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Il palazzo della discordia

A ognuno il suo: Roma ha la Galleria Borghese, Milano il Palazzo reale e Ferrara il Palazzo dei Diamanti. Sono tutti e tre sedi di numerosissime mostre, che si susseguono quasi ininterrottamente, come in un luna park con sempre nuove e interscambiabili attrazioni. C’è chi si esalta gridando al successone, chi invece versa lacrime per la prostituzione dei monumenti.
Il Palazzo dei Diamanti, unico per la sua eccellenza architettonica, rientra tra gli edifici rinascimentali più conosciuti al mondo. Storica residenza ducale, nel 1842 il Comune lo acquista, sistemando al suo interno la Pinacoteca Comunale – che da allora non si sposterà più, divenendo poi Pinacoteca Nazionale – e la sede dell’Università cittadina.
Le continue mostre, che lo vedono protagonista da decenni, lo hanno decretato ormai come il luogo ferrarese per eccellenza dedicato a queste ultime. Mentre il primo piano, infatti, ospita la mostra permanente della pinacoteca, il piano terra è dedicato alle mostre temporanee, cioè esposizioni che per un determinato periodo di tempo stazionano in un preciso posto, dopodiché, se ciò è previsto, si spostano verso altri luoghi.

Le finalità principali di una mostra sono due: rimettere al centro dell’attenzione di studiose e studiosi, di tutto il mondo accademico, qualcuno o qualcosa di importante che è stato dimenticato o sottovalutato; e permettere, al maggior numero di persone possibile, di poter vedere dal vivo opere che normalmente si trovano dall’altra parte del mondo, ponendole a confronto con artiste e artisti coevi del luogo, oppure instaurando altri tipi di logiche. Se quest’ultimo scopo, forse, può essere oggi raggiunto anche grazie all’utilizzo di tecnologie avanzatissime, in grado di riprodurre molto fedelmente qualsiasi cosa, o anche grazie a persone esperte, che sfruttando le tecniche originarie, riescono a ricreare le opere con risultati del tutto interessanti, per il primo è sicuramente la mostra uno degli strumenti più efficaci. Attenzione, però, non è detto che debbano essere necessariamente le opere originali a essere esposte: anche in questo caso si può trattare di fedeli riproduzioni, necessarie a chi studia per poter capire il senso e il motivo di fondo dell’esposizione.
Dunque, il problema dove sta? Come sempre, sta nell’esagerazione. D’altronde, riuscire a mantenere l’equilibrio è uno sforzo continuo per noi esseri umani, anche a livello fisiologico: basta provare a rimanere in piedi qualche minuto, e si noterà come il nostro corpo in continuazione abbia bisogno di ricalibrare il peso per evitare di farci cadere.

Di fatto, organizzare una mostra serve (anche) a far carriera e a fare cassa. E si cerca di farlo a tutti i costi. Crediamo davvero che le migliaia di mostre che ci ritroviamo ogni anno in Italia siano tutte utili? Perché è questo il punto: una mostra deve essere utile. Utile al progredire della conoscenza, in senso generale e per ognuno di noi. Già Federico Zeri, in un articolo del 1996, si lamentava delle “pleiadi di mostre e mostriciattole, spesso insignificanti”, un male che da allora non avrebbe fatto altro che crescere a dismisura. In nome di una mera logica quantitativa, che fa delle visite e del turismo i propri dèi, si fa grande uso di ricostruzioni supertecnologiche e di luci strabilianti, capaci di illuminare in modi particolari e mai visti prima le opere d’arte, senza portare rispetto, in realtà, a ciò che il nostro passato ci ha lasciato.
Noi italiane e italiani non possiamo ridurci a tutto questo. Siamo noi che abbiamo cambiato il mondo in millenni di Storia. Le invenzioni italiane ci circondano ogni giorno, e senza di esse la vita moderna sarebbe impensabile. Viviamo nel Paese con la più alta concentrazione di ricchezza faunistica e floreale del globo, in un minuscolo fazzoletto di terra; viviamo nel Paese della dieta mediterranea, quella che fa più bene al nostro organismo; viviamo nel Paese dell’opera e della commedia dell’arte, esportate in tutto il pianeta. Possiamo inoltre vantarci di avere palazzi ed edifici straordinari, dove ospitiamo musei secolari e mostre temporanee. Non chiediamoci se, ma quali di queste sono davvero degne di prendere vita nel nostro Paese.

La questione afghana

Quell’albergo era “sotto stretta sorveglianza”, così una fonte ufficiale riferendosi all’Hotel Intercontinental di Kabul trasformato in campo di battaglia. Sembra una battuta ma non lo è. E’, invece, una delle innumerevoli facce del caos imperante da quelle parti. Sabato notte parte di quel caos si è manifestato all’interno dell’Hotel Intercontinental, dove i talebani hanno dato l’ultimo esempio della loro fatale determinazione facendosi saltare volontariamente per aria e riempiendo di raffiche stanze e corridoi. Alla fine, venuto giorno, c’è chi ha contato 22 uccisi più quattro aggressori morti (ma il numero rimane incerto).

In Occidente (è da lì che vengono gli anti-talebani) è dilagato un misto di sgomento e di stupore, quasi si fosse scoperto che il terrorismo infesta ancora i nostri incubi. Sai la novità. Nella settimana precedente l’assalto all’Hotel Intercontinental le cronache afghane, totalmente ignorate, avevano certificato l’eliminazione di una novantina di talebani e la scarcerazione di altri 75, ex seguaci di quell’anima nera della guerra civile degli anni Novanta di nome Guldbuddin Hekmatyar, classificato “terrorista globale”. Hekmatyar era stato a sua volta scagionato dopo mesi di trattative che avevano garantito a lui e a 2.200 dei suoi l’impunità per i crimini compiuti. Una simile manica larga potrebbe sembrare un avvio di pacificazione nazionale ma non lo è perché la ribellione non ha ridotto i suoi cruenti ritmi letali.
Non è servita a niente neanche la spavalda incursione del vicepresidente Mike Pence, arrivato a Kabul per comunicare che gli americani non se ne andranno dall’Afghanistan finché non l’avranno liberato dal terrorismo. Ossia mai. A conclusione del suo fervorino Pence aveva comunque ringraziato le autorità locali per “la collaborazione nel mantenere la sicurezza”. Collaborazione per la verità fin troppo stagionata avendo imboccato il diciassettesimo anno di anzianità e servita, come scritto dal memorialista americano Philip Caputo, a bombardare “non solo i ribelli ma anche gli ideali americani”. E poi c’è la questione della sicurezza, che Pence ha evocato con disinvoltura. Nessuno sa dove stia di casa, di certo non in Afghanistan e tantomeno a Kabul. Però le truppe americane non solo vi restano parcheggiate, ma sono in crescita (sono già in 14.000). Probabilmente si stima sconveniente andarsene da un Paese con oltre un trilione di dollari di minerali non sfruttati e con la maggiore produzione mondiale di eroina. E poi c’è la questione Cina-Russia- Iran, tre Paesi che i ‘signori della guerra’ di Washington considerano nemici e che stanno appena oltre il confine afghano. Kabul può dunque costituire una magnifica base di partenza per sovvertirli. Per non contare l’affluenza in Afghanistan dei miliziani dello Stato Islamico cacciati dai fronti iracheno e siriano. Mosca già ne valuta in 10.000 individui la loro presenza. Fanno di tutto per imporsi all’attenzione, come se coltivassero l’intenzione di giustificare il proposito degli antiterroristi occidentali di mettere radici nella regione. Nel mese di dicembre il terrorismo ha infatti provocato un paio di centinaia di vittime, quasi la metà delle quali (85 per l’esattezza) provocate dai pro-Califfo rimasti senza Califfo.

Apparentemente meno eccitato di molti suoi colleghi il generale John Nicholson, comandante delle truppe americane in Afghanistan, ha ammesso che la situazione è “in stallo” e che le possibilità di vittoria vanno valutate in base alle condizioni che verranno prospettandosi e non sul tempo. Con ciò riprendendo quasi alla lettera un vecchio detto locale secondo il quale gli invasori avranno anche l’orologio, ma chi li combatte ha il tempo dalla sua. L’esercito del generale Nicholson arrivò in Afghanistan con l’idea di “impalare” quel barabba di Osama Bin Laden. Fu il capo degli antiterroristi della Cia, un tale Cofer Black, a usare quell’espressione prima di prendere l’impegno di “portare la testa di Bin Laden al presidente”. E invece dovette dedicarsi ad altro, essendo l’obiettivo trasfiguratosi nell’importazione di una democrazia da scaffale di supermercato inscatolata a Washington. Un altro buco nell’acqua, tanto da costringere uno dei direttori della Cia messo a forza in pensione, il genenerale David Petraeus, a piangersi addosso lamentando che né gli Stati Uniti né la Nato avessero vinto il terrorismo. E non si riuscirà certo a vincerlo con i 3.000 soldati aggiuntivi che Trump ha deciso di mandare portando a 14.000 il totale. Quest’altra spedizione è stata chiamata New War Strategy, in realtà niente di più vecchio.
Per spiegarla al presidente afghano Ashraf Ghani arrivò inatteso a Kabul il segretario di Stato americano Rex Tillerson, già autore di una dichiarazione curiosamente enigmatica, stando alla quale sul campo di battaglia afghano non vinceranno né i talebani né gli Stati Uniti. Dopo 16 anni di guerra, e chissà quanti altri ancora, sarebbe questo il finale di partita immaginato a Washington. Naturalmente i talebani la pensano in altro modo e ne avevano già informato il segretario della Nato Jens Stoltenberg, che aveva annunciato più finanziamenti (un miliardo di dollari l’anno fino al 2020) “a sostegno dell’Afghanistan”. Dovrà prepararsi a una lunga guerra, gli avevano detto.

Terrorismo di talebani e di pro-Califfo a parte, in Afghanistan anche la Cia avrebbe avviato un programma di squadre clandestine per decimare i quadri della ribellione. Tattica forse già impiegata nel Vietnam che non produsse risultati apprezzabili. Adesso, cocciutamente, la si rispolvera. Non è l’unico riferimento alle sciagure del Vietnam. L’altro è la droga. L’85 % dell’eroina e della morfina prodotta nel mondo viene dall’oppio afghano procurando utili per tre miliardi di euro l’anno. Poi c’è il resto, che in un rapporto Onu del 2009 era così descritto: “Ogni anno muoiono più persone a causa dell’oppio afghano che per qualsiasi altra droga: circa 100.000 in tutto il mondo”. In Afghanistan in particolare “il numero di persone dei Paesi Nato decedute per overdose di eroina è cinque volte maggiore del numero di truppe Nato perdute dall’inizio delle operazioni militari”. La guerra come droga e la droga per fare la guerra.

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IL CACCIATORE DI LEGGENDE
Il reperto

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CAPITOLO III – Il reperto

Sewell cercava senza successo di capire cosa i due si dicessero, poi finalmente Juan si voltò verso lo scienziato e gli parlò in un inglese elementare ma privo di incertezze: «Professore, lo stregone ci ha appena ammonito a non proseguire le nostre ricerche. Ha detto che c’è una maledizione su tutti coloro che disturbano la quiete di Alatapec.»
«Alatapec quello delle leggende?» chiese a quel punto Greenstone.
«Esatto, intende dire il dio della montagna. Colui che vive sotto di essa e si nutre delle rocce di cui è fatta!» rispose prontamente il giovane aiutante.

Juan

Quelle parole furono musica per le orecchie dello scienziato scozzese, era chiaro che il vecchio alludeva al lithofagus. L’avvertimento aveva peraltro sortito l’effetto contrario e, anziché scoraggiarlo, convinse una volta di più Sewell della bontà delle sue teorie.
Finalmente Sewell era in possesso della prova che le farneticazioni dello sciamano non erano frutto di dicerie locali o di antiche leggende tramandate. Ora sapeva con certezza che l’oggetto della sua ricerca era esistito realmente e forse esisteva ancora: lo attestava il pacco misterioso che Juan gli aveva consegnato la sera prima!
Il pacco conteneva una mandibola intatta di forma assai strana, mai vista prima, chiaramente appartenente a una specie sconosciuta. Era molto larga e massiccia, insolitamente pesante per un reperto fatto di osso, ricordava quasi una grossa scodella, all’interno di essa una serie innumerevole di incavi stava a indicare gli alveoli dentali.
Per Greenstone era tutto fin troppo chiaro. Il reperto osseo presentava curiose analogie con le numerose tracce iconografiche nazca che aveva raccolto nei suoi appunti. Con l’aiuto di Juan era entrato in possesso di ciò che in realtà era una delle tante reliquie di Alatapec, divinità pagana di origine inca.
Ora non restava che mettere a posto l’ultimo tassello: dove era stata trovata la mandibola del lithofagus australis?
L’ostinata reticenza del vecchio sciamano obbligò Greenstone a dover battere altre strade per poter rispondere a quel quesito. Egli sospettava che molti indios della zona sapessero dove trovare quei reperti ossei. Il problema fu che il veto imposto dallo stregone e il timore della maledizione indussero gli indigeni a tenere le bocche cucite, soprattutto nei confronti di stranieri ficcanaso.
Quelli erano luoghi dove le superstizioni e il culto della magia e del soprannaturale avevano radici millenarie assai difficili da estirpare. Oltre a ciò, la diffidenza verso gli europei rendeva quasi impossibile trovare qualche indio disposto a parlare, nemmeno in cambio di ricompense generose.
Jacques Verdoux, informato da Sewell del ritrovamento della mandibola, volle esaminarla immediatamente. Una volta osservata, il francese ne fu entusiasta. Dichiarò che essere entrati in possesso di quell’oggetto avrebbe rappresentato una svolta decisiva per l’intera missione. Propose poi che si poteva tentare di sorvegliare di nascosto gli indigeni che si inoltravano nella giungla e attendere che qualcuno si dirigesse nel luogo dei reperti.
L’idea fu subito scartata da Greenstone. Egli obiettò che attraversare la giungla per seguire la gente del posto non era una cosa semplice, occorreva discrezione e comportava lunghi appostamenti a distanza che avrebbero impegnato il gruppo di esploratori per parecchio tempo, non dando nessuna garanzia di successo. Anzi, nel caso fossero stati scoperti, rischiava di rendere ostili uomini già diffidenti. Era necessario trovare un’altra soluzione, più rapida e meno rischiosa.
Ma proprio mentre i due esploratori discutevano su come risolvere il problema, un tarlo si era insinuato nella mente dello scozzese. A dire il vero il dubbio l’aveva assalito già la sera prima, ma solo in quel momento sentì l’esigenza di esternarlo ai compagni. «Mi chiedo come mai lo stregone si sia privato di una preziosa reliquia in cambio di una semplice lampada a petrolio…» disse.
«Mio caro collega, quello che è semplice per voi può non esserlo per un indio e viceversa.» chiosò frettolosamente il paleontologo.
«Professore, e se per lo sciamano fosse più preziosa la lampada dell’osso che mi ha dato? Io ho visto che nel villaggio tutti indossano qualcosa fatto di osso!» intervenne Juan.

Pedro

A quel punto anche Pedro sentì l’obbligo di dire la sua: «Señor, io due giorni fa ho visto un uomo tornare al villaggio, era diretto alla casa dello sciamano con un pesante cesto sulle spalle e due torce spente in mano, forse c’è un legame…»
«Hai visto cosa c’era nel cesto?» domandò molto interessato Greenstone.
«No… beh forse, señor credo fossero frammenti di osso, o forse pezzi di rami secchi, non ho visto bene señor…»
«Erano senz’altro pezzi d’osso!» l’interruppe il biologo. «Credo che il nostro stregone non sia affatto un vecchio bacucco come pensavo, credo che sia molto furbo invece. Ascoltatemi bene: il vecchio si serve di un aiutante per procurarsi le reliquie da rivendere o barattare alla gente del villaggio, ora non so se appartengono tutte al lithofagus, la nostra certamente sì, le altre dovrei esaminarle… Comunque se ciò fosse vero, dovremmo concludere che queste reliquie si trovano in un posto buio, probabilmente una grotta. Ecco perché per lo stregone la lampada a petrolio è così preziosa!»
Il ragionamento di Sewell fu subito condiviso da tutto il gruppo. Tutti quanti poi maturarono la convinzione che l’unico posto dove lo stregone poteva procurarsi le reliquie era all’interno delle grotte di Arauna, che si trovavano in fondo alla Gola di Valverde, a una quindicina di miglia a est del villaggio.

Gola di Valverde

Ci si arrivava seguendo un sentiero battuto dai cacciatori, che si inoltrava nella giungla tra le montagne. In prossimità della meta si era obbligati a scendere in una ripida gola nascosta dalla vegetazione, il cui fondo era squarciato da una fitta rete di gallerie scavate nella roccia dall’erosione di un antico fiume sotterraneo, le grotte di Arauna appunto.
Non era esattamente un luogo dove poter fare un picnic: ragni e scorpioni enormi, serpenti tra i più letali, scolopendre di mezzo metro… A parte i giaguari, non ci sono animali feroci nelle Ande amazzoniche, ma tutto ciò che si muove è comunque potenzialmente assai pericoloso, e questo Greenstone, da biologo esperto, lo sapeva bene. Inoltre, anche la vegetazione poteva riservare brutte sorprese agli esploratori incauti: tutta la foresta pullulava di piante velenose, spine acuminate, fiori dai colori splendidi ma intrisi di tossine mortali.

Quella sera stessa Greenstone, Verdoux e i due giovani indios prepararono l’equipaggiamento necessario per l’escursione prevista il giorno seguente. La distanza tra l’accampamento e la Gola di Valverde non era molta ma la natura del percorso era tale che Sewell stimò che il viaggio sarebbe potuto durare tutta la giornata. Per questo decise di portare il necessario per poter trasferire l’accampamento nelle immediate vicinanze della gola. Una volta stabiliti laggiù, anche se provvisoriamente, avrebbero potuto svolgere le loro ricerche senza dover ripercorrere ogni giorno miglia e miglia nella giungla per tornare al villaggio.

foresta andina

La mattina dopo i quattro uomini partirono diretti a Valverde. Il cielo stava schiarendo e una bruma sottile ricopriva il terreno dando l’illusione di camminare immersi in un liquido bianco e impalpabile. Già dopo un’ora di cammino i raggi del sole filtravano attraverso le fronde degli alberi e un caldo opprimente iniziò a rendere il viaggio sempre più arduo.
Il sentiero dei cacciatori non era altro che una linea appena visibile creata a colpi di machete, attrezzo che gli indigeni impiegavano per farsi largo nella fitta vegetazione. Anche i quattro esploratori dovettero usarlo per poter avanzare in quel sottobosco sempre più intricato, e tutto questo contribuiva ad accrescere la fatica. Ognuno di loro poi doveva portarsi un fardello di attrezzature e vettovaglie che rendeva il cammino ancor più massacrante.
Sewell camminava in testa al gruppo, alla sua destra Juan avanzava sferzando con energia il machete per liberare il sentiero ormai quasi cancellato dalle piante che parevano crescere repentinamente ai suoi margini. Il giovane indio, come sempre silenzioso, masticava delle foglie che si era procurato al villaggio. Il ragazzo, vedendosi osservato, si girò, «Professore, ne volete un po’? Servono per la fatica…»
«Che roba è?»
«Sono foglie di coca», rispose Juan, «La gente qua le usa per alleviare la fame, la sete e la stanchezza. Vi fanno stare meglio, prendete…» Il giovane infilò una mano nella bisaccia che portava a tracolla ed estrasse una manciata di foglie verdi, le porse a Greenstone che accettò di buon grado. Pedro, a sua volta, fece altrettanto offrendone un mucchietto al paleontologo francese, il più provato del gruppo.
I quattro, quasi certamente stimolati dalle foglie, aumentarono il passo in direzione est.

giungla amazzonica

A metà pomeriggio, col sole ormai alle spalle, Sewell e compagni giunsero finalmente sul bordo della gola. Fino a quel momento il tragitto era stato estenuante, ma ben presto tutti quanti compresero che la parte più complicata del viaggio sarebbe iniziata solo da lì in poi.
Dal sentiero al fondo della gola c’erano almeno un centinaio dì metri di dislivello da percorrere superando un formidabile intrico di rami e liane, oltre a pietre taglienti che spuntavano dal terreno ripido e in buona parte roccioso. Dall’alto era praticamente impossibile riuscire a vedere cosa li aspettasse giù in fondo, una cortina impenetrabile di fogliame aveva creato una barriera capace di impedire alla luce del sole di passare. Il che voleva dire che quel posto era dominato dal buio anche durante il giorno.
Dette premesse instillarono nel gruppo un vago e inatteso senso d’inquietudine e incertezza, e Greenstone pensò bene di rompere il silenzio per distogliere i compagni dai brutti pensieri.
«Sentite! Ora che siamo qui direi di sistemare tutto quanto per la notte. Ci accamperemo in quella radura là in fondo!»
Indicò un punto della foresta privo di alberi a margine di un crepaccio tra le rocce. Gli altri si rianimarono mettendosi tutti quanti al lavoro.
Il sole era appena scomparso, a quelle latitudini i tramonti sono brevi e il buio arriva presto. La prima cosa da fare era accendere un fuoco e così fecero. Poi finirono di sistemare il bivacco predisponendo le attrezzature per allestire la tenda il giorno seguente.
Juan e Pedro armeggiavano attorno al fuoco per preparare la cena, mentre i due scienziati discutevano su come organizzare le operazioni di discesa nella gola all’alba.
«Jacques, ve la sentite di scendere domani?» chiese Sewell all’amico.
«Ma certo parbleu, sono arrivato sin quaggiù e non me la voglio proprio perdere…» rispose. Gli occhi tradivano la stanchezza, ma quando parlava brillavano di eccitazione. Poi aggiunse: «A mille miglia a ovest da dove siamo ora, Darwin andava nel Pacifico a studiare le tartarughe e voi siete qui a un passo dallo scoprire la creatura più strabiliante che sia mai esistita… Lo so, lo so… Darwin è stato vostro maestro, che Dio l’abbia in gloria, però questa è la volta buona che l’allievo lo supererà. Sono pronto a scommetterci!»
Il tono del francese era entusiasta, era quello di un uomo che stava realizzando il sogno di una vita.
D’altra parte, Charles Darwin era morto due anni prima e Greenstone si trovava negli Appalachi in Nord America quando apprese la triste notizia. Da quel giorno il giovane scienziato scozzese si rammaricava sempre di non aver potuto partecipare ai funerali solenni del vecchio naturalista, cerimonia che si era svolta una mattina di primavera del 1882, nell’abbazia di Westminster a Londra.

funerali di Charles Darwin a Westminster Abbey (stampa dell’epoca)

Tuttavia, Jacques Verdoux era, suo malgrado, l’anello debole del gruppo…
Ormai prossimo alla sessantina, era uno stimato cattedratico dell’università parigina. Famoso in patria per aver fondato a Parigi il primo museo di storia naturale francese, dopo aver letto un trattato di Greenstone che elencava le sue teorie sull’esistenza del lithofagus, Verdoux, incuriosito, volle incontrarlo personalmente.
Si conobbero in occasione di un congresso svoltosi a Londra nel 1880 e divennero amici. Il paleontologo si appassionò talmente alle ricerche del collega scozzese che ne sposò integralmente la causa, scrivendo diversi articoli a suo favore e organizzando incontri tra lo stesso Greenstone e i suoi colleghi parigini. In cambio ottenne dall’amico una promessa: tutti i reperti trovati che fossero stati in grado di testimoniare l’esistenza del litofago, ed eventualmente il litofago stesso, sarebbero stati esposti nel proprio museo di Parigi.
Ma Verdoux pativa più degli altri i disagi della giungla. Aveva deciso con entusiasmo di unirsi al collega nell’avventura in Perù, ma ora doveva fare i conti con uno stato di salute precario che in quella situazione rischiava di peggiorare ulteriormente. Sewell intuiva le difficoltà dell’amico e si pentì di averlo convinto a partire per il Sud America offrendogli la possibilità di condividere la scoperta insieme a lui.
Otto mesi prima, i due scienziati si erano incontrati a Londra. Greenstone in quell’occasione informò Verdoux della sua imminente partenza per l’America Latina, confidandogli di aver raccolto nelle precedenti spedizioni abbastanza elementi per poter finalmente concludere le sue ricerche con un successo. Occorreva solo un ultimo viaggio. Fu a quel punto che gli chiese se volesse raggiungerlo in Perù per partecipare alla missione, e Jacques Verdoux accettò con gioia e senza esitare un solo istante.

Quella notte un cielo privo di nuvole permise alla luna quasi piena e a migliaia di stelle luccicanti di spandere la loro luce azzurrognola sulla radura attorno all’accampamento. Sewell rimase sveglio a lungo nel suo giaciglio prima di addormentarsi.
Dopo la cena i suoi tre compagni si erano sistemati attorno al fuoco e si erano assopiti quasi subito. Verdoux era caduto in un sonno pesante sopraffatto dalla stanchezza, mentre i due giovani indios giacevano curiosamente seduti poggiando le due schiene l’una contro l’altra, infagottati nei loro pesanti ponchos di lana di alpaca.
I due dormivano, ma qualunque rumore insolito nel silenzio imperante li avrebbe immediatamente destati. Sewell, osservandoli, ne era sicuro, e si compiacque ancora una volta di averli al suo servizio.
Mille pensieri gli impedirono di prendere sonno quella notte. S’alzò e s’avviò verso il crepaccio distante poche decine di metri, giunto sul bordo della gola iniziò a contemplare l’oscurità che la celava. In qualche modo gli pareva di avvertire la presenza di innumerevoli creature che brulicavano e strisciavano nella voragine sottostante, buia e invisibile. Improvvisamente un rumore di passi lo fece trasalire, si voltò, «Juan… sei tu!»

«Sir Joseph, è pericoloso allontanarsi dal fuoco, quelli del villaggio dicono che questo territorio è zona di caccia del tigre delle montagne…»
«Lo so Juan, ma non sono di certo i giaguari a preoccuparmi stanotte, di solito quei gattoni stanno alla larga dagli uomini. Non sarà così per le creature che troveremo laggiù domani…»
I due rimasero in silenzio, pensierosi. Lo sguardo di entrambi era perso nel nero profondo della gola che incombeva davanti a loro.
Poi Sewell, come per spezzare un’inquietudine opprimente che cominciava a farsi strada nel groviglio di pensieri che lo avevano attanagliato per tutta la sera, tornò al fuoco del bivacco seguito da Juan.
Mentre l’indio si risistemava nell’insolita postura che condivideva con Pedro, Joseph Sewell si adagiò nel suo giaciglio e finalmente si abbandonò anch’egli alla stanchezza.
Dopo nemmeno un minuto il sonno riuscì a vincere ogni residuo pensiero.

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Un castello da record

E’ l’unico nel suo continente a essere ancora circondato da un fossato con acqua e ponte levatoio originale; è uno dei monumenti del Paese più visitati in assoluto; e di anno in anno si conferma, nella sua città, come il museo con il maggior numero di biglietti acquistati: sembra essere l’identikit perfetto di un posto da favola, una meraviglia frutto dell’immaginazione, eppure esiste realmente e si trova proprio qui, nella nostra Ferrara. E’ il Castello Estense, simbolo per eccellenza della città.

Appena qualche giorno fa i giornali hanno pubblicato i dati relativi allo scorso anno, che evidenziano ancora una volta il trend positivo del castello: quasi 180.000 sono state le visite nel 2017, cioè il 7% in più rispetto al 2016. Un risultato derivato dall’attenzione allo studio, alla conservazione e alla valorizzazione che i nostri beni italiani, invidiati in tutto il mondo, meritano.
Era il 1927 quando per la prima volta venne apertamente espresso il concetto di recuperare la bellezza del castello, in occasione della pubblicazione dell’articolo ‘Per il decoro e per l’arte: sgomberiamo il Castello Estense’. Fortunatamente il suo stato di conservazione era sempre stato molto buono, essendo rimasto un edificio vivo lungo tutto il corso della sua esistenza. All’inizio però non tutti erano d’accordo sulla sua edificazione. Anzi, fu addirittura costruito contro la volontà degli stessi abitanti.
Nel 1385, infatti, alla notizia dell’ennesimo aumento delle tasse, la popolazione insorse contro il responsabile della riscossione delle gabelle, Tommaso da Tortona, uccidendolo. Niccolò II, terrorizzato da tanta ferocia, decise pertanto di far costruire un castello a nord della città, a ridosso delle vecchie mura, per proteggere sé stesso e l’intera famiglia estense. Era una rocca difensiva talmente avanzata per il tempo, che fu studiata da molti architetti, persino da Michelangelo.

In seguito, nel 1476, Ercole I trasformò il castello da fortezza medievale a principesca residenza rinascimentale, restaurandolo e impreziosendolo al suo interno. Non solo: attraverso la sua famosa addizione, rese il Castello estense da costruzione periferica a centro esatto della città. Un edificio imponente, dunque, con sale affrescate, lunghi corridoi, cortili all’aria aperta, alte torri e prigioni sotterranee. E proprio in una di queste particolari prigioni, riservate ai personaggi di alto rango, furono rinchiusi Giulio e Ferrante d’Este, figli di Ercole I, che dopo la sua morte ordirono un complotto per uccidere i loro fratelli più grandi, il legittimo erede Alfonso e il cardinale Ippolito, e impossessarsi dei loro poteri. Una volta scoperti, furono imprigionati. Ferrante, dopo 34 anni, morì in cella, mentre Giulio riuscì ad arrivare a 81 anni e venne graziato, con più di 50 anni di prigionia alle spalle.

Nessuno ha raccontato di aver mai visto, in quelle oscure stanze, il fantasma del povero Ferrante… Ma in compenso varie sono le leggende che parlano di antichi spiriti che vagherebbero nei bui sotterranei del castello. La vicenda più famosa è una triste storia d’amore, la storia di Ugo e Parisina. Nel 1418 fu celebrato il matrimonio tra Parisina Malatesta, di 15 anni, e Niccolò III d’Este, che aveva già avuto un figlio in precedenza, Ugo, di un solo anno più piccolo della sua matrigna. Ugo all’inizio provava un duro sentimento di antipatia per Parisina, ma presto l’odio si trasformò in amore appassionato, un amore pericoloso da tenere segreto. Niccolò, contento del cambiamento e allo stesso tempo ingenuamente ignaro della nuova situazione, iniziò a lasciarli spesso da soli, per esempio in occasione dello scoppio della peste, quando decise di proteggerli facendoli soggiornare in una villa di campagna, dove i due diedero pieno sfogo alla propria passione. Non sfuggirono, tuttavia, agli occhi della servitù e le voci del tradimento giunsero ben presto a Niccolò, che precipitandosi sul luogo, li sorprese in flagrante. Furioso, li fece imprigionare nel castello e condannare a morte, insieme a tutte le adultere ferraresi. Le anime dei due giovani e delle adultere si aggirerebbero ancora piangenti per il castello, un castello di un fascino terribile.

IL CACCIATORE DI LEGGENDE
Uno scozzese in Perù

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CAPITOLO II – Uno scozzese in Perù

Dopo l’arrivo degli europei in America Latina, le leggende sul litofago, le numerose testimonianze e le tracce rinvenute tra le varie raffigurazioni delle culture precolombiane incuriosirono un gran numero di studiosi e di avventurieri. Molti archeologi e naturalisti spesero gran parte delle loro risorse nell’intento di verificare la reale esistenza di questa enigmatica creatura.
Il più famoso di tutti fu senz’altro Sir Joseph Sewell Greenstone.

Nato a Edimburgo nel 1848 da John Greenstone, farmacista, e Mary Elisabeth Haslow, maestra elementare, Joseph Sewell si interessò fin da subito, forse ispirato dal padre, allo studio delle scienze naturali. Ben presto il giovane Greenstone si appassionò alle ricerche sull’evoluzione, tanto da schierarsi in favore delle teorie darwiniane.

Il St. John’s College di Cambridge

Laureatosi al St. John’s College di Cambridge nel 1868, Joseph Sewell Greenstone iniziò la sua carriera universitaria come biologo ricercatore e zoologo per conto dell’Accademia di Scienze Naturali di Cambridge. Con questa investitura intraprese varie missioni, molte delle quali in Sud America.
Proprio una tappa in Perù segnerà l’inizio del suo appassionante viaggio sulle tracce del verdone. Una ricerca che lo porterà a dedicare l’intera carriera allo studio di questo animale unico al mondo.
Il primo periodo trascorso in Sud America non fu facile per Greenstone. Egli dovette misurarsi con l’ostilità delle popolazioni locali che mal sopportavano questo nuovo e insolito interesse di tanti stranieri verso un animale che avevano sempre considerato sacro e inviolabile.
Greenstone si trovava da un paio di settimane accampato presso un villaggio tra le montagne. Era a circa ottanta miglia a est di Cuzco, nelle vicinanze di un sito sul Passo di Auzangate dove erano stati rinvenuti alcuni reperti nazca, assieme a lui c’erano un collega paleontologo e due inservienti assunti a Lima.

Il sole era ormai scomparso oltre la Cordigliera, lo scienziato si trovava nella sua tenda e stava esaminando una serie di frammenti di vasellame e alcune rudimentali lame d’osso. Improvvisamente si precipitò all’interno Juan, uno dei due inservienti peruviani. Si trattava di un indio di vent’anni circa, basso di statura ma robusto, e parlava uno spagnolo con il tipico accento dei nativi.
«Sir Joseph, ho fatto uno scambio con lo sciamano del villaggio, gli ho dato la lanterna a petrolio e lui mi ha dato questo…» disse tutto trafelato il giovane mentre porgeva a Greenstone un fagotto.
Joseph Sewell prese il pacchetto e lo aprì. Quando ne ebbe visto il contenuto sgranò gli occhi, abbracciò il giovane sollevandolo praticamente da terra, accennò quasi un balletto e intonò una specie di ringraziamento in gaelico. Appena si fu calmato esclamò: «Caro Juan, qui ci vuole una bevuta!»

Joseph era uno scozzese delle Lowlands un po’ atipico: rampollo di una rigida famiglia presbiteriana, era altresì un discreto bevitore di whisky e un donnaiolo impenitente.
Superava il metro e ottanta, aveva un fisico asciutto e atletico, capelli castani e occhi grigi.

Joseph Sewell a 24 anni

Appariva abbronzato in ogni periodo dell’anno, con la faccia perennemente incorniciata da una barba incolta e da un vecchio cappello australiano di pelle di canguro. Portava un paio d’occhialini tondi appoggiati sul naso per aiutarsi nella lettura e, stretta tra le labbra, l’immancabile pipa di pannocchia e bambù (lo aiutava a pensare, diceva).
In altre parole, aveva l’aspetto più di un avventuriero che di uno scienziato accademico. E in effetti trascorreva più tempo in giro per il mondo che nella sede della sua università.
Ma questo suo costante girovagare verso terre lontane lo rese anche un esperto conoscitore di molteplici culture. Era poi famoso tra amici e colleghi soprattutto per la sua innata capacità di cavarsela in ogni situazione si venisse a trovare, una dote che gli salvò la pelle in più di un’occasione.

Ebbene, quella sera Joseph Sewell e il suo giovane aiutante si ubriacarono con del whisky che lo scienziato si era portato dalla Scozia. In patria, tra i numerosi detrattori che Greenstone aveva nel mondo accademico, circolava voce che fosse più avvezzo alle sbornie che alle scoperte scientifiche. In effetti, riguardo ai suoi studi, negli ambienti dell’università c’era sempre più scetticismo e, alla vigilia di quell’ultima spedizione, il Rettore dell’Accademia delle Scienze di Cambridge, Sir Bernard Hackett, gli comunicò senza mezzi termini che, se anche stavolta non avesse portato a casa risultati significativi, i fondi per altre spedizioni sarebbero stati tagliati definitivamente.
Così, molto probabilmente, quello sarebbe stato il suo ultimo viaggio in Sud America.
Però, quella sera di settembre del 1884, successe qualcosa che avrebbe cambiato la vita di Joseph Sewell Greenstone per sempre.

Lo sciamano di Auzangate

All’alba del giorno seguente Joseph Sewell chiamò Juan e gli chiese d’accompagnarlo dallo sciamano con cui aveva fatto lo scambio. Il giovane indio, ancora intontito dall’alcool, ubbidì portandolo al vicino villaggio.
Giunti di fronte alla dimora dello stregone, una bassa casupola fatta di mattoni d’argilla e ricoperta da un tetto di canne e malta indurita, Sewell entrò scostando un pesante tendaggio posto all’ingresso. Davanti a sé, nella penombra, vide il vecchio indio seduto che lo fissava.
Greenstone non aveva ancora aperto bocca che lo sciamano cominciò a cantilenare in una lingua incomprensibile. A quel punto Juan, che era rimasto fuori, entrò e, ottenuta con un’occhiata l’approvazione di Sewell, parlò al vecchio in un misto di spagnolo e quechua.

A quell’epoca, le comunità andine del nord non avevano ancora abbandonato l’uso dell’antico linguaggio inca. Soprattutto gli anziani, restii ad accettare una lingua, quella spagnola, assai lontana dal loro modo di comunicare, resistevano tenacemente alle imposizioni delle autorità continuando a parlare la lingua degli antenati.
A dire il vero, se gli europei non comprendevano una sola parola di quechua, al contrario gli indios avevano ormai imparato lo spagnolo alla perfezione. Questo difetto di comunicazione si traduceva in un vantaggio per gli indios che, spesso, si prendevano gioco dei bianchi approfittando della situazione in varie maniere.
All’inizio della spedizione, Joseph Sewell, consapevole di questo fatto, si era convinto che sarebbe stato necessario assumere due giovani aiutanti in grado di parlare perfettamente sia lo spagnolo che la lingua inca, e magari di poter comprendere anche l’inglese. Egli lo riteneva un requisito essenziale, e la piega che presero gli eventi dimostrò quanto avesse effettivamente ragione.
Qualche tempo prima, Greenstone si occupò personalmente dell’assunzione dei suoi servitori.
Lo fece con scrupolo e pazienza, scegliendo coloro che, secondo lui, rispondevano a requisiti imprescindibili per il buon esito della missione. Gli uomini che cercava dovevano parlare più lingue, essere giovani, forti e in buona salute, non superstiziosi e nemmeno analfabeti, e possibilmente senza precedenti con la giustizia. Dovevano poi essere in grado di saper maneggiare armi, anche se non dovevano assolutamente essere ex soldati. Sewell sapeva per esperienza che tra i militari c’era la feccia della società peruviana: mercenari violenti e ubriaconi, ovviamente inaffidabili.
Fu subito chiaro allo stesso scozzese quanto fosse difficile riuscire a trovare soggetti con tutti quei requisiti, vista la situazione sociale in cui versava il Perù all’epoca dei fatti.
Il paese era ridotto in ginocchio: povertà e analfabetismo erano dappertutto; un’economia già precaria era stata azzerata dalla recente sconfitta subita nella guerra contro il Cile; bande di sanguinari fuorilegge infestavano le campagne e pure le comunità degli indios erano in fermento contro il governo centrale.
Ciononostante, alla fine, la perseveranza di Greenstone fu premiata.
Si trovava a Lima ormai da una settimana e, mentre di giorno progettava le varie tappe della spedizione nel chiuso della sua stanza d’albergo, di sera si aggirava senza successo per le varie bettole della capitale alla ricerca degli uomini giusti da assoldare.

Jacques Verdoux nel 1878

L’ottavo giorno, un fattorino dell’albergo gli consegnò un telegramma. Era del suo collega e amico Jacques Verdoux, un anziano paleontologo della Sorbona in arrivo dall’Europa per unirsi alla spedizione di Greenstone.
Il messaggio, partito dalla vicina Colombia, diceva che lo scienziato sarebbe giunto l’indomani al porto di El Callao a bordo di un brigantino proveniente da La Palma. Il giorno dello sbarco Sewell andò al porto a ricevere l’amico, e ivi lo trovò in compagnia di due giovani indios vestiti all’europea.
Dopo un caloroso abbraccio e una serie di energiche pacche sulle spalle, il francese presentò a Sewell i suoi due compagni. Si chiamavano Juan e Pedro, erano due giovani peruviani sui vent’anni circa, e avevano incontrato Verdoux a Panama dove lavoravano per una società francese. Una compagnia che era stata incaricata di progettare un canale in grado di unire l’Atlantico al Pacifico: un’opera colossale che però sarebbe stata realizzata soltanto dopo circa una trentina d’anni.
I due indios erano stati cresciuti dai Gesuiti, erano ben istruiti e conoscevano almeno tre lingue ciascuno. Avevano accettato di seguire il vecchio scienziato perché la Societé Eiffel, sull’orlo del fallimento, non li pagava più da mesi, mentre Verdoux aveva promesso loro un lauto compenso.
Quell’incontro fu per Greenstone un vero e proprio colpo di fortuna: finalmente aveva trovato gli uomini che cercava!
Accordatosi con l’amico francese, assunse Juan come aiutante personale, mentre Pedro rimase al servizio del paleontologo.
Quel giorno segnò ufficialmente l’inizio della spedizione alla ricerca del lithofagus.

Due giorni dopo i quattro esploratori partirono da Lima diretti a Cuzco.

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Diciannove anni fa…De André

Diciannove anni fa ero solo un bambino. Diciannove anni fa vidi i miei genitori con le lacrime agli occhi. Diciannove anni fa non capivo il perché tutti i tg mostrassero i video di un signore con dei grossi occhiali e con una chitarra in mano. Diciannove anni fa mio padre mi insegnò una canzone che porto ancora nel cuore. Diciannove anni fa, in quell’11 gennaio, avevo solo 9 anni, ma riuscii a percepire che qualcosa era cambiato e non sarebbe stato più lo stesso. Diciannove anni sono un tempo per alcuni breve, per altri lunghissimo. Non conobbi mai quell’uomo visto in tv, se non attraverso i racconti e le note della sua musica. Diciannove anni fa moriva un signore dalle mille sfaccettature ed etichette: cantautore, poeta, scrittore, anarchico, terrorista, comunista, filo-cinese, filo-br, musicista, folle, genovese, genoano. Diciannove anni fa, e questo lo so ancora oggi, iniziai a conoscere sempre di più quello che oggi considero di diritto un mito, una leggenda, anzi, e più giustamente, un uomo con pregi e difetti, il quale semplicemente volle raccontare ciò che lo circondava, senza fronzoli. Diciannove anni fa moriva il cantore degli ultimi. Diciannove anni fa moriva Fabrizio De André e mi sembrava giusto, diciannove anni dopo, ricordarlo.

Disturbi sonori, ne soffre il 16,2% degli italiani. Il silenzio chiama…

Il silenzio, questo sconosciuto. La tranquillità delle orecchie (e non solo), tempi lontani.

Quasi un quinto degli europei soffre di disturbi sonori dovuti al rumore proveniente dalla strada o prodotto dai vicini: la proporzione è doppia per chi vive in città rispetto a chi sta in campagna, e diminuisce a seconda del numero di persone che vivono in casa. Gli italiani sono sotto la media Ue per i fastidi provocati dai rumori molesti. E’ quanto emerge dai dati Eurostat relativi al 2016. Secondo questi, il 17,9% degli europei è vittima del rumore: il 23,3% nelle aree urbane e il 10,4% in quelle rurali. Gli italiani che patiscono di disturbi sonori sono invece il 16,2%, mentre erano il 18,3% nel 2015. I Paesi dove la gente si lamenta di più del rumore, ovvero circa una persona su quattro, sono Malta (26,2%), Germania (25,1%) e Olanda (24,9%), seguiti da Portogallo (23,1%), Romania (20,3%), Grecia (19,9%) e Lussemburgo (19,7%). Lo stato più ‘silenzioso’, con il minor numero di ‘problemi sonori’, è invece l’Irlanda (7,9%), seguito da Croazia (8,5%), Bulgaria (10%) ed Estonia (10,4%). In generale, a livello Ue ad essere più sensibili al rumore sono i ‘single’, con il 20,8% di persone che si sono lamentate dei vicini o della strada, poi le coppie, con il 17,8%, e infine le famiglie più numerose, con il 16,6%. In particolare, il 18,4% delle famiglie senza figli è infastidita dal rumore, mentre la percentuale scende al 17,5% per quelle con figli.

Sono i dati che ANSA pubblica il 2 gennaio 2018, dati attuali, che fanno riflettere. Da non credere, ma proprio durante le vacanze natalizie pensavo all’importanza del silenzio, a quanto mi mancava, alla sua insostituibile funzione terapeutica, a quanto il rumore sia ormai il primo insopportabile e fastidioso compagno quotidiano di molti di noi. Troppi. Non per nulla durante la pausa festiva mi sono dedicata, fra gli altri, alla lettura de ‘Il silenzio’, di Erling Kagge (Einaudi, 2017, 120 p.) e di ‘Elogio del silenzio. Come sfuggire al rumore del mondo’, di John Biguenet (Il Saggiatore, 2017, 176 p.).

Kagge ricorda come, in media, perdiamo la concentrazione ogni otto secondi e come la distrazione sia ormai uno stile di vita, l’intrattenimento perpetuo una brutta abitudine che ciascuno ormai ha preso. E quando incontriamo il silenzio, lo viviamo come un’anomalia, come un qualcosa di strano ed estraneo che non ci aspettiamo: spesso, invece di apprezzarlo, ci sentiamo a disagio e persi. Erling Kagge, al contrario, del silenzio ha fatto una vera scelta di vita. Nei mesi passati da solo nell’Artide, al Polo Sud o in cima all’Everest, ha imparato a fare propri spazi e ritmi della natura oltre che a immergersi in un silenzio interiore ed esteriore: un incommensurabile tesoro e una fonte di rigenerazione che tutti possediamo a cui è però difficile attingere, immersi come siamo nel frastuono, nel chiacchiericcio (e nel rumore continuo) della vita quotidiana. Ma che cos’è veramente il silenzio? Dove lo si può trovare? E perché oggi è tanto importante? A queste tre domande Kagge fornisce trentatré possibili e interessanti risposte, riflessioni scaturite da esperienze, incontri e letture, tutte animate da un’unica certezza: che il silenzio sia la chiave per comprendere la vita. Cercare il silenzio. Non per voltare le spalle al mondo, ma per osservarlo e capirlo. Perché il silenzio non è un vuoto inquietante aldilà della nostra portata ma l’ascolto dei suoni interiori che abbiamo sopito e dimenticato. Magari non riconosciuto.

Anche John Biguenet si domanda cosa sia il silenzio. Se una semplice assenza di suono, un’estrazione del pensiero o se, come scrisse Saramago, in realtà non esista, perché anche la nostra voce e i nostri pensieri riflessi in noi, in fondo, hanno un suono, quasi un’eco. Quello che è certo è che in esso si possono riordinare pensieri scossi dai ritmi frenetici di ogni giorno, trovare pace da delusioni, incertezze, soprusi, ingiustizie. Riposare. Mentre oggi la scienza, ricorda l’autore – attraverso gli esperimenti con la camera anecoica (ambiente di laboratorio strutturato per ridurre il più possibile la riflessione di segnali sulle pareti. Il termine, dal greco, significa infatti “privo di eco”) – pone in dubbio la sua reale esistenza, autori come William Shakespeare, Laurence Sterne, Mark Twain, Edgar Allan Poe e Rainer Maria Rilke, e pittori come Mark Rothko e Marcel Duchamp, si sono interrogati sul significato del silenzio e sulla sua rappresentazione in letteratura e arte. Biguenet in questo bellissimo libro indaga le mutevoli sembianze del silenzio: premio o punizione, arma letale o strumento di resistenza, vuoto da riempire o sensazione di pienezza, bene di lusso o disturbo da evitare. Il silenzio è oggi spesso, e sempre di più, prerogativa dei ricchi, continua l’autore. Di chi può avere il privilegio oltre che i mezzi per vivere lontano dal rumore che non produce, da sferraglianti rotaie, da fabbriche chiassose o da roboanti autostrade. Alcune automobili di lusso vengono prodotte a rumore quasi zero, le lounge silenziose degli aeroporti sono prerogativa di pochi. Anche gli scompartimenti silenziosi dei treni costano di più, laddove è proibito il telefonino o parlare a voce alta. Lo stesso dicasi per atolli isolati o alberghi intimi abilmente e unicamente posizionati in luoghi lontani dalla folla e immersi nella natura. Sembrerebbe proprio che chi è più povero è più rumoroso, o meglio che abbia meno diritto al silenzio. In un mondo febbrile, snervante, sfiancante, rumoroso e caotico, sempre più spesso il silenzio sa esprimere meglio delle parole le passioni umane. Inseguirne l’incantesimo e la magia è oggi il modo migliore per curarci di noi stessi. Un privilegio?

Cambio d’anno e di governo, ma il rinnovamento dipende dal nostro voto

Cambio d’anno come metafora del prossimo cambio di governo? Tempo di bilanci, somme e sottrazioni per chi vuole segnare questo passaggio ponendo un doveroso accento su quello che è stato e ciò che si vorrebbe vedere realizzato.

Un cambio che per essere tale dovrebbe contenere la svolta, quella reale e percepibile fin da subito, quella che presuppone davvero un giro di boa che permetta di affrontare un futuro nebuloso e preoccupante con almeno un pizzico di speranza e rinnovata energia. Sono caduti gli slogan e i modi di dire tanto sbandierati di un recente passato e di ogni estrazione come ‘rottamazione’, ‘yes we can’ (preso a prestito da Obama), ‘dialogo al posto di insulto e scontro’, ‘Un impegno preciso: città più sicure’, ‘Prima il Nord’, ‘Ricostruire tutto senza paura’, ‘O noi o loro’, ‘I want you’ (ma perché scopiazzare sempre dallo zio Sam?), ‘Cambiamo musica!’ e chi più ne ha più ne metta. Un vero e proprio dizionario di sparate elettorali classiche e del tutto scontate, una raccolta di espressioni che, nell’ottica politichese dovrebbero catturare l’immediata simpatia del cittadino creando pathos, rabbia, familiarità, carica.

Sono tramontate le frasi a effetto perché non scaldano più i cuori. E quello che doveva essere il tanto atteso processo di ‘rottamazione’ (che brutta espressione!) è ritornato a essere solo una parola sbiadita e non più spendibile perché il millantato miracolo del rinnovamento totale che avrebbe guidato l’Italia verso approdi felici rimane sulla carta, o meglio sui cartelloni. Sono finiti i tempi in cui le note di ‘Io lo so che non sono solo’ di Jovanotti percorrevano il Palazzo dei Congressi dell’Eur a Roma, accompagnando empaticamente le convention del Partito Democratico, inneggiando a quella che allora sembrava una rivoluzione pacifica di grande forza e impatto. “Ora la città è un film straniero senza sottotitoli/le scale da salire sono scivoli, scivoli, scivoli/il ghiaccio sulle cose/la tele dice che le strade sono pericolose/ma l’unico pericolo che sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente…”, recitava il pezzo di Lorenzo Cherubini-Jovanotti. E siamo rimasti là, con le nostre paure, le insicurezze sociali, gli interrogativi sul futuro, gli indici che ci passano sotto il naso tentando di creare ottimismo quando la realtà parla del contrario, linee programmatiche da scrivere nella disperata ricerca del consenso di chi è stanco, demotivato, disilluso o indignato, i partiti in affanno che si stanno dimenando come i capponi di manzoniana memoria: quattro povere bestie in attesa di essere consegnate al dottor Azzeccagarbugli, che a testa in giù sono intente a beccarsi fra loro.

Ha ragione Jovanotti: l’unico pericolo è proprio quello di non sentire più niente. Ci ritroveremo chiamati al voto nelle prossime scadenze elettorali nazionali, regionali, provinciali e amministrative con una nuova tornata di slogan e sciorinature luccicanti, magari un po’ meno americane e più ruspanti, perché il ruspante e il ‘nostrano’ ora fa più appeal. Chi parlerà di populismo, chi di responsabilità di governo, chi di un’ennesima ‘svolta’ nel nome dell’onestà e della trasparenza… Verrà rispolverato e tirato a nuovo il tema dei vitalizi con tutte le considerazioni del caso, che risolleverà l’ira popolare a ragion veduta, corredato di tutti gli scenari possibili, testimoni di un’Italia che viaggia su più binari molto diversi tra loro. Il cambiamento? Forse, difficile, impossibile, timidamente probabile…chissà!

Intanto affacciamoci sui prossimi appuntamenti elettorali senza dimenticare, forse illusoriamente, che il nostro voto è un’affermazione di volontà di cui essere consapevoli. Almeno quello. Una cosa è certa: il 2017 se ne va e il 2018 è l’Anno Nuovo che comparirà nei nostri calendari con tutte le sue sfide, sorprese, certezze e imprevisti. Buon Anno a tutti e che i nostri buoni propositi del primo gennaio ci ricordino ogni giorno che possiamo, dobbiamo rendere le nostre comunità un luogo sano da valorizzare, giusto e completo, in cui crescere, vivere ed esprimere ciò che siamo e possiamo offrire. Ciascuno nel proprio pezzetto di esistenza.

IL CACCIATORE DI LEGGENDE
Una curiosa creatura

Davvero credete che la scienza vi abbia svelato tutto del pianeta su cui camminate?
Davvero pensate che sulla Terra non esistano più creature sconosciute, aliene, o luoghi ancora inesplorati, misteriosi?
Io dico che c’è ancora moltissimo da scoprire… Oltre i confini del sapere ci sono cose inaspettate, strabilianti. Esseri e posti capaci di mettere in discussione le più elementari certezze.
Come oggi, in passato ci furono uomini di scienza che non si accontentarono, che non smisero mai di cercare e che scoprirono cose fino a quel momento confinate nel mondo dell’immaginazione e della fantasia. Cose che dopo divennero elementi tangibili da accogliere definitivamente nel regno dell’esistente.
Nelle prossime righe vi racconterò le gesta di uno di loro, che oltre un secolo fa iniziava la sua avventura al confine tra immaginario e reale. Buona lettura.

Da ʿAppunti di viaggio di J. S. Greenstone: alla ricerca del verdone australeʾ
(Ricostruzione storica di Charles Greenstone)

Premessa
Mi presento: mi chiamo Charles Sewell Greenstone Secondo, sono docente di biologia alla Yale University in California, ho pubblicato alcune importanti ricerche sulla criptozoologia, attualmente sono consulente scientifico per la rivista di divulgazione ‘Archos’, più precisamente sono curatore della rubrica sulla biodiversità.
Tempo fa entrai in possesso di un carteggio del mio bisnonno Joseph Sewell Greenstone, il celebre zoologo scozzese conosciuto per aver scoperto nuove specie animali tra le quali il famoso quanto bizzarro verdone mangiasassi. Si trattava di una serie di diari autografi risalenti al periodo dei viaggi in Sud America, viaggi che egli intraprese tra il 1878 e il 1885.
Facendo un raffronto delle date dei diari, mi resi conto con assoluta certezza che quei venti taccuini con le copertine in pelle e le pagine zeppe di appunti scritti di suo pugno altro non erano che la cronaca dettagliata della sua scoperta più controversa e discussa.
Le pagine che seguiranno sono il frutto della lettura di quei taccuini, un resoconto sommario degli avvenimenti che accaddero immediatamente prima, durante e subito dopo il rinvenimento dell’incredibile creatura che la scienza conosce col nome di smeraldino litofago e che Joseph Sewell ribattezzò verdoux australis, in omaggio all’amico e compagno d’avventura scomparso nel corso di quella spedizione: Jacques Verdoux.
Il mio racconto vuole essere un contributo, seppur modesto, alla memoria di un grande esploratore oggi quasi dimenticato. Un uomo di scienza illuminato e anticonformista. Un appassionato assertore delle proprie idee che osò sfidare lo scetticismo di amici e colleghi; che fu isolato e deriso dai suoi contemporanei, ma che, alla fine, vinse la sua folle scommessa con la scienza passando definitivamente alla storia come il più grande scopritore di specie sconosciute.
Quest’uomo era Sir Joseph Sewell Greenstone, il mio bisnonno.

CAPITOLO I – Una curiosa creatura

Il verdone australe (smeraldino lithofagus), popolarmente conosciuto col nome di verdone mangiasassi, è uno strano animaletto verde e tozzo. Poco più grande di un koala ma col muso che ricorda quello di un ippopotamo. Il corpo è massiccio, con quattro zampe corte e robuste, ciascuna munita di tre lunghi artigli. La pelle è glabra, dura, callosa e di un color verde pallido.
Il verdone è privo di coda ed è invece munito di una spessa cresta coriacea che, posta sul dorso, è capace di mutare colore a seconda dell’umore dell’animale. Le orecchie, dalla curiosa forma a imbuto, sono molto sensibili a qualsiasi tipo di vibrazione e sono in grado di percepire sia gli infrasuoni che gli ultrasuoni a bassa e alta frequenza. Dopo l’udito, il senso più sviluppato del verdone è l’olfatto, capace di avvertire un odore anche a un miglio di distanza. Per contro, il verdone è quasi cieco e distingue a malapena gli oggetti posti a pochi centimetri dal proprio muso.
Esso vive principalmente sottoterra, si sposta scavando gallerie con le possenti zampe anteriori e solo eccezionalmente fa qualche breve apparizione in superficie. È un animale schivo e solitario ed è assai raro riuscire a vederlo perché la sua estrema timidezza lo rende sfuggente alle altre creature, soprattutto all’uomo.
Da un recente studio sui resti fossili del protosmeraldino pristinus, l’antenato dell’attuale verdone, si è ipotizzato che i primi verdoni vivessero in superficie. Nel corso della sua lenta evoluzione il lithofagus si è poi specializzato nella vita sotterranea, al riparo dalla lotta per la sopravvivenza con le altre specie e lontano dal pericolo di eventuali predatori.
Struttura fisica e peso lo rendono assai lento e impacciato, eppure il verdone mangiasassi è forse la creatura vivente più longeva del regno animale, in grado di sopravvivere più di ogni altra specie a qualsiasi avversità.
Ma la peculiarità che più lo contraddistingue da ogni altra creatura, rendendolo forse l’animale più bizzarro al mondo, è la sua dieta: esso infatti si ciba prevalentemente di sassi! (*)
La struttura ossea robustissima, costituita da un mix di calcio alluminato e carbonio concentrato, e l’apparato digerente, in grado di sintetizzare qualunque composto minerale disgregandone le molecole attraverso processi chimici/metabolici unici in natura, danno al verdone mangiasassi l’eccezionale capacità di mangiare e soprattutto digerire la pietra e i minerali più duri. Il suo stupefacente apparato masticatore, costituito da possenti fasci muscolari ultra fibrosi e da ossa craniche e mandibolari dure come il metallo, è in grado di sbriciolare qualunque roccia, sedimentaria o lavica che sia.
È chiaro che siamo di fronte a un animale unico nel suo genere, una bizzarria della natura che ha ispirato la fantasia dell’uomo fin dall’antichità.

Smeraldino Litofago (Verdoux Australis)

(*) A questo punto sarà bene fare una precisazione: la dieta del verdone è oggetto di un’annosa discussione tra gli studiosi di tutto il mondo, divisi tra “radicali” e “moderati”. I primi sostengono l’unicità della dieta del litofago, teorizzando che l’animale si sia biologicamente ed eccezionalmente evoluto per assimilare nutrimento dall’assunzione esclusiva di minerali di vario genere. I secondi, invece, affermano che l’alimentazione del litofago sia essenzialmente organica, ipotizzando che la dieta a base di minerali (pietre e sassi) sia soltanto una componente marginale, seppure eccezionale, di un regime alimentare molto più ampio e variegato. In sostanza, la corrente moderata, ritenuta più attendibile, descrive il verdone mangiasassi come un animale onnivoro.

Geoglifo nazca della Piana di Ingenio

I primi a testimoniare l’esistenza del verdone furono i Nazca che già in periodo litico e preceramico lo rappresentavano nei loro graffiti, e più tardi anche nelle decorazioni su vasellame e in riproduzioni di feticci in pietra e osso. Gli esempi più eclatanti della familiarità del popolo Nazca con il verdone rimangono comunque i famosi geoglifi zoomorfi della Pampa di Ingenio e di Nazca in Perù e a Cerro Pintado in Cile.
Secoli più tardi, testimonianze del culto del verdone si hanno a Vilcas, villaggio inca nei pressi di Macchu Picchu, dove si trovano incisioni su pietra con raffigurazioni di sacrifici umani a divinità con sembianze di enormi lithofagus.
In genere, in tutta l’America precolombiana, le antiche civiltà hanno dato prova di conoscere l’esistenza dell’insolito animale. Esso peraltro, probabilmente originario della Patagonia, ha via via allargato il suo habitat sotterraneo colonizzando il sottosuolo di tutta l’America Latina.
E fu soltanto durante e dopo la scoperta dell’America che in Europa giunsero le prime sparute voci sulla sua esistenza.
In proposito, sarà bene segnalare un episodio risalente all’epoca della conquista spagnola del Perù.
In un passo del diario di Pablo Armando Castillo, luogotenente al seguito di Hernando Pizarro durante l’assedio di Cuzco nell’estate del 1536, il soldato spagnolo narra del suo incontro con una strana creatura: “… All’alba di stamane mi trovavo con la mia guarnigione nella radura rocciosa nei pressi del Picco di Watzaclan, portavo il mio cavallo a bere al torrente a monte del Rio Matako quando mi accorsi della presenza di una creatura del demonio. Era appoggiata su un gruppo di pietre e pareva fissarmi, in attesa e pronta ad attaccare. Mi voltai indietro e urlai ai miei compagni di accorrere, ma nessuno di loro udì e rimasi solo con quel drago temendo il peggio. Fu allora che avvenne una cosa che tuttora stento a credere: la bestia cominciò a divorare le pietre che aveva intorno, una ad una, e il rumore che emettevano le sue fauci era terrificante. Distratta dal suo pasto non faceva più caso a me, dandomi il tempo di raggiungere il cavallo e afferrare l’archibugio. Caricai lo schioppo e mi voltai verso di essa per prendere la mira e sparare, ma la bestia era scomparsa. Al suo posto era rimasta soltanto una voragine senza fondo…”

Pablo Armando Castillo

Il resoconto di Castillo non fu preso in grande considerazione dai suoi contemporanei, e, anche se poi si ebbero notizie di altri avvistamenti, tutto quanto cadde ben presto nell’oblio, alimentando per lo più dicerie a uso e consumo dei nativi.
Gli Europei, tuttavia, poterono avere prove inconfutabili dell’esistenza del lithofagus solo molto più tardi, quasi quattro secoli dopo, e proprio grazie alle scoperte di Joseph Sewell Greenstone.

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Le illustrazioni del litofago sono di Carlo Tassi

Incredibile risveglio

Un uomo che si risveglia dopo 30 anni di coma, un viaggio tra due generazioni in un mondo completamente, profondamente e inevitabilmente cambiato. Difficile immaginare di dormire per un tempo così lungo. Se solo si pensa, però, ai cambiamenti avvenuti in un simile lasso di tempo, si comprende come siano stati talmente tanti in un periodo che, alla fine, appare poi breve. Questa la riflessione che porta l’ultimo libro di Walter Veltroni, ‘Quando’, l’incredibile storia di Giovanni, una parentesi intima che mette a confronto momenti di dolore, sconforto, gioie e scelte difficili con l’evoluzione storica di un Paese, le differenze di generazioni, il cambiamento della sinistra.

Giovanni entra in coma a causa di un incidente avvenuto il giorno della morte di Enrico Berlinguer, il 13 giugno 1984, e si risveglia oltre 30 anni dopo, nel luglio 2017, in un mondo completamente cambiato, del quale deve imparare a capire tutto, dalla caduta del muro di Berlino all’arrivo dei cellulari, del web e dei computer. “Mi viene da piangere. Se Berlinguer muore, finisce tutto”, aveva detto allora Ettore, il padre di Giovanni, prima che suo figlio si addormentasse e partisse per un lungo sonno da cui nessuno pensava si sarebbe mai risvegliato. Quello del leader del Pci è un funerale che annichilisce una generazione, che si riunisce nel dolore a Piazza San Giovanni a Roma aprendo a quella trasformazione della sinistra ancora oggi alla ricerca di una sua nuova identità. Giovanni, in tutti questi anni, è stato amorevolmente e dolcemente accompagnato da Suor Giulia, la suora ‘tormentata’ figlia di padre comunista; nella sua nuova vita lo seguiranno Daniela, la psicologa malinconica con cui il protagonista stringerà un tenero e unico rapporto affettivo, e suo figlio Enrico, un ragazzino compito, preciso e saggio, forse troppo per la sua giovane età. La fidanzata Flavia dopo una prima pacata e delicata presenza, scomparirà verso un nuovo matrimonio, con una figlia in comune che non saprà di avere un padre “che dorme”. Tanti i personaggi e gli intrecci. Fitte le parole e i sentimenti.
Giovanni, ha cinquant’anni quando si risveglia ed è come un bambino che scopre il mondo, che si deve affidare agli altri per capire e camminare. Era e diventerà un uomo sospeso, accompagnato dall’implacabile riflessione di Enrico, per cui “siamo tutti soli, ma insieme, siamo veloci, ma superficiali, fragili, interconnessi ma fragili”. Le grandi battaglie collettive, le lotte, gli ideali, le manifestazioni, i movimenti studenteschi appartengono a un passato romantico e lontano. “Tu invidi i nostri sogni, io invidio la vostra realtà. Chi avrà ragione?”, si chiede Giovanni. “Spero tu, temo io”, è la risposta di Enrico. Un libro profondo, piacevole. Da leggere e regalare.

Walter Veltroni, Quando, Rizzoli, 2017, 320 p.

castello-fuochi

DIARIO IN PUBBLICO
L’ultimo giorno del 2017

E finalmente l’ultimo giorno è arrivato.
Di un anno che, nel definirlo strano, suona perlomeno eufemistico.
Lo ammetto. Son superstizioso nei numeri e quello che è appena terminato è, da sempre, da me riconosciuto foriero, se non di disgrazie, di spiacevolezze. Ho tentato perfino di adeguarmi alla numerazione civica che inesorabilmente lo marchiava a lettere di fuoco nella mia casa di Firenze: alla fine mi son deciso a vendere l’appartamento. Poco intelligente? Potrebbe darsi, ma visceralmente ineludibile.

Ma cominciamo dagli eventi o meglio avvenimenti (che noia la sacralità dell’ ‘evento’!) che hanno siglato Ferrara e i suoi abitanti.
Certamente l’avvio dell’attività del Meis, il museo dell’ebraismo italiano, con la bellissima mostra sui primi mille anni della presenza ebraica in Y–tal-ya, l’isola della rugiada divina, o l’interessante mostra su Carlo Bononi al palazzo dei Diamanti, un pittore minore che ha il merito di saper raccontare i rapporti strettissimi tra le diverse soluzioni pittoriche del primo Seicento. Una mostra didattica, che se non esplode nei numeri secondo la nuova necessità delle esposizioni e del museo, raccoglie l’invito non a confinarsi nell’evento, ma a far ragionare sul concetto di Storia che dovrebbe essere la prima necessità del ruolo delle istituzioni culturali.
Si è dignitosamente provveduto a svolgere con rigore scientifico le celebrazioni per i centenari di Ariosto e di Bassani. Si è provveduto con inusuale tempismo a sanare le ferite inferte al Centro studi bassaniani, colpito dalle infiltrazioni di umidità che minacciavano di deturpare oggetti, stampe e quadri esposti, tanto da permettere una ri-apertura finalmente sicura nel gennaio del 2018. Procedono alacremente i lavori di restauro di monumenti e chiese colpiti dal terremoto. Le associazioni culturali pur riscontrando un calo significativo tra gli iscritti (non è un mistero che l’associazionismo culturale fa leva soprattutto sulla fascia di iscritti d’età matura o vecchia, mentre sempre più difficile diventa il reclutamento in quella giovanile) svolgono con dignità il loro compito. Nascono nuove e lodevoli iniziative legate al teatro, alla cultura, alla musica. E’ ormai assodato che le punte di Diamante (tanto per usare immagini ferraresi…) della nostra cultura risiedono in due istituzioni di altissima qualità: il Teatro Comunale Claudio Abbado e la Biblioteca Ariostea. Entrambi presieduti e diretti con oculatezza e lungimiranza. E occorre qui dare il benvenuto al nuovo direttore artistico di Ferrara Musica Dario Favretti che tanto in questi anni si è adoperato per tener fede a un concetto di alta levatura culturale da affidarsi alla nostra maggior realtà musicale. Quanto alla funzione operata in città della Biblioteca Ariostea dobbiamo essere grati al dottor Enrico Spinelli, che in questi ultimi anni con un piglio da ‘burbero benefico’ è riuscito a mantenere l’altissimo ruolo della maggior istituzione culturale ferrarese. E sarà veramente una perdita se le istituzioni non penseranno a un recupero di questa esperienza dopo la sua imminente andata in pensione. E’ notizia delle ultime ore il debutto nel concerto viennese di capodanno diretto da Riccardo Muti della giovanissima danzatrice Adele Fiocchi, ferraresissima e figlia del caro amico Fabrizio, vice preside (uso una terminologia antica) del Liceo Classico Ariosto.
Poi la Spal. Ma lì non oso metter bocca e parole vista la mia incompetenza a riconoscer gli eroi della domenica.

Mi accorgo, comunque, nell’elencare le virtù cittadine come siano cambiati, giustamente, clima e motivazioni.
Ferrara è stata colpita da inusitate tragedie a cominciare dalla vicenda della banca Carife, segno di una (posso dirlo?) stupida presunzione e di falsa fiducia sull’economia che tutto può. Nell tragedia è mancata perfino la grandeur di altre disastrose vicende che hanno alimentato rotocalchi di bassa lega e importanti analisi tecnico-scientifiche. Tra gli errori commessi perfino quello di ‘piccole’ soluzioni forse dettate da ciò che da sempre hanno governato la nostra ‘ferraresità’: rancorosità e stizza senza differenza tra una parte o l’altra della distribuzione politica.
Poi le buone cose nel recupero di monumenti e ambienti lasciati in abbandono e recuperati sotto l’urgenza del scisma e un programma poliennale che dovrebbe premere l’acceleratore sul nostro patrimonio culturale, vero e necessario volano delle promesse future del nostro territorio.

Lentamente mi appresto a ritirarmi dai troppi impegni che giovanilmente ( helas!) ho voluto mi accompagnassero in questi anni. Alcuni resteranno immutabili e imprescindibili, in quanto per me fare l’‘umarel’ che osserva e commenta non basta. Ma come insegnava la scuola medica salernitana cercherò di affrontare i problemi culturali ‘lento pede’. Frattanto buone feste anche se per me funestate dall’Incendio del castello che NON capirò mai; ma ‘de gustibus non est disputandum”.
Il maestrino stavolta senza penna…
Gianni Venturi

Secrétaire

di Maurizio Olivari

L’unico mobile che aveva trattenuto dal vecchio arredamento di famiglia, era un piccolo secrétaire “Umbertino” di noce piemonte costruito alla fine ‘800, un gioiello che era stato il vanto di suo padre, acquistato da un rigattiere e a suo dire, facendo un grande affare.
Anche se usato, il mobile si presentava ancora molto bene con la ribaltina sempre chiusa a chiave, chiave che lui gelosamente conservava dentro il portafogli.
In famiglia nessuno sapeva cosa contenesse e tantomeno si permettevano di chiederne conto.
Luca, alla morte del padre, liberò l’appartamento vendendo tutti i mobili a una azienda che trattava l’usato, trattenendo per sé solo il piccolo secrétaire, per poi inserirlo fra i mobli della sala da pranzo del suo appartamento, mobili modernissimi che contrastavano con l’austera forma del mobiletto in noce stile ‘800.
A Luca era rimasta la curiosità di conoscere il contenuto del secrètaire, come aveva da bambino, spiando il padre, quando apriva la ribaltina del mobile, per sistemare qualche documento, richiudendo con la piccola chiave che riponeva dentro il portafogli.
Molte volte, guardando l’intruso, come lo chiamava la moglie, era stato tentato di aprire e finalmente vederne il contenuto, ma nel rispetto del padre non l’aveva mai fatto, quasi che il contenuto segreto lo tenesse legato alla sua infanzia e alla figura paterna.
Capitava talvolta di avere discussioni in famiglia sul tema “secrétaire”, sul desiderio della moglie di liberarsi di quello strano vecchio mobile, che nulla aveva di affine con il modernissimo arredo della sala da pranzo.
Un giorno Luca prese una decisione per lui un po’ sofferta: avrebbe venduto il mobile forse guadagnando qualche soldo. Al diavolo i ricordi del passato!
Rimaneva, non soddisfatta, la curiosità di sapere cosa contenesse e finalmente trovò la forza di aprire la ribaltina. Così prese la chiave all’interno del portafogli del padre, altro oggetto che Luca aveva tenuto per ricordo.
La piccola chiave, un po’ ingiallita dal tempo e dal mancato uso, dopo una leggera resistenza, aprì con un cigolìo la ribaltina del secretaire.
Sollevò lentamente l’antina lasciando scoprire il contenuto del piano d’appoggio.
Sulla destra una serie di fogli con appunti di viaggio che suo padre aveva accumulato negli anni. Li avrebbe letti con calma in altri momenti. Sulla sinistra un pacchetto di fotografie che ritraevano la famiglia nei diversi luoghi visitati durante le vacanze. La mamma era molto bella e anche il padre ben figurava nel gruppo dove Luca, fra di loro, completava quella che si poteva definire una bella famiglia.
Quanti felici ricordi in quelle foto, con i suoi genitori che aveva tanto adorato.
Sul fondo del mobile vide un cassettino che, con titubanza, aprì lentamente. Conteneva una busta indirizzata al padre con mittente “Opera Nazionale per la protezione e l’assistenza alla maternità e all’infanzia”, all’interno un foglio dattiloscritto con oggetto una richiesta di adozione.
“Si comunica che la sua richiesta di adozione del bambino di anni 1 e mesi tre, al quale è stato dato il nome di Luca, ora ospite della struttura di accoglienza dei bambini abbandonati, Santa Maria dei poveri di Roma, è stata accettata.
Potrete prendere contatto con lo scrivente ufficio, per dare corso all’adozione. Roma 30 Agosto 1940″
Luca s’accorse che, mentre leggeva quelle righe, avevano cominciato a tremargli le mani.
Rilesse di nuovo, attentamente, e si lasciò cadere sulla sedia accanto, iniziò a ripetere a se stesso che era stato adottato, che quelli non erano i suoi veri genitori.
Gli tornarono in mente certe frasi sentite di sfuggita in alcuni momenti tra suo padre e sua madre: “sarebbe meglio dirlo a Luca – No… potrebbe essere un trauma per lui – Noi siamo i suoi genitori e Luca deve sentirsi figlio nostro”. Ma anche quegli incontri con alcuni conoscenti che elogiavano la bellezza del bambino con quei bellissimi occhi azzurri e i riccioli biondi, mentre i genitori, entrambi con capelli e occhi scuri, si giustificavano dicendo che il piccolo assomigliava ai nonni paterni.
Luca non aveva mai fatto caso a questi particolari, adorava i suoi genitori che tanto lo amavano.
Davanti a quella lettera, si chiedeva se fosse stato giusto sapere subito la verità, e non ora, dopo tanti anni, con il risultato di avergli procurato oggi, un forte turbamento.
Chi era la madre che lo aveva abbandonato dopo la nascita? Era stata costretta dagli eventi o semplicemente non le interessava avere un figlio? Forse aveva sofferto e magari negli anni, cercato di rivederlo, anche solo per poco.
A Luca, tutti questi pensieri passarono nella mente, come fossero immagini di un film drammatico, vissuto inconsapevolmente. Aveva una certezza, quella di aver amato i suoi genitori, e ancora di più oggi, ammirandoli per il gesto d’amore compiuto con l’adozione.
Ripose la lettera nel cassettino, lasciando tutto intatto come aveva trovato.
Chiusa la ribaltina, gettò la piccola chiave nel cestino dell’immondizia. Quanto successo non era stato altro che una parentesi nella sua vita, e prese la decisione di non vendere più quel mobile, che con il suo contenuto, riteneva essere parte integrante della sua esistenza.
Sentì un piccolo rumore e quindi volse lo sguardo verso la porta della stanza, che, socchiusa, lasciava intravedere il volto di suo figlio che spiava incuriosito cosa stesse facendo il padre, così come faceva Luca stesso tanti anni prima.
“Vieni dentro Eric” gli disse invitandolo.
Il ragazzino di 6 anni entrò, aveva i capelli neri e lisci, gli occhi a mandorla e la pelle olivastra.
“Vieni Eric, siediti qui vicino a me.”, gli fece, “Debbo raccontarti una storia che ti riguarda… Io e la mamma, un giorno, abbiamo deciso di adottare un bambino…”

Roma Eur e sullo sfondo l’attesa di Nina

Due le curiosità che mi hanno attirato verso questo film: la regista, Elisa Fuksas (anche lei architetto) e la sua parentela con il grande architetto della Nuvola, Massimiliano, e lo sfondo, il quartiere dell’EUR a Roma, che attraverso ogni giorno per lavoro. E poi anche una terza, che stavo dimenticando, la presenza di uno dei miei attori preferiti, Luca Marinelli.

Siamo in una Roma estiva, calda, afosa e assolata, non forse così deserta come negli anni passati, ma ci troviamo in una città, qui rappresentata dalle architetture squadrate e monumentali dell’Eur, che la protagonista, Nina (Diane Fleri), scanzonata e libera, percorre a bordo di una Vespa. Ovviamente il ricordo va subito all’affezionata sella di ‘Caro Diario’, di Nanni Moretti, ma qui a dominare è soprattutto la luce, un bianco che abbaglia che sembra spesso trasformare la realtà in un miraggio. Nina è una ragazza trentenne senza certezze, avvolta da una precarietà esistenziale rappresentata da un’irrequietezza fatta di girovagare, senza punti fermi, nell’impossibilità di pensare al futuro o anche solo di immaginarlo. Come la regista, questa bella e seducente protagonista dai capelli corti e sbarazzini, solitaria e indipendente, ama i dolci, Mozart, gli origami, le fiabe, gli incontri impossibili. Nina, innamorata della Cina, insegnante di canto, è una giovane donna che si riempie la vita di cose da fare, tra sogno e realtà: una di queste, l’inizio del film, fare da balia a degli animali rimasti in città perché i padroni sono in vacanza, in modo particolare al cane Omero, depresso, che non può stare da solo. Come racconta la stessa regista, questa pellicola è nata dal desiderio di narrare la storia di una donna che sopravvive alle meglio in un “equilibrio stabile”, incapace di scegliere, di decidere il proprio presente e il proprio futuro, di prendersi ogni responsabilità, di cambiare le cose, una ragazza immobile che preferisce guardare la realtà trattenendo il fiato, come un pesce in un acquario. Nonostante questo ci sono tanti begli incontri: il professor De Luca (Ernesto Mahieux), sinologo napoletano, Ettore (Luigi Catani), undicenne molto maturo, custode del palazzo; il cane Omero; Fabrizio (Luca Marinelli), un violoncellista incontrato per caso e poi cercato volutamente. Si percepiscono attesa, incompletezza, momenti di passaggio. Le immagini sono monumentali, come l’architettura dell’Eur che quasi parla da sé, sembra di vedere Fellini aggirarsi per quelle scale. Mentre si attende e basta: un amore, un lavoro, una vita nuova.

Nina, di Elisa Fuksas, con Diane Fleri, Luca Marinelli, Ernesto Mahieux, Andrea Bosca, Luigi Catani, Italia, 2013, 80 mn.

Bip il salvatempo

di Maurizio Olivari

Sono Bip , il “salvatempo” che abita con un gruppo di tipi elettronici, dentro un marsupio, all’ingresso di un supermercato.
Tutti ben allineati in file orizzontali, veniamo a turno sorteggiati, quando il cliente passa la tessera nel selezionatore.
Fare il salvatempo è un duro mestiere, ad iniziare dall’impulso elettrico che ti arriva nelle parti basse, quando vieni scelto per iniziare l’attività e devi subito accendere la luce di consenso all’uso. Non è finita lì. Pensate che ogni volta che il cliente effettua la lettura ottica del prodotto acquistato, dobbiamo emettere il tipico suono “bip”, di qui il mio nome d’arte.
Tutti i Santi giorni, domenica compresa, siamo attivi decine di volte. Io debbo essere il “Fantozzi” della categoria, perchè otto volte su 10 , quando passano la tessera, l’impulso elettrico arriva a me. Allora vai con il cliente di turno. Da quali prodotti sceglie e dal modo più o meno gentile di usare i pulsanti che ho sulla pancia, posso intuire di chi si tratta.
Potrebbe essere la ragazza veloce, che, uscita dal lavoro, corre a comperare quattro cose per la cena della sera. Bip su una busta di prosciutto cotto (non ha guardato la scadenza e domani la deve buttare), bip su una confezione di formaggio di scarsa qualità, allora io intervengo e non faccio “bip”, costringendola a cambiare prodotto.
Poi di corsa alle casse, mi usano per il conto da pagare e poi finalmente mi ripongono.
Non passano 10 minuti di riposo ed ecco che mi riportano nel marsupio all’ingresso.
Spero di schiacciare un pisolino, anche perchè sono presenti tanti colleghi, invece ecco la casalinga pignola, passa la tessera e zac la corrente nel cu… scusate, nella parte bassa, che mi costringe ad accendere la luce (Fantozzi docet).
La signora mi prende con quelle sue manone un po’ sudaticce e invece di mettermi nella custodia del carrello, mi tiene ben stretto, al punto di farmi sudare e alzare la pressione. Decido di vendicarmi. Al primo passaggio sul lettore a barre, non reagisco. Questa continua con il ditone a premere sul pulsante, tanto da farmi male e allora decido di spegnermi definitivamente, nella speranza di essere riportato al punto d’ascolto e riposizionato fra i colleghi. Nulla di tutto questo: l’addetta al pubblico, mi sblocca la funzione e mi riconsegna alla casalinga pignola, e ora vi dico perchè pignola…
Davanti a ogni scaffale si ferma almeno 10 minuti, prende il prodotto, legge tutte le informazioni: ingredienti, scadenza, produttore, importatore, peso netto e peso lordo. Decide di prenderlo, clic sulla mia pancia, faccio “bip” e avanti un altro.
Il problema è che la signora trova un prodotto simile al precedente e, letto tutto, lo sostituisce a quello già registrato. In quel momento parte una serie di colpi sui pulsanti, togli poi metti, poi rimetti e poi togli, tanto da farmi girare la testa e qualche cosa d’altro. Tutto il percorso in questo modo, riuscendo a riempire il carrello in due ore e venti minuti. Record del supermercato.
Arriviamo alle casse e finalmente mi stacca dalla manona sudata, buttandomi sul tappeto mobile. Sono stressato, stanco e nervoso. Decido di vendicarmi. La cassiera mi clicca sul computer e faccio uscire la scritta “rilettura”!
Che meraviglia! Mentre mi posano nel contenitore, vedo la casalinga pignola, con il viso paonazzo, riporre sul tappeto mobile tutta la spesa effettuata, pagare e andarsene brontolando chissà con quali parole.
Qualche giornata è più felice di altre. Una Domenica mi prende con sé una giovane ragazza. Lo capisco dalle piccole mani, che prima di usarmi mi acarezzano tutto il corpo. Deve essere una ragazza sensibile, di cultura, perchè trascorriamo insieme alcuni minuti nel reparto libreria. Guarda, legge recensioni e alla fine sceglie l’ultimo best seller, un romanzo d’amore di un giovane scrittore, alla sua prima pubblicazione.
Una giovane con giovane. Beata gioventù.
Siamo poi passati al reparto intimo per donna e qui ho chiuso un occhio, quando sceglieva con attenzione, mutandine di pizzo, reggipetto terza misura. Quando mi passava sul cartellino del prezzo, il mio “bip” era un po’ roco e il display rosso, un po’ eccitato.
L’ultimo reparto visitato è stato “cosmetici – creme corpo e viso”. Subito la ragazza va decisa verso le creme corpo e mentre passo il lettore sulla confezione, sogno di essere fra le sue mani, quando lentamente accarezza il suo corpo, distendendo la crema con un morbido massaggio.
Decido di farle un regalo: la crema, invece di marcarla ottantacinque euro l’ho segnata otto e cinquanta.
Alla cassa tutto passa tranquillamente, la ragazza se ne va controllando lo scontrino, incredula di aver speso così poco. Non sa del regalo di Bip.
La giornata è finita, l’ultimo cliente ha lasciato i locali, gli addetti alle pulizie terminano il lavoro, le guardie giurate controllano i vari reparti e prima di andarsene spengono le luci del supermercato.
Anche tutti i salvatempo schierati sulla parete sono a riposo, uno però è rimasto acceso… Sono io, non riesco a prender sonno, un po’ per il nervoso che mi ha fatto venire la casalinga pignola ma soprattutto perché non riesco a dimenticare la ragazza della crema per il corpo.
Comunque, domani è un altro giorno, si diceva in un famoso film. Anch’io, alla fine, ci penserò domani.

Il Bitcoin non è una moneta ma uno strumento speculativo

Il Bitcoin più che una moneta è uno strumento di finanza speculativa e rappresenta l’ennesimo elemento di confusione nell’economia moderna. Ma poiché oggi l’economia è sempre più sinonimo di incertezza e rischio piuttosto che espressione di politica e società reale, persino il mistero sulla sua creazione invece che preoccupare chi mette mano al portafoglio… affascina.
Ma cos’è moneta? In genere identifichiamo la moneta attraverso le sue tre funzioni: misura del valore, mezzo di scambio e riserva di valore. Che non sia un processo esatto è palese, infatti ciò che si fa non sempre è ciò che si è, altrimenti dovremmo anche identificare un cavallo da soma o un guidatore di risciò come mezzi di trasporto piuttosto che come esseri viventi. Per identificare la moneta, inoltre, dobbiamo tener conto di quanto successo il 15 agosto 1971 e delle parole di Richard Nixon (per questo rimandiamo qui http://www.ferraraitalia.it/se-gli-stati-tornassero-a-emettere-moneta-secondo-il-fabbisogno-reale-della-comunita-117095.html) ma, in sintesi e per velocizzare: perché oggi accettiamo l’euro e non il fiorino di Copparo?
Perché crediamo nella possibilità di poterla trasformare in beni reali, perché sappiamo che quel numero impresso su una monetina, su un pezzo di carta o alla fine di un estratto conto rappresenta quanto la società in cui viviamo ci deve, ovvero la nostra quota di partecipazione alla ricchezza generale in un dato momento ed entro dati confini geografici.
Ma la conversione nei corrispettivi beni reali deve essere un obbligo certificato, qualificato, visibile, deve esserci una forza di poter imporre stabilmente questa conversione. Qualcuno che renda la moneta un’obbligazione capace di poter essere sempre assolta e solo uno Stato può dare una garanzia del genere.
Il “Bitcoin moneta” non ha nessuna delle suddette funzioni né alcuna delle citate garanzie. Non mi sembra stia funzionando molto come mezzo di scambio, vista la complessità dell’utilizzo, ma si continua ad attribuirgli la funzione di riserva di valore, cioè risparmio o conservazione dei propri risparmi, dato che il suo accumulo sembra garantire un continuo aumento di valore.
In realtà questi incrementi esistono solo finché vi è la convinzione che qualcun altro li vorrà ricomprare a prezzo maggiorato, situazione tipica nella finanza speculativa. Il Bitcoin è infatti solo uno strumento di investimento speculativo e come tale non dà garanzie di solvibilità. È una scommessa su un guadagno futuro da maneggiare con molta cura, soprattutto in questo momento date le attuali quotazioni.
Non è di certo espressione di un’economia ma di un algoritmo che fa sì tendenza ma non trova posto in prima fila nella gerarchia monetaria, cioè fa parte di quegli strumenti, come i derivati, di cui nei momenti di crisi ci si sbarazza più velocemente possibile per non rimanere con il “cerino in mano” (cioè se c’è un crollo di fiducia cerco di convertire questi strumenti in qualche moneta “più importante”, tipo banconote in euro o in dollari).
È crypto esattamente come il suo inventore, Satoshi Nakamoto, e non può essere duplicata o falsificata. Da questo algoritmo potrà essere generato un totale di 21 milioni di Bitcoin in 130 anni, una quantità prefissata quindi, ed anche questo sa più di giochino speculativo che di supporto all’economia (reale).
Coloro che trovano/estraggono dall’algoritmo i nuovi Bitcoin vengono chiamati miners che vuol dire minatori, richiamando alla memoria i minatori che una volta erano necessari per scavare miniere alla ricerca di oro che giustificasse l’emissione di nuova moneta. Oggi però la moneta non è oro, non è merce e proprio per questo si ha bisogno di capire da chi sia garantita e quindi attiene al diritto prima ancora che all’economia. La moneta è quindi un’obbligazione imposta e garantita dallo Stato mentre il Bitcoin appartiene solo alla parte più profonda e sconosciuta della rete informatica. Una crypto valuta non è un’obbligazione per nessuno e nemmeno un’azione legata alle performance di un’azienda, nessuno è realmente tenuto ad accettarlo come mezzo di pagamento. È insomma una bolla in attesa di esplodere.
Un anno fa valeva 700 dollari mentre oggi ne vale 17.000 ovvero una moltiplicazione del suo valore di oltre 20 volte e senza considerare che nel 2009, alla nascita, il rapporto era addirittura inverso, 1.300 Bitcoin per un dollaro. Con queste performance è chiaro che tutti ne vorrebbero ma allo stesso tempo e allo stesso modo tutti se ne vorranno sbarazzare appena le quotazioni cominceranno a calare o qualche timore di natura indefinita si dovesse diffondere.
Tutte le argomentazioni a sostegno della bontà di questo strumento allontanano dalla sostanza, ad esempio quando si ragiona del sistema blockchain. Questo permette di tracciare tutti i movimenti di un Bitcoin, e allora? Che tipo di affidabilità dovrebbe garantire? Un dato questo che non fa venire meno il suo destino di volatilità e di strumento speculativo. E infatti, oltre che i dati dichiarati potrebbero anche non corrispondere a una reale identità, sapere chi lo ha posseduto non aiuterebbe se il suo valore dovesse crollare.
Come sempre dovremmo spendere meglio il nostro tempo e ragionare di vita concreta ed economia reale. Del fatto che alle persone serve moneta per pagare la spesa alla Coop oppure per fare il pieno all’auto o comprare i regali di Natale, trasformarla poi in risparmio significa che per il futuro la potranno utilizzare per cambiare l’auto o pagare l’Università al figlio. Il Bitcoin è uno strumento speculativo e va usato al momento e tra gli operatori capaci di farlo finché sarà possibile farlo, ovvero finché ci sarà in giro gente disposta a credere al suo assurdo incremento di valore. Il risparmio è una cosa seria e si fa in moneta valida come potrebbero essere monetine, banconote , conto corrente o libretto di risparmio, un’obbligazione o persino un’azione che rappresenti il rischio d’impresa di un’azienda reale. Oppure in oro o diamanti. Insomma non ipoteco gli studi dei miei figli inseguendo una bolla che so destinata a scoppiare, affidata alla volubilità umana e quindi dei mercati finanziari.
L’unica certezza che ha il possessore di un Bitcoin di vedere realizzato un guadagno o anche di riavere indietro soldi veri è che ci sia qualche persona che abbia la sua stessa fiducia. Cioè una persona che sia convinta che il suo valore non possa che continuare a crescere, esattamente come per i terreni della Florida durante gli anni ’20 del secolo passato (vedi qui http://www.ferraraitalia.it/i-giochi-della-finanza-e-i-rischi-per-leconomia-reale-130920.html) e i tulipani olandesi del ‘600. Giochi con una sola certezza: prima o poi si rompono.

Il tempo delle piccole cose

di Carla Sautto Malfatto

L’aveva sempre considerata una cosa normale, e ancora lo credeva. Ma non sapeva che ne avesse il sentore di uno strappo, un cordone ombelicale ancora reciso, e che le mordesse nello stomaco come un vuoto fisico, alimentare. Per questo teneva la porta della stanza chiusa, la tapparella abbassata. Per non vedere l’assenza delle tante cose che prima la riempivano, gli ultimi scatoloni da portare via, il letto perfetto, senza impronte. Per non sentire l’odore neutro dei muri.
E che sarà mai, si ripeteva. Un figlio se ne va, è normale. Fa parte della vita.
Già…
Meglio per lui. Vuol dire che ha trovato la sua strada, la sua compagna.
Speriamo.
Intanto, però, si sentiva un po’ più vecchia. E un po’ più inutile.
Lo sbaglio era stato dedicare tutta la vita alla cura della famiglia – delle persone.
Sindrome del nido vuoto. L’avevano chiamata così, gli esperti, dopo averla studiata.
Beh, lei sarebbe stata un ottimo soggetto da analizzare, perché i sintomi li aveva tutti.
E pensare che ci aveva riso su, quando gliel’avevano detto. – Chi, io? – sbottava convinta, sgranando gli occhi, parlandone con le amiche. – Ma se non vedo l’ora di starmene un po’ tranquilla! Ad una certa età i figli devono andarsene di casa, farsi la loro vita, come abbiamo fatto noi. Sindrome? Assolutamente no. Anzi, così avrò meno impegni e più tempo libero per me.
Più tempo libero… peccato che questo succedesse quando si avevano sessant’anni, e meno forze, e meno idee.
Quando poi se ne fosse andata anche l’altra figlia…
Scese le scale. Quella casa, così grande, e il vuoto che la riempiva.
Aprì la porta della sala. La ragazza era là, intenta a preparare il presepe.
Quando i figli erano piccoli, preparavano il presepe insieme, ma da tempo non ne aveva più voglia. Stanare le scatole ripiene di cianfrusaglie dal sottoscala, la carta da montagna da stropicciare e sagomare su fogli di giornale appallottolati, il muschio da staccare dai muretti e lasciare seccare al sole, eccetera eccetera. E poi la confusione e lo sporco per casa… No, non ne aveva voglia, tempo –lo spirito. Se ne occupava la ragazza.
Si avvicinò. Ogni anno la figlia impostava il presepe diversamente, poi glielo mostrava compiaciuta. Allora lei lanciava un rapido sguardo al manufatto, sperticandosi in esclamazioni forzate, per darle soddisfazione. Ma intanto la sua testa era altrove, distratta da troppi pensieri, da quello che doveva ancora fare, nell’immediato e nel futuro, scalpitando per scappare da lì, la sensazione di un tempo perso, sprecato.
Ma questa volta no.
Si fermò. Seduta sul bracciolo della poltrona, presso il presepe, osservò il labbro di sua figlia che si muoveva morbido enunciando i dettagli e il dito che li indicava, sostando su ognuno, in perlustrazione aerea. Osservò il fuoco finto, le casette di cartone, le trasparenze di certe carte veline, lo stagno, le cascate, il ghiaino bianco a formare sentierini, le statuine di varie grandezze e sproporzionate tra loro, tutte cose semplici, tutte cose note, le solite cose, insomma, ma che le parve di vedere per la prima volta. Osservò le montagne, alcune sbilenche, altre troppo arrotondate per sembrare credibili. Le venne da suggerire qualche cambiamento, ma tacque, serrandosi la lingua in bocca. Osservò sua figlia, gli occhi febbrili di passione creativa, e le parve di vedere anche lei per la prima volta.
Sua figlia. Sempre sotto gli occhi, eppure così diversa. Quando si può dire di conoscere veramente una persona che ti vive accanto? Eppure le aveva dato tutto il suo tempo e tutto il suo amore, comprese le arrabbiature, per farla crescere come Dio comanda. E non poteva dire di averla trascurata, in nessun momento della sua vita, di non averle dato tutto e di più, di non averla ascoltata, osservata, di non essersi persa con lei nei suoi giochi, nelle sue divagazioni. Perché ora le appariva come una rivelazione? Forse perché prima i figli erano due ed ora tutta l’attenzione era incentrata solo su di lei? O piuttosto doveva chiedersi quando la passione, l’entusiasmo si erano trasformati in sterile abitudine, sicurezza della ripetitività, come se le cose non cambiassero mai, come se durassero per sempre – come se poi, al perderle, non ci struggessimo in rimpianti per quello che, a tempo opportuno, non abbiamo fatto?
S’impose di restare ferma e, diversamente da quello che credeva, non le fu di peso. Si pose in ascolto, prendendosi il tempo necessario. Il tempo che necessita, non quello predeterminato a tavolino. Nemmeno le passò per la testa la casa da riassettare, i panni da lavare e da stirare, il pranzo da preparare. E se quei pensieri le passarono per la testa, dovevano aver trovato rapidamente un varco per uscirne, perché non le mossero alcuno scrupolo.
Restò ferma ed ascoltò. E non interruppe sua figlia, come il solito, per accelerare la descrizione, perché avesse presto temine. Attese che la ragazza finisse di esporre il suo resoconto, e poi ritornò a chiedere chiarimenti. E si abbarbicò con l’orecchio alla sua voce, con gli occhi al suo sguardo e alle minuzie indicate, e in ognuna trovò un po’ della sua ragazza – non la perfezione, non quello che voleva vedere. Non più un pensiero diviso tra quello che stava facendo e quello che doveva fare, ma un vuoto in attesa di essere colmato. Una disponibilità. O forse anche solo un’altra occasione. Il tempo delle piccole cose.
Forse questo è invecchiare, pensò. Ma se questa era la vecchiaia, se questa era la molla per il recupero delle sensazioni mai vissute, non le parve così brutta.
Rallentare. Fermarsi per assaporare. Pensò che aveva ancora molte cose da imparare – e che era un peccato morire senza averle viste tutte, come diceva sua suocera.
E sorrise dentro.

Il tempo delle piccole cose è un racconto tratto da ʿFarfalle e Scorpioniʾ, Este Edition, 2015
(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

Ferrara città verde non smeraldo

Sulla gestione del ciclo dei rifiuti Ferrara merita di meglio: andiamo oltre le calotte e percorriamo insieme un’altra strada

La ‘vicenda calotte’ ha occupato negli ultimi mesi, e ancora occupa, le pagine come le lettere dei quotidiani locali. Le foto dei cassonetti traboccanti sacchetti – foto aimè verissime, basta fare il giro del proprio isolato per rendersene conto di persona – ci ricordano ogni giorno quanto l’iniziativa di Hera e Comune di Ferrara sia stata malpensata o, perlomeno, mal gestita.
E’ inutile tapparsi gli occhi (e il naso), il risultato dell’operazione calotte è abbastanza chiaro. Una città che fino a qualche mese fa appariva relativamente pulita, oggi espone a ogni angolo sacchetti e spazzatura en plein air. Una situazione che ci viene continuamente raccontata come ‘temporanea’, ma che non accenna a normalizzarsi. Una vergogna, sia per i residenti, sia per chi viene a visitare una “città d’arte e di cultura”, che prima di tutto si aspetta ordinata e pulita.
E’ colpa dei cattivi cittadini ferraresi? O c’è una oscura banda di luddisti che si diverte a spargere pattume per protestare contro il progresso tecnologico? Qualcuno ha avanzato ragionamenti di questo tipo, ma mi sembrano delle spiegazioni un po’ surreali, se non addirittura offensive. Se prima dell’‘Era delle calotte’ – prendo in prestito il titolo di un interessante incontro promosso di recente dall’associazione Ferraraincomune – i cittadini si mostravano attenti e diligenti, coscienziosi e interessati alla pulizia e al decoro della città che abitano, gli stessi ferraresi non possono essere diventati improvvisamente svogliati, non collaborativi, anti-ecologici, ribelli o addirittura incivili.

Prendersela oggi con i cittadini (che non avrebbero compreso la novità) non è però solo ingiusto. E’ un bruttissimo segno: perché tutte le volte che i governanti, invece di fare autocritica, se la prendono con i governati, puntualmente si allarga il fossato tra la società e la politica, tra il cittadino soldato semplice e il palazzo.
Perché allora non ammettere che l’operazione calotte è stata ed è un mezzo fallimento? Forse l’intenzione era buona – aumentare di qualche punto la raccolta differenziata – ma sono stati sbagliati sia i modi sia i tempi. E’ stato sbagliato decidere dall’alto, invece di coinvolgere preventivamente – con pazienza democratica, prendendosi tutto il tempo che occorre – tutti i cittadini in un grande dibattito su come migliorare il servizio della raccolta rifiuti, come diminuire i rifiuti non riciclabili, come aumentare la raccolta differenziata. Ed è stato sbagliato seminare le calotte in tutta la citta senza aver fatto chiarezza sulle tariffe finali.
Qualche partito si è messo una calotta a mo’ di elmo per far guerra alla Giunta ed entrare in campagna elettorale con un anno di anticipo. Lo dico subito, a scanso di equivoci. A me sembra un’opposizione sterile, pretestuosa, senza idee. E senza amore per Ferrara. Non è certo con “lo sciopero delle calotte”, con la strumentalizzazione politica, con le marce di questo o quel Masaniello, che faremo un servizio alla nostra bella città. Non è così che la renderemo più pulita, più ecologica, più civile.
Occorre piuttosto riavvolgere il nastro. Partire dall’obiettivo comune a cui vogliamo arrivare, che non si esaurisce certo con il dilemma calotte sì o calotte no. L’obiettivo, anzi, gli obiettivi sono tre. Il primo: ridurre i rifiuti, tutti i rifiuti, come consapevole scelta ecologica. Il secondo: aumentare e di molto la quota della raccolta indifferenziata, che ora a Ferrara è ferma sotto il 60%. Il terzo: pensare e organizzare un servizio trasparente che veda il coinvolgimento e l’attiva collaborazione dei cittadini ferraresi. Ci sarebbe un punto quattro, non secondario: la riduzione della Tari, che a Ferrara è particolarmente pesante, ma una tariffa più bassa – almeno questa è la mia convinzione – potremo averla solo facendo passi avanti sui primi tre obiettivi.

Tutti e tre gli obbiettivi, anzi, tutti e quattro, non sono scritti nei libri dei sogni. E’ la strada che stanno percorrendo altre città e altri Consigli Comunali: in Emilia, in Veneto, in Lombardia. E con ottimi risultati. La drastica riduzione dei rifiuti (lo slogan è appunto ‘Rifiuti Zero’), una raccolta differenziata che si avvicina o arriva a superare l’80% (avete letto bene) con costi e tariffe più basse anche del 20% rispetto a Ferrara.
Tutto questo grazie a un coinvolgimento vero delle persone. Raccogliendo osservazioni, critiche e suggerimenti da tutti i cittadini: gli adulti, i giovani, i bambini, gli anziani non autosufficienti. Un lavoro informativo ed educativo capillare, da svolgere prima e non dopo aver deciso d’imperio le scelte sulla gestione, sulle modalità e sugli strumenti utili a migliorare la raccolta. Questo percorso, quello cioè della partecipazione e del coinvolgimento attivo della cittadinanza, a qualche decisionista potrà sembrare lungo e complicato, ma alla prova dei fatti è l’unica strada per incamminarsi verso una “ecologia cittadina”. Dove si è scelta questa strada – e non è in fondo la strada della vera democrazia? – i risultati si vedono. Perché tutti i cittadini si sono sentiti realmente partecipi delle scelte operate e tutti si sentono di collaborare quotidianamente al risultato comune:
I dati, secondo quanto pubblicato sulla pagina facebook Ferraraincomune, ci dicono che il sistema porta a porta, se applicato con, insieme e non ‘sopra’, i cittadini, consente di ottenere risultati di gran lunga migliori. Dobbiamo quindi ‘pattumare’ le calotte e le carte smeraldo? Non lo so, non sono un esperto della materia. Quello che so è che occorre guardare avanti, ‘oltre le calotte’.

Scade in questi giorni la concessione ad Hera Spa del servizio di raccolta rifiuti nel nostro comune. Seguirà l’immancabile proroga: un anno, due anni, non tanto di più perché l’Anac di Raffaele Cantone ha già bacchettato aziende ed enti pubblici. Dunque, mentre siamo in regime di proroga con Hera e le sue calotte, c’è tutto il tempo per imboccare la strada del confronto. Confronto con le altre esperienze e le Amministrazioni Comunali che hanno scelto di riprendere in mano direttamente la gestione del servizio rifiuti (come i comuni del Trevigliano o il comune di Forlì). Confronto con gli esperti che studiano come si possono ridurre di molto i rifiuti procapite, minimizzare i rifiuti non riciclabili e riciclare di più e meglio. Confronto infine, o prima di tutto, con i cittadini ferraresi, quartiere per quartiere, isolato per isolato, casa per casa. Non per proporre una soluzione preconfezionata, ma diverse alternative, e per ascoltare le esigenze concrete e i suggerimenti dei cittadini. Saremo infatti proprio noi cittadini che, se informati correttamente, consultati ed ascoltati che garantiremo un servizio sempre più efficiente. Diventeremo più coscienti, più ecologici, più “riciclatori”, più attenti a ridurre sempre di più i nostri rifiuti.
Se non ci fermiamo alle calotte, se sapremo imboccare un’altra strada – una strada da percorrere davvero tutti insieme – allora Ferrara meriterà un altro primato. Non solo la città del verde e dei giardini ma ‘la città verde’ tout-court, la città della coscienza ecologica e dei rifiuti zero. Sono sicuro che Alex Langer, l’indimenticato umanista cui abbiamo intitolato il ponte che collega le Mura al Parco Urbano, ne sarebbe felice.

Quando il papà smemorato fa ridere

Abbiamo incrociato il canadese Guy Delisle all’ultima edizione di Internazionale, oggi ve lo ripresentiamo… magari per un simpatico regalo di Natale.

I suoi tre volumi a fumetti, ‘Diario del cattivo papà’, sono raccolte di brevi storie umoristiche degne di stare sotto l’albero. Se non altro per sorridere un po’ e passare momenti sereni. Si tratta di quadretti familiari: Delisle dialoga ogni giorno con i suoi due bambini, il papà non ne fa davvero una giusta. Dal coinvolgere il figlio in scherzi poco simpatici all’imporgli le proprie scelte in fatto di videogiochi o libri, fino all’insegnargli la boxe o al raccontare storie spaventose alla figlia, del tipo che le cresce un albero nel pancino…. Cose che non si fanno davvero. E come poi dimenticarsi del topino che porta i soldi alla caduta del primo dentino (fortuna che c’è la nonna a ricordarsi)? Come essere spesso più irrispettosi, irriverenti e discoli dei propri figli? Come spesso parlare troppo, a ruota libera e a sproposito, ed essere così talmente loquaci da zittire e ammutolire i bambini? E perché fare sempre e comunque come si crede e di testa propria? Qui lo si comprende. E bene. I disegni in bianco e nero sono semplici ed essenziali, i tratti chiari, gli ambienti quelli classici di ogni casa normale; sono i testi e le battute fulminanti delle strisce a fare da padrone. Una divertente e autoironica guida alla paternità che si legge tutta d’un fiato, pur nei suoi tre volumi. Dove ogni papà si potrà e saprà riconoscere. Non perfetti ma veri.

Guy Delisle, Diario del cattivo papà, Voll.1-3, Rizzoli Lizard, 2013-2015, 190 p. ciascuno.

Così italiani, così (dolcemente) complicati

“Siamo così, dolcemente complicate, sempre più emozionate”, canta Fiorella Mannoia cogliendo il lato femminile della medaglia umana.
Forse bisognerebbe estendere le stesse parole anche al lato maschile per avere un’idea dell’identità di noi italiani.
Sembra che ci proviamo gusto a complicarci la vita, salvo poi gridare aiuto quando ci si rende conto di essere prigionieri delle stesse suicide complicazioni.
Un esempio? Siamo talmente abituati a vivere nell’emergenza che questa ci pare la più naturale normalità. Tanto è vero che siamo i campioni mondiali in fatto di protezione civile. Quando c’è da prestare soccorso per un disastro non prendiamo lezioni da nessuno e in quelle prime fasi dell’emergenza se ne vanno le nostre energie migliori. Poi, spompati, franiamo miseramente nella gestione dell’ordinario. Una normalità sempre incompiuta in un’interminabile transizione, che finisce il più delle volte per produrre altre emergenze nelle quali siamo sistematicamente risucchiati. E tutto si ripete con una ciclicità sfiancante.

Così, in un quotidiano sistematicamente fuori regola, si seleziona darwinianamente il tipo ideale italiano: il furbo, il guitto, l’esperto nell’arte di arrangiarsi e che a sua volta dà il meglio di sé non nell’applicare le regole, ma nell’aggirarle per fronteggiare le infinite eccezioni. I nostri codici normativi – così ci dicono – sono infatti il trionfo del cavillo, tanto che pare nessuno in Italia sappia esattamente quante leggi esistano. Mentre chi si sforza di osservarle non rientra nel novero delle civiche virtù.
Dolcemente complicati.

La figura dell’italiano un po’ cialtrone e baraccone è il filo conduttore, in fondo, dell’intera narrazione cinematografica di Mario Monicelli: da Brancaleone, alla sgangherata banda dei ‘Soliti ignoti’, fino ai due perennemente imboscati in ‘La grande guerra’. Qui Alberto Sordi e Vittorio Gassman hanno dato, da par loro, volto e parola alla quintessenza della cialtroneria. Salvo uscire, in un sussulto identitario d’indignazione, con quel “Mi te disi propri un bel nient, fassa de merda” che il grande Gassman quasi sputa addosso all’ufficiale austriaco, sicuro di estorcere dai due molli fanti informazioni preziose sui movimenti delle truppe italiane. Un moto di orgoglio fatale che sale dallo stomaco fino alla gola solo quando – ancora l’emergenza – il tedesco guarda l’italiano con disprezzo. In quell’istante i due scansafatiche sono pronti a pagare anche con la vita – sempre più emozionati – il loro essere italiani. Un atto miracolosamente eroico, tuttavia non riconosciuto dai commilitoni salvati grazie a quell’inaspettato sacrificio che, anzi, si chiedono dove quei due si siano nuovamente imboscati, pur di scansare l’ennesima prova.
Dolcemente complicati.

Che dire poi dell’ordinario e atavico guardarsi in cagnesco? Per un verso è stato il principio di quella trama di Comuni e Signorie che furono il ventre gravido di una bellezza sublime – culturale, artistica e architettonica – ancora oggi in grado di sbalordire il mondo intero. Per altro verso, quella stessa trama è stata il fatale varco di una debolezza, del quale hanno approfittato interminabili schiere di eserciti invasori che per secoli hanno calpesto e deriso l’intero Stivale, “perché non siam popolo, perché siam divisi” recita il nostro inno nazionale.
Pure questo fu terreno fertile per il germogliare furbo di una fitta e suicida rete di alleanze, l’un contro l’altro, sempre a somma zero. Lo racconta ancora il cinema con il film ‘Il mestiere delle armi’ di Ermanno Olmi, in cui il duca estense Alfonso I vende allo straniero lanzichenecco i cannoni che spareranno all’italiano Giovanni dalle Bande Nere.
Complicati e, stavolta, neppure tanto dolcemente.

Si potrebbe comprendere con questa rincorsa storica anche l’ultima sciagurata legge elettorale. Molti presagiscono che il nuovo sistema di voto che fa da cornice alla campagna elettorale già iniziata, consegnerà il paese a una pericolosa instabilità
In fondo, nel Rosatellum c’è il guardarsi in cagnesco per far perdere l’avversario, c’è l’algebrica somma zero di una politica incapace di occupare il proprio spazio, tanto che le ultime due leggi elettorali le ha scritte la Magistratura, e c’è la deliberata costruzione dell’emergenza, il prolungamento di una transizione incurante dell’approdo.
Lo scrive bene Gianfranco Brunelli, direttore de ‘Il Regno’ (20/2017). Per la Camera sono assegnati 232 seggi in altrettanti collegi uninominali e 386 con il proporzionale, per accedere ai quali basta raggiungere il tre per cento dei voti. In più, in palio ci sono i dodici seggi della circoscrizione estero.
“Come è stato adeguatamente dimostrato – scrive Brunelli – se uno dei tre soggetti maggiori della competizione – centro-sinistra, centro-destra e M5S – ottenesse il 35 per cento dei seggi proporzionali (cosa plausibile) e il 50 per cento dei seggi maggioritari, il numero dei suoi deputati sarebbe 251, lontano dai 316 necessari per avere la maggioranza”.
Per raggiungere quota 317 (un solo seggio in più della maggioranza), occorrerebbe arrivare al 40 per cento dei proporzionali e al 70 per cento di quelli maggioritari.
Per il Senato, poi, la situazione non è migliore.
“Il prossimo governo – continua il direttore – qualunque sia la formula che adotterà il presidente della Repubblica dopo le elezioni, dovrà necessariamente nascere dalla scomposizione delle coalizioni che si presenteranno unite davanti agli elettori per poter dare vita a una qualche maggioranza. Persino nel caso di un governo provvisorio in vista di un veloce ritorno alle urne”.

Capito? Gli elettori votano per partiti e coalizioni che poi in Parlamento faranno e disferanno alleanze a prescindere dalla volontà dei cittadini. E’ il ritorno della prima Repubblica in pompa magna, con i suoi rimpasti di maggioranze, le non sfiducie e con la girandola di governi che duravano giusto il tempo di una canzone per l’estate.
Così, tutti insieme appassionatamente, si va incontro a instabilità che si aggiunge a instabilità e lo spirito italico continua a vivere sull’orlo del caos.
Sarà anche per questo, forse, che cadiamo e ricadiamo nell’illusione dell’uomo della provvidenza, del leader, lo spavaldo, il guascone, il giovane disinvolto al posto dei parrucconi, il semplificatore, per porre fine col suo polso fermo e il passo veloce del bersagliere, al labirinto claustrofobico del perenne stato d’eccezione e dell’enorme ufficio complicazione affari semplici, in cui ciclicamente ci cacciamo.
Siamo così, noi italiani, dolcemente complicati, sempre più emozionati. O spaventati?

La plastica e gli imballaggi

L’attività di gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio è ispirata all’osservanza dei principi comunitari richiamati nella Parte Quarta, titolo II, del Decreto Legislativo 152/06 e s.m.i., con particolare riferimento a:

  • incentivazione del riciclaggio e del recupero di materia prima, sviluppo della raccolta differenziata di rifiuti di imballaggio e promozione di opportunità di mercato per incoraggiare l’utilizzazione dei materiali ottenuti da imballaggi riciclati e recuperati;
  • riduzione del flusso dei rifiuti di imballaggio destinati allo smaltimento finale attraverso le altre forme di recupero;
  • informazione ai cittadini-consumatori sulla corretta gestione dei rifiuti.

Si tratta di un grande mercato di cui si vuole comprendere nel modo migliore possibile l’intera filiera.
Com’è noto entrano in gioco sia il sistema Corepla sia gli inceneritori. Bisogna essere in grado di saper comprendere nel merito quali sono i principi di miglior riciclo.
Questo principio diventa fondamentale a livello nazionale per individuare le migliori linee industriali per favorire una forte strategia verso la sostenibilità.
Nel 2014 (ultimo dato disponibile) la produzione di materie plastiche globale è stata di 311 Mt (con la Cina primo produttore), con un incremento del 4% rispetto al 2013. In Europa (28+2) la produzione è stata di 59 Mt, con un leggero incremento dell’1,7% rispetto all’anno precedente. La domanda in Europa registra un incremento del 3% riflettendo, quindi, una ulteriore ripresa. Gli imballaggi risultano essere il principale campo di applicazione delle materie plastiche rappresentando, in Europa, quasi il 40% della plastica trasformata.
Noi la chiamiamo semplicemente plastica, ma si tratta di svariati polimeri: polietilene, polipropilene, polivinildicloruro, polistirolo, poliuretano, polimetilmetacrilato, poliacetali, polisolfoni, policarbonato, resine ureiche e epossidiche, etc. Il polietilene tereftalato è tra i più conosciuti perché in genere compone le bottiglie di plastica per l’acqua minerale di cui in Italia si fa ancora largo uso.
Dalla loro raccolta si può fare la selezione e il riciclaggio oppure il recupero energetico. Il riferimento consortile è il Corepla (vedi Conai) che tiene rapporti con i vari impianti di selezione (ce ne sono anche vicini a noi). I Css devono effettuare infatti per conto di Corepla, in impianti idonei, la selezione per polimero/colore della raccolta differenziata dei rifiuti di imballaggi in plastica provenienti dalla raccolta differenziata urbana, ottenendo a valle della lavorazione le seguenti tipologie (tutte o parte) di rifiuti selezionati, conformi rispetto alle singole specifiche tecniche.
Sul totale raccolto dal Conai pari a oltre otto milioni di tonnellate di materiali, solo poco più del 7% è plastica, di cui il 66% è a recupero energetico. Semplice deduzione: la plastica è voluminosa e leggera (e dunque costosa da raccogliere, ma ha un alto potere calorifico). Questo spiega perché anche in Emilia Romagna il tasso di riciclaggio della plastica è inferiore al 30%.

I dati dell’ultimo semestre di Clara dicono che sono state avviate a riciclo 2.163 tonnellate di imballaggi di plastica, un risultato possibile soprattutto grazie alla raccolta porta a porta e all’impegno dei cittadini e dell’aziende che la fanno correttamente. Clara garantisce così un materiale pulito, di fascia superiore, le condizioni ideali per ottenere plastica riciclata dai moderni sistemi industriali di trattamento.
Sono imballaggi in plastica e quindi vanno nella raccolta differenziata le bottiglie di acqua minerale e di bibite, i flaconi dei detersivi, le vaschette di alimenti, i piatti e i bicchieri di plastica, i barattoli di yogurt, le vaschette di gelato in polistirolo, i sacchetti delle patatine e delle merendine (non sono di carta), le shopper. Ma attenzione a non inserire altri oggetti di plastica come le posate, le siringhe, le bacinelle, i tubi da irrigazione, i giocattoli, i palloni, i cd ecc. Piuttosto che sbagliare è preferibile fare una telefonata o consultare il sito web del gestore. Non c’è niente di peggio che ‘inquinare’ il materiale pulito con sostanze non riciclabili.
Suggerimenti: è importante assicurarsi che gli imballaggi non contengano residui evidenti del contenuto (ma se regolarmente svuotati, non è di norma necessario lavarli). Inoltre, per ridurre il volume e ottimizzare così conferimento e raccolta, occorre, quando è possibile, schiacciare bottiglie e contenitori.

Ferrara città cantiere

Vista dall’alto Ferrara assomiglia a tante altre città. Illusione ottica: dall’alto non si ammirano i grandi palazzi rinascimentali, i vicoli medievali, le dannunziane vie larghe come fiumane, le piazze che i cittadini hanno voluto grandi forse per liberarsi delle anguste strade che costeggiano l’antico scorrere del fiume impostosi nella cultura degli abitanti della dimenticata urbe come assoluto protagonista della sua vita. Ma è l’anima di Ferrara che rende diversa questa città, la nostra città, dalle consorelle della regione. I bolognesi sono aperti, laboriosi, i romagnoli pure, i ferraresi no, dominati da una sorda borghesia, sicura di essere il punto d’arrivo del pensiero umano, si sono accovacciati sul ramo più alto dell’albero sociale e da lassù giudicano. Brutta cosa, così la conservazione diventa un boccone succulento e il fatto più importante è che anche le fasce popolari assorbono un’incoscienza destinata a diventare fenomeno sociale. Il fascismo nacque così all’indomani delle sommosse rosse cresciute in uno sciagurato primo dopoguerra, così oggi rinasce sulla schiena portante di una borghesia che può subdolamente e silenziosamente imporre, usando i suoi potenti media, cultura e interesse economico come se fossero operazioni corali di un popolo.

Scendendo dall’alto dei cieli, da cui Ferrara pare normale, e addentrandoci nel tessuto urbano incontriamo subito uno dei simboli del fenomeno che abbiamo descritto, l’abbattimento del famigerato (ma non brutto) Palazzo degli Specchi, divenuto, per la sua inutilità, un inguardabile orpello e, per i costi della sua costruzione, un bubbone purulento. Era necessario liberare la città da questo fastidioso, e per molti versi scandaloso, ricordo, le oscure voci che hanno accompagnato la sua edificazione parlano di interessi mafiosi e spero non sia vero. Costringendo l’animo a essere il più possibile ottimista mi dico: auguriamoci che la demolizione sia l’inizio di una nuova èra dominata non dagli interessi mafiosi ma da un sano rapporto tra gli individui e tra questi e la loro società senza prevaricazioni, violenze, inutili orgogli, capace, infine, di riconoscere i veri meriti. Sto sognando a occhi aperti, ma non si può vivere senza un sogno che ti guidi. Comunque non ci si può fermare al Palazzo degli specchi. Tanti altri esempi, purtroppo, urgono o dovrebbero urgere sulle nostre coscienze: prendiamo il nuovo ospedale, che interessi solo in parte sconosciuti hanno voluto nella landa subsidente a 10 chilometri dalla città, escludendo in un sol colpo tutti gli anziani appiedati o dall’età o dalla povertà, tanto devono morire: per addolcire la pillola i politici dissero , quando si trattò di dare il via alla costruzione e poi all’inaugurazione, dissero che all’ospedale “si andrà con la metropolitana di superficie”: forse non sapevano che cosa stavano dicendo. Chiedo: dov’è la metropolitana? Silenzio. Altri affaristi spiegarono che non c’erano “locations” dove sistemare il mostruoso biscione. Non è vero: il posto c’era ed era già stato localizzato sulla via Copparo, ma, evidentemente, mancavano le voci degli speculatori, i quali avevano tacitato i critici dei nuovi progetti. Ricordo, quando per lavoro frequentavo il consiglio comunale, che nessuna forza pseudo politica fu contraria al piano, saltarono tutti sul treno vittorioso. E’ stata una gran brutta figura della città. La borghesia? Con il suo abituale silenzio si applicò alla costruzione di tanti altri ospedaletti, dove i vecchi possono trovare accoglienza pagando: li chiamano poliambulatori, si paga naturalmente. Il fatto è che con la situazione venutasi a creare e con il numero chiuso all’università, non ci sono più medici, tanto poco chiara è la politica sanitaria ferrarese, bloccati nella carriera, trovano posti più accoglienti in altre città e con altre aziende sanitarie. E adesso che si farà del vecchio, comodo come una pantofola, Sant’Anna? Manzoni risponderebbe “ai posteri l’ardua sentenza”. Ma nessuno parla, un grande silenzio è calato su Ferrara che ha smesso di crescere, non nascono maestosi palazzi da consegnare all’orgoglio dei figli, la città, attonita guarda spaventata i nuovi arrivi di persone già sfigurate dalla vita e strappate alla loro inospitale terra, le quali di questo nostro paese, di cui non conoscono la storia, non vogliono sapere nulla. Ma chi ha fame …meglio un simbolico pezzo di pane. Tempo fa una signora extra comunitaria mi disse entusiasta: ieri ho portato i bambini al castello, ci siamo rimasti tutto il giorno (vedi che hanno interessi culturali? mi sono detto); poi ho chiesto “dentro il cortile? O nelle sale?”, “dentro e fuori”, la risposta, ma lei pensava al centro commerciale. Ora i centri commerciali sono nati dovunque secondo una rigida geografia politica, hanno strappato i ferraresi alle loro abitudini, i vecchi negozi hanno chiuso, non c’è più una latteria, non esiste più l’immancabile merceria di un tempo, ne è rimasta una, presa d’assalto da donne affamate di cotoni, elastici e cerniere lampo. La città è stata trasformata in una landa in cui nascono, amplificandosi, nuovi banchi dove prosperano le merci cinesi in concorrenza con i negozi, a loro volta venduti all’oriente.

Come si può pensare che in una situazione del genere sorga spontaneamente (o con i soldi della defunta Cassa di Risparmio?) che so, un Palazzo dei Diamanti? In codesto bailamme architettonico, senza un disegno per la città del futuro, al massimo vedremo innalzarsi la torre vicino alla stazione. Che nessuno ha capito a che serva e che cosa sia. Ce ne sono tante di costruzioni inutili e inutilizzate, dalle caserme agli ospedali. Che ci importa? Costruiremo un altro palazzo della Ragione dopo avere abbattuto l’esistente, già definito, in un celebre articolo di Bruno Zevi apparso sull’Espresso quando l’edificio di Piacentini fu inaugurato, uno “scandalo”: non resta, a noi ottimisti, che vedere sorgere un altro scandaloso edificio lì in mezzo alla splendida piazza e poi esclamare “maial, sl è brutt!”

BORDO PAGINA
“Cecilia 2.0”, la spia aliena di Firenze. Intervista a Fabrizio Ulivieri

On line per Asino Rosso eBook di Ferrara, “Cecilia 2.0” dello scrittore fiorentino Fabrizio Ulivieri, segnalato anche dalla stampa nazionale (Il Giornale) e internazionale per lavori precedenti (“Rugile” e “Il Sorriso della Meretrice”). Un autore controculturale, tra erotismo e fantascienza. E quest’ultimo racconto ha per focus una splendida e conturbante aliena in missione nella rinascimentale città d’arte Firenze. Ecco una intervista allo scrittore, che stanco di certa Italia, annuncia il suo trasferimento esistenziale e logistico in Lituania, diversamente esempio (letterario in questo caso) di cervelli in fuga dall’Italia.
Tempi neopuritani, l’erotismo sempre zucchero della vita quotidiana autodiretta…
Il sesso nel tempo di crisi sarebbe una grossa arma creativa se si sapesse usarla. Ma se devo essere onesto a me sembra che anche nel sesso (erotismo è già una parola altolocata per i nostri tempi, come la parole letteratura) non ci sia più inventiva/creatività… o meglio, mi sembra (soprattutto fra le giovani generazioni) che vi sia sempre meno interesse per il sesso reale… Il sesso che lo si voglia o no è un “valore” ed è mia personale opinione che i valori crescono solo laddove vi è poca libertà (tirannie, governi autoritari…). Dove regna troppo permissivismo, la libertà non è più un valore ma è solo un pretesto per disinteressarsi di tutto. Le “democrazie” occidentali sono il miglior esempio del fallimento della “libertà” e ergo della creatività supportata da valori connessi al desiderio di libertà.
Nell’ eBook Firenze in primo piano…
Sì, Firenze era allora al centro dei miei interessi. Ora mi ha stancato anche questa città, bellissima ma non più identitaria. Troppe razze, troppe etnie… Io ero nato italiano, ora non so più chi sono… infatti mi trasferisco. Vado a vivere a Vilnius, in Lituania, una nazione ancora identitaria.
Nell’ eBook Cecilia , americana, esprime anche una critica metapolitica e culturale a certo Way of life statunitense e diversamente imperialismo quasi orwelliano…
Vero. L’imperialismo del loro Deep State ci ha portato all’esistenza di una Matrix, quasi. Un Deep State che ormai raramente colpisce in modo diretto ma sempre indiretto tramite terrorismo, false flags, proxy wars, mainstream (che è poi manipolazione dell’informazione a livello globale)… Cecila era a Firenze per questo, per creare i presupposti di un’azione indiretta…

Info
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/sorriso-meretrice-1017945.html

Un grazie al giorno toglie l’infelicità di torno

La riconoscenza è una pratica difficile. Si fatica a ringraziare e si preferisce non curare questo aspetto tanto prezioso quanto raro perché siamo sempre più avvolti nei nostri egoismi e nella nostra autoreferenzialità. Un vero peccato perdere l’occasione di rivolgersi agli altri con quel sorriso di riconoscimento che rende felici prima di tutto noi stessi e contemporaneamente chi ci sta davanti.

La gratitudine è un modo di vivere e guardare alle cose, un atteggiamento mentale, una questione di prospettiva. E’ uno staccarsi dall’assuefazione e dal ‘tutto è dovuto’ per riconoscere di aver ricevuto qualcosa che vale, un dono, un contributo, che il resto del mondo ci offre. Staccarci per un attimo dal nostro egocentrismo per apprezzare e ringraziare, rompe il circolo vizioso delle lamentele, dei mugugnii, l’isolamento, la sfiducia, le privazioni, perché la gratitudine è un antidoto a tutto questo. Essere grati non è forma ma sostanza, a prescindere da idee, appartenenze ideologiche e religiose, correnti di pensiero e tendenze.
Cicerone fa derivare tutte le virtù proprio dalla gratitudine: “Questa è infatti la sola virtù, non solo la più grande, ma anche la madre di tutte le altre virtù…”. Nelle filosofie orientali il sentimento di riconoscenza è fondamentale. Ne ‘La filosofia dell’Aikido’ di John Stevens si considerano i diversi aspetti della gratitudine: verso l’universo, verso gli antenati, verso i nostri simili e verso le piante e animali. I nativi d’America, nell’andare a caccia non dimenticavano mai di ringraziare gli animali che uccidevano, consapevoli del loro sacrificio necessario alla sopravvivenza della tribù. San Francesco ci lascia un grande inno di gratitudine nel ‘Cantico delle creature’, dove nulla viene dimenticato nelle cose esistenti e nella bellezza del nostro mondo, per valore e significato. Nell’episodio dei lebbrosi, raccontato nel Vangelo, solo uno dei lebbrosi si getta ai piedi di Gesù, grato della guarigione ottenuta, guadagnandosi la salvezza. Nelle fiabe la gratitudine viene riconosciuta e compensata: “…e fu così che il re diede in sposa la figlia…”, “ …fu trasformato in un bellissimo principe…”, “…venne liberato da…”, “…ebbe in dono ricchezze…”. Nel suo ultimo scritto ‘Gratitudine’, Oliver Sacks (1933-2015), medico neurologo e scrittore britannico, consegna il suo congedo alla vita, consapevole che sta per morire di cancro. Si tratta di un gioioso bilancio dei suoi amori, dei suoi studi, dei suoi libri: un commosso ringraziamento alla vita, riconoscente perché i suoi scritti e i suoi libri sono stati utili a chi ha letto e condiviso. Scrivere, afferma Sacks, è un privilegio che merita gratitudine; scrivere la verità, non necessariamente la bellezza. Il breve, intenso scritto che Oliver Sacks lascia sulla soglia dei suoi 80 anni, “…grato di essermi grati”.

La gratitudine dovrebbe essere una pratica costante, consapevole, piena, perché tutti abbiamo qualcosa di cui ringraziare e da riconoscere come dono proveniente dall’esterno. “Le persone che ci rendono felici sono affascinanti giardinieri che rendono le nostre anime un fiore”. Lo sosteneva Marcel Proust, ed è proprio questo. “Svegliandomi ogni mattina, vedo il cielo blu. Unisco le mani in segno di ringraziamento per le tante meraviglie della vita e per aver altre 24 ore nuove di zecca davanti a me” (Thich Nhat Hanh). E poi c’è il poeta romano Trilussa, che ci spiega come la gratitudine assuma mille sfaccettature: un gatto che, esaurite le sue aspettative su un pasto a base di pollo, se ne va sfiduciato e un cane che rimane, grato di poter consumare anche solo le ossa… Realismo significativo, ma che lascia comunque qualcosa su cui riflettere. Rimane il fatto che un “grazie” indirizzato nel giusto orientamento, un riconoscimento di qualcosa o qualcuno che merita, un sorriso, un cenno di assenso, un apprezzamento, ci alleggerisce l’esistenza, ci rende quel senso di giustizia di cui abbiamo bisogno, dà un significato a ciò che facciamo e a ciò che gli altri fanno per noi. Grazie!

Roberto Vecchioni racconta Storie di felicità

Non ci sono ricordi di una carriera musicale, concerti, canzoni o spettatori. Ma momenti di vita, semplici, puri bellissimi, quelli di un cantautore che è stato ed è felice, che ama la vita e le sue mille sfaccettature, che cura i sentimenti con parole e pensieri. Nel suo ultimo libro ‘La vita che si ama. Storie di felicità’, Roberto Vecchioni incanta il lettore, veleggiando fra poesie e ritratti, versi, citazioni classiche e richiami lirici che fanno emergere l’amore immenso per la moglie e i quattro figli e la fiducia nella vita. C’è anche Saffo, tra tutti.

Il tempo passa, la felicità va catturata, imbrigliata, Vecchioni suggerisce come farlo. Essa non scompare, al contrario, resta in eterno, va solo capita e (ri)vissuta ogni giorno, facendo tesoro dei momenti felici, piccole cose e momenti che vivono con noi e attraverso di noi. Il testo è diviso in 13 lettere immaginarie dedicate ai figli, missive da inviare loro per trasmettere la gioia e la bellezza di piccoli attimi di vita quotidiana del cantautore-professore che orientano e riorientano ogni giorno la sua esistenza. Vicende che rappresentano attimi immensi di felicità, momenti da condividere e ricordare, da portare con sé. In ogni racconto compare un personaggio chiave, dallo studente brillante che rischia di essere bocciato all’esame di maturità a cause delle sue pene d’amore, fino al padre giocatore e alla madre affettuosa, a un improbabile Chomsky, sfidato a scacchi, o allo stesso Vecchioni che, ogni anno, imperterrito, sistema le luci di Natale nella casa vicino al lago, oasi di serenità.

A chiudere le lettere, bellissimi testi di canzoni dedicate ai figli. La preferita di Vecchioni è ‘Quest’uomo’, in cui il cantante grida l’incapacità di stare lontano dagli amati Edoardo, Arrigo, Carolina e Francesca, per cui ringrazia la sempre presente Daria, moglie e artefice di queste meraviglie. Felicità, forza della parola, bellezza e, allo stesso tempo, difficoltà di essere padre sono i filoni di queste avvolgenti e incantevoli pagine. Contro l’“educazione alla performance” a tutti i costi che domina le nostre vite e, nei momenti più difficili e di sofferenza, difendendosi con la cultura. Ricordando Dostoevskij.

 

Roberto Vecchioni La vita che si ama. Storie di felicità, Einaudi, 2016, 160 p.

Ferrara ebraica tra memoria e presente: da Bassani al Meis pensando al futuro

Tutto pronto per l’inaugurazione. Attentamente controllate le mail con i ‘consigli’ scrupolosamente inviatici per accedere al Meis, estratto dall’armadio il cappotto blu di cachemire triplo, di solito indossato per qualche prima alla Scala, esumato il Borsalino (quello piccolo, più serio di quello a larghe tese), cravatta Hermès d’antan, giacchetta blu ovviamente quella di cachemire e il fazzoletto di seta grigia, che ha ormai due secoli e ho indossato sempre in occasioni speciali, quali quelle di testimone ai matrimoni dei nipoti.
Il taxi l’avevo prenotato il giorno prima, ma una telefonatina di conferma scatta lo stesso. Passo a prendere la mia collega, la professoressa Portia Prebys, curatrice del Centro studi bassaniani, da lei donato alla città di Ferrara. Eroicamente, dopo aver assunto le medicine che le permettono di fare qualche passo senza soffrire troppo, sbarchiamo davanti alle ex-carceri, ora sede del Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah e ci mettiamo in fila, mentre ragazzine saputelle, ma consce del loro compito, scrupolosamente controllano una serie di nomi che sembra non finiscano più. Ma non ci era stato detto che saremmo stati un centinaio al massimo? Al controllo, dopo aver depositato tutto il metallo che possedevamo siamo scrupolosamente palpati. Sto per passare quando fulmineamente mi ricordo d’aver le bretelle con i ganci in ferro. Lancio un urletto e avverto il palpatore. Mi guarda come fossi uno scemo, dice che quelle non contano, mentre febbrilmente penso alle solite truffe dei cinesi che ti vendono ganci di ferro mentre si tratta (forse) di pane masticato e tinto color acciaio.
Nella fila parallela s’accende una diatriba imponente. La voce la conosco: per forza è uno delle archistar fiorentine, che tra l’altro svolge anche il ruolo di rabbino e mio caro amico. Sta sgridando un pezzo grosso dell’organizzazione che non vuol far passare la figlia di Bassani. Alla fine entriamo e siamo di nuovo affidati alle cure di una gentil giovanetta, che indaffaratissima a passo svelto ci fa traversare il giardino. In una specie di recinto riconosco gli amici giornalisti e i fotografi in preda a orgasmo da scatto. Miro e siam mirati mentre la giovane affretta il passo. Afferro la pochette di Portia, le do il braccio e ansimanti arriviamo a una scala. Un secco invito: “terzo piano, salite le scale”. Imploro un ascensore mi si risponde falsamente che non c’è; e infine approdiamo sudaticci e doloranti al loco del desire. Sono le ex celle maschili dove s’aggirano animule vagule e per nulla blandule, sorvegliate dagli occhi di ghiaccio di immusoniti camerieri che servono frittelle fredde – mi pare – e spumantino nelle classiche flûtes di plastica. Uno schermo televisivo sovrasta il tutto.
Portia sfinita s’appoggia al muro; chiedo una seggiola, mi si risponde quasi in un sibilo che non ce ne sono. Domando che la vadano a prendere. Mi guardano con disprezzo. Afferriamo al volo la solita giovanetta chiedendole di portarci di sotto e controllare se, forse, per caso, accidentalmente, non si fossero sbagliati nell’assegnarci la postazione. In fondo la professoressa Prebys è sicuramente una grande benefattrice della cultura ferrarese ed ebraica. Discendiamo le scale che tanto fiduciosamente avevamo salite poi la donzelletta sparisce e ci appare una dama sontuosamente pittata che ha una grossa cartella di fogli misteriosi. Consulto febbrile, conferma che il nostro posto era la piccionaia. Saluta frettolosamente con un ancor più frettoloso ‘scusatemi’ e se ne va. Vediamo allora una importante rappresentante della cultura ferrarese che rivela l’inganno. Non solo gli ascensori ci sono, ma lei stessa l’aveva preso il mattino per la conferenza stampa e non si dà pace della bugia. Ma è ragione di sicurezza!! Sì, penso, va bene però in qualsiasi luogo pubblico, anche d’interesse minore, si debbono predisporre soccorsi per i non abilissimi a sopportare tre ore in piedi, non a dispetto ma proprio in favore della sicurezza. E se qualcuno si fosse sentito male?
Mestamente ripercorriamo il giardino per uscire inseguiti dai flash dei fotografi che ci chiedono ragione della ritirata. Proseguiamo incuranti dei richiami, mentre la fila dei perdenti che s’ingrossa sempre più come a Waterloo s’avvia all’uscita. Incrocio il Sindaco in compagnia del vescovo, che mi guarda con occhio interrogativo. Gli sussurro “lo saprai”. All’uscita l’archistar s’avvia a prendere il treno per Firenze, le signore sconfitte salgono su grandi macchine e noi siamo soccorsi da un autista che ben conosciamo, che affettuosamente ci riaccompagna a casa. Sono le 17.14.
Il presidente Mattarella sta per arrivare: silenziosamente.
La sera si scatena l’inferno. Mi chiamano i giornali cittadini chiedendo conto della ritirata, insinuando motivi volgarotti e banali. Se la prendono con i dirigenti del Meis, che ovviamente non hanno colpa se le direttive – come è assodato – provengono dall’ufficio di sicurezza del Quirinale. Devo promettere smentite feroci per le illazioni. Prebys e io collaboreremo sempre con il Meis, non ce l’abbiamo con loro anzi! Se perfino il rav di Ferrara non può sedere tra gli immortali 70!
Per fortuna la sera rivedo un film di Woody Allen, ‘Tutti dicono i love you’, con le riprese dei miei luoghi dell’anima: Venezia e Parigi. E ancora una volta mi domando: “Ma che ci faccio a ‘Ferara’?” Poi penso: “Va beh! È sempre la mia città”. Soffocando dentro il commento finale che detto in francese suona più fico: “Helas! (Ahimè!)”.

Il giorno dopo ci aspetta una importantissima cerimonia. Per non essere sconfitti ancora e almeno assicurarci una seggiola, un panchetto, un gradino, arriviamo quasi un’ora prima. Tutto è impeccabile. I nostri nomi a lettere di fuoco son stampati sui seggi che ci appartengono e rilassato posso alfine dedicarmi ai cari amici Foscari che avevo incontrato la sera prima anche loro diretti in piccionaia.
Il premio ‘Città di Ferrara’ viene assegnato quest’anno a Ferigo Foscari E’ simboleggiato da un ippogrifo che non sale in cielo, ma è destinato a coloro che si sono particolarmente distinti e che hanno contribuito a valorizzare il prestigio della nostra città. La motivazione dell’assegnazione a Ferigo Foscari Widmann Rezzonico è per aver donato alla città il manoscritto de ‘Il Giardino dei Finzi Contini’ di Giorgio Bassani, attualmente custodito alla biblioteca Ariostea. Alla cerimonia erano presenti il consigliere di Stato, in rappresentanza del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Daniele Ravenna, il presidente della Fondazione Meis, Dario Disegni, il sindaco del Comune di Ferrara, Tiziano Tagliani, il vicesindaco Massimo Maisto e il direttore della Biblioteca Ariostea di Ferrara, Enrico Spinelli, che svolgeva il ruolo di padrone di casa. Alla fine della cerimonia gli invitati, rappresentanti della politica, della cultura e dell’associazionismo ferrarese e nazionale, si sono trasferiti nel giardino della Biblioteca, antico orto botanico di Palazzo Paradiso, un tempo sede dell’Università della città, dove è stata scoperta una lapide in memoria di Teresa Foscolo Foscari, nonna del donatore e musa ispiratrice del romanzo più conosciuto del grande scrittore, che ha ravvisato nella nobildonna veneta la figura di Micol e a cui il manoscritto del romanzo era stato affidato e donato.
La raffinata introduzione di Enrico Spinelli ha messo in luce l’aspetto più propriamente scientifico del manoscritto, la sua straordinaria importanza per chi si voglia dedicare alla ricostruzione delle fasi che portano poi al momento della costruzione di un romanzo, o di una poesia. La filologia al servizio della storia. Ferigo Foscari ha tratteggiato il ritratto della nonna: una donna imperiosa, ma straordinariamente capace di riservare il meglio di sé alla difesa dell’ambiente e del paesaggio, non a caso il rapporto con Bassani è rafforzato dal comune impegno in Italia Nostra. Lo svelamento della lapide a lei dedicata posta in una parte del giardino di Palazzo Paradiso a cui s’accede per raggiungere l’ala dedicata alla biblioteca d’imminente apertura dedicata ai bambini e ai ragazzi è stato un momento di delicata poesia quando Ferigo nello svelare la lapide ha detto che la nonna ora sta in Paradiso pensando al nome del palazzo mentre suo padre Tonci Foscari raccoglie una foglia dal tappeto giallo che la centenaria Ginkgo Biloba ha sparso per terra a rendere omaggio a una donna straordinaria e alla generosità di suo nipote.

Al Meis in mostra primi mille anni di Y-Tal-Ya, l’isola della rugiada divina

di Riccardo Gnudi

“Il primo lotto che inauguriamo è costituito dall’ex-carcere di Ferrara ristrutturato in modo impeccabile per essere adibito a una nuova destinazione d’uso: in una sorta di contrappasso da luogo di segregazione ed esclusione quale è stato per tutta la durata del Novecento si appresta ad assumere il ruolo quanto mai significativo di centro di cultura, di ricerca, di didattica di confronto e dialogo e quindi in una parola di inclusione”. Con queste parole il Presidente della Fondazione Meis Dario Disegni ha aperto mercoledì mattina, 13 dicembre, la conferenza stampa di presentazione della prima grande mostra del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, ‘Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni’in quello che una volta è stato il corpo principale delle carceri cittadine.
All’incontro con la stampa, oltra a Disegni, hanno partecipato il ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini, il sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, il responsabile delle attività culturali di Intesa Sanpaolo Michele Coppola e Daniele Jalla, curatore della mostra insieme ad Anna Foa e Giovanni Lacerenza.
“L’apertura del primo grande edificio del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah con questa mostra che abbiamo chiamato ‘Ebrei una storia italiana. I primi mille anni’ – ha continuato Disegni – rappresenta una tappa di grandissima rilevanza della realizzazione del museo istituito dal Parlamento della Repubblica. Il MEIS verrà poi completato entro la fine del 2020 con la costruzione di cinque edifici moderni connotati da volumi che richiamano i cinque libri della Torà”, dando così vita ad un grande complesso museale e culturale. “Decisivo per il raggiungimento di questo grande obiettivo il supporto del ministero dei Beni e delle Attività Culturali del Turismo che ha garantito l’intera copertura economica del cantiere grazie al forte sostegno del Ministro Franceschini”, ha concluso il Presidente della Fondazione Meis.

Un momento della conferenza stampa al Meis

Lo stesso Franceschini ha sottolineato la propria emozione: “E’ una giornata personalmente emozionate perché arriva a compimento di un percorso che è iniziato molti anni fa, è un segnale di grande attenzione da parte di tutto lo Stato con la presenza del Presidente della Repubblica questo pomeriggio”. E, da ferrarese, il titolare del Mibact non ha rinunciato a evidenziare ancora una volta il doppio filo che lega Ferrara con la Ferrara ebraica: “Molti mi hanno chiesto perché Ferrara: perchè Ferrara nei secoli di difficoltà ha accolto con solidarietà la comunità ebraica, perché Ferrara è conosciuta nel mondo per Bassani, ‘Il Giardino dei Finzi Contini’, un luogo che esiste, se non concretamente nella città, certo nei nostri cuori ma che non esiste . L’ebraismo a Ferrara è dentro le pietre, dentro le persone. A Ferrara c’era la Nuta, con il suo negozietto in via Mazzini, dove ho potuto conoscere cose meravigliose: la cucina dello storione e del caviale secondo le ricette ebraiche tramandate di generazione in generazione. La cultura ebraica si è incrociata con la vita di tutte le persone”. Tornando al progetto del museo nazionale dell’ebraismo e della Shoah, Franceschini ha affermato: “E’ un impegno che si è concretizzato prima con la legge poi con i finanziamenti, che consentono di completare questo progetto nella parte che vediamo oggi e nella parte che di architettura contemporanea”, che sarà costruita da qui al 2020. “Penso che ci sia un grande futuro a livello internazionale per questo museo, siamo stati insieme al Presidente Disegni e Simonetta Della Seta a presentare il Meis a Gerusalemme e New York e abbiamo trovato una grandissima attenzione perché la storia degli ebrei italiani è conosciuta in tutto il mondo forse più che in Italia. Portare qua i giovani significa investire in conoscenza, investire in conoscenza significa offrire l’antidoto più forte a tutti i rischi e le paure di questo tempo”, ha concluso il Ministro.

La parola è poi passata al sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani: “Io, Renzo Gattegna e Carla Di Francesco abbiamo avviato questo percorso nel periodo tra le due disposizioni normative che regolano l’esistenza del Meis tra il 2003 e il 2006, un ruolo il nostro diverso, ma con una decisione e una caparbietà seconda solo al Ministro nel portare a compimento un’opera significativa per il nostro paese. Non dobbiamo dimenticare il ghetto, i secoli successivi, il contributo che gli ebrei hanno dato alla Prima guerra mondiale. Non dimentichiamo quella classe borghese ricordata nella video rappresentazione di Carrada che ci richiama alla presenza del podestà ebreo di Ferrara, che ha vissuto il passaggio dal governo della città alle leggi razziali e alle persecuzioni. Voglio ringraziare tutti coloro che hanno partecipato a questa storia, credo ci sia stata una collaborazione importante tra la città e il Meis”.

Nel corso della mattinata, infatti, è stata inaugurata anche l’installazione multimediale ‘Con gli occhi degli ebrei italiani’, a cura di Giovanni Carrada – autore di ‘Superquark’ – e di Simonetta Della Seta, direttore del Meis, con la ricerca iconografica di Manuela Fugenzi, la regia di Raffaella Ottaviani e la colonna sonora di Paolo Modugno. Ai visitatori, stretti fra due grandissimi schermi, l’installazione immersiva offre la possibilità di fare un viaggio nel tempo con l’intento di coinvolgere fin dall’inizio il pubblico nei temi che il percorso espositivo del Meis esplorerà.

Una sorta di introduzione a una vicenda che pochi conoscono davvero: la storia degli ebrei e dell’ebraismo in questo paese, perché la loro è una storia che a scuola non si insegna, se non per parlare della Shoah. Una storia che il Meis, una volta completato, narrerà per intero. La mostra inaugurata mercoledì pomeriggio dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che non a caso si intitola ‘Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni’, narra l’inizio di una vicenda che, fra alti e bassi, dura da 22 secoli, e che ha caratteri del tutto peculiari rispetto alle altre vicende della Diaspora: I-Tal-Ya in ebraico significa “l’isola della rugiada divina”. Lo fa in uno spazio di più di mille metri quadrati e oltre duecento oggetti preziosi, manoscritti, epigrafi di età romana e medievale, e centoventuno tra anelli, sigilli, monete, lucerne e amuleti, poco noti o mai esposti prima, provenienti dai musei di tutto il mondo: dalla Genizah del Cairo al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dai Musei Vaticani alla Bodleian Library di Oxford, dal Jewish Theological Seminary di New York alla Cambridge University Library.
L’obiettivo dei curatori e del Meis è suscitare riflessioni, attraverso la scoperta e la conoscenza di una parte della nostra storia poco nota: un indiretto invito a porsi domande e a ricercare le risposte, che oggi, a differenza del passato, non possono prescindere dai valori del riconoscimento e del rispetto dell’altro e del diverso.

‘Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni’ e ‘Con gli occhi degli ebrei italiani’ saranno aperti fino a domenica 16 settembre 2018. Sono visibili dal martedì al mercoledì e dal venerdì alla domenica dalle 10.00 alle 18.00, e il giovedì dalle 10.00 alle 23.00. Giorni di chiusura: tutti i lunedì, 31 marzo (primo giorno di Pesach), 10 settembre (primo giorno di Rosh Hashanà) e 19 settembre (Kippur).
Maggiori info su www.meisweb.it

Le raccolte differenziate

È raddoppiata in dieci anni la raccolta differenziata in Italia; lo dice il Rapporto Ispra uscito pochi giorni fa: dal 25,8% del 2006 si è passati al 52,5% nel 2016 (+5% rispetto al 2015), anche se il Paese rimane in ritardo rispetto all’obiettivo fissato per il 2012 (65%).
In Provincia di Ferrara va meglio: il confronto tra alcuni dati sulla produzione di rifiuti e sulla raccolta differenziata nel territorio dei comuni ex Area mostra che in sei anni si è passati da una produzione di rifiuti complessiva di 634 kg/ab a 490 kg/ab e la raccolta differenziata è passata dai 273 Kg/ab ai 365 Kg/ab. Un bel segnale di miglioramento. Il confronto è tra il 2010, quando tutto il territorio era servito con sistema a cassonetti, e il 2016, primo anno di porta a porta a regime in tutti i Comuni soci. Nel primo semestre del 2017 sono stati raccolti 13.230.077 Kg e si è superata ampiamente la percentuale del 70% di raccolta differenziata: un grande risultato che ha permesso anche quest’anno di annoverare diversi Comuni soci di Clara tra gli esempi di buona gestione nella rassegna annuale di Legambiente Emilia Romagna sui Comuni Ricicloni (premiati a Carpi proprio lo scorso 27 novembre).
La credibilità del sistema di raccolta differenziata e delle aziende operanti nel settore è fondamentalmente basata sulla necessità di offrire garanzie circa il rispetto degli obiettivi non solo in termini di percentuali di rifiuti raccolti in modo differenziato, ma anche in termini di qualità del differenziato stesso. Confondere ancora tra raccolto e riciclato non conviene a nessuno, né utilizzare differenti criteri per definire le percentuali dei quantitativi raccolti.
Per coniugare questi vari fattori è necessaria l’adozione di strumenti collaudati e credibili, finalizzati ad aiutare le aziende ad organizzare le attività, razionalizzando i processi e riducendo le diseconomie ma, che al tempo stesso, offrano gli opportuni canali per valorizzare gli sforzi profusi e i traguardi raggiunti. Maggiore trasparenza deve essere posta ad esempio sui criteri con cui raggiungere dette percentuali, smascherando in alcuni casi risultati apparentemente positivi, ma ambientalmente discutibili. Clara infatti per l’organico, la carta e il vetro effettua delle periodiche gare per ottenere il miglior beneficio economico (che in una valutazione di mercato in crescita tende ad essere molo variabile). Questa analisi economica del valore del materiale serve anche per sfatare la leggenda metropolitana che il valore del materiale fa arricchire chi lo raccoglie (e dunque l’impresa).
È inoltre complesso stabilire quale sia la soglia oltre la quale i benefici del recupero di materia sia vantaggiosa rispetto ai costi da sostenere e dunque cercare di far emergere la convenienza delle forme di recupero; ciò dipende anche in buona misura dall’effettiva risposta dei cittadini alle raccolte differenziate, dalla praticabilità di soluzioni come la raccolta porta a porta o il compostaggio domestico, ma anche da altre circostanze. Rimane allora da valutare quali sia la migliore soluzione possibile e per fare questo serve una analisi di dettaglio sia del materiale immesso sia della capacità di raccolta differenziate e della possibilità di reale riciclo. A questo proposito vale la pena ricordare che per “raccolta differenziata” si intende quanto separato alla raccolta in base al tipo e alla natura dei rifiuti (anche alla fine di facilitarne il trattamento), mentre per “recupero” si intende ogni operazione utile all’utilizzo di materiale in sostituzione di altri.
Lo spirito guida della programmazione deve tendere alla ricerca del massimo riciclo (non della massima raccolta differenziata), indipendentemente o comunque senza limitarlo dal raggiungimento di uno specifico obiettivo generale che potrebbe essere non il massimo raggiungibile. E’ importante allineare tutti gli ambiti su livelli omogenei di raccolta differenziate, sempre però senza limitare le iniziative laddove tale obiettivo è stato raggiunto ed in cui è possibile ottenere risultati ancora migliori. Opportuno dunque definire con criteri innovativi le raccolte differenziate (possibilmente con obiettivi di riciclo per materiale, calcolato sulla base dell’immesso in sintonia con le direttive europee).
La composizione merceologica dei rifiuti urbani (in peso e in volume) sta cambiando negli ultimi anni con la crescita delle frazioni secche (carta, plastica, vetro, metalli) rispetto alla frazione organica. Da un confronto di diverse analisi sulla composizione in peso dei rifiuti, l’organico costituisce circa il 30% dei rifiuti urbani, la plastica e gomma circa il 13-15%, la carta e il cartone il 25-27%, il vetro il 5-7% , i metalli il 3-5%.
L’analisi della destinazione dei materiali derivanti dalle operazioni di raccolta differenziata è diventato un elemento fondamentale per la trasparenza del servizio prestato e per la garanzia di rispettarne le regole. I cittadini talvolta infatti sono scarsamente motivati alla collaborazione perché temono che poi il risultato finale non corrisponda a quello dichiarato; in troppi permane infatti ancora il dubbio che “tutto poi finisca in discarica”. Abbiamo dunque il dovere di certificare l’avvenuto riciclaggio con procedure e regole chiare, meglio se controllate e appunto certificate da terzi autorizzati per tale attività (vedi tracciabilità). Anche la qualità del materiale raccolto legato ai concetti di impurità e scarto è un tema che richiederebbe maggiore attenzione. Deve crescere la consapevolezza che il materiale pulito da impurità (altri materiali) ha una migliore possibilità di riciclo e dunque un valore maggiore. Argomento conseguente e di grande importanza è la realizzazione di concrete forme di incentivazione o di premio ai cittadini particolarmente virtuosi e dunque solo chi supera con il proprio contributo la media ottenuta sul territorio.