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Vivere insieme come fratelli o morire da soli?
L’ardua scelta tra convivenza e commorienza

di Daniele Lugli

Nella mia città un gruppo (giovani scellerati e vecchi malvissuti, avrebbe detto, credo, Salvemini, ma anche adulti con entrambe le caratteristiche, a quel che mi è dato di vedere) chiede da tempo la presenza dell’Esercito per contrastare il sostare in giardinetti o l’andirivieni ciclistico di giovani stranieri, anche non residenti a Ferrara, che qui svolgono la loro attività di spaccio. Vi è certo un disagio di cittadini più a contatto con queste, e altre, presenze, per più aspetti problematiche. Preoccupazioni vengono alimentate fino a trasformarsi in allarme, paure e rifiuto nei confronti degli immigrati in generale e dei nuovi arrivi in particolare. Chi si impegna per far fronte alle difficoltà connesse all’accoglienza di persone giunte da paesi lontani, fuggendo da situazioni invivibili, è additato come nemico dei ferraresi e della loro tranquillità.
Così un tema di convivenza e legalità, che richiede risposte in primo luogo di ordine sociale, è prima trasformato in problema esclusivamente di sicurezza e ordine pubblico e, con l’intervento richiesto dell’Esercito (non bastano polizie e carabinieri?), in difesa dal nemico. In altre città questa richiesta viene addirittura dal Sindaco, come a Milano, o dal Prefetto, come a Torino. Leggo dai giornali: “Emergenza sicurezza a Milano”. Sala: “Chiederò l’esercito nel quartiere multietnico” e Milano trema. E ancora: “Bombe carta e guerriglia a Torino”. Situazioni, certo difficili, sono state lasciate marcire fino alle estreme conseguenze e si invocano maniere ‘dure’, della cui inefficacia siamo certi. La motivazione ‘politica’ (la chiamano così) è chiara: dice il Sindaco di Milano, “Non lasciamo la questione in appalto alle destre” e, con 50 militari aggiunti, pensa il Prefetto di Torino di presidiare giorno e notte un abitato dove vivono un migliaio di africani, da censire prima di sgomberare.

Si interroga un giornalista su Repubblica sulle ragioni del tremito milanese, visto che a Milano i reati calano (162 mila due anni fa, 152 mila l’anno scorso, 105 mila nel novembre di quest’anno e in 10 anni sono calati del 36%), i colpevoli vengono acciuffati come mai in passato. Certo, annota il giornalista, la popolazione invecchia, i furti ci sono, c’è la “malattia della paura percepita”. E poi, dico io, c’è un capro espiatorio ideale, che sembra fare il possibile per farsi individuare come tale: loro, gli stranieri tra noi. Conclude ragionevolmente il giornalista “difficile pensare che dove lavorano, tra forze di polizia e vigili, quasi 15mila unità, come antidoto bastino 650 soldati e, come d’incanto, sul far della periferica sera, torni nei cuori il sereno”. Difficile che lo stesso miracolo lo facciano i 50 militari a Torino dove il prefetto chiede aiuto all’esercito dopo i tre ordigni lanciati per vendetta dopo una rissa. Gli abitanti esasperati: abbiamo paura. Centinaia di africani in rivolta: “Italiani razzisti, la polizia ci controlla e non ci difende”.

Ci aveva messo in guardia Alex Langer al punto 9 del suo “Tentativo di decalogo per una convivenza inter-etnica”, il solo punto che contiene un divieto: “Una condizione vitale: bandire ogni violenza. Nella coesistenza inter-etnica è difficile che non si abbiano tensioni, competizione, conflitti: purtroppo la conflittualità di origine etnica, religiosa, nazionale, razziale, ecc. ha un enorme potere di coinvolgimento e di mobilitazione e mette in campo tanti e tali elementi di emotività collettiva da essere assai difficilmente governabile e riconducibile a soluzioni ragionevoli se scappa di mano. Una necessità si erge pertanto imperiosa su tutte le altre: bandire ogni forma di violenza, reagire con la massima decisione ogni volta che si affacci il germe della violenza etnica, che – se tollerato – rischia di innescare spirali davvero devastanti e incontrollabili. Ed anche in questo caso non bastano leggi o polizie, ma occorre una decisa repulsa sociale e morale, con radici forti: un convinto e convincente no alla violenza”. Leggi e polizie, servono dunque, ma non bastano. Né serve aggiungere l’esercito. Vanno mobilitate tutte le risorse sociali ed educative di una società che voglia meritarsi l’appellativo di civile.
Lo diceva Martin Luther King: o impariamo a vivere assieme come fratelli (magari non troppo amorosi, penso io) o siamo destinati a morire assieme da stupidi. Se non siamo capaci di convivenza sarà la commorienza ad attenderci.

PER I BIMBI
Aspettando la Befana, il villaggio della creatività per giocare insieme al Wunderkammer

Da: Wunderkammer

Dal 2 al 5 gennaio a Palazzo Savonuzzi si aspetta la calza della Befana con l’associazione Encanto

Divertenti giochi, musica, creatività, per passare insieme i giorni prima dell’arrivo della vecchia che ‘vien di notte con le scarpe rotte’. Dal 2 al 5 gennaio, infatti, al Consorzio Wunderkammer di Palazzo Savonuzzi (in via Darsena 57 a Ferrara) è il momento di Aspettando la Befana, il villaggio post natalizio pensato dall’associazione Encanto per i bambini dai 5 agli 8 anni.

Nel villaggio del gioco e della fantasia, ogni momento ludico e ricreativo sarà accompagnato da una operatrice madrelingua spagnola, che farà conoscere e insegnerà ai piccoli partecipanti alcune parole in spagnolo. Nata infatti nel 2012 da un gruppo di donne provenienti da diverse parti dello stato iberico, ma da molti anni a Ferrara, l’associazione di promozione sociale Encanto – Centro Interculturale Italo-Español si propone di diffondere la lingua spagnola e momenti educativi, attraverso attività per grandi e piccini, con attività e iniziative proposte nella sede dell’associazione, il Wunderkammer di via Darsena.

L’obiettivo di Aspettando la Befana è quello di offrire un luogo dove i bambini si trovino insieme a creare, giocare e condividere esperienze in totale sicurezza e con operatori qualificati. Il villaggio sarà operativo tutti e quattro i giorni, da lunedì a giovedì, dalle 9 alle 13. Per informazioni sui costi e per prenotare contattare l’associazione Encanto alla mail laboratori.encanto@gmail.com oppure al numero 366.4803237.

IL DONO
Lascito Francesco Stefanelli: quando l’amore per la musica diventa patrimonio di tutti

Da: Conservatorio Ferrara

Tra vinili e cd, la raccolta donata dagli eredi Stefanelli al Conservatorio Frescobaldi di Ferrara comprende circa 2500 unità ed è ora custodita nella biblioteca Luciano Chailly

Una passione lunga una vita, ora messa a disposizione della collettività, per diffondere il piacere e l’amore per la musica. Un regalo di Natale, quello che qualche giorno fa gli eredi di Francesco Stefanelli hanno voluto donare al Conservatorio Frescobaldi e che sarà quanto prima disponibile non solo agli studenti, ma a chiunque ne faccia richiesta. Si tratta del Lascito Francesco Stefanelli, una collezione di circa 1800 vinili e 700 cd ora custoditi nella biblioteca Luciano Chailly, nella sede del Conservatorio di Ferrara di Largo Antonioni 1.

L’immagine che ancora è impressa negli occhi dei figli, Giovanna e Antonio, è quella del papà Francesco seduto in poltrona, assorto ad ascoltare ad alto volume la ‘sua’ musica. Da Verdi – suo grandissimo amore – a Puccini, da Donizetti a Bellini, da Beethoven a Bizet, ma anche molto jazz e la più recente Amy Winehouse, sono solo alcuni degli autori che dal 23 dicembre compongono parte del materiale a disposizione al Frescobaldi. Una collezione realizzata con anima e passione durante tutta la sua esistenza, tanto che compaiono spesso della stessa opera più versioni differenti, come nel caso delle cinque diverse esecuzioni della Tosca presenti nel lascito. “Questi dischi sono un pezzo importante della vita di nostro padre – racconta Giovanna Stefanelli –. Era un uomo curioso a appassionato, che andava all’opera in tutti i teatri di Italia e collezionava le versioni che più gli erano piaciute”.

Nato a Taranto nel 1935, Francesco Stefanelli studiò Giurisprudenza a Bari, percorso che interruppe quando vinse un concorso nella pubblica amministrazione. Arrivò così a Portomaggiore, dove conobbe la futura moglie. Direttore dell’ufficio del registro, non abbandonò mai la sua passione per la musica. Dopo la sua scomparsa, avvenuta nel gennaio 2015, i figli hanno voluto donare la sua imponente raccolta al Conservatorio di Ferrara. “Era l’unico posto in cui accogliere i vinili di nostro padre” commentano i figli, presenti al Conservatorio con Francesco Colaiacovo, presidente del Conservatorio, e Marina Alfano, responsabile della biblioteca e coordinatrice del Corso di biennio di Musicoterapia. Il Frescobaldi, infatti, unisce da tempo la famiglia Stefanelli, dato che la consuocera, Anna Fornasini Cesnich, fu insegnante di lettere nell’istituto dal 1971 al 1998.

“Il lascito Stefanelli sarà un bene che sapremo valorizzare – sottolinea il presidente Francesco Colaiacovo –La cultura ha bisogno di mecenatismo e questa donazione è un importante contributo per il Conservatorio, perché ci aiuta a coltivare la cultura musicale e a investire su di essa”. I dischi, ora ordinati e catalogati, hanno infatti bisogno di essere digitalizzati per essere utilizzati da tutti, attraverso la rete bibliotecaria nazionale e internazionale Opac Sebina. Progetti collegati potranno poi coinvolgere gli studenti. “Questa non è che la prima fase per rendere disponibile il fondo a favore della collettività. Offriremo una collezione importante – conclude Marina Alfano – a cui tutti potranno accedere in futuro, una volta terminata la digitalizzazione dei vinili”. Per la docente, “sarà inoltre interessante associare alla collezione un progetto di ascolto per gli studenti, che potranno così arricchire la propria formazione ascoltando diverse interpretazioni di una stessa opera e, non ultimo, scoprire l’insaziabile voglia di ricerca e approfondimento di Stefanelli. Una passione contagiosa, che si respira in ogni disco ora custodito al Conservatorio”.

“I libri non finiscono mai. Nemmeno i quaderni”,
il senso della vita di Andrea Cirelli

di Giovanni Brasioli

“I libri non finiscono mai”, ultimo lavoro di Andrea Cirelli, non scivola mai nella banalità e di certo non accontenterà le abitudini dei lettori di best-sellers. Nella narrazione si rimane sempre a distanza di sicurezza dai libri di ‘ricette’ spacciati per romanzi: 100 grammi di sangue, 200 di sesso, 300 di passione e morte, 5 grammi di critica sociale, 50 di location esotica, 800 grammi di luoghi comuni. Lo scrittore diverte, commuove e restituisce un po’ di onore al sano valore della gratuità come quando descrive il soccorso nei confronti di una ragazza svenuta, la veglia in ospedale e, una volta che le condizioni della giovane sono migliorate, l’andarsene senza essersi nemmeno presentato alla stessa.

Andrea Cirelli
Andrea Cirelli

A due anni di distanza dalla pubblicazione di “Segreti tossici” lo scrittore ritorna dunque sulla scena letteraria con “I libri non finiscono mai. Nemmeno i quaderni”. Mercoledì 7 dicembre, alla libreria “Feltrinelli” di Ferrara, è avvenuta la presentazione ufficiale del romanzo. L’autore, intervistato da Sergio Gessi (docente universitario e direttore di Ferraraitalia.it) e Riccardo Roversi (direttore della casa editrice Este Edition), ha sottolineato come questo libro, costituito da appena 76 pagine, sia un condensato di emozioni, sensazioni, considerazioni. La lettura, a fronte di una scrittura molto scorrevole e vivace, risulta accattivante. La trama prende le mosse da un quaderno di appunti ritrovato su una panchina in un giorno di primavera che in breve diventa una guida, un’agenda di viaggio su cui si sviluppa tutta la vicenda del protagonista (alter ego di Andrea Cirelli).

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In questa società contraddistinta dalla continua ricerca del profitto viene coraggiosamente riproposta l’idea del “bene perseguito per il bene”. In questo mondo in cui “non esiste nessuna buona azione che resti impunita” il Signor C sottolinea quanto sia necessaria la generosità: non ci sono buone azioni che facciamo agli altri poiché le facciamo a noi stessi. Il protagonista del romanzo, eternamente proteso verso il prossimo, nel suo agire ci ricorda quanto sia importante dare fiducia agli uomini e non importa se poi questa fiducia verrà in un secondo tempo tradita. Dare fiducia non tanto perché il prossimo meriti la nostra fiducia ma in quanto nessuno merita di vivere nella sfiducia: è una brutta vita. Il percorso del protagonista corrisponde ad un viaggiare in solitudine verso una meta che va delineandosi con lo scorrere delle pagine: lo scrollarsi di dosso i ruoli che, da sempre, i sistemi di potere appiccicano sulla pelle dei governati per dividerli e spingerli in assurde guerre tra poveri: cristiani, musulmani, eterosessuali, gay, vegani, carnivori, comunisti, fascisti, italiani, immigrati. “Basta ascoltare e guardare la società che ti circonda – scrive Cirelli – senza cercare né di capire né di giudicare”, oppure ancora “Non sempre si deve conquistare, dominare, colonizzare, talvolta è utile solo capire”. Tra le pagine si scorge uno spiccato ‘Elogio alla solitudine’ ossia a quella condizione che i politici non si possono permettere: un politico solo è un politico finito. Da soli si riesce a pensare meglio ai propri problemi e, spesso, a trovare migliori soluzioni. Da soli, per assurdo, ci si ritrova maggiormente protesi verso il circostante, spesso rappresentato da un proprio simile e lo si riesce a capire meglio. Scorrendo le pagine del libro il Signor C ci insegna ad aver paura dell’uomo organizzato ma mai dell’uomo solo. “I libri non finiscono mai” trasmette una serenità a volte destabilizzante, altre volte disarmante. Scorrendo le pagine si comprende progressivamente quanto non sia poi così necessario trovare un senso nella vita poiché il senso della vita risiede nella vita stessa. Ci sono persone che inseguono carriere per diventare qualcuno e quindi attribuirle un senso: devo sposarmi, devo fare figli, devo collezionare likes su Facebook. L’autore smaschera con la leggerezza dei bambini quanta poca logica ci sia nell’affannarsi della vita moderna, nell’inseguire a tutti i costi una meta; mette in evidenza come l’unico modo per dare un senso alla vita sia quello di viverla pienamente, in tutte le sue sfumature. “I libri non finiscono mai” pone l’accento su quanto sia importante essere forti con se stessi ma allo stesso tempo clementi e soccorrevoli, senza compatire, nei confronti di chi ha bisogno, a volte solo di una parola, di una frase o di un gesto. Pagine imperdibili sono dedicate al “sogno”. In una società in cui “così è stato deciso e nulla può cambiare, semmai se stessi adeguandosi alla mediocrità” il Signor C si muove i direzione ostinata e contraria suggerendo al lettore di ricominciare a pensare in una prospettiva utopistica, a costo di essere presi per pazzi, con la consapevolezza insegnataci da Nietzsche che “quelli che ballano vengono visti come pazzi da quelli che non sentono la musica”. Si tratta, in fin dei conti, di un romanzo creato allo scopo di rendere i lettori parte attiva delle vicende, coinvolgendo emotivamente e realizzando un’esperienza visiva intensa, come se fossimo anche noi i protagonisti ai quali viene affidato l’arduo compito di riflettere, di soccombere agli eventi e di mantenere un segreto che urla per essere ascoltato.

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BUONE PRASSI
Spal, Clara e Città del Ragazzo insieme per un riciclo ecosolidale

clara-spalDopo ottanta lavaggi i teli chirurgici, per legge, oggi finiscono al macero. Parliamo dei noti e caratteristici teli verdi, che tutti ben conosciamo. Da domani potrebbe non essere più così. C’è un intelligente progetto per il loro riutilizzo. L’idea parte da Servizi ospedalieri e Città del Ragazzo. Ad Area-Clara, l’azienda che cura lo smaltimento dei rifiuti in tutta la provincia di Ferrara (ad eccezione del capoluogo e di Argenta), è piaciuta e l’ha rilanciata, coinvolgendo anche la Spal. Così – anziché un rifiuto da smaltire – dal telo ecco fiorire, attraverso le mani delle ragazze e dei ragazzi del centro di formazione professionale, cuscini, coprisedie e magari impermeabili e ombrelli: sì, perché la tela usata in chirurgia è impermeabile. La Spal, anch’essa sempre attenta e sensibile a progetti e iniziative a valenza sociale, ha mostrato interesse e disponibilità per questa iniziativa di stampo ecologico e solidale; ed è possibile ipotizzare, per esempio, che i copriseduta delle poltroncine del nuovo stadio, al quale l’Amministrazione comunale sta lavorando con l’impegno di completare i lavori per l’inizio del prossimo campionato, potrebbero essere di un bel verde speranza…
Insomma, un buon esempio di sinergia e collaborazione attiva e responsabile, di cui si è parlato mercoledì pomeriggio al ristorante la Barchessa, cornice del brindisi dei dipendenti di Area – in procinto di assumere ufficialmente la nuova denominazione di Clara – al quale sono stati ospiti d’onore una rappresentanza dei giocatori della Spal (Arini, Cremonesi, Finotto, Silvestri) con il presidente Mattioli e i patron Colombarini, padre e figlio.
clara-spalE’ stato Gian Paolo Barbieri, presidente di Area-Clara, a fare gli onori di casa, ricordando l’impegno dell’azienda al servizio della comunità ferrarese, e affidando a un incisivo video la sintesi della tante attività svolte e dell’impegno profuso da tutti i 400 dipendenti.

VOCI DA BERLINO
L’etica dell’esistenza

di Dario Deserri

Il mondo cade in pezzi. Ieri sera (19.12.2016) attorno alle 20.00, un tir ha sventrato il mercatino natalizio di Breitscheidplatz, la piazza principale della West City. Di questo mondo, Berlino ne è la nuova, attualissima capitale, come altre in passato… un recente passato.
Era nell’aria da mesi. Solo un paio di giorni prima, la Berliner Zeitung scriveva di possibili attacchi ai mercati pubblici di Natale. La gente che vive qui lo sapeva da tempo. Il ruolo attivo del governo Merkel per i rifugiati nel trattato con la Turchia, l’appoggio della Germania in Siria già da fine 2015, erano tutti elementi che facevano pensare che la capitale tedesca, prima o poi, sarebbe stata presa di mira.

Io sono cittadino di questa città da anni, sono un europeo. Abbiamo faticato da queste parti, sudato per costruire qualcosa, per vivere dove la vita ci pareva fosse più libera. Ora qualcuno ci dice che non è così, nemmeno qui, che si sono sbagliati. Stavo tornando dopo una giornata di duro lavoro, erano le 18:30 ed ero stanco. Ho lavorato al mattino e studiato al pomeriggio. Studio da redattore, per poter scrivere, per migliorare una lingua ostica che, ogni giorno, ancora mi resiste… e mi migliora.
Passo per un mercatino di Natale a cinquecento metri da casa mia e sembra tutto tranquillo, come al solito. In giro ci sono ragazzi rumorosi, alcuni impiegati alla fine del turno fermi alle bancarelle, altri che bevono Glühwein, e poi le signore benestanti che provengono dalla Ku’Damm con le borse dello shopping, tutti a chiacchierare in mezzo alla piazza.
Mi confondo tra la folla, compro un paio di regalini e alcuni biglietti d’auguri di Natale. Cammino verso casa senza fretta e decido di mangiare qualcosa. Appena arrivato al mio appartamento, qualche centinaio di metri dopo l’Europa Center, al computer sempre accesso noto il LIVE della “Die Welt”: un attacco!
Immagini simili a quelle di Nizza dell’estate scorsa. Secondo uno studio del 2015 del Landrat cittadino, il Senato locale (Berlino è anche uno stato federale), i gruppi salafiti, più o meno identificati e tenuti sotto controllo a Berlino negli ultimi anni, sono oltre duecento. Il timore di un attentato terroristico è dunque piuttosto ragionevole. D’altro canto la città e l’intera nazione si sono fortemente polarizzate, quando non radicalizzate.
Ora attendiamo di sapere cosa sia davvero successo, le investigazioni sono tuttora in corso. L’unica cosa che appare certa è che un camionista polacco è stato ucciso, forse il proprietario del mezzo dirottato e guidato verso la tragedia. Dodici morti e cinquanta feriti innocenti che non meritavano certo di finire i loro giorni in questo modo. Anche una ragazza italiana risulta attualmente scomparsa.

Quella di ieri è una ferita (non la prima e, purtroppo, non sarà certo l’ultima) aperta nella capitale più liberale d’Europa. La capitale con una coalizione Rot-Rot-Grün, appena ratificata dal sindaco Michael Müller (SPD) in un territorio a nord-est dei nuovi Länder ex-DDR, con un impronta locale sempre più xenofoba, soprattutto in Sassonia. Berlino è stata per decenni un melting-pot pacifico e creativo, un’isola serena e un esperimento riuscito, frutto di politiche accorte e attente, nonostante l’inarrestabile avanzata delle multinazionali del lusso e della finanza un poco ovunque… sempre di più, anche qui.
Tutto questo avviene nel paese, che più ha goduto dei privilegi di questa Europa sbilenca (lo Stato molto più dei cittadini) e ben lontana da quella pensata da Konrad Adenauer o Willy Brandt, ad anni luce perfino da quella di Helmut Kohl. Ora la Merkel ne prenderà atto, e probabilmente ne pagherà le conseguenze. Come e in che modo lo capiremo nei prossimi mesi. Pagheremo tutti nel lungo periodo.

Con la politica estera degli ultimi quindici anni, i paesi occidentali avrebbero potuto creare un mondo migliore, quanto meno evitare tutto questo. Con l’ipocrisia di voler pacificare e portare democrazia nel mondo, in paesi che non conoscono nemmeno il significato della parola “Costituzione” (ma sappiamo che i motivi reali sono ben altri), siamo finiti per tornare in guerra tutti quanti. La guerra del consumismo.
Questa è una città pacifica, ma nella sua storia è stata anche altro. Nel suo dna, Berlino ha la capacità di trasformarsi, di cambiare radicalmente. Ora è polarizzata, montano gli schieramenti già da anni… i pro e i contro. Cosa sarà di questa città nessuno al momento può saperlo, ma nelle sue continue trasformazioni è presente soprattutto il codice della rinascita.

Ma dove siete finiti tutti?

di Cristiano Mazzoni

Ma dove siete finiti tutti?
Antonio, le tue sofferenze, la tua dignità, la forza del tuo intelletto sono diventati cibo per storiografi vintage. Tu per primo, quasi un secolo fa parlasti di questione morale, lo potevi fare, ne avevi la facoltà, eri limpido come i tuoi sogni, sacrificasti la tua vita per ciò in cui credevi. Il tuo sacrificio, per il bene dell’Umanità Nuova.
Dove ti hanno nascosto?
Ti studiano come un reperto archeologico, non come un esempio. Come un punto di partenza, ma tu sei un punto di arrivo.
Giuseppe, ti hanno dimenticato. Io no.
Tu hai insegnato ai cafoni a non togliersi il cappello di fronte ai padroni, ci hai insegnato, il significato della parola dignità. Nessuna differenza di genera e grado, uguaglianza, libertà. Il sindacato come strumento unitario di difesa sociale. Riscatto dei braccianti, dopo migliaia d’anni di sofferenze e privazioni.
Dove sei?
Sandro, dov’è la tua forza, la tua integrità, che ne hanno fatto?
Partigiano per sempre, per sempre dalla stessa parte, la tua morale contrapposta alla Milano da bere (e da mangiare), combattesti in montagna ed in parlamento e poi, su fino al colle come paladino della giustizia. Braccio contro la dissoluzione delle idee, arma contro l’evaporazione della politica. Sangue rosso nelle vene, contrapposto all’appiccicoso liquido biancastro degli edonisti.
Enrico, tu mi manchi più di tutti.
Sei sempre stato nostro, un esempio, una guida, forza carismatica di un uomo semplice. Io c’ero a San Giovanni ero con mio padre e rappresentavamo un popolo, il nostro. Forza morale e rigore, figlio della stessa terra di Antonio, stessa forza dirompente della dignità e della pulizia. Ti prego spazza via questa classe politica di pellicani, convinti che la politica sia un mestiere, ridacci la forza per vivere le nostre idee. Ti citano, ti espongono come un’icona ma si vergognano di te. Noi non ci siamo più, il nostro posto è stato preso da avversari politici, convinti di essere tuoi nipoti.
Dove sei?
Lucio, lucido sognatore, profilo d’attore, nato nella nebbia della mia terra. Rompesti gli schemi, mai ortodosso, mai chiuso nei dogmi del centralismo democratico, rivoluzionario per vocazione ed aspirazione. I tuoi anni vissuti, tra lotte mai vinte, forza del sogno, utopia come religione. Fino all’ultimo cercasti l’unità. Poi un giorno, decidesti tu, di spegnere l’interruttore.
Dove siete compagni? Ci avete lasciati soli, nelle mani di contrabbandieri di idee, di stupratori di sogni.
Pietro, sognavi la luna.
Tutta la vita, la ricercasti, sulla terra negli uomini, armato solo delle tue idee, delle nostre idee, scontasti la tua lungimiranza e mai ti piegasti al pensiero comune.
Tutti voi compagni dove siete?
Vi indicano come passato, archeologia di pensieri lontani. Cercano la modernità, scappando da voi, vi hanno interrato pur fingendo di riconoscere i vostri meriti.
Uguaglianza, libertà, dignità, pari opportunità, salute e scuola per tutti, moralità nella politica, sogni e speranze per l’avvenire.
Cosa c’è di più moderno? In cosa voi li avete superati?
L’unica possibilità per il futuro sta nella forza delle vostre idee, sperando che una tempesta di sogni travolga la moderazione ed il nulla di questa classe politica, che vi ha nascosto nei cassetti dell’oblio, per paura della vostra dirompente modernità.

VOCI DA BERLINO
Parla una studentessa berlinese: “Molti ragazzi non vengono a scuola”. “E c’è chi comincia ad accusare la Cancelliera”

Un camion si schianta fra la folla, rimangono a terra 12 morti e 48 feriti: tornano alla mente le sconvolgenti immagini del 14 luglio e della Promenade des Anglais di Nizza, con l’automezzo che zigzaga per la strada per fare più vittime possibili. Ieri sera, invece, il bersaglio del camion sono stati i famosi ‘Weihnachtsmärkte’ (Mercatini di Natale) di Berlino, nella parte occidentale della capitale tedesca, vicino alla Chiesa del Ricordo.
Su Twitter la polizia di Berlino parla ancora di “presunto attacco terroristico”, spiegando però che gli investigatori sono propensi a credere che il tir sia stato “deliberatamente lanciato contro la folla”.
Ed è di queste ora la notizia che una giovane italiana risulta dispersa, oggi non si è recata al lavoro e il suo cellulare è stato trovato sul luogo della strage: si tratta di Fabrizia Di Lorenzo, 31 anni. vive e lavora nella capitale tedesca. Anche fra i feriti ci sarebbe un connazionale: l’uomo non sarebbe in gravi condizioni e verrà sentito dagli inquirenti.

Abbiamo raccolto la testimonianza di Sara (nome di fantasia), quindicenne berlinese che vive a poca distanza da luogo dell’evento.
“Vivo nel centro di Berlino, a poca distanza da dove è successo tutto. In quel momento – ci racconta – mi trovavo a casa, ma non mi sono accorta di nulla, ho realizzato che era accaduto qualcosa di grave solo perché ho cominciato a ricevere telefonate e messaggi da amici e persone che mi chiedevano se stavo bene”.
Prima di tutto le chiediamo se lei e tutti i suoi cari e conoscenti stanno bene: “Per fortuna nessuno dei miei famigliari o dei miei amici è rimasto coinvolto, ma oggi sono scioccata e impaurita, forse anche perché ho visto un video su quei momenti girato da un amico di un amico, sai come succede”.
Nonostante il comprensibile timore Sara, all’indomani della strage ha tentato di continuare la propria vita: “Oggi io sono andata a scuola, ma qualcuno che conosco è rimasto a casa perché i genitori non hanno voluto che uscisse, molte persone oggi non sono uscite dalle proprie case qui a Berlino e anche i mercatini di Natale oggi sono rimasti chiusi”.
Prima di lasciarla andare le chiediamo qual è il clima nella capitale tedesca oggi e se, come sentiamo sui media italiani, è vero che molti ritengono l’accaduto una conseguenza della politica di accoglienza di Angela Merkel: “Sì, molte persone stanno dando la colpa ad Angela Merkel e alle sue scelte sui rifugiati: è facile collegare le due cose e sicuramente ora chi attaccava lei e i rifugiati nel nostro paese diventerà ancora più ostile. Io però non condivido questa posizione e non credo che la maggioranza dei tedeschi la pensi così”.

Susanna Camusso a Ferrara:
il nemico non sono i migranti è il mercato

Tentare di dare un nome e una storia ad alcuni dei loro volti, per iniziare a considerare i migranti come persone con una dignità e dei diritti e non più come una categoria o, ancora peggio, un’emergenza che riguarda solo l’ordine pubblico. È questo il senso dell’iniziativa organizzata al Cinema Apollo sabato mattina, in occasione della Giornata internazionale dei Migranti, dal coordinamento di associazioni che ha dato vita a Ferrara che accoglie. Ospite d’onore: il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, intervistata dai ragazzi di Occhio ai Media e dagli studenti delle scuole superiori della provincia di Ferrara.
Il titolo dell’evento era “Oltre i muri dell’emergenza” e proprio da qui è partita Camusso: “fino a oggi abbiamo sempre parlato di immigrazione in termini di emergenza, cominciamo a parlare del tema del futuro. Non si può immaginare un futuro che non si confronti con i flussi migratori”, se non saranno – almeno si spera – le guerre a determinare i movimenti di popolazione, lo farà la demografia. Per il segretario “si può parlare ancora di emergenza solo nella misura in cui bisogna smettere di far morire le persone nel Mediterraneo”, per il resto dobbiamo rispondere a domande che riguardano “il mondo che dobbiamo disegnare” e per farlo serve “il coraggio della responsabilità”. Dobbiamo avere il coraggio di rispondere ad alcune domande: quali sono i principi in cui crediamo e che vogliamo affermare? In quale società desideriamo vivere? E, molto più pragmaticamente, “sono davvero queste persone a mettere in pericolo il nostro posto di lavoro, il nostro tenore di vita? Se non ci fossero i migranti la disoccupazione giovanile in Italia sarebbe allo 0%?”

La risposta di Camusso è un forte no: “il problema è che non si riesce a dare una risposta seria ai tanti disagi che attraversano la popolazione. La rottura però è avvenuta ancora prima: quando si è iniziato a dire che chi aveva più diritti era un privilegiato rispetto a chi è venuto dopo. Ora si sta facendo la stessa operazione con i migranti”. Per il segretario, insomma, alla base c’è l’incapacità di dare risposte serie alla complessità che stiamo vivendo e la soluzione trovata da chi vuole perpetuare questo modello di sviluppo e di crescita solo economica è la contrapposizione fra chi ne rimane escluso: prima erano i figli contro i padri, colpevoli di avere più tutele, ora sono gli italiani contro gli stranieri, colpevoli di sottrarre il poco lavoro che c’è.
Per fermare chi cavalca e fomenta le paure, strumentalizzandole politicamente, bisogna capire perché queste paure ci sono e parlare con chi ha paura per dirgli che “se non si accede alla sanità, ai servizi, se si fa fatica ad arrivare alla fine del mese, se diminuiscono le tutele e i diritti sul lavoro” sentirsi minacciati è comprensibile, ma “forse il tema è che abbiamo sbagliato a immaginare che le politiche sociali potessero essere progressivamente ridotte, che il mercato ci avrebbe fatto vivere tutti meglio e in perenne crescita. Il mercato fa un’altra cosa: arricchisce pochi e impoverisce i più”. Il nemico non sono i migranti, ma chi “ha pensato che si potesse continuare a ragionare in termini di riduzione dei costi, invece che giocare la sfida della qualità del lavoro”. “Non si può immaginare che se qualcun altro sta peggio di me, le mie condizioni di vita migliorino”, come “non si può introdurre una gerarchia dei bisogni sulle persone”. La soluzione, secondo Susanna Camusso, è “stare nelle scuole e nei luoghi di lavoro insieme, vivere lo stesso spazio e lo stesso tempo” sotto parole che si chiamano dignità , libertà, pace e lavoro, perché futuro e migliori condizioni di vita si conquistano e si sono sempre conquistati lottando con gli altri non contro gli altri.

Alcuni, neanche troppo tempo fa, l’avrebbero chiamata una rivendicazione di una nuova coscienza di classe da parte degli sfruttati, anche se in modi diversi, di coloro che sono lasciati indietro dalla ‘fiumana del progresso’. Quando però lo abbiamo chiesto al segretario, a lei l’espressione non è piaciuta, ha preferito chiamarla: “una nuova coscienza di giustizia, una coscienza che le diseguaglianze contrappongono gli ultimi con i penultimi, determinando sempre nuovi ultimi, mentre ricostruire uguaglianza permette di immaginare un percorso di crescita, libertà, benessere”.
E sulle priorità del nuovo governo Gentiloni riguardo a lavoro e immigrazione, Susanna Camusso afferma: “bisognerebbe cambiare le politiche fatte finora, politiche di sottrazione di diritti e di assenza di investimenti. Ciò di cui abbiamo bisogno è che si crei lavoro e si indichi quali sono le direzioni nelle quali si crea, non delegando solo al sistema delle imprese quali caratteristiche ha lo sviluppo. Bisogna affrontare il tema dell’interdizione di questo porcesso di impoverimento dei salari e dei diritti. La prima condizione è smettere di creare precarietà e porsi l’obiettivo di creare buon lavoro e lavoro di qualità”.

Foto di Patrizio Campi e Valerio Pazzi [clicca sulle immagini per ingrandirle]

Durante la mattinata sul palco, oltre al segretario generale Camusso, si sono avvicendati altri ospiti. Un commosso sindaco Tiziano Tagliani ha ricordato la notte tra il 24 e il 25 ottobre e le barricate a Gorino, “erano un po’ di anni che non piangevo”: “è una serata che non dimenticherò facilmente”. “Erano le 10 di sera, stavo guardando la televisione e mi hanno chiamato per dirmi che le dodici ragazze erano alla stazione dei Carabinieri di Comacchio perché nessuno le voleva. Mi è salita una rabbia tale che ho chiesto a mia moglie di accompagnarmi, perché non sapevo cosa avrei detto. Quando sono arrivato ho trovato in una stanza dodici persone mute e rassegnate”. Secondo Tagliani quello che abbiamo di fronte “è un problema di cultura: qualcuno continua a sentirsi fuori, a vedere le cose come se fossero lontane, in tv”. “Abbiamo vissuto l’immigrazione come un’emergenza, ma non è più così: è un processo internazionale: occorre ripensarla da tutti i punti di vista”. Infine il sindaco di Ferrara e presidente della Provincia ha ribadito la sua posizione sulla nuova intesa fra Anci e Stato e in particolare sull’incentivo economico per l’accoglienza: “non bisogna dare più soldi ai Comuni che accolgono, perché il rischio è che dicano che facciamo accoglienza solo per i soldi, bisogna togliere risorse a chi non lo fa” perché questo rifiuto, “per di più fatto con la fascia tricolore addosso”, “non è una forma di disobbedienza civile”.
Poi ci sono state le testimonianze della fotoreporter Annalisa Vandelli e di Grazia Naletto, presidente dell’associazione Lunaria. La prima ha raccontato i campi profughi di Giordania e Libano, persone di ogni età con i segni della guerra sul corpo e negli occhi che vorrebbero solo “tornare alla loro vita normale”, mentre la seconda ha evidenziato i problemi della mancanza, in Italia e in Europa, di “un sistema d’accoglienza ordinario predisposto per far fronte alla domanda di chi arriva”. E poi Andrea Morniroli, operatore sociale, che ha paragonato le migrazioni ai movimenti tellurici che scuotono il territorio e creano faglie: “una parte della politica cavalca la paura, mentre un’altra parte non ha il coraggio di affrontare questa complessità. Il compito di amministratori, operatori sociali, sindacalisti è stare in quelle faglie e costruire ponti per attraversarle, costruire mediazioni per superare le differenze e trovare i punti comuni”.
L’avvocato della Cgil Andrea Ronchi ha risposto alle domande su caporalato, migrazione e illegalità, “lavoro povero”. Se un lavoratore straniero è costretto ad accettare la tratta, il caporalato e un salario del 25% inferiore rispetto a un collega italiano, a parità di lavoro, perché altrimenti non riuscirà a presentare la documentazione per rinnovare il permesso di soggiorno, prima o poi questa competizione al ribasso si rifletterà sulle condizioni e sui diritti di tutti i lavoratori. In effetti sta già accadendo, da diverso tempo. Ma il nemico non sono i migranti, al contrario: difendere condizioni di lavoro dignitose e diritti per tutti, italiani e stranieri, non è una questione altruistica, ma la base per costruire una società basata sul valore del lavoro e dei lavoratori, non del consumo e del profitto.
E poi Zafer, un ragazzo rifugiato afghano, arrivato in Italia a solo a sedici anni, ha raccontato la propria storia: dal Pakistan dove era scappato con la madre e i fratelli, è passato in Iran, poi in Turchia e in Grecia, da qui “trenta ore aggrappato sotto un camion senza bere, mangiare e dormire, al freddo e al buio, con la puzza di gasolio e la paura di cadere e venire schiacciato dalle ruote” per arrivare in Italia. La polizia l’ha trovato ad Altedo e ha iniziato il difficile percorso di integrazione: la scuola per imparare l’italiano e poter lavorare e i mille lavoretti saltuari, in nero si intende. Poi ha trovato lavoro in un supermercato a Imola, ma quando sembrava che le cose avessero iniziato a ingranare è arrivata la notizia che sua madre si era ammalata gravemente: l’aveva lasciata in Pakistan con i fratelli, perché non c’era abbastanza da mangiare per tutti e lui è il fratello più grande. Il suo datore di lavoro gli ha concesso tre settimane per andare a trovarla: “quando sono tornato, il cuore colmo di angoscia per mia madre, il mio posto non c’era più, l’avevano dato a qualcun altro”. “Ora sono senza lavoro, ma spero un giorno di poter realizzare il mio sogno e tornare in Pakistan con la mia famiglia”.

La città della conoscenza su Telestense con Giovanni Fioravanti

da: organizzatori

Telestense Cultura presenta “Storie ferraresi – Cantieri per il futuro”, la nona puntata dal titolo: “La città della conoscenza”.
Venerdì 16 e 23 dicembre alle ore 21.30, martedì 20 e 27 dicembre alle ore 21.30, domenica 18 alle ore 19.30 su Telestense, e in replica mercoledì alle ore 22.00 e domenica alle ore 20.00 su TeleFerraraLive, sabato alle ore 22.20 e domenica alle ore 24.00 su Telesanterno, mercoledì alle 22.30 e giovedì alle ore 13.15 Telecentro.

Città della cultura e dei molti luoghi del sapere, Ferrara può aspirare ad essere definita una città della conoscenza? In questa nuova puntata cercheremo di mettere a fuoco questo “volto” della città, un volto che guarda al futuro, nella convinzione che senza una conoscenza vasta, profonda, diffusa, non possa esserci nessun futuro, che vada nella direzione di una sempre maggiore autonomia culturale ed economica dei cittadini.

A farci da guida sarà Giovanni Fioravanti, pedagogista e opinionista, autore di un e-book dal titolo “La città della conoscenza”, mentre nel corso della puntata incontreremo il direttore del Museo di Storia Naturale, Stefano Mazzotti, studenti del Liceo Artistico Dosso Dossi e del Liceo scientifico Roiti con i loro docenti, professoressa Gianna Perinasso e prof. Giorgio Rizzoni, infine i professori Gianfranco Franz, Massimiliano Mazzanti, Pasquale Nappi dell’Università di Ferrara,
Conduce Vittoria Tomasi, riprese, montaggio, direzione della fotografia Nicola Caleffi. Progetto e realizzazione a cura di Dalia Bighinati.

www.telestense.it
www.ferrarawelcome

IL DUO
In scena il duo Michel Portal – Bojan Z

Da: Jazz Club Ferrara

Sabato 17 dicembre, in collaborazione con la rassegna Off di Ferrara Musica, il Jazz Club Ferrara ospita la vibrante performance del duo formato dal clarinettista, sassofonista e bandoneista francese Michel Portal, figura unica della scena musicale contemporanea, affiancato dal talentuoso pianista serbo Bojan Z.

Se il jazz europeo può oggi vantare la sua originalità, il merito va anche a Michel Portal, polistrumentista francese di eccelso virtuosismo. In prima linea sin dalla fine degli anni Sessanta, Portal ha saputo mescolare il linguaggio del jazz con elementi della cultura europea, sia colta che popolare, tra tradizione e sperimentazione.
In questa direzione muove anche l’estetica del duo che vede Portal affiancato dal pianista serbo Bojan Zulfikarpašić, in arte Bojan Z, che avremo il piacere di ascoltare al Jazz Club Ferrara nella serata di sabato 17 dicembre (ore 21.30) grazie alla preziosa collaborazione con la rassegna Off di Ferrara Musica. Esibendosi con continuità, questo duo, nato ormai una decina di anni fa, è pervenuto progressivamente a rafforzare la propria espressività alla luce di un non comune interplay, dispensando ogni volta vibranti performance ricche di inventiva.
Clarinettista, sassofonista, bandoneonista, figura unica della scena musicale contemporanea, Michel Portal (Bayonne, 1935) nella sua lunga carriera è stato in realtà serissimo in tutti e due gli ambiti: interprete a livelli di eccellenza di pagine di Mozart e Brahms, strumentista di riferimento per l’esecuzione di nuovi lavori di compositori contemporanei come Boulez, Berio, Stockhausen e Kagel, Portal è anche tra i personaggi in assoluto più originali espressi dal jazz europeo, nel quale per tutta una lunga stagione si è mosso su posizioni audacemente d’avanguardia, ed è stato pure protagonista, in un territorio intermedio e anomalo, col gruppo New Phonic Art, dell’esperienza di un’improvvisazione estrema ma anche il più possibile svincolata dal linguaggio del jazz. Portal ha collaborato con musicisti come Albert Mangelsdorff, John Surman, Steve Lacy, Han Bennink, Dave Liebman, e con tutta la scena francese. Ha composto moltissime colonne sonore per il cinema, oltre ad essersi esibito accanto a solisti di danza contemporanea, esemplificativo in tal senso il lungo sodalizio con Carolyn Carlson. Vincitore di tre Cèsar e un Sept D’Or, dagli anni Ottanta dirige diverse formazioni. Negli ultimi anni si è interessato altresì al funk, collaborando con musicisti di Minneapolis vicini all’entourage di Prince.
Pianista virtuoso, sideman notato prima al fianco di Henri Texier e Julien Lourau ed ora solista con una carriera internazionale il cui talento immenso si confronta regolarmente con i migliori musicisti americani, Bojan Z è al tempo stesso capace di inventiva musicale sottile e delicata, come di grande energia e un ‘drive’ potente che tutti i solisti sognano per dar vita alle loro improvvisazioni.
‘Note in bianco e nero’ personale del giovane fotografo valtellinese Michele Bordoni, curata da Eleonora Sole Travagli in collaborazione con Endas Emilia-Romagna e iscritta nel progetto ‘Intrecciare cultura’ patrocinato dalla Regione Emilia-Romagna è fruibile al Jazz Club Ferrara fino al 23 dicembre, nelle serate di programmazione.

INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Infoline 339 7886261 (dalle 15:30)
Prenotazione cena 333 5077059 (dalle 15:30)
Il Jazz Club Ferrara è affiliato Endas, l’ingresso è riservato ai soci.

DOVE
Torrione San Giovanni via Rampari di Belfiore, 167 – 44121 Ferrara. Con dispositivi GPS è preferibile impostare l’indirizzo Corso Porta Mare, 112 Ferrara.

COSTI E ORARI
Intero: 20 euro
Ridotto: 15 euro (la riduzione è valida prenotando la cena al Wine Bar, accedendo al solo secondo set, fino ai 30 anni di età, per i possessori della Bologna Jazz Card, per i possessori di MyFe Card, per i possessori della tessera AccademiKa, per i possessori di un abbonamento annuale Tper, per gli alunni e docenti del Dipartimento Jazz del Conservatorio ‘G. Frescobaldi’ di Ferrara)
Intero + Tessera Endas: 25 euro
Ridotto + Tessera Endas: 20 euro
NB Non si accettano pagamenti POS
Apertura biglietteria: 19.30
Cena a partire dalle ore 20.00
Primo set: 21.30
Secondo set: 23.00

DIREZIONE ARTISTICA
Francesco Bettini

IBO ITALIA
Piccoli Volontari continuano a crescere

Da: Ibo Italia

Piccoli Volontari continuano a crescere
Presentato da IBO Italia il bilancio di un anno di impegno verso i giovani dai 14 ai 17 anni

Giovedì mattina, nella sede di Via Montebello, IBO Italia ha presentato i risultati raggiunti con il progetto Piccoli Volontari Crescono dedicato alla promozione del volontariato fra i giovani di età compresa fra i 14 e i 17 anni. Presenti, oltre al direttore Dino Montanari, anche alcune realtà che in questi anni hanno sostenuto l’impegno di IBO: Quisisana e Fondazione Santini Gaetano ed Elvira, rappresentati dal dott. Giorgio Piacentini e l’Associazione Buskers Festival, per la quale era presente il direttore organizzativo Luigi Russo.
“Sono davvero pochi oggi i punti di riferimento per ragazzi e ragazze alla ricerca della propria strada e della propria identità – ha introdotto Dino Montanari – Connessi con il mondo grazie a smartphone e app di ogni tipo eppure, spesso però privi di esperienze dirette con il mondo reale. Esuberanti e generosi, ma non sempre attenti alle conseguenze di un proprio gesto e inconsapevoli delle loro prime responsabilità. Travolti anche dalla fragilità e della vita precaria dei loro genitori e delle loro famiglie”.
Nel 2016 sono stati 130 gli adolescenti coinvolti in esperienze di volontariato. Di questi la metà sono ragazzi italiani, mentre l’altra metà sono arrivati da Grecia, Francia, Germania, Turchia, Stati Uniti, Belgio e Bulgaria. Ripristinare i muretti a secco a Vernazza, nel Parco delle Cinque Terre, lavorare sui terreni confiscati alla ‘ndrangheta a San Leonardo di Cutro vicino Crotone, conoscere da vicino realtà di accoglienza per profughi e migranti a Salvatonica di Bondeno e a Biancavilla, in provincia di Catania. Questi alcuni dei luoghi e delle attività principali che hanno visto protagonisti gli adolescenti, seguiti nelle loro esperienze da, complessivamente, dodici Camp Leader IBO. Alcuni dei ragazzi italiani hanno scelto inoltre di vivere la loro esperienza di impegno all’estero: in Estonia, Francia o Romania.
L’aspetto di incontro, scambio e confronto fra giovani volontari provenienti da varie parti del mondo è sicuramente uno degli aspetti più positivi di queste alternative alle vacanze tradizionali. Oltre ovviamente all’aiuto concreto verso chi ha bisogno o per la salvaguardia di beni comuni. Esperienze aperte a tutti e con particolare attenzione a quegli adolescenti provenienti da situazioni di difficoltà, disagio o a ragazzi con minori opportunità.
“Per Quisisana e Fondazione Santini è importante sostenere le associazioni del proprio territorio – ha ricordato il presidente Piacentini nel suo intervento – soprattutto quelle che hanno a cuore il capitale più importante che abbiamo per il nostro futuro: i nostri figli, i nostri ragazzi. Facendoli crescere attraverso il confronto, ma anche allargando loro gli orizzonti, offrendo esempi positivi e la possibilità di sentirsi responsabili verso gli altri”.
Insieme alle esperienze vissute dai giovani volontari sono stati presentati i tanti interventi, attività e collaborazioni portati avanti da IBO Italia nelle scuole di Ferrara e Parma. In particolare negli istituti superiori della nostra città fra i quali il Carducci, l’Ariosto, il Dosso Dossi, il Roiti e l’Einaudi solo per citarne alcuni. Quasi 2.000 complessivamente gli alunni incontrati oltre a più di 50 gli insegnati ai quali sono stati offerti momenti di formazione legati a tematiche di educazione interculturale e promozione del volontariato.
Molti anche i minori coinvolti in attività di volontariato in occasione delle iniziative di raccolta fondi di IBO Italia durante il mese di dicembre, come tanti i giovanissimi che in durante il Ferrara Buskers Festival hanno voluto donare alcune loro ore per la raccolta delle libere offerte alle ‘porte’ di ingresso.
“L’attenzione verso il sociale e le tante forme di impegno volontario è una delle nostre prerogative da sempre – ha affermato Luigi Russo, direttore organizzativo del Ferrara Buskers Festival – e la collaborazione con IBO Italia ci ha permesso di rafforzare questa attenzione e sensibilità. Il prossimo anno festeggeremo insieme i 30 anni di Festival ed i 60 anni di IBO”.
Momento toccante poi il ricordo di Lucrezia Rendina, la giovane volontaria IBO che ha perso la vita nel terremoto del 24 agosto a Pescara del Tronto e che era partita nell’estate 2016 per il Campo di Lavoro e Solidarietà di Nova in Estonia. E proprio l’impegno, anche in suo nome, per le popolazioni colpite dal sisma sarà uno dei prossimi obiettivi di IBO Italia.

Salvare le banche è di sinistra

di Alice Ferraresi

Giorgio Gaber cantava “se la cioccolata svizzera è di destra, la nutella è ancora di sinistra” e snocciolava altri luoghi comuni su cosa è considerato di destra e cosa di sinistra.
“Salvare una banca” non è considerato né di destra né di sinistra: è impopolare e basta. Il concetto è la conseguenza di due postulati, entrambi errati: che salvare una banca significhi salvare i banchieri; che la banca sia un’azienda come tutte le altre.

Primo postulato: salvare una banca significa salvare i banchieri. Dovrebbe essere il contrario. Infatti, se si riuscisse a riportare nel capitale della banca almeno parte dei denari sottratti dalla mala gestio o dalla malversazione dei cattivi banchieri, tra punizione e sanzione dei primi e cura delle seconde ci sarebbe una relazione diretta: recupero capitali sottratti alla buona gestione e li reimmetto nella banca. Purtroppo in questo recupero l’attuale legislazione di diritto privato commerciale (anche internazionale) è gravemente carente di strumenti idonei a colpire gli interessi di chi ha soldi da nascondere. Semplicemente, gli strumenti della “libera finanza” sovrastano gli anticorpi normativi.
Peraltro questa è solo una parte del problema. La cattiva gestione dilapida denaro aziendale che non può essere tutto recuperato dalle tasche dei top manager: l’azienda che perde valore e capitalizzazione perde infatti tanto denaro, perchè scelte sbagliate la depauperano profondamente. Tuttavia sarebbe già un grande passo in avanti se alcune retribuzioni milionarie venissero rigorosamente agganciate al raggiungimento di risultati di buona gestione (che non significa la massimizzazione dei profitti di breve periodo). Invece, anche in questi giorni di grandi crisi bancarie, assistiamo a scandali come il trattamento economico – preceduto da un incredibile “bonus in entrata” – dell’AD di Pop Vicenza Iorio, che in 18 mesi di reggenza in una banca in grave dissesto (e nella quale i dipendenti rischiano posto di lavoro e parte della retribuzione) ha percepito circa diecimila euro al giorno. Una follia, un insulto. Un pactum sceleris tra privati che dovrebbe essere reso giuridicamente impossibile, dentro aziende in crisi. Non parliamo delle banche commissariate: qui la gravità delle sperequazioni è accentuata dalla segretezza da cui vengono circondati i compensi della compagine commissariale – che non aiuta una banca a guarire, casomai la aiuta a sprofondare; ma di questo parleremo magari un’altra volta…
Secondo postulato: la banca è un’azienda, quindi se è in dissesto deve poter fallire, come qualunque altra azienda. La banca è un intermediatore di denaro: raccoglie i soldi di proprietà dei suoi clienti, e li impiega prestandoli al territorio che ne ha bisogno per svolgere le sue attività economiche. Se una banca viene lasciata fallire, le due conseguenze immediate sono le seguenti: primo, una parte dei risparmi dei clienti viene espropriata, esattamente alla stregua di un credito che viene succhiato ed attratto nella massa di crediti di una procedura fallimentare, che verranno pagati se e quando sarà realizzato un attivo (questo drammatico effetto si è già visto a Ferrara, con la crisi Carife); secondo, la banca chiede ai suoi clienti di rientrare (ad un certo tempo) dai prestiti erogati, ma soprattutto ed immediatamente interrompe il sostegno economico ai suoi affidati. Questo secondo effetto è ancora più drammatico, perchè si porta dietro l’implosione del tessuto economico di un territorio. E’ infatti strettissimo il legame tra sistema produttivo e banche (specie banche del territorio): le imprese del territorio funzionano a debito. Pochissime sono quelle che lavorano esclusivamente con mezzi finanziari propri.
Questa descrizione dovrebbe far percepire una banca per quello che è realmente: una infrastruttura del territorio, esattamente come un tessuto stradale, una fognatura, una ferrovia. Questo rischio è tanto più alto quanto più la banca che entra in crisi finanzia ancora (anche se non esclusivamente) la maggior parte delle aziende di un territorio. E’ questo il caso di banche grandi(come MPS) ma anche di banche più piccole ma di estrazione territoriale (le due venete, Cassa Ferrara), che sostengono in maniera decisiva, piaccia o no, le aree di riferimento. Lasciare andare una banca del genere al suo destino equivale a far crollare un’autostrada ad alta percorrenza, un sistema viario. Sarebbe come far deragliare i treni perchè ci sta sulle scatole l’AD di Ferrovie dello Stato. Equivale a staccare il bocchettone dell’ ossigeno alle aziende del territorio. E’ quindi mistificatoria l’opinione di chi ritiene che il salvataggio di una banca non debba gravare sulla collettività, perchè è esattamente il contrario: è il dissesto irrimediabile di una banca che scarica tutto il suo fardello sulla collettività.

Per liberamente interpretare Giorgio Gaber: credo che salvare un cattivo banchiere sia di destra, mentre credo che salvare una banca sia di sinistra, perchè significa salvare i risparmi dei cittadini e il tessuto economico. Il nuovo governo, che nasce nel segno della continuità con il precedente, afferma di essere di centro-sinistra. E’ auspicabile che decida di affrontare la crisi del sistema bancario con un salto di qualità rispetto alla passata gestione. Le premesse purtroppo non sono buone.

Bondi, un mese al buio: i motivi e le modalità per risollevarsi

di Cavallo Pazzo

Eravamo qui, poco più di un mese fa, a parlare della rinascita della Pallacanestro Ferrara targata Bondi, frutto di quattro esaltanti vittorie di fila che stavano facendo sognare i tifosi ferraresi. Dopo un anno deludente, tra incomprensioni società-tifosi e scarsi risultati sul campo, la nuova stagione sembrava essere iniziata al meglio. Grande entusiasmo, la gente di nuovo vicina alla squadra e una classifica che faceva sorridere. Il 13 novembre Ferrara affronta la difficile (quasi proibitiva) trasferta di Treviso senza il suo americano Bowers, costretto a saltare la gara a causa di un infortunio muscolare. La squadra perde il suo leader, e deve far fronte anche alle condizioni del centro Pellegrino e dell’ala Cortese, colpiti da un attacco influenzale. Ciononostante gioca una gara gagliarda, senza paura, trascinando Treviso punto a punto fino agli ultimi decisivi minuti che premiano i veneti. I 250 supporters estensi presenti al Palaverde applaudono i loro ragazzi, e tornano a casa consci di tifare per una squadra vera, nonostante la sconfitta.

La domenica successiva il calendario offre immediatamente una sfida sentita, il derby con Ravenna, per tornare ai due punti: e invece Ferrara sembra svogliata, molle, poco reattiva, “poco squadra”. I romagnoli scappano nel secondo tempo e la Bondi non riesce più a riprenderli. Potrebbe essere soltanto un passaggio a vuoto, pensano tifosi e addetti ai lavori, in fondo la squadra a Treviso aveva fornito l’ennesima prova di forza (nonostante la sconfitta). Cinque giorni dopo si torna in campo, e il PalaHiltonPharma di Ferrara si prepara ad accogliere una delle grandi della palla a spicchi italiana, la Fortitudo Bologna: gli estensi se la giocano fino all’ultimo possesso, quando purtroppo il tiro della vittoria di Cortese si infrange sul ferro e consegna i due punti alla “Effe”. Terza sconfitta consecutiva, la classifica comincia a preoccupare, anche se in fondo la squadra è stata costruita per raggiungere una tranquilla salvezza.

Domenica 4 dicembre Ferrara affronta la trasferta di Jesi: per tutti pare essere arrivato il momento di tornare a vincere. I marchigiani arrivano infatti da sei sconfitte consecutive, e sulla carta sono nettamente inferiori alla Bondi. I tifosi ci credono e seguono la squadra anche nelle Marche. Dopo un primo tempo punto a punto, è però ancora dopo l’intervallo (così come con Ravenna) che Ferrara crolla: Jesi allunga nel terzo quarto e la Bondi non ha la forza, né fisica né mentale, per riagguantarla. Nel finale viene espulso anche il playmaker titolare Moreno. Piove sul bagnato. Nel turno infrasettimanale dell’8 dicembre Ferrara ospita Piacenza senza il suo play (squalificato due giornate) e perde Cortese dopo pochi minuti per un infortunio al ginocchio. Niente di grave ma il giocatore ovviamente è condizionato e non può esprimersi al massimo delle proprie potenzialità. Quella con Piacenza è ancora una volta una gara punto a punto, che viene decisa da una tripla dell’ex Kenny Hasbrouck a quattro secondi dalla fine. La Bondi perde ancora, è la quinta di fila.

Arriviamo ai giorni nostri, trasferta a Udine. Cortese non è al meglio, così come Bowers. Il match vive sulla falsa riga di quelli precedenti: squadre a contatto nei primi 20 minuti, poi Ferrara si spegne alla distanza. In terra friulana arriva la sesta sconfitta consecutiva, ma ciò che preoccupa di più è l’involuzione sul piano del gioco vistasi soprattutto nelle ultime tre partite (Jesi, Piacenza e Udine appunto). Il gioco spumeggiante delle quattro vittorie di fila non si vede più. La coppia USA Bowers-Roderick, considerata da molti una delle più forti dell’intera Serie A2, non rende come ci si aspettava. La panchina non offre molti spunti, e fino ad ora il solo Mastellari ha ripagato le attese.

La sensazione è che la coperta sia un po’ corta, la squadra infatti crolla nei secondi tempi. La società al momento non apre al mercato, si aspetta prima che coach Trullo ottenga il massimo da chi c’è già. Le potenzialità per uscire da questa crisi ci sono tutte, la squadra è la stessa che fino a un mese fa regalava prestazioni più che convincenti. L’involuzione c’è stata, è sotto gli occhi di tutti, ma questo gruppo ha le capacità per tornare a divertire. Nonostante i pessimi risultati dell’ultimo periodo i tifosi continuano a stare vicino ai propri beniamini, convinti che da un momento all’altro possa riscattare quella scintilla che faccia tornare ai giocatori la voglia di giocare per divertirsi oltre che per guadagnarsi lo stipendio.

Sabato arriva Trieste, che sia la volta buona?

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Dove lo metto? La posta dei nostri lettori…

Dove lo metto? Abbiamo chiesto ai nostri lettori in quale posto, nella coppia, preferirebbero trovare l’altra persona, a quale distanza sarebbe meglio stare o lasciare perchè le cose funzionino.
Di lato, di fronte, vicino ma non troppo, una geometria variabile in cui ciascuno ha le proprie misure e dove sembra vitale potersi spostare.
Ecco le lettere arrivate in redazione:

Tra i piedi

Cara Riccarda,
Noi possiamo stare solo di fianco. Non al mio fianco, di fianco. A volte tra i piedi.
Possiamo stare solo così, non siamo neanche allineati, qualche volta lui capisce e lo trovo al mio fianco, a volte tra i piedi.
E’ un equilibrio precario, di due persone diverse, senza interessi in comune, idee diverse, obiettivi differenti. Entrambi ambiziosi. L’unica cosa che ci unisce è la consapevolezza che l’altro ha rinunciato a parecchie cose pur di stare “di fianco”.
V.

Cara V.,
essere tra i piedi non lo trovo così negativo perchè può fare inciampare nell’altro e, per me, è sempre meglio che un cammino in solitudine. E’ l’unione in nome di una rinuncia che mi lascia perplessa, soprattutto perché tu la senti come ‘l’unica cosa’ che vi connette. La vita in due richiede di lasciare da parte qualcosa, però poi c’è sempre una compensazione, a volte si tratta solo di averne coscienza, o se preferisci, ‘consapevolezza’.
Riccarda

L’amore vero trova da sé il proprio posto

Cara Riccarda,
dopo essere stata io, per molto tempo, a cercare un posto adatto intorno ai miei uomini, prima con un padre despota e poi con un marito egoista e narciso, ho sentito la necessità di collocarmi al centro!
Poi è arrivato l’amore… quello vero, quello in cui la coppia trova da sè il proprio posto, interscambiandosi.
Il mio uomo lo voglio lì, dove posso trovarlo quando mi giro e che sa stare un passo indietro quando necessito di fare “da sola”!
Ho imparato che lo spazio vitale è molto importante e necessario, è bello condividere spalla a spalla, confrontarsi, uno di fronte all’altro…esserci ma non opprimerci!
So che alle volte è complicato e siparietti come quelli descritti da te credo siano frequenti. Trovo stancante e imbarazzante cercare di collocare il proprio uomo in situazioni dove già si sa non troverà il giusto posto! E parlo per esperienza.
Il posto giusto, secondo me, è quando non ti chiedi….Dove lo metto?
Nadia

Cara Nadia,
che bella la tua centralità che è diventata la premessa di tutto il testo. Immagino la liberazione di non dovere più cercare un posto adatto a te, di non chiederti dove sia meglio stare e con quale ruolo. Quante energie a volte buttiamo in questo affanno che non soddisfa mai nessuno.
Il non pensare a dove mi metto, secondo me, ti ha permesso di non chiederti dove lo metto, e di trovare sempre chi vuoi vicino.
Riccarda

L’amore allo specchio

Cara Riccarda,
idealmente o razionalmente vorrei che tra me e il mio uomo i posti fossero continuamente intercambiabili a seconda dei momenti e delle situazioni.
Vorrei che lui stesse un passo indietro quando mi dedico a mio figlio o quando ho bisogno di ritirarmi in me stessa per sentirmi e ascoltarmi. Vorrei stesse due passi in avanti quando ho bisogno di lui per allargare il campo della mia visuale, perché mi possa offrire prospettive diverse dalle mie e mi indichi orizzonti più lontani.
Vorrei sentirlo spalla a spalla nella condivisione della quotidianità, della vita sociale e dell’intimità, nel supporto e sostegno reciproci.
Vorrei fosse il mio specchio ogni volta che discutiamo o ci arrabbiamo, perché so che ciò che in quel momento non sopporto di lui non sono altro che parti di me che non voglio vedere o accettare.
Mi chiedo però se tutto ciò si possa realmente scegliere…al cuor non si comanda ed proprio il cuore l’unico posto dove vorrei fosse il mio uomo.
Un abbraccio
Simona

Cara Simona,
ho la sensazione che tu stia scrivendo, o meglio, descrivendo, ciò che vivi e conosci. E se è così, non è solo fortuna, è impegno, scelta, tempo per guardare verso tutti i possibili posti. Una danza continua che però ha bisogno anche di qualche pausa in cui, come giustamente dici, occorre ritirarsi un po’ per poi riprendere, magari con un altro passo e un altro ritmo. C’è una cosa su cui concordo più di tutte: la distanza che può esserci fra due persone, se non scivola nell’abisso, può diventare un’opportunità per uno sguardo più ampio.
Riccarda

Maschi dispettosi e infantili?

Cara Riccarda,
siccome spesso sono insopportabili, gli uomini è meglio lasciarli fuori dalle amicizie fra donne, a meno che non ci si trovino per caso. Credo anche che siano dispettosi come quando avevano otto anni.
Daniela

Cara Daniela,
ti rispondo con un messaggio speculare che mi ha scritto un amico, ferraresissimo, commentando il tema: l’oman l’ha da star luntan da il vostar ciacar.
Riccarda

Dove stare?

Cara Riccarda,
no, il posto fisso non c’è. Ma com’è dura capire dove stare. Spesso le intenzioni migliori vengono male interpretate, specie se vuoi lasciare quella libertà che lei chiede. O fai la figura dell’appartato o quella di chi si vergogna di lei. E quando uno ha una vita propria e deve essere anche in grado di gestire il rapporto a due, dove può collocarsi? Le invasioni di campo sono sanzionate? Tollerate? Gradite? A seconda delle circostanze?
Filippo

Caro Filippo,
un posto cristallizzato è sempre pericoloso, rischia di non essere coincidente con la persona che si assume o è confinata in quella parte. Credo che la partita vada giocata, per entrambi, con la capacità di spostarsi al bisogno, accettando anche un posto diverso, panni nuovi e perchè no invasioni di campo. Il rischio maggiore, mi pare, sia obbligare e obbligarci alla stessa immutabile posizione.
Riccarda

Un posto mobile condiviso

Cara Riccarda,
dove lo vorrei… La premessa è avere lo sguardo nella stessa direzione, ma il posto fisso no, impossibile. Se saremo capaci di guardare sempre verso la stessa meta, quando io sarò in difficoltà, lui più forte e (spero) davanti, mi tenderà la mano per portarmi al suo fianco, così farò io quando sarà lui ad avere bisogno, facendo in modo che comunque ognuno di noi percorra la strada, con le proprie gambe. Il posto fisso no e forse pretenderlo porterebbe alla fine di tutto.
Ecco, accettare il posto non fisso, penso porti a rendere più forte il legame.
S.

Cara S.,
posso dire, in questo caso, viva il precariato? Ma è più efficace come l’hai definito tu “posto non fisso” come spazio necessario alla solidità fra due persone.
Riccarda

Accanto ma non troppo

Cara Riccarda,
credo che l’importante poi in fondo non sia dove metterlo, ma come, quando e in che modo.
Mi piace pensare che la persona con cui si ha deciso di condividere questa vita ti stia vicino, non troppo, ma vicino.
Sia vicina quanto basta per camminare magari affiancati ma senza urtarsi, uno di fronte all’altro anche, ma avendo sempre un punto di vista sgombero e libero. Lo metterei accanto, ma non troppo. L’impegno è quello di mantenere quella stessa distanza, nel tempo, senza allontanarsi troppo, senza avvicinarsi troppo.
Quanto basta.
Quanto basta per essere felici indipendenti, quanto basta per stendere il braccio e afferrarlo con la mano.
Buone feste
C.

Cara C.,
il tuo quanto basta è come quello delle ricette: bravo chi lo azzecca. Ma a forza di provare poi ci si prende la mano, giusto?
Riccarda

Un cambio in meglio

Cara Riccarda,
avevo un uomo al mio fianco che, nel momento del bisogno, si metteva dietro di me. Ora ho un uomo che sta dietro di me, ma che, nel momento del bisogno, mi sta davanti.
Debora

Cara Debora,
niente male come staffetta, ma non credo sia casuale.
Riccarda

Utopie? Direi di no

Cara Riccarda,
io vorrei un uomo laterale spalla alla spalla per essere protetta, supportata, sopportata e viceversa. Di fronte per potermi specchiare e confrontarmi. Ma questa è solo utopia.
A.

Cara sfiduciata A.,
ho volutamente lasciato la tua e-mail per ultima perchè le lettere pubblicate sopra possano parlarti meglio di quanto sappia fare io.
Riccarda

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

IL CONCERTO
Ultimo live dell’anno della Tjco

Da: Jazz Club Ferrara

Venerdì 16 dicembre spazio all’ultimo live 2016 dell’apprezzata Tower Jazz Composers Orchestra, l’orchestra residente del Jazz Club Ferrara. Gli oltre 20 venti elementi che la compongono, diretti da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon, proporranno composizioni originali e accattivanti rivistazioni di brani della tradizione afroamericana. In apertura di serata critico musicale e autore Franco Bergoglio presenterà ‘Sassofoni e pistole. Storia delle relazioni pericolose tra jazz e romanzo poliziesco’, edito da Arcana. Media Eleonora Sole Travagli.

Venerdì 16 dicembre, a partire dalle ore 21.30, spazio all’ultimo live 2016 dell’apprezzata Tower Jazz Composers Orchestra, l’orchestra residente del Jazz Club Ferrara.
Gli oltre 20 venti elementi che la compongono, diretti da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon, alterneranno composizioni originali ad accattivanti rivistazioni di brani della tradizione afroamericana che andranno ad infoltirne il repertorio, dando spazio ai talentuosi elementi di sperimentare e mettere in gioco le proprie idee musicali con creatività e sorprendente empatia.
In apertura di serata il critico musicale e autore Franco Bergoglio presenterà ‘Sassofoni e pistole. Storia delle relazioni pericolose tra jazz e romanzo poliziesco’ (Arcana Edizioni), con la mediazione di Eleonora Sole Travagli.
Cosa unisce Andrea Camilleri, Raymond Chandler, Michael Connelly, James Ellroy, Giorgio Faletti, Patricia Highsmith, Stephen King, James Patterson, Georges Simenon, Carlo Lucarelli, Jean Claude Izzo, Cornell Woolrich, e molti, molti altri? Elementare, Watson: gli oltre trecento scrittori approfonditi in questo volume hanno introdotto del jazz nei loro romanzi noir. ‘Sassofoni e pistole’ racconta, dunque, la storia della musica preferita dagli autori di thriller di ieri e di oggi; di sparatorie a ritmo swing, detective che si esercitano al sassofono invece che con la pistola, cantanti platinate e ispettori fanatici di Miles Davis. Una raccolta di memorabilia un po’ folle, comprendente scrittori, artisti, libri e canzoni.
L’ingresso a offerta libera è riservato ai soci Endas. È consigliata la prenotazione della cena al 333 5077059 (dalle 15.30).

INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Infoline 339 7886261 (dalle 15:30)
Prenotazione cena 333 5077059 (dalle 15.30)
Il Jazz Club Ferrara è affiliato Endas, l’ingresso è riservato ai soci.

DOVE
Torrione San Giovanni via Rampari di Belfiore, 167 – 44121 Ferrara. Se si riscontrano difficoltà con dispositivi GPS impostare l’indirizzo Corso Porta Mare, 112 Ferrara.

COSTI E ORARI
Ingresso a offerta libera riservato ai soci Endas.
Tessera Endas € 15
Non si accettano pagamenti POS
Apertura biglietteria 19.30
Cena a partire dalle ore 20.00
Incontro con l’autore 21.30
Concerto 22.00

DIREZIONE ARTISTICA
Francesco Bettini

L’INCONTRO
Giuseppe Sgarbi e Susanna Tamaro presentano i loro libri

Da: Ibs+Libraccio

Venerdì 16 dicembre alle ore 18:00
Presso la storica sala dell’Oratorio San Crispino
Libreria Ibs+Libraccio di Ferrara

Presentazione del libro di Giuseppe Sgarbi ‘Lei mi parla ancora’ (Skira)

“Hai sempre amato le attenzioni di Elisabetta. La tua voce cambiava quando parlavi al telefono con lei. Capivo chi era all’altro capo del filo dal tono che usavi. Quella dolcezza era riservata a lei. A Vittorio hai sempre parlato come parla un padre. A lei come una madre. A me come una donna. Possedevi il dono delle lingue. A ciascuno la sua. Nessuna mi aveva mai parlato così. Né nessun’altra l’ha mai fatto. Credo sia questa la cosa che mi ha fatto innamorare. La tua bellezza era l’esca, certo, ma è stata la tua testa a pescare nel mio cuore. Mai conosciuto una testa così. Lucida, vivida, fulminante. E io non sono mai stato tanto felice di aver abboccato a un amo. Un amore che vive anche adesso che tu non vivi più. Per questo il dolore è così grande.
‘Finché morte non vi separi’ è una bugia. Il minimo sindacale. Un amore come il nostro arriva molto più in là. E il tuo lo sento anche da qui.”

L’amore di Giuseppe Sgarbi per la moglie Rina, scomparsa un anno fa, è di quelli che non si trovano più. È stato un amore che ha dato pienezza, significato, profondità, valore e bellezza a una strada percorsa fianco a fianco negli anni, qui evocato in una “prosa piana, percorsa da echi e risonanze come ogni classicità” (Claudio Magris).
Dopo i successi di Lungo l’argine del tempo e Non chiedere cosa sarà il futuro, in questa sorta di romanzo-elegia ‘Nino’ Sgarbi racconta, in un delicato e appassionato dialogo a distanza, l’amore inesauribile per la sua sposa, compagna e anima di tutta una vita.

Giuseppe Sgarbi, padre di Vittorio ed Elisabetta, per quasi mezzo secolo ha esercitato la professione di farmacista nella campagna tra Veneto ed Emilia. Con Skira ha pubblicato il suo romanzo d’esordio Lungo l’argine del tempo. Memorie di un farmacista (2014, vincitore del Bancarella Opera Prima e del Premio Internazionale Martoglio) e Non chiedere cosa sarà il futuro (2015).

Presentazione del libro di Susanna Tamaro ‘La tigre e l’acrobata’ (La Nave di Teseo)

Piccola Tigre non è una tigre come le altre: è curiosa, fa molte domande, mette in discussione quello che la natura le offre e che i suoi simili semplicemente accettano. Piccola Tigre apre gli occhi e scopre la meraviglia della luce. Tende le orecchie e scopre la vasta gamma dei rumori della Taiga. Quando, molto presto, le si fa chiara la forza che compete a una tigre, inizia a cibarsi di altri animali. Ma con qualche dubbio. Impara a distaccarsi da sua madre, a viaggiare da sola, sino ad avventurarsi fuori dai confini della Taiga, in cui è nata e da cui le altre tigri non usciranno mai.

E, così, grazie a questa sua curiosità, infine, scopre anche l’uomo. L’hanno avvertita che dall’uomo bisogna guardarsi. Ma lei vuole conoscerlo. Con l’uomo, Piccola Tigre scopre l’essere più inquietante e mutevole, da amare e da cui difendersi. E da qui in poi la sua vita non sarà più la stessa.

Susanna Tamaro torna alla narrativa pura con una favola per tutti i lettori, adulti e ragazzi; una favola morale in cui, nel flusso di una grande e avvincente avventura, nella forma di personaggi del regno umano e animale, si raccontano valori universali: la curiosità, il desiderio inestinguibile di sapere, il senso insopprimibile di libertà.

IL LIBRO
Andrea Pagani presenta ‘Le idee vengono di notte’

Da: Organizzatori

Spesso l’invisibile è più essenziale delle cose che possiamo toccare
Andrea Pagani presenta ‘Le idee vengono di notte’, dialoga con l’autore Davide Bassi

Sabato 17 Dicembre 2016 alle ore 18, presso la Galleria ‘del Carbone’, Vicolo Carbone 18 (Ferrara), Davide Bassi presenterà ‘Le idee vengono di notte’ (ed. Ponte Vecchio) di Andrea Pagani.
“Questo racconto, che per certi aspetti richiama la tradizione delle short stories di Edgar Allan Poe e Robert Louis Stevenson, ci immerge in una dimensione che esercita una tenera seduzione, a metà strada fra sogno e realtà, magia e verosimiglianza. Un racconto poliziesco e sentimentale, ambientato in un misterioso paese del sud Tirolo (una specie di Valois di Nerval), che nasce da una singolare perizia stilistica, saturo di delicate allucinazioni e di sensuale simbolismo, ma adagiato nel ritmo nervoso di un poliziesco. Contrasto che ne delinea la speciale bellezza” (Antonio Castronuovo).

Andrea Pagani, nato a Ferrara, vive e lavora a Imola dove insegna Letteratura Italiana e Storia presso il Liceo Scientifico Alberghetti. È saggista, narratore e sceneggiatore. Ha pubblicato una ventina di saggi sul Rinascimento e sul Novecento, e otto libri di narrativa: Nel tempio di vetro, Book editore, 1990 con prefazione di Roberto Pazzi; La colpa oscura, Editore Mobydick, 1999 con prefazione di Carlo Lucarelli; Capriole di comico, Libro delle anime, anno 1701, Edizioni Pendragon, 2004 con postfazione di WuMing 2; L’alba del giorno seguente, Bacchilega editore, 2004; Blue Valentine, Bacchilega editore, 2005, vincitore del premio ‘Piccola editoria di qualità’, rassegna della Microeditoria italiana; L’alfiere d’argento, Mobydick editore, 2007; Il limite dell’ombra, Bacchilega Editore, 2010; La tana del coniglio, editrice La Mandragora, 2014.
Ha sceneggiato cortometraggi e collaborato con la Zanichelli.

Davide Bassi insegna Paleontologia e Paleoecologia all’Università di Ferrara. Amando l’Arte si occupa di paleoecologia delle comunità bentoniche fossili del Giurassico e del Cenozoico.
La ricerca scientifica universitaria e l’Arte lo hanno indirizzato verso il Giappone dove è stato professore ospite presso il Tohoku University Museum (Institute of Geology and Paleontology, Graduate School of Science) e l’Università di Nagoya.

L’ANNIVERSARIO
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Onorata con sessantotto anni di guerre

Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani il cui primo articolo recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Quest’anno si festeggiano i sessantotto anni di questo che fu un atto rivoluzionario per l’intera umanità, nato dalle macerie di una guerra devastante quale fu la Seconda Guerra Mondiale: per la prima volta venivano sanciti a livello mondiale i diritti fondamentali spettanti agli esseri umani.

Nel suo preambolo si legge: ”Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo”. Il disprezzo dei diritti umani porta inevitabilmente ad atti di barbarie che offendono l’umanità: sono sessantotto anni che il mondo assiste a guerre e genocidi che calpestano e rendono la Dichiarazione dei diritti dell’uomo quasi lettera morta.

Chissà se in Siria ci hanno pensato a questo anniversario: della guerra in Siria non interessa a nessuno. Il 15 marzo prossimo saranno sei anni che, sull’onda delle primavere arabe, scoppiarono in Siria manifestazioni senza precedenti contro la famiglia Assad che da quarant’anni detiene il potere (prima Hafez e poi, dal 2000, suo figlio Bashar). Scoppiò una guerra che tutt’oggi vede contrapposti il governo ufficiale di Assad, sostenuto dalla Russia e i ribelli anti governativi. In questo scenario già molto complesso si inserisce poi lo Stato Islamico (IS) che è riuscito a conquistare città strategiche come Kobane, poi liberata dai miliziani curdi. A farne le spese la popolazione civile: milioni di persone costrette a lasciare il proprio paese, rifugiandosi, prevalentemente, in Turchia e Libano; chi rimane è condannato a morire sotto le bombe o di fame. L’economia è al tracollo, la sanità non esiste praticamente più.

L’Occidente condanna e tentenna, di fatto non riesce a far niente di risolutivo. Sei anni di una guerra poco “popolare”: certo, ci sono le foto dei bambini siriani morti su Facebook sotto cui mettere tanti “like” o i video truculenti di bombardamenti ed esecuzioni capitali su Youtube, ma la coscienza civile non è coinvolta. E’ una guerra che non è penetrata dentro le nostre vite, non ci provoca il disgusto che meriterebbe. Forse perché concentrati su problematiche nazionalistiche oppure perché, strano ma vero, non sono coinvolti gli americani quali salvatori della democrazia occidentale. Se ne sta occupando la Russia e allora la faccenda sembra ancora più lontana da noi.

Forse si è troppo assuefatti ai bollettini di guerra: in Europa siamo sotto attacco terroristico da oltre un anno, non possiamo pensare anche ai siriani che muoiono come mosche in casa loro. E poi abbiamo i nostri clandestini a cui pensare: siamo buoni noi italiani e la nostra parte la facciamo abbondantemente. Abbiamo sempre le mani tese a soccorrere i naufraghi nel “mare nostrum”, ma non abbiamo braccia tanto lunghe da arrivare anche in Siria. Si fa quel che si può. All’epoca della guerra nella ex Jugoslavia la voce popolare si fece sentire: ci furono numerose manifestazioni e raccolte firme. Bono Vox cantava “Miss Sarajevo” e l’attenzione mondiale venne catalizzata su quella striscia di terra che si stava frantumando sotto i colpi di mortaio.

In Rwanda, dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994, per circa 100 giorni, vennero massacrate, a colpi di machete o bastoni chiodati, quasi un milione di persone. Un milione di persone in cento giorni. Anche allora le notizie arrivavano puntuali in Italia, e in tutta Europa, tramite i notiziari e la carta stampata. Cosa è stato fatto? Niente. In Bosnia la guerra era in casa, il Rwanda dove si trova? Purtroppo l’Africa è ancora organizzata in tribù che si scannano tra loro, l’Africa è un mondo a se stante che ci siamo lasciati alle spalle con la fine dell’era coloniale. Ogni 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria: sei milioni di ebrei uccisi dalla follia omicida di un dittatore che sognava l’Europa abitata solo da persone di razza ariana.

Ogni 27 gennaio l’Europa celebra il proprio olocausto al grido di “PER NON DIMENTICARE”. Nessuno dimentica il passato, ormai si dimentica il presente. Un giorno per espiare le proprie colpe passate e tornare a pensare, il 28 gennaio, che una cosa così terribile non potrebbe più accadere. Ci si auto compiace del fatto di aver raggiunto un grado di maturità collettiva tale da indurci a riflettere un giorno all’anno ai misfatti passati.

Tra tanti anni sarà eletto un giorno per celebrare il massacro del popolo siriano: sarà il 15 marzo, a ricordo dell’inizio ufficiale delle rivolte contro il governo di Assad oppure il giorno in cui è morto l’ultimo bambino rimasto in quella terra insanguinata. Sarà il giorno delle lacrime e della memoria: magari qualche bella fiaccolata e la proiezione di un film strappalacrime alla Schindler’s List. Si malediranno i Potenti della Terra che lasciano morire le povere persone, si sentiranno per tv le testimonianze di qualche sopravvissuto a quell’orrore: ci si auto assolverà come non colpevoli per l’ennesimo “atto di barbarie” che ha celebrato il requiem di quello “spirito di fratellanza tra gli uomini” che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo aveva stabilito come regola di vita universale.

LA STORIA
Il mostro è nudo (con la macchina fotografica a tracolla)

Il 25 Novembre è morto nella sua casa al VI arrondissement di Parigi l’ottantatreenne fotografo di origine inglese David Hamilton. Ufficialmente la morte è da ricondursi ad un cocktail di farmaci e, sembra, ad una busta in plastica che si era messo in testa prima di stordirsi e cercare la morte. Si tratta infatti di suicidio. Un suicidio che segue di pochissimo tempo l’uscita del libro “Consolation” della celebre conduttrice francese Flavie Flament nel quale accusava “un celebre fotografo” di averla violentata a tredici anni. Il fatto che la Flament avesse posato bambina per Hamilton ha facilitato la scoperta del nome del presunto stupratore.

Qualche giorno dopo l’uscita del libro, altre donne hanno testimoniato al settimanale L’Obs di essere state violentate da Hamilton negli anni ’80. Hamilton ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento, pubblicando anche un comunicato nel quale diceva che “L’istigatrice di questo linciaggio mediatico cerca il suo ultimo quarto d’ora di gloria. Sporgerò diverse denunce nei prossimi giorni”. Il suo suicidio invece ha tolto definitivamente la possibilità di far chiarezza sui fatti denunciati.

Ne parlo con una amica che abita a Parigi, la quale mi conferma che della vicenda se ne parla parecchio trattandosi lei di un noto volto della tv francese. Mi dice che addirittura Laurence Rossignol, ministra della Famiglia della Infanzia e dei Diritti delle Donne, aveva dato incarico alla stessa Flament di comporre una commissione per rivedere la prescrizione per il reato di pedofilia (la Flament infatti non ha potuto denunciare Hamilton in quanto il reato risultava prescritto). Sembrava che il mostro finalmente fosse stato incastrato ma, come è tipico del pedofilo che vuole il controllo assoluto sulle proprie vittime, Hamilton ha deciso di imporre loro il silenzio, come da bambine, uccidendosi. “La dinamica -racconta Flavie- era sempre la stessa: ragazzine di dodici o tredici anni, conosciute in strada o in spiaggia, e ricevute nel suo studio con il benestare delle madri. Prima ci fotografava e poi ci stuprava”.

“Siamo solo tre al mondo ad aver trattato la ricerca dell’innocenza e la bellezza delle giovani donne: io, Balthus e Nabokov”, amava ripetere. Le sue foto, dai contorni soffusi e quasi romantici, ritraevano ossessivamente bambine, preferibilmente bionde e con gli occhi azzurri, in pose lascive ed ingenuamente ammiccanti, come delle ninfette, all’epoca considerate artistiche, vennero raccolte in diversi libri, esposte in frequentatissime mostre, stampate in cartoline e magliette. Non si può non riflettere su quanto cambi la coscienza sociale, ed artistica, nei diversi periodi storici, e se negli anni settanta i ritratti di Hamilton che gli regalarono fama mondiale erano definiti come “arte”, per la sensibilità moderna maggioritaria non sono altro che pedopornografia.

Le Opere d’arte dai contenuti sessualmente espliciti prodotte in occidente prima del XX secolo come “L’origine du monde” (1866) di Gustave Coubert, che rappresenta una vulva femminile, non erano destinate all’esposizione pubblica. Il giudizio se un particolare lavoro è più artistico o più pornografico rimane, alla fine, del tutto soggettivo a seconda del momento storico e della cultura di appartenenza; alcuni individui giudicano ogni manifestazione del corpo nudo come inaccettabile, mentre altri possono trovare nell’arte erotica dei grandi meriti artistici.

Catherine Breillan, sceneggiatrice nel 1977 del film Bilitis, girato da Hamilton nella veste di regista, e che racconta le avventure erotiche di una ragazzina diciassettenne, esprime dolore per la morte del fotografo dicendo che: “era ossessionato dalla fotografia più che dalle bambine”. Come se l’amore per l’arte potesse giustificare tutto. Rimane il fatto che, alla luce di quanto emerso dalla denuncia di tante ex modelle bambine, guardando i ritratti “artistici” di David Hamilton non si può non provare un brivido di orrore per l’ennesima strumentalizzazione crudele che si fa del corpo e dell’anima di bambini innocenti.

Alla vicenda poi si aggiunge orrore nell’orrore se si pensa che ad accompagnare le giovani vittime dall’orco erano le madri stesse: “veniva ad aprire la porta dello studio nudo e con la macchina fotografica a tracolla”, dice Flavie, ”una situazione che avrebbe fatto inorridire qualsiasi madre degna di questo nome”.

Bambine vendute per fame di notorietà, per ignoranza, per arte…ma si può veramente giustificare ogni cosa che si accompagni all’aggettivo “artistico”?

L’APPUNTAMENTO
Al via al Liceo Ariosto gli incontri formativi per “giovani reporter” a cura di Daniele Modica di Ferrara Italia

di Chiara Argelli

Scrivere un articolo non è certo un’impresa semplice: trovare la notizia giusta ed interessare il lettore è la missione di ogni buon giornalista.Ma come si trovano le notizie? E quali sono i piccoli trucchi del mestiere per scrivere un articolo interessante?

Queste e tante altre domande hanno trovato risposta durante l’incontro svoltosi al liceo Ariosto lunedì 5 Dicembre nel corso del quale Daniele Modica, co-direttore del giornale online Ferrararitalia, ha parlato agli alunni interessati al mondo della redazione.Un ciclo di tre appuntamenti pensati e progettati dalla scuola stessa. in collaborazione con Ferrara Italia. Questi incontri non mirano semplicemente a formare nuovi giornalisti, ma hanno come obiettivo principale quello di offrire ai ragazzi i mezzi giusti per poter leggere ed interpretare la realtà che quotidianamente viene fornita dai media.

Tendiamo a fidarci di quello che ci viene proposto e che troviamo scritto, soprattutto se la fonte è attendibile. Ma quante notizie lette, poi sono state smentite? Quanti falsi miti sono stati sfatati?

Durante l’incontro ci si è interrogati sulla veridicità di un articolo, nonché sull’etica del giornalista, che deve riportare la realtà osservata nella maniera più oggettiva possibile, ma pur sempre attraverso i suoi occhi e le sue parole.
Risulta fondamentale la prospettiva che il giornalista sceglie per descrivere una vicenda, che sia di cronaca, sportiva o sociale.
“Tutto ciò che noi inglobiamo nell’articolo, è importante quanto quello che lasciamo fuori e questo vale nel giornalismo quanto nella vita di ognuno di noi. Siamo costretti a fare dei ‘tagli’ ”. afferma Daniele Modica affrontando l’argomento con piccoli spunti di riflessione, immagini e “giochi” che vedono i ragazzi protagonisti. “A volte siamo costretti a incentrare il nostro focus su altro rispetto alla nostra idea iniziale, il giornalista deve capire quale focalizzazione catturerà maggiormente l’attenzione del lettore”.
Assieme al focus, gli altri elementi fondamentali sono il titolo e l’attacco. Entrambi devono convincere e invogliare, ma allo stesso tempo essere esaustivi e contenere le ‘famose cinque W: what, when, who, where, why (cosa, quando, chi, dove e perché).
“Avete presente i gialli? – continua Modica- Ecco, nell’articolo di giornale dovete fare esattamente il contrario! Non tenetevi il più bello per la fine, altrimenti nessuno lo leggerà.” Questi semplici trucchi sono in realtà essenziali e decideranno il destino del pezzo scritto.

Formare i ragazzi su determinati argomenti significa renderli lettori consapevoli ed attenti, oltre che giornalisti in erba.
Alla fine dei tre incontri stabiliti, verrà infatti aperta una “stanza” su Ferraraitalia, dove gli articoli scritti dai ragazzi e considerati più meritevoli, potranno avere il giusto spazio.
Grazie a questa nuova collaborazione, il giornale vuole dare l’opportunità a giovani ragazzi di vedere il proprio nome come firma di un articolo pubblicato e collaborare con una redazione giornalistica.
Questa esperienza sarà utile anche per avvicinare gli studenti al mondo del lavoro. Un mondo che spesso “chiude le porte in faccia”, che non dà adeguato modo di sperimentare e mettersi alla prova.

Sperando che l’iniziativa possa avere un esito positivo, la redazione vuole ringraziare il Liceo Ariosto per questa collaborazione appena avviata, gli insegnati per il tempo che stanno dedicando al progetto e gli studenti interessati che hanno partecipato al primo incontro con grande attenzione.

Per concludere con le parole del direttore, incitiamo i ragazzi a mettersi in gioco, ma con un piccolo avvertimento “Non potete immaginate che potere immenso ha il giornalista tra le sue mani. L’importante, è che questo potere, non dia alla testa”

L’EVENTO
Creatività a confronto: la fotografia vista da Maria Chiara Bonora e Denise Ania

di Linda Ceola

 

Foto di Valerio Spisani
Foto di Valerio Spisani

Due donne. Un esplosione di tenera creatività. Due approcci emozionali divergenti supportati da due mezzi fotografici diversi, l’uno digitale, l’altro analogico. Due processi creativi a confronto che trovano però un punto comune. La sensibilità, carica di sensualità e dolcezza.
Sensibile è infatti il titolo che Riaperture, associazione ferrarese neonata, ha scelto di dare ad un appuntamento fotografico tutto al femminile, che ha visto protagoniste Maria Chiara Bonora e Denise Ania mercoledì 7 dicembre scorso, alle h 21 presso ilturco, spazio coworking.

Maria Chiara Bonora inizia ad usare la macchina fotografica all’università, nei rilievi architettonici di edifici fatiscenti da restaurare, per poi sviluppare un rapporto più appassionato con l’obiettivo lavorando in uno studio di architetti, che a conclusione dei lavori era solito commissionare e pubblicare un reportage fotografico delle proprie opere. E’ qui che Maria Chiara inizia a dare un’”identità architettonica” al suo rapporto con la fotografia che diventerà il distintivo dei suoi lavori: “La fotografia che stavo facendo e l’architettura che si trovava di fronte a me avevano molte cose in comune, entrambe dovevano essere composte, avere una struttura, una gerarchia, delle proporzioni”.

Dopo questa esperienza Maria Chiara percepisce il potenziale creativo del mezzo fotografico ma non sa ancora bene come accrescerlo; inizia così a frequentare un circolo dedito ad esso, scegliendo di prendere parte ad un progetto sul pane ferrarese intitolato “L’anatomia della coppia”, dove attraverso un obiettivo macro interpreta in chiave erotica la tradizionale coppia ferrarese. “Dopo questo lavoro non sapevo come sviluppare questa possibilità di esprimermi e così mi sono fermata per anni, poi ho incontrato delle persone che hanno risvegliato in me il desiderio di riprendere” dice Maria Chiara, che questa volta però ha un intento preciso: costruire la fotografia. Progettarla. “Disegnare un’idea, cosa che proviene dalla mia formazione di architetto, rende più comprensibili concetti che altrimenti sarebbero difficilmente visualizzabili, inoltre mi aiuta a ricordare e fissare il risultato che voglio ottenere”.
Tra una fase e l’altra, l’idea, la documentazione, la stesura degli scritti, l’organizzazione dello spazio e l’accaparrarsi gli strumenti necessari allo scatto, passa sempre del tempo che per Maria Chiara è di estrema importanza per capire se ciononostante continua a ritrovarsi nel progetto ideato inizialmente o se il filo conduttore si è perso, portandola quindi ad abbandonare il lavoro.

“‘Del labirinto dentro e fuori di sé’ è un progetto che mi ha appassionato molto e in cui ho individuato la metafora di un percorso mirante alla consapevolezza di un valore interiore” dice Maria Chiara riferendosi successivamente alla sua fonte di ispirazione per questo lavoro, ossia il celebre Labirinto di Cnosso in cui al suo interno non si nascondeva un tesoro bensì un uomo dalle mostruose sembianze: il Minotauro. Effettua così una trasposizione grafica, prima proiettata e in seguito immortalata fotograficamente del suddetto labirinto sul proprio corpo, che diventa esso stesso intrico in cui farsi spazio per arrivare alla propria essenza più intima. Anche in questa occasione Maria Chiara suggerisce di soffermare l’attenzione sui molteplici piani presenti, che lo scatto nel suo compiersi abbatte, ossia lo sfondo bianco, il soggetto, il proiettore e la macchina fotografica, che necessitano di essere posti ad una precisa distanza frutto di un accurato studio iniziale.
Attualmente Maria Chiara è impegnata in un lavoro intitolato “Oniricon” riguardante i sogni che l’artista ha realmente fatto e poi scelto di abbozzarli su carta attraverso disegni e parole: “questi sogni raccontano la storia di un ritorno di qualcuno che non c’è più, ma senza malinconia né dramma; essi servono a me per tirare fuori delle sensazioni che altrimenti non uscirebbero, analizzandole ed elaborandole”.

Come rappresentare dunque i sogni attraverso la macchina fotografica? Maria Chiara individua due
fasi della narrazione: il presente di oggi che vuole ricordare e il passato rappresentato dal sogno e quindi dal ricordo, che devono assolutamente coesistere in un’unica immagine. “Ho affidato alla diapositiva il compito di rappresentare il sogno o comunque l’evento principale dello stesso e poi ho proiettato questa diapositiva su superfici in spazi diversi; una volta proiettata al buio l’ho fotografata rendendo chiara la coesistenza tra le due diverse dimensioni”. Le connessioni tra diapositive e superfici sono dettate da suggestioni assolutamente personali e legate al mondo onirico pertanto illogiche. Potremmo dunque definire Maria Chiara Bonora autrice di architetture fotografiche al confine tra il sogno e la realtà, anticipate da una sapiente progettazione su carta, fatta di schizzi e parole intrise di sensuale femminilità.

Denise Ania diversamente da Maria Chiara Bonora sceglie di utilizzare un mezzo fotografico analogico costruendo intorno ad esso la sua “poetica fotografica”. Subito ci porta con sé ad Istanbul città in cui si recò per motivi di studio inerente alla fotografia, mostrandoci alcuni scatti correlati tra loro da un termine conduttore appositamente selezionato, Charme. “Non porto sempre la macchina fotografica con me, non sono una fotografa d’assalto, ho un rapporto particolare con questo mezzo che uso solo quando sento una spinta irrefrenabile”. Inizia infatti a scattare fotografie solo dopo tre mesi di permanenza ad Istanbul, nell’intento di cogliere il fascino della città, intriso di contrasti, che Denise associa al colore rosso, colore dell’amore, della morte, della sessualità. La desolazione degli edifici altissimi che si elevano con l’unico scopo di contenere persone senza prevedere un contesto circostante di vivibilità, diventano presto oggetto delle sue attenzioni, dichiarandosi molto più attratta dai luoghi rispetto alle persone che sceglie di evitare di fotografare temendo in qualche modo di violarle.

Denise compra proprio ad Istanbul una Yashica, la macchina che più si addice alla sua idea di fotografia, cioè il risultato di un attesa che il mezzo digitale annulla completamente. Un attesa che non sempre da i frutti sperati ma che a Denise piace molto, definendola “gioco imprevedibile”. “Non so mai se le mie fotografie verranno a fuoco e quindi ho sviluppato un certo amore e una fiducia reciproca nei confronti del mio mezzo. Accetto quello che mi da e talvolta mi stupisce”. In Cappadocia per esempio Denise si lascia attrarre da una signora anziana e dal suo sguardo intenso e dopo lo sviluppo della fotografia scopre che la sua macchina ha scelto di mettere a fuoco lo sfondo anziché la figura della signora, portando l’attenzione all’interno della sua casa.

Un altro ambito interessante per Denise è quello dell’autoritratto: “anche qui non progetto niente, appena arriva la chiamata dell’autoritratto sposto tutto, sistemo la macchina fotografica e io sono lì”. Il tempo è una tematica ricorrente negli scatti di quest’artista, che già a 27 anni inizia ad avvertire un principio di decadimento fisico, che la fotografia in questo caso aiuta a fissare. Nel suo primo autoritratto realizzato non casualmente nel giorno del suo compleanno, il volto di Denise a noi nascosto è rivolto verso un quadro rappresentante un vaso di fiori, simbolo della caducità che incombe. “Non faccio mai degli autoritratti con sguardo diretto in camera, non intendo provocare nè focalizzare la mia attenzione sul sesso, ciononostante non mi limito ad inserire delle parti di nudo”. Restando in quest’ambito Denise ha trovato interessante anche l’utilizzo della webcam come strumento fotografico al fine di realizzare degli autoritratti senza identità in quanto privati interamente della testa del soggetto. Trattasi in questo caso di un’idea di progetto ancora abbozzata che l’artista intende sviluppare, come quello focalizzata sulla città di Ferrara che al momento conta solo uno scatto e che ha già intitolato Grazia. Denise non ama progettare con largo anticipo, si definisce “disorganizzata” e preferisce scattare solo quando sente che il momento è propizio, spinta da una forte energia e sensibilità emozionale.

Due processi creativi singolari, quello di Maria Chiara Bonora e Denise Ania che hanno voluto raccontarci cosa si cela dietro alle loro immagini.
La strada verso il photofestival di Riaperture che si terrà a marzo 2017 è ancora lunga. Stay tuned per il prossimo appuntamento fotografico!!
http://riaperture.com/
http://www.ilturco.it/

(Tutte le foto sono di Valerio Spisani)

LA RECENSIONE
La lotta per non essere ultimi

gli-ultimi-saranno-ultimi-21-1000x600“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” (articolo 1 della Costituzione). “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (articolo 3 della Costituzione).

La dignità, questa sconosciuta, quella lotta contro la precarietà che non lascia scampo e che toglie ogni speranza, quella voglia di vivere con poco che molti non hanno il diritto di avere. Spesso non ci si guarda intorno abbastanza per comprendere che una quotidianità tagliente e sorprendentemente dolorosa attanaglia i pensieri di chi lavoro non ha o di chi l’aveva e che, perdendolo, non ha più spazio per camminare a testa alta.

In Gli ultimi saranno ultimi, Massimiliano Bruno disegna, a tratti netti e pungenti, la vita di Luciana Colacci (Paola Cortellesi), una moglie che ha una vita semplice e di poche pretese, che si vede sconvolgere il futuro d una gravidanza tanto attesa e desiderata: perché certe volte, in certe circostanze che sembrano ancora medievali, ma che purtroppo persistono, si perde ancora il lavoro se si è incinta. Un’Italia dei vinti, quella che viene presentata, quella di chi non ha diritti, di chi non ha potere negoziale e decisionale, di chi cerca spazio e voglia di famiglia che non sempre si ha il diritto di avere. Intorno a Luciana, la provincia romana (Anguillara), un marito scansafatiche, giocherellone e un po’ cialtrone, Stefano (Alessandro Gassman) che vive di piccoli espedienti e molte idee inconcludenti. E poi il solitario e pacato Antonio (Fabrizio Bentivoglio), il goffo e mammone poliziotto dal forte accento veneto su cui pesa un’onta lontana mai lavata, un piccolo uomo in cerca di verità e di grigio riscatto. In tutto questo, se si è la sola a lavorare, perdere il proprio piccolo e normale impiego da precari, in una grigia, polverosa e monotona fabbrica di parrucche, significa perdere tutto, non avere più il proprio posto nella società e nel mondo, il proprio angolino tranquillo…

“Era la vita che c’era capitata e ci piaceva così”, dice Luciana, una piccola ambizione che però viene tolta. Anche quella. La buona volontà e l’impegno non bastano, l’ingiustizia sociale prende il sopravvento. E una donna mite e responsabile cambia volto. Una donna che si ritrova, disperata e ferita, con una pistola in mano. Rabbia e un dramma nel dramma, con un finale inatteso. Per resistere. Sempre. Sulle note di Infinito di Raf, di Quello che non c’è degli Afterhours, con la chiusura affidata a Gli ultimi di Paola Turci.

Gli Ultimi saranno ultimi, di Massimiliano Bruno, con Alessandro Gassmann, Fabrizio Bentivoglio, Ilaria Spada, Paola Cortellesi, Stefano Fresi, Italia, 2015, 103 mn.

“Salvo per miracolo: ora voglio cambiare vita”. Parla il venticinquenne ferrarese uscito di strada dopo l’impatto con un tir

“Vivevo alla grande,forse mi sentivo di poter fare tutto. Mi è venuto sonno ma non mi sono fermato. Quando ho aperto gli occhi avevo un tir di fronte”. Sono passati più di 180 giorni, ma il ricordo di quella notte a cavallo tra il 5 e il 6 giugno difficilmente si potrà cancellare nella testa di Daniele Silandri, studente ferrarese di 25 anni che si è incidentato con la sua Audi A1 contro un tir lungo la statale 16, a pochi chilometri da casa. Le prime pagine dei giornali locali hanno riportato la notizia. Quella notte ha cambiato per sempre la sua vita: “Mi sento fortunato, miracolato. Ora voglio cambiare”, dice convinto.

Vorrei mettere le carte in tavola. Ci può raccontare realmente ciò che è accaduto? Di chi è la responsabilità?
Sono il primo a dirlo, la colpa è senz’altro mia. Era un periodo intenso della mia vita, avevo lasciato Rimini, dopo essermi trasferito lì per lavoro, per andare a Milano e seguire un master. Sia a Rimini che a Ferrara, città dove sono nato e cresciuto, ho amici e famiglia. Cercavo di fare la vita di sempre, ogni week end.

Come stava andando la sua vita?
Lavoravo come personal trainer in una palestra di Milano, studiavo e facevo avanti e indietro con la macchina. Ero stato catturato da un vortice di onnipotenza, credevo di poter fare tutto. All’inizio di giugno stavo lavorando al Rimini Wellness e alloggiavo in un hotel in città. Quale miglior occasione per rivedere i miei amici? Era stata una settimana bella intensa, legata già a un periodo frenetico anche se molto bello. Finito di lavorare, dopo il solito turno dalle otto del mattino alle diciannove della sera, mi lavavo e uscivo a mangiare e poi discoteca con amici e non tornavo a casa prima delle cinque del mattino.

Così è andata anche quella sera, prima dell’incidente?
Dopo il solito turno di lavoro, avevo deciso che sarei tornato a Ferrara dalla mia famiglia, per rimanere a dormire due tre ore e ripartire per Milano, perché alle otto avrei avuto lezione. Era l’ultimo giorno del Rimini Wellness e c’era molto traffico, decisi di andare a mangiare una pizza e poi partire qualche ora più tardi. Ero veramente stanco. Ma credevo di potercela fare. “Tanto -pensavo – è successo già altre volte che mi sentissi così stanco, ma non è mai successo niente ed è sempre andato tutto bene”.

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Daniele Silandri, ferrarese di 25 anni

Quindi a che ora è partito?
“Sono partito da Rimini intorno alle 23 già molto stanco. Sono rimasto in autostrada fino ad Imola al telefono con un mio amico. Ad imola ho imboccato le vie interne fino ad arrivare a Ferrara, ma non ci sono arrivato”.

Se non se la sente di continuare possiamo fermarci.
“No no ci sono. Dunque, ci ho messo circa due ore e mezza ad arrivare sulla via Ravenna, quando sono partito c’era ancora molto traffico. A dieci minuti da Ferrara, verso le 2, è successo tutto. Sapevo di essere molto stanco, mi è successo altre volte di esserlo così, ma mancavano pochi chilometri. “Ce la faccio!”,mi ripetevo. Ma la palpebra calava e mi sono addormentato. Mi sono svegliato al momento dell’impatto. Chiedo scusa, è un po difficile: ricordare fa male.

E’comprensibile. Le ripeto che possiamo fermarci.
“No no, grazie. Avrei potuto chiedere a chiunque un appoggio per dormire a Rimini, ma non sono capace di natura; non sono uno che chiede favori a qualcuno. Credevo davvero di essere immortale. Mi sono reso conto solo in seguito di essermi portato allo stremo delle forze, con il mio stile di vita, diciamo ‘fastlife’.

Cosa intende per ‘fastlife’?
Vita veloce, niente riposo, avevo annebbiato i miei principi. Mi sentivo grande, credevo di poter fare tutto. Con gli amici ero sempre in festa, poco sonno, poco tempo per me stesso e non avevo mai pensato di staccare.

Se la sente di tornare al momento dell’incidente?
Sì, non c’è problema. Quando ho aperto gli occhi, la macchina si era già scontrata contro il tir ed era in movimento, la prima cosa che ho pensato è stata: “Sono uno stupido”. Quando la macchina ha smesso di girare e si è fermata, la prima cosa che ho fatto d’istinto è stata toccarmi le gambe. Quella a destra era a posto, la sinistra aveva una sporgenza, ma con i pantaloni lunghi non la vedevo. Sapevo di avere una frattura esposta ma avevo troppa adrenalina per sentire il ben che minimo dolore. Avevo graffi ovunque, ematomi e abrasioni sulle braccia, sul collo e sul viso, ho scoperto ma solo in ospedale di avere due costole rotte. Ma sono vivo! Sono miracolato!.

Quando sono arrivati i soccorsi? Com’è andata?
Non so chi li abbia chiamati, ma sono stati velocissimi, anche se in quel momento per me il tempo era molto relativo. Ci avranno messo massimo cinque minuti ad arrivare. Sono arrivati ambulanza e vigili del fuoco. Hanno tagliato la portiera della macchina e mi hanno estratto prendendomi dal torace, mi hanno messo sulla barella e intanto che mi portavano via mi hanno chiesto dati e informazioni personali. Poi mi hanno addormentato. Ma negli attimi dell’incidente ero lucido, ho detto ai medici che mi ero addormentato. Cavolo, ero vestito ancora da lavoro, ero scioccato. Quella stessa sera sono stato operato d’urgenza all’ospedale di Cona e ricoverato in sala rianimazione per una settimana, per poi essere spostato in ortopedia. Avevo subito un’operazione transitoria con fissaggi esterni alla gamba sinistra. Sono tornato a casa due settimane, per poi tornare il sette luglio per una seconda operazione. Sono stato un mese con la gamba che non comprendeva le articolazioni del ginocchio, alcuni pezzi dell’osso si sono sbriciolati. Ma sono vivo, ancora non mi rendo bene conto.

Ed ora?
Ora sto facendo fisioterapia una volta al giorno e vediamo passo dopo passo di migliorare. Riesco un po’ a camminare, ma con le stampelle.

Com’è andata per l’autista del tir?
Non ha avuto nessun danno fisico, ma ancora non so chi sia, sicuramente ha avuto un grande choc. Da quello che mi hanno detto i carabinieri, è rimasto dieci giorni a casa dal lavoro e mi ha denunciato. Il 12 novembre sono andato in caserma per chiedere di conoscerlo di persona. Ma non è stato possibile.

Se potesse incontrarlo cosa gli direbbe?
Sicuramente mi scuserei. Ma poi chiederei i motivi della sua denuncia che aggrava una situazione per me già non leggera.

Grazie per il suo racconto. Prima di congedarci vorrebbe aggiungere qualcosa?
Ho tanti sensi di colpa, la prima cosa che ho detto a mia madre quando mi sono svegliato in ospedale è stata “Non l’ho fatto apposta!”. Avevo le lacrime agli occhi. Tutto quello che è successo mi ha fatto tornare bruscamente alla realtà. Non siamo i re del mondo, come credevo. Siamo padroni di noi stessi certo, ma fino ad un certo punto. La vita è una sola e va vissuta, è un dono. Ho fatto molti errori che molti ragazzi della mia età fanno, ora è tutto cambiato. Sto vivendo una vita che non ho scelto in un corpo che non si riconosce. Secondo me non è un caso che l’incidente mi abbia preso le gambe. Quando penso alle gambe penso al movimento, il mio è stato frenato. La mia fastlife è stato frenata. Ringrazio tutti quelli che mi hanno sostenuto e mi sono stati vicini, la mia famiglia e i miei amici. Grazie di cuore.

La prima pagina de Il Resto del Carlino Ferrara che riporta la notizia
La prima pagina de “Il Resto del Carlino Ferrara” che riporta la notizia
L'articolo e le fotografie riportate da Il Resto del Carlino
L’articolo e le fotografie riportate da “Il Resto del Carlino”

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Dove lo metto?

Avevo compiuto gli anni da pochi giorni. F., un’amica, era in arrivo a casa mia per portarmi il regalo e fare due chiacchiere davanti a un caffè. Dalla finestra, la vidi parcheggiare e scendere dalla macchina, in auto rimase M., il compagno, solo e imbronciato.
“E’ timido e non vuole venire”, mi disse F. un po’ imbarazzata sulla porta. Non commentai, ma la mia faccia evidentemente tradiva ciò che pensavo. F. capì e tornò in macchina per convincerlo. Li vidi discutere, forse litigare. M. finalmente entrò in casa, ci presentammo con una stretta di mano rapida e un mezzo sorriso di circostanza. La moka era pronta, ma M. non volle accomodarsi e non disse una parola costringendo F. alla fretta.
Non ricordo di cosa parlammo in quei pochi minuti, una leggera tensione dominava la nostra conversazione e fui presa da un altro pensiero, capire dov’era finito M.
Mi sembrò, a un certo punto, di non vederlo più, spostai lo sguardo e lo trovai già tra la soglia e l’uscita, posizionato due passi dietro di lei. Se ne andarono quasi subito, niente caffè.
Mi chiesi allora quale posto, nella coppia, vorremmo che un uomo occupasse: dietro seminascosto con il rischio di dimenticarlo? Due passi avanti che poi ci tocca correre? Laterale spalla a spalla? Di fronte in cui possiamo specchiarci? Voi dove lo vorreste? Ma poi, deve essere per forza un posto fisso?

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

LA RIFLESSIONE
Europa e burocrazia

di Grazia Baroni

La parziale bocciatura della riforma Madìa della Pubblica Amministrazione rende evidente quanto la riforma costituzionale, se pur imperfetta, sia necessaria e vitale per lo sviluppo dell’Italia a prescindere dal risultato referendario del 4 dicembre. Quando la Corte Costituzionale ha fermato la riforma Madìa, che poneva un limite temporale alle dirigenze delle amministrazioni e di fatto creava i presupposti per aumentare la produttività e l’efficienza della pubblica amministrazione, si è resa palese la volontà dei burocrati di difendere i propri privilegi, altrettanto ha fatto con vigore nella campagna per la bocciatura della riforma costituzionale, mostrando la potenza della struttura burocratica nei suoi propositi di autoconservazione.

D’altronde, votare Sì al referendum avrebbe rappresentato un tentativo di dare stabilità all’Italia e soprattutto all’Europa creando un dilemma per coloro che hanno votato, perché questa Europa, nella forma in cui si sta delineando, non piace quasi a nessuno, se non a chi si sta avvalendo di questa realtà per occupare un posto di lavoro che è anche prestigioso e ben remunerato. Oggi sappiamo come sono andate le cose e la fragilità dell’Unione Europea è proporzionalmente maggiore.

Il dilemma, però, oggi ancor più di ieri, rimane: come cambiare questa Europa senza distruggerla?

E perché non piace questa Europa? Sostanzialmente perchè si fa riconoscere dalla cittadinanza dei singoli Stati europei solo attraverso le regole procedurali emanate dal Parlamento che sono vincolanti a tal punto da finire per ingessare la sua economia impedendone lo sviluppo. Però, nonostante questo, gli Stati Nazionali si affidano a tale struttura burocratica proprio perchè non si fidano gli uni degli altri. La burocrazia porta alla deresponsabilizzazione e riduce al minimo le differenze; le caratteristiche nazionali che sono la ricchezza dell’Europa vengono appiattite togliendo il senso stesso del progetto europeo. Di questo si fanno forti le destre che infatti ultimamente stanno prendendo potere in Europa.

Purtroppo il Parlamento Europeo non ha un mandato legislativo non essendoci uno Stato d’Europa, può solo svolgere funzione di controllo su ciò che la Commissione Europea promulga e che non sono mai direttive finalizzate a creare lo sviluppo armonico di uno Stato unitario e democratico ma linee di confine per compromessi produttivi e commerciali tra Stati in competizione tra loro e unici veri mandatari di deleghe popolari elettive, quindi gli unici legittimati democraticamente a scelte politico- economico – sociali vere e proprie.

Il risultato è che l’Europa esiste soltanto in quanto burocrazia e in quanto tale non può essere democratica (lo dice la parola stessa: burocrazia è il potere delle procedure, non del popolo) e questa realtà è dovuta al fatto che ciascuno Stato Nazionale, nonostante due guerre mondiali e decine di milioni di morti, non sia ancora capace a cedere la propria a sovranità per un progetto più ampio e più adeguato ai tempi come sarebbe lo stato democratico degli Stati Uniti d’Europa. Uno stato che vada oltre ai nazionalismi e che possa rappresentare una nuova realtà politica, progettata interamente dal nuovo a partire dalla sua struttura amministrativa. Una struttura amministrativa fondata sul concetto di democrazia, intesa come libertà personale in uno spazio di libertà comune, che si sostituisca a quella attuale burocratica e massificante che identifica la democrazia con l’omologazione; questa sarebbe l’unica vera sfida per iniziare il terzo millennio, in modo democratico in un mondo globale.

Sarebbe il primo passo per un cambiamento universale perchè si può constatare oggi che il problema della burocrazia come struttura organizzativa delle società odierna, invece di facilitare il cambiamento e lo sviluppo, tende a frenarli, a creare una sempre maggior corruzione e a sostituirsi al potere legislativo politico in tutti gli stati, siano essi monarchie, repubbliche o dittature.

Questo accade perché, guardando la storia della burocrazia, si rende evidente come essa sia nata a servizio della monarchia assoluta. All’epoca è stata molto efficacie e funzionale, ma con l’evolversi delle forme di governo, dalla monarchia parlamentare alla repubblica, non si è rinnovata se non nella razionalizzazione delle sue procedure grazie alle quali è diventata sempre più pervasiva e invasiva senza deviare dalla sua funzione di organo di controllo.

In uno stato veramente democratico, la burocrazia dovrebbe essere sostituita da una Pubblica Amministrazione la cui definizione descriva lo scopo gestionale dell’organizzazione della quale sarebbe la struttura, cioè la democrazia parlamentare.

Per realizzare un cambiamento di tale portata è necessario riflettere su alcune questioni:
• Cosa è la burocrazia e a cosa serve?
• Cos’è l’amministrazione e a cosa serve?
• Burocrazia e democrazia possono convivere o sono antagoniste?
• Uno stato ha necessariamente bisogno della burocrazia?
• Come trasformare l’esoscheletro da scarafaggio Kafkiano nel quale ci troviamo prigionieri in endoscheletro di un organismo libero e capace di trasformarsi?

La questione è importante e complessa, richiede una collaborazione di creatività, un dialogo tra ipotesi perciò sento la necessità di condividere tali interrogativi e riflessioni.

Chi è Grazia Baroni – brevi note biografiche
Grazia Baroni, nata a Torino nel 1951. Ha ottenuto il diploma di liceo artistico e l’abilitazione all’insegnamento. Laureata successivamente in architettura, ha insegnato per decenni e con passione disegno e storia dell’arte nella scuola superiore di secondo grado, cercando di coniugare l’arte con la vita e la coscienza. Ha partecipato alla fondazione della cooperativa Centro Ricerche di Sviluppo del Territorio (CRST) e collaborato ad alcuni lavori del Centro Lavoro Integrato sul Territorio (CELIT). E’ socia e attiva collaboratrice del Centro Culturale e Associazione Familiare Nova Cana da decenni.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Chi ha paura della scienza?

Per capire il mondo e il suo universo avremmo bisogno di più scienza, ma non pare che la cultura della conoscenza si muova in questa direzione. Non ci inganni lo sviluppo delle nuove tecnologie, il mondo interconnesso, perché l’orizzonte scientifico è sempre più sfumato, implode l’eccesso di parole mentre la ragione sembra retrocedere dalla mente alla pancia.
È la cultura neoumanistica del pensiero veloce ma sempre più debole, sempre più affrettato che gioca a rimpiattino con la scienza e con la ragione. È la cultura della conversazione sui social network che si alimenta di un umanesimo straccione, di seconda e terza mano, che diffida dei vaccini, che fa del cancro una malattia psicologica, che considera l’HIV un’invenzione speculativa delle industrie farmaceutiche. Una cultura da letteratura, da narrazione d’appendice, da insufficienza mentale e vuoto scientifico.
Del resto siamo nel ventunesimo secolo e ancora non abbiamo risolto il problema della convivenza delle due culture, della cultura scientifica ed umanistica. Creazionismo ed evoluzionismo convivono come se l’uno non escludesse l’altro, come due possibili opzioni che non cambiano il paradigma del mondo, i modi di vivere e di guardare al presente come al futuro, si specula sui mercati, si fanno le guerre ma si crede in dio, meno probabile del fatto che il sole possa non sorgere.
Si fa appello all’etica, al dover essere ma non alla scienza, alla cultura scientifica della ragione e della consapevolezza, anzi si teme che la cultura scientifica possa attentare alla classicità della cultura umanistica, come se la nostra tradizione dovesse tutto ai poeti, ai santi e ai navigatori anziché alla ricerca scientifica e agli scienziati.
L’esperienza ha dimostrato, tanto negli Stati Uniti quanto nelle scuole moderne europee, come sia difficile porre lo studio della scienza sullo stesso piano dello studio della letteratura, dell’arte o della musica. D’altra parte è chiaro a tutti che dalle medie all’università lo studio della scienza e quello della letteratura non hanno sulla mente degli studenti lo stesso effetto.
È proprio questo effetto che si teme, che la scienza possa produrre menti libere, raziocinanti, meno disposte ai miti e alle illusioni. Le manipolazioni che possono produrre le suggestioni della cultura umanistica sono presto smontate dal rigore del pensiero scientifico. La cultura umanistica meglio si presta a un’idea di educazione che voglia forgiare le menti e le persone più che istruirle, renderle autonome, padrone dei processi mentali.
Crediamo di essere cresciuti nelle nostre conquiste democratiche, di essere liberi nell’esercizio dei nostri diritti, ma se le nostre menti non sono libere difficilmente sapremo da che parte sta la democrazia e fare un buon uso delle libertà conquistate.
È una questione di formazione delle generazioni, di partecipazione al patrimonio culturale e se in questo l’irrazionale continua a prevalere sul razionale gli strumenti della conoscenza e della cultura non saranno mai strumenti di liberà e di progresso, come infatti accade.
Basta guardare in casa nostra per scoprire come nel nostro sistema scolastico la scienza continui nella formazione dei nostri giovani a svolgere il ruolo della cenerentola.
Dalle scuole medie alle superiori nell’orario scolastico dei nostri studenti il rapporto tra materie scientifiche e tutte le altre sta mediamente in un rapporto di uno a cinque, un quinto dell’intero orario scolastico, per non parlare degli istituti professionali dove nell’ultimo triennio è uno a dieci, l’insegnamento delle scienze si riduce a due sole ore di matematica alla settimana.
Ciò che più inquieta è lo zelo con il quale il ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca si preoccupa di assicurare dall’eccesso di una eventuale formazione scientifica a scapito di quella umanistica. Basta leggere la presentazione che nel suo sito web il Miur fa del sistema dei licei, dove a proposito del liceo classico si ritiene necessario precisare che “il pensiero scientifico è collocato all’interno di una riflessione umanistica” come se di per sé fosse peccaminoso e per il liceo scientifico si informa che fornisce “una formazione culturale equilibrata nei due versanti umanistico e scientifico”.
La questione dell’educazione scientifica resta quanto mai aperta e soprattutto come potrebbe cambiare la nostra convivenza se anche chi non si dedica alla scienza potesse acquisire una migliore formazione e comprensione della scienza stessa.
Sarebbe come il passaggio dall’astronomia tolemaica a quella copernicana. Come ha scritto Thomas Kuhn, prima della rivoluzione copernicana, il Sole e la Luna erano pianeti, mentre la Terra no; dopo, La Terra era un pianeta, come Marte e Giove, il Sole era una stella e la Luna era un nuovo tipo di corpo, un satellite. Mutamenti simili cambierebbero il modo di percepire il mondo e le sfide che ogni giorno ci attendono.

Il dopo referendum
La scommessa di Renzi

“Oneri e onori”. Sta probabilmente in questa attribuzione – da parte di Renzi – “a chi ha vinto” la chiave di comprensione dello scenario politico dei prossimi mesi: gli onori per una vittoria virtuale, gli oneri per la gestione di una situazione oggettivamente complessa.
Renzi si è giocato tutto in questa partita, e ha perso: ma ha perso una battaglia, non la guerra… Avesse vinto, avrebbe potuto completare la legislatura agendo sostanzialmente incontrastato per il prossimo anno e mezzo, forte di un’investitura popolare resa tale dal carattere plebiscitario che per primo ha attribuito alla consultazione referendaria. Invece ha perso, incassando però un pesante 40 percento di consensi che, se da un lato costano la bocciatura della riforma, dall’altra lo autorizzano a tentare una nuova ciclopica scommessa, confortato nel suo ego da una potenziale base elettoralmente ampia, quel “popolo del sì” che ha ringraziato “con un ideale abbraccio, uno per uno…”: con il 40 percento si perdono i referendum, ma si stravincerebbero le elezioni.

Ecco perché il premier uscente potrebbe covare l’idea di tentare l’azzardo estremo e domani, alla direzione del partito, presentarsi dimissionario anche dalla carica di segretario del Pd, denunciando le resistenza e i freni al cambiamento opposti da una parte della nomenclatura interna. I partiti come macchine del consenso ormai non funzionano più. Da perderci realmente avrebbe la struttura organizzativa. Ma, nella società liquida, si ragiona di partiti leggeri e ciò che fa presa è la capacità di esercitare una forte leadership. Sarebbe certo un terremoto. Ma in termini strategici gli garantirebbe però una rigenerazione personale e mani totalmente libere per poter tentare l’avventura in solitaria, facendo leva sul suo carisma, con i fedelissimi accanto, al vertice di una nuova formazione politica, lasciando agli altri (Pd incluso) gli oneri della gestione da qui alle elezioni. In fondo con questo approdo darebbe una parvenza di senso alla sua proclamata intenzione di “lasciare la politica” in caso di sconfitta: sarebbe un tirarsi fuori e ricominciare daccapo. Potrebbe anche temporaneamente defilarsi per poi tornare in scena a furor di popolo… Ma quel che farà è per ora solo nella sua testa. Di certo non si lascerà logorare da un ipotetico reincarico per formare un governo elettorale dedito esclusivamente all’approvazione del bilancio e al varo (peraltro non semplice, dati i contrastanti interessi fra le forze parlamentari) di una nuova legge elettorale.

“Oneri e onori a chi ha vinto”, ha proclamato sicuro. Non sarà facile gestire la transizione. Un voto a primavera – come sarebbe logico e auspicabile per non trascinare l’incertezza, aggravare la crisi e affossare ulteriormente il Paese – non consentirebbe alla forze politiche di riorganizzarsi: il Pd già dilaniato e adesso ancor più lacerato, la sinistra radicale non trova un’identità solida e convincente, lo schieramento del centrodestra è diviso e litigioso, l’unico partito saldo sulle sue posizioni è la Lega di Salvini che però da sola conta solo su un ipotetico 12 per cento di consensi e fatica a stringere alleanze solide con gli altri rappresentanti del suo fronte elettorale.
Mentre un Renzi alleggerito dagli apparati ripartirebbe, appunto, da un 40 percento di elettorato in teoria non ostile e soprattutto avrebbe carta bianca. E libero sarebbe soprattutto di poter promettere (la cosa che meglio gli riesce) senza essere messo alla prova dei fatti, perché nei prossimi mesi toccherà agli altri, che già faticheranno a mettere insieme una qualche maggioranza parlamentare in grado di sostenere un governo di transizione. E lui potrà giudicare le incapacità altrui, le incertezze, gli sbandamenti. Ci sarà chi spinge per trascinare la legislatura per riorganizzare le fila o per garantire ai parlamentari la cospicua pensione. D’Alema, per esempio, già gracchia: “irresponsabile votare ora”. E Renzi sarà lì, con l’indice puntato, a segnalare le colpe e le incapacità.

Il nuovo Renzi si è già visto in tv, un’ora dopo una sconfitta che non deve essergli piovuta in capo come una meteora. All’evenienza era preparato. E l’ha affrontata con grande dignità e un discorso di commiato convincente ed efficace al punto da strappare un plauso pure a un nemico giurato come Peter Gomez, che con Marco Travaglio è la storica colonna del Fatto Quotidiano, giornale antirenziano per eccellenza.
E’ stato un Renzi ragionevole, quello della notte scorsa: almeno all’apparenza pacato, appassionato, generoso, responsabile al punto da caricarsi il fardello delle colpe e attribuire merito a chi si è impegnato – “spinto da pura passione” – nella battaglia per il cambiamento. Una battaglia che ora è pronto a ricominciare, forse addirittura senza nemmeno più la necessità di quella base di ancoraggio che è stato il Partito democratico all’inizio della sua avventura ai vertici della politica nazionale e poi nella immediatamente successiva esperienza di governo. Allora era uno sconosciuto, il “rottamatore” che gustava le logiche dei vecchi tromboni del Palazzo. Ora tutto il mondo invece sa bene chi è Matteo Renzi. E lui può pensare di mettersi in proprio. Convinto (con quel ‘pizzico’ di presunzione che non gli manca…) che chi lo ama lo seguirà.