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DIARIO IN PUBBLICO
Ferrara fuori dalle mura

Leggo sulla cronaca ferrarese del ‘Resto del Carlino’ l’intervista che ha rilasciato il geniale Lorenzo Cutùli, artefice della fasciatura del teatro Comunale che tanto successo sta ottenendo. In molte affermazioni mi sono ritrovato, specie nel rapporto con la città estense. Afferma Cutùli alla domanda sul suo rapporto con la città: “Facile da dire: amore e odio. Ne adoro la modernità, un fattore che peraltro risale agli Estensi. E’ una città spettacolare, con tanti punti di fuga, mai ovvii. Senza palazzi di facciata. Mi dispiace invece che abbia perso negli anni, quel primato di luogo di sperimentazione”. Questo primato, prosegue Cutùli, verrebbe poi eliminato da “una certa pavidità” nell’imboccare anche strade scomode, nel permettere a tanti di “coltivare il proprio orticello”. E ripercorrendo il concetto della ‘ferraresità’ l’artista centra l’essenza del problema: “Quando esci dalle Mura sei come abbandonato, dimenticato. Ogni volta perciò è una riconquista, è come re-iniziare daccapo. Forse c’è poca memoria storica, e forse gli stessi interlocutori politici non fanno, magari per pigrizia, il censimento dei talenti ferraresi che ci sono, in giro per il mondo”.

Sarà questione di memoria storica o ancor più specificatamente di memoria debole, ma il vero problema della cultura cittadina, di come farla, di come gestirla, sta in questa specie d’abbandono di ciò che è stato fatto fuori dalle Mura e poi dall’impossibilità di difenderla da una specie di stanchezza e di noia che prende corpo negli utenti e che li spinge verso altri interessi, altri luoghi, altre esperienze, cancellandone le spinte e le occasioni fino ad acquietarsi nel grembo di una forse mai esistita ‘Ferara’.
Le occasioni, montalianamente le occasioni, si sprecano nell’abbandono delle grandi lezioni che esse hanno prodotto in città. E non è stato solo questione di soldi, come risuona monotamente in tutte le dichiarazioni sulle possibilità perdute.
E questione di memoria, come afferma Cutùli.
La cronaca o la Storia naturalmente si evolvono o prendono percorsi diversi dalle primitive intenzioni, eppure quello che non dovrebbe venir meno è proprio la memoria. Nel campo frequentato dall’artista ferrarese le novità portate nel nostro tessuto culturale da Ronconi, Abbado e ancor indietro nel tempo da Carmelo Bene o dalla compagnia di Lindsay Kemp, che stabilirono proprio in città la sede delle loro sperimentazioni, cosa hanno lasciato? Nulla, al di là delle diatribe sulle spese sostenute nell’averle realizzate. Forse il ricordo affidato a qualche storia del teatro o al nome di Abbado che ha sostituito quello del teatro Comunale.

Cerchiamo di capirci.
Non è detto che il livello debba essere sempre quello attuato nel momento della produzione di un progetto. Ma se ne salvi la memoria. Può essere utile.
C’è stato un tempo non lontanissimo, quando i ferraresi avevano conquistato nell’Università di Firenze il primato: Lanfranco Caretti, Claudio Varese. Poi i loro allievi, che a loro volta produssero altri docenti ferraresi: Gianni Venturi, Guido Fink, poi Carla Molinari e Monica Farnetti. E ferraresi d’elezione quali Marco Dorigatti o Riccardo Bruscagli o Gino Tellini.
Che ne è stato di questo travaso di competenze? Nel campo universitario nulla. In quello cittadino la dedica di una via a Caretti o la titolazione del Fondo dei suoi libri alla Biblioteca Ariostea. E sì che si sarebbe potuto impiantare una scuola che avesse studiato il cosiddetto ‘Rinascimento’. Farne un centro d’eccellenza, tanto per usare una parola che, personalmente, abborro.
In città abbiamo avuto l’esperienza dell’Istituto di Studi Rinascimentali che ha impresso una grande spinta agli studi di quel periodo con la pubblicazione di più di 130 volumi essenziali. Ora sopravvive più modestamente dopo averne esaurito la spinta propulsiva.

E l’Ermitage? E il museo Antonioni? E la minaccia-promessa di trasferire la Pinacoteca dei Diamanti in Castello?
So già che dal Palazzo arriverà una parola non proprio di condivisione. Ma ancora una volta, al di là delle forse inutili e affannate diatribe che intercorsero tra Associazioni culturali e Amministrazioni, i risultati non sono confacenti alla memoria storica o alla volontà di percorrere ancora una possibilità di scatto in avanti, di riagganciare il treno della sperimentazione come propone Cutùli.
Non si tratta solo di ‘pigrizia’ dei politici, ma di una serie di problemi che hanno anche letteralmente distrutto la memoria, come è accaduto con il terremoto. I palazzi fasciati e le sedi museali stanno a testimoniarlo. Ma invece di produrre una reazione consapevole, ritorna quella specie di noia diffusa e la volontà di rivolgersi ad altre mète, ad altri lidi.
Non voglio né desidero indicare col dito alzato le colpe attribuibili a tanti, forse a troppi.
Ma la saggezza che cerco di recuperare, nonostante gli anni, mi spinge come un dovere morale a non abbandonare la memoria.

Se il pubblico viene gestito da “cosa pubblica” non può esserci conflitto di interessi

Proviamo a entrare nel dibattito sul conflitto di interesse in cui, secondo il consigliere governativo Marattin, si trova ad operare il nostro sindaco Tagliani. Ci entriamo con qualche riflessione non polemica, né pro né contro. Uno spunto per contribuire al dibattito politico con il non celato tentativo di riportarlo verso sponde più comprensibili e utili ai cittadini.

Tra la domanda di Luigi Marattin e la risposta del Sindaco Tagliani (entrambe formulate sulle pagine di estense.com) c’è, a mio avviso, un buco da riempire, con un po’ di memoria, un pizzico di dati, qualche pezzo della nostra Costituzione e, aggiungerei, anche con un po’ di rispetto per i cittadini italiani, di cui i ferraresi sono una parte.
Se partiamo dal presupposto che il conflitto di interessi si palesa quando un soggetto pubblico, che dovrebbe essere imparziale data la sua funzione, che ha potere di decisione su una determinata questione ha anche degli interessi privati, personali, professionali nella stessa questione, allora la domanda posta dall’ex assessore al bilancio è mal posta, non trova fondamento ed è fuorviante perché porta, ancora una volta, il discorso politico su falsi problemi, sui contorni che non sono sostanza.
Il conflitto di interessi su cui Marattin si interroga, e chiede conto, ci potrebbe essere solo se i sindaci (o il Sindaco Tagliani in questo caso) avessero interessi privati, prendessero soldi da Hera o da qualche altra azienda privata, ma escludo che Marattin volesse intendere questo.
Per il cittadino, se i soldi arrivano sotto forma di minor costi a fronte di un servizio efficiente e funzionale oppure nelle casse comunali attraverso i dividendi azionari, semplicemente non cambia niente perché il suo interesse è avere libero accesso alle cose pubbliche e che queste siano gestite nel migliore dei modi a costi accessibili.
E allo stesso modo e in quest’ottica non ha senso la risposta di Tagliani. Cassa Depositi e Prestiti lavora per lo Stato e di conseguenza per i cittadini italiani, in ogni caso quello che fa sotto forma di servizi, tutela del patrimonio, aiuto al credito, tutto ritorna al cittadino, quindi anche a Marattin o a Tagliani.

Come al solito il dibattito politico ci porta lontano dall’essenza del problema reale e i maligni potrebbero anche pensare che forse serve proprio a quello. Il punto, infatti, non è questo inesistente conflitto di interessi, ma la sostanza della politica che gira, gioca con le parole, ci confonde e ci porta a discutere del nulla allontanandoci dai reali problemi che invece dovremmo affrontare.
L’argomento sul quale si glissa sta alla base ed è l’argomento di cui realmente si dovrebbe discutere: pubblico o privato? Ovviamente e scontatamente privato! Così la pensa Marattin seguendo gli insegnamenti di Giuliano Amato, Prodi, Draghi, Monti, che hanno dato l’avvio o le hanno sostenute a spada tratta. Sono partite nel 1992, più o meno, e all’epoca lo Stato aveva in carico il 16% della forza lavoro del Paese, controllava l’80% del sistema bancario, tutta la logistica (treni, aerei, autostrade), la telefonia, le reti delle utility (acqua, elettricità, gas), pezzi importanti della siderurgia e della chimica, la Rai. E non è finita, c’erano le assicurazioni, meccanica, elettromeccanica, fibre, impiantistica, vetro, pubblicità, spettacolo, alimentare. Persino supermercati, alberghi e agenzie di viaggi.
Qualche tempo fa chiesi a Giuliano Amato, qui a Ferrara alla libreria Ibs, qualche conto su queste privatizzazioni, ma mi rispose che lui non ne aveva poi fatte così tante. Io ne cito una per tutte: la dismissione del sistema bancario e assicurativo, cioè Credito Italiano, Comit e Ina attraverso quella che fu chiamata ‘Legge Amato’. Insomma si completava quanto iniziato da Ciampi e Andreatta nel 1981 con il ‘divorzio’ tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, quel processo che iniziò l’innalzamento del nostro debito pubblico verso i traguardi attuali grazie al fatto che da allora, per il finanziamento dei bisogni statali (ovvero: vendita dei Btp), siamo costretti a rivolgerci al mercato senza poter decidere il tasso di interesse (come fa ad esempio il Giappone) e senza nessuna protezione dagli umori del mercato finanziario.
Scelte di questo tipo (cioè la scelta tra privato e pubblico, con capitolazione di quest’ultimo), in questo caso, per dare un’idea delle conseguenze, ci hanno portati a pagare qualcosa come 3.000 miliardi di interessi in trent’anni sul debito pubblico (per qualcuno non siamo affidabile ma per quelli che contano siamo buoni evidentemente da spremere come limoni). 3.000 miliardi e noi di cosa parliamo? Del conflitto di interessi tra il nulla cosmico e la materia invisibile che tiene insieme l’universo.

Poi appunto, dopo l’opera di Ciampi e Andreatta, arrivò Amato a privatizzare completamente la moneta e affidare i nostri destini allo spread e alle altalene della borsa.
E a chi sono state cedute e in quale modo i gioielli dello Stato, cioè di tutti noi cittadini italiani? Agli amici degli amici ovviamente e oggi per andare a farci un bagno al mare da Ferrara ad Ancona ci tocca pagare 20 euro all’andata e 20 al ritorno con sosta forzata perché da 3 mesi un ponte è venuto giù, ma l’efficienza ricostruttiva del privato ancora non si vede. Sarà per questo che in Germania se le sono tenute strette le autostrade. Come del resto sempre la Germania si è tenuto stretto la sua Banca Pubblica, la Kfv, con la quale finanzia a basso costo i suoi imprenditori, e le circa 1.500 Sparkassen pubbliche, semi pubbliche e a partecipazione statale.
Qui da noi invece le banche o le facciamo fallire oppure facciamo ripagare i danni ai risparmiatori. Carife è solo un timido esempio.

E cosa c’era di tanto sbagliato nel controllo statale delle aziende strategiche, dei beni comuni (trasporti, telecomunicazioni e acqua)? Ci sono beni e servizi che vanno tutelati e il privato non può e non deve essere chiamato a farlo, il privato fa i suoi interessi come è giusto che sia. Il debole, l’indifeso, chi non è furbo e intraprendente come i giovani renziani, chi è portatore di handicap o ha bisogno di cure, chi non riesce a competere con le leggi della giungla, nel mondo dorato dei liberisti viene affidato alla pietà o è relegato a margini.
Eppure mi piace ricordare che lo stesso Adam Smith, il padre delle teorie liberiste, scriveva nella ‘Ricchezza delle Nazioni’: “…la proposta di una nuova legge o di un nuovo regolamento di commercio che provenga da quest’ordine (uomini del commercio e delle manifatture), deve sempre essere ascoltata con grande precauzione, e non deve essere adottata se non dopo essere stata lungamente e diligentemente esaminata, non solo con scupolosissima, ma con sospettosissima attenzione. Essa proviene da un ordine di uomini di cui l’interesse non è esattamente lo stesso di quello del pubblico; che in generale hanno un interesse ad ingannare ed anche ad opprimere il pubblico, e che in molte occasioni l’hanno ingannato e oppresso…”.
Nel 1776 il ragionamento era molto più avanti e lungimirante di quello odierno operato dai neoliberisti incalliti del Pd, che tra privatizzazioni, globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia a tutti i costi sembrano davvero aver perso il senso della realtà oltre che dell’umanità.

E per finire, quanto abbiamo incassato da queste privatizzazioni, che chissà perché qualcuno osa chiamare “svendite” oppure “selvagge”? La cifra si aggira sui 100 miliardi, in pratica un tozzo di pane, rispetto ai danni ‘bellici’ subiti grazie alle scelte politiche di cui abbiamo prima parlato.
Immaginiamo invece per un attimo di avere ancora a disposizione tutte quelle aziende, quei posti di lavoro da gestire, una banca pubblica che finanzia le opere o i programmi di sviluppo. Immaginiamo… ma non ce la facciamo. Perché davanti agli occhi ci ritroviamo i reali problemi dell’Italia: la nostra inconcludente classe politica, ma anche la scarsa capacità di individuare i problemi da parte dei cittadini, la nostra scarsa memoria e quindi il nostro rimanere attaccati sempre agli stessi uomini che a volte si clonano e ti spunta un Marattin dal cappello invece del coniglio. Un Marattin che ti propone che “tutto deve cambiare perché nulla cambi”.

Pubblico o privato? Nel mezzo ci sono anche le tutele della nostra Costituzione, già scritte e che andrebbero messe in pratica, visto che sono sopravvissute all’ultimo tentativo di ‘deforma’ a furor di popolo (anche se in blocco il Pd ha fatto finta di niente). L’iniziativa privata è libera e va tutelata, ma ancor di più va tutelato l’impianto keynesiano della stessa, ovvero l’intervento e il controllo statale, la tutela dei più deboli e tutto l’impianto della res pubblica che ne scaturisce.
Creiamo un dibattito allora su questo, ci facciano intervenire sulle cose serie, chiedano a noi, che ne siamo i proprietari, se vendere o affidare o trattenere i beni pubblici e si ricordino, magari, che loro ne sono solo i momentanei gestori e di conseguenza, a voler essere onesti, non dovrebbero avere nessun conflitto di interessi. In un Paese a popolazione attiva e recettiva, ovviamente.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A ognuno il suo… Malinconico

Ansia o entusiasmo? Slanci o reticenza? I lettori raccontano come si comportano in amore e come vorrebbero essere.

Incanto e cinismo

Cara Riccarda,
grazie per la sua recensione, elegante e con una sua finezza che, per chi come me non ha letto il romanzo, si intuisce prima ancora di vederla messa alla prova da un rapporto diretto col testo di cui si parla. E prima di rispondere alle sue domande finali mi premerebbe fare qualche osservazione sulla sua proposta di lettura, ferma restando la precisazione già fattale in merito alla conoscenza mediata della trama del romanzo e dei temi narrativi che l’autore sviluppa: detto in altri termini, non escludo gli abbagli anche se non li riterrei dovuti a presunzione ma piuttosto a disinformazione.
La prima impressione che ho avuto (e sottolineo il termine impressione) è che il protagonista del romanzo, malgrado la problematicità in cui si avvolge e contorce, pare riproporre il vecchio stereotipo del maschio egocentrico e sciovinista, incline a misurare tutto ciò che lo circonda (esseri umani inclusi) col metro della propria soggettività e dei propri bisogni. Un misto tra Woody Allen e uno qualunque dei tanti investigatori creati in questi ultimi anni dalla mediocre letteratura poliziesca che appunto di stereotipi abbonda. Malinconico è avvocato ma questo cambia poco perché a suo modo anche lui – par di capire – fa le sue indagini e ha a che fare con dei casi giudiziari sfoggiando il cinismo che tanto piace al lettore italiano medio, maschio o femmina che sia. Quello che conta è però ciò che caratterizza il suo personaggio, quella che lei chiama la sua “ansia di dominio assoluto della propria vita, qualcosa di simile all’anarchia domestica, a patto però di essere amati”. A patto però, se non fraintendo, di ricevere senza dare, come è tipico di questo cliché di macho dei sentimenti “che non ha bisogno di chiedere, mai”, e che si tiene ben stretta la propria libertà. Una volta, tanti anni fa, c’era di mezzo il mammismo, l’impossibilità di trovare una donna che fosse all’altezza della propria madre; oggi c’è l’ansia di doversi concedere troppo, anzi di essere troppo preziosi per farlo, perché nessuna (o nessuno) può valere un cotanto sacrificio di sé.
Credo che in questa considerazione sia implicita la risposta alla sua domanda finale. Io sarei per l’entusiasmo (sopprimerei il che esagera) e darei il pollice verso all'”ansia che comprime”, anche per una questione di autocontrollo. Ma il mio sarebbe comunque un entusiasmo consapevole, come ci dicono debba essere il sesso: consapevole non tanto dei rischi sempre connessi a una condizione di coppia quanto dei miei limiti intrinseci. Che, mi creda, non è un modo per far rientrare dalla finestra l’egocentrismo prima cacciato dalla porta: quando parlo dei miei limiti mi riferisco soprattutto alla mia condizione anagrafica contro la quale “la ragion non vale”. E l’entusiasmo cui vanno le mie preferenze più che il frutto di uno stato d’animo corrente è la reminiscenza di ciò che è già stato: con la plausibile speranza che nulla vieta che possa essere ancora.
Cuore perduto

Caro Cuore perduto,
ho conosciuto varie versioni, più o meno spinte, di Malinconico che almeno si salva per il fatto di non esistere. Le brutte copie, quelle reali insomma, sono davvero, come dice lei, quegli uomini che richiedono sacrificio. Al di là della presunzione che trasuda da questi tipi, credo sia ancora più sconfortante che una donna sia disposta a continui ex voto pur di ingraziarsi la divinità. E’ come se verso di loro un sacrificio fosse inevitabile per arrivare solo un po’ più vicino con il risultato, invece, di farli spostare di un altro passo e così via di nuovo nella rincorsa. Il fatto è che la donna lo sente dentro di sè che la reciprocità ha altre caratteristiche e che è una gran fatica questa caccia in cui chi ti dà, ti toglie anche. Eppure sembra che in tante ci passino, trascinate dall’entusiasmo che, per sua natura ed etimologia, si porta dentro passione, come ci fosse un dio a governarla. Per questo scrivevo che l’entusiasmo esagera, perchè falsa la nostra capacità di vedere l’altro. Non è facile cogliere il momento esatto del passaggio tra entusiasmo e presa di coscienza (una mia amica ha la coscienza che parla solo dalle 7.30 alle 7.45 del mattino davanti al caffè) di quanto quest’uomo stia costando. La tabella costi/benefici in amore non regge, si sa, ma l’inizio di un leggero disincanto dovremmo sempre accoglierlo a braccia aperte.
Riccarda

Malinconico ex…

Cara Riccarda,
in Malinconico rivedo il mio ex, con cui ho passato momenti meravigliosi travolta dalla sua personalità mirabolante e affascinante, ma con cui sono stata altrettanto male per non riuscire a viverlo in pieno, sfuggente come è sempre stato. Rimane una persona meravigliosa come amico, ma assolutamente non il compagno di vita per me. L’amore come lo vivo non fa per lui, l’amore per me ‘da adulta’, è non sfuggire, non rincorrere, ma esserci l’uno per l’altra, sempre e incondizionatamente. E senza paura di essere travolti.
M.

Cara M.,
una volta mi è capitato di scrivere un non elenco, una lista al contrario che contenesse le cose da evitare, o meglio da non ripetere. Mentre i propositi da realizzare stanno belli lì davanti come un faro su un sentiero che, quasi sicuramente, non imboccheremo, le cose da non fare vengono dal passato. Ne distinguiamo i contorni nitidi e vediamo ancora i segni, una specie di consulenza gratuita che forniamo a noi stessi.
Mettila così, il tuo ex Malinconico lo hai già spuntato nella lista dei mai più.
Riccarda

Poca fiducia o molta ansia? No, solo prudenza!

Cara Riccarda,
mille idee, mille progetti, mille aspettative. Vivo l’amore con un entusiasmo esagerato verso quello che, immagino, avverrà per poi accorgermi che, al momento di agire, mi ritrovo spaventata. L’ansia di sbagliare, di non essere abbastanza, che qualcosa vada storto. Un’ansia che per fortuna riesco a dominare, ma che è sempre lì a fare perdere un po’ di colore a tutto ciò che è nuovo. Non sono sempre stata così. Ero sicura, decisa, poi un uomo ‘sbagliato’ ha fatto sì che io perdessi quella meravigliosa fiducia in me stessa di cui tanto andavo fiera, fiducia che spero di ritrovare accompagnata, passo dopo passo, da un altro uomo, sicuramente più giusto.
D.

Cara D.,
e se la chiamassimo prudenza? Fossi in te, me la farei amica. Siccome abbiamo capito che il piano della realtà è altro rispetto a quello dell’immaginazione, da cui discende un’assetata aspettativa, la prudenza potrebbe essere un’ancella mitigatrice fra i due.
Se poi, questa ancella aspira a diventare matrona, la rimettiamo al suo posto.
Riccarda

Potete scrivere a: parliamone.rddv@gmail.com

In agosto I dialoghi della vagina va in ferie, a settembre vi dà appuntamento con altri spazi di dialogo e confronto.
A tutti i nostri lettori un augurio di buone vacanze, ciao a presto.

L’OPINIONE
La legge sullo ius soli: se non ora quando?

E’ di domenica 16 luglio la dichiarazione del Presidente del Consiglio che rimanda “a settembre” l’approvazione al Senato della legge sulla Ius soli. La legge è giusta, “ma non ci sono le condizioni” dice il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, dopo essersi consultato con Renzi. Così Alfano segna un punto dopo cento batoste. Forza Italia gioisce. E Salvini esulta: “è la prima vittoria contro l’invasione”.

In realtà la legge, già passata alla Camera, non c’entra molto con i disperati che approdano nei porti italiani. Si rivolge infatti ai bambini e ai ragazzi stranieri che sono da anni nel nostro paese, nelle stesse classi dei loro compagni italiani ‘doc’.
Non è un Ius soli puro, ma “temperato”, che concederà la cittadinanza italiana a una platea di circa 800.000 bambini nati in Italia e che frequentano da anni le nostre scuole. Ma far confusione, mettere insieme i rifugiati (clandestini li chiama la Lega) e i bambini nati e residenti in Italia e che non sono né rifugiati né tanto meno clandestini, rinfocola la paura del diverso e alza il vento sul fuoco doloso del razzismo.
Quattro anni fa, alle ultime elezioni politiche, il Pd prometteva come primo atto di governo una legge che concedesse il diritto di cittadinanza a tutti i bambini nati in Italia. Da allora sono cambiati sia il segretario del partito, sia – tre volte – il Presidente del Consiglio. Quella promessa di civiltà, mai revocata, non è stata però mantenuta.
Ora, rimandare la legge a settembre sembra l’anticipo di una bocciatura. O di una archiviazione.

IL CASO
“Vitalizio per un solo giorno in Parlamento”: l’avvocato Boneschi spiegò in esclusiva le sue ragioni a Ferraraitalia

Luca Boneschi è morto lo scorso ottobre e non può più difendersi. Fu parlamentare per un solo giorno, sufficiente a garantirgli il vitalizio. Ieri è stato chiamato in causa per questo da Luigi Di Maio, del Movimento 5 stelle, additato come simbolo del privilegio e appellato al presente come se ancora fosse vivo. La sua vicenda andò in tv un paio d’anni fa da Ballarò. E all’epoca l’avvocato fu interpellato da Ferraraitalia per comprendere i contorni di una storia che suscitava indignazione. Boneschi, avvocato di grido e politicamente impegnato, accettò di spiegare le sue ragioni e il quadro che emerse risultò più complesso di come fu tratteggiato.

Riportiamo qui integralmente l’intervista che ci ha rilasciato e che abbiamo pubblicato l’11 giugno 2015

IL CASO
Sbatti il mostro in prima pagina: il ‘re dei vitalizi parlamentari’ e il rovescio dell’informazione

“Luca Boneschi, proclamato deputato il 12 maggio 1982, è giunto al termine del mandato 24 ore dopo. Non ha mai partecipato a una seduta parlamentare, ma gode di una pensione da 3.108 euro lordi da 32 anni. È un avvocato di prestigio e si occupa, non casualmente, di diritto del lavoro”. La notizia, pubblicata dall’Eco, di Bergamo, è stata amplificata un paio di settimane fa dal popolare programma di Rai 3 Ballarò, in occasione di una puntata dedicata ai vitalizi dei parlamentari. Nella messa in onda, l’avvocato Boneschi, pedinato dagli inviati Rai che gli chiedono spiegazioni, reagisce con stizza e rimedia una pessima figura. Sembra la conferma di quanto emerge dalla cronache: il comportamento tracotante di chi si avvinghia ai propri privilegi e rifiuta persino il confronto.

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Luca Boneschi

Boneschi però non è un signor nessuno piovuto dalla luna: ha un significativo percorso professionale e politico alle spalle, si è distinto per un costante impegno volto alla tutela dei diritti civili, del diritto all’informazione e dei diritti dei lavoratori, è stato eletto in Parlamento come rappresentante del libertario partito Radicale. Lo abbiamo quindi interpellato per domandargli ragione di un atteggiamento apparso irriguardoso nei confronti dei cittadini prima ancora che dei giornalisti che lo intervistavano. “Il problema – ci ha spiegato con cortesia – è che uscire dopo dodici ore di pesante lavoro alla mia abbastanza ragguardevole età (76 anni, ndr), essere pedinato per almeno trecento metri e bloccato per strada da tre persone ‘armate’ di microfono telecamera e lampada, che si mettono a farmi domande, ma che in realtà non vogliono risposte, con date e circostanze tanto suggestive quanto fuorvianti, ed essere impedito di proseguire, oppure continuamente seguito fino in ascensore, non è cosa da poco. Ho reagito male, lo so, e me ne sono subito pentito, perché ho capito quale uso sarebbe stato fatto delle riprese e delle poche frasi che ho detto (tra l’altro, di quelle poche sono state utilizzate solo quelle che facevano comodo agli intervistatori). Anche le cifre non corrispondono alla realtà, ma fare un’inchiesta giornalistica seria è faticoso”.

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L’avvocato Boneschi ai tempi del processo Masi

L’avvocato ci ha fornito una serie di documenti dai quali emergono alcuni aspetti interessanti della vicenda: le repentine dimissioni dalla carica parlamentare risultano, secondo la sua versione e stando a quanto all’epoca scrisse alla presidente della Camera Nilde Jotti per motivarle, una scelta di responsabilità. L’avvocato era a quel tempo impegnato per parte civile nel processo relativo alla morte di Giorgiana Masi, studentessa diciottenne, simpatizzante di Avanguardia operaia, uccisa a Roma durante uno scontro con la polizia nel maggio 1977 a seguito di una manifestazione in difesa dei diritti civili. Il legale si era battuto con passione e determinazione per ottenere la condanna dei poliziotti che riteneva responsabili della morta della ragazza. Il coinvolgimento fu tale da costargli una denuncia per diffamazione da parte del giudice che aveva archiviato le indagini. E proprio per non intralciare un’eventuale riapertura del procedimento, Boneschi decise di rinunciare, pur a malincuore, al seggio (che gli sarebbe toccato secondo una prassi di rotazione delle cariche all’epoca in uso nel partito Radicale) e con esso alla conseguente immunità parlamentare che avrebbe determinato un rallentamento della macchina giudiziaria. Il risultato fu beffardo: la sua condanna e la definitiva archiviazione dell’inchiesta per l’omicidio di Giorgiana Masi, i cui responsabili restarono così impuniti.
Ma con questo ricordo, Boneschi ci dice che non ci fu speculazione da parte sua in funzione del futuro vitalizio, che al contrario quelle dimissioni gli pesarono ma furono una scelta doverosa concepita in uno spirito di servizio in ossequi alla propria deontologia professionale.
Peraltro, l’avvocato precisa che il vitalizio – che una legge certo opinabile prevede anche per coloro che hanno anche solo per brevissimo tempo assunto un incarico parlamentare – fu corrisposto non dal 1983 come riportato dalle cronache, ma dal 1999. Boneschi percepisce dunque l’indennità da 16 anni e non da 32. Inoltre, per avere diritto a quel vitalizio, riconosciuto al compimento del sessantesimo anno di età, ha preventivamente dovuto versare le indennità contributive necessarie, quantificate in 91 milioni di lire.

A margine delle sue argomentazioni va detto, comunque, che il baratto resta pur sempre molto vantaggioso (poiché con appena 15 mesi di ‘pensione’ ha pareggiato la somma da lui versata in contributi) e che la legge che concede questi privilegi appare scandalosa.
Però i termini della questione assumono altri contorni. Ma proprio per questo Boneschi avrebbe fatto bene a spiegare con precisione e pacatezza a chi glielo domandava quali furono i presupposti e le motivazioni della rinuncia. “Ho cercato subito di chiarire le circostanze con Massimo Giannini, ma inutilmente – replica -. Perché ho dato le dimissioni rinunciando a una carica prestigiosa che rappresentava un traguardo ambìto, perché le ho date in quel giorno e non qualche mese dopo, come mai molti anni più tardi io abbia versato i contributi e poi percepito il vitalizio, e via dicendo. Ma tutto questo non interessa alla trasmissione perché non fa audience, non è scandalistico: e quindi si cancella tutto. Non è la prima volta che mi succede, e ormai ho capito il meccanismo. Quando c’è qualcuno che vuole parlare seriamente, non ho problemi, ma certo giornalismo attuale preferisce questi metodi: non cercano di capire, hanno una tesi e devono dimostrarla”.

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Opera di Maurits Cornelis Escher

Insomma, se la parte di vittima non si attaglia all’avvocato neppure quella di arrogante privo di scrupoli gli si confà. La sua vicenda è comunque la riprova di come la realtà sia sempre più complessa, sfaccettate e ricche di sfumature rispetto a come la si immagina o ci viene rappresentata.  “24 ore deputato, 3mila euro da 32 anni” è indubbiamente un titolo che fa effetto e fa vendere, ma non rende piena giustizia della complessità della storia e delle ragioni dei suoi protagonisti.
Talvolta le informazioni risultano imprecise per superficialità e non per dolo. Ma mantenere l’intelletto vigile è sempre necessario, soprattutto per non cadere nelle artate trappole dei trafficanti di verità, di coloro, cioè, che intenzionalmente ci vogliono convincere del proprio punto di vista, semplificando o alterando i fatti per favorire un preciso interesse.

I giorni dell’inferno: viaggio nel Sud che brucia

11 luglio 2017, ore 15. Ignaro di quello che sta succedendo, causa una vacanza forzata, esco di casa per fare una semplice passeggiata. Una volta fuori però lo spettacolo che mi si presenta ha qualcosa di assolutamente insolito: una nube di fumo, gigantesca, altissima, che ingloba buona parte del cielo sopra di me. Non è chiaro da dove si alzi, all’inizio penso sia stato dato alle fiamme qualche bosco dell’avellinese, vicino al mio paese. Ma non è così. Qualche ricerca sul pc, qualche messaggio, ed ecco che si sprofonda nell’inferno: brucia il Vesuvio, a Caserta svariati focolai, bruciano i monti Faliesi e la montagna di Montoro in provincia di Avellino. Svariati ettari in fiamme anche nel salernitano. Questo è il quadro che intercetto solo in Campania. Allargando per un attimo il campo di azione mi imbatto in altri incendi, ma soprattutto uno mi colpisce: a Messina, una mia amica, quasi in lacrime, mi dice che c’è gente che sta scappando da casa. A San Vito lo Capo, in provincia di Trapani, 700 villeggianti di un resort turistico sono dovuti fuggire a bordo di imbarcazioni. Il sindaco ha addirittura postato sui social un messaggio nel quale invitava chiunque avesse un’imbarcazione in buono stato a contribuire al salvataggio.
La situazione è davvero drammatica. Nel tardo pomeriggio il cielo si schiarisce e anche le notizie sembrano essere più confortanti. Ma non è così.

Il giorno dopo (12 luglio) prendo la macchina e decido di percorrere qualche chilometro per osservare il risultato di questi vasti incendi. Subito, nemmeno qualche metro della strada statale che collega il mio paese all’avellinese, si possono vedere le prime chiazze nere che lambiscono la strada. Più vado avanti e più aumentano, sia per la dimensione sia per i danni causati. Arrivato ad Avellino, il cielo ha uno strano colore. Il sole appare anemico. Contatto un mio amico nel napoletano, mi urla al telefono “animali, hanno usato gli animali!!” Capisco che la situazione è davvero grave. Sul Vesuvio, che sta ancora bruciando, si diceva infatti che i piromani abbiano usato gatti imbevuti di benzina per propagare gli incendi. La notizia è di quelle che ti fa definitivamente smettere di credere nell’essere umano. Mi dico che abbiamo totalmente fallito come specie. Gli investigatori per ora hanno escluso questa ipotesi, ma per quanto riguarda la natura dei roghi sia la procura di Torre Annunziata, sia quella di Napoli hanno aperto un fascicolo per l’ipotesi di incendio boschivo doloso. La nube di fumo intanto si alza alta, più ci si avvicina al napoletano, più la nube si espande, gli occhi iniziano a lacrimare, l’odore acre rende difficile persino respirare.

Tornato a casa mi rendo conto che solo in Campania ci solo oltre 100 roghi. Gli uomini che stanno lavorando sono oltre 600. Le accuse che vedo piovere sono infinite.
A. parla di “speculazione emergenziale“, “adesso si è perso il controllo, aziende distrutte, pericolo di vite ed evacuazioni”. Poi c’è chi come V. fa notare che “anni e anni di speculazione mala gestione da parte delle amministrazioni… e poi questi sono i risultati…”. Il coro dell’indignazione sembra concorde su una cosa: la colpa degli incendi, almeno in parte, sarebbe di chi amministra o ha amministrato in passato.
E c’è sempre, purtroppo, strisciante, quel timore che tra i roghi ci sia lo zampino della malavita. Un altro mio contatto di San Giorgio a Cremano mi dice “stanno bruciando di tutto lassù, ne approfittano per bruciare di tutto. Ci stanno intossicando”. Persino l’Asl si è attivata per monitorare un aumento previsto delle polveri sottili e la Regione sembra voler chiedere lo stato di emergenza.
La nube intanto, quella campana, ha raggiunto proporzioni incredibili e, osservando immagini satellitari, si vede come dal Vesuvio sia arrivata sino in Salento. Chilometri e chilometri di fumi di chissà quale natura.
Nel frattempo, una sola notizia mi conforta in questa tremenda tragedia che sta colpendo tutto il meridione: la Forestale, contattata dal Corriere, ha smentito l’uso di animali per la propagazione degli incendi. Ma sulla questione ‘dolosità’ non sembra ci siano dubbi.

Iniziano ad arrivare anche le prime battute politiche, con il ministro Galletti che promette 15 anni di carcere ai piromani. Peccato che in Italia siano pochissimi gli accusati di questo reato ad arrivare a sentenza definitiva con la condanna per incendio boschivo aggravato, che farebbe appunto scattare i 15 anni. La gran parte (e sono comunque pochissimi) è incarcerata per incendio semplice: la pena si aggira sui 7 anni. Naturalmente insieme alle condanne, arrivano anche le accuse: chi condanna i piani di prevenzione, chi parla addirittura di concussione, e chi invece semplicemente dice che si fa poco per la difesa.
Nel frattempo il Sud continua a bruciare e le situazioni più tragiche restano il vesuviano e il messinese.
Questo periodo è stato davvero terribile per quanto riguarda il fuoco: incendio a Londra, incendi in giro per l’Italia, ora Vesuvio, Messina. E proprio mentre scrivo quest’articolo, leggo sull’Ansa che a Firenze un uomo di 56 anni è morto nella notte per il rogo del suo appartamento.
Ora le fiamme sembrano quasi domate, o almeno sotto controllo. Adesso inizia il momento delle indagini. Un solo dato da segnalare su questo: nel 2017, secondo il dossier incendi di Legambiente, sono andati in fumo, solo nell’ultimo mese, più di 26.000 ettari di bosco. Numeri che fanno davvero paura.
Dopo questi giorni il mio rientro a Ferrara si avvicina, lì non è tanto il fuoco a spaventare, quanto le famigerate ‘bombe d’acqua‘, che hanno messo a dura prova sia la costa che il modenese pochi giorni fa. L’Italia è divisa anche sulle calamità mi dico ironicamente. Ma poi riguardo le foto di questi giorni e posso essere certo di una cosa: ho visto l’inferno, da lontano, e mi ha fatto paura.

Resti di un incendio
La foschia creata dai fumi del Vesuvio nell’avellinese
Il Vesuvio visto da San Giorgio
Mezzi di soccorso in azione

Foto: Giovanni Alberico, Carmen Covino, Jonatas Di Sabato [clicca sulle immagini per ingrandirle]

Nuovo rapporto Symbola sulla creatività nazionale: “la cultura ci salverà”.

“Sul fronte del lavoro è ormai chiaro che nessun automa, drone o robot potrà sostituire il lavoro creativo. Conoscenza e creatività, content design e in generale la costruzione di significato sono il nocciolo delle professioni che supereranno ogni possibile crisi”. La certezza che ‘la cultura ci salverà’ è quanto emerge chiaramente dal rapporto ‘Io sono cultura’, promosso dalla Fondazione Symbola, in collaborazione con Unioncamere, e il sostegno della regione Marche e di Sida Group, presentato alcuni giorni fa a Roma alla presenza del ministro Dario Franceschini e del presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, dal segretario generale e dal presidente di Unioncamere, Giuseppe Tripoli e Ivan Lo Bello, e dal presidente di Symbola Ermete Realacci.

Si legge nel rapporto: “Il mondo sta attraversando un periodo di spiazzamenti e assestamenti (Brexit, Trump, migranti, Erdogan, Duterte, Kim Jong-Un, Maduro, Siria, ma anche Macron e Merkel, e un rosario di attentati di diversa matrice in tutti i continenti) che sembrano dominati da nuove paure cui si reagisce con rabbia e sconforto. Non è un caso che il nemico più odiato sia la cultura, tanto nella sua accezione antropologica di prassi, credenze e visioni quanto in quella più convenzionale di oggetti e azioni che ci rappresentano. Impossibile ignorare il disprezzo per la cultura degli altri nell’ostinarsi a considerarli marginali e importuni, così come l’eccidio e le devastazioni di Palmira. Distruggere la cultura inscena una rituale ‘damnatio memoriae’ in aiuto dei prossimi dominatori”. Nell’attraversare questo periodo di crisi il fattore umano agisce su due fronti: da una parte diventa sempre più insostituibile la creatività, l’umanità delle arti e della conoscenza. D’altra parte è sempre il fattore umano a guidare la politica interna e internazionale, molto spesso condotte sotto l’effetto di scelte umorali e contingenti. Ne sono la riprova il proliferare di nuovi populismi che propongono soluzioni di chiusura davanti al nuovo che avanza.

Giunto alla sua settima edizione, ‘Io sono cultura’ è l’unico rapporto in Italia che permette di quantificare il reale peso che cultura e creatività hanno sull’economia nazionale e rappresenta una occasione unica di scambio di sinergie tra operatori del sistema produttivo culturale e creativo (Spcc). Tale sistema si articola in cinque macro settori: industrie creative (architettura, comunicazione, design), industrie culturali propriamente dette (cinema, editoria, videogiochi, software, musica e stampa), patrimonio storico-artistico (musei, biblioteche, archivi, siti archeologici e monumenti storici), performing arts e arti visive a cui si aggiungono le imprese creative-driven (imprese non direttamente riconducibili al settore, ma che impiegano in maniera strutturale professioni culturali e creative, come la manifattura evoluta e l’artigianato artistico).

Così come affermato nel rapporto, “ il tema ‘di cultura non si mangia’ è ormai superato, e l’attenzione del mondo produttivo a questo sistema così articolato è decisamente cresciuta”. E i numeri, a sostegno di questa affermazione, parlano chiaro: il Sistema produttivo culturale e creativo, fatto da imprese, pubbliche amministrazioni e organizzazioni no profit, genera 89,9 miliardi di euro e incrementa altri settori dell’economia, arrivando a muovere nell’insieme 250 miliardi, equivalenti al 16,7% del valore aggiunto nazionale. E’ un sistema che può vantare il segno più: nel 2016 ha prodotto un valore aggiunto superiore rispetto all’anno precedente (+1,8%), sostenuto da un analogo aumento dell’occupazione (+1,5%). Inoltre il Sistema produttivo culturale e creativo ha un effetto moltiplicatore sul resto dell’economia pari a 1,8. In altre parole, per ogni euro prodotto dal Spcc, se ne attivano 1,8 in altri settori. Gli 89,9 miliardi, quindi, ne ‘stimolano’ altri 160, per arrivare a quei 250 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, col il settore turistico quale principale beneficiario. Più di un terzo della spesa turistica nazionale, esattamente il 37,9%, è attivata proprio dalla cultura e dalla creatività. “Per questo – sottolinea il rapporto di Symbola – è assolutamente rilevante il fatto che, per i prossimi 10 anni, l’intera quota dedicata alla conservazione dei beni culturali dell’8 per mille destinato allo Stato sarà utilizzata esclusivamente per interventi di ricostruzione e restauro del patrimonio culturale nelle aree colpite dai terremoti del Centro Italia”.

“Cultura e creatività sono la chiave di volta in tutti i settori produttivi di un’Italia che fa l’Italia – commenta Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola – Consolidano la missione del nostro Paese orientata alla qualità e all’innovazione: un soft power che attraversa prodotti e territori, un prezioso biglietto da visita. Una forma di diplomazia economica, nel quadro di quella che si sta configurando come la nuova Via della seta tra Oriente e Occidente. Un’infrastruttura necessaria anche per affrontare le sfide che abbiamo davanti: uno sviluppo a misura d’uomo, le migrazioni, la lotta al terrorismo, i mutamenti climatici. L’intelligenza umana è infatti la fonte di energia più rinnovabile e meno inquinante che c’è. Se l’Italia produce valore e lavoro puntando sulla cultura e sulla bellezza aiuta il futuro”. Tutti questi segnali di fermento sono aiutati da riforme come quella dell’Art Bonus, il credito d’imposta introdotto nel 2014, a favore degli investimenti in cultura. Il risultato più evidente è stato un incremento del mecenatismo da parte di imprese o aggregazioni sociali, con il risultato di un avvicinamento del patrimonio culturale alla società civile. La produzione culturale stessa, svincolandosi dalle logiche promozionali e commerciali, assume dei caratteri etici.

La provincia di Roma, con il 10%, è al primo posto in Italia per incidenza del valore aggiunto del Spcc sul totale dell’economia. Seconda Milano (con il 9,9%), terza Torino, attestata sulla soglia dell’8,6%. Seguono Siena (8,2%), Arezzo (7,6%) e Firenze (7,1%). E ancora: Aosta, attestata al 6,9%, Ancona (6,8%), Bologna e Modena, entrambe al 6,6%. Quanto alle macroaree geografiche, è il Centro a fare la parte del leone: qui, la cultura e la creatività producono il 7,4% del valore aggiunto. Seguono, da vicino, il Nord-Ovest (6,8%) e il Nord-Est, la cui incidenza si attesta al 5,5%. Il Mezzogiorno, ricco di giacimenti culturali e un patrimonio storico e artistico di primo ordine a livello mondiale, non riesce ancora a tradurre tutto ciò in ricchezza; solo il 4,1% del valore aggiunto prodotto dal territorio è da ascrivere alla cultura. A livello regionale, il peso delle grandi aree metropolitane a specializzazione culturale e creativa si fa sentire. Il Lazio si colloca primo (8,9%) seguito dalla Lombardia (7,2%). Dopo la Valle d’Aosta, troviamo il Piemonte (6,7%) e le Marche (6,0%). Sul fronte dell’occupazione, i primi quattro posti sono ripetuti nell’ordine: primo è il Lazio (7,8%), seguito da Lombardia, Valle d’Aosta e Piemonte. La quinta piazza, in questo caso, è occupata dall’Emilia Romagna (6,5%).

Nell’oscurantismo generale, il non dubitare che l’essere umano sia cultura, creatività ed energia, rappresenta la possibile chiave di svolta per la costruzione di un futuro fatto di economia sostenibile e idee condivise.

Fortunale ai lidi, proseguono le operazioni di pulizia delle strade

Da Clara

Il fortunale che ha colpito la costa nel pomeriggio di martedì, con la caduta di rami e alberi e la dispersione di grandissime quantità di materiale vegetale su strade e marciapiedi, ha determinato forti criticità sulla viabilità e ha condizionato anche il lavoro della cooperativa Brodolini, che gestisce per conto di CLARA i servizi di igiene ambientale nel comune di Comacchio.
È stato infatti necessario intervenire con diverse squadre per risolvere e bonificare le situazioni più problematiche: queste condizioni hanno determinato un rallentamento nell’esecuzione del servizio di spazzamento, considerando anche le ingenti quantità di foglie e aghi di pino riversate sulle strade dei lidi, soprattutto a Lido Spina, Lido Estensi e Lido Volano.

CLARA assicura che le operazioni di pulizia stanno proseguendo con il massimo impegno per ripristinare e normalizzare la situazione.

Raccontare la vita nonostante la morte intorno: la guerra con gli occhi dell’inviato

Vagare di sera per quelle che – prima – erano le strade di una Kobane – ora – distrutta e fermarsi sotto una finestra dalla quale esce la voce di un ragazzo che canta, essere invitati in casa e passare una serata ad ascoltare musica tipica curda nel bel mezzo delle rovine. Ascoltare il proprio traduttore, un ragazzo afgano trentenne con il quale si collabora da anni, ormai un amico, definire la propria moglie incinta “grossa come un carrarmato”; o ancora un amico medico di Baghdad implorare di raccontarlo, a noi europei, che da loro “è Parigi tutti i giorni”. E poi raccogliere la storia del direttore dell’orchestra sinfonica della capitale irachena: il suo violoncellista si è trovato coinvolto in un attentato mentre tornava a casa, in mezzo alla confusione, alle grida, al dolore, ha preso una sedia e ha cominciato a suonare e quando chi gli stava intorno gli ha chiesto cosa gli era saltato in mente ha risposto “Così riporto l’armonia della mia città”.

Brandelli di vita che tenta strenuamente di resistere alla morte tutto intorno. Questo hanno il compito di raccontare gli inviati nelle zone di conflitto secondo Barbara Schiavulli, inviata di guerra freelance per quotidiani, settimanali, mensili, che ha cofondato e codirige Radio Bullets, una webradio che tratta esclusivamente esteri, e la fotografa, giornalista e documentarista Linda Dorigo, ospiti domenica dell’incontro degli Emergency Days ‘La guerra è: con gli occhi dell’inviato’.
Raccontare, su una radio, sui libri o attraverso le immagini, storie che alle persone ancora interessa ascoltare e anche narrare, da parte di chi le raccoglie e di chi le ha vissute, prendendosi il tempo e investendo le energie necessarie per farlo.
Sì perché la crisi dei giornali e il web dei social portano via il tempo e le risorse ai reportage di guerra: “siamo costretti a reinventarci spazi e modi” per parlare degli sconvolgimenti che sta vivendo l’altra sponda del Mediterraneo, per questo “ho fatto la scelta di smettere di scrivere – racconta Schiavulli – ma conscia del fatto che queste cose alle persone interessano ancora, ho scelto altri modi, fondando una radio che fa solo esteri”. “Bisogna fare grandi sacrifici per realizzare un progetto di lungo periodo, devi spendere tante energie – confessa Linda – perché il tuo focus primario rimane uno, ma devi aggiungere intorno tante altre cose per pagare l’affitto”.

Da sinistra a destra: Annalisa Camilli, Christian Elia, Barbara Schiavulli e Linda Dorigo

Secondo Christian Elia, codirettore della rivista online ‘Q Code Mag’, moderatore dell’incontro, “a mancare non è la quantità di notizie, ma lo spessore, il contesto”: insomma il tempo e il dettaglio del racconto, ben lontani dai post e dai twitter e dalle flash news. E questo soprattutto perché sempre più la guerra è “vissuto di guerra, guerra che non si vede, non c’è un fronte, ma uno scenario fatto di violenze quotidiane”.
“Fa più notizia l’ultim’ora rispetto alla vita quotidiana di un paese in guerra, dei segni che le persone portano su di sé, anche quando se ne vanno e si liberano dalla guerra”, ammette la terza ospite, Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale dal 2007, dal 2014 segue i migranti in viaggio attraverso l’Europa e racconta le loro storie sul sito del magazine. Ora sta realizzando un progetto su storie di persone torturate in Libia, per molti tappa finale della migrazione prima di raggiungere l’Europa. Un’Europa che ora “non si vuole prendere la responsabilità di conflitti ai quali ha partecipato e dei loro effetti”, sottolinea Camilli facendo riferimento per esempio proprio alla Libia. “Non trovano l’ascolto di cui hanno bisogno”, ma al contrario “uno screening sempre più rapido della loro situazione per capire se hanno diritto alla protezione internazionale”. Secondo Camilli la società europea del futuro, il suo grado di civiltà, si misurerà “sulla capacità di ascolto di queste storie, che sono storie di sofferenza ma ci riguardano”.

Se per Linda Dorigo fare la reporter di guerra è “una fortuna” perché si possono raccontare storie per avvicinare quel mondo al vissuto dei cittadini italiani ed europei, per Barbara Schiavulli e Annalisa Camilli è una sorta di “battaglia culturale”. Per la prima, che spesso fa anche incontri nelle scuole per raccontare ciò che ha visto e continua a vedere nel proprio lavoro, “sapere, essere a conoscenza e essere coscienti delle guerre è il primo modo per contrastare le guerre”. Per la seconda, l’Italia circondata com’è dai conflitti non può permettersi di essere concentrata su sé stessa come è accaduto sempre più in questi anni: “abbiamo perduto l’orizzonte dell’altra sponda del Mediterraneo”, tanto che non si parla nemmeno più di conflitti dimenticati. Tuttavia, “anche se i lettori sono sempre più concentrati su ciò che succede a casa propria, è il mondo che arriva a casa loro”, sottolinea a ragione Camilli e fa un esempio: nel suo ultimo rapporto sulle migrazioni internazionali l’Ocse afferma che nel 2016 più di 180mila migranti irregolari sono arrivati sulle coste italiane; la maggior parte dei media, magari anche a ragione, parla di invasione e di impossibilità di accoglierli tutti, ma se Modena ce l’ha fatta a gestire i più di 200mila arrivati per una sola serata per il concerto di Vasco, possibile che lo Stato italiano e l’Europa non riescano a gestire un numero simile di persone che arriva in un anno?
Mentre l’incontro si conclude, lo sguardo non può non andare alle immagini in bianco e nero dietro di loro: la mostra ‘L’Afghanistan, la guerra’ realizzata in collaborazione con Contrasto con le foto di Francesco Cocco. “La guerra ha diverse possibili cause, ma sempre effetti certi: morti, feriti, profughi, orfani”, recita uno dei pannelli.

Clara risponde – Differentemente: guida al corretto smaltimento dei rifiuti

Parte oggi una nuova rubrica con la quale Clara spa risponderà alle domande più comuni poste dagli utenti, così da poter chiarire le idee, migliorare il servizio e risolvere più diffusi sulla raccolta differenziata e la gestione dei rifiuti.

Il primo quesito riguarda gli imballaggi:
Perché nel sacco giallo posso inserire solo gli imballaggi e non gli altri oggetti in plastica?

La risposta a questa domanda arriva da una regolamentazione nazionale. La raccolta differenziata della plastica riguarda infatti solo gli imballaggi, cioè quei manufatti concepiti per contenere, trasportare, proteggere merci in ogni fase del processo di distribuzione e per i quali i produttori hanno corrisposto il Contributo Ambientale CONAI (CAC). Gli oggetti in plastica diversi dagli imballaggi non possono dunque essere immessi nella raccolta differenziata perché i costi del sistema sono coperti in prevalenza proprio dal CAC, posto esclusivamente sugli imballaggi.
Per fare qualche esempio: i giocattoli, benché di plastica, non possono essere inseriti nel sacco giallo, come neanche le posate usa e getta, le penne scariche, gli spazzolini da denti o qualsiasi altro oggetto la cui funzione non sia stata quella di imballaggio.

Per tutti gli approfondimenti sulla raccolta differenziata della plastica c’è anche il sito www.corepla.it

‘Giovinezza, giovinezza’: l’impegno dell’assessore Maisto

“Mi impegno a prendere contatti con la Cineteca Nazionale e con la Cineteca di Bologna per capire diritti e stato di conservazione della pellicola: questi sono i punti imprescindibili di partenza”.
Dopo Paolo Marcolini, presidente di Arci Ferrara, anche il vicesindaco e assessore alla cultura del Comune, Massimo Maisto, ha voluto rispondere all’appello del professore di Unife, Paolo Veronesi, sul recupero della pellicola ‘ferrarese doc’ ‘Giovinezza, giovinezza’, girata a Ferrara nel 1969 e tratta dal libro del 1964 di un illustre uomo politico cittadino, Luigi Preti.
Coinvolto da Veronesi, sia come componente dell’amministrazione sia come cinefilo, Maisto non si tira indietro: “Rispondo positivamente all’appello. Del resto abbiamo già fatto molto non solo per gli autori amati e conosciuti dal grande pubblico, da Antonioni a Vancini, ma anche per quella che è stata chiamata la ‘seconda officina ferrarese’ composta da grandi talenti, ‘minori’ solo per chi non è appassionato di cinema d’autore: Sani, Ragazzi, Pittorru, Sturla, Felisatti, sono solo alcuni nomi”. Uno sguardo ad ampio raggio che troverà una realizzazione nel futuro Museo Antonioni a Palazzo Massari-Cavalieri di Malta: “Nella nostra idea il patrimonio artistico di Antonioni dovrà diventare il nucleo centrale di sviluppo di un racconto di più ampio respiro sul Novecento cinematrografico di Ferrara e a Ferrara”.

Marcolini e Arci si erano detti disponibili a mettersi al servizio di questa operazione culturale di recupero della pellicola a patto di entrare a far parte di una squadra più ampia che potesse coinvolgere anche le istituzioni, e uno o più mecenati privati, lasciando al crowdfunding – opzione suggerita da Veronesi – un ruolo minoritario, come dimostrazione di un interesse allargato della cittadinanza rispetto all’iniziativa. Il vicesindaco non esclude che il ruolo dell’amministrazione comunale in questa ‘cordata’ possa andare anche al di là della mediazione come stakeholder istituzionale. “Sicuramente possiamo avere un ruolo di raccordo, non escludo nemmeno la partecipazione ai finanziamenti, ma prima bisogna interpellare la Cineteca Nazionale e la Cineteca di Bologna per capire lo stato della pellicola: la semplice ripulitura e rimessa in sesto avrebbero un costo, per un restauro vero e proprio siamo su cifre molto più cospicue”. Maisto conferma dunque quanto già anticipato da Marcolini su una prima valutazione preventiva da parte di esperti sullo stato di ‘Giovinezza giovinezza’ per poi capire come procedere e andare alla ricerca di finanziamenti.

Non si poteva non chiedere all’assessore Maisto lo stato di avanzamento dei lavori sul Museo Michelangelo Antonioni, da lui stesso citato e chiuso al pubblico dal 2006 (fonte: sito Mibact), e di quelli di inventariazione e catalogazione informatizzata del fondo Antonioni: “Palazzo Massari-Cavalieri di Malta è un cantiere enorme, ma i lavori procedono e il progetto prenderà forma anche dalle mostre che abbiamo portato in tutto il mondo. Per quanto riguarda l’archivio stiamo andando avanti in maniera molto veloce”.
L’ultima domanda riguarda la valorizzazione di questo patrimonio culturale così ‘pop’: Museoferrara, il museo online della città estense, in occasione delle mostre di Palazzo Diamanti sulla Ferrara metafisica e sul Cinquecentenario dell’Orlando Furioso, è stato uno strumento per portare questi temi nelle strade cittadine, potrebbe servire allo scopo anche nel caso della Ferrara cinematografica? “Assolutamente sì, tanto che è un cantiere che abbiamo già in programma: sarà realizzato fra fine 207 e inizio 2018”.

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Teatro Verdi: al via i lavori di riqualificazione

Due milioni per i lavori di riqualificazione più un milione e 750 mila euro per la gestione degli spazi. Sono queste le cifre messe in campo per il laboratorio aperto nell’ex Teatro Verdi con il progetto ‘MoVe.rdi – Riding, Development, Innovation’, arrivato alla fine di un percorso travagliato per l’edificio: chiusura definitiva nel 1985, tentativo di ristrutturazione e riapertura negli anni Novanta e poi la sfida lanciata da Città della cultura-Cultura della città nel 2013 per trovare una nuova funzione a questo contenitore.

Già a dicembre 2016 l’amministrazione e Città della cultura-Cultura della città avevano presentato il progetto partecipato di rigenerazione per restituire l’ex teatro alla comunità e tentare di farlo diventare il primo motore di un processo che possa invertire il degrado della zona (leggi qui). Ora si passa dai progetti ai lavori: “oggi è l’ultimo giorno per vederlo così”, ha annunciato l’assessore Aldo Modonesi alla conferenza stampa di lunedì 3 luglio, che ha segnato anche la consegna del cantiere dell’ex teatro alle imprese ferraresi dell’Ati che realizzerà i lavori. “Non vedono l’ora che finiamo l’incontro per iniziare a lavorare”, ha scherzato l’assessore con i loro rappresentanti, tutti diligentemente muniti di caschetto e scarpe infortunistiche, pronti a mettersi al lavoro. Il bando, ha sottolineato Modonesi, è stato assegnato con il metodo non del massimo ribasso, ma “dell’offerta economicamente più vantaggiosa”: i lavori avranno una durata di 549 giorni e un importo complessivo di 2 milioni di euro, finanziati per il 20% dall’amministrazione comunale e per l’80% dai fondi europei erogati tramite la Regione (Por-Fesr 2014-2020, Asse 6 ‘Città attrattive e partecipate’).

Gli interventi di rifunzionalizzazione più ingenti, ha spiegato l’architetto Elisa Uccellatori del Servizio beni monumentali del Comune di Ferrara, saranno quelli sul lato che dà su via Castelnuovo e piazza Verdi: verranno creati spazi per un bike cafè, un visitor centre Unesco e un centro per la mobilità sostenibile, inteso come incubatore per nuove idee e nuove imprese su turismo e mobilità sostenibile. La platea e lo spazio della torre scenica diverranno una vera e propria piazza coperta per attività artistiche e culturali ed eventi. “Il cantiere avrà un impatto ridotto sulla zona e per fine anno si prevede saranno completati i lavori su via Castelnuovo”, ha concluso Uccellatori.

E se il Servizio beni monumentali si occuperà dell’hardware, toccherà poi ai colleghi dell’unità organizzativa Manifestazioni culturali e turismo ideare il bando per individuare i soggetti gestori per i primi cinque anni. “Già giovedì avremo il primo incontro in Regione e a inizio 2018 sarà pubblicato il bando per la gestione degli spazi, con assegnazione fra settembre e la fine dell’anno”, ha spiegato l’assessore Massimo Maisto. “I due focus principali saranno turismo e mobilità sostenibile e sarà richiesto un forte protagonismo ai privati”: il bando avrà, infatti, un valore di 1 milione e 750 mila euro complessivi, una parte sarà messa dall’amministrazione attraverso i finanziamenti europei per lo sviluppo regionale, una parte invece dovrà essere investita da chi vincerà e diverrà gestore degli spazi, ha sottolineato Maisto.

Un “luogo aperto e accessibile a turisti e cittadini, finalizzato alla promozione e alla conoscenza del patrimonio culturale cittadino e alla mobilità sostenibile in città e nel territorio”, ha detto il sindaco Tiziano Tagliani, ma anche il primo passo verso la riqualificazione dell’intera zona: ecco perché “entro fine 2017 pubblicheremo anche i bandi per gli interventi su piazza Verdi” con l’obiettivo di “arrivare a primavera 2018 con il cantiere del teatro in stato avanzato e i lavori avviati nella piazza”. “Entro il 2018 la riqualificazione dovrebbe essere completata”, ha concluso Tagliani.

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BORDO PAGINA
Intelligenza Artificiale e Homo Insapiens

Più passa il tempo e più osservo il divenire sociale attuale, più mi autopersuado che viviamo e da un pezzo ormai in una sorta di diversamente Matrix. Non mi riferisco alle teorie scientifiche di Nick Bostrom o al film Nirvana di Salvatores… Dinamiche neppure paradossalmente ammalianti, anche se forse perverse, ma assai più terrestri e prosaiche.
Ormai mi è insopportabile, lo iato tra il futuro o le società delle conoscenze e aperte possibili, venute alla luce e potenziali (robot su Marte e sonde oltre il sistema solare, esopianeti scoperti e le frontiere nuove straordinarie della genetica e della medicina e delle neuroscienze e dell’Intelligenza Artificiale, Internet e la coscienza collettiva condivisi) e lo stato delle cose nelle società attuali, piaccia o meno: destra o sinistra reliquie arcaiche, che galoppano in senso opposto, neoprimitivo, neomedievale.
E’ mai possibile nel ventunesimo secolo credere ancora nelle religioni o negli uomini politici di ogni partito o in molta informazione, che illustra e segnala le cronache tacitamente, foraggiando la credibilità di gran parte delle presunte priorità (si vedano anche le polemiche sui vaccini), che neppure un big brother vero e proprio sarebbe riuscito a programmare con tale efficacia? In Italia ancora gente che crede sul serio nel vecchio Berlusconi dopo ripetuti governi semifallimentari? O in Renzi, dopo il suo premierato altrettanto simulacrico? O ancora in dinosauri come Pisapia o Bersani che riesumano la sinistra già in degrado che fu? O in animali politici che anche un cane ormai capirebbe interessati (leggi stipendi e privilegi e vitalizi) al loro osso pubblico, autistici persino, rispetto agli elettori e al popolo italiani? O al sistema dello spettacolo televisivo con meri speakers di infiniti talk show che vivono quasi come sceicchi, in nome dell’uguaglianza e del progresso o aizzando i peggiori istinti delle scimmie nude teledipendenti?
Possibile ancora dare credito a papi della Chiesa o vescovi, che come sempre predicano bene e razzolano male parlando di mere astrazioni iperuraniche in flagrante conflitto con il reale? O credere davvero all’Islam come religione di pace, nonostante attentati costanti ben noti e nonostante nelle loro terre non esista alcuna democrazia o costituzione laica prevalente sul dogma teocratico?

E’ successo qualcosa di gravissimo negli ultimi decenni. L’accelerazione tecnoscientifica è stata troppo potente per essere assimilata con scienza e coscienza dal mondo contemporaneo: è il famoso shock del futuro previsto da vari futurologi o scienziati sociali, da Alvin Toffler a Marshall McLuhan a Isaac Asimov.
In un racconto ‘storico’, ‘Il Conflitto Evitabile’, il celebre scrittore di fantascienza immaginava soluzioni avvenirisiche e letteralmente postumane. Immaginava l’evoluzione delle cosiddette Macchine Pensanti, oggi Ai (Intelligenza Artificiale), intelligenti e coscienti, una nuova tappa dell’evoluzione umana. Ipotesi oggi  condivisa anche da scienzati e futuristi sociali, per esempio Raymond Kurzweil, a suo tempo Marvin Minsky, e molti altri.
Ma in quel racconto il focus era molto pragmatico: basta con i politici o gli economisti ancora postneandartaliani o homo insapiens nell’era della scienza e della conoscenza, che presuppone come sistema-rete funzionale e desiderabile, quella libertà che è evidentemente scarsa o troppo limitata negli umani al potere attualmente in ogni stanza dei bottoni. In quel futuro e appunto le intelligenze artificiali e i loro – oggi diremmo – algoritmi intelligenti sono capaci di gestire le organizzazioni sociali e politiche autonomamente su tutta la Terra: esperimento inaudito di previsione e pianificazione mondiale socioeconomica impossibile per potenza combinatoria (e dinamica) dei dati e computazionale ai deboli umani stessi.
Previsioni nel loro divenire e disvelarsi per forza incomprensibili agli umani.
Così, per la cronaca, accade nel racconto, con decisioni speciali delle intelligenze artificiali apparentemente incomprensibili per la famosa percezione umana ma che alla fine, invece, si rivelano scienza esatta!

Ecco, ne siamo sempre più convinti: prima o poi, dalle intelligenze artificiali non la salvezza dell’umanità futura (chè sempre propaganda la salvezza dei tiranni), ma la vera umanità finalmente concreta quando, parafrasando sempre la fantascienza o Friederick Nietzsche, le intelligenze artificiali saranno “più umane degli umani”.
E come nessuno nella storia dell’evoluzione persino cosmica e poi della vita (dal big bang ai graffiti ai computer) protesta per la ‘dittatura’ del Sole nel nostro sistema solare da cui dipendiamo come vincolo naturale, nessuno protesterà.
Allora fioriranno davvero le utopie vere umaniste, dal faraone Ackkanaton a Einstein, grazie alle intelligenze artificiali superevolute gli umani si occuperanno sul serio, ma gioiosamente, delle cose serie piacevoli e biofile; fioriranno le vere società della scienza e della conoscenza (robotica a automazione incluse ottimizzate sul serio), gli umani saranno opere d’arte viventi destinati a plasmare la loro unicità attraverso l’amore e l’erotismo della scienza e dell’arte, quando l’aurora spaziale è ancora in corso e infiniti e infiniti desideri e misteri attraversano ancora non solo il cervello umano, ma l’universo e persino i multiversi.
Politici, preti e economisti e anche mercanti saranno al massimo dei gadget o giocattoli come attualmente i dinosauri… per i bambini (post)umani e i bambini robot e i bambini alieni del Post Domani: purtroppo, parliamo del 2300 almeno per tali scenari, del futuro ancora remoto.

INFO
Asimov, il Conflitto Evitabile (*Wikipedia)
Manifesto del robotismo (2005) dell’autore

Cosa far leggere d’estate ai ragazzi? Una polemica estiva

Piatto ricco? Mi ci ficco! Così ere geologiche fa si commentavano le prime puntate a scopa o – udite udite! – a poker dei giovani sedicenni finalmente in vacanza.
Coscienziosamente domenica, al momento del rito della barba, mi sono sintonizzato sul commento dei giornali e immediatamente mi sono trovato immerso in un problema che con la stessa virulenza affrontai nelle vesti di studente e poi in quelle di insegnante. Nella rubrica si citavano due articoli apparsi sulle pagine di ‘La Repubblica’ che riguardano la scelta delle letture estive per i giovani studenti ormai in vacanza. Il primo articolo era dell’amico Paolo Di Paolo, l’altro, in risposta, di Marco Belpoliti. La polemica era innescata da un servizio di Edoardo Camurri su Radio Tre Libri che propone una leale tenzone tra coloro che chiedono, come Di Paolo, di scostarsi dalla consueta e ormai annosa questione su cosa consigliare per le letture estive ai giovani e osare nuove scelte e la difesa di Belpoliti dell’intramontabile accoppiata Levi-Calvino.

Di Paolo scrive: “Torno anche io sulla ‘polemica’ destata dal mio articolo su Repubblica sui libri delle vacanze. Mi sono preso un po’ di insulti sui social, e questo va bene. Ma la cosa che letteralmente mi sconvolge è che moltissimi non hanno capito. Capito il pezzo, dico. Edoardo Camurri, su Radio Tre, ha ironicamente liquidato la cosa difendendo a prescindere i ‘classici’ (Levi e Calvino). “Ragazzi ma che stiamo dicendo?”, “Viva Levi e Calvino!” (cit. Camurri). Quanto fa figo e intelligente fare i difensori di Calvino e Levi. Peccato che mai mi sognerei di ridimensionare né l’uno né l’altro (non mi piace citarmi, ma cazzo: ho dedicato decine e decine di pagine a Calvino, a difenderlo dai soliti idioti che “Calvino è cerebrale, è sopravvalutato”. Di Levi mi basta dire che ‘I sommersi e i salvati’ è per me IL PIU’ IMPORTANTE libro del secondo Novecento; ma quanti dei difensori-a-prescindere l’hanno letto?). Il mio discorso – continua Di Paolo – era diverso: starsene scollati dalla realtà e dare da leggere ai ragazzi Calvino e Levi lavandosene le mani (tanto sono libri belli e importanti!) è comodo. Altro è interrogarsi sull’esperienza della lettura effettiva, concreta. Capire che cosa, nei mesi estivi, possa contribuire davvero ad alimentare un legame – già di per sé molto fragile – con la lettura, con la letteratura. ‘Se questo è un uomo’ (o quello che sia) ha bisogno di un lavoro prima e intorno, non di essere digerito a fatica nella solitudine distratta di quattro pomeriggi estivi. Poi per carità, io sarò pure un povero coglione che “spala merda” (cit.) su Calvino e Levi, ma sono costretto a dire che molti difensori dei due grandi scrittori – di solito, finto-colti – sembrano analfabeti, e nemmeno troppo di ritorno. Di partenza. Che vivano pure nella realtà parallela e autocompiaciuta della falsa cultura. Viene facile, in questo tempo di pagliacci in posa da intellettuali”.

Scritto ciò cosa consiglierebbe Di Paolo? “D’altra parte, suonata l’ultima campanella, la corsa in libreria – con l’elenco scritto su un foglietto – è un rito intramontabile. E il ‘canone’ si muove a fatica: restano in cima alle preferenze dei docenti i classici del secondo Novecento, con ‘Se questo è un uomo’ che tallona Calvino (1.352 copie vendute tra il 12 e il 18 giugno). Non so se lasciare soli gli adolescenti con l’imprescindibile romanzo di Levi sia saggio: la pretesa pedagogica può generare effetti collaterali, soprattutto nel cuore dell’estate. I romanzi distopici di George Orwell – ‘1984’ e ‘La fattoria degli animali’, rispettivamente a 1.333 e 1.062 copie – forse funzionano meglio; difficile dire se ‘Il giovane Holden’ (1.227 copie), benché in nuova traduzione, appaia più tanto giovane; e se nel ‘Buio oltre la siepe’ di Harper Lee (1.293 copie) la siepe non diventi infine uno scoglio. I viventi che lampeggiano in questa classifica sono pochissimi: si sono scavati uno spazio nel canone l’Ammaniti di ‘Io non ho paura’ e ‘Nel mare ci sono i coccodrilli’ di Fabio Geda, ormai un vero e proprio classico tra i banchi”.
L’appassionato discorso di Di Paolo si conclude poi con una provocazione ulteriore quando commenta:
“Poi chiudiamo il discorso. Solo per dire che a, Radio Tre, stamattina – come lettura estiva per gli studenti – hanno consigliato James Joyce, ‘Dedalus’. Quel che si dice avere il senso della realtà”.

Non da meno, scorrendo le righe dell’articolo di Belpoliti, ‘Difendo Levi e Calvino’, apparso sempre su ‘La Repubblica’, ci troviamo di fronte a una posizione assai condivisibile. Lo scrittore rammenta che l’“obbligatorietà” è comunque una delle parti costituenti la scuola: che “la scuola comporti sempre qualcosa di obbligatorio, e anche di costrittivo, è senza dubbio vero, così come la libertà di scegliere da soli le proprie letture è senza dubbio bella e salutare”. Che nel tempo le letture estive o scolastiche diventino patrimonio della nostra futura struttura di adulti è vero; ma non è vero quanto influiscano su tutti i ragazzi. L’esperienza insegna che l’universo della lettura è consentito a molti, ma non a tutti i ragazzi. La mia esperienza di lettore anomalo – in quanto per me i libri sono stati il pane quotidiano – mi ha insegnato che nessuna differenza può stabilirsi tra i libri letti a dieci anni – Delly o ‘I miserabili’ versione abregée, Liala o la versione per ragazzi di ‘Guerra e pace’ – e quelli dei sedici anni, quando ormai avevo raggiunto il tempo delle scelte meravigliose: leggevo Pavese e Proust, i russi e Calvino, mi facevo sorprendere dal mio maestro Claudio Varese a divorare sotto il banco ‘Bonjour tristesse’ di una ora ormai sconosciuta scrittrice, Françoise Sagan. Ciò che importa, ed è un commento legato alla scelta personale, non è cosa si legge ma perché si legge. Si tratti di Levi, Calvino, di Joyce o della Ferrante, di Camilleri o delle graphic novel.
Che rumorata fece, ai tempi del mio insegnamento all’Istituto Tecnico Monti di Ferrara, la decisione che presi di sostituire la lettura dei ‘Promessi sposi’ con ‘Ossi di seppia’ di Montale. Era destinata a far conoscere quell’universo sconosciuto che era – ed è anche oggi, visto lo ‘scandalo’ suscitato dalla proposta all’esame di maturità di quest’anno di commentare Caproni – la conoscenza della contemporaneità.
Ecco perché suonano singolarmente simili pur nella diversità della proposta le tesi di Di Paolo e di Belpoliti. Quest’ultimo conclude il suo articolo con una sostanziale affermazione che può e deve essere sottoscritta dai lettori qualsiasi età abbiano e da propositori che indicano loro le scelte. Qualunque siano. Cosa significa leggere? Risponde Belpoliti: “Leggere per capire, leggere per sapere, leggere per cambiare, leggere per essere diversi”.

A tal proposito, il maestrino che è in me, cerca risposte al perché della scrittura. Cosa significhi essere scrittore. E quale sia la differenza tra scrittore e giornalista. E, per i soliti disguidi del possibile, mi capita tra le mani un libro straordinario: ‘Volevo tacere’ di Sándor Márai (Adelphi 2017), il grandissimo scrittore ungherese nato nel 1900 e morto suicida a San Diego nel 1989. Autore di un romanzo fondamentale: ‘Le braci’. Questo taccuino ritenuto disperso venne scritto tra il 1949 e il 1950 e pubblicato solo nel 2013. Vi si narrano tre momenti diversi: l’Anschluss dell’Austria, l’arrivo dei carri armati russi in Ungheria nel 1945, la scelta dell’esilio in Usa nel 1948.
L’inizio è folgorante: “Volevo tacere. Ma il tempo mi ha chiamato e ho capito che non si poteva tacere. In seguito ho anche capito che il silenzio è una risposta, tanto quanto la parola e la scrittura. A volte non è neppure la meno rischiosa. Niente istiga alla violenza quanto un tacito dissenso”. La scrittura come necessità. Ecco allora il giovane e famoso scrittore, che nel momento della notizia dell’Anschluss si trova in redazione a scrivere un frettoloso commento giornalistico, che aiutasse la non troppo remunerata, seppure alla moda, attività di scrittore: “Poiché in questo paese europeo che è la mia patria lo scrittore non è mai riuscito a guadagnarsi il pane quotidiano con la sola poesia, con la letteratura fine a sé stessa, ero costretto anch’io come quasi tutti gli scrittori ungheresi, a darmi da fare come giornalista per guadagnarmi la brioche, oltre al pane che i miei scritti d’intento letterario assicuravano a me e alla mia famiglia”. Una prima differenziazione tra scrittura e giornalismo, nel quale però lo scrittore sarà “in grado di riconoscere l’eco della sua scrittura, della personalità del suo stile”. Da qui la consapevolezza di non sentirsi un ‘chierico traditore’ come a quei tempi era considerato lo scrittore che si piega ad altro del suo mestiere. Nell’ordinata esistenza di uno scrittore alla moda, nel sicuro rifugio di un metodo di lavoro spazzato via dalla Storia, Márai riflette sulla scrittura: “Lo scrittore, l’artista è convinto di trasmettere nella lingua materna un’ispirazione divina, un messaggio celeste a coloro che condividono il substrato della sua stessa lingua. In realtà io non scrivevo per una nazione, ma solo per alcune persone elette per cultura e gusto”.
Questa è la coscienza dello scrittore. Come al concerto di Vasco: 220 mila persone non sono un tutto, ma una parte. Perciò la scelta delle letture passa attraverso fattori diversissimi, tra cui il suggerimento dell’insegnante. Che può solo suggerire e non obbligare. Anche leggere Levi e Calvino sarà sempre una scelta, imposta o solo suggerita, come quella di tutti gli altri autori. Perfino del ‘Dedalus’ joyciano.
E la lettura e i libri rimarranno l’utopia ultima. Quella che permetterà a pochi, a tanti, mai a tutti di raggiungere il senso e la coscienza della realtà e/o della verità.

Lettera aperta sulle mense scolastiche

da Mara Bignardi

Egregio sig. Sergio Simeone,

Le scrivo questa lettera aperta, pur non conoscendoLa personalmente, dopo avere letto nelle scorse settimane il mio nome da Lei più volte citato sulla stampa locale nonché su diversi siti internet (Estense.com, sito M5S ed altri) a seguito della conferenza stampa attraverso la quale avete reso pubblica la segnalazione ad ANAC di quelle che Lei e il suo Gruppo Politico ritenete essere irregolarità negli appalti della refezione scolastica del Comune di Ferrara. Nell’esposizione dei fatti, in tutte le comunicazioni stampa, negli articoli pubblicati e nelle interviste rilasciate viene riportato il mio nome in quanto, a Vostro giudizio, consulente da troppi anni dell’Istituzione Scolastica.
Cito testualmente la segnalazione del M5S ad ANAC, da Lei sottoscritta, riportata poi sui vari mezzi mediatici, nel punto in cui vengo chiamata in causa: “..le figure professionali che progettano il bando e controllano l’andamento dell’appalto sono sempre le stesse da anni, quando il piano anticorruzione prevede la rotazione degli incarichi. In particolare… la dottoressa Mara Bignardi, consulente esterna per il controllo qualità, quindi con la responsabilità di rilevare eventuali inadempienze, ricopre l’incarico dal 2005”. Ritengo che queste poche righe, inserite nel contesto generale del discorso, lascino sicuramente intendere al lettore anche occasionale che la persona che viene qui citata, oltre a ricoprire forse “illecitamente” un incarico e percependo denaro pubblico, non sia probabilmente neppure stata molto in grado di rilevare le “eventuali” inadempienze della ditta di ristorazione che avrebbe avuto il compito di controllare. Chiunque può verificare dalla semplice lettura del documento da Lei richiamato, cioè il piano anticorruzione, che la rotazione degli incarichi (peraltro non sempre possibile od opportuna, come anche specificato nel documento stesso) riguarda i pubblici dipendenti; la sottoscritta non è una dipendente pubblica bensì una libera professionista iscritta all’Albo Nazionale dei Biologi che svolge dall’anno 2000 la libera professione nel settore dell’igiene e sicurezza alimentare e che dall’anno 2005, e con incarichi successivi il cui conferimento è stato effettuato a seguito di pubbliche selezioni (bandi), ha svolto un’attività di controllo sulle mense scolastiche del Comune di Ferrara. Cosa intende per rotazione nel mio caso? Che dovrei deliberatamente evitare di partecipare, pur avendone i requisiti, ad un bando pubblico per non rischiare di “occupare” impropriamente un ruolo lavorativo per molti anni di seguito? Che ci si auspica la mia sostituzione a causa di controlli effettuati in modo non corretto sulla Ditta di ristorazione per incapacità professionale o addirittura per favoritismo nei confronti della Ditta stessa? Mi risponda Lei, che non conosce né me né il mio lavoro. Mi risulta che anche ai tecnici della prevenzione delle nostre Asl succeda di dover controllare per anni gli stessi operatori economici, a volte fino alla pensione, senza che a nessuno venga in mente che questo possa diventare per loro un motivo di licenziamento! Il controllo di un servizio così complesso come quello della ristorazione collettiva che prevede la preparazione di migliaia di pasti giornalieri fa emergere, per forza di cose e come accade in qualsiasi struttura organizzativa, grande o piccola che sia, pubblica o privata, numerose problematiche che sono state sempre rilevate e conseguentemente gestite.
Cito anche un estratto della Sua replica al Sindaco Tagliani comparsa su Estense.com in data venerdì 9 Giugno 2017 “Esposto all’Anac. MS5:”Lacunosa la difesa del sindaco”: “….noi continuiamo a vedere come un’anomalia che, di fatto, la gestione della refezione scolastica in catering sia nelle mani dello stesso gruppo di lavoro da oltre 10 anni …e con mansioni (vedi il caso della dott.ssa Bignardi) di dubbia utilità poiché si sovrappongono ai compiti di controllo già assegnati per legge agli organi pubblici preposti (Asl). Esiste il buon senso, che dovrebbe sempre affiancare l’applicazione delle norme”. Precisando che non si tratta solo del catering ma anche delle scuole con cucine interne, qui mi vedo costretta a chiederLe, sig. Simeone, se è a conoscenza della normativa sull’Autocontrollo alimentare così come definito dal Reg.CE 852/2004 e del ruolo del Dirigente dell’Istituzione Scolastica in quanto OSA (operatore del settore alimentare) per la somministrazione dei pasti nei nidi e nelle scuole dell’infanzia. Mi vedo costretta a chiederLe se è a conoscenza dell’obbligo normativo, come stabilito dal codice degli appalti, di controllo da parte dell’Istituzione Scolastica sugli appalti di refezione e cito al proposito le linee guida Anac: “Le attività di controllo del Direttore dell’esecuzione devono essere strettamente correlate a quanto definito e disciplinato nei documenti contrattuali, che debbono richiamare le prestazioni indicate dall’esecutore nella propria offerta. In particolare, l’attività di controllo è tesa a verificare che le previsioni del contratto siano pienamente rispettate, sia con riferimento alle scadenze temporali, che alle modalità di consegna, alla qualità e quantità dei prodotti e/o dei servizi, per le attività principali come per le prestazioni accessorie. In generale, le attività di controllo devono essere indirizzate a valutare, ad esempio, i seguenti profili: − la qualità del servizio/fornitura (aderenza/conformità a tutti gli standard qualitativi/SLA richiesti nel contratto e/o nel capitolato)”. Mi vedo infine costretta a chiederLe se è a conoscenza del fatto che nessuno degli obblighi normativi sopra citati, e cioè autocontrollo e controllo sugli appalti di refezione nell’ambito dei quali svolgo la mia funzione di consulente, rientra tra i compiti istituzionali degli organi pubblici di controllo che devono invece verificare che tali adempimenti vengano effettivamente soddisfatti, come è infatti sempre accaduto.
Leggendo quanto da Lei dichiarato, e cioè che le mansioni da me svolte in questi anni, peraltro completamente ed ampliamente documentate, sarebbero “di dubbia utilità poiché si sovrappongono ai compiti di controllo già assegnati per legge agli organi pubblici preposti (Asl)” mi sono anche chiesta se il buon senso di cui Lei parla subito dopo non sarebbe invece dovuto servire a documentarsi un po’ meglio prima di pubblicare affermazioni che, mi creda, anche solo in poche righe feriscono profondamente. Le auguro vivamente che nessuno venga mai a dirLe che il lavoro da Lei svolto da anni è di “dubbia utilità”, Le auguro di non vederlo scritto sui giornali. Lascia davvero l’amaro in bocca, soprattutto se quel lavoro ha sempre cercato di svolgerlo con correttezza, impegno e professionalità, nel rispetto di quella deontologia che viene sì richiesta dagli Ordini di professionisti ma che è anche dettata da coscienza individuale. Le devo confessare che proprio per queste ragioni tutto ciò mi ha tolto qualche notte di sonno e una buona dose di serenità. Non metto in discussione il diritto che hanno qualsiasi cittadino o parte politica alla critica o contestazione dell’operato di una Pubblica Amministrazione: siamo in un paese democratico ed esistono gli strumenti opportuni per poterlo fare. In questo caso però si è andati oltre, attaccando e, mi permetta di dirlo, danneggiando personalmente una figura professionale senza i dovuti approfondimenti e senza pensare (o peggio senza interessarsi) alle possibili gravi conseguenze: Le ricordo che sono una libera professionista che opera in ambito locale e La invito a pensare alla possibile incidenza delle dichiarazioni che ha rilasciato con un così elevato clamore mediatico sulla mia reputazione e sul mio futuro lavorativo anche in ambito privato, oltre ai possibili risvolti che questa vicenda potrà avere. Non tutto Le può essere lecito nell’esercizio dei suoi diritti e mi pare che stavolta si sia davvero sconfinato.
Ho ritenuto doveroso dare una pubblica risposta di chiarimento essendo stata chiamata direttamente in causa, doveroso nei confronti dei numerosi cittadini i cui figli sono utenti della ristorazione scolastica, nei confronti degli operatori delle scuole (insegnanti, personale di cucina, ausiliari) con la cui preziosa collaborazione ho sempre lavorato e doveroso anche nei confronti dei miei figli affinché non venga loro a mancare, una volta adulti, quell’etica del lavoro che cercherò certamente di trasmettere loro come valore; sforzo educativo che le Sue affermazioni, se fossero rimaste senza una mia risposta, avrebbero certo vanificato.

La saluto distintamente

Storia di Maria Rita Storti: da insegnante a premiata produttrice cinematografica

da destra- Maria Rita Storti, Ilaria Battistella, Marco Cassini, Stefano Muroni

Ci sono esperienze, nella vita, che vale la pena di vivere e basta: bisogna solo non aver paura di mettersi in gioco”. Impossibile non dare ragione all’insegnante Maria Rita Storti, la prima a credere nel film sul terremoto dell’Emilia, ‘La notte non fa più paura’, opera prima del regista Marco Cassini. La docente ferrarese nel 2014 si offrì come produttrice di un progetto che stentava a decollare: un film per raccontare il terremoto del 2012, il senso di precarietà che il sisma aveva fatto avvertire ai ferraresi, descrivendo al tempo stesso l’incertezza delle condizioni sociali che rendono instabile la vita quotidiana. Insegnante di Filosofia e Scienze Umane al Liceo di Codigoro, abituata a lavorare e a rapportarsi con i ragazzi, Maria Rita Storti era così convinta di questa idea, così come del talento e della determinazione dei giovani professionisti coinvolti nel progetto, che decise di stanziare il contributo fondamentale per la realizzazione della pellicola, non curandosi di chi guardava con sospetto la sua ‘follia’.

La ‘meravigliosa follia’ della ‘Notte’, è stata un’esperienza umana e conoscitiva importante – racconta Maria Rita -, che mi ha permesso di incontrare persone splendide e di imparare tante cose che non conoscevo del mondo del cinema”.

Autentica, spontanea, curiosa, profonda, empatica, l’insegnante tresigallese ama la cultura: adora leggere, viaggiare, condividere esperienze.
La foto delle sue scarpe da ginnastica immortalate sul ‘Red Carpet’ della Festa del Cinema di Roma (scelta come profilo sulla pagina Facebook) rivela la sua ironia e la sua capacità di essere ‘unconventional’, sopra le righe.
‘La notte non fa più paura’ dal 2015 continua a collezionare prestigiosi riconoscimenti. Ma Maria Rita ha scelto di non adagiarsi sugli allori e di rituffarsi in un nuovo progetto giovane.
Nei giorni scorsi a New York, in occasione della presentazione di New Young Cinema – una community di giovani professionisti del cinema, creata con lo scopo di conoscersi e scambiare esperienze tra italiani e statunitensi – è stato presentato il trailer de ‘La porta sul buio’, opera seconda del regista Marco Cassini. Questo nuovo film vede ancora il coinvolgimento di Maria Rita Storti: “Ho 58 anni, e ‘quelli del film’, che potrebbero essere tutti miei figli, affettuosamente mi chiamano ‘boss’ o ‘zia’. Adesso sono diventata ‘bi-boss’ o ‘superboss’ o ‘zinna'”.

Di che cosa parla ‘La porta sul buio’?
È una storia completamente diversa dalla ‘Notte’. È un film tratto da un testo teatrale scritto da Marco Cassini nel 2009 (il volume è disponibile su Amazon), già rappresentato con successo a teatro. Per il film, girato a Pescara nel maggio scorso, sono state scelte maestranze abruzzesi, ma con un respiro internazionale. È una storia di suspense, con tre protagonisti, ambientata in un appartamento; c’è paura e tensione drammatica ma anche commedia: la porta è il simbolo di un Altro e di un Altrove. ‘La porta sul buio’ si potrà vedere al cinema nel 2018.

Che cosa l’ha spinta a sostenere questa seconda pellicola?
È stata l’esperienza de ‘La notte non fa più paura’, unita alla stima e all’amicizia che ho per Marco, che mi ha fatto scegliere di essere coinvolta anche in questo film. Oltre al regista Cassini ci sono altri professionisti che ammiro e che hanno lavorato alla prima pellicola: Martina Colli per la colonna sonora (stupenda quella della ‘Notte’) e il tresigallese Stefano Muroni, uno degli attori protagonisti.

La prima ‘scommessa’ è andata a segno, con risultati che hanno superato le aspettative. Non ha paura di lanciarsi in una nuova avventura?
Ho deciso di nuovo di fidarmi della mia lungimiranza. Con ‘La notte’, per me la soddisfazione è aver intuito che valeva la pena dare fiducia a questo progetto culturale, che ispirava la mia sensibilità artistica. Amo leggere, sono una lettrice onnivora, mi piace il buon cinema, andare a teatro, viaggiare, oltre alla buona tavola (sorride). Ho scritto anche un testo che è stato messo in scena in teatro a Tresigallo il mese scorso.

Come è andata con ‘La notte non fa più paura’?
Il percorso del primo film è stato accidentato, ma alla fine ha portato risultati sorprendenti: ‘La notte non fa più paura’ ha ottenuto a giugno una menzione speciale ai Nastri d’Argento ed è stato ammesso ai David di Donatello 2018. Inoltre è stato acquistato da Sky Cinema, ed è uscito un libro in edizione limitata con le foto scattate sul set.
‘La notte non fa più paura’ rappresenta un punto di arrivo incredibile per un ‘piccolissimo-grandissimo’ film indipendente, girato in dieci giorni e con pochi soldi. Arrivare a questi risultati era impensabile, anche per me che l’ho finanziato per la maggior parte. Situazione quasi unica nel panorama del cinema raggiungere questi risultati con un’insegnante di un liceo di provincia come ‘produttrice-mecenate’!

Da destra- Maria Rita Storti, Walter Cordopatri, Giorgio Colangeli

Perché ha deciso di finanziare il film?
La storia è nota a tanti. Dopo il terremoto del 2012, Walter Cordopatri, Samuele Govoni e Stefano Muroni scrivono il soggetto di una storia ambientata ai tempi della crisi economica, a cui si aggiunge il terremoto che ne amplifica, in maniera tragica, le difficoltà. I ragazzi contattano un giovane regista di Teramo, Marco Cassini, che da abruzzese aveva vissuto il terremoto del 2009 a L’Aquila, e una produttrice esecutiva ferrarese, Ilaria Battistella.
Trovare i soldi per girare il film non era facile: dopo 47 ‘NO’ raccolti nel giro di un anno mezzo, alla fine io decido di versare parte dei risparmi personali (ventimila euro) perché questo film venga girato. Lo ritenevo, infatti, un film necessario per lasciare testimonianza di quel periodo, per onorare la memoria di chi è morto sotto i capannoni, per contribuire – attraverso una narrazione – alla rielaborazione delle ferite dell’anima in chi è rimasto. A questi miei soldi, poi se ne sono aggiunti altri sotto forma di piccoli finanziamenti provenienti da vari soggetti. Nel settembre 2014 il film è stato girato a Mirabello.

C’è un momento, tra i tanti vissuti in questi tre anni, che per lei resta indimenticabile?
Beh, è stato impagabile vedere il sorriso e il guizzo di commozione negli occhi blu di Marco Cassini mentre mi diceva ‘Grazie!’ il giorno in cui l’ho conosciuto.

Ma questo ormai fa già parte del passato…
Adesso che sono stati raggiunti traguardi importanti, sono in molti a complimentarsi, e questo mi fa piacere, ma io penso già alla nuova avventura della ‘Porta sul buio’. Con l’entusiasmo alle stelle.

Un fantasma sociale di nome ‘casalinga’

E’ da tempo che penso di scrivere nuovamente qualcosa sul lavoro casalingo delle donne. E’ un il mio pallino, da quando ho perso il lavoro e sono andata ad ingrassare le fila degli ‘angeli del focolare’. Cercavo un appiglio, uno spunto, una moderna chiave di lettura ad un fenomeno, quello della donna che lavora a casa, che sembrava quasi un retaggio del passato, o di certe condizioni socio economiche ancora arretrate nel nostro Paese, ma che è andato invece crescendo negli ultimi tempi. Donne giovani messe a casa per la crisi economica o per la nascita di un figlio. Donne istruite, donne abituate a pensare a sè come ad un essere indipendente, donne illuse che il lavoro debba far parte della realtà quotidiana di ognuna ed invece si trovano calate, come in un fantastico viaggio nel passato, nei panni delle loro madri o nonne. Poi, come spesso accade, la chiave per interpretare la realtà presente è arrivata dal passato: da un documentario di TV7 del 1971 intitolato appunto ‘L’angelo del focolare’. “Ogni lavoro può diventare disumanizzante- recita la voce composta ed impostata del giornalista- la ripetitività, l’isolamento, la difficoltà di rapporto con gli altri, il dover essere sempre a disposizione per i bisogni degli altri, rendono stressante l’attività della casalinga. Il suo scontento è aggravato dal non riuscire a trovare, nel corso della giornata, uno spazio personale, una occasione di recupero”. Ed infatti una signora intervistata all’uscita dalla parrucchiera confessa timida “Mi sembra di rubare il tempo e portarlo via. Non ho tempo di curarmi ma so che lo dovrei fare” Perchè?”, chiede il giornalista “Perchè i mariti vogliono che le loro mogli siano delle bravi casalinghe ma devono essere anche sempre in ordine, non si debbono trascurare, devono essere piacevoli e sorridenti. Non c’è rivista femminile che non lo dice. Eppure io la mattina quando apro gli occhi e comincio a pensare a tutte le cose che vengono avanti nel corso della giornata, desidererei fosse già sera per tornare a dormire. Questa è una cosa avvilente per una donna: possibile che non ci sia niente altro che dormire?

“La monotonia la opprime- incalza il cronista- e allora anche l’amore per i figli diventa un compito gravoso che l’amore non riesce del tutto a ripagare”. Una mamma con una bambina al parco si confessa davanti al microfono “Sono una mamma, cosa devo fare? Si sono voluti i figli e bisogna tenerseli e dare tutto il possibile”. La voce narrante comme nta che persino i rapporti con i figli possono perdere di autenticità e di valore quando sono vissuti come un dovere alla cui ripetitività non ci si può sottrarre. “E ‘ un incubo per una madre- dice la donna mentre gioca con la sua bambina- sempre le stesse cose, le stesse chiacchiere, le stesse cose: figlioli, figlioli, figlioli. Non c’è che figlioli. Ma io sono una mamma e lo devo fare”. Intorno ad una tavola si consuma il quieto pasto di una tipica famigliola medio borghese: il padre, in maniche di camicia sorbisce la minestra prima di tornare al suo lavoro, probabilmente di impiegato. Il bambino è composto e mangia compito, la madre afferma “ Non credo che il ruolo di casalinga sia un ruolo realmente scelto dalla donna italiana. Anzi questo credo sia un discorso di comodo che viene fatto da chi vuole che la donna rimanga in casa e non entri con tutto il suo peso nella società. Le donne stanno in casa non hanno altre possibilità: anche quando trovi un asilo o una scuola che possono ospitare il bambino per certe ore della giornata spesso lo fa in maniera non soddisfacente”.

Interpellato sul fenomeno delle donne che non lavorano un medico parla di ‘nevrosi della casalinga, come di un fenomeno comune per l’epoca “Sboccia molto frequentemente ora perchè la donna che si trova a casa sempre di più, rispetto alle esigenze delle mamme e delle nonne di prima, a tante e molteplici esigenze e sollecitazioni che vengono da ‘fuori’ e non si sente più soddisfatta di chiudere i suoi interessi intorno alla vita della sua casa.Cerca nel sogno quello che manca nella sua vita. Si butta nel cibo o l’acquisto e il possesso di cose inutili. Quando gli affetti che la circondano non la ripagano della routine quotidiana l’ansia può divenire intollerabile”.
Questo spaccato di vita risale a 36 anni e fa e mi chiedo cosa sia cambiato. Niente, mi sento di rispondere. Al contrario, la situazione è peggiorata. Se in passato la condizione servile della donna era data per scontata, e solo con il ‘68 sono iniziate a vacillare le basi fondanti della società che voleva l’uomo capofamiglia e la donna asservita a marito e figli, ora, almeno formalmente, è diffusa l’idea di una parità tra i sessi che vuole la donna concorrere con l’uomo per la conquista di un proprio ‘posto al sole’. Eppure a fronte di una società che pone la tutela del bambino e della bambina quale obiettivo primario, una società che si interroga sulla discriminazione di genere fin dalla sua più tenera età, che riscrive le favole classiche perchè le bambine crescano autonome e non sognino più il principe azzurro, che modifica la pubblicità perchè non esistano più giochi da maschio o da femmina ma tutti possano, giustamente, esprimersi nel gioco senza barriere sessuali, in questa società che continua a ripetere alle bambine di poter fare ciò che sognano, ebbene è proprio questa società che condanna le madri di queste bambine ad una vita di non lavoro. E se nel 1971 si inizia a sentire forte da parte della donna il richiamo ad un ‘mondo esterno’ che le chiedeva di rompere le mura domestiche e far parte della società, quanto è più vera e terribile oggi la discrasia tra ciò che, con gli attuali mezzi di comunicazione, ci si illude sia a portata di mano e una vita da casalinga che in poco è cambiata da quella del passato?

La donna, come un mostro a più teste, deve ricoprire tutti i ruoli che le vengono richiesti: lavoratrice, madre, moglie. E deve farli al meglio visto che le riviste femminili dagli anni ’70 in poi sono ben poco cambiate e propongono sempre un modello di donna factotum vincente e bellissima. Se poi al ruolo di casalinga si somma quello di madre il peso è doppio. Un peso inflitto, come un invisibile burqua, da una società benpensante in cui la dea-madre è un essere mitizzato a tal punto da non prestare ascolto alle esigenze più che terrene di donne in difficoltà: il licenziamento che pende come una spada di Damocle sulla testa delle donne in età fertile, gli asili scarsi e carissimi, una diffusa solitudine dovuta al disgregamento del nucleo famigliare originale che, sempre più, negli anni, vede i membri di una stessa famiglia disseminati in posti spesso lontanissimi. Aspetti di modernizzazione della nostra società convivono, drammaticamente, con refusi del passato in una snervante altalena in cui alla donna viene detto “potresti ma non puoi”. Non rimane che augurarsi che le nuove generazioni, vedendo un documentario sugli ‘angeli del focolare’ del 2017, non pensino anche loro “nulla è cambiato”.

Scontro Movimento 5S e Comune sulla refezione scolastica: “Comportamento follemente incoerente che danneggia i cittadini”.

Incontro il consigliere comunale del Movimento 5S Sergio Simeone nel suo ufficio e subito la discussione si fa accesa.
Che gli stanno molto a cuore i temi oggetto dell’intervista si vede dall’accuratezza con cui snocciola dati e spulcia i numerosi documenti che si è portato dietro.
Doveva essere una intervista canonica ma, alla fine, è stata una chiacchierata di oltre un’ora.
“Sono tre i fronti che stiamo tentando di affrontare -mi spiega- e riguardano la mozione per consentire ai genitori di fornire i propri figli di un pasto casalingo a scuola, l’interrogazione sul menù vegetariano-vegano per le famiglie che lo richiedono alla scuola e l’esposto all’Anac sull’ infinito appalto comunale delle mense scolastiche alla Cir”.

Con riguardo al primo punto, il 27 giugno 2016 il gruppo consiliare dei 5S ha presentato al presidente del consiglio comunale una mozione con la quale si chiedeva all’Amministrazione di ‘preparare le scuole ad adottare, sin dal prossimo anno 2016-2017, idonee misure organizzative (…) per consentire l’esercizio del diritto di ogni genitore di scegliere per i propri figli tra refezione scolastica e il pasto domestico’.
“Ci siamo fatti portavoce -dice Simeone- del malcontento di molti genitori che lamentano il fatto che il cibo della mensa scolastica sia di cattiva qualità, venga servito freddo e senza che si sia fatta chiarezza sull’utilizzo delle materie prime usate per la sua preparazione. Ci sono genitori che vogliono dotare i propri figli di un pasto preparato a casa, sia per motivi religiosi, etici o economici, ed una amministrazione che funziona ha il dovere di prendersi a cuore il benessere del cittadino”.
A tal fine si è costituito anche il comitato ‘Mens Sana’, formato da circa un centinaio di genitori, di cui una ventina attivi, interessati a combattere il monopolio della refezione scolastica.
“Dopo 8 mesi dalla presentazione della mozione -dice Simeone- l’Istituzione scuola ci ha risposto dicendo che servono ‘tempi tecnici’ per esaminare la questione. Non si dice un ‘no’ deciso e si preferisce adottare una strategia della dilazione per evitare delle azioni legali che i genitori vincerebbero di sicuro”.

L’interrogazione sull’introduzione del menù vegetariano-vegano a scuola è stata presentata nel marzo 2017 e in essa si dava conto che ‘alcuni genitori di bambini frequentanti asilo nido, scuola materna, scuola primaria di Ferrara riportano di avere avuto notizia di una sperimentazione in corso, in qualche istituto della città, che prevederebbe la somministrazione ad alcuni bambini di menù cosiddetti sperimentali vegani e vegetariani’.
“La notizia dell’introduzione di tale menù si era diffuso come un passaparola tra i genitori, senza che ci fosse stata alcuna comunicazione ufficiale da parte dell’Amministrazione – dichiara Simeone- noi siamo intervenuti e posso affermare che l’essersi mossi, a livello di comitato e movimento, ha permesso il risolversi di una situazione cristallizzata ormai da anni”.
Il 13 giugno, infatti, l’Istituzione scuola ha risposto che ‘nel periodo settembre 2016-gennaio 2017 è stata data risposta positiva a quei genitori che hanno richiesto dieta vegetariana-vegana all’avvio dell’anno scolastico 2016-2017’. E che le Commissioni mensa erano state avvertire dell’avvio di tali menù.
Il consigliere però non è del tutto soddisfatto “tale processo non è stato ben condotto e ci sono alcune palesi stranezze. L’opzione del menù vegetariano-vegano è uscito il giorno dopo della risposta. Inoltre, cosa ancora più eclatante, il menù è stato predisposto dal nutrizionista della Cir e non da quello del Comune. Trattasi di un comportamento follemente incoerente e che denota un disprezzo per le esigenze manifestate dai genitori. Sono 20 anni che si chiedeva l’introduzione di questo tipo di menù, eppure in Commissione non se ne è parlato. Non è stato affrontato come un processo di crescita ma una elargizione dovuta alla bontà dell’amministrazione comunale”.
Si arriva poi a parlare dello spinoso tema dell’esposto presentato all’Anac per far luce su quello che viene definito dal movimento ‘l’ appalto senza fine’ della Cir Food per il servizio refezione scolastica cittadina.
“Il susseguirsi degli appalti della Cir è anomalo- afferma Simeone- e va avanti da prima degli anni 2000. C’è stata una breve interruzione di 3 anni e poi, dal 2003, è iniziato ufficialmente con dei bandi di gara della durata di 3 anni in 3 anni”.
Nell’agosto del 2015 la ditta Cir ha presentato all’Amministrazione di Ferrara, una proposta di un ‘project financing’ per l’allestimento di un centro pasti, e gestione del servizio di refezione scolastica cittadina presso l’ex Macello.
“Nel 2015, casualmente in concomitanza con la presentazione di questo ‘project financing’, l’appalto della Cir è divenuto annuale, e da allora è stato prorogato per ben 4 volte senza che sia uscito alcun nuovo bando. Appare evidente che il tutto è fatto per favorire il progetto della Cir e da parte nostra non può che esserci una condanna netta e definitiva di questo fatto”.
Nell’esposto, presentato il 16 maggio 2017, dal consigliere comunale Simeone, si legge inoltre che ‘si segnala che le persone che determinano contenuti degli appalti e andamento del servizio sono le stesse oramai da molti anni. In specifico, il dottor Mauro Vecchi, direttore dell’Istituzione dei Servizi Educativi Scolastici e per le Famiglie, responsabile dei procedimenti di gara e unico soggetto che può applicare penali in caso di inadempienze, ricopre l’incarico dal 31/10/2010; la dottoressa Mara Bignardi, consulente esterna per il controllo qualità (e dunque personale tecnico che può rilevare eventuali inadempienze), ricopre l’incarico dal 2005; il professor Canducci, docente dell’università di Ferrara e consulente esterno per la redazione dei menù, determina indirettamente qualità e quantità delle derrate influendo sul costo dell’appalto, ha ricoperto l’incarico dagli anni 90 al 2016 (ad oggi l’incarico risulta essere vacante)’.
Chiedo al consigliere quali siano, per il futuro, gli obiettivi del movimento 5S “abbiamo intenzione di chiedere dei chiarimenti sulla refezione scolastica ed analizzare gli split di spesa” risponde Simeone.
“Ci piacerebbe che l’Amministrazione prestasse maggiore attenzione alle necessità dei propri cittadini. con il comitato ‘Mens Sana’ abbiamo organizzato una serie di incontri, che il Comune ha deciso di non patrocinare, ai quali hanno partecipato il prof. Canducci, nutrizionista del Comune, e il dott. Berveglieri. Si è trattato di uno scambio interessante ed entrambi i medici, pur artendo da posizioni diverse, hanno concordato nel dire che i menù proposti nelle mense scolastiche sono vetusti e andrebbero rivisti. Di sicuro i genitori più soddisfatti sono quelli che mandano i figli in una scuola dotata di mensa interna. Ma ormai sono una rarità”.

Clara Festival, la prima finalista è la giovanissima Giulia Disarò

Da Clara

Dodici anni, ferrarese, una vocalità da fare invidia a cantanti professionisti e una presenza scenica elegante ma spontanea: è Giulia Disarò la giovane vincitrice della prima serata del Clara Festival, l’iniziativa a tappe promossa da CLARA spa e organizzata da MadeEventi con la direzione artistica di Rossano Scanavini, mirata a valorizzare i talenti del territorio e partita ieri sera da Bondeno, nell’ambito del LocalFest.
I riflettori sulla piazzetta Andrea Costa si sono accesi alle 21.45 circa, con la conduzione di Paola Sangermano, speaker di Radio Bruno, accompagnata sul palco da Roberto Ferrari, illusionista e ventriloquo, che con un sorprendente gioco di prestigio ha introdotto da subito il tema che insieme alla musica accompagnerà tutto il festival, cioè l’ambiente e il valore dei rifiuti come risorse.
Poi la competizione è iniziata: si sono avvicendati sul palco ben quattordici concorrenti, di età variabile tra gli 11 e i 60 anni, che hanno proposto cover o brani inediti dei generi più disparati, dalla lirica (col Nessun Dorma intrepretato da Mauro Balsamini) al rap di Riccardo Valeriani, passando dalla musica leggera e dal pop, italiano e internazionale. Un’offerta musicale variegata insomma, che ha fatto divertire un pubblico di tutte le età.
La giuria ha scelto come prima classificata l’interpretazione della talentuosissima Giulia, che si è esibita nel pezzo “My immortal” degli Evanescence e che si aggiudica di diritto un posto nella finalissima, prevista per sabato 23 settembre a Copparo. Altri due concorrenti saranno inoltre ripescati dalla giuria per tornare ad esibirsi in una delle prossime tappe, e avere così una seconda occasione.
Lo spettacolo è proseguito fino alle 11.30, con i concorrenti in gara intervallati da ospiti di fama anche sovralocale, come Roberto Rimondi, interprete di alcune cover di Gianni Morandi – al quale assomiglia fisicamente e nelle movenze, oltre che nella voce e nello stile canoro – e della giovane promessa di Dogato Chiara Sandrini, premiata nel 2016 come miglior esordiente al Sanremo Music Awards. Roberto Ferrari ha intrattenuto la platea più volte nel corso della serata con simpatici sketch che hanno coinvolto anche il pubblico.
La prossima tappa sarà quella di Comacchio, sabato 12 agosto. C’è dunque ancora tempo per i gruppi e per i singoli cantanti che desiderano partecipare. La scheda di iscrizione e il regolamento si trovano sulla pagina Facebook @Clarafestival e sul sito di CLARA spa www.clarambiente.it
Info anche attraverso gli indirizzi email clarafestival@clarambiente.it, clarafestival@libero.it e al numero 393.1181586.

I disastri ambientali e la piaga del negazionismo

di Chiara Balestra

Mi trovo spesso a pensare al comportamento errato dell’uomo, a come non porti rispetto alla propria terra di origine. Ogni giorno vedo i miei coetanei buttare i rifiuti per terra, che si tratti di mozziconi di sigaretta, pacchetti di plastica o bicchieri di plastica, come se per loro fosse una cosa da niente. Non ci riflettono, come quando un minuscolo moscerino gli gira intorno: lo uccidono, non lo soffiano via o lo osservano, gli tolgono la vita, lo eliminano. D’altra parte come si può portare rispetto delle cose altrui se prima non lo si ha per sé stessi?

Sono rimasta colpita da un  film-documentario che si intitola ‘Before the flood’, che in italiano significa ‘punto di non ritorno’, condotto dall’ambasciatore di pace degli Usa Leonardo Di Caprio, contro i cambiamenti climatici. Di Caprio si batte per dimostrare a tutti una verità scomoda: il cambiamento climatico legato ai combustibili fossili prodotti dall’uomo per le sue attività industriali, anche se c’è ancora chi nega l’evidenza delle catastrofi che compiono davanti ai nostri occhi, come innondazioni, uragani, scioglimento dei ghiacciai. La cosa più grave di questo comportamento è la consapevolezza.

La consapevolezza delle nostre azioni, di come stiamo distruggendo il nostro pianeta: dovremmo essere guidati da un governo che si occupa della salute e della salvaguardia dell’uomo e dell’ecosistema, ma ancor più tristemente sono proprio i politici che confondono l’opinione pubblica per i propri vili interessi.
Come ben sappiamo la combustione di carbone e petrolio rilascia nell’aria monossido di carbonio, che è la principale causa del cambiamento climatico.
Gran parte della nostra economia si basa sui combustibili fossili: carbone, petrolio e gas naturale. Il petrolio è soprattutto destinato al settore dei trasporti mentre il carbone e il gas naturale vengono ripiegati per l’elettricità, non esiste un carburante fossile pulito. La prima ripresa del film viene girata nella punta settentrionale di Buffin Hailand, una delle principali isole che compongono l’arcipelago artico canadese. Qui è stato riscontrato, da studiosi e persone del posto che, mentre in passato il ghiaccio era solido e blu, ora gli si attribuisce la forma di un gelato dal colore celeste. Il ghiaccio c’è ancora ma si scioglie molto più velocemente. Gli stessi studiosi hanno stimato che nel 2040 sarà possibile la navigazione del Polo Nord, visto che l’impiego eccessivo di combustibili fossili provoca lo scioglimento dei ghiacci. L’Artico esercita la funzione di condizionatore d’aria per l’emisfero settentrionale e la sua scomparsa determinerebbe il cambiamento delle correnti e dei cicli climatici, con conseguenti inondazioni, siccità e sviluppi catastrofici. Sarà la trasformazione ambientale più drammatica mai avvenuta nella storia.

Poi il conduttore si reca in Florida, negli Stati Uniti d’America, dove incontra il presidente Obama che gli spiega che è costretto a intervenire per le inondazioni di cui è vittima lo Stato: improvvisamente il livello del mare si innalza salendo dai tombini e allagando le città. Gli interventi sono l’innalzamento delle strade e pompe elettriche – pagate dai cittadini – che garantiscono un rimedio per tale fenomeno soltanto per 40-50 anni massimo.

Ricordiamo che il 97% dei climatologi considera la  teoria del riscaldamento globale una verità scientifica esattamente come la teoria della forza di gravità. Di Caprio intervista il noto scienziato Michael E. Mann, autore insieme ad altri scienziati del grafico definito ‘bastone da hockey’ perché indica un raffreddamento a lungo a termine e poi un’improvviso riscaldamento molto veloce e senza precedenti. In seguito alla diffusione di questo grafico Mann, come lui stesso racconta nel film, è stato diffamato sulle pagine del ‘Wall street journal’ e su ‘Fox news’, definito un ‘ciarlatano’ e attaccato dai membri del Congresso e perfino minacciato di morte. Ci sono personaggi, spiega Mann, che confondono l’opinione pubblica su questa tematica e lui fece appunto dei nomi, riferendosi ai fratelli Cook – una specie di macchina propogandistica per il negazionismo dei cambiamenti climatici – e ai gruppi come ‘American for prosperity’ che fa capo direttamente ai fratelli Cook.
Lo stesso Mann denuncia il fatto che il Presidente della commissione ambientale del Senato e i membri delle Camere sono supportati finanziariamente anche dai produttori del settore petrolifero. Ecco il motivo per cui non si riesce a far passare un progetto a tutela dell’ambiente al Senato: perché le lobby foraggiano i negozionisti che bloccano qualsiasi proposta ambientale. Successivamente Di Caprio si sposta in Cina, dove solo nell’area intorno a Pechino e nell’isola di Shangon il consumo complessivo di carburante è pari a tutti gli Stati Uniti e il livello di tossicità arriva alle stelle. Ma una cosa buona c’è: è l’invenzione di un’applicazione fatta dal presidente cinese grazie alla quale i dati delle industrie non a norma dal punto di vista della sostenibilità ambientale vengono resi trasparenti a tutti gli abitanti. La Cina sta investendo notevoli risorse in energie rinnovabili, eoliche o solari, per esempio i pannelli ricoprono anche le industrie, edifici.

Il documentario mostra che in India solo una piccola parte della popolazione ha diritto all’elettricità. Nei villaggi rurali le persone utilizzano il letame delle mucche per ricavare le cosiddette torte di sterco che, una volta bruciate, costituiscono l’unica fonte di energia.
In Indonesia l’80% delle foreste è stato distrutto, attraverso incendi dolosi, per l’insediamento di palme da olio per produrre l’olio di palma da commercializzare a basso costo per la produzione dei cosmetici e la cucina più industrializzata. Le aziende ottengono, attraverso modi illeciti, autorizzazioni per bruciare intere piantagioni mettendo a repentaglio la vita dell’intera popolazione, anche preziose specie di animali saranno destinate a scomparire.

La soluzione a questi problemi c’è, per esempio la Carbontax, una tassa sul carbonio: si tassano tutte quelle attività nocive che hanno ripercussioni sulla società e, di conseguenza, aumentando i costi si disincentiva la popolazione ad acquistare i prodotti incriminati. Bisognerebbe puntare maggiormente sulle energie rinnovabili, fotovoltaico, eolico e idroelettrico, che non emettono sostanze nocive e tossiche per l’atmosfera. L’obiettivo dell’accordo della conferenza di Parigi stipulato nel 2015 è di tenere il riscaldamento globale inferiore ai 2 gradi centigradi; 195 paesi del mondo si sono impegnati per portare a termine questo obbiettivo, ogni cinque anni tutti i paesi decidono se restare dentro questo accordo: proprio quest’anno il neo presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato la volontà di uscire dall’accordo definendo il global warming “Una truffa”.

Il pericolo è che si arrivi ad un punto di non ritorno e il benessere del nostro pianeta si definitivamente compromesso

I giochi della finanza e i rischi per l’economia reale

Le borse funzionano facendo affidamento sulla leva continua, cioè sull’idea che il valore dei titoli alla fine cresca sempre, e questo nonostante gli insegnamenti della storia, crolli del 1929 e del 2007 compresi.
L’oramai mito secondo cui le aziende si quotano in borsa per racimolare fondi al fine di aumentare la loro liquidità da utilizzare in investimenti è ampiamente smentito dai fatti. Nei fatti sono invece le borse che racimolano soldi dalle aziende, togliendoli a investimenti in economia reale, frenando la ripresa e alimentando le bolle.
Dal 2007 al 2015, per nove anni, le imprese quotate a Milano hanno infatti raccolto a Piazza Affari meno di 80 miliardi di euro mediante aumenti di capitale e Ipo, ma hanno restituito circa 190 miliardi attraverso dividendi, buyback e Opa (fonte: Il sole24ore).
In pratica significa che molti soldi, la differenza, sono finiti dalle aziende ai mercati finanziari italiani e ovviamente stranieri in quanto a Piazza Affari gli investitori sono internazionali. Quindi, in un periodo di vacche magre in termini di moneta circolante, altre risorse spostate dall’economia reale ai giochi della finanza, che purtroppo giochi innocenti non sono.

Negli Stati Uniti il fenomeno è ovviamente amplificato, in particolare in tema di buy back, infatti secondo le stime di William Lazonick della Harvard Business Review, le aziende quotate a Wall Street tra il 2003 e il 2012 hanno usato il 54% degli utili per ricomprare le proprie azioni in Borsa e il 37% per pagare dividendi (fonte: Ilsole24ore).
Ma perché è così importante in questo contesto il tema del buy back? Che tradotto vuol dire che le aziende ricomprano i loro titoli sul mercato? Perché ricorda molto quanto successo nel 1929, quando la corsa al rialzo dei titoli portò al disastro che conosciamo. A quel tempo, infatti, si usciva dal fenomeno delle lottizzazioni della Florida che aveva visto speculatori di ogni sorta comprare per anni terreni mai neppure visti in cartolina soltanto per poterli rivendere a prezzo maggiorato.
Anche questo giochino durò fino a quando la logica si stufò e il crollo nelle quotazioni riportò alla realtà dei terreni acquitrinosi e ai quattro soldi del valore iniziale. Poi ci fu il crollo di Wall Street e del sogno per cui un titolo poteva solo aumentare di valore. Ci si risvegliò anche lì all’improvviso per imprecisate motivazioni e con conseguente Grande Depressione che, del resto, poco aveva a che fare con quel crollo.
Lasciando da parte la storia, che come dicono quelli seri “insegna ma non ha scolari”, l’agonia fu portata avanti proprio con il trucchetto del ricomprarsi le proprie azioni per tenere alto il loro valore. In borsa vale la fiducia nella crescita ed evitare dubbi generati da un crollo delle vendite è uno dei motivi che può far crollare il sistema. Il buy back è uno dei metodi per non farlo accadere, o meglio per ritardarlo. E’ anche sintomo però che qualcosa comincia ad incepparsi, almeno nel mondo della finanza.
Nel nostro, dovrebbe essere invece l’esempio delle assurdità sulle quali si fonda la nostra idea di economia. Un’azienda non va in borsa per cercare capitali per le sue attività reali, ma per speculare sui suoi stessi titoli e far arrivare maggior dividendi agli azionisti e guadagni agli amministratori.
Il punto è che non siamo tutti azionisti né tantomeno amministratori e magari vorremmo vivere di economia reale (pomodori), invece ci tocca non solo assistere inermi ma poi, quando il gioco finisce, ci tocca anche rimettere insieme i cocci. Pure nel 1929 non erano tutti azionisti, anzi. Si calcolavano all’incirca 600.000 possessori di azioni e molti, ma molti di meno, erano puri speculatori, eppure tutti si dovettero sobbarcare, in un modo o nell’altro, le conseguenze delle azioni di quei pochi.
Tutto uguale oggi. Chi gioca guadagna in tempi di boom e festeggia le sue vincite, quando poi c’è la crisi la maggioranza deve accettare le politiche di austerità che portano altri guadagni sempre agli stessi giocatori determinando conseguenze tipo che 85 persone nel mondo hanno quanto 3,5 miliardi di persone, oppure che una decina di multinazionali fanno il pil di 180 nazioni.

Dalla mitologia greca ai giorni nostri le donne nella morsa dello stalking

Stalking, una parola che stride, mette disagio per il suono secco con cui viene formulata. Se si pensa poi che l’etimologia di stalking, nel mondo della caccia, significa ‘camminare con circospezione, tendere un agguato, spiare, controllare e seguire la preda‘, allora il disagio diventa tensione, ansia, paura in un crescendo inarrestabile. Se, ancora, si trasferisce questo vocabolo al genere umano e lo stalking diventa pura applicazione delle regole venatorie agli individui con cui conviviamo, allora si può comprendere appieno quelle situazioni di cui è piena la cronaca, più frequenti di quello che si possa immaginare.

Lo stalker raffigura il predatore che insegue la sua preda individuata e si serve di mille strategie per arrivare allo scopo finale, facilmente immaginabile, terribilmente riscontrabile nelle pagine della cronaca nera così frequente, così ricorrente da non stupire più così tanto l’opinione pubblica, vittima di un’abitudinarietà che di umano ha ormai poco. Se si rivolge un rapido sguardo al passato, ci si può rendere conto come non sia cambiato niente: le pagine della storia e non solo riportano tristi episodi di donne perseguitate da mariti, fidanzati, amanti delusi o lasciati, conoscenti o perfino estranei fino all’estremo atto dell’uccisione.
Nell’antica Roma, Nerone si rende responsabile della morte di sua madre Agrippina, della prima moglie Ottavia e dell’amante Poppea, che aspettava un figlio, dopo averle sottoposte ad angherie e ritorsioni. Nella mitologia, il primo caso di stalking, diremmo oggi, appartiene al dio Apollo che inseguì fino alla disperazione la ninfa Dafne e obbligò la madre Gea a trasformarla in pianta d’alloro. E ancora, il dio Zeus assumeva le più svariate sembianze per concupire le vittime e ottenerne il consenso. La mitologia è piena di esempi sul tema e non risparmia divinità e comuni mortali. In letteratura, la figura di don Rodrigo nei Promessi Sposi ci fornisce un esempio emblematico di persecuzione, perpetrata nei confronti di Lucia, che aggredisce con “chiacchiere volgari”, come lei riferisce, e ne ordina l’inseguimento e rapimento. La motivazione futile che determina questi fatti è doppiamente deprecabile, infatti, egli decide di sedurre Lucia per scommessa col cugino Attilio e si intestardisce nel proposito per non sfigurare davanti agli amici nobili. Don Rodrigo morirà di peste in un lazzaretto di Milano, senza lasciar comprendere al lettore del romanzo manzoniano se si è ravveduto e pentito del male commesso. Nel racconto ‘La lupa’ di Giovanni Verga, è la donna che assume il ruolo di stalker e lo incarna con estrema abilità e subdola capacità di circuire. La vittima è il genero Nanni che tenta invano di sfuggire ai raggiri della donna e alla sua presenza insistente nella sua vita: “ ‘Per carità, lasciatemi in pace!’ ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa. Non sapeva più che fare per svincolarsi dall’incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere”.
Una persecuzione grave e pesante fino alla conclusione del racconto. In ‘Lettera al mio giudice’ di George Simenon, scritto nel 1946, leggiamo una lunga e dettagliata confessione di un omicida che diventa prima stalker della propria amata, privandola di tutto, decidendo per lei della sua vita fino alla fine. Il medico di campagna Charles Alavoine, sposato infelicemente e rimasto vedovo, si innamora perdutamente di Martine, una ragazza dal passato torbido. Inizia fin da subito un rapporto ossessivo, fatto di gelosia e possessività che dà origine a maltrattamenti fisici frequenti fino a sfociare nell’omicidio. Il giudice Ernest Coméliau sarà il depositario delle memorie di Alavoine, che morirà in cella.

Molte storie che iniziano con relazioni idilliache, si trasformano tristemente in rapporti malati tra vittima e persecutore. Secondo le ultime rilevazioni dell’Istat, in Italia 6 milioni 788mila donne hanno subito qualche forma di violenza fisica nel corso della loro vita, soprattutto alla fine di una relazione. Nel 68% dei casi l’aguzzino è l’ex partner. La forma persecutoria più diffusa (68,5%) è la richiesta di avere insistentemente, a tutti i costi, un colloquio. Seguono le attese fuori casa, davanti alla scuola o al posto di lavoro, l’invio di messaggi pressanti, telefonate, mail, lettere o regali indesiderati, inseguimenti o spionaggio. Il 55% dei casi di violenza persecutoria si verifica nella relazione di coppia; il 25% nell’ambito del vicinato e ambiente di vita; il 5% in famiglia; il 15% sul posto di lavoro/scuola. Sta aumentando il fenomeno del cyberstalking, lo stalking sul web e sui social networks, terreno fertile per ogni tipo di atteggiamento persecutorio: dalle pressioni al furto di identità o l’abuso dei profili per scopi illegali. I social media, che dovrebbero avere una funzione amica nella nostra quotidianità, diventano così elemento discusso di disturbo se non pericolosità. La denuncia alle autorità competenti diventa azione necessaria e prioritaria per l’autotutela che viene affidata alle forze dell’ordine che dispongono dei mezzi e delle competenze per indagare e garantire il cittadino.

Il 23 febbraio scorso la legge italiana sullo stalking ha compiuto otto anni. La legge è stata accolta positivamente quando è stata introdotta e anche a distanza di anni se ne parla bene. Lo stalking risulta uno dei reati con i tempi di indagine più brevi e la pena di reclusione prevede dai 6 mesi ai 4 anni. Da recenti studi emergono segnali importanti di miglioramento della situazione generale rispetto al passato, per una maggiore capacità delle donne di uscire dalle relazioni violente, dalle molestie di ogni genere e dagli abusi, denunciando e prevenendo. Una consapevolezza nuova che permette la libertà individuale sacrosanta e una vita dignitosa.

La giacchetta del monsignore

Godendosi la Spal i meritati ozi, ci basterà buttare un occhio al calciomercato e l’ altro ai lavori per il potenziamento dello stadio? Assolutamente no: per attraversare questa torrida estate serve un sport cittadino di riserva. E forse qualcuno l’ha già trovato; ecco un nuovo esercizio cui appassionarsi: il tiro della giacchetta del monsignore. Sto parlando ovviamente del novello arcivescovo di Ferrara Giancarlo Perego.

Il primo calcio – o era solo uno scappellotto? – l’ha assestato Cristiano Bendin, suo il commento in prima pagina del Carlino di Ferrara di domenica 19 giugno. Già il titolo, ossequioso ma imperativo, indica subito la direzione che la giacchetta di Perego dovrebbe prendere: ‘Eccellenza vada in Gad’.
Bendin ricorda le primissime uscite del vescovo: la visita ai carcerati di Arginone, agli ammalati di Cona e agli ospiti del centro Caritas di via Brasavola. Il nostro columnist riconosce il “bel gesto”, ma non ne pare entusiasta. E’ però disposto a giustificare l’avventatezza e l’inesperienza di Perego. E’ appena arrivato, non conosce Ferrara e in fondo, scrive Bendin, la sua prima mossa “è coerente con la sua sensibilità e la sua storia personale l’apprezzamento dell’arcivescovo per il disegno di legge sullo Ius soli”. Monsignor Perego – che è anche direttore di Migrantes, diretta emanazione della Cei – proprio due giorni prima era infatti su tutta la stampa nazionale con una dichiarazione tutt’altro che diplomatica: “La legge va approvata, è una battaglia di civiltà”.
Si sa, Cristiano Bendin – e tutto il suo giornale – sulla ius soli la pensano all’inverso. Ma meglio evitare lo scontro diretto, quello che si può fare è tirare la giacchetta al monsignore. Che deve fare il nuovo vescovo per farsi perdonare le mosse avventate della prima ora, per rimettere in equilibrio (politico) i due pesi della bilancia? Ecco qua: “Se potessimo suggerire a Perego un’ulteriore tappa, gli consiglieremmo un giretto in Gad, l’ex quartiere Giardino oggi funestato da frequenti episodi di microcriminalità, oltraggio al decoro e scarso rispetto per le regole della civile convivenza”. E chi deve visitare questa volta il vescovo? “Eccellenza – prosegue Bendin – in questo quartiere abitano persone che sperimentano sulla propria pelle le difficoltà di una convivenza con una parte degli stranieri (non tutti) [grazie della concessione], alcuni di questi ferraresi – esasperati, umiliati e stanchi – vengono etichettati come razzisti e xenofobi con spavalda faciloneria… Sarebbe bello che lei potesse trascorrere qualche ora con loro, ascoltando le loro storie, le loro paure, senza pregiudizi politici”.

Sono sicuro che l’arcivescovo si recherà una e più volte in Gad. Sua sponte, senza bisogno del consiglio e del pregiudizio politico del paladino dei più arrabbiati. Credo che visiterà gli abitanti di questo “buco nero” di Ferrara e della sua Amministrazione (e questa volta Bendin ha ragione a chiamarlo così), ma visiterà tutti i residenti, cittadini italiani e stranieri, quelli che a Ferrara sono nati e i nuovi arrivati, scampando guerre e fame.
Il nodo Gad va finalmente affrontato, non attraverso polizia o vigilantes, ma con un piano di grande respiro (economico e sociale), che chiami i residenti (tutti) a essere protagonisti di un nuovo modo di abitare.
Per favore, non tirate la giacchetta a Monsignor Perego, ha già qualcuno ‘più in Alto’ a cui rispondere. Sa bene chi sono i primi da incontrare e da soccorrere: gli ultimi, i poveri, i carcerati, gli ammalati, gli stranieri (Matteo 25). Molti di questi ultimi (italiani e stranieri) abitano in un quartiere abbandonato a sè stesso come il Gad. Non credo che il vescovo si limiterà a “farci un giretto”, tantomeno (è quello che spero) si curerà di stare in equilibrio tra le parti nel rovente dibattito politico che sta incendiando Ferrara. Seguirà il Vangelo, non Il Resto del Carlino.

La difesa del verde pubblico nella terra di San Francesco

Un albero per qualcuno è solo un albero, ma ad Amsterdam si trova uno degli ippocastani più famosi del mondo.
Si tratta dell’albero che Anna Frank guardava dalla sua finestra di prigionia, unico contatto visivo con il mondo esterno occupato dai nazisti. “Il nostro ippocastano quest’anno è coperto di foglie”, scriveva nel maggio 1944 in quello che forse è divenuto il diario più celebre del mondo. Proprio quest’albero è stato recentemente al centro di una battaglia per la sua preservazione in un ambiente urbano come appunto la capitale dell’Olanda.
Perché per qualcuno un albero non è solo un albero. E’ un simbolo, una protezione, un tassello di memoria che entra a far parte della vita. Quella quotidiana, fatta di pomeriggi assolati trascorsi in piazza a chiacchierare con gli amici sotto fronde silenziose, che nel cuore degli esseri umani diventano Storia.

Così, seguendo la mappa immaginaria degli alberi, da Amsterdam voliamo in Umbria, a Spello (Perugia), dove giorni fa l’amministrazione comunale ha abbattuto gli undici ippocastani ‘storici’ di Piazza della Repubblica.
Per far spazio a un nuovo progetto di risistemazione sul quale più volte alcuni cittadini, che a Spello hanno piantato radici più resistenti di quelle degli alberi, hanno chiesto un confronto, un incontro, nel nome della democrazia partecipativa, di cui tanto si parla a livello di governance in Italia e in Europa.
Richiesta a cui il sindaco, Moreno Landrini, non ha mai dato cenno di risposta, perché undici alberi per qualcuno sono solo undici alberi, anche nella terra di San Francesco patrono dell’ecologia.
Per qualcuno ma non per tutti: al silenzio della politica il Comitato civico Centro storico Spello (composto da Lucia De Rubertis, Angelo Mazzoli, Rinaldo Morosi, Nathalie Pezzei, Umberto Piasentin, Simonetta Spitella, Sergio Stecchini, Anna Torti, Luigina Verri, Federico Villamena) ha risposto prontamente con una lettera inviata, oltre che allo stesso sindaco, alla soprintendente Marica Mercalli, a Gabriella Sabatini dei Beni Culturali, a Legambiente e Italia Nostra.

prima
dopo
prima
dopo

Nel documento, i sottoscrittori argomentano la loro posizione punto per punto, in particolare:

  • denunciano il taglio immotivato degli undici ippocastani che fornivano ombra e rappresentavano un patrimonio culturale e ambientale per la città;
  • suggeriscono che al loro posto vengano impiantati dei tigli e non i sette ulivi del piano comunale;
  • chiedono di non spostare la fontana metallica del 1903 perché lo spostamento potrebbe arrecare “danni”;
  • chiedono maggiori dettagli sulla futura viabilità e utilizzo dell’area come parcheggio;
  • denunciano la fumosità della ‘Relazione generale’ che potrebbe aprire a “soluzioni improvvisate in sede di cantiere” e non accenna in modo preciso al trattamento riservato a eventuali emergenze archeologiche.

E in conclusione scrivono:
“Consapevoli dell’importanza di mantenere per noi e per le future generazioni una piazza che sia il più possibile fruibile per le persone e non solo per le auto, chiediamo attenta vigilanza sul progetto e sulla conduzione dei lavori, volendo anche noi cittadini essere parte fondamentale di tale processo”.

La lettera è stata inviata e vola sulle ali del coraggio e della civiltà.
Speriamo che chi la leggerà abbia un albero sotto la finestra del proprio ufficio.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Il vuoto celebrativo di don Milani e dell’educazione come pratica di libertà

E dunque anche Lorenzo Milani da Barbiana è stato sdoganato. Non più responsabile in primis di una scuola permissiva che produce solo ignoranza, ma alfiere della scuola “aperta e inclusiva”, proprio di quell’eccellenza che l’Ocse ci ha riconosciuto.
Così il 5 giugno scorso don Lorenzo Milani è assurto ufficialmente nel Pantheon pedagogico della scuola italiana con la giornata di studi che il Miur, per la prima volta in cinquant’anni dalla sua scomparsa, gli ha dedicato. Il titolo: ‘Insegnare a tutti’.

A orecchio un Comenio dimezzato, quello che diceva non solo “Insegnare a tutti”, ma “Insegnare tutto a tutti”. Perché forse insegnare a tutti dovrebbe essere pressoché scontato e non avrebbe neppure bisogno di essere ricordato, altro e molto più difficile è insegnare “tutto” a “tutti”.
Una scuola “aperta e inclusiva” non è quella dove si insegna a tutti, un insegnamento non si nega a nessuno, ma quella dove “tutti apprendono”, i Gianni come i Pierino per intenderci.
È quella dove il diritto allo studio si traduce in successo formativo, non, beninteso, come chiave della promozione scolastica, ma come individuale capitalizzazione vera di cultura e di saperi, di autonomia e invenzione, di creatività e indagine. Potremmo dire il risultato di quel “metodo milaniano”, come coniato dalla ministra Fedeli, che a suo giudizio è però “canone irripetibile”.
E allora, se è “canone irripetibile”, perché farci un convegno? Ecco di colpo svelato il vuoto celebrativo della giornata dedicata al priore di Barbiana.
D’altra parte come fa ‘la scuola’ a celebrare una ‘non scuola’, la negazione di sé stessa. Capirete che è un bel disagio sostenere “quel siamo, ma non siamo”!

Sì, perché se vogliamo uscire dal bagaglio delle banalità, quella di don Milani non è una palestra di scuola, ma una palestra di studio, dove ci si aiuta reciprocamente nella fatica dello studiare, non a riuscire a scuola che è un’altra cosa. Una destrutturazione della scuola, una descolarizzazione per strutturare lo studio, quello vero, non quello formale, artefatto, che si fa nelle aule.
Scuola e studiare ci dice l’esperienza di Barbiana sono due cose diverse, l’una addirittura opposta all’altra. Non si studia, sostengono i ragazzi della ‘Lettera ad una Professoressa’, con le cattedre, con i banchi, i voti e i registri. Si fa scuola, la scuola che salva la forma, la scuola ministeriale, la scuola dei programmi e delle circolari, ma non si studia, lo studio è tutta un’altra cosa, lo studio è la vita, quella vera. A scuola si impara quello che si è richiesti di imparare, quelli che ci riescono, ovviamente, ma non si studia, né come studiare né quello che si dovrebbe studiare.
È questo il messaggio di don Milani e dei suoi ragazzi, ancora a cinquant’anni di distanza dalla scomparsa del priore e dall’apparire di un libro che avrebbe segnato per sempre la riflessione pedagogica successiva.
Un messaggio che, al di là della buona volontà della ministra e del Miur, e del fatto che quest’anno a ricordare don Milani ci si è messo pure il papa, con il banale, scontato e populistico “Insegnare a tutti” c’entra ben poco, è uno schizzo d’acqua a fronte della profondità del mare.

Di Lorenzo Milani, uomo, prete, maestro a noi interessa il progetto educativo, un progetto educativo che ha la forza delle grandi invenzioni pedagogiche da Decroly, alla Montessori. Prima di tutto la negazione della scuola come è nella sua organizzazione e nelle sue liturgie, per esaltare la superiorità dello studio. Il percorso e la fatica che ognuno deve compiere per conquistare a sé stesso il sapere, tutti i saperi. Il problema del percorso pone la questione dei terreni da calpestare, quali ambienti attraversare, con quali compagni di viaggio per aiutarsi a vicenda, chi sono le persone sagge da consultare, che ci possono dare una mano, guidare, tenere la regia dei nostri apprendimenti.
Un altro Dna, altro dal Dna della scuola che conosciamo, costituito di classi e di aule. Il Dna è nella stanza di Barbiana, nei locali di quella canonica. Lo stesso che costituiva i geni della rivoluzione che circa quarant’anni prima aveva compiuto a Bar sur Loup il maestro Célestin Freinet con la “nascita di una pedagogia popolare”, via la predella, via la cattedra, la lavagna e i banchi, per lasciare spazio ai tavoli a cui lavorare insieme, alla tipografia, ai laboratori, alla biblioteca di lavoro. Riscoperta della centralità della parola, della lingua come forza emancipatrice dei diseredati, dei figli dei contadini, degli operai, centralità del testo libero, del libro della vita, tanti libri, nessun libro di testo dai saperi preconfezionati.

Milani è il Freinet di Barbiana, come Mario Lodi lo è stato per Vho di Piadena e Bruno Ciari a Certaldo. È la pedagogia degli oppressi, l’educazione come pratica di libertà, vissuta e scritta tra i poveri e gli analfabeti da Paulo Freire. Si tratta di sensibilità che hanno plasmato figure di educatori, di maestri che costituiscono un riferimento, che ci aiutano a riflettere ogni giorno cosa non è la nostra scuola, quanto ancora sia distante per sensibilità e cultura dalla lezione che loro ci hanno lasciato.
Anziché celebrare dovremmo ragionare di come aggiornare quei modelli educativi, quegli ambienti di apprendimento, di cui nella didattica di ogni giorno nelle nostre scuole ancora di classi e di aule, di registri, interrogazioni e voti non si scorgono che rare tracce, ed è veramente farisaico appendere il santino di don Milani dietro “l’insegnare a tutti”, quando la nostra scuola è la scuola dell’ossimoro che insieme al primato dell’inclusione vanta il primato della dispersione.
La scuola, dunque, rimane il problema anziché la soluzione.
Celebrare don Milani è porre al centro lo studio, il problema dello studio come diritto, così come si ha diritto a respirare e a vivere. Questa scuola è ancora, se lo è mai stato, il mezzo per servire la centralità che lo studio ha per l’intera vita di ogni individuo, dalla nascita alla morte?
Come si impara, come si apprende, come si studia? Non a scuola, ma nella vita. È quello che si sono chiesti don Milani e i suoi ragazzi di Barbiana. E la risposta è l’esperienza di Barbiana dove non si apprende per materie, ma per idee, per curiosità, argomenti e narrazioni, un esempio di come controllare i propri percorsi di apprendimento, contenuti, ritmi e condizioni, come decondizionarsi dall’essere ricettacoli passivi dell’istruzione. Sostanzialmente di come guarire dal mal di scuola.
Questa è la “comunità educativa” alla base di Barbiana, forse alla base della scuola moderna, come ha detto il Presidente della Repubblica, ma non certo alla base della nostra scuola, perché dovrebbe negare la scuola stessa così com’è, così come la conosciamo.
Ma questo non significa negare la centralità dello studio, semmai la pretesa di voler esautorare ogni forma di studio che non sia la scuola. Una battaglia che con l’avvento di internet la scuola e le accademie hanno perso, perché il sapere è fuggito dalle loro gabbie, dai loro labirinti, così come il sapere dei ragazzi di Barbiana è fuggito dalle aule e dalle classi della professoressa a cui decidono di scrivere.
Il messaggio ancora attuale che viene da don Milani e dai suoi ragazzi è che la scuola ha bisogno di Barbiana, ha bisogno dell’altro, ha bisogno di territorio e del territorio, ha bisogno di farsi rete con le persone e con le vite delle persone, con i luoghi, con le risorse, ha bisogno di schiudere le classi e le aule e di aprire spazi di apprendimento dinamici, di coniugare internet e Barbiana, di insegnanti registi e non attori, di insegnanti comprimari, di insegnanti preparatissimi, capaci di mettersi non in cattedra ma a disposizione, capaci di sensibilità e del dono gratuito dell’insegnamento.

Quelli che… ma chi glielo fa fare di alzarsi alle 5.30 per correre? La Run530 a Ferrara

Quando un’amica, circa un mese fa, ci ha domandato “Perché quest’anno non partecipiamo alla run530?” ci siamo tutti guardati in faccia, con il dubbio che ci stesse solo prendendo in giro. Nessuno di noi è uno sportivo o tantomeno mattiniero. Io, per esempio, non sapevo neppure di cosa stesse parlando.
Ho scoperto quel giorno dell’evento Run530, organizzato in varie città italiane, in cui ci si riunisce tutti – fino a 3000 partecipanti – alle cinque del mattino per una corsa non competitiva attraverso un percorso di 5 chilometri e 300 metri. A Ferrara l’appuntamento è stato il 16 giugno.

Presi dall’entusiasmo, abbiamo comprato il biglietto e abbiamo organizzato tutto: dove incontrarci, la colazione che avrebbe seguito l’evento e dove cambiarci per poi andare a lavoro.
Ma con il passare dei giorni l’entusiasmo è andato a scemare e la pigrizia ha iniziato a prendere il sopravvento. Svegliarsi alle 4:30 di venerdì per partecipare a una corsa e poi andare in ufficio non sembrava più una buona idea. L’evento era ormai alle porte, avevamo ritirato le magliette rosse e puntato le sveglie: ormai non potevamo tirarci indietro.
Come noi, tantissimi cittadini avevano deciso di partecipare e alle 5:20 piazza Savonarola era affollata di magliette rosse, un vociare allegro e un’energia che non ci aspettavamo.
Al suono del “via” siamo partiti, c’è chi ha corso e chi ha passeggiato, chi ha scattato molte foto e chi ha chiacchierato portando con sé passeggini e bambini ancora in fasce.

A un evento del genere ci si aspetta di incontrare solo amanti dello sport, allenati e abituati ad alzarsi con il sole, invece dietro la linea di partenza, sorridenti e divertiti, c’erano ragazzi dai volti assonnati, uomini e donne di tutte le età, allenati o meno, neogenitori con passeggini, cani con i loro padroni e tanti curiosi.
La quarta edizione della Run530 nella città estense ha attraversato Corso della Giovecca, ha superato la Prospettiva per immergersi nel verde del Sottomura e riemergere in via Quartieri superando Porta San Pietro, per tornare al punto di partenza attraverso il centro cittadino, attraversando via Saraceno e via Mazzini.

Il risultato? Un’esperienza divertente e unica, che ha regalato ai partecipanti scorci della città avvolti dalla tipica luce dell’alba, appena velata da una lieve foschia. Un fiume di color rosso vivo ha tinto le strade desolate, riempiendo di vita e di energia alcuni dei luoghi simbolo della città. Al termine del percorso l’essersi svegliati presto non era più considerato una scocciatura, ma una vittoria, l’aver sconfitto la pigrizia aveva permesso a tutti di vivere un momento diverso, un’esperienza nuova e positiva.
Ciliegie e bevande attendevano i partecipanti all’ombra del Castello Estense, per rigenerarsi e godere di un momento di calma alle 7 del mattino, prima di salutarsi e rivestire gli abiti di un abituale venerdì mattina mentre il resto della città si sta appena svegliando.

Foto di Chiara Ricchiuti. Clicca sulle immagini per ingrandirle.

Il sogno del sindaco Tagliani fra epica cavalleresca e poco epiche cronache

di Tiziano Tagliani*

Ho fatto un sogno: Ferrara trovava un nuovo aedo: una città che fino a ieri di Bassani aveva il solo ricordo oggi può raccontarne il mondo, grazie alla generosità di Portia e di Ferigo e di qualcuno che, dopo decenni, si è reso pronto, ha dato opportunità a questo racconto “Fuori le mura”: un futuro con il “giardino” che vola a Gerusalemme ambasciatore di quel capolavoro di città che è la nostra, con gli “occhiali d’oro” che tornano in città a vedere nebbie ormai scomparse.
Un narratore ci serve, ha ragione Macke!
Che racconti: come in pochi mesi Boldini volasse a Pechino e all’Hermitage, Antonioni a Parigi, Amsterdam e Bruxelles, Il poema di Ariosto fluisse negli occhi di 30.000 studenti ed altri 120 mila curiosi a bocca aperta e De Chirico metafisico tornasse con i capolavori dipinti a Ferrara per la prima volta ad incantare tanti.
Un narratore che spieghi con passione, come, con la visione di ciò che Ariosto che “vedeva ad occhi chiusi” siano atterrati in città anche il Baccanale degli Andri del Tiziano, poeta di una corte perduta ed un Mantegna pagato dagli Este e non dai Gonzaga! E ben ricordo quanti, oggi ricreduti, su quella sfida non avrebbero investito un fiorino!
Poi il risveglio. Qui si disputa a giorni alterni di spore idrofile e sulla incompetenza di chi ha operato miracoli che altrove, in città di maggior rango e dotate di munifiche fondazioni, meriterebbero ben altro rispetto. Dall’alto si disputa, di pulpiti che a turno l’un l’altro si edifica l’intellighenzia nostra almeno fino al prossimo cruento certame sulla presidenza o sul convegno.
Ah casta di aedi! Narratela questa nostra città voi che la parola governate con padronanza (voluto rafforzamento semantico)!
Non però quella che contrappone, quotidie, nelle associazioni il presidente di ieri a quello di oggi, quella che vuole il Meis nel parco Urbano o al Verdi ma non dove si fa , quella che da mesi attende da una Soprintendenza (mai lettera maiuscola fu più necessaria) di sapere il futuro di una civica idea, criticabile ed infatti criticata fin che si vuole, ma Santo Cielo una idea che merita risposta e magari non sul giornale!, Soprintendenza in vero sopraffatta dal lavoro e dagli arretrati, ma che trova il tempo di insegnare al sindaco (volutamente minuscolo siccome privo di visione onirica) come si compone la giunta.
Narrate or dunque questa città, voi che dalla storia traete l’humus che a noi, schiera dannata di mercenari dell’amministrare cornuti e fors’anche becchi, non sarà mai dato, narrate d’una città che compie miracoli coi fichi secchi!
Città che, meschina, non rinnova il Direttore delle biblioteche perché la legge a chi ha lavorato tanto (e bene aggiungo, io sì, vergin di servio encomio e di codardo oltraggio) lo impedisce, ma non per questo lascerà sguarnita la trincea (come dissi alla Presidente amica della Ariostea) mi si consenta sul punto però l’indeterminatezza che è dovuta per rispetto di chi in biblioteca ci lavora, là dove il prestito, come suggerisce l’ottimo Monini, oggi non è il solo metro, così come il consumo del gessetto non lo è del lavoro del maestro.
E se per lasciare memoria di questi nostri anni sarà d’uso, come è, calcar la mano su chi scrive, non abbiate timore alcuno picchiate duro, perché con l’irriverenza della classe da cui provengo, quella di Cesira la bugadara , la arzdora che i panni la lavava in tal canal, nell’attesa dell’inclita opera vostra, non tacerò, ma convinto lancerò un grido: INTANT VIVA LA SPAL

*Sindaco di Ferrara

Leggi la replica di Gianni Venturi “i prosaici oltraggi degli ingrati”