DIARIO IN PUBBLICO
Ferrara fuori dalle mura
Leggo sulla cronaca ferrarese del ‘Resto del Carlino’ l’intervista che ha rilasciato il geniale Lorenzo Cutùli, artefice della fasciatura del teatro Comunale che tanto successo sta ottenendo. In molte affermazioni mi sono ritrovato, specie nel rapporto con la città estense. Afferma Cutùli alla domanda sul suo rapporto con la città: “Facile da dire: amore e odio. Ne adoro la modernità, un fattore che peraltro risale agli Estensi. E’ una città spettacolare, con tanti punti di fuga, mai ovvii. Senza palazzi di facciata. Mi dispiace invece che abbia perso negli anni, quel primato di luogo di sperimentazione”. Questo primato, prosegue Cutùli, verrebbe poi eliminato da “una certa pavidità” nell’imboccare anche strade scomode, nel permettere a tanti di “coltivare il proprio orticello”. E ripercorrendo il concetto della ‘ferraresità’ l’artista centra l’essenza del problema: “Quando esci dalle Mura sei come abbandonato, dimenticato. Ogni volta perciò è una riconquista, è come re-iniziare daccapo. Forse c’è poca memoria storica, e forse gli stessi interlocutori politici non fanno, magari per pigrizia, il censimento dei talenti ferraresi che ci sono, in giro per il mondo”.
Sarà questione di memoria storica o ancor più specificatamente di memoria debole, ma il vero problema della cultura cittadina, di come farla, di come gestirla, sta in questa specie d’abbandono di ciò che è stato fatto fuori dalle Mura e poi dall’impossibilità di difenderla da una specie di stanchezza e di noia che prende corpo negli utenti e che li spinge verso altri interessi, altri luoghi, altre esperienze, cancellandone le spinte e le occasioni fino ad acquietarsi nel grembo di una forse mai esistita ‘Ferara’.
Le occasioni, montalianamente le occasioni, si sprecano nell’abbandono delle grandi lezioni che esse hanno prodotto in città. E non è stato solo questione di soldi, come risuona monotamente in tutte le dichiarazioni sulle possibilità perdute.
E questione di memoria, come afferma Cutùli.
La cronaca o la Storia naturalmente si evolvono o prendono percorsi diversi dalle primitive intenzioni, eppure quello che non dovrebbe venir meno è proprio la memoria. Nel campo frequentato dall’artista ferrarese le novità portate nel nostro tessuto culturale da Ronconi, Abbado e ancor indietro nel tempo da Carmelo Bene o dalla compagnia di Lindsay Kemp, che stabilirono proprio in città la sede delle loro sperimentazioni, cosa hanno lasciato? Nulla, al di là delle diatribe sulle spese sostenute nell’averle realizzate. Forse il ricordo affidato a qualche storia del teatro o al nome di Abbado che ha sostituito quello del teatro Comunale.
Cerchiamo di capirci.
Non è detto che il livello debba essere sempre quello attuato nel momento della produzione di un progetto. Ma se ne salvi la memoria. Può essere utile.
C’è stato un tempo non lontanissimo, quando i ferraresi avevano conquistato nell’Università di Firenze il primato: Lanfranco Caretti, Claudio Varese. Poi i loro allievi, che a loro volta produssero altri docenti ferraresi: Gianni Venturi, Guido Fink, poi Carla Molinari e Monica Farnetti. E ferraresi d’elezione quali Marco Dorigatti o Riccardo Bruscagli o Gino Tellini.
Che ne è stato di questo travaso di competenze? Nel campo universitario nulla. In quello cittadino la dedica di una via a Caretti o la titolazione del Fondo dei suoi libri alla Biblioteca Ariostea. E sì che si sarebbe potuto impiantare una scuola che avesse studiato il cosiddetto ‘Rinascimento’. Farne un centro d’eccellenza, tanto per usare una parola che, personalmente, abborro.
In città abbiamo avuto l’esperienza dell’Istituto di Studi Rinascimentali che ha impresso una grande spinta agli studi di quel periodo con la pubblicazione di più di 130 volumi essenziali. Ora sopravvive più modestamente dopo averne esaurito la spinta propulsiva.
E l’Ermitage? E il museo Antonioni? E la minaccia-promessa di trasferire la Pinacoteca dei Diamanti in Castello?
So già che dal Palazzo arriverà una parola non proprio di condivisione. Ma ancora una volta, al di là delle forse inutili e affannate diatribe che intercorsero tra Associazioni culturali e Amministrazioni, i risultati non sono confacenti alla memoria storica o alla volontà di percorrere ancora una possibilità di scatto in avanti, di riagganciare il treno della sperimentazione come propone Cutùli.
Non si tratta solo di ‘pigrizia’ dei politici, ma di una serie di problemi che hanno anche letteralmente distrutto la memoria, come è accaduto con il terremoto. I palazzi fasciati e le sedi museali stanno a testimoniarlo. Ma invece di produrre una reazione consapevole, ritorna quella specie di noia diffusa e la volontà di rivolgersi ad altre mète, ad altri lidi.
Non voglio né desidero indicare col dito alzato le colpe attribuibili a tanti, forse a troppi.
Ma la saggezza che cerco di recuperare, nonostante gli anni, mi spinge come un dovere morale a non abbandonare la memoria.