Skip to main content

Ferrara, la città dove un albero vale una gita

Un albero può rendere un posto meritevole di un viaggio. A Ferrara succede. Ci sono alcuni alberi monumentali o famosi che chi abita qui quasi nemmeno nota più. E può capitare di imbattersi in turisti col naso per aria che chiedono con il loro accento americano dove sia, ad esempio, la casa con la magnolia dello scrittore Giorgio Bassani senza che la maggior parte dei cittadini sappia dargli indicazioni che, in effetti, sulle mappe non sono. Poi apri un quotidiano come “La Stampa” e scopri che un giornalista a Ferrara c’è venuto apposta per ammirare e misurare di persona un albero che ha un 250 anni: il gingko biloba del giardino della biblioteca Ariostea, che si può vedere entrando dal cancello in via Giuoco del Pallone 2 (“Il ventaglio del Gingko biloba è un vero fossile vivente”, La Stampa”, 4 agosto 2017, pagina 28). L’autore è Tiziano Fratus, che definisce la pianta “uno dei più bei ginkgo d’Italia” e spiega che “è un superstite, capita spesso ai giganti silenziosi, rappresenta quel che resta di un giardino botanico voluto da Giammaria Riminaldi (1718-1789), presidente del Collegio dei Riformatori, riorganizzatore dell’università e della biblioteca di Ferrara”.

Marcelo Cesena in Biblioteca Ariostea di Ferrara (foto Fausto Natali)

Nell’autunno scorso questo stesso albero ha portato a Ferrara il pianista brasiliano Marcelo Cesena, due volte vincitore dell’International Press come “miglior musicista brasiliano che vive in America”, che ha scelto il giardino della Biblioteca comunale Ariostea come palcoscenico per il suo ultimo videoclip. A conquistare il musicista è stata la bellezza del tappeto di foglie gialle che in autunno cadono del plurisecolare ginkgo. Così Cesena ha chiesto e ottenuto il permesso di registrare davanti a quell’albero un video per il suo prossimo album e nel freddo del 1 dicembre 2016 ha fatto trasportare il pianoforte nero sopra alle sue radici.

parco-massari
Parco Massari (foto Aldo Gessi)

Altri due alberi centenari hanno portato in visita a Ferrara lo scrittore Tiziano Fratus, che a fine luglio 2017 ha speso un giorno per guardare e misurare i due cedri di Parco Massari che stanno lì, davanti alla cancellata, in corso Porta Mare 65 a Ferrara. Nell’articolo (“In compagnia di due giganti che strisciano e si sollevano”, La Stampa, 28 luglio 2017, pagina 28) il giornalista parla di “uno spettacolo inatteso” e spiega come “all’ingresso sorvegliano due giganti: c’è il cedro del Libano (Cedrus libani) che si manifesta in un tronco corpulento, con due branche che si allargano alla base, strisciano e si sollevano parallelamente al tronco. Il cedro dell’Atlante (Cedrus atlantica glauca) ha un’architettura complessa: è incredibile come gli sia stato concesso di espandersi in ogni direzione, vista la posizione a due passi dal traffico. Emette tre branche, al piede, i rami sono sostenuti da stampelle. Li misuro: 585 e 480 cm di circonferenza”.

giardino-finzi-contini-film-giorgio-bassani
Scena iniziale del film “Il giardino dei Finzi-Contini” dal romanzo di Giorgio Bassani

Proprio un parco – del resto – ha reso famosa questa città in giro per il mondo: “Il giardino dei Finzi-Contini” dove Micol e i suoi amici della Ferrara-bene giocavano a tennis nel romanzo di Giorgio Bassani e poi nel film di Vittorio De Sica. E il Parco Massari immortalato sul grande schermo si potrà visitare pieno di banchetti dedicati al verde per la manifestazione “Giardini estensi – autunno” in programma nel giardino pubblico in corso Porta Mare 65 a Ferrara sabato 9 e domenica 10 settembre 2017, ore 10-22.

L’albero di magnolia nel giardino di casa Bassani fotografato da Paolo Zappaterra

Da non trascurare, infine, la magnolia, che sempre Bassani ha immortalato nella poesia intitolata “Le leggi razziali” che racconta la piantumazione dell’albero nel giardino interno di casa Bassani nel 1939, pochi mesi dopo che quelle leggi discriminanti avevano escluso dalle scuole i ragazzini di famiglia ebraica e proibito a chi era ebreo l’esercizio di diversi mestieri, come quelli di insegnante o giornalista. La casa di Ferrara dove Bassani e la pianta di magnolia sono cresciuti è stata però venduta, è privata e non visitabile. Un’occasione per vedere com’è e com’era quella magnolia che “crebbe/nera, luminosa, invadente/puntando decisa verso l’imminente cielo”, la offre la mostra “Giorgio Bassani e la casa della magnolia” in corso alla Casa dell’Ariosto di Ferrara. In particolare sabato 16 settembre alle 16 ci sarà la possibilità di fare una visita guidata gratuita. La figlia dello scrittore Paola Bassani insieme con la docente di storia dell’arte Silvana Onofri e con l’autore delle foto Paolo Zappaterra accoglieranno i visitatori della rasegna “Giorgio Bassani sotto la magnolia” che mostra la casa di Cisterna del Follo 1 negli scatti di Paolo Zappaterra e nelle istantanee di famiglia con il contributo delle letture dell’attrice Gioia Galeotti. Gli organizzatori spiegano che “numerose persone a Ferrara vanno alla ricerca della casa della magnolia della poesia ‘Le leggi razziali’, magnolia che, piantata nel 1939 nel cortile interno della casa di via Cisterna del Follo, tuttora ‘fuoresce oltre i tetti circostanti’. Ma la casa, venduta nel 1993 non è accessibile al pubblico e solo il vertice della magnolia, diventata ormai un mito, è oggi visibile da alcuni edifici limitrofi o da via Saffi”. In mostra ci sono le fotografie della casa e del suo giardino, con gli arredi originali dalla famiglia Bassani per permettere di “conoscere un luogo bassaniano spesso sottovalutato o frainteso”. La magnolia piantata dalla famiglia Bassani non è visibile dalla strada; e non va confusa con quella che si vede invece spuntare dal muro di cinta dell’edificio all’angolo tra via Cisterna del follo e via Ugo Bassi.

“Giorgio Bassani e la casa della magnolia” è la mostra visitabile alla Casa dell’Ariosto, via Ariosto 67 a Ferrara fino al 30 settembre 2017 da martedì a domenica ore 10–12.30 e 16–18, ingresso gratuito. Sabato 16 settembre 2017 alle 16 la visita guidata. Per info: mail arche.ferrara@gmail.com, pagina Fb https://www.facebook.com/events/144122836185681/, cell. 340 0773526; 331 1055853

Che razza di scuola immaginano i razzisti?

Ho la sensazione che, sempre più spesso, le persone che iniziano un discorso preoccupandosi di specificare: “Non sono razzista ma…” usino questa premessa come fosse una maschera con la quale tentare di camuffare inutilmente, a se stessi e agli altri, la propria ormai evidente condizione di persona che ritiene di appartenere a una presunta razza superiore. Spesso infatti, dopo quella premessa, il discorso si limita a una o più accuse contro le persone straniere che rientrano nella categoria ‘racism for dummies’, cioè quella delle frasi fatte che non è importante controllare se siano vere o meno, basta che siano semplici ed efficaci (rubano il lavoro e la casa ai nostri giovani, non pagano i mezzi pubblici, sono tutti delinquenti, portano malattie, ci stanno invadendo, ricevono 35 euro al giorno, e simili).

La mia ipotesi sarà anche psicologia da strapazzo ma, che sia colpa dell’ignoranza dilagante o dell’inumano che avanza, la percentuale di discorsi di questo tipo sta aumentando in misura direttamente proporzionale al modo in cui certi personaggi, aiutati da certi giornali e da certe televisioni, cavalcano i problemi legati all’immigrazione e alla convivenza per crearsi, attraverso l’invenzione della figura del ‘nemico’, una propria identità personale e un proprio consenso politico a fini elettorali. Questa estate italiana è stata caratterizzata, a livello sia locale sia nazionale, da moltissimi (troppi) fenomeni che possono essere classificati come manifestazioni di odio xenofobo e razzista. Ce ne sono stati di vari tipi e qui ne ricordo solo alcuni fra i più rappresentativi: una persona di origini brasiliane a cui è stato negato il lavoro in un albergo di Cervia; una ragazza che non è stata assunta a Torino perché fidanzata con un ragazzo nigeriano; una quindicenne di Verona esclusa dal concorso ‘Canta Verona Festival’ perché, nonostante fosse nata in Italia, ha origine ghanesi; una coppia di coniugi italo cubani a cui è stata rifiutata una casa vacanze in Sardegna per la quale avevano già versato la caparra.

In questi casi le brave persone italiane coinvolte si sono premurate di difendersi pronunciando la frase “Non sono razzista ma…” prima di una serie di motivazione talmente deboli da far vergognare qualsiasi persona di buon senso. In questi altri casi invece le persone coinvolte non hanno avuto bisogno di pronunciare la frase-maschera perché il loro razzismo è in fase conclamata: una ragazza africana incinta picchiata e insultata a Rimini; la scritta ‘vietato l’ingresso ai negri’ firmata da una svastica in un parco giochi di Milano; un ragazzo bengalese di cittadinanza italiana picchiato perché destinatario di un alloggio popolare; le intimidazioni a un parroco che aveva accompagnato in piscina alcuni ragazzi profughi gambiani, nigeriani e senegalesi. Sotto quale voce classificare poi certe dichiarazioni di importanti politici? Anche in questo caso ne ricordo solo qualcuna: “Lo stupro è più odioso se è commesso da un profugo” (Debora Serracchiani, presidente della regione Friuli Venezia Giulia), “Aiutiamoli a casa loro” (Matteo Renzi, segretario Pd), “Sostegno alle mamme per continuare la razza italiana” (Patrizia Prestipino, Direzione Pd), “Alcune ong ideologicamente pensano solo a salvare vite umane: noi non possiamo permettercelo!” (Stefano Esposito, senatore Pd). E ancora come catalogare la scelta antiumanitaria fatta dal nostro governo con il codice Minniti? E quella di chi voleva alzare le tasse a chi ospita migranti nel proprio Comune (Alice Zanardi, Sindaca di Codigoro)? In questa sede non elenco i numerosi episodi in cui si sono distinti esponenti di Forza Nuova o della Lega Nord sia perché sarebbero davvero troppi, ma anche perché questi personaggi non hanno bisogno di nascondersi con la frase-maschera di cui sopra: sono dichiaratamente fascisti e razzisti e in questo momento, pur riconoscendo questo come un pericolo sociale, credo con Simone Veil “che il vero male non sia il male, ma la mescolanza del bene e del male”.

Per tutti questi episodi ma non solo, in questo momento, sono fortemente preoccupato per la piega disumana che sta prendendo il nostro Paese. Considero tutto questo una regressione e, da maestro elementare, mi chiedo: gli odierni razzisti come si immaginano la scuola? Sostengo da sempre che la scuola sia lo specchio della società. Pertanto deduco che, se il razzismo dilagante si basa su una società di esclusioni e di espulsioni, la scuola razzista sarà fatta di muri e di barriere; se la società razzista è quella delle differenze da separare, la scuola razzista sarà composta di classi diverse a seconda del sesso, della razza, della lingua, della religione, delle condizioni personali e sociali; se la società razzista è quella della superiorità di una razza verso le altre, la scuola razzista sarà quella dei buoni e dei cattivi, del ‘noi’ e del ‘loro’, degli italiani e dei nemici; se la società razzista è quella dove ci sono esseri umani più importanti di altri, la scuola razzista non considererà la vita degli altri come un valore. A questo punto non sono poi così sicuro che i razzisti desiderino una scuola davvero razzista, perché prima o poi capiranno che ciascuno di noi sarà sempre lo straniero di qualcun altro.

Per combattere questa ignoranza, questo odio e questi pregiudizi straripanti, fra le altre cose, ci sarebbe bisogno di una scuola che insegni ad ascoltare le ragioni dell’altro, a parlare insieme, a discutere con criterio, a studiare con cura, a spiegare correttamente, a capire i punti di vista diversi dal proprio, ad affrontare i problemi, a conoscere la condizione umana, ad imparare l’identità terrestre. Una scuola che riesca a far capire che una società diversa, migliore è possibile. Lo so, qualcuno potrebbe scambiare i miei pensieri per discorsi demagogici, ma io sono un educatore e in quanto tale sono idealista, ottimista, utopista e, nel mio caso, addirittura inter(nazional)ista; per questo credo occorra investire e scommettere sull’educazione cioè spiegare, far capire e mostrare le qualità e le potenzialità che ci sono nelle persone. Credo che serva camminare verso l’orizzonte di un’utopia concreta o, per concludere con il grande pedagogista Alain Goussot, penso ci sia bisogno di “fare della scuola il luogo dell’utopia pedagogica dove è possibile vivere e sperimentare quello che la società sembra non offrire e non permettere: fare vivere ad ogni alunno, a prescindere delle proprie particolarità, la possibilità di accedere alla propria umanità e al suo aspetto più nobile, la capacità di pensare e di sentire che l’altro diverso da sé è anche simile.

Pensata in questi termini la pedagogia fa dell’educazione e dell’istruzione un processo di emancipazione e liberazione umana che si oppone a ogni forma di reificazione e di disumanizzazione; la pedagogia aperta alle esperienze vive degli alunni crea gli spazi dell’utopia concreta che forma dei cittadini consapevoli e soggetti attivi della comunità e del suo funzionamento democratico”.  In questo modo, attraverso la conoscenza e l’esperienza, la scuola potrà essere vissuta come un laboratorio di cittadinanza attiva e ciascuno potrà sperimentare direttamente la ricchezza che può essere regalata dall’incontro con l’altro.

STORIE IN PELLICOLA
Quando la rivalità diventa leggenda

Sui circuiti di Formula 1, gli anni Settanta hanno conosciuto la grande rivalità sportiva fra l’austriaco Niki Lauda e l’inglese James ‘Thor’ Hunt, incontratisi per la prima volta sui giri della Formula 3. Il film mozzafiato ‘Rush’, di Ron Howard, ripercorre la lotta estrema e quasi disperata che, nel 1976, ha visto l’incidente, durante il GP di Germania, di Lauda (Daniel Brühl), già campione del mondo su Ferrari nel 1975, e la vittoria di Hunt (Chris Hemsworth), su McLaren, per un solo e fatidico punto. Una sfida all’ultimo giro.

Metodico, preciso, razionale, sicuro, riservato, maniacalmente attento e anche un po’ antipatico, il primo; amante della vita godereccia, scapestrato, insolente, esibizionista e playboy il secondo: bello, biondo e dannato. Pur entrambi con relazioni familiari problematiche, i due personaggi sono completamente all’antitesi, come il sole e la luna, l’acqua e il fuoco, il cielo e la terra, ma in fondo legati da profonda stima e amicizia. Quella tipica dei grandi campioni. Che dello sport colgono il messaggio vero. Se la rivalità diventa storica, con momenti di grandi cadute, drammi e riprese inaspettate, a colpire lo spettatore è anche la pericolosità del mondo della Formula 1 di quegli anni. Dove correre significava rischiare la vita (Lauda accettava un rischio del 20%, Hunt andava ben oltre), dove la pioggia, che offuscava la vista delle visiere forate per non creare condensa, poteva diventare una nemica letale. Una macchina che era quasi una “bara ambulante con le ali”, come la definiscono i piloti stessi, che vuole prendere il volo come Icaro.

Bellissime le espressioni e le sfumature degli attori, i gesti, i cenni, gli sguardi, le cose non dette, le ombre delle auto sull’asfalto scivoloso, i dettagli della meccanica, i particolari.
Alex Zanardi fa un breve cameo nei panni di un radiocronista al GP d’Italia 1976, belle le figure di Clay Regazzoni (Pierfrancesco Favino) e della moglie di Lauda, Marlene (Alexandra Maria Lara). Hunt e Lauda sembrano quasi Caino e Abele, in un momento nel quale l’individuo era ancora al centro della pista ed erano solo il suo carisma, la sua forza, la sua ostinazione o il suo capriccio a decidere la gara, non lo sponsor, la tecnologia o la televisione.
Bellissimo.

Rush, di Ron Howard, con Chris Hemsworth, Daniel Brühl, Olivia Wilde, Alexandra Maria Lara, Pierfrancesco Favino, USA, Gran Bretagna, Germania 2013, 123 mn.

IL RICORDO
Ibio Paolucci: il caldo silenzio dell’onestà

Ibio Paolucci

Per conoscere e comprendere un personaggio come Ibio Paolucci è necessario riesumare il clima nel quale viveva Milano dopo la strage di Piazza Fontana, clima che definirei vigliacco sotto molti aspetti e di cui Ibio fu senza dubbio protagonista.
Il capoluogo lombardo era stato assalito e direi conquistato dalle bande dei giovani fascisti agli ordini di vecchi caporioni con la compiacenza di una polizia addomesticata. Se ne era avuto prova il 19 novembre 1969, quando in via Larga le forze dell’ordine attaccarono un mesto corteo di pensionati usciti dal Teatro Lirico dove si era svolto una pacifica manifestazione sindacale: i vecchi vennero accerchiati e attaccati col manganello, non poterono opporsi, ma in loro aiuto arrivarono dalla vicina università statale le schiere degli studenti capitanati da Cafiero e da Toscano. E cominciò la battaglia, conclusasi con la morte del povero agente Annarumma, il quale andò a scontrarsi col suo gippone contro un altro mezzo della polizia. Con una prontezza impensabile, la versione ufficiale venne data alla stampa: il giovane poliziotto era stato ammazzato dagli studenti comunisti. Sulla base di questa incredibile bugia Milano si spaccò in due, da una parte l’invincibile armata della borghesia, con i suoi potenti giornali e le radio nazionali, dall’altra coloro che pensavano di fare la rivoluzione messicana, atteggiamento rivelatosi infine puerile.

In questo bailamme, spesso anche ideologico, non fu semplice trovare la linea più corretta, cavalcata, invece, con intelligente fermezza, dal comunista Paolucci: credo che allora Ibio abbia sbagliato ben poche volte. Era prudente Ibio, come gli avevano insegnato i vecchi compagni, abituati a vivere e a operare in un mondo in cui erano trattati come poveri scemi con tre narici o come bestie feroci: il mondo doveva essere liberalizzato dicevano i pompieri del qualunquismo conformista. Molti giovani giornalisti furono acquistati dalla borghesia, nacquero giornali apparentemente senza ideologie, ovvero con l’ideologia della non ideologia e risultarono spesso i più feroci oppositori di coloro che volevano un altro mondo, un’altra Italia, più pulita, più onesta. Era il tempo dei grandi giornalisti sgravati da generose scrofe: i porcellini usavano come corrispondenti fidati il giudice massone, il carabiniere dei Servizi legati alle bande mafiose, il poliziotto pronto a qualsiasi comoda verità, il cardinale che benedice le armi pronte a sparare sul popolo.

Se ben ricordo, Ibio non si lasciò affascinare dal facile soldo padronale, sempre più di frequente scelse il silenzio, il caldo silenzio delle persone più oneste e più preparate, a volte scontrandosi anche con i compagni che vedevano in fondo ai lunghi corridoi di viale Fulvio Testi, dov’era la sede dell’Unità, vedevano la luce brillante del liberismo sfrenato che oggi intristisce la nostra società.

Questo ricordo di Ibio Paolucci è stato scritto in occasione del premio ‘Marco Nozza’ per il giornalismo d’inchiesta, investigativo e informazione critica, consegnato oggi a Langhirano (Pr) all’interno della rassegna ‘I sapori del giallo’ (leggi qui il programma)

L’eterna lotta di San Giorgio: luci e ombre nella secolare storia della nostra cattedrale

Bene e male, vita e morte, luce e oscurità. Ferrara è la città dai contrasti insanabili e dalle mille contraddizioni, testimoniati copiosamente nei suoi libri di pietra e marmo.
E’ il 28 ottobre del 2015, quando all’ingresso della Cattedrale consacrata a San Giorgio, il Cavaliere di Dio, vengono avvistate delle scritte che il giorno prima non c’erano. Si tratta di segni inquietanti, ben visibili. Non è difficile comprendere il loro significato. Sono segni satanici: una croce rovesciata, simbolo in realtà cristiano; il numero 666, erroneamente ritenuto il numero della bestia a causa di una traduzione sbagliata della Bibbia; e infine, la grottesca quanto ingenua invocazione “Satana call me”, ovvero “Satana chiamami”. Eppure, questi segni non sono casuali. La stessa cattedrale, in effetti, è l’incarnazione dell’eterna lotta tra il bene e il male. La facciata è oggi coperta perché in restauro, ma chi l’ha già vista si ricorderà delle incredibili figure mostruose scolpite secoli fa, creature ritenute reali, abitanti di mondi lontani. Come ogni chiesa, è metafora di tutto il creato e dell’aldilà, tutto ciò che esiste trova qui il suo posto. E’ sorprendente il Giudizio Universale rappresentato sopra la loggia centrale, una raffigurazione decisamente poco comune per la facciata di una chiesa, ma non è l’oltretomba il protagonista dei bassorilievi: la vita è richiamata dalla molta vegetazione che avvolge tutta la facciata, rendendo il duomo un vero e proprio Albero della Vita. Simboli, numeri, geometrie, ma non solo: c’è chi dice che la battaglia perpetua, a Ferrara, si sia combattuta veramente, e tutto questo sarebbe dimostrato dalle bizzarre colonnine della cattedrale situate sul suo lato destro, perfettamente visibili a tutti i viandanti che provenivano dalla medievale Via San Romano. La leggenda vuole che queste, realizzate con forme strane e indecifrabili dalla corporazione dei Maestri Comacini, fossero state in realtà scolpite in maniera simmetrica, come ci si potrebbe aspettare in una costruzione simbolo di ordine e perfezione. Ma la notte prima dell’inaugurazione, il diavolo si sarebbe divertito a plasmarle a suo piacimento, per rovinare la giornata di festa dell’indomani. Peccato però che il giorno dopo la popolazione fu così sorpresa da complimentarsi con gli scultori per la loro eccellente maestria e fantasia. E’ arrivato però il momento di lasciare le leggende per immergerci nella storia, quella documentata, spesso molto più straordinaria della nostra immaginazione. 17 dicembre 1269: muore, a Ravenna, il ferrarese Armanno Pungilupo, sepolto come un imperatore nella tomba costruita per Teodorico e subito inviata a Ferrara per essere collocata a sinistra dell’altare maggiore nella cattedrale. Ma andiamo con ordine. Armanno era un uomo venerato già in vita per le guarigioni che sembrava dispensare a chiunque. Nel 1254, tuttavia, fu scoperto essere in realtà un cataro, dunque un pericoloso eretico. Una setta contro cui la Chiesa cattolica aveva organizzato proprio all’inizio di quel secolo una vera e propria crociata, con l’obiettivo di sterminarla. Armanno, dunque, fu costretto ad abiurare la propria fede, promettendo di vivere da vero cattolico. Anzi, per tutta la sua vita fu considerato un santo, e tale fu proclamato alla sua dipartita. Il suo corpo era in grado di attirare nella cattedrale ferrarese un gran numero di genti. Tutto questo fin quando, un anno dopo, riesaminando alcuni suoi documenti, ci si rese conto che in realtà Armanno non aveva mai smesso di essere cataro, e la Santa Inquisizione non poteva certo perdonare un falso giuramento. Ci vollero ben trent’anni e dieci papi perché il nuovo santo scontasse la pena, anche se da morto: il suo corpo, il corpo del santo eretico, venne dissotterrato e bruciato barbaramente. La sola sepoltura ancora oggi presente nel duomo è quella di Urbano III, ma questo non basta a sconfiggere l’oscurità e il grigiore che ormai incupiscono l’interno della splendida cattedrale, un tempo color bianco e oro, e che soltanto un buon restauro, previsto per i prossimi anni, potrà regalarci.
La lotta tra luce e oscurità è appena ripresa a Ferrara, una lotta mai definitiva, nella città che anche nel suo stemma custodisce i colori della trasformazione e della rinascita, il bianco e il nero.

Le aliquote irpef, la flat tax e la Lega Nord: come la politica promuove l’ingiustizia sociale

In un contesto in cui la distribuzione del reddito è altamente disuguale l’opera di una politica consapevole dovrebbe tendere a riequilibrare il sistema. Uno dei metodi per farlo è sicuramente la progressività nella tassazione dei redditi cioè chi guadagna di più contribuisce in misura maggiore di chi guadagna di meno. La progressività della tassazione, del resto, è prevista dalla Costituzione del ’48 per cui il sistema era ben noto ed auspicato già dai nostri Padri Costituenti.

La tassazione è un’arma in mano allo Stato che dovrebbe essere usata per difendere gli interessi collettivi dei cittadini. Infatti con una modifica alle aliquote Irpef si può distribuire ricchezza (o un po’ di respiro) alle classi più basse senza impoverire (togliere troppo ossigeno) a quelle più alte. Questo non in chiave, ovviamente, punitiva ma semplicemente in chiave distributiva e in modo da evitare la creazione di oligopoli e l’accentramento di ricchezze tali da compromettere gli equilibri sociali. Inoltre, la tassazione serve per stabilire il principio che il controllo del sistema economico (e di conseguenza sociale) spetta solo allo Stato, che lo esercita per il bene comune e in difesa dei più deboli, di quelli cioè che da soli non potrebbero farcela contro attori economici troppo potenti né potrebbero competere con l’interesse privato dei grandi oligopoli.

Le tasse servono anche per regolare la quantità di moneta in circolazione, in tempi di deflazione si potrebbe ad esempio diminuire l’Iva per stimolare i consumi e, di converso, alzarla quando invece ci fosse un fenomeno inflazionistico in modo da togliere moneta dal circuito economico. Del resto una tassa che colpisce indistintamente i consumi senza fare nessuna distinzione tra milionari e pensionati al minimo (di fatto una flat tax) è quanto di più disuguale si possa immaginare e nelle mani colpevoli dei nostri politici sta diventando sempre più una vera mannaia sulle teste dei cittadini.
Ultima annotazione sul tema “a cosa servono le tasse”: poiché le tasse si pagano con la moneta in circolazione in un determinato Paese, tutti accettano di essere pagati soltanto in quella determinata moneta, ovvero, se siamo in Italia, non accetterò di essere pagato per il mio lavoro in “pizza di fango del Camerun” altrimenti non avrò euro per pagare l’Imu e il bollo dell’auto.

Concetti questi un po’ difficili da far passare in un Paese dove fin dalle elementari si studia che gli ospedali vengono costruiti con i soldi delle tasse dei cittadini, ma come arriviamo dalle tasse alla disuguaglianza? Attraverso la constatazione che si sta usando l’arma della tassazione per difendere gli interessi del capitale e non quelli della cittadinanza e questo fenomeno, benché non crei tutta la disuguaglianza in circolazione, la protegge e la sostiene. Le dà impulso.

La storia ci dice che nel 1974 c’erano ben 32 aliquote che andavano dal 10% al 72% poi dal 1983 iniziarono i cambiamenti e le aliquote da 32 passarono a 9, la prima aliquota sui redditi fino a 11 milioni di lire (5.681 euro) dal 10 passò al 18% e l’ultima sui redditi oltre 500 milioni (258.000 euro) passò al 65%.
Si arriva al 1989 e le aliquote si riducono a 7, la prima aliquota sui redditi fino a 6 milioni di lire (3.000 euro) ritornò al 10% e l’ultima sui redditi oltre 300 milioni di lire (155.000 euro) passò al 50% e, finalmente, ad oggi, dove le aliquote sono solo 5. La prima aliquota sui redditi minimi fino a 15.000 euro corrisponde al 23%, mentre l’ultima aliquota, la più alta, riguarda i redditi oltre i 75.000 euro e corrisponde al 43%.

Cosa è successo dunque? Semplicemente che dal 1974 le aliquote sono progressivamente andate a diminuire per i redditi alti e ad aumentare per i redditi bassi.

Insomma “abbiamo il debito pubblico alto” e dobbiamo fare i sacrifici, ma esattamente chi li deve fare? Nel 1974 chi guadagnava più o meno l’equivalente di 250.000 euro contribuiva per il 72% mentre oggi contribuisce per il 43% allo stesso modo di chi guadagna 75.000 euro che non è esattamente la stessa cosa, anzi un bell’aumento di ricchezza per la fascia già alta della popolazione.

I poveri invece sono passati dal 10% al 23% senza proteste particolari, sindacati in piazza, scioperi o contestazioni ma anzi con l’accettazione tipica dell’uomo moderno che preferisce dibattere per i nomi delle strade o l’abbattimento delle statue del periodo fascista, che vuol dire trattare la storia come i talebani e l’isis, solo che loro sono i cattivi.

Le aliquote Irpef, insomma, potrebbero essere una buona chiave per capire chi deve fare i sacrifici.

Io credo che le tasse non debbano essere né un furto né un ostacolo alla libera iniziativa e quindi che non dovrebbero mai superare un certo limite, ma sono anche consapevole di questa assenza generalizzata della politica che continua a dimostrare insofferenza alle prescrizioni delle norme costituzionali ed indifferenza alla giustizia sociale e che, inoltre, la proposta del partito della Lega Nord peggiori una situazione già pessima. Un partito che nonostante venga definito populista agisce in questo caso proprio contro il popolo quando propone il sistema di tassazione denominato flat tax, ovvero una sola aliquota fiscale buona per tutte le stagioni.

La flat tax metterebbe pace definitivamente a tutti i calcoli cancellando pezzi di costituzione e di giustizia sociale. Anche il ricorso alle previste deduzioni nel contesto di questa proposta darebbero sì un po’ di respiro alla maggior parte dei contribuenti ammassati verso il basso, dando persino a qualcuno la sensazione del miglioramento, ma sostanzialmente andrebbe a dare ulteriore potere economico (e quindi sociale) a chi avrebbe meno bisogno di tutela.
Non si considera una cosa semplicissima, che a un reddito di 24.000 euro all’anno con famiglia a carico, anche 100 euro al mese possono fare la differenza mentre per redditi da dirigente statale di 240.000 euro valgono un caffè al bar. E un top manager alla Marchionne può arrivare anche a 50 milioni all’anno. Ci sono delle differenze che non bisogna nascondere e la politica dovrebbe mediare fra i vari interessi in campo assicurando a tutti la giusta considerazione. Esiste il bisogno del pane, delle scarpe e della casa e il desidero di volare con aereo privato da Londra a Palermo che possono essere entrambi legittimi ma rimangono sempre bisogni o desideri.

Sono concetti diversi e vanno mediati con le esigenze di appartenenza al genere umano, di cittadinanza e di giustizia sociale. Se viviamo tutti sullo stesso pianeta abbiamo degli obblighi reciproci e nessuna parte ci guadagna a vedere l’altra soccombere, bisogna riconoscere l’interdipendenza degli uni con gli altri.

Proporre una flat tax assicura solo che qualche auto di lusso o aereo da crociera o yacht in più sarà venduto, un appiattimento (flat) sempre più marcato delle classi sociali in ricchi e poveri, un aiuto al fenomeno della disuguaglianza. Molto più “popolare” o “populista” sarebbe proporre un sistema di tassazione progressiva che tenga conto degli interessi in gioco e laddove viene evidente che il 72% è un furto ed un invito a delinquere sia anche evidente che non si può considerare alla stessa stregua un reddito di 28.000 euro con uno di 55.000 e uno da 75.000 con un altro di 240.000 e oltre.
Poi ovviamente si assicuri la certezza della pena per chi evade, si aiutino le aziende locali a prosperare difendendole anche con la fiscalità, oltre che con l’accesso al credito, dalle multinazionali, si consideri i prodotti nazionali come ricchezza e prospettiva di lavoro perché solo una buona domanda interna può dare impulso ad un reale miglioramento della situazione economica. Le esportazioni servono a pochi e dimostrano altrettanto poca progettualità e visione del futuro, così come pensare di lasciare più soldi ai ricchi con la speranza che questi li spendano investendo o comprando e aspettando che arrivi qualche briciola di pane ai pesci rossi significa aver fatto passare invano 200 anni di storia (e quindi Smith, Ricardo, Say, Marx, Keynes e poi Mussolini, Hitler, Bretton Woods e il muro di Berlino).

Palazzo delle Saline, tante domande di partecipazione al concorso di idee

da Clara

È scaduto venerdì 25 agosto il termine per l’invio delle domande di partecipazione da parte dei professionisti interessati al concorso di idee per il recupero dello storico Palazzo delle Saline di Comacchio.
Sono svariate decine le domande pervenute agli uffici CLARA, e ora si apre una nuova fase della procedura: per i professionisti che ne hanno fatto richiesta l’azienda ha infatti fissato le date per i sopralluoghi nelle mattine di martedì 29 e giovedì 31 agosto, martedì 5 e giovedì 7 settembre.
Il calendario del concorso prevede poi come data di scadenza per la ricezione delle proposte ideative il 12 dicembre 2017 e la conclusione dei lavori della Commissione giudicatrice entro il 26 gennaio 2018.
Il progetto vincitore otterrà un premio di 10mila euro a titolo di rimborso spese, che verrà considerato anche quale acconto per un eventuale successivo incarico di progettazione definitiva ed esecutiva. Al secondo e al terzo classificato andranno invece premi rispettivamente di 4mila e 3mila euro a titolo di rimborso spese.
Tutti gli aggiornamenti relativi alla procedura in corso saranno come sempre pubblicati nella sezione Società Trasparente del sito www.clarambiente.it.

I RACCONTI DEL LIDO
Un diverso destino per i L(a)idi

E così, dopo la buriana ferragostana, una pseudo calma torna sui L(a)idi e immancabili, rombanti e minacciose, le forze dell’ordine spazzano la battigia, provocando la fuga dei dannati della terra che fino al giorno prima sciamavano indisturbati con estasi ‘comprereccie’ per le non esili dame in cerca di ‘qualcosa da mettersi su’. Ma come mai solo a festa finita? Domanda necessariamente rivolta al silenziosissimo sindaco di Comacchio che (forse) non sembra aver a cuore le sorti dei suoi Lidi sempre più Laidi.

Comunque, ‘Passata è la tempesta’ ‘E odo augelli far festa’.
Il che vorrebbe dire le urla strazianti dei gabbiani che si avventano sui bidoni della spazzatura.
Poco alla volta il silenzio s’impadronisce delle vie che, se non vedono razzolare le leopardiane galline, assistono però al trionfo dei pelosi che a frotte scendono per la solita pisciatina o per il ‘grosso’, mentre i loro colpevoli padroni/e fanno finta di non vedere le orme evidenti del loro passaggio. E qui sarei tentato, ponendomi nei panni del Silenzioso (sindaco) di comminare multe salate agli sventati (ed è un eufemismo) non certo compagni umani dei pets.

Nella calma raggiunta si decide di andare a cena in un paese al confine tra Emilia e Romagna, Sant’Alberto.
Appena usciti dal caos l(a)idesco s’imbocca la Romea nell’ora ‘che volge al disio’. Tra gli alberi s’intravvedono le valli rosate. Voli di fenicotteri e di gabbiani striano il cielo.
Da lontano si scorgono i profili dei monti che la luce calante ammorbidisce nei contorni.
All’altezza di Casal Borsetti si volta a destra e si costeggia un canale le cui rive son popolate di casette ‘di una volta’.
Improvvisamente ricordo che quella strada la conosco poiché avevo portato Lilla dal guru degli animali dove tra i vocii di tanti animali avevo ascoltato il responso e la cura.

Infine, sotto l’argine si scorge una grande scritta: ‘La rucola’.
Una casa contadina, un grande parco e attente ragazze che, immuni dalla leggera falsità imposta dai locali alla moda, t’invitano a sederti, e ti propongono prima di tutto, ma solo il lunedì, il favoloso ‘gnocco’ fritto. E non si faccia ironia a declinare al femminile il termine!
Giungono poi piatti della cucina romagnola di un tempo, che accompagnano i soffici e incredibili gnocchi, fritti secondo la tradizione modenese. Chiedo spiegazioni e arriva lui, il capocuoco, perfetta immagine del bagnino romagnolo tombeur de femmes della mia giovinezza. Ha il codino di capelli grigi, orecchino pendente con crocifisso e la tshirt d’ordinanza. Ci racconta la storia della composizione del gnocco tramandatagli da una nonnina modenese di più di ottanta anni. E ci raccomanda come accompagnamento del gnocco: salumi di casa, formaggi, ricotte, scalogni, costolette d’agnello, faraone, passatelli in brodo, cappelletti romagnoli. Un vero ‘nozzo strangozzo’.
Improvvisamente il tempo si ferma di fronte a un’enorme fetta di zuppa inglese e di ‘brazadele’ (ciambelle) di vari tipi. Allora penso a come avrebbe potuto essere il destino dei L(a)idi se fossero stati concepiti come luogo di passaggio di due tradizioni paesaggistiche e culturali tra Emilia e Romagna.
Spazi infiniti di pini e di dune sabbiose.
Luoghi in cui il tempo avrebbe potuto divenire Storia.

La teoria della vongola: anche la verace passerà

Un piatto di spaghetti con le vongole, per favore!
Sì, ma quali vongole?
Nella Sacca di Goro la vongola verace (Ruditapes decussatus) è scomparsa. All’inizio degli anni Settanta lo sfruttamento indiscriminato del mollusco portò la sua pesca da circa 1200 quintali a stagione a circa 70 quintali in 6 anni. Per rimediare all’errore, al sottovalutato danno, e rinfrancare la pesca e l’economia si introdusse un’altra vongola di origine filippina (Ruditapes philippinarum) con caratteristiche ben diverse: maggiore taglia, maggiore adattamento ecologico, maggiore prole. In poco tempo la straniera philippinarum scalzò l’autoctona decussatus e, usurpato il titolo di verace, oggi è l’unico condimento dei nostri spaghetti.

Anni fa Eugenio Scalfari introdusse la “teoria della cozza”, un’immagine metaforica che applicò alla Dc e a Giulio Andreotti. Al mio provincialismo estense la vongola verace suggerisce un’altra teoria: quella della vongola.
Recentemente Bernardo Valli su ‘L’Espresso’ (30/07/2017) evidenzia il crollo demografico della vecchia Europa. In cinquant’anni la Germania potrebbe perdere 24 milioni di abitanti, un destino comune all’Italia. Se persistono i tassi di fertilità odierni, secondo le informazioni raccolte da Valli, entro il 2080 potrebbe scomparire una quota di abitanti equivalente a quella della Germania dell’Est, un tempo comunista. Valli è consapevole che “sono cifre da fantascienza rese nebbiose, incerte, perché con scadenze reali remote”. Tuttavia vede “una decimazione della popolazione contenibile, meglio attenuabile, con una forte immigrazione. Un’idea quest’ultima che spaventa gli elettori e che può cambiare il panorama politico tedesco”. Sempre su ‘L’Espresso’ Eugenio Scalfari (06/08/2017) dichiara che la vera politica europea è “ridurre le diseguaglianze, aumentare l’integrazione. Si profila come fenomeno positivo, il meticciato, la tendenza alla nascita di un popolo unico, che ha una ricchezza media, una cultura media, un sangue integrato”. Nello stesso numero della rivista Francesca Sironi visita la nostra Lagosanto, il paese italiano con la più bassa presenza di giovani al di sotto dei trent’anni. Testo e foto ne danno un panorama algido, freddo, vuoto. Vuoto di cosa? Di lavoro? Di negozi? Di cinema? No, di cultura: terra rasa, da dissodare, arare, fresare e seminare. Una laguna anossica sul cui fondale le vongole veraci stanno boccheggiando prima della morte.
Queste tre indagini sulla società non considerano la sua parte più caratterizzante e dinamica, quella culturale. Ho la sensazione che si pensi di modificare il corso degli eventi (i.e., bassa natalità, aumento dei pensionati, riduzione del pil) con meccanismi tecnici di migrazione/importazione delle popolazioni senza valutarne le modalità e i successivi impatti culturali: non ricorda la storia della nostra vongola verace? Si diceva: “Dobbiamo guadagnare di più dalla vendita delle vongole, ma le abbiamo già pescate tutte: impiantiamone di nuove, alloctone, più prolifiche! Tanto le veraci ci sono da sempre (!), non scompariranno”.

La mia metafora è semplicistica in quanto non analizza i dettagli ecologico-sociali. La preoccupazione sociale prodotta dall’immigrazione è spesso trattata in Italia solo tecnicamente (si ricordino, per esempio, le ultime considerazioni di Tito Boeri), in termini economici e statistici, considerando in modo asettico numeri, produzione, tassi, invece di persone, culture, etica.
Uno dei punti cardine del problema immigrazione è mantenere e diffondere la cultura (nazionale e locale) per non perdere la tradizione. Sappiamo che questa naturalmente si diluisce con il tempo, muta forme e colori: non scompare immediatamente, si modifica, cambia aspetto. È una dinamica che non possiamo arginare e interrompere. Possiamo però rendere la cultura più comprensibile, fruibile e coinvolgente, agli autoctoni e specialmente agli alloctoni. Una cultura non sussiste indipendentemente dalle altre, perché è solo come parte dell’autodeterminazione del mondo nella sua totalità dinamica e storica che essa può darsi.
Proviamo a seminare l’arte. L’arte ha la capacità nella sua estetica di rendere dinamici tutti gli attori, gli oggetti come i soggetti, le interpretazioni e le emozioni, di modo che tutte le attività dell’uomo vengono rimesse in discussione, rinegoziate. L’esperienza estetica è un’attivazione delle nostre facoltà cognitive, una promozione della vita. L’esperienza estetica permette proprio quelle rinegoziazioni delle pratiche umane che sono necessarie a un essere umano che “non ha alcuna forma di vita impiantata per natura“ (Georg W. Bertram).
L’estetica è un’etica.
Non potendo più apprezzare gli spaghetti alle vongole veraci (i.e., R. decussatus), abbiamo inventato quelli allo scoglio: un coacervo di prodotti freschi e congelati, provenienti da mari differenti, che forniscono, più o meno con soddisfazione, un esempio di gastro-evoluzione. In meno di quarant’anni abbiamo dimenticato il sapore della vongola verace (decussatus) e la sua decimazione: è stata sostituita (quantitativamente) dallo “scoglio”, arduo da scavalcare.
Ed anche la verace passerà.

SEGNALI
A Pozzallo giovani ciceroni fanno riaprire la Torre Cabrera

Ci sono storie che incontri per caso, magari mentre sei in vacanza al mare, in Sicilia.
Storie che ti catturano, con dentro persone che non puoi dimenticare, perché lasciano dentro di te un segno indelebile. Proprio come quella dei ragazzi della scuola ‘Giuseppe Rogasi’ di Pozzallo, in provincia di Ragusa. Il perché è presto scritto: questi ragazzi sono le ‘guide speciali’ di un monumento nazionale che, senza il loro coraggio e impegno, sarebbe impossibile visitare e scoprire. E’ la Torre Cabrera che domina alta e bianca il lungomare di Pozzallo, uno dei centri balneari più importanti e frequentati dell’intera provincia ragusana.
I ‘ragazzi del Rogasi’ ne svelano storia, segreti, misteri dalle 18 alle 22 di ogni sera da lunedì a domenica nei mesi di agosto e settembre. Lo fanno con una preparazione degna dei migliori critici d’arte, grazie a un progetto realizzato nella loro scuola, condito da una passione unica per la loro terra e le loro radici.

La storia di Pozzallo ha origini antichissime, sul suo territorio sono stati infatti ritrovate tracce bizantine e monete romane. Durante il periodo di dominazione saracena gli arabi che ne fecero uno dei porti più importanti della zona.
Nel XIV secolo, Pozzallo era molto conosciuta per le sorgenti di acqua dolce, Pozzofeto e Senia, tanto da essere segnata nei portolani e sulle carte nautiche per i rifornimenti delle scorte d’acqua dai navigli.
La storia più recente di Pozzallo inizia proprio da qui con la famiglia Chiaramonte, Conti di Modica, che qui costruì un ‘Caricatore’: un complesso di magazzini con pontili e scivoli sulla costa, che fece divenire Pozzallo, il secondo snodo commerciale marittimo per importanza della Sicilia dell’epoca.

Proprio per la sua importanza marittima e commerciale, successivamente fu necessario potenziare le strutture difensive della costa. Su richiesta del conte Giovanni Bernardo Cabrera, nel XV secolo il re Alfonso V d’Aragona autorizzò la costruzione di una torre di difesa: la Torre di Cabrera.

La struttura risultò molto imponente e di grande importanza militare per l’avvistamento preventivo dei velieri pirata che in quel tempo miravano spesso ai magazzini del Caricatore, sempre colmi di grano della Contea di Modica, che imbarcato a Pozzallo raggiungeva i più lontani porti del Mediterraneo. Nella torre prestavano servizio soldati e artiglieri e sulle sue terrazze vi erano piazzati cannoni di diverso calibro, mentre cavalieri sorvegliavano la costa. Venivano anche catturati e puniti i criminali o i prigionieri saraceni, imprigionati e giustiziati in una camera particolare, ancor oggi visibile, situata proprio sugli scogli, dove i detenuti venivano incatenati e poi uccisi per annegamento a causa delle acque che si alzavano con l’alta marea. Nelle volte a crociera di qualcuna delle sale, adibite a residenza del castellano, o del conte stesso di passaggio, spiccano gli stemmi scolpiti raffiguranti il blasone della nobile famiglia catalana dei Cabrera.

Mentre scrivo ho sotto mano il cellulare e il messaggio che gli amici di Pozzallo mi hanno appena inviato per dirmi che anche quest’anno sono impegnati a fare le guide. Riguardo le fotografie e sorrido, pensando a quando l’anno scorso mi hanno trascinata nelle stanze della Torre accendendo la fantasia e spingendola tra velieri, storie di pirati, conquistatori e nobili pronti a difendere il loro territorio. E provo gratitudine per la grandezza di questi giovani che, in un Paese meraviglioso e contradditorio come il nostro, ci credono e vanno contro corrente, tenendo viva una memoria altrimenti dimenticata e invisibile.

Giocarsi la vita

La roulette non rende a nessuno, se non a chi la possiede. Tuttavia, la passione per il gioco è comune, mentre la passione per il possesso della roulette è ignota. (George Bernard Shaw, ‘Uomo e superuomo’, 1903)

Enormi sale, arredamenti diversi ma un’unica atmosfera palpabile e percepibile che nettamente le accomuna: tensione, frenesia, febbre, smania, attesa spasmodica col fiato sospeso e cedimento improvviso quando il gioco arriva in battuta finale. Per poi ricaricarsi e ricominciare. C’è chi fuma negli spazi riservati, chi concentra ogni singola risorsa personale su quei numeri che vengono chiamati e scanditi velocemente da una voce incolore, metallica; qualcuno mangia un toast, una fetta di dolce, un gelato, senza mai perdere di vista per un solo istante le cartelle acquistate, mentre qualcun altro ordina da bere tra una scansione e l’altra, controllando i soldi che ha preparato sul tavolo, pronti per nuove puntate. I croupier si muovono come silenziosi e felpati felini tra i tavoli, esibendo mazzette di cartelle, pagando i vincitori e raggiungendo fulmineamente le braccia alzate che li reclamano.

Sono le sale bingo, popolate da clienti di ogni estrazione, giovani e meno giovani, donne, uomini, gruppetti di signore inanellate accanto a solitari e scontrosi pensionati, piccole comitive di amici, frequentatori abituali e occasionali, coppie silenziose che di coppia hanno ormai ben poco, ragazzi in attesa di finire la serata in un qualche altro locale. Una moltitudine che popola uno spazio estraniante in cui contano solo ed esclusivamente i numeri allineati rigorosamente sulla stessa linea o nella stessa cartella: tutto il resto è nulla. E a ogni cinquina, ogni bingo, c’è sempre chi esulta carico di adrenalina e chi, svuotato e deluso, aggredisce con lo sguardo allusivo e colpevolizzante i fortunati del momento. Sferzate emotive che si alternano di continuo in esaltazione e depressione, riempiono quei vuoti che si cerca di colmare dando l’illusione di cancellare frustrazioni, infelicità, noia. Gli stessi meccanismi, le stesse razioni che troviamo nelle sale di slot machine e nei casinò, con una differenza percettiva: mentre il casinò viene ancora visto come un luogo più esclusivo per retaggi di natura storica, le altre pratiche di gioco più recenti sono alla portata di chiunque, senza riserve e limiti, in posti e spazi comuni, facilmente raggiungibili e frequentabili, come bar, tabacchini ed esercizi pubblici, più tranquillizzanti, più ‘normali’, più giustificabili nel mettersi in pace con se stessi nei momenti di ripensamento.

In fondo in fondo, il bingo è un po’ come la tombola che ci ricorda i Natali della nostra infanzia o le feste in parrocchia e il bar è un po’ la nostra seconda casa in cui fermarsi a prendere un caffè e fare due chiacchiere… Incredibile come si riesca ad autoassolversi dai sensi di colpa e a calmare ansia e stati depressivi davanti a quei tavoli magnetici e quelle macchine che assomigliano a luminosi totem da adorare, incitare e maledire. Il gioco ha sempre accompagnato l’individuo alla ricerca di emozioni forti, destinato molto, troppo spesso a diventarne schiavo irrecuperabile. “Smetto!”, ma poi l’indomani è sempre là, avvolto da una ragnatela che lo cattura e immobilizza. Una lenta china discendente dove slot, bingo, scommesse, videopocker, baccarat, roulette, black jack, chemin de fer, inducono alla ludopatia: una vera e propria dipendenza comportamentale, che vede un aumento graduale delle giocate, del tempo trascorso a giocare, delle somme di denaro impegnate nel tentativo di recuperare le perdite, oltre che una progressiva trascuratezza dei propri impegni quotidiani e una distorsione della realtà.

In rete il gioco d’azzardo prospera: casinò virtuali, siti con recensioni, community di giocatori e forum dedicati ad appassionati scommettitori hanno contribuito in modo massiccio all’aumento del fenomeno. Il termine ‘azzardo’, deriva dall’arabo ‘az-zahr’, il dado, perché proprio il gioco dei dadi è uno dei più antichi che si conoscano, come ci dimostrano i giocatori di dadi negli affreschi di Pompei. Giocatori d’azzardo nelle taverne, bari e imbroglioni nei bassifondi, liti tra giocatori di carte, scaltri ladri ai tavoli da gioco, ingenui scommettitori e ciarlatani di strada, popolano i dipinti di epoche e autori diversi tra cui di Murillo, Bruegel, Ribera, Cezanne, Dix, de Vega, Caravaggio, Botero e numerosi fiamminghi tra cui van Herp e van Leyden, invitando il nostro sguardo sul vasto, inquietante mondo del gioco con pennellate e ritratti di un’espressività sconcertante.

Nelle pagine di letteratura, ‘ Il giocatore’ (1866) costituisce un piccolo capolavoro di Dostoevskij, scritto dal grande autore russo, ironia della sorte, proprio per necessità di pagare debiti di gioco. Tutta la vicenda, ambientata nella città tedesca dal nome fittizio di Roulettenburg, ruota attorno a una famiglia stravagante, in cui il precettore Aleksej Ivànovic, innamorato di Paolina, diventa un giocatore incallito per guadagnare quelle somme di denaro che potrebbero avvicinarlo alla ragazza e sbarazzare il campo dagli altri pretendenti. Alla fine, davanti alla possibilità di cambiare totalmente vita, l’uomo sceglie e decide di rinviare al futuro la sua definitiva redenzione. Lo scrittore analizza, nel racconto, il gioco d’azzardo in tutte le sue forme, descrivendo le tipologie di giocatore, dal ricco nobile europeo al poveretto che si gioca tutti i suoi averi, non risparmiando il lettore su caratteristiche e peculiarità legate alla provenienza geografica dei protagonisti: l’altezzoso barone tedesco, il ricco gentleman inglese, il francese manipolatore.
E come Dostoevkij, anche Stefan Zweig parla di gioco compulsivo nella novella ‘Vierundzwanzig Stunden aus dem Leben einer Frau’ (24 ore nella vita di una donna) pubblicata nel 1927. Siamo in un rispettabile albergo della Costa Azzurra degli anni Venti dove, in seguito a un evento scandaloso, una riservata nobildonna inglese confessa ciò che le era accaduto trent’anni prima, quando aveva amato intensamente e per una sola volta un giovane russo devastato dalla febbre del gioco che aveva ormai dissipato tutti i suoi averi. Lei gli aveva donato i soldi per tornare a casa, ma il giorno successivo lo avevano trovato morto suicida dopo un’ultima, drammatica notte ai tavoli del casinò di Montecarlo. Una novella di vita e di morte e nel mezzo, una gamma di sentimenti e sensazioni come stupore, gioia, vitalità, sdegno, rancore, angoscia. Come Stafan Zweig sa descrivere. Il gioco fa la sua irruzione anche in ‘Il fu Mattia Pascal’ di Pirandello (1903): Mattia si imbatte in un metodo per vincere alla roulette, attraverso una rivista acquistata a Nizza. Sappiamo che non esiste alcun metodo se non quello di non giocare o smettere di farlo ma l’uomo, travolto dalla frenesia inarrestabile gioca, punta, vince, si inebria e perde a poco a poco il legame con la realtà. “I primi colpi andarono male. Poi cominciai a sentirmi in uno stato di ebbrezza estrosa, curiosissima: agivo quasi automaticamente, per improvvise ispirazioni…ero come elettrizzato, gli orecchi ronzavano, ero tutto in sudore, gelato…la mano mi andò sullo stesso numero di prima, il 35; fui per ritirarla, ma no, lì, lì di nuovo, come se qualcuno l’avesse comandato.” In un’opera del 1986, ‘La Partita’, Alberto Ongaro racconta di una Venezia del XVIII secolo avvolta da un’atmosfera lugubre, sommersa dal ghiaccio di un inverno inclemente. Il protagonista è il giovane Francesco Sacredo, appena tornato dall’esilio a Corfù, che tenta di recuperare il patrimonio familiare perso al gioco dal padre. Gli viene offerta la possibilità di riguadagnare tutto nel corso di una partita ad alta tensione con la contessa Matilde von Wallenstein e la posta in gioco è altissima: in caso di perdita egli stesso diverrà un bene della vincitrice. Sconfitto, fuggirà per sottrarsi alla sorte prestabilita, ma la sua fuga si trasformerà anch’essa in una partita senza fine col proprio destino.

Opere che descrivono con dovizia di particolari una condizione umana pesante, una prigionia devastante, l’impossibilità di disporre di un proprio volere e della libertà di scelta perche si è entrati in un vortice che non lascia margine di uscita. Epoche diverse, ma sempre la stessa delirante situazione legata al tema della dipendenza da gioco. In Italia la cura della ludopatia, riconosciuta solo in tempi recenti condizione patologica, beneficia di sempre più attenzione, anche se rimane ancora molto da fare. I Sert presenti in alcune regioni, equipe di specialisti e associazioni di mutuo aiuto stanno operando in modo mirato per diffondere conoscenza sul problema in incremento; campagne di sensibilizzazione stanno agendo per disincentivare la nascita e la diffusione di ulteriori punti di attrazione al gioco, chiedendo la soppressione e la chiusura degli esistenti, ben consapevoli che il volume d’affari che riguarda questo business è enorme e quando si tratta di incassi e somme vertiginose di denaro che circola, la ‘partita’ diventa difficile.

L’ANTICIPAZIONE
Internazionale e Teatro Nucleo portano la città nel teatro-carcere di via Arginone

Usare il teatro, il processo teatrale, per innescarne un altro, quello di reinserimento nella società dopo aver scontato la propria pena, e per l’alfabetizzazione funzionale dei detenuti, per insegnar loro la cultura che si esprime attraverso la lingua dei testi teatrali che interpretano. Tutto questo – e altro ancora – è il progetto teatro-carcere, la pratica quotidiana di teatro che da otto anni Horacio Czertok e i suoi collaboratori del Teatro Nucleo portano avanti nella Casa Circondariale di Ferrara.
Per la seconda volta Horacio, gli attori-detenuti e tutti coloro che lavorano al laboratorio teatrale di via Arginone affrontano la sfida di portare la città dentro le mura del penitenziario: il 29 settembre alle 20.30, all’interno del programma di Internazionale a Ferrara, nella sala-teatro della Casa Circondariale ‘Costantino Satta’ andrà in scena ‘L’irresistibile ascesa degli Ubu’.
Lo hanno già fatto nel settembre 2016, sempre all’interno di Internazionale, con ‘Me che libero nacqui in carcer danno’, ispirato alla Gerusalemme Liberata di Tasso, con incursioni del ‘Combattimento di Tancredi e Clorinda’ di Claudio Monteverdi. (Leggi qui l’articolo di Giorgia Mazzotti)

Una sfida nella sfida perché, a causa del tempo richiesto per l’autorizzazione all’ingresso, la biglietteria è aperta già da luglio e le richieste di partecipazione dovranno arrivare entro il 31 agosto e non oltre (costo del biglietto 10 euro, maggiori info per la prenotazione qui).
Proprio da qui comincio la mia intervista con Horacio Czertok, regista dello spettacolo insieme a Davide Della Chiara, con una domanda un po’ provocatoria: perché un normale cittadino dovrebbe affrontare la trafila – comunicazione dei propri dati, regole di condotta, controlli, etc – per venire a vedere il vostro teatro in carcere?
E lui, più che abituato a questo genere di domande, non ha dubbi sulla risposta: “Perché è un atto di civiltà. Noi, gli educatori, i detenuti, la polizia penitenziaria, siamo tutti coinvolti in un processo di trasformazione sociale e abbiamo bisogno del sostegno della città e i cittadini, quindi chi viene a vedere il teatro in carcere fa un gesto socialmente forte. È il vostro carcere, sono i cittadini a pagarlo, quindi venite a vedere come cerchiamo di cambiare le cose e come le persone cercano di cambiare se stesse. L’altro aspetto, infatti, per nulla secondario, è che questi sono spettacoli belli, di buon artigianato, fatti da persone che ci mettono tutte se stesse per essere viste come persone che stanno provando a cambiare: non ci interessa l’applauso ‘peloso’, come lo chiamo io. Io, Davide, gli attori, vogliamo un applauso entusiasta, vogliamo che al pubblico arrivi quel qualcosa che fa dire “Bravi!”, non “Poverini”: il teatro spinge a un gioco di autenticità, lì sta il riconoscimento della loro dignità. Noi non selezioniamo nessuno: una volta che loro hanno chiesto di partecipare alle nostre attività e sono stati ritenuti idonei, vengono e lavorano con noi, mettendosi alla prova e studiando il testo e incarnandolo. Questo li cambia: la necessità di essere autentici e convincenti”.

Parliamo allora dello spettacolo: ‘L’irresistibile ascesa degli Ubu’. Un lavoro su Jarry e sulla sua Patafisica portato avanti insieme a tutta la rete del Coordinamento Regionale Teatro Carcere, che raggruppa sette penitenziari sui dodici dell’Emilia Romagna: “la Patafisica è la scienza delle cose possibili, uno sguardo non retto, ma laterale, che fa capire che il sopra e il sotto e tutto il resto in fondo sono solo convenzioni”.
Farsi beffe del potere, smascherarne i lati oscuri e le logiche perverse attraverso la finzione del palcoscenico, che alza il sipario sul reale e permette di osservarlo con sguardo critico e caustico, riconoscendo con ironia che quei lati oscuri si possono nascondere in ognuno di noi. “Oggi in giro ci sono parecchi Ubu, da Donald Trump a Kim Jong Un, senza contare gli Ubu italiani, ma io non cerco il teatro di attualità: il bello del nostro mestiere è che attraverso i personaggi possiamo di mettere in scena quei caratteri umani universali che attraversano le epoche, rendendoli riconoscibili nel tempo che stiamo vivendo”. “Jarry – continua Horacio – scrive alla fine del XIX secolo, prima della Prima Guerra Mondiale e delle dittature del Novecento, prendendo ispirazione dal Macbeth: ecco perché ritroviamo una coppia malefica, Père Ubu e Mère Ubu, assetati di potere, con lei che spinge questo guerriero, questo capitano, all’apparenza forte, ma che si rivela fragile e incapace di prendersi le proprie responsabilità, di affrontare le conseguenze delle proprie azioni. Cosa alquanto frequente anche ai giorni nostri, dove si fa a gara in quanto a irresponsabilità. Ha una visione ed è questa che ci interessa”.
Ubu – spiega Horacio – è un testo particolare che permette diverse interpretazioni, grottesche o tragiche. Nasce come un gioco, quando l’autore Alfred Jarry era ancora un ragazzo a Nantes, lui e alcuni suoi compagni di liceo con questo testo quasi per marionette si prendono gioco del loro preside, molto crudele e autoritario. Qualche anno dopo Jarry si trasferisce a Parigi per diventare un drammaturgo di successo e riprende in mano l’opera, che va in scena con grande scandalo perché tradisce tutti gli stilemi della drammaturgia teatrale del proprio tempo anticipando alcune delle caratteristiche del teatro dell’assurdo di Brecht”. Ecco perché il titolo è ‘L’irristibile ascesa degli Ubu’, “parafrasando ‘L’irresistibile ascesa di Arturo Ui’, il testo di Brecht contro l’irrefrenabile ascesa di Hitler al potere”.
“Quello che andrà in scena a fine settembre e sul quale stiamo lavorando da circa sei mesi è un primo studio: in pratica abbiamo diviso il testo in due parti e ora lavoriamo sulla prima, sull’ascesa degli Ubu, cioè come Ubu diventa re di Polonia. Da ottobre riprenderemo a lavorare e studieremo anche la caduta, perciò se tutto va bene a maggio porteremo al Teatro Comunale l’intera pièce: ‘Ascesa e caduta degli Ubu’. Chi assisterà a entrambi gli allestimenti potrà vedere come il lavoro si è evoluto: per esempio, per il primo studio di settembre stiamo preparando, sempre in carcere, alcune scenografie che però per il Comunale andranno ampliate”. Se le scenografie sono una novità, ci sarà invece ancora musica dal vivo, come in ‘Me che libero nacqui’: “è una sorta di musical”, scherza Horacio.
In scena ci sono circa una decina di detenuti attori: “uno zoccolo duro, che ha già esperienza”, come per esempio quelli che hanno lavorato allo spettacolo su Tasso, “e intorno alcuni nuovi arrivati, che imparano il mestiere attraverso il lavoro dei compagni, proprio come accadrebbe in una compagnia, dove si impara dai più esperti e dal capocomico”.

Foto di Marinella Rescigno
Foto di Marinella Rescigno

Tornando all’esperienza del teatro carcere in generale, chiedo a Horacio come si lavora nel laboratorio: il metodo cambia a seconda dei testi affrontati?
“Il metodo non cambia, ma cambiano gli aspetti sui quali concentrarsi. Lavorare sul Tasso e sulle sue ottave è diverso rispetto a lavorare sulla lingua di Jarry: il testo è meno evocativo, più terra terra e quindi, se vuoi, più rischioso, rispetto a quello ricercato e aulico della ‘Gerusalemme liberata’, che in un certo senso protegge perché è bello già di per sè. La parola di Jarry è più povera dal punto di vista poetico, ma più diretta, più ruvida e graffiante, fatta apposta per irritare gli spettatori. Ed è su questo che abbiamo lavorato: la parola vicina alla realtà”.

Come si fa a trasmettere tutto questo ai partecipanti, a coinvolgerli, su autori, testi e temi molte volte lontani da tutto ciò che per loro è familiare?
“Lo si fa con grande sforzo, ma il lavoro è proprio questo. Per i detenuti il processo teatrale implica uno sviluppo educativo forte: quella fatta attraverso il teatro è alfabetizzazione funzionale, cioè permette di imparare non solo la lingua, ma la cultura che sta dietro, proprio perché la parola a teatro è fondamentale. E nello stesso tempo, attraverso il confronto con i compagni di laboratorio, c’è un confronto fra culture diverse e così ognuno può vedersi attraverso gli occhi dell’altro: l’integrazione, la crescita, le interazioni, avvengono perché l’altro diventa meno straniero e tu ti senti più straniero a te stesso e ti metti in discussione.
Inoltre, a mio avviso, fare teatro in carcere permette al teatro stesso di riflette su stesso e crescere: è un lavoro culturale, per trasmettere loro tutta una serie di nozioni e farli entrare dentro al testo, farli andare in profondità. Per far questo però, prima abbiamo dovuto pensare alle caratteristiche distintive di quell’autore e di quel testo.
Il fatto che gli attori detenuti non sappiano chi è Jarry, come non sapevano chi era Tasso e quasi nessun altro della biblioteca teatrale, nostra e spesso della loro cultura d’origine, è un aspetto positivo perché sono completamente aperti e vergini, non hanno pregiudizi. Per loro non è un problema ammettere la propria ignoranza e questo è un primo passo per crescere, perché non si devono difendere e non pensano a come gli altri li giudicano per il fatto che non sanno chi è Jarry. Si mettono sotto e lavorano e imparano.
Infine, spesso il teatro offre loro una visione critica, senza ipocrisie, senza infingimenti, della società e attraverso la finzione del teatro arriva una sorta di oggettivazione delle storture di questo modello di società”.

L’irresistibile ascesa degli Ubu
29 settembre Casa Circondariale di Ferrara – ore 20.30
Prenotazione obbligatoria entro il 31 agosto

Nell’ambito del programma ufficiale del Festival di Internazionale a Ferrara
Compagnia dei detenuti-attori del Teatro della Casa Circondariale “Costantino Satta” di Ferrara.
Regia: Horacio Czertok e Davide Della Chiara
Drammaturgia, progetto scenografico, musica: Davide Della Chiara

Maggiori info su Teatro Nucleo

Leggi anche
Entrare in carcere con il teatro
Va in scena ‘Il mio vicino’: lo spettacolo che abbatte i fili spinati e crea ‘terre’ di incontro

Sommersi o salvati: appello a una minoranza troppo silenziosa

Una cara amica, una con cuore e cervello vicini al mio sentire e al mio pensare,  mi ha detto: “Le cose che scrivi sono giuste, ma un po’ scontate. Sappiamo tutti dove sta andando il mondo e la nostra Italia. A che serve parlare, a che serve scrivere? L’unica cosa che conta è il fare”. Si parlava di immigrati e di accoglienza, di dialogo e integrazione, di decreto Minniti e di respingimenti.
Giusto, occorre prima di tutto fare: lavorare, impegnarsi in prima persona, in ogni più piccola realtà perché l’onda montante dell’Inumano non prevalga. Rimango però della mia idea: oggi, soprattutto oggi, parlare, scrivere, farsi sentire, bucare il muro dell’indifferenza e dell’ignoranza è ugualmente decisivo.

Inumano? Ne scriveva poco tempo fa su ‘Il manifesto’ Marco Revelli: “Negli ultimi giorni qualcosa di spaventosamente grave è accaduto, nella calura di mezza estate. Senza trovare quasi resistenza, con la forza inerte dell’apparente normalità, la dimensione dell’“inumano” è entrata nel nostro orizzonte, l’ha contaminato e occupato facendosi logica politica e linguaggio mediatico. E per questa via ha inferto un colpo mortale al nostro senso morale”.
Ezio Mauro su ‘Repubblica’ denuncia una vera e propria “inversione morale”: una maggioranza dell’opinione pubblica che fino a qualche mese fa stava per i soccorritori, plaudiva alla messa del papa a Lampedusa, rivendicava il dovere morale di salvare i disperati…. oggi si scopre improvvisamente minoranza. Nei media (tranne poche eccezioni), in rete (si leggono commenti atroci), nelle direzioni di partito (e non solo a destra), nei bar (mentre si affilano le armi per l’inizio del campionato) è un coro assordante, a più voci, ma tutto orientato verso la chiusura: “Adesso basta”, “Sono troppi”, “Ci stanno invadendo”, “Aiutiamoli a casa loro”.

Me ne sono accorto a mie spese. Ho scritto un mese fa proprio su questo giornale sulla Ius soli e sull’accoglienza. Bene, la stragrande maggioranza dei commenti ricevuti attaccavano la mia “tiritera buonista” e minacciavano fuoco e fiamme  contro gli invasori.
Siamo insomma giunti a uno spartiacque e forse – spero di no – a un punto di non ritorno. La ex maggioranza che metteva sopra di tutto i diritti dell’uomo – e in primis il diritto alla vita – sembra essersi disgregata, come sommersa dall’onda dell’egoismo identitario, magari e opportunamente travestito da realismo.
Ma mi chiedo, dove è finita la minoranza che ancora crede nell’Umano? Certo, in Italia centinaia di migliaia di volontari, operatori, associazioni, gruppi spontanei continuano a lavorare per soccorrere, aiutare, nutrire, accogliere. E anche nella nostra città, sotto la sigla ‘Ferrara che accoglie’ si sono ritrovate decine di realtà, centinaia di persone impegnate attivamente nel campo dell’accoglienza, dell’integrazione, del dialogo interetnico. Rimane però il fatto che, anche a Ferrara – sulla sua stampa, sulle lettere, sui social – questa minoranza virtuosa sembra non riuscire a far sentire la propria voce. Ci prova – per il 16 settembre è previsto in piazza Castello un grande momento di confronto e di festa, ‘Ferrara che Accoglie: musica, talenti e culture internazionali’ – ma l’impressione è che anche nella civile e democratica Ferrara prevalgano le voci della chiusura e del rifiuto.

Per questa ragione alla mia amica ho risposto che non è proprio vero “che tutti sanno com’è la situazione”. E anche se… anzi, proprio quando la maggioranza, invece di guardare gli orrori di una tragedia umana, ascolta solo la propria pancia, è importante parlare, scrivere, dare informazioni corrette, riflettere sulle conseguenze tragiche di un chiudersi in un miope egoismo identitario. Proprio ora è importante levare la propria voce per contrastare questa pericolosa amnesia collettiva verso i principi della nostra coscienza, inutilmente sanciti dalla Carta dei Diritti dell’Uomo, dalla Costituzione Europea e dalla nostra Carta Fondamentale. E’ importante raccontare cosa sta succedendo. Sotto i nostri occhi. Sicuramente riceveremo risposte e commenti ringhiosi e arrabbiati, ma anche questo è da mettere in conto.

Proprio ieri (18 agosto) su tutti gli organi di informazione venivano diffusi con grande baldanza i dati del Viminale sui “primi successi” del Decreto Minniti e dell’accordo tra lo Stato Italiano e il Governo Libico. Uno dei due governi, quello riconosciuto dall’Occidente. Traduco la notizia in parole povere: “Evviva, abbiamo chiuso il rubinetto!”. Ecco i dati. Nel mese di luglio 2017 gli sbarchi – guai a chiamarli soccorsi o salvataggi – sono dimezzati rispetto al luglio 2016. E nei primi quindici giorni di  agosto “gli sbarchi sono crollati”, ridotti a un decimo: 2.245 questo agosto, contro i 21.294 dell’agosto 2016.
Evviva, non sono arrivati! Ma dove sono finiti tutti quanti? Non risulta che per i disperati si siano aperte altre vie di fuga: chiuso il corridoio greco-turco, sprangati i porti maltesi e spagnoli. E chiusi di fatto, da un paio di settimane, anche gli approdi più vicini, quelli italiani. Gongola il Ministro dell’Interno: “Abbiamo spostato la frontiera europea in Libia”. Infatti. Le navi delle ong che avevano salvato migliaia di vite sono ferme: sia le ong – come Medici senza Frontiere- che si sono rifiutate di firmare l’accordo vergognoso per i militari a bordo, sia quelle che hanno firmato. Semplicemente perché non si può salvare più nessuno. La guardia costiera di Tripoli – dell’altro governo libico, quello riconosciuto dalla Russia e corteggiato dalla Francia – ha spostato il raggio d’azione a 80/100 miglia oltre le acque territoriali: Fermi o spariamo! Il governo italiano dà una mano e promette di fornire ai libici un po’ di motovedette, armi comprese.

Riassumendo. Quelli che non sono arrivati e quelli che non arriveranno mai sono tutti in Libia, nei campi di detenzione, sottoposti a violenze, stupri e torture, ridotti alla fame, senza servizi igienici, esposti alle epidemie, sempre più in balia delle bande dei trafficanti di esseri umani. Lo denunciano le agenzie dell’Onu – la più internazionale e ormai la più imbelle delle organizzazioni – e lo testimoniano foto e video che ci arrivano dai lager libici.
Forse alcuni di loro, i più pazzi e disperati, proveranno a fuggire dai “campi di concentramento” e cercheranno di prendere il mare. Ma tranquilli, in Italia sarà sempre più difficile arrivare. Li fermeranno le pallottole. E nessuna nave solcherà più il mediterraneo per salvarli.

Sono pronto ad ammettere il mio idealismo d’antàn, accetto anche tutte le accuse più infamanti: buonista, cattocomunista, venduto agli invasori, traditore della patria. Ma in cambio voglio un po’ di onestà. Un po’ di chiarezza sulla vera frontiera che ci sta davanti: all’Italia e a ognuno di noi.
Non sto parlando di una frontiera fisica, ma di una frontiera morale. In queste settimane si sta consumando non solo un dramma umanitario, ma un vero genocidio. Salvare vite umane, tendere la mano, accogliere i migranti è faticoso, complicato, a volte urtante, tutto quello che volete; ma l’alternativa, l’unica alternativa oggi sul tappeto è essere complici, lasciare i migranti nei lager della Libia o spedirli in fondo al mare. Ecco il bivio, la scelta che ci sta davanti: salvati o sommersi? Stare per la vita umana o condannare uomini, donne e bambini a una fine orribile?

L’Italia, questo governo, sembra aver fatto la sua scelta. Dopo che per anni il nostro Paese – l’isola di Lampedusa in testa – è stato un esempio luminoso di fratellanza e solidarietà, si è deciso di “fare come  gli altri”: chiudere occhi e orecchie, accodarsi a un Europa blindata, scegliere il calcolo geopolitico, rincorrere qualche voto alle prossime elezioni.
Rimane però la ex maggioranza, l’attuale ‘minoranza troppo silenziosa’.  A questa, ai milioni di italiani e alle migliaia di ferraresi, che non hanno ceduto all’Inumano e alla ‘banalità del male’ vorrei rivolgere un piccolo appello. Continuiamo a parlare a raccontare, a scrivere, non stanchiamoci di spiegare l’abisso in cui ci stiamo cacciando.  Condividiamo post su Facebook, cinguettiamo su Twitter, inviamo foto e video su Instagram e Whatsapp. Mandiamo commenti, scriviamo lettere ai giornali, parliamone a tavola.
Schieriamoci per i salvati, non per i sommersi.

L’uomo e l’orso: una storia millenaria

L’abbattimento in Trentino dell’orsa Kj2 è diventato un caso nazionale se non addirittura, grazie (o a causa) di qualche testata estera, internazionale. Questo significa che i riflettori dell’attenzione pubblica sono quotidianamente attivi nell’individuare ‘colpe’ e ‘colpevoli’, sviscerando vicende, attribuendo mancanze e negligenze, muovendo accuse dagli effetti piuttosto pesanti e, talvolta, spezzando qualche lancia a favore. Una vastissima opinione pubblica spaccata in due, correnti di pensiero divergenti che si contendono ragioni e pareri autorevoli o meno, ben suffragati dai fatti o farciti di populismo e si stanno battendo sul parterre di stampa e studi televisivi con grande veemenza, attraverso associazioni, illustri testimoni, opinionisti improvvisati, rappresentanti politici agganciati a partiti storici e di nuova generazione, per dimostrare che l’intervento umano del caso è stato né più né meno che un delitto vergognoso o, viceversa, una necessaria anche se non proprio saggia decisione.

La storia dell’orso ha sempre grande impatto sui meccanismi emotivi, perché l’immagine del plantigrado che vaga solenne per i boschi, con l’andatura un po’ oscillante, il possente incredibile scatto nella corsa e l’arrampicata inspiegabilmente agile popola storie, fiabe e leggende non solo del Mittel-Nordeuropa, che evocano il mondo fantastico del bambino che c’è in noi. L’imponente mammifero suscita ammirazione, stupore, terrore, rispetto; se poi l’animale è una femmina con prole, allora raddoppia la propensione alla tenerezza che l’esemplare merita sicuramente. L’orso è il simbolo che compare sullo stemma di Berlino (Bärlein, piccolo orso) fin dal 1280, data della fondazione della città in un territorio dove la presenza di orsi era significativa. L’animale campeggia anche nel vessillo di Madrid già dal XIII secolo, raffigurato aggrappato a un albero di corbezzolo, le cui bacche servirono a curare le febbri malariche che colpirono la popolazione nel Cinquecento. Berna, in Svizzera, scelse l’orso come simbolo rappresentativo nel XVI secolo, quando Berthold V di Zähringen, fondatore della città, uccise un orso su un’ansa del fiume Aare dove sorse il primo agglomerato urbano. Nello stesso secolo gli orsi venivano allevati come portafortuna durante le guerre e venivano alloggiati in un luogo protetto chiamato ‘Bärengraben’.

Città italiane come Pistoia, Biella e altre hanno adottato l’orso nella loro araldica civica, seguendo storie e significati legati alla loro stessa storia: Pistoia, citando un esempio, vanta ben due orsi che reggono uno scudo, simboli dell’indipendenza dai fiorentini che contavano invece sull’immagine del leone. Nei bestiari medievali, infatti, orso e leone erano in lotta per il potere e si contendevano quel primato cui solo figure animalesche di grande forza fisica potevano aspirare. Anche diversi comuni di provincia come Vallarsa, Dorsino, Orsara, Orsogna e molti altri, da Nord a Sud, hanno mantenuto nel tempo l’immagine dell’animale nei vessilli cittadini. Perfino la Groenlandia esibisce orgogliosa il proprio simbolo di rappresentanza attraverso un enorme Orso polare che campeggia sullo sfondo azzurro. Che l’orso sia un animale da temere è un dato di fatto e lo dimostrano anche gli ultimi fatti che vedono coinvolti frequentatori di boschi, contadini, allevatori, chiunque si sia venuto a trovare in incresciose situazioni di incontro ravvicinato con conseguente aggressione o evidente danno a mandrie e greggi.

Potremmo anche convincerci che un atteggiamento di tranquillità e un sensata e saggia distanza dall’animale ci può preservare da conseguenze pericolose, come potremmo anche ammettere che mamma orsa attacca per difendere i suoi piccoli e gli esemplari maschi se ne vanno per la loro strada se non avvertono imminente pericolo. Potremmo prendere in considerazione queste e tante altre visioni ottimistiche e bucoliche sull’incontro con il plantigrado, ricordando però, se si vuole essere obiettivi fino in fondo, che nulla è chiaramente prevedibile e certo, men che meno davanti ad un essere di cui non conosciamo abitudini, inclinazioni, reazioni e bisogni in un dato momento e in quella circostanza. Sarebbe semplicemente un atavico istinto di conservazione, tanto quanto quello dell’animale. E’ anche lecito avanzare delle riserve sulla soppressione di esemplari che in qualche modo hanno arrecato danni fisici agli umani perché si può presupporre che debbano esistere alternative a questo, mentre diventa disonesto e stigmatizzabile l’utilizzo pressapochista, pretestuale e strumentale del fatto in questione, per tuonare contro, arrogarsi meriti e spazi, spesso a sfondo meramente politico, crearsi una vetrina di comoda visibilità, attendersi onori e meriti per scopi di chissà che spendibilità.

Che la soppressione dell’orsa Kj2 (non un nome, solo una triste sigla…) in seguito all’aggressione a un uomo, sia diventata in questi giorni oggetto di contenzioso per dibattiti che raccolgono urla e strilli, insulti e minacce, sembra davvero fuori da ogni logica del buonsenso e della gestione ragionevole delle questioni di pubblico interesse. E lo dimostrano anche gli ultimi episodi che vedono coinvolti l’uomo e l’orso: nel febbraio 2013 viene abbattuto in Svizzera l’esemplare M13 nel Canton Grigioni, un orso appena svegliato dal letargo, in cerca di cibo, ritenuto pericolo pubblico dopo aver avvicinato una ragazzina. Un secondo animale subisce la stessa sorte per opera dei forestali, con autorizzazione ufficiale, dopo essersi pericolosamente avvicinato a un gruppo di turisti. Il 18 settembre 2014 a Pettorano sul Gizio, un paese alle porte del Parco Nazionale d’Abruzzo e del Molise, viene trovato un orso, ucciso a pallettoni. Autore: un contadino della zona che confessa il fatto motivandolo con il timore per gli allevamenti della zona. E poi ancora, vogliamo ricordare la soppressione di cinghiali e lupi secondo piani di abbattimento controllato, all’attenzione in questi tempi di governo e Regioni, che sta infervorando gli animi, esacerbando rapporti e degenerando in sterili prese di posizione che non aiutano sicuramente alla risoluzione? Tutto sembra ricondurre a un panorama di grande confusione in cui tutti si scagliano contro tutti nel nome di una ragione che ognuno chiede venga riconosciuta.

Un tema vasto e sempre aperto. Enpa, Lac, Lav, Lipu, Wwf sono pronti a dare battaglia e intervenire in qualunque modo a difendere, salvaguardare, chiedere l’osservanza o l’istituzione di normative garantiste. E fin qua è tutto fin troppo chiaro e ragionevole, salvo quelle generalizzazioni che fanno di tutte le erbe un fascio, il cosiddetto ‘sparare nel mucchio’. E sotto tiro è finito pesantemente e ingiustificatamente il Trentino in tutta la componente di cittadinanza, nei confronti della quale l’Enpa lancia anatemi e sollecitazioni a dir poco assurde. “Disertate quelle montagne e non acquistate i loro prodotti!”, “Se non li tocchi nel portafoglio, quelli non capiscono”. Boicottaggi, embargo, sobillazioni, che nulla hanno a che vedere con un sano dibattito nelle giuste sedi, alla presenza dei giusti interlocutori, nel rispetto di modalità, toni e atteggiamenti che rispettino coloro che, pur trentini (non è senz’altro una colpa…), hanno sempre pensato, scelto e agito da persone perbene, continuando a farlo. Le montagne del Trentino sono Patrimonio Unesco; i prodotti di questa regione rappresentano qualità ed eccellenza; la popolazione viene dalla fatica del vivere in un territorio difficile, orgogliosa di avere dato e continuare a dare il proprio validissimo contributo a un Paese in cui il turismo è una delle principali fonti economiche. E’ una popolazione che ama gli animali perché selvaggina, boschi, cime, acqua, fanno parte integrale della sua storia e non ne saprebbe fare a meno.

Non può essere la morte dell’orsa KJ2 a cambiare l’immagine di tutto quello che il Trentino sa offrire con autenticità e generosità. Non saranno nemmeno gli anatemi e i paventati scenari irosi e incattiviti di qualcuno che impediranno alla gente trentina di continuare ad accogliere con grande empatia, competenza ed estrema disponibilità gli ospiti che vorranno trascorrere le vacanze negli spettacolari territori che questa Regione offre.

Joe Oppedisano, il fotografo dei Buskers: “Nelle mie foto i volti di chi è artista per passione”

Dal 2 agosto al 7 settembre è visitabile, al Salone d’onore del Municipio di Ferrara, la mostra fotografica ‘Buskers 25 anni di arte in strada’ del noto fotografo Joe Oppedisano, che da oltre 20 anni, appunto, ritrae gli artisti di strada che prendono parte al festival Buskers. Le foto esposte alla mostra sono una piccola parte di quelle contenute nel libro che porta lo stesso titolo e che raccoglie l’opera completa del fotografo: 112 pagine di foto a colori, una carrellata unica degli artisti che hanno animato negli anni il più grande festival d’arte di strada d’Europa
(Per una anteprima www.facebook.com/maurizio.garofalo1/posts/10213567758817876? comment_id=10213567987423591)

Collage Ars Nuova Napoli

Nato nel 1954 a Gioiosa Ionica, Joe Oppedisano si trasferisce da bambino a New York ed è qui che si forma come fotografo, frequentando il Queens college e la School of Visual Arts. Nel 1979 è invitato dall’International Center of Photography di New York a Venezia.
Nel 1982 torna in Italia e si stabilisce a Milano dove inizia a collaborare con diverse agenzie e case editrici, realizzando servizi fotografici per riviste e numerose campagne pubblicitarie.

Spirito libero, da sempre appassionato di musica, Oppedisano si propone, con questo progetto fotografico, di dare ai buskers la dignità artistica che meritano: artisti che sfuggono alle regole di mercato e che “la società più convenzionale spesso guarda, ingiustamente, quasi come barboni o fannulloni”.

“Quello che mi piace di più – dichiara Oppedisano – al di fuori dei tradizionali criteri pubblicitari e commerciali, è capire tutto ciò che è diverso, che appartiene alle cosiddette sub-culture: le persone o i gruppi che vivono, e spesso sopravvivono, solo grazie alla passione che mettono in quello che fanno”.

Clicca sulle immagini per ingrandirle

Collage Khukh Mongol
Buskers 1994
Pola 50×60
Pola 50×60

Parlo con Joe al telefono: schietto, diretto e positivo, come le foto esposte alla mostra, che riescono a rimandare al visitatore l’atmosfera gioiosa del festival dell’arte di strada.

Come è nato il colpo di fulmine per il Buskers Festival di Ferrara?
Questo interesse è iniziato ventisette anni fa. Nel 1990, con la sponsorizzazione di Polaroid, con cui ho lavorato dal 1988, ho proposto e completato un progetto, ‘Carnevale a Milano’ utilizzando il banco ottico 50 x 60 Polaroid.
L’anno successivo Polaroid mi parlò della grande mostra della Polaroid Collection Usa, che si sarebbe svolta a Roma, al Palazzo delle Esposizioni. Contemporaneamente i responsabili decisero di portare la grande fotocamera 50 x 60 e di invitare un certo numero di persone ad utilizzarla, al fine di eseguire una mostra work in progress, che si sarebbe costruita contemporaneamente alla mostra ‘Collezione Polaroid’, in cui il pubblico stesso avrebbe potuto partecipare alla sua creazione. Mi venne quindi l’idea di fare un progetto sui musicisti di strada.
Frequentai le poche feste di buskers che erano nate in Italia: a Pelego, in Toscana, e a Ferrara. Reclutai circa trenta persone, singoli musicisti o gruppi, che accettarono di venire a Roma, per essere ritratti con la grande Polaroid 50 x 60.

E dopo cosa successe?
Nel 1994 proposi una ripresa del ‘progetto Roma’, presso il Ferrara Buskers Festival, dopo aver conosciuto Stefano Bottoni, fondatore e direttore artistico del Festival a cui era piaciuta l’idea. Bottoni mi aiutò a ottenere i permessi dal Comune per utilizzare uno spazio, in cui allestire uno studio, presso l’Accademia di Belle Arti di Ferrara e successivamente uno spazio espositivo pubblico. All’epoca, Dario Franceschini era l’assessore alla cultura di Ferrara e grazie al suo sostegno, la mostra potè essere organizzata e fu un successo.

Cosa la affascina dell’arte di strada?
Ho sempre ammirato le persone che fanno le cose per passione e che vivono con poco pur di portare avanti il loro sogno. Gli artisti di strada fanno una vita nomade che io posso capire anche per la mia storia personale. Sono italo-americano, quindi faccio sempre la spola tra questi due Paesi, e in più ho scelto la professione di fotografo anche per poter viaggiare e conoscere luoghi e persone nuove. Non è una vita semplice, ma la libertà ha un suo prezzo.

Da dove nasce l’idea di ritrarre i buskers in studio?
Io mi considero un ritrattista e un vero ritrattista non ruba una immagine in strada. Togliendoli dal loro ambiente ho voluto dare loro tutta l’attenzione che meritavano, come metterli su di un palco, creando un rapporto uno a uno con il fotografo.

Come ha pensato di cogliere lo spirito buskers?
Ho utilizzato diverse tecniche: foto in studio, foto collage, foto ‘jumping’, nelle quali era richiesto all’artista di saltare, e foto al Boldini.
Se vedo una bella luce e un musicista sta suonando in zona d’ombra gli chiedo di mettersi a favore di luce per la mia foto. Sono come un regista che dirige la sua opera per ottenere l’effetto sperato.

Un lavoro di precisione…
Per me ci sono due tipi di fotografi: i ‘cacciatori e i ‘contadini’. I primi vanno a caccia, sono d’assalto, ma possono tornare a casa con il bottino o a mani vuote. I secondi, categoria a cui appartengo, fanno leva sulla pazienza. Bisogna arare il campo, seminare e curare il seme per poi raccogliere il frutto.

Ricorda qualche artista in particolare?
Mi sono rimasti nel cuore, per averli conosciuti personalmente e frequentati anche negli Stati Uniti, il duo Satan e Adam. Il primo, un nero di Harlem, suonava contemporaneamente la chitarra e la batteria. Il secondo, un ragazzo bianco, assistente professore all’Università del Mississippi, suonava l’armonica ed è stato il primo musicista bianco a suonare per le strade di Harlem. Ha anche scritto un libro sulla storia del duo.

Parliamo di Ferrara in rapporto al Buskers festival: cosa pensa di questo connubio?
Credo che il festival abbia dato a Ferrara una riconoscibilità mondiale, molto più di altre cose. Vengono artisti da tutte le parti del mondo che si affezionano alla città e portano con sè dei bellissimi ricordi di questa esperienza. Per Ferrara credo sia una occasione unica per avere visibilità e poter interagire con realtà diverse dalla sua.

Clicca sulle immagini per ingrandirle

Skarallaos
La 3No Cubano
Meditating
Pola 50×60

Per maggiori info sul programma del Buskers Festival 2017 e su tutte le iniziative legate: www.ferrarabuskers.com

acqua-pubblica

Acqua: bene comune e gestione industriale, visioni complementari non contrapposte

Il settore dell’acqua continua a essere di grande interesse industriale e soprattutto di grande importanza ambientale. Sul tema dell’acqua molte cose sono avvenute sia a livello nazionale sia a livello regionale: si tratta di un buon segnale, che indica come stia crescendo la sensibilità generale su questo fondamentale elemento. Proviamo a capire ed elencare cosa serve. Ecco alcune questioni importanti.

E’ di quest’ultimo periodo il frequente richiamo istituzionale e dell’opinione pubblica sull’emergenza idrica; è necessario avviare iniziative per ridurre i prelievi di acqua e incentivarne il riutilizzo. Non si può essere sensibili al tema solo quando si è in crisi idrica come in questo periodo perché tra poco ci occuperemo (senza decidere nulla) di inondazioni.
Ora però dobbiamo approfondire il tema delle perdite idriche perché rappresentano attualmente anche una perdita di credibilità. Le perdite di rete del sistema idrico sono un gravissimo problema. I dati sono drammatici: i bravi gestori si attestano sul 30%, i peggiori sul 60%. Sì, purtroppo si butta la maggior parte dell’acqua potabile. Ci siamo ormai abituati a sentircelo dire. Abbiamo anche imparato la lezioncina, la conservazione di risparmio della risorsa idrica passa da due grandi obiettivi: consumarne meno risparmiandola, ma soprattutto buttarne via meno. Il dato di fatto è comunque che il costo delle perdite di rete ricade sui cittadini (che però non sanno quanto vale) e la soluzione di aumentare le tariffe per aumentare gli investimenti non sembra sufficiente.
La situazione delle infrastrutture idriche e della gestione dell’acqua è fortemente critica; per tentare un superamento della cronica debolezza strutturale sono necessari ingenti investimenti: il problema principale non è valutare dove e come reperire queste risorse, ma individuare le priorità. Una preoccupante opinione diffusa è che a oggi siano prevalenti interventi manutentivi straordinari e non la realizzazione di nuovi impianti e nuove reti. Ricordiamoci che il 24% delle condotte di acquedotto ha un’età superiore ai 50 anni e che nello stesso periodo è stato sostituito solo il 50% di rete acqua; il oltre il 90% degli interventi sulle reti idriche non è programmato, avviene cioè per riparare guasti alle condotte. Un approccio moderno e sostenibile al problema della qualità deve fare riferimento alla qualità dei corpi recettori, sia in senso generale, sia in funzione della specificità degli usi: bisogna incentivare la riduzione degli sprechi, migliorare la manutenzione delle reti di adduzione e di distribuzione, ridurre le perdite, favorire il riciclo dell’acqua e il riutilizzo delle acque reflue depurate.

Serve un coinvolgimento reale dei cittadini e non lasciare solo ai gestori il problema. Sensibilizzare gli utenti al risparmio nell’utilizzo dell’acqua per uso domestico, ma anche contenere e ridurre lo spreco di acqua – anche potabile – negli usi produttivi e irriguo, in particolare incoraggiare e sostenere anche con ‘incentivi economici’ specifici ricerche e studi per migliorare l’utilizzo dell’acqua nei processi produttivi.
Parallelamente è necessario sviluppare una cultura economica dei servizi pubblici ambientali, maggiore attenzione sia a livello di costi, ma soprattutto di prezzi e dunque di tariffe: percorso di civiltà, ma anche necessario sviluppo di una cultura economica dei servizi pubblici locali. Grandi risultati ha portato il lavoro di Aeeg, bisogna proseguire con grande determinazione.
Inoltre c’è bisogno di regolazione. Non vi è dubbio che le scelte del regolatore siano state dettate dalla volontà di perseguire obiettivi di efficienza e di efficacia nell’erogazione del servizio idrico, promuovendo la ricerca di dimensioni industriali e finanziarie delle gestioni adeguate, al fine di garantire un servizio di qualità. Il tema dell’efficienza è stato nuovamente rispolverato nell’ambito dei lavori sul Mti-2: in questo caso la dimensione del limite all’incremento tariffario ammissibile, in assenza di istruttoria Aeegsi, dipende dal superamento o meno di una soglia di costo operativo. Nel nuovo periodo regolatorio 2016-19 Aeegsi ha optato per l’introduzione di un meccanismo di efficientamento che lega l’incremento massimo della tariffa (il cosiddetto theta) al livello dei costi operativi pro capite (o oltre che al rapporto tra investimenti programmati e Rab).

Il ‘giusto prezzo’ dell’acqua è un importante incentivo per incoraggiare un utilizzo sostenibile dell’acqua stessa: una accurata politica tariffaria regola infatti i consumi e soprattutto dà il giusto valore al bene. Nello stesso tempo bisogna trovare forme di incentivazione anche per il gestore che favorisce la riduzione dei consumi (che altrimenti trova nel solo consumo dell’acqua il suo interesse). Incentivare e remunerare la qualità esplicita e implicita – con idonei strumenti tariffari – e nel contempo penalizzare ritardi e disservizi (le carte dei servizi sono uno strumento contrattuale di regolazione e non servire come documento d’immagine). Gli incrementi tariffari non devono essere solo collegati alla copertura dei costi del servizio, ma anche a parametri di qualità.

Questo articolo è ospitato anche da www.acquainfo.it

Italia patrimonio dell’umanità… no paese dell’incuria

Camminiamo sull’oro senza accorgercene e respiriamo una bellezza che ci avvolge silenziosa: l’Italia conferma il suo primato di Paese con più siti Unesco patrimonio dell’umanità. Sono testimonianze storiche, artistiche, paesaggistiche, tutto ciò che la rende unica e straordinaria rispetto al resto del nostro pianeta. Un minuscolo fazzoletto di terra, seguito nella classifica Unesco da quel gigante sterminato che è la Cina, non abbastanza grande evidentemente in termini culturali. E non è certo un caso se noi italiane e italiani sembriamo essere l’unico popolo al mondo immune alla cosiddetta ‘Sindrome di Stendhal’, il disturbo che può colpire chi si trova davanti ai capolavori dell’arte. Come conciliare tutto questo con i sempre più risicati fondi destinati alla ricerca, con i tagli all’istruzione o con il degrado e l’abbandono dei nostri importanti monumenti e vestigia del passato?

C’è da dire che all’estero l’intelligenza non manca: l’intelligenza di vendere qualcosa che non hanno. Il caso di Stonehenge è il più eclatante: vede ogni anno l’afflusso di milioni di turisti e turiste da tutto il globo per fare fotografie, scattarsi selfie, fare il girotondo attorno a pietre disposte quasi tutte secondo il gusto estetico del primo Novecento, ma a loro questo non lo si può dire, Stonehenge è un sito neolitico! E naturalmente passare nel negozietto di souvenir, molto ben fornito. In Italia purtroppo non siamo così efficienti, ma dovremmo diventarlo, per rispetto della nostra materia prima.

La ricetta giusta non può che essere una e soltanto una: studiare! Studiare per conoscere meglio, studiare per essere in grado di non rovinare le testimonianze di antiche donne e antichi uomini, studiare per poter comunicare le nostre ricchezze, valorizzandole correttamente. E chi è per definizione preposto a dover studiare durante la maggior parte del proprio tempo? Proprio così, sono loro, le nostre ragazze e i nostri ragazzi. Guai a commettere il terribile errore di far pensare alle nuove generazioni che la cultura sia una sofferenza da patire, che la scuola sia una tortura da scontare, se vogliamo che davvero qualcosa possa cambiare nel nostro Paese. Attenzione però, non stiamo parlando solamente di oggetti conservati nei musei, perchè le stesse nostre città nascondono storie e segreti dietro le loro vie, i loro palazzi, le loro tradizioni.

Se vi dicessi di prendere in mano una cartina di Ferrara, patrimonio dell’Unesco come città del Rinascimento e per il suo Delta del Po, probabilmente non notereste nulla di particolare. Se la cartina da voi scelta risalisse invece al periodo rinascimentale, una caratteristica la notereste subito: la città è pentagonale. Fu Ercole I d’Este con la sua famosa addizione a spostare il centro della città nel punto in cui lo ritroviamo ancora oggi: il castello estense. L’operazione erculea voleva sì rendere Ferrara più prestigiosa e imponente, ma aveva anche una valenza simbolica, al tempo vi erano grandi attenzioni per la natura, il firmamento e il significato dei numeri. Dello stesso periodo è il prestigioso Palazzo dei Diamanti, oggi rinomato soprattutto per le numerose mostre che ospita tutto l’anno. Si tratta di una costruzione posta non a caso proprio in quel luogo, come del resto tutto ciò che veniva eretto anticamente: secondo chi l’ha edificato, la sua posizione doveva essere in grado di concentrare al suo interno le energie telluriche per proteggere la città, e difatti il palazzo ospitava sedute di astronomia/astrologia (che furono separate solo nella modernità) e alchimia, con gli esperti più rinomati del tempo. Ma come faceva ad assolvere alla sua importante funzione di difesa? Ercole I vi fece nascondere qualcosa: uno delle migliaia di diamanti di pietra della facciata conserverebbe un vero diamante prezioso, appartenente alla sua corona, come a indicare una stella sulla Terra. Il diamante del palazzo avrebbe così agito come protezione della città.

Il racconto delle nostra città può insomma essere reso molto affascinante, le nuove generazioni possono vivere la cultura e imparare divertendosi. Non lasciamoci sfuggire questa opportunità.

Domani appuntamento a Comacchio con la nuova tappa del Clarafestival

da: Clara

Domani sera, sabato 12 agosto, il Clara Festival fa tappa a Comacchio, all’Arena di Palazzo Bellini, messa a disposizione dal Comune di Comacchio.

CLARA spa è la nuova società di gestione dei rifiuti, nata dalla fusione tra Area e Cmv Raccolta. CLARA, fedele alla sua missione di divulgare i valori legati alla salvaguardia ambientale e al riciclo, ha scelto di parlare al suo pubblico, e in particolare ai giovani, in modo moderno e informale. E così ha scelto la formula di un talent musicale, aperto a tutti i residenti della provincia ai Ferrara o che con Ferrara abbiamo comunque un rapporto di studio o di lavoro. La tappa di Comacchio è la seconda, dopo quella di Bondeno del 23 giugno scorso, vinta dalla giovanissima Giulia Disarò che si è aggiudicata di diritto un posto in finale. A queste seguiranno altre 3 tappe a Cento, Codigoro e Portomaggiore e poi la finalissima il 23 settembre a Copparo.
Al vincitore andrà la realizzazione e la registrazione di un inedito con relativo video, che l’artista potrà utilizzare per promuovere la sua carriera. L’evento è promosso e sostenuto da CLARA, organizzato da Made Eventi per la direzione artistica di Rossano Scanavini. Le iscrizioni sono ancora aperte telefonando al 335-6036360.

Alla serata di Comacchio parteciperanno 12 cantanti o gruppi, oltre a due ospiti del mondo della canzone: la cantante Monica Fantinuoli, leader del gruppo Dogato Sisters e Andrea Belfiori, vincitore del Sanremo Music Award 2016, scoperto e lanciato dal grande Ivan Graziani e con la partecipazione straordinaria di Roberto Ferrari, mentalista, ventriloquo ed illusionista al quale è affidato il campito di fare spettacolo e di far divertire il pubblico, coinvolgendolo sui temi della salvaguardia dell’ambiente. Presenta la serata Laura Sottili.

Maggiori info: clicca qui

La retorica della distruzione di massa

Oggi tuona di nuovo in lontananza uno spettro pazzesco, orrendo, cannibale. Una visione quasi profetica, come l’Agnello che apre il primo dei sigilli che ci catapulterebbe nell’Apocalisse, ma ci sarebbe poco di santifico. I 4 cavalieri li conosciamo bene sullo scacchiere internazionale: Donald Trump, Vladimir Putin, Kim Jong-un e Li Keqiang.
Il primo affossa la sua retorica nel più becero populismo, non mancando di arroganza e spesso ignorando totalmente i fatti (si veda il discorso inquinamento). Il secondo sta giocando una partita strategicamente perfetta. Un nuovo zar. Si prende pezzi di Ucraina senza far guerre (ufficiali) e aspetta quasi silenzioso i movimenti dei suoi avversari. Kim è il folle, accostato a un ‘cavaliere’ sarebbe sicuramente il secondo, armato di spada, mandato per far cadere la disperazione e la guerra sulla Terra: narcisista, con una sindrome di inferiorità che lo porta ad attaccare tutto e tutti. Ossessionato dagli Usa più che dalla parte meridionale della Corea è sicuramente il più pericoloso tra i quattro. Poi c’è il primo ministro cinese, Li, colui che sta tentando il tutto per tutto per la soluzione diplomatica. La Cina, non senza sorprese, ha firmato le ultime sanzioni alla Corea del Nord, facendo modificare alcuni parametri. La stessa Cina, infatti, è il maggiore (se non l’unico) partner commerciale del governo di Pyongyang e ha quindi molti interessi in quell’area, ma ha anche grossi affari con gli Stati Uniti. Non dimentichiamo che detiene una grossa parte del debito statunitense, anche se il primo detentore è il Giappone. Quindi Trump non può alzare la voce in maniera smisurata, rischierebbe di perdere altri alleati nella zona asiatica, che sta diventando teatro fondamentale per i giochi di potere commerciale, con il controllo di isole, tratti di mare e di terra.

Fa impressione vedere come tutto questo intrigato e interconnesso panorama vada a concentrarsi in pochi caratteri, gettati sui social da una parte e dall’altra. “La Corea del Nord dovrebbe mettere fine alle azioni che potrebbero portare alla fine del suo regime e alla distruzione della sua gente”. Sono le parole di James Mattis, capo del Pentagono, che non suonano come minaccia, ma come certezza, quella che se i ‘sigilli’ si spezzassero, l’Apocalisse cancellerebbe la Corea e la sua gente. E non solo quella del Nord perché “Il presidente Trump è stato molto chiaro su questo. Ha detto che non tollererà più le minacce della Corea del Nord. Per lui è intollerabile che abbiano armi nucleari che possano minacciare gli Usa. L’opzione militare è dunque sul tavolo. Una guerra molto costosa che potrebbe causare sofferenze immense soprattutto alla popolazione sudcoreana” e questo lo dice Herbert Raymond McMaster, consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca. Quindi una condanna già scritta, solo da attuare, per tutta la Corea. E fa riflettere che a dire queste parole siano alti rappresentanti dell’unico paese che abbia mai usato l’atomica per fini bellici, e pronunciate proprio, rispettivamente, nell’anniversario di Nagasaki e di Hiroshima. Una fatale coincidenza? O una voluta concomitanza per ricordare gli Usa di cosa sono capaci?
Trump, dall’alto della sua spavalderia, è stato chiaro “Speriamo di non dover mai usare questa forza ma non ci sarà un momento in cui non saremo la nazione più potente del mondo”. Questa è la situazione, questo lo scenario. Questa la retorica che puzza di anni Cinquanta. Da una parte veri e propri ‘cowboys‘ del nuovo millennio, pronti a mostrare i muscoli, e dall’altra un uomo che si crede un dio sceso in terra e che, con le sue parole e con quelle dei suoi ministri, fa capire che l’opzione nucleare non sarebbe una valutazione ‘in extremis’, ma che addirittura potrebbe essere una partenza per “Dare una lezione agli Stati Uniti”.

Tra tutto questo parlare, alla mente dovrebbe tornare un numero: 200.000. Duecentomila. Un numero, una rappresentazione visiva. Un dato, in realtà per difetto, quello delle vittime dirette delle due bombe atomiche sganciate in Giappone il 6 e 9 agosto del 1945 dagli Usa. Una forza mostruosa, un cambio di prospettive globali che avrebbe segnato non solo la fine della seconda guerra mondiale, ma l’inizio di un’epoca, quella conosciuta, appunto, come era atomica. E via con corsa agli armamenti, test nucleari, sperimentazioni, distruzioni di habitat oceanici (e non solo), creazione di ordigni sempre più potenti, piccoli, veloci, a lunga gittata. Via con guerre fredde, influenze geopolitiche, guerre vere e proprie. Tutto quello che si è giocato in questi decenni si è fatto più o meno seguendo sempre uno stesso filo, molto alla ‘Constantine’, si lotta con l’influenza, qualche azione diretta, ma tutto nella consapevolezza che la vera forza, quella nucleare, deve restare lì, solo a far paura. Sono passati 72 anni da quell’inizio agosto del 1945, quando due ordigni nucleari sono stati usati per la prima e unica volta per creare danni materiali e centinaia di migliaia di vittime; ora quella ‘certezza’, quella consapevolezza che le bombe ci sono, ma non si usano, si sta assottigliando. Oramai sembra quasi che l’agnello abbia aperto i 4 sigilli, i cavalieri sono arrivati, ora non ci resta che attendere lo squillo delle sette trombe e l’arrivo della Gerusalemme celeste.

Le Termopili di Poggio Renatico

L’aveva annunciato già alla fine di giugno, poi una settimana fa e ancora alla vigilia di quella che sarebbe stata una grande manifestazione di popolo: “Saremo in tanti, almeno in trecento per opporci all’invasione”. Peccato che giovedì 3 agosto in quel di Poggio Renatico dietro al coriaceo generale Nicola ‘Naomo’ Lodi (segretario comunale della Lega) erano in poco più di un centinaio. Comprese le segreterie al completo della Lega di tutti i comuni ferraresi. Compresi gli ospiti, i sindaci e i consiglieri venuti anche dal vicino Veneto. E gli abitanti di Poggio? Davvero pochi, non dimostrandosi così terrorizzati dagli ospiti già presenti e da quelli in arrivo, né arrabbiati con gli operatori e i volontari della cooperativa sociale Meeting Point che gestisce il centro di accoglienza. Insomma, se non un flop, un mezzo flop.

Sappiamo delle parole che Leonida rivolse ai suoi 300 spartani morituri. Bene, il generale Naomo – lo stesso impegnato nella battaglia contro il burkini in piscina e che invoca l’intervento dell’esercito per presidiare le strade di Ferrara – non ha voluto essere da meno e ha arringato la sua sparuta truppa: “Meglio razzisti che invasi!” Naturalmente Lodi non si riferiva all’esercito dei Persiani, ma ai disperati migranti che continuano a sbarcare nella nostra penisola.
Ma dov’è questa invasione? Secondo la Lega, tutte le destre, il centrodestra e anche un pezzo del centrosinistra, il 2017 sarebbe stato l’annus horribilis, il numero degli sbarchi doveva perlomeno duplicare rispetto all’anno scorso. Non sta andando così. Non sta andando come Salvini e i suoi temevano, o (forse) piuttosto speravano. Dati alla mano (fonte Unhcr e Ministero degli Interni), al 2 agosto 2017 i migranti sbarcati sono poco più di 95.000, contro i 98.000 del 2016. Il 3% in meno.

I problemi per dare una dignitosa accoglienza ai migranti (e qualcuno ci spieghi che differenza fa se fuggono dalla guerra o dalla fame) ci sono eccome. L’Italia ha sciaguratamente firmato il trattato di Dublino, in cambio di uno sconto sul debito. L’Europa continua a voltarsi dall’altra parte. Tanti Comuni italiani si rifiutano di fare la propria parte sovraccaricando i territori più disponibili e solidali. Tutto vero, ma perché intanto non la smettiamo di parlare di invasione? Non c’è stata nessuna invasione.
Invece sì, urla Matteo Salvini. Meglio razzisti che invasi, ripete il suo luogotenente Nicola Lodi. I migranti (rifugiati e migranti economici condividono la medesima sorte) dopo aver attraversato il mare sono oggi in Italia, poveri di tutto e con davanti un futuro incerto. Ma alla Lega – e più in generale alla politica italiana – non interessano i minori non accompagnati, gli uomini e le donne in carne e ossa. Interessano, invece, i migranti in generale, presi tutti insieme: la categoria, il fenomeno mediatico. Così i migranti vengono privati dei loro volti, delle loro drammatiche vicende individuali e diventano terreno di scontro, argomento di propaganda politica, ‘moneta sonante’ da spendere sul mercato dei sondaggi elettorali.

Fra non molto ci saranno le elezioni – in Italia ci sono sempre le elezioni – e i partiti, Lega in testa, ma anche tutti gli altri, sanno che il tema immigrazione occuperà il centro della scena. Così i migranti si trasformano in “clandestini” o in “delinquenti”. Così si cerca di alimentare la paura per un’immaginaria invasione fino a farla credere reale. Così si lancia lo slogan improbabile “aiutiamoli a casa loro”. Così si tenta di macchiare o di oscurare l’impegno di centinaia di migliaia di operatori e di volontari che in Italia continuano a salvare vite umane e lavorano sull’accoglienza, il dialogo e l’integrazione.
I migranti non votano, se votassero piacerebbero a tutti i partiti, ma già oggi sono diventati una preziosa ‘merce elettorale’. Per qualche punto nei sondaggi, per qualche voto in più, si sta combattendo una grande battaglia. Sulla testa dei migranti. E su quella dei cittadini elettori.

Galeotto fu il titolo: l’analfabeta funzionale e la ‘damnatio lecturae’

Il 1 agosto 2017, alle ore 14, una testata giornalistica, per la precisione VareseNews, pubblica un articolo. Fin qui nulla di particolare, nemmeno nei contenuti, i quali riguardavano una decisione della nuova giunta comunale di Tradate di eliminare l’usanza di cantare l’Inno di Mameli agli inizi delle sedute. Anche l’atto compiuto dalla coalizione in carica, a maggioranza leghista, non ha nulla di eccezionale: la Lega, almeno quella presalviniana, è sempre stata un’accanita rivale del tricolore (basti pensare a quante ne ha dette Bossi sulla bandiera italiana). Ma un normale articolo che descrive un fatto coerente con una certa corrente di pensiero, messo alla mercé di “legioni di imbecilli” [cit. Umberto Eco] può creare un fenomeno che ha un nome e cognome: analfabetismo funzionale. Osservare questo avvenimento oggi non è così difficile: la connettività e la libertà e facilità di dare opinione creata dai social ha dato la possibilità a tutti di dire la propria.
Dovrebbe essere diversamente? Eco (sempre Umberto) diceva per esteso “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Ma è importante poterlo osservare questo analfabetismo e un interessante articolo di Dailybest che analizza ciò che è successo.

Dopo la pubblicazione sui social, l’invasione di commenti è stata alta e, solo dopo pochi minuti, ecco uscire i primi ‘legionari’. Si parte con i comunisti: le accuse vanno dal “lo sostituiranno con l inter nazionale” (esattamente scritto così) al “canteranno bella ciao…un saluto, anzi,un addio all italia….”. Assolutamente evidente la questione: i leghisti sarebbero diventati comunisti. Oppure queste persone hanno soltanto letto il titolo? Ma un antropologo ci spingerebbe ad approfondire: ed ecco arrivare i musulmani con il loro “inno”, poi ci sono le accuse alla Boldrini (arrivate dopo la scrittura dell’articolo del Daily), sospetti della sostituzione con l’inno del Ghana e chi più ne ha più ne metta. Qualcosa di assolutamente fuori da ogni logica per chi avesse quantomeno aperto l’articolo, che ben spiega il fatto accaduto. Ma qui avviene l’incredibile. Qualcuno la briga di leggerlo se l’è presa e subito prova a riportare alla realtà dei fatti gli accusatori, facendo notare che chi ha preso questa decisione sicuramente non è di sinistra, amico di Renzi o della Boldrini e sicuramente non sostituirebbe l’Inno italiano con uno musulmano (che per chiarezza non esiste) o con quello del Ghana. Arrivati a questo punto qualsiasi tipo di scelta di un essere che abbia quanto meno a cuore la propria faccia imporrebbe di fare ammenda e chiedere scusa oppure, molto più saggiamente, eliminare il commento e dedicarsi a un po’ di silenzio, magari leggendo l’articolo.
L’analfabeta funzionale invece no: messo davanti al proprio errore, insiste, anzi arriva anche ad accusare il censore. E volano così le incriminazioni di collusione tra Lega Nord e comunisti, con i soliti “sono tutti uguali”. C’è chi colto in fallo va oltre, persino dopo gli avvisi del giornale stesso, che invita a leggere l’articolo prima di commentare (nel 2017 siamo ridotti a questo), e accusa il giornale stesso o il giornalismo in generale: la colpa sarebbe di fare dei titoli fuorvianti oppure sensazionalistici. Ma a questo punto la domanda sorge spontanea: con titoli del genere almeno lo si aprirebbe l’articolo?

Tutto questo fa riflettere: la comunicazione dove sta andando? Serve ancora cercare di fare del buon giornalismo e perdere ore per scrivere un buon articolo, o basta fare un titolo? Le risposte sarebbero semplici, ma non scontate.La questione c’è ed è seria.
Che l’informazione abbia un problema è chiaro, la figuraccia ‘Trump’ è una ferita ancora aperta, ma non può essere una giustificazione a un comportamento di massa come quello dell’analfabetismo funzionale, che crea conseguenze e ricadute nel reale come creazioni di bufale, false notizie, pseudoscienza, allarmismi (è di pochi giorni fa quello di una prossima ‘èra glaciale’) o addirittura, quando si esagera, il voler scavalcare le voci ufficiali. Su quest’ultimo punto è emblematico chi, dopo un terremoto accusa l’Ingv di abbassare la magnitudo di un sisma perché così lo Stato non pagherebbe i danni. E la conseguenza è grave perché il suddetto istituto è spesso costretto a rettificare il perché la magnitudo si può modificare. Ma l’analfabetismo ha fatto altri danni: meteorologi accusati di non aver previsto abbondanti nevicate quando semplicemente non si sanno interpretare i dati legati ai millimetri indicati sulle previsioni, scienziati che nasconderebbero la realtà dietro le ‘scie chimiche’, per non parlare delle improbabili ‘scoperte nascoste’ nel campo della cura dei tumori.

Insomma un mondo, quello dell’analfabeta funzionale, che è cresciuto a dismisura con la libertà data dai social. Libertà che non può e non deve essere tolta, ma che assolutamente va ‘educata’: chi usufruisce di simili strumenti deve essere educato a leggere ciò che si scrive, cercare di capirlo, capire se è un sito affidabile o meno e, soprattutto, non fermarsi al solo titolo di un articolo. Questo è un problema che si dovrebbe affrontare sin dalla scuola, che deve fare i conti con una realtà cambiata e sempre più interattiva, una realtà dove i robot parlano tra loro in lingue incomprensibili, come incomprensibili resteranno i testi dietro a titoli non aperti.

In equilibrio fra globalizzazione e tradizioni: l’italiano custode del tempio di Fukuoka

Si può avere il coraggio di prendersi in carico la gestione di un santuario shintoista in Giappone? Si può essere accettati in questo oneroso impegno benché straniero ed occidentale?

Sembra proprio di si, almeno per Leonardo Marrone che, dopo aver studiato culture orientali, arte e letteratura del Giappone presso l’Università di Roma, ha deciso di vivere a Fukuoka. Insegnante di lingua presso il Centro Italiano, è il primo connazionale scelto come custode di un santuario shintoista in Giappone. Il santuario di Uga era alla ricerca del custode dopo la scomparsa del precedente avvenuta circa 3 anni fa. In questi anni nessuno era stato considerato adatto per questo compito. Marrone è stato scelto dopo due colloqui di selezione tenuti dal sindaco di Fukuoka, il direttore del santuario e i rappresentanti dei cittadini. I suoi compiti comprendono l’organizzazione delle cerimonie, la gestione del santuario, la pulizia dei locali sacri e i rapporti con i visitatori. Sono proprio questi ultimi che rendono il lavoro di Marrone interessante, come lui stesso ha dichiarato alla stampa giapponese, che pochi giorni fa ha pubblicato la notizia.
Il lato più curioso del suo nuovo lavoro, che condivide con la sua famiglia (la moglie e due figli di 3 e 7 anni), è proprio quello degli incontri giornalieri con gli anziani visitatori che gli raccontano storie e aneddoti del passato recente. Una raccolta di numerosi vissuti culturali che rendono il lavoro di Marrone sempre più importante: un custode della memoria. E proprio questa sua posizione privilegiata di custode gli permette di mantenere attive le relazioni fra le persone, il santuario e la Natura secondo i principi shintoisti.

Per ordine del feudatario il santuario Uga venne costruito nel 1732 a seguito di una disastrosa carestia. Questo santuario è assai famoso a Fukuoka per la presenza di una statua equina che rappresenta una divinità protettrice degli studenti che tentano le selezioni per le scuole superiori e l’università. Se lo studente riesce a mantenere l’equilibrio sulla statua del cavallo avrà buone possibilità di superare la selezione scolastica.
Sembra insignificante e ridicolo questo uso improprio di una statua di cavallo che invece interpreto, forse con troppa fantasia, come ricerca dell’equilibrio culturale: difficile da raggiungere e complicato da mantenere. Marrone è riuscito nel suo intento: la ricerca culturale e la trasmissione della sua formazione italiana. Saper ascoltare, custodire la memoria, dimostrare curiosità, sono azioni sempre più complicate. L’adattamento culturale è equilibrismo, è abilità nel destreggiarsi fra tradizione e mutamento, tra comprensione ed esclusione, senza spostare troppo il baricentro per non rischiare la caduta.

Da rifiuti a risorse: il settore ambiente de Il Germoglio

Nonostante quello che Donald Trump pensa e dice delle notizie, degli studi e delle preoccupazioni riguardo il global warming, a metà mese il maxi iceberg Larsen C si è staccato dall’Antartide: con i suoi 5.800 chilometri quadrati supera le dimensioni della Liguria e l’acqua che contiene è pari a tre volte quella del lago di Garda ed equivalente a quella consumata in media nel mondo nell’arco di cinque anni.
Nel frattempo, per tornare – letteralmente – al giardino di casa nostra, l’Italia è alle prese con la siccità: il nostro Paese si trova a dover fronteggiare la mancanza di 20 miliardi di metri cubi d’acqua, una quantità pari all’intero lago di Como.
Per fortuna le istituzioni europee sembrano non pensarla come il Presidente Usa. Ecco perché, nell’ambito della strategia Europa 2020, il programma di azione per l’ambiente si chiama “Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta”. Al suo interno particolare attenzione è posta sulla trasformazione dei rifiuti in una risorsa, favorendo la prevenzione, il riutilizzo e il riciclaggio e rinunciando a metodi inefficienti e nocivi, come le discariche.

Ma in tutto ciò la domanda che sorge spontanea è: noi che possiamo fare?
Ecco un piccolo esempio, proprio su ciò che con ogni probabilità state usando per leggere questo articolo. Lo sapevate che si può smaltire gratuitamente il proprio smartphone, il proprio tablet o qualsiasi Raee – rifiuti da apparecchiature elettroniche ed elettriche – di piccole dimensioni nei punti vendita senza alcun obbligo di acquisto? È quanto prevede da luglio 2016 il decreto legislativo ‘uno contro zero’: consegna gratuita dei raee di dimensioni inferiori a 25 cm presso i punti vendita con superfici superiori a 400 mq (il servizio è facoltativo per i negozi più piccoli) senza alcun obbligo di acquisto.
I rifiuti da apparecchiature elettroniche ed elettriche rappresentano la categoria di rifiuti in più rapido aumento a livello globale, con un tasso di crescita del 3-5% annuo, tre volte superiore ai rifiuti normali. Ed è così anche nell’Unione Europea, dove i raee hanno un tasso annuo di crescita stimato tra il 2,5 e il 2,7%. Eppure secondo una ricerca realizzata da Ipsos Italia per Ecodom – consorzio italiano che si occupa del recupero e riciclaggio di elettrodomestici – e Cittadinanzattiva sui comportamenti degli italiani nella gestione dei raee, meno di un intervistato su 4 (18%) li riconosce correttamente e due su cinque (40%) ne hanno solo un’idea approssimativa, mentre la maggioranza relativa (42%) non li conosce affatto. La percezione sul grado di rischio di queste apparecchiature appare comunque elevata, anche tra chi non le conosce, per le conseguenze dannose che il mancato trattamento può avere sull’ambiente e per le sostanze inquinanti contenute in alcuni componenti.

A Ferrara e provincia, per lo smaltimento corretto dei raee secondo le normative vigenti, basta contattare il Settore Ambiente della Cooperativa Il Germoglio: “oramai una sicurezza” per imprese e privati, scherza Tania Gamberini, referente del settore insieme a Nicola Cirelli. La raccolta dei raee è “una delle attività storiche” di questo settore della cooperativa, insieme a quella di carta e cartone e allo smaltimento di ingombranti (per esempio armadi e scaffali) e alla raccolta e ritiro dei prodotti esausti della stampa elettronica (toner, cartucce e nastri per stampanti, fax e fotocopiatori). Il Germoglio è l’unica realtà sul territorio di Ferrara e Rovigo e relative provincie a fornire gratuitamente quest’ultimo servizio alle aziende pubbliche e private. Avete presente gli ecobox verdi che si vedono spesso negli uffici? Con ogni probabilità sono distribuiti e ritirati dalla cooperativa. Nel 2016 il Settore ambiente ha raccolto 51 mila kg di toner e 366 mila kg di raee.

Ma non è finita qui: l’obiettivo da raggiungere è ‘rifiuti zero’. Ecco perché ciò che viene raccolto spesso viene anche recuperato e riutilizzato, per esempio facendone arredi per i locali 381 del Settore ristorazione oppure, quando possibile, fornendo materiale per le attività dei Settori infanzia e minori. Tania mi mostra la legge regionale 16/2015, che non a caso si intitola “Disposizioni a sostegno dell’economia circolare, della riduzione della produzione dei rifiuti urbani, del riuso dei beni a fine vita, della raccolta differenziata”: “più recupero significa meno smaltimento, che dovrebbe essere ‘l’estrema ratio’, solo l’ultima fase della gestione dei rifiuti, prima vengono: prevenzione, preparazione per il riutilizzo, riciclaggio, recupero”. In più “noi qui differenziamo e smaltiamo separatamente anche ciò che non è possibile recuperare, riducendo al minimo l’impatto ambientale di rifiuti, come per esempio i toner o i raee, che se smaltiti a livello indifferenziato avrebbero un alto livello inquinante”. Ma in realtà Il Germoglio cerca di ridurre al minimo l’impronta ecologica in ogni aspetto della sua attività: “tutte le luci degli uffici e del magazzino di via Boito – la sede della cooperativa, ndr – sono state sostituite e ora sono a led, il 43% dell’energia che utilizziamo nelle nostre attività proviene da fonti rinnovabili, prodotta per esempio tramite gli impianti fotovoltaici che abbiamo realizzato qui e al nido Don Dioli fra 2008 e 2010”.

Clicca sulle immagini per ingrandirle

Tania mi spiega poi che, proprio partendo dal tema dell’economia circolare, ora il Settore ambiente sta cercando di ampliare “l’attività più recente, quella dei prodotti rigenerati, anche attraverso uno shop online che sarà attivo sul sito della cooperativa entro la fine del 2017”. “L’elemento su cui dobbiamo fare ancora molta strada è l’importanza della componente della scelta ambientale”: “un toner rigenerato da noi costa circa il 50% del suo prezzo originale, se si acquistano i compatibili si scende al 15-20%”, spiega Tania, per questo è importante far aumentare la consapevolezza sulla loro pericolosità e l’importanza del loro recupero.
Una lavatrice, per esempio, può rappresentare una fonte d’inquinamento, per la presenza di sostanze dannose (come mercurio e PCB), ma se viene smaltita correttamente si possono ricavare molte materie prime utili. Da una lavatrice, composta in media per il 61% da ferro, per il 6,4% da plastiche di diverso genere, per l’1,7% da rame e per l’1,3% da alluminio, possono ‘rinascere’ 40 kg di ferro, pari a 19 pentole da cucina, 1 kg di alluminio, pari a 52 lattine, 1 kg di rame, con cui realizzare 2 metri di cavo elettrico e 4 kg di plastiche, con cui si potrebbe produrre una comoda sedia da giardino. Inoltre, il riciclo di una lavatrice permette di evitare l’immissione in atmosfera di 7,5 kg di anidride carbonica e il risparmio di 36,7 kWh di energia elettrica.

Inoltre, i prodotti de Il Germoglio – dalle bici con pedalata assistita alle lavatrici, ai pc, ai toner – hanno anche un altro valore aggiunto: “si fanno rientrare in circolo cose con un alto livello qualitativo, riducendo l’impatto ambientale e accrescendo invece l’impatto a livello sociale”.
Tutto il lavoro del Settore Ambiente viene svolto “con progetti di integrazione sociale” attraverso la legge 381 o la legge Smuraglia. Il Germoglio fa parte, infatti, del progetto regionale ‘Raee in carcere’, che permette di realizzare una parte del processo di trattamento-smontaggio dei raee provenienti dalle isole ecologiche e successivamente inviati agli impianti di trattamento rifiuti: “abbiamo due persone assunte in carcere che fanno tutto il lavoro di separazione dei materiali dei raee R2-grandi bianchi, le lavatrici per esempio”, spiega Tania. Nel solo laboratorio della casa circondariale di Ferrara dal febbraio 2010, anno della sua attivazione sono state assunte 12 persone e sono stati lavorati 1.584.782 kg di raee.
Quindi in un certo senso “si recuperano e si riattivano non solo le cose e i materiali, ma anche le persone” scherza Tania.

Per maggiori info
Il Germoglio-Settore Ambiente
ambiente@ilgermoglio.fe.it

Pagina fb

La nuova primavera delle biblioteche ferraresi

Nel pieno di una torrida estate vien voglia di altre e diverse stagioni. In autunno cadono le foglie, in inverno tutto si ferma e si va in letargo, in estate (specie negli ultimi anni) la terra crepa e si rischia di rimanere senz’acqua. Molto meglio la primavera, anche metaforicamente. Meglio la primavera: ammesso però che a una primavera culturale – quindi sociale, quindi politica – si arrivi con progetti e programmi adeguati, e con idee e investimenti capaci davvero di inaugurare una nuova e feconda stagione per la nostra città.
Mi scuso per le banali metafore stagionali. Tutto per tornare a parlare di biblioteche, guardando non solo a quanto si sta facendo e si può fare negli ultimi due anni scarsi di questa legislatura, ma alle ambizioni della prossima.
In un mio recente intervento pubblicato su questo giornale (Sul presente e il futuro delle biblioteche a Ferrara, leggi qui) sostenevo la centralità dell’impegno sul fronte delle biblioteche pubbliche, se si vuole promuovere non solo e non tanto una città più ‘dotta’, ma una cittadinanza più informata e consapevole. In quella sede chiedevo un rilancio dell’azione dell’amministrazione pubblica, dopo che negli ultimi anni le biblioteche sono entrate in una specie di cono d’ombra, tanto ai margini della azione culturale da rimanere ‘a corto di acqua’ (leggi: fondi per gli acquisti librari e per le attività culturali). Tentavo anche di avanzare qualche idea, di indicare qualche obiettivo su cui lavorare, in vista di una quanto mai necessaria primavera delle biblioteche e del servizio di pubblica lettura nel suo complesso. Sul tema ho ricevuto in queste settimane diversi apprezzamenti e, da molti, la richiesta di andare più a fondo, di mettere in fila le cose che si dovrebbero e potrebbero fare.

Prima però occorre rispondere a una domanda: esistono oggi le condizioni politiche e finanziarie per affrontare un piano di rilancio e riqualificazione dei servizi bibliotecari e culturali di base? Tutto sommato a me pare di sì. Dopo un vivace, ma proficuo, confronto sindacale e le dichiarazioni pubbliche di sindaco e vicesindaco, mi sembra di intravedere una sensibilità condivisa: l’impegno a mantenere aperte tutte le biblioteche, anche le più piccole. Garantire la qualità dei servizio e la qualità del lavoro per il personale incaricato ne sono una premessa indispensabile. C’è da sperare che alle parole seguano i fatti.
Ma c’è qualcosa di più all’orizzonte. Più del semplice mantenimento dello status quo per l’Ariostea, la Bassani e le altre biblioteche decentrate. E’, infatti, in dirittura d’arrivo il cantiere della Ex Casa Nicolini dove troverà posto la nuova biblioteca e mediateca cittadina interamente dedicata ai bambini, ai ragazzi, alle scuole. Finalmente: in ritardo di vent’anni rispetto a Bologna o Ravenna, ma finalmente.
Nel mio intervento lanciavo anche la proposta di aprire un grande spazio – nel complesso che sorgerà al posto del Palazzo degli specchi della vergogna – per dare una nuova casa alla Biblioteca Rodari e dotare così la Zona Sud di un adeguato polo culturale. Bene (e non certo per il mio piccolo suggerimento), proprio mentre partono i lavori di demolizione, leggo un’intervista del sindaco Tagliani dove si annuncia il progetto per una sala polivalente e una biblioteca pubblica, da collocare rispettivamente al piano terra e al primo piano della palazzina ex hotel del palazzo degli specchi.

Se dopo il due viene il tre, a completare il quadro di una rinascita mancherebbe solo l’apertura a Ferrara di una biblioteca e centro culturale multietnico. Anche di questo avevo già parlato, proponendo di prendere in considerazione gli spazi al pianterreno del grattacielo. Un progetto ambizioso per giocare una grande scommessa sull’integrazione e sul dialogo interetnico proprio nel cuore del degrado urbanistico e sociale. Non so come verranno spesi i due milioni appena assegnati a Ferrara per il Progetto Grattacielo. Certo, c’è da pensare prima di tutto alla statica dell’edificio e all’impianto antincendio, ma è necessario e urgente intervenire anche sul versante sociale e culturale.
Sul grattacielo per ora mi fermo qui, ma servirà tornarci chiamando al confronto tutti gli attori sociali coinvolti: gli abitanti singoli e organizzati, il Centro di mediazione sociale del Comune, le comunità straniere, le cooperative e associazioni di volontariato sociale.
Dunque: una nuova biblioteca ragazzi, una nuova sede per la biblioteca Rodari (con annessa sala polivalente) e – me lo auguro – una inedita biblioteca e centro culturale interetnico al Grattacielo. Siamo quindi alla vigilia di una nuova primavera delle biblioteche? Forse sì. A condizione che…

La prima condizione è il personale, gli operatori che dovranno gestire le biblioteche, quelle già in essere e quelle che si aggiungeranno. Già oggi la pianta organica risulta all’osso, non tanto per aprire i servizi al pubblico, ma per supportare le attività culturali di base (incontri, presentazioni, conferenze, spettacoli). Nei prossimi anni sono poi previsti alcuni pensionamenti. Se si vuole supportare un vero progetto di rilancio dei questi “presidi culturali di base” – quelli che continuo a chiamare con il termine storico di biblioteche – non basterà assicurare il turn-over con qualche trasferimento interno. Per qualificare e potenziare i servizi esistenti e per aprirne di nuovi serviranno perlomeno 10 o 15 nuovi operatori in più. Il Comune di Ferrara, in accordo con qualche centro di formazione professionale, potrebbe farsi promotore in regione di un Corso per Assistenti di Biblioteca e Documentalisti rivolto ai giovani diplomati o laureati. Da qui avremo una nuova linfa da immettere nei servizi. A questo dovrebbe poi accompagnarsi un vasto piano di aggiornamento professionale per i dipendenti comunali che già lavorano in biblioteca, molti dei quali arrivati in mobilità da altri e diversi settori e servizi.
Sarà poi fondamentale – prendendo spunto da tante esperienze in regione e fuori regione – dare più spazio, più responsabilità – e più potere – ai cittadini utenti. In ogni biblioteca gli “utenti attivi” (a Ferrara sono alcune migliaia) dovrebbero poter votare democraticamente i loro rappresentanti in un Consiglio o Comitato di gestione, dove gli si affiancheranno alcuni bibliotecari ed esponenti delle realtà sociali e culturali presenti sul territorio. Questo nuovo organismo partecipato potrà convogliare idee e progetti e proporre e gestire iniziative sociali e culturali. Si tratta in altre parole di “creare nuovi spazi di democrazia e partecipazione”, non parlamentini o micro-consigli comunali per la passerella di questo o quel partito, ma laboratori di idee aperti a tutti i cittadini. Si dovrebbe prevedere una dotazione finanziaria, se pur piccola, per l’organizzazione di iniziative culturali in ogni biblioteca. E si potrebbero organizzare brevi corsi di formazione per utenti volontari e volonterosi per poi consentire ai volontari stessi la gestione diretta delle iniziative negli spazi comuni di ogni biblioteca.
In terzo luogo occorre ripensare alle biblioteche come centri integrati per la democrazia informativa. E’ questa la scommessa più difficile, ma necessaria in una società 2.0, dove l’accesso all’informazione e alla conoscenza è diventato un bene prezioso per l’esercizio dei propri diritti di cittadinanza. Certo, nelle biblioteche si va per leggere un giornale, prendere a prestito un libro o un dvd, fare una ricerca in rete, ascoltare una lettura animata, ma dovremmo pensare sempre più a un luogo – una piazza – dove i cittadini (dai 3 ai 90 anni) possano trovare risposta ai loro crescenti bisogni informativi. In questi luoghi – le biblioteche distribuite su tutto il territorio cittadino – dovranno esserci strumenti idonei e personale preparato per orientare, supportare e rispondere a una grande e multiforme domanda informativa. Dei bambini, dei giovani e meno giovani disoccupati, dei pensionati…
Esistono, è vero, altri e diversi supporti, strumenti e sportelli (i patronati, i sindacati, i servizi in rete di Comune e Asl, Informagiovani, centri per l’impiego…) a cui rivolgersi, ma molto spesso non è facile orientarsi. Le biblioteche dovrebbero essere in rete con tutte queste realtà e funzionare come ‘primo sportello’, fornendo ai cittadini un servizio informativo di base, indicando a ognuno la mappa per orientarsi nelle difficoltà quotidiane.

Forse l’orizzonte che ho cercato di disegnare apparirà troppo ambizioso. Per incamminarsi su questa strada, per inaugurare una nuova primavera culturale, si dovrà metter mano al portafoglio pubblico (spese per investimenti e spesa corrente) e occorrerà assumere nuove prospettive, un’idea di cultura che nasce e si alimenta dal basso e non solo dall’alto. Sono però convinto di due cose. Solo due, ma credo importanti. Che la risposta e la partecipazione dei cittadini, oltre che degli operatori bibliotecari, sarebbe all’altezza della sfida. E che questa capillare apertura produrrebbe un grande protagonismo sociale e una cultura diffusa. Farebbe bene a Ferrara e farebbe bene alla democrazia.

Intelligenza artificiosa, i robot fra dipendenza e autonomia

Si sta affermando una nuova generazione di robot umanoidi dotati di una intelligenza artificiale dinamica, capace perciò di apprendere dall’esperienza proprio come avviene negli esseri umani.
Questi nuovi prototipi di creature progettate per servire l’uomo nei suoi bisogni, affrancandolo dalle mansioni più faticose o ripetitive, cominciano a somigliare in maniera sempre più inquietante all’essere al cui servizio si pongono. E questa similarità, oltreché affascinare e sorprendere, genera parecchi interrogativi e suscita inquietudine. Infatti, non solo i robot sono e sempre più saranno in grado di sostituirsi agli esseri umani nello svolgimento di compiti predefiniti, ma acquisiranno – o hanno già acquisito – e presto dispiegheranno la loro capacità di evolvere rispetto al prototipo originale. A conferma, ecco il dialogo intavolato in una lingua sconosciuta da due androidi, di cui si parla in questi giorni.

Da sempre scienza e tecnologia sono in relazione con l’uomo in termini di sussidio positivo, ma costantemente mostrano anche risvolti insidiosi e minacce. Nel caso dei robot il pericolo non è soltanto in termini occupazionali, per la manodopera che andranno a sostituire, come spesso si segnala. Inquietante è la possibilità di concepire esseri artificiali capaci di sviluppare entro certi limiti un pensiero autonomo.
La loro introduzione funzionale nell’ambito di attività intellettuali genera parecchie perplessità. E qui non si parla di futuro. Già sono stati sperimentati robot concepiti per essere utilizzati all’interno di contesti redazionali e coadiuvare (o in parte addirittura sostituire) i giornalisti nella elaborazione, per esempio, di testi facilmente standardizzabili, come i comunicati stampa, sulla base di protocolli che questi umanoidi mostrano di poter padroneggiare perfettamente.

Il rischio che si affaccia è facilmente intuibile: se la funzione del robot non si limiterà più solamente a sgravarci dal peso e dalla fatica delle faccende domestiche, della preparazione del pranzo o in altre mansioni di carattere pratico – secondo la tradizionale concezione del loro ruolo ausiliario – ma si estenderà al novero delle professioni intellettuali, il ‘suo pensiero’ potenzialmente potrà arrivare a sostituirsi al nostro, con una sottrazione del nostro dominio.

A tal riguardo si impongono due ordini di riflessione, in relazione allo status di questi umanoidi e alla loro effettiva autonomia di pensiero.
Se i robot sulla base delle informazioni ricevute in fase di programmazione si mostrano capaci di rielaborare i dati in forma creativa e sviluppare una propria evoluta conoscenza – fondamento della consapevolezza – come si potrà continuare a considerarli semplici utensili, macchine al nostro servizio?
Inoltre: la conoscenza scaturita dall’informazione rielaborata da un robot umanoide pur varcando i confini immaginati dal progettista (il caso del misterioso linguaggio sviluppato dai due androidi) sarà pur sempre in qualche modo ascrivibile alla matrice tracciata dal programmatore poiché si può immaginare l’evoluzione dell’intelligenza artificiale avvenga in maniera analoga allo sviluppo del l’intelligenza naturale, sulla base della rielaborazione dei dati esperienziali, secondo una traiettoria che non potrà mai totalmente prescindere dal punto di partenza: ciascuno evolve ma non può recidere le radici se vuol continuare a vivere.

I due aspetti, solo in apparenza contraddittori, sono complementari.
Da una parte c’è un problema etico connesso alla natura del robot umanoide che non sta più nei confini del bene strumentale ma assurge a un ruolo oggi difficilmente classificabile.
Dall’altra c’è il nodo della sua reale autonomia intellettuale: la sua intelligenza dinamica
può generare un libero arbitrio? Se anche l’uomo nel suo sviluppo intellettuale è condizionato da un imprinting mentale determinato da educazione ed esperienza, a maggior ragione l’intelligenza artificiale non potrà prescindere dai vincoli posti da colui che li genera e quindi l’evoluzione del pensiero, sviluppo dinamico di connessioni logiche, capace di originare ragionamenti non rigidamente predeterminati, non potrà tuttavia totalmente prescindere dallo schema originario, e inevitabilmente risponderà comunque a una serie di input e di condizionamenti che tracceranno il confine della sua capacità di spaziare intellettualmente fra opzioni alternative.
E questo inevitabilmente si traduce in una spaventosa insidia a una piena libertà di pensiero, che si sostanzia nella teorica capacità di sviluppare in maniera incondizionata le proprie convinzioni e di argomentare le proprie opinioni. È una frontiera questa forse irraggiungibile anche per gli umani. Ma ciò che più spaventa nel caso degli umanoidi è che per quanto evoluti e dinamici potranno sviluppare le proprie argomentazioni entro un confine predeterminato in ragione dei confini imposti dal programmatore, con tutti i rischi che questo implica.

IL DOSSIER SETTIMANALE
Quel 2 agosto

Il nono dossier settimanale dell’estate 2017 di Ferraraitalia esce a ridosso del 37esimo anniversario della Strage di Bologna: la mattina di sabato 2 agosto 1980 la stazione era affollata di persone in partenza o di ritorno dalle vacanze, 23 kg di esplosivo rasero al suolo l’ala Ovest, ancora squarciata e con l’orologio fermo all’ora della detonazione perché nessuno possa dimenticare e chiunque sia di passaggio si fermi a ricordare, mentre l’onda d’urto investì da una parte il binario 1 il treno che vi stava fermo in sosta, dall’altra la piazzola dei taxi. Morirono 85 persone e ne rimasero ferite 200.

Era soltanto ieri, il 2 agosto 1980. Una mattinata torrida, “mai stato così caldo” dicevano radio e televisioni, l’asfalto si liquefaceva mandando fumi verso il cielo, le Due Torri da un momento all’altro potevano abbracciarsi, secondo loro antico desiderio, e poi crollare esauste, stanche di vedere ai loro piedi un popolo senza più idee, chissà forse stremato dal dover essere l’esempio, esempio di onestà civica, intellettuale, politica. C’era una strana aria calma in giro, i diplomatici di professione dicevano che il terrorismo era acqua passata. Io inorridivo, ma mi accusavano di essere un avventurista, come affermava un compagno cretino, o, peggio, un disfattista. In un saggio pubblicato su ‘I problemi della transizione’, il periodico del Pci di discussione filosofica, di cui allora ero direttore responsabile, scrissi che il peggio non era ancora arrivato, suscitando la meraviglia e anche l’ira del partito dei compagni seduti al tavolo dei dibattiti, loro parlavano sempre. Le donne si affannavano ai negozi dei primi saldi con fare frettoloso, un costumino “due pezzi o intero?”, un completino da spiaggia e vai, le testoline bitumate apparivano e scomparivano tra i sacchi di stracci. Io sapevo che il terrorismo non era morto con l’alleanza storica tra comunisti e democristiani, anzi poteva comparire più feroce di prima, le cosche partitiche non avrebbero mai mollato l’osso, il potere voleva scherani fedeli.

E così è stato: i cani fedeli erano lì, nascosti tra le pieghe di tutti i partiti, pronti ad azzannare chiunque volesse tentare di cambiare sistema e filosofia sociale. Questi pensieri si affollavano frementi nella mia testa calda sulla piazza davanti alla stazione e a quell’orologio fermo sulle 10.25. Le ambulanze arrivavano e ripartivano, un autobus, il 37, trasformato in obitorio ambulante. Pensai allora che il mio mestiere era inutile e stupido: che cosa vuoi raccontare? Nessuno ti ascolta, nessuno ti legge. Pensai che forse avevo una sola via d’uscita: lasciar perdere la cronaca, il giornalismo e tornare alla poesia, il mio primo amore. Non servì molto: il 2 agosto dell’anno successivo un giudice massone mi rinviò a giudizio per calunnia nei confronti della magistratura bolognese, poi, dopo una trattativa, ritirò il malfatto, ma compresi che nemmeno la poesia era gradita al potere costituito. I magistrati più coraggiosi continuarono a essere perseguitati da colleghi signorsì, l’inchiesta che avevano avviato e che forse avrebbe potuto portare ai mandanti venne archiviata, nessuno andò mai ad approfondire le ragioni dell’assassinio del giudice Amato a Roma, il quale aveva infilato il coltello dove non avrebbe mai dovuto. Morto, ammazzato. Questa è l’Italia fascista che non è mai morta.

Oggi al Parco 2 Agosto di San Lazzaro di Savena, a partire dalle 18.30, il libro di poesie ‘Antologia per una strage. Bologna 2 agosto 1980’ (Minerva edizioni) di Gian Pietro Testa sarà protagonista insieme all’autore di percorso per ricordare le vittime della strage alla stazione di Bologna.

TERRORISMI. IL DOSSIER SETTIMANALE N. 9/2017 – Leggi il sommario

BORDO PAGINA
Futurologia e Postpolitica nell’Italia del futuro

Per un partito della scienza
Dell’anno 2017: crisi economica internazionale che continua senza vere ricette politico-economiche interessanti all’orizzonte: degrado e/o sfida multietnica in Europa soprattutto senza ricette decenti a breve-medio-lungo termine. Europa in crisi e classi politiche e dirigenti ovunque (in Italia in particolare) distanti anni luce da qualsivoglia coscienza scientifica del nostro tempo in un mondo, piaccia o meno, dominato e dipendente dalla tecnoscienza. Infiniti dibattiti sterili se non mistificanti.
Con una battuta (e in Italia in particolare) le scimmie politiche governano il presente dell’Italia, fu sinistra al potere arcaica e fu destra al’opposizione con ricette debolissime alternative, entrambe essenzialmente ostili alla scienza e la tecnologia: la prima gira e rigira regredita a visioni del futuro a decrescita infelice o sostenibile estrema, la seconda o ancora liberista selvaggia o speculare sulla decrescita antiscientifica alla fu sinistra. In realtà anche per risolvere sul serio a medio lungo termine (ma non nel futuro remoto) la bomba anche demografica costante e alimentare in Africa (ovviamente collegata con il futuro stesso dell’Occidente evoluto) non solo in Italia ormai è necessario nel mondo un vero e proprio Partito della Scienza. Solo gli scienziati o intellettuali o semplici parlamentari in qualche modo, strettamente o culturalmente di formazione scientifica, possono risolvere le gravi problematiche contemporanee: ridando meritocrazie e basi conoscitive sia ai governi nazionali, sia all’Unione Europea che all’Onu, quest’ultimo nei fatti una ormai quasi entità metafisica.
Con veri scienziati al potere e una visione del futuro presente, prossimo, remoto, basata in ogni campo sulla conoscenza essenzialmente scientifica, la società aperta ma scientifica a livello strutturale di un Popper ad esempio, non sarà una utopia, ma la soluzione e innesterà finalmente un circuito virtuoso ed esponenziale per superare a medio termine la crisi economica e anche culturale in Occidente e quella endemica anche biopolitica nel terzo o quarto mondo. Il ruolo nella società aperta scientifica che si pone chiaramente come obiettivo chiaro, preciso e urgente, di artisti e filosofi e eventualmente religiosi sarà un altro, non strutturale pragmatico, come poi persino un ossimoro, vista la natura essenzialmente immaginaria di tali tipologie e forme di conoscenza, ma – appunto – altrettanto importante anche se decentrato e sottomenu in certo senso.
Come educazione scientifica al futuro attraverso certo potenziale linguaggio peculiare del loro immaginario (quello in certo senso archetipico) più orientato in certo modo verso il futuro/futuribile, sul piano sociale; simultaneamente come libera creatività ricerca “artistica”, sorta sia di antivirus dialettico e di scienze immaginarie di frontiera – eventualmente e potenzialmente suscettibili di eresie scientifiche ma a volte destinate ad allargare i confini stessi della scienza ufficiale.
Ma le macchine pragmatiche fu politiche, fu economiche, per pensare e fare siano finalmente essenzialmente scientifiche e conoscitive, riassumendo in tal senso.
Più o meno le ricette scientifiche, di numerosi scienziati sociali, puntualmente emerse da una amplissima pubblicistica editoriale, tra libri, convegni, Internet, strutturalmente sono simili: per una postpolitica di parlamentari scientifici, per una tecnoeconomia di nuovo sviluppo possibile con attenzione anche all’ecologia come antivirus del divenire tecnoscientitfco produttivo; ottimizzazione dell’AI (Intelligenza Artificiale), Robotica, Automazione, Telelavoro, Genetica alimentare e cosi via, ottimizzando al massimo ogni risorsa tecnoscientifica possibile, in divenire e futura: controllo pubblico e gratuito come obiettivo dei fondamentali bisogni primari, abolizione semivirtuale del lavoro, redditi o meglio bioredditi di esistenza e civiltà sempre come obiettivi. Libera ricerca scientifica e libera espressione estrema. Insomma una visione etica (ed estetica) scientifica essenzialmente libertaria, con il relativismo di ogni religione circoscritte alla sfera esclusivamente astratta e immaginaria, senza alcuna interferenza vera laica, come sarà la futura società democratica e scientifica.
La macchina per pensare e fare (post)politica
Prima o poi, al di là della struttura organizzativa attuale in Italia cosiddetta transumanista o altri futuribili in ambito futurologico contemporaneo, per forza di cose essenzialmente culturale, una certa svolta operativa metapolitica diventerà inevitabile. Vuoi per il probabile ulteriore degrado generale psicosociale ed economico, vuoi per la sempre maggiore divulgazione dei memi trasumanisti e o futuribili nel dibattito intellettuale e mediatico. Facile prevedere, più si evolvono sopratutto i temi radicali, longevità potenziale, mind up loading, ingegneria genetica, crionica le ricerche scientifiche radicali, senza cambiamenti più evoluti e scientifici generali in politica e nella stessa opinione pubblica, in primo piano purtroppo amplificazioni bioetiche fondamentaliste ulteriori rispetto già a certi segnali concreti in tal senso, dall’eutanasia, all’AI (Intelligenza Artificiale), Automazione e Robotica stesse. Certa desiderabile macchina per pensare e fare quindi strettamente politica domanderà la discesa in campo della comunità scientifica nazionale con le avanguardie futurologiche transumaniste promotrici in tal senso con programmi, come accennato, strettamente scientifici e con la Società Aperta dello stesso Popper e altri come obiettivo.
Poco importa se magari gli stessi attuali popperiani o simili scienziati e ricercatori italiani esitano eventualmente scettici sulle visioni radicali futorologiche e transumaniste. Una forte apertura della comunità futuribi transumanista italiana alla Comunità scientifica nazionale è passaggio inevitabile per favorire i memi transumanisti stessi e all’interno della comunità scientifica nazionale sono già presenti anche ricercatori dialettici e aperti se non anche favorevoli anche ai temi più radicali e d’avanguardia. Va da sè: il possibile Partito della Scienza dovrà – per essere credibile e robusto a priori – coinvolgere i principali scienziati italiani e le principali dinamiche ufficiali scientifiche e organizzate italiane. Ovvero le Università, il Cnr, il Centro Majorana di Erice, il Cicap, l’Asi, la Fondazione Veronesi e cosi via, fino come contributi laterali e sinergici il gruppo Transumanista e altri gruppi o associazioni scientifiche operative in Italia, come ltalian Institute for the Future, Space Renaissance e nuovamente così via.
Per la cronaca, come noto anche ai grandi media europei, questa potenziale amplificazione metapolitica transumanista e futurologica, non sarebbe una novità assoluta, dopo il noto Transhumanist Party del futurologo americano Zoltan Istvan (già candidato quantomeno virtuale alle ultime presidenziali Usa e autore del bestseller Transhumanist Wager). Il suo è già un Partito della Scienza aurorale: per l’Italia almeno da relativizzare e potenziare con la fondamentale interfaccia prioritaria della Comunità Scientifica nazionale…

Info
hPlus Magazine 2015
Intervista a Z. Istvan
Meteo Web
Futurismo e Transumanesimo recensione
Divenire 4 Superare l’umanismo
CICAP