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Sporchi, invisibili fantasmi nelle strade turche

di Diego Stellino

Foto di Diego Stellino
Foto di Diego Stellino

Il lavoro minorile in Turchia è un problema reale e conosciuto: l’utilizzo di fornitori che utilizzano nei propri stabilimenti e laboratori bambini siriani (e non) da parte di grandi marche come H&M e Next è stato già dimostrato da tempo. In periferia ho visto personalmente tutto questo è amplificato con effetto frastornante, rendendo tutto, paradossalmente, assolutamente normale.

La prima volta che cammini per le strade di città come Kilis o Reyhanlii rimani travolto dal numero di bambini  di qualsiasi età che lavorano. Con alcune distinzioni. La prima è sicuramente quella “della origine”: i bambini turchi sono evidentemente inseriti in un contesto famigliare che li porta a crescere nella bottega di famiglia, insieme a fratelli e parenti, creando una catena generazionale di responsabilità e di impegno all’interno del proprio gruppo. Li vedi servire ai tavoli, pulire a terra, scaricare cassette di verdura o sacchi di vestiario, a qualunque ora, insieme alla propria famiglia. La stessa cosa accade in quelle strutture che molti siriani hanno potuto realizzare aprendo piccoli negozi di rivendita o ristorazioni più o meno diversificate.

Esiste poi una quantità innumerevole, disarmante, di piccoli abitanti delle strade che dalla mattina presto fino a notte inoltrata sono presenti per cercare di recuperare qualcosa. Soli, lasciati a se stessi, sono organizzati raramente in gruppetti di 3-4, spesso in coppia, il più delle volte da soli; molto dipende dal carattere e dalla loro età. I più piccoli girano timidi, sguardo basso, il loro successo è dato dalla possibilità di vendere delle merendine, dei biscotti, caramelle o fazzolettini di carta alle persone che passano per le strade del centro, che evidentemente faticano ad avvicinare.
Una volta in grado di trascinare un carretto, che aumenterà di volume in base all’aumentare della capacità del bambino, il lavoro si trasforma, spesso, in quello di raccoglitore di rifiuti di plastica o alluminio o qualcosa.

I bambini si trasformano, inesorabilmente, in sporchi piccoli fantasmi, sempre più chiusi e schivi con l’aumentare della propria consapevolezza e distanza dagli “altri” che popolano la strada.

Ogni giorno, tutti i giorni, ogni settimana da mesi, in attesa che qualcosa possa cambiare perdendo l’intera infanzia sulla strada.

Vite immaginate: narrazione e riflessione nel nuovo libro di Andrea Cirelli

Leggere romanzi consente di avventurarsi nelle vite degli altri, scoprire mondi sconosciuti, provare nuove emozioni. Andrea Cirelli dà l’impressione di essersi fatto scrittore per soddisfare un bisogno analogo, ma più profondo: non semplicemente calarsi in abiti differenti, ma essere demiurgo di esistenze possibili, magari sfiorate o sfuggite; per tratteggiare contorni e plausibili esiti alternativi alla vita reale, quella pazientemente costruita giorno per giorno, scelta dopo scelta… “I libri non finiscono mai”, titolo del suo ultimo lavoro pubblicato da Este edition, ha proprio questo significato: gli scenari che la vita rende potenzialmente praticabili sono inesauribili e di ognuno è protagonista un nostro personaggio mancato.
La tecnica utilizzata è inconsueta: alla narrazione l’autore alterna la riflessione e la digressione, secondo uno schema praticato da pochi, fra i quali in assoluto eccelle Milan Kundera.
Ed è un bel viaggio quello che Cirelli ci propone con quest’opera di confine: un viaggio in cui la scoperta di se stessi si compie attraverso una matura comprensione delle dinamiche di interazione con gli altri. Così introspezione e relazione non sono altro che complementari processi di comunicazione, tra sé e gli interlocutori, che fluttuano fra sguardo interiore e bisogno di socialità e soddisfano la pulsione che ci fa sentire parte del mondo degli umani e dell’intero universo.

Le considerazioni che l’autore sviluppa, in un piano parallelo a quello della narrazione, come in un gioco di specchi, rivelano sfaccettature celate dallo scorrere quieto della storia. Anche in questo, Cirelli – nella realtà esperto di questioni ambientali e prezioso collaboratore di Ferraraitalia – mostra un suo talento: il saper tratteggiare, con tono lieve e garbo quasi poetico, situazioni di apparente quotidiana normalità dalle quali trafilano però bisogni profondi e condivisi che albergano nell’animo e che conferiscono tono e intensità ai personaggi e alla trama.
Anche stavolta Cirelli ricorre all’espediente dell’alter ego, già utilizzato nella sua precedente trilogia “Segreti tossici”. Ma non per mettersi in maschera, piuttosto per designare un ipotetico “io” come tramite per ripercorrere strade battute, esplorare esistenze possibili e mutare direzione ai vari crocicchi della vita.
Pensieri e sensazioni con cui condisce il racconto si trasferiscono come un piacevole manto al lettore che se li sente addosso quasi fossero suoi, cullato da una scrittura distesa e da un disarmante argomentare che lo rende vulnerabile all’emozione e al sentimento, a compimento di un felice processo di identificazione e assunzione di ruolo che non tutte le narrazioni sanno propiziare.

murales-pontelagoscuro-cortazarIl volume di Andrea Cirelli “I libri non finiscono mai. Nemmeno i quaderni”, pubblicato da Este edition, sarà presentato mercoledì 7 dicembre alle 17,30 alla libreria Feltrinelli di via Garibaldi a Ferrara. Presenti l’autore, l’editore Riccardo Roversi e il direttore di Ferraraitalia Sergio Gessi

L’INTERVISTA
L’Assessora Annalisa Felletti risponde a SEL:”Un partito di litigiosi ormai collassato”

E’ innegabile che l’Assessora alla Pubblica Istruzione e alle Pari Opportunità del Comune di Ferrara Annalisa Felletti non stia attraversando uno dei suoi periodi migliori.
E’ di soli pochi giorni fa la notizia che il Coordinamento provinciale di Sel l’ha sfiduciata, esplicitando “con serena fermezza che l’Assessora non rappresenta più né il partito né il Gruppo Consiliare”. La decisione presa è stata giustificata dal fatto che “l’attività svolta dalla figura indicata per l’esecutivo dal partito nel 2014 è stata del tutto lacunosa, priva di dialogo con la forza politica che l’ha espressa e di efficacia nella città, e molto distante dal profilo politico che Sel prevede esprimano i propri amministratori”.
Abbiamo intervistato l’Assessora Felletti e con lei abbiamo parlato dell’uragano politico che le si è abbattuto contro, approfondendo i vari aspetti della vicenda.

Cosa pensa dell’attuale momento politico che sta vivendo?
Si tratta di un momento di particolare complessità. Le motivazioni non sono ascrivibili esclusivamente alla scena locale, ma hanno origine più profonda e lontana. Il Partito è progressivamente collassato su scala nazionale, perché il gruppo dirigente ai massimi livelli, aveva deciso di investire su un nuovo contenitore (Si-Sinistra Italiana) che tuttavia non riesce ancora tutt’oggi a decollare, archiviando a mio avviso molto prematuramente nella sostanza, Sel, anche se formalmente si scioglierà entro il 10 dicembre.

La sfiducia espressa dal partito nei suoi confronti è stata un fulmine a ciel sereno o aveva sentore di qualcosa?
Il dibattito, quando ancora c’era, era sempre stato caratterizzato da animosità. Le questioni sono piuttosto risalenti. Diversi accadimenti hanno minato sin da subito il rapporto di confronto interno al Partito. Anzi, prima ancora che la Coordinatrice Provinciale del Partito divenissi io, le dinamiche che ne descrivevano la vita interna erano tutte caratterizzate da estrema litigiosità, e dall’incapacità di giungere ad una sintesi in maniera condivisa e matura.

A cosa la imputa realmente?
Temo che per rispondere a questa domanda lo spazio concessomi per questa intervista non basterebbe…

Vorrei sapere qualche dato relativo al suo operato in questi anni
Appena in questi giorni ci stiamo appropinquando al giro di boa, siamo appena a metà legislatura; tuttavia credo che le cose fatte in questi anni, siano state tante ed importanti. Un lavoro che non ho certamente fatto tutto da sola, che rappresenta un risultato di tutta l’Amministrazione e per il quale devo ringraziare tutte quelle persone, funzionarie e funzionari del Comune, che ogni giorno lavorano al mio fianco, mettendo al servizio le proprie competenze e professionalità. Partendo dal settore della Pubblica Istruzione, abbiamo completamente innovato le proposte dei servizi educativi ed integrativi che il Comune di Ferrara offre, dall’estensione dell’orario di apertura, alla possibilità di effettuare il periodo estivo del mese di Luglio col personale educativo interno; in un quadro di risorse calanti, abbiamo trasferito maggiori risorse alle scuole. Abbiamo costruito un rapporto di confronto e scambio continuo con la comunità educativa dell’obbligo scolastico, investendo importanti energie nel rapporto di prossimità, e di conoscenza con il livello istituzionale di governo, credendo fondamentale costruire un’alleanza educativa con i piccoli cittadini, che sono il presente, ma soprattutto il futuro di questa città, lavorando a renderli il più consapevoli possibile del loro ruolo e della prospettiva.

E nel campo delle Pari Opportunità?
Importante anche il lavoro fatto sul fronte dei diritti civili e della parità: stiamo lavorando a partire dagli scorsi mesi, alla stesura del primo Bilancio di Genere di questa Amministrazione; lavoriamo quotidianamente in stretto contatto con le realtà associative femminili e della Comunità Lgbt della Città, allo scopo di costruire momenti di partecipazione e sensibilizzazione. Lo scorso 17 Maggio abbiamo inaugurato in Via Ripagrande, in uno spazio messo a disposizione dal Comune, la prima Antenna antidiscriminazione, riconosciuta dalla Regione Emilia Romagna, per le segnalazioni omofobe. Queste sono solamente alcune delle cose fatte e degli obiettivi raggiunti, ma che ritengo siano utili e di valore per la Città. Certo, c’è sicuramente ancora molto da fare!

Le chiedo una riflessione sul prossimo referendum.
Domenica mi recherò al seggio, sicura della mia scelta. Voterò No al Referendum; la mia è una scelta di merito, non politica o ideologica. Ritengo la proposta di riforma un’occasione persa, l’occasione per presentare una proposta che fosse davvero condivisa e non approvata a colpi di maggioranza. La ritengo una proposta di riforma pasticciata che creerà molti più conflitti di quelli che si proponeva di risolvere; una proposta che sposta eccessivamente il peso sulla capacità decisionale del Governo a scapito della partecipazione, all’insegna di un nuovo centralismo. Una proposta che non amplia gli spazi di democrazia, ma li restringe; una proposta di riforma che operando sulla seconda parte della Carta Costituzionale, in realtà interviene pesantemente sulla prima, nella quale sono affermati i valori importanti della Libertà, dell’Autonomia, del valore costituzionale del Lavoro. Per tutte queste ragioni, domenica voterò No!

Capo Nerd: nuove storie, recensioni e proposte ludico-creative

Capo Nerd non è un promontorio, e non si trova in un’isola norvegese del Mare di Barents all’estremo settentrione costiero del continente europeo, nient’affatto… Capo Nerd è una rubrica, e si trova su Ferraraitalia! Certo, l’assonanza inganna. Confonde il fatto che l’uno e l’altra siano luoghi remoti e affascinanti, luoghi da esplorare e ricordare, luoghi che stimolano la fantasia e i sogni.
Per questo, senza dover partire per la Norvegia, abbiamo pensato di offrirvi un passaggio per visitare l’immaginazione senza confini di Capo Nerd, e tutto questo rimanendo comodamente seduti a casa propria. Buon divertimento!

Postilla: la questione è controversa…
Nerd o geek? Secchione, genio incompreso, esperto introverso e asociale di tecnologia e di scienza, oppure semplice seguace di una cultura di nicchia, postmoderna e pulp? Eterno sfigato provvisto di occhiali o disinteressato precursore di tendenze? In fondo importa poco…
Ciò che realmente importa è dire qualcosa di interessante e soprattutto differente dall’ufficialità. E la cultura Nerd (perché di cultura si tratta), incurante e immune da ogni tipo di ingerenza ideologica, fa proprio questo!

La Riforma Costituzionale, che sanità sarà?

Ne parliamo con Cesare Brugiapaglia, presidente della Commissione Albo Odontoiatri presso l’Ordine dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri di Ferrara

Dottore, prima di parlare con Lei, ho chiesto qualche parere ad altri medici sull’impatto sulla sanità di un’eventuale vittoria del sì al prossimo referendum e la sensazione che ho avuto è che in realtà si preoccupassero più dei tagli indiscriminati, delle differenze tra prestazioni offerte dalle varie Regioni, della mancanza di controllo e della mancanza di persone competenti a dirigere il tutto che del sì o del no. Cioè, come dire, se il controllo della sanità l’hanno lo Stato centrale o le Regioni comunque c’è bisogno di razionalità e controllo, distribuzione equa delle risorse e attenzione al cittadino, al malato. E controllo e razionalità probabilmente non hanno funzionato prima del 2001 e non stanno funzionando adesso. Mi è sembrato, come dire, prima di cambiare il sistema ragioniamo bene su cosa non funziona e su come potremmo agire per farlo funzionare. La soluzione in questo momento non è nella riforma della Costituzione, è un messaggio sbagliato.
Guardando solo alla Riforma penso che questa leda i diritti delle autonomie. Essa abolisce le competenze concorrenti Stato-Regioni, riportando allo stato una serie di decisioni che, dal 2001, spettavano alle Regioni. Il motivo? Si dice che ci sono troppi conflitti tra stato e regioni, ma, per tornare a quanto diceva lei, le cause stanno davvero nel fatto che la Costituzione dà troppo potere alle Regioni? In realtà, nella legislazione concorrente lo Stato stabilisce i principi da rispettare, come i Livelli essenziali di assistenza in sanità e legifera riservandosi la tutela dei diritti legati a quei principi, ma entro la cornice della legge ordinaria fissa le competenze per le quali le regioni valorizzano la loro autonomia. Per sanità, servizi sociali od altro, lo Stato, in 15 anni, quali leggi quadro o cornice ha fatto? Oggi toglie autonomia alle Regioni – solo quelle a statuto ordinario, peraltro – ma ricordo che l’articolo 5 della Costituzione riconosce e garantisce le autonomie ed adegua i metodi della legislazione alle esigenze di queste.
Ministro della Salute e viceministro nei convegni sono ottimisti, con la riforma miglioreranno i diritti degli “ultimi”, ma io non ne sono assolutamente convinto: si parla di centralizzazione per rispondere alla lamentela secondo cui le regioni non sono tutte allo stesso livello nell’offerta di cure, ma si dimentica che le disparità e gli sprechi nascono più da fattori ambientali che dalle regioni come amministratrici della sanità.
Lo Stato ha forse una più alta tradizione di governo dei servizi sanitari? Per migliorare l’efficienza al centro e in periferia si deve responsabilizzare, dire alla regione: questi soldi hai e hai la massima autonomia nello spenderli, ma poi ne sei responsabile di fronte ai cittadini. La centralizzazione purtroppo tende a deresponsabilizzare.

Quindi favorevole alle autonomie. Pensa che dal 2001 le cose siano migliorate?
Non vorrei essere scambiato per uno favorevole ai vari carrozzoni regionali, ma mi domando come mai, in 15 anni, non è stato fatto nulla.
Prima della 833/78 (cioè 38 anni fa!) la sanità passava tutto a tutti; c’era un deficit, ma era di gran lunga minore di quelli che si sono accumulati negli anni successivi. Dovevano fare l’aziendalizzazione, allo scopo di contenere il deficit e con l’idea di riuscire ad avere, addirittura, un utile. Tutto è fallito; ma quello che è peggiorato – ed è la cosa più grave – è la qualità delle cure e dell’assistenza. Ma la politica è entrata pesantemente nella sanità, condizionando le scelte dei Direttori generali che hanno avuto quasi sempre il mandato di impartire le direttive sulla durata delle terapie, per cercare di conseguire una riduzione dei costi. Quanto sta accadendo a Ferrara proprio in questi giorni a causa della riduzione/condivisione degli spazi operativi e il disagio dei medici che operano nel reparto di medicina d’urgenza è una dimostrazione della palese miopia della Dirigenza a scapito della operatività dei medici di cui fanno le spese, in primis, i cittadini.

E torniamo al vero problema: controllo e responsabilità chiare. Sia che vengano dallo Stato centrale sia che siano affidate alle Regioni.
Quello che penso della questione attuale, è che si stiano facendo le solite promesse che non saranno mantenute o solo parzialmente attuate.

Diciamo che una soluzione ottimale potrebbe essere che lo Stato controlli e diriga il quadro generale, che la regione amministri con un budget definito e rendiconti. Responsabilità chiare per cui se lo fa male lo Stato interviene.
O meglio, dovrebbe intervenire. Adesso cosa succede, le regioni si mettono a piangere e convincono lo stato a dargli più soldoni, con la scusa che altrimenti non potrebbero più andare avanti e si vedrebbero costrette a ridurre prestazioni e qualità; alla fine, dopo trattative, la spuntano sempre.
Dopo il 2001 la legislazione in materia non ha funzionato o non è stata fatta (sempre per ritornare a quanto si diceva prima: non sono stati affrontati dall’inizio i problemi, si pretende di riformare ma non si pensa ai futuri problemi) per cui ha creato disfunzioni, spese superiori a prima e inefficienze.

Quindi, per sintetizzare, sostanzialmente ritiene giusto che le Regioni si occupino della sanità ma dovrebbero essere sottoposte a controlli più efficaci e stringenti (responsabilità nei confronti dei Cittadini chiare insomma). Ma cosa dice sulle differenze che si sono venute a creare tra le varie Regioni. La sanità dovrebbe essere uguale per tutti, come si evita che un federalismo sanitario provochi differenze nel l’erogazione dei servizi, voglio dire se lo Stato assegna un budget e dice agli amministratori che devono fare del loro meglio qualcuno farà meglio e qualcuno peggio. Si crea diciamo la concorrenza, bravi e meno bravi con in mezzo il cittadino. Personalmente nella sanità, come nell’istruzione, il principio di base non penso dovrebbe essere la concorrenza.
Vero, ma le regioni sono “gelose” e cercano di ridurre o evitare la migrazione perché ci rimettono in immagine e in soldoni; ma viene leso anche il diritto della libera scelta da parte del paziente e, alla fine, tutto resta all’incirca come prima: perché la sanità del veneto è meno burocratica della nostra? Avrà sicuramente sentito dire che il nostro SSN è il migliore o tra i migliori del mondo; sulla carta è anche vero; ma nella pratica…

Se invece tutti fanno bene allora lavorano tutti per lo stesso fine e allo stesso modo, quindi a che serve dare alle regione autonomia, può decidere lo Stato con indirizzi unici e obiettivi comuni. In che modo facciamo funzionare l’autonomia senza creare concorrenza interna e a chi o cosa serve? Non al cittadino credo.
Giusto!

Per concludere, se le dicessi che invece di fare questa specie di ping-pong delle riforme – nello specifico oggi a colpi di maggioranza, ieri per accontentare la Lega – sarebbe stato più serio affrontare serenamente i problemi sedendosi a un tavolo e discutendo con tutti? Partendo dagli operatori del sistema sanitario, magari. Voglio dire, oggi questa riforma sta bene solo a una parte del Paese come nel 2001 stava bene ad un’altra. Seguendo questo iter tra 10 anni possiamo prevedere una nuova riforma.
A essere in discussione è l’articolo 117 titolo V che recita: “Lo Stato avrà potere di dare disposizioni generali e comuni per la tutela della salute e le Regioni saranno incaricate della programmazione e dell’organizzazione dei servizi sanitari e sociali”.
Traduzione: niente cambierebbe con la riforma costituzionale, né sarebbe diverso dalla realtà che siamo costretti a vivere oggi. Attraverso i LEA, lo Stato individua già adesso i campi di intervento sanitario che dovrebbero essere garantiti a livello nazionale e attraverso le Finanziarie e le Leggi di Stabilità decide già ora quanti fondi stanziare per il sistema sanitario in tutto il Paese. La fumosa centralizzazione poi non riguarderà le modalità di assegnazione dei ruoli dirigenziali e di potere a livello locale, come non cambierà nulla nelle modalità di assegnazione praticate ad oggi dalle Regioni, per cui la corruzione, il clientelismo, l’incapacità gestionale e gli sprechi che abbiamo imparato a conoscere continueranno come prima.
I sostenitori del sì, ci dicono che le Regioni e le autonomie locali, però, potranno far valere le proprie ragioni direttamente in Senato, il “nuovo” Senato. Anche qui non si capisce quale sarebbe lo spazio di manovra dei senatori, dato che quanto atterrebbe alla discussione e all’approvazione delle Leggi di Bilancio non sarebbe più di loro competenza, se passasse il sì. Dunque neppure il Senato sarebbe lo spazio in cui discutere il finanziamento dei nostri servizi!

Va bene, grazie Dottore. Direi che la chiusura potrebbe essere che è inutile accapigliarsi tanto per il sì o il no, ma sarebbe molto più saggio ragionare su come migliorare i servizi e su cosa realmente si vuole ottenere. Mettere al centro il cittadino, il paziente e i suoi bisogni e questa riforma non da le necessarie garanzie perché si possa sperare in un reale miglioramento in tal senso.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Nate libere

Piccole libertà, dicevamo. Nella prima puntata de I dialoghi della vagina, abbiamo chiesto alle lettrici di farci conoscere il coraggio di quelle azioni che hanno comportato un cambiamento e che sono diventate abitudine. Qualcosa di minimo, ma di significativo per chi lo fa: piccoli passi, grandi conquiste.
Ecco le lettere arrivate alla redazione di Ferraraitalia.

La libertà di Vanessa

Cara Riccarda,
Non mi sono presa una libertà, sono nata libera.
I miei fratelli, i miei amici, i miei bambini, mio marito, la mia mamma, le mie amiche: non ho dovuto combattere, non ho fatto fatica.
Non mi sono arrabbiata, non mi hanno offesa.
Mio padre mi ha amato di più, mi ha protetto di più: ero la sua bambina.
Non ho dovuto difendermi.
Poi ci sono gli altri. Quelli poveri dentro. Con loro è una guerra persa.
Non mi sono presa una libertà.
Sono nata libera.
Mi è andata bene.

Vanessa

Cara Vanessa,
essere libera per natura è prezioso e quasi rivoluzionario. Non credo che ti sia solo ‘andata bene’, penso che tu, questa libertà, l’abbia riconosciuta e praticata, facendola tua ogni giorno. Leggendo ciò che scrivi mi viene questa domanda: e se libertà fosse anche rinunciare alla lotta contro i ‘poveri dentro’ e magari, poi, imparare a lasciare andare tanti altri conflitti inutili?
Riccarda

Correre libera, correre dove?

Cara Riccarda,
la mia libertà, a cui non rinuncerei mai e che mi ha cambiata, è correre.
Il mio è anche un correre via, nella quotidianità, dalla pesantezza e da ciò che non mi soddisfa abbastanza per ritrovare me stessa. Lo consiglio a tutti.

Debora

Cara Debora,
la tua libertà è addirittura doppia, fisica e mentale. E se anzichè correre via, fosse un correre verso?
Riccarda

Liberarsi dalle proprie catene… si può!

Cara Riccarda,
la violenza più grande che abbia mai subito me la sono inflitta da sola. Mi sono accontentata. Mi sono spaventata. Mi sono sminuita.
Non ho proseguito gli studi, nonostante mi piacesse molto studiare, ufficialmente per non gravare economicamente sulla mia famiglia. In realtà, per la paura del fallimento.
Ho sposato un uomo che non era il mio ideale ma che, allora, mi amava più di quanto lo amassi io e questo mi garantiva, secondo i miei assurdi calcoli, stabilità e tranquillità.
Desideravo amore, passione, condivisione, affiatamento. Ho avuto noia, indifferenza e rancore.
Ho cercato di soffocare ciò che sono ma ciò che sono è sempre lì, sotto i chili di troppo accumulati per riempire vuoti che non si riempiono con il cibo.
Cosa sono esattamente in realtà non lo so bene. Non mi sono mai cercata a fondo per non rimanere delusa da ciò che avrei potuto scoprire. So per certo, però, che io non sono questa perché altrimenti sarei felice.

M.

Cara M.,
quando ho deciso di fare coincidere l’esordio della rubrica con la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, non avevo riflettuto, lo ammetto, sul tipo di violenza di cui parli tu: quella autoinflitta. Quella che fa sentire responsabili dell’accaduto e un po’ incastrati negli anni a venire. Nel tuo caso, mi pare di capire, un gioco al ribasso che ti ha indotto a determinate scelte di vita.
La lucida consapevolezza che però hai raggiunto, credo ti dia il vantaggio di renderti libera dalle maschere dell’autoinganno. E non è poco.
Quanto alle deviazioni al corso delle cose che non sono state, tempo per recuperare ne hai ancora: riprendere a studiare si può, credimi. Lo studio potrebbe aiutarti a ritrovare quella te che stai cercando, una te che potrebbe piacerti.
Riccarda

La libertà negata: dal piedestallo alla gabbia

Cara Riccarda,
ho capito tardi che la violenza non è solo quella fisica, ma anche quella psicologica. Pensavo che se un uomo non alza le mani, un modo per difenderti e per tenergli testa ce l’hai sempre, si gioca alla pari, se si tratta di cervello.
Non è così. Lo stesso uomo che inizialmente ti corteggia facendoti sentire la più bella del reame e che ti illude di essere invincibile al suo fianco, può trasformarsi in un aguzzino.
Non ti accorgi come accade, ma il piedistallo su cui vieni posta, si trasforma in una gabbia. Mentre all’inizio ti senti ammirata e sei contenta che i suoi occhi si inorgogliscano nel guardarti, pian piano ti accorgi che quello non è orgoglio, ma senso di possesso e controllo.
Queste cose velocemente scivolano in gelosia, e la gelosia in rabbia, sospetto e mancanza di fiducia. Per arginare la tempesta e calmare le acque, tenti di assecondare le sue richieste di attenzione, anche le più assurde e bieche, allontanando familiari e amici. Ti si forma il vuoto attorno, così tanto che anche quando vorresti chiedere aiuto, non sai più a chi rivolgerti.
Paradossalmente ti attacchi ancora di più a lui, perchè credi che sia l’unico che ti sia veramente vicino e che ti ami sul serio, che ti possa resituire serenità. Ed è proprio in quel momento che lui, invece, sferza il colpo finale: non sei più una regina, non sei più niente, se non un grave errore vivente causa di tutte le sue frustrazioni. Nasce in te il senso di colpa per ogni cosa, anche indossare un tacco o prendere un caffè con un’amica diventa un oltraggio.
La violenza è anche questo: l’annientamento della tua persona, della tua libertà, l’uccisione dell’autostima.
Un uomo che ti ama, ti esalta e ti fa sentire fortissima, ti sta a fianco, senza nasconderti al mondo e senza isolarti.
Per fortuna l’ho imparato.

S.

Cara S.,
ora che ne sei uscita (brava!), riconosci come paradossale quell’attaccamento che, finchè ti stava stritolando, sentivi come necessario, conseguente a tutto quell’amore che credevi fosse. Hai descritto una parabola che solo chi l’ha vissuta può capire fino in fondo, una degenerazione quasi impercettibile che ti fa trovare, un giorno, dal piedistallo alla gabbia.
Hai ragione, la violenza è anche questa, feroce come le botte che ti lasciano un livido sulla pelle. È una violenza che ti riduce impotente soprattutto su quel piano, quello del cervello che dicevi, in cui pensavi di muoverti alla pari. Tu e quell’uomo non siete alla pari, tu sei di più: ti sei salvata.
Riccarda

Il flash mob “Pope is Pop” apre le porte del carcere di Ferrara al vento della normalità

Qualcuno guarda per terra contando il tempo, qualcun altro saltella a ritmo alzando le braccia al cielo. Qualcuno ha la faccia giovane e sorridente, qualcun altro ha il volto segnato da una vita dura e non è più giovanissimo. Hanno tutti una maglietta bianca con la scritta “Pope is Pop” e l’effetto è straordinario e coinvolgente. Parliamo dell’evento storico che si è svolto questa mattina alla Casa Circondariale “Costantino Satta” di Ferrara: il primo flash mob svoltosi in un carcere maschile. Guidati da Igor Nogarotto, creativo e ideatore del progetto, e dalla coreografa Roberta Micci, settanta detenuti del carcere ferrarese hanno ballato sulle note della canzone “Pope is Pop”, composta da Nogarotto, per celebrare il Giubileo dei carcerati, festeggiato lo scorso 6 novembre a San Pietro alla presenza di oltre mille detenuti.

Il clima di festa pervade le austere stanze del carcere e ruba un sorriso ai detenuti, ma anche al personale della polizia penitenziaria che si è adoperata al meglio perché questa storica manifestazione riuscisse nel migliore dei modi. “Siamo orgogliosi di poter ospitare questo storico evento nella nostra struttura – afferma durante la conferenza stampa il comandante del carcere, il Vice Commissario dott.ssa Annalisa Gadaleta – Grazie alla sua rilevanza mondiale sarà più facile far passare il messaggio che il carcere non è un microcosmo isolato rispetto alla società civile che sta fuori, ma le due realtà devono interagire. E’ un messaggio di integrazione: i detenuti che balleranno provengono da paesi, culture e religioni diverse eppure sono riusciti a collaborare insieme”.

L’ideatore del progetto Igor Nogarotto spiega che a spingerlo ad organizzare un simile evento è stata la figura carismatica di Papa Francesco: “Pur essendo ateo sento vicino a me Papa Francesco e il suo impegno affinché parole come perdono e misericordia divengano valori reali nella nostra società. Ho sempre visto la Chiesa e il carcere come due realtà simili, accomunate dal conservatorismo e dalla rigidità delle proprie regole interne. “Pope is pop” è una preghiera laica e multietnica per ringraziare un Papa che è al servizio della gente”. L’Arcivescovo di Ferrara Luigi Negri ricorda che la misericordia è un valore del tutto cristiano di cui Gesù Cristo è la personificazione: “L’uomo non può non fare l’esperienza del male: è una sua colpa atavica. Tuttavia Papa Francesco ci invita a ripensare al peso che diamo alla misericordia nella nostra vita. Ci sono religioni che passano l’esame e altre no. Questo di oggi è un evento storico che ci rende tutti più responsabili nel pensare che nessuno è fuori dalla misericordia di Cristo”.

I detenuti presenti all’interno della Casa Circondariale ferrarese sono circa 350, di cui oltre un centinaio di origine straniera, e a loro, nell’ambito di un programma di sostegno giuridico-pedagogico, è offerta la possibilità di studiare e diplomarsi presso la sezione della Scuola Alberghiera e di Agraria presente all’interno della struttura. Ci sono detenuti iscritti all’Università, altri che si impegnano nei laboratori interni di teatro, pittura e musica, altri ancora che curano il giornale del carcere “Astrolabio”. L’opera di umanizzazione e rieducazione, nella quale credono fortemente Paolo Malato, direttore del carcere, e il comandante Gadaleta, passa anche attraverso eventi come quello a cui si è assistito oggi. Comuni cittadini, detenuti, guardie carcerarie tutti intenti ad applaudire un’esibizione così piena di energia e coinvolgimento emotivo da richiedere il bis.

Oggi anche le robuste porte del carcere non hanno potuto niente davanti alla forza inarrestabile della musica e dell’allegria, in un anticipo di normalità che è ciò che sognano tutti i detenuti.

(Tutte le foto sono di Tommaso Trombetta)

Clicca sulle immagini per ingrandirle

Detenuti impegnati nel flash mob “Pope is Pop”
Il flash mob regala sorrisi
Momento del flash mob
Il Comandante Carcere Di Ferrara Vice Commissario Annalisa Gadaleta

La storia di Valentina Sgarbi
A diciotto anni pubblica il primo libro trasformando il suo sogno in realtà

Fin da bambini abbiamo tutti sogni o aspirazioni un po’ particolari: “Da grande vorrei fare la cantante, l’astronauta, la ballerina, l’attore…”. Chi non ha mai pronunciato una frase simile? Poi cresciamo e tendiamo a riporre i sogni che mirano alto nel famoso cassetto.
Valentina, nata a Ferrara nel 1997, ha detto: “Da grande vorrei fare la scrittrice” e così, a soli diciotto anni vede pubblicato il suo primo libro. Martedì scorso, poco prima della presentazione del suo libro, tenutasi in Biblioteca Ariostea, ci ha concesso una intervista, parlandoci di lei e del suo libro ‘Domani sarà un’altra possibilità. Mañana serà otra possibilidad’.

“Quando scrivo c’è sempre un groviglio che devo andare a snodare e questo avviene soltanto quando mi lascio andare alla bellezza delle parole”. Valentina è molto determinata nonostante l’evidente emozione per la sua prima conferenza. Una ‘penna matura’ come la definisce il suo editore (Faust Edizioni, che ha sede proprio a Ferrara) dato che nel suo libro tratta temi di evidente spessore quali la morte, la tossicodipendenza, la paura di vivere, accentuando così quelle sensazioni tipiche dell’adolescenza per le quali i ragazzi si sentono spaesati, non adatti alle situazioni, in una fase di passaggio e di conflitto dove ‘definirsi’ risulta veramente arduo.

Valentina ha superato questa fase assieme ad Amanda, protagonista del suo libro, nonché una sorta di alter ego. “La sua sofferenza era la mia sofferenza, le sue emozioni erano quelle che in quel momento stavo vivendo io, anche se non ho mai vissuto sulla mia pelle le sue vicende” – si lascia sfuggire un “per fortuna” dato che Amanda, nel romanzo, deve affrontare situazioni notevolmente pesanti.
“Ho iniziato a scrivere a 15 anni, mi piaceva scrivere, ma ovviamente mai avrei pensato di arrivare alla pubblicazione. Era semplicemente un mi piace, lo faccio!”. Un grande incentivo è arrivato da una sua insegnante di lettere delle superiori che ricorda con molto affetto: “Un giorno le dissi ‘Prof, vorrei scrivere un libro’ e lei mi rispose che secondo lei potevo farcela. Anche lei, come me, probabilmente non era troppo convinta, ma le piaceva come scrivevo e questo per me è stato un forte impulso per dire ‘adesso scrivo, poi vediamo come va’ ”

Curioso, il fatto che gli ultimi a sapere della vicenda siano stati i suoi genitori: “Sono andata da mio padre e gli ho chiesto se poteva darmi dei soldi. Giustamente, mi ha chiesto il motivo e io gli ho risposto che dovevo pubblicare il mio primo libro. L’unico ostacolo rimaneva solo far leggere il romanzo ai suoi: “Come gliel’ho detto sono rimasti sconvolti, poi hanno deciso di darmi una mano, ovviamente hanno letto il mio libro e ne sono rimasti entusiasti.”
Lo scrivere risultava molto difficoltoso per Valentina soprattutto nell’ultimo anno di superiori dove, tra esami e studio ha dovuto lasciare il suo libro in stand by concludendolo solo dopo gli esami di stato. Questa mancanza di tempo l’ha allontanata, a malincuore, anche dalla lettura della sua scrittrice preferita Valentina d’Urbano, colei che l’ha fatta appassionare al mondo della scrittura.Il primo libro che porta nel cuore è infatti “Il rumore dei tuoi passi” scritto dall’omonima, ‘divorato’ da lei in soli tre giorni.

Adesso invece, con l’avvenuta pubblicazione, Valentina rivela che la sua paura più grande è quella di puntare troppo sul libro: “Mi sono iscritta all’università qui a Ferrara ma non sto frequentando perché con l’inizio delle presentazioni del mio libro, ho altro per la testa. Ma non vorrei ritrovarmi un giorno, bloccata perché i miei romanzi magari non hanno preso piede e, senza una laurea”
A questo proposito rivela che ‘bolle altro in pentola’, anticipando così la stesura di un nuovo libro anche se non si espone troppo sull’argomento, ammettendo che l’andamento dei suoi scritti cambia svariate volte. “So la storia principale, ma non conosco ancora che piega prenderà”. Ecco perché quando ho iniziato a scrivere ‘Domani sarà un’altra possibilità’ il romanzo doveva terminare con un nuovo amore per la protagonista, cosa che invece alla fine non avviene.”
L’ispirazione per i suoi testi è sempre dietro l’angolo. “Scrivo in camera, a mano, poi trascrivo a computer. Ma sto attenta a tutto quello che ho attorno, anche solo ad una sensazione, perché sono proprio quelle che mi aiutano a scrivere, non tanto i fatti che succedono”

Relatrice alla prima presentazione, è una delle sue professoresse di lettere dell’ultimo anno, la professoressa Crepaldi, che parla di Valentina con particolare stima e ammirazione: “Tantissimi adolescenti scrivono, ma il più delle volte si fermano. In lei c’è stata quella determinazione di passare dallo sfogarsi sul diario personale, al raccontare una storia da condividere. Con Valentina, le nostre parole di insegnanti non sono cadute nel vuoto e oggi, posso vedere il concretizzarsi di un sogno”.
Nei loro messaggi, la docente spesso inseriva citazioni di Svevo, una delle quali è divenuta il promemoria personale di Valentina “Fuori dalla penna non c’è salvezza”.

A quanto pare non è l’unica citazione che la giovane scrittrice abbia seguito alla lettera “la penna mi aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere -Altra massima di Svevo-, ecco perché mentre io scrivevo, Amanda rifletteva con sé stessa, e la sua ‘Renaissance’ è stata anche la mia svolta”.
Concludendo, nella speranza che questa giovanissima scrittrice possa continuare ad inseguire i suoi sogni e realizzarli, il suo appello ai suoi coetanei è: “Se credete in qualcosa, seguite il vostro sogno, per quanto possa sembrarvi irraggiungibile” e riguardo al suo appena realizzato, incita: “ Se volete svelare i misteri che avvolgono Amanda… allora leggete il mio libro!”

Fuggito dai Testimoni di Geova, ora racconto tutto:
“Le peccatrici colte in flagrante costrette a confessare ogni dettaglio”

Disassociarsi da una setta significa rimanere soli, tagliare i ponti con la famiglia e gli amici. Significa non avere più un passato, rinnegandolo a te stesso o nascondendolo a chi ti è vicino nella tua nuova vita. Significa dover ricordare un bambino che giocava solo nelle scale dei condomini nei quali la mamma era andata a predicare e a cui viene fatto credere che l’isolamento lo preservi dalla contaminazione “delle cattive compagnie” (cioè tutti coloro che sono fuori dalla setta).

Questa è la storia di Emidio Picariello, informatico di professione, e autore del libro “Geova non vuole che mi sposi”, nel quale ha raccontato la sua esperienza di vita all’interno della setta dei Testimoni Di Geova e di come, in seguito ad un lungo percorso di ricerca di sé stesso, se ne sia disassociato.

Cosa significa essere “disassociato”? Cosa comporta a livello sociale e umano?
Dipende molto da quanto presto sei uscito. Sei solo, nessuna delle persone con cui sei cresciuto ti rivolge la parola. Io nel frattempo mi ero coltivato qualche amicizia al di fuori dei testimoni di Geova, avevo praticato un po’ di mondo, quando ero solo “poco spirituale” e non ancora dissociato (tecnicamente non sono stato disassociato, ma me ne sono andato io, ma è un tecnicismo, mi avrebbero buttato fuori comunque). Quindi riparti da zero. Però è anche una occasione. Ti fai gli amici che vuoi, crei i legami che hanno valore. Credo che si dia più importanza alle relazioni, dopo averle perdute tutte. Le famiglie invece reagiscono secondo la loro sensibilità. L’indicazione dei testimoni è quella di isolare il più possibile il disassociato per aiutarlo a capire che è un peccatore e quindi aiutarlo a pentirsi. Poi ognuno interpreta secondo la propria sensibilità. Comunque i rapporti si riducono, nel mio caso i miei genitori non mangiano con me, per esempio. Alcuni non parlano del tutto più con i loro figli, altri sono più aperti. Poi ci sono alcuni disassociati che sono usciti da testimoni di Geova in modo più traumatico di altri, o che comunque trovano giusto o necessario dedicare la propria vita all’antiproselitismo. Io credo che non facciano del bene né a sé, né a coloro che li osservano. L’unica strada possibile è quella di rifarsi una vita. Il che può sembrare un controsenso, detto da me che ne sto scrivendo, ma io credo di essermi ritrovato a parlare di questo un po’ per caso.

Aiutaci a capire: come può essere tratteggiata, al di fuori dei soliti cliché, la figura del Testimone di Geova ligio alla dottrina?
Quello che a volte sfugge è la pervasività dell’essere testimone di Geova. Non vuol dire semplicemente andare in giro a predicare ogni tanto, ma vuol dire avere uno stile di vita preciso con un sacco di regole sull’abbigliamento, sull’alimentazione, sulla salute (in questi due casi è una sola regola: niente sangue). Insomma essere testimoni di Geova non vuol dire essere cattolici, è più raro che ci siano sfumature. I testimoni di Geova non praticanti di fatto non sono testimoni di Geova.

Si tratta di una setta chiusa? Come sono regolati i rapporti con chi ha una fede diversa?
Credo che sulla chiusura non ci sia timore di smentita. Le pubblicazioni dei testimoni di Geova parlano chiaramente di come le cattive compagnie corrompano le utili abitudini. Mio padre mi diceva sempre che le cattive compagnie sono quelle che non hanno le tue stesse utili abitudini, come predicare o andare in sala del Regno. Dopodiché io avevo una amichetta che abitava nel mio palazzo e l’ho frequentata fino alla preadolescenza, ma è stata l’unica eccezione: niente pomeriggi di gioco dai compagni di scuola, niente feste con gli amici non testimoni, niente di tutto questo. Restavamo spesso fra noi, il sabato e la domenica, con altri testimoni di Geova. Poi le attività di predicazione e adunanze assorbivano molto del nostro tempo. Per il resto la dottrina è chiara: viviamo nel mondo ma non facciamo parte del mondo, dicono.

Ho letto che non sono ammessi i rapporti pre matrimoniali, men che meno l’omosessualità: come reagisce la comunità quando si viene a scoprire che una persona che fa parte della comunità “ha peccato”?
Se a scoprirlo è un membro della comunità, va dal peccatore e gli chiede di confessarsi agli “anziani” della congregazione. Se il peccatore non lo fa allora sarà chi l’ha scoperto a fare da delatore. A quel punto c’è un “comitato giudiziario” durante il quale vengono chiesti i particolari del peccato. La cosa può essere molto imbarazzante, se si pensa che gli anziani sono tutti uomini e casomai il peccatore è una ragazza giovane costretta a raccontare nel dettaglio le proprie prime esperienze. Se c’è pentimento, ci saranno soltanto delle sanzioni (il fatto di non poter rispondere pubblicamente alle domande che vengono fatte alle adunanze, il fatto di essere “segnato” e quindi di non potere essere frequentato a scopo di svago, ma solo a scopo spirituale, per esempio). Se non c’è pentimento si viene disassociati. La disassociazione comporta che nessuno ti può più rivolgere la parola. Se decidi di provare a farti riassociare devi andare in sala del regno e sederti nelle sedie in fondo, entrare quando è cominciata, non parlare con nessuno, uscire prima che finisca, fino alla riassociazione che arriva al più presto dopo sei mesi di questo comportamento. L’omosessualità è peccato. L’omosessuale deve praticare la castità, se vuole essere testimone di Geova. Credo che nessun commento si possa aggiungere a questo articolo dal loro sito ufficiale. https://www.jw.org/it/pubblicazioni/riviste/g201012/spiegare-punto-di-vista-bibbia-omosessualit%C3%A0/

Quanto la tua educazione è stata influenzata dall’appartenenza a questa setta? Immagino il non poter partecipare banalmente alla festa di compleanno di un compagno di scuola…
Molto, nel male ma anche nel bene. Ho molto sofferto l’isolamento e la difesa della sospensione dell’incredulità – quella cosa che il lettore prova mentre legge un romanzo, e che invece il testimone di Geova abita quotidianamente. Essere un bambino che crede così fermamente nel fatto che il diluvio sia un avvenimento storico e al contempo che non partecipa a qualunque cosa abbia a che fare con Natale, Compleanni e feste di qualunque tipo, non è facile. Dall’altra parte credo di dovere parte del mio eloquio fluente e della mia faccia tosta agli anni passati a prepararmi per la predicazione e predicando.

Sei nato da dei genitori Testimoni di Geova o si sono convertiti in età adulta?
Mio  padre è diventato testimone di Geova intorno all’adolescenza, periodo durante il quale stava cercando una sua dimensione religiosa, esplorando soprattutto le varie religioni protestanti. In questa sua ricerca si è imbattuto, se non fra i primissimi, sicuramente fra i primi in Italia, nei testimoni di Geova arrivati dagli Stati Uniti e l’hanno in qualche modo conquistato. Lui ha poi convertito tutta la sua famiglia. Mia madre invece fu contattata in predicazione da quella che sarebbe poi diventata sua suocera. Quindi possiamo dire che quando sono nato io tutta la mia famiglia era ben strutturata all’interno dei testimoni di Geova.

Mi racconti aneddoto o ricordo di te bambino…
Il mio principale parco giochi erano le scale dei palazzi dove mia madre predicava. Certo, ogni tanto scendevo anche in giardino con gli altri bambini del palazzo, ma prevalentemente passavo i pomeriggi con mia madre e un’altra testimone di Geova e predicavamo. Loro predicavano, io facevo lo scivolo sulle scale, prendevo a calci i sassi, giocavo con quel che avevo.

Hai mai fatto proselitismo? Qualche aneddoto?
Quando ho finito la seconda media ero già un testimone di Geova battezzato, così decisi che volevo diventare un pioniere regolare. Era una cosa piuttosto atipica per un bambino della mia età, perché consisteva nell’impegnarsi a predicare 3 ore al giorno per tutto l’anno. L’ho fatto per 5 anni, fino alla 4 superiore compresa. Quindi ho molto tentato di fare proseliti, ma non ci sono riuscito. Paradossalmente la cosa più vicina al proselitismo l’ho fatta involontariamente anni dopo, dopo l’uscita del libro, quando una ragazza che voleva uscire dai testimoni di Geova mi ha contattato. Voleva sapere se era possibile essere normali, dopotutto. Mi sono limitato a spiegarle che sì, l’alternativa a essere testimone di Geova può essere semplicemente non esserlo e non è automatico diventare un loro detrattore strampalato e dedicato ad attaccarli. Ce ne sono, però, e ai testimoni di Geova fanno credere che l’unica alternativa a essere testimone è quella.

Come si coniuga il far parte dei Testimoni di Geova e far parte della società attuale?
È soggettivo. Ci sono persone che dedicano tutta la vita ai testimoni di Geova e lì concentrano tutte le loro possibilità di carriera e tutti i loro interessi. Queste non hanno davvero nessun contatto con l’esterno. Poi ci sono persone un po’ più moderate. Le prime fanno carriera nei testimoni, le altre meno. In generale se frequenti non testimoni di Geova tendenzialmente non lo sbandieri ai quattro venti. Se no sei “poco spirituale” e quelli poco spirituali mal si integrano con quelli “più spirituali”. Quelli “più spirituali” aiutano quelli che lo sono meno. Le dinamiche all’interno di un gruppo chiuso come quello della “congregazione” sono da manuale di psicologia sociale.

Come è il rapporto tra Testimoni di Geova e il “potere” /carriera nella nostra società?
Credo che sia già emerso da quello che si è detto fin qui. I testimoni di Geova sono carrieristi come tutti, chi più, chi meno. Solo che trovano sfogo per le loro ambizioni all’interno dell’organizzazione. Personalmente ho conosciuto pochissime persone che avessero un ruolo di rilievo nella società esterna.

Come e quando è giunta la crisi? Immagino sia un processo lungo e laborioso…C’è stato un episodio scatenante?
La crisi è un processo lungo. Non per sempre l’incredulità può essere sospesa. Poi è come una crepa, se metti in discussione qualcosa cominci a mettere in discussione tutto, non puoi scegliere a cosa credere. L’episodio scatenante per quel che mi riguarda – e per molti che sono usciti nella post adolescenza o in quel periodo hanno cominciato il processo – è stato il sesso. Ho trovato una ragazza, sempre testimone, ma che non era particolarmente ligia alle regole. Poi ci sono stati ripensamenti, passi indietro, passi avanti. C’è però un momento in cui ho detto: sì, è difficile, ma io non ci credo. A quel punto il processo è irreversibile. Se hai pensato una volta sola, a voce alta “ma io non ci credo” ormai devi solo trovare la tua strada per uscirne.

Ci sono delle aperture dottrinali rispetto all’attuale evoluzione sociale?
Non credo. Vedo una certa riduzione di impegno, le adunanze sono diventate due giorni a settimana, dai tre che erano, Quando ero bambino le assemblee estive duravano 1 settimana, poi 4 giorni, adesso credo 3. C’erano sessioni serali, adesso durano poche ore al giorno. I pionieri regolari facevano 90 ore al mese, ora credo ne facciano una settantina. Da un punto di vista dottrinale invece non credo sia proprio cambiato niente. Cioè, ci sono variazioni sull’attesa della fine, del resto quando ero bambino dicevano che sarebbe venuta prima che le persone nate nel 1914 fossero diventate vecchie. Ora che sono tutte morte – o quasi – diventa difficile difendere quella posizione, ma hanno trovato qualche escamotage logico-linguistico per allungare la “generazione” del 1914. Però da un punto di vista di regole di comportamento le cose non cambiano mai.

Geova non vuole che ti sposi…anche tua mamma continua ad opporsi?
Ormai mi sono sposato e ho fatto due figli, mi sa che qualunque opposizione non sia più praticabile. Ovviamente quello era solo un titolo di un blog e poi di un libro, una estrema sintesi: più che altro i miei mi avrebbero voluto testimone di Geova, ma io non lo sono e non lo ero quando mi sono sposato, così nessuno dei miei parenti testimoni è venuto al mio matrimonio. Per un periodo mia madre ha sperato di poter convertire mia moglie, credo che adesso abbia capito che anche quella strada è impraticabile. Per loro se non sei testimone di Geova stai male, alla fine il paradosso è che non avere nessun contatto con te, lo considerano un segno di affetto. Dopotutto ho fatto finta per anni di non essere mai stato testimone di Geova, di non averci niente a che fare. Ma poi con il matrimonio, il fatto che i miei non sarebbero venuti ha riaperto vecchie ferite e soprattutto mi ha costretto a un fatto pratico: dovevo spiegare ai miei nuovi parenti che cosa stava succedendo. Solo per questo ho aperto il blog (www.ildisassociato.net), perché a quel punto era necessario raccontare tutta la storia.

E’ uscito da poco nelle sale “ragazza del mondo” che racconta la vicenda di una ragazza che , come te, ha deciso di lasciare la comunità di Geova. Cosa ne pensi?
Come si dice in questi casi ho un piccolo conflitto di interessi: ho fatto una consulenza per loro. Volevano accertarsi che nella sceneggiatura non ci fosse nessun errore marchiano. Quando ho visto il film avevo un po’ paura che non fossero riusciti a restituire il clima, la parte emotiva, lo spirito. Invece devo dire che sono rimasto davvero piacevolmente sorpreso, tutto è estremamente accurato. Sicuramente se volete sapere qualcosa in più su come funzionano davvero i testimoni di Geova, andare a vederlo può essere una buona idea.

L’EVENTO
Con la rassegna “Innesti” si riflette sulla salvaguardia dell’ecosistema marino

Foto di Patrizio Campi
Foto di Patrizio Campi

Un memory game pieno di pesci, un gioco in barattolo per imparare a conoscere ed evitare di rilasciare rifiuti nelle acque del mare: con queste e altre attività si è svolta, sabato 26 e domenica 27 Novembre, a Villa Bighi, la rassegna INNESTI, a cura di GruppoZero. Nella prima giornata si è voluto dedicare lo spazio del racconto a Sea Shepherd Italia, organizzazione internazionale impegnata nella lotta alla distruzione dell’habitat naturale e il massacro delle specie selvatiche negli oceani del mondo intero al fine di conservare e proteggere l’ecosistema e le differenti specie. La mattina del sabato è stata dedicata ai bambini con lo svolgimento di laboratori a tema, mentre il pomeriggio è stato dedicato a un pubblico adulto, ha visto i volontari di Sea Shepherd, giunti a Copparo da diverse parti della regione, impegnati nell’inaugurazione di una mostra fotografica che illustra le attività sul campo (in mari italiani e acque internazionali) e nella presentazione delle campagne attive a Siracusa e nel santuario “Pelagos” dove è in corso un’attività di foto-identificazione dei cetacei, importantissima per la conservazione e la ricerca scientifica. A seguire un dialogo che ha visto coinvolti Sea Shepherd e le Guardie Ittiche Volontarie provinciali, impegnate quotidianamente nella salvaguardia delle acque del nostro territorio, in un confronto sulle pratiche che ciascuno mette in atto per contrastare la pesca di frodo. Ha chiuso il dibattito la presentazione, a cura del ricercatore Marco Caselli, della mostra “Pesci? No, grazie, siamo Mammiferi”, in corso al Museo di Scienze Naturali di Ferrara.

Nel corso della rassegna diversi rappresentanti di giovani realtà associative e imprenditoriali sono stati chiamati a dare testimonianza di come si possa stare sul mercato pur con un ridotto impatto sull’ambiente e sostenendo stili di vita più sostenibili: Il Turco, Witoor, EkWine, Arvaia e Azienda Agricola BioPastoreria. Al terminare la rassegna di due giorni, è stato proiettato, in collaborazione con Cinema Boldini e ARCI, Voices of Transition, un un docu-film di Nils Aguilar sui problemi dell’agricoltura industriale, che esplora il motivo per cui l’attuale modello industriale non è all’altezza del compito di nutrire e sostenere la crescita del Pianeta.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
L’indice della felicità

Che non si viva solo di prodotto interno lordo ormai è risaputo nonostante la sua tenace resistenza. Un po’ meno conosciuto è il rovesciamento del mondo se si cambia prospettiva, se la prospettiva è quella dell’Happy Planet Index. L’indice della felicità da nessuno promessa, perché si sa che la felicità non è di questa Terra, condanna biblica ancestrale, ma guarda caso la felicità si può e si deve perseguire.
Il Costa Rica, il Messico, il Vanatu e la Tailandia sono in cima alla classifica dell’Happy Planet Index 2016. Paesi occidentali considerati a livello mondiale come i più ricchi e benestanti si collocano invece molto in basso. Al contrario, diversi paesi dell’America Latina e della regione Asia-Pacifico sono ai primi posti per aspettative di vita relativamente alte e condizioni di benessere con un basso impatto ambientale.
L’Happy Planet Index (HPI) misura ciò che conta: il benessere sostenibile per tutti. Ci dice quanto bene le nazioni stanno operando per il raggiungimento di una vita lunga, felice e sostenibile da parte dei loro cittadini.
L’Happy Planet Index fornisce una bussola per guidare le nazioni, e dimostra che è possibile vivere una vita buona senza depredare la Terra.
L’Happy Planet Index combina quattro elementi per calcolare l’efficienza con la quale gli abitanti dei diversi paesi utilizzano le risorse ambientali per garantirsi una vita lunga e felice: il benessere, l’aspettativa di vita, la disuguaglianza dei risultati, l’impronta ecologica.

Happy Planet Index formula:
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Il mondo non è certo felice e la felicità è sempre meno nella prospettiva delle persone, recenti indagini rivelano che la maggioranza delle persone sia negli Stati Uniti che in Europa pensa che la loro vita non stia migliorando. All’orizzonte dei paesi dell’opulenza non c’è la felicità, ma crisi, instabilità, disuguaglianze sempre più crescenti e la sfida onnipresente del cambiamento climatico.
Una causa di tutto ciò è la priorità testarda data al PIL, alla crescita economica come obiettivo centrale dei governi.
In effetti, la crescita del PIL di per sé non significa una vita migliore per tutti, in particolare nei paesi che sono già ricchi. Non riflette le disuguaglianze nelle condizioni materiali tra le persone in un paese. Non esprime il valore delle cose che contano davvero per la gente come le relazioni sociali, la salute, il loro tempo libero. E soprattutto, una crescita sempre più economica non è compatibile con i limiti delle risorse naturali.
L’Happy Planet Index è una visione alternativa, ci fornisce un quadro più chiaro della vita delle persone. Lo fa misurando quanto tempo la gente vive, come le persone stanno vivendo le loro vite, catturando le disuguaglianze nella distribuzione delle risorse senza fare affidamento sulle medie.
Nell’Happy Planet Index l’Italia si colloca al sessantesimo posto su centoquaranta paesi del mondo. Alta aspettativa di vita, tra le più alte nel mondo, dopo il Giappone, punteggio medio in materia di benessere, ma ciò che incide come per tutti i paesi sviluppati è l’impronta ecologica, la cura per la tutela dell’ambiente, il suo sfruttamento per produrre ricchezza che ci vede in profondo rosso, in compagnia con la Svezia che pur avendo indici eccezionali per aspettativa di vita, benessere, equità sociale ha un altissimo indice di impronta ecologica.
Le nazioni occidentali ricche registrano livelli alti di speranza di vita e di benessere, ma non raggiungono complessivamente punteggi elevati nell’Happy Planet Index a causa dei costi ambientali che comporta il loro sviluppo economico. Gli Stati Uniti si collocano a 108 posti di distanza dal primo della classifica che è il Costa Rica, totalizzano un punteggio abbastanza alto per aspettativa di vita e benessere, ma con una impronta ecologica che è una delle più pesanti del mondo.
Ciò che emerge dall’Happy Planet Index è ciò a cui accennavamo all’inizio, l’idea di un capovolgimento del mondo, dei nostri punti di vista, paesi distanti da noi, dalle nostre culture, da come siamo stati abituati a leggere il mondo ci offrono, molto di più del nostro sistema occidentale, della nostra cultura occidentale, diversi elementi per riflettere, per costruire economie sostenibili, che offrano un benessere relativamente alto, una vita felice di lunga durata senza costi troppo elevati e irreversibili per l’ambiente.
Sono i paesi dell’America latina, dell’Asia e del Pacifico, solo poco tempo fa ancora in via di sviluppo, forse il mondo sta cambiando direzione e noi continuiamo a guardare dalla parte sbagliata.

L’EVENTO
Venezia punta sulle ‘botteghe’:
in mostra le vicende dei Cadorin.
Storie, opere, manufatti…

“Una storia intima e pubblica al tempo stesso, fatta di sentimenti, opere d’arte, avvenimenti storici e vicende culturali nella Venezia tra Otto e Novecento, che viene riannodata con una mostra negli ambienti unici di Palazzo Fortuny a Venezia (a cura di Daniela Ferretti fino al 27 marzo 2017) seguendo il filo dei ricordi dell’ultima testimone e grande erede della dinastia dei Cadorin, architetti, scultori ed ebanisti, pittori, fotografi, restauratori, animatori dei più vivaci salotti artistici e culturali.

di Maria Paola Forlani

Un uomo sale gli scalini di un ponte, poi, aspirato da una calle, si fonde nella città. Altri passano, profili d’ombre cinese su uno sfondo che a volte lascia indovinare, inattese, delle sagome di tempio indiano. Una porta si socchiude e lascia apparire un corpo di donna. Al piano alto, un uomo alla finestra osserva, immobile, una piazza deserta.” (Jean Clair)

Vite indissolubilmente intrecciate, nonni, figli, cognati, nipoti, spose e mariti; vite dedicate all’arte in una città che con la sua bellezza ha saputo travolgerli, trasmettendo loro il senso della meraviglia. Architetti, scultori ed ebanisti, pittori, fotografi, restauratori, animatori dei più vivaci salotti artistici e culturali.
A Venezia, l’antica istituzione della bottega, che sembra ormai appartenere al passato, ha profonde radici; sin dal Medioevo artefici, assistenti e apprendisti lavorano insieme all’opera comune, dando vita a quegli opifici dove nascerà l’arte dell’Occidente, l’Ars pingendi come la conosciamo. Il Classicismo, il Romanticismo poi, ridurranno poco a poco il ruolo e comprometteranno l’esistenza stessa delle botteghe; le regole delle Accademie e più tardi la libera ispirazione dell’artista soppianteranno gli antichi mestieri. L’artigiano diventa artista, il genio creatore pretende rimpiazzare le antiche conoscenze dei saperi codificati. L’estetica delle avanguardie si costruirà come reazione alla disciplina della bottega. Tra le due guerre tuttavia, il richiamo all’ordine fu segnato in Europa e negli Stati Uniti da un revival neoclassico e dal ritorno al bel mestiere, che incarneranno il tentativo di ritrovare quel “mestiere perduto” evocato da Lévi-Straus in un celebre saggio.
I Cadorin, provenienti da Pieve di Cadore (come Tiziano) ma già nel XVI secolo trasferiti a Venezia, per tre secoli erano stati una presenza costante nelle vicende d’arte della città lagunare; un protagonismo che pareva essersi interrotto nel 1848 quando venne chiusa l’ultima delle sette botteghe della Serenissima. Fu solo una parentesi: a riprendere la conduzione dell’atelier di famiglia, qualche decennio più tardi e fino al 1925, fu Vincenzo, grande scultore e intagliatore formatosi all’Accademia di Belle Arti e presto a capo di un’impresa che contava oltre 40 maestranze, chiamata a lavorare per i Savoia e per D’Annunzio, per chiese, case e palazzi e partecipe alle esposizioni della Biennale sin dalla sua formazione.

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Con Vincenzo e sua moglie Matilde, dalla casa-bottega di fondamenta Briati, ricomincia una storia posta sotto l’egida dell’arte che attraversa altre tre generazioni e tante diverse personalità – i figli Ettore e Guido Cadorin scultore e pittore, l’architetto Brenno del Giudice, il fotografo Augusto Tivoli e la figlia pittrice Livia, i liutai Fiorini – fino a Ida Cadorin in arte Barbarigo e a Zoran Music, uniti dalla vita e dalla passione per la pittura.
Una storia intima e pubblica al tempo stesso, fatta di sentimenti, opere d’arte, avvenimenti storici e vicende culturali nella Venezia tra Otto e Novecento, che viene riannodata con una mostra negli ambienti unici di Palazzo Fortuny a Venezia, a cura di Daniela Ferretti fino al 27 marzo 2017 (catalogo ed. Antiga), seguendo il filo dei ricordi dell’ultima testimone e grande erede di questa dinastia e grazie alle emozioni trasmesse dai suoi racconti.
Ida Barbarigo ha raccolto, circondandosene negli anni, opere e testimonianze storiche della famiglia che sono in realtà uno straordinario patrimonio d’arte e conoscenza.
Oltre 200 di questi lavori sono esposti in quest’occasione nella casa-museo di Mariano Fortuny, vero crocevia di arti, lungamente frequentate in gioventù da Ettore e Guido Cadorin, a rievocare un lessico familiare di cui i visitatori ne vengono eccezionalmente resi partecipi, quasi come amici.
Ecco l’odore dei truccioli del Cirmolo: questa frase ripetuta in famiglia “il talento pare che faccia vento”; i versi della “Mille e una notte” letti in francese dalla mamma Livia Tivoli o il giornale satirico che sbeffeggiava la passione per le belle donne dello zio Ettore, sempre in giro per il mondo – “Il nostro corrispondente a Parigi sulle arti non possiamo trovarlo perché passa giorno e notte a osservare le gambe di Isadora Duncan, l’incorporabile danzatrice”. Ecco gli amici di papà Guido che “sapeva fare di tutto. Le arti decorative, i mobili, i vetri, i tessuti, i mosaici ma soprattutto la pittura”: da Malipiero a Pirandello, dai pittori veneziani Nono, Ciardi, Favretto e altri fino a Kokoschka. Ecco il nonno di Ida per parte materna. Augusto Tivoli grande fotografo – ma “ i Tivoli non combinano niente” – e la nonna Irene appartiene ai Fiorini, grande famiglia di liutai bolognese tanto che fu il prozio Giuseppe Fiorini a donare, nel 1930, gli strumenti e gli archivi di Stradivarius al museo di Cremona. Ecco infine il viaggio a Parigi con Zoran, la sognata Parigi.
Su questa nuova trama si sono intrecciate altre memorie, prima fra tutte quella di Jean Clair. Accademico di Francia – chiamato a curare questa mostra nata da un’idea di Daniela Ferretti – che ha personalmente conosciuto Guido, Livia e Paolo e ancora Ida e Zoran di cui è stato grande amico, frequentandone le case e gli studi per più di quarant’anni. Sotto la sua magistrale supervisione le opere sono state puntualmente selezionate per documentare una straordinaria epopea artistica.
A Venezia siamo in un mondo tutto diverso da Vicenza, pur così vicina. Qui non c’è prospettiva, non c’è punto di fuga che organizzi la costruzione, né la vertigine dello spazio vuoto. Non ci sono neppure fabbriche sapienti alla Serlio, né teatro, né gioco illusionistico. Siamo dietro le quinte di una scena di cui non conosceremo mai la fine dello spettacolo. Scenari piani, non muri in prospettiva. Tutto scorre come le quinte di una scenografia, tutto cola come è di dovere in questo paese liquido, tutto scivola su un piano come scivolano l’uno sull’altro dei fogli sovrapposti. L’uomo appare allo scoperto solo per sottrarsi immediatamente allo sguardo. Nulla è fissato. Spazio labirintico della Serenissima.” (Jean Clair)

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I vaccini non sono una opinione

L’assemblea legislativa dell’Emilia Romagna ha varato questa settimana la legge che sancisce l’obbligatorietà dei vaccini per i bambini che vogliono frequentare le scuole d’infanzia (vedi http://www.ferraraitalia.it/lemilia-romagna-prima-in-italia-la-tutela-vaccinale-diventa-legge-111893.htm).
Sono passati secoli da quando nel 1796 Edward osservò che le mungitrici che contraevano il vaiolo bovino, e successivamente guarivano, non contraevano mai il vaiolo umano. Egli provò quindi ad iniettare del materiale preso dalla pustola di vaiolo bovino in un bambino di 8 anni e la malattia non si sviluppò. Circa 100 anni più tardi Louis Pasteur dimostrò che, per ottenere resistenza (immunità) alle infezioni, era necessario diminuire la capacità infettiva dei batteri e poi inoculare quei batteri inattivi negli organismi da proteggere.
Quello che, fino a poco tempo fa, era un dogma intoccabile, l’importanza vitale dei vaccini,non lo è più. Non solo: i vaccini sono sotto accusa quali dannosi per la salute e quindi da evitare.
Di tutti questi argomenti abbiamo parlato con il Dott.Paolo Minelli gia’ Direttore Unita’ Operativa Complessa di Pediatria Ospedale Maggiore, AUSL di Bologna.

Può darci un suo parere sulla legge in questione?
E’ la prima varata da una Regione italiana: per poter frequentare gli asili nido dell’Emilia-Romagna i bambini dovranno essere vaccinati. Nel ridisegnare i servizi 0-3 anni, la norma introduce come requisito d’accesso a quegli stessi servizi, pubblici e privati, “l’avere assolto gli obblighi vaccinali prescritti dalla normativa vigente”, e quindi aver somministrato ai minori l’antipolio, l’antidifterica, l’antitetanica e l’antiepatite B. La legge è dunque a tutela della salute pubblica e soprattutto dei bambini più deboli, quelli che per motivi di salute, immunodepressi o con gravi patologie croniche, non possono essere vaccinati e che sono quindi più esposti a contagi. La nostra Regione e’ la prima in Italia ad adottare questa misura, aprendo la strada, visto che altre Regioni intendono fare lo stesso . In Emilia-Romagna la percentuale di bambini vaccinati è notevolmente diminuita negli ultimi anni: dal 2014 è scesa al di sotto del livello di sicurezza del 95% e nel 2015 la copertura per le quattro vaccinazioni obbligatorie ha raggiunto il 93,4% rappresentando un potenziale rischio per la salute della collettività.

Le chiedo se i vaccini possono essere messi in discussione
LA VACCINAZIONE NON DEVE ESSERE UN’OPINIONE….L’avvento dei vaccini ha consentito di ridurre la diffusione di malattie gravi e mortali o addirittura di eliminarle dal mondo, come è avvenuto per il vaiolo. La riduzione delle infezioni, e dei conseguenti decessi e sequele invalidanti, è andata di pari passo con l’aumento delle coperture vaccinali. Pertanto il numero delle persone che hanno sofferto di queste malattie, o che hanno conosciuto direttamente persone da esse colpite, è andato diminuendo negli anni. Così, negli ultimi tempi, l’attenzione della popolazione, o per lo meno di una parte di essa,si è andata concentrando sui possibili effetti collaterali delle vaccinazioni: se un lattante sano viene vaccinato e ha dei problemi causati dalla vaccinazione, il confronto con i danni provocati dalla malattia non può più essere fatto e quindi è possibile osservare il fenomeno della riduzione dell’accettazione delle vaccinazioni.

Perché si è dovuta  promulgare una legge per rendere obbligatoria quella che è, o almeno fino a poco tempo fa era, una evidenza scientifica?
Una malattia, precedentemente eliminata grazie alla vaccinazione, può ritornare se la copertura vaccinale (ossia la percentuale di persone vaccinate in una popolazione) scende al di sotto di un certo livello critico, che a sua volta dipende dalla contagiosità della malattia (più una malattia è contagiosa, più alta deve essere la percentuale dei vaccinati in una popolazione per poter eliminare o almeno ridurre sensibilmente il numero di casi di quella data malattia infettiva); Nella nostra Regione si era evidenziato questo fenomeno purtroppo presente in misura diversa da Regione a Regione e da tipo di vaccinazione.
Si può smettere di vaccinare contro una malattia infettiva soltanto quando l’agente biologico che ne è responsabile scompare in tutto il pianeta (si estingue), cioè quando si è ottenuta la sua eradicazione.
Tale requisito d’accesso per i nidi è appunto stato introdotto perché i bimbi che frequentano delle comunità hanno un maggior rischio di contrarre malattie infettive, rischio che aumenta notevolmente in presenza di basse coperture vaccinali, dal momento che virus e batteri circolano maggiormente. Dunque, è importante vaccinare per proteggere tutti i bambini (in forza della cosiddetta “immunità di gregge”, o herd immunity), a maggior ragione i più deboli (immunodepressi, con gravi patologie croniche, affetti da tumori): per loro l’unica possibilità di frequentare la collettività è che tutti gli altri siano vaccinati.

Come ci si rapportava alla vaccinazione in passato? 
Alcuni pensano che le attuali elevate condizioni di nutrizione e di igiene della nostra popolazione, di per sé costituiscano un ostacolo alla diffusione delle malattie infettive o al manifestarsi delle complicazioni che a queste malattie possono far seguito. C’è chi ritiene che la scomparsa di malattie come la poliomielite o la difterite nei Paesi sviluppati non sia dovuta alla vaccinazione, ma alle migliorate condizioni di vita. Se questa spiegazione fosse corretta, la diminuzione dei casi di una malattia infettiva si verificherebbe gradualmente, senza bruschi cambiamenti. Se però andiamo a vedere che cosa è accaduto in Italia con la poliomielite, ci accorgiamo che non è così. L’inizio della vaccinazione estesa a tutti i bambini risale alla primavera del 1964. Nel 1963 i casi di poliomielite erano stati 2.830; nel 1964 erano già scesi a 842; nel 1965 erano 254; nel 1966 erano 148 e così via sino ad arrivare a 0 casi a partire dagli anni 80. Come avrebbe potuto il miglioramento delle condizioni di vita ridurre di 10 volte in soli 2 anni il numero dei casi di polio?
Supponiamo di non vaccinare nessun bambino in Italia per un anno. La soglia epidemica, cioè il numero di bambini non protetti necessario perché inizi un’epidemia, corrisponde all’incirca al numero dei nuovi nati in un anno. Quindi, sospendendo totalmente le vaccinazioni, nell’arco di 12 mesi avremo accumulato un numero di bambini non protetti sufficiente ad iniziare un’epidemia, con le conseguenti complicanze e decessi.

Quali sono, secondo lei, le cause del calo delle vaccinazioni?
Alcuni ritengono che il sistema immunitario del bambino sia fragile. Ma se così fosse, gran parte dei neonati non sopravvivrebbe alla moltitudine di virus, batteri e funghi che si trova a fronteggiare subito dopo la nascita. Alcuni oppositori delle vaccinazioni su questo punto si contraddicono: da una parte affermano che le infezioni come la pertosse, il morbillo e altre sono salutari perché rafforzano il sistema immunitario del bambino, dall’altra sconsigliano le vaccinazioni in quanto esse sollecitano il sistema immunitario. La contraddizione è ancora più evidente se si considera che la malattia naturale impegna il sistema immunitario molto di più della corrispondente vaccinazione. Ad esempio, non dovrebbe essere difficile cogliere la differenza tra la blanda infezione causata dal vaccino del morbillo (che quasi sempre decorre senza sintomi o con sintomi modesti quali un episodio febbrile alcuni giorni dopo la vaccinazione) e la malattia naturale. É pur vero che la somministrazione contemporanea di più vaccini può provocare un aumento sia delle reazioni locali (ossia gonfiore, arrossamento e dolore nella sede di somministrazione del vaccino) sia generali (soprattutto la febbre); tuttavia tale inconveniente è ampiamente compensato dalla riduzione degli accessi al servizio vaccinale, con conseguente minore stress per il bambino.
Nessun esame, al momento attuale, riesce a stabilire se un bimbo presenta un aumentato rischio di reazioni. Gli esami che al momento vengono consigliati dai sostenitori di questa tesi sono fra l’altro esorbitanti per numero, di grande difficoltà di esecuzione (non tutti i laboratori li offrono) e hanno costi proibitivi (a fronte di una sostanziale irrilevante correlazione fra i dati ottenuti e la somministrazione del vaccino). Nessuno studio ha mai dimostrato che gli additivi (adiuvanti e conservanti) alle dosi contenute nei vaccini possano determinare problemi di tossicità. I vaccini pediatrici attualmente disponibili non contengono thiomersal (e quindi non contengono mercurio). Da diversi anni il thiomersal non è più utilizzato come conservante; la sua eliminazione è stata dettata dal principio di precauzione, sebbene vari studi epidemiologici non abbiano dimostrato conseguenze per la salute dei bambini a suo tempo vaccinati con prodotti contenenti tale conservante.
Uno studio pubblicato in Gran Bretagna nel 1998 sulla rivista Lancet (Wakefield 1998) ipotizzava che il vaccino morbillo-parotite-rosolia (MPR) determinasse un’infiammazione intestinale con conseguente aumento della permeabilità dell’intestino, seguita dall’ingresso nel sangue di sostanze tossiche in grado di danneggiare il cervello e determinare l’autismo. Appena pubblicato, lo studio fu criticato perché presentava dei difetti: si basava soltanto su 12 bambini, non teneva conto del fatto che il 90% dei bimbi britannici era vaccinato con MPR alla stessa età in cui generalmente l’autismo è diagnosticato e infine non metteva a confronto la frequenza dell’autismo tra i vaccinati e i non vaccinati. Alcuni anni dopo una parte degli autori dello studio ne ritrattò le conclusioni, prendendo le distanze dallo studio con una dichiarazione pubblicata su Lancet. Durante un procedimento giudiziario condotto successivamente (United States Court of Federal Claims, 2007), un collaboratore di Wakefield, di nome Nick Chadwick, rivelò che i risultati dei test tramite RT-PCR erano stati volontariamente alterati da Wakefield. Che interesse aveva Andrew Wakefield a falsificare i dati? É emerso che il suo studio aveva ricevuto un finanziamento da parte di un gruppo di avvocati di famiglie con bambini autistici che intendevano intraprendere un’azione legale di risarcimento; in secondo luogo, Wakefield nel 1997 (quindi prima che fosse pubblicato lo studio) aveva depositato un brevetto per un nuovo farmaco che a suo dire fungeva sia da vaccino contro il morbillo sia da terapia contro le malattie infiammatorie intestinali (colite ulcerosa e malattia di Crohn). In una serie di articoli pubblicati sul British Medical Journal nel 2011, il giornalista Brian Deer ha dimostrato che Wakefield aveva costruito una vera e propria frode scientifica. A causa di questa vicenda è stato radiato dall’albo dei medici e non può più esercitare la professione in Gran Bretagna.

Quindi totale fiducia nei vaccini?
I vaccini sono tra i farmaci più sicuri che abbiamo a disposizione. Questa potrebbe sembrare una frase fatta, che i medici pronunciano per rassicurare i genitori. In realtà essa esprime una conclusione che si basa sui seguenti dati: a) i vaccini sono prodotti con tecnologie che ne permettono un’ottimale purificazione; b) prima di essere messi in commercio, vengono sottoposti a numerosi studi e ricerche per evidenziarne l’efficacia e la massima sicurezza (nessuno dimentica che si tratta di farmaci molto particolari, che vengono somministrati a milioni di bambini sani); c) gli esami per i vaccini non finiscono mai: anche dopo la loro commercializzazione viene studiata la loro sicurezza e il loro impatto sulla popolazione. In particolare per quanto riguarda la sicurezza, ogni volta che emerge l’ipotesi relativa ad un effetto collaterale importante, inizia una serie di studi epidemiologici che hanno lo scopo di verificare la fondatezza dell’ipotesi. Ciò è accaduto più volte negli ultimi anni (vedi per l’autismo e il mercurio).
Naturalmente i vaccini, come tutti i farmaci, possono essere accompagnati da effetti collaterali. A parte le reazioni banali come la febbre o l’irritabilità, sono descritte reazioni estremamente rare, come le reazioni allergiche gravi (shock anafilattico): quest’ultimo compare in genere immediatamente o entro pochi minuti dalla vaccinazione. É sufficiente, dopo la vaccinazione, rimanere per almeno 15 minuti nella sala d’attesa dell’ambulatorio vaccinale, che è attrezzato per il trattamento di questo tipo di reazioni. Le rarissime reazioni gravi che si verificano hanno generalmente una risonanza enorme, che induce a dimenticare i dati su malattie, complicazioni e morti che vengono prevenute con le vaccinazioni. Purtroppo a volte la nostra mente ci porta a temere maggiormente un rischio teorico o ipotetico piuttosto che un rischio reale e tangibile.
La percezione del rischio delle possibili reazioni ai vaccini dipende perciò anche dalla possibilità di confrontarle con i rischi derivanti dalla malattia. Al giorno d’oggi però quanti giovani genitori in Italia possono dire: “Ho visto di persona le conseguenze di una difterite, di una poliomielite”? Anche molti medici ormai non ne hanno mai vista una; mentre tra coloro che possono fare il confronto: reazione da vaccino/danni da malattia, è difficile trovare delle persone ostili alle vaccinazioni. Negli anni in cui non erano disponibili vaccini, si verificavano estese epidemie e, data l’elevata contagiosità delle tre malattie, praticamente nessun bambino suscettibile sfuggiva al contagio, sicché era più facile osservare le complicanze più temibili. Un altro fattore che può falsare la percezione dei rischi da vaccinazione è costituito dal verificarsi di un evento (specie se grave) temporalmente successivo a una vaccinazione, ma non causato dalla vaccinazione. Quello che conta non è che l’evento sia effettivamente correlato alla vaccinazione, ma la convinzione dei genitori che l’evento sia stato sicuramente provocato dalla vaccinazione. Se poi questa convinzione viene rafforzata dai mass media o dai movimenti anti-vaccinali, possono verificarsi cadute delle coperture vaccinali, con gravi conseguenze. Un altro fattore da considerare è che la vaccinazione viene praticata su di un bambino che sta bene, quindi per i genitori è a volte più difficile accettare una reazione al vaccino, rispetto ad es. ad un effetto collaterale provocato da un farmaco dato come terapia per una persona che è già ammalata. Non bisogna però dimenticare che con le vaccinazioni si ottengono 2 scopi: da un lato proteggiamo noi e il nostro bambino da malattie molto gravi; dall’altro, con la vaccinazione di tanti bambini, otteniamo anche la protezione della popolazione dalle epidemie, con riduzione dei rischi anche di quei pochi che, per scelta o necessità, non sono vaccinati (ciò vale per tutte le malattie prevenibili con i vaccini tranne il tetano, non essendo quest’ultimo trasmesso da persona a persona). Inoltre possiamo arrivare, per molte malattie, alla loro scomparsa dal pianeta. La vaccinazione è un diritto fondamentale di ogni bambino ed è stata individuata come una delle azioni necessarie per ottemperare alla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia (Durrheim 2010).

Ci aiuti a sfatare i falsi miti più famosi sui vaccini
Ecco i falsi miti
I vaccini non contengono ingredienti o additivi pericolosi
E’ falso che le malattie infettive stavano gia’ scomparendo prima della introduzione dei vaccini
E’ falso che i vaccini non proteggono il 100% dei vaccinati
E’ falso che i vaccini causino l’autismo
E’ falso che tutte le persone vaccinate contro l’influenza la prendano lo stesso
E’ falso che i vaccini siano inutili e che le malattie infettive siano state debellate dal miglioramento della qualita’ della vita
E’ falso che la maggior parte delle malattie prevenibili con la vaccinazione siano scomparse
E’ falso che sia dannoso somministrare tanti vaccini in una unica iniezione
E’ falso che troppi vaccini possono indebolire il sistema immunitario
E’ estremamente falso che l’infezione naturale sia meglio del vaccino

Una nuova occasione ecologica – progetti concreti, già attivi e produttivi

Da: Organizzatori

Una nuova occasione ecologica che, questa volta, coinvolgerà l’intera provincia ferrarese,
attraverso quelle realtà che si impegnano per cambiare il modo di fare economia, abbattendo l’impatto ambientale.

Oggi a Villa Bighi la due giorni dedicata a voci e visioni di sostenibilità ambientale
INNESTI è una rassegna di due giorni dedicata alla sostenibilità ambientale e alla conoscenza dello stato di salute del nostro Pianeta curata da GruppoZero all’interno ‘dell’incubatore di futuro’ del centro studi Dante Bighi. Innesti partirà oggi, sabato 26 e si concluderà domenica 27 novembre 2016 negli spazi di Villa Bighi a Copparo. Il programma è fitto e le attività di genere vario, dedicate sia al mondo dei piccoli, visti come veicolo di trasmissione al futuro di buone pratiche, sia a quello degli adulti, con diversi appuntamenti: laboratori per le scuole medie ed elementari, proiezione di documentari e film, tre tavole rotonde con ospiti locali e internazionali appartenenti al terzo settore – associazioni, no profit, ong -, una mostra fotografica e due ‘proposte enoiche’ a base di vini biodinamici e prodotti della terra a chilometrozero.

“Il centro studi Dante Bighi da sempre realizza progetti culturali aperti sostenendo la crescita culturale come fondamento del presente. Avrà, per questa occasione, una doppia veste: da un lato quella di luogo programmato per accelerare interessi e visioni critiche proposte da altri (in questa occasione dal giovane e neonato GruppoZero); dall’altro di centro culturale di riferimento per l’intera Unione Terra e Fiumi, i cui confini amministrativi sfumano di fronte a temi di più ampio valore che coinvolgono le comunità rivierasche roesi, passando per le terre copparesi fino ai paesaggi di Jolanda.” ha affermato Maurizio Bonizzi del centro studi Dante Bighi durante la presentazione dell’iniziativa alla stampa. L’ingresso ai diversi incontri è sempre gratuito, con la possibilità di lasciare un’offerta libera a sostegno delle iniziative del neonato GruppoZero del progetto Innesti. La scelta di attività a cui partecipare è ampia, il programma, che riproponiamo di seguito e si può consultare sul sito www.dantebighi.org/news, è articolato e pensato anche per dar voce a realtà del territorio regionale che fanno impresa in modo sostenibile, nell’ottica di dimostrare che un cambio di rotta é possibile.

Programma della rassegna
Sabato 26 Novembre 2016
h.9:00 – 10:30 / 10:45 – 12:00 ‘Pirati per un giorno!’ laboratorio per bambini 6 – 14 anni, (in 2 sessioni, la prima per le medie, la seconda per le elementari) a cura di Sea Shepherd. Attraverso storie, giochi e semplici attività, i ragazzi potranno rendersi conto che tutti noi possiamo fare la differenza e fare la nostra parte in difesa delle specie marine e del nostro habitat.

h.16:00 Apertura mostra fotografica a cura di Sea Shepherd

h.16:30 TALK I: Sea Shepherd presenta Operazione Siracusa e Operazione Pelagos con proiezione docu-film sulle campagne italiane in difesa delle acque e delle specie marine, contro lo sfruttamento dei mari e la distruzione degli ecosistemi.

h.17:30 TALK II: un confronto a più voci sulla pesca di frodo, sul bracconaggio ittico e sulle forme per preservare l’ecosistema marino: un problema che ci riguarda da vicino.
interverranno: Sea Shepherd Italia | Guardie Ittiche Volontarie provinciali, ref. Marco Falciano | Museo di Storia Naturale di Ferrara, ref. Marco Caselli

h.18:30 Cordiali & Aperitivo curato da GruppoZero

Domenica 27 Novembre 2016
h.17:30 TALK III: Nuovi comportamenti di vita a impatto minimo. Una tavola rotonda moderata dal giornalista Matteo Bianchi, con ospiti che presentano le loro esperienze e le loro visioni di futuro partendo dall’impegno profuso in vari ambiti.
Arvaia| Il Turco| EKW Movimento d’avanguardia enoica| Azienda Agricola BioPastoreria| Witoor

h.19:30 Aperitivo con degustazione vini biodinamici naturali curato da EKW & BioPastoreria + piccola cucina di GruppoZero

h.20:30 Voices of Transition un film di Nils Aguilar, 2012, 1h 5m
Proiezione in collaborazione con Cinema Boldini
“… a new model of human existence… in a balanced and sustainable way…” un docu-film sui problemi dell’agricoltura industriale, che esplora il motivo per cui l’attuale modello industriale non è all’altezza del compito di nutrire e sostenere la crescita del Pianeta.

L’Emilia Romagna prima in Italia: la tutela vaccinale diventa legge

E’ l’Emilia Romagna la prima regione in Italia ad aver reso obbligatorio, per legge, la vaccinazione dei bambini per l’iscrizione alla scuola d’infanzia. Lo prevede il progetto di riforma dei servizi educativi per la prima infanzia della Giunta regionale, approvato dall’Assemblea legislativa. Nel ridisegnare i servizi 0-3 anni, la norma introduce come requisito d’accesso ai servizi «l’avere assolto gli obblighi vaccinali prescritti dalla normativa vigente», La percentuale di vaccinati che garantisce la migliore protezione a tutta la popolazione deve essere superiore al 95%, limite indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità: in Emilia-Romagna tale copertura è stata del 93,4% nel 2015 dopo essere scesa al di sotto di quella richiesta nel 2014, quando arrivò al 94,5%.

Il Comunicato trasmesso dalla Regione Emilia Romagna agli operatori sanitari, parla chiaramente di una soglia percentuale di bambini vaccinati scesa pericolosamente sotto la soglia minima raccomandata e sottolinea l’importanza di iniziare le vaccinazioni fin dalla primissima età del bambino. Si legge infatti che “A due mesi di vita il sistema immunitario del bambino è già in grado di rispondere alla vaccinazione; ogni ritardo nell’inizio delle vaccinazioni prolunga solo il periodo in cui è esposto alle infezioni che si possono prevenire. Inoltre alcune malattie come la pertosse e la meningite da emofilo b sono particolarmente gravi proprio nel primo anno di vita: è quindi indispensabile che i bambini vengano vaccinati tempestivamente affinché siano protetti il prima possibile”.

Rimarca l’importanza della legge appena approvata anche la dott.ssa Marisa Cova, Responsabile M.O. Prevenzione e Controllo delle Malattie trasmissibili – Dipartimento vaccinazioni della Ausl di Ferrara- sommersa di telefonate e richieste di vaccinazioni dopo i recenti casi di mortalità a causa della meningite in Toscana. “I vaccini rappresentano uno strumento fondamentale di tutela per la nostra società. Non dobbiamo dimenticare che malattie ora quasi dimenticate, come la poliomielite, fino agli anni’60 era ancora molto diffusa. Si deve ad una capillare campagna di vaccinazione condotta in passato in Italia se oggi possiamo beneficiare di una buona situazione sanitaria. L’impegno era stato quello di raggiungere la cosiddetta “immunità di gregge”, cioè l’immunità che si ottiene quando la vaccinazione di una porzione della popolazione offre una protezione agli individui non protetti”. L’abbassarsi della soglia di immunità comporta il comparire di malattie ormai ritenute scomparse come la pertosse o la difterite. “Non dobbiamo mai dimenticare- continua la dott.ssa Cova- che le vaccinazioni sono importanti non solo per gli individui che ad esse si sottopongono ma anche per tutelare la salute di bambini incolpevoli che, per immunodeficienze o altri gravi motivi medici, non possono vaccinarsi. Se la soglia di bambini vaccinati si abbassa i primi a rischiare la vita sono proprio loro”.

Di fatto la legge appena approvata ripristina quella che era la situazione prima che, negli anni ’90, l’allora Ministro della Sanità Maria Pia Garavaglia stabilisse che non si potesse rifiutare l’iscrizione a scuola di un alunno che non forniva il proprio libretto dei vaccini. Il diritto allo studio veniva fatto prevalere sul diritto alla salute e da quel momento, pur essendoci dei vaccini obbligatori per legge, di fatto il non farli non precludeva la frequentazione del bambino a scuola.

La raccomandazione della dott.ssa Cova è quella di non abbassare mai la guardia: “ Se è vero che nell’ultimo secolo la morbosità e la mortalità per malattie infettive sono notevolmente diminuite, è anche vero che negli ultimi decenni, la nostra società è molto cambiata. Ci si muove sempre più spesso da un paese ad un altro motivo per cui la copertura vaccinale rimane fondamentale. Basti pensare che noi confiniamo con il Veneto, la prima regione in Italia ad aver abolito l’obbligatorietà dei vaccini”. E’ innegabile che negli ultimi anni il livello vaccinale si sia abbassato anche a seguito di una sempre più diffusa aderenza a delle teorie “mediche” prive di alcun fondamento scientifico o “complottiste” che vedono le industrie farmaceutiche colpevoli di voler lucrare con la vendita dei vaccini sulla vita dei bambini.

“ A parte tutte le teorie che circolano intorno ai vaccini, io credo che la ragione per cui, in questi ultimi anni, sia così calato il numero dei bambini vaccinati sia anche di livello psicologico – dice la dott.ssa Cova- Molti genitori appartengono alla fortunata generazione che non ha mai conosciuto la poliomielite o casi mortali di morbillo. La percezione quindi che tali malattie quasi non esistano più disincentiva molti a non far vaccinare i propri figli. L’errore è proprio questo: non riconoscere nel vaccino l’unico strumento scientificamente efficace per tutelare la salute dei nostri bambini e la salute di chi non ha la possibilità di vaccinarsi”.

Salvador Dalì: il padre del surrealismo tra Pisa e Bologna

“Ogni mattina mi sveglio e, guardandomi allo specchio, provo sempre lo stesso ed immenso piacere: quello di essere Salvador Dalì”.

Che fosse un personaggio eclettico, sicuro di sé e sopra le righe era di pubblico dominio. Ma quanti sanno che già in tenera età, Salvador Dalì si autoproclamò un genio e decise che, in un modo o nell’altro, chiunque nel mondo lo avrebbe riconosciuto come tale?

In attesa dell’inaugurazione della mostra “Dalì experience” che, dal 25 novembre al  7 maggio sarà ospitata nelle sale di Palazzo Belloni a Bologna e vedrà le opere dell’artista catalano combinarsi con esperienze interattive e di realtà aumentata, siamo andati a visitare la mostra del Palazzo Blu di Pisa, “Dalì. Il sogno del classico“.

In collaborazione con MondoMostre e con la Fundaciòn Gaòa-Salvador Dalì, il percorso espositivo, curato da Montse Aguer, direttrice dei Musei Dalì, svela alcuni capolavori meno noti dell’artista, ispirati dalla tradizione italiana e dai Maestri del Rinascimento, tra cui Michelangelo e Raffaello.

Le opere, in cui la musa ispiratrice e moglie Gala è spesso ritratta, mostrano i classici dell’arte rinascimentale, come il Mosè o il Cristo della Pietà di Palestina di Michelangelo, reinterpretati in chiave onirica surrealista.

Centrale nel percorso l’intera serie di xilografie della Divina Commedia, commissionate nel 1950 dal Ministro della Pubblica Istruzione.  Salvador Dalì dipinse, nel giro di due anni, 102 acquerelli che illustravano tutti i canti principali dell’opera dantesca, riproducendo il percorso del Poeta dall’inferno al paradiso.

L’opposizione politica italiana, però, contraria all’idea che fosse uno spagnolo ad occuparsi di una tra le più grandi opere nostrane, impedì la pubblicazione degli splendidi acquerelli che vennero infine esposti a Parigi nel 1960. Il successo di questa mostra fu tale che, nel 1963, venne pubblicata un’edizione speciale della Divina Commedia contenente gli acquerelli.

Secondo Dalì creare delle illustrazioni per i testi non era altro che una forma d’arte, non meno importante della creazione di un quadro o di una statua. Dopo la Divina Commedia, infatti, continuò a realizzarne dedicandosi a “L’Autobiografia di Benvenuto Cellini“.  Furono realizzate 41 illustrazioni dedicate alla vita dell’orafo fiorentino, di cui ne sono esposte 27.

Tutto il percorso espositivo è un vero e proprio confronto tra l’artista catalano e gli artisti del Rinascimento italiano, a cui lui dichiarò di essersi spesso ispirato nella ricerca della “vera tecnica”, così come De Chirico, interpretando la realtà attraverso il metodo paranoico-critico da lui ideato.

La mostra, inaugurata il 1° di ottobre e visitabile fino al 5 di febbraio, conta oltre i 30mila visitatori ed è accompagnata da laboratori didattici ed incontri paralleli. Che piaccia o meno lo stile del discusso artista catalano, non può che essere considerato il padre del surrealismo o, come dichiarò lui stesso, “l’essenza del surrealismo”.

 

Secondo live per la Tjco. ‘Che razza di musica’ di Stefano Zenni apre la serata

Da: Jazz Club Ferrara

Venerdì 25 novembre spazio al secondo live di stagione dell’apprezzata Tower Jazz Composers Orchestra, l’orchestra residente del Jazz Club Ferrara. Gli oltre 20 venti elementi che la compongono, diretti da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon, proporranno composizioni originali e accattivanti rivistazioni di brani della tradizione afroamericana. In apertura di serata il docente e critico musicale Stefano Zenni presenterà ‘Che razza di musica. Jazz, blues, soul e le trappole del colore’, edito da EDT. Media Francesco Bettini.

Venerdì 25 novembre, a partire dalle ore 21.30, spazio al secondo live di stagione dell’apprezzata Tower Jazz Composers Orchestra, l’orchestra residente del Jazz Club Ferrara.
Gli oltre 20 venti elementi che la compongono, diretti da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon, alterneranno composizioni originali ad accattivanti rivistazioni di brani della tradizione afroamericana che andranno ad infoltirne il repertorio, dando spazio ai talentuosi elementi di sperimentare e mettere in gioco le proprie idee musicali con creatività e sorprendente empatia.
In apertura di serata il docente e critico musicale Stefano Zenni presenterà ‘Che razza di musica. Jazz, blues, soul e le trappole del colore’, edito da EDT, con la mediazione di Francesco Bettini.
Musica ‘nera’, ‘jazz bianco’, cantanti neri che possiedono il senso del ‘soul’, lo swing come attitudine ‘naturale’ dei neri americani: quale fondamento hanno espressioni come queste, spesso ripetute acriticamente dal pubblico e degli addetti ai lavori? Se si spinge lo sguardo con attenzione al di là del mito della ‘black music’, la storia della musica e la ricerca scientifica dimostrano una realtà molto più complessa e contraddittoria. Da uno dei più seri e preparati musicologi italiani, Stefano Zenni, giunge un libro che, anche facendo ricorso alle più recenti acquisizioni della genetica, porta alla luce le tante trappole del concetto di ‘identità’ e conduce una critica profonda e documentata al cosiddetto ‘essenzialismo’ jazz – la teoria neoconservatrice americana, molto diffusa, che vuole un jazz radicalmente ‘nero’ – in favore di una nuova concezione di continuità tra le culture.

L’ingresso a offerta libera è riservato ai soci Endas. È consigliata la prenotazione della cena al 333 5077059 (dalle 15.30). La prossima performance della Tower Jazz Composers Orchestra è in programma per venerdì 16 dicembre.

INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Infoline 339 7886261 (dalle 15:30)
Prenotazione cena 333 5077059 (dalle 15.30)
Il Jazz Club Ferrara è affiliato Endas, l’ingresso è riservato ai soci.

DOVE
Torrione San Giovanni via Rampari di Belfiore, 167 – 44121 Ferrara. Se si riscontrano difficoltà con dispositivi GPS impostare l’indirizzo Corso Porta Mare, 112 Ferrara.

COSTI E ORARI

Ingresso a offerta libera riservato ai soci Endas.
Tessera Endas € 15
Non si accettano pagamenti POS
Apertura biglietteria 19.30
Cena a partire dalle ore 20.00
Incontro con l’autore 21.30
Concerto 22.00

DIREZIONE ARTISTICA
Francesco Bettini

Turismo. Dalla Regione 750 mila euro per la sicurezza e il rilancio dei porti turistici. Gli Interventi nel ferrarese

Da: Regione Emilia-Romagna

Le risorse stanziate dalla Giunta regionale per finanziare dieci interventi nel ferrarese, nel parmense, nel reggiano e nel riminese. L’assessore Corsini: “Un contributo importante per il dragaggio dei porti regionali”

Via libera a 750 mila euro per finanziare dieci interventi di messa in sicurezza in porti regionali, comunali e approdi fluviali dell’Emilia-Romagna. A tanto ammontano le risorse messe a disposizione della Giunta regionale per il 2016. I primi finanziamenti, 400 mila euro, erano stati impiegati per interventi di dragaggio e scavo nei fondali per scongiurare rischi e danni alle imbarcazioni, all’attività ittica e al diportismo turistico nei porti regionali di Cattolica, nel riminese, in quelli di Goro e Porto Garibaldi nel ferrarese e in quelli comunali di Gorino, sempre nel ferrarese, di Riccione, nel riminese, di Boretto, nel reggiano e di Sissa-Trecasali, nel parmense. Grazie a nuove risorse, per 350 mila euro, impiegate in assestamento di bilancio, sono stati finanziati altri interventi urgenti nei porti di Comacchio (Porto Garibaldi), Cattolica e Goro.

“Con questo ulteriore stanziamento rendiamo disponibili 750 mila euro per i porti dell’Emilia-Romagna- commenta l’assessore regionale al Turismo, Andrea Corsini-. Sono risorse che permetteranno ai Comuni beneficiari di sviluppare le funzioni dei loro porti e di risolvere criticità ed emergenze. In questo modo si può portare a compimento un quadro di interventi significativo”.

In particolare, nel ferrarese, sono 390 mila euro le risorse stanziate dalla Regione Emilia-Romagna. A Porto Garibaldi, con una prima tranche di 70 mila euro è stato finanziato il dragaggio del porto canale a rischio chiusura per motivi di sicurezza della navigazione e con una seconda tranche, di 80 mila euro, è stato finanziato il secondo stralcio per il dragaggio del porto di accesso. A Goro sono due gli interventi finanziati per la sicurezza della navigazione e per scongiurare il rischio di chiusura, il primo di 50 mila euro per lo scavo dei fondali di atterraggio al porto e il secondo, di 150 mila euro per l’innalzamento della banchina. A Gorino, infine, sono 40 mila euro i contributi regionali per lo scavo dei fondali del bacino a rischio ingressione sull’abitato.

Infine, tutti gli interventi programmati per il mantenimento della navigazione dei fondali hanno anche il vantaggio di rendere disponibile i materiali sabbiosi che si possono utilizzare per il ripascimento delle zone costiere a rischio erosione./BB

La liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina

Da: Organizzatori

Sabato 26 novembre, alle ore 17.00 (con replica alle 21.30 su invito per i clienti di Banca Fideuram), nel Salone d’Onore della Pinacoteca Nazionale di Ferrara, in occasione delle celebrazioni per i 500 anni dalla prima pubblicazione dell’Orlando Furioso, Bal’danza in collaborazione con la Pinacoteca Nazionale di Ferrara e i Conservatori ‘G. Frescobaldi’ di Ferrara e ‘N. Piccinni’ di Bari, presentano La liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina, prologo e tre scene di Francesca Caccini.
Direttore e maestro concertatore Elena Sartori.
Maestro del Coro Maria Elena Mazzella.
Maestra di danza storica Laura Fusaroli Pedrielli.

Lo spettacolo è l’esito finale di un progetto multidisciplinare che vede coinvolte molte realtà cittadine e si compone di una fase laboratoriale, rivolta agli artisti coinvolti nell’allestimento e aperta al pubblico, e una fase di studio, con conferenze realizzate con la collaborazione dell’Università degli Studi di Ferrara sullo stato dell’arte e del teatro musicale del primo Seicento.

La scelta del luogo – la Pinacoteca Nazionale di Ferrara, che ha appena riaperto le sale dedicate alla pittura del Cinquecento ferrarese, e che è situata al piano nobile di Palazzo dei Diamanti – è caduta non a caso su uno dei luoghi più significativi della città estense, simbolo della potenza e della magnificenza del casato che rese Ferrara famosa nel mondo.

La liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina, prima opera italiana ad essere stata rappresentata all’estero, venne commissionata a Francesca Caccini (1587-1640) dall’allora Reggitrice di Firenze, l’Arciduchessa Maria Maddalena d’Austria, per il Carnevale del 1625 con lo scopo di affermare l’autorità e lo stile del suo governo. E’ perciò uno dei primissimi esempi di scrittura operistica al femminile e presenta una lettura mitologica attuale e potente, intessuta di spunti simbolici profondi e visionari sui temi dell’appartenenza, dell’identità e del potere di genere. Alcina è anche la prima opera musicale scritta sui temi dell’Orlando Furioso. Il libretto, redatto dal poeta di corte Ferdinando Saracinelli, è tratto da un episodio dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto e fa riferimento alla nascita della dinastia estense da Bradamante e Ruggiero.

Su proposta di Elena Sartori, già docente presso il Conservatorio ‘N. Piccinni’ di Bari, Bal’danza ha deciso di offrire ai giovani artisti coinvolti nello spettacolo la possibilità di realizzare un laboratorio didattico che si concretizza in uno spettacolo, legando così il momento formativo alla performance pubblica, per capitalizzare al meglio tutte le energie profuse, nell’ottica professionalizzante.
Il laboratorio, che sarà aperto al pubblico, si svolgerà da mercoledì 23 a venerdì 25 novembre negli orari di apertura della Pinacoteca.

Nel progetto è stato successivamente coinvolto anche il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Ferrara, con la collaborazione della cattedra di Storia dell’Arte Moderna, che ha organizzato una conferenza aperta alla cittadinanza sui temi del teatro musicale del primo Seicento. La conferenze, che si terrà presso la Pinacoteca Nazionale di Ferrara venerdì 25 novembre alle ore 17.30, sarà tenuta da Alessandro Roccatagliati e avrà come titolo Leggere, immaginare, rappresentare. Ariosto cantato in scena. Conversazione con Alessandro Roccatagliati”.
Inoltre, sarà offerta un’altra conferenza giovedì 24 novembre alle ore 17.30 a cura di Daniela Fratti, Presidente del Club Soroptimist di Ferrara, dal titolo La figura femminile nella società ferrarese del primo 600, al tempo dell’Alcina della Caccini.

Il progetto, che è l’espressione di un ‘fare condiviso’ ampio e decisivo al tempo stesso, è organizzato e promosso da Bal’danza in collaborazione con la Pinacoteca Nazionale di Ferrara, i Conservatori ‘G. Frescobaldi’ di Ferrara e ‘N. Piccinni’ di Bari, dall’Ensemble vocale ‘San Giorgio’, dal Gruppo Danza l’Unicorno – Contrada di S. Maria in Vado, dal Rione S. Spirito e si avvale della collaborazione e del sostegno del Soroptimist International Club di Ferrara, dell’Università di Ferrara e di Banca FIDEURAM di Ferrara.

L’ingresso allo spettacolo è di 4 euro biglietto intero, 2 euro biglietto ridotto sino ad esaurimento dei posti disponibili.

Pallacanestro Ferrara: delitto, castigo e resurrezione

Estate 2015. Dopo un’esaltante stagione di Serie A2 conclusasi soltanto ai play-off contro la più quotata Trieste, per la Ferrara dei canestri il futuro sembra comunque essere roseo. Guidata dal coach udinese Alberto Martelossi, Ferrara ha saputo risalire la classifica arrivando fino al secondo posto, dietro alla corazzata Treviso. Quello è un grande gruppo: il playmaker pesarese Michele Ferri, arrivato in terra estense nel 2011, ne è il capitano. Al suo fianco il pivot Michele Benfatto, l’ala Alessandro Amici, con i suoi atteggiamenti sempre fuori dagli schemi… E poi Daniele Casadei e Kenny Hasbrouck, probabilmente l’americano più forte passato da Ferrara dopo gli anni di Andrè Collins, Allan Ray e della Serie A1. E’ un gruppo di uomini prima che di giocatori, e i tifosi lo hanno capito, ricreando al palasport un entusiasmo che non si vedeva da anni: più di 3000 persone per le sfide contro Ravenna e Treviso.

Dopo la fine della stagione, i supporters si aspettano la conferma di quella squadra che tanto li ha fatti sognare. Molti addetti ai lavori sono convinti che per fare un campionato ancora più positivo di quello appena concluso bastino un paio di correttivi.
La Società presieduta da Fabio Bulgarelli (che prima dichiara di voler vendere perché non ha abbastanza risorse, poi dichiara che non vende più e afferma che farà una squadra di vertice) annuncia l’ingaggio di John Ebeling, stella del basket ferrarese tra gli anni ’80 e ’90, come nuovo direttore sportivo al posto di Andrea Pulidori. E’ l’inizio di una rivoluzione di cui nessuno ha ancora compreso il senso. Le trattative tra il nuovo ds e coach Martelossi per il rinnovo sono un continuo tira e molla. I tifosi vogliono con forza la permanenza a Ferrara dell’allenatore che li ha portati dalla zona play-out a quella play-off, ma la Società pare non sentirli. E’ così che, in un pomeriggio piovoso di inizio estate, la notizia della non conferma di Alberto Martelossi per la stagione successiva piomba come un macigno in un ambiente che già stava cominciando a ribollire. E’ un domino: dopo Martelossi se ne vanno il capitano di mille battaglie Michele Ferri, che passa a Forlì, il baby Vincenzo Pipitone (a Trieste), l’ala Riccardo Castelli (a Udine), il totem Michele Benfatto (a Cento) ed infine Alessandro Amici (a Mantova). Alcuni vengono “scaricati” senza troppi complimenti. Quella squadra che tanto bene aveva fatto era stata completamente smembrata in un mese, apparentemente senza alcun motivo logico.
Stupisce ancor di più la scelta del nuovo allenatore: è Alberto Morea, esonerato due anni e mezzo prima da Bulgarelli dopo che la allora Mobyt navigava in cattive acque sotto la guida dello stesso coach tarantino. Tuttavia, i primi due acquisti dell’era-Ebeling sono due nomi sulla carta altisonanti: la guardia Ryan Bucci e il centro David Brkic.

La tifoseria è però sul piede di guerra: non accetta questa rivoluzione, non accetta il tipo di trattamento riservato dalla Società a giocatori che nel tempo trascorso sotto l’ombra del Castello Estense si sono fatti apprezzare per le loro qualità tecniche ed umane. La nuova Pallacanestro Ferrara targata Bondi, azienda subentrata a Mobyt come main sponsor, nasce sotto un clima turbolento.
Il presidente Bulgarelli viene contestato dalla maggior parte della tifoseria, che lo accusa di mancanza di rispetto e di chiarezza. L’ambiente è una pentola a pressione: ad agosto alcuni ragazzi decidono di fondare la “Curva Nord”, con il preciso intento di sostenere i nuovi giocatori ma di contestare duramente la Società. Striscioni di protesta vengono affissi per tutta la città, sui social network si scatena il dibattito tra chi difende (“è il presidente e ha tutto il diritto di cambiare quando vuole”) e chi attacca.
I battibecchi continuano, la squadra non entusiasma, il palasport si svuota: nel giro di pochi mesi il clima attorno alla palla a spicchi ferrarese è totalmente cambiato. In negativo.
Il giorno di Natale il calendario offre il derby contro la Fortitudo Bologna, in diretta Sky. I tifosi ferraresi al Paladozza sono pochi, l’entusiasmo è sottozero. Sulle balaustre appare uno striscione, “Bulgarelli vattene”. E’ il culmine della protesta dei tifosi biancoazzurri.

Lo stesso striscione, pochi giorni dopo, viene affisso in Piazzale Medaglie d’Oro. Ormai sui giornali non si parla più dell’andamento della squadra ma del rapporto, ai minimi storici, tra la Società e i suoi tifosi.
I ragazzi della “Curva Nord” raccontano poi di essere stati apostrofati in malo modo nel dopopartita con la “Effe” da alcuni rappresentanti della Società. Minacciano di disertare il palazzetto. Il rapporto sembra irrecuperabile.

E invece… Invece le due parti decidono di trovare un compromesso: il presidente e una rappresentanza di tifosi si incontrano in un noto ristorante cittadino per lasciare da parte questa stucchevole e imbarazzante situazione e trovare un punto d’incontro per il bene della Pallacanestro a Ferrara. Le divergenze vengono appianate, anche se i tifosi ricordano sempre di “non averle dimenticate”, e la seconda parte di stagione vede un ritrovato entusiasmo al palazzetto, nonostante la squadra navighi nell’anonimato della metà classifica. Ciononostante la “Curva Nord” sostiene i propri giocatori per tutti i 40 minuti, trascinando anche il resto del palasport.
A quattro giornate dalla fine coach Morea viene esonerato. Fatale la sconfitta in casa con la Dinamica Mantova degli ex Martelossi, Seravalli e Amici. Uno scherzo del destino o un epilogo simbolico…

Ferrara conclude la stagione fuori dai play-off.
La sintonia tra tifosi e Società sembra però ritrovata. Il presidente, memore degli errori dell’anno precedente, fa il possibile per accontentarli. Il nuovo allenatore è Tony Trullo, già a Ferrara una quindicina di anni fa, reduce da positivissime stagioni nella sua Roseto, dove ha raggiunto i play-off nonostante un budget limitato. Vengono richiamate figure storiche del basket ferrarese, come Maurizio Menatti e Sandro Tamisari.
Il primo tassello della “Bondi 2.0” è Yankiel Moreno, playmaker italo-cubano che Trullo ha portato con sé da Roseto. Arrivano poi l’ala Riccardo Cortese, con trascorsi in Serie A1, e il centro Francesco Pellegrino, di proprietà di Sassari. Si respira un’aria diversa.
Il giovane Martino Mastellari, classe ’96, viene soffiato alla feroce concorrenza di moltissime altre squadre. Dall’anno passato restano soltanto il play argentino Matias Ibarra e il ferrarese Mattia Soloperto, che viene nominato capitano.
I veri crack sono i due americani: l’ala grande Laurence Bowers, già in doppia cifra in A1 a Capo d’Orlando, e la guardia Terrence Roderick, più di 20 punti di media ad Agropoli (A2) nella stagione precedente.
C’è la sensazione che si sia costruita una squadra con grandi potenzialità. La nuova stagione è alle porte e tutti, dopo le delusioni dell’anno passato, non vedono l’ora cominci.
Società e “Curva Nord” raggiungono nel frattempo un importante accordo sul fronte merchandising: saranno infatti gli stessi tifosi ad occuparsi della vendita di magliette, sciarpe, felpe e gadget vari. Un altro segno di una sinergia ritrovata.
Ferrara perde le prime due di campionato, a Forlì in volata (72-71) e con Chieti in casa (72-84). Ma la squadra ha soltanto bisogno di allenarsi il più possibile insieme, e i risultati infatti arrivano. Quattro vittorie consecutive. Roseto, Mantova, Virtus Bologna e Imola. Le ultime tre da “infarto”. A Mantova e con la Virtus dopo un overtime, a Imola grazie ad una tripla all’ultimo secondo. Poco importa la sconfitta nell’ultimo turno a Treviso, perché Ferrara, pur priva di Bowers infortunato e con Cortese e Pellegrino febbricitanti, ha saputo lottare fino all’ultimo e tener testa ai veneti. E adesso due sfide sentitissime entrambe al PalaHiltonPharma. La Ferrara del basket è tornata.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
La luce impropria della top ten scolastica

In concomitanza con la stagione degli open day per tutti gli istituti superiori impegnati a conquistarsi l’iscrizione dei tredicenni giunti al momento di dover scegliere dove e come proseguire gli studi, la stampa nazionale ha dato grande rilievo agli esiti della ricerca condotta dalla Fondazione Agnelli sui migliori licei, istituti tecnici e professionali delle città capoluogo di regione.
Il cliché è dei più tradizionali, d’altra parte questo è il sistema formativo nel nostro paese, per cui da un lato ci sono i licei senza altro sbocco che l’università, dall’altro gli istituti tecnici e professionali che possono aprire le porte del mondo del lavoro.
L’indagine, pubblicata come servizio alle famiglie e agli studenti dal portale Eduscopio della Fondazione Agnelli, riporta la classifica dei migliori licei valutati sulla base del numero di allievi che, concluse le superiori, si iscrivono all’università, unitamente al numero di esami sostenuti e ai risultati ottenuti. Per i tecnici e professionali la valutazione è compiuta sul numero di alunni che trovano lavoro ad un anno dall’esame di stato.
È possibile, vista l’incertezza del futuro dei nostri giovani per i tempi che corrono, che le famiglie prendano per buoni i dati offerti dalla Fondazione Agnelli e che si avvii la corsa all’istituto che pare dare garanzie migliori.
Anche il nostro paese si adegua alle mode d’oltre oceano dove fiorisco i siti delle Champion schools, ma un dubbio però resta e cioè se è proprio la scelta di questo o di quel liceo a fare la differenza.
Ad occhio e croce l’indagine della Fondazione Agnelli non ci dice nulla di quello che già non sapessimo e cioè che i licei più degli istituti tecnici e professionali aprono le porte dell’università, che gli istituti alberghieri più di altri offrono l’opportunità di trovare lavoro, mentre gli istituti per geometri e ragionieri, figure professionali in via di estinzione, non garantiscono più un’uscita sul mercato del lavoro.
Ma la cosa che di questa indagine più inquieta, e che meriterebbe forse una presa di posizione da parte del ministro dell’istruzione, è suggerire l’idea che esistano scuole di serie A e scuole di serie B se non addirittura di serie Z. L’idea di un sistema formativo a macchie di leopardo, per cui tutti paghiamo le tasse ma non è sicuro che la scuola che sceglieremo per nostro figlio o figlia darà le stesse garanzie di riuscita che a detta della ricerca della Fondazione Agnelli darebbero gli istituti scolastici al top della sua classifica.
Sarebbe stato più utile che la ricerca della Fondazione Agnelli ci dicesse che cosa fa la differenza tra le scuole campione individuate e le altre, cosa fa di questi licei, istituti tecnici e professionali delle scuole migliori.
Perché il sospetto è che queste scuole ben poco incidano come ascensore sociale, che siano scuole d’élite, che confermino i vantaggi di chi già parte avvantaggiato. Più che scuole campione sembrano scuole copione della condizione sociale della loro utenza. È sufficiente prendersi il tempo per visitare i siti web dei licei in testa alla classifica della Fondazione Agnelli per rendersi conto che poco differiscono dai portali delle scuole superiori che di questa classifica non fanno parte.
A meno che non si ritenga che “Accendere la domanda, la curiosità, l’apertura al reale, destare nei giovani il desiderio di conoscere: tutto ciò appare, oggi più che mai, il presupposto fondamentale per un cammino educativo credibile” come riporta il portale del liceo scientifico Sacro Cuore di Milano, al vertice della classifica della Fondazione Agnelli, sia di per sé un programma sufficiente a garantire la qualità della scuola e il successo dei suoi studenti.
L’impressione è che a fare la differenza non siano le scuole ma le persone e le condizioni di partenza. L’impegno di ragazze e ragazzi oltre ai loro contesti di vita. La questione di una scuola in grado di recuperare gli svantaggi, di rimediare alle differenze di status sociale, alle iniquità di partenza resta tutta aperta nel nostro paese
Non a caso diminuiscono le iscrizioni all’università di quanti escono dagli istituti tecnici e professionali. Non a caso queste scuole vengono scelte da chi oltre allo svantaggio per condizione sociale ha accumulato svantaggi nello studio che la scuola non è riuscita a colmare.
Del resto dietro la paludata classifica della Fondazione Agnelli il nostro paese resta in Europa quello con il minor numero di laureati, con la più alta percentuale di giovani neet, non impegnati nello studio, nella formazione e nel lavoro, per non dire che il nostro paese si distingue in Europa per la maggior percentuale di adolescenti che non amano la scuola.
Allora ai giovani che in uscita dalla terza media si trovano di fronte alla scelta del percorso di studi da intraprendere non c’è consiglio migliore da suggerire che scegliere ciò che a loro più piace, perché non c’è motivazione più forte per riuscire nella vita.

Il Pirellone compie sessant’anni

È il 1956, sessant’anni fà, esattamente il 12 luglio quando viene posta la prima pietra del grattacielo Pirelli: per tutti il Pirellone. Con i suoi 127 metri di altezza per 31 piani è l`edificio più alto dell’Unione europea fino al 1966, anno di costruzione della Tour du Midi di Bruxelles.
Il simbolo del riscatto di Milano, o meglio di una Nazione intera, dopo il devastante evento della Seconda Guerra Mondiale e l`inizio di una vera rinascita economica e sociale: il “boom economico” che caratterizzerà per almeno i vent` anni successivi la vita e le abitudini degli italiani.
Il grattacielo viene costruito tra il 1956 e il 1961 sui terreni degli stabilimenti Pirelli affossati dai bombardamenti. Il progettista incaricato è il milanese Giovanni Ponti detto Giὸ, che dirige anche tutte le fasi costruttive, con la collaborazione di altri importanti progettisti Giuseppe Valtolina, Pier Luigi Nervi, Antonio Fornaroli, Alberto Rosselli, Giuseppe Rinardi e Egidio Dell’Orto, e per l`ambito strutturale i consulenti Pier Luigi Nervi, Arturo Danusso, Piero Locatelli e Guglielmo Meardi.
E` uno degli edifici in calcestruzzo armato più alti al mondo.
La costruzione terminerà nel 1961.

Ma perché un cristallo? Giὸ Ponti ricorre al rivestimento in vetro e alluminio della stuttura in calcetruzzo armato. Scrive nel 1941 “ ..l`architettura è come un cristallo, è metafora per inseguire una immagine di purezza, di ordine , di slancio e di immobilità, di perennità, di silenzio e di canto (di incanto) nello stesso tempo: di forme chiuse, dove tutto fosse consumato nel rigore dei volume e d`un pensiero”.
Giὸ Ponti interpreta in Italia quel movimento architettonico (anche speculativo) che spinge le architetture in altezza secondo i canoni architettonici espressi dall’International Style. I caposcuola sono oltreoceano: Mies van der Rohe dopo vari falliti tentativi di costruire grattacieli nella Germania del terzo Reich completa nel 1958 il Seagram Building, capolavoro in acciaio e vetro a New York, preceduto da un altro simbolo di New York il Lever House dello studio d’architettura statunitense Skidmore, Owings and Merrill del 1952; di William van Allen il fantasioso Chrysler building del 1938 ed ancora l`Empire state building o il Rockfeller Center sempre a New York degli anni 30 del XX secolo solo per citarne alcuni, preceduti dal “goticheggiante” Woolworth building del 1913 di Cass Gilbert ancora a New York.
Le vetrazioni utilizzate sono innovative e rivoluzionarie considerato che siamo negli anni Cinquanta; per la prima volta questa tecnologia raggiunge l`Italia dall`America. Le vetrate sono funzionali al tema termico, acustico, alla riduzione dei consumi, sono sostenibili e migliorano in modo incomparabile il comfort interno.
Si tratta di una vetrata isolante del tipo Thermopane: due lastre di cristallo (vetro) di spessore 6 mm prodotte dalla società belga UniverGlav, saldate fra loro perimetralmente da un giunto metallico quale distanziatore formante una intercapedine con aria disidratata di 15 mm; le parti a copertura dei solai portano un solo vetro esterno e un materiale isolante retrostante fissato all`interno di un vassoio metallico.
Una assoluta novità per l`Italia che fa immediatamente scuola; infatti di li a poco anche la torre Galfa, innalzata a fianco, utilizzerà la stessa tecnologia di rivestimento vetrario.

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Un’immagine dell’incidente

Il 18 aprile 2002 però un piccolo aereo da turismo pilotato dall’italo-svizzero Luigi Fasulo si schiantò contro il 26º piano del palazzo causando due vittime, dipendenti della Regione, oltre allo stesso pilota. Iniziὸ immediatamente il lungo lavoro di ricerca dei materiali per riparare la ferita e soprattutto del vetro di rivestimento per un intervento di restauro conservativo unico nel suo genere in Italia e che avrebbe avuto da un lato la necessità di mantenere il più possibile la presenza cromatica storica e dall`altro di adeguare il fabbricato alle nuove normative di sicurezza ed energetiche nazionali ed europee in vigore.
Un lungo e attento processo di selezione dei materiali e il lavoro di smontaggio recupero e rimontaggio dei componenti metallici delle pareti esterne originali (salvo la ricostruzione delle parti distrutte dall`impatto aereo) ha consentito ai determinati sostenitori del restauro conservativo di prevalere nell`aver mantenuto sostanzialmente inalterato l`aspetto di questo gigante verso chi avrebbe voluto al contrario un restyling totale della torre. Le operazioni dopo circa due anni di intenso impegno di maestranze, progettisti, esperti del restauro hanno riconsegnato nel rispetto del progetto originario un`opera di ingegneria ardita, un unicum, un simbolo insostituibile, un omaggio dovuto a Giὸ Ponti famoso nel mondo dai milanesi e dall`Italia intera.

“Noi pompieri del barcone dell’orrore”
L’inchiesta di Luca Cari sull’immigrazione vince il premio ‘Franco Giustolisi 2016’

La seconda edizione del premio “Franco Giustolisi- Giustizia e verità- ed. 2016” vede vincitore il giornalista Luca Cari e la sua inchiesta “Noi pompieri del barcone dell’orrore”.

di Diego Stellino

Roberto Montanari si presenta come un vecchio giornalista in cui non crede più in nulla, ma viene smentito dalla sua carica di presidente onorario di un premio dedicato a Franco Giustolisi.
il premio, dedicato alla ricerca e alla riconoscimento del lavoro di giornalisti “con la schiena dritta” e, come più volte ha citato lo stesso Presidente Pietro Grasso “senza padroni ne padrini”, è alla seconda edizione.
La prima si è svolta a Sant’Anna di Stazzema, la seconda, sabato 19 novembre, a Marzabotto, luogo simbolo dei crimini di guerra perpetrati sul territorio italiano durante la seconda guerra mondiale. Un tema caro a Franco Giustolisi che con il suo “L’armadio della Vergogna” portò alla luce tutti quelli fascicoli legati alle stragi del “dopo 8 settembre”, per decenni rimasti archiviati in un armadio con “le ante ben appoggiate al muro”

Il premio “Premio Franco Giustolisi ‘Giustizia e verità’ – edizione 2016” va ad un emozionato Luca Cari con l’inchiesta “Noi pompieri del barcone dell’orrore” che vuole condividere il premio con tutto lo staff dei Vigili del Fuoco che, insieme a lui, hanno partecipato a quegli eventi e hanno potuto raccontare ciò che era realmente accaduto a quei migranti in fondo al mare.

Gaetano Pecoraro, delle Iene, non si è lasciato sfuggire l’occasione di rinnovare la richiesta dell’impegno dello Stato al Presidente Grasso quando gli è stato conferito il premio speciale “Franco Giustolisi – Fuori dall’Armadio” per il suo “La strage di Militari che lo Stato non vuole vedere, in cui viene raccontato il dramma dei soldati ammalatisi a seguito del contatto con munizioni armate con uranio impoverito.

Ad Andrea Greco, di Repubblica, e Giuseppe Oddo, del Sole 24 Ore, il premio della sezione editoria “Lo Stato parallelo” per la loro imponente inchiesta sull’Eni.

Premiati anche Giacomo Galeazzi e Ilario Lombardo per l’impegno dedicato alla pubblicazione di un’inchiesta a settimana su argomenti di attualità e di cronaca ed in particolare per l’inchiesta sulle moschee italiane alla ricerca di fondi.

Angelo De Luca che, con il reportage “Nera la Notte”, ha regalato a tutti la concretezza della possibilità che anche da una piccola emittente in una area remota del nostro Paese, può emergere e concretizzarsi il lavoro di chi lo fa con passione, dedizione e capacità.

Grandi presenze sono state quelle di Lucia Goracci e Bernardo Valli che hanno contribuito con i loro interventi a dire che il mestiere di giornalista non è (e non deve) essere banale, non è per tutti, sicuramente faticoso per quanto illuminante e in qualche modo “missionario”.

L’EVENTO
“Cinque Pagine Bianche”: cultura, passione ed economia in musical

Talvolta possono stare assieme anche cose tra loro lontane come la cultura, la passione e l’economia, soprattutto se legate tra loro da uno spirito di volontariato sociale. E’ successo per una bella iniziativa che vorrei raccontare. Per semplificare potrei dire che si tratta di un musical dal titolo “Cinque pagine bianche” che verrà proposto al Teatro Nuovo giovedì 24 alle 21, se non fosse che il regista è Demetrio Pedace (direttore di banca) e che le persone che hanno collaborato con lui sono tutti volontari di grande professionalità e che l’incasso verrà interamente destinato al miglioramento della sede dell’associazione Ferrara Off.

La storia è attuale e toccante. L’iniziativa di grande valore umano. Preferisco incuriosirvi utilizzando le parole di Demetrio e ci vediamo a teatro: “Mattia….che tutti chiamano “Gelo” è un tipo alla “Brad Pitt, Jude Law, Cesare Cremonini, Stefano Accorsi…” non è tanto una questione di bellezza (certo che è bello, e lo sa…), quanto di faccia “da sberle”. Se una ragazza va con uno del genere, sa fin da subito (o dovrebbe sapere…) che i guai presto o tardi arriveranno… Lalla…. è una straordinaria ballerina: dolce, solare, bella, brillante. E intelligente: in condizioni normali uno come Gelo nemmeno lo prende in considerazione. In condizioni normali però…. Ma siccome non sempre siamo “normali”, può benissimo accadere anche ad una “sveglia” come lei di aver voglia di avventura, e di lasciarsi avvicinare da un “poco di buono” come Gelo.

E può succedere allora che una sera, in un locale, i due si conoscano, si attraggano e lascino “correre” la passione, con tutto ciò che – inevitabilmente – ne deriverà… Eh si, perché Gelo è e resta uno da cui era meglio stare alla larga, e Lalla dovrà affrontare le conseguenze dell’aver conosciuto un poco di buono… “Cinque Pagine Bianche” si è dovuto anche confrontare con il tema dei soprusi, degli amori sbagliati, complicati, ed allora ci siamo chiesti: cose ce ne facciamo di un tipo come Gelo? Facciamo come ad Hollywood, in cui l’eroina lo “attende” finchè lui si “redime”? Tempo proprio di no… Forse perché abbiamo figlie piccole che crescono, ci piaceva di più un altro messaggio: Lalla è abbastanza forte da superare tutto, Lalla “Non ha paura”. Lalla ha una sorella maggiore, Michela, ballerina come lei che la aiuta (altro messaggio che ci piaceva: occorre una rete di affetti “forti”: sorelle, madri, amiche, non importa, per affrontare questo genere di guai, perché da sole forse diventa troppo difficile) Ci piaceva che, piano piano, Lalla (anche grazie a sua sorella) capisse che in realtà un grande amore non può mai nascere sulla prevaricazione. E se il desiderio di riprovare, di perdonare, di ricominciare insidia i pensieri di Lalla, è perché il cuore ci inganna e spesso altera i ricordi, facendoci ricordare solo ciò che più gli pare e piace. Dopo di che basta. E’ e resta un musical, e quindi lo spazio e l’attenzione del pubblico dovranno andare ai ballerini, alle scenografie e – in sintesi – alla magia che vorremmo creare.

Se tutto andrà come speriamo, il pubblico uscirà dal teatro con gli occhi ancora pieni di balletti e di immagini, le orecchie piene di buona musica, il tutto tenuto insieme da una trama d’amore che ha sì un lieto fine, ma un po’ meno scontato del solito.”

LA RIFLESSIONE
Bassani cala il sipario.
Il ‘Convegnone’ tra grandi nomi e ingombranti assenze

Allora. Si chiude il sipario o lo si alza? Alla fine del tunnel cosa troveremo? Che senso hanno avuto queste celebrazioni?
Domande legittime e forse banali. Scontri e incontri. Il superfluo additus al necessario o viceversa?
Il cosiddetto ‘Convegnone’: “Giorgio Bassani 1916-2016” si è svolto dall’11 al 19 novembre tra Roma e Ferrara e ha rappresentato il più concreto ed esaustivo contributo alle celebrazioni indette dal Mibact per il centenario della nascita dell’illustre scrittore. E basterebbe vedere i loghi che appaiono nella locandina e nel programma: del Comitato Nazionale per le celebrazioni; del Ministero; della Fondazione Giorgio Bassani; del Centro Studi Bassaniani, del Comune di Ferrara, dell’Università La Sapienza di Roma e di Ferrara; di Italia Nostra; del Centro sperimentale di cinematografia; di RAI cultura. Si è voluto cioè intervenire con contributi scientifici, didattici e sociali alla ri-costruzione e alla rivisitazione della poliedrica personalità di Giorgio Bassani scrittore, docente, sceneggiatore, saggista, e non ultimo, fondatore di Italia Nostra.

L’anno bassaniano si è svolto nei luoghi disparati e ha attraversato l’oceano e l’emisfero: dall’Australia, alle Americhe, dai luoghi consacrati della cultura europea fino a raggiungere isole culturali dove il nome dello scrittore è diventato il simbolo di un incontro con una cultura italiana non sempre conosciuta o mal interpretata.
Il Convegnone ha avuto una splendida anticipazione nell’appuntamento a Firenze diretto da Anna Dolfi, emerita studiosa di Bassani, sul ruolo degli scrittori/intellettuali ebrei e il dovere della testimonianza di cui abbiamo riferito in un articolo apparso in questo giornale il 15 novembre (leggi qui). La figura di Bassani si presentava dunque non solo nel suo ruolo di testimone-interprete, ma preludeva nella sua indubbia poliedricità alle sezioni che si sarebbero svolte tra Roma e Ferrara. Così quella dedicata alla letteratura che ha occupato l’intera giornata romana di apertura doverosamente affrontava la prima e insostituibile sostanza dell’opera bassaniana, specie per indagare il primo degli interrogativi, quello che riguardava la riscrittura di ciò che è stata chiamata ‘l’opera-mondo’ di Bassani, “Il romanzo di Ferrara”. Raffaele Manica ne ha dato una convincente e complessa spiegazione. Si è proseguiti il giorno dopo con l’analisi del rapporto di Bassani con il cinema e il teatro: una complessa operazione affidata all’esperta mano di Emiliano Monreale che ha saputo cogliere gli snodi più difficili dell’attività bassaniana legata al cinema. Torna al proposito alla mente l’omaggio che il circolo del tennis Marfisa di Ferrara rese allo scrittore con l’installazione di bacheche intorno ai campi di terra rossa da cui, nella storia, fu allontanato lo scrittore-tennista in cui si citano i luoghi più importanti in cui Bassani scrisse del tennis nelle sue opere e la magica notte di giugno in cui sulle pareti dei palazzi che circondano il complesso della palazzina di Marfisa furono proiettati in contemporanea “Il giardino dei Finzi-Contini”, “La lunga notte del ’43”, “Gli occhiali d’oro”.

La parte romana del Convegnone si conclude con la sezione “Bassani in redazione”, in cui si passano in rassegna i rapporti con gli scrittori che più furono vicini allo scrittore: Sereni, Bertolucci, Gadda, Soldati, Fortini e coloro che vennero descritti nella prima opera pubblicata da Bassani, “Una città di pianura”, pubblicata a causa delle leggi razziali con lo pseudonimo di Giacomo Marchi: Claudio Varese e Giuseppe Dessì, due sardi diventati ferraresi.
L’arrivo del Convegnone a Ferrara infittisce le attività di contorno: una mostra a Casa Ariosto di Eric Finzi sul tema del “Ritorno al Giardino”; l’esposizione finalmente resa pubblica del manoscritto del “Giardino dei Finzi-Contini” alla Biblioteca Ariostea nei giorni del Convegno e presentata dunque alla cittadinanza legittima ‘proprietaria’ delle preziose carte, dopo che furono esibite pochi giorni fa per la visita del presidente Mattarella in Israele, quando fu presentato il progetto del Meis ferrarese. Una mostra a palazzo Turchi di Bagno su “I libri di Giorgio Bassani” e infine l’apertura straordinaria del Centro Studi Bassaniani in attesa della prossima, e si spera, imminente apertura definitiva della Casa Minerbi Dal Sale con le sue importantissime istituzioni.
Il Convegnone prosegue poi con la sezione “I libri di Giorgio Bassani” al termine della quale sono stati proclamati i due vincitori del Premio Roberto Nissim Haggiag, l’uno studioso di filologia, l’altro di problemi ambientali.

Il giovedì 17 finalmente la presentazione ufficiale alla città della donazione del manoscritto del romanzo. Tra comprensibili ritardi dovuti all’apertura degli ascensori (non tutti son giovinetti, compreso chi scrive, per affrontare a passo di carica lo scalone elicoidale dove gli Estensi salivano naturalmente a cavallo), tra alcuni incontri-scontri e finalmente l’apertura fatta dal sindaco che doveva ben presto lasciarci per salire su Italo, il treno veloce che fermerà a Ferrara e i cui dirigenti l’aspettavano in Camera di Commercio. Notevoli le belle parole del presidente del Meis, Dario Disegni, quindi Ferigo Foscari racconta della donazione del manoscritto, di come la nonna Teresa l’aveva a lui affidato per farne poi l’uso che credeva meglio dopo la sua morte e la decisione presa con i famigliari di donarlo al Comune di Ferrara. Ricordavo poi al padre, l’architetto Tonci Foscari, come i legami con Ferrara fossero già da tempo attivi con la sua famiglia, possedendo lui il bellissimo quadro di Hayez della ferrarese famiglia di Leopoldo Cicognara, l’amico di Canova, e il busto sempre di Canova. Le relazioni della mattinata sono state di altissimo livello critico e tutte ruotanti sui problemi filologici storici e cinematografici che il romanzo esige e che ora potranno essere in parte risolti con la possibilità di consultazione del manoscritto.
Al pomeriggio, la sezione è dedicata ai problemi di traduzione e di edizione dei testi bassaniani in altre lingue e paesi.
Il giorno successivo la complessità dei temi ha reso la giornata indimenticabile. Nella prima parte è stata affrontato il difficile problema dei rapporti tra “Bassani e l’arte” (nume tutelare il mai dimenticato rapporto con un ‘vero Maestro’ come suona un celebre saggio di Bassani dedicato a Roberto Longhi). In apertura una testimonianza della figlia Paola Bassani, poi gli interventi che hanno avuto il vertice nella splendida testimonianza-riflessione di Andrea Emiliani; degni di nota anche gli interventi di Riccardo Donati, Stefano Marson, Andrea Baravelli e immodestamente anche di chi scrive queste note.
Mentre per uno strano fenomeno che ancora non mi riesco a spiegare la sala stentava a riempirsi per l’avvenimento clou della giornata, quella che avrebbe visto la partecipazione di alcuni famosissimi esponenti del Gruppo ’63 e quella dello scrittore ferrarese per eccellenza e molto amato dalla città, Roberto Pazzi, dialogante con il presidente del Comitato celebrativo, il professor Giulio Ferroni, mi accorgevo che né un fotografo né un rappresentante della tv locale erano presenti. Solo alcuni eroici giornalisti delle testate locali. Naturalmente nessun rappresentante delle istituzioni o dei giovani che studiano queste cose. Ai miei tempi forse sarei corso per vedere che faccia avevano e che cosa avrebbero detto monumenti culturali quali Fausto Curi o Renato Barilli.
Ma Ferrara come si sa è città dalle cento meraviglie anche in negativo e spesso sa diventare ‘Ferara, stazione di Ferara’. Comunque i numerosi presenti hanno reso il dovuto riconoscimento ai relatori.

Tutto questo può essere ripetuto per il momento forse più atteso del Convegnone “Bassani e l’impegno civile” organizzato dalla sezione ferrarese di Italia Nostra. Due straordinarie conferenze: quella di Piero Craveri, nipote di Benedetto Croce, che ha illustrato le ragioni e il contesto da cui nascerà Italia Nostra e il rapporto d’amicizia che legava sua madre Elena Croce Craveri allo scrittore Bassani; e quella di Andrea Emiliani sulla funzione e il senso della difesa del paesaggio e del ruolo delle istituzioni premesse alla difesa e alla cultura dell’ambiente. Entrambe sono state intervallate dagli scritti di Bassani sull’impegno civile letti in maniera egregia da Alberto Rossatti.
Un raggiungimento dei fini che ci eravamo proposti veramente alto. Peccato per le assenze. Ma anche queste testimoniano i segni del tempo.

Nella mattinata di sabato anche la proclamazione del Premio Bassani, già alla sua quarta edizione, che ha laureato illustri e ora famosi giornalisti, vinto dal bravissimo Paolo Conti del Corriere della Sera e con i due premi della Giuria dati a Roberto Saviano e a Radio Radicale.

Premio della Giuria a Roberto Saviano
Nell’anno in cui si celebra il centenario della nascita di Giorgio Bassani, che tra i primi, come fondatore e presidente di Italia Nostra, ha posto come scopo essenziale dell’Associazione quello di difendere il valore culturale e etico del paesaggio, la Giuria  riconosce all’unanimità una analoga finalità di intenti a Roberto Saviano, eroe moderno capace di battersi, in una situazione difficilissima, per i valori e i diritti della legalità, a cui è  indissolubilmente connessa la protezione dell’ambiente e del paesaggio.

Menzione Speciale alla trasmissione “Fatto in Italia”, di Radio Radicale
La Giuria intende all’unanimità sottolineare la costante presenza e attività di Radio Radicale a sostegno delle battaglie di Italia Nostra per la difesa del patrimonio culturale e del paesaggio, in particolare l’azione incisiva di divulgazione del programmma radiofonico “Fatto in Italia”.

Premio nazionale “Giorgio Bassani” di Italia Nostra
La Giuria riconosce all’unanimità all’editorialista del “Corriere della Sera” Paolo Conti una attenzione costante e puntuale alle battaglie di Italia Nostra. Seguendo l’insegnamento di Cederna, Paolo Conti è diventato nei decenni un cronista attento, “un inviato speciale nei Beni Culturali”, e un acuto commentatore militante dell’impegno mai troppo perseguito del salvataggio del nostro patrimonio culturale e paesaggistico.

LA MOSTRA
“Le muse quietanti” di Flavia Franceschini

Prendere persone, metterle in posa davanti a una scenografia, scattare una foto-ritratto. E’ quello che si faceva una volta quando non c’erano i selfie, ma soprattutto quando la macchina fotografica era qualcosa di ingombrante, costoso, da manovrare con perizia da parte di un addetto ai lavori. Adesso che le foto impazzano ovunque e vengono scattate un po’ da chiunque, è interessante rimettere in scena la cerimonia della fotografia. Se poi gli amici e i parenti sono persone conosciute, il risultato è una carrellata di personaggi che non può non suscitare curiosità. L’idea è alla base della nuova mostra intitolata “Le muse quietanti” con le immagini scattate da Flavia Franceschini e allestita tra la casa-galleria Mlb di corso Ercole I d’Este e gli spazi dell’hotel Annunziata che si affaccia sul cannone davanti al castello in piazza della Repubblica.

Maria Livia Brunelli con Flavia e Dario Franceschini all'inaugurazione della mostra "Le muse quietanti"
Maria Livia Brunelli con Flavia e Dario Franceschini all’inaugurazione della mostra “Le muse quietanti”

A ideare la rassegna espositiva è Maria Livia Brunelli, gallerista ferrarese che dell’arte ha fatto uno stile di vita e che nella sua casa-galleria di corso Ercole d’Este da anni propone esposizioni di artisti contemporanei che con la città di Ferrara hanno un legame. La connessione può consistere nel fatto che l’artista a Ferrara ci è nato o ci vive ma, soprattutto, di solito sta nel fatto che su indicazione di Maria Livia l’artista prescelto lavora di volta in volta attorno a qualche elemento ferrarese per trasformarlo nel filo conduttore di un insieme di opere. Può essere una presa di possesso dei luoghi fisici della città, come è successo con le installazioni di animali a grandezza naturale di Stefano Bombardieri esposti per strade e piazze tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011. Oppure può essere un’elaborazione personale attorno alle opere in mostra in quel momento a palazzo dei Diamanti, come è successo con lo scultore e video artista Maurizio Camerani che nel 2014 ha ripreso con il suo segno a matita dettagli ricorrenti nell’opera di Henri Matisse, o Mustafa Sabbagh che sempre nel 2014 dal maestro fauve è partito per rimetterne in scena le figure nella sue fotografie di segno opposto, con posizioni e gesti paralleli a quelli dei quadri ma resi con la crudezza fotografica dei suoi colori scarni, quasi monocromi.

Massimo Alì Mohammed con la fidanzata scultrice Elisa Leonini ritratti da Flavia Franceschini per la mostra "Le muse quietanti"
Massimo Alì Mohammed con la fidanzata scultrice Elisa Leonini ritratti da Flavia Franceschini per la mostra “Le muse quietanti”

Adesso è la volta di Flavia Franceschini, scultrice, ma più in generale artista con una particolare propensione per una visione teatrale e ludica della creatività. Presenza attenta in quasi tutte le iniziative culturali della città – che siano artistiche, musicali e letterarie – Flavia fa dell’arte un mezzo di espressione continuo che sembra rendere più sognante e interessante tutto ciò che la circonda.

Ecco allora il titolo “Le muse quietanti” che – come dichiara lei stessa – è stato scelto dal fratello scrittore e ministro dei beni culturali, Dario Franceschini. Una parafrasi che riprende il nome di uno dei capolavori più noti di Giorgio de Chirico, quelle “Muse inquietanti” composte dai manichini in posa proprio nella piazza di Ferrara davanti al castello estense, simulacri di un’umanità immersa in un silenzio minaccioso e circondata da quel senso di vuoto opprimente che ritorna un po’ in tutti i dipinti metafisici.

Con le opere fotografiche di Flavia Franceschini l’inquietudine si dissolve e lascia spazio – appunto – alla quiete celeste del cielo di un fondale scenografico. Davanti a quelle nuvole dipinte si alternano in posa il giovane regista Massimo Alì Mohammed con la fidanzata scultrice Elisa Leonini, il gallerista Paolo Volta in sella con la moglie sulla moto enorme che si è voluto portare appresso nello studio, il disegnatore Claudio Gualandi con la consorte grafica Linda Mazzoni. Un’altra serie di immagini è scattata davanti a un pannello dove Flavia stessa ha dipinto uno scaffale pieno di libri, che fa da sfondo ai ritratti di chi sente di rappresentare la propria identità con la scrittura: il fratello Dario Franceschini con la moglie consigliera romana del Pd Michela De Biase, la giovane giornalista Anja Rossi e, in un altro scatto, il collega di penna Andrea Musacci. Particolarmente riuscita l’immagine della figlia di Flavia, Aurora Bollettinari, ritratta in un abito che sembra uscito dal dipinto della “Signora in rosa” di Giovanni Boldini accanto al fidanzato, l’artista romano Pietro Moretti con basco da pittore. Divertimento e coinvolgimento evidente, infine, nel ritratto che vede la stessa Maria Livia Brunelli in posa con abiti d’epoca e l’immancabile cappellino insieme con il marito Fabrizio Casetti e la bambina Lucrezia in tutù rosa in piedi sulla sedia per potere reggere l’ombrello di pizzo sopra la famiglia. Per una carrellata completa non resta che visitare la mostra

“Le muse quietanti” di Flavia Franceschini a Ferrara fino al 5 febbraio 2017 nelle due sedi: MLB home gallery, corso Ercole I° d’Este 3 (dalle 15 alle 19) e Art gallery dell’hotel Annunziata, piazza della Repubblica 5 (dalle 10 alle 24)

Flavia Franceschini davanti al ritratto della figlia Aurora con Pietro Moretti per la mostra su "Le muse quietanti" (foto Giorgia Mazzotti)
Flavia davanti al ritratto della figlia Aurora e Pietro Moretti (foto Giorgia Mazzotti)
“La signora in rosa” di Giovanni Boldini, olio su tela 1916 (Gallerie civiche di arte moderna di Ferrara)
Pietro Moretti con la musicista Laura Trapani
Lucrezia con i genitori Fabrizio Casetti e Maria Livia Brunelli (foto Flavia Franceschini)

 

IN PRIMA LINEA
Quando la guerra ti guarda negli occhi

di Diego Stellino

L’inatteso colpisce, deve colpire, sempre di più di ogni previsione di incontro. Questo accade quando la ‘guardia si abbassa’ e quello che è l’ordinario ti proietta invece tra le fauci della realtà. Tutte quelle barriere che si creano, spesso involontariamente, se non inconsciamente, quando veniamo travolti dalle notizie dalle ‘zone calde’ della terra, ci portano alla compassione da spettatore assuefatto, abituato alla ‘prossima notizia’, alla storia vera accanto alla fiction di stagione che potrebbe anche trattare dello stesso tema, se non, comunque, quasi certamente di violenza.

Qui siamo semplicemente ai margini di una di quelle zone, è il confine turco-siriano, nella città di Kilis. Questa foto non è niente di speciale: una donna, vestita con burqa, insieme alla figlia di qualche anno; è stata scattata al termine del viaggio in autobus tra Kirikhan e Kilis, una bella stazione degli autobus.
Il viaggio è stato fatto su un piccolo pulmino da una quindicina di posti, io ero quello con la valigia più grande (lo zaino con l’attrezzatura foto e un cambio), non c’erano fermate: si rallenta quando si vede una persona ferma al margine della strada e con un cenno si capisce se serve il passaggio o meno.

La ragazza è in difficoltà: deve chiamare qualcuno a casa, ma non ha modo (non so se per mancanza di credito o del telefono stesso). I ragazzi che ho appena conosciuto notano la situazione, parlano un po’ con lei e le offrono il loro telefono. Poi Ali mi guarda e mi spiega con grande semplicità che la ragazza è sola, sta cercando di raggiungere a Gaziantep la sua famiglia con la figlia: viene da Aleppo, suo marito è morto in un bombardamento dieci giorni fa.

L’accompagnano al prossimo pulmino per l’ultima tratta del suo viaggio per tornare dai suoi genitori, che, non è scontato, la accolgono nuovamente tra di loro.

Eccola qui la guerra, davanti a me: fotografata “in pace” e prima di sapere che davanti avessi proprio lei.

Tradizionale o sperimentale? Giorgio Bassani ieri, oggi, domani

Si dice spesso che un classico, in letteratura come in altri compi dell’arte, è veramente tale solo se mantiene un’attualità al di là del passare del tempo, solo se è in grado di continuare a dialogare con le generazioni che si susseguono, trasmettendo lo stesso messaggio a tutti oppure permettendo a ciascuno di trovare sempre un diverso punto in comune con la storia e i personaggi narrati. Ecco perché uno degli incontri della cinque giornate “Giorgio Bassani 1916-2016” è stato dedicato a “Bassani ieri, oggi, domani”.

bassani-ieri-oggi-domani

Organizzata da Portia Prebys per il Centro Studi Bassaniani e coordinata dal professor Gianni Venturi, la tavola rotonda è tornata su una querelle letteraria che a suo tempo suscitò diverse polemiche e che oppose il Gruppo ’63 a Giorgio Bassani, definito una “Liala degli anni Sessanta”, insieme a lui altri ‘mostri sacri’ come Cassola e Pratolini. Perché celebrare un autore significa anche dare spazio a chi lo critica, per mantenere vivo il dibattito sulle sue opere e far sì che continuino a essere lette.
La polemica letteraria Neoavanguardia contro Bassani potrebbe sembrare materia da salotti letterari, se non fosse che alcuni membri del Gruppo 63 diventeranno fra i maggiori protagonisti della cultura del Novecento: Alberto Arbasino, Luciano Anceschi, Achille Bonito Oliva, Edoardo Sanguineti, Luigi Malerba, Umberto Eco, sono solo alcuni nomi.
Insieme a Venturi, venerdì sera nella Sala dei Comuni del Castello Estense c’erano Giulio Ferroni, critico letterario e storico della letteratura italiano, Alberto Bertoni, docente bolognese di letteratura italiana contemporanea, Roberto Pazzi, unico scrittore al tavolo dei relatori, ma soprattutto due esponenti di quel Gruppo ’63 che fece così scalpore: Fausto Curi e Renato Barilli, due pilastri dell’Alma Mater Studiorum.

Quella definizione sprezzante, “Liala degli anni Sessanta”, spiacque non poco a Bassani che replicò prontamente e per le rime: “I più presi di mira siamo noi, gli scrittori della generazione di mezzo, noi che siamo usciti dalla Resistenza conservandone la tensione morale e l’impegno politico. Quelli che ci attaccano sono le anime belle della letteratura (…) Che si possa incontrarli qui a Roma nei caffè di piazza del Popolo, o in qualche ristorantuccio di via della Croce o di piazza Sforza Cesarini, tutti aggiornati anche fisicamente, nel taglio dei capelli e delle barbe, nelle giacche e nelle brache di velluto, nei camiciotti a quadrettoni, tutti così “artisti, così “irresponsabili”, così innocuamente “arrabbiati” o gelidi, comunque sempre chic, non aiuta davvero a chiarire l’enigma sulla loro reale identità (…) Il mio parere è che dei letterati della neoavanguardia si potrà cominciare a occuparsi soltanto quando avranno prodotto qualcosa di oggettivamente accettabile”.
Quando si dice che può ferire più la penna che la spada…

A cinquant’anni di distanza Curi e Barilli non sembrano retrocedere dalle loro posizioni. C’è però un elemento nuovo: “Quella frase su Liala noi non l’abbiamo mai pronunciata. Ciò che ci era proprio era l’accusa, non l’offesa”, afferma Renato Barilli, che subito dopo puntualizza: “quello che abbiamo fatto è bocciare questi autori, non abbiamo dato loro la sufficienza”. In fondo, ironizza lo storico della letteratura e dell’arte, “eravamo professorini” o meglio, come diceva lo stesso Umberto Eco, “un’avanguardia da vagone letto”.
“Non eravamo nati sotto un cavolo, avevamo dei padri, anzi di alcuni eravamo molto orgogliosi e non abbiamo nascosto queste paternità”, ha detto Curi, prima fra tutte quella di Anceschi, che nel 1956 aveva fondato quella rivista “Il Verri” che divenne l’incubatrice del Gruppo. “Noi sapevamo di venire da altri, non abbiamo mai pensato di creare una letteratura nuova: abbiamo cercato di mettere a frutto sollecitazioni e insegnamenti in modo nuovo, elaborando ipotesi, idee perché credevamo che l’arte avesse bisogno di nuova linfa”, ha continuato Curi.
“Avevamo dei padri, ma non erano loro”, gli fa eco Barilli riferendosi a Bassani e Cassola: “questi autori venivano dagli anni Trenta e non andavano bene per la nuova Italia del Boom economico, non corrispondevano più alle esigenze dei tempi, questa narrativa non ci soddisfava perché era datata e tardiva, per quella sua volontà di essere corretta e scorrevole, noi volevamo una prosa ruvida, che seguisse i meandri di una società in divenire”.
Giulio Ferroni non pensa affatto che un’opera d’arte, o meglio l’arte in generale, debba essere in linea con le strutture storiche, sociali ed economiche del suo tempo, anzi la grandezza di uno scrittore come Bassani sta proprio nel suo essere “contro la storia”, nel “guardare indietro perché le contraddizioni del passato non continuino a pesare sul presente”. Non è certo un caso, sottolinea Ferroni, che si debba proprio alla sua consulenza per Feltrinelli la pubblicazione del “romanzo anti-storico” “Il Gattopardo”.

Lungi dall’essere “tradizionale e calligrafico”, per Alberto Bertoni Bassani è un “narratore sperimentale” che con il “Romanzo di Ferrara” ha composto “una delle poche opere-mondo del Novecento”: vi si descrive “una città altra” con “una narrazione polifonica e un punto di vista collettivo”. Secondo il “bassaniano” Bertoni, come lui stesso si è definito, la sperimentalità dello scrittore ferrarese è nella capacità di usare “il discorso indiretto libero in un libro che sia leggibile ai più e non per specialisti”.
Ultima parola a Roberto Pazzi, l’unico relatore che esercita la scrittura creativa e non la critica: “Non è facile scrivere rimanendo a Ferrara con l’ombra di Bassani che costringe sempre al confronto”, ha confessato l’autore. Quello che, a suo parere, ne fa un grande autore è “la religione della laica parola: ho sempre sentito in Bassani il culto della parola poetica che salva la vita del nulla”. “La morte è il tema di Bassani”, ha concluso Pazzi, e “Il Giardino dei Finzi Contini è la tomba di parole per chi non ne ha avuta una di pietra, noi passiamo mentre le parole scritte restano”.