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Il crociato Lugi Negri e le vite vissute senza un perchè

Saffie era una bella bambina di 8 anni che, dal concerto di Ariana Grande del 22 maggio a Manchester, non è uscita viva ma cadavere, falciata dalla follia kamikaze di Salman Abedi, anglo-libanese che ha scelto il foyer della Manchester Arena per portare a termine i suoi propositi suicidi. Fino ad ora sono solo 3 le vittime di cui è stata diffusa l’identità delle 22 complessive di cui ancora si sono perse le tracce. Giovanissimi recatisi al concerto della famosa pop star americana, insieme alle mamme o agli amici che ora cercano disperatamente, anche tramite i social media, loro notizie. Giovani vite spezzate: dietro le foto sorridenti, mostrate in tv, storie diverse.

Tante le parole di cordoglio ai feriti e ai famigliari delle vittime, dai grandi del mondo ai semplici cittadini che ieri si sono riuniti ad Albert Square per commemorare le vittime e condannare l’ennesimo, odioso atto terroristico. Una voce illustre si è levata anche dalla città di Ferrara ed è di ieri la lettera dell’ormai uscente arcivescovo di Ferrara, monsignor Luigi Negri, ripresa questa mattina dal Sole 24 ore e da Repubblica. “Figli miei – si legge – siete morti così, quasi senza ragioni come avevate vissuto” E continua “ Siete venuti al mondo, molte volte neanche desiderati, e nessuno vi ha dato delle ‘ragioni adeguate per vivere’ (…) ma vi faranno un ‘ottimo’ funerale in cui si esprimerà al massimo questa bolsa retorica laicista con tutte le autorità presenti – purtroppo anche quelle religiose – in piedi, silenziose”.  Non mollando la presa Negri ribadisce la speranza che “incontriate il volto carissimo della Madonna che, stringendovi nel suo abbraccio, vi consolerà di questa vita sprecata, non per colpa vostra ma per colpa dei vostri adulti”.

La lettera prosegue poi con una invettiva quei guru – culturali, politici e religiosi che continuano a sostenere non si tratti di una “guerra di religione” e che che «la religione per sua natura è aperta al dialogo e alla comprensione».  Ventidue vite sprecate, prive di ragione, da vive come da morte. Quasi inutile ogni commento. Non è la prima volta, d’altra parte, che il fedele discepolo di Don Giussani lascia senza parole: nella sua lunga carriera ecclesiastica, più volte è salito agli onori della cronaca per le sue invettive. D’altra parte, essendo un fervente ammiratore dei crociati “ Noi, cristiani del terzo millennio, alle crociate dobbiamo molto. Dobbiamo che non si sia perduta la possibilità dei grandi pellegrinaggi in Terra Santa. La fede dei crociati si è espressa nella violenza, ma non l’ha mai generata, una fede che è Una, e aveva bisogno del Corpo, di Gerusalemme”, si è lanciato lui stesso in diverse crociate: contro l’omosessualità e le unioni civili (“Chi celebra l’Eucarestia non può poi tollerare e consentire leggi che sono evidentemente eversive dell’antropologia personale e familiare che dall’Eucaristia scaturisce»), contro l’aborto (“Ebola spirituale”). Lo stesso Monsignor Negri avanzò l’ipotesi che dietro l’abbandono di Joseph Ratzinger ci fosse una congiura politica ordita da Barack Obama.

E come dimenticare, a livello cittadino, la volontà di inibire la piazza della Cattedrale ai giovani nottambuli dopo aver raccontato che “Tornavo a casa alle tre di notte. C’erano persone intente in atti di promiscuità. Ho visto scene di sesso tra due ragazzi e un gruppo, evidentemente ubriaco, coinvolto in atteggiamenti orgiastici. Io non ho mai visto un postribolo. Ma l’idea era quella”.

Al suo posto, a giugno, arriverà il cremonese Giancarlo Perego, direttore della Fondazione ‘Migrantes’ che si occupa della pastorale presso gli immigrati. Un cambio auspicato dai tanti, cittadini e fedeli, che nelle posizioni oltranziste di Negri non si sono mai riconosciuti.

La denuncia di Yusuf: “Io cittadino nigeriano condanno chi sta rovinando il Gad”

La zona Gad è fra le più tristemente famose di Ferrara. Quasi ogni giorno si sente o legge di qualche scontro tra bande, spaccio, prostituzione, proteste dei cittadini che lì ci abitano. Basta scorrere un qualsiasi giornale che si occupi di cronaca locale per rendersene conto. E spesso i protagonisti sono cittadini di origine nigeriana. Allora proprio con una persona di questa comunità mi sono incontrato. E’ Yusuf Bello Osagie, titolare del negozio “In God we Trust” di via Ortigara. All’arrivo mi accoglie con un gran sorriso, mi fa entrare nel suo piccolo alimentari, con lui ci sono altri suoi conterranei, stanno festeggiando un compleanno. Mi fa cenno di sedermi e inizia una lunga conversazione, non c’è bisogno di fare domande. “La violenza che si verifica in queste zone io non me la so spiegare”, attacca. “Siamo venuti qui per migliorare la nostra vita e vorrei fare un appello a tutti i migranti: comportatevi bene”. Parole semplici, scandite in un italiano non del tutto spedito, ma chiaro. Yusuf è da sempre impegnato nella lotta al degrado del quartiere. Gli chiedo di continuare a parlare della situazione al Gad e del rapporto con gli italiani: “Dicono che gli italiani sono razzisti. Non è vero! Se ti comporti bene, ti trattano bene. Non è una questione economica o di colore della pelle, ma di comportamento”.

Rifletto molto su questa frase, lui sembra crederci, io un po’ meno. Ma lo lascio proseguire e gli chiedo la sua opinione sulle problematiche relative alla zona stazione: “Secondo me, per cambiare la situazione lì bisogna usare il pugno duro, bisogna controllare 24 ore su 24 quelle zone. Gli africani hanno paura della polizia. In Nigeria chi si comporta male viene sparato, chi ruba lo stesso”. Devo essere sincero, questa frase gliel’ho fatta ripetere svariate volte, ma approfondendo non credo voglia che si arrivi a questo anche qui. Continuando, Yusuf ritorna sui consigli per gli immigrati: “Tutti i migranti a Ferrara dovrebbero comportarsi bene, perché siamo persone, non animali. Ma spesso loro vivono come gli animali: pipì per strada, sporcano, buttano le bottiglie dal grattacielo”, e per i suoi colleghi commercianti aggiunge: “Anche loro devono seguire le regole, nel mio locale non ci sono delinquenti, non ci sono spacciatori né prostitute perché quando vedo un malvivente ho sempre chiamato le autorità. Anche gli altri alimentari dovrebbero farlo, non pensare solo ai soldi ma anche alla tranquillità.” Anche sugli orari di chiusura ha da dire la sua: “C’è un bar qui vicino che chiude in tarda notte e non crea tranquillità nella zona”. Poi per concludere aggiunge: “Non siamo tutti uguali, gli italiani non dovrebbero generalizzare, ci sono i migranti cattivi e quelli buoni, non bisogna accomunare tutti”. Non mancano poi ringraziamenti al sindaco e alle autorità, che dice essere sempre presenti e di aiuto a questa zona, ma che pure potrebbero fare di più.

Finita l’intervista lo saluto, esco fuori e camminando mi avvio verso il ‘giardino’, un gruppetto di ragazzi di colore è impegnato a parlottare. Si è fatto tardi, e noto così l’inizio del ‘turno’ di ronde delle biciclette, sulle cui selle sono sedute le vedette impegnate nel controllo delle zone di spaccio. Mi avvio verso l’auto, ma non è un addio, è solo un arrivederci…

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Di orti, giardini e dei germogli delle idee

Coltivare il proprio orto è esercizio che garantisce la sopravvivenza, del resto siamo deboli e dobbiamo prenderci cura di noi stessi.
Ferrara città di giardini è anche città d’orti, questi ultimi di solito un po’ defilati, situati in periferia e affidati alle mani operose di anziani cittadini.
Sarà che sono più cicala che formica, ma io amo i giardini, sono luoghi dove ci si incontra, si sta bene e fioriscono le idee, se poi uno ha la fortuna di avere un giardino nella propria infanzia quello non si scorda più. Sarà anche per l’effetto Bassani, ma i giardini a Ferrara hanno un grande potere evocativo, lo dimostra il successo dell’iniziativa “Interno verde”.
Ma orti e giardini qui sono un pretesto, una metafora per parlare d’altro, della mappa del territorio e semmai del territorio e della mappa che ancora non ci sono.
Ormai si sa che ce l’ho con la mania della Città della Conoscenza e, guarda caso, la metafora con cui gli studiosi della materia, dall’architetto Archigram Peter Cook a Francisco Javier Carrillo, la rappresentano è proprio il giardino, la città vista come un giardino dove dall’incontro delle persone nei differenti luoghi, per ragioni tra loro le più varie, indefinite o definite, fioriscono, s’incrociano, si diffondono pensieri e idee da condividere, da valutare, da usare per aprire strade nuove.
Nell’orto no. Pianti il tuo tubero e attendi che cresca, per te e i tuoi intimi.
L’orto non è un’idea di comunità, il giardino, sì.
Si dirà: l’orto è produttivo. È vero: produci e consumi. Sempre identico a se stesso. Vuoi mettere il giardino? Intanto non hai bisogno di spaventapasseri, non devi tenere alla larga nessuno.
Ragionavo di questi pensieri quando mi sono imbattuto in “Etopia”, il luogo dell’elettronica. È un Centro per l’Arte e la Tecnologia, realizzato da “Zaragoza City of Knowledge”, con il supporto del Ministero spagnolo dell’Industria, dell’Energia e del Turismo. È stato concepito come un centro mondiale per la creatività, l’innovazione e l’imprenditoria nella città digitale. Un modello di innovazione aperta in cui imprenditori, creatori, cittadini, imprese e ricercatori lavorano insieme per creare ricchezza, occupazione e conoscenza, al fine di affrontare le sfide urbane nell’era digitale. Tre grandi blocchi occupano una superficie di sedicimila metri quadrati, oltre agli spazi comuni che li connettono, ospitano altre strutture come: incubatore d’impresa, residenza per creatori e ricercatori, laboratori di creatività audiovisiva e tecnologica, laboratori individuali e di gruppo, aule, sale espositive, auditorium, caffetteria-ristorante, negozi, seminari e sale riunioni, uffici per progetti e spazi di collaborazione.
Non proprio un orto, ma un e-garden, direi.
La caratteristica di Saragozza è che la Municipalità nel 2004 ha dato vita alla Fondazione “Saragozza Città della Conoscenza” come progetto pubblico-privato per promuovere lo sviluppo della società della conoscenza. Attualmente oltre al Comune partecipano alla fondazione l’Università, la Fondazione Iberica per il Lavoro Sociale, Centri per la ricerca scientifica, docenti universitari, scrittori, personalità di rilievo nel mondo delle arti. Fin dalla sua istituzione, il finanziamento delle attività della Fondazione proviene in gran parte da fonti private. Il presidente del consiglio è il sindaco di Saragozza, né più né meno come il nostro sindaco presiede Ferrara Arte e Ferrara Musica.
Ferrara non è Saragozza, non montiamoci la testa, le dimensioni non sono confrontabili, ma le idee hanno il vantaggio di non avere dimensione, ma solo quello di essere buone o cattive.
Noi dalle pagine di Ferraraitalia abbiamo lanciato il Manifesto per Ferrara Città della Conoscenza, consapevoli che su questa strada si gioca buona parte del futuro sviluppo della nostra città, che il nuovo secolo chiede anche alla nostra città di ragionare in modo rinnovato sull’incontro tra economia e sapere, tra impresa e conoscenza, tra rivoluzione digitale e apprendimenti. La città della conoscenza è il nuovo territorio, basterebbe guardare oltre le nostre mura per rendercene conto. La nostra città ha risorse e cultura per disegnarne la mappa?
Io ritengo di sì, ma occorre che ognuno esca dal proprio orto, di associazioni, gruppi, amici di questo o di quello e incominci a pensare di essere parte attiva di un grande giardino, di idee, iniziative, e risorse, che possono migliorare e far crescere la città.
Ma chi deve unire gli orti perché compongano un grande giardino? Se non l’unico giardiniere che ha la responsabilità della città?
Con Saragozza abbiamo in comune le biciclette, potremmo anche tentare di avere in comune l’idea di Città della Conoscenza.

Alfredo Filippini, il decano degli artisti ferraresi in mostra a Bondeno

È il decano degli artisti ferraresi – Alfredo Filippini, 93 anni da compiere – a cui ora la Pinacoteca di Bondeno dedica una mostra personale con una carrellata di opere dagli anni Cinquanta ad oggi che mettono insieme dipinti e sculture. Nato a Ferrara il 22 ottobre 1924, Filippini inizia a dipingere molto giovane e il suo lavoro di impiegato in Ferrovia non lo distrae da una passione ininterrotta e arricchita negli anni da studi e specializzazioni in ambito artistico. «Ancora ragazzo – racconta il critico Lucio Scardino che ha curato la rassegna – prende lezioni dal pittore novecentista Ego Bianchi, in Valtellina, e poi già quarantenne si iscrive alla scuola di nudo dell’Accademia di belle arti di Bologna seguendo i corsi di Mascalchi e Montanari tra il 1968 e il 1971».

La statua di San Giovanni (foto GM)

A cinquant’anni inoltrati la voglia non dà segno di cedimenti ed è negli anni Ottanta che Filippini diventa allievo e poi collaboratore dello scultore Laerte Milani, docente nel laboratorio di arte allestito negli spazi fuori dal tempo dell’ex chiesa di piazzetta San Nicolò all’angolo con via Colomba, a Ferrara, dove ancora lo si può incontrare all’opera e in veste di maestro nei pomeriggi del fine settimana. Qui si dedica a creazioni ma anche a copie e restauro di opere antiche, come nel caso della statua in terracotta di San Giovanni Battista che si può ammirare in una strada del centro storico, nella nicchia della parete esterna del bar di via Cortevecchia (l’originale del ’400 è in Pinacoteca a Ferrara). La statua testimonia l’originaria presenza di una chiesa legata ai Templari in questo angolo di città: la chiesa della Trinità situata – si legge sulle pagine di “Ferrara nascosta” – nell’isolato compreso fra le attuali vie Cortevecchia-Boccaleone-Podestà-del Turco fino all’esproprio napoleonico (1798), citata in antichi testi come “Collegium hospitalis Sancti Johannis de Templo”, cioè dell’Ordine del Tempio.

Di stile invece personale la scultura di Filippini che si può vedere in un altro spazio pubblico di Ferrara, all’interno del Museo civico del Risorgimento e della Resistenza, ispirata al titolo del romanzo di Giorgio Bassani “Dietro la porta”. La terracotta realizzata nel 2010 mostra due adolescenti che origliano dietro una vetrata.

“Campagna dall’argine” di Filippini a Bondeno fino al 2 giugno 2017

A Bondeno sono esposti i dipinti che Scardino definisce di «un realismo atmosferico di grande finezza cromatica, con predilezione dell’ambiente ferrarese (come la veduta di via delle Volte e il Po di Pontelagoscuro dipinti nel 1950), ma anche di quello della costa romagnola (la foce del Bevano vicino a Cervia, del 2002) e delle montagne della Val Solda».

Alfredo Filippini (foto Giorgia Mazzotti)

Le statue partono invece dalla raffigurazione di antichi mestieri (lavoratrici della canapa, donne che vendono il pane, pescatori) «nel solco degli insegnamenti ricevuti dal suo principale maestro Laerte Milani», per arrivare fino alle più recenti produzioni plastiche di danzatori ma anche altre figure sportive come calciatori, pugili, sciatori, giocatori di basket.

I punti di riferimento artistici di Filippini sono il Rinascimento estense, il ferrarese Arrigo Minerbi (autore della statua dell’Acquedotto), Tiepolo, Donatello, Zurbaràn e sopra a tutti Michelangelo e Tiziano, di cui tiene copie di quadri a grandezza naturale appesi alle pareti della casa-laboratorio di via Boiardo, a Ferrara, come racconta Andrea Samaritani con parole e immagini in un articolo della Nuova Ferrara.

“Alfredo Filippini, dipinti e sculture” a cura di Lucio Scardino, Pinacoteca comunale Galileo Cattabriga, piazza Garibaldi 9, Bondeno (Ferrara), tel. 0532 899245. Visitabile a ingresso libero fino al 2 giugno, sabato ore 15.30-18.30, domenica e festivi ore 10.30-12.30 e 15.30-18.30.

BORDO PAGINA
Guerrini e la poesia: “C’è bisogno di sperimentare per alimentare un pensiero differente”

Protagonista negli anni’ 70 e ’80 per la poetica sperimentale a Ferrara (e non solo, stagione di Luci della Città di S. Tassinari, della Poesia Visiva di M. Perfetti, L.Arbizzani, F. Manfredini e R. Trentini, della videopoesia di G. Toti, della scrittura anche verbovisiva di G. Berengan e M. Roncarà, del Teatro Nucleo nascente di C. Herrendorf e H. Czertok, del Centro Video Arte, dell’arte e-o la parola “rivoluzionaria” già di G. Testa e lo stesso M. Felloni) quando la Parola era ancora una Mappa non molto diffusa, a differenza del liquidismo non stop degli ultimi anni..: ovvero Pier Luigi Guerrini, poi dagli anni dieci del duemila ritornato in pista, sempre coerente con la sua scrittura di ricerca, anche sociale, ma mai banalmente tardorealista, sullo sfondo sempre l’archetipo del nuovo e del futuro, dall’immaginario.

D – Pier Luigi Guerrini, protagonista poetico a Ferrara negli anni ’70/80, un memo?
R – Nel 1978 esce una piccola collettanea di poeti ferraresi di nascita o d’acquisizione. “Biottica delle parole superstiti”, questo era il titolo, nelle intenzioni degli ideatori doveva essere una rivista di poesia e critica letteraria ma, come spesso accade e non solo nelle situazioni di provincia, si fermò al primo numero. Al suo interno, c’era tra gli altri Alberto Poggi che ideò assieme a me la rivista “Po/etica/mente”, come testimonia un ciclostilato di due pagine con cenni poetici “mescolati” a spunti progettuali. Poi, il percorso di questa rivista prese una strada differente. “Poeticamente” si ricompose in un’unica parola e la redazione di fondazione (1980), sotto la direzione responsabile di Lamberto Donegà, vide la presenza di Emanuela Calura, Pier Luigi Guerrini e Roberto Guerra, oltre in seguito gli stessi C. Strano e il francese M. Kober. La rivista venne diffusa in una rete di piccole librerie militanti dell’area della nuova sinistra e, dopo alcuni numeri in cui si pubblicavano diversi interventi in prosa o in poesia di vari autori, si scelse la strada dei numeri monografici. Nel 1984 pubblicai, per le edizioni Ottantagiorni, il libro di poesie “Il fenomeno scomposto” e, l’anno dopo, in “Trame della parola”, Ed. Tracce, una piccola antologia poetica curata da Antonio Spagnuolo. Poi, pur continuando a scrivere parecchio, ho scelto di viaggiare poeticamente sotto coperta. Ho, invece, lasciato molti segni di stampa collegati da vicino ai percorsi lavorativi intrapresi (giovani, tossicodipendenze, disabilità). La mia produzione poetica è riemersa con decisione solamente dal 2010 in avanti.

D – Qual è il tuo pensiero sulla poesia sperimentale, oggi?
R – Il mio non è un osservatorio dall’interno. Scrivere poesie, riflettere su questo strumento espressivo/comunicativo/creativo non significa avere “sotto controllo” o conoscere lo stato dell’arte poetica sia lineare che visivo-sperimentale. Colgo emersioni improvvise d’interesse sull’esperienza fantastica del Centro Video Arte di Ferrara e di tutto quello che vi si mosse intorno, ad esempio, poi cala di nuovo il silenzio. A proposito di quella bella e innovativa esperienza, ricordo quanto affermava nel 2001 la coordinatrice Francesca Gallo. “Negli anni ’70 e ’80 il Centro Video Arte è stata una struttura pionieristica nel panorama culturale italiano, proprio perché ha sostenuto e promosso non solo la conoscenza di questo linguaggio artistico in Italia, ma soprattutto per il suo impegno militante a fianco di sperimentatori che grazie a quel supporto (non solo logistico ma anche professionale e critico) hanno potuto produrre videotape e videoinstallazioni anche nel nostro paese, senza dover aspettare le borse di studio giapponesi o americane”. Io credo che ci sia ancora molto bisogno di sperimentare nella/con la parola. Penso sia un bisogno che non dovrebbe mai scomparire. Un bisogno di pensiero differente! Una parola fatta di suoni larghi, sintetici, di spazi/silenzi, di corse al rallentatore, di istantanee da rischiare anche se dovessero uscire “sfuocate”. Una parola che si trasforma in immagini. Una sperimentazione non accademica che non si arrenda ad una comunicazione che si concede troppo spesso alla velocità, alla “superficialità” e fatica a lasciare tracce significative, solchi. Una poesia che si presenta sempre più spesso sotto forma (e sostanza!) di chiacchiera dove “le parole non misurano niente, fanno giri inutili, mancano deliberatamente ogni bersaglio” (Tadini). Iosif Brodskij scriveva che “la poesia è anche l’arte più democratica – comincia sempre da zero. In un certo senso, il poeta è davvero come un uccello che canta senza guardare al ramo su cui si posa, qualunque sia il ramo, sperando che ci sia qualcuno ad ascoltarlo, anche se sono soltanto le foglie”.

D- Nuovamente operativo nel duemila. I tuoi lavori?
R – Dal 2010 ho ripreso a pubblicare su alcune riviste on line e blog come, ad esempio, “Poetrydream” di Antonio Spagnolo. Nel 2014 ho realizzato l’ebook “In prosa per la foto”, Isnc Edizioni. Poi, ho pubblicato in numerose antologie tra cui:“Homo Eligens”, a cura di I. Pozzoni, deComporre Ed., 2014; “Sentire”, n. 44, Pagine s.r.l. Ed., Roma, 2014; “Chorastikà”, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis Ed., 2015; “Bustrofedica”, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis Ed. 2016; “XXXIV”, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis Ed., 2017.

D – Come definiresti la tua poesia?
R – Per usare un linguaggio terminologico familiare a Deleuze, la mia è una ricerca costante tra il piano “virtuale” (che attiene ambiti quali la memoria, il sogno, le immagini del profondo, il fantasy) e un piano “attuale”, di contestualizzazione, di immersione nella quotidianità. Una poesia visuo-sociale, se mi è permesso definirla così.
Spesso, nell’esplorare i significati, le parole che diano il senso più vicino a quello che senti, c’è come uno svasamento dei bordi, un’interpenetrazione di tracce. Si cercano rimbalzi armonici e disarmonie. Sembra quasi di ricercare un senso fuori da un contesto qualsiasi, alla continua ricerca di un incontro tra ciò che si vede e ciò che si sente. Oltre ogni contesto conosciuto e/o di cui si è fatta esperienza.
In altre parole…

la lingua langue silenziosa
si genuflette riflessiva
accorpa pensieri, immagini, sogni
facendo ricorso
ai ricordi di ogni.

D- Pier Luigi, Ferrara città d’arte o anche mito e panem et circenses, visti i tempi liquidissimi anche in città?
R – Gli esempi di vivacità culturale ci sono anche in una piccola città di provincia com’è Ferrara ma il linguaggio poetico stenta a bucare la crosta del panem. Causa la crisi economica e sociale che mette giustamente in testa il problema drammatico della mancanza di lavoro e di un futuro non solo per i giovani, a cui si aggiunge una classe politica che sembra non sapere in quale…verso dirigersi, dove orientare il proprio interesse perché composta anche di personale che non ha in agenda valori quali la solidarietà, l’umiltà e la competenza. Un personale politico che sceglie sempre più di rado tra gli operatori culturali dell’associazionismo disomogeneo ma competente. La tendenza, parere ovviamente personale che non pretendo sia condiviso, è verso un’autoreferenzialità politica rassicurante. La scorciatoia del pressapochismo è un mantra quotidiano. Una superficialità che, in assenza di preparazione culturale, si affida anche inconsapevolmente a forme di cinismo, snobismo o si rivolge ad improvvisati operatori culturali. Una cultura del “mi piace/non mi piace” con allegato l’indispensabile emoticon.

D – Quali progetti per il futuro?
R – Sto ultimando il mio secondo libro di poesie che dovrebbe vedere la luce entro l’anno. Inoltre, assieme all’amica Laura Fogagnolo abbiamo intenzione di pubblicare un lavoro suddiviso in due parti. Nato come contributo/ ricordo postumo al poeta ferrarese Marco Chinarelli, precocemente scomparso negli anni ottanta (ricordo un quaderno monografico con alcune sue poesie uscito nel 1988 per le edizioni Poeticamente), abbiamo ritenuto potesse essere una cosa interessante fare una rilettura/riflessione degli anni ’70-’80 a Ferrara e provincia dal punto di vista culturale ed artistico, coinvolgendo alcuni protagonisti privilegiati di quel periodo.

Info:
http://www.poetipoesia.com/pier-luigi-guerrini/

I centri estivi del Germoglio, un posto giusto per crescere

Mi hanno raccontato una storia alquanto strana, ma molto divertente. Ve la voglio riferire: sarà vera? A voi l’ardua sentenza.

J era un tipetto sveglio sugli undici anni, simpatico, ma un po’ timido, non gli piaceva farsi notare troppo, ma era gentile con tutti e sempre il primo ad aiutare: i suoi compagni con i compiti a scuola, la mamma e il papà a casa. C’è chi chiede per non sbagliare e chi osa pur di continuare, J era fra i primi, tuttavia non si tirava indietro quando gli proponevano una nuova esperienza, una cosa mai fatta.

Da qualche tempo nel Paese dei mattoni gialli c’era qualcosa che non andava, tutto era sbiadito, grigiastro, ogni giorno sempre un po’ uguale all’altro. Eppure i più anziani si ricordavano di giornate spensierate, colorate, di risate squillanti e avventure impreviste.
Quando però cercavano di raccontare la loro infanzia ai nipotini questi non capivano:
“Ma come, voi non giocate?”, “Si nonno gioco: ieri nella mia camera ho giocato tutto il pomeriggio”, “E che gioco hai inventato?”, “Non l’ho inventato, era già pronto nella sua scatola!” O ancora: “Ma non stai insieme ai tuoi amici?”, “Ma certo nonna, a scuola siamo tutti nella stessa aula per tutta la mattina!”
Un giorno J stava tornando a piedi da scuola: aveva avuto compito in classe e per terminarlo aveva usato tutto il tempo a disposizione… più quei pochi preziosi minuti mentre gli altri consegnavano il proprio e al suono della campana facevano lo zaino, e così aveva perso il pullmino. Percorreva l’ultimo tratto della via prima del suo vialetto con la mente che tornava al compito: la geografia proprio non gli entrava in testa, chissà se aveva risposto correttamente a tutte le domande! All’improvviso una sagoma gli tagliò la strada andandosi a rifugiare dietro una siepe nel giardino dell’unica casa non abitata della strada. Ripresosi dallo stupore, J guardò dentro quella siepe: due occhi sbarrati dalle pupille a forma di spillo lo scrutavano. Era una micia a tre colori, bianca, rossa e nera, J si avvicinò e vide un buco nella siepe, lei si addentrò dentro il giardino: quando le si avvicinava, la gattina si allontanava, ma se J si fermava allora anche lei si sedeva e sembrava aspettarlo, la coda ricurva come un punto interrogativo, il fare altezzoso da piccola principessa.

J la seguì fin dentro quello che sembrava un capanno per gli attrezzi. Una volta aperta la porta però non c’era più traccia della gattina a tre colori. Si trovò in un luogo completamente diverso: era come se avesse attraversato una specie di portale, come quelli che solitamente si vedono nei film. Spaventato girò i tacchi e aprì la porta per filare dritto a casa, ma quando uscì si ritrovò in un piccolo parco sul retro di quella che sembrava una scuola. J aprì e richiuse la porta più e più volte, ma lo scenario non cambiava e lui era sempre più spaventato: dove si trovava? Come avrebbe fatto a tornare a casa?
Improvvisamente si sentirono delle voci, urla di gioia e di divertimento: di punto in bianco il giardino era stato invaso di tanti piccoli gruppetti di bambini. J decise di restare nascosto per il momento, in attesa di capire meglio cosa gli stava capitando. Mentre li osservava, notò che potevano avere più o meno l’età della sua sorellina più piccola, comunque non più di dieci anni, i loro capelli erano bizzarri, erano tanti fili sottili che con il vento si muovevano, e le loro mani avevano cinque strane protuberanze che usavano per afferrare le cose. “Ma in che posto sono stato catapultato?” Pensava J fra sé e sé. “Ciao! Come ti chiami?” J trasalì, tanta era stata la curiosità per quegli strambi bimbetti che, senza accorgersene, era uscito dal suo nascondiglio e ora una di loro, dai grandi, dolci, occhi scuri, gli tendeva la mano: “Io mi chiamo Tammie!” Lui, mentre tentava di capire come stringerle la mano, rispose titubante: “J”. “Che bello, come Junior e come Joy! Sai che sei buffo: è come se avessi i guanti, quelli senza le dita”: esclamò lei.
Quegli occhi profondi erano, chissà perché, rassicuranti e J decise di osare per continuare e provare a fidarsi: “Dove mi trovo?”. “Siamo a Ferrara, a Pontelagoscuro: questo è Il Castello, si chiama così dai tempi dei tempi. I grandi lo chiamano ‘centro socio-educativo’ e dicono che è retto da un tipo che si chiama Germoglio, noi non capiamo bene bene cosa voglia dire: qui non ci sono piante a dirci cosa dobbiamo fare, ma possiamo contare su ragazzi simpatici che d’inverno ci aiutano con i compiti e poi ci fanno giocare e d’estate inventano tante cose da farci fare e le fanno con noi”.

“Pontelagoscuro? Ferrara? Ma perché qualcuno dovrebbe costruire una città con un ponte su un lago dall’acqua scura? Mah! Maledetta geografia, la odio!”, pensava J mentre cercava di seguire le parole di Tammie. Intanto altri bimbi avevano fatto capannello intorno a loro, c’era chi ridacchiava guardando J, ma furono presto rimessi al loro posto, la maggioranza aveva già deciso: bisognava aiutarlo e l’unico modo era portarlo da Nando e Cami, gli educatori, loro avrebbero saputo cosa fare. Mentre attraversavano il parco, Tammie non la smetteva di parlare e spiegava a J tutte le cose che si facevano lì al Castello: “Ogni mattina facciamo qualcosa di diverso, stamani abbiamo fabbricato gli aquiloni, quelli che adesso stanno facendo volare là con Nando vedi?” Tammie indicava un gruppetto di bimbi intenti a far volare alcuni aquiloni con l’aiuto di un ragazzo più grande. “Usiamo solo cose riciclate, cioè cose che se noi non le adoperassimo, andrebbero buttate. Nando e Cami ci hanno detto che domani verrà un amico di un’associazione che si chiama Lipu per dirci tante cose sugli uccellini che cantano qui nel parco e insegnarci a costruire delle casette per loro e forse poi lo andremo anche a trovare dove lavora con gli altri volontari per vedere altri uccellini da vicino: non vedo l’ora! Il pomeriggio stiamo sempre tutti insieme qui in giardino per fare tanti giochi, ma il momento che mi piace di più è la mattina quando costruiamo le cose. Non c’è un momento delle giornate qui al Castello che non mi piace, ma forse quello in cui mi diverto un po’ di meno è quando dobbiamo fare le pulizie. Però so che se tutti ci diamo da fare per prenderci cura del posto dove giochiamo, sarà sempre bello e sarà un po’ come se diventasse anche nostro: me lo ha spiegato Cami e io mi fido!”
J era alquanto frastornato, era difficile seguire quel fiume di parole, entrarono nel Castello, a destra c’era la stanza della lettura e quella dei compiti, al muro ecco i turni per le pulizie e la mensa e il programma delle attività della settimana, accanto ai disegni dei bimbi, lungo il corridoio, fra gli armadietti personalizzati, Tammie e il resto della squadra di soccorso corsero incontro a una ragazza mora: quella doveva essere Cami.
Mentre Tammie spiegava a Cami la situazione – meno male che almeno lei sembrava averci capito qualcosa! – J pensava che i colori del giardino e dei disegni gli sembravano più sfavillanti rispetto a quelli del suo Paese dei mattoni gialli: chissà come mai?
Cami disse: “E’ un bel pasticcio. Devo parlarne con Nando, ma tranquilli troveremo una soluzione”. Al termine del consulto, Cami e Nando stabilirono che, anche data l’età di J, era meglio parlarne con “gli educatori dell’Indelebile”: “cosa centrava ora un pennarello? Saranno veramente in grado di aiutarmi?”, si chiese J.
E così lasciarono Nando con gli altri bimbi al Castello, mentre Cami, Tammie e J raggiunsero un altro edificio poco lontano.

“Ciao Peter!” esclamò Tammie correndo incontro a un ragazzino abbracciandolo. “Mollami Tammie! Non vedi che sono impegnato! E questo qui chi è?” “Si chiama J, come Jolly e come Joker” “E’ strano forte! Perché non ha le dita? E perché si guarda così intorno?” “Sto cercando il pennarello! L’Indelebile! Strano sarai tu con quelle cinque ‘cose’ che ti spuntano dalle mani e con la faccia piena di torta!”, rispose J, che – a dirla tutta – un po’ permaloso lo era. “Ma che pennarello! L’indelebile è il nome di questo centro, siamo tutti ragazzi dai 10 ai 14 anni e insieme ai nostri educatori abbiamo deciso di chiamarlo così perché volevamo un nome che restasse nel tempo, che non si potesse cancellare, proprio come le esperienze e le amicizie che viviamo qui!”
Peter era il fratello di Tammie, un tipo dai modi sbrigativi, ma sul quale si poteva sempre contare, e soprattutto molto curioso, non la smetteva mai di fare domande a Mel e Nic, proprio a loro Cami voleva parlare per riuscire ad aiutare J. “Perché hai la faccia piena di panna, Peter?”, chiese Tammie. “Non vedi che stiamo giocando maschi contro femmine? È un quiz musicale e quando riconosciamo la canzone dobbiamo prenotarci spiaccicandoci la torta sulla faccia. Le torte le abbiamo fatte noi questa mattina, L’indelebile si era riempito di farina, ma dopo mangiato abbiamo pulito tutto, altrimenti sai che confusione! Dai lasciami concentrare, che siamo in vantaggio”. Proprio mentre Peter stava finendo di parlare un altro ragazzo della sua squadra tuffò il viso nella panna e cominciò a ridere tantissimo, eppure non c’era nessuna canzone da indovinare. “Ma che fa?”, chiese J, “Ah, quello è Max – rispose Peter – ogni tanto fa di testa sua, ma è solo perché ha bisogno di giocare come vuole, basta lasciarlo fare per un po’ e poi ricordargli le regole del gioco. Lo abbiamo voluto in squadra con noi perché non si fa scappare una canzone, le sa praticamente tutte, pazienza se abbiamo dovuto preparare qualche torta in più!”. “Perché fate voi le cose che poi usate per giocare? Nel mio paese noi giochiamo con giochi già fatti: si fa prima!”, disse J rivolgendosi a Tammie e a Peter. “Sì, ma così possiamo crearli come piace a noi, come li abbiamo pensati con la nostra immaginazione. È divertentissimo perché non puoi sbagliare!”, gli rispose Tammie: in effetti il ragionamento non faceva una piega.

In quel momento arrivarono Cami, Mel e Nic: “Proviamo a sentire cosa ne pensano James e Alice, dell’Urlo”. “Come? Io non vengo in un posto dove si urla. Assolutamente no! E poi perché si urla?”, esclamò J: in fin dei conti li aveva appena conosciuti, tutti loro, va bene fidarsi, ma senza esagerare!
“Tranquillo! Non c’è nulla da temere – spiegò Mel, con tono rassicurante – l’Urlo è il nome del nostro centro di aggregazione giovanile qui vicino, in un posto che si chiama Barco, ci vanno i ragazzi più grandi di te, dai 14 ai 18 anni. Si chiama così perché cosa c’è di più liberatorio ed energetico di un urlo di gioia e di entusiasmo?” “Tranquillo sono tipi a posto! Noi dell’Indelebile e del Castello li conosciamo perché ogni tanto facciamo delle gite tutti insieme, come per esempio al mare”, aggiunse Peter. “Mmmh, un centro di aggregaz… cosa?”, chiese J. “Un centro di aggregazione giovanile: è uno spazio dove si può andare per incontrarsi fra amici, giocare in tanti modi diversi, partecipare o anche organizzare attività diverse e imparare a fare delle cose”, sorrise Mel.

J non aveva afferrato fino in fondo, ma capì meglio quando lui, Tammie e Peter, insieme a Mel, Nic e Cami, arrivarono all’Urlo: c’era un gran frastuono, ma non era fastidioso. Era come se qualcuno stesse suonando tanti ritmi tutti insieme: sbirciò da una porta e vide ragazzi più grandi di lui improvvisare su tanti tipi di tamburi diversi. “Vedi, questo si chiama laboratorio di percussioni”, spiegò Cami a J. Il nostro nel frattempo aveva notato che tutti stavano facendo tante esperienze diverse e si convinceva sempre più che tutto, qui in questa Ferrara, fosse più colorato rispetto al suo Paese dei mattoni gialli.
Improvvisamente eccola di nuovo: era la micina a tre colori, la causa di tutti i suoi guai. Dopo un’apparizione fugace nel corridoio si era infilata su per la scala: “Fermati tu, fermati brutta antipatica! Non so come, ma è tutta colpa tua se sono finito qui!”
“Colpa?” miagolò la gattina: “Hai vissuto un’avventura in un luogo in cui non eri mai stato, hai imparato che è più divertente dare sfogo alla fantasia e crearselo il gioco, invece che limitarsi a leggere le istruzioni sulla scatola, hai conosciuto tante persone simpatiche e gentili. E tutto in un solo giorno. Sei sicuro di non volermi ringraziare piuttosto? Non fa niente, ti aiuterò comunque a tornare a casa”. “Che presuntuosa! Però in fondo ha ragione!”, fu costretto ad ammettere J fra sé e sé mentre la seguiva dentro un vecchio armadio. Ed eccolo di nuovo nel vecchio capanno della casa disabitata nella sua via. Magico!
Nei pomeriggi seguenti J giocò all’aperto insieme ai suoi compagni di scuola e insieme si ingegnarono a ideare e costruire nuovi giochi colorati, mettendo ogni volta alla prova la loro fantasia. Ecco quello che mancava al Paese dei mattoni gialli: i caldi, sfavillanti colori dell’amicizia e dell’immaginazione.

I centri estivi de Il Germoglio: Questo gioco chiamato Estate!
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Il nuovo illuminismo francese contro la deriva integralista

“Oggi l’Europa e il mondo ci guardano, si aspettano che difendiamo ovunque lo spirito dell’Illuminismo a volte minacciato. La Francia li stupirà”. Queste le ispirate parole del neo eletto presidente della Francia Emmanuel Macron davanti ad una folla esultante di sostenitori, radunatisi il 7 maggio nella esplanade del Louvre per festeggiare la vittoria del suo ‘En Marche!’ su Marine Le Penn, con oltre il 66% di voti.
Il più giovane presidente della Repubblica dai tempi di Napoleone, né di destra né di sinistra, rappresenta di sicuro una chiara volontà dei francesi di non cedere alla tentazione dell’integralismo e dello spirito anti europeista, a dispetto dei recenti attacchi terroristici che rischiavano di influenzare il risultato delle elezioni presidenziali. Si pensava che le dichiarazione xenofobe della Le Pen avessero gioco facile, ed invece la voglia di nuovo che Macron rappresenta ha sbaragliato la concorrenza.
Di ciò che Emmanuel Macron rappresenta per la Francia abbiamo avuto modo di parlarne con Alexandra Dadier, parigina doc, attrice e regista teatrale nonché docente all’Universitè Paris Dauphnine (leggi anche http://www.ferraraitalia.it/un-anno-dopo-al-bataclan-la-testimonianza-di-alexandra-dadier-a-parigi-vince-la-vita-110087.html)

Ha vinto Macron o ha perso la Le Pen?
Ha perso le Pen semplicemente perché non poteva vincere. Non aveva le spalle per diventare Presidente della Repubblica. Si è chiaramente visto durante il dibattito fra loro due 15 giorni fa : non esponeva le sue idee, era solo aggressiva, non ha proposto niente di concreto. I francesi volevano un cambiamento. L’hanno avuto con Emmanuel Macron : giovane (39 anni), con un nuovo partito, né di destra né di sinistra, sorprendente e dinamico. Ormai ha il Paese fra le mani ma tutta la Francia rimane nell’attesa di quello che farà.

Dopo l’ultimo attacco terroristico sembrava che per la Le Pen la strada alla vittoria fosse spianata.Eppure i francesi si sono ribellati alla deriva nazionalista: come mai?
Una parte dei francesi hanno espresso la loro paura e il loro rancore nei confronti della politica votando per Marine Le Pen. Ma la maggiore parte dei francesi è troppo legata a l’Europa e scontra con le sue idee estremiste e nazionaliste. Hanno superato il nazionalismo semplicemente perché i francesi, nella maggiore parte, considera che la Francia deve rimanere un paese aperto sul mondo intero.

Emmanuel Macron, ex ministro dell’Economia ed ex banchiere: era un personaggio amato fin da allora?
E’ un volto nuovo, non lo conoscevamo proprio bene. Lo vedevamo un po’ come un ‘lupo della finanza’. Ormai la sua imagine è diventata più umana. Ma tutto è ancora da vedere…

Perché Macron ha convinto i francesi?
Perché i francesi volevano un cambiamento in politica, volevano uno che si impegnasse per loro. Non ne potevano più dell’assenza di dinamismo del governo precedente.

La Francia di Macron come risposta alla recente Brexit?
Si. La Francia non vuole rinchiudersi su lei stessa: è un paese di apertura, di cultura e di accoglienza.

E ora cosa ci si aspetta dal giovanissimo neo presidente?
Aspettiamo impegno, cambiamento e sopratutto ottimismo. I francesi hanno bisogno di vedere il futuro in un modo più positivo. Non dobbiamo mai dimenticare che è ben peggio altrove…

Alla fiera della vanità con la fast fashion: 52 stagioni all’anno e uno sfruttamento intensivo della manodopera

È la prima industria al mondo per impiego di manodopera, con una persona su sei che lavora nella filiera produttiva, e la seconda per inquinamento, preceduta solamente da quella petrolifera.
Di che settore stiamo parlando? Dell’industria della moda.
Quando parliamo di moda, pensiamo alle passerelle milanesi, ai fashion blogger e alla geniale creatività degli stilisti, ma oltre tutto ciò c’è l’industria che produce gli abiti che indossiamo tutti i giorni: jeans, magliette, felpe e maglioni. Solo guardando all’economia italiana, l’industria del tessile-moda è un comparto produttivo di enorme importanza: 52,4 miliardi di produzione nel 2015, 402.700 occupati e un saldo della bilancia commerciale di più di 8,5 miliardi, con un surplus secondo soltanto a quello della meccanica.

Tutti abbiamo sentito parlare – in maniera non troppo lusinghiera – del sistema dei fast-food: chi ha mai sentito parlare – nel bene e nel male – della ‘fast-fashion’? Chi si ricorda della tragedia di Rana Plaza, in Bangladesh, dove nel 2013 un edificio si è accartocciato su se stesso inghiottendo più di mille lavoratrici, forse il più grave disastro nella storia dell’industria tessile?
Ebbene, la ‘fast-fashion’ è la rivoluzione che ha portato nei negozi delle grandi catene di abbigliamento 52 stagioni l’anno al posto delle tradizionali autunno/inverno e primavera/estate, con nuovi modelli di capi di abbigliamento praticamente ogni settimana, e che ha prodotto una deflazione progressiva del prezzo di ciò che indossiamo, soprattutto grazie all’esternalizzazione della produzione verso paesi a basso costo di manodopera (basti pensare che fino agli anni Sessanta l’America produceva il 95% dei suoi vestiti, oggi ne produce solo il 3%). Ecco che, come per magia, attualmente compriamo più di 80 miliardi di capi di abbigliamento all’anno: +400% rispetto a 20 anni fa.
Il vero costo di questa rivoluzione al ribasso ce lo rivela il film documentario ‘The true cost’ del giovane regista americano Andrew Morgan (prodotto da Livia Firth, sì, proprio la moglie di quel Colin, da sempre impegnata in questo ambito). ‘The true cost’ racconta il mondo produttivo dietro le grandi catene del fast fashion, rivelando i costi umani, sociali e ambientali che possono celarsi dietro un abito, dalle operaie senza diritti del Bangladesh e della Cambogia, ai coltivatori di cotone del Punjab e del Texas, strozzati dai nuovi padroni delle sementi e costretti a violentare la terra con pesticidi e fertilizzanti. ‘The true cost’ dà anche voce a chi in quegli stessi luoghi a questo sistema si oppone, impedendoci di nasconderci dietro alla scusa che ‘è l’unico sistema possibile’ e aprendoci gli occhi sul consumismo eccessivo e indotto, che ci spinge a comprare a poco prezzo cose di cui non abbiamo davvero bisogno e che quindi butteremo a cuor leggero aumentando inquinamento e povertà, mentre ciò di cui necessitiamo davvero – casa, istruzione, servizio sanitario – quello sì diventa un lusso.

La locandina del documentario

Inutile dire quanto poco ‘The true cost’ abbia circuitato nelle sale, il 12 maggio arriva a Ferrara portato dalla cooperativa di commercio equo e solidale ferrarese AltraQualità nell’ambito della campagna ‘permanente’ Abiti Puliti: il film sarà proiettato alle 20.30 nello spazio teatrale di Ferrara Off, in via Alfonso I d’Este.
“Lo abbiamo visto per la prima volta nel 2015 alla Settimana mondiale del commercio equo e solidale di Milano: era la seconda volta che veniva proiettato i Europa, prima era stato solo al festival di Cannes, e la sua prima italiana”, mi spiega David Cambioli di AltraQualità. “Abbiamo voluto portarlo a Ferrara – continua David – perché ritrae in maniera precisa, persino cruda, come funziona il sistema della moda, su quali presupposti si basa oggigiorno: lo sfruttamento dell’ambiente e degli esseri umani. Come AltraQualità siamo soci della campagna Abiti Puliti, che possiede i diritti per alcune proiezioni italiane e ci ha concesso di farne una qui”. L’intento “non è colpevolizzare le persone, ma renderle consapevoli. Il film mostra come ambiente ed esseri umani in tutto il pianeta siano legati da un filo, in questo caso di cotone. È una questione di scelta: come consumatori non siamo colpevoli, ma responsabili”. “Sappiamo che in Italia è molto difficile comprare moda etica rispetto ad altri paesi europei, ma se chi acquista comincia a lanciare piccoli messaggi, a chiedere semplicemente dove e come sono fatti i vestiti, qualcosa pian piano si smuoverà: magari tanti piccoli produttori che hanno lanciato o vogliono lanciare linee di abiti ‘puliti’ diventeranno più forti. È una questione di mentalità: vogliamo far capire che le produzioni sostenibili non sono ‘sogni da anime belle’, sono un modo diverso di fare impresa e creare lavoro”. Quando gli faccio la classica obiezione sul costo a volte, anzi spesso, ‘di nicchia’ dei prodotti fair trade, intuisco subito che è un argomento al quale David è ormai abituato a rispondere. “Per certi aspetti è vero, ma la realtà è che manca un’economia di scala e soprattutto, il costo così basso, troppo basso, di quella maglietta qualcuno lo paga in ogni caso: la manodopera e i produttori sfruttati e avvelenati, l’ambiente inquinato dalle sostanze chimiche e dai rifiuti che aumentano, il consumatore stesso, che indossa cose prodotte con agenti chimici che spesso si dimostrano dannosi per la salute”.

Venerdì a presentare ‘The true cost’ a Ferrara, con David ci sarà Deborah Lucchetti, presidente di Fair, cooperativa sociale nata per promuovere economie solidali, attivista e coordinatrice della campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, coalizione internazionale che da trent’anni promuove i diritti del lavoro nell’industria tessile globale. “Clean Clothes è una rete che si snoda in 17 paesi europei e coinvolge più di 200 soggetti in tutto il mondo, una rete fatta di sindacati, ong, singoli attivisti, in molti casi donne”, mi dice Deborah, “l’obiettivo è la promozione e la tutela di tutti i lavoratori del settore dell’abbigliamento e delle calzature attraverso attività di advocacy e di lobby presso istituzioni nazionali e internazionali”.
Le chiedo quale sia la situazione nel nostro paese: esiste un made in Italy dall’approccio equo e sostenibile? “C’era un tempo nel quale molte delle fasi della produzione e del confezionamento venivano fatte in Italia, oggi la situazione è cambiata e molte produzioni sono state spostate all’estero a terzisti e a fornitori esteri, ma ci sono ancora tanti laboratori e terzisti che producono per grandi marchi. Produrre in Italia però non è sempre sinonimo di qualità sociale e rispetto delle regole, può accadere anche qui e non soltanto all’estero che ci sia convivenza fra sistemi di economia legale che rispettano regole e contratti e sistemi di economia illegale, con manodopera in nero e violazione di diritti dei lavoratori. Il problema è che il sistema comprime i costi al ribasso verso la parte bassa della filiera produttiva, verso terzisti e fornitori, quindi qui si creano situazioni di irregolarità che possono riguardare terzisti stranieri ma anche italiani, oppure ci sono casi di laboratori che chiudono perché i prezzi bassissimi imposti dalle griffes li costringono a violare le norme sul lavoro o a chiudere”.
Anche per lei c’è molto da fare dal punto di vista della crescita della consapevolezza: “l’attrazione che esercita la moda facile è molto forte e sicuramente la crisi che ha colpito il ceto medio in Italia, ma non solo, non favorisce questa crescita, anzi favorisce il consumo di merce a basso costo e qualitativamente scadente, e d’altra parte non siamo salvi nemmeno con il lusso: il lusso produce spesso esattamente negli stessi modi della fast-fashion”. Ma perché si sa ancora così poco di cosa c’è dietro lo sfavillante mondo della moda, o meglio perché se ne parla meno rispetto, per esempio, alla filiera produttiva che finisce sulle nostre tavole? “Nell’agro-alimentare si insiste da molto più tempo sui meccanismi distorti e non più sostenibili, dal punto di vista ambientale ed etico; mentre per quanto riguarda la moda, non la si considera ancora una vera e propria industria, potente, avida, con impatto pesante in termini umani e ambientali: si pensa ancora alle passerelle e alle modelle. È ancora poco visibile il suo impatto socio-economico, soprattutto perché si vende molto bene sul piano pubblicitario: la comunicazione è un fattore chiave. La moda lavora in maniera più silenziosa, ma più efficace sulle nostre identità. È come se ci fosse un cedimento emotivo perché siamo avvinti da questo bombardamento pubblicitario che va a toccare temi come l’affermazione di sé, a come ci si presenta e cosa dice di noi quello che indossiamo”.

Se ciò che indossiamo davvero comunica qualcosa di ciò che siamo o che vogliamo essere, se come si afferma nel film gli abiti sono la pelle che possiamo sceglierci, forse è ora di riflettere sull’immagine che vogliamo dare, è ora di rallentare e pensare a una slow-fashion accanto allo slow-food. Se come ‘consumatori’ siamo parte del problema, possiamo diventare parte della soluzione, scegliendo di non essere più solo consumatori, ma clienti consapevoli in grado di fare scelte responsabili.

Per maggiori info sulla serata del 12 maggio [clicca qui]
Per maggiori info sulla campagna Abiti Puliti [clicca qui]

Guarda il trailer ufficiale di ‘The true cost’

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Bocciare o non bocciare? Questo è il dilemma

Ernesto Galli della Loggia, con un editoriale apparso sul Corriere della Sera, accusa la scuola italiana di aver abbandonato il merito, di aver abdicato alla selezione e quindi alla pratica delle bocciature. Così non sono più solo “i capaci e meritevoli” a proseguire negli studi, ma tutti indistintamente in nome di una mal concepita inclusione.
Il fatto che il 15% degli studenti non termini le scuole superiori e che il tasso di drop out italiano sia tra i più alti in Europa, evidentemente per l’editorialista del Corriere della Sera non ha a che fare con le bocciature, come se l’abbandono scolastico fosse solo l’esito scontato di studenti disgraziati, privi di merito e di impegno.
Già questa percentuale dovrebbe essere sufficiente a far ragionare non tanto circa il merito o meno degli studenti, ma sulla natura delle nostre scuole. Un sistema scolastico che perde per strada il 15% dei suoi utenti dovrebbe essere immediatamente sottoposto alla lente di ingrandimento, interrogarsi sulla sua qualità e sulla sua produttività che qualunque esperto di economia assumerebbe come metro per misurarne efficienza e convenienza.
Ma se ci si preoccupa perché la scuola non boccia a sufficienza, il metro di valutazione della bontà della scuola non è più il numero dei promossi, bensì il numero dei respinti.
Nessuno potrà negare che la percentuale di quanti non giungono al compimento del corso di studi, se comunque nominalmente non può essere considerata alla voce bocciature, quantifica i tanti che la nostra scuola ancora respinge perché non in grado di trattenere.
Quindici ogni cento, tante classi ogni anno, a cui addizionare circa il 13% di studenti bocciati in prima nelle scuole superiori, spesso preludio di precoci abbandoni scolastici. È falso, dunque, che la scuola non boccia, è solo che seleziona in un modo diverso da quello che è capace di concepire l’intelligenza di Ernesto Galli della Loggia.
Cosa costa al paese perdere allo studio dal punto di vista delle risorse umane ed economiche così tante ragazze e tanti ragazzi, che andranno a ingrossare quel 27% di neet, giovani tra i 15 e i 29 anni, che non fanno nulla?
Perché dobbiamo continuare ad alimentare il pensiero negativo della scuola italiana che non serve perché non boccia?
Evidentemente il nostro teorico del pensiero ‘usa e getta’ deve appartenere a quella specie italiana a cui ancora viene l’orticaria alla sola espressione “Non uno di meno” o alla sola evocazione di don Milani e della sua “Lettera ad una professoressa”, considerati sciagure della scuola italiana.
Questi pensatori italici, però, potrebbero risparmiarci i luoghi comuni, i pensieri a scorciatoia, e considerare che quando si pretende di ragionare di scuola si entra in un campo complesso come tutti i sistemi. Non sorge il sospetto che dire che la scuola italiana non funziona perché non boccia sia una conclusione un po’ troppo affrettata? È davvero difficile pensare che nella scuola agiscono così tante variabili che prima di ogni altro discorso dovrebbero essere prese in attenta considerazione? Forse quando si parla di scuola non si vedono, ma basterebbe aprire un po’ di più gli occhi e allora apparirebbe una scuola fatta di studenti, famiglie, comunità, istituti, insegnanti e insegnamento; insomma il successo scolastico, la conquista dei saperi sono un itinerario molto più articolato e rischioso dei soli banchi, cattedre, voti e registri.
L’ha capito anche l’Ocse da tempo, basterebbe di tanto in tanto leggere qualche rapporto.
L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico sostiene che non è la sola preparazione e determinare l’insuccesso scolastico. E che sarebbe meglio, anziché bocciare, dedicare più attenzione agli studenti fragili. Gli esperti Ocse non hanno dubbi, la bocciatura, in pratica, non ha evidenti benefici per gli studenti e per i sistemi scolastici nel loro complesso. La bocciatura è solo un modo costoso di affrontare il problema degli insuccessi, perché fermando gli alunni la probabilità che abbandonino gli studi sale.
Un modo di gran lunga migliore per sostenere gli studenti con difficoltà di apprendimento o problemi comportamentali è offrire loro più qualità, più ore di insegnamento, più occasioni di apprendimento, una scuola aperta e più flessibile e, soprattutto, più amica.
Nell’epoca della società della conoscenza, dei saperi diffusi, dell’educazione permanente per tutti preoccupa il codinismo degli intellettuali italici alla Galli della Loggia che non riescono a comprendere come una scuola che boccia è una scuola che fallisce e con essa l’intera società, a meno che non si ritenga, con un ragionamento francamente angusto, che la colpa sia esclusivamente dei discenti, i quali, mandati a scuola per crescere e maturare, si pretenderebbe che fossero già pienamente responsabili dei loro insuccessi.
Con l’attitudine scolastica credo non sia mai nato nessuno, è qualcosa che si conquista, ma se la scuola annoia, non è connessa alla nostra vita, e, soprattutto, se gli adulti si chiamano fuori da ogni responsabilità, sarà difficile comprenderne l’utilità, e la conquista del sapere sarà opera di pochi, non per merito ma solo per vantaggio o indifferenza.

Fake news, verità e post verità: avvertenze per l’uso

Si parla molto di fake news e post verità, ma bisognerebbe forse ripartire proprio dal concetto stesso di verità e dalle ambiguità in esso contenute. Mettendosi in allerta laddove la verità sia intesa in senso dogmatico: è questo un abbaglio, perché la verità non è un monolite, ma un prisma dai mille riflessi; è un mosaico cui manca sempre un una tessera per essere completato; e quel tassello mancante ha la capacità di sovvertire la comprensione d’insieme della scena e dunque il suo reale significato.
Beati coloro che credono, perché si appagano e si nutrono delle loro certezze. La verità trascendente è un postulato che si accetta o si respinge. La verità di fede è rassicurante. Ma la verità dei fatti non è afferrabile e definibile una volta e per sempre: è un continuo percorso di ricerca con approdi incerti e potenzialmente sempre suscettibili di revisione. E’ la “verità sostanziale” a cui fanno riferimento i codici deontologici dell’informazione e alla quale dovrebbero attenersi non solo i giornalisti ma ciascuno di noi, con spirito libero da pregiudizi.

La verità è il frutto potenzialmente sempre mutevole di una indagine continua, inesausta. Alla verità ci si avvicina coltivando il dubbio e ponendo continuamente in discussione ciò che appare vero, per verificare se quella convinzione ha un senso oppure è infondata, fragile e cedevole. Vale in questo senso ciò che ha teorizzato Karl Popper: la ricerca della verità procede per congetture e confutazioni, si formulano ipotesi e le si pone in discussione continuamente, al vaglio della ragione e alla prova dei fatti: finché l’ipotesi regge la si può considerare atendibile, quando viene sconfessata diventa necessaria una revisione del modello o una rivoluzione integrale del paradigma.
In questo stesso senso, ha perfettamente ragione Gustavo Zagrebelsky quando afferma che si serve la verità coltivando il dubbio.
Questo non significa però accreditare qualsiasi fantasia come potenzialmente vera, perché ciò che si asserisce e che si definisce provvisoriamente vero deve aderire al reale, essere documentato, comprovato e verificabile. Le cosiddette post verità, laddove affermano il diritto di ciascuno di argomentare il proprio punto di vista sanciscono un sacrosanto principio, in ragione del fatto che dalla natura complessa e prismatica della verità si possono originare interpretazione difformi, ciascuna delle quali può essere specchio di un frammento di quella complessa realtà che non esaurisce il carattere di verità ma ne mostra una parte, secondo la logica del “d’altronde“… Ma ciò che si afferma deve essere comprovabile, viceversa è una pura fantasia senza fondamenta.

Se poi riferiamo il ragionamento alle fake news, oggi così di moda e al centro dei dibattiti, ritroviamo una vecchia conoscenza: un tempo le chiamavano più semplicemente “balle”! E sono sempre esistite, talvolta alimentate da ignoranza e superficialità, in altri – più gravi – frangenti, dalla volontà di strumentalizzare i fatti in funzione di precisi interessi precostituiti.
Ma il problema attuale è che ora, rispetto al passato, è molto più complesso il meccanismo della smentita. Il tradizionale sistema della rettifica, che sui giornali e nei sistemi tradizionali di informazione pur con qualche stortura almeno teoricamente poteva funzionava in maniera accettabile, nel mondo del web risulta del tutto inadeguato allo scopo, poiché non è in grado di ripercorrere a ritroso i nodi delle condivisioni che qualsiasi messaggio veicolato attraverso la rete è potenzialmente in grado di compiere in milioni di direzioni. E questo è un punto significativo che riguarda le fake news come pure le post verità e qualsiasi contenuto viaggi in rete.

E allora bisogna fare molta attenzione e maneggiare con cura l’informazione senza cadere in tranelli ed equivoci: il pluralismo delle opinioni è sacro e va tutelato da ogni tentativo di censura. Badando bene però al rischio che le post verità non si riducano banalmente e pericolosamente alle verità dei post, cioè di tutto ciò che – complice in primo luogo Facebook – circola sul web e che si considera vero per il sol fatto che qualcuno lo afferma.

VETRIOLO
Il rappezzo

​W il bitume, in città è di gran moda… Le nostre strade – fisiche e mentali – sono zeppe di buoni propositi e zuppe di rappezzi, come nel caso del crocicchio di via Putinati (come di molte altre vie cittadine): quando i sampietrini (posati in un raro dì di neuroni attivi per conferire un tocco di eleganza alla zona) si deteriorano, ecco in azione gli artisti del rappezzo e i loro mandanti: rattoppano badando al sodo. Altroché poesie…

 

I DIALOGHI DELLA VAGINA
La testa e il cuore

Tra scelte di testa e scelte di cuore, tra ragione e sentimento, come si sono comportati i nostri lettori? Lo hanno raccontato inviandoci le loro esperienze.

Thanatos vs Eros… chi vincerà?

Cara Riccarda,
anche stavolta ho letto con molto interesse il tuo racconto (fuggire da lei per paura dell’amore).
Nell’uomo che hai descritto, Thanatos prevale su Eros, la paura dell’amore e della conseguente sofferenza che ogni amore necessariamente genera (“…finisce sempre così, con la morte; prima però, c’è stata la vita…”) vince su ogni cosa.
Lui quindi rifiuta di amare, e di conseguenza di vivere…concordo con te quando, “uscendo” dal racconto, ti concedi un unico giudizio sul tuo personaggio “…un recinto, un luogo sicuro dove non aveva fatto più entrare l’amore e in cui, fondamentalmente, non aveva vissuto…”.
Devo e voglio vivere, ad ogni costo e cos’è vivere senza amare?
Alessandro

Caro Alessandro,
vivere senza amare è niente. Lo so che si possono amare il lavoro, le passioni e tante belle cose, ma senza l’amore per una persona in cui possiamo vedere anche il peggio di noi, non siamo niente. Persino l’amore narcisistico di cui parla Freud, tramite il quale amando l’altro, amiamo un ideale di noi stessi, contempla una persona oltre a noi. Qualcuno ci deve essere oltre il nostro piccolo o grande orizzonte, qualcuno che non siamo noi.
Riccarda

L’amica ritrovata e le ragioni del cuore

Cara Riccarda,
mi è successo con un’amica. Quella che in età adolescenziale è l’amica del cuore. Otto anni di vita comune, sempre insieme, mattino pomeriggio e a volte anche sera.
Poi per un motivo che non ricordo o che preferisco non ricordare, da un giorno all’altro basta, Sparita lei, sparisco anche io.
Ma la vita va avanti, deve essere riscostruita; tornare in luoghi dove eravamo state insieme, dai negozi preferiti, o nei locali frequentati in quel periodo, i ricordi facevano troppo male. Di conseguenza per vent’anni nella mia testa lei era il male, la persona cattiva che mi aveva fatto soffrire, non ammettendo naturalmente i miei errori. Se la nostra amicizia era finita la colpa era soltanto sua.
Poi arriviamo nell’epoca di facebook, dei gruppi di WhatsApp e mi vedo sullo schermo il suo nome e il suo numero di telefono, e allora il cuore manda a quel paese la ragione, e le mando un messaggio, ci vediamo e ci abbracciamo così forte da dimenticare i venti anni di silenzio. È stato talmente bello, che se mi dovesse capitare, che cuore e cervello prendano direzioni opposte, molto probabilmente seguirò il cuore, scelta sicuramente più pericolosa, ma preferisco il rischio, mi fa sentire molto più viva.
F.

Cara F.,
temo che cuore e cervello prendano da sempre direzioni opposte, se si trovassero a essere compagni concordi anche solo per un attimo, uno dei due non avrebbe motivo (o ragione) di esistere.
Quando siamo nella tempesta, per placarla, succede che tentiamo di conciliarli e di renderli anche solo lontanamente parenti, oppure decidiamo di prendere posizione, obbedire al cervello mettendo a riposo il cuore o, al contrario, abbandonarci al cuore facendo tacere il cervello.
Per esperienza, posso dirti che le cose così si ingarbugliano ancora di più, spunta qua e là un leggero rimpianto, la sicurezza vacilla e la parte che abbiamo scartato ci sembra non fosse del tutto da rifiutare. Che fare allora? Quando mi è capitato di trovarmi in situazioni simili, non ho fatto niente, ma ho lasciato che il cuore e il cervello se la sbrigassero tra di loro, mi sono messa a guardarli sorridendo un po’ delle loro schermaglie in bilico tra languore e rigidità, e alla fine la soluzione è emersa da sè, una germinazione nuova che mai avrei immaginato.
Riccarda

Potete mandare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

L’OPINIONE
Legittima difesa: una legge confusa

La Camera approva la legge sulla ‘Legittima difesa‘. Come giudicarla positivamente se per difendersi, in casa propria, bisognerà guardare attentamente l’orologio per non finire in galera? Si, perchè sarà consentito sparare solo di notte. A questo punto i giudici dovranno stabilire a che ora inizia e finisce la notte.

Con l’ora legale, si potrà sparare prima o dopo? Se si spara a un delinquente, che entra in casa di giorno, si va in galera, se gli si spara di notte è legittima difesa. Se non ci fossero tragedie di mezzo, ci sarebbe da sbellicarsi dalle risate.
Dalle cronache risulta che aggrediscono anche di giorno, e anche violentemente nella maggioranza dei casi; anzi, con questa legge, i delinquenti, si concentreranno molto di più nelle ore diurne, protetti da una legge che li tutela: dalle 8 alle 20 perchè dopo rischierebbero la pelle.

Una legge confusa che crea inevitabilmente massima confusione.
Attenzione: il noto proverbio “è preferibile un brutto processo che un bel funerale” potrebbe essere adottato da molti italiani.

LA SEGNALAZIONE
I due volti del citizen journalism. A Unife seminario con Jacopo Tondelli

da: Ufficio stampa Unife

E’ stato il fondatore di Linkiesta.it uno fra i prodotti giornalistici più interessanti e innovativi della rete per il tipo di approccio all’informazione proposto, ed ora si sta dedicando al suo nuovo quotidiano online, “Gli stati generali”, di cui è direttore responsabile. Jacopo Tondelli parlerà domani (venerdì 5 maggio) alle 10,15 a Unife di etica e comunicazione nel web affrontando il tema “Il ‘citizen journalism’: conquista o rischio” nell’ambito del ciclo di seminari “Etica in pratica” organizzati a integrazione didattica del corso di Etica della comunicazione e dell’informazione di cui è docente Sergio Gessi. L’incontro si svolge nell’aula magna Drigo del dipartimento studi umanistici, via Paradiso 12. La partecipazione è aperta a tutti, l’appuntamento è inserito anche nel programma di iniziative di aggiornamento e formazione permanente dell’Ordine dei giornalisti.

Caso migranti, il nuovo vescovo Perego: “Fuoco politico ipocrita e vergognoso contro le Ong”

“Sempre e in ogni occasione è giusto che la procura e la magistratura siano vigili e assumano conoscenze sulla situazione attuale nel Mediterraneo perché i migranti non siano doppiamente vittime. Però il fuoco politico indistinto sulle nove Ong (dieci in realtà, ndr) che operano nel Mediterraneo per salvare vite umane, con risorse di fondazioni bancarie, di privati e della società civile – di fronte alle morti che sono passate a oltre cinquemila nel 2016 rispetto alle tremila del 2015 – è stato un atto ipocrita e vergognoso“. Ad affermarlo – intervenendo in mattinata su La 7 al programma “CoffeeBreak – è monsignor Giancarlo Perego, direttore di Migrantes (fondazione Cei) e vescovo eletto di Ferrara, che sabato si insedierà nella sua nuova Diocesi. Che anche in questo frangente marca una distanza siderale dal suo predecessore (che sabato in Consiglio comunale durante la consegna del premio stampa se la rideva allegramente alle battutacce di Vittorio Sgarbi sui bunga bunga di Berlusconi e sugli omosessuali).

Il direttore di Migrantes non considera gli immigrati un pericolo ma un’opportunità: “Sono troppi coloro che stiamo accogliendo? – si chiede Perego – 175.000 persone se accolte in maniera diffusa negli ottomila comuni italiani, valorizzando percorsi personali di accompagnamento e di integrazione, utilizzando le risorse disponibili per un servizio nuovo e per figure – educatori, mediatori etc. – che possono essere utili per creare e favorire dialogo e inserimento sociale sul territorio credo sia un atto intelligente e di responsabilità. Tanto più in un Paese che sta morendo – nel 2016, 150.000 morti in più rispetto alle nascite – e che può trovare un suo futuro in percorsi di ‘meticciato’ – come più volte ha detto il cardinale Angelo Scola – come è sempre avvenuto nella storia italiana, questa volta in maniera pacifica. E’ chiaro – conclude – che anche nell’accoglienza diffusa dei migranti l’Europa deve finalmente svegliarsi dal sonno e promuoverla in tutti i e 27 paesi europei”.

I dati ufficiali del rapporto della Guardia Costiera evidenziano come nel 2016 ci siano state 1.424 operazioni di soccorso, il 52% in più rispetto all’anno precedente. I migranti salvati sono stati 178.415, dei quali quasi un quarto (46.796) dalle dieci Ong che operano in questo ambito (Moas, Seawatch, Sos Mediterranee, Sea Eye, Msf, Proactiva Open Arms, Life Boat, Jugend Retted, Boat Refugee, Save The Children), più del doppio dei 20.063 soccorsi l’anno precedente. “Nel 2016 – si legge nel rapporto – si è assistito, nel Mediterraneo centrale, a un consistente aumento della presenza di unità Ong, con l’obiettivo di concorrere alle operazioni Sar (soccorso in mare, ndr)”.

Fra le cause che negli ultimi tempi hanno portato a un “netto peggioramento delle condizioni di sicurezza” per i migranti che partono dalla Libia, secondo il documento della Guardia Costiera, vanno considerate la drastica riduzione della presenza a bordo di telefoni satellitari, che comporta una maggiore difficoltà per rintracciare i migranti e maggiori rischi per chi è a bordo degli scafi. Inoltre concorrono l’aumento delle partenze notturne o in condizioni di mare molto mosso, il maggior numero di migranti sui gommoni nonché l’aumento del numero dei gommoni utilizzati rispetto ai barconi (da 674 a 1.094).

E proprio a proposito della Libia, “questa drammatica situazione l’ha creata l’Europa e le incaute scelte europee non possono essere pagate solo da coloro che oggi sono costretti a mettersi in mare e arrivano da noi, cioè i migranti” ha affermato il vescovo in pectore di Ferrara”.

Negli ultimi giorni Giancarlo Perego è stato spesso presente sui media. “La politica tutta dovrebbe dare una risposta secondo coscienza. Enrico Letta lo aveva fatto con l’operazione Mare Nostrum. Dopo di questo purtroppo c’è stato solo l’impegno delle Ong accanto a Frontex”. Così monsignor Giancarlo Perego, direttore della fondazione Migrantes, si era espresso già in precedenza, in una recente intervista rilasciata al quotidiano ‘L’Unità, sollecitando un maggiore impegno da parte delle istituzioni: “Bisogna affiancare all’operazione Frontex i cosiddetti corridoi umanitari. Per far viaggiare in primis le persone più deboli. La Comunità di Sant’Egidio, la Chiesa Valdese, la Caritas Migrantes ed altri lo stanno già facendo. Ma non basta. Persino in Belgio stanno ragionando su questo percorso. Ma serve anche un impegno serio sull’accoglienza. Quella diffusa è la più intelligente”.

E a proposito delle polemiche politica ha affermato: “La Chiesa e il mondo cattolico puntano sulla salvaguardia del diritto di migrare. Liberi di partire e liberi di restare, guidando il tutto con percorsi di integrazione. La volontà della Chiesa è quella di confrontarsi con le diverse realtà politiche. La Chiesa non è un partito e non ha un partito”.

Infine, nel numero di Famiglia Cristiana del 28 aprile, monsignor Perego è stato interpellato in merito ai dubbi relativi ai finanziamenti dello Stato alla Chiesa: «Avremmo ricevuto un miliardo di euro? Mi sembra un po’ tanto. Non mi risulta affatto – ha commentato – Posso dire che la Chiesa italiana sta dando, per l’accoglienza, 50 milioni di euro l’anno cui si aggiungono circa 150 milioni di risorse diocesane, che vanno anche agli operatori delle strutture». Poi precisa: “Delle 23 mila persone accolte, 18 mila, secondo i dati Caritas, sono in Centri di accoglienza straordinaria in convenzione con le prefetture, tremila in collaborazione con il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. In entrambi i casi le strutture partecipano ai regoli bandi di appalto. Per le altre duemila persone l’accoglienza è in famiglie, istituti religiosi, parrocchie. «Stiamo lavorando in sussidiarietà avendo indicato anche ai Comuni una via nuova da seguire sulla logica dei servizi alla persona. Al momento stiamo dando noi risorse alle comunità occupandoci di quelle persone che sono in difficoltà ivi compresi i migranti. Aspettando però che lo Stato faccia nascere i servizi all’interno di ogni Comune attraverso una accoglienza diffusa, di piccoli numeri, che facilita l’integrazione e non crea allarmi nella popolazione. Servizi sul modello di quelli per gli anziani, per i portatori di handicap, per i senza dimora. Non capiamo questa polemica contro i migranti. Non siamo certo noi a speculare su questo fronte».

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
“Apprendere per essere”, un percorso virtuoso e trascurato

Con il Memorandum del 2000 l’Europa si proclama Società della Conoscenza e assume l’apprendimento permanente, vale a dire per l’intero arco della vita, come chiave di volta del suo futuro sviluppo centrato sul capitale umano come risorsa di saperi e di competenze.
Da allora l’Europa ha sdoganato gli apprendimenti informali e non formali, attribuendo ad essi la stessa dignità degli apprendimenti formali, ovvero di quelli acquisiti all’interno dei percorsi di istruzione tradizionali. Anzi, l’Europa ha fatto di più, ha chiesto ai paesi membri di istituire entro il 2018 modalità per la certificazione dell’apprendimento non formale e informale che consentano a tutte le persone di ottenere una convalida delle conoscenze, abilità e competenze acquisite in questi contesti.
Nel 2012 la legge Fornero, in materia di riforma del lavoro, con i commi dal 51 al 61 dell’articolo 4 ha recepito le indicazioni europee in merito al riconoscimento ed alla certificazione degli apprendimenti informali e non formali. Ma la strada da percorrere per giungere “alla individuazione ed al riconoscimento del patrimonio culturale e professionale comunque accumulato dai cittadini e dai lavoratori nella loro storia personale e professionale” è ancora molto lunga. Da un lato per l’insieme dei soggetti coinvolti che dovrebbero sedere intorno allo stesso tavolo, dal Ministro dell’istruzione, università e ricerca, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dello sviluppo economico, alle parti sociali interessate, dall’altro per via del taglio prevalentemente mercatistico che si è dato alla questione, dovuto essenzialmente alla miopia con cui si è convogliata l’istruzione permanente verso il mercato del lavoro, con le Regioni in prima linea a validare competenze e qualifiche rilasciate dagli operatori della formazione professionale.
Non si sa se per ignoranza o insipienza, ma le nostre classi politiche paiono immemori del rapporto dell’Unesco, noto come rapporto Faure dal titolo significativo “Learning to be”, “Apprendere per essere”, che già nel lontano 1972 assumeva l’istruzione nelle varie fasi della vita come strategica per lo sviluppo sociale e delle persone, come condizione per migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze di ciascuno, uscendo da una visione preminentemente scolastico-accademica dell’apprendimento.
Da allora si è dilatato lo spazio dei saperi, ma non si è dilatata la mente dei nostri governanti né a livello nazionale né ai livelli locali, nessuno riesce a rendersi realmente conto di come il quadro dell’istruzione e degli apprendimenti sia radicalmente mutato, di come sempre più sia cresciuto generosamente il numero delle molte cose che si imparano senza insegnamento piuttosto di quelle che si insegnano senza apprendimento. Forse è il caso davvero di occuparsene e di fare i conti con tutto ciò.
Il nostro paese sconta gravi carenze in materia di istruzione, di competenze e capacità di riflessione che consentano di coltivare idee e progetti e non solo riforme spesso estemporanee.
Conoscenza e formazione hanno bisogno di più spazio e non di essere indirizzate per binari diversi: da un lato l’istruzione formale, dall’altro quella non formale e informale, senza mai che si incontrino e si possano contaminare.
È in questo quadro che i discorsi sui voti, le bocciature, i compiti a scuola e comunque sull’istruzione in generale perdono di ogni significato, si scolorano, finiscono per odorare di stantio e di pigrizia mentale, di ritardo sul nuovo che avanza, che richiederebbe di riconsiderare istruzione e apprendimento come dati costanti della nostra esistenza umana e non più come riti di passaggio o segmenti a sé stanti nella vita delle persone.
Tutta la varietà, diversità e complessità degli apprendimenti oggi dovrebbe condurre a un radicale ripensamento dei tradizionali sistemi formativi, per come li abbiamo concepiti finora, per iniziare a costruire spazi nuovi, più ampi e flessibili per tutti: studenti e adulti. Iniziare a costruire “città che apprendono” è l’idea forte per dare vita a questi spazi, per assumere l’iniziativa verso un impegno continuo per l’apprendimento permanente e per una visione nuova dell’istruzione. Non si tratta di voler descolarizzare la scuola, ma di descolarizzare l’apprendimento e l’idea di apprendimento come continuiamo a pensarlo, liberarlo dalle gabbie tradizionali, da cui del resto è già fuggito per via di internet.
Aprire le mura delle scuole, delle università e dei luoghi di lavoro all’idea che sono le città e le comunità sociali che apprendono. Può sembrare strano detta così, perché solitamente siamo portati a ritenere che solo gli individui apprendono e che questo è generalmente un fatto loro. Tuttavia non possiamo non tenere conto di come i cambiamenti sociali su larga scala sono prodotti dalle persone, in quanto cittadini che insieme possono agire.
L’idea, fatta propria dall’Europa, della società della conoscenza, con l’apprendimento come promozione del cambiamento sociale al suo interno, è il punto di riferimento, la guida per aiutare le persone e le comunità ad orientarsi nella società globale.
Un’idea che non si può esaurire nell’individuazione, validazione e certificazione delle competenze, è invece un’idea che richiede di ripensare come studiamo e come apprendiamo in una società dai saperi diffusi, in una società dove le nuove tecnologie hanno rivoluzionato sia la formazione che l’informazione.
Quello che si sta facendo per dare attuazione ai commi della citata legge Fornero, a proposito del riconoscimento degli apprendimenti informali e non formali delle persone, non solo procede a rilento, ma è estremamente parziale e riduttivo. Così come del resto è inadeguata la riforma intitolata alla “Buona scuola”, non già per le critiche che le vengono rivolte, da questo o quel settore del mondo della scuola, ma perché ad essere vecchia è la cultura della formazione e dell’apprendimento che la sottende. Sostanzialmente, sia la riforma degli apprendimenti della Fornero sia la riforma della scuola, sono il prodotto di legislatori impreparati rispetto ai temi e alle sfide della società della conoscenza, delle città che apprendono, sull’importanza della gestione della conoscenza e su come oggi si coniugano diritto all’istruzione e diritto alla formazione.
Temi che altrove in Europa, come in altri paesi del mondo sviluppato, costituiscono invece il cuore di ogni riflessione sulla necessità di riformare gli attuali sistemi di formazione e di istruzione, assumendo come stella polare l’istruzione permanente, l’apprendimento per l’intero arco della vita di ciascuno, senza i quali non è possibile disegnare alcun sistema formativo né per il tempo in cui viviamo né tanto meno per il tempo in cui vivranno le nuove generazioni.

Premio stampa a Gian Pietro Testa, una carriera in direzione ostinata e contraria

«Il Premio Stampa a me? Quando hanno detto che me lo volevano dare, sono rimasto, come dire… stupefatto». Ha esordito così il giornalista ferrarese Gian Pietro Testa nella sala del Consiglio comunale di Ferrara, invitato ieri dall’Associazione stampa cittadina per ricevere il premio alla carriera. Gian Pietro Testa è stato giornalista de “Il Giorno” insieme con Giorgio Bocca, inviato speciale de “l’Unità” e di “Paese sera”, chiamato a dirigere l’Ufficio Stampa del Comune di Ferrara a cui ha dato un’impronta organizzativa professionale in tempi pioneristici (anni ’80), fondatore della scuola di giornalismo di Bologna (anni ’90) e anche tra i primi sostenitori di questa testata Ferraraitalia (2013) nonché maestro di un’intera generazione (o più) di giornalisti che si sono trovati al suo fianco tra Bologna, Ferrara, Milano, Roma, Napoli.

Premio Stampa 2017: Elisabetta Sgarbi, Alberto Lazzarini, Serena Bersani, Vittorio Sgarbi, Giancarlo Mazzuca, Gian Pietro Testa e l’assessore Simone Merli

Come ha detto Riccardo Forni, presidente dell’Associazione stampa di Ferrara, «Gian Pietro Testa è stato un maestro per tanti di noi. Mi ricordo le collaborazioni con la rivista “Ferrara”, da lui fortemente voluta. Ha sempre avuto questa capacità di scegliere e di trasmettere educazione e formazione».

Eppure Gian Pietro Testa ha ribadito senza falsi pudori: «Lo stupore di essere stato scelto per il premio non è perché avessi paura di non aver fatto il mio mestiere, quanto per la consapevolezza di essere sempre stato un giornalista contro, ma contro veramente. E lo sono ancora adesso. Uno dice “è andato in pensione”. No, io continuo ogni tanto a scrivere un pezzetto. E sempre più antipatico [risate in sala]. Perché poi vengo spinto dai colleghi che mi spronano: “no, le devi dire delle cose”. Per cui quando mi ha telefonato Riccardo Forni “ti diamo il premio”, io non lo avrei mai creduto che dei colleghi scegliessero me, soprattutto in una città come Ferrara, che appena uno salta fuori con la testa, gliela tagliano. È l’Isis. L’Isis…? Sono nati a Ferrara, secondo me [risate in sala]. Appena uno salta fuori dal gregge… zacchete. Io sono d’accordo con Charles Bukowski, che ha scritto una cosa geniale: “A forza di stare dentro il branco, prima o poi si pesta una merda”. Che è vero! Allora, penso: “Come è successa questa cosa qui, che mi danno il Premio stampa?”. È successo perché sono degli amici, questo è il fatto, sono molto contento di averli, questi amici, con i quali ho potuto tra l’altro giocare a pallone. Che è la cosa più importante della mia vita. Altro che giornalismo. Io, quando riuscivo a fare un dribbling e a prendere in giro l’avversario, era la cosa più bella. Ricordo che ho iniziato a giocare a pallone che ero bambino. E quando ero già al liceo, a Bologna, ho preso con me a giocare Bulgarelli. Giacomino era un grande giocatore, quando aveva 13-14 anni. Era in banco con mio cugino, al San Luigi, e abbiamo giocato come dei matti, ci siamo divertiti moltissimo. Io ho continuato a divertirmi tutta la vita. Finché, disgraziatamente, un politico mi ha fregato. Un politico della mia parte, tra l’altro. Chi era? Renzo Imbeni. Una partita tra giornalisti e politici, giocata a Reggio Emilia. Io giocavo centravanti e lui giocava invece in difesa, allora si diceva ancora centro-mediano, adesso non si sa, perché tanto giocano lì in mezzo. Successe che mi è venuto addosso con una ginocchiata, che mi ha distrutto il ginocchio destro. Il giorno dopo partivo per l’Eritrea, perché sono stato in guerra. Là non è stato molto piacevole, mi chiamavano “lo zoppo”. Sono rimasto zoppo, anche se ho fatto la protesi».

Gian Pietro Testa con la moglie Elettra Testi al Premio Stampa 2017 (foto Giorgia Mazzotti)

A questo punto è entrata in sala Elettra Testi, che ha preso posto nella prima fila della platea. E Gian Pietro, tra le risate generali, ha commentato: «Scusate, adesso bisogna che ricominci, perché è arrivata mia moglie. Sto andando un po’ disordinatamente. Quindi Forni mi ha detto: “sappiamo che tu non sei proprio d’accordo con i premi”. Ed è vero. Siccome il Pulitzer non me lo danno, posso benissimo parlarne contro. “Però – mi ha detto Forni – se vieni, devi dire senza paura quello che pensi”. Io sto cercando di dire quello che penso, ma faccio fatica a trattenermi. Il giornalismo, ad esempio. Io amo questo mestiere. Mi viene in mente quando Mazzuca è arrivato al “Giorno”. Il giornale era ancora il più bello d’Italia, con i suoi difetti, per carità, un po’ supponente. Ma la supponenza l’abbiamo lasciata tutta alla “Repubblica”. C’ha fregato tutto, dal “Giorno”. Ma soprattutto, il fatto di sapere tutto. Noi eravamo dei geni? Non è vero, eravamo dei poveri cretini. Come sono molti giornalisti. E il giornalismo, oggi purtroppo, è troppo in mano ai cretini. Almeno una volta c’erano i Montanelli, c’erano dei personaggi che rimettevano tutto insieme. È come quando fai la pasta. A me piace fare le tagliatelle. Lì raccogli tutto. E così c’erano questi personaggi, che mettevano tutto insieme e rifacevano la pasta, raffazzonavano. Adesso non c’è più nessuno, o pochi, perché sono in minoranza. Perché? Perché il giornalismo è caduto così in basso? Ci sono i titoli con degli errori spaventosi. Nessuno conosce più l’italiano. Ma dico: avete fatto le elementari? Non dico l’università, le elementari! Ci sono errori di ortografia e di composizione della frase che non sono accettabili. Ma perché è così importante? Perché saper scrivere vuol dire saper pensare. L’organizzazione della scrittura è l’organizzazione della propria mente. Ecco perché ho pensato che fosse il caso di creare la Scuola di giornalismo. In quel momento ero segretario dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna. C’era un amico, figlio di un amico carissimo, Agostini (morto il padre, morto il figlio), che lavorava per la Regione. E gli proposi di lavorarci sopra insieme. Trovammo i soldi e riuscimmo a fare questa benedetta scuola. Io uscirò presto da questa vita, sempre sconfitto. Ma ne sono contento. Questa fu una delle poche vittorie».

Gian Pietro Testa premiato da Serena Bersani e Alessandro Zangara al Premio Stampa 2017 (foto Giorgia Mazzotti)

A Gian Pietro Testa è stato consegnato il Premio Stampa 2017 alla carriera dal capo Ufficio Stampa del Comune di Ferrara Alessandro Zangara e dalla collega Lucia Mattioli insieme con la presidente dell’Associazione stampa dell’Emilia-Romagna Serena Bersani.

Il Premio Stampa 2017 è stato attribuito alla famiglia Sgarbi – con Giuseppe, padre, i figli Elisabetta, scrittrice e regista, e Vittorio, critico d’arte, nella memoria di mamma Rina Cavallini. L’assemblea dell’Associazione stampa di Ferrara ha poi ritenuto di manifestare un segno d’attenzione ad Antonio Pastore, professore emerito di otorinolaringoiatria dell’Università di Ferrara e a Romano Perdonati, maestro panificatore ferrarese, con due Menzioni speciali per il loro continuo impegno nell’università e nelle attività della società civile.

Ulteriori informazioni e la registrazione integrale con video e audio della cerimonia di sabato 29 aprile 2017 sono consultabili su CronacaComune, quotidiano online del Comune di Ferrara.

TECNOLOGIA
L’abito digitale del neocapitalismo

Oggi meno sai di informatica, più sei ai margini non solo dell’informazione, ma anche della società. Basti pensare ai tanti anziani che non capiscono un’acca di computer. Dobbiamo renderci conto che il cosiddetto ‘digital divide’ (divario digitale) è un problema sociale e politico e come tale va affrontato. Insomma: la nuova piramide sociale si costruisce sull’istruzione informatica, sull’accesso alla Rete, sull’utilizzo degli strumenti.

Attenzione, però. Da alcuni anni le aziende della Silicon Valley promettono abbondanza, prosperità, riduzione delle disparità e una nuova società in cui tutto sarà condivisibile e accessibile. Ma siamo sicuri che Google, Amazon, Facebook, Twitter e compagnia non siano invece l’ultima incarnazione del capitalismo – ancora più subdolo, perché mascherato dietro le suadenti parole della rivoluzione digitale – e l’ennesima versione dell’accentramento di potere economico e politico nelle mani di pochi? Evgeny Morozov, autore dei “Signori del silicio”, sostiene che di democratico, rivoluzionario e “smart” in tutto questo c’è ben poco. C’è invece la svendita sull’altare del profitto dei nostri dati personali, della nostra privacy e soprattutto della nostra libertà. Ormai siamo registrati in ogni nostra mossa; non fai in tempo a compiere una ricerca sul web che subito sei tempestato di sollecitazioni commerciali nel settore che hai esplorato: abiti, orologi, libri o prosciutti, poco importa.

L’unica forma di difesa è un uso critico e consapevole della Rete. Ma un uso critico presuppone a monte un plafond culturale che non tutti hanno. I giovani poi, “bevono” più o meno tutto ciò che viene loro propinato e sono in questo senso più facilmente condizionabili. E allora non è questo un’altro episodio, un altro aspetto di quella offensiva che anni fa fu scatenata, per esempio, dalle televisioni di Berlusconi? Il capitale – un capitale sempre più irraggiungibile e misterioso – non ha mai avuto interesse a che i sudditi siano istruiti, perciò autonomi.

Non è il caso, per questo, di mettersi a fare i luddisti, ma sicuramente la rivoluzione informatica nasconde molti, troppi trabocchetti. E anche la cosiddetta “democrazia di rete” è da maneggiare e da interpretare con molta, molta cura.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Fuggire da lei per paura dell’amore

L’aveva talmente tanto amata da renderla peggiore di quanto in realtà lei fosse. Per dimenticarla, sputarla fuori e lasciarla in una parte di vita da non ripetere, l’aveva ricostruita nella sua memoria piena di difetti, moltiplicando quelli che lei aveva e aggiungendone altri, tutti quelli che lui negli altri detestava. Solo così non l’avrebbe mai più scelta.
Non la perse mai di vista, ma di lei sapeva poco, non aveva più voluto informarsi per non soffrire e continuare a reggersi su quella costruzione fittizia che ne aveva fatto. Lei era stata il solco profondo tra un prima pieno di futuro e un dopo bloccato sul niente.
Ma un giorno si imbattè ancora in lei, nei suoi occhi in cui non riusciva a trovare tutto quel male che ricordava. Erano occhi sofferenti, ma limpidi, per nulla sfuggenti e sinceri.
Iniziarono a vedersi, si presero del tempo lontano da tutto, scoprirono di essere adulti, si cercarono. Passarono quattro mesi in cui avevano dato un ritmo lieve ai loro incontri, senza gli eccessi dell’innamoramento né la freddezza di una notte sbagliata.
All’improvviso lui le disse che era meglio sospendere, fermarsi un po’.
Perchè? Chiese lei. Ci mise dieci giorni a rispondere, ma lei aveva capito: non voleva rischiare di innamorarsi ancora, non poteva andare avanti, l’aveva odiata per troppo tempo.
E in tutti quegli anni, la distanza alimentata dalla paura era diventata per lui una certezza, l’unica. Un recinto, un luogo sicuro dove non aveva fatto più entrare l’amore e in cui, fondamentalmente, non aveva vissuto. Fuori da quel perimetro che, lui diceva, gli era servito per non perdersi, c’era di nuovo lei. La ragione continuava a presentargli il conto del passato, della sofferenza che portava un solo nome. La paura della paura respingeva quella tentazione che stava sgretolando le barriere. Lei era diventata pericolosissima, da allontanare prima che fosse troppo tardi e che si mettesse di mezzo ancora l’amore.
Eppure l’aveva riscoperta migliore di come se la ricordava, era bello parlare, le ore passavano senza noia, l’istinto era rimasto lo stesso, baciarle la schiena, tenerle una mano sulla pancia, prenderla da dietro.
“Credimi, è meglio se non ci vediamo più”, le aveva detto.
“Credimi, è meglio se lasci fare alla vita che ti anticipa anche se non vuoi”, gli aveva risposto.

Vi è mai successo di sentire che la vita sta togliendo quel freno a mano che la ragione aveva imposto? Come vi siete comportati?

Potete mandare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

VIDEOINTERVISTA
L’allarme di Fiengo, storica firma del Corriere: “Ci sono i giornalisti ma manca il giornalismo”

Raffaele Fiengo, storica firma del Corriere della Sera, denuncia i rischi di un sistema dell’informazione che non sa più essere interprete della realtà: “Ci sono i giornalisti, ma manca il giornalismo”, afferma l’autore del recente volume “Il cuore del potere”, in cui racconta quarant’anni di storia italiana visti dall’interno del quotidiano di via Solferino, cruciale punto di snodo del rapporto fra potere e informazione.

Guarda la videointervista

L’INTERVISTA
A tu per tu con Marco Paolini: “La tecnologia è la magia del nostro tempo”

“È un racconto di formazione per un’altra generazione. Gli Album ammiccavano a una complicità di memoria con gli spettatori, quasi coetanei, o comunque c’era un coinvolgimento anche per chi non aveva la mia età. Quel gioco adesso non lo posso e non lo voglio più fare: è passato troppo tempo, non mi piace una memoria che taglia fuori le nuove generazioni. Quindi ho rinunciato a quella complicità e mi sono rimesso in gioco con l’immaginazione, insieme a chi ci vuole stare. Non c’è più un messaggio autobiografico, ma autobiografia e immaginazione insieme”.
Mentre parla, nel camerino del Teatro Comunale di Copparo giovedì sera a fine spettacolo, Marco Paolini prepara la sua pipa: dopo due ore di spettacolo è stanco, lui è uno che sul palco non si risparmia mai, ma ci concede ugualmente un po’ del suo tempo.
Forse sta proprio lì la ragione del suo successo: tanto mestiere, tanta esperienza, tanta intelligenza e la dose giusta di curiosità e coraggio per rimettersi sempre in gioco, portando in scena ogni volta qualcosa che il pubblico non si aspetta.

Marco Paolini

Al De Micheli di Copparo non erano rimasti neppure posti in piedi per ‘Numero primo. Studio per un nuovo Album’, il suo nuovo monologo, o meglio il suo nuovo esperimento, sì perché a Paolini piace immaginare lo spazio teatrale “come molto più simile a un laboratorio che non a un luogo di celebrazione di riti: come officiante non mi ci vedo”, scherza. Ecco allora che gli spettatori diventano ‘cavie’ di un tentativo di prefigurare una realtà futuribile, un futuro abbastanza distante da poter fare delle ipotesi, ma così vicino da poter diventare un orizzonte sul quale interrogarsi.
In questo nuovo lavoro ci sono “due livelli di lettura: il rapporto padre-figlio e il rapporto con le tecnologie di cui noi in fondo siamo padri. Inconsapevolmente o no, nel momento in cui usiamo tecnologie ce ne assumiamo una paternità perché stiamo contribuendo a definire una direzione. Questa direzione qualcuno la chiama ‘destino’, a me piace immaginare che non sia così, ma che possa essere ancora modificabile da degli attori: se non ragioniamo con consapevolezza sulle possibilità della tecnologia finiamo con l’essere semplici fruitori di qualcosa che è scelto da altri, simili a quelli del Paese dei balocchi di Collodi, solo che invece di due orecchie abbiamo due antenne”. Ecco perché “ci sono tanti riferimenti alla letteratura scientifica, molti di più rispetto a quelli fantascientifici: quella è la mia fonte primaria. Oggi ciò che mi sorprende di più è la pubblicistica di divulgazione, ma anche il fiorire di informazioni che, sfrondate dalle fake news, definiscono questo tempo come un ‘tempo crisalide’, come l’ho chiamato nello spettacolo, nel quale alcune cose stanno maturando e permettono di cambiare la nostra conoscenza e la nostra percezione del corpo e della mente. C’è chi è apocalittico a questo proposito, io sono curioso”.
Ma c’è anche la natura: topi, gabbiani, capre di 22 kg – anche se ordinate su Amazon e stampate in 3d – vespe e formiche. “In fondo quello che mi piace raccontare sono infiniti punti di vista sul legame strettissimo tra bio e tecno, che non trovo siano contrapposti, come secondo me non lo sono virtuale e reale, analogico e digitale. Le dicotomie non mi interessano, non ha senso fermarsi ai rapporti dialettici a due quando le cose sono più complesse. È una lezione che ho imparato quando studiavo Galileo (per il suo spettacolo ‘Itis Galileo’, ndr): mi sono reso conto che il dialogo era a tre, non dottrina e scienza, religione e scienza, c’era anche la magia. E in questo nostro tempo tra la scienza e la natura c’è in mezzo la tecnologia, che rischia di essere un po’ la magia del nostro tempo, perché è semplice nelle sue soluzioni e oscura nella sua articolazione: nessuno di noi si chiede quali sono i meccanismi che regolano gli apparecchi che usiamo ogni giorno, quindi c’è qualcosa di magico e di occultato, come il sapere era occultato al tempo di Galileo.
E poi ci sono riferimenti al suo Veneto – come la “via Piave” che “mormorava”, ma in tutte le lingue del mondo, e Marghera diventata fabbrica di neve artificiale – e a Pinocchio – Numero Primo va incontro al suo nuovo padre per mano a “una fata turchina velata” sotto “una pioggia da Blade Runner”.

Sì perché ‘Numero primo’ è anche il racconto di una paternità sui generis: Ettore diventa papà di un bimbo di sei anni che non ha mai visto, a cui piace farsi chiamare Numero Primo, per scelta di una madre che rimane sempre solo una voce. Solo un atto notarile, “nessun atto sessuale: se non altro sono il secondo nella storia dell’umanità a diventare papà così”.
Chi è veramente Numero Primo: è un bimbo? È un genio della matematica e della fisica? È un cyborg-bambino? In fondo a Ettore non sembra importare molto, la loro convivenza va avanti fra, pidocchi e amici giostrai, “bimbi dal viso di adulti”. Numero Primo potrebbe essere un nostro nipote, siamo pronti ad accoglierlo come fa Ettore? Siamo davvero così preparati per vivere nel futuro? Qualcosa è iniziato in questo nostro presente, sappiamo dove stiamo andando?
Marco Paolini questa volta non dà risposte, sollevare il problema, invitarci a riflettere stuzzicati da domande, da risate e da suggestioni generate da un racconto, a volte surreale, a volte ironico, è il compito che si assume con questo spettacolo. E questa volta a supportare la sua grande abilità di narratore, oltre all’attento e preciso studio di preparazione che ogni volta conduce, non ci sono i fidati Mercanti di Liquore, ma le poetiche e suggestive immagini di Roberto Abbiati, unico complemento scenico alla presenza dell’attore e attore e indubbio valore aggiunto dello spettacolo.
‘Numero primo’ dello studio, del work in progress, possiede la caratteristica fondamentale: l’essere ancora una matassa aggrovigliata di temi, storie, personaggi, suggestioni, tensioni irrisolte. Questo è il suo fascino, meno immediato e più discreto, probabilmente, rispetto ad altri lavori dell’artista di Mira, ma non meno potente.

Non può mancare la domanda sul ruolo del teatro in questo tempo dominato dai social: “il teatro non è un luogo sociale, ma può essere un luogo plurale, cioè che mette insieme intelligenze. Il social rischia di essere un mito del nostro tempo, come le masse quando io ero ragazzo, una nuova ideologia, ma nei social ci si può ritrovare da soli. Il compito del teatro è di far sentire le persone meno sole e da questo punto di vista avere così un ruolo simile a quello della politica che però oggi sembra sfuggirle di mano, laddove i cittadini perdono cittadinanza e la fiducia nelle proprie istituzioni. In un luogo pubblico come il teatro è inutile che ci si chieda ‘l’amicizia’, c’è bisogno di altro: anche se vedo luci accendersi ogni tanto perché il pubblico chatta durante lo spettacolo, devo provare a instaurare con loro un diverso tipo di empatia”.
Infine gli chiedo se in Italia è meglio fare teatro, cinema o televisione: “Il cinema è una specie in via d’estinzione, il teatro è una pratica sana e artigianale, la televisione è un mondo al quale sono appartenuto solo sporadicamente”. E per l’Italia è meglio la commedia o la tragedia? “Indubbiamente tragedia”.

Per maggiori info
Album di Numero Primo
Jolefilm

L’immagine di copertina è di Roberto Abbiati, dalla pagina fb dello spettacolo.

VIDEOINTERVISTA
De Biase: “La tecnologia sta cambiando il nostro modo di pensare”

“Ci siamo dotati di un sistema tecnologico che ha trasformato l’ambiente in cui viviamo e ha modificato il modo stesso con cui noi lo percepiamo”, afferma Luca De Biase, direttore di Nova, il supplemento settimanale del Sole 24 ore riconosciuto come autorevole faro sul mondo della tecnologia e dell’innovazione. Posto che la vita e l’evoluzione di noi umani avviene nell’ambito di questo ecosistema – caratterizzato dalla presenza pervasiva dei media e degli apparati tecnologici – “chiamiamo ecologia della mente l’approccio che ci consente di interpretare noi stessi all’interno di un ambiente artefatto col quale dobbiamo trovare un equilibrio, così come in passato lo abbiamo stabilito con quello che definivamo ambiente naturale”.
Ricreare l’equilibrio “è una necessità crescente – spiega ancora De Biase – perché questo mondo che ci offre importanti possibilità di relazione, ma al contempo mostra anche criticità che dobbiamo riuscire a mitigare”. Serve, dunque, un’ecologia della mente per contrastare l’inquinamento tecnologico.

Su questi temi il direttore di Nova ha recentemente pubblicato “Homo pluralis, essere umani nell’era tecnologica”, in cui si sofferma sui processi di automazione e sugli effetti delle dinamiche evolutive digitali; e “Come saremo?”, che pone al centro della riflessione le grandi trasformazioni in atto, connesse non solo alle tecnologie ma pure alle dinamiche migratorie, ai cambiamenti climatici, all’instabilità finanziaria, alle disuguaglianze; e il cui fulcro è un appello alla creatività per rispondere adeguatamente alla necessità di definire un futuro vivibile e desiderabile.

Guarda la videointervista a Luca De Biase

VIDEOINTERVISTA
Scandali romani fra Vaticano e Campidoglio: parla l’inchiestista dell’Espresso

“Papa Francesco sta facendo qualcosa di davvero straordinario, in particolare dal punto di vista della comunicazione: sta riuscendo a trasformare l’immagine appannata della Chiesa. Ma è artefice anche di aperture concrete, straordinarie, aperture ‘politiche’ che ricorderemo, come l’abbraccio con Cyril a Cuba destinato a restare nella storia. Allo stesso tempo però vedo che la riforma vaticana ha fatto passi piccolissimi, non solo per le resistenze della curia, ma anche perché il papa è un gesuita autentico e forse racconta più di ciò che davvero vuole fare… E poi lui è un ‘pastore’ e l’ecumenismo sicuramente gli sta a cuore più della riforma delle finanze”.
E Virginia Raggi? “Il sindaco di Roma non è vittima della situazione che si è verificata in Campidoglio, si è scelta lei i collaboratori… Ha chiesto scusa e l’ho apprezzato, ma chi è in politica ha delle responsabilità: un sindaco colluso è certamente un male, ma anche uno che non si rende conto di ciò che accade alle sue spalle è altrettanto preoccupante”.

Nel video, ecco l’intervista a Emiliano Fittipaldi, il giornalista dell’Espresso autore di delicate inchieste su politica e criminalità: “Come reagisco alle pressioni e ai tentativi di condizionamento? Me ne frego e vado dritto per la mia strada! Ho la fortuna di lavorare per un giornale libero…”.

Guarda la videointervista a Emiliano Fittipaldi

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Un’agenda per il futuro: ecosistemi sani di conoscenza

“Agenda Knowledge for Development” è il documento che l’Assemblea Generale dell’Onu ha pubblicato lo scorso marzo, dopo il Knowledge Cities World Summit celebrato nell’ottobre 2016 a Vienna e in attesa di quello che si terrà a giugno di quest’anno ad Arequipa in Perù.
Contiene gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile, per affrontare i problemi che sono di fronte alla comunità mondiale, dalla povertà, alla disuguaglianza di genere, al cambiamento climatico. Una agenda mondiale che per la prima volta mette insieme gli sforzi dei paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo in grado di influire sulle politiche e le pratiche di crescita da qui al 2030.
Nonostante ormai da tempo la conoscenza sia universalmente riconosciuta come il motore principale della crescita e dello sviluppo, paradossalmente, il potenziale di trasformazione e di creazione di valore basato sulla conoscenza rimane in gran parte inutilizzato. Questo accade perché non abbiamo modificato il nostro modo di pensare, la nostra scala di valori, precisamente perché continuiamo a guardare al mondo come se fosse quello di ieri, con la stessa cassetta degli attrezzi che ci ha lasciato l’era industriale, che sarà pure alle nostre spalle, ma continua ad abitare le nostre menti ed a suggerirci le risposte, quelle sbagliate, ovviamente. Di conseguenza si è praticata un’idea di produzione della ricchezza incentrata sullo sfruttamento delle conoscenze, come l’uso intensivo di scienza, tecnologie, innovazione, infrastrutture digitali, istruzione e capitale umano altamente qualificati. Tutto ciò si sta rivelando insufficiente per affrontare le sfide complesse che abbiamo di fronte, viviamo uno stallo senza precedenti, gli squilibri sociali e ambientali sono in espansione e la vitalità dell’ecosistema globale è seriamente compromessa.
La società della conoscenza, la società che fonda profilo e natura dello sviluppo sul valore e la qualità delle conoscenze non è un’edizione nuova del sistema di ieri. Presuppone un’altra gerarchia di valori a partire da una scommessa sull’uomo, sulle sue capacità di costruire una società che ha coscienza di se stessa e in grado di auto-regolarsi.
Il documento dell’Onu suggerisce l’idea che non esiste società della conoscenza, se la conoscenza non si fa ecosistema. Non è sufficiente usare e sfruttare i saperi, non c’è valore sociale ed economico senza la diffusione dei saperi, una diffusione in grado di tessere una società della conoscenza pluralistica ed inclusiva, una diffusione indispensabile per gli individui, le imprese, i governi, la comunità mondiale e quindi parte intrinseca di ogni idea e sforzo per affrontare le sfide del futuro.
L’agenda dell’Onu si rivolge ai singoli individui, alle famiglie, alle comunità, alle organizzazioni e alle imprese, alle amministrazioni pubbliche locali, nazionali e mondiali. Il progresso della società della conoscenza è nelle loro mani, nelle mani di ciascuno di noi, delle istituzioni e delle imprese: la società della conoscenza come risorsa al servizio non di interessi particolari, ma al servizio degli individui, dell’intera umanità e del suo destino.
Ecosistema della conoscenza significa vivere in una società capace di connettere le diverse conoscenze che possiedono le persone, le organizzazioni e le istituzioni, fornendo a tutti opportunità e parità di accesso ai saperi. La conoscenza come ambiente, come sistema ambientale in cui vivono i cittadini del mondo, uomini e donne, che di questo sistema ne costituiscono il cuore, l’ossigeno e i polmoni, dove la conoscenza di ciascuno è la condizione perché il sistema funzioni e il suo funzionamento dipende dal potenziale che ognuno di per sé costituisce, come dal buon funzionamento di tutti gli elementi del sistema dipende la vita e il futuro di ciascuno.
Società non più della conoscenza e basta, ma ambiente di saperi e di apprendimenti in una relazione reciproca tra individui, istituzioni, imprese, organizzazioni, governo e infrastrutture.
Ecosistemi sani di conoscenza, con un’istruzione di alta qualità per tutti, libertà di espressione e creatività, accesso universale all’informazione e ai saperi nel rispetto delle diversità culturali e linguistiche, contro ogni tentativo di abusare dell’ignoranza o di abusare della conoscenza da parte di singoli e gruppi che mirano ad indurre in errore con impatti dannosi sul pubblico più vasto.
Ecosistemi sani di conoscenza fondati sulla comunicazione e sulla collaborazione, su orientamenti comuni e obiettivi condivisi. Centrati sulle competenze, in grado di fornire a tutti i soggetti sociali le capacità per padroneggiare sfide e opportunità, anziché saperi focalizzati settorialmente nel mondo accademico, nelle imprese o nel governo, tagliando fuori la massa dei cittadini.
Diffusione e condivisione delle conoscenze significa nella pratica promuovere e facilitare il dialogo transdisciplinare, la mutua informazione, un dialogo sociale culturalmente inclusivo e partecipativo, fornire una ricca gamma di opportunità attraverso la cooperazione tra fornitori di servizi della conoscenza pubblici e privati. Ma sono necessari l’iniziativa, il sostegno e il coraggio dei governi nazionali come di quelli locali affinché nuove forme e fonti di conoscenza vengano aperte, con piattaforme in grado di supportare cittadini, organizzazioni e imprese, attraverso la collaborazione delle istituzioni culturali e accademiche per fornire servizi per la conoscenza fisici e digitali.
In questo quadro le città svolgono un ruolo significativo, essendo gli hub naturali per ampi ecosistemi di conoscenza. Le città della conoscenza, le città che apprendono occupano una posizione leader per la creazione e l’innovazione di un ecosistema delle conoscenze ben equilibrato, in cui biblioteche, musei, archivi e altre istituzioni che raccolgono, conservano e diffondono i saperi svolgano un ruolo fondamentale nel fornire pari opportunità di accesso e di utilizzazione delle conoscenze, costituendo un elemento fondamentale del processo di democratizzazione del sapere.
Le città di oggi sono chiamate a nutrire un’alta consapevolezza e sensibilità nei confronti delle problematiche legate alle conoscenze e alle competenze di chi con le conoscenze lavora, attraverso la formazione, l’insegnamento, l’educazione, la ricerca e l’innovazione, perché il nostro futuro dipende non solo dalla disponibilità di saperi e informazioni, ma dalla capacità delle società di auto-determinazione, di gestire, rinnovare e sostenere l’ecosistema della conoscenza.
Si chiama uso responsabile della conoscenza che richiede nello stesso tempo il mantenimento e l’evoluzione di saperi, abilità e competenze, combattendo il pregiudizio e l’ignoranza con l’apertura al nuovo, con la condivisione tra tutti delle conoscenze di cui ciascuno ha bisogno, solo così è pensabile uscire dallo stallo attuale per tentare di creare un mondo migliore e continuare a fornire un futuro alla crescita dell’umanità.