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Servizi educativi, ristorazione, ambiente… Dal Germoglio fioriscono idee per la comunità

C’era una volta… così iniziano tante storie per i più piccoli. Ma nel caso della nostra storia, per fortuna, si può aggiungere: e c’è ancora. Già, perché la scuola d’infanzia e nido Braghini-Rossetti di Pontelagoscuro, nata nel 1914 per volere testamentario del conte Pietro Braghini-Rossetti – che fra i suoi antenati vantava probabilmente niente meno che Biagio Rossetti – e ricostruita dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale per opera della moglie, la contessa Arnoffi, e dell’allora arcivescovo di Ferrara e Comacchio monsignor Bovelli, nel 2015 ha rischiato di scomparire.
Proprio alla vigilia del suo centenario questa gloriosa scuola materna parrocchiale, così saldamente intrecciata alle vicende del territorio ferrarese, è stata a un passo dalla chiusura. Se esiste ancora è merito della cooperativa sociale Il Germoglio, che ha deciso di tornare alle proprie ‘radici’ e di prenderla in gestione.

Il Germoglio proprio a Pontelagoscuro è nato nel 1991 per occuparsi di servizi educativi, ampliando poi i propri settori d’intervento nella comunità, che oggi oltre a infanzia e minori comprendono ristorazione, ambiente, ausili, mobilità.
“Sono stato uno dei promotori della loro gestione perché conoscevo già Il Germoglio e sapevo che erano nati qui a Pontelagoscuro”, racconta don Silvano Bedin, parroco della chiesa di S. Giovanni Battista. “Mi sono battuto perché venissero qui. La struttura è stata rinnovata quasi interamente, per esempio la cucina è stata completamente rifatta, proprio perché la Cooperativa si è impegnata a medio-lungo termine. Ora vedo che stanno facendo un buon lavoro, i genitori e i bambini sono sereni: questo era quello che volevamo”, conclude il parroco.

“Non si era fatto avanti nessun altro”, mi dice Arianna, coordinatrice dell’area Infanzia della Cooperativa insieme a Martina, che aggiunge: “quasi tutte le nostre strutture sono state rilevate da gestioni precedenti, ci siamo impegnati a tenerle aperte e a farle ripartire”.
Il nido e scuola d’infanzia Braghini Rossetti – tre sezioni di scuola d’infanzia e una di nido – è infatti solo l’ultima in ordine di tempo presa in carico nel territorio ferrarese dalla cooperativa, la cui mission è sviluppare sempre più una rete di servizi territoriali al servizio della comunità, intercettandone e anticipandone le esigenze. Oltre alla struttura di Pontelagoscuro, il settore Infanzia de Il Germoglio gestisce anche: la Pedriali a Montalbano e la Serena a Tresigallo (entrambe nido e scuola d’infanzia), le scuole d’infanzia Sacro Cuore di Formignana e Maria Immacolata di Vigarano Pieve, mentre fuori le mura ci sono la scuola d’infanzia San Giacomo in via Arginone e il nido Don Dioli in via Modena.

L’attenzione per il territorio si concretizza anche attraverso la costruzione di collaborazioni con altre realtà, come associazioni, biblioteche e teatri: “con i bimbi di Ponte siamo andati al De Micheli di Copparo e alla Sala Boldini e diverse volte anche qui alla biblioteca Bassani”, spiega Arianna. “È anche il territorio a entrare nelle nostre strutture”, aggiunge Martina: “per esempio collaboriamo con Legambiente in un progetto sull’orto, oppure con una fattoria didattica per un progetto di pet terapy”.
Un lavoro sul territorio e sulla comunità che a quanto pare funziona se, come mi dicono Arianna e Martina, “riceviamo le iscrizioni soprattutto grazie al passaparola”.

Oltre che per queste sinergie con il territorio di riferimento, l’approccio del servizio fornito dal settore Infanzia della cooperativa si contraddistingue per la volontà di creare una scuola a ritmo di bambino e, se al centro c’è il benessere dei bimbi, non si può prescindere da una forte alleanza con i genitori.
“Ogni struttura ha una sua identità, ma l’obiettivo è dare una linea di base comune in modo da poter scambiare e confrontare le esperienze e migliorare le prassi”, spiega Martina: si lavora tantissimo sul recupero del contatto diretto con la natura e con materiali naturali oppure di riciclo, come incentivo all’apprendimento spontaneo fatto secondo i tempi del bambino; inoltre, per accompagnare i bimbi nel loro percorso di crescita, attraverso l’acquisizione di autonomia, identità e competenze, gli educatori costruiscono un progetto formativo sviluppato su diversi moduli e con un “approccio dal basso”, in modo da “poter rispondere il più possibile ai bisogni e ai tempi diversi per ciascun bambino”.

Una duttilità che va di pari passo con quella richiesta dalle famiglie. “Negli ultimi anni ci viene chiesta una maggiore flessibilità – affermano Arianna e Martina – i genitori fanno purtroppo sempre più fatica a mantenere un’organizzazione a lungo termine, soprattutto per motivi lavorativi, nel senso che a settembre ci possono essere esigenze, che poi cambiano nel corso dell’anno”. Ecco perché, per esempio, ci sono quattro fasce di uscita dei bimbi – dalle 16.30 alle 18-18.30 – a seconda delle scelte e delle necessità delle famiglie, oppure sono state stipulate “convenzioni con ordini professionali e con alcune realtà aziendali”. “Ogni volta si tenta di andare incontro alle esigenze delle famiglie, cercando sempre soluzioni ad hoc per non lasciare indietro nessuno, anche nelle situazioni più difficili”.

Secondo Arianna e Martina il valore aggiunto del settore Infanzia sono le educatrici, la loro “genuinità e passione”: “non sono solo educatrici, credono molto in quello che fanno e si sentono partecipi di un progetto e quindi, quando serve, sono sempre pronte a spendersi per i loro bimbi”.
Secondo Maura, socia de Il Germoglio da quattro anni, educatrice nella cooperativa ormai da otto, “il valore aggiunto del nostro servizio è coinvolgere i genitori nel progetto educativo, l’accoglienza è rivolta non solo ai bambini, ma anche a i genitori: sono un nucleo unico da accogliere e supportare. L’intento è cioè quello di caratterizzarci anche come un supporto al ruolo genitoriale: possono trovare in noi educatrici una possibilità di confronto e di consiglio nella gestione del proprio figlio. Per noi è importante che l’intera famiglia si senta a casa nelle nostre strutture, perché spesso la fiducia che il bambino ripone nelle figure esterne all’ambiente famigliare è mediata da quello che percepisce del genitore: se si fida l’adulto si fida anche il bambino”. Da qui, i “laboratori e i momenti di condivisione con genitori e bimbi insieme a noi educatori, per conoscerci meglio e condividere spazi e tempi, oppure ancora momenti specifici con i genitori che incontrano alcuni esperti, come per esempio psicologi, dietisti e le nostre cuoche. Questo dà l’opportunità a molti genitori che non hanno una rete famigliare vicina di creare legami nell’ambiente frequentato dai loro figli, offre la possibilità di aiutarsi a vicenda, non sentendosi più nuclei a sé stanti”.
Simone, papà di Giacomo, al loro terzo anno di scuola con Il Germoglio, mi conferma che oltre al “coinvolgimento dei bimbi nelle diverse attività, che noi genitori vediamo a casa quando i nostri figli tentano di riproporre quello che fanno a scuola”, il valore aggiunto del servizio educativo fornito dalla cooperativa è dato “dalle attività per noi adulti, che ci permettono di legare e quindi poi incontrarci anche fuori dalla struttura”. “Fondamentali poi i momenti condivisi con i bimbi – continua Simone – che non sono mai fini a sé stessi, ma comportano sempre, prima o dopo, un impegno da parte nostra, che diventa anche un modo per essere coinvolti nelle attività dei nostri figli”.

Sono parte integrante dell’approccio de Il Germoglio una pedagogia della relazione, contrassegnata dai valori del rispetto dell’altro, del dialogo, del confronto, della collaborazione, e l’integrazione di bambini diversamente abili: per questo negli anni sono state attivate numerose collaborazioni con soggetti istituzionali, con associazioni e con familiari per individuare soluzioni che favoriscano l’accoglienza di tutti i bambini.

Il Germoglio-Infanzia
Pagina Fb

Il co-working che ha cancellato la parola crisi

di Cristina Boccaccini

“Libertà è partecipazione”, cantava Giorgio Gaber. Espressione che, quando si tratta del prezioso filo che lega cultura e comunità, potrebbe essere riformulata in: “Creatività è partecipazione”.
Inaugurato ufficialmente nel febbraio 2016 col patrocinio del Comune di Comacchio, e situato in via Marconi, Spazio Marconi è una vera e propria fucina di idee, un’officina della creatività, un aggregatore culturale pulsante nel cuore della cittadina lagunare. In particolare, si tratta prima di tutto di uno spazio aperto a tutti, che offre la possibilità di esprimere la propria creatività e sperimentare in libertà, avvalendosi della strumentazione necessaria a dare forma ai sogni. Sogni che si trasformano in imprese possibili e che possono portare a fare impresa, sfociando in opportunità concrete per il territorio.

Mi accoglie Antonello, il segretario dell’associazione, sorridente e loquace. Ha un entusiasmo travolgente e parte in quarta a raccontarmi dei tantissimi progetti e collaborazioni che hanno visto la luce all’interno dello spazio, a partire dalla sua apertura, un anno fa. Mi mostra come, da quello che era un edificio comunale in decadenza, i ragazzi della comunità, grazie anche ai finanziamenti del Comune, siano riusciti a ristrutturare e personalizzare un grande ambiente, dotato oltre che delle strumentazioni tecnologiche, anche di tutto ciò che serve a garantire un’atmosfera sana e stimolante; dalle pareti arancio dell’ampio spazio all’ingresso, alle aule dotate di proiettori e lavagne interattive multimediali, alla verde sala riunioni al primo piano, ai bagni attrezzati anche per disabili, alla zona ristoro con tanto di macchinetta del caffè.

Gli ambienti di lavoro veri e propri odorano di legno, circuiti elettrici, sinapsi in movimento, mani e arti in pasta, arte. Non vi è decisamente spazio per la parola “crisi” a Spazio Marconi. La fanno da padrone i tavoli, a partire dal maestoso tavolo di lavoro destinato al co-working, ai banchi di prototipazione, su cui portare contributi, intavolare discussioni, cibarsi di idee e contaminarsi a vicenda, mettendo in circolo le proprie competenze e abilità specifiche per aumentare così le possibilità di successo di un progetto. Il tutto attraverso un processo creativo sinergico che nasce dal basso, dalla gente e per la gente, all’insegna del motto: “Dream it, make it, share it”.

Punta di diamante dello spazio è il cosiddetto FabLab, primo nella provincia di Ferrara e inserito nella rete della manifattura digitale dell’Emilia-Romagna, Mak-Er. Si tratta letteralmente di un laboratorio di Fabbricazione Digitale, dotato di una stampante 3D Power Wasp, e tante altre strumentazioni, tra cui la Cnc Stepcraft 2/860, una macchina in grado di tagliare e incidere diversi materiali. Questi macchinari sono controllati e gestiti tramite un computer e possono essere utilizzati per realizzare prototipi di alta qualità a un costo più basso rispetto all’industria tradizionale, e facilmente accessibili a chiunque, in ogni parte del globo. Tutto ciò si traduce in un notevole potenziale di sviluppo di nuove forme di economia locale, in ogni settore.

Ognuno, a prescindere da età, stato sociale, percorso formativo, può essere artigiano e artefice delle proprie idee, venire ascoltato, divenire parte attiva e ingranaggio del processo creativo. A partire dal cittadino, che ha a disposizione i mezzi per sviluppare le proprie idee, alle scuole, che possono usare il laboratorio per familiarizzare con nuove tecnologie digitali, fino alle aziende che necessitano di servizi di prototipazione a basso costo.

Presso Spazio Marconi si forgiano anche menti. Infatti lo spazio è ed è stato sede di svariati corsi di formazione, tra cui quelli di stampa 3D, di Arduino (una scheda elettronica di facile utilizzo per la creare prototipi), di fotografia. Inoltre ha ospitato e ospita tuttora diversi incontri di carattere culturale, come la recente ComacchioVa, per la riqualificazione delle piste ciclabili nel quartiere Raibosola.

Numerosi i progetti in partenza che portano la firma dell’associazione: il 19 aprile si svolgerà la prima lezione gratuita del ciclo “Nel labirinto della Comunicazione- A scuola di Storytelling”, curato da Michele Cuccu e in collaborazione con Informagiovani Comacchio. Il corso è dedicato a tutti coloro che hanno voglia di approfondire l’uso della tecnica dello storytelling per poter migliorare la comunicazione di eventi, progetti e attività.

Inoltre il 23 aprile lo stand di Spazio Marconi sarà presente alla Festa dei Marinati di Comacchio con laboratori didattici e molto altro.

Spazio anche alla musica in via Marconi, con professionisti pronti a insegnare ai neofiti tutti i segreti degli strumenti musicali. In particolare Luigi Marsala è a disposizione degli amanti delle 6 corde, che il 6 maggio avranno la possibilità di prendere parte alla Guitar Masterclass di Andrea Cesone.

In futuro, l’associazione, oltre che pensare al proprio sostentamento, continuerà a lavorare in un’ottica di valorizzazione del patrimonio umano, culturale e industriale locale, attraverso la collaborazione congiunta tra istituzioni, cittadini, imprenditori e associazioni. Se possiamo sognare insieme, possiamo anche fare insieme. E continuare a farlo.

Voucher: ‘buoni’ per un lavoro precario
E intanto Ferrara è prima in regione per calo dei posti di lavoro

“Ferrara è maglia nera in regione”: “11.534 occupati in meno” nel 2016 rispetto al 2008, con una diminuzione del 7,3% nell’intervallo considerato. A consegnare questo triste primato al nostro territorio sono le cifre enumerate da Giuliano Guietti, presidente di Ires Emilia Romagna, nella sua relazione sul mercato del lavoro in Emilia Romagna, lunedì pomeriggio in occasione dell’incontro ‘Cavallo di Troia. Voucher: “buoni” per oscurare lavoro e tutele’, organizzato dalla Cgil di Ferrara presso la Camera di Commercio in largo Castello.
Un dato ancora più deludente se si guarda ai 21.000 occupati in più della provincia di Bologna (+4,7%) e soprattutto se si considera che l’Emilia Romagna è stata nel 2016 la regione con “la crescita più alta” fra quelle italiane (+1,6%) e che “è la seconda fra le regioni italiane, dietro solo al Trentino Alto Adige”, per crescita del tasso di occupazione. Non c’è però da cantar vittoria: con il 68,4% del 2016 “il tasso di occupazione è ancora inferiore rispetto al 2008”, quando era intorno al 70,2%.
Per quanto riguarda il rovescio della medaglia, cioè il tasso di disoccupazione, anche qui ci sono luci e ombre: “negli ultimi due anni assistiamo a una tendenza al calo e meglio di noi fanno solo Trentino e Veneto, ma rimane ancora il doppio rispetto a quello del 2008”, ha spiegato Guietti.

Il presidente di Ires Emilia Romagna ha poi mostrato alcuni grafici con elaborazioni di dati Istat sulla popolazione di età superiore a 15 anni: nel 2008 gli inattivi erano il 45%, i disoccupati l’1,8% e gli occupati 53,2 %; nel 2016 i primi e gli ultimi scendono al 44,7% e al 51,5%, mentre i secondi crescono del 2%, salendo al 3,8%. Guietti però ha precisato che, a ben vedere, quella flessione degli occupati (-1,7%) si trasforma in un -2,1% di lavoro autonomo e +0,3% di lavoro dipendente. Analizzando poi i contratti dipendenti si scopre che quelli a termine sono cresciuti del 3,1%, mentre quelli a tempo indeterminato sono diminuiti dello 0,9%. Dunque, ha sottolineato Guietti: “con buona pace del jobs act, anche in Emilia Romagna gli occupati a tempo indeterminato sono calati a fronte di un aumento dei contratti a termine”.
Un’altra tendenza del mercato del lavoro in Emilia Romagna su cui Guietti ha voluto mettere l’accento è “la polarizzazione per fasce d’età”: il tasso di occupazione nella “fascia 55-64 anni dal 2010 ha continuato a salire”, soprattutto “dal 2012 con la legge Fornero”, mentre “tra i 25 e i 34 anni cala drammaticamente”. Una situazione ancora più preoccupante perché contestualmente calano i residenti nella stessa fascia d’età, perciò la percentuale dovrebbe crescere o rimanere stazionaria: nel 2008 c’erano 560.000 giovani, con un tasso di occupazione del 91,3%; nel 2016 i trentenni residenti in Emilia Romagna sono scesi a 460.000 e il tasso di occupazione contestualmente si è abbassato fino all’86,5%. “Questa è la generazione che rischia di essere la più penalizzata dalla crisi”: è l’allarme lanciato dal presidente Ires.

Guietti ha chiuso il proprio intervento sul tema scottante dei voucher, che fra 2009 e 2016 hanno subito una vera e propria “esplosione”. Secondo lui “la cosa meno chiara è dove questa esplosione sia avvenuta”: “molti commentatori parlano di uno strumento per i lavoretti, ma giardinaggio, lavori domestici, manifestazioni culturali e sportive, attività agricole, sono rimasti residuali, l’esplosione si è avuta nei settori del commercio, del turismo, e delle altre attività, dove nel 2016 si registra un +46,8%”.
Ora che il governo Gentiloni ha deciso, forse anche in vista del referendum del 28 maggio, di abolire questo strumento, cosa ci si può aspettare? A Gianluca De Angelis, ricercatore Ires Emilia Romagna e autore insieme a Marco Marrone di una ricerca su voucher e lavoro accessorio in Italia e in Emilia Romagna (scaricabile a questo link), il compito di rispondere alle critiche sulla decisione del Governo.
In Emilia Romagna i voucher fra 2014 e 2015 sono cresciuti del 31,5%, a Ferrara del 24,1%; eppure è interessante notare come il loro impiego sia sceso del 13,9% nel settore agricolo a fronte di un’impennata del 76,8% in quelle che l’Inps classifica come ‘altre attività’.
Per quanto riguarda il collegamento fra emersione del lavoro irregolare e voucher, fatto da coloro che paventano un ritorno del primo a causa dell’abolizione dei secondi, De Angelis ha voluto riportare le interviste fatte nel corso della sua ricerca ai prestatori di lavoro accessorio: per molti “la loro esperienza era paragonabile a quella del lavoro nero”, povero, insicuro, non tutelato e senza garanzie per il futuro. Inoltre i dati sul numero medio di voucher per prestatore di lavoro e quota di lavoratori irregolari a suo parere dati suggeriscono un utilizzo dei voucher in supporto (copertura), non in alternativa al lavoro sommerso. La verità insomma è che “i voucher non regolarizza il lavoro, ma solo il suo pagamento, la transazione economica”.

De Angelis ha cercato di evidenziare come i voucher in realtà siano solo la punta dell’iceberg di un “processo di informalizzazione del lavoro” le cui caratteristiche principali sono: esternalizzazione, sostituzione del lavoro salariato con il lavoro autonomo e del lavoro full time con il lavoro part-time, allungamento e frammentazione della giornata di lavoro. “Questi elementi – ha concluso De Angelis – non si esauriscono con l’abrogazione dello strumento in sè”. Ecco perché il vero tema è comprendere quali cambiamenti – all’interno della crisi, ma non solo – stiano avvenendo nel mondo del lavoro, quale sia l’evoluzione in atto, per capire se e come possiamo governarla.

Per approfondire
Leggi l’articolo di Giuliano Guietti su voucher e lavoro nero da Rassegna Sindacale, pubblicato il 4-04-2017.

Ci si ostina a chiamarla Sinistra

Ma la Sinistra non dovrebbe fare gli interessi dei più deboli, o sbaglio? La Sinistra non dovrebbe diffondere i diritti a tutti quanti, o sbaglio? La Sinistra non dovrebbe limitare i privilegi ai potenti, o sbaglio?
Adesso meglio smetterla con queste domande, sennò qualcuno di Sinistra potrebbe tacciarmi di populismo!
Così mi guardo attorno in cerca della Sinistra, ma vedo strane facce…
Vedo figli di imprenditori e membri di Consigli d’Amministrazione di note banche; faccendieri politici che hanno collezionato quasi tutte le tessere di partito; poi, i nostri cari intellettuali di Sinistra, da sempre intellettualmente lontani anni luce dalle necessità reali della gente. E tutti a riempirsi la bocca con la consueta frase di presentazione che anticipa le varie argomentazioni rigorosamente in politichese: “Noi gente di Sinistra…”
Ecco, il linguaggio è il vero segreto di questa Sinistra!
Certo, dall’avvento della Seconda Repubblica in poi, il linguaggio si è evoluto. La comunicazione politica è diventata via via più comprensibile al volgo…
Ma attenzione gente, trattasi solo di consolidata strategia di marketing, di fascinazione pre-elettorale: il politichese resta sempre politichese!
Dopo le elezioni, statene certi, tale linguaggio torna ad essere assolutamente incomprensibile ai più. Abbastanza astruso, se non astratto del tutto.
Del resto, fin dalle origini il linguaggio politico non nasce forse ad uso e consumo esclusivo degli addetti ai lavori? Si tratta di un linguaggio non soltanto tecnico, esso va ben oltre l’intento elitario dei dotti, cioè quello di elevarsi a un grado superiore per affermare il proprio status. Il politichese è criptico, la sua funzione primaria è quella di non farsi comprendere, ovvero di non dir nulla o di dire tutto e il contrario di tutto. La caratteristica peculiare di tale linguaggio è la sistematica costruzione di dichiarazioni e affermazioni capaci di resistere alle confutazioni più inattaccabili. Per fare ciò il politichese si serve di un efficace sistema di fumose argomentazioni costruite apposta per confondere non tanto l’avversario di turno, anch’egli avvezzo a tale metodo, ma l’ascoltatore esterno (il pubblico), in questo modo l’attenzione viene veicolata nella direzione voluta. In sintesi si tratta più di metodologia dialettica che di sostanza di contenuti. Ovviamente la cosa viene rimpallata a turno tra gli interlocutori politici, col risultato di mandare inevitabilmente in confusione la platea di chi ascolta.
La regola aurea è quella di provocare nell’animo dell’ascoltatore un profondo senso di sudditanza intellettuale, una sorta di distanza culturale capace di generare soggezione, ammirazione e, perché no, un inespresso senso di colpa e inadeguatezza. Della serie: “Io sono troppo ignorante per capirci qualcosa, ma per fortuna che ci sono loro. Loro sì che capiscono di che si tratta.”
Poi ci sono gli intellettuali, quelli veri e presunti tali, quelli che per definizione non possono stare che a Sinistra. La cosiddetta intellighenzia, coloro cioè in possesso degli strumenti critici volti a una più corretta lettura, a una più profonda comprensione della realtà, per poterne trarre poi le giuste conclusioni. Con tali premesse, le soluzioni pensate e proposte da costoro, anche se palesemente irrealizzabili, assumono quasi il valore di verità dogmatiche.
E il dramma di questa Sinistra autoreferenziale (in verità il vero dramma è tutto degli altri, ovvero di coloro che questa Sinistra ha tradito) è proprio questo: è talmente convinta di essere storicamente e intellettualmente nel giusto, che qualunque suo pensiero ha ormai assunto il valore di un dogma. Sono lontani i tempi in cui si dibatteva costantemente sulla bontà e la giustezza di certe idee, in cui la critica e il confronto interno elevavano la Sinistra ad un livello morale superiore alla Destra. Da quanto tempo, infatti, la Sinistra (figlia e figliastra di quei dibattiti) non si mette più in discussione? Forse che sia per tale ragione che può permettersi di smentire continuamente se stessa? Forse che sia stato il cambio di interlocutori a trasformarne gli ideali? L’ostinazione a definirsi Sinistra può bastare come salvacondotto nel sorprendente tragitto verso il più sfacciato neoliberismo che sta demolendo ogni residuo retaggio di portavoce storica dei diritti dei lavoratori?
In altre parole, questa Sinistra può ancora considerarsi tale?
La risposta è assolutamente e malinconicamente scontata: no!
La verità nuda e cruda è che, grazie alle nuove “armi di distrazione di massa” di cui dispone l’attuale politica, i front-men di partito, quelli con la faccia di bronzo e la parlantina sciolta, di fronte a stampa e televisioni (spesso compiacenti) possono dire tutto quello che vogliono per essere poi smentiti dai fatti, alla breve come alla lunga distanza. L’indignazione popolare dura giusto il tempo di una partita di calcio o dell’ennesima bufala in rete, oppure del prossimo attentato terroristico. In qualche modo, queste implacabili armi corrono puntualmente in aiuto dell’armata Brancaleone di Montecitorio, più intenta a dispensare i suoi servigi alla corte di Bruxelles che a mantenere le promesse date agli elettori (gli eterni sedotti e abbandonati, puntualmente trattati come tanti Fantozzi da ubriacare e sfruttare). E i Fantozzi e i Filini intanto comunicano tra loro, s’incazzano, imprecano, minacciano, si distraggono, si confortano a vicenda, paghi e orgogliosi dei loro sfoghi a distanza.
Ma la tragedia più tragica di tutte è che, alla fine, Sinistra e Destra tendono ad annullarsi a vicenda. A dissolversi in un’unica nebbia in cui la gente non sa più dove andare. E quando non si sa dove andare o si sta fermi o spesso si prende la direzione sbagliata, quella più facile… Ma in tempi in cui si cammina sul bordo del baratro, procedere alla cieca può essere fatale.
E allora che fanno i nostri esperti di comunicazione politica? Si servono della più efficace tra le armi di distrazione: la paura!
L’allarmismo, il terrorismo, il complottismo, il catastrofismo, il mondialismo e il neoliberismo sono i moderni “ismi” che muovono il pensiero collettivo e che hanno sostituito quelli vecchi, dal patriottismo ottocentesco all’ideologismo novecentesco e i suoi derivati. Se una volta la paura veniva contrastata dalla speranza, oggi viene rafforzata da disillusione e rassegnazione. In Occidente, oggi più che mai, controllare il pensiero della collettività equivale a immobilizzarlo, instillando in esso il baco del terrore di perdere ciò che si possiede. La regola è semplice: ti immobilizzo nell’incertezza per privarti della tua capacità di reazione.
È un gioco rischioso.
La Destra infiamma gli animi, stuzzica il malcontento più che strisciante, nell’intento di risvegliare una volontà popolare per lo più paralizzata, per farla strumento necessario alla riconquista di un consenso compromesso dalle brutture del proprio passato.
La Sinistra, invece, persegue il suo progetto “globalizzante”, lo fa scegliendosi i suoi nuovi partners, divisi tra i signori della nuova economia sovranazionale e il melting pot della prossima manovalanza a costo ridotto, ignorando le “richieste dal basso” per cui era nata.
Il pragmatismo è l’unico carattere originario che la Sinistra ha saputo mantenere intatto fino ai giorni nostri, questa volta però si tratta di applicarlo alla quadratura del cerchio che ruota attorno a dinamiche economico-finanziarie completamente avulse dai bisogni primari della gente. Ed è proprio a causa di ciò che questa sedicente Sinistra ha scelto e sceglie di ignorare bellamente il grido d’aiuto dei suoi vecchi innamorati, tuttora increduli di essere rimasti ormai soltanto degli orfani.
Alla fine, per strada, la sensazione è di abbandono. La classe politica di questa Sinistra, troppo intenta a ragionare sui massimi sistemi, ha perso sempre più contatto con la gente. Da D’Alema e Bertinotti in poi, la Sinistra non si è più confrontata in modo serio e partecipato con la sua base elettorale al fine di comprenderne i reali bisogni in continuo mutamento, ha preferito invece dibattere su schieramenti, alleanze e ghirigori dialettici, nonché autoincensarsi nei salotti e negli studi televisivi. In più, da quando è diventata espressione del potere, ha scoperto le regole del marketing, preferendole ai suoi vecchi precetti ispirati alla lotta di classe e alla difesa dei diritti dei lavoratori, per nulla attrattivi in verità.
Ora più che mai, questa rampante classe politica di Sinistra si erge a giudice, sentenziando con superbia e accusando, dai propri, confortevoli lofts “radical e cultural chic”, concorrenti e avversari di demagogia e populismo, dimenticando che anche la Sinistra originariamente nacque come espressione populista, e che accogliere e rivendicare le ragioni della gente semplice, magari non istruita, non è affatto una bestemmia, semmai un’opportunità.

Fano-Ferrara sulla “bicipolitana” 1-2-3 giugno 2017. Iscrizione entro il 22 aprile 10 posti disponibili

Da organizzatori

Tre giorni pedalando sulla costa adriatica

Giovedì 1 giugno km 46
Partenza in treno dalla stazione di Ferrara ore 7.11 arrivo a Bologna ore 7.43; partenza da Bologna ore 8.35 arrivo a Fano ore 10.41
Partenza in bici da Fano ore 11.30 per Pesaro attraverso la “bicipolitana” poi a Gabicce Mare in due gruppi:
Gruppo A strada “panoramica” (salite del San Bortolo);
Gruppo B Statale 16 (salita della Siligata).
Ritrovo dei due gruppi a Gabicce e spuntino. Prosecuzione per Cattolica, Misano,
Riccione, Miramare, Rivazzurra. Pernottamento in hotel.
Venerdì 2 Giugno km 60
Partenza ore 8.30 per Rimini (visita alla città), Viserba, Bellaria, Cesenatico, Cervia
(spuntino), Lido di Classe, pineta di Cervia, S. Appollinare in Classe (visita), Ravenna (pernottamento).
Sabato 3 Giugno km 85
Partenza ore 8.30 per S. Alberto. Traghetto sul Reno. Argine delle valli, Anita (spuntino), Longastrino, La Fiorana, Bando, Consandolo, S. Nicolò, Ferrara.
Rientro previsto alle ore 17.

Informazioni e cose da sapere
COSTI
Due pernottamenti + due colazioni + due cene + traghetto sul Reno + assicurazione 120,00 €.
Biglietti del treno, spuntini e ingresso ai monumenti a carico dei singoli.
Numero massimo di partecipanti 10, per il limitato numero di posti bici sul treno.
Partenza stazione di Ferrara ore 7.11 arrivo a Bologna ore 7.43; da Bologna ore 8.35 arrivo a Fano ore 10.41 (€ 21,25 intero).
ATTENZIONE
Prenotazione obbligatoria con caparra di 50,00 € entro sabato 22 aprile. Visto i pochi posti disponibili, avranno priorita le iscrizioni in ordine di data.
Chiamare Massimo Migliori al numero 0532 770877 – 348 8645028 – mamiglio48@tim.it

Il Nòcciolo e FerraraItalia a sostegno del master di Comunicazione ambientale di Unife

Da il Nòcciolo srl

Il Nocciolo, editore di FerraraItalia, ha sottoscritto una convenzione con l’Università degli studi di Ferrara per promuovere il master “ESPERTO DI COMUNICAZIONE AMBIENTALE, ETICA DELLA COMUNICAZIONE PER UN ETICA AMBIENTALE” in coerenza con i principi della società che ha tra le sue attività prioritarie la diffusione dell’informazione attraverso i mezzi editoriali e tutti gli strumenti atti allo scopo, con particolare attenzione a quelli online (come FerraraItalia che si configura contestualmente quale strumento informativo, luogo di confronto, momento di stimolo culturale).

L’Università di Ferrara infatti promuove un Master di I livello da 60 crediti dal titolo “Esperto di Comunicazione Ambientale – Etica della Comunicazione per un’etica ambientale” che riteniamo di alto valore didattico e scientifico sui complessi temi dell’ambiente e in particolare della sua comunicazione.

Il master si pone l’obiettivo della formazione di figure professionali competenti sulle problematiche dell’ambiente e in grado di fare comunicazione ambientale che generi cultura dell’ambiente nella società. Viene tenuto in prevalenza da professori strutturati oltre ad esperti riconosciuti.

Per approfondirne la conoscenza e le informazioni (le iscrizioni sono possibili fino al 26 aprile) vedi http://www.unife.it/masters/eca

e per averne una sintetica presentazione vedi il video in cui il nostro collaboratore Andrea Cirelli, curatore del programma scientifico del master, ne indica i principali contenuti https://www.youtube.com/watch?v=s853Q5qNcbw&feature=youtu.be

Con questa convenzione la società Il Nocciolo srls, tramite FerraraItalia, si impegna a:

* promuovere il Master diffondendo i contenuti e citando la presente convenzione sui propri canali di comunicazione, digitali e tradizionali per l’anno accademico 2016/2017

* mettere a disposizione le proprie competenze organizzative e giornalistiche

* valutare la propria disponibilità ad accogliere per project works alcuni partecipanti al master

* si rende disponibile a ospitare momenti in presenza e a distanza connessi al percorso formativo e valuta la opportunità di presentare iniziative formative e informative congiunte

L’Università degli Studi di Ferrara e Il Nocciolo srls si impegnano, inoltre, a sviluppare forme di collaborazione rispetto alle seguenti attività:

* utilizzo reciproco dei rispettivi loghi nelle attività e nei documenti legati al master

* progettazione didattica di specifici contenuti dei vari insegnamenti;

* partecipazione a seminari, laboratori operativi, convegni, tavole rotonde;

Al Vittoriano trionfa l’eleganza del Signor Boldini da Ferrara

“La vita è moto; Boldini è stato il pittore dinamico per eccellenza. Dinamico non soltanto perché è stato ossessionato dalla realizzazione di ciò che vive e vuol divenire, ma anche perché, fino all’ultimo respiro, ha voluto superare se stesso. Boldini fu il pittore del gesto, diremmo del respiro del gesto, di quel fremito che aleggia attorno ad una mano quando si è appena posata e non si è ancora appesantita nella dimenticanza di se stessa. Nei suoi quadri, il gesto non è posa, è moto, cioè transizione, sì che, pur esprimendo quello che è, esso contiene ancora quello che è stato e già esprime ciò che vuol divenire”. (Emilia Cardona).

Il Signor Boldini da Ferrara, un nome nuovo ma che brillantemente esordisce”, come lo aveva definito Telemaco Signorini, ci attende a Roma, al Complesso del Vittoriano, ala Brasini.

Con la sua eleganza, il suo talento, la sua leggiadria, la bellezza di tele le cui tenui sfumature accarezzano la delicatezza di visi ottocenteschi che accompagnano nella piacevole passeggiata nella Belle Epoque. Donna Franca Florio, dal manifesto imperioso, conduce lo spettatore verso un’entrata a luci soffuse che è il giusto preludio a quanto l’attende, attraverso una scala che, all’ombra di un profilo scultoreo che osserva, pian piano introduce e invita alla scoperta: 160 opere, alcune raramente esposte, provenienti da 30 musei di tutto il mondo, quali il Musée d’Orsay di Parigi, lo Staatliche Museen zu Berlin – Nationalgalerie di Berlino, il Musée des Beux-Arts di Marsiglia, la Galleria degli Uffizi di Firenze e il Museo Giovanni Boldini di Ferrara.

Si inizia dalla “timeline”, un manifesto dl colore rosa e grigio, colori che profileranno tutta la visita, che introduce la vita di Giovanni Boldini, nato a Ferrara il 31 dicembre 1842 da Benvenuta Caleffi e dal pittore Antonio Boldini. Fin dall’età di 14 anni, momento in cui realizza il magistrale autoritratto, Boldini inizia a dipingere e frequenta la scuola di pittura dei fratelli Domenichini. Trasferitosi a Firenze nel 1864, il pittore entra in contatto con esponenti di rilievo del gruppo dei macchiaioli, come Cristiano Banti e Telemaco Signorini, e qui frequenta gli ambienti alla moda del Caffè Michelangiolo e del Caffè Doney. Inizierà poi a viaggiare, da Parigi, dove, nel 1867, visita le mostre di Courbet e Manet, e Londra, dove gli vengono commissionate opere anche per la duchessa di Westminster. E’ però il 1871 l’anno di svolta: Boldini va a Parigi con la modella e compagna Berthe, spesso ritratta, con la quale si trasferisce prima a Montmartre e poi a Place Pigalle. Da qui inizierà ad esporre nei saloni parigini più illustri cambiando anche amanti e modelle.

Ritratto di Giuseppe Verdi seduto, 1886, Casa di Riposo per Musicisti-Fondazione G.Verdi

Il 1886 è l’anno del famoso ritratto di Giuseppe Verdi, prima quello ad olio poi quello a pastello; dal 1889, anno in cui presenta cinque dipinti ad olio e vari pastelli all’Esposizione Universale e riceve il Grand Prix e la medaglia d’oro per il Pastello bianco, ricomincia a viaggiare. E’ il turno della Spagna e del Marocco. Le tappe della vita di Boldini si susseguono in un crescendo di avvenimenti e successi importanti: torna a Milano per la prima del Falstaff di Verdi (1893), partecipa alla prima Biennale di Venezia (1895), diventa amico di Marcel Proust (1899), viene premiato all’esposizione Universale di Parigi con il Grand Prix (1900), esegue il Ritratto di Donna Franca Florio (1901), termina il ritratto della principessa Marthe-Lucile Bibesco esposto al Salon du Champ-de-Mars (1911), ottiene il titolo di ufficiale della Légion d’Honneur e quello di Grand’Ufficiale della Corona d’Italia (1919), inizia il suo rapporto epistolare con Filippo Tommaso Marinetti (1920), ammirando d’Annunzio. Una vita costellata dall’amore per le donne, da Berthe, a Gabrielle de Rasty, ad Alaide Banti, che l’artista definisce “mia fidanzata per 60 anni”, fino alla moglie trentenne Emilia Cardona, sposata alla veneranda età di 87 anni. Sempre affascinato dalla bellezza e dalla sensualità che avvolge, Boldini ha realizzato fra le opere più belle e rappresentative del fascino e dell’eleganza di ogni donna. Abiti sontuosi e fruscianti, salotti, tessuti, luci soffuse, attimo fuggente: questo il travolgente mondo di Boldini che ammiriamo a Roma. Tra le celebri opere esposte vi sono La tenda rossa (1904), Signora che legge (1875), Ritratto di signora in bianco (1889), Ritratto di Madame G. Blumenthal (1896).

Ritratto di Donna Franca Florio, 1901-1924, AMT Real Estate Sp in cpo

E, soprattutto, la grande tela dedicata a Donna Franca Florio, realizzata tra il 1901 e il 1924, capolavoro simbolo della Belle Epoque. Nel 1901, Ignazio Florio, erede di una delle più importanti famiglie di imprenditori di Palermo, affida a Boldini il ritratto della bellissima e affascinante moglie, chiamata “Donna Franca, la Regina di Sicilia” e definita da D’Annunzio “l’unica. Una creatura che svela in ogni suo movimento un ritmo divino”. Ignazio non ama il ritratto, lo ritiene troppo sensuale e provocatorio, il vestito eccessivamente scollato. Il lavoro, per questo non viene pagato. Boldini ne fece una seconda versione, che piacque a Florio, esposta a Venezia nel 1903. Ma se ne perdono le tracce e, a distanza di anni, l’artista, su richiesta di donna Franca, prende la prima versione del ritratto che aveva conservato nel suo atelier, realizzando quanto vediamo oggi. Opera, peraltro, prestata al Vittoriano, perché oggi, coinvolta da procedura giudiziaria, sarà presto messa all’asta.

Nella ricerca dell’attimo fuggente, possiamo continuare il nostro viaggio nell’opera boldiniana.

L’esposizione è divisa in quattro sezioni: la luce nuova della macchia (1864-1870), la Maison Goupil fra chic e impressione (1871-1878), la ricerca dell’attimo fuggente (1879-1891) e il ritratto Belle Epoque (1892-1924).

Signora bionda in abito da sera, 1889 ca, Collezione d’Arte Fondazione Cariparma, donazione Renato Bruson

Memorabili, nella prima sezione i ritratti di Adelaide Banti sulla panchina (1870-1875) e la famiglia Banti (1866), nella seconda la colorata Place de Clichy (1874), la Signora che legge o le Dame del Primo Impero (1875) adagiate comodamente su eleganti poltrone e divani azzurro e oro (1875), nella terza i ritratti della Contessa de Rasty coricata e in abito da sera (1880), il ritratto di Cecilia de Madrazo Fortuny (1882), di Madame Seligman dalla spilla luccicante a forma di libellula(1883) e di Emiliana Concha de Ossa, dal viso lungo avvolto in un elegante velo trasparente (1889-1901), e, nell’ultima, quelli di Josefina Alvear de Errazuriz (1892), dell’attrice Reichenberg (1895), di Mademoiselle De Nemidoff dall’elegante pettinatura (1908), di Gertrude Elizabeth Lady Colin Campbell dalla scollatura ornata di rose (1894) o di Madame G. Blumenthal (1896).

Le atmosfere parigine si sentono e si vedono. Come si legge nella seconda sala, “i caffè risuonano come officine, all’ombra degli alberi si stringono i dolci colloqui; tutto s’agita e freme in quella mezza oscurità, non ancora vinta dall’illuminazione notturna; e un non so che di voluttuoso spira nell’aria, mentre la notte di Parigi, carica di follie e di peccati, prepara le sue insidie famose” (Edmondo de Amicis). Vivace cromatismo variopinto che aleggia nelle sale. Splendore di vita mondana che arriva da qui fino agli abiti sinuosi della Belle Epoque, silhouette leggere e aggraziate, pizzi, merletti, collane di perle e fiori eleganti ad ornare la bellezza. Beltà su beltà. Femminilità pura. Centinaia di delicate muse passate per l’atelier di un artista unico. Da vedere. Perfida divina!, avrebbe detto Boldini, come aveva apostrofato la Marchesa Dora di Rudinì.

Signora con ombrellino, 1876, Collezione Palazzo Foresti, Carpi

Giovanni Boldini, Complesso del Vittoriano – Ala Brasini, Roma, 4 Marzo-16 Luglio 2017. Sotto l’egida dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, con il patrocinio del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e della Regione Lazio, la retrospettiva è organizzata e prodotta da Gruppo Arthemisia, in collaborazione con Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali di Roma Capitale e AIAC (Associazione Italiana Arte e Cultura), ed è curata da Tiziano Panconi e Sergio Gaddi. Sito web: http://www.ilvittoriano.com/mostra-boldini-roma.html

Pinocchio: storia di un’iniziazione, fra noir, avventure, incanti e meravigliose fantasia

di Gian Luigi Zucchini

La cinquantaquattresima edizione della Fiera del libro per ragazzi, che si aprirà a Bologna lunedì 3 aprile, ci sollecita a molte riflessioni sul libro. Ci richiama in particolare a riflettere su un’opera tra le più originali e coinvolgenti scritte nel tempo, ‘Pinocchio’, e sul suo autore Carlo Lorenzini detto Collodi.

Riportiamoci dunque col pensiero al 1890.
La sera del 26 ottobre di quell’anno lo scrittore suonava disperatamente al portone di via Rondinelli 7, a Firenze. stramazzando poco dopo a terra. La morte, avvertita con disperazione poco prima, avvenne, per la rottura di un aneurisma, quasi subito, sulla soglia di casa sua, dove viveva, spesso barricandosi dietro la porta per un timore quasi nevrotico dei ladri. Da pochi anni aveva concluso il suo capolavoro: l’incredibile storia di un burattino di nome Pinocchio, che sarebbe diventato uno dei libri più importanti per i ragazzi e che pure gli adulti, in seguito, avrebbero letto con interesse critico e stupita ammirazione. E fu proprio quella storia, iniziata quasi di malavoglia (si disse per soddisfare debiti di gioco), che gli diede fama e lo collocò tra gli scrittori in prosa più originali del nostro Ottocento.

Poiché Lorenzini era già abbastanza noto come autore di libri per ragazzi, Ferdinando Martini, che dirigeva il ‘Giornale per i bambini’, gli chiese di scrivere un racconto a puntate. Così, il 7 luglio 1881, cominciò a uscire la storia di Pinocchio, una specie di ‘antifiaba’ che inizia con un dialogo tra l’autore e i lettori, e che non comincia nel solito modo, “C’era una volta un re”, bensì “C’era una volta un pezzo di legno”. E da qui prende corpo un racconto dove l’avventura, il mistero, l’ironia, la spigliatezza birichina e corsara del linguaggio e la felicità dell’espressione realistica rendono incalzante un itinerario denso di eventi e di straordinarie vicissitudini.
Pinocchio comincia da subito un percorso di iniziazione e si avventura spregiudicatamente in rischiose disubbidienze, nel furore di una libertà che non accetta controlli, e che poi i fatti e gli eventi modereranno via via fino al raggiungimento di una saggezza conquistata e consapevole.
Il racconto si interruppe con la puntata uscita il 27 ottobre 1881, o meglio, doveva essere concluso lì, poiché Pinocchio, inseguito dagli assassini, viene poi raggiunto e impiccato a un albero, dopo una corsa affannosa che dura quasi l’intera notte. E’ un rapido racconto del terrore, con cui il noir tipico dei romanzi d’appendice viene applicato alla storia: la notte è tempestosa, soffia un vento violento, gemono i rami folti del bosco. Pinocchio vede in lontananza una casina bianca, spera nella salvezza, ma la bambina dai capelli turchini, che finalmente dopo molto affannoso picchiare alla porta, appare dietro una finestra, non vuole o non fa in tempo ad aprire e a salvarlo.
Sembrerebbe così concludersi, in modo drammatico, la storia del burattino.
Invece riprese dopo pochi mesi, dal 16 febbraio al giugno 1882, poi dal 3 novembre al 25 gennaio 1883. La ripresa del racconto è un’esplosione del fiabesco, un’immersione grandiosa nell’immaginario. Mentre nella prima parte le storie erano vivacizzate entro una realtà domestica e quotidiana (la casa di Geppetto, il borgo, l’Osteria del Gambero Rosso, la campagna toscana con piovaschi e le nevicate dell’inverno…) ora la fantasia si dilata al massimo. Appare una carrozza “color dell’aria”, entrano in scena picchi, corvi, una lumaca bianca, una Civetta, un Grillo Parlante e, nella sua giovanile bellezza, la Fata dai Capelli Turchini, figura emblematica della Grande Madre terrena e celeste, espressa nel romanzo con le molte forme e figure possibili – l’industriosa donnina dell’Isola delle Api, la capretta dal pelo turchino, la malata nel letto d’ospedale, la signora col medaglione, la bambina della piccola casa bianca, la donna severa e dolce che cura Pinocchio malato – quasi a voler esprimere, attraverso i molti volti salvifici e amorevoli, la figura materna che Lorenzini amò con affetto quasi edipico, in una forma che psicologicamente potrebbe definirsi non priva di nevrotica morbosità; tanto che assunse poi come pseudonimo il nome di Collodi, il paese toscano in cui la madre era nata.

Tuttavia lo scrittore aggiunge, a questo aspetto che coinvolge particolarmente il bambino, anche un altro elemento, che prefigura la realtà adulta, la vita sociale non soltanto nella sua epoca, ma in tutti i tempi: l’egoismo e la sordida avarizia, l’ingiustizia prevalente anche là dove si dovrebbe amministrare la legge (emblematico il processo in cui Pinocchio, che è vittima, viene condannato mentre i colpevoli la fanno franca), i viscidi e malvagi comportamenti di certi personaggi, come l’Omino di Burro, che conduce i bambini nel Paese dei Balocchi, e che richiama altre tenebrose e orrende figure del feuilleton francese, come per esempio il ‘maestro di scuola’ ne ‘I misteri di Parigi’ di Sue, che Collodi tentò anche di riprendere in chiave italiana, nel mediocre romanzo ‘I misteri di Firenze’ del 1857.
E in questo, cioè nel calare con graffiante ironia la storia nella quotidiana contradditorietà dell’uomo e della società, sta anche l’importanza di questo libro, e di un autore che ha saputo giocare a tutto campo con la vita affrontandone gli aspetti, senza però farli uscire da quell’ambito incantato e lieve in cui l’avventura e la fantasia riuscirono e riescono a sedurre i ragazzi di ogni parte del mondo.

La conclusione, che sembrerebbe troppo edulcorata e improntata a un ‘lieto fine’ molto conformistico e tipicamente ‘borghese’, a ben riflettere non è propriamente così: mi pare che, analizzando bene, l’autore abbia voluto dimostrare che la vita, nel suo evolversi, travolge necessariamente la fantasia rapinosa dell’infanzia, e che la storia di un’iniziazione, quale che essa sia, deve poi concludersi con un adeguamento alla realtà. Così scompare la fiaba e il benefico regno in cui essa sopravvive alla storia ed entra definitivamente nel mito, in un tempo che non esiste ma è eterno, in un luogo sempre immaginato e irraggiungibile, una specie di Nirvana, come la casina bianca della bella bambina dai capelli turchini, o come la fata, che nel racconto scompare definitivamente e non si sa più dove sia andata, o se esista ancora oppure no.
È certo però che nella vita di Pinocchio, come in quella di tutti, dopo l’iniziazione, dopo l’infanzia, essa non apparirà mai più se non nel sogno o, come dice il Pascoli, nel recondito mondo del ‘fanciullino’, dentro di noi.

DIARIO IN PUBBLICO
Il tormento e l’estasi: il lascito dei miei libri

Le dolenti note che hanno accompagnato le celebrazioni di Tullio de Mauro alla presenza della ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, che con voce rattenuta dialogava con una giovane molto brava sulla necessità della lettura, si sfracellano contro l’articolo di Tomaso Montanari pubblicato su ‘La Repubblica’ di giovedì dal titolo eloquente: ‘Antiche biblioteche sotto sfratto’ in cui si dà conto dell’agghiacciante situazione delle preziose biblioteche che necessità, scelte e incuria hanno creato nel panorama culturale italiano.
Allora. Chiusura al pubblico della magnifica biblioteca di Giuliano Briganti: 50 mila volumi destinata a Siena e per ora chiusa, probabilmente tolta dal grande complesso di Santa Maria della Scala. A Pisa la biblioteca della Sapienza, ovvero dell’Università, ma che appartenente al Mibact, è chiusa da 5 anni. La famosa biblioteca dei Girolamini di Napoli, divenuta celebre per certi ‘prelievi’ (300 mila libri) è stata affidata al Polo Museale e non alla sua naturale destinazione, che è la Biblioteca Nazionale di Napoli. Ma per noi ferraresi il peggio proviene da questa decisione. Cito: “La gloriosa Biblioteca Estense è stata sottomessa alla direzione della Galleria: con il risultato che è stata chiusa una sala di consultazione per destinarla a ulteriore luogo espositivo, e che si pensa di smembrare le collezioni librarie storiche. Aggiungiamo che nel 2018, le tre bibliotecarie dell’Estense andranno in pensione: un problema che riguarda tutti i libri pubblici italiani”.

Già. Se penso ai lunghi e laboriosi studi all’Estense, quando la Biblioteca era la ‘casa’ di noi studiosi e tutti i membri dell’Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara, capeggiati da Amedeo Quondam, sospiravano non solo metaforicamente su quello che Modena con il suo patrimonio librario possedeva rispetto alla capitale dello Stato estense mi percorre un brivido di puro terrore. Necessità di libri altroché di ‘sottomissione’ alla gestione delle Galleria!
Poi arrivo a Ferrara e cerco di distribuire prima del trapasso ad altri luoghi la mia piccola collezione di libri (attorno ai 12 mila). Invano! Con fare imbarazzato il direttore dell’Ariostea, naturalmente incolpevole e necessitato a chiedere autorizzazioni al politici, mi concede di depositare – forse – in biblioteca la mia sezione di volumi sul giardino e il paesaggio. Una piccolissima raccolta, attorno ai 7-800 volumi, accettata perché in Regione diventerebbe l’unica a soddisfare quel tema e problema.
A piene mani lascio volumi alla biblioteca del liceo Ariosto, a quella di santa Francesca Romana, qualcuno al centro Studi Bassaniani, mentre per cautela i miei libri dell’Istituto di studi rinascimentali vengono chiusi in scatoloni. Non si sa mai che osino essere consultabili!
Per i rari, veramente rari, lascerò agli amici un volume prezioso a ricordo della comune passione per il libro e per la sua funzione nella Storia. Gli altri, implacabilmente venduti se debbono fare la fine tristanzuola di essere messi in deposito.
Non voglio pensare alla fine della mia biblioteca di cataloghi di mostre, helas!
So che personaggi ben più importanti del sottoscritto faticano a depositare il frutto del loro lavoro in sedi degne. Che vergogna!

Tutta questa geremiade non per fare il laudator temporis acti, ma per salvare la dignità, la qualità del libro come indispensabile strumento di conoscenza.
Basta vedere! Occorre leggere. Questo ce lo chiedono i giovani. Questo è l’unico modo di preservare o meglio salvare la consapevolezza della verità e della bellezza che solo il libro può donare e proporre.
Ha ragione Montanari nel concludere il suo articolo con questa considerazione:
“Tra un’ emozione e un sogno, una mostra e un evento, dovremmo ricordarci che i libri non sono un arredo che possiamo spostare, imballare, smontare: senza le biblioteche, non solo i musei e le mostre, ma perfino i sogni e le emozioni, diventeranno presto incomprensibili”.
E la leggerezza lascia il posto alla pesantezza delle scelte. Di ciò che noi siamo. Di ciò che vogliamo e non vorremmo.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
L’altra donna, quella che non aspetta

A. c’è da sette anni, ma non ha aspettato O. un solo giorno. A. ha quarant’anni, è bella, intelligente ed è l’altra donna, l’amante di un uomo sposatissimo e con un figlio da crescere.
Non è la solita storia della giovane amante lusingata che crede un giorno le cose cambieranno e del solito uomo impegnato che fa finta sia così.
A. non ha mai pensato potesse esistere un futuro in cui occupare un ruolo diverso. Lei vuole questo posto, lei sceglie lui così com’è. Vuole se stessa senza un pezzo di meno, radiosa e speciale come ogni volta che lo vede o lo sente.
O., nella sua doppia vita, l’onestà l’ha riservata ad A.: non lascerò mai mia moglie, posso darti parentesi, pranzi rubati, telefonate, silenzi e tanto tempo in cui non esserci, ma ti darò anche l’uomo che piace a te, quello che non ti toglie e ti aggiunge.
In questi sette anni, A. ha affrontato delle prove, è uscita con altri uomini e ha anche imboccato altre strade. Tutte prove perfettamente superate: è sempre tornata da O.
Lei accettava la sfida di allontanarsi e lui vinceva il confronto su tutti. Lui sapeva, la incoraggiava e aspettava. Pochi mesi e lei tornava.
Un giorno, dopo un periodo in cui A. si era concessa di frequentare un’altra persona, per poi scegliere ancora una volta O., le ho detto che, forse, il suo posto è lì, al timone di un viaggio che porta sempre verso lo stesso approdo.
Non è lei che aspetta consumando i capodanni sperando sia l’ultimo da sola, ma lui. O. ha due vite, A. tutte quelle che vuole, ma un solo amore, glielo vedo negli occhi quando lo nomina.
In questa storia senza doveri e di onestà reciproca, l’amore resiste e se ne infischia se i conti non tornano con le convenzioni e con quello che fanno tutti. Tante volte A. si è sentita dire che meriterebbe altro, ma ad A. l’altro non interessa più.
Il prezzo, se c’è, lo sanno solo loro che continuano a scegliersi e amarsi, anche lontani a capodanno.

Vi è mai successo di vivere un amore, un’esperienza o persino tutta la vita contro corrente?

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

Mattia Feltri e Annalena Benini a Unife spiegano le conseguenze dell’informazione

Da ufficio stampa

A chi giova e a chi dispiace una certa notizia? Che conseguenze avrà per i protagonisti? E per il giornalista che la diffonde?

Sono questi alcuni degli interrogativi attorno ai quali si svilupperà la riflessione di Annalena Benini, redattrice del Foglio, e Mattia Feltri, del quotidiano la Stampa, in un incontro seminariale dal titolo “Le conseguenze dell’informazione”, promosso dall’Università di Ferrara, in programma venerdì 31 marzo alle 10,15 nell’aula magna Drigo del dipartimento di Studi umanistici, in via Paradiso 12.

Il rapporto con le fonti, la responsabilità sociale del giornalista, le modalità di trattamento della notizia sono altri nodi problematici al centro del dibattito che apre il ciclo “L’etica in pratica – 2017” programmato nell’ambito del corso di Etica della comunicazione e dell’informazione del professor Sergio Gessi.

All’incontro, aperto a tutti, avranno parte attiva gli studenti del corso di Etica e i giornalisti impegnati nel programma di formazione continua e aggiornamento previsto dall’Ordine professionale.

Il Delta del Po negli anni Cinquanta: a Rovigo in mostra la ‘Terra senz’ombra’

da Maria Paola Forlani

Parlando di “neorealismo” appare a tutt’oggi, ancora incerta la ricerca storica su quel periodo in ambito fotografico, soprattutto per quanto riguarda la conoscenza effettiva delle fonti e delle testimonianze. Alcuni studi e ricerche italiani hanno messo in evidenza con adeguata attenzione critica, come di fatto l’aver applicato la categoria “neorealismo” alla fotografia, desunta dal cinema e dalla letteratura, faccia parte di una “narrazione” sul periodo, costruita a posteriori, che ha poi dato spesso adito a luoghi comuni e soprattutto all’incapacità di comprenderne la ricchezza e molteplicità delle esperienze. Italo Calvino nella sua Presentazione a ‘Il sentiero dei nidi di ragno’ (Torino, Enaudi, 1964) notava il carattere composito del ‘movimento’ neorealista, che sosteneva non potersi configurare come una scuola bensì come un ‘insieme di voci’, un’esperienza stratificata.
Il fotografo bolognese Alfredo Camisa (1927-2007), in una bella intervista, ironicamente dichiarava: “Alla fine degli anni Cinquanta alcuni di noi […] chiudevano la loro esperienza fotografica […] con un’etichetta: eravamo stati, senza saperlo, i fotografi “realisti”, anzi ‘neorealisti’”.

Meglio allora parlare di orientamenti o di un “gusto”, ma certo non di un movimento organizzato o definito da qualche adesione a un manifesto, a delle dichiarazioni programmatiche di una poetica ben precisa.
Si arriva poi a un’altra questione fondamentale per la fotografia, collegata a quella del realismo: cosa sia in effetti il ‘documento’ in fotografia. Nella declinazione neorealista, come è stata sviscerata dai più che se ne sono occupati e se è possibile trovare un minimo comune denominatore in esperienze molto diverse le une dalle altre, la fotografia si pone il compito, attraverso l’attenzione al reale, di ‘documentare’ le condizioni delle persone che vivono in povertà, per descriverle e per suscitare la necessità del cambiamento. Quindi un tema della realtà delle cosiddette classi disagiate e un impegno, una convinzione: descrivere per persuadere, alla trasformazione sociale e politica. A questo fine la fotografia deve essere ‘documento’, nell’adesione al reale e al ‘vero’. Questione che è stata affrontata, naturalmente, sin dalle origini della fotografia e che in Italia fu affrontata spesso all’interno di una dicotomia, quella tra ‘documento’ e ‘opera d’arte’, che segna il dibattito sulla fotografia sin dall’ottocento e su cui molti sono intervenuti, al fine di non considerare la fotografia con gli stessi criteri e categorie di pensiero applicate all’opera d’arte.

L’esperienza neorealista tra letteratura e cinema vive soprattutto in Italia tra la metà degli anni Quaranta e metà degli anni Cinquanta. Il neorealismo in fotografia vive e procede anche oltre, tuttavia, fin verso gli inizi degli anni sessanta. Riconducibile, quindi, a un orientamento verso la vita quotidiana della gente comune, dovuto, senz’altro al clima culturale del dopoguerra, trova i suoi antecedenti sicuramente nella cultura fotografica italiana tra la fine degli anni trenta e gli inizi degli anni quaranta. Non sempre, oltretutto, il carattere cosiddetto ‘progressivo’ dell’esperienza neorealista è veramente tale, e il rinnovamento intellettuale ed espressivo passa spesso per altre vie: le ricerche astratte e informali, le tensioni sperimentali che s’incrociano con la grafica, la pubblicità, il cinema, l’architettura e non, necessariamente, ad esempio, col realismo pittorico pur vivo nello stesso periodo.
Alberto Lattuada pubblica nel 1941 ‘Occhio quadrato. 26 tavole fotografiche’, grazie alle edizioni ‘Corrente’, a un anno dalla chiusura della rivista omonima, cui aveva collaborato insieme a Comencini.
Dice Lattuada nella prefazione al suo libro: “Nel fotografare ho cercato di tenere sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La presenza dell’uomo è continua; e anche là dove sono rappresentati oggetti materiali, il punto di vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni”. Ѐ sicuramente anche in questi riferimenti che va cercata l’origine di una fotografia incline al realismo come attenzione alla condizione umana, in definitiva, come umanesimo.

‘Pietro Donzelli. Terra senz’ombra. Il Delta del Po negli anni Cinquanta’ è il titolo della mostra che, per iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo è presentata nella sede di Palazzo Roverella di Rovigo fino al 2 luglio, a cura di Roberta Valtorta (catalogo Silvana Editoriale).

Pietro Donzelli (Monte Carlo, 1915 – Milano, 1998) ha testimoniato l’Italia del dopoguerra agli inizi anni sessanta, il passaggio dalla società rurale e preindustriale alla società dei consumi. Fotografo, ricercatore, collaboratore di riviste specializzate e curatore di mostre, Donzelli è stato una figura determinante per la diffusione della cultura fotografica nel nostro Paese. Ѐ grazie alla sua instancabile attività che sono state presentate in Italia, per la prima volta, opere di Dorothea Lange, di Alfred Stieglitz, dei fotografi della Farm Security Administration. A partire dal 1948 è stato tra i fondatori e gli animatori della rivista “Fotografia” e dal 1957 al 1963 è stato redattore e poi condirettore dell’edizione italiana di “Popular Photography” e nel 1961 e 1963 ha curato, con Piero Racanicchi due volumi di “Critica e Storia della Fotografia” che raccoglievano testi e materiali sui più importanti fotografi della storia. Nel 1950 è stato tra i fondatori dell’Unione Fotografica che aveva tra i suoi obiettivi quello di spostare l’attenzione sul realismo in fotografia, promuovere manifestazioni di livello internazionale e sostenere la fotografia italiana all’estero.
Le sue serie fotografiche affrontano il rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Ha lavorato su Milano, Napoli, la Calabria, la Sicilia, la Sardegna, il paesaggio toscano (serie Creti senesi) ma soprattutto, dal 1953 al 1960 sul Delta del Po e le terre del Polesine, alle quali ha dedicato una grande e importante ricerca dal titolo Terra senz’ombra.
Questa mostra presenta per la prima volta più di cento fotografie di questa serie, molte delle quali assolutamente inedite.
In mostra anche importanti materiali di documentazione del progetto, scritti di Donzelli, composizioni di fotografie di Donzelli con rime di Gino Piva, geniale poeta polesano.
Il Delta del Po è un luogo-mito della cultura italiana ed è stato rappresentato in molte opere cinematografiche (Antonioni, Visconti, De Santis, Rossellini, Soldati, Vancini, Renzi, Comencini) e letterarie (Bacchelli, Guareschi, Govoni, Zavattini, Cibotto, Piva, e più di recente Celati o Rumiz).
L’opera fotografica che Donzelli, grande narratore, ha dedicato al paesaggio di pianura, al fiume, nei momenti di calma e delle rotte che tanto hanno devastato territori e uomini, al mare, al lavoro dei pescatori e del contadino, ai momenti di svago, è un vero e proprio affresco umano e ambientale. La serie Terra senz’ombra
è considerata una dei pilastri della storia della fotografia italiana, e uno dei più precoci e coerenti esempi di fotografia documentaria, in cui Donzelli dimostra la sua capacità di raccontare la vera realtà umana e ambientale, tra la topografia e la sociologia.

Fradei despersi, se trovè ‘l sentiero
fradei fortuna! Ma l’è torbio el giorno
e la tera tuto un cimitero.
Bruto giorno, fradei, per el ritorno.

Gino Piva (1953)

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Città: l’impresa della conoscenza

Barcellona, Delft, Dublino, Monaco, Montréal, Stoccolma sono oggi considerate a livello mondiale città della conoscenza di successo. Il loro cammino verso uno sviluppo fondato sulla conoscenza come risorsa ha preso avvio col tramonto del secolo scorso, come risposta di fronte alla crisi industriale ed alla crescente disoccupazione. Ormai costituiscono sei casi di studio intorno ai quali si è andata accumulando un’importante letteratura.
Ragionare di città della conoscenza, di uno sviluppo che faccia della conoscenza la sua risorsa prima da noi è ancora molto difficile, eppure ogni giorno tocchiamo con mano come sia arduo uscire dalle secche di una crisi che si estende come una lingua di lava e come i fatti siano terribilmente distanti da quanto un pensiero nuovo, una nuova intelligenza suggerirebbero di fare. Intanto il tempo è tiranno e con realismo spietato non fa che accumularci addosso gli anni del ritardo che scontiamo nei confronti delle città più avanzate.
La questione di fondo resta la volontà politica e sociale che sono indispensabili. Nei casi citati c’era il senso di un’urgenza sociale, credere nella necessità del cambiamento per riposizionare la città nell’era della conoscenza, come risposta alla situazione di difficoltà generata dal declino delle industrie tradizionali o dalla scarsità delle risorse locali. È questa volontà di cambiamento sociale la scintilla per ogni ulteriore azione, ma una città non si sviluppa come città della conoscenza senza un chiaro sostegno del governo e delle leadership locali.
Ogni tentativo di trasformare una città in città della conoscenza è destinato a fallire se non è guidato da una chiara visione strategica, una visione strategica che deve prendere le mosse da un esame disincantato e approfondito della propria condizione. Sarebbe compito del governo della città e degli attori sociali responsabili del suo futuro proporre obiettivi specifici, misure e azioni per una nuova stagione di sviluppo della città fondata sull’uso della conoscenza come leva e risorsa.
Le città che abbiamo citato all’inizio hanno scelto di indirizzarsi su alcuni settori piuttosto che altri, fissando obiettivi ambiziosi per ciascuno di essi. Hanno cercato di bilanciare gli interessi di questi settori in rapporto alle risorse disponibili e alla competitività delle loro aree metropolitane. Soprattutto hanno mirato a far crescere un sistema di alta qualità dall’istruzione di base a quella superiore, di elevare la qualità della vita dei cittadini e dei servizi sociali avanzati.
Certo, il sostegno finanziario e forti investimenti per la realizzazione degli obiettivi strategici costituiscono le condizioni indispensabili. Si tratta di operare azioni di marketing in grado di attrarre investimenti esterni, di mobilitare risorse pubbliche e private, anche mediante l’applicazione di vari regimi fiscali, attirando finanziamenti pubblici a livello nazionale e sovranazionale.
Parchi e poli della conoscenza vanno creati e animati, senza di essi oggi nessuna impresa grande e piccola che sia può sopravvivere, l’era della grande industria ormai è scaduta. Le agenzie di cui hanno bisogno le nostre città sono quelle in grado di promuovere aree qualificate e specializzate di conoscenza, poli della scienza, della ricerca e delle tecnologie.
Queste agenzie possono essere fondazioni, centri di ricerca, istituzioni e università da coinvolgere in diversi tipi di attività, come la progettazione e la realizzazione di piani, per la conduzione di ricerche, il rafforzamento della cooperazione scientifica e la condivisione delle conoscenze, attrarre e trattenere lavoratori della conoscenza, sostenere lo sviluppo economico, il marketing del concetto di città della conoscenza. Perseguire l’eccellenza esprimendo principalmente la capacità di creare nuove conoscenze nei settori della scienza e della tecnologia, ma non solo o esclusivamente, perché porsi l’obiettivo dell’eccellenza fornisce la piattaforma per nuovi beni e servizi basati sulla conoscenza.
Una città della conoscenza di successo è, dunque, soprattutto degna di nota per la sua ricchezza di conoscenze acquisite, che ruota essenzialmente attorno ai suoi centri di ricerca e alle istituzioni dell’apprendimento. La produzione di conoscenza procede in gran parte da quelli che sono conosciuti come i motori dello sviluppo economico della città, come i suoi centri di ricerca e le università.
È anche il carattere multietnico delle nostre città che ci chiama ad accogliere la sfida a trasformarci in città della conoscenza. Una città della conoscenza per avere successo deve essere costruita sulla diversità. Gli individui di talento creativo preferiscono vivere in città con popolazioni caratterizzate da diversità, tolleranza e apertura, in quanto una tale atmosfera stimola la fertilizzazione incrociata delle idee e delle pratiche e favorisce il flusso più veloce delle conoscenze. Le città della conoscenza sanno come ascoltare e trovare i modi per sostenere i diversi punti di visti, le differenti radici culturali e le esperienze dei loro cittadini contribuiscono realmente a nuove idee e innovazioni.
Una città della conoscenza ha senso se è in grado di offrire opportunità di creazione di valore per i propri cittadini. Esempi di tali pratiche sono la promozione di “microcosmi della creatività”, istituzioni di spazi per lo sviluppo del dialogo sociale, la costruzione di siti web di alta qualità e di reti tra città della conoscenza. Una città della conoscenza si distingue anche per il ritmo di assimilazione, l’uso, la diffusione e la condivisione di nuovi tipi di conoscenze, la promozione che a sua volta assicura che esse acquisiscano rapidamente un valore economico e sociale.
“Un motore di innovazione urbana” è un sistema che può innescare, generare, promuovere e catalizzare l’innovazione nella città. Si tratta di un sistema complesso che comprende le persone, i rapporti, i valori, i processi, gli strumenti e le infrastrutture tecnologiche, fisiche e finanziarie. Alcuni esempi di luoghi urbani che possono servire come motori di innovazione sono le biblioteche, i caffè, la camera di commercio, il municipio, l’università, le scuole, i musei, le istituzioni culturali, ecc. Tuttavia non tutti questi luoghi interpretano il ruolo, oggi indispensabile, di veri e propri motori di innovazione.
Una città fondata sulla conoscenza deve garantire, tra gli altri, i diritti all’informazione e alla conoscenza dei suoi cittadini, attraverso l’accesso facilitato alle reti a banda larga per tutti, l’accessibilità all’informazione per un’utenza amica, altamente comprensibile, completa, diversificata, una informazione pubblica trasparente. Il diritto all’istruzione e alla formazione. Tutti i cittadini devono avere il diritto alla formazione al fine di beneficiare in modo efficace dei servizi e delle conoscenze disponibili attraverso l’informazione e le tecnologie della comunicazione. Così come i cittadini hanno diritto ad una pubblica amministrazione trasparente a tutti i livelli del processo decisionale. La Pubblica amministrazione deve impegnarsi a favorire la partecipazione dei cittadini e il rafforzamento della società civile.
I benefici di una città della conoscenza su scala mondiale e locale sono realmente sostanziali ed attraenti, per cui non possono più a lungo essere ignorati dai decisori politici e dai ricercatori, ma soprattutto dai cittadini consapevoli del senso del loro abitare la città.

E’ nata CLARA: la nuova azienda che si occuperà della gestione dei rifiuti in 21 Comuni del ferrarese

Ieri è stata una giornata particolare, un giorno quasi di festa. Ieri sì è dato inizio ad una nuova storia, fatta di vicinanza, apertura, sicurezza, efficienza e rispetto. Aggiungerei anche un altro aggettivo: speranza. Ieri infatti sì è avuta la celebrazione ufficiale, il battezzo per così dire, di una nuova realtà nel campo dell’ambiente e della gestione dei rifiuti, è nata CLARA.

Quando sì parla di ambiente, soprattutto ad una conferenza, il rischio è sempre quello di cadere nella retorica delle parole vane, quelle belle a sentirsi ma che poi non hanno ricadute sul reale. Ma ieri tutto ciò non è successo. Quello che sì è visto invece è stato il futuro che potrebbe diventare presente, un futuro dove, per citare il presidente di Area, Gian Paolo Barbieri, “i rifiuti possono diventare risorse”, risorse che generano economia, un’economia che si riversa in quello che è il ciclo della sostenibilità. Sì perché è proprio a questo che si mira, non una mera nuova azienda che fa del riciclo solo una mission ma che poi nella realtà si perde nella cattiva progettazione. No, e se i romani ci hanno insegnato qualcosa, è che ‘nomen omen’ e cioè il nome è presagio, e il nome di CLARA sta ad indicare trasparenza, di una azienda che sarà pubblica, i cui proprietari sono i 21 comuni della provincia di Ferrara che hanno accettato la sfida lanciata nel 2015.

Un’azienda che vuole essere un ponte tra l’alto e il basso ferrarese, che mira ad un’efficienza che possa portare in pochi anni sia ad una salvaguardia dell’ambiente, sia ad un risparmio ad i cittadini. Cosa che colpisce è anche la maniera nella quale si prende questo impegno, una maniera innovativa, e cioè tramite un “manifesto per la rinascita dei rifiuti” , testo che in 5 punti racchiude le fondamenta di una visione che in sé racchiude il seme di un progetto lungimirante e che si può riassumere nelle parole prese proprio al suo interno, e cioè che dal recupero dei rifiuti, nasce la sfida per una società più giusta e un ambiente più pulito. Fa riflettere come un’azienda scelga queste parole, ed anche durante la cerimonia sono stati pochi i momenti dedicati ai dati, numeri, momenti che nonostante la propria importanza possono apparire sterili a chi non è addentrato nel settore. I relatori invece hanno sapientemente correlato i loro interventi con delle parole che avessero un’immediata ricaduta nel reale ed è per questo che uno sguardo nuovo può essere offerto attraverso chi ha capito che i ‘rifiuti’ non vanno “buttati”, ma vanno fatti “rinascere”. Ma questo, ed è stato sottolineato, non è solo compito di CLARA: un fattore fondamentale nel progetto CLARA è la sensibilizzazione e la responsabilizzazione dei cittadini, che in tutto ciò giocano un ruolo fondamentale e che grazie all’innovativa tariffa su misura saranno anche ‘premiati’ in base alle loro ‘virtù da riciclo’.

Chi è intervenuto, dai sindaci di Cento e Copparo Fabrizio Toselli e Nicola Rossi, al presidente di Atersir Tiziano Tagliani, passando per Nicoletta Bologna, amministratore unico di CMV Raccolta srl, fino ad arrivare a Paola Gazzolo, assessore alla difesa del suolo e della costa, protezione civile e politiche ambientali, (purtroppo il Ministro Galletti è stato trattenuto a Roma per impegni istituzionali), ha messo la propria faccia, il proprio impegno (soprattutto nel caso dei sindaci dei 21 comuni) in quello che sì è un soggetto nato ieri, ma che viene da un’esperienza già avviata, consolidata e radicata nei territori. La speranza che ci si porta dalla manifestazione di ieri è quella che la sostenibilità sia un gioco di squadra, e che per far sì che un rifiuto diventi risorsa e non un scarto destinato all’inceneritore, bisogna essere tutti coinvolti, dai cittadini alle aziende che se ne occupano, e CLARA sembra aver accettato questo questo onere mettendo in campo tutte le migliori qualità.

Morte di un comunista

In questo paese la verità non esiste e non si può dire: i cannoni di Mussolini , le vacche di Fanfani spostate da una stalla all’altra… qui tutto è una bufala, lo Stato vive sulle bufale ai danni degli altri paesi europei, sull’onesta e ingenua capacità professionale di tanti cittadini lasciando il potere alle varie mafie e mafiette che sporcano la piazza, è capace perfino di sovvenzionare il terrorismo perché l’interesse dei pochi e dei cosiddetti amici sia salvaguardato…”. Stavo ragionando così quando dalla televisione ho appreso della morte di Alfredo Reichlin, un comunista che non aveva paura di essere comunista, meglio non se ne vergognava, atteggiamento che purtroppo ha informato negli ultimi anni il grande partito popolare che aveva salvato l’Italia dai piccoli ma determinanti colpi di stato del periodo De Gasperi- Scelba . La storia dice altre cose, dice che De Gasperi aveva salvato il Paese dal pericolo comunista, disegnato da quell’intelligente ma volgare scrittore che era Guareschi, il quale aveva offeso, mi correggo, ha offeso la povera gente dipingendo gli uomini con tre narici e le donne con tre tette.
Credo che Alfredo Reichlin fosse guardato dalla borghesia con molto sospetto: era un aristocratico. Ricordo che molti compagni fasulli lo accusavano spesso di essere un aristocratico, il partito comunista non ammetteva simili cabrate politiche, purtroppo il perfetto comunista andava uniformandosi al disegno di Guareschi e, allora, era necessario passare, nemmeno silenziosamente, dall’altra parte, dalla parte che ho sempre definito dei“ golpisti”.
Oggi possiamo dire che l’Italia ha pagato un prezzo troppo alto la fuga verso un capitalismo becero. Ne parlammo con Reichlin in quei giorni drammatici della strage di Bologna e tornammo inevitabilmente sul discorso un anno dopo, a pochi giorni dall’anniversario del massacro, che aveva un terribile significato politico: aver colpito Bologna, la capitale rossa, aveva un significato chiaro, era necessario chiudere la stagione barricadera, stringere la mano a una borghesia che aveva concepito un piano diabolico. Reichlin mi chiamò al telefono e mi chiese: che cosa facciamo per il 2 Agosto? Gli risposi che ero imbarazzato, c’erano molte cose da dire ma sembrava che il partito avesse scelto il silenzio. Come?, chiese, vieni a Roma che ne parliamo. Chiusi nell’ufficio del direttore dell’Unità parlammo a lungo. Prima volle sapere a che punto erano arrivate le indagini. Punto morto gli risposi e gli spiegai che i magistrati bolognesi dell’ufficio istruzione avevano cassato tutta l’inchiesta della Procura, liberando dal carcere la ventina di neofascisti accusati a vario titolo della strage, a cominciare dall’omicidio del giudice romano Amato, considerato l’uomo che aveva messo più profondamente il dito nella piaga dell’attentato.
Reichlin mi guardò e, con fare cortesemente accusatorio, mi chiese: “perché non scrivi queste cose?”. Le ho scritte, risposi, ma, qui a Roma c’è qualcuno che cancella, taglia, censura. Alfredo alzò la cornetta e al telefono ordinò al redattore capo, mi pare rabbiosamente, “vieni qui per favore”. Quando il collega arrivò gli disse con voce dura: “Il pezzo sulla strage lo scrive Testa, ha tutto lo spazio che vuole e, quando arriva l’articolo, me lo portate qui, lo passo io”. Il pezzo uscì finalmente senza tagli

Il Ferrara Film Festival fra docu-denuncia e commedia

Siamo nel pieno del Ferrara Film Festival, le prime giornate sono trascorse tra pellicole, mostre e incontri, e la città sembra accogliere i nuovi ospiti con meno diffidenza e una nuova curiosità.
Durante la serata di inaugurazione, che ha visto il tutto esaurito nella sala 2 dell’Apollo Cinepark, il vicesindaco Massimo Maisto, congratulandosi con il direttore e la vicedirettrice del Festival, Maximilian Lawe Alizè Latini, ha sottolineato che questa è un po’ la natura della città di Ferrara: diffidente in principio, ma che sa diventare accogliente nel tempo. Le prime proiezioni hanno evidenziato un aspetto importante del cinema: quello della denuncia, che spinge alla sensibilizzazione e alla conoscenza delle crudeltà umane.

Ad aprire la serata, infatti, il cortometraggio “Invisibili”, prodotto dall’Unicef e realizzato da Floriana Buffon e Cristina Mastrandrea, che racconta attraverso un viaggio dal sud Italia ai suoi confini europei la storia di alcuni minori, bambini e adolescenti, che hanno abbandonato le loro case per affrontare la traversata sul gommone, in cerca di un futuro diverso. Bambine e bambini di solo 12 anni che, accolti nei centri di prima accoglienza, raccontano di essersi dovuti prostituire, costretti dalle madame, per ripagare il loro debito. Ma anche ragazzi che vivono per le strade della Capitale, affamati e soli. E questi sono da considerare fortunati, perché rintracciabili. Di moltissimi minori, infatti, si perdono le tracce dopo lo sbarco.
Non si ha il tempo di riprendersi dal gusto amaro lasciato dalla prima proiezione che le luci in sala si spengono nuovamente e si è trascinati nel mondo ricreato in “Trafficked”, diretto da Will Wallace. Tetro, crudo e claustrofobico, racconta la storia di alcune ragazze che, dopo essere state rapite, vengono vendute e chiuse in uno squallido bordello texano. Le tre protagoniste, un’americana orfana tradita dalla sua assistente sociale, un’indiana ricca aggredita da un criminale della sua città e una nigeriana che ha dovuto abbandonare il suo paese per salvare la sua famiglia, si ritrovano a tentare di sopravvivere in un luogo fatto di violenza e morte. La cosa peggiore? La realtà. La trama non è frutto della fantasia di un regista, ma una storia vera.

La seconda serata, invece, si alleggerisce con una commedia italiana, nelle sale dal 6 aprile. “Ovunque tu sarai” di Roberto Cappucci è una pellicola leggera, un road movie che racconta la storia di quattro amici che, per seguire la partita Roma – Real Madrid del 2008, decidono di trascorrere qualche giorno in viaggio verso la Spagna. Si ritrovano così a visitare luoghi non previsti, a fare conoscenze che travolgeranno la loro vita e ad affrontare loro stessi, tra cose non dette e segreti da affrontare.
A interpretare Pilar, la ragazza che metterà in dubbio le certezze di uno dei protagonisti, è Ariadna Romero, attrice di origine cubana che ammette tra le risate di aver lottato per avere quel ruolo.
“Appena ho letto il copione – ci racconta – mi sono innamorata di Pilar. È una ragazza libera e coraggiosa, viaggia zaino in spalla e crede nei suoi sogni. Mi ha ricordato un periodo della mia vita, quando ho scelto di lasciare il mio Paese per inseguire e realizzare i miei desideri. Mi sono impegnata molto per ottenere la parte, Roberto non era convinto”.

In attesa dei prossimi incontri, è possibile trovare il programma completo sul sito del Ferrara Film Festival.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Riempire il niente o svuotare il troppo?

Le nostre lettrici raccontano come nella vita si giri attorno al vuoto per non sentirlo e, per questo, il troppo non basti mai.

Il piacere di arrangiarsi per riempire i propri vuoti

Ciao Riccarda,
che belle parole quelle del Cavalier Niente e quanta verità dietro a quelle semplici frasi.
Ma è possibile arrivare a tale equilibrio e lucidità da saper distinguere quando abbiamo bisogno di qualcosa da quando ne abbiamo voglia?
Io ho sempre avuto bisogno di tante attenzioni per sentirmi felice e realizzata, credendo che fosse quello il segreto per stare bene. Non mi accorgevo che quel bisogno invece creava dipendenza e insoddisfazione. Passare del tempo da sola mi ha sempre dato una sensazione di disagio e insofferenza.
Questa solitudine si è accentuata quando sono andata a convivere: è stato un passo che per me ha significato crescere, maturare, capire cosa sono davvero le responsabilità e tutto ciò ha innescato un insieme di emozioni per cui non ero realmente pronta. La persona con cui ho fatto questo passo inoltre è sempre stata estremamente indipendente e a proprio agio con il suo vuoto e io mi sono trovata smarrita davanti a tutti questi cambiamenti. Inizialmente pensavo fosse colpa sua in quanto egoista e disinteressato e non capivo la grande possibilità che avevo di fronte.
Fortunatamente la difficoltà si è gradualmente trasformata in opportunità perchè dal niente sono davvero nate tante cose: adesso il mio vuoto mi piace ed è quella parte di me che mi fa essere indipendente, mi fa scrivere, leggere, aggiustare il telefono della doccia e soprattutto avere interessi davvero miei.
Certo, ogni tanto c’è qualche ricaduta ma averne la consapevolezza forse è già un passo avanti.
E.

Cara E.,
aggiustare il telefono della doccia è un caso di scuola: chi arriva a farlo è, a mio parere, donna finalmente indipendente. Non è una sciocchezza, anzichè chiamare qualcuno, ci si prova e alla fine ci si riesce. E piano piano impari a non delegare quei piccoli interventi che danno anche soddisfazione. Per anni ho sperato che, quando in casa rimanevo al buio, fosse un black out e non la plafoniera da smontare. Poi mi sono attrezzata.
Un consiglio: un cacciavite come soprammobile ti ricorderà che la perdita del rubinetto non fa più paura.
Riccarda

Aggirare il buco…

Cara Riccarda,
Troppo, niente, troppo, niente, troppo. Direi che dall’adolescenza ad ora, a quasi quarant’anni, posso dire che la mia vita è stata tutto un troppo o tutto un niente!! Ho sempre odiato le vie di mezzo. O è bianco o è nero!
Da adolescente avevo decisamente troppo: una famiglia “imperfetta” ma perfetta, perché nonostante i vari problemi, si è sempre andati nella stessa direzione uniti. Amici, ma che se adesso li rivaluto non con gli occhi di sedicenne, ma con gli occhi di chi ne ha viste tante, in realtà i troppi amici erano un po’ di amici e troppi conoscenti. Speranze, troppe, tante, sogni, un infinità, poi a 19 anni il vuoto, il niente! Non mi piaceva più niente, gli amici…basta, non mi piacevano più, non amavo più quello che si faceva per divertirsi. Scuola: finita, finiti i sogni finite le speranze. Un vuoto, un niente che giorno dopo giorno mi logorava. Poi la luce…dopo qualche mese entra nella mia vita LUI! Il mio tutto di ora! Mi fa riscoprire i troppo e la vita riprende colore. Trovo amore (mai troppo) lavoro (sempre troppo) amici.Poi l’aborto e di nuovo il “niente”. Un niente tremendo infinito. Un vuoto che facevo finta di non avere, ma che mi ha portato a un senso di apatia assoluta. Poi qualcuno che trattandomi con fermezza mi fa capire che quel vuoto quell’apatia trasformata nel tempo in ansia e paura del mondo, la dovevo superare. Ed ecco la corsa, sempre con lui al mio fianco, e in un attimo tutto è tornato troppo. Troppa corsa, troppa dieta, troppi impegni, troppo di tutto!! E ora la mia vita è così! Piena, a volte stancante, ma bella. Perché dopo aver vissuto il niente per due volte non lo voglio più sentire! Preferisco avere mille cose in testa, preferisco sopportare di non aver tempo per me per periodi anche lunghi, piuttosto di risentire quell’apatia, quel senso di vuoto, che per quanto io corra, nel mio cuore quel buco c’è. Lo so non andrà mai via, ma lo lascio lì, per non dimenticarmi mai di apprezzare ogni sfaccettatura della mia vita. Meglio soffrire che rimanere indifferenti al niente.
Fede

Cara Fede,
quel buco, quel niente che un po’ sta zitto e un po’ ti ricorda che c’è, fa quello che deve fare: il buco. Non credo esistano punti di sutura adatti, nessuno mai li inventerà perché il buco è parte di noi e, lo dici tu, ti rammenta anche il bello di te e di ciò che, nonostante lui, hai raggiunto.
Secondo me, le situazioni brutte, il dolore, gli accidenti della vita un favore ce lo fanno sempre. Se non permettiamo che ci inseguano, ma li lasciamo al loro posto, diciamo il posto del buco, si trasformano in un buon esempio di cattivo esempio.
Riccarda

Sfiancarsi a rincorrere il troppo per paura del niente

Cara Riccarda.
Volere fare troppo…la corsa, la palestra, il corso di inglese, la difesa personale, le serate con gli amici. Ho sempre la sensazione di non fare abbastanza, di volere fare sempre di più, di avere tempo e voglia di fare, fare, fare, vorrei avere giornate di 48 ore e so che saprei riempirle, ma poi arrivo al dunque, arriva quel giorno che solo voglia di stare in casa con la mia bimba, un buon libro, il divano e non posso farlo perché ho preso troppi impegni. Troppo di tutto ma in realtà troppo di niente perché il tempo per stare con se stessi non ha eguali. Mi domando perché a 40 anni non ho ancora imparato che troppo di tutto non serve a niente.
Debora

Cara Debora,
se lo scrivi, significa che te ne rendi conto, magari ridimensionare un po’ quel troppo è solo il passo successivo. Le tante o troppe cose da fare, apparentemente, fanno sentire vivi, dinamici e padroni della propria esistenza. Molti si riempiono le giornate, anzi i minuti, per allontanare il vero loro dominatore: l’horror vacui. Lo spettro del vuoto può fare compiere giri immensi, in realtà è un avvitarsi su se stessi sperando di scampare al risucchio del vuoto.
Riccarda

Il presente di un figlio per liberarsi del falso “troppo” passato

Cara Riccarda,
ho scoperto che la troppa fiducia, la troppa sicurezza nell’amicizia che pensavo eterna e sopra ogni cosa, erano tutte emozioni mal riposte, purtroppo per me.
Amicizia con la A maiuscola, forte, leale, fatta di complicità e buoni propositi; troppo bene, credevo.
Amicizia rimasta indelebile con un tratto marcatissimo nei miei piu cari ricordi, ma vanificata dalla nascita di un amore ancora più grande, per cui, complice il destino per chi ci crede, non è stato possibile condividerne la gioia e i momenti più belli.
La nascità di un figlio nella mia vita ha spazzato via quel niente che fino a quel momento credevo fosse il mio fortunatissimo e unico troppo.
Per fortuna è rimasto il vero, anche se quel troppo perso per strada ha lasciato un vuoto che fa male ogni giorno.
Questo è il mio troppo che non c è più.
C.

Cara C.,
l’arrivo di un figlio spazza via, a prescindere, molte cose, direi tutto ciò che eravamo. Parlo di quello che succede a una madre: cambia il tuo corpo, diventa più bello, cambi tu perchè diventi migliore. Anche i parametri dei nostri troppi o dei nostri niente non sono più gli stessi, dopo un figlio. E per fortuna.
Riccarda

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

INSOLITE NOTE
Heptachord: una miscelazione di generi nel nuovo progetto musicale di Nicola Mogavero e Alessandro Blanco

Il sottile ma intenso timbro del sax soprano di Nicola Mogavero trova, nel ritmo e negli assoli della chitarra classica di Alessandro Blanco, l’equilibrio per un complicato accostamento musicale. Nello spazio di poche note “Heptachord” passa dalle melodie mediterranee agli accenni di bossa nova, per incontrare nel prog e nei passaggi jazz la sua dimensione. “Heptachord” si sviluppa nel difficile equilibrio dei due strumenti, un’esplorazione che spesso ha scoraggiato i compositori ma allo stesso tempo uno stimolo e un limite da oltrepassare, una sfida.
Il disco di Mogavero e Blanco è l’insieme delle suite di Dimitri Nicolau e Melo Mafali, autori rispettivamente di “Grottapinta, Op. 200 e il “Trittico di Vulcano”.

Nicola Mogavero e Alessandro Blanco “raccontano” Heptacord
Al riguardo Mogavero ha affermato: “Le scelte di repertorio sono legate alla nostra naturale radice mediterranea. Dimitri Nicolau, gigante della musica greca tra XX e XXI secolo, è stato in grado di dipingere atmosfere e affetti talmente connotati, a livello melodico, ritmico, armonico e timbrico, da tirarci dentro ad un vortice di “mediterraneità” nuova e antica, oltre le mode, che il Trittico di Melo Mafali ha quindi potuto rilanciare. La matrice comune è immaginifica e descrittiva, a tratti cinematica, e di certo è quanto di più vicino a due personalità come la mia e quella di Alessandro: due figli di città di mare – Palermo e Messina – che spesso scappano a studiare in posti isolati, tra alberi e montagne”.
A sua volta Blanco ha dichiarato: “Una volta testato il seme di “Heptachord” con le nostre riletture e trascrizioni, ci imbattemmo in un brano originale per chitarra e sax soprano, grazie alla conoscenza diretta degli amici di Almendra. Si trattava di Grottapinta di Dimitri Nicolau, grande compositore greco molto vicino ad uno dei membri della factory palermitana. Fantastico! Il brano era scritto benissimo e gli equilibri funzionavano senza sforzi. Il sapore e gli affetti mediterranei della composizione di Nicolau ci fecero venire in mente che si poteva pensare a un progetto organico con anche musica nuova dalla nostra Sicilia. Fu così che coinvolgemmo Melo Mafali – compositore colto e “musicista totale” vicino anche a esperienze progressive rock – il quale, entusiasta, si mise al lavoro su Trittico di Vulcano, tre quadri sonori dall’arcipelago delle Eolie, che rispondevano agli affetti musicali di Dimitri con visioni e “sapori” mediterranei tanto cari anche a Nicola e me”.

Nicola Mogavero: “Gli equilibri su cui si regge Heptachord, in modo del tutto istintivo, non sono mai stati un problema su cui soffermarci. Ci siamo infatti incontrati e scelti proprio perché c’era un’affinità in tutti gli ambiti, primo tra tutti quello della performance: Alessandro è un chitarrista con una presenza sonora pari a pochi altri, io col sax provo semplicemente a non dargli troppo fastidio. Per il repertorio abbiamo all’inizio scavato ognuno nel proprio pregresso e nel proprio bagaglio, ma le soluzioni cominciarono a venir fuori pian piano, tra ricerche e le tante collaborazioni con altri musicisti, così siamo riusciti a creare un repertorio originale aperto a ogni contributo coerente con le nostre identità e quindi con “Heptachord”, cui affianchiamo, tra sfida e coerenza, una linea di ricreazione di alcune pagine del XX secolo, come ad esempio le “Six Melodies” di John Cage.
Alessandro Blanco ricorda: “Heptachord nasce da un’estrema sintonia umana tra noi due e da un’innata curiosità e ricerca del ‘nuovo’, a maggior ragione per la pressoché totale assenza di musica originale per questo insolito duo. L’oggettiva difficoltà di accostare una chitarra non amplificata al sax soprano, così presente dal punto di vista della pressione sonora, ha scoraggiato i compositori, ma come spesso è accaduto nella storia della musica, l’interprete può essere punto di partenza per nuove strade prima impraticabili. Iniziammo a testare trascrizioni varie, scoprendo che l’equilibrio era in realtà possibile: il chitarrista doveva avere un buon “forte”, il sassofonista un buon “piano”, oltre ai normali parametri utili a qualsiasi insieme da camera. Non ci volle molto per capire che “Heptachord” poteva partire”.

Dimitri e la valle dei mostri
Dimitri Nicolau, scomparso nel 2008, ha iniziato a comporre musica a tredici anni, con “Sonata per mandolino e pianoforte”, tra gli altri suoi componimenti “La melodia ritrovata” e la suggestiva e mediterranea “Grottapinta Op. 200”, ripresa con passione e talento da Mogavero e Blanco.
“La valle dei mostri” chiude il trittico di Carmelo (Mele) Mafali, esasperando la chiave progressive della composizione, che nei due momenti precedenti (Danza delle lucertole sulle pietre di lava e Un deserto stellato) riesce a coinvolgere sonorità differenti tra loro, legate dal sax soprano di Mogavero e dall’atmosfera eoliana. New Age, jazz e prog si fondono e rendono unica la performance. Pregevole l’apporto di Alessandro Blanco, la sua chitarra dona spessore a un sassofono che coglie l’attimo e raggiunge i pensieri di chi l’ascolta.

Fotografie: Francesca Cicala

Ascolto dei brani di Heptachord:
https://heptachord.bandcamp.com/album/heptachord

Tramonto della sinistra e rilancio dell’egemonia cattolica anche a Ferrara

“Non moriremo democristiani”, scrisse il Manifesto in uno storico titolo del 1983, all’indomani del successo del Pci alle elezioni Europee, quando quel risultato parve un segnale di recupero dell’indiscussa egemonia culturale di cui la sinistra godette nel corso del decennio precedente.
Moriremmo democristiani, invece pensai io – sconsolato – nella logica del male minore, dopo la presa del potere da parte delle truppe berlusconiane nel 1994.
Ora quella profezia (disattesa) e quel mio successivo amaro auspicio tornano beffardamente attuali. Pensiamo a cosa è accaduto dopo Tangentopoli: la Dc si è dissolta e disgregata in sette rivoli, diffondendosi e propagandosi come polline (o come gramigna, secondo i punti di vista…) e presidiando sostanzialmente tutto l’arco politico.
Dalle ceneri della Balena Bianca nacquero i Popolari di Marini, la Rete di Leoluca Orlando, il Ccd di Fernando Casini, il Cdu di Rocco Buttiglione, l’Udc di Clemente Mastella, i Cristiano-sociali di Ermanno Gorrieri e Pierre Carniti (tra le cui fila emerse Dario Franceschini), i Referendari di Mariotto Segni… Una parte non trascurabile di dirigenti intermedi rimpolpò le fila di Forza Italia (fra i nomi noti quelli di Gianni Letta e Roberto Formigoni), altri entrarono in Alleanza nazionale che raccolse il testimone del Msi (tra loro Gustavo Selva e Publio Fiori). Insomma, erano ovunque ma allora parevano residuali, ombre di un passato che se ne va da sé…
Invece, ciascuno dalla propria nicchia, ha ricominciato a tessere strategie e cucire alleanze, a recuperare spazio riciclandosi; riproponendosi quindi come emblema del cambiamento (in virtù dell’appartenenza alle nuove formazioni politiche) e al contempo mantenendo rapporti trasversali con i vecchi amici di partito, forse incidentalmente, forse assecondando – magari pure inconsapevolmente – un oscuro disegno. Un disegno che, se anche non fosse stato deliberatamente ordito come tale, trattandosi di terreno intriso dallo spirito cattolico, potremmo rubricare come provvidenziale…

La diaspora democristiana, seguita a Tangentopoli e riletta 25 anni dopo, acquisisce così un valore politico strategico. Il partito all’epoca deflagrò in molti spezzoni. “Crescete e moltiplicatevi” è scritto nei vangeli. Ed è sensato (oggi, col senno del poi) immaginare che la millenaria saggezza che ha consentito alla Chiesa di governare il mondo per duemila anni abbia ispirato quella che allora apparve come mera catastrofica conseguenza di una sconfitta e fu invece forse sapienziale strategia di rinascita.

I frammenti che si generarono dalle sequenziali spaccature occorse all’interno della Democrazia cristiana e dei suoi eredi hanno effettivamente dato frutto.
E, nel 2007, si è completato il capolavoro: l’esito della fusione fra Margherita (nata dall’alleanza fra Partito popolare, I Democratici di Romano Prodi e Rinnovamento italiano di Lamberto Dini, ultima filiazione della lunga serie di innesti e potature operate sul ceppo della vecchia Democrazia cristiana) e Democratici di sinistra (figli del Pds ed eredi del Pci) si è risolta infatti in pochi anni in una vera cannibalizzazione da parte della componente dell’ex Margherita nei confronti del suo più robusto alleato: all’epoca del matrimonio il rapporto a livello nazionale era decisamente sbilanciato: 430mila iscritti e circa il 10% la forza elettorale della Margherita; 615mila iscritti e il 17% di consenso i numeri dei Ds. Ben più marcato il divario a Ferrara, con la Margherita sempre al 10% ma i Ds al 30%.
Eppure l’esito è stato analogo ovunque, anche nei centri, come Ferrara, che in passato furono roccaforti del Pci: i principali esponenti e rappresentanti istituzionali provengono ormai in gran parte dalle fila o dalla tradizione politico-culturale di quella che fu la Democrazia cristiana in tutte le sue innumerevoli trasmutazioni seguite all’ammainabandiera. Guarda caso alla Dc era iscritto pure quel che oggi è il più autorevole e influente politico locale, quel Dario Franceschini, deputato ferrarese (come il padre), prima nominato segretario del Pd e ora ministro della Repubblica. Figlio di un esponente democristiano (consigliere comunale) ma nella rossa toscana anche l’ex premier Matteo Renzi, iscritto al Partito Popolare e poi alla Margherita (come pure dalla medesima tradizione politica proviene tutto il suo più stretto entourage, proiettato ai vertici delle istituzioni). Della Margherita è stato dirigente l’attuale presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. Democristiano era il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella…

E’ talmente tutto così coerente che parrebbe davvero studiato a tavolino. Prendiamo il caso di Ferrara, dopo sessant’anni di governo locale sempre gestito da esponenti del Pci e dei partiti che ne sono stati diretta filiazione, nel 2009, appena un anno e mezzo dopo la nascita del Pd (che significativamente ha preso sede nell’ex casa della Dc, in via Frizzi), per la carica di sindaco il partito designa Tiziano Tagliani, il quale nelle liste della Democrazia cristiana era stato eletto consigliere comunale nel 1990. E a cascata segue una nutrita serie di nomine di ex democristiani o di esponenti dell’area cattolica e moderata all’interno della Giunta e ai vertici delle principali istituzioni, società pubbliche, associazioni e organizzazioni cittadine. Gli esponenti di area cattolica assumono uno spazio e un ruolo mai avuto nel passato.
Nel frattempo, a livello nazionale, si è dissolto gradualmente l’apparato pubblico che provvede alla sfera dei servizi sociali e si è consolidata la funzione sussidiaria degli enti e delle organizzazioni private, che hanno via via assunto un ruolo sempre più importante nel garantire l’erogazione di prestazioni essenziali per i cittadini. E l’associazionismo di ispirazione cattolica, che da sempre ha avuto ruolo preminente in questo settore, acquisisce conseguentemente un’importanza crescente.

E poi, guardando anche al micro e a casa nostra, la fine dell’esperienza amministrativa delle circoscrizioni crea un vuoto nel presidio dei quartieri. E chi subentra? Le contrade, da sempre legate al campanile, quindi alla parrocchia, alla Chiesa. Così, dall’alto come dal basso, l’influenza della consorteria cattolica cinge a tenaglia la comunità.
D’altronde, ricondurre all’ovile delle parrocchie le pecorelle smarrite nei pericolosi anfratti delle Case del popolo, era un’antica ambizione dell’establishment cattolico. Con questo simbolico obiettivo stampato in testa, negli anni passati si è provveduto, in città, al rilancio del Palio. Scopo riconquistare quell’egemonia culturale che fu appannaggio della sinistra negli anni 70, surrogandola ora con un’egemonia folklorica, quale è, a tutti gli effetti, il Palio: tradizione, storia e dunque, in fondo, conservazione…

Non dimentichiamo che per oltre un ventennio, fra gli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta, la sinistra aveva catalizzato, attorno alle proprie istanze di lotta, l’impegno e la passione dei giovani. E la Chiesa, che in fatto di gestione del potere non è seconda a nessuno, solida nella sua bimillenaria esperienza, ha compreso che la forza catalizzante dell’oratorio si era andata estinguendo. E ha pian piano focalizzato la strategia e realizzato il piano di rinascita, sfruttando suggestioni ed esche fuori dai condizionamenti ideologici, riconducendo a sé la regia dell’operazione di formazione e acculturamento, a partire dalle giovani generazioni.

Da questo punto di vista, mirabile si può certamente considerare la capacità di affrancamento dalle ombre della retorica fascista che gravavano sul Palio; e poi la successiva riproposizione, in un contesto cittadino ben disposto, di una manifestazione il cui spirito si sublima nelle giornate di esibizione ma si coltiva pazientemente ogni giorno dell’anno – tutti i giorni di tutti i mesi di tutti gli anni – attorno ai luoghi che sono propri del potere cattolico, le rivificate parrocchie, i vecchi oratori che, grazie a questa e ad altre geniali intuizioni, hanno riacquisito quella centralità e attrattiva che stavano perdendo del tutto. Persino qualche festa dell’Unità è stata fagocitata in questa logica e si è allestita in spazi parrocchiali o di associazioni contigue. Un fatto simbolicamente molto significativo.

A Ferrara anche questo è stato (è) un tassello importante nel progetto di recupero dell’egemonia culturale e dunque del controllo sociale da parte della Chiesa e dei movimenti civili e politici che ne sono espressione. Altrove sono state usate strategie differenti, altre attrattive. E si badi, se può apparir banale o riduttivo ciò che scrivo, si consideri che pure i grandi palazzi si reggono su piccole pietre, apparentemente poco significative ma essenziali e, letteralmente, fondamentali.

In questo scenario, plausibile futuro approdo nazionale appare un’intesa post elettorale Renzi-Berlusconi in funzione illusoriamente anti-populista: in realtà, il trionfo di un populismo moderato a detrimento di una deriva estrema.

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Lunedì 27 marzo alle 17 nella sala Agnelli della biblioteca comunale Ariostea, attorno al tavolo delle idee imbandito dal quotidiano online Ferraraitalia, per il tradizionale ciclo “Chiavi di lettura – opinioni a confronto sull’attualità”, sul tema “Moriremo moderati? Il ritorno della Balena Bianca” si confronteranno Enzo Barboni, presidente Unpli Pro loco Ferrara ed ex segretario provinciale della Democrazia cristiana, Marco Contini, giornalista di Repubblica, Luigi Marattin consigliere economico della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Alessandro Somma, collaboratore di Micromega e docente di diritto comparato all’Università di Ferrara. Il dibattito sarà moderato (ma non troppo!) dal direttore di FerraraItalia, Sergio Gessi.

Nasce Clara, nuova azienda e nuovo modello di gestione dei rifiuti a vantaggio di cittadini e ambiente

Venerdì 24 marzo nasce ufficialmente Clara. La nuova società, frutto della fusione tra AREA e CMV Raccolta, si occuperà della gestione e della raccolta dei rifiuti in 21 dei 23 comuni della provincia di Ferrara. Stakeholder e rappresentanti istituzionali si incontreranno per l’evento costitutivo, subito dopo l’assemblea dei soci che delibererà l’atto di fusione, al Palazzo del Governatore di Cento.
Alla presentazione interverranno anche Tiziano Tagliani, in veste di presidente Atersir, l’Assessore all’Ambiente della Regione Emilia-Romagna Paola Gazzolo, con le conclusioni del Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti.

La nascita di CLARA porterà notevoli vantaggi sia di carattere gestionale che economico per i cittadini. A partire dal miglioramento delle prestazioni relative ai servizi offerti grazie all’integrazione e alla condivisione del know how in un’unica società che si arricchisce così delle competenze maturate da entrambe le imprese costituenti. Inoltre, la condivisione del modello di acquisizione dati per la “Tariffa su misura” si tradurrà in una riduzione dei costi a favore dei cittadini virtuosi e in un miglioramento dell’impatto ambientale, grazie all’incremento della raccolta differenziata e a una corretta gestione dei rifiuti. Infine il mantenimento di un soggetto locale preposto al controllo pubblico sulla gestione dei rifiuti: i cittadini, infatti, pur relazionandosi con una nuova società potranno contare sull’impegno e sulla qualità dei servizi che hanno sperimentato già con AREA e con CMV, soggetti presenti da anni sul territorio e a loro ben noti e vicini. La prospettiva è la predisposizione di un sistema integrato in grado di favorire la creazione di un unico bacino provinciale.

In occasione dell’evento di venerdì 24 verrà illustrato il percorso di integrazione che ha portato alla nascita della nuova società, e sarà presentato il “manifesto per la rinascita dei rifiuti”, un documento che intende rappresentare un primo passo per condividere con altre aziende pubbliche linee ed obiettivi comuni, per una presa di coscienza, a livello nazionale, delle buone pratiche attuate nella gestione dei rifiuti.

 

Giornata in memoria delle vittime della Mafia e Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale

Da Presidente Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani

Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani, intende ricordare due giornate, la prima, la Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, è stata istituita nel 1966, dalle Nazioni Unite, e la seconda, la Giornata in memoria delle vittime della mafia, creata da Libera nel 1966.

Entrambe le ricorrenze forniscono spunti e riflessioni per approfondire in classe i valori, le personalità più eminenti e le tappe storiche più importanti dei due fenomeni in oggetto.

Il razzismo ha conosciuto (e conosce) picchi di barbarie intollerabile; basti citare il massacro di Sharpeville nel 1960 in Sudafrica o i recenti rigurgiti di xenofobia da parte di alcuni leader del mondo occidentale contro i quali la Ue si fermamente espressa.

La barriera di separazione tra l’Ungheria e la Serbia costruita nel 2015, quella tra Israele e la Striscia di Gaza, edificata nel 1994 e il muro di separazione tra Stati Uniti d’America e Messico, innalzato nel 1990, costituiscono alcuni esempi di un clima politico – internazionale, che si è esacerbato e che nuoce alla pace nel mondo.

Le innumerevoli vittime delle mafie, invece, devono rappresentare un spazio di riflessione permanente nella coscienza collettiva, su cui puntellare la consapevolezza civica delle future generazioni, possibilmente informate e formate, sin dal primo ciclo scolastico, circa l’eroismo e la difesa della legalità ad oltranza.

Magistrati, giornalisti, imprenditori, sacerdoti e semplici cittadini hanno scelto con forza di rifiutare il malaffare, andando in contro a conseguenze spesso terribili. Percorrere la strada della giustizia non deve più essere un cammino solitario. Auspichiamo una presenza dello Stato, in tutte le sue manifestazioni, sempre più tangibile al fianco di tutti coloro che lottano per una società più giusta, onesta e cosmopolita.

Il Coordinamento propone che in ogni scuola di ordine e grado di Ferrara le aule, i corridoi e gli spazi didattici siano intitolati ai martiri dell’intolleranza razziale (Martin Luther King, Gandhi, Wangari Maathai, Nelson Mandela etc.) e ai difensori della legalità (Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Piersanti Mattarella, Peppino Impastato etc.). Gli studenti potrebbero scegliere, dopo aver approfondito le storie dei personaggi più importanti, i nominativi con cui designare i loro “luoghi”, elaborandone le targhette commemorative. In tal maniera, la scuola adotterebbe una propria fisionomia, strutturata sulle preferenze espresse dai discenti, tesa a superare l’anonimato / omologazione delle sezioni semplicemente contrassegnate dalle lettere alfabetiche e si approfondirebbero i temi civili in modo pervasivo e motivante. Per esempio: I sez. A – Giovanni Falcone, Palermo, 18 maggio 1939 – Capaci, 23 maggio 1992, martire della legalità.

La modernità di Manet a Palazzo Reale a Milano

da Maria Paola Forlani

Manet impressionista? Una cosa è certa: che in un’epoca in cui l’apparenza prevale sulla realtà, egli si è mostrato come il precursore di una nuova ottica figurativa. Uno dei primi ad avere il coraggio di liberare la pittura da schemi fissi basati soltanto sulla convinzione di raffigurare la natura tale e quale la si veda, senza tener conto per nulla delle emozioni che essa può invece trasmettere in maniera diversa a ognuno. Senz’altro trasgressivo, per ciò, sia nella composizione che, soprattutto, nella stesura del colore, ha segnato con la sua opera un punto di partenza verso nuove soluzioni teoriche e tecniche.
Ma per quanto abbia percorso a tratti la via insieme a Monet, Renoir, Pissarro e altri artisti ‘maledetti’, per quanto abbia in certo qual modo fatto scuola e dato l’esempio di un’arte di rottura, la sua strada resta tenacemente autonoma. Basta guardare quel suo attaccamento così radicato alla tradizione, la rigida e a volte statica eleganza delle figure che, anche quando non risultano definite, vengono delineate con prudenza e mai risolte bruscamente, con pochi colpi di pennello.
Nello stesso modo i suoi bianchi tenui non hanno nessuna intenzione di provocare o inquietare lo spettatore. Vogliono solo illuminare con delicatezza l’immagine, far capire con chiarezza l’importanza di riuscire a cogliere l’attimo fuggente della luce, che tutto rischiara, tutto addolcisce.
La mostra ‘Manet e la Parigi moderna’ aperta fino al 2 luglio a Milano al piano nobile di Palazzo Reale intende raccontare il percorso artistico del grande maestro. Edouard Manet, iniziatore di una nuova pittura, scopre la “meravigliosa” modernità, in una Parigi in piena trasformazione, una città che soleva girare quotidianamente a piedi in lungo e largo, da autentico pedone e osservatore appassionato del suo tempo. Sulla scia di Baudelaire, si afferma come un “pittore della vita moderna” e sceglie di affrontare temi nuovi che osserva per la strada, al Teatro dell’Opera, nei bar e nei “caffè-concerto”. Le opere presenti in mostra arrivano dalla prestigiosa collezione del Musée d’Orsay di Parigi: un centinaio di opere, tra cui 54 dipinti – di cui 16 capolavori di Manet e 40 altre splendide opere di grandi maestri coevi, tra cui
Boldini, Cézanne, Degas, Fantin-Latour, Gauguin, Monet, Berthe Morisot, Renoir, Signac, Tissot. Alle opere su tela si aggiungono 11 tra disegni e acquarelli di Manet, una ventina di disegni degli altri artisti e sette tra maquettes e sculture.
Promossa e prodotta da Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e MondoMostre Skira, curata da Guy Cogeval, storico presidente del Musée d’Orsay e dell’Orangerie di Parigi con le due curatrici del Museo Caroline Mathieu, curatore onorario e Isolde Pludermacher, capo-curatrice del dipartimento di pittura, l’esposizione intende celebrare il ruolo centrale di Manet nella pittura moderna, attraverso i vari generi cui l’artista si dedicò: il ritratto, la natura morta, il paesaggio, le donne, Parigi, sua città amatissima, rivoluzionata a metà Ottocento dal nuovo assetto urbanistico attuato dal barone Haussmann e caratterizzata da un nuovo modo di vivere nelle strade, nelle stazioni, nelle Esposizioni universali, nella miriadi di nuovi edifici che ne cambiano il volto e l’anima.
Manet per tutta la vita coltiverà grandi rapporti d’amicizia e complicità con poeti e letterati come Charles Baudelaire, con cui sviluppa un profondo legame, Emile Zola, che prenderà da subito posizione difendendolo strenuamente dai rifiuti del Salon; Stéphan Mallarmé, che frequenta il suo atelier discutendo animatamente di pittura e poesia e in numerosi articoli lo elogia come caposcuola e maestro dell’ “atmosfera luminosa ed elegante”; la pittrice Berthe Morisot, che diventerà nel 1874 sua cognata sposando il fratello Eugéne e sarà per molti anni sua intima amica, e altri celebri artisti come Dagas, Monet, Renoir. La mostra parte dunque da intensi ritratti di Zola, Mallarmé e Morisot, realizzati da Manet tra il 1868 e il 1876, esposti accanto a quelli di altri pittori come Edgar Degas con Ritratto degli incisori Desboutin e Lepic (1876-1877), Giovanni Boldini con Henri Rochefort (1882 circa), Charles Emile Auguste Duran detto Carlus-Duran che ritrae sia Manet (1880 circa) che Fantin-Latour e Oulevay (1861).
Ѐ a Goya attraverso le Majas al balcone (1810), che Manet si ispirerà per un grande olio intitolata Al balcone, (1868/69) presente in mostra. Ѐ un’opera molto importante nell’attività dell’artista perché indica un chiaro momento di passaggio da una concezione a un’altra del dipingere. Qua difatti, grazie alla realistica rappresentazione della figura umana creata da Goya e al nuovo modo di concepire la luce degli impressionisti, Manet incomincia a staccarsi definitivamente dalla mera tradizione classica. Ne è prova la vivacità della composizione che ci fa illudere di trovarci davvero davanti a un balcone con le saracinesche aperte, faccia a faccia con le due donne e l’uomo, che sembra ci stiano guardando. Una sensazione accentuata dal senso di profondità della scena, nonché dallo splendido e ardito verde smaltato della ringhiera: uno dei tanti effetti cromatici che continuano a sbalordire. Già nella natura morta del Vaso con Peonie su piedistallo, il rosso lacca dei fiori in secondo piano lascia stupefatti per l’audacia e la modernità raggiunte.

Da un’altra prospettiva

da Marco Bonora

Si nasce sempre meno. La drammatica crisi che ha colpito le nascite in Italia in questi ultimi anni prosegue ancora nel 2017 e ci vede agli ultimi posti in Europa per natalità. Da Repubblica:

“Il fenomeno è riconducibile a due motivazioni principali. Prima di tutto bisogna considerare le difficoltà che i giovani incontrano in Italia per ottenere una loro indipendenza e mettere le basi per costruire una famiglia. Nel nostro Paese, in confronto ad altri Stati europei, ci vuole più tempo per diventare autonomi rispetto alla famiglia di origine. Si va via più tardi da casa, si entra più tardi stabilmente nel mercato del lavoro e di conseguenza si verificano più tardi le condizioni per creare una propria famiglia ed avere un figlio, di solito dopo i 30 anni. Quando poi si trova lavoro, altre difficoltà si presentano, poiché risulta problematico conciliare il lavoro e la famiglia. In Italia mancano delle adeguate politiche di conciliazione (che favoriscano una integrazione degli impegni casa-ufficio), e non ci sente abbastanza solidi da un punto di vista lavorativo e professionale per poter tirare su un proprio nucleo familiare.”

Il governo italiano tenta di arginare questa drammatica situazione con aiuti tampone fra bonus mamme e bebe’. Certamente i fattori economici e sociali sopra elencati hanno reso strutturale questa drammatica situazione e l’impatto sul nostro sistema previdenziale/pensionistico si prevede catastrofico a breve. Ma vi è un’altra prospettiva che va considerata, ancora piu’ invasiva se possibile perchè é dentro di noi, è parte di noi, inesplorata e in incubazione fino all’evento: é l’amore negato che tanti nonni sono generosamente disponibili a donare e a ricevere dai desiderati nuovi arrivati che non arriveranno, e perchè no, con una punta di vitale orgoglio e sano egoismo un vero toccasana rivitalizzante per loro stessi.

Ci si chiederà perché questa riflessione? : da circa un mese, prima del tempo, è arrivato Gregorio, primo nipote, dopo una gravidanza molto tormentata. Un’esplosione, in questi ultimi mesi, di altalenanti stati d’animo e un accavallarsi di emozioni di intensità superiore all`attesa dei figli di molti anni prima: felicità, ansia, preoccupazione, avvilimenti quando tutto sembrava perduto, poi speranze e giuramenti che se tutto fosse andato bene avrei cambiato il quotidiano, la mia vita professionale fatta di aerei, aeroporti, alberghi, incontri nazionali e internazionali, e poi… e poi arrembante arriva questa creatura piccola, indifesa che deve conquistare la sua vita appieno e lottare con tutte le forze in questi giorni sostenuto dall’amore di mamma e papà e dall’aiuto encomiabile e concreto delle strutture ospedaliere.
Una nuova vulcanica presenza che davvero sospende il pensiero corrente e tutto il resto appare in una luce diversa. Si rinasce veramente a nuova vita, cambia la prospettiva.

Si cambia paradigma le famiglie si mobilitano, i nonni e i bisnonni insieme che rivedono la propria carne, le proprie aspirazioni rivitalizzate, la storia delle propria vita proseguire e forse perpetuarsi nei secoli o perlomeno tanto quanto la visibiltà del tempo che il destino loro riserverà.
Poi nel breve tutto probabilmente tornerà routine? La realtà si riprenderà il suo spazio e si ricomincerà?
Si racconta che per la prima volta nell’evoluzione dell’uomo, in questo terzo millennio i figli insegnano ai genitori, figurarsi quanto i nipoti avrebbero da insegnare ai nonni!
Chi risarcirà quei nonni mancati per tanto amore scippato che mai potranno donare al loro vivace futuro? Una crudele e imperdonabile colpa da addebitare totalmente ai gestori della nostra vita, a quegli amministratori e politicanti incapaci che hanno causato questo incalcolabile debito di umanità verso le donne e verso gli uomini che non vedranno mai il loro sorriso riflesso.
In attesa del giovane prodiere: Buon vento Gregg.

‘E’ la memoria che ci ricorda chi siamo’: Paola Bassani presenta l’audiolibro ‘La notte del’43’

“Mio padre ha fatto una fatica terribile a scrivere questo racconto – confida Paola Bassani, figlia di Giorgio – Ha impiegato anni a scrivere ‘Una notte del ’43’, forse perché per lui era il racconto più importante di tutti. Se l’è portato dentro finché non ha trovato il coraggio di distaccarsi da una materia tanto dolorosa, di oggettivarlo artisticamente”. Nella sala gremita della libreria Ibs+Libraccio, in occasione della presentazione dell’audiolibro “Una notte del ’43” (edizioni Emons, ideato e curato da Stefano Muroni), Paola Bassani ha raccontato la sofferenza del padre, un giovane Giorgio scampato per miracolo all’eccidio del 15 novembre 1943: “Erano andati a cercarlo in casa per fucilarlo, ma non l’hanno trovato perché lui si trovava a Firenze. Si è salvato, ma ha patito molto per gli amici. Un’angoscia da cui ha provato ad affrancarsi attraverso la scrittura.

Da sinistra Eleonora Rossi, Massimo Malucelli, Paola Bassani, Stefano Muroni, Giuseppe Muroni, Anna Maria Quarzi, Monica Chiarabelli

‘Una notte del ’43’ è l’ultima delle cinque storie ferraresi, quella a cui mio padre teneva di più, tanto che la dedicò al suo maestro Roberto Longhi. Per questo motivo ho accolto con entusiasmo l’idea di Stefano Muroni, che ringrazio per questo risultato bellissimo: ho capito è un ragazzo molto intelligente, pieno di passione e di slancio. L’audiolibro Emons è un progetto nuovo, di prospettiva, è un atto critico importante poiché riunisce voci e angolazioni diverse. Ho apprezzato la scelta di una storia narrata ad alta voce; ho pensato alle mie nipotine, che sono francesi ma che parlano anche l’italiano: ascoltare per loro sarà più facile”. Le parole sincere della figlia di Bassani, presidente dell’omonima Fondazione e ospite d’onore alla presentazione in libreria, sono arrivate a suggello di un incontro sentito, con la partecipazione di tanti ferraresi interessati a quella notte che ha squarciato la coscienza di una piccola città.

“Una notte del ’43”, narrando un eccidio emblematico della guerra civile italiana, offre una lucida lettura del ventennio fascista e del conflitto interiore di una provincia. Il racconto denuncia coloro che preferirono il conforto e la sicurezza del conformismo al coraggio della parola e dell’azione. Tra gli uditori, una presenza straordinaria: MarioVita Finzi, figlio di Alberto – rappresentante di commercio molto conosciuto in città – uno degli undici martiri dell’eccidio ferrarese. Alla direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, Anna Maria Quarzi, il compito di introdurre la presentazione: “Ho da subito creduto nell’iniziativa di Stefano, perché questo cofanetto valorizza l’opera di Bassani, uno scrittore che come nessun altro ha saputo raccontare Ferrara e farla conoscere nel mondo.

E in questa storia Bassani descrive una città nascosta, impaurita, che si cela dietro le persiane socchiuse: tutti guardano, tutti sanno, ma nessuno si fa vedere”. La parola è passata quindi a Stefano Muroni, ideatore e curatore del progetto. L’attore e autore ha descritto il cofanetto, ringraziando tutti coloro che ne hanno resa possibile la realizzazione, a partire da Emons, casa editrice leader nella produzione di audiolibri, rappresentata per l’occasione da Francesca Tabarrani, referente dell’Ufficio Stampa Emons, poi ha commentato: “Da qualche anno molti dei miei sogni di bambino si stanno realizzando: io sono cresciuto con i libri di Giorgio Bassani, con i film di Michelangelo Antonioni e Florestano Vancini. Questi autori fanno parte di me. Credo che il compito dell’attore sia raccontare storie e io sentivo l’esigenza di far conoscere ‘Una notte del ’43’, che amo profondamente e che considero uno dei racconti più belli della letteratura italiana”. Un progetto artistico di qualità, tutto ferrarese – registrato a Sonika e realizzato con il patrocinio della Fondazione Bassani, dell’Istituto di Storia Contemporanea e del Comune di Ferrara – ma di portata nazionale.

Con l’audiolibro, ha spiegato Muroni, “si chiude un cerchio: dal fatto storico alla trasposizione letteraria, dal racconto al film. Mancava solo la storia letta ad alta voce, da ascoltare, per rendere quella notte indelebile. L’audiolibro ha visto la luce nel 2016, un anno di ricorrenze e intersezioni memorabili, a cento anni dalla nascita di Bassani, a 60 anni dalla vittoria del Premio Strega, 90 anni dalla nascita di Florestano Vancini”. Il celebre racconto rivive nella voce di cinque attori, che interpretano altrettanti capitoli: Monica Chiarabelli, Massimo Malucelli, Fabio Mangolini, Stefano Muroni, Marco Sgarbi. Accompagna il cd un volumetto con tre saggi di Giuseppe Muroni (“Ferrara in grigio”), Anna Maria Quarzi (“La lunga notte del ’43”) e Eleonora Rossi (“La storia in una boule de neige”). I tre saggisti hanno illustrato i propri testi che offrono un’analisi del fatto storico (un vero e proprio “giallo”), della sua rappresentazione letteraria, della trasposizione cinematografica operata da Vancini (“Dovevo fare quel film”).

I tre attori presenti – Monica Chiarabelli e Massimo Malucelli, oltre a Stefano Muroni – hanno letto brani del racconto, offrendo un appassionato assaggio dei contenuti dell’audiolibro. “Tengo molto a questo cofanetto – ha concluso Stefano Muroni – anche perché è legato al senso della memoria. La nostra generazione dimentica troppo facilmente il passato. È la memoria che ci ricorda chi siamo. Grazie alla memoria creiamo un ponte tra passato, presente e futuro. Le società che fanno memoria del proprio passato, rielaborando anche i traumi vissuti, hanno la possibilità di essere felici. Io credo che ogni opera d’arte, anche un cofanetto semplice come questo, possa essere una briciola per contribuire alla felicità”.

 

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Qualcosa di troppo e bisogno di niente, la favola di Chiara Gamberale

Tra voglia e bisogno c’è di mezzo il niente. Lo imparerà, dopo avere avuto bisogno di molto e paura del niente, la Principessa Qualcosa di Troppo, la protagonista di Qualcosa, l’ultimo libro di Chiara Gamberale (Longanesi 2017), una favola, o forse un dialogo tra la ricerca mai paga che abbiamo e la verità a cui possiamo arrivare: il niente fa parte di noi, riconoscerlo è una conquista, arrivare ad accarezzarlo è pura libertà.
La Principessa Qualcosa di Troppo ha un vuoto che pesa tra la pancia e il cuore e non lo vuole più sentire, smania di salvarsi riempiendosi d’amore, ingannandosi che qualcun altro da accudire, da seguire, con cui ridere o perdersi sia il contenuto giusto per quello spazio dentro che più si riempie e più si fa abisso profondo. Il vuoto sembra non avere pareti, eppure è nella pancia, non può tenere tutta quella roba, tutti quei fidanzati che però non vanno mai bene fino in fondo.
La Principessa Qualcosa di Troppo trabocca e quel maledetto buco è sempre lì perchè il troppo non salva, ma il niente sì. Il Cavalier Niente è il nemico-amico dalle mani vuote che fa vedere dove sta la verità, smaschera il bisogno, richiama l’essenziale, dimostra che il non fare è l’unica strada.
Il bisogno è illusione, la voglia è autenticità, anche il vuoto è autentico, se non ci fosse non potremmo accogliere e lasciare entrare, che è diverso dal buttare dentro. Il vuoto è lì apposta, come una bottiglia, dice il Cavalier Niente, la sua funzione è contenere, ma se è sporca, tutto ciò che entra sarà sporco.
La Principessa Qualcosa di Troppo questo non lo sapeva, confondeva voglia e bisogno, eccedeva nella ricerca degli altri fino a essere schiava della paura del buco. Ma il buco, se impari a guardarlo dal verso giusto, è anche un passaggio, diventa utile e fa parte di te. Non servono tanti fidanzati, a salvare la Principessa Qualcosa di Troppo non è quello che crede amore e che ogni volta si fiacca nel giro di troppo poco, ma è Niente. “Sogno per te un marito che non ti dia qualcosa di troppo. Ma che ti dia un po’ di tutto. E senza però toglierti niente”, le augura il Cavaliere che l’ha vista affannata e infelice. Il Cavaliere sta per andarsene, il suo non-fare ha lasciato qualcosa nella Principessa, qualcosa di bello.

E a voi è mai successo di scoprire e ammettere i vostri troppo? Troppa attenzione, troppo amore, troppe parole o troppo niente?

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

DIARIO IN PUBBLICO
Senso e consenso

Sfogliando i giornali m’imbatto in un’immagine terrificante. Una quasi bambina dai capelli rossi si stringe disperata a una gamba maschile in cerca di protezione. Ecco, penso, una efficace immagine contro la pedofilia. In realtà si tratta della pubblicità di una nota marca di scarpe sportive, quelle scarpe idoleggiate nella immortale canzone di Enzo Jannacci ‘El purtava i scarp del tennis’. Si sa che gli italiani di fronte allo sport sono capaci delle più grandi (ma a volte anche immonde) azioni, quelle di un popolo fatto di eroi, santi e …sportivi. Ecco allora che mentre giustamente si celebrano i riti del primo posto in classifica della mai dimenticata Spal, mito assoluto anche di un grandissimo italianista come Lanfranco Caretti, non si esita a disertare l’aula quando la proposta sul biotestamento approda alla Camera. Carattere nazionale? Non so.
Quello che appare evidente nel momento dello sgretolamento del Pd, nei tumulti napoletani contro il comizio di Salvini, nelle apparizioni del Silvio nazionale abbronzatissimo, ma ormai postato come la statua colossale di Ramesse II rinvenuta alla periferia del Cairo, è che il popolo italiano ha due fondamentali rifugi alla pericolosa situazione politico-economica del paese: lo sport e le sagre.
Così al lunedì chiedere letture diverse da quelle sportive a tutti i giornali italiani è impresa disperata. Spariscono le condizioni stesse di un commento non sportivo. Nei giornali che solitamente leggo invano chiedo conforto alla ‘amaca’ di Serra o alla cronaca del Lingotto e all’analisi del discorso di Emma Bonino, scaturite dalla penna di Francesco Merlo. Nein! Si deve solo soffrire o godere a seconda dei casi. Resterà o no il mister se la squadra ferrarese raggiungerà le vette della serie A? Col caldo l’amico assessore allo sport dismetterà la potente sciarpa bianco-azzurra? Sarò consolato ancora dai selfie di mezza amministrazione comunale scattati allo stadio?
Boutade strepitosa, sulla ‘amaca’ del 14 marzo: “Ben al di là delle idee politiche, quello che spaventa in Erdogan è che sembra De Laurentis dopo una sconfitta del Napoli”. La perfetta corrispondenza tra calcio e politica nei suoi aspetti più virulenti mi sembra azzeccatissima. Del resto basta leggere la Satira preventiva del solito Serra su ‘L’Espresso’ per renderci conto di come il binomio calcio-politica sia ormai un dato di fatto. Qui è B. che è in trattativa per la vendita del Milan al ‘magnate tonchinese’ Sun Mi. In realtà si tratterebbe della stessa persona ipotizza il perfido Serra: “Usciva Berlusconi e riappariva un cinese sorridente, dicendo ai giornalisti: piacere, Sun Mi”.
Questo è in fondo la qualità dello sport, questo è ciò che si richiede da una comunità sana che non insulta, non picchia, non si propone minacciosamente a dirimere le debolezze indubitabili di quartieri a rischio con marce, proclami, urla imitanti le grossolane manifestazioni della curva Sud.

Ma le sagre! Quelle sì che placano, confortano, inducono alla serenità. Leggo compiaciuto del successo del Misen, la fiera sulle sagre, delle quantità industriali di assaggi e assaggini consumati dalla folla festante. E, dunque, che sagra sia!
Ma da inguaribile radical-chic, secondo i non troppo velati insulti inviatimi su fb (ma attenzione io stesso rivendico come ‘stemma’ di differenziazione all’attuale stasi politica l’appartenenza al mondo radical-chic), e da ‘uomo di mondo’, secondo le logore perifrasi politiche, mi guardo intorno e scopro il deserto: di idee, ma soprattutto di cultura.
Le cronache cittadine sono ora scosse dalla notizia che la soprintendenza rifiuta l’esposizione degli ombrelli colorati che oscillavano appesi in Via Mazzini, la via dello shopping ferrarese. Che la motivazione sia più o meno giusta – ragioni di decoro, manifestazione obsoleta e via chiacchierando – a me appare un piccolissimo problema rispetto a quelli ben più gravi che tuttora scuotono l’opinione pubblica. Non è forse meglio veder sventolare gli ombrelletti sopra le nostre teste che permettere quel vergognoso a mio parere, ma non solo mio, cosiddetto incendio del Castello? Una manifestazione pericolosa e inutile, specie per il trasferimento dei quadri custoditi all’interno del monumento. In questo caso, ripeto sempre a mio parere, la soprintendenza ha mancato ‘di molto’ – alla toscana – al suo compito.

Poi finalmente tutto si chiarisce e si depura, assistendo al concerto che la divina Martha Argerich e il non meno mitico Mischa Maisky ci regalano al Teatro Comunale. Nonostante il lieve russare che una signora orientale seduta dietro me produce in un nirvana atemporale, la performance dei due geni produce felicità pura, assoluta bellezza e, come commentava il Prefetto, di fronte alla loro grandezza riusciamo ad accettare la mediocrità in cui viviamo, riconoscendo il senso di quella genialità che gli antichi attribuivano agli dèi. E nell’impetuoso scuotere delle bianche chiome del violoncellista, nel manto grigio azzurrino dei capelli della Divina nella gestualità perfetta riusciamo finalmente a capire che solo la bellezza potrà salvare il mondo. Una bellezza che deve essere etica dove il bello e il buono confluiscono. Così dopo la generosa elargizione di ben quattro bis i due geni si accomiatano seguiti dalla giovinetta adiuvante a voltar pagina a Martha nel suo vestito a palloncino dove le calze nere lasciavano intravvedere una piccola porzione di pelle bianca .
E sull’onda di un’altra canzone potremmo concludere: “E’ primavera.. Svegliatevi cervelli…”.