzione conta altrettanto se non di più, rispetto alla previsione e alla repressione dei reati”. Una prevenzione, ha specificato il magistrato, concepita come controllo ed educazione nello stesso tempo. Da qui “l’obbligo di costruzione di una politica e di strategie olistiche di lotta alla corruzione, in altre parole i governi devono pensare a cosa vogliono fare per il contrasto alla corruzione” e come farlo; “l’obbligo di costituire codici di condotta e particolari metodi di selezione per i funzionari pubblici” e inoltre “particolari procedimenti per gli appalti pubblici”.

Saper lasciar(si) andare

Lasciar andare. Non è solo una dichiarazione di intenti, è un’autentica svolta nella vita di ciascuno di noi. Un momento in cui ci troviamo a dover fare i conti con una realtà che ci chiama immancabilmente a rapporto, in tutta la sua crudezza e autenticità.
Lasciare che un figlio decida di allontanarsi, a volte dolorosamente, per raggiungere angoli di mondo lontani, lasciar andare un genitore che ha consumato la propria vita e ha raggiunto il capolinea consentito, lasciar andare un amore sbagliato, mal riposto, logoro o menzognero, perché a tutto c’è un limite e non possiamo che prenderne atto; lasciare che le persone inadatte, dannose, incompatibili con le nostre esistenze, si allontanino o vengano invitate a farlo, prima che le nostre stesse vite e identità ne raccolgano le rovine, le miserie, i risvolti cupi.
Non è cosa da poco quel lasciar andare. Presuppone un coraggio, a volte, che mai avremmo pensato di poter scovare e dover esercitare per risolvere situazioni di ristagno e inconcludenza. Lo spettro delle cose o situazioni che nel corso della vita dobbiamo lasciar andare è vastissimo. Dalle fotografie testimoni del nostro passato, agli oggetti che accumuliamo per riempire vuoti, alla casa che dobbiamo cambiare, un lavoro, un rapporto, una persona cara. La consapevolezza è l’unica cosa importante per non rischiare di rimanere immobilizzati all’interno di ciò che ci è dolorosamente capitato.

Esiste un termine, mindfulness, che significa vivere il presente e imparare a “lasciar andare”. E’ proprio quella consapevolezza che emerge se prestiamo attenzione in modo intenzionale e non giudicante, allo svolgersi dell’esperienza, momento per momento, in un presente reale e non un passato doloroso o un pensiero ansioso rivolto al futuro.
La letteratura ci regala pagine in cui leggiamo spesso ciò che non vorremmo mai ammettere razionalmente nelle nostre situazioni e nelle nostre esistenze: uno specchio in cui ci osserviamo, ci comprendiamo meglio, ci immedesimiamo mentre leggiamo, ed ammettiamo destini comuni ai protagonisti che ci fanno da alter ego, dandoci la possibilità di un confronto mediato. ‘Lasciar andare’, il primo dei fortunati romanzi di Philip Roth del 1962, è ambientato in parte a New York negli anniCinquanta, in parte a Iowa City e Chicago. La storia è un unico grande intreccio di passioni, azioni e inazioni che travolge Gabe Wallach, un giovane benestante di famiglia ebrea. Orfano di madre, lascia il padre che tende a riversagli addosso un affetto esagerato, soffocante. Nello Iowa, dove si reca, incrocia la sua vita con quella del collega Paul e di sua moglie Lobby Hera: un triangolo di avversione e attrazione senza vie d’uscita, dove la giovane donna, fragile e nevrotica, si aggrappa alla convinzione di aver creato un’assoluta comunione spirituale con Gabe.
E’ un romanzo non facile, caustico, a volte grottesco sulla necessità di andare e lasciar andare per allontanarsi da squallore, inferni domestici, terremoti emotivi, disperazione esistenziale, solitudine, che parla di gente pronta a demolire gli altri per motivi economici in ambienti di degrado e povertà, una ragazza di 19 anni che vende il proprio figlio per ‘lasciare’ una situazione troppo pesante per poi ritrovarsi prigioniera in una relazione con un operaio disoccupato con prole, a fargli da serva, e numerosi altri personaggi che entrano ed escono dal libro lasciandoci impressionati a riflettere. Amore, sesso, famiglie disfunzionali, sofferenza di affetti, religione ed ebraismo in particolare, appartenenza sociale sono le tematiche toccate da Roth con grande abilità di movimento.

‘Lasciami andare, madre’ è il romanzo del 2004 di Helga Schneider in cui l’autrice affronta drammaticamente l’immagine inquietante della madre e un passato che pesa come un macigno. Siamo nel 1998 a Vienna, il luogo in cui l’autrice ha deciso di incontrare la madre ormai anziana e in degrado cognitivo che non vedeva da 27 anni. Una figura genitoriale snaturata da scelte estreme, una donna che nel 1941 aveva abbandonato il marito e due figli piccoli per seguire quella che avvertiva come vocazione: arruolarsi nelle SS di Heinrich Himmler per lavorare come guardiana, dapprima nei campi di concentramento di Sachsenhausen e Ravensbrück, poi nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Un incontro definitivo, quello tra madre e figlia, che fa riemergere profonde ferite mai cicatrizzate, scomode verità e atroci conclusioni ma mette anche in evidenza la consapevolezza di un legame mai interrotto del tutto, sempre in bilico nel dubbio e nell’incertezza. Nel 1971 c’era già stato un tentativo di dialogo tra le due donne, bruscamente interrotto, nel corso del quale la madre aveva esibito con orgoglio la sua uniforme SS ed offerto alla figlia una manciata di gioielli sottratti ai prigionieri dei Lager. ‘Lasciami andare, madre’ è un grido di ribellione, una supplica, un’esortazione, perché il lasciar andare, in questo caso, diventa la sopravvivenza dell’anima. “Verso di lei provo un rancore tenace, ma temo di non avere ancora rinunciato a trovare in lei qualcosa che si salva. Di qui il dubbio: è stata davvero spietata come dice o si mostra irriducibile perché io la possa odiare, liberandomi dall’incubo?” Lasciar andare…

Il dono di Silvano Balboni (e di Daniele Lugli) a Ferrara

Sono stati in tanti venerdì pomeriggio a riempire la Sala dell’Oratorio Crispino San della libreria Ibs+Libraccio per festeggiare con Daniele Lugli l’uscita del libro di una vita. Anzi di due: quella dello stesso Daniele e quella del giovane Silvano Balboni.
“L’ho scoperto in quarta elementare – ha scherzato Lugli – quando il mio maestro ha chiesto a un compagno con quel cognome se fosse un parente di Silvano Balboni. Sono tornato a casa e ho chiesto a mio papà chi fosse Silvano Balboni. Lui mi ha risposto: “Era una persona per bene”. Poi l’ho riscoperto nel 1962, con l’impegno nel Movimento Nonviolento di Aldo Capitini”. I due, secondo Daniele, condividevano una “tensione religiosa fortissima” e la visione della “religione come opposizione radicale a tutto ciò che rappresentava il Fascismo”.

E così, pagina dopo pagina, ‘Silvano Balboni era un dono. Ferrara, 1922-1948: un giovane per la nonviolenza. Dall’antifascismo alla costruzione della democrazia’, racconta come un album di ricordi la figura di questo giovane politico ferrarese purtroppo dimenticato da molti e molto presto. Nello stesso tempo il libro è un prezioso saggio storico perché, come hanno sottolineato Anna Quarzi dell’Istituto di storia contemporanea di Ferrara – che ha curato l’edizione – e il professor Paolo Veronesi di Unife, raccoglie in un unico volume fonti e documentazioni inedite, a lungo disperse, forse perdute se non fosse “per l’archivio di personale di Daniele Lugli”.
Un lavoro di raccolta lungo appunto una vita, per ricostruire la trama di un’altra esistenza, quella di Silvano Balboni, e restituire attraverso un pullulare di storie il fermento politico, culturale, sociale della Ferrara degli anni Trenta e dell’immediato dopoguerra, oggi difficilmente immaginabile. Silvano Balboni, nato nel 1922 e morto in poche ore nel novembre 1948, in soli 26 anni è riuscito a incrociare moltissime altre storie: Giorgio e Matilde Bassani, Teglio e la famiglia Pesaro, Savonuzzi e la maestra Alda Costa, Aldo Capitini, Carlo Bassi, Ada Rossi e il gruppo dei sardi ferraresi, Dessì, Pinna, Varese.
Antifascista, nonostante nella sua vita avesse conosciuto solo il Fascismo, partigiano eppure non violento e obiettore di coscienza, vegetariano al tempo della fame, quella vera, Balboni è “libero da ogni incasellamento”, un “anacronismo atipico”, ha detto Veronesi. Secondo il sindaco Tiziano Tagliani, anch’egli intervenuto alla presentazione in rappresentanza di quell’amministrazione di cui Balboni ha fatto parte come assessore, la storia e la vita di Silvano Balboni sono “una provocazione continua”, ma le sue tesi eterodosse – per le quali è stato attaccato diverse volte – hanno convinto le persone per la “credibilità” con la quale le incarnava e le diffondeva in sella alla sua bicicletta. Il primo cittadino ha ringraziato Lugli per il suo lavoro di “ricomposizione di un puzzle con pezzi che stanno in diverse scatole: la storia del movimento antifascista, dell’amministrazione e dell’educazione della nostra città, la storia del Movimento Nonviolento”.

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Daniele Lugli

Molteplicità contro banalità, autonomia di giudizio e di azione, sempre con lo scopo di unire e non di dividere, queste sono solo alcune delle parole per descrivere la sfuggente e affascinante parabola esistenziale e politica di Balboni.
Nel maggio 1943, chiamato alle armi, diserta e fa la propria scelta di Resistenza: comincia ad attraversare la Romagna per convincere altri ragazzi suoi coetanei a non indossare la divisa e non prendere le armi. Nel 1946 fonda a Ferrara il Centro di orientamento sociale come strumento di una politica del basso. La regola era “ascoltare e parlare, non l’uno senza l’altro: qui sta l’elemento di rottura”, sia rispetto ai partiti di allora sia rispetto alla “democrazia da tastiera odierna”, con la quale la democrazia dal basso di Balboni e Capitini “non ha niente a che vedere”, ha sottolineato Lugli: “oggi abbiamo il problema contrario, sembra che la parola possa essere agita in maniera irresponsabile”. Il Cos è inoltre lo strumento di un progetto culturale ed educativo che Balboni porta avanti anche da giovanissimo assessore di Ferrara, con l’idea di aprire la testa delle persone, in quei mesi difficilissimi quando l’Italia è appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale e da vent’anni di dittatura e quindi ci si deve riabituare al regime democratico. Non solo, da assessore Balboni fonda anche “una scuola del lavoratore” e “una scuola materna ispirata al metodo Montessori”.
“Questo libro – ha concluso Daniele Lugli – non è una rievocazione, ma la riproposta di valori ideali e pratici” che hanno guidato la brevissima e intensa esistenza di Silvano Balboni: “Spero che possa essere uno stimolo per approfondirne diversi aspetti e che questo ragazzo possa parlare ai suoi coetanei di oggi”.

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BORDO PAGINA
Dj Afghan intervistato per Soul Shakedown Party di Radio Fujiko di Bologna

E’ probabilmente il più importante musicista “totale” (per dirla con Adriano Spatola) contemporaneo ferrarese, famoso in tutta Europa e non solo dove spesso da anni è protagonista come Dj d’avanguardia postpop o meglio, vista certa costante cifra sound di Andrea Manservigi (il suo vero nome diversamente alias di Afghan), reggae euroafro, con live set nei più prestigiosi palcoscenici del genere, secondo noi persino afrofuturismo doc per l’attenzione musicale culturale etnica specifica o meglio con un neologismo technetnica.
Non ultimo come produttore musicale di fama stessa internazionale con Soulove Records. “Critica” per la cronaca unanime tra i diversamente “addetti” ai lavori, tutti postavanguardisti, come dimostra anche l’intervista special guest in Soul Shakedown Party, in questi giorni (puntata-episodio dello scorso 24 Ottobre) a cura del noto altrettanto Dj e radio art director, Pier Tosi….per la storica emittente libertaria di Bologna, Radio Città Fujiko.
Binomio che, come ben evidenziato nell’audio radio intervista, parte da lontano, dal mitico Link bolognese degli anni ’90. A Ferrara Afghan è noto per il grande esperimento per circa 15 anni di High Foundation Festival, mai avanguardia del genere musicale in città, con ospiti di fama internazionale o tra certa diversamente nicchia culturale e artistica ben nota e spesso ancor di più fuori mura, in Italia e non solo, sempre dinamica e plurigenerazionale visto che Afghan calca le scene appunto da fine secolo e fine secondo millennio.
Numerose anche le collaborazioni autoctone, Strike, Franco Ferioli, Andrea Amaducci, Eva De Adamo, Max Czertok eccetera eccetera, musica e video o semplicemente arte “elettrica” ed “elettronica” e semplicemente come produttore inventore del logo Soulove Records, noto a livello appunto internazionale! E tale altitudine, come anche in altri casi di ferraristi molto creativi (è) soprattutto fuori dai sempre malware provinciali che inquinano anche come noto le istituzioni, non necessariamente negative in ambito culturale, ma, piaccia o meno poco inclini a ottimizzare il talento local vero global se non filtrati da genuflessioni ben note o comunque tacite di Corte (e ideologia naturalmente neppure ormai dissimulata: lo stesso Afghan, non indolore in tal senso la fine pochissimi anni fa proprio di High Foundation).
Così il curatore del programma radiofonico e dell’intervista ha presentato la puntata-episodio con come incipit nel sito attinente proprio Afghan (e integrale l’intervista, dove Afghan e Soulove Record sono stati subito evidenziati di spessore internazionale per il raggae mondiale). Artista eclettico, poliedrico, quasi sempre in tour oppure in Studio, Afghan, nel settore, è quasi una specie di Brian Eno per il dinamismo e la sua innata quasi facile combinatoria dei suoni e dei puzzle sonori come un alchimista…:
Soulove Records Special: Afghan di persona in studio ci racconta gli sviluppi di questa ottima etichetta con base a Ferrara – Nuovo singolo in vinile per Alpheus sulla madrilena Liquidator Sempre su Liquidator ottimo album per Keith & Tex Grande tune con la chitarra del veterano Ernest Ranglin dal progetto Havana Meets Kingston Sly & Robbie producono il talentuoso giovane cantante Junior Militant Nuova compilation dedicata alla dancehall Studio One su Soul Jazz: Alton Ellis e Johnny Osbourne Il resto della parte vintage: Dennis Alcapone, Roman Stewart, Mighty Diamonds, Freddie McKay, Hugh Mundell, Fred Locks…” .
Ulteriormente ecco, più o meno, la trama e il divenire dell’intervista: una costante segnalazione della scena underground Raggae 2.0 (tra numerose sottomenu variabili del genere) e delle molteplici sinergie internazionali di Afghan, attuale e anche storica, a partire dalle proprie sinergie stesse e concerti e produzioni e progetti di ieri e oggi e prossime.
Ancora molto recentemente Afghan in tour francese con una deliziosa querelle laterale. In Francia le iniziative di Afghan e dei musicisti in generale prescelti, sono selezionate secondo criteri meritocratici. praticamente prodotti e curati dal sistema pubblico come scommessa sui talenti e la creatività, tra nomi già noti o emergenti, in Italia, ad esempio a Ferrara, sulla fine di High Foundation abbiamo già detto…come esempio sintomatico di certo andazzo con lo Stato latitante o sinergico con gli artisti in generale o comunque troppo spesso secondo logiche politichesi o diversamente solidali, amici degli amici e cosi via il girotondo… Logiche politichesi totalmente estranee, nell’arte e nella vita a Afghan, irriducibile, riassumendo, musicista controculturale, la musica e il raggae come Libertà.
Afghan anche deliziosamente polemico come un gatto sornione in un excursus sull’ambiente italiano stesso che spesso parla anche di certe dinamiche musicali senza particolare comprensione e basi conoscitive e vero e proprio robot intelligente lavoratore quando discorrendo di alcune sinergie di altissimo livello con certi diversamente big, sottolinea tali esperienze come sorta di speciali università ad personam, perché (ma senza alcuna retorica) fondamentale è sempre imparare, perfezionarsi.

Buon ascolto…
https://www.podomatic.com/podcasts/piertosi/episodes/2017-10-24T15_23_18-07_00

Info Afghan/Soullove Records
http://www.souloverecords.it/
https://www.youtube.com/user/Souloverec

Alberi diventano opere d’arte nelle foto di Luca Zampini

Alberi che sembrano disegni a china o incisioni raffinate, tirate fuori da un cassetto di tanto tempo fa. Invece quelle figure frondose immerse nella ruvidezza bianca della carta ritraggono piante che vivono intorno a noi, nella campagna poco fuori Ferrara, ma anche in Basilicata, in montagna, lungo la strada tra Sabbioneta e Parma. L’autore è Luca Zampini, fotografo, che ha usato la macchina fotografica per realizzare panoramiche creando ritratti ad arte per ciascun albero. Dietro ogni opera c’è una serie di scatti fatti da tante angolazioni, girando intorno ai fusti monumentali adocchiati su una collina, in mezzo a un campo, a volte lungo il ciglio di una strada. Sono le piante immense e solitarie del territorio di Ferrara e non solo, protagoniste della mostra ‘Trees – Alberi’, che sarà inaugurata sabato 28 ottobre alle 18 alla Galleria Carbone, via del Carbone 18/a a Ferrara (la piazzetta del cinema Apollo).

Carolina Marisa Occari fotografata da Luca Zampini davanti al suo ciliegio, a Stienta

Una serie che l’autore chiama ‘Avvolti’ perché il risultato è il frutto di una sequenza di scatti avvolgente, “come una rete di attenzione, affetto, protezione” con la quale il fotografo circonda quei pioppi solitari, quei platani, un pino loricato tutto inclinato sulla roccia, il gelso strabordante di rami, la grossa farnia, un ulivo. Le immagini realizzate per ciascun soggetto sono state poi trattate e sovraimpresse una sull’altra su carta pregiata, come quella che si usa per gli acquerelli. E lì l’albero finisce per rivelarsi nella sua sfaccettatura in un modo etereo e poetico, realistico a guardarci bene, ma che al primo impatto appare pittorico, inchiostrato. Uno stile e una tematica che – subito – mi ha fatto pensare alle incisioni di Carolina Marisa Occari, l’allieva prediletta da Giorgio Morandi, che amava così tanto la natura e la sua terra padana, disegnate e dipinte fino agli ultimi giorni della sua vita. E che, questa passione, ha saputo infonderla a tutta la sua famiglia. Perché la Occari è la madre di Luca Zampini, e la dedizione per il mondo naturale l’ha trasmessa a lui così come a tutti gli altri suoi figli (Laura, Luigi, Licia) come pure ai suoi allievi, educati allo stupore davanti alla natura, cresciuti imparando a osservare le nervature del legno, a godere della luce del sole filtrata dalle fronde, a stupirsi davanti al cielo specchiato sui canali.

Gelso della serie “Alberi – Avvolti” di Luca Zampini

“È vero – dichiara di getto Luca – questo lavoro è partito pensando a lei, all’opera di mia mamma e a quell’amore per gli alberi che mi ha comunicato da piccolo e che poi è cresciuto con me, giocando sopra ai rami quando ero bambino e poi, da adulto, incantandomi davanti alle piante enormi e solitarie, durante le passeggiate e le escursioni fuori città, dove vado apposta perché qui intorno non vedo grandi alberi e finisco per girare fino a che non ne trovo uno e allora mi fermo, incantato, per poterlo ammirare in ogni suo dettaglio, abbracciarlo, fotografarlo”.

Un lavoro di ricerca che è durato quattro anni, dal 2013 al 2017, durante i quali Luca Zampini ha messo insieme una raccolta sfaccettata, partita come omaggio a sua madre. Già di sapore pittorico era in qualche modo uno degli ultimi scatti fatti da Luca a Carolina Occari, nel 2013, con lei immersa nel suo giardino-bosco di Stienta, sulla riva veneta del Po a una quindicina di chilometri da Ferrara. In quel ritratto il bianco e nero fotografico sembra evocare la tecnica dell’incisione. Carolina è seduta sotto la luce del sole con lo sguardo rivolto all’immenso ciliegio davanti a lei, “l’albero – dice Luca – che mia mamma amava di più, diceva che le assomigliava, che era molto vecchio ma continuava a dare ogni tanto dei frutti”. La ricerca da lì si è evoluta come espressione personale, fino a creare la cifra stilistica delle raccolte di immagini arboree a cui Zampini ha dedicato questa ricerca e che ora vanno per la prima volta in mostra, mentre l’autore ha fatto una scelta radicale anche a livello professionale, decidendo di dedicarsi alla fotografia a tempo pieno.

Sguardo arboreo per la serie ‘Alberi – Occhi’ di Luca Zampini

Il progetto, partito dall’osservazione della natura, confluisce così in due tipologie di immagini: la serie di alberi “Avvolti” e poi l’altra, con alberi più esplicitamente fotografici ma con colori falsati, artificiali, quasi post-apocalittici, che compongono la seconda parte della mostra con la serie intitolata ‘Occhi’. Perché, in questo secondo gruppo, gli alberi si animano e sono loro in qualche modo a puntare l’attenzione sullo spettatore. Una di queste immagini è stata esposta in anteprima proprio un anno fa, in occasione della mostra ‘Omaggio all’Orlando Furioso per la ricorrenza dei 500 anni di pubblicazione del poema di Ariosto. Un albero, quello, in cui il curatore della mostra Roberto Roda aveva visto ‘L’amante di Alcina’, il personaggio di Astolfo trasformato in mirto dalla maga. E in effetti i soggetti di questa serie possono apparire sia come portatori di una richiesta di aiuto ambientale e di rimprovero per la disattenzione umana sia – più favolisticamente – come esseri animati, creature in qualche modo letterarie, che sottilmente narrano una storia altra, che attraversa il tempo e lo spazio in una dimensione quasi onirica.

La nota critica alla mostra è di Lucia Boni, poetessa.

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Locandina della mostra di Luca Zampini – Galleria Carbone, Ferrara 2017
Immagine della serie “Alberi – Occhi” di Luca Zampini
Sguardo della natura nella serie “Alberi – Occhi” di Luca Zampini
Pianta sulla strada verso Parma della serie “Alberi – Avvolti” di Zampini
Pioppi bianchi della serie “Alberi – Avvolti” di Luca Zampini

‘Trees – Alberi’, Galleria Carbone, in via del Carbone 18/a, Ferrara, da sabato 28 ottobre (ore 18) al 12 novembre 2017. Visitabile dal martedì alla domenica ore 17-20 e nei festivi anche 11-12.30 (chiuso lunedì e martedì ). Ingresso libero.

Silvano Balboni, Carlo Bassi e la Costituente Ferrarese del Dopoguerra

Oggi pomeriggio, alle 17.30, alla libreria Ibs+Libraccio di Ferrara sarà presentato, fresco di stampa, l’importante volume di Daniele Lugli, ‘Silvano Balboni era un dono: Ferrara 1922-1948. Un giovane per la nonviolenza. Dall’antifascismo alla costruzione della democrazia’, (CSA editrice). Si tratta di un’opera ricchissima, di attualità straordinaria, come straordinaria seppur breve fu l’opera educativa, sociale e politica del ferrarese Silvano Balboni.
Il lavoro di Daniele Lugli, attraverso testi e documenti in gran parte inediti, toglie dall’oblio e mette a fuoco una figura fondamentale della nostra storia cittadina. E ci racconta una Ferrara – quella del primissimo dopoguerra (1946-1948) – che, grazie ai Cos (Centri di Orientamento Sociale) di Silvano Balboni, sperimenta forme nuove di democrazia. Una Ferrara impegnata in un confronto a più voci che coinvolge migliaia di cittadini, riuniti ogni settimana dal giovanissimo assessore comunale Balboni per esporre problemi e avanzare proposte, per discutere appassionatamente e civilmente, dai piccoli problemi di quartiere alle grandi scelte e opzioni di democrazia partecipata.
Mentre a Roma si susseguono le sessioni della Costituente, a Ferrara Balboni propone con le assemblee del COS una sorta di Costituente popolare. Un’esperienza che purtroppo non sopravvive alla prematura e improvvisa scomparsa del suo animatore.

Il mese scorso è venuto a mancare un altro importante protagonista della storia ferrarese, l’architetto Carlo Bassi, anche lui assessore in Comune e ispiratore del piano regolatore della fine degli anni Ottanta. Proprio in quegli anni, dal 1987 al 1994, Carlo Bassi collaborava assiduamente alla rivista ferrarese ‘Supplemento di indagine’ di cui ero direttore. Il numero di settembre del 1991 della rivista ospitava proprio due interventi sulla figura e l’opera di Silvano Balboni, uno a firma di Daniele Lugli e l’altro dello stesso Bassi.
Scriveva Carlo Bassi, più di 25 anni fa, riferendosi a Balboni: “Eppure la città ha perso la nozione di quale patrimonio si butti alle ortiche e di quale forza morale si disperda non degnamente ricordando la sua figura, la sua opera, i suoi insegnamenti, il suo magistero civile” e si augurava che venissero tempi migliori per riflettere e imparare qualcosa dal magistero civile di Silvano Balboni. L’augurio è che oggi il libro di Lugli, e la serie di iniziative programmate per l’anno prossimo, possano colmare questa pericolosa amnesia.

Un Carlo Bassi giovanissimo incontrò per la prima volta l’altrettanto giovane Silvano Balboni nella grande sala di lettura della Biblioteca Ariostea. Riproporre oggi l’articolo e la bella prosa di Carlo in ricordo dell’amico Silvano non è solo un’occasione per ricordarli entrambi ma – almeno nella fantasia – per farli incontrare di nuovo.

Leggi l’articolo di Carlo Bassi su Supplemento di indagine

Catalogna e femminismo: esempi di disobbedienza civile

di Roberta Trucco

Che ne è della richiesta di dialogo di più di due milioni di catalani? Che ne è della vicenda catalana se non un braccio di ferro tra un pugno di pochi uomini? Due milioni non sono numeri ma persone!
La politica, in generale, e Rajoy in particolare, oggi mostrano tutto il loro fallimento. Vorrei ricordare a Vergas llosa, grande scrittore che nel suo discorso a Madrid ha fatto della democrazia una questione solo di numeri e di legge – quella di un padre che non si discute! – che dietro a quei numeri ci sono tante storie e la democrazia è fatta dalle storie delle persone e non da pochi leader. Lui che vive del racconto delle vicende umane dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro.

Personalmente sostengo il coraggio di molti catalani che hanno scelto la disobbedienza civile per mostrare lo stato di alienazione in cui versano i cittadini di uno stato-nazione. Il silenzio assordante delle nostre istituzioni democratiche di fronte alle contraddizioni, ormai insostenibili, del nostro sistema palesa l’inadeguatezza di questa democrazia. Questo succede non solo in Spagna, ma anche in Europa. È vero, la situazione catalana è molto preoccupante, potrebbe sfociare in un’escalation di violenza, ma per non correre rischi è sempre meglio chiudere al dialogo e applicare la legge? O forse la legge deve evolversi con la storia?

La disobbedienza civile è stata sostenuta da grandi leader che hanno guidato le nazioni verso il loro stesso riconoscimento, e non senza spargimento di sangue purtroppo, penso per esempio a Gandhi. Per quanto riguarda invece la tragedia greca, Antigone è forse il più coraggioso esempio di disobbedienza civile. È a lei che si potrebbe volgere lo sguardo oggi, perché può ispirare molti.
C’è una legge inscritta nell’essere umano che in alcuni momenti diventa guida insopprimibile, più forte delle regole umane che ci siamo dati o che ci hanno dato. Il nazionalismo positivo e femminista che promuove Teresa Forcades, monaca catalana benedettina, si fonda su questa legge interiore. La nazione, la cui etimologia viene da nascere, ci dà – come una madre – cose che non abbiamo scelto, ma che ci dicono chi siamo e da dove veniamo. Accettare che il potere centrale, in nome della governabilità, extrema ratio molto maschile, la cancelli ci alienerà ancora di più da noi stessi.
Curiosamente la battaglia di alcuni cittadini catalani e quella di molte femministe che si battono contro la pratica della maternità surrogata, sembrano avere una radice comune, la cancellazione della madre, e sembrano individuare nella perversione del sistema, basato sulla mercificazione di ogni cosa compreso i nostri corpi, la causa che aliena l’uomo a se stesso.
Di fronte a un potere così ottuso, interessato solo alla salvaguardia di un falso benessere economico e al mantenimento dello status quo, non restano che la disobbedienza civile e il femminismo.

Note sull’autrice Roberta Trucco
Classe 1966, genovese doc (nel senso di cittadina innamorata della sua città), felicemente sposata e madre di quattro figli. Laureata in lettere e filosofia. Da sempre ritengo che il lavoro di cura non si limiti all’ambito domestico, ma debba investire il discorso politico sulla città. Per questo è impegnata in un percorso di ricerca personale e d’impegno civico, in particolare sui contributi delle donne e sui diritti di cittadinanza dei bambini.
Da alcuni anni dipinge con passione, totalmente autodidatta. Intende contribuire alla svolta epocale che stiamo vivendo con la propria creatività unita a quelle delle altre straordinarie donne incontrate nella splendida piazza del 13 febbraio 2011 di Se non ora quando. Credente, definita dentro la comunità una simpatica eretica, e convinta che niente succede per caso.

‘Insorgenti’ in scena per raccontare un romanzo storico. E attori cercansi

Oltre venti attori e figuranti hanno fatto rivivere il periodo dell’invasione napoleonica nella zona del Basso ferrarese in un’area della campagna locale. Domenica 22 ottobre 2017 le scene sono state girate nell’area del centro ippico di Francolino, a dieci chilometri da Ferrara. Il maneggio ha messo a disposizione anche i cavalli per il trailer in corso di realizzazione, mirato a raccontare per immagini la trama de ‘Gli insorgenti del Basso Po’, romanzo storico di Alberto Ferretti appena pubblicato per le edizioni Youcanprint (vedi sito www.albertoferretti.it). “Il libro – sottolinea Ferretti stesso – ha la prefazione di Massimo Viglione, che è uno dei massimi studiosi delle insorgenze in Italia”.

Attrici per ‘Gli insorgenti del Basso Po’, Ferrara, domenica 22 ottobre 2017 (foto Valerio Pazzi)

A realizzare il corto è il regista Alessandro Ferretti (fratello dell’autore) che gira per la WorbasStudio, un’etichetta indipendente ferrarese, con la collaborazione della compagnia teatrale ferrarese del Lodovico e di molti altri amici che si sono messi a disposizione nel ruolo di attori e attrici.

Il regista Alessandro Ferretti con aiuto-regista, Ferrara ottobre 2017 (foto Valerio Pazzi)

‘Gli insorgenti del Basso Po’ racconta in forma romanzata “le ribellioni di massa messe in atto da gruppi di persone contro le prevaricazioni delle truppe napoleoniche”. Uomini e donne che si ribellarono contro le depredazioni nei musei e nelle chiese, contro l’instaurazione della Dea Ragione in sostituzione della religione e contro quei valori della Rivoluzione Francese che non tutti accettavano. Il romanzo, ambientato nel 1799, si basa su alcuni fatti realmente avvenuti mescolati ad altri di fantasia, nella zona del Basso ferrarese, tra i paesi di Copparo, Cologna, Denore, Fossa d’Albero.

Gli attori in scena per ‘Gli insorgenti del Basso Po’, Ferrara, domenica 22 ottobre 2017 (foto Valerio Pazzi)

Il trailer verrà poi proiettato in occasione delle presentazioni pubbliche che verranno fatte per il romanzo. Mancano però ancora le scene conclusive. “L’ultima parte – spiega Alberto Ferretti – verrà girata nel centro storico di Ferrara e ci servono ancora comparse per qualche ruolo maschile, da affidare a uomini tra i 30 e i 40 anni”. Chi volesse partecipare può quindi contattare l’autore inviando una email a info@albertoferretti.it.

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Tavolata de ‘Gli insorgenti del Basso Po’ (foto Valerio Pazzi)
Scena a cavallo (foto Valerio Pazzi)
L’autore Alberto Ferretti al centro in una scena (foto Valerio Pazzi)
Gli insorgenti (foto Valerio Pazzi)
Attrici de ‘Gli insorgenti’ (foto Valerio Pazzi)
Gruppo di attori col regista (foto Valerio Pazzi)

Il reportage fotografico è di Valerio Pazzi.

Da Cento a Voghiera passando per Ferrara al via la Festa della legalità e della responsabilità 2017

Cosa possiamo fare contro la criminalità organizzata? Come si fa antimafia senza diventare eroi o, peggio, martiri? Sono domande che ciascuno di noi si è posto almeno una volta, soprattutto dopo il brusco risveglio dal sogno illusorio che le organizzazioni mafiose fossero un problema esclusivamente del Sud. La risposta sembra facile: basta che ognuno di noi faccia la propria parte. In realtà non è così semplice: ognuno di noi può iniziare dall’essere un cittadino responsabile. E il primo passo sulla strada per essere cittadini responsabili e costruire una comunità libera dalle mafie è conoscere e informarsi, per poter esercitare la propria coscienza critica.
Non ci sono più alibi per chi continua a non vedere, a non sentire, a non parlare: è tempo di un rinascimento etico, un sussulto di voglia di corresponsabilità, di condivisione e di continuità dell’agire, da parte dell’intera comunità.
Legalità, responsabilità e comunità: senza l’una non si danno le altre. Ecco perché anche quest’anno il Comune di Ferrara e il Coordinamento di Ferrara di Libera Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, in collaborazione con il Laboratorio MaCrO dell’Università di Ferrara, la Fondazione Emiliano Romagnola per le Vittime dei Reati, il Movimento Nonviolento, Avviso Pubblico – Enti Locali e Regioni per la Formazione Civile contro le mafie, il Comune di Cento, il Comune di Fiscaglia, il Comune di Voghiera, la Pro Loco di Voghiera, organizzano la Festa della Legalità e della Responsabilità.

La conferenza stampa della Festa della legalità e della responsabilità 2017

“Siamo ormai giunti all’ottava edizione, ma è la prima volta che riusciamo a mettere in rete tutti e quattro i comuni della provincia che fanno parte di Avviso Pubblico, Ferrara, Cento, Fiscaglia e Voghiera”, ha sottolineato l’assessora assessora alla sanità, ai servizi alla persona e alle politiche familiari del Comune di Ferrara, Chiara Sapigni, aprendo la conferenza stampa di presentazione del programma della Festa, lunedì mattina nella Sala degli Arazzi della residenza municipale.
Coordinamento di più soggetti, istituzionali e non, per un programma che riunisce più di un mese di iniziative, dalla fine di ottobre alla fine di novembre, in tutta la provincia di Ferrara con l’intento comune di gettare luce sulle “numerosissime sfaccettature” del tema della legalità, come affermato dall’avvocato Donato La Muscatella, referente del Coordinamento di Ferrara di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie.
Al tavolo era presente anche Antonella Micele, del direttivo di Avviso pubblico, coordinamento di enti locali con l’intento di collegare ed organizzare gli Amministratori pubblici che concretamente si impegnano a promuovere la cultura della legalità democratica nella politica, nella Pubblica amministrazione e sui territori da essi governati. “E’ importante per noi essere qui oggi perché questo è uno degli appuntamenti principali nella Regione su queste tematiche”, ha affermato Micele. “Per contrastare la criminalità organizzata bisogna disporre di strumenti culturalmente raffinati”, ha continuato: “come amministratore ritengo che non sia più accettabile non essere preparati sui temi della legalità. Quando si ha a che fare con bandi e appalti servono ormai competenze che non si possono improvvisare” in materia di contrasto delle infiltrazioni, le ha fatto eco Isabella Masina, vicesindaco del Comune di Voghiera. Quando si tratta di criminalità organizzata si parte dall’esigenza “di capire un fenomeno complesso per ricavarne strumenti per contrastare e per prevenire questi fenomeni”, ha aggiunto La Muscatella.

Durante l’incontro con i giornalisti sono emersi anche i nomi degli ospiti d’eccezione di questa Festa della legalità e della responsabilità 2017. Carlo Lucarelli, presidente della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati, che il 6 novembre alle 15 al Liceo Carducci introdurrà ‘Noi parti offese. Solidarietà in scena’, non una conferenza ma un gioco di ruolo per comprendere dal di dentro quale impatto ha un grave reato nella vita di chi lo subisce e in quella di quanti gli sono vicini, mentre alle 21 sarà alla Sala della Musica con la criminologa Rossella Selmini e Alessandro Chiarelli per l’incontro ‘Da Kurt Wallander a Salvo Montalbano: la rappresentazione sociale delle forze di polizia tra finzione e realtà’. Il 24 novembre nella preziosa cornice della Delizia del Belriguardo il giornalista Sandro Ruotolo coordinerà prima ‘AmministriAMO. L’impegno degli Amministratori per il proprio territorio’ e poi, dalle 19.00, ‘Testimonianze extra-ordinarie di impegno civico’ con Maria Antonietta Sacco, Vice sindaco di Carlopoli (CZ) e Vice Presidente Avviso Pubblico e Renato Natale, Sindaco di Casal di Principe (CE) e Vice Presidente Avviso Pubblico.

Si inizia già oggi pomeriggio alle 14 alla sala consiliare del Dipartimento di Giurisprudenza con il primo degli incontri organizzati in collaborazione con MaCrO (Laboratorio interdisciplinare di studi sulla mafia e le altre forme di criminalità organizzata): ‘Monitorare e combattere la tratta di persone. Il ruolo delle Nazioni Unite nella scena globale’ con Fabrizio Sarrica di Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime).
Sabato 18 novembre dalle 10 alle 13 in Sala della Musica si parlerà invece del processo alla mafia in Emilia Romagna con ‘Il Processo Aemilia: stato dell’arte e nuove prospettive’. Ospiti: Vincenza Rando, avvocato, componente dell’Ufficio di Presidenza di Libera Associazioni, nomi e numeri contro le mafie; Sabrina Pignedoli, giornalista de Il Resto del Carlino, vincitrice Premio Estense 2016; Elia Minari, coordinatore dell’associazione antimafia Cortocircuito di Reggio Emilia. Un’occasione “per fare il punto sulla situazione”, ha affermato Donato La Muscatella di Libera Ferrara.
Presenti alla conferenza stampa anche Melissa Romani, assessora del Comune di Fiscaglia, e Giulio Costa dell’associazione Ferrara Off, per presentare ‘Ci deve pur essere un giudice a Berlino!’, il 10 novembre alle 21nella sala civica del centro polifunzionale di Migliarino “scelta appositamente perché intitolata ai giudici Falcone e Borsellino”, ha sottolineato Romani. “Abbiamo costruito una drammaturgia originale con testi che spaziano dalla classicità alla contemporaneità”, ha spiegato Costa, recitati da giovani attori e da Marco Sgarbi per parlare sì di legalità, ma anche “della trasmissione e della condivisione” di questo valore fondamentale attraverso le generazioni.

Infine, l’appuntamento è anche al Cinema Boldini (vai Previati 18) con un ciclo di pellicole sulla legalità. Il 14 novembre alle 21 si terrà la proiezione del film ‘Loro di Napoli’, con la presenza della squadra di calcio Buffalo Soldiers, composta da richiedenti e titolari di protezione internazionale accolti sul territorio di Ferrara nell’ambito dei progetti del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati gestiti dalla cooperativa Camelot. Il 21 novembre alle 21, invece, si terrà la proiezione del film ‘Vivere alla grande’ sul gioco d’azzardo, anticipato dalla presentazione del progetto ‘Lose for life’ di Avviso Pubblico e la consegna del ‘Premio Cittadino Responsabile’ 2017.

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Ius soli, Barbiana e il senso comune dei bambini

Prologo
Cinquant’anni fa, il 26 giugno del 1967, moriva a soli 44 anni Lorenzo Milani. Pochi mesi dopo era dato alle stampe l’ultimo suo libro, scritto con i suoi ragazzi, quel ‘Lettera a una professoressa’, fonte di un inesauribile – e inesaurito – dibattito. Denunciava, dati alla mano, una scuola “anticostituzionale”, modellata per la carriera dei Pierini (i figli d papà) e che lasciava sempre più indietro (e li bocciava ripetutamente) tutti gli altri, soprattutto i figli della povera gente, i figli dei contadini e degli operai.

A Ferrara e in Parlamento
Oggi viene discussa e votata in Consiglio Comunale una mozione del Pd che chiede al Senato della Repubblica di accelerare la definitiva approvazione della legge sulla ius soli. Nello stesso giorno Lega e Fratelli d’Italia hanno organizzato una manifestazione contro la stessa legge.
Ecco il contesto. Siamo ormai in piena campagna elettorale e, in un clima sempre più arroventato, non sappiamo se, tra furiose polemiche su Bankitalia, legge finanziaria, ‘Rosatellum’, ostruzionismo parlamentare e ricorso alla fiducia, avanzerà il tempo per una legge che aspetta da anni il via libera. Poteva – doveva, visto che era al primo punto del programma dell’ultima campagna elettorale del partito di maggioranza relativa – essere approvata prima, tre anni fa, o due, o uno, ma c’era sempre “altro di più importante da fare”. E soprattutto, pensavano e dicevano: “non era il momento opportuno”.

La professoressa risponde
Con la legislatura agli sgoccioli, qualcosa si è mosso. Sto parlando di un piccolo terremoto che viene dal basso, un sisma che non porta danni a cose e persone, ma scuote le coscienze di una classe politica sempre più lontana dal paese reale.
Settecento insegnanti – sembrerebbe finalmente una risposta alla provocazione del priore di Barbiana e dei suo ragazzi – hanno messo in moto un movimento per l’approvazione di una legge giusta e urgente. Che ha preso il nome comune di ius soli, ma che è in realtà una ius culturae perché concede la cittadinanza italiana a bambini e ragazzi stranieri solo dopo il superamento di un ciclo scolastico nel nostro paese.
Stiamo parlando di circa 800.000 “italiani come noi”, che frequentano le scuole italiane insieme ai figli di italiani. Che giocano a pallone o a moscacieca con i nostri figli.
In un libro bello e fortunato, finalista al premio Strega nel 2016, Eraldo Affinati, scrittore e insegnante, fondatore della scuola per stranieri Penny Wirton di Roma, ripercorre la breve e intensa vita de ‘L’uomo del futuro’ (Mondadori, 2016). La tesi più forte – più semplice e disarmante – del romanzo-biografia di Affinati è che i ragazzi di Barbiana – gli svantaggiati, gli ultimi della classe – non sono scomparsi. Non sono stati ‘promossi’ dal boom economico degli anni Sessanta, non sono stati ‘elevati’ dall’edonismo degli anni Ottanta, non sono stati ‘inglobati’ dal liberismo o dal consumismo di questi anni presenti. I ragazzi di Barbiana sono ancora tra noi, nelle nostre scuola. Sono i bambini figli degli ultimi arrivati, gli stranieri, i disabili, gli svantaggiati, i figli dei nuovi poveri: italiani e “non ancora italiani”.

La macchia si allarga
Per questa ragione, l’appello degli insegnanti per l’approvazione della legge per dare la cittadinanza agli “scolari stranieri” mi sembra una risposta, una bella risposta, alle domande di uguaglianza e di democrazia poste cinquant’anni fa da Lorenzo Milani.
Il movimento dei settecento insegnanti si è allargato, si è sparso per le cento città d’Italia. E ha rotto i tatticismi di partito. Il senatore Luigi Manconi ha raccolto per primo l’appello per discutere e votare subito lo ius soli a Palazzo Madama e ha aderito al “digiuno a staffetta”. Insieme a lui, più di 100 parlamentari, della maggioranza come della minoranza. Davanti a un problema che non è più politico, ma diventa una scelta civile e umanitaria, si è rotto finalmente il fronte della disciplina di partito, delle convenienze politiche e dei calcoli elettorali.
Intanto il movimento – perché ormai è di movimento che occorre parlare – si è esteso un po’ ovunque. Tra i ragazzi stranieri, dentro e fuori le comunità di accoglienza, tra le associazioni di volontariato sociale, nei partiti, nei sindacati. In tante città, anche a Ferrara una settimana fa, sono sorti comitati per lo ius soli. In tante città, anche a Ferrara, si firma e si digiuna a staffetta. E si tratta di un movimento trasversale, con voci e appartenenze diverse, che interroga la politica facendo appello alla coscienza civile e ai diritti fondamentali sanciti dalla Carta Costituzionale.

La mozione in Consiglio Comunale
La mozione che verrà discussa e votata a Ferrara in Consiglio Comunale non sarà quindi un atto formale. Sarà la risposta che la classe politica cittadina darà a una sensibilità diffusa che va oltre l’appartenenza partitica.
Ho visto tanti video, ho letto tante interviste a questi bambini stranieri, ‘italiani come noi’. E ho fatto la prova, ne ho incontrati alcuni in una classe come tante, per fargli la stessa domanda. Non sapevano di essere ‘stranieri’, erano cioè convintissimi di essere ‘italiani’. E la stessa cosa pensavano di loro, i loro compagni italiani figli di italiani.
Mi è sembrata la prova definitiva di quanto sia giusta e urgente questa legge. Se “il senso comune dei bambini” crede nell’uguaglianza dei diritti, significa che la nostra Costituzione è ancora viva. Rispondere positivamente a questo senso comune è responsabilità della società degli adulti. Se sapremo accogliere questa istanza, se sapremo riconoscere ai “nuovi ultimi” gli stessi diritti e le stesse opportunità dei “primi della classe” avremo anche risposto alle domande inevase del priore di Barbiana. E anche la politica dovrà sturarsi le orecchie.

Padre Daniele Moschetti: Io, confratello di Alex Zanotelli, vi racconto la mia Africa

“Ci sono forse più momenti di speranza e felicità in Africa che qui, nonostante tutto”.
Padre Daniele Moschetti, comboniano dall’età di 27 anni, è un uomo che vive la fede non come una sicura certezza, ma come ricerca costante, profonda, inquieta, nel proprio io profondo o negli occhi dei più poveri nelle periferie del mondo, di tutto il mondo. Ricerca di pace, giustizia, dignità, comunità, solidarietà, umanità.
Questa ricerca lo ha portato da ultimo in Sud Sudan, l’ultimo paese del continente africano a raggiungere l’indipendenza, un paese dalle enormi potenzialità, ma nel quale la situazione è drammatica e si rischia un nuovo Ruanda. A novembre volerà negli Stati Uniti, dove insieme altri missionari di altre congregazioni religiose porterà avanti un lavoro di advocacy presso le Nazioni Unite e il Parlamento americano a favore della ‘sua’ Africa, ma non solo.
A chi abita nel Nord del mondo dice che “i muri non servono” e che l’Africa sta dando “una grande lezione di solidarietà di paesi poveri verso altri paesi poveri”: “noi ci lamentiamo, parliamo di emergenza per 160 mila migranti l’anno, quando solo dal Sud Sudan sono usciti due milioni di profughi, che si sono insediati nei paesi confinanti”. A chi afferma che gli immigrati ci rubano il lavoro e abbassano il nostro tenore di vita risponde che, dopo il colonialismo, a sfruttare le enormi risorse del continente sono arrivate le multinazionali e quindi “siamo noi che dobbiamo metterci in un’ottica di restituzione all’Africa”.

Alle spalle anni di lavoro in una ditta nel varesotto, con possibilità di carriera, contemporaneamente la scuola serale e una relazione stabile con una ragazza. Dai 19 anni entra in crisi e il “campo di lavoro con Mani Tese in provincia di Bari” è la “presa di coscienza” dei valori che devono guidare la sua vita: una casa, una famiglia, una posizione lavorativa non sembrano bastare. Poi l’incontro con testimoni autentici dei valori evangelici e il viaggio di un mese in Centrafrica, al seguito dei comboniani di Padova e Venegono, sono stati risolutivi per la sua crescita spirituale: è stato “un po’ un battesimo”.
Da lì l’Africa “è sempre stata un punto di riferimento, per quello che ti dà, nella sua povertà” o meglio in quello che noi consideriamo povertà, ma che per padre Moschetti è “una ricchezza”: la vita semplice, l’amicizia, l’accoglienza, il calore sono “doni impagabili, non puoi comprarli”.
In Africa, a Nairobi, ha compiuto i propri studi teologici e ha iniziato la sua pastorale: per 11 anni è tra i missionari comboniani che vivono tra le baraccopoli di Nairobi di Kiberia e Korogocho, dove prende il posto di un altro pastore delle periferie, il confratello Alex Zanotelli. “Alex per me è un amico, lo conosco già da prima di entrare nei comboniani. A Nairobi ci siamo ritrovati”. “Kiberia è la più grande baraccopoli della città: 800 mila persone in pochissimi chilometri quadrati. Qui ho scoperto la realtà delle baraccopoli, che sono ormai in tutto il mondo: la povertà, la miseria stanno diventando sempre più forti in tante parti del mondo, anche nelle nostre città, Milano, Roma, Torino. A Korogocho, con Alex lavoravamo con i più poveri e gli emarginati: alcolisti, prostitute, criminali, bambini di strada e ‘scavengers’, i raccoglitori di rifiuti della discarica di Dandora, di fronte alla baraccopoli. L’obiettivo del lavoro di Alex e degli altri confratelli, insieme ai laici, era mettere al centro della comunità cristiana i poveri: dai poveri gli altri trovano nuove motivazioni per la propria fede, battersi insieme per migliorare le condizioni di tutti”. A Nairobi ci sono 200 baraccopoli, “Korogocho è la più pericolosa, quella più povera, ci si vergogna di venire da lì e non lo si dice perché diventa difficile trovare un lavoro. È la quarta come numeri, 100-120 mila persone, ma tutti in un solo chilometro quadrato: ‘sardinizzati’ in baracche fatiscenti che qualcuno costruisce su terreno del governo per poi darle in affitto. Per questo con Alex ci siamo battuti perché la proprietà collettiva della terra: una lotta pericolosa perché va a toccare il denaro. L’altro grande problema è la discarica, che è vicinissima e che spara la sua diossina sugli abitanti ogni giorno: c’è una grandissima incidenza di problemi alla vista, alle vie respiratorie e ci si ammala di cancro. È successo anche a un nostro volontario che ha lavorato con noi per 15-16 anni: è morto qui in Italia in un paio di mesi di cancro ai polmoni”.

Incontro padre Moschetti mentre è a Ferrara per presentare il suo ultimo libro – presso il Centro Culturale il Quadrifoglio di Pontelagoscuro, in collaborazione con l’Istituto Gramsci di Ferrara – ‘Sud Sudan. Il lungo e sofferto cammino verso Pace, Giustizia e Dignità’, nel quale ricompone gli ultimi sette anni della sua vita. Negli incontri che sta facendo in tutta Italia, prima di partire per gli Usa, cerca di “parlare il più possibile di questo paese e di tutto il contesto del centro Africa, cerco di rompere il silenzio che c’è sull’Africa in generale. La realtà del Sud Sudan è solo un esempio di questo silenzio”.
E non si tira certo indietro su un tema particolarmente scottante: “le grandi migrazioni non sono quelle che riguardano l’Italia o l’Europa, sono quelle che si riversano sugli stessi paesi africani: la prima opzione è sempre quella africana”. Moschetti cerca di far uscire chi lo ascolta dai luoghi comuni, compreso quello di un continente ovunque uguale a se stesso, con gli stessi tragici problemi di povertà e sottosviluppo: “in alcuni paesi l’economia sta tirando molto forte, creando occasioni di lavoro. Etiopia, Kenya, Sud Africa, Angola, Mozambico, ci sono zone dove il lavoro c’è e le persone si spostano in gran parte in quei paesi. Il deserto e le coste del Mediterraneo per arrivare infine in Italia e in Europa sono l’ultima opzione”, senza nulla togliere alla “tragicità” di questa scelta.

In Sud Sudan “ci sono tutte le premesse per arrivare a una situazione del tutto simile a quella del Ruanda”: dinka e nuer sono le due etnie principali, ma intorno ai Nuer ribelli, ruotano almeno altre sette-otto etnie insofferenti della pretesa supremazia dinka, in totale i gruppi etnici presenti nel paese sono però almeno una sessantina. E, inutile dirlo, dietro a queste lotte tribali in realtà si cela “una lotta per il potere e le risorse”, immense. “Fosse solo il petrolio!”, afferma ironico padre Moschetti: “ci sono anche i giacimenti di minerali e poi terre fertili e l’acqua del Nilo Bianco e del Sudd, la seconda palude più grande al mondo, nel periodo delle piogge si arriva a 320 mila chilometri quadrati di acqua dolce”. “Stiamo parlando di un paese dove il 70% della popolazione è sotto i 30 anni e la vita media non arriva ai 50 anni”.
Il Sud Sudan ha raggiunto l’indipendenza dal Nord solo nel 2005, con un referendum arrivato dopo quarant’anni di guerra, e nel 2013 era già alle prese con un nuovo conflitto, questa volta interno: i dinka del presidente Salva Kiir contro i nuer dell’ex vice Riek Machar. “La speranza e l’entusiasmo dopo il referendum, soprattutto da parte dei giovani, quel poco che si era cominciato a fare nell’ambito della sanità e dell’educazione: tutto è andato perduto”. Negli ultimi quattro anni “l’inflazione è arrivata all’850%, con una moneta così svalutata non si può più acquistare nulla da fuori e nel paese c’è solo un’agricoltura di sussistenza. Il risultato è che, oltre alle violenze, ci sono 4 milioni a rischio di morte per fame, circa 2 milioni di profughi nei paesi limitrofi e 2 milioni di sfollati interni. La corruzione è altissima e le violenze all’ordine del giorno”.
Di tutto questo però non c’è traccia nel main stream dei mezzi di informazione, mentre sarebbe “fondamentale mantenere alto il livello di attenzione”. Moschetti non è tenero con i mass media e ne ha tutte le ragioni: “Ci conviene non dire tutto ciò che avviene in Africa, ne sentiamo parlare solo quando ci sono dei morti. Abbiamo cercato di convincere i giornalisti di grandi giornali a parlare dell’Africa in modo diverso, dei segni di speranza che ci sono, oppure a scrivere del Sud Sudan, ma ci hanno risposto: se non ci sono meno di cento-duecento morti non ne parliamo. Bisognerebbe trattare dei diritti delle persone non dei morti, fare giornalismo di prevenzione: questa è la sfida”.
In una situazione così intricata, da dove partire per cercare di iniziare un processo di pace?
“Il nostro motto di comboniani è: salvare l’Africa con l’Africa“. Niente a che vedere però con quello slogan “Aiutiamoli a casa loro” oramai così diffuso: “parole ipocrite di persone che non conoscono la situazione reale e non vogliono farla conoscere”, taglia corto Moschetti. Per quanto riguarda il Sud Sudan: “Pace, giustizia, dignità sono le parole fondamentali. Non si può prescindere da un ricambio generazionale della classe dirigente perché nessuno dei leader, da nessuna delle due parti, è più credibile. Inoltre ci deve essere da entrambe le parti una grande disponibilità e fiducia per elaborare la verità di ciò che è accaduto e guarire le ferite della memoria, per reimparare a conoscersi l’un l’altro”.

Prima di lasciare padre Moschetti gli chiedo di Papa Francesco, che ha scritto l’introduzione al suo libro: un missionario che lavora nelle periferie, come vede un pontefice venuto da una di queste periferie, dalla terra della Teologia della Liberazione?
“Papa Francesco è una benedizione, non ce ne rendiamo conto ora, ma lo faremo in futuro. Per noi missionari è un continuo stimolo, ci dà un nuovo entusiasmo per lavorare in tutte le periferie, comprese quelle esistenziali così diffuse nel Nord del mondo, tutti i giorni offre spunti enormi di riflessione e di azione. Avendo fatto esperienza di pastorale riesce ad avere e a realizzare una sintesi fra una visone della Chiesa e la realtà: la Chiesa deve essere calata nella realtà”.

Quella volta che… Ripartiamo dai bambini

da Luigi Medas

Ciao Riccarda,
l’argomento di grande attualità che hai proposto è sicuramente interessante e, ogni volta che devo esprimermi su questi episodi, provo sempre vergogna nell’appartenere allo stesso sesso di certi esseri (non saprei qualificarli in altro modo). Certamente come uomo posso avere una mia idea, anche se sono cosciente del fatto che, una donna, vivendo in prima persona da sempre questo problema, ha un approccio diverso per quanto riguarda le sensazioni perché purtroppo non è esente dal rischio e quindi lo vive di più sulla pelle.
Pur essendo totalmente contro qualsiasi episodio di violenza e di prevaricazione, vorrei fare un leggero distinguo tra uno stupro e i casi che recentemente abbiamo letto a proposito di attrici alle quali è stato imposto di avere relazioni sessuali in cambio di opportunità per la loro carriera. Non vorrei essere frainteso, detesto qualsiasi persona che richieda prestazioni sessuali in cambio di un qualsiasi favore, perché lede la dignità, è una sottile e subdola forma di violenza che riduce a un mero scambio di interessi qualcosa di bello come la sessualità, ma nel caso delle attrici c’è stata la richiesta e quindi la possibilità di rifiutare.
Non sto a sindacare se sia giusto o sbagliato l’aver accettato, credo che in questi casi solo chi è coinvolto è titolato a motivare la sua scelta. Mi sorprende solo il lungo silenzio, una denuncia, un cercare appoggio e consigli da altre donne, sarebbe stato forse necessario, forse avrebbe potuto interrompere questa lunga serie di vergognosi comportamenti da parte del produttore. Ripeto, condanno assolutamente il gesto del produttore, ma credo che alcune delle donne interessate, molte delle quali attrici affermate, avrebbero senza dubbio avuto il potere di fermarlo con le loro testimonianze, non capisco il ritardo, considerando che, una volta uscite allo scoperto hanno cominciato a ottenere il risultato di isolarlo e questo è già un passo avanti.
Per quanto concerne lo stupro, invece, la situazione è tragicamente diversa, in questo caso non c’è trattativa, prevale la legge del più forte, c’è solo violenza, prevaricazione, umiliazione, abuso, si toglie alla vittima la sicurezza, la serenità, la visione disincantata del sesso, la gioia e anche la fiducia verso gli altri. La vittima precipita in un incubo e molte volte si colpevolizza (questo è uno dei danni maggiori). Ho avuto modo di vedere, per motivi di lavoro, gli occhi delle donne che erano state violentate per motivazioni etniche, in questo caso marchiate anche con l’estrazione di un canino, una sorta di timbro per farle riconoscere da tutti e aumentare così in loro il senso di disagio sociale: posso dire che nei loro sguardi qualcosa era andato via, si era veramente spenta la luce, con quel vile atto avevano tolto tutto a queste povere vittime, mai come allora mi sono vergognato di essere un uomo.

La mia personale e opinabile idea è più favorevole alla denuncia di questi vili atti, se non altro per arrestare una catena di eventi che potrebbe coinvolgere altre donne: denunciando l’aggressore gli si impedisce di continuare il suo vergognoso comportamento. Non condanno le donne che non denunciano l’aggressore, perché purtroppo viviamo in una società condizionata da millenni di dominio della mentalità maschilista, nella quale si tende ancora a dare la colpa alla donna se rimane vittima di questi episodi, invece di insegnare che una donna se si veste in un certo modo, se sorride, se è gentile o premurosa, non sta inviando messaggi sessuali è semplicemente sé stessa e che l’unico colpevole è lo stupratore.
Non so se riusciremo a maturare a tal punto da far sparire del tutto questo problema. Credo si debba far qualcosa con i più piccoli, insegnando loro che siamo tutti uguali e che non esistono cose da uomo e cose da donna, esiste la possibilità di stare bene insieme quando le volontà coincidono in caso contrario, qualsiasi forzatura è violenza e questa non può essere perdonata. I bambini devono essere i destinatari del messaggio di una nuova concezione dei rapporti tra sessi, loro crescendo possono cambiare qualcosa, per molti adulti è ormai troppo tardi, sono profondamente radicati in convinzioni sbagliate e di comodo, perché è ovvio che all’uomo questa situazione offre ancora vantaggi.

Per tutte le donne e gli uomini che se la sentono di raccontare #quellavoltache, Ferraraitalia dedica loro uno spazio.
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Potere senza passione: la crisi dei partiti secondo Piero Ignazi

Piero Ignazi

I partiti come Leviatani ingessati, giganti dai piedi d’argilla, strutture giganti e autoreferenziali, con più potere e risorse, ma sempre meno legittimazione fra i cittadini. Questa sembra essere la visione del professor Piero Ignazi, politologo dell’Alma Mater di Bologna, editorialista e autore di diversi saggi su dottrine e sistemi politici.
Lunedì pomeriggio nella sede della Cgil di piazza Verdi, durante l’incontro ‘Democrazia, crisi della rappresentanza, populismi’, Ignazi ha disegnato uno scenario dalle tinte piuttosto fosche, a quanto pare condiviso dalla quasi totalità del pubblico. Sarà perché all’incontro – organizzato dallo Spi e dall’Istituto Gramsci di Ferrara – hanno assistito praticamente solo over 50, molto probabilmente affezionati a quel modello di partito di massa novecentesco del quale il professore ha decretato la fine?
“Negli ultimi quarant’anni i cambiamenti economici e sociopolitici hanno portato a una polverizzazione, a un’atomizzazione” non solo della ‘classe’, ma anche “dei valori, laici e religiosi, nei quali le persone credono”. “I partiti sono ancora in gran parte quelli della società industriale di inizio Novecento”, quella “delle grandi fabbriche”. “Questo modello non funziona più” nell’odierna “società postindustriale, dove c’è più ‘lavoro autonomo’ in senso lato e che esige disponibilità al cambiamento e flessibilità”.

Non vorrei essere fraintesa: non ce l’ho con chi, da pensionato o da adulto ormai maturo, si appassiona ancora, ha ancora voglia di ascoltare, imparare, riflettere su cose complesse, che non si possono inscrivere negli slogan dei populismi e nei 140 caratteri di un cinguettio, di confrontarsi – anche duramente – con altri, dal vivo e non attraverso un nickname e uno schermo.
Anzi, è il contrario: ce l’ho con chi non c’era. È vero, molti trentenni e quarantenni (dei più giovani non so ancora dire) spesso hanno trovato altre vie di partecipazione alla politica in senso lato, di presenza nella dimensione pubblica di esercizio della propria cittadinanza. Spesso alle tessere di partito hanno preferito quelle di associazioni che compongono la variegata galassia della ‘società civile’, ma molti, molti di più purtroppo pensano al proprio guicciardiniano ‘particulare’ – per rimanere in termini politologici – e spesso conta più l’avere rispetto all’essere, nel nostro caso di una parte o dell’altra.

Tornando all’incontro di lunedì pomeriggio con Piero Ignazi, l’unica consolazione sembra essere che la sfiducia dei cittadini nei confronti di partiti e istituzioni è “un fiume generale europeo”, non un problema solo italiano. E in una sorta di circolo vizioso, questa “depressione fiduciaria”, con sempre meno iscritti e legame con il territorio, porta i partiti a confondere “il potere con la fiducia” e ad arroccarsi diventando sempre più autoreferenziali, accaparrandosi contemporaneamente sempre più risorse finanziarie e più posti in aziende e amministrazioni pubbliche. Il rovescio della medaglia sono: corruzione, “persino in Norvegia il sindaco di un’importante città è stato beccato con le mani nella marmellata” sottolinea beffardo Ignazi, e lottizzazione, alla faccia della meritocrazia.
In tutto ciò i populismi sono “il campanello d’allarme dell’incapacità da parte dei partiti di riconnettersi in modo virtuoso con la società civile”, sfruttano “un sentimento di lontananza, uno stato d’ansia, di paura derivante dalla sensazione che le istituzioni e la politica non si occupino dei problemi della cittadinanza”. Si presentano come ‘i duri e puri’, mentre gli altri sono i ‘politici per professione’.

Oltre a “una maggiore parsimonia”, che riconduca la politica a una pratica di impegno pubblico per un obiettivo di carattere generale, alla gestione della cosa pubblica e non del potere, secondo Ignazi “è necessario reintrodurre elementi di vita collettiva nei partiti, per far interagire le persone tra loro”. E proprio qui, nella rete come strumento principe dell’isolamento dell’individuo, sta una delle poche critiche che il professore di Bologna fa al Movimento Cinque Stelle: “è un prodotto nuovo della politica europea”, “evito di irriderlo, anzi lo osservo con molto interesse”. A suo parere la creatura di Grillo e Casaleggio non è riconducibile alla categoria dei populismi: “i riferimenti culturali dei Cinque Stelle sono diversi” da quelli dei populismi europei, dietro ai quali c’è sempre “il nazionalismo”, non a caso “non parlano mai di popolo, ma sempre di cittadini, titolari di diritti in quanto singoli”. “Non è mai successo che un partito si presentasse per la prima volta alle elezioni e prendesse un quarto dei seggi”, sottolinea ancora Ignazi. “Come i partiti possano fare meglio” e proseguire sulla strada iniziata dal Movimento evitando contraddizioni, inciampi, scorciatoie, questo Ignazi però ancora non lo sa dire.

Quella volta che… il silenzio non è mai una soluzione

Quella volta che me lo sono trovata addosso, sopra e spingeva.
Era l’estate del 1989, avevo 13 anni, i miei genitori stavano costruendo la casa nuova, i muri dovevano asciugarsi e il mio compito era andare prima di cena a chiudere i battenti.
Quel giorno chiesi a un amico di accompagnarmi, era un ragazzo un po’ più grande che conoscevo da sempre. Chiusi le finestre del piano di sopra, si fece penombra e mentre scendevo le scale, lui mi prese e mi buttò sui gradini, mi salì sopra, cercò di baciarmi, di tenermi ferma. Era grande, pesante, muscoloso. Ed era un mio amico. Ma la sua voce era diversa, il suo respiro mi faceva schifo. Ho sbattuto la schiena sui gradini, ho urlato, sono scivolata via dalla sua stretta e sono scappata fuori. Se mi fossi paralizzata lì, tra lui e quell’odore di vernice fresca, non so cosa sarebbe successo, non ci voglio pensare, neanche adesso.
Non l’ho mai detto a nessuno perchè ero stata io che lo avevo invitato ad accompagnarmi e forse me l’ero cercata. Lo racconto oggi perchè in questi giorni si stanno sprecando giudizi e condanne su giovani donne che hanno accettato e taciuto. Non ho subito violenza sessuale nè un ricatto, ma il peso di un uomo che ti schiaccia quando non vuoi, il senso di sottomissione e paura sì. Il pensiero di essere in qualche modo complice o motore di una situazione che precipita, ti mette nel silenzio, anche per anni.
L’unica cosa che ho saputo dire, a casa, di quei momenti è stato “Mamma, non ho chiuso tutte le finestre, ero di fretta”.
Riccarda Dalbuoni

Per tutte le donne che se la sentono di raccontare #quellavoltache, Ferraraitalia dedica loro uno spazio.
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Riflessioni sul Nobel all’economista che ha risolto il problema delle cicche per terra

Mentre a Ferrara infuria la polemica sui bidoni della spazzatura con le calotte che limitano la possibilità di gettare i rifiuti tutti mescolati, il Nobel per l’Economia, in Svezia, l’hanno assegnato a uno che ha ispirato la Gran Bretagna a risolvere il problema di 2,3 milioni di cicche di sigarette buttate per terra ogni giorno. A vincere il premio più prestigioso del mondo è infatti l’americano Richard Thaler, fondatore della teoria del “nudge”, il pungolo, un “condizionamento gentile” da usare come strumento per indirizzare i cittadini verso comportamenti virtuosi. Grazie alle indicazioni di Thaler, in Inghilterra ad esempio, i mozziconi di sigaretta hanno iniziato a non finire più tanto per terra accumulandosi dentro i cestini doppi, dove ogni spegnimento corretto diventa un modo per esprimere un’opinione (e – tra queste – la più gettonata pare sia quella con “È più forte Cristiano Ronaldo o Leo Messi?”).

Cestino per le cicche di sigarette a Londra ispirato al Nudge di Thaler (da hubbuborg.uk)

Con la stessa teoria di pensiero del pungolo-nudge, all’aeroporto di Amsterdam hanno migliorato l’igiene delle toilette pubbliche maschili. Come? Stampando una mosca nera sulla ceramica degli orinatoi, che si è trasformata subito in stimolo al bersaglio degli utenti, portando a una riduzione dell’80 per cento dei tiri a casaccio che imbrattavano tutt’intorno. Per incentivare la raccolta differenziata, sempre a Londra e sempre seguendo le teorie thaleriane, sono stati lanciati i buoni punti da spendere nei negozi di quartiere, e il riciclo è cresciuto del 35 per cento.

Aeroporto di Amsterdam, particolare della toilette maschile dalla pagina di “Nudge blog”

Anche a Ferrara qualcosa del genere è stato provato in passato, perché ricordo che il conferimento di spazzatura alle stazioni ecologiche avrebbe dovuto fruttare un aumento dei punti del supermercato e uno sconto sulla bolletta. Ma devo dire che io, che ho dismesso batteria della macchina e bottiglie piene di olio refuso e mi sono presa la briga di portarle in uno dei centri Hera, non ho mai percepito alcunché né ho mai visto in bolletta indicazioni circa eventuali sconti. E questo significa che è bene promettere incentivi, ma è necessario poi mantenerli e renderli anche un po’ più tangibili.

Il libro più famoso di Thaler è proprio quello che diffonde la nozione di “Nudge. La spinta gentile”, scritto insieme con il giurista Cass Sunstein (che Obama aveva arruolato come suo collaboratore alla Casa Bianca), edito in Italia nel 2014 da Feltrinelli, ma già best seller nel mondo anglofilo dove – dopo la prima pubblicazione nell’aprile 2008 – ha raggiunto le 750mila copie vendute (vedi Amazon).

Cassonetti con calotta (foto Hera)

Un pungolo gentile contro lo smog che invade le strade del centro storico potrebbe essere anche quello che usano in città, come Milano o Bologna, dove l’accesso alla Ztl e altre agevolazioni di parcheggio sono riservati alle auto elettriche o con motore ibrido. L’Emilia-Romagna si era fatta promotrice a sua volta di questo incentivo, scontando il bollo per tre anni a chi acquistava una macchina così, ma scopro che dal 2017 il bonus è stato eliminato. Potrebbe essere, invece, un’idea da applicare anche a livello comunale, casomai decidendo di scontare degli oneri alle pizzerie di Ferrara che fanno la consegna a domicilio in centro storico nel caso in cui decidano di dotarsi di una flotta di motorini rigorosamente elettrici senza smog né rumori molesti su e giù dai ciottoli.

Magari, ora che Thaler ha vinto il Nobel, questi stimoli potrebbero arrivare meglio. E chissà che non possano diventare davvero più piacevoli per i cittadini le cosiddette buone prassi, i comportamenti giusti che rendono tanto più gradevole la vita di tutti. Senza minacce, ma con piccole e immediate fonti di soddisfazione reciproca.

Elogio della lentezza

La tirannia del tempo. La sua dittatura, il correre a tutti i costi per non arrivare in nessun luogo. Danaro, oggetti, lavoro, treni, aerei, bus. Oggi si ha fretta, sempre più fretta. Non un attimo in più per fermarsi a guardare un tramonto, per prendere per mano un anziano o fargli una carezza sulla testa canuta e stanca. Non c’è il tempo per raccogliere una margherita, per pungersi con una spina di una rosa mentre la si sistema lentamente in un vaso di cristallo, per camminare a piedi nudi sull’erba o per osservare una nuvola bianca che pare di panna. Bisogna affrettarsi, non si può perdere un minuto. L’ipermercato inghiotte, il telefonino ricorda i mille appuntamenti cui precipitarsi, l’agenda non perdona, WhatsApp non molla. Tutti sullo schermo, incollati a un presente che (s)fugge, a notizie che non sono più tali, tanto si legge in fretta e non si assorbe nulla di quelle parole rapide e sempre uguali. Le notizie sono ogni giorno le stesse, cicliche. Un settimana va di moda Kim, l’altra Donald, la successiva sembra che ci siano solo violenze. Le dita scorrono veloci su tastiere che commentano il nulla, i Social media riflettono vite di chi si sente spesso solo e naviga ormai nel vuoto. Il nulla avvolge. È più facile fare solidarietà a distanza, un’azione o un’adozione lontana, che metterla in pratica tutti i giorni, in prima persona. A parte il coinvolgimento emotivo, quest’ultima chiede tempo. E noi non ne abbiamo davvero…. Madre Teresa ricordava come oggi si hanno tanti beni materiali ma se si guarda veramente nelle nostre case spesso è difficile trovarvi il sorriso. Quel sorriso che è il principio dell’amore. La sola risposta alla solitudine. Ma anche questo richiede tempo… Il lavoro, i soldi, le bollette, la banca, le tasse, la macchina… Si deve tempo solo a questo. Ma se si corre sempre, quale è la meta? Non fatemi dare risposte che sappiano di riflessioni filosofiche impegnate o fataliste. Penso solo che si debba recuperare il proprio rapporto con il tempo. Quello che passa, che non ritorna, che va dosato, assaporato, coccolato, donato. Donato agli altri ma soprattutto a se stessi. Prendiamoci allora il lusso di ammirare un prato senza pensare a nulla, di riprendere energia guardando una montagna lontana, di meravigliarsi di fronte a una stella, di prendere per mano il nostro amore di sempre, di abbracciarsi, di baciarsi, di camminare senza meta, a zonzo, per le nostre belle città, con il naso all’insù, senza pensare a nulla. Riprendiamoci il tempo, quello che serve a stare con noi stessi, con la nostra famiglia, bambini o anziani che siano, con gli amici, gli animali. Un caffè spensierato o un gelato gustati piano piano davanti a un monumento glorioso valgono più di mille sms o di cento insistenti post. Un tuffo in libreria, un passaggio dal fioraio, una chiacchiera con il pasticcere, uno sguardo a un negozio di oggetti che parlano di passato, un panino, un fiore, una pedalata in bicicletta. Torniamo a essere persona, recuperiamo il diritto a non fare nulla, a oziare un po’, a ‘flâner’, direbbero i francesi. (Ri)prendiamoci il diritto alla lentezza. Perché questo è un elogio della lentezza. Quella vera.

 

Quando lo Stato sceglie la disoccupazione: l’economia neoclassica e la strategia del ribasso occupazionale

Scegliere tra sotto-occupazione e disoccupazione è la regola nell’economia neoclassica, economia che predilige l’alta disoccupazione e vince grazie al consenso dei cittadini.

L’Ansa ci informa che all’ILVA ci saranno all’incirca 4.000 esuberi, cioè dovranno essere licenziati 4.000 dipendenti. A coloro che rimarranno sarà applicato il jobs act, quindi niente garanzie assicurate dall’art. 18, e saranno cancellate anzianità e precedenti trattamenti economici.
Di certo non sarà il caso di lamentarsi per le nuove condizioni contrattuali, infatti rispetto ai licenziati che andranno ad aumentare l’esercito dei disoccupati italiani, chi rimarrà potrà ritenersi “fortunato” perché almeno avrà conservato il lavoro. E in tempo di crisi e di disoccupazione che supera il 10 per cento, si sa, un impiego a “tutele crescenti” pagato magari anche 800 euro al mese è, più o meno, una manna dal cielo.
Il punto è che l’italiano medio, oggi, può scegliere tra un’occupazione sottopagata e la disoccupazione, e persino nel pubblico, per la gioia dei neoliberisti della domenica tipo il censore Giannino, non si sta più tanto bene come una volta. Sempre di più i lavoratori convergono verso lo stesso punto, lo stesso destino ma incoscientemente divisi verso il baratro. Infatti se è vero che le grandi ditte assumono i nostri ingegneri a 1.400 euro al mese, che le banche non offrono più le belle condizioni lavorative di una volta, che le aziende del mitico nord-est faticano a rimanere aperte e che multinazionali come Ikea o MacDonald offrono quel che il mercato richiede, nel pubblico non si sta poi tanto meglio.
Il precariato continua ad esistere nell’insegnamento ed è stato introdotto nelle forze armate, le forze dell’ordine invecchiano perché si assume molto di meno anche se la sicurezza dei cittadini ne risente, infermieri e medici sono palesemente sotto organico. Tutti hanno visto i loro stipendi bloccati per anni e per tutti, e in maniera solidale, le pensioni verranno calcolate con il contributivo e saranno sempre più basse e distanti nel tempo.
La struttura sociale nella quale viviamo accetta questa condizione perché viene presentata ad arte come unica possibile. La scuola neoclassica che attualmente governa l’economia, e che non è più politica proprio per eliminare la possibilità di un coinvolgimento sociale o statale nelle decisioni che strutturano la nostra vita, non ammette l’esistenza di altre teorie economiche e quindi modella le sue decisioni in base a quello che c’è al momento.
E cosa c’è oggi? Abbiamo l’euro e i cambi fissi pur non avendo più una moneta legata all’oro, i capitali sono liberi di circolare senza restrizioni anche se questo causa crisi continue e dipendenza dai mercati finanziari, la finanza a sua volta è stata deregolamentata nonostante si sia concordi nell’attribuirle la colpa delle continue bolle, la BCE stampa soldi come se piovessero ma nulla arriva ai cittadini. Le banche falliscono ma vengono salvate dagli Stati a spese dei cittadini o dei risparmiatori (che stranamente vengono fatte sembrare categorie separate), Stati che però mai si spingono a salvare piccole o medie aziende in crisi il che potrebbe salvare tanti posti di lavoro e magari evitare il ristagno dell’economia reale.
Quindi la scuola neoclassica dell’economia (non economia politica) ragiona su quello che c’è e non su quello che potrebbe essere. Su una struttura che vede da una parte i ricchi che diventano sempre più ricchi nonostante le crisi, e dall’altra i lavoratori ai quali si possono togliere diritti e abbassare gli stipendi e quindi diventano sempre più poveri. Una struttura, insomma, che funziona molto bene per qualcuno e meno bene per altri. Altri che però si lamentano poco e si distraggono facilmente.
Infatti mentre i parlamentari (solo casualmente di sinistra) digiunano per lo “ius soli” che di sicuro gli porterà molto consenso, tutti si disinteressano delle politiche di austerità che vengono applicate solo ad alcune categorie sociali e del fatto che tutti gli interventi economico-politico-sociali non cambiano il quadro generale, anzi bloccano la crescita e aumentano la disuguaglianza a causa della elitaria distribuzione del benessere. Scelte che mantengono costantemente alta la disoccupazione, che in un mondo normale dovrebbe essere la preoccupazione principale per un governo di sinistra.
Mai far mancare però al ragionamento che, negli ultimi anni, ogni volta che si sono tenute delle elezioni la gente ha votato per i partiti che propendevano all’austerità (cioè abbattimento dei debiti pubblici, eliminazione della spesa a deficit e privatizzazioni con condimento di libero mercato e globalizzazione) e quindi, conseguentemente, ha accettato il mantenimento di un’alta disoccupazione e, per chi lavora, la perdita dei diritti acquisiti e di un trattamento pensionistico decente. Quindi perché lamentarsi? Forse l’idea che non esista alternativa è davvero incredibilmente profonda.
L’economia al comando tende a lasciare tutto come è adesso, con il beneplacito dei cittadini, e sposta le risorse esistenti da una parte all’altra a seconda del consenso che vuole ottenere senza mai crearne di nuove. Senza mai nemmeno provare a riformare la struttura affinché si possa scegliere, finalmente, tra un lavoro pagato bene e un lavoro pagato meno bene, tra un lavoro sedentario e uno che ti faccia viaggiare. Una struttura che tenda, finalmente, al pieno impiego con tutte le garanzie conquistate in decenni di lotte.
Ma per fare questo bisognerebbe vedere oltre la dottrina economica neoclassica al potere, immaginare che possano esistere altre dottrine economiche e, soprattutto, capire che se un governo decide di mettere risorse per la ricostruzione dopo un terremoto togliendole ai fondi per i diversamente abili, non ha cambiato politica economica, ha solo spostato risorse.
E anche che, se verranno licenziate 4.000 persone senza intervenire, ha fatto una scelta, quella di aumentare il numero dei disoccupati in modo tale che tanti altri accettino condizioni sempre peggiori pur di lavorare.

Omaggio (femminista) alla Catalogna

da Roberta Trucco

“Il dibattito sull’identità nazionale rinvia necessariamente a un dibattito antropologico sulla nozione di persona, soggetto o individuo” queste le parole di Teresa Forcades, monaca catalana benedettina, teologa femminista, medica, fondatrice di un partito politico, che in questi giorni si è espressa a favore dell’atto di disobbedienza civile compiuto da buona parte del popolo catalano. Un popolo che si è messo diligentemente in coda per votare un referendum dichiarato illegittimo dalla Corte costituzione spagnola, rischiando, come di fatto poi è avvenuto, la ritorsione della polizia .
Ho conosciuto Teresa circa tre anni fa e come dice molto bene Michela Murgia “Teresa è l’infrazione vivente di tutti gli stereotipi dell’immaginario collettivo sulle suore” e, aggiungo io, sulle donne.
È teorica della teologia ‘Queer’, non intesa, come oggi viene spesso proposta, a sostegno di un genere fluido e dunque neutro, ma al contrario come teoria che valorizza fortemente l’unicità e l’originalità di ogni singolo individuo.
La sua capacità argomentativa e l’autenticità sua e delle sue consorelle benedettine, così limpida e pacifica, mi hanno colpito da subito. L’affetto che mi lega a lei e alle monache di Montserrat mi spinge a interrogarmi sulla questione catalana e a cercare di darne una lettura indipendente dal pensiero dominante. Quanto successo a Barcellona il 1 ottobre ha secondo me una valenza simbolica molto importante per tutti noi, non solo per i catalani. Non credo si possa derubricare a puro egoismo, legato a interessi e benefici economici, il comportamento di più di due milioni di persone. Un comportamento di massa così civile e coraggioso, che non ha risposto con violenza alla violenza subita, non s’improvvisa. E’ evidente: il popolo catalano che ha votato ci ha offerto una lezione altissima di disobbedienza civile. Ma, dunque, qual’è la motivazione profonda che ha spinto più di due milioni a comportarsi così?

Io credo che alla base la risposta sia proprio quella teorizzata dalla Forcades. Esiste un nazionalismo positivo, fondato sul valore che si attribuisce alla Nazione intesa come parte che costituisce il nostro essere persona. Ciò che siamo è anche il frutto di ciò che abbiamo ricevuto senza sceglierlo: lingua cultura, storia, terra, famiglia, nazione. La globalizzazione neoliberista tende a cancellare le nostre identità peculiari in nome di un bene astratto superiore, tende all’omologazione sacrificando le nostre differenze. Il capitalismo neoliberista ha bisogno di cancellare queste differenze per poter funzionare, ha bisogno di omologazione per non dovere affrontare la complessità contemporanea e in un certo senso ne hanno bisogno anche gli Stati Nazione.

Questa la lezione che mi sento di assumere da questa vicenda. La solidarietà che arriva da più parti nei confronti dei catalani mi pare un dato importante. Le strumentalizzazioni da parte di politici a favore di un nazionalismo violento e sciovinista ci sono e continueranno ad esserci. Con coraggio Teresa ,e molti come lei, si battono per far passare invece un nuovo concetto di nazionalismo .
Vale la pena seguire con attenzione quello che sta succedendo, senza pregiudizi e senza rimanere inchiodati a luoghi comuni che semplificano la questione catalana a un puro desiderio secessionista e tentare con loro la faticosa costruzione di nuovi immaginari capaci di dare avvio a modelli di convivenza sociale e politica più umani.

Roberta Trucco
Classe 1966, genovese doc (nel senso di cittadina innamorata della sua città), felicemente sposata e madre di quattro figli. Laureata in lettere e filosofia. Da sempre ritengo che il lavoro di cura non si limiti all’ambito domestico, ma debba investire il discorso politico sulla città. Per questo sono impegnata in un percorso di ricerca personale e d’impegno civico, in particolare sui contributi delle donne e sui diritti di cittadinanza dei bambini.
Da alcuni anni dipingo con passione, totalmente autodidatta. Intendo contribuire alla svolta epocale che stiamo vivendo con la mia creatività unita a quelle delle altre straordinarie donne incontrate nella splendida piazza del 13 febbraio 2011 di Se non ora quando. Credente, definita dentro la comunità una simpatica eretica, e convinta “che niente succede per caso.”

Raee in carcere: una seconda occasione, non solo per i rifiuti

“Non si può stare in cella 20 ore al giorno con solo 4 ore di aria, 2 al mattino e 2 al pomeriggio”, “Una delle maggiori difficoltà è l’impatto quando si entra: se si inizia subito a socializzare, si riesce a passare il tempo impegnati a fare qualcosa, altrimenti è dura. È proprio come se ti dovessi ricostruire una vita dentro: scuola, lavoro, casa, ma non tutti riescono a farlo”.
Aamir è arrivato in Italia dal Marocco nel 2001 e ha iniziato a fare il manovale nel settore edilizio. È stato arrestato nel 2003, davanti a sé ha ancora un anno e mezzo di affidamento ai servizi sociali per terminare la pena. Lo incontriamo nel magazzino di via Boito della Cooperativa sociale Il Germoglio, dove si occupa della raccolta e del recupero dei Raee (rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) e dei toner per stampanti. Lui, infatti, è uno di quelli che ce l’ha fatta a riprendere in mano la sua vita, anche grazie alla Cooperativa Sociale Il Germoglio e al Progetto interprovinciale Raee in carcere.
“Ho sempre studiato e lavorato in carcere – ci tiene a sottolineare Aamir – ho fatto corsi di inglese, grafica, stampa digitale e mi sono iscritto a scuola completando il biennio delle superiori. Nello stesso tempo ho lavorato come manutentore, elettricista, giardiniere, aiuto cuoco: mi sono tenuto impegnato. È l’unico modo per non pensare a quello che ti sta intorno. Per questo è una fortuna che esistano progetti come Raee in carcere”.

E’ Barbara Bovelacci di Techne – consorzio forlivese che si occupa di formazione e inclusione – a spiegarci come è nato Raee in carcere: “nasce con Equal Pegaso, un programma europeo che finanziava azioni mirate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate tra cui detenuti ed ex-detenuti. Nel 2004 abbiamo presentato alla Regione Emilia Romagna e all’Amministrazione Penitenziaria un progetto con l’idea di lavorare sui rifiuti raee in tre province diverse, Bologna, Ferrara e Forlì-Cesena. Da lì è partito un ampio studio di fattibilità, con la consulenza del Gruppo Hera”. “L’idea alla base di Raee in Carcere – continua Bovelacci – è costruire un’alleanza tra enti di formazione e cooperative sociali di tipo b, che si occupano dell’inserimento lavorativo delle persone cosiddette svantaggiate: in questo caso IT2 a Bologna, Formula Solidale a Forlì, Il Germoglio a Ferrara. Le cooperative sociali hanno ruolo di vero e proprio inserimento lavorativo dei detenuti e di gestione dell’attività produttiva nei laboratori, mentre gli enti di formazione hanno la funzione di accompagnare e formare le persone e di seguire il coordinamento dell’iniziativa, favorendo la sinergia tra le tre province coinvolte. La Regione è stata promotrice iniziale del progetto e, con l’Amministrazione penitenziaria, svolge un ruolo di garante istituzionale. Attraverso il suo supporto è stato possibile stipulare il Protocollo di intesa con i Consorzi Ecolight, Erp Italia ed Ecodom”. Proprio qui, sottolinea Bovelacci, sta una delle specificità di questo progetto: “il coinvolgimento dei Consorzi in tutto il ciclo del trattamento dei raee garantisce la trasparenza dello stesso”. Legalità lungo tutta la filiera, dunque: niente esportazione dei rifiuti elettronici verso discariche nel Sud del mondo e niente commercio illegale di pezzi e materiali, come per esempio il rame, diventati più preziosi in questi anni di crisi.

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Per tutte le foto – compresa quella di copertina – ©Elisabetta Zavoli

“Nel 2009 – racconta ancora Aamir – è partito il corso di formazione per lo smontaggio dei raee e la separazione e il recupero dei componenti e dei materiali, stampanti, computer e cose così. Ho partecipato per 3-4 mesi e quando è iniziato il laboratorio per lo smontaggio dei grande raee bianchi, come lavatrici e lavastoviglie, ho lavorato con loro all’interno del carcere: ho iniziato con una borsa lavoro, poi il tirocinio e dal 2014 sono assunto con un part-time, ora che sono fuori in affidamento, mi occupo della raccolta dei raee e dei toner e continuo anche con la divisione dei materiali qui in magazzino”. “Partecipare a questi progetti offre l’occasione di essere positivo, di pensare in modo positivo al futuro, alla possibilità di fare qualcosa quando si uscirà: sono prove all’interno per quando sarai fuori e accompagnano nel percorso di uscita. Se uno non fa niente dentro, arriva a fine pena e lo mettono fuori, ma cosa può fare, dove può andare? Che possibilità ci sono per chi non ha una famiglia fuori? Invece con i corsi di formazione e i laboratori si inizia già a lavorare dentro e si viene messi alla prova prima con permessi e poi con la semilibertà. Tu stesso ti metti in gioco”. Non è facile come si potrebbe pensare: “è una questione di fiducia, che in carcere è difficile da guadagnare e facile da perdere, ma vale tutto”.

“All’interno esistono varie associazioni e realtà che aiutano i carcerati, donando oggetti e beni di prima necessità. Esiste anche un orto gestito dall’Associazione Viale K che fornisce ai detenuti prodotti agricoli (Galeorto). Noi però siamo l’unica cooperativa sociale che opera all’interno del carcere. Siamo entrati nel progetto Raee in carcere nel 2009 – spiega Nicola, responsabile del settore Ambiente de Il Germoglio – Ricordo il primo giorno dentro: quante porte, sbarre, sembrava di entrare in un altro mondo, proprio come vi ha detto Aamir”. “Siamo stati coinvolti da Hera che ha visto in noi il partner ideale grazie al lavoro che già stavamo facendo sui rifiuti, in particolare sui raee. Abbiamo iniziato attraverso un corso di formazione in carcere al quale hanno partecipato 12 detenuti. Di questi ne sono stati assunti 6, inizialmente in borsa lavoro, poi assunti via via dalla cooperativa”. Anche per questo Aamir parla di ‘fortuna’: “Con le altre realtà che ho conosciuto in carcere non c’era un prospettiva di assunzione vera e propria, non portavano molte persone fuori, Il Germoglio invece ne ha portate fuori molte”.
Fra gli obiettivi di Raee in carcere, infatti, oltre alla sostenibilità sociale e ambientale, c’è anche quella economica, in altre parole la produttività: “Il progetto attualmente si finanzia da solo e ci permette di dare lavoro a due detenuti per 15 ore settimanali. Vengono lavorate circa 20 tonnellate di materiale al mese. Il laboratorio ne potrebbe lavorarne anche di più e questo ci permetterebbe di assumere più persone”, spiega Nicola.
Della stessa opinione è Barbara Bovelacci, che alla domanda sulle criticità del progetto risponde: “E’ complesso farla crescere, rimane stabile come quantità di rifiuti trattati e quindi anche come numero di lavoratori. La nostra aspirazione è farla crescere, aumentando i soggetti coinvolti e il volume dei rifiuti trattati e recuperati e sottratti così al destino di rifiuti veri e propri e al mercato illegale”. L’altra sfida, conclude Bovelacci, “è misurare l’impatto sociale sul territorio per avere un quadro reale di quanto questo tipo di iniziative siano utili e sostenibili e poterlo comunicare agli stakeholder e a tutti i cittadini”.

E ora che sei ‘quasi fuori’ Aamir, che fai e cosa vuoi fare in futuro?
“Continuo a tenermi il più impegnato possibile – scherza – mi alzo presto e vengo qui in laboratorio verso le 8.30, faccio 4 ore di lavoro, pranzo e poi, come hobby, faccio piccole riparazioni di oggetti elettronici oppure faccio volontariato: fin da quando ero in semilibertà collaboro con Viale K e con il loro mercatino dell’usato, che ho contribuito ad avviare, e con la loro mensa. Il mio sogno è mettere su una piccola attività per riparazioni di smartphone, pc, tablet, e quindi sto cercando un corso da poter frequentare”.

INTERNAZIONALE
Dalla Brexit a Donald Trump: ecco a voi il sovranismo

Non è un insulto, né un sinonimo di autarchia o peggio di xenofobia. E’ un termine alla moda, tanto abusato nella nostra attualità, quanto poco chiaro. ‘Sovranismo’, ecco la parola incriminata, è anche il titolo dell’incontro tenutosi sabato 30 settembre al dipartimento di Economia e Management dell’Università di Ferrara, durante il Festival di Internazionale a Ferrara.
L’incontro, presieduto dal giurista di Unife Alessandro Somma, ha permesso di analizzare il concetto che ci rende possibile la categorizzazione dei più recenti fatti politici e sociali, dalla inaspettata Brexit alla sorprendente vittoria di Donald Trump, nonostante in entrambi i casi tutti i media fossero dichiaratamente schierati.

Per comprendere il significato di un termine come sovranismo, è necessario non solo avere un retroterra che comprenda nozioni specifiche su cosa siano lo Stato, la sovranità popolare, le organizzazioni diverse da quella statuale, ma anche tenere presente la particolare situazione economica in cui versiamo. Una situazione che deriva da precise ideologie – altro termine estremamente ambiguo! – che governano ancora oggi il mondo occidentale, “in particolare il neoliberalismo”, con le sue innegabili conquiste e contraddizioni. E’ forse la globalizzazione quella più evidente: la libera circolazione dei capitali, ma allo stesso tempo la forte compressione delle libertà politiche, con una trasmigrazione verso “la post-politica – o post-democrazia, o ancora post-sovranismo – della nostra epoca”, chiamata non a caso dalla sociologia post-modernità.

Se Reagan e la Thatcher furono coloro che diedero avvio a tutto questo, oggi Trump e la May stanno percorrendo la strada del dietrofront. Sì, ma verso dove? La risposta è nelle notizie che tutti i giorni ci arrivano da ogni parte del mondo: vi è un bisogno diffuso di “porre fine alla attuale spoliticizzazione e democrazia solo formale”, in altre parole c’è bisogno di tornare a fare politica nel senso aristotelico del termine, come è nella nostra natura. “Lo scollamento tra Stato e nazione sta accentuandosi in maniera irreversibile”, ma questo non vuol dire che si debba tornare indietro annullando tutto ciò che è avvenuto a partire dal secolo scorso – sarebbe una posizione antistorica e anacronistica. Non sappiamo “quanto il capitalismo, responsabile dell’abbassamento dei salari e dell’aumento della pressione fiscale su chi è più debole nei nostri Paesi, sarà ancora il protagonista della nostra società”, ma ciò che sicuramente può essere fatto per contenere i suoi danni sul benessere della cittadinanza è “democratizzarlo”, attraverso politiche che favoriscano la piena occupazione e quella che un tempo era la giustizia sociale.

E così una nuova politica, una vera democrazia, renderanno impossibili le imposizioni più o meno vere di chi grida “ce lo chiede l’Europa!”

La sostanza relazionale del bene e del male

di Vincenzo Masini

Durante le mie ricerche ho lavorato profondamente sulla distinzione tra giudizio e condanna per contrastare l’equivoco presente nel ‘non giudicare’ mal tradotto dal Vangelo. E’ un controsenso visto che il giudizio – e non mi piace sfumare l’equivoco ricorrendo al termine valutazione – è un’operazione mentale continua e sana. Ho lavorato sulla distinzione tra ‘giudicare’, che è nella mente delle persone ed è solo un processo cognitivo, e ‘condannare’: questo sì un atto relazionale e sociale.
La questione è estremamente rilevante perché induce a molte contraddizioni anche sul piano dell’interpretazione della parola.
Il giudizio può essere difficile e a volte sbagliato.
L’albero buono produce frutti buoni e l’albero cattivo produce frutti cattivi. Questa è l’indicazione più semplice per formulare un giudizio; si giudicano assaggiandoli: buoni oppure cattivi se hanno un brutto sapore o se velenosi. Poi si può condannare l’albero, sradicandolo, oppure lasciarlo li. Si può avvisare gli amici della bontà o della pericolosità dei frutti: questo è un atto educativo. Oppure tenersi le informazioni per sé, laddove non si voglia passare per calunniatori dell’albero.
Per questa via si perviene a “ti giudico ma non ti condanno“, lasciando questa seconda parte a chi fa il mestiere del giudice e amministra una pena e, parimenti, si può socializzare il giudizio mettendo in guardia la comunità degli umani sulla nocività dell’albero. ‘Non giudicare’, invece, è la via buonista, ipocrita e opportunista, perché non prende posizione nei confronti dell’albero che, poverino, non lo fa apposta ad avvelenare le persone.
In questo equivoco siamo molto più immersi di quanto non pensiamo, tanto da sviluppare sensi di colpa – se giudichiamo – o opportunismi ipocriti – se non giudichiamo.

Quando si affronta la questione in senso morale ecco che sopraggiunge la ‘questione del male’. Il male esiste? Ha una sua natura? Ha una sua strategia? È semplicemente una conseguenza dell’agire umano o esiste la malvagità in sé?
Charles Baudelaire, il poeta dannato dei Fiori del Male, afferma: “Il più bel trucco del Diavolo sta nel convincerci che non esiste!”, nonostante tutta la letteratura e tutte le scritture ne discutano e ne propongano le più impressionanti immagini.
Le teologie più recenti si muovono, invece, nella direzione della non esistenza del male e lo vedono come un prodotto dell’assenza di amore nel rapporto tra gli uomini. La loro tesi è che il male appare quando Dio non c’è e risolvono in questo modo la questione dell’infinita Onnipotenza (perché, se Dio è onnipotente, non elimina il male?) e della infinita Bontà (perché, se Dio è infinitamente buono, non estingue il male e ce ne libera?). Dunque Dio o non è onnipotente o non è buono.
La soluzione di dichiarare che il male non esiste o che è solo attribuibile alla negatività umana risolve questo ‘giudizio’ su Dio. Contemporaneamente questa teologia ha però il merito di liberare gli uomini dalla paura, dall’oppressione, dai sensi di colpa, dalla dimensione di peccatori che attendono o la misericordia di Dio come premio per le loro azioni oppure la condanna come pena da scontare. È infinitamente triste il ricorso a una immagine di un Dio punitore e inquisitore, perdendo di vista il modo in cui Gesù Cristo ce lo ha invece presentato: come un ‘Papà Buono’. Non nego che nel corso della storia probabilmente il timor di Dio è servito per motivare azioni malvage, odi, stragi, violenze, attraverso la paura della punizione. Forse però anche questa interpretazione può essere messa in discussione fondandosi sul pentimento, autonomamente scaturito in uomini, anche decisamente malvagi, che hanno però convertito il loro operato.

La teologia della relazione affronta la questione da un altro punto di vista. In primo luogo la relazione interumana è fondata sulla risonanza delle onde cerebrali nei momenti di empatia. Tale risonanza, proposta attraverso la scoperta dei neuroni specchio e verificata attraverso la neuroimage e le consonanze degli eeg, consente di dare sostanza alle diverse curve d’onda e di leggerle nella loro qualità di prodotto oggettivo dell’agire relazionale interumano (e non solo). L’amore sarebbe dunque una sostanza prodotta all’interno della relazione che rimane come un dato oggettivo anche al di là della mente delle singole persone che lo sperimentano. L’aumento della sensibilità empatica consente di percepirlo anche in certi luoghi, in certi ambienti, all’interno di particolari momenti di comunione tra persone. Tale sostanza è ciò che si è sempre chiamato ‘spirito’, termine che oggi sostituiamo erroneamente con ‘clima sociale’, ‘vibrazioni in sintonia’, ‘incontro tra i corpi sottili’, ecc.
Erroneamente perché la relazione che dà vita al mondo, quella tra Padre Celeste e Gesù di Nazareth, si chiama Spirito Santo e ha consistenza di Persona all’interno della Trinità.
Il termine persona è una semplificazione indispensabile per prendere consapevolezza dell’intenzionalità, della volontà e dell’irradiazione affettiva nel mondo dello spirito, come caratteristiche delle Persone della Trinità. Ciò consente l’uscita da religiosità che cercano di interpretare le leggi dello spirito all’interno degli schemi, prodotti dall’uomo, più svariati. Ed è questa l’originalità del Cristianesimo, come Gesù spiega a Nicodemo: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito“. Dove vuole è l’intenzionalità della Persona Divina. Del resto se io, essere umano, sono persona, Dio che è più di me deve essere come minimo Persona, oltre un infinito numero di altre cose. Se Dio non fosse persona sarebbe meno di me!
La sostanza relazionale dell’amore è dunque un dato di realtà che, oltre ad essere sintonia nella relazione è sostanza in sé percepibile attraverso lo sviluppo della propria consapevolezza e della propria sensibilità spirituale mistica e ascetica.

E il male? Posto che la sostanza spirituale del male sia prodotta dalla sintonia tra costellazioni cerebrali in uomini che ne condividono il sapore e agiscono di conseguenza, o nei rapporti asimmetrici tra vittima e carnefice in tutte le loro forme possibili (dalla tortura fisica alla squalifica di una professoressa nei confronti di un alunno), questa dimensione assume una valenza spirituale e diventa essa stessa sostanza.
Se è stato l’uomo a produrre il male ormai il male è un prodotto in libera circolazione nello spazio e nel tempo e ha una sua natura e una sua intenzionalità, indipendente da chi lo ha messo in moto. Sottovalutare la presenza del male nel mondo ci espone al grave rischio di non riuscire più a interpretare, nemmeno moralmente, quanto sta accadendo in questa fase della nostra storia evolutiva.
La riproduzione del male e del dolore, nella sua invarianza nella storia, determina ormai la sua presenza nel mondo indipendente dagli umani. Così come esiste la sostanza della relazioni positive e produce benessere spirituale e sociale, anche la sostanza del male prodotta dalle relazioni negative si riproduce nella storia.
Distrarsi e dimenticarlo può essere davvero spiritualmente pericoloso, soprattutto quando tale sostanza malefica sembra aver raggiunto livelli di autocoscienza tali da percorrere vie strategiche per far fallire il progetto di Dio sull’uomo. E per allontanare l’uomo dalla Felicità.
Se oggi osserviamo la manipolazione delle idee e delle informazioni prodotte dall’establishment non possiamo non prendere atto che sono superati i livelli di guardia: non è solo condizionamento di opinioni, ma un processo che intacca le scelte educative e relazionali della vita quotidiana delle persone.
La tecnologia di manipolazione chiamata finestra di Overton, per esempio, ha lo scopo di abituare la gente all’inaccettabile attraverso passaggi successivi che rendono addirittura legale la stessa idea fino a ieri impensabile.

Questa tecnica si fonda sull’ipocrisia e sugli irretimenti che le persone subiscono a causa dei loro copioni primitivi e impedisce lo sviluppo di sane relazioni interpersonali. Abbiamo così accettato il declino dei valori, la diffusione della droga, del gioco d’azzardo, la teoria del gender, la burocrazia informatica, il clientelismo, la corruzione, il consumismo, l’immigrazione forzata, la privacy, la precarietà, le perversioni sessuali, il sadismo, ecc. E ora accetteremo gli obiettivi del Bildelberg e della Trilateral delle multinazionali: la globalizzazione imperante, la guerra, la legittimazione della pedofilia, il ritorno alle aristocrazie medioevali e un sostanziale ripristino delle servitù della gleba. Il capitalismo è oggi una religione che fa della meritocrazia (corrotta) un culto finalizzato alla legittimazione delle disuguaglianze, dove i demeritevoli sono scacciati perché sventurati. La struttura che regge questo sistema è un impianto? Un apparato? Un sistema? E’ la finanza internazionale? E’ il mercato? E’ il denaro? E’ una necessità? E’ il caso? A fronte di tutte queste numerose categorie interpretative ciò che sta alla base del reticolo di potere appare sotto il nome di ‘male’, che si presenta cosciente, consapevole e intenzionale. E la lotta contro questo male non può essere efficace se non parte dal giudizio e dalla condanna e se, soprattutto, non mette in gioco il vero territorio della battaglia: il mondo delle sostanze relazionali o, meglio, il mondo dello spirito.

Dunque il quadro del potere nel mondo si presenta oscuro sia per la caduta delle libertà democratiche mediante raffinati e mutevoli sistemi elettorali sia per i conflitti/intese tra i gruppi di potere. E’ assai probabile che, non essendoci alcun progetto (anche utopico) di società, la web society si presenti come sistema in perenne crisi con continui riaggiustamenti e cambi di linea.
Nel frattempo l’avanzata tecnologica renderà minima la partecipazione attraverso il lavoro liberando i ‘servi della gleba’ dalla fatica del lavoro, ma privandoli dell’identità di produttori.
Tutto ciò apre però un immenso spazio per la formazione di relazioni evolute specialmente nel mondo giovanile che, progressivamente affrancandosi dalle monocordi comunicazioni dei social (pur usandole con competenza) proverà il desiderio di sensazioni, emozioni e sentimenti carichi di sostanza affettiva.
Occorre però che siano in grado di esprimere giudizi e di ricevere protezione dalla sostanza relazionale maligna che circola nel sistema. Ecco perché non va sottovalutato il male e le sue strategie.
Può però diventare oggi possibile un progetto di lavoro che tendenzialmente riguarderà il futuro assetto del sistema sociale fondandosi sulla costruzione di piccole molecole relazionali che costruiscono ed hanno cura del rapporto che si crea tra le persone molto più che dei risultati socialmente visibili e politicamente/economicamente spendibili. Come del resto la storia umana ci ha mostrato attraverso i fari di civiltà e di evoluzione nati nel contesto di comunità, piccole nel mostrarsi ma gigantesche nel proporsi come capisaldi del mondo dello spirito.

INTERNAZIONALE
Gli ‘hater’: quando l’odio corre lungo la rete

Maurizio Crozza con il suo Napalm51 li ha resi un po’ meno antipatici e inquietanti: sono gli ‘hater’, individui che passano le proprie giornate sui loro profili social a insultare gli altri e a mettere in mostra sé stessi; croce e delizia di ogni personaggio pubblico, perché inondano la rete con i loro commenti sprezzanti, più o meno sgrammaticati, e tuttavia se non sei stato insultato insultato almeno una volta su fb o su tw, che personaggio sei?
Nel divertentissimo incontro di Internazionale di domenica pomeriggio ‘Odio tutti’, con Claudio Rossi Marcelli di Internazionale, la giornalista e bioeticista Chiara Lalli e Kyrre Lien, videomaker e fotogiornalista norvegese, si è cercato di capire un po’ meglio chi sono questi follower-hater

Chiara Lalli “è un’esperta di odio perché se lo va a cercare”, ha scherzato Rossi Marcelli, “ha scritto di omogenitorialità, aborto, obiezione di coscienza e il suo ultimo libro parla di mitomani”, “io sono un padre gay e quindi anche io mi prendo la mia bella dose di insulti” – da aggiungere a quelli come giornalista: pare che il più classico sia “ma lo pagate anche per scrivere quelle str**ate?” – mentre Lien è “l’autore del documentario ‘The Internet Warriors’” e gli insultatori li è proprio andati a cercare in tutto il mondo partendo dai loro profili virtuali.
A quanto pare il tipo più comune è maschio, giovane o di mezza età, che vive lontano dalle grandi città, di cultura medio bassa. Perciò l’idea che alla fine scrivano così tanto e con così tanta cattiveria perché non hanno nulla di meglio da fare, forse non è poi così sbagliata. Alcuni hanno scritto fino a mezzo milione di commenti: “avrebbero potuto scrivere un libro, persino un’enciclopedia, invece hanno scritto commenti fb”, scherza Rossi Marcelli. “Il primo che ho incontrato – ha raccontato Lien – è stato un ragazzo che abitava in un villaggio norvegese che non aveva un lavoro, viveva con il sussidio e passava ore e ore a scrivere in internet”.

Siamo tutti potenzialmente odiatori” ha messo però in guardia Chiara Lalli: quello che salva molti di noi sono quie pochi minuti di riflessione fra l’impulso di scrivere e il metterlo in atto. Oltre al facile accesso a una dimensione globale e virale e all’anonimato, garantiti dalla rete, secondo lei c’è la componente del “considerarsi geni, esperti di qualsiasi cosa, per cui gli altri sono delle mezze seghe che se non ti stanno a sentire meritano di essere insultati”. Secondo Lien, invece, bisogna distinguere “fra le persone veramente piene d’odio” e quelle che in realtà sono solo frustrate e “gridano attraverso i loro commenti perché altrimenti nessuno li ascolterebbe”.
A parere di tutti e tre quello che preoccupa è non solo che tutte queste persone pensano di avere il diritto di fare commenti così aggressivi, ma soprattutto il distacco, il contrasto fra realtà vera e realtà virtuale nella loro vita.
La soluzione contro questi haters? Secondo Lien “bisogna incontrarli e parlarci”, aiutarli a vedersi dal di fuori; secondo Chiara Lalli la cosa migliore è ignorarli oppure usare “l’ironia e il senso del ridicolo”, dato che loro si prendono sempre così sul serio.

La domanda vera però è quella emersa verso la fine dell’incontro e riguarda la società nella quale questo fenomeno è nato e si alimenta: una società nella quale nascono pagine e gruppi fb dove si augurano e si minacciano le cose peggiori a chicchessia e sembra che il fatto di scriverle in rete le faccia diventare meno terribili, mentre rimangono veri e propri linciaggi anche se telematici. Una società dove alla morale e al senso del pudore di dire e di fare si è sostituito il moralismo e l’esibizionismo e dove quando il più forte schiaccia il più debole posta il video su internet per vedere quanti visualizzazioni e like riceverà.

Guarda il documentario The Internet warriors su Youtube

INTERNAZIONALE
Vaccini sì, vaccini no: se ne parla a Internazionale

Il filo conduttore di questa undicesima edizione di Internazionale a Ferrara è la prospettiva, per guardare e informare dalla giusta distanza (ammesso che ne esista una o solo una).
Proprio da qui è partito il gettonatissimo incontro ‘Il doppio peso dei vaccini’: sabato pomeriggio i posti della Sala dei Comuni del Castello Estense erano già esauriti dalle persone in coda fin da un’ora prima dell’inizio.
Come giustamente ha affermato Ilaria Sotis, giornalista di Rai Radio1 e moderatrice del seminario, il tema dei vaccini divide subito almeno in due categorie, a seconda della prospettiva dalla quale lo si guarda: nei paesi in via di sviluppo c’è una sempre maggiore richiesta di accesso, in occidente al contrario cresce la diffidenza. I vaccini dividono però anche da un altro punto di vista: a seconda che in ballo ci sia la salute pubblica delle popolazioni oppure i profitti delle multinazionali dell’industria farmaceutica.

Una cosa è certa: da qualunque parte lo si guardi il peso di questo settore è importante. Il mercato dei vaccini vale 20 miliardi di euro e il nostro sistema sanitario nazionale investe in vaccini circa 300 milioni. Eppure nel mondo 19 milioni di bambini non accedono ai vaccini e un milione e mezzo di persone muore perché non è stato vaccinato.
“Nei paesi in via di sviluppo un bambino su cinque non è vaccinato”, ha spiegato Rohit Malpani di Medici senza frontiere, “il nostro obiettivo è l’immunizzazione universale”. Secondo Malpani ci sono tre problemi strutturali. I vaccini “non sono accessibili economicamente” per esempio perché non coperti dal sistema sanitario nazionale; “non sono adatti alle condizioni nelle quali operiamo”, perché in molti paesi manca l’elettricità e non li si può conservare correttamente rispettando la catena del freddo; “non esistono vaccini per le patologie che affliggono persone povere in paesi poveri perché le industrie farmaceutiche non ci vedono profitti”.

Ma i vaccini e più in generale i farmaci, che sono necessari per la salute, possono essere considerati alla stregua di qualsiasi altro bene di consumo? Secondo l’economista canadese William Lazonick non è così, perché “c’è un interesse pubblico” ed ecco perché esistono istituzioni sanitarie pubbliche, non ci si deve rassegnare all’idea che “le cure sanitarie siano un prodotto che ci si può o non ci si può permettere”: le cure sono “un diritto”. A suo parere il problema è la “finanziarizzazione delle industrie farmaceutiche”. “I profitti non dovrebbero essere il fine ultimo, ma un mezzo per reinvestire in ricerca e sviluppo e creare così nuovi farmaci migliori e a prezzo più accessibile”; il problema è che “i profitti sono degli azionisti, gli utili vengono perciò redistribuiti fra di loro e non reinvestiti”.
Nel decennio 2006-2016, continua Lazonick, “tra le cinquecento più grandi industrie quotate in borsa censite da Standard and Poor’s diciotto facevano parte del settore farmaceutico per un fatturato totale, sempre in questi dieci anni, di 525 milioni di dollari: 516 di questi sono stati redistribuiti agli azionisti”. Quanto rimane per ricerca e sviluppo? A voi lettori la risposta.
E non è finita qui: secondo un suo studio “nel 2005 trentacinque alti dirigenti di aziende del settore farmaceutico guadagnavano mediamente 35 milioni di dollari”, una retribuzione “strettamente legata alle performance delle azioni di quelle aziende”.

Secondo Luca Arnaudo, dell’Antitrust, in un settore ad alti investimenti come quello farmaceutico “la tendenza all’oligopolio è naturale”. In questo contesto la fortuna dell’Italia, a suo parere, è “la fantastica situazione di trasparenza. Siamo l’unico paese in Europa nel quale tutti i risultati delle gare d’appalto per le forniture sono disponibili e pubblici”: “abbiamo una grande disponibilità di dati”, quello che manca è l’uniformità. Venendo al tema del nuovo piano di vaccinazione, che ha scaldato il dibattito italiano in questi ultimi mesi, Arnaudo premette che l’Antitrust “non se ne deve occupare”, essendo una “questione di politica sanitaria” e non di concorrenza. Ammette però che “qualsiasi politica sanitaria ha una ricaduta sul settore farmaceutico”: “se un vaccino viene inserito in un piano vaccinale nazionale, questa per l’azienda è una garanzia di acquisto perciò non c’è incentivo ad abbassare il prezzo”.

Interviste sul Futuro di Ferrara: eBook

Da Asino Rosso eBook Ferrara

E ‘ on line l’eBook “Ferrara città d’arte. Virtuale o Reale” (Asino Rosso edizioni, Ferrara), ovvero una serie di interviste a cura di Roby Guerra (già edite negli ultimi anni su riviste e testate on line, local e global) sul futuro di Ferrara.  Interviste a artisti, scrittori, docenti universitari, anche giornalisti e politici speciale guest, della città d’arte contemporanea: lo stesso sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani e il rettore  (a suo tempo) Unife  Pasquale Nappi, gli stessi  giornalisti Marco Zavagli (direttore di Estense.com) , Riccardo Roversi (anche scrittore ed editore) e il direttore di Ferrara Italia, Sergio Gessi.  Non ultimo, oltre allo stesso Guerra si segnalano sempre di Ferrara Italia collaboratori…  Bruno Turra e Claudio Pisapia. Infine scrittori e artisti ( e politici)  noti o relativamente  meno noti “ferraresi” completano il quadro: Carlo Andreoli (Alo), Lorenzo Barbieri, Pier Francesco Betteloni, Bruno Corticelli, Marcello Darbo, Federico Felloni, Zairo Ferrante, Claudio Fochi, Sylvia Forty, Raimondo Galante, Maurizio Ganzaroli, Sergio GnudI, Davide Grandi, Luca Grigoli, Pier Luigi Guerrini, Maria Letizia Paiato, Rita Pasqualini, Alfredo Pini,  Francesco Rendine,  Alberto Squarcia, Vitaliano Teti,  Vittorio Zanella, Carlo Zannetti

Trattasi di un lavoro atipico ed originale nel dibattito culturale ferrarese, una sorta di futurologia di Ferrara città d’arte (come non a caso ha già segnalato la testata web nazionale di orientamento scientifico “MeteoWeb).

Una congettura a più voci, aperte e intenzionalmente anche contraddittorie e diverse che evidenziano scenari paradossalmente in equilibrio tra futuri prossimi ferraresi verso una nuovo rinascimento 2.0 o neodecadenti e neomedievali.

Info

http://www.mondadoristore.it/2020-Ferrara-citta-d-arte-AAVV-a-cura-di-Roby-Guerra/eai978882649293/

 

METEOWEB

http://www.meteoweb.eu/2017/09/futuro-del-villaggio-elettronico-ferrara-modello-2-0/974288/