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Come cambia la città del futuro: l’Italia, un interessante banco di prova

di Marco Mari

Casa, dolce casa
Comunemente il concetto di casa è associato a valenze positive, soprattutto nella cultura italiana, possedere la propria abitazione è da sempre un valore che va ben oltre il pur importante aspetto economico. Ma siamo in presenza di una evoluzione economica, tecnologica e culturale senza precedenti.
Proprio le nuove tecnologie, si pensi anche a una semplice termocamera, stanno portando a una maggior consapevolezza sul reale funzionamento e sugli impatti di quel sistema sempre più complesso e monitorato che chiamiamo edificio. Uno degli aspetti che tra i primi è emerso nella percezione collettiva è quello economico. La percezione del costo di mantenimento per i consumi di acqua, luce e gas sta sempre più incidendo nel bilancio economico di fatto favorito dalla attuale crisi. Basterà a tal fine ricordare che considerando la totalità dei costi di un edificio nel suo intero ciclo di vita, ben l’80%, è imputabile ai costi di gestione e che, anche solo usando le tecnologie collaudate e disponibili in commercio, il costo per il consumo di energia può essere ridotto dal 30 all’80% e quello per i consumi di acqua fino al 40%. Ma non è tutto, gli aspetti finanziari da soli non sono sufficienti per comprendere una crisi che è ben più ampia e riguarda ben altre risorse.
Più di recente la terra, anche per i movimenti tellurici, ha riportato al centro dei nostri pensieri vecchie preoccupazione per i cambiamenti climatici e la relativa scarsità di risorse ambientali. Parimenti, la consapevolezza dell’impatto degli edifici sugli aspetti che governano tali equilibri, e viceversa, si è fatta strada. Se ne sono accorti anche a COP21, che per la prima volta ha aperto un tavolo dedicato alla filiera dell’edilizia, il “Buildings Day”.

Edifici, problema o opportunità?
Gli edifici utilizzano circa il 40% dell’energia mondiale, il 25% di acqua globale, il 40% delle risorse globali, ed emettono circa 1/3 delle emissioni di gas serra – dichiara l’UNEP (United Nations Environment Programme environment for development). Inoltre, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’incremento delle patologie allergiche e dell’asma è direttamente correlabile a fenomeni di urbanizzazione ed alla crescente tendenza delle popolazioni occidentali a vivere gran parte del tempo in ambienti chiusi. Secondo dati ISTAT del 2009 in Italia le malattie respiratorie, dopo le malattie cardiovascolari e neoplastiche, rappresentano la terza causa di morte.
Non bastasse ciò, aggiungiamo quanto ai recenti terreoti, ci accorgiamo immediatamente delle vittime che potevano essere evitate, ma l’amarezza aumenta quando consideriamo che in assenza di una politica di prevenzione, scopriamo che tra il 2010 e il 2012 sono stati spesi più di 3 miliardi e mezzo all’anno per i terremoti e per la riparazione dei danni e che dall’immediato dopoguerra ad oggi sono stati spesi più di 180 miliardi.

Non credete sia il caso di realizzare un serio piano di prevenzione?
Dunque siamo nella necessità di dover affrontare molti aspetti, ma quale per primo? Probabilmente il tema vero è proprio un cambio di passo sulle politiche della prevenzione. Seppure l’attuale Governo ha iniziato ad attuare alcune politiche, il progetto “Casa Italia” ad esempio, è chiaro che ancora non ci siamo, si tratta di uno sforzo mirato a una gestione dell’immediato e focalizzato sulle criticità più evidenti. Serve affrontare il problema ambientale, trasformandolo in una opportunità e iniziare a diffondere in modo concreto una cultura della prevenzione che non sia preda delle priorità contingenti o delle paure, ma sia frutto di una analisi oggettiva, lucida, ma soprattutto sistemica.
È necessaria una vera e propria ridefinizione delle politiche finalizzate al bene comune che deve essere progettata partendo proprio da una profonda conoscenza del territorio. In primo luogo ascoltando le istanze dei cittadini, coinvolgendoli in un processo di ascolto e analisi partecipata, poi mappando i rischi ambientali, ricordandosi che non esiste solo il terremoto, ma anche i rischi idrogeologici, o altri come ad esempio la presenza di radon (gas cancerogeno che esala dal terreno). Dunque il primo punto è legato alla conoscenza, perché senza un’analisi completa si rischia di fornire soluzioni parziali, non sistemiche e aggiustare una parte peggiorando l’altra. Un ulteriore tema è legato alla finanziabilità delle opere ed al relativo reperimento di risorse: si può iniziare integrando quanto già esistente, fornendo gli attuali strumenti di finanziamento (sismico, idrogeologico, efficientamento energetico) in modo da supportare e valorizzare quegli interventi che affrontano in modo integrato, olistico, il “sistema edificio”. Altro ingrediente di una pianificazione integrata è la definizione di uno sforzo congiunto per una “formazione diffusa”, che permetta agli attori (RUP, progettisti, costruttori, etc.) di poter operare in modo trasparente e corrente. Infine, serve ricordarsi che l’ambiente costruito ha un sostanziale impatto sull’ambiente ed oggi il pianeta, in senso letterale, richiede strategie ambientalmente, socialmente ed economicamente sostenibili.
Mi piace a tal fine ricordare quanto già scriveva, non molto tempo fa, la persona che più ha influito sulla community italiana dell’edilizia sostenibile, Mario Zoccatelli: “Un piano nazionale per la riqualificazione edilizia e urbana non può infatti essere concepito come un semplice dispositivo amministrativo accompagnato da qualche incentivo finanziario. Come già evidente in alcuni paesi. In tal senso, riteniamo la sostenibilità come una visione d’insieme dell’economia e del vivere; per quanto riguarda l’edilizia, è una prospettiva di medio‐lungo periodo che coinvolge la cultura dei cittadini e degli operatori, i sistemi tecnici, quelli produttivi, quelli economici e finanziari, nonché leggi, regolamentazioni, ruoli delle istituzioni.”

Il Green Building: un trend in crescita a livello mondiale
In questo contesto, qualsiasi piano l’Italia o i singoli territori andranno a definire, non ci si può scostare dalle principali prassi consolidate a livello internazionale, per dirla con le parole di un altro caro amico e maestro, Andrea Cirelli, “non ci si può reinventare l’acqua calda”. Serve legare l’azione alla innovazione e ai nuovi approcci alla sostenibilità. In tal senso il mercato internazionale, e più timidamente quello nostrano, hanno già definito la traiettoria. La rapida diffusione dei diversi protocolli di certificazione di sostenibilità degli edifici sta infatti trasformando radicalmente la domanda di materiali, sistemi e tecnologie per l’edilizia. Gli studi internazionali relativi ai trend di crescita del settore delle costruzioni sostenibili parlano di un incremento del mercato di dati senza precedenti:
1 – 462 milioni di metri quadrati di edifici certificati con i principali protocolli internazionali (LEED, BREEAM, GREEN STAR)
2 – 1,5 miliardi di metri quadrati di edifici attualmente in corso di certificazione
3 – 960 miliardi di dollari di investimenti previsti entro il 2023 per la riqualificazione sostenibile del costruito
4 – 70% di incremento del mercato globale del green building entro il 2025
Ulteriori studi effettuati negli ultimi dieci anni, soprattutto sulla base dei dati raccolti da edifici realizzati negli USA per edifici certificati secondo i protocolli LEED, hanno dimostrato che gli edifici “verdi” tendono ad avere maggiore valore patrimoniale rispetto agli edifici tradizionali.
Inoltre, sono a loro volta collegati con vari vantaggi oltre quello del risparmio energetico, tra i quali la salubrità degli ambienti abitati, la valorizzazione della bonifica del terreno (quando necessaria), la riduzione dei consumi di acqua, la gestione dei rifiuti (sia in fase di cantiere che di gestione dell’immobile), l’accessibilità e i trasporti, l’assetto idrogeologico, la biodiversità, la qualità economica e sociale, le logiche di circular economy e di sharing economy.
Ulteriori vantaggi sono direttamente collegabili alla creazione di nuove professionalità legate al green building, sopratutto nei casi in cui le città si impegnino in programmi di riqualificazione.

L’ Italia? Un interessante laboratorio
L’Italia costituisce, sotto questo profilo, un formidabile banco di prova per quanto riguarda la capacità di raccogliere le sfide che attendono l’economia mondiale nei prossimi decenni. Un settore edilizio dove ancora oggi la quantità fa premio alla qualità, un territorio tradizionalmente “sfruttato” più che pianificato, un patrimonio paesaggistico, naturalistico, culturale ed artistico che, nonostante tutto, continua a rappresentare un asset di primaria importanza a livello mondiale; ma anche una tradizione architettonica e ingegneristica che affonda le radici nella storia antica, un tessuto economico e produttivo che, nonostante la lunga crisi, vede tuttora la presenza di esperienze pilota e di eccellenza.
Anche per il quadro normativo nazionale ci sono interessanti novità in costante evoluzione, come ad esempio il Piano di Azione Nazionale sul Green Public Procurement (Decreto Interministeriale 135 dell’11 aprile 2008), la legge 221 del 18 dicembre 2015 (cosiddetto collegato ambientale) concernente disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali, il Nuovo Codice Appalti (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50) con particolare riferimento all’ Art. 34 (Criteri di sostenibilità energetica e ambientale, nonché i Criteri Ambientali Minimi per l’edilizia (CAM Edilizia, DM 21 gennaio 2016), alla cui redazione ho fornito un piccolo contribuito in rappresentanza di GBC Italia, partecipando attivamente al Gruppo di Lavoro proponendo un approccio integrato e olistico, che consenta di valutare la sostenibilità dell’edificio in quanto struttura complessa e “progettata”, coerentemente con i principali sistemi di rating e certificazione dell’edilizia sostenibile nazionali e internazionali.
Tutto questo porta a individuare nel settore edilizio (e più generalmente nella progettazione e manutenzione dell’ambiente costruito) uno dei settori su cui puntare per una nuova economia, recuperando con il concetto di prevenzione anche quelle prassi e modalità che anticamente hanno reso il nostro Paese tra i più apprezzati al mondo, restituendo dignità a un settore edilizio, consapevolmente e decisamente orientato verso la qualità e la sostenibilità, che possa riprendere un ruolo guida.

Marco MariLaureato in ingegneria elettronica con specializzazione in ingegneria gestionale, master in sistemi di gestione della qualità, ha una ventennale esperienza nei temi della sostenibilità e della certificazione, con particolare focalizzazione nella filiera dell’Edilizia Sostenibile, su aspetti inerenti i sistemi di rating per green building, commissioning, green product, asset management, sistemi di gestione della qualità e dell’ambiente nel settore pubblico e privato.
Opera a livello nazionale e internazionale con importanti organizzazioni tra le quali Bureau Veritas come Senior Advisor; GBC Italia, già come Vice Presidente e responsabile degli schemi di certificazione (per protocolli LEED Italia NC e protocolli GBC Italia) e attualmente Membro del Consiglio di Indirizzo; Fondazione Montagne Italia, quale Membro del Comitato Scientifico; è attualmente Presidente dell’Advisory Board di Ongreening.com l’innovativa piattaforma internazionale sul green building e i green product; ha partecipando a gruppi di lavoro in ambito UNI, UNCEM, FEDERESCO, WorldGBC, USGBC, GBC Brasil, Provincia Autonoma di Trento ed altri. Recentemente ha contribuito alla definizione dei Criteri Ambientali Minimi per l’Edilizia collaborando attivamente nel gruppo di lavoro in seno al Ministero dell’Ambiente.
Nell’ambito del green building vanta una eccellente esperienza nel coordinamento di molti progetti di alto profilo, anche nel coordinamento di team di commissioning dei sistemi HVAC, nazionali ed internazionali.

Come cambia la professione del progettista alla luce della green economy

di Marco Mari

Sostenibilità ed edilizia
Il tema del Green Building è sempre più preponderante, per procedere verso gli obiettivi recentemente previsti da COP21 in merito alla meta degli edifici di nuova costruzione “quasi zero energy building”, ma anche e soprattutto per favorire l’ammodernamento degli edifici esistenti secondo la logica della “deep renovation” coerentemente a quanto anche richiesto dalle recenti Direttive UE. La rapida diffusione dei diversi protocolli di certificazione di sostenibilità degli edifici sta infatti trasformando radicalmente la domanda di materiali, sistemi e tecnologie per l’edilizia. Gli studi internazionali relativi ai trend di crescita del settore delle costruzioni sostenibili parlano di un incremento del mercato di dati senza precedenti . Anche in Italia i segnali non mancano, seppure in un quadro non sempre omogeneo, la direzione appare obbligata alla luce del Nuovo Codice Appalti, e dei requisiti per il GPP definiti nei Criteri Ambientali Minimi per l’Edilizia emanati con decreto ministeriale in gennaio 2016.
L’importanza di coniugare Cultura e Sostenibilità
Come dimostrano le esperienze di altri molti paesi europei, e alcuni casi italiani, la rigenerazione urbana e territoriale è un ambito dove l’azione congiunta di pubblico e privato può sviluppare rilevanti vantaggi economici, sociali e culturali valorizzando patrimoni edilizi e territoriali ora degradati, o comunque inadeguati sotto il profilo strutturale, tipologico, energetico e ambientale. Condizione essenziale per un’azione realmente “costruttiva” è, ovviamente, costituita dal totale e convinto rispetto delle radici culturali e del genius loci.
In particolare in Italia il tema degli “edifici storici” è di cruciale importanza. Considerato che per “edificio storico” si intende un manufatto edilizio che costituisce “testimonianza materiale avente valore di civiltà”. Sono dunque così identificati i manufatti edilizi riconducibili all’interno dell’ultimo ciclo storico concluso, che per la zona europea coincide con l’industrializzazione edilizia e, quindi, devono essere realizzati prima del 1945. Circa il 30% del parco immobiliare italiano è stato costruito prima del 1945 e costituisce un ambito di particolare interesse in relazione sia ad interventi di sostenibilità, sia di restauro e conservazione, costituendo una parte importante del patrimonio storico-culturale del nostro paese.
Ferrara? Un interessante laboratorio internazionale.
Non è dunque un caso che proprio nel nostro paese sia stato elaborato GBC Historic BuildingTM, uno strumento innovativo che nasce – ad opera di GBC Italia – dalla sintesi dei criteri internazionali di sostenibilità dello standard GBC-LEED® e del vasto patrimonio di conoscenze ed esperienze proprie del mondo del restauro italiano. Operazione a suo tempo coordinata dalla Facoltà di Architettura di Ferrara.
Così come non è un caso, che proprio a Ferrara, città patrimonio dell’umanità, si stiano sperimentando i concetti legati alla riqualificazione e al restauro in importanti edifici storici, tra i quali citiamo la Riqualificazione del Museo della Shoah, quella di Palazzo Gulinelli e in fine il restauro del Castello Estense.
Un dibattito aperto, che Ongreening coordinerà a SAIE 2016.
Nello specifico, Ongreening in qualità di Main Partner di SAIE 2016, ha siglato un accordo con SAIE, H2O ed Edilio, finalizzato alla valorizzazione di edifici, prodotti e sistemi per l’edilizia al fine di promuovere una visione sostenibile e resiliente del mercato, ha strutturato un percorso di seminari parte della SAIE ACADEMY .
In questo quadro, Ongreening ha progettato un percorso di 8 brevi seminari (con crediti formativi) che verranno realizzati presso l’arena di SAIE Innovation.
Vari i temi posti ai quali autorevoli relatori forniranno un contributo:
quali sono le sfide che dovranno affrontare i professionisti?
Come prepararsi a una evoluzione della professione che riafferma la centralità del progetto e chiede garanzie delle prestazioni delle opere?
Quali competenze devono avere i progettisti?
Quali scelte devono operare i produttori di materiali, prodotti e sistemi per l’edilizia?
Quali strumenti di supporto possono essere individuati nel mercato per far fronte alla sempre più pressante domanda di una economia basata su principi di sostenibilità?
La struttura dei seminari è stata pensata per offrire ai professionisti e alle imprese informazioni ed aggiornamenti sulle tematiche collegate alle principali evoluzioni nazionali ed internazionali del mercato dell’edilizia sostenibile.
Per gli interessati, a questo link, il programma completo http://intro.ongreening.com/618957/
Per ulteriori informazioni sulla community Ongreening
Un rapido video che rende sinteticamente l’idea della nostra missione:
https://m.youtube.com/watch?v=EJChcRkXXLA&feature=youtu.be
Il portale Ongreening.com, Ongreening è main partner di SAIE 2016:
https://www.youtube.com/watch?v=ZAR1Sr-zAko
http://www.saie.bolognafiere.it/iniziative/ongreening-nest/6502.html

Marco MariLaureato in ingegneria elettronica con specializzazione in ingegneria gestionale, master in sistemi di gestione della qualità, ha una ventennale esperienza nei temi della sostenibilità e della certificazione, con particolare focalizzazione nella filiera dell’Edilizia Sostenibile, su aspetti inerenti i sistemi di rating per green building, commissioning, green product, asset management, sistemi di gestione della qualità e dell’ambiente nel settore pubblico e privato.
Opera a livello nazionale e internazionale con importanti organizzazioni tra le quali Bureau Veritas come Senior Advisor; GBC Italia, già come Vice Presidente e responsabile degli schemi di certificazione (per protocolli LEED Italia NC e protocolli GBC Italia) e attualmente Membro del Consiglio di Indirizzo; Fondazione Montagne Italia, quale Membro del Comitato Scientifico; è attualmente Presidente dell’Advisory Board di Ongreening.com l’innovativa piattaforma internazionale sul green building e i green product; ha partecipando a gruppi di lavoro in ambito UNI, UNCEM, FEDERESCO, WorldGBC, USGBC, GBC Brasil, Provincia Autonoma di Trento ed altri. Recentemente ha contribuito alla definizione dei Criteri Ambientali Minimi per l’Edilizia collaborando attivamente nel gruppo di lavoro in seno al Ministero dell’Ambiente.
Nell’ambito del green building vanta una eccellente esperienza nel coordinamento di molti progetti di alto profilo, anche nel coordinamento di team di commissioning dei sistemi HVAC, nazionali ed internazionali.

DIARIO IN PUBBLICO
Da Roma a Varsavia

Nella pletora delle iniziative dei centenari spiccava per qualità e interesse l’invito dell’Istituto di cultura italiano e dell’Università di Varsavia al convegno internazionale su ‘Giorgio Bassani: ‘sostanzialmente un poeta’.
Così dalla tre giorni romana si passa alla due giorni nella capitale polacca. Ma prima di prendere l’aereo val la pena di ritornare al resoconto delle giornate romane per sottolineare una visita che il capogabinetto del ministro Franceschini, il ferrarese dottor Daniele Ravenna ci ha voluto offrire: una visita di straordinario interesse alla Crociera del Collegio Romano sede del Ministero dei Beni culturali. Qui è custodita parte della Biblioteca di Archeologia e storia dell’arte e qui attraverso i libri è possibile viaggiare, come è stato sottolineato, ‘nel luogo della memoria scritta’. Un’opportunità unica concessa da un ferrarese ai ferraresi. E’ un importante segno di quanto il Ministero tenga alla buona riuscita dei centenari ‘ferraresi’.
Mi si rimprovera inoltre di non avere menzionato la visita alla Domus aurea, luogo un po’, come dire, funesto per la sua solennità e sotterraneità, ma immagini immortali ci consegnano l’ingresso degli intrepidi visitatori ferraresi muniti di una specie di cuffia da bagno e dal caschetto giallo che fa molto radical chic.
Varsavia ci accoglie sotto un diluvio di acqua e di vento con i quali si doveva lottare per arrivare attraverso sconcertanti passaggi dall’aereo (ovviamente low cost) all’uscita. Poi il sole spunta e i curiosi relatori ammirano i bellissimi colori dell’autunno polacco. Sempre per rendere le cose facili l’albergo universitario e rigorosamente essenziale (!) in cui alloggiamo è solo a sei chilometri dalla sede del convegno che si tiene in pieno centro storico. Comincia una straordinaria caccia al taxi che se non è contattato telefonicamente ti sfugge, si nasconde, s’infratta e a seconda delle compagnie può richiederti una somma assolutamente spropositata per gli standard di laggiù oppure ridicolmente bassa, e alla fine, con il sole che ritorna, ecco dispiegarsi la Varsavia che non conoscevo: elegante, mondana, ridipinta. Una capitale che niente ha da invidiare alle altre capitali europee. Ci si aggira per i luoghi deputati accompagnati da una giovane storica dell’arte che parla perfettamente l’italiano. E tra il cuore di Chopin e il ghetto ebraico è tutto un susseguirsi di Oh! Oh! Un po’ come gli scolari in gita premio. Già sogno un giretto in carrozzella, ma sono immediatamente sconfitto. Anna Dolfi, mai sazia e instancabile camminatrice, continua a proporre cose nuove e lunghe, lunghissime passeggiate mentre, il dolente Venturi ad ogni piè sospinto invoca ‘taxi, taxi…’
Il laborioso pomeriggio si conclude in un ristorante ebraico dove squisite specialità vengono imbandite senza soluzioni di continuità e per le quali secondo l’esigenza di chi scrive tocca l’onore di un assaggio, per cui l’immediato soprannome affibiatomi ‘mezza porzione’. Il giorno seguente, le visite canoniche al Castello che custodisce due straordinari Rembrandt e nove Bernardo Bellotto, che solo lì viene chiamato Canaletto in quanto lo zio, il vero Antonio Canal, concede a lui, autore delle vedute di Varsavia, di potersi fregiare del suo nome. Nelle innumeri sale, tutte rifatte dopo la guerra, schiere di bimbi con in testa corone di carta sfilano vocianti, e con loro intrattengo interessantissimi colloqui a base di smorfie e gesti. E di nuovo il Ghetto ci accoglie con le sue accoglienti latterie che altro non sono che trattorie mentre, ispirato, il poeta e critico Alberto Bertoni tra le voci più interessanti intervenute nel convegno così racconta la visita al Castello nel suo prosimetro in viaggio:
“E in effetti muoversi senza capir nulla della lingua né parlata né scritta del luogo in cui ci si trova, crea molto spesso effetti distorti, scene di aperto straniamento. Varsavia è stata quasi integralmente rasa al suolo dai tedeschi, durante la Seconda guerra mondiale, e quindi tutti gli edifici “antichi” che ne popolano il centro storico sono ricostruiti pietra su pietra, talvolta coi materiali originali, molto più spesso no. Il centro è dunque un falso, per chi pretende l’autenticità originaria del reperto: tuttavia, la ricostruzione è riuscita, quasi mai kitsch, e le scolaresche di ogni ordine e grado partecipano in massa, e non poco interessate, a questo loro teatro della Patria Inautentica. A ciò pensavo, osservando una figura sbilenca e grottesca che attraversava un salone del Palazzo Reale ondeggiando verso di me e il mio amico Gianni Venturi, per scomparire subito dietro una porticina proibita ai visitatori. Viene avanti, oscilla en travesti vigile urbano o commodoro dal fondo del pavimento a scacchi suo centro e tutto il berretto con gli alamari d’oro che gli avvolge la testa, nuca compresa, viene avanti e imbocca una porta altamente proibita ai non polacchi, facendo ciao con la mano a scolari incoronati di cartoni multicolori alle segrete dei nostri cuori.”
E Varsavia ci regala sorprese inaudite come lo sbalorditivo Polin Museum, il museo dell’Ebraismo, giustamente premiato come il più importante Museo del 2016.
Aggirarsi tra quelle sale, nella ricostruzione di una via del Ghetto con la sala cinematografica dei film ebraici degli anni trenta o un pavimento in cui, seguendo i passi dipinti sulla superficie in legno e al ritmo della musica, s’impara a ballare o aggirarsi tra le sale infinite della Shoah, dove una moderna tecnica fa muovere le celebri fotografie dell’esodo del Ghetto, è un’esperienza sconvolgente. Si muovono pure deliziosi e umoristici disegni di rabbini che entrano ed escono dalla sinagoga rifatta e completamente decorata e come bambini ci si perde a stampare su torchi lignei alcune litografie. Un viaggio a Varsavia val la pena farlo solo per visitare questo museo. Poi si esce e si ritorna nella grande piazza del Castello attratti da eleganti panchine in marmo nero. Ci si siede, ed ecco: premendo un bottone sulla seduta si diffonde una mazurka o una polonnaise di Chopin. Non sono né scherzi né adesioni alla tecnologia imperante ma un modo intelligente e nuovo di adeguarsi al proprio tempo e alle nuove conoscenze.
E finalmente giunge il primo giorno del convegno impeccabilmente organizzato dall’amico e collega Alessandro Baldacci e sostenuto dalla direttrice del Dipartimento Hanna Serkowska a cui mi lega la passione per Elsa Morante. Arriva l’ambasciatore, arriva il direttore dell’istituto di cultura, persone affabili e che ‘non se la tirano’ poi, dopo il bellissimo discorso di Anna Dolfi, il mio intervento che è una testimonianza affidata alla voce di Bassani che legge Rolls Royce e Le leggi razziali. Gli occhi dei giovani dottorandi si accendono di luce nuova e la giornata trascorre nel tentativo riuscito di riportare proprio lì nella citta martire la poesia di un ebreo ‘sostanzialmente poeta’.
Forza della poesia, forza della memoria, e nemmeno ci pesa, pur con il rimpianto di lasciare una nuova patria dell’animo, di trascinare i nostri bagagliucci nell’abitacolo dell’aereo che ci riporta a casa sotto lo sguardo annoiato di una hostess severa e leggermente fanée.

DOPO SISMA
La ricostruzione è arrivata all’apice: riaperta la Torre dei Leoni

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Il panorama visto dalla Torre dei Leoni del Castello Estense è bellissimo. E non ne ha scalfito il fascino neanche la pioggia che, venerdì 14 ottobre, cadeva insistente durante la cerimonia di inaugurazione della riapertura della Torre, tenutasi nella Sala dei Comuni del Castello alla presenza del sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, la responsabile U.O. Castello Estense del Comune di Ferrara Ethel Guidi, la responsabile UOC Progettazione Sismica della Provincia di Ferrara Angela Ugatti e il vicesindaco e assessore alla Cultura e al Turismo del Comune di Ferrara Massimo Maisto.

La Torre dei Leoni è la più antica del Castello Estense ed intorno ad essa fu successivamente edificata l’intera fortezza, residenza per secoli dei duchi d’Este. Prima dell’edificazione del Castello di San Michele, infatti, la Torre dei Leoni era un’antica torre di guardia posta a presidio delle mura poste a nord della città e della vicina ed importante porta detta del Leone, oltre la quale si stendeva un piccolo borgo che portava lo stesso nome. Resa inagibile dal sisma del 2012, dopo una serie di lavori di rifacimento e consolidamento della struttura, finalmente la Torre dei Leoni torna ad essere fruibile anche dai cittadini ferraresi che da sabato 15 ottobre, risalendo i suoi 120 gradini, potranno godere di una vista mozzafiato sulla città estense. In collaborazione con la società Itinerando s.n.c., per festeggiare la riapertura della torre, sono state organizzate una serie di “vedute guidate” di Ferrara e dalle balaustre della torre si potrà ammirare tutto il centro storico, con le sue piazze ed i suoi palazzi, fino alla cinta muraria.

Chi visiterà il Castello sabato 15 e domenica 16, nella fascia oraria tra le 11 e le 13 e tra le 14.30 e le 16.30, potrà ascoltare sulla torre i racconti e le spiegazioni di una guida dedicata (per l’accesso alla torre è previsto un supplemento di € 2 al costo del biglietto d’ingresso al museo del Castello).

La visita al monumento e la salita alla torre sono possibili secondo il consueto orario 9.30-17.30 (chiusura biglietteria Torre+museo Castello: 16.00; chiusura biglietteria museo: 16.45). In occasione della riapertura al pubblico la Torre dei Leoni, dal 14 al 23 Ottobre, sarà inoltre oggetto di un’illuminazione temporanea che sottolineerà, grazie ad un sapiente gioco di luci, gli aspetti caratteristici dell’edificio valorizzandone il fascino immutato nei secoli.

Riflessioni sulla scuola che ci aspetta: salvare il desiderio di aggregazione dalla deriva individualista

di Loredana Bondi

Vorrei riprendere le parole e i pensieri espressi da un caro amico, Giovanni Fioravanti che nella rubrica “La città della conoscenza” di questo giornale, ha offerto spunti di riflessione interessanti e di rilevanza politico sociale notevole. Se solo la gente potesse ancora essere attenta a ciò che sta succedendo intorno e su di sé, in un tempo così veloce che sfiora l’impensabile e che spesso non dà modo al pensiero critico di misurarsi con la realtà.
L’ultimo articolo dal titolo “Morte annunciata di una mensa” mi ha particolarmente “costretta” a reagire, ad esprimere delle ragioni, in sintonia completa con l’autore, anche perché, nel mio lavoro di Direzione dell’Istituzione dei servizi educativi-scolastici di integrazione per le famiglie del Comune di Ferrara, ho avuto a che fare con il mondo dell’educazione, per cui il momento mensa era visto in ogni grado di scuola, un momento socioeducativo importante al pari, per qualità e obiettivi, di altri momenti della vita scolastica. Ne ho gestito tecnicamente l’organizzazione tenendo conto di ogni condizione sociosanitaria che poteva frapporsi alla normale fruizione di un momento comune di sana e corretta alimentazione. Tralascio la definizione dei controlli preventivi e periodici durante la fruizione degli stessi pasti, sia fatti in cucine interne che esterne, la loro diversificazione in rapporto ad un dietetico equilibrato sia nella comune alimentazione che in quella diversificata (per i bambini soggetti a patologie e/o allergie preparati con apposite procedure di cottura), i loro valori nutrizionali, la provenienza prevalentemente biologica dei cibi, sulla cui qualità d’insieme siamo addirittura stati chiamati a presentarne l’organizzazione in diversi paesi Europei, a dimostrazione, tra l’altro, dell’alto valore delle scelte “politico-educative” fatte dal nostro Comune negli ultimi due decenni.
Che oggi un giudice giunga addirittura a sentenziare che sul diritto alla mensa prevalga il panino fai da te, perché prima di tutto viene il singolo, l’individuo, la persona, mi lascia davvero sconcertata. Andrò anche a leggermi la sentenza perché a quel giudice vorrei illustrare altre motivazioni di cui forse non ha assolutamente tenuto conto. Ma ciò che più mi sconcerta è l’atteggiamento dei genitori, delle nuove famiglie, e non dimentico certo alcune concrete motivazioni addotte, da quelle di tipo economico a quelle di esigenza sanitaria a cui alcuni bambini devono soggiacere, alle condizioni non sempre giuste e corrette con cui l’organizzazione delle mense viene proposta. Sul piano economico, nel Comune di Ferrara, si è sempre fatto fronte con la richiesta del reddito familiare (ISEE) e, in molti casi, la retta per i pasti poteva essere ridimensionata o addirittura eliminata.
Non voglio entrare nei dettagli, ma su questo intervento, che si fonda sulla libera scelta del genitore, credo si dovrebbe discutere molto, e soprattutto dovrebbero parlare le educatrici, le insegnanti dei vari ordini di scuola, ponendo il tema come tanti altri importanti problemi educativi, per una crescita sana ed equilibrata dei bambini, attivando davvero “quell’alleanza educativa” che prevede la definizione di un vero e proprio patto di corresponsabilità fra scuola e famiglia.
Per restare al tema specifico della scuola, sottoscrivo ogni parola dell’articolo di Fioravanti, soprattutto a proposito del percorso di conquista attivato dalla scuola pubblica anche riguardo al “momento mensa” come momento educativo al pari di ogni altra attività di apprendimento-insegnamento scolastico. Quello che più mi affligge, purtroppo, è il silenzio del mondo della scuola, dei dirigenti, degli insegnanti e non so se ciò sia imputabile alla confusione generale che aleggia nel paese. Mi sembra, d’altro canto, che il diritto dei figli sia spesso “avvilito” dalla pratica quasi “padronale” del dovere del genitore di decidere su come deve essere tutto ciò che il figlio deve fare e che nessuno possa mettere in discussione questa posizione, tantomeno la scuola. Fatto salvo che quando sorgono problemi (manifestazioni di violenza, passività, indifferenza o condizionamenti pericolosi), sempre più spesso il genitore non sa dove sbattere la testa, difficilmente sa mettersi in discussione e accusa il sistema scolastico di colpe che spesso albergano altrove…
Ma dopo tutte le lotte passate molti di noi ancora sostengono il valore vero della scuola pubblica, dell’apprendimento, insomma dell’educare alla libertà e al rispetto dell’altro come emancipazione non solo del singolo, ma della società. Mi chiedo cosa e dove abbiamo sbagliato, se i risultati sono quelli che vediamo scorrere sotto i nostri occhi, nelle forme più o meno preoccupanti del rapporto famiglia-scuola-società.
Unitamente ad una profonda indignazione per le troppe situazioni di disagio dei giovani, mi assale una profonda tristezza sul grado di indifferenza, sul chiuso individualismo della gente di fronte ai problemi della vita sociale, sull’incapacità di discernere ciò che è utile e importante perseguire e ciò che invece è superfluo. Insomma credo, contrariamente al principio matematico, che occorra cambiare i fattori perché il prodotto umano non cambi rispetto all’obiettivo fondamentale della vita sociale: un serio investimento nell’educazione alla conoscenza come principio fondante della libertà e del pensiero critico.
Penso che non occorra ricorrere a disquisizioni particolari per capire che la facile strada percorsa dai nostri politici negli ultimi anni, a proposito della gestione pubblica dei servizi, del welfare e della sanità, abbia aiutato a produrre una vera e propria mutazione del contesto sociale, affiancata da una perdita della partecipazione, della condivisione dei principi democratici, delle scelte individuali e collettive, in una favorevole condizione “distrattiva” da parte dei beni di consumo mediatici, che stanno letteralmente addormentando le coscienze di tutti, perché da utile strumento, si sono trasformati in unico, isolato, canale di comunicazione sociale.
D’altro canto i fatti e i misfatti della competizione economico-finanziaria mondiale ha generato quei mostri che affondano nel consumismo e nella innovazione tecnologica la propria metodologia d’azione per cambiare il mondo a proprio vantaggio. Ciò detto, non occorre arrivare a disquisire sui massimi sistemi per capire che più si impoverisce la scuola pubblica di valori, contenuti, strutture innovative oltre che tempi, spazi e strumenti adeguati per l’educazione, più tale scuola perde di credibilità. Quindi le “piccole cose” che riguardano poi la priorità del diritto di “portarsi il panino da casa”, anziché mangiare insieme agli altri alla mensa scolastica, condividendo un eguale momento di vita in comune, sono solo un tassello delle tante contraddizioni di questo tempo, che ben identificano come “l’epoca delle passioni tristi“.
Che fare dunque? Come diceva Ignazio Silone chiudendo il suo romanzo “Fontamara”…
Credo che gli anni e le esperienze che ci portiamo addosso condizionino lo sviluppo del pensiero critico, utile alla comprensione e modificazione delle contraddizioni sociali, ma dinnanzi a ciò che sta succedendo intorno a noi (e non mi riferisco certo solo al tema dell’intervento) vorrei urlare ogni giorno di più che a forza di “rottamare” quel modo di vedere il mondo che ci portiamo dietro, basato su valori universali, giuridicamente, psicologicamente ed antropologicamente giustificati da lunghe e sofferte lotte sociali e politiche per dare risposte concrete al bisogno di stare insieme, sani e liberi di corpo e di mente, ci ritroveremo ad uno stato di indifferenza e anarchia sociale davvero pericoloso.
Il livello di dipendenza mediatica e la sudditanza a stereotipi socio-comportamentali sempre più assillanti ridurranno sempre più il nostro pensiero critico e l’esito non potrà che essere l’omologazione, lo smarrimento dinnanzi ad un nuovo processo di schiavitù reale e quindi di perdita dell’identità dei singoli, di fronte ai veloci mutamenti sociali e politici.
Forse occorrerebbe prendersi un po’ di tempo per ragionare insieme, confrontandoci seriamente sul valore delle cose che andiamo facendo, sia come famiglia che come scuola, perché i pericoli di questo tempo possono essere davvero tanti, come sostengono Benasayag e Schmit “…La nostra epoca, crollato il mito dell’onnipotenza, rischia di farsi trascinare in un discorso sulla sicurezza che giustifica la barbarie e l’egoismo e che invita a rompere tutti i legami… Quando una società in crisi, per proteggersi e sopravvivere, aderisce massicciamente e in modo irriflesso ad un discorso di tipo paranoico, è la barbarie che bussa alla porta…”.
A proposito di queste tesi, ricordo un commento di qualche anno fa del filosofo Umberto Galimberti, che tra l’altro sostiene: “…Ma è anche vero che le passioni tristi sono una costruzione, un modo di interpretare la realtà, non la realtà stessa, che ancora serba delle risorse se solo non ci facciamo irretire da quel significante oggi dominante che è l’insicurezza. Certo la nostra epoca smaschera l’illusione della modernità che ha fatto credere all’uomo di poter cambiare tutto secondo il suo volere. Non è così. Ma l’insicurezza che ne deriva non deve portare la nostra società ad aderire massicciamente a un discorso di tipo paranoico, in cui non si parla d’altro se non della necessità di proteggersi e sopravvivere, perché allora si arriva al punto che la società si sente libera dai principi e dai divieti, e allora la barbarie è alle porte. Se l’estirpazione radicale dell’insicurezza appartiene ancora all’utopia modernista dell’onnipotenza umana, la strada da seguire è un’altra, e precisamente quella della costruzione dei legami affettivi e di solidarietà, capaci di spingere le persone fuori dall’isolamento nel quale la società tende a rinchiuderle, in nome degli ideali individualistici…”.
Concordo con Galimberti e mi auguro che qualcosa cambi davvero, insieme a voi.

RiCiclettiamo

mg_4026Ma dove vai bellezza in bicicletta …così di fretta pedalando con ardor… Sei davvero bella e se poi se anche ecologica e rispettosa dell’ambiente… Eh sì, perché si possono recuperare numerose biciclette (o parti di esse) abbandonate in città, nei cortili dei palazzi o dentro i garage, ridare loro nuova vita. E Ferrara primeggia. Ferrara vive di biciletta, l’utilizzo di questo mezzo da parte dei cittadini è tra i più alti in tutta Europa: da dati e recenti analisi marketing, risulta che il popolo dei ciclisti ferraresi è pari a circa l’89,5% dei suoi 135.000 abitanti. A ogni accesso della città è posto un cartello con la scritta “Ferrara città delle biciclette”, seguito dalla citazione dell’adesione alla rete europea delle città amiche della bicicletta Cities for Cyclists e dal riconoscimento Unesco di città patrimonio dell’umanità. La città storica viene infatti considerata come un’unità urbanistica che privilegia l’integrazione della componente ciclistica, mentre per l’esterno-città sono state realizzate apposite piste ciclabili che consentono di raggiungere numerosi quartieri periferici (vedi). Un bel primato. Se le iniziative legate a questo modello di locomozione sono tante, non potevano mancare quelle che coniugano il suo aspetto salutare con quello ambientale. Ecco allora che nasce il bel progetto Officine RiCicletta (vedi), che, in realtà risale all’idea di un signore anziano, appassionato di biciclette, presidente di un centro anziani di Boara, che ogni anno, a Natale, ospitava pazienti del centro diurno di psichiatria di Ferrara. Così, durante una chiacchierata con il fondatore, nel 2002,  gli aveva parlato del suo progetto di coinvolgere i pazienti del centro nella creazione di un laboratorio per riciclare le bici (la biga, direbbe il ferrarese tipico). Si voleva insegnare che cosa fosse una bicicletta e allo stesso tempo realizzare un percorso finalizzato a creare integrazione fra le persone, coniugando l’aspetto ecologista a quello sociale.

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Officine RiCicletta voleva (e vuole) creare percorsi di professionalizzazione per persone a rischio di esclusione sociale (legge 381/1991) attraverso il processo di recupero, ri-assemblaggio e vendita di queste biciclette rigenerate, appunto le RiCiclette. Queste ultime, oltre al valore sociale, contengono anche un forte impegno ecologico nel riutilizzare ciò che altrimenti sarebbe rifiuto e nell’incentivare l’uso della bicicletta come mezzo di mobilità sostenibile. Questo aspetto culturale si esprime anche nelle tante iniziative a cui gli operatori e i volontari del progetto partecipano in collaborazione con altre realtà del territorio. Le parole d’ordine: meno rifiuti (le biciclette abbandonate da tempo sono destinate a diventare rifiuto, tanto vale intervenire prima che lo diventino), più riciclo (recupero delle parti o loro utilizzo in riparazioni o assemblaggio di una nuova e fiammante RiCicletta), più ambiente e salute (muoversi in bicicletta aiuta ambiente e salute, promuovendo uno stile di vita sano), più formazione e lavoro (le officine sono un luogo speciale dove si formano e lavorano persone che si trovano in uno stato di cosiddetto svantaggio sociale). Le biciclette si possono anche noleggiare, vi sono anche tandem tricicli e bici-taxi, oltre che 3 cargo-bike gestite per il Comune di Ferrara. E, ovviamente, si possono acquistare, anche personalizzate e “targate”. Puoi donare, uno scambio reciproco: tu non getti via nulla, loro recuperano e salvano l’anima della tua bici per un altro motivato corridore. Allora, pronti e via!

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L’attività di Ricicletta è gestita dalla Cooperativa Sociale Il Germoglio Soc. Coop ONLUS, che nasce a Ferrara nel 1991 per gestire e progettare servizi educativi per bambini e adolescenti; la Cooperativa il Germoglio ha via via modificato e ampliato i suoi settori di intervento, includendo tra i destinatari anche giovani e adulti, e quindi molteplici attività.

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REALITY ON THE ROAD/SECONDA PARTE
Australia, il racconto della nostra giornalista in viaggio tra music contest, tappe segrete e… canguri

Nel bosco… danza di benvenuto!
Prosegue l’avventura della nostra giornalista Silvia Malacarne sul suolo australiano, e ogni giorno… una sorpresa!

Qui in Australia non sappiamo mai cosa aspettarci. Dopo una colazione abbondante, durante la quale penso di essere stata l’unica in tutto l’albergo a non mangiare uova, bacon e fagioli, ci siamo ritrovati in mezzo ai vigneti, in un posto chiamato “The Covert”, una piccola zona ubicata nel sobborgo di Pokolbin, nella regione di Hunter Valley. Lì sono iniziate le riprese del nostro secondo giorno in questa vasta terra. Ci hanno fatto “sfilare” con le auto della Toyota (sponsor ufficiale dell’evento), hanno scattato foto e condotto interviste personali. Abbiamo pranzato immersi nel verde in una location estremamente suggestiva. La band si è esercitata per la performance che si terrà alla fine di questo assurdo viaggio; le prove si sono tenute all’interno di una piccola chiesa moderna situata accanto ai vigneti.
Verso le quattro del pomeriggio ci hanno portato in un campo da golf, facendoci credere che avremmo giocato e ci hanno così diviso in squadre. All’improvviso però un elicottero è atterrato in mezzo a noi, a coppie siamo saliti e abbiamo sorvolato la zona dall’alto vedendo immense distese di verde. E’ stata una bella sorpresa per tutti che si è conclusa con un altro avvistamento di canguri, questa volta molto più vicini a noi.
Giorno dopo giorno scopriamo una piccola e sorprendente parte di questo sterminato continente, ma uno degli aspetti che preferisco di questo viaggio è l’essere costantemente a contatto con persone di nazionalità e cultura diverse dalla mia. Ho cenato con una francese, un cileno, un argentino e un colombiano; ciascuno ha raccontato la propria vita, ma ha soprattutto parlato dei propri sogni, della voglia di provare a raggiungerli nonostante questo mondo ci metta spesso a dura prova. Abbiamo età diverse, aspetti diversi, ma siamo tutti giovani, e nonostante le nostre personalità non si assomiglino, è bello scoprire che abbiamo tutti la stessa voglia di continuare a sognare.
Non sono mai riuscita ad immaginarmi l’Australia in maniera chiara perché, nella sua vastità, cambia aspetto appena ci si sposta in macchina di qualche ora. Ieri sera eravamo a Sidney, metropoli ricca di gente e locali notturni; questa mattina ci siamo ritrovati in mezzo ai vigneti, in una valle immersa nel verde.
Il posto in cui alloggeremo per i prossimi tre giorni si chiama appunto Hunters Valley ed è natura allo stato puro. Dopo un pranzo su una terrazza soleggiata davanti ad una piscina e ai campi da golf, ci hanno portato in un posto isolato dal resto del mondo. lungo il tragitto non abbiamo incontrato negozi, ristoranti o alberghi, ma solamente immense distese di verde in cui saltavano meravigliosi canguri.
Siamo arrivati in un posto chiamato Yengo National Park, una sorta di riserva in cui è severamente vietato fumare e lasciare rifiuti. Appena arrivati, la gente del luogo ha dato fuoco a delle foglie fresche e, come in una processione, abbiamo tutti dovuto attraversare una spessa coltre di fumo che si innalzava compatta verso il cielo: “Serve per purificare il nostro spirito e per liberarci da ogni negatività” ci hanno spiegato.
Dopo questo rituale, la band si è esibita mentre la gente locale ci ha servito la cena ad un orario decisamente impensabile per gli italiani: alle 17,45. Successivamente i sei musicisti vincitori hanno fatto una prima esibizione improvvisata, mentre le telecamere giravano sempre intorno a noi. Ma è al tramonto che ci hanno coinvolto in un’esperienza culturale a me nuova. Da una collina sono sbucati all’improvviso degli uomini mezzi nudi con il viso e il corpo dipinti di rosso e bianco e, producendo canti e versi alquanto particolari, si sono esibiti in danze ancora più strane. Ci siamo trovati davanti un gruppo di discendenti degli aborigeni che ci hanno spiegato che è proprio grazie a loro che riescono a ridare vita a danze e tradizioni antiche che altrimenti sarebbero già andate perdute.
Eravamo immersi nel buio, la poca luce presente proveniva da due falò che erano stati precedentemente accesi. E’ stata un’esperienza assurda, a metà tra l’inquietante, il suggestivo e il magico. Non solo ci hanno dato il benvenuto rappresentando, attraverso le loro danze, gli animali tipici dell’Australia, ma ci hanno invitato a ballare con loro in una notte particolarmente fredda, ma che hanno saputo scaldare con la loro accoglienza e il loro amore per Madrenatura.

[continua]

La fine del lavoro in attesa di una nuova società

L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Un’affermazione così forte, posta a fondamento della Costituzione, dovrebbe necessariamente spingere a riflettere sul significato profondo del lavorare e sulla dignità del lavoro nel nostro ordinamento civile. Parlare di lavoro però, di questi tempi, è quanto mai difficile. Specie se il lavoro manca, se si fatica a fronteggiare il flusso implacabile delle bollette e dei pagamenti mensili, se si deve cercare di vendere tutto per restare a galla. A maggior ragione se tocca subire il rito quotidiano della celebrazione del Pil e degli indici di borsa, l’insulto della glorificazione mediatica dell’iper-ricchezza, il bombardamento pubblicitario che invade ogni spazio, ogni luogo e ogni orario, per convincere tutti che solo il consumo è la via per raggiungere la felicità. L’attenzione sul consumo mortifica la dignità del lavoro rendendolo meramente strumentale, un mezzo che, in quanto tale, non porta con se né l’attributo della qualità né quello del significato.
L’Italia è (o è stata?) una Repubblica (democratica?) fondata sul consumo e, il lavoro, per chi ha la fortuna di averne uno ben remunerato, è il mezzo per ottenere il denaro necessario ad accedere all’acquisto di beni e servizi sempre più inutili e perciò stesso assolutamente indispensabili. Il lavoro espresso in termini di occupazione è una variabile sempre meno importante nelle equazioni che descrivono l’obbligatoria crescita del Pil e alimentano il feticcio intoccabile della crescita. E’ finita l’epoca del posto di lavoro fisso e garantito (che permane però come un miraggio nella mente di molte persone), è tramontata in buona parte l’idea del lavoro come investimento per costruire un futuro migliore che richiede anche fatica e sacrificio (molti lavori si rifiutano malgrado la crisi), è venuta meno la convinzione che il lavoro possa essere un mezzo per la realizzazione di sé attraverso lo sviluppo dei propri talenti.
Nell’era della flessibilità globale viene proposta la retorica del soggetto come imprenditore di sé stesso, libero di inventarsi un lavoro o, meglio, obbligato a competere e a combattere in un mercato al quale sono ormai attribuite funzioni trascendenti quasi magiche. Viviamo in società che producono più di quello che riescono a consumare, con uno spreco scandaloso, che riguarda soprattutto i beni essenziali, a cominciare dal cibo. Malgrado questo, o forse a causa di questo, i ricchi diminuiscono e diventano sempre più ricchi, i poveri aumentano e diventano sempre più poveri. Lo Stato – che dovrebbe garantire l’attuazione dei principi costituzionali – privato delle leve attraverso le quali poter agire nell’economia, trasferite all’Europa e ormai saldamente in mano alle forze finanziarie (private) che la dominano, non è più in grado né di ridistribuire ricchezza in modo equo ne di rilanciare e ridare dignità al lavoro. E intanto migrazioni bibliche riversano nel Belpaese un flusso incessante di persone ora attirate dai benefici e dei vantaggi di quel che resta dello stato sociale, ora impegnate nella ricerca con ogni mezzo dei denari per la sussistenza, raramente in grado di raggiungere il sogno di uno stipendio che, giudicato col metro dei paesi di provenienza, rappresenta spesso un’autentica fortuna economica.

Inesorabilmente, l’automazione distrugge posti di lavoro a un ritmo crescente; grandi infrastrutture tecnologiche e digitali sempre più integrate ed efficienti interconnettono sistemi e sottosistemi che a loro volta rapidamente si industrializzano e finanziarizzano. Le piattaforme produttive intelligenti e automatizzate consentono di produrre a costi così bassi da rendere svantaggiosa e inutile perfino la delocalizzazione, con conseguente impiego della manodopera sottopagata dei paesi più miseri. Siamo entrati, sembra, nell’epoca della fine del lavoro preconizzata ormai 20 anni fa da Jeremy Rifkin. Stiamo entrando, forse, nell’epoca della liberazione dalla schiavitù del lavoro anticipata dagli utopisti politici ma, paradossalmente, quello che potrebbe essere un sogno di prosperità prende le forme di un incubo, che apre davanti a milioni di persone il baratro della povertà, della paura e dell’insicurezza. Infatti, in barba ai dichiarati impegni verso le generazioni future, sembra mancare una visione comune di lungo periodo, che aiuti a riflettere sui modi attraverso i quali 7 miliardi di persone dovranno imparare a vivere, in pace, in questo nuovo mondo. Tra i detentori del potere nessuno sembra voler mettere in dubbio l’assioma della crescita illimitata basata sul materialismo irresponsabile e l’esaltazione dell’egoismo privato: nessuno di loro sembra avere pensato seriamente a come possa funzionare una società globale senza lavoro, nessuno vuole dichiarare pubblicamente l’ovvietà che le tecnoscienze si sposano altrettanto bene sia con il sogno utopico sia che con l’incubo distopico. Quanti di questi potenti palesi e occulti si saranno posti seriamente la fatidica domanda: che fare?
Se ancora si vive in democrazia questa domanda riguarda tutti. Vivere con una diversa idea di lavoro tutta da inventare, in un contesto caratterizzato dall’abbondanza di beni materiali, superando definitivamente la logica del consumismo bruto e la cultura dell’usa e getta, è una sfida che ricade direttamente nelle pieghe del quotidiano di ognuno. Per affrontarla serviranno grandi cambiamenti istituzionali oltre che un deciso salto nel livello di consapevolezza della persone. In una civiltà globale il cui ambiente è sempre più infrastrutturato e interconnesso dalle tecnologie digitali, che, in prospettiva, potrebbero favorire una migliore e più efficiente allocazione delle risorse e dei beni prodotti dall’industria integrata, a vantaggio di ogni abitante della terra, nasce l’esigenza di rivedere completamente l’idea di lavoro a cui molti di noi sono ancora legati. Per farlo bisogna però uscire da stereotipi consolidati e da logiche autoreferenziali dove siamo tutti più o meno intrappolati, bisogna imparare a guardare l’insieme senza perdersi nel confortante specialismo del particolare. Per abbracciare l’intero l’economista deve uscire dall’economia, l’uomo d’affari dalla finanza, l’imprenditore dalla sua azienda, il cittadino qualunque dal senso comune costruito dai media.

Se le macchine hanno sostituito gran parte del lavoro manuale, se poco alla volta diventano capaci di svolgere buona parte dei compiti cognitivi associati a molti lavori, se sono in grado di gestire processi sempre più complessi, è compito degli uomini (in particolare di quanti si occupano di politica) trovare nuove strutture sociali che consentano di trarne beneficio diffuso e condiviso. Se mancano posti di lavoro, bisogna individuare forme di remunerazione non fondate esclusivamente sul lavoro, invertendo un meccanismo secolare basato sul concetto di colpa, fatica e punizione (“ti guadagnerai il pane col sudore della fronte”), bisogna ripensare il lavoro come strumento generativo, capace di costruire relazioni e capitale sociale, bisogna recuperare l’idea del lavoro come atto amorevole del prendersi cura di qualcosa o qualcuno, assumendosene liberamente la responsabilità, bisogna imparare a vivere con pienezza l’ozio creativo, capace di generare senso e identità. Serve un uomo nuovo per vivere in questa nuova società possibile.
Intanto però, pensando al futuro possibile, bisogna riuscire a cavarsela: se la politica sembra far poco, se mancano i leaders e gli statisti capaci di guardare alle future generazioni, anziché alle prossime elezioni, se tutto sembra essere in mano a una finanza totalmente impersonale, e sostanzialmente amorale, ricordiamo che l’Italia è (anche) una Repubblica fondata sull’arte di arrangiarsi. Insieme alla creatività diffusa (che molti ci invidiano) e alla capacità di non perdersi d’animo, essa rappresenta quasi una virtù che, in tempi turbolenti, non è affatto da sottovalutare.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Abitare la conoscenza

Mobilità, accelerazione della conoscenza, la conoscenza può girare e arrivare ovunque. Crollino le mura dei Sancta Sanctorum. Cada Sansone con tutti i suoi Filistei. Mentre il mondo della conoscenza va profondamente trasformandosi intorno a noi, restano pressoché identici i nostri approcci, i nostri modi di gestire la conoscenza.
E poi ci sarebbe la solitudine dei numeri primi, abitanti digitali dei mondi virtuali? Non è che gli amanuensi fossero così socievoli, così calati nel reale dai loro scriptoria. Per di più la cultura non girava, se ne stava impettita nei tomi tra gli scaffali di biblioteche dalla Malatestiana alla Bodleiana, che per loro prestigio altra funzione non avevano che conservare piuttosto che far circolare.
Abbiamo appena celebrato la Notte dei ricercatori, promossa dalla Commissione Europea con l’obiettivo di creare occasioni di incontro tra ricercatori e cittadini e di diffondere la cultura scientifica.
Ecco un bell’esempio, seppure limitato, di uscita dei saperi dai luoghi in cui si producono, di mobilitazione delle conoscenze, di quello che i teorici della materia come Francisco Javier Carrillo chiamano Knowledege Mobilization (KM). Carrillo, che è docente al Monterrey Institute of Technology and Higher Education, oltre che presidente del World Capital Institute, è il maggiore studioso mondiale di Knowledege Systems e di Knowledege Economy; non ho mai capito perché in Italia non ci sia una, che sia una, delle sue opere tradotte. Altro segno dei tempi e dei nostri ritardi mentali e culturali sempre più ardui da colmare.
Mentre internet, se non l’avevamo compreso prima, ci insegna praticamente che la conoscenza abita dappertutto, noi ancora facciano fatica a renderci famigliare questo concetto. Invece di mobilitare le conoscenze, che fortunatamente oggi, volenti o nolenti, girano, circolano, si diffondono, quando decidiamo di rendere la nostra conoscenza mobile la ipostatizziamo.
E allora le nostre ipostasi sono le mostre tematiche, le rassegne, i festival. Facciamo uscire i saperi, le conoscenze, la cultura dai loro contenitori usuali per esporli, per esibirli, per costruirci mercati e commerci, per farci un’economia di guadagni anziché di investimenti.
Mobilitare le conoscenze serve alle persone, significa investire sul capitale umano, su cui fonda l’economia della conoscenza. Perché il capitale umano idea, inventa, crea, ricerca, fa progredire, e questo è possibile se la stimolazione dei saperi, delle conoscenze, delle culture è ampiamente diffusa e ovunque accessibile.
Più che di eventi abbiamo bisogno di abitare le conoscenze, di strutture aperte, permanenti, dinamiche, interconnesse, distributori di saperi come una volta le fontane nelle piazze fornivano quel bene prezioso che è l’acqua. Ora il bene indispensabile è la conoscenza, il più possibile diffusa, per stimolare le menti, le idee, le intelligenze, per far crescere un’umanità di cittadini sempre più padroni di se stessi. Questo non vuol dire che vengono meno i luoghi dove lo studio è rigoroso, sistematico, metodologico, dalle scuole alle università, dai musei alle biblioteche.
Ma non è più sufficiente solo questo, non è più sufficiente istruire e studiare, bisogna esporsi al sapere come ci si espone al sole, se vogliamo essere un’umanità matura in grado di far fronte alle sfide della complessità, per le quali non ci sono scorciatoie, se non apprendere per tutto l’arco della vita.
Apprendimento e collaborazione, apprendimento e circolazione dei saperi sono necessari per innalzare il livello del pensiero umano, per comprendere come proteggere, difendere e sostenere l’umanità. Persona, conoscenza e azione sono i fattori fondamentali per una mobilitazione efficace delle conoscenze. Possono sembrare fattori semplici, ma in realtà sono straordinariamente complessi. Richiedono politiche e governo, richiedono riflessioni nuove su come impegniamo le nostre risorse, su come oggi si fa cultura.

ECOLOGICAMENTE
Acqua e agricoltura

Bello il supplemento sull’agricoltura della regione Emilia Romagna. Lo ha pubblicato Arpa Emilia Romagna dedicandolo al tema dell’irrigazione con il titolo “Le nuove frontiere dell’irrigazione”. Nella rivista si propongono temi inerenti alla ricerca e all’innovazione del settore del risparmio idrico nell’irrigazione, nonché alla gestione ottimale dell’acqua finalizzata al risparmio idrico. Si tratta di un tema di grande interesse anche per persone sensibili al rispetto dell’ambiente e non solo per addetti ai lavori.
Da molti anni (dal dopoguerra) la gestione irrigua in agricoltura è un tema delicato e critico in quanto si sono succeduti vari effetti negativi a partire da una crescente temperatura estiva e da fenomeni temporaleschi brevi e intensi che non hanno favorito l’irrigazione, anzi hanno portato siccità. Da tempo dunque si studiano strumenti innovativi che consentano di incrementare la capacità di adattamento (resilienza) del sistema e facilitare l’adeguamento alle nuove condizioni climatiche.
Ci ricorda Arpa che quest’estate e l’estate scorsa sono state le più calde da trenta anni e che le rare e pesanti piogge non hanno aiutato il terreno. Anche la primavera di quest’anno ha portato la metà delle piogge attese. Anzi, i temporali con grandine del maggio scorso hanno rovinato i raccolti. Per valutare tutto questo si sono ampliati i monitoraggi dai satelliti e le informazioni irrigue sul territorio. Sulla base di queste valutazioni è stato avviato un nuovo progetto denominato Moses. Cito una frase del prof. Viaggi di Unibo che mi pare renda bene il tema: “La disponibilità e i costi dell’acqua sono molto differenziati sul territorio a causa della diversa accessibilità delle risorse idriche. L’evoluzione del contesto produttivo negli ultimi decenni ha aumentato l’attenzione agli aspetti economici dell’irrigazione e ne ha cambiato la configurazione”.
Per questo, come coordinatore scientifico, l’ho invitato a tenere un seminario ad H2O il 19 ottobre prossimo. Il convegno intende discutere le prospettive di innovazione nell’uso dell’acqua da parte del settore agricolo, sia in un’ottica di competitività del settore e delle industrie ad esso collegate, sia in un’ottica di sostenibilità. Tra i temi che verranno trattati: approvvigionamento idrico e riuso delle acque reflue depurate in agricoltura; agricoltura di precisione; valutazioni economiche e decisioni sull’uso delle acque; gestione e uso delle informazioni agrometeorologiche; tecniche agronomiche per la gestione della risorsa idrica; ruolo dell’ecofisiologia, della genetica e della nutrizione delle piante; legame tra uso dell’acqua e difesa delle colture; gestione dell’acqua negli edifici agricoli e agroindustriali; qualità delle acque e gestione degli inquinanti.
Sempre il prof. Viaggi ha scritto:”Molti dei temi affrontati mettono in evidenza che la gestione economica dell’irrigazione non è un problema risolvibile solo a livello aziendale, ma richiede un approccio coerente sul territorio e una visione aggregata delle scelte delle diverse aziende. Di per sé questa esigenza non è nuova. Il tessuto costituito dai Consorzi di bonifica e irrigazione costituisce un esempio storicamente consolidato di tale necessità”. Ecco perché in occasione della Fiera internazionale dell’acqua ho invitato anche Anbi, l’associazione che riunisce i Consorzi di Bonifica, che offrirà il suo importante contributo il giorno dopo, giovedì 20. L’evento è interessante fin dal titolo “Il cibo in Emilia Romagna è irriguo” perché larga parte del cibo in Emilia Romagna viene prodotto da terreni irrigui. 500.000 ettari irrigabili, per i due terzi gestiti dagli 8 Consorzi di Bonifica e dal Canale Emiliano Romagnolo, producono l’80% della produzione agricola della Regione.
Insomma un tema importante in una Fiera importante
Per il futuro sarà infine utile seguire il Programma di sviluppo rurale 2014-2020 che raccogliera’ le iniziative volte a sostenere interventi per un uso più efficiente dell’acqua in agricoltura all’interno del macro tema ambiente e clima, dedicando a queste operazioni la specifica focus area “P5A”.
Speriamo che sui temi dell’uso dell’acqua in agricoltura sappiamo crescere nella cultura della sostenibilità e soprattutto che cresca l’attenzione da parte del territorio ferrarese storicamente di alta vocazione agricola.

Il supplemento sulla agricoltura della regione Emilia Romagna lo si può scaricare su: http://agricoltura.regione.emilia-romagna.it/archivio-agricoltura/2016/giugno-2016/SpecAgric_irrigazione_2016ok.pdf/at_download/file/SpecAgric_irrigazione_2016ok.pdf
Mentre per approfondire su H2O si può andare sul sito www.accadueo.com

EVENTI
La notte si fa ‘Rossa’. E risorgeranno le Case del Popolo

 

img_0045“Vogliamo il pane e anche le rose”, è il celebre slogan della leader femminista e socialista Rose Schneiderman, ripreso dai lavoratori durante lo storico sciopero svoltosi a Lawrence nel 1912. Lo stesso famoso slogan è stato citato oggi, durante la conferenza stampa di presentazione della terza edizione ferrarese della ‘Notte Rossa 2016’, dal vice sindaco Massimo Maisto : “Il popolo vuole il pane ma anche i diritti, vuole essere non solo popolo ma anche cittadini”. Il riferimento, in questo caso, è alle ‘Case del Popolo’: a ciò che esse hanno rappresentato in passato e a ciò che si vuole continuino a rappresentare in futuro. La Notte Rossa è una manifestazione popolare che valorizza l’importanza storica delle ‘Case del Popolo’ e, attraverso una nutrita serie di eventi culturali e sociali, vuole farle tornare ad essere centri di aggregazione anche per le nuove generazioni. In occasione di questa manifestazione, infatti, sedici ‘Case del Popolo’ della provincia di Ferrara hanno messo a punto un programma che, per tutto il fine settimana dal 14 al 16 ottobre, coinvolgerà i cittadini ferraresi in concerti, cene sociali, serate per bambini con la speranza di avvicinarli nuovamente a questi importanti centri di aggregazione e cultura. Presenti alla odierna conferenza stampa, oltre il vice sindaco Maisto, Michele Dolcetti di Sabir Network, Francesca Tamascelli per Lega Coop Estense, Enrico Balestra di Uisp, Marco Ascanelli dell’Anpi e Giuliano Campana di Emergency ed Eris Gianella della Cooperativa Camelot.
Numerose e variegate le proposte culturali che animeranno la manifestazione: si va dalla presentazione di Achille Occhetto del libro “Utopia del possibile” , sabato 15 ottobre presso la libreria Feltrinelli alle 17, alla proiezione, sempre sabato 15 ottobre presso il circolo Arci Bolognesi alle 18.30, del documentario ‘To Kyma’ sulla ONG catalana Proactiva Open Arms, impegnata nel salvataggio di profughi nel mar Mediterraneo. Inoltre si terrà la prima edizione della maratona serale ‘Stay Human keep running’ organizzata in collaborazione con i comitati Uisp, prevista per venerdì 14 ottobre alle 21.30 con ritrovo in via Poledrelli presso la Factory Grisù.
Per una completa visione del programma della Notte Rossa consultare il sito www.notterossa.it. Come rimarcato dal vice sindaco Maisto: “Per il benessere della comunità di cittadini ci vogliono spazi. Sembra una banalità ma c’è una continua richiesta di spazi perché c’è un grande ritorno alla condivisione. Le ‘Case del Popolo’ erano i centri culturali del passato e sono state realtà molto forti ed importanti in tutto il Nord Italia”. La volontà degli organizzatori e dei tanti partner aderenti alla manifestazione è quella che esse non rimangano dei cimeli storici ma tornino ad essere spazi condivisi dai cittadini.

DIARIO IN PUBBLICO
Una tre giorni romana

Partiam partiamo! Tra le ultime ansie di chi non ha dimestichezza con il treno, i 25 paladini/e s’imbarcano per raggiungere l’Orlando romano. Grandi preparativi per rendere la gita degna della tradizione degli Amici dei Musei. I nomi in campo di fama nazionale e oltre: Francesca Cappelletti, studiosa del Seicento, ma soprattutto di Caravaggio; Lucia Menegatti, di cui si sta pubblicando il libro definitivo del ‘padrone’ dell’Ariosto, Ippolito d’Este vescovo a 16 anni, cardinale a 20; Claudio Cazzola, antichista e anch’egli frequentatore delle ottave ariostesche.
Lo scopo, non certo nascosto, era quello di mettere a confronto la mostra di Tivoli con quella ferrarese, dedicate entrambe al poeta e su cui – anche a livello scientifico – si stanno organizzando e diffondendo interventi mirati. E questo alla vigilia del convegno su Ariosto, organizzato dall’Istituto di Studi Rinascimentali, a cui parteciperà il valoroso studioso che ha prodotto l’edizione moderna dell’Orlando 1516, Marco Dorigatti.

L’impatto con la città eterna è devastante. Nel tentativo di frenare il traffico ormai ingovernabile si è deciso di lasciare qualsiasi tipo di bus privati fuori dal centro storico, cosicché gli incauti che avevano prenotato un noto albergo a ridosso di via del Tritone sono spicciatamente ‘scaricati’ al Tritone e poi s’arrangino. Sfilano le pecorelle a una a una trascinando i loro velli contenuti nelle valigie, mentre il pastore, o meglio la pastora Cristina esorta a non lasciarsi andare a crisi isteriche già evidentissime in chi scrive. Poi tutto è cancellato dalla prepotente bellezza che ci avvolge e ci sconvolge. Caravaggio spiegato come mai udimmo tra gli inviti al silenzio dei rigorosissimi preti francesi che custodiscono San Luigi, ignorati da Francesca, sempre più la miglior studiosa del pittore, che ci conduce anche a Sant’Agostino alla contemplazione della Madonna dei Pellegrini, con tutta l’aura della sua composizione e destinazione. Non contenta la Cappelletti ci sbatte sotto il naso nella stessa chiesa anche un semi-ignoto Raffaello.

Una radiosa e soleggiata mattinata romana ci accoglie il giorno dopo a Tivoli nella Villa d’Este del cardinal Ippolito. Gentilezza e sollecita cura ci vengono riservate, Lucia nella pergola sotto la Fontana dell’Orologio ci spiega fatti e misfatti di Ippolito e il suo controverso rapporto con il poeta non particolarmente amato, ma piuttosto sopportato dal suo primo padrone. Poi l’ascesa alla Villa mentre sotto i nostri occhi s’aprono le prospettive delle terrazze che si organizzano come complementi del giardino: a sinistra la Rometta con i suoi monumenti antichi riprodotti con artificio e arte secondo uno stupefacente rapporto tra simbolo e allegoria, tra esaltazione del potere e gloria estense. Infine, nel salone, l’anticipo e la conclusione della mostra ariostesca. I cavalli che, su disegni di Ceroli e di Pieluigi Pizzi, vengono riproposti nelle loro dimensioni colossali e ricostruiti con materiali di cartapesta e colori. In mezzo un albero dalle foglie cedue ormai rosse, anche questo ricostruito ad arte, s’impone in una gloria di colori e forme. Poi la visita all’ultimo piano dove tra i tesori esposti spiccano, nella dotta e ordinata esposizione legata alla figuratività dell’Ariosto o meglio alla traduzione in forme pittoriche e artistiche delle ottave e degli episodi più famosi del poema dal Cinquecento al Novecento, un Dosso strepitoso e Ingres e Dorè e gli incantevoli paesaggi della tradizione settecentesca. Si conclude con il Novecento e con la sala dedicata all’Orlando Furioso di Sanguineti-Ronconi che noi ferraresi ben conosciamo.

Allora a chi va la palma tra la mostra ferrarese zeppa di capolavori e la piccola, ma raffinata, esposizione romana?
A entrambe perché complementari.
Quella di Tivoli conclude un lungo percorso cominciato con la splendida mostra del Louvre, “L’Arioste et les arts” e il relativo convegno, ed è sorretta nella sua pur evidente compattezza – ma anche costretta nella selezione – da un progetto scientifico rigoroso che non intende far sognare lo spettatore, ma indurlo a prendere consapevolezza di un tema – il rapporto tra il poema e le arti – irrinunciabile per chi voglia e desideri percorrere un così fondamentale aspetto della poesia ariostesca.
Differente l’impostazione di quella ferrarese, ben più lussuosa e munita da pezzi da novanta, come testimoniano le favolose opere in mostra. Qui non si tratta di rendere conto di ciò che è la tradizione del rapporto tra il poema e la sua versione figurativa quanto di puntare su un’evocazione – una volta si diceva l’immaginario – del mondo cavalleresco presentato nella sua necessaria improbabilità o verità. Salta dunque il concetto di Storia nella sua accezione filologico-interpretativa, ma l’occhio si perde ammirato ed emozionato tra capolavori restituiti assieme nel sogno del concetto di cavalleria. Certo non aiuta l’infelice situazione delle sale dove il buio necessario per l’esposizione lascia il posto alla brutale cesura del passaggio per il giardino.
Alcune perplessità, ma sono considerazioni di un visitatore ammirato, mi sorgono: quale la necessità espositiva della Venere di Botticelli o la disposizione della sala clou della mostra, quella che accosta il Baccanale degli Andrii con la tapisserie della battaglia di Pavia e la copia michelangiolesca della Leda con il Cigno? A mio avviso manca un fil rouge necessario tra le tre opere. Perchè quelle?

Il pomeriggio romano si conclude con la visita al tempio della Fortuna Primigenia dove un ispirato Claudio Cazzola racconta alla comitiva seduta sui gradoni davanti al tempio il senso e il significato di quel monumento famoso. Dopo la visita del palazzo e del tempio al didattico Venturi non resta che parlare della composizione di un libro fondamentale della cultura del Novecento, quel “Doctor Faustus” che Thomas Mann scrisse proprio qui a Palestrina in vista del tempio.
Segue una salutare cena consumata in un luogo canonico della Roma mangereccia poi, l’ultima giornata ci riserva la spettacolare visita al Casino dell’Aurora, che la principessa Rospigliosi ci ha offerto grazie alla intermediazione della ‘nostra’ Francesca Cappelletti.
Riparte la compagnia dopo le auspicate visite ai luoghi mondani della capitale e quindi il ritorno a ‘Ferara, stazione di Ferara’ con una testimonianza in più della grandezza della nostra storia e della nostra tradizione artistica.

EDITORIALE
Nuovi ‘san Giorgio’ cercansi

Niente di più azzeccato della scelta del coraggio come fil rouge del decimo festival di Internazionale. In questo lo staff dell’ormai celebre kermesse che nei giorni scorsi ha riempito le strade della nostra città è senz’altro da lodare. Il coraggio viene invocato quando ci troviamo in presenza della paura. E infatti basta mettere il naso fuori di casa per saggiare i miasmi pestilenziali di questo atroce nemico che serpeggia in tutta Italia. Il drago della paura.

Una creatura ancestrale, che esiste fin dai tempi dei tempi e che oggi ha assunto volti nuovi. Nei suoi occhi si scorge quel misto di sfiducia e di futilità esistenziale che sta ammorbando il Paese, e insieme a questo, Ferrara. Si potrebbero citare le difficoltà economiche, le incertezze lavorative, gli allarmi ambientali, le liste di attesa per le prestazioni sanitarie, gli asili nido intasati, l’incapacità di figliare (non certo -o non solo- per problemi di orologio biologico, come qualche ministra vorrebbe farci credere). Inutile fare esempi: ognuno ha già impressi nella mente i suoi casi quotidiani. Quali che siano i motivi, l’aria è questa. C’è poco da dire. Ed è così più o meno in tutto il complesso (e perplesso) lembo di terra che va dalle Alpi alla Sicilia.

Il ferrarese doc però pare sicurissimo: a Ferrara la situazione è ‘più’. Siamo più fermi. Più poveri. Più vecchi. Più confusionari. Più vittime dello spaccio. Più vittime della polizia. Più vittime del malgoverno. Più vittime degli immigrati. Più vittime della svalutazione degli immobili. Più pestati dalla storia. Più…
Di fronte a questa visione dei tempi, la risposta in voga in città è una sola: “è sempre andata così”. Si tratta di un condensato concettuale che viene generalmente espresso con il suo corollario di spallucce, scotimenti di capo ed espressioni di saccente scetticismo.

Attenzione però: il mantra sopraindicato si coniuga in due forme di pensiero ben distinte e massimamente diffuse.
Versione numero uno: “è sempre andata (bene) così”. Chi segue questa particolare filosofia avvertirà, al primo barlume di novità, come una certa scomodità esistenziale, un fastidio, un pizzicore. Quindi rifletterà: “Si è sempre andati bene così!”. Dunque perché cambiare? Questo filone del pensiero pubblico è positivo quando è basato sul buon senso, quando si traduce in rispetto delle tradizioni e conservazione delle specificità territoriali. È altamente dannoso invece quando diventa immobilismo. È un pensiero da usare con cautela.

Versione numero due: “è andata sempre così e così andrà nei secoli dei secoli amen”. Certo nei fatti umani la ciclicità è elemento imprescindibile. D’accordo, ma anche qui la moderazione e la temperanza devono guidare. Se si cade nel disfattismo è finita. Come dire: dato che la malattia esiste da sempre, è inutile ora mettersi a cerca una cura. Di qualche cosa si dovrà pur morire, no?

Ad entrambe queste tendenze filosofiche si risponde con il coraggio. Il drago Ferrara se lo è trovato davanti fin dalla sua fondazione, ma ha sempre saputo sperare, attendere un nuovo san Giorgio. Così dice il mito. Ma san Giorgio siamo noi, è la nostra reazione all’impaludamento depressivo. Ognuno di noi può essere oggi il san Giorgio che serve alla città, magari partendo dal suo piccolo.

Noi di Ferraraitalia faremo la nostra parte. Reinvestiremo, ci rimetteremo in discussione. Per noi è tempo di nuove partenze, a quasi tre anni dalla nostra venuta al mondo… virtuale. È vero che per molti versi “andava già bene così”, ma non ci basta. Sto parlando di riorganizzazione dei contenuti, di una nuova redazione, di un’ampliata offerta giornalistica, sempre qualitativamente elevata. Verranno mantenute le penne che hanno fatto grande questo giornale: i professori, gli studiosi, i ricercatori, gli esperti. Non possiamo prescindere da loro: sono la nostra anima perché quello che a noi interessa maggiormente inizia quando l’attenzione degli altri giornali scema. Dopo la scorpacciata di scandali e scoop, e finito il frastuono delle bagarre politiche, noi scegliamo di metterci a guardare dall’alto per scorgere meglio le connessioni, le implicazioni, la reale dimensione degli eventi. A questo stile inconfondibile, vogliamo aggiungere, anche se sarà un’ardua sfida, un gruppo di giovani a cui offrire formazione in campo e da cui speriamo di trarre tutte le energie e le idee che ci servono.

Ferraraitalia continuerà a riservare uno spazio al quotidiano, con notizie, interviste, inchieste, storie, opinioni, ma non solo. C’è il settimanale, con i vari dossier dei nostri esperti sugli argomenti più vari: società, salute, ambiente, cultura, economia. E ancora: partirà un mensile monotematico per fare luce su una problematica o un aspetto sentiti come particolarmente rilevanti. Alcune innovazioni saranno pronte a breve, altre ci impiegheranno più tempo. E una trasformazione che avverrà in corso d’opera. Per il resto si continua con gli appuntamenti fissi delle nostre rubriche, delle stanze (che sono l’originale spazio libero e personale di alcuni autori) e tanto altro. Le visualizzazioni e gli apprezzamenti non solo dall’Italia, ma anche da altre città del mondo, ci rassicurano del lavoro fatto finora.

Ai naviganti della grande rete, ai corsari dell’informazione e a tutti i cacciatori di nuove visioni offriamo un porto sicuro.

L’EVENTO
Una ricerca che protegge tutte le forme di vita

di Eleonora Rossi

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“Non vogliamo fermare la ricerca. Vogliamo promuovere una ricerca che protegga e rispetti tutte le forme di vita”, spiega Gianmarco Prampolini, presidente nazionale Leal, Lega Antivivisezionista, impegnata da 40 anni per una ricerca senza animali.
Il convegno nazionale “Perché è giunto il tramonto della sperimentazione animale” è il biglietto da visita della nuova sezione Leal di Ferrara (www.leal.it).
L’8 ottobre 2016 il Palazzo della Racchetta ha ospitato un’intera giornata di studi, aperta a tutti i cittadini, con oltre 70 partecipanti, organizzato da Leal Ferrara insieme a Riscatto Animale. Nei diversi interventi sono stati messi a confronto “gli aspetti scientifici, etici, giuridici e legislativi della sperimentazione animale”. Il convegno è stato pensato per approfondire questi aspetti con le autorità, le istituzioni e gli istituti di ricerca universitari.
“Abbiamo inaugurato la sezione ferrarese con un evento importante – prosegue Prampolini – che ci offre l’opportunità di entrare nel tessuto sociale della città, abbiamo invitato le istituzioni per avviare un dialogo e vorremmo entrare in contatto con le biblioteche per diffondere le nostre pubblicazioni scientifiche. La sensibilità nei confronti degli animali è diffusa, ma c’è molto ancora da fare per cambiare la mentalità e non lasciare più spazio alle strumentalizzazioni”.

“Un convegno per aprire le coscienze”, lo definisce Stefania Corradini, responsabile della sezione Leal di Ferrara dal 4 luglio 2016, attivista e volontaria; sue collaboratrici Beata Stawicka e Anna Barbieri, moderatrice del convegno. Per Stefania Corradini “molti non conoscono il problema. Ma non è semplice farsi ascoltare e scuotere l’indifferenza”. Da qui l’esigenza dei volontari di una giornata di riflessioni e analisi, dati e video alla mano, “per dimostrare come l’abbandono della sperimentazione animale non sia soltanto possibile, ma doveroso. Esiste una ricerca che non fa uso di animali ormai consolidata, scientificamente valida, innovativa ed etica, per la quale Leal e Riscatto Animale chiedono sostegno e implementazione”.

Dopo un’introduzione di Gianmarco Prampolini e Claudia Corsini, presidente di Riscatto Animale, la mattinata ha visto l’intervento di Bruna Annamaria Monami, vicepresidente LEAL, che ha illustrato “Il valore dell’etica nel tempo della Sperimentazione Animale”, evidenziando la “contrapposizione tra i termini ‘vivisezione’ e ‘sperimentazione’, sottolineando l’“urgenza di un cambiamento che metta d’accordo etica e scienza e protegga ogni forma di vita”. La Monami ha lanciato un appello “perché nessuno dimentichi mai quello che succede ogni giorno nei laboratori di tutto il mondo”.
Yuri Bautta, responsabile del settore Vivisezione di Lav Modena, ha portato la sua testimonianza: “I Macachi di Modena: una battaglia vinta”. Attraverso un’azione diplomatica durata anni, con manifestazioni, banchetti informativi, raccolta di firme, flash mob e un tavolo di confronto che ha coinvolto gli amministratori, i cittadini e la stampa, si è riusciti ad affermare una prospettiva diversa: “La nostra proposta è stata quella del superamento degli esperimenti sui primati. Alla fine di questa battaglia, nella primavera del 2015 l’Università si è arresa, accettando la chiusura dell’esperimento e la cessione di tutta la colonia di Macachi”.
Oriano Perata, dirigente medico di Chirurgia Generale dell’ospedale Santa Corona-Pietra Ligure si è soffermato sui “Test su animali in chirurgia”: “Le esercitazioni chirurgiche su animali non umani sono inutili, dannose e fuorvianti per la formazione dei chirurghi – ha osservato Perata -. Le reazioni degli animali non umani sono diverse e quindi prive di predittività per la specie umana. Abissali le differenze anatomiche, le complicanze intra e perioperatorie, differente la fisiologia e la fisiopatologia d’organo e sistematica tra gli animali e l’uomo. Fondamentali per la formazione dei chirurghi le esercitazioni su cadavere umano specie se inserito in un sistema di Cec, un sistema di Circolazione Extra-Corporea, che sostanzialmente riproduce le condizioni operative in vivo”. Ha riportato l’esempio del “Progetto Penco BioScience ONG” che prevede si possa studiare e testare su cellule e tessuti umani, e non su animali, per una ricerca dedicata alla specie umana”. La biologa Susanna Penco, ricercatrice all’Università di Genova, obiettrice di coscienza, ha apportato il suo contributo via Skype.
Marco Mamone Capria – matematico ed epistemologo dell’Università di Perugia e presidente della Fondazione Hans Ruesch -: nel suo intervento “Come (non) è finita l’iniziativa Stop Vivisection” ha descritto alcuni aspetti di tale iniziativa “nel contesto della critica della ricerca biomedica degli ultimi decenni, sottolineando alcuni insegnamenti che se ne possono trarre sul rapporto tra cittadini, associazioni e governi”. 
 L’avvocato David Zanforlini, del Foro di Ferrara e presidente nazionale dei Centri di azione giuridica di Legambiente, ha sviluppato il tema “Forse che gli animali hanno diritti?” attraverso un excursus legislativo dal Codice Civile al Codice della Strada, passando per il Trattato di Lisbona e la Costituzione, per arrivare ad affermare che “nel momento in cui si riconosce la qualifica di ‘essere senziente’ ad una forma di vita animata e se ne dichiari la tutela del suo benessere, cioè il suo diritto a stare bene, questo soggetto diventa titolare del diritto di vedere rispettata la sua sensibilità, a fronte del nostro dovere di rispettare gli animali non umani”.
Ha chiuso il convegno Paolo Bernini, onorevole del Movimento 5 Stelle; nel suo intervento: “La politica delle gabbie vuote e dei metodi sostitutivi” ha riportato i motivi dei “no” alla ricerca sperimentale sugli animali, la sua “pericolosità per l’uomo”, descrivendo “qual è la posizione della bioetica” e richiedendo “l’implementazione dei metodi sostitutivi alla sperimentazione animale”; pur “NON sostituendo la sperimentazione, obiettivo al quale dobbiamo puntare non solo per ragioni etiche, ma soprattutto per il vero progresso della scienza medica”.
Leal ha sostenuto Stop Vivisection e dal 1981 finanzia borse di studio per una ricerca con metodi sostitutivi. Ma “i metodi sostitutivi non godono di sufficienti sussidi che permetterebbero uno sviluppo tale da eliminare la vivisezione”.

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“Lo scopo dell’intero movimento di cui faccio parte dal 1975 è educare la popolazione: non si possono cambiare le cose se l’opinione comune è che gli animali servano per la ricerca e l’alimentazione”, ha spiegato Bruno Fedi, professore di Urologia, primario anatomopatologo, referente scientifico di Leal. “Credo senza presunzione di aver dato una svolta in senso scientifico al movimento animalista, con osservazioni genetiche e di tipo evoluzionista, oltrepassando l’interpretazione pietista e filosofica. La società deve totalmente cambiare prospettiva, adottando il punto di vista scientifico e globale”. Nel suo intervento “Vivisezione, Animalismo e Società” il professor Fedi ha sottolineato la necessità di una svolta anche in senso sociale, auspicando il superamento del principio “antropocentrico”, che vede l’uomo “misura di tutte le cose”.
“Questo principio ha generato una società competitiva, che è stata importante per il nostro successo biologico (insieme all’empatia), ma, attualmente, ci sta portando ad un mondo invivibile, al suicidio climatico. Dobbiamo sostituire i principi fossili ancestrali ed edificare una società che superi il sessismo, il razzismo, lo ‘specismo’. Non la società competitiva, ma la società fraterna”.

IL LIBRO
Luisa Bartolucci presenta il suo secondo libro “Guide a quattro zampe”

Quante volte abbiamo letto che in un ristorante o in un albergo è stato negato l’ingresso a una persona cieca solo perché accompagnata dal proprio cane guida? La cronaca italiana non è priva di storie simili, che mostrano come a volte non si abbiano scrupoli a negare la normalità a un individuo solo a causa della sua condizione.

Luisa Bartolucci, già autrice de “Le domande le faccio io”, ha presentato in questi giorni presso Occhiali D’Oro (in via Contrari 9 a Ferrara) il suo secondo libro “Guide a 4 zampe”, iniziativa organizzata dall’Unione per Ciechi di Ferrara con il patrocinio del Comune di Ferrara. Trentuno interviste e due storie, per capire le difficoltà, ma anche la bellezza della vita simbiotica di chi si affida ad un cane guida.

” Il progetto –  racconta l’autrice – è nato in un modo un po’ strano, così com’è stato per il mio primo libro. Io ho sempre scritto e realizzato interviste per l’Unione dei Ciechi e degli Ipovedenti e in passato ho frequentato il primo e unico corso di giornalismo realizzato per persone non vedenti. Non era mio grande interesse quello di raccogliere storie, ma alcuni episodi mi hanno indotto a farlo. Il primo libro, che era una raccolta di interviste fatte a personaggi del mondo dello spettacolo o della letteratura, decisi di scriverlo perché erano stati tagliati i fondi al Centro Nazionale del Libro Parlato e avevo voglia di dare un aiuto concreto. Nel caso di questo secondo volume, invece, le motivazioni sono state due. Da un lato ero venuta a conoscenza della situazione economica di una delle scuole per cani guida italiane, la scuola triveneta di Selvazzano, in provincia di Padova, a cui sto destinando i ricavati del libro. Dall’altro mi ha invogliato a scrivere la constatazione che ancora oggi si fa fatica ad andare in giro con la propria guida a quattro zampe, perché non ti fanno entrare nei locali, nei ristoranti, oppure non puoi usufruire dei taxi perché i tassisti non vogliono cani a bordo. C’è una legge che stabilisce che i cani guida possano entrare in ogni esercizio pubblico ma, anche se è prevista una multa, c’è ancora chi non la rispetta”.

Il cane guida per un non vedente è un vero e proprio strumento di autonomia, oltre che un incredibile compagno, eppure in Italia si fatica a comprendere che, rifiutando l’ingresso dell’animale, si limita fortemente la libertà del proprietario. Le interviste e le storie presenti nel libro, però, non sono tutte italiane, hanno partecipato anche francesi, spagnoli, americani e tedeschi.
“Non è un problema tutto italiano, ma indubbiamente da noi ci sono delle criticità maggiori. Per esempio, all’estero il cane guida è meglio conosciuto, invece, nel nostro Paese, nonostante tutte le campagne di sensibilizzazione, le persone non ne sanno molto. Qualcuno ci raccontava che gli è capitato di sentire che il proprio cane è stato scambiato per un cane di salvataggio o per un cane antidroga. Quando avevo il cane guida ricordo che dicevano di tutto e di più, non era mai associato al suo vero compito. È emerso quanto ancora sia difficile, anche all’estero, vivere la quotidianità con il proprio cane guida. Un denominatore comune è il problema dei taxi. Noi a Roma abbiamo il più alto tasso di tassisti allergici. Quando vogliono che il cane non salga trovano questa motivazione”.

Nel libro non sono presenti tecnicismi, non viene spiegato come si addestra un cane guida e quali esercizi vanno fatti, ma sono raccolti dei consigli su come gli altri devono comportarsi in presenza di un cane al lavoro, che non può essere distratto dal compito che sta svolgendo. I cani, però, sono animali estremamente intelligenti e non tutti sono remissivi.
Qual è il racconto che più ti ha divertito?
“Mi viene in mente la storia che mi ha raccontato un tedesco. Uno dei suoi cani guida era una vera e propria femmina alfa e gli giocava anche degli scherzi. Una volta, per esempio, si è nascosta in un cespuglio e lui non riusciva a ritrovarla. Un’altra volta, invece, era stata rimproverata per averlo fatto sbattere contro un erogatore di tagliandi per i parcheggi. Lei, centro metri dopo, l’ha mandato nuovamente contro un secondo erogatore, si è voltata e gli ha poggiato il muso sul ginocchio come per ricordare che lì comandava lei”.

Il libro è disponibile su diversi formati, dal cartaceo al libro parlato, per cui Luisa Bartolucci si batte da tempo. Secondo alcuni dati, risulta che le persone ceche leggano molto di più di chi è normodotato, ma devono aspettare che il libro venga prodotto per loro, con dei ritardi anche di diversi mesi.
“Ricordo quando uscì il “Codice Da Vinci”, di cui tutti parlavano, noi riuscimmo a leggerlo dopo sei, sette mesi. Siamo stanchi di questa situazione, soprattutto considerando che l’Italia deve ancora ratificare il trattato di Marrakech (per facilitare l’accesso ai testi per le persone cieche, con incapacità visive o con altre difficoltà ad accedere al testo stampato). I libri sono pubblicati continuamente e se le case editrici non mettono a disposizione il formato elettronico dobbiamo supplire con le nostre strutture. Ci sono degli autori particolarmente sensibili che, in accordo con la casa editrice, ci hanno fornito il testo in anticipo, permettendo l’uscita delle diverse edizioni lo stesso giorno, ma sono eccezioni”.

“Guide a quattro zampe” è rivolto a tutti, perché anche chi non ha mai visto un cane guida possa capirne l’importanza, senza esserne diffidente, perché non si limiti il suo accesso nei luoghi consentiti. Quale vuole essere il messaggio del libro?” Attraverso queste storie vorrei che passassero due concetti diversi. Il primo rivolto ai cechi e agli ipovedenti, per sottolineare che, anche nelle nostre metropoli, con il cane guida si può! In secondo luogo vorrei che si capisse che si deve essere accoglienti nei confronti del cieco e del suo cane guida, che ci consente di essere autonomi e di vivere una vita il più normale possibile. Rifiutando il cane rifiuti anche me”.

Palazzo Massari, al via i lavori di recupero e restauro della Galleria d’Arte

E’ dalla notte del terremoto del 20 maggio 2012 che le luci del Palazzo Massari sono spente. L’edificio tardo-cinquecentesco, inagibile a causa del sisma e svuotato delle preziose collezioni d’arte in esso contenute, è rimasto, per oltre 4 anni, chiuso al pubblico in attesa che fosse possibile dare inizio agli ingenti lavori di consolidamento e restauro di cui necessitava.
Il momento è finalmente arrivato: dal 3 ottobre 2016, infatti, verrà aperto il primo dei due cantieri necessari per portare il Palazzo Bevilacqua-Massari, e l’adiacente Palazzina Cavalieri di Malta, all’antico splendore. Nel corso della conferenza stampa tenutasi questa mattina, presenti il vice sindaco e assessore alla Cultura Massimo Maisto, l’assessore ai Lavori Pubblici Aldo Modonesi, il capo settore Opere Pubbliche e Mobilità  Luca Capozzi, la dirigente del Servizio Gallerie Arte Moderna e Contemporanea Maria Luisa Pacelli e Raffaela Vitale del Servizio Beni Monumentali-Centro Storico, è stato presentato il progetto di riparazione e miglioramento strutturale post sisma, riguardante i due palazzi storici. Come spiegato dall’Assessore alle Opere Pubbliche Aldo Modonesi: “Attraverso i fondi stanziati dalla Regione Emilia Romagna, nel programma delle Opere pubbliche e dei beni culturali danneggiati dagli eventi sismici del 20 e 29 maggio 2012, e quelli messi a disposizione dall’Amministrazione Comunale, è stato elaborato il progetto di miglioramento sismico,la cui conclusione è prevista per il 17 gennaio 2018”.
I lavori, affidati all’impresa Emiliana Restauri Soc.Coop. di Ozzano Emilia, in provincia di Bologna, avranno un costo complessivo di 1.610.663,26 euro e permetteranno di portare a termine gli interventi di tipo strutturale indispensabili a rendere nuovamente agibili i due palazzi danneggiati dal sisma del 2012. Come spiegato dall’architetto Raffaella Vitale, i lavori saranno divisi in due lotti. Il primo avente ad oggetto l’opera di consolidamento strutturale, il secondo, che verrà avviato una volta conclusosi il primo, di abbellimento e riorganizzazione delle collezioni artistiche prima ospitate all’interno del Palazzo Massari. “Nelle intenzioni del Comune – afferma il vice sindaco Maisto – c’è sia quello di ricostituire la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, i cui percorsi museali verranno sviluppati all’interno del Palazzo Massari e della Palazzina Cavalieri di Malta, sia la creazione di nuove sale studio e per la didattica”. Atro elemento di novità, rispetto al recente passato, è il ripristino di un collegamento tra i palazzi storici e l’adiacente Parco Massari. “A volte i musei stentano a richiamare un pubblico di visitatori adeguato – spiega Maria Luisa Pacelli – in questo senso un collegamento con il vicino parco permetterebbe di rendere questo luogo un posto dinamico e richiamerebbe una maggiore affluenza cittadina. Stiamo quasi implodendo dalla voglia di mettere in atto le diverse idee volte a valorizzare al meglio la Galleria d’Arte”.
Gli abitanti di Ferrara potranno inoltre monitorare lo stato dei lavori attraverso una postazione fissa “Per gli umarells 2.0.”, ironizza l’assessore Modonesi.
Appuntamento nel 2018 per poter nuovamente ammirare la magnificenza delle sale del Palazzo Massari e dei suoi capolavori d’arte.

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Referendum: realtà o finzione?

Quanto è importante occuparsi del prossimo referendum costituzionale? Forse tanto, perché, come dice qualcuno, la luna potrebbe uscire dall’orbita terrestre a seconda dell’esito. O forse poco, perché in fondo si sta cercando di cambiare una Costituzione già disapplicata nella maggior parte dei suoi articoli, anche di quelli fondanti e fondamentali.

In ogni caso bisogna prendere atto che siamo già stati catturati dall’argomento e catapultati nella campagna elettorale, complice anche la personalizzazione che questo Governo ha voluto dare all’evento. E che quindi gli schieramenti sono già pronti e hanno cominciato a darsi battaglia.
Da una parte e dall’altra insigni costituzionalisti o semplici giuristi, parlamentari navigati o semplici militanti di partito, industriali e grande finanza oppure semplici cittadini, per finire agli operai e ai volontari, si stanno già affrontando nelle pubbliche piazze, nei giornali o negli spot pubblicitari, tra l’altro in molti casi offensivi della comune intelligenza.

Su Micromega l’ex parlamentare comunista Raniero La Valle scrive un resoconto molto ben dettagliato sulla truffa del referendum e ricorda che cosa c’è in ballo nel mondo mentre noi giochiamo con la Costituzione. Profughi da sistemare, guerre sempre più cruente, una catastrofe ambientale che incombe ed economie nazionali in affanno.
E poi, che avremmo bisogno di capire come dare da mangiare a 7 miliardi di persone, come affrontare la speculazione finanziaria, come approcciarsi nei confronti di ambigui dittatori, uno come il turco Erdogan per esempio. E come dimenticare, inoltre, la crescita zero, la disoccupazione troppo alta, il futuro offuscato dei nostri giovani e via di questo passo.

Del resto anche Paolo Barnard, che solitamente capisce prima degli altri le cose, ci ricorda a modo suo e dal suo blog che la nostra Costituzione è già stata superata con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che ne ha sancito la sudditanza, che non possiamo più decidere sulla legge di bilancio senza il parere di Bruxelles e che gli interessi della UE vengono prima di quelli italiani. Abbiamo perso qualsiasi discrezionalità su spesa e tassazione già prima, e senza bisogno, del referendum. Ad oggi, scrive Barnard, gli art. 4, 11, 35, 36, 41, 42, 43, 47, 54, 87, 81, 90, 97, 98, 100, 117 e 134 sono già diventati carta straccia.

Personalmente affronto l’argomento referendum per strati. Trovo assolutamente fondato quanto scritto da altri e riportato sopra, cioè sapere davvero cosa stiamo affrontando, almeno quanto trovo fondamentale imparare ad esercitare la nostra capacità di intervento nella cosa pubblica ogni volta che ce ne viene concessa l’occasione. Bisogna imparare a non distrarsi e dare segnali di discontinuità. Ma capire anche che se ci si impegna per il No, e questo vince, sarà solo l’inizio e avremo ben poco da festeggiare.

E per dare un contributo e un senso a quanto affermato voglio parlarvi di un documento che si chiama “5 Presidents report”, il sottotitolo è “Completare l’Unione monetaria ed economica dell’Europa” https://ec.europa.eu/priorities/publications/five-presidents-report-completing-europes-economic-and-monetary-union_en. Si tratta di una relazione scritta da Jean-Claude Junker con l’aiuto di Donald Tusk, Jeroen Dijselbloem, Mario Draghi e Martin Schulz, ovvero, nell’ordine, dal Presidente della Commissione Europea, dal Presidente del Consiglio Europeo, dal Presidente dell’Eurogruppo, dal Governatore della BCE e dal Presidente del Parlamento Europeo. Tutti i Presidenti delle Istituzioni europee che fanno la vera differenza nella qualità della nostra vita, e la fanno già, a prescindere dall’esito del referendum costituzionale di dicembre, tant’è vero che già ragionano e scrivono come se la nostra Costituzione non esistesse.

Questa relazione indica le priorità dell’Unione Europea, cioè cosa deve essere fatto nei prossimi anni perché l’Unione Economica e Monetaria diventi sempre più stringente tra i Paesi aderenti, in particolare tra quelli che hanno adottato l’euro. Sono appena 26 pagine, quindi facili da leggere, e tra esse ogni tanto si parla di “decisioni legittimate democraticamente” ma non si spiega mai come questo debba avvenire.
Anzi, l’Unione Politica, che pur si auspica, è solo l’ultima delle fasi, che viene dopo il raggiungimento di una Unione Economica autentica, e quindi i Paesi siano strutturalmente uguali, che si sia completata prima l’Unione Finanziaria, cioè la condivisione dei rischi tra pubblico e privato, e dopo, ovviamente, l’Unione di Bilancio, cioè che sostenibilità e stabilizzazione del bilancio siano ormai una realtà.
L’unione Politica, che chiunque metterebbe al primo posto perché prima di tutto bisognerebbe condividere ideali e visioni di vita, viene relegata all’ultimo posto, a sostegno dell’idea che ormai la Politica nulla conta rispetto al dio denaro e al potere finanziario. In ultimo, e solo dopo che la Grecia sia diventata strutturalmente uguale alla Germania, cioè dopo che molti Paesi da unire siano stati definitivamente trasformati in qualcosa di nuovo e diverso, non richiesto dalle loro popolazioni.

Di questi giorni è la notizia della vendita, proprio in Grecia, delle compagnie di acqua ed energia elettrica, oltre ad un ulteriore taglio delle pensioni. Eventi che seguono la vendita a società tedesche di aeroporti e altre aziende strutturali di quel Paese. Questa è la sintesi della convergenza strutturale degli Stati europei.
Quale Costituzione potrebbe permettere tutto questo? Domanda retorica e quindi si capisce perché bisogna cambiarle, mentre nel pratico sono già state superate dai fatti, grazie all’incapacità dei nostri rappresentanti politici che solo a parole perseguono i nostri interessi.

Lo step dell’Unione Finanziaria raccomanda invece la condivisione dei rischi tra pubblico e privato. Prendere il caso CARIFE e allargarlo all’Europa per una più corretta comprensione, lo Stato che non deve intervenire a sostegno dei cittadini. Qui la curiosità sarà vedere come la Germania si comporterà con il caso Deutche Bank visto che già in passato non ha lesinato aiuti alla sue banche. Del resto, i forti fanno quello che vogliono mentre i deboli devono attenersi alle loro regole.
Il sistema dei 5 Presidents dovrà essere però sostenibile, cioè sostenuto dai pareggi di bilancio e dall’assenza di deficit pubblico.
In pratica lo Stato dovrà occuparsi solo di mantenere il pareggio di bilancio e non spendere in eccesso rispetto alle entrate. Anche se si trattasse di spendere per costruire ospedali e scuole o dare servizi, pensioni e lavoro se non coincidenti con le necessità degli interessi finanziari della futura Unione Europea, l’imperativo è “tenere i conti a posto”.

Addirittura viene prevista un’Autorità per la Competitività, giusto per rendere chiaro che nel recinto gli ossi saranno sempre scarsi e che per emergere bisognerà mordere e lottare, come nella giungla. Magari in un mondo perfetto si sarebbe pensato ad un’Autorità per la condivisione e la cooperazione o per lo sviluppo economico equo e solidale tra i Paesi aderenti.Questo per permettere uno sviluppo armonico tra Paesi con caratteristiche differenti, più o meno forti, più o meno votati all’export o al mercato interno, insomma a compensazioni date le differenze strutturali tra Germania e Grecia o Portogallo o Italia. Ma questo solo in un mondo perfetto ovviamente, non nell’Europa a trazione teutonica, dove il più forte plasma gli altri e se questi non ce la fanno, debbono arrangiarsi oppure perire.

Ecco, in Europa le Costituzioni degli Stati sono già defunte, già superate, ben prima di eventuali referendum o scelte dei cittadini. In Europa già si parla della trasformazione degli Stati, della convergenza verso standard utili pur sempre a pochi, perché i popoli europei, di certo, non hanno alcuna convenienza nell’adottare questi standard economico-finanziari avulsi dalle reali esigenze umane.
Ma tant’è, nessuno se ne sta preoccupando, rincorriamo con un Sì o un No qualcosa che di fatto non esiste già più, mentre dovremmo concentraci su chi ci sta distraendo dai veri problemi, dall’origine dei nostri mali.

E cosa fare allora, restare a casa il 4 dicembre? Non credo proprio!
Si vada a votare, ma con spirito critico, senza pensare che sia davvero determinante per il nostro futuro. Con la giusta consapevolezza però, sapendo che la vittoria del Sì legittimerebbe ancor di più questo tipo di report e di volontà sovranazionali. Ma anche che un No poco informato non cambierebbe realmente le cose, non bloccherebbe i piani della grande finanza internazionale e di quelli che già da anni, ignorando le Costituzioni democratiche dei popoli, modificano il tenore delle nostre vite.

Per il testo del Report https://ec.europa.eu/priorities/publications/five-presidents-report-completing-europes-economic-and-monetary-union_en
Per la relazione di Raniero La Valle http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-verita-sul-referendum/
Per il Blog di Paolo Barnard http://paolobarnard.info/

INTERVENTI
Una questione di scelte

Caro Direttore,

pur essendo tendenzialmente orientata a votare no al prossimo referendum costituzionale, alcune inopportune iniziative e dichiarazioni mi fanno venir voglia di starmene a casa.
Lasciando da parte la parte la terribile minaccia del del professor Zagrebelsky, “Se vince il sì smetterò di insegnare”, che ha gettato nella costernazione milioni di italiani, vorrei portare l’attenzione sul fatto che l’Anpi ferrarese ha invitato il 10 novembre Gaetano Azzariti, nipote di quel Gaetano Azzariti il cui busto troneggia nel salone d’onore della Corte Costituzionale (di cui fu primo presidente), nonostante le vivaci proteste di molti studiosi e delle comunità ebraiche perché, durante il regime fascista, fu presidente anche del Tribunale della Razza.
Intendiamoci, non vi è responsabilità nell’essere nipoti di qualcuno; però nel difenderne l’operato, contro ogni evidenza, vi è certamente una colpa da non trascurare.
Gaetano Azzariti, con mille cavilli e con ragionamenti speciosi, ha scritto un lungo articolo sul “Corriere della Sera” del 15 aprile 2015 per dire, in sostanza, che il nonno commise un erroruccio, che il Tribunale della Razza non aveva compiti operativi e che, tutto sommato, Gaetano Azzariti senior dovrebbe essere ringraziato perchè cercò di limitare i danni.
Insomma, alla fin fine, il busto può rimanere dov’è e se il defunto Azzariti commise il piccolo errore di accettare l’incarico di presiedere il Tribunale della Razza – ben remunerato, aggiungo io – non possiamo certamente condannarlo senza appello perchè bisogna tener conto del contesto storico, delle sue benemerenze successive, eccetera, eccetera (leggi qui).
Chiedo pubblicamente ad Anpi a non invitare Gaetano Azzariti a Ferrara, a meno che lo stesso non firmi l’appello per rimuovere il busto del nonno che fa bella (si fa per dire) mostra di sè alla Consulta.
Trovo inaccettabile che Gaetano Azzariti (quello vivente) venga a dottoreggiare e a darci lezioni di democrazia, dipingendo Renzi come un affossatore delle istituzioni, quando – contro ogni buon senso – ha voluto difendere la scelta del nonno, per me immorale e inescusabile, di presiedere il Tribunale della Razza, con le indennità e gli onori del caso. Spero che l’Anpi ritorni sui suoi passi ed eviti a Ferrara una presenza a dir poco inopportuna.

Paola Ferrari

TEDxBologna 2016, attese 1000 persone al teatro Comunale

Da: Organizzaotori

Un nuovo appuntamento a tema Transition per TEDxBologna 2016, che da quest’anno si sposta al Teatro Comunale. Quattordici nuovi punti di vista: dallo psicologo, all’artista, dall’economista al filantropo, insieme per parlare di come modificare le proprie esistenze cambiando prospettiva di pensiero.

Bologna: Arrivati alla sesta edizione, TEDxBologna annuncia il tema del prossimo evento: Transition, con le seguenti sessioni caleidoscopoio, focus, resilienza, che si svolgerà sabato 22 Ottobre presso il Teatro Comunale di Bologna, un appuntamento che si prospetta già ricco di contenuti interessanti.

Saliranno sul palco relatori d’eccezione, a partire da Simone al Ani, performer di manipolazione dinamica già vincitore di Italia’s got talent, passando per Stefano Zamagni, membro della pontifica Accademia delle Scienze, Giovanni Castelli fondatrice dei ‘i bambini dharma’, il direttore di Ashoka, Alessandro Valera, lo psicologo Luca Mazzucchelli, e molti altri ancora. Come ci racconta il curatore di TEDxBologna, Andrea Pauri, la scelta del tema della transizione nasce: “dall’esigenza sempre più attuale di discutere dei cambiamenti che viviamo come società e individui, momenti pieni di incertezze e di dubbi, perché le scelte a cui siamo sottoposti possono cambiare il piano prospettico delle nostre stesse esistenze, soprattutto in una società “liquida” e mutevole come la nostra’.

Le tre sessioni che compongono l’evento sono declinate come metafora del processo di transizione: l’esigenza di scegliere di fronte ad un caleidoscopio di possibilità, l’importanza di mettere a fuoco il presente, e la capacità di adattarsi in maniera resiliente al cambiamento. TEDxBologna 2016 sarà dunque una giornata interamente dedicata alle esperienze e alle idee di donne e uomini che hanno saputo cogliere i cambiamenti sociali, economici ed individuali che stiamo vivendo, come un’opportunità per migliorare il mondo che ci circonda.

I biglietti sono disponibili sul sito www.boxol.it/TEDxBologna/it/event/tedx-bologna/170557

IL LIBRO
All’Ibs, il critico Sgarbi e il costituzionalista Ainis: “L’identità nazionale italiana è la bellezza”

La bellezza è costitutiva dell’identità della nostra nazione, perciò non può che permeare di sé la nostra Costituzione. In queste poche parole sta il senso dell’operazione culturale del libro “La Costituzione e la Bellezza” (La nave di Teseo), scritto a quattro mani dal costituzionalista Michele Ainis e dal critico Vittorio Sgarbi, entrambi presenti alla presentazione di ieri pomeriggio all’Ibs-Il Libraccio di Ferrara.

La copertina di La Costituzione e la Bellezza
La copertina di La Costituzione e la Bellezza

Probabilmente, ciò che a molti rimarrà più impresso dell’evento è la lunga attesa in piedi fra la calca all’ultimo piano di Palazzo San Crispino (non c’era più un posto libero fin dalle 18, mezz’ora prima dell’inizio previsto) e il fatto che Sgarbi sia arrivato in forte ritardo, come in fondo vuole il personaggio dell’impertinente critico d’arte, al contrario del puntuale e pacato giurista Ainis. Tuttavia ha avuto ragione il professor Pugiotto nella sua presentazione quando ha definito entrambi: “liberi, liberali, libertari, si può essere in disaccordo con loro, ma le loro argomentazioni sono sempre e comunque cibo per la mente”.
Entrambi con ottime capacità di oratori e divulgatori, Ainis e Sgarbi hanno dato un piccolo assaggio di quello che si può trovare nel volume: un inedito commento letterario e illustrato alla nostra Costituzione in sedici capitoli – uno per ciascuno dei dodici princìpi fondamentali e dei quattro titoli in cui si articola la prima parte della Carta – in un continuo gioco di rimandi dalla bellezza della Costituzione a quella del patrimonio culturale italiano, a volte addirittura scambiandosi di ruolo, con Sgarbi che chiosa gli articoli e Ainis che suggerisce artisti e autori, per far capire che proprio no, l’una senza l’altra non è possibile.
E allora è apparso chiaro come non sia un caso che nel titolo bellezza e Costituzione abbiano entrambe la lettera maiuscola: “in questo libro – spiega Ainis in attesa del co-autore Sgarbi – la bellezza non è un concetto retorico e non ha nemmeno a che fare solo con l’estetica. Ciò che abbiamo cercato di dire e far emergere è che l’estetica contiene, è intrinseca all’etica”.
A un certo punto è stata citata la proposta della senatrice Sel Pellegrino, che vorrebbe aggiungere all’ articolo 1 proprio un comma sulla bellezza: “La Repubblica Italiana riconosce la bellezza quale elemento costitutivo dell’identità nazionale, la conserva, la tutela e la promuove in tutte le sue forme materiali e immateriali: storiche, artistiche, culturali, paesaggistiche e naturali”. “La voterei subito – ha affermato Sgarbi – anzi, se fosse per me, la farei ancora più breve: l’Italia ha la propria identità nella bellezza”.

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“Il quarto stato”, Giuseppe Pellizza da Volpedo

Il critico ferrarese però confessa anche di essere molto restio a ritoccare il primo articolo della Costituzione, di cui dà una lettura originale: “non si può modificare perché esprime l’emancipazione della donna. Lavoro significa non dipendere, poter decidere autonomamente”. Ed ecco perché per illustrare l’articolo 1 ha scelto “Il quarto stato” di Pellizza da Volpedo: “è il primo quadro del Novecento e apre la strada a quello che, quarantacinque anni dopo, sarà il primo articolo della Costituzione”, “è l’umanità che ci viene incontro, è come una Scuola di Atene di Raffaello, in cui però l’umanità non vuole dimostrare il proprio sapere, ma conquistare diritti sociali”, uomini e donne insieme.

Madonna della Misericordia, Piero della Francesca
Madonna della Misericordia, Piero della Francesca

Piuttosto insolita anche la lettura dell’articolo 3 sull’uguaglianza dei cittadini: questo comma “è di un’ipocrisia pazzesca”. Secondo Sgarbi è “molto più sincera, a questo proposito, la Costituzione della Repubblica Romana del 1849, che recita: “la Repubblica promuove lo sviluppo morale e materiale dei cittadini”, dando per assodata una disuguaglianza di partenza”. Per questo articolo l’opera prescelta è la “Madonna della Misericordia” di Piero della Francesca, che accoglie a braccia aperte i credenti sotto il proprio mantello: “è la rappresentazione più chiara che ciò che non è uguale fra gli uomini lo è davanti a Dio, dato che non abbiamo giustizia in terra, non ci resta che sperare che ce la dia Dio”.

Uno degli elementi che fanno la bellezza della nostra Carta è senza dubbio la sua semplicità di linguaggio perché i Padri costituenti la volevano il più inclusiva e partecipativa possibile, come dimostra anche l’ultima disposizione transitoria: “Il testo della Costituzione è depositato nella sala comunale di ciascun Comune della Repubblica per rimanervi esposto, durante tutto l’anno 1948, affinché ogni cittadino possa prenderne cognizione”.
“Questa semplicità – ha spiegato Ainis – è stata ottenuta lavorando per sottrazione. È stato calcolato che un quarto del tempo nelle discussioni alla Costituente è stato speso per decidere non solo quali temi inserire, ma anche quali termini usare, come dimostra per esempio, la discussione sull’articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra”. Quel “ripudia” è stato scelto dopo molte disquisizioni”. Purtroppo poi, secondo il costituzionalista, non si è più lavorato così: “se non hai idee, diventi prolisso, verboso e complicato; allaghi con un fiume di parole il nulla che hai nella testa. La Costituzione dovrebbe essere una lingua che tutti possono parlare”. È vero che Ainis non si è ancora schierato per il sì o per il no al referendum costituzionale di dicembre, ma unendo queste parole a quelle che usa per la riforma, “ciò che non mi piace è che è scritta male”, forse qualcosa si può intuire. Chiarissima, invece, la posizione di Sgarbi: la Costituzione è come un monumento e, come tutti i monumenti, la minaccia è rappresentata da una parte dall’incuria e dall’altra dai restauri non oculati, proprio come quello del Governo Renzi, almeno questo è il parere del critico.

CLIMA
L’ultimatum di Mercalli: “Ferrara pagherà un conto salato”

Luca Mercalli, noto climatologo, una istituzione nella sostenibilità ambientale. Tramite i suoi libri, la televisione e le conferenze porta le sue importanti convinzioni. Venerdì scorso, alla Facoltà di Economia, un pubblico attento (ma sono sempre quelli che già sono convinti) ascolta la sua conferenza, organizzata nell’ambito della manifestazione Internazionale a Ferrara. ‘Il tempo che ci resta’ è il titolo della sua conferenza e lascia poco spazio all’ottimismo. Forse troppo poco.

Da persona precisa è presente in anticipo in un’aula strapiena (riempite anche altre sale, meno male). Una drammatica slide dinamica ci mostra i cambiamenti climatici nel tempo e ci avvisa di cosa parleremo. Fuori e’ per fortuna una bella giornata, ma il richiamo all’aumento della temperatura globale fa riflettere. La climatologia e’ una scienza complessa, ma spesso si fa di tutto per sottovalutarla. Serve uno scienziato che sia anche comunicatore come Mercalli e soprattutto si apprezza la sua coerenza. Inizia dicendo che il tempo (meteorologico) che ci resta è brutto e poco. Entrata subito a gamba tesa. Ferrara e’ a rischio nei prossimi cento anni prima con il cuneo salino poi con il mare che inonda. Stiamo fabbricando un pianeta nuovo per il nostro sistema sociale resiliente, ma debole. Possiamo solo cercare di difenderci; possiamo adattarci, ma non possiamo più tornare indietro. Visione pessimista e disfattista? Ognuno farà le sue valutazioni, si spera informandosi.
Il congresso mondiale dei geologi a Città del Capo ha detto che siamo entrati in antropocene. Serve una svolta energetica verso il rinnovabile. Serve una forte etica ambientale (leggi enciclica). Abbiamo bisogni di cambiamenti politici e accordi veri che poi si attuano. La conferenza e l’accordo di Parigi lo ha detto, ora però lo devono firmare tutti i Paesi. Ratificato l’accordo però non sarà ancora capitato nulla. Si deve applicare e questo è più grave. Le soluzioni necessarie sono assolutamente impopolari e costose, dunque improbabili da attuare. Eppure Papa Francesco ha avuto un ruolo catastrofista, cosa ci guadagna? Da qui si capisce il suo valore.

La meteorologia è un buon modo per capire gli effetti negativi dell’inquinamento. Non possiamo certo nasconderci di fronte all’evidenza dei disastri climatici in corso. Lui ci prova con professionalità e cultura: il suo libro ‘Prepariamoci a vivere in un mondo con meno risorse, meno energia, meno abbondanza e forse più felicità’ prova a dare uno spiraglio. Condivido molto la sua massima: “Proviamoci, almeno non saremo complici”. È infatti richiesta una crescente attenzione ai temi dell’organizzazione dell’informazione e del sistema di comunicazione. Bisogna insistere nell’attivare una partecipazione reale ai principi di sostenibilità ambientale. Troppo spesso si comunicano i disastri e situazioni ingestibili in cui ci sentiamo impotenti; comunichiamo paure, non partecipazione e coinvolgimento. Per questo servono persone preparate ad abituare i cittadini ad interloquire con la politica, con le amministrazioni e con le strutture che erogano servizi. I migliori scienziati del mondo ci dicono che le nostre attività stanno cambiando il clima e che se non agiamo con forza continueremo a vedere l’innalzamento degli oceani, ondate di calore più intense e più lunghe, siccità e inondazioni pericolose che possono scatenare maggiori migrazioni, conflitti e fame nel mondo.

Il mondo sta cambiando. Lo percepiamo, ma lo stiamo anche capendo? Ne siamo consapevoli? O giochiamo solo al ruolo delle vittime? Crescono attorno a noi problemi ambientali e sociali ma non sempre percepiamo che sono la nostra sostenibilità. Cosa possiamo fare? Come possiamo influenzare questa tendenza negativa? E soprattutto: a chi tocca? alle istituzioni o anche a noi? Cresciamo, anzi ci moltiplichiamo. Invecchiamo. Nel contempo consumiamo risorse naturali che ci hanno detto essere limitate. Ma temo che non ce ne stiamo preoccupando troppo. Siamo attenti a rischi e rendimenti finanziari, ma non a quelli naturali, compresa la energia. C’è fortunatamente chi pensa (io tra questi) che il potere buono possa difendere la sostenibilità o addirittura rafforzarla. Una visione più proattiva e meno pessimista ci aiuterebbe a capire che possiamo ancora fare qualcosa.
Il principio teorizzato da tutti, da sempre, è: “Non dobbiamo lasciare in eredità ai nostri figli le nostre colpe ambientali”. Salvo poi smentire. A tutti capita di pensare al futuro e quasi sempre lo viviamo con l’ansia dell’incognito. La globalizzazione ha creato una società civile globale, ha migliorato le condizioni di salute e il tenore di vita, ha cambiato il modo di pensare della gente, ha servito gli interessi dei paesi industrializzati, però non ha funzionato per molti poveri del mondo e soprattutto ha posto problemi per gran parte dell’ambiente, ripercuotendo l’instabilità a livello globale (ci ricorda Stiglitz). L’obiettivo di fondo dunque è la difesa dell’ambiente e la trasformazione dei bisogni dei cittadini in diritti. Riprendiamoci il principio di chi inquina paga. Una società civilizzata si misura dal senso di responsabilità che ha nei confronti delle generazioni future.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Morte annunciata di una mensa

Mi sento sempre più distante, di un’altra generazione, dicono che è il trauma della vecchiaia, io pensavo di poterne esser esente, ma ogni giorno mi porta la sua conferma che non è così. Ora il senso della distanza mi viene per via della sentenza del tribunale di Torino che sancisce il diritto di portarsi da casa il pasto da consumare a scuola. Non so se valga anche per l’asilo nido il diritto all’omogeneizzato fatto in casa con prodotto biologico a chilometro zero o per la scuola dell’infanzia il panino vegano della sindaca Appendino, che qualcuno mi deve spiegare bene che cosa sia. Distante perché io sono di quelli, comunisti sporchi brutti e cattivi, che credevano che andare a scuola senza essere costretti a portarsi il cestino da casa o al lavoro in fabbrica o in cantiere con la gavetta fosse una conquista sociale. Le mense, il welfare, le mense di quartiere, quella roba lì, che liberava anche le donne dalla schiavitù domestica. Adesso c’è un giudice che sentenzia che sul diritto alla mensa prevale il diritto al panino fai da te, perché prima di tutto viene il singolo, l’individuo, la persona. Insomma al diritto alla mensa corrisponde specularmente il suo contrario ed opposto. È un po’ come il diritto al vaccino, altro tema caldo di questi giorni, un’altra conquista, faticosa per di più, della scienza e della società, il diritto alla tutela della salute tua e degli altri che viene contestato. Non vorrei estremizzare, ma a me viene così, è come rivendicare il diritto di fare il bagno con il burkini, nonostante le conquiste sociali in tema di emancipazione della donna, in nome della libertà individuale. I paladini del liberalismo dovrebbero essere tutti schierati a difendere anche questi diritti negativi, se non fosse che si tratta di un liberalismo medievale. Per i più distratti o troppo giovani potrei rinfrescare alcune date: 1968: legge 444 istitutiva della Scuola materna statale, fino allora in mano ai privati, soprattutto privato confessionale. 1971: legge 1044 istituzione degli asili nido comunali; 1971: legge 820 nascita del tempo pieno nella scuola elementare. Tutte istituzioni ad orario prolungato che prevedono la mensa per funzionare. Istituzioni al servizio dei diritti dell’infanzia e dei diritti delle donne. La mensa non come accessorio, ma come momento integrante del progetto educativo, del progetto di crescita, la mensa che garantisce un’atmosfera famigliare, di calore e di accoglienza, di relazione e di affettività al nido come alla scuola dell’infanzia, come alla scuola elementare. Lascio agli psicologi spiegare l’importanza del momento del pasto per la crescita emotivamente equilibrata di ciascuno di noi, quanto i bambini apprendono con più piacere e motivazione mentre nutrono il loro corpo e in questo sentono l’attenzione e l’affetto degli adulti che si prendono cura di loro. Del resto mica ce la siamo inventata noi la scuola con la mensa, la migliore tradizione pedagogica da Dewey a Freinet, dalla Montessori, a Lorenzo Milani è lì a dare buona testimonianza di come la mensa per importanza formativa sorpassa e avanza ogni lezione d’aula. Certo la sentenza di un giudice tutto questo non lo può considerare, perché non ci sta scritto e neppure si può estrapolare dalle righe di un testo di legge. Solo, insinuo un sospetto, se a ricorrere al giudice fosse stato un paziente d’ospedale, che rivendicava il diritto di portarsi il pasto o il panino da casa, l’esito sarebbe stato lo stesso? Ogni sistema per funzionare rispetto al suo compito deve attenersi alle regole che gli consentono di raggiungere lo scopo, se si altera solo una di queste tutto il sistema ne risulta modificato. L’ospedale è un sistema delicato, la scuola che educa, pure. Un “sistema educativo” è appunto un “sistema”, sottostà alle leggi dei sistemi complessi, non a quelle dei giudici, come tutti i sistemi, del resto. Che si voglia o no, se si introduce il principio che il momento del pasto, non fa parte integrante del progetto educativo, del sistema scuola, allora ognuno se lo gestisce come vuole e non è necessaria la presenza di personale professionalmente preparato come quello scolastico, come ormai accade nella scuola media di primo grado dove una congerie di modelli orari settimanali ha ridotto la mensa ad un fatto puramente accessorio. Ma attenzione, ora si rivendica il diritto di portarsi il panino da casa, domani si potrà rivendicare il diritto di censurare questo o quel contenuto, questo o quell’insegnante in nome del superiore valore della libertà individuale. Il sistema educativo sarà sempre più gestito dall’esterno anziché trovare al proprio interno la forza d’essere quello che è. Nessuno metterebbe in discussione la terapia prescritta da un’équipe di medici, sebbene i detentori del progetto educativo siano professionisti dell’istruzione, questo nelle nostre scuole accade. Capisco anche che le mense nelle scuole muoiono per via della “cooperativite” che le ha colpite. Dagli entusiasmi dei primi tempi con cucina interna alle scuole e con la partecipazione dei genitori alla gestione, si è passati agli appalti, al precotto, alle diete talebane, tutte cose che non hanno fatto bene alla scuola e al suo progetto educativo. Allora è la scuola che non si può chiamare fuori, perché evidentemente è la scuola che non ha convinto. Sono i professionisti della scuola che per primi debbono spiegare l’importanza della mensa all’interno del curricolo scolastico, dalla materna alla media, se non sono in grado di farlo c’è poco da stupirsi per la sentenza dei giudici di Torino, è inevitabile che mensa o panino siano indifferenti come ogni altro break dal lavoro, ma degli adulti non di fanciulli che crescono.

 

INTERNAZIONALE
Entrare in carcere con il teatro

Entrare in carcere. Era una delle iniziative del Festival di Internazionale a Ferrara: uno spettacolo teatrale dentro al carcere ferrarese, considerato tra quelli di massima sicurezza. Un evento a cui si partecipa per vedere la messa in scena, ma che poi diventa un’esperienza per tutto quello che c’è intorno. Gli attori sono i detenuti stessi, tantissimi altri detenuti come spettatori. Sono tutti uomini. In sala arrivano alla spicciolata, uno dopo l’altro. Uomini come tanti che puoi vedere in giro. Capelli corti corti, jeans e scarpe da ginnastica; un gruppetto sembra quello dei muratori che hanno messo a posto il tetto dopo il terremoto. C’è un ragazzo di colore, alto e atletico, le scarpe di un rosso sgargiante e l’aria di uno che gioca a basket. Alcuni sono un po’ più anziani, magari con gli occhiali, potrebbero essere commercianti qualunque. Un ragazzo ha un aspetto così giovane, ma diciotto anni ce li avrà per forza, se si trova qui. Cento seggiole nella stanza-laboratorio, cinquanta da una parte e cinquanta dall’altra; in mezzo un panno scuro, dove gli attori mettono in scena lo spettacolo.

I protagonisti dello spettacolo "Me che libero nacqui, al carcer danno" (foto di repertorio del Teatro Nucleo/Internazionale)
“Me che libero nacqui, al carcer danno” (foto di repertorio del Teatro Nucleo)

Non è un’opera qualsiasi o una messa in scena così. Ci lavorano su da anni con il laboratorio teatrale della compagnia Teatro Nucleo di Pontelagoscuro. Mettono in scena un’opera antica, ma azzeccata: un episodio della “Gerusalemme liberata”, che descrive gli scontri tra cristiani e musulmani durante la prima crociata. Torquato Tasso l’ha scritto mentre era a sua volta rinchiuso nella prigione di Sant’Anna a Ferrara. Lo spettacolo si intitola Me che libero nacqui al carcer danno ed è incentrato sul combattimento tra Tancredi e Clorinda della “Gerusalemme liberata” di Tasso. Le parole sono difficili perché il testo è scritto in versi ed è poesia della seconda metà del ’500.

L'ingresso al carcere di Ferrara
L’ingresso al carcere di Ferrara

Per potere assistere a questa rappresentazione devi lasciare con parecchi giorni d’anticipo un documento d’identità all’organizzazione e presentarti almeno mezz’ora prima per i controlli, lasciando giù macchina fotografica, cellulare e qualsiasi dispositivo elettronico. Molte barriere e cancelli vanno superati per entrare in quella sala-teatro.

Dal parcheggio recintato nella periferia ovest della città, si oltrepassa a piedi la barra mobile e ci si trova davanti alla vetrata della guardiola d’ingresso. Due agenti-uscieri ti chiedono i documenti e verificano che ci sia il tuo nome su un registro. Cellulare e macchina-foto li lasci lì. Poi ti controllano la borsa, ti danno un badge da appuntarti sulla maglia con sopra un numero e resti in attesa di qualcuno che ti accompagni dentro. Si attraversa tutto il cortile e si entra nella palazzina difronte. C’è un metal detector e un impiegato che si annota il numero che hai scritto sul badge. Lì entri da una porta automatica blindata e attraversi un corridoio per arrivare in un altro cortile, attraversarlo ed entrare in un’altra palazzina. Superi il cancello di una grata metallica grande come tutta la parete, c’è un altro corridoio e poi la sala. Tre file di sedie sono disposte di qua e altre tre di là dal tappeto scuro che fa da palco. Sulla sinistra una pedana sulla quale si piazzano i musicisti del Conservatorio di Ferrara, due ragazze e due ragazzi con strumenti a corde di varie dimensioni e il direttore del coro del Conservatorio, Gianfranco Placci, che li accompagna al pianoforte, mentre un ospite del carcere suona il triangolo e le maracas. Nei corridoi e in sala ci sono sempre agenti con la divisa della polizia carceraria.

I musicisti del Conservatorio davanti al carcere di Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)
I musicisti del Conservatorio davanti al carcere di Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)

La regia è di Horacio Czertok, sul palco gli attori detenuti del laboratorio teatrale della casa circondariale di Ferrara: Lesther Batista Santisteban, Desmond Blackmore, Federico Fantoni, Sotirios Kalantzis, Lefter Kuli, EdinTicic. Sono quasi tutti stranieri, spiega il regista che è lì in sala: montenegrini, greci, un cubano e un suddito britannico.

Inizia lo spettacolo e la difficoltà è grande anche per chi assiste. Le parole sono davvero desuete, praticamente incomprensibili. Loro le recitano con una sicurezza incredibile, capisci qualcosa solo grazie al modo in cui gesticolano e scandiscono i versi, che è chiaro che loro hanno ben capito e interiorizzato. Un attore in semplice maglietta e pantaloni scuri entra in scena. Ha un’aria molto normale, quasi dimessa. Poi inizia a cantare. Ha una voce potente e vibrante, mentre intona le parole dello spartito e senti l’emozione che ti invade. Canta un brano molto lungo e articolato e avanza tenendo in mano un foglio che di tanto in tanto scorre con gli occhi. Finito il canto, un uomo di colore in tunica bianca e un attore dal volto pallido e barba castana mettono in scena il confronto tra i due combattenti, un duello fatto di sguardi, testa e testa di un’intensità fortissima, che rende tutta la tensione della sfida senza bisogno di arrivare mai a dare un solo colpo.

La foto di John J. Kim che ha vinto il 3° premio per foto singole del World Photo Press 2016
Foto di di John J. Kim, vincitrice del World Photo Press 2016 esposta al Pac di Ferrara fino al 23 ottobre 2016

Alla fine applausi, il direttore del carcere Paolo Malato che si complimenta per il risultato incredibile, sottolinea che tutti possiamo sbagliare ma – come è scritto sulla facciata del teatro di Palermo – “l’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire”. Uno tra gli spettatori detenuti legge una lettera per sottolineare l’importanza che ha, per loro, questa iniziativa, l’apertura del carcere alla città. Il maestro Mauro Presini ricorda che c’è anche una redazione interna che cura una rivista, sempre aperta a contributi e col desiderio di creare un evento aperto all’esterno. Il direttore del coro del Conservatorio Gianfranco Placci racconta che da tre anni viene qui per tirare fuori musica e canto dai detenuti che ne hanno voglia e talento.

Uno dietro l’altro, gli spettatori che vivono qui si alzano per tornare in cella. Una volta che sono usciti loro, anche il piccolo gruppo del pubblico viene riaccompagnato dalle guardie. Si ripassa attraverso i cancelli e le barriere. Due mondi si richiudono. Resta il brivido dell’arte che li ha uniti.

 

Festival di Internazionale si è tenuto a Ferrara da venerdì 30 settembre a domenica 2 ottobre 2016 per la sua decima edizione. La mostra con le migliori fotografie dei reporter di tutto il mondo che hanno vinto il World Photo Press 2016 resta visitabile fino a domenica 23 ottobre (ore 10-13 e 15-19, ma biglietteria chiusa un’ora prima) al Pac-Palazzina di arte contemporanea in corso Porta Mare 5 a Ferrara.

INTERNAZIONALE
Le cose cambiano

Alzi la mano chi pensa che l’adolescenza sia uno dei periodi più difficili che siamo costretti a vivere: insicuri sulla propria identità, le proprie convinzioni, i propri valori e la propria visione del mondo, sempre in balia dell’opinione, o peggio, del giudizio degli altri. Purtroppo, per qualcuno lo è ancora di più.
Billy era un ragazzo di quindici anni dell’Indiana, a scuola era vittima di bullismo omofobico, pensavano fosse gay. A un certo punto non ce l’ha fatta più e si è suicidato impiccandosi. I suoi genitori hanno creato una pagina facebook in sua memoria, ma i bulli non hanno rispettato nemmeno quella e hanno continuato a offenderlo anche sui social.

A raccontare la sua storia domenica pomeriggio al Cinema Apollo al Festival di Internazionale a Ferrara è il giornalista omosessuale statunitense Dan Savage, autore della rubrica Savage love: “forse se qualcuno gli avesse detto che non era solo, che l’adolescenza è dura da superare, ma le cose cambiano, da adulti vanno meglio, Billy si sarebbe salvato”.

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Ecco come è nato nel 2010 il progetto “It gets better”, un portale web che raccoglie testimonianze di persone lgbt, persone normali o personaggi famosi, su come hanno superato il periodo della propria adolescenza. Lo si potrebbe considerare quasi un manuale di istruzioni per l’uso: come superare la scuola giorno dopo giorno, come fare coming out con i propri genitori, come entrare in contatto e trovare sostegno nella comunità lgbt.
“Vengo spesso invitato nelle università a parlare di sesso e sessualità, ma non nelle scuole superiori, forse perché sono considerato troppo esplicito e pericoloso – scherza Savage – e così ho pensato che, in realtà, per entrare in contatto con tutti i ragazzi e le ragazze nell’era di internet e di youtube non mi serviva l’invito degli adulti”. Il primo video Dan lo ha girato con suo marito Terry, poi ha iniziato a coinvolgere altri adulti gay perché registrassero la propria testimonianza: “all’inizio l’obiettivo era arrivare a cento video, ma solo nei primi due giorni siamo arrivati a mille e nella prima settimana abbiamo raggiunto i 10mila”, racconta Dan. “Ora siamo il canale youtube open source più grande mai creato, abbiamo un video persino del presidente Obama”.

Dan racconta anche la propria esperienza e quella del fratello maggiore, entrambi bullizzati a scuola, l’uno perché gay, l’altro perché “era una secchione”. La differenza era che suo fratello “poteva parlare e aprirsi con i nostri genitori”, mentre Dan no perché erano “omofobici”. Ebbene le cose ora vanno meglio per Dan: è sposato con Terry da 18 anni e insieme hanno adottato un bimbo, che ora è un perfetto “ragazzo etero” con buona pace di coloro, i “bigotti” come li chiama Dan, che temono che i figli che crescono con genitori omosessuali diventino per forza a loro volta omosessuali.

Quello che cerca di fare Itgetsbetter.org è non fare sentire soli i ragazzi vittima di bullismo, in particolare quelli che subiscono bullismo omofobico, mettendo “le cose in prospettiva”. È un canale per trasmettere esperienze di vita, perché tutte le persone lgtb “ sono state adolescenti, non è una cosa che capita all’improvviso in età adulta”: queste testimonianze di persone lgbt adulte aiutano i ragazzi e le ragazze a diventare più consapevoli nell’affrontare e vivere la propria condizione.
L’obiettivo è “fare la differenza salvando almeno una vita” perché ci siano sempre meno storie come quella di Billy.

www.itgetsbetter.org
www.lecosecambiano.org

Guarda il video del Presidente Usa per la campagna Itgetsbetter

INTERNAZIONALE
Se l’Occidente non riconosce più i suoi nemici

Ci sono giornalisti che si trovano a loro agio solo sotto i riflettori di uno studio televisivo, fra politici e opinion makers che parlano di niente, accavallandosi e accapigliandosi gli uni sugli altri. E poi ci sono giornalisti che trovano ancora la voglia e alcune volte il coraggio, di andarle a cercare le storie da raccontare da dietro quelle telecamere.
Corrado Formigli, due volte vincitore del Premio Ilaria Alpi, che tutti conoscono come autore e animatore di Piazza Pulita su La7, appartiene a questa seconda ‘specie’ e ha appena pubblicato un volume che racconta il suo viaggio, primo giornalista italiano, nell’inferno dell’assedio di Kobane e nelle zone di guerra occupate dagli uomini del califfo Al-Baghdadi. Il titolo del libro è “Il falso nemico. Perché non sconfiggiamo il califfato nero” (edito da Rizzoli) e Corrado lo ha presentato sabato pomeriggio a Palazzo Roverella durante il Festival di Internazionale a Ferrara.

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Perché e per chi l’Isis è il ‘falso nemico’?
Lo è, o lo è stato per la Turchia, che per lungo tempo “ha chiuso uno, due, tre occhi sui jihadisti che attraversavano il confine per diventare foreign fighters perché l’Isis serviva per combattere Assad e i Curdi”. Lo è per i Sauditi, anzi secondo Formigli, l’Isis sarebbe addirittura il loro “ fratello pazzo”, sfuggito al loro controllo. Il califfato però è forse soprattutto il falso nemico dell’Occidente che, a ben vedere, lo ha creato. Mettendo insieme i pezzi dello scomposto quadro mediorientale degli ultimi anni, come fa Corrado, emergono una serie di errori di Europa e Stati Uniti: “lo Stato Islamico è stato creato e potenziato dagli errori occidentali”. Al-Baghdadi ha creato l’organizzazione e ne è diventato il leader nella prigione statunitense di Camp Bucca, nell’Iraq meridionale, dove tutti i jihadisti “dormivano insieme all’aperto ed erano lasciati liberi di avere contatti fra loro”. Nel frattempo Paul Bremer, nominato governatore dell’Iraq da George Bush, aveva sciolto e messo al bando il partito Baʿth di Saddam, e “ex ufficiali e burocrati laici che si erano formati in Occidente hanno deciso di offrire le proprie competenze al Califfato”. Se poi si aggiunge che il ritiro dal territorio iracheno è avvenuto “senza sapere cosa sarebbe successo dopo e, peggio ancora, lasciando gli arsenali delle armi dell’invasione in mano a un esercito allo sbando e corrotto”, il quadro è completo. Anzi no. Corrado una cosa non è ancora riuscito a capirla: il mistero riguarda la Highway 47, l’unica strada che porta da Mosul alla Siria, l’unica arteria di collegamento fra le due capitali dello Stato Islamico, “costantemente sorvolata dai droni della coalizione e sorvegliata da terra dai curdi, ma mai toccata”. “Io detesto i complottisti – spiega Corrado – ma in questo caso ho dovuto combattere il complottista che è nato in me, perché non sono riuscito a capire come mai per due anni nessuno ha bombardato quella strada. E quando abbiamo provato a chiedere, i comandanti curdi ci hanno risposto che loro dovevano sentire il comando americano, che li ha sempre fermati dicendo che si rischiavano vittime civili”. Forse si riferivano agli autisti dei tir che trasportano le cisterne di petrolio.

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C’è però un altro falso nemico, questa volta agli occhi di un’Europa miope, che fa accordi con la Turchia di Erdoğan e ne prepara altri con l’Egitto di Al-Sisi: sono “i rifugiati”, anche se “statisticamente non c’è un autore di un attentato in Europa che sia arrivato qui su un barcone”, si arrabbia Corrado. Questo libro, confessa, lo ha scritto “per far conoscere le loro storie, per far capire cosa c’è dietro, cosa hanno vissuto”. “I rifugiati dovrebbero essere i nostri primi alleati perché hanno vissuto la guerra sulla propria pelle, hanno visto i propri cari perdere la vita, quindi credono nella libertà e nella democrazia molto più di noi, che spesso le diamo per scontate”.

INTERNAZIONALE
Clinton VS Trump, quello che le donne vogliono

Il prossimo Presidente Usa potrebbe essere una donna forte, con una carriera importante e nello stesso tempo moglie e madre, oppure un misogino che si distingue per il suo maschilismo e sessismo. Ecco la dicotomia che ha spinto gli organizzatori di Internazionale a guardare alle elezioni americane attraverso gli occhi delle donne, con “Decidono le donne. La candidatura di Hillary Clinton e la questione femminile in America”. Per parlarne, domenica mattina al Teatro Comunale di Ferrara, Katha Pollit, femminista che nel suo ultimo libro si è occupata della questione dell’aborto negli Stati Uniti, Rebecca Traister, autroce di “All the single ladies”, e la giornalista femminista italiana Ida Dominijanni.

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Tutte d’accordo sul fatto che lo scontro in atto in vista delle prossime elezioni è una battaglia fra due anime del paese, fra due idee diverse di cosa sono e dovrebbero essere gli Stati Uniti. Secondo Katha, per esempio, proprio l’aborto è “un tema esplosivo”, uno “spartiacque”. Da una parte lo schieramento riformista, che vede l’aborto come una possibile scelta che “una donna americana su tre potrebbe affrontare prima della menopausa”, con “il diritto di scegliere in piena libertà del proprio corpo, senza chiedere il permesso al padre del feto”. Dall’altra chi vuole frapporre più ostacoli possibile all’aborto perché questa libertà di scelta “fa impazzire persone che non vogliono l’uguaglianza fra uomini e donne” e pur di ottenere il proprio scopo la destra estremista cristiana americana si affida a un uomo come Trump che spesso “dice cose che con Gesù non hanno nulla a che fare”.
Per Ida Dominijanni la contrapposizione Clinton-Trump in realtà non ha nulla di strano: “in America come in altre parti del mondo si tratta di un movimento di reazione del maschilismo patriarcale proprio perché siamo in un momento di grande espansione delle libertà femminili”. Rebecca Traister le fa eco: “Trump esiste perché esistono Hillary e Obama, prima di lei: è l’incarnazione dell’America bianca e maschilista che vorrebbe continuare a reprimere parti della società, le donne e i neri, che in questi anni hanno raggiunto posizioni di potere”.

Sicuramente le americane sono convinte che Hillary farà molto, dal punto di vista delle politiche sociali e di sostegno al reddito, per aiutare le donne single, madri o meno, che sono sempre di più in America. Per questo la difendono anche quando Ida critica le sue scelte come donna, soprattutto quella di salvare il proprio matrimonio e recitare la parte della moglie devota ai tempi del sex gate che ha coinvolto suo marito e di sfruttare poi il fatto di essere un e first lady per costruirsi una carriera politica.
Kata, molto pragmaticamente, afferma: “ragazze dobbiamo prenderci quello che possiamo” e resta il fatto che Hillary è la prima donna a bussare alla porta della Casa Bianca. Se per arrivare alla stanza ovale ha prima dovuto passare per quelle della first lady, does it matter?
Per Rebecca è un processo che ha già avuto luogo in passato: “il primo ingresso delle donne nei posti di potere è sempre avvenuto grazie a quello che io chiamo potere prossimale, cioè per il fatto di essere mogli o vedove di potenti. È il beneficio delle prime volte: le porte si allargano e le strade si spianano. Hillary ha fatto breccia e dopo di lei verranno donne che non sono partite dall’essere mogli, in realtà sta già accadendo”.

Eppure Hillary continua a non convincere del tutto parte del movimento femminista proprio perché, come sottolinea Dominijanni, agisce in un certo senso rispettando i ruoli di genere tradizionali: moglie e madre devota quando è nel ruolo della donna, mentre “si virilizza quando si trova nella competizione politica”. E qui si accende un dibattito che avrebbe meritato almeno un’altra ora, perché Ida si chiede se sia “possibile impadronirsi del potere senza fare una critica del potere al maschile” e pensa che la vera scommessa del femminismo sia andare al potere non virilizzandosi, ma portando la propria cifra specifica. Kata, invece, sostiene che “molte delle qualità che attribuiamo al femminile hanno a che fare con le strategie per affrontare la mancanza di potere. Se le donne avessero lo stesso potere sociale ed economico degli uomini, non sappiamo come sarebbero perché vivremmo in un mondo diverso, che siamo ancora molto lontano dal raggiungere”.
In conclusione il messaggio è: arriviamo nei posti chiave, ogni donna decida come.

INTERNAZIONALE
Ecco come vivere felici, nonostante tutto

“Come vivere felici nonostante tutto”. Un bel titolo per l’evento che c’era venerdì sera al Festival di Internazionale a Ferrara. In pratica è una conversazione con Oliver Burkeman, giornalista inglese di The Guardian che ogni settimana scrive articoli, tradotti e ripubblicati dalla rivista Internazionale. E chi è che non vuole essere felice, in effetti? Nonostante tutto, poi…! Dopo essere andati ad ascoltarlo, bisogna dire che vale la pena sentirlo (o leggerlo). Ecco perché.

1. Riderci un po’ su. Il messaggio di Burkeman è una buona cosa, prima di tutto perché riesce a farti ridere (e questo è già un buon avvio di felicità). Attacca raccontandoti di tutti i corsi motivazionali che ha fatto inutilmente, delle attivazioni di chakra a cui si è sottoposto, dei manuali di auto-aiuto e di pensiero positivo che ha letto e che ha cercato di mettere in pratica senza riuscire a sentirsi meglio. Racconta anche di come ha provato a “visualizzare” la situazione che desiderava, come predicano i guru del pensiero positivo. Ma questo non faceva che aumentargli la paura di non riuscire a ottenere quelle cose. Dice: “Cercando di convincermi che tutto sarebbe andato bene, se poi le cose andavano male diventava una tragedia”. L’eccesso di positivismo, secondo Burkeman, è proprio pericoloso. Per lui è stato decisivo nella crisi finanziaria del 2008. Ricorda: “Venivi incoraggiato a comprare a tutti i costi la casa dei tuoi sogni. Non importa che tu non avessi i soldi. Come fa Trump adesso, una campagna elettorale fatta tutta di superlativi assoluti. Miglioriamo! Ma come? Non ha importanza, l’importante è crederci. Mah…”

2. Elogio del pessimismo. La seconda intuizione viene a Burkeman dalle persone che si definiscono stoiche, che secondo lui si fanno dei film anche loro, ma di solito sono film incentrati sul caso in cui le cose andassero male. In questo modo – assicura – riesci a ragionare in maniera più pacata sul peggior scenario possibile. “Hai paura di fare una brutta figura in pubblico?”, chiede. La risposta lui ce l’ha: “Affrontala e falla, quella brutta figura!”. E lui l’ha fatto, rivela. La paura della figuraccia lo assillava, così una volta decide di prendere di petto quella paura. Sale sulla metro di Londra e, a ogni fermata, annuncia a voce alta il nome della stazione. “All’inizio – ricorda – è stato abbastanza terribile. Il cuore mi batteva all’impazzata e sentivo sudori freddi”. Poi, fermata dopo fermata, si rende conto che le persone a mala pena alzano gli occhi dal giornale o dal tablet che stanno leggendo. “Non c’è da preoccuparsi tanto di quello che pensano di voi – conclude – perché tutti sono talmente presi dalle loro preoccupazioni, che a mala pena si accorgono di quello che fate. E la paura crolla. Addirittura ti rendi conto che, quasi quasi, non stai neanche facendo una brutta figura, ma potresti sostenere che stai facendo qualcosa che è di aiuto agli altri passeggeri!”.

3. Male comune. In Massachusetts, Burkeman scopre che c’è un “Museo dei prodotti invenduti dei supermercati”. Una marea di prodotti falliti, a partire dalle uova sbattute da farsi in macchina e da mangiare con la cannuccia mentre si guida, per arrivare fino alla New Coke della Coca-Cola, che ha dovuto subito ritirarla perché tutti volevano quella vecchia e originale. “Non se ne parla mai – fa notare Burkeman – ma ci sono tantissimi prodotti falliti di aziende di gran successo”. Fallire, insomma, è facile e diffuso, ma non se ne parla mai perché è considerato quasi un tabù.

4. La morte esiste, viviamo! In Messico Burkeman scopre che la gente trascorre tempo sulle tombe dei propri cari. “Lo fanno così, semplicemente. Si trovano lì, mangiano, parlano”. E sottolinea che è importante reintrodurre il pensiero della morte nella realtà quotidiana. “La morte – dice – è la madre di tutte le nostre paure. Invece va pensata come quello che è, una cosa che accade e basta, non una paura così tremenda da non poterla nemmeno nominare”. A conferma della validità di questa idea, arriva un intervento dal pubblico di Ferrara. Nella platea del Teatro Nuovo prende parola una pedagogista che lavora con i bambini ricoverati in ospedale per malattie molto gravi. E racconta la sorpresa che ha avuto trovandosi davanti alla naturalezza assoluta con cui quei bambini accettano l’idea della morte, come qualcosa di possibile e ovvio. Ma anche il modo in cui poi, con altrettanta facilità, quei bambini sono pronti in ogni momento a giocare, ridere e interessarsi delle cose, perché sono molto presi da ogni istante del presente più che dall’idea di futuro.

5. Sogna e metti in pratica. Ancora dal pubblico la sollecitazione che porta al suggerimento conclusivo. Non è poi del tutto vero che bisogna sempre pensare negativo. Un partecipante all’incontro fa notare a Burkeman che avere un obiettivo o una mèta è una buona cosa, che il sogno e l’utopia sono belli, perché con quelli in testa puoi darti da fare per portare avanti le cose che servono a realizzarli. Il giornalista britannico-ricercatore di felicità ammette: “Sì, visualizzare le cose positive va bene, se lo fai per mettere a fuoco gli strumenti che ti possono portare a quel risultato. Più che visualizzare un gol, ad esempio, un calciatore deve visualizzare la buona falcata, lo scatto giusto; deve esercitarsi su quelli. Anche gli artisti, i creativi, i grandi romanzieri lo dicono. Più che l’ispirazione illuminante, conta la costanza, mettersi con determinazione a lavorare ogni giorno”. Dopo non importa se non fai sempre gol. Importa che te la giochi bene. Chi ascoltava Francesco De Gregori, del resto, lo sa: un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia. E, se sbagli un calcio di rigore, ti ricordi che “non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”.

Festival di Internazionale è a Ferrara da venerdì 30 settembre a domenica 2 ottobre 2016 per la decima edizione.

INTERNAZIONALE
Acqua di Colonia, profumo di razzismo

– Tutta colpa del colonialismo!
– E che è?
– Boh!

In questo scambio di battute c’è l’essenza di “Acqua di colonia. Prima parte: zibaldino africano”, lo spettacolo di e con Elvira Frosini e Daniele Timpano, che venerdì sera ha chiuso al Teatro Comunale di Ferrara la prima giornata del Festival di Internazionale, giunto quest’anno alla sua decima edizione.
In questa anticipazione dello spettacolo che debutterà al Roma Europa Festival, Elvira e Daniele portano in scena alcune pagine poco conosciute della nostra storia italiana, vicende rimosse e negate che provengono da paesi lontani dell’Africa orientale, come Eritrea, Etiopia, Somalia e Libia, non solo negli anni dell’Impero fascista.
Proprio come nello Zibaldone, i due attori cercano di concentrare, con un escamotage metateatrale, una serie di spunti, associazioni di idee, nozioni, fatti, risultato di un lavoro di “riesumazione e scavo”, come lo hanno definito loro stessi nell’incontro con Igiaba Scego al termine dello spettacolo: una sorta di piccolo Bignami sulla storia razzista italiana e non solo.

Un momento dell'incontro al termine dello spettacolo
Un momento dell’incontro al termine dello spettacolo

Forse è la prima volta che si affronta questa pagina del passato nazionale a teatro: “Perché parlare di colonialismo oggi?”, chiede Igiaba agli autori. “Perché fa parte della nostra storia, ma è stato rimosso, messo sotto silenzio o narrato in modo riduttivo”, risponde Elvira alludendo alla persistente narrazione memoriale degli ‘italiani brava gente’. “Ci sembra che in un momento come questo, invece, il nostro paese debba guardare in faccia, affrontare questo periodo della sua storia, senza rimuoverlo”, conclude Elvira. Daniele dal canto suo aggiunge: “E’ come se i cinque anni del colonialismo fascista diventassero un capro espiatorio per tutto il resto”: l’Italia il proprio ‘posto al sole’ in Africa lo aveva cercato fin dal primo decennio del Novecento, con la prima campagna in Libia.
Nello “Zibaldino” però non c’è solo il passato: dalle canzonette di inizio secolo si passa a un pezzo del 2014 scaricato da internet e, come in uno specchio, gli stereotipi, i pregiudizi e quello che in fondo è un “sistema di pensiero generale” – afferma Elvira – si riflettono in scene di ordinaria quotidianità, affermazioni che chiunque di noi ha sentito al bar, per strada, sul treno o in tv.

Ad assistere a questo dialogo-brainstorming, un ospite silenzioso e immobile, che cambia a ogni replica, non è un attore/attrice professionista e non sa nulla dello spettacolo se non quello che gli/le rivelano Elvira e Daniele prima di entrare in scena. Per la serata ferrarese quest’ospite è stata una ragazza di colore, che al termine dello spettacolo ha confessato tutto il suo disagio nel non poter intervenire nel dialogo che si svolgeva intorno a lei senza che i due pensassero minimamente a coinvolgerla: “sentir dire cose negative, ma soprattutto cose positive su te stesso, senza poter controbattere, è stato molto fastidioso”. Elvira e Daniele hanno spiegato che non vogliono una morale per “Zibladino”, solo incrinare alcune certezze. E tuttavia, forse, un messaggio in fondo c’è: per parlare di colonialismo – italiano e non solo – non si dovrebbe parlare dell’Africa, ma con l’Africa.