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“Senza permesso di soggiorno non si vive”
Interventi e testimonianze dei lavoratori migranti.
Ferrara, Sala dell’Arengo, venerdì 8 novembre, ore 16,00

“Senza permesso di soggiorno non si vive”

Ti invitiamo a partecipare all’incontro pubblico dal titolo “Senza permesso di soggiorno non si vive”, che si terrà venerdì 8 novembre alle ore 16.00 presso la Sala Arengo.

 

Questo evento, organizzato dall’Associazione Cittadini del Mondo e da La Comune di Ferrara, grazie alle testimonianze di chi sta vivendo sulla propria pelle questa situazione, vuole offrire un’opportunità di ascolto e riflessione su un tema di grande rilevanza per il nostro territorio, che riguarda non solo la difesa dei diritti di lavoratrici e lavoratori migranti, ma anche la coesione della nostra comunità e la salvaguardia di importanti settori lavorativi locali.

Parleremo delle conseguenze della Legge 50/2023 (Decreto Cutro) su decine di lavoratrici e lavoratori residenti anche nel nostro Comune, impiegati in vari settori (edilizio, logistico, metalmeccanico, agricolo, dei servizi e manifatturiero) e che lavorano in regola con un permesso di protezione speciale e incontrano enormi difficoltà a convertirlo in permesso per motivi di lavoro. Inoltre, proprio perché lavorano in regola, allo scadere del permesso vengono licenziati.

Parleremo anche dei lunghi tempi di rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno. Dopo l’invio della domanda alla Questura per il tramite degli uffici postali preposti, (previo pagamento di una cifra che si aggira dai 120 ai 180 euro a persona), con i numerosi allegati (contratto di lavoro, le buste paga, residenza, redditi dell anno precedente, disponibilità di un alloggio, motivazione per cui viene chiesto il permesso di soggiorno ….) la/il richiedente rimane con una ricevuta postale.

Segue un appuntamento per il fotoesgnalamento in Questura (attesa dai 5 agli 8 mesi), la documentazione allegata viene valutata dopo molto tempo, anche un anno o più, e spesso non viene ritenuta più valida anche perché nel frattempo sono cambiate per esempio le condizioni di lavoro, della casa… Quindi viene richiesta ulteriore documentazione che viene valutata nei mesi successivi. Infine il ritiro del Permesso di Soggiorno avviene dopo lunghi mesi, spesso dopo più di un anno.

In attesa del Permesso di Soggiorno, la ricevuta postale o il cedolino rilasciato dalla Questura in realtà non garantiscono i diritti dei permessi originali. Si può stare sul territorio nazionale ma come “fantasmi” perché non si può viaggiare, non si può rinnovare la tessera sanitaria, diventa difficilissimo fare un contratto di affitto, un contratto di lavoro, prendere la patente, andare a scuola. E nemmeno pagare le tasse!

Insomma senza il Permesso di Soggiorno non si vive.

Associazione Cittadini del Mondo
La Comune di Ferrara

“Donna al volante, pericolo costante” e altre sciocchezze:
il vero ruolo della donna nella storia dell’automobile

“Donna al volante, pericolo costante” e altre sciocchezze: il vero ruolo della donna nella storia dell’automobile

Un’automobile che corre veloce su una strada lunga e dritta, quasi deserta, una macchina cabriolet scoperta che lascia passare il vento fra i capelli e il sole sulla pelle. Una sensazione di libertà mai provata, un senso di avventura e di aspettativa per un futuro radioso. La Ford Thunderbird con cui Thelma e Louise decidono di abbracciare il loro destino e di correre verso l’ignoto rappresenta tutto questo, testimoniando un’apertura al sogno, uno sguardo diverso sul mondo. L’automobile non è mai stata solo un mezzo di trasporto, ma ha sempre giocato un ruolo chiave nell’immaginario culturale di tutti noi. È un oggetto totemico, quasi magico, che è stato capace di rivoluzionare abitudini e stili di vita. Dal mito della tecnica all’ incarnazione del senso di libertà, alcuni delle più grandi aspirazioni umane sono state sedute, almeno per un po’, su un sedile di pelle. L’automobile è un simbolo che rappresenta bene il cambiamento delle abitudini e lo scorrere inesorabile delle stagioni, della vita, del tempo. Solo per fare qualche esempio.

La Lancia Aurelia di “Il Sorpasso”, film italiano del 1962 diretto da Dino Risi. Il giorno di Ferragosto, uno studente universitario timido e un quarantenne immaturo che sono amici (Jean-Louis Trintignant e Vittorio Gassman), trascorrono la giornata in auto. Le ore passano veloci in un susseguirsi di episodi tragicomici, fino all’epilogo inatteso e drammatico.

La “Torpedo blu” di Gaber, canzone uscita nel 1968 e contenuta nell’album “Sai com’è”. I primi versi di questa bellissima ballata fanno così: “Vengo a prenderti stasera/Sulla mia torpedo blu/L’automobile sportiva/Che mi dà un tono di gioventù/Già ti vedo elegantissima/Come al solito sei tu (ah)/Sembrerai una Jean Harlow/Sulla mia torpedo blu (…)”

La “Topolino Amaranto” di Paolo Conte, canzone del 1975 contenuta nell’album omonimo, inizia con questi versi: “Oggi la benzina è rincarata/È l’estate del quarantasei/Un litro vale un chilo d’insalata/Ma chi ci rinuncia?/ A piedi chi va?/L’auto, che comodità/Sulla Topolino amaranto/Dai siedimi accanto/Che adesso si va. (…).

La mitica Ford Gran Torino di Starsky e Hutch, serie televisiva degli anni Settanta. I protagonisti sono due poliziotti, molto diversi per stile di vita e temperamento, ma uniti da una forte amicizia. Lavorano presso la nona stazione di polizia di Bay City, una città fittizia in California.

L’Alfa Romeo Duetto di “Il Laureato”, film che ha fatto la storia del cinema, anche grazie alle interpretazioni straordinarie di Dustin Hoffman e Anne Bancroft e alla colonna sonora di Simon & Garfunkel.

Da “Goldfinger” in poi, James Bond ha guidato l’Aston Martin DB5 da 286 cavalli. Realizzata con una tiratura da 1.023 esemplari, l’Aston Martin DB5 compare in diverse pellicole facenti parte della saga, come nel quarto film “Thunderball – Operazione Tuono”.

La DeLorean DMC-12 di “Ritorno al Futuro”, unico modello realizzato dalla DeLorean Motor nei primi anni Ottanta, e realizzata in poco più di 9.000 esemplari.

Il Maggiolino Volkswagen non poteva non entrare nella storia del cinema con un film come “Un maggiolino tutto matto”. Il maggiolino è il modello di auto più longevo del mondo, è infatti stato prodotto dal 1938 al 2003.

Chissà se il Ragionier Ugo Fantozzi sarebbe stato lo stesso senza la sua Bianchina. Prodotta dal 1957 al 1969, era stata concepita come la versione “premium” della 500.

Infine la Mercury Eight di “Grease”, film del 1978 diretto da Randal Kleiser, tratto dall’omonimo musical di Jim Jacobs e Warren Casey. Nel film compare una Mercury Eight nera e fiammeggiante del 1949.

La lista è lunga e se ne potrebbero citare molte altre. Forse non sfugge il fatto che, a parte Thelma e Louise, tutte queste macchine sono state guidate da uomini. Un caso? Sicuramente no. È un retaggio culturale che rappresenta bene gli stereotipi del tempo, l’uso della macchina come manifestazione della virilità maschile, oppure della sua negazione, come in Fantozzi.

L’abitudine di dire “Donna al volante, pericolo costante” incarna il modo stereotipato di interiorizzare una struttura sociale animata di relazioni personali sbilanciate. Per stereotipo, si intende un insieme coerente di credenze e teorie non scientificamente provate (per esempio: “Chi dice donna dice danno”, “Donne e buoi dei paesi tuoi”, “Non si piange come una femminuccia”, “Guidi bene per essere una donna”, “Dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna”, “Non è un mestiere per donne”, “Questo non si addice ad una donna”, “La zitella è una donna acida e infelice”.). Il termine proviene dal greco stereòs “rigido” e tùpos “impronta”. Inizialmente indicava gli stampi di cartapesta rigidi e riutilizzabili usati per stampare le lettere in tipografia. Agli inizi del ‘900, quando presero piede gli studi di psicologia sociale, il termine venne usato per indicare le immagini mentali con cui talvolta rappresentiamo rigidamente la realtà, proprio come una sorta di “calco cognitivo”. Di fronte alla complessità del mondo, gli individui hanno la necessità di semplificare e classificare le tante informazioni quotidiane, costruendo delle categorie.

L’uso di tali categorie è utile quando comunichiamo con gli altri, sono infatti implicite e “date per certe”. Gli stereotipi ci consentono inoltre di giustificare le disparità sociali e le discriminazioni, come nel caso del maschilismo; ci aiutano a differenziare in senso positivo il gruppo di appartenenza rispetto agli altri (“gli uomini guidano meglio delle donne”); riflettono una certa pigrizia mentale, aumentano quando abbiamo poco tempo e/o poche risorse cognitive da investire, ci aiutano a prendere decisioni rapide in situazioni prevedibili. Per Gordon Allport (Gordon Allport 1973. “la natura del pregiudizio”, La nuova Italia), gli stereotipi sono appresi durante l’infanzia. I bambini li imparano principalmente in due modi: adottandoli dai loro genitori/membri della famiglia; crescendo in un ambiente che li rende sospettosi/timorosi e quindi molto bisognosi di paradigmi di riferimento semplici e cristallizzati.

Bando agli stereotipi! Fin dalle origini della storia dell’automobile, il contributo femminile è stato decisivo. Ad esempio, le donne hanno plasmato l’automobile dandole la forma che conosciamo oggi. Sono inoltre molte le donne che, vere e proprie pioniere, hanno avuto un ruolo rilevante nel processo che ha portato al modo di guidare che conosciamo oggi. Conquiste tecniche come il tergicristallo, il riscaldamento dell’abitacolo o le fibre di kevlar, i primi viaggi a bordo delle prime automobili del ’900, il primo giro del mondo in auto del 1929 o la partecipazione a sport automobilistici come transgender.

Wilhelmine-Ehrhardt, 1899

Tutte queste performance sono legate alla biografia di donne provenienti da tutto il mondo. Cito undici sorprendenti figure che hanno segnato in modo rilevante la storia del settore automotive e degli sport automobilistici: Wilhelmine Erhardt, Stephanie Kwolek, Clärenore Stinnes, Mary Anderson, Bertha Benz, Margaret Wilcox, Danica Patrick, Suzanne Vanderbilt, Charlie Martin, Lella Lombardi, Jutta Kleinschmidt.

Se oggi è dimostrabile la relazione che lega donne e motori, quando il settore muoveva i primi passi, sicuramente non lo era. I primissimi veicoli a motore erano di appannaggio esclusivamente maschile. Quando all’inizio del 1899 la fabbrica Eisenach organizzò una prima esibizione di tutti i veicoli a motore prodotti fino a quel momento, alla guida di uno dei quattro Wartburg c’era Wilhelmine Ehrhardt, la moglie del direttore della fabbrica Eisenach, che si godette lo stupore sulla faccia dei passanti. Wilhelmine (23 agosto 1886 – 23 febbraio 1945) era molto abile e il suo “entusiasmo automobilistico” evidente.

Quando, 23 luglio 1899, Gustav Ehrhardt si iscrisse con il nuovo modello di Wartburg alla prima corsa internazionale che andava da Innsbruck a Monaco, la moglie lo accompagnò. Il percorso partiva da Innsbruck, passava per la valle alpina dell’Inntal, l’austriaca Kufstein e la bavarese Rosenheim e arrivava a Monaco. Era molto impegnativo, ma per Wilhelmine fu entusiasmante. Dovette però aspettare ancora un anno per realizzare il sogno di gareggiare in qualità di donna pilota in una competizione automobilistica. Il 3 agosto 1901 scrisse la storia degli sport automobilistici partecipando alla gara che andava dalle montagne da Eisenach a Meiningen e ritorno. Grazie al motore a sua disposizione, Wilhelmine Ehrhardt mancò il podio per pochissimo. (si veda: https://www.bmw.com/it/automotive-life/donne-e-motori-11-personalita-nella-storia-del-settore-automotive.html)

Non è quindi vero che le donne non amano il mondo dell’automotive, non è vero che non hanno dato contributi essenziali allo sviluppo dei veicoli e dei motori, non è vero che sono cattive pilote e non è assolutamente vero che fanno più incidenti stradali degli uomini.

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La fine di una pandemia
Riflessioni sulla società del covid

La fine di una pandemia. Riflessioni sulla società del covid

Ansia, angoscia, senso di oppressione.

Morirò? Cosa potrebbe mai capitarmi se uscissi da quella porta?

Di certo quello che ci rimarrà della pandemia del covid è LA PAURA:  la paura della morte, la paura della solitudine, e l’entità di tutto ciò, che già prima di ogni lockdown ci angosciava, sicuramente è triplicata, ad ogni dpcm, mentre li leggevamo al chiuso, bloccati, imprigionati nei nostri pensieri, nel silenzio raggelante della nostra più  profonda angoscia.

Silenzio perché quelle paure, che dapprima erano solo vocine, piccoli titoli di giornali, hanno incominciato a crescere, progressivamente, fino a diventare onnipresenti, nella nostra mente, intorno a noi, diventando emozioni sempre più forti, spesso represse, forse perché timorosi di perdere l’autocontrollo, di esprimere un parere diverso da quello generale, o per semplice senso del pudore, pudore nel mostrarsi fragili, in preda al panico, più che giustificato dalla situazione, ma che ci mostrava per quello che siamo: costantemente soggetti al potere della morte.

Quelle paure si sono progressivamente ingigantite, fino a diventare una sorta di pane quotidiano, che però, al posto di nutrirci, ci stava consumando. Insieme alla quantità di titoli di giornali sempre più minacciosi, a telegiornali che non lasciavano ormai nessuno spazio a dubbi, a talk show che usavano tutt’altro che gentili vocine per diffondere la paura della morte, i nostri tentativi di mantenere la calma iniziavano a tracollare, e i nostri silenzi, immensi emblematici silenzi, iniziarono a tramutarsi in angoscia repressa, attacchi di panico senza voce, pianti misti al terrore di non farcela più a tenere dentro tutto quel peso.

Questa ovviamente potrebbe rispecchiare una situazione più che generale: il corona virus ha innestato nei nostri cervelli un senso di paura dilagante, che sicuramente ha messo a dura prova la serenità di chiunque.

La progressiva sensazione di sentirsi braccati come prede indifese di un animale mostruoso, che trucida le sue vittime senza alcuna pietà, è un’idea che senza alcuna remora è stata diffusa tra la popolazione mondiale, la quale, in un batter d’occhio, si è sentita attaccata e perseguitata da una nuova minaccia di morte.

La speranza a poco a poco ha iniziato giustamente a scemare: cadaveri in sacchi neri, morti in casa senza che nessuno accorresse, ospedali pieni, costi esorbitanti di mascherine, igienizzanti, dispositivi di protezione di ogni sorta hanno iniziato a lievitare, giusto per essere sicuri di dare il colpo di grazia. Un colpo di grazia che in realtà era ben lungi dall’arrivare, perché quello era solo l’incipit di una storia dell’orrore.

All’improvviso arrivano i vaccini, la salvezza assoluta… o almeno così era stato detto. Ci sono le cure! Non ci sono le cure! I vaccini ci salveranno! I vaccini non ci salveranno! E intanto spunta la tessera verde, un LASCIAPASSARE, il condono ufficiale per quello che fino a due anni prima erano normali diritti di un cittadino.

Il senso? Non si è capito bene ancora tutt’ora, e persino quelli che all’inizio sembravano aver preso bene l’inserimento quasi ossessivo di una sfilza di norme che si andavano ad aggiungere all’ansia, alla paura, all’isolamento che creava già di suo il covid, hanno iniziato progressivamente a stancarsi.

Questo articolo si limita ad un’analisi superficiale da un punto di vista psicologico di come tutto questo, tutta questa serie di sfortunati inspiegabili eventi abbiano avuto ripercussioni sulla salute psichica di tutta la popolazione.

Dapprima la pandemia, un virus sconosciuto che può in pratica soffocarci in pochi giorni, si diffonde in tutta fretta nel mondo, senza darci nemmeno il tempo di abituarci all’idea. I prezzi di ciò di cui avevamo più bisogno in quel momento si alzano in maniera sproporzionata, quasi sadicamente, i dispositivi di protezione acquistano il valore dell’oro, quasi come se si stesse cercando di far soldi sul dolore, la paura, la morte.

Stessa cosa avviene nei giornali: titoloni apocalittici, incentrati unicamente su una sola cosa, suggerimenti di articoli che gridano morte ci capitano persino mentre cerchiamo di acquistare in santa pace un nuovo frullatore online. La notizia ha puntato tutto sul dolore e la paura, tallone d’Achille di chiunque fin dall’alba dei tempi.

La pandemia c’è stata, un nuovo virus ha ucciso senza pietà milioni di persone nel mondo, ha obiettivamente aggiunto dolore ad altro dolore. Ma è come se il mondo, agenzie di media stampa, telegiornali, radio, talk show, tutto ciò che ha il potere al giorno d’oggi di comunicare, uniti come non mai in un’unica grande forza mediatica, avessero dato consapevolmente man forte a tutto questo dolore, un dolore che iniziava a colpire non solo il corpo, ma sembrava mirasse proprio alla mente.

Chiunque all’improvviso si è sentito circondato, da un lato, da un virus spregevole che attacca senza alcun preavviso, e dall’altro, da una società che non ha fatto altro che sottolineare la tragedia. Ora, la tragedia esisteva, ma perché fare in modo che la nostra psiche non si nutrisse di altro che di quella frustrante, logorante paura di smettere di respirare da un momento all’altro?

È come se il mondo non avesse fatto altro che rinfacciarci che saremmo potuti morire di lì a poco. Chiunque a un certo punto crollerebbe, e la fatica nell’aggrapparsi alla razionale consapevolezza che mantenere la calma e la lucidità, la serenità in casa e dentro di sé, sarebbe stata l’unica via d’uscita, è stata incommensurabile.

Un comune essere umano nel bel mezzo di una pandemia,  non solo ha dovuto lottare contro la paura di contrarre la malattia, di fare tutto il possibile per evitare di toccare ogni tipo di superficie contaminata, di stare alla larga da tutti gli incontri non necessari, di aver portato con sé almeno 4 mascherine nel caso una si fosse rotta, di aver messo o meno il gel igienizzante, e l’alcool sui prodotti della spesa, e misurarsi la febbre, e di capire se la tosse ci avrebbe uccisi da un momento all’altro….

Non solo ha dovuto lottare ogni giorno per più di due anni contro la pressante tentazione di cedere al panico e alla perdita del controllo, ma in un certo senso ha dovuto lottare anche contro il totale condizionamento da parte dei media che non hanno fatto che sottolineare quanto fosse pericoloso mettere piede fuori di casa e disobbedire alle regole.

Regole così poi tanto necessarie? Rimanere chiusi in casa ha giovato a qualcuno alla fine? Costringere ad una vaccinazione sperimentale di massa ha salvato la popolazione? Per non parlare poi della consequenziale ansia che ne è scaturita per via degli eventuali effetti avversi che si sarebbero potuti verificare, che non ha fatto altro che aggiungere ulteriore angoscia alla già soffocante sensazione di perdere la propria libertà da un momento all’altro, oltre che la vita. Per carità, la vaccinazione era un mezzo, avrebbe dovuto essere uno dei tanti, non l’UNICO E SOLO.

A livello psicologico tutta questa esorbitante serie di costrizioni, tutte queste pressioni esasperanti di varia natura, non hanno fatto altro che incrementare la sensazione di oppressione e soprattutto di controllo esercitato su di noi, noi che amiamo proclamarci liberi (nel rispetto del prossimo), noi che abbiamo sempre agito rispettando noi stessi e la nostra individualità, la nostra vita e quella degli altri ( almeno teoricamente). … Tutto questo mentre la minaccia costante di perdere la vita, che puntualmente ci veniva ricordata quasi ogni ora, alitava sui nostri colli come una belva ansimante in cerca di altre vittime innocenti.

Il fatto che il vaccino ci sia stato imposto e che per molti non ci sia stata alcuna libertà di scelta sicuramente ha incentivato la nostra progressiva sensazione di essere prede perseguitate in balia di decisioni altrui, nel mirino di cacciatori, di un’entità soffocante che deliberava tutt’altro che democraticamente al posto nostro.

Che fosse stato il covid o qualcos’altro a decidere per noi, in qualche modo la nostra capacità decisionale è stata fortemente limitata, assorbita in un agglomerato informe di dpcm, isolamento, paure e il rischio di perdere una vita dignitosa.

Quello che si sta criticando qui ovviamente non sono i vaccini. Viva la scienza, viva i vaccini che ci salvano dalle malattie e viva il genio dell’uomo capace di congegnare tali scoperte. Quello che qui si sta palesemente criticando invece, sia ben chiaro, è la totale mancanza di possibilità di scelta in tutto questo, che non ha fatto altro che incrementare, anche e soprattutto tramite i già citati media quasi a reti unificate, una specie di caccia a chi la pensa diversamente, una persecuzione psicologica che si è scaraventata ingiustamente su chi non ha voluto identificarsi nel pensiero unico vigente in quel periodo.

È raccapricciante vedersi tutt’a un tratto tagliati di netto i propri diritti, un taglio sorretto da motivazioni illogiche, quelle della limitazione del contagio, che avrebbe potuto esserci anche semplicemente mantenendo i dovuti dispositivi di protezione e gli accorgimenti in merito a distanziamento e sanificazione di ambienti.

Eppure la maggior parte dei cittadini vi è stata costretta: prima, seconda, terza dose, quarta in forse, con tutti possibili effetti connessi, effetti che non ci sono mai stati nella maggior parte, è vero, ma in alcuni ci sono stati, irreversibili, gravi, come anche la morte.

E in chi fortunatamente quegli effetti non si sono mai verificati, la paura di averli, in qualunque momento, non li ha forse condotti a vivere in un clima di stress psicologico costante? La costrizione a nuove dosi, e la tessera del lasciapassare, la minaccia dell’esclusione dalla società, e la paura di nuove varianti, hanno sicuramente scatenato in tutti noi una pressione psicologica fuori dal comune.

La nostra mente può tollerare solo un certo carico di stress, poi scoppia. Soprattutto in una società come la nostra in cui di solito si tende a sottovalutare l’importanza del carico emotivo reprimendo le nostre emozioni, simulando tranquillità, quando invece tolleriamo a fatica tutto quello che ci sta capitando (per varie ragioni).

Molti si sono adattati quasi subito, altri hanno accettato malvolentieri, altri ancora hanno iniziato a soffrire. Vedersi braccati perché non ci si è voluti vaccinare, sentirsi considerati degli untori (senza alcuna motivazione scientifica), colpevolizzati perché ci si è avvalsi del diritto della libertà di scelta, è stato un ulteriore fardello gravoso per il nostro già esasperato carico emotivo.

Oltre a chi non si è voluto vaccinare per libera scelta, c’era chi non poteva per motivi di salute, chi si era stufato di inocularsi un possibile set di vaccini da 12, o chi semplicemente non ne poteva più del sempre più maniacale controllo del governo su ogni singola mossa del cittadino.

Green pass e super green pass, tamponi a prezzi esagerati per i non vaccinati, violenza immotivata in manifestazioni di protesta del tutto pacifiche, la stampa monotematica fondata su un pensiero totalmente unilaterale, lo screditamento spesso anche aggressivo nei confronti di chi gentilmente osava esporre un parere che andava anche di un minimo contro l’idea unica generale, hanno sottolineato aspetti della società del Covid a dir poco inquietanti.

Tutta questa situazione non ha fatto altro che appesantire il carico di un lavoratore medio italiano che, oltre al covid, oltre alle spese e alla cura della propria famiglia, oltre ai rincari in bolletta, oltre ad essere costretto ad un vaccino forzato pur di al mantenere il proprio lavoro, si è visto limitato in ogni sua “scelta”, vedendosi arrivare a tutta velocità un aut aut grande quanto un tir, che ha impattato inevitabilmente, e con tutta la violenza possibile, nella sua vita, in ogni suo aspetto.

La vaccinazione è importante per la prevenzione di molte malattie, ma il modo con cui, questa vaccinazione in particolare, è stata estorta, lo è altrettanto, in modo negativo, perché rileva aspetti della nostra società che credevo, ingenuamente, non esistessero. E vaccinarsi è fondamentale per combattere numerose malattie, ma che sia una scelta riflettuta, totalmente consapevole, è allo stesso tempo imprescindibile. L’imposizione coatta è pura violenza.

Il punto centrale di questo articolo non è la vaccinazione ovviamente, ma è l’insieme di provvedimenti, di modalità con cui è stata gestita la pandemia che ha fatto venire a galla una pressione sociale e di conseguenza psicologica che ha nociuto profondamente a tutti noi in maniera indistinta, lasciando strascichi che probabilmente continueranno a condizionarci ancora per anni.

Il ragazzo che si è dato fuoco il 31 gennaio 2022 potrebbe essere un esempio. Darsi fuoco. 33 anni. Nessun comportamento antisociale o sospetto rilevato precedentemente a questo terribile evento. Il culmine esasperato di una condizione psicologica portata allo stremo concretizzatosi nel peggior modo possibile? Darsi fuoco è la somatizzazione di una perdita di controllo incommensurabile.

Ma non solo perdita di controllo, anche di speranza, della capacità di attendere che tutta questa esasperante pressione sarebbe giunta al termine prima o poi. Un ragazzo giovanissimo che decide di mettere fine alla propria vita. Un desiderio macabro quanto rilevante di un possibile senso di oppressione e di frustrazione allarmanti.

Eppure è sembrato che tutto tacesse.  Nessuno che si sia chiesto perché, nessuna testata giornalistica che si interessasse alle ragioni alla base di quell’atto estremo. Perché? Un’azione così grave, che a mio parere potrebbe essere considerata l’emblema metaforico di questa società del covid: il cittadino esasperato che vorrebbe darsi fuoco, ridotto al limite nelle sue capacità decisionali, di gestione della violenza psicologica subita, che ormai senza forze, si è arreso permettendo alla propria paura di divorarlo vivo.

Sembrava un incubo, eppure non lo era affatto:  un mondo distopico, fatto solamente di virus assassini in cui la belva mediatica contava sistematicamente i morti, tipo caduti di guerra, ricordando sommessamente (ma nemmeno tanto) che il prossimo saresti potuto essere tu, un’economia che sembrava volerti succhiare fino all’ultima goccia di sangue, vaccini obbligatori, cittadini gli uni contro gli altri.

Come se tutto questo non fosse bastato è stato volutamente aizzato l’odio, il disprezzo, la discriminazione, basata su ingiustificati pregiudizi presentati sotto false spoglie scientifiche, e in sostanza prettamente politici, che hanno incentivato isolamento, crudeltà, ignoranza.

Ignoranza perché molti non ragionano, ma preferiscono lasciarsi trascinare dall’odio quando si ha paura. Molti prediligono la rabbia e l’aggressività alla calma e al rispetto per la libera individualità che spetta di diritto ad ogni singolo essere vivente. Ci si lascia trasportare dalla massa, che freme nel puntare furiosamente il dito contro qualcuno, piuttosto che fermarsi a riflettere, sul senso di tutto quello che sta accadendo.

Sono  state aggressivamente, violentemente, negligentemente imposte delle norme che, proprio per il modo con cui sono state forzate, hanno lasciato ferite indiscusse in tutti noi, non solo da un punto di vista psicologico, ma anche fisico. Alla fine la nostra psiche governa tutto il resto, e se si fa qualcosa controvoglia questo non potrà mai portare a dei risultati positivi.

Sono stati calpestati gli individui, con la scusa di fare del bene… ma a chi esattamente? Si è dato per scontato che ciascuno di noi fosse così stupido da non conoscere cosa sia meglio per sé stesso? E anche se fosse stupido, perché hanno provato a negare persino la libertà di essere stupido? Perché qualcuno dovrebbe considerarsi degno di prendere decisioni al nostro posto, all’improvviso dichiarandoci  incapaci di pensare a noi stessi?

E perché è stato usato l’odio come arma fondamentale per attaccare i pochi rimasti a pensarla diversamente?

Quante atrocità si compiono nel mondo, eppure non ho mai visto così tanto spropositato accanimento verso chi semplicemente non si è arreso nell’affermare il proprio diritto di decidere del proprio corpo… condannandolo ad essere considerato un criminale. Si è stati condannati a vergognarsi di non voler assecondare un pensiero generale, al disprezzo e alla colpevolizzazione costante di chi ha esercitato un proprio diritto, e tutto ciò è stato gradatamente normalizzato.

Normalizzare l’odio rimane terrificante, qualunque sia il contesto l’odio e l’aggressività non avranno MAI ragioni. Quasi come se esistessero ambiti e ambiti, come se l’odio fosse deprecabile in alcuni e non in altri, a volte semplicemente si giustifica, si normalizza. Tutto ciò è aberrante. Perché l’odio e la discriminazione, indipendentemente dall’ambito sono sbagliati, sempre. Privare un cittadino di libertà – una libertà sempre condizionata al rispetto degli altri, sia chiaro – è aberrante, oltretutto nascondendosi dietro bugie, inganni.

Questa è la società del covid, almeno in Italia.

L’ideale sarebbe non dimenticare, imparare che l’odio non è mai la soluzione, come anche lasciarsi andare alla paura, non dimenticare che la propria frustrazione non si risana di certo maltrattando (fisicamente o psicologicamente) un altro essere umano che palesemente non ha fatto nulla a nessuno.

Si dovrebbe imparare che la paura e l’irrazionalità vanno sempre a braccetto nella natura umana, ma che l’irrazionale rabbia che ne potrebbe scaturire in questi casi è sempre catalizzata verso mete sbagliate. La violenza non è MAI la soluzione a nulla, e se qualcuno la fomenta in qualche modo bisognerebbe prenderne immediatamente le distanze.

La società del covid non va dimenticata, perché non va dimenticata l’importanza della libertà individuale, e la libertà del prossimo, a prescindere da tutto noi siamo dalla nascita INDIVIDUI LIBERI, e se non nuociamo a nessuno, non dobbiamo sentirci in colpa solo perché facciamo quello che noi riteniamo più giusto per noi stessi. Il SENSO DI COLPA e la vergogna DEVONO ATTIVARSI quando realmente facciamo del male a qualcuno, NON RISPETTANDO LA SUA LIBERTÀ, i suoi diritti, la sua individualità.

È finita una pandemia, ma ne rimane un’altra: la pandemia dell’ipocrisia, della crudeltà umana, che si approfitta del dolore per fare soldi, la pandemia del pregiudizio, la pandemia di una politica, apartitica, che impone e non accoglie l’umanità del suo popolo. La verità è che continuiamo a navigare, in bilico tra il naufragio e l’affogamento imminente, in una società malata, impregnata di corruzione e malessere psicologico, una società limitata e indebolita dalla paura, resa inerme e incapace di riflettere, perché stordita da finte “verità” imbellettate, dai social, dai media, dal nostro stesso governo.

La verità però, prima o poi esce sempre fuori, e l’unica cosa che metterà fine a questa pandemia, reale, concreta, è il vaccino contro la chiusura mentale, la paura che non fa ragionare, il pregiudizio che condanna chi è diverso e prende di conseguenza scelte diverse dalle nostre, il vaccino che dovrebbe stimolare in nostro sistema immunitario alla produzione di solidarietà, comprensione, amorevole appoggio, gli uni con gli altri, in un sistema che ci vorrebbe unicamente divisi, impauriti, soli, confusi.

Per leggere gli articoli di Giusy De Nittis su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Parole e figure / Essere me

“Essere me” è la cosa più bella del mondo. Ce lo racconta Luca Tortolini e Marco Somà, in un omaggio al celebre King Kong

Essere me, di Luca Tortolini e Marco Somà, edito da Kite, è un albo controcorrente che smonta forse il più grande tra i miti della nostra contemporaneità: la bellezza della fama.

Tutti (o almeno tanti), oggi, vorrebbero essere ricchi e famosi, ad ogni costo, subito, velocemente, facilmente, fulmineamente. Essere rincorsi da fan urlanti muniti di videocamere e telefonini, da fotografi o giornalisti con la penna (o il tablet) in mano alla ricerca di un autografo o di una fugace stretta di mano.

Ma siamo sicuri che questo convenga? Sono molti a non pensarla proprio così. Un tempo erano coloro che fuggivano dai paparazzi sfrontati, invadenti e maleducati, in questo bell’albo illustrato è una grande e indimenticabile icona del cinema che ci racconta il retrogusto amaro del successo.

“Tutti pensano che io viva in un sogno da fiaba. Mi dicono “come vorrei essere nei tuoi panni”. Ma il mio più grande desiderio sarebbe andare in giro nudo. E non mi è permesso.”

A parlare un gorilla, Ughm, dichiaratamente ispirato al personaggio di King Kong, strappato al suo ambiente naturale, umanizzato, elegante e raffinato, agro di finzioni, di gente che gli sta attorno per proteggerlo, per aiutarlo, per fargli compagnia. Di spot senza senso da girare, di cocktail party da frequentare, di contratti da firmare.

Ughm è stanco di essere un divo, vorrebbe il suo spazio, parlare come crede, fare quello che vuole, vivere come tutti gli altri. Ma che, a causa di una fama insaziabile, non può. Non è libero, è schiavo del sistema, di chi lo vuole come deve essere e non come è. Non veste i suoi veri panni. Basta popolarità, basta umani, basta lusinghe, basta set e recitazioni, basta solitudine. Nemmeno la fidanzata si può scegliere.

La gabbia preme, la voglia di ascoltare i propri desideri impera.

Una lotta contro quell’essere come gli altri ci vogliono, come gli altri ci vedono, come si deve essere, come si conviene che sia.

Un grido di libertà, la forza di scappare, di mollare tutto. E chi s’è visto s’è visto. Au revoir.

Un libro, in un’atmosfera hollywoodiana da Viale del tramonto, che fa bene, un invito a lasciar andare ciò che pare più conveniente ma che, alla fine, non fa davvero per noi.

Un invito a voler essere solo noi stessi – la cosa più bella del mondo – e a volerci bene.

 

Luca Tortolini e Marco Somà, Essere me, Kite edizioni, Padova, 2020, 32 p.

La pace è la via: incontri con le Combattenti per la Pace:
tutte le date del tour italiano di novembre

La pace è la via: incontro con le Combattenti per la Pace

Incontri con l’israeliana Eszter Koranyi e la palestinese Rana Salman, Co-direttrici dell’organizzazione pacifista nonviolenta Combattenti per la Pace (Combatants for Peace)

15-21 Novembre, Milano, Torino, Firenze, Roma, Napoli
Evento organizzato da Multimage e dal Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli con Assopace Palestina, Centro Studi Sereno Regis, MIR, Pressenza,  Rete A.Gi.Te., Volere la Luna.

Dal 15 al 21 Novembre prossimi saranno in Italia Eszter Koranyi e Rana Salman co-direttrici di Combatans for Peace, movimento pacifista israelo-palestinese sulla cui storia e instancabile impegno di riconciliazione Multimage ha recentemente pubblicato il libro Combattenti per la Pace che verrà presentato a Milano Book City 2024 con due appuntamenti:

  • venerdì 15.11, h 21 ospiti del Co-Housing Base Gaia, Via Crescenzago 101;
  • sabato 16.11, h 11,30 alla Casa delle Donne di Milano, Via Marsala 8/10.

Sarà un’occasione d’incontro con questa importante esperienza di attivismo pacifista pressoché ignorata dai media mainstream, che si è inaugurata vent’anni fa dalla coraggiosa obiezione di coscienza di ex militari israeliani ed ex militanti palestinesi desiderosi di trovare un’alternativa alla spirale della violenza e si è via via sviluppata in un movimento di uomini, donne e sempre più giovani, con un fitto programma di iniziative condivise, percorsi di advocacy e interventi di interposizione nelle aree della Cisgiordania assediate dai coloni, che potrebbe considerarsi il prototipo di quella società ‘bi-nazionale’ che nessuno osa più sognare e che per questi Combattenti per la Pace è già una realtà.

Dopo gli appuntamenti di MilanoBookCity 2024 il tour di Eszter Koranyi e Rana Salman si svilupperà tra Torino, Firenze Roma e infine Napoli con la seguente agenda di incontri:

  • Torino, 16.11 – h 17.30: al CAM – Cultures and Mission, Via Cialdini 4, a cura del Centro Studi Sereno Regis con l’adesione delle Rete A.Gi.Te., MIR e Ass.ne Culturale Volere La Luna;
  • Firenze, 17/11 – h 21: alla Casa del Popolo 25 Aprile, Via Bronzino 117 (e il mattino dopo incontro con l’Amministrazione di Firenze in relazione al recente riconoscimento dello Stato di Palestina) a cura di Assopace Palestina;
  • Roma, 18/11 – h 17.30: a Spin Time, Via S.ta Croce di Gerusalemme 55 (e il mattino dopo incontri a livello istituzionale) a cura di Assopace Palestina;
  • Napoli, ospiti del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, per i tre incontri previsti tra il 19 e il 20/11, all’interno di una XVI Edizione interamente dedicata alle “Culture della Pace” : Martedì 19/11 h 16.00 – Proiezione del film “No Other Land”,  a seguire: incontro con le ‘Combatants for Peace’; Mercoledì 20/11,  h 10,00 Auditorium MANN – Gli studenti napoletani incontrano Eszter Koranyi e Rana Salman; h 16.30 Piazza Forcella: “La lezione delle Scuole di Pace di Strada”.

Ulteriori info e contatti stampa: info@multimage.org

In copertina: Eszter Koranyi e Rana Salman (Foto di Andrea Krogman)

Questo articolo è uscito in anteprima sulla agenzia pressenza il 4 novembre 2024

Il risparmio non è più una virtù… praticabile

Il risparmio non è più una virtù… praticabile

Anche quest’anno l’Acri (Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio Spa) ha presentato un’indagine, realizzata in collaborazione con Ipsos, che restituisce una fotografia relativa al modo in cui gli italiani gestiscono e vivono il risparmio, che nel tempo ha subito una trasformazione significativa.

Le generazioni precedenti consideravano il risparmio come un pilastro fondamentale della gestione finanziaria personale, associato a virtù come la prudenza e la saggezza, ed era visto come una garanzia per la sicurezza finanziaria della famiglia contro le incertezze della vita.

Oggi, il risparmio è considerato principalmente come una necessità per garantire tranquillità e stabilità economica (per il 38% degli italiani), specie dai Boomers (i nati tra il 1946 e il 1964; la generazione Z dei nati tra il 1995 e il 2010 è così definita invece perché viene dopo la X, dei nati tra gli anni ‘60 e ‘70, e la Y, cioè i millennial, nati tra gli anni ‘80 e ‘90) presso i quali il dato raggiunge il 46%. In seconda battuta è un’opportunità per raggiungere specifici obiettivi.

I giovani sono consapevoli di avere priorità e obiettivi di risparmio differenti da quelli dei loro genitori e seguono le loro priorità (lo dichiarano rispettivamente il 63% dei GenZ e il 64% dei Millennials vs il 56% del totale).
Il 33% degli italiani percepisce, inoltre, di avere una capacità di risparmio minore rispetto alle generazioni precedenti a causa delle condizioni macroeconomiche attuali, in particolare l’aumento del costo della vita (70%) e le condizioni lavorative contemporanee (60%), e per i cambiamenti negli stili di vita (60%).

In particolare, l’aumento del costo della vita è sentito dalla GenZ (76%) e dai Boomers (77%), mentre le differenti condizioni lavorative sono menzionate dalla GenX (65%). Trasversalmente alle generazioni rimane alta l’attenzione al risparmio, quando possibile.

Le priorità di risparmio riflettono anche un cambiamento nei bisogni e nei desideri. I più maturi tendono a risparmiare principalmente per far fronte a un futuro incerto, concentrandosi su spese impreviste, al rischio di spese mediche (rispettivamente 61% e 50%) e per raggiungere la sicurezza finanziaria. Al contrario, i giovani sembrano più orientati al presente, risparmiano per permettersi viaggi e svaghi (Gen Z pari all’28%; Millennials pari al 29%), indice di un desiderio di esperienze piuttosto che di accumulo di beni materiali, che è una delle cifre delle nuove generazioni.

Sono anche le prospettive economiche dell’Europa e soprattutto dell’Italia ad impensierire gli italiani e ad incidere sul risparmio. Essi pensano infatti che la situazione economica rimarrà stabilmente negativa.
Nel complesso, è venuta meno la ripresa di fiducia del periodo post-pandemico.

A intaccare la fiducia hanno probabilmente contribuito diversi fattori: le tensioni politiche interne all’UE emerse con più forza all’indomani delle elezioni europee, comprese le questioni relative alla migrazione e alla gestione delle frontiere; i profondi cambiamenti nel panorama geopolitico e le tensioni per i conflitti in atto che hanno influenzato la percezione della capacità dell’UE di mantenere una posizione forte e unitaria sulla scena internazionale; un’Europa che appare ancora come il luogo della libertà di scambio e movimento (29%), ma ingessata da troppa burocrazia (33%), e da una mancanza di omogeneità delle regole nei diversi Paesi, non riuscendo a far sì che tutti gli stati membri operino in modo trasparente e democratico; minore soddisfazione verso l’Euro rispetto al picco del 2021 (40% vs 49% nel 2021), anche se la maggior parte degli italiani continua a ritenere che nel lungo periodo l’Euro offrirà un vantaggio (50%). Ciò nonostante, la maggioranza degli italiani continua a ritenere che l’uscita dall’UE sarebbe un grave errore (61%).

Il Rapporto evidenzia anche che il numero di famiglie in difficoltà lavorative è in leggero aumento, passando dal 15% nel 2023 al 17% nel 2024. Sono persone che in parte non trovano il lavoro auspicato, o che hanno avuto un peggioramento nelle proprie condizioni lavorative.

E non va dimenticato che il numero di individui in povertà si assesta ormai da diversi anni a 5,7 milioni (poco meno di 1 italiano su 10) e che la povertà sale tra chi lavora, un effetto forse legato all’inflazione, che ha colpito maggiormente chi non aveva possibilità di rivedere il proprio paniere di acquisto, e alle condizioni contrattuali.

Qui l’indagine integrale: www.acri.it/eventi/100-giornata-mondiale-risparmio

L’articolo di Giovanni Caprio è già uscito sull’agenzia pressenza del 2 novembre 2024

Per leggere tutti gli articoli di Giovanni Caprio su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

“Sinistra pensante. La battaglia delle idee”:
incontro pubblico, Ferrara, martedì 12 novembre 2024 alle ore 17

In questi decenni la sinistra ha subito una sconfitta sul piano delle idee. In particolare su tre questioni: la pace, la democrazia, la politica. Abbiamo visto scomparire due idee fondamentali dal suo lessico e dalla sua pratica politica: la giustizia sociale e il pensiero critico. Nell’incontro si proporranno alcuni esercizi di riflessione come linee guida per perplessi non disponibili ad accettare risposte semplici a domande complesse.
Il primo imperativo: capire cosa è accaduto. Il secondo imperativo: elaborare un’idea di politica partecipata. Dentro la nuova sinistra le parole chiave dovrebbero essere: partecipazione, cultura, formazione permanente.

E’ vitale uscire dal ‘campo chiuso’ di una idea oligarchica della politica. Occorre un’invasione di campo! Soprattutto da parte dei giovani che, come ricordava l’indimenticabile Sandro Pertini, non hanno bisogno di prediche, ma di esempi di onestà, competenza, coerenza etica, coraggio politico.
I partiti di sinistra devono riformarsi e accettare un confronto e un’alleanza alla pari con sindacati, associazioni, movimenti, liste civiche che sono cresciuti in questi anni dando vita ad una originale esperienza di ‘autonomia politica del sociale’. In estrema sintesi, si tratta di raccogliere l’invito di una grande personalità  della sinistra politica e intellettuale del secolo scorso, Claudio Napoleoni: “Cercate ancora!”

 

L’incontro è promosso dalla Biblioteca Popolare Giardino

Sgozzati ancora coscienti: Animal Equality rivela le illegalità all’interno di un macello di maiali a Cremona 

Sgozzati ancora coscienti: Animal Equality rivela le illegalità all’interno di un macello di maiali a Cremona

>> VIDEO INCHIESTA CON BLUR: https://em94.short.gy/r0iYtY

>> VIDEO INCHIESTA SENZA BLUR: https://em94.short.gy/oQEJVh

>> FOTO INCHIESTA: https://em94.short.gy/ceXmfJ

Milano, 25/10/2024 – Dopo il servizio trasmesso in esclusiva ieri in prima serata dal TgR Lombardia, il team investigativo di Animal Equality rilascia oggi una nuova inchiesta realizzata tra 2023 e 2024 che documenta cosa accade all’interno del macello dell’azienda Belli, con sede a Trigolo, in provincia di Cremona, dove ogni anno vengono macellati migliaia di maiali. Secondo quanto documentato attraverso una telecamera nascosta e il parere del veterinario Enrico Moriconi, all’interno del macello sono state riscontrate varie violazioni della legge italiana sul benessere animale.

Nel corso di due diversi monitoraggi in un anno, Animal Equality ha documentato continui e ripetuti maltrattamenti da parte degli operatori del macello a discapito dell’incolumità fisica e psicologica degli animali e in contrasto con la legge vigente. In particolare, l’inchiesta rivela un maneggiamento degli animali da parte del personale in azienda tale da generare stress psicologico e sofferenza fisica, una conformazione strutturale incapace di prevenire sofferenze non necessarie e molteplici casi di animali risultati ancora coscienti a seguito della procedura di stordimento e durante l’uccisione con taglio della giugulare.

I maiali, dai primi mesi di vita all’età adulta, sono ripresi in momenti di sofferenza fisica e psicologica durante tutte le fasi di produzione. Nel corso dell’inchiesta sono stati documentati questi principali ritrovamenti:

  • Maiali coscienti, che lottano per stare in piedi dopo lo stordimento elettrico e il taglio della gola, sono stati filmati mentre respirano, sbattono le palpebre e urlano di dolore muovendosi lungo il nastro trasportatore del macello;

  • Dopo essere stato stordito e sgozzato, un maialino si è rialzato e ha iniziato a camminare mentre il sangue sgorgava dal collo. In un altro caso, un lavoratore ha tenuto fermo un maiale che urlando lottava per stare in piedi dopo che gli era stata tagliata la gola due volte.

  • Vari maiali sono stati costretti a entrare insieme nella gabbia di stordimento, una gabbia progettata per un solo animale. Gli operatori hanno colpito i maiali che non erano entrati abbastanza velocemente sbattendo loro contro la porta metallica della gabbia.

Il veterinario ed ex Garante per i Diritti Animali della Regione Piemonte Enrico Moriconi ha esaminato i filmati di Animal Equality e ha dichiarato: “Nel macello le pratiche eseguite comportavano la sofferenza degli animali, indotta dal comportamento volontario degli addetti che non si curavano di verificare atteggiamenti indicanti sofferenza negli animali per cui non ne mettevano fine, come avrebbero potuto fare, ma continuavano nelle loro mansioni. Nel macello si verificavano delle situazioni nelle quali era evidente la sofferenza degli animali, dovendo sottolineare che le norme relative alla pratica prescrivono espressamente di seguire modalità atte a escludere la sofferenza degli animali”.

Secondo la legge sul benessere degli animali, provocare dolore, angoscia o sofferenze evitabili sono atti alla base dell’accusa penale di “trattamento crudele”. In base alle modalità di gestione, stordimento e macellazione degli animali analizzate, Animal Equality ha quindi sporto denuncia verso l’azienda Belli con il supporto dell’avvocato penalista Glauco Gasperini.

“Le immagini raccolte non devono trarre in inganno: non si tratta di un caso isolato. Come abbiamo documentato in tanti anni di investigazioni, infatti, le leggi che vietano di maltrattare e provocare sofferenze inutili agli animali all’interno dei macelli non sono rispettate. Al contrario, l’industria zootecnica sfrutta sistematicamente gli animali, trattati come merci per massimizzare il guadagno” dice Matteo Cupi, direttore esecutivo di Animal Equality Italia.

Animal Equality

Animal Equality è un’organizzazione internazionale che lavora con la società, i governi e le aziende per porre fine alla crudeltà verso gli animali d’allevamento. Animal Equality ha uffici negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Germania, Italia, Spagna, Messico, Brasile e India.

Fame, bombe e sfollamenti forzati:
le armi del governo israeliano contro Gaza, Libano e…
Sullo sfondo emerge il grande business della guerra

Fame, bombe e sfollamenti forzati: le armi del governo israeliano contro Gaza, Libano e… sullo sfondo emerge il grande business della guerra

Articolo originale su Peacelink del 22 ottobre 2024

Netanyahu ha bombardato ospedali e scuole, fatto morire di fame bambini, distrutto infrastrutture e alloggi e reso la vita invivibile a Gaza

“Israele inizia ad attuare il piano per la carestia nel nord di Gaza affermano i gruppi per i diritti umani”. Con questo titolo, il Financial Times introduce il “Piano dei Generali” proposto dal generale in pensione Giora Eiland insieme a un gruppo chiamato The Reservist Commanders and Combat Soldiers Forum.

In sostanza il piano suggerisce di imporre un assedio completo sulla Striscia di Gaza settentrionale fino alla resa dell’ultimo combattente di Hamas o alla sua morte per fame. [Qui]  Infatti lo scopo principale del piano prevede non solo l’uso della forza militare contro la popolazione civile nel sud e nel nord di Gaza, ma, come ha evidenziato il responsabile del Programma alimentare mondiale “A Gaza nord non arriva cibo dal 1° ottobre. A Gaza manca tutto, i bambini non hanno acqua né cibo. Le famiglie sono state evacuate anche 8 volte, vivono sul marciapiede”.

Ovvero l’esercito israeliano sta conducendo un’operazione militare che prende di mira infrastrutture civili e rifugi degli sfollati, incuranti del fatto che lo sfollamento forzato di una popolazione civile costituisce una grave violazione del diritto internazionale se non è giustificato da circostanze estreme, e se non considera adeguatamente la sicurezza e la dignità dei civili. Ugualmente impedire l’accesso della popolazione agli aiuti umanitari è in contrasto con gli obblighi derivanti dal diritto internazionale, il cui rispetto è obbligatorio per tutti.

Secondo alcuni esperti militari l’approccio del governo Netanyahu è privo di qualsiasi pensiero strategico: a guidare le azioni di Israele a Gaza piuttosto che in Libano o Cisgiordania è il pensiero di Eiland che impone l’uso della forza militare e della fame come arma. A questo punto è legittimo sostenere che la (non) strategia del governo Netanyahu sia quella di compiere il genocidio del popolo palestinese. [Qui][Qui]

Il 27 settembre l’esercito israeliano sgancia quintali di bombe BLU-109 fornite dagli Stati Uniti con kit di guida JDAM. Queste bombe da 2.000 libbre (907 kg), note anche come bunker busters, sono state progettate per penetrare strutture sotterranee fortificate e dotate di micce ritardate per detonare dopo aver penetrato i bunker presi di mira. L’attacco ha causato la morte del capo di Hezbollah Hassan Nasrallah insieme a vittime militari e civili.

Sebbene le bombe bunker busters non siano vietate dal diritto internazionale, il loro utilizzo in aree densamente popolate solleva preoccupazioni etiche per quanto riguarda le potenziali vittime civili. Le Convenzioni di Ginevra sottolineano l’importanza di evitare danni ai civili rendendo controverso l’impiego di tali bombe quando utilizzate in ambienti urbani.

Un funzionario del Pentagono, rimasto anonimo, ha dichiarato al Washington Post che “non aveva mai visto così tante bombe usate contro un singolo obiettivo come nell’attacco a Nasrallah”[Qui]. L’attacco è seguito a una costante escalation con un numero impressionante di vittime e allo sfollamento più di 1,2 milioni di persone, circa un quarto della popolazione del paese.

Gli ordini di evacuazione israeliani ora coprono un quarto del territorio libanese. È la più grande crisi di sfollamento del Libano fino ad oggi. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, rivolto alla popolazione libanese tramite video, ha dichiarato: “Avete l’opportunità di salvare il Libano prima che cada nell’abisso di una lunga guerra che porterà alla distruzione e alla sofferenza come vediamo a Gaza”. [Qui]

Un mese fa, il senatore democratico Bernie Sanders decide di presentare una legge per bloccare una vendita di 20 miliardi di dollari in armi offensive a Israele, perchè “il governo estremista del primo ministro Netanyahu non ha semplicemente intrapreso una guerra contro Hamas. Ha intrapreso una guerra totale contro il popolo palestinese, uccidendo più di 41.000 palestinesi e ferendone più di 95.000 – il 60% dei quali sono donne, bambini o anziani. Netanyahu ha bombardato ospedali e scuole, fatto morire di fame bambini, distrutto infrastrutture e alloggi e reso la vita invivibile a Gaza. Gli Stati Uniti devono porre fine alla loro complicità in questa atrocità”. Altri membri del Congresso hanno anche chiesto un embargo sulle armi. [Qui]

Sempre a settembre migliaia di cercapersone, walkie-talkie e altri dispositivi esplodono in Libano mutilando centinaia di persone e uccidendone altre decine. Si è trattato di un attacco terroristico (va oltre il concetto di guerra ibrida) su larga scala ad opera del Mossad (agenzia di intelligence e servizio segreto israeliano) che ha preso di mira membri di Hezbollah.

I cercapersone esplosi contenevano batterie contenenti una piccola quantità di pentaeritritolo tetranitrato, o PETN, un alto esplosivo, che era incorporato nel processo di produzione delle batterie. Il PETN è una polvere non volatile ed è molto difficile da rilevare in piccole quantità, soprattutto se incapsulato nel corpo plastico di una batteria. I dispositivi sarebbero esplosi alla ricezione di un messaggio specifico (coded). [Qui]

Nel mese di ottobre si susseguono attacchi violenti contro Gaza, Cisgiordania e Libano, infine con l’Iran, il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e la forza di interoposizione delle Nazioni Unite in Libano (UNIFIL)[Qui][Qui]

Il mese di ottobre è cominciato con il lancio da parte dell’Iran di oltre 180 missili balistici contro obiettivi all’interno di Israele. L’attacco, che viene rivendicato come reazione all’assassinio del leader di Hamas Ismail Haniyeh e del capo di Hezbollah Hassan Nasrallah, rivela diversi problemi del sistema antimissile israeliano sebbene sui principali media si sia scritto che i sistemi Arrow 2 e Arrow 3, più dell’Iron Dome, abbiano difeso sufficientemente il territorio. [Qui]

Come riporta il Daily Telegraph, i missili iraniani sono stati molto efficaci: 30, tutti ipersonici, sono riusciti a passare attraverso l’area dell’Iron Dome e hanno colpito i loro obiettivi causando danni reali. Israele si trova a dover risolvere il problema del numero e del costo degli intercettori contando sempre sull’aiuto militare e logistico degli USA. [Qui]  

Aiuto che è arrivato poiché, stando a quanto affermato dalla Casa Bianca in una nota, il presidente Biden aveva ordinato all’esercito statunitense di supportare la difesa di Israele contro gli attacchi iraniani abbattendo i missili che prendevano di mira Israele, e parrebbe aver convinto Netanyahu a tenere una risposta limitata con l’Iran, prendendo di mira solo le strutture militari e non i siti nucleari, o quelli petroliferi.

Tuttavia per Biden si presenta un’altra grana per la fuga di informazioni dagli Stati Uniti sui piani di Israele per l’Iran. La Casa Bianca ha dovuto avviare un’indagine sulla fuga di notizie di due presunti documenti dell’intelligence che descrivevano nel dettaglio i preparativi di Israele per un potenziale attacco all’Iran nei prossimi giorni. I documenti, visionati dal Telegraph, includono interpretazioni di immagini satellitari che sembrano essere state preparate di recente dalla National Geospatial-Intelligence Agency (NGA) e analizzano le informazioni raccolte dai satelliti spia statunitensi e dalla National Security Agency[Qui] 

Per decidere come continuare a sostenere Ucraina e Israele, alla luce delle elezioni presidenziali e all’uccisione avvenuta il 17 ottobre del leader di Hamas Yahya Sinwar, il 18 a Berlino si sono incontrati Joe Biden, Olaf Scholz, Emmanuel Macron e Keir Starmer. Di fatto le guerre in Ucraina, Gaza, Cisgiordania, Libano e poi ancora Iran continuano sempre più violente, così come i massacri della popolazione civile, ma continua anche la farsa di USA e Europa, che si indignano a parole ma nei fatti non fermano la macchina distruttrice di Israele.

Abbiamo una Europa sempre più debole e spostata a destra, e una America che, in attesa del risultato delle votazioni presidenziali, cerca di difendere un ordine mondiale basato ambiguamente su delle regole collassate nei fatti.

In questo gioco il governo italiano ha un ruolo marginale sprofondando lentamente nelle sue stesse contraddizioni. Lo si vede nella debole difesa dell’UNIFIL, di cui l’Italia ha il comando del Settore Ovest, dagli attacchi di Israele: come per le altre azioni dell’esercito israeliano, anche le offensive contro le forze di pace rappresentano violazioni del diritto internazionale. Nelle situazioni di conflitto tutte le fazioni coinvolte hanno l’obbligo di tutelare il personale ONU e rispettare l’inviolabilità delle sedi.

Pochi giorni dopo uno dei tre droni lanciati dal Libano colpisce la residenza privata del premier israeliano a Cesarea, da lì la risposta israeliana uccide almeno 87 persone nel nord di Gaza durante un attacco aereo colpendo diverse case e un edificio residenziale nella città di Beit Lahiya. L’attacco viene condannato dal governo dell’Arabia Saudita [Qui] e [Qui]

Sullo sfondo emerge il grande business della guerra: le guerre in Ucraina e a Gaza aumentano il valore dei principali produttori di armi. Secondo il rapporto della società di consulenza finanziaria e strategica Accuracy (come lo Stockholm International Peace Research Institute), le sette maggiori società europee sono aumentate di più sul mercato azionario dall’inizio dell’invasione russa, ma le loro controparti americane valgono più del doppio.

Le aziende statunitensi sono Honeywell International, RTX Corporation, Lockheed Martin, Northrop Grumman, General Dynamics, L3Harris e Huntington Ingalls. Per quanto riguarda l’Europa, le aziende incluse nello studio sono la francese Safran, Dassault Aviation e Thales; la britannica BAE Systems; la tedesca Rheinmetall; l’italiana Leonardo e la norvegese Kongsberg Gruppen.

In termini di fatturato, le aziende americane sono cresciute del 27,47% (14,1 miliardi di euro) tra il primo trimestre del 2021 e il primo trimestre del 2024, mentre le vendite europee sono cresciute del 28,82% (6,8 miliardi di euro) tra l’ultimo trimestre del 2023 e l’ultimo del 2021. Lo scorso anno le vendite delle sette aziende americane sono state pari a 246,2 miliardi di euro, mentre le aziende europee hanno registrato 102,3 miliardi di euro di fatturato. Per finire nel rapporto Finanza per la guerra. Finanza per la pace [Qui]  apprendiamo che i l’industria militare sarebbe responsabile di oltre il 40% della corruzione mondiale.

Un caso è quello della RTX Corporation che dovrà pagare quasi 1 miliardo di dollari per aver frodato il Dipartimento della Difesa, probabilmente per aver corrotto un funzionario del Qatar in relazione ai sistemi missilistici Patriot, un sistema radar, e ad altri servizi di difesa.

L’appaltatore della difesa è stato inoltre multato per 200 milioni di dollari per l’esportazione non autorizzata di tecnologia di difesa in Cina, Russia, Iran e altrove. La sua ammissione di colpa è servita per mantenere buoni rapporti con il Pentagono.

“Sebbene questa sia una delle sanzioni più grandi nella memoria recente, non è un incidente isolato con i contractor della difesa. Ad esempio, all’inizio di quest’anno Lockheed ha risolto una causa per 70 milioni di dollari per risolvere il problema del sovrapprezzo dei componenti alla Marina. Nel frattempo, Boeing, nel settore aerospaziale commerciale, ha pagato circa 487 milioni di dollari relativi alla certificazione 737 MAX” ha affermato Rich Pettibone di Forecast International[Qui] 

Come si può leggere nel sito dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani, principale organismo delle Nazioni Unite, “Le armi avviano, sostengono, esacerbano e prolungano i conflitti armati, così come altre forme di oppressione, quindi la disponibilità di armi è una precondizione essenziale per la commissione di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani, anche da parte di aziende di armamenti private”.

RTX è una delle tante aziende che sta aumentanto vorticosamente i propri profitti grazie alla guerra a Gaza in particolare. Certo è in buona compagnia: BAE Systems, Boeing, Caterpillar, General Dynamics, Lockheed Martin, Northrop Grumman, Oshkosh, Rheinmetall AG, Rolls-Royce Power Systems, RTX e ThyssenKrupp (senza dimenticare l’Italiana Leonardo solo per citare le più grandi).

Ma “anche le istituzioni finanziarie che investono in queste aziende di armi sono chiamate a rendere conto. Investitori come Alfried Krupp von Bohlen und Halbach-Stiftung, Amundi Asset Management, Bank of America, BlackRock, Capital Group, Causeway Capital Management, Citigroup, Fidelity Management & Research, INVESCO Ltd, JP Morgan Chase, Harris Associates, Morgan Stanley, Norges Bank Investment Management, Newport Group, Raven’swing Asset Management, State Farm Mutual Automobile Insurance, State Street Corporation, Union Investment Privatfonds, The Vanguard Group, Wellington e Wells Fargo & Company, sono invitati ad agire.

L’incapacità di prevenire o mitigare i loro rapporti commerciali con questi produttori di armi che trasferiscono armi a Israele potrebbe passare dall’essere direttamente collegati alle violazioni dei diritti umani al contribuire a esse, con ripercussioni per la complicità in potenziali crimini atroci, hanno affermato gli esperti”. [Qui] 

Storie in pellicola / “OZI: la voce della foresta”

Proiettato, fuori concorso, durante la serata di anteprima del Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica”, il 22 ottobre, presso Notorious Cinemas, “OZI: la voce della foresta” di Tim Harper, è un intenso e delicato lungometraggio prodotto da Leonardo DiCaprio e Mike Medavo, con le voci di Amandla Stenberg, Laura Dern, Djimon Hounsou e Donald Sutherland. Una sorta di favola ecologista, oggi al cinema.

Leonardo DiCaprio, attore di fama internazionale, è noto per il suo impegno in difesa dell’ambiente e ha spesso utilizzato la sua figura per sensibilizzare sulla crisi climatica e l’importanza di un’esistenza pacifica e rispettosa tra esseri umani e natura. Impegno che lo ha portato a rappresentare le Nazioni Unite come ambasciatore contro i cambiamenti climatici. Nel 2016 è stato diffuso il documentario Before the flood – punto di non ritorno, nel quale l’attore ha intervistato Papa Francesco e Barack Obama per parlare di cambiamenti climatici e dell’importanza di azioni concrete per fronteggiare un mondo in crisi. Ha anche prodotto molti documentari su tematiche ambientali e sociali di rilievo, tra cui The Loneliest Whale (2021) e Cowspiracy – Il segreto della sostenibilità ambientale (2014) o Sea of Shadows: Trafficanti di mare (2019).

Ambientato nella foresta pluviale – accompagnato da un intenso brano scritto da Diane Warren, One Heart (Can Change the World) interpretato magnificamente da Tiwa Savage , il film racconta la storia di Ozi, un piccolo orangotango che vive sereno e felice con i genitori, fino a quando l’intervento dell’uomo distrugge la sua casa.

Ruspe e incendi parlano di un Antropocene che non perdona.

Ozi viene salvata da volontari che gestiscono un’oasi per orangotanghi orfani. Dopo tante iniziali paure e tanta confusione, il piccolo impara a comunicare con la lingua dei segni, diventando virale e amata online. Un piccolo e potente influencer si nasconde in lui.

Scopre che i genitori potrebbero essere vivi e parte alla loro difficile ricerca in un paesaggio ferito, devastato e distrutto dalla deforestazione.

“Non è un film contro ‘la produzione di olio di palma’. Quello che ci stava a cuore era dimostrare che quando il mondo commerciale si scontra con l’ambiente è necessario fermarsi a riflettere”, hanno spiegato i produttori. “Come fa Ozi, tutti noi dobbiamo chiedere conto ai governi e alle corporazioni, farli riflettere sulle loro azioni sia a breve che a lungo termine. La difficile situazione dell’orango, uno dei nostri parenti più prossimi, dovrebbe essere un campanello d’allarme”.

Ozi decide di far sapere al mondo cosa sta accadendo alla sua casa e al suo mondo, determinata a fare una grande differenza. Usando il potere dei social.

Presentato al Giffoni Film Festival, Ozi – La voce della foresta è un vero e proprio invito a lottare per un mondo e un futuro più sostenibile, una protesta contro il consumo umano e lo sfruttamento della natura. Un invito ad agire.

Con un linguaggio intellegibile a tutti, soprattutto ai più giovani.

E, soprattutto, partendo da una domanda. Cosa direbbero gli animali sul loro invadente vicino di casa, se potessero parlare?

UN DATO …

Le foreste, che rappresentano il 31% delle superfici terrestri (4 miliardi di ettari), sono essenziali per la sostenibilità ambientale e sociale. Negli ultimi 30 anni la superficie forestale a livello mondiale si è ridotta di oltre 420 milioni di ettari, con un ritmo, che dal 2010, è di circa 4,7 milioni di ettari all’anno (fonte WWF).

Secondo i dati del World Resource Institute e del Global Forest Watch in Forest Pulse: The Latest on the World’s Forests, nel 2023, la perdita totale delle foreste tropicali primarie è stata di 3,7 milioni di ettari. Questa cifra rappresenta una diminuzione del 9% rispetto al 2022, ma la frequenza di perdita rimane comparabile agli anni precedenti.

ANATOPOS
perdere il proprio luogo di appartenenza fisica

Anatopos:  perdere il proprio luogo di appartenenza fisica.

Anatopos, ovvero il senso di perdita del luogo, legato al sé, della sua dislocazione geografica, temporale e culturale.

Sta succedendo. L’Italia dai mille borghi antichi, l’Italia del Rinascimento, con le sue piazze ed i suoi palazzi nobiliari e mercantili, l’Italia di Leonardo, Raffaello, Garibaldi e Manzoni, sta scomparendo dalle nostre menti.

Il segno del comando

Il passato non basta più, è oramai un vago souvenir per turisti, italiani o stranieri che siano. Un senso vago, per ora, di non appartenenza – Anatopos, appunto – si sta diffondendo a macchia d’olio, specie tra le giovani generazioni, ma anche tra i Boomers, i nati tra il 1946 ed il 1964, cresciuti durante lo sviluppo economico.

Con inutile e vuoto senso della memoria, rappresentano la maggioranza su alcuni social, come Facebook, dove postano con struggente nostalgia oggetti e, soprattutto, trasmissioni televisive della loro infanzia ed adolescenza, gli anni Settanta e Ottanta, da Il segno del comando fino a Mork & Mindy, come ne andasse della loro vita. Serie televisive citate con smisurato senso del rimpianto, riferito ad un’epoca che non può tornare.

Il nulla avanza anche attraverso la delocalizzazione, insita nell’annullamento dello spazio fisico, creata dal web. Jean Baudrillard ha ben descritto questo fenomeno, per cui una lettera cartacea da Roma a New York, impiegava comunque settimane, concretizzando in questo lasso temporale, l’effettiva distanza tra le due città. Distanza annullata dalle email, che trasmettono all’istante le nostre parole ed immagini, cancellando ogni declinazione temporale, quindi anche spaziale.

La realtà fisica va scomparendo o meglio subisce l’attacco frontale del cambiamento climatico. Si veda il caso delle recenti e continue alluvioni, della schiuma bianca presente in mare per molti chilometri quadrati, al punto che non lo si riconosce più. Il territorio padano, tra i più ricchi in Italia, è continuamente invaso dall’acqua, che modifica o peggio, cancella i tratti fisici portanti: strade, filari, campagne, antiche e nuove case coloniche. Presto non se ne parlerà più, ma se non si prendono massicci provvedimenti, diverrà una triste consuetudine, nemmeno riconosciuta dall’attuale Governo, che non ha stanziato nulla per gli alluvionati, nella recente manovra economica.

A fronte dell’inesorabile declino mondiale della realtà fisica, tra deforestazione selvaggia, estinzione di specie animali, e prelievo feroce delle risorse minerarie, allo scopo di produrre smartphone sempre più avanzati, l’alternativa inevitabile, verso cui stiamo correndo, è la realtà virtuale o meglio, aumentata – termine che vorrebbe indicarne l’estrema valenza e positività. Ben presto, sostituirà la realtà fisica, sempre più degradata, creando un mondo in cui la forma delle percezioni sarà alterata per sempre.

Lo è già in fondo. Vedo ogni giorno i miei studenti, ma osservo anche le persone nei luoghi pubblici, giocare in continuazione, per ore intere, se non ci si oppone, ai videogiochi che propone la rete, oppure far scorrere velocemente sullo schermo, scrollare (scrolling) è il neologismo corrispondente, le immagini dei brevissimi video (reel), che propongono Tik Tok e Istagramma anche Facebook che, all’interno della sezione notizie, ha attivato uno spazio riassuntivo dei video presenti sui due social sopraccitati.

L’Anatopos è un senso di smarrimento del proprio luogo di appartenenza fisica e, come tale, è dato anche dall’omologazione, dall’appiattimento della cultura, dovuto all’estrema autoreferenzialità del fruitore medio dei social, convinto di poter intervenire, con competenze che non possiede, su ogni argomento, creando discussioni inutili, dove le differenze rafforzano soltanto una reciproca voglia di prevalere sull’altro.

Il risultato equivale al nulla. Milioni di parole inutili e vuote stagnano in rete, confondendosi con quelle dotate di senso, deprivandole di significato ed importanza sociale. L’immagine migliore che si può dare, è quella di un’enorme orchestra sinfonica, che dovrebbe eseguire la Nona di Beethoven, ma poiché è senza spartito alcuno, volendo comunque suonare, produce un frastuono, una cacofonia inenarrabile, in quanto ogni strumento suona per conto suo.

Lo stesso effetto produce il bombardamento eccessivo di informazioni da parte dei media, lasciando esterrefatto ed attonito il lettore/spettatore medio, incapace di scegliere, o comunque in grande difficoltà nel farlo, al punto che spesso si rifiuta di farlo, mantenendo così certezze errate e altamente personali e destabilizzanti per il vivere civile. Una modalità totalmente deleteria per la libera circolazione, e l’efficace diffusione, della cultura, intesa qui come stimolo all’arricchimento del libero pensiero.

Infine, anche le guerre atroci e senza senso alcuno, in Ucraina e nella striscia di Gaza, contribuiscono a creare la sensazione di spaesamento tipica dell’Anatopos. Creano un senso di minaccia per l’Umanità, più o meno percepito, capace di generare impotenza ed instabilità, anche a livello spaziale, fisico, capaci come sono di unire e disunire, allo stesso tempo, l’opinione pubblica mondiale. Scavano una trincea, si arroccano ormai nella Terra di nessuno, poiché denotano l’impotenza del singolo, e richiamano paure ancestrali, in grado di distruggere e delocalizzare per sempre, qualunque luogo.

In copertina:  Blackhole (buco nero),Lorenzo Marini, Memphis 2023

Per leggere gli altri articoli, racconti di Stefano Agnelli clicca sul nome dell’autore

Parole a capo /
Daniele Cerioni: “Il ragno non indossa scarpe da ginnastica” e altre poesie

In natura non ci sono né ricompense né punizioni: ci sono conseguenze.”
(Robert Green Ingersoll)

 

Da un semino nasce una piantina

Da un semino nasce una piantina,
fragile germoglio.
Sono io un anno fa.
Un piccolo stelo verde,
tenue, delicato.
Ora il mio tronco è più robusto.
adesso, col tempo, lasciatemi fiorire.

 

*

 

 I vecchi fioriscono in inverno, come i ciclamini

La vita è fatta di piccole emozioni
che non riusciamo a percepire,
di piccole felicità e di piccoli
momenti di gioia.
Ma noi giovani non ne teniamo conto
o forse non ce ne rendiamo conto
della felicità che ci tiene vivi
fino a che la nostra anima non ci abbandoni.
Dobbiamo invecchiare per vivere a fondo
questi piccoli godimenti.
Ecco perché i vecchi fioriscono
come i ciclamini:
i vecchi non fioriscono in primavera
come gli altri fiori.
I vecchi fioriscono in inverno
E come i ciclamini gioiscono
ma a testa in giù.
E si svegliano presto la mattina
perché sanno che il tempo è breve.
E il tempo non lo sprecano più.
Il tempo li minaccia ogni giorno.
Io, che ho i primi capelli bianchi e sono
a metà della mia vita
comincio a capirlo
che sto cominciando ad andare via.
Ma i vecchi son come le foglie in autunno
Restano aggrappati ai rami come aggrappati
sono a questo mondo
e non vogliono abbandonare questo ramo
che simboleggia la vita.
Che questo ci sia da lezione…
Impariamo dai vecchi.
Ed Io che sono ancora un girasole
e sto in mezzo al campo con la testa all’insù,
mangio i raggi del sole
in questa mia stagione estiva
che fa bene ai miei capelli,
ai miei petali.
Ti assicuro e ti prometto che non perderò più tempo
e darò importanza al tempo
e a queste insignificanti piccole felicità
della vita, che, purtroppo, non dura mille anni.
Perché i vecchi fioriscono in inverno
come i ciclamini
e lo sanno
che domani potrebbe venir il gelo.
E lì se ne stanno con la testa all’ingiù
Con una lacrima sul viso
e tristezza solo un velo.
Si svegliano presto al mattino
perché sono coscienti della loro sorte.

Ed è così ingannano la morte

 

*

 

Il ragno non indossa scarpe da ginnastica

 

Lascialo andare,
lascialo andare,
ma non vedi che ti sta implorando
di lasciargli salva la vita?
Non lo schiacciare.
Anche se ti fa impressione.
Forse non ti piace il fatto
che ha otto zampe e otto piedi?
Non ti piacciono i suoi denti?
Sappi che non indossa scarpe da ginnastica, quindi
prenderti a calci non può
e nemmeno morderti.
Ricorda.
La sua vita ha un valore.
Come ha valore la tua.
Tutti gli esseri viventi hanno
diritto a vivere in libertà.
Non schiacci la farfalla perché ha dei bei colori,
non schiacci la coccinella perché porta fortuna.
Perché vuoi schiacciare proprio il ragno?
Che i più dicono porti guadagno?
Lascialo andare,
lascialo vivere, te ne sarà grato e te ne sarà grata la natura.
E se poi, vuoi farlo davvero felice, regalagli quattro paia
di scarpe da ginnastica,
ma a strappo.

Perché il ragno, ahimè, non ha mani per allacciarsele.

 

*

 

Il ciuffetto d’erba e la gocciolina di acqua salata

 

Ahimè, sono insignificante,
non conto niente,
sono solo un misero ciuffetto d’erba,
nessuno mi ammira come fanno con le rose e
le api non si posano su me.
Anzi,
vengo più volte calpestato
da chi passeggia
o viene a giocare a palla sul prato.

Pensi davvero di essere futile, banale e privo di interesse?
Guardati e
guarda il tuo bel colore.
Sei verde e tu insieme ai tuoi fratelli doni il colore ai prati.
Le mucche si cibano di te e grazie a te
loro produrranno tanto latte.

Io non sono che una piccola gocciolina di acqua salata,
eppure sono fondamentale.
Perché il mare e gli oceani sono formati da tante piccole “me”.

Da soli forse sembriamo nulla,
ma messi tutti assieme creiamo qualcosa che incanta e spaura,

creiamo Madre Natura

 

Daniele Cerioni (1979) è un poeta e favolista nato a Frascati. Laureatosi in Giurisprudenza all’Università “Sapienza” di Roma. Cresciuto ascoltando e apprezzando i più famosi cantautori italiani e da sempre appassionato di poesia, spinto da un’irrefrenabile voglia di esprimersi, inizia a scrivere testi nel lontano 2007, anno nel quale scrive dieci poesie; poi qualcosa si rompe e ricomincerà ad elaborare nuovi testi solamente nel marzo 2020, in piena pandemia da Covid-19. Durante il lock down trova il tempo e l’ispirazione per poter stendere numerosi componimenti presenti nella sua prima opera “Pensieri(in)versi”.
Oggi Daniele, dopo la pubblicazione de “La libertà delle farfalle“, PAV Edizioni, 2024, continua a scrivere le sue poesie e sta allargando la sua produzione anche al campo della scrittura dedicata ai più piccoli.

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 255° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Affitti crescenti e salari stagnanti: un cappio sempre più stretto

Affitti crescenti e salari stagnanti: un cappio sempre più stretto.

Nella nuova manovra del Governo c’è un dettaglio che spiega molto di quanto sta avvenendo nel mercato del lavoro italiano: un fringe benefit fino a 5mila euro annui per quei lavoratori assunti che, per lavorare, spostano di oltre 100 km. la propria residenza. Una misura suggerita dalla Confindustria che è spaventata da quanto sta avvenendo. Vediamo perché.

Fin dagli anni ’70 studi e sindacati misero in luce che nelle grandi città i lavoratori (ancor più quelli con bassi salari), rischiavano, a causa dell’alto costo degli affitti, di diventare lavoratori poveri. Chi poteva faceva un mutuo per una casa di proprietà. E qui si spiega perché, specie in Italia, è cresciuto in modo enorme il numero di proprietari e si è ristretto il mercato degli affitti.

Da qui sono nati i programmi di edilizia pubblica e gli accordi con i proprietari per affitti calmierati. Col tempo questi temi sono finiti ai margini, anche per la “vulgata” che la classe operaia non esistesse più.

Oggi a lanciare l’allarme su questo tema è la Confindustria, che vede salire dalle proprie imprese un grido di “dolore” in quanto non si trovano più giovani lavoratori italiani disposti a lavorare in città dove gli affitti sono elevati, mettendo a repentaglio la stessa nostra manifattura, che è la base della ricchezza della nazione. E intanto scopre che dal 2011 al 2023 sono 550mila i giovani italiani dai 18 a 34 anni che si sono trasferiti all’estero  – ma secondo la Fondazione Nord Est le cifre reali sono 1,5 milioni (I giovani e la scelta di trasferirsi all’estero, 2024) – mentre sono solo 70mila gli ingressi di questa fascia di età dai paesi avanzati in Italia, che risulta ultima in Europa per capacità di attrarre giovani dall’estero. Al Nord il 35% dei giovani è pronto ad andare all’estero per migliori opportunità di lavoro (25%) o di studio (19%).

Incide ovviamente anche il calo demografico e il fatto che oggi un giovane diplomato o laureato ha due genitori, almeno una zia/o senza figli e l’aspetta un’eredità, per cui è meno disposto a “tribolare” per lavorare, se il salario che porta a casa è basso e metà di esso serve per pagare l’affitto. Invece molti immigrati sono disposti a pesanti sacrifici: come quei riders che l’altro giorno nella civile (almeno un tempo) Bologna hanno pedalato fino all’una di notte con l’acqua fino alle caviglie per portare cibo a bolognesi che non solo non gli hanno dato un cent di mancia ma neppure li hanno ringraziati del servizio – una società di consegna (Just Eat) ha chiuso il servizio in quel giorno di bufera per salvaguardare l’incolumità dei suoi riders.

Dice lo studio della Confindustria [1] a pag. 97: “Il costo dell’alloggio, sia in termini di affitto che di acquisto, è un fattore chiave nella decisione di una persona o famiglia di trasferirsi per lavoro in un’altra area geografica. Quando i costi di alloggio in una determinata zona non riflettono adeguatamente le differenze di produttività e di salari offerti in quella regione, questo ostacola la mobilità territoriale. In un mercato ideale, infatti, i costi di affitto o di acquisto dovrebbero essere proporzionati al livello di produttività della regione e quindi ai salari medi. Prezzi delle case troppo alti rispetto alla produttività, anche in zone dove vi è alta domanda di lavoro e opportunità di occupazione, creano una barriera per i lavoratori che potrebbero essere disposti a trasferirsi in tali aree.” In sostanza si dice che questo fenomeno blocca lo sviluppo anche delle aree più avanzate, poiché trasferirsi in zone più “ricche” diventa proibitivo. Per le imprese di queste aree il rischio è la carenza di personale, mentre dove manca il lavoro (Sud, aree marginali) c’è disoccupazione. Più crescono le disparità regionali, più la somma di carenza di personale (in aree ricche) e disoccupazione (in aree povere) crea una miscela esplosiva. E l’Italia, avendo le maggiori disparità regionali di tutta l’Europa (Lombardia, Trentino, Emilia, Veneto sono ai primi posti nelle oltre 400 aree europee e le regioni più povere sono agli ultimi), rischia più di tutta Europa. Un esempio di come le disuguaglianze riducono lo sviluppo di un paese e del benessere di tutti, come a lungo hanno spiegato gli studi di vari economisti (J. M. Keynes, Federico Caffè, Giorgio Fuà[2], Paolo Leon, ….).

Da tempo nelle grandi città del Nord il mercato immobiliare (affitti e acquisti) era diventato molto costoso e non proporzionato ai salari medi, soprattutto dei giovani lavoratori, ma l’arrivo della “modernità” e delle multinazionali degli affitti brevi a favore di turisti ha fatto esplodere il problema, con tanto di manifestazioni di cittadini contro i turisti e di lavoratori che non riescono più ad abitare in città (neppure in periferia) dove i prezzi sono alle stelle e rinunciano al lavoro nonostante abbiano vinto concorsi nella pubblica amministrazione; con ciò mettendone in crisi la funzionalità, peraltro ulteriormente falcidiata dai tagli del Governo (blocco del turn over al 75% e 5,2 miliardi in meno per i Ministeri nel 2025).

La trappola della mobilità

Al Sud e in province deboli del Centro e Nord (come Ferrara) invece i costi di alloggio sono inferiori, ma ci sono scarse opportunità di lavoro e ciò porta ad una “trappola della mobilità”, con un pendolarismo crescente in auto e treni super affollati (e relativi ritardi) che peggiora la qualità di vita dei lavoratori.

Sono lontani gli anni in cui Adriano Olivetti apriva filiali al Sud con locali belli e spaziosi[3], anche perché le stesse aziende (che poi si lamentano) quotate in borsa oggi distribuiscono l’80% dei profitti agli azionisti (fonte Indagine Mediocredito, 2024) anziché investirli in azienda e si insediano nelle grandi città dove ci sono fornitori e clienti e il dialogo è faccia a faccia, nonostante si sia nell’era di internet[4]. Questa trappola della mobilità rende così strutturale la disoccupazione dei giovani italiani e favorisce l’immigrazione di chi è disposto a una vita dura e un rischioso trasferimento pur di sopravvivere; immigrazione che spesso viene contestata dagli stessi imprenditori quando si svestono di questo abito e indossano quello da cittadino.

Il rapporto Confindustria così prosegue: “a Milano, ad esempio, il canone di affitto mensile per un’abitazione di 60 mq. supera la media nazionale del 70%, mentre la produttività del lavoro è più alta solo del 40%. Questo significa che le differenze nei costi di alloggio sono sproporzionate rispetto alle differenze di produttività e, poiché salari e produttività tendono ad allinearsi (quando va bene, aggiungo io), il risultato è un costo abitativo proibitivo che scoraggia la mobilità dei lavoratori. Il problema si manifesta anche in altre province come Como, Venezia, Bologna, Firenze e Roma, oltre che in generale nel Nord-Ovest e nel Centro Italia. Allo stesso modo, città a bassa produttività presentano squilibri simili ma di segno opposto, specialmente nel Mezzogiorno, ma non solo. A Prato, per esempio, i costi di alloggio sono inferiori alla media nazionale del 13%, ma la produttività è più bassa del 36%”. A Prato c’è un’enorme comunità di cinesi che usa lavoro immigrato (pakistani in prevalenza) con bassi salari. Nelle province italiane si nota che la regione con più problemi, dopo la Lombardia, è l’Emilia-Romagna dove i costi di alloggio sono alti (specie a Bologna e Modena). Però c’è anche una produttività relativamente elevata, che si trascina dietro salari più decenti della media.

Città come Ferrara si pensava fossero avvantaggiate avendo costi di affitto più bassi, se avessero creato un collegamento ferroviario (una sorta di metrò) che consentisse di lavorare a Bologna o Modena e abitare a Ferrara. Ma oggi Ferrara rischia grosso: non ha creato questi collegamenti; la propria manifattura è in crisi; eppure continuano a crescere gli affitti – anche per via della città universitaria e degli affitti brevi della città turistica – per cui quei lavoratori che abitano in affitto in città (e i giovani assunti) si trovano nelle stesse condizioni delle città dinamiche (salari bassi e affitti alti).  Questa combinazione crea i presupposti per una emigrazione dei giovani locali ancora maggiore e per l’arrivo di sempre più immigrati, in un processo di “sostituzione” dei ferraresi e di impoverimento generale.

Tab. 1- Affitto medio e var.% dal 2018 al 2023 in alcuni capoluoghi

Fonte: A. Gandini su dati Agenzia Entrate Osservatorio OMI

 

La perdita di produttività del lavoro nella manifattura non è paragonabile infatti a quella di occupati nella ristorazione e commercio (che hanno salari più bassi) e porta in sofferenza i propri lavoratori cittadini in affitto, in una spirale di crescente impoverimento.

Tab. 2 Affitti e produttività del lavoro per aree geografiche selezionate

Concludendo, il disallineamento tra differenze nei costi di alloggio e divari di produttività rappresenta un vincolo alla mobilità territoriale. In Italia, questo problema è particolarmente evidente e necessita di soluzioni sistemiche per essere risolto. Soprattutto alla luce del declino demografico che sta riducendo la forza lavoro, sono necessari interventi di politica abitativa mirati, che possano allineare meglio i costi di affitto e acquisto alle condizioni economiche locali. Misure di sostegno per i canoni di locazione e un piano composito, volto a favorire la costruzione o riqualificazione di immobili a prezzi calmierati, potrebbero aiutare a ridurre gli squilibri attuali, andando ad attenuare anche la disoccupazione in alcuni territori e la carenza di personale in altri.

 

[1] https://www.confindustria.it/wcm/connect/3ecdad2a-a859-4768-a5fa-1c5fe93f69a2/PDF+completo.pdf?MOD=AJPERES&CONVERT_TO=url&CACHEID=ROOTWORKSPACE-3ecdad2a-a859-4768-a5fa-1c5fe93f69a2-paUmWOA

[2] Giorgio Fuà, Crescita economica, Le insidie delle cifre, Il Mulino, 1993.

[3] I Paesi dell’Europa occidentale sono stati atlantisti, fino a fare sacrifici autolesionisti. Basti pensare che l’Olivetti aveva già sperimentato il primo elaboratore elettronico al mondo, ma non ebbe il sostegno finanziario necessario perché dagli Stati Uniti vi furono tali e tante pressioni per cui Confindustria e Governo italiano intralciarono il disegno nato ad Ivrea.

[4] Si veda il libro di Enrico Moretti, La nuova geografia del lavoro, Mondadori 2012, che per primo ha individuato questo paradosso dello sviluppo per poli del capitalismo.

Il romanzo opaco della Ferrara fascista

Il romanzo opaco della Ferrara fascista

La città di Ferrara oggi appare sempre più epicentro di operazioni ideologiche di portata non solo locale, a cui bisogna prestare attenzione, poiché riconducibili al tentativo ormai quarantennale di una nuova narrazione del fascismo.

Sull’argomento, la casa editrice La nave di Teseo, a firma dell’ex-ministro e dirigente del Partito democratico Dario Franceschini, pubblica un romanzo breve, Aqua e tera, sullo sfondo storico della lotta tra socialismo massimalista e fascismo agrario ferrarese nei primi anni Venti del Novecento.

La vittoria da parte di quest’ultimo avrebbe determinato la diffusione nazionale di un vero e proprio modello, quello dello squadrismo agrario di Italo Balbo e Roberto Farinacci.

Su questo contesto si staglia una storia d’amore tra due giovani donne, la cui parabola si conclude con la fine della guerra e la liberazione da parte degli alleati. Aqua e tera è un tributo alla città natale dell’autore, con più di un richiamo a Il Romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani, tra le opere più importanti del Novecento italiano.

Franceschini ha il merito di parlare di un rapporto, quello tra bracciantato della campagna ferrarese e padronato inurbato in città, tra i più particolari e gravidi della storia recente italiana. Tuttavia la trama, pur non priva di alcune note emotive riuscite e di un intreccio esile ma talora accattivante, risulta priva di introspezione psicologica. La prosa asciutta innesca un ritmo repentino e ne risultano troppo spesso meccanicità e prevedibilità, soprattutto nei dialoghi.

Nella vicenda delle due protagoniste, sebbene le donne e le rispettive famiglie appartengano a due classi sociali distinte (Tina è borghese e Lucia viene dalla campagna), non vi è una distinzione psicologica e sociale accurata, a parte alcune sfumature; anzi Tina e Lucia, pur avendo un livello culturale differente, aderiscono al medesimo universo morale, vivendo esattamente allo stesso modo la relazione segreta, o la comparsa di un figlio illegittimo.

In realtà il bracciantato padano, come ha dimostrato lo studioso Marco Fincardi (Coppie di fatto. Costumi sessuali dei giovani nella Padania bracciantile, 1995), per tanti motivi non è ascrivibile all’universo morale borghese, se non altro perché avvezzo a un grado di promiscuità, alla presenza di orfani, figli non riconosciuti e costumi sessuali differenti, frutto di condizioni di vita radicalmente diverse e della separazione tra i due mondi.

Al contrario, nel modello bassaniano, a cui pure l’autore guarda, la lezione della profonda diversità tra borghesi e società rurale padana è onnipresente. Nelle Cinque storie ferraresi, la vicenda drammatica di Lida Mantovani mostra il «dentro» le mura della borghesia ferrarese e il «fuori» del mondo rurale separati da un muro insuperabile, valicato solo dalle angherie e dai privilegi attribuiti alla sordida caratura morale del borghese, oppressore secolare dei secondi.

Lo squadrismo? Colpa del movimento operaio

Il problema vero del libro è però la ricostruzione storica schematica, che solleva più di una perplessità. La principale è questa: Franceschini descrive la violenza squadrista scatenatasi nelle campagne alla fine del 1920 come conseguenza di una violenza di segno opposto, quella del movimento bracciantile; ma se è vero che il territorio ferrarese vide un massiccio successo delle leghe socialiste, anche attraverso l’uso del boicottaggio e di altri sistemi violenti per tenere unito il fronte di classe ed evitare crumiraggi, il montaggio degli eventi produce non solo una relazione causa-effetto incompleta rispetto alla reazione del padronato, ma un effetto giustificativo della reazione stessa.

L’autore si sofferma sulle condizioni di miseria del bracciantato, ma il racconto delle origini del socialismo massimalista è quantomeno riduttivo. La coazione sociale delle leghe compare come una rabbiosa esagerazione e non come una strategia di resistenza per garantire salari e giornate lavorative accettabili.

Le pratiche massimaliste miste a eccessi, che generano frantumazioni e odio (con percentuali, va ribadito, risibili rispetto ai numeri della violenza squadrista), non trovano il contraltare nella precisa ricostruzione delle responsabilità della borghesia ferrarese, storicamente contraria a qualsiasi avanzamento egualitario, o miglioramento della condizione dei subalterni delle campagne, dunque parte primaria nella distruzione di quel minimo di coesione sociale necessaria a mediare i conflitti.

Basta consultare un classico come Padania di Guido Crainz (Donzelli, 2007) per trovare la descrizione di un padronato emiliano-romagnolo cieco verso qualsiasi cambiamento.

Una borghesia agraria definita recentemente da Alessandro Saluppo (in un contributo al volume collettaneo Il fascismo in persona. Italo Balbo, la storia e il mito, Mimesis, 2021) sorda a qualsiasi richiesta di emancipazione delle masse.

In Aqua e tera manca dunque un’adeguata contestualizzazione della lotta come necessità assoluta per la sopravvivenza e l’emancipazione, e un romanzo storico, laddove non restituisca appieno, attraverso un rigoroso realismo, sentimenti, emotività, temperie di un’epoca, perde la sua forza vitale.

Insomma Franceschini, lungi dal creare profondità, comprime gli eventi restando pericolosamente in superficie, per cui il concatenamento di fatti, attori ed eventi, non genera nel lettore le domande che porterebbero verso un chiaro quadro storico.

Basti aggiungere che in Aqua e tera il ritmo narrativo produce non solo lo schema eccessi delle leghe-reazione squadrista, ma arriva a far sembrare che lo stesso Don Minzoni, parroco ad Argenta e una delle più celebri vittime delle camicie nere, avendo provocato platealmente gli squadristi, in fondo la sua tragica fine se la sia andata a cercare.

Esercizi di rivalutazione di un criminale pluriomicida

Quanto alla descrizione dello squadrismo, l’autore sorvola su aspetti essenziali della sua composizione sociale quali il reclutamento di delinquenti comuni e pregiudicati. Queste bande paramilitari extralegali (tollerate o appoggiate dallo stato), agli ordini di Italo Balbo, usarono la violenza e la paura come tecnica, la bestialità e il rito della crudeltà come forma di umiliazione per ridurre il militante socialista alla condizione animale.

Lo scrittore Girolamo De Michele, autore del libro Un delitto di regime. Vita e morte di don Minzoni, prete del popolo (Neri Pozza, 2023), ricorda a tal proposito che «Balbo è responsabile diretto, morale o politico di omicidi premeditati, o causati dal mix di cocaina e alcool che portava gli arditi fascisti a trascendere dalla bastonatura all’omicidio». Un mondo che trova in Aqua e tera vuoti narrativi e passaggi tenui.

Si dirà che non era nelle intenzioni del romanzo una ricostruzione serrata degli eventi. Purtroppo la materia scelta lo richiede. Infatti, rinunciando a tratteggiare la figura di Balbo in tutto il suo abominio, Franceschini non può non sapere che la destra italiana e il suo stesso concittadino, Vittorio Sgarbi, in spregio ai portati della storiografia recente, più volte hanno proposto la celebrazione del gerarca ferrarese, trasvolatore ed eroe dell’aeronautica, la cui tomba, a Orbetello, è meta di pellegrinaggio del neofascismo odierno.

Una celebrazione acritica di un capo squadrista che, ricorda Nick Carter, portò nel ferrarese una catastrofe sociale: distruzione economica, violenza e morte. Nel già citato Il fascismo in persona, lo stesso Carter ribadisce che è chiaro come «Il ritorno di interesse per Italo Balbo, con l’annesso moltiplicarsi delle iniziative celebrative, sia stato prodotto da una memoria selettiva, che ha oscurato gli aspetti più deprecabili del passato per esaltare un solo aspetto: il Balbo aviatore».

Sottesa a quest’operazione giace la neanche troppo velata volontà di ridurre la portata delle gravissime responsabilità morali e storiche del fascismo attraverso personaggi dal profilo apparentemente moderno. Tra selezioni e omissioni, l’obiettivo finale è far passare il messaggio che in fondo è esistito anche un fascismo buono e capace. Celebrare la grandezza di aspetti unidimensionali o del tutto parziali, serve soprattutto a dimenticare il tutto e la cornice.

Ancora De Michele, tracciando un impietoso profilo biografico del fascista ferrarese, ricorda che le trasvolate atlantiche sono pura propaganda di regime attuata con molti anni di ritardo rispetto ai competitori stranieri, e che il prezzo delle imprese aeree ovviamente recava un’alta percentuale di incidenti e caduti.

Oltretutto, la conduzione dell’aeronautica a guida Balbo, ricorda De Michele, evidenzia che le «risorse sono concentrate sulle futili gare […] in compenso le ore di addestramento effettivo per la restante aviazione sono la metà di quelle dell’aviazione francese e della R.A.F., un terzo dell’aviazione statunitense».

Dalla descrizione emergono tratti cialtroneschi, oltre che spregiudicati, soprattutto quando si ricorda che il gerarca ferrarese, nel 1933, prima di essere sollevato dall’incarico in aviazione, «nasconde le spese e tarocca i bilanci effettivi: e mente sul reale stato della flotta».

Anche lo storico Paul Corner, tra i più autorevoli studiosi del fascismo ferrarese e italiano, definisce il gerarca ferrarese «un uomo di profondo cinismo, che curava la sua stella senza badare troppo alle implicazioni per gli altri […] Il fascismo per lui fu soprattutto veicolo di ascesa e di affermazione personale».

La letteratura è sempre contemporanea

Per completare il quadro di questo romanzo opaco di Ferrara, partito dall’input del Franceschini scrittore, occorre infine portare la riflessione critica sul quando di un’opera letteraria.

Se la letteratura, come la storia per Croce, è sempre contemporanea, attiva nel presente e per il presente di chi legge, allora affrontare frettolosamente gli argomenti suddetti, farlo oggi, nell’Italia meloniana, nell’Europa degli Orban e di Frontex, che tentenna tra la tutela dei diritti umani e la ferocia ordoliberista, non può lasciare indifferenti rispetto a certi nodi intellettuali.

Semmai la riflessione sulla storia italiana, attraversata fin dall’Unità nazionale dalla questione sociale, dovrebbe aprire ad analogie con l’attuale ingiustizia globale, come pure dovrebbe accadere con la questione migranti, che ha trasformato il Mediterraneo in un luogo di morte e la rotta balcanica in un immenso campo di torture.

Dunque, l’opacità di Aqua e tera, o meglio la scelta di dare per scontati alcuni aspetti controversi di carattere storico, pone un problema di opportunità, perché avviene nell’epoca in cui è diventata impensabile ogni alternativa al capitalismo, e il militarismo e le guerre imperano – allontanando, per citare Bobbio, sempre più la morale dall’azione politica.

Ciò aggiunge un sovrappiù di responsabilità per chi si occupa della materia. Contestualizzare con rigore per evitare di alimentare equivoci e strumentalizzazioni, magari innestarsi nel solco della tradizione letteraria per vivificarla e tramandarne la lezione rinnovata di una delle pagine più vive e alte della storia d’Italia, è la sfida vera sottesa alle pagine di un libro che ha come sfondo il ventennio fascista.

Quest’impostazione, a sprazzi, sembra essere nelle intenzioni di Franceschini, che produce poetiche carrellate sulla Ferrara di Antonioni, nonché l’incontro suggestivo della protagonista femminile con Renata Viganò, indimenticata autrice de L’Agnese va a morire

Ed è appunto nel paragone con la tradizione letteraria, se si pensa alla minuziosa e filologica ricostruzione del paesaggio vallivo da parte di Viganò, che gli intenti mostrano i loro limiti. Lo schema di Aqua e Tera invece porta alla memoria più i tipi di Guareschi che l’implacabile affresco di Viganò o Fenoglio.

Regime, architettura e ideologia: il caso Tresigallo

Eppure l’autore, che ha vissuto da protagonista politico e da intellettuale gli anni del berlusconismo, non può ignorare il tentativo in atto, dagli anni Novanta a oggi, di accreditare una narrazione nuova e riduttiva del fascismo, tesa appunto all’equiparazione di fatti, eventi, protagonisti, che equiparabili non sono. Questo processo di revisione acritica investe l’arte, la letteratura, la storia, la toponomastica, e persino l’architettura monumentale.

È ancora una volta il caso di Ferrara, dove operazioni culturali ambigue avvengono in merito alla sponsorizzazione artistica del paese di Tresigallo (si veda il sito Tresigallo, la città metafisica), rifondato negli anni Trenta in base a un progetto di architettura razionalista, su iniziativa di una figura controversa e poco studiata quale il gerarca Edmondo Rossoni.

Qui la celebrazione della «città metafisica» (si tratta di un borgo di poco più di 4.000 abitanti, non di una città, che nulla ha a che fare con la metafisica, ascrivibile al 1916, ovvero all’arrivo a Ferrara dei fratelli De Chirico durante la Prima guerra mondiale) anziché passare per la risemantizzazione in chiave repubblicana del paese e dei suoi monumenti, quindi passando al setaccio gli eventi, con una ricostruzione dialettica che tenga conto di eventuali criticità, conflitti di classe – insomma, tenendo conto di scenari eventualmente anche divisivi –, si rivolge ad aspetti espressamente campanilistici.

Ne consegue, come in precedenza con la memoria selettiva verso le imprese di Balbo, l’agiografia di Rossoni, che diviene l’ennesimo tentativo di firmare una narrazione indistinta a livello valoriale, votata all’esaltazione del paese natio in chiave nostalgica, promozionale e turistica, senza consapevolezza critica del luogo. Operazioni pseudo culturali che lungi dal creare conoscenza, producono ulteriore confusione.

Certo, chi si occupa di Tresigallo «da dentro» ha l’attenuante generica di narrare di una comunità portatrice di un complesso psichico proprio di quei luoghi in cui la memoria comporta ferite e lacerazioni che possono condurre alla ricerca di scorciatoie. Comunità tali, per il fatto di essere state fondate o ri-fondate dal fascismo, risultato dalla parte totalmente immorale della storia, si ritrovano nell’impossibilità di ripudiarlo del tutto, senza finire per negare una parte di sé stessi.

Tuttavia, al netto di un comprensibile amore per il territorio, impostare un discorso ricevibile sulle cosiddette «città di fondazione» (o rifondazione) del ventennio dovrebbe far propria la lezione per cui i monumenti agiscono nello spazio pubblico in quanto significanti portatori della memoria di un passato in costante divenire.

I monumenti vivono in relazione alla contemporaneità e per questo fungono sempre da strumento del potere politico utile a revisioni arbitrarie. Per cui ogni rappresentazione, iscrivendosi in una cornice storica, – anche quando la travalica perché divenuta opera d’arte –, non può esimersi dal fare i conti con la nuova epoca in cui viene calata.

Parlare del razionalismo architettonico, valorizzare peculiarità urbanistiche e aspetti architettonici o funzioni sociali, non può trasformare la vicenda Tresigallo in un «modello astratto», privo cioè di interdipendenze e relazioni con l’esterno, a maggior ragione quando si tratti della natura classista e liberticida del fascismo italiano. Questa prospettiva falsata, astraendo la vicenda dal resto del contesto padano e europeo, fornisce un quadro mistificato e fuorviante.

Dunque, senza la ricostruzione del contesto di profonda barbarie del fascismo agrario ferrarese, e privi dell’immaginario su una classe dirigente che ha schiacciato economicamente e moralmente la classe lavoratrice italiana, responsabile tra l’altro di aver ingigantito il divario socio-economico tra nord e sud del paese, ecco che la decontestualizzazione genera la rimozione e rivalutazione (Balbo, Rossoni) che avviene non rispetto ai massimi valori civili del genere umano, come direbbe Hannah Arendt, ma nel piccolo cabotaggio, in quanto espressioni indistinte del territorio.

In questo discorso non importa più la Storia, ovvero l’orizzonte globale, ma – al prezzo di far passare come progressivi metodi e forme neo-feudali –, la messinscena di un presunto beneficio arrecato alla comunità locale: versione strapaesana del fascismo.

Agli autori e operatori culturali, per affrancarsi da operazioni che sono portatrici di perdita di senso e valori, non basta il semplice trincerarsi dietro qualche frase di ripulsa sul ventennio. Trattasi di materia per cui, che ci si occupi di promozione del territorio o di sé stessi, di bisogno di affermazione o di ignoranza di metodi, condita da ingenuità o cinismo, comunque sia le responsabilità vanno sempre rispedite al mittente.

Tornando al romanzo Aqua e tera, Franceschini ha perso l’occasione di incidere su un argomento vivo dell’attualità italiana. Il giudizio si estende non tanto allo scrittore Franceschini, che gode dell’attenuante di non essere un letterato di professione, bensì all’intellettuale cattolico di formazione storica che, nel trattare una materia delicata e importante, finisce per generare un’involontaria complicità con un contesto culturale locale e nazionale già profondamente inquinato dalle deformazioni prodotte ad arte dalle classi dirigenti italiane degli ultimi decenni, centro-sinistra incluso.

Ferrara, un campo di esperimenti

Se Ferrara in passato è stata il laboratorio politico dello squadrismo agrario, in tempi recenti, attraverso le vicende politiche dei comuni di Bondeno e Goro – contestualmente alla crescita dei consensi della destra nell’Emilia un tempo rossa – ha fatto da apripista allo sfondamento della lega a sud del Po, fino alla conquista del capoluogo estense.

Una provincia in cui l’abuso della storia come veicolo identitario e propagandistico (Bundan Festival, Palio di Ferrara, riscoperta o invenzione di tradizioni indistinte), favorito dall’adesione delle amministrazioni precedenti a guida Pd alle politiche neoliberiste (basata sull’intercettazione dei flussi attraverso l’allestimento di grandi e piccoli, ma continui, eventi-vetrina), ha portato all’ossessione dell’attuale destra ferrarese per una fantomatica «identità ferrarese».

La Ferrara post-Covid oggi mostra tutti i segni di questa lenta ma costante deriva, culminata nella recente apertura nel capoluogo di una sede di Forza Nuova. Provocazione che in città ha suscitato indignazione, ma le iniziative a contrasto sono rimaste nell’ordine del simbolico.

Contestualmente, sul piano sociale, la turistificazione del centro storico, sommata alla folta presenza studentesca in città, produce una doppia spinta: quella centrifuga, che espelle le famiglie dal centro per via della lievitazione degli affitti e dei costi degli immobili; la centripeta, per cui flussi di turisti e studenti la vivono e attraversano fugacemente, senza per questo abitarvi.

Il risultato finale è l’incremento delle disuguaglianze e la scomparsa definitiva di modelli valoriali, o del «senso in comune» dei luoghi, direbbe Jean-Luc Nancy.

Tutti questi fili, intessuti alle trame di cui sopra, instillano il sospetto che la città, per il secondo mandato in mano a una giunta di destra, sia diventata volano, proprio laddove tutto è cominciato, di un laboratorio politico-culturale atto alla normalizzazione del fascismo.

Ad aggravare il quadro, uno scenario in cui tale normalizzazione non avvenga soltanto attraverso le strumentalizzazioni culturali delle destre, bensì per mezzo di una rielaborazione imputabile a personaggi apparentemente apolitici o super partes, o ancora una volta per mano del fuoco amico del cosiddetto centrosinistra «moderato».

Cover: Ferrara, via Ercole d’Este con la nebbia (foto di Beniamino Marino)

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Parole e figure / Ö di Raúl Nieto Guridi

Esce in libreria “Ö”, di Raúl Nieto Guridi, con Kite edizioni. Un silent book che è un vero inno all’amore per la vita e al rispetto per la natura.

Un cerchio, due puntini sopra. Un orso panciuto stilizzato che racconta di un orso intrappolato in quel cerchio infinito. Orso dopo orso. Tavola dopo tavola. Super O.

Oppure una grande O di orso con gli occhietti sopra a mo’ di cappello o di binocolo, un circolo perfetto come il circolo polare artico, un tratto che inizia e, ad un certo punto, si chiude. Come se una matita delicata scorresse su un foglio di carta bianca e decidesse di cominciare un suo percorso. Lasciando scie di immagini, giochi e sogni. Orme.

Oppure un cerchio perfetto come la meravigliosa terra avvolta dalla candida neve, un cerchio universale magico dove perdersi con l’immaginazione e la voglia di sperare. Con bianco e nero a dominare. Aliti che sussurrano.

Ö è un orso simpatico e curioso che, un inverno, invece di ibernarsi, decide di divertirsi, di vivere la stagione e di godersi la bellezza della natura e dei suoi rami intrecciati come abbracci. È moderno, lui, fuori dagli schemi. Quasi un rivoluzionario.

L’orso abbraccia gli alberi, non dorme al caldo, come ha sempre fatto, ma, con coraggio e determinazione, cambia la sua solida abitudine di sempre e prende un’altra direzione, quella di esplorare il mondo; la comfort zone diventa un ricordo, l’orizzonte la bussola.

La terra, là fuori, bellissima, lo aspetta, a braccia aperte.

Senza il noioso – e per lui inutile letargo (perché mai perdersi tanta bellezza?) – può trotterellare per terre sterminate, entrare in relazione con un cervo, con un pupazzo di neve, con l’aria frizzantina, con un albero gigante e con molti altri esseri, animati e non, che incontra al suo passaggio. C’è però un’unica specie con cui non vuole davvero avere contatti, visto come si comporta, e siamo noi.

La natura è in bianco e nero, serena, tranquilla, pacifica, pulita, trasparente, sola.

In essa, oltre agli animali, ecco però comparire un altro personaggio, strano e un poco inquietante: la spazzatura. Questo incubo quotidiano. Inizialmente pare una forma indistinta ma poi risalta subito, in quanto è l’unico elemento colorato dell’albo e, col proseguire della storia, diventa sempre più presente. Un giallo che punge.

Dopo la prima interazione di Ö con la spazzatura – tracce impunite dell’uomo che sovrastano le orme del nostro amico – l’orso è deluso, ma soprattutto spaventato e inquietato, in quanto percepisce che qualcosa più forte di lui sta per arrivare.

Una selva oscura.

Eppure, a capire che non abbiamo un pianeta B non serve un genio….

Raúl Nieto Guridi, Ö, Kite Edizioni, Padova, 2024, 40 p.

Ferrara Film Corto Festival Ambiente è Musica: tutti i premiati

Si è chiusa sabato 26 ottobre la VII Edizione del Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica” (FFCF) alla Sala Estense. Ospite d’onore Emiliano Toso. Annunciato il gemellaggio con “Luoghi dell’Anima – Italian Film Festival”, ideato da Andrea Guerra

‘Sold out’ il 26 ottobre, per la serata conclusiva della VII Edizione del Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica” (FFCF), al Teatro Sala Estense, con il Concerto esperienziale a 432 Hz del pianista e compositore Emiliano Toso e la cerimonia di premiazione. Il Concerto esperienziale ha visto la presenza straordinaria dell’Arch. Alfredo Bigogno e del suo Sistema MAMI VOiCE. La serata è stata organizzata con il sostegno di Beauty Pioneers, Giannantonio Negretti · Humanistic Cosmetics e Scivales Pianoforti.

Emiliano Toso, foto Valerio Pazzi

Annunciato il gemellaggio con “Luoghi dell’Anima – Italian Film Festival” – festival internazionale del cinema sui territori e la bellezza ideato da Andrea Guerra e promosso dall’Associazione Culturale Tonino Guerra – la cui V Edizione si terrà dal 9 al 15 dicembre fra Santarcangelo di Romagna, Rimini e Pennabili. A tale importante evento Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica” parteciperò con cortometraggi provenienti dalle sue edizioni.

Al concerto è seguita la Cerimonia di Premiazione dei cortometraggi in concorso durante la quale sono stati attribuiti i premi principali nelle 3 categorie di iscrizione (targa e premi in denaro), i 6 premi speciali (targa) e le menzioni speciali della giuria professionale, composta da cinque illustri personaggi del mondo del cinema, dello spettacolo e delle arti, in maggioranza femminile. Presieduta da Andrea Guerra, musicista e compositore di colonne sonore, la giuria professionale è stata composta da Loredana Antonelli, artista multimediale, Ludovica Manzo, cantante e compositrice, Rita Bertoncini, docente e documentarista, Roberta Tosi, storica e critico d’arte. Consegnato anche il premio speciale attribuito dalla Giuria Giovani al miglior corto in concorso, grazie alla collaborazione con l’Istituto di Istruzione Superiore Giosuè Carducci e l’Istituto di Istruzione Superiore Luigi Einaudi di Ferrara.

Di seguito la lista dei vincitori.

PREMIO FFCF 2024 AL MIGLIOR CORTO NELLA CATEGORIA “AMBIENTE È MUSICA”

Vincitore: It takes a village…, di Ophelia Haratyunyan

IT TAKES A VILLAGE (Armenia, 23′, “Ambiente è Musica”) di Ophelia Harutyunyan

Mariam vive in un remoto villaggio armeno senza uomini. Nel giorno del suo compleanno, le speranze di riunirsi con il marito per i festeggiamenti vanno in frantumi.

Con la seguente motivazione: Per la semplicità, l’immediatezza, la forza del racconto corale di resistenza, resilienza e reazione ad una situazione subìta. Per la limpidezza e l’incanto con i quali sono dipinti i tratti del valore umano e universale della collettività come entità di supporto e sostegno.

It takes a village, Ophelia Harutyunyan, foto Valerio Pazzi

PREMIO FFCF 2024 AL MIGLIOR CORTO NELLA CATEGORIA “BUONA LA PRIMA”

Vincitore: Vision d’été, di Anna Crotti, Lucrezia Giorgi e Anais Landriscina

VISION D’ÉTÉ (Italia, 20′, “Buona la Prima”) di Anna Crotti, Lucrezia Giorgi e Anaïs Landriscina

Chi siamo noi essere umani e come ci rapportiamo alla Natura? Abbiamo un’educazione innata nei confronti della Terra? Nel mezzo di un’estate torrida, in cui una volta di più il cambiamento climatico appare in tutta la sua inarrestabile potenza, la protagonista, una giovane francese, chiama sua madre confidandole in maniera concitata di sentirsi stritolata dall’atmosfera cittadina e dalla crescente gentrificazione del territorio su cui sorge la sua città natale, Marsiglia. È l’inizio di un viaggio, di una fuga che non troverà risposte ma solo altre domande.

Con la seguente motivazione: Per la capacità di essere onesto e diretto nel denunciare, con grande attenzione, originalità e sensibilità, la costante e inarrestabile dissoluzione del mondo moderno e contemporaneo, attraverso uno sguardo raro e particolare che a tratti si fa poesia, che invita a so-stare, a fare silenzio e a porsi domande.

Anais Landriscina e Anna Crotti per Vision d’été, foto Valerio Pazzi

PREMIO FFCF 2024 AL MIGLIOR CORTO NELLA CATEGORIA “INDIEVERSO”

Vincitore: Tu quoque, di Luca Fattori Giombi

TU QUOQUE (Italia, 11′, “Indieverso”) di Luca Fattori Giombi

È trascorso molto tempo dall’ultima volta che ha visto Sarah, sua sorella, ma Abdel non può più aspettare oltre, deve assolutamente parlare con lei. Ne scaturirà un incontro che segnerà in maniera irreversibile la dimensione più profonda del loro rapporto

Con la seguente motivazione: Per la capacità e il coraggio, attraverso una sceneggiatura ben costruita in cui il crescendo dei dialoghi e della tensione rendono il colpo di scena finale un necessario e salutare pugno nello stomaco, di incrociare e affrontare in maniera intersezionale tematiche delicate e scottanti, soprattutto in certe culture sulle quali purtroppo vige ancora un atteggiamento patriarcale e giudicante da parte della società e del mondo dell’informazione.

Tu quoque, Miguel Gatti, foto Valerio Pazzi

PREMIO FFCF 2024 DELLA GIURIA GIOVANI AL MIGLIOR CORTO

Vincitore: Super Giò, di Gianni Aureli

SUPER GIÒ (Italia, 20′, “Indieverso”) di Gianni Aureli Giò vive con suo fratello Francesco e due grandi passioni: i documentari sulle farfalle e i supereroi. Da quando il suo amico Marco ha inventato le tabelle colorate che scandiscono la sua giornata, per lui è tutto più sereno. Perché Giò è giovane, fa il designer ed è nello spettro autistico: nulla è più importante di Francesco e della sua routine, le due cose che danno forma al suo mondo. Quando Francesco scopre di avere pochi mesi di vita, Giò deve dare al suo mondo una forma nuova.

Con la seguente motivazione: Per l’ottimo trattamento delle tematiche con approccio delicato e ironico. Per la capacità di puntare i riflettori sulle potenzialità delle persone con disabilità.

PREMIO FFCF 2024 AL “MIGLIOR DOCUMENTARIO”

Vincitore: Home, di Nina Baratta e Valerio Armati

HOME (Italia, 17′, “Indieverso”) di Valerio Armati e Nina Baratta

Un palazzo occupato: 60 stanze, 70 famiglie, 50 bambini. Due registi: Valerio che ha 9 anni e Nina che ne ha 39. Due autori con in comune una grande sensibilità, si uniscono per documentare una realtà delicata e complessa, al fine di raccontare cosa significa vivere in occupazione. Le interviste agli abitanti, attraverso risposte precise, fatte di numeri, cercano di portare ordine nello spazio sconosciuto dell’occupazione mentre i tableaux vivant ci mostrano cristallizzata la realtà di quei luoghi, lasciando a chi guarda il tempo per respirarli fino in fondo e farli propri. Un percorso immersivo che sa oscillare tra la fantasia del bambino e la realtà, e che sa portarci dentro questo mondo spesso distante e strumentalizzato in modo semplice e diretto, senza retorica.

Home, Nina Baratta, foto Valerio Pazzi

PREMIO FFCF 2024 ALLA “MIGLIOR FOTOGRAFIA”

Vincitore: José Azuela per “Trinidad”

TRINIDAD (Messico, 11′, “Ambiente è Musica”) di José Manuel Azuela Espinosa e José Azuela

Ambientato negli anni Cinquanta, questo western messicano racconta la storia di tre bambini che, desiderosi di conservare il ricordo del nonno, ne rubano le ceneri dal cimitero.

Trinidad, Jose Manuel Azuela Espinosa, foto Valerio Pazzi
Trinidad, Jose Manuel Azuela Espinosa, foto Valerio Pazzi

PREMIO FFCF 2024 ALLA “MIGLIORE ATTRICE”

Vincitrice: Nanor Petrosyan per “It takes a village…”

PREMIO FFCF 2024 AL “MIGLIORE ATTORE”

Vincitore: Riccardo De Filippis per “Benzina”

BENZINA (Italia, 20′, “Indieverso”) di Daniel Daquino

Vincenzo gestisce un distributore di benzina su una strada provinciale. Soffre di un disturbo ossessivo compulsivo che rende la sua vita piena di gesti e rituali maniacalmente ordinati. Passano le ore, le canzoni allo stereo, le macchine e gli scherzi di due ragazzini. Solo una donna sembra accorgersi di Vincenzo e accendere in lui qualcosa che lo fa reagire in modo inaspettato.

PREMIO SPECIALE FFCF 2024 “#CLIMATECHANGE”

Vincitore: Dr Vaje, di Carmelo Raneri

DR. VAJE (Italia, 20′, “Ambiente è Musica”) di Carmelo Raneri

In un barrio marginale dell’Avana, vive e lavora “Dr. Vaje” un filosofo-calzolaio che dona nuova vita a scarpe oramai logore, nel rispetto della Madre Terra.

Dr Vaje, Carmelo Raneri, foto Valerio Pazzi

PREMIO SPECIALE FFCF 2024 “MUSICA INDIE”

Vincitore: Stephen Warback per “One note man”

THE ONE NOTE MAN (Regno Unito, 22′, “Ambiente è Musica”) di Jason Watkins

Un musicista vive una vita premurosa. Ogni giorno è esattamente come il successivo, proprio come piace a lui. Un giorno, però, la sfortuna e il destino si scontrano, interrompendo la sua routine e sconvolgendo il suo mondo per sempre

MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA

Vincitore: Radio perla del tirreno, di Noemi Arfuso

RADIO PERLA DEL TIRRENO (Italia, 17′, “Buona la Prima”) di Noemi Arfuso

Mimmo Villari nel 1975 ha 29 anni e vive in Calabria. In quel periodo sorgono le prime esperienze di radio pirata in Italia. Villari è elettrizzato dalle voci a riguardo e non perde tempo: si auto costruisce un trasmettitore in fm e mette su così Radio Perla del Tirreno, la prima radio pirata di Bagnara Calabra. Attraverso la cronologia delle registrazioni in radio e dei filmati girati da Mimmo stesso si ottengono intrecciate la sua storia e quella della città. Le voci della radio riflettono sulla politica, sulla filosofia, sull’ educazione civica, creando un discorso che è il ritratto di una società e di un’epoca.

MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA

Vincitore: Ginevra Francesconi per “A voce nuda”

A VOCE NUDA (Italia, 16′, “Buona la Prima”) di Mattia Lobosco

Cosa faresti se un giorno una persona senza volto ti ricattasse e diventasse il tuo peggior incubo? La prima reazione di Camilla, musicista, 17 anni, dopo essere stata vittima di sextortion è quella di vergognarsi, nascondersi e rinunciare alle sue passioni e alle sue esibizioni. Riuscirà a trovare la forza per reagire e riappropriarsi di ciò che le è stato strappato?

MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA

Vincitore: Mattia Mazzini per “50mm”

50MM (Italia, 18′, “Buona la Prima”) di Joseph Ragnedda

Will è un ragazzo molto giovane che ha ereditato dal padre la passione per la fotografia. Quando un giorno scopre alcune foto scattate a casa sua, cercherà di capire cosa davvero si nasconde dietro quegli scatti.

Il Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica” è Patrocinato dalla Regione Emilia-Romagna, dalla Provincia di Ferrara, dal Comune di Ferrara, dall’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna e dalla RAI TGR.

Con il sostegno di Beauty Pioneers, Giannantonio Negretti-Humanistic Cosmetics, Terra Viva Design, Pubbliteam; partner istituzionali: Museo Civico di Storia Naturale di Ferrara; partner organizzativi: Associazione Ferrara Musica, Consorzio Factory Grisù, Officine Europa APS, Scivales Pianoforti, Mami Voice, Notorious Cinemas; partner didattici: Istituto di Istruzione Superiore Luigi Einaudi, Istituto di Istruzione Superiore G.Carducci, Istituto di Istruzione Superiore Vergani Navarra, Blow Up Academy; partner distributivi: Associak, Première Film, Son of a Pitch, Sayonara Film; ospitalità: Radisson Ferrara, Hotel Touring, Princess Art Hotel Ferrara. Partner editoriali: Add Editore, Edizioni Primavera, il Mulino, Pendragon; in partnership con: Ferrara La Città del Cinema, Luoghi dell’Anima Ita Film Fest, Settetre Music, Wildflowers Laboratorio Floreale, Periscopionline,it, CNA Ferrara, CNA Foer, Officina Teatrale A_ctuar, ESMA Creative Studio. Un ringraziamento alla libreria laFeltrinelli, alla libreria per ragazzi Testaperaria di Ferrara e alla Cooperativa Culturale Giannino Stoppani / Accademia Drosselmeier.

 

Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica”: www.ferrarafilmcorto.it

Luoghi dell’Anima – Italian Film Festival: https://www.luoghidellanima.it

Foto Valerio Pazzi

Fattore D: dal PNRR all’Equità di Genere
Seminario, 28 ottobre 2024, ore 15,45-18,30, Ferrara

Il progetto delle Destre, l’illusione del Campo Largo e la borsa della spesa: vuota

Il progetto delle Destre e l’illusione del Campo Largo

Siamo così arrivati alla terza Legge di stabilità del governo Meloni, la prima con le nuove regole del Patto di stabilità europeo. E ricompare la parola “sacrifici”, che è più semplice tradurre come un ciclo lungo di austerità per i ceti più deboli.

Una borsa della Spesa sempre più vuota

Infatti, se è vero che, da una parte, le nuove regole di rientro dal deficit e dal debito sembrano più lasche di quelle precedenti, dall’altra, diventano più “ cattive”, nel senso che l’indicatore fondamentale che si prende come riferimento è quello della spesa primaria netta (al netto cioè degli interessi sul debito e di una serie di altre voci minori). Ciò si traduce per l’Italia in un tetto di crescita annua della spesa primaria netta dell’ 1,5% per ciascuno dei prossimi 5 anni, ma, con un’inflazione stimata a circa il 10% complessivo da qui al 2029, questo significa un taglio di più di 2 punti percentuali.
Taglio della spesa che vuol dire sostanzialmente meno spesa sociale e diminuzione dei servizi pubblici, per circa 12-13 miliardi all’anno per i prossimi 5 anni, anche se
si sostiene falsamente che la spesa sanitaria aumenterà. Facendo finta di non vedere che essa, in realtà, rimarrà anche nei prossimi anni sostanzialmente stabile rispetto al PIL e che viene sostenuta, non da una tassazione degli extraprofitti delle banche, ma da un semplice anticipo rispetto alla loro normale imposizione fiscale futura.

Diverse voci si alzeranno per dire che, tutto sommato, si tratta di cifre sopportabili. Soprattutto perché – dicono sempre gli estimatori del governo – siamo in presenza di una crescita dell’occupazione e anche delle entrate tributarie. Ovviamente, si dimenticano di aggiungere che il primo dato si accompagna con una sostanziale stasi del monte ore lavorato annuo, il che vuol dire che l’aumento dell’occupazione, trainato soprattutto dai settori del turismo e dei servizi, avviene con orari di lavoro più bassi (e anche con salari ridotti), ovvero con l’incremento del lavoro povero. E che le maggiori entrate tributarie gravano in particolare su lavoratori dipendenti e pensionati, visto che nei primi 9 mesi dell’anno l’incremento registrato di 22 miliardi rispetto allo stesso periodo del 2023 deriva soprattutto dalle loro trattenute Irpef.

Insomma, un quadro non propriamente favorevole per i settori sociali più deboli, ma neanche molto utile per il consenso del governo. Che, probabilmente, almeno nelle sue parti più consapevoli, ne è anche avvertito e che, non a caso, prova ad ovviarvi facendo ricorso ad altri strumenti.

Il progetto meloniano

Il primo è certamente quello che sta funzionando in tutta Europa nel portare il vento in poppa alle destre, quello cioè di far leva sulle paure e le incertezze che la globalizzazione e il modello di sviluppo neoliberista generano tra le persone, dirottandole verso l’individuazione del “nemico esterno”, i migranti in primo luogo, e proponendo un approccio reazionario e repressivo nei confronti di chi dissente e dei soggetti marginali, come fa il ddl 1660 “sicurezza”.

Guardando, però, anche all’obiettivo di attrarre nuovi investimenti stranieri in Italia: così si spiega l’attivismo della Meloni, che nei giorni passati, si è incontrata con Elon Musk, Larry Fink, presidente e amministratore delegato di Blackrock, la più grande società di patrimoni del mondo con circa 10.000 miliardi di dollari in gestione, quasi 5 volte il PIL dell’Italia, e Brad Smith, presidente di Microsoft.

Si pensa probabilmente di fare dell’Italia un polo importante per l’innovazione e la finanza internazionale, sottovalutando che queste aziende si muovono dentro una logica monopolistica e iperliberista, se non speculativa, il che significa investimenti che producono poca occupazione, ma sono molto energivori o comunque rispondono ad un criterio di ritorno economico molto forte. Insomma, a me pare di vedere tutti i tratti di un modello sociale e produttivo da “feudalesimo tecnocratico”: iperliberismo, smantellamento dei diritti sociali, lavoro diffuso ma povero, esaltazione del pericolo derivante dal “diverso”, sia esso per “razza”, orientamento sessuale e quant’altro.
Un modello che ben si adatta alla logica di guerra e che, peraltro, presenta molte debolezze, alle quale si tenta di rispondere con una torsione autoritaria e repressiva, restringendo gli spazi di autonomia dei poteri “indipendenti”, dalla magistratura alla stampa, tendenzialmente sottomessi alla volontà del Capo.

Ovviamente, questa è una rappresentazione idealtipica, che mal si concilia con i dati di realtà del nostro Paese e con le mediazioni politiche e sociali cui è necessariamente costretta. E che, però, può fare passi in avanti se incontra la spoliticizzazione e la rassegnazione delle persone (cosa che, per fortuna, non è ancora dominante) e, soprattutto, se non si riesce ad indicare un’alternativa di fondo ad essa. Sbaglia chi pensa che ci si possa opporre alla “rottura” inaugurata dalle nuove destre, a livello nazionale così come a livello internazionale, semplicemente riproponendo un’opzione blanda di trasformazione o di mantenimento dell’assetto preesistente, basato comunque sulla centralità del mercato, temperato da una sua presunta spinta progressiva e da un tessuto di salvaguardia di alcuni diritti fondamentali, ben incarnati nello Stato sociale. Per intenderci, il modello sociale europeo, che è sempre più agonizzante e di cui è rimasta una pallida ombra.

Un Campo Largo che odora di vecchio  

Detto in altri termini, non può funzionare l’idea del cosiddetto “campo largo”, non solo perché declinata in chiave politicista ( mettiamo insieme tutte le forze politiche che si oppongono all’attuale governo), ma, ancor più, perché si rimane fermi a contenuti e idee che sono largamente in crisi e, anzi, rischiano di dare armi alla crescita della destra.
Provo ad esemplificare: che speranze e mobilitazioni può suscitare uno schieramento che, comunque, condivide le nuove regole europee sull’austerità, che oggi, anche giustamente, attacca le scelte di politica economica del governo, ma che, se dovesse scrivere la prossima legge di stabilità, non la farebbe poi tanto diversa da quella che sta uscendo dalla mente di Giorgetti?
Oppure, per restringere la dimensione spaziale, penso alle scelte che sta proponendo il cosiddetto “campo larghissimo” che si sta costruendo in Emilia-Romagna in occasione delle prossime ravvicinate elezioni regionali. Non vedo alcuna traccia di rottura della continuità rispetto alle politiche praticate
dal centro”sinistra” in questi ultimi anni, che sono state contrassegnate da un’idea di centralità della crescita economica quantitativa, poco attenta, per usare un eufemismo, alla necessità di contrastare il cambiamento climatico e avviare una reale transizione ecologica, malferma nel combattere la privatizzazione strisciante dello Stato sociale e la crescita del lavoro povero.

Rompere il paradigma liberista

Una piattaforma che potrà consentire al cosiddetto centro”sinistra” di affermarsi anche in questa tornata elettorale, ma che mostrerà sempre più la corda nel medio periodo, incapace di rispondere alle nuove istanze e domande che provengono dalla società e che possono essere egemonizzate dalla narrazione tossica della destra.

Per quanto la “vulgata” del mettersi tutti insieme possa avere una sua facile popolarità, non è da qui che passerà l’alternativa alla destra. Senza una rottura di paradigma dell’attuale modello produttivo e sociale, una proposta politica che metta al centro sul serio la pace e il ripudio della guerra, l’affermazione di una reale conversione ecologica e ambientale, la lotta alle disuguaglianze crescenti, la messa a punto di politiche industriali coerenti con questi assunti e che incorporino l’obiettivo della valorizzazione del lavoro, il rilancio di un robusto e innovativo Stato sociale non si andrà molto avanti. Non tanto almeno da sconfiggere, cosa che è possibile, questa nuova destra, pericolosa e capace solo di farci vedere bui scenari.

 

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“Non siamo solo immagini”
Ritratti dal vero di questa Italia

“Non siamo solo immagini”. Ritratti dal vero di questa Italia. 

Immagina di non poter raggiungere i tuoi familiari in Germania per andare a studiare o a lavorare perché l’Italia ti ha revocato una carta di soggiorno perché hai perso il lavoro e tu resti qui disoccupato con i tuoi figli da crescere.

Immagina che arrivi in Italia minorenne su un barcone rischiando la vita e a 18 anni finisci in un cpr, in un carcere, perché qualcuno ha sbagliato a scrivere il tuo nome e cognome e non hai un avvocato che ti difenda.

Immagina di arrivare in Italia sano e di impazzire per la burocrazia, finire in un servizio di igiene mentale e sentirti dire dal medico psichiatra che i bambini stranieri rallentano l’apprendimento dei bambini italiani e per questo servirebbero classi separate.

Immagina di pagare tanti soldi per un documento che riceverai già scaduto e per questo non avrai diritto al medico e al lavoro regolare.

Mercedes
Mahmood
Magdi
Irina e Victor

Immagina di essere stato riconosciuto rifugiato politico e di morire d’asma perché non ti rinnovano la tessera sanitaria perché la questura non ti rilascia il permesso di soggiorno e l’ausl non ti riconosce la ricevuta postale che dimostra che tu ne hai diritto.

Immagina di non poter pagare le tasse perché lo stato italiano ti vuole illegale.

Immagina di essere uscito dal carcere perché innocente e di entrare in un altro carcere perché sei straniero in questo paese.

Immagina di essere madre di bambini italiani e di dovere chiedere l’asilo politico all’Italia per poter stare con loro.

Ghulam
Carmen
Atika
Amira

Immagina di restare incinta e di ottenere un permesso di soggiorno che si chiama cure mediche.

Immagina di essere bambino e di non poter restare alla mensa scolastica perché, per ritardi burocratici, non hai ancora un permesso di soggiorno e dunque un codice fiscale.

Immagina di essere schiavo nei campi e di avere paura di denunciare perché poi non sai dove potrai vivere e lavorare dopo che sei scappato per questo.

Immagina di non poter chiedere la cittadinanza italiana quando vivi da 20 anni in Italia perché nel tuo paese di origine non c’è un ambasciata italiana.

Amarachi
Aimir
Aicha
Adan

Immagina di non poter vivere in Italia con i tuoi figli, tuo marito o il tuo compagno perché non può ottenere un permesso di soggiorno nonostante tu sia qui a lavorare regolarmente e lui in nero perché non ha un permesso di soggiorno.

Immagina di essere fermato frequentemente dalla polizia per il colore della tua pelle.

Sembra un film?
No, tutto questo succede davvero.
Vuoi davvero vivere a fianco di queste persone in un’Italia come realtà?

Zoran
Suzana
Samal
Moussa

Ritratti di Miriam Cariani – tecnica penna e acquarello su carta. Tutti i diritti riservati.

 

 

Per Enrico, per Esempio.
L’eredità politica, tuttora giacente, di Enrico Berlinguer

Per Enrico, per Esempio.

L’eredità politica, tuttora giacente, di Enrico Berlinguer.

 

Mi capita spesso di fare recensioni per libri di amici, che poi pubblico sui social. Questo libro invece è qualcosa di diverso, vorrei fotografare sulla carta virtuale di un articolo il perché esso è un testo necessario, qualcosa che mancava. Non è una biografia su Enrico Berlinguer, è l’attestazione della sua modernità. Pier Paolo Farina, sociologo e saggista fondatore nel 2009 della web-community enricoberlinguer.it ci restituisce la figura di uomo moderno che ha saputo parlare alla generazione del suo tempo e a quelle nate nate dopo la sua morte (piegato dalla fatica, come scrisse Calvino), su quel maledetto palco di Padova nel giugno del 1984.

Faccio fatica a tradurre in parole i miei sentimenti e i miei pensieri, rappresentati esattamente e nel dettaglio dalle parole di Farina, nelle pagine del libro. La figura dolce e fiera di Enrico, fedele ai propri ideali di gioventù’ fino al suo ultimo respiro, ci fanno capire quanto sia sterminato il deserto dei suoi presunti eredi. Nel mondo di oggi tutti ritengono Berlinguer un santino da ricordare di tanto in tanto, sia chi proviene dalla sua esperienza che i suoi avversari politici. Io credo che le sue idee continuino a fare paura, rimanendo una anomalia moderna, applicabile tutt’oggi, ma che segna per la maggior parte il fallimento di chi è venuto dopo di lui. Quando era in vita era considerato pericoloso dagli americani che lo ritenevano troppo filo sovietico, e dai sovietici che lo ritenevano troppo filo americano. Questa collocazione lo rende a tutt’oggi una figura di riferimento di chi sogna davvero un mondo migliore e diverso.

La questione morale, la figura della donna nella società di oggi, la questione mediorientale, la pace, l’ambiente, la ricerca spasmodica e senza dubbi di una terza via, pur nella consapevolezza di essere orgogliosi delle proprie idee, fanno di Berlinguer un’ isola galleggiante nel pattume della politica odierna.

L’eredità di Enrico a quarant’ anni dalla sua morte rimane non riscossa. Un popolo smarrito, anche e soprattutto di giovani, cerca nelle sue parole ma soprattutto nel suo esempio un approdo, una roccia a cui aggrapparsi. Chi dice che il pensiero di Berlinguer è superato e fuori dal tempo, soprattutto a sinistra, mente sapendo di mentire. Ci si dimentica che buona parte dei suoi “eredi” dopo la sua morte hanno seguito la strada migliorista, fino ad arrivare a votare Napolitano quale presidente della Repubblica coi voti anche delle destre. Ma nessuno mai si è chiesto il perché? L’anomalia italiana di un partito socialista di destra, spiana la strada a tutto ciò che ora è la politica del bel paese, orfana di una vera sinistra di popolo. Ma attenzione: non ne faccio una questione di moderatismo o radicalità, la sinistra in Italia non rappresenta in nessun caso le idee e l’eredità di Enrico.

Eppure a me parrebbe così semplice, basterebbe leggerlo, applicarlo, toglierlo dai piedistalli e dalle cornici in cui è incastonato in sedi politiche che spesso non sono le sue, e farlo nuovamente rivivere.

Un compagno non si inchina a un compagno, uguaglianza con l’esempio e non solo a parole, mio padre diceva che non è sufficiente votare il primo partito in alto a sinistra. L’eredità di Berlinguer non è un modo di votare, ma un modo di essere, di vivere, di rendersi partecipi all’interno di una società che ci vede pedine di un capitale sempre più’ aggressivo e vorace. L’ossessione per i confini in un mondo talmente piccolo che tra poco esploderà sono una costante ricerca di potere, possesso, violenza, supremazia, imperialismo. Noi sognavamo un mondo senza confini e senza frontiere.

Berlinguer ci ricorda quanto la politica sia il fondamento di una società civile, sprona i giovani ad appropriarsi di essa, altrimenti diverrà appannaggio di altri. Credo di non avere mai sottolineato così tanto un libro. “Per Enrico, per esempio” va letto, e quelli che ne hanno la capacità lo studino e rendano applicabili le idee di Berlinguer in un mondo che ne ha sete, che ne ha un imprescindibile bisogno.

Quelli che mi dicono che le sue idee sono sorpassate, che lui non c’è più, che quelli di ora sono diversi, che non esistono più le idee di allora, mi fanno tremendamente incazzare: è come se mi dicessero che io sono morto. Le idee che vivono in me, ma non solo, sono la dimostrazione che Berlinguer è ancora tra noi, siamo noi che non riusciamo più a trovarci, immersi nel labirinto alienante di una vita vissuta di corsa. Il tempo è la ricchezza dei giorni moderni, la ricerca dei compagni una missione che ognuno di noi ha nel proprio scopo.

Ho avuto l’onore di essere citato a pag. 300: “Enrico per noi era uno di famiglia … una presenza costante. L’utopia morì quel giorno sul palco di Padova, ma non le sue idee”.

Berlinguer “voleva bene alle gente che lavora”, un’eredità invocata da un popolo smarrito, un’idea di mondo che dava speranza a milioni di persone.

Cito direttamente Farina … il fine ultimo della sua lotta era la realizzazione di quei valori ideali – pace, giustizia, eguaglianza, lavoro, sapere, solidarietà. La politica è passione, coraggio, idee, ma non è niente se non è fatta per gli altri.

Il libro:
Pier Paolo Farina, Per Enrico, per Esempio. L’eredità politica d Enrico Berlinguer, Youcanprint, 2024.

 

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Diario in pubblico /
Che dire? Che fare?

Diario in pubblico. Che dire? Che fare?

Riprendo il Diario in pubblico cercando di superare la stanchezza che m’investe ogni volta che debbo affrontare ciò che mi circonda e decidendo di esporlo ancora con un minimo di fiducia o di posizione critica. L’età della saggezza non m’appartiene più ma forse va perseguita con i pochi strumenti che ti rimangono.

Partirei dalla lettura di un libro che ha avuto una storia complessa: Stefano D’ArrigoIl compratore di anime morte, Rizzoli 2024. Chi segue per dovere o piacere la letteratura italiana conosce bene l’autore tra i più importanti narratori del Novecento soprattutto per il suo romanzo più discusso e impegnativo: Orcynus Orca di cui sarebbe troppo  discuterne la qualità.

Caso assai interessante, inoltre, il recupero di questa opera che la curatrice, Siriana Sgavicchia, espone con sapienza e conoscenza nel saggio conclusivo dove s’indagano le ragioni per cui quel testo venne scritto. Soggetto per il teatro o il cinema? Racconto sulla condizione meridionale reinterpretata sulla scia del grande narratore russo? E perché non venne pubblicato, vivente l’autore.

Tutte le carte inerenti allo scrittore, donate all’Archivio Bonsanti di Firenze hanno permesso la ricostruzione di un testo affascinante che dal mio sediolino di lettore-commentatore tenterò in qualche modo di applicarlo o leggerlo in rapporto alla politica che, credo,  produrrebbe molti e interessanti paralleli.
E se il trovatello Cirillo inventandosi ‘esser principe raccoglie il patrimonio delle “anime morte” ovvero il possesso di coloro che lavoravano nei campi siciliani in quanto intende vendere allo stato borbonico “le terre e le anime che ci lavorano perché approfittando di una legge mai scritta i morti possono fruttare quanto i vivi”.

E allora quante anime “morte” ci aspettano in quel ministero che si chiama della Cultura?
E allora le vicende dei vivi che diventano morti come i due ultimi detentori della presidenza di quel ministero e le “bocce” e gli Spano e i “pederasti” e perfino colui che più s’avvicina a Cirillo vale a dire Ranucci che rivela e svela, che dice e non dice, che si lecca le labbra in attesa dei terremoti mentre tutti aspettiamo le rivelazioni della domenica indicano il grado d’interesse che in questo momento la nazione ha per questi fatti-misfatti.

Riguardo e ripenso poi ai fatti d’Albania e allo scontro innegabile tra magistratura e certa politica; poi m’ingolfo nel capire cosa sta succedendo ma…invano. Nulla mi aiutano i commenti e le trasmissioni dedicate e sempre di più mi convinco che c’è un utilizzo spietato delle anime morte.

Mercoledì 16 ottobre 2024 sul Corriere della Sera a firma di Gian Antonio Stella leggo un articolo che mi commuove e mi sommuove il ricordo: “Quando i fascisti nel Polesine fucilarono 42 persone. La strage tutta italiana finita troppo presto nell’oblio”, p.25.

Ed io in quel luogo per più di 40 anni ho trascorso gran parte delle estati ricevendo dalla stessa voce dei soggetti che la vissero il senso dell’orrore e della spietatezza. Come ho raccontato in altre occasioni la famiglia di Eleonora l’amatissima sorella putativa ci apriva la casa di Villamarzana dove trascorremmo anni, e mesi e giorni felici. Per scherzare quando tornavo alle mie consuete vicende e lavori ormai l’appellativo che ricevevo era quello di “conte”.
Lì ho piantato rose e giaggioli, li ho curato limoni, lì ho studiato e fatto studiare, lì si è svolta parte importantissima della mia vita. Anzi della nostra vita: Doda, Ele ed io. Sapevo del massacro compiuto dai fascisti, del significato che aveva la via su cui sorgeva la villa: via 42 martiri. Della casa in centro al cui muro vennero sparati i giovani ricordo quale stretta al cuore mi procurava.

Ma soprattutto ricordo quelle stagioni, quei luoghi, quella famiglia a cui sempre ritorno col cuore e con la mente.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

 

 

Ferrara Film Corto Festival:
uno sguardo personale, oltre le giurie ed i premi

Ferrara Film Corto Festival: uno sguardo personale, oltre le giurie ed i premi

Il Ferrara Film Corto Festival, giunto alla settima edizione, non richiama a Ferrara le stesse folle del festival di Internazionale, ma l’atmosfera lo ricorda: tanti giovani, sia tra gli organizzatori, sia dietro le quinte, sia tra il pubblico. La differenza è che, in questo caso, Ferrara non è solo il luogo in cui si svolge il festival, ma è il luogo di provenienza del nucleo di intelligenza collettiva che lo anima. Eugenio Squarcia è il direttore artistico, Sara Bardella è l’organizzatrice degli eventi, la “nostra” Simonetta Sandri è alla comunicazione, Sergio Gessi è alla presidenza della Ferrara Film Commission – FFC (per il team completo, leggi qui).

E’ impossibile raccontare di ogni cortometraggio proiettato all’interno del Festival. Non ci riuscirei nemmeno se li avessi visti tutti. Ancora meno sarei in grado di esprimere un giudizio da “giurato”. Però venerdì sono riuscito, per conto di Periscopio (uno dei partner del festival), a intervistare tre registi di altrettanti corti che ho visto. Corti che hanno una cosa in comune, anche se sono molto diversi tra loro.

La cosa in comune è che quello che viene prima e quello che viene dopo è altrettanto importante di quello che c’è dentro il film. Succede anche nei racconti: il nucleo condensa un frangente che fa intuire antefatti e immaginare evoluzioni. Entrambi non possono che essere accennati, per la natura stessa del mezzo usato. Poi ci sono corti che addirittura si avvicinano al linguaggio della poesia, dove i nessi tra i fatti e gli stati d’animo non hanno nemmeno più una successione logica e temporale, ma si trovano condensati in parole – in questo caso, immagini – che scatenano una perturbazione della memoria, dei sensi e dello spirito.

E’ (per me) il caso di “Trinidad”, del regista messicano Josè Manuel Azuela Espinosa. La vicenda dei tre nipoti che rubano da un cimitero le ceneri del nonno ucciso per tenerle con sè non è mostrata in modo lineare, e nemmeno attraverso quelli che classicamente vengono chiamati flash-back – e il regista me lo ha confermato. E’ piuttosto un pannello di immagini che mi ha trasmesso un senso di panta rei, per cui nulla si crea nulla si distrugge ma tutto si trasforma; e mi sono sentito al sicuro come una delle nipoti dentro l’abbraccio delle radici nodose degli alberi centenari. Ho chiesto al regista se l’intenzione era anche quella di mostrare il posto che la (arrogante) specie umana deve ricordarsi di occupare nel mondo naturale. Josè mi ha sorriso da sotto i baffi e ha annuito; forse per non imbarazzarmi, visto il mio pessimo spagnolo. E’ un corto senza dialoghi, senza parole: le immagini parlano un linguaggio universale. La luce restituisce un’atmosfera che riporta al realismo magico.

Luigi Cianciaruso è il giovane regista e autore de “Il treno Speciale”, che prende spunto dal terribile incidente ferroviario avvenuto nel 2016 sulla tratta Andria – Corato. Mi ha confermato quello che avevo “capito”: che quel maestro e quell’allievo, che non si parlavano pur essendo uno di fronte all’altro nello scompartimento di quel treno, una volta dentro questo sogno (o questa esperienza di afterlife) si sono liberati dei ruoli e delle convenzioni sociali, e si sono reciprocamente conosciuti attraverso le passioni che non hanno più avuto timore di comunicarsi: la pittura e la bici per il professore, la poesia per l’allievo. Il tutto in un’atmosfera serena e libera dalle convenzioni, dalle barriere e dal dolore.

 

Andrea Fabbri è il regista di “Orme”, un corto che parte dalla storia dell‘Argentiera, frazione di Sassari, la cui vita sociale nella prima metà del secolo scorso ruotò attorno alla miniera di zinco e piombo (che fece anche tanti morti di silicosi), per poi svuotarsi alla chiusura della miniera stessa. “Non avevamo nulla e avevamo tutto”, dice una anziana abitante ricordando i “tempi d’oro” (meglio, di piombo). Oggi l’Argentiera è una terra relitta, che conta 54 residenti. Inframezzato dal racconto quasi mitologico della sommersione di Tirrenide  – quel continente ora sott’acqua che alcuni ritengono una Atlantide del Mediterraneo occidentale, che comprendeva anche la attuale Ichnusa (“orma” in sardo e, appunto, il nome greco della Sardegna) – il cortometraggio (negli accenni del suo giovane regista Andrea Fabbri) mostra il recupero di una struttura abbandonata all’Argentiera per farla diventare un centro culturale. Fa impressione vedere tutti questi giovani al lavoro non per edificare qualcosa di nuovo, ma per recuperare il vecchio e ridargli un senso ed una funzione attuale, pur in un lembo di terra magnifica, ma anche aspra e precaria.

 

 

Concludo con una menzione personale per “The fisherman, the alien, the sea” di Elisabetta Zavoli, che non era presente fisicamente e quindi non ho potuto “intervistare”. Questo corto mostra la giornata – forse sarebbe meglio dire la notte – del pescatore della sacca di Goro alle prese con l’invasione del granchio blu, che divora tutta la fauna e quindi il fatturato del Consorzio Pescatori. Attraverso la narrazione del giovane presidente del Consorzio, ripreso al lavoro nella luce torpida e nell’atmosfera amniotica della Sacca, si passa dalla paura del nemico (il granchio blu appunto), alla consapevolezza della totale distruzione della fonte di guadagno, all’aggressione del problema per trasformarlo in opportunità attraverso il recupero di una modalità di pesca praticata dal nonno, e infine verso una presa di coscienza che nel breve periodo il granchio blu è una sciagura, ma nel lungo periodo può diventare un bene, economico e culturale. Sol che si sappia “cambiare quando la natura decide di cambiare”.

 

In copertina: immagine tratta da Trinidad, di Josè Manuel Azuela Espinosa

 

Per certi versi /
La Cassandra della poesia

La Cassandra della poesia

I Greci lo sapevano
Sapevano
Che agli uomini
Senza limite
Accadrà un fatto
Terribile
La punizione
Degli dèi
Non ci saranno
Vie di fuga
Né pietà nemmeno
Su Marte
Ci vorrà
Un’altra Arca
Dove saremo tutti
Migranti
E gli uccelli
Rideranno
Come cornacchie
Da cabaret
I cani increduli
Traditi dai padroni
I padroni
Tradiscono sempre
I gatti invece
Saranno attesi
Dagli dèi
Sono come loro
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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