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Ferrara film corto festival

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INTORNO A NOI
Il mondo del lavoro in un concorso: Libération in supporto ai giovani

laurefissore9Anche quest’anno si svolge il concorso lanciato dal quotidiano francese Libération dedicato ai giovani artisti. Se parlate francese quanto basta, avete meno di 30 anni e un progetto nel cassetto legato alla fotografia, a un’immagine o a un reportage dedicati al mondo del lavoro, questo annuncio fa al caso vostro. “Sguardi sul lavoro” e il suo mondo, è il tema del concorso lanciato dall’Apaj (Association pour l’aide aux jeunes auteurs, sito) per documentare la vita lavorativa di ogni giorno, negli uffici, nei campi, nelle miniere, nelle fabbriche.
Ci sarà allora chi è avvolto dalla routine o, al contrario, chi è totalmente appagato dal lavoro che ama, come un artigiano, un pittore, un artista, un ricercatore. Oppure chi non ha scelto ma è stato costretto a imboccare una certa carriera. Ci saranno i colori dei mercati o dei negozi, dei souk, dei fioristi o dei fruttivendoli. Si potrà immortalare il rapporto con le macchine, con gli utensili, con i computer e le calcolatrici, gli animali, gli altri. A voi scegliere.
A valutare una grande giuria composta dallo scrittore francese, membro dell’Académie Française, Erik Orsenna, da David Caméo, direttore del Museo parigino des Arts Décoratifs, da Irène Omélianenko, di France Culture, oltre che da importanti reporter e giornalisti di Libération. Le categorie sono quattro: “testo” (un reportage in formato word di 4 pagine, 6000 caratteri spazi compresi con almeno una fotografia), “quaderni di viaggio” (una serie di almeno 10 disegni, massimo 20, in formato jpg, larghezza 1024 pixel, ma anche pdf), “fotografia” (una serie di almeno 10 immagini, 20 massimo, formato jpg, larghezza 1024 pixel) e “suono” (reportage o creazione audio di almeno 4 minuti da mettere in soundcloud, inviare il link).
Si può partecipare a più categorie, inviando il tutto a f.drouzy@liberation.fr. I termini per l’invio? Il 6 giugno per la categoria “testi”, il 12 settembre per le altre. La giuria si riunirà a fine ottobre e la consegna dei premi, con relativa esposizione dei lavori finalisti, avverrà nel mese di Dicembre. I premi? 8 borse intitolate a “Erwan Donnelly” (giovane autore scomparso prematuramente), di 1200 euro per i primi e di 800 per i secondi. A essere privilegiati saranno a scrittura, la sensibilità, lo stile, il senso dell’umorismo, l’originalità, la sincerità. Provare per credere.

Fonte Immagini: Libération

Per vedere i termini del concorso clicca qui

ECOLOGICAMENTE
Trivelle sì, trivelle no, forse non è solo questo il problema

Le trivelle servono per perforare estraendo del materiale e creando un pozzo. Questa tecnologia viene usata anche nel campo degli idrocarburi e anche in mare: le cosiddette trivellazioni offshore.
Il 17 aprile ci sarà un referendum per eventualmente abrogare la richiesta di autorizzazioni per trivellare entro le dodici miglia marine e realizzare delle piattaforme per recuperare idrocarburi con concessioni per tutta la durata del giacimento. Il referendum è stato promosso da nove regioni (inizialmente le regioni erano dieci: Abruzzo, Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise. L’Abruzzo si è poi ritirato).
La data non permette di fare il referendum insieme alle elezioni amministrative: qualcuno sostiene e che così si ostacola il quorum. Il referendum è previsto dall’articolo 75 della Costituzione: può essere proposto da 500 mila elettori o da almeno cinque Consigli Regionali per abrogare, totalmente o parzialmente “una legge o un atto avente valore di legge”. Dopodiché, prima di arrivare al voto vero e proprio, i quesiti devono passare una serie di controlli tecnici e devono essere dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale.
Io mi limito a chiedermi se sappiamo cosa siamo chiamati a valutare o se, invece, ci ritroviamo nella situazione di mancata o parziale informazione già vissuta con il passato referendum sull’acqua.

Il quesito è relativo alla durata delle autorizzazioni per le esplorazioni e le trivellazioni dei giacimenti in mare già rilasciate: abrogazione dell’articolo 6 comma 17 del Codice dell’Ambiente [vedi]. Il comma in questione prevede che le trivellazioni per cui sono già state rilasciate delle concessioni non abbiano una scadenza. Il referendum vuole, invece, limitare la durata delle concessioni alla loro scadenza naturale, chiudere dunque definitivamente i procedimenti in corso e evitare proroghe. Sembra una questione marginale, ma in verità si tratta di questione di fondo che ci riporta alla politica energetica nazionale dei prossimi anni.
Il tema petrolio è complesso e non si può certo affrontare in un articolo, come anche la complessa politica energetica nazionale. Alla base anche una questione di rapporti tra governo centrale e regioni. Il Piano delle Aree, introdotto dal decreto Sblocca Italia definisce quali siano le aree in cui avviare dei progetti di trivellazione con uno strumento di pianificazione e razionalizzazione che prevedeva la partecipazione attiva delle regioni. Il Piano è però stato abrogato dal governo nella legge di stabilità. Un conflitto di attribuzioni. Tutto chiaro? Non credo. Non a caso viene anche definito il referendum dell’assurdo. Un’opportunità persa.
Persa la grande occasione di discutere di politica energetica e di fonti rinnovabili. Azzardo un’ipotesi: se il quorum viene raggiunto si deve ripensare la politica del petrolio. La strategia energetica nazionale si basa su 700 Mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio) di riserve di idrocarburi ritenute insufficienti. Ma forse il problema non si risolve trivellando il mare.

Credo che non andranno a votare in molti e dunque che si sia soprattutto persa la grande occasione di valorizzare uno strumento democratico di partecipazione come il referendum (come già accaduto per l’acqua pubblica). Peccato. Se però in molti voteranno si valorizzerà un diritto.

VIDEOCONFERENZA
Tra crisi dei partiti e semplificazione mediatica della politica ecco l’avanzata populista

Un vizio che conquista: è il populismo. Un vizio che ha antiche radici, un modo di pensare, di parlare, di agire, oggi sempre più diffuso nelle dinamiche politiche italiane e non solo. “Populismo, un vizio che conquista: la politica dei pifferai” è stato il titolo scelto per il terzo appuntamento della rassegna Chiavi di Lettura, il ciclo di conferenze organizzato da Ferraraitalia in Biblioteca Ariostea.
Relatori dell’evento: il sociologo Fiorenzo Baratelli, direttore dell’Istituto Gramsci, e gli esperti di comunicazione Luca Foscardi (fondatore di Dinamica Media) e Michele Travagli (fondatore di Kuva), moderati dalla giornalista di Ferraraitalia Ingrid Veneroso.

Una parola, ‘populismo’, che il linguaggio politico odierno rischia di “banalizzare come già fa con altri termini”, ha spiegato da Baratelli in apertura. E’ importante ricordare che “il populismo ha accezioni sia positive sia negative, è letteralmente la parola del popolo e per questo non ha etichette né di destra né di sinistra”. Per questo è un termine e un fenomeno che va analizzato “all’interno del contesto democratico – ha continuato Baratelli – poiché il populismo stesso nasce dentro la democrazia”.
Perché oggi il populismo è così in voga? Secondo il direttore del Gramsci le cause sono principalmente la crisi dei sistemi di mediazione politica (sfociata nella crisi dei poteri e dello Stato-nazione) e gli effetti della globalizzazione: “siamo entrati nella democrazia del pubblico”, inteso naturalmente come audience dei mezzi di comunicazione di massa, e come in circolo vizioso questo ha accresciuto ancora di più la mediatizzazione, la personalizzazione e la banalizzazione del discorso politico.
Una dinamica che si può invertire solamente grazie ad un maggior funzionamento delle istituzioni e della classe politica ma, soprattutto, in seguito alla ricostruzione di un’opinione pubblica oggi “spappolata e incapace di riorganizzassi”, ha detto Baratelli. E questo può avvenire solo restituendole uno spazio pubblico in cui i cittadini si possano di nuovo formare le proprie opinioni in maniera consapevole e non seguendo, appunto, l’uomo forte, il pifferaio di turno.

Chi la comunicazione politica la vive da vicino da anni è Luca Foscardi, che ha individuato una delle cause principali della recente grande ondata populista nell’altissimo tasso di analfabetismo funzionale: “in Italia sfiora il 35% della popolazione”. Inoltre l’esperto di comunicazione ha segnalato il “grande cambiamento delle dinamiche e dei focus dei media che, contemporaneamente alla crisi dei partiti, a partire dai primi anni Novanta ci ha fatto assistere a una crescente mediatizzazione della politica. Politici come Renzi e Berlusconi – ha continuato – sono due grandi artisti, interpreti del proprio tempo, hanno avuto e continuano ad avere così tanto successo mediatico perché abili a dettare l’agenda politica”.
Dove stiamo andando quindi? Foscardi ha concluso ricordando a tutti che oggi viviamo “in una campagna elettorale permanente, governata da un’esigenza sempre maggiore di comunicare da parte della politica, l’azione senza la comunicazione non funziona più, oggi quello che si fa va comunicato immediatamente, altrimenti è come non averlo fatto”.

“E’ sbagliato accostare sempre il populismo alla democrazia”, ha affermato Travagli, ammettendo poi che “siamo noi esperti di comunicazione in primis a dover semplificare le cose”, soprattutto in un mondo dove “tutto cambia così velocemente da non riuscire a starci dietro”. Travagli ha sottolineato anche come, in questa veloce evoluzione, stia cambiando la genetica stessa del mondo del lavoro: un esempio emblematico è il caso di Pizza Bo, la start-up di recente ‘trasferita’ dal capoluogo emiliano a Milano.
“Siamo tutti complici di questa enorme semplificazione politica” ha concluso Travagli, indicando come unica vera soluzione all’avanzata populista il “rivoluzionare completamente le scuole, ripartire proprio dalle basi, dalle radici, perché non è più possibile basarsi su modelli scolastici arretrati e ancora ottocenteschi”.

Guarda il video integrale dell’incontro “Populismo, un vizio che conquista: la politica dei pifferai”

EVENTUALMENTE
Alla Pinacoteca di Brera Raffaello e Perugino dialogano sullo Sposalizio della Vergine

di Maria Paola Forlani

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La locandina

La mostra “Primo dialogo, Raffaello e Perugino attorno a due Sposalizi della Vergine” dà il via a una nuova epoca per la Pinacoteca di Brera che, sotto la direzione di James Bradburne, mette fine alla pratica delle grandi mostre e inaugura una serie di appuntamenti volti alla valorizzazione della collezione permanente.
L’eccezionale prestito a Brera dello “Sposalizio della Vergine” di Perugino, proveniente dal Musée des Beaux-Art di Caen, e la sua collocazione accanto allo “Sposalizio della Vergine” del giovane Raffaello (capo d’opera della pinacoteca milanese) si presentano fino al 27 giugno 2016, per la prima volta nella storia, in un confronto unico.

Ai due capolavori è stata accostato poi un terzo Sposalizio della Vergine: quello dipinto da Jean-Baptiste Wicar nel 1825. Da quest’ultima versione nasce l’incipit narrativo di tante storie diverse: quella di un grande maestro (Perugino) e del suo talentuoso allievo (Raffaello), quella di un capolavoro sottratto alla sua patria e della fortuna in terra francese del suo autore, e infine quella del Santo Anello, che secondo la tradizione l’apostolo Giovanni avrebbe ricevuto dalla Vergine in persona, divenuto sacra reliquia fu l’oggetto per cui nei secoli si scatenarono agguerrite passioni municipali e nacquero grandi capolavori.

“Lo Sposalizio della Vergine” è la prima opera di Raffaello datata e firmata, della quale il pittore, poco più che ventenne, ha quindi pienamente riconosciuto la paternità. È anche la prima nella quale siano riconoscibili le derivazioni e, al tempo stesso, l’autonomia.
La composizione nasce da un’idea di Perugino: un gruppo di personaggi, divisi in due schiere, davanti a un vasto spiazzo chiuso sul fondo da un tempio a pianta centrale.
Il precedente peruginesco più noto è la “Consegna delle chiavi” della Cappella Sistina (1482). Ma i rapporti, più che con questo affresco – che Raffaello non poteva avere visto direttamente, non essendo ancora andato a Roma, ma poteva conoscere solo attraverso i disegni del maestro – devono essere stabiliti con lo “Sposalizio della Vergine”, che Pietro Vannucci, detto il Perugino, aveva dipinto poco prima: l’opera era stata commissionata dalla confraternita di San Giuseppe per la Cappella del Santo Anello nel Duomo di San Lorenzo a Perugia, perciò il giovane allievo e collaboratore doveva averla visto nascere giorno per giorno.
Le somiglianze sono indubbie, iniziando dalla forma della tavola, verticale e arcuata. In ambedue i casi il sacerdote, al centro, sostiene i polsi degli sposi mentre Giuseppe infila l’anello nel dito di Maria. Dal lato del primo sono gli uomini (uno dei quali spezza la bacchetta non fiorita), dall’altro le donne; tuttavia le posizioni degli uni e delle altre sono speculari. La piazza è pavimentata a scacchi, in modo da indicare, con esattezza geometrica, la prospettiva, secondo la tradizione fiorentina. Al tempio poligonale si sale mediante una scalinata e si accede da una porta, mentre, al di là, un’altra porta lascia vedere una porzione di cielo e di paesaggio.

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I due capolavori a confronto

In realtà però i due quadri sono profondamente diversi.
Raffaello interpreta e trasforma il modello creando una composizione non soltanto originale, ma molto più moderna di quella di Perugino, e soprattutto di maggior valore artistico, perché l’opera d’arte nasce non dalla scelta di un certo soggetto, ma dal modo in cui esso è reso a seconda della personalità dell’autore.
L’elemento determinante è il tempio, che Perugino immagina ottagono, con un prònao su quattro lati, del quale, senza ragione compositiva, taglia la cupola con il limite della tavola: un tempio massiccio, statico, che chiude lo spazio come un fondale scenico.
In Raffaello il tempio ha sedici lati, così da equipararsi quasi a una pianta circolare, ha una peristasi di archi sostenuti da colonne e la cupola, libera, riprende coerentemente la forma della cornice. Ha una certa somiglianza con il Tempietto di San Pietro in Montorio che il Bramante proprio in quegli anni sta elevando a Roma.
Anche senza accettare la tesi del Vasari per la quale esisterebbe una parentela (che non risulta da nessun documento), vi sono certo rapporti di amicizia fra il giovane Raffaello e l’anziano Bramante, ambedue urbinati; perciò Raffaello, anche senza aver visto direttamente l’edificio bramantesco a Roma, può averne conosciuto i progetti.
Da Bramante, Raffaello riprende l’idea cinquecentesca dell’edificio centrale intorno a cui ruota lo spazio.
Il tempio si alleggerisce innalzandosi sugli scalini e articolandosi perimetralmente con il porticato (entro il quale circola l’aria) raccordato al nucleo principale con eleganti volute.
La sua forma (coordinata per elementi salienti successivi, alla cupola), stagliandosi contro il cielo terso e trasparente, fa sì che lo sentiamo non come fondale, ma come centro di uno spazio che gli si estende egualmente intorno, di qua come di là e ai lati.
A ciò contribuisce in gran parte la pavimentazione della piazza, le cui linee prospettiche coincidono sul davanti con ciascuno spigolo della base poligonale formata dai gradini.
La convergenza ottica, dovuta alla prospettiva, fa sì che queste direttrici fondamentali sembrino non parallele fra loro, come sono nella realtà immaginata dal pittore, ma disposte a raggiera in concomitanza con i lati del tempio, che tanto più ne ricava centralità. Con questa impostazione sono coerenti anche le figure in primo piano, le quali facendo perno sul sacerdote si dispongono secondo due semicerchi, uno aperto verso lo spettatore, l’altro verso il tempio. Sono figure sciolte negli atteggiamenti, forse ancora un po’ leziose per la lieve inclinazione delle teste di origine peruginesca. Ma se ne riscattano se considerate nella complessa composizione, ossia inserite in uno spazio razionale, dominato dalla luce chiara, non immemore di Piero della Francesca, una luce che conferisce alla tavola un senso di serena meditazione sul fatto sacro.

BORDO PAGINA
Sognare lo spazio attraverso la musica

La lombarda Elena Cecconi è una donna con lo spazio in testa. E’ infatti uscito recentemente il suo ultimo album “Sognando lo Spazio” per Urania Records, diretta di Noemi Manzoni, in collaborazione con il noto pianista inglese Tim Carey. Lavoro particolare e atipico, secondo lo stile della musicista nota a livello internazionale nell’ambito della musica contemporanea, con all’attivo concerti in tutto il mondo, per esempio in Usa nel 2015.
Elena Cecconi, inoltre è art director dell’Associazione culturale e futuribile Space Renaissance, fondata dall’ingegnere umanistico Adriano Autino e che in Italia può contare su promotori quali Gennaro Russo e altri gravitanti da anni nell’area dell’Agenzia Spaziale Italiana.
Musica, spazio e futurismo nell’accezione anglosassone indicano così il percorso musicale specifico della Cecconi, di matrice classica, reinventata secondo direzioni originali e tutt’uno con l’azione culturale di Space Renaissance. Elena ha dichiarato in una recente intervista il Blog della Musica: “Il cd “Sognando lo Spazio” con il pianista inglese Tim Carey, vuole essere  percorso della mente e delle emozioni. Attraverso brani stilisticamente diversi, evocando mondi e soggetti lontani dalla nostra quotidianità, eppure così vivi e vicini alla nostra vita psichica. Attraverso i brani mi ripropongo di avvicinare le persone ed il grande pubblico alla musica in generale, e alle tematiche di Space Renaissance in particolare”. “Casta Diva” dalla Norma di Bellini apre il viaggio con un’invocazione alla luna e poi ci si inoltra attraverso il mondo delle creature mitologiche di “Prelude à l’après-midi d’un faune” di Debussy e la drammaticità del mondo antico di “Chant de Linos” di Jolivet. Attraverso il linguaggio musicale Elena ci narra la nostra appartenenza al cosmo.  Il racconto continua con Undine, creatura acquatica e quindi in qualche modo aliena: folclore germanico, rievocata con fascino, dal linguaggio romantico di Reinecke. Infine una sorta di trilogia che guarda allo spazio: “Dreaming land” di Paola Devoti, composto per Space Renaissance; “Moon slow” di Howard Buss dedicato alla stessa Elena; “Across the stars” di John Williams, da Star Wars. Questi tre brani entrano l’uno nell’altro con un linguaggio colto e moderno, ma anche semplice e comprensibile. Musica percussiva con elementi jazz e futuristici.
Questo concept album dunque ci parla del “rapporto dell’essere umano con ciò che è alieno da noi”, continua Elena: la Luna invocata di Norma, ma anche quei riflessi lunari densi e ammalianti pennellati da “Buss in Moon slow”. La Terra dei Sogni di Devoti che guarda alle stelle e Williams che, infine, le stelle ce le fa attraversare con la magia del suo brano evocativo: “siamo già altrove….nello Spazio e nel Futuro!”, conclude la musicista lombarda.

Più nello specifico, il sound di  Elena Cecconi, potenziato virtuosamente da Carey, attraversa una certa matrice contemporanea, tra la musica cosmica del tedesco Klaus Schulze e lo stesso Glenn Gould, e presenta nello stesso tempo una sorta di minimalismo come nuovo pop virtuoso e postclassico. Dai numerosissimi lavori di Schulze, per esempio, a parte la naturale sincronia siderale, ricordiamo l’album “X” con minisinfonie esplicitamente dedicate a scrittori e filosofi a modo loro metamusicisti (Nietzsche, Trackl), e un neoromantismo tedesco che avvicina lo stesso Schulze al “citazionismo” di Reinecke performato dalla Cecconi. Dell’avanguardistico Gould citiamo le celebri elaborazioni di Mozart.
Nel disco la cover di John Williams da “Guerre Stellari” segnala una certa ormai ‘antitradizione’ nella musica pop al quadrato – dagli stessi tedeschi Tangerine Dream e i primi Kraftwerk agli stessi (pur in modulazioni diversissime) Brian Eno (Music for Films”, “Music for Airport” e”Apollo”) e il francese J. M. Jarre – sia certo ‘sperimentalismo’ comunicativo (echi anche del jazz “matematico” di A. Braxton), che mirano a creare veri e propri soundtrack del nostro tempo informatico e spaziale. Tale spartito significante verso l’”assoluto” nuovo è rievocato da un lato nello specifico dai brani di  Debussy e Jolivet,  espanso nella peculiarità femminile in quello del Bellini  lunare, amplificato dal tributo di H. Buss e dagli “spaziogrammi” inediti di P. Devoti; dall’altro affiora il grande archetipo di Pitagora stesso e della musica come cosmo vibrante, segno per eccellenza dello spirito umano, quasi riconnettendosi al volo di Space Reinassance, come catturare il suono ritmico delle cosiddette Stringhe della Fisica contemporanea.

Info su www.elenacecconi.it e http://www.elenacecconi.it/1/curriculum_it_en_2536301.html

 

L’EVENTO
Il Paesaggio percepito, un nuovo modo di pensare i luoghi

a cura dell’Associazione ferrarese di promozione culturale Korakoinè

Il paesaggio è la grande opera, monumentale e collettiva, entro cui scorre il filo della storia. In esso, fin dai tempi più antichi, natura e cultura si sono intrecciate, disegnando un gigantesco mosaico in cui si riflette l’abitare umano, fatto di necessità e sopravvivenza, di abilità e ingegno, di una tenace e operosa volontà di incidere e modellare il proprio ambiente di vita.

Tale consapevolezza è diventata valore fondamentale con la Convenzione Europea del Paesaggio del 2000 (ratificata nel nostro Paese qualche anno dopo), che afferma e tutela una nuova idea di bene paesaggistico, identificando in esso quella “parte di territorio così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azioni di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”.

Questa nuova concezione del paesaggio, che apre le porte a nuove riflessioni sull’abitare i luoghi, sarà approfondito dalla geografa bolognese Paola Bonora, nell’incontro dal titolo “Il paesaggio percepito. Un nuovo modo di pensare i luoghi. L’approdo alla Convenzione Europea del Paesaggio“, in programma a Palazzo Bonacossi il 6 aprile prossimo alle 17.15, organizzato dall’Associazione culturale Korakoinè. Come scrive Bonora in una delle sue più recenti pubblicazioni, questa prospettiva è straordinariamente interessante perché“ pone al centro il senso di appartenenza degli abitanti che sono chiamati a partecipare alla costruzione della qualità della vita collettiva e dei territori”.

E’ un approccio che stravolge l’idea stessa di paesaggio: non più inteso soltanto come i ristretti spazi di pregio e di eccellenza, ma “territori nella loro interezza, senza distinzioni estetiche o di eccezionalità”. Diventano così “paesaggio” anche i luoghi della vita quotidiana e con essi quelli degradati e delle periferie, in quanto contesti di vita e di storia delle popolazioni locali. Alla base di questa rinnovata ed estesa definizione di paesaggio, c’è il riconoscimento che ogni individuo e ogni comunità possiede un legame identitario con il proprio paesaggio, e la comprensione che ciascuno “porta in sé dei paesaggi di elezione legati a sentimenti di appartenenza, condivisione, emozione”, al di là dell’aggiuntivo valore estetico.

Questa idea, in cui il paesaggio sembra diventare finalmente un bene di tutti, implica un profondo cambiamento di rotta nella cultura del vivere comune e nelle politiche di governo dei territori. Esige, come afferma la geografa, anche una nuova convinzione: quella di sentire che le risorse fondamentali per le nostre società “non sono soltanto i costrutti materiali o i servizi”, ma ugualmente preziosi sono “le atmosfere, le percezioni, gli stati d’animo e le tensioni emotive”; tutto ciò che il paesaggio continua ancora ad assicurarci.

Nel corso dell’incontro sarà proiettato il documentario “Quando il Po è dolce” di Renzo Renzi, con la collaborazione
di Sergio Zavoli, 1951. Il filmato fornisce un quadro delle condizioni di vita nelle Valli del Delta negli anni del dopo-guerra: dai bunker tedeschi nel Bosco della Mesola usati come abitazioni, all’analfabetismo dilagante, al lavoro scarso e mal pagato, e ai curiosi aspetti di costume, come quello di sposarsi dopo la nascita dei figli e soltanto quando si era in grado di mantenerli.

*Il filmato è stato concesso dal Centro di documentazione cinematografica del Delta del Po.

Paola Bonora è stata docente ordinario di Geografia e comunicazione del territorio, alla Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Bologna. E’ membro del Comitato scientifico della società dei territorialisti, Onlus che promuove la valorizzazione dei luoghi come base della conoscenza e dell’azione territoriale.

Conferenza pubblica “Il paesaggio percepito. Un nuovo modo di pensare i luoghi. L’approdo alla Convenzione Europea del Paesaggio” organizzata dall’Associazione ferrarese di promozione culturale Korakoinè
Luogo: Palazzo Bonacossi, Via Cisterna del Follo 5, Ferrara
Orario: 17.15

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La scheda su Karakoinè

LA SEGNALAZIONE
A Ferrara Off impronte corporee per lasciare traccia delle metamorfosi della vita

Si può fermare la trasformazione, la metamorfosi della vita? Si può fissare in modo artificiale uno stadio o uno stato dell’esistenza, un pensiero, un ricordo? Se sì, quale sceglieremmo e quale significato avrebbe quella traccia?
“Le età della vita. Tracce di metamorfosi” è il progetto di ricerca creativa che Stefano Babboni intraprende per questo aprile 2016 durante la propria residenza artistica nello spazio bianco dell’Associazione Ferrara Off. Un progetto e una ricerca ai quali tutti coloro che lo desiderano sono invitati a partecipare e a dare il proprio contributo, attraverso i laboratori (divisi in fasce d’età) e gli incontri che per un mese circa trasformeranno lo spazio bianco inaugurato a fine 2015 in vero e proprio atelier aperto al pubblico.

moto continuo
moto continuo. 250×220 impronta corporea e fusaggine su cotone anno 2007

Cresciuto “nella patria degli anarchici, ereditandola tutta”, mi dice al telefono sorridendo, dalla sua Carrara si è poi trasferito in Emilia Romagna e vive e lavora tra Bologna e Ferrara. Stefano è un danzatore classico e contemporaneo e un tanguero, un educatore e un artista visivo: tutti tasselli che si riflettono e si compenetrano l’un l’altro andando a formare il suo processo creativo. Dal 2005 ha iniziato a realizzare quelle che lui definisce “azioni corporee su tele”: un tentativo di ri-appropriarsi di presenze, di fissare la “permanenza”. Stefano stende sulle tele trattate con fondi bianchi smaltati una sostanza chiamata fusaggine, cioè legno di salice carbonizzato. Il corpo poi si adagia a terra lasciando la sua impronta in negativo e successivamente, mediante un procedimento in togliere, vengono asportate alcune tracce o ritoccati alcuni particolari, per creare maggiori contrasti tra zone bianche e zone scure. Terminato questo processo in levare, vengono applicati fissativi.
Il suo lavoro che si muove su diverse soglie, tra tangibile e intangibile, visibile e invisibile, pensiero e materia: è “un lavoro di passaggio tra la vita e la morte, rendere esistenziale la morte come passaggio vitale e non concepirla come una fine, una finitezza, ma anzi come un inizio, come l’infinito della vita. La vita non è fatta di sola materia e io cerco di rendere visibile questo: il passaggio vitale della morte”.
L’ho intervistato alla vigilia dell’inizio di questa nuova avventura a Ferrara Off.

Stefano tu sei artista visivo e danzatore: come si compenetrano i due mondi, i due linguaggi artistici? Cosa c’è della danza nelle tue opere corporee e cosa c’è delle tue opere corporee nella tua danza?
La pittura è quello stadio di conoscenza della fantasia e dell’intelletto, dell’intangibilità da rendere tangibile attraverso l’opera d’arte che rimane nel tempo; invece la danza è l’arte che si compie concretamente attraverso il corpo, la persona e la sua esistenza, per vedere la danza bisogna vedere la persona, l’artista. Nella pittura si vede concretizzato il pensiero dell’artista, non l’artista stesso; nella danza è il contrario: c’è il movimento intangibile che non può essere fermato, che non si fermerà mai, che esiste solamente nel momento in cui il danzatore, corpo reale ed esistente lo crea, poi non esiste più.
Nel mio lavoro cerco di accostare queste due realtà: far vivere insieme il pensiero e il corpo, creando come opera d’arte il corpo stesso attraverso una matrice, non una sua riproduzione attraverso la pittura, e nel momento in cui si compie questa azione corporea diventa danza.

Come sei arrivato a questa tecnica pittorica?
È una tecnica allo stesso tempo antichissima e contemporanea. L’uso della cenere e della povere di legno carbonizzato risale penso ai graffiti rupestri, quando già c’era la necessità di lasciare un segno della propria esistenza. L’altra componente, quella contemporanea, sono le antropometrie di Yves Klein, nelle quali l’artista dipingeva il corpo delle modelle e le adagiava su fogli di carta lunghissimi. Il contributo fondamentale però è stato quello di Giovanni Manfredini, che lavora in togliere: lui annerisce con nerofumo da lampade a petrolio tavole preparate con la perlite e poi crea l’impronta del suo corpo. Io faccio più o meno la stessa cosa, ma lavoro con tele nude e stendo fusaggine, cioè legno arso, realizzando delle sindoni. L’effetto è diverso perché la mia matrice materica è molto più terrosa.

Parliamo di “Le età della vita. Tracce di metamorfosi”, allo stesso tempo una residenza artistica e un progetto partecipato di creazione…
Oltre che artista, faccio anche l’educatore, quindi per me è importantissimo pormi in relazione con gli altri e mettere la mia opera al servizio degli altri. Ho lavorato con bambini di tutte le età, con i ragazzi delle superiori insegnando danza, con gli adulti ai quali insegno tango. Con questo progetto ho deciso di metterli insieme tutti per poter ognuno raccontare la propria metamorfosi, il proprio stadio di esistenza, e per poterli mettere a confronto fra loro e con il pensiero di ognuno.

I laboratori sono strutturati per età (6/11, 12/20, 21/64, over 65) e ciascuno prevede tre incontri, ci spieghi quale sarà il tuo approccio?
In questi tre giorni proveremo a riconoscere e superare l’illusione, l’illusione che può dare la materia nella sua finitezza, comprendere il fatto che la nostra naturale deformazione è costruire contenitori finiti, quando si parla della società, della materia, ma anche di pensieri e ricordi. Tenteremo di andare oltre l’invenzione.
Il primo giorno gli argomenti di indagine saranno la memoria e la vista, i mezzi saranno il corpo e la scrittura: vedere lo spazio in cui siamo, dare un nome a quello che vediamo e provare attraverso quel nome a richiamare accadimenti fisici o meno nella memoria. Quindi fare una specie di ricostruzione della memoria attraverso la vista e al tempo stesso crearne una, iniziare a immaginare di vivere le stesse azioni che la persona ricorda in quello spazio. I partecipanti possono dire o non dire qual è l’accadimento, ma sono indotti a riprodurlo fisicamente con il corpo e con la scrittura, scrivendo parole per loro significative di quel ricordo, che poi verranno assemblate a creare frasi. Avremo, infatti, due quaderni a disposizione: il primo sarà la tela, impareremo a fare un’imprimitura di una tela, il secondo sarà di carta per fissare pensieri, nomi di ciò che faremo, direzioni di movimento. Ciò che mi preme passi è che anche il pensiero è una cosa concreta.
Il secondo giorno parleremo di possibile e impossibile: andremo a fondo sulla memoria che è diventata un’immagine e proveremo a trasformarla. Nel primo giorno ne avremo vissuto le conseguenze emotive, nel secondo incontro proveremo a risolverla in senso positivo per la persona: cercheremo una strategia di trasformazione emotiva delle parole e dei gesti.
Terzo incontro: nel corpo e nel pensiero il gesto visibile e in permanente. In altre parole l’impronta corporea, che le persone arriveranno a produrre dopo tutto il processo degli incontri precedenti. Avranno la consapevolezza che la traccia che lasciano di sé in realtà non è altro che un’impronta sulla polvere non permanente: noi decidiamo chimicamente di renderla permanente attraverso lacche fissative. Questo sarà un gesto di responsabilità, la persona fisserà permanentemente qualcosa che non si può fissare: la nostra vita. Esiste il gesto corporeo, esiste l’immagine che noi vediamo riflessa nella tela, ma potremmo passarci sopra distruggendola, sarebbe comunque esistita e continuerebbe a esistere nella memoria, ma la necessità di concretizzarla e renderla visibile per più tempo e per gli altri ci porta a doverla fissare con un agente chimico, con un gesto del quale ci si prende la responsabilità. Anche per questo non tutte le immagini verranno fissate, alcune verranno distrutte.
Ti posso anticipare che con i bambini l’esperienza esistenziale sarà ludica, passerà attraverso il gioco, l’invenzione di storie e la scrittura di canzoni, senza contare quanto per loro sia divertente l’imbrattarsi con una tela.

Per finire la domanda forse più difficile o forse la più semplice: cosa cerchi e cosa ti aspetti da questa esperienza?
Cerco conoscenza, il senso del conoscere più che il senso del sapere e, più che aspettarmi qualcosa, spero che lasci alle persone che faranno questa esperienza una possibilità in più di salvarsi, che faccia loro intravedere la possibilità di salvarsi.

A Ferrara Off aprile sarà un mese “In itinere”, nel quale l’associazione aprirà le porte al pubblico e gli offrirà l’occasione di sbirciare dietro le quinte del processo di creazione artistica: non solo con la residenza artistica e i laboratori di Stefano, ma anche con le prove aperte dei lavori di fine stagione degli allievi di Roberta Pazzi e Caterina Tavolini

Info su “Le età della vita. Tracce di metamorfosi”
Info su “In itinere”

La SEGNALAZIONE
Parma nel Cinquecento: la scuola di Correggio e Parmigianino

di Maria Paola Forlani

Fino al 26 giugno rimarrà aperta a Roma alle Scuderie del Quirinale la mostra “Correggio e Parmigianino. Arte a Parma nel Cinquecento”, a cura di David Ekserdjian (catalogo SilvanaEditoriale): attraverso più di cento capolavori per la prima volta vengono messi a confronto i due grandi artisti emiliani, uno il pittore degli affetti, l’altro sofisticato intellettuale.

Correggio, cittadina della Pianura Padana, è stata per lunghi secoli, dal XII al XVII, feudo della nobile famiglia che da essa trae il nome. Seppur non paragonabile certo ad altri grandi centri italiani (da Milano a Venezia, da Mantova a Ferrara, da Firenze a Roma), era capitale di uno Stato e sede di una piccola corte che, fra Quattrocento e Cinquecento, ha assunto una propria importanza culturale, sotto la guida del conte Gilberto e soprattutto per la presenza della moglie, la nobile poetessa Veronica Gàmbara (1485 – 1550): colta, intelligente, seguace del petrarchismo di Bembo, ammirata da letterati illustri contemporanei, quali Ariosto, Bernardo Tasso o Pietro Aretino, abile reggitrice dello stato dopo la morte del marito.
Qui, sul finire del Quattrocento, è nato il più importante pittore emiliano del medio Rinascimento, Antonio Allegri (Correggio, Reggio Emilia, 1489 c.-1534), noto come il Correggio, piuttosto che con il nome vero o con quello di Antonio Laetus, che ne è la traduzione latina secondo l’uso umanistico. Dopo i primi rudimenti appresi da mediocri maestri locali, Correggio si reca a Mantova, dove si suppone che possa essere stato giovanissimo allievo di Mantegna: nel 1506 morto il grande pittore si trova a lavorare, appena diciasettenne, nella decorazione della cappella funebre del maestro.
Dalla scuola di Mantegna Correggio apprende l’amore per l’antichità classica e per il mito, che interpreterà però in maniera del tutto diversa. Tempera la solennità del maestro con la dolcezza emiliana che gli deriva da Francia e da Costa ed estende le sue conoscenze alle opere di Leonardo e di Giorgione, delle quali comprende non soltanto il significato atmosferico, ma anche, e soprattutto, la concezione moderna del rapporto fra uomo e natura.
Anche se mancano prove documentarie, oggi la critica è concorde nel ritenere che nel 1518 si sia recato a Roma: senza la visione diretta della volta della Cappella Sistina e delle Stanze Vaticane non si spiegherebbero, né concettualmente né formalmente, le maggiori creazioni correggesche posteriori a questa data.
La delicatezza della gamma cromatica e la fresca naturalezza del comporre, sempre variata, si evincono fin dalla sua prima produzione nella quale si dedica a temi religiosi: splendida la “Madonna Barrymore” e il “Noli me tangere” con un magnifico paesaggio agreste sul fondo. Il “Martirio dei quattro santi” è di una drammaticità icastica; affronta temi mitologici e presto s’impone con ritratti mondani. Seguono le grandi imprese pittoriche, come la decorazione della Camera della Badessa nel Convento di san Paolo. Nel verde della cupola si aprono occhi ovali, al di là dei quali, contro l’azzurro del cielo, alcuni putti giocano con elementi venatori.
La piccola Camera della Badessa, pur partendo da uno spunto religioso, è un ambiente eminentemente profano, adatto all’intellettualismo correggesco, comprensibile a pochi eletti. Tuttavia anche quando, nelle cupole di San Giovanni Evangelista e del Duomo di Parma, il Correggio affronta temi sacri in spazi vasti, persegue ugualmente nella mutata la scala proporzionale il proprio ideale di bellezza.

La mostra si apre con le monumentali ante d’organo di Santa Maria della Steccata di Parmigianino, a cui seguono due sale dedicate agli esordi giovanili dei due pittori.
Francesco Mazzola, detto il Parmigianino (Parma, 1503 – Castelmaggiore, Cremona, 1540), spirito inquieto come altri artisti del suo tempo, si forma nella città natale sulla grande arte del Correggio, più che su quella modesta dei suoi primi educatori, gli zii Michele e Pier Ilario. All’ariosa, luminosa, esuberante pittura del maestro, il giovane Parmigianino sostituisce però una ricerca di stilizzazione, che condurrà sempre avanti fino alle ultime creazioni. Indicativo è l’“Autoritratto allo specchio”. La scelta dello specchio circolare convesso, deformante, è un mezzo per togliere alla propria immagine la luce proveniente dalla finestra che si intravede in alto a sinistra. Forse ha ragione il Vasari quando dice che lo fece “per investigare le sottigliezze dell’arte”, tenendo però presente che non si tratta di una semplice esercitazione accademica, di un pezzo di bravura, ma del tentativo di trovare una strada che conduca fuori dalle “secche” del classicismo.

Nel percorso della mostra, in un continuo confronto dei due artisti, ecco la bellissima “Fuga in Egitto con San Francesco” di Correggio: sorprende lo straordinario gioco di luci che piovono su Giuseppe, il bambino e Maria, mentre Francesco inginocchiato appena emerge dal buio con la testa e le mani. Si riverbera la luce, in altra chiave, nella “Madonna di San Zaccaria” di Parmigianino. Entrambe le composizioni sono di una superba maestria, ma quest’ultimo quasi sembra sfondare la tela con la grande figura di vecchio in primo piano di forza michelangiolesca.
“Antea” è uno dei più superbi ritratti del Rinascimento per la compostezza del volto e la sontuosità dell’abito, mentre l’enigmatica bellezza della “Schiava Turca”, dal sorriso malizioso e ironico – immagine icona della mostra – il cui sguardo tranquillo incontra quello dell’osservatore. Entrambi sono due straordinari capolavori di Parmigianino.
Seducente per l’esibita sensualità, è la “Danae” del Correggio, parte dell’ultimo ciclo dedicato agli “Amori di Giove”. Viene spontaneo il paragone con quella più tarda di Tiziano che deriva da questa. I due autori compongono il quadro in maniera simile, eppure giungono a conclusioni del tutto diverse. Mentre in Tiziano la bella donna nuda giace distesa sul letto, attendendo con calma l’unione col dio, qui la giovane, appoggiata ai cuscini, si solleva, seguendo con gli occhi lo svolgersi dell’evento straordinario, il sorriso sulle labbra, le membra mosse, quasi nervosamente vigili, mentre si accinge a ricevere la pioggia d’oro.

Un’ampia selezione di opere su carta mette in evidenza la profonda diversità dell’approccio alla pratica del disegno da parte dei due artisti: quello sostanzialmente funzionale di Correggio è accostato alla produzione più ricca e varia di Parmigianino, artista mosso da un bisogno ossessivo di disegnare.
Bellissimo il dialogo silenzioso tra due piccoli dipinti, il primo un olio su tavola “Matrimonio mistico di Santa Caterina con San Giacomo Minore”, opera del Parmigianino che arriva dal Louvre di Parigi, posto accanto all’olio su tavola del Correggio “Matrimonio mistico di santa Caterina”, arrivata dal Museo di Capodimonte di Napoli,.
Imponente il monumentale olio su tela (3x2m), “San Rocco con il donatore Baldassarre della Torre da Milano”, dipinto dal Parmigianino per la Basilica di San Petronio a Bologna nel 1527. Nella biografia di Parmigianino, Giorgio Vasari afferma che questa pala d’altare fu la prima opera intrapresa dall’artista a Bologna.
La “Conversione di Saulo” databile al 1527, proviene dal Kunsthistoriches Museum di Vienna. L’esattore romano Saulo è appena caduto da cavallo quando uno squarcio luminoso nel cielo segna la sua illuminazione divina e conversione al cristianesimo. Il protagonista, sguardo estatico, è semisdraiato con le braccia spalancate, di cui una appoggiata al suolo, le gambe divaricate con il cavallo bianco che lo sovrasta. Un cavallo che sembra un’apparizione fantastica, del tutto irreale, nella raffinata stesura grigio-argentea con cui si offre alla luce, nella tensione della testa che si staglia sul grigio del cielo, imbrigliata dal prezioso nastro d’oro che cade serpeggiante lungo il collo.

LA SEGNALAZIONE
“L’etica in pratica”: a Unife un ciclo di seminari per conoscere, capire e riflettere

da: ufficio comunicazione ed eventi Unife

Appuntamento il 1° aprile sul tema “Etica e Comunicazione televisiva”.

“L’etica in pratica”. E’ questo il titolo del ciclo di seminari organizzati da Sergio Gessi, docente di Etica della comunicazione e dell’informazione dell’Università di Ferrara, che si terranno ogni venerdì fino al 27 maggio dalle ore 10.15 alle ore 12 nell’Aula Magna Drigo del Dipartimento di Studi umanistici, (via Paradiso, 12).
Prossimo appuntamento domani, venerdì 1° aprile, sul tema ‘Etica e comunicazione televisiva’ con relatrice Dalia Bighinati, giornalista e autrice, direttrice di Tg Telestense, che parlerà di “La vita in onda, ‘una patente per fare tv’?”.
“Il ciclo – spiega Sergio Gessi – ha preso il via il 18 marzo con il prologo del sociologo Fiorenzo Baratelli su democrazia e principio di uguaglianza e si concluderà il 27 maggio con una riflessione sul binomio ‘essere-avere’ di un altro sociologo, Bruno Turra. Nel corso degli incontri l’etica sarà analizzata in riferimento al concreto svolgimento di attività professionali di forte impatto comunitario, valutando per ciascuno gli specifici aspetti comunicativi e relazionali, secondo la più ampia concezione del termine ‘comunicazione’. Gli ambiti scandagliati sono quelli dei media (giornali e tv), della produzione e dei consumi (impresa e pubblicità), delle organizzazioni e delle aggregazioni sociali (politica e web), della ‘presa in cura’ (medica e ambientale)”.

Ecco il calendario del prossimi appuntamenti:
8 aprile – Etica e comunicazione ambientale. “Salvaguardare la casa comune”. Relatore: Andrea Cirelli, coordinatore scientifico di H2O, cultore di Etica della comunicazione all’Università di Ferrara (al polo Adelardi, aula A1)
15 aprile – Etica e comunicazione pubblicitaria. “I venditori di sogni”. Relatrice: Maura Franchi, sociologa dei consumi, docente ordinario all’Università di Parma
22 aprile – Etica e comunicazione nel web. “Miliardari per caso? Intuito e strategia nelle storie di successo del web 2.0”. Relatore: Rudy Bandiera, blogger, giornalista, consulente web, insegna “Teorie e tecniche di digital public relation” all’Università di Venezia e Verona
29 aprile – Etica e comunicazione giornalistica. “Le notizie al tempo dei bit”. Relatore: Marco Zavagli, giornalista, direttore di Estense.com
6 maggio – Etica e comunicazione d’impresa.“Il dovere della trasparenza nei confronti del cittadino-utente”. Dialogo-intervista con Paolo Bruschi, direttore Risorse umane e relazioni esterne di Poste italiane
13 maggio – Etica e comunicazione medica.“Normalità e devianza tra linee d’ombra e stigmatizzazione”. Relatore: Luigi Grassi, direttore del dipartimento di Scienze biomediche e Chirurgico specialistiche dell’Università di Ferrara, presidente della Società italiana psichiatria di consultazione
20 maggio – Etica e comunicazione politica.“La tacita restaurazione degli anni Ottanta”. Relatore: Paolo Morando, giornalista, autore di “Dancing days 1978-1979. I due anni che hanno cambiato l’Italia” e “’80. L’inizio della barbarie”
27 maggio – Conclusioni: etica e società.“Egoismo proprietario o solidale compartecipazione? Un altro mondo è possibile”. Relatore: Bruno Vigilio Turra, sociologo, fondatore dell’associazione Sistemi umani

Per informazioni: Carlotta Cocchi – 0532/293554 – 338/6195391

IL FATTO
Il caso del clarinettista multato in stazione finisce al Parlamento europeo

Finisce al Parlamento europeo il caso di Marco Fusi, clarinettista di fama internazionale multato in un sottopassaggio della stazione ligure di Bordighera, mentre per ingannare il tempo suonava all’aperto nell’attesa di esibirsi in un concerto. Duemila euro di sanzione in base a un regio decreto del 1931 ormai decaduto che prevede l’iscrizione a uno specifico registro per poter suonare. Nell’ammettere l’errore il sindaco Giacomo Pallanca e la polizia municipale hanno portato la multa a 5mila euro per accattanaggio e vendita illegale di materiale audiovisivo. Insomma un servizio all’arte e agli artisti nel paese della cultura. L’episodio, accaduto alla metà di marzo, si è consumato davanti agli occhi di due giornalisti che con la loro testimonianza hanno dato manforte a Fusi nella contestazione delle accuse contenute nella sanzione. Da lì all’interrogazione al parlamento europeo, dove tra l’altro il musicista si è esibito nel 2012 nell’ambito dello spettacolo “Eclisse della Democrazia” con Vittorio Agnoletto, è stato breve. In meno di una settimana quattro deputati, Barbara Spinelli, Curzio Maltese, Marie Christine Vergiat e Eleonora Forenza, hanno ravvisato nella multa una “palese violazione della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” il cui articolo 19 tutela la libertà di espressione in ogni sua forma, compresa quella artistica, della Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo) e della Carta di Nizza (Carta dei diritti della UE). Un tris del diritto, che nella libertà di espressione, inclusa quella artistica, ha uno dei suoi fondamenti. Portata l’attenzione sul caso Fusi, i parlamentari hanno chiesto all’Europa quali iniziative intenda assumere nei confronti della vicenda. “Mi auguro che questa storia – dice il clarinettista – serva ad aprire una riflessione a favore di un movimento di opinione in difesa dell’arte e della musica che sono libertà d’espressione”.

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LA SEGNALAZIONE
Alla riscoperta di Umberto Boccioni, il futurista

di Federico Di Bisceglie

Nei primi anni del Novecento la storia dell’arte mondiale fu caratterizzata da una serie di movimenti ideologico-artistici che influenzarono tutto il corso degli eventi successivi: le avanguardie.
Sono avanguardie artistiche il Cubismo, con i due principali esponenti riconosciuti in Braque e Picasso, il Surrealismo, l’Espressionismo, ma il movimento avanguardistico per eccellenza, il più complesso e più ‘estremo’ fu il Futurismo. Filippo Tommaso Marinetti il 20 febbraio 1909 pubblica il manifesto del movimento futurista sul giornale francese “Le Figaro”, esponendo in undici punti una serie di idee e progetti che saranno destinati a mutare profondamente la visione del mondo e a diffondere le idee futuriste fra le persone.
Il Futurismo è sostanzialmente una frattura radicale con il passato, sia dal punto di vista ideologico che dal punto di vista pratico. Ciò che l’avanguardia futurista esalta maggiormente è l’idea del dinamismo e del ‘nuovo’, frutto di una società in progressivo mutamento, che ambisce a qualcosa di diverso rispetto alle idee del passato, che secondo i futuristi ingabbiano la progressione dell’umanità. Secondo la concezione futurista la frenesia della città rappresenta in maniera autentica la condizione dell’uomo, ne delinea gli aspetti migliori. Secondo il manifesto dell’architettura futurista, stilato da Antonio Sant’Elia nel 1914, la figura dell’architetto deve essere profondamente cambiata e i materiali impiegati devono essere: cemento armato, legno, vetro, e quindi porsi in netta contrapposizione con l’architettura e le forme dei palazzi antichi. Il più rivoluzionario dei manifesti futuristi è però quello sulla pittura, stilato nel 1910 da Carlo Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini, Luigi Russolo e Umberto Boccioni. Proprio lui è in assoluto il più produttivo e il più radicalmente futurista tra i firmatari, sebbene la sua produzione artistica sia limitata alla durata di dieci anni.

Boccioni
Umberto Boccioni

Le tappe della formazione e della realizzazione artistica di Umberto Boccioni sono diverse e talvolta non nettamente riconoscibili. La mostra “Umberto Boccioni (1882-1916): genio e memoria”, organizzata a Palazzo Reale a Milano in occasione del primo centenario della morte del pittore futurista (dal 23 marzo al 10 luglio), ripercorre le tappe della vita dell’artista prematuramente scomparso a causa di una caduta a cavallo nel 1916, attraverso l’esposizione di quasi 300 opere. Quelle di produzione giovanile, all’interno delle quali sono riscontrabili gli stilemi tradizionalmente riconosciuti futuristi, e quelle di produzione più tarda, che denunciano una tendenza alle caratteristiche di opere ascrivibili al cubismo. Frutto di un progetto di ricerca curato dal Gabinetto dei Disegni della Soprintendenza del Castello Sforzesco, la mostra è prodotta e organizzata da Castello Sforzesco, Museo del Novecento e Palazzo Reale, con la casa editrice Electa.
Questa esposizione costituisce un’importante manifestazione culturale, per approfondire e riscoprire le radici di un movimento e di un’artista assolutamente fondamentale per la storia dell’arte. Un’occasione unica per scoprire i più importanti dipinti e sculture dell’artista, ma anche dei principali protagonisti della cultura a lui contemporanea, insieme a un’eccezionale selezione di 60 disegni di Boccioni provenienti dal Castello Sforzesco di Milano, che rappresentano il vero cuore dell’esposizione. Inoltre in mostra si potranno ammirare opere provenienti da importanti istituzioni museali e collezioni private di tutto il mondo, tra cui la Pinacoteca di Brera, le Gallerie d’Italia di Milano, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, la Peggy Guggenheim Collection di Venezia, il Metropolitan Museum of Art di New York, e la Getty Foundation di Los Angeles, il Musée Picasso e il Musée Rodin di Parigi, il Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Tutte le info sul sito di Palazzo Reale

NOTA A MARGINE
Edward Hopper: il pittore della solitudine in mostra a Bologna

Le luci all’interno della sala cinematografica trasmettono un clima di piacevole tepore. Gli spettatori, seduti in comode poltrone rosse, fissano lo schermo davanti a loro, ma noi non riusciamo a capire cosa osservano, quale pellicola venga mostrata. Poco più in là, visibile ai nostri occhi, ma separata dalla sala da un muro e da una colonna lavorata che divide nettamente la scena, una maschera scruta dentro di sè. Bionda e slanciata, sembra avere gli occhi chiusi e, con gesti accentuati, scenici, posa per chi la osserva, ignorandolo.
hopper2La gestione degli spazi e le caratterizzazioni dei personaggi hanno attribuito a Edward Hopper la fama di pittore della solitudine americana. La scena descritta rappresenta un’opera del 1939,”New York Movie”, ed è un esempio di quella che sarà gran parte dell’arte del pittore.
Nato a Nyack, località nello Stato di New York, alla fine dell’Ottocento, trascorre la sua vita privata con la stessa regolarità con cui affronta quella artistica. Durante il suo periodo in Europa e l’obbligatorio soggiorno parigino, non si lascia tentare dalla vita sregolata dei suoi colleghi. La Parigi dei primi del Novecento è una città in continua mutazione, voluttuosa e viva, che vede tra i suoi più illustri cittadini Pablo Picasso, Gino Severini e Amedeo Modigliani, e il giovane artista americano avrebbe potuto essere facilmente risucchiato dal vortice degli artisti maledetti. Apprende molto, la formazione ricevuta dai suoi studi in quegli anni caratterizza le sue prime opere, nelle quali sono presenti lo stile degli espressionisti, le figure di Degas e i colori di Manet, ma da questi si distacca durante il primo periodo del rientro in America, in cui emerge quella che sarà la sua identità, immutata fino alla fine dei suoi giorni. Fondamentale la conoscenza, che porta al matrimonio, con l’artista Josephine Nivison, pittrice che ha avuto meno successo del marito, a cui ha fatto da manager, da musa e da compagna.
Edward Hopper si ritrova coinvolto in un processo artistico essenziale per la storia della sua patria. Fino ai primi del Novecento, infatti, non si poteva parlare di una vera e propria arte americana, gli artisti si trasferivano in Europa, vivevano a Parigi per qualche anno e, al loro rientro, aprivano Accademie in cui primeggiava lo stile tipico europeo, lontano dall’arte folcloristica fino ad allora rappresentativa del territorio americano. Tornato a New York, Hopper si focalizza proprio su questo concetto nazionalistico, mostrando nelle sue opere la realtà americana.
imagePonti, case in stile vittoriano, appartamenti cittadini, ferrovie sono solo alcuni degli elementi da lui ritratti, emblema della contraddizione tra civilizzazione e natura, tra ciò che l’uomo aveva costruito e quello di cui la natura voleva rimpadronirsi. Per questo case immerse nei campi assumono aspetti del paesaggio che li circonda, le mura si colorano con i toni della terra e l’azzurro tenue del cielo conquista le tegole dei tetti.
Lo spettatore osserva queste contrapposizioni da una prospettiva nuova, come se ciò che viene raffigurato fosse il frammento di un’immagine, qualcosa guardato da un treno in corsa. Lo scopo è far sentire spaesato chiunque guardi le opere.
Diverse sono le rappresentazioni degli interni, in cui appaiono le figure umane. Assorte, spesso annoiate, distratte da qualcosa al di fuori del dipinto, che seguono con lo sguardo, lasciando allo spettatore la sensazione di essere un voyeur. Hopper rappresenta donne in momenti di intimità, senza lascivia e senza l’intento di renderli oggetti sessuali. E’ lo studio della natura umana, esseri forti e fragili al contempo, come “Una donna al sole”, intenta a fumare una sigaretta accanto ad un letto disfatto, esposta al sole, pensosa e malinconica. Anche vestite, rappresentate in luoghi di ritrovo come caffè, ristoranti o teatri, le figure di Hopper restano misteriose, con la mente altrove, lasciando che il corpo esibisca la loro semplice presenza fisica.
In tutte le situazioni lo spettatore non è invitato a partecipare ai momenti rappresentati, è l’osservatore silenzioso di parte della scena, osserva i personaggi, ma non quello che ne cattura l’attenzione, come se le finestre fossero quadri all’interno del quadro stesso, rendendo le figure osservate spettatori, a loro volta, di qualcosa che a noi è negato.
Più volte nella sua carriera, il pittore americano ha affermato la difficoltà nel dipingere contemporaneamente un ambiente interno e un esterno, perché per creare una rappresentazione del reale si deve conoscere con attenzione ciò che si vuole mostrare. Così riaffiora alla memoria una casa del suo quartiere, gli alberi che osservava da bambino attraverso una finestra, una delle città in cui ha vissuto.
Lo studio degli spazi gli ha permesso di realizzare i doppi ambienti, fatti di interni ed esterni, grazie alla tecnica della parete penetrabile: vetrate immense che dividono lasciando la scena visibile. In alcune opere lo spettatore deve concentrarsi su ciò che guarda per poter vedere questo muro invisibile, posizionato con una prospettiva tale da sembrare inesistente: in realtà stiamo osservando la scena proprio spiando attraverso la vetrata. In altri quadri, l’enorme elemento separatore diviene oggetto fondamentale per la scena, così come nel celebre “Nottambuli”, del 1942, in cui tre persone, sedute al bancone di un bar situato all’angolo di una via, si perdono nei loro pensieri, osservati a distanza dallo spettatore voyeur, escluso dalla scena.
1280px-Nighthawks_by_Edward_Hopper_1942Nell’arte di Hopper tutto è contrasto: le grandi città, opposte ai piccoli borghi di campagna, donne e uomini, che condividono gli spazi senza che le loro singole identità si tocchino mai, assenti e inespressivi anche nello stessa camera da letto, natura e civiltà. Anche con temi così contrastanti tra loro, le opere non si mostrano mai schierate o politicizzate, l’obiettivo di Hopper, che lui stesso dichiarò irraggiungibile per le sue capacità, era mostrare la realtà nella sua accezione più pura, eliminando ogni tecnica artificiale. Il suo desiderio era realizzare un’opera che shoccasse gli spettatori per la sua rappresentazione così perfetta da sembrare viva.
Le opere dell’artista considerato tra i più importanti del XX secolo, colui che raffigurava la solitudine americana, da oggi sono in mostra al Palazzo Fava, fino al 24 luglio, in collaborazione con il Whitney Museum of American Art di New York. Sono esposte più di sessanta opere, partendo dagli acquerelli parigini fino agli scorci americani realizzati olio su tela, che doneranno una visuale completa della sua concezione artistica e del percorso creativo. La mostra “Edward Hopper”, curata da Barbara Haskell, responsabile della sezione dipinti e sculture dell’istituzione museale americana, e Luca Beatrice, è organizzata in sei sezioni cronologiche che raggruppano i temi centrali dell’arte di Hopper, tra ambigui personaggi e ambientazioni quasi cinematografiche.

Sito ufficiale della mostra

ALTRI SGUARDI
Alba, dolce e creativa alba

La brezza all’alba ha segreti da dirti. Non tornare a dormire. (Rumi)

IMG_5491Ferrara è bella questa mattina, particolarmente bella. Si risveglia in un’alba avvolta di rosa, quasi petali leggeri cadessero dal cielo, una lacrima di un giovane angelo commosso davanti a tanta bellezza. Sembra una bella addormentata distesa su petali lilla che dolcemente apre gli occhi dopo un lungo sonno. Forse Lucrezia sta vegliando sulla città, con la sua divina eleganza. Forse Ercole si compiace della leggerezza dei passi sui ciottoli di una delle vie più misteriose e avvolgenti d’Europa, che come per magia (e che onore) porta proprio il suo nome. Magari Borso guarda all’ingiù, compiaciuto di tante stradine brulicanti di musica, di poesia e di pensieri, di voltini antichi che avvolgono i turisti, di piccioni che zampettano alla ricerca di bambini che ormai non danno più loro alcun chicco croccante di granoturco. Certo che stamane Ferrara è davvero bella.

Dalla bianca tenda ricamata si intravvedono i tetti addormentati, le nuvole si confondono con quei ricami leziosi e preziosi, preziose esse proprio come loro. In un lungo abbraccio senza fine, quei pizzi e quel cielo rosato si perdono all’orizzonte. Quasi si confondono. Si avvicina la primavera, i peschi sono già in fiore, rosa anch’essi, l’erba spunta irrispettosa e cristallina fra le pietre antiche. Il campanile della cattedrale, alto, elegante e meravigliosamente diritto, saluta il cielo, come ogni mattina, nebbia o non nebbia, sole o pioggia, vento o sereno, da lontano mi da il benvenuto. Ancora, sempre, ogni volta che rientro. Immancabile, puntale, sicuro, certo. Rosa. Sempre. Il solito piccione curioso si affaccia sul davanzale di marmo, sembra aver dimenticato le poche lucciole che ieri sera cercavano spazio. Il rumore dei vetri svuotati dai cassonetti sembra un tintinnio lontano, non da fastidio, in fondo è una sveglia allegra dopo una notte baldanzosa che, nella via, ha salutato amici che se ne tornano a casa. Dopo una bella e profumata birra artigianale e qualche spensierata chiacchiera in più. Gioia, poca noia. Aromi.

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Tutto profuma di rosa. Il cielo, il letto, le lenzuola, il divano, la camicia da notte, il balcone. Tutto sa di bello, tutto sa di felicità. Sono io o questo cielo? Magari lo siamo insieme, felici. L’ultimo lampione si è appena spento, piano piano, lasciando spazio alla luce del sole. Ora lui non serve più, almeno fino a un’altra notte, quella che, preceduta da un altrettanto splendido tramonto rosa, lascerà spazio ai sogni. Buongiorno Este, buongiorno città che necessiti di una piccola sveglia, buongiorno storia, anche la mia.

Che il rosa vi avvolga.

Fotografie di Simonetta Sandri

ECOLOGICAMENTE
La pianificazione urbana per rispondere alla sfida del cambiamento climatico

“Le città italiane alla sfida del clima”: è il titolo di un recente dossier di Legambiente, elaborato in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare. L’aspetto più interessante sta nel fatto che propone nuove strategie e politiche di adattamento per rispondere all’emergenza climatica. Nell’ultimo quinquennio, infatti, si sono registrati in molte città impatti rilevanti legati a fenomeni atmosferici estremi: allagamenti, frane, esondazioni, con danni alle infrastrutture o al patrimonio storico. Richiamo alcuni passaggi del rapporto.

I cambiamenti climatici in atto richiedono nuove forme di risposta alle emergenze e ai pericoli che incombono anche sulle nostre città. Nuove forme di pianificazione e di gestione delle aree urbane sono necessarie per mettere in sicurezza i cittadini e ridurre gli impatti sui quartieri e sulle infrastrutture dei centri urbani. Secondo gli esperti, infatti, saranno proprio le aree urbane a pagare i costi sociali maggiori del ‘global warming’ in particolare nell’area del Mediterraneo. Le città sono il cuore delle sfida climatica in tutto il mondo perché è nelle aree urbane che si produce la quota più rilevante di emissioni ed è qui che l’intensità e la frequenza di fenomeni meteorologici estremi sta determinando danni crescenti, mettendo in pericolo vite umane e provocando gravi danni a edifici e infrastrutture.

In Italia sono diverse le ragioni per cui l’adattamento al clima deve diventare una priorità nazionale. L’81,2% dei comuni è in aree a rischio di dissesto idrogeologico, con quasi 6 milioni di persone che vivono in zone a forte rischio. Le città quindi devono poter affrontare la sfida dei cambiamenti climatici, dell’aumento dei fenomeni meteorologici estremi e degli impatti sociali che, proprio nelle aree urbane, determinano conseguenze spesso drammatiche. Per riuscire in questo intento e ridurre rischi e impatti, occorre attuare strategie di adattamento mirate, gestite a livello nazionale e locale.
Per Legambiente una politica idonea deve prevedere l’elaborazione di Piani Clima delle città, cioè di uno strumento che consenta di individuare le aree a maggiore rischio, di rafforzare la sicurezza dei cittadini anche in collaborazione con la Protezione Civile, in modo da elaborare progetti di adattamento di fiumi, delle infrastrutture, dei quartieri.
Gli esempi di interventi di adattamento raccontati in questo dossier (da Copenaghen a Bologna, ad Anversa) dimostrano come sia possibile realizzare progetti capaci di dare risposta ai rischi climatici in una prospettiva di miglioramento della vita nelle città: mettendo in sicurezza un fiume, restituendo spazi alla natura e alla fruizione dei cittadini, creando quartieri vivibili, anche quando le temperature crescono, grazie agli alberi e all’acqua, a materiali naturali che permettono di ridurre l’effetto isole di calore. L’adattamento al clima è la vera grande sfida del tempo in cui viviamo. Per vincerla, dobbiamo rendere le nostre città più resilienti e sicure, cogliendo l’opportunità di farle diventare anche più vivibili e belle.

Il dossier riporta le informazioni raccolte nella mappa interattiva relative ai danni provocati in Italia dai fenomeni climatici dal 2010 a oggi, con particolare attenzione alle città. Nella mappatura, a ogni episodio sono associate informazioni che riguardano sia i danni che gli episodi precedenti avvenuti nello stesso comune, per contribuire a chiarire i caratteri e l’entità degli impatti provocati, individuare le aree a maggior rischio, registrare dove e come i fenomeni si ripetono con maggiore frequenza per cominciare a evidenziare, laddove possibile, il rapporto tra accelerazione dei processi climatici e problematiche legate a fattori insediativi o infrastrutturali nel territorio italiano.

More info: www.planningclimatechange.org/atlanteclimatico

Per leggere il rapporto clicca qui

NOTA A MARGINE
Con don Ciotti e Libera per costruire ponti verso un futuro di legalità

Dagli oltre 30.000 di Messina agli 8.000 di Reggio Emilia. Oltre 350.000 persone si sono ritrovate ieri in piazza in diverse città d’Italia, per celebrare da Nord a Sud la XXI Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di tutte le mafie, quest’anno intitolata “Ponti di memoria. Luoghi d’impegno”: per costruire un’Italia che non si limita a dire cosa non va ma si mette in gioco per farle andare. Da Messina, scelta perché il paese ha bisogno non di grandi opere, ma di “ponti che allargano le coscienze e traghettano le speranze”, a Reggio Emilia, la città dei fratelli Cervi e del processo Aemilia, perché è necessaria “l’opera quotidiana di cittadini responsabili” per tradurre “la speranza di cambiamento in forza di cambiamento”. Tutti insieme, dalle 11 in poi per 40 minuti, hanno letto l’elenco di circa 900 nomi di padri, madri, figli, figlie, fratelli e sorelle uccisi dalle mafie nella storia dell’Italia. A Messina nella lettura si sono alternati giovani e famigliari, un ponte di memoria fra adulti e nuove generazioni. Contro “l’anestesia delle coscienze”, “la caduta del senso etico”, una memoria “non di circostanza”, ma “condivisa”, come ha affermato don Luigi Ciotti aprendo il suo discorso, che “non si limita a ricordare le vittime innocenti, ma si impegna a realizzare gli ideali per i quali sono vissute”. Ponti per il futuro costruiti con ideali e parole: scuola, cittadinanza, inclusione, partecipazione, dignità, responsabilità e libertà.

presidio giuseppe francese
I ragazzi del Presidio studentesco Giuseppe Francese di Ferrara a Reggio Emilia

“Nessun ragazzo sia escluso dalla scuola”, una scuola che deve fornire “la competenza alla cittadinanza”, per imparare a “riconoscersi uguali cittadini e diversi come persone” e a comprendere come “la libertà sia il più prezioso dei doni e la più esigente delle responsabilità”. Responsabilità, impegno e partecipazione, perché “le mafie non sono un corpo estraneo, sono i parassiti” che distruggono la nostra società. Noi stessi li alimentiamo, quando non denunciamo un sistema che non rispetta la dignità di milioni di persone, siano esse alle prese con la povertà materiale e culturale, di diritti e di valori, con il ricatto delle mafie e del lavoro nero, o siano gli immigrati “oggetto di accordi umilianti come quello fra Europa e Turchia, frutto dell’ipocrita distinzione tra profugo di guerra e migrante economico – ha denunciato don Ciotti – come se la guerra non fosse combattuta soprattutto con armi economiche e non fosse essa stessa fonte di profitto”. E poi c’è la dignità dell’ambiente in cui viviamo, una questione che secondo don Ciotti riguarda “il bene comune”, non “gli orientamenti personali”: a proposito delle trivellazioni e del referendum del prossimo 17 aprile ha parlato di “diritto delle popolazioni a opporsi allo scempio della propria terra”.
Un’altra parola per costruire ponti è “inclusione”, che “sta alla base della democrazia”. “Le mafie e la corruzione non troveranno spazio in comunità solidali, inclusive”, se “insieme sapremo vincere l’egoismo, l’indifferenza, l’opportunismo”, definiti da don Ciotti “i peccati più grandi della nostra epoca”.
Un ricordo agli amministratori, ai magistrati e alle forze di polizia che fanno il proprio dovere con coraggio, ai giornalisti che raccontano l’Italia che resiste e che si impegna, a Ignazio Cutrò e a Tiberio Bentivoglio, che con la loro testimonianza di dignità sono diventati parole di carne, ai “giovani dell’area penale della giustizia minorile”, che devono essere aiutati “a prendere coscienza delle proprie responsabilità”. Infine il richiamo alla Costituzione come “primo testo antimafia del nostro paese”, “bisogna amarla e applicarla”, “dobbiamo farla diventare costume e cultura”. In essa sono sanciti i “diritti sociali” senza i quali non si possono esercitare i diritti politici e civili.
Don Ciotti però non ha omesso le preoccupazioni che intralciano la costruzione di questi ponti di memoria, di impegno, di libertà: sull’iter della legge istitutiva del 21 marzo, che ha appena passato la prima lettura in Senato, e riguardo i beni confiscati, “uno strumento non usato in tutte le sue potenzialità”. Per giocare questa partita decisiva “occorre un’agenzia nazionale più attrezzata”, “un maggior coinvolgimento degli enti locali”, “occorre evidenziare il valore etico e sociale” delle esperienze di riutilizzo sociale e rimettere al centro “il problema delle aziende: il grande fallimento di questi anni”.

Il 21 marzo a Ferrara
Anche a Ferrara il 21 marzo è iniziato con il nome di una vittima innocente delle mafie: Roberto Mancini. Mancini, come ricordato dal referente del Coordinamento provinciale di Ferrara di Libera Donato La Muscatella, è morto nell’aprile 2014, a 53 anni, per cause di servizio: è l’investigatore che con le sue indagini, all’inizio degli anni Novanta, ha anticipato di 15 anni Gomorra e la Terra dei Fuochi. Da quelle indagini alla fine è stato avvelenato.
A Ferrara questo 21 marzo si è parlato di ecomafie, dei nuovi strumenti per combatterle e di come riconoscerne i primi sintomi, con l’incontro “A munnezza è oro. Una strage silenziosa. Società civile e diritto nel contrasto alle ecomafie” – presso il dipartimento di Giurisprudenza – e la presentazione del libro di Daniela De Crescenzo “Così vi ho avvelenato. Il grande affare dei rifiuti tossici raccontato da un boss della camorra” (Sperling and Kupfner) alla libreria Feltrinelli. Entrambi gli eventi sono stati organizzati in collaborazione da Comune di Ferrara, Coordinamento Provinciale di Ferrara di Libera, Laboratorio MaCrO del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, Regione Emilia Romagna e Avviso Pubblico – Enti Locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie.
Alessandro Bratti, presidente della commissione parlamentare ecomafie – che quest’anno compie vent’anni, come la legge sulla confisca e il riutilizzo sociale dei beni della criminalità organizzata – nel suo intervento ha sottolineato la stretta connessione fra ecomafie e corruzione e come i reati ambientali rappresentino un vulnus non solo per l’ambiente, ma anche per la salute e l’economia di un territorio. E non è detto che il territorio sia solo quello campano. La distrazione di risorse economiche dall’economia legale e la creazione di una competizione distorta, sbilanciata a favore di chi non rispetta le regole, per non parlare degli enormi introiti che poi vengono riciclati in altre attività, sono tutte conseguenze dei fenomeni di “illegalità ambientale”, termine secondo Bratti preferibile al più evocativo ‘ecomafie’, che coinvolgono tutto il nostro paese. Gli eco-reati, come il traffico e lo smaltimento illegale di rifiuti, sono un vantaggiosissimo business per i clan; anche per questo c’è ormai una vera e propria internazionalizzazione, con direttrici che portano soprattutto verso Cina, Albania e Romania.
Bratti ha spiegato poi come ad aver favorito l’illegalità sia stato anche il fenomeno dei “commissariamenti”: agendo in deroga alle leggi ordinarie, la gestione del ciclo dei rifiuti è avvenuta “in regime emergenziale”, per esempio con affidamenti diretti senza gare. E questo non ha giovato alla trasparenza e alla legalità. Per quanto riguarda l’amministrazione, l’onorevole ha puntato il dito contro “la gestione clientelare del consenso”, attraverso “assunzioni nelle società” per la gestione della raccolta e dei trasporti dei rifiuti.

copertina ecomafie
La copertina del libro

Anche alla Feltrinelli si è parlato della pervasività geografica degli eco-reati. Non si tratta solo del fatto che i rifiuti smaltiti illegalmente venivano dalle imprese del Nord Italia. Daniela Di Crescenzo, autrice di “Così vi ho avvelenato”, ha rivelato che in realtà “non possiamo sapere fino in fondo dove siano finiti i rifiuti”. Il suo libro si basa sulle rivelazioni del pentito di Camorra Gaetano Vassallo, che racconta come in molti casi non avesse mai visto il materiale da smaltire, ma avesse “solo venduto la bolla”, cioè “la ricevuta delle spese di smaltimento”. Per Daniela il veleno dei rifiuti è anche il veleno morale della corruzione, che contagia e contamina le coscienze di amministratori, tecnici, imprenditori, “tutto per denaro”. “In Campania come in Veneto” il meccanismo è lo stesso, ha affermato Bratti. E ora, concordano i due, con “500 milioni circa messi a disposizione del sistema”, il rischio è che si crei un nuovo business: “quello delle bonifiche”. In altre parole “il rischio è che oggi bonifichino le stesse persone che prima hanno inquinato”, ha detto Di Crescenzo.
Tuttavia qualcosa è cambiato: dal maggio 2015 con la legge n°68 il Parlamento ha introdotto i reati ambientali nel Codice Penale e il bilancio fra guadagni e rischi delle attività illegali nel settore ambientale non è più così vantaggioso. La legge è un “passaggio importante”, perché fattispecie come inquinamento e disastro ambientale, abbandono illecito e impedimento del controllo, sono ora punibili penalmente e perché si è dato “specifico rilievo alle connessioni fra criminalità organizzata e crimini ambientali”, ha spiegato Costanza Bernasconi di Unife. Anche gli interventi di Giuseppe Battarino, consulente della Commissione Parlamentare Ecomafie, e di Antonio Pergolizzi, dell’Osservatorio nazionale ambiente e legalità di Legambiente, si sono focalizzati sulla nuova legge sugli eco-reati del maggio 2015. Pergolizzi ha parlato di “strumenti più efficaci per perseguire questi crimini odiosi”, come dimostra anche il dossier che verrà presentato proprio oggi da Legambiente sui “primi dieci mesi di applicazione” delle nuove norme: i numeri parlano di “1000 notizie di reato” e “784 prescrizioni” comminate.

A margine delle iniziative, abbiamo chiesto all’onorevole Bratti – che riveste anche la carica di presidente degli Ecologisti democratici ed è coordinatore dei parlamentari Ecodem – un commento sul referendum sulle trivellazioni, al quale anche don Ciotti aveva accennato in mattinata durante la manifestazione di Messina. La sua posizione è netta: “noi riteniamo che questo sia un referendum assolutamente inutile e fuorviante, perché che vinca il sì o che vinca il no, il giorno dopo non succede assolutamente nulla. Detto questo, dato il valore simbolico insito in ogni referendum, riteniamo si debba andare a votare ed esprimere il proprio voto. Però deve essere chiaro che questo referendum non cambia, se non di pochissimo, lo sfruttamento delle risorse fossili autoctone. Il tema vero è la rivisitazione della strategia energetica nazionale”.

Il 21 marzo a Reggio Emilia e a Ferrara (clicca sulle immagini per ingrandirle)

Libera Reggio
La manifestazione di Reggio Emilia
Libera Reggio
La manifestazione di Reggio Emilia
Libera Ferrara
L’incontro a Giurisprudenza
Libera Ferrara
La presentazione alla Feltrinelli

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Ponti di giustizia e legalità

Guarda il video della piazza di Messina

LA LETTERA
Intervento della polizia all’Ipsia Ercole d’Este: parlano gli studenti

da: studenti tutor Ipsia Ercole d’Este

IMG-20160319-WA0001Cari lettori,
noi studenti dell’IPSIA siamo consapevoli di ciò che è accaduto, e non intendiamo assolutamente minimizzarne la gravità. Tuttavia, noi tutor, parlando a nome di tutta la scuola, riteniamo di doverci dissociare da quanti pensano che l’IPSIA sia un luogo adibito allo spaccio e privo di regole: infatti quanto è accaduto rappresenta l’eccezione e non certo la regola!
Noi non siamo né migliori né peggiori dei ragazzi delle altre scuole, siamo ragazzi che credono in loro stessi, nelle loro capacità e progetti futuri, e che ogni giorno affrontano la scuola con serenità e dedizione.
Nessuno di noi è depositario di certezze, nessuno di noi giudica gli altri e nemmeno vuole essere giudicato secondo degli stereotipi che non hanno nessuna base.
Cari lettori, quanti di voi ragionano secondo gli stereotipi? Quanti di voi si mettono in discussione e conoscono la realtà di ogni singola scuola? Siete sicuri che noi rappresentiamo il degrado? Sinceramente noi, i 287 alunni dell’IPSIA, rispondiamo di no.
Noi pensiamo invece che non bisogna nascondere i problemi, ma affrontarli con determinazione e tramite questi crescere e dimostrare tutti i nostri punti di forza, che grazie alla scuola abbiamo la possibilità di esprimere.
Purtroppo però, come sempre accade, non fa notizia il nostro entusiasmo, il nostro impegno quotidiano e la nostra creatività. Fa più rumore un albero che cade, di una foresta che cresce.
Dopo avervi suscitato dei dubbi ed esserci messi in discussione, lo scopo di queste parole è di farvi conoscere il nostro lato migliore. Il bello di fare tante attività che ci permettono di diventare, prima che studenti, cittadini consapevoli, inseriti nella società, e futuri lavoratori in un mondo che purtroppo ha dimenticato la dignità del vero lavoro.
Per questo vogliamo riportare solo alcune delle attività che nel nostro Istituto sono state svolte nel corrente anno scolastico durante la pausa didattica (tra il primo e il secondo quadrimestre): promozione servizio civile, incontro con l’AVIS per sensibilizzare sul tema dellla donazione, corso sulla sicurezza in preparazione all’alternanza scuola-lavoro; incontro con i carabinieri e con la polizia per discutere rispettivamente di legalità e di prevenzione al bullismo (che secondo un altro stereotipo diffuso sarebbe appannaggio della nostra scuola); incontro con la Caritas per sensibilizzare alcune classi al volontariato; progetto ADMO (donazioni di midollo osseo); laboratori teatrali e proiezioni di film; sfilate e tante altre attività.
Ci auguriamo che questi aspetti positivi della nostra scuola ottengano la stessa visibilità che fino ad ora ha riguardato solo quelli negativi.

LA BELLEZZA CI SALVERÀ
Visitare Cuba… in attesa di un’altra Rivoluzione

I nostri mesi invernali sono ideali per visitare I’area Caraibica.
Piove a tratti e con intensità, siamo ai tropici, ma quando i giorni sono soleggiati si possono toccare i 35°, ottimi per un fantastico bagno nel Mar Caraibico.
Cuba è l’umanità carnosa che conosciamo, è la vegetazione che deborda, è il ballo e il canto, è ‘el ron’ (o rum), i cocktail sulle auto americane, è il coloniale e il barocco, il sole, il mare, l’Hemingway Special e la Revolucion o, perlomeno per chi vuol vedere, quel sogno drammaticamente infranto che ha ubriacato diverse generazioni e alimenta ancora qualche nostalgico – molti italiani – che si aggira per L’Avana nel nome del Che e di Fidel. Cuba è unica nell’universo caraibico per quel clima decadente che si respira per le vie di L’Avana. Palazzi oggi fatiscenti che lasciano immaginare una città superlativa e ricca al tempo della borghesia e dei mercanti di tabacco, di caffè, della canna da zucchero, coltivate da quei diversi milioni di schiavi neri forzatamente imbarcati dall’Africa.
Cuba ha capi orgogliosi, ma è rassegnata nella gran parte della popolazione: è in ginocchio, ha un’economia senza finanza e con nessun punto di forza, salvo il turismo per stranieri, che però può contare su pochissime strutture accettabili di ricezione. Minima la conoscenza dell’inglese (ostacolato), si parla solo spagnolo quindi un italiano si arrangia, ma sempre lì si finisce: “come va con il modello Fidel?” Con molta diffidenza e riluttanza i cubani ne parlano, senza dimenticare che fra canti, musica, danze in ogni angolo, ci troviamo nel pieno di una dittatura comunista, che opprime gli oppositori con i metodi usuali.
Viaggiare attraverso Cuba in auto è piacevole, gli autisti negoziano i costi dei percorsi e potete scegliere fra auto americane Dodge, Chevrolet, Ford, Pontiac dal ‘50 fino al ‘58 (con nuovi motori Hyunday, Mitshubishi). Le buche non vengono chiuse, il vero dramma dei driver è che rischiano i semiassi ogni volta che escono, mentre sul ciglio stradale troneggia martellante la propaganda politica del Che e di Fidel: “El pueblo unido jamás será vencido”.
Le vallate delle piantagioni del tabacco, un vero paradiso naturale, ospitano in condizioni per noi europei perlopiù inaccettabili, una popolazione all’apparenza serena; i mezzi di locomozione più popolari sono i piedi, il calesse, il cavallo. Le case dell’interno sono estremamente povere e contrastano con quelle eleganti del quartiere abitato dalla nomenclatura di L’Avana, l’area Miramar: pulita, ariosa con ville e parchi destinati ai politici locali e agli ospiti internazionali.
Trinidad deve essere visitata: un gioiello di città con cinquecento anni di vita, con case coloniali barocche intorno alla Plaza Mayor e dove, dalle finestre aperte, si possono ammirare con invidia arredi coloniali e liberty quasi fossero negozi di antiquari illuminati dai meravigliosi lampadari con cascate di gocce di cristallo.
I musei sono chiusi, tranne quello della Rivoluzione, dove si celebra la vittoria nella Baia dei Porci.
Le verdi campagne a fianco delle strade sono ricchissime d’acqua, ma non sono coltivate. I cubani ci dicono che se uno lancia un seme dopo un giorno già cresce qualcosa, ma nessuno è incoraggiato a coltivarle.
Un universo multietnico che oggi pare viva un’integrazione felice in un equilibrio sperimentale fra bianchi, di colore, mulatti, meticci e i pochi Indios salvatisi dall’occupazione spagnola.
I cubani, liberati dalla dittatura di Batista nel 1959 dalla rivoluzione castrista, sono stati poi costretti dallo stesso Castro in una camicia di forza con la quale non è consentito conoscere il mondo e che oggi intrappola e condanna al silenzio la generazione digitale.

cuba

Un paese purtroppo orientato verso un destino incerto e senza obiettivi, a meno che qualcosa non succeda.
Ed ecco apparire Obama e la soluzione, a poche miglia marine verso la Florida, nel passato via di fuga dei perseguitati da Castro e oggi orizzonte di nuove opportunità, ma che viaggiano in direzione opposta. Da ieri, per la prima volta dopo 88 anni, un Presidente Usa è in visita nell’isola caraibica, per una tre giorni di carattere politico e…commerciale: una compagnia alberghiera americana ha appena firmato un accordo per la gestione di tre strutture a L’Avana.
Le diverse sfumature con le quali i cittadini cubani vivono le aspettative, nell’attesa di una seconda rivoluzione, non limitano il loro guardare verso Nord, verso quella terra a stelle e strisce che potrebbe rappresentare la nuova frontiera per intraprendere un nuovo cammino e realizzare nuovi sogni in una nuova rivoluzione che, è un augurio, non li spogli di una cultura secolare e di una identità originale.
Ci hanno detto “la teoria della rivoluzione è una cosa, la pratica purtroppo è diversa”.
Cuba è affascinante, visitatela subito. Miami è troppo vicina.

L’INTERVENTO
La casa del sisma: gli avvocati della famiglia Zaniboni rispondono al sindaco di Vigarano

Da avvocato Giovanni Govi e avvocato Valerio Guazzarini

La famiglia Zaniboni, per il tramite dei propri legali Avv.ti Giovanni Govi e Valerio Guazzarini, tiene a formulare alcune fondamentali precisazioni rispetto ai contenuti dell’articolo relativo al contenzioso in essere con il Comune di Vigarano Mainarda ed alle dichiarazioni del Sindaco e funzionari comunali ivi riportate.
In primo luogo, si tiene a rimarcare che la condizione di inagibilità dell’intero immobile di proprietà Zaniboni è stata, in primis, attestata dai Tecnici della Protezione Civile, come inequivocabilmente emerge dal contenuto della scheda Aedes n. 11 del 4/7/2012, ove, per l’appunto, tali Tecnici (anche evidenziando la completa accuratezza della verifica dai medesimi condotta) si esprimono in termini di inagibilità dell’intero edificio per alto rischio strutturale.
Dunque, i Tecnici della famiglia Zaniboni – peraltro qualificatissimi esperti che hanno redatto perizie e formulato valutazioni sotto la propria responsabilità – in sostanza si sono espressi in linea con quanto era già stato accertato dalla Protezione Civile.
S’aggiunga che in conformità con quanto attestato dalla Protezione Civile si è anche recentemente espresso il Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di Ferrara che, in esito a sopralluogo del 18/01/2016, ha confermato come l’intero fabbricato in questione sia, nella sua interezza, non fruibile proprio a causa delle “lesioni diffuse alle strutture” derivanti dalle scosse sismiche verificatesi durante il terremoto del 20 – 29 maggio 2012.
Dunque, il Comune, con il diniego di contributi e la revoca dell’Ordinanza di sgombero (ossia con gli atti impugnati innanzi al TAR nel giudizio tutt’ora in corso), ha ritenuto di basarsi sugli asseriti (e contestati) esiti di quell’unico sopralluogo svolto – in pochi minuti e senza particolare approfondimento – dall’Ufficio Intercomunale.
Ciò, quando, invece, tutti i sopralluoghi e le verifiche analitiche e circostanziate condotte dagli altri tecnici (ossia, tanto da quelli incaricati dalla proprietà, quanto da quelli della Protezione civile e dal Comando dei Vigili del Fuoco) hanno portato all’accertamento dell’inagibilità dell’intero immobile per gravi lesioni alle strutture.
Quanto, poi, allo stato del contenzioso, si tiene a ribadire come, ad oggi, si siano avuti soltanto pronunciamenti relativi alla c.d. “fase cautelare”, non essendosi ancora giunti ad una disamina nel merito da parte del Tar (innanzi al quale la causa tutt’ora pende).
In proposito, fermo che nel caso di specie risulta sussistere un gravissimo pregiudizio per la famiglia Zaniboni (atteso che l’inagibilità della propria abitazione incide anche sui diritti – costituzionalmente garantiti – alla casa ed all’incolumità), v’è, comunque, da evidenziare che il Consiglio di Stato, nell’Ordinanza con cui si è esclusivamente pronunciato in via cautelare, ha rilevato che “il provvedimento di diniego dei contributi comporta un danno di natura patrimoniale”.
Ciò, dunque, con la conseguenza che, ove le ragioni della famiglia Zaniboni vengano accolte nel merito, incomberà sull’Amministrazione comunale l’obbligo di risarcire il ricorrente della somma di € 917.637,45 oltre iva (corrispondente ai contributi negati), oltre ad interessi e rivalutazione, ed oltre ad ulteriori danni subiti e subendi anche sotto il profilo morale, esistenziale, biologico e psicofisico.
In proposito, si deve, altresì, rimarcare che la richiamata Ordinanza del Consiglio di Stato riconosce la rilevanza dell’accertamento tecnico per la cui ammissione rimanda al TAR.
Il che è, in verità, in linea con la richiesta di Consulenza Tecnica d’Ufficio formulata da parte Zaniboni sin dal ricorso introduttivo al TAR.
La famiglia Zaniboni, infatti, sin dal primo atto del contenzioso in essere, ha richiesto che lo stato della propria abitazione (e, dunque, il livello di danno e l’inagibilità della stessa) vengano, per l’appunto, constatati da un tecnico nominato dal TAR e, dunque, da un tecnico che dovrà essere super partes.
V’è, dunque, non solo la disponibilità all’effettuazione di ulteriori verifiche (per quanto le risultanze degli accertamenti svolti dalla Protezione civile, dal Comando dei Vigili del Fuoco e da tutti i tecnici incaricati dalla Proprietà, siano conformi nell’attestare la richiamata inagibilità dell’intero immobile), ma nuovi accertamenti sono addirittura auspicati, purché condotti da tecnici effettivamente obiettivi.
Quanto, poi, ai riferimenti alle richieste di sopralluogo dei tecnici della Regione – tecnici attivati dal Comune – si precisa che di tali richieste due non sono state accolte per insufficiente preavviso e per sussistenza di precedenti impegni della famiglia Zaniboni.
L’ultima richiesta di sopralluogo, invece, è stata declinata in considerazione della circostanza che, nelle more, è avvenuto il deposito, presso la Procura della Repubblica di Ferrara, di una denuncia da parte della sig.ra Zaniboni e dunque, nella consapevolezza che la ridetta denuncia avrebbe potuto minare la serenità dei funzionari regionali che si fossero espressi, ritenendo opportuno rinviare ogni ulteriore accertamento in attesa degli accertamenti della Magistratura.
Tanto posto, e pur con tutte le riserve del caso, prendendo atto delle recenti esternazioni del Sindaco circa il fatto che la “prima preoccupazione” dello stesso Sindaco sarebbe la “sicurezza”, la famiglia Zaniboni tiene a evidenziare nuovamente la propria disponibilità all’effettuazione di un sopralluogo da parte dei tecnici regionali, ovviamente in contraddittorio con i propri tecnici.
Disponibilità che viene rinnovata nell’auspicio che ciò finalmente conduca ad una definizione rapida ed obbiettiva della vicenda e, dunque, non determini ulteriori ingiustizie a carico della famiglia Zaniboni.
Ciò, sempre fermo che l’inagibilità dell’immobile già risulta dalla documentazione tecnica da tempo in possesso del Sindaco (documentazione, come ricordato, proveniente dalla Protezione Civile, dal Comando dei Vigili del Fuoco e dai numerosi tecnici incaricati dalla Proprietà) e, dunque, sempre fermo il dovere del Sindaco di prendere atto di tali risultanze (ed, in proposito, si rimarca che anche il Consiglio di Stato, nella citata Ordinanza, tiene a richiamare i “poteri” – con i connessi doveri – “sindacali a tutela della pubblica incolumità”).
D’altro canto, tale rinnovata disponibilità viene ad essere esternata anche in considerazione della circostanza che il Sindaco, sul quotidiano on –line “Estense.com” , ha, comunque, pure dichiarato “l’attiguo fienile, che è ufficialmente inagibile e riceverà i fondi per il ripristino” .
Anche se, in verità, nel caso di specie, come abbondantemente documentato, ciò che viene definito “fienile” è, a tutti gli effetti, parte dell’unica abitazione, le riportate affermazioni del Sindaco costituiscono una novità che ci si augura possa essere un primo passo verso il riconoscimento alla famiglia Zaniboni di tutto ciò che alla stessa spetta.

IL FATTO
Clara, la nuova frontiera della raccolta dei rifiuti in provincia di Ferrara

Si chiamerà “Clara – Servizi Ambientali per il Territorio” la Newco nata dall’unione delle società Area Copparo e Cmv, le due multiutility in-house specializzate nella raccolta rifiuti e servizi, che conta fra i soci 22 comuni della provincia di Ferrara. Nome, logo e sede sono stati svelati ieri mattina in conferenza stampa in comune a Copparo; al tavolo dei relatori il sindaco di Cento, Piero Lodi, e quello di Copparo, Nicola Rossi, l’amministratore unico di Cmv Raccolta, Nicoletta Bologna, e Gian Paolo Barbieri, attuale presidente di Area.
“Abbiamo voluto svelare logo e nome con sei mesi di anticipo rispetto alla chiusura della procedura di fusione fra le aziende – ha spiegato Barbieri – per dare la possibilità ai nostri utenti di abituarsi al nuovo nome, per imparare a conoscerci.”
Azzurro e verde, il logo della Newco riprende i colori che hanno caratterizzato per tanti anni le due aziende e diventa il marchio di una nuova realtà del territorio che non intende perdere il contatto con i cittadini.
“In rappresentanza di tutti i comuni soci di Cmv sono felice di poter dire che questa giornata è un punto di approdo, per il duro lavoro fatto in questi mesi, ma è anche un nuovo inizio – ha spiegato il sindaco Lodi – Con la nascita di Clara si apre una nuova dimensione geografica e politica: geografica perché tutti i comuni del ferrarese, eccetto Ferrara e Argenta, entrano a far parte di una stessa realtà territoriale che fornisce ai cittadini interessati un interlocutore unico, più forte e credibile. Con la nuova società facciamo un grande passo avanti verso la semplificazione, superiamo i campanili unendo luoghi e prassi per dare ai nostri cittadini una maggiore efficienza di governance. Diventiamo infatti più grandi, ma non perdiamo affatto la nostra identità locale”.
A fare eco il sindaco di Copparo: “E’ l’inizio di un nuovo percorso che sconvolge un po’ il punto di vista culturale che avevamo della raccolta dei rifiuti: si focalizzerà sul cercare la migliore risposta possibile delle comunità di riferimento. Il prossimo step sarà riuscire a creare un’azienda in grado di fare del rifiuto una risorsa. La nostra volontà è migliorare la vita e la salute dei cittadini, ma anche riuscire ad abbattere le tariffe, dopo un momento di investimento necessario sono sicuro che ci riusciremo”.
Concorda con il beneficio che la fusione porterà alla comunità anche l’amministratore unico di Cmv Raccolta, Nicoletta Bologna. “Questo percorso fatto assieme sarà assolutamente positivo per i cittadini, stiamo lavorando per questo.”
“Anche se l’iter di fusione non è ancora terminato – ha concluso Barbieri – noi stiamo interagendo e lavorando già come una sola azienda, con incontri settimanali per procedere unitariamente su tutti i fronti e le idee chiare rispetto a quello che sarà. I prossimi passi saranno innanzitutto la consegna dei bilanci consuntivi 2015, necessari per il riparto delle quote, poi la conclusione del confronto con i sindacati, per gli aspetti legati al progetto di fusione dal punto di vista della gestione dei nostri lavoratori, infine il voto del progetto di fusione in tutti i consigli comunali interessati. A settembre avremo quindi l’atto formale di fusione e la nascita di Clara.”
Il Consiglio di Amministrazione sarà composto da un rappresentante ex Area, uno ex Cmv e uno di Comacchio, visto che è atteso l’ingresso nella in-house anche del comune costiero. I nominativi dei membri del Consiglio saranno indicati dai soci.
La sede principale sarà a Copparo, nella struttura dell’ex caserma dei Carabinieri, di fianco alla sede del Municipio: l’edificio è in disuso e sarà oggetto di una ristrutturazione importante, così come potrebbe essere inglobato nel progetto la palazzina dell’ ex dispensario dell’AUSL, per la cessione del quale sono in corso serrate trattative.
“Resteranno operative le due sedi attuali, tutti gli sportelli per l’utenza e i servizi di call center – ha rassicurato infine Barbieri – Clara si presenta ai cittadini come un’azienda maggiormente efficace e competitiva, con un bacino di 120.000 clienti domestici e 13.500 aziende su un territorio di quasi 2.000 chilometri quadrati di superficie, ma vicina agli utenti”.

LA SEGNALAZIONE
Unlearning, il film documentario di Lucio Bassadone, fa tappa al Ferrara Sharing Festival

da: ufficio stampa Sedicieventi

Non poteva essere altrimenti! Farà tappa anche al Ferrara Sharing Festival il tour di Unlearning, film documentario di Lucio Bassadone che racconta il viaggio di una famiglia italiana alla scoperta di nuovi modelli di vita basati sulla sharing economy.

Reduce dal successo nei maggiori festival di documentario italiani e internazionali e dopo la prima proiezione di gennaio, la pellicola sarà nuovamente proposta al pubblico del cinema Boldini sabato 21 maggio alle ore 17.30.

L’iniziativa, organizzata tramite Movieday (piattaforma web che consente a chiunque di proporre proiezioni in alcune sale cinematografiche) si inserisce in un più vasto calendario di appuntamenti culturali e musicali, promossi in collaborazione con Arci Ferrara. Fra questi, il Primo Festival Musicale delle Produzioni dal basso, ideato da artisti che hanno prodotto le proprie opere grazie a piattaforme sharing e ad altre forme di condivisione e autoproduzione.

Da oggi ed entro il 14 maggio, è necessario prenotare online (http://www.movieday.it/event/event_details?event_id=311) il biglietto per Unlearning , per raggiungere il quorum minimo di partecipanti che permette la conferma dell’evento. Il film è un appassionante racconto di una famiglia in viaggio che accetta di mettere in discussione il proprio modo di vivere sperimentando modelli alternativi basati sul baratto: dal Woofing (ospitalità in cambio di lavoro in fattorie biologiche), al WorkAway (ospitalità in cambio di sostegno a progetti di strutture indipendenti nel mondo dell’arte, della cultura e dell’educazione), dall’Home Excange (scambio di appartame6292e85c-d647-4bb5-a0d0-af311a1b12cbnto) al Couch Surfing (“scambi di divano”, ospitalità con altre famiglia). Tutti temi dibattuti e di grande attualità che verranno approfonditi, insieme a molti altri argomenti, nei giorni del Ferrara Sharing Festival. La rassegna, organizzata da Sedicieventi con il patrocinio del Comune di Ferrara e la direzione artistica di Davide Pellegrini (Presidente Aise Associazione Italiana Sharing Economy), chiamerà a raccolta cittadini, Istituzioni ed esperti del settore all’insegna del claim Condivido Pienamente!

L’appuntamento è dal 20 al 22 maggio 2016 nel capoluogo estense: vi aspettiamo!

www.sharingfestival.it
Facebook, Twitter e Instagram: @SharingFestival

RIFLETTENDO
Perché gli scrittori devono essere giovani

Quant’è bella giovinezza / che si fugge tuttavia!  / Chi vuole esser lieto, sia, / di doman non c’è certezza. (Lorenzo il Magnifico)

scrittoriSarò impopolare. Un po’. Forse molto. Da tempo ormai volevo scriverne e sono giunta a un momento tale della vita nel quale non mi interessa troppo il giudizio altrui. Dire quello che si pensa, sempre, ovviamente nei limiti della correttezza e puntando all’obiettività per quanto possibile, anche a costo di non piacere. Non è che non mi senta più tanto giovane, anzi. Ma a volte, forse spesso, incentivando e premiando alcuni, pur volendo ben fare, si fa torto ad altri e non si garantiscono reali pari opportunità. Mi riferisco a molti concorsi e premi di scrittura. Perché sempre per under qualcosa (di solito 30-35)? E gli altri? Non fraintendetemi, ve ne prego, non voglio dare l’idea della persona matura, per quanto soddisfatta, che non vuole dare spazio ai giovani, lungi da me. Ad essi immensi spazi prima di tutto. Mi domando però perché i talenti letterari devono sempre essere per forza under? Basta pensare al grande Camilleri: se avesse cercato visibilità e notorietà’ attraverso simili canali, probabilmente non lo avremmo mai letto. Se poi anche Meryl Streep ha fondato un laboratorio di scrittura per donne quarantenni e oltre (The Writers Lab, vedi), forse non sono la sola a pensarla così. timthumbPerché si deve sempre parlare di scrittori “giovani” emergenti e non limitarsi a un più generico e meno discriminante scrittori “emergenti”? Molti premi prestigiosi non danno solo un supporto finanziario, ma portano anche a benefici a medio-lungo termine per la carriera di scrittore. Non si tratta quindi solo di soldi, ma di una reale possibilità di emergere. Ben vengano, quindi, i riconoscimenti letterari a chi cerca di farsi conoscere, ma se essi riguardano solo giovani, a mio avviso un problema c’è. In un mondo come quello di oggi che, con internet che imperversa, si apre sempre di più a tutti, questo tipo di iniziativa è ormai datata, obsoleta. E, anche se non intenzionalmente, è anche un po’ discriminatoria. Essere scrittori emergenti significa semplicemente essere scrittori alle prime armi, indipendentemente dall’eta’. E molti lo sono verso i 40 anni, quando esperienza di vita e maturità di pensiero e di scrittura hanno fatto il loro corso. Non tutti sono geni letterati dalla nascita, la scrittura richiede tanto allenamento e studio. Una palestra quotidiana, che spesso da i suoi frutti con il tempo. Scrivere da giovani e’ poi spesso un vero privilegio, non tutti possono permetterselo, se si deve lavorare e combattere con le preoccupazioni quotidiane di un’eta’ dove si iniziano a gestire molte preoccupazioni da soli. Si possono avere più lavori, figli piccoli e mille incombenze. Trovare una stanza tutta per sé non è sempre facile in quel momento. Non si tratta di istituire premi per over, ma magari, semplicemente, di togliere il requisito dell’età e focalizzarsi sul momento della vita e la fase della scrittura, emergente o meno. Forse giovane è sexy (e vende) ma emergente è rock. Almeno per me.

Immagine in evidenza Scuola Holden

 

NOTA A MARGINE
Il design in Italia oggi, fra modelli ingombranti e troppi luoghi comuni

Tracciare un profilo ben definito del designer contemporaneo oggi risulta difficile. Farlo in casa nostra, l’Italia, da sempre considerata patria del buon gusto, dell’estetica, del tanto inneggiato ‘made in Italy’, è paradossalmente ancora più complicato. Qual è allora lo stato del design italiano?
A questa difficile domanda ha provato a rispondere il corso di laurea in Design del prodotto industriale del dipartimento di Architettura di Ferrara, organizzando un seminario dal titolo “Design in Italia oggi. Luoghi comuni e mestieri speciali”, tenuto da Chiara Alessi.
Giornalista, saggista, collaboratrice per riviste come “Domus”, “Interni”, “Klat” e il “Fatto Quotidiano”, dove tiene un blog, Chiara Alessi si occupa prevalentemente di design in ambito giornalistico, con una particolare attenzione al rapporto tra il design stesso, la critica e la società. Negli ultimi due anni ha pubblicato per Laterza due saggi (“Dopo gli anni zero. Il nuovo designi italiano ”, 2014, e “Design senza designer”, 2015), entrambi frutto di approfonditi lavori sul campo per delineare una mappatura circa la situazione odierna di questo settore lungo la penisola.

Introdotta dal coordinatore del corso di laurea Alfonso Acocella e dal professor Dario Scodeller, la giornalista ha subito chiarito come come il cosiddetto ‘anno zero’ del design sia “un anno che circoscrive un’epoca critica, dato che viviamo in tempi in cui la nostra generazione dà per scontate un’infinità di cose, finendo poi per perdere di vista i filtri e il contatto con la realtà del mondo che ci circonda”. Il quesito necessario da porsi è quindi di che cosa stiamo parlando davvero: esiste ancora il concetto di design nel nostro Paese? Alessi risponde ammonendo che “all’estero si critica tanto il design italiano perché i primi a criticarlo siamo noi stessi” e, scorrendo numerose citazioni di personaggi illustri di questo settore, aggiunge quanto “sia necessario trovare un nuovo punto di partenza e staccarsi dall’epoca dei grandi maestri, oggi diventata troppo ingombrante per le nuove generazioni in cerca di stimoli diversi. Io ho avuto la fortuna di girare l’Italia da Nord a Sud e posso assicurare che esistono tante potenzialità, tante idee e interessi da valorizzare”.

Il problema è quindi uno sguardo rivolto indietro verso un grande passato che si manifesta in un’arretratezza diffusa: “quando si entra nella sala d’ingresso del tempio del design italiano, il Politecnico di Milano – continua Alessi – le gigantografie dei principali designer italiane sembrano quasi dire ‘noi siamo la storia, voi ora datevi da fare…’”. Inoltre, le riviste specializzate non hanno più il ruolo di un tempo quando erano considerate “veri e propri laboratori di lavoro e orientamento, fucine di idee alle quali si prestava particolare attenzione”. Problemi da ricercare anche in alcuni equivoci inerenti il mondo delle aziende: “oggi si pensa erroneamente siano divise in quelle che lavorano in maniera tradizionale e quelle che producono in maniera più innovativa, ma in realtà le aziende italiane sono ibride e queste due caratteristiche convivono benissimo da tempo”. I mercati poi, secondo la giornalista, “si sentono contrastati da internet e dall’e-commerce, dimenticando che l’online è in realtà una risorsa che rende il mercato più innovativo e competitivo”.

Chiara Alessi ha poi illustrato il profilo del designer degli anni 2000, professione che “per la prima volta può dirsi davvero tale”, fino a quindici anni fa non aveva nemmeno una facoltà universitaria; oggi invece ha iniziato ad “avere una sua autonomia, nonostante fatichi ancora dal punto di vista economico, dato che in media i designer dichiarano di ricavare soltanto il 30% del fatturato dal loro prodotto”.
Un mondo in continua evoluzione e difficile da analizzare. Ecco perchè Alessi ha cercato di individuare alcuni punti stilistici chiave della ‘poetica del design’: ci sono il punto esclamativo (che sorprende) e la fiction (narrazione di realtà alternative), il realismo, il ready made e la performance, passando per alcuni dualismi quali unico-irripetibile, assenza-presenza, produzione-autoproduzione. Realtà nelle quali “è difficile orientarsi, ma che convivono bene tra loro, poiché la cosa che più le contraddistingue è appunto l’eclettismo stilistico”.

Spazio infine per qualche aneddoto circa la sua pubblicazione più recente, un lavoro che capovolge le modalità di ricerca della precedente. In proposito, l’autrice afferma che “oggi ci si potrebbe chiedere se siamo tutti designer, visto il sempre più facilitato accesso a mezzi di produzione e creazione, ma nonostante tutto per me qualcuno è sempre più designer di qualcun altro. La vera abilità del designer di oggi – ha continuato Chiara – non è più nel disegno o nell’autoproduzione, ma nell’essere capaci di individuare le persone giuste, instaurare le relazioni migliori. Insomma, sapere un po’ di tutto”. E poi bisogna sfatare alcuni luoghi comuni tra i quali: il ruolo salvifico del ‘made in Italy’ sempre più ricercato non solo dagli utenti, ma anche aziende straniere; la filosofia de ‘il futuro è artigiano’, se presa per vera, da noi vale almeno cinquant’anni; il contrasto tra retail ed e-commerce, sbaglia chi crede che il secondo affosserà il primo, basta guardare il caso Ikea; e l’annunciata fine dei distretti e della critica.

ECOLOGICAMENTE
Abc del ciclo integrato dell’acqua

World Water Day: il 22 marzo è il giorno mondiale dell’acqua.
L’acqua è un elemento vitale ed è un fondamentale sostegno dell’ambiente, ma anche un elemento essenziale dello sviluppo della società. Il ciclo integrato dell’acqua e la gestione di questa importantissima risorsa ha un profondo impatto sull’ecosistema, sull’economia dei servizi pubblici, ma anche sulla salute e sulla politica industriale di un territorio. La conoscenza di questi impatti è un elemento imprescindibile per la qualità del processo gestionale e deve essere messa a disposizione di tutti gli interlocutori del sistema per perseguire un’attenta politica ambientale orientata alla sostenibilità. L’esigenza crescente è prevedere un sistema di regolazione in grado di valorizzare sia i diritti degli utenti sia lo sviluppo delle gestioni per mezzo di un intervento istituzionale che vigili sulle situazioni di criticità, semplifichi e innovi il sistema della governance, per migliorare il posizionamento strategico e competitivo sul territorio nel servizio pubblico ambientale di gestione dell’acqua. La risoluzione delle molte criticità è da ricercare in un insieme di soluzioni: una maggiore efficienza, una razionalizzazione delle risorse idriche, migliore distribuzione e riduzione delle perdite, maggiore consapevolezza e partecipazione da parte di tutti, l’impegno per garantire il diritto all’acqua, la condivisione di informazioni, la trasparenza e lo sviluppo di nuovi modi per procurarsi acqua anche attraverso il riutilizzo, il riciclo e la desalinizzazione.

Si deve partire dalla conoscenza dei dati; forse non ne parliamo a sufficienza e forse non ne sappiamo a sufficienza. Conoscere i dati caratterizzanti il territorio al fine di individuare i flussi di rifiuti e le possibilità di gestione del sistema integrato deve essere una possibilità per ciascun cittadino, in quanto la conoscenza dei dati è elemento necessario per lo sviluppo sostenibile dell’acqua. Non ci si deve accontentare di avere acqua se apriamo il rubinetto. Dobbiamo conoscere il sistema di gestione e l’assetto impiantistico e logistico di riferimento, con quadro dei flussi previsionali nel breve, medio periodo per ciascuna delle fasi del ciclo (captazione, adduzione e distribuzione di acqua ad usi civili, di fognatura e di depurazione delle acque reflue). Chi amministra e chi gestisce il ciclo dell’acqua deve prendersi impegni seri su questi temi.
Da parte dei cittadini, nel contempo, deve crescer l’attenzione a questi temi. Per fare crescere la consapevolezza del bene ‘acqua’ deve crescere la partecipazione. Si tratta di una fase fondamentale di ascolto e di confronto. Tali obiettivi potranno essere raggiunti, tra l’altro, attraverso l’individuazione di indici di qualità per tutti i corpi idrici, il rispetto dei valori limite agli scarichi, l’individuazione di misure tese alla conservazione e al riutilizzo-riciclo delle risorse idriche, l’adeguamento dei sistemi di fognatura, collettamento e depurazione degli scarichi idrici, la tutela integrata degli aspetti qualitativi e quantitativi nell’ambito di ciascun bacino e soprattutto un adeguato sistema di controlli e di sanzioni.
Ricordiamoci che l’acqua, in natura, è tra i principali costituenti degli ecosistemi ed è base di tutte le forme di vita conosciute, uomo compreso. Abbiamo bisogno di capire meglio tutte le categorie di acqua:
Acque potabili: tutte le acque trattate o non trattate, destinate a uso potabile, per la preparazione dei cibi e bevande o per altri usi domestici, a prescindere dalla loro origine, siano esse fornite tramite una rete di distribuzione, mediante cisterna in bottiglie o in contenitori.
Acque reflue domestiche: acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche.
Acque reflue industriali: qualsiasi tipo di acque reflue provenienti da edifici o installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate nello stabilimento.
Acque reflue urbane: miscuglio di acque reflue domestiche, di acque reflue industriali, e/o di quelle meteoriche di dilavamento convogliate in reti fognarie, anche separate, e provenienti da agglomerato.
Acque sotterranee: tutte le acque che si trovano sotto la superficie del suolo nella zona di saturazione e a contatto diretto con il suolo o il sottosuolo
Acque superficiali: sono le acque interne, a eccezione delle acque sotterranee, le acque di transizione e le acque costiere, tranne per quanto riguarda lo stato chimico, in relazione al quale sono incluse anche le acque territoriali.

Il ciclo di utilizzazione dell’acqua è un sistema complesso che ha bisogno di una gestione integrata delle sue attività. La regolamentazione e la gestione sostenibile dei prelievi di risorse idriche, sia in termini di qualità che di quantità, rappresentano una questione prioritaria. In sintesi bisogna perseguire uno sviluppo sostenibile, che comporta un approccio integrato e preventivo alle tematiche ambientali a cui si conformino i comportamenti di tutti i soggetti coinvolti: dalle amministrazioni pubbliche e dai gestori, ma anche i comportamenti di imprese, industrie e dei cittadini.

L’APPUNTAMENTO
Con il Fai si riscopre la Ferrara sotto i nostri occhi

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Far notare la bellezza che è quotidianamente sotto i nostri occhi: questo è lo scopo dell’edizione 2016 delle Giornate Fai di Primavera ferraresi, che si terranno questo fine settimana.
Con oltre 900 visite straordinarie in 380 località in tutte le regioni d’Italia, l’appuntamento primaverile con il Fai-Fondo Ambiente Italiano, arrivato alla sua 24 edizione, è il più importante evento di piazza dedicato ai beni culturali, un grande spettacolo di arte e bellezza dedicato a tutti coloro che hanno a cuore il patrimonio artistico e naturalistico italiano. La delegazione ferrarese dell’associazione quest’anno ha scelto due beni che sono già aperti al pubblico, ma arricchendo la visita con ambienti nascosti, normalmente non accessibili al pubblico. Quelle di sabato 19 e domenica 20 marzo sono dunque aperture ‘straordinarie’ perché permetteranno a cittadini e turisti di ascoltare storie e notare particolari insoliti e originali, guardando così con occhi diversi al nostro patrimonio artistico e culturale.
Il primo luogo è il Palazzo Ducale Estense, sede del Comune di Ferrara. Il percorso si snoderà tra la Sala delle Lapidi, il Salone d’Onore e la Sala degli Arazzi, ma anche nelle stanze dove ora hanno sede la Segreteria e l’Ufficio del Sindaco. Oltre alla descrizione delle opere d’arte e degli arredi di pregio del palazzo, i partecipanti potranno ascoltare storie e curiosità sull’edificio: come quella dell’ala sistemata scenograficamente da Ludovico Ariosto in persona per allestirvi le sue opere. I visitatori, inoltre, potranno attraversare la via Coperta, uscendo nel cortile del Castello Estense. Il secondo bene sarà la Basilica di San Giorgio fuori le mura, la prima cattedrale di Ferrara: oltre alla chiesa sarà possibile visitare il monastero e il chiostro e la tomba di Cosmè Tura.
Con i volontari dell’associazione, a fare da Ciceroni, o meglio da Apprendisti Ciceroni, ci saranno gli studenti ferraresi delle classi quarte e quinte dell’Istituto Superiore “Giovan Battista Aleotti” presso San Giorgio e del Liceo Scientifico “Antonio Roiti”, per chi si recherà a Palazzo Ducale.
Alla conferenza stampa di presentazione dell’evento, che si è svolta lunedì mattina nella Sala degli Arazzi della residenza municipale, i docenti che hanno preparato i ragazzi hanno sottolineato il valore formativo di queste iniziative perché non si tratta più solo di uno studio teorico e mnemonico in cambio di un bel voto dopo un’interrogazione, ma di entrare in contatto con il patrimonio culturale del proprio territorio e con il pubblico che arriverà per le visite. In particolare Fabio Muzi, dirigente scolastico e docente dell’“Istituto Aleotti” ha sottolineato come le giornate Fai siano “l’occasione per una reale interiorizzazione del patrimonio artistico e culturale cittadino”. E a proposito della sfida posta dai diversi tipi di pubblico e registri linguistici: le visite guidate saranno disponibili anche in lingua straniera.
“Le visite – ha precisato il capo della delegazione di Ferrara Piero Sinz – saranno a offerta libera e il ricavato sarà come sempre finalizzato alla raccolta di fondi per il restauro dei beni Fai che poi vengono aperti al pubblico”.

Giornate Fai di Primavera a Ferrara
Basilica di Giorgio fuori le mura-Il Chiostro, la sacrestia, l’abside e molto altro
Venerdì: 10.00-12.30 (ultimo ingresso)
Sabato 10.00-17.30 (ultimo ingresso)
Domenica 13.30-17.30 (ultimo ingresso)
Castello Estense-Le Sale del Duca
Piazza del Municipio 2
Sabato e domenica:
10.00-12.30 (ultimo ingresso)
14.30-17.00(ultimo ingresso)

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L’APPUNTAMENTO
Il viaggio nella comunità dei saperi termina con le emozioni

Termina oggi il “Viaggio nella comunità dei saperi” che presso la Sala Agnelli della biblioteca Ariostea ha portato il pubblico alla scoperta delle parole per questo millennio. Diversità, abilità, impegno, ragione, beni comuni, sono solo alcuni dei temi affrontati dal ciclo di incontri organizzato da Istituto Gramsci e Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara. A chiudere, con la psicoanalista Chiara Baratelli, saranno le ‘emozioni’.

Le emozioni permeano ogni istante della nostra esistenza, ma nonostante questo, non è facile riconoscerle, gestirle e dare loro un nome.Ci sono persone che temono a tal punto di provare qualsiasi forma di emozioni che arrivano a controllarle ammalando così il corpo. Ci sono persone che si negano qualsiasi possibilità di provare emozioni fino ad arrivare all’uso di sostanze e persone che ne sono così sopraffatte da vivere attacchi di panico. Educare alle emozioni non significa insegnare a reprimerle, ad esempio impedire ad un bambino a non provare rabbia. Significa permettere al bambino di arrabbiarsi abituandolo a riconoscere quello che prova e a dargli un nome. Fare i conti con le emozioni, per tutti noi, significa imparare a sostare in esse senza esserne sopraffatti.
Introduce Gian Luca Pizzotti

IL VIDEO
La musica di Frescobaldi e le delizie estensi

La musica di Girolamo Frescobaldi e la splendida location della sala affrescata della Delizia di Belriguardo in un video segnalatoci da Francesco Cera, clavicembalista e organista attivo nel campo concertistico della musica rinascimentale e barocca.

Girolamo Frescobaldi (1583-1643), al quale è intitolato il conservatorio di Largo Antonioni, è nato e cresciuto a Ferrara, che a metà Cinquecento città poteva vantare in ambito musicale una vera e propria scuola sviluppatasi grazie al mecenatismo culturale della Casa d’Este. Poco si sa della sua formazione, ma certo potè giovarsi dei tanti maestri che in quegli anni, gli ultimi prima della Devoluzione del Ducato Estense allo Stato Pontificio e del trasferimento dei musicisti a Roma, gravitavano attorno alla corte.
Già alla nascita di Girolamo erano attivi in città Alfonso della Viola, il Concerto delle dame, Luzzasco Luzzaschi. Inoltre visitarono Ferrara Luca Marenzio, John Dowland, Jacques De Wert, Orlando di Lasso, e persino due giganti come Claudio Monteverdi, che lavorò a una collezione di madrigali dedicati ad Alfonso II d’Este, e Carlo Gesualdo: il principe di Venosa arrivò nel febbraio del 1594 per celebrarvi il suo matrimonio con Eleonora, cugina di Alfonso II e sorella di Cesare d’Este.

Questo è il clima in cui crebbe il compositore e musicista, “fondamentale per lo sviluppo delle sue composizioni stampate a Roma nel 1615”, come ci spiega anche Francesco Cera nel video. Questo lavoro, registrato nel novembre 2015 grazie al sostegno dell’Asp Ferrara e del Museo Ugo Marano, è una piccola anticipazione di un’incisione che uscirà il prossimo anno per una casa discografica internazionale che Cera ha potuto eseguire proprio nella sala situata a Voghiera: la registrazione del “Primo libro di Toccate” del compositore ferrarese. “Il video – spiega il musicista – intende proprio far comprendere il nesso culturale tra Frescobaldi e la musica che da giovane potè ascoltare presso la corte”.

LA SEGNALAZIONE
Celestini povero Cristo narra miracoli di periferia

Laika è la cagnolina che i sovietici hanno spedito in orbita nel novembre del 1957 e che per quelle poche ore “è stato l’essere vivente più vicino a Dio”; laica è la misericordia, la compassione, delle parabole che Ascanio Celestini racconta al pubblico del Teatro Comunale Claudio Abbado fino a domenica 13 marzo. In questo gioco di parole si nasconde la poesia di “Laika”, il nuovo spettacolo dell’autore romano, un altro gradito ritorno sul palco estense dopo quello di Marco Paolini. Curiosa coincidenza: entrambi ci hanno portato a teatro credendo di ascoltare storie di cani. Invece abbiamo ascoltato storie di uomini, ci hanno parlato dell’umanità.
Quella di Ascanio Celestini è un’umanità perduta, almeno agli occhi dei più. E non a caso a narrarcela è un povero Cristo cieco – o che finge di esser cieco – davanti a una bottiglia di Sambuca scadente. Una periferia umana e geografica, o meglio umana perché geografica, o meglio… decidete voi. Un mondo di emarginati, di sbandati, anime strane, buone ma non candide, le cui vicende si intrecciano fra case occupate, monolocali da 35 metri quadrati, il parcheggio di un supermercato, dove le loro vite inciampano le une nelle altre.
“In principio c’è Dio o in alternativa il Big Bang”, almeno secondo Stephen Hawking, secondo cui Dio è “una favoletta” e, infatti, Dio lo punisce “togliendogli il saluto”, nel senso che non può più dire “Buongiorno” e “Buonasera”. “Dio è fatto così, nessuno è perfetto!”, dice il ‘santo bevitore’ di Celestini. “In principio c’è Dio”, ma al centro c’è l’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, anche quando è una vecchia che non crede, una donna con “la testa impicciata” il cui figlio non si capisce se è vivo o morto, un facchino che carica e scarica pacchi da un furgoncino giallo e va avanti giorno dopo giorno solo perché nella sua mente pensa solamente “il mio turno finirà”, un barbone negro, che tutti evitano, o peggio di cui nessuno si cura, perché nel suo bicchiere non c’è la Sambuca, ma gli spiccioli dell’elemosina. Non è sempre stato un barbone, anche lui prima era un facchino; per lui e un collega, entrambi licenziati dopo un incidente sul lavoro, ora “i facchini negri africani” fanno sciopero e le guardie li menano, ma il picchetto resiste: “con una mano fermano i crumiri, con l’altra sostengono la volta celeste”. E Pietro, con la voce bambina di Alba Rohrwacher e il corpo e la fisarmonica di Gianluca Casadei, dice al povero Cristo: “non ci sono giornalisti”, se uno di questi negri africani morisse, la gente saprebbe che è morto “di freddo”.
Personaggi perduti, o meglio dimenticati, emarginati che vivono esiliati in una società che non vuole, non sa più ascoltarli. Proprio loro diventano i protagonisti di un prodigio eccezionale, di un miracolo laico che sfida le nostre coscienze: “una vecchia, una donna con la testa impicciata e di un cieco, scesi in strada nel cuore della notte per difendere un barbone negro” dalle guardie che caricano il picchetto. Un evento tanto straordinario eppure di una semplicità quasi sconfortante perché ci mette di fronte alla possibilità di un gesto d’amore: dunque ne saremmo ancora capaci, ci chiediamo mentre anche in teatro è sceso il buio di quella notte.
Il finale di “Laika” sembra invocare una sorta di nuovo umanesimo, la fine dell’indifferenza, un embrione di rivolta. Ma Celestini non dà scampo al pubblico: non gli permette cedere all’autoassoluzione, alla tentazione di pensare che basti assistere alle sue parabole contemporanee per collocarci d’ufficio dalla “parte giusta”. La redenzione, se c’è, è solo letteraria, non consola, perché l’assenza di un Dio, di un senso, di una giustizia, di un’etica continua ad aleggiare sulle vicende dei personaggi e del pubblico.

L’INCHIESTA
Chi dice donna dice … lavoro

SEGUE. Nel 2014, nel G20 Australiano, si pianificò di far entrare nel mercato del lavoro 100 milioni di donne in 10 anni, attraverso la piattaforma creata dal gruppo di lavoro Women20.
Secondo l’ISTAT, nel 2015 – per rimettere in linea l’Italia con il resto d’Europa – sarebbero dovute entrare nel mondo del lavoro 2,7 milioni di lavoratrici, il che avrebbe portato un beneficio al Pil italiano del 7%. In realtà, siamo davvero lontani dalla meta.

Il Gender Equality Index elaborato dall’Eige (l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere) ha piazzato l’Italia al 69° posto nella classifica mondiale per la parità di genere: secondo lo studio, in Italia “la struttura economica, l’organizzazione del lavoro, gli stereotipi di genere sono strettamente correlati a quanto lavoro di cura ci si aspetta che venga svolto dalle donne nelle case, al tipo di welfare a cui hanno accesso e alle possibilità che hanno di entrare nel mercato del lavoro”.

Secondo i dati Eurostat le donne italiane dedicano alle responsabilità familiari più tempo di tutte le altre donne europee: ben 5 ore e 20 minuti al giorno. In Svezia, dove l’occupazione femminile è il top d’Europa, sono a 73 minuti. Se consideriamo il part-time maschile come un indicatore della partecipazione degli uomini al lavoro domestico i dati vengono confermati: quello italiano è uno dei più bassi d’Europa, l’8,4% contro il 7,8% in Francia, il 10,8% in Germania, il 13,1% in Uk e il 15,1% in Svezia.
Su questa situazione incidono la bassissima copertura dei servizi per la prima infanzia (al 13,5%) e le politiche di austerity, che hanno tagliato servizi come il tempo pieno nelle scuole primarie e i servizi di assistenza domiciliare ad anziani e ammalati.
Nel 2015 erano ben 2,3 milioni le donne che risultavano inattive per motivi di famiglia, di queste il 40% ha un diploma di scuola superiore o una laurea e il 18% lavorerebbe se i servizi fossero adeguati.
In questo contesto la maternità rappresenta ancora un rischio concreto di fuoriuscita dal mercato del lavoro: sempre dai dati Istat si nota che il 22,4% delle madri impiegate prima della gravidanza, intervistate dopo due anni, avevano perso il lavoro.

Eppure le donne italiane ottengono risultati migliori degli uomini nello studio, come afferma il rapporto Almalaurea: nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni, il 30% delle donne ha un una laurea contro il 18% degli uomini. “Questo vantaggio non si riflette però nel mercato del lavoro: gli stereotipi di genere influenzano le scelte di carriera delle donne, che tendono a preferire materie (letteratura, insegnamento, linguistica, geografia, chimica-farmaceutica, legge, architettura) in cui c’è troppa offerta rispetto alla domanda, specialmente se comparate con le materie tecnico-scientifiche in cui si registra una netta prevalenza maschile. Il risultato – spiega il report Almalaurea 2015 – è che a cinque anni dalla laurea hanno trovato lavoro l’88% dei laureati e solo il 63,5% delle laureate e gli uomini guadagnano 1556 euro contro i 1192 delle donne”.

Il “Gender Pay Gap” – la differenza di retribuzione fra uomo e donna – la maggiore esposizione al “part time involontario” e alla precarietà rendono il mondo del lavoro ancora più ostico a quante riescono a inseririsi nel mondo del lavoro. In questo ambito, inoltre, viene comunque promosso un modello di leadership per cui avere una carriera significa essere presenti “sempre e comunque”. L’Istat ha riportato in proposito che circa il 40% delle donne che si considera ‘adeguata’ a ricoprire un ruolo apicale, sostiene che sia il modello dominante di leadership l’ostacolo principale alla sua stessa carriera.

Per quanto riguarda le donne migranti, una su due lavora nelle famiglie italiane fornendo servizi di cura: rappresentano l’80% della forza lavoro del settore ma, nonostante questo, sono maggiormente sottoposte a sfruttamento, irregolarità dei contratti e precarietà.
Con l’ingresso della legge sulle ‘quote rosa’ nei consigli di amministrazione (che impone di avere almeno il 20% di donne nei consigli di amministrazione delle società pubbliche e private) i dati sono migliorati: il rapporto Consob 2015 ha contato un 27,3% di donne nei consigli di amministrazione, anche se solo il 5% sono amministratori delegati e nessuna donna è amministratore delegato di aziende quotate. Qualche sedia rosa in più si conta anche in politica: nell’attuale governo le ministre sono il 41% e sia alla Camera sia al Senato le donne registrano un inedito 31% di presenze.

Come vivono le donne ‘normali’ il rapporto fra gli impegni di lavoro, le cure domestiche e gli impegni familiari? Abbiamo somministrato un semplice questionario a un piccolissimo campione composto da 62 donne residenti a Ferrara, fra i 27 e i 51 anni per indagare sull’argomento. Il 79% delle intervistate ha un titolo di studio universitario e un lavoro dipendente, che le porta a trascorrere fuori casa in media 9 ore. Il 64% è sposata o convivente e il 42% ha uno o più figli.

La totalità delle intervistate ha dichiarato che nell’organigramma aziendale o delle istituzioni nelle quali lavorano la posizione più alta relativa al loro campo di impiego è occupato da uomini, che i colleghi maschi hanno benefit che non hanno le colleghe con pari responsabilità e che gli stessi sono più disposti a lavorare per più ore, se necessario, ma sono meno disponibili per le attività di formazione e coordinamento aziendale.
Il 96% delle intervistate ha dichiarato che nella gestione di casa e famiglia l’impegno in media è così diviso: 70% alle donne e il 30% agli uomini, che si occupano prevalentemente dell’auto e di accompagnare i figli in attività sportive o ricreative. La quasi totalità delle intervistate ritiene che la gestione della vita sociale della famiglia sia a loro carico.