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Ferrara film corto festival

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I Macchiaioli: dalle collezioni private al Chiostro del Bramante

Emilio Cecchi, acuto studioso dell’Ottocento italiano, sintetizzava con lucidità la fortuna dei Macchiaioli fin dalla prima metà del Novecento in un saggio (1954) dall’evocativo nome “Parenti poveri”: “Nel suo breve corso che sostanzialmente fu concluso fra circa il 1850 e l’ultimo scorcio del secolo XIX, al movimento macchiaiolo non arrise gran fortuna, né rinomanza e prestigio né critica. I migliori che ne scrissero: il Cecioni, il Martelli, il Signorini, altrettanto e più che della purezza dei suoi ideali, testimoniano delle sue difficoltà e dei suoi sforzi per sopravvivere. Ed ecco che, dopo un lungo abbandono, in epoca assai prossima a noi, passati quattro o cinque anni dalla prima guerra, la gente si mise a ripensarci e mostrò di cambiare opinione… A poco a poco nuovi dipinti, un po’ sospettosamente, sbucarono fuori dalle avite raccolte e dai salotti familiari. Dove sonnecchiavano da parecchi decenni. E divulgati in riviste, cataloghi e monografie, passarono sotto il martello dei direttori d’aste. Perché nel frattempo s’era venuto creando un loro mercato, con quotazioni ad ogni stagione più alte, che avrebbero sbalordito gli autori; quasi tutti morti nell’indigenza più nera, o in una povertà appena decente”.
Il rilancio critico dei pittori toscani fa dunque seguito alla dispersione di numerose quadrerie e raccolte toscane che sin verso il 1930 potevano essere comodamente ammirate soprattutto a Firenze. E quando successivamente si formeranno nuclei importanti, frutto di un ambizioso collezionismo del nord imprenditoriale, come quelli del torinese Riccardo Gualino e del milanese Giacomo Jucker, il movimento dei Macchiaioli verrà valutato in particolare da Lionello Venturi e Roberto Longhi come il momento più significativo della pittura italiana dell’Ottocento.
Già Ugo Ojetti sulla rivista “Dedalo” (1925-26) delineava la dimensione indipendente di Telemaco Signorini e Giovanni Fattori, indiscussi protagonisti del movimento: una libertà e autonomia che diventa motivo ricorrente e si caratterizza nelle fughe in aperta campagna, ma più concretamente nella ribellione allo studio dell’Accademia.

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Butteri e mandrie in Maremma di Giovanni Fattori

Fin dal 1849-50 in relazione ai movimenti di ispirazione liberale, fermenti di ribellione alla pittura dominante romantica e accademica animavano le vivaci discussioni attorno ai tavoli del Caffè Michelangelo, destinato a diventare la sede e il simbolo del movimento. Qualche anno più tardi, l’apertura al pubblico fiorentino della Collezione Demidoff in Villa Pratolino, ricca della migliore pittura francese contemporanea da Ingres a Delacroix fino ai paesaggisti di Barbizon, aveva portato una ventata di colorismo brillante e acceso, mentre il napoletano Domenico Morelli aveva fatto conoscere i suoi originali studi tonali di chiaroscuro. E’ una lezione, questa, intesa dai giovani pittori toscani come impalcatura strutturale del colore che si articola in macchia, in pennellate stratificate che nella pratica del paesaggio raggiunge gli esiti più interessanti come nel livornese Serafino Da Tivoli, anch’egli reduce nel 1856 dagli incontri parigini con Constant Troyon e Rosa Bonheur, la cui carriera già folgorante non tardò a raggiungere la Firenze dei Macchiaoli.
Gli anni Sessanta del secolo vedono lo sviluppo della tecnica di macchia in esperienze parallele, ma differenti, concentrate nella Scuola di Castiglioncello e di Piagentina.
La tenuta di Castiglioncello, ereditata da Diego Martelli alla morte del padre nel 1861, viene a sostituire il punto di incontro del fiorentino Caffè Michelangelo e diventa territorio privilegiato dell’attività di sperimentazione sul “vero luminoso” che si traduce nelle Vedute e nelle Marine di Abbati, Sernesi e Borrani, nei dipinti scolpiti a colpi di sole e dall’ombra nera di Signorini, Cabianca e Banti e nelle tele solari di Giovanni Fattori, impostosi ben presto come personalità dominante del gruppo, insieme a Silvestro Lega, la cui pittura tuttavia è improntata a un intimismo più lirico. Aliena da ogni intonazione affettiva, ma fedele ai principi di solidità strutturale, che nella macchia avevano trovato origine, si svolge, al contrario, la straordinaria pittura di Fattori: nella scansione esatta dei piani e delle luci, l’artista infatti modula le campiture di colore in piccole tele di formato orizzontale allungato, dove raggiunge un equilibrio solidamente classico.
La Mostra “I Macchiaioli, Le collezioni svelate” a cura di Francesca Dini, presenta al pubblico oltre 110 opere dei Macchiaioli attraverso un’insolita angolatura. Il percorso espositivo, infatti, si articola in nove sezioni intitolate alle collezioni di provenienza. Così, collocando le opere nel contesto storico-collezionistico, vien dato spessore a personalità di intellettuali, imprenditori e uomini d’affari che hanno influenzato il dibattito culturale dell’epoca, dando avvio alla fortuna del movimento toscano, talvolta acquistando le opere per sostenere gli amici pittori in momenti difficili, altre volte per il puro piacere estetico o per l’ambizione di accrescere le proprie collezioni d’arte. Personalità come Cristiano Banti, Diego Martelli, Edoardo Bruno, Gustavo Sforni (ed altri) fanno da sfondo a capolavori come “Il giubbetto rosso” (1895 ca ) di Federico Zandomeneghi, “Marcatura dei cavalli in Maremma” (1887) e “Ciociara” di Giovanni Fattori, “Ritratto della figlia Adelaide” (1875 ca) di Giovanni Banti, “Cucitrici di camicie rosse” (1863) di Odoardo Borrani, “Ritratto della moglie Isa” (1902) di Oscar Ghiglia.
La prima sezione è dedicata alla galleria privata del pittore Cristiano Banti, che spesso svolse opera di mecenate a favore dei propri compagni macchiaioli, costruendo con finezza critica una raccolta preziosa composta da diciotto dipinti di Fattori e arricchita da opere famosissime come “I promessi sposi” (1869) di Silvestro Lega, “Le monachine” (1861) di Vincenzo Cabianca, “Il ponte della pazienza a Venezia” (1856) di Telemaco Signorini.
La seconda sezione è dedicata a Diego Martelli, critico, pittore e mecenate degli amici macchiaioli, alcuni dei quali furono ospitati negli anni Sessanta nelle sua tenuta di Castglioncello. Per l’alta qualità delle opere, la sua raccolta è andata successivamente a costituire il nucleo di partenza della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti .
Di origine piemontese, Edoardo Bruno è un imprenditore farmaceutico cofondatore della ditta Menarini, con sede operativa nell’antico palazzo Galli-Tassi in via dei Pandolfini nel cuore di Firenze, ma vive nella villa rinascimentale di Montegirone. Al primo piano è custodita la sua quadreria composta di 140 dipinti. Amante del teatro, della letteratura, dell’arte e della musica, intrattiene rapporti amicali con l’élite culturale ed economica della Firenze dei Macchiaioli. Già alla metà del Novecento, la collezione Bruno è meta di pellegrinaggio da parte degli studiosi di pittura macchiaiola come Emilio Cecchi ed Enrico Somarè.

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Cucitrici di camicie rosse di Odoardo Borrani

Tra le tante opere da ammirare in questa terza sezione troviamo “Le cucitrici di camicie rosse” di Odoardo Borrani, un dipinto dalle forme e dai toni austeri, ma di grande intensità emotiva.
Davanti a una finestra, protetta da morbidissimi tendaggi bianchi, quattro donne raccolte attorno ad un tavolo cuciono in silenzio le camicie rosse per i volontari garibaldini; la luce limpida definisce le fisionomie femminili e gli arredi del salotto borghese di gusto Biedermeier. Le tende bianche accostate al rosso delle stoffe e al verde della tovaglia e del velluto delle poltrone creano un commosso omaggio al Tricolore, sottolineando il significato patriottico del dipinto in cui spicca sulla parete azzurra di destra il ritratto di Garibaldi. Così la prosa nitida ed essenziale di un quotidiano semplice e provinciale acquista un significato storico ed evocativo di un Risorgimento al femminile.
Il punto di forza della collezione Bruno è tuttavia costituito da grandi tele di Fattori: “L’appello dopo la carica” (1895), “Incontro fatale” (1900), “Marcatura dei cavalli in Maremma” (1887) e “Mandrie in Maremma” (1894), opere della piena maturità fattoriana, dove un più profondo e rinnovato rapporto con il reale si esprime nei tagli obliqui e nelle continue variazioni cromatiche che sottolineano la velocità del movimento e della potenza costruttiva dei corpi. I cavalli di Fattori sembrano fatti “della stessa carne dei butteri che li allevano, li domano e li cavalcano, destinati a lavorare e – talvolta spaventati – ad accompagnare l’uomo nell’ingrata fatica quotidiana”. Spogliati della retorica carducciana sono eroi domestici di un paese ancora profondamente rurale e agricolo dove è ben presente il valore di una fatica vissuta come condizione naturale, condivisa da uomini e bestie.
Anche Gustavo Sforni, collezionista, pittore e mecenate, fu un cultore dell’opera di Giovanni Fattori, come è documentato nella quinta sezione della mostra, a lui dedicata. Piccole tavolette dipinte dal vero, tra cui “Le vedette” (1865) e “Cavallo sotto il pergolato” (1870 ca), mai esposte fino ad ora, sono accostate a splendide fototipie Alinari, virate a seppia, scelte dall’amico pittore macchiaiolo Oscar Ghiglia per la pubblicazione di un lussuoso volume monografico dedicato allo stesso Fattori.
Nelle sale del Chiostro del Bramante le emozioni non cessano di inseguire il visitatore, tanti sono i capolavori capaci di colpire il gusto contemporaneo per l’originalità della sperimentazione che ha saputo rinnovare generi pittorici tradizionali. Un passaggio questo che l’elite dei collezionisti toscani attorno ai quali è costruita le mostra, incoraggia, contribuendo a promuoverne il successo.
Dopo la grande rassegna sui Macchiaioli, allestita nel 1975 a Monaco e trasferita l’anno dopo in un edizione più arricchita al Forte del Belvedere a Firenze, altre sono seguite tra cui quella fondamentale di Palazzo Zabarella a Padova, curata da Fernando Mazzocca e Carlo Sisi, considerata un punto di arrivo degli studi sull’argomento. A quest’ultima si riallaccia idealmente la mostra romana frutto di decennali studi di Francesca Dini.

“I MACCHIAIOLI. Le collezioni svelate”, Roma, Chiostro del Bramante fino al 4 settembre 2016.

FRA LE RIGHE
Quando gli scherzi del destino rendono più forti

Non è un romanzo, nè una storia romanzata. È vita vera, è lo sgambetto che ti mette a terra e ti costringe a starci per un bel po’. Cesare Bocci (l’attore che interpreta il ruolo di Mimì Augello nella serie del commissario Montalbano) e la sua compagna Daniela Spada sono belli, giovani, famosi e senza il peso di un domani difficile da accettare. Su di loro un ictus, un ‘colpo’ che toglie tutto, o quasi, alla loro vita.
Poco dopo il parto, Daniela che sta ancora cercando di capire quel misterioso inizio di quando si torna dall’ospedale con un neonato, è colpita da un ictus che le paralizza il corpo, la mente e l’esistenza per parecchio tempo. Un tempo in cui Cesare non molla mai, impara a chiedere aiuto, a lasciare fare ad altri e anche questo è indice di grande forza.
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Da quel primo aprile 2000, Daniela e Cesare hanno vissuto le corsie di ospedale e la stanchezza del mondo crollato addosso. Ma nessun dolore è inutile, perciò lo hanno raccontato. Al di là della storia, di ciò che rimane alle nostre spalle e che non sarà mai più, Daniela e Cesare hanno conquistato tante vittorie che tutte insieme fanno il loro amore, il nuovo modo di muoversi nella casa e tra le persone, ma con quella sicurezza in più di chi è arrivato davvero in cima.
C’è voluto tempo prima che Daniela potesse riacquisire abilità e riavvicinarsi a sua figlia Mia, che intanto cresceva. Quando nasce un figlio, è tutto puro istinto, facciamo, intuiamo, interveniamo perchè ce lo sentiamo, solo dopo ci ragioniamo, e gesto dopo gesto si crea un legame che Daniela ha allacciato quando la malattia glielo ha permesso.

Nel caso di Daniela, malattia e guarigione non si susseguono come in altre patologie per le quali prima si è malati e poi si è guariti ricominciando a fare le cose interrotte. Per Daniela l’una, la guarigione, comincia quando l’altra, la malattia, un po’ si attenua e lascia spazio alla convivenza. “Sono una disabile lieve – scrive -. Posso camminare, ma poco. Posso stare in piedi, ma poco. Posso guidare, ma poco. Mi devo limitare, sempre”. Quel poco diventa tanto se parte da un niente, se diventa un’altra vita in cui inventarsi nuovi interessi e nuove attività. Daniela ora ha una scuola di cucina, quindi crea, con le mani e con la fantasia. Le terapie sono più lievi se pensa a come impostare quella ricetta, a come equilibrare gli ingredienti.
E tutto è più leggero se non si misura la vita col peso delle cose mancanti, ma delle conquiste ottenute. Se, poi, camminare è ancora un po’ dificile, si può sempre volare.

Pesce d’aprile. Lo scherzo del destino che ci ha reso più forti, Daniela Spada e Cesare Bocci, Sperling & Kupfer, 2016

Il 4 giugno verrà messo in scena lo spettacolo teatrale “F_rankenstein” presso il teatro Teatro Cortazar-Nucleo

da: Ufficio Stampa Officina Teatrale A_ctuar

Il Mito del diverso in scena al TOTEM FESTIVAL
Spettacolo teatrale per ragazzi dagli 8 ai 14 anni

Dopo oltre due anni di prove e di laboratori è pronto per il debutto il nuovo spettacolo per ragazzi di Officina Teatrale A_ctuar “F_RANKENSTEIN” ispirato al capolavoro Horror di Mary Shelley.
L’appuntamento è per il 4 Giugno, alle ore 18, al Totem Festival, rassegna di teatro e danza per bambini ed adulti che si terrà al Teatro Cortazar-Nucleo (Pontelagoscuro – FE) dal 3 al 5 Giugno 2016.
Lo spettacolo fuoriesce dal progetto biennale “La Fabbrica dei Mostri”, laboratorio teatrale e fucina di idee per bambini della scuola primaria nato nel 2014, dedicato alla maschera e al tema della diversità.

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F_rankenstein
Regia
Officina Teatrale A_ctuar
Liberamente ispirato a “Frankenstein” di Mary Shelley
Con
Sara Draghi, Massimo Festi, Elena Grazzi, Lauro Pampolini, Arturo Pesaro, Manuela Santini
Musiche Originali
Sergio Calzoni
Video
Mirco Rinaldi
Supervisione Artistica
Natasha Czertok//Davide Della Chiara
e con la preziosa collaborazione di Grazia Fogli

Fuori infuria un temporale e i fulmini incendiano la notte; lo scienziato Victor Frankenstein, chiuso da mesi nel suo laboratorio, sta dando gli ultimi ritocchi alla sua creatura: un mostro creato ad immagine e somiglianza dell’uomo cucendo insieme pezzi di cadaveri trafugati nei cimiteri. Stupirà la scienza con il suo prodigio o forse l’aver sfidato le leggi naturali lo condannerà ad essere maledetto per l’eternità dal genere umano? Cosa spingerà Frankenstein a scacciare il mostro dal laboratorio? Cos’è quel terrore che prova guardandolo?
F_rankenstein è uno spettacolo tragicomico, irriverente e pieno di domande. A ben guardarlo, sembra un esperimento: come il mostro è un collage umano, lo spettacolo lo è di linguaggi; si parla attraverso le parole o semplicemente con il corpo, c’è la musica elettronica che fa da sottofondo ai pensieri e il video che crea scenografie passeggere, paesaggi e visioni astratte.
Quella del mostro senza nome è una vicenda profondamente umana che riflette sul concetto di diversità ed imperfezione, sul potere della scienza e della tecnologia, e sulla responsabilità delle nostre azioni nei confronti di noi stessi e degli altri. Ma F_rankenstein è soprattutto la storia della continua ricerca d’amore e di attenzione che ciascuno necessita per raggiungere la propria perfezione e autenticità.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
La penna benedetta

Qui non siamo più di fronte a una questione di laicità, siamo di fronte a una emergenza: che scuola è la scuola nel nostro paese, che formazione viene impartita ai nostri giovani, chi ne risponde?
È possibile che cultura e superstizione, razionale e irrazionale, si mescolino indifferentemente, che logica e fideismo convivano tra pratica delle discipline e condotte umane? Avremmo bisogno di allenare intelligenze e cervelli, di apprendere a conoscere come si conosce, di teste ben fatte e, invece, ci troviamo la benedizione delle penne che gli studenti useranno per sostenere le prove scritte dell’esame di stato.
Dopo la benedizione pasquale ci mancava solo questa. E perché no gli scapolari e la distribuzione per tutti dei santini di san Giuseppe da Copertino, il frate volante protettore degli studenti?
L’iniziativa è della preside del pluriliceo Niccolò Jommelli di Aversa, con tanto di circolare inviata a studenti, docenti e famiglie, e pure pubblicata sul sito web dell’istituto.
La benedizione delle penne è per di più proposta come “preparazione” all’esame di stato. Questo il testo: “Si comunica ai destinatari in indirizzo che lunedì 30 maggio 2016 dalle ore 12:15 alle ore 13:15 gli alunni delle classi quinte, accompagnati dai docenti in servizio, si riuniranno nell’aula magna per un momento di preghiera in preparazione dell’esame di stato. Nel corso della riunione sarà celebrata la cerimonia “benedizione delle penne”. All’incontro sono invitati anche gli alunni delle classi quinte del turno pomeridiano”.
Un atto di fede, scaramanzia, superstizione? È vero che in Italia si benedice di tutto, dagli animali alle automobili. Ma ci mancavano ancora le penne per l’esame, come le uova per Pasqua.
Un modo per dire “che dio me la mandi buona”, un religioso “speriamo che me la cavo”. La fiducia in se stessi, la coscienza di aver fatto il proprio dovere da che parte stanno nella formazione di questi giovani?
La penna benedetta ha un quid in più che forse noi laici non riusciamo a cogliere, è una penna con il turbo dell’incenso, è una penna autocorrettiva, che impedisce di sbagliare.
Uno studente Harry Potter, una scuola Hogwarts in chiave cattolica. Un’ingiustizia per quei poveri studenti miscredenti o di altre religioni che se la dovranno cavare da soli.
Così, poiché in occasione delle prove d’esame si staccano i collegamenti internet, si ritirano cellulari, smartphone, iphone ed ogni device digitale, non potendo copiare o avere suggerimenti impropri, l’invito che la preside del liceo di Aversa rivolge ai suoi studenti è quello di prepararsi affidandosi al potere benefico della penna benedetta.
Purtroppo la cosa è molto seria, perché riguarda le nostre ragazze e i nostri ragazzi, il loro ambiente di apprendimento, di formazione e di crescita. Come sono preparati e chi li prepara ad affrontare le sfide del futuro che li attende. Forse con un set di benedizioni pasquali e di penne benedette?
Che scuola è una scuola che tollera ciò?
Il tema vero è la qualità della nostra scuola e della professionalità di chi vi lavora e la dirige, di un ministero che di tutto ciò dovrebbe rispondere al paese. Ma difficilmente il ministro interverrà e semmai ci sarà pure un Tar disposto a dar ragione alla preside di Aversa.
Ciò nonostante la questione non può più essere tollerata. Perché investe la responsabilità degli adulti nei confronti delle giovani generazioni, che impiegano il loro tempo migliore sui banchi di scuola per cui, a maggior ragione, hanno diritto a un insegnamento di qualità e a non vedere bruciate le ore di studio dall’incompetenza degli adulti e dalle benedizioni scaramantiche.
Non credo però che l’iniziativa della preside di Aversa sia a caso, sia il prodotto di ignoranza o stupidità. Penso, invece, che sia una provocazione voluta, che abbia il retrogusto della sfida.
Ritengo che celi l’intolleranza per quanto, sia pure lentamente e a fatica, nel nostro paese va cambiando. Aggrapparsi alla benedizione è un recupero di identità attraverso l’esorcizzazione di tutto ciò che la minaccia.
Se le cose stanno così, temo che il caso di Aversa non resterà isolato. Tra benedizioni, obiezioni di coscienza, dall’aborto alle unioni civili, sentinelle in piedi, non mancheranno le sorprese. Pare che le religioni si esasperino a vicenda.
Ce n’è comunque abbastanza per non tollerare più a lungo l’inganno della falsa laicità della nostra scuola.
È tempo di pretendere con fermezza che le religioni tutte, qualunque sia la forma o la confezione assunta, se ne stiano fuori dalle aule, e quelle che vi sono entrate ne escano. Ne va della qualità dell’istruzione dei nostri ragazzi, del loro futuro, della speranza che questo mondo globale, anziché dividersi, possa un giorno incontrarsi e unirsi.

DIARIO IN PUBBLICO
Fragilità

Il termine fragilità, così generosamente elargito in zona istituzionale per spiegare, commentare, difendere certi avvenimenti inspiegabili o ritenuti tali, viene usato a più non posso in questi giorni che vedono: a Ferrara il quarto tentativo d’incendio del portone della Biblioteca Ariostea, il luogo sacro alla memoria e dove riposa il poeta in un fastoso tempio laico, e a Firenze il crollo di una parte del Lungarno Torrigiani a pochi metri dal Ponte Vecchio, sito impagabile per avere una vista unica sugli Uffizi. Così un titolo in prima pagina avverte: “Firenze è fragile, attenti a scavare” per proseguire “La città sembra voler ricordare quanto la bellezza si accompagni alla fragilità”, mentre per spiegare il gesto iterato dell’incendiario dell’Ariostea s’invoca la fragilità mentale

Fragilità dunque del territorio e della mente. Ma è così difficile tenerla sotto controllo?
I dati ampiamente esposti da chi si preoccupa e s’interessa di politiche ambientali e paesaggistiche, da Salvatore Settis a Tomaso Montanari a Vittorio Emiliani, a Paolo Liverani, per citarne alcuni tra i più presenti, indicano chiaramente l’origine de disastro ambientale nell’assenza o trascuratezza della manutenzione ordinaria. Così appare almeno pretestuosa l’indignazione del sindaco di Firenze, che imputa alla società Pubbliacqua incaricata della manutenzione dell’acqua in città, la colpa del disastro avvenuto. I guai fiorentini in realtà non sono stati del tutto sanati almeno dalla ricostruzione post-alluvione di cui ricorre in novembre il cinquantenario. E qui davvero sta l’origine del problema.
Più complessa la situazione dell’incendiario, che è stato riconosciuto con prove stringenti come autore dei tentativi d’incendio e delle scritte ingiuriose che hanno deturpato la biblioteca. Per fortuna le garanzie messe in atto dalla legge per provarne la colpevolezza anche se farraginose e a volte obsolete sono imprescindibili dalla concezione di stato democratico che prevede e impone prove certe di colpevolezza che solo ora sono state raggiunte.

Tuttavia ciò che rende veramente problematiche le scelte da adottare sta nella mancanza di quella ‘manutenzione ordinaria’ che rende insicura la difesa ambientale, paesaggistica e la protezione delle opere d’arte.
Non poter contare sulla presenza costante di una manutenzione ordinaria induce, per esempio, Giovanni Solimine, uno dei massimi studiosi del libro, a dimettersi dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali, come riferisce Tomaso Montanari su La Repubblica:
“Ciò che mi induce a rassegnare le dimissioni sono le scelte fatte in occasione del recente bando per il reclutamento di 500 funzionari, che pure costituisce un altro successo riconducibile alla Sua presenza al vertice del MiBACT. In esso sono previsti solo 25 bibliotecari, e cioè una quota assolutamente residuale rispetto alle risorse destinate ad altri settori, senza tenere minimamente conto delle esigenze oggettive del comparto delle biblioteche […] Si potrebbero aggiungere altre considerazioni, ma non mi dilungo oltre. Mi limito a prendere atto che, per una questione così rilevante come l’attribuzione di risorse umane ad un settore ormai giunto al collasso (riduzione degli orari di apertura, scarsa accessibilità del patrimonio, invecchiamento delle collezioni, costante abbassamento del livello dei servizi erogati, contrazione dell’utenza e, come conseguenza di tutto ciò, una sostanziale marginalità delle biblioteche statali nel panorama bibliotecario nazionale) non si è ritenuto di usare altri parametri se non quelli aritmetici”.
Con altrettanta determinazione ha rassegnato le sue dimissioni Tomaso Montanari dal proprio ruolo di membro di commissione del Mibact. Con una lettera indirizzata al ministro Franceschini lo studioso protesta per la mancata destinazione del recupero di edifici storici o opere d’arte in cambio di pagamento delle tasse. Così Giulio Cavalli su Left riporta la lettera con le argomentazioni di Montanari:
“Abbiamo esaminato e chiuso ventiquattro complesse pratiche. – scrive Montanari nella sua lettera – Abbiamo deciso di accettare 11 proposte di cessione di beni culturali come pagamento delle imposte, per un valore totale di 2.055.396,31 euro: ma il ministero dell’Economia ci ha comunicato che il relativo capitolo dello stato di previsione della spesa prevede solo la ridicola cifra di 31.809 euro”. In queste condizioni, secondo Montanari, “il lavoro della commissione è del tutto inutile: o, meglio, è utile solo all’accanita propaganda che si sforza di rappresentare agli occhi degli italiani la falsa immagine di un governo sollecito verso il bene del patrimonio culturale. Poiché io, al contrario, ritengo che alcune leggi e ‘riforme’ promosse dall’attuale Governo […] e da Lei […] siano una grave minaccia per la ‘tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione’, non ho alcuna intenzione di prestare il mio lavoro e la mia competenza a quella propaganda”.

Da qui si può ben intendere quale sia l’importanza di una regolazione degli interventi ordinari. Altro che le grida e le multe inflitte al nuovo direttore degli Uffizi Eike Schmidt, che per contrastare il suk degli irregolari che vendono di tutto nel piazzale degli Uffizi ha fatto diffondere con un altoparlante un audio che mette in guardia dai bagarini, dai borseggiatori, dagli irregolari! Come riferisce Paolo Ermini su il “Corriere Fiorentino”:
“La mossa però non è piaciuta granché a Palazzo Vecchio (ma perché?): prima le gelide dichiarazioni dell’assessore Gianassi preoccupato per il ritorno di immagine di Firenze nel mondo. Poi la visita dei vigili agli Uffizi perché si capisse l’antifona […] Ma Schmidt non ha fatto una piega ed è andato avanti. Alla fine il terzo atto: la notifica di una multa da oltre 500 euro, riducibili a meno di 300 se pagata entro 4 giorni”. Schmidt si è recato dal sindaco Nardella per dire che pagherà la multa, ma che affida all’opinione pubblica il senso del suo operato.

La fragilità con la quale la bellezza e la cultura devono fare i conti passa dunque proprio dalla ‘manutenzione ordinaria’ per cui, pur capendo il senso delle dimissioni di protesta di Giovanni Solimine e di quelle dell’amico Tomaso Montanari, non le condivido. Le dimissioni sono l’ultimo atto di un processo che non ha altra soluzione. E’ sicuro che prima di presentarle gli illustri studiosi abbiano tentato tutte le carte in loro mani?
Sono stati fatti tutti i passi necessari per vedere se c’era una possibilità di sbocco della situazione?
E’ giusto e necessario preoccuparsi di quella messa in sicurezza della bellezza, delle sue case ovvero dei Musei, delle opere d’arte che le ospitano, delle biblioteche insomma- che non solo rappresentano un problema estetico ma soprattutto etico.
Ma prima delle dimissioni ci deve essere la certezza d’aver provato ogni mezzo per difendere, proteggere, custodire, contro la fragilità, i diritti e le prerogative della bellezza.

IL RICORDO
Luisa Gallotti Balboni, a Ferrara la prima sindaca d’Italia

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Luisa Gallotti Balboni (foto Archivio centrale dello Stato, Senato della Repubblica)

In occasione del ritorno a Ferrara delle spoglie di Luisa Gallotti Balboni, prima Sindaca della città di Ferrara negli anni 1950-1958 e prima donna chiamata ad amministrare un Comune capoluogo di provincia in Italia, e dell’intitolazione a lei del Polo dell’Infanzia di via del Salice, pubblichiamo un suo ricordo di Daniele Lugli, presidente emerito del Movimento Nonviolento ed ex difensore civico della Regione Emilia Romagna.

di Daniele Lugli

Ci sono molte persone, in particolare donne, in grado di ricordarla, anche in questa circostanza, molto meglio di me. In primo luogo quelle che hanno realizzato il libro “Una donna ritrovata: sulle tracce di una sindachessa” (Spazio libri, 1992), curato da Delfina Tromboni e Liviana Zagagnoni, o quelle che le hanno, anche in tempi successivi, dedicato articoli. In copertina del libro c’è una bella illustrazione, opera di Paola Bonora: un filare di pioppi, o meglio di piope (in ferrarese è femminile), tutte alte uguali, ma una fa un’ombra più lunga. Così Luisa, donna tra le donne, ma con una singolarità che la contraddistingue: primo sindaco donna in Italia di una città capoluogo.
Ricordare Luisa Gallotti Balboni è importante per tutti, donne e uomini, per chi l’ha conosciuta e per chi non l’ha conosciuta, perché il suo nome viene legato a una scuola, perché me ne ha richiamato vivamente il ricordo. Di lei molto si potrà dire. Una sua biografia potrà credo essere messa a disposizione di tutti gli interessati. Non sarò io a fare questo. Dovrei dire della sua opera negli anni della ricostruzione di Ferrara, così duramente colpita dalla guerra, della sua azione per nuovi servizi, come la prima farmacia comunale, ancora in apprezzata attività, o della municipalizzazione della nettezza urbana o delle iniziative culturali. Mi limiterò invece a poche osservazioni legate al voto, delle donne e alle donne, al luogo che le viene intitolato, che è una scuola, e al mio ricordo personale.
Nel marzo del 1946 si vota anche a Ferrara per le elezioni amministrative, seguirà nel giugno il voto al referendum e alle politiche. Per le donne è la prima volta. La conquista del voto non è stata una passeggiata. Dopo la Prima Guerra Mondiale il voto alle donne è nel programma non solo dei socialisti, da molto sostenitori del suffragio universale, ma pure dei popolari e dei fascisti. Sembra cosa fatta: il 9 marzo 1919 è approvato un ordine del giorno per l’ammissione delle donne al voto amministrativo e politico. La legge è approvata nel settembre alla Camera, ma non giunge al Senato e quindi decade, per la caduta anticipata della legislatura, dovuta all’occupazione di Fiume da parte dei legionari di D’Annunzio. Fiume era governata, mentre se ne reclamava l’annessione all’Italia, dalla Carta del Carnaro, che prevedeva il diritto di voto alle donne. Come promesso, il Presidente del Consiglio Mussolini riconosce il suffragio femminile a partire dal voto amministrativo, ma la riforma degli Enti locali del 1925, non più elettivi, la rende inoperante. L’estensione del diritto del voto politico neppure si pone, venendo abolito anche per i maschi.

È del 31 gennaio 1945 il decreto legislativo luogotenenziale n. 23, che conferisce il diritto di voto alle donne maggiorenni, sollecitato da Togliatti e De Gasperi accogliendo la proposta sul voto e pieni diritti politici alle donne, avanzata fin dall’ottobre del 1944 dall’Udi e dalle altre associazioni femminili e ribadito con una lettera comune il 9 gennaio del 1945. Non basta però: con questo decreto le donne erano ammesse al voto, ma non erano ancora dichiarate eleggibili. Questa possibilità sarà attribuita il 10 marzo del 1946.
Quell’anno vengono elette a Ferrara due consigliere Luisa Gallotti Balboni e Maria Teresa Testa Pomini, entrambe nella lista del Pci, con 30.740 preferenze la prima e 30.739 la seconda. Il Partito comunista, che ha ricevuto la più alta percentuale di voti, dà prova assieme della sua attenzione al ruolo delle donne e della sua capacità organizzativa nel dosare le preferenze. Sono 2 donne in un consiglio con 50 componenti. Oggi a Ferrara le consigliere sono 8 su 33, in proporzione sono dunque sestuplicate. E i consigli comunali della provincia sono anche più femminili: nel totale la loro percentuale, rispetto a quella del 1946, è moltiplicata per otto. Nella Giunta che si costituisce non ci sono donne. Entrerà, come assessore alla Pubblica Istruzione e alla Cultura la Balboni appunto, alla fine del 1948, in un rimpasto di Giunta provocato dalle dimissioni del Sindaco e dalla morte del giovane Silvano Balboni, che non risulta parente del marito di Luisa, Pietro Balboni. Un precedente, a volerlo cercare, c’era: nella giunta nominata dal CLN alla Liberazione di Ferrara, di ben 15 componenti, 11 effettivi e 4 supplenti, tra i supplenti c’erano due giovani donne Angelina Bazzocchi, vedova Zanatta, e Gina Paolazzi, vedova Colagrande. I loro mariti sono stati fucilati al muretto del castello nel novembre del 1943. La loro presenza in giunta finisce però nel luglio del 1945 con la riduzione della Giunta a 12 componenti di cui 3 supplenti. Ora, su 10 componenti, nella Giunta di Ferrara 4 sono donne e la media è la stessa, considerate tutte le giunte comunali della provincia.

Il 25 marzo del 1950 Luisa Balboni viene nominata sindaco dal Consiglio comunale. Anche il Sindaco Curti, subentrato a Buzzoni, è stato fatto decadere. Travagliata è la vita della prima Amministrazione comunale elettiva alla cui guida si sono succeduti il sindaco Buzzoni, il prosindaco Marcolini, il sindaco Curti, già assessore con Buzzoni, il prosindaco Bardellini. L’elezione della Balboni è annullata dal Prefetto con una inconsistente motivazione, come sarà riconosciuto dal Consiglio di Stato nel novembre del 1951. La sua nomina non solo è in vario modo osteggiata. Ma appare quasi uno scandalo. Oggi nella nostra provincia su 23 sindaci in carica 7 sono donne. La situazione non è equilibrata, ma non è confrontabile con quella di allora: su oltre cento comuni capoluogo uno solo aveva un sindaco donna. Alla convalida della sua nomina Luisa si trova ad affrontare le molteplici urgenze legate alla rotta del Po. E’ allora che ne sento parlare a scuola dalla mia professoressa Antonietta Cavalini, che sollecita iniziative di solidarietà e vicinanza a nostri compagni – non ce n’erano in classe con me, ma in altre in forte rapporto con la mia classe sì – provenienti dalle zone alluvionate.

Qualche mese dopo la Balboni visiterà la nostra classe, che era sperimentale in vista della scuola media unica, arrivata dieci anni dopo, priva delle innovazioni che hanno caratterizzato la sperimentazione. La ricordo ancora alla mostra di fine anno dei lavori della nostra classe dedicati a Leonardo da Vinci, per i 500 anni dalla nascita. La Balboni è una donna di scuola, professione esercitata prima dell’impegno assorbente in ambito amministrativo e politico. Lo è per professione, insegnante di lingue, e per vocazione. A lei si deve in gran parte il consolidamento e la diffusione della scuola materna, sorta a Ferrara a partire dalla Casa del Bambino per iniziativa principale di quel Silvano Balboni prima ricordato che, esule in Svizzera, aveva stretto legami decisivi per quella realizzazione. Era stato il primo impegno dell’assessora, subentrando a Faust Athos Poltronieri, antifascista, già di Italia Libera, eletto nelle liste del Pci, collaboratore di Silvano Balboni nell’avvio della Casa del bambino.
Nella mia piccola esperienza di amministratore, prima a Codigoro e poi a Ferrara, le scuole per l’infanzia hanno rappresentato un elemento essenziale. Sento perciò come vivo e particolarmente vicino l’impegno nel settore di Luisa Balboni, prima come assessore e poi come sindaco. Nel maggio del 1952 è rieletta in Consiglio e di nuovo Sindaca, così pure avviene nel maggio del 1956. Non completa l’incarico per candidarsi al Senato dove viene eletta nel maggio del 1958. I senatori sono 315, le senatrici 3. Una è la nostra Luisa, le altre due sono le socialiste Giuliana Nenni e Giuseppina Palumbo. Un’annotazione: sia la Balboni, sia la Nenni, che ho ben conosciuto, sono elette nella nostra circoscrizione, coincidente con la regione. Ora le senatrici elette, in quello che forse sarà l’ultimo Senato elettivo, sono quasi cento. E nella nostra circoscrizione superano i maschi: sono 13 su 22.

Ho insistito su questi aspetti elettorali, a partire dalla istituzione che ci è più vicina, anche se non ritengo che il voto sia il solo e neppure il più importante strumento di democrazia operante. Considero però grave e preoccupante, proprio perché non priva di valide motivazioni, la disaffezione alla politica e alla partecipazione, anche alla più semplice che si esprime con il voto. Molte cose sono cambiate nelle nostre istituzioni e nelle nostre leggi elettorali dai tempi di Luisa Balboni. Molti altri cambiamenti si profilano. Alcuni non li ho condivisi, né condivido quelli che si sono decisi recentemente. Ma la mia opinione è rilevante solo per me. Molte speranze nella Repubblica democratica, succeduta a una dittatura ventennale, sono però certamente andate deluse, ma non è il disimpegno delle cittadine e dei cittadini che può porvi rimedio, può solo aggravare una crisi della democrazia e della convivenza civile, con danni per tutti e ciascuno. Nel dopoguerra c’era un Paese e una città da ricostruire su basi diverse da quelle che avevano portato alla dittatura e alla guerra. In questo Luisa Gallotti Balboni si è spesa. Oggi non è necessario un impegno minore, in una situazione che appare complessa e densa di pericoli. Parlare in una scuola d’infanzia è aprirsi alla fiducia e alla speranza, come mi ha insegnato Aldo Capitini : Il bambino è il figlio della festa; ogni data di nascita è un natale… una prova del portare al massimo il nostro impegno . Riandare col pensiero alla sindachessa, e quindi agli anni della mia formazione e di un piccolo, personale, sentito, impegno civile, mi è stato utile, spero non sia stato sgradito a voi.

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LA RIFLESSIONE
Sogni e disillusioni della sharing economy

Le parole sono importanti e ancora più importanti sono i concetti su cui esse si fondano. Specie quando le parole coincidono con quelle etichette inglesi che usano tutti e senza le quali sembra diventato impossibile esprimere nozioni di senso compiuto. E’ il caso della ‘sharing economy’, un modello di business centrato sull’uso di piattaforme digitali che consentono di connettere direttamente le persone con modalità impensabili fino a pochi anni fa. Al di là di una simile definizione, dalle conversazioni sviluppate durante lo Sharing Festival di Ferrara, è emersa una pluralità di connotazioni che lasciano intendere significati, aspettative e fraintendimenti tali da meritare più di un approfondimento.

Una prima costellazione di discorsi privilegia l’aspetto economico, finanziario e imprenditoriale: al suo centro sta il profitto e con esso l’esigenza di attrarre e connettere una massa critica di persone disposte a condividere direttamente qualche forma di bene attraverso le piattaforme digitali. E’ un approccio che si sviluppa nell’ambito dell’economia formale dominata dal paradigma neoliberista, interpretata secondo la cultura californiana altamente innovativa della Silicon Valley. La sharing economy così intesa sfrutta la potenza delle tecnologie digitali per intercettare masse di mercati, sfruttare il fenomeno della coda lunga, accorciare la catena di produzione del valore, disintermediare il rapporto tra un numero crescente di consumatori e una quantità crescente di prodotti e servizi.
Il suo impatto sull’economia reale è dirompente perché cambia alcuni dei meccanismi di funzionamento del mercato, spiazzando schemi consolidati e mettendo in discussione equilibri che sembravano, nel bene e nel male, acquisiti. Non si può non leggere dietro questi processi il manifestarsi di quella creatività distruttiva che, secondo Joseph Schumpeter, rappresenta l’anima e l’essenza stessa del capitalismo.
In questa prospettiva prevale spesso una visione fondata su un darvinismo sociale esasperato, che poco concede allo spirito della collaborazione e della condivisione: concorrenza spietata che lascia sul campo le vittime (molte) ed esalta i vincitori (pochi), arricchendo enormemente questi e destinando all’oblio le prime, secondo la logica del “chi vince prende tutto”. Trasformate in macchine di profitto le organizzazioni vincenti della sharing economy sono a volte diventate imprese prive di meccanismi di tutela del lavoro, impegnate nella corsa all’elusione fiscale, ingaggiate in forme di concorrenza scorretta; alcune sono diventate colossi transnazionali che aumentano le disuguaglianze favorendo il lavoro al ribasso, garantendo la concentrazione di grandi profitti in pochissime mani. Offrendo vecchi servizi in forma nuova e più efficiente esse mostrano un aspetto oscuro del rapido processo di digitalizzazione in corso.
In Italia (ma non solo) le reazioni a questa spinta, nel bene e nel male rivoluzionaria, sono state in alcuni casi feroci (vedi i casi Uber e AirBnb), originate a volte dalla reale precarizzazione delle condizioni di lavoro, più spesso dalle accuse di concorrenza sleale avanzate da imprese, organismi di rappresentanza (vedi il caso Cocontest) e da interi settori che avevano forse agito finora in regime di monopolio e di rendita a discapito dei consumatori.
Resta il fatto che in questa sharing economy, che pure mette a disposizione servizi di grande utilità a basso costo o gratuiti, che taglia drasticamente i costi di intermediazione, ma che si presenta frequentemente come business che attenta a equilibri consolidati, molti stentano a riconoscere quella componente di condivisione che il termine sembrerebbe suggerire.

Una seconda costellazione di discorsi privilegia proprio l’aspetto relazionale, la collaborazione, la produzione di senso: un differente modo di concepire la sharing economy che abbandona il versante prettamente economico e finanziario per spostarsi verso quello della condivisione ed approdare infine alla sponda della collaborazione. Esso scaturisce spesso dall’economia informale, si radica nella cosiddetta economia civile, nell’economia della reciprocità e in tutto quel variegato universo che cresce tra le macerie lasciate sul campo da un’economia predatoria di vecchio e nuovo modello. Essa si apre spazi d’azione nella crisi del welfare che ha vergognosamente abbandonato i cittadini e i territori a se stessi; recupera vecchie concezioni della dimensione economica intesa come cura della casa comune. Queste argomentazioni si muovono nell’ambito della sostenibilità piuttosto che in quello del profitto, parlano di utilità e capitale sociale piuttosto che di utili e dividendi.
E’ un approccio che non si basa su un mercato digitale fatto di flussi monetari, indici e numeri, ma trae piuttosto fondamento da valori di equità, giustizia sociale, collaborazione, partecipazione, radicamento territoriale, rapporti diretti in grado di attivare le persone per costruire relazioni e progetti comuni. Esso si muove con un’idea di mercato e di impresa differente, non guidata esclusivamente dal profitto; sviluppa modelli di innovazione sociale basati su comunità e connessioni in grado di rigenerare valore più secondo le idee di Elinor Ostrom sulla gestione dei beni comuni che secondo le linee guida dei manuali di economia d’impresa. Le piattaforme tecnologiche sono usate in questo caso con l’ambizione di creare rapporti reali e per sostenere comunità che diventino capaci di gestire beni comuni e collettivi.

Si tratta di due narrazioni differenti accomunate dall’uso delle medesime tecnologie digitali, dalle piattaforme collaborative: una si pone di fronte al pubblico mondiale, l’altra di fronte alla dimensione più locale e comunitaria Esse sembrano rispondere a due ideologie, a due visioni del mondo differenti; tra le due narrazioni non corre buon sangue e i fan dell’una stentano a riconoscere gli elementi comuni rispetto all’altra. In entrambe però si riconosce una forte tensione al cambiamento ed entrambe lasciano intravvedere i contorni sfumati di un futuro possibile che è ancora tutto da inventare.

LA VISITA
Berluti, la fabbrica del lusso che tatua i coccodrilli

A farti capire che è roba serissima ed esclusiva – se per caso avevi dei dubbi – ci riescono subito. Ancor prima di varcare il cancello d’ingresso nello stabilimento di calzature fatte a mano Berluti ti vengono incontro gli uomini della security. Gentili (abbastanza) ma implacabili, ti chiedono di riportare subito in auto la tua macchina fotografica. Infelice, esegui e torni, ma devi capire che non c’è da prenderla sottogamba neanche adesso. Prima che tu ti possa avvicinare al banco con le hostess che presumibilmente ti potranno accogliere, l’uomo della security ti si piazza di nuovo davanti domandando di aprire la borsa e mostrargli tutto il contenuto. Solo a questo punto ti lascia avvicinare al tavolo dove segnano nome e cognome, chiedono un documento di identità (si sa mai che davi il nominativo di chissà chi) ed ecco il cartoncino con l’orario di ingresso per la visita. “Prego, potete accomodarvi”.  Sollievo: non ci saranno foto da portare a casa, ma almeno l’ingresso sembra conquistato.

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Lo stabilimento Berluti a Gaibanella di Ferrara (foto Philippe Barthélémy & Sylvia Griño architects)

In ballo c’è una delle Journées Particulières, le “giornate particolari” in cui vengono aperte le porte di laboratori e luoghi di fabbricazione dei prodotti del lusso che più lusso non si può. La Manifattura Berluti fa infatti parte del gruppo Lvmh (sigla che sta per Louis Vuitton, Moët, Hennessy), ovvero del colosso che detiene i 70 marchi più esclusivi del vestire, del bere, del profumarsi e dell’ingioiellarsi.

Ti guardi intorno e ti rammarichi di non potere fotografare almeno quelle piante di lavanda che si riflettono sulle pareti a specchio incorniciate dalle listarelle in legno della Manifattura Berluti in quel di Gaibanella, frazione di Ferrara sperduta nel mezzo della campagna, tra campi di frumento, siepi e orizzonte piatto della pianura emiliana. Ma è già buono avercela fatta. Non che ci sia la fila. Ma sono le 9 di domenica mattina e, quando alcuni giorni fa hai scoperto che lo stabilimento lussuoso e inaccessibile poteva essere visitato, era già troppo tardi. Bisognava iscriversi online almeno due settimane prima che le giornate di visita cominciassero, che è anche un bel po’ di tempo prima che la maggior parte dei comuni mortali ne venissero a conoscenza. A questo punto, però, la segretezza si rivela una fortuna: almeno non ti hanno respinto o ficcato in fondo a una fila di aspiranti visitatori in pena.

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Ingresso principale della Manifattura Berluti alle porte di Ferrara (foto Philippe Barthélémy & Sylvia Griño architects)

Bene, eccoci qui. Nessun altro si presenta, si può partire. “Non disperdetevi e rimanete compatti”, si raccomandano con noi due visitatori. E, ancorché disarmati di macchina fotografica, ci avvertono che le telecamere ci terranno costantemente d’occhio. Un avvertimento per disincentivare che qualcuno faccia il furbo, magari fingendo di guardare lo smartphone per portarsi a casa un brandello di immagine. A tener desto il senso di rispetto ci sono i soliti uomini in completo nero della security che fanno la ronda nella grande sala d’ingresso, chiamata “Agorà”. E’ l’area centrale dello stabilimento, quella da cui si entra nelle varie zone di ideazione, sviluppo e produzione delle scarpe vendute solo in 50 negozi mono-marca distribuiti con parsimonia in tutto il mondo. Per l’Italia l’unico punto vendita è a Milano, poi ci sono i soliti Londra, Parigi, Cannes, New York, Miami, ma anche la Cina con ben 7 punti vendita, il Giappone con 5, Hong Kong, Giacarta, Singapore, il Qatar, Taiwan e ovviamente gli Emirati arabi.

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Forme delle scarpe della Manifattura Berluti

Un uomo e una donna, i nostri cordiali e nero-vestiti accompagnatori, che spiegano come sia esclusiva anche l’architettura in cui è racchiuso lo stabilimento. “La forma – dice lui – replica quella di una enorme scatola da scarpe”. In effetti è un parallelepipedo molto sobrio, avvolto da listarelle in legno di cedro rosso non trattato, forse perché possa prendere sempre più l’aspetto del cartone da scatola. All’interno il legno usato è invece quello pallido del faggio, che ­– prosegue a spiegare il cicerone – riprende la materia delle forme di piede che riempiono ampi scaffali. Tutt’intorno ci sono infatti questi moncherini, a ricordare precedenti e illustri clienti, le cui estremità giacciono qui levigate e marchiate con nomi come Trieste, Yasuoka, Vukovic. Alzi gli occhi e il soffitto in vetro trasparente è appoggiato su travi in legno che si incrociano. Un’ulteriore metafora – ti assicurano ­– che vuole rappresentare ­i lacci intrecciati delle scarpe.

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Attrezzi per la lavorazione artigianale delle scarpe (foto Lvmh)

Vabbe’. Da qui si aprono le prime porte scorrevoli e si entra nel laboratorio di sviluppo. Ci lavorano otto persone, incaricate appunto di sviluppare i prototipi. Su un’asta penzolano due forme di coccodrillo spiaccicato e sbiancato. Su un altro sostegno è appesa una larga pelle scuoiata. “Sono i due tipi di pellame con cui vengono fatte le scarpe – dice la guida – che possono essere modellate in cuoio Venezia o in prezioso alligatore”. Un operaio al banco sta sagomando con una taglierina la forma di una tomaia sopra alla pelle che era di un minaccioso coccodrillo, mentre una bella ragazza ritaglia la sagoma dalla pezza appartenuta forse a una mucca. Una grande pelle beige è completamente coperta dalla calligrafia di una pergamena antica, settecentesca. Il manoscritto scelto per la sua bellezza da Olga Berluti viene riprodotto al laser sul cuoio ed è usato per rendere ancora più particolari mocassini, borse o portafogli prodotti qui.

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Mocassino con pelle calligrafata, scarpa Alessandro e modello Andy dedicato a Warhol da Berluti (foto Lvmh)

Delle signore nella stessa stanza si occupano di orlatura delle sagome riducendo lo spessore dei bordi, accoppiando le parti della scarpa e cucendole insieme a mano. Un dipendente armato di punteruolo e due aghi cuce insieme la coppia di sagome che forma la tomaia e vediamo come crea la cosiddetta vaschetta, quella rigatura in rilievo tipica della parte superiore del mocassino. Fuori da qui, si entra nella stanza dove le tomaie ancora piatte prendono la forma tridimensionale di un piede, facendole aderire a quei famosi moncherini, che adesso non corrispondono più alle estremità personali dei vari clienti, ma ai diversi modelli che la maison mette in commercio. C’è il modello Alessandro, che prende il nome dal fondatore, partito da Senigallia alla volta di Parigi nel 1895. Ci sono lo stivaletto elasticizzato Sans Gêne e la scarpa Oxford con la pettorina stringata, introdotti negli anni Venti dal figlio del fondatore, Torello Berluti. C’è il mocassino Andy, scarpa appuntita e squadrata che l’ultima discendente della famiglia – Olga Berluti, ancora attiva – si inventa negli anni Sessanta conquistandosi un cliente come Andy Warhol, a cui il modello deve appunto l’ispirazione e il nome.

Ultima sala di lavorazione è quella riservata ai dettagli finali: colore, patinatura e decorazione. Abili mani alle estremità di avambracci tatuati e a molti polsi avvolti nei cinturini di orologi stra-costosi pennellano borse e scarpe come fossero tele, danno colori a cera e poi li tolgono per creare quell’effetto slavato e vissuto caratteristico del marchio. Un dipendente tatua un serpente sopra ai bordi di una scarpa stringata; una sua collega marchia con tatuaggi di tigri una valigetta in cuoio e una tracolla di valore inimmaginabile per chi le vedrà in giro senza esibizione di marchi squillanti.

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Tatuaggio fatto a mano per le calzature del gruppo Lvmh (foto Berluti)

Il tour è terminato. Si può comperare qualcosina? No, vendita riservata a quel ristretto numero di boutique distribuite nei selezionati punti strategici del globo terrestre. Come Tokyo e Dubai. A Ferrara si produce, ma niente spaccio. Solo i dipendenti, un paio di volte all’anno, hanno la possibilità di un acquisto. Così a Gaibanella e dintorni emiliani si potrà vedere qualche borsa appesa al braccio, magari tatuato e dotato di Rolex, di artigiani d’élite che fanno tatuaggi ai coccodrilli.

NOTA A MARGINE
Sovranità e moneta in mano ai cittadini: la proposta di Moneta Positiva

Del Quantitative Easing for the People nell’ultimo periodo si sono occupate molte testate giornalistiche, da Il Manifesto a La Repubblica, passando per l’Itforum di Rimini fino addirittura alla Bce. In realtà è un argomento che da parecchio tempo sta proponendo in Inghilterra Positive Money, una delle diramazioni più attive del Movimento Internazionale per la riforma Monetaria (Immr International Movement for Monetary Reform) che vede rappresentanze in 28 paesi non solo europei e di cui l’associazione Moneta Positiva Italia ha raccolto il testimone. Fabio Conditi (ingegnere e autore del libro “Manuale in 12 passi per uscire dalla crisi”) è l’attuale Presidente del movimento italiano che ha aperto un sito internet collegato alle altre realtà internazionali (www.monetapositiva.it). Dato che l’Immr è stato il primo movimento a parlarne sembra anche giusto spiegare che cosa esso sia.

L’Immr, e la sua rappresentanza italiana Moneta Positiva, propongono una riforma del sistema monetario che passa attraverso tre punti principali: 1) uno Stato deve avere la sovranità monetaria in modo da controllare la quantità di denaro da immettere nel circuito economico e la sua destinazione; 2) il denaro creato deve essere libero dal debito e di proprietà della collettività, piuttosto che creato e gestito dalle banche; 3) il denaro creato deve essere destinato all’economia reale, cioè quella che dà da mangiare alla gente, non ai mercati finanziari.
Sono concetti semplici, facili da digerire e contemplano fondamentalmente il controllo delle banche e della loro attività di elargizione del credito. Questo perché il credito oggi ha ampiamente sostituito la moneta legale, quella che viene creata dalla Banca Centrale, in un rapporto che va dal 93 al 97% a seconda degli Stati contro un misero 3-7%.
Per essere ancora più chiari su come funziona il credito/denaro bancario possiamo fare l’esempio di quando ci si reca in banca per chiedere un mutuo. La banca ci chiederà delle garanzie e poi digiterà la cifra richiesta su un computer accreditando la somma su un conto corrente intestato al mutuatario. La banca non ha bisogno, per concludere questa operazione, di avere delle banconote (se non in una minima parte, pari alla riserva obbligatoria dell’1% sui depositi), cioè moneta legale, e chi richiede il prestito non si recherà in banca con la valigetta dotata di combinazione perché sa benissimo che non riceverà contanti. Quando si recherà dal notaio per la compravendita di una casa o in concessionaria per ritirare la sua auto nuova fiammante, non farà altro che effettuare un trasferimento di fondi, dal suo conto al conto di chi vende (bit elettronici che scompaiono da una parte e riappaiono dall’altra): insomma un sistema di compensazione che funziona fino a quando chi ha richiesto il prestito si recherà mensilmente in banca a restituire il suo debito attraverso il deposito di soldi reali venuti dal suo lavoro, più gli interessi che rappresentano il guadagno della banca per aver schiacciato un tasto.
Sudore, impegno e inventiva in cambio di un click sul computer. Del resto proprio la mancanza di collaterale, a fronte di prestiti effettuati, rende il nostro sistema bancario continuamente a rischio fallimento. E per togliere tutti i dubbi a quanto affermato possiamo aggiungere che Basilea III, l’ultimo accordo europeo in tema di banche e prestiti, prevede un capitale, come collaterale di un prestito elargito, pari all’8% del rischio di credito. Rischio che per un mutuo residenziale è quantificato nel 35%. Cioè se chiedo un mutuo di 100.000 euro, moltiplico l’8% di 35.000 euro e ottengo 2.800 euro. Questo è il capitale che una banca deve dimostrare di possedere per poter concedere un mutuo, quindi non avete più bisogno di chiedere perché una banca può fallire.
Senza perdersi tra i meandri delle contabilità e dei molteplici monumentali regolamenti bancari, l’analisi di Moneta Positiva conclude che le cause delle crisi del sistema economico sono dovute a come il denaro viene creato dal nulla dalle banche con i prestiti: le banche prestano qualcosa che non hanno, pretendono un interesse, danno linfa al sistema finanziario, decidono quando, come e se fare prestiti all’economia reale e poi, se non paghi qualche rata, si riprendono anche la casa. Se, invece, falliscono chiedono allo Stato di tappare i buchi con i soldi della collettività perché se fallimento c’è stato la colpa è anche del cittadino che non è stato attento a controllare.

Spiegato il messaggio di Moneta Positiva e dell’Immr, torniamo al Quantitative Easing for the People; anche qui il concetto in fondo è molto semplice. Forse la sua semplicità lo rende a volte poco accettabile. Del resto come si fa a far passare il concetto dopo che la Banca Centrale Europea ci ha costretto all’austerità per più di sette anni, durante i quali il mantra del “non ci sono soldi” ha portato al suicidio numerosi imprenditori, fatto chiudere aziende che hanno dovuto licenziare tanti dipendenti, peggiorato continuamente i servizi e portato a tal disperazione i Comuni da dover ricorrere alle pecore per far brucare l’erba intorno alle città in sostituzione dei tagliaerba. Dopo tutto questo, come accettare che la Bce, schiacciando semplicemente un po’ di tasti, potrebbe darci dei soldi direttamente nei nostri conti corrente?
Sarebbe da pazzi in effetti crederci se a dirlo non fosse stata proprio la Bce nella persona di Peter Praet, membro del Consiglio Direttivo, in un’intervista rilasciata il 15 marzo scorso a “La Repubblica” e postata in versione integrale anche sul loro stesso sito (qui potete trovate tutti i link e gli stralci dell’intervista http://qe4people01.blogspot.it/2016/03/quantitative-easing-for-people.html).
Ebbene, esiste la possibilità concreta che una Banca centrale dopo averle tentate tutte, anche i tassi negativi di questi giorni, possa lanciare questa operazione. In fondo, a pensarci, il discorso non è poi tanto assurdo, per spiegarlo utilizzo un esempio molto calzante che ho ascoltato da Giovanni Zibordi (autore di “La soluzione per l’euro”) qualche tempo fa: un corpo umano per poter funzionare ha bisogno di sangue altrimenti si ferma, così l’economia per poter funzionare ha bisogno di soldi, moneta che circoli, altrimenti va in crisi e si bloccano produzione e transazioni, quindi se c’è mancanza di moneta/sangue ne va immessa in qualche modo. Lavori pubblici, assunzioni da parte dello Stato o abbassamento delle tasse, e se non funziona si crea denaro e lo si immette direttamente nei conti corrente. L’importante è raggiungere lo scopo: rimettere in moto l’economia, far ripartire le transazioni.

Nella realtà vera, dopo aver compreso che l’operazione è possibile ed è alla portata di una Banca Centrale, quello che probabilmente succederebbe – secondo l’economista – è che l’assegno sarebbe staccato non per i cittadini direttamente, ma per lo Stato, a cui sarebbe fornita la liquidità necessaria attraverso l’apertura di un conto corrente a esso intestato. Lo Stato, a sua volta, farebbe confluire i soldi nel sistema attraverso una serie di operazioni che potrebbero andare da una seria riduzione delle tasse (immaginate se scomparisse l’iva quanto i consumi potrebbero aumentare) a un impegno di lavori pubblici (magari non il ponte sullo Stretto di Messina, ma tanti lavori necessari sui territori come riqualificazione energetica dei fabbricati, messa in sicurezza dei territori stessi).

Rimaniamo in attesa degli sviluppi con la certezza che le politiche economiche attuate finora non hanno dato frutti e che senza un po’ di coraggio dei nostri rappresentanti politici, associato ad altrettanta consapevolezza da parte dei cittadini su cosa realmente sia possibile in economia, continueremo a vivere di promesse disattese, Pil stagnante e livelli di disoccupazione indegni per un Paese civile.

LA PROPOSTA
Perché Ferrara non ha il turismo che merita: riscopriamo la città d’acqua

di Claudio Fochi

2. SEGUE Ferrara è l’unica città italiana che ha le potenzialità di sviluppare un turismo fluviale importante.
E’ l’unica città italiana che può sfruttare il Delta di uno dei più grandi fiumi europei perchè in questo Delta è immersa.
Solo Mantova attualmente può vantare potenzialità di città sull’acqua e le sta ampiamente sfruttando.
Avete mai riflettuto sulla posizione strategica di Ferrara dal punto di vista del turismo fluviale?
Ferrara è circondata su tre lati da corsi d’acqua più o meno navigabili. E’ una piattaforma circondata dall’acqua.
Sul lato nord, oltre il Parco Bassani, il ramo principale del Po (Po Grande o Po di Venezia). Sul lato sud, il Po di Volano con punto di partenza turistico infrastrutturale dalla Darsena di san Paolo. Sul lato ovest il canale Boicelli che collega la darsena di san Paolo alla Biconca di Pontelagoscuro e quindi al Po Grande. Sul lato sud-est, corsi d’acqua navigabili – Po di Volano, Po di Primaro – consentono la navigazione fluviale interna e permettono, rese opportunamente agibili, di raggiungere il mare Adriatico, verso le Valli di Ostellato e Comacchio.
Già da tempo l’Europa ha inserito il sistema idroviario padano-veneto nelle vie di trasporto europee da incentivare. Sono già stati stanziati 4 miliardi di fondi europei a tal proposito.
In Italia, la prima legge a tal proposito, la nr. 380 del 1990, aveva dichiarato l’idrovia padano veneta di “interesse nazionale”.
Ben lungi dal supportare “tout court” opere troppo invasive del territorio, credo sia vitale comprendere che Ferrara deve inserirsi in un circuito virtuoso di accesso ai fondi europei che saranno allocati dal 2014 al 2020 per incentivare un nuovo turismo fluviale lento (ma non troppo) ed eco-sostenibile. Impossibile, infatti, implementare le potenzialità sopra illustrate con le sole tasse dei cittadini ferraresi o con finanziamenti pubblici in un momento di patto di stabilità a livello locale e nazionale.
Rifuggendo dalla realizzazione di grandi opere invasive del territorio, è in questa prospettiva che deve inserirsi la città di Ferrara: mirare a diventare, come ha suggerito l’architetto Fortini con un felice eufemismo, città “Idropolitana”, soprattutto nell’ottica di un potenziamento del turismo fluviale.
Quindi, senza acconsentire a grandi lavori e grandi opere, la città estense deve puntare su un maggiore sfruttamento delle sue vie navigabili e tentare così di allinearsi ad altre realtà europee capaci di valorizzare, già da parecchi decenni, il turismo fluviale (Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Danimarca, Belgio, Ungheria). Deve assolutamente investire e potenziare tale componente del suo turismo, attualmente annichilita e imprenditorialmente mortificata, tenendo fede a quel legame fra la città e il suo Delta che viene riconosciuto dall’Unesco come una delle motivazioni principali del suo inserimento fra gli ormai 50 siti censiti e protetti in Italia.

Potenzialità del turismo fluviale a Ferrara
La Darsena turistica di san Paolo, ahimè, è emblematica di un quasi completo fallimento del turismo fluviale in partenza e arrivo nella città. Basta passare sul Ponte della Pace che attraversa il Po di Volano e buttare l’occhio verso est per rendersi conto della pochezza o assoluta assenza di imbarcazioni ormeggiate nella darsena, anche in periodo primaverile-estivo. Con ironica malinconia, anche il Sabastian Pub, allestito all’interno di un battello permanentemente ormeggiato, rischia di essere solo un ricordo.
Unico servizio turistico è la Nena, l’imbarcazione che offre la possibilità di navigazione sul Po fino a Ro- Polesella (Via canale Biocelli) e verso Le Valli Comacchiesi. Troppo poco.
Bisogna sviluppare, agendo sulle infrastrutture, un turismo fluviale lento, a basso impatto ambientale, capace di interfacciarsi con componenti eno-gastronomiche, cicloturistiche, ricreative che creino nuove filiere occupazionali e producano nuovi percorsi turistici, realisticamente percorribili, attraenti e integrati da aree di sosta opportunamente attrezzate.
“Ferrara e il suo Delta”, recita l’Unesco. Bene. Facciamo in modo di far decollare un turismo fluviale di collegamento fra la darsena di san Paolo e le Valli di Ostellato, con proseguimento nelle Valli di Comacchio, rendendo le vie navigabili non solo con piccole barche e canotti a motore, ma anche da imbarcazioni un po’ più grandi, che possano rendere appetibile (turisticamente parlando) l’acquisto di un tour fluviale sul Po di Volano, moltiplicando e rendendo fruibili gli attracchi. Non solo attraverso il Po di Volano, ma anche attraverso il Po di Venezia a cui immette la Biconca di Pontelagoscuro al termine del canale Boicelli. Lo sapevate che è possibile raggiungere Venezia con circa sette ore di navigazione? Creiamo zone di attracco che sappiano interfacciarsi con il cicloturismo della destra Po, prevedendo aree di soste tecniche con servizi adeguati, anche in termini di ristorazione e di attrezzistica per biciclette, come nelle piste ciclabili delle valli austriache.
E’ chiaro che ciò passa anche attraverso una riqualificazione e un potenziamento della darsena ferrarese, poiché la condizione sine qua non è la piena navigabilità e funzionalità prima di tutto del tratto urbano del Po di Volano.
Mancano le idee, manca l’imprenditorialità e la volontà di investimenti in questa città che langue e non sa far decollare un turismo fluviale potenzialmente e virtuosamente spendibile.
Facciamo in modo che, con opportuni attracchi e zone di sosta attrezzate, i percorsi fluviali si interfaccino con l’esempio storicamente più nobile di antropizzazione del nostro paesaggio: le Delizie Estensi.
Rendiamo possibile questo sogno: dopo un tratto di navigazione, noleggiare biciclette e raggiungere le delizie estensi di Belriguardo (Voghiera) e Verginese (Gambulaga), zone raggiungibili via acqua in epoca estense grazie al Sandalo e altri corsi d’acqua. O addirittura, dopo aver adeguatamente valorizzato la Delizia di Belriguardo con strutture museali forti, creiamo un breve asse navigabile che la colleghi, come un tempo, con il Verginese, in modo che le imbarcazioni vengano accolte, come un tempo i bucintori estensi, dalla sagoma quadri turrita e merlata dell’edificio principale e dal giardino strutturato rinascimentale, sorvegliato dalla sua bella torre colombaia cinquecentesca.
Facciamo in modo che interfacciando navigazione e cicloturismo sia possibile raggiungere la zona della Diamantina, anch’essa in attesa di adeguata valorizzazione museale, magari in chiave eno-gastronomica o di esempio di antica ‘castalderia’ ducale, secondo alcuni addirittura immortalata negli affreschi di Palazzo Schifanoia.
In epoca etrusca (dal VI al III sec a.C.) era già possibile raggiungere l’abitato di Forcello (odierna Mantova) dal mare Adriatico, passando da Spina e risalendo corsi d’acqua verso l’ovest della Val Padana. Era possibile anche raggiungere Venezia da Rimini in epoca romana, con navigazione interna endo-lagunare, che sfruttava la Fossa Augusta, a grandi linee coincidente per un tratto con il limite occidentale delle attuali Valli di Comacchio.
Ripristiniamo antiche vie di navigazione creando adeguate infrastrutture che potenzino l’offerta turistica nel nostro territorio, come avviene di prassi in Francia e Inghilterra.
Creiamo un network di vie d’acqua che abbiano come hub la città estense e come punto di partenza una riqualificata Darsena di San Paolo.

2. CONTINUA

LA MEMORIA
Ferrara 20 maggio 2016, a 4 anni dal sisma

“A un certo punto della tua vita, quando tutto sembra immobile e infinito la terra trema. Anche la polvere da cui siamo nati.” A parlare è il protagonista del film “La notte non fa più paura” (diretto da Marco Cassini con Giorgio Colangeli, Stefano Muroni e Walter Cordopatri, prodotto da Maria Rita Storti e stasera in sala all’Apollo Cinepark) che in poche parole condensa l’emozione che il terremoto ha instillato in tutti i ferraresi – quella senza nome, a metà strada fra la paura e l’eccitazione – provocata dal fremito della terra, la vibrazione che trasmette, come il sussulto di chi si risveglia all’improvviso. Un emozione che ci si porta dentro per tutta la vita.

Il sisma del 2012 ha lasciato crepe sia nelle vite di chiunque l’abbia vissuto sia nei muri della città di Ferrara. A 4 anni dalla prima scossa, ieri mattina al Palazzo Municipale si è tenuto un incontro per fare il “punto della situazione” sul dopo-terremoto; hanno partecipato il sindaco Tiziano Tagliani, gli assessori comunali Aldo Modonesi (Lavori Pubblici) e Roberta Fusari (Urbanistica e Edilizia privata), il direttore tecnico comunale Fulvio Rossi, l’ingegnere capo del Comune di Ferrara Luca Capozzi e Natascia Frasson (Ufficio Beni monumentali Comune).
“Come ormai consuetudine – ha spiegato Tagliani – vogliamo restituire ai cittadini il quadro di quanto è stato completato e messo in cantiere rispetto alle opere di ristrutturazione e ripristino dell’edilizia privata e del patrimonio immobiliare monumentale pubblico.”

Secondo quanto affermato dal sindaco, il 2016 sarà un anno piuttosto intenso per le opere del dopo terremoto: sono previste le aperture dei cantieri più impegnativi – da Palazzo Massari all’ex Mof – che vedranno sia la messa in sicurezza e ripristino delle strutture sia la loro “ricollocazione” nel panorama dei contenitori culturali della città e del territorio regionale, in particolar modo rispetto al progetto del Ducato Estense, messo in campo con il Mibact e finanziato con 20 milioni di euro sulla sola Ferrara.

L’assessora all’urbanistica Roberta Fusari ha illustrato lo stato dell’arte per quanto riguarda le ristrutturazioni di edilizia privata. Le richieste complessive di contributo accettate sono state 430, di queste 276 pratiche sono state evase e le ristrutturazioni completate, restano da completarsi quelle che riguardano gli edifici maggiormente danneggiati. In media le istruttorie sono state completate in 100 giorni, per il completamento delle opere di ristrutturazione “leggere” sono stati impiegati circa 10 mesi, mentre per quelle più complesse la media è di 74 mesi. In fieri anche le ristrutturazioni degli edifici Acer. A marzo scorso, delle 1.330 persone che avevano dovuto lasciare le proprie case, 75 erano quelle ancora in attesa di rientrarvi .

Per quanto riguarda l’edilizia pubblica, a spiegare lo stato delle opere di ristrutturazione è stato l’assessore Aldo Modonesi, secondo il quale l’Amministrazione Comunale di Ferrara conta di “uscire gradualmente dalla zona del cratere fra 18 mesi”.
Dal maggio 2012 al maggio 2015 sono stati investiti oltre 12 milioni di euro (5,2 mil € finanziati con i rimborsi assicurativi) in interventi sull’edilizia pubblica. Dopo il sisma erano 30 le scuole inagibili e 5 le palestre scolastiche inutilizzabili: con interventi per 3,3 milioni di euro è stato possibile riaprirle nel settembre successivo, mentre nel settembre ’14 sono state completate le opere di riqualificazione della Primaria Mosti (1,53 milioni di euro) e la costruzione nuova scuola materna Aquilone (1,85 milioni di euro).
Risulta concluso anche il Programma Municipi (costato complessivamente 703.000 euro): dal recupero di Palazzo Municipale alla riorganizzazione delle sedi comunali a seguito delle inagibilità da sisma. Sono state trasferiti gli assessorati alla cultura e turismo (Bagni Ducali) e allo sport (Centro Mathema), il Comando Polizia Municipale (ora nel Centro Congressi v. Bologna), l’Istituzione Scuola (S. Maria della Consolazione), il Comando Centro (ex Gil v.le IV Novembre) e l’Ufficio Giovani (Chiostro S. Paolo).
Per quanto riguarda il programma delle opere pubbliche e dei beni monumentali, gli interventi a Piano del Comune di Ferrara sono costati 32,1 milioni di euro e di questi 21,5 sono arrivati dalla Regione Emilia Romagna, 10,1 dai rimborsi assicurativi e mezzo milione dagli SMS di solidarietà per il sisma.
Delle opere necessarie, più di 40 interventi sono completati o in fase di completamento, mentre restano da accantierare le opere più impegnative. Fra questi palazzo Massari, palazzo dei Cavalieri di Malta, la Certosa Monumentale, l’ex Mof, casa Niccolini, Porta Paola, San Cristoforo, Palazzo Schifanoia, l’ex linificio Toselli, la Procura della Repubblica, la scuola Guarini, Palazzo dei Diamanti, Palazzo Podestà e l’ex circoscrizione di via Bologna. Per molti di questi edifici è stata completata subito dopo il sisma la messa in sicurezza per permetterne la fruizione, ma con i progetti in cantiere o in fase di approvazione l’Amministrazione competerà i lavori di ristrutturazione e restauro e – assieme a diversi attori del territorio – darà vita a nuove forme di utilizzo di questi edifici e dei loro spazi.

Nel complesso, saranno 60 i milioni di euro investiti nella ricostruzione post sisma di Ferrara, a questi si aggiungono 6 milioni di recente assegnazione, che verranno utilizzati per riportare all’uso degli ambienti – fra gli altri – di Palazzo Municipale, Cappella Revedin, l’Ippodromo, la Loggia degli Aranci in Castello.
Il futuro è quindi segnato: nel biennio 2016-2017 l’Amministrazione intende concludere l’approvazione di tutti i 14 progetti e conseguente messa in appalto (almeno del 50%), la chiusura delle autorizzazioni Mude per l’edilizia privata, la chiusura delle autorizzazioni Sfinge per l’edilizia produttiva (a carico della Regione) e la riapertura bando Inail per l’adeguamento antisismico dei capannoni industriali della città, la messa in opera del nuovo piano investimenti con i 6 milioni di euro di nuovi cantieri e quindi l’uscita progressiva di Ferrara dal cratere.

“E’ importante sottolineare la rapidità con la quale questa amministrazione sta procedendo al completamento delle opere – hanno commentato Modonesi e Tagliani – grazie a un lavoro intenso e di grande collaborazione fra tutti gli ambiti e gli uffici competenti, al sostegno della Regione Emilia Romagna e all’indirizzo dato dal commissario Gabrielli, che ha voluto che fossero le amministrazioni locali a gestire, controllare e verificare le fasi della ricostruzione. Questo ha velocizzato le procedure e ha reso tutto l’impianto della ricostruzione trasparente, lì dove ogni pratica o movimento di denaro e pagamento è tracciabile.”

LA RIFLESSIONE
Più tecnologia, meno occupazione: il paradosso della jobless growth

La crescente automazione e robotizzazione della produzione congiura contro i posti di lavoro?
Gli studiosi non sono proprio d’accordo, ma pare esserci più di un ragione per rispondere sì a questa domanda.
Altro che gli immigrati che toglierebbero lavoro ai nostri giovani: chi lo dice, nella migliore delle ipotesi, mente sapendo di mentire.
Su quest’ultimo punto è utile leggere quanto scrive Gianpiero Dalla Zuanna, docente di demografia a Padova, sull’ultimo numero de Il Mulino (2/2016): “sul mercato del lavoro gli immigrati sono complementari piuttosto che concorrenti degli italiani”.
Ma il punto che apre gli scenari più inquietanti è il primo. Ne scrive nello stesso numero della rivista bolognese il sociologo Carlo Carboni, con un argomentare di cui è consigliabile non perdere una virgola.
Cominciamo dai numeri. Da qui al 2020 la sola robotica avrà nel mondo un valore che sfiorerà i 152 miliardi di dollari, laddove oggi ne vale 27.
Uno sviluppo impetuoso, tanto che gli esperti parlano di una nuova società.
C’è chi ha già calcolato che nei prossimi quindici anni negli Stati Uniti le applicazioni dell’intelligenza artificiale metteranno a rischio il 47% dei posti di lavoro e in Europa la musica non sarà diversa.
Come se non bastasse, si dice pure che le nuove tecnologie necessitano non solo di meno lavoro umano, ma spingono verso la concentrazione della ricchezza in poche mani, contribuendo ad accentuare un problema di diseguaglianze già oggi a livelli mai visti, se non ai tempi del Re Sole.

Alcuni studiosi dicono che in realtà non c’è alcuna evidenza empirica nella correlazione tecnologie-meno occupazione. Del resto è pur vero che storicamente l’introduzione delle macchine nel ciclo produttivo, dopo i primi spauracchi, ha finito per creare nuovi lavori.
Altri però fanno notare che non era mai successo un processo di automazione in tutti i settori produttivi. Nel passato le macchine hanno colonizzato prima l’agricoltura, poi l’industria.
Ma se i robot sono destinati da qui al 2030 (così le previsioni) ad automatizzare trasversalmente tutti gli ambiti produttivi il discorso cambia. Tanto per fare un esempio, l’accelerazione in atto non risparmia settori come la biomedica: fra non molto si ipotizza che anche professioni niente affatto di routine saranno sostituite da computer nell’ambito delle diagnosi delle malattie.
Del resto è di queste settimane la notizia di nuovissimi automezzi che possono andare per strada senza conducente.
Ad avvalorare questo scenario, praticamente alle porte, ci sarebbero anche i fautori della terza via, rispetto a chi condivide e a chi è contrario. Se si ritiene che gli effetti negativi sull’occupazione possano essere governati con politiche attente alla crescita di lavoratori con alte specializzazioni (high skill workers), vuol dire implicitamente che questo futuro, piaccia o no, ha una sua plausibilità.

Il domani del lavoro, poi, sarebbe ancora più incerto in Europa. Nei grandi paesi a industrializzazione matura si registrerebbe mediamente un certo ritardo in fatto di high tech, Germania compresa (figuriamoci gli altri), rispetto agli standard più avanzati. L’Ue, nel complesso, avrebbe vissuto la rivoluzione informatica da colonizzata e starebbe già conoscendo un fenomeno, chi più chi meno, di labour killing nel manifatturiero, nella logistica e altri settori.
Anche in questo caso la prospettiva che mette i brividi sta nei numeri. I settori nell’Ue ad alta tecnologia contano poco meno di due milioni di posti lavoro, destinati però a diventare sui cinque milioni nel 2018. Il problema è che la forza lavoro super skilled in Europa arriva a circa il 10% e per ogni posto di lavoro superdotato ce ne sono quattro di routine, cioè a rischio robot.

Tirando le somme, si può dire che stiamo andando, più velocemente di quanto si creda, verso una deindustrializzazione occupazionale, aggravata – come nel caso Ue – da un ritardo tecnologico-informatico, da cui si potrebbero trarre le nuove figure di lavoratori super in grado di reggere l’urto.
L’impetuoso tornante tecnologico di questi tempi è dunque destinato, almeno nel breve e medio periodo, a espellere più posti di lavoro di quanti se ne potranno creare e questo succede – come se piovesse sul bagnato – dopo anni di una crisi che ha leso i tessuti sociali e mandato ko la cosiddetta classe media, cioè la cassaforte dei consumi.
Per toccare con mano l’entità della trasformazione in atto, si può aggiungere che nei soli Stati Uniti l’incidenza dell’occupazione manifatturiera è scesa dal 22,5% del 1980 all’attuale 10% ed è destinata a ridursi al 3%.
Un altro mondo, che sarebbe bene mettersi in testa di abitare non da spettatori, se sono vere le previsioni della Banca mondiale secondo la quale entro il 2030 il mondo perderà la bellezza di due miliardi di posti di lavoro, mentre solo per un miliardo in più suonerà la sveglia la mattina.
Gli anglosassoni, che hanno sempre una frase pronta per definire con bello stile ciò che spesso è una fregatura, la chiamano jobless growth.

“Cosa farà il resto della popolazione per vivere?”, si chiede Carboni. E se se lo chiede lui, noi poveri mortali stiamo freschi. Specie se si pensa che nel frattempo l’età media s’innalza. Restare fino a 80 e passa anni per fare che? Di quale welfare ci sarà bisogno se queste sono le premesse e, soprattutto, se le diseguaglianze sono destinate ad aumentare, tra una minoranza padrona della tecnologia e un esercito, se va bene, di precari?
Appare fin troppo chiaro a questo punto che i veri banchi di prova per limitare, almeno, i danni sono politiche espansive nei settori high tech, nel sistema formativo, in ricerca, anche per indurre a cascata nuovo lavoro in altre direzioni: tempo libero, cultura, sostenibilità ambientale.
Uno scenario che potrebbe richiedere – udite, udite – maggiori connessioni, sinergie e coordinamento, al posto della competizione, da sempre motore genetico del sistema capitalistico.
In sostanza, la capacità di disinnescare la bomba a orologeria di “disoccupazione e disuguaglianze da tecnologia – scrive Carboni – dipende dalla competenza e dalla vision delle nostre classi dirigenti e dalla conseguente trasformazione del capitalismo democratico”.
Più facile a dirsi che a farsi, in un tempo nel quale la politica appare decisamente accessoria all’economia e nel quale comanda chi possiede la tecnologia più avanzata.
Se poi si aggiunge chi sbraita che gli stranieri ci rubano il lavoro, allora siamo in un film di Alberto Sordi.

LA PROPOSTA
Perché Ferrara non ha il turismo che merita: quale marchio per la città

di Claudio Fochi

Migliaia di turisti stranieri e italiani rimangono ogni anno favorevolmente colpiti dalla bellezza della nostra città e, dopo averla visitata, si chiedono come mai la sua bellezza non vada di pari passo con la sua fama. Anche i ferraresi sono coscienti e stupiti di questo.
Purtroppo le cifre mostrano a Ferrara un calo di presenze turistiche e museali negli ultimi anni (soprattutto dal 2007 al 2012), nonostante dati statistici più incoraggianti negli ultimi mesi.
Cerchiamo di indagare i motivi per cui Ferrara non ha il turismo che merita.

Marginalizzazione geografica e rete dei trasporti
Bisogna saper contestualizzare la nostra città geograficamente.
Per gruppi e turisti individuali, italiani e stranieri, che non abitano vicino a Ferrara e non hanno tempo illimitato a disposizione, non possiamo ignorare che Ferrara è sul percorso Firenze-Venezia ed è circondata da altre città con alta priorità turistica (Padova, Bologna, Verona, Ravenna); perciò Ferrara non sempre viene inclusa nelle soste dei vari tour.
Inoltre fin dall’antichità, la zona dove oggi sorge Ferrara si è trovata al di fuori della direttrice segnata dalla Via Emilia, anche perché, per essere precisi, Ferrara è di fondazione alto-medioevale, (VII sec. d.C.) perciò ai tempi dell’Impero doveva ancora sorgere e non ha potuto poi capitalizzare su di una rete di trasporti già strutturata. Una marginalizzazione nella rete di comunicazione e trasporti di cui risente ancora.
E’ vero che oggi si trova sulla tratta ferroviaria e stradale Firenze-Bologna-Venezia, ma è altrettanto vero che nella rete dei trasporti che la servono ci sono punti deboli, soprattutto nel trasporto ferroviario (treni veloci – Freccia Rossa, Italo – per non parlare di ulteriori fermate recentemente soppresse). Ciò non giova certo al turismo locale.

Concorrenza del turismo congressuale
A livello di turismo congressuale, oltre ad avere un’economia più debole, Ferrara è schiacciata dalla concorrenza di altri centri a forte vocazione congressuale (Bologna, Rimini, Verona, Padova).

Identità
Le ragioni che stanno alla base di un turismo che non decolla come dovrebbe sono molteplici, ma senz’altro una delle principali è il modo in cui Ferrara viene percepita in Italia e all’estero. La sua ‘identità’ percepita.
Faccio alcuni esempi concreti e ben noti di come vengono immediatamente percepite – a livello internazionale – alcune città, già universalmente note poiché associate nell’immaginario turistico collettivo a una emergenza culturale o turistica subito individuabile: un ‘marchio’ che non ha bisogno di promozione.
Partiamo da macroscopici esempi internazionali e nazionali: Parigi e la Tour Eiffel; Londra e il Big Ben, il Tower Bridge, la famiglia reale; Mosca e il Cremlino; S.Francisco e il Golden Gate; Siena e il Palio e Piazza del Campo; Parma e il prosciutto. Sì, avete capito bene: Parma è conosciuta in tutto il mondo perché prosciutto crudo in inglese si dice “Parma ham”. Ravenna e i mosaici; Verona e Romeo e Giulietta, sfruttando mirabilmente questo aggancio con la letteratura; Bologna e le due torri e l’antica università Alma Mater; Napoli e il Vesuvio e il suo golfo; Roma e il Colosseo e il Vaticano; Firenze e il Rinascimento ‘par excellence’; Pisa e Piazza dei Miracoli con la torre pendente.
Molto dipende, come abbiamo visto, da come la lingua più diffusa al mondo (nel campo turistico, l’inglese) percepisce culturalmente le varie città, ma anche da ‘marchi’ forti e indelebili. Faccio un esempio pratico: molti turisti americani, australiani e giapponesi chiedono se è nella nostra città che si fanno le auto da corsa (Ferrari e Mussolini sono i due nomi italiani più noti al mondo) o se ci sono cave di marmo bianco (confondendo Ferrara con Carrara, il marmo scolpito da Michelangelo).

Quale marchio per Ferrara?
Ferrara non ha il turismo che merita a livello internazionale e nazionale perché non ha un ‘marchio’ forte, internazionalmente noto, da spendere a livello di promozione turistica. Non ha un’identità nota a livello internazionale su cui poter investire a livello di incoming. Un marchio fortemente caratterizzato che sia turisticamente vincente e che non si sovrapponga ad altri più noti.
E qui vorrei aprire la discussione: su quale marchio fortemente identitario puntare investimenti che facciano finalmente decollare un turismo, da sempre piuttosto anemico in confronto ad altre realtà limitrofe?
Il Palio? No. Caratterizza già fortemente Siena. Lo stesso motivo per cui a Verona non si può puntare prioritariamente sull’Arena (percepita come copia minore del Colosseo) se non attraverso la Lirica. E’ inutile investire cifre cospicue e propagandare che il Palio Estense è più antico di quello di Siena. Lotta impari. Ammettiamo con onestà intellettuale che le grosse somme convogliate sull’Ente Palio dalle giunte comunali finora succedutesi non hanno avuto congruo ritorno in termini di incoming. Lodevole, invece, l’impatto del Palio sulla cultura cittadina e la mobilitazione culturale e storica nelle contrade. Ma quello è un altro discorso.
Il Castello? Solo in parte. In Italia esistono tanti bei castelli e alcuni, come quello di Mantova, molto simili e vicini al nostro. Il nostro però ha l’acqua intorno nel pieno centro della città e non in prossimità o vicino a laghi come Mantova e Sirmione. Dettaglio non secondario.
La Cattedrale? Solo in parte. Solo in Emilia-Romagna abbiamo forti concorrenti fra cattedrali romanico-gotiche e battisteri (Bologna, Parma, Modena) per non parlare di altre regioni, anche limitrofe.
Castello e Cattedrale insieme? Certamente. Ferrara è sia “Castle town” che “Cathedral town”, come la splendida Chichester nel Regno Unito – che ha anche una bella cinta muraria – e per di più sono vicinissimi (da uno si vede l’altro), situati inoltre in un centro storico che è zona pedonale, quindi ottimamente fruibile. È tuttavia vero che ci sono in Italia sia castelli sia cattedrali molto noti che sono già marchi identitari di città (Orvieto o Milano con cattedrale e castello).
Il Palazzo dei Diamanti? Certamente. Si tratta di un’unicità italiana. Forse è il più noto esempio di bugnato rinascimentale. Ci sono comunque altri esempi italiani di edifici rinascimentali con bugnato pronunciato (per esempio la Chiesa del Gesù a Napoli, originariamente edificio civile e antecedente dal punto di vista costruttivo; un bel Palazzo con splendido e pronunciato bugnato a Verona, di proprietà bancaria). Tutti questi esempi non reggono la concorrenza del Palazzo dei Diamanti, la cui fama è internazionale (in alcune guide di Lisbona si puntualizza come la “Casa dos Bicos” sia ispirata al Palazzo dei Diamanti di Ferrara). Se poi il detto palazzo è associato a importanti mostre d’arte, va da sé che si tratta innegabilmente di un valore aggiunto. Tuttavia da solo, il pur nobile palazzo non può essere un asset vincente per invertire i flussi turistici a Ferrara.
Palazzo Schifanoia? Ottima emergenza culturale da incentivare con attività promozionali. Ha un importantissimo ciclo di affreschi quattrocenteschi pagani, ma non dimentichiamo i più famosi affreschi praticamente coevi del Mantegna nella camera picta di Palazzo Ducale nella vicina Mantova.
Le Mura? Assolutamente sì. Abbiamo le mura rinascimentali più lunghe d’Italia (circa 9 km) con terrapieno percorribile e pista ciclabile esterna. Senz’altro giustificano grossi investimenti in termini di promozione turistica ed è semplicemente scandaloso che l’attuale amministrazione comunale non abbia voluto inserirla, per una spesa irrisoria, nella rete europea delle città murate (Ewt-European Walled Towns) l’unica esistente. Proprio Ferrara, che detiene il primato italiano. Autentico esempio di miopia culturale di provincia che sarebbe comunque facilmente sanabile con un barlume di volontà politica.
L’Addizione Erculea (con Palazzo dei Diamanti, Piazza Ariostea, Parco Massari e Corso Ercole I° d’Este)? Splendide sinergie con forte specificità e già itinerario turistico vincente, proposto come “primo piano urbanistico organico rinascimentale”. Piuttosto difficile tuttavia da proporre a un’audience turistica più vasta non ferrata o competente in termini di urbanistica.
Le Delizie Estensi? (Schifanoia, Belriguardo, Verginese, Castello della Mesola e altre)? Davvero interessante come percorso turistico e da anni battuto (con parziale successo) dalle associazioni turistiche locali. Non dimentichiamo che esistono percorsi strutturati (e fluviali) ben più noti: basterebbe citare le ville venete del Brenta, la navigazione sul Mincio o i più lontani Castelli della Loira, fra gli itinerari più noti, per non menzionare la più organizzata e gratificante navigazione sul Danubio.

Oltre ai casi citati, esistono altre interessanti specificità locali da incentivare a livello di promozione turistica associata al marchio Ferrara, inclusi eventi (dai Buskers al Festival di Internazionale, dal Ballooon Festival alla Vulandra), itinerari tematici (eno-gastronomico, ebraico-letterario con Giogio Bassani e il Giardino dei Finzi Contini, o anche solo letterario con Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, oppure il modernismo, attraverso il legame privilegiato di Giorgio de Chirico con Ferrara). E tanti altri. Tuttavia è evidente che per promuovere un marchio vincente, capace di attrarre grossi flussi, ci vuole una proposta integrata, basata su virtuose sinergie.
Una proposta con tali caratteristiche esiste già. E’ incarnata dalla motivazione che l’Unesco ha fornito per l’inserimento di Ferrara nei siti censiti del suo patrimonio culturale da salvaguardare.
Cito testualmente: “Ferrara, progettata in modo esemplare nel corso del Rinascimento, ha mantenuto intatto il suo centro storico. Le sue regole di pianificazione urbana ebbero una profonda influenza sullo sviluppo dell’urbanistica durante i secoli successivi.
Le delizie dei duchi d’Este nel Delta del Po illustrano in modo eccezionale l’influenza della cultura del Rinascimento sul paesaggio naturale.
Il Delta del Po è un paesaggio culturale mirabilmente pianificato che conserva splendidamente la sua forma originale”.
Da una lettura attenta si evince chiaramente che oltre al centro storico, due sono gli elementi fondanti di tale riconoscimento: la pianificazione urbana rinascimentale (ossia l’Addizione Erculea) e il Delta del Po, antropizzato dalla nobile presenza delle Delizie Estensi.
Ecco quindi il termine di riferimento da tener presente per un efficace sviluppo turistico di Ferrara che possa in prospettiva valorizzarne le sue potenzialità: il legame fra la città e il suo Delta.
Non solo, quindi, collegamento strategico sempre più efficiente tra la città e i Lidi Ferraresi, particolarmente importante nei mesi estivi. Ma anche, e soprattutto, tenendo conto delle più recenti analisi dei trend internazionali di sviluppo turistico, il collegamento fra la città e il suo Delta con le varie stazioni ed emergenze naturalistiche ed architettoniche, di cui fornisco un brevissimo elenco: il centro storico di Comacchio e le Valli; il Boscone e il Castello della Mesola; l’Abbazia di Pomposa; le valli di acqua dolce di Argenta; le Delizie Estensi di Belriguardo e del Verginese.

Tenendo presente che le analisi dei flussi turistici a livello europeo mostrano un aumento di domanda su cicloturismo, turismo ambientale (incluso bird-watching, un emergente bird-feeding e addirittura tree-spotting), turismo eno-gastronomico e turismo fluviale, mi sembrerebbe più che mai opportuno puntare strategicamente sul potenziamento di queste componenti, favorendo e investendo in circuiti turistici su piste ciclabili e vie d’acqua, capaci di integrarsi con proposte eco-ambientali ed eno-gastronomiche.
Da ciò si evince, inoltre, la necessità di implementare e potenziare un turismo eco-sostenibile ‘lento’ – ma non troppo – che preveda spostamenti strutturati lungo fiumi e canali navigabili.
Ferrara e l’acqua. Ecco il messaggio dell’Unesco.
Poter facilmente raggiungere (per ora solo un sogno), magari via acqua, dopo aver visitato la città, le Delizie Estensi di Belriguardo e del Verginese. Incentivare il percorso fluviale per le Valli di Ostellato e quelle di Comacchio, con sosta nel centro storico. Il Castello e il Boscone della Mesola.
Ma ciò ci porta verso il prossimo approfondimento: Ferrara e l’acqua.

1. CONTINUA

BIOS
Da due a uno: l’incredibile incontro della vita

L’incontro tra i due gameti, l’ovocita e lo spermatozoo: è uno spettacolo esplosivo, un evento straordinario. Di lì nasce la vita, un organismo intero, costituito da circa centomila miliardi di cellule con proprietà diversissime.
Ma come è possibile! Che ogni embrione dia origine a un intero corpo, a una testa con due occhi dello stesso colore, due labbra simmetriche o due mani, ciascuna con le cinque dita ben proporzionate, dal pollice al mignolo, e con la loro unghia, quasi invisibile nel bambino appena nato. Che ogni embrione dia origine a una retina, la cui struttura è un complicatissimo intrico di quasi venti strati di diverse cellule nervose, i cui filamenti confluiscono nel nervo ottico (estroflessione Diencefalica). Per non parlare della struttura cerebrale: la sintesi del pensiero e della coscienza.

Quando lo spermatozoo ‘vincente’ fra milioni di contendenti riesce a penetrare nell’ovocita, inizia il processo della fecondazione. Entro poche ore i due gameti si fondono e diventano un’unica cellula, detta zigote (microscopica cellula). Dopo un giorno lo zigote si suddivide in due, poi in quattro, poi otto cellule e si forma un ammasso simile a una mora, detto appunto morula. Le otto cellule della morula sono identiche e ciascuna sarebbe in grado di dare origine a un organismo completo. Tra terzo e quinto giorno la morula si divide in sedici cellule, dando luogo anche a una cavità interna ripiena di liquido, che è detta blastocisti. Dopo il quarto-quinto giorno, nella blastocisti si separa una masserella cellulare interna, distinta dalla rimanente zona periferica che la circonda. La blastocisti è ancora nella tuba e sta per impiantarsi nella mucosa uterina. L’impianto si verifica dopo circa 7 giorni dalla fecondazione. Le cellule centrali della blastocisti, dette embrioblasto, continuano a moltiplicarsi e iniziano a disporsi come un cordone con due estremità, due poli. In questo cordone si evidenziano le prime cellule nervose dell’embrione (all’incirca verso il quattordicesimo giorno).
L’embrione, e poi il feto, immerso nel liquido respira grazie alla placenta materna, che gli fornisce l’ossigeno. Alla quarta settimana di sviluppo si distinguono già un capo, una ‘coda’ e un tronco centrale. Compaiono gli abbozzi del fegato, dei reni, dell’occhio. I futuri arti inferiori e superiori cominciano a evidenziarsi alla fine della quinta settimana, mentre all’interno della testa inizia a prendere forma il cervello. I muscoli iniziano a contrarsi.
L’embrione continua a crescere e si sviluppa nel feto. Nei mesi successivi il feto continua il suo sviluppo fino, di solito, al nono mese, quando avviene il parto.
Questa è la descrizione biologica di ciò che avviene con la fecondazione.

Tutte le cellule che costituiscono la macchina perfetta, o meglio un sistema perfetto, sono viventi perché sono cariche di elettricità. Da anni si conoscono chiaramente i dati elettrici delle cellule. Quando la cellula è carica elettricamente, si instaura una differenza di potenziale tra l’interno e l’esterno della membrana che la delimita, pari a – 90 millivolt. Quando si scarica, passa da -90 a +20 millivolt. Nel principio fu il neutrone, il protone e l’elettrone… sbucati da nessuno sa dove. Un giorno, per caso, da un’ulteriore combinazione di questi tre piccole cosine è nato…il primo esserino monocellulare.
Dal nulla la vita, dalla materia inerte qualcosa di vivo, da monocellulari diventiamo pluricellulari…pazzesco!

“Vi auguro di non essere mai tranquilli!” (don Luigi Giussani)

IL LIBRO
Destabilizzare per stabilizzare: Gianni Flamini racconta la storia segreta dell’Italia repubblicana

Chissà se un ventenne di oggi sa chi era Salvatore Giuliano e a cosa si riferisca il toponimo Portella della Ginestra. Che risposte riceveremmo se chiedessimo a un giovane trentenne chi sono il principe Junio Valerio Borghese e Licio Gelli, il commissario Luigi Calabresi o il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli? E la strategia della tensione o gli anni di piombo?

“Dovete sapere che ci sono due storie: quella ufficiale, piena di menzogne, che insegnano a scuola, la storia ad usum delphini; e poi c’è la storia segreta, quella che contiene le vere cause degli avvenimenti, una storia ignominiosa”, questa frase da “Le illusioni perdute” di Honoré de Balzac ci introduce a “La Repubblica in ostaggio. Diario italiano di politica criminale (1943-1993)” (Castelvecchi, 2016) e ci fa subito capire che bisogna prepararsi a rimestare nell’ambiguità, non ci saranno bianco e nero, ma tanto grigio e tanto rosso: il grigio dei non detto, dei misteri e dei segreti di Stato e il rosso delle stragi che si susseguono nella nostra storia repubblicana.
È strano pensare a quanto la storia segreta italiana sia ripercorribile attraverso una geografia, che è sotto i nostri occhi, ma che bisogna appunto saper leggere per ritrovare vicende e personaggi e trasformarla in una geografia della memoria: da Portella della Ginestra a Piazza Fontana a Piazza della Loggia fino a via Caetani, alla stazione di Bologna e a via dei Georgofili. A farci da guida lungo questo percorso a ritroso nel tempo e nei luoghi della storia della nostra Repubblica attraverso la lente dell’eversione è il giornalista Gianni Flamini, classe 1934, “uno dei più profondi conoscitori della stagione dello stragismo italiano” e non solo, come lo ha definito Gian Pietro Testa in apertura della presentazione del volume mercoledì alla libreria Ibs-Il Libraccio. Insieme a lui lo stesso Flamini e Leonardo Grassi, presidente di sezione della Corte d’Assise d’appello del tribunale di Bologna che in passato si è occupato, fra gli altri, dei casi giudiziari relativi alle stragi dell’Italicus e della stazione di Bologna.
Per Testa – a sua volta giornalista non nuovo a queste vicende, negli anni Settanta inviato speciale del Giorno e poi all’Unità – “La Repubblica in ostaggio” è “la nostra storia, quello che abbiamo fatto e non abbiamo fatto dal 1943 in avanti”.
Il Diario è una descrizione cronologicamente ordinata degli episodi di criminalità politica – attentati, stragi, progetti eversivi – ma anche episodi politici non criminali registrati in quanto ricadenti nelle attività volte a condizionare la democrazia: una ricostruzione degli anni della Repubblica richiamandone i momenti di aggressione, di mortificazione del diritto e della sicurezza pubblica, di fraudolenta collusione con ambienti e comportamenti politici. Fonti di Flamini: gli atti giudiziari, i materiali accumulati da alcune Commissioni parlamentari d’inchiesta e le cronache dei giornali.
Secondo il giudice Grassi in queste poco meno che 100 pagine c’è il “distillato di un lavoro che copre forse la vita intera”, si affronta un tema costante mente eluso e che spesso non trova spazio anche negli ambienti accademici: “di fronte all’evidenza di un colpo di Stato come in Cile o in Grecia, non si può sfuggire, il negazionismo diventa difficile. Qui da noi non c’è stato un vero e proprio colpo di Stato, a causa della nostra posizione geografica, ma una guerra a bassa intensità, come viene definita nei manuali dei servizi statunitensi”.

Dallo sbarco degli alleati in una Sicilia dominata da fermenti separatisti all’utilizzo della mafia in chiave anticomunista, dalla loggia massonica P2 con il suo “Piano di Rinascita Democratica” al terrorismo nero e rosso, all’attentato di via dei Georgofili. Sono tutti fili che intrecciandosi, secondo Flamini, vanno a comporre un unico disegno organico: “destabilizzare ai fini di stabilizzare”. Proprio qui secondo il giornalista sta l’errore principale: “il terrorismo è la prosecuzione della politica con altri mezzi, è uno strumento della strategia politica. Perciò se non si neutralizza il disegno politico non si può sconfiggere il terrorismo”. Quello che è mancato e che ancora manca a suo parere è un’analisi d’insieme: “il terrorismo non è mai stato affrontato in modo organico, come per esempio è stato fatto da Falcone con la mafia” e dunque non si è mai trovata la ‘cupola’ della strategia eversiva in Italia.
Nemmeno “La Repubblica in ostaggio”, per ammissione dello stesso Flamini, ha la pretesa di colmare questa lacuna, quello che fa è descrivere e collegare fra loro 70 anni di episodi eversivi nel nostro paese: “70 anni sono tre generazioni – ha sottolineato l’autore – e il ricordo di questi eventi è esposto al rischio di ossidarsi e diventare un unico nebuloso conglomerato” difficilmente decifrabile soprattutto dai più giovani.

Alla fine dell’incontro di mercoledì a preoccupare non è solo il fatto che Flamini e il giudice Grassi temono rispettivamente che la “storia della politica criminale di questo paese non è ancora finita” e che “ora i metodi sono più raffinati e meno cruenti, ma lo scopo è sempre mantenere il potere nelle mani di una ristretta oligarchia”, oppure alcune inquietanti somiglianze fra il Piano di rinascita democratica di Gelli e alcuni must della politica italiana dell’ultimo periodo, come “la contrazione dei diritti sindacali, l’innalzamento dell’età pensionabile, la separazione delle carriere dei magistrati”. Preoccupante è anche e, forse soprattutto, la mancanza di ventenni e trentenni fra il pubblico: la storia non è una serie di date che si impara a memoria sui banchi di scuola, la storia è l’insieme delle storie, un susseguirsi di persone, un intreccio di cause ed effetti che bisogna leggere e interpretare se si vuole capire il presente in cui si vive e agire per cambiarlo.

ECOLOGICAMENTE
La raccolta differenziata in Europa

Nella gara a chi promette di fare maggiore raccolta differenziata (promette…) credo valga la pena, ogni tanto, mettere la testa fuori dal contesto italiano per capire se questo obiettivo è condiviso e soprattutto perseguito a livello europeo. A questo proposito consiglio la lettura di un recente rapporto presentato dalla Commissione Europea che ridimensiona molto alcune presunzioni di primeggiare.
Prima però una piccola premessa, un elenco di cose da fare forse note, ma che è comunque sempre bene ricordare:

  • introdurre sistemi di raccolta differenziata obbligatoria per alcune frazioni di rifiuti urbani e rendere obbligatoria la raccolta differenziata dei rifiuti biologici;
  • introdurre definizioni chiare su cosa si intende per raccolta differenziata nella legislazione nazionale e fare riferimento a standard di riciclaggio e trattamento di alta qualità;
  • definire cosa si intende per standard di alta qualità, standard di trattamento elaborati e applicarle;
  • investire nei sistemi di trattamento meccanico biologico solo in connessione con l’introduzione di sistemi di raccolta differenziata;
  • riconsiderare la necessità di investire / installazione di impianti di incenerimento per rifiuti urbani non differenziati;
  • chiarire i metodi di calcolo della produzione di rifiuti solidi urbani, rifiuti domestici e il loro riciclo.

La Commissione Europea ha presentato di recente lo studio “Assessment of separate collection schemes in the 28 capitals of the EU” (redatto dal Copenhagen Resource Institute e dal German consultancy-Bipro), che compara le prestazioni in tema di gestione rifiuti e raccolta differenziata nelle capitali europee, individuando le migliori esperienze e i motivi del loro successo. Lo studio analizza il quadro giuridico e l’attuazione pratica dei sistemi di raccolta differenziata per metallo, plastica, vetro, carta e rifiuti organici, valutando sia il contesto nazionale sia i casi specifici delle capitali. Dopo aver elencato una serie di indicatori utilizzati per la valutazione, il rapporto stila la classifica dei cinque migliori risultati tra le capitali europee per la raccolta differenziata (Lubiana, Helsinki, Tallinn, Dublino e Vienna) rilevando anche una serie di elementi comuni identificandoli come probabili fattori di successo.

Sulle politiche di “open access” – accesso libero ai risultati della ricerca finanziata con fondi pubblici – per favorire la ricerca e la formazione di politiche fondate sull’informazione si tiene un interessante convegno che si terrà a Ravenna venerdì 20 maggio. L’obiettivo è avere anche nel settore dei rifiuti una visione d’insieme in termini di generazione, standardizzazione, disponibilità e confrontabilità dei dati su larga scala, in modo che le decisioni strategiche riguardanti la conservazione e il miglioramento dei parametri ambientali possano essere valorizzati in ottica di sostenibilità delle politiche generali dell’ambiente.
Per approfondire e partecipare http://www.labelab.it/ravenna2016/events/workshop-g-open-data/

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Europa e ambiente piccole gocce in un mare di guai

LA STORIA
In viaggio per l’Europa sui binari del treno

All’alba del terzo millennio un viaggio in treno attraverso la Mitteleuropa puὸ apparire ai più desueto, dal sapore antiquato, fuori moda in tempi di “tour all-inclusive 3.0 iperorganizzato da otto giorni/sette notti”. Il treno offre relax a occhi chiusi in compagnia dei propri pensieri, consente un buon libro a occhi aperti come cibo, cullati e accompagnati dal fruscio dell’aria fuori, richiede un quaderno di appunti di viaggio per la cronaca quotidiana del giorno e della notte, vissuta fra sussulti di carrozza e il panorama che scorre e sfugge rapido all’esterno del vetro del finestrino.
È un viaggio immaginato, pensato e poi condotto come un viaggiatore curioso, con l’ambizione di riscoprire la bellezza del tempo lento, per una volta, non scandito dal check-in, dall’invadente e fastidioso spoglio di sicurezza, dal gate che non si trova. Ah! L’aereo è allineato ai ritmi odierni, veloce e popolare fra i turisti settimanali e abituale al sottoscritto per professione. Un viaggio da Bologna, a Monaco di Baviera e poi Berlino, Amsterdam e di nuovo Bologna su rotaia, però, sarà di certo un’esperienza indimenticabile.
Programmato per tempo, il viaggio, tutto giocato in autonomia e con facilità in rete, promette un’ottima riuscita. Cabina riservata nella carrozza letto, d’obbligo la scelta sulla Società delle ferrovie tedesche DB, Deutsche Bahn e ahimè per il nostro spirito spesso critico, son stati veramente bravi: orari e multiple coincidenze per le destinazioni finali che funzionano. Il libero arbitrio di movimento e di ritardo si contrappone al comandante che blinda d’imperio il portello dell’aereo. Il tempo non è più un tiranno.
La partenza, prevista la sera tardi, si annuncia con un piccolo giallo: il treno che da Bologna porta a Monaco (è un convoglio italiano fino al Brennero), partito da Roma ha già accumulato due ore di ritardo senza un perché. Misteri delle Ferrovie Italiane.
Fortuna vuole che la carrozza letto sia tedesca e attraverso scambi di locomotore arriviamo comunque a Monaco di Baviera con solo 10 minuti di ritardo. Il capotreno con un italiano dal timbro tedesco ci informa e si scusa, la colpa è “del ritardo è degli italiani”, e purtroppo è vero.
Monaco di Baviera è opulenta, mi colpisce la cilindrata del parco auto circolante: forse non tutto è oro ciὸ che luccica, ma qui lo scintillante si spreca.
Monaco è colma di siti culturali importanti: la Glyptothek, lo strepitoso e mondiale Museo della scienza e della Tecnica, un must, ma tanti altri gioielli come l’Antiquarium nel Palazzo Reale con la sua collezione di busti, e da non perdere per la sera l’Hofbräuhaus la birreria più famosa del mondo.
Dalla München Hauptbahnhof viaggiamo di giorno fra Monaco e Berlino, poche ore di panorama sempre piatto e allungato, fra campi coltivati e sterminate distese blu di pannelli fotovoltaici rivolti al sole come girasoli OGM. Siamo comodi e rilassati su un treno ad alta velocità, ovviamente tedesco; d`istinto mi assale un pensiero di puro orgoglio nazionale (il biondo Manfredi in Svizzera!): “quale assiduo cliente dei treni Alta Velocità reputo i nostri treni italiani molto più confortevoli, eleganti e aggressivi sui binari”.
Lipsia, Dresda, Dessau città nobili quasi azzerate dalla Seconda Guerra Mondiale e poi Berlino, dalla quale mancavo da oltre tre anni. La città si è trasformata in un’estesa foresta di gru cantierizzate, di edifici pubblici, teatri, università, musei.
Unter den Linden è il continuo filo viario che unisce la città, dalla Porta di Brandeburgo (a fianco il Reichstag con la sua moderna cupola di vetro progettata da Sir Norman Foster e ispirata al nostro adrianeo Pantheon) ad Alexanderplatz, circondata da grattacieli datati e balconate attrezzate per eventi in musica e cocktail notturni sulla città illuminata, su cui svettano i 368 metri della torre tv.
A piedi arriviamo al nostro obiettivo, l`isola dei Musei, “Museumsinsel”, patrimonio dell’umanità posto nel quartiere Mitte, il cuore di Berlino fra il fiume Spree e il canale Kupfergraben, in un` ambientazione otto/novecentesca fra le più scenografiche nei miei ricordi.
Cinque prestigiosi musei insieme sull`isola; due primeggiano per contenuti, che confesso di aver visitato precedentemente scoprendo sempre qualche nuova delizia per gli occhi: Il Pergamonmuseum e il Museo Egizio non fosse altro perché entrambi proteggono tesori senza tempo: la gigantesca monumentalità da occhi sbarrati dell`Altare di Pergamo, della porta Ishtar di Babilonia, del grande portale del Mercato di Mileto e la perfezione del minuscolo busto della regina Nefertiti.
Millenni all’interno della storia, di quella vera, un’overdose di emozioni forti che non si raccontano e che lascia smarriti da tanta bellezza.
Dalla stazione di Berlino, campione di architettura moderna, in ritardo montiamo su un treno diurno, sempre DB, con direzione Amsterdam. Il viaggio è tranquillo e riposante attraverso le selve di mulini a pale bianche, quelli moderni utili all`economia tedesca, e con qualche rarissimo mulino della tradizione dal tetto di paglia, ben chiaro nel nostro immaginario olandese. Raggiungiamo puntuali Amsterdam.
La città è conosciuta, ma i celebrati Musei Rijksmuseum, Van Gogh, la casa museo di Rembrandt e Het Scheepvaartmuseum (il museo nautico) nascondono sempre qualche meraviglia; la storia olandese ha un passato talmente glorioso, le colonie ma anche la tratta dei neri d`Africa, la pittura così multisecolare che sempre sorprende. Ma fa freddo e piove e il noleggio delle biciclette non è consigliabile.
Ultimo treno, e questo è notturno. Il percorso è a ritroso da Amsterdam verso Bologna via Monaco di Baviera. Vegliano su di noi due capocabine premurose con cappello, bionde platino, leggermente sovrappeso per circa 1 metro e novanta di altezza; si vede che hanno il controllo della situazione, sarà anche il fascino e l’autorità della divisa. Una ottima cena servita in carrozza letto con tanto di Prosecco di Conegliano ci sorprende come pure la buonanotte in italiano.
Partiamo in orario e possiamo riposare tranquilli fra ritmo e cadenza delle ruote sui binari.
Con il solito eccellente e puntuale servizio, dopo una abbondante colazione a bordo a Monaco ci congediamo dalla ferrovie tedesche.
Si cambia e attraverso il Brennero via rapidamente con entusiasmo verso l’Italia dove a Verona in stazione inspiegabilmente… un ritardo! Ci blocchiamo per tre ore.
Qualche dubbio a proposito di disservizi nostrani ci assale. Ma il treno è relax.

EVENTUALMENTE
L’orlando di Maria Paola Forlani in mostra a Migliarino

di Anna Coen

Migliarino (Ferrara) ricorda Ludovico Ariosto non solo “per fare memoria dei 500 anni della prima edizione dell’Orlando Furioso”, ma soprattutto perché il grande poeta è stato cittadino di quelle terre. Più precisamente, come ricorda la bella targa posta alla Pieve di Fiscaglia di Migliarino, “Ludovico Ariosto deposto l’Ippoogrifo alato con rusticana saggezza resse in temporalibus questa storica Pieve di Fiscaglia (1511-15) trasmettendola poi a membri di Sua casa”. E la storia vuole che fra i membri di casa sua (di sangue suo) figurasse anche un figlio concepito con una signora del luogo. Ariosto fu enfiteuta ed ebbe quindi il beneficio economico del terreno annesso all’antica chiesa pievana, di proprietà della diocesi di Cervia, operazione favorita dal cardinale Ippolito d’Este.

Le celebrazioni si sono aperte sabato con la mostra di Maria Paola Forlani “L’Orlando Furioso a Migliarino” (visitabile fino al 21 maggio 2016): una riproposizione dell’esposizione alle Gallerie d’Arte Moderna di Palazzo dei Diamanti del 1974, che vedeva una giovanissima artista appena uscita dall’Accademia di Belle Arti di Bologna presentare un Orlando Furioso che si dispiegava nelle ampie sale delle gallerie ferraresi in una sequenza di arazzi “fabulistici” realizzati con una grafica magistrale.
In un percorso che ricorda la sua attività di pittrice di scena nel film “I Cavalieri che fecero l’impresa” di Pupi Avati, l’esposizione presenta un suggestivo paravento-scenografico che esalta i tre poeti ferraresi: Boiardo, Ariosto e Tasso. Le ultime opere di Maria Paola hanno abbandonato le sue calme evocazioni medievali o quelle miniaturistiche, che facevano parte del suo vissuto, per dar posto solo al colore, che assume un significato aggressivo, d’origine quasi fauve. Il colore diventa segno, espressione, vive in un ambiente naturale sconvolto da un immane cataclisma, di battaglie, di duelli e passioni e che distorce le bordature laterali dello spazio, piega i cieli e la natura circostante. Non è una forzatura. Annullare le leggi fisiche della forza di gravità, annullare gli equilibri di verticali e orizzontali è uno strumento tipicamente della libertà dell’artista per far sentire che le leggi matematiche eterne vivono soltanto al di fuori dell’uomo.
Nel Duello tra “Rodomonte e Acheronte” il colore diventa azione, istintivo più che casuale e crea impulsi profondi nella definizione dello spazio. In quest’opera vediamo almeno due tipi di macchie colorate: velature espanse e trasparenti che introducono nella superficie della tela un senso di profondità di sfumature fluttuanti e vagamente stratificate per il colore che si fa materia.

E due e tre volte ne l’orribil fronte,
alzando, più ch’alzar si possa, il braccio,
il ferro del pugnale a Rodomonte
tutto nascose, e si levò d’impaccio.
Alle squallide ripe d’Acheronte,
sciolta dal corpo più freddo che ghiaccio,
bestemmiando fuggì l’alma sdegnosa,
che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa.

(XLVI, 101 – 140)

Alcune opere di Maria Paola Forlani. Clicca sull’immagine per ingrandire.

Angelica
Atlante
Bradamante
Logistilla
Marfisa
Morgana
Ruggero
Duello

DIARIO IN PUBBLICO
Una settimana di normale follia

Impazzano le ‘zeta’ sibilanti elargite con enorme diponibilità dalle ragazze ferraresi. In piazza fiori e cibo vegano. I luoghi della cultura intasati da Ariosto e Bassani. In Cattedrale con passo solenne sfilano le contrade e i duchi e la corte, mentre il vescovo benedice i palii.
La Storia, la cronaca, il passato, si fondono con il tributo totale, immenso, senza limiti, che saluta l’arrivo della Spal in serie B. I giocatori intervistati dalle tv locali esibiscono strepitose pettinature, brandelli di tattoo e polsi invasi da decine di bracciali e fermagli da polso. I giornali dedicano la metà esatta delle pagine locali allo sport, un terzo alle sagre, il resto alla cronaca dove si dà stancamente conto della protesta degli azzerati delle quattro banche italiane.
Gramellini nella trasmissione di Fazio illustra una statistica che vorrebbe far luce su ciò che accomuna i diversi protagonisti del populismo mondiale. Da Trump a Grillo sembra che il denominatore comune vada ritrovato nella cura ossessiva e precisa della propria capigliatura. Sospiro di sollievo: per ragioni oggettive non potrò mai essere populista!

Ferrara sembrerebbe una città felice, anche se c’è l’uomo in nero che rapina giovani e anziane signore nel centro storico, anche se le proteste contro Carife portano a imbrattare i portoni della Fondazione con uova e altri commestibili. Prova irrefutabile di una volontà di colpevolezza che non sa indirizzare la protesta nei luoghi giusti. Il quartiere Gad è sempre più a rischio, ma ci sono le sagre!! Cibus e gli altri eventi mangerecci, che hanno reso l’Italia un unico, immenso ristorante. Vuoi mettere andare (e ne porto la colpevolezza/innocenza) a disquisire su Piero della Francesca a Forlì senza prima assaggiare le gourmandises in una trattoria tipica del luogo? E per fortuna che alla fine della mostra ‘intrigante’ ci aspetta l’Ebe canoviana che versa vino dalla sua ampolla dorata.
Dopo le pecore brucanti nel sottomura tiene il pezzo l’avventura del musicista da strada che suona il pianoforte nella centralissima Piazza Trento e Trieste, invitato ad andarsene dai vigili in quanto non ha pagato la tassa sull’occupazione di suolo pubblico. A furor di popolo verrebbe riammesso se non si scoprisse che la stessa dimenticanza era avvenuta in altre città tra il Veneto e l’Emilia.
Importantissime questioni che fanno dimenticare il conflitto tra magistratura e governo, mentre cadono e si dimettono per illeciti commessi amministratori e sindaci del Pd tra il tripudio e lo sdegno dei 5stelle che – mirabile dictu!!! – oggi vedono indagato il loro sindaco di Livorno.
Salvini si frega le mani mentre pochi imbecilli strappano il suo libro a Bologna, portandolo in tal modo alle vette delle classifiche delle vendite. Così come altri individui sfigati fanno proteste sbagliate al Brennero, deludendo con un comportamento goffo e privo di senso l’indignazione contro la politica austriaca del rifiuto dei migranti.
Ma che straodinaria ‘Itaglia’!
Sembra quasi che una vena di ordinaria follia percorra le strade della nostra città. Come del Paese. Come dell’Europa. E poi è davvero possibile che gli Usa, patria indiscussa delle libertà democratiche, possano spingersi fino a far raggiungere il ruolo di primo candidato del Partito Repubblicano a Donald Trump? E’ possibile che in Turchia un dittatore come Erdogan venga a patti con l’Europa? Mentre chi osa opporsi viene preso a pistolettate fuori da quel tribunale che gli sta comminando cinque anni di carcere tra l’impassibile indifferenza del dittatore? E’ possibile che Aleppo paghi con il martirio della città l’ambigua politica di Putin?

E per ritornare al mio campo, quello per cui lavoro e mi affanno: è possibile che dello straordinario spettacolo dell’Orlando Furioso, messo in scena da Ronconi sul ‘travestimento’ del poema operato da Edoardo Sanguineti, non resti più traccia consultabile? Sparite le due copie del testo, una perduta da Sanguineti e l’altra scomposta per assegnare le parti agli attori da Ronconi; rimane l’unico testimone: la copia consegnata alla Siae che però, come ha ben dimostrato Claudio Longhi, manca delle scene finali dettate agli attori da Ronconi stesso.
Della ricostruzione del testo, curato in modo impeccabile da Longhi, parlai assieme a Ezio Raimondi al Ridotto del Teatro Comunale. Ho perduto gli appunti e non ne resta traccia.
Chiedo a chi c’era nel lontano 1969 se qualcuno ha scattato qualche foto dell’evento in Piazzetta Municipale. I risultati per ora non danno frutto ed è per questo che chiedo in questa puntata del mio “Diario in pubblico” se chi mi legge per caso o destino possa confortarmi con qualche testimonianza.
Sembra enorme il divario tra ciò che la Storia ci infligge e questa particolare e curiosa situazione.
Ma un filo lega storia e cronaca. La mancanza della memoria che ormai impedisce attraverso il ricordo di procurarci quella giusta dimensione che permette di interrogare il passato non per affermarci nel presente, ma per poter costruire le fondamenta di un futuro sempre più pericolosamente schiacciato sulla dimensione dell’oggi, dell’ ‘eterno presente’.
Il passato si fa sempre più vivido allorché ci si allontana nel tempo. E la mente ricorda la perfetta e perturbante situazione di chi, allora giovane studioso, si faceva irretire dal labirinto della messa in scena ronconiana e si spaventava del rumor delle macchine e dei carrelli degli enormi cavalli che sembrava t’investissero o dell’iterazione ossessiva delle rime sanguinetiane, mentre Olimpia con la voce roca di Mariangela Melato urlava la sua disperazione alle prese con l’Orca e una ragazzina Angelica-Ottavia Piccolo seduceva il suo Medoro.
Ora il ricordo dalla mente si trasferirà nel saggio da mandare alla mostra che verrà allestita a Villa d’Este a Tivoli per cui si cercano referenze, appoggi, conferme. Ma sembra che per incantamento il mago Atlante abbia fatto sparire ogni traccia delle armi e degli amori.
Sarà così anche di questo tempo infelice che fa sparire il ricordo perché non c’è tempo di ricordare nel perenne inseguimento di un futuro che diventa inesorabilmente attualità?

Zeno Govoni porta al “Ferrara Sharing Festival” la voce degli operatori turistici tradizionali

da: ufficio stampa Sedicieventi

“Non possono coesistere sullo stesso mercato imprenditori soggetti a leggi diverse. Bisogna normare la sharing economy e semplificare le regole per le attività tradizionali”.

Sburocratizzare le attività turistiche tradizionali. È la via indicata da Zeno Govoni, proprietario e direttore dell’Hotel Annunziata a Ferrara, per risolvere il dilemma che vede contrapposti, in quest’ambito, i figli della sharing economy agli imprenditori tradizionali.

Un tema caldo che verrà portato all’attenzione del grande pubblico durante il Ferrara Sharing Festival, evento dedicato all’economia della condivisione, in programma dal 20 al 22 maggio 2016.

Il turismo è in grande cambiamento. Come sta evolvendo il settore alberghiero?
Nel turismo e in particolare nel settore alberghiero di certo non ci si annoia. Con l’arrivo della rete non c’è anno che passi senza un’innovazione tale da rimettere in discussione l’operatività quotidiana. Il modello delle piattaforme adottato prima dalle OTA, Online Travel Agency come Booking.com, e poi dalla Sharing economy, ha posto tutti gli operatori davanti ad un nuovo cambiamento. Certamente non ci si può più improvvisare albergatori, per restare sul mercato occorre un aggiornamento costante tale da poter comprendere e stare al passo di questi grandi player, sempre che sia ancora possibile.unnamed (2)

La Sharing Economy ha portato una ventata di novità ma ha anche fatto emergere delle forti criticità. Come interpreta il fenomeno da operatore del settore?
Il boom delle piattaforme di scambio e condivisione è una grande novità, un’opportunità e porta con sé un’interessante rivoluzione: chi possiede queste piattaforme di condivisione diventa in brevissimo tempo leader del settore, ottenendo una visibilità incredibile tale da ridisegnare le dinamiche del mercato e creando una concorrenza parallela. Mi auguro che questa grande voglia di condivisione porti ad un nuovo modello economico e non spalanchi invece le porte alla concorrenza sleale. Al momento sembra, purtroppo, prevalere la seconda ipotesi. La crescita esponenziale che hanno avuto certe piattaforme non ha dato il tempo di capire bene il fenomeno, di interpretarlo per intuirne poi la portata, che è stata ed è straordinaria. Questa novità è partita quasi per gioco, o per meglio dire è partita con il piede giusto all’inizio quando era una vera “condivisione” senza scambio di denaro, una sorta di baratto. Poi si è capito che da questo semplice scambio si poteva ottenere una piccola integrazione al reddito famigliare e infine anche ricavarne un profitto attraverso un nuovo modello di business. Da quel momento grazie alla rete, alle nuove tecnologie e al mondo delle app, si è innescata un’incredibile accelerazione. Il confine tra l’idea iniziale di no profit e quella finale di offerta commerciale è quasi sparito.

Sono molti a sostenere la concorrenza sleale da parte delle piattaforme di local hosting e room sharing. Il punto, però, è che soffocare un fenomeno di questa portata potrebbe essere controproducente oltre che difficile. Che tipo di soluzioni propone come operatore del settore?
Questa fortissima espansione della sharing economy, come è avvenuto nel turismo, non ha permesso di applicare le leggi e le regole esistenti perché il modello economico, oltre ad essere troppo nuovo, evolve e cambia rapidamente. Al contempo le leggi esistenti sono probabilmente troppo complesse per i nuovi attori di questa economia condivisa. Per questo bisogna ripensare a come proporre nuove leggi e creare nuove regole. Non bisogna ragionare solo per risolvere i problemi nell’immediato, bisogna creare leggi e regole semplici, flessibili e facilmente adattabili alla velocità di cambiamento, oltre che applicabili a tutti gli attori di questa “platform economy”. Due sono sostanzialmente le figure che ruotano attorno alla sharing economy: i nuovi “imprenditori”, che chiedono di tutelarla dagli attacchi dei “conservatori” (noi albergatori in primis), e i “conservatori” che chiedono di entrare nel mercato a parità di regole per non alimentare una concorrenza sleale permessa da un vuoto normativo. Di certo non possono coesistere sullo stesso mercato imprenditori tradizionali soggetti a leggi, norme, regolamenti limitativi e pesanti tassazioni insiemi a nuovi soggetti, molto spesso privati ma con tutti i lineamenti dell’imprenditore, che fanno impresa senza essere sottoposti agli stessi adempimenti normativi e alla stessa tassazione. Non si può né si vuole bloccare, impedire o imbavagliare questa nuova economia, occorre però prevedere una regolamentazione delle attività, cosa che vogliono anche gli utilizzatori della sharing economy. A questo punto mi chiedo se non sarebbe forse più ragionevole anche semplificare le regole a cui sono soggette le attività tradizionali, deregolamentando e favorendo una dinamicità di adattamento alle esigenze dei nuovi turisti.

Recependo gli stimoli del mondo sharing, come potrebbe svilupparsi un albergo o un servizio di ospitalità del futuro?
La Sharing economy, riporta al centro il rapporto vero, reale tra le persone attraverso la condivisione di un’esperienza local sempre più ricercata. Proprio per soddisfare questa voglia di experience si sta ripensando anche al layout dei nuovi hotel: due brand nuovissimi come Generator e The Student Hotel hanno portato una ventata di novità nella ridefinizione e nell’uso degli spazi comuni degli hotel. Generator addirittura ha rivisto totalmente il concetto di ostello creando un prodotto nuovo veramente interessante. Canopy, nuovo brand di Hilton, insegue la moda del social eating e del mangiare local rivisitando completamente la colazione del mattino sia per il layout che per le proposte di cibo locale. Come dicevo all’inizio la sharing economy può essere veramente un’opportunità anche per noi.

Il lavoro: non una merce ma un diritto

2. SEGUE – Per questa seconda conversazione il punto di partenza è stato il saggio “Lavoro e Costituzione: le radici comuni di una crisi” di Roberto Bin, docente di diritto costituzionale al dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara.
Il lavoro e i lavoratori sono nominati 3 volte nei primi 4 articoli dei Principi Fondamentali della Costituzione Italiana.
Art. 1, comma 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Art. 3, comma 2: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e propria scelta, un’attività o una funzione che concorra a l progresso materiale o spirituale della società”.
Inoltre i Costituenti, nella prima parte del testo costituzionale, che tratta i Diritti e Doveri dei cittadini, hanno riservato un intero Titolo – il terzo – ai Rapporti Economici: esso inizia significativamente affermando che “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (Art. 35, comma 1).

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Roberto Bin

Il saggio del professor Bin affermando che proprio “i riferimenti al valore del lavoro che la Costituzione propone sin dai suoi articoli di esordio sono stati rapidamente “sterilizzati”, depurati dalla loro carica politica “positiva” di pretesa ad ottenere un lavoro”. Ma cosa significa questo?
“Non tutto quello che è contenuto nella Costituzione è stato considerato una norma giuridica. Che l’Italia sia una repubblica democratica fondata sul lavoro dal punto di vista politico vuol dire molto, dal punto di vista giuridico vuol dire pochissimo: non se ne ricavano comportamenti, sentenze, obblighi, divieti. Che il diritto al lavoro sia sancito in Costituzione non comporta che ognuno possa dire “ho diritto a essere retribuito per un lavoro”; l’unico uso giuridico che se ne è fatto è stato in senso negativo: non si può impedire agli altri di lavorare facendo i picchetti fuori dalle fabbriche”.
Non è questo però che i Costituenti avevano in mente…
“I Costituenti – risponde Bin – volevano soprattutto dare un messaggio storico e politico: dire che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, significa sancire che non è fondata sul censo, sull’ereditarietà dei titoli, ma è fondata solo su quello che ciascuno fa, su come lo fa e sull’obbligo di farlo, cioè quella solidarietà sociale che implica il lavorare. Perché non si lavora solo per sé stessi no?”

Dire che la Repubblica è fondata sul lavoro, significa quindi che per essere autenticamente democratica, essa persegue l’eguaglianza sostanziale fra i cittadini: un nuovo patto, non più fra cittadini e sovrano, ma fra le componenti sociali per un rinnovamento della struttura sociale da ricostruire dopo la guerra. È quasi scontato leggere nella relazione del comunista Palmiro Togliatti alla Prima Sottocommissione della necessità dell’affermazione, già nel preambolo, “di nuovi diritti della persona umana, il cui contenuto è in relazione diretta con l’organizzazione economica della società” e di operare attraverso la Costituzione “profonde trasformazioni economiche e sociali”. Forse è meno scontato citare Meuccio Ruini, il Presidente della Commissione dei 75 dell’Assemblea Costituente: “È necessario in una carta costituzionale stabilire fin da ora il principio che, oltre alla democrazia puramente politica, base di un nostro periodo glorioso di civiltà costituzionale, si deve oggi realizzare una democrazia sociale ed economica” .

Ecco il nodo evidenziato anche da Bin, quando scrive che “al riconoscimento di un certo tipo di diritti corrisponde di necessità l’esistenza di un certo tipo di rappresentanza”: un Parlamento eletto a suffragio universale avrebbe facilmente tutelato, se non ampliato, i diritti sociali. Ma allora come si spiega la situazione odierna? Oggi c’è il suffragio universale, ma sembra mancare la difesa dei diritti sociali e del lavoro. Secondo il costituzionalista di Unife, “il lavoro ormai è diventato una merce: è la vittoria di una certa visione dei valori politici. Il nostro assetto di valori, di principi, di regole giuridiche, anche costituzionali, è stato ampiamente riletto nella chiave di un’economia liberistica di mercato in cui il lavoro è sostanzialmente una merce, perciò ha perso il valore etico che aveva per i nostri Costituenti ed è diventato, invece, una delle componenti di costo della produzione”.
Perché questo arretramento sul terreno delle conquiste dei diritti sociali e del lavoro?
“Il problema è il bilancio dello Stato. Il bilancio è la contropartita dei diritti, di tutti i diritti, non solo quelli sociali: se non si dà la benzina alla polizia per le volanti la proprietà non è più garantita, se i giudici non vengono retribuiti i diritti perdono le proprie tutele, e così via. Tutti i diritti costano, il problema è che il costo si trasferisce nel bilancio e il bilancio si regge sulle tasse, perciò i diritti implicano tasse. Noi però viviamo in un’epoca in cui parlare di tasse significa bestemmiare, la conseguenza è che parlare di diritti vuol dire bestemmiare. Non è sempre stato così. La storia degli ultimi decenni però da questo punto di vista è dominata da un patto scellerato che ha dato luogo al liberismo finanziario, per cui oggi anche se gli Stati lo volessero non potrebbero tassare la ricchezza per il semplice fatto che la ricchezza se ne va: basta un click per spostare miliardi.”

Il professor Bin nel suo articolo cita anche “la sostituzione del lavoro con il consumo” concettualizzata da Bauman: la “progressiva sostituzione, al centro della scena sociale e politica, della figura del ‘cittadino’, come categoria storica fondamentale per l’ordine costituzionale, con la figura del ‘consumatore-utente’”. Dal punto di vista dell’etica sociale, mi spiega Bin, “cambia il fatto che il cittadino ha dei diritti che derivano dal suo essere parte dello stato politico, il consumatore o l’utente ha diritti perché ha stipulato un contratto con un soggetto privato, di conseguenza non c’è più nessuna rilevanza di valori nei rapporti fra utente ed erogatore del servizio, ma un rapporto contrattuale, tra l’altro spesso con un’asimmetria fra i contraenti, basta pensare alle multiutility. Senza contare che in questo modo restano fuori i diritti di coloro che non sono utenti e consumatori: quelli che non hanno soldi rimangono fuori da ogni circuito di garanzia. Per esempio, se le dicessero che il servizio ferroviario costa la metà perché serva metà del territorio italiano, se lei stesse nella metà che viene servita sarebbe contenta perché pagherebbe la metà per il suo servizio: ci sarebbe un accordo fra lei e l’erogatore del servizio, ma a danno di chi sta nell’altra metà, che non ha più voce. La cittadinanza è un’altra cosa: si vota tutti quanti – se vogliamo farlo – e il voto è uguale. Anzi era uguale, perché con la nuova legge sul finanziamento privato ai partiti del prossimo anno sarà sempre meno uguale: ciascuno lascia qualcosa della propria Irpef al partito che privilegia. Il che significa che un partito sostenuto dalle fasce più deboli, dai poveri, non avrà finanziamento, mentre il partito che rappresenta le fasce più alte, i pochi ricchi, avrà molto denaro. Democrazia?”. Provo a obiettare che i consumatori possono agire anche contro e non solo in solidarietà con i produttori. “Sì, certo, fa parte del gioco. Tornando alle multiutility, se lei prende uno dei loro Statuti scoprirà che dice che i consumatori sono gli stakeholders, i portatori di interesse dentro il gruppo, non solo: spesso si citano anche incentivi alla loro attività e corsi di formazione professionale per i loro rappresentanti. Conflitto di interessi? La solidarietà è anche conflittuale: entrambi sono favorevoli a obiettivi comuni, come la qualità del servizio, ma possono essere in disaccordo sulle modalità. Quello che in ogni caso viene tagliato fuori è l’ente politico: i comuni, gli enti locali, sono nati come erogatori di servizi pubblici, oggi però hanno perso la capacità di ingerirsi nella loro gestione, dal trasporto pubblico all’acqua. I servizi pubblici con le privatizzazioni escono così dal controllo politico”. Tento ancora di controbattere affermando che il controllo politico però in Italia molto spesso ha significato e significa purtroppo clientelarismo. “Non c’è dubbio. Se dovessi scegliere fra un sistema e l’altro non saprei quale scegliere, ma sta di fatto che non si può far finta di non vedere i problemi che sono l’effetto di una certa scelta di organizzazione dei servizi pubblici”.

La sostituzione dei cittadini-lavoratori con i consumatori ha poi conseguenze sul sistema di welfare: “il sistema di welfare si riduce sempre più – ed è una tendenza che c’è in tutti gli Stati – per il semplice fatto che il welfare è costo, il costo è tasse. Il welfare è un sistema di redistribuzione del reddito: esattamente il programma politico su cui è nata la nostra Costituzione. Oggi però a sentir parlare di redistribuzione del reddito c’è gente che sobbalza. Questo significa che noi non abbiamo le risorse per pagare i servizi pubblici, le prestazioni sociali: diventa una cosa quasi caritatevole, non più una questione che riguarda i diritti di cittadinanza”.
La sostituzione della politica con il mercato non è un’operazione neutra, ma un’opzione altamente politica che implica alcune scelte e anche un problema di rappresentanza.
“Certo – afferma Bin – pone un grosso problema di rappresentanza, che spiega anche perché le persone non vanno più a votare. I cittadini non vanno più a votare per il semplice fatto che non capiscono più a cosa serve la politica. Siamo vittime di un martellamento pubblicitario, la politica è diventata una parola sporca, significa rallentamento, interessi poco chiari: il mercato ha vinto in questa fase storica. Il mercato e la sua regolazione attraverso la mano invisibile sono ideologia pura, ma ne siamo preda: che la politica serva è un’affermazione che oggi sottoscriverebbe forse il 10% della popolazione italiana”.

La conclusione del professore è che non è nel richiamo alle disposizioni e ai valori costituzionali che si può trovare l’appiglio per puntellare il significato e la tutela del lavoro, ma allora dove? “È tutto da ricostruire, non che la possiamo trovare sotto gli alberi. Purtroppo c’è una sorta di mancanza di dimensione storica: la mia è la prima generazione che non ha vissuto le guerre del Novecento, con lei siamo arrivati alla terza, e sembra che ci siamo dimenticati che i diritti sono frutto di lotta, non si sono stati regalati dai padri Costitutenti. È necessariamente una questione di lotta, come dimostra anche il fatto che ora ce la si prende con i migranti: è una lotta deviata dagli obiettivi, volutamente deviata direi, perché il bersaglio diventano gli immigrati e non gli evasori fiscali. Tutto questo prima o poi necessariamente finirà. Come? Mi terrorizza solo pensarlo”.
Se fra le cause della situazione attuale ci sono la crisi della sovranità statale e la poca credibilità della nostra classe politica, secondo lui l’Europa, può giocare un ruolo, ma non scommette certo sui governanti, sui quali esprime un giudizio poco lusinghiero: “Nemmeno a livello europeo disponiamo di grandi statisti. L’unione Europea, secondo me, non governa niente. Siamo europeisti perché appartenere all’Ue ci ha impedito di fallire più volte in questi ultimi anni. La verità però è che l’Unione Europea è una creatura nata per il mercato e tutela il mercato. Qualsiasi decisione presa a livello europeo è una decisione che guarda agli interessi della libera circolazione del capitale non ai diritti sociali. I diritti sociali sono un disturbo: c’è una politica sociale ufficiale, ma è ridicola perché di fatto se si consente alle imprese italiane di delocalizzare in Polonia si mette in competizione l’apparato sociale italiano con quello polacco. A quale scopo? Perché aumenta la produttività. Intanto però diminuisce il livello di vita”. Insomma: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, l’Unione Europea è fondata sul mercato e la concorrenza”. Per Bin si potrà andare avanti così finché “non interverrà ciò che è alla base dei diritti: il conflitto. Fino a quando finalmente i sindacati non si renderanno conto che la vera questione è mettersi d’accordo con i colleghi europei per una politica sociale comune, di diritti sociali in Europa non si parlerà”.

“Lavoro e Costituzione: le radici comuni di una crisi”, da www.robertobin.it/ARTICOLI

3.CONTINUA

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CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Essere una città che apprende

È importante conoscere le linee guida dell’Unesco per la Rete Mondiale delle Learning Cities, le città che apprendono. Conoscerle per misurare la nostra distanza da una rinnovata visione dell’apprendimento e, in particolare, dall’avere realizzato l’istruzione permanente per tutti.
Forse nel nostro Paese nutriamo la presunzione di aver compiuto grandi passi avanti in materia di istruzione, è un’illusione che si può continuare a coltivare solo rimanendo ancorati a categorie già inadeguate nel secolo scorso e che oggi in tante parti del mondo si stanno rivedendo.
Basta scorrere le sei caratteristiche che per l’Unesco deve avere una learning city per comprendere dove è necessario impegnarsi per fare di una città, una città che apprende:

1. Promuovere l’apprendimento inclusivo, da quello di base agli studi universitari;
2. Rivitalizzare l’apprendimento nelle famiglie e nella comunità;
3. Facilitare l’apprendimento continuo e nei luoghi di lavoro;
4. Estendere l’uso delle moderne tecnologie per l’apprendimento;
5. Migliorare la qualità e l’eccellenza dell’apprendimento;
6. Coltivare la cultura dell’apprendimento per tutta la vita.

Nel nostro paese continua a prevalere una concezione dell’istruzione scolastico-centrica, quando tutto il sistema formativo avrebbe la necessità di essere rivisto nell’ottica dell’istruzione permanente. L’idea dominante di un’istruzione prevalentemente scolastica fa sì che essa sia segmentata per età, a discapito di un’idea del diritto all’istruzione che abbraccia l’intero arco della vita delle persone.
Da questo punto di vista la riforma del titolo V della Costituzione è rimasta un’opera incompiuta. È sufficiente riprendere l’articolo 117 per cui lo Stato ha legislazione esclusiva solo per le norme generali dell’istruzione, mentre esiste un vasto campo di materie, tra cui l’istruzione permanente, di legislazione concorrente fra Stato e Regioni che necessiterebbe d’essere governato. Chi si occupa dell’istruzione permanente? Non intesa come istruzione degli adulti, ma come istruzione per l’intero arco della vita, dalla pre-scuola all’università e oltre?
È evidente che gli strumenti normativi, prevalentemente concepiti negli anni Settanta del secolo scorso, oggi sono del tutto inadeguati e che il sistema formativo nel suo complesso necessita di una nuova stagione legislativa, non nell’ottica della sola riforma della scuola e dell’università, ma di un ripensamento radicale dell’istruzione per tutti e a ogni età.
Quando neppure sappiamo il futuro che vogliamo, tutto diventa più difficile. Eppure, in materia di istruzione i documenti non mancano, sono quelli a cui fa riferimento l’Unesco, le Dichiarazioni di Città del Messico e di Pechino, l’Agenda per lo sviluppo dopo il 2015, ma nel nostro paese non girano, non se ne parla, bisogna tradurli dal sito dell’Unesco della rete mondiale delle learning cities.
L’apprendimento permanente per tutti è il futuro della nostra società, sia per il potenziamento e la crescita individuale delle persone, che per la coesione sociale, lo sviluppo economico e la crescita culturale. Ma non sembra essere nell’agenda del governo, come non è nell’agenda della maggior parte delle nostra città, non si vede l’impegno politico, né la mobilitazione delle risorse, né il coinvolgimento di tutti i soggetti e attori interessati.

Learning city

Quarantadue sono gli indicatori individuati dall’Unesco per verificare se una città è impegnata a sviluppare una politica per convertirsi in una learning city, una città che apprende. Sono indicatori che valgono per le città, come per il paese e le regioni. Sono indicatori impegnativi per il governo della città, perché si prevedono per ognuno gli strumenti per una valutazione costante e sistematica e le modalità di misurazione. Il problema delle nostre città, nonostante si facciano promotrici di molteplici iniziative, che siano città d’arte e di cultura, è che nessuna di loro dichiara la volontà politica di essere una città che apprende, una learning city. Perché è più facile fare spettacolo, portare turismo con gli eventi e le mostre, che mettere in campo giorno dopo giorno una non facile politica dalla parte dei cittadini, della loro crescita nel sapere, per uno sviluppo sostenibile e per una consapevole e responsabile partecipazione di tutti.
È giunto il momento di pretendere dalle Amministrazioni delle nostre città che aderiscano alla Rete mondiale dell’Unesco delle Città che Apprendono, delle Learning Cities, mettendo in capo alla loro agenda politica gli impegni che questo comporta.

Indicatori Unesco per le learning cities

I BUONI ESEMPI
Una scuola che fiorisce come un giardino

da: Istituto Comprensivo Statale “G. Perlasca” – Ferrara

Alla Tumiati un progetto per riscoprire e amare il verde. Ospite d’onore il sindaco Tiziano Tagliani.SAM_0988

Immaginate un’aula didattica all’aperto. Una scuola che fiorisce come un giardino. Ravvivata da giovani aceri, ontani, un frassino e profumatissime piante aromatiche. Attraversata da nuovi battiti d’ali.

“Per fare un giardino…” servono le piccole mani di 203 alunni, unite a quelle più forti dei genitori e degli insegnanti della scuola primaria Tumiati, da mesi all’opera per trasformare il verde intorno all’edificio di via Bosi in un parco vivo e accogliente. Basta aprire gli occhi per ammirare come il progetto “Per fare un giardino…” sia oggi una realtà, che cresce giorno dopo giorno insieme alle piantine e ai nuovi alberi, ravvivato dal cinguettio degli uccellini.

Il “battesimo” dei nuovi alberi è previsto per il 5 maggio alle ore 15.30. Una festa “in famiglia” introdotta dal preside dell’I.C. Perlasca Stefano Gargioni con canti e ringraziamenti per sottolineare il lavoro di gruppo di adulti e bambini della scuola: da chi ha progettato il parco, alla “bassa manovalanza”, dai “beni di conforto” ai vivaisti e agli amici delle piante.

IMG-20160412-WA0004Il 13 maggio, alle ore 10, sarà la volta della cerimonia ufficiale, il taglio del nastro organizzato in collaborazione con il Comune di Ferrara e Hera, con ospite d’onore il sindaco Tiziano Tagliani. Gli studenti saranno dapprima coinvolti in un laboratorio didattico di semina, poi ci si riunirà per celebrare l’avvenuta piantumazione degli alberi e intonare insieme un canto. Una mattina speciale per valorizzare un percorso pluriennale avviato nell’autunno 2015 con il dissodamento dell’area e approfondito nell’inverno con attività di trapianto e moltiplicazione di piante; intensificato a primavera con la semina di piantine da fiore, la piantumazione di alberi e arbusti, l’allestimento di aiuole e zone protette. Proposto dalle insegnanti Rita Roboni e Ilaria Pasti, il progetto si propone di sensibilizzare gli alunni alla cura di uno spazio verde, sviluppando un senso di appartenenza al proprio territorio. Alunni, famiglie e insegnanti hanno dedicato il sabato mattina ai lavori più intensi; durante la settimana scolastica i bambini a rotazione sono stati coinvolti nella cura delle piante, nella semina e innaffiatura. Ad aprile in tutte le classi una settimana è stata dedicata all’albero, simbolo della vita, con letture, laboratori e attività a tema. Gli alunni hanno inoltre proposto e votato i nomi per i nuovi ospiti del parco della scuola, che ora hanno una propria “identità”: alberi appena piantati, che cresceranno nei prossimi mesi insieme agli alunni.

IMG-20160412-WA0005Come ricorda un detto zen, tra le tre cose essenziali da fare nella vita ce n’è una semplice, naturale e condivisibile: “piantare un albero”. Un gesto altruistico, puro. Profondamente educativo.

 

 

ELOGIO DEL PRESENTE
La crisi della politica e l’ideologia della narrazione

I partiti tradizionali sono in crisi e così la politica che su quel modello si era articolata: ne sono segni evidenti la corruzione, l’immagine di una casta legata a conservazione del potere proprio piuttosto che al bene pubblico, il degrado della democrazia interna. Una larga parte della crisi della politica è opera della politica stessa, che ha accentuato la ricerca del consenso immediato e la difesa di interessi personali, a partire dalla preoccupazione alla propria rielezione.
La crisi della politica ha anche origini nei cambiamenti sociali, nella scomposizione e declino dei gruppi sociali compatti che avevano caratterizzato l’Italia del dopoguerra, nella crisi delle ideologie che sono state a lungo elementi di aggregazione di masse accomunate dalla percezione di un comune destino. Le ideologie, oltre che espressioni di pensieri forti (nel senso di chiusi e divisivi), sono state espressione di blocchi sociali compatti che attorno a esse potevano riconoscersi e alimentare identità altrettanto compatte. La progressiva differenziazione sociale e l’emergere della società degli individui hanno cambiato definitivamente lo scenario, aprendo la possibilità – almeno auspicata – di un confronto più laico e aperto.
Con la crisi della politica e dei partiti che l’hanno interpretata è venuto meno un articolato sistema di rappresentanza – il sistema dei cosiddetti corpi intermedi – così oggi non esiste più una corrispondenza tra gruppi sociali e aree di affiliazione, in sostanza non è più chiaro chi rappresenta chi. I gruppi sociali deboli perdendo i tradizionali canali di rappresentanza, avvertono il venir meno di qualsiasi protezione. Insieme alla protezione viene meno la possibilità di riferimenti identitari. Così, di fronte alla crisi delle ideologie tradizionali (la crisi delle grandi narrazioni, ovvero di visioni del mondo alternative e compatte) riemerge in altre forme l’esigenza di narrazioni che forniscano supporti di senso alla vita quotidiana. Le narrazioni sono sempre importanti in quanto forniscono modelli mentali per interpretare i fatti, aiutano a ricostruire un nesso tra passato e presente, ci permettono di immaginare traiettorie di vita diverse da quelle presenti. Le narrazioni sono, quindi, un costrutto dell’identità, un dispositivo per elaborare criteri di scelta e per ridurre l’incertezza proposta dal mondo intorno a noi.
Le narrazioni a cui la politica fa oggi ampio ricorso – condensate nel pensiero personale del leader –diventano la nuova base dell’appartenenza, ma non sono molto diverse da quelle che condensavano le profonde differenze ideologiche che segnavano la contrapposizione tra cattolici e comunisti negli anni Cinquanta o Sessanta. Le narrazioni odierne restano fortemente divisive, non meno di quanto fossero le ideologie forti, ancorché costruite su fatti e su emozioni più contingenti. Le narrazioni odierne sono l’espressione e lo strumento di battaglie di potere personale giocate su tecniche comunicative piuttosto che su contenuti e programmi. I partiti nella loro semplificata e aggressiva comunicazione quotidiana interpretano la nuova ‘ideologia della narrazione’, offrendo una debole risposta alle frantumazioni identitarie e all’incapacità di elaborare scenari futuri credibili nel lungo periodo. Le forme della comunicazione del magmatico mondo del populismo (termine che uso qui per connotare uno stile prima che aggregazioni politiche) sollecitano appartenenze emozionali piuttosto che adesioni razionali a questa o a quella proposta politica. Ma la democrazia ha bisogno di proposte politiche concrete e di visioni di lungo periodo.

[Mercoledì 4 maggio alle 17,30 alla libreria IBS+Libraccio di Ferrara Maura Franchi e Augusto Schianchi presentano “Democrazia senza” (Diabasis) e discutono con Patrizio Bianchi e Sergio Gessi sulle difficoltà odierne della democrazia]

Maura Franchi vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia. Studia le scelte di consumo e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana.
maura.franchi@gmail.com

L’INTERVISTA
La Casa di Ariosto si riempie di antiche note

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Laura Trapani, flautista e concertista, ferrarese d’adozione.

Laura Trapani è nata in Texas, ma vive e lavora fra Ferrara e l’Emilia Romagna. È diplomata al conservatorio di Milano e specializzata a Modena sulla musica di Edgard Varèse, con il maestro Roberto Verti. Ha suonato come solista e primo flauto nelle orchestre più prestigiose del panorama italiano e collabora come artista da camera in Italia e all’estero. Per il secondo anno consecutivo è il direttore artistico della rassegna cameristica “Pomeriggi musicali a casa di Ludovico Ariosto”, che inizieranno il 7 maggio 2016.

Come nasce la sua idea di creare un festival a casa dell’ Ariosto?
In realtà questa è la seconda edizione del festival come direttore artistico a casa Ariosto e diversi anni fa vi erano già stati organizzati dei festival musicali. La struttura non è molto grande per contenere orchestre o grandi gruppi, ma adatta per contenere piccoli gruppi da camera. Antares, l’associazione musicale per la divulgazione della musica classica da me fondata nel 2006, ha collaborato con i Musei d’Arte Antica di Ferrara per rilanciare le attività musicali a casa Ariosto, anche in vista dei festeggiamenti per i 500 anni dell’Orlando Furioso (22-04-1516/22-04-2016).

Chi sono gli artisti invitati?
Gli artisti provengono da diverse realtà musicali ferraresi, ma anche internazionali e si prestano a titolo volontario per rilanciare una delle più importanti realtà di Ferrara e internazionali, quale è appunto Casa Ariosto.
La prima data del festival vanterà un ospite internazionale: Solène Greller, arpista di Ginevra, che assieme alla sottoscritta in qualità di flautista, inaugurerà il festival il 7 maggio. Seguiranno poi ogni sabato concerti con artisti locali e componenti dell’orchestra Antiqua Estensis, della quale sono cofondatrice assieme ad altri musicisti di Ferrara.

I programmi che verranno eseguiti?
La mia idea: vista l’importanza storica del luogo e il cinquecentenario, saranno eseguiti dei programmi di musica antica con la caratteristica della contaminazione musicale tra i vari stili. Quindi, non eseguiremo solamente dei concerti seguendo un’unica tematica, ma aggiungeremo tra un brano e l’altro delle contaminazioni moderne, sempre comunque inerenti ad uno stile accademico di ricerca.

Ci può fare un esempio?
Il 7 maggio io e Solène Greller suoneremo dei brani appartenenti al periodo di Maria Stuarda (1542-1587), per poi attraversare due secoli di storia di letteratura scritta per duo, dove flauto e arpa si abbineranno per le loro dolci e intense sonorità.
Il 14 maggio la brava Emanuela Susca eseguirà un programma per due chitarre e flauto traverso.
Un altro esempio di ricerca musicale sarà la collaborazione nata con il professor Lazzari, docente al Conservatorio Girolamo Frescobaldi di Ferrara, e il suo ensamble di musica antica, con strumenti antichi (flauti barocchi, cembalo e viola da gamba). Ci cimenteremo insieme in un duo per flauto moderno e flauto barocco.
Il 26 maggio, sarà molto bello anche il concerto del gruppo Nuova ricerca musicale, molto caratteristico per la varietà di sonorità che si presenteranno, con i suoni di liuti, viole da gamba, violino, viola e flauti a becco.

L’innovazione e la ricerca musicale per lei sono fondamentali….
Credo fortemente che la musica abbia bisogno di attingere dal passato per evolversi nel presente e quindi proiettarsi nel futuro. Occorre suonare la musica del passato con strumenti del passato, come è giusto interpretare la musica moderna con strumenti moderni. La contaminazione tra strumenti del passato e strumenti moderni può essere sublime. Ricercare un certo tipo di suono d’insieme e di fraseggio musicale è sempre stato parte fondamentale della mia attività di ricerca artistica come musicista e interprete. L’evoluzione del suono equivale all’evoluzione del linguaggio sociale dell’uomo del XXI secolo. Attingere dal passato ed evolvere le sonorità è come quando un artista figurativo si spinge oltre il significato della mera figura e dona più enfasi alla sua opera, o con il colore o con un taglio su una tela antica o con una frase del passato sopra a un cartellone bianco gigantesco. Il suono e la sua evoluzione sono la stessa cosa: l’evoluzione del suono va di pari passo con l’evoluzione dell’uomo e del suo modo di esprimersi nel nuovo mondo.

Contenta di vivere a Ferrara?
Ferrara è ormai la mia città, mi sento a casa, al sicuro, mi sento avvolta dalla bellezza totale, vivo tra opere d’arte e storia, qui ci sono molti artisti amici cari.

Prossimi impegni?
Ho molti progetti e idee ma per dirla con Beethoven:” Sarà il destino a bussare ancora alla mia porta….”

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Note di vita: la scalata musicale di Laura Trapani, flautista

A Ferrara Off germogliano una nuova mostra e nuovi incontri letterari

Le sculture dalle forme sinuose sono disposte ovunque, si intravedono già attraverso le grandi finestre dello spazio bianco di Ferrara Off. Alcune sono appena accennate, grumi di materie, stese sui pavimenti chiari; altre si innalzano, emergono da grandi semi spaccati in due, con una tale energia e naturalezza che sembrano emanare luce propria.
Siamo all’inaugurazione della mostra “Germoglia” di Elio Talon, artista poliedrico che abbina scultura e poesia, lingua italiana e dialetto veneziano. Il concetto del germoglio è la radice su cui cresce tutta l’esposizione, nella quale si possono osservare le fasi della crescita e del mutamento, simbolicamente associate a figure di donna.
Dopo la presentazione di Monica Pavani, poetessa ferrarese che ha collaborato all’allestimento della mostra, e l’ascolto di un testo di Elio Talon, letto dal poeta Andrea Tombini, è l’artista stesso a presentare l’esposizione. “Le mie opere si sviluppano su tre livelli: il primo è rappresentato dalla materia in diverse misure, ma ancora nel suo stato non totalmente formato, una figura femminile che, come un seme, è stesa sul terreno. La mutazione è in atto, non ci troviamo davanti al concetto di immobilità, ma a un continuo movimento, tanto che la stessa pelle di ceramica delle sculture è tesa, come un seme che si gonfia”.
Le figure non rappresentano un’evoluzione, da materia grumosa a sinuosa figura femminile, bensì un rapporto continuo tra materia e spiritualità, come se il germogliare di questi semi fosse paragonabile al concepimento dell’anima legata alla materia.
Il secondo livello è rappresentato da figure che possiedono forme più definite, come le “donne aratro”, figurazione della capacità femminile di essere attiva, feconda a se stessa. È lei che trascina il solco, crea il terreno fertile in cui saranno piantati i semi che, quando sarà il momento, germoglieranno.
“Mi ricordavo quando, da bambino, mi capitava di vedere gli aratri – racconta Elio Talon – Prima di essere utilizzati sembravano strumenti vecchi e usurati, pieni di ruggine, ma alla fine dell’aratura splendevano come specchi. Questo succede alle mie donne aratro: prima rugginose, dopo luminose”.
A questo secondo livello appartengono anche le donne goduriose, solitamente di colore lilla o viola, che esercitano il diritto di procurarsi il piacere, di godere di loro stesse. Per quanto donne nell’aspetto, esse rappresentano anche il lato maschile, in comunione con quello femminile, presente in ogni essere umano.
Al terzo livello, infine, appartengono le figure al centro della sala: le “donne germoglio” e il “grande sacerdote”.
Ciò che caratterizza queste donne, intente a germogliare dai semi divisi in due parti da un solco dall’interno color ruggine, è la luminosità e l’idea di nuovo e di purezza che emanano. La bellezza della composizione è unita alla delicatezza che la rottura del guscio esterno suggerisce, come quella che attribuiremmo a una nuova vita.
La scelta di cosa esporre nello spazio bianco di via Alfonso I d’Este è avvenuta dopo averlo visitato e Monica Pavani mi spiega i passi di questo processo creativo. “Tutto è avvenuto in un processo alchemico: Elio Talon ha una produzione abbastanza fitta di opere che si dividono tematicamente. Subito dopo aver visto lo spazio, ci ha proposto l’idea del germoglio, che poi ha fatto da filo conduttore. Quando è entrato nella stanza di Ferrara Off ha deciso di contornare le ‘Germoglie’ con una popolazione di altre sculture e poesie. L’idea è il radicamento: un rapporto molto forte con la materia che però è anche una spinta verso altro. Questo essere radicati serve per elevarsi in un altro spazio. È un filo diretto tra le stelle e la terra. Questo spazio, che ha come caratteristica la nudità, anche perché mancano anche delle cose concrete, è stato il contesto perfetto per l’esposizione”.

Dopo l’inaugurazione di fine 2015, questo luogo espositivo ricomincia a vivere anche con gli incontri Domeniche d’estate. “L’idea – mi spiega Monica – è di dare spazio non necessariamente ad autori del territorio o celebri. Ci interessa avere con noi artisti disposti a creare un contatto con chi partecipa, a mettersi in gioco. La dinamica degli incontri vedrà la lettura come parte preponderante, non saranno presentazioni ufficiali, ci interessa far sentire la scrittura. Il primo appuntamento sarà tenuto da me e Andrea Tombini, che stasera ha letto una poesia non sua, ma è autore. Il secondo sarà un incontro di prosa, ma con una forte base poetica. L’ospite sarà Sandro Abruzzese, l’autore di “Mezzogiorno padano”, un libro che mostra il punto di vista di chi si sposta dal sud, raccontando di personaggi che hanno la caratteristica di essere in transito. Il terzo appuntamento è ancora in itinere, perché l’artista, il poeta algerino Tahar Lamri, che vive da anni in Italia, ha incontri anche in Francia. Ci terrei molto ad averlo qui perché porterebbe un insieme di frammenti, sia in arabo sia in italiano, in cui vorrebbe si inserissero, in un’opera di tessitura comune, altri autori italiani. Sarà poi proprio Elio Tanon a chiudere il ciclo, domenica 26 giugno, mostrando un altro aspetto della sua natura artistica, presentando e leggendo le sue poesie”.
L’associazione Ferrara Off continua così a lavorare perché si crei uno spazio nuovo, diverso da quelli più istituzionali: “il nostro intento è renderlo un luogo di cultura che sia in continuo dialogo con la città. Come associazione, vorremmo che quello che realizziamo in questi spazi creasse un dialogo molto stretto con chi ne fruisce. La natura dello spazio ha come grande pregio quello di consentire una connessione, l’abbiamo notato anche con il teatro, e crediamo che ci sia necessità di questo adesso, non solo da parte nostra, ma anche dalle persone che frequentano i luoghi di Ferrara Off. Ci piacerebbe anche creare collaborazioni con gli altri organismi culturali cittadini, per lavorare su un percorso più completo e intimo tra arte e cittadini”.

Elio Talon, “Germoglia”, presso lo spazio Ferrara Off fino al 26 giugno. Per tutte le info clicca qui.

Foto di Chiara Ricchiuti. Clicca sulle immagini per ingrandirle.

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DIARIO IN PUBBLICO
Essere bambini oggi

I bambini in questi giorni sono sulle prime pagine di tutti i giornali: dal feroce delitto di Fortuna-Chicca-Loffredo alle immagini delle nascite brutali tra le baracche di Idomeni, ai corpi straziati dei bimbi che il mare ha ributtato sulla spiaggia; quel mare a cui Montale si rivolgeva come un impassibile giudice “come fai tu che sbatti sulle sponde tra sugheri alghe asterie le inutili macerie del tuo abisso”.
E le cronache rimandano immagini di un tempo feroce, dove maestre picchiano bambini e li maltrattano e li strattonano, dove vicini di casa occultano feroci delitti commessi su bimbetti indifesi, dove per punire chi non ubbidisce alle leggi del clan il figlio viene sciolto nell’acido. E dove si creano dai bimbi feroci miliziani settenni che uccidono a colpi di pistola gli ostaggi.
Infanzia violata, si diceva un tempo, mentre scorrono come per incantamento – direbbe Ariosto – i fotogrammi finali della “Dolce vita” in cui la bimba guarda perplessa il mostro marino. Ma l’infanzia e la prima giovinezza sono di per sé le età privilegiate di un contatto con il mondo che può essere ancora una volta la possibilità di costruirsi un futuro. E non solo con le immagini di Gomorra.
E mentre la nostra vita s’avvia a un punto di non ritorno i ricordi dell’infanzia si moltiplicano. Improvvisamente assumono una valenza fondamentale. Il cestino del pranzo comprato in un negozio che ancor oggi resiste di fronte all’asilo Sant’Anna, il pizzicore provocato dai calzettoni di lana lavorati da nonna, il vestito con la giacchetta a doppio petto della prima comunione identico a quello di mio fratello fatto con le stoffe Unra. E quelli più recenti di nipoti e pronipoti, amatissimi, rispettati nel loro lento avviarsi a diventare uomini e donne liberi di scegliere, ma non più protetti dall’innocenza a cui tutto noi “grandi” abbiamo aderito, ma con la responsabilità di un destino che li ha resi tali quali oggi li vediamo e amiamo.
Ancora una volta il contatto con i ragazzini crea un corto circuito difficilmente dimenticabile. Così m’avvio a Mesola per parlare di Ludovico Ariosto a una nutrita schiera di ragazzi di terza media. Che bella mattinata! Al Castello della Mesola per la fiera dell’asparago, non per comprare l’amatissima verdura, ma per parlare a circa 150 ragazzini di terza media su Ariosto. E’ l’unica cosa che conti. Doversi sforzare (ed è fatica grandissima specie per noi ‘intellettuali’… brrr… che nome) di rendere comprensibile ai ragazzini la meravigliosa poesia di Ludovico. E che soddisfazione! Naturalmente l’Ippogrifo la fa da padrone, ma anche le facce dell’Ariosto e anche le storie di Lucrezia. Un mormorio s’alza dalle fila dei maschi quando proietto l’immagine di Lucrezia Borgia nelle vesti di Flora con un seno scoperto. Avverto di non commentare, ma qualcuno mi domanda se può almeno dire “Oh!” Concesso. Le ragazze guardano con evidente disprezzo, loro, i ragazzini attenti più ai loro giochi puerili che alle storie d’amore che il poeta racconta e che hanno per centro sempre e comunque l’amore. Fino alla pazzia.
Si conclude la chiacchierata con evidente soddisfazione mia, ma anche loro. Sollecito domande che non arrivano o vengono rimbalzate dall’uno all’altro. Poi alla fine tra lo scrosciar degli applausi – non so se indotti o sinceri, ma m’illudo e propendo per la seconda ipotesi – il più sveglio in seconda fila mi chiede se può fare una domanda. Ovviamente rispondo positivamente. E con aria furbetta dice “ Che ore sono?” Di fronte alla mia perplessità e alle risate dei compagni alla fine capisco: avevo sforato di venti minuti il limite della lezione.
Si dice, e forse è vero, che i ragazzi specie nella pubertà, ma anche nell’infanzia sono crudeli. Ma qual è il senso di questa crudeltà? Anche Micòl nel “Giardino dei Finzi-Contini” può essere giudicata crudele. E crudeli sono i giovani che commentano la diversità di Athos Fadigati, il medico omosessuale degli “Occhiali d’oro” o il protagonista di “Dietro la porta”. E’ tuttavia una crudeltà che noi adulti giudichiamo tale e che fa parte dell’umanità. Cioè non è indotta, ma insita nel genere umano. A meno che non si tratti di una crudeltà che ha origine dalla diversità. E allora, secondo un’invenzione potente dello scrittore Bassani, diversità è crudeltà poiché il mondo – e noi stessi – la giudichiamo attraverso il vetro della distanza che ci allontana dalla realtà. E’ la vetrina dietro la quale immobile ci fissa la sagoma dell’airone impagliato non più legato alla sofferenza dei colpi di arma da fuoco che lo hanno abbattuto. Sono gli occhiali che condannano la scelta di Fadigati. E’ la porta dietro la quale Cattolica spia la vita.
L’innocenza e/o la crudeltà dei giovani fanno parte della vita a meno che non le si legga con gli occhiali della diversità. O ancor peggio non le si corrompa con la ferocia del non umano: il mostro che ha ucciso l’innocenza di Fortuna o i mostri che abituano i bambini alla pratica della morte come gioia, senso del potere, odio contro la vita.

NOTA A MARGINE
La mega macchina tecno-sociale

Oggi viviamo all’interno di una mega-macchina socio-tecnica di cui siamo, nostro malgrado, parti e componenti costitutive e senza la quale molti di noi non riuscirebbero a vivere. Essa è composta da grandi infrastrutture e piattaforme tecnologiche, organizzazioni e istituzioni, processi interconnessi, macchine e miliardi di persone diversamente collegate. L’orologio, il mercato, la gerarchia, il diritto, inteso come fonte delle regole legittime del suo funzionamento, ne sono componenti imprescindibili, connesse tra di loro dal principio di efficienza. Il primo misura e quantifica il tempo in modo lineare e uniforme, consentendo di sincronizzare e pianificare le infinite attività umane che costituiscono la vita sociale ed economica. Il secondo coordina come una mano invisibile e impersonale, efficiente per definizione, gli scambi tra tutti gli attori, singoli e collettivi, partecipanti. La terza organizza il potere all’interno di ogni entità strutturata sia essa uno Stato, un’azienda, un esercito, una politica. Il quarto definisce le regole e le legittima rendendole obbligatorie con tutta la forza degli apparati deputati al mantenimento dell’ordine costituito. Le tecnologie, infine, rappresentano e sempre più spesso, l’ossatura, i muscoli e l’apparato nervoso di questa immane sistema: ciò che ne amplifica ed esalta la potenza.
Malgrado le sue singole componenti diventino sempre più specializzate e sovente autoreferenti, la mega-macchina è in costante avanzamento nella direzione di una sempre maggiore integrazione a livello planetario. Lo vediamo chiaramente nei processi di globalizzazione, nella diffusione di internet e nell’applicazione delle tecnologie digitali in ogni settore economico; lo osserviamo nella eliminazione delle barriere agli scambi economici e finanziari, nella nascita di normative sempre più astratte che pretendono di avere validità universale surrogando e mettendo in discussione i contenuti delle costituzioni nazionali.
Lo cogliamo chiaramente nella mobilità estrema delle classi creative, nelle elite di tecnici, scienziati ed ingegneri, che parlano un unica lingua veicolare, condividono medesime forme di sapere, si muovono con disinvoltura su un palcoscenico che comprende tutta la terra.
Da tempo lo vediamo all’opera nelle imprese multinazionali, grandi protagonisti del mutamento in corso; la tendenza appare con tutta evidenza nell’iper-specializzazione delle competenze e nell’applicazione sistematica di tecniche codificate ad ogni possibile campo di attività umana, nell’industrializzazione di ogni processo di trasformazione e nella sostituzione incessante del lavoro umano con quello delle macchine intelligenti.
La finanza rappresenta forse il settore più altamente integrato e, non a caso, essa sta al timone di comando della mega-macchina. La politica, che in un altro modello sociale doveva esprimere i fini, è diventata essa stessa un attributo della finanza e il suo scopo prioritario sembra ormai divenuto rimuovere gli ostacoli alla sua affermazione, promuoverne il rafforzamento e l’ampliamento, poiché la sua vitalità sembra essere, anche per molti politici, l’unico meccanismo in grado di garantire la prosperità e la vita civile.
Agli occhi dei suoi sostenitori la mega macchina sembra ormai crescere allo stesso modo naturale con cui cresce una foresta; agli occhi dei suoi detrattori si diffonde con la stessa pervicacia di un cancro che minaccia un organismo non più sano. Ogni nuova connessione internet, ogni telecamera installata sul territorio, ogni norma che libera il flusso di merci e capitali oppure intralcia e impedisce scambi propri dell’economia informale, rappresenta un passo in quella direzione.
Nel suo implacabile cammino di sviluppo la mega macchina procede per balzi e contraccolpi. Crescita del Pil e occupazione sono le variabili fatte proprie dal senso comune che rappresentano, per così dire, la parte socialmente accettata del meccanismo generale che spinge verso un controllo sempre più diffuso e un’integrazione crescente. La sua capacità produttiva e ri-produttiva sembra quasi infinita e, laddove essa non riesce a convincere attraverso la forza dei suoi numerosi apparati retorici, distrugge avvalendosi dei mezzi messi a disposizione dalla tecno-scienza.

Malgrado questo, o forse a causa di questo, la vita sociale non è mai apparsa cosi complessa, per certi versi così libera; immerse in un mondo di merci e servizi le persone si muovono cercando una loro identità innanzitutto nel consumo. Ogni desiderio diventa prima pretesa e quindi diritto. Ogni persona che nasce e cresce in questo sistema viene cresciuta come consumatore e portatore di infiniti bisogni che devono essere soddisfatti. I miti di progresso, libertà e democrazia sostengono a livello sociale lo sviluppo della mega macchina quando le sue esternalità diventano insostenibilmente imbarazzanti. Le distruzioni prodotte dai meccanismi espansivi alla periferia del nucleo più avanzato del sistema generano flussi migratori colossali che diventano a loro volta spinte per rafforzare ulteriormente il sistema; le esternalità che ricadono all’interno si traducono nella corruzione dei vincoli di fiducia, nell’aumento dell’insicurezza percepita, provocando richieste di maggiore controllo, che applicate, contribuiscono all’espansione della mega-macchina.
La forza di attrazione che essa esercita resta però irresistibile: per miliardi di persone l’importante non è vivere bene ma poter vivere all’interno del sistema, goderne i frutti, farne parte, esserne protagonisti e non venirne espulsi. Bene o male che sia, il mondo sembra diviso in due: persone incluse e connesse (forse dipendenti) e persone escluse (che tentano di sfuggire dal o di entrare nel sistema); questa dicotomia si allarga a tutto il vivente contrapponendo, per esempio, gli animali domestici umanizzati che vivono nelle famiglie e sono curati come figli, agli animali trasformati in oggetti di consumo, ridotti a macchine da carne o a variabili della produzione.

I drammatici cambiamenti di questi anni possono essere spiegati all’interno di questo quadro: da un lato un immenso tecno-sistema che diventa sempre più integrato e pervasivo, che assume forma di un ambiente di vita esclusivo, sostituendosi a quello che era l’ambiente naturale; dall’altro, un sistema sociale turbolento e composito che regredisce spesso verso aspetti meramente utilitaristici ed egoistici, ma che è sempre impegnato nella costante ricerca di senso. Non è in quest’ottica privo di significato il ritorno di termini quali comunità, clan, branco, banda, setta e tribù che sembravano superati dal cammino trionfante della modernità razionalizzatrice; né può essere sottaciuto il diffondersi rapidissimo di discipline, pratiche e professioni specificatamente centrate sull’aiuto emotivo, psicologico, religioso e spirituale.
Persone che ormai non sono più in grado di vivere indipendentemente dal sistema, si aggregano per necessità in forme non previste dal sistema stesso; persone che cercano speranza sfuggendo per quanto possibile da esso si attivano per costruire comunità e ambienti significativi di vita fondati su presupposti differenti, a volte religiosi a volte tradizionali; persone volenterose si aggregano nelle infinite forme del non profit per affrontare i disagi e i problemi generati dal funzionamento impersonale della mega macchina; altre persone travolte dai meccanismi del sistema sono abbandonate a se stesse e sempre più spesso dipendono dal buon cuore degli altri perché il sistema ha smesso di prendersene cura.

Da un lato ci sono dunque le forze che tendono a rafforzare a ogni costo il sistema socio-tecnico planetario, dall’altro una vasta costellazione di forze che ricercano nel umano sociale fonti di gratificazione che quel sistema non è più in grado di garantire. I due livelli sono ora contrapposti ora e più frequentemente intrecciati in forme che assumono colorazioni politiche e sociologiche assai diversificate.
Non mancano i profeti della tecno-scienza che predicano un evoluzione verso il transumano potenziando i corpi delle persone con le biotecnologie, connettendoli direttamente alle macchine intelligenti, fino a pensare di scaricare le menti su un supporto digitale per conquistare una forma di immortalità. Non mancano coloro che rifiutando l’attuale sistema, si adoperano per trovare alternative sociali capaci di risolvere la crisi, creando un mondo nuovo fondato su presupposti differenti da quelli del neoliberismo finanziario imperante. Non mancano neppure innovatori sociali che credono sempre più necessaria una nuova pedagogia che insegni a vivere nella consapevolezza accettando la complessità e la sfida.
Per vivere bene in questo mondo, per contribuire ad un evoluzione che non sia semplicemente distruttiva, per indirizzare bene le potenzialità offerte dalla tecno-scienza evitando contrapposizione meramente utilitarie o ideologiche, occorre riscoprire il senso delle virtù e delle doti morali, riscoprire la cifra della socialità e della relazione, recuperare il senso di responsabilità ad ogni livello; forse è venuto il momento di superare l’idea perversa che i vizi privati si trasformino magicamente in pubbliche virtù.