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Ferrara film corto festival

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IL DIBATTITO
Gli errori della sinistra nell’era del turbocapitalismo 2.0

Se si prende per buona la distinzione di Norberto Bobbio tra destra e sinistra (1994), e non pare ci siano buoni motivi per non farlo, la prima è tradizionalmente portatrice dei valori di libertà, mentre la seconda di quelli della giustizia.
Dovremmo perciò trovare nel campo culturale della destra impegno e attenzione per rimuovere prioritariamente gli ostacoli alle libertà personali, a partire dalla libertà d’iniziativa in campo economico. Quelle che tanta letteratura nelle scienze sociali e storiche ha chiamato le libertà borghesi. In quello della sinistra, invece, dovremmo trovare pari determinazione per affermare in primo luogo l’uguaglianza, la riduzione delle distanze, delle differenze.
Se fosse così, in un mondo nel quale ogni indagine e osservatore puntano il dito su distanze sociali ed economiche mai viste prima, ci si aspetterebbe, più o meno ovunque, la vittoria politica delle sinistre a mani basse. E invece non avviene, almeno non in misura schiacciante. Senza contare che laddove in Europa sono al governo più d’uno avrebbe dei dubbi nel definirle tutte ‘Sinistra’.
C’è, infatti, chi per sinistra intende che “anche i ricchi devono piangere” e chi, invece, al posto di un piagnisteo generale preferisce il modello più riformista di “tosare la pecora” capitalista, perché se si ammazza l’ovino poi non rimane più nemmeno la lana da redistribuire.
E’ il compromesso fra capitale e lavoro di cui parla anche Habermas in “Crisi di razionalità nel capitalismo maturo” (1973), in cui smentisce – come prima di lui Weber – l’analisi ortodossa marxista basata sul binomio struttura-sovrastruttura: non è per via razionale (cioè per lo scoppio endogeno delle contraddizioni economiche allevate dentro di sé: la struttura) che entra in crisi il capitalismo, ma per deficit di legittimazione, spostando così l’asse dell’analisi a quella che Marx avrebbe definito la sovrastruttura (per lui non determinante) del sistema socioculturale.
Ma allora perché se tutte le premesse sociali ed economiche ci sono la sinistra fatica ad imporsi sul piano politico?
Giuseppe Berta ha provato a dare una spiegazione nel suo “Eclisse della socialdemocrazia” (2009).
Osservando la parabola delle sinistre europee, principalmente nelle due declinazioni britannico-laburista alla Tony Blair e tedesca, lo studioso e docente bocconiano ha ravvisato due punti limite di quelle esperienze.
Nel tornante storico decisivo della globalizzazione dell’economia e dei mercati, sostanzialmente nel passaggio di secolo tra il XX e il XXI, la socialdemocrazia avrebbe compiuto l’errore fatale di credere che semplicemente assecondando un capitalismo che con la caduta delle barriere aveva messo il turbo ci sarebbe stata ricchezza per tutti.
Da qui la scommessa, blairiana e non solo, di puntare politicamente sugli skills, le capacità, su un deciso sforzo di formazione, per cogliere tutte le opportunità dell’economia della conoscenza, piuttosto che giocare difensivamente sui sussidi e altri strumenti del tradizionale asse Trade Unions – Labour. Da qui anche la stagione, tuttora in corso, di politiche del lavoro che chiedono cambiamenti, specie sul versante dell’offerta piuttosto che a quello della domanda, nel nome della flessibilità e della capacità di adattamento pretesa, e imposta, da mercati sempre più imprevedibili, volatili, just in time e delocalizzabili da un giorno all’altro secondo le convenienze.
La crisi, altrettanto globale, scoppiata tra il 2008 e il 2009, avrebbe rappresentato il capolinea (l’eclisse) di una socialdemocrazia teorizzata e declinata nella “Terza via” (Giddens), oltre che la fine politica del New Labour di Blair.
L’eccesso di fiducia in un sistema capitalistico che prometteva ricchezza illimitata, tutta giocata sul terreno delle opportunità piuttosto che su quello giudicato arcaico delle garanzie, nonché artificialmente basata sulla storica caduta del muro di Berlino che aveva bloccato il mondo novecentesco (la fine della storia), avrebbe fatto perdere di vista i mali di quel sistema. E dunque, lasciato correre a briglia sciolta, il capitalismo si è schiantato contro un nuovo muro di carta, più effimero ma non meno velenoso: quello della bolla finanziaria.
Luciano Gallino è stato fra quelli che con puntualità e linearità hanno descritto le radici di questa illusione, contestualizzando lucidamente in questa crisi strutturale del capitalismo anche le conseguenti, per nulla inevitabili, politiche del rigore che tuttora stanno abbattendosi sui sistemi di welfare, da sempre concettualmente strumento innanzitutto valoriale della cultura della giustizia sociale.
Sul versante del retroterra elettorale della sinistra, si è poi assistito al progressivo formarsi della società dei “due terzi”: quella che già Braverman in “Lavoro e capitale monopolistico” (1974) descrisse come l’evoluzione terziarizzata della società capitalistica dei servizi, più che delle fabbriche. Senza contare che ciò che Pasolini definiva il sottoproletariato urbano delle periferie oggi è sempre più serbatoio (tirato come le corde di un violino) delle nuove destre con venature localistiche, egoistiche e xenofobe, in preda alle nuove paure dell’insicurezza, ai contraccolpi di politiche dell’integrazione etniche, ormai a corto di respiro e di risposte e alle prese con la coperta sempre più corta di un welfare assediato dal mantra del rigore e del risparmio.
Il filosofo Remo Bodei lo scorso 29 febbraio, proprio a Ferrara, ha ricordato i pericoli di un sistema capitalistico che col processo di automazione 2.0 ha accelerato a dismisura le potenzialità della produzione, espellendo lavoro ben oltre le capacità legislative di crearlo all’interno degli inadeguati spazi nazionali, nonostante tutte le possibili flessibilità.
E il sociologo Bauman in una recente intervista su L’Espresso (18 febbraio 2016) parla dell’era di internet (ulteriore sfondamento sul terreno immateriale del sistema di produzione globale) come di un mondo sì a portata di dito, ma nei termini non di una comunità, bensì di una realtà sempre più puntiforme, isolata, che intrattiene rapporti virtuali e in cui, per tornare al tema, prevalgono le ragioni della distanza, della differenza, di un’inarrestabile diversità plurale, policentrica e conflittuale.
Lo stesso storico Massimo Faggioli, in una recente riflessione sul dibattito attorno alle unioni civili, riflette come l’ambito dell’affermazione dei diritti civili si affermi – più o meno ovunque in Occidente – a scapito e prescindendo ormai dalle diseguaglianze economiche e sociali.
Tanto che Bauman conclude emblematicamente la sua intervista: “Bello, giusto, d’accordo, ma cosa c’entra con il significato della sinistra? Cosa c’entra con la giustizia sociale, che era la ragion d’essere della sinistra?”.
L’impressione è che se si vuole che quel tempo imperfetto usato da Bauman (“era”) continui a essere un indicativo presente (“è”), occorre molto di più che una vittoria alle elezioni.

L’APPUNTAMENTO
Un altro mondo è possibile: dal mutualismo alla sharing economy

La crisi ha indotto molti a mettere da parte il galoppante individualismo e riscoprire il valore delle relazioni, il senso della solidarietà, il concetto di mutualità, il reciproco aiuto, la disponibilità a spenderci per gli altri e l’umiltà di chiedere agli altri senza eccessivi imbarazzi, in una ritrovata dimensione di civile reciproco sostegno. Siamo diventati più sensati e meno frivoli, guardiamo più all’essenza e meno all’effimero.
Significativo è il progressivo affermarsi – in ambiti ancora minoritari, ma in costante crescita – di una economia basata sul fondamento del baratto, che valorizza saperi e competenze e si orienta sul bisogno reale, piuttosto che ridurre tutto a termini monetari, con il prezzo quale unico indice di misurazione e il denaro come solo strumento di remunerazione.
La cosiddetta ‘sharing economy’ è l’esempio più dirompente di questa ritrovata sensibilità comunitaria e la dimostrazione che qualcosa sta cambiano: prestare, scambiare, condividere sono i verbi della nuova economia. Mettere a disposizione, superare gli egoismi regala una gioia nuova: il piacere della solidale complicità.

Il prossimo appuntamento del ciclo Chiavi di lettura organizzato di Ferraraitalia ha per tema proprio l’economia di scambio. Titolo: “Solidali e felici: dal mutualismo alla sharing economy, un altro mondo è possibile”. Le cose stanno cambiano velocemente e gli orizzonti che si dischiudono potrebbero essere gravidi di sorprese interessanti. Coworking, bike sharing, car sharing, car pooling, couchsurfing, hospitality club stanno diventando espressioni che designano nuovi stili di vita. Ne parleremo insieme valutando punti di forza e criticità. E soprattutto verificando se questo vento nuovo sta riorientando non solo i nostri consumi ma, quel che più conta, le nostre coscienza.

 

Appuntamento lunedì 29 febbraio alle 17 nella sala Agnelli della biblioteca Ariostea

Solidali e felici
dal mutualismo alla sharing economy: un altro mondo è possibile

 

L’INTERVISTA
Il peso delle parole

Le parole hanno un peso, una storia, una loro precisa collocazione nel contesto di una frase, di un testo, della vita delle persone.
Puttana, violenza, aggressione, sono tre termini che ricorrono nella vita di tutte le donne, traducibili in ogni idioma esistente, applicabili a ogni stato socioeconomico, declinabili all’infinito e sempre portatori di una valenza negativa.
Dominio, potere, controllo, sono tre termini che ricorrono nella vita di tutti gli uomini, anche questi sono traducibili in tutte le lingue, sono ugualmente applicabili a ogni stato socioeconomico, sono declinabili all’infinito, ma la loro valenza può essere varia, non necessariamente negativa.
Il peso delle parole è uguale al peso delle azioni e, applicando questo assioma al fenomeno della ‘violenza sulle donne’, lo scenario che si apre davanti ai nostri occhi è spaventoso. Per i numeri sciorinati, che pure sono importanti (nel 2014 il 31,5% delle donne ha subito violenza fisica e una percentuale che nemmeno l’Istat può calcolare con precisione, ma che si aggirerebbe intorno al 64%, ha subito violenza psicologica), ma soprattutto perché ci muoviamo in un mondo palesemente violento e violentemente giustificato.

#DearDaddy, guarda il video

Capire il fenomeno della ‘violenza sulle donne’ non è cosa semplice, da decenni ci si impegnano sociologi, psicologi, scienziati di ogni sorta e le risposte sono eterogenee, spaziano dalla crisi dei ruoli familiari a quella economica, passando per la fisiologia e la sociodinamica. Ma mentre gli scienziati studiano e i governi glissano, ogni cinque minuti una persona – che potrebbe essere nostra sorella, nostra amica, nostra figlia – subisce una forma di violenza perché donna. E non c’è centro antiviolenza, casa famiglia, centro studi sulla donna, ministero o corpo di polizia che possa farci venire a capo di questo fenomeno.

“Per affrontarlo in maniera realistica, efficace, bisognerebbe condurre una rivoluzione culturale. L’alternativa sarebbe ritornare indietro del tempo all’epoca della caverna e della clava. Lavorando da lì si potrebbe ricostruire un equilibrio corretto nel rapporto fra uomo e donna”, ha detto Francesco, operatore del Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Ferrara. Lui, Laura e Alessandra sono impegnati da tempo ad accogliere uomini che hanno praticato violenza, che hanno percepito la necessità di capire se stessi e trovare una soluzione a un problema che – alla meglio – coinvolge la vita di tre persone: l’uomo, la sua vittima e chi è loro accanto, sia esso un figlio, un parente o un amico. Senza valutare le implicazioni sociali della questione.
“Noi lavoriamo molto sul modo in cui la donna viene percepita, sia nei rapporti di coppia che proprio all’interno della società. Il problema è che la figura della donna nella nostra società quasi sempre risponde a dei modelli imposti e anche gli esponenti di rilievo del mondo femminile spesso ricalcano e presentano la loro adesione a tali modelli”. Modelli ovviamente imposti da maschi.

Nel giorno della quarta edizione di “One Billion Rising”, manifestazione planetaria contro la violenza di genere, vale la pena raccontare un pezzo di questa realtà da un punto di vista che definirei insolito, non per la sua stessa esistenza, ma perché non è praticamente mai oggetto di narrazione e riflessione: quello di chi la violenza sulle donne la vive per interposta persona, attraverso i racconti di chi la attua. Il Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Ferrara fa parte di un network di centri di ascolto e sostegno, che dal 2013 si occupa di accogliere gli uomini che hanno comportamenti violenti nei confronti delle loro compagne o ex compagne.
“Il Centro di Ferrara prende a modello Alternative to Violence, centro che opera a Oslo dagli anni Ottanta. I fondatori della scuola, docenti ai corsi di formazione che abbiamo seguito, ci hanno raccontato di come la loro esperienza sia nata grazie al rapporto e allo scambio con il percorso femminista in Norvegia e che, anche se oggi c’è una realtà molto grave per numero di episodi di violenza, lì c’è una grande consapevolezza circa la necessità della denuncia personale alle autorità competenti, ma anche della denuncia sociale. Gli episodi di violenza ci sono ovunque, ma nei paesi del Nord Europa viene riconosciuta come cosa da denunciare, nel nostro Paese si tace a livello personale e si giustifica a livello sociale. Siamo figli di un percorso culturale molto diverso”.

Fra il novembre 2014 e ottobre 2015 si sono rivolti al Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Ferrara 35 uomini, di questi 19 hanno iniziato il percorso proposto dagli operatori. Il primo passo è una telefonata. “Solitamente chiamano uomini che sono stati abbandonati dalla compagna-vittima, che quindi si ritrovano soli, arrabbiati e incapaci di guardare avanti. Spesso a farli arrivare qui è la volontà di riconquista della donna. Lo stesso vale per quegli uomini che si rivolgono a noi su spinta della donna, che cerca di farsi promotrice di un cambiamento. – ha spiegato ancora Francesco – Cosa li porti qui in realtà diventa marginale: per noi l’importante è poter fermare il circolo vizioso, fare in modo che la violenza cessi e accompagnare queste persone in un percorso di auto-consapevolezza. Il momento decisivo nella storia personale di ciascuno è chiamare, crediamo che sia la cosa più difficile per ognuno di loro. A seguito del primo contatto solitamente c’è un colloquio singolo, soprattutto per valutare il reale coinvolgimento dell’uomo, capire il tipo di violenza che ha agito, valutare assieme a a lui la possibilità di intraprendere un percorso. Un percorso che inizia con una serie di colloqui individuali, successivamente si arriva alla fase più significativa e spinosa: far accede l’uomo a un gruppo di altri uomini che hanno intrapreso un percorso analogo al suo. Qui egli si dovrà confrontare, imparare ad ascoltare gli altri, mettersi in gioco, sentire critiche e giudici senza subirli, prendere le proprie posizioni e difenderle senza aggredire, incominciare a comportarsi in maniera più rispettosa con se stessi e con l’altro, con le donne. In ogni incontro abbiamo sempre due mediatori, uno è donna, proprio perché così viene data la possibilità di capire qual è il ruolo e l’importanza della donna, ascoltarla, confrontarsi con lei senza partire dal presupposto donna = serie B”.

E’ lecito chiedersi se gli uomini che si rivolgono al Centro davvero riconoscono nel dialogo e nel confronto la parità? “Onestamente no, dipende dagli uomini, da qual è la loro storia”, ha raccontato Alessandra, che segue i gruppi psico-educativi con il presidente dell’Associazione, Michele Poli. “Alcuni probabilmente riescono ad arrivare a un certo punto, ad avere maggiore consapevolezza, altri fanno fatica. Il nostro obiettivo primario e comune è che si interrompano le violenze, ma sul modo di vedere la donna, di relazionarsi ad essa, a qualunque ruolo ricada, è molto più difficile. Lavoriamo sugli approfondimenti sul vissuto della persona, perché ognuno di loro è tenuto a raccontarsi agli altri, in questo modo si riesce a creare confronti costruttivi, ma la donna – in quanto tale – resta sempre il nodo da sciogliere”.

Secondo gli operatori del Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Ferrara, dei 19 gli uomini presi in carico in un anno e che hanno sostenuto almeno il primo colloquio conoscitivo, 17 hanno dichiarato di aver subito o di aver assistito a violenza, soprattutto da parte del padre. “Si tratta di un dato importantissimo, tenendo presente che nella ricerca Istat del 2015 sul tema, un dato riguardava la trasmissione dei modelli: quando i bambini avevano assistito a fenomeni di violenza fra genitori, i maschi hanno perpetrato i modelli del padre, le bambine quelli della madre”. Quindi il fenomeno cresce a livello esponenziale. La rivoluzione culturale si può instillare nella società, partendo dai bambini? “E’ difficile perché per quanto si vogliano costruire diversi riconoscimenti di ruolo, resistono degli stereotipi fissi, immobili: alle bambine il ferro da stiro, ai bambini il fucile come giochi.”.

Con modelli e stereotipi così radicati diventa difficile individuare strumenti efficaci per interrompere il fenomeno. “Secondo me servirebbe più cultura femminile. Cultura al femminile: leggere le scrittrici, scoprire le pittrici, le artiste, le filosofe, far emergere un ruolo della donna che è stato nascosto per secoli. – ha detto Francesco – Questo possibilmente con la collaborazione degli uomini, che è la cosa più dura da ottenere. Da maschio posso dire che noi abbiamo molta paura delle donne, della possibilità che voi siate molto meglio di noi. E’ una paranoia, non un problema, ma è frutto di secoli di dominio, di controllo. Il maschio è innamorato del controllo e la violenza diventa l’estrema ratio di questo controllo. Quando scopro che la mia partner, che io credo che sia mia, trascende il mio controllo vado nel panico, mi destabilizzo e questo scatena la consapevolezza spaventosa della mia impotenza e quindi… la meno, per sentirmi di nuovo maschio, per sentirmi di nuovo saldo nel mio ruolo di potere, per ristabilire il mio ordine rispetto alla nostra relazione. E’ molto banale ma è così.”.

Lo strumento principale per portare a casa una vittoria sociale così importante sarebbe il dialogo. Questo termine andrebbe sostituito a controllo e potere, ma non è un fatto da poco conto. “Nella violenza il meccanismo mancante è l’ascolto. Imparare ad ascoltare, comprendere le ragioni dell’altro sarebbero passi fondamentali e risolutivi. Sembra una cosa semplice e semplicistica, ma come tutte le cose semplici risulta essere la più difficile da mettere in atto, soprattutto perché parliamo di relazioni in cui il coinvolgimento emotivo è importante”, ha aggiunto Francesco. Utilizzare il dialogo come strumento di parità e crescita è una cosa che si può insegnare ai bambini, come una buona prassi culturale di base, come imparare a scrivere. “Noi in genere facciamo lavoro nelle scuole e lavoriamo nei licei a 14, 15 anni; portiamo una riflessione sul riconoscimento della violenza, che è una cosa molto difficile poiché ammanta la cultura, il quotidiano. Non è solo fatta di me che ti sparo, ma anche di te che mi parli e io non ascolto, è la frase buttata là che discredita quello che stai dicendo o facendo, è il mio minimizzare il tuo problema perché non lo reputo come tale”. Questa è violenza e, in questo senso, siamo tutti violenti. Invece insegnare il dialogo, praticare e insegnare la comunicazione non violenta, sarebbe risolutivo. Così come risolutivo sarebbe imparare che non si ha il controllo di niente e di nessuno. “Dobbiamo imparare ad accettare l’impotenza, ma noi non siamo stati educati in questo senso, non riusciamo ad accettarci come impotenti nella relazione, soprattutto l’uomo non può percepirsi come tale. Invece è nella natura delle cose non avere il controllo, eppure questo è vissuto come un fallimento: l’impotenza cozza con quello che ci viene propinato ad ogni livello. – ha spiegato Laura – Per esempio, in una relazione un donna che non si alinea alle idee e decide di andarsene scatena l’impotenza e per l’uomo è difficile accettare di non poter aver controllo sulle sue scelte e di accettare questa impotenza come una cosa che sta nella nostra natura.”

Questa ipercitata, ostentata, a volte millantata parità può essere quindi “il problema”? “Non è il problema, ma probabilmente problematiche sono le modalità in cui essa si è realizzata e si realizza tuttora. – ha raccontato Laura – La parità è stata vissuta come un’imposizione, non c’è stata una evoluzione comune dei generi. Penso al femminismo che ha raggiunto conquiste importantissime grazie alla riflessione delle donne fra di loro, ma non sono frutto di una comune evoluzione della comunicazione fra uomini e donne. I traguardi di parità e integrazione raggiunti non sono stati il frutto di richieste fatte da uomini e donne, assieme, in maniera condivisa. Sono state in qualche modo “imposte” all’universo maschile e non riconosciute necessarie da parte degli uomini. Questi accettano la regola della parità, ma non avendola partecipata non è detto che la rispettino. La parità della donna, della sua figura nel sociale, dovrebbe essere vista come conquista anche da parte dell’uomo, finché questo non la vedrà come una conquista anche per se stesso rimarrà imposizione e quindi potrà ancora portare all’espressione dell’impotenza, che si traduce quasi automaticamente in violenza.”

“Qualcuno non ce la fa a sostenere il confronto e quindi non ce la fa ad agire il cambiamento. – conclude Alessandra – Altri fanno un percorso magari doloroso e lungo, ma ad un certo punto la consapevolezza del cambiamento prende forma, fornendo una nuova visione della propria vita di relazione, anche con le donne, magari anche con la propria compagna o ex compagna”. Quindi, utilizzando le giuste parole possiamo tutti alimentare il cambiamento e la speranza.

NOTA A MARGINE
La musica del Cosmo (ovvero le onde gravitazionali spiegate ai bambini)

Sono passati tre giorni da quando è stata annunciata e ribattuta dalle agenzie milioni di volte la notizia che, pare, rivoluzionerà le teorie e la ricerca scientifica sul cosmo: parliamo della conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali, mistero ipotizzato da Albert Einstein cento anni fa, la cui presenza sarebbe stata dimostrata da un’equipe internazionale di scienziati dopo decenni di studi.

Alzi la mano chi ha capito al volo di cosa parlassero le riviste scientifiche, i giornali tutti, i tg e i notiziari alla radio. Noi teniamo la mano abbassata. E per chiarirci le idee e comprendere quale portata potrebbe avere una simile scoperta ci siamo affidati in prima battuta a un video divulgativo della Phd Comics, una struttura che produce mini-documentari Ideati da nerd di ogni sorta! Poi, inquadrato il tema, siamo passati alle riviste scientifiche.

Ciò che abbiamo compreso è che le onde gravitazionali sono increspature dell’universo che si creano per la stessa massa delle “cose” che in esso si muovono: stelle di ogni genere, buchi neri e galassie. Secondo la teoria delle onde gravitazionali, per fare un esempio a noi vicino, la Terra gira intorno al Sole non per l’effetto della forza di gravità solare che – come si urla spesso nei film di fantascienza degli anni ’80 – sarebbe fortissima, ma perché il Sole che è un corpo pesante piega l’universo intorno a se, costringendo così i pianeti del sistema a stargli addossati nella rotazione. Quindi, quando grandi masse si muovono interagendo fra loro, causano deformazioni dell’universo, creando onde gravitazionali. Queste viaggiano attraverso il cosmo e arrivano a noi sotto forma di vibrazioni portando la voce di eventi lontanissimi nello spazio e nel tempo.

L’annuncio della scoperta degli effetti della onde gravitazionali fa seguito all’osservazione di un evento cosmico registrato il 14 settembre scorso: la collisione di due enormi buchi neri, con una massa grande rispettivamente 36 e 29 volte quella del Sole, che ruotavano uno intorno all’altro. Si sarebbero avvicinati fra loro alla velocità della luce e alla fine si sono scontrate, generando un unico buco nero che ha per massa la somma dei due e ha emesso una energia pari a tre masse solari, che è arrivata a noi grazie alle onde gravitazionali. Gli scienziati hanno percepito la danza di avvicinamento dei due corpi celesti, testimoniata da un segnale di vibrazione sempre più ampio e frequente durato appena 10 millisecondi. Poi silenzio.

Perché questa “musica” del cosmo sia udibile e misurabile, c’è bisogno che le masse che interagiscono fra loro siano enormi, proprio come due buchi neri e per misurare le deformazioni si utilizza la velocità della luce: se lo spazio si dilata o si restringe, a causa dell’interazione delle masse, la luce del sole avrà una distanza differente da quella misurata in precedenza. Questa è la cosa più difficile da capire: cosa c’entrano i tunnel dei rilevatori Ligo (Laser interfero meter gravitational wave observatory) in Louisiana e vicino Washington con le onde gravitazionali e che cosa significa l’entusiasmo che questa scoperta ha provocato fra gli addetti ai lavori?

Il cosmo è oggetto di teorie, lo studio dell’Universo non può essere empirico e ci si affida alle intuizioni degli scienziati per procedere nella ricerca. Einstein aveva ipotizzato la “teoria della relatività”: la curvatura e la distorsione del rapporto fra spazio e tempo sarebbero state legate alla distribuzione delle masse e dell’energia. Affascinante teoria che destabilizzava l’idea che lo spazio e il tempo fossero lineari, come gli assi della matematica cartesiana. L’aver potuto raccogliere le vibrazioni delle onde gravitazionali ha confermato che il rapporto fra spazio e tempo non è affatto lineare, è soggetto a variazioni, a increspature, e ancora una volta toglie l’uomo dal centro dell’universo e lo relativizza, mettendolo di fronte al fatto che – magari un giorno – attraverso queste stesse increspature sarà possibile raggiungere luoghi infinitamente lontani o tempi diversi da quello in cui viviamo. Ecco, questa è la nuova teoria da confermare o confutare.

Resta la questione dei tunnel: queste strutture di studio, una delle quali presenti a Cascina di Pisa, sono costituite da tubi, chiamiamoli così, all’interno dei quali si fa viaggiare la luce laser per misurare la variazione dello spazio. Quando arriva un’onda gravitazionale, essa contrae lo spazio in una direzione e lo dilata nell’altra. Misurando l’interferenza fra i fasci laser che vengono riflessi da una estremità all’altra i fisici possono misurare in maniera molto precisa se lo spazio si è dilatato o compresso. Le misure sono infinitesimali, parliamo di unità di dieci alla meno ventun metri, e l’effetto delle onde è una vibrazione assimilabile al rumore di fondo del cosmo: gli scienziati del Ligo negli Usa e quelli della Virgo a Cascina, dopo aver raccolto il rumore delle onde, hanno dovuto separarle da tutti gli altri rumori del cosmo per poterle studiare e riconoscere come tali.

Cosa cambia nella nostra vita? Nulla in concreto! Facciamo la spesa come la scorsa settimana e lunedì torneremo a lavoro come sempre, sapendo però che le nostre vite si svolgono in un affascinante sistema universale. E grazie alla caparbia di centinaia di “scienziati pazzi”, visionari che scrutano le stelle, pian piano potremmo capire meglio da dove veniamo, noi essere umani e tutto ciò che ci sta intorno. E un giorno forse qualche nostro pronipote potrà preparare i bagagli per il suo viaggio intergalattico nello spazio o per un’escursione nel tempo, proiettando se stesso in luoghi remoti o in epoche passate. 

LA SEGNALAZIONE
Quello che le donne non dicono

Un’anziana signora non andava là sotto dal 1953. Aveva chiuso per sempre con quella parte di sé, che le aveva procurato in gioventù un’inondazione. E lei era naufragata in un mare di vergona, oltre il pudore, oltre il piacere che aveva finalmente provato. Chiuso per sempre. Dopo tanti anni, praticamente una vita, aveva raccontato la sua storia a Eve Ensler. E si era sentita meglio.
L’inondazione è uno dei “Monologhi della vagina”, sono parole di vita, spesso dolorosa, che non puoi leggere e basta. Sai che non è un testo per la scena, ma è un di velo di Maya che si è squarciato per rivelare l’ignoto, il calpestato, l’intimo. Sai che hai in mano una cosa che ad alcune ha fatto sfiorare la morte, ad altre trovare un’identità, a molte ha dato la possibilità di parlare. Ma quando si tratta di sè non è mai semplice. Chi legge lo sa, e la scelta del testo a cui dare voce è per questo libera, di pancia. Bisogna sentirsela di leggere le parole di una donna bosniaca rifugiata in un campo profughi durante la guerra in Jugoslavia. Anche raccontare un parto, il dolore fisico più bello che una donna possa sentire, è una lettura che mette alla prova, rivivi quando è successo a te o a una tua amica e sai che è proprio così come lo stai dicendo al pubblico.
I monologhi però sono anche pratici, come le donne. Il ‘seminario della vagina’ esiste e non è per niente banale. Ha aiutato le donne a vedersi e più ancora a immaginarsi: chi lo racconta trova finalmente se stessa, chi lo ascolta capisce quanto la paura di scoprirsi possa durare anche tutta la vita.
L’unicità che ciascuna donna ha nel raccontarsi trasforma i “Monologhi” in un dialogo moltiplicato all’infinito fra chi interpreta e chi ascolta. I monologhi sono orizzontali perchè non c’è mai un sentimento che non hai provato, un pensiero che non hai fatto, un timore che non ti ha attraversato e che non sia stato confessato nei testi. Non è un caso se quest’opera dall’America è stato accolta quasi in tutto il mondo ed è ancora rappresentata a distanza di negli anni.

Il gruppo VDay Ferrara crede che si debba continuare a proporre sul terrirtorio i “Monologhi”. È il quinto anno che, in sintonia con gli altri VDay internazionali, le volontarie del VDay Ferrara curano gli spettacoli il cui ricavato sarà devoluto in beneficenza a progetti a sostegno di vittime di violenza. Perché memoria e riflessione non si spengano e perchè ascoltare è anche un po’ curare.
Le donne ne hanno bisogno.

Appuntamento domenica 21 febbraio alle 18.30 presso lo spazio teatrale dell’associazione Ferrara Off.

LA MEMORIA
Fantasia e tenacia: in ricordo di Paolo Mandini che oggi festeggerebbe 73 anni di vita intensa

di Antonio Rubbi

Ci eravamo trovati, giusto un mese fa, amici e compagni, la città nelle sue espressioni che la rappresentavano, sindaco Tagliani in testa, a salutare Paolo Mandini che ci avrebbe lasciati per sempre. Troppo presto e troppo dolorosamente, per Paola e Stefania e per noi tutti. Parlare di lui al passato mi riusciva a stento allora, fatico ad abituarmici ora quando ancora mi pare debba arrivare, attesa e gradita, la sua telefonata per raccontarmi di un fatto della città, del risultato della partita della nostra amata Spal, ma più frequentemente per un fatto politico del giorno , fosse esso inerente a problemi cittadini o nazionali o riguardassero le preoccupanti vicende dell’inquieto e confuso mondo di questi tempi.
Perché con Paolo di politica prevalentemente si parlava. Per lui, come del resto per tutti noi che venivamo della stessa militanza partitica e da una esperienza di vita che se pur distante negli anni era simile nei valori cui si ispirava e nei percorsi da compiere la politica era, ed è rimasta, come una specie di seconda pelle.

paolo-mandiniPaolo per di più le vicende della politica le viveva ancora con la immedesimazione e l’ardore di quando si trovava in prima linea e sentiva di dover dar conto quotidianamente del suo pensiero e del suo operato, benché la condizione del pensionato e i problemi di salute che lo affliggevano gli dovessero suggerire un minor grado di tensione e di coinvolgimento.
Mi ricordava il tempo in cui avevamo operato assieme, un decennio buono in Federazione e poi quasi altrettanto sui banchi del Consiglio Comunale. La stessa voglia di ascoltare e di apprendere, ma anche di confrontarsi senza timore referenziale, sino alla contrapposizione e allo scontro, che non erano stati infrequenti soprattutto negli anni incandescenti dei movimenti giovanili e studenteschi del ’68-’69. C’erano stati momenti in cui davvero avevamo faticato a capirci: il partito dei grandi ancora arcigno e guardingo, culturalmente non pronto ad accogliere le novità dirompenti che tali movimenti proponevano e dall’altro schiere di giovani e ragazze suggestionati da correnti di pensiero e propositi di cambiamenti radicali dello stato delle cose esistenti, rappresentati in una miriade di gruppi e gruppuscoli, partiti e partitini sin li sconosciuti e quasi sempre espressi in nomenclature estreme. Va dato merito a quel gruppo di giovani che si trovavano in quegli anni con Paolo alla testa della Federazione giovanile se, dopo aver tanto battagliato nei cortei, nelle assemblee studentesche, nelle sezioni e nei circoli, con larghissima parte di quei giovani e ragazze sapemmo ritrovarci e riprendere ad operare insieme.
Mi ricordava il Paolo dei dibattiti in Consiglio Comunale ai tempi dell’istituzione dei Consigli di Quartiere per allargare la partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica; dell’apertura di nuovi istituti e sedi in città per incrementare interesse e partecipazione a dibattiti culturali in grado di favorire la conoscenza reciproca ed una collaborazione maggiore tra le forze politiche e sociali della città. E infine, l’inizio del suo lungo e insuperabile impegno, come assessore allo sport. Ha ben scritto Fiorenzo Baratelli, suo amico da una vita, che Paolo Mandini è stato il migliore assessore allo sport che Ferrara abbia avuto e gli sportivi ferraresi di ieri e di oggi hanno già dimostrato di riconoscerlo come tale e sono convinto che non mancheranno più significativi attestati in futuro.

Come dirigente politico Paolo Mandini non aveva solo il gusto del dibattito; sapeva bene che occorreva unire a questo anche il momento dell’azione, del fare. Ed in questo era pieno di risorse. Era dotato di una fantasia e di una mente talmente fervida da sfornare a getto continuo idee e proposte. Per tanti versi mi ricordava l’incontenibile Roffi dalle mille trovate. Ero piuttosto io a mantenere un atteggiamento di cautela quando mi sottoponeva certi parti della sua insuperabile fantasia. Perché Paolo lo conoscevo bene e sapevo che se era bravissimo e assolutamente affidabile per tante cose, non era quel che si dice un organizzatore provetto ed era piuttosto disordinato nelle sue iniziative, cosicché, poteva capitare che alcune brillanti idee si arenassero ancora allo stadio della messa in cantiere ed altre languissero in rifacimenti continui e tempi infiniti.
Ma poi era venuto un momento che mi aveva costretto a ricredermi e mi aveva sorpreso sino allo sbalordimento. Era stato quando era andato a prestare la sua opera nel movimento cooperativo ed in talune circostanze aveva avuto l’incarico di portare avanti iniziative di solidarietà internazionale, che interessato e sensibile come era sempre stato per le vicende internazionali, accendevano il suo entusiasmo. In alcune occasioni si era rivolto a me, in quel periodo alla direzione del partito a Roma a dirigere la sezione esteri, ed ero stato ben felice di potergli dare una mano. Era stato relativamente facile far giungere gli aiuti che il movimento cooperativo aveva raccolto per il Fronte di Liberazione di Angola e Mozambico, per l’Anc che in Sud Africa si batteva contro l’apartheid; bastava collegarsi con i reggiani che avevano un canale aperto e che avrebbero facilitato il recapito. Assai più complicato era stato, qualche anno dopo dar seguito all’appello proveniente da Cuba volto ad ottenere materiale di cancelleria scolastica di cui c’era estrema carenza. Come concretamente Paolo avesse fatto non so, ma non troppi mesi dopo nell’ambasciata cubana a Roma era pervenuta una lettera di ringraziamento del governo cubano diretta alla cooperazione italiana.
E infine la faccenda dell’orologio per Mostar. Una storia quasi incredibile. Tra le tante conseguenze tragiche della guerra serbo-bosniaca c’era stata la distruzione a Mostar del famoso e bellissimo Ponte Vecchio sulla Neretva, costruito dai Turchi nel 1556, e successivamente ornato con un enorme orologio murale d’epoca, anch’esso andato perduto. I bosniaci chiedevano aiuto per la ricostruzione dell’uno e il rifacimento dell’altro. Ed era appunto a nome di una cooperativa specializzata di Modena che dichiarava di prendersi in carico il ripristino dell’orologio murario che Paolo stavolta agiva. Come sia andata a finire di preciso non so, quel che so di certo è che continuò ad occuparsene a lungo con tenace impegno.

Era nella sua indole offrirsi ad ogni causa nobile ed aiutare chiunque si trovasse in una condizione di difficoltà e bisogno, fosse una singola persona, una comunità, un popolo intero. Bisogna anche dire che aveva grande facilità e naturalezza di approccio con persone di altri paesi, di altre storie e culture, di altre razze. E questo approccio lo manteneva allo stesso modo per tutti, dai più umili ai più “grandi”, quelli che entrano nella storia. L’avevamo visto a Ferrara portare a passeggio lo sfortunato protagonista della “primavera di Praga” Alexander Dubček, io l’avevo visto nella sede della Coop di Modena farsi amico in un breve pomeriggio un personaggio come Mikhail Gorbaciov che il mondo intero nel periodo della “perestroika” aveva osannato. Si era immediatamente accattivato la sua simpatia e quando si erano salutati si erano pure scambiati una divertita reciproca pacca sulle spalle. Io Gorbaciov lo conoscevo da anni, avevo trascorso con lui giornate e giornate, ma una confidenza del genere non me la sarei permessa.

Nella vita di Paolo non erano mancati i momenti di amarezza. I peggiori furono certamente quelli in cui lui ed un gruppo di compagni ed amici che condividevano lo stesso pensiero e lo stesso atteggiamento avevano ritenuto loro dovere di cittadini e di militanti di una forza politica che della correttezza amministrativa aveva fatto una sua bandiera, denunciare quel sistema di potere che si era costituito attorno alla amministrazione comunale e ad alcune sue scelte, discutibili al massimo ed opache quando bastava per mettere in allarme e che coinvolgeva settori della politica ferrarese del movimento cooperativo, segnatamente la potente Coop Costruttori. Apriti cielo! Contro questi maldicenti “grilli parlanti” e “moralisti a tempo perso” fu condotta una virulenta campagna per isolarli e metterli all’indice. Una condotta tracotante e miope. Un ceto dirigente un po’ meno coinvolto e un po’ più accorto avrebbe all’opposto cercato di indagare più a fondo i motivi di quelle critiche e l’oggetto specifico della denuncia che veniva fatta. Sarebbe stata anche la strada migliore per cercare di suturare la ferita profonda che era venuta a crearsi all’interno dello stesso schieramento. Lo fecero più tardi, quando arrivarono loro alla direzione del partito: Roberto Montanari prima, con nettezza e a modo suo, Mauro Cavallini dopo. Ma poi furono i fatti a parlare: il crac rovinoso della Coop Costruttori, con tragiche conseguenze per migliaia di famiglie e di lavoratori e pesanti ricadute sull’economia argentana e ferrarese, le cause in giudizio nelle aule dei tribunali; il Palazzo degli Specchi ridotto ormai alle sembianze di uno spettro a testimonianza simbolica dello scempio compiuto. Nell’acceso scambio polemico di quegli anni ci saranno state certamente forzature da una parte e dall’altra. A Paolo capitava di trovarsi sopra le righe, non aveva difficoltà ad ammetterlo. Ma riconoscere ora, alla luce di quanto accaduto, chi era nel vero non dovrebbe essere difficile. E’ sperabile allora che qualcuno tra i responsabili senta di dovere quanto meno delle scuse a quanti condussero quelle battaglie di verità?

Il pensiero di Paolo negli ultimi tempi era rivolto, come credo la maggior parte di noi, a cercare risposte dal caotico e mal governato mondo che ci ritroviamo. Come la fermiamo quella orribile marmaglia nera dei fanatici e feroci seguaci del sedicente Califfo prima che si attesti in forze anche davanti all’uscio di casa nostra, in Libia, e pronta a sguinzagliare nei paesi europei i suoi sicari di morte? E come fronteggiamo la massa dei migranti che scappa dai paesi in guerra, fatto salvo il dovere, prima di tutto, di assisterli affinché non anneghino? Seminando paure, alzando sempre più filo spinato, lasciando fare le ronde di razzisti e xenofobi sollecitati ad arte da movimenti populisti e forze di destra che sull’odissea dei migranti intendono procacciarsi popolarità e voti, o piuttosto con una più energica ed unitaria iniziativa europea di intervento nei paesi d’origine, e per regolare e distribuire più equamente, tra i 28 paesi dell’Unione, il loro carico e organizzando i rimpatri di quanti non hanno motivi per restare? Si sfogava con me, ma capivo che su problemi come questi avrebbe voluto confrontarsi in sedi ben più ampie e rappresentative. Cosa pensava la gente bisognava farlo con il contatto diretto, non solo online. E questo si sarebbe dovuto fare anche a proposito di misure del governo che non lo convincevano tanto e delle quali avrebbe voluto dire molto di più di quel che si poteva affidare ad uno smilzo trafiletto di giornale. Ci voleva ben altro spazio per spiegare perché lui ritenesse “liberista” della più bell’acqua la riforma del Jobs Act che si sarebbe voluto far passare come “di sinistra”, e lo lasciavano scettico le riforme costituzionali perché con la motivazione che si superava il bicameralismo si era giunti a proporre una sorta di mini Senato che non si capiva bene che vesti indossasse e che funzioni avrebbe dovuto assolvere nella sua nuova vita. L’unico dato certo che questa riforma vista insieme al progetto di nuova legge elettorale in cantiere ci avrebbe dato tanto una Camera quanto un nuovo piccolo senato di persone nominate dalle segreterie (o meglio da alcuni segretari) di partito producendo uno strappo serio al principio di rappresentatività della sovranità popolare indicato dalla costituzione e quindi al carattere democratico delle istituzioni parlamentari del paese.
Come sorprendersi poi se cittadini ed elettori si staccavano sempre di più dalle istituzioni, dai partiti, dalla politica? Avevamo vissuto entrambi in modo traumatico (penso sia stato cosi per una grande quantità di elettori della nostra regione, soprattutto tra quelli orientati a sinistra) il fatto che alle elezioni regionali dello scorso anno solo il 37 (!) per cento dell’elettorato si fosse recato alle urne. Questo nell’Emilia Romagna, una delle regioni più evolute e democraticamente avanzate dell’intero paese! Ma ciò che aveva ancor più sbalordito è che questo dato non avesse sollevato un’ondata di richieste di spiegazioni, un sussulto degli iscritti e simpatizzanti di partiti di sinistra che la regione l’avevano da sempre guidata, un moto anche di indignazione. Tutto velato, silenziato, archiviato in fretta. A questo era giunta una politica che era andata via via allontanandosi dagli interessi e dai sentimenti di larghe masse popolari e fatta da partiti trasformatisi in semplici comitati elettorali a sostegno del prescelto di turno perché possa ricevere la delega necessaria alla sua personale carriera. Si era ormai parecchio lontani da quella concezione della politica come portato di valori ideali per cui battersi con dedizione a assoluto disinteresse, come opera e servizio nell’interesse della comunità e della sua parte più emarginata in specie, come funzione da esercitare nel pubblico e nel privato con rettitudine ed onestà. Una concezione della politica che non può essere solo dei tempi andati ma che deve essere di ogni tempo. Soffriva per questa piega delle cose ma non disperava che fosse ancora possibile recuperare un modo di fare politica che fosse ancora capace non di carpire qualche voto in più ma di accendere il pensiero e scaldare i cuori.

Oggi Paolo avrebbe compiuto 73 anni. Da come gioiva quando dai periodici controlli medici di Padova tornava con buoni esiti, o si deprimeva quando stabilivano il contrario, si può capire come fosse tenacemente attaccato alla vita e pensasse, sperasse, di festeggiare e questo compleanno e tanti ancora a venire. Lo voleva perché sentiva forte l’affetto dei suoi cari, la simpatia e la solidarietà degli amici, la stima di tanti. Lo voleva perché sentiva di avere ancora tanto da studiare e imparare, tanto da vedere e curiosità da soddisfare, tanto da fare.
Per noi lo doveva perché sentivamo quanto ancora potesse dare a noi tutti e alle cause per cui ha speso una vita. Credo sarebbe lieto di sapere che per quel tanto che ci sarà concesso proveremo a fare anche la sua parte.

Roma, 12 febbraio 2016

 

Antonio Rubbi è stato un esponente di primo piano del Pci sia a livello locale che a livello nazionale. E’ stato segretario della Federazione provinciale del Pci nel decennio delle ‘riforme’ e della grande avanzata del Pci: gli anni settanta. Dopo molti anni di presenza nel Comitato Centrale del Pci, entrò nella Direzione nazionale e fu nominato responsabile della Sezione Esteri, divenendo uno dei più stretti collaboratori di Enrico Belinguer. Ha, inoltre, scritto libri importanti sulle esperienze e occasioni che l’importante e delicata responsabilità gli consentirono. Pubblicò libri su Nelson Mandela, Arafat, sulla Russia di Eltsin, su Enrico Berlinguer. Sono testi preziosi per ricostruire il contesto, i fatti e le scelte di politica internazionale che videro il Pci di Berlinguer attivo e protagonista insieme ai grandi dirigenti del sud del mondo e delle grandi socialdemocrazie europee.

NOTA A MARGINE
Sanità a marcia indietro: calano medici e infermieri, aumentano i precari

di Federico Messina*

Allarmante: è il dato relativo al calo del numero dei dipendenti del Servizio sanitario nazionale (Ssn) e del loro costo, emerso dal resoconto annuale curato dalla Ragioneria dello Stato di recente pubblicazione (15 gennaio 2016). Dallo stesso documento emerge anche che, nel frattempo, l’età degli operatori sanitari cresce. Se l’età media del personale nel 2001 era di 43,5 anni e nel 2014 arriva a 49,7 (uomini 51,7 donne 48,7), le previsioni per il 2019 pronosticano una media di 55,6 anni.
Nel 2014 sono 6.500 dipendenti in meno rispetto all’anno precedente; -2,7% rispetto al 2007. Un calo che prosegue anche nei primi 9 mesi 2015, periodo in cui si registra una contrazione dello 0,92% (altri 6.500 dipendenti circa). Scende anche il costo del lavoro: la sanità si colloca al secondo posto dopo il comparto della scuola. Nel 2014 la spesa complessiva per il comparto sanitario è stata di 39,126 miliardi (-0,9% rispetto al 2013, circa 390 milioni di euro). Il Conto annuale 2014 del ministero dell’Economia evidenzia anche come la retribuzione media per il personale del Ssn sia scesa lievemente (-0,3%) rispetto al 2013.
Calano i medici. I dirigenti medici a tempo indeterminato calano dai 113.803 del 2013 ai 112.746 del 2014 (-1.057), con una età media che è arrivata 52,83 anni (52,2 nel 2013). Lo stipendio medio è stato di 73.019 contro i 73.248 (meno 229 euro).
In calo gli infermieri che nel 2014 sono risultati 26.9149, contro i 271.043 nel 2013 (-1894). Sale anche per loro l’età media che si attesta sui 47,07 anni (nel 2013 era 46,35). In calo anche per gli infermieri le retribuzioni medie: nel 2014 a 32.430 euro contro i 32.528 euro del 2013 (-98 euro).
Crescono i precari: i medici precari sono 7.905, in crescita rispetto ai 7.409 del 2013. Stesso destino per gli infermieri: quelli con lavoro precario erano 9.884 nel 2013, mentre sono diventati 10.934 nel 2014 (1.050 in più).
Nonostante il recente recepimento della direttiva europea sugli orari lavorativi renda necessario un turnover più efficace e l’adeguamento del numero di personale sanitario alle sempre più crescenti esigenze di salute dei cittadini, questi dati evidenziano chiaramente i la politica a marcia indietro del nostro servizio sanitario nazionale. Mentre il ministro della Salute, Lorenzin propaganda nuovi concorsi e assunzioni, nel mondo reale le aziende sanitarie tagliano i servizi.
La normativa europea è stata così trasformata in una sorta di prezioso assist per le deboli casse del Ssn. Sfruttando il pretesto di sollevare il personale sanitario da carichi di lavoro stressanti, in realtà si risparmia sul costo del lavoro, si tagliano gli stipendi di medici e infermieri, portandoli ai livelli inferiori a quelli del 2013. Una spending review all’Italiana, in cui piuttosto che tagliare gli sprechi si preferisce tagliare sul lavoro, sul personale sanitario e dunque sull’offerta sanitaria e sui servizi. È questo dunque un altro passo in avanti verso la privatizzazione?

* specialista in Chirurgia generale, Chirurgia colorettale e del pavimento pelvico

PUNTO DI VISTA
Dimenticare Keynes: l’abdicazione della politica a Sua Maestà l’Economia

La crisi del ’29 e la grande depressione che ne seguì lasciarono due insegnamenti che cambiarono la storia economica del mondo:
– la legge di Say che aveva imperversato nelle università per circa 120 anni fu messa in discussione, l’offerta non creava più la domanda, si potevano produrre tutte le merci che si voleva ma serviva qualcuno che le comprasse altrimenti sarebbero rimaste invendute
– la politica doveva governare l’economia, servivano leggi che tenessero a bada banchieri, finanziari e speculatori.

Si cominciò allora a invertire il paradigma e a studiare la domanda relegando a microeconomia tutto il dibattito sulla produttività delle aziende e la determinazione di prezzi e salari. Keynes inventò finalmente la macroeconomia. E figli di questa intuizione furono il new deal roosveltiano, che prevedeva anche la svalutazione dell’oro, e nel secondo dopoguerra il piano Mashall che gettò le basi per la ripresa post bellica europea. Gli americani infatti capirono che per riavere indietro i prestiti fatti durante la guerra c’era bisogno di ricostruire, spendere, creare le basi del benessere.

Il processo di miglioramento delle condizioni della domanda andò avanti fino agli anni ’80 quando forze opposte e che guardavano al passato non riuscirono a trovare degli uomini che potessero invertire di nuovo il processo e li trovarono, da Reagan a Khol, da Ciampi e Amato a Junker, da Monti a Obama e Draghi, ognuno ha fatto la sua parte e continua a farla. Bisognava abolire leggi come il Glass-Steagall Act e tutte quelle leggi che limitavano la capacità della finanza di guidare le scelte dell’economia nella direzione del profitto a scapito della produzione e del progresso reale. Fu fatto un gran lavoro per promuovere prodotti derivati e di finanza sfrenata che portò guadagni miliardari ad una ristretta cerchia di persone mentre le università furono invase dalla propaganda neoliberista perché venissero accettate pratiche medievali di libero mercato.
Bisognava far arretrare lo Stato dai processi decisionali, ritornare al potere dei privati e soprattutto fare in modo che tutte le energie degli economisti di mestiere fossero dirette non a correggere il sistema ma ad intavolare discussioni di microeconomia che lasciassero intatto il sistema in modo da distrarre il pubblico.

Oggi più nessuno stato applica politiche keynesiane o forse no. C’è un Paese che fa dell’intervento statale la sua forza ed è non a caso la seconda economia mondiale: la Cina.
La Cina oggi è un competitor con cui bisogna fare i conti sempre, ed ha un grande vantaggio nei confronti degli Stati Uniti e soprattutto dell’Europa. Oltre ad utilizzare le armi della moneta di proprietà statale attraverso il controllo della sua Banca Centrale e la direzione politica dell’economia, non ha mai applicato quei criteri di giustizia sociale che i paesi occidentali avevano imparato a difendere e quindi procede a suon di bassi salari e poco stato sociale. Ultimamente alcune riforme si sono imposte a causa della crisi e del calo della domanda esterna, quindi stanno procedendo ad un innalzamento dei salari e delle condizioni di lavoro, nonché all’abbandono della regola dell’unico figlio, al fine di aumentare la loro domanda interna. Insomma l’esperienza cinese ci dovrebbe far riflettere sull’importanza del controllo della moneta e del governo dell’economia keynesiano, che indubbiamente sta funzionando meglio del nostro orientamento liberista, ma anche sull’importanza del nostro stato sociale e delle nostre conquiste salariali che non possono essere sacrificate sull’altare della competizione.

I Paesi occidentali quindi si sono indeboliti perché hanno abbandonato ogni controllo statale e lasciato tutto in mano ai privati, che quindi hanno guardato a ciò che ovviamente guardano i privati: il loro interesse.
Se guardiamo alle aziende italiane che hanno fatto del piccolo e familiare la fortuna della loro nazione e sono state sempre più lasciate a se stesse, vediamo tanti Davide combattere da soli contro Golia. Ma il racconto biblico dà la vittoria a Davide mentre nella vita reale la seconda economia mondiale supportata da una Banca Centrale statale ha già vinto.

Oggi la Cina sta investendo miliardi in Italia e sta comprando tante aziende che lo Stato italiano ha lasciato senza tutela. Le acquisisce e inizialmente magari paga stipendi più alti e impiega qualche persona in più perché ha bisogno nell’immediato di acquisire soprattutto il know how italiano, la genialità, il saper fare e innovare. Ma cosa succederà poi? Hanno forse qualche obbligo i cinesi di lasciare le loro conquiste in Italia e di dare benessere al nostro Paese? Non credo proprio, quando avranno acquisito ciò che avranno voluto potranno spostarsi in qualsiasi altra parte del mondo aumentando i loro profitti.
Potrebbero mai fare quello che stanno facendo se non avessero un piano statale di aiuti, di direzione economica alle spalle? E altrettanto avrebbero potuto farlo se da questa parte ci fosse stato un Paese pronto a difendere le proprie aziende e i propri lavoratori?

Lo smantellamento delle istituzioni occidentali è proseguito persino dopo la crisi del 2007-2008, paragonabile per intensità a quella del 1929. Agli inizi del ‘900 gli Stati capirono il pericolo e agirono di conseguenza, in questa invece non si è fatto assolutamente nulla. Ci sono state interrogazioni, audizioni al parlamento statunitense dove sono stati chiamati ed ascoltate agenzie di rating, amministratori di grandi banche ed è venuto fuori in tutta la sua chiarezza che il sistema economico era stato manipolato, falsato ad uso degli operatori di finanza e contro i cittadini che persero soldi e case. Ma niente. Nessuna conseguenza, anzi i contribuenti sono stati chiamati a ripagare i danni provocati dalle banche mentre coloro che avevano causato il disastro furono impiegati nella nuova amministrazione Obama a continuare la loro opera di controllo della politica.

L’Europa segue e si impoverisce sempre di più. Il continente che ha inventato il mondo ora è diventato terra di conquista, ha ceduto qualsiasi arma di difesa aderendo a trattati che ne impediscono qualsiasi forma di difesa dagli interessi finanziari eliminando ogni tutela e intervento statale. E non solo aziende ma vendiamo anche pezzi di storia, come l’antico Palazzo della Zecca che diventerà un albergo di lusso a guida ovviamente cinese. E mia figlia di 11 anni mi ha chiesto se arriveranno a comprare anche il Colosseo, domanda alla quale non ho saputo rispondere ma forse se ne dovrebbe occupare il mondo accademico se non fosse, purtroppo, che è stato plasmato per lasciare tutto com’è e forse, quando il politico di turno chiederà a loro consiglio su come trattare una eventuale richiesta di acquisto, risponderanno che sì: data la crisi, la mancanza di soldi, il debito pubblico, potrebbe essere una buona idea farlo. Venderlo alla Cina o alla McDonald’s non farà differenza, l’importante sarà far quadrare i conti e non una questione di dignità o di etica. L’importante sarà rimanere all’interno delle regole e dei trattati, del fatto che siano sbagliati non si può discutere.

Insomma, per essere politicamente corretti ed economicamente accettati, dobbiamo continuare a pensare a che colore dare alla tende in un palazzo con le fondamenta di cartapesta.

LA RICORRENZA
Testimonianza sulle foibe, orrido frutto della degenerazione ideologica

Alba del 14 maggio 1945. La salvezza contro l’impossibile. Graziano Udovisi e Giovanni Radeticchio (detto Nini) riescono a risalire dalle viscere della terra e ritornare nel mondo dei vivi.
Ecco la testimonianza di Udovisi, sopravvissuto all’infoibamento quando aveva solo 19 anni.

“…Eravamo in sei. Dopo una lunga notte di tortura ci fecero camminare verso la Foiba, una voragine dal fondo ricolmo d’acqua, nei pressi di Fianona. Camminammo tra rovi spinosi e sassi appuntiti, quasi nudi, riuniti in un assurdo gruppo con il filo di ferro che serrava e segava la carne dei polsi e delle braccia, picchiati con il calcio e le canne dei mitragliatori. Poi, sull’orlo della voragine… il crepitio assordante della mitraglia… Vedo la fiamma uscire dalla canna… Con lo slancio dei miei 19 anni mi butto nell’orrido ‘buco’ prima che la fiamma si faccia pallottola. Volo nell’abisso di calcare… Madonna… Madonna mia…
Cado su di un ramo sporgente che sembra rallenti quel precipitare nell’oscurità e voglia trattenermi… ma subito si strappa e rovina con me… Sono come piombo che cade… Giù, giù, giù in un sepolcro senza fine… Un tonfo… tanti altri tonfi. E l’acqua si chiude sopra sei poveri esseri umani. Sprofondo… annego… soffoco… o Dio.
Mi divincolo, scalcio, strappo con forza il filo di ferro legato al braccio, ai polsi. Annaspando nell’acqua, tocco una grossa zolla d’erba… No, tra le mia dita ci sono dei capelli. Li afferro e tiro verso di me un corpo quasi inerte… E’ il povero Giovanni Radeticchio, che io sollecito sottovoce con il nome di Nini. Gli metto un braccio attorno al collo e lo trascino, nuotando, alla ricerca di qualsiasi appiglio…Il rumore dell’acqua genera lassù, un’imprecazione: ” Maledetti, ancora non siete morti!”
La voce rabbiosa ci arriva da un universo dantesco che ormai avvolge tutto: l’inferno è quaggiù ed è ancor più terrificante lassù, in superficie, sopra la nostra agonia.
Urla e bestemmie giungono sottoterra, nella tomba dei vivi, assieme a una bomba a mano, che va ad esplodere nella profondità. Ancora un’altra bomba, questa volta scoppia a pelo d’acqua. Il viso e la testa sono colpite dalle schegge… le ossa spezzate. Adesso, Nini e io, non osiamo fare il minimo movimento, neanche quello che obbliga il respiro… La nostra tomba di calcare e acqua è ormai fatta di orrido silenzio. Restiamo in ascolto. Anche da lassù, dall’inferno sopra di noi, non giunge alcun rumore.
I nostri carnefici se ne sono andati?! Nini intravede una rientranza nella roccia. Ci trasciniamo. Ci arrampichiamo piano con immensa fatica. Nel buio. Nel freddo. In un tempo cancellato, perchè il nostro tempo è ormai diventato quello dei morti. Come solo Iddio sa, vediamo all’improvviso una fessura di cielo e portiamo in superficie una pietà infinita: per noi che abbiamo l’aspetto dei cadaveri e per i criminali titini.
Mi sono salvato e con me ho tratto a vita un ‘fratello’, Radeticchio Giovanni detto Nini. Sul fondo della foiba, dove sono precipitati, vivi assieme a noi, resteranno, scomparsi nell’acqua: Cossi Felice, Mazzucha Natale, Radolovich Carlo, Sabath Giuseppe. Pace, pace a voi, vittime inconsapevoli di un genocidio”.
(Testimonianza di Graziano Udovisi, sopravvissuto degli eccidi compiuti dai partigiani di Tito)

I politologi e gli storici ricordano che i grandi sconvolgimenti che hanno segnato il destino di masse di uomini, donne e bambini, sono stati originati, sempre e ovunque, da un disegno ideologico, di cui la politica è sempre stata informata. Le Leggi razziali di Norimberga del 1935 furono lo sbocco tragico della teoria e del ‘mito del sangue’ sul quale si esercitarono da L.Jahn fino ad Hitler.
“Il Capitale” di Karl Max generò la Rivoluzione d’ottobre e degenerò, ovunque si sia attestata quell’ideologia, in regimi dittatoriali.
Molti studiosi condividono l’opinione che la base ideologica del razzismo comunista jugoslavo e il know-how operativo (cioè le istruzioni per portare a buon fine le pulizie etniche compiute nell’area balcanica e in quelle del versante orientale dell’Adriatico), siano contenute in quel famoso trattato di pianificazione territoriale e umana che porta il titolo di “Piano di espulsione degli albanesi”. Quest’opera teorico-pratica venne elaborata dal bosniaco Vaso Cubrilovic, uno dei congiurati dell’assassinio a Sarajevo dell’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando, e presentata nel 1937. Nel secondo dopoguerra Cubrilovic divenne la ramazza che ripulì dell’etnia italiana, con rigore scientifico e in maniera pressochè radicale, tutto il versante orientale dell’Adriatico.
Il Piano dette talmente fama all’autore da fargli meritare più volte la carica di ministro in diversi governi del maresciallo Tito. Il manuale Cubrilovic, venne tradotto, nel secondo dopoguerra, in azioni devastanti, in atti legislativi nelle terre dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Esso si stampò come stimmate sulla pelle di migliaia di esseri umani, di cultura italiana, che vivevano pacificamente da sempre.
L’esodo istriano, fiumano e dalmata non avvenne insomma solo per la rivalsa dei vincitori sui vinti o per l’urto di due mondi culturalmente diversi: le tecniche di quell’esodo erano state minuziosamente pianificate, sul pregiudizio razziale già nel 1937. E così si capirà anche che a determinare tale drammatico evento e a renderlo aberrante non fu solo una questione di ‘foibe’: voragini carsiche, profonde anche 200 metri, usate per gettare i ‘nemici del popolo’, dopo un processo sommario o addirittura con un processo fittizio fatto in data posteriore all’infoibamento…
Riflessioni da “Il Libro Bianco di Antonietta Marucci Vascon, ex Presidente del Consiglio della Provincia di Trieste.

LA NOTA
La Sinistra e il metodo Tafazzi

​È una sindrome dalla quale la Sinistra non riesce proprio a guarire. Chiamiamola miopia o autolesionismo. Ultima brillante prova: le primarie pd per il sindaco di Milano. Il candidato moderato Giuseppe Sala, forte dell’investitura di Renzi, ha ottenuto ieri il 42% dei consensi e la ‘nomination’, peraltro accompagnata da molte polemiche per il voto sospetto di una folta rappresentanza della comunità cinese, che a qualcuno ha rinnovato la memoria delle famigerate ‘truppe cammellate’.
Francesca Balzani e Pierfrancesco Majorino, i due principali antagonisti, hanno raccolto rispettivamente il 34 e il 23% dei voti. Fra loro sono emersi riferimenti ideali e politici affini, dai quali deriva una visione della città, dei rapporti fra le parti sociali, delle alleanze, delle priorità di intervento certamente alternativi a quelli di Sala. Eppure non hanno trovato – o non hanno cercato – il modo di coalizzarsi. Peccato. Perché insieme avrebbero potenzialmente conseguito un bel 57%, un risultato tale da lasciar presagire il successo, anche al netto di qualche defezione: poiché in politica si sa bene che il malpancismo è diffuso e uno più uno quasi mai fa due.

Balzani e Majorino potevano essere artefici di un progetto condiviso e delineare uno schieramento solido, capace di proporsi autorevolmente a sostegno del potenziale futuro sindaco della città. Potevano. Perché invece, naturalmente, ognuno è andato per conto suo.
Naturalmente, perché questa inclinazione a dividersi in mille rivoli pare ormai una connaturata peculiarità della Sinistra. E’ ormai congenita l’incapacità di stare insieme e unire le forze. E questo in palese e tragicomico contrasto con i rituali proclami di coesione che ogni volta vengono espressi, gli appelli all’unità sempre evocata ma mai seriamente perseguita con la necessaria tenacia. E’ un tratto – più propriamente ‘una deformazione’ – che caratterizza la Sinistra, italiana in particolare. Una mostruosità che partorisce sconfitte in serie.
Ci si divide un po’ su tutto, ma soprattutto si compie un errore strategico mortale: non si attribuisce ai temi il giusto indice di priorità, stabilendo con chiarezza e buon senso le questioni e i principi basilari, come tali intangibili perché connessi all’identità politica, e gli elementi di complemento sui quali si può anche dissentire senza per forza dover ogni volta prendere cappello. Si finisce perciò per accapigliarsi un po’ su tutto. Non è chiaro se ciò avvenga per un eccesso di puntiglio, peraltro ben corroborato dalla completa incapacità di mediare, arte invece necessaria a definire quei nobili compromessi che, non solo la politica ma anche la vita, impongono. Oppure se questa litigiosità sia frutto avvelenato di altre peggiori debolezze e sotto il fuoco covi la brace dell’ambizione, sicché il continuo beccarsi sarebbe conseguenza di impronunciabili smanie di affermazione personale, incontenibili e talvolta malcelate dalle affermazioni di principio. Forse c’entrano entrambe le cose. E, comunque sia, la Sinistra riesce sempre a perdere. E quasi sempre facendosi male da sola.

Milano è solo il più recente esempio, ciò che capita lì vale in tutto il Paese. C’è da temere che il medesimo destino attenda impietoso anche i tentativi attuali di aggregazione che in ordine sparso stanno portando avanti i vari Sergio Cofferati da una parte (con la sua ‘Cosmopolitica’), Pippo Civati da quell’altra (e il suo spagnoleggiante ‘Possibile’), e poi reduci di Sel, di Rifondazione e ancora altri insofferenti del Pd, parte dei quali hanno generato una pomposa ‘Sinistra italiana’ che s’è mezza sfasciata due giorni dopo la genesi. Insomma, il rischio è grande. E a dir di molti il destino è annunciato.
Questa drammatica ‘cupio dissolvi’ si manifesta sistematicamente da ormai trent’anni, rendendo la Sinistra tragicamente simile all’emblema dell’autolesionismo, quel Tafazzi, icona creata da Giacomo Poretti, che si prende irresistibilmente a bottigliate nelle zone sensibili per insopprimibile impulso.
Eppure l’Italia avrebbe davvero bisogno di una seria alternativa al Partito democratico di Renzi, di qualcuno che tenesse salde le bandiere dell’uguaglianza e della giustizia sociale. Per quest’alternativa c’è lo spazio, proprio perché si è creato un vuoto di rappresentanza, ben testimoniato fra l’altro dal sempre crescente numero di cittadini che disertano le urne.
Ma oggi come oggi bisogna riconoscere che l’unica alternativa non moderata al Pd (sempre più simile al Partito ‘marmellata’ della nazione), pur con tutte le sue contraddizioni è il Movimento cinque stelle. La sua natura è ibrida, i riferimenti ideali talora incerti. Ma esprime quantomeno una evidente volontà di cambiamento della politica e dei suoi rituali. Delinea spesso condivisibili obiettivi di progresso. Compie scelte talora apprezzabili e indica candidati autorevoli per le cariche istituzionali. Recentemente è accaduto per la Rai e altri enti. Ma clamorosa fu la proposta (bocciata paradossalmente proprio dal Pd) di uno stimatissimo costituzionalista come Stefano Rodotà (già presidente del Pds, il papà del Pd) a Capo dello Stato. Ecco, quello fu e resta un passaggio particolarmente significativo ed emblematico.
Così, mentre nelle orecchie del popolo di Sinistra risuona ancora lo sgomento grido di Nanni Moretti (“D’Alema, dì qualcosa di sinistra”) tuttora inascoltato dagli attuali ‘dalemoni’, succede che qualcosa di sinistra ogni tanto lo dicano proprio i Cinquestelle, pure così invisi a un’ampia fetta di simpatizzanti della Sinistra per i quali, appunto per questo, restano – spregiativamente – null’altro che grillini. Il cui frinir però si ode.

PUNTO DI VISTA
Il web e l’epidemia del terrore: risposte a dubbi e bufale sui vaccini

di Federico Messina *

Internet è indubbiamente il fenomeno sociologico del secolo, la più grande bolla speculativa del momento. È responsabile della nascita di passioni, comunità e movimenti politici. Un potente mezzo di comunicazione che in Italia è capace di raggiungere 41 milioni di persone di età compresa tra gli 11 e i 74 anni. Basta interrogare l’oracolo Google per ottenere tutte le risposte sulla nostra salute, ma soprattutto quella dei nostri bambini. La ‘saggezza della massa’ diventa saggezza collettiva e muta in gossip alimentato dalle dietrologie. La mutazione viene perpetuata e amplificata con una buona dose di populismo, così che si trasformi in propaganda.
E quando pensavamo di essere immuni dagli slogan populisti della Lega di Salvini, ecco che scopriamo il potere nelle mani dei Cinquestelle, capaci di manipolare la rete piegandola a strumento di terrorismo e propaganda politica. È così che si è propagata l’epidemia della vaccinofobia.
Il virus del terrorismo sanitario iniettato nella rete non è nato ieri, affonda le sue radici fino al 1998 quando un (ahimè) medico inglese, Andrew Wakefield, pubblicò sul “Lancet” uno studio secondo il quale c’era una correlazione tra vaccino trivalente (Mpr: morbillo, parotite, rosolia) e autismo, giungendo alla conclusione che era raccomandabile eseguire le vaccinazioni separatamente, formulazione non esistente in commercio. Dopo il crollo delle vaccinazioni in Inghilterra ci fu un’epidemia di morbillo che causò due decessi. Solo poco dopo si scoprì che il medico in questione aveva degli interessi economici personali con una casa farmaceutica, che su sua indicazione avrebbe prodotto singolarmente i vaccini. Ne seguì la sua radiazione dell’albo dei medici e il ritiro della sua ricerca, ovviamente infarcita di dati falsi.
Da allora la lotta al potere delle multinazionali farmaceutiche porta ad alimentare dietrologie e sospetti, che ruotano attorno a falsità scientifiche e che partoriscono la trappola dello scetticismo nelle vaccinazioni in cui cadono genitori, ma anche medici di famiglia e pediatri.
Solo il 1 ottobre 2015 l’Italia si rende conto che nel periodo 2007-2014 il limite di guardia in termini di percentuale di vaccinazione della popolazione (95%) è stato rotto.
Alla Who (Organizzazione mondiale della sanità), da sempre impegnata nel controllo delle malattie infettive, scattano gli allarmi e a Bologna una bimba di quaranta giorni – in età ancora non vaccinabile – dopo essersi recata con la sua mamma all’asilo del suo fratellino, muore di pertosse. Si scopre poi che in quell’asilo c’erano bambini i cui genitori avevano scelto di non vaccinare.
L’epidemia di terrore si diffonde nella rete e favolistiche organizzazioni salutiste, politici e professori dell’ultim’ora, si ergono a esperti trasformando la scienza in politica, inneggiando a fantascientifici effetti secondari dei vaccini, composizioni chimiche aliene o cancerogene e cospirazioni orchestrate da aziende farmaceutiche.

Con questo articolo, in qualità di medico vorrei dare una risposta scientifica ad alcune delle bufale iniettate nella rete e lo farò utilizzando il linguaggio della rete: le Faq.

È vero che i vaccini causano autismo?
Allo stato delle conoscenze scientifiche attuali non esistono correlazioni tra la comparsa di autismo e le vaccinazioni.
L’autismo è una condizione diagnosticabile solo al termine della prima infanzia, per assenza di funzioni motorie, cognitive e relazionali presenti nei coetanei. Ciò implica che l’autismo potrebbe già essere presente prima dell’età vaccinale, ma purtroppo non è verificabile.

È vero che i vaccini causano effetti collaterali?
Sì, come tutti i farmaci possono dare effetti collaterali da quelli di lieve entità come rossore o dolore al sito di inoculo, febbre, fino anche a rare reazioni allergiche. Del resto però le reazioni allergiche non possono essere prevedibili, in quanto il bambino nei suoi pochi mesi di vita non è giunto a contatto con tutti gli allergeni dell’ambiente. In ogni caso gli operatori sanitari che somministrano le vaccinazioni offrono ai genitori tutte le informazioni necessarie.

È vero che i vaccini contengono tracce di mercurio o metalli pesanti?
In ogni farmaco esistono minime tracce di derivati di lavorazione, in ogni caso inferiori a quelle respirabili nel centro di Milano all’ora di punta o mangiando un pesce pescato.

Perché esistono vaccinazioni obbligatorie e altre raccomandate?
Purtroppo si tratta di un retaggio del passato in cui le vaccinazioni anti pertosse, morbillo, parotite, rosolia ed haemofilus influenzae b, non erano offerte gratuitamente dal Servizio sanitario nazionale (Ssn) in alcune regioni. Tuttavia a seguito dell’arrivo in Italia di numerosi cittadini extra-europei, nei cui paesi d’origine la politica vaccinale non è così ferrea, è aumentata l’incidenza di malattie infettive che credevamo debellate, ma che i medici sanno bene essere state solo sopite.

I vaccini sono sicuri e proteggono davvero il mio bambino?
Sì. Prima di essere messi in commercio i vaccini superano centinaia di test di sicurezza. Sono fondamentali per proteggere i nostri figli, ma anche altre persone più fragili, compresi bambini troppo piccoli o affetti da gravi malattie come la leucemia, per i quali non è possibile essere vaccinati.

È vero che i vaccini vengono consigliati per fare l’interesse delle aziende farmaceutiche?
Le aziende farmaceutiche sono imprese private interessate a lavorare per ottenere un profitto che però deve essere commisurato ai benefici prodotti, senza trasformarsi in speculazione sul bisogno di salute.
Produrre un vaccino, tuttavia, implica un importante investimento in termini economici, di impiego di tecnologie e di risorse umane, tanto che il numero delle aziende produttrici di vaccini si sta progressivamente riducendo poiché in realtà tale attività non è poi così redditizia.
I soldi spesi dal Ssn per i vaccini, sono soldi spesi bene a fronte dell’indubbio vantaggio apportato in termini di prevenzione e riduzione delle spese di ospedalizzazione che altrimenti si avrebbero.
Anche se molto in ritardo l’Istituto Superiore di Sanità si è finalmente reso conto della latitanza comunicativa che si è creata, così oggi esiste un numero verde chiamando il quale specialisti in malattie infettive, possono dare risposte alle curiosità dei genitori… e se siete fortunati potreste avere l’onore di colloquiare col Presidente dell’Issn in persona.

 

* specialista in Chirurgia generale, Chirurgia colorettale e del pavimento pelvico

 

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LA LETTURA
Ballata per un fuggiasco

E’ un pensiero laterale sui migranti quello che ci regala Gian Pietro Testa, giornalista, scrittore, pittore e molto altro…

 

Ho fuggito la terra bruciata
Dove le sabbie coprono il fuoco
Di un inferno che emerge di giorno
Dal ventre sconvolto del mondo.

 

Ho fuggito l’orrida fine
Dei miei fratelli morti di fame
Ho fuggito il pianto silente
Della donna dall’arido grembo.

 

Mia madre, gli occhi suoi neri
Asciutti di pianto
Vai mi disse vai
Cammina la sabbia infuocata.

 

Vai, mi disse, cammina
Corre verso il sole che cala
Vai, mi disse, cammina
Il nostro è soltanto un addio.

 

E camminai le cento e più leghe
Del mio amaro destino
Camminai il rosso deserto
Il mondo alla fine del sole.

 

E le notti, quelle notti
Il buio rotto dai fallo
A bere un tè bollente
Spiato da mille occhi curiosi.

 

Occhi lucenti senza speranza
Piccoli fari accesi nel buio
Il buio deserto di luce
Vivo se il giorno è già morto.

 

E sopra gli occhi curiosi
Cadevano lacrime di stelle
A cui le volpi chiedevano consiglio
Per sfuggire al nero serpente.

 

Mi avvolgeva una fredda coperta
Ti silenzio pauroso
Brutto da improvvisi lamenti
E si sentiva da fughe lontane.

 

Chi è? Domandavo tremando
Attorno a me danzavano
Ignudi i neri fantasmi del mio
Terrore sei nostro dicevano in coro.

 

Come sarà – chiedevo – il mondo
Alla fine del mondo?
E i fantasmi dicevano
Siamo già alla fine del mondo.

 

Via, gridavo allora non andate lontano
Orribili sagome nere fuggite
Della mia fantasia
E dei miei occhi smarriti.

 

Ho ripreso il lungo cammino
Della speranza e piangevo
La infondo dov’era finito il
Sole c’era infine la vita.

 

Tenevo stretto nel pugno
Una piccola croce di legno
Tieni mi disse mia madre
Stringi la mano ti guiderà lontano.

 

Io aggiunsi ti seguirò col cuore.
Col cuore duro di madre ferita
con tenero cuore di madre lontana
Col cuore, figlio mio, ti seguirò.

 

Ho camminato le cento e più leghe
Del mio cupo destino
Fino alla distesa azzurra
Di un mare omicida.

 

La barca affollata di grida
Piombava nel vortice nero
Di una tempesta a me sconosciuta
E poi salivo in alto verso le stelle.

 

Gridavano gli uomini folli
Gridavano le madri con loro fagotto
Il duro fagotto di tenera carne
L’urlo del mare l’urlo del cielo.

 

Infine approdammo un mattino di sole
Su una spiaggia dorata
Ci misero addosso coperti di carta
Ci dettero il pane duro degli altri.

 

Ma eravamo salvi nel mondo
Al di qua del sole
Poi ci chiusero in un campo spinato
Dove la vita non era più mia.

 

Alzai la mano oltre le sbarre
A chiedere un piccolo soldo
Mille leghe per essere ancora
Soltanto un povero Cristo.

vescovo Negri

IL CASO
Il vescovo Negri verso l’addio a giugno. Ecco dieci domande a cui non vuole rispondere

Monsignor Luigi Negri con ogni probabilità lascerà la carica di vescovo di Ferrara a giugno, in anticipo di qualche mese rispetto alla data di naturale pensionamento, previsto per il prossimo 26 novembre al compimento del settantacinquesimo anno. Questo è quanto trapela da indiscrezioni che circolano in accreditati ambienti vicini alla Curia estense.
Non ci resta molto tempo dunque per rivolgergli le domande che già da un anno e mezzo tentiamo vanamente di sottoporgli. La richiesta di intervista presentata da Ferraraitalia nella tarda primavera 2014 giace ormai sotto molta polvere. Il vescovo è stato più volte cortesemente interpellato. A fare da filtro dapprima è stato don Massimo Manservigi. Per mesi ci è stata confermata la disponibilità, però senza che mai venisse fissata una data “per i troppi pressanti impegni in agenda”. Eppure il monsignore è ciarliero con la stampa. Evidentemente non era gradito l’intervistatore. Poteva essere detto, ma si è preferita la strada dell’ipocrisia, adottando la tattica dello sfinimento. Così si è continuato a posticipare a oltranza, sempre accampando la scusa di temporanee indisponibilità, “non certo di assenza di volontà”…

Nel maggio scorso ci fu una vivace telefonata ultimativa, nella quale dichiaravamo di prendere atto dell’indisponibilità “di fatto” del presule. Ma don Massimo, affranto, ci ricontattò dopo qualche minuto scusandosi per i toni, dovuti allo stress, spiegando che aveva parlato e ottenuto da monsignor Negri la disponibilità certa, ed entro la fine del mese “sicuramente” si sarebbe fatta l’intervista. E infatti siamo arrivati a Natale senza alcuna comunicazione! In quei giorni abbiamo casualmente incontrato il vescovo e, a nostra richiesta, monsignor Negri ha personalmente espresso la propria disponibilità (con un’espressione che in realtà diceva altro), incaricando il segretario don Enrico D’Urso di fissare la data dopo l’Epifania. E’ superfluo specificare come poi siano andate le cose.

E’ un peccato constatare tanta prevenzione e la mancanza di disponibilità al confronto, peraltro proprio da parte di chi dovrebbe fare del dialogo un emblema. Noi dissentiamo spesso dalle affermazioni del vescovo, ma ciò non implica un rifiuto: è attraverso il confronto che individui e comunità crescono e maturano.

Ora, preso definitivamente atto che questo assunto evidentemente non è condiviso, ecco le 10 domande che avremmo voluto rivolgere a monsignor Luigi Negri.
Se deciderà di rispondere (nella vita non si sa mai) noi siamo qui ad accogliere le sue considerazioni.

1. Una delle sue prime esternazioni pubbliche ferraresi ha riguardato la vicenda di Erik Zattoni, il ragazzo che denunciò lo stupro subito dalla madre da parte di un sacerdote. Se la cavò dichiarando che la Curia non si occupava dei rimborsi per casi del genere. Non ha considerato che al di là dell’aspetto monetario quel ragazzo attendesse una parola di comprensione da parte della Chiesa che lei rappresenta? E non ha sentito il bisogno di esprimerla, di porsi – per dirlo secondo un’espressione ecclesiastica – in maniera caritatevole nei suoi confronti?

2. Non le è parso inopportuno (tantopiù dopo avere bollato come “postribolo” il ritrovo dei ragazzi dinanzi al duomo di Ferrara) recarsi a Milano alla presentazione di un libro – del quale peraltro ha scritto la prefazione – di cui autore è l’ex premier Silvio Berlsuconi, pregiudicato e parallelamente implicato in un processo che lo ha visto accusato di induzione e sfruttamento della prostituzione minorile?

3. Parlando di gay e coppie omosessuali ha dichiarato: “Un tempo questi individui erano considerati ‘anomalie’. Se ne ricordino”. Non pare un’espressione benevola. Cosa intendeva dire?

4. A conclusione del sinodo voluto da papa Francesco si è affrettato ad affermare che a Ferrara non cambiava nulla. Temeva che qualcuno fra i suoi sacerdoti potesse prendere sul serio l’esortazione del papa e considerare con misericordia le richieste spirituali di separati e divorziati?

5. In una recente intervista ha affermato che dello Ior non le importa “un accidenti”. Non ritiene, come invece pensa il papa, che i tanti scandali che hanno lambito la banca vaticana, al centro dei peggiori intrighi finanziaria degli ultimi decenni, siano ragione di grande imbarazzo e impongano una radicale e urgente riforma che riporti l’istituto allo svolgimento del proprio compito nel rispetto di regole virtuose?

6. Non le pare anacronistico e provocatorio (oltre che storicamente infondato) additare i crociati come benemeriti difensori della fede cattolica?

7. Ha definito l’Islam “una religione che tematizza la violenza come direttiva teorica e pratica”. I musulmani sono due miliardi nel mondo e la stragrande maggioranza di loro vive in pace a dispetto di un manipolo di fondamentalisti esaltati e criminali. Questo giudizio tranchant non le sembra un’istigazione all’odio razziale?

8. In un’intervista a Panorama ha dichiarato che il politico che più stima è Putin “perché ha le palle”. Non crede che un sacerdote dovrebbe valutare altri attributi?

9. Che giudizio dà di papa Francesco e del suo magistero? Se il pontefice dice “Chi sono io per giudicare”, non fischiano le orecchie a lei che è sempre così sentenzioso e saldo nella difesa delle sue verità?

10. Quando il papa ha invitato sacerdoti e comunità ecclesiastiche a offrire ospitalità ai migranti lei non ha perso tempo per far sapere che in curia non c’era posto per nessuno. Qual è il suo concetto di accoglienza?

PUNTO DI VISTA
Il diritto di avere un figlio

Attorno al disegno di legge sulle coppie di fatto stanno nascendo (o meglio continuando) una serie di discussioni che riguardano alcune tematiche collaterali, spesso importantissime. Peccato che il clima di forte contrapposizione di questi giorni faccia sì che il confronto sia tutt’altro che ricco e fruttuoso.
Fra queste discussioni c’è quella riferita alla questione della stepchild adoption, che però assume una valenza più generale: se avere un figlio sia o meno un diritto ascrivibile a ogni individuo. Lascio una trattazione completa della questione ai professionisti della materia; osservo tuttavia che, se avere figli non fosse un diritto, sarebbe eticamente lecito ogni intervento cogente messo in atto, per esempio da parte di uno Stato, per limitare le nascite. Compresi quelli più drastici quali le sterilizzazioni forzose. Allo stesso modo non ci dovrebbe essere nulla da ridire se si decidesse che i bambini dopo la nascita venissero affidati non già ai genitori naturali, ma a coppie selezionate sulla base di un qualche criterio.
Naturalmente non si tratta di un diritto assoluto, come del resto non lo sono tutti quelli che una società democratica riconosce agli individui che ne fanno parte. Se qualcuno non fosse convinto di questa affermazione, pensi per esempio al diritto alla vita di cui ognuno di noi è portatore, tuttavia nessuno ha nulla da ridire se, in caso di aggressione armata da parte di qualche potenza ostile, alle persone viene tassativamente richiesto eventualmente di rinunciarvi per difendere la collettività. Discorso analogo vale il diritto di proprietà, ecc.
Quali sono quindi i limiti a cui il diritto di avere un figlio dovrebbe soggiacere? Per dirla in breve, tutti quelli che si manifestano quando questo diritto confligge con altri più rilevanti o lede quello di altre persone. Dove la misura della rilevanza è affidata alla legislazione e, caso per caso, al magistrato. Naturalmente non mi sfugge che in questo caso i diritti confliggenti potrebbero essere quelli del figlio, già nato o solo pensato. Si tratta peraltro di questioni che il diritto contempla da tempo e che consentono, per esempio, a un giudice di togliere ai genitori naturali o adottivi la potestà su un figlio minore se dovesse ritenere compromessi i suoi diritti fondamentali. Chiunque volesse impedire che una coppia omosessuale, in quanto tale, abbia o adotti dei figli dovrebbe dimostrare che questa situazione sarebbe sempre e comunque a detrimento dei diritti dei minori coinvolti. Pare però che tale evidenza, nonostante in molti paesi del mondo questa possibilità sia riconosciuta ormai da anni, non sia emersa. Anzi la stragrande maggioranza degli studi effettuati sembra dimostrare esattamente il contrario, al punto che tutti gli ‘esperti’ che si sono pronunciati contro hanno usato formule ampiamente dubitative al riguardo.
Quanto alla questione del cosiddetto ‘utero in affitto’ che viene agitata propagandisticamente come motivo sufficiente per impedire la stepchild adoption occorre rilevare che:
1. La questione eventualmente riguarderebbe, per motivi che dovrebbero essere ovvi a chiunque, esclusivamente le coppie omosessuali composta da due uomini;
2. I dati disponibili a livello mondiale relative ai paesi in cui la pratica è lecita (non l’Italia) indicano che, in un contesto in cui l’adozione per gli omosessuali è ampiamente diffusa, la stragrande maggioranza delle coppie che se ne avvale è eterosessuale;
3. Infine, anche se la questione non è all’ordine del giorno e non riguarda il disegno di legge sulle unioni di fatto, siamo così sicuri che si tratti di qualcosa che debba essere vietato in tutti i casi e non, come ad esempio si è deciso per le donazioni di organi, solo quando avviene in cambio di denaro?

LA SEGNALAZIONE
In mostra sogni e inquietudini del Simbolismo europeo

di Maria Paola Forlani

Il Palazzo Reale di Milano fino al 5 giugno 2016 ospita la mostra “Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra”, promossa dal Comune di Milano e prodotta da 24 Ore Cultura e Arthemisia Group,
a cura di Fernando Mazzocca e Claudia Zevi in collaborazione con Michel Draguet.
L’imponente rassegna (si snoda in 24 sale) mette per la prima volta a confronto i simbolisti italiani – da Segantini a Previati, da Sartorio a Chini, e molti altri – con quelli stranieri, attraverso la presenza di oltre 100 dipinti, sculture e un’eccezionale selezione di grafica, che rappresenta uno dei versanti più interessanti della produzione artistica del Simbolismo.

simbolismo
Una delle sale della mostra

Il termine Simbolismo è assai vago e serve del resto a designare un movimento dai contorni fluidi, una pluralità di tendenze eterogenee, che si caratterizzano soprattutto per una comune eccezione dell’arte e della vita. Il Simbolismo contrappone l’idea alla realtà, la fantasia alla scienza, il rifugio nel sogno alla volgarità esistenziale. L’artista simbolista assume, infatti, un atteggiamento di netta opposizione sia nei riguardi del realismo sia dell’Impressionismo, escludendo qualsiasi interferenza scientista – mentre persino gli impressionisti erano stati attratti dallo scientismo almeno a livello teorico, nell’elaborazione della loro ottica – egli pretende di agire con l’esclusivo intento di “risvegliare l’Idea con una forma sensibile”.
Le parole sono del poeta Moréas, che su “Le Figaro” del 18 settembre 1886 pubblicava appunto il “Manifesto del Simbolismo”.
Dall’Inghilterra la voce simbolista giungeva con Wordsworth e con Coleridge: “L’artista deve imitare ciò che è dentro alla cosa, ciò che agisce attraverso la forma e la figura, e parla a noi per mezzo di simboli”. Dall’America con Edgar Allan Poe; per non dire del grande Baudelaire, che vedeva l’uomo passare “à travers des forêts de symboles”.

simbolismo interno
Una delle sale della mostra

Il Simbolismo, riuscendo ad abbracciare anche da noi come nel resto d’Europa arti figurative, architettura, letteratura e musica, ha contribuito a rinnovare profondamente la cultura italiana, facendola entrare nella modernità e anticipando il Futurismo. Questo movimento si è manifestato dalla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento alla vigilia della Prima guerra mondiale, riuscendo a interpretare entusiasmi e inquietudini della cosiddetta Belle Époque. La forza del Simbolismo è stata quella di riuscire a rappresentare, penetrando anche nei territori dell’inconscio, i grandi valori universali dell’umanità – il senso della vita e della morte, la fantasia, il sogno, il mito, l’enigma, il mistero – in un momento in cui tali valori sembravano minacciati dall’avanzare del progresso scientifico e tecnologico. Segantini e Previati hanno rappresentato le due anime del movimento: una più legata alla dimensione della realtà naturale, l’altra a quella del sogno. Pelizza da Volpedo e Morbelli confermano invece come il Divisionismo italiano, assolutamente all’altezza delle altre avanguardie europee, abbia raggiunto i suoi risultati più alti proprio quando, creando “l’arte per l’idea”, è passato dal realismo alle istanze simboliste.
Rispetto al clima milanese, rappresentato soprattutto da Segantini, Previati, Pelizza e Morbelli, la situazione appare molto diversa a Roma, dove anche per l’influenza di d’Annunzio i grandi protagonisti, come Sartorio e De Carolis, hanno elaborato una pittura che si rifaceva alla tradizione, soprattutto del Rinascimento, e privilegiava il mito o l’allegoria, seguendo le orme dei preraffaelliti inglesi come Rossetti, Holman Hunt e Burne-Jones.
Non è mancato un proficuo rapporto con i grandi simbolisti stranieri presenti in Italia, come Böcklin, Klinger, von Stuck, Klimt, conosciuti soprattutto attraverso le Biennali di Venezia, che sono state delle straordinarie occasioni di confronto internazionale. A questo proposito, memorabile fu la famosa Sala dell’Arte Sogno allestita alla Biennale del 1907, che rappresentò la consacrazione, suggellata proprio dall’incontro tra artisti italiani e stranieri, di un movimento che si era affermato come l’interprete privilegiato dello spirito del tempo.

simbolismo mostra
Una delle sale della mostra

La presenza alla stessa rassegna dell’impressionante ciclo monumentale di Sartorio “Il Poema della vita umana”, la decorazione delle otto vele della cupola del Padiglione Centrale dei Giardini realizzata nel 1909 da Chini, con la rappresentazione allegorica de “L’Arte attraverso i tempi” (o le Allegorie dell’Arte e della Civiltà), e infine i diciotto panelli sul tema della Primavera che perennemente si rinnova – eseguiti sempre da Chini per l’edizione del 1914 e destinati alla sala che esponeva le sculture del dalmata Ivan Meštrović – sembravano consacrare il Simbolismo, declinato in due stili molto diversi, ma nella stessa trascinante dimensione eroica e visionaria, come il linguaggio figurativo in cui l’Italia potesse riconoscersi, ritrovando una sua unità e grandezza. Del resto era stato lo stesso Sartorio, designato nel ruolo di pittore vate, a interpretare attraverso un sofisticato e complesso itinerario simbolico lo spirito della nazione nel monumentale fregio realizzato tra il 1908 e il 1912 nell’aula del Parlamento a Montecitorio.
Contro il fronte indistruttibile dei tradizionalisti, si affermò una notevole avanguardia letteraria e artistica che, soprattutto sul versante del movimento simbolista, seppe farsi interprete dei problemi, del disagio non solo sociale ma anche esistenziale, dell’atmosfera contraddittoria di quel periodo pieno di entusiasmi progressisti e di fiducia nel futuro, ma dominato allo stesso tempo dalla morte.
Alle vittime del lavoro, delle rivolte sociali e delle guerre bisogna aggiungere il terrificante bilancio del terremoto che nel 1908 devastò Reggio Calabria e Messina, provocando la scomparsa di quasi centomila persone.

simbolismo

Anche sul versante figurativo si verificava il passaggio di consegne tra il naturalismo, dominante nella pittura e nella scultura più impegnate a denunciare le difficoltà e le ingiustizie della ‘nuova Italia’ che non era riuscita a realizzare gli ideali e le attese del Risorgimento, e un idealismo simbolista che cercherà di andare oltre questa spietata rappresentazione documentaria per interpretare il malessere, condividere le ragioni degli oppressi e intravedere delle possibilità di riscatto.
La volontà di andare oltre, di passare da una dimensione all’altra, di rischiare e inoltrarsi in un percorso conoscitivo che vada al di là della percezione comune, di rappresentare tutto questo con visioni e un linguaggio nuovi, caratterizza anche in Italia le poetiche e le realizzazioni dei simbolisti, se pensiamo a protagonisti come d’Annunzio e Pascoli in letteratura e a Segantini, Previati, Sartorio, Bistolfi, Martini sul versante figurativo.
Da questo altro contrasto interno nasce quella sensazione acuta di manierismo, che affiora da un capo all’altro della mostra: il manierismo tipico delle grandi crisi e delle stagioni in cui i miti passano la mano e si forma un senso di vuoto verso il quale affluiscono mescolandosi sollecitazioni, proposte e inviti diversi, da ogni direzione; dentro il quale ogni esperienza appare possibile e conveniente. Un manierismo, però, dolce e al tempo stesso aggressivo, in guaine di seta e con unghie di leopardo. Patetico, e toccante, perché colloca in primo piano, come un lume brillante che però si consuma, la coscienza della propria fragilità. Il senso della caduta, il sentimento della fine e, peggio ancora, della impossibilità di sciogliere tutti i nodi.

DIARIO IN PUBBLICO
Arte e cultura eterni antidoti al male

Non era possibile rinunciare per paura o ansia colpevole alla visione del film “Il figlio di Saul” del regista ungherese Laszlò Nemes, pur essendo preparati a subire una scossa emotiva tremenda, che si poteva intuire dai commenti più avvertiti o dal trailler che accompagna il film.
Quale lo scopo di quest’opera? La rappresentazione dell’irrappresentabile? La vergogna dei sopravvissuti, come ha sperimentato e ci ha poi raccontato Primo Levi ne “I Sommersi e i salvati” fino alla scelta finale del suicidio? O la volontà di un riscatto che riporti alla dignità della vita e quindi alla ribellione di chi vive nella condizione di morte e lavora e s’affanna per potersi garantire una manciata di giorni prima di essere a sua volta soppresso?
Lo spunto è reale. Nel 1944 ad Auschwitz si consuma e viene soffocata una rivolta armata messa in atto dai Sonderkommando, gli ebrei scelti per condurre alla camera a gas e poi al forno crematorio i loro correligionari. Tra coloro che sono costretti a diventare a loro volta aguzzini per un insopprimibile istinto vitale c’è Saul, che crede di riconoscere nel corpo martoriato di un ragazzo un figlio che forse non è suo, ma che simbolicamente rappresenta – forse – il futuro: la continuità che non può essere distrutta dalla riduzione a cosa, a “pezzo”, come urlano gli aguzzini tedeschi a loro volta coinvolti in questa banalità del male, dove l’orrore diventa consuetudine e perde il significato dell’orrore per diventare un lavoro. Un lavoro qualsiasi.
Così la sua missione sarà quella di dare al ragazzo una sepoltura umana e di trovare un rabbino che reciti il Kaddish, la preghiera dei morti e con lui dargli sepoltura sotto la terra. Questa ossessione è recitata da un attore che è un poeta e che vede continuamente la macchina da presa fissa sul suo volto o sulle sue spalle, dove una rossa X segna la sua condizione di chi lo vuole non umano. Scegliere la morte a differenza della vita, che i suoi compagni ricercano, mettendo in atto la rivolta, è l’ossessione di Saul. Il film sfuoca l’orrore rendendolo ancora più terribile perché solo intravisto. Sono i corpi incitati alla morte, la ritualità “banale” dell’eliminazione dei “pezzi”, i cadaveri, la raccolta dei piccoli averi, la scelta degli oggetti e, infine, il carico dei forni e l’eliminazione della polvere dei corpi. Saul sembra essere ormai al di là di questa spaventosa catena, teso ormai unicamente nella ricerca di procurare la sepoltura al giovane. Perde la polvere da sparo che avrebbe dovuto consegnare ai compagni rivoltosi, si vorrebbe rifiutare di aiutarli nell’impresa. La vita per lui è sinonimo di morte. Ma di una morte a cui si dia un aspetto umano. Lanzmann, il terribile raccoglitore delle memorie dei sopravvissuti nel suo “Shoah”, condanna ogni immagine che non sia la voce, ma per questo film fa un’eccezione.
La domanda è dunque: cosa si ricava da questa rappresentazione dell’irrappresentabile? Che diritto abbiamo di frugare con gli occhi del protagonista una realtà che è tanto più irreale quanto più viene sfumata nelle nebbie dell’occhio che non vuol vedere? E’ ancora vero che l’arte dopo Auschwitz non ha più diritto di rappresentanza? Come Dio?
Il filosofo Didi-Huberman ha dedicato al film un libro, “Sortir du noir”, dove il nero è quel buco irrappresentabile della Shoah da cui bisogna uscire, come ha fatto Nemes, il regista, per rappresentare visivamente l’orrore. Non so se il film otterrà, dopo tutti i riconoscimenti che ha avuto, anche l’Oscar. Non importa. Quello che importa che ormai ha sancito il diritto dello sguardo nell’orrore.
A questa immagine di morte come avrebbe potuto suggerire Dante s’innesca una vicenda che vede coinvolti i rappresentanti della frangia estrema della politica israeliana, che condanna la possibilità politica di convivenza tra i due popoli, palestinese e israeliano, nella terra promessa. Così Amos Oz, Abraham Yeoshua, David Grossman, i maggiori scrittori ebraici vengono messi alla gogna e chiamati “talpe nella cultura” per la loro mai nascosta convinzione di una possibilità di convivenza tra i due popoli.
In questo senso pericolosamente la negazione delle convinzioni espresse dai tre scrittori s’avvicina in qualche modo al comportamento proprio della posizione iraniana. Scrive Roger Cohen nel New York Times ripreso da “La Repubblica”: “L’Iran diffida dalla chiarezza […] Restando in tema di negazione della verità, l’Ayatollah Khamenei, il supremo leder iraniano, ha nuovamente messo in dubbio l’Olocausto. […] Inutile dire che questa negazione dell’Olocausto è infame, il regime dà il peggio di sé. E’ anche sintomo della disperazione dei falchi, decisi a bloccare l’apertura al resto del mondo voluta da Rouhani”.
Mi pare evidente allora che per non nascondersi dietro le bugie – riguardo l’Olocausto, come riguardo gli scrittori israeliani “talpe nella cultura – bisogna riflettere su queste considerazioni tratte dal primo romanzo di Amos Oz.
Ruben Harish è un poeta. Vive nel Kibbutz di Mezzudat Ram. Ha una vita sentimentale assai infelice, ma il suo impegno, dove ritrova il senso della sua vita e la capacità di sopportare il peso della tragedia della Shoah nella patria promessa, è quello di insegnante. Questo è il tema del primo romanzo di Amos Oz, il grandissimo scrittore israeliano che con David Grossman e Abraham Yehosua, si pone ai vertici della letteratura contemporanea. Il romanzo è ora leggibile nella edizione Feltrinelli con il titolo “Altrove”.
In una mattina straordinariamente limpida Ruben Harish porta gli allievi in un boschetto del kibbutz e racconta la vicenda e il senso per il quale questi bambini sono lì, nonostante dalle cime attorno i colpi di fucile avvertano della minaccia sempre presente in quella terra, che il lavoro ha rigenerato e resa fertile. Ruben ora parla della Shoah: “Molti fra i vostri parenti, nonni, nonne, zii, sono stati sterminati da quei malvagi. A differenza di coloro che lungo la storia hanno odiato Israele i tedeschi hanno compiuto la loro opera a sangue freddo . Secondo un progetto ben preciso. Con metodo scientifico. […] Ma non dovete pensare che tutti gli ebrei siano andati come pecore al macello, o fuggiti come topi o che si siano nascosti come talpe”. Ecco, prosegue Ruben, molti di loro “hanno preso in mano il proprio destino e sono venuti a fondare una patria ebraica”. E a questo punto Amos Oz, attraverso la voce di Ruben, esprime una convinzione di grande impatto etico e umano: “non c’è odio nei nostri cuori. Guai se così fosse, non sono gli arabi il nostro nemico, ma è l’odio. Cerchiamo tutti di non farci contagiare dall’odio”.
Tutti conoscono la vicenda esistenziale di Oz, che dopo il suicidio della madre e rifiutando la ideologia paterna, cambierà il proprio cognome da Klausner in Oz che significa ‘forza’. La sua campagna contro l’odio è già presente in questa prima prova. Leggo su “La Repubblica” un articolo Steven Erlanger ripreso dal “New York Times” in cui si riferisce della campagna implacabile condotta da autorevoli rappresentanti della destra israeliana contro i tre intellettuali, insieme a Oz, Grossman e Yehoshua, considerati “talpe nella cultura” capaci di operare contro Israele stessa. Non so quanto di vero ci sia in queste affermazioni e nella volontà politica di una difesa che sembra in qualche modo avversa a quel pensiero europeizzante che questi scrittori hanno portato con sé nel nuovo mondo. Si pensi anche alla decisione di togliere dalle letture per i licei il romanzo “Borderlife” della scrittrice Dorit Rabinyan, che narra la storia d’amore tra una donna israeliana e un palestinese, quasi che il libro possa promuovere l’assimilazione.
Sono notizie sconvolgenti e che al solito prendono di mira la forza terribile e temibile della parola-verità che inesorabilmente si afferma contro qualsiasi decisione politica e falsamente religiosa.
“Il figlio di Saul” toglie al nero l’irrappresentabilità della Shoah. I grandi scrittori israeliani tolgono all’odio la forza del male.

ECOLOGICAMENTE
Le carte dei servizi idrici si adeguano

Prosegue la determinazione per una sana e corretta applicazione delle carte dei servizi per l’acqua. Già le multe a chi non la applicava facevano ben sperare, ma ora non ci sono più dubbi: da giugno sono obbligatorie e necessarie. Lo dice la delibera dell’Aeeg (655/2015/R/idr), che prosegue nell’innovativa regolazione della qualità contrattuale del servizio idrico integrato.
Vengono definiti i livelli minimi e gli obiettivi di qualità mediante l’individuazione di indicatori quali i tempi massimi e gli standard minimi per le prestazioni da assicurare all’utenza, omogenei sul territorio nazionale, determinando anche le modalità di registrazione, comunicazione e verifica dei dati relativi alle prestazioni fornite dai gestori su richiesta degli utenti. Si applica a tutti i gestori dal 1 luglio 2016 e per questo invito a leggere il testo allegato.
Finalmente a livello nazionale sono introdotti indennizzi automatici (già presenti da tempo a livello regionale) da corrispondere agli utenti in caso di mancato rispetto degli standard specifici di qualità, prevedendo anche un meccanismo di penalità per gli standard generali non rispettati.
Sono infatti introdotti tempi di riferimento per le modalità di fatturazione, per la rateizzazione dei pagamenti, per la gestione delle pratiche telefoniche, delle richieste scritte dei reclami, degli sportelli, del servizio di pronto intervento, per l’esecuzione dei lavori, per le verifiche del misuratori, per il livello di pressione e molto altro.

Informatevi e difendete i vostri diritti.

Scarica da qui la delibera

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La carta dell’informazione ambientale per affrontare i rischi

LA SEGNALAZIONE
Dogana in fotografia, scatti per un anno fra cibo e arte

Il ‘locus amoenus’, l’intreccio di storie fra sette esponenti dell’ottava arte, la voglia di stupire: ecco “Dogana in fotografia”, rassegna fotografica organizzata dall’Officina dei Bottoni e dal Lions Club Ferrara Estense, che ospiterà nel corso dell’anno sette progetti fotografici a cura di altrettanti artisti.
Il progetto, nato da una intuizione del direttore artistico del Buskers Festival Stefano Bottoni, è stato presentato nella sala principale del ristorante “La Dogana” di via della Luna dal titolare Valter Lucchini, dal fotografo Massimo Benedetti, dalla professoressa Silvia Villani, dal direttore del Lions Club Paolo Bassi e dallo stesso Bottoni.

dogana in fotografia
Gli organizzatori di Dogana in fotografia

“Fino agli anni Novanta, Palazzo Massari esponeva artisti di grande calibro in una piccola sala dedicata all’arte e alla fotografia. Da questa antica consuetudine nasce l’idea di poter tornare a esporre in un luogo intimo e raccolto – ha detto Bottoni – E ben venga l’entusiasmo e la grande disponibilità di Valter, che ha subito messo a disposizione il suo ristorante per l’occasione. Non dimentichiamo che Toulouse-Lautrec esponeva nel Café Chantant, mentre Monet e Chagall davano mostra dei loro peasaggi a tinte tenui nelle pittoresche trattorie bretoni. Dunque trovo che questo sia un luogo assolutamente adatto per avviare questo progetto, che spero di poter ripetere in futuro”.
“Per parte mia – ha spiegato Massimo Benedetti, uno degli artisti le cui opere saranno presentate nel corso della rassegna – ho aderito questo progetto  proprio perché occasioni di questo tipo in Italia sono rare, mentre all’estero sono più comuni e riconosciute. I visitatori della mostra sperimenteranno la compresenza di due ambienti, uno visivo e uno sensoriale, grazie all’ambientazione in un ristorante.”

Lacerto del ristorante La Dogana con stemma del cardinale Tommaso Ruffo e iscrizione datata 1727
Lacerto del ristorante La Dogana con stemma del cardinale Tommaso Ruffo e iscrizione datata 1727

Ristorante che, come ricorda la professoressa Silvia Villani, sorge in un luogo che ben si presta a essere ideale contenitore artistico della manifestazione. Fondato da Bernardino da Feltre, dopo quello di via Ripagrande del 1507, il Monte di Pietà vecchio era di fatto un’istituzione caritatevole pensata per aiutare i ferraresi in situazioni di difficoltà, i quali potevano impegnare beni personali, come suppellettili e biancheria, con un tasso di interesse molto basso sul denaro prestato. Questo luogo dall’impronta umana e sociale tanto importante e delicata, lasciato dal fattore degli Estensi Teodosio Brugia al primo Monte di Pietà perché vi trasferisse la sua sede, comprendeva spazi pubblici destinati alla riscossione una volta scaduto il prestito, ma anche alle aste di tutti quegli oggetti che non erano mai stati riscattati, oltre a una serie di ambienti dalle diverse destinazioni (uffici, copisteria, granaio). Il primitivo assetto di quest’istituzione, che comprendeva il palazzo su via della Rotta (attuale via Garibaldi) in angolo con Boccacanale di Santo Stefano, subì vari accorpamenti che lo portarono a comprendere l’intero isolato sino a via della Luna. Proprio nella sala che ospiterà gli scatti, si possono tutt’ora ammirare lacerti di una iscrizione sormontata dallo stemma del cardinale Tommaso Ruffo, il nobile che risanò il secondo Monte di Pietà dopo il fallimento dovuto agli incontrollati prestiti ai nobili.

La mostra sarà ufficialmente inaugurata sabato 6 febbraio alle 17 dalla vogherese Martina Rubbi, che esporrà fino al 24 marzo; il 26 marzo sarà poi la volta del ferrarese Bruno Droghetti, fino al 12 maggio; dal 14 maggio al 30 giugno sarà il turno di Roberto Del Vecchio, veterano del FotoClub Ferrara. Dal 2 luglio al 28 agosto troveranno posto Massimo Benedetti e le sue immagini in bianco e nero; lo sperimentatore italo-americano Joe Oppedisano dal 3 settembre al 20 ottobre; gli scatti del fotografo ferrarese Vincenzo Tessarin dal 22 ottobre all’8 dicembre. E, last but not least, lo stesso Stefano Bottoni dal 10 dicembre sino a data da destinarsi.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Dalle città può e deve nascere il nuovo umanesimo

L’intelligenza è quello che ci serve, che serve a tutti noi, per cercare di essere meglio di quello che siamo. Solo chi ha paura di cambiare, di aprirsi al nuovo e alle nuove sfide può temere l’intelligenza, perché l’intelligenza inquieta. Ma ben più inquietante è il prevalere degli irrazionalismi sulla razionalità, pretendere di far assurgere le proprie convinzioni religiose a legge universale, mentre allo stesso tempo l’etica, che dovrebbe guidare le nostre condotte, si fa sempre più fragile e relativa.
C’è uno iato impressionante tra il progresso della scienza e della tecnica e lo stato attuale delle convinzioni umane. Lo stesso disagio si prova a pensare di vivere in un paese nel quale, nel giro di poche ore, può accadere che non riescano a fermare un’Audi gialla che sfreccia in autostrada ai 250 all’ora, che si mobiliti l’antiterrorismo per uno che gira con un’arma giocattolo comprata per il carnevale del figlio e, infine, che si coprano le statue nude alla vista di un capo di Stato, mentre l’opinione pubblica discute se è famiglia ciò che piace o solo ciò che nasce da un uomo e una donna. In tutto ciò a nessuno, però, viene il sospetto che qualcosa non giri per il verso giusto.
Che fine ha fatto l’intelligenza? Chi l’ha calpestata in tutti questi anni, durante i quali sembra che a prevalere non sia stato altro che la gara al furto del denaro pubblico e dei poveracci?
Il rendimento dell’investimento in conoscenza è più alto rispetto a quello di ogni altro investimento, scriveva quasi tre secoli fa nel suo “Almanacco” Benjamin Franklin, aggiungendo che la conoscenza è la radice del progresso umano e sociale, la condizione per lo sviluppo economico. Si vede che noi abbiamo investito davvero ben poco in conoscenza.
Dovremmo dire che come siamo umani oggi non ci piace: se si uccide in nome di un dio, maggiore o minore che sia, se la morte dell’altro non ci induce pietà, perché diverso o distante, se chiudiamo le porte di casa a chi ha bisogno della nostra ospitalità, se prendiamo in ostaggio i poveri beni rimasti a chi ci chiede rifugio. È successo che per difenderci dagli altri abbiamo perso noi stessi.
Il nuovo umanesimo parte di qui. E ci rendiamo subito conto che i suoi ingredienti sono cultura, conoscenza, intelligenza. Pare che il pericolo maggiore sia quello delle idee. Non degli ideali, ma delle idee: i pericoli sono quando “Io credo”, “Io penso” si fanno assoluti. Ci manca il dubbio. Noi abbiamo bisogno di conoscere non per avere certezze, ma per nutrire il dubbio. Solo il dubbio ci rende democratici, aperti, tolleranti e soprattutto continuamente desiderosi di sapere, conoscere, scoprire, ascoltare l’altro. Solo il dubbio ci libera dall’arroganza della certezza e della verità.
Il neo-umanesimo, come tutti gli umanesimi, può essere fertilizzato solo da più conoscenza, da più apprendimento. Ecco perché questi ultimi devono essere diffusi ovunque: perché l’apprendimento continuo è la grande rivoluzione del nostro tempo, non solo in quanto ci è offerto dalle opportunità della rete, delle nuove tecnologie, ma perché ci induce a ripensare le nostre vite e il nostro modo d’essere umani. L’idea di imparare per tutta la vita è antica, è sempre stata una caratteristica essenziale alla sopravvivenza dell’umanità; è profondamente radicata in tutte le culture, ma di fronte ai continui sconvolgimenti sociali, economici e politici non possiamo difenderci, se come cittadini non siamo posti nelle condizioni di acquisire nuove conoscenze, abilità e attitudini che ci aiutino a combattere i nostri pregiudizi, le nostre presunte certezze, l’idea di possedere una cultura superiore a un’altra, una dottrina religiosa più etica di ogni laicità. La nostra cassetta degli attrezzi non può essere la nostra coperta di Linus, necessita di essere costantemente rinnovata o il tempo perduto ci getterà nella cecità delle nostre presunzioni.
Come ieri, ancora oggi un nuovo umanesimo può partire solo dalle nostre città. È nelle nostre città che il nostro essere umani oggi maggiormente si manifesta, nelle città dell’accoglienza, nelle città della solidarietà, nelle città che crescono le nuove generazioni, nelle città che tutelano i loro anziani, nelle città dell’invenzione, della creazione, delle nuove imprese, del lavoro.
Basterebbe prendersi la cura di leggere i documenti dell’Unesco per capire il mondo che siamo e che dovremmo essere. Vi si legge che le città sono i principali motori della crescita economica nel mondo moderno e che l’apprendimento è uno dei combustibili più importanti di questa crescita.
Se condividiamo l’idea che un nuovo umanesimo sia necessario e che questo debba prendere vita dalle nostre città e dal loro governo, allora non possiamo più considerarci soddisfatti solo perché in esse funzionano servizi, infrastrutture ed eventi. No, non è più così, oggi è certo indispensabile, ma non è più sufficiente. Oggi abbiamo bisogno di essere umani con più pensiero, con più intelligenza, perché abbiamo un bisogno di sapere che non si esaurisce. E questo di più di pensiero, di intelligenza, di sapere dobbiamo pretenderlo a partire dalle nostre scuole, dalle nostre università, dalle nostre istituzioni che fanno cultura, da un’idea di città che permetta a tutti di accedere al sapere diffuso in forme e modi nuovi. Perché ciò di cui oggi siamo maggiormente privati sono proprio i tempi e gli spazi del pensare, dell’esercitare l’intelligenza: l’informazione non è conoscenza e la conoscenza spesso non si fa cultura.
Questi sono i nodi che il governo di una città della conoscenza, di una città che apprende oggi deve affrontare, a partire dalla volontà politica non più rinviabile di essere una città della conoscenza.

ELOGIO DEL PRESENTE
Pubblica amministrazione bloccata dalla zavorra clientelare

Si ripete da anni che la Pubblica amministrazione è un tassello importante della modernizzazione di un Paese, essenziale per un’economia competitiva come per una buona qualità della vita. Il rigore con cui sono stati trattati casi di comportamenti scorretti da parte di dipendenti pubblici offre un segnale positivo di cambiamento di clima, ma rischia di nascondere la vera questione e il problema più grave che sta sotto il funzionamento della Pa nel nostro paese. Un’Amministrazione efficiente è possibile solo a partire da un ripensamento chiaro delle funzioni e dei compiti dei diversi livelli istituzionali.
Come sottolineava qualche tempo fa Cottarelli nel suo lavoro sulla spending review, la grande parte della spesa pubblica è vincolata dalle spese per il personale, quindi non può essere compressa, se non attraverso una revisione dei compiti del pubblico, delle sue articolazioni istituzionali e delle funzioni. Esigenza difficile da affermare se persino il Cnel rivendica funzioni per contrastare il suo scioglimento.
L’esperienza indica che dove esistono funzioni utili è possibile migliorare l’efficienza. Pensiamo agli uffici anagrafe dei Comuni o ai servizi sanitari: le tecnologie digitali hanno contribuito a snellire procedure; ciò insieme a qualche intervento organizzativo ha migliorato la qualità dei servizi, consentendo ad esempio di avere documenti in tempi brevi o di ricevere i risultati delle analisi mediche sul proprio computer senza spreco di tempo e (teoricamente) risparmiando personale. Purtroppo resta l’impressione che il personale risparmiato resti parcheggiato in funzioni inutili, dietro a sportelli pressoché deserti. Ovviamente qualunque responsabile del personale sa bene che le persone non sono tutte facilmente ricollocabili per competenze, cultura, flessibilità. Certo, ma le resistenze poste alla riallocazione delle risorse non dovrebbero essere tollerate.
Vi è poi un altro aspetto ancora più serio: può essere razionalizzato un compito connesso a una funzione reale, ma quando la funzione non esiste (perché è stata inventata da una politica interessata solo ad aumentare gli spazi clientelari) nessuna razionalizzazione è possibile. Perché è stato sempre tollerato l’assenteismo? Perché non era urgente che fossero svolti i compiti assegnati al personale assente.
La riforma della Pubblica amministrazione è un aspetto cruciale dell’efficienza di uno Stato e dell’economia. Qualità eccellente dei dirigenti e degli operatori, informatizzazione diffusa che consenta l’accesso in remoto ad una gran parte di operazioni e uno stile di lavoro rigoroso rafforzerebbero nei dipendenti la convinzione di contribuire al bene comune e nei cittadini un sentimento di fiducia.
Ma a monte, si tratta di ripensare il rapporto tra pubblico e privato, tra diversi livelli dell’Amministrazione, tagliando le sovrapposizioni, eliminando funzioni obsolete o che potrebbero essere privatizzate.
Ci voleva Zalone per raccontare l’esilarante situazione dei dipendenti delle Province, spinti a una mobilità impossibile per svolgere compiti improbabilii? Cosa si aspetta in Italia ad accorpare i comuni che hanno meno di 5mila abitanti? Si tratta del 70% dei comuni italiani: non sono in grado neppure di presentare un programma agli elettori, non hanno un soldo per chiudere le buche dei marciapiedi, né per fare scelte di nessun tipo, in quanto il bilancio copre a malapena le spese del personale. E non sono forse troppe le regioni e non sono forse duplicate molte funzioni tra queste e lo Stato? E’ questo il coraggio che serve per un paese moderno. Ho l’impressione che la resistenza non venga dai fannulloni, ma dall’approccio clientelare seguito dalla politica a cui sarebbe necessario davvero cambiare verso.

Maura Franchi vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia. Studia le scelte di consumo e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana.
maura.franchi@gmail.com

LA STORIA
“Ho abbandonato mia figlia”: la bugia che salvò una vita

di Loredana Bondi

mamma-figliaHo provato una bella e intensa emozione ascoltando le parole dirette e chiare di una donna, Vaifra ‘Lilli’ Pesaro nata nel 1938, che ha avuto il “coraggio”, così lei sta stessa lo ha definito, di descrivere solo di recente la sua storia: quella di una bambina ebrea che ha vissuto nel periodo delle persecuzioni naziste durante la seconda guerra mondiale.
Ho potuto assistere mercoledì a questa narrazione, insieme a un folto gruppo di ragazzi e ragazze della scuola media “Bonati” dell’Itc “Perlasca” di Ferrara, che hanno affiancato a questa presenza, letture, musiche originali e canti davvero degni di esemplare esecuzione.
Ciò che mi ha commosso è stato sicuramente il ‘portato’ di profonda umanità di una storia personale che Lilli ha ripercorso, insieme a Sara Magnoli , scrittrice, ma soprattutto l’attenzione, il silenzio e la partecipazione dei ragazzi che traendo da questo testo le varie performance, ne hanno fatto un esempio di scuola attiva e responsabile.
Non si è trattato di un ‘rituale’ perché in questa commemorazione c’era il vero valore della memoria e di ciò che un giovane deve poter portare dentro e ricordare, quando è la storia ad indicare le conseguenze dei comportamenti che gli uomini scelgono di adottare e che mettono in gioco la vita e la dignità umana, come abbiamo potuto vedere con il grande dramma dell’Olocausto.
Sara Magnoli ha scritto e curato con Lilli Pesaro un libro davvero originale, “Il sogno di Lilli”, che raccoglie con parole e disegni, la memoria dei sogni e dei fatti che colpirono tragicamente la sua infanzia e che , attraverso il dolore profondo del ricordo, diventano ‘Memoria di tutti’.
La narrazione ha riempito di senso ed emozione profonda tutti coloro che hanno partecipato e ascoltato.
Credo che nel novero delle commemorazioni del 27 gennaio, Giorno della Memoria , questo incontro sia stato davvero importante per una serie di motivi. Il primo è che la testimonianza si è fatta vita vera, una pagina di storia che i ragazzi difficilmente dimenticheranno.

Si tratta di una storia narrata attraverso gli occhi di una bambina che ha sentito attorno a sé cose terribili, spesso sottaciute, a cui non sa dare una spiegazione: le dicono di non dire il suo cognome a nessuno, che non deve uscire dalla casa, non vede più il padre e la madre tenta di consolarla dicendole che deve lavorare e non può tornare, poi sarà la madre a scomparire e si ritroveranno con la fine della guerra. Questa realtà insinua la paura nella sua mente e nel suo cuore, la paura di tutto ciò che vede e sente e quella stessa paura le impedirà di ricordare, di riportare e di rivivere quella memoria e per tanti anni rimarrà sopita.

vaifra-lilli-pesaroDinnanzi ai ragazzi Lilli ora riesce a parlarne lucidamente: lei che, bambina, rimane nascosta per il periodo della guerra in casa di amici a Genova e non può sapere ciò che sta succedendo fuori, le viene nascosta la verità . Viene divisa dal padre e dalla madre perché catturati dai nazifascisti e verrà a sapere della morte del padre Canzio Pesaro, solo alla fine della guerra, perché finito in campo di concentramento ad Auschwitz, fucilato dai tedeschi in fuga, proprio pochi giorni prima della liberazione da parte dei militari sovietici. La madre ammalata, per salvare la bambina dalla cattura dichiara di averla abbandonata e la ritroverà solo dopo la guerra.

E’ una storia generata da una guerra atroce, forse come tantissime, troppe altre , ma ciò che più ha colpito nella Commemorazione di questa giornata, è stato l’atteggiamento degli alunni, che sicuramente ben preparati dai loro insegnanti , hanno dimostrato di saper ascoltare e partecipare, in una condizione socio-educativa ideale per la strutturazione del pensiero critico, della
costruzione di valori comuni alla base della dignità di un individuo.

Allora vorrei aggiungere qualche riflessione che tocca inequivocabilmente l’alto valore dell’educazione nella formazione di un individuo, fin dalla primissima infanzia e che famiglia, e scuola, istituzioni e direi ogni cittadino hanno il dovere di seguire e favorire.
Perché parlare di questo, perché portare alla memoria quanto di più terribile l’uomo può arrivare a fare contro i propri simili, altri che ritiene diversi? Cos’è in fondo la diversità? Perché l’assunto della diversità può rendere addirittura l’uomo folle e, allo stesso tempo, privo di un pensiero autonomo, per soggiacere al pensiero forte, unico e presuntuosamente superiore, che vede il diverso come qualcosa di minaccioso per l’esistenza del proprio potere?
Mi tornano alla mente molti altri testimoni a cominciare da Primo Levi che chiamava in causa anche se stesso sul piano della responsabilità di ciò che è accaduto in quel periodo, per non essere riuscito a reagire e a fermare l’orrore dell’Olocausto, pur essendone stato vittima.

La filosofa tedesca Hanna Arendt nel suo libro “La banalità del male” con intensa lucidità parla dell’orrore come di “normalità umana” che ha in fondo contraddistinto le ideologie naziste che hanno portato all’Olocausto, dopo aver assistito nel 1961 a Gerusalemme al processo al nazista Adolf Eichmann. Durante quel processo, Eichmann mostrò al mondo la sua vera personalità che, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non aveva nulla di evidentemente demoniaco; in altre parole il male, secondo la Arendt, non nasce da un’innata malvagità, ma dall’assenza totale di pensiero e di idee e quel criminale nazista si rivelò una persona “banale”, mediocre e non come un demone capace di atrocità come quelle che ordinò ed eseguì contro gli ebrei e i diversi.
Le persone che come lui non riflettono, sono inclini ad eseguire gli ordini imposti dal potere senza nemmeno chiedersi se questi ordini siano giusti o sbagliati; ecco cos’è la banalità del male, nient’altro che la totale assenza di idee. Tale mancanza rende la persona un esecutore meccanico, un burattino. Furono proprio l’assenza di pensiero e l’incapacità di confutazione a rendere Eichmann un criminale.

Dal pensiero della Arendt si ricava che il bene proviene dalla mente, dalla riflessione e dal cuore; il male, al contrario, non si fonda su nulla, nemmeno sull’odio, ma è causato solo dalla totale incapacità critica.
Credo che l’appuntamento con la storia , attraverso la testimonianza diretta, il confronto, la lettura, la parola, pongano le basi del pensiero critico, delle idee di cui i giovani hanno bisogno per distinguere il bene dal male.
A un appuntamento del genere forse era augurabile una più folta partecipazione di genitori, ma la cosa davvero importante è che la scuola possa continuare a rappresentare per i ragazzi un punto fermo per costruire un futuro diverso e i ragazzi di oggi lo hanno dimostrato.

Grazie a tutti gli insegnanti, al dirigente, ai ragazzi e soprattutto a Lilli e Sara.
Quando la testimonianza offre emozione dà senso all’educazione.

 

Guarda il video di Tabloid con l’intervista a Lilli Pesaro

Carife, Mingozzi il donchisciotte accusa Bankitalia e dei politici dice: “Sparano patacche per tenerci buoni”

“L’assemblea pubblica del 30 luglio scorso dopo tre anni di silenzio e di ombre finalmente sembrava potesse segnare una svolta: in quella fase le azioni erano rischio, e sono state di fatto azzerate, ma solo di quelle si parlava, non delle obbligazioni. E ancora non si delineavano i fantasmi di Etruria, Banche Marche e Carichieti. Abbiamo firmato un patto col sangue, noi azionisti, accettando che i nostri titoli fossero svalutati da 41 euro fino a 27 centesimi. Lo abbiamo fatto perché ci avevano assicurato che con quel sacrificio la banca si sarebbe salvata. Ma ci hanno preso in giro…”

Mentre banche e fondi di investimento in questi giorni hanno presentato le loro offerte per la gestione della ‘Nuova Carife’, restano aperte e brucianti le ferite dei creditori della ‘bad bank’ e senza concrete risposte le loro richieste di risarcimento. Con Franco Mingozzi, piccolo imprenditore e titolare di un’officina meccanica in città, presidente nazionale di Unione Cna servizi, spesso interpellato dalle tv nazionali, uno fra i pochi azionisti che lo scorso luglio all’assemblea dei soci espressero senza troppi giri di parole il proprio pensiero in merito alla gestione dell’istituto di credito ferrarese, riprendiamo il filo del ragionamento facendo un passo indietro.

“Sì ci hanno proprio preso in giro – ribadisce – Avevano garantito che con il nostro sacrificio avremmo propiziato il salvataggio della banca, invece sappiamo tutti com’è andata finire…
Ma loro lo sapevano anche allora, conoscevano già il finale. Ecco vorrei almeno che quei due signori che hanno rappresentato la Banca d’Italia pagassero un po’ anche loro il conto del disastro…”

In quell’assemblea lei – con la premessa che nella vita aveva avuto tre certezze (suo padre, Berlinguer e la Carife) e due di queste non c’erano più – ha parlato chiaro e puntato l’indice, additando colpe e colpevoli, con la speranza che almeno la banca si salvasse…
Ho accusato la ‘mia’ politica ferrarese. Se non intervenivo io non diceva niente nessuno. E l’indomani diversi hanno mi hanno chiamato, mettendo in vista la loro coda di paglia. Oltretutto mi hanno dato risposte incoerente, perché non c’erano e non sapevano nemmeno bene di che cosa si era parlato. Forse non avevano nemmeno letto bene i giornali, magari si erano limitati ai titoli per non perdere tempo… Io in verità non ho accusato nessuno, ho espresso il mio parere, ma loro si sono sentiti presi in mezzo perché erano consapevoli delle responsabilità che avevano. Qualcuno ha persino provato a giustificarsi dicendo di non essere stato invitato all’assemblea… Ma come, ho obiettato, ti dovevi legare al portone della Carife per entrare! Qualcun altro ha spiegato che non aveva potuto esserci perché era impegnato altrove… Ma ti pare possibile? Con quel che stava succedendo. Eppure hanno sentito il bisogno di giustificarsi con me, perché non ero stato zitto e avevo denunciato la latitanza della politica. Io ripeto solo che quel giorno i nostri politici dovevano esserci e spendere le loro parole, mettendoci la faccia. Invece tutto è scivolato via. E poi è successo che qualche mese dopo, una bella domenica alle cinque del pomeriggio, si azzera tutto in 20 minuti, il governo decide e i risparmiatori si ritrovano con le tasche vuote. Cosa poteva capitare di peggio? Secondo me hanno agito con leggerezza, senza soppesare bene le conseguenze. E questo comportamento scriteriato sta determinando ora una fuga generalizzata dal sistema bancario. Oltretutto adesso è uscito fuori tutto e si è capito che i problemi non sono solo per le quattro banche fallite, ma anche per tanti altri istituti, da Popolare Vicenza a Veneto banca a molti altri…

Quali peccati di gestione sono stati commessi in Carife?
Siamo passati improvvisamente da un sistema di riferimento provinciale a uno nazionale, allargando gli orizzonti di azione. Forse non avevamo le competenze sufficienti o forse ci si è affidati troppo ai consulenti. Il risultato è che ci siamo impantanati in cose che non ci appartenevano. La nostra è sempre stata una banca del territorio, una vera istituzione per la città, un punto di riferimento importante. Forse gli amministratori sono stati indotti a credere a cose che erano valide solo sulla carta. Ma fra la teoria e la pratica si sa bene che c’è una grossa differenza e le scelte compiute – alla luce di ciò che accaduto dopo – sono state indubbiamente tragiche. Disastrose. Se fatti così succedono in una famiglia, quando ci si accorge di aver sbagliato si torna indietro. Qui invece si è perseverato, si è andati ostinatamente avanti a dispetto di tutti i segnali. Così fra il 2009 e il 2012 la Cassa ha progressivamente perso la propria autonomia fino a passare nel 2013 dal controllo al commissariamento della Banca d’Italia.

E che valutazione dà dell’operato della Banca d’Italia?
Banca d’Italia, direttamente o indirettamente, è stata vari anni dentro a Carife. Mi rendo conto che ci siano problemi per rivoluzionare gli assetti, le prassi organizzative e cambiare il management. Apparentemente qualche segnale di inversione di rotta c’è anche stato, tant’è che a un certo punto la Banca d’Italia ha chiesto – non semplicemente autorizzato ma chiesto – un aumento di capitale di 150 milioni. Una somma precisa, predeterminata quella che evidentemente, secondo i loro calcoli, doveva servire per sanare il deficit. I soldi sono stati raccolti, ma a raccolta finita sono arrivati i commissari. Perché? Avevano visto male? Avevano contato male? Se se l’esito era incerto, allora perché richiedere l’aumento di capitale che ha determinato un ulteriore indubbio impoverimento di un territorio che già aveva sopportato negli anni recenti il peso del crack della Costruttori e di altre importanti imprese del territorio, oltre al terremoto, alla siccità e alle alluvioni… Colpi durissimi, e quello della Carife è stato un acceleratore dell’agonia del territorio, ci ha praticamente ammazzati.

Gli affidamenti bancari, alcuni dei quali fatti forse senza le necessarie cautele, quanto hanno inciso?
Parecchio. È vero che Carife in quanto banca del territorio doveva avere un occhio di riguardo per le imprese locali, ma alcune hanno usufruito di finanziamenti importanti senza offrire le necessarie garanzie. E persino grandi imprese non ferraresi hanno goduto di un metro di misura piuttosto elastico, come Caltagirone e Siano. Ribadisco il concetto: siamo usciti dal nostro territorio seguendo una tendenza e ci siamo trovati invischiati in un terreno paludoso. Siamo stati polli, per non dire di peggio… Ripeto: la banca del territorio deve essere vicino alle imprese locali ma chi chiede troppo e tutto in una volta va guardato con molta circospezione. Invece qualcuno è stato trattato con speciale riguardo.

Abbiamo parlato dei peccati. I peccatori hanno nome?
Non c’è dubbio che il problema nasca dentro Carife. Credo che molti guai siano sorti con la gestione Murolo. Poi magari le carte dei giudici diranno altro, ma io la penso così. Il Cda? Evidentemente responsabilità ce ne sono state anche lì. Alla base forse anche una certa impreparazione al ruolo: c’era gente abituata a fare altro, senza esperienza nella gestione degli istituti di credito, che magari ha valutato l’importanza di chi aveva davanti piuttosto che le garanzie che poteva offrire. Poi c’è da dire che quando il direttore generale afferma con convinzione la propria linea i consiglieri sono indotti ad assecondarlo.

Santini?
Era un duca sui generis, avallava anche cose sconvenienti. Tutto di lui si può pensare tranne che sia un ingenuo, come egli stesso invece ha cercato di dipingersi.

E adesso?
Ora il problema è la Banca d’Italia. E’ stata partecipe in modo incredibilmente importante, non solo controllando in maniera forse non appropriata, ma contribuendo all’aumento del deficit. Il patrimonio – accresciuto con l’aumento di capitale di 150 milioni di euro sollecitato proprio Bankitalia – dopo due anni si era completamente azzerato, non c’era più nulla. Di tutto ciò che si erano impegnati a fare nulla si è avverato. Solo sui prepensionamenti sono stati di parola, bei fenomeni! Non sapevano nulla del territorio, ma hanno messo lì i loro geni della finanza altamente pagati a comandare. La Banca d’Italia ha contribuito a peggiorare la situazione. E noi creditori siamo stati fregati da loro e dalla politica.

Confida nei risarcimenti? Ha intrapreso iniziative per tutelarsi?
Nessuna. Non credo più a nulla, sparano patacche solo per tenerci buoni.

 

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VIDEOCONFERENZA
N-€uro: politica monetaria e politica industriale, le strade per uscire dalla crisi

IMG_0343Dopo il successo riscontrato nel 2015, sono tornati in biblioteca Ariostea gli appuntamenti con il ciclo di incontri “Chiavi di lettura” organizzati dal nostro giornale. “N-€uro – Lo schizofrenico dibattito sulla moneta e le banche” è stato il primo dei cinque eventi che si susseguiranno fino a maggio con cadenza mensile, svoltosi lunedì e caratterizzato da una folta presenza di pubblico; d’altronde, causa la complicata situazione economico-finanziaria odierna e con la nota vicenda Carife ancora assoluta protagonista della vita pubblica ferrarese, tutto ciò che ruota attorno a banche e moneta non può che suscitare interesse e necessità di chiarezza da parte dei cittadini.

Chiarezza, appunto, è il termine migliore per definire gli interventi dei relatori chiamati ad animare il dibattito: il professor Lucio Poma del dipartimento di Economia dell’Università di Ferrara e Claudio Pisapia con Fabio Conditi del Gruppo Cittadini Economia hanno infatti cercato di illustrare in modalità a larghi tratti didascaliche, quasi scolastiche, come funziona il nostro sistema economico, qual è il ruolo della moneta, quali i numeri e le statistiche che caratterizzano questo complicato mondo troppo spesso permeato di concetti astrusi e difficilmente intuibili dai non addetti ai lavori. Solo dopo queste doverose introduzioni, all’apparenza scontate ma oggi appunto quantomai necessarie per meglio comprendere dinamiche e protagonisti, sono state poi argomentate le diverse tesi, perlopiù opposte ma con diversi punti di accordo individuati durante i ragionamenti.

IMG_0352Parti in gioco messe sul tavolo del dibattito le problematiche legate alla moneta e al sistema economico, il ruolo della Cina all’interno del mercato finanziario, quello della Bce e la mancanza di un’economia politica industriale sufficientemente forte: da un lato le considerazioni di Conditi e Pisapia, convinti della continua incapacità di risolvere un’economia monetaria debole, causa principale di una pronosticata previsione che vede la prossima generazione più povera dell’attuale (per la prima volta nella storia), oltre che una forbice di disuguaglianze relativa alla distribuzione della ricchezza in costante e vertiginoso aumento (confermate le recenti statistiche che attribuiscono il possesso del 50% della ricchezza distribuita nel globo all’1% della popolazione mondiale), e ancora il ruolo smaccatamente speculativo della Bce, considerata tra le principali cause della difficoltà di immissione di ricchezza all’interno dell’economia reale; dall’altro quelle di Poma, il quale individua il nodo della questione nella difficoltà di creare una politica economica europea sufficientemente omogenea e in grado di garantire la giusta stabilità ad ognuno dei paesi dell’Unione, così come la grande problematica legata ai beni primari che ogni paese non è in grado di produrre e quindi alla relativa necessità di una netta revisione soprattutto delle politiche economiche industriali, in modo tale da essere così in grado di puntare sulle materie prime già a disposizione.

Il prossimo appuntamento è per lunedì 29 febbraio, sempre alle 17, per il secondo evento della rassegna dal titolo “Solidali e felici, un altro mondo è possibile: dal mutualismo alla sharing economy”.

Guarda il video integrale dell’incontro “N-€uro – Lo schizofrenico dibattito sulla moneta e le banche” (durata 18 minuti circa ogni filmato)

Parte 1

Parte 2

Parte 3

Parte 4

Parte 5

IL FATTO
Per qualcuno è indigesto il premio McDonald’s alla scuola

Solo qualche giorno fa a Rabat, capitale del Marocco, migliaia di insegnanti, di tirocinanti e di studenti si sono riversati in piazza, protestando nei pressi del Parlamento per i continui tagli alla scuola. Una protesta che va avanti da mesi, i docenti di numerose città alzano la testa e tentano di difendere il diritto di istruire e di essere istruiti nel miglior modo possibile. Una storia che non ci riguarda direttamente, ma che richiama la triste realtà italiana: continui tagli programmati, supplenti che non possono essere assunti, strumentazioni di base assenti e una scuola che di “buono” ha ormai solo il corpo insegnanti. Le scuole del nostro Paese, con le dovute eccezioni, si ritrovano in situazioni precarie e spesso è solo la forza di volontà e il senso civico di famiglie ed insegnanti a far sì che i problemi quotidiani vengano risolti.

Qualche mese fa, ad esempio, i genitori, il preside ed il corpo docenti della scuola primaria “Biagio Rossetti” si autotassarono per rinfrescare gli ambienti scolastici (trovi l’articolo qui). A meno di un anno di distanza, l’Istituto comprensivo Statale Dante Alighieri si ritrova a doversi difendere dalle accuse di “istigazione a disvalori all’interno dell’istituzione pubblica scolastica”, come afferma il comunicato stampa diffuso dal Movimento Cinque Stelle.

La causa scatenante di queste affermazioni è stata la vittoria dell’Istituto a un concorso a premi a livello nazionale bandito dalla multinazionale McDonald’s chiamato, appunto, McDonald’s premia la scuola”. Partecipare era facile, infatti si chiedeva ai consumatori di conservare lo scontrino di un qualsiasi acquisto fatto in uno dei punti della catena che aderiva al concorso, per poi inserire un codice trovato su di esso sul portale online. Ogni euro speso sarebbe valso un punto da assegnare ad una scuola primaria o secondaria di primo grado a scelta. Scorrendo la classifica, si nota l’alto numero di scuole partecipanti, richiamati anche dal valore del premio in palio. I vincitori del concorso, infatti, sono stati due per ogni regione: i primi classificati  hanno avuto un premio di 8000 euro spendibili per acquistare tecnologia e supporti per la didattica, i secondi, sorteggiati tra tutte le scuole regionali, un premio minore ma ugualmente significativo di 2000 euro.

Dopo l’annuncio della scuola vincitrice, arriva l’accusa arrivata dal Movimento che segnala come “se ogni famiglia avesse versato direttamente come contributo volontario il costo di un paio di ‘Happy Meal’, si sarebbe arrivati allo stesso risultato senza regalare alla multinazionale 50mila euro a fronte di una donazione di 8mila! E con quella cifra si sarebbe potuto finanziare un bel progetto di educazione alimentare, al posto di materiale didattico e tecnologico che dovrebbe essere già in dotazione alla stessa scuola pubblica, se veramente fosse ‘Buona scuola’ “. La raccolta sarebbe stata in effetti assai più sostanziosa.

Il preside dell’Istituto, Massimiliano Urbinati, sottolinea che dalla scuola non è partita alcuna iniziativa né è stato incoraggiata la partecipazione al concorso, a cui hanno aderito alcuni genitori, nonni e amici degli studenti in maniera autonoma e personale.

“La nostra idea di scuola si ispira ad un altro genere di idee – afferma il preside durante la conferenza stampa – infatti il nostro motto è “prima i valori, poi il resto”, riscontrabile nel nostro progetto “Habitat”. Non avrei mai spinto i miei studenti o le loro famiglie a partecipare a questo concorso, chi ha deciso di farlo ha agito personalmente”. Genitori che si sentono parte di un progetto di sviluppo, che partecipano attivamente alla vita scolastica e che  puntano alla valorizzazione del rapporto scuola-famiglia. Un legame in cui in molti credono, tanto che i primi a rispondere alle accuse lanciate all’Istituto sono proprio i genitori e i nonni degli studenti, che sottolineano anche la natura del concorso, che non richiedeva la consumazione di un menù completo ma anche quella di un semplice caffè, o di una brioche. 

Il concorso non è stato pubblicizzato, contrariamente a quanto è stato detto, ma la sua esistenza è stata resa nota attraverso il passaparola, per chi avesse già l’abitudine di frequentare i punti di ristoro della catena e avesse voglia di partecipare al concorso.

Il premio ricevuto dall’Istituto Comprensivo 5 sarà investito per migliorare le strutture sportive utilizzate dai ragazzi, ai quali docenti e famiglie insegnano l’importanza di una corretta alimentazione e del movimento fisico, e per l’acquisto di materiale tecnologico. L’Istituto utilizza 52 Lim, lavagne interattive multimediali, e, come afferma il preside Urbinati, si vorrebbero acquistare dei tablet.

“Abbiamo già delle classi totalmente 2.0, in cui i ragazzi usano un device, il tablet, per interfacciarsi con la lavagna e per implementare le modalità attive di apprendimento. Vorremmo che tutte le classi avessero pari opportunità, in modo da sfruttare al massimo ciò che la scuola offre”.

Nessuna corsa all’ultimo panino, quindi, le famiglie hanno continuato ad insegnare ai loro bambini la corretta alimentazione permettendo uno strappo alla regola ogni tanto, senza trasformare il concorso nella disperata ricerca al “biglietto dorato” come nel “la fabbrica di cioccolato”. Certo, non possiamo negare che bandire un concorso del genere sia un’ottima pubblicità per una grande multinazionale come McDonald’s, che in numerose occasioni associa il brand a campagne per la salute e la salvaguardia dei più piccoli (basti pensare alla fondazione per l’infanzia nei pressi dei centri pediatrici italiani). Le scuole italiane, sempre più impoverite da uno Stato che non si cura della cultura e dell’istruzione dei suoi figli, sono probabilmente un bersaglio facile per una possibile campagna di Brand Reputation Washing, attuata in un momento particolarmente delicato per l’azienda, che ha visto la chiusura di 700 punti vendita solo durante lo scorso anno.

Che sia etico o meno mangiare da McDonald’s è ancora una questione ‘calda’, da discutere ed analizzare, inserendo il problema in contesti diversificati, che possono comprendere ambienti in cui esiste una cultura alimentare e una conoscenza adeguata dell’importanza di una buona nutrizione, ma anche ambienti in cui la disinformazione è ancora forte e l’obesità infantile un problema da combattere.

Quello che invece non si può più chiedere alle famiglie italiane è di contribuire alle spese dell’istruzione dei loro figli, iscritti in scuole statali che, in alcuni casi, non possono garantire neanche il corretto funzionamento dei termosifoni nei mesi più freddi. Come ha sottolineato Cristina Pellicioni, presidentessa del Consiglio d’Istituto e del Comitato genitori-insegnanti, ogni anno, oltre le tasse e le spese per libri e materiale didattico, i genitori dell’Istituto donano un contributo volontario aggiuntivo, così come avviene nelle altre scuole del territorio. In più, insieme a nonni e parenti, continuano a ideare progetti e a finanziarli, anche con l’aiuto del Comune di Ferrara, ‘sporcandosi’ le mani in prima persona, come sta accadendo per il progetto ambiente che permetterà l’istallazione di una serra. Non sarebbe stato corretto chiedere un ulteriore donazione alle famiglie per permettere ai ragazzi quello che la scuola statale dovrebbe, invece, garantire.

LA NOTA
Rispettare i vivi

In questi giorni del ” Ricordo” abbondano eventi, convegni, visite nei lager, conferenze al grido di :” Mai più”. Mai più, mai più…
Sembrerebbe un’ipocrisia visto il dilagare, in Europa, di un antisemitismo pericolosissimo. Difatti, a causa di questo, oggi in Europa circa 700.000 ebrei vogliono lasciarla, ovvero un terzo degli ebrei. Oserei dire che la situazione è gravissima.
A questo punto sarebbe il caso di dire che non ha più senso rivolgere il pensiero esclusivamente a coloro che da oltre 70 anni furono vittime del più atroce genocidio che la storia ricordi, ma bisognerebbe anche rispettare tutti gli ebrei che sono fra noi, combattendo per distruggere l’antisemitismo. Il rispetto per i vivi è l’unica via d’uscita, non ne vedo altre.
Credo che questo sia l’unico modo per Ricordare degnamente e onestamente il 27 gennaio.

Misericordia è la nuova postura della Chiesa nel mondo

Fanno discutere le numerose prese di posizione della Chiesa cattolica a proposito del ddl sulle unioni civili, che porta la firma della senatrice Pd, Monica Cirinnà.
La stessa organizzazione del Family day il 30 gennaio al Circo Massimo, sembra riportare indietro le lancette della Chiesa e del cattolicesimo italiano ai tempi dello scontro etico sui principi non negoziabili.
Le dichiarazioni in proposito del presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, unitamente a quelle di tanti altri (dal segretario della Conferenza episcopale, Nunzio Galantino, fino al neo vescovo di Bologna, Matteo Zuppi, la cui elezione pure è stata salutata con entusiasmo da tanti “cattolici adulti”), parrebbero non lasciare dubbi su questo ritorno nei ranghi stile vecchia maniera.
Persino le parole di Papa Francesco rivolte il 22 gennaio scorso al tribunale della Rota Romana (“Non può esserci nessuna confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione” e “I bambini hanno diritto di crescere con un papà e una mamma”), sono sembrate l’espressione di un’ortodossia che al dunque riemerge tale e quale, al di là di ogni apertura misericordiosa o “rivoluzione della tenerezza”.
A ben guardare, però, alcuni particolari della questione possono solcare una diversità che non andrebbe liquidata in pure coincidenze fortuite, o in aspetti formali che lascerebbero immutata la sostanza.
Non è sfuggita a più di un osservatore attento la cancellazione dell’udienza del cardinal Bagnasco con il Papa, proprio alla vigilia del Consiglio permanente della Cei, iniziato il 25 gennaio.
Al di là del motivo ufficiale (dare precedenza ad alcuni nunzi apostolici sul piede di ritorno per le rispettive sedi), c’è chi ha letto il mancato appuntamento come la volontà di Papa Francesco di non essere coinvolto in prima persona sulla delicata questione, perché siano i laici direttamente a intervenire nel dibattito politico su un disegno di legge.
Una lettura che farebbe il paio con la decisione di Bergoglio, fin dall’inizio, di lasciare alla Conferenza episcopale il rapporto con la politica italiana.
Se si aggiunge che Francesco al V Convegno ecclesiale a Firenze (lo scorso 10 novembre) alla domanda rivolta al cattolicesimo italiano: “Cosa ci sta chiedendo il Papa?”, ha risposto: “Spetta a voi decidere”, il quadro della discussione si arricchisce di elementi che non paiono di contorno, perché sono parsi fuori dalla logica del mandato, che ha sempre caratterizzato il rapporto gerarchia-laici. Verrebbe così meno, qualcuno dice, la regia dei vescovi-pilota che dirigono dietro le quinte, benedicendo i loro passi.
Se questo è il contesto, quello del Circo Massimo sarebbe il primo Family day senza il copyright vaticano.
E se così è, pur esseno stati riaffermati alla Rota Romana (il 22 gennaio) i principi della Chiesa sul matrimonio sacramentale, niente escluderebbe che, su un altro piano, lo Stato non possa regolare alti tipi di unione.
Una lettura che troverebbe un rinforzo, secondo alcuni, nelle parole che Bergoglio ha scritto per la giornata delle comunicazioni sociali (lo stesso 22 gennaio, un caso?), chiedendo che ogni livello di comunicazione costruisca ponti e non fomenti l’odio e rivolgendo poi l’invito al mondo cattolico di evitare la presunzione, la divisione, il linciaggio morale.
Alla luce di questo contesto, le stesse parole di Bagnasco nella sua prolusione di apertura ai lavori della Cei è parsa a taluni più prudente rispetto alle premesse delle scorse settimane. Pur citando alla lettera le parole del pontefice sul matrimonio cattolico, ha anche aggiunto: “Ogni nostra parola, come sempre, vuole essere rispettosa dei ruoli” e successivamente ha detto che i vescovi sognano “un paese a dimensione di famiglia” dove “il rispetto per tutti sia stile di vita e i diritti di ciascuno vengano garantiti su piani diversi secondo giustizia”.
Ciascuno è libero di valutare quanto sia, o resti, vuoto o pieno il bicchiere, ma è difficile non cogliere in queste parole tutta la temperatura del dibattito in atto nel paese sulle unioni civili.
Possono sembrare sfumature di poco conto rispetto ad una sostanza riaffermata con immutata formulazione o, secondo altri, chiusura.
Eppure per chi è abituato a seguire il passo della Chiesa con tutto il carico di una tradizione che pesa inevitabilmente sul presente, oltre a rappresentare una fonte di pensiero ed esperienza, è spesso nei dettagli che si delineano le operazioni di sostanza.
E in questo si confermerebbe il passo di un Papa che ha puntato sulla priorità di mettere in moto dei processi, piuttosto che distillare nuove sintesi dottrinali, oppure che ha affermato l’importanza del tempo sullo spazio.
Così si confermerebbe anche il metro della misericordia, intesa non come l’espressione di una semplice benevolenza di toni esteriori, ma come l’unità di misura di una nuova postura della Chiesa nel mondo che, proprio perché consapevole della portata della sfida, sa che ha bisogno del tempo necessario per un cambio di mentalità e per resistere ad ogni nostalgia di occupare spazi.

Onde anomale nel mare dei big data

Tutti sono convinti di vivere nella società dell’informazione, pochi riescono a coglierne le caratteristiche profonde, pochissimi sono in grado di capire fino a che punto potrà spingersi il processo di informatizzazione e quali conseguenze potrà comportare per la società e la cultura del futuro. Fatto è che, parlando di informazione, quasi tutti pensano ai contenuti che vengono trasmessi dai vecchi e dai nuovi media, pochi riflettono sugli scopi che gli attori sociali perseguono nel produrli e nel diffonderli, e ancor meno pensano ai significati che essi veicolano e generano nell’interazione con i fruitori. Certo è che viviamo immersi in un mare di informazioni e che la soglia da superare per catturare l’attenzione delle persone diventa sempre più alta proprio perché ognuno elabora meccanismi di selezione e di difesa indispensabili per dare senso al proprio ambiente di vita. Vivere in questo ambiente ci mette di fronte per esperienza diretta al rumore e all’ambiguità caratteristica della società dell’informazione; ci rende consapevoli nostro malgrado dei limiti che abbiamo come sistemi biologici di elaborazione di informazione nell’affrontare questa complessità caratteristica dei nuovi ambienti di vita.
In tale situazione possiamo pensare il mondo come un’enorme biblioteca, un archivio che si autoalimenta per le azioni stesse dei suoi utilizzatori, un deposito culturale che contiene in forma digitale infinite informazioni che nessuno potrà mai attingere e dominare completamente. Contrariamente all’inquietante biblioteca fisica di Borges la digitalizzazione consente a tutti e ad ognuno di essere sia produttori che consumatori in un processo che ne fa aumentare esponenzialmente l’ampiezza. In linea di principio la mega biblioteca digitale che si alimenta è un prodotto collettivo su scala planetaria, un potenziale bene comune di cui allo stato attuale si ignorano ancora i limiti e i reali utilizzi. E’ un bene utilizzabile allo stesso modo del linguaggio che ognuno di noi impara quando viene al mondo.

Questa prospettiva rappresenta tuttavia solo una piccola parte del problema e, a ben vedere, neppure la più importante. Accanto e dietro a questi flussi di informazioni palesi (almeno potenzialmente) esistono giganteschi depositi di informazioni incorporate nei manufatti, nelle tecnologie, nelle organizzazioni, nelle istituzioni, nei reperti storici ed archeologici, nelle istituzioni deputate alla scienza e alla conoscenza, nelle grandi burocrazie. Soprattutto esistono e crescono esponenzialmente le informazioni che noi stessi produciamo senza averne precisa coscienza: ogni interazione che abbiamo con qualsiasi dispositivo digitale, ogni clic sulla tastiera del pc, ogni uso della carta di credito, ogni fotografia o videoclip, è informazione che viene restituita al sistema tecnologico: in internet nulla va perduto e si sta creando dunque un enorme deposito dinamico di informazioni che continua a crescere e a svilupparsi in seguito alle azioni quotidiane svolte da miliardi di persone, milioni di aziende e Amministrazioni, decine di miliardi di dispositivi connessi nel cosiddetto internet delle cose (Iot) che è in grado di raccogliere informazioni in modo automatico. Non si tratta più dei meri contenuti ai quali siamo abituati a pensare ma di bit, tracce, processi, segni, localizzazioni, data point granulari che consentono di qualificare e posizionare nel tempo e nello spazio ogni tipo di contenuto, in grado di gestire qualsiasi tipo di processo: è il tipo di informazione che consente il funzionamento del navigatore dell’auto, il riconoscimento automatico delle nostre preferenze in qualsiasi negozio digitale, la precisione micidiale di un missile militare…
In quest’ottica possiamo immaginare il mondo come un’immensa matrice digitale alimentata da una enorme e crescente rete di connessione materiali che, poco alla volta, si sovrappone e per certi versi sostituisce l’ambiente naturale.

Questa colossale disponibilità di informazioni è davvero rivoluzionaria anche se l’impulso dal quale scaturisce ha radici molto antiche. L’esigenza di dati è nata con l’affermarsi dei grandi imperi e con le necessità di controllo delle burocrazie statali; con l’età moderna e la nascita della scienza fondata sull’osservazione, l’esperimento e la matematica, l’importanza dei dati è andata crescendo: proprio la difficoltà e il costo della raccolta di buone informazioni rappresentava (e in molti casi rappresenta ancora) un vincolo sostanziale per la produzione scientifica, l’amministrazione statale e la gestione di grandi imprese. Non a caso per aggirare questa difficolta i primi statistici avevano messo a punto le tecniche di campionamento che consentono a tutt’oggi di individuare pochi casi, studiarli ed estendere le conclusioni all’intero universo con un ristretto e prevedibile margine di errore.

Anche in questi contesti la digitalizzazione irrompe con una potenza devastante e rivoluzionaria: per la prima volta nella storia il problema non è più solamente quello di produrre direttamente le informazioni che servono strappandole con fatica dai contesti naturali ma, piuttosto, quello di selezionare e combinare informazioni già esistenti per generare qualcosa di nuovo. La straordinaria quantità di dati disponibili cambia radicalmente il panorama: le scienze sociali per prime sono messe in crisi da questi sconvolgimenti che aprono grandi opportunità e per certi versi ne mettono in discussione l’utilità se non proprio il fondamento. Questo passaggio dall’analogico al digitale, dal qualitativo al quantitativo, dai chilogrammi ai bit, è una rivoluzione paragonabile a quella di Gutenberg che passa incredibilmente sotto silenzio; big data è il termine con cui si etichetta questo fenomeno di abbondanza informativa assolutamente nuovo nella storia umana. Con tale termine si designa da un lato l’infinita disponibilità di dati utilizzabili direttamente attraverso i calcolatori e, dall’altro, le operazioni che si possono fare su di essi attraverso potenti algoritmi di calcolo. Queste operazioni consistono nell’applicare la matematica e la statistica ad un universo di informazioni in crescita esponenziale per estrapolare tendenze e probabilità, scoprire strutture sottostanti ed eccezioni, individuare regolarità e storie ricorrenti, trovare nicchie e casi estremi, generare e testare ipotesi e teorie, in modi inaccessibili al costoso campionamento e sicuramente molto più rapidi ed economici.
Potenzialmente non c’è limite alle informazioni che possono essere estratte attraverso gli algoritmi di calcolo; queste possibilità mettono in discussione il nostro modo di vivere e di interagire con il mondo, creano nuove indicazioni o nuove forme di valore con modalità che vengono a modificare i mercati, le organizzazioni, le relazioni tra cittadini e governi, il lavoro. Armati delle interpretazioni prodotte dagli algoritmi digitali possiamo rileggere il nostro mondo con modalità che si stanno appena cominciando ad apprezzare.

Tutti i dati raccolti per uno scopo si prestano ad essere utilizzati anche in altri modi e in questa flessibilità risiede la loro capacità di generare valore. Proprio su questa possibilità si regge la sfida centrata sulla competizione per scoprire il valore intrinseco non ancora espresso dei dati, nel farli parlare. Un valore economico e commerciale enorme che risiede in potenza negli archivi digitali che proprio in questo momento stiamo contribuendo ad alimentare: un valore che attualmente spetta in via quasi esclusiva ai proprietari dei contenitori digitali (basti pensare a Facebook o Google) che possono usare a titolo gratuito i contributi dei miliardi di persone connesse in rete direttamente (ad esempio tramite i social) o indirettamente (tramite i comportamenti rilevati dai sistemi di sensori, i chip etc.).

Nel mondo di big data la noiosa statistica diventa improvvisamente sexy e l’analista di dati (data scientist) diventa la nuova figura di scienziato costantemente impegnato nella ricerca di correlazioni e nella messa a punto di algoritmi matematici sempre più potenti e raffinati. Nel paradiso degli statistici ognuno potrebbe esplorare la matrice digitale per inventarsi un nuovo modo di vivere e di dar senso alla propria vita.
Ma anche gli statistici più visionari già vedono il loro successo minacciato da nuove generazioni di macchine molto più “intelligenti” di loro…

ELOGIO DEL PRESENTE
Perché le notizie false circolano così velocemente sui social network

In un tempo ricco di fonti di informazione, come mai la gente crede così facilmente a notizie infondate? Ciò è dovuto ai pregiudizi di conferma (confirmation bias): la tendenza a trovare informazioni che confermino le nostre idee su un certo tema, e a rifiutare le notizie che potrebbero invece contraddirle. In sostanza tendiamo a far parte di comunità che la pensano come noi, convincendoci reciprocamente di essere nel giusto.
Uno studio sul comportamento delle persone su Facebook (“Social determinants of content selection in the age of (mis)information”) ha analizzato il comportamento di un gruppo di utenti Facebook dal 2010 al 2014 con l’obiettivo di rispondere ad una domanda: navigando online le persone si confrontano con idee opposte alle loro, oppure tendono a formare gruppi chiusi dove confermarsi a vicenda le proprie posizioni? I ricercatori concludono che le persone tendono a frequentare comunità omogenee e a dare più valore alle notizie filtrate dagli amici. In sostanza gli utenti di Facebook tendono a condividere notizie che contengano un messaggio con cui concordano e a rigettare quelle che contengano messaggi contrari. Il risultato è la formazione di “gruppi omogenei e radicalizzati”. All’interno di questi gruppi le nuove informazioni si diffondono velocemente: l’esito è la proliferazione di teorie basate su informazioni infondate e paranoie.
Si tratta di un fenomeno noto come “polarizzazione collettiva”: persone con le stesse idee su uno stesso argomento tendono a parlare tra loro e finiscono con sviluppare delle convinzioni più forti di quelle che avevano in partenza sull’argomento stesso. La spiegazione psicologica è intuibile: attraverso il consenso degli altri tendiamo ad accrescere la nostra autostima, il pregiudizio di conferma si auto-rinforza, producendo un circolo vizioso: si inizia con una credenza e si trovano poi informazioni che la suffragano, ciò finisce con il rafforzare quella credenza e a radicalizzarla proprio in virtù della unanimità percepita. Se pensiamo al dibattito politico o a fatti di cronaca che suscitano emozioni forti, comprendiamo facilmente: su Facebook le opinioni altrui sono spesso ignorate e, quando vengono considerate, finiscono per rafforzare in ognuno le proprie convinzioni.
Si può concludere che i social producono disinformazione? Si dovrebbe in ogni caso avere maggiore cautela rispetto alla presunta democraticità della rete e alla sua efficacia rispetto all’espressione della volontà popolare. Si conferma la necessità di un’informazione riflessiva che non chieda schieramenti, ma solleciti un approccio critico, ricordando che la società di massa tende pericolosamente alla convergenza delle opinioni.
Una riflessione ancora più seria riguarda l’apprendimento: la necessità di mantenere il valore di uno studio individuale, di promuovere una cultura aperta che tratti ogni convinzione come provvisoria, di insegnare l’interesse alle confutazioni piuttosto che alle conferme. Se non siamo consapevoli delle dinamiche inevitabili che muovono la formazione dei nostri giudizi e del valore delle emozioni rispetto a questi, la rete finirà per essere un luogo assai meno libero di come possa apparirci.

Maura Franchi vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia. Studia le scelte di consumo e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana.
maura.franchi@gmail.com