Skip to main content

Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Giornata della danza

Il 29 aprile viene festeggiata la Giornata Internazionale della Danza, istituita nel 1982, dal Comitato Internazionale della Danza (C.I.D.) / Istituto Internazionale del Teatro (IIT) dell’Unesco (vedi). La data commemora la nascita di Jean-Georges Noverre (1727-1810), che fu il più grande coreografo della sua epoca, considerato il creatore del balletto moderno. Lo scopo principale degli eventi che in tutto il mondo vengono organizzati in questa giornata (esibizioni, speciali performance anche all’aperto, incontri pubblici, letture, articoli di giornali e riviste, programmi radiofonici e televisivi) è attirare l’attenzione di un vasto pubblico, per indirizzarlo al mondo della danza e destarne l’interesse verso questa disciplina formativa e meravigliosa.
Per festeggiare questa ricorrenza che accomuna e avvicina tutti i paesi e gli artisti del mondo, vi abbiamo preparato una sorpresa. Una carrellata fotografica di balletti, scatti presi principalmente a Mosca, tempio del balletto. Off course! Buona visione.

Teatro Bolshoi, Mosca
Teatro Bolshoi, Mosca
Teatro Bolshoi, Mosca
Teatro Bolshoi, Novaya Scena, Mosca
Ivan il Terribile Teatro Bolshoi, Mosca, 4 febbraio 2015
Gioielli Teatro Bolshoi, 27 Febbraio 2016
Gioielli Teatro Bolshoi, 27 Febbraio 2016
Gioielli Teatro Bolshoi, 27 Febbraio 2016
Sergei Polunin Il Lago dei Cigni, Teatro Stanislavsky Mosca, 27 Novembre 2015
Sergei Polunin Il Lago dei Cigni, Teatro Stanislavsky Mosca, 27 Novembre 2015
Sergei Polunin Il Lago dei Cigni, Teatro Stanislavsky Mosca, 27 Novembre 2015
Erika Mikirticheva Silfide, Teatro Stanislavsky Mosca, 7 Dicembre 2015
Erika Mikirticheva Silfide, Teatro Stanislavsky Mosca, 7 Dicembre 2015
Carla Fracci Mistero Balletto, Teatro Russkaya Pesna Mosca, 28 Settembre 2015
Carla Fracci Mistero Balletto, Teatro Russkaya Pesna Mosca, 28 Settembre 2015
Carla Fracci Mistero Balletto, Teatro Russkaya Pesna Mosca, 28 Settembre 2015
Carla Fracci Mistero Balletto Teatro Russkaya Pesna Mosca, 28 Settembre 2015
Sergei Polunin La Bayadere, Teatro Stanislavsky Mosca, 28 Marzo 2016
Sergei Polunin La Bayadere, Teatro Stanislavsky Mosca, 28 Marzo 2016
Sergei Polunin La Bayadere, Teatro Stanislavsky Mosca, 28 Marzo 2016
Balletto Moyesev Sala Tchaikosky, Mosca, 6 Aprile 2016
Balletto Moyesev Sala Tchaikosky, Mosca, 6 Aprile 2016
Teatro Novaya Opera, Mosca
Teatro Novaya Opera, Mosca

 

Fotografie di Simonetta Sandri

DI VINO
Fra i vini di Liguria, ignoti al grande pubblico, primeggiano Pigato e Vermentino

Nella maggior parte dei menu dei ristoranti italiani la voce Liguria fra l’elenco dei vini non compare. Chi chiede un Vermentino, normalmente, ha in testa quello sardo, sapido e lievemente senapato, o tuttalpiù quello toscano. Difficilmente chiederà o riceverà un Vermentino ligure. Eppure questo bianco di Liguria, in particolare se prodotto nella zona di Luni, al confine con la Toscana si può segnalare – così come l’elegante Pigato –  fra i prodotti notevoli del panorama vinicolo italiano. Ma la produzione del territorio ligure risulta marginale e fatica a catturare l’attenzione del mercato. Appena cinquemila sono gli ettari coltivati a vite, concentrati fra le terre di levante e ponente. Conseguentemente ridotta è la produzione, normalmente inferiore ai cinquemila ettolitri annui. Non sono molte neppure le varietà presenti nella magra Liguria, dalla curiosa conformazione a boomerang: un arco costituito da colli che si tuffano in mare. Ridottissima, in zona, è l’escursione termica; decisamente particolare il clima, inadatto per parecchie varietà d’uva.
Primeggiano i bianchi: oltre ai già citati Pigato e Vermentino, si segnalano il Levanto, il Cinque Terre, la popolare Bianchetta (anche frizzante), l’elegante Colli di Luni. Bosco, Albarola e Vermentino si coalizzano per dare anima al celebrato e raro Sciacchetrà, un passito per facoltosi intenditori, figlio delle Cinque Terre, mentre la zona del Tigullio esprime pure un Moscato, non particolarmente noto, però.
Fra i rossi, Rossese e Ormeasco sono i più ricercati, e con loro le varianti ‘tinte’ di Tigullio e Levanto oltre a un più raro Ciliegiolo e alla riscoperta Granaccia (da uve Alicante, tipiche del savonese), interessante anche come passito.

Di recente a Ferrara, il piacere di degustare proprio i vini di Liguria, nella cornice del ristorante Le Querce (del Cus), è stato riservato ai soci Onav, grazie al consueto prodigarsi del segretario Lino Bellini, come sempre coadiuvato da Ruggero Ciammarughi e Alberto Capponcelli. Introdotti dalla sapiente e appassionata prolusione del maestro assaggiatore ligure Andrea Briano, si sono fatti apprezzare al palato degli ospiti alcuni fra i prodotti presentati, in particolare il Basura Obscura, uno spumante metodo classico ottenuto da uve Pigato in purezza, prodotto dall’azienda vitivinicola Durin, utilizzando mosto in luogo degli zuccheri, e servito a preambolo della serata. Molto gradito anche il Pigato “Vigne Veggie” della cantina Massimo Alessandri di Imperia.
L’Organizzazione nazionale assaggiatori vini – peraltro – per l’autunno ha in programma anche un ben articolato corso in 18 lezioni, pensato per chi desidera approcciarsi al vino con piena consapevolezza e la capacità di coglierne il carattere autentico. Intanto il prossimo appuntamento è già fissato per il 9 maggio, con le bollicine di Franciacorta, sempre alle Querce del Cus.

IL RITRATTO
Miguel De Cervantes, un sognatore sconfitto come il suo Chisciotte

di Gian Luigi Zucchini

Cervantes
Miguel de Cervantes

Nel 1573 Paolo Caliari, detto il Veronese, dipinge una grande allegoria della battaglia di Lepanto, combattuta due anni prima. Tra raggi di luce, angeli e santi, schiere di navi si affrontano sul mare, in un confuso incastro di vascelli, alberature, remi e bagliore di armi. Tra i tanti combatte in quella battaglia anche il ventiquattrenne Miguel de Cervantes Saavedra.
Nato nel 1547 ad Alcalà de Henares, non si sa esattamente dove trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Lo troviamo studente a Madrid dove, ritenuto colpevole di aver ferito in uno scontro un certo Antonio de Segura, è condannato al taglio della mano destra. Per evitare la condanna, Cervantes fugge in Italia al seguito del cardinal Acquaviva e, arruolatosi nelle schiere imperiali, combatte a Lepanto dove, sfuggito al taglio della mano destra a cui era stato condannato, perde in battaglia quella sinistra. “Ma egli – scrive di sé più tardi – trova bella questa ferita, perché l’ha ricevuto combattendo sotto le vittoriose bandiere di Carlo V di felice memoria”.
Essendo soldato, vorrebbe conquistare un po’ di gloria con le armi. Partecipa, tra altre imprese, alla presa di Biserta e di Tunisi nel 1573 e, nei momenti di pausa, scrive novelle e drammi. Intanto don Giovanni d’Austria, vincitore di Lepanto e vicerè di Napoli, lo raccomanda per una promozione a capitano, che però non riuscrà mai ad avere. Così si imbarca per tornare in Spagna. Naviga con una piccola flotta, ma non si sa per quali ragioni la sua nave si distacca dalle altre; individuata dai corsari turchi, viene presa d’assalto alla foce del Rodano. Cervantes, preso prigioniero con pochi altri superstiti, viene venduto come schiavo. Rimane in terra africana per cinque anni, tentando invano di fuggire; poi viene riscattato e torna in Spagna, dove presta ancora servizio nell’esercito per due anni, senza peraltro conseguire quella nomina a capitano a cui tiene moltissimo. Nel 1584 si sposa e va a vivere a Siviglia, lavorando in qualità di commissario per le forniture dell’Invincibile Armada, la flotta navale di Filippo II, ma pochi anni dopo viene arrestato per una questione di ammanchi dovuti alla disonestà di un banchiere di cui ingenuamente si è fidato. Nella solitudine della prigione, ancora – come in altre situazioni di prigionia o di solitudine – cerca di evadere con il pensiero e immagina una fuga nelle immense pianure della Spagna, cavalcando come un cavaliere antico, per difendere i deboli combattendo. Ma immagina anche di deridere spietatamente il servile comportamento di molti, quello che egli stesso, nella vita, sta conducendo.
Uscito dal carcere, Cervantes si trasferisce a Valladolid, dove comincia a scrivere la prima parte dell’operache lo renderà famoso, che esce nel 1605 (ma più recenti ricerche daterebbero la prima edizione al 1604). La intitola “L’ingegnoso gentiluomo Don Chisciotte della Mancia”. I protagonisti sono: un cinquantenne male in arnese, che cambia il proprio nome di Alonso Quijano in quello pomposo di don Chisciotte della Mancia; il suo cavallo, un povero ronzino, cui pone il nome di Ronzinante, “pomposo e risonante, come era conveniente al nuovo ordine ed all’uffizio nuovo che ormai assumeva”; la dama, “una contadinotta delle vicinanze che non si curava affatto di lui”, a cui dà il nome di Dulcinea del Toboso; infine, “un contadino del vicinato; un uomo dabbene, ma con molto poco sale in zucca”, che si chiamava Sancio Panza, convinto a seguire il cavaliere come suo scudiero, “perché poteva capitarli qualche avventura di guadagnarsi in quattro e quattr’otto un’isola di cui l’avrebbe nominato governatore”.

don-Chisciotte-Dalì
Il Don Chisciotte di Salvador Dalì

Così don Chisciotte su un cavallo e Sancio su un asino “uscirono dal paese senza essere visti da nessuno e camminarono tanto che all’alba si tennero sicuri che, se anche li avessero cercati, non li avrebbero trovati”.
Comincia così la serie di vicende dei due personaggi, in una successione di pseudoavventure dove l’immaginazione impazzita del cavaliere affronta fantasiose trame di assalti, lotte, misteri e straordinari eventi. Una storia di saggia pazzia, o di pazza saggezza, in cui Cervantes sembra voler ridicolizzare, attraverso la simulazione narrativa, i comportamenti irresponsabili e assurdi, le troppo serie situazioni reali, gli eventi che inquietano per poca cosa o per nulla. Cerca insomma, nell’ilare pazzia del suo personaggio, di trasformare gli eventi elogiando la diversità, l’evasione, la fuga da una realtà spesso pesantemente insopportabile. La pazzia, dunque, come rifugio alla tristezza e alla miseria del quotidiano, che per questo va elogiata, come scrivevano in quei tempi Erasmo da Rotterdam e Sebastiano Brant; o esaltata, come accade nell’Orlando Furioso dell’Ariosto. O anche la follia come mezzo per fingere se stessi e al tempo stesso rivelarsi, come Amleto, Ofelia, Re Lear, lady Macbeth, e dalla quale viene travolto il Tasso. Cervantes no: tra odiare gli uomini e divertirsi alle loro spalle, sceglie quest’ultima strada, e crea questo personaggio straordinario, un Burlador de la Mancha che si avventa sui fantasmi delle cose. Fantasmi che nel loro simbolismo sono la trascrizione deformata, ma vera, della più cruda attualità.

E, in realtà, i castelli dei principi sono locande mascherate dove occorre pagare molto per avere una misera ospitalità, i mulini sono briganti che vivono di vento e di furto, le vergini che si incontrano non sono altro che prostitute travestite, le serve sono meglio delle signore, i soldati sono pecore condotte al macello e le schiere dei condannati sono sicuramente più innocenti dei loro sbirri. È ciò don Chisciotte, o meglio Cervantes, pensa degli uomini. E la sua storia personale continua, nonostante i sogni, a essere mediocre e triste. È stata appena pubblicata la prima parte della sua stralunata storia, che viene di nuovo arrestato – innocente – per un assassinio accaduto di notte di fronte alla sua casa, e del quale vengono accusati lui e la famiglia come esecutori. Fa alcuni mesi di prigione, dopodiché, scagionato, torna libero. Ma si può ben pensare con quale animo e quale rancore verso la società.
Dopo il carcere, torna a Madrid, al seguito della corte di Filippo II. Qui, nel 1615, appare la seconda parte del romanzo, mentre l’autore anela invano ritornare in Italia e dedicarsi esclusivamente alla scrittura. È il sogno di un poeta, come in realtà egli fu, perché il Don Chisciotte è anche un’opera di poesia. Lui, Cervantes, viveva di sogni. “La vida es sueño”, scriverà più tardi Calderón de la Barca: “Qué es la vida? un frenesí; / Qué es la vida? una ilusión / una sombra, una ficción…”.
Così, in quegli anni preziosi per la cultura spagnola, si consumano le contraddizioni di una società splendida e miserabile, dove l’opulenza delle corti e dell’arte si mescola con il putrideiro della morte rivestita d’oro, degli stracci mescolati a velluti e corone, agli incensi e alle pustole dei bambini che si spulciano, come si può vedere in molte pitture spagnole dell’epoca. Murillo, per esempio, dipinge bambini vestiti di stracci e gallegas, prostitute alla finestra, che cercano di attirare i clienti, o una vecchia che spidocchia un bambino, o dei poveri contadinelli affamati, ma dipinge pure Madonne e Santi, in scene di dolcezza mistica e splendori di porpore e di ori; oppure El Greco, che esalta mortificazioni austere e mistici asceti macerati dai tormenti della passione religiosa. La letteratura trova spazio nella celebrazione del Rinascimento che si conclude e del Siglo de oro che inizia, mentre la pittura, per mano di artisti come Velasquez sottolinea ulteriormente le scene di genere dipinte da Juan del Castillo, da Francisco Herrera, da Ribera, da Zurbarán e da altri ancora, insistendo su caratteri e sentimenti, ma anche sulla descrizione della modesta vita quotidiana ripresa anche nei dettagli: canestri di vimini, boccali, tovaglie che conservano ancora la traccia delle piegature con cui erano riposte nella cassapanca, pentole entro cui cuoce la zuppa, uova che friggono nel padellino di coccio. Eppure questo splendore intriso anche di miseria, di ascetismi e di trionfi sta concludendo il suo aureo itinerario. Carlo V aveva abdicato quando Cervantes aveva otto anni; la potenza spagnola comincia a declinare già sotto Filippo II, poi sempre più sotto Filippo III. Il lento inizio di questo tramonto sembra avvertito anche da Cervantes, che vive una vita da fallito e descrive la storia di un personaggio pure fallito, che evade nella fantasia: un idealismo utopistico per fuggire la realtà o anche, volendo, un realismo adombrato da figure di spoglia e dimessa umanità.
Dopo aver scritto la seconda parte del suo romanzo, Cervantes vive ancora un paio d’anni. Di lui non si hanno più notizie, se non che sta scrivendo “Le pene di Persiles e Sigismonda”, sua ultima opera. E in questi giorni di tramonto, lo si potrebbe immaginare come lo rappresenta Honoré Daumier nel 1866: uno stanco e disilluso vecchio, seduto su una sedia in una saletta buia, le gambe scheletriche, il volto macilento, gli occhi profondamente cerchiati di stanchezza.
Pochi libri in terra, a rappresentare la dispersione di quanto la mente ha pensato e che andrà poi irrimediabilmente perduto con la morte.

Cervantes muore a Madrid il 23 aprile del 1616, ma non dimenticato. Trasfigurato nel cavaliere dell’ideale, cammina ancora nelle strade di Spagna e del mondo, aprendoci in ogni tempo, nella storia e nella vita, i meravigliosi itinerari della fantasia e della speranza.

L’APPUNTAMENTO
Alla libreria Ibs si sfoglieranno le “Pagine sul potere”

Ormai è diventato un appuntamento fisso, una tradizione. Da domani ritorna il ciclo di incontri pubblici alla Libreria Ibs + Libraccio organizzato dalle Cattedre di Diritto costituzionale e Istituzioni di diritto pubblico del Dipartimento di Giurisprudenza di Unife, giunto quest’anno alla loro sesta edizione.

Dopo aver affrontato le tematiche inerenti alle carceri (2011-2013), la storia costituzionale contemporanea (2014) e il tema della giustizia in tutte le sue forme (2015), il ciclo di conferenze di quest’anno è intitolato “Pagine sul potere” e prevede un nutrito schieramento di illustri ospiti che, per cinque venerdì sempre alle ore 17, animerà gli spazi di Palazzo San Crispino.

pagine potere 2Un luogo, quest’ultimo, “divenuto negli ultimi anni un importante centro culturale della città”, come affermato durante la conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa da Patrizia Ricci, direttrice della libreria Ibs + Libraccio, la quale ricorda come questo fosse “uno degli obiettivi da quando la libreria ha avuto l’onore di insediarsi in questo storico luogo, una responsabilità soprattutto verso la cittadinanza. A confermare questo è la grande collaborazione con Unife – ha proseguito Ricci – una partnership possibile soprattutto grazie al grande successo riscontrato da queste conferenze in questi sei anni”.

Ideatore e promotore dell’iniziativa il costituzionalista dell’Università di Ferrara Andrea Pugiotto che, nell’illustrare l’evento, ha precisato: “nonostante l’iniziativa sia incentrata su un tema estremamente vasto come quello del potere, a noi interessava mettere sotto i riflettori soprattutto quello che concerne il potere politico, una questione che fa parte della vita di ognuno di noi anche se solo da sfondo”.
Cinque le parole chiave elencate da Pugiotto, una per ognuno degli eventi in rassegna: fare, sapere, saper fare, far sapere, leadership. Cinque concetti che caratterizzeranno questi eventi importanti ed estremamente attuali poiché, come ha ricordato il costituzionalista, “si collocano nell’anno del settantesimo anniversario della nostra Repubblica, nel sessantesimo della Corte Costituzionale e a pochi mesi dal referendum costituzionale, il quale non è argomento centrale della rassegna ma che di sicuro troverà spazio di analisi”. La formula di ogni incontro rimane invariata: grande rilevanza verrà data al libro di riferimento che ogni autore presenterà, un intervento di apertura a delineare la cornice costituzionale in esame, il dialogo tra l’ospite e un costituzionalista e, infine, spazio alle domande dal pubblico.

Ed ecco il ricco programma: domani si aprono i battenti analizzando il tema “governare”, con ospite l’uomo politico e oggi giudice costituzionale Giuliano Amato e il suo libro “Le istituzioni della democrazia”; venerdì 6 maggio sarà la volta di “scegliere” con la politologa Nadia Urbinati e il suo “Democrazia in diretta”; il professore emerito di diritto amministrativo Sabino Cassese presenterà il suo volume “Dentro la corte”, analizzando la parola “controllare”; venerdì 20 maggio si parlerà di “informare” e a intervenire sarà il presidente della Fondazione Italiadecide Luciano Violante con il suo libro “Politica e Menzogna”; a chiudere la rassegna il politologo Mauro Calise e il suo “La democrazia dei leader” per affrontare il termine “leadership”.
Una rassegna di grandissima qualità e spessore quindi, che Pugiotto ricorda essere “pensata per chi ha voglia di pensare” e che sconfinerà anche dalle Mura ferraresi grazie alla presenza di Radio Radicale, la quale registrerà tutte e cinque le conferenze.

Al termine della conferenza stampa di presentazione della rassegna spazio alle parole di Gian Piero Pollini e Giuseppe Stefani, rispettivamente l’ex direttore di Iuss-Ferrara 1391 e il Presidente della Fondazione Forense di Ferrara: il primo ha ricordato l’importanza di questa iniziativa culturale poiché “esce dalle aule universitarie e in questa maniera riesce ad arrivare a un numero sempre più ampio di cittadini”, mentre il secondo ha ribadito l’entusiasmo da parte della Fondazione Forense nel patrocinare questo evento grazia al suo “scopo fortemente culturale e quindi perfettamente in linea con il percorso di aggiornamento e formazione intrapreso con entusiasmo dai giovani avvocati della Scuola Forense”.
Oltre alla collaborazione di Iuss Ferrara 1391, Scuola Forense di Ferrara e Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna, “Pagine sul Potere” è patrocinato da Università e Comune di Ferrara, Fondazione Ordine dei Giornalisti Emilia Romagna e Fondazione Forense di Ferrara ed è sostenuto da Banca Generali.

Tutte le informazioni del ciclo di incontri “Pagine sul potere” potete trovarle nella locandina che segue. Clicca sull’immagine per ingrandirla.

pagine potere

LA RICORRENZA
Buon 25 aprile

Buon 25 aprile!
Anche chi ha lottato per quell’alba di Liberazione, ma non ha potuto viverla perchè è morto per essa.

Benedetto Bocchiola (Marco)
Di anni 20, meccanico, nato a Milano il 14 maggio 1924. Dal marzo al giugno 1944 svolge attività di raccolta e rifornimento di armi per le formazioni in montagna, nei mesi successivi prende parte a varie azioni effettuando colpi di mano su caserme occupate da forze nazifasciste e posti di blocco. Arrestato il 10 ottobre 1944 in Valle Biandino (Lecco) nel corso di un rastrellamento. Processato il 13 ottobre a Casargo da un tribunale misto tedesco e fascista. Fucilato il 15 ottobre a Introbio (Lecco) con altri cinque compagni.
15.10.1944
Carissimi genitori,
vi scrivo queste poche righe per farvi sapere che la mia salute è ottima come spero sia anche la vostra, non pensate per me perchè io sto bene. Se non riceverete mie notizie non allarmatevi.
Ricevete tanti saluti e tanti baci.
Vostro Nino
(Scritta poche ore prima della fucilazione, quando già conosceva la sua condanna)

Mario Brusa Romagnoli (Nando)
Di anni 18, meccanico aggiustatore, nato a Guardiaregia (Campobasso) il 12 maggio 1926. Nell’autunno del 1943 è nelle bande Pugnetto di Valli di Lanzo (Torino). Combatte sulle montagne di Genova, dove viene ferito una prima volta e arrestato, ma riesce a fuggire. Entra a far parte dei primi nuclei della Divisione autonoma Monferrato. Nel corso di un’azione da lui guidata vengono fatti prigionieri soldati e ufficiali tedeschi, viene nuovamente ferito. Non ancora guarito partecipa al combattimento del 25 marzo 1945 nei pressi di Brusasco-Cavagnolo, vicino Torino, e il 29 marzo mante guida un’azione contro un convoglio ferroviario tedesco sulla linea Milano-Torino viene ferito gravemente. Catturato verso la mezzanotte da una pattuglia del Reparto Arditi Ufficiali insieme ai tre compagni che tentavano di trasportarlo e condannato a morte quella stessa notte, mentre il comando partigiano tenta invano di concordare uno scambio di prigionieri. Fucilato il mattino del 30 marzo 1945 sulla piazza di Livorno Ferraris (Vercelli). E’ il fratello di altri due partigiani caduti.

Papà e Mamma,
è finita per il vostro figlio Mario, la vita è una piccolezza, il maledetto nemico mi fucila; raccogliete la mia salma e ponetela vicino a mio fratello Filippo.
Un bacio a te Mamma cara, Papà, Melania, Annamaria e zia, a Celso un bacio dal suo caro fratello Mario che dal cielo guiderà il loro destino in salvo da questa vita tremenda.
Addio. W l’Italia. Mario-Nando
Mi sono perduto alle ore 12 e alle 12 e 5 non ci sarò più per salutare la Vittoria

Domenico Caporossi (Miguel)
Di anni 17, elettricista, nato a Mathi Canavese (Torino) il 4 agosto 1927. Iscritto al Partito Comunista italiano, partigiano con il grado di sottotenente nella 80a Brigata Garibaldi operante nelle Valli di Lanzo e nel Canavesano. Il 17 febbraio 1945, recatosi a trovare i famigliari a Ciriè, viene catturato da elementi della Divisione Folgore. Incarcerato e torturato per 36 ore, viene fucilato senza processo il 21 febbraio 1945 sulla piazza principale di Verbania. Decorato di Croce di Guerra.

Cara Mamma,
vado a morire, ma da partigiano, col sorriso sulle labbra e una fede nel cuore. Non star malinconica io muoio contento. Saluti amici e parenti, ed un forte abbraccio e bacioni al piccolo Imperio e Ileno e il Caro Papà, e nonna e nonno e di ricordarsene sempre.
Ciau Vostro figlio Domenico

Eraclio Cappannini
Di anni 20, studente all’Istituto Industriale di Foligno (Perugia), nato a Iesi (Ancona) l’8 gennaio 1924. Nel novembre 1943 entra a far parte del 5a Brigata Garibaldi operante nella zona di Ancona e ne diventa Capo di Stato Maggiore. Partecipa ai combattimenti del gennaio e dell’aprile 1944 a Serra San Quirico e nei dintorni di Cabernardi e al colpo di mano per il sabotaggio del macchinario della Snia viscosa di Arcevia (Ancona), utilizzato dai tedeschi. Catturato all’alba del 4 maggio 1944 durante un trasferimento da un reparto tedesco presumibilmente guidato da un delatore. Viene fucilato senza processo il 5 maggio sotto le mura di Arcevia.
Arcevia 5 maggio 1944
Sono il giovane Cappannini Eraclio prigioniero dei tedeschi. Chi trova la presente è pregato di farlo avere alla mia famiglia, sfollata da Iesi a Serradeiconti presso il contadino Carbini. Cari Genitori e Parenti tutti; il mio ultimo pensiero sarà rivolto a voi ed alla mia, alla nostra cara Patria, che tanti sacrifici chiede ai suoi figli. Non piangete per me, vi sarò sempre vicino, vi amerò sempre anche fuori dal mondo terreno; voi sarete la mia sola consolazione. Siate forti come lo sono stato io.
Salutatemi tutti i miei conoscenti.
Vostro per l’eternità Eraclio
Bacioni alla piccola Maria Grazia
Ringrazio perennemente il latore
(Lettera scritta e abbandonata lungo il percorso fra il luogo della cattura e il luogo della fucilazione)

da “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana”, a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, Einaudi

DIARIO IN PUBBLICO
Ferrara: da Ariosto alla Spal

Aléeee… Aléeee… Il grido s’alza, rimbomba, s’irrobustisce. Trapassa dallo stadio alla città. Ci siamo: la Spal – da pronunciarsi con la ‘elle’ ferrarese – è finalmente, dopo 23 anni, in serie B! Nonostante il diluvio, nonostante il vecchio stadio, nonostante gli sfigati che non ci credevano. E i giornali giustamente si appropriano dei termini più crudi, più immaginifici: dall’ormai consueto ‘abbiamo sofferto’ all’innovativa ‘estasi biancoazzurra’. All’estasi s’abbandona il vescovo della città estense, monsignor Negri, che vorrebbe trascinare nella sua nuvola biancoazzurra il recalcitrante collega bolognese; alla raucedine da troppo urlo si piega il sindaco Tagliani mentre un boato, un rimbombo, uno tsunami scuote la piazza: è l’assessore allo sport Merli, che ha deciso di esprimere la sua ‘satisfaction’. Il direttore di questo giornale ricorda date fondamentali della sua vita e nascita e li mette in rapporto alla ri-nascita spallina.
Le persone che contano debbono urlare, commentare, congratularsi: se no che ferrarese sei?

Doni dal ciel piovuti gratificano la bella città estense. Una generosa e charmante dama dall’illustre prosapia affida attraverso il nipote dal nome che incute ammirazione, Ferrigo, il manoscritto del Giardino dei Finzi-Contini alle cure della città di Ferrara. Un’altra dama dal piglio sbrigliato e dalla strepitosa cultura taglia il nastro del munifico dono che il marito, Cesare Segre, ha voluto destinare a Ferrara, la città che nella sua Biblioteca custodisce la più importante raccolta di memorie ariostesche. Entrano quindi preziosi i doni e si pavoneggiano nella bellissima mostra curata dalle coraggiose e competenti vestali della Biblioteca Ariostea. Dall’alto del monumento funebre voluto dal generale napoleonico Miollis per dare degna sepoltura al ‘divino’ Ludovico sembra quasi che un impercettibile sberleffo percorra il viso marmoreo del poeta laureato. Una degna risposta alla violazione crudele che ha colpito con un tentativo d’incendio appiccato al portone della biblioteca, le fragili difese della cultura.

Ma il divertimento è assicurato con i giovani: e non scherzo.
Mi reco con lo scrittore Paolo Di Paolo al Liceo Ariosto per commentare il suo romanzo, “Mandami tanta vita”, romanzo imperniato sulla morte a Parigi di Piero Gobetti. Gli studenti sono preparatissimi; anzi le studentesse. Non un maschietto prende la parola. Sicure e tranquille le ragazze pongono le domande, commentano, s’infervorano, mentre l’unico ragazzo sopraffatto dalla timidezza rinuncia al suo intervento. Niente è cambiato allora da quando, ai miei tempi, le compagne ci guardavano tra protettive e consapevoli, sapendo benissimo che loro erano donne e noi ragazzetti? Son sicuro di no. Il meglio però viene al pranzo che le bravissime insegnanti ci offrono alla fine dell’incontro. Il ragazzo smania perché non è sicuro di essere riuscito a procurarsi l’agognato biglietto per la Spal. Immaginavo che avesse avuto la comprensione delle compagne che secondo il modello femminile non sarebbero dovute essere particolarmente interessate all’avvenimento. E… TUTTE invece si erano procurato il biglietto e minacciavano sfracelli d’entusiasmo durante la partita. Fantastico.
Il giorno seguente, anniversario dell’edizione del 1516 dell’Orlando furioso, ritorno al Liceo per presentare assieme a Lina Bolzoni – presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni del cinquecentenario del poema – il volume da lei curato, “L’Orlando furioso nello specchio delle immagini”, un raffinatissimo e costosissimo volume sulla storia delle immagini che hanno testimoniato la fortuna figurativa e non solo del poema. I ragazzi sono presi dalla vicenda che riguarda i fumetti, ma anche da quella, veramente straordinaria, di una fortuna che sigla il poema fino all’Ottocento più popolare in Europa. E ammirano Ingres e Doré e commentano, saputi, la Valentina-Angelica di Crepax o le pedine del suo magnifico gioco dell’Orlando furioso, ma chiedono il perché nel libro si trova un’immagine di Masaccio raffigurante il Tributo e come metterlo in rapporto con Ariosto.
Davvero ci siamo divertiti e abbiamo compreso molto. Lina Bolzoni afferma che il fondamentale vero omaggio alla comprensione dell’Ariosto è questo – e spero – gli altri numerosi incontri con gli studenti.
Poi, mentre il più robusto tra i ragazzi portava il libro in Presidenza offrendolo al miglior acquirente, siamo ritornati ai riti e ai miti delle celebrazioni.
Bocche rigorosamente a ‘cul de poule’, pensosi commenti lasciati cadere al momento giusto, falso schermirsi a chi ricorda la tua posizione. Insomma, il gioco delle parti, che è stato per un momento infranto dalla generosa presenza di giovani belli dentro e fuori.
Alléeee…

ELOGIO DEL PRESENTE
L’era dei robot e il futuro del sindacato

Le radicali trasformazioni in atto nel lavoro per effetto delle tecnologie digitali rappresentano una difficile sfida per il sindacato. Non da oggi è in atto una crisi di rappresentanza derivata da imponenti trasformazioni sociali e organizzative. Gli iscritti ai sindacati sono il 25% dell’insieme dei lavoratori; tra gli iscritti i pensionati sono il 40% e i giovani solo il 10%. Bastano questi pochi dati per comprendere la serietà della crisi di rappresentanza. Le trasformazioni del lavoro toccano l’identità, la natura, la funzione e la missione sociale del sindacato.
Rispetto alle comprensibili difficoltà di riposizionamento è ancora lontana la consapevolezza della discontinuità con il passato indotta da questa fase dell’innovazione tecnologica: il lavoro si riduce e cambia in modo radicale. I settori più colpiti sono: banche e finanza, manifatturiero, commercio, metalmeccanica, servizi pubblici, costruzioni, logistica e trasporti. Se consideriamo i profili, i più esposti alla riduzione sono gli addetti ad attività bancarie, gli operai non specializzati, gli addetti ad attività manifatturiere e commerciali e all’amministrazione.
McAfee e Brynjolfson in “Race against the machine” avevano calcolato che il 47% dei lavori erano a rischio di sostituzione: impiegati d’ufficio, assicuratori, commercialisti. Ma al di là dei numeri è in atto una riconfigurazione profonda. Cambieranno le mansioni e le competenze richieste: per esempio, un addetto di un punto vendita di ricambi auto, che oggi colloca scatole sugli scafali sulla base di codici, con l’arrivo delle stampanti in 3d dovrà produrre anche i pezzi richiesti. La fabbrica digitale resterà una commistione di processi automatici e di intelligenza. Avranno la meglio i lavoratori che “sapranno lavorare con le macchine”, che sapranno esprimere attitudini creative e sociali.

Le soluzioni a questa crisi del lavoro non sono affatto semplici. I problemi sono di due ordini. Il primo riguarda l’effetto di sostituzione e il secondo le implicazioni organizzative e la qualità delle competenze. Sul primo punto – cosa fare in risposta alla riduzione della quantità di lavoro – le proposte avanzate variano dal reddito di cittadinanza, alla costruzione di atelier in cui gli individui possano coltivare competenze e trasformarle in attività lavorative, alla promozione di lavori di servizio sociale finalizzati all’integrazione delle parti più povere della popolazione e così via. Si sottolinea che, al di là delle coperture economiche dei costi di forme di salario sociale, nessuna soluzione monetaria, ancorché praticabile, può sostituire il senso di identità che deriva dall’essere inserito in un contesto lavorativo.
Sul secondo punto, invece, è indispensabile guardare ai numerosi cambiamenti organizzativi senza pensare che questi riguardino un futuro lontano. Molti cambiamenti sono già in atto: per esempio l’era delle postazioni fisse è al tramonto: ad esempio le distinzioni tra front office e back office sono meno rigide. Inoltre la possibilità di lavoro a casa renderà più controllabile l’attività dei singoli e il potere di mercato sarà sempre più legato a caratteristiche individuali. Questo e molto altro manda definitivamente in crisi l’idea di rappresentanza che aveva attraversato la lunga fase della crescita del lavoro di massa.
Si aprono nuove questioni di regolazione. Basti pensare alla cosiddetta ‘uberizzazione’: a forme di impresa in cui le posizioni lavorative non rientrano né in quelle classiche del lavoro autonomo, né in quelle del lavoro dipendente. Basti pensare alla crescente difficoltà di legare la remunerazione ad un orario uniforme e definito contrattualmente. Non da ultimo, l’introduzione per legge di un salario minimo a livello nazionale per i lavoratori che non sono regolamentati da un contratto nazionale come inciderà sulla capacità di rappresentanza sindacale? Non è semplice individuare soluzioni, ma certo non è possibile ignorare l’urgenza di affrontare uno scenario che è profondamente cambiato.

Maura Franchi insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia. Studia le scelte di consumo e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana.
maura.franchi@gmail.com

L’AVVENIMENTO
Spal, il sogno compiuto

Ventitré anni. Quasi un quarto di secolo. Una generazione. Un’agonia. Una sofferenza. Averlo saputo allora che toccava aspettare quest’eternità molti si sarebbero messi il cuore (biancazzurro) in pace e avrebbero digerito meglio umiliazioni, fallimenti, campetti di provincia, figuracce varie. Meglio guardare avanti. Oggi. Il giorno del Sogno. Siamo tornati nel calcio. Il resto, quello di prima, era una finta. Erano Pieve di Soligo o Santarcangelo di Romagna. Cose buone e giuste per un prosecco o una piadina. Niente a che vedere con il blasone, la storia, i ricordi.

Adesso ci (ri)siamo. E nonostante l’atavico pessimismo manco a fasi alterne non ci sono mai stati dubbi. La questione degli scontri diretti persi? Tutta esperienza per l’anno che verrà. Consigli per gli acquisti, di fatto, alla proprietà. Due parole fondamentali. Anno e proprietà. L’anno della rinascita. La seconda serie. Quella che ti permette di leggere di Spal sulle pagine dei quotidiani nazionali, che ti fa vedere i gol ma anche le immagini e pure le interviste nelle trasmissioni vere, che ti fa spulciare sotto l’ombrellone il mitico cartellone del calciomercato.

Seconda parola: la proprietà. Ecco, tutto nasce qui. Quando la famiglia Colombarini riuscì con l’aiuto delle istituzioni a cacciare i mercanti dal tempio. All’ultimo secondo stava per saltare tutto, guai dimenticarlo, e ora toccherebbe andare ad Argenta o a Casumaro, probabilmente. Ma per fortuna non è successo. Così le facoltà della Famiglia, la passione del Presidente Mattioli (quest’anno molto più lucida e non di pancia, cosa fondamentale per l’esito finale), le capacità del Direttore Vagnati e ovviamente i giocatori tutti e il tecnico hanno fatto il resto.

Vanno spese un po’ di righe per un ragazzo, il diesse, che fino a pochi mesi fa – ma non succede soltanto all’ombra del Castello Estense – era da molti, pregiudizialmente, considerato incapace e arrogante. Nella riuscita del sogno, invece, la bandierina messa sulla cima più in alto l’ha portata lui. Tappandosi le orecchie, restando in silenzio, portando a casa i giocatori giusti senza buttare soldi. Già perché i Colombarini provano a fare quello che faceva il numero uno, Paolo Mazza. Comprare a poco, valorizzare e poi eventualmente rivendere. Manca soltanto il Settore Giovanile (unico difetto fin qui, ma sbagliano novanta società su cento e in tutte le categorie, sul tema), per il resto la strada è quella giusta. Se riporti allo stadio il popolo spallino, e se lo riporti anche in trasferta con numeri da Serie b anticipata, hai già vinto.

Poi c’è Mattioli. Il pres. Tifoso e innamorato della Spal come pochissimi, ma pochissimi sul serio, ha imparato la lezione degli ultimi anni. Niente commenti a caldo – ogni tanto ci ricasca ma vabbé – fiducia nei collaboratori, lavoro tanto ed esternazioni poche ed eccoci qui in serie B. Fa pure rima.

Rieccoci, anzi, una vita dopo. Di quest’anno volato via in scioltezza per bravura e anche fortuna (senza non ci riesce nessuno), vedi il girone B, è già stato detto e scritto tutto o quasi. Facile immaginare che non ci sia uno spallino in giro per il pianeta che non abbia la bava alla bocca pensando a domani. A domani che puoi sognare per il calciomercato, a domani che ti fai la lista delle trasferte che farai e delle squadre che affronterai, a domani che finalmente dimentichi tutto il recente (mica tanto, quasi un quarto di secolo, vale la pena ribadirlo) e pensi solamente alla lettera numero due. La “B”. Il calcio.
Per il resto, questioni di lavoro, ho vissuto da lontano la cavalcata ma da vicinissimo l’affetto nei confronti della Spal. Episodi a caso, da chiudere nella sfera delle amicizie, un po’ autoreferenziali se si vuole, ma è esclusivamente per dare l’idea. Storie di quest’anno. Cosmi che dice alla Gazzetta dello Sport che tifa Spal e poi mi gira un whatsapp per farmelo sapere, Capello che per altri impegni dice no a una collaborazione con la Rai e nella discussione cita la Spal, Reja che furibondo per un ritardo nel dargli la linea a Novantesimo Minuto si addolcisce quando gli dico in bassa frequenza con la faccia come le chiappe: “Mister da spallino a spallino, siamo quasi in B, non mi rovini la giornata e lui ride e risponde che va bene, per la Spal questo e altro”, Gianni De Biasi opinionista fisso sempre di Novantesimo Minuto col quale ogni domenica si tifa a distanza costretti dalla serie A ad aspettare con ansia il suono dell’applicazione dell’iphone “futbal24”, e tanti altri ex o allenatori biancazzurri che su Facebook tifano come se quei nostri colori li avessero ancora addosso.

Ma anche tutto questo fa parte del passato. Ora tocca al presente e al futuro. Adesso cominceranno mesi di trattative fantascientifiche, di altri sogni di mercato, di consigli per gli acquisti al club. Ecco, mi tiro fuori completamente da questi giochini, lo dico anche al mio amico direttore di questa Testata che ha già cominciato con gli esercizi di cui sopra, e dichiaro ufficialmente che mi fido. Aspetto e spero e soprattutto tifo. Gli esempi da non ripetere ci sono, quell’unico anno di B di ventitré anni fa deve per forza aver insegnato tanto a tutti a proposito di nomi grossi e inutili, peggio: dannosi. La B è un torneo tosto e lungo. Ci vuole pazienza, esperienza ma anche corsa, stimoli, gioventù. Ricette a priori non esistono. Altri esempi, invece, sì. E tutti recenti. Carpi, Frosinone, Crotone. Andate a rileggere pareri e pronostici e acquisti di un’estate fa sulla squadra di Juric. Basta questo. Tutto il resto è noia, tifo e il Sogno.

Che si è realizzato e questo, al popolo spallino, deve bastare e avanzare. Ventitré anni dopo ci (ri)siamo. Abbiamo perso una generazione, inghiottito cinghiali più che rospi, smadonnato per decenni. Ma è passato. Il futuro biancazzurro è già adesso. Peccato solamente che Gibì non abbia potuto vederlo e piangerlo di lacrime di gioia. E io con lui. Ma il Sogno è con noi. Godetene e tifatene tutti.


Immagini d’archivio di Geppy Toglia per gentile concessione di “Lo Spallino.com”

Foto di Geppy Toglia per gentilo concessione di Lo Spallino

IL FATTO
Accordo sul clima: l’ultima possibilità per l’ecosistema mondo

175 nazioni ieri al Palazzo di vetro dell’Onu hanno approvato e iniziato a firmare l’accordo sul clima Cop21, che avevano scritto a Parigi in dicembre. Lo ha comunicato Leonardo DiCaprio perché anche la terra ha bisogno di un testimonial che abbia vinto l’Oscar. L’accordo è di grande importanza perché i maggiori paesi, a partire da Stati Uniti e Cina, si impegnano a ridurre la temperatura del pianeta di 2 gradi.
Affrontare e soprattutto risolvere i cambiamenti climatici è una delle grandi scommesse della nostra epoca e uno dei principali obiettivi dell’Onu fin dal primo vertice sulla Terra che si svolse a Rio nel 1992 e poi con il protocollo di Kioto e l’emendamento di Doha (con il quale i paesi si sono impegnati a ridurre le emissioni di almeno il 18% rispetto ai livelli del 1990). Il nuovo accordo globale sui cambiamenti climatici esteso a tutti i paesi dell’Unfccc dovrebbe entrare in vigore nel 2020. Se ne parla da troppo tempo ed è ora di agire. Ci sono però ancora 70 paesi in via di sviluppo che non si sentono ancora vincolati a questi principi.
A Parigi in dicembre si è detto di mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei due gradi, proseguendo poi gli sforzi per limitarlo a 1,5 gradi; sono stati presentati vari piani di azione e si sono previsti contributi per questo; si è avviato un percorso di trasparenza che impegna i paesi a comunicare i dati tra loro in un principio di comunicazione e di solidarietà.

L’accordo è un grande successo soprattutto perché inverte la tendenza di fallimenti degli anni passati (come Berlino dieci anni fa e Copenaghen sei anni fa). Però non tutti sono convinti che ci si creda davvero. Il rischio di un aumento pericoloso delle temperature porta ampie regioni della superficie terrestre a non essere più abitabili per l’aumento della anidride carbonica a causa dell’uso dei combustibili fossili. Per non parlare dell’acidificazione degli oceani e lo scioglimento dei ghiacciai dell’Artide. Un enorme problema per le generazioni future che sperano nelle promesse dei governanti di oggi.
L’economia verde fatica ad avere successo come anche la decarbonizzazione. Dovrebbero essere i paesi più ricchi a pagare, ma ne avranno la forza? Si parla di “loss and damage” ovvero di avviare un meccanismo che compensi le perdite finanziarie con un meccanismo di rimborso assicurativo. Una chiamata in causa di alta responsabilizzazione difficile da attuare insieme a tanti altri problemi.
Europa, Sati Uniti, Cina e India (in tono minore) dicono di poterlo fare. Però siamo in ritardo e dilatare i tempi rischia di vanificare gli sforzi: non è stata fissata una data, che avrebbe spaventato le imprese petroliere, del carbone e del gas, oltre ai paesi produttori di energia da fonte fossile. Inoltre non si presidia il controllo delle emissioni del gas serra prodotti dal gigantesco settore del trasporto aereo e navale, che pesano quasi il 10% del problema.

Obama ha promesso che entro il 2030 elimineremo le emissioni del 32% (ma lui non sarà più presidente); DiCaprio ci ha detto che siamo “l’ultima migliore speranza della terra” e Ban Ki Moon afferma che il momento è storico. Proviamo a crederci. Certo è che stiamo cambiando le cose più velocemente di quanto non capiamo; a volte senza sapere come ci stiamo comportando. La caratteristica di una società civilizzata si misura dal senso di responsabilità sul futuro.
Mi ricordo le ultime parole di Robert Louis Stevenson nel suo libro “Jekill e Hyde”: “Il peso e il destino della nostra vita sono legati per sempre alle spalle dell’uomo e, quando si tenta di disfarsene, ci ricadono addosso con maggiore e peggiore oppressione.”

SESTANTE
Confessioni di un esiliato, elogiando la letteratura

La letteratura è l’unica forma di assicurazione di cui una società può disporre. (…) Sono certo, certissimo, che un uomo che legge poesia si fa sconfiggere meno facilmente di uno che non la legge. (Iosif Brodskij)

Iosif Brodskij
Iosif Brodskij

Due discorsi, raccolti nel 1987, su “la condizione che chiamiamo esilio” e “un volto non comune” – scritto per il ritiro, quello stesso anno, del Premio Nobel per la Letteratura – quelli del grande poeta, drammaturgo e saggista russo Iosif Brodskij (1940-1996), in “Dall’esilio”. Poche pagine cariche di messaggi illuminanti, l’importanza dell’arte e della letteratura, che si prendono cura dei propri figli. Si parla anche di esilio, in queste righe (anche perché uno scrittore esiliato si ritira dentro la sua madrelingua e quindi l’esilio è prima di tutto un evento linguistico), ma quello che oggi ci colpisce, anche per la sua drammatica quotidianità, è quanto la scrittura e la lettura, spesso dimenticate o sottovalutate, in realtà contino in società ed esistenze confuse.
La letteratura, secondo Brodskij, è “l’unica forma di assicurazione di cui una società può disporre, l’antidoto alla legge della giungla, l’argomento migliore contro qualsiasi soluzione di massa che agisca sugli uomini con la delicatezza di una ruspa – se non altro perché la diversità umana è la materia prima della letteratura, oltre che costituirne la ragion d’essere”. La letteratura è maestra di finesse umana, migliore di qualsiasi dottrina, e, ostacolando la sua esistenza e l’attitudine della gente a imparare le lezioni che essa impartisce, una società riduce il suo potenziale e mette in pericolo il suo stesso tessuto. L’arte stimola, nell’essere umano il senso della sua unicità, della sua individualità, un’opera si rivolge a un individuo singolo e, in un autentico tête-à-tête, stabilisce con lui rapporti diretti, senza intermediari. La prima e vera funzione dell’arte è, infatti, proprio quella di insegnarci qualcosa sulla “dimensione privata della condizione umana”. Essa porta a dialogo, consapevolezza e riflessione, per questo non è sempre apprezzata “dai paladini del bene comune, dai padroni delle masse, dagli araldi della necessità storica”. E poi l’estetica è la madre dell’etica. Malsana è, dunque, la condizione in cui arte e letteratura sono monopolio o prerogativa di pochi. E poi “se scegliessimo i nostri governanti sulla base della loro esperienza di lettori, e non sulla base dei loro programmi politici, ci sarebbe assai meno sofferenza sulla terra. (…) A un potenziale padrone dei nostri destini si dovrebbe domandare, prima di ogni cosa, non già quali siano le sue idee in fatto di politica estera, bensì osa pensi di Stendhal, Dickens, Dostoevskij. (…) Come polizza d’assicurazione morale, quanto meno, la letteratura dà molto più affidamento che non un sistema religioso o una dottrina filosofica”. Domanda da lettori che si potrebbe fare ai nostri governanti, potrebbe essere un’idea… sorprese garantite.

coverIosif Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, 1988, 68 p.

LA BELLEZZA CI SALVERA’
Concorso Balconi e Negozi in fiore 2016: il 23 aprile si parte!

fiori-per-il-balconePrepariamoci al grande evento, i Giardini Estensi, dal 30 aprile al 1 Maggio, a Ferrara. Prima di parlarvi dell’evento (a breve), e prepararci a questa consueta esplosione di colori, arriviamo per gradi, al 23 Aprile. Mancano pochi giorni, infatti, per partecipare a un concorso che, con tanta fantasia e buona volontà potrà portare i fiori su tutti i balconi della città e nelle sue più belle vetrine. Ci sarà spazio per ogni idea e iniziativa.

L’Associazione Ferrara Pro Art ed Ascom Confcommercio Ferrara, in occasione della rassegna florovivaistica Giardini Estensi 2016, bandiscono il concorso a premi “Balconi e Negozi in fiore” con l’obiettivo rendere più gradevole ed ospitale la città attraverso l’utilizzo dei fiori, in grado di abbellire lo scorcio di una via, di una finestra o di un palazzo.

PARTECIPANTI

  • Il concorso è aperto alla partecipazione gratuita di residenti, associazioni e attività commerciali di Ferrara. Sono esclusi dalla partecipazione i membri della commissione esaminatrice e le attività di fioraio o vivaista.
  • Chi intenda iscriversi al concorso deve presentare istanza redatta su apposito modulo disponibile sul sito www.giardiniestensi.it, da recapitare entro il 1° maggio a mezzo posta (Associazione Pro Art, via Terranuova 41), o e-mail (ferrarainfiore@libero.it), o a mano (sede dell’Associazione Pro Art, o dal 30 aprile al 1° maggio in piazza Castello durante la manifestazione Giardini Estensi).
  • È ammessa una sola iscrizione per nucleo familiare. È possibile però indicare più balconi della stessa unità abitativa: la valutazione sarà complessiva.

SVOLGIMENTO

  • Il concorso si compone di due sezioni (è possibile l’iscrizione a entrambe):

baule adelaide

  • Sezione BALCONI IN FIORE (privati): premio al più bel balcone, finestra, terrazza o davanzale fiorito (o altro particolare abitativo esterno).
  • Sezione NEGOZI IN FIORE (attività commerciali): premio alla più bella vetrina fiorita (o ambito esterno di pertinenza).

 

Si trattera’ di un allestimento a tema libero con composizione di fiori e piante varie (gerani, edera, petunie, ortensie, begonie, verbena, ecc.) e si svolgerà dal 23 aprile al 1° giugno. I partecipanti devono garantire il mantenimento delle caratteristiche del luogo per tutto il periodo del concorso.

VALUTAZIONE

  • La valutazione degli allestimenti compete ad apposita commissione costituita da: un architetto o agronomo o vivaista, e da un rappresentante del Comune designato dal Sindaco.
  • La commissione effettuerà sopralluoghi esterni tra il 5 e il 20 maggio e provvederà, a suo insindacabile giudizio, all’assegnazione dei premi.
  • La valutazione sarà effettuata in base ai seguenti criteri: Varietà e composizione di fiori e piante, Migliore combinazione dei colori dei fiori (gioco di colori), Originalità e creatività, Inserimento armonioso nel contesto urbano, Qualità dei materiali dei vasi utilizzati.
  • Vengono premiati i primi 3 classificati di ogni sezione. I premi consistono in cene/pranzi o buoni sconto/omaggio, a cura di Ascom Confcommercio Ferrara, e il loro ritiro avverrà a giugno (data, orario e luogo saranno comunicati ai vincitori a mezzo telefono o internet).

Forza creativi, allora, al lavoro !

balconi-in-fiorePer il regolamento in pdf, vedi

 

L’EVENTO
Incisioni di Resistenza. Una mostra a Palazzo ducale per celebrare il 71° della Liberazione

A cura della sezione ferrarese Anpi

Di nuovo visibili con una mostra a Palazzo ducale,“Xilografie sulla Resistenza”, tredici opere realizzate nel 1955 da importanti artisti italiani e ferraresi per celebrare il primo decennale della Lotta di Liberazione, grazie alla sezione locale dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia e al lavoro del Liceo artistico Dosso Dossi.

resistenza-xilografia-pizzinato
Armando Pizzinato, Eccidio di Bosco di Cornilio – Appennini 1944 (1955)

La mostra, inserita nel calendario delle cerimonie e delle iniziative di Ferrara per celebrare il 71° anniversario della Liberazione, riporta alla luce la raccolta di incisioni di cui si era persa quasi ogni traccia. Ritrovate nell’autunno del 2015, quando da una vecchia scatola conservata all’archivio Anpi di Ferrara, riaffiorano le tredici matrici realizzate negli anni ’50 dai maestri locali: Rambaldi, Fioravanti, Cavallari e da diversi artisti nazionali: Treccani, Zancanaro, Farulli, Pizzinato, Anderlini, Bartoli, Bussotti, Cavicchioni, Leonardi e Ruffini.

resistenza-xilografie
Copertina della raccolta “Xilografie sulla resistenza”

Nel 1955, infatti, la sezione ferrarese Anpi aveva ricordato i dieci anni della fine della Guerra, commissionando i disegni che, qualche anno dopo, nel 1957, sarebbero stati raccolti e commentati, sotto il titolo “Xilografie sulla Resistenza”, da Raffaele De Grada, critico d’arte, ex partigiano e futuro parlamentare comunista. Nei decenni a seguire, le stampe “tirate” per l’occasione erano state via via donate, vendute e col passare degli anni erano andate definitivamente disperse; con esse si era persa anche la memoria delle tredici matrici d’autore. A ricordare la loro esistenza, c’era però la raccolta dell’intera serie a stampa conservata da Giorgio Pancaldi ed esposta alle pareti della propria abitazione, raccolta che rappresenta di fatto l’unica copia autentica delle Xilografie nel 1955. Il ritrovamento delle matrici originali e la disponibilità della collezione Pancaldi hanno così permesso di dar corso al progetto che dal 22 aprile fino al 4 maggio è in mostra nel Salone d’onore della Residenza municipale.

La realizzazione dell’iniziativa, culminata con la ristampa dei tredici disegni d’artista, è stata resa possibile dall’accurato lavoro di un gruppo di allievi del Dosso Dossi di Ferrara, coordinati dalla docente Gabriella Soavi, con la consulenza del prof. Paolo Berretta.

INFORMAZIONI
Sede della mostra: Salone d’onore, Palazzo ducale estense
La mostra è visitabile dal 22 aprile al 4 maggio 2016 dalle ore 9.00 alle ore 18.00, nei giorni di apertura del Municipio. L’ingresso è gratuito.

INAUGURAZIONE venerdì 22 aprile – ore 18.00
Interverranno: Massimo Maisto, vicesindaco, assessore alla Cultura, Annalisa Felletti, assessora alla Pubblica istruzione e formazione, Comune di Ferrara, Fabio Muzi, dirigente scolastico, Liceo linguistico Dosso Dossi di Ferrara, Daniele Civolani, presidente Anpi, sezione di Ferrara

LA SEGNALAZIONE
A Venezia in mostra i capolavori ritrovati di Vittorio Cini

di Maria Paola Forlani

PALAZZO_CINI_VENEZIA

Si è aperta con uno straordinario omaggio a Vittorio Cini (Ferrara 20 febbraio 1885 – Venezia 18 settembre 1977) la nuova stagione della veneziana Galleria di Palazzo Cini a Campo San Vio, casa-museo un tempo dimora del grande mecenate, nella quale sono custodite le raccolte di dipinti toscani e ferraresi già nella sua collezione personale. Fino al 5 settembre 2016 gli spazi del secondo piano presentano i più importanti dipinti veneti provenienti dalla sua vastissima collezione – tra cui capolavori di Tiziano, Lotto, Guardi, Canaletto e Tiepolo – opere che sono esposte al pubblico per la prima volta assieme.

Il percorso espositivo ideato per l’occasione dall’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Giorgio Cini, diretto da Luca Massimo Barbero, restituisce attraverso una trentina di capolavori selezionati la qualità di una raccolta d’arte antica tra le più importanti del secolo scorso e ci permette di conoscere meglio la figura e il gusto di Cini collezionista, che – con l’aiuto di consiglieri illustri come Bernard Berenson, Federico Zeri e Giuseppe Fiocco – si assicurò i nomi più rappresentativi della scuola veneta, dal Trecento al Settecento.
La pittura del Trecento e del primo Quattrocento veneto è testimoniata in mostra dalla presenza di una nutrita schiera di artisti: da Guglielmo Veneziano a Nicolò di Pietro, dal Maestro dell’Incoronazione a Michele Giambono. Di quest’ultimo, la cui arte raffinata segna la maturazione del tardo gotico a Venezia (il suo celebre San Cristoforo si trova nella chiesa di San Trovaso), è esposta la straordinaria tavola “San Francesco che riceve le stimmate”. Introduce invece il Rinascimento, la splendida Madonna Speyer di Carlo Crivelli, rappresentativa dello stile originale, nervoso e incisivo, di questo singolare artista veneziano.
Tra le opere in mostra, accanto a lavori di Cima da Conegliano, Bernardo Parentino, Giovanni Mansueti e Benedetto Diana, spicca per importanza e imponenza la “Madonna con il Bambino e i Santi Giovanni Battista e Francesco” (1485 circa) del vicentino Bartolomeo Montagna. Quest’opera cardine della poetica del Montagna – educato sugli esempi di Mantegna, Bellini e Antonello da Messina – considerata uno dei più alti capolavori della pittura del tempo, è poco conosciuta e la mostra offre un’occasione unica per ammirarlo e studiarlo da vicino.

Un posto a sé in questo itinerario attraverso la pittura veneta, occupa l’enigmatico “San Giorgio che uccide il drago” di Tiziano, probabile frammento di una pala commissionata a Tiziano dalla Serenissima nella seconda decade del Cinquecento, è un dipinto intrigante per la storia critica che l’accompagna. Nel corso dell’Ottocento l’opera fu attribuita a Giorgione e nei primi decenni del secolo successivo prima a Palma il Vecchio poi ancora a Giorgione, per poi essere definitivamente restituita al grande Tiziano solo recentemente.
Una sezione della mostra è dedicata alla ritrattistica veneta del Cinquecento con un piccolo nucleo di straordinari ritratti maschili opera di Bartolomeo Veneto e Bernardino Licino. Tra tutti spicca per fascino e notorietà il bel “Ritratto di gentiluomo”, forse Fioravanti degli Azzoni Avogardo, una piccola perla della collezione, eseguito da Lorenzo Lotto.

Sala-Settecento_Guardi

A fare la parte del leone è però il Settecento, presentato attraverso un trionfo di capolavori dei principali rappresentanti di quel secolo d’oro della pittura veneziana – Canaletto, Antonio e Francesco Guardi – spia del sorprendente e intelligente gusto collezionistico di Cini. Mirabili sono due Capricci di Canaletto, tele di grande formato considerate due dei più celebri capricci giovanili dell’artista: creazioni poetiche che presentano un mondo di fantasia, vedute ideali nelle quali, immersi in una luce calda, emergono fatiscenti ma ancora maestose rovine classiche. In dialogo con le tele di Canaletto sono esposti quattro sublimi Capricci di Francesco Guardi e, ad arricchire il panorama della pittura veneziana del Settecento, due piccoli bozzetti per pale d’altare di Giambattista Tiepolo. Di Antonio Guardi – del quale sono in mostra anche due delle sue famose ‘turcherie’ – sono visibili eccezionalmente tre album di disegni, noti come “Fasti veneziani”: 58 fogli che illustrano fatti della storia di Venezia. Prove grafiche di altissima qualità contraddistinte da un linguaggio stilistico che asseconda la genuina vena rococò del pittore. Lo stesso gusto che ritroviamo nelle tre grandi tele dell’artista, che in origine decoravano un soffitto di Palazzo Zulian a San Felice, che sarà possibile vedere nuovamente dopo molti anni. Tra le prove più alte della pittura decorativa veneziana, le tre tele, raffiguranti Vulcano (il Fuoco), Nettuno (l’Acqua) e Cibele (la Terra), databili al 1757 circa, sono realizzate con una pennellata sciolta e guizzante.

capolavori-ritrovati-cini

Vittorio Cini è stato uno dei più grandi collezionisti d’arte moderna del Novecento, un uomo votato al culto della bellezza e dell’arte. A testimoniarlo resta la sterminata raccolta di dipinti, sculture, oggetti d’arte decorativa, espressione di un interesse vastissimo per ogni espressione della creatività umana, e i due luoghi che serbano l’immagine più autentica di Cini collezionista: il Castello di Monselice e la Galleria di Palazzo Cini sul Canal Grande, nata nel 1984 grazie alla generosità degli eredi del conte e alla lungimiranza della Fondazione Giorgio Cini.

Resta il doloroso abbandono della casa natale del conte Cini a Ferrara. Un tempo luogo di convegni, mostre, sempre affollato di giovani e sede delle prestigiose biblioteche, ancora ivi conservate, con le collezioni di volumi donate dai direttori che hanno guidato l’Istituto con amore. Quell’Istituto di Cultura “Casa Vittorio Cini” ora non c’è più. La diocesi (a cui l’edificio medioevale era stato affidato) ha preferito farne uno pseudo condominio di ambigue affittanze, cacciando i giovani che la vivevano, chiudendo le preziose biblioteche e alienando le collezioni d’arte. Uno specchio di decadenza del gusto e della cultura, un oltraggio, un’infamia consumata ai danni della città che quel luogo amava. Una violenza diretta alla memoria del grande mecenate, che l’aveva donata a Ferrara, alla cultura e ai giovani, e verso chi in anni trascorsi (come i Padri gesuiti, don Franco Patruno e don Francesco Forini) aveva raccolto collezioni d’arte contemporanea (destinate a diventare un ricco museo patrimonio della diocesi) e riempito quelle stanze con l’ascolto e l’accoglienza del pubblico assetato di conoscenza, ma soprattutto di giovani, vivaci interpreti della ricerca. Siamo nelle mani di persone che probabilmente non hanno consapevolezza di quello che hanno fatto depauperando nei suoi contorni architettonici un bene di così grande levatura e privando la comunità ferrarese di tale ’dono’, del valore delle cose, dell’importanza di conservare ciò che di bello è stato realizzato da persone di grande levatura e che hanno fatto la storia di Ferrara.
Resta lo splendore di Palazzo Cini a San Vio tra le luci e i riflessi di Canal Grande, in una Venezia che accoglie con armonia i suoi visitatori, nel ricordo di chi alla cultura ha creduto veramente.

IL FATTO
Brescello: primo comune in Emilia Romagna sciolto per infiltrazioni mafiose

La notizia è di poche ore fa: Brescello non sarà più noto solo come il paese di Peppone e don Camillo, ma anche come primo comune in Emilia Romagna sciolto per mafia.
Il comune in provincia di Reggio Emilia (la stessa città sede dello storico processo Aemilia che sta mettendo alla sbarra la ‘ndrangheta in Regione) era già commissariato da gennaio, da quando l’ex sindaco Marcello Coffrini si era dimesso dopo la conclusione dell’indagine della commissione prefettizia che ha indagato sulle infiltrazioni mafiose in seno al Comune.
Sullo sfondo: l’inchiesta Aemilia del gennaio 2015 coordinata da Roberto Alfonso, che ha portato all’omonimo processo contro la ‘ndrangheta in Emilia Romagna. E ancora prima, nel 2014, le dichiarazioni di Coffrini su Francesco Grande Aracri, figlio del boss della ’ndrangheta Nicolino, in carcere al 41bis, ai ragazzi dell’Associazione Cortocircuito di Reggio Emilia che stavano svolgendo l’inchiesta “La ‘ndrangheta di casa nostra”. Sindaco di Brescello dal 2014 e prima ancora (dal 2005 al 2014) assessore con deleghe a Urbanistica, Edilizia e Sicurezza, Marcello Coffrini aveva detto su Francesco Grande Aracri, condannato in via definitiva per mafia nel 2008 e considerato dai magistrati uno dei ‘reggenti’ della cosca: “E’ gentilissimo, è uno molto tranquillo… è molto composto, educato, ha sempre vissuto a basso livello. Hanno un’azienda… con cui fanno i marmi… mi fa piacere che siano riusciti a ripartire”. Recentemente è emerso anche che Ermes Coffrini, padre di Marcello e anch’esso sindaco di Brescello per alcuni anni, è stato l’avvocato della famiglia Grande Aracri dal 2002 fino al 2006.

A chiedere al Ministro dell’Interno lo scioglimento del comune in riva al Po, per “il concreto pericolo che ci siano state infiltrazioni mafiose all’interno dell’apparato amministrativo”, era stato il Prefetto di Reggio Emilia, Raffaele Ruberto, al termine dei lavori della commissione di accesso nominata nel giugno 2015 e dopo le consultazioni con forze dell’ordine e magistrati. La commissione (formata dal vice prefetto Adriana Cogode, dal capitano dell’Arma di Castelnovo Monti Dario Campanella e da Giuseppe Zarcone) ha lavorato per mesi negli uffici del comune della Bassa, incrociando dati e documenti. Nella relazione finale, di oltre 300 pagine, si parlerebbe di dipendenti comunali a tempo determinato riconducibili alla famiglia Grande Aracri, di appalti e subappalti ‘sospetti’, di cambi di destinazione d’uso di terreni, soprattutto per quanto riguarda la zona dove, tra gli altri, vive Francesco Grande Aracri.
Il ministro dell’Interno Alfano, valutati gli atti, ha deciso di chiedere al Consiglio dei Ministri lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose e questa mattina il cdm ha deciso in questo senso: è la prima volta nella nostra regione. Ora per Brescello la legge prevede un commissariamento di almeno un anno.

Guarda l’inchiesta dell’Associazione CortoCircuito di Reggio Emilia “La ‘Ndrangheta di casa nostra. Radici in terra emiliana”

VIDEOCONFERENZA
Magistratura e politica, una difficile dialettica

“L’Italia non è un paese normale”, “basta pensare al fatto che tre Presidenti del Consiglio negli ultimi anni sono stati indagati o condannati per fatti gravissimi: Giulio Andreotti, su cui pendeva l’accusa di associazione a delinquere andata prescritta, Bettino Craxi accusato di corruzione e morto latitante o esule che dir si voglia, e Silvio Berlusconi, condannato per frode fiscale”.

incontro chiavi lettura

Bastano queste parole del magistrato Leonardo Grassi a dare la misura della delicatezza e dell’attualità del tema affrontato nel quarto appuntamento del ciclo “Chiavi di lettura, opinioni a confronto sull’attualità”, organizzato da Ferraraitalia nella Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea: “Il potere dei giudici: diritto e rovescio dell’intangibilità dei magistrati”.
Grassi è presidente di sezione della Corte d’Assise d’appello del tribunale di Bologna, in passato si è occupato fra gli altri dei casi giudiziari relativi alle stragi dell’Italicus e della stazione di Bologna; insieme a lui, nel ruolo di “provocatore” – come lo ha definito Andrea Vincenzi di Ferraraitalia nell’introduzione al dibattito – Gian Pietro Testa, inviato speciale del Giorno negli anni Settanta, poi all’Unità, ad Avvenimenti, direttore del quotidiano napoletano Senza prezzo, direttore dell’emittente televisiva Ntv, scrittore e poeta.
Alla domanda di Gian Pietro “Chi è il giudice oggi in Italia?”, Grassi ha risposto: “E’ una domanda difficile. I giudici non dovrebbero occuparsi di tutto, dare un contributo alla formazione dell’opinione pubblica, in Italia però la situazione è diversa. Nel corso degli anni c’è stata una sovraesposizione della magistratura, che ha anche esercitato un ruolo di supplenza rispetto al deficit di altre Istituzioni”.
Il rapporto conflittuale con la politica è iniziato per lui “dai tempi dell’arresto di Calvi, negli anni Settanta, perché già allora la magistratura è andata a intaccare gli ambiti di un potere politico distorto”; “il governo dei giudici però non c’è mai stato – ha continuato Grassi – i magistrati hanno governato una serie di processi che hanno avuto un effetto mediatico e anche sul contesto politico contingente, l’esempio emblematico è stato Mani Pulite”. “Ma allora – ha chiesto Testa – come rimettere ordine?”, “Forse non è ancora il momento di mettere ordine, perché non sì è ancora espressa un’onesta intelligenza organizzativa per una riforma organica” del sistema giudiziario italiano. “Quello di cui mi rammarico – ha concluso il magistrato – è che il potere politico non ha saputo affrontare in modo razionale ed efficace i problemi che il lavoro della magistratura portava alla luce. Per questo ci troviamo ancora oggi in un groviglio di situazioni opache”.
Fra i temi sollevati nel corso del pomeriggio anche il dibattito interno alla magistratura su “una gestione costituzionalmente e socialmente orientata” del proprio mestiere e lo spinoso nodo della responsabilità civile dei giudici. Quest’ultima ripetterebbe un principio di equità, ma potrebbe anche essere anche un’arma a doppio taglio, perché da una parte si salvaguarda il principio della responsabilità individuale delle proprie azioni, dall’altra però si introduce un potenziale elemento di pressione sui magistrati, un freno in particolare per le azioni condotte nei confronti di imputati ‘eccellenti’.
Gian Pietro Testa ha dato voce a un’autocritica del giornalismo a questo proposito: “quanto influisce su questo dibattito il giornalismo, che intuisce o ipotizza dove bisognerebbe andare a parare e insiste in quella direzione? Ormai qui si va avanti a forza di scandali, non di problemi”. Secondo Grassi questo è un tema “affrontato spesso con spirito di rivalsa”, mentre l’obiettivo dovrebbe essere “trovare un punto di equilibrio fra le due esigenze di affermare la responsabilità in caso di errore e di salvaguardare il magistrato, pubblico ministero o giudice, da richieste risarcitorie pretestuose”.

ECOLOGICAMENTE
Ecolabel e Emas

L’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ha pubblicato il “Rapporto Benefici ed incentivi a livello locale per l’adesione a Ecolabel UE. Analisi dello stato dell’arte, valutazione di efficacia e buone pratiche” (vedi) e le “Linee Guida in materia di informazione, assistenza e controlli verso organizzazioni richiedenti la registrazione Emas o in possesso della stessa” (vedi).

II rapporto presenta lo stato dell’arte in Italia per quanto riguarda i provvedimenti agevolativi adottati dalle pubbliche amministrazioni a livello locale per incentivare le organizzazioni registrate Emas e i prodotti certificati Ecolabel Ue. Sulla base del quadro degli incentivi adottati il documento effettua dei confronti tra diverse realtà regionali, individuando sia buone pratiche da valorizzare sia eventuali disparità territoriali rispetto alle quali definire interventi di mitigazione.
Dagli esiti dell’analisi emerge l’opportunità di concentrare gli sforzi sia in ambito regionale sia nazionale per favorire interventi integrativi che mirino a sostenere l’adozione di sistemi agevolativi snelli, in termini attuativi, stabili, cioè capaci di dare garanzia nel medio-lungo periodo ai soggetti destinatari e leggeri, cioè sostenibili per i bilanci regionali.
In sintesi il rapporto:
• effettua dei confronti tra diverse realtà regionali individuando sia buone pratiche da valorizzare sia eventuali disparità territoriali rispetto alle quali definire interventi di mitigazione;
• contiene un’analisi delle diverse tipologie di provvedimenti agevolativi adottati che, attraverso la predisposizione di specifiche schede, ne definisce l’efficacia, i punti di forza e di debolezza al fine di fornire utili indicazioni di natura operativa ai soggetti ‘programmatori’.

Una segnalazione importante: la nostra regione è di gran lunga la più attenta a questa strategia di certificazione.

IL COMUNICATO
Davide Pellegrini, Direttore Artistico del Ferrara Sharing Festival al convegno Istud “Come cambiano gli stili di vita, Made in Italy Green”

da: ufficio stampa Sedicieventiunnamed

Ci sarà anche il Direttore Artistico del Ferrara Sharing Festival, Davide Pellegrini, fra i relatori del convegno “Come cambiano gli stili di vita, Made in ItalyGreen”, organizzato dalla Fondazione Istud con il Patrocinio del Ministero dello Sviluppo Economico e del Ministero dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare.
L’appuntamento, in programma a partire dalle ore 9.30, a Milano (Via Copernico, 38), sarà occasione per illustrare ai presenti temi e obiettivi del “Ferrara Sharing Festival”, grande evento nazionale dedicato all’economia della condivisione, in programma dal 20 al 22 maggio prossimi nel capoluogo estense.
«Lo sforzo dietro questo Festival – afferma Pellegrini – (quello stesso importante obiettivo che ci ha portato a parlare con le amministrazioni locali e a incontrare le associazioni di categoria, le associazioni culturali, le Università, il mondo delle cooperative, i settori del no profit) è lo sforzo di dare vita a un cantiere aperto e permanente di idee e di azioni concrete, tutte allo stesso modo volte a favorire la riflessione, il confronto, la comunione d’intenti nella ricerca di possibili soluzioni e di una società migliore».
A descrivere il fenomeno della sharing economy in senso più filosofico e culturale, saranno le sessioni plenarie, divise nelle tre macro aree modelli economici, nuove competenze, piattaforme. I workshop si concentreranno, invece, sugli aspetti sociologici e sulle nuove forme della collaborazione e toccheranno temi diversi: le nuove cittadinanze e gli ecosistemi sociali, le nuove professioni, il turismo e la cultura. Ad alimentare il dialogo e il confronto anche gli appuntamenti con le associazioni di categoria, le imprese e i seminari in collaborazione con l’Università degli Studi di Ferrara. Incontri, questi ultimi, che spazieranno dagli strumenti di design necessari per lavorare su un progetto sostenibile ai finanziamenti solidali. In collaborazione con l’Ateneo, anche due tavoli dedicati al tema dell’economia della felicità e al ripensamento di una ecologia urbana volta ad orientare il concetto della smart city con l’idea della social city.

www.sharingfestival.it
Facebook, Twitter e Instagram: @SharingFestival

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Scuola: alt, polizia

Può darsi che tutelare i nostri giovani da pericoli come il consumo di droghe non abbia prezzo. Ma non è così naturale che a scuola entrino le forze dell’ordine. È successo in questi mesi un po’ in tutta Italia, a Roma come a Ferrara. Dobbiamo capire dove inizia e dove finisce il confine invalicabile di ogni istituto scolastico, perché la scuola non può rinunciare a essere luogo per eccellenza della tutela e dell’accompagnamento di bambini, adolescenti, giovani. Spazio di protezione e ascolto di chi tra noi è più fragile, più esposto a sbagliare. Per questo, là dove si educa, non possono subentrare carabinieri e cani poliziotto. Non si tratta di democraticismo pedagogico, di sottrarre gli studenti alle loro responsabilità, alla legalità e all’educazione. Ma ci devono essere aree protette, tra queste, prima di tutto, le scuole e gli ospedali. Non significa extraterritorialità, neppure zona franca, ma semplicemente attenzione, comprendere la scala degli obiettivi, le priorità che non possono venire meno.
Coordinare gli sforzi volti a prevenire e contrastare lo spaccio di droga, come altri fenomeni di devianza sociale tra i giovani in età scolare, non può che incontrare la piena condivisione delle famiglie e degli istituti scolastici, ma ciò non può avvenire a prescindere dalla considerazione che, prima di impressionare e punire, è indispensabile comprendere e recuperare, tenere aperta la strada della confidenza, della fiducia, del dialogo. Si tratta di non guardare la persona al presente, ma in prospettiva.
Al liceo Virgilio di Roma l’arresto, durante la ricreazione, di un ragazzo sorpreso a vendere hashish a un compagno, ha prodotto la protesta di genitori e di centinaia di studenti, non certo per sottovalutazione, ma semplicemente per il motivo che la scuola, in quanto luogo sociale protetto, richiede modalità di approccio e di intervento ben diverse dalla messa in scena dello spiegamento di forze della polizia. Un’esibizione nutrita dall’idea che solo l’intimidazione e la punizione possano far desistere la fragile personalità degli adolescenti dall’intraprendere la strada della droga e della devianza sociale. Un modo sbrigativo per affrontare una questione complessa che compete anche alla scuola come luogo di relazioni, di scambi, di processi formativi, di fiducie e di attese, senza blitz, cani poliziotto e forza armata.
Per nessun motivo può venire meno la piena coscienza che le scuole sono luoghi particolari, altamente delicati, perché luoghi di tutela, cura, sostegno e dialogo per le giovani generazioni.
Se la scuola, in virtù di un ruolo male inteso, non assolvesse a queste prerogative, rischierebbe di tradire la fiducia dei suoi utenti, fondamento di ogni relazione educativa, condizione prima per lasciare aperta ogni possibilità alla confidenza e alla comunicazione tra alunni e docenti, protagonisti di quei complicati e delicati atti ad alta intensità educativa che ogni giorno si concretizzano nelle aule scolastiche del nostro Paese.
Mancare su questo terreno comprometterebbe ogni speranza di successo nella lotta contro i comportamenti devianti, con la conseguenza di lasciare spazio e voce solo alla condanna, all’etichettamento, all’emarginazione, con il risultato di aver fallito nello svolgere il compito formativo e, in particolare, nei confronti dell’educazione alla legalità, al rispetto di sé e degli altri.
Ogni istituzione scolastica è chiamata a esercitare i propri compiti nell’ambito sancito dalla nostra Carta Costituzionale e dalla legislazione di uno Stato di diritto, senza travalicare mai questi confini, a tutela del rispetto delle singole competenze istituzionali e del ‘valore’ che è ogni ragazza e ogni ragazzo per il presente e per il futuro della nostra società.
Per esperienza quanti operano nelle scuole sanno bene che la devianza giovanile è il prodotto di un dis-agio, di un non-logos, di un non-senso della vita. Chi è in crescita, chi ‘crea se stesso’, come le nostre ragazze e i nostri ragazzi, ha tutto il diritto di frequentare una scuola che garantisca di poter ricercare, con a fianco l’adulto insegnante, l’agio, il logos e il senso da dare alla propria esistenza, i ‘significati’ di cui ha bisogno, di cui sente la mancanza, anche se inconsapevolmente. Ciò deve avvenire in un ambiente disinteressato, sereno e sinceramente rassicurante, tutelato e protetto da ogni possibile minaccia che possa vanificare per sempre i non facili sforzi e più spesso i tormentati percorsi di ogni singolo.
Garantire una fattiva, leale e doverosa collaborazione tra istituzioni scolastiche e le forze dell’ordine che operano sul territorio, richiede attenzione, sensibilità, intelligenza, capacità di valutazione per non tradire l’ambito dei doveri che la legge assegna a ciascuna istituzione, con particolare riguardo alla tutela e al rispetto prezioso dello sviluppo della persona umana.

NOTA A MARGINE
Lucio Battisti era fascista? Ecco le prove!

In questi giorni si è tornato a parlare di un ipotetico “Lucio Battisti fascista” e puntualmente è riesplosa la polemica. Il dilemma ricorre da decenni, irrisolto. E’ un fatto che nei testi delle sue canzoni si ritrovino espressioni quantomeno ambigue, come “boschi di braccia tese” su cui planare (“La collina dei ciliegi”) o “Mare nero, mare nero tu eri chiaro e trasparente come me” (“La canzone del sole”). Ma c’è un brano in particolare che più degli altri si presta all’equivoco (se di equivoco si tratta) o che suona a conferma delle congetture dei ‘maliziosi’: si tratta di “Il mio canto libero”, che ci siamo divertiti a interpretare e commentare strofa per strofa avallando l’idea di un Lucio Battisti nostalgico di Mussolini e della sua ideologia. Ecco, dunque, la nostra ‘rilettura’.

Il mio canto libero (testo analizzato e commentato)

In un mondo che
Non ci vuole più

E’ il mondo nuovo nato dopo il 25 aprile, quello della Liberazione dal nazifascismo, che respinge l’ideologia cara al cantante

Il mio canto libero sei tu

Il faro e il riferimento resta comunque lui: il Duce, Mussolini

E l’immensità
Si apre intorno a noi

Resta un mondo tutto da riconquistare, un orizzonte da ricostruire

Al di là del limite degli occhi tuoi

Mussolini è morto, giustiziato dopo la cattura da parte dei partigiani. Ma il limite temporale della morte non spegne la fiamma dell’ideale, viva nonostante tutto

Nasce il sentimento
Nasce in mezzo al pianto
E s’innalza altissimo e va

Sono momenti di smarrimento e di disperazione, ma anche di orgoglio e di ansia di riscatto

E vola sulle accuse della gente
A tutti i suoi retaggi indifferente
Sorretto da un anelito d’amore
Di vero amore

Dopo la Liberazione, il fascismo è additato come causa dei mali dell’Italia per averla trascinata in guerra e averne determinato la distruzione. E per avere confiscato le libertà individuali, perseguitato i dissidenti (le “accuse della gente”). Ma coloro che hanno servito l’ideale sanno la verità e restano perciò “indifferenti”, forti del sentimento puro (“vero amore”) che li anima

In un mondo che (pietre un giorno case)
Prigioniero è (ricoperte dalle rose selvatiche)
Respiriamo liberi io e te (rivivono ci chiamano)

Le antiche case custodi degli ideali sono crollate (restano pietre, coperte però da rose selvatiche che ancora ne testimoniano la purezza incontaminata). Mentre al contrario il mondo nuovo è prigioniero di falsi miti. Il cantante – in uno slancio vitale – intimamente rinsalda il proprio credo a quello del Duce ispiratore (“respiriamo liberi io e te”) e avverte l’ansia di ricominciare in nome dell’ideale ferito.

E la verità (boschi abbandonati)
Si offre nuda a noi e (perciò sopravvissuti vergini)
E limpida è l’immagine (si aprono)
Ormai (ci abbracciano)

I sentieri percorsi, quelli dell’ideologia, i “boschi abbandonati” ai quali molti hanno voltato le spalle non scalfisce la consapevolezza (“limpida è l’immagine”) dei superstiti che, nonostante la sconfitta, non hanno perso la fede negli ideali (“sopravvissuti vergini”) e ne coltivano la purezza pronti (“ormai”) a riprendere la lotta.

Nuove sensazioni
Giovani emozioni
Si esprimono purissime
In noi

La risoluzione di ricominciare tutto daccapo, di ricostruire, nonostante la sconfitta e i tradimenti, genere un’immediata energia catartica (“nuove sensazioni” e “giovani emozioni” che galvanizzano i nuovi apostoli (“noi”) eredi degli ideali e portatori di verità

La veste dei fantasmi del passato
Cadendo lascia il quadro immacolato
E s’alza un vento tiepido d’amore
Di vero amore

I fantasmi del passato sono quelli della disfatta e degli scontri fratricidi, ma appaiono appunto “fantasmi” travisati da dubbi ormai risolti, che si dissolvono a fronte della risoluzione di riprendere il cammino. Il quadro degli ideali è immacolato e il percorso dei nuovi eletti è accompagnato da “un vento tiepido d’amore”

E riscopro te
Dolce compagna che
Non sai domandare ma sai
Che ovunque andrai
Al fianco tuo mi avrai
Se tu lo vuoi

Ed ecco dunque che l’autore infine riscopre nell’ideologia “la dolce compagna” che nulla pretende ma tutto può, e della quale egli s’offre d’esser servitore (“se tu lo vuoi”), riaffermando definitivamente il proprio credo

L’oro nero non è più d’oro, o forse no: quale futuro ci aspetta

Probabilmente nessuno nel non lontano 2008, quando il prezzo del petrolio schizzava a 146 dollari al barile, si sarebbe mai immaginato di vedere meno di un decennio dopo il suo valore ridotto di 120 dollari. Ma ciò che più ci avrebbe stupiti all’epoca, stremati dalle notizie che promettevano devastanti aumenti dei prezzi di tutte le merci destinate a entrare nelle nostre case, sarebbe stato non solo l’oscillare dei prezzi fra i 26 ed i 40 dollari al barile, ma addirittura l’essere in qualche modo allarmati da queste cifre.

Il petrolio è la fonte di energia più utilizzata del pianeta e i suoi derivati diventano carburante per la stragrande maggioranza di veicoli in circolazione a livello mondiale. È dunque chiaro perché le sue variazioni di prezzo si ripercuotano sugli andamenti delle economie di tutto il mondo. Ma come mai, ora che il prezzo è basso, gli economisti sembrano essere allarmati come un tempo? E soprattutto, perché il prezzo si è ridotto a meno di un quinto di quello a cui sembravamo doverci abituare in passato?
Partendo dalla storia, bisogna dire che se da un lato il fabbisogno energetico è aumentato notevolmente nell’ultimo decennio a livello mondiale, la domanda di petrolio è rimasta tutto sommato stabile. Questo a causa soprattutto della maggiore presenza sul mercato di energia ricavata da fonti alternative, non necessariamente rinnovabili, quali il gas naturale, il nucleare e le diverse energie verdi che, anche se non ancora mature, si affacciano con sempre maggior vigore sul mercato. Una domanda stagnante però, di per sé, non basta a giustificare un simile tracollo dei prezzi: la principale causa di tutta questa instabilità è data da quella che potrebbe essere la fine della leadership sul mercato di uno dei più grandi cartelli della storia: l’Opec.
Recentemente, infatti, in America sono andate affermandosi nuove tecniche di estrazione del greggio tramite il fracking, in grado di utilizzare lo scisto bitumoso per estrarre da giacimenti le cui caratteristiche ne rendevano impossibile lo sfruttamento con i metodi tradizionali. Come se non bastasse, si sta scoprendo che di petrolio (che si diceva dover finire entro cinquant’anni), soprattutto nelle Americhe, ce n’è molto di più di quanto non si pensasse. Il fracking ha un unico problema: anche quello ‘di nuova generazione’, rispetto ai metodi tradizionali, è più costoso. Di quanto? Fino a poco tempo fa di molto e l’Opec ha cercato di strozzare la concorrenza sul nascere, abbassando i prezzi al punto da rendere del tutto sconveniente la produzione. O almeno ci ha provato: se fino a giugno 2014 il prezzo del petrolio era di 106 dollari al barile, un anno dopo era già più che dimezzato, anche se, stando a quanto era stato preventivato dagli esperti del settore, sarebbe bastato un prezzo attorno ai 60 dollari al barile per accompagnare fuori dal mercato la concorrenza. Quello che i produttori arabi probabilmente non si aspettavano è che i frackers fossero così duri a mollare l’osso: anziché desistere, i produttori americani hanno fatto grandi investimenti nel miglioramento dell’efficienza delle tecniche di estrazione e, almeno per il momento, sopravvivono anche grazie alla spinta degli aiuti di Stato per l’estrazione di petrolio, negli Usa di gran lunga maggiori di quelli offerti per la ricerca e sviluppo di energie rinnovabili. D’altra parte la posta in palio è colossale, come colossali sono le ripercussioni che avranno gli esiti di questa guerra economica negli equilibri geopolitici mondiali. Per adesso l’accanimento a ribasso dell’Opec e la perseveranza dei frackers, a cui si sommano il recente rallentamento (con conseguente diminuzione di domanda energetica) dell’economia cinese e gli investimenti in fonti alternative, hanno portato a un eccesso di offerta di greggio sui mercati internazionali e questo non fa che abbassarne ulteriormente il prezzo. Se un paese come l’Arabia Saudita è in grado di guadagnare dalle esportazioni di petrolio fino ad un prezzo minimo di vendita di 10 dollari al barile, è anche vero che questa strategia a ribasso l’ha portata a bruciare, per non incasso, una media di 2 miliardi di dollari a settimana da quasi un anno a questa parte.

È lecito chiedersi cosa ci riservi il futuro. Tutto è possibile nel breve periodo con oscillazioni che potrebbero portare il prezzo da 10 a 60 dollari al barile (verosimilmente più contenute, da 20 a 50 direi). Se poi i produttori americani dovessero desistere sotto i colpi di questi ribassi concorrenziali, il petrolio schizzerebbe in alto, tornando circa a 100 dollari al barile; leggermente più contenuti sarebbero se fossero i produttori arabi a dover accettare definitivamente sul mercato la presenza dei frackers: a questo punto i prezzi salirebbero sì, ma sarebbero tenuti a bada dalla concorrenza. Sempre ammesso che frackers e Opec non formino una sorta di giga-cartello internazionale volto a mantenere i prezzi a livello di monopolio, in questo caso sarebbe davvero difficile intervenire legalmente non esistendo una figura di antitrust intercontinentale. A tutto ciò si sommano altre infinite variabili quali la domanda futura generale e l’andamento delle singole economie. Sono in forte aumento gli investimenti in ricerca e sviluppo per metodi di sfruttamento delle fonti di energia rinnovabili le quali, ancora assolutamente insufficienti a livello di efficienza a sostituire il combustibile fossile, rappresentano inevitabilmente il futuro del mercato energetico. Nel frattempo si sta affacciando con grandissima decisione sul mercato del greggio l’Iran, il quale, oltre che sul nucleare, per il suo sviluppo punta a portare entro il 2021 da 2,7 a 4,1 milioni di barili la sua produzione annua di petrolio e questo andrà ad aggiungere merce in un mercato già di per sè saturo. Si tratta di fattori che inevitabilmente andranno ad incidere sul prezzo del petrolio ed in generale sugli equilibri economici mondiali del futuro.

Un quadro complesso e bizzarro si presenta quindi ai mercati internazionali, inermi di fronte a questa guerra di prezzi. Ciò che più preoccupa è l’imprevedibilità degli andamenti futuri del petrolio nel breve periodo, i cui sbalzi improvvisi possono rivelarsi deleteri per un’enorme vastità di attività, ma non è tutto: un prezzo troppo basso, oltre a mandare in crisi le aziende produttrici (comprese quelle nostrane) e a creare un forte disincentivo all’investimento sulla ricerca di fonti energetiche rinnovabili, va ad alimentare la stagnazione deflativa che affligge i mercati occidentali. I prezzi continuerebbero a calare insomma. Senza un’inflazione leggermente maggiore si rischia di eliminare gli stimoli a ogni tipo di investimento in quanto il denaro aumenta “automaticamente” il proprio valore nel tempo. Sembra un’assurdità, ma in una società totalmente dipendente dalle fonti di energia fossile come quella odierna, se queste improvvisamente si trovano a essere abbondanti e a prezzi convenienti, si porrebbe avere l’effetto di frenare la crescita più che di sospingerne la corsa.

Con la Biennale Donna torna anche il Padiglione di Arte Contemporanea

Il giardino all’ingresso al Padiglione d’Arte Contemporanea è gremito di gente, tutti in attesa di poter visitare la XVI edizione della Biennale Donna, inaugurata ieri dopo due anni di sospensione a causa del terremoto. Il Padiglione non aveva subito ingenti danni durante il terremoto, eppure i controlli e i ritocchi necessari ne avevano richiesto la chiusura; ieri, in un caldo sabato pomeriggio, i ferraresi hanno potuto riaccedervi, riconquistando uno spazio amato dalla cittadinanza.

biennale donna inaugurazione

Il vicesindaco Massimo Maisto, presente all’inaugurazione, ha sottolineato l’importanza dell’appuntamento della Biennale Donna, la cui prima edizione fu nel 1984. Perché Ferrara non è solo il suo illustre passato, messo in risalto da mostre come quella sulla Videoarte o su Ariosto (“Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi”, in arrivo al Palazzo Diamanti dal 24 settembre), ma è anche un territorio fatto di grandi professionalità.

“Cultura e arte rappresentano la memoria della storia”. Con questa citazione di Ana Mendieta, artista cubana le cui opere aprono la mostra, la curatrice Silvia Cirelli ha presentato l’esposizione, intitolata “Silencio Vivo. Artiste dall’America Latina”. Silencio Vivo, due parole scelte con attenzione per il loro significato, lo stesso sia nella lingua spagnola che in quella portoghese, rappresenta il corpus del lavoro delle artiste esposte. “Quando abbiamo ideato l’esposizione abbiamo scelto di non limitarci all’arte contemporanea degli ultimissimi anni, ma di andare più indietro nel tempo. Le opere, che vanno dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta, sono rappresentative del periodo drammatico delle dittature militari, che ha influenzato le varie generazioni nel tempo”, ha spiegato Silvia. “Il Padiglione dell’Arte Contemporanea di Milano, importante centro di cultura riconosciuto a livello internazionale – ha aggiunto l’altra curatrice Lola G. Bonora – ci ha contattate per chiederci di presentare l’esposizione da loro. Ferrara torna a essere un centro importante non solo per il suo passato, ma anche per l’arte contemporanea”.

Le voci si perdono nel cortile, le persone sono troppe perché la presentazione della mostra raggiunga tutti, ma il concetto sembra essere chiaro a chiunque sia presente: come la fenice che risorge dalle ceneri, anche Ferrara si rialza, riappropriandosi dei suoi spazi. Il Padiglione si riempie di passi, di voci, di sguardi. Non è facile muoversi all’interno senza urtarsi a vicenda. Le opere che danno il benvenuto ai visitatori sono di Ana Mendieta, giovane artista cubana scomparsa prematuramente, che usava il proprio corpo come strumento per veicolare la propria arte. Legata alla natura, alle tradizioni e agli elementi dei rituali cubani, come il sangue o la polvere da sparo, le sue opere denunciano la violenza e stringono i legami del binomio vita/morte. Ad attirare l’attenzione è un filmato in cui l’artista, di cui non si vede mai il corpo, riprende i passanti che percorrono un marciapiede su cui lei ha versato del sangue. La performance è la loro reazione: gente distratta che non si sofferma, abituata alla violenza, non si domanda chi possa essersi ferito in tal modo, ma passa avanti, indifferente.
L’uso del corpo è presente anche nei lavori di Anna Maria Maiolino, artista di origini italiane vissuta in Brasile, dove si trasferì negli anni Sessanta e visse da protagonista l’affermarsi della dittatura. Proprio uno dei suoi lavori è stato scelto come immagine simbolo della Biennale: una strada ricoperta di uova, simboleggianti la vita, ma anche la fragilità degli esseri umani, percorsa dall’artista. Come personificazione della dittatura, si muove cercando di non schiacciarle ma, se non è possibile, le distrugge senza pensarci. Artista poliedrica, col passare degli anni allontana la fisicità dai suoi lavori, esponendo non più se stessa, ma ciò che il suo corpo può creare, scegliendo di non combattere più il senso di alienazione e fragilità ma di accettarlo come parte dell’esistenza dell’essere umano. Esposte in mostra le sue opere degli ultimi anni, realizzate tra il 2014 e il 2015, in cui utilizza materiali di difficile lavorazione come le ceramiche raku o facili da plasmare come l’argilla.

biennale-donna-inaugurazione

Salendo al piano superiore, l’occhio cade subito sul lavoro inedito di Teresa Margolles, artista messicana che con crudo realismo parla per chi non ha più voce. L’artista sabato mattina era presente al Padiglione e ha raccontato lei stessa il lavoro dietro le sue opere. “Questi sono i manifesti che i famigliari di queste ragazze scomparse appendono in giro per le città del Messico. Alcune sono sparite da così tanto tempo che anche le immagini sono usurate. È il sintomo di una scomparsa ulteriore, una doppia perdita. La gente è talmente abituata a vedere questi manifesti appesi per la città che non ci fa più troppo caso, su alcuni volti ci sono i segni di chi ha contribuito alla loro distruzione, colorandoci sopra o creando delle caricature con i volti di queste ragazze”. Questo enorme collage, riadattato per gli spazi del Padiglione, si intitola “Pesquisas”, ovvero ricerca, che risulta essere spesso vana perché le uniche volte che si ritrovano queste giovani donne sono ormai corpi morti. “Non siamo davanti alla morte – ha specificato Teresa – perché quella fa parte del ciclo della vita. Qui dobbiamo riflettere e discutere su una morte violenta, un assassinio”. La morte violenta è sempre presente nelle opere dell’artista messicana, prende forma e acquista fisicità. Così per l’installazione “Aire”: in una piccola stanza sono presenti due piccoli umidificatori attivi e l’acqua che respiriamo lì proviene dagli obitori di Città del Messico, utilizzata per lavare i corpi di chi è stato assassinato.
La censura, la violenza, la fragilità degli esseri umani ci accompagnano per tutto il percorso espositivo, fino alle opere dell’argentina Amalia Pica che, utilizzando vari tipi di media, dalla performance alla scultura, riflette sulle varie forme di linguaggio, la sua evoluzioni, i suoi limiti e gli eccessi. La ridondanza e la quantità di messaggi che ci inonda quotidianamente sembra portare sulla strada dell’alienazione piuttosto che al dibattito e alla condivisione. Così realizza dei tappi per le orecchie, in bronzo, rame, oro e argento, ma invita anche a riflettere sui modi di dire, comuni tra Italia e Argentina, permettendo al famoso “cavallo bianco” di divenire tale.
Le sale sono affollate e, tra i commenti positivi e quelli stupiti (“Aire” di Teresa Margolles ha avuto un forte impatto sul pubblico) in molti torneranno, per visitarla con più calma o per accompagnare gli assenti.

La XVI edizione della Biennale Donna di Ferrara sarà visitabile al Padiglione d’Arte Contemporanea dal 17 aprile al 12 giugno.

Alcune opere in mostra. Clicca sulle immagini per ingrandirle.

maiorino
Ana-Mendieta
amalia-pica

Leggi anche
Alla Biennale Donna gli esperimenti sulla comunicazione di Amalia Pica

IL RICORDO
Alex Langer: una vita a costruire ponti per la pace

di Daniele Lugli

Alex-Langer
Alex Langer

Forse nessuna metafora è più usata a proposito di Langer di quella del ponte. E’ nella sua biografia forse anche da prima ma, almeno, da quando, ventunenne, fonda la rivista bilingue “die brücke – il ponte”, e scrive su “Il Ponte” di Enriques Agnoletti, già di Piero Calamandrei, un lungo articolo sul Sudtirolo. E’ parso perciò naturale a un amico consigliere comunale promuovere  l’intestazione a Langer  di un piccolo ponte a Ferrara, una passerella ciclo pedonale, come già si è fatto a Bolzano.
Quello di Ferrara, più largo che lungo, scavalca un fosso, dove scorre il Gramicia, un tempo pieno di vita dove i ragazzi pescavano e facevano il bagno. Il ponticello collega alla città un grande parco che giunge fino al Po. A Ferrara c’è un Ponte della Pace su un vecchio ramo del fiume, ma molti, forse i più, lo chiamano ancora Ponte dell’Impero. Almeno quello intitolato ad Alex non avrà questo ricordo.
Lui stesso si sentiva ponte e scriveva: “Sul mio ponte si transita in entrambe le direzioni, e sono contento di poter contribuire a far circolare idee e persone”. Ponte lui stesso dunque e di ponti costruttore ovunque si è portato, viaggiatore leggero come nessun altro. Generoso costruttore per noi, lui non ne aveva bisogno: saltava i fossi per la lunga! Straordinario esempio di leggerezza, come nella lezione di Italo Calvino: “Cavalcanti che si libera d’un salto “sì come colui che leggerissimo era”. Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta- filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite”. Nel salto Alex non abbiamo saputo, né sappiamo, seguirlo, ma neppure proseguire in ciò che era giusto, come ci ha raccomandato nel suo congedo. E come ci ricorda Nadia Scardeoni Palumbo presentandone un’ antologia di scritti: “Ed è dalla sua storia – se possiamo intuire la fatica del vivere separati nella casa comune – da quel suo essere una sorta di laboratorio armonico di organi propedeutici la formazione dei cittadini del mondo, che si innalza la sua creatura: il ponte, la più ardita e la più fragile delle costruzioni relazionali. Il ponte per il superamento delle diversità, degli ostacoli naturali, delle fratture anche le più violente. Ovunque le storie degli uomini sono divise e cieche di fronte al loro indivisibile destino, Alex lavora, studia, analizza, progetta, propone. Ed era un fiorire di ponti”.

Dobbiamo essere capaci di essere ponti quando ci viene richiesto e riconoscerli dove sono, per improbabili che appaiano. Alla fine del Novanta, mentre si preannunciava il crollo del regime, ci invitava a essere per gli albanesi come loro ci vedevano “dirimpettai italiani … un ponte verso tutta l’Europa”. Loro ci apparvero solo molto fastidiosi e pericolosi invasori. Nel 1991, è in Palestina-Israele, come costantemente diceva e scriveva: “Quanto più sacra la terra, tanto più aspra la contesa”, riconosceva. Ma vedeva un aspetto positivo in quello che ai più, e anche a me, pare un punto particolarmente critico: “la competizione demografica può costruire il ponte tra Israele e i Palestinesi”. Sempre in quell’anno, prima del dono del “Tentativo di decalogo per una convivenza interetnica”, ha scritto: “gli immigrati che rappresentano la diretta sporgenza ed ingerenza del Sud (e dell’Est) nel nostro mondo, sono oggi anche il primo banco di prova di tutti i nostri discorsi sulla cooperazione equa e solidale e sul risarcimento, e possono diventare un importante “ponte” tra le nostre società e le loro comunità di provenienza”.

Non vuol dire che non si possa o debba prendere posizione di fronte all’aggressione. La vicenda dei Balcani è forse quella che ha più dolorosamente colpito Alex. E’ quando il ponte sembra separare il bene dal male: succede, è successo.
Calvino in “Oltre il ponte” canta: “Avevamo vent’anni e oltre il ponte/ Oltre il ponte che è in mano nemica/ Vedevam l’altra riva, la vita,/ Tutto il bene del mondo oltre il ponte…/ Tutto il male avevamo di fronte,/ Tutto il bene avevamo nel cuore,/ A vent’anni la vita è oltre il ponte,/ Oltre il fuoco comincia l’amore”.

Ma poi i ponti vanno ricostruiti e come i suoi amici della Fondazione, a partire da Edi Rabini, ricordano: “un ponte si regge su due sponde, e identificarsi con una soltanto è uno sbilanciamento esiziale, come lo è illudersi che il ponte esista ancora mentre è invece crollato”. E i ponti necessari sono tanti: “fra memorie amaramente contrastanti”, come fa Adopt Srebrenica, premio Langer 2015 o un ponte fra chi soffre e chi può imparare a condividere il dolore, secondo l’azione di Borderline Sicilia, per una fratellanza euromediterranea, premio Langer 2014.

Questo aspetto non è sfuggito a due giovani, Jacopo Frey e Nicola Gobbi, che per la loro età non hanno potuto conoscerlo, ma lo hanno studiato, ne hanno scritto e disegnato e il risultato è: “In fondo alla speranza. Ipotesi su Alex Langer”. E’ scritto nella recensione su l’Alto Adige: “Ed eccolo allora, costruttore di ponti, a ricostruire il ponte di Mehemed Pascià, un ponte ideale e simbolico che assomma il ponte sulla Drina e quello sulla Zepa, raccontati da Ivo Andrich, tanto amato da Langer. E poi ancora il ponte di Mostar e perfino compare il ponte Talvera, durante la famosa manifestazione contro le gabbie etniche e il censimento”. Li ho visti quei ponti in Jugoslavia negli anni Sessanta e non più dopo. Di quello sul Talvera ho ricordi più recenti: separava nettamente, e credo separi ancora, dal centro tedesco la zona nuova, italiana. Ci stavano miei parenti, ora scomparsi, e ancora qualche amica e amico cari. Nell’autunno del 1980, Langer, con alcuni compagni, al ponte, ferma i passanti e chiede “Italiano o Tedesco?”. Secondo la risposta li fa a passare da una parte o dall’altra del ponte, segno di una separazione persistente nella sua terra amata e ribadita dal censimento etnico.

Quanto ha puntato Alex a un’ Europa unita, ponte capace di superare ogni confine, di ogni tipo, nel continente e di promuovere diritti e unità anche oltre, a partire dal Mediterraneo. Siamo ben lontani da questo necessario obiettivo che apparve più chiaro nell’immediato dopoguerra. Anche a questo ci riporta Goffredo Fofi, introducendo “Il viaggiatore leggero”: “Piero Calamandrei fondando, a guerra appena conclusa, una rivista che si chiamava Il Ponte, il significato metaforico ma anche concreto dei ponti, da riedificare dopo le distruzioni della guerra che si era accanita a distruggerli. Ponti veri, che gli uni o gli altri avevano fatto saltare, e che dovevano mettere di nuovo in comunicazione e in commercio persone e città, culture e territori. Ponti ideali, che potessero permettere ai vinti e ai vincitori, tutti infine perdenti, sopravvissuti ai conflitti e alle stragi e cioè al dominio della morte, di ritrovare nell’incontro e nel dialogo la possibilità di un futuro migliore”.

Sempre Fofi ci ricorda “Il progetto semplicissimo e immenso di far da ponte tra le parti in lotta, che ad Alex costò infine la vita, è fallito e continua a fallire”. E’ un desiderio che l’amico e compagno Franco Lorenzoni ha visto in lui di essere ponte, di incarnare del ponte quella linea leggera che regge il peso delle pietre in virtù della sua curva, grazie all’intuizione di una forma e di un azzardo. E’ una linea che rintracciamo a fatica, ma nella consapevolezza anche che la linea non basta. Ci vogliono pietre capaci di tradurla nella realtà, di renderla effettiva e percorribile. Queste pietre siamo noi, con le nostre istituzioni, le nostre relazioni. E anche qui, con l’attenzione al dettaglio e nella sua capacità analitica, ci è d’aiuto Alex, ma c’è tanto da lavorare.
L’ha detto, ancora una volta, bene Italo Calvino ne “Le città invisibili”: “Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. – Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan. – Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra, – risponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano. Kublai Kan rimase silenzioso, riflettendo. Poi soggiunse: – Perché mi parli delle pietre? è solo dell’arco che mi importa. Polo risponde: – Senza pietre non c’é arco”.

Riprendo ancora da Fofi: “Alex Langer ha svolto una funzione di ponte in due direzioni prioritarie: quella di accostare popoli e fazioni, di attutirne lo scontro e di promuoverne l’incontro, e quella dell’apertura a un rapporto nuovo tra l’uomo e il suo ambiente naturale. E se nel primo caso, quello più determinato dalle pesanti contingenze della storia (per Alex, la guerra interna alla ex Jugoslavia), si trattava di far da ponte ma anche da intercapedine, da camera d’aria dove potesse esprimersi un dialogo assai difficile, nel secondo si trattava piuttosto di additare nuovi territori all’azione politica responsabile, allargandone il significato da città a contesto, da polis a natura”.

Il piccolo ponte che collega la città di Ferrara, patrimonio dell’Unesco per l’impianto urbanistico, a un grande parco fortemente voluto da Italia nostra (intitolato a Giorgio Bassani, che ne fu agli inizi presidente) risponde bene a questa seconda direzione. L’intitolazione di una scuola, alla quale si pensa, può richiamarsi alla prima.

L’inaugurazione è prevista per la mattina di sabato 23 aprile. Seguirà il programma dettagliato dell’iniziativa.

INSOLITE NOTE
Una foto con Lucio, ora si può

di Lucia Casadio e William Molducci

“All’amico Lucio”, la statua realizzata da Carmine Susinni, già esposta nel decumano di Expo 2015, il 4 marzo scorso è finalmente arrivata a Bologna, posizionata in Piazza De’ Celestini, sotto il balcone della casa di Lucio Dalla, dove resterà sino a fine aprile.
Lo sguardo innocente, un sorriso accennato e un braccio disteso sulla panchina. Lucio Dalla ci invita su questa panchina come se fossimo dei vecchi amici con i quali scambiare due chiacchiere e ricordare qualche vecchia canzone. Chiunque passi da Piazza De’ Celestini non può fare a meno di sedersi al suo fianco per una foto: si fermano tutti, anche chi su quella panchina vede solo un buffo signore con un paio di occhialetti tondi, un berretto in testa e un sacchetto di cibo in mano. In realtà, l’atmosfera è davvero magica in questa piazzetta nel cuore di Bologna, qui Lucio Dalla vive ancora, quasi che non fosse mai andato via da casa sua.
La sensazione è di entrare in uno spazio incontaminato: la sua musica risuona dal balcone, la sua ombra suona il sax sulla parete e al suo fianco, sulla panchina, Lucio sembra ci stia cantando una delle sue canzoni più conosciute: “Io i miei occhi dai tuoi occhi non li staccherei mai, adesso anzi me li mangio tanto tu non lo sai”. Se poi partono proprio le note di “Canzone” quando vi sedete per la vostra foto ricordo, può darsi che vi scappi un sorriso, o forse una lacrima.
Piazza De’ Celestini fa angolo con Via D’Azeglio, dove abitava Dalla, ora sede della Fondazione che porta il suo nome. Le sue canzoni sono trasmesse in tutta la zona, come in “Anna bello sguardo”, il cortometraggio di Vito Palmieri, nato da un’idea elaborata insieme alla classe II C della Scuola Secondaria Testoni Fioravanti di Bologna.

Fotografie di Lucia Casadio. Clicca sulle immagini per ingrandirle

Alessio, il protagonista del film, è un adolescente con la passione del basket che non riesce a giocare con i suoi coetanei perché ritenuto basso di statura. Un giorno, mentre si trova nel ristorante della nonna, trova una vecchia fotografia di Lucio Dalla insieme con Augusto Binelli, il pivot della Virtus Bologna.Ha inizio un percorso che consentirà al ragazzo di comprendere che la statura non è importante per realizzarsi nella vita, riuscendo anche a conquistare la simpatia di Anna, la compagna di scuola preferita. Alessio, insieme alla ragazza, correrà per le strade di Bologna sino a giungere in Via D’Azeglio, in tempo per ascoltare “Anna e Marco”, il motivo conduttore del film e forse della loro adolescenza.

“Anna bello sguardo”, cortometraggio di Vito Palmieri, in versione integrale.

LA LETTERA
Chi ha paura dell’obiezione di coscienza? La risposta di Udi

di Luana Vecchi

I temi della prevenzione, tutela e cura della fertilità e della procreazione dovrebbero essere obiettivi di “una società moderna che abbia a cuore il benessere dei singoli e della collettività”. La Legge 194 è nata proprio per questo scopo ma è sempre stata impropriamente chiamata legge dell’aborto. Assistiamo da sempre ad un dibattito ai vari livelli su questa legge che ha subito negli anni un costante boicottaggio in varie forme e modalità: le sue interpretazioni sono state piegate strumentalmente secondo gli scopi del momento, come dimostra la storia della obiezione di coscienza che dal personale medico si è esteso a quello paramedico, dall’obiezione individuale a quella di struttura, generando il fenomeno del turismo abortivo
Davvero scandalosa appare nel nostro Paese la percentuale di medici e operatori sanitari che si dichiarano obiettori, il che vanifica sostanzialmente l’applicazione della stessa legge 194, non garantendo l’accesso alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza. Occorre ricordare che l’art. 9 tutela la possibilità per il personale sanitario, previa comunicazione al medico provinciale, di avvalersi dell’obiezione. Gli obiettori paradossalmente sono tutelati dalla legge a “disubbidirla”. Nel testo non viene fissato alcun parametro e non si chiede ai medici e al personale sanitario nulla in cambio per cui possono rifiutarsi di effettuare aborti senza presentare alcun servizio supplementare, ecco la differenza rispetto al servizio civile. Quali le conseguenze di questa situazione? Principalmente la perdita di libertà e il rischio per la salute della donna.
Dal punto di vista giuridico diventa opportuno ricordare la pronuncia del Comitato Europeo dei diritti sociali con cui viene condannata l’Italia per violazione dell’11 della carta sociale europea a causa dei troppi obiettori di coscienza ed ulteriore conferma della “particolare” posizione del nostro sistema legislativo e sanitario sul tema dell’aborto, rispetto a quanto succede negli altri paesi
Lo stesso art.32 della Costituzione chiaramente precisa che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo” e che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, per cui diventa cruciale chiedersi se l’istituto giuridico dell’obiezione di coscienza, così come previsto dall’9 della L.194, goda dei criteri costituzionali. In buona sostanza il diritto delle donne a interrompere la gravidanza non ha lo stesso valore di quello del medico di obiettare, essendo per la donna in discussione diritto alla salute e libera scelta del proprio corpo. L’obiezione si pone come un’eccezione alla norma e porta contraddizioni troppo grandi, perché l’ordinamento giuridico e più in generale, la comunità politica, possa accettarla così com’è, senza predisporre opportune garanzie a tutela dei diritti delle donne. Il medico, difatti, sarebbe tenuto del dovere di fedeltà alla Repubblica a non obiettare, a prestare il dovuto servizio alla comunità cui appartiene, a causa del vincolo rappresentato dalla solidarietà sociale: eppure il testo di legge, per venire incontro alla sua coscienza, permette appunto, l’obiezione di coscienza, ma questa non può trasformarsi in uno strumento per sabotare il legittimo diritto di scelta della donna. L’applicazione della facoltà di obiettare di cui all’art.9 della L.194, paventa in concreto un’ipotesi di “abuso di diritto” stante l’aggiramento dello scopo originario della norma. Non si può negare, infatti, che l’obiezione di coscienza sia diventata uno strumento politico, diffuso e promosso soprattutto da cattolici ed esponenti del Movimento per la vita, i quali dopo il fallimento del referendum abrogativo del 1981, hanno abbandonato la strategia d’assalto, preferendo invalidare dall’interno la Legge 194, utilizzando le scappatoie presenti nella stessa per raggiungere i loro obiettivi, ovvero per impedire alle donne l’accesso alla contraccezione e all’interruzione volontaria di gravidanza
Il Gruppo salute donna Udi nel 2015 ha preso in esame, attraverso una ricerca ed alcuni strumenti di indagine, la situazione soprattutto ferrarese dell’applicazione della Legge 194 conclusasi con un documento molto argomentato, in cui sono stati puntualizzati i vari problemi emersi e sono state avanzate alcune proposte, inviate poi alla direzione dell’Ospedale di Cona, rappresentata dal dott. Carradori e all’Azienda USL rappresentata dalla dott.ssa Bardasi , con i quali si è avuto già un primo incontro su queste problematiche. Ci auguriamo che possano seguirne altri prossimamente per ottenere impegni precisi atti a migliorare i servizi dai Consultori giovani a quelli familiari, presupposti indispensabili e basilari di tutta la 194.
L’UDI e il gruppo salute donna continueranno la battaglia per l’autodeterminazione, la dignità e la salute della donna .

Luana Vecchi – gruppo salute donna UDI

Leggi la lettera di Patrizio Fergnani

e le risposte di:
Daniele Lugli – Movimento Nonviolento
Ilaria Baraldi – consigliera comunale

IL RICORDO
Casaleggio tecnoprofeta dell’Italia dei nativi digitali

A un paio di giorni dalla scomparsa del co-fondatore del Movimento 5 Stelle, in ricordo di Gianroberto Casaleggio pubblichiamo un commento scritto nel 2012 da Roby Guerra.

La macchina orwelliana di tutti gli old media, reliquie della storia e del cibermondo, è in piena attività: unica arma della partitocrazia tradizionale, asse nazional-liberal-socialista del mondo (il novecento che fu…) contro la primissima, unica, finora, autentica news esito fatale e strutturale della Internet generation in Italia, ovvero il cosiddetto M5Stelle di Beppe Grillo, e ora lo sanno tutti- di Gian Roberto Casaleggio, tecno guru dicono…
Poveracci Bersani, Fini, Casini, Vendola, e nano poco tech anche gli ex seguaci di Grillo, sinceri forse quest’ultimi ma al confronto sia di Grillo che soprattutto il cosiddetto Tecnoguru, appunto meri link inconsci dei primi..
Poveracci i direttori del Corsera, L’Unità, La Stampa, e tutti quanti e i loro pennivendoli tecnici del secolo scorso, mediocri e netanalfabeti, esattamente come Rigor Montis e armata Euroleone…
Ma come, tutte le sonde della media e della moda statistica segnalano la rivoluzione del web in Italia, del M5Stelle finalmente a livello elettorale prossimo venturo e – sinergia live di un popolo italiano che sub liminalmente almeno si è rotta il cazzo del Novecento, dell’Ideologia, dei Partiti, dell’AIDS politik e dei Partiti tradizionali in fase terminale e – la paleo società pseudo liberale italiana altro non trova altro che riesumare i vecchi copioni-totem/tabù sia del nazismo che del comunismo per esorcizzare la decomposizione e il funerale del Vecchio Mondo anche in Italia e persino sterminare il Mondo Nuovo che sarà?
Grillo fascista! Casaleggio persino un inquietante transumanista o futurista che sogna un mondo dominato da macchine e robot? Gli orwelliani old media e old politik sparano queste cazzate confermando che non capiscono un cazzo delle nuove tecnologie, del computer mondo nascente…
Casaleggio è un raro tecno genio italiano, uno dei pochi, a quanto pare, ancor più di Grillo (che ha comunque il merito di avere captato e divulgato nell’Agorà politik e sociale la Web Revolution prima di qualsivoglia Intellighenzia nazionale) che – anche nei fatti (e almeno questo riconosciuto tacitamente o controluce e loro malgrado dagli stessi old media) – mica Centro Sociali… . E’ realmente contemporaneo di Marinetti, McLuhan,Toffler, De Kerkchove, Negroponte, Bill Gates, Steve Jobs: contemporaneo nel cuore, nello spirito, nell’anima.
Quale dittatura delle macchine? Questa c’è già in Italia… quella della macchine umane dei Politik e dei giornalisti! Semmai Casaleggio, il contrario! La Superdemocrazia delle macchine pensanti, della Matrice senziente nascente, le 3 leggi della robotica di Asimov, più democratiche delle costituzioni parkinsoniane di tutta Europa, meglio Neuropa.
Già: i pazzi autentici comandano Europa e Italia, senza il voto dei popoli e bollano di tecno fascismo proprio Casaleggio e Grillo, confondendo strategie iperdemocratiche del M5Stelle che geneticamente e memeticamente non possono capire… Perché le scimmie non parlano?
E anche così tecnoignoranti old media e old politik! Se un comico profeta della Rete solleva anche dubbi (ma Chaplin capì il nazismo con Il Grande Dittatore ben prima degli… Alleati!), l’attenzione inedita mediatica verso Casaleggio rivela un registro di sistema del M5Stelle ben più arma letale per la paleo politica italiana!
Secondo i virus programmati già da Casaleggio… l’infezione ora è nel cuore del sistema come si diceva negli anni di piombo… La Lotta Amata per il (Web) Futurismo è già cominciata! Ma gli anni di Silicio sono l’ossimoro degli anni di piombo.
Burocrati di tutta Italia unitevi ed estinguetevi! La Nuova Italia dei nativo digitali sta arrivando! E Casaleggio (ancor più di Grillo) il suo tecno profeta!!!

Roby Guerra

ECOLOGICAMENTE
Morire per l’ambiente

Berta_Cáceres
Bertha Cáceres

Bertha Caceres è stata uccisa in Honduras poco più di un mese fa, il 3 marzo 2016. Era un’attivista che si batteva in difesa dell’ambiente opponendosi alla costruzione di una diga. L’anno scorso aveva vinto il premio Goldman “Environmental Prize”: premio assegnato annualmente agli attivisti ambientalisti di ogni continente, lo stesso che nel 2013 aveva vinto un italiano, Rossano Nicolini, maestro elementare ecologista di Capannori che diffonde sul territorio la comunicazione a proposito dell’incenerimento.

Bertha Caceres è stata uccisa a casa sua durante una rapina, almeno così dice la polizia. Coordinava il Consiglio dei popoli indigeni dell’Honduras ed era molto scomoda per le autorità così come molti altri sono stati scomodi in molte parti del mondo. Negli ultimi anni sono stati quasi un migliaio i morti uccisi perché attivisti ambientali. Da dieci anni a questa parte è quasi triplicato il numero di omicidi degli attivisti per l’ambiente: è quanto si legge nell’indagine “Deadly Environment” condotta dall’organizzazione Global Witness e riportata dal Guardian.
Brasile, Perù, Filippine e Thailandia sono i paesi più colpiti, tra quelli che si conoscono, ma forse della situazione di molte altre parti di Africa e Asia non si sa niente. Spesso sono persone comuni, che difendono la loro terra e che si oppongono a sfruttamenti di risorse naturali e inquinamenti ambientali. E gli autori di questi crimini, che spesso fanno comodo anche ai governi e alle grandi aziende, restano impuniti.

Che tristezza: i difensori dell’ecosistema sono spesso sconosciuti, anonimi e pagano nel silenzio con la loro vita. Questo perché i nomi e il numero dei morti assassinati per aver tentato di salvaguardare i propri diritti opponendosi allo sfruttamento industriale del proprio territorio ci suona spesso come un tema lontano e non come una questione che ci tocca da vicino. Ma è davvero così?

Per approfondire:

La notizia dell’omicidio su Il Corriere della Sera

Difendere l’ambiente può costare la vita (Internazionale)

La difesa dell’ambiente: un mestiere pericoloso

Un 2015 di violenze sui giornalisti ambientali

Omicidi ambientali: le cifre di una pulizia etnica

 

LA LETTURA
La valigia di Sergej

“… Ma anche così, Russia mia, sei la terra a me più cara …”. (Aleksandr Blok)

Sergej Dovlatov
Sergej Dovlatov

Una sorpresa, questo Sergej Dovlatov (1941-1990), una scoperta in una grande libreria moscovita mentre cercavo, con impazienza, un libro in italiano (qui non sono tanti). Eccomi incappare, fortuitamente e fortunatamente, nella traduzione di “La valigia”, un libriccino edito da Sellerio che qui costa quasi il doppio del suo prezzo di copertina in Italia, ma che mi incuriosisce e mi tenta troppo. Mi porta alle prime pagine e poi alla cassa.
Percorrerò strade attraverso gli oggetti, tante vite e storie. Quella che ho fra le mani (e che leggerò in una domenica d’un fiato), è una raccolta di 8 racconti, con tanto di premessa, che ruotano intorno ad altrettanti oggetti. Quelli che Dovlatov, scrittore ebreo russo emigrato negli Stati Uniti, mise nella sua valigia alla partenza dal suo paese e custodì per lungo tempo prima di ri-accarezzarli e percorrere la loro storia, e con essi la propria. A ogni episodio corrispondono un oggetto e un personaggio della sua vita diventata vagabonda quando, alla partenza da Leningrado, di fronte al funzionario dell’Ufficio espatrio che gli indicava di poter prendere con sé al massimo tre valigie, si rese conto che a lui ne bastava solo una. Pensò “ma davvero è tutto qui? E risposi: sì, è tutto qui”.
Eccoci allora alle prese con i calzini finlandesi, la “roba occidentale” che si tentava di trafficare, in periodi difficili, per guadagnare qualche rublo in più, o con le scarpe del sindaco di Leningrado, rubate sotto il tavolo durante l’inaugurazione della stazione della metropolitana intitolata a Lomonosov. A far sorridere ci pensa ancora il bel vestito scuro a doppio petto, regalato allo scrittore (a suo dire vestito malissimo) dal direttore del giornale presso il quale lavorava, per partecipare a cerimonie funebri a o spettacoli al Kirov. La cintura da ufficiale proviene dalla sua esperienza come sorvegliante nei campi di lavoro, la camicia di popeline dalla moglie Elena che gliela regala prima di lasciarlo ed emigrare in Israele. Il colbacco di gatto giunge a seguito di una rissa, i guanti da automobilista da una festa di fine anno organizzata dai colleghi di redazione. Grottesco della vita mescolato con una bizzarra natura filosofica dei suoi simpatici personaggi.
Una valigia di ricordi e pensieri sparsi, pezzi di vita di un simpatico squattrinato all’epoca dell’Unione Sovietica, con le sue abitudini, qualche ubriacatura e molte critiche alle stranezze e alle miserie del regime. Il tutto filtrato da un incredibile e coinvolgente humour. “Questa valigia”, commenta Laura Salmon nella postfazione, “così personale e unica, diviene una metafora della diasporica condizione umana. … Rispetto al tempo siamo tutti emigranti. Tutti emigriamo nella nostra giovinezza, da un passato fatto di persone, di immagini, di episodi e sentimenti che il ricordo ha la forza di resuscitare e immortalare. A dispetto della falsa sicurezza che ci ispira la fisicità dei luoghi, il tempo cancella inesorabile la fisionomia delle case, dei quartieri, delle città”. Uno scrittore originale, un  “dissidente dalla vita”, dotato di un atteggiamento di vita amaro e dissipatore, che nella sua immensa bravura ricorda Carver e Cechov. Da leggere.

S1113-3ergej Dovlatov, La valigia, Sellerio editore, 2014, 191 p.

ALTRI SGUARDI
La rivoluzione del museo del ministro Franceschini: eclissi o rinascita della cultura?

di Maria Paola Forlani

La religione dell’arte ha i suoi proseliti e i suoi luoghi di culto: i musei. Destinati a ospitare la bellezza, essi stessi divengono spesso belli ancor più delle opere che ospitano, non solo per l’insieme delle collezioni, ma per il connubio delle stesse con l’architettura, la luce, lo spazio, la decorazione e l’atmosfera dell’ambiente.

Bilbao
Il museo Guggenheim di Bilbao

Questa capacità dominante dell’architettura, o comunque del luogo, è stata particolarmente percepita nell’epoca contemporanea, dando luogo alla costruzione di edifici nei quali il progetto architettonico prevale sulle opere che contiene. L’esempio lampante tra molti è il Museo Guggenhem di Bilbao di Frank Gehry.
Tra i musei del passato però, la cui qualità architettonica peraltro è sempre rilevante, ve ne sono non pochi il cui fascino non proviene solo dall’architettura o solo dalle opere, bensì dal felice rapporto fra contenitore e contenuto. L’importanza delle modalità espositive è sempre stata sentita e lo è sempre di più. Sta anzi divenendo una disciplina a sé stante e nel visitare un’esposizione non si giudicano più soltanto le opere esposte, ma anche, talvolta soprattutto, il modo in cui sono esposte. Autore (o autori), regia (o sceneggiatura) e scenografia assumono quindi pesi quasi equivalenti, in un’esposizione o nell’allestimento di un museo come in uno spettacolo teatrale.
Luoghi di contemplazione, i musei risentono dell’aura mistica di luoghi in qualche modo sacri: cattedrali dell’arte, monasteri di bellezza. E nei casi frequenti in cui essi sono stati in origine abitazioni di collezionisti o di artisti riescono a documentarci anche una condizione di vita perduta, assumendo uno straordinario significato storico ed evocativo che sarebbe pressochè impossibile ricostruire. Il museo spesso, è stato detto, è l’orfanotrofio delle opere d’arte, nate per altre destinazioni e a queste sopravvissute, qui trovano protezione e visibilità. Malgrado questo traumatico cambiamento di vita, talora esse riescono a ristabilire con il nuovo ambiente un armonioso quanto miracoloso rapporto e a ricostruire l’aura del luogo di provenienza, palazzo, chiesa, casa, atelier e così via. Non a caso spesso erano e sono edifici storici a venire adibiti a musei.
Il convegno “La “rivoluzione del Museo” tra eclissi e rinascita della cultura?”, tenutosi all’edizione appena conclusa del Salone del Restauro nell’ambito del progetto internazionale “La città dei musei” (a cura di Letizia Caselli), ha posto il problema di come il museo dinamico possa essere proteso alla ricerca.
Il progetto “La città dei musei. Le città della ricerca” presentato nel 2015, si propone di affrontare in modo costruttivo e propositivo l’argomento della ricerca nei musei con alcuni puntuali riflessioni. La recente riforma Franceschini ha riorganizzato il sistema museale italiano dal punto di vista amministrativo e giuridico con la costituzione di venti musei autonomi e di una rete di diciassette Poli Regionali che dovrà favorire il dialogo continuo fra le diverse realtà museali pubbliche e private del territorio, ma ha affondato le radici in problemi complessi e di lunga data.
Una riforma che ha suscitato non poche reazioni e perplessità, quando non di aperta contrarietà, sia da parte di esperti della cultura italiana sia di alcune componenti degli stessi apparati ministeriali.
Le ‘antiche’ e diverse questioni riguardano innanzitutto il ruolo, la funzione e lo status effettivo dell’istituto museale, la sua autonomia scientifica e formativa, in un momento di debolezza e cambiamento del concetto tradizionale di cultura e delle categorie culturali e in un contesto di risorse drasticamente ridotte, personale scientifico insufficiente, terziarizzazione spinta, non solo dei servizi, ma anche della produzione culturale.

Img14911207

Ѐ necessaria una nuova visione. Visione in cui istituzioni, università e musei dovranno innanzi tutto formarsi e formare per poter affrontare una realtà che richiede figure diversamente formate rispetto a quelle di oggi e nella quale vanno declinati e focalizzati modi specifici di ricerca, poi condivisi tra paesi diversi, in allineamento con le tendenze che si stanno affermando nelle principali città europee, anche in funzione di finanziamenti e progetti concreti.
Tuttavia il convegno “La “rivoluzione del Museo” tra eclissi e rinascita della cultura?” ha risentito, nel dibattito e nelle relazioni, proprio di tutte le ambiguità della nuova riforma e della pesante alleanza con il privato per il recupero di nuove risorse, auspicate dal Ministro come ‘unica salvezza’ del patrimonio artistico. In realtà le sedicenti verità sui privati, spesso privi di finalità umane e di vera crescita, si scontrano con il metro della Costituzione. L’articolo 9, e i suoi nessi con gli altri principi sui quali è stata fondata la Repubblica, ha spaccato in due la storia dell’arte, rivoluzionando il senso del patrimonio culturale. La Repubblica tutela il patrimonio per promuovere lo sviluppo della cultura attraverso la ricerca (art.9) e questo serve al pieno sviluppo della persona umana e per la realizzazione di un’uguaglianza sostanziale (art.3).
Oltre al significato universale del patrimonio, questo sistema di valori ne ha creato uno tipicamente nostro: il patrimonio appartiene a ogni cittadino – di oggi e di domani, nato o immigrato in Italia – a titolo di sovranità, una sovranità che proprio il patrimonio rende visibile ed esercitabile. Il patrimonio ci fa nazione non per via di sangue, ma per via di cultura e, per così dire, iure soli: cioè attraverso l’appartenenza reciproca tra cittadini e territorio antropizzato. Perché questo altissimo progetto si attui è necessario, però, che il patrimonio culturale rimanga un luogo terzo, cioè un luogo sottratto alle leggi del mercato. Il patrimonio culturale non può essere messo al servizio del denaro perché è un luogo dei diritti fondamentali della persona. E perché deve produrre cittadini: non clienti, spettatori o sudditi.

La conoscenza è l’unica medicina capace di curare, fermare, forse vincere questa epidemia di disumanizzazione. Nella nuova riforma Franceschini il dominio dei privati è destabilizzante, i nuovi direttori, come reali ‘dittatori’ senza nessun approccio reale con le sovrintendenze (ormai sparite), creano fantasmi nei collaboratori silenziosi, i più giovani sono privi di possibilità di entrare come veri protagonisti di una vera collaborazione o ‘ricerca’ retribuita, ma restano sudditi senza possibilità di uno spiraglio di un lavoro in prospettiva.
I privati hanno creato, spesso, vere dispersioni di capitali e oltraggi architettonici ormai incurabili. Mi riferisco alle violenze strutturali della dimora del conte Vittorio Cini, in via Santo Stefano a Ferrara, che ha perduto i suoi contorni medioevali per la bramosia di ‘ipotetici’ acquirenti della diocesi che hanno trasformato un luogo di cultura e d’arte in un ambiguo ‘condominio’, mentre le biblioteche e la collezione d’arte sono scomparse.