di Eleonora Rossi
“La poesia è un’esigenza. Si sente dentro – risponde senza esitare Massimo Scrignòli -. Credo che la poesia sia prima di tutto un discorso con se stessi, un gesto: tracciare sulla carta un segno e continuare a lavorare sulla parola. Digitata sul computer, quella parola non avrebbe lo stesso esito: sulla carta invece, anche se la si corregge, o la si riscrive, lascia la sua traccia indelebile”. Ho tra le mani un volume raffinato, la copertina ruvida, essenziale, nuda: un confine liquido taglia il colore della terra e della sabbia, della luce e dell’ombra. L’immagine è l’elaborazione di un’opera d’arte, “Posizione”, di Nina Nasilli, nome al quale è riservato “un ringraziamento particolare” nel colophon che suggella una pubblicazione di pregio, rilegata “con la cura di mani femminili”.
Il titolo è “Regesto”, seguito da due date, 1979-2009: un registro, una raccolta ordinata senza omettere alcun dato. L’autore è Massimo Scrignòli: la sua è considerata una delle voci più significative nel panorama della poesia contemporanea. Bolognese di adozione, classe 1953, l’autore vive in provincia di Ferrara, sulle rive del Grande Fiume. Presente in numerose pubblicazioni antologiche e didattiche in Italia e all’estero, sue poesie sono state tradotte in inglese, spagnolo, portoghese, croato. Ha partecipato ad autorevoli festival internazionali di poesia e letteratura; nel 2006 e nel 2009 ha rappresentato l’Italia all’International Poetry Festival di Zagabria. “Regesto raccoglie (ricollocandole cronologicamente, in un percorso organico lungo un trentennio), le poesie pubblicate in volume dal 1979 al 2009”, spiega l’autore nel preludio al volume. Nove libri “da tempo esauriti o non reperibili”, a cui si unisce la pubblicazione di “Lieve a portare”, “un quaderno di traduzione che prende il titolo da una poesia di René Char”; qui un verso di Eliot, “nel mio principio è la mia fine”, sembra porgerci la sintesi di questo “progetto d’insieme”. Poesie allineate sulla striscia del tempo, un segmento morbido i cui estremi finiscono per toccarsi, alfa e omega, in un disegno circolare. Si legge nel risvolto di copertina: “c’è un filo sottile che, nell’andamento poematico, lega tra loro i diversi libri e le trasposizioni poetiche disvelando l’ostinata e virile interrogazione di una voce che segue il movimento del pensiero, ordinando via via un sostanziale ‘dizionario di sensi’ e di accadimenti…”.
Mi accosto con riverenza a questa pubblicazione: basta sfogliare l’apparato critico per scorgere, tra i prefatori o postfatori delle singole raccolte, firme del calibro di Giovanni Raboni, Geno Pampaloni, Roberto Sanesi, Silvio Ramat, Vincenzo Guarracino, Alberto Bertoni. E non appena ci si addentra nella sapienza e nella bellezza e della poesia di Scrignòli, si percepisce come questo libro rappresenti un capitolo considerevole della storia della lirica italiana. Regesto è stato presentato l’11 novembre 2016 al circolo letterario “Il Patio dei Poeti” a Bondeno. Lo sto leggendo da alcuni giorni, ma continuerò a leggerlo, senza fretta, per sentirne l’eco e le onde emotive, perché l’intensità di questa poesia merita un silenzio rispettoso, e certamente più di una rilettura. L’autore mi suggerisce, con un sorriso, di “prenderlo a piccole dosi”. Ne parliamo con lui.
“Regesto”. Può introdurci al significato di quest’opera?
Ho raccolto in questa pubblicazione i testi integrali dei miei libri composti nell’arco di trenta anni, dal mio esordio “Notiziario Tendenzioso”, nel 1979, con la prefazione di Giovanni Raboni a “Vista sull’Angelo”, del 2009, silloge che io considero la chiusura di un ideale percorso. Non si tratta di un’antologia, ma di un “progetto d’insieme”. Come ho scritto nel volume, il percorso temporale in cui si ritrovano insieme i dieci titoli che compongono questo “regesto” coincide oggettivamente con la presa d’atto della conclusione di un “ciclo”, una sorta di involontario e non previsto unicum che (comunque) si compie nelle pagine finali di “Vista sull’Angelo”. E nella successiva rivelazione. Un segno che è inciso sulla pagina e nel tempo; forse a voler riunire, ancora una volta, “fine e inizio”.
Dal 2009 non ha più scritto poesie?
All’ultima silloge è seguito un momento di silenzio, di non scrittura. Per questo lo considero un punto fermo, di compimento di un percorso. Ora scrivo qualcosa di diverso. È come se fosse iniziato un nuovo tratto di strada per me. In generale ho sempre scritto poche parole, perché tendo a selezionare, a ‘buttare via’ molto, correggo e ricorreggo, compio un lavoro personale molto intenso sulla parola. Inoltre credo sia importante lasciar decantare un testo, distaccarsene. Rileggerlo a distanza di tempo.
È fondamentale dunque per lei il labor limae?
Personalmente credo molto nello studio e nella ricerca intorno alla parola, nella sua riscrittura. La parola deve diventare inattaccabile, resistere al tempo. La lingua della creatività è un gesto di responsabilità immensa, essa diviene oggetto di confronto e di dialogo. Per scrivere serve la coscienza di aver compiuto un atto di perfezione, di ricerca della bellezza. C’è qualcosa che sollecita l’urgenza di scrivere, poi interviene un accurato lavoro di limatura. Potrebbe anche accadere che il testo sfugga all’intenzionalità di chi scrive. Conosco autori brillanti che scrivono di getto, senza correggere le intuizioni originali. Io personalmente condivido l’osservazione di Alfredo Giuliani: credo che “i sentimenti debbano passare attraverso la tecnica”. Anche se la poesia oggi è abitata dal verso libero, non vuol dire che non debba avere ‘meccanismi’. Perché la poesia non s’improvvisa. Scrivere poesia è una fatica estenuante.
Quando ha iniziato a scrivere?
Negli Anni Settanta, nel periodo della Neoavanguardia. In un’epoca in cui non si scriveva in maniera così disastrata come accade oggi. Ho avuto la fortuna di incontrare e frequentare alcuni dei più importanti critici e poeti italiani del secondo Novecento.
Quali incontri hanno lasciato il segno?
Sicuramente l’incontro con Giovanni Raboni, al quale sono riconoscente per la prefazione alla mia prima silloge del 1979. Devo molto a Edoardo Sanguineti e a Roberto Sanesi, un poeta, un traduttore, ma soprattutto un amico. Inoltre, a testimonianza di una costante attività letteraria e culturale, anche come “compagno di viaggio” di artisti contemporanei, vi sono prestigiose edizioni d’arte in cui miei testi vengono affiancati da opere di pittori di fama internazionale come Baj, Benati, Pozzati, Bonalumi.
Che cosa rappresenta la poesia per lei?
È l’urgenza di esprimere alcune ‘cose’ che devono essere pronunciate. Ciò che vale davvero è la parola scritta: tutto – lo stupore, la meraviglia – accade tra il testo poetico e il lettore.
Perché scrivere poesia oggi? Perché leggerla?
C’è tantissima scrittura in versi oggi. La poesia stenta a farsi notare, a fronte di una produzione vasta: è tempo di fare selezione, ma forse manca una certa critica che possa garantire punti di riferimento. Tutti sono disorientati e liberi di scrivere. Da un lato la libertà offre un respiro, dall’altro crea confusione. Nel libro l’autore dovrebbe creare una sorta di laboratorio personale, un approccio originale alla lingua. Leggere poesia risponde a un bisogno di aperture vere, di immagini e risonanze che ci rimangono dentro. È un’esigenza che andrebbe filtrata da un’umiltà verso se stessi.
Da molti anni lei svolge un’intensa attività nel campo dell’editoria, curando e coordinando collane di poesia, critica letteraria, filosofia, in cui sono stati pubblicati, tra gli altri, scritti di Leopardi, Poggioli, Sanesi, Crovi, Porta, e in cui hanno visto la luce anche nuove traduzioni di Auerbach, Eliot, Tagore, Yeats, Bauchau, Flaminien, Char; sue sono la versione e l’introduzione critica di Relazione per un’accademia e altri racconti di Franz Kafka (1997). È un lavoro complesso, che richiede una motivazione profonda. Secondo le statistiche, gli italiani leggono sempre meno, soprattutto i libri di poesia. Qual è la sua sensazione?
È un paradosso tipico italiano: tutti credono di poter ‘fare poesia’, ma quasi nessuno legge o compra libri di poeti. Bisognerebbe ritornare a leggere, non è scontato ripeterlo. Inoltre in campo editoriale sono venuti a mancare i ‘grossi editori’, quelli che potevano permettersi di pubblicare poesia perfino “in perdita”. Quelle case editrici rappresentavano un marchio, una garanzia: se un autore veniva selezionato per la Collana Bianca Einaudi, significava che c’era un fondamento di verità nella sua parola. La piccola editoria deve operare scelte: serve una passione profonda per fare questo lavoro, oggi sempre più complesso. Un piccolo editore non ha l’impostazione né la disponibilità del mecenate, ma ha la necessità di coprire le spese, di tenere in piedi una ‘bottega’; ogni piccolo editore deve fare i conti con il fatto che non si guadagna con la poesia. Ma è fondamentale a questo punto fare una distinzione tra ‘stampare’ – è molto diffuso oggi il self publishing – e il ‘pubblicare’, che sottintende una progettualità, un dialogo tra persone diverse, una rilettura approfondita di quanto si è scritto. Questa è ancora la scommessa della piccola, seria editoria.
Nonostante le perplessità, condivisibili, mi sembra di avvertire comunque una fiducia, un legame viscerale con la poesia…
Il linguaggio poetico sta prevalendo su tutti gli altri linguaggi. Basti pensare al rapporto con la conoscenza, con la filosofia, come affermava Heidegger. Il linguaggio della filosofia, da solo, mostra un limite: non riesce a spiegare quello che si può unicamente sentire. Lì comincia la poesia, che non si nutre solo di parole, ma di musica e di silenzio. Di vita. Se c’è un’ultima parola, è quella della poesia. “Tutto questo ha valore solamente se accade/ là dove la parola non si spegne”, scrive Scrignòli in un componimento di “Vista sull’Angelo”. Bisogna ascoltare a questo punto la potenza di alcuni suoi versi, nella lirica che chiude questa nona raccolta: “Il vento adesso è il confine/ illude in avanti i giorni/ li risveglia in altre case/. Da mille anni l’albero delle pagode/ osserva l’Angelo seduto nel silenzio/ abbracciato alle ginocchia, arenato/ nel segreto delle sue ali. Ma quali sono i limiti di un segreto?/ Né ombra né inverno. Forse soltanto/ l’alfabeto infedele perduto/ a nord, un soffio antico/ dolce trasumanar della vista/ su questa terribile felicità”.
L’ultimo verso si chiude con un ossimoro sublime, “terribile felicità”. Queste parole, coltivate come rose, accarezzate come creature, sono un esempio di quello che Scrignòli ha definito “un atto di perfezione, di ricerca della bellezza”. “Il dolore invecchia presto/ ma non muore/ e poi tutto ciò che è terribile/ è una fonte del sublime”. Versi cesellati come “ordire intrighi/ di sabbia” brillano di luce propria in un universo poetico nel quale ci si può specchiare: “Adesso però dimmi di Penelope, racconta/ delle parole che crescono dal pavimento / al cielo, dimmi di una tela sfibrata/ che salpa sul canto di un tordo verso il mare./ Si ripiega ma non si arrende, si rialza/ e distende al sole le tinte della memoria./ (…)
C’è vera differenza fra attesa e abbandono?”. Ne sono assaggio ulteriore i quattro versi scelti per chiudere Regesto, che appaiono due volte nel volume. Parole assolute, chiodi che si piantano nel bianco della pagina:
“Non c’è morte. Soltanto
un cambiamento di mondi.
Ogni perduta occasione
è un peccato commesso”