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Un Germoglio di economia sostenibile: le bici di Ricicletta nate dagli scarti

FullSizeRender-14“Il capitalismo fine a se stesso è morto. In questo tempo di crisi si deve mettere al centro l’uomo e dall’uomo stesso partire per creare una nuova economia”. E’ che con queste parole che Mauro Giannattasio, segretario generale della Camera di Commercio di Ferrara, apre la conferenza stampa di presentazione del bilancio di sostenibilità della Cooperativa Sociale “Il Germoglio”, tenutasi questa mattina proprio presso la sala conferenza della Camera di Commercio.
La sala è piena di gente e tantissimi sono gli imprenditori presenti. La conferenza stampa, alla quale sono intervenuti Sabrina Scida, presidente della cooperativa, Ruggero Villani, direttore delle Confcooperative Ferrara, il vice sindaco Massimo Maisto, Roberto Ricci Mingani, responsabile dell’Ufficio Qualificazione delle Imprese dell’Emilia Romagna, Paolo Fabbri, presidente della società Punto 3, Gianluca Gardi della cooperativa Il Germoglio e Aldo Modonesi, assessore ai Lavori Pubblici, è stata l’occasione per celebrare i 25 anni di attività della cooperativa Il Germoglio e parlare delle tante attività portate avanti dalla stessa.

riciletta 2Tra le tante spicca Ricicletta, laboratorio di inserimento lavorativo che si occupa di riciclare vecchie biciclette costruendone di nuove con i pezzi di scarto, che ha vinto il premio Responsabilità sociale d’impresa, anno 2016, in considerazione del fatto che, come recita la motivazione: “Il progetto ha saputo raccogliere un patrimonio di cultura e artigianalità locale realizzando una nuova attività imprenditoriale orientata ai valori della mobilità sostenibile e del riuso”.

Il Germoglio costituisce un esempio virtuoso tra le cooperative con i suoi 188 soci dipendenti, regolarmente assunti, di cui ben 141 donne e 47 uomini, e il 72% di lavoratori svantaggiati. Inoltre quasi la metà del fatturato proviene da privati, risultato quasi incredibile in considerazione del fatto che le cooperative di solito lavorano con proventi pubblici.

I temi centrali affrontati durante la conferenza stampa sono stati la responsabilità sociale d’impresa e la sostenibilità come nuovo modello produttivo. Il vice sindaco Maisto ricorda come “Spesso la cooperativa sociale viene vista coma la ruota di scorta dell’economia o come qualcosa di poco trasparente. Invece, dati alla mano, le cooperative sono forme d’impresa che riescono, meglio di tutte, a fronteggiare la crisi economica. Il concetto di sostenibilità, fondante per il Germoglio, deve diventare d’esempio per una città come Ferrara che, puntando sulle sue risorse (turismo e agricoltura tra tutte) può aspirare a diventare esempio del “buon vivere” ”. Nel suo intervento Roberto Ricci Mingani sottolinea come “la responsabilità sociale non significa solo restituire il mal tolto al territorio in cui si opera ma bisogna credere, anche a livello di istituzioni, nella connessione tra impresa e territorio”. La Regione Emilia Romagna promuove la cultura della responsabilità sociale di impresa e l’innovazione responsabile sostenendo economicamente progetti che coinvolgono le imprese di qualunque settore produttivo, le parti sociali e gli enti che operano per la promozione della responsabilità sociale e dell’innovazione sociale.

L’importanza dell’economia cooperativa viene ribadito da Ruggero Villani, direttore delle Confcooperative Ferrara, il quale si dice felice dei risultati conseguiti dal Germoglio che rappresentano “un orgoglio per le Confcooperative. Il modello economico per cui prima si fa economia e poi si pensa al sociale ha fallito. Bisogna unire le due cose ma non per un senso di buonismo ma perchè la cooperativa diventi un modello su cui si basa il sistema economico in tempo di crisi. La società funziona se c’è più diffusione della ricchezza”. Dopo la proiezione di un video che raccoglie le impressioni di chi lavora presso l’officina di Ricicletta e la spiegazione dei dettagli tecnici del bilancio di sostenibilità presentato dal Germoglio e curato dalla società Punto 3, è tempo di formulare dei buoni propositi perchè Ferrara possa davvero rilanciare la propria economia attraverso modelli economici sostenibili. L’assessore Modonesi ricorda i tempi in cui la cooperativa il Germoglio è stata costituita “tempi eroici: io c’ero. Non sono mai mancati entusiasmo e professionalità ma è stata dura”. Anticipa poi che il Germoglio potrebbe occuparsi del recupero delle aree circostanti la stazione ferroviaria, con la creazione di una vera velostazione, e dell’area intorno all’ex teatro Verdi. Nei programmi del Comune poi c’è la creazione di nuove piste ciclabili che possano consentire ai cittadini un sempre maggior utilizzo della bicicletta e agli amanti del turismo su due ruote di trovare una città che possa accontentare le loro richieste a livello di viabilità e strutture ricettive.

Il futuro esige che si parli sempre più di riciclo e sostenibilità economica: il guanto di sfida è lanciato e Ferrara non si tira indietro.

 

LA LETTURA
Il confine fra Giulia Bassani e Ignazio Silone nell’Europa squassata da totalitarismi e venti di guerra

confine di giuliaGennaio 1931. Giulia Bassani, giovane poetessa raffinata e tormentata, vive in un hotel di Zurigo come in esilio, lontana da tutti e indifferente a quanto le accade attorno. È in cura dallo psicoanalista Carl Gustav Jung, nella speranza che la psicologia del profondo la aiuti a superare il suo malessere interiore. Tra i frequentatori dello studio di Jung c’è anche un rivoluzionario italiano rifugiato in Svizzera, Ignazio Silone. La sua esistenza è a una svolta: è accusato da Togliatti di tradimento e doppio gioco, vuole abbandonare il lavoro politico e diventare uno scrittore. Ha terminato il suo primo romanzo, Fontamara, ed è in cerca di un editore.
Giulia e Ignazio si conoscono in una fredda mattina al parco Platzspitz e per un anno, nel pieno dell’ascesa del nazismo e della crisi della democrazia, si amano. Si amano nonostante un’incolmabile distanza intellettuale e uno sguardo antitetico sul mondo, che li condurrà verso destini divergenti.
Con una scrittura accurata e sensibile, Giuliano Gallini si muove tra finzione e verità storica per raccontare, attraverso una vicenda intima, un momento cruciale della storia europea del Novecento, e le vicende e contraddizioni di una delle figure più rappresentative della letteratura italiana di quel periodo.

Il romanzo “Il confine di Giulia” sarà presentato venerdì 27 gennaio alle 17,45 alla libreria Feltrinelli di Ferrara. Con l’autore dialogherà Sergio Gessi, direttore di Ferraraitalia

L’autore: Giuliano Gallini è nato a Ferrara e vive a Padova. È dirigente di una delle maggiori aziende italiane di servizi, dove si occupa di sviluppo e marketing. Il confine di Giulia è il suo primo romanzo.

Vai al sito del libro

 

“Tra realtà e invenzione, Gallini, attraverso l’intimità di una passione, ricostruisce un momento cruciale della storia europea del Novecento, delineando il ritratto di una giovane, focosa, confusa, promessa della letteratura italiana. Me ne sono innamorata subito. Leggetelo.”
Giulia Ciarapica – Il Messaggero [Leggi la recensione]

IL JAZZ
David Torn ‘Sun of goldfinger’, unica tappa italiana del tour europeo

Da: Ferrara Jazz Club

Sabato 21 gennaio il Jazz Club è pronto ad ospitare in esclusiva nazionale Sun of Goldfinger, progetto firmato da David Torn, uno dei più rivoluzionari chitarristi jazz degli ultimi trent’anni. Nell’inoltrarsi in questo imprevedibile viaggio sonoro il leader si avvale di altri due protagonisti assoluti della scena creativa newyochese come il sassofonista Tim Berne ed il batterista Ches Smith.

Sun of Goldfinger, progetto che sarà presentato sabato 21 gennaio (ore 21.30) al Jazz Club Ferrara in esclusiva nazionale, rappresenta il grande ritorno di uno dei più rivoluzionari chitarristi della storia del jazz degli ultimi trent’anni, David Torn.
Torn (Amityville, NY, 1953) è un personaggio difficile da inquadrare per l’incessante e vulcanica vena creativa che lo conduce da sempre a realizzare, instancabilmente, nuovi progetti musicali, colonne sonore per cinema (Traffic, Il Grande Lebowski, Kalifornia…) e videogames, loop e samples per software musicali.
‘Chitarrista strutturale’, così si definisce, Torn è artefice di una ricerca musicale che non solo ha rivoluzionato l’uso dello strumento, ma che ha reso esplorabili territori sonori finora sconosciuti. Questi ultimi, attraverso distorsioni ed effetti che producono una palette di toni incomparabile, si nutrono tanto di jazz ed improvvisazione, quanto di rock e musica folk.

A metà degli anni’80 Torn esordisce per l’etichetta ECM con ‘Best Laid Plans’, a cui segue di lì a poco ‘Cloud About Mercury’: due geniali tasselli dell'evoluzione di un jazz-rock d'avanguardia, spigoloso e cerebrale, ma assolutamente personale e originale.  Il secondo, in particolare, gli apre le porte a collaborazioni con artisti quali David Sylvian, David Bowie, Ryuichi Sakamoto e Ravi Shankar tra gli altri.
Nel 1992 la carriera dell’artista registra un brusco stop a causa di una perniciosa malattia, superata la quale Torn, come fortificato, ha ripreso la produzione discografica innescando nuovi proficui sodalizi con John Zorn, Jeff Beck e Tim Berne.
Proprio con quest’ultimo, amico di lunga data e già in ‘Prezens’ (ECM, 2007), penultimo disco del chitarrista, Torn forma Sun of Goldfinger, straordinaria triade completata dalla presenza di un altro folgorante protagonista della scena creativa newyorchese, il batterista Ches Smith.

INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Infoline 339 7886261 (dalle 15:30)
Prenotazione cena 333 5077059 (dalle 15:30)
Il Jazz Club Ferrara è affiliato Endas, l’ingresso è riservato ai soci.

DOVE
Torrione San Giovanni via Rampari di Belfiore, 167 – 44121 Ferrara. Con dispositivi GPS è preferibile impostare l’indirizzo Corso Porta Mare, 112 Ferrara.

COSTI E ORARI
Intero: 20 euro
Ridotto: 15 euro (la riduzione è valida prenotando la cena al Wine Bar, accedendo al solo secondo set, fino ai 30 anni di età, per i possessori della Bologna Jazz Card, per i possessori di MyFe Card, per i possessori della tessera AccademiKa, per i possessori di un abbonamento annuale Tper, per gli alunni e docenti del Dipartimento Jazz del Conservatorio ‘G. Frescobaldi’ di Ferrara. Pari al 10% per i possessori di Jazzit Card)
Intero + Tessera Endas: 25 euro
Ridotto + Tessera Endas: 20 euro
NB Non si accettano pagamenti POS
Apertura biglietteria: 19.30
Cena a partire dalle ore 20.00
Primo set: 21.30
Secondo set: 23.00

Le storie che fanno la Storia: così Ferrara narra la sua Giornata della Memoria

A più di settant’anni da quel 27 gennaio 1945, quando i cancelli di Auschwitz sono stati aperti, testimoni e sopravvissuti se ne stanno andando e siamo ormai entrati nell’età della ‘post-memoria’: una sedimentazione costituita sempre più da rappresentazioni degli eventi della Shoah, non dagli eventi stessi o dalle testimonianze scritte oppure orali di quegli accadimenti.
E dato che l’oblio del genocidio è stato parte integrante del genocidio stesso, la Shoah fin dall’inizio ha richiesto maggiori sforzi collettivi per la sua trasmissione e rappresentazione: ciò che sfida le tradizionali categorie concettuali e interpretative è la tensione creata dalla contemporanea presenza della necessità di arrivare una verità storica e del problema rappresentato dall’opacità dell’evento. “Dire l’indicibile” o “comprendere senza spiegare”, espressioni spesso sentite a proposito dell’Olocausto, non sono solo retoriche.
A tutto questo si aggiunge la spersonalizzazione delle vittime, prima come crudele strategia dei carnefici durante lo sterminio, e poi come trappola nella quale rischia di cadere chi si confronta con la narrazione e la memoria di una ‘tragedia’ divenuta paradigmatica di quello che viene chiamato il ‘secolo dei genocidi’.

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Anna Quarzi

Per tutte queste ragioni le celebrazioni ferraresi della Giornata della Memoria 2017 hanno al contrario lo scopo di “personalizzare” la Storia, raccontandola attraverso storie di persone che hanno vissuto da prospettive diverse quegli anni drammatici per l’Italia e l’Europa. È la professoressa Anna Quarzi, direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, a darci questa chiave di lettura del programma del Comitato Provinciale 27 gennaio, del quale – oltre all’Istituto da lei guidato – fanno parte: il Comune, la Questura e il Comando Provinciale dei Carabinieri e della Guardia di Finanza di Ferrara, l’Archivio di Stato, l’Università degli studi e l’Ufficio scolastico provinciale di Ferrara, la Comunità ebraica cittadina e la Fondazione Meis, il Museo del Risorgimento e della Resistenza e le associazioni ferraresi dei partigiani, dei combattenti e dei reduci, delle vittime civili e dei dispersi in guerra.
In particolare, ci spiega Anna Quarzi, “quest’anno parleremo delle vittime e dei giusti, non solo quelli ufficialmente riconosciuti dallo Yad Vashem in Israele”. Ecco il senso del Convegno “La memoria della Shoah e i Giusti fra le Nazioni”, organizzato da Istituto di Storia Contemporanea, Fondazione Meis e Università di Ferrara in collaborazione con la Comunità Ebraica, nel pomeriggio di giovedì 26 nell’Aula Magna del dipartimento di Giurisprudenza in Corso Ercole I d’Este: “un momento scientifico importante per ricostruire la nozione di ‘giusto’ dal punto di vista filosofico e giuridico, ma anche per narrare le storie di giusti”. Durante la mattinata, la cerimonia ufficiale di deposizione di una corona presso il cippo che ricorda i cittadini ebrei ferraresi reclusi nella Caserma Bevilacqua in corso Ercole I d’Este nel gennaio 1944 racchiude entrambi i temi, dei giusti e delle vittime: il presidente della Comunità Ebraica Andrea Pesaro ricorderà i componenti della comunità qui detenuti dopo il bombardamento del carcere in via Piangipane, il Questore Antonio Sbordone “nel suo intervento “Il dovere verso la legge e il dovere verso l’uomo” parlerà agli studenti di persone delle Istituzioni che si sono prese la responsabilità personale di salvare cittadini italiani di origine ebraica andando contro le leggi che avrebbero dovuto rispettare”, sottolinea la professoressa. “Inoltre – prosegue Quarzi – continuiamo il lavoro di ricerca sugli internati militari e civili, perché dobbiamo ricordare che la legge del 2000 include tutti “gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte”. Quest’anno consegneremo ai famigliari tre Medaglie d’Onore, conferite dal Presidente della Repubblica agli ex internati militari e civili ferraresi nei lager nazisti e destinati al lavoro coatto durante il secondo conflitto mondiale. Fino a oggi ne abbiamo consegnate circa duecento”. La cerimonia è prevista per venerdì 27 gennaio alle 10.00 presso la Sala Estense in piazza Municipale. Infine nella mattinata del 31 gennaio alla Sala Agnelli della biblioteca Ariostea si parlerà del ruolo della Guardia di Finanza negli aiuti ai profughi ebrei e ai perseguitati: “saranno presentate nuove ricerche su questo tema. Una cosa che forse non tutti sanno, per esempio, è che Vittore Veneziani, importante direttore di coro italiano fra le due guerre di origine ebraiche ferraresi e al quale è intitolata la conosciuta accademia Corale della nostra città, è stato salvato proprio dalla Guardia di Finanza”. E proprio l’Accademia Corale Vittore Veneziani dedicherà anche quest’anno un concerto alla Giornata della Memoria (sabato 28 alle ore 11 e domenica 29 alle ore 16,30 presso l’Auditorium Santa Monica dell’IT Bachelet in via R.Bovelli): attraverso la storia di tre bimbe ebree, di una bimba rom e di un preadolescente afgano si ripercorreranno vicende drammatiche in cui la salvezza degli uni si muove sullo sfondo della sventura di altri.
Un omaggio alla memoria delle vittime, ma anche un’occasione per conoscere un pezzo di storia ferrarese, è “Touch-Toccare alcune storie di cittadini ferraresi ebrei deportati”, 
installazione a cura di Piero Cavagna e Giulio Malfer, la cui inaugurazione martedì 24 gennaio alle 18 presso il Meis in via Piangipane, darà inizio alla settimana delle celebrazioni: dieci storie di componenti della comunità ebraica cittadina di tutte le età deportati ad Auschwitz e mai più tornati. A dare voce alle loro biografie saranno un racconto in prima persona e la loro foto, ricoperta da uno strato di inchiostro termo-cromico nero, che entrando in contatto con il calore delle dita delle mani dei visitatori, lascerà tornare alla luce i loro volti almeno temporaneamente.
Mercoledì 25 alle 11 nei locali del Museo del Risorgimento e della Resistenza sarà poi inaugurata la mostra “Una famiglia ferrarese ebrea: la storia d’Italia raccontata dai “Calabresi” (1867-1945)” a cura di Antonella Guarnieri. Ancora una volta una storia forse poco nota ai più: “Enrica Calabresi, scienziata e professoressa ebrea ferrarese trasferitasi a Firenze, ha avuto come allieva una giovane Margherita Hack, testimone della sua cacciata dopo l’introduzione delle leggi razziali nel 1938. Enrica è morta suicida nel 1944 per non essere deportata”, racconta la professoressa Quarzi.
Un altro evento dedicato alle vittime è “Anche “i sommersi” ebbero una voce: testimonianze di resistenza civile dai ghetti polacchi
”, intervento della professoressa Marcella Ravenna della Comunità Ebraica di Ferrara domenica 29 gennaio alle 21 presso la saletta del Centro Sociale Ricreativo Culturale Doro in viale Savonuzzi.
E a chi continua a interrogarsi sul significato della ricorrenza del 27 gennaio per le giovani generazioni, Quarzi risponde: “deve essere preceduta da un lavoro di preparazione con i ragazzi, come del resto facciamo con i viaggi della memoria. Si deve fare con loro una riflessione critica, non solo suscitare una reazione emotiva passeggera. Devo dire che riscontriamo una risposta di grande impegno da parte di tutte le scuole ferraresi: saranno circa 140 gli studenti che parteciperanno alla cerimonia in Sala Estense del 27 gennaio e tutti hanno partecipato a progetti sulla memoria. Infine c’è l’evento dell’8 febbraio, “Da Ferrara a Fossoli”, durante il quale alcuni studenti del Liceo Scientifico Roiti esporranno il lavoro che stanno facendo da più di un anno sui deportati ferraresi nel campo modenese in collaborazione con l’Archivio di Stato di Ferrara”.

Birkenau
Birkenau

Fin qui il programma ufficiale del Comitato 27 gennaio, ma la Giornata della Memoria verrà celebrata anche da altre realtà culturali ferraresi.
La collaborazione Ferrara Sintonie, fra Ferrara Musica e Ferrara Off, darà vita a due appuntamenti il 27 e il 29 gennaio. Venerdì alle 21 in Sala Estense, l’opera “Exil” del compositore georgiano Giya Kancheli, scritto per soprano, flauto, violino, viola, violoncello, contrabbasso, sintetizzatore e nastro magnetico, composto nel 1994 con testi della Bibbia, di Paul Celan e di Hans Sahl. I testi sono selezionati da Monica Pavani e interpretati da Diana Höbel e Marco Sgarbi, protagonisti anche della serata di domenica alle 18 nello spazio teatrale di via Alfonso I d’Este: “Troviamo le parole”, una mise en espace a cura di a cura di Giulio Costa e Monica Pavani. Ingeborg Bachmann e Paul Celan, due fra gli autori più significativi del Novecento, si incontrano nel 1948 quando lui, a soli ventisette anni è già un poeta conosciuto, mentre lei, più giovane di sei anni, non è ancora nota ma ha già deciso di vivere di scrittura; fra loro si creerà un rapporto di amicizia, amore, comprensione e disperazione che trovando respiro nello scambio epistolare che diventa man mano il racconto di due vocazioni.
In occasione della Giornata della Memoria, il Jazz Club del Torrione San Giovanni ospita poi l’ensemble Naigarten Klezmer che condurrà il pubblico attraverso un viaggio nelle tradizioni musicali degli ebrei dell’Est Europa, degli zingari Manouche e Rom e dei vicini Balcani.

Il programma del Comitato Provinciale 27 gennaio

Leggi anche:
Il Meis inaugura “Touch”, per far toccare con mano i volti della Shoah

I DIALOGHI DELLA VAGINA
L’effimero piacere delle montagne russe…

Spazio diviso tempo, uguale velocità. La formula dimenticata è stata la prima àncora di salvezza a cui la mente si è aggrappata quando B. si è sentita dire che era finita perché lui aveva bisogno di spazio e di tempo. Non volendo credere che sei anni stessero sfumando senza una litigata, un’incomprensione o un tradimento, B. si è concentrata sulla formula della velocità. Doveva razionalizzare, avere un perché. E la formula si è presentata l’unica risposta possibile: se io divido il tempo trascorso con lui per la strada fatta assieme, ottengo la velocità con cui può finire la nostra storia, quindi non basterà questa telefonata, dovrà darmi altre spiegazioni, darmi il tempo e lo spazio per capire o almeno accettare.
Se per lui tempo e spazio si moltiplicavano con la velocità con cui se ne stava andando, per lei erano diventati i confini del pantano dove era caduta. B. non capiva davvero, pensava che quella storia avesse raggiunto un equilibrio abbastanza solido, avvisaglie di stanchezza non ce n’erano, o almeno non le aveva viste. Per forza, mica era lei quella stanca tra i due.
B., allora, sente il bisogno di raccontare tutto ad A., un’amica schietta che non si è mai risparmiata affondi, ma anche grande vicinanza.
“Lo so che lui ti piaceva, ma se ci pensi non era la storia della tua vita” dice A.
“E quale sarebbe la storia della vita?”
“Quella che, alla fine, ti fa meno male”.
“Saperlo…”
“Credo che ci siano uomini sani, che non fanno male, magari un po’ opachi se paragonati a certe stelle, ma che ti permettono di fare un cammino sereno e pianeggiante. Certo, devi rinunciare all’adrenalina e alle capovolte delle montagne russe, ma credimi che dopo un paio di giri è meglio scendere, abbiamo bisogno di respirare. Hai passato fin troppo tempo a testa in giù, è ora che tu stia con i piedi per terra”.
“Non sarà facile” risponde B.
“Devi ricordarti che lui ti ha liquidata con una telefonata. E sai perché lo ha fatto? Perché doveva compiere, ancora una volta, il suo narcisismo che nulla deve all’altro”.
E a voi, che uomini o donne sono capitati? Da montagne russe o da passeggiata tranquilla? Narcisisti o persone che non fanno male?

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

DIARIO IN PUBBLICO
Dimmi come si veste e ti dirò cosa vota. Moda e politica

Le guardo pensoso mentre coloro che le detengono s’aggiustano riccioli e cernecchi. Tutti attenti al passo mentre infilano la porta delle rispettive sedi di partito o movimento: si voltano di scatto e mostrano con sapiente noncuranza facce sorprese e un po’ annoiate. Nella ‘postura’ grande importanza ha lo zainetto portato preferibilmente su una spalla, mentre per magistrati, avvocati e politici legati al diritto e alla legge i media inquadrano la borsa di pelle rigorosamente usurata e assai gonfia. In leggero calo lo sciarpone annodato in molteplici giri (immutabile al collo di Brunetta o di qualche Cinque Stelle di secondo grado). Le facce quasi sempre rigorosamente sporche di barba, che non dovrebbe superare i tre o quattro giorni, evidentissima metafora di uno sprezzo per il viso nudo ormai  appannaggio solo del Presidente della Repubblica. Inoltre si sposa con evidente simmetria al ricciolo scomposto o al cranio perfettamente lucido, antitesi della barba incolta. Ormai detentore del copyright il critico-politico che con un secco colpo della mano s’aggiusta la chioma imbiancata, ma pur sempre fluente.
E mentre corro a rileggermi nelle “Operette morali” il dialogo di Giacomo tra la Moda e la Morte entrambe “figlie della caducità” ripenso a questo straordinario pensiero che fa della moda, anche in politica, una necessità:

“Moda. Benché sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si usi di parlare per essere uditi, pure perché siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi rispetti, parlerò come tu vuoi. Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali.[corsivo mio] Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v’improntino per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in America e in Asia; storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l’amore che mi portano. Io non vo’ dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani e il petto con quei di tela, e fare di ogni cosa a mio modo ancorché sia con loro danno”.

Avrebbe del miracoloso questo elenco di ciò che la moda può, se non sapessimo che quasi sempre la poesia antivede la verità e la consegna al futuro.
Va da sé dunque che la faccia alla moda deve essere necessario complemento del fare del politico in quanto, specie ora nell’età del vedere, chi ti guarda deve ri-conoscersi. Una resilienza, se si vuole usare questo termine così abbondantemente frainteso, che induce il politico a dare di sé un’immagine positiva. Ecco allora che il vestirsi in un certo modo (e tutti noi sappiamo bene come l’immagine di Renzi sia stata dettata da sarti fiorentini che gli hanno ‘cucito addosso’ un’immagine positivamente corretta di un’eleganza borghese, lontana sia dal casual praticato dal suo avversario più temuto, Beppe Grillo, sia dall’uniforme ormai abusata del politico prima Repubblica) rappresenti un’idea del fare politica; perfino un’ideologia.
Certo la scoperta della camicia bianca con manica arrotolata, allegoria assai scontata del proverbio “rimbocchiamoci le maniche”, proviene da un ben più importante uomo politico: quel Barack Obama di cui si è sempre messo in luce il significato metaforico della gestualità, della postura, dell’abbigliamento.
Il gesto meccanico dei politici che quando escono dalla macchina immediatamente s’allacciano il bottone della giacca risulta negativo quando vengono ripresi sul lato B che di solito risulta stazzonato e a volte singolarmente respingente, come per Hollande dotato di una protuberanza quasi imbarazzante.
Il colpo di genio è stato però quello di Angela Merkel che si è inventata un’uniforme a cui adatta anche l’espressione del viso. La qualità dei colori delle giacchette ‘merkelliane’ è risultato vincente in qualsiasi occasione pubblica. Quasi concorrenziale all’elegantissima divisa di scena, su un’idea di Giorgio Armani, adottata dalla nostra Lilli Gruber.

Tuttavia il più condizionante adeguamento della politica alla Moda, leopardianamente concepita, si ha con l’adozione tra le più giovani signore in politica del tacco 12, che porta a ciò che il poeta di Recanati chiama “storpiare la gente colle calzature snelle”. Il durissimo adeguarsi a una moda che richiede sacrificio intenso porta sul volto delle politicanti, dopo i lunghissimi tempi di indossatura di simili strumenti, una piega di dolore, una vacuità degli occhi, un tic che rimpicciolisce le labbra e una smorfia finale che viene finalmente espressa e intesa come condanna e disprezzo accompagnati talvolta da un pensoso scuoter di capo.
E’ vero poi che nel secolo scorso l’intuizione leopardiana si sposta sul binomio moda-modernità. E al proposito si pensi al fondamentale saggio di Walter Benjamin “Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’epoca del capitalismo”, che ora è possibile leggere nell’e-book edito da Neri Pozza. In questo saggio la moda diventa il corrispettivo della modernità cioè, come è stato autorevolmente sostenuto, che attraverso la premonizione del “Dialogo della Moda e della Morte” si arriva a, cito, “una dimensione della cosa come vessazione”, un paradigma della modernità. E come tale corre e si consuma con la velocità stessa del presente.

Sarebbe dunque corretto che il discorso leopardiano si attui nella politica, nella ‘modernità’ della politica.
Tra barbe incolte, crani lucidi e boccoli scomposti s’incornicia il volto della politica al maschile. Tra fluenti capigliatura e tacco 12 quello delle signore della politica.
Comunque se ne pensi è evidente che la Moda è non solo condizionante, ma necessaria all’esercizio della politica.
Sta poi ai miei 25 lettori applicarne i paradigmi ai politici e agli amministratori che conosce.

EVENTUALMENTE
Nel 2017 al Torrione non solo Jazz

Per il 2017 di “Ferrara in Jazz”, la rassegna di appuntamenti musicali al Torrione San Giovanni giunta alla sua diciottesima edizione, l’associazione culturale Jazz Club Ferrara apre le porte ad altre forme di espressione, musicali e non. Il programma è stato presentato in una gelida conferenza stampa nella mattinata di lunedì: saranno gli oltre 40 concerti in programma da gennaio ad aprile a riscaldare l’atmosfera, con protagonisti nuovi talenti e figure già consolidate, dando libero sfogo anche ad altre forme artistiche quali il teatro, la fotografia e, perché no, la gastronomia.

L’apertura di questa seconda parte della stagione di concerti è prevista per venerdì 20 gennaio e spetta al celebre trio statunitense formato da Larry Goldings all’organo, Peter Bernstein alla chitarra e Bill Steward alla batteria.
A seguire, torneranno i lunedì del “Monday Night Raw” arricchiti da jam sessions e dedicati alla scoperta di nuovi talenti e progetti musicali. Non solo, immancabile il live mensile della Tower Jazz Composers Orchestra, la grande band del Torrione guidata da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon.
I venerdì saranno invece accesi dagli appuntamenti di “Somethin’Else” nei quali si esploreranno nuovi sentieri gastronomico-musicali e persino una punta di elettronica, grazie anche alla neonata collaborazione con l’Associazione Reverb. Particolare importanza, come hanno sottolineato gli organizzatori, avrà il primo concerto, venerdì 27 gennaio, in occasione della Giornata della Memoria, che vedrà esibirsi l’ensemble Naigarten Klezmer: Filippo Plancher, voce; Emilio Vallorani, flauto e ottavino; Gianluca Fortini, clarinetto; Salvatore Sansone, fisarmonica; Agostino Ciraci, contrabbasso; Gianluigi Paganelli, basso tuba; Giovanni Tufano, chitarra e percussioni. La serata inizierà con una cena a base di piatti tradizionali della cultura ebraica.

Imperdibili gli appuntamenti del grande jazz che si terranno ogni sabato sera. Dave King Trio, Ben Wendel Group, Eddie Henderson Quartet sono solo alcuni nomi dei musicisti che si alterneranno sul palco del Torrione.
Non mancherà una serata all’insegna del grande jazz italiano con il Trio Bobo che si esibirà il 4 febbraio. A partire da questa data inoltre, verrà inaugurata la personale del fotografo Roberto Cifarelli dal titolo “Le strade del jazz” che andrà a sostituire l’attuale esposizione “Note in bianco e nero” di Michele Bordoni.

Con “Jazz goes to college” il Ferrara Jazz Club rinnova le collaborazioni con il Conservatorio G. Frescobaldi e l’Associazione Musicisti Ferraresi: produzioni originali in cui alcuni dei migliori allievi affiancheranno non solo i docenti, ma anche gli ospiti speciali. E poi ci sono i nuovi arrivi, come Ferrara Off, grazie al quale si compone una vivace sinfonia tra teatro e musica: domenica 26 febbraio alle 18.00 lo spazio teatrale di viale Alfonso I d’Este ospiterà una serata di musica e poesia con il clarinettista romano Marco Colonna e Alberto Masala, poeta e scrittore sardo.

Tante proposte diverse, ognuna di grande qualità, che hanno portato al riconoscimento dell’americano DownBeat Magazine, ottenuto per il secondo anno consecutivo dal nostro Torrione come una delle migliori location di musica jazz. Con orgoglio ne ha parlato in conferenza l’assessore alla cultura e vicesindaco di Ferrara Massimo Maisto: “Il Jazz Club vince premi perché è in un posto bellissimo di cui la gente si innamora, ma soprattutto per la qualità della proposte che offre. Qualità non solo dell’accoglienza, ma anche dei rapporti che il Jazz Club intrattiene fra nuove e vecchie collaborazioni.”
L’associazione non può che ritenersi soddisfatta non solo per la qualità della musica, ma anche per l’affluenza del pubblico alle sessioni precedenti, confermata dal cospicuo numero degli iscritti: “Con le nuove collaborazioni e con i suoi più di 3000 soci –  ha concluso Maisto – sarebbe un errore pensare al Jazz Club come un posto elitario e per pochi appassionati”.

“La città? Un bene comune”. Storia del sindaco che ha sbaragliato i partiti

Hanno tolto l’assessorato alla Cultura e loro hanno reagito portando in città una serie di eventi culturali. Lo hanno chiamato “Lievito” e come fa la sostanza utilizzata per il pane, l’appuntamento – organizzato dall’associazione “Rinascita civile” – è cresciuto. Come loro, i promotori degli eventi, trasformati in un progetto politico che ha conquistato Latina, la seconda città del Lazio, in nome del “Bene comune”. Latina, un capoluogo di provincia che si porta dietro qualche nostalgico dell’Agro redento dalle paludi (molti i ferraresi che arrivarono a lavorare in cambio dei poderi dell’Opera nazionale combattenti) o del nome originario di Littoria; il peso di essere stato fondato dal Duce e per quanto riguarda la politica due grandi monoliti dal dopoguerra a oggi: prima la Democrazia Cristiana, poi il centro-destra nelle sue varie forme. La Dc fino al 1993, con percentuali “bulgare”, Alleanza nazionale, Forza Italia e le altre realtà di quell’area politica fino a giugno del 2016 con analoghi plebisciti, passando per un paio di commissariamenti causati dalle insanabili fratture – dovute più agli affari, come dimostrano recenti indagini – che a scelte politiche per la città.

LA RIVOLUZIONE
Dal 19 giugno il sindaco è Damiano Coletta, un cardiologo di 56 anni, capace di laurearsi in medicina mentre faceva il calciatore professionista (ha giocato fino alla serie B), uno di quelli che diede vita a “Lievito” nel 2012. Insieme a lui professionisti, imprenditori, docenti universitari, gente passata anche per i partiti ma tenuta all’angolo dalla politica tradizionale, dove continuano a contare le tessere più che le idee. I consensi – quelli che si avevano fino a qualche mese fa – più che la visione di una città. “Latina bene comune” ha ribaltato questi concetti, ha vinto una sfida che sembrava impossibile anche a chi pensava che il sogno potesse realizzarsi, figuriamoci agli osservatori esterni. Invece il sogno è diventato realtà, un’alleanza realmente civica e basata sul rilancio culturale ora guida una città complessa, con un territorio vasto quanto quello di Napoli, il centro storico perla del razionalismo, con le architetture di Oriolo Frezzotti, e i “palazzoni” immaginati negli anni ’80 al di là della Pontina che da Roma conduce fino al mare. Un Lido, quello di Latina, avulso dal resto del tessuto urbano, distante, e i Borghi che continuano a essere una sorta di realtà autonome, con in molti casi usi e tradizioni – spesso anche i dialetti -che provengono dai padri e dai nonni, arrivati per la bonifica. Un capoluogo alle prese con una criminalità autoctona, quella del clan nomade stanziale dei Ciarelli-Di Silvio smascherato da indagini che lambiscono la politica che ha amministrato fino a qualche tempo fa, che si lega spesso agli affari di camorra e ‘ndrangheta per i quali il Tribunale ha riconosciuto specifiche associazioni a delinquere.
In questo quadro, rappresentato inevitabilmente con un “flash”, ha vinto un’alleanza civica. Un’associazione per partire – Latina bene comune – e tre liste: la stessa Latina bene comune, Lbc Giovani e Lbc Latina rinasce. Il giorno nel quale si dovevano raccogliere le firme per presentare le candidature la sede di Corso della Repubblica, in pieno centro, è stata presa d’assalto. Un primo segnale che era possibile raggiungere il sogno, “Cambiare libro” – come hanno ripetuto in una fortunata campagna elettorale.

IL SINDACO
“Abbiamo scelto di andare senza partiti perché sentivamo questa esigenza, nostra e del territorio – spiega Damiano Coletta – si era completamente interrotto il rapporto di fiducia tra cittadino, i partiti per quello che hanno saputo rappresentare qui, la politica e l’amministrazione”.
Come definirebbe questa scelta?
“Di libertà, sin dai primi momenti di questa esperienza e fino all’ultimo abbiamo avvertito la necessità di essere lontani da un modo di fare politica che è stato trasformato, dai partiti, in gestione di altre vicende attraverso la politica”.
I cittadini hanno capito il vostro messaggio e vi hanno premiato, ma al di là della richiesta di cambiamento come siete riusciti a convincerli, secondo lei?
“Tutti i nostri avversari ostentavano una verginità politica che non era tale, anche chi non aveva governato come il Pd, di questo i cittadini si sono resi conto. Lo abbiamo notato nell’accoglienza che ricevevamo, nelle richieste relative al nostro progetto, alle nostre idee, alla nostra storia”.
Partendo dalla cultura, quasi un paradosso in una città dove si è fantasticato di porto, metro leggera e dove l’urbanistica ha spaccato due volte il centro-destra. Ve lo aspettavate?
“Ci credevamo. Quando siamo partiti con Lievito abbiamo dato una risposta alla mancanza di un assessorato alla cultura, abbiamo provato a dare alla città qualcosa che non aveva. Per noi è stata un’occasione di incontro, un modo per rapportarsi e aggregare che è diventato strada facendo un messaggio politico”.
Arrivato forte e chiaro, come quando avete cominciato a denunciare il cosiddetto “Sistema Latina”. Cosa avete trovato?
“Noi lo abbiamo detto in tempi non sospetti, l’operazione Olimpia lo ha confermato, una volta all’intero ti rendi conto di un sistema sfilacciato, i tanti interessi privati che riguardano concessioni, contratti, l’attenzione al particolare e non alla comunità”
E come vi state muovendo?
“Il lavoro più importante è il rapporto con la macchina amministrativa, far capire che va recuperata la dignità del loro compito”
Dopo gli arresti per l’operazione Olimpia una prima risposta l’avete avuta, un’assemblea affollata come mai si era vista prima in Comune. Un bel segnale, no?
“La vicenda ha dato una scossa, è evidente, a chi lavora in Comune ma anche alla città. All’assemblea non abbiamo usato slogan, non siamo andati a pontificare, ma a dire rimbocchiamoci le maniche insieme e ricostruiamo. Ho avvertito da parte dei dipendenti il bisogno di esserci, in quel momento, un’attenzione alla cosa pubblica che prima era indifferenza pericolosa”
Sindaco, non vi aspettavate certo di vincere quando avete iniziato questa avventura. Però vi siete trovati al posto giusto, al momento giusto. Centro-destra spaccato, Grillini che non presentano liste, Pd che alle primarie si è massacrato uscendo a pezzi. Questo lo avete sicuramente analizzato, che dice?
“Sì, onestamente abbiamo avuto una serie di fattori a nostro favore. Prima ancora della campagna elettorale dicevamo se chi ha governato si divide, se i grillini non ci sono, se, se…. Ma sapevamo benissimo che con le ipotesi non vai da nessuna parte. Abbiamo messo in campo un metodo e lavorato bene, mettendoci la faccia di chi non aveva mai avuto a che fare con la politica, riscoprendo la spontaneità, il contatto che la politica aveva perso e che continuerà a esserci”.
In che modo?
“Il primo anno di mandato non lo trascorrerò nel palazzo, ma per strada. Lo sto, lo stiamo facendo con gli assessori e i consiglieri comunali. Abbiamo un territorio vasto, i Borghi che sono una specie di mini città e per i quali immaginiamo una reale integrazione, anche qui una rivoluzione culturale”.
Quando nel ’93 vinse Ajmone Finestra si parlò di “laboratorio del centro-destra”, oggi nascono in provincia realtà locali “Bene comune”, puntate a diventare un modello locale e, perché no, nazionale?
“Piano, piano… Noi dobbiamo pensare al Comune che siamo stati chiamati a governare, con la massima umiltà e mettendoci le nostre capacità. È vero, in provincia abbiamo allacciato diversi rapporti, a livello nazionale qualcuno ha provato a tirarmi per la giacca ma è prematuro. Va fatto un passo alla volta, l’impegno adesso è quello di dare a questa città una buona amministrazione. Abbiamo promesso che cambieremo libro, per farlo servono testa e applicazione totale”.
Dall’ospedale al Comune, com’è cambiata la vita di Damiano Coletta?
“Era già impegnativa, oggi è più stressante, senza dubbio. Ero abituato a gestire le tensioni, ma in ospedale ero padrone del mio destino, in sala operatoria dipendeva da me, qui il discorso è diverso, ci sono innumerevoli fattori e le cose non vanno sempre come vorresti. Ho parlato con sindaci più esperti, mi hanno detto che serve almeno un anno per capire tutti i meccanismi, cercherò di accorciare i tempi. Comunque è totalizzante, con riflessi sulla vita sociale e familiare, ma era inevitabile. Però mi sono dato come regola quella di mantenere degli spazi, lo facevo da medico, prima ancora da calciatore, continuerò ad averli”.
Cultura e legalità sono state e restano la vostra bandiera, come pensate di affermarla?
“Facendo quello che abbiamo detto ai cittadini. Di legalità parlavamo in campagna elettorale, dicevamo che era un’idea da affermare ma venivo criticato perché denunciavo le infiltrazioni criminali. Mi fecero notare che un sindaco non dovrebbe dire certe cose del proprio territorio. I fatti ci hanno dato ragione. Un’amministrazione deve aprire gli occhi e non tenerli chiusi, continueremo ad affermare i nostri principi lavorando”.

IL MOVIMENTO
C’era un’assemblea al giorno durante la campagna elettorale, dopo la vittoria qualcuno si è chiesto “E adesso?”. Il movimento che ha portato all’elezione di Damiano Coletta non si ferma, la sede di Corso della Repubblica continua a essere luogo di confronto e di attività dei gruppi di lavoro. Perché adesso le idee tracciate nel programma devono diventare realtà. Altrimenti il libro non cambierà mai.

 

LINK UTILI

Coletta sindaco
http://www.ilmessaggero.it/latina/latina_al_ballottaggio_la_citta_sceglie_tra_coletta_e_calandrini_segui_la_diretta-1806342.html
http://www.ilmessaggero.it/latina/latina_coletta_sindaco_la_storia_del_medico_ex_calciatore_che_ha_cambiato_la_citta-1807011.html

Operazione Olimpia arresti
http://www.ilmessaggero.it/latina/arresti_comune_latina_di_giorgi_di_rubbo-2079772.html

Operazione Olimpia scarcerati
http://www.ilmessaggero.it/latina/olimpia_tutti_scarcerati_dal_riesame-2109766.html

Operazione Olimpia assemblea con i dipendenti
http://www.ilmessaggero.it/latina/scandalo_in_comune_a_latina_il_sindaco_incontra_i_dipendenti_ora_si_riparte-2082211.html

Latina bene comune

Homepage

Lievito
http://www.lievito.org/

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L’INTERVENTO
Senza vie d’uscita

Da: Gianni Belletti

di Gianni Belletti, responsabile Comunità Emmaus S.Nicolò – Ferrara

Partiamo dalla conclusione: la libera circolazione delle persone non conviene a chi può sfruttare la mano d’opera a basso costo che si può facilmente reperire dallo Sri Lanka al Bangladesh, dal Kenya alla Cina.

Non conviene neanche a chi compra i prodotti finali ottenuti con quella mano d’opera.
Se il costo di un operaio tessile negli USA è di circa 20 dollari l’ora, nei paesi suddetti siamo attorno ai 50 centesimi l’ora.
Chi sfrutta questa differenza, sia l’imprenditore o il consumatore finale, non ha interesse naturalmente che il lavoratore cingalese abbia la possibilità di spostarsi negli USA per aspirare ad un salario più alto. A meno che quello stesso lavoratore ci possa arrivare illegalmente negli USA e possa quindi prestarsi al lavoro nero, forzando al ribasso il salario legale.

La libera circolazione delle persone nel mondo, quindi, è ‘fuori discussione’ perché darebbe fastidio in questo senso, a chi coltiva un certo titpo di interessi.
La versione che i media e la gran parte dei politici ci propinano però è differente: lo scontro di civiltà e la guerra di religione sottendono al bombardamento quotidiano a cui siamo sottoposti.

Mi permetto di proporre una angolo di lettura diverso, con la speranza di far trapelare uno spiraglio di luce non colto.
Vorrei fare due premesse per essere certi di parlare la stessa lingua:
1 – Viviamo in un apartheid globalizzato: nel mondo, circa un quinto della popolazione, fra cui noi italiani, può spostarsi praticamente liberamente e andare dove vuole, quando vuole. Gli altri quattro quinti (80%) non lo possono fare.
2 – Il migrante non è né un potenziale delinquente, né un potenziale deficiente. Se la pensiamo come Orban, il premier ungherese, che un anno fa dichiarò che tutti i migranti sono terroristi, allora non possiamo dialogare.

Il punto di partenza dovrebbe sempre essere la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, scritta nel 1948, da donne e uomini che uscivano da due guerre spaventose: ebbene hanno scritto un testo bellissimo, un vademecum per l’umanità, cercando di raccogliere tutte le precauzioni da mettere in pratica se si vuole tutelare la collettività umana e la casa che la ospita.
In particolare gli articoli 13 e 14 ci ricordano che la libera circolazione delle persone nel mondo deve essere una priorità. Addirittura l’articolo 15 suggerisce il diritto di cittadinanza… fantascienza oggi per noi, ma realtà, per esempio in Argentina.

Bene, alla luce di questi presupposti stiamo assistendo a due follie.

La prima: l’unica possibilità che ha uno straniero (appartenente ai quattro quinti di cui sopra) di entrare legalmente nell’Unione Europea e in Italia, oggi, è di fare domanda di asilo politico, anche se proviene da un paese in cui non c’è dittatura, in cui non rischia la vita, in cui non ci sono carestie o pestilenze particolari.
Questa condizione ha prodotto 470.000 ingressi illegali nel nostro territorio in tre anni, 170.000 domande di asilo politico (ma i dati andrebbero aggiornati quasi quotidianamente).
Vi lascio immaginare cosa vuole dire organizzare un’audizione per un richiedente asilo: la Convenzione di Ginevra giustamente stabilisce dei passi da compiere per rispondere adeguatamente a una simile richiesta. Così, ad oggi, siamo a tempi di attesa che superano i due anni , considerando sia la prima audizione che l’eventuale ricorso.
Tra parentesi, come alternative al diniego, il richiedente asilo ha due possibilità nell’ambito dell’UE: ottenere lo status di rifugiato politico (perché viene provato che è direttamente coinvolto in dinamiche che mettono a repentaglio la sua vita), oppure ottenere la “protezione sussidiaria” (in quanto coinvolto indirettamente nel rischio, per essere, per esempio, un familiare, un amico, un collega della persona veramente a rischio).
L’Italia per fortuna ricorre ad una terza via, la “protezione umanitaria” per tutti quei casi al limite, ai quali non sapremmo dare, come società civile, una collocazione diversa.

La seconda follia è che oggi facciamo gestire questa permanenza ai privati. Siamo talmente manipolati dal punto di vista informativo che siamo convinti che lo Stato non sia assolutamente in grado di gestire direttamente tutte quelle situazioni che riguardano il benessere dei propri cittadini.
Non voglio dire che lo Stato opera sempre al meglio, ma voglio affermare che in certi ambiti il privato è bene che non entri e non ci possa lucrare sopra, quindi a mio avviso non ci dovrebbero essere alternative alla gestione pubblica. Oggi li chiamano “beni comuni”, più o meno impropriamente. I migranti sono un “bene comune”.
Ora se la gestione dei migranti la affidiamo alla Caritas, a Viale K, ad altre associazioni o cooperative sane, siamo sicuri che non c’è nessun profitto. Purtroppo non lo possiamo sempre supporre e tanta “cronaca nera” degli ultimi tempi lo ha dimostrato.
Per ogni richiedente asilo lo Stato garantisce 35 euro al giorno, di cui 3 vanno direttamente alla persona, e gli altri servono per organizzare la sua permanenza quotidiana.

Sociologi importanti in Italia e nel mondo tentano faticosamente di veicolare alternative a questo modo di gestire la spinta migratoria verso quei paesi dell’un quinto della popolazione mondiale a cui accennavamo sopra.
Potenziamo le nostre delegazioni nel mondo, emettiamo visti di ingresso temporanei, condizionati a caparre, collegati a persone già presenti nel nostro territorio, permettiamo viaggi sicuri, legali, agli stessi nostri prezzi; diamo altre opportunità di entrare legalmente nel nostro territorio ed eventualmente, di lavorare nel rispetto della legalità.

Non ci sono alternative né vie d’uscita: dobbiamo mettere in condizione tutte le persone del mondo di muoversi liberamente. Dobbiamo dare l’opportunità a chiunque di venire nel nostro territorio, naturalmente con delle condizioni e con modalità che non diano spazio alla illegalità, al traffico ed allo sfruttamento di chi aspira legittimamente ad una vita migliore.

Non dimentichiamo che, negli ultimi 3 anni, sono più di 100 mila i nostri ragazzi con meno di 25 anni che hanno espatriato per cercare un lavoro e una opportunità che stiamo negando loro in Italia. Come genitori ci dispiace che vadano via, ma allo stesso tempo siamo contenti che possano trovare, da qualche parte, uno spazio dove affermarsi.

Ebbene, possiamo ancora pensare due pesi e due misure?

Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova

di Maria Paola Forlani

La mostra – allestita fino al 12 marzo 2017 alle Scuderie del Quirinale – racconta tutte le fasi di un importante pezzo di storia del nostro paese attraverso autentici capolavori provenienti dalle migliori collezioni italiane: da Raffaello a Tiziano, da Carracci a Guido Reni, da Tintoretto a Canova. Ventotto agosto 1815: lo scultore Antonio Canova arriva a Parigi per restituire all’Italia i beni artistici sottratti da Napoleone in seguito al trattato di Tolentino del 1797. Dopo mesi di trattative, tra la fine del 1815 e il 1816, alcune delle opere rientrano in patria, dopo avventurosi viaggi via terra o via mare. Un ritorno il più delle volte accolto dalla popolazione in festa. Da questo momento l’Italia avrà quindi una coscienza sempre più forte del valore del suo patrimonio, ponendosi il problema della sua conservazione e della sua valorizzazione in modo sempre consapevole.

Sono passati 200 anni da quello straordinario ritorno a casa. Oggi l’avventura che vede in Europa un grande movimento di quadri e sculture, diretti prima a Parigi e poi in quegli stessi luoghi da cui erano stati trafugati, è raccontata, per quel che riguarda l’Italia, in un affascinante mostra intitolata “Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova” a cura di Valter Curzi, Carolina Brook e Claudio Parisi Presicce. Il primo piano del palazzo è occupato da alcune delle opere scelte dalle commissioni mandate da Napoleone nello Stato Pontificio, per decidere quali capolavori avrebbero potuto far parte del suo museo ideale, il nascente Louvre. Tutte rientrate dopo l’intervento di Canova.

L’imperatore aveva un gusto ben preciso e non portava via niente che non fosse di qualità eccellente. Sceglieva con grande sapienza il suo bottino di guerra, o meglio di pace – perché era all’interno degli accordi che definivano la fine delle ostilità, che con grande furbizia, si “legalizzava” il furto. Quindi molti dei prestiti ottenuti in questa mostra sono di straordinaria bellezza. Lo si vede dall’incipit, che vede La strage degli innocenti di Guido Reni, artista molto amato (e dunque molto sottratto). Il dilemma del Reni consiste nel <<desiderio in lui acutissimo, di una bellezza antica, ma che racchiuda un’anima cristiana>> (Longhi). Egli torna all’ideale di bellezza assoluta del rinascimento, che, a sua volta, ha la sua più lontana origine non nel classicismo greco ma in quello romano, e che permane anche nel Seicento, trovando la sua formulazione nelle parole del teorico Giovanni Pietro Bellori, il quale, nella seconda metà del secolo, scriverà che, essendo gli oggetti creati dalla natura sempre imperfetti, << li nobili pittori…si formano … nella mente un esempio di bellezza superiore, ed in esso riguardando emendano la Natura >> (1672).

Accanto a Reni appare un gesso del Lacoonte. L’opera, che Plinio vide nel palazzo dell’imperatore Tito, venne alla luce, nella primavera del 1506, nelle rovine delle cosiddette Terme di Tito, sull’Esquilino a Roma. Secondo il mito, Lacoonte, sacerdote di Apollo, fu uno dei pochi che, diffidando del cavallo di legno lasciato dai greci sotto le mura di Troia, cercò di dissuadere i troiani dal portarlo dentro la città. Due serpenti, venuti dal mare, lo aggrediscono, mentre compiva sacrifici in onore di Poséidon, e lo stritolarono insieme ai due figli. Studi recenti sembrano dimostrare che i tre autori, Aghesàndro, Polydòro, Athenodoro, sarebbero eccellenti copisti dell’età di Tiberio e che l’originale sarebbe stato realizzato in bronzo. Riproposto in mostra in un calco del XIX secolo proveniente dai Musei Vaticani, aveva significato l’irrompere di un’antichità da cui non era escluso il pathos, la drammatizzazione dell’avvenimento. Ed ecco che, secoli dopo, questo contorcersi di braccia e di muscoli, arriva fino alla figura sul fondo del dipinto di Reni, quell’uomo che tira i capelli di una madre in fuga per difendere il suo bambino. La strage di Reni giunge a Parigi da Bologna nel 1896, il Lacoonte fu trasportato su carro con 12 bufali al traino e arrivò in Francia con un vero e proprio corteo trionfale.

Il mondo classico consentiva a Napoleone di considerarsi parte di quella storia, di autoincoronarsi erede dell’antica Roma. A Parigi arriva quasi al completo ciò che aveva realizzato Raffaello. Sono i francesi a far nascere il mito dell’artista. Basti pensare a Ingres che lo considerava il più grande di tutti. Qui c’è un capolavoro come il Ritratto di Leone X con il cardinale Giulio de’ Rossi accanto ad una bella copia della Deposizione della Galleria Borghese, eseguita dal Cavalier d’Arpino. In questo caso non era stato trafugato l’originale perché il principe Borghese era cognato di Napoleone, ma anche perché per 13 milioni l’imperatore si era accaparrato – e per sempre – la sua meravigliosa collezione di marmi antichi. Nel frattempo, perché fosse dichiarata la sua origine culturale, si era portato a Parigi anche la Venere Capitolina e il Giove di Otricoli, altri due pezzi importanti dell’esposizione delle Scuderie.

Accanto alla pittura “ideale” bolognese di Reni, Carracci, Guercino, Domenichino, Albani presentati in mostra con pale d’altare di grande impatto e intensità, nel museo universale di Napoleone, quello in cui tutta l’Europa avrebbe dovuto identificarsi, non poteva mancare il colore della scuola veneziana: ecco l’agitazione di Tintoretto, la luce di Tiziano e la bellezza cromatica di Veronese. Al piano di sopra delle Scuderie c’è la seconda puntata di questa storia, ovvero l’Italia che si accorge che il suo patrimonio ha valore civico. Con le opere già conservate nei depositi, dopo la soppressione degli ordini religiosi e con quelle rientrate si pensano ai musei come luoghi identitari.

Tra i capolavori di queste sale ecco la Madonna con il Bambino di Cima da Conegliano, la Lastra sepolcrale di Guidarello Guidarelli realizzata da Tullio Lombardi nel 1525: un prestito importante, non era mai uscita dal Museo della città di Ravenna. Al centro della sala del secondo piano troneggia la Venere Italica di Canova che nell’intento dello scultore doveva onorare il genio dell’Italia. Vicino alla splendida scultura, come chiusura della mostra, troviamo un’opera particolare e suggestiva, il dipinto di Hayez dove l’Italia non ha le sembianze di una divinità, ma quelle di una fanciulla del popolo. Bella e con lo sguardo fiero, ma oltraggiata. Un’allegoria della nazione dolente dopo i fatti del 1848 e che invita ad una profonda riflessione ancora oggi.

Lacoonte
Deposizione
Venere
Ritratto di Leone X
Dipinto di Hayez
Venere
Testa di Giove
Lastra sepolcrale di Guidarello Guidarelli
Lacoonte
Lastra sepolcrale di Guidarello Guidarelli

IL REPORTAGE
Sorrisi, luci e volti di una Thailandia autentica

di Giuliano Gallini, Chiara Levorato, Maria Bordini, Tito Cuoghi

Sorriso 1

L’ultimo Wat che visitiamo a Lampang, una benestante città del nord, è un bizzarro complesso di edifici religiosi con vertiginosi pinnacoli bianchi e leziose colonne dorate. Un corteo rumoroso riempie i suoi cortili: segue un uomo giovane, dall’espressione estasiata e che cammina a passo di marcia. E’ protetto da un rigido ombrello (d’oro come le colonne del tempio) alto sul suo capo rasato, retto da un ragazzo che ride a crepapelle.

Mentre ci chiediamo il significato dell’allegra processione veniamo avvicinati da una signora che si qualifica come una docente universitaria. Ci chiede se può intervistarci: ha visto le biciclette che abbiamo noleggiato in albergo, è incaricata dal governo di realizzare una inchiesta sulla percezione della sicurezza di chi si muove in bicicletta in Thailandia ed è curiosa di conoscere anche l’opinione dei turisti.

Ci regala un oggetto di artigianato di Lampang (una sorta di comò in miniatura) per ringraziarci del tempo che perderemo con lei e ci impegniamo a rispondere a un lungo questionario, anche se siamo continuamente distratti dai girotondi festosi del corteo, che vibra tra il Virham (la sala che contiene la statua maggiore del Buddha) i mondopo (templi minori) e i chedi (stupe con le reliquie del Buddha o ceneri dei monaci)

L’uomo alla testa della processione indossa una tunica bianca, ricamata, e cammina sempre più velocemente; dietro di lui il corteo è sempre più numeroso e la sua allegria è contagiosa. Vorremmo abbandonare la docente per unirci ai seguaci dell’uomo, ci piacerebbe reggere l’ombrello d’oro e condividere tanta popolare felicità. Ma la docente è inflessibile e dobbiamo condurre in porto l’intervista.

L’ultima domanda è sulle nostre motivazioni: perché siamo venuti in Thailandia? Per il cibo? Per le meraviglie archeologiche? Per il mare?
O per la famosa cortesia dei Thailandesi? Per il loro buon umore?

Per il loro sorriso?

Cibo 1

Alla pervasività di monaci e templi si oppone con più prosaica ma non meno massiva presenza il cibo.

Chiunque viaggi sa che nella grande maggioranza dei paesi del mondo la penuria di cibo non esiste più. I desolati mercati che quarant’anni fa frequentavamo nei paesi dell’est Europa, o del nord africa o in India o Cina sono appunto un ricordo lontano, per i più anziani, o una cosa da non credere per i più giovani.

L’abbondanza di cibo è particolarmente evidente in Thailandia perché ogni giorno, in ogni strada e sulle barche dei floating market si cucina e si vende all’aperto.
Con un caleidoscopio di prodotti innumerabili, di ricette profumate, di abilità provette.

Accanto agli spiedini più tradizionali, simili a tutti i souvlaky o raznici della nostra vita, abbiamo visto schidioni che nessun masterchef o germidisoia avrebbe il coraggio di tentare. Ma accanto agli spiedini: pesci, carni, zuppe, ravioli, noodles, riso bollito, riso crispy – e riso sticky, lucido con mango, una dolcezza dorata come i Buddha dei templi.

Olio

Olio nel cibo, poco. Tanto sulla pelle. Il massaggio migliore lo proviamo a Sukkotay dove un parco archeologico meraviglioso non ci stanca gli occhi nemmeno dopo quattro giorni ma muscoli e ossa sì. E per questo ricorriamo al massaggio – pronuncia: masaaaasc.

Un materasso a terra, una ragazza dalle mani di ferro, tenaglie ammorbidite dal profumato unguento che il nostro corpo assorbe in un’ora di carezze robuste.

Il ritmo è dettato da insegnamenti – crediamo, speriamo – antichi e sapienti. I nostri corpi comunque escono dai massaggi rinfrancati e pronti a nuovi Wat, Chedi, Mondop, Buddha giganti, stagni verdi di trifogli o rossi di bacche, fiori di loto, frangipani, alberi dell’illuminato, acacie che grattano il cielo, palme, prati intensi che gli inglesi se li sognano.

Angelo del nostro soggiorno a Sukkotai è l’eterea Moon, receptionniste di classe, un filo di ragazza svanente davanti alla rotonda massaggiatrice Laa.

Sorriso 2

Nel Wat assolato e attraversato da un festoso corteo al seguito di un uomo vestito di bianco, l’ultima domanda di una inchiesta governativa cui abbiamo accettato di collaborare – perché siete venuti in Thailandia? Per il sorriso dei suoi abitanti? Ci riporta alla memoria tutti i sorrisi di tutti i Tahilandesi che abbiamo finora incontrato.

E’ un popolo che sorride. Più di noi europei, più di altri popoli asiatici. Sorridono sempre, se incontri il loro sguardo, se chiedi una informazione – sorridono anche se non lasci mance, sorridono snche se non compri al loro banchetto. Sorridono e ti aiutano se ti vedono in difficoltà.

E sorridono e ridono tutti dietro l’uomo vestito di bianco e protetto da un rigido e alto ombrello d’oro, e tutti i sorrisi ci invitano a unirci alla felice processione che finalmente ora ci svela, al diapasono dell’allegria, il suo significato.

E’ la cerimonia di ordinazione di un monaco, un rito di passaggio celebrato con passi di danza, braccia al cielo e grida di gioia.

Dall’alto dei cinque gradini del Virham il monaco ora premia chi lo ha seguito lanciando coriandoli di plastica, stelle colorate, eliche, pianeti luminosi, lune di ogni forma a creare sopra di noi una galassia di sorrisi celesti.

Cibo 2

Abbiamo visto spiedini: di uova, di semi di zucca, di granchi e di cosce di rana, di piselli e fagiolini, di bacche, di dolci bignè.

Infilzare una cosa dentro l’altra è un rito dettato da un pensiero che ama unire ogni essere del creato, da un pensiero che ama infilzarne altri e gustarli nel nirvana dell’indifferenza.

Questo cibo di strada è un cibo in cammino che si gusta prima con gli occhi, così onesto nei suoi processi produttivi da essere scostumato – e per chi ama l’igiene in gran parte inavvicinabile.
Che cosa ci sia nelle cucine dei ristoranti, anche i più pretenziosi, non è dato sapere. Come in molti ristoranti occidentali. Il cibo in cammino invece si offre sinceramente, attraverso mani spolverate di spezie e di infiniti batteri.

Trasporti 1

Il tuk tuk tradizionale è qui aumentato dai songthaew, ovvero “due file”, pick up con tendone e attrezzato di due panche dove possono sedersi anche dieci passeggeri (magri). Ma operano anche per due passeggeri, o per uno solo: e la loro concorrenza ai tuk tuk è quindi spietata.

Non mancano moderni e costosi taxi, tutti senza taxametro, suv toyota con il predellino; e scendendo a sud si può salire su tuk tuk con moto a spingere invece che ape a tirare, una variante che offre quattro comodi posti a sedere e zona per le valigie invece dei tre e mezzo dei tuk tuk tradizionali.

Le città, pianeggianti, invitano alla bicicletta; anche a piedi si passeggia gradevolmente. E’ più afosa la pianura padana. Tutto è dolce, come le crepes di cocco arrotolate e imbustate ancora calde, preparate sulla strada da sorridenti chef chini su piastre a gas incrostate di ogni sudiciume immaginabile.

Luci 1

Il re è morto a ottantasette anni dopo settanta di regno e ha voluto regalare, a sudditi e turisti, durante il lungo lutto sei mesi di musei e parchi archeologici gratuiti. Anche lo spettacolo del parco archeologico di Sukkotai illuminato di sera non si paga. Il grandioso palcoscenico viene allestito anche per i pochi turisti presenti in questa stagione. Luci artificiali colorate e centinaia di candele avvicinano Chedi, Prang e statue di Buddha ai nostri occhi sorpresi e ammirati. Ci incanta anche il kitsch.

A piedi e in bicicletta, in tuk tuk o sui bus non dobbiamo far nulla per evitare le orde di turisti che le nostre guide minacciano. Dove sono finiti i turisti? Ci sono: qualche sparuta coppia anziana con zainetti in spalla e rare coppie di giovani con valigie. E le gite organizzate? Sparite. Che cosa è successo?

Il silenzio e l’assenza illumina la nostra Thailandia come le luci notturne di Sukkotai. I sorrisi e i cibi si sporgono verso di noi con tenerezza.

Trasporti 2

Grandi strade, autostrade, superstrade. Corriere, corriere VIP, minivan, taxi. Treni di terza classe, treni storici. Treni coraggiosi che affrontano il passo della morte costruito dai prigionieri di guerra tra il 1942 e il 1945.

Ma il mezzo di trasporto più bello, per noi, è il “long tail”, la piccola barca di legno con un motore a poppa che è una scultura barocca, un intricato costrutto meccanico di bobine e candele, alberi motore e pistoni. A vista. Sul costrutto è innestata una lancia di quattro metri che termina con l’elica, e che serve anche da timone. Dura, pesante: e il marinaio la manovra infatti con l’aiuto delle gambe e dei piedi.

Ne prendiamo uno sotto il ponte del fiume Kwei, zufolando come nel film. Decidiamo di rornare così al nostro albergo. La breve traversata è una avventura della velocità e della destrezza, uno sport estremo a basso rischio (e basso costo), una cavalcata che ci dà energia e buon umore. Long Tail for ever!

Persi e trovati 1

Niente si perde, tutto rimane. Nel mondo, nella realtà, in vita. Questa è la convinzione della filosofica religione di questo pezzo di universo.

Le cose, gli affetti, i ricordi. Il passato. Niente finisce, tutto continua a esistere.

Ma quando perdiamo alcune delle nostre cose l’insegnamento del buddhismo non ci viene in aiuto. Ci disperiamo.

Perdiamo: un orologio d’oro di valore (sentimentale e di mercato) al controllo dell’aeroporto di Bangkok. Una valigia, scambiata a Chiang Mai con quella di una bambina (a giudicare dal contenuto). Perché non ci sorregge la serena accettazione che quelle cose non si sono distrutte ma continuano, pur senza di noi, la loro esistenza da qualche parte dell’universo?

Acqua 1

In barca andiamo non solo per una veloce cavalcata dal ponte sul Kwai al nostro albergo, ma anche sul fiume che circonda la vecchia Ayuttaya. Il marinaio ci fa scender tre volte per visitare i templi fluviali, meraviglie antiche e venerabili. Sullo sfondo dell’ultimo avremo il tramonto.

Paese di acque interne la Thailandia è una palafitta tropicale che nonostante gli interramenti e le grandi autostrade continua ad aprirsi a fiumi, canali, stagni laghi e paludi, di cui controlla bene la ricchezza e i capricci, la bellezza e la fragilità.

Si dice che le alluvioni siano diventate più frequenti e disastrose con il progresso dell’asfalto, ma c’è anche chi contesta il dato.

L’uomo cresce sulla terra e la addobba con i suoi manufatti come un albero di Natale. E’ la festa del progresso – e anche una sopportazione: ormai è Natale tutto l’anno.

Persi e trovati 2

La valigia e l’orologio perduti ci vengono avventurosamente restituiti dalla grande ruota del destino che in Thailandia pare girare anche all’indietro, producendo effetti controintuitivi.

Con la freccia del tempo direzionata solo in avanti come vogliono le leggi della termodinamica i nostri beni non sarebbero riapparsi; con le fantasmatiche interpretazioni di Bohr (e di Buddha) invece il tempo e le cose possono tornare indietro.

Recuperati i nostri oggetti gridiamo per la felicità, più forte ancora di quanto gridammo per la disperazione. Dovremmo essere più sobri: non avevamo detto che nulla si perde? Non erano i nostri oggetti in altre mani? Non esistevano anche là, insieme a una bambina polacca e a una addetta al controllo bagagli dell’aeroporto Suvarnabhumi? Perché per noi esiste solo ciò che possediamo?

Animali 1

Cani cinesi, gatti rossi, merli parlanti, gechi, zanzare, serpenti…ma ci innamoriamo degli elefanti. Del loro passo felpato, del loro perenne sorriso, delle loro orecchie che ci immaginiamo li facciano volare, quando gli uomini non li stanno a guardare.

Sogni realizzati della nostra infanzia.

Viene voglia di toccare le zampe di questi bestioni, proprio la pianta dei piedi, per saggiarne la consistenza, carezzarne la pazienza. Immaginiamo portino pantofole morbide di preziosa lana di montagna, doni della natura che conferiscono un incedere elegante e sereno.

Avessimo noi quelle pantofole per avanzare nella vita con passo sapiente e sorridente, sbruffando quando ci vuole ma lanciando lontano le amarezze, virtù che ci deriva dalla nostra lunga proboscide, naso d’ironie, eredità di una selezione naturale per una volta non frenetica come quella che ha generato le zanzare, instancabili evoluzioni del fastidio.

Acqua 2

A Erewan le famiglie salgono le sette cascate riposandosi tra una e l’altra su grandi panchine di bambù, tavole per pic-nic.

Anche qui palafitte di sorrisi si moltiplicano specchiandosi nelle acque fresche. Lo vediamo anche nei mercati galleggianti dove sulle barche si prepara il cibo. Barche, donne e cibo: una visione indivisibile. Barche, donne e cibo sono arabescati sulla vita trasparente dei fiumi.

Sorriso 3

I sorrisi spontanei, teneri, dolci e sereni che i Thailandesi non mancano mai di dispensare pensiamo traggano ispirazione e necessità dalla iconografia che ogni abitante di questo paese ha davanti agli occhi.

Buddha è in ogni luogo, e in ogni luogo, posizione, situazione Buddha sorride.

Una iconografia religiosa sorridente ha creato un popolo sorridente; impossibile pretendere che una iconografia religiosa tragica come la nostra possa fare altrettanto.

Infine, però, non sappiamo quanto il sorriso traduca la realtà. Quanta sofferenza sopportino i miserabili, gli sfruttati e gli oppressi di questo paese. Quanto il sorriso dell’accettazione comporti anche una accettazione delle ingiustizie.

Trasporti 3

Ci mancava il tuk tuk con moto laterale, da due passeggeri, uno dei quali seduto sul seggiolino della moto.

E: il tuk tuk innovativo, al comando di una app che organizza il pick – up dei turisti nei luoghi di maggior interesse, con precisione teutonica e puntualità svizzera; e anche: il tuk tuk number one di Bangkok, un folle che scivola tra il traffic-jam della città come burro sciolto sul pane da toast. Se ne esce vivi, ma con le ossa ridotte a una marmellata.

Maltempo

A Bancrud (o Ban Krut, le traslitterazioni non sono mai univoche) viviamo l’esperienza magica di camere a pochi metri dal mare, di ristorante sulla spiaggia, di quiete assoluta nel giardino tropicale in un piccolo villaggio senza nessun altro ospite oltre noi.

La sera, durante la cena (solo gatti rossi ci fanno compagnia) una luna rossa e piena sorge davanti a noi a coronare l’incanto. Decidiamo di non muoverci da Ban Krut fino alla fine del nostro viaggio.

Ma non possiamo disporre di tutto. La notte viene la tempesta e il giorno dopo vento, pioggia, cielo pesante di nuvole basse e mare pauroso. Rifacciamo le valigie orgogliosamente disfatte il giorno prima e partiamo per Bangkok, per la città.

Acqua 3

Il fiume Chao Phraya è l’anima di Bangkok. Abbiamo scelto un albergo sulla riva e ci muoviamo in città con il servizio pubblico di traghetti o con veloci long-tail privati.

Chao Phraya e numerosi klong (canali) aiutano questa ormai moderna metropoli a mantenersi nell’acqua, nei riti della trasparenza e del cambiamento naturale, della serenità per il ritorno continuo al flusso originario dei nostri primi nove mesi di vita. Dell’umano della specie umana.

Per quanto ancora?

Bisogna morire per essere vivi
messa in ricordo di Don Franco Patruno

da Maria Paola Forlani

Don Franco Patruno
Don Franco Patruno

Don Franco Patruno 1938-2007
Solo nel momento del congedo ci siamo accorti di quanto ci mancasse.
Perchè la fine è lo specchio di chi siamo veramente.

A dieci anni della scomparsa di don Franco Patruno (17 gennaio 2007), sarà celebrata una messa, martedì 17 alle ore 18, nella chiesa di Santa Maria Nuova – San Biagio ( via Aldighieri, 40, Ferrara), per ricordare il sacerdote, lo studioso, l’artista, il direttore di Casa Cini, ma soprattutto il fratello che accoglieva ed ascoltava tutti con tenerezza e solidarietà.
Il rito sarà celebrato dal parroco don Renzo Foglia, mentre l’omelia sarà introdotta dal diacono don Daniele Balboni.

LA CHIUSURA
Duck Juice, giovani leoni del jazz-funk italiano, chiudono Downtown Tower #4

Da: Jazz Club Ferrara

Lunedì 16 gennaio, a chiudere Downtown Tower #4, riuscita rassegna organizzata da Clandestino Birra Cibo e Vino in collaborazione con Jazz Club Ferrara, spetta al trascinante groove dei Duck Juice. Il sestetto, formato da giovani leoni del jazz-funk italiano come Gian Piero Benedetti al sassofono, Luca Chiari alla chitarra, Lorenzo Locorotondo alle tastiere, Andrea Grillini alla batteria e Guglielmo Campi alle percussioni, presenterà l’omonimo esordio discografico. Segue il concerto l’imprevedibile jam session.

Lunedì 16 gennaio (ore 21.15), a chiudere Downtown Tower #4, riuscita rassegna organizzata da Clandestino Birra Cibo e Vino in collaborazione con Jazz Club Ferrara, spetta al trascinante groove dei Duck Juice. Il sestetto, formato da giovani leoni del jazz-funk italiano come Gian Piero Benedetti al sassofono, Luca Chiari alla chitarra, Lorenzo Locorotondo alle tastiere, Andrea Grillini alla batteria e Guglielmo Campi alle percussioni, presenterà l’omonima, prima fatica discografica.

L’album d’esordio di una band è un vero e proprio punto di non ritorno. È dall’uscita di quel progetto che ci si rende conto se gli artisti hanno davvero le carte in regola per emergere sulla scena che conta. Quello dei Duck Juice è un frutto già maturo in cui nulla è lasciato al caso. I musicisti si muovono a perfetto agio tra svariati stili attingendo dal linguaggio latin con “Black Mamba”, abbracciando atmosfere intimiste con “All I See are…”, per concludere con “Smooth Feel”, vero e proprio tributo alla black music.
Audacia, tecnica e fantasia sono caratteristiche che derivano dall’ottima preparazione di ogni membro del gruppo che con sorprendente vitalità sa coinvolgere il pubblico ad ogni brano. Segue il concerto l’infuocata jam session.

INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Infoline: 0532 767101

DOVE
Clandestino, via Ragno 50 – Ferrara

COSTI E ORARI
Ingresso libero
Concerto 21.15
Jam session 22.45

Dopo il referendum: Europa e sovranità nazionale

E’ passato poco più di un mese dal referendum e dalle feroci polemiche che lo hanno accompagnato. La sconfitta è stata chiara, ma a fronte di questa non si vede (o non si vuol vedere) una corrispondente vittoria, mancando i vincitori di una rappresentanza politica qualificata capace di dare sostanza e concretezza agli esiti del voto. Non c’è stata un’analisi della vittoria del No da parte degli sconfitti, né si è ragionato sulle richieste latenti dei cittadini che forse chiedevano un segno chiaro, capace di rispondere alla necessità di nuove politiche su lavoro, sul welfare, sull’immigrazione, sulla scuola e la ricerca; che cercavano e cercano ancora giuste risposte in merito alla certezza dei diritti sanciti dalla Costituzione. L’etichetta di ‘populismo’ ha coperto rapidamente ogni doverosa discussione e ha finito col sussumere a sé i significati profondi di questo esito affatto scontato: non a caso è stato formato un nuovo governo fotocopia del precedente ben intenzionato – sembra – a perseguire sulla strada tracciata dall’esecutivo che è stato pesantemente sconfitto alle urne.

Fermi restando i numerosi e impegnativi obblighi istituzionali da rispettare, questa acclarata continuità solleva più di una perplessità sia in quanti sono abituati a pensar male sia in chi si attendeva di ritornare rapidamente alle urne. La risposta data dai cittadini sembra ormai archiviata e rubricata tra le celebrazioni inutili di una democrazia rappresentativa decisamente moribonda. Non a caso al posto di una seria discussione civile sulla Carta Costituzionale, nei media riemerge con forza il tema tecnico dei meccanismi di voto e della legge elettorale.
Ciò nonostante non vi è dubbio che uno dei problemi di fondo sotteso al referendum permanga in tutta la sua drammatica evidenza non già come dimensione della più becera politica politicante nazionale, ma come componente essenziale del futuro dell’Italia all’interno dell’Europa. Al centro di questo tema stanno i rapporti con il sistema finanziario che di fatto governa la Ue mediante i suoi bracci operativi, la Commissione Europea, la Bce e il Fmi.
E’ noto, infatti, che questa Europa richiede tassativamente (e il nuovo governo lo ha ribadito con decisione) una forte e ulteriore cessione di sovranità da parte degli stati nazionali. In tal senso fin dal 2010 la CE e il Consiglio europeo hanno promosso un piano di trasferimento di potere dai paesi membri con un esproprio inaudito della sovranità statale. Il culmine è stato toccato forse nel 2012 con l’istituzione del Fiscal Compact, che in Italia è stato assunto, a parere di molti, nel peggior modo possibile: il 18 aprile 2012 il parlamento della Repubblica Italiana, con voto a maggioranza assoluta (contrari Lega e M5S), modificò l’articolo 81 della Costituzione Italiana introducendo il principio del pareggio di bilancio che di fatto sanciva definitivamente la perdita da parte dell’Italia della sovranità economica-fiscale.
Come potesse l’Italia con il suo enorme debito pubblico, senza sovranità monetaria e con tale obbligo aggiuntivo riuscire a stare in piedi senza tagli feroci, privatizzazioni selvagge, crollo del consumo interno e nuove tasse è cosa che molti non comprendevano e tuttora non capiscono. Ma quella decisione di enorme rilevanza costituzionale fu comunque presa, velocemente, in modo piuttosto riservato, senza nessun dibattito pubblico e con scarsissimo contributo informativo da parte dei media.
Eppure quella scelta ha consegnato, di fatto, il controllo della finanza pubblica italiana in mano di entità sovranazionali, costringendo lo Stato, in caso di bisogno, a chiedere moneta a quell’ente privato che è la Banca Centrale Europea (La Bce è di proprietà delle Banche Centrali degli Stati che ne fanno parte, che a loro volta sono composte in maggioranza da istituti privati).

Resta però il fatto che in Italia esiste ancora una Costituzione e un organismo, la Corte Costituzionale, che è il luogo più alto del controllo reciproco dei poteri e garanzia che la nostra Carta fondamentale non venga tradita: esso vigila proprio onde garantire che le leggi promulgate siano coerenti e conformi alla Costituzione. Il 19 ottobre scorso con la sentenza 275/2016 – passata sotto assoluto silenzio dai media – la consulta ha acclarato che l’equilibrio di bilancio introdotto nell’articolo 81 della Costituzione non può condizionare la doverosa erogazione dei diritti incomprimibili, che sono peraltro posti a fondamento della stessa Carta costituzionale: essi in sostanza devono essere garantiti e non rimanere mere dichiarazioni di principio.
Il pronunciamento ricorda con forza che nell’equilibrio dei diritti su cui si regge il nostro ordinamento, in caso di conflitto, prevalgono quelli che la Carta stessa indica come fondamentali. Questo non implica assolutamente che il pareggio in bilancio, inserito nell’art.81 non sia valido, ma piuttosto che deve essere rispettato senza comprimere altri valori fondamentali. Il ‘come’ farlo resta ancora compito importantissimo della politica, ammesso ma non concesso che essa non sia ormai diventata completamente succube dei poteri finanziari e delle lobby di potere.

Con l’ingenuità del semplice cittadino e senza entrare in considerazioni tecniche troppo complesse, potremo azzardare e dire che la Pubblica Amministrazione non può semplicemente e automaticamente tagliare i fondi che servono a garantire diritti fondamentali quali la salute, l’istruzione, il lavoro, l’equa giustizia, solo per garantire l’equilibrio di bilancio e senza renderne conto in modo trasparente ai cittadini. Tuttavia la possibilità di violare, se necessario, i vincoli di bilancio derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea per garantire i diritti tutelati dalla Costituzione, rischierebbe di mettere lo Stato stesso nella situazione possibile di indisponibilità finanziaria nel caso i mercati negassero il credito o la Bce non intervenisse per sostenerlo.
Se questo è vero si capisce immediatamente la cifra del conflitto, non solo potenziale, che esiste tra la dimensione nazionale e quella europea, tema che appunto molti elettori intravvedevano dietro il fumo sollevato delle retoriche e dalle narrazioni che hanno animato lo scontro sul referendum.
Un conflitto che sarebbe assai meno aspro se l’Europa non avesse perso quei valori, quelle idee e quell’entusiasmo piuttosto diffuso che aveva accompagnato il suo nascere e suo lento affermarsi. Invece, da almeno dieci anni, essa sembra avere smarrito la rotta e sempre più la speranza e la visione: essa appare ormai ai più come una gigantesca burocrazia, dominata dalla finanza e guidata da un cieco credo neoliberista, caratterizzata da una neolingua che la stragrande maggioranza dei cittadini non capisce, popolata di politici più attenti ai loro interessi particolari che alla crescita comune. Un’Europa deludente e senza cuore, che a parere di molti italiani non è per nulla vicina a quello che avrebbe potuto e dovuto essere.
In tal senso si può perfino capire l’ostinata (e strana per l’Italia) difesa della Costituzione da parte di quanti sono spaventati e non si riconoscono più in questo progetto europeo dove la finanza è tutto e i ‘popoli’ non sembrano contare nulla (Grecia docet).

Ora, se si vuol rimanere in Europa, delle due l’una: o i nostri politici hanno la forza, l’amor di patria e il talento per difendere e promuovere i valori e i diritti fondamentali sanciti dalla nostra Carta Costituzionale, facendosi portatori di una diversa e più sana idee di Europa; oppure bisognerà cedere ulteriore sovranità e mettersi con fiducia (?) nelle mani di questa Europa (dei burocrati, dei mercati e del potere finanziario) convincendo i cittadini che è necessario modificare (magari poco alla volta) la Carta costituzionale diventata ormai obsoleta e inadeguata.
L’alternativa, sostengono alcuni e in numero crescente, è quella di uscire dall’euro pur restando in Europa, fuggire da una moneta diventata ormai una gabbia di ferro che, in assenza di profondi cambiamenti, rischia di portare alla distruzione definitiva dell’economia nazionale (e di quel che resta dello Stato sociale).
Uscire dall’Europa e dall’Euro, ipotesi estrema, appare oggi decisamente insostenibile.
Di tutto questo però nelle discussioni post referendum non si trova traccia. La tensione rimane tuttavia fortissima e ai (pochi) cittadini consapevoli converrà essere molto vigili, soprattutto nel richiamare con forza il ruolo della politica che non può sperare di prosperare su questa ambiguità né continuare a giustificare le proprie scelte dietro al paravento del “ce lo chiede l’Europa”.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Lottare senza paura… battere il cancro e i suoi fantasmi si può!

Vichinga e le altre…

Cara Riccarda
Ho letto la storia di T. la vichinga e come spesso accade ho ripensato alle storie che tante ‘guerriere’ mi hanno raccontato in questi anni, i loro volti non li ricordo nitidamente, sono tante, tante davvero, ma le loro parole sì, mi sono entrate nel cuore. E la forza con cui davanti a me ricordano, parlano, ricostruiscono la malattia tirando fuori quello che c’è stato di più doloroso, mentre a volte stanno ancora facendo le terapie, a volte le hanno appena finite e ironizzano su quello che è stato (i capelli… beh sono caduti così che adesso crescono più forti, e magari cambio anche colore eh).
Assieme cerchiamo di capire se la causa della malattia può essere genetica, se c’entrano i “geni dell’Angelina Jolie”, ormai li chiamiamo così i due geni che predispongono al tumore al seno (BRCA1 e 2) che suona meglio di questi acronimi inventati dagli americani.
Perché se l’analisi è positiva, allora i controlli devono essere di più, perché è importante giocare in attacco sempre, perchè anche l’Angelina lo ha fatto e ha fatto informazione, perché bisogna sapere, sempre.
E perché le vichinghe sono tante, tante di più di quello che immaginiamo.
Marcella Neri

Cara dottoressa,
e allora chiamiamoli “i geni dell’Angelina Jolie”. Se proviamo a dare un nome a una cosa incomprensibile, se anzichè usare la sigla, parliamo dei geni dell’Angelina, forse non cambierà nulla nella sostanza, ma l’approccio sarà più umano. Fa meno paura ciò che conosciamo e che possiamo nominare, ci sembra di capirlo, almeno un po’.
Sentire da un medico che le parole di quelle donne, le nostre vichinghe, rimangono e colpiscono anche chi per mestiere ci vive in mezzo, conferma che le pazienti sono prima di tutto persone, storie di battaglie e vissuti. Come la nostra T. che mi ha scritto “la vita ti mette di fronte a prove che non puoi dribblare, non ti resta che giocartela tutta e al meglio”.
Riccarda

Combattere senza paura

Cara Riccarda,
il cancro è un’esperienza che, nel migliore dei casi, lascia perenni cicatrici, visibili invisibili. Sono un medico e sto dall’altra parte, dalla parte di chi deve comunicare la malattia e accompagnare le persone nel loro percorso di “lotta”. Combattere senza paura vorrei che non fosse solo uno slogan da potere dire a chi si trova a dovere affrontare la malattia, ma fosse un modo convinto di mettersi in cammino nelle tappe da vivere su una strada che non è mai breve né semplice.
La chirurgia senologica è spesso solo una tappa del processo di guarigione che prevede la partecipazione anche della oncologia con farmaci chemioterapici, endocrini ed immunologici e della radioterapia.
L’approccio multidisciplinare ha portato negli anni costanti miglioramenti nella qualità della vita delle operate e percentuali di guarigione più alte. Al momento in Italia vi sono più di 600 mila donne sopravvissute al cancro mammario.
I tempi di guarigione del cancro al seno non sono brevi, solitamente dopo l’intervento chirurgico la paziente viene presa in carico, per un periodo minimo di 5 anni, da un oncologo che la seguirà nel follow-up: una serie di controlli periodici programmati utili a intercettare eventuali recidive o ricaduta in malattia.
Chi diventerà un’operata al seno? Si è parlato di una vichinga, di una combattente, una che non si arrenderà mai al male. Tale domanda trova diverse e svariate risposte, così come tante e diverse sono le culture dell’umanità.
Nelle popolazioni del nord Europa, le donne tendono a esibire senza problemi le cicatrici o l’amputazione perché la femminilità, dicono, è un valore che le donne si portano dentro, nel proprio intimo.
Nelle popolazioni mediterranee, prevale invece il ricorso ad interventi ricostruttivi che portano le operate a scegliere una mastoplastica additiva al fine di ricostruire e ripristinare la propria femminilità.
Di vichinghe ne incontro diverse nella mia quotidianità di medico, e mi auguro che tante trovino la stessa forza di T.
Francesco Pellegrini

Caro dottore,
ho volutamente scelto di lasciare il titolo che lei ha dato al suo intervento: combattere senza paura. È il senso che ho colto nella determinazione di T ed è la stessa impronta che lei, mi pare di capire, tende a comunicare quando si approccia a una paziente oncologica.
La storia di T è per tutte quelle donne che sono in prima linea e lottano, solo loro possono sapere quanto.
Riccarda

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

EVENTO
Vittorio Sgarbi a Ferrara per presentare il suo ultimo libro e parlare di arte e capre

cover-dallombra-alla-luce
“Capre!” Quante volte lo abbiamo sentito apostrofare così i suoi interlocutori? Ora sono anche sulla copertina del nuovo libro di Vittorio Sgarbi: la riproduzione di un dipinto di Rosa da Tivoli, che rappresenta appunto delle capre al pascolo.
E nemmeno alla conferenza che si è tenuta ieri nella sala dell’Oratorio San Crispino il celebre opinionista ha perso l’occasione di proferire una delle sue parole più ‘amate’ e ricorrenti, che ormai lo contraddistinguono. Questa volta però non le ha pronunciate in riferimento a qualcuno, anzi, Sgarbi si è mostrato molto più docile rispetto alla classica visione che i mass media ci offrono, ricoprendo in pieno le vesti di critico d’arte. Ha così presentato il suo ultimo libro “Dall’ombra alla luce. Da Caravaggio a Tiepolo” dedicandosi, senza troppe divagazioni alla sua passione: l’arte.

Baciccio, Guercino, Mastelletta: sono solo alcuni dei pittori che hanno reso l’Italia tanto ricca, di cui però non conosciamo l’identità. “Siamo invece certi delle opere, ma soprattutto dell’esistenza di Cimabue, Giotto, Brunelleschi, Leonardo, i classici “pittori toscani”, famosi per decisione del Vasari, che ha conferito loro il primato”. Siamo quindi, secondo il celebre critico, davanti ad una storia dell’arte conosciuta in maniera molto imperfetta e molto inefficiente rispetto a quello che dovremmo vantare. “Noi siamo il primo paese nel mondo ad avere tante opere d’arte. E non lo sappiamo nemmeno!”
Per questo ha pensato di rivelare i tesori dell’arte italiana e da qui prende il nome la serie di volumi di cui Sgarbi ha presentato il quarto tomo, aggiungendo che per terminare la sua opera, ne scriverà anche un quinto arrivando fino a De Chirico.

“Per realizzarlo, ho immaginato la storia dell’arte italiana tagliata a fette. E in questo libro in particolare, ho voluto parlare di una serie di artisti meravigliosi, ma totalmente sconosciuti. Pittori che, non solo non vengono mai citati, ma sono addirittura chiusi in chiese strane, remote e la gente non sa nemmeno che esistano”. Ecco perché nasce questo libro dal titolo profondamente metaforico, “Dall’ombra alla luce”, che rimanda a un duplice significato: il passare dalle ombre  di Caravaggio alla luce di Tiepolo, ma allo stesso tempo la volontà dell’autore di far riemergere, far “venire alla luce” tutte quelle opere che sono rimaste nell’ombra per troppo tempo.

Certo, il nostro opinionista non si è lasciato sfuggire qualche critica, soprattutto a proposito della situazione nella quale versano alcune architetture della zona. “Non possiamo avere le chiese chiuse, soprattutto per noi che ci troviamo nel ‘Nord produttivo’, le chiese di Ferrara devono essere aperte! Il ministro – ha detto Sgarbi riferendosi a una sua conversazione con l’ex ministro Bray, ma alludendo forse anche all’attuale titolare del Mibact, il ferrarese Franceschini – ha il dovere di aprirle tutte, una per una. Da questo punto di vista, sento Ferrara un po’ inerte, ma non per questo la odio, come erroneamente si crede, anzi la amo e sono felice di esser tornato nella mia città”.

Sgarbi ribadisce più volte l’amore e l’orgoglio che prova per la città natia, anche se i suoi rapporti con questa non sono stati tra i più felici. Il popolo ferrarese sembra non avvertire questo distacco, riempiendo la sala nella quale si è svolta la presentazione e restando ad ascoltare in religioso silenzio, fino all’ultimo fragoroso applauso. Anche il padre Giuseppe e la sorella Elisabetta non potevano mancare all’appuntamento, sostenendo Vittorio con una determinata ammirazione.

Insomma, chi si aspettava lo Sgarbi critico, agitato e polemico della televisione questa volta se n’è andato insoddisfatto, ma per tutti quelli interessati all’arte, il nostro opinionista ha dato una lezione coinvolgente e sentita, degna di un vero divulgatore del nostro immenso e in larga parte sconosciuto patrimonio.

Chi tutela il bene comune? Lunedì 16 voci a confronto in Ariostea

“Il bene comune: politiche pubbliche e interessi collettivi” è il titolo del primo incontro del terzo ciclo di conferenze “Chiavi di lettura – Opinioni a confronto sull’attualità”, organizzate da FerraraItalia con l’intento di “leggere il presente”. Ogni mese il quotidiano online, fedele al proprio impegno di sviluppare l’“informazione verticale”, proporrà un approfondimento su un tema di attualità, locale o nazionale. Lo farà mettendo a confronto voci e opinioni diverse, per alimentare dibattiti costruttivi che contribuiscano ad ampliare la conoscenza dei fatti, a favorire l’elaborazione di fondati punti di vista, nella convinzione che l’autonomia di giudizio sia imprescindibile condizione per l’esercizio dei diritti di cittadinanza e stimolo per una partecipazione attiva alla vita pubblica.

Quello sul “Bene comune”, in programma lunedì 16 gennaio alle 17 alla biblioteca comunale Ariostea, sarà un confronto a più voci, coordinato dal direttore di Ferraraitalia Sergio Gessi, con il contributo di cittadini che hanno svolto percorsi professionali e operato scelte di vite differenti fra loro.
Al prologo, seguiranno (sempre di lunedì alle 17) il 27 febbraio “Ferrara violenta? La criminalità fra realtà e suggestione”, il 27 marzo “Moriremo moderati? Il ritorno della Balena Bianca”, il 24 aprile “Ma la coop sei veramente tu? Cooperazione e impresa ai tempi della collera”, il 29 maggio “Uomini o caporali? Storie di dignità e vassallaggio”.

Il soldato e il terrorista. Una condanna che fa discutere nella polveriera di Hebron

L’opinione pubblica israeliana in questi giorni si trova drammaticamente spaccata in due a causa della condanna per omicidio colposo nei confronti del giovane soldato, oggi ventenne, Azarya Elor, decretata dalla corte marziale militare israeliana. Una condanna che fa discutere, anche perché, all’epoca dei terribili avvenimenti di Hebron (24 marzo 2016), il giovane soldato aveva solamente 19 anni e, trovandosi nel mezzo di un attentato in cui due militari suoi amici venivano accoltellati e ridotti in fin di vita, non ha esitato a sparare alla testa uccidendo il terrorista palestinese, seppur già ferito e a terra. I dubbi sulla condanna riguardano il fatto che il terrorista, nonostante gli fosse stato ordinato di non muoversi, secondo le ricostruzioni continuava a farlo destando timori sulle sue intenzioni: se avesse attivato un giubbotto esplosivo causando una carneficina? Tutti gli ufficiali presenti sulla scena hanno testimoniato a favore del giovane Azarya. Perché non si è voluto tener conto del fatto che le procedure – nel caso di un terrorista sospettato di indossare una cintura esplosiva –  indicano di sparare alla testa se questo si muove o muove una mano?
Ma la giustizia israeliana ha voluto da prova di imparzialità, in un paese in cui vige lo stato di diritto retto da una magistratura indipendente, in cui anche Presidenti e i Primi Ministri vengono condannati alla galera. Resta il fatto che, a giudizio della maggior parte delle opinioni pubbliche, sia israeliane che italiane, questa condanna inflitta al giovane soldato è eccessiva.

Michael Sfaradi, giornalista e scrittore, italiano di nascita ma residente in Israele da oltre 30 anni, spesso impegnato come corrispondente di guerra, in un’intervista ad un giornale svizzero afferma: “…Serviva un colpevole e un colpevole è stato servito senza attenuanti. Come attenuante non è servita la giovane età dell’imputato in servizio di leva messo in una situazione di ordine pubblico che sarebbe stato invece compito della polizia.”

Sul web fanno eco altri commenti: Silvia: “L’unico Stato al mondo dove un soldato che uccide un terrorista viene processato e condannato! Non ho parole”. Aldo:”Come si può condannare un ragazzo di 18/19 anni, che probabilmente era emozionalmente instabile… Sono dei giovani, non dei professionisti. Non è giusto, la sua condanna è surreale. Non tutti riescono a mantenere sangue freddo in condizioni di emergenza, e lui è ancora un ragazzo”. Anna:” Quando penso ai palestinesi che offrono caramelle e cioccolatini ogni volta che uccidono un ebreo mentre Israele condanna un giovane diciottenne che ha svolto il suo dovere di soldato…queste sono le contraddizioni che non capisco e che mi fanno saltare i nervi”. Non è possibile non criticare certa stampa e Tg italiani che sull’uccisione del terrorista palestinese lo descrivono: “sdraiato a terra”. Non stava prendendo il sole, aveva appena compiuto un attentato. Gabriella:” Dire che era un terrorista era superfluo? Questi “giornalisti” diffusori di notizie che divulgano mezze verità”. Anna:” Non è conveniente scrivere la verità. Tutta la notizia in fondo era per ricordare agli italiani i cattivi soldati israeliani che ammazzano i poveri pacifici palestinesi! E’ preferibile non leggere più certa stampa”.

E proprio mentre sto per terminare questo articolo, apprendo la terribile notizia di un ennesimo attentato a Gerusalemme compiuto da un terrorista palestinese che, alla guida di un camion ha volutamente investito e ucciso quattro soldati tutti giovanissimi, appena ventenni. Tre di loro erano soldatesse. Il criminale palestinese, ha poi ingranato la retromarcia passando diverse volte sui poveri corpi, marciando avanti e indietro.
Il sangue versato oggi possiamo metterlo in relazione con i fatti accaduti e illustrati in questo articolo perché i soldati presenti oggi a Gerusalemme, si sono dimostrati talmente intimoriti da quella sentenza che hanno esitato a sparare… E’ stato un civile, l’unico che ha sparato e ucciso il terrorista alla guida del camion. Le decine di soldati presenti non hanno sparato un solo colpo. Questo è il tragico effetto della condanna inflitta al giovane soldato Azarya.

A Bologna, a partire da domenica 8 gennaio, la personale di pittura di Paride Falchi

da: Riccarda Dalbuoni

“Le atmosfere post impressioniste del paesaggio e della vita padana, nelle località e nelle campagne lambite dal Po, saranno il tema della personale di pittura di Paride Falchi (1908-1995), artista pienamente calato nel Novecento ma dalla straordinaria modernità espressiva, capace di far vivere nelle sue opere sensazioni e personaggi caratterizzanti periodi e luoghi. Accanto ai suoi quadri, verranno esposte all’attenzione del pubblico le sculture del figlio Aldo, vivente, moderno manierista formatosi all’Accademia di Brera a Milano, che con opere in bronzo e terracotta, rappresenta tensioni e passioni, viaggi e incontri di una vita caratterizzata da notevoli successi artistici. La mostra, intitolata “Maestri mantovani”, curata da Cristiano Zanarini, sarà inaugurata domenica 8 gennaio alle 17 alla Galleria Sant’Isaia via Nosadella 41a a Bologna. Numerose le opere raccolte nelle grandi sale di una delle gallerie più affermate e conosciute di Bologna. Esse rappresentano i momenti salienti di lunghe carriere, in modo da dare un panorama completo dell’attività di entrambi gli artisti. Gli orari di apertura con ingresso libero: da martedì a domenica ore 10:30 – 12:30 e 16:30 – 19:30 e mercoledì pomeriggio chiuso (possono variare, si consiglia di verificare sempre via telefono). La rassegna potrà essere ammirata fino a venerdì 26 gennaio 2017.”

Quel Babbo Natale disonesto

Quando ero piccolo a portarmi i doni la notte del 24 dicembre era Gesù Bambino, non Babbo Natale, ritenuto dai miei troppo laico o pagano. Mi avessero detto che Gesù Bambino non esisteva non ci avrei creduto, non avrei subìto nessun trauma, perché tanto i doni continuavo a riceverli. Al termine della cena della notte di Natale, puntualmente suonavano il campanello alla porta di strada e noi, i miei fratelli ed io, non avevamo dubbi che a suonare era Gesù Bambino che ci portava i regali.
Conservo ancora dei bellissimi ricordi di quella tradizione e della atmosfera di Natale che i miei sapevano creare per noi bambini.
Eppure a mio figlio non ho mai raccontato né di Gesù Bambino né di Babbo Natale, se non per dirgli che appartenevano al mondo della fantasia, come le favole che leggevamo insieme o che io mi inventavo per farlo divertire. Le favole sono belle e importanti perché aiutano a distinguere ciò che è realtà da ciò che è puro gioco dell’immaginazione. Neppure ho esitato a far trovare a mio figlio secondo i crismi della tradizione, insieme alla calza, una lettera tutta bruciacchiata, come doveva essere, scritta dalla Befana. Perché giocare con la fantasia è un esercizio della mente, un esercizio dell’intelligenza che a lungo andare forma il bambino al principio di realtà, allo spirito critico, alla curiosità, alla capacità di inventare e di ideare che sono strumenti indispensabili sia alla nostra formazione razionale che emotiva, sia all’emisfero destro come a quello sinistro del nostro cervello.
Quando ero giovane maestro, contestatore dei libri di testo e dei voti (in verità lo sono ancora!), con velleità d’avanguardia in una scuola vecchia, una mattina entrai in classe bel bello chiedendo ai miei alunni di nove anni se avevano sentito la notizia trasmessa dalla televisione che avevano rapito Babbo Natale. Ero interessato alla loro reazione. Se solo qualcuno avesse almeno messo in forse le mie parole, avesse colto immediatamente la possibilità di un mio scherzo. Si sarebbe dimostrato uno spirito libero, sveglio, intelligente. No. Silenzio di tomba e qualche singhiozzo. So solo che il giorno dopo molti genitori mi ringraziarono e mi lodarono perché avevo avuto una bella idea. Io non fui licenziato. Forse perché la mia provocazione non arrivò fino a negare l’esistenza del vecchione, anzi non faceva che confermarla con più forza, semmai aveva fatto emergere il lato debole dei miei alunni, il loro egotismo, preoccupati più di non ricevere i doni, che della fine che poteva essere capitata al povero Babbo Natale rapito da malvagi.
Sta di fatto che comunque è disonesto giocare con l’ingenuità dei bambini, è da prepotenti, come il più forte contro il più debole, come fargli credere che le favole nate per essere favole sono vere.
Bambino, se non fosse che è parola a noi così famigliare, sarebbe di per sé, per la sua etimologia che è quella di cosa sciocca, per il suo uso emotivamente traditore nel Bambi di Disney, sarebbe parola da bandire, perché denuncia con quale considerazione il mondo adulto guardi all’età più importante della vita che è senza dubbio l’infanzia.
Un’età che si può manipolare a piacimento, restare ingenui non è da cretini, è da beati, così ti meno per il naso dove voglio. È la legittimazione della disonestà intellettuale con i propri figli e i bambini in genere. È disonesto giocare con l’infanzia perché non è adulta, perché non è ancora cresciuta e sorge il sospetto che i grandi abbiano dei secondi fini, abbiano l’interesse a mantenerli nella loro sudditanza intellettuale per manipolarli meglio. Meglio creduloni che svegli e intelligenti, capaci di giocare con la fantasia, credere ai loro viaggi fantastici anche se sanno bene che non saranno mai la realtà. Ma si sa che sulla manipolazione delle menti infantili crescono le radici delle religioni, delle ideologie fino ai fanatismi.
E dunque ben venga quel direttore d’orchestra che svelando la favola di Babbo Natale ha saputo dimostrare un grande rispetto per la sua platea di bambini.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Vichinga forte e fiera… senza paura

“Oggi mi sento una vichinga”. È talmente rapido il modo in cui T. mi scrive della sua malattia, un cancro al seno diagnosticato qualche mese prima, che vuole subito farmi capire che il peggio è passato e le importa solo dirmi come sta adesso.
Mollo i panni sul letto, mi siedo sulle scale e rileggo. Non a lei, penso, non alla nostra età. Faccio fatica a mettere insieme i messaggi e realizzare che quella mia amica, coetanea, moglie e madre, è stata operata d’urgenza, le hanno tolto entrambi i seni e me lo sta dicendo con la fierezza di chi ha fatto qualcosa di grande. Qualcosa che a me sembra immenso. Non so rispondere, lei lo sa che chi riceve la notizia non ha parole. E, infatti, l’accenno alla malattia è breve, un inciso fra altre cose che mi racconta, l’importante è il traguardo tagliato, è dirmi oggi sto bene e “sono più forte di prima”, è vedersi nuova.
T. non si lagna, T. sorride, lo sento anche se non la vedo, lo capisco da come scrive che ha scavalcato la paura dopo averla guardata in faccia. “Mica paura per noi, sai, ma per chi ci sta a fianco”, T. è talmente oltre che ha messo da parte la paura di perdere, non poteva permetterselo.
Non si è nemmeno concessa di seminare il panico tra gli amici, di rendere quella bestia più protagonista della sua vita di quanto non fosse lei stessa. Ha combattuto un testa a testa, perchè questo è il cancro, ce l’hai dentro. E T., la bestia, l’ha domata e sconfitta.
Il male è diventato un ricordo funzionale a un’urgenza di vita, perchè a T. interessa il bello, il nuovo che è diventata, la coscienza che la malattia non ha preso il suo posto mai.
T, oggi, continua a preferire parlare con entusiasmo di guarigione piuttosto che di menomazione o di quello che solo lei può sapere le avrà intasato la testa in certe notti.
Si è fatta sera tardi, T. mi prende ancora in giro per un paio di scarpe che portavo a sedici anni e amavo tantissimo, ma a lei non piacevano. Non stiamo fingendo di parlare d’altro, vogliamo proprio ridere di noi.
“…Però pretendo la rivincita” mi scrive prima di salutarmi.
“Dimmi dimmi”
“Due bocce enormi”.

Riccarda Dalbuoni

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

La puzza delle contraddizioni del nostro pianeta

Esiste una logica nelle contraddizioni? Difficile dirlo, ma oramai siamo talmente strutturati in questo sistema che difficilmente potremmo immaginare un mondo diverso per cui: si, il nostro mondo è logico nelle sue contraddizioni, qualsiasi cosa questo significhi!
Ma cosa vedrebbe un extraterrestre, un essere proveniente da altri mondi, necessariamente più evoluto di noi e non impregnato dell’odore di fritto che ci infastidisce quando si entra in una cucina dove si sta preparando il cenone di capodanno? Vedrebbe sicuramente tutte quelle cose che noi non vediamo più, che accettiamo come ineluttabili e alle quali ci conformiamo non vedendo altre scelte possibili.

Il cibo. Frigoriferi stracolmi di generi alimentari, supermercati e negozi stracolmi di offerte per tutti i gusti di cui buona parte e immancabilmente finisce nella spazzatura. Cibo e spreco a tonnellate, con incapacità congenita di operare quanto meno un recupero per offrirlo alle mense dei poveri. Spreco da un parte e poveri dall’altra, appunto. Milioni di persone impossibilitate ad accedere a questo cibo e bambini che muoiono a ondate, ogni giorno, perché non hanno accesso al benessere, condizione normale solo per un parte della popolazione, comunque esseri umani anche se diversamente alimentati.

Il lavoro. Da un parte gente che lavora anche 15 ore al giorno, che è totalmente stressata a causa dei troppi impegni, ma che in fondo non sa più farne a meno. Che si troverebbe perduta se all’improvviso si dovesse trovare a casa prima del tempo, di fronte a moglie/marito e figli. E dall’altra gente in costante ricerca di un impiego che gli possa assicurare uno stipendio e quindi la possibilità di pagare le tasse e di potersi tenere la casa, la macchina e l’accesso a quei negozi pieni di ogni ben di Dio, ma che non regalano nulla, anche se siamo Cristiani, Musulmani, Buddisti e quant’altro. Il fatto di ritenerci ‘umani’, religiosi, cooperativi e collaborativi non ci esime dal pretendere sempre che per potersi sfamare e vivere dignitosamente sia giusto passare attraverso il lavoro, quindi uno stipendio, un guadagno, una spesa.
Il nostro secolo doveva essere, presumibilmente, il secolo della liberazione dalle catene della schiavitù, che sicuramente oggi è rappresentata dal lavoro per chi ce l’ha e per chi ne è alla ricerca. Lavoro che è diventato sempre meno di qualità a favore della quantità. Negli anni del boom del secondo dopoguerra l’idea era che ci si sarebbe piano piano liberati dal bisogno di dover lavorare tante ore al giorno grazie alle invenzioni e alla tecnologia, invece è successo il contrario. Si lavora di più e si lavora in due, almeno, altrimenti non si riesce a vivere.
Questo perché siamo stati invasi, nella mente soprattutto, della necessità di avere sempre di più e sempre più cose inutili che durano sempre di meno. Crescita che nella nostra società modernamente tendente al vecchio e al solito significa aumentare la produzione di beni più che aumentare l’accesso al benessere di parti maggiori di popolazione. La tecnologia che doveva aiutare ci costringe invece a starle dietro, a vivere di obsolescenza programmata.
Siamo sempre più schiavi e determinati a rimanere al lavoro sempre più ore per accedere a cose inutili, mentre contemporaneamente sempre più persone rimangono fuori dal circuito lavorativo e di conseguenza non riescono a vivere. Da una parte chi lavora troppo per permettersi cose inutili e perpetuare all’infinito il sistema malato di crescita di prodotti, distruzione dell’ambiente, e accumulo di inutilità nonché spreco di generi alimentari e dall’altra l’esercito dei diseredati che mangiano e si riscaldano sempre di meno. Questo per il mondo occidentale, in gran parte destinato alla putrefazione, mentre milioni di bambini negli altri mondi semplicemente continuano a morire con poco o con il solito clamore ad intermittenza.

I soldi. Come potrebbe reagire il nostro extraterrestre osservando gli appelli televisivi a contribuire a salvare le piccole vite in pericolo nei continenti meno fortunati. Tra una pubblicità e l’altra ci chiedono dieci euro al mese, o venti o trenta, per aiutare un bambino in Africa. Ci chiedono di contribuire a farlo studiare oppure a nutrirlo o addirittura a fargli arrivare una vaccinazione. Quelli che lavorano e sono schiavi della pubblicità, del consumo sfrenato, devono sentirsi anche in colpa per non aver ancora provveduto ad adottare uno di questi disperati che il mondo dell’ingordigia, delle multinazionali e degli interessi sovranazionali ha provveduto a ridurre in quelle condizioni. Condizioni che ci vengono mostrate nella maniera più cruda possibile tra il te pomeridiano e la cena serale, davanti ai nostri figli che imparano, contemporaneamente, a sentirsi colpevoli e superficiali. In contraddizione perpetua.
Nel mondo c’è un gran bisogno di soldi, ma si cercano i soldi degli altri disperati che navigano a vista in questa accozzaglia di diseredati. Anche qui, da un parte Banche Centrali che stampano soldi a bizzeffe, ma che si fermano ad altre banche, dall’altra campagne televisive che ci chiedono 10 euro al mese oppure di partecipare alle collette alimentari. Multinazionali dei farmaci che detengono brevetti miliardari da un parte mentre dall’altra le vaccinazioni di milioni di bambini e la loro vita dipendono dai nostri dieci euro al mese.

Le religioni. Ed infine il nostro extraterrestre scoprirebbe le religioni e vedrebbe gente che prima prega il suo Dio e poi magari si fa esplodere in una piazza in mezzo a donne incinte e bambini, oppure vedrebbe mafiosi prima uccidere i propri simili e poi andare in chiesa a pregare nelle mani di qualche prete compiacente. Vedrebbe gente pregare da una parte e dall’altra e poi correre a sganciare bombe su città piene di altri esseri umani che a loro volta hanno pregato prima di imbracciare il loro strumento di morte.

Insomma, abbastanza per lasciare la nostra atmosfera e allontanarsi dall’odore di fritto e dal sapore delle contraddizioni in logica evoluzione su questo strano pianeta.

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DIARIO IN PUBBLICO
Capodanno via dalla pazza folla

Le folle fiorentine amalgamano tutto. Sotto le più sfarzose luminarie delle vie e viuzze del centro si muovono come formiche impazzite migliaia di turisti che arrivano dalle più imprevedibili località della terra. I negozi del super lusso esibiscono nello sfarzo dell’interno rigorosamente vuoto statuari guardiani neri. Nel breve giro di tre vie si accalcano i marchi dei negozi più famosi del mondo. Affannosamente al mercato anche noi cerchiamo almeno 20 o 30 grammi di tartufo bianco: impossibile. Sembra che il prezioso tubero non esista e furbe facce asiatiche ti propongono scorzoni neri o palline di qualcosa che non ha né la fierezza né la rarità di ciò che invano cerchiamo. Sul sagrato del Duomo un altezzoso presepe d’autore esibisce la nascita del Bambino tra l’indifferenza dei selfisti tutti presi del e nel loro solitario vizio assurdo. Dobbiamo rinunciare alla ulteriore visita al Museo dell’Opera del Duomo, a mio parere il museo più bello del mondo, perché tutto sold out. Scopriamo che il biglietto che comprende la visita al Museo, alla Cattedrale e alla Cupola del Brunelleschi in realtà fa restare deserto il sublime museo, mentre code inenarrabili attendono ore per salire sulla cupola per scattarsi i selfie. Ah! Gli ‘italiani’!

Decidiamo all’ultimo momento una gita in campagna e via dalla pazza folla. Il Chianti ci accoglie con una giornata perfetta, resa più preziosa dal traffico quasi inesistente. La bellezza totale del paesaggio ci afferra e ci scambiamo poche parole per approfittare di un momento sempre di più raro: la contemplazione della natura lavorata dall’uomo. Il nostro allegro garagista ci dà preziosi indirizzi tra Panzano e Radda e approdiamo a una trattoria d’antan. Perfetta per illustrare l’immagine del Chiantishire. La rivedrò? Forse. Quel che importa è che ci è toccato in sorte una giornata di bellezza speciale e per un momento ci si scorda della banalità della politica, della tragedia di Carife, della volgarità dell’incendio del Castello, della prepotente ‘pancia’ degli ‘itagliani’.
Incontro vecchi studenti, gli artigiani di sempre e parlo di Ariosto con un taxista coltissimo che ci porta a rivedere “Florence”, il film che mi ha conquistato. Qui al cinema altri ex studenti sorridenti e gentili poi, la mattina seguente le ultime visite ai mercati. A Sant’Ambrogio troviamo il vero tartufo; la mia verduraia a San Lorenzo mi offre fragoline di bosco, lamponi, ciliegie e uva. I sorrisi sono sinceri e nonostante siano possibili i botti (“Nardella, ovvia! ma i’che tu fai????”) la città se ne dimentica e alla Lilla non rimane che evitare le decine di carezze che piovono da mani provenienti da turisti di tutto il mondo appena usciti dalla visita al David di Michelangelo. Ormai è conosciuta come la canina dalla scarpetta e sembra ne vada abbastanza fiera.

Nel mio condominio ragazzetti un poco deficienti fanno scoppiare i botti per le scale. M’affaccio e con piglio sicuro li avverto che sto chiamando la polizia. Si ritirano sconfitti e la serata passa tranquillissima tra l’ennesima visione di “Cantando sotto la pioggia” e di “Il marchese del Grillo”. La notte dei botti passa dunque nel silenzio totale. Agli auguri segue un pacifico riposo, mentre Lilla voluttuosamente sdraiata sul piumone digerisce l’ultimo bocconcino di fine anno.
Tutt’altra storia la mattina seguente quando scendo per le funzioni lillesche. Mentre schiere di spazzini ripropongono una Firenze degna del suo nome, nelle viuzze laterali si vedono con disgusto gli esiti immondi della notte. Meglio non indugiare oltre e cominciare il viaggio di ritorno seguendo le orme degli antichi viaggiatori che percorrevano il passo della Futa. A Monghidoro una tappa obbligata, non tanto per ricordare i natali del celebre cantante Morandi, ma perché il nome antico di quel paese, Scarica l’asino, a confine tra lo stato toscano e quello pontificio, mi fa ritornare alla mente le decine di lettere che Canova e anche Foscolo scrivevano da quel luogo. Sui crinali delle colline splende un sole accecante; le tracce degli antichi mestieri legati all’agricoltura e alla pastorizia s’avvertono nella perfetta disposizione di case e di campi. Ti dimentichi per un momento che stiamo vivendo una guerra. Anzi, più guerre che non sono solo quelle combattute con le armi dei soldati o del terrorismo, dei ricchi e dei poveri, ma le più pericolose di tutte legate al denaro e alla presunzione.
Ecco allora che la paura ti afferra, come quella di passare da una via centrale, quale quella della libreria fiorentina a un passo dalla mia facoltà ed essere centrato da una immonda vendetta che sembrerebbe fondarsi su un’ideologia, ma è invece quella della presunzione di essere nel giusto. Di fargliela pagare. Ma a chi? Ai disgraziati frequentatori di una discoteca a Istanbul o a un poveraccio eroe per caso che perde un occhio e una mano per disinnescare la bomba fiorentina? Così l’arrivo a Ferrara diventa mesto e alla casa fredda che t’accoglie s’aggiunge il ghiaccio che hai nel cuore.
Tutti soddisfatti, invece, dello spettacolo clou di Ferrara: l’incendio del Castello con i suoi botti e le sue luci capaci di fare quello che neanche in tempo di guerra si faceva se non in caso di estremo pericolo, ovvero lo sgombero della galleria dei quadri ospitati nelle sale del nostro monumento più importante.
Scordavo. Tutti gli organi di informazione raccontano soddisfatti che per i botti e fuochi d’artificio quest’anno non c’è stato nessun incidente mortale. Solo più un centinaio abbondante di feriti di cui almeno una dozzina assai gravi tra cui i ragazzini. Vuoi mettere????
Coraggio! Si ritorni alle pagine sublimi del Tristram Shandy.

LA CITTÁ DELLA CONOSCENZA
Cultura e cittá

Il sapere è fuggito oltre i limiti delle istituzioni, ad aprirgli i cancelli è stata l’era digitale che ormai viviamo a pieno titolo. Il passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione ha cambiato il nostro paesaggio da verticale ad orizzontale, dalle ciminiere alle reti.
Il sapere si è decentrato, si è delocalizzato sottraendo l’esclusiva ai centri tradizionali della sua produzione e trasmissione.
Il sapere si è democratizzato, per la prima volta nella storia il libero accesso all’informazione fornisce alla maggior parte delle persone l’opportunità di costruire il proprio paesaggio di apprendimento.
Mentre l’apprendimento varca i confini entro cui era stato relegato dalla tradizione, occorre interrogarsi sul senso dell’esistenza delle nostre scuole, università e istituzioni culturali così come ancora oggi le intendiamo. È il rapporto tra interno ed esterno, tra dentro e fuori, tra incluso ed escluso che va ripensato. Tra il formale e l’informale, tra l’aula e il corridoio.
Occorre ridefinire la funzione del sistema di istruzione formale, caricarlo di sinergie in grado di facilitare nuovi modi di istruire e di apprendere. Le istituzioni tradizionalmente deputate a produrre e trasmettere cultura non hanno più l’esclusiva, ormai da tempo, ma non hanno ancora riconquistato una nuova centralità che le collochi come nodo di riferimento rinnovato nel tessuto degli apprendimenti diffusi.

La flessibilità e l’estensione del digitale, la sua versatilità fisica e spaziale fanno dei contesti educativi formali un territorio dai limiti rigidi e definiti, con due ambiti ben differenti, quando non contrapposti, l’interno e l’esterno. L’interno luogo dell’apprendimento codificato e riconosciuto, l’esterno come lo spazio dell’indeterminazione, della spontaneità, della esplorazione a cui è precluso il riconoscimento da parte del contesto educativo tradizionale.
La città può essere l’interfaccia possibile affinché lo sviluppo dei processi di apprendimento si produca anche in senso fisico oltre i territori formali della conoscenza.
Le istituzioni dell’apprendimento e della cultura abitano un territorio urbano, che è il territorio di vita dei loro utenti, il territorio dove per primo ciascuno di noi ha appreso, prima di esservi separato mentalmente e culturalmente, da una concezione della conoscenza che induce al divorzio tra saperi formali e saperi che formali non sono.

È possibile pensare che l’interno, in certi spazi e tempi, possa essere contagiato dalle caratteristiche dell’esterno. Alcuni luoghi dove tradizionalmente si impara possiedono caratteristiche anche per l’indeterminazione e la spontaneità, come possiamo incontrare nella città spazi capaci di ospitare attività di insegnamento e di apprendimento, tanto nello spazio pubblico come in quello privato possono esistere spazi satellite nei quali possiamo apprendere.
Lo spazio urbano, che si voglia o no, è una grande aula, è un paradigma di spazio per l’istruzione, disegna la città contemporanea sempre più come il marco fondamentale per un’educazione permanente della cittadinanza.
Da un punto di vista spaziale, tutte le istituzioni formative dalle scuole, all’università alle accademie possono intendersi come un sottosistema incluso in un sistema di maggiore entità, la città.

Sono fondamentali, quindi, scenari che rendano possibile un apprendimento per interazione tra città e luoghi dell’apprendimento formale, come realtà di apprendimento urbano, in spazi pubblici, privati, all‘aria aperta o chiusi, effimeri o permanenti.
I processi di insegnamento e apprendimento contemporanei possono avvenire ovunque, l’uso di questi spazi è un’opportunità preziosa d’incontro tra le persone, le istituzioni, i saperi formali e quelli non formali.

“L’apprendimento deve essere accolto come il miglior regalo, e non come un obbligo amaro”, scriveva Einstein ed invitava ad apprendere inseguendo il piacere. L’era digitale offre la possibilità di disegnare una mappa di apprendimento proprio, che ci inserisca in un ambiente educativo di natura collettiva oltre i limiti delle istituzioni.
Dal punto di vista fisico, quest’interfaccia è la città. Come ente complesso, la città offre praticamente infinite possibilità di apprendimento, da un apprendimento informale, vincolato a proposte educative non programmate o istituzionalizzate ad un apprendimento formale o istituzionale. La capacità dei luoghi tradizionali del sapere di accogliere e generare situazioni ambigue capaci cioè di rendere compatibili i due tipi di apprendimento è una delle loro maggiori potenzialità e attrazioni.

La città dev’essere cultura e la cultura dev’essere città.

Brexit, Trump e referendum costituzionale:
quello che i media non dicono

Giusto un anno fa si guardava all’immediato futuro sapendo che tra i vari appuntamenti dell’agenda politica occidentale ci sarebbero stati tre grandi appuntamenti: il referendum inglese, l’elezione del presidente Usa e il referendum sui cambiamenti costituzionali in Italia. Pochissimi allora si aspettavano l’esito che c’è stato: per molti il responso delle urne ha rappresentato un brusco risveglio e un’amara delusione. Un esito tanto più inatteso quanto più chiaro e massiccio era stato l’orientamento dei media mainstream nel sostenere l’opzione risultata poi sconfitta dal voto dei cittadini.

La triplice sorpresa ha in qualche modo ridimensionato le attese degli spin doctor e ha messo in risalto come il potere di orientamento delle opinioni e delle scelte da parte dei media non sia ancora in grado di decidere completamente l’esito di un elezione che si presenti come un opzione secca (si/no, A vs B) se i cittadini sono motivati e si sentono toccati direttamente dall’evento.
Osservando le tre elezioni dall’Italia si nota forse un tratto comune che collega questi tre esiti apparentemente così distanti, un tratto che i commenti dei media mainstream e del pensiero unico dominante hanno accuratamente sottaciuto, attribuendo l’imprevisto risultato al populismo, all’ignoranza, all’egoismo, a errori di comunicazione, all’intromissione di potenze esterne (come nel caso Usa) e ad altre improbabili cause. Fatto è che dalle urne è uscito un responso chiaro che dovrebbe essere preso assai seriamente.

Per capirlo bisogna fare un piccolo sforzo e mettersi nei panni di quelle persone, classi e gruppi sociali, che più di altre stanno subendo gli effetti culturalmente spiazzanti del capitalismo trionfante e che hanno subito le conseguenze drammaticamente concrete dal punto di vista economico di una crisi che dura ormai da otto anni.
Per capirlo bisogna mettere un poco in discussione l’ideologia economicista imperante (e gli assiomi intoccabili sui quali essa si fonda) e il potere particolarissimo della finanza a livello mondiale. Il mercato – che di questa finanza è l’espressione più nota – non solo viene quotidianamente celebrato ma ha assunto un status di neutralità del tutto simile al tempo metereologico: finanza, profitto, economia sono diventate componenti di un’ideologia universale di stampo quasi religioso, indiscutibile nel suo schema di funzionamento.
Spiazzamento culturale (con le pratiche di omologazione consumista globale e i flussi di migrazione senza controllo), impoverimento economico (con allargamento delle differenze e delle disparità), celebrazione ideologica del sistema di mercato (con l’indebolimento del potere statale e la distruzione del welfare) sono i tre poli attraverso i quali si possono rileggere gli esiti elettorali.

In questa prospettiva, c’è qualcosa nell’attuale modello di sviluppo del capitalismo che sta mettendo fuori gioco milioni di persone, creando sommovimenti assolutamente drammatici che non sembrano toccare minimamente le elite occidentali che hanno sostenuto negli ultimi anni il processo di globalizzazione. In Italia i dati ufficiali – quelli che considerano periodi più lunghi che poco interessano i media – sono impietosi: drammatico allargamento della distanza tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, impoverimento vertiginoso della classe media, disoccupazione e mancanza di lavoro, milioni di persone a rischio povertà, tagli sistematici e crescenti allo stato sociale, limitazione del potere dello stato inchiodato all’obbligo prioritario e costituzionale del pareggio di bilancio e quindi ormai legato e succube dei diktat della finanza, massicci interventi per tutelare e salvare le banche. Flussi migratori ormai senza controllo, perdita dell’identità culturale e contemporaneo rafforzamento dei fondamentalismi. Bombardamento mediatico che celebra ogni forma di consumo, cambiamento obbligatorio.
Appare in tutta evidenza che una parte consistente della popolazione (in Italia sicuramente ma anche in buona parte dell’occidente) sta pagando un prezzo molto alto per la globalizzazione; ed è in gran parte da questo elettorato composito che sono scaturiti i risultati sorprendenti del 2016. Risultati che dicono ciò che i media mainstream non possono e non vogliono dire; risultati che attestano una reazione forse confusa, spaventata, a volte rancorosa, spesso irrazionale, non organizzata, ma sicuramente lecita (fintanto che ci sarà diritto di voto universale) e comprensibile, a un sistema politico che ai loro occhi non è più in grado di mantenere le proprie promesse; un sistema che ha da tempo abbandonato ogni difesa dei diritti sociali e civili (esemplari in tal senso i tentativi di riforma della Costituzione) per cavalcare esclusivamente i diritti personali associabili più alla figura del consumatore che a quella di cittadino. Facile per le élite ‘progressiste’ e i loro numerosi sostenitori bollare tutto questo come populismo, ignoranza, razzismo, o peggio ancora. Facile per le élite ‘conservatrici’ cavalcare questa insoddisfazione profonda e diffusa. Facile per entrambe giocare i rispettivi ruoli (di potere) ben sapendo che i veri decisori (le elite finanziarie, economiche e militari) stanno dietro le quinte e non sono eletti da nessuno.
Assai più difficile capire che l’economia (e a maggior ragione la finanza) non è neutra: necessità invece di regole, di leggi e norme, si fonda su assunti e su valori che consentono di generare quella fiducia che è indispensabile a far funzionare la società prima ancora che gli scambi.
A fondamento e a governo dell’economia ci deve essere una società organizzata, una cultura viva, una polis, uno Stato capace di orientare l’azione verso un tema condiviso, un principio, un obiettivo che sia superiore rispetto a quello del capitale e del profitto: uno Stato capace di produrre bene comune, equità, giustizia, tutela dei più deboli senza cadere nello statalismo, nell’assistenzialismo o nel dirigismo.

Si può leggere – a pensare in positivo – una forte richiesta di senso dietro gli esiti delle votazioni, l’esigenza di superare un modello dominante che si è rivelato incapace di rispondere alle sfide del presente e del futuro, l’inadeguatezza di un’ideologia che riduce la società e la cultura all’economia e al mercato, l’insufficienza di un epistemologia sociale che fa dell’economia e della finanza l’unica verità oggettiva. Ma questo passaggio che è assolutamente politico, richiede interpreti in grado di comprendere le diverse istanze della società civile, pensatori capaci coniare nuovi concetti, leader in grado di elaborare e portare avanti programmi alternativi, cittadini responsabili ed impegnati.
Se la partita è ancora aperta, se dalla clamorosa sconfitta elettorale di un certo modo di condurre gli affari del mondo potrà nascere un cambiamento positivo, ce lo dirà il 2017.

L’INTERVENTO
Sull’abbandono scolastico e altri discorsi

L’abbandono della scuola resta un tema scottante e purtroppo ancora irrisolto. In Europa, il nostro Paese non figura tra quelli più virtuosi in proposito, e questo segnala un deficit importante del nostro impianto educativo, soprattutto in prospettiva futura. Una nostra lettrice ci ha fornito un interessante spunto di riflessione.

di Marcella Mascellani

Ho avuto il piacere di partecipare a due interessantissimi incontri organizzati da Promeco nel 2015 intitolato “Tutti gli adolescenti vanno a scuola” e dall’Assessorato Cultura Turismo Giovani nel 2016 su “Dispersione scolastica: la prevenzione possibile”.
Ero convinta che quella dell’abbandono scolastico fosse una questione ormai superata nel nostro Paese: davo per scontato, cioè, che il minimo scolastico fosse attribuibile, ai giorni nostri, al quinquennio della scuola secondaria di secondo grado.
Mi sbagliavo.
Ci sono ragazzi che abbandonano la scuola con il consenso dei genitori per cultura o per necessità famigliari, ad esempio per andare a lavorare nel ristorante di famiglia o perché madre e padre non credono nel valore culturale dato dall’istruzione scolastica e ragazzi che abbandonano, invece, senza alcun consenso.
L’abbandono scolastico sul quale vorrei puntare i riflettori è, appunto, il secondo, quello, cioè, non sostenuto dall’avvallo dei genitori, quello dove l’allontanamento dal contesto scolastico accende un periodo di travagliati e difficili rapporti famigliari.
Il mio ricordo di scuola dell’obbligo risaliva agli anni fine settanta/ inizio ottanta. Una esperienza, quella della scuola superiore, che ha accompagnato la mia crescita adolescenziale senza particolari traumi, solo qualche sconforto.
Ricordo che per alcuni non era così. C’era chi con la fine della terza media o al massimo della seconda superiore, lasciava la scuola e iniziava a lavorare. L’insegnante sentenziava “suo/a figlio/a non è adatto a proseguire gli studi, non ha le capacità per studiare. Sarà sicuramente un bravo/a lavoratore/ice”.
Per i figli “non dotati” delle famiglie economicamente benestanti, invece, il destino era un altro: era previsto “l’approdo” alla scuola privata che consentiva il completamento del percorso didattico fino alla laurea.
Poi sulla scuola ho sentito teorizzare frequentando pedagogia. Ho ascoltato ipotizzare sulla capacità dell’insegnante di tracciare, attraverso la modulazione della didattica, i segni dell’apprendimento sulla tavola intonsa che è l’alunno.
Dieci anni fa, dopo un lungo intervallo, ho ricominciato ad occuparmi di scuola.
Con mia immensa sorpresa era rimasta quella di ventiquattro anni prima (coincidenti con la fine del mio percorso di scuola superiore) nella didattica e nei contenuti, ma era cambiato il mondo attorno ad essa.
Il patto, l’alleanza generazionale genitori/insegnanti si era rotto, anzi, frantumato.
“Nel nostro tempo l’insegnante è sempre più solo . La sua solitudine non riveste solo la sua condizione di precariato sociale, ma, come abbiamo visto, anche la rottura di un patto generazionale coi genitori”. E ancora…… “genitori sempre più complici e alleati dei figli sempre meno riconoscenti e sempre più pretenziosi, i quali anziché sostenere l’azione educativa della Scuola, di fronte al primo ostacolo, preferiscono spianare la strada ai loro figli, evitare l’inciampo, per esempio cambiando scuola o insegnanti, insomma recriminando continuamente contro l’Altro come fanno i loro stessi figli” – M.Recalcati, L’ora di lezione – Einaudi 2014.
Insegnanti investiti del ruolo di educatori di alunni “ineducati” e genitori “sostegno didattico” dei propri figli. Gli studenti più fortunati hanno a loro disposizione un genitore pomeridiano che impreca ed urla all’orecchio del proprio figlio un’inflessione didattica inesistente, ma che comunque garantisce una presenza. C’è invece chi non ha il genitore presente o disponibile e ricorre, quindi, ad un supporto di insegnamento domestico almeno per il periodo della scuola elementare e gli anni della scuola media.
Insomma, un incalcolabile sommerso di ore di ripetizione di ragazzi di qualsiasi ordine e grado scolastico del quale difficilmente i genitori parlano.
Purtroppo c’è anche chi di una di queste due opzioni non può beneficiare e rischia l’abbandono.
Alcuni anni fa ho partecipato ad una interessantissima serata “Educare insieme” organizzata dalla scuola media T.Bonati di Ferrara. Gli invitati alla serata erano i volontari dall’associazione “s.o.s dislessia” con sede nella nostra città. Gli adulti accompagnavano una decina di ragazzi, ormai frequentanti la scuola superiore, che incominciarono a raccontare la loro esperienza scolastica agli esordi dell’aspetto dislessia/discalculia.
Il loro racconto riportava un denominatore comune: oltre all’angosciante ricordo della loro difficoltà, l’incapacità (o la negazione) da parte dell’insegnante di riconoscere il problema. Paradossalmente se ne erano accorti prima i genitori degli insegnanti stessi, ricorrendo poi ad una certificazione che potesse in un qualche modo tutelare il proprio/a figlio/a. Una gran confusione di ruoli.
Diversi esempi, quindi, per sostenere che la scuola di oggi si trova in difficoltà.
Il frutto di tale problematicità provoca insofferenza, disagio scolastico e disaffezione alla scuola (studenti) e al proprio lavoro (insegnanti).
A volte provoca anche delle vittime: i ragazzi che abbandonano la scuola.
Dietro un abbandono c’è sempre un dramma. Sicuramente un dramma famigliare.
Ogni volta che un ragazzo “si ritira” dalla scuola perde una delle occasioni più belle e importanti della propria vita: l’opportunità unica e irripetibile di condividere una esperienza di apprendimento con il gruppo dei pari. Certo a scuola si può anche decidere di tornare dopo un abbandono, ma non sarebbe più la stessa cosa.
Nei ragazzi che abbandonano la scuola c’è la sensazione che nessuno più creda in loro, che agli insegnanti non importi nulla della loro presenza scolastica.
Nei genitori nasce l’idea di non essere stati sufficientemente in grado di sostenere i propri figli.
La mamma di un ragazzo che ha abbandonato la scuola dopo diversi tentativi di dissuasione da parte della famiglia stessa e di alcuni insegnanti mi scrive: “la scuola di oggi non è preparata a fronteggiare l’idea che nasce nel ragazzo dell’abbandono. Annaspa elargendo servizi di aiuto, ma in realtà difficilmente tale aiuto porta ad un risultato sul predestinato”.
La perdita di autostima dello studente spesso provoca chiusura in se stesso o, per reazione opposta, un comportamento deviante. I genitori e gli insegnanti si sentono destabilizzati e demotivati nel loro ruolo e addirittura incapaci di affrontare un evento del genere.
Importantissima la figura dello psicologo, come esperto esterno, che può contenere i danni che precedono o seguono l’abbandono.
Credo, però, che alla scuola di oggi occorra molto di più.
L’elevato numero di “misurazioni” e “certificazioni” di bambini e ragazzi fanno pensare che la scuola sia un luogo nel quale ci si debba più difendere che apprendere.
Allo stesso tempo agli insegnanti è richiesta una competenza ed una preparazione da un punto di vista della modulazione della didattica che non sempre riescono a mettere in pratica (vi par semplice per l’insegnante muoversi nelle varie sfaccettature dei così detti “bisogni speciali”?).
Ecco perché all’interno della scuola dovrebbe essere prevista una figura pedagogica che aiuti l’insegnante a livello pratico ad una stesura di una didattica personalizzata qualora fosse necessario.
Ecco allora che il genitore non troverebbe così indispensabile ricorrere ad un esperto che “certifichi” un limite o una inadeguatezza.
Supportare, quindi, l’insegnante e l’alunno.
In una sensibilissima nota di M.Recalcati in “L’ora di lezione” (2014) descrivendosi nella sua esperienza scolastica riporta: “Fui bocciato in seconda elementare perché giudicato incapace di apprendere. Quando parlo, cercando di insegnare qualcosa, è sempre a lui che mi rivolgo, al bambino idiota che sono stato. (…………) Nelle persone alle quali mi rivolgo mentre insegno cerco sempre il volto annoiato e un po’ ebete del bambino che sono stato. (…….) Devo rendere accessibile l’oggetto di cui parlo oltre che a me stesso a quell’altro me che mi ascolta e non capisce”.
Concluderei questa mia modesta riflessione sulla scuola di oggi, e in particolare sull’abbandono scolastico, con un quesito espresso da Ermanno Tarracchini e Valeria Bocchini nel loro interessantissimo articolo “La scuola e noi” del luglio 2013. Riferendosi all’ossessione diagnostica dei giorni nostri, ci fanno capire che siamo ad un bivio nel panorama scolastico per quanto riguarda la valutazione dei nostri ragazzi: “L’identificazione e la riduzione della loro persona ad un loro presunto disturbo o bisogno speciale, oppure la valorizzazione di biografie e personalità in continua evoluzione le quali, se non verrà loro impedito, sapranno prima o poi trovare una strada?”
Nella lettura del loro articolo troverete una convincente risposta.

31 Dicembre: riflessioni sul Capodanno

Il Capodanno è un appuntamento a cui non ci si può sottrarre: lo attendiamo con trepidazione perché ne abbiamo bisogno. E’ una di quelle scadenze che segnano la scansione del tempo che passa, una data che ci permette di sospendere per un attimo la lunga quotidianità, giorno dopo giorno, ci offre il beneficio di prendere respiro ed ossigenarci quel tanto che basta per riprendere il cammino ed affrontare un nuovo divenire. Ma soprattutto ci autorizza a lasciarci alle spalle tutto ciò che di negativo ha caratterizzato certi momenti e tutto quello che non ha lasciato segno nel nostro processo di crescita individuale. Abbondano i buoni propositi, i nuovi progetti, gli entusiasmi, le promesse, le scaramanzie e le propiziazioni perché è il momento giusto in cui rigenerarsi, rinascere, ricominciare. Ci sentiamo in preda a quell’euforia che sicuramente accompagnerà la notte del 31 dicembre ma che speriamo intimamente non ci abbandoni anche gli altri giorni dell’anno; formuliamo nuovi ottimistici pensieri positivi davanti a un inevitabile bilancio dei 365 giorni trascorsi, in cui attività e passività immancabilmente differiscono e le criticità occupano un posto d’onore.

Diventiamo tutti abili nell’analizzare le nostre azioni passate e le attività che abbiamo intrapreso, le scelte che abbiamo operato, i comportamenti e i risultati, quasi fossimo impeccabili psicanalisti di noi stessi, ci confrontiamo e ne parliamo con gli altri con quella leggerezza e quella voglia di esternare che anticipa il radicale cambiamento prossimo venturo. Carichiamo di grandi attese l’anno nuovo che verrà e diamo il via ai grandi festeggiamenti che lo introdurranno nelle nostre vite. Speranza e aspettativa per noi stessi e per la collettività, per quella società umana più globale di cui facciamo parte e che, magari solo in poche occasioni, ricordiamo con trasporto, partecipazione e condivisione perché il Capodanno unisce in un unico magico momento.
E’ per questo che amiamo così tanto questa festa che assume le manifestazioni più varie in ogni angolo di mondo e da sempre è presente nelle culture e civiltà della nostra storia, anche se in date a volte diverse, con antiche origini pagane o religiose piuttosto che trovate più recenti. Ed è per questo che siamo disposti ad adottare e attivare ogni tipo di gesto e ritualità scaramantica per rafforzare le nostre convinzioni e speranze, indirizzare il destino dalla nostra parte, strizzare l’occhio all’anno in arrivo e, perché no?, divertirci.

Non importa se noi mangiamo un bel piatto di lenticchie mentre in Spagna sono previsti 12 chicchi d’uva, uno ogni rintocco della mezzanotte, per favorire nuove entrate finanziarie. O il colore rosso da indossare in Europa per l’evento, piuttosto che il giallo in Brasile. Non importa nemmeno se solo in Colombia, la notte del 31 dicembre, gli uomini si fanno un grande giro nel quartiere trascinando una valigia vuota per propiziare un anno ricco di viaggi e scoperte. Mettiamoci le Filippine, dove a fine anno si tengono accese tutte le luci di casa e aperte porte e finestre per allontanare gli spiriti maligni, per poi chiudere precipitosamente tutto a mezzanotte. A El Salvador è il turno dell’uovo rotto in un bicchiere e tenuto sul davanzale fino mattina; sarà la forma assunta che determinerà l’andamento dell’anno successivo. Un po’ come in Finlandia, dove lo stesso trattamento viene riservato ad un cucchiaio di metallo fuso introdotto nell’acqua. E’ anche un po’ come raccontava sempre mia nonna: in alcune valli del Trentino veniva usato il mercurio che, a seconda delle linee e disegni che formava, pronosticava bella o cattiva sorte. In fondo, non esiste grande differenza di latitudine e longitudine per quanto riguarda la paura del futuro, il bisogno di controllare ciò che deve ancora venire, la propensione all’invocazione e all’ingraziarsi chi può effettivamente determinare gli eventi. Molto più pragmatici gli scozzesi che, non appena le campane smettono di suonare la mezzanotte, al primo amico o vicino di casa che varca la soglia regalano una moneta, del pane, un pugno di sale, del carbone e whisky. Ricchezza, cibo, sapore, calore e buon umore.

La notte del 31, fra un po’, ci sarà chi festeggerà follemente, chi fingerà di divertirsi, chi rimarrà tra le tranquille pareti domestiche da solo o in compagnia e chi lo passerà viaggiando, chi andrà a dormire alle 22, chi guarderà i fuochi d’artificio dalle finestre dell’ospedale o dal carcere, chi dormirà per strada perché il 31 dicembre è un giorno come un altro, chi lavorerà per far divertire gli altri, chi rimarrà nelle redazioni dei giornali e delle TV per raccontare.

In qualunque dei casi, Buon Anno a tutti, ma proprio tutti. E che succeda quello che ciascuno desidera che accada.

“Gender Revolution”: la copertina del National Geographic che farà la storia

Ci guarda dritta negli occhi Avery Jackson, con l’ innocenza mista a sfrontatezza tipica dei suoi nove anni. La maglietta é rosa, così come alcune ciocche dei suoi capelli: “la miglior cosa di essere una ragazza è non dover più fingere di essere un ragazzo” dichiara.
Avery é un transgender ed é la protagonista di una copertina che fará storia: quella che il National Geographic, edizione Usa, ha dedicato alla storia di bambini transgender sparsi in tutto il mondo e che sarà in edicola, in edizione italiana, il prossimo 3 gennaio.

É la prima volta che una persona transgender conquista la prima pagina di una rivista.

Il suo direttore Susan Goldberg  ha spiegato ai microfoni della NBC: “Abbiamo voluto guardare al ruolo tradizionale della figura del gender nel mondo, ma anche a qualcosa di più introspettivo. Ci sono molte prime pagine sulle star, ma non c’è una reale copertura e comprensione riguardo le persone reali e i problemi che ogni giorno affrontano riguardo le questioni di genere”. Il 6 febbraio andrá inoltre in onda, sul canale National Geogeaphic, un documentario dal titolo “Gender Revolution: un viaggio con  Katie Couric ,” che parlerà di “tutto quello che volevate chiedere sui gender ma avevate paura di chiedere”.

Di Avery non é la prima volta che si sente parlare. I video postati su You Tube dalla madre Debi, che si dichiara una fervente credente, hanno totalizzato milioni di visualizzazioni: la bambina del Kansas parla di sé stessa con molta franchezza ” Quando sono nata i medici hanno dichiarato che fossi un bambino ma io sapevo dentro il mio cuore di essere a tutti gli effetti una ragazza”. I genitori sono diventati paladini della causa transgender dichiarando un amore incondizionato alla loro bambina. In un tweet comparso diversi giorni fa Debi Jackson ha scritto:”Sto tremando così tanto che riesco a malapena a scrivere. Grazie per aver scelto Avery” e ha lanciato l’ hashtag #transisbeautiful.

Un tema delicatissimo quella della disforia di genere, a maggior ragione perché coinvolge il mondo dei bambini, ma che il National Geographic ritiene di aver trattato in modo completo e positivo, raccogliendo le riflessioni e le esperienze di vita di bambini sparsi nei cinque continenti.

Nel nostro Paese, prima ancora dell’uscita della rivista a gennaio, é già in corso un acceso dibattito tra il direttore del National Geographic Italia Marco Cattaneo e il caporedattore di Avvenire, Luciano Moia. Quest’ultimo in un articolo intitolato “Bambini sbattuti in prima pagina per la propoganda transgender” aveva fortemente criticato la scelta operata dalla rivista scientifica di strumentalizzare, a suo modo di vedere, le storie private e problematiche dei minori coinvolti nel reportage. Per il giornalista la disforia di genere riguarda solo una piccola percentuale di “bambini nati con gli organi genitali non pienamente sviluppati o con gravi difetti nello sviluppo anatomico”: l’aver quindi titolato il discusso dossier “Gender Revolution” assume per il giornalista una valenza propagandistica fuori luogo.

All’accusa di strumentalizzazione e banalizzazione di Moia di quella che é, a suo modo di vedere, una “patologia”, ha risposto il direttore Marco Cattaneo il quale evidenzia come “Mi pare che l’autore dell’articolo apparso su “Avvenire” abbia trattato il numero con superficialità, senza approfondirne con attenzione i contenuti. Perchè National Geographic prende atto di una situazione di grande attualità molto dibattuta, e la analizza da tutti i punti di vista, senza pregiudizi né posizioni dogmatiche, senza piegarla ad alcun tipo di propaganda”.

Il dibattito é appena agli inizi e di sicuro l’argomento é destinato ad assumere sempre più importanza nella nostra societá. Avery Jackson ci guarda dritta negli occhi da una copertina destinata a passare alla storia e noi, a prescindere da come la si pensi, non potremmo non riflettere su quanto ci raccontano quei bambini.