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Bassani, il Premio Haggiag alla fatica dello scrivere

“Faccio, cancello, rifaccio ancora. All’infinito”. E’ così che Giorgio Bassani descrive il suo modo di scrivere, la fatica e la ricerca delle parole nelle sue opere. A settant’anni di distanza anagrafica e centinaia di chilometri dalla città di Ferrara, che è al centro di un po’ tutta la sua scrittura, arrivano qui le elaborazioni di due giovani studiosi sul lavoro che c’è dietro a tanta capacità narrativa dell’autore de “Il Giardino dei Finzi Contini”. E’ stato infatti assegnato in questi giorni il premio Robert Nissim Haggiag per il “migliore Essay su Giorgio Bassani”. Arrivato alla terza edizione, il riconoscimento per il 2016 è attribuito a pari merito a due neo laureati. Palermitana lei, Luana Comparetto, nata nel 1986, e barese lui, Angelo Alessandro Tartarelli, nato nel 1989, gli autori degli studi che si sono divisi onore e ricompensa in denaro di tremila euro.

Angelo Tartarelli, Mirella Haggiag, Paola Bassani, Giulio Ferroni e Luana Comparetto (foto Giorgia Mazzotti)
Angelo Tartarelli, Mirella Haggiag, Paola Bassani, Giulio Ferroni e Luana Comparetto (foto Giorgia Mazzotti)

A ospitare l’assegnazione della terza edizione del premio internazionale è stata (giovedì 17 novembre 2016) la sala Agnelli della Biblioteca Ariostea nell’ambito delle iniziative messe in campo dal Comitato nazionale per il centenario della nascita. Un ciclo di iniziative su “Giorgio Bassani 1916-2016” con mostre, convegni e proiezioni cinematografiche, partite a Roma il 14 e 15 novembre per proseguire a Ferrara da martedì 15 a sabato 19 novembre 2016.

Cos’è che ha portato questi ragazzi sulle pagine bassaniane? “In casa – racconta Angelo Alessandro Tartarelli – mia madre aveva “Gli occhiali d’oro” e dalla passione per quel romanzo sono partito, incoraggiato poi dal fatto di avere un professore alla facoltà di Lettere moderne dell’Università di Bari che è Vito Santoro, studioso ed esperto della sua opera”. Il risultato è stata la tesi su “Giorgio Bassani ambientalista” dedicata al lavoro fatto dallo scrittore per Italia Nostra (di cui fu presidente dal 1965 al 1980) e culminato nella pubblicazione del volume “Italia da salvare” (2005) che mette insieme i suoi scritti dedicati al patrimonio artistico e naturalistico.

Attratta dall’ossessione per la perfezione stilistica, invece, Luana Comparetto, che per la tesi della laurea magistrale in filologia moderna all’Università di Palermo si è dedicata ad analizzare “l’iter redazionale molto tormentato, fatto di dubbi, correzioni, ripensamenti” di uno dei romanzi meno noti dello scrittore, che è “Dietro la porta”. Il titolo parte dalla descrizione che Bassani fa del suo approccio alla scrittura: “’Faccio, cancello, rifaccio ancora. All’infinito’. Giorgio Bassani artigiano dello stile” e va a cercare queste modifiche, limature, riscritture attraverso le tre edizioni del libro, pubblicato nel 1964, 1974 fino alla riedizione del 1980. Il suo sogno, ora, sarebbe quello di potere studiare il manoscritto o le bozze originali del libro, che però – al momento – non sono reperibili.

A consegnare la busta con motivazioni e premio è Mirella Petteni Haggiag, vedova di Roberto Nissim Haggiag insieme con il presidente del Comitato nazionale per il centenario Giulio FerroniPaola Bassani, presidente della Fondazione Giorgio Bassani. E’ la figlia del romanziere che spiega: “Roberto Nissim Haggiag è stato un grande produttore cinematografico e un profondo conoscitore e amante della letteratura di mio padre. Con il premio a lui intitolato e grazie alla generosità di Mirella Haggiag, vogliamo riportare all’attenzione delle giovani generazioni, e non solo, la cura stilistica e l’impegno civile di Giorgio Bassani attraverso le interazioni tra l’opera letteraria e il mondo circostante, riconoscendo il valore dei lavori critici più originali legati alla sua figura e alla sua opera, e realizzati da giovani studiosi meritevoli”. A sua volta Mirella Haggiag ricorda: “Dieci anni fa Susanna Agnelli mi ha portata nella Fondazione e da allora mi sono adoperata per onorare e mantenere viva la memoria di Bassani. Mio marito Roberto aveva deciso di istituire questo Premio a favore dei giovani, perché era convinto che dare un giusto riconoscimento a chi è ancora all’inizio valga molto di più che osannare chi si è già affermato. Oggi anche grazie al supporto del Museo dell’ebraismo di Ferrara (Meis) e all’attenzione del Ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, festeggiamo un momento positivo e gioioso, perché siamo finalmente in grado di dare a questo appuntamento una cadenza annuale. Del resto, Giorgio Bassani se lo merita: Ferrara gli deve molta della propria notorietà internazionale”.

La poesia,”ricerca della bellezza”
Il percorso lirico di Massimo Scrignòli nel volume Regesto 1979-2009

di Eleonora Rossi

“La poesia è un’esigenza. Si sente dentro – risponde senza esitare Massimo Scrignòli -. Credo che la poesia sia prima di tutto un discorso con se stessi, un gesto: tracciare sulla carta un segno e continuare a lavorare sulla parola. Digitata sul computer, quella parola non avrebbe lo stesso esito: sulla carta invece, anche se la si corregge, o la si riscrive, lascia la sua traccia indelebile”. Ho tra le mani un volume raffinato, la copertina ruvida, essenziale, nuda: un confine liquido taglia il colore della terra e della sabbia, della luce e dell’ombra. L’immagine è l’elaborazione di un’opera d’arte, “Posizione”, di Nina Nasilli, nome al quale è riservato “un ringraziamento particolare” nel colophon che suggella una pubblicazione di pregio, rilegata “con la cura di mani femminili”.

Il titolo è “Regesto”, seguito da due date, 1979-2009: un registro, una raccolta ordinata senza omettere alcun dato. L’autore è Massimo Scrignòli: la sua è considerata una delle voci più significative nel panorama della poesia contemporanea. Bolognese di adozione, classe 1953, l’autore vive in provincia di Ferrara, sulle rive del Grande Fiume. Presente in numerose pubblicazioni antologiche e didattiche in Italia e all’estero, sue poesie sono state tradotte in inglese, spagnolo, portoghese, croato. Ha partecipato ad autorevoli festival internazionali di poesia e letteratura; nel 2006 e nel 2009 ha rappresentato l’Italia all’International Poetry Festival di Zagabria. “Regesto raccoglie (ricollocandole cronologicamente, in un percorso organico lungo un trentennio), le poesie pubblicate in volume dal 1979 al 2009”, spiega l’autore nel preludio al volume. Nove libri “da tempo esauriti o non reperibili”, a cui si unisce la pubblicazione di “Lieve a portare”, “un quaderno di traduzione che prende il titolo da una poesia di René Char”; qui un verso di Eliot, “nel mio principio è la mia fine”, sembra porgerci la sintesi di questo “progetto d’insieme”. Poesie allineate sulla striscia del tempo, un segmento morbido i cui estremi finiscono per toccarsi, alfa e omega, in un disegno circolare. Si legge nel risvolto di copertina: “c’è un filo sottile che, nell’andamento poematico, lega tra loro i diversi libri e le trasposizioni poetiche disvelando l’ostinata e virile interrogazione di una voce che segue il movimento del pensiero, ordinando via via un sostanziale ‘dizionario di sensi’ e di accadimenti…”.

Mi accosto con riverenza a questa pubblicazione: basta sfogliare l’apparato critico per scorgere, tra i prefatori o postfatori delle singole raccolte, firme del calibro di Giovanni Raboni, Geno Pampaloni, Roberto Sanesi, Silvio Ramat, Vincenzo Guarracino, Alberto Bertoni. E non appena ci si addentra nella sapienza e nella bellezza e della poesia di Scrignòli, si percepisce come questo libro rappresenti un capitolo considerevole della storia della lirica italiana. Regesto è stato presentato l’11 novembre 2016 al circolo letterario “Il Patio dei Poeti” a Bondeno. Lo sto leggendo da alcuni giorni, ma continuerò a leggerlo, senza fretta, per sentirne l’eco e le onde emotive, perché l’intensità di questa poesia merita un silenzio rispettoso, e certamente più di una rilettura. L’autore mi suggerisce, con un sorriso, di “prenderlo a piccole dosi”. Ne parliamo con lui.

“Regesto”. Può introdurci al significato di quest’opera?
Ho raccolto in questa pubblicazione i testi integrali dei miei libri composti nell’arco di trenta anni, dal mio esordio “Notiziario Tendenzioso”, nel 1979, con la prefazione di Giovanni Raboni a “Vista sull’Angelo”, del 2009, silloge che io considero la chiusura di un ideale percorso. Non si tratta di un’antologia, ma di un “progetto d’insieme”. Come ho scritto nel volume, il percorso temporale in cui si ritrovano insieme i dieci titoli che compongono questo “regesto” coincide oggettivamente con la presa d’atto della conclusione di un “ciclo”, una sorta di involontario e non previsto unicum che (comunque) si compie nelle pagine finali di “Vista sull’Angelo”. E nella successiva rivelazione. Un segno che è inciso sulla pagina e nel tempo; forse a voler riunire, ancora una volta, “fine e inizio”.

Dal 2009 non ha più scritto poesie?
All’ultima silloge è seguito un momento di silenzio, di non scrittura. Per questo lo considero un punto fermo, di compimento di un percorso. Ora scrivo qualcosa di diverso. È come se fosse iniziato un nuovo tratto di strada per me. In generale ho sempre scritto poche parole, perché tendo a selezionare, a ‘buttare via’ molto, correggo e ricorreggo, compio un lavoro personale molto intenso sulla parola. Inoltre credo sia importante lasciar decantare un testo, distaccarsene. Rileggerlo a distanza di tempo.

È fondamentale dunque per lei il labor limae?
Personalmente credo molto nello studio e nella ricerca intorno alla parola, nella sua riscrittura. La parola deve diventare inattaccabile, resistere al tempo. La lingua della creatività è un gesto di responsabilità immensa, essa diviene oggetto di confronto e di dialogo. Per scrivere serve la coscienza di aver compiuto un atto di perfezione, di ricerca della bellezza. C’è qualcosa che sollecita l’urgenza di scrivere, poi interviene un accurato lavoro di limatura. Potrebbe anche accadere che il testo sfugga all’intenzionalità di chi scrive. Conosco autori brillanti che scrivono di getto, senza correggere le intuizioni originali. Io personalmente condivido l’osservazione di Alfredo Giuliani: credo che “i sentimenti debbano passare attraverso la tecnica”. Anche se la poesia oggi è abitata dal verso libero, non vuol dire che non debba avere ‘meccanismi’. Perché la poesia non s’improvvisa. Scrivere poesia è una fatica estenuante.

Quando ha iniziato a scrivere?
Negli Anni Settanta, nel periodo della Neoavanguardia. In un’epoca in cui non si scriveva in maniera così disastrata come accade oggi. Ho avuto la fortuna di incontrare e frequentare alcuni dei più importanti critici e poeti italiani del secondo Novecento.

Quali incontri hanno lasciato il segno?
Sicuramente l’incontro con Giovanni Raboni, al quale sono riconoscente per la prefazione alla mia prima silloge del 1979. Devo molto a Edoardo Sanguineti e a Roberto Sanesi, un poeta, un traduttore, ma soprattutto un amico. Inoltre, a testimonianza di una costante attività letteraria e culturale, anche come “compagno di viaggio” di artisti contemporanei, vi sono prestigiose edizioni d’arte in cui miei testi vengono affiancati da opere di pittori di fama internazionale come Baj, Benati, Pozzati, Bonalumi.

Che cosa rappresenta la poesia per lei?
È l’urgenza di esprimere alcune ‘cose’ che devono essere pronunciate. Ciò che vale davvero è la parola scritta: tutto – lo stupore, la meraviglia – accade tra il testo poetico e il lettore.

Perché scrivere poesia oggi? Perché leggerla?
C’è tantissima scrittura in versi oggi. La poesia stenta a farsi notare, a fronte di una produzione vasta: è tempo di fare selezione, ma forse manca una certa critica che possa garantire punti di riferimento. Tutti sono disorientati e liberi di scrivere. Da un lato la libertà offre un respiro, dall’altro crea confusione. Nel libro l’autore dovrebbe creare una sorta di laboratorio personale, un approccio originale alla lingua. Leggere poesia risponde a un bisogno di aperture vere, di immagini e risonanze che ci rimangono dentro. È un’esigenza che andrebbe filtrata da un’umiltà verso se stessi.

Da molti anni lei svolge un’intensa attività nel campo dell’editoria, curando e coordinando collane di poesia, critica letteraria, filosofia, in cui sono stati pubblicati, tra gli altri, scritti di Leopardi, Poggioli, Sanesi, Crovi, Porta, e in cui hanno visto la luce anche nuove traduzioni di Auerbach, Eliot, Tagore, Yeats, Bauchau, Flaminien, Char; sue sono la versione e l’introduzione critica di Relazione per un’accademia e altri racconti di Franz Kafka (1997). È un lavoro complesso, che richiede una motivazione profonda. Secondo le statistiche, gli italiani leggono sempre meno, soprattutto i libri di poesia. Qual è la sua sensazione?
È un paradosso tipico italiano: tutti credono di poter ‘fare poesia’, ma quasi nessuno legge o compra libri di poeti. Bisognerebbe ritornare a leggere, non è scontato ripeterlo. Inoltre in campo editoriale sono venuti a mancare i ‘grossi editori’, quelli che potevano permettersi di pubblicare poesia perfino “in perdita”. Quelle case editrici rappresentavano un marchio, una garanzia: se un autore veniva selezionato per la Collana Bianca Einaudi, significava che c’era un fondamento di verità nella sua parola. La piccola editoria deve operare scelte: serve una passione profonda per fare questo lavoro, oggi sempre più complesso. Un piccolo editore non ha l’impostazione né la disponibilità del mecenate, ma ha la necessità di coprire le spese, di tenere in piedi una ‘bottega’; ogni piccolo editore deve fare i conti con il fatto che non si guadagna con la poesia. Ma è fondamentale a questo punto fare una distinzione tra ‘stampare’ – è molto diffuso oggi il self publishing – e il ‘pubblicare’, che sottintende una progettualità, un dialogo tra persone diverse, una rilettura approfondita di quanto si è scritto. Questa è ancora la scommessa della piccola, seria editoria.

Nonostante le perplessità, condivisibili, mi sembra di avvertire comunque una fiducia, un legame viscerale con la poesia…
Il linguaggio poetico sta prevalendo su tutti gli altri linguaggi. Basti pensare al rapporto con la conoscenza, con la filosofia, come affermava Heidegger. Il linguaggio della filosofia, da solo, mostra un limite: non riesce a spiegare quello che si può unicamente sentire. Lì comincia la poesia, che non si nutre solo di parole, ma di musica e di silenzio. Di vita. Se c’è un’ultima parola, è quella della poesia. “Tutto questo ha valore solamente se accade/ là dove la parola non si spegne”, scrive Scrignòli in un componimento di “Vista sull’Angelo”. Bisogna ascoltare a questo punto la potenza di alcuni suoi versi, nella lirica che chiude questa nona raccolta: “Il vento adesso è il confine/ illude in avanti i giorni/ li risveglia in altre case/. Da mille anni l’albero delle pagode/ osserva l’Angelo seduto nel silenzio/ abbracciato alle ginocchia, arenato/ nel segreto delle sue ali. Ma quali sono i limiti di un segreto?/ Né ombra né inverno. Forse soltanto/ l’alfabeto infedele perduto/ a nord, un soffio antico/ dolce trasumanar della vista/ su questa terribile felicità”.

L’ultimo verso si chiude con un ossimoro sublime, “terribile felicità”. Queste parole, coltivate come rose, accarezzate come creature, sono un esempio di quello che Scrignòli ha definito “un atto di perfezione, di ricerca della bellezza”. “Il dolore invecchia presto/ ma non muore/ e poi tutto ciò che è terribile/ è una fonte del sublime”. Versi cesellati come “ordire intrighi/ di sabbia” brillano di luce propria in un universo poetico nel quale ci si può specchiare: “Adesso però dimmi di Penelope, racconta/ delle parole che crescono dal pavimento / al cielo, dimmi di una tela sfibrata/ che salpa sul canto di un tordo verso il mare./ Si ripiega ma non si arrende, si rialza/ e distende al sole le tinte della memoria./ (…)

C’è vera differenza fra attesa e abbandono?”. Ne sono assaggio ulteriore i quattro versi scelti per chiudere Regesto, che appaiono due volte nel volume. Parole assolute, chiodi che si piantano nel bianco della pagina:

“Non c’è morte. Soltanto
un cambiamento di mondi.

Ogni perduta occasione
è un peccato commesso”

ECOLOGICAMENTE
Accordo Anci-Conai sulla raccolta differenziata

da Rifiutilab del 02/11/2016

È stato presentato lo scorso 24 ottobre a Roma il VI Rapporto Banca Dati Anci-Conai su raccolta differenziata e riciclo dei rifiuti. Dal rapporto emerge una costante crescita della percentuale di raccolta differenziata con nove Regioni italiane hanno raggiunto, con ben 5 anni di anticipo, l’obiettivo UE del 50% di avvio a riciclo fissato per il 2020. Permangono differenze sulle percentuali tra nord e sud anche se, rispetto agli anni scorsi, in queste aree migliora la raccolta differenziata. Al crescere della quantità di rifiuti differenziati raccolta non cresce la qualità dei materiali conferiti sinonimo di costante necessità di informazione ai cittadini. Dal rapporto in sintesi emerge che:
• 3.549 Comuni hanno già superato l’obiettivo della Direttiva Europea in aumento del 13% rispetto al 2014 e del 58,29% rispetto al 2013;
• lieve aumento (+0,78%) della produzione dei rifiuti urbani nel 2015, 512 kg per abitante;
• percentuale di raccolta differenziata (+3,32%) che cresce più velocemente rispetto a quella di avvio al riciclo (+1,77%), differenza dovuta alla qualità dei materiali raccolti;
• Le Regioni che nel 2015 hanno già superato la percentuale del 50% di materiali avviati a riciclo sono Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Marche, Sardegna e la “new entry” Valle D’Aosta; la Campania, la Toscana e l’Abruzzo sono invece prossime al raggiungimento dell’obiettivo;
• L’intercettazione pro capite di raccolta differenziata segna un +7,90% con 253 kg per abitante, sia pur con grandi differenze fra Regione e Regione: si passa dai 357 kg della Liguria ai 54,81 della Sicilia;
• Grazie all’incremento delle quantità di rifiuti avviati al riciclo, si sono evitate emissioni di CO2 equivalenti pari a 1.792.064 tonnellate, un dato in aumento del 32,75%;
• un aumento della quantità dei materiali conferiti ai Consorzi del Conai e reimmesso nei cicli produttivi, ma anche un leggero peggioramento della qualità dei materiali raccolti sinonimo di costante necessità di informazione ai cittadini.
Il rapporto completo è disponibile al seguente link: http://www.conai.org/notizie/presentazione-del-vi-rapporto-anci-conai

Referendum, l’affondo di Dibba:
“Se vince il sì, al Senato solo lecchini o delinquenti”

di Lorenzo Bissi

È giunto anche a Ferrara il ‘treNo’, che sta percorrendo tutta Italia carico di grillini, ma il loro rappresentate dov’è?
Beppe Grillo non ha mostrato il suo volto a Ferrara in piazza Trento Trieste ieri pomeriggio alle 5, ma i suoi portavoce sì.
Il tour #IoDicoNo del Movimento Cinque Stelle è arrivato anche nella nostra piazza come una delle tappe incluse fra le 47 prestabilite (una per ogni articolo della Costituzione modificato dalla “schiforma”).

Nonostante il freddo e l’umidità, i cittadini hanno riempito il Listone e gli esponenti e parlamentari pentastellati hanno espresso a gran voce le loro motivazioni per il ‘no’ alla riforma proposta da Renzi, e magari per convincere gli indecisi passanti della loro opinione.
Paola Taverna, Alessandro di Battista, Roberto Fico, Riccardo Nuti, Vittorio Ferraresi, Matteo Dall’Osso, Roberta Lombardi e molti altri, provenienti da tutte le parti d’Italia, accomunati dalla voglia di spiegare i motivi per cui esprimersi contrari alla riforma costituzionale parlando direttamente alle persone, sono saliti sul palco e hanno trasmesso un messaggio di rabbia contro l’establishment, di voglia di cambiamento, e più volte hanno ribadito che non ci deve essere alcuna differenza fra loro sul palco e tutti gli altri al di fuori di esso. “Al Senato ci andranno i leccac**o, cioè i fedelissimi alle direttive del partito, o i delinquenti, per avere l’immunità parlamentare e rimanere impuniti”: queste le pungenti parole di Di Battista al microfono. E continua fino a esaurire il fiato: “di più di girare le piazze noi non possiamo fare, ora tocca a voi votare no il 4 dicembre”.
C’è chi dal palco afferma con fervore che “Il 4 dicembre è Repubblica contro Monarchia”. E i pareri contro la riforma, e più ampiamente il Governo Renzi sicuramente non scarseggiano: la propaganda sulla riforma non ha niente a che fare con il testo in sé, ormai “siamo arrivati alla ‘Repubblica dei bonus’ dove, per tenere buoni i cittadini, si elargiscono 500€ qua, 500€ là”.

Foto di Chiara Argelli [clicca sulle immagini per ingrandirle]

Eppure, forse può stupire, ma fra il pubblico c’è anche chi non è così convinto dal Movimento Cinque Stelle. Per esempio Mario, di diciotto anni, che voterà per la prima volta a dicembre, era già convinto di votare ‘no’: è d’accordo con i pentastellati sul nuovo Senato, ma trova che alle volte “abbiano una retorica da piazza, spiccia, che non approfondisce la materia del diritto”.
Anche Laura ed Ester sono in piazza già convinte del loro ‘no’, ma vogliono rafforzare le loro posizioni e trovare nuovi argomenti. La prima appoggia il Movimento, la seconda dice di amare la “sua Costituzione”, e di non trovare motivo di cambiarla.
Infine, fra il pubblico c’è anche chi è indeciso, come Francesco, che è venuto ad ascoltare il comizio per avere un’informazione più diretta: “trovo che i Cinque Stelle possano sembrare un po’ troppo sempliciotti e un po’ troppo contrari alle posizioni politiche a cui siamo abituati, però secondo me possono fare bene. Sinceramente avevo più fiducia in loro tempo fa. Sono l’unica alternativa nuova che ci rimane”, sottolinea.

Di certo il movimento di Grillo non ha convinto tutti, e tutti coloro che voteranno ‘no’ non sono stati per forza convinti da loro, ma la censura della parola ‘sì’ durante il comizio, e le dichiarazioni fatte – “Il no vincerà” – mostrano la speranza che anima i pentastellati, che anche questa volta non si sono tirati indietro e hanno preso una forte posizione sul futuro del nostro Paese.

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Bassani, quelle indicibili ferite che iniziano a guarire…

In questi giorni mi trovavo a Firenze per prendere parte al grande convegno organizzato dall’amica Anna Dolfi, tappa importante delle celebrazioni bassaniane. Il titolo era: “Gli intellettuali/scrittori ebrei e il dovere della testimonianza. Per Giorgio Bassani, “Di la dal cuore””. La tre giorni fiorentina si è svolta nei palazzi prestigiosi della città toscana: il Rettorato di Piazza San Marco, Palazzo Medici-Riccardi, Palazzo Strozzi. Ogni giornata comprendeva 16 relazioni di quaranta minuti l’una con una scansione calibratissima tra interventi di critici notissimi e di giovanissimi studiosi. Talmente fitto il programma da non lasciare spazio né al classico ‘lavarsi le mani’, né alle pause caffè, anche se non di proporzioni simili alle uscite dei lavoratori di certe istituzioni pubbliche. Eppure i ragazzi non mollavano: accampati per terra se le sedie erano finite o ammucchiati negli angoli dove attenti non si concedevano i doverosi bisbigli concessi alla loro età ma di cui invece approfittavano i maturi relatori. E proprio nella Sala Ferri di Palazzo Strozzi, la mitica sala di tanti convegni, dove ancora il ricordo indugiava sulla presentazione che feci di Andrea Camilleri che proprio in quell’occasione rivelò il suo netto distinguo da Berlusconi al potere, mi accingevo a parlare con un nodo alla gola poiché sapevo dalla televisione che da poche ore Donald Trump era stato eletto presidente degli Usa.
E allora decisi di non seguire la traccia della conferenza che tra pochi mesi sarà pubblicata negli atti, ma di portare una testimonianza, quella che comportava il ricordo di una conoscenza dell’ebraismo nata e scandita nel tempo e che mi portò alla comprensione di quel particolare strumento critico che è il dovere della testimonianza nella storia e per la storia: per quel che può valere la mia personale esperienza. Il giorno avanti un giovane studioso Dario Collini, che ringrazio per la generosa disponibilità del testo da lui studiato, citava una frase dal manoscritto di Otto ebrei , il celebre racconto di Giacomo Debenedetti, poi cancellata nell’edizione a stampa: “Quello che […] può addolorare [gli ebrei] nel profondo, è proprio questo: di rimanere un “caso” che graffia sottilmente, come una vellutata zampa di gatto, l’epitelio della ferita recente non del tutto rimarginata […]”.
La coincidenza con il titolo del saggio di Roberto Cotroneo che ha curato l’edizione dei Meridiani delle “Opere” di Bassani, La ferita indicibile salta dunque agli occhi. Ma perché, se questa è la condizione del testimone, i disguidi della storia hanno permesso che la rammentassi proprio nel giorno delle elezioni del più incomprensibile tra i probabili candidati al trono del mondo?
Quindi decisi che il mio intervento poteva e doveva diventare testimonianza da dedicare a chi per primo mi fece conoscere le fondamenta dell’ebraismo: Guido Fink. Con una serie di date:
1938 sono nato nell’anno delle leggi razziali da una famiglia assai numerosa che comprendeva tra gli zii materni, sei, due future medaglie d’oro, un potentissimo gerarca amico di Italo e di Lino Balbo e un altro, mai conosciuto, accoltellato nel 1924, lui fascista della prim’ora da un gruppo di comunisti. Alla fine della guerra ricordo il nonno che ci trascina al Cimitero per scalpellare dalla facciata della cappella di famiglia i fasci che troneggiavano sul timpano. I bombardamenti di Ferrara portano al fallimento l’attività edilizia del nonno e da una solida agiatezza piombiamo in una quasi miseria. La mamma s’impiega al consorzio canapa.
1948 Ci riuniamo nella casa di Guido Fink di fronte alla Sinagoga di via Mazzini. Guido è compagno di mio fratello e ha scritto una commedia che dovremmo recitare: una serie di cavalieri il cui status è rappresentato dalle mutande lunghe di fustagno dei nonni ed io il più piccolo e dalla voce ‘scirlenta’ ero naturalmente la principessa da conquistare con in testa una parrucca di lana blu che la mamma di Fink aveva confezionato da una matassa di lana. Dopo le prime battute siamo presi da un ‘fou rire’ e ci trasferiamo nella camera di Guido dove troneggiano meravigliosi giocattoli. Chiedo a Guido chi gli dava tali bellissimi doni. Mi risponde che era il suo papà. Alla richiesta di sapere dove si trovava un tale padre Guido risponde: “viaggia sempre”. Scendiamo le scale e mio fratello mi fa leggere dove si trovava il padre di Guido, il cui nome era scolpito nella lapide in via Mazzini accanto alla Sinagoga in cui erano ricordati tutti gli ebrei ferraresi che non sono tornati dai campi di concentramento.
E da quel momento nel mio immaginario il nome di Fink, legato a quello di Bassani che fu suo insegnante nella scuola ebraica di Via Vignatagliata quando le leggi razziali li espulsero da quelle pubbliche, si connette con quello di Claudio Varese che mi presta i libri dello scrittore ferrarese fino al 1962 quando, benché febbricitante, assisto alla presentazione del Giardino dei Finzi-Contini con la conseguente polemica sulla figura della ‘vera’ Micòl. Apprendo a distinguere tra diverse anime degli ebrei, alcuni legati a una specie di ferraresità che si fa rancore, altri invece che operano culturalmente nella città per portarla ad un ruolo culturale eccezionale. E basterebbe citare figure come Paolo Ravenna, Giuseppe Minerbi, Renzo Ida e Geri Bonfiglioli tra gli altri che operano nella piccolissima comunità ferrarese mai più ripresasi dopo la Shoah. La conoscenza diretta di Bassani avviene dopo il 1968 quando, ormai inserito nel mondo accademico fiorentino, partecipo alle lezioni che Claudio Varese organizza al Magistero di Firenze per presentare la figura dello scrittore il quale vanta una lunga e straordinaria conoscenza della città già dai tempi della guerra quando fuggito da Ferrara dopo il ’43 si reca con la famiglia a Firenze dove collabora con Carlo Ludovico Ragghianti alla nascita del Partito d’azione e svolge una importante azione resistenziale. Di lì a poco l’arrivo a Roma che diverrà la sua città fino alla morte.

I ferraresi a Firenze sono davvero decisivi per la vita culturale di quella città che ancora si presenta come il luogo determinante per la cultura del Novecento: da Lanfranco Caretti che detiene la cattedra di Letteratura italiana alla Facoltà di Lettere a quella di Claudio Varese che la occupa a Magistero. E i ferraresi che Bassani descrisse nel racconto Omaggio che apre il suo primo romanzo, Una città di pianura, apparso in “Letteratura” nel 1938 e pubblicato nel 1940 sotto lo pseudonimo Giacomo Marchi in parte si riuniscono nella casa di Varese. Sono Guido Fink e sua moglie Daniela, Lina Dessì, il poeta Rinaldi e ancora Giovannelli o Pinna i compagni di studio e di vita del giovanissimo Bassani a Ferrara. Nel frattempo la mia casa fiorentina per 25 anni diventa quella sui colli di Bellosguardo, dove incontro non solo i protagonisti della stagione dei cosiddetti anglo-beceri ma anche i personaggi legati alla vita dello scrittore ferrarese. L’architetto Berardi, tra i progettisti della stazione di Santa Maria Novella, che costruisce a Bassani la sua casa di Maratea e che gli offre nella sua casa di Fiesole un bune retiro, sposerà la figlia di Arnoldo Mondadori, Mimma, per cui tra le ragioni della pubblicazione finale del Romanzo di Ferrara presso Mondadori sta questa amicizia. A Firenze vivono anche i figli di Jenny Bassani Liscia, l’amata sorella dello scrittore, che s’imparenteranno con la mia vice-madre fiorentina. Frattanto a Ferrara nascono le occasioni di un doveroso e importante omaggio all’autore che ha reso celebre Ferrara. La laurea honoris causa in scienze naturali del 1992; il convegno “Bassani e Ferrara, le intermittenze del cuore”, curato da Alessandra Chiappini e da chi scrive queste note, tenuto l’anno successivo alla Biblioteca Ariostea, che voleva essere l’atto riparatorio che la biblioteca intendeva fare nei confronti dello scrittore allontanato nel 1938 dalla stessa biblioteca a causa delle leggi razziali.
In quegli anni Francesco Guzzinati invita il suo antico compagno di banco al Liceo Ariosto di Ferrara, Giorgio Bassani, a parlare al Rotary di Ferrara della sua vita liceale . Al Liceo Bassani ebbe come compagni di banco e Lanfranco Caretti e lo stesso Francesco Guzzinati, due persone che fino alla fine furono legati di amicizia ‘ferrarese’ con il grande scrittore.
Un’altra intermittenza del cuore è legata alla celebrazione nel 2002 presso la Sinagoga italiana di via Mazzini del quarantennale dell’edizione del Giardino dei Finzi-Contini. In quell’occasione la sorella Jenny racconta e spiega i ‘bocconi’ che si gustano alla cena della Pasqua ebraica ed Enrico Fink, figlio di Guido, ingegnere spaziale che ha scelto di dedicarsi al teatro canta la filastrocca rituale in dialetto ferrarese del Caprét ch’avea comperà il signor Padre.
Ora si stanno per aprire le grandi celebrazioni bassaniane che occuperanno un’intera settimana e si concluderanno con la proclamazione dell’importante premio Bassani voluto da Italia Nostra.

L’inizio dei lavori del Meis, la Fondazione Bassani, la donazione del manoscritto del Giardino dei Finzi-Contini, la ristrutturazione della meravigliosa casa Minerbi, luogo di riunione tra Bassani, Paolo Ravenna e il proprietario della casa Beppe Minerbi, a cui lo scrittore dedicherà la prima edizione de L’airone, che è diventata sede dell’Istituto di Studi Rinascimentali e del Centro studi bassaniani, voluto quest’ultimo dalla generosissima donazione che Portia Prebys ha fatto al Comune di Ferrara e dove si potrà studiare tutto ciò che è stato scritto di e su Giorgio Bassani. Questo è ciò che per ora la città protagonista del suo romanzo ha voluto dedicare al suo illustre figlio.
Ferrara sta per rimarginare la ferita indicibile.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
La pedagogia del difficile

C’è sempre un occhio severo, un poco calvinista, pronto a dichiarare che difficile è meglio. Che difficile è più merito, è più formativo. È la pedagogia degli aggettivi che non si sa da che parte ripongano i loro significati, se non nella mente di chi li usa.
Io preferisco la pedagogia dei sostantivi e dei predicati. Tipo il sostantivo “studio” e il predicato “studiare”, cosa si studia e come si studia.
Quando si dice che lo studio e l’apprendimento devono essere difficili, cosa si intende? Si tratta di scegliere tra i vari aggettivi che fornisce il dizionario. Lo studio e l’apprendimento devono essere malagevoli, faticosi, incomodi, pericolosi, scabrosi, calamitosi (addirittura), indocili, intrattabili, angolosi, irritabili?
Vi rendete conto, se studiare ed apprendere comportassero tutti i sinonimi dell’aggettivo difficile, bisognerebbe apprestarsi come per affrontare una guerra.
Certo che facile è tutto un altro approccio. Facile ti viene incontro, facile si presta ad essere fatto, è agevole, pieghevole, trattabile, condiscendente, probabile, verosimile, dichiara il dizionario.
Allora studiare deve essere difficile? Perché rende virili nello studio, perché difficile è democratico e chi ha più virilità d’approccio potrà emergere sugli altri?
È l’idea che la fatica premia, con questa logica i facchini dovrebbero essere in cima alla scala della riuscita sociale.
Ma fatica intanto è un sostantivo e non un aggettivo come difficile. È sostanza e non qualità. Fatica è anche un predicato dello studio, quello serio, impegnativo per raggiungere un obbiettivo di apprendimento o una competenza. «Lo studio è fatica»: soggetto e predicato. È vero, non esistono scorciatoie per lo studio, stare ore sui libri, arrovellarsi per apprendere, per comprendere, per memorizzare, per progredire è davvero fatica. Fatica è patos, è partecipazione, è attendere con assiduità a qualcosa, è sforzo, è emozione. Ma cosa c’entra con tutto ciò il difficile, non è assolutamente detto che fatica significhi malagevole, scabroso, calamitoso.
C’è un bellissimo libro, forse un poco datato, ma ancora valido di Benjamin Bloom, di cui consiglierei la lettura o rilettura ai pedagogisti del difficile, Caratteristiche umane e apprendimento scolastico, in cui l’autore tratta delle variabili dell’apprendimento: motivazione, tempo, caratteristiche del compito, il “difficile” come si noterà non è considerato. L’esito di ogni apprendimento umano dipende dalla natura di queste tre variabili.
La pedagogia del difficile scarica minacciosamente e moralmente ogni responsabilità sul singolo soggetto, senza tenere conto di storie e contesti.
Le nostre scuole e le nostre università vivono di compromessi didattici al ribasso, per cui i pedagogisti del difficile morale e gratuito spersonalizzano ogni storia personale ed ogni contesto.
Ogni individuo non è solo un’isola ma una situazione, una somma di situazioni, una narrazione. Entrando a scuola o all’università non è possibile che ogni studente lasci fuori dalla porta la sua storia, come hanno sempre preteso i sistemi scolastici tradizionali, con le classi e le aule, ogni individuo è se stesso con le proprie variabili la cui natura dipende dalle storie personali e le variabili sono proprio quelle di Bloom: la motivazione a, l’interesse per il compito, il tempo necessario. Sono queste le armi che sconfiggono il difficile che lo svuotano di significato, sono queste le armi che fanno di uno studente non qualcuno che cerca scorciatoie o il voto facile, ma qualcuno che apprende ad apprendere perché motivato, perché coinvolto dal compito, perché disposto a impegnare tutto il suo tempo e anche di più.
È più facile che sia la scuola a tradire il tempo d’apprendimento dei suo studenti che viceversa, perché ancora indifferente alla forza rivoluzionaria delle motivazioni, del coinvolgimento, del suscitare interesse e passione, perché spesso la natura dei compiti è incomprensibile ed estranea alle aspettative dei suoi alunni, perché i tempi sono contingentati, sincopati dalla dittatura dei programmi e degli orari.
Il difficile non è rivoluzionario, perché accresce la zavorra di chi è già carico di suo del peso degli svantaggi sociali. Altra cosa è accogliere ed accompagnare, altra cosa è incontrare le storie nel viaggio verso i saperi.
Ma tutto questo è un terreno troppo “difficile” per scuola e università che preferiscono, anziché affrontare le proprie responsabilità, imboccare la scorciatoia della pedagogia del difficile o il disimpegno del facile.

A Ferrara grande successo per la cannabis
Oltre 1400 firme per la legalizzazione.

Da: Organizzatori

Cannabis: consegnate le firme per la legalizzazione alla Camera, oltre 1400 da Ferrara
La proposta di legge di iniziativa popolare ha raggiunto il quorum richiesto. Ora tocca al Parlamento.

Ieri Radicali Italiani e Associazione Luca Coscioni, promotori di Legalizziamo!, insieme alle altre organizzazioni che sostengono la campagna, hanno consegnato alla Camera dei deputati le oltre 60 mila firme raccolte in sei mesi sulla legge popolare per la legalizzazione della cannabis e la decriminalizzazione dell’uso personale di tutte le sostanze. Alle 11 si è formata un corteo in fila indiana, con gli scatoloni pieni di firme, dalla sede radicale di via di Torre Argentina in direzione Montecitorio, dove si è tenuta la conferenza stampa prima del deposito presso gli uffici della Camera. Erano presenti, tra gli altri, Riccardo Magi (segretario di Radicali Italiani), Marco Cappato (tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni), Marco Perduca (coordinatore della campagna Legalizziamo), Filomena Gallo (segretario dell’Associazione Luca Coscioni), Antonella Soldo (presidente di Radicali Italiani), Luigi Manconi (Senatore del PD), Pippo Civati (Deputato e leader di Possibile), Hassan Bassi (Forum Droghe), Leonardo Fiorentini (FuoriLuogo e Società della Ragione), Andrea Trisciuoglio (La PiantiAmo), Luca Marola (coordinamento nazionale e portavoce growshop italiani).
Per Fiorentini, rappresentante anche del Comitato promotore locale ferrarese, “è stato un grande successo. Si tratta della più grande campagna antiproibizionista da quella del referendum del ‘93 sulla Jervolino–Vassalli. A Ferrara abbiamo raccolto oltre 1400 firme (1414 per l’esattezza) superando in scioltezza l’obiettivo iniziale delle 1000 firme. Vanno ringraziati tutti i volontari che da Ferrara a Roma hanno permesso di raccogliere le firme ai banchetti e poi ottenere i certificati elettorali per un procedimento democratico di partecipazione popolare imbrigliato da una inaccettabile, nel 2016, burocrazia.”
“La strada della regolamentazione legale della cannabis è la via maestra per la riforma delle politiche sulle droghe. – continua Fiorentini ricordando i recenti risultati dei referendum in USA – Una via intrapresa ormai con convinzione anche nella patria della War on Drugs, gli Stati Uniti d’America, dove questo martedì altri 4 stati (fra cui la California) hanno legalizzato la cannabis per gli adulti, mentre sono ormai più di 30 gli stati in cui è legale la marijuana terapeutica”.
“È evidente che anche il nostro paese, dove tuttora oltre il 50% dei reati per droga e delle operazioni di polizia è legato ai cannabinoidi, è maturo per arrivare alla regolamentazione legale di una sostanza molto meno dannosa di alcol e tabacco. Essa avrebbe solo effetti positivi. Sui consumi in primis, che sarebbero più sicuri e controllati, e nel medio-lungo termine tenderebbero a calare, come avvenuto ovunque si è proceduto a depenalizzazioni e legalizzazioni. Ma anche sul sistema della sicurezza e della giustizia ora appesantito da una mole incredibile di lavoro che impegna in una inutile repressione le forze dell’ordine (come recentemente ribadito dalla Direzione Nazionale Antimafia) e intasa i tribunali (quasi 200.000 i processi penali pendenti per fatti di droga). E oltre a liberare risorse utili a garantire veramente la sicurezza dei cittadini – invece che stanare coltivatori di qualche piantina di cannabis per uso personale – la regolamentazione legale della cannabis renderebbe disponibili nella casse dello Stato una enorme quantità di denaro – dai 5 ai 10 miliardi di euro – ora appannaggio della criminalità organizzata.”

Incontro sulla riforma costituzionale

Da: Gruppo Cittadini Economia Ferrara

Sabato 19 novembre alle 17, nella sala teatro del Centro di Promozione Sociale ‘Il Parco’ in via della Canapa 4, il Gruppo Cittadini Economia di Ferrara ha organizzato un incontro con l’avvocato Giuseppe Palma dal titolo ‘Riforma Costituzionale. Diciamo NO per cambiare!’.

Gli organizzatori hanno l’obiettivo di spiegare perché sia importante esprimersi per il NO ma che questo vada fatto con la consapevolezza che la nostra Costituzione è già stata ampiamente accantonata. E’ già stata messa in condizione di non tutelare il lavoro, la dignità del cittadino, il credito, lo sviluppo sociale, la tutela della sovranità, la nostra indipendenza dai mercati finanziari e dai grandi interessi di multinazionali e autorità sovranazionali. Quindi il messaggio è: un semplice NO non basta. Deve essere il NO di chi vuole un reale cambiamento e non la certificazione dell’impotenza della nostra Carta Costituzionale. Un NO che sia un No a quegli interessi che palesemente non sono gli interessi della gente. Un NO che ci faccia crescere come cittadini, un NO per il cambiamento reale, prima di tutto della nostra coscienza nei confronti delle Istituzioni. Un NO per cambiare.

Le Schede:

Il Gruppo Cittadini Economia di Ferrara è una libera associazione di cittadini impegnati sul territorio ferrarese a studiare e approfondire i temi dell’economia. Per comunicazioni e informazioni scrivere a gruppoeconomia.fe@gmail.com

L’Avv. Giuseppe Palma vive e lavora a Milano dove svolge la sua professione di avvocato, ha scritto diversi libri (ad oggi 19) tra cui ‘Il tradimento della Costituzione’ e ‘Figli destituenti’, vari articoli e papers non solo su argomenti giuridici e costituzionali e ha pubblicato un progetto di riforma del codice di procedura civile (Diritti & Diritti, 2014) e due papers, l’uno sull’incompatibilità tra la Costituzione e i Trattati dell’Unione Europea (Diritto e Diritti, 2015), l’altro sull’incompatibilità tra la Costituzione e l’eventuale costruzione degli ‘Stati Uniti d’Europa’ (Diritto Italiano, 2015). Scrive per il blog scenarieconomici.it e per le riviste Diritto & Diritti, Diritto Italiano, Diritto e Processo e Fanpage.it.

Un anno dopo al Bataclan
La testimonianza di Alexandra Dadier :” A Parigi vince la vita”

Se il 13 novembre 2015 a Parigi non fosse successo ciò che è tragicamente successo, non in così tante persone, in Italia, avrebbero conosciuto il nome del locale parigino “Bataclan”. A Parigi invece il Bataclan è un luogo di culto e generazioni di francesi sono cresciute ascoltando i concerti che lì si organizzano. Il 13 novembre dello scorso anno, a Parigi, era una serata mite, il clima dolce invogliava i parigini a stare fuori per bere un calice di vino, consumare una cena, guardare una partita di calcio o ascoltare della buona musica appunto. Era una bella serata, fino alle 21.20, ora in cui c’è stata la prima delle numerose esplosioni che avrebbero cambiato il corso della storia. Parigi è sotto assedio e la Francia in guerra: una serie di attacchi terroristici di matrice islamica vengono sferrati quasi in contemporanea da un commando armato collegato all’autoproclamato Stato Islamico, comunemente denominato ISIS.

Gli attacchi armati si concentrano nel I, X e XI arrondissement della capitale francese e allo Stade De France a Saint Denis e al Bataclan, appunto, dove centinaia di persone assistono al concerto della band californiana Eagles of Death Metal. E’ una strage, la fine dell’innocenza per una intera generazioni di giovani: 130 persone perdono la vita, quasi tutti avranno un conoscente, un amico, un parente colpito dalla strage. Alexandra Dadier, laureata in Storia a La Sorbonne, attrice e registra teatrale da oltre vent’anni, docente alla Universitè Paris Dauphine, ha vissuto dal 1997 al 2002 a Ferrara dove si occupava di regia teatrale. Alexandra era a Parigi il 13 Novembre e non potrà mai dimenticare: “Ero a casa mia, vicino all’Arco di Trionfo, in cucina, e poco dopo le 21 ho sentito passare un elicottero a bassa quota. Ho capito subito che fosse successo qualcosa di grave. Conosco il mio cielo e quell’elicottero era messaggero di tragedia. Poi ho acceso la tv e le immagini che ho visto mi hanno confermato che la mia sensazione era giusta, purtroppo. E’ stato uno shock, non posso definire in altro modo lo stato d’animo di quella notte. Insegno all’università e il mio pensiero è andato ai miei studenti e ai giovani come loro che so affollare le vie del centro per bere qualcosa e stare insieme. Il clima era stupendo, dovevano essere fuori di sicuro. Si sono salvati perché c’era così tanta gente che sono dovuti andare da un’altra parte. E’ stata questione di dieci minuti”.

Il Presidente Hollande parla in tv: la Francia è in guerra e le frontiere vengono chiuse. Dopo lo stadio e i ristoranti viene colpito il Bataclan ed è una strage. Persone ferite che si calano dalla finestra o escono zoppicando dalle porte di sicurezza in cerca di salvezza mentre dentro il locale il pubblico inerme di un concerto rock cade sotto i colpi di kalashnicov degli attentatori. “Il Bataclan è un posto mitico per noi parigini: un luogo dove assistere a magnifici concerti. Quante volte ci sono andata – ricorda Alexandra – E’ un posto con un’anima. Le immagini della strage mi sono rimaste dentro e sono rimasta chiusa in casa tutto il weekend pensando a cosa dire e come far parlare i miei studenti di ciò che era capitato. Il ritorno all’università il lunedì successivo alla strage è stato surreale: ci guardavamo, i loro volti erano spettrali, le espressioni tirate”. Il ritorno alla “normalità” è stato graduale: “Per mesi ho evitato i luoghi eccessivamente affollati e nel prendere la metro si faceva tanta attenzione: si osservava tutto, una borsa, un particolare fuori posto. In giro c’erano diverse forze armate ma non abbiamo mai avuto la sensazione di una città militarizzata. Il messaggio che si voleva dare ai cittadini era di normalità ma, di sicuro, dovevano esserci diversi poliziotti in borghese per non dare nell’occhio.

Poi la vita ha preso il sopravvento e siamo andati avanti, non potevamo fare diversamente”. Proprio oggi, simbolicamente, il Bataclan verrà riaperto al pubblico con un concerto di Sting. La scelta della data, ad un anno esatto dalla strage di Parigi, non è casuale; è la riprova che, a fronte della tragedia vissuta, il popolo francese vuole fronteggiare il terrore con la celebrazione della vita. Per la Dadier “I terroristi hanno voluto colpire i nostri valori fondanti: Egalité, Fraternité e Liberté. Prima Charlie Hebdo e la libertà di espressione, poi il Bataclan, i ristoranti, lo stadio: tutti i luoghi di socialità e divertimento. Poi c’è stata Nizza e siamo ripiombati nel terrore puro. Non ne siamo usciti, abbiamo pensato tutti. Mi trovavo a pochi chilometri da Nizza durante la strage. Un mio caro amico è stato coinvolto direttamente: è uno psicologo e si trovava lì, quando famiglie, anziani, donne e bambini venivano falcidiate sulla Promenade des Anglais. Ha prestato soccorso fornendo assistenza psicologica ai sopravvissuti”.

Ad un anno dalla vittoria della morte sulla vita, questa sera a Parigi si celebra la vita con la musica.

Da Venezia all’Apollo, il film con attori ferraresi

Da: Organizzatori

Mercoledì 16 novembre alle ore 21.15 presso la sala 1 del cinema multisala Apollo sarà proiettato il film La madre distratta del regista rodigino Ferdinando de Laurentis, tratto dall’omonimo libro di Nicoletta Canazza.

Un film prettamente ambientato nel Polesine, ma alcune riprese sono state girate a Vigarano Mainarda, che vede sia nel cast degli attori che nello staff a fianco del regista numerose figure ferraresi. Infatti i personaggi su cui si articola l’intera storia sono interpretati da due professionisti ferraresi che fanno del teatro e del cinema la loro passione:Rita Lovato e Paolo Garbini. Ferraresi sono anche Daniela Patroncini e Lea Maioli e le tante comparse tutte in egual modo importanti e altre persone che sono state dietro la macchina da presa o a fianco del regista come la segretaria di produzione Catia Pignatti, la costumista Daniela Campaci, il fotografo Fabio Possanza, Alessandro De Luigi e Francesco d’Avossa nel ruolo di operatori e assistenti alla regia e Erika Vincenzi make up and hair style.
Figuranti d’eccellenza in questo lungometraggio sono stati Iarin Munar (batterista degli Stadio), Sergio Ballo (scenografo vincitore di un David di Donatello e costumista per il serial I Borgia ), la senatrice Emanuela Munerato, il campione di pugilato Marcello Matano e l’attore-regista Giuliano Scaranello.

La madre distratta porta sul grande schermo un argomento di grande attualità come quello della maternità, ma una maternità vista ai tempi nostri, quando una donna può anche essere tanto distratta dal suo futuro, dalla sua carriera da perdere il senso della maternità, una donna che non si fa coinvolgere dai sentimentalismi delle altre mamme anche se amiche, che non si emoziona  davanti ai bambini, una donna consapevole delle difficoltà che il mondo attuale presenta a chi vuole essere madre, una donna che comunque prova ad accontentare il suo uomo e a non deludere le aspettative della famiglia, e alla fine però di un doloroso percorso fatto di medici, delusioni, frustrazioni, rinunce, scopre  quello che veramente vuole e riesce a scegliere per se stessa andando oltre le consuetudini della vita cosiddetta normale.
Domenica 4 settembre 2016 il film La madre distratta ha ricevuto all’Hotel Excelsior del Lido di Venezia(spazio Regione del Veneto durante la 73esima Mostra del Cinema di Venezia) il ‘Premio Speciale della Critica’, un riconoscimento alla sua prima edizione, patrocinato dalla Ferrara Film Commission, che è stato consegnato al regista Ferdinando De Laurentis dal Presidente onorario della Ferrara Film Commission, il giornalista, critico e storico del cinema,Paolo Micalizzi. La motivazione della giuria di tecnici che ha avuto il compito di valutare quale opera fosse meritevole di rappresentare il territorio della provincia padana, è stata la seguente: ‘La madre distratta’ di Ferdinando De Laurentis è un film che ha la capacità di raccontare la provincia padana focalizzando l’attenzione su un tema di alto valore sociale, di particolare attualità – la procreazione assistita – ricreando le atmosfere del neorealismo degli arbori in piena tradizione cinematograficaitaliana, e ha inoltre il merito di citare Federico Fellini proponendo un’intervista inedita di Tonino Guerra realizzata dal regista De Laurentis nel 1989”.

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=LJik7DrwShI
Evento facebook: https://www.facebook.com/events/520991874763181/

Per informazioni: info@ferrarafilmcommission.it
Tel. 349.3607852

LA RECENSIONE
Il Paradiso ai piedi delle madri

Può il linguaggio della danza essere così universale e interculturale da permettere a un uomo di interpretare il principio femminile e renderlo comprensibile al di là dei ruoli di genere nelle diverse società?
A questa domanda ha tentato di rispondere il coreografo e danzatore di origini tunisine Radhouane El Meddeb, che ha portato a Ferrara in prima nazionale e in esclusiva per l’Italia il suo “Sous leurs pieds, le paradis”, ultimo appuntamento del ciclo Focus Mediterraneo, dedicato dalla Fondazione Teatro Comunale Claudio Abbado ai linguaggi della danza di questo Mare Nostrum.

Già ospite della città estense nel 2012 con “Je danse et je vous en donne à bouffer”, pièce coreutica e gastronomica insieme, Radhouane El Meddeb in questo lavoro affronta il tema della donna, della maternità e della femminilità, partendo dallo statuto speciale assegnatole dalla tradizione profetica islamica, che pone “il Paradiso ai piedi delle madri”: perché l’uomo diventa padre semplicemente assecondando il proprio istinto, mentre la donna dà la vita rischiando la propria vita, con generosità nutre il corpo che cresce dentro di lei con il proprio corpo e poi assolve al proprio compito di cura con generosità e sacrificio.
Nell’incontro con il pubblico al termine dello spettacolo, coordinato dal critico di danza Elisa Guzzo Vaccarino, El Meddeb spiega che la performance è nata nel 2009, dopo la perdita del padre al quale era molto legato: “in quel periodo ho passato molto tempo con mia madre, l’ho conosciuta, l’ho osservata ed è nato il desiderio di danzarla”. Il risultato è questa coreografia, scritta a quattro mani con Thomas Lebrun, esponente della nouveau dance d’Oltralpe, un omaggio “a mia madre, alle mie sorelle, a tutte le donne arabe, molto attive al giorno d’oggi nelle battaglie sociali, ma nello stesso tempo sempre a latere”, mai al centro della scena, come invece accade nello spettacolo. Contemporaneamente, ha continuato El Meddeb, “danzo la mia parte femminile” e in questo modo “la mostro e la accetto come parte di me”: “grazie alla danza si può ballare e incarnare tutto ciò che vogliamo essere e che vogliamo dire, perché la danza racconta l’essere umano”.
Per questo, che vuole un omaggio alla figura femminile anche nella sua forza e complessità, ha scelto una figura simbolica, “la diva” per eccellenza del mondo arabo: la cantante egiziana Oum Kalthoum. È la sua voce potente e struggente ad accompagnare la danza di El Meddeb, nell’interpretazione dal vivo di “Al Atlal”, poema d’amore in lingua araba classica, scritto appositamente per lei dal poeta egiziano Ibrahim Naji. Oum “è un esempio di femminilità”, ha spiegato al pubblico il coreografo tunisino, ma nello stesso tempo di forza, indipendenza, al di fuori dei ruoli di genere tradizionali: “da giovane leggeva il Corano vestita da uomo nelle moschee”, “si dice addirittura che amasse le donne”.

Sul palco il coreo-danzatore alterna la danza a momenti di pausa, quasi volesse dare allo spettatore il tempo di metabolizzare ciò che sta vedendo; invoca il paradiso alzando le mani al cielo e offre qualcosa di sé al pubblico con ampi movimenti che partono dal suo corpo, gira su sé stesso come un derviscio. El Meddeb usa la danza mediorientale, ma epurata di stereotipi e riferimenti etnici puntuali, raggiungendo un notevole grado di astrazione, aiutato in questo anche dalla sobrietà dell’allestimento: semplice, nero, con le luci a vista. In un tempo che è come sospeso, questa coreografia è un’intuizione, una messa in contatto con qualcosa che è in ognuno di noi, che ci è famigliare, ma che non riusciamo a cogliere razionalmente.
Sul fondo della scena spicca per candore e morbidezza un enorme telo bianco: come un grembo materno e come un sudario avvolgerà il corpo nudo del danzatore, abbandonatosi a quell’amore puro e incondizionato che solo una madre può offrire.

Folla in facoltà per Pepe Mujica, il presidente ‘rock’: “Lottate per la vostra felicità”. E Trump? “Aiuto”

Josè “Pepe” Mujica arriva nel pomeriggio di ieri, poco prima delle 16, alla Facoltà di Economia di Ferrara, ed è accolto da grida e applausi degni di una rockstar. D’altra parte come lui stesso dice: “Sono come i Rolling Stones: sono vecchio ma attraggo tanti giovani”.
Sono centinaia le persone che si accalcano lungo la scalinata e nell’androne della facoltà e acclamano a gran voce una conferenza in piazza, tanti coloro che aspettano di sentire Pepe. Tantissimi giovani, a riprova che il pensiero controcorrente, rispetto alla società capitalista e tecnologizzata di cui sono i figli, trova anche in loro terreno fertile. Pensiero controcorrente di un ex Presidente dell’Uruguay sicuramente diverso da qualsiasi idea si abbia di un Capo di Stato. Mujica, ex guerrigliero e carcerato per motivi politici, è diventato famoso come il ‘Presidente più povero del mondo’, avendo deciso di rinunciare all’80% del suo stipendio per donarlo a numerose associazioni non governative e a tante persone bisognose.
Allo stesso modo decise di continuare a vivere nella sua fattoria poco fuori Montevideo invece che nella residenza presidenziale.

Josè Mujica è in Italia per una serie di conferenze e per promuovere il libro di Andrés Danza e Ernesto Tulbovitz ‘Una pecora nera al potere’. L’accoglienza del pubblico ferrarese è calorosa e oltre l’Aula Magna, e le tre sale messe a disposizione per il collegamento streaming, è stato organizzato anche un mega schermo nell’androne della facoltà, per cercare di non scontentare le tantissime persone che non erano comunque riuscite a trovare posto a sedere.
Pepe Mujica parla ed incanta la platea con parole semplici che vanno dritte al punto della questione : L’uomo, come lo definiva Aristotele, è un animale politico. Come esseri umani abbiamo bisogno gli uni degli altri ed è per questo motivo che l’uomo si è riunito a formare una società, che a sua volta ha creato la civiltà. Le civiltà cambiano a seconda del periodo storico, dal feudalesimo alla rivoluzione francese fino alla borghesia industrializzata, fino ai nostri giorni: la civiltà del consumismo. La nuova religione è il mercato e noi siamo drogati di consumismo, anche se si tratta di una droga leggera e dolce”. Mujica è fermo nel suo ragionamento: “Più aumentano le nostre necessità, più aumenta il bisogno di guadagnare per soddisfarle. La roba costosa la compriamo pagandola con il nostro tempo. Non si tratta di una apologia della povertà ma di chiedersi chi siamo e cosa vogliamo”.

Mujica ci invita a considerare che il tempo libero non più sacrificato sull’altare del materialismo ci servirebbe per coltivare ciò che nella vita ha reale valore: gli affetti. L’amore, l’amicizia, la vita. Insiste: “Quale sarà il nostro premio finale? Il buco nero dove finiremo tutti? Il premio è la vita. Non possiamo comprare la vita al mercato. Dobbiamo lottare per la nostra felicità, come gli uccelli che si svegliano al mattino e sono pronti a lottare fino allo sfinimento per una briciola di pane. Noi dobbiamo lottare per una vita felice. Le condizioni esterne non possono determinare il corso della nostra vita: dobbiamo vivere come pensiamo e non viceversa”.
Piovono applausi diretti a questo uomo, nonno dei giovani come si definisce lui stesso, dall’aspetto mite ma dal grande carisma. Chiara e diretta è la disamina storica e sociale: “I robot, le macchine, sostituiranno le persone. Potrebbe sembrare un’idea felice pensando che avremo più tempo libero mentre qualcun’altro lavora per noi. Ci sarà più ricchezza perché i robot, a differenza dei lavoratori, producono ma non consumano. Non sarà così: i robot lavoreranno per i loro padroni. Il progresso è inevitabile ma non è esente da drammi: penso sempre ai lavoratori di Chicago che, nel secolo scorso, morirono per difendere il diritto alle otto ore di lavoro. Ora il lavoro è dato per scontato, ma per tante cose ora scontate le persone hanno lottato e perso la vita. La Repubblica si fonda sul concetto che i cittadini sono tutti uguali davanti alla legge, ma ora dobbiamo essere tutti uguali anche a casa propria”.

Per Mujica gli uomini devono riscoprire il senso di comunione sociale in un periodo storico che vedo il ritorno di antichi nazionalismi:”L’America ha scelto Trump? Aiuto! E in Europa si sente dire la Francia ai francesi da Marine Le Pen.La Germania invece ha aperto le porte all’immigrazione: la Merkel non è certo una benefattrice ma ha giustamente pensato ad evitare la crisi dello stato sociale”.

Cambiare se stessi per cambiare il mondo. Ecco il messaggio con cui Pepe Mujica si congeda dal suo pubblico, e nel volto delle persone che alla fine della conferenza si riversa in strada sembra quasi di vederlo uno sguardo nuovo. Forse un inizio di cambiamento.

Il palio parte alla conquista del mondo

Per Ferrara il palio è da sempre un momento di unione, ma soprattutto di orgoglio in quanto “è uno degli elementi tipici e rievoca un periodo storico dove la nostra città era sicuramente una delle capitali del mondo sia economico che culturale”. A parlare è il Presidente dell’Ente Palio Stefano Di Brindisi, alla conferenza stampa che si è svolta questa mattina presso la Sala dei Comuni del Castello Estense.
L’intento della conferenza era promuovere ‘Cittadino nel mondo’ l’iniziativa che vede come fulcro principale uno scambio di opinioni e di vedute fra le Istituzioni di Ferrara e il Corpo Consolare dell’Emilia Romagna che si terrà sabato 12 alle 10.30 presso la Sala dei Comuni.
Prosegue il Dott. Di Brindisi “l’intento di questo evento è dare la possibilità al mondo del palio di iniziare quel percorso di internazionalizzazione per far conoscere questa bellissima realtà al di fuori delle nostre mura”
Il palio è risultato l’argomento di principale rilevanza, in quanto ha grandi potenzialità e sta a cuore ai cittadini ferraresi.

Il Corpo Consolare è un’associazione no-profit con lo scopo di promuovere ed incrementare le relazioni fra i Consoli operanti in Emilia-Romagna con i Corpi Consolari esistenti in Italia, e favorisce iniziative sociali, culturali ed umanitarie atte ad incrementare un proficuo collegamento fra i Consoli e a valorizzarne la figura e l’ opera in qualsiasi settore.
A parlare alla conferenza è intervenuto anche il Dott. Gianni Baravelli, Console di Norvegia, di Svezia e decano dell’Associazione, nonché ex sbandieratore al palio.
“Il Corpo Consolare dell’Emilia-Romagna oggi rappresenta 27 stati – prosegue Baravelli in riferimento alla giornata di sabato -. Lo scopo di questo evento è quello di dare una panoramica di quello che il Corpo Consolare potrebbe fare per la città. Ad esempio la possibilità di scambi culturali, di scambi di studio, opportunità di business. Vogliamo quindi metterci a disposizione di Ferrara affinchè diventi sempre più internazionale. ‘Cittadino nel mondo’ è la prima manifestazione che facciamo in questo format”
Non sarà possibile far convergere tutti e 27 i Consolati nella giornata di sabato, per questo ne sono stati selezionati 5, ovvero Norvegia, Svezia, Francia, Montenegro, Paesi Bassi e Portogallo”
A chiudere la conferenza, le parole del Dott. Giuseppe Landini, Segretario Generale del Corpo Consolare “Non bisogna guardare solo il proprio ‘orticello’, ma bisogna guardare sempre anche al di là e questo Ferrara l’ha fatto”.

Oriana è sempre Oriana

oriana-e-alekos-593x443Ti rifugi in una stanza, penna, carta e calamaio. Una luce. Forse oggi un notebook. Tu e la scrittura. Soli. In una simbiosi perfetta. Fuori il mondo, semplicemente. La passione dello scrittore, non del giornalista. La differenza. Ma uno scrittore e il suo sogno. Capisci, comprendi, senti condividi. L’empatia, rimanendo in uno spazio chiuso, confinato. Oriana, questo era, questo voleva essere, uno scrittore. Nel suo libro Solo io posso scrivere la mia storia, Autoritratto di una donna scomoda, questa passione permea ogni pagina, ogni riga, ogni parola, ogni singola sillaba. Ogni fatto ha la sua anima, ogni descrizione il suo respiro, una sensazione. E Oriana crede che il racconto sia la sostanza di ogni evento.

Dai suoi incontri del periodo della Resistenza, quando da bambina, di nascosto dal padre, aveva visto sfilare, a Firenze, Hitler e Mussolini, con una zia sposata a un fascista, a quelli con Soraya, Khomeini e Kissinger fino alle fangose trincee del Vietnam e alla tenda discussa di Gheddafi, emerge sempre l’anima di uno scrittore. Forse un po’ la distinzione che l’inglese riesce a fare bene, con la sua precisione: non history ma story. Un’avventura che si vive fino in fondo. E se un giornalista deve stare in strada per scrivere, vivere l’asfalto, uno scrittore ha invece bisogno del silenzio, di uno spazio chiuso dove raccogliersi e isolarsi. Oriana così ha fatto, nel tempo, per scrivere pagine memorabili come quelle dedicate ad Alekos Panagoulis, in una ricerca spasmodica della perfezione della lingua. Scrivere bene, come diceva Hemingway, è come un campo di neve privo di buche, sassi o inciampi, accarezzare gli occhi di chi legge, farlo sentire come portato via dal vento, scivolando delicatamente.

7294252_1953448Ogni parte di questo bel libro riporta nella storia, in quella vissuta emozionandosi, con la consapevolezza di avere la fortuna di fare parte. Anche l’amore, non solo quello per la scrittura, pervade l’inchiostro della penna di Oriana, quell’amore intenso per un uomo rimasto solo, il suo Alekos, dal volto di un Gesù crocifisso, un compagno di vita ucciso dai nemici del Watergate greco, incontro anche politico e intellettuale, grido d’amore e disperazione, inno alla libertà. Ma cos’è mai la libertà? “Una somma di idee non riconducibili a una singola idea, un mosaico di interpretazioni, quindi contraddizioni implicite. Forse perché, più che un concetto, la libertà è un sentimento e razionalizzare un sentimento è impossibile. … ho visto libertà ferite, anzi assassinate, in nome di quella libertà. Ho visto apostoli della libertà trasformarsi in carnefici della libertà, in nome di quella libertà. Ho visto promuovere e fare guerre ingiuste, rivoluzioni false, in nome di quella libertà”. Se poi non abbiamo anche la libertà di scegliere se nascere o meno, perché qualcun altro sceglie per noi, cosa significa veramente questa parola? La libertà in assoluto, in fondo, non esiste.

“Nella mia vita ho visto molte brutte cose. Molte. Sono nata in una tirannia, sono cresciuta in una guerra, e per gran parte della mia esistenza ho fatto il corrispondente di guerra. Per anni (in Vietnam, otto) ho vissuto al fronte. Ho seguito battaglie, ho subito sparatorie e cannoneggiamenti e bombardamenti, ho testimoniato l’umana crudeltà e imbecillità”. Questo il filo conduttore di una biografia che mai Oriana avrebbe autorizzato. Eppure questa donna scomoda, come lei stessa si definisce, non ha fatto altro che scrivere e raccontare la sua storia incredibile e straordinaria, fino alla malattia che non l’ha fermata. Queste pagine la delineano nella sua più intensa profondità, pensieri trancianti e precisi tratti dai suoi quaderni che utilizzava per preparare meticolosamente ogni intervista: i numerosi, fitti e concitati appunti autobiografici, note che utilizzava ampliate nei suoi libri. E anche bozze di letture pubbliche o di interventi in cui si metteva nei panni dell’intervistatore che avrebbe incontrato provando a rispondere a domande su di sé e la propria vita. Questi scritti, che trattano anche di temi come malattia, matrimonio e figli mai nati, restituiscono con precisione il carattere e il pensiero di una donna unica, capace di maltrattare grandi leader politici e famosi ed eleganti divi di Hollywood, consegnando ai suoi lettori il testamento di una vita leggendaria. Solo lei poteva raccontarsi. E così intensamente. Nessun altro.

Oriana Fallaci, Solo io posso scrivere la mia storia, Autoritratto di una donna scomoda, Rizzoli, 2016, 272 p.

Terra Matrigna: il caporalato nelle campagne italiane

È entrata in vigore ieri, 4 novembre, la nuova legge sul contrasto al lavoro nero e allo sfruttamento dei lavoratori in agricoltura, meglio nota nel dibattito pubblico come ‘legge sul caporalato’, approvata dalla Camera dei Deputati a fine ottobre. Il testo affronta il fenomeno criminale del caporalato aggiornandone la definizione, inasprendo le pene per gli sfruttatori e prevedendo nuove misure, come la confisca dei beni e l’adozione di misure che preservano l’operatività dell’azienda e, di conseguenza, l’occupazione dei lavoratori, oppure ancora il reinserimento per le vittime.
La legge riconosce finalmente un fenomeno di dimensioni troppo estese per poter essere ignorato. In particolare, come spiega sulle pagine di Internazionale Enzo Ciconte – uno dei massimi esperti italiani di associazioni mafiose – modifica “in maniera sostanziale l’articolo 603 bis del codice penale (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro)”, riformula così il reato di caporalato, in particolare allargando “le maglie della responsabilità al datore di lavoro che “sottopone i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno”. Come a dire che non deve esserci per forza un “caporale” o un’organizzazione criminale perché un bracciante sia sfruttato”.

Un momento della presentazione di The Harvest alla Sala Boldini
Un momento della presentazione di The Harvest alla Sala Boldini

Mercoledì sera alla Sala Boldini, nell’ambito della Festa della legalità e della responsabilità 2016, un incontro ha messo insieme proprio il tema del caporalato con un altro di scottante attualità: quello dell’immigrazione. Durante la serata, infatti, è stato presentato il progetto cinematografico “The Harvest”, il raccolto, sullo sfruttamento della comunità Sikh – originaria della regione indiana del Punjab – nelle campagne dell’Agro Pontino, in particolare nei lavori di semina e raccolta che si svolgono sotto le serre. Il regista, Andrea Paco Mariani, ha parlato di “un sistema ben strutturato e scientifico di sfruttamento”, un fenomeno tanto più inquietante perché si svolge “alla luce del sole” e insinuandosi fra legalità e illegalità.
La comunità Sikh nella provincia di Latina è numerosa, 25-30 mila persone circa, ed è presente ormai da diversi anni, tanto che ormai si parla già di seconde generazioni. Quasi tutti i componenti risiedono in Italia con regolari documenti e lavorano nei campi e nelle serre con regolari contratti: il problema è che se su questi ultimi compaiono “otto giorni mensili”, i braccianti ne lavorano “ventinove e mezzo, perché non ci sono nemmeno le domeniche”, ha spiegato Mariani. Lo sfruttamento riguarda anche il salario e le condizioni di lavoro: le paghe vanno dai due ai massimo quattro euro l’ora, ben al di sotto del minimo contrattuale, si pratica il cottimo, e le giornate lavorative sono di dodici ore, senza rispettare un ciclo stagionale, perché si lavora anche in serra. Per mantenere questi ritmi, ha detto Paco Mariani, “i lavoratori assumono anfetamine, oppiacei e antispastici”, “di nascosto”, perché la comunità stigmatizza fortemente questi comportamenti. Proprio dal consumo di droghe nel febbraio 2015 sono partiti Paco Mariani e collettivo Smk Videofactory, ma quando sono scesi a Latina fra aprile e giugno di quest’anno, si sono resi conto che “era solo la punta di un iceberg”. “Spesso i caporali stessi sono indiani ed esistono addirittura agenzie in India che convincono gli agricoltori a vendere i loro pochi averi per racimolare il denaro necessario a comprare il loro pacchetto completo: viaggio, lavoro, vitto e alloggio”, naturalmente in Italia non li attende “niente di tutto ciò” e quindi si può parlare di una vera e propria truffa se non di “una tratta”, come l’ha definita il regista.

Un momento della presentazione di The Harvest alla Sala Boldini
Un momento della presentazione di The Harvest alla Sala Boldini

Per parlare di questi temi Mariani e Smk Videofactory hanno scelto di percorrere una strada due volte originale: per il mix di linguaggi utilizzati nel film e per il metodo di finanziamento.
Per ri-narrare le testimonianze raccolte, “The Harvest” utilizza tre linguaggi diversi: il reportage; il racconto di una giornata vissuta da tre personaggi, un ragazzo Sikh in Italia da otto anni, che ha perso il lavoro diverse volte “perché ha provato ad alzare la testa”, una ragazza della seconda generazione e un giornalista, arrivato sul luogo per fare un’inchiesta sui lavoratori sikh della zona; infine il musical. Questa scelta, ha spiegato Paco Mariani, nasce non solo “dalla nostra volontà di sperimentare linguaggi nuovi, oltre quello del reportage che sentiamo più nostro”, ma anche dalla necessità di “tutelare chi si è fidato di noi e ci ha raccontato la sua storia” e recuperare parte della cultura Sikh all’interno del lavoro, in modo da far diventare queste persone non solo oggetti, ma soggetti della narrazione: “ci interessava contaminarci con la cultura del Punjab e volevamo uscire dal racconto pietistico del povero ragazzo sfruttato”.
Per quanto riguarda il finanziamento del progetto, invece, è stata avviata una campagna di crowdfunding, che è tuttora in corso. La “coproduzione popolare”, come la chiamano i ragazzi del collettivo bolognese, è una scelta sia pratica sia etica: è “la sintesi fra accessibilità e diffusione delle opere e loro nuove forme di sostenibilità”, inoltre permette al progetto di acquisire una “maggiore legittimità”, perché la comunità investe perché vuole che si parli di quel tema.

Ed è importante che se ne parli perché, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, il caporalato in agricoltura non è un fenomeno solo delle terre del Sud e del Centro Italia, ma riguarda anche le campagne del Nord. Sul “Il Venerdì di Repubblica” del 28 ottobre un articolo di Daniele Castellani Pirelli basato sull’ultimo rapporto “Agromafie e Caporalato” dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, parla di 430 mila lavoratoriitaliani e stranieri – vittime del caporalato, tra i 30 e i 50 mila in più rispetto a quelli riscontrati nel rapporto precedente (2014). Lavoratori che, come si legge ancora nell’articolo, possiamo trovare per esempio a raccogliere i meloni nella vicina Sermide, oppure qui a Ferrara nelle campagne di Gallo, come è emerso da una testimonianza di un ragazzo durante la stessa serata di mercoledì: “Quello che voi fate vedere in questo documentario, io l’ho vissuto anche a Ferrara per tre anni, insieme ad altri ragazzi pakistani e africani”.

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Fonte: Terzo Rapporto Agromafie e Caporalato, Osservatorio Placido Rizzotto
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Fonte: Terzo Rapporto Agromafie e Caporalato, Osservatorio Placido Rizzotto

Per partecipare e sostenere il progetto “The Harvest” visita il sito: www.theharvest.it.
Pagina fb: www.facebook.com/theharvestdocumentary

Guarda i trailer
Lo spiegone

L’assemblea dei braccianti

Il blitz

L’ANNIVERSARIO
Una nuova edizione come regalo di compleanno all’Antologia di Spoon River

“…Al fianco di Mary, baciandola con l’anima sulle labbra
all’improvviso questa prese il volo”.

Questo verso fu letto casualmente da una giovanissima Fernanda Pivano, scorrendo le pagine di un libro avuto in prestito dal suo Cesare Pavese: Fernanda voleva sapere che differenza ci fosse tra letteratura inglese e quella americana e la risposta di Pavese fu consegnarle una raccolta di epitaffi scritti dall’avvocato e poeta Edgar Lee Masters.
Quei versi, quelle storie, quelle voci narranti, così vibranti entrarono profondamente dentro la giovane Pivano che da allora si dedicò anima e corpo alla loro traduzione in italiano, per poi consegnare alla stampa nel 1943: la prima versione tradotta dell’Antologia di Spoon River.
C’era il Fascismo allora in Italia e il libro poté uscire solo grazie allo stratagemma di Cesare Pavese e Fernanda Pivano, che lo intitolarono “Antologia di S.River”, facendo intendere il riferimento a chissà quale santo. Poco tempo dopo la diffusione del libro fu bloccata dal regime che lo bollò come “immorale” e la sua traduttrice pagò con il carcere l’aver sfidato i dettami della dittatura fascista. Come lei stessa ha successivamente dichiarato: “Era superproibito quel libro in Italia. Parlava della pace contro la guerra, contro il capitalismo, contro, in generale, tutta la carica del convenzionalismo. Era tutto quello che il governo non ci permetteva di pensare. Mi hanno messo in prigione e sono molto contenta di averlo fatto”.
La missione era però compiuta: Fernanda non solo aveva capito la differenza tra la letteratura inglese e quella americana, ma aveva consegnato ai posteri quella che rimane una pietra miliare della letteratura statunitense, di cui quest’anno si festeggia il centenario. La pubblicazione dell’Antologia di Spoon River, nella sua versione definitiva, risale infatti al 1916.
Tra il 1914 e il 1915 il poeta americano Edgar Lee Masters aveva pubblicato sul “Mirror” di St. Louis una serie di epitaffi successivamente raccolti nell’Antologia di Spoon River. Composto di 19 storie, per un totale di 244 personaggi, ogni poesia descrive la vita di un personaggio, a coprire quasi tutte le tipologie umane: la giovane fanciulla, il vecchio ubriacone, il ragazzo infermo, la maestra zitella e l’ottico. E molte altre ancora che suscitano un sorriso, una lacrima oppure la totale indifferenza, se non disappunto e disprezzo, al lettore che diventa visitatore del cimitero di un immaginario paesino perso nelle colline dell’Illinois.
Nella prefazione a una delle edizioni italiane dell’opera, Fernanda Pivano scrive che “l’autore definiva questo libro qualcosa di meno della poesia e di più della prosa”. Il tono degli epitaffi è narrativo e mai declamatorio: la voce dei protagonisti, fantasmi narratori della propria vita, è vibrante seppur lontana. Hanno perso la vita, ma non sono scevri da passioni del tutto umane: Constance Hately ci confessa di aver odiato le figliastre, il giudice Somers si lamenta di essere stato meno amato dell’ubrico del paese, Minerva Jones è stata poetessa e donna violata e derisa. Francis Turner, la cui anima volò via baciando Mary, Herbert Marshall che ci lascia una verità struggente -“Questo è l’amaro della vita: che solo in due si può essere felici; e che i nostri cuori sono attratti da stelle che non ci vogliono”- senza dimenticare l’inno alla gioventù di Alexander Throckmorton “il genio è saggezza e gioventù”.
E così, di tomba in tomba, di vita in vita, di lamento in lamento, nell’abisso dei sentimenti umani, innalzati o derisi, nell’amore o nella incomprensione, la voce dei morti diventa quella dei vivi.
Oltre a Fernanda Pivano, come detto prima traduttrice del capolavoro di Masters, non si può dimenticare l’elegante versione del compianto poeta Antonio Porta e la celebrazione in musica che ispirandosi all’opera fece Fabrizio De Andrè nel suo celeberrimo “Non al denaro non all’amore nè al cielo”.
Ora, in occasione della celebrazione del centenario, Mondadori, per sottrarre i versi al logorio della fama, propone una nuova traduzione, affidata a Luigi Ballerini, poeta, critico, italianista nelle università americane, il quale si propone di seguire più il metro e la lirica che la prosa, rileggendo l’Antologia come un testo classico.
Gli abitanti della Collina tornano a parlarci delle loro vite… e anche delle nostre.

La pecora nera in Università:
incontro con José ‘Pepe’ Mujica,
ex presidente dell’Uruguay

Da Unife

Incontro pubblico con il senatore della Repubblica Orientale dell’Uruguay, José ‘Pepe’ Mujica, mercoledì 9 novembre 2016 ore 16 nell’aula magna del Dipartimento di Economia e Management dell’Università degli studi di Ferrara, in via Voltapaletto 11.

Programma
Saluti istituzionali

Giorgio Zauli
Magnifico Rettore dell’Università di Ferrara

Simonetta Renga
Direttrice del Dipartimento di Economia e Management

Riccardo Bizzarri
Sindaco del Comune di Masi Torello

Introduzione

Giangi Franz
Dipartimento di Economia e Management

Conferenza
José ‘Pepe’ Mujica,
Senatore della Repubblica Orientale dell’Uruguay
‘Economia e società. Il tempo della vita non va sprecato’

Segue dibattito con il pubblico

Per saperne di più su José ‘Pepe’ Mujica leggi
Discorso per la terra della nostra Simonetta Sandri

Dal teatro al cinema: un viaggio fra due mondi.

 

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“Dal teatro al cinema: un viaggio fra due mondi” (Scuola di teatro e audiovisivi). Una scuola di racconti teatrali e digitali. Non si tratta di un corso ma di una vera e propria scuola della durata di due anni e con diversi insegnanti, specifici per le diverse materie trattate. La filosofia che ispira il nostro lavoro è quella di tracciare un percorso che fonda nella forza del teatro, capace di raccontare storie nello spazio, quella di raccontarle anche su di uno schermo, che questo sia quello del computer, del video o del cinema. Recitare è “essere veri in una situazione finta”, una definizione bella e semplice, che descrive il processo profondo che sta alla base del lavoro creativo, in teatro e su uno schermo, ovunque vi sia una storia raccontata attraverso gli attori ed i personaggi cui essi danno vita. La regia teatrale è raccontare una storia nello spazio, componendo tutti i linguaggi, da quelli del testo, delle luci e dei suoni, dell’organizzazione visiva e dinamica della scena, fino a quelli degli attori.

Tutto questo costituisce il fondamento della possibilità di raccontare storie sugli schermi Finalità Attraverso l’antica e nobile radice teatrale intendiamo quindi dare una nuova dignità a tante forme di racconto contemporaneo di grande facilità tecnica ma spesso realizzate senza alcuna qualità artistica e con pessimi risultati comunicativi, come il video, il cortometraggio o la web serie, nonché contribuire alla qualità del lavoro cinematografico.

La struttura
I due anni e gli insegnamenti.Primo anno, insegnamenti: “Recitazione I: storie, personaggi, situazioni. La finzione, la presenza fisica e il personaggio”. “Regia I: i mondi possibili del racconto scenico” “Recitazione per lo schermo, davanti all’obiettivo. Acting e micromimica facciale”. “Realizzazione di un cortometraggio” Secondo anno, insegnamenti: “Recitazione II: La finzione, la presenza fisica e il personaggio, a confronto con vari tipi di testualità” “Regia II: storie, personaggi e situazioni da vari testi e sceneggiature: le diverse modalità del racconto spettacolare” “Sceneggiatura” “Realizzazione di un video originale degli allievi” .

“Caratteristica che riteniamo unica della scuola, sarà quella di presentare, come esercitazione di fine anno, una performance teatrale dalla quale trarremo spunto per creare un video su quello stesso soggetto, ma questa volta sceneggiato e montato secondo il linguaggio dell’audiovisivo, e quindi come racconto filmico per lo schermo.” La scuola è rivolta in particolare al mondo dei giovani e degli studenti universitari che abbiano avuto esperienze o abbiano un forte interesse per le arti dello spettacolo, la comunicazione, la recitazione e la fiction, attraverso i media “in presenza”, come quello teatrale, o il mezzo tecnologico, vissuto con una nuova qualità del messaggio e una diversa incisività del racconto sul piano emotivo, comunicativo, significativo. Opportunità create dalla scuola I prodotti, risultato del percorso fatto insieme, potranno partecipare a festival e rassegne, italiane e straniere, e girare su piattaforme web dedicate. Avremo l’opportunità di sottoporre il nostro lavoro al “Giffoni Film festival”, con cui collaboriamo, nonché network televisivi con i quali cooperiamo da tempo. Al termine del secondo anno sarà consegnato un diploma riconosciuto da Fonè e i suoi collaboratori e patrocinatori, come il “Giffoni Film Festival”, l’ARCI provinciale di Ferrara, il Comune di Ferrara

Organizzazione
Direttore artistico: Massimo Malucelli
Prima lezione gratuita: martedì 8 novembre 2016 ore 20,30 – 23 Periodo: novembre – maggio Frequenza: martedì e venerdì ore 20,30 – 23 Sede: associazione “Fonè”, via Arianuova, 128 Costi: 7 mesi per 20h al mese, tot 140h = Euro 665 totali, divisi in rate da 95€ mensili + 60 euro di iscrizione associativa annuale (comprensivi di materiali di consumo e saggio finale). Per gli studenti universitari c’è un forte sconto: 7 mesi per 20h al mese, tot 140h = Euro 455 totali, divisi in rate da 65€ mensili + 60 euro di iscrizione associativa annuale (comprensivi di materiali di consumo e saggio finale).

Pagamento
Alla prima lezione del mese al nostro incaricato.
Per motivi amministrativi questa regola dovrà essere rispettata con rigore.
Il pagamento sarà effettuato mese per mese 
A dicembre però si richiede anche il versamento della quota corrispondente al mese di maggio, a titolo di cauzione ed impegno da parte dello studente. Le lezioni saranno quindi pagate fino ad aprile compreso, in quanto maggio sarà già stato pagato.
Si capirà che l’organizzazione del corso è onerosa e soggetta a spese fisse, inoltre pensiamo che aderire a quest’esperienza debba essere un impegno che va rispettato seriamente, tanto da parte di chi la organizza come da parte di chi la frequenta, per cui, comunque, il pagamento dell’intera quota annuale rateizzata secondo cadenza mensile, è obbligatorio. Numero chiuso: minimo 8 massimo 20 persone.

Contatti
Vedi sito: www.foneteatro.com  Per info: foneteatro@gmail.com     Tel: 347 5997889 Si prega di prenotare la lezione di prova tramite mail

Goro, Gorino e il capitano Achab

Da: Organizzatori

Alla notizia della ‘eroica’ difesa del proprio territorio da parte dei cittadini di Gorino a fronte dell’invasore rappresentato da dodici profughe esauste e disperate, la prima reazione è stata per me di grande arrabbiatura. Ma a mente fredda mi pare che questo fatto, comunque da condannare, ponga in primo luogo degli interrogativi.
Le foto dei giornali e i Tg mostravano persone, maschi, con i volti solcati dalle asperità del mare e della terra ed era facile immaginare mani grandi e callose. Lì accanto l’immagine di una grigliata richiamava le certezze anche gastronomiche di una festa paesana. A prescindere dagli agitatori di professione, da evitare come la peste, specie se incarnati da politici sfascisti, solo un sentimento di ossessione può spiegare quei fatti, ossessione rivolta contro il diverso, contro l’altro da sé; intanto si trattava di donne, per di più nere, e persino, forse, musulmane. Il cardine interiorizzato di Dio, Patria e Famiglia ne risultava disturbato e questo era causa di disagio profondo: di qui ecco una reazione quasi ancestrale, un atto dettato dall’arcaismo. Un luogo isolato e con residui istinti tribali, per altro crescenti in tutta la società, reagiva come se fosse turbato dal tentativo di profanare un immaginario muro rassicurante e di protezione con in cima “cocci aguzzi di bottiglia”, posto tutto attorno all’abitato.
Quelle donne non bisognava neppure vederle, tanto meno parlare con loro e ascoltare le sofferenze disumane dalle quali erano state sfregiate; se fosse avvenuto potevano riaffiorare o comunque manifestarsi istinti di umanità, innati in tutti coloro che appartengono alla stessa specie homo sapiens.
Ossessione che in qualche modo rimanda in altissima forma letteraria al capitano Achab, l’ossessione disperata e la paura atavica del grande Leviatano, del diverso; paura del nemico inconoscibile ma anche brama di conoscere legati in forma indissolubile. Forse soprattutto paura dei propri demoni profondi e nascosti e rifiuto di indagarli: in Melville la terribile balena bianca Moby Dick, a Goro povere donne indifese. Deficit di identità o identità confusa, anche.
Il sindaco di Goro, a qualche ora dai fatti, parla giustamente di reazione a caldo, ovvero di reazione immediata, prerazionale e profonda. Più che ai sociologi direi che sarebbe utile rivolgersi e interrogare quanti scavano nel profondo, antropologi e psicanalisti, non per condannare ma per cercare di capire. Per cercare di risolvere conflitti nascosti e irrisolti. Mi auguro che ci sia la possibilità di farlo.

Mario Zamorani
Pluralismo e dissenso

Noi, fuggite per colpa di un padre, di un marito…
Belinda, Joy e Faith respinte dalle barricate:
“Perché non capite la nostra storia?”

Sono segnate dal viaggio e parlano con un filo di voce, guardando in basso. Sono tre delle dodici ragazze che ieri notte sono state catapultate a Ferrara dopo l’increscioso avvenimento di Gorino, dove gli abitanti hanno alzato le barricate contro il pulmann che le stava portando nel bar ostello Amore-Natura. Belinda, Joy e Faith hanno hanno accettato di rispondere alle domande dei giornalisti nella struttura di Asp in via Porta Reno, dove hanno trovato momentanea sistemazione.
Sono arrivate in Italia sabato in serata e a Bologna già domenica mattina: sono dodici ragazze, tutte molto giovani, di età compresa tra i venti e i ventidue anni. Le altre nove sono state provvisoriamente suddivise in altre strutture: quattro risiedono in un hotel a Massafiscaglia (Ferrara), quattro in una casa famiglia a Codigoro (Ferrara) e una nel centro Caritas in città.

Belinda, Joy e Faith aspettano frastornate in una stanza della struttura Asp, dove ancora incredule e imbarazzate cercano di capire e rispondere alle domande dei giornalisti, grazie anche all’aiuto di un traduttore Kevin.
Forse per sfogarsi o forse per cercare una ragione dell’inspiegabile trattamento della notte precedente, Belinda dice: “Non capiscono la nostra storia”. “All’inizio non abbiamo capito quale fosse il problema; poi, quando abbiamo compreso che non ci volevano, ci siamo rimaste male”, aggiunge l’altra ragazza di nome Faith.

Non è facile perché si legge sulle loro facce l’odissea che hanno passato, ma proviamo ugualmente a chiedere qualcosa della loro vita e del loro viaggio prima dell’arrivo qui a Ferrara.
Presi quasi da compassione e a volte sgomento a vedere queste ragazze ridotte in quello stato, proviamo chiedere con accortezza qualcosa della loro vita prima dell’arrivo a Ferrara.

Ci risponde per prima quella che sembra la più forte del trio, Belinda: ‘Vengo dalla Sierra Leone, lì facevo l’infermiera, sono dovuta fuggire per non essere catturata dalle autorità dopo che mio marito, prigioniero politico, è fuggito dal carcere”. “Dalla Siera Leone in Libia – continua Belinda – ho pagato cento dollari, dalla Libia a qui niente” e aggiunge “non sapevo niente dell’Italia in particolare, ma da quando ci sono mi piace molto. Prima di partire conoscevo solo qualcosa dell’Europa”. Anche Joy e Faith, le altre due ragazze provenienti dalla Nigeria, non conoscevano l’Italia, ma la pensano come la compagna.
Joy, incinta all’ottavo mese, ci racconta invece che è fuggita dalla sua stessa famiglia: “sono partita perchè io sono cristiana e mio padre no”. “Vorrei solo trovare un po di pace, tranquillità e non aver più paura, vorrei che mio figlio Michael – non è ancora nato ma lei spera sia un maschietto – “nascesse sereno, che potesse andare a scuola come gli altri bambini’. Per il viaggio dalla Nigeria alla Libia lei e il marito, di cui ha perso le tracce sulle coste africane, hanno pagato 420 euro circa.
L’ultima a parlare è Faith: “sono scappata dalla zona occupata da BoKo Haram, sono andata a nord verso il Mali. Non so più nulla della mia famiglia, nemmeno se sono ancora vivi” dice sussurrando per la troppa stanchezza accumulata. “Arrivate in Libia mi ha accolta un uomo arabo che ci ha aiutate a raggiungere la barca per fare la traversata” spiega la ventenne nigeriana.

Tra loro sembrano molto affiatate, ormai abituate a darsi forza a vicenda costantemente, cercando di reprimere il ricordo di ciò che hanno lasciato e cercando di pensare al presente. In una confidenza ci raccontano che il trio si è formato per caso durante il loro lungo e difficoltoso viaggio, ma Belinda aggiunge:”Io e Joy siamo ‘sorelle’, le nostre mamme sono sorelle”, è una loro usanza chiamarsi sorelle quando ci sono legami di parentela, ma capiamo e poi ci confermano che sono cugine.
Sono partite per i motivi più diversi, inizialmente senza avere una meta precisa, solo con l’idea di doversi allontanare da quell’infausto posto che loro chiamavano ‘casa’.
Si fidano dell’Italia, piace molto a tutte e tre: tra la paura sboccia anche un barlume di speranza per una vita migliore, per un po’ di serenità, anche per un bimbo che deve ancora nascere.
Finalmente, anche se con un po di sforzo, riescono a salutarci con un accenno di sorriso e si allontanano per riposare e ritornare nella loro stanza, come normali persone che hanno bisogno di riposare dopo un lungo viaggio.

Gorino, il prefetto Tortora: “La requisizione era l’unica strada”
“Ci sono altre 450 persone da sistemare”

“Sono mesi che stiamo tentando di trovare disponibilità presso alberghi, strutture e tutti quanti ci dicono che sono al completo appena sentono parlare di profughi. Lascio a voi considerare se questa risposta può essere o meno plausibile. L’unico strumento per trovare posto era quello della requisizione, non avevamo alternative. Ho fatto una requisizione parziale pensando che, così facendo, l’ostello di Gorino potesse comunque essere in grado di continuare a svolgere un minimo di attività economica”.
A parlare è il Prefetto Michele Tortora alla conferenza stampa di martedì 25 indetta per dare la sua versione riguardo la vicenda dell’autobus diretto a Gorino per alloggiare 12 donne in arrivo da Bologna, tra loro una giovane all’ottavo mese di gravidanza.

Sabato scorso la prefettura del capoluogo emiliano si è appellata a Ferrara per ospitare una trentina di profughi che sarebbero giunti in zona nel weekend. Questo ha rotto definitivamente gli equilibri fin troppo precari e al limite della resistenza. Il Prefetto, cercando tempestivamente una soluzione ha pensato di requisire parte di un ostello situato a Gorino per indirizzare lì 12 degli immigrati in questione.
Lunedì 24 in serata, non appena si è sparsa nella comunità di Gorino la notizia che stava arrivando un autobus con a bordo migranti da alloggiare presso l’unico esercizio pubblico del paese, il bar ostello Amore-Natura, tutti si sono uniti contro questa decisione. A nulla è servita la mediazione attuata per placare la folla: errate voci di corridoio avevano già invaso l’opinione pubblica e il risultato è stato un muro eretto non solo con barriere fisiche, ma anche mentali che non hanno permesso l’arrivo a destinazione dell’autobus. Il prefetto dunque, dopo alcune ore, ha dovuto cedere e le donne sono state smistate in altri centri di accoglienza.

Se questa è stata la reazione per 12 persone, cosa succederà quando arriveranno le “altre 450 persone” che il Prefetto ha annunciato essere ancora in attesa di un alloggio da trovare in Regione?
Tortora, ha dunque rivolto un appello a tutte le istituzioni, alle associazioni e ai privati che dispongano di posti nei quali far alloggiare i migranti in arrivo. “Spesso con preavviso ridottissimo, in meno di 24 ore ci viene detto che i profughi stanno arrivando e dobbiamo, con affanno ed estrema urgenza, trovare luoghi per l’ accoglienza. Attualmente sono 800 i profughi che abbiamo in gestione, sparsi in una cinquantina di luoghi, ma i numeri sono in continuo aumento”.
Ci sono problematiche che non possono essere rimandate o tenute nel silenzio. Spargere la voce, continua il Prefetto, può essere il primo passo per affrontare questa situazione che diventerà inesorabilmente sempre più difficile se tralasciata.
Il Prefetto in chiusura ha rivolto alle comunità con un ultimo appello: “Sono molto amareggiato: credo che questo fenomeno o si gestisce insieme con buon senso e senso di responsabilità oppure non si gestisce. Mi appello a tutte quelle persone di buona volontà, alle istituzioni, agli enti locali, alle associazioni di volontariato, dateci una mano”.

Vergognosa astensione dell’Italia sul Muro del Pianto

Al popolo ebraico non è concesso vivere in pace.
La vergognosa astensione dell’Italia in sede UNESCO durante il voto sulla risoluzione sul Muro del Pianto a Gerusalemme è stato un atteggiamento alquanto ambiguo: una risoluzione che offende la verità storica, non solo ebraica ma anche cristiana.
L’Unesco, nonostante le critiche veicolate da migliaia di mail e manifestazioni di piazza, non ha inteso ripassare la storia ed ha cancellato le origini ebraiche del Muro Occidentale e del Muro del Pianto di Gerusalemme. Si sono voluti cancellare tremila anni di storia ebraica: un vero stupro.
Fra le moltissime dichiarazioni pubbliche, condivisibile quella di Rav Giuseppe Laras: “Da superstite della Shoah, da italiano e da ebreo, dinanzi a tale sì vile e infamante astensione, ritengo che lor signori politici italiani, alla Giornata della Memoria e della Cultura Ebraica, dovreste starvene a casa vostra e non nausearci con discorsi melensi e ipocriti, per di più postumi, sconfessati dalle vostre stesse pratiche.”
La Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, ha affermato: “…un voto sconcertante e fuori dalla Storia su cui anche l’Italia ha delle responsabilità…”

E ora? Ora interviene il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che non solo condanna la Risoluzione dell’UNESCO, ma anche l’astensione dell’Italia, dove sembrerebbe che “l’astensione sia avvenuta a sua insaputa”.
Poteva non sapere? Ora servono fatti concreti e non solo chiacchiere.

Solidali a Capodanno… solidali tutto l’anno?

Ecco che si avvicina uno dei momenti più attesi dell’anno, non solo dai bambini, ma anche da qualche adulto particolarmente sensibile alla magia di questo periodo. Ebbene sì, il Natale è alle porte e anche quest’anno la città di Ferrara si sta preparando al meglio per accogliere i numerosi turisti e per esaudire i desideri e le aspettative della comunità.
“A Natale si è tutti più buoni” dicono… e se nell’intento è riuscito pure Scrooge (protagonista del celebre romanzo di Dickens “A Christmas Carol”) Ferrara non vuole certamente essere da meno! Per questo si mette in gioco con nuove proposte che mirano alla solidarietà.
Il vecchio albero in vetro di Murano quest’anno non potrà essere presente, ma rimarrà il suo ricordo negli addobbi che riempiranno il nuovo albero. Saranno proprio questi addobbi ad esser venduti a fine manifestazione e il ricavato verrà devoluto all’Emporio Solidale “Il Mantello”.
Il countdown inizierà sabato 19 novembre con l’accensione delle luminarie che percorreranno il centro storico e le vie della città e quest’aria di festa durerà fino a domenica 8 gennaio.
A parlare delle svariate iniziative sono stati gli organizzatori Riccardo Cavicchi, Alessandro Pasetti e Mauro Spadoni alla conferenza stampa di lunedì 24 ottobre.
La città offrirà numerose iniziative. Spettacoli, concerti, cene e fontane danzanti sono solo alcune delle proposte di quest’inverno. Proposte, che verranno estese anche al quartiere Giardino.
Ricordando le trentamila persone dell’anno scorso, uno degli eventi dal quale ci si aspetta la maggior affluenza sarà l’incendio del castello allo scoccare dell’anno nuovo. Lo spettacolo pirotecnico ormai consolidato da anni continuerà ad essere uno dei fiori all’occhiello della città. La festa proseguirà fino alle 3 di notte in compagnia con Dj Set.
“Anno nuovo, vita nuova” e, tra proposte d’iniziativa solidale, e festa “col botto” in piazza si saluterà questo 2016 per dare il benvenuto a un nuovo anno, carico di aspettative, speranze e… solidarietà.

Impara l’arte… Ferrara Off riparte!!

di Chiara Argelli

Si apre un nuovo capitolo, anzi un nuovo sipario per Ferrara Off, l’organizzazione che da qualche anno a questa parte riesce a fondere teatro e cultura coinvolgendo grandi e piccoli con le sue iniziative.
Questo spazio, che ha trovato sede in Corso Alfonso I d’Este, cerca ogni anno collaborazioni nuove e workshop creativi da proporre alla comunità.
Infatti, riapre la stagione con l’iniziativa “Fuori dai coppi” presentata nella conferenza stampa di Giovedì 20 Ottobre tenutasi proprio nella sede di Ferrara Off. Introdotta da Monica Pavani, responsabile delle attività culturali e delle relazioni esterne, la conferenza ha visto anche la partecipazione di responsabili della programmazione come Marco Sgarbi, e ballerine professioniste quali Astrid Boons e Maria Chiara Mezzadri. Ogni responsabile e portavoce ha esposto le proprie proposte di incontri e workshop, che si terranno a partire da questo mese, svelando l’arte in tutte le sue sfaccettature, dalla danza al teatro, dalla pittura al cinema.
Si parte sabato 29 Ottobre e sabato 17 Dicembre con l’appuntamento “3 regine, 2 re, 1 trono” uno spettacolo prodotto da Ferrara Off per far ridere i più piccini e far riflettere i più grandi, adatto dunque ad un pubblico di qualsiasi età. Interpretato da 5 ragazzi, sarà anche un interessante modo per avvicinare i bambini al mondo del teatro.
Da domenica 30 Ottobre, per 4 settimane, vi saranno le proiezioni dei film “La donna che canta” di Denis Villeneuve, “Il giardino dei limoni” di Eran Riklis, “Private” di Saverio Costanzo e “Omar” di Hany Abu-Assad. Questo ciclo di incontri chiamato “Domeniche d’autunno” continuerà con altri tre appuntamenti, ognuno incentrato sulle opere di un grande artista italiano, Mantegna, Raffaello e Tiziano. Questi eventi saranno condotti da Giacomo Cossio.
Lunedì 31 Ottobre al Teatro Boldini verrà messo in mostra la rappresentazione teatrale del film “Rocky horror picture show” in collaborazione con Circo Massimo.
Sabato 5 e 19 Novembre sarà “Molly Bloom” la protagonista. Si tratta della riduzione del celebre monologo finale dell’ “Ulisse” di Joyce, interpretato da Diana Hobel. Lo spettacolo risulterà un ottimo spunto per riflettere su delle tematiche che spesso costituiscono ancora un tabù per la nostra società.
Sabato 12 Novembre verrà messo in scena lo spettacolo “Lontano nella neve. Storie d’ amore e di resistenza” dove le testimonianze partigiane ci riporteranno indietro per rivivere, con una serie di racconti, uno dei periodi più intensi della storia italiana.
Sabato 26 Novembre vi sarà l’omaggio al capolavoro di Ludovico Ariosto con “Orlando furiosamente solo rotolando”, ideale per chi vuole rivivere battaglie, accampamenti, amori e magie dell’ epoca di Carlo Magno.
Sabato 10 Novembre doppio incontro con “piantine che salvano in mondo” un racconto teatrale, pensato per i bambini dai 7 agli 11 anni, che cerca di dare una spiegazione visiva leggermente romanzata della nascita del genere umano. A seguire “Sidera, le stelle” dove verranno recuperate storie della tradizione greca e latina per raccontare il cielo notturno e i suoi misteri.
Tutto questo, è solamente una fugace “sbirciata dietro le quinte” di ciò che Ferrara Off propone. Come spiega Marco Sgarbi “Questa realtà culturale che continua ad esercitare un ruolo importante sul nostro territorio non vuole essere solo un luogo di spettacolo ma anche di incontro e di crescita personale”. Riaprono così i corsi di danza e teatro per grandi e piccini, donne e uomini, studenti e dottori… per tutti coloro che desiderano salire sul palco e dare forma ai propri sogni.

Maya: il linguaggio della bellezza

di Maria Paola Forlani

Al Palazzo della Gran Guardia di Verona, dall’8 ottobre al 5 marzo 2017, è aperta una interessantissima mostra dedicata ai Maya, ricca di reperti e opere dell’arte e dell’artigianato dell’antica civiltà amerinda.

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Si è aperta nelle sale di Palazzo della Gran Guardia a Verona la mostra Maya. Il linguaggio della bellezza, fino al 5 marzo 2017.
A 18 anni di distanza dalla mostra del 1998 sui Maya di Venezia, è tornato in Italia il racconto della storia di un popolo che non cessa di affascinare per le sue conoscenze matematiche, per i suoi raffinatissimi sistemi calendariali e per le sue realizzazioni artistiche.
L’esposizione – risultato della particolare attenzione per le tematiche specificamente artistiche di questa civiltà – presenta sculture, stele monumentali, elementi architettonici, figure in terracotta, maschere in giada, strumenti musicali e incensieri, che danno la possibilità, al visitatore, di esplorare gli aspetti artistici di una delle civiltà più affascinanti della storia, attraverso il tema della bellezza.
La mostra di Verona affronta per la prima volta il tema della cultura di questo antico popolo attraverso le parole e i testi degli stessi Maya, utilizzando – come mai è avvenuto in passato – la più grande rivoluzione antropologica dell’ultimo secolo: la decifrazione della loro scrittura.
Parallelamente, l’esposizione offre uno sguardo nuovo, innovativo e sorprendentemente attuale sull’arte maya a partire dall’individuazione dei maestri, delle scuole e degli stili: finalmente si ha la possibilità di rapportarsi alle opere attraverso una lettura storico-artistica e non solo archeologica.
Sculture dalle forme umane e animali, oggetti d’uso comune, maschere, urne funerarie e altri reperti di pregio raccontano il mondo Maya nelle quattro sezioni tematiche della mostra: Il corpo come tela, Il corpo rivestito, La controparte animale e I corpi delle divinità.
Fregi e architravi che ricostruiscono antichi ambienti, frammenti di testi, mappe e simboli di potere ripercorrono duemila anni di storia lungo un articolato percorso espositivo che racconta la cultura Maya attraverso la decorazione dei corpi (i Maya erano molto attenti alla bellezza e per questo ornavano il corpo con interventi temporanei o permanenti come pitture corporali, elaborate pettinature, tatuaggi e decorazioni dentali); gli abiti e gli ornamenti utilizzati per indicare lo stato sociale; il loro rapporto con gli animali simbolo delle forze naturali, dei livelli del cosmo e degli eventi dei miti cosmogonici; le diverse divinità ed entità sacre adorate da questo popolo, i sacerdoti che le rappresentavano e i paraphernalia dei rituali per la prima volta si presenta l’arte maya a partire da rigorose e specifiche analisi storico-artistiche che sviluppano la tematica delle attribuzioni e arrivano a individuare i grandi artisti della pittura e della scultura.
A prima vista l’arte maya sembra essenzialmente naturalista e con una marcata preferenza per l’uso di figure umane, animali e vegetali. Tuttavia, osservando più attentamente le raffigurazioni su terracotta, scultura e pittura murale, è sorprendente l’enorme diversità di immagini nelle quali un personaggio assume le caratteristiche e le qualità di un altro o di altri, siano essi uno o diversi essere soprannaturali, uno o più animali o uno o varie piante o alberi. Tale personificazione o interpretazione di esseri fantastici, è il risultato di una visione complessa del mondo sviluppata dai Maya nel corso di interi secoli di scambi di idee, non solo fra i diversi popoli maya, ma anche fra altre regioni del Mesoamerica, come il centro del Messico, Oaxaca e la Costa del Golfo, inclusi popoli allora scomparsi, come gli Olmechi, da cui ereditarono alcune delle idee fondamentali per elaborare tale visione del mondo.

Prima sezione: Il corpo come tela
Elemento comune a tutte le società, attuali e del passato, risultano essere gli interventi sul corpo umano. Soprattutto nel mondo maya, in cui la bellezza aveva un ruolo preminente, la popolazione era solita realizzare quotidianamente acconciature per capelli e pitture su viso e corpo, riservandone invece di specifiche e particolari in occasione delle festività, al fine di modificare l’aspetto fisico per ragioni estetiche.
Alcune di queste pratiche, come le cicatrici e i tatuaggi, hanno cambiato per tutta la vita l’aspetto delle persone che li avevano ed erano infatti considerati espressioni visibili di identità culturale e di appartenenza sociale. Tra le modifiche permanenti hanno acquisito particolare importanza la scarificazione del viso, la decorazione dei denti e la modifica artificiale della forma della testa, lo strabismo intenzionale e la foratura per poter portare ornamenti applicati su orecchie, naso e labbra.
Seconda sezione: Il corpo rivestito
L’abbigliamento rappresenta un vero e proprio linguaggio, con un suo vocabolario e una grammatica e benchè sembri manifestarsi nell’effimero e nel superficiale – va invece a toccare elementi essenziali e basilari. Per i Maya l’abito è indicativo dello statu sociale dell’individuo. La maggior parte della popolazione impegnata in lavori agricoli presenta un abbigliamento semplice: le donne con la tradizionale blusa chiamata “hulpil” e la gonna o la tunica, mentre gli uomini con il perizoma legato intorno alla vita e talvolta un lungo mantello.
La classe nobile indossava costumi elaborati con accessori come cinture, collane, copricapo e pettorali tempestati di pietre preziose e piumaggi. I tessuti, ricchi di colori, erano tinti con indaco, cocciniglia o porpora ed erano lavorate con tecniche molto complesse – come il broccato, ad esempio – e spesso presentavano integrazioni di piume.
Terza sezione: La controparte animale
Gli animali hanno sempre avuto un posto privilegiato nel simbolismo religioso di diverse culture.
Molti esseri provenienti dal mondo degli animali erano considerati sacri dai Maya. Gli animali erano simboli di forze naturali e livelli cosmici, epifanie di energie divine, demiurghi tra gli dei e l’uomo, protettori di stirpi e alter ego degli esseri umani.
Quarta Sezione: I corpi delle divinità
I Maya adoravano molte divinità ed entità sacre di diversa natura, che potevano incarnare i poteri più grandi o essere custodi di piccole piante, di piccoli corsi d’acqua o delle montagne. Le loro rappresentazioni includono caratteristiche umane e animali, elementi naturali o immaginari. A questi dei ed esseri sacri è stata attribuita l’origine di quei terrificanti fenomeni naturali di cui avevano paura e dell’espressione materiale e spirituale di tutto ciò che esiste.
I tre grandi periodi – preclassico, classico e postclassico – che dal 200 a.C. al 1542 d.C. hanno visto fiorire questo popolo, sono spiegati attraverso straordinari capolavori dell’arte maya come il Portastendardi, pregiata scultura risalente all’XI secolo realizzata da un maestro di Chichen Itza ; la Testa raffigurante Pakal il Grande che visse dal 603 al 683 dopo Cristo e fu il più importante re di Palenque;
la Maschera a mosaico di giada raffigurante un re divinizzato tipico esempio di maschera funeraria, fondamentale per il defunto per raggiungere il mondo sotterraneo; e infine come l’Adolescente di Cumpich, importante scultura risalente al periodo tardo classico ritrovata nel sito archeologico di Cumpich.
Per informazioni sulla mostra: www.mayaverona.it

 

 

 

INSOLITE NOTE
Hyris Corp Ltd, sotto il segno della musica

La matrice è progressive rock e metal, un biglietto da visita inequivocabile, così come lo sono le emozioni che corrono veloci sulle note eseguite dal polistrumentista Bljak Randalls, alias Dario Stoppa, in questo suo album dalle vibrazioni convertite in impulsi elettrici da pick-up viscerali. Il prog, in senso classico, rappresenta un insieme di tempi, dimensioni e dinamiche, uno scenario di situazioni futuribili che, nelle intenzioni dell’autore, arrivano sino alla fine dei tempi per mezzo dello scorrere degli eventi, in questo caso dei brani. Il nome Hyris Corp. Ltd. nasce per dare una connotazione “british” al progetto, l’idea di aggiungere il nome del fiore è del bassista John Gordio.

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Figura 1: Il disco omonimo di Hyris Corp Ltd è pubblicato da Seahorse Recordings e promosso da New Model Label di Ferrara

L’album è basato su emozioni e matematica, con riferimenti musicali, filosofici e artistici così spiegati dall’autore: “Il mio legame con la matematica ha a che fare con la matematica “personale” (concetto che potrebbe sembrare assurdo). Come in ogni sistema chiuso che obbedisce alle proprie regole, il mio è costituito da una matematica che ovviamente si deve per forza basare su quella ufficiale, ma che si è sviluppata e ha maturato un insieme di regole del tutto personali, attribuendo ai numeri e alle funzioni, delle valenze quasi esoteriche e spirituali”.
I 14 brani strumentali si sviluppano in un percorso di colori e memoria, come in “American tears”, in cui rivive l’assassinio di John Kennedy, con le immagini girate da Abraham Zapruder, il sarto statunitense divenuto celebre per aver ripreso con una cinepresa 8 mm il corteo presidenziale a Elm Street nel momento dell’omicidio del presidente degli Stati Uniti. Il brano, suonato da archi, rivela da subito un tono drammatico e distorto, un’enfasi d’attesa che sfocia nel dramma. Sulla stessa linea “Tower farther”, in cui la chitarra elettrica prende il sopravvento sulla narrazione visiva, e dove, citando l’autore: “Ogni strumento si trova a una certa frequenza e velocità di scorrimento rispetto a un altro, generando fra essi “livelli” di parallasse. Ogni micro-struttura, veloce, è incorporata da una macro-struttura (suonata da un altro strumento), che, con uno scorrimento più lento, richiama comunque il mood della prima e viceversa”.
Nelle canzoni, molto diverse tra di loro, coesistono tutti i segni zodiacali e le relative personalità, dal segno del Cancro in “Marianne” sino a “One million times”, un pezzo sulla comunicazione, di cui i nati sotto il segno dei gemelli sono maestri. La musica di Bljak riporta alla mente decine di anni di progressive ma le chiavi di lettura sono l’originalità e le sottotracce, così come il luogo in cui sono nati i brani. In “One million times” c’è un legame tra Venezia e un qualsiasi posto della terra, come potrebbe essere Los Angeles, rievocato dagli echi di un Laserium di cui ci fece omaggio Tolo Marton nell’album “Smogmagica” inciso con Le Orme.

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Figura 2: Bljak Randalls, alias Dario Stoppa

“Marianne” è un pensiero triste del passato, come suggeriscono le note struggenti del piano, in ricordo della forza d’animo di un’amica e della sua bimba mai nata, una sorta di rilettura in chiave moderna della “Pavane pour une infante défunte” di Ravel.
La chitarra e la batteria quantizzata in midi, sostengono la ritmica di “Plasters Inc”, un viaggio nel tempo proiettato nel futuro, con sonorità che echeggiano gli anni ’70, un paradosso temporale sostenuto dalla forza del rock.
Ogni brano ha la sua anima musicale, “Ocean/One” e “Cielo blu” evocano un prog di matrice italiana, ma la forza del disco è nel suo insieme. Non ci sono singoli da scoprire, si deve soltanto seguire il sentiero tracciato dall’autore, entrare nel suo mondo e ritrovare parti del proprio. Il punto d’arrivo è “The powers that were”, in cui l’assolo, nel passaggio in cui sfocia nell’arpeggio, stacca il fusibile dal circuito dimensionale dello spaziotempo, per tornare al presente.
Ci sono voluti 10 anni per comporre i 14 brani dell’album, un mosaico composto di altrettante metafore di vita, capace di riunire insieme, idee, emozioni, ritmi, armonie ed epoche diverse differenti.
Matteo Anelli, autore di quasi tutti i drums, accompagna gli Hyris/Bljak in questo percorso, con il “magico” intervento di Paolo Messere e il suo mixer. E’ pleonastico elencare i generi e sottogeneri cui sono legate le canzoni, così come spiegare nei dettagli il piano zodiacale dell’album, il suggerimento è di ascoltarlo e non perdere la traccia fantasma inserita dopo l’ultimo brano!

Il canale YouTube di Hyris Corp Ltd – Le canzoni
https://www.youtube.com/channel/UCwsrDOqbrl8aF_wZNZ72_CA

ECOLOGICAMENTE
All’evento CH4 a Bologna si discute di energia sostenibile

All’evento H2O di Bologna si parla anche di CH4: un “evento nell’evento” per approfondire il tema dell’utilizzo di gas naturale e di energia sostenibile

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Ad H2O (vedi http://www.ferraraitalia.it/levento-a-bologna-torna-h2o-la-fiera-europea-sullacqua-105361.html) si è parlato anche di…CH4. Il metano infatti continua ad essere un grande mercato e le novità in questo periodo sono state molte e importanti. CH4, evento nel settore della distribuzione e misura gas, ha rappresentato infatti un “evento nell’evento” all’interno di H2O in cui sono stati affrontati tutti i principali temi del settore con un’attenzione particolare allo sviluppo industriale in corso e atteso e alle opportunità di business che il sistema offre a investitori, fornitori, imprese.

Il settore gas rappresenta una tipica industria a rete, così come i servizi idrici, tuttavia presenta specifiche peculiarità e uno sviluppo tuttora in evoluzione: conoscerà infatti nei prossimi anni una notevole spinta visto il definitivo avvio delle tanto attese gare gas, e l’impatto di tale fenomeno sugli investimenti del settore.
Ricordiamoci che l’UE è il più grosso importatore di energia mondiale e che consuma nel suo insieme un quinto dell’energia prodotta a livello mondiale con una posizione di leader nel campo delle tecnologie energetiche. Per tale ragione è necessario promuovere l’integrazione dei mercati energetici, la creazione di partenariati privilegiati con alcuni attori chiave, la promozione del ruolo dell’UE in una futura energia a basse emissioni di carbonio e la promozione della sicurezza nucleare. In generale il sistema energetico europeo si è andato sviluppando verso tre direttrici:
– Garantire il funzionamento del mercato dell’energia;
– Garantire la sicurezza dell’approvvigionamento energetico nell’Unione;
– Promuovere il risparmio energetico, l’efficienza energetica e lo sviluppo di energie nuove e rinnovabili.

In Italia l’impiego di gas naturale ha conosciuto negli anni uno sviluppo sempre maggiore, sia perchè si tratta di una fonte energetica con minore impatto ambientale rispetto alle altre fonti energetiche come carbone e petrolio, sia perché presenta un’elevata efficienza in taluni impieghi. Al contempo l’Italia è un paese notoriamente carente di un proprio approvvigionamento autonomo, il che ha posto un problema di liberalizzazione totale nel settore del down-stream della filiera del gas naturale. Lo scenario di riferimento pertanto ha visto lo sviluppo di nuove tecnologie (di trasporto, di liquefazione, etc.) e la presenza di nuovi soggetti offerenti, rendendo più dinamica un’offerta in passato fortemente limitata da vincoli di natura pubblica.

In considerazione dell’importanza delle fonti energetiche per l’industria e l’economia del Paese, le tematiche sono state affrontate con un occhio di riguardo al tema degli investimenti e anche del finanziamento degli investimenti stessi, con la consapevolezza che un forte intervento in questo settore, in parallelo all’assegnazione delle prime gare gas, possa essere un veicolo di sviluppo complessivo. I temi energetici sono inoltre fondamentali per il raggiungimento degli obiettivi ambientali di riduzione delle emissioni e rimodulazione dell’uso delle fonti. Per questo i distributori del gas sono i destinatari di un impegno a raggiungere, attraverso investimenti nel settore del risparmio energetico, gli obiettivi annualmente posti a livello nazionale.

Le principali direttive di sviluppo di settore, che hanno trovato spazio in specifici eventi di approfondimento, hanno riguardato i seguenti temi:
• Efficienza energetica
Incrementare l’efficienza energetica rappresenta il primo passo per ridurre in modo economico le emissioni, ma anche per migliorare la sicurezza energetica europea e la competitività e per rendere più accessibile il consumo energetico per i consumatori. Tale obiettivo è da perseguire per l’intera catena dell’energia (dalla produzione alla trasmissione e alla distribuzione, fino al consumo finale).
• Tecnologie a servizio dell’efficienza energetica

I Titoli di Efficienza Energetica (TEE), denominati anche “certificati bianchi”, sono istituiti dai Decreti del Ministro delle Attività Produttive, di concerto con il Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e sono emessi dal Gestore dei Mercati Energetici (GME) in favore dei vari soggetti interessati: distributori di energia elettrica e gas; società operanti nel settore dei servizi energetici (E.S.Co.); soggetti che hanno effettivamente provveduto alla nomina del responsabile per la conservazione e l’uso razionale dell’energia; imprese operanti nei settori industriale, civile, terziario, agricolo, trasporti e servizi pubblici, ivi compresi gli Enti pubblici

In CH4 è stato dato infatti grande rilevanza ai processi e alle tecnologie per l’uso efficiente dell’energia con l’obiettivo di efficientare i costi, migliorare i servizi e la qualità e favorire la sostenibilità ambientale nei settori dell’industria, dell’agricoltura, dei trasporti, dei servizi, dell’edilizia e dello sviluppo urbano.
Abbiamo inoltre fatto il punto sul mercato del gas, dove le gare per il servizio di distribuzione sono in fase di start up e portano con loro importanti percorsi di ristrutturazione industriale. Si assiste infatti a un’evoluzione che va verso la creazione imprese di maggiori dimensioni e con bacini di intervento sempre più strutturati. Tale modifica, che non può prescindere dalla presenza di regole chiare e condivise, potrà portare a uno sviluppo di innovazione, investimenti e tecnologie

In proposito grande importanza si è dato agli Ambiti per la distribuzione del gas naturale in Emilia Romagna. Il D.M. 19/1/20111 ha definito il numero di ATEM pari a 177 a livello nazionale e ha imposto che gli Enti locali di ciascun ambito territoriale minimo affidino il servizio di distribuzione gas tramite gara unica. Con l’emissione del D.M. 18/10/2011 vengono inoltre specificati i Comuni compresi in ogni ATEM, in forma tabellare. La Regione Emilia Romagna comprende 12 ambiti territoriali. I confini degli ATEM non sono perfettamente coincidenti con quelli provinciali in quanto ricalcano la topologia delle connessioni di rete. Quindi in tutti gli ATEM sono ricompresi comuni esterni al confine provinciale o sono assenti comuni della stessa provincia. Ciò non vale per il solo ambito di Ferrara i cui confini coincidono con i confini amministrativi dei 26 comuni della provincia.

Inoltre dopo oltre quindici anni dalla sua emanazione, si potranno vedere, a partire dalla fine del 2016, gli effetti del D.Lgs. n. 164/2000 (Decreto Letta) e s.m.i. rispetto alle gare per la concessione del servizio di distribuzione di gas naturale. Si tratta di una normativa molto importante perché include nella procedura di gara (normata dal DM 226/2011 e s.m.i.) tutti i comuni italiani, quindi anche gli oltre 1200 non metanizzati, in quanto la concessione verrà affidata sulla base dei 177 ambiti previsti in Italia, che includono appunto tutti i comuni italiani, senza eccezioni. Tuttavia, il gestore aggiudicatario della concessione non è obbligato ad estendere ai comuni non metanizzati la rete di distribuzione del metano, a meno che non siano garantiti finanziamenti pubblici in conto capitale, pari almeno al 50% del valore complessivo dell’opera da realizzare.

Pertanto, l’eventuale metanizzazione del comune privo della rete potrà risultare, a causa dell’eccessiva distanza dalla rete nazionale e/o dell’esiguo numero di utenti, molto onerosa per il gestore e, quindi, non sostenibile.
Insomma un evento di grande interesse che verrà ampliato e approfondito anche nei prossimi anni.

L’EVENTO
Il ‘kit’ anti-mafia? Responsabilità, legalità e piccole scelte quotidiane

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“Il problema più grande non è chi fa il male, ma quanti guardano e lasciano fare. L’omertà uccide la speranza delle persone, noi dobbiamo uccidere l’omertà avendo il coraggio di avere più coraggio. Il coraggio dell’impegno quotidiano”.
Sono parole di don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera-Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Le ha pronunciate ieri a Crotone durante la manifestazione organizzata per festeggiare il compleanno di Domenico Gabriele: Dodò, come lo chiamavano tutti, ieri avrebbe compiuto 18 anni, se non fosse stato ucciso quando ne aveva 11 su un campo di calcetto dai colpi di fucile esplosi nel corso di un regolamento di conti tra bande mafiose.
Sono le parole che ha ripetuto il referente del Coordinamento Provinciale di Libera di Ferrara, Donato La Muscatella, durante la conferenza stampa di presentazione della settima edizione della Festa della Legalità e della Responsabilità, che si terrà a Ferrara dal 22 ottobre al 7 novembre, dedicata quest’anno al tema “Crescere la legalità”.
È ancora don Ciotti a ricordare che la legalità non è solo un valore in quanto tale: è l’anello che salda la responsabilità individuale alla giustizia sociale, l’io e il noi. “Le regole funzionano se incontrano coscienze critiche, responsabili, capaci di distinguere, di scegliere, di essere coerenti con quelle scelte. La regola parla a ciascuno di noi, ma non possiamo circoscrivere il suo messaggio alla sola esistenza individuale: in ballo c’è il bene comune, la vita di tutti, la società”. Legalità, responsabilità e comunità: senza l’una non si danno le altre. Insomma, ha concluso La Muscatella, “la legalità e il valore, il fine cui tendere, ma il mezzo per perseguirlo e la strada da percorrere è l’educazione alla responsabilità”.

Ecco perché nel programma 2016 tanti sono gli appuntamenti dedicati all’approfondimento e alla formazione, non solo per addetti ai lavori, ma anche e soprattutto per i cittadini di oggi e di domani. Due seminari per giornalisti aperti alla cittadinanza: sabato 22 alle 9.30 in Sala della musica “Legalità e Lavoro: Fondi rubati all’Agricoltura” e martedì 25 ottobre alla Sala Arengo alle 20.30 “La criminalità in Italia: tendenze, evoluzione e caratteristiche dei fenomeni criminosi”. E poi due incontri formativi per i docenti nelle aule dell’Istituto di Istruzione Superiore Carducci: “Non era un gioco – riflessioni e strumenti per educare gli adolescenti alla legalità. A cosa serve punire in educazione?” e “Non era un gioco: kit per l’educazione alla legalità”.

Parlare di responsabilità di ciascuno significa però anche puntare i riflettori sulle possibili connessioni che la criminalità crea con diversi soggetti della società civile. Se ne parla soprattutto grazie alla collaborazione con il Laboratorio MaCrO del dipartimento di giurisprudenza, presso il quale si terranno due incontri: giovedì 27 ottobre alle 15 “Misure patrimoniali e contrasto alla criminalità organizzata”, con Antonio Balsamo (Procura generale della Corte di Cassazione), Roberto Chenal (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), Alberto Ziroldi (Tribunale di Bologna) e l’incontro conclusivo del 7 novembre, “La criminalità economica e le sue connessioni con i network politico-mafiosi”, che avrà come ospite d’onore il procuratore generale della corte d’appello di Palermo, Roberto Scarpinato.

Infine, terzo filo conduttore sarà la terra: forse niente più della terra esprime il legame fra singolo e comunità e diventa nello stesso tempo “luogo di lavoro e simbolo di riscatto”, in particolare quando si tratta di terre sottratte alla criminalità. Due appuntamenti la vedranno protagonista: la docu-inchiesta “Fondi rubati all’agricoltura”, che indaga come la criminalità si infiltra nel sistema delle sovvenzioni europee di sostegno al reddito degli agricoltori, presentata il 22 ottobre dall’autore Alessandro Di Nunzio (insieme a Diego Gandolfo vincitore del Premio Roberto Morrione 2015 proprio per questo lavoro); la presentazione del progetto “The Harvest” il 2 novembre al cinema Boldini, un documentario sulla vita delle comunità Sikh stanziate stabilmente nella zona dell’Agro Pontino, dove episodi di sfruttamento (caporalato, cottimo, basso salario, violenza fisica e verbale) sono stati rilevati in numerosi casi, quasi sempre da associazioni che operano sul territorio locale.

Non mancheranno gli Aperitivi della Legalità organizzati il 22 e il 23 ottobre in piazza municipale dal Coordinamento Provinciale di Libera, dal Presidio Studentesco “Giuseppe Francese” e da Pro Loco Voghiera. E poi un concerto, uno spettacolo teatrale e una rassegna cinematografica, perché ogni linguaggio è utile per parlare di legalità e responsabilità: venerdì 28 ottobre alle 9 presso la Sala Boldini “F(ilm)a la cosa giusta – Il rapporto tra comunicazione audiovisiva e legalità”; sabato 29 ottobre dalle 21 alla Sala Estense “Musica Libera – una canzone per la legalità”; venerdì 4 novembre in Sala Estense alle 10 lo spettacolo “Keep calm and follow the law”, ideato dall’IIS N. Copernico A. Carpeggiani nell’ambito del progetto: “Educazione alla legalità e alla cittadinanza attiva”.

Leggi il programma della Festa della Legalità e della Responsabilità 2016