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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


INTERNAZIONALE
Clinton VS Trump, quello che le donne vogliono

Il prossimo Presidente Usa potrebbe essere una donna forte, con una carriera importante e nello stesso tempo moglie e madre, oppure un misogino che si distingue per il suo maschilismo e sessismo. Ecco la dicotomia che ha spinto gli organizzatori di Internazionale a guardare alle elezioni americane attraverso gli occhi delle donne, con “Decidono le donne. La candidatura di Hillary Clinton e la questione femminile in America”. Per parlarne, domenica mattina al Teatro Comunale di Ferrara, Katha Pollit, femminista che nel suo ultimo libro si è occupata della questione dell’aborto negli Stati Uniti, Rebecca Traister, autroce di “All the single ladies”, e la giornalista femminista italiana Ida Dominijanni.

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Tutte d’accordo sul fatto che lo scontro in atto in vista delle prossime elezioni è una battaglia fra due anime del paese, fra due idee diverse di cosa sono e dovrebbero essere gli Stati Uniti. Secondo Katha, per esempio, proprio l’aborto è “un tema esplosivo”, uno “spartiacque”. Da una parte lo schieramento riformista, che vede l’aborto come una possibile scelta che “una donna americana su tre potrebbe affrontare prima della menopausa”, con “il diritto di scegliere in piena libertà del proprio corpo, senza chiedere il permesso al padre del feto”. Dall’altra chi vuole frapporre più ostacoli possibile all’aborto perché questa libertà di scelta “fa impazzire persone che non vogliono l’uguaglianza fra uomini e donne” e pur di ottenere il proprio scopo la destra estremista cristiana americana si affida a un uomo come Trump che spesso “dice cose che con Gesù non hanno nulla a che fare”.
Per Ida Dominijanni la contrapposizione Clinton-Trump in realtà non ha nulla di strano: “in America come in altre parti del mondo si tratta di un movimento di reazione del maschilismo patriarcale proprio perché siamo in un momento di grande espansione delle libertà femminili”. Rebecca Traister le fa eco: “Trump esiste perché esistono Hillary e Obama, prima di lei: è l’incarnazione dell’America bianca e maschilista che vorrebbe continuare a reprimere parti della società, le donne e i neri, che in questi anni hanno raggiunto posizioni di potere”.

Sicuramente le americane sono convinte che Hillary farà molto, dal punto di vista delle politiche sociali e di sostegno al reddito, per aiutare le donne single, madri o meno, che sono sempre di più in America. Per questo la difendono anche quando Ida critica le sue scelte come donna, soprattutto quella di salvare il proprio matrimonio e recitare la parte della moglie devota ai tempi del sex gate che ha coinvolto suo marito e di sfruttare poi il fatto di essere un e first lady per costruirsi una carriera politica.
Kata, molto pragmaticamente, afferma: “ragazze dobbiamo prenderci quello che possiamo” e resta il fatto che Hillary è la prima donna a bussare alla porta della Casa Bianca. Se per arrivare alla stanza ovale ha prima dovuto passare per quelle della first lady, does it matter?
Per Rebecca è un processo che ha già avuto luogo in passato: “il primo ingresso delle donne nei posti di potere è sempre avvenuto grazie a quello che io chiamo potere prossimale, cioè per il fatto di essere mogli o vedove di potenti. È il beneficio delle prime volte: le porte si allargano e le strade si spianano. Hillary ha fatto breccia e dopo di lei verranno donne che non sono partite dall’essere mogli, in realtà sta già accadendo”.

Eppure Hillary continua a non convincere del tutto parte del movimento femminista proprio perché, come sottolinea Dominijanni, agisce in un certo senso rispettando i ruoli di genere tradizionali: moglie e madre devota quando è nel ruolo della donna, mentre “si virilizza quando si trova nella competizione politica”. E qui si accende un dibattito che avrebbe meritato almeno un’altra ora, perché Ida si chiede se sia “possibile impadronirsi del potere senza fare una critica del potere al maschile” e pensa che la vera scommessa del femminismo sia andare al potere non virilizzandosi, ma portando la propria cifra specifica. Kata, invece, sostiene che “molte delle qualità che attribuiamo al femminile hanno a che fare con le strategie per affrontare la mancanza di potere. Se le donne avessero lo stesso potere sociale ed economico degli uomini, non sappiamo come sarebbero perché vivremmo in un mondo diverso, che siamo ancora molto lontano dal raggiungere”.
In conclusione il messaggio è: arriviamo nei posti chiave, ogni donna decida come.

INTERNAZIONALE
Ecco come vivere felici, nonostante tutto

“Come vivere felici nonostante tutto”. Un bel titolo per l’evento che c’era venerdì sera al Festival di Internazionale a Ferrara. In pratica è una conversazione con Oliver Burkeman, giornalista inglese di The Guardian che ogni settimana scrive articoli, tradotti e ripubblicati dalla rivista Internazionale. E chi è che non vuole essere felice, in effetti? Nonostante tutto, poi…! Dopo essere andati ad ascoltarlo, bisogna dire che vale la pena sentirlo (o leggerlo). Ecco perché.

1. Riderci un po’ su. Il messaggio di Burkeman è una buona cosa, prima di tutto perché riesce a farti ridere (e questo è già un buon avvio di felicità). Attacca raccontandoti di tutti i corsi motivazionali che ha fatto inutilmente, delle attivazioni di chakra a cui si è sottoposto, dei manuali di auto-aiuto e di pensiero positivo che ha letto e che ha cercato di mettere in pratica senza riuscire a sentirsi meglio. Racconta anche di come ha provato a “visualizzare” la situazione che desiderava, come predicano i guru del pensiero positivo. Ma questo non faceva che aumentargli la paura di non riuscire a ottenere quelle cose. Dice: “Cercando di convincermi che tutto sarebbe andato bene, se poi le cose andavano male diventava una tragedia”. L’eccesso di positivismo, secondo Burkeman, è proprio pericoloso. Per lui è stato decisivo nella crisi finanziaria del 2008. Ricorda: “Venivi incoraggiato a comprare a tutti i costi la casa dei tuoi sogni. Non importa che tu non avessi i soldi. Come fa Trump adesso, una campagna elettorale fatta tutta di superlativi assoluti. Miglioriamo! Ma come? Non ha importanza, l’importante è crederci. Mah…”

2. Elogio del pessimismo. La seconda intuizione viene a Burkeman dalle persone che si definiscono stoiche, che secondo lui si fanno dei film anche loro, ma di solito sono film incentrati sul caso in cui le cose andassero male. In questo modo – assicura – riesci a ragionare in maniera più pacata sul peggior scenario possibile. “Hai paura di fare una brutta figura in pubblico?”, chiede. La risposta lui ce l’ha: “Affrontala e falla, quella brutta figura!”. E lui l’ha fatto, rivela. La paura della figuraccia lo assillava, così una volta decide di prendere di petto quella paura. Sale sulla metro di Londra e, a ogni fermata, annuncia a voce alta il nome della stazione. “All’inizio – ricorda – è stato abbastanza terribile. Il cuore mi batteva all’impazzata e sentivo sudori freddi”. Poi, fermata dopo fermata, si rende conto che le persone a mala pena alzano gli occhi dal giornale o dal tablet che stanno leggendo. “Non c’è da preoccuparsi tanto di quello che pensano di voi – conclude – perché tutti sono talmente presi dalle loro preoccupazioni, che a mala pena si accorgono di quello che fate. E la paura crolla. Addirittura ti rendi conto che, quasi quasi, non stai neanche facendo una brutta figura, ma potresti sostenere che stai facendo qualcosa che è di aiuto agli altri passeggeri!”.

3. Male comune. In Massachusetts, Burkeman scopre che c’è un “Museo dei prodotti invenduti dei supermercati”. Una marea di prodotti falliti, a partire dalle uova sbattute da farsi in macchina e da mangiare con la cannuccia mentre si guida, per arrivare fino alla New Coke della Coca-Cola, che ha dovuto subito ritirarla perché tutti volevano quella vecchia e originale. “Non se ne parla mai – fa notare Burkeman – ma ci sono tantissimi prodotti falliti di aziende di gran successo”. Fallire, insomma, è facile e diffuso, ma non se ne parla mai perché è considerato quasi un tabù.

4. La morte esiste, viviamo! In Messico Burkeman scopre che la gente trascorre tempo sulle tombe dei propri cari. “Lo fanno così, semplicemente. Si trovano lì, mangiano, parlano”. E sottolinea che è importante reintrodurre il pensiero della morte nella realtà quotidiana. “La morte – dice – è la madre di tutte le nostre paure. Invece va pensata come quello che è, una cosa che accade e basta, non una paura così tremenda da non poterla nemmeno nominare”. A conferma della validità di questa idea, arriva un intervento dal pubblico di Ferrara. Nella platea del Teatro Nuovo prende parola una pedagogista che lavora con i bambini ricoverati in ospedale per malattie molto gravi. E racconta la sorpresa che ha avuto trovandosi davanti alla naturalezza assoluta con cui quei bambini accettano l’idea della morte, come qualcosa di possibile e ovvio. Ma anche il modo in cui poi, con altrettanta facilità, quei bambini sono pronti in ogni momento a giocare, ridere e interessarsi delle cose, perché sono molto presi da ogni istante del presente più che dall’idea di futuro.

5. Sogna e metti in pratica. Ancora dal pubblico la sollecitazione che porta al suggerimento conclusivo. Non è poi del tutto vero che bisogna sempre pensare negativo. Un partecipante all’incontro fa notare a Burkeman che avere un obiettivo o una mèta è una buona cosa, che il sogno e l’utopia sono belli, perché con quelli in testa puoi darti da fare per portare avanti le cose che servono a realizzarli. Il giornalista britannico-ricercatore di felicità ammette: “Sì, visualizzare le cose positive va bene, se lo fai per mettere a fuoco gli strumenti che ti possono portare a quel risultato. Più che visualizzare un gol, ad esempio, un calciatore deve visualizzare la buona falcata, lo scatto giusto; deve esercitarsi su quelli. Anche gli artisti, i creativi, i grandi romanzieri lo dicono. Più che l’ispirazione illuminante, conta la costanza, mettersi con determinazione a lavorare ogni giorno”. Dopo non importa se non fai sempre gol. Importa che te la giochi bene. Chi ascoltava Francesco De Gregori, del resto, lo sa: un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia. E, se sbagli un calcio di rigore, ti ricordi che “non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”.

Festival di Internazionale è a Ferrara da venerdì 30 settembre a domenica 2 ottobre 2016 per la decima edizione.

INTERNAZIONALE
Acqua di Colonia, profumo di razzismo

– Tutta colpa del colonialismo!
– E che è?
– Boh!

In questo scambio di battute c’è l’essenza di “Acqua di colonia. Prima parte: zibaldino africano”, lo spettacolo di e con Elvira Frosini e Daniele Timpano, che venerdì sera ha chiuso al Teatro Comunale di Ferrara la prima giornata del Festival di Internazionale, giunto quest’anno alla sua decima edizione.
In questa anticipazione dello spettacolo che debutterà al Roma Europa Festival, Elvira e Daniele portano in scena alcune pagine poco conosciute della nostra storia italiana, vicende rimosse e negate che provengono da paesi lontani dell’Africa orientale, come Eritrea, Etiopia, Somalia e Libia, non solo negli anni dell’Impero fascista.
Proprio come nello Zibaldone, i due attori cercano di concentrare, con un escamotage metateatrale, una serie di spunti, associazioni di idee, nozioni, fatti, risultato di un lavoro di “riesumazione e scavo”, come lo hanno definito loro stessi nell’incontro con Igiaba Scego al termine dello spettacolo: una sorta di piccolo Bignami sulla storia razzista italiana e non solo.

Un momento dell'incontro al termine dello spettacolo
Un momento dell’incontro al termine dello spettacolo

Forse è la prima volta che si affronta questa pagina del passato nazionale a teatro: “Perché parlare di colonialismo oggi?”, chiede Igiaba agli autori. “Perché fa parte della nostra storia, ma è stato rimosso, messo sotto silenzio o narrato in modo riduttivo”, risponde Elvira alludendo alla persistente narrazione memoriale degli ‘italiani brava gente’. “Ci sembra che in un momento come questo, invece, il nostro paese debba guardare in faccia, affrontare questo periodo della sua storia, senza rimuoverlo”, conclude Elvira. Daniele dal canto suo aggiunge: “E’ come se i cinque anni del colonialismo fascista diventassero un capro espiatorio per tutto il resto”: l’Italia il proprio ‘posto al sole’ in Africa lo aveva cercato fin dal primo decennio del Novecento, con la prima campagna in Libia.
Nello “Zibaldino” però non c’è solo il passato: dalle canzonette di inizio secolo si passa a un pezzo del 2014 scaricato da internet e, come in uno specchio, gli stereotipi, i pregiudizi e quello che in fondo è un “sistema di pensiero generale” – afferma Elvira – si riflettono in scene di ordinaria quotidianità, affermazioni che chiunque di noi ha sentito al bar, per strada, sul treno o in tv.

Ad assistere a questo dialogo-brainstorming, un ospite silenzioso e immobile, che cambia a ogni replica, non è un attore/attrice professionista e non sa nulla dello spettacolo se non quello che gli/le rivelano Elvira e Daniele prima di entrare in scena. Per la serata ferrarese quest’ospite è stata una ragazza di colore, che al termine dello spettacolo ha confessato tutto il suo disagio nel non poter intervenire nel dialogo che si svolgeva intorno a lei senza che i due pensassero minimamente a coinvolgerla: “sentir dire cose negative, ma soprattutto cose positive su te stesso, senza poter controbattere, è stato molto fastidioso”. Elvira e Daniele hanno spiegato che non vogliono una morale per “Zibladino”, solo incrinare alcune certezze. E tuttavia, forse, un messaggio in fondo c’è: per parlare di colonialismo – italiano e non solo – non si dovrebbe parlare dell’Africa, ma con l’Africa.

DIARIO IN PUBBLICO
Ferrara, ovvero ‘Delle meraviglie’

Nel giorno clou di mille avvenimenti, la ‘MOSTRA’ (ovviamente d’Orlando) come ormai viene chiamata tutta in maiuscolo, il Premio Estense, la sagra dell’anguilla, la marcia contro i razzismi, è passato sotto silenzio un avvenimento memorabile: la conferenza di Gianni Clerici sul suo rapporto con Bassani; una conferenza che non poteva aver luogo se non alla Palazzina Marfisa organizzata dal glorioso Tennis Club che porta lo stesso nome.

Per fortuna il tam tam ha funzionato; si contavano tra le duecentocinquanta e le trecento persone in piena orgia di selfies. I ragazzi tennisti vestiti anni ’30 e le ragazze con gli abiti bianchi di Micòl accompagnano il grande scrittore. Appaiono le signore che hanno giocato a tennis con Bassani, leggermente fanées, ma sempre leggiadre. Alla fine del discorso interrotto da affettuosissimi applausi per la verve ed eleganza verbale del gran tennista-scrittore, ci rechiamo sui campi di terra rossa e leggiamo le poesie di Bassani affidate ai leggii di metallo al bordo dei campi. Clerici ci incanta con i ricordi legati all’amicizia con il grande scrittore ferrarese evocati con una leggerezza degna dell’insegnamento di Italo Calvino. Gioca con la smemoratezza, tutta letteraria ed ironica, della sua vita così sontuosamente divisa tra l’attrazione alla scrittura e il gesto e l’esercizio tennistici. Ricorda la sua partecipazione ai premi letterari come lo Strega presentato e sostenuto dai suoi amici Mario Soldati e Giorgio Bassani e si concede a foto di gruppo circondato dai giovinetti tennisti frastornati e ammirati da tanto onore. Accanto a me Daniele Ravenna ricorda la promessa del ministro Franceschini: quella di fare di quei campi un luogo inalienabile. Un museo dedicato a uno sport che in quegli spazi è diventato cultura, parte integrante della città: una memoria altrettanto importante di quella vista con gli occhi dell’Ariosto quando scriveva e che qui vedeva giostrare non con lance ma con racchette, tra gli altri, Giorgio Bassani, Michelangelo Antonioni cioè quegli autori-personaggio ormai imprescindibili dalla sostanza di una città: Ferrara e non ‘Ferara’. Alla fine minuti interi di applausi. Peccato che dell’amministrazione comunale non ci fosse traccia. Ma non si può avere tutto.

Nel frattempo, nel resto delle ore di una giornata così memorabile dove andare? A vedere le macchine d’epoca sul Listone o a immergersi tra i sapori e profumi degli stand culinari europei allestiti saggiamente al nuovo acquedotto, quindi nella zona GAD più infelice e pericolosa della città? Mi si dice che la ressa -per fortuna- è strepitosa. Nemmeno mi lascio tentare dalla distesa di piante fiorite che aspettano solo di essere comprate con il richiamo civettuolo del ‘prendimi! comprami!’.
No, per scelta annosa, alle prime e alle inaugurazioni, quindi niente Orlando o Premio Strega. Già fioccano i primi risentiti commenti sulle mie riserve della e sulla mostra orlandesca. Non è vero. Aspetto solo di vederla. D’altra parte la città è fatta così. Solo ciò che accade entro le mura è degno di essere ricordato come fatto memorabile. Ma la primazia non sempre è gesto di buon gusto intellettuale.

Il comitato per le celebrazioni dei 500 anni dalla pubblicazione dell’Orlando Furioso aveva indicato tre luoghi dove esse avrebbero avuto maggior risonanza: Ferrara, Villa d’Este a Tivoli, la Valtellina. Ecco le parole di Lina Bolzoni presidente del Comitato per le celebrazioni di Orlando 1516 nell’intervista concessa ad Anja Rossi del ‘Resto del Carlino’ il 23 aprile 2016:
“Di iniziative ce ne saranno molte. Ci può anticipare qualcosa? Oltre alla mostra di Palazzo dei Diamanti, pensata sull’immaginario di Ariosto al momento di scrivere l’Orlando Furioso, ce ne sarà un’altra altrettanto bella a Villa d’Este a Tivoli, incentrata sulla modernità dell’Ariosto e su come il poema ha influenzato scrittori e artisti successivamente. Quanto ai convegni, oltre uno a Ferrara in autunno, ce ne saranno molti altri: uno a Londra sulla fortuna del Furioso in Inghilterra, la settimana prossima alla British Academy, a New York sulla dimensione letteraria del poema, poi in California, Germania”.

Ma non sembra che a Ferrara la mostra di Tivoli o le manifestazioni in Valtellina possano interessare granché. Provvederemo con una trasferta ad hoc a Roma per vederla, pur inneggiando come ci si aspetta da un ferrarese alla strepitosa bellezza delle opere ospitate alla mostra dei Diamanti.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
La buona scuola parla francese

Altro che buona scuola! Dobbiamo andare a lezione dai cugini francesi per imparare di cosa si dovrebbe ragionare quando si ha la pretesa di usare termini come buona scuola.
La conferma la fornisce in questi giorni un articolo apparso il 22 settembre sul Corriere della Sera. Najat Valaud-Belkacem, ministra dell’Educazione nazionale del governo Hollande, ha dichiarato che l’obbligo scolastico in Francia sarà innalzato dai sedici ai diciotto anni. Al momento è solo nel programma del Partito socialista francese, ma se Hollande sarà confermato alle presidenziali della prossima primavera sarà un atto del suo governo.
La questione riguarda anche casa nostra perché, mentre è in corso la sperimentazione del liceo quadriennale, sull’obbligo scolastico a diciotto anni è sceso il silenzio. Eppure lo stesso PD aveva presentato un emendamento alla legge di stabilità del governo Letta, nel novembre del 2013, per l’innalzamento dell’obbligo scolastico a diciotto anni a partire dal 2014.

I 212 commi della legge di riforma a tale proposito non dicono nulla. Ma evidentemente la Buona scuola del governo Renzi è figlia di scarse idee e di troppi compromessi, a partire dal Jobs act che prevede l’apprendistato dai quindici ai venticinque anni. Con l’innalzamento a diciotto anni dell’obbligo scolastico sarebbe impossibile ai quindicenni l’accesso al mondo del lavoro, per non parlare dei vari enti di formazione professionale che nel nostro paese prolificano sulle elevate percentuali di drop out scolastico.

Dai tempi della Moratti, ministro dell’istruzione nel 2004, è stata introdotta la farisaica dizione: “diritto/dovere all’istruzione per dodici anni, o almeno fino al conseguimento di una qualifica entro il 18° anno di età”. “Diritto/dovere” perché in tempi di neoliberalismo dilagante la parola obbligo fa troppa impressione, minaccia le libertà individuali e produce mal di pancia.

Intanto tra i paesi dell’Ocse restiamo all’ultimo posto per dispersione scolastica con il nostro 17% e con un ritardo di 16 anni rispetto alla Strategia di Lisbona, a cui l’Italia ha aderito, che già nel 2000 chiedeva, tra l’altro, di contenere l’abbandono precoce degli studi al di sotto del 10% e di portare almeno l’85% dei giovani al conseguimento di un diploma di scuola secondaria superiore. In tutti questi anni le ricerche dell’Ocse-PISA hanno dimostrato che i Paesi con i risultati formativi migliori sono quelli dove la durata dell’obbligo scolastico è più elevata. L’Italia continua ad occupare il fanalino di coda nelle statistiche internazionali.

I propositi della ministra francese toccano un altro nervo scoperto del nostro sistema formativo, quello della scuola dell’infanzia che, nonostante nel nostro paese sia frequentata ormai dal 97% dei bambini, non fa parte del sistema scolastico obbligatorio. Lo scorso week end la ministra francese ha scelto di svelare il suo piano con un twitter: «Proporrò di estendere l’obbligo scolastico dai 3 ai 18 anni».

In Italia siamo fermi e la buona scuola non promette nulla di buono, la crisi si fa sentire e sul terreno dell’istruzione picchia duro, i soldi per le riforme di cui avremmo bisogno non ci sono. Ce lo dice l’annuale rapporto dell’Ocse “Education at a Glance 2016”, se c’è una certezza è che il passato domina sulle nostre scuole con insegnanti vecchi e mal pagati, con le materie di sempre, con i compiti a casa che ancora non si sa se fanno bene o male, ma soprattutto con un taglio, tra il 2008 e il 2013, della spesa pubblica per le istituzioni scolastiche del 14%, pari a quasi il doppio del calo del Pil nel periodo (-8%) e contro un calo inferiore al 2% per altri servizi pubblici.

INSOLITE NOTE
Il piccante blues dei Fratelli Tabasco

Inizia con un urlo da rocker “Radioactive mama”: una scarica di blues elettrico che apre “The Dock Dora Session”, l’album d’esordio dei Fratelli Tabasco.
Il disco è registrato in presa diretta dal vivo per riprodurre le atmosfere dei Juke Joint, conosciuti anche con il nome di Barrelhouse: locali gestiti soprattutto da afro-americani nel sud degli Stati Uniti, dove si suonava, ballava, beveva e giocava. I Juke Joint erano delle palestre di talenti, in cui i migliori bluesman si esibivano prima di diventare leggende.

La copertina di The Dock Dora Session
La copertina di The Dock Dora Session

I Fratelli Tabasco, amici e non parenti, si sono formati a Torino nel 2013, accomunati dalla passione per il blues, contaminato da influenze piccanti quali funky, rock, Louisiana, peperoncino, Mississippi e soul. Il nome del gruppo sintetizza il calore e l’origine della loro musica, senza tralasciare l’identità italiana.
I testi delle canzoni rappresentano i loro blues trascritti in musica: con l’aiuto di metafore, personaggi bizzarri e contesti surreali descrivono il nostro tempo, stimolando la sensibilità e le emozioni di loro stessi e di chi li ascolta. L’armonica di Boris, il cantante, evoca ricordi e realtà, suggestioni create dalla peculiarità di questo strumento, il più usato nel blues che, soffiando ed aspirando dallo stesso foro, produce due note diverse.
Nel 2015, i Fratelli Tabasco hanno vinto il concorso “Rocks the Docks”, il cui premio consisteva nella registrazione di un intero album nella zona Docks Dora a Torino, luogo storico per la città: i suoi club notturni negli anni Novanta hanno animato la scena musicale, diventando un punto di riferimento per la cultura underground della città.

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Blues d’attesa nel brano “Jack Knife”, voce e armonica dialogano in attesa di animarsi nel successivo “Blues on!” e nel rockeggiante “D.Q.T.H.L.”, da cui è stato tratto il video ufficiale.Il blues dei Fratelli Tabasco entra in circolo senza bisogno di molecole, wireless o pillole per la pressione sanguigna, come in “Up all night”, caratterizzato da uno splendido dialogo tra voce e organo Hammond, per non parlare di “Ask yourself”, dove l’armonica richiama un piccante e nutriente roadhouse blues.
“Same damned shame” è il titolo del primo singolo estratto dall’album, uno dei brani più coinvolgenti, servito con voce, chitarre, batteria e tanta grinta, diverso da “Boris’ Boogie”, dove il front man può liberamente sviscerare la sua anima blues.
La registrazione in diretta con il pubblico ricorda i vecchi dischi di blues a cui i fratelloni si ispirano. Non siamo sulla riva del Mississippi, ma su quella del Po’ torinese: un piccolo dettaglio che nulla toglie alla genuinità e alla qualità della loro musica, per non parlare della nostalgia che riempie le loro note blu.

I Fratelli Tabasco
I Fratelli Tabasco

I Fratelli Tabasco sono:

Boris Tabasco – Voce/Armonica.
Joele Tabasco – Chitarra.
Simone Tabasco – Batteria.
Lorenzo Tabasco – Tastiere.
Marco Tabasco – Basso

Guarda il video ufficiale di D.Q.T.H.L.

Il villaggio industriale di Crespi d’Adda e il capitalismo illuminato… che non c’è più

(Pubblicato il 16 maggio 2014)

Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo / chi è veloce si fa male e finisce in ospedale / in ospedale non c’è posto e si può morire presto. / Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo / la salute non ha prezzo, quindi rallentare il ritmo / pausa pausa ritmo lento, pausa pausa ritmo lento / sempre fuori dal motore, vivere a rallentatore (…)

‘Lavorare con lentezza’, cantava Enzo Del Re negli anni ’70 del Novecento, quando buona parte del sistema produttivo-economico moderno aveva svelato la sua essenza, acuito problematiche insolute, mostrato i vantaggi e il prezzo da pagare per raggiungere lo sviluppo economico.

Sempre negli anni ’70 il regista Ermanno Olmi ambientò nella bassa bergamasca L’albero degli zoccoli, uno dei film più importanti del cinema italiano, vivido spaccato che raccontava, con la consueta cura a cui ci ha abituato l’autore, il mondo contadino italiano di fine Ottocento. Me ne parla con perizia la piacevole guida di questa giornata.

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I cancelli e l’entrata della fabbrica dei Crespi sull’Adda

Penso a questi due autori, dopo aver visitato il villaggio industriale di Crespi d’Adda, dal 1995 ritenuto patrimonio dell’umanità dall’Unesco, testimonianza di una delle poche esperienze di capitalismo illuminato agli albori della rivoluzione industriale italiana. Una sorta di città “perfetta”, progettata dall’architetto Ernesto Pirovano, edificata affinché i numerosi operai delle cotoniere Crespi, installate sull’Adda dal 1878 dall’omonima famiglia originaria di Busto Arsizio, avessero le condizioni di vita ideali per dare il meglio sul posto di lavoro.

Mi inoltro nell’ordinato e geometrico villaggio, alla mia sinistra la chiesa, la scuola, e il busto del vecchio fondatore Cristoforo Benigno Crespi. Al di là della strada iniziano le graziose casette operaie disegnate sullo stile di quelle inglesi dell’epoca, con giardino, orto e una piccola staccionata ricavata dall’incrocio di vecchie cinghie, scarti del materiale industriale. La staccionata, volutamente bassa, non doveva rappresentare una barriera, la socialità era elemento significativo del villaggio e veniva favorita in ogni modo.

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La scuola di Crespi, affidata a una direttrice che reclutava i maestri e dirigeva l’istituto

Gli operai disponevano gratuitamente di case con servizi, docce calde in comune, una piscina, assistenza sanitaria, borse di studio, scuole gratuite fin dall’asilo nido, chiesa e addirittura di un loculo nel cimitero, costruito alla fine dell’agglomerato per simboleggiare la tappa finale dell’esistenza. All’interno del villaggio, per compensare le tante ore passate nell’ambiente caldo-umido, rumorosissimo e insalubre delle cotoniere, veniva incoraggiato lo sport, la vita all’aria aperta, il contatto con la natura e con la terra.

Lo scopo di questo paternalismo industriale, lungi dall’essere una copia degli arditi esperimenti di Robert Owen – padre del socialismo utopistico della prima parte dell’800 – piuttosto costituiva l’essenza dell’imprenditoria liberale moderna: ottenere prestazioni lavorative qualitativamente migliori, più competitività sul mercato, raggiungere maggiore profitto.

I piani del patron Benigno furono portati avanti dal giovane e promettente Silvio, ma al di là della buona volontà, le continue crisi del settore tessile a cavallo tra gli anni ’20 e ’30 del ’900, portarono la famiglia a rinunciare alla fabbrica e al villaggio.

Oggi, con un po’ di fortuna e con l’impegno di alcune associazioni ambientaliste del posto, si è riusciti a preservare il progetto originario dei Crespi, salvando l’area da numerose mire volte all’espansionismo edilizio. Il villaggio è stato costruito in circa cinquant’anni, dal 1878 al 1930, pur rimanendo incompleto rispetto al progetto finale della famiglia per via della cessione.

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Il simbolo che riecheggia più spesso nel villaggio Crespi, rappresenta la città ideale

Simbolo del luogo è una stella a otto punte formate dall’intersecarsi di due quadrati che al centro presentano un cerchio. Molti rosoni riportano questo stemma in maniera quasi ossessiva, denotando così qualcosa di più che un semplice ornamento estetico.

Nella fortunata storia del capitalismo all’italiana, di sicuro i Crespi incarnano l’eccezione. La loro esperienza nel tempo mi porta a pensare alla grande personalità di un altro uomo di industria: quell’Adriano Olivetti che alla metà del ’900 riprese e portò avanti in termini più radicali la missione del capitalismo illuminato dei Crespi. Egli rappresenterà la versione progressista e democratica dell’industria nostrana. Purtroppo, rimangono esempi quasi del tutto isolati per ciò che riguarda il grande capitalismo del Belpaese.

Adriano Olivetti che, stando a quanto testimonia Natalia Ginzburg in Lessico famigliare, ebbe parte attiva nell’organizzare la fuga all’estero del leader socialista Filippo Turati durante il fascismo. Oppure solo per citare i ricordi di uno dei suoi ultimi collaboratori, Furio Colombo, Olivetti che considerava l’ imprenditoria quale missione per portare benessere alla comunità in termini di ricchezza, cultura, democrazia.

Tra le intuizioni più importanti dell’ingegnere vi era il progetto di sposare cultura tecnico-ingegneristica e umanistica, di portare nella fabbrica musica, arte, letteratura, dibattiti; ragioni che lo porteranno a fondare la casa editrice Edizioni di comunità e ad assumere svariati intellettuali del calibro di Leonardo Sinisgalli, il poeta ingegnere, oppure Franco Fortini, addetto alle pubblicazioni aziendali, Giovanni Giudici alla biblioteca aziendale, Paolo Volponi ai servizi sociali per l’impresa.

Di fronte a esperienze di tale levatura, diventa inevitabile guardare con rimpianto alle condizioni attuali del panorama industriale italiano. Rimane la tentazione di cercare degli eredi, ma pure la paura di scoprirsi ogni anno un po’ più orfani di quello precedente.

Questi sono i tempi moderni dei Tanzi e dei Marchionne, della concretezza a scapito degli ideali, gli anni della finanza creativa, quelli della razionalità spietata, che non crede alle utopie e che i propri errori – la mancanza di coraggio, lungimiranza e capacità – li trasforma in titoli tossici, in delocalizzazione, finendo per addebitare il proprio conto sulle generazioni future.

dal blog di Sandro Abruzzese “Racconti viandanti” [vedi]

Le relazioni intangibili e l’eclissi delle emozioni

(Pubblicato il 5 maggio 2014)

Nella primavera del 2011, mentre frequentavo il quinto anno del liceo scentifico, una troupe delle Iene (il noto programma di Italia 1) venne nel mio liceo per condurre un esperimento. La mia classe fu scelta dal preside come la più adatta ad essere sottoposta a questa valutazione. Dopo un’ora di domande relative all’uso dei telefoni cellulari e di Internet, la iena Enrico Lucci chiese chi sarebbe stato disposto a rinunciare per due settimane a questi strumenti. Solo in 7 su 26 accettammo. Avevo deciso di mettermi alla prova.
Ci ritirarono i cellulari, che vennero consegnati al notaio presente in aula, chiusero temporaneamente i nostri account di Facebook e ci vietarono l’ascolto di musica ad alto volume (non potevamo usare l’i-pod), e di conseguenza anche le serate in discoteca.
All’inizio e alla fine delle due settimane fummo sottoposti a valutazioni psicometriche e psicofisiologiche. Uno psicologo ci pose diverse domande che vennero registrate da uno strumento simile alla macchina della verità, per classificare le variazioni emotive. In ospedale un otorinolaringoiatra ci fece fare prima un normale test dell’udito, poi un esame di psicoacustica per vedere come fosse cambiata la nostra percezione del suono dopo le due settimane di “astinenza”. I risultati mostrarono solo esiti positivi: il nostro umore era migliorato, come anche la nostra capacità di concentrazione; eravamo meno stressati e la nostra soglia di sopportazione del rumore si era notevolmente abbassata.

Oggi non solo abusiamo di tutti questi nuovi dispositivi, ma impariamo ad utilizzarli nella più tenera età. È impressionante vedere bambini di 2-3 anni che sanno usare l’ipad e questo grazie (leggi “per colpa”) dei genitori, che danno ai figli il proprio tablet affinché stiano tranquilli. Quando avevo la loro età e andavo al ristorante con i miei genitori portavo sempre con me un album da disegno e pastelli colorati. Le femmine avevano le bambole, i maschi le macchinine, ora invece è come se Internet stesse cancellando tutta la genuinità e l’ingenuità dell’infanzia. È la comunicazione che sta cambiando. Prima ci si guardava negli occhi e ci si parlava faccia-a-faccia, adesso invece ci si osserva attraverso uno schermo e la voce viene filtrata da un microfono. È una comunicazione spersonalizzata… selfie, like, file sharing, re-tweet, ashtags… che mondo è questo? Un mondo nuovo, un mondo che cresce e corre alla velocità della luce. Un mondo che ci connette con i miliardi di altre persone che lo abitano.
Oggi viviamo online e anche se abbiamo la possibilità di “contattare” milioni di persone, siamo molto più soli di una volta. Amicizie su Facebook, follower su Instagram, commenti e like di persone sconosciute: questi non sono legami reali, concreti. Si parla di “mondo virtuale” perché oggi tutto è astratto, immateriale. Eppure ciascuno di noi sembra aver bisogno di questa intangibilità, e i giovani più di chiunque altro.
La tecnologia ha sicuramente migliorato molti campi della comunicazione: attraverso programmi come Skype possiamo parlare e addirittura vedere persone, con cui abbiamo rapporti sentimentali, affettivi o lavorativi, che vivono dalla parte opposta del pianeta. Ma allora perché i nostri genitori, che sanno cosa significa vivere senza un telefono cellulare e sicuramente senza le miriadi di piattaforme multimediali oggi esistenti, dicono che si stava meglio 50 anni fa? Oggi non si conosce più l’attesa, tutto è istantaneo. Le chiamate dai telefoni fissi? Ridotte all’osso; le lettere? Inesistenti. Ho chiesto ad alcune adolescenti perché non chiamino anziché mandare migliaia di messaggi al giorno, mi hanno risposto: “Non mi piacciono le telefonate, mi annoiano e la mia voce non è bella al telefono”. Impersonalità: questa la parola che mi viene in mente per descrivere questo nuovo mondo, che è il nostro mondo.
Ho 21 anni, uno smartphone, sono iscritta a più di un social network, e come ogni mio coetaneo non sono immune da questa realtà. Ma so cosa vuol dire scrivere una lettera e aspettarne una in risposta, controllare ogni giorno la buchetta postale, assaporando l’ansia e il fremito dell’attesa. So cosa vuol dire stare ore al telefono, sentire la voce di chi sta al capo opposto del filo, percepire i pensieri e le emozioni dell’altro, dedurli da una pausa, un sussurro, un sospiro. La mia paura è che questa nuova realtà, questo mondo in cui si teme il confronto diretto, possa creare solo generazioni progressivamente immuni alle emozioni.

Un miliardo di tonnellate di gas serra in più ogni anno. O si cambia o è catastrofe

(Pubblicato il 18 aprile 2014)

Ogni anno immettiamo nell’atmosfera un miliardo di tonnellate di gas serra in più rispetto all’anno prima. E tra il 2000 e il 2010, le emissioni sono aumentate più rapidamente rispetto ai tre decenni precedenti. I dati sono contenuti nel “Quinto rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico” (Ipcc), un foro scientifico che ha lo scopo di studiare il surriscaldamento globale. Domenica 13 aprile, a Berlino, è stato presentato il loro studio.
Secondo uno dei tre copresidenti del gruppo di lavoro, il tedesco Ottmar Edenhofer, “per evitare pericolose interferenze con il sistema climatico occorre smettere di avere un atteggiamento di sottovalutazione” e agire in fretta. Per invertire la rotta del riscaldamento globale, è necessario diminuire l’utilizzo dei combustibili fossili (petrolio, carbone e gas naturale) e puntare sulle energie rinnovabili. Per contenere l’aumento della temperatura globale entro i due gradi, il massimo considerato sostenibile, le emissioni dovrebbero essere ridotte da qui al 2050 tra il 40% e il 70%, con un impegno ad arrivare a un valore prossimo allo zero entro la fine del secolo.
Il carbone, che produce oggi il 39% dell’energia elettrica mondiale, è considerato il principale responsabile dell’accumulo di gas tossici nell’atmosfera; per questo motivo si punta a una sua progressiva riduzione a favore del gas. Questo in vista di un auspicabile abbandono, o comunque ridimensionamento, dell’uso dei combustibili fossili a favore delle rinnovabili, considerate “pulite” e inesauribili. Se l’allarme degli scienziati non sarà ascoltato, entro il 2100 le temperature medie globali aumenteranno fra i 3,7 e i 4,8 gradi, e lo scenario di una catastrofe climatica potrebbe essere a questo punto realistico e irreversibile.
Sergio Castellari, delegato del governo italiano all’Ipcc, ha spiegato che l’Italia e l’Unione Europea sono tra le realtà “più avanzate” al mondo nella lotta al surriscaldamento globale, e ha aggiunto che il nostro paese “segue le direttive europee sul 20-20-20”, ossia ridurre del 20% le emissioni di gas serra, portare al 20% il risparmio energetico e aumentare al 20% il consumo da fonti rinnovabili entro il 2020.
Passando a quelli che sono considerati i paesi meno virtuosi nel campo delle emissioni, si punta il dito verso i paesi emergenti, primo tra tutti la Cina, che sta vivendo un vero e proprio boom economico. Mentre i paesi occidentali, di antica industrializzazione, hanno da tempo avviato un processo di riduzione delle sostanze inquinanti rilasciate nell’atmosfera, la Cina cresce e consuma energia elettrica a ritmi molto elevati, con un impatto molto alto sull’ambiente. Nel 2011 è stato il primo produttore mondiale di Co2, con oltre il 26% del totale delle emissioni.
In parte la diminuzione delle emissioni inquinanti in occidente può essere ricondotta alla crisi economica globale, che ha avuto ripercussioni negative sulla produzione industriale (e quindi sul consumo di energia in generale) e in parte al fatto che molte industrie europee e americane hanno spostato gran parte delle loro produzioni in Cina, che quindi produce e inquina per conto di altri. Se si considera invece il livello di emissioni pro capite, scopriamo che la Cina ne emette appena un quarto rispetto a quelle degli americani e un terzo rispetto agli europei. Nel Paese asiatico vivono oltre un miliardo e 300mila persone, ma i consumi di queste sono molto inferiori ai nostri, e sono 700 milioni i cinesi che abitano nelle regioni rurali e che vivono con meno di tre dollari al giorno.
Ma anche in Europa c’è chi inquina e si oppone al taglio delle emissioni di gas serra. È la Polonia, la cui economia cresce a un ritmo del 2% annuo, e che continua a fare affidamento sulle proprie superinquinanti centrali a carbone, infischiandosene di ogni normativa europea. Secondo alcuni dati presentati da Greenpeace, nel 2013 la combustione del carbone nell’Ue ha provocato 22.300 morti premature, più di 5 mila solo in Polonia, dove si è registrato il dato più alto.
Secondo Andrea Boraschi, responsabile della campagna “Energia e clima” di Greenpeace Italia, “il carbone è una delle principali cause di avvelenamento dell’aria. Per salvare i nostri polmoni dobbiamo mettere fine all’era del carbone e avviare una radicale rivoluzione energetica”. La soluzione più logica sembrerebbe quella delle energie rinnovabili, anche se queste non sono ancora sfruttate su una scala sufficientemente ampia, a causa di incerte politiche ambientali e dei costi piuttosto alti, pur in diminuzione.

IL CASO
La vita sotto un treno e la gioia dei vigliacchi

81.304 letture al 27 agosto 2016 (Pubblicato l’11 gennaio 2016)

di Ruggero Veronese

Sono le 8,05 in stazione, a Ferrara. Una cinquantina tra viaggiatori e pendolari se ne stanno fermi e infreddoliti sulla banchina ad aspettare il proprio treno, in quello che sembra un normalissimo sabato di inizio gennaio. In lontananza si sente il fischio del Freccia Argento che sfreccia da Venezia a Lecce, pronto a oltrepassare in pochi secondi la città. C’è chi fa qualche passo indietro per non essere sballottato dallo spostamento d’aria e chi continua a leggere il giornale senza badare al resto. Come ogni mattina.
Poi succede qualcosa.
Un ragazzo di colore prende lo slancio e si lancia contro il treno in corsa. Vuole farla finita.

L’impatto è devastante: il ragazzo morirà pochi minuti dopo, appena arrivato all’ospedale di Cona dopo la corsa disperata dell’ambulanza.
Aveva 28 anni, era nigeriano: questo è quello che sappiamo di lui. Non c’è altro.
Sappiamo solamente che sabato mattina, alle 8,07,un ragazzo di 28 anni ha scelto di morire lanciandosi contro 450 tonnellate di acciaio lanciate a 200 km orari. E che non ci potrà mai raccontare chi era, cosa faceva o il perchè del suo gesto.

È per questo, sapete, che sto così male quando leggo le reazioni a questa notizia. Perché noi non sappiamo niente, assolutamente niente su quella vita che ha cessato di esistere. Eppure non sembrano pensarla così decine, forse centinaia di miei concittadini che hanno festeggiato più il suicidio di uno sconosciuto che la vittoria in trasferta della Spal.
E vorrei dire chiaramente quello che penso: alcuni commenti comparsi sui social network o giunti (e censurati) sulle testate ferraresi non sono nemmeno degni di essere definiti umani. Eccone alcuni esempi:
– “e parte subito il brindisi” (taggando gli amici)
– “Posso unirmi ai festeggiamenti?” (con replica: “più siamo e più ci divertiamo”)
– “Speriamo sia un negro di merda”. (poi, dopo aver letto l’articolo) “Siiiii un mardar in meno… alti i bicchieri”
– “I negri ormai ci hanno costretto a guardarci sempre intorno! Uno in meno non guasta”
– “Una buona scelta”
– “C’è gente che non è proprio tanto coerente… quando si parla di questi individui che buttano il cibo che gli viene dato che gli danno alloggi cellulari e soldi tutti a criticare di mandarli via etc… una volta tanto che uno decide di togliersi dai maroni spontaneamente tutti a dire poverino… ma poverino cosa?? Troppi falsi moralisti…”

C’è anche chi chiede di interrompere i festeggiamenti ma il suo ‘ragionamento’ è sorprendente: il dramma non è la morte di una persona, ma il ritardo e il disagio per i viaggiatori: “Visioni orribili per chi assiste, decine di persone che vengono coinvolte per venire sulla scena, per ripulire, enormi disagi per chi viaggia verso Lecce, messaggi impliciti connessi a un episodio del genere. Penserei a questo prima di dire che è “meglio così””.

Verrebbe quasi voglia di scrivere i nomi degli autori di messaggi come questi, perché se non faranno mai i conti con la propria morale almeno li dovrebbero fare con quella del prossimo. Ma per ovvie ragioni di privacy resteranno anonimi e nascosti a gioire della morte altrui. Dei vigliacchi sono e dei vigliacchi resteranno.
Eppure me le ricordo tutte quante le loro facce, tutte sorridenti nelle loro piccole foto accanto ai loro piccoli commenti razzisti. Vedo ragazzi che brindano con gli spritz nei locali notturni e ragazzine che fanno la bocca da papera mentre si scattano i selfie con gli iPhone, così come vedo professionisti in giacca e cravatta dallo sguardo cordiale e madri di famiglia che si fanno fotografare mentre abbracciano teneramente i figli. Gente che evidentemente ce li avrà anche dei sentimenti, laggiù da qualche parte, ma che nonostante questo passa il sabato a brindare “alla morte del negro”. E non riesco a capirne la ragione.

Tutto questo è orribile. Io ci ho messo un po’ ad abituarmi all’indifferenza di fronte alla morte – perché in questo lavoro a volte bisogna diventare anche un po’ così – ma la gioia no, quella mai. Quella non può avere alcun senso, funzione, giustificazione o utilità. E mi fa tremendamente paura.

Allora mentre si avvicina questo terribile scontro di civiltà che ci avvelena i cuori – contro l’islamismo, contro i migranti, contro la Cina, contro il mondo intero -, continuo a chiedermi se non stiamo forse gettando alle ortiche quei valori che probabilmente ci rendevano per davvero un posto migliore, in questo mondo allo sbando. Che senso ha lottare per i valori dell’Illuminismo quando siamo i primi a dimenticarli? Che senso ha scontrarsi contro i musulmani se non sappiamo neanche più cosa vuol dire essere cristiani? Non vi rendete conto che oltre a difendere la vostra cultura e la vostra religione dagli attacchi esterni le dovete difendere anche da voi stessi? Dalla vostra egoistica tentazione di trasformarle in una semplice scelta di casacca, in un tifo da stadio svuotato da ogni concetto o insegnamento?

Ieri un ragazzo di 28 anni è morto, e la morte non si festeggia: questo è quello che sappiamo.
Su tutto il resto, come direbbe Wittgenstein, si può solo tacere. E qualcuno dovrebbe farlo per davvero.

 

L’OPINIONE
Semplificazione, rimedio per molti nostri mali

18.590 letture al 27 agosto 2016 (Pubblicato il 1 ottobre 2014)

In tempi di confusione, cosa c’è di meglio che mettere un po’ d’ordine?
Intendiamoci, non l’ordine di infausta e terribile memoria, ma quello che potrebbe garantirci un po’ più di serena convivenza e un miglior funzionamento dello Stato. Come? Attraverso regole nuove, duttili, intelligenti. Comprese e condivise.
Questa almeno è la tesi di Cass Sunstein, giurista – insegna Diritto all’Harvard Law School, negli Usa – e “studioso della razionalità e dell’irrazionalità dei nostri comportamenti economici” recita il risvolto di copertina del suo ultimo libro, “Semplice”, edito quest’anno in Italia da Feltrinelli.
Sunstein ha diretto, su incarico di Barack Obama, l’Office of Information and Regulation Affair (Oira) per ripensare radicalmente il modello di governo su cui si reggono gli Usa.
Compito immane, tutt’altro che concluso. Tuttavia, il libro narra l’esperienza di tre anni, dal 2009 al 2012, di Sunstein alla guida di questo ufficio, creato nel 1980, e dei notevoli passi avanti percorsi nel semplificare leggi e regolamenti in molti campi della vita civile: dalla sicurezza nazionale alla stabilità finanziaria, dalla discriminazione sessuale all’assistenza sanitaria, all’energia, all’agricoltura alla sicurezza alimentare e in altri ancora. Insomma, un ufficio potente, senza il cui nulla osta nessuna importante regolamentazione può essere rilasciata dall’amministrazione americana.
L’Oira – che non lavora in solitudine, ma al servizio del presidente e in stretta collaborazione con il suo ufficio esecutivo – ha supervisionato 2 mila regole emanate dalle agenzie federali ed ha introdotto una notevole quantità di norme e regole che, afferma Sunstein, hanno salvato migliaia di vite e prodotto notevoli benefici economici: dal 20 gennaio 2009 al 30 settembre 2011, ben 91, 3 miliardi di dollari Tutto questo perché, prima di emanare i provvedimenti, ci si è posti qualche domanda essenziale: se la gente li capisce, come farli conoscere all’opinione pubblica, quanto costa applicarli, quante persone potranno trarne vantaggio e così via.
Introdurre regole nuove e semplificatrici potrebbe far bene alla realtà italiana? Certamente. Le leggi da noi sono troppe e scritte spesso in modo incomprensibile, le norme attuative sono lunghe, noiose e difficili da applicare; i procedimenti amministrativi sono viziati da ripetitività, sovrapposizioni, lungaggini, complicanze di vario genere, la nostra burocrazia è tra le peggiori del mondo, per non parlare della corruzione e dell’illegalità che si manifestano ovunque.
Se la memoria non mi inganna sono stati pochi i tentativi importanti di semplificazione legislativa. Ricordo ad esempio il dizionario che rendeva più comprensibile il burocratese della pubblica amministrazione, voluto dal ministro Cassese. L’introduzione delle autocertificazioni e della firma digitale, l’informatizzazione di alcuni procedimenti, la stagione delle liberalizzazioni hanno rappresentato alcuni passi in avanti.
Ma una vera e propria rivoluzione non è avvenuta: soprattutto, quel che manca nel nostro Paese è la propensione mentale a rendere più semplici le basi della convivenza e del rapporto tra il cittadino e lo Stato. Aggiungiamo l’ostinato rifiuto di molti a rispettare le regole, ed ecco perché continuiamo a farci del male.

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Trivelle e terremoti: relazioni dubbie, previsioni incerte. Ma la prevenzione è possibile e doverosa

(Pubblicato il 17 aprile 2014)

“Considerando l’attività nei campi di Cavone e Casaglia, le caratteristiche geologico-strutturali e la storia sismica della zona, la commissione ritiene che sia molto improbabile che la sequenza sismica dell’Emilia possa essere stata indotta (cioè provocata completamente dalle attività antropiche)”. E’ uno stralcio del rapporto Ichese, del quale si è fatto un gran parlare in questi giorni.
Però, qualche pagina più avanti, nelle conclusioni, si legge anche: “Lo studio effettuato non ha trovato evidenze che possano associare la sequenze sismica del maggio 2012 in Emilia alle attività operative svolte nei campi di Spilamberto, Recovato, Minerbio e Casaglia, mentre non può essere escluso che le attività effettuate nella concessione di Mirandola abbiano potuto contribuire a innescare la sequenza”. Dunque, nello specifico caso di Mirandola, non si esclude che la trivellazione del sottosuolo abbia potuto concorrere a causare il rovinoso terremoto che due anni fa ha sconvolto l’Emilia. E anche laddove (Cavone e Casaglia) si giudicano “improbabili” le connessioni, la formula utilizzata è di grande cautela: è infatti esplicitato che il termine “indotta” – riferito alla sequenza sismica – deve essere inteso come “provocata completamente”. Perciò nemmeno in quei casi si può escludere l’attività estrattiva come concausa.

Al riguardo sono necessarie alcune puntualizzazione e alcune riflessioni. L’interesse sul fronte politico, ecologista e sociale si è recentemente concentrato sulle cause del terremoto che ha scosso l’Emilia-Romagna nel maggio 2012. Un articolo, pubblicato nella rivista Science l’11 aprile (Edwin Cartlidge, 2014), ha anticipato di qualche giorno la divulgazione del rapporto Ichese (International commission on hydrocarbon exploration and seismicity in the Emilia region). La commissione, istituita alla fine del 2012 su richiesta del commissario per la ricostruzione post-sisma Vasco Errani per verificare le possibili relazioni fra la produzione di idrocarburi e i terremoti avvenuti nel maggio 2012, è costituita da tre scienziati stranieri (il coordinatore Peter Styles, professore di Geofisica applicata alla Keele University, Ernest Huenges, Stanislaw Lasocki), due scienziati italiani (Paolo Gasparini, Paolo Scandone) e da Franco Terlizzese, ingegnere della direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche del ministero dello Sviluppo economico.

La commissione Ichese, sulla base di considerazioni sismo-tettoniche, ha analizzato un’area per un’estensione di circa quattromila chilometri quadrati sulla quale ricadono tre licenze di esplorazione del sottosuolo (Mirandola, Spilamberto, Recovato). Sono state prese in esame anche due aree limitrofe: il “serbatoio di Minerbio” e il campo geotermico di Casaglia nel comune di Ferrara. L’articolo di Science aveva già riportato in anteprima parte delle conclusioni della commissione, ma non presenta dati scientifici né discute quelli pubblicati nel rapporto Ichese. L’articolo è fondamentalmente di divulgazione scientifica. Il rapporto Ichese presenta invece il quadro geologico dell’area esaminata, i dati sismici e la discussione di questi. Le conclusioni dell’analisi scientifica sono presentate a punti e caratterizzate dall’aggettivo “improbabile” (“molto improbabile”, “estremamente improbabile”).

L’improbabilità (ridotta possibilità, scarsa probabilità che qualcosa ha di accadere) è un fattore sempre presente nelle scienze. L’improbabilità ha profondi aspetti epistemologici con il “Principio di indeterminazione” di Heisenberg. Le scienze sono consapevoli dell’impossibilità di pervenire ad una conoscenza della realtà fisica completa, pienamente deterministica. Nessun medico ci potrà mai assicurare che prendendo i farmaci prescritti il tumore scomparirà, per sempre. Nessun economista ci assicura un guadagno del dieci percento acquistando le azioni di quella società. Questa improbabilità è presente anche in filosofia, statistica, economia, finanza, psicologia, sociologia ed ingegneria. Se sappiamo che le scienze sono indeterminate, perché abbiamo la necessità di volere a tutti i costi risposte certe? Come possiamo pretendere di prevedere i terremoti? Perché continuiamo a cercare il probabile nell’improbabile? Perché ci ostiniamo a discutere dati scientifici invece di capire perché molti edifici di nuova realizzazione non hanno resistito alle scosse sismiche?

Ciò che è lecito desiderare e razionale domandare è che le scuole dove vivono i nostri giovani e così gli ospedali dove soggiornano i nostri familiari siano costruiti con tecniche anti-sismiche. Ed è doveroso che la nostra storia incorporata nel patrimonio architettonico ed ambientale venga salvaguardata dalla tecnologia anti-sismica.

Auspico che i politici prendano posizioni forti quali “cancellazione degli abusi edilizi in zone sismiche”, “no agli edifici pubblici costruiti senza seguire le norme sismiche“, “sì alla messa in sicurezza degli edifici storici e monumentali”, “no alla segretezza tecnologica delle attività delle grandi industrie (chimica, metallurgia, energia nucleare)”.

Suggerisco un principio di determinazione: preveniamo i danni alle persone senza farci condizionare dell’impossibile previsione dei terremoti.

NOTA A MARGINE
Prendersi cura del creato, tra preoccupazione e speranza

(Pubblicato il 26 giugno 2015)

Chapeau agli istituti Gramsci e di Storia contemporanea di Ferrara per l’incontro di martedì 23 giugno dedicato all’enciclica di papa Francesco “Laudato si’ sulla cura della casa comune”, che porta la data del 24 maggio scorso.
Intense e profonde le riflessioni di Piero Stefani e Massimo Faggioli, cui va il merito di essere andati dentro il testo con competenza chirurgica.
Sta diventando una piacevole consuetudine quella dei due istituti ferraresi diretti da Fiorenzo Baratelli e Anna Quarzi, che stanno regalando a Ferrara momenti d’inusuale intensità e libertà, per essere realtà laiche, su temi e aspetti di carattere ecclesiale. Singolare l’appello in chiusura lanciato dallo stesso Baratelli alle parrocchie con vero fare pastorale e interessante la presenza nella strapiena sala del convento del Corpus Domini in città, di sacerdoti diocesani che hanno assistito all’incontro senza perdersi una virgola.
Non pretendo di mettere in fila i numerosi temi messi in luce, tante sono state le tastiere culturali (biblica, filosofica, storica, letteraria, teologica), tutte giocate con alta abilità solistica dai due studiosi ferraresi. Solo qualche personale, del tutto parziale, sottolineatura. È stato posto in evidenza il carattere non propriamente organico del testo, evidentemente risultato di diverse mani, ma una prima cosa che colpisce, almeno me, è una sensazione di particolare allarme e preoccupazione che papa Francesco trasmette sulle condizioni del creato.
L’autorevole indice è puntato su un sistema di sviluppo più volte chiamato “tecnoscienza” o “tecno-economico” e pressoché costantemente definito “irresponsabile”. Il termine ricorre ben sette volte nell’enciclica e sempre accostato al modello di crescita partorito dal ventre occidentale. Avrebbe potuto chiamarlo “sistema capitalistico”, se l’espressione non risentisse troppo di echi marxiani, con tutti i rischi del caso. Un paradigma dal quale secondo il pontefice occorre fuoriuscire prima che sia troppo tardi, perché il pianeta non potrà reggere a lungo gli attuali ritmi di sfruttamento delle risorse, i livelli di spreco e consumo compulsivo che sta generando e le drammatiche conseguenze che scarica sull’ambiente e, soprattutto, sugli esclusi, i poveri, gli ultimi.
L’ancoraggio filosofico di tale risoluta analisi è al pensiero di Romano Guardini in “La fine dell’epoca moderna” (1950), cui spesso seguono citazioni di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, verificabili nell’apparato delle note. L’impressione, come spiegato bene dai due studiosi ferraresi, è che il post-ideologico papa argentino si collochi nel solco di un pensiero magisteriale sostanzialmente negativo, o comunque fortemente critico, verso la modernità. Non nel senso che Francesco non parli di cose attuali, o non sia sufficientemente sintonizzato con i nodi cruciali del tempo presente, come hanno puntualizzato alcuni interventi durante il dibattito, ma perché l’impostazione e il portato essenziale della sua analisi lo conducono alla stessa severità di analisi e giudizio, quasi senza appello, dei suoi due predecessori.
Ne deriva un elemento di forte preoccupazione, angoscia e monito, che, di fatto, fa da contrappunto allo slancio di gioia e speranza che pure è presente nella sua predicazione (Evangelii Gaudium) e nella stessa enciclica. Una ferma opposizione verso una modernità del cuore vuoto della persona (“Abbiamo troppi mezzi per scarsi e rachitici fini”, n. 203), che si spinge fino a contemplare esiti di “decrescita”, perché si possa crescere in modo sano in altre parti del mondo (n. 193).
Non è forse la riproposizione del modello della “decrescita” un rientrare nel campo dell’ideologia da parte di un papa che ne pretende la definitiva fuoriuscita? La cifra di questo dilemma l’ha resa in particolare Faggioli. Le reazioni statunitensi al documento non sono state delle migliori e il prossimo viaggio a settembre di Bergoglio negli Usa potrebbe rivelarsi un problema.
Contrariamente alle apparenze, le critiche non vengono solo dal versante repubblicano, dalla destra, da teocon e tea party, ma più trasversalmente da una società che considera il proprio modello di sviluppo come espressione della cultura del “self made man”. Un sistema in buona parte riconducibile in radice sul doppio significato del termine tedesco “beruf” (lavoro-vocazione) che, si potrebbe dire weberianamente, sorregge eticamente (l’ascesi intramondana protestante) lo spirito del capitalismo.
In questo senso si apre una forbice fra l’impostazione-soluzione radicale di papa Francesco (non c’è altra strada che la fuoriuscita, prima possibile, dal modello della tecnoscienza) e le (eventuali?) soluzioni economiche, scientifiche, tecniche e politiche, per uno sviluppo più equo e sostenibile, in ottica certamente disintossicata dalla fiducia nell’inarrestabile linea retta del progresso.
In sostanza la domanda è: c’è ancora spazio per la razionalità (ecco la modernità) in tutto questo, o c’è solo il postmoderno lavoro della religione e della spiritualità, per quanto francescana, verso un’inversione di 180 gradi degli stili di vita? Del resto lo stesso Jürgen Habermas, da sinistra, scrisse già anni fa che fra i sistemi economici nessuno come quello occidentale ha prodotto ricchezza e benessere su così vaste dimensioni e fra gli esperti non c’è unanimità sulle valutazioni effettivamente positive della decrescita. Vengono in mente anche le parole di Edmondo Berselli nel suo libro postumo “L’economia giusta” (2010), il quale ricordava che alle nostre spalle c’è un passato di redistribuzione e di correzione delle ingiustizie firmato dalle migliori tradizioni di pensiero delle democrazie cristiane e delle socialdemocrazie europee. Su quanto di quel pensiero sia rimasto sulla carta è lecito discutere, ma rimane che quella elaborazione è parte importante della cultura continentale.
Un ultimo cenno merita la riflessione sui poveri, retrocessi nella storia, almeno recente, del magistero papale, da potenziale soggetto storico di riscatto sociale a semplice termometro dei disastri prodotti dal sistema della tenoscienza. Un punto sul quale non da ora Stefani richiama l’attenzione sulla predicazione di Bergoglio, che si ripresenta puntuale anche nella sua enciclica. Segno che nel puntiforme mondo globale e nella baumaniana società liquida i soggetti storici di riferimento sono tramontati e che è oggettivamente difficile individuare nuove forme di interlocuzione e di rappresentanza?
Il tema c’è tutto ed è aperto alla discussione libera, senza pregiudizi e disinteressata, come stanno proponendo con merito gli istituti Gramsci e di Storia contemporanea di Ferrara.

desiderio-previsioni-futuro

LA RIFLESSIONE
Essere, fare, consumare: tre costellazioni di senso per la società del domani

(Pubblicato il 3 febbraio 2016)

Il bisogno fondamentale dell’uomo è agire in un ambiente controllabile che consenta di dar senso alla propria vita. Questa esigenza emerge con forza particolare nella nostra società. La potenza delle tecnologie consente ormai da tempo uno stock produttivo complessivo, che in linea di principio sarebbe più che sufficiente a coprire i bisogni materiali più urgenti delle persone; purtroppo questa ricchezza non è distribuita in modo equo, anzi le differenze tra chi ha troppo e chi non ha nulla diventano sempre più ampie e drammatiche. Viviamo in un mondo che predica l’efficienza produttiva, ma allo stesso tempo spreca enormi quantità di risorse e di beni, proprio a causa della totale inefficienza dei meccanismi che dovrebbero garantire anche l’equità e la giustizia nell’allocazione delle risorse generate. Viviamo in un mondo materialista, dove l’eccesso di consumo produce patologie altrettanto gravi e drammatiche della carenza.
In questo mondo globalizzato la domanda di senso sembra diventare sempre più forte, aumenta insieme al crescere esponenziale dei flussi informativi e dei beni circolanti a livello planetario: con l’incremento della conoscenza sembrano anche crescere i dubbi e le perplessità ai quali le istituzioni sociali canoniche sanno offrire soluzioni sempre meno funzionali. L’argomentazione razionale, base della democrazia laica, sembra offrire sempre meno strumenti per affrontare con successo una complessità diventata ingestibile.

Ognuno, in questo mondo, cerca la felicità a proprio modo. Lo può fare, tuttavia, all’interno di un orizzonte di senso che, dopo il disincantamento dal mondo segnalato da Max Weber e la cosiddetta fine delle ideologie, è diventato radicalmente problematico. Si tratta di una sfida – dar senso alla propria esperienza di vita in un ambiente controllabile da un punto di vista soggettivo – che riguarda ogni persona, a prescindere dalle differenze di razza, religione, etnia e nazionalità, una sfida che molti pensano di eludere aderendo più o meno acriticamente a modelli già disponibili. Con sempre maggiore evidenza ci si accorge che essa non può più essere dominata semplicemente attraverso l’informazione e l’argomentazione razionale, attraverso la scienza e la tecnologia, poiché investe aspetti molto più profondi e problematici.

Per alcune persone la ricerca di senso coincide con la scoperta dell’unicità del proprio essere: la felicità è uno stato del cuore e della mente, che si trova dentro ognuno di noi a prescindere da ogni condizionamento esterno. Quello che succede “lì fuori” è complessivamente poco importante poiché l’attenzione è focalizzata sulle componenti interiori, soggettive e personali, sul modo con cui osserviamo il mondo piuttosto che sul mondo stesso: si tratta di una via contemplativa che accompagna da sempre ogni tipo di civiltà, manifestandosi in varie forme di misticismo, di trascendenza, di magia naturale, di religiosità vissuta in prima persona.
Questa latente spiritualità (comunque questo concetto sia definito), per lungo tempo bollata come irrazionalità e superstizione, è in crescita costante in tutto l’occidente. A partire dalle prime sperimentazione di inizio ‘900 e dagli impulsi creativi degli anni ’60, trova da decenni una sponda ulteriore in una certa interpretazione della scienza olistica e della fisica quantistica. Poco importa ai fini della discussione presente che le manifestazioni osservabili siano le più diversificate, come dimostra il proliferare di sette pseudo religiose, la crescita delle comunità intenzionali, la diffusione di discipline e filosofie orientali, il ritorno dello sciamanesimo, l’uso di sostanze chimiche per esperire stati di coscienza alternativi e, più importante, il riaffermarsi delle grandi religioni. Resta il fatto che dietro a questi fenomeni si cela una ricerca di senso che può essere autentica, da leggere forse come un tentativo di coltivare una dimensione differente da quella promossa dal mainstream, calcolatore e materialista. In questa prospettiva il lavoro – componente centrale della società industriale oggi in drammatica crisi – è un processo che serve per lo sviluppo interiore e per garantire eventualmente le condizioni minime che consentano di perseguire l’evoluzione personale.

Per altre persone la ricerca di senso coincide principalmente con il bisogno di agire nel mondo e di cambiarlo in modi coerenti con la volontà: il fare rappresenta da sempre un modo per realizzare se stessi, per superare l’inquietudine e per fuggire dai dubbi che la mente vagabonda e non disciplinata pone agli uomini. Questo approccio, fortemente radicato nella cultura occidentale, con la sua enfasi sul lavoro e sul successo, ha rappresentato una formidabile spinta nel passato recente e anche oggi è, per molte persone, fonte irrinunciabile di senso. Nel ‘fare’ artigiani, piccoli imprenditori, professionisti, lavoratori, scienziati (etc.), trovano la ragione della loro vita, non per il guadagno monetario, ma per l’intrinseca soddisfazione del lavoro ben fatto, per il gusto della creatività applicata, per la sete di conoscenza, per il riconoscimento della propria bravura e del proprio mestiere. Un fare che in molti casi viene premiato dalla società in modo esplicito, seppure in proporzioni molto variabili da luogo a luogo, da persona a persona. Il fare riporta tanto al tema del successo quanto a quello del dovere, dimensioni entrambe fortemente associate allo spazio del senso: bisogna agire, primeggiare, raggiungere obiettivi, costruire e realizzare qualcosa nel mondo “lì fuori”, ottenere il riconoscimento e l’invidia degli altri a conferma del proprio essere vincenti. L’homo faber da senso alla vita attraverso l’esercizio della sua facoltà di trasformare l’ambiente in cui vive, con l’impegno per un mondo migliore, la lotta contro l’ingiustizia, il lavoro incessante per tutelare i diritti, la libertà, la natura, la patria.

Per molte persone il senso della vita si risolve essenzialmente nell’avere. Il consumismo nel quale viviamo e siamo cresciuti è uno stile di vita che si fonda su un assunto fondamentale: la realizzazione personale e spirituale è (e deve essere) ricercata attraverso il consumo; per far questo è indispensabile che una mole sempre più grande di prodotti sia realizzata, acquistata e sostituita a un ritmo sempre più veloce. Consumare è l’azione quasi magica che  garantisce nello stesso tempo la prosperità della società e la felicità dell’individuo. Nelle società occidentali questo è il mantra fondamentale: consumo dunque sono. Pubblicità ormai associata a ogni tipo di comunicazione, obsolescenza programmata e moda sono i pilastri su cui si fonda. L’homo consumer è un pozzo di desideri senza fondo che agisce per massimizzare la propria felicità attraverso la ritualità del consumo; egli trova per ogni problema la specifica soluzione all’interno di un mercato potenzialmente infinito; beni e servizi consentono di affrontare e risolvere (per quanto?) problemi di infelicità, cattivo umore, difficoltà relazionali, sviluppo personale, crisi familiari, sofferenza, ricerca di senso e significato. Basta essere debitamente informati e pagare. Il lavoro, in questa prospettiva, serve principalmente per ottenere i soldi sufficienti per entrare nel circuito del consumo creatore di senso, a prescindere dalla qualità intrinseca e dagli effetti che esso produce nel mondo.

In ogni persona possiamo riconoscere combinazioni diverse e mutevoli di questi tre tipi ideali; allo stesso modo i tre tipi variamente si intrecciano, si mescolano, si incontrano e si scontrano nella società dando luogo ad un mélange variegato. Persone ascrivibili a uno di essi si trovano in tutti gli strati e le classi sociali, in tutti i gruppi, in tutti i territori, in proporzioni però assai differenti. Pochissimi probabilmente coloro che ricercano coscientemente un esperienza autentica centrata sull’essere, discretamente presenti i secondi, tantissimi i terzi, poiché in questo universo ritroveremo tutti quelli che perseguono non solo il consumo per il consumo, ma anche il consumare per avere e il consumare per essere.

Una certa vulgata new age ampiamente diffusa parla di un risveglio della consapevolezza a livello planetario, di una nuova spiritualità: uomini e donne dell’era dell’acquario dovrebbero essere gli esempi di quella nuova umanità evoluta, capace di vivere in modo olistico in un universo di pace e prosperità. Almeno a sentire i media, il mondo sembra però andare in un altra direzione, anche se qua e là non mancano dei segnali positivi.
Non sarà facile nel futuro prossimo trovare un’equilibrio, ma se iniziamo a considerare noi stessi e ogni persona come soggetti in cerca di senso tutto sarà più facile. Proviamo a spegnere il rumore di fondo che affolla di pensieri la nostra mente per abbracciare il presente liberi dall’ingombro di un ego ipertrofico, agiamo con coscienza e consapevolezza, consumiamo meno e in modo più responsabile. Saremo più felici e i risultati, poco alla volta, arriveranno.

ELOGIO DEL PRESENTE
Se vivessimo fino a 150 anni

(Pubblicato il 15 febbraio 2016)

Se vivessimo fino a 150 anni cosa cambierebbe nella nostra vita? Tra le tendenze discusse qualche settimana fa al World Economic Forum di Davos l’ipotesi che la durata della vita si sposti ben oltre il traguardo del secolo. L’aumento delle attese di vita è ormai costante da ormai un secolo: la tendenza in atto in tutti i Paesi del mondo è dovuta ai progressi medici e scientifici e agli studi biogenetici. Ciò ci ricorda che i limiti sono sempre mobili e segnati in primo luogo dalle possibilità offerte dalla scienza, con buona pace di coloro che considerano i valori eterni e fondativi della convivenza sociale.
Il traguardo di un allungamento consistente della esistenza propone già in un futuro prossimo questioni relative alla destinazione delle risorse pubbliche e all’organizzazione della vita sociale e anche nuove sfide per l’economia.
Quali sono le implicazioni? In un sondaggio fatto dall’World Economic forum tra i 2500 partecipanti, il 58% dice che i matrimoni dureranno di meno e si divorzierà di più; il 54% prevede che i figli si faranno più avanti negli anni. Gli individui si abitueranno al cambiamento, svilupperanno capacità di adattamento, ci sarà maggiore flessibilità e apertura al nuovo.
E’ piuttosto facile immaginare che la vita lavorativa si allungherà ulteriormente. Ma se le opportunità di lavoro sono già oggi erose dalle tecnologie digitali, quale lavoro attenderà i nostri nipoti alla soglia degli 80 anni? Molta letteratura ha sottolineato che la spinta alla distruzione creatrice che ha segnato le precedenti fasi dell’innovazione, è venuta meno: le tecnologie sono destinate a distruggere più lavoro di quello che creano. Soprattutto tendono a sostituire una larga parte di posizioni intermedie e a rendere rapidamente obsolete molte competenze.
Certo nella prospettiva di una lunga vita cambierà il rapporto con la formazione e l’apprendimento nel corso dell’esistenza. Imparare sarà una necessità primaria per tutti, sarà una condizione per stare al passo con le tecnologie che sempre di più entreranno nella quotidianità e sarà una condizione per poter stare all’interno di spazi comunitari che cambieranno sempre più velocemente. A dire il vero a questo sarebbe meglio pensare fin da oggi.
Le diseguaglianze attraverseranno più ancora di oggi i rapporti tra le generazioni. Le reti di protezione sociale probabilmente non saranno più solide. Rischi di marginalità colpiranno quegli anziani che alle spalle avranno avuto un lavoro precario. Mentre i super senior avranno bisogno di nuovi servizi: le domande di cura saranno in primo piano. Ma i rischi di un impoverimento diffuso renderanno ancor più urgente e complesso affrontare le questioni redistributive.
E forse non parliamo neppure di uno scenario troppo remoto: già il presente è preoccupante e prospetta molti di questi pericoli.


Maura Franchi vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia. Studia le scelte di consumo e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana.
maura.franchi@gmail.com

L’OPINIONE
Sveglia ‘itagliani’, c’è un’immensa bellezza da salvare

(pubblicato il 28 luglio 2016)

Eppure solo qualche centinaio di chilometri separa l’Alto Adige da Roma capitale (della sporcizia). Non pretendo che, come a Vipiteno, lungo la passeggiata che porta al centro città ci siano i distributori gratuiti dei sacchetti per le deiezioni (vulgo cacca) degli amici pelosi, né che dentro ai vicoletti la pulizia sia tanto accurata che nemmeno una traccia di minzioni (vulgo pipì) post bevute di birra ci riveli la presenza dei giovani gaudenti. E naturalmente lo sconcerto riguarda non solo Ferrara ormai celebre per i vicoli maleodoranti e vomitosi e ora per l’oscena defecazione umana dentro la Cattedrale, né Firenze sporca per le ‘delizie’ culinarie consumate sui gradini delle chiese e dei monumenti che l’hanno (l’avevano) resa capitale del Rinascimento.
Mi dicono amici cari che abitano a Roma in luoghi storici, dove un tempo abitò il più grande scrittore ferrarese del Novecento, che ormai è quasi impossibile camminare per le strade invase dalla sporcizia e dal degrado. Con centri di raccolta dei rifiuti lontanissimi dal luogo in cui si abita e che a forza occorre raggiungere se non si vuole essere sommersi dalla sporcizia, ormi divenuta simbolo della città. Così Pompei chiude, Galleria Borghese è visitabile solo su prenotazione per alcune ore al giorno e, a poco a poco, il mito di Roma inventato nell’Ottocento, la patria comune da cui tutti discendiamo, compresa la Merkel, si frantuma nella stanca parlata romanesca di un popolo ormai indifferente a tutto e a tutti.
Dalle tavole dell’hotel dell’Angelo s’alza un vocio romanesco. Si elogia il cibo, la vista e la frescura e s’inneggia al ponentino che non c’è più e si riapre l’eterno elogio del tempo passato. Ma è tutta colpa della politica o della scelta di una città, dei suoi abitanti e del suo territorio? Come per quel che succede nella mia città a proposito della banca di riferimento. E’ questione di chi l’ha gestita o della connivenza di tutti noi che appena siamo sicuri d’aver raggiunto un traguardo lo dimentichiamo in nome di un prestigio che forse non abbiamo mai posseduto? Tanto è vero che celebriamo non tanto la vera grandezza della nostra storia, vale a dire il cosiddetto Medioevo, quanto in modo quasi ossessivo un Rinascimento complessivamente mediocre, se non ci fossero stati i due più grandi poeti della modernità a celebrare una dinastia complessivamente rozza e inaffidabile.
Queste note, ovviamente amplificate da una specie di ferita mai chiusa sulle magnifiche sorti e progressive che dovrebbero essere all’attenzione e al centro dell’idea di identità che sembra invece sfaldarsi in un degrado e non avere mai fine, trovano un conferma nel prezioso lavoro (che di fatto è una tra le più grandi scoperte di questo secolo) di un antichista inglese celeberrimo, appena scomparso, Martin West, che ha fatto conoscere al mondo alcuni versi tra i pochi sopravvissuti di Saffo: “il mio cuore è cresciuto pesante, le mie ginocchia non mi sostengono/ loro che una volta erano agili per la danza come quelle dei cerbiatti”. Questa potrebbe essere la metafora più evidente del declino di Roma, della sua eredità e anche della condizione umana e intellettuale di chi scrive queste note. C’è una specie di stanchezza, etica prima di ogni altra ragione, che pervade chi per una specie di dovere-diritto ha scelto di lavorare nella storia e per la storia. E ora s’accorge che il disprezzo e l’irrisione è ciò che resta di questa missione così amata e così, ora, disprezzata.
Rendere Roma, Firenze, Ferrara luoghi adatti alla spazzatura reale e metaforica non è solo colpa di chi ci governa e di ogni tipo di mafia, ma è colpa grave e ineliminabile ascrivibile al carattere degli italiani. E certo non basta che Alessandro Gassman proponga una specie di ‘fai da te’ per ripulire Roma. Se non c’è la volontà innata di salvare la bellezza che è la forma più alta di realtà. Perciò italiani, smettetela di fare gli ‘itagliani’!

Immagine: Reuters, The Economics Times

Un bel posto dove vivere. Suggerimenti per costruire piccoli mondi a misura d’uomo

(Pubblicato il 10 gennaio 2014)

In un contesto sociale sempre più urbanizzato e sempre più mobile sembra essersi modificato radicalmente il legame delle persone con i luoghi e delle comunità con i territori che abitano; da un lato come ha notato Marshall McLuhan più aumenta la mobilità e in particolare la velocità della mobilità più viene distrutta la possibilità della comunità”; dall’altro gli spazi sono sempre più privatizzati e ridotti a merce, trasformati in mero panorama in alcuni casi, spesso de-classificati a contenitori di beni e di oggetti, ridotti a supporti per il traffico di merci ed informazioni o, peggio ancora, deprezzati e ridotti a discariche delle esternalità della produzione e del consumo. Si dimentica insomma che non possiamo che vivere in un ambiente e che la qualità della nostra vita dipende ampiamente dalla qualità dell’ecosistema in cui viviamo.

L’uomo del futuro che abbiamo imparato a conoscere attraverso l’immaginario cinematografico scaturito dagli incubi visionari di Philip K.Dick rimane un monito e allo stesso tempo una sinistra possibilità. Oggi comunque nessuno può vivere nei circuiti digitali dove viaggia il capitale globale e dove scorrono le informazioni; nessuno può ancora vivere bene nei circuiti della logistica planetaria dove circolano le merci stipate nei container non meno delle persone inscatolate nei charter; non possiamo vivere a lungo e in salute in non luoghi e negli ambienti degradati; per fortuna gran parte di noi vive ancora in uno spazio fisico, in un territorio, in un posto che si può riconoscere come “casa”.

Malgrado si viva sommersi da prodotti materiali e servizi c’è ancora chi resta convinto che la qualità della vita e la salute dipendano anche dalla possibilità di respirare aria pulita, bere acqua pura, godere di buoni paesaggi, mangiare cibi naturali e salubri, coltivare buone relazioni personali, vivere in spazi a misura d’uomo, disporre di tempo libero, conoscere gli altri e conoscere se stessi. Il sistema socio-economico in cui viviamo non nega affatto queste possibilità: lo fa però attraverso la trasformazione dei bisogni in merci e servizi, attraverso il mercato, la privatizzazione e, in ultima istanza (e purtroppo) attraverso la distruzione dell’ambiente, delle culture, dei beni comuni e collettivi.
Emerge con tutta evidenza la miopia di un discorso collettivo tutto centrato sul PIL, sulla crescita, sul teatrino della politica totalmente succube dei poteri forti della finanza, dove la democrazia diventa una rappresentazione rituale e stereotipata, dove la sostenibilità viene ridotta a semplice argomentazione, quasi sempre priva di applicazioni concrete. A fronte di questo c’è l’opportunità per ogni cittadino di cambiare rotta, di uscire dalle conversazioni politicamente corrette, di guardarsi attorno, di pensare e di proporre qualcosa lavorando su ciò che è vicino e di cui ci si può prendere cura direttamente.
Cosa chiedere dunque, cosa suggerire? Cosa serve per costruire qualcosa di meglio a partire dal basso, dal territorio e dalle comunità? In che modo dare senso e contenuto alla massima “pensare globalmente agire localmente”?
Servono spazi ben organizzati dal punto di vista urbanistico, nei quali poter vivere a misura delle fragilità umane partendo dal presupposto che i bisogni essenziali delle persone vengono prima di quelli riconducibili alle merci; un territorio organizzato in modo tale che le fasce più deboli della popolazione, anziani, bambini, diversamente abili e ammalati, possano esercitare l’elementare diritto alla cittadinanza, alla mobilità pedonale, al gioco e alla sicurezza e, in tal modo, possano vivere la propria naturale socialità indipendentemente dall’esistenza di prodotti e servizi a pagamento. Il territorio non può essere regolato dalla logica della speculazione e della corruzione che rappresenta fin troppo spesso il volto visibile del mercato.
Servono luoghi di vita nei quali poter praticare e sviluppare la nostra capacità di contemplazione estetica. Luoghi che valorizzino il patrimonio ambientale e culturale, dove si presti grande cura alla qualità urbanistica ed architettonica, alla qualità dell’aria che si respira e dell’acqua che si beve. Non è più sostenibile la vita in territori abbruttiti dai quali si evade di tanto in tanto per godere a pagamento di spazi dedicati ad un benessere momentaneo.
Servono infrastrutture tecnologiche intelligenti, piattaforme diffuse che favoriscano l’apprendimento, che generino capacità, che diminuiscano gli sprechi e che non esproprino le persone dei loro talenti per sostituirli sempre con merci e servizi a pagamento. Le tecnologie abilitanti che si presentano in forma di reti ed autostrade digitali, sistemi di controllo intelligenti, sistemi di coproduzione energetica e quant’altro, rappresentano un modo per attivare il protagonismo e la responsabilità delle persone e un mezzo per rendere le comunità maggiormente protagoniste del proprio destino.
Serve un modo nuovo di guardare ai bisogni delle persone, capace di separare ciò che è essenziale in termini di promozione della libertà e delle capacità personali e dei gruppi da ciò che è indotto dalla coazione al consumo. Il bisogno è sia una carenza che una motivazione, una spinta all’azione: non è più sostenibile che il bisogno venga esclusivamente ridotto ad una funzione della produzione mentre questa dipende dai giochi di una finanza completamente sganciata dalla realtà della vita delle persone. Non è bene che i bisogni vengano definiti in via esclusiva da una casta di professionisti il cui unico scopo è salvaguardare ed ampliare la propria sfera di influenza con i relativi benefici economici.
Serve una conoscenza reale e diffusa del territorio, della cultura e dell’ambiente in cui si vive; spesso è qui infatti che sono presenti straordinari saperi, conoscenze e competenze che non possono essere ridotte al mero folklore o relegate al campo dell’obsoleto; esse costituiscono di per sé potenziali micro agenzie formative non formali che si collocano al di fuori dei circuiti (scolastici) ufficiali. In Italia la ricchezza di questo patrimonio è straordinaria: si tratta di importanti dimensioni di senso che possono acquisire una rilevante dimensione anche economica se si esce dagli stereotipi dei mercati di massa e si osservano con cura le opportunità dei mercati di nicchia. Queste agenzie non formali di apprendimento vanno riscoperte a valorizzate in modi innovativi che vadano oltre la logica del nobile e antico imparare a bottega.
Bisogna riconoscere e valorizzare, accanto all’economia formale, l‘economia informale, conviviale e familiare, che comunica e produce senso attraverso lo scambio di beni e servizi non contabilizzati. È il recupero dell’economia del dono, dell’informalità, della socievolezza che può dare più valore alla vita sociale senza nulla togliere all’importanza dell’economia ufficiale.
Serve una consapevolezza diffusa circa i danni alla salute che sono causati da uno stile di vita dissipativo, dall’alimentazione insalubre spinta dalla corsa al profitto, dal vivere in ambienti inquinati, pensati per le merci e non per gli uomini che, ridotti a consumatori, quelle dovrebbero semplicemente produrre e consumare. Le evidenze sono chiarissime pubblicamente dichiarate dalle agenzie sanitarie ma sempre disattese alla prova dei fatti.
Servono nuove storie, nuove narrazioni e nuovi miti capaci di sostenere un cambiamento di enorme portata che ci investe nel profondo. Bisogna infatti riconoscere che sono le strutture narrative ben più dei numeri e delle statistiche che ci consentono di comprendere il mondo come ben sanno tutti i manipolatori della pubblica opinione, i professionisti dei media e i pubblicitari.
Soprattutto servono persone capaci di motivare ed entusiasmare, di portare modi alternativi di vedere le cose dentro processi decisionali che sono attualmente abbandonati agli interessi della speculazione ed ai meccanismi apparentemente impersonali della burocrazia e della finanza.
Su tutte queste tematiche esiste un ampio dibattito che fatica però a tradursi in pratica; da un lato la comunicazione è soffocata e traviata dalla retorica mainstream; dall’altro troppi attori interessati si sono impadroniti della forma ma non della sostanza di queste argomentazioni: capitale sociale, resilienza, crescita sostenibile, sviluppo di comunità, innovazione sociale, programmazione partecipata, integrazione di politiche locali, governance locale sono le etichette che ad ondate successive si abbattono sui territori, solitamente senza alcuna consapevolezza dei fini e dei valori che veicolano e dei vincoli che pongono se correttamente applicate; purtroppo basta girare ed osservare lo scempio degli ultimi 20 anni per capire come all’aumentare della retorica della sostenibilità sia aumentato anche e in misura decisamente maggiore il danno prodotto.
Impossibile uscirne?
NO, se si riconosce l’impotenza di un pensiero basato sull’unico feticcio della crescita ad ogni costo e sull’idolatria del mercato e del profitto per il profitto;
NO, se si sanno cogliere e valorizzare i semi di cambiamento che già esistono, assumendo consapevolmente un ruolo di cittadini più attivi attenti a quello che abbiamo intorno e vicino.
Intanto, facciamo un sforzo per uscire dai miti dissipativi ed iniziamo ad inventare, costruire e raccontare storie buone e diverse.

cattani

“Anche il made in Italy va in tilt senza la qualità del lavoro”

(Pubblicato il 29 novembre 2013)

2/CONTINUA – Torniamo più propriamente ai temi del lavoro dal quale la nostra chiacchierata con Luigi Cattani era partita.
Lei sostiene che l’avere introdotto maggiore flessibilità contrattuale non ha giovato all’occupazione e non ha arginato la crisi produttiva.
“Sono i fatti a dimostrarlo. La stagione della flessibilità è stata inaugurata nel ’97 dal governo Prodi con il famoso pacchetto Treu. E la crisi strutturale, guarda caso, coincide proprio con quella fase e dura ormai da 15 anni. Senza volere forzare l’analisi si può tranquillamente dire che quei provvedimenti e quelli di segno analogo che sono seguiti non hanno avuto la capacità di contenere gli effetti devastanti della stagnazione prima e della recessione poi”.
Fra i provvedimenti successivi c’è stata la controversa modifica all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, introdotta dal governo Monti sotto la spinta del ministro Fornero. Quali le conseguenze?
“Il provvedimento è stato accompagnato dalla fortissima pressione di Confindustria. L’articolo 18 codifica il principio che il lavoratore non può essere licenziato indiscriminatamente, senza un confronto fra le parti. La modifica ha portato a un imbarbarimento nelle relazioni e nei rapporti di lavoro, inclusi quelli nel comparto pubblico. Ciò è stato possibile all’interno di un quadro generale di destrutturazione dei rapporti sociali di questo Paese”.
E l’effetto più immediato?
“Il fatto che il lavoratore ha perso di importanza e non è più percepito come fulcro del processo produttivo”.
Ciò cosa comporta?
“Faccio un esempio clamoroso. Il made in Italy è una bella etichetta, ma l’apparenza non basta. Coerentemente con la logica della marginalità del lavoratore molti imprenditori del comparto hanno delocalizzato o terziarizzato la produzione affidandola a manodopera non all’altezza. L’esito è stato drammatico e ha compromesso la competitività e il posizionamento di un settore che rappresentava un nostro indiscusso fiore all’occhiello”.
E quindi come si esce dalla crisi?
“Risposta molto impegnativa. Diciamo che ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere. Confindustria andando oltre il mantra della flessibilità e recuperando il proprio ruolo di guida e di stimolo alle imprese, chiamate a investire e innovare. Il sindacato facendo il sindacato, affrancandosi dal ruolo subalterno cui la mancanza di una strategia generale sul mondo del lavoro lo ha relegato in questi anni e garantendo la tutela dei lavoratori in un’ottica di espansione dei diritti individuali e collettivi. Gli enti locali ridando impulso alla spesa pubblica attraverso interventi di riqualificazione della città che mirino alla soddisfazione dei bisogni dei cittadini e che sono possibili anche in questa drammatica congiuntura, che condiziona pesantemente le scelte ma che talvolta diventa anche alibi per l’inerzia. E infine il governo, impegnandosi a recuperare risorse, quelle che oggi per esempio mancano persino per assicurare la cassa integrazione in deroga…”
Questi sono gli ingredienti. E la ricetta?
“Deve essere chiaro a tutti che il rinnovamento delle imprese, condizione imprescindibile per recuperare competitività a livello internazionale, richiede investimenti sul processo e sul prodotto. L’olio di gomito dei lavoratori non basta”.

2 – FINE

Leggi prima parte

LA PROPOSTA
Il giardino dei Finzi Contini: Italia Nostra vivifica il sogno di Paolo Ravenna e Dani Karavan

(Pubblicato il 18 ottobre 2014)

S’intitola “Site specific” il catalogo delle opere di Dani Karavan che il presidente di Italia Nostra di Ferrara Andrea Malacarne ha mostrato questa mattina in conferenza stampa ai giornalisti, per introdurre la proposta di cui si stanno facendo promotori. Realizzare opere in “luoghi specifici”, come fa sempre Karavan, infatti, spiega bene il senso del progetto che Paolo Ravenna e l’artista israeliano avevano immaginato insieme per anni, e che ora può diventare realtà. La loro idea era realizzare un’opera contemporanea specificamente ideata per Ferrara; un’installazione in memoria di Bassani, a ricordo in particolare del “Giardino dei Finzi Contini” e del luogo bassaniano per eccellenza che è via Ercole d’Este. In una parola, creare a Ferrara “il giardino che non c’è”.

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Da destra Daniele Ravenna, Andrea Malacarne, Anna Quarzi

“Dopo la morte di Paolo Ravenna” spiega Malacarne “abbiamo pensato che uno dei modi migliori per onorarlo, fosse proprio quello di cercare di portare a compimento questo suo desiderio”. Tra il 2013 e il 2014, Italia Nostra ha invitato Karavan a Ferrara un paio di volte per identificare il luogo ideale in cui porre questa installazione permanente. La scelta è caduta infine sul giardino di Palazzo Prosperi Sacrati, in quanto ha il pregio di essere in una posizione protetta ma visibile da Corso Ercole I d’Este e in stretto contatto con il Liceo classico Ariosto, luogo che con Bassani ha legami storici e ideali strettissimi.
Identificato il luogo, Karavan ha elaborato una prima idea che Italia Nostra ha mostrato in anteprima ai giornalisti, chiedendo gentilmente di non riprodurre le immagini perché il progetto è ancora ad uno stato embrionale e sarà presentato ufficialmente se, e solo se, la proposta verrà accolta e recepita.

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Giardino di Palazzo Prosperi Sacrati, vista laterale
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Giardino di Palazzo Prosperi Sacrati visto via Ercole I d’Este

Il primo bozzetto elaborato da Karavan mostra l’apertura del muro di cinta che dà su Ercole I d’Este, da cui si può osservare l’opera che è così composta: due quinte in muratura, la prima con un’apertura centrale da cui entra un elemento che potrebbe essere molto probabilmente un binario; all’interno e all’esterno altri elementi evocativi come una scala e una bicicletta, riferiti all’opera bassaniana e in particolare al “Giardino dei Finzi Contini”.
Tra i due muri non si potrà passare, non sarà un luogo accessibile ma visibile da due lati.

C’è l’idea, c’è il bozzetto che Karavan dona gratuitamente alla città, c’è Italia Nostra che sostiene l’iniziativa. “I pareri finora raccolti sono tutti positivi”, ci tiene a sottolineare Malacarne. Il costo si aggira sui 200-300.000 euro, una cifra piuttosto alta che difficilmente le istituzioni possono coprire interamente, soprattutto al giorno d’oggi. Ma i promotori pensano che i costi potrebbero essere facilmente ammortizzati, perché l’opera creerebbe valore aggiunto alla visita della città, fornendo un elemento di qualità e una motivazione in più per il turista. Per raggiungere la cifra necessaria e poter realizzare il progetto entro il 2016, in occasione del centenario della nascita di Giorgio Bassani, stanno anche pensando di attivare iniziative di crowdfunding, in modo da coinvolgere la cittadinanza, le imprese, le fondazioni, anche fuori da Ferrara e fuori dall’Italia, perché Bassani era popolarissimo anche all’estero, in particolare negli Stati Uniti.

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“Passages”, Dani Karavan, omaggio a Walter Banjamin, Port Bou (1990-94)

“Erano due figure diversissime”, ricorda Daniele, il figlio di Paolo Ravenna, “Mio padre, un uomo assolutamente ‘non spostabile’ da via Palestro 31 primo piano, e il vulcanico Dani Karavan che non sta più di quindici giorni nello stesso luogo ed è sempre in giro per il mondo per fare sopralluoghi e seguire la realizzazione delle sue opere. Il solido filo d’amicizia che si era costruito tra loro ruotava proprio attorno ad un nucleo di idee che facevano perno sulla figura di Bassani, e che pian piano si sono andate coagulando attorno all’idea del giardino, un giardino che, diversamente dai tanti luoghi raccontati da Bassani, a Ferrara non c’è. Karavan, fin da quei tempi, immaginava di realizzare ‘il giardino che non c’è’ ma che tutti cercano, in un modo fisicamente individuabile ma che esprimesse anche il concetto del luogo letterario. Quando mio padre morì, io chiamai Karavan per comunicargli la triste notizia e lui mi disse: «Con tuo padre avevamo sognato tanti sogni, almeno uno di questi deve diventare realtà.» A quel punto non ho fatto altro che ricostruire il filo tra Dani Karavan e Italia Nostra per cercare di realizzare quel sogno.”
Anna Maria Quarzi, vicepresidente di Italia Nostra, racconta un breve aneddoto: “Ero da Paolo Ravenna, un pomeriggio, lui aveva appena parlato al telefono con Karavan, mi mostrò un catalogo delle sue installazioni e mi disse che avevano un sogno, creare ‘il giardino che non c’è’ a Ferrara.”

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“Site specific”, catalogo delle opere di Dani Karavan, a cura di G.Gori, Gli ori ed., 2008

Per dare qualche suggestione rispetto all’artista, Malacarne ricorda due opere di Karavan che Paolo Ravenna amava particolarmente: “Passages”, memoriale dedicato a Walter Benjamin, che si trova nella località catalana di Port Bou, nel luogo in cui lo scrittore avrebbe dovuto salpare per la salvezza ma in cui si consumò invece la tragedia; e una delle ultime opere dell’artista, ossia il Memoriale a ricordo del sacrificio delle vittime del socialismo di Sinti e Rom, che si trova a Berlino, realizzato nel 2012 e che ebbe grande risalto sulla stampa.
“Ci auguriamo che la proposta di Karavan e Ravenna, che Italia Nostra sposa e promuove”, conclude Malacarne, “venga recepita positivamente e sostenuta dalla città nel suo complesso.”

IL FATTO
Ztl, più di cento veicoli in un’ora attraversano corso Martiri

(Pubblicato il 19 gennaio 2015)

Oltre cento veicoli in transito lungo la centralissima corso Martiri. Questa mattina, fra le 11,30 e le 12,30, abbiamo rilevato il traffico motorizzato sul principale asse del centro storico. Nel salotto monumentale della città sono passati 15 taxi, 14 autobus, 23 furgoncini e camion adibiti a trasporto merce e servizi vari , 54 vetture private.
Quando siamo arrivati in zona e abbiamo percorso la via fra il teatro Comunale e la torre dell’orologio c’erano in sosta sei automobili con il contrassegno in vista sui parabrezza; qualcuna se n’è andata dopo qualche minuto, ma altre hanno preso il loro posto e, in media, il numero delle vetture parcheggiate non è diminuito. Nella piccola piazza Savonarola invece c’era la solita invasione: al nostro arrivo i taxi erano stranamente solo quattro, ma la media si è presto elevata a nove,. Inoltre, accanto hanno stazionano tre o quattro auto private addossate ai basamenti dei voltini e alla statua del predicatore ribelle.

I dati rilevati oggi confermano quelli di una nostra precedente indagine, condotta qualche mese fa e rimasta inedita. Allora i mezzi motorizzati risultarono un po’ di più, circa 120. Una cifra che corrisponde a quella riscontrato stamattina nella prima mezz’ora, fra le 11,30 e mezzogiorno, con 59 passaggi. Mentre dopo le 12 l’appetito evidentemente si è fatto sentire, sicché nei trenta minuti successivi lo scorrazzo si è ridotto a 47 transiti, il 20% in meno.
Nel complesso un notevole contributo lo ha dato la curia, dalla quale sono entrate e uscite una ventina di auto, parecchie di grossa cilindrata, quelle che non piacciono a papa Francesco…

Non sono pochi cento veicoli che solcano il cuore della città, il corso sul quale si affacciano il castello e il palazzo comunale, il duomo e il teatro… La zona, tecnicamente, è definita a traffico limitato, ma sono molti i sostenitori della pedonalizzazione integrale. Ad oggi la realtà dei fatti è tutt’altra.
Mario Zamorani, storico leader dei Radicali, incuriosito dalla nostra presenza, ci vede e ci viene incontro. Appresa la ragione del nostro armamentare con taccuino e macchina fotografica, benedice l’iniziativa e preannuncia per la primavera nuove iniziative volte appunto a ridurre o eliminare integralmente il traffico veicolare.
Da lì a poco incrociamo Ulderico Baglietti, allenatore e storico riferimento della pallavolo ferrarese. Lui è di opinione diversa. Sostiene che in fondo pedoni, ciclisti e automobilisti in quest’area riescono a convivere civilmente e senza che i veicoli creino pericoli. Richiama le esigenze dei commercianti, la necessità di artigiani e manutentori di poter lavorare e prestare i loro servizi, i diritti alla mobilità di anziani e persone disabili. Insomma, dice, la situazione è tollerabile.
Dulcis in fundo adocchiamo una giovane e cortese vigilessa che cammina con la bici a mano. Ma tutte queste auto in sosta ormai da un’ora – domandiamo – possono stare? Sì, replica, se hanno il permesso non ci sono limiti temporali. Il che – osserviamo – fa ben intendere che nei regolamenti c’è più di un aspetto da rivedere. E i rischi? Dal punto di vista dei pericoli – sorride – più che le auto sono da temere le bici, i più indisciplinati sono i ciclisti. Però, conclude, anch’io penso che in una strada come questa le auto non dovrebbero proprio passare…

OGGI ALLE 17 APPUNTAMENTO IN BIBLIOTECA  ARIOSTEA CON FERRARAITALIA: PARLEREMO ANCHE DI ZTL E TUTELA DELL’AREA MONUMENTALE [vedi]

LA PROPOSTA
Agenda online, eventi di strada e archivi digitali: idee per una città che crea conoscenza

(Pubblicato il 6 gennaio 2016)

Mappare, informare, mostrare, conservare: ecco una serie di appunti pratici di cose da fare per una città pervasa di stimoli, in grado di generare conoscenza. Scopo: passare da un modello astratto, idealtipico, a un luogo reale, da vivere subito, concretamente. La nostra città, Ferrara, arricchita in poche mosse.

Primo punto: far sapere. Questo è il vero problema, non certo la mancanza di offerta. Eppure si sente dire spesso – a sproposito – che a Ferrara non capita mai niente. Vero magari in ambito imprenditoriale. Ma nulla di più falso se si parla di cultura. A Ferrara si svolge una quantità impressionante di eventi e di iniziative, ogni giorno ci sono occasioni interessanti di incontro e confronto. Pensiamo non solo ai festival o agli appuntamenti ricorrenti, ma a dibattiti, mostre, concerti, proiezioni; ai trecento e passa incontri che si tengono ogni anno in biblioteca e alle quotidiane iniziative organizzate da istituzioni pubbliche e associazioni private. Tanto per dire: nei due weekend compresi fra la fine di settembre e l’inizio di ottobre in città si sono svolti Unifestival, il Premio Estense, la rassegna di Music Emergency, le conferenze dell’istituto Gramsci sulla democrazia, la mostra sulla Videoarte ai Diamanti, la rassegna gastronomica “L’Europa a Ferrara” e il Ferrara tango festival all’acquedotto, il concerto per Federico Aldrovandi, gli eventi “Iperurbs” di Wunderkammer legati alla valorizzazione del Volano, la mostra “Muse, donne in bicicletta”… E qualcosa certamente dimentichiamo. Ma è solo un esempio.

Il fatto è che spesso le cose non si sanno, forse perché è carente o inappropriata l’informazione e non c’è una corretta e capillare promozione degli eventi. Eppure i giornali e la tv la loro parte la fanno. Listone magazine pubblica persino una comoda agenda degli appuntamenti, gli organizzatori in genere diffondono newsletter a soci e simpatizzanti, ma evidentemente non basta. Perché sono in tanti a lamentarsi che non c’è niente. Salvo poi scoprire in ritardo (e magari rammaricarsi) di avere perso questo o quell’appuntamento.

Ferraraitalia è promotrice di un manifesto-appello per ‘Ferrara città della conoscenza’ che ha già raccolto oltre 140 adesioni [leggi]. Il presupposto è che tutta la vita è apprendimento, l’obiettivo è che la città fondi la propria crescita sul sapere e per questo ne favorisce la ricerca, la creazione, la condivisione, la valutazione, il rinnovo e l’aggiornamento continuo. Di questi temi si è recentemente discusso anche all’interessante ‘world caffè’ organizzato alla Città del ragazzo.

Un buon primo passo sarebbe quello di far conoscere da subito ciò che già si fa, informando capillarmente per favorire la partecipazione. Servirebbe dunque una banca dati condivisa che potesse fungere da luogo di raccolta e distribuzione delle informazioni, in cui ciascun soggetto inserisse i propri eventi e al quale ciascun cittadino potesse accedere: un’agenda digitale online consultabile attraverso il web da qualunque postazione pubblica o privata, attraverso varie chiavi di interrogazione (tema, data, luogo, relatori, organizzatori…). Ci provò una decina d’anni fa la Camera di commercio a mettere in piedi una cosa del genere, ma i tempi probabilmente non erano maturi. Oggi lo sono.

A monte, per quanto possibile, sarebbe opportuno coordinare le attività onde evitare o limitare le sovrapposizioni. In questo senso l’agenda digitale agevolerebbe anche gli organizzatori che, consultandola preventivamente, avrebbero l’opportunità di stabilire giorni e orari in considerazione di quanto già programmato e inserito in banca dati.
Mentre per divulgare l’informazione, oltre a utilizzare i canali pc, tablet, smartphone, auspicabile sarebbe l’uso di tabelloni elettronici connessi alla rete e dislocati in vari punti della città, non solo del centro ma anche dei quartieri esterni e dei principali accessi urbani.

Utile risulterebbe anche una newsletter destinata agli utenti iscritti all’ipotizzato servizio di agenda digitale. Al riguardo, detto per inciso, è incomprensibile che le pubbliche amministrazioni ancora non provvedano ad acquisire un’anagrafe digitale che, accanto ai principali dati sensibili di ciascun cittadino residente (nome e indirizzo), includa anche il recapito mail per la trasmissione di informazioni e documenti digitali.
Nel nostro caso un database del genere sarebbe utilissimo (passo preliminare) per realizzare un censimento dei bisogni formativo-culturali, tracciare una mappatura degli utenti dei servizi, favorire l’aggregazione di comunità web, promuovere forum e confronti tematici, agevolare lo scambio di esperienze, ricevere feedback e richieste, focalizzare tematiche e problemi da approfondire sulla base degli interessi espressi, anche per fornire ad a enti e associazioni elementi di orientamento delle loro attività.

Secondo punto: far vedere. Si può immaginare uno sforzo ulteriore: non solo far sapere, ma mostrare. Ecco, allora, un impegno mirato a ‘portar fuori’ gli eventi, farli uscire dai luoghi chiusi e sfruttare le piazze, i giardini, i parchi pubblici, ossia i luoghi dove le persone si muovono, affinché possano ‘inciampare nel sapere’, trovarlo anche senza cercarlo, imbattercisi anche senza una precisa intenzione. Replicare cioè quel meccanismo trascinante tipico dei festival, quando le città sono invase dalla cultura e dagli spettacoli.

Quello atmosferico è un problema superabile. Parlando della nostra città, si può osservare come Ferrara sia ricca di portici e di luoghi coperti contigui alle piazze, che potrebbero fungere da riparo in caso di condizioni avverse. Qualche esempio? La galleria Matteotti e il portico di San Crispino accanto al Listone. E, sempre nei paraggi, i portici di via Gobetti, tristi a causa dei negozi ormai quasi tutti chiusi: rianimarli non sarebbe male… In fondo a San Romano c’è il chiostro della chiesa sconsacrata che ospita il museo della cattedrale. Sul fronte di Porta Reno la chiesa di San Paolo di portici ne ha due, accessibili da piazzetta Schiatti e dallo sterrato attualmente inutilizzato sotto la torre dei Leuti, all’angolo con via Capo della Volte. E anche davanti alla banca c’è un ampio loggiato.
Ma c’è un piccolo portico anche nella piazza del Municipio e un altro accanto a piazzetta Sant’Anna. E poi ce n’è uno lungo e suggestivo in piazza Ariostea, quello delle suore Stimmatine. E poi in piazza Savonarola e dai giardini del castello. L’elenco potrebbe continuare ed estendersi alla periferia. Questo per dire che immaginare di organizzare eventi all’aperto non è assurdo perché molti spazi sono riparati o vicini a luoghi pubblici coperti, come appunti portici e loggiati.
Fare ‘cultura in piazza’ con continuità per tutto il tempo dell’anno, oltre a garantire visibilità immediata offrirebbe una forte e trascinante sensazione di fervore, di laboratorio sempre attivo, di città che pulsa sapere e conoscenza. Appunto.

Terzo passo: conservare. Infine sarebbe necessario serbare memoria. A vantaggio di chi è interessato ma non ha la possibilità di esserci e magari di chi vuole rivedere e riascoltare, offrire l’opportunità di recuperare i materiali in forma audiovisiva, creando archivi multimediali e banche dati accessibili online che consentano di rivedere e ascoltare. In questo modo si garantisce l’opportunità di un ‘accesso differito’ e si salvaguarda la documentazione di ciò che si è fatto.. Trattenere in un archivio multimediale – accessibile gratuitamente a tutti – reperti audio e video di eventi, incontri, conferenze è un dovere civile.
Non si deve pensare a grandi costi per un’operazione del genere. Tecnicamente la realizzazione non comporta oneri significativi. E prevedibilmente gli organizzatori e gli stessi utenti volentieri potrebbero collaborare, conferendo i loro filmati, le loro immagini fotografiche, le loro registrazioni digitali. Servirebbe principalmente un lavoro di coordinamento e di razionalizzazione. Ma in questo modo si preserverebbe e si renderebbe fruibile nell’interesse di tutti (e senza barriere spazio-temporali) un grande patrimonio che ora va colpevolmente disperso.

Una ‘città della conoscenza’ è ben più delle cose elencate e realizza un progetto per certi versi rivoluzionario. Ma mentre si ragiona dei suoi connotati e si definiscono le linee teoriche di sviluppo è bene anche cominciare concretamente a declinare in azione l’intenzione, traducendo i presupposti astratti in piccole ma significative esperienze.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
A scuola con le emozioni

(pubblicato il 24 maggio 2016)

Nella nostra cultura ragione e sentimento hanno divorziato perlomeno dai tempi di Cartesio e del suo Discorso sul metodo. Ora, pare che questo divorzio non si avesse da fare.
Ce lo dicono le ricerche più recenti nel campo delle neuroscienze, che dai neuroni specchio in poi hanno dichiarato guerra a tutti i nostri pseudoconcetti.
Se vogliamo imparare ad apprendere, innamorarci del piacere di studiare abbiamo bisogno delle emozioni. Se gli apprendimenti non si attaccano alle emozioni come a una sorta di attaccapanni, non siamo poi in grado né di ricordare né di far uso di quello che erroneamente pensavamo di aver imparato.
Che le emozioni incidessero sulla strada dei nostri saperi, ne avevamo sempre nutrito il sospetto. Ora le neuroscienze sono in grado di dimostrarlo.
“La gente pensa che le emozioni portino fuori strada, ma non è così. L’emozione dirige il nostro pensiero. È il timone che orienta la nostra mente e organizza quello che dobbiamo fare”, sostiene Mary Helen Immordino-Yang, professore associato di pedagogia, psicologia e neuroscienze all’Università di Southern in California, autrice del libro “Emotions, Learning, and the Brain”.
Immordino-Yang e i suoi colleghi dell’USC’s Brain Creativity Institute hanno scoperto che gli studenti impegnati in un compito imparano nuove regole, come per esempio il modo più efficace per rispondere a un problema di matematica o la migliore strategia da scegliere in un gioco di carte, fornendo risposte emotive ancor prima di essere consapevoli delle regole o di essere in grado di applicarle. Queste risposte emotive del pensiero provengono da una sensazione, dall’impressione d’aver trovato la strada giusta. E questo è il primo segno di apprendimento, quando si è impegnati nella soluzione di un compito.
L’esperienza di Immordino-Yang nasce da vent’anni di ricerche in laboratorio con pazienti affetti da diversi tipi di danni cerebrali, che hanno però preservato le abilità dell’area cognitiva, sebbene totalmente incapaci di gestire la loro vita quotidiana. Gli studi che ne sono derivati dimostrano che le persone con un particolare tipo di danno al cervello, a quella parte che connette emozioni e strategie cognitive, non apprendono dal fallimento e continuano a scegliere condotte inadeguate a risolvere un problema, anche se consciamente “conoscono” le regole. Questo succede perché il pensiero che non si accompagna alle emozioni non ci rende in grado di ricordare.
Nel contesto di una classe significa che se emozione e apprendimento non si incontrano sarà sempre più difficile ricordare e applicare. La capacità di provare emozioni per qualcosa è una competenza.
Dobbiamo insegnare ai bambini che l’emozione, l’appassionarsi per qualcosa non sono limiti, ma promesse. È in questo modo che può nascere l’interesse anche per ciò che inizialmente può presentarsi privo di interesse.
Queste ricerche aiutano a provare anche l’effetto negativo di emozioni come l’ansia, la paura, la noia. Funzionano come feedback, fin dalle elementari, incidendo sull’impegno e sul rendimento, in definitiva sul destino scolastico di ciascuno.
Il modello emotivo diviene sempre più negativo nel corso degli anni di scuola, il piacere decresce, l’ansia da prova e la noia aumentano, innescando la spirale del fallimento scolastico. Uno studente in ansia durante la lezione di matematica in seconda classe alla fine dell’anno otterrà risultati più bassi. Sarà quindi ancora più ansioso al terzo, accrescendo il rischio di prestazioni in matematica ancora più basse e così via attraverso l’intero arco della scuola elementare. Anche la noia produce un ciclo negativo, mentre gratificazioni precoci in matematica innescano un ciclo di feedback positivi.
I ricercatori dell’Università Ludwig Maximillian di Monaco di Baviera hanno scoperto che le emozioni negative degli studenti, come rabbia, ansia e disperazione, sono contagiose, nel corso del tempo si trasmettono anche ai loro amici. Lo stesso però non accade per le emozioni positive come la soddisfazione e l’orgoglio.
Il piacere di apprendere è, dunque, qualcosa che ogni studente costruisce nel corso del tempo e suggerisce la necessità che la scuola prenda in seria considerazione le emozioni dei suoi alunni, in modo che a scuola ognuno ci stia bene fin da subito.
Immordino-Yang raccomanda agli insegnanti tre strategie per migliorare l’influenza emotiva sull’apprendimento: rendere significativo l’apprendimento nutrendolo di emozioni; incoraggiare gli studenti a usare le loro intuizioni nell’apprendere e nel risolvere problemi; creare un clima non solo aperto all’errore, ma di autentica fiducia e di reale rispetto.
Il messaggio delle neuroscienze è chiaro: non è più possibile pensare all’apprendimento come scisso dalle emozioni, il successo di ciascun studente non è responsabilità esclusiva del singolo, ma investe il clima e le strategie d’aula. Studenti e insegnanti interagiscono socialmente, imparano gli uni dagli altri in modi che i soli ‘freddi’ saperi scolastici non sono in grado di spiegare. Come altre forme di apprendimento e d’interazione, anche a scuola emozione e intelligenza si devono integrare nel contesto sociale della classe. Gli apprendimenti della scuola, per essere tali, è necessario che siano ‘caldi’, non ‘freddi’, non gelidi come la routine dell’attenzione e dell’ascolto senza emozione.
Piuttosto che diffidare delle emozioni, gli insegnanti possono usare questa prospettiva offerta dalle neuroscienze per promuovere un clima emotivo nella classe, in grado di saper cogliere i sottili segnali delle emozioni. Se gli studenti apprendono a riconoscerli ed a raffinarli, allora i loro saperi diverranno sempre più rilevanti e significativi, in definitiva sempre più generalizzabili e utilizzabili nella vita quotidiana.

L’INCHIESTA
Partiti & partecipazione,
il deserto della politica

(pubblicato il 17 settembre 2014)

Il dato campeggia in bella evidenza sulla home page del sito ufficiale. Eppure molti dei vecchi dirigenti di partito ai quali ci siamo rivolti stentano a credere che gli iscritti al Pd nella provincia di Ferrara siano solo 1.349. Il responsabile organizzativo, Luigi Vitellio, da noi interpellato, precisa però che l’indicazione, riferita al 6 giugno, non è più attuale. “Ad oggi i tesserati sono 2.007 in tutta la provincia – riferisce – dei quali 1.022 in città”.
Il vecchio senatore Rubbi, segretario e confidente di Enrico Berlinguer ai tempi del Pci, a capo della federazione di Ferrara prima dell’approdo romano, sbotta incredulo: “Sembra impossibile, sono davvero pochi, negli anni Sessanta siamo arrivati a 46mila…”. Altri tempi, onorevole, la realtà, ora è questa. Però, il fatto che il principale partito cittadino, quello che da sempre (pur attraverso varie mutazioni genetiche) ha governato il capoluogo e buona parte dei Comuni del territorio, conti un numero così esiguo di tesserati, non solo fa impressione, ma riporta la riflessione al tema della rappresentanza e della partecipazione. Questioni dietro le quali stanno tutti gli irrisolti nodi concettuali, ma anche concreti, connessi all’esercizio della democrazia e al dispiegamento di un sistema di governo che ne realizzi i principi. “Il Partito comunista – ricorda Antonio Rubbi – si è mantenuto su numeri importanti, superiori ai trentamila iscritti (37mila nel 1975, ndr), e li ha conservati fino agli anni Ottanta. E’ dagli anni Novanta che si ha un calo davvero significativo”. Ma quello che a Rubbi appare un crollo lascia comunque in dote al partito oltre 20mila militanti iscritti.
“A metà degli anni Ottanta – racconta Giorgio Bottoni, che fu responsabile organizzativo e poi amministratore – avevamo un bilancio di quattro miliardi di lire, senza un centesimo di finanziamento pubblico. Anzi, eravamo noi che portavamo soldi a Roma: 400 milioni, il dieci per cento di quanto raccoglievamo da sottoscrizioni, tesseramento e feste dell’Unità”.

Tornando invece ai ‘sorprendenti’ numeri di oggi, in termini percentuali i tesserati del Pd rappresentano circa lo 0,6% della popolazione a livello provinciale e lo 0,8% se puntiamo lo sguardo sulla città. Nulla. Significa che appena un cittadino su 130 milita nel partito di governo, che equivale a dire otto ogni mille abitanti. Il trend – conferma Vitellio – è grossomodo questo dal 2008, anno di nascita del Pd. Eppure il Partito Democratico alle ultime elezioni ha ottenuto oltre 34mila voti. Un consenso dietro al quale, però, evidentemente non matura lo slancio per un’attività militanza, per un impegno personale e diretto.
“Lo scorso anno in realtà gli iscritti sono stati 5.849”, precisa Vitellio. Una differenza così significativa, quasi il triplo di quelli attuali, non si giustifica però con il fatto che il tesseramento 2014 non è concluso e resterà aperto sino al 31 dicembre: “Lo scorso anno abbiamo avuto il congresso e le primarie – spiega il responsabile dell’organizzazione – sono i momenti in cui la gente si attiva. Anche ora andiamo verso le primarie, quindi speriamo che il dato migliori”. Anche questo fa riflettere circa presupposti e motivazioni individuali.

Il secondo partito ferrarese per livello di consenso elettorale è Forza Italia. Il “club” ferrarese non ha un sito ufficiale, ma solo una pagina Facebook che conta 94 (!) “mi piace”. Il numero degli iscritti dell’anno in corso qui non è pubblicizzato. Il coordinatore provinciale è Luca Cimarelli, già esponente di Alleanza nazionale. E’ stato nominato reggente dal coordinatore regionale, il senatore Massimo Palmizio, al momento della rinascita di Forza Italia dalle ceneri del Pdl. Resterà in carica almeno sino ai primi mesi del 2015: a gennaio è previsto il congresso comunale che nominerà i delegati al congresso provinciale e quindi i nuovi vertici. Cimarelli confessa di non sapere neppure lui quanti siano gli iscritti. “Per la privacy da Roma non ci dicono nemmeno i nomi – ammette -. Nel 2011 il Pdl ne aveva circa duemila, ora gestiscono tutto dalla capitale e noi non abbiamo gli elenchi”.
Ci rivolgiamo allora a Palmizio. Il quale, per prima cosa, segnala che il tesseramento chiude il 31 di ottobre (salvo probabile proroga) e fino ad allora le cifre non verranno divulgate. “L’obiettivo per Ferrara è confermare il dato del Pdl, duemila tesserati”. In risposta alla nostra insistenza dice: “Al rilevamento di giugno eravamo circa alla metà”. Cioè un migliaio: il che sarebbe clamoroso. Significherebbe che, nella corsa al ribasso, fra Pd e Forza Italia, il numero di aderenti alla medesima data variava appena di tre-quattrocento unità. Palmizio però mette la mani avanti. “Ora l’iscrizione costa 30 euro, non più i 10 di prima. Di questi tempi pesa… Ma – aggiunge – chi si iscrive ora, a gennaio contribuirà alla nomina del nuovo gruppo dirigente, lo stimolo quindi c’è”. Ecco il refrain già sentito. Dice anche che nei prossimi giorni ci sarà un incontro sul tesseramento “con il presidente Berlusconi”. E che mai vi dirà?, chiediamo. “Di fare più tessere!”, scherza il senatore. Però poi, seriamente, soggiunge che c’è in discussione anche una sua proposta di tessera famiglia, una sorta di prendi ‘tre paghi due’, per quel che capiamo, secondo un approccio mercantile non lontano dalla mentalità del leader supremo.
Insomma, anche in politica ormai si afferma una logica di marketing da supermercato.

1. CONTINUA

Fedeli alla linea

(pubblicato il 17 giugno 2014)

Come narrano antiche leggende di un mondo che fu, c’era una volta un orribile mostro che senza pietà soffocava il libero confronto delle idee nel più grande partito della sinistra italiana. Si chiamava “centralismo democratico” ed era così spaventoso e temuto che il solo evocarlo quasi sempre convinceva al silenzio chiunque, dalle assemblee delle più sperdute sezioni alle riunioni del comitato centrale, azzardasse di voler reiterare una critica, perché semmai di qualcosa non era proprio del tutto convinto, o di proporre un approccio ad un problema che non fosse fra quelli prescelti. Se poi si trattava di esprimere una posizione in pubblico, dall’intervista al giornale di provincia all’intervento in Parlamento, il timore era tale che nessuno si azzardava a dire nulla di più di quanto recitasse “la linea”, di cui l’orribile belva era poi lo spietato custode. Fra il popolo, la mitica “base”, la creatura aveva nomi diversi e più suggestivi, soprattutto fra i suoi adoratori. C’era chi lo invocava come “Disciplina di Partito” ed anche, i più mistici, come “Fedeltà alla Linea”. Ogni tanto, raramente in verità, il mostro mordeva e qualcuno spariva di colpo, per subito riapparire, all’inizio un po’ frastornato, su una qualche isoletta di quel grande e mutevole arcipelago che si chiama sinistra.
Da allora tanto tempo è passato, il mostro è sparito ed i suoi adoratori dispersi; come sempre succede in questi casi, c’è chi lo rimpiange e chi nega di averlo mai servito. Chi allora non c’era e lo conosce per i racconti dei vecchi tipicamente lo aborre, come retaggio di un mondo passato e diverso, fatto di miti potenti e di certezze assolute.
La povera bestia non era in realtà del tutto cattiva; come si dice, seguiva il suo istinto. Che altro non era che di tenere e di far apparire unito il partito. Il problema semmai era “la linea”, una specie di blob gigantesco che conteneva le risposte a tutti i problemi del mondo e di cui solo pochissimi esperti esegeti conoscevano l’articolazione arcana e le mille astuzie dialettiche che la tenevano assieme. Se ci si pensa un attimo, il vero mostro era questo. Sia per il voler raccontare una visione del mondo per forza unitaria, sia per la sua genesi in realtà misteriosa, sia anche per l’arrivare in periferia non già tutta intera, ma come precotta e divisa in comodi bocconi già pronti.
Poi se n’è andata, anche lei rifugiata su qualcuna delle isole, senza che però nessuno l’abbia mai troppo rimpianta. Meglio così.
Supponiamo invece di avere adesso, nel senso di oggi, un partito ed una grande questione, non l’universo, ma un cosa realmente importante come, per esempio, riformare il lavoro, la scuola o la costituzione. Se si discutono a fondo le diverse posizioni che liberamente si confrontano, coinvolgendo e ascoltando quanta più gente possibile ed alla fine non ci si trova tutti d’accordo su nessuna di queste, che cosa bisogna fare? Non ci sono molte alternative. O si decide di aspettare e di continuare a discutere finché, in un qualche modo si trovi una posizione che accontenti tutti, oppure si vota sulle diverse opzioni per verificare quale sia quella che riscuote il maggior gradimento. Spesso, negli ultimi anni, si è preferito continuare a discutere, tant’è che per molte questioni stiamo ancora aspettando che la magia si compia. Se avessimo davanti tutto il tempo del mondo e non ci fossero invece questioni che richiedono interventi urgenti sarebbe forse poco male; in fondo in Italia talmente tanti anni che si discute su come cambiare le tante cose che non vanno, che aspettare ancora non pare a molti una cosa poi grave. Ma, come spero sia evidente a tutti, non siamo in queste condizioni.
Non rimane quindi che l’altra opzione, ovvero decidere a maggioranza quale sia la scelta che il partito decide di fare propria. E qui, inevitabilmente, torna in ballo l’antico mostro, perché se un partito decide a maggioranza di assumere una determinata posizione su un problema specifico, dopo, come si dice, ampio ed articolato dibattito, dando a tutti la possibilità di parlare e decidendo sulla base di regole democratiche da tutti condivise, quella scelta deve essere vincolante anche per chi la pensava diversamente. Non per dire che deve cambiare idea ed abiurare alle proprie convinzioni, ma che dovrebbe essere impegnato, se non a sostenere a spada tratta la posizione decisa a maggioranza, almeno a non ostacolarla, se è nelle condizioni di poterlo fare, nel suo percorso istituzionale. Vogliamo chiamare anche questa semplice regola di democrazia “centralismo democratico”? Personalmente non direi, se non altro perché il contesto rispetto ai tempi che furono è troppo diverso; se qualcuno però vuole farlo o per nostalgia o per spregio faccia pure: come ho già detto quel “mostro” non era in realtà così cattivo. Però spieghi oltre al suo sdegno come secondo lui dovrebbe funzionare un partito che non sia un monolite in cui tutti e sempre la pensano allo stesso modo. Possibilmente considerando con ugual onestà intellettuale sia il caso in cui siano le sue idee ad essere maggioranza sia quello in cui invece siano quelle altrui. Sembra infatti, a sentire qualcuno, che realmente “democratiche” siano alla fine solo le decisioni che accolgono i suoi punti di vista.

masaccio

Italia corrotta, il cattivo esempio da politici e vip senza vergogna

(pubblicato il 26 febbraio 2014)

Il termine vergogna viene dal latino ‘vereri’: provare un sentimento di timore religioso o di rispetto. La vergogna è rappresentata nella pittura con il gesto del nascondimento. L’immagine classica è quella di Adamo che si copre con le mani il viso, mentre è cacciato dal Paradiso assieme a Eva: la troviamo nella Cappella Brancacci a Firenze dipinta dal Masaccio.
Insomma chi prova questo stato emotivo abbassa gli occhi, cerca di sfuggire il contatto, si nasconde. Un passaggio ulteriore del discorso sulla vergogna è registrarne il carattere di emozione fortemente sociale e relazionale. E la conseguenza più lacerante di questo stato d’animo è la perdita di autostima, perché entra in crisi la propria immagine davanti agli altri.
Se queste considerazioni sono fondate, la presenza o l’assenza di vergogna rappresenta un fattore cruciale per comprendere la qualità dell’ethos pubblico di una società. Senza moralismi e piagnistei proviamo a chiederci perché in Italia da alcuni decenni l’uomo pubblico (politico, imprenditore, manager, calciatore, attore…) non prova vergogna se colto in flagrante come responsabile di reati gravi quali la corruzione e l’evasione fiscale. Evidentemente, non scatta una adeguata reazione sociale di respingimento e condanna perché la società è disposta a transigere e a ‘comprendere-giustificare’.
Perché? Ecco la domanda che ci facciamo in tanti. Sarebbe necessario un lavoro di ricerca interdisciplinare (storia, antropologia, psicologia sociale) per andare in profondità nell’individuare le cause di una vera e propria anestetizzazione dell’opinione pubblica rispetto a questi mali.
Niente più ci scuote. Il rapporto della Commissione europea che ci attribuisce il 50% della corruzione nei paesi dell’Unione, invece di farci vergognare e costringere il governo e il Parlamento a mettere in cima all’agenda politica tale emergenza, è stato rapidamente archiviato dalla classe politica e accolto con indifferenza dall’opinione pubblica. Eppure i connubi a cui rinvia l’evocazione di questo cancro vanno al cuore del funzionamento delle Istituzioni, della società e del mercato: politica e affari, politica e criminalità, affari-politica-imprese-pubblica amministrazione. Altro che moralismo! E’ centrale questione politica che attiene alla credibilità del nostro Paese in Europa e nel mondo.
Perché nessun partito politico fa sua questa emergenza? Gli annunci di rivoluzione (anche dell’attuale governo Renzi) riguardano tutti i campi, dal mercato del lavoro alla burocrazia, ma nessuno propone leggi severe contro i corrotti e i corruttori! Nel tempo dei sondaggi e del ‘mercato politico’ è logico pensare che se portasse consenso lo farebbero.
Allora sorgono spontanee alcune domande inquietanti. E’ perché il proprio elettorato di riferimento non sarebbe d’accordo? E’ perché il tema è minoritario fra l’opinione pubblica? E’ perché la corruzione è ormai parte del normale funzionamento della vita produttiva, politica e amministrativa? E’ perché si è smarrita la differenza tra ciò che è dovuto come diritto e ciò che è frutto di atti contro il rispetto delle regole e della legalità? E’ perché la rete degli scambi irregolari si è fatta talmente molecolare e capillare da costituire la base su cui si regge l’equilibrio del sistema? E’ perché il lavoro in nero, l’illegalità, l’evasione fiscale sono ormai fenomeni di massa non sradicabili? Ovviamente queste domande scomode sono retoriche, perché la mia risposta è sì a ciascuna di esse. Ogni ‘grande’ male (e la corruzione lo è…) per poter diventare tale deve contare su una larga complicità e connivenza. Senza individuare questo ‘basso continuo’ si corre il rischio di guardare il problema da lontano, come se fosse estraneo a noi e alle nostre cattive pratiche. Questa pista di ricerca non è certo consolatoria, ma ci aiuta a capire perché da Tangentopoli ad oggi la corruzione è aumentata e non diminuita.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

I bambini felici hanno ricordi felici

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I bambini felici hanno ricordi felici, tutti noi lo sappiamo. Chi ha giocato per strada anche solo con due biglie e quattro palline ma con amichetti vocianti e libero di pensare solo al piacere di vincere una gara o al gelato dopo i compiti, ricorda l’infanzia come uno dei momenti più belli della sua esistenza. Se poi alla sbucciatura delle ginocchia seguiva il bacio di mamma o la crema pasticcera della nonna, il ricordo è ancora più intenso e commovente. Tutti i bambini hanno diritto a giocare, a leggere e correre per le strade o i parchi, nessuno deve dover lottare con gli orari e i sacrifici di un lavoro non richiesto e richiedibile alla sua età o gli sforzi nel contribuire a un bilancio familiare che non possono essere i suoi.

Ecco allora che Mani Tese, dal 10 al 12 giugno, porta in 14 piazze italiane e in alcuni punti Coop la campagna “I EXIST” (vedi) contro le schiavitù moderne, con l’iniziativa “I bambini felici hanno ricordi felici”. Domenica 12 giugno, giornata mondiale contro il lavoro minorile, ci saremo tutti anche a Ferrara, in Piazza Trento Trieste. Una vera mobilitazione di piazza per dire di no agli schiavi moderni. “I EXIST”, quasi un urlo “ci sono anche io!”, è una campagna volta a rendere visibile un fenomeno attuale troppo spesso ignorato. La schiavitù è frutto della povertà e genera povertà. Mani Tese vuole costruire una mobilitazione globale e diffondere consapevolezza sul fenomeno delle schiavitù moderne attraverso progetti di cooperazione internazionale, iniziative di sensibilizzazione, educazione alla cittadinanza mondiale e attivazione della società civile. Un’ingiustizia sommersa cui ribellarsi, una ferita profonda di un mondo civilizzato che tale non si dimostra quando tollera situazioni di tale genere.

Con questa iniziativa i passanti saranno invitati dai volontari di Mani Tese a scrivere in poche righe, sul tondo staccabile di un flyer, un ricordo felice della loro infanzia (un momento preciso ma anche una sensazione, un gusto, l’ultimo giorno di scuola, le vacanze, gli amici, le prime infatuazioni …). Una volta scritto, dovranno staccare il proprio ricordo e attaccarlo su un pannello, sovrapponendolo a quello tutt’altro che sereno di un bambino/a vittima di sfruttamento di lavoro minorile. L’intento è di far prendere consapevolezza del fenomeno, attraverso la lettura di un ricordo triste dei bambini lavoratori, invitando le persone ad attivarsi sostenendo la Campagna “I EXIST”, di Mani Tese attraverso il gesto simbolico di cambiare i ricordi tristi sostituendoli con immagini positive. Il risultato finale sarà la creazione di un’immagine unica (il volto di un bimbo sorridente) formata da tanti ricordi felici, che andranno a coprire i tristi racconti dei piccoli schiavi.

L’evento si terrà contemporaneamente a Bologna, Bulciago, Catania, Faenza, Lecco, Milano, Padova, Trivero (BI), Salerno, Cagliari, Ferrara e nel fine settimana successivo a Firenze e Pratrivero (BI). Si può partecipare attivamente alla mobilitazione dell’11 e 12 giugno come volontari presenziando ai banchetti di Mani Tese comunicando la propria disponibilità online su Mani Tese

Bike Night, migliaia di persone in bici di notte lungo le più belle piste ciclabili d’italia

da: organizzatori

Bike Night è un’esperienza in bici che unisce la notte, la passione e le persone. L’idea è semplice. Si parte a mezzanotte, dal centro di una città, per raggiungere dopo 100km (circa) la natura, pedalando su piste ciclabili: che si tratti del mare, del lago o della montagna, comunque luoghi distanti dal centro urbano da dove si è partiti. Perché Bike Night vuole dimostrare che in bici è possibile raggiungere posti cui di solito non crediamo, vogliamo o ci immaginiamo in grado di arrivare. Nel 2016, giunti alla terza edizione, Bike Night arriverà in cinque città: Ferrara, Bolzano, Udine, Verona e Milano.

La prima edizione a Ferrara, nel 2014, registrò quasi 200 partecipanti. Nel 2015 a giugno in piazza Ariostea sono partiti 800 ciclisti verso il mare. A luglio, si è tenuta anche la prima Bike Night sulle Alpi, da Bolzano al Lago di Resia, con 130 iscritti. Scenari diversi per lo stesso tipo di esperienza: un fiume di ciclisti che accende le notti d’estate. Per la terza edizione, la passione per la bici di notte aumenta ancora: la prima tappa a Ferrara, sabato 18 giugno, conta già 1300 iscritti. E l’attesa cresce anche per tutte le altre tappe.

Non conta il cronometro, non c’è ordine di arrivo: è un evento che racchiude elementi quasi primordiali che portano a salire in sella alla bici. C’è il viaggio, il movimento. C’è l’orario inconsueto, generalmente destinato ad altro: la notte, che i ciclisti illuminano con le loro luci, diventa elemento sorprendente. C’è il buio da affrontare, l’oscurità da domare, che sembra quasi inghiottire i partecipanti per restituirli poi all’alba stanchi ma sorridenti, appagati, rivitalizzati. C’è il sole che sorge, a regalare calore e sorrisi per confezionare una traversata in bici insieme ad altre persone. Tutte accomunate dallo stesso approccio verso la bici: personale, genuino, parallelo a qualsiasi moda del momento, tecnica o di atteggiamento.

Ci sono tutti i tipi di ciclisti alla Bike Night: l’agonista, quelli su scatto fisso, le famiglie, gruppi di ragazzi, uomini donne e bambini. È una festa, dove non serve agghindarsi ma si interpreta finalmente soltanto sé stessi. Il fruscio della catena come colonna sonora di un film dove si recita a soggetto, con una sceneggiatura che si dipana dall’attesa della partenza, dove ci si ritrova come esuli da una vita cittadina che lascia ai margini la bicicletta. Poi finalmente si parte, la passione inizia a circolare per quelle strade che vengono riconquistate di notte. Il film prosegue, tra momenti di fatica, imprevisti anche, affrontati sempre insieme, soste rigeneranti dove ci si confronta, incontra, conosce. Fino al gran finale, su una spiaggia o in riva al lago, lontano chilometri dal punto di partenza perché serve molta strada, per costruirsi un ricordo che duri per sempre.

Bike Night è l’appuntamento notturno dedicato a chi ama la bici e mettersi alla prova. Grazie alla sua formula unica, riesce a coinvolgere le persone innescando una scintilla di curiosità. Integra realtà diverse, fa nascere collaborazioni tra soggetti pubblici o privati, che insieme costruiscono con ingredienti locali un evento che non impatta ferocemente sul territorio, ma ne valorizza gli aspetti urbanistici, paesaggistici, emotivi.

Nel 2016 si dipanerà in cinque appuntamenti, tutti ambientati in scenari diversi, per realizzare sempre la stessa esperienza: un’aggregazione spontanea e variegata di ciclisti che colora le notti della nostra estate. Perché la passione per la bici non dorme mai.

APPUNTAMENTI 2016

18 giugno Ferrara – Mare (Lido di Volano) https://www.facebook.com/events/219863875045815/
9 luglio Bolzano – Lago di Resia
https://www.facebook.com/events/205053743207809/
20 agosto Udine – Ciclovia Alpe Adria https://www.facebook.com/events/477003022496741/
24 settembre Verona – Lago di Garda
https://www.facebook.com/events/1191806324186800/
8 ottobre Milano – Lago Maggiore
https://www.facebook.com/events/619553454859653/

Tra le novità 2016, il Villaggio Partenza: prima della mezzanotte, la piazza si popolerà a partire dalle 18 con infopoint, area relax, eventi e stand espositivi. Sono inoltre garantiti servizi di noleggio bici e casco, rientri in pullman, assistenza tecnica e medica lungo il percorso, ristori lungo il tracciato, colazione all’arrivo. Le Bike Night nel 2016 arrivano in tre nuove città: Udine, Verona e il gran finale a Milano. La tappa milanese, che ha come partner UpCycle Cafè e Bike Mi, prevede la partenza da piazza Leonardo a mezzanotte. Le bici passeranno in Piazza Duomo per poi imboccare la ciclabile dei Navigli, su su fino al Lago Maggiore. A Milano l’evento sarà trasmesso in diretta anche su Radio Popolare.