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I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – La filosofia dello struzzo

Proteggersi scegliendo di rimanere all’oscuro delle cose (anche tradimenti) o affrontare tutto rischiando di perdere tutto? Riccarda e Nickname hanno interrogato i lettori su cosa farebbero se si trovassero a dover scegliere tra la luce e l’oscurità in un rapporto.

Il sesso libero dello struzzo

Cara Riccarda, caro Nickname,
non voglio sapere perché fondamentalmente non mi interessa. Entrambi tacitamente sappiamo che ci sono altre persone nelle nostre vite. Ci basta così.
C.

Caro C.,
tra il mi basta così e il me lo faccio bastare c’è una differenza che solo chi lo dice, sa. Ricordo una scena in cui lui incalzante le chiede, ti basta vero? La sventurata che non aveva il coraggio di dire no, così è troppo poco, rispondeva sì e sapeva che poi i suoi pensieri e le sue azioni sarebbero andati nella direzione contraria, attratti dall’insoddisfazione. E alla fine, aveva ragione lui perché le cose le aveva messe in chiaro sin dall’inizio e, con quella domanda, l’aveva messa nelle condizioni di non chiedere più. E farselo bastare.
Riccarda

Caro C.,
se a te basta così e a lei basta così, bene. Se invece uno dei due se la fa bastare mentendo a se stesso, prima o poi il nodo verrà al pettine. Ad ogni modo, siete entrambe persone adulte e consapevoli. Questa circostanza è fondamentale per minimizzare scrupoli o sensi di colpa. Poi, un legame non è una foto, è un film. Se diventerà un lungometraggio o rimarrà un corto, quien sabes.
Nickname

A me piace farlo a luce accesa!

Cara Riccarda, caro Nickname,
scelgo la luce, soprattutto dopo l’ombra. La discrepanza tra i dettami culturali e le attitudini antropologiche dell’uomo, ci creano qualche problema nella gestione dei rapporti umani. Credo che per istinto l’uomo vivrebbe nella luce, in chiaro e nella libertà, poi però ci si muove nell’ombra a causa della cultura sociale: se l’uomo fosse libero di amare, amerebbe molto di più e alla luce.
N.B.

Caro N.B.,
ci sono anche momenti di luce intermittente o di cortocircuiti che ci creiamo quasi apposta. Ma anche nel buio più pesto, sforzandoci, i contorni si delineano e un orientamento lo si abbozza. C’è chi preferisce adattarsi all’oscurità che può apparire per certi versi confortante e fa percepire solo poche cose, poi per vedere davvero occorre la luce.
Riccarda

Caro N.B.,
le tue considerazioni mi hanno fatto tornare alla mente Wilhelm Reich, psicoterapeuta nato negli anni Venti, freudiano e marxista, la cui teorizzazione della liberazione sessuale come fulcro della rivoluzione contro la società autoritaria e patriarcale divenne un must degli anni della contestazione (1968/1969). Devo dire che di quelle idee è sopravvissuto un precipitato modesto, potresti farti promotore della sua riscoperta.
Nickname

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

I RITI CAMBIATI:
nella pandemia reinterpretiamo la nostra esistenza

Quando si dice che è ‘un rito’, si intende qualcosa che stancamente ripete se stessa. Poi ci sono ‘i riti’, i riti al plurale che sono cerimonie, celebrazioni, culti con le loro liturgie, laiche e religiose. Non possiamo fare a meno dei riti, perché i riti confermano le nostre appartenenze. La famiglia ha i suoi riti, una volta legati al desco. Il corteggiamento ha i suoi riti, fino all’anello di fidanzamento e alla promessa. Il lavoro ha i suoi riti, le entrate e le uscite, le divise come paramenti sacerdotali, le ore di fatica. Anche la memoria ha i suoi riti negli anniversari. A guardarci intorno scopriamo che tutta la nostra esistenza è una costante di riti, procedure, recite, rappresentazioni, liturgie, copioni.

Poi, un giorno accade che il grande palcoscenico della vita improvvisamente prende la forma del coro del dolore e della cavea della paura. Il rito si spezza, si frantuma, il complesso delle norme che lo definiscono e lo descrivono viene meno. È accaduto in questi giorni di eccezionalità, in cui abbiamo dovuto difenderci dal rischio del contagio.
I riti sono cambiati, altri ne sono stati confezionati come l’uso della mascherina e il distanziamento fisico. Altri ancora sono stati negati come la condivisione del lutto. La morte, che una volta era accompagnata dai vivi, per confermare che la vita non si ferma, è stata lasciata sola, tenuta a distanza, perché non sapevamo se la vita avrebbe continuato a scorrere, tanto la morte dominava incontrastata sui nostri timori e sui nostri rifugi.

Le comunità si riconoscono nei loro riti, che sono il racconto dei loro miti e la costruzione delle loro simbologie, le forme che abbiamo dato alla narrazione della nostra cultura. Al posto dei riti sono rimaste le autobiografie, quelle che lasciamo scritte ogni giorno sui social a cui accediamo, a cui affidiamo la trasmissione dei messaggi come parte di noi stessi, di quello che siamo. Lasciamo testimonianza della qualità delle nostre biografie. Qualcuno un giorno studierà le forme che hanno assunto i nostri racconti e i prodotti dei nostri pensieri come l’espressione di una cultura indigena.

Non ci siamo resi conto che si è aperta la porta per uscire dal rito, per uscire dalle nostre autobiografie. Che non abbiamo più nulla da celebrare. Perché quella che abbiamo vissuto non è una pausa, non è una sospensione, ma è stata una rottura delle nostre sacralità, dei riti a cui eravamo convocati, dei nostri sacerdozi. Forse l’ultimo episodio di una stagione che ha rincorso le ombre delle costruzioni che ci siamo eretti. Abbiamo dovuto dismettere le nostre anime colpite dallo stupore della sorpresa, dall’imprevedibilità dell’imperscrutabile, abbiamo scoperto di tremare, di essere come la tribù ancestrale che teme l’ira delle divinità. Abbiamo veduto e ascoltato lo sciamano pronunciare la sua preghiera agli dei, agli idola specus, nello spazio lasciato vuoto pure dal tempo, sotto le intemperie della natura.

Questa rottura è una ferita benefica che ha sollevato il velo sulla nudità che siamo, sulla  fragilità delle nostre liturgie, sull’insensato abbarbicarci alle ridondanze che si infrangono contro l’inatteso e l’improvviso, e non ci sono altari da innalzare e numi da pregare. La nostra solitudine è fuori e dentro di noi, temere la solitudine è come temere se stessi, l’unica speranza è quella di non coltivare speranze per prendere la vita nelle nostre mani. Senza fingerci cammini e mete, continuare ad arare, a coltivare la terra, a piegarci alla fatica per coloro che verranno dopo di noi e forse ce ne saranno riconoscenti, come si usa, nella memoria.

Siamo usciti dai riti e dalle nostre autobiografie per ritrovare il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi. Occorre fare igiene nelle nostre menti, provvedere alla raccolta differenziata dei cascami delle nostre certezze, correre il rischio della pulizia delle nostre presunzioni. Sgombrarle dall’occupazione dei pensieri sedimentati, dagli incartamenti degli incanti. Dimenticare le usanze per far spazio alle incognite, svuotare gli abiti della zavorra di cui li abbiamo caricati, seminare per dare inizio a nuovi raccolti. Ripartire dall’interrogativo socratico Ti Esti, che cos’è? Che cos’è quello di cui parliamo, che cos’è quello che facciamo, che cos’è quello che siamo, che cos’è quello che vogliamo essere.

Il nuovo secolo ancora non aveva posto nell’urna le ceneri del venir meno del sentimento religioso, del tramonto della metafisica e della crisi delle ideologie. La dimensione globale della pandemia ci ha posto con inesorabile prepotenza innanzi al nostro Essere e al nostro Tempo, per dirla con il filosofo, alla sfida nuova, alla capacità di saperla cogliere, alla necessità di dare una svolta ermeneutica alle nostre vite, al coraggio di reinterpretare l’intera dimensione umana. E questo con ogni probabilità è solo il primo capitolo, perché altri ben presto se ne aggiungeranno, e non potremo correre se non ci libereremo delle pastoie che ancora legano le nostre menti.

Il camino e lo spirito di Roman

Mio nipote Enrico dice che nel nostro camino vive lo spirito di un bambino.

Il nostro è un grande camino di mattoni a vista appoggiato a uno dei muri portanti del cortile. Ha una cappa che finisce con una apertura sul tetto, un grande piatto centrale per il fuoco e due piccoli piatti laterali per tenere in caldo le vivande quando si fa la grigliata.  A casa mia si usa  il fuoco del camino per cucinare la carne oppure per bruciare le sterpaglie dell’orto o qualche grande cartone che non sta nei nostri contenitori della raccolta differenziata.

Enrico dice che nel camino abita lo spirito di un bambino. Non si vede di giorno, perché di giorno gli spiriti sono trasparenti e nemmeno si sente perché non vuole essere scoperto. Sta zitto zitto perché solo così può continuare a vivere nel nostro camino e farsi i fatti suoi. Uno spirito anarchico.
Enrico dice che se di notte ci si alza lo si può vedere. Ha le dimensioni di una farfalla ma è tutto rosa, ha braccia  e gambe lunghe che gli permettono di muoversi con molta agilità. E’ lo spirito di un bambino che si chiama Roman. Abita nel nostro camino perché si trova bene lì e fra un po’, quando Enrico sarà più grande, uscirà definitivamente dal camino e giocherà tutto il giorno con lui. Ecco spiegato il perché dello spirito. Enrico vuole un bambino della sua età con cui giocare, in questo periodo di Covid-19 non è andato all’asilo e può stare solo con sua sorella Valeria che ha nove anni più di lui.
Chissà perché mio nipote ha posizionato lo spirito di Roman proprio nel camino e non sotto un albero, in una delle sue casse di giocattoli, nella legnaia.

Eppure è sempre stato così, gli spiriti stanno nei camini. Escono da là nei momenti più impensati e attraversano improvvisamente la vita delle persone. Compiono azioni bizzarre e poi ritornano nel camino da dove sono venuti ricominciando, come se niente fosse,  a fare i silenti spiriti.

Vorrei vedere anch’io Roman con gli occhi di Enrico e invece lo vedo con i miei ed è molto diverso. Quello spirito ha poco di reale e molto di fantasioso, esprime un sogno e forse anche un po’ di malessere per tanta reclusione. Eppure con quel suo continuo parlare dello spirito di Roman mio nipote si connette al mondo. Attraverso quella strada recupera un senso di collettività e di appartenenza  alla terra che sa di saggezza. Intercetta  parte della nostra storia. Attraverso quel sogno compone i tasselli del suo vivere adesso  e i anche i tasselli di quello che tutti siamo e siamo stati. Riesce ad  entrare nell’essenza dell’esistere,  quella calda che appartiene alla vita. Corre verso un desiderio che è sia suo che di molti e, attraverso questo, mantiene salda la sua identità di bambino un po’ solo e anche la sua appartenenza al cosmo che sta fuori, che evolve, spera, crede. Enrico e Roman si incontrano in una mescolanza di desideri che appartiene a loro adesso quanto è appartenuta ad altri in passato. Quei due esprimono, in quel loro surreale mondo, un bisogno di condivisione che sa di necessità e risposta.

Dentro lo spirito di Roman c’è il cuore del mondo che pulsa, che vive molte delle sue contraddizioni ma anche delle sue possibilità. C’è la spinta verso una trascendenza che sa molto di umano e poco di eternità.
Dentro lo spirito di Roman c’è una possibilità di fuga, un desiderio che trova risposta. In un cammino umano che porta a cercare l’altro e a trovarne lo spirito, c’è la creatività della persona che si mette a servizio della sopravvivenza e della felicità.  C’è tutta la fantasia possibile e anche un impulso alla fratellanza che sa di universalità.  C’è l’espressione di un bisogno che trova terreno fertile per nascere, crescere e morire e proprio in questo esprime la sua essenza. C’è la genialità di una soluzione. Lo spirito di Roman è molto  umano, permette di rispondere a un bisogno di socialità e di aiuto.

Una scrittrice che di spiriti ha capito molto è Isabel Allende. In uno dei suoi libri più famosi  La casa degli spiriti riesce a fondere realtà e fantasia, esoterismo e razionalità. E proprio in questa fusione sta la sua genialità. Toglie un confine e annulla molta paura. Alza un tappo, apre la strada al sogno, alle infinite risposte che i cuori delle persone sanno porre alle avversità.  Proprio con quel libro la Allende si è affermata come una delle più importanti voci della letteratura sudamericana. Non a caso. Chi sa oltrepassare un confine mina un muro, apre una nuova via, legittima una nuova conoscenza, una nuova sperimentazione, un nuovo modo di essere tolleranti. La tolleranza insegna molto. Arriva a ciò che è essenziale, a ciò che davvero si può insegnare, tramandare a chi verrà. La Allende è riuscita a spiegare il perché di alcune scelte umane, il senso un po’ allegorico e balzano di alcune abitudini strane. Nel suo mondo è vero ciò che in altri mondi non esiste. E’ santo ciò che permette una preghiera che accompagna il tempo del vivere, che apre spazi di sollievo ad un contorno paesaggistico e di relazioni umane che altrimenti sarebbe disperato e nichilista.

Enrico nel suo mondo di bambino ha creato Roman perché lo aiuta a passare meglio le giornate,  a sognare, a sperare nel futuro. Roman è una parte di lui, della sua vita di adesso. Io che so della sua esistenza e con un po’ di presunzione ne posso capire il motivo, mi sono scoperta ad amare Roman. Quello spirito di bambino deve essere simpatico, diventerà sicuramente un buon compagno di giochi per Enrico. Immagino che saprà fare qual che piace ad entrambi e quindi: correre col monopattino, nuotare, andare a cavallo, in bicicletta, fare le costruzioni, inventarsi storie popolate di animali, aerei e strani mezzi di trasporto che movimentano tutto o niente, dipende dai momenti. Se assomiglia a Enrico, Roman è bellissimo. Incanta.  Come dice Isabel Allende: “Noi Siamo ciò che pensiamo. Tutto quello che siamo sorge dai nostri pensieri. I nostri pensieri costruiscono il mondo” (Isabel Allende: Il regno del drago d’oro).

Anche i miei pensieri costruiscono il mondo, anche quelli di Enrico. A noi piace Roman anche se io so che esiste solo in funzione di una necessità.  Oppure non è così, Roman è vero.  E’ arrivato da noi e ama stare nel nostro camino perché così nessuno lo disturba e può fare quello che vuole. Uno spirito anarchico, appunto.

STALKING NO, STOLTING MAGARI SÌ!
Credevo che un cittadino avesse diritto di sapere…

Dopo un annetto di governo leghista, chi credeva che il ‘metodo naomo’ consistesse solo nel prendere a calci in culo immigrati e stranieri in genere, avrà dovuto ricredersi. Il ‘metodo naomo’ è qualcosa di più grande e complesso. Un modo di comportarsi? Una formula di governo? Ma neppure, è qualcosa di più: una visione del mondo, una filosofia di vita, una risposta automatica a un insopprimibile imperativo categorico.
Che riassumerei così: Io mi chiamo Naomo e comando la piazza di Ferrara, quindi infrango leggi, norme, regolamenti e dico e faccio quel che mi pare e piace, poi – siccome (ve lo siete scordato?) comando Io – alzo muri, metto reti, invento divieti, nego i buoni spesa  e perseguito i poveracci (come ero io una volta, però ora Io comando) e tutti quelli che non hanno il mio colore e che mi sono antipatici.
La morale potrebbe essere questa: non è vero per niente che Destra e Sinistra sono vecchie categorie ideologiche. Le differenze ci sono eccome. Per dirne una: la differenza che passa tra ‘comandare’ e ‘governare’. Ho l’impressione (o è solo speranza?) che dopo un anno di Destra al Comando, dopo un lunga sfilza di stupidaggini, castronerie, prepotenze e vergogne, molti ferraresi se ne stiano rendendo conto. E fortunata Ferrara ad avere un Daniele Lugli che non si rassegna, che non ‘lascia perdere’, e che continua a insistere, con la cortesia del nonviolento e il puntiglio del difensore civico.
(Francesco Monini)

Ritorno – non lo farò più – su una piccola vicenda già illustrata su ferraraitalia [Qui]
Partito dallo sconcerto per l’itinerante concerto nel territorio del comune di Ferrara, promosso dal sig. Nicola Lodi, in arte Naomo il 4 maggio scorso, ho ridotto le mie aspettative. La mia nota a Prefetto e Questore di Ferrara, Presidente della Regione (portata pure a conoscenza di Sindaco, Direttori Azienda Usl e Azienda Ospedaliera Universitaria di Ferrara, nonché Ministero della Salute) del giorno successivo non ha ricevuto risposte. A me è parso che l’iniziativa violasse la normativa in vigore, pur avendo avuto la stessa, proprio quel giorno, un’attenuazione. Perciò ho fatto presente le mie perplessità anche alla Procura della Repubblica. Evidentemente i miei rilievi non sono apparsi tali da meritare né interventi, né risposte. Ne ho preso atto con un po’ di rammarico, ma comprendendo anche che, in un momento così difficile, le istituzioni interpellate hanno cose più urgenti e importanti da fare che rispondere a quesiti, se a ciò non strettamente tenute.

Mi sono rimasti un paio di dubbi: 1) la promozione di riunioni pubbliche tra persone interessate a musica, a canzoni, a brindisi o ad altro ancora è dunque possibile? E allora perché tutto questo discorso sugli incontri solo di congiunti? 2) la lodevole iniziativa, degna di Lodi appunto, è stata dal medesimo promossa come privato cittadino ovvero nella qualità di pubblico amministratore?

Il primo quesito l’ho rivolto, una settimana dopo, al Questore. La normativa nel frattempo è cambiata. Ogni iniziativa va considerata a sé. Se vorrò promuovere riunioni pubbliche avrò certamente risposte chiare. Forse è stata eccessiva la mia pretesa di una risposta articolata. Il secondo quesito mi sembra però più facilmente esaudibile. Si tratta di sapere se c’è un atto attribuibile all’amministrazione comunale alla base dell’iniziativa vietata dal prefetto per il 1° maggio e attuata il 4. Non ne trovo traccia sull’albo comunale online e quindi chiedo alla Segretaria Generale del Comune se un tale atto vi sia. Basta un sì o un no. Dopo qualche giorno rivolgo il medesimo quesito al Prefetto. Nel suo sito trovo “Scrivi al Prefetto”. Lo faccio. La risposta è gentile: “Il Suo messaggio è stato inoltrato all’Ufficio competente. Grazie per la Sua collaborazione”. Sono passate due settimane: risposte nessuna.

Quando ho fatto, anni fa, un mestiere abbastanza simile a quello della Segretaria del Comune (lo svolgevo in Amministrazione Provinciale) ho cercato di contribuire alla trasparenza dell’azione amministrativa, senza venir meno al dovere di riservatezza e discrezione, fino al segreto, quando necessario e come è scritto nel nome: Segretario. La Legge 241/1990 consente a chi abbia un interesse qualificato l’accesso ai documenti amministrativi. Ho fatto il possibile per renderlo più agevole. Allora era una novità. È venuto poi il Decreto legislativo 33/2013, diritto di accesso civico a tutti gli atti oggetto di pubblicazione, senza bisogno di addurre un particolare motivo. Il Decreto legislativo 97/2016 ha introdotto la normativa, detta FOIA (Freedom of Information Act), come parte integrante della riforma della pubblica amministrazione. Garantisce a chiunque il diritto di accedere ai dati e ai documenti posseduti dalle pubbliche amministrazioni, se non c’è pericolo di compromettere interessi, pubblici o privati, indicati dalla legge. Le amministrazioni devono dare prevalenza al diritto di chiunque di conoscere e di accedere alle informazioni dalle stesse possedute, favorire la trasparenza nel rapporto tra le istituzioni e la società civile, incoraggiare un dibattito pubblico informato su temi di interesse collettivo. Così, in modo più ampio e dettagliato, è scritto pure nel sito del Ministero interessato.

Io ho chiesto a amministrazioni, rivolgendomi a chi meglio era in grado di rispondere, un’informazione sull’esistenza o meno di un atto riferibile all’Amministrazione comunale di Ferrara. Si tratta di un’informazione dalle stesse posseduta. Certo sono in grado di dire se loro consta l’esistenza dell’atto in questione.
Nessuna prevalenza, né attenzione è stata data, in questo caso, al mio diritto di conoscere. La normativa è del resto recente, ha solo 4 anni di sperimentazione e segue, solo di 50 anni, quella alla quale esplicitamente si ispira. Il Freedom of Information Act, Legge sulla libertà di informazione. È stata adottata sotto la presidenza di Lyndon B. Johnson. Allora non me ne sono accorto, Come molti miei coetanei era “Johnson boia!”, responsabile dell’escalation, search and destroy, della guerra in Vietnam. È stato dunque anche altro.

La questione che ho posto e nella quale non ho avuto soddisfazione mi dice qualcosa sul funzionamento della FOIA all’italiana, o almeno alla ferrarese. Quanto a me non mi sento preso da alcuna foia, eccitazione, frenesia, smania. Non scriverò più richieste, per quanto riguardose, che possano risultare moleste. Non pratico lo stalking, soprattutto nei riguardi di pubblici funzionari, per i quali sento grande solidarietà. Non li indicherò come alfieri della trasparenza. Eviterò anche di dire “Credevo, credevo di far bene”. Stultum est dicere putabam, me l’avevano pure detto! Mi rammarico dello stolting involontario.

Al cantón fraréś
Luigi Vincenzi: Al Pàlio ad Frara

Scrivendo un poema sul Palio, in dialetto ferrarese e in ottave, Luigi Vincenzi racconta la storia di Ferrara.
Illustrando i significati degli stemmi delle contrade cittadine l’autore espone vicende e personaggi storici in 10 canti (una invocazione, 4 rioni, 4 borghi, un epilogo).
Il piglio narrativo, la scrupolosità documentaria, la ricchezza del lessico, il garbo poetico, ne fanno una gradevole lettura e rilettura.
Di seguito si riportano le prime ottave del poema.
(Ciarìn)

Iηvucazión

I
Oh zirudlàr BUIÀRD, ARIÒST e TASS
ch’avì cantà dil dònn, di cavaliér,
di viaź iη ziél e iη mar e ad tuti i pass
fat veramént o fat sól col peηsiér,
gnim in aiut che ag’ho ‘l zarvèl ‘ch va in fas
par vlér rivìvr adès, cóm s’al fus iér,
al cmaηzipiàr dal Palio e d’ogni imprésa
dal Pòpul fata e dala Córt fraréśa.

II
Ag’ho ad bisógn dla vostra ispirazióη
parché trop grand l’impégn, a mi l’am par,
par il mié sóli fòrz! La presunzión
ad vléram, come tanti, zimentàr
iη chi òt “vèrs” che, iη Vu, i s’è fat caηzóη,
la tiéη beη cónt che forse am putì dar
i scart, il briś dla vostra rima rara
parché aηca mi a canta la mié Frara.

III
Oh, Frara! Frara! Che zità d’incànt!
E nò sól pr al tò Dòm, al tò castèl,
Marfisa e Schifanòia, ch’i è impurtant
coη Ca’ Romèi e Saη Fraηzésch tant bel,
Saη Dmenagh, Saη Cristòfar, i Giamànt,
Saη Paul, Saη Giuliàn e Rigobèl…  (1)
mo chil stradìη zó ‘d maη, chi cantuηzìη,
chil fnèstr iη còt, purtài e balcuηzìη;

IV
cl’architetùra seηza tant pretéś
ch’as véd int ill strad vèci dla zità;
chi cvèi fat con amór, seηza tant spéś
e fórse con uη póch ad vanità,
che ogni tant it làsa uη póch surpréś
e che iη nisùna guida viéη zità.
Al fàsin tò l’è chì, Frara, e al tò cuór!
Chi ‘riva a tgnósrat béη, vibra d’amór!…

V
L’amór par Frara e pr ill sò tradizióη
l’è viv e fòrt in tut i vér frarìś:
pastìz, salama e pan li è creazión,
iηsiém al pampapàt, da paradìś!…
E ogni ann as fa n’evucazión,
iη maģ a Frara, a źura chi av al diś:
a sfila persunaģ tut paludà
con i più bèi custùm di témp andà!

VI
A sfila al PALIO!! – Al PALIO! Mo cus èl? –
-L’è un di più bèi cvèi! ‘Na canunà!
S’t’avdìs par Zvèca che stupénd zapèl
d’òman e dònn ad vlud imburdunà
e ad raś e ad séda! E dòp déntr int l’anèl
dla piaza ad clu d’Ariòst, pin cucunà,
a du par du a cór i òt cavài
a pél muntà e seηza tant źavài! –

VII
Al PALIO ad Frara opur, diś Muradór,  (2)
quél ad Saη Źorź, l’è nat da sètzént’ann
col Śgónd di Ubìzz Esténs, ad Frara Sgnór  (3)
e ad Modna e Reź. D’alóra con dl’afàn
par via di sècul briśa tuti d’òr,
tra silenziosi paś e stus ad cann,
l’è arturnà a sfilàr pr il nòstri strad
mitènd iη sgaźuvìglia il j’òt cuntràd…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Palio di Ferrara ,1970 corsa dei somari

(1)”Rigobel”, torre crollata nel 1550. Ricostruita nel 1928, oggi è denominata Torre della Vittoria.
(2)“Muradór”: Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), storico.
(3) “Obizzo II d’Este” fu il vero primo Signore di Ferrara (1264), Modena (1289) e di Reggio (1290).

Invocazione
I
Oh cantastorie Boiardo, Ariosto e Tasso / che avete cantato delle donne, dei cavalieri, / di viaggi in cielo e in mare e di tutti I passi / fatti veramente o fatti solo col pensiero, / venitemi in aiuto che ho il cervello che va in fascio / per voler rivivere adesso, come se fosse ieri, / il cominciare del Palio e di ogni impresa / fatta dal popolo e dalla Corte ferrarese.

II
Ho bisogno della vostra ispirazione / perchè troppo grande l’impegno, a me pare, / alle sole mie forze! La presunzione / di volermi, come tanti, cimentare / in quelle “ottave” che, in Voi, si son fatte canzoni, / tiene ben conto che forse potete darmi / gli scarti, le briciole della vostra rima rara / perché anch’io canti la mia Ferrara.

III
Oh, Ferrara! Ferrara! Che città d’incanto! / E non solo per il tuo Duomo, il tuo castello, / Marfisa e Schifanoia, che sono importanti / con Casa Romei e San Francesco tanto bello, / San Domenico, San Cristoforo, I Diamanti, / San Paolo, San Giuliano e Rigobello… / ma quelle stradine giù di mano, quegli angolini, / quelle finestre in cotto, portali e balconcini;

IV
quell’architettura senza tante pretese / che si vede nelle vecchie strade della città; / quelle cose fatte conamore. Senza tante spese / e forse con un po’ di vanità, / che ogni tanto ti lasciano un po’ sorpreso / eche in nessuna guida vengono citate. / Il fascino tuo è qui, Ferrara, e il tuo cuore! / Chi arriva a conoscerti bene, vibra d’amore!…

V
L’amore per Ferrara e per le sue tradizioni / è vivo e forte in tutti I veri ferraresi: / pasticcio, salama e pane sono creazioni, / insieme al pampapato, da paradiso!… / E ogni anno si fa una rievocazione, / in maggio a Ferrara, giura chi ve lo dice: / sfilano personaggi tutti paludati / con i più bei costumi dei tempi andati!

VI
Sfila il PALIO!! – Il PALIO! Ma cos’è? – / -È una delle più belle cose! Una cannonata! / Se vedessi per Giovecca che stupenda confusione / di uomini e donne abbigliati di velluto / e di raso e di seta! E dopo dentro l’anello / della piazza d’Ariosto, piena zeppa, / a due per due corrono gli otto cavalli / montati a pelo e senza tanti orpelli.

VII
Il PALIO di Ferrara oppure, dice Muratori, / quello di San Giorgio, è nato da 700 anni / con Obizzo II d’Este, signore di Ferrara / di Modena e Reggio. Da allora con affanno / per via di secoli non tutti d’oro, / tra silenziose paci e cannonate, / è ritornato a sfilare èer le nostre strade /mettendo in gozzoviglia le otto contrade.

Tratto da: Luigi Vincenzi (Tamba), Al palio ad Frara : Uη póch ad storia fraréśa iηmasćiada con uη póch ad fantasia e con uη spizgòt ad ciàcar tramandàdi da padr’ iη fiòl, vista atravèrs il bandiér e il stem dil cuntràd dal nòstar Palio, e cuntàda int una lónga zirudlàza semiseria in utàvi, int al dialèt ad Frara, Ferrara, La Voce di Ferrara, 1987

Luigi Vincenzi (Bondeno 1926 – Ferrara 2011)
Maestro elementare, poeta e studioso del vernacolo, fine dicitore, segretario storico del Tréb dal Tridèl. Aveva due scutmài: Gigi per gli amici, Tamba in ambito dialettale. Altre pubblicazioni: A filò sóta al pónt ad San Źvann (1978), Grépul (2003), Vocabolario italiano – ferrarese (2007), Noz d’arźént col nòstar bel dialèt (2007).

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce regolarmente ogni venerdì.
Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

EL MALEFICIO DE LA MARIPOSA
100 anni fa l’esordio teatrale di un giovanissimo Federico García Lorca:
in scena, contestatissimi, i suoi personaggi-insetti

Di Federico García Lorca molti ricordano i versi dedicati all’amico torero morto durante una corrida, con il famoso incipit “Alle cinque della sera”, le poesie che cantano i gitani, con i coltelli che brillano ‘come pesci’ e la guardia civile sempre incombente, e le atmosfere del paesaggio andaluso: il biancore profumato dei gelsomini in fiore, il gorgogliare delle fontane, il muoversi al vento dei rami degli olivi. Molti ricordano anche i drammi, con personaggi femminili sempre costretti, frustrati e infelici in un mondo chiuso destinato ad esplodere in tragedie improvvise e cruente. Pochi invece conoscono le opere giovanili pensate per l’infanzia e per quel teatro di burattini che lo stesso Lorca, da piccolo, aveva molto amato. Si tratta di un altro aspetto della sua poliedrica ed eccezionale personalità artistica: poeta, drammaturgo, autore di acquarelli e numerosi disegni a china, esperto di musica (il festival del cante jondo organizzato con l’amico Manuel de Falla, le canzoni popolari arrangiate, la passione per il pianoforte), e fondatore negli anni della Repubblica del gruppo teatrale universitario La barraca che portava, nei paesi della Spagna rurale, i grandi classici del teatro spagnolo.

Due scatti giovanili di Federico Garcia Lorca
Disegni di Federico Garcia Lorca (composizione di Laura Dolfi)

Apparentemente. meno legate a tutto questo, sembrano i primi testi teatrali che però riportano anch’essi a quel senso di desiderio irrealizzato, di voler essere quello che non si è, o che non si può essere, ricorrenti nella sua opera drammatica (e non solo). Penso in particolare a una pièce per burattini che  compose quando aveva poco più di vent’anni: Il maleficio della farfalla. Fu l’incontro con un drammaturgo e impresario teatrale a decidere la sorte di quest’operetta, giacché Gregorio Martínez Sierra (questo il suo nome), affascinato dalla storia e dagli insoliti protagonisti, convinse il poeta a trasformare quel testo per burattini in una commedia da rappresentare in teatro. Così, rivisto e corretto, Il maleficio della farfalla si trasformò in una “commedia in due atti e un prologo”. Chissà come reagirebbe il pubblico dei nostri giorni se, recandosi a teatro (Covid-19 permettendo), invece di veder comparire sul palcoscenico i protagonisti di una commedia in certo modo prevedibile – con una ragazza triste e innamorata, un giovane sognatore con ambizioni di poeta, una madre preoccupata di trovare una nuora con una ricca dote, e vari personaggi di contorno -, si trovasse di fronte a degli attori travestiti da insetti: scarafaggi, lucciole, uno scorpione e una farfalla. Quello che è certo, però, è che nella primavera del 1920 (cioè esattamente un secolo fa) gli spettatori del teatro Eslava di Madrid videro proprio questo; e inevitabilmente, benché il teatro nel quale si erano recati fosse noto per essere d’avanguardia, la loro reazione fu piuttosto vivace, c’è addirittura chi racconta che, vedendo queste atipiche figure, dal loggione qualcuno abbia invocato l’uso di un noto insetticida. Anche i quotidiani segnalarono che l’accoglienza non era stata tranquilla: rumorose proteste avevano disturbato la rappresentazione e tra i due gruppi contrapposti (gli amici o sostenitori dell’autore e coloro che dissentivano) si era creata una tale bagarre da  rischiare il nascere di una vera e propria rissa.

Gli attori erano stati bravissimi – lo segnalavano le recensioni – ma né loro, né la ballerina, né le musiche di Grieg appositamente arrangiate erano riuscite a salvare la prima. È evidente che il pubblico non era ancora preparato per questo tipo di spettacolo, la cui rappresentazione invece doveva essere stata veramente fuori del comune: si trattava della prima opera drammatica di un poeta ‘nuovo e molto interessante’ – come aveva annunziato pochi giorni prima la stampa – e molti importanti nomi erano coinvolti: la famosa ballerina “Argentinita” (poi legata al torero Sánchez Mejías a cui Lorca avrebbe dedicato il suo famoso Llanto) impersonava la farfalla caduta che, muovendo le ali, iniziava a danzare, l’altrettanto nota attrice Catalina Bárcena ricopriva il ruolo dello scarafaggino protagonista tormentato nella sua ricerca dell’irraggiungibile, l’artista Rafael Barradas aveva disegnato i costumi e al tanto richiesto scenografo Fernando Mignoni si doveva lo sfondo sul quale si muovevano gli insetti: l’erba di un prato coperta di rugiada, un laghetto circondato da gigli e sassi azzurrini, un sentiero costeggiato dalle tane-case di un “minuscolo e fantastico” paesello.

L’azione iniziava con il rosseggiare dell’alba e con due blatte che conversavano fuori della tana. Bastavano poche battute e il tema base dell’intreccio era delineato mentre i vari insetti che si succedevano sul palcoscenico riproducevano con il loro dialogo, in quel piccolo mondo ‘infimo’, gli stessi sentimenti e desideri che caratterizzano la vita degli esseri umani. Era il  precipitare di una farfalla sul prato l’elemento che scatenava la tragedia: l’ansia inappagata del protagonista trovava in quest’essere bello e irraggiungibile il suo concreto e fatale referente. Alla morte della farfalla seguiva infatti anche la sua, e il suo corpo nero veniva solennemente trasportato su un petalo di rosa da un corteo di lucciole e scarafaggi, mentre la scena si colorava della luce del tramonto e riecheggiava il suono di una marcia funebre.

In realtà di questo finale e del dialogo che l’aveva preceduto sappiamo ben poco poiché parte del II atto è andata perduta; e la stessa commedia – rimasta a lungo inedita – fu resa pubblica in Spagna solo tardivamente, piú di un ventennio più tardi (nel 1954); e inevitabilmente ancora più tardiva fu la sua circolazione in Italia. Bisognerà attendere la I edizione integrale del Teatro di Federico García Lorca stampata da Einaudi nel 1968, dove però il traduttore – Vittorio Bodini – la relegava in appendice proprio perché opera giovanile e, a suo avviso, ancora ‘immatura’. La considerava invece degna d’attenzione il poeta Giorgio Caproni che, tre anni più tardi, scelse di tradurla e di mandarla in onda alla radio restituendole, con una lettura drammatizzata che coinvolgeva una quindicina di attori, un regista e una musica di sottofondo, la sua funzione di testo teatrale.

Quello che è interessante in questa traduzione caproniana naturalmente è il confronto che si venne a creare tra i due poeti, giacché la sensibilità nella lettura e nella resa dei versi (solo il breve prologo è in prosa) era inevitabilmente differente rispetto a quella di un qualunque, sia pur bravo, traduttore. Tra l’altro Caproni aveva riflettuto più volte, non solo sulla difficoltà del tradurre poesia (per quell’impossibilità di riprodurre fedelmente i suoni e i ritmi dell’originale), ma anche sul ruolo del traduttore, più complesso ancora se era a sua volta poeta: si trattava allora – osservava – di mettersi al servizio dell’altro, ma senza dimenticare se stesso. E proprio a queste parole pensavo, preparando per Feltrinelli la ristampa di questa traduzione in un volume appena uscito che riunisce tutte le versioni di Giorgio Caproni dalla poesia spagnola e ispanoamericana. La sua infatti è una versione molto bella, allo stesso tempo autonoma e fedele, costantemente attenta alla parola lorchiana che viene ricreata ricorrendo all’ampia gamma sinonimica offerta dalla nostra lingua e ai più diversi registri (colloquiale, culto, popolare) in modo da offrire ogni volta   l’equivalente migliore per significato e suono.

Né è una casualità che Caproni, dopo averla tradotta nel 1971, si sia ricordato di questa commedia anche negli anni successivi, selezionandone alcuni brani per  il suo Quaderno di traduzioni e facendo ritrasmettere la 1a scena durante una puntata della rubrica radiofonica Il girasole. Anzi, in quest’ultimo caso, la lettura era preceduta da poche ma significative parole con le quali, oltre ad alludere all’intreccio (“È la storia d’un amore impossibile: uno scarafaggino poeta s’è innamorato d’una farfalla ferita, caduta da un cipresso”), concludeva: “Nel teatro di García Lorca Il maleficio della farfalla occupa forse un posto marginale […]; ma non per questo la commedia è priva d’incanto poetico”.

Cover:  documenti relativi a El maleficio de la mariposa di Federico Garcia Lorca e altri materiali lorchiani, composizione di Laura Dolfi per Ferraraitalia. 

“SE SBAGLIO MI CORRIGERETE”
100 anni fa nasceva Karol Wojtyla, il Papa dei record

Il 18 maggio è stato ricordato il centenario della nascita di Karol Wojtyla (1920, Wadowice). Diventato papa nel 1978 dopo il brevissimo pontificato di Albino Luciani (33 giorni), gli storici dicono sia impossibile fare un bilancio definitivo di un pontificato durato 27 anni – il quarto per lunghezza nella storia della Chiesa (1978-2005) – e tanto complesso.
Per svariati motivi Giovanni Paolo II è stato il primo: il primo papa straniero dopo secoli, il primo per i viaggi compiuti (104), il primo a entrare in una chiesa luterana (a Roma nel 1983), a parlare a un’assemblea islamica (1985 a Casablanca), a entrare in una sinagoga (Roma, 1986). Dopo la sua morte (2005) è stato proclamato santo (2014) in tempi non usuali nella Chiesa per le canonizzazioni.

Il nome scelto e quel primo discorso da pontefice accesero subito entusiasmo e speranze. Fu papa Luciani a volersi chiamare Giovanni Paolo, ma non ebbe il tempo di dare corpo a un programma che avrebbe voluto svolgersi nel solco di Giovanni XXIII, che convocò il concilio Vaticano II, e Paolo VI, che lo condusse a termine nonostante le acque agitate di quella storica assemblea.
Subito destarono interesse quelle parole d’esordio: “Aprite le porte a Cristo, non abbiate paura” e “Se sbaglio mi corrigerete”. Un papa che dal balcone di San Pietro chiede di essere corretto? Nella sua prima enciclica Redemptor Hominis (1979) scrisse: “l’uomo è la via della Chiesa, con tutte le attese per una frase che non dice: la Chiesa è la via dell’uomo. E’ stato chiamato ‘l’atleta di Dio’ e ‘globetrotter’, per il vigore fisico con cui seppe dare nuovo appeal al papato che, unitamente all’innata vocazione di ‘bucare lo schermo’, trovò una speciale sintonia innanzitutto con il mondo giovanile, tanto da creare il fenomeno planetario dei papaboys.

Se si volesse tentare una lettura provvisoria del lungo pontificato di Karol Wojtyla, diversi osservatori sostengono che si è sviluppato lungo le due linee della Chiesa ad extra e ad intra. Se riscuote tuttora larghi consensi la prima, la seconda continua a ricevere critiche. Lo storico Alberto Melloni ha elencato Le cinque perle di Giovanni Paolo II (Mondadori 2011). Nel sinodo dei vescovi del 1985 definì il concilio Vaticano II la grazia più grande che la Chiesa abbia avuto nel XX secolo”, a dispetto delle voci insistenti che ne volevano un ridimensionamento.
L’anno seguente incontrò il rabbino ElioToaff nella sinagoga di Roma, dicendo che l’Antica alleanza è eterna e arrivando a chiamare gli ebrei “fratelli maggiori”. In quello stesso 1986 si tenne ad Assisi lo storico incontro di preghiera con i rappresentanti di tutte le religioni.

Fu l’espressione del suo impegno per la pace, ribadito nel 2003 con un appassionato appello contro la guerra in Iraq. Non meno dirompente fu, durante il Giubileo del 2000, la richiesta di perdono per le violenze e ingiustizie commesse nei secoli nel nome della fede. Cinque capitoli di quello che lo stesso Melloni ha definito “magistero dei gesti”, fino alla sofferenza degli ultimi giorni, mostrata come una testimonianza estrema offerta ai fedeli, che già il giorno dei funerali in una Piazza San Pietro stracolma lo volevano “santo subito”. Sofferenza come quella patita a seguito dell‘attentato di Ali Agca, il 13 maggio 1981, la cui mano non è stato mai chiarito del tutto da chi fosse stata armata, anche se diverse piste portano al cuore dell’impero sovietico, il cui crollo Karol Wojtyla era convinto che sarebbe avvenuto per l’inconsistenza delle false radici antropologiche che lo reggevano.

Ma se lo sguardo ad extra è connotato da queste energiche aperture, la serie di decisioni e provvedimenti presi all’interno della Chiesa (ad intra) continuano a rappresentare un contrasto stridente.
Gravida di conseguenze è stata la svista sulla Teologia della liberazione. Un aperto contrasto iniziato già dal gennaio 1979, quando a Puebla (Messico), durante la terza Conferenza generale dell’episcopato latino-americano, l’attacca frontalmente e, il marzo dello stesso anno, è ricevuto in udienza Oscar Arnulfo Romero, che realizza la profonda “incomprensione” di Roma per il suo ministero nella difficile situazione di El Salvador. Il 24 marzo dell’anno seguente l’arcivescovo Romero, mentre celebrava messa, cadde vittima di un attentato degli squadroni della morte.
Con tutta probabilità la biografia di Wojtyla – cresciuto negli orrori dei totalitarismi – ha giocato in maniera decisiva nella sua lettura della Teologia della liberazione. Si volle vedere i pericoli della contaminazione marxista (“un compromesso ideologico inaccettabile” disse in occasione della sua visita in Nicaragua nel marzo 1983), senza considerare che non non si può parlare “della”Teologia della liberazione al singolare, ma delle Teologie della liberazione. Un errore di valutazione che fu all’origine di una lunga sequenza di decisioni nei confronti dei teologi, come Leonardo Boff e Gustavo Gutierrez e criterio per le nomine dei vescovi latino-americani all’insegna della normalizzazione, come il card. Obando y Bravo, arcivescovo di Managua.

La scure disciplinare, con la partecipazione della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) guidata dal fedelissimo card. Joseph Ratzinger, non risparmiò la ricerca teologica in senso più ampio. Il tedesco Bernhard Haering, fra i più autorevoli teologi moralisti del post-concilio, e l’olandese Edward Schillebeekx, fra i grandi nomi della teologia del XX secolo, processato a Roma dalla CDF e mai pienamente riabilitato, sono fra i casi i più eclatanti, accaduti nel 1979 – neppure un anno dopo l’elezione di Giovanni Paolo II – e che inaugurarono una lunga serie di provvedimenti. Lo stesso don Luigi Sartori, fra i più importanti teologi italiani, fu privato (1989) della cattedra di Ecumenismo alla Pontifici Università Lateranense, per decisione della Congregazione dell’educazione cattolica.
Nell’aprile 1987 il comboniano Alex Zanotelli fu costretto a dimettersi dalla direzione del mensile Nigrizia e nel marzo 1989 cosa analoga successe a padre Eugenio Melandri per il mensile dei saveriani Missione Oggi. In entrambi i casi il tema sollevato fu la denuncia della gestione fatta dal governo italiano dei fondi destinati alla cooperazione e in ambedue le situazioni ci fu la mano del prefetto della Congregazione vaticana per l’Evangelizzazione dei Popoli, card. Josef Tomko.

Intanto cresce il malcontento del mondo teologico, che il 6 gennaio di quello stesso 1989 sfocia nella clamorosa Dichiarazione di Colonia, firmata da 163 teologi e teologhe di area tedesca. Contestarono il modo “scandaloso con cui Roma ignorava le richieste delle Chiese locali nella nomina dei vescovi.
Esemplare è ciò che successe all’Azione cattolica italiana (Aci), l’associazione che con Paolo VI fu protagonista, dalla Presidenza di Vittorio Bachelet, nella traduzione pastorale della conciliare scelta religiosa, che intendeva emancipare il laicato cattolico dalle secche del collateralismo politico.
L’inizio della svolta andò in scena tra il 9 e il 13 aprile 1985, quando a Loreto si svolse il II Convegno della Chiesa italiana dal titolo “Riconciliazione italiana e comunità degli uomini”. Con l’adesione del cinquantenne vescovo emiliano Camillo Ruini, l’intervento di papa Wojtyla smentì la linea di Anastasio Ballestrero, presidente della Conferenza episcopale italiana, e del cardinale di Milano Carlo Maria Martini, convinti di una linea ecclesiale a forte impronta conciliare. Il 26 giugno 1986 Ruini fu nominato da Giovanni Paolo II segretario della Cei e iniziò la sua ascesa di uomo forte dei vescovi italiani, fino al 2007. Nel mirino di Vaticano e Cei finì il presidente nazionale dell’Azione Cattolica, Alberto Monticone, contrastato all’interno dell’associazione da Dino Boffo, promosso a dirigere nel 1994 Avvenire, il quotidiano dei vescovi.

Si dice che durante il suo episcopato ferrarese (1982-1995), Luigi Maverna ricevesse periodicamente in palazzo vescovile Boffo e altri esponenti nazionali dell’Azione cattolica. Maverna fu assistente nazionale dell’Aci dal 1972 fino al 1976, quando Paolo VI lo nominò segretario generale della Cei. In quegli stessi anni si svolse in Italia la caldissima vicenda del referendum sul divorzio e il futuro arcivescovo di Ferrara si trovò a gestire la partita delicatissima della posizione dell’associazione che, in omaggio alla ‘scelta religiosa’, decise di esprimersi per la libertà di coscienza, anziché dare esplicite indicazioni di voto. Una decisione che non andò giù a molti vescovi italiani, e alla stessa Santa Sede e forse il conto salato di quello strappo nei confronti delle gerarchie fu presentato nella svolta che andò in scena al convegno di Loreto.
La normalizzazione dell’Aci proseguì con l’inaspettata nomina (1987) ad assistente nazionale di mons. Antonio Bianchin (sconosciuto assistente diocesano di Pisa del Movimento studenti) al posto di un incredulo Fiorino Tagliaferri (poi vescovo a Viterbo). L’annuncio venne dato dallo stesso Camillo Ruini durante un convegno nazionale alla Domus Mariae (Roma), di fronte alle dirigenze dell’Azione cattolica, spiazzate perché fu la prima volta che non fu rispettata la prassi consolidata, fino a Paolo VI, di consultare i vertici dell’Aci prima delle nuove nomine. A Loreto si celebrò, di fatto, il passaggio di consegne nel laicato italiano tra Azione cattolica e Comunione e Liberazione, il movimento fondato da Luigi Giussani che con Giovanni Paolo II trovò una naturale sintonia, per un cattolicesimo più muscolare e identitario, perciò ritenuto  maggiormente capace di incidere nella vita nazionale.

Sul piano dottrinale, il combinato disposto Wojtyla-Ratzinger-Curia romana, si è contraddistinto per una sistematica chiusura sui temi della morale sessuale, dell’omosessualità, della collegialità, della comunione ai divorziati, del sacerdozio e sul ruolo della donna nella Chiesa, con richiami costanti all’obbedienza. Nel 1992, con la lettera Communionis notio (1992), il card. Ratzinger dette un’interpretazione restrittiva del Vaticano II e della collegialità episcopale e l’anno seguente lo stesso Giovanni Paolo II, ampliando l’ambito dell’infallibilità papale definito nel 1870 dal concilio Vaticano I, affermò: “Rientrano nell’area delle verità che il magistero può proporre in modo definitivo quei principi di ragione che, anche se non sono contenuti nelle verità di fede, sono ad esse intimamente connessi”.
Risale al 23 agosto 1982, nonostante l’opposizione di molti vescovi spagnoli, l’istituzione della Prelatura personale di Santa Croce e Opus Dei.
Il 25 marzo 1995 nell’enciclica Evangelium vitae Wojtyla definì tirannici” i parlamenti che approvano leggi che consentono, in determinati casi, l’interruzione volontaria della gravidanza e nel 2000, con una Notificazione, Ratzinger prese di mira il teologo austriaco Reinhard Messner, obbligandolo all’abiura per avere sostenuto che in caso di conflitto è sempre la tradizione che deve essere corretta a partire dalla Scrittura, e non la Scrittura che deve essere interpretata alla luce di una tradizione successiva (o di una decisione magisteriale).

Si possono così comprendere le parole di Bartolomeo Sorge che su Aggiornamenti sociali (ottobre 2018) scrive: “Con l’elezione di papa Wojtyla si ebbe un lungo periodo di ‘normalizzazione‘, durante il quale la riforma della Chiesa ad intra, voluta dal concilio, di fatto fu tenuta in quarantena. Il problema è che su questo punto emerge, a distanza, tutta la debolezza di un’intera strategia. Se ad intra si assiste al sistematico congelamento del cammino riformatore intrapreso dal concilio, ne risente anche l’approccio ad extra, perché all’impostazione della mediazione culturale, del dialogo e della scelta religiosa di papa Montini, si è preferito puntare sulla presenza militante – muscolare (Wojtyla) o dogmaticamente sicura (Ratzinger) – della Chiesa come forza sociale, schierata a difesa dei principi immutabili, assoluti e, alla fine, non negoziabili, oppure su un astratto progetto culturale cristianamente ispirato (Ruini), nel vano tentativo di recuperare sul piano culturale l’egemonia che la Chiesa ha perduto su quello politico.

Con l’elezione di papa Francesco (2013) si è tornati a puntare sulla necessità di innescare processi, piuttosto che occupare spazi. Il problema è che il lungo periodo 1978-2013 (cioè i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI) è stato un potente modello formativo (dai seminari al laicato cattolico, compresi vescovi, Curia e collegio cardinalizio), che ha ottenuto venerazione, ammirazione e adulazione, anche se non l’auspicata primavera spirituale.
Il tempo breve, tutto sommato, del pontificato di Bergoglio è destinato a lasciare aperta la partita tutta interna alla Chiesa di come gestire la complessità degli opposti: dialogo e identità, innovazione e tradizione, verità e carità, lievito e conquista, scelta religiosa e presenza. Una combinazione degli opposti, che oggi nella Chiesa appare sempre più difficile da governare nel segno dell’unità e il modello del doppio binario wojtyliano non sembra più proponibile.

TARGHE RICORDO

Apprendo – da Il Mulino, Marcello Flores, Katyń e la memoria rimossa – che il 7 maggio scorso, mentre la Russia festeggia la vittoria contro il nazismo, a Tver’ sono tolte due targhe dal vecchio palazzo della polizia segreta, collocate nel 1991.Una è “alla memoria dei torturati” passati nelle mani dei militi dell’Nkvd  (polizia segreta sovietica, ndr,) prima di essere uccisi o inviati in un campo del Gulag. L’altra è “alla memoria dei polacchi del campo di Ostaškov” , uccisi dall’Nkvd di Kalinin (così di chiamava allora Tver’), ed è relativa alle fosse di Katyń.

La vicenda è nota e già chiarita fin dal 1943. Migliaia di ufficiali polacchi, in uniforme e con i loro documenti sono trovati in una fossa comune nella foresta. Risultano indubbiamente uccisi dai sovietici, tra l’aprile e il maggio del 1940. Lo accerta una commissione internazionale della Croce Rossa, richiesta pure dal governo polacco in esilio a Londra. La versione sovietica è che i prigionieri polacchi, usati per l’esecuzione di diversi lavori, sono stati catturati dai tedeschi nell’agosto del 1941 e da questi eliminati. Di più: l’Urss richiede che questo crimine sia aggiunto ai capi d’imputazione al processo di Norimberga. La richiesta è respinta dagli alleati per non compromettere, con l’infondato addebito, l’intero impianto accusatorio.

Nel Dopoguerra, l’Urss, il governo comunista polacco e i partiti comunisti, compreso il nostro, negano ogni responsabilità sovietica. In Polonia, nel 1981, Solidarność erige un monumento alle vittime di Katyń, trasformato dall’autorità e dedicato “ai soldati polacchi vittime del fascismo hitleriano”.

Michail Gorbačëv, in coerenza alla glasnost (trasparenza nel raccontare la verità) promuove una commissione polacco-sovietica per accertare i fatti. Segue l’ammissione di responsabilità dell’Nkvd – ordine di Berja e Stalin di giustiziare 25.700 soldati polacchi, tra loro oltre ottomila ufficiali – e l’apposizione delle due targhe.

Putin, nel 2010, rende omaggio ai caduti di Katyń con il primo ministro polacco Tusk e, 10 anni dopo, decide la rimozione delle due targhe. La storia russa deve rappresentare tutto il bene fatto nel passato, così come nel presente. Testimonianze e ricerche in contrario vanno tacitate. Un sondaggio dello scorso anno attesta che per il 71% dei russi Stalin è stato un personaggio positivo. La memoria pubblica deve adeguarsi al sentimento popolare. Conosciamo e sperimentiamo quotidianamente questo comandamento, che richiede costanti, rinnovate falsità.

Dice Hanna Arendt che la menzogna consiste nella deliberata volontà di trattare verità di fatto come se fossero opinioni e, come tali, trascurabili o modificabili secondo convenienza. Se la versione cara al potente di turno cozza irrimediabilmente con i dati di realtà, tanto peggio per i dati e la realtà. Il risultato è una generalizzata incapacità critica, l’abbandono di ogni tensione alla ricerca della verità, senza pretesa di raggiungerla sempre (o peggio di averla raggiunta e possederla indiscutibile). Difficile il formarsi di un’opinione fondata, impossibile un’opinione pubblica all’altezza dei problemi che si presentano.

C’è chi ne sa di più: i servizi segreti, ad esempio. A loro spettano le più delicate attività informative per la salvaguardia della Repubblica, cioè della nostra democratica convivenza. Ogni volta che accade di gettare uno sguardo alla loro attività questa appare volta a tutt’altro: menzogne, coperture, depistaggi. Ci viene detto allora che questi sono “servizi deviati”. Come tali sono finiti pure nel vocabolario. Ad esempio nel Treccani: “Che si è allontanato da una linea di condotta legale: servizî segreti deviati”. Speriamo che i servizi restanti proseguano nel loro compito importante.
Perché i servizi segreti non deviino non debbono anzitutto deviare quelli pubblici. Penso in particolare a quelli dedicati a salute, istruzione, lavoro. La prima cosa – come noto, e pandemia conferma – è la salute, poi bisogna studiare e lavorare. In Costituzione sono segnati come diritti fondamentali. La Repubblica tutela la salute di tutti come diritto individuale e interesse della collettività. Dell’individuo, è scritto, non del solo cittadino. Un sistema sanitario pubblico, integrato in quello europeo ne ha costituito la realizzazione più aggiornata.

La scuola, nelle sue diverse espressioni e gradi, è apparsa, nei momenti migliori, poter essere l’organo costituzionale, vitale, centrale della democrazia, indicato da Calamandrei. “La scuola è aperta a tutti, dice la Costituzione. Di tutti è un diritto, come la salute. Si obietta: “Ma se i soldi non ci sono? Soprattutto nella crisi economica e fiscale dello Stato?”. I soldi ci sono, magari ben custoditi e protetti, in paradisi fiscali se necessario. Quello che sicuramente occorre fare è non umiliare sanità e scuola pubbliche al servizio di interessi privati. Dice Calamandrei “Per aversi una scuola privata buona bisogna che quella dello Stato sia ottima”. L’esperienza ci mostra quanto ciò sia vero pure per la sanità.

E poi c’è il lavoro, che fonda la Repubblica e il cui termine ricorre 19 volte nella Costituzione. Nelle sue multiformi manifestazioni può e deve assicurare le condizioni di mantenimento e sviluppo della collettività, anche di quelli che non sono – ancora, più, comunque – in grado di lavorare. Un servizio civile universale, che tale sia e non si accontenti di ostentare l’aggettivo, ne sarebbe già l’avvio. Anche qui non si deve arretrare dai livelli raggiunti. Chiamare il provvedimento Jobs Act non giustifica l’umiliazione dei lavoratori. Il lavoro, a partire da quello pubblico, è alla base della necessaria solidarietà politica e sociale senza la quale, come sappiamo bene e l’art. 2 della Costituzione ricorda, tutti i diritti inviolabili dell’uomo si polverizzano. Restano al più come targhe, in attesa di essere defisse dal muro della nostra costruzione comune.

Cover: Bassorilievo Palazzo del governo, Livorno (Wikipedia)

PER CRESCERE KARIM
bisognava farsi villaggio

Rileggo La Repubblica, Cronaca Milano 13,35 del 20 maggio: ” MORTO BAMBINO 10 ANNI INCASTRATO IN UN CASSONETTO PER INDUMENTI Nessuno può dirlo con certezza ma Karim, il bimbo di soli 10 anni morto schiacciato in un cassonetto della Caritas, a Boltiere, centro di cinquemila abitanti della Bassa bergamasca, stava cercando probabilmente qualche vestito tra quelli lasciati dentro il contenitore. Qualche indumento per sé e per la famiglia. Il papà, nativo della Costa d’Avorio, e la mamma italiana hanno cinque figli e vivono in una casa comunale non distante dal luogo della tragedia.[…]*.
Le tragedie, da sempre, o sempre di più, sono ‘Il sale’ dell’informazione. Ma è possibile andare oltre, smettere il solito linguaggio gridato che trasmette l’orrore o induce alla inutile ed effimera lacrima, scavare più a fondo, svelare il nostro rimosso collettivo? E’ quello che fa
Elena Buccoliero in questa sua riflessione.
(Effe Emme)

Karim era da solo e ad accorgersi dell’incidente è stata una donna che ha dato subito l’allarme. L’oscenità di un corpo bambino intrappolato tra le lamiere è totalizzante. Lo sguardo resta impigliato alle piccole membra di Karim stritolato dal cassonetto degli abiti usati, oppure fugge via.
Ci vuole un tempo per il dolore, e per il rispetto del dolore. Tutto questo è dovuto e necessario, vorrei solo che non fosse tutto lì. Lasciamo stare la retorica del piccolo angelo. Dobbiamo anche altro a un bambino di 10 anni che muore a quel modo: guardare dentro alle cose, spingere il nostro desiderio di comprensione ad allargare l’inquadratura nel tempo e in profondità senza perdere di vista quel corpo bambino che punta i piedi contro il nostro petto.

Dopo quel 19 maggio qualcosa abbiamo saputo. Provo a riassumerlo.
Karim Bemba è il secondo di cinque figli tra i 2 e gli 11 anni. Vivono con la madre, una donna siciliana di 37 anni, in provincia di Bergamo, mentre il padre, ivoriano, lavora all’estero. Abitano in una casa del Comune e ricevono tutti gli aiuti di cui l’Ente Locale è capace, anche in forza di un decreto del Tribunale per i Minorenni di Brescia che assegna al servizio sociale il compito di sostenere la famiglia senza dividerla. Karim va a scuola e così probabilmente i suoi fratelli, non c’è ragione di credere il contrario. Se la didattica a distanza sia arrivata fino a loro non sappiamo dire. I vicini di casa affermano di temere da tempo che “succeda qualcosa” a quei bambini, li vedono poco curati e spesso in giro da soli, vivono in una casa arruffata.

Dopo la morte di Karim il tribunale per i minorenni emette un nuovo decreto e colloca la mamma e i fratellini in una struttura d’accoglienza. Nella sua scuola, gli insegnanti sospendono la didattica a distanza e si collegano in videoconferenza con la classe per parlare di quello che è successo, ricordano la dolcezza del compagno scomparso, la curiosità, i messaggi d’affetto che confezionava per loro, e capiscono che questo è il lascito, la lezione di Karim.
Questa sintesi racchiude tante cose buone, doverose ma non scontate: l’accompagnamento del servizio sociale e del giudice minorile, il rispetto per l’unità familiare, la frequenza scolastica, l’attenzione degli insegnanti. Che cosa c’è di storto? Tanto altro ancora.

Partiamo dal macro. Nel dicembre scorso – l’altro ieri, e sembra un secolo fa – Save the Children, registrava nel 2019 record negativi sia per la povertà minorile, con più di 1,2 milioni di minori (il 12,5% del totale) in condizioni di povertà assoluta cioè senza i beni indispensabili per condurre una vita accettabile, sia per la natalità. Denunciava diseguaglianze territoriali nella presenza di servizi di qualità per la prima infanzia, con una copertura che raggiunge il 19,6% nei comuni del Nordest ma poco più del 5% al Sud, e un aggravamento dell’abbandono scolastico. Lo affermava mentre apprezzava una manovra governativa che andava in una direzione di maggiore equità investendo più di prima a favore di famiglie e bambini e, aggiungeva, è un segnale positivo, non ancora sufficiente e che deve diventare strutturale.

Il quadro non si è certo addolcito con la crisi sanitaria, educativa, economica e sociale indotta dalla pandemia. Ha cercato di descriverlo ancora Save the Children con la campagna Riscriviamo il futuro [vedi qui] e una campagna sull’impatto del coronavirus sulla povertà educativa.[qui]
Però attenti: i dati razionalizzano, rassicurano, confondono i volti. Non perdiamo di vista Karim, teniamocelo stretto. Noi non sappiamo, l’ho detto in premessa, se lui e i suoi fratelli avessero o meno la possibilità di fare scuola a distanza. In generale possiamo pensare che per un bambino non sia uguale seguire le lezioni o non seguirle, lo dico per tante ragioni, di cui l’apprendimento non è neppure la più importante. Viene prima il suo sentirsi parte della comunità scolastica e il fatto che quella comunità possa oppure no occuparsi di lui.

Dico cose dure. Non so niente di Karim e della sua famiglia, mi pongo tante domande pensando alle molte famiglie che, invece, ho visto da vicino. È poi così ovvio che un bambino povero cerchi di entrare in un cassonetto? Da cosa, da chi è venuta l’idea? Aveva 10 anni, era frequente per lui uscire di casa da solo? È stato trovato alle otto di sera, qualcuno sarebbe andato a cercarlo non vedendolo rientrare? La povertà economica è spesso compagna della povertà educativa ma non c’è un legame necessario: anche famiglie benestanti possono dare poco ai figli, e non sempre le difficoltà concrete implicano carenza di cura.

Le parole dei vicini fanno pensare che la mamma fosse in difficoltà, e come poteva essere altrimenti? Sfido chiunque a occuparsi da solo di 5 bambini tra i 2 e gli 11 anni! Penso agli equilibrismi dei genitori che conosco, e sono in due con un figlio solo, tra accompagnamenti (pre-covid), lezioni a distanza (covid), scelte educative, amicizie da coltivare, giochi e passatempi. Le risorse non sono solo il denaro, sono anche il tempo, lo spazio mentale, la possibilità di condivisione. Nella famiglia di Karim sembra lontana la famiglia allargata – siciliana la mamma, ivoriano il babbo – e i bambini da seguire sono 5, tutti piccoli. Nessuno potrebbe farcela da solo. Siamo in una società che ha bisogno di nonni e zii d’elezione, che per me vuol dire famiglie affiancanti, educatori domiciliari, allenatori, vicini di casa… insomma, rete, non soltanto per risollevare il bilancio familiare. Non basta la povertà economica a spiegare perché un bambino di 10 anni viene ritrovato alle otto sera incastrato in un cassonetto.

Il tribunale per i minorenni di Brescia ha inserito la mamma e i fratelli in una comunità. Ha fatto bene, questo li tiene vicini e li sostiene. Serve infinitamente di più adesso, ciascuno di loro e tutti insieme avranno bisogno di affrontare il vuoto, la mancanza, il senso di colpa, l’ingiustizia, la vergogna per la morte di Karim, e forse serve a prescindere per colmare l’assenza del villaggio.

Un ultimo pensiero voglio dedicarlo al bisogno di angelicare le vittime che si osserva dopo qualsiasi violenza: malattia, guerra, omicidio, cassonetto tritacarne. Non ho conosciuto Karim ma voglio pensare che non fosse un angelo, ma un bambino. Disseminava sorrisi e messaggi d’affetto, me ne congratulo, e per parlarne ai compagni va bene così, ma non dobbiamo avere bisogno di questo. Karim aveva il diritto di vivere non perché era affettuoso e disponibile ma perché era un bambino; fosse stato bizzoso, antipatico, irascibile, monello… non avrebbe tolto o aggiunto niente al fatto che ci fosse un posto per lui. E qualunque cosa fosse diventato: un eroe un perdigiorno o un terrorista.

Il divieto di angelicare le vittime riguarda anche coloro che oggi stanno soffrendo di più. Il dolore non è un merito, quando ci sovrasta sembra scontato che si sia abbattuto sull’innocenza e in un certo senso è vero, nessuna umanissima incompiutezza ci fa meno che innocenti di fronte ad una tragedia. Dico solo che chi ne ha il ruolo e le competenze dovrà interrogarsi su quello che è successo e farà bene a farlo, nell’interesse dei fratellini e per rispetto di tutte le persone coinvolte. Karim incluso.

IL SASSO NELLO STAGNO
ANZI, NELLA FOSSA (DELLA SINISTRA)

Ho scoperto per caso questa lunga Lettera Aperta nella pagina Fb (data: 9 maggio) di Franco Ferioli, un amico che non vedevo e non sentivo da anni. Che stimo come un tipo di grande creatività, una persona (ed è questo che qui interessa) che coltiva con ostinazione l’esercizio del pensiero libero: esattamente quell’attitudine dello spirito che fa di lui, nel gergo sprezzante di certi politici di professione o vocazione, ‘un cane sciolto’.
Per la medesima ragione, e nonostante il suo articolo chiami fastidiosamente in causa anche il sottoscritto, ho chiesto a Franco se potevo pubblicare su Ferraraitalia le sue ‘considerazioni di un impolitico’. Che invece è un’analisi politica allo stato puro. Senza veli o giri di parole, prendendosi il rischio di giudizi ruvidi e col coraggio di mettere per iscritto nomi e cognomi. In fondo, la stessa idea balzana di quel ragazzaccio che al passaggio del sovrano si è messo a gridare “Il Re è NUDO”.
Non condivido tutte le cose che scrive Franco. Su molte la penso come lui. Ma questo è meno importante, ci sarà il tempo per discuterne. Quel che è sicuro è che Il Re (la Sinistra) è drammaticamente nudo/a. A Ferrara più che altrove. E che da oggi, da questo Anno Zero, non si uscirà, non si potrà mai uscire, non si potrà mai battere la Destra, con gli stessi programmi, le stesse alchimie, gli stessi balletti, le stesse mediazioni, le stesse facce di sempre.
Serviranno le “riflessioni indigeste” di Franco Ferioli? Non lo so, io me lo auguro. Mi danno l’idea di un sassone da macero (in ferrarese: ‘na masègna) che finisce con un gran tonfo in mezzo alla Fossa del Castello provocando un locale maremoto. Se così fosse, per una stagnante Sinistra sarebbe tutta salute.
Infine un invito, un caldo consiglio a chi (ai molti, ai tanti) che nelle righe seguenti si vedranno attaccati. Offendersi, peggio ancora arrabbiarsi, non solo non porta a nulla, ma è segno inconfondibile di poca intelligenza. Le provocazioni – anche così possono esser lette le parole di Franco Ferioli – a due cose possono servire. A riflettere. E a migliorarsi.
(Effe Emme)

di Franco Ferioli

Proposta di lettura di un manifesto contenente notizie e riflessioni di pubblico interesse ferrarese – che, avviso importante, potrebbero risultare indigeste – di un apneista del voto del meno peggio in assetto costante (occhi chiusi e naso tappato).

Invogliato da un articolo di Francesco Monini apparso su Ferraraitalia e riportato sulla sua pagina Facebook nel quale si invitava a proseguire pubblicamente l’analisi del voto regionale e i risultati raggiunti dalla Lista E.R. Coraggiosa Ecologista e Progressista, ho deciso di aderire partecipando al primo incontro e non mi sono per niente sentito rappresentato o rassicurato di aver fatto la scelta giusta nel votarla anch’io. Anzi, credo di essermene pentito.

Speravo che l’analisi del voto proseguisse collettivamente con la stessa apprezzabile lucidità con cui Francesco l’aveva iniziata e impostata, speravo che da quell’analisi ne potesse seguire una programmazione, insomma, per dirla in politichese, ho creduto che lo scopo dell’incontro fosse quello di compiere un’analisi programmatica del voto. Invece ho partecipato a una ‘festa di vincitori’ dove l’unico a sentirsi sconfitto sono stato io.
Che bello che sarebbe stato, per me, se qualcuno si fosse alzato e avesse detto non abbiamo vinto niente e continueremo a perdere fino a quando non ci renderemo conto di quali sono i motivi, al di là dei meriti organizzativi e degli impegni profusi, che hanno portato 2.227 persone a votare in questa direzione. Come avrei voluto sentir dire:  abbiamo perso e continueremo a perdere fino a quando non capiremo da parte di chi siano arrivati i voti e cosa abbia spinto a votare un’alta percentuale in più di elettori che in precedenza ha fatto vincere la Lega quando la stessa percentuale era in meno…Che bello che sarebbe stato se qualcuno avesse detto: si potrà vincere solo se riusciremo a mettere in campo filosofie e pratiche politiche che siano non solo alternative ma completamente differenti e opposte alle altre.

A dominare la scena e a strappare gli applausi per primi, sono stati gli esponenti degli ex Verdi: erano forse seduti lì per dare nuove esemplari risposte ai ferraresi e utili consigli agli emiliani dopo che per decenni hanno non solo ignorato, ma anche impedito ogni domanda degli altri ambientalisti imponendo la scelta della centrale a turbogas e degli inceneritori come la migliore delle soluzioni per produrre energia sul nostro territorio dal momento che loro, più alcuni consulenti esterni presenti in sala, erano gli unici entro le Mura autorizzati scientificamente a sapere cosa fossero davvero le emissioni di micropolveri sottili e i soli in grado di giudicarle inoffensive e tollerabili per la salute pubblica?
Per parlare oggi e domani di ambiente e inquinamento e per porre mano all’ambizioso Patto per il Clima che prevede zero emissioni di Co2 entro il 2050 e 100% di energie rinnovabili entro il 2035, bisognerà pertanto continuare a fare scienza con coscienza in quel modo e divenire scienziati come hanno dimostrato di essere stati loro? [leggere Qui] [e Qui] [e anche Qui]
Quanti saranno stati i giovani ambientalisti che hanno espresso la loro preferenza elettorale per la Lista Emilia Romagna Coraggiosa, Ecologista e Progressista che pone i problemi legati al cambiamento climatico in testa alle priorità e in seconda linea sul proprio stemma? Tra la gente intervenuta e presente in sala, non era presente nessun giovane al di sotto dei 35-40 anni. Nessun giovane, nessun neo-votante, nessun neo-cittadino italiano di origine straniera.

L’unico accento straniero di matrice anglosassone, è stato quello di Robert Elliot referente dell’Associazione Cittadini del Mondo, che strappa l’applauso dopo essere brevemente intervenuto per richiedere tempestività nell’affrontare il post elezioni con volontà, determinazione e idee chiare.
Nessuno straniero, nessuno zingaro, nessun Rom, nessun Sinti, nessun emigrato, immigrato, migrante, profugo, rifugiato, richiedente asilo, clandestino, presente in una riunione tenutasi in pieno Quartiere Giardino, Zona GAD, tra una ronda e l’altra della camionetta dell’Esercito Operazione Strade Pulite.Nessuna donna africana, nessuna donna araba, orientale, esteuropea, nessuna badante, nessuna infermiera, nessuna studentessa, ma, per fortuna, molte donne ferraresi intervenute per chiedere operatività, programmi, contenuti e dimostrando che la matrice della lista è indubbiamente autoreferenziale ma, evviva, sicuramente femminista.

Il terzo applauso, forse il più meritato, se non altro per la simpatia espressa da un signore anziano, esponente e sostenitore del PD di cui non ho afferrato il nome, che si appella all’unità della sinistra. In maniera piacevolmente spontanea e apparentemente ingenua informa l’assemblea che lui si riconosce nella Lista Coraggiosa e che tra forze di sinistra la cosa più importante dovrebbe essere quella di mantenere l’unità.
Ma il problema rimane lo stesso e semmai i termini sarebbero da capovolgere: per me e forse per molti altri (?), la difficoltà consiste esattamente nel sentirsi di sinistra e di riconoscersi nel PD e probabilmente, oltre a me, sono stati molti altri (?) a votare questa lista pur di non votare direttamente proprio il PD. E probabilmente sono stati in molti anche a votare PD solo come voto di sbarramento, per mancanza di offerte politiche migliori, per antifascismo e solo per non far vincere la Lega.

Ho battuto anche io le mani, per gratitudine: questo simpatico compagno mi ha fatto alleviare il pesante ricordo di essermi persino trovato in passato costretto a votare Dario Franceschini pur di non votare Berlusconi e di rimuovere il vero e proprio incubo di essermi presentato in una lista civica che ha appoggiato Gaetano Sateriale fino a sette giorni dopo la sua avvenuta elezione a sindaco. Nel primo caso si trattava di questioni tecniche legate al sistema rappresentativo, nella seconda all’appartenenza di una nuova forma di pratica pollitica in città: sissì, proprio con due elle, come la pollitica-becchime da destinare a poveri polli d’allevamento destinati al girarrosto dopo averli imbottiti di antibiotici e luci artificiali.[leggi Qui]

I record no limits di profondità abissale da me raggiunti come apneista del voto del meno peggio in assetto costante (occhi chiusi e naso tappato) avrebbero dovuto insegnarmi qualcosa: sono doppiamente grato a quel vecchio compagno perché mi rendo conto di quanto io continui ad essere molto più sprovveduto e ingenuo di lui. Avrei dovuto insospettirmi: in una sala popolata da numerosi trionfanti fantasmi di sé stessi non avrei dovuto stupirmi nel vedere entrare vittoriosa anche la vecchia padrona di casa perché la strategia politica della signora Roberta Fusari a capo della Lista Azione Civica e della mini pletora di altre listarelle collegate per sostenere uno spacciato e dato per disperso Aldo Modonesi come sindaco, per me è una storia che oltre che inutile trovo allarmante come il suono di una sirena della croce rossa che si ferma sotto casa.

Mi sono alzato e sono uscito: mai nessuno, tantomeno io, se la sentirebbe di sparare sulle crocerossine impegnate ad assistere i soldati nelle guerre perse in partenza o colpiti da fuoco amico.
Me ne sono andato ma con la coscienza a posto: più o meno per gli stessi motivi di sempre non ho votato lei ma il candidato della sua lista Federico Varese quando per me ha rappresentato l’unica possibilità di non votare Lega e neanche, perlomeno direttamente, il PD.
Ho votato Federico come avrei potuto votare uno dei tanti altri aspiranti martiri, come Maria Ziosi o Simone Diegoli, chiamati in ritardo a individuare ed esprimere quel qualcosa di sinistra che ha reso muti ciechi e sordi i becchini in carica mentre scavavano con le proprie mani le fosse comuni della sinistra ferrarese e quelle comunali dei propri incarichi.

Se la componente ferrarese della lista Emilia Romagna Coraggiosa è uscita per partenogenesi dalla scapola sinistra della Lista Azione Civica, ha davvero un gran coraggio nel proporsi e propinarsi come vincente, festante e innovativa e ha anche un gran coraggio nel pensare di essere in grado di rispondere alle aspettative di sinistra, ecologiste e progressiste riposte nel voto senza trovare urgentemente una nuova linea e identificare nuovi programmi e nuovi candidati.
Non che il mio giudizio conti qualcosa di più della provocazione di una lettera, ma a mio modo di vedere e di capire c’è solo un modo di porsi per combattere sia la violenza espressa dalla forma di autoritarismo e di ricatto assunta dall’attuale amministrazione di destra, sia l’arroganza, la distanza e la presupponenza espressa da quelle precedenti di sinistra.
Con questi tipi di violenza c’è solo un modo per combattere: non una violenza pari e contraria, ma una non-violenza, che disciplini prima di tutto una filosofia politica basilare, fondante e permeante. Per questo dico e chiedo Daniele Lugli Sindaco Subito e Marco Bianchi Vice.

Oppure chiedo: Ma tu chi vorresti Sindaco?
E’ così difficile partire da zero, iniziare dal basso e chiederselo, anche solo per gioco o per provocazione? E non è così che si potrebbe fare per capire qualcosa di utile e urgente per molti, se non per moltissimi?

E a voi Francesco Monini, David Cambioli, Federico Varese, che potreste contribuire a garantire e consolidare un programma veramente innovativo mi vien da chiedere: state in disparte per libera scelta, perché non ne avete tempo e voglia, perché nessuno ve lo ha ancora chiesto, o perché la Lista Civica e la Lista Coraggiosa sono contenitori colmi solo di personalità politiche e ideologie riciclate destinate all’autodistruzione contro il muro di gomma shackespeariano dell’”essere o non essere PD?
Nel mio specifico caso il mio voto riflette un atteggiamento di rifiuto, rifiuto della Lega, rifiuto del PD, non di adesione o appartenenza politica a una lista fiancheggiatrice di quest’ultimo e non credo di essere stato l’unico a votare questa lista usando la matita con la tecnica surrealista della scrittura automatica e ad avere quella come unica scelta per non votare destra, non votare Pd e sperare di votare per qualcosa appartenente alla sinistra che rimane tra le righe della scheda o schiacciato sotto il peso dei risultati dell’urna.

Del programma, dei candidati, della campagna elettorale, della lista che ho votato non sapevo praticamente nulla. Un voto alla meno peggio, un voto senza vuoto a rendere, come una cambiale firmata in bianco pur di contrastare qualcuno e qualcosa che è divenuto a pari merito inaccettabile e insopportabile come le due facce della stessa medaglia politica attuale.

Secondo me a vincere le elezioni sono state le elezioni e le loro eccezioni: i veri vincitori sono stati quel + 30% di votanti rispetto alle precedenti. La Lista E.R. Coraggiosa ha vinto un giro gratis in giostra dopo essere riuscita a strappare la coda alla scimmietta e a tirare la corda del dissenso dei senza patria e identità di una sinistra desaparecida, fatta a pezzi e gettata in pasto ai pescecani e ora nel pugno chiuso ha solo la catenella dello sciacquone.

Gli stessi motivi che hanno portato ieri molte delle 22.000 persone a votare la jolly Elly Schlein, saranno gli stessi che potrebbero portare 22.000 persone a votare tra cinque anni per una nuova lista analoga che svolga le stesse funzioni o che le reindurranno a rimanersene chiuse in casa col televisore e il telefonino spento lasciando di nuovo vincere i partiti della peggiore destra di ogni tempo.
La Lista Civica ha invece vinto l’ultimo giro di walzer degli ideali di sinistra sulla scena politica ferrarese prima che venisse chiusa la balera, licenziata l’orchestra e buttata fuori la finestra dalla finestra.

Se non verranno immediatamente individuate nuove filosofie e nuove pratiche politiche che raccolgano i valori sociali, socializzanti e socialisti della sinistra, cancellati da coloro che sono corsi fuori dal palazzo a cercarli e a reclamarli dagli altri solo quando sapevano che erano già stati da loro stessi irrimediabilmente ignorati, mistificati e buttati nell’indifferenziata… se l’unica funzione politica ammissibile continuerà ad essere quella di continuare a soccorrere questa tipologia di oppositori del regime e di continuare a confortare e rifocillare di voti collegati e paralleli questa armata brancaleone di consiglieri doverosamente divenuti di minoranza… inutile sarà tirare la catena di un wc autopulente.

O dovrei lasciarmi convincere che a vincere sono stati tutti? E anch’io?
La Lega ha vinto continuando a vincere nella nostra provincia e in Calabria; il PD ha vinto perché non ha perso la roccaforte Emiliano-Romagnola: Berlusconi, la Meloni e Sgarbi non perderanno mai per diritto divino acquisito alla vittoria: nemmeno una sentenza della commissione antimafia è riuscita a far perdere qualcosa in città a qualcuno come Mauro Malaguti.
Quindi a vincere sono stati tutti? Paradossalmente anche chi non si è presentato affatto, come il Movimento delle Sardine che anche tutti gli altri partiti,  oltre al PD, dovrebbero ringraziare di non averlo fatto?
Che nessuno trovi poi il coraggio di dire che a perdere è stato solo il M5S, dal momento che è ancora al governo ed è sempre e solo stato un movimento perlopiù virtuale, digitale e avanguardista che quindi non ha mai avuto niente da perdere come partito politico tradizionale.

Nel frattempo noi Ferraresi Civici ed Emiliani Coraggiosi vincitori continueremo a brindare, con le mascherine, al Bar Korowa davanti agli insuccessi televisivi di Fabbri, Lodi e Solaroli su La Sette, mentre la setta Cavallini-Sgarbi si è impadronita delle sale espositive del Castello Estense come proprio scantinato, salotto e galleria d’arte… stapperemo champagne al chiosco di via Poledrelli conosciuto dai più come ‘da Hitler’ quando Vittorio Sgarbi inaugurerà due mostre per oltraggiare il significato dell’arte di Banksy e il significato del lavoro di Franco Farina al Palazzo dei Diamanti e per riabilitare la grande figura morale di Italo Balbo magari al MEIS… e punteremo i colli di bottiglia contro i suicide bombers della sinistra all’opposizione in Consiglio Comunale che, anziché minacciare di nuovo di abbandonare fisicamente e inutilmente l’aula per qualche minuto e di qualche metro, avrebbero dovuto abbandonarla eticamente per sempre il giorno dopo i risultati delle elezioni con le quali hanno regalato la città nelle ruvide mani e forti braccia tese della ‘peggiore destra ferrarese di  utti i tempi’, come l’ha definita Aldo Modonesi in campagna elettorale.

Peggiore di quella composta da squadre di picchiatori fascisti in camicia nera che ammazzavano di botte, di deportazioni e fucilate sacerdoti, ebrei e comunisti un attimo prima di partire per compiere eroiche trasvolate atlantiche o pericolosissime e audaci missioni di bombardamenti aerei in Libia?
I fascisti ferraresi di oggi contro cui combattere sono profeti in patria e profeti di loro stessi, legittimati dai governanti precedenti e dai non votanti di sinistra: giusti o sbagliati che siano, sono loro stessi a insegnarci che per eliminarli in futuro servirà buona mira.

Quelli di ieri sono stati profeti all’estero e profeti di sventura, per eliminarli ci è stato detto dalla storia che è bastata la mira giusta e un colpo di artiglieria antiaerea partito (guardacaso, solo per tragico errore). Quelli di oggi si limiteranno a imbucare e ad autospedirsi un pacco con dentro il proiettile che nessun ferrarese è disposto a sprecare per loro o saranno costretti a farsi autorecapitare lo stesso micidiale cannone della seconda guerra mondiale in dotazione al mitragliere ferrarese impegnato in Cirenaica ad abbattere l’aereo di Italo Balbo con il suo entourage di giornalisti padani?

La Ferrara dell’altro ieri, la Ferrara di ieri e la Ferrara di oggi: è già troppo tardi per chiedersi che forma prenderà la politica di sinistra per diffondersi nel coprifuoco imposto anche dalle azioni mirate a limitare il diffondersi del corona virus Covid-19?
Inchiostro su carta? Email? Post sulle pagine Fb degli amici degli amici mai visti ne’ incontrati? Piccioni viaggiatori?

Cover: foto di Beniamino Marino (maggio 2020)

LA CITTA’ MUTA
E per la Giunta di Ferrara la scuola può aspettare

Come dite? No, nessuno ha risposto alla mia proposta per aprire le scuole a settembre nella nostra città [Qui]Non il Sindaco, neppure gli altri soggetti chiamati in causa: dirigenti scolastici, presidenti dei Consigli di Istituto. Per non parlare delle forze politiche che siedono in Consiglio Comunale, le quali tacciono come se fossero ammutolite dalle mascherine anti Covid.  O non sono lettori delle cronache locali o il problema non li tocca.

Eppure gli strumenti per organizzare un anno scolastico speciale, dandosi da fare fin da ora, ci sarebbero, attendono solo di essere utilizzati. Non voglio scivolare nella citazione di articoli e commi, ma la legge sull’autonomia scolastica e le norme sulle competenze dei consigli di istituto offrono notevoli spazi d’azione, basterebbe avere le idee e la volontà di darsi da fare.

In questa rubrica da anni offriamo idee e esperienze che si muovono nel mondo a proposito di scuola, di istruzione permanente e di educazione diffusa sul territorio, ma certo non posso pretendere di avere più lettori delle dita di una mano.

L’eccezionalità della situazione sarebbe da cogliere per passare dalle parole ai fatti e fare del territorio il centro del progetto educativo, il luogo della crescita, delle avventure che attendono chi si incammina lungo la strada della conoscenza. Forse si preferisce attendere le disposizioni della ministra Azzolina e della task force presieduta dal ferrarese professore Patrizio Bianchi. Ma questo non ci esonererebbe dal fare anche noi la nostra parte, dando con la nostra iniziativa una mano alla ministra e all’illustre concittadino.

Invece del metro per misurare le distanze tra i banchi dentro alle aule, potremmo incominciare col fare l’inventario delle risorse, a partire dagli spazi e dalle occasioni educative, che la città potrebbe mettere a disposizione delle scuole, da quelle primarie alle secondarie di ogni grado. Arricchire il piano dell’offerta formativa che ogni scuola deve compilare con il piano dell’offerta formativa della città a cui attingere per fare della città una scuola diffusa oltre le aule dei suoi edifici scolastici, in questo momento in cui spazi e distanze fisiche sono importanti, abbattendo le distanze sociali, a partire da quelle tra la scuola e il suo territorio.

Tempo fa è uscito un libretto interessante, la cui lettura allora consigliai ai nostri amministratori: La città educante, Manifesto dell’educazione diffusa, scritto dal pedagogista Paolo Mottana  con Giuseppe Campagnoli, architetto, già dirigente scolastico ed esperto dell’Unesco nel campo dell’educazione e della creatività.
L’idea della città educante nacque vent’anni fa a Barcellona sotto il patrocinio dell’Unesco, se ne avessimo coltivati gli obiettivi oggi sapremmo meglio come affrontare l’emergenza scolastica. Città educante significa formazione continua nel tempo (lifelong learning) e nello spazio, scuola, ambienti esterni, tempo libero, superare l’istituzione scolastica come luogo esclusivo dell’apprendimento dei nostri giovani.

Rimettere in gioco, piccoli e grandi, ma è necessario che scuola e città imparino a dialogare, si alleino per assumere insieme il ruolo educativo in maniera pervasiva. Ragazze e ragazzi, bambine e bambine costituirebbero una nuova linfa da troppo tempo emarginata, mortificata, imprigionata nelle classi, nelle aule, nei banchi.
Non più insegnanti trasmettitori di discipline ma compagni di viaggio, registi, guide, professionisti capaci di agevolare i percorsi di interconnessione dei saperi, di formare all’autonomia e all’autorganizzazione.

Pensare i luoghi della città come luoghi di apprendimento non occasionale, come parte integrante del progetto educativo, come i luoghi di un’idea di scuola aperta, dove gli edifici scolastici divengono i punti di partenza e di ritorno, i luoghi della riflessione, dell’approfondimento, dove le esperienze compiute trovano la loro organizzazione nei percorsi curricolari.

Il sapere è movimento, è ricerca continua, non può amare la staticità delle aule e dei banchi, del resto i nostri giovani, a queste condizioni, difficilmente possono innamorarsi del sapere e della fatica di studiare. È possibile che qualche chierico zelante tema che dietro a tutto ciò ci stia il progetto di una progressiva descolarizzazione alla Ivan Ilich, un venir meno dell’autorità del docente. Ma l’unica strada che inevitabilmente è destinata a portare  alla descolarizzazione è quella di chi crede ciecamente nell’autosufficienza della scuola e nel ruolo immutabile dei suoi insegnanti, nonostante il divenire dei tempi.

Sarebbe veramente da ciechi non cogliere l’opportunità che oggi si presenta per  avviare una riflessione, per tentare qualche passo in avanti verso la città educante. Già qualcosa si potrebbe fare se Amministrazione Comunale, dirigenti scolastici, insegnanti e presidenti dei consigli di istituto si trovassero insieme a ragionare. Un tavolo? Una conferenza? L’importante è darsi da fare, possibilmente da subito.

PER CERTI VERSI
Ricordo di silenzio f

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca 
[Qui]

RICORDO DI SILENZIO F

Le mie meningi
Tornano a quel
Silenzio F
A quel bacio come se ce lo fossimo dati
Al tuo viso
Intensissimo
Tra l’oro giallo e l’oro blu
In mezzo ai libri
Di poesia
Un tempo immateriale
Enorme
Senza soluzioni
Raro
Brevissimo
I due treni
Che fischiavano
E prima
Il ricordo di prima
Quando ci vedemmo
Ci cercammo
Con gli occhi
Con le braccia
Con le labbra
E non riuscire non riuscire
A dire
Le parole che bussavano nei denti
Ancora silenzio
Che non trova parole per essere detto
Nel suo senso
Nel significato
Che ebbe
Che continua avere
Che vive e ritorna
Col suo bacio come se ce lo fossimo dati

I RETROSCENA DI CAPACI, 23 MAGGIO 1992
Ma il tritolo distrugge i corpi, non le idee

Ecco, a chi fosse sfuggito, il mio articolo pubblicato la scorsa settimana su questo giornale. Per non dimenticare, per ricordare che oggi, 23 maggio, è il triste anniversario della strage di Capaci, dove perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca e gli uomini della scorta. All’interno, vi troverete fatti e rivelazioni e che certo non conoscete.
(Laura Rossi)

Bisognava fermarli, questo voleva il potere, ma le vittime lo sapevano. Il tritolo non è riuscito a cancellare il loro ricordo e le loro idee

Anche se può apparire inusuale, sento il bisogno di fare una doverosa premessa. Questo mio articolo non vuole essere la solita commemorazione dell’anniversario della Strage di Capaci del 23 maggio 1992, dove morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca e gli uomini della scorta, senza dimenticare la morte di Paolo Borsellino, che riprenderò più avanti, avvenuta nel mese di luglio. Intendo riportare episodi veritieri e interrogatori. Uno riguardante lo stesso Falcone, risalente a pochi giorni prima della strage, altri riportati dal noto scrittore Lodato, autore di Ho ucciso Giovanni Falcone, o dall’amico ex ispettore della Dia Pippo Giordano, collaboratore di Falcone e Borsellino e in prima linea contro Cosa Nostra.

Saverio Lodato incontra Giovanni Brusca, che ha scelto di collaborare con la giustizia, in una cella blindata. L’idea di uccidere Falcone fu presa per la prima volta nel 1982. “Lo odiavamo, lo abbiamo sempre odiato, perché era il primo magistrato, dopo Rocco Chinnici, che era riuscito a metterci in serie difficoltà e che aveva istruito, anche se non da solo, il primo maxiprocesso contro di noi. Era riuscito ad entrare dentro Cosa Nostra.Prendemmo la decisione iniziale di ucciderlo, per la prima volta, alla fine del 1982. Nel 1983 toccò a Rocco Chinnici. Quindi era giunto il turno di Falcone”.
Giovanni Brusca continua poi raccontando dei loro referenti politici, i cugini Salvo che appoggiano la scelta di uccidere Falcone. In quella fase, però, il ritorno sulla scena degli ‘scappati’ li costringe a sospendere il progetto, troppo impegnati a difendersi da questi nemici interni. Ma il progetto di uccidere Falcone non fu mai accantonato. Bisognava eliminare lui e tutti gli avversari: quelli che li avevano traditi, quelli che prima erano stati amici e che ora erano diventati nemici. “E mi riferisco in particolar modo agli uomini politici che spesso pur di coprire i loro affari illeciti che nulla avevano a che fare con la mafia, si trinceravano dietro lo scudo dell’antimafia per rifarsi una verginità”, afferma Brusca. “Giulio Andreotti, per ripulire la sua immagine ci provocò danni immensi: Salvo e Ignazio Lima sono stati uccisi proprio per questo“.

Dalla riunione del febbraio 1992 scaturiscono tutte le grandi tragedie di quell’anno. Non c’era tempo da perdere, dovevano agire. Nella riunione era già stato scelto il punto dove fare l’attentato: l’autostrada, il punto debole di Giovanni Falcone. Perché il punto debole? “Perché il magistrato lavorando a Roma era diventato abitudinario: tutti i fine settimana tornava a Palermo e doveva passare per l’autostrada. Il punto migliore era fra Carini e Capaci. Da quel momento cominciammo a darci da fare per reperire l’esplosivo”. Nel maggio 1992 a Roma arrivano i sicari di mafia, seguono Falcone, controllano tutti i suoi movimenti. Falcone deve morire, ma non deve succedere a Roma. Deve morire a Palermo con l’esplosivo, in un’azione terroristica. Adesso tocca a lui.
A proposito di questa terribile “sentenza di morte”, desidero citare l’esito di un interrogatorio di uno degli arrestati dopo la strage di Capaci, condotto dall’amico Pippo Giordano, ex Ispettore Dia e collaboratore per anni di un “Galantuomo Siciliano” qual’era il magistrato Falcone, come lo definisce in un affettuoso ricordo, in una nota di questi giorni.
Pippo racconta: “Uno degli arrestati per la strage, Gioacchino La Barbera, fu da me sentito e mi raccontò quale era stato il suo compito nell’attentato: doveva seguire il corteo e comunicare a Giovanni Brusca, che doveva azionare l’esplosivo, l’avvicinamento delle auto. Egli agganciò il corteo mentre procedeva verso Palermo, percorrendo appaiato una stradina parallela all’autostrada, sino a quando costretto dalla morfologia della strada non fu costretto ad abbandonarlo, ma ormai vicino al punto dell’esplosione. Quindi, dopo aver fatto la segnalazione a Brusca si era eclissato, udendo, tuttavia, il forte boato dell’esplosione. A quel punto chiesi di raccontarmi dettagliatamente i fatti e disse: “Ricordo bene che mentre viaggiavo appaiato al corteo ho visto Giovanni Falcone e gli agenti della scorta che ridevano fra loro”. Ed io subito:” Ma a lei non è passato per la mente che quegli uomini sorridenti andavano incontro alla morte? Non ha pensato per cristiana pietà di salvarli e di avvertirli? Infine chiesi: “Cosa ha provato in quegli attimi?”. “Non provavo niente, era u me travagghiu!” Era il mio lavoro! Risposta tipica di altri mafiosi, giacché non era la prima volta che la sentivo”.”Non ho mai dimenticato e mai dimenticherò Giovanni Falcone, onorato e fortunato dall’averlo conosciuto, e soprattutto ricordo l’ultimo nostro momento di svago (fumare una sigaretta), dopo l’interrogatorio di due mafiosi, nel cortile del carcere di Rimini, poco prima della chiamata a Roma”.

Il 23 maggio 2020, in occasione della Commemorazione di quella strage, Pippo Giordano ricorderà agli studenti tramite streaming online. Facciamo un passo indietro e ritorniamo a domenica 17 maggio 1992, il giorno prima del compleanno di Falcone, che si trova con la moglie Francesca e rilegge le poche righe del rapporto ricevuto: “La cupola si è riunita, si prepara un attentato forse dinamitardo e l’obiettivo, come sempre dal 1983, Giovanni Falcone”.
“D’ora in poi a Palermo scendiamo separati”, disse Falcone alla moglie. “Non ci provare Giovanni, scendiamo insieme”, la risposta di lei.
“E’ pericoloso e non posso garantire la tua sicurezza, come non posso garantire la mia, mi faranno saltare in aria“, rispose il magistrato mimando l’esplosione con un gesto delle mani.
“Mi garantisci che mi ami?” Una domanda semplice, quella della moglie.
“Si”
“Questo mi basta, sabato a Palermo scendiamo insieme, io non ti lascio”.
Mancavano solamente 6 giorni alla strage di Capaci. Nonostante siano trascorsi parecchi anni, la puzza di depistaggi è ancora fortissima, false ricostruzioni, verità occultate, ma la carica devastante del tritolo non è riuscita e non riuscirà mai a cancellare e a far dimenticare il sacrificio e le idee di Falcone e Borsellino, che andranno avanti nel tempo.

CONTRO VERSO
Allontanamenti zero?

La Regione Piemonte ne sta discutendo: soldi ai genitori, e stop agli allontanamenti dei bambini da casa. È proprio vero che il problema è la povertà?
Elena Buccoliero

Filastrocca degli Allontanamenti Zero

Allontanamenti zero
come dire io non c’ero.
Forse c’ero ma dormivo
se ero sveglio non capivo.

Non udivo, soprattutto,
il bambino che è nel lutto.
Dove è andata la mia mamma?
È per lui, la condanna.

Non sapevo del neonato
ch’era stato abbandonato.
L’altro, in crisi d’astinenza
dalla droga, ora che è senza.

Dici, i lividi sul corpo?
Io non me ne sono accorto.
Ma si sa, uno scapaccione
spiega meglio la lezione.

Questa bimba smaliziata
che sia stata molestata?
Noooo… Ha tre anni ma è lo stesso,
son precoci con il sesso.

Hai nel cane un buon amico
ma un bambino è assai più fico.
La pipì può farla in casa
ogni volta che gli aggrada.

Certo a volte non dà pace
ride, piange, non si tace.
Ma tu fallo stare zitto.
Dopotutto è un tuo diritto.

Fa molto discutere un progetto di legge regionale in discussione in Piemonte conosciuto come “Allontanamenti Zero”. Lo scopo dichiarato è appunto azzerare gli allontanamenti dei bambini dai genitori sostenendo economicamente le famiglie, e risponde al presupposto che le carenze educative dipendano dalla povertà. Coloro che si occupano di tutela minori provano a spiegare che il presupposto è sbagliato. I mali delle famiglie sono droga, violenza, trascuratezza, abbandono, malattia psichiatrica, abuso sessuale…

CONTRO VERSO, la rubrica delle filastrocche scomodanti, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia ogni venerdì.
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LA SCUOLA, COME RIPARTIRE?
Una proposta alla mia città e al Sindaco

Il livello più basso che una comunità può giungere a toccare è quando la formazione delle giovani generazioni non è più una priorità. Succede se la sindrome del tramonto del futuro colpisce i suoi membri e quindi non è più necessario garantire alcuna continuità. Non si tratta di un orizzonte da fantascienza, ma di quello che sta accadendo ora, vicino a noi, forse neppure avendone consapevolezza.
Dai figli cresciuti davanti al televisore siamo giunti ai bambini e ai ragazzi istruiti vis a vis con il monitor di un pc, del tablet e dello smartphone. Qualcuno potrebbe averci provato pure gusto e considerare che la cosa non è poi così male. Non c’è da meravigliarsi, ciò che desta scandalo e preoccupazione è che tutto sia stato accettato come una ineluttabile necessità.

Ora però che l’emergenza è passata e che la fase due permette di prendere le distanze dalla paura, sarebbe buona cosa soffermarsi a riflettere e la prima preoccupazione dovrebbe essere per loro: le bambine e i bambini, i ragazzi e le ragazze della nostra comunità. Uso il termine non a caso, perché è giunto il tempo di fare comunità, di assumerci tutti insieme la responsabilità nei confronti dei nostri concittadini più giovani, di restituirgli il tempo perduto, di recuperare le esperienze e gli apprendimenti mancati.
Senza citare esempi troppo lontani nel tempo, si tratta di esercitare i compiti della politica, nel senso più nobile del termine. Di organizzarsi come comunità in vista di uno scopo: prendersi cura insieme dei nostri ragazzi. Cosa ce ne facciamo della politica e di chi la rappresenta se non è in grado di coltivare idee nuove in condizioni eccezionali? Ora è il momento di verificare chi abbiamo votato, se in consiglio comunale siedono persone dotate di intelligenza capaci di interpretare i bisogni della collettività.

Non vorrei essere presuntuoso, non è affatto detto che il mio pensiero debba essere condiviso da tutti. Ma mi sembrerebbe un atto di responsabilità da parte degli adulti della mia città non arrendersi alla prospettiva che il prossimo anno scolastico dei nostri giovani si riduca ad uno zabaglione di insegnamento in presenza e di insegnamento a distanza, a una scuola che abdica alle sue funzioni oggi fondanti di socializzazione, inclusione, confronto e partecipazione per ridursi ad un unico compito, il più tradizionale ed antico, quello trasmissivo, quello della lezione frontale, che resta tale anche se lanciata da una piattaforma web, o se utilizza i materiali messi a disposizione dalla rete e da Rai scuola. I nostri ragazzi, bambini e adolescenti, hanno bisogno di ben altro, non possiamo trascurare a lungo le necessità della loro crescita, dell’incontro con l’altro, del costruire la propria identità, del riconoscersi nel gruppo dei pari, del coltivare pensieri, ansie e fantasie. Di vivere le occasioni per superare le proprie paure, le proprie frustrazioni e insicurezze, il proprio senso di inferiorità, di conquistare la propria autonomia. Le soluzioni non sono nelle parole dell’adulto, come non sono nello schermo di un device, ognuno se le costruisce, ciascuno se le conquista a modo suo se intorno c’è una vita che si agita, capace di proporre esperienze e incontri, relazioni, scambi, conflitti e mediazioni.

E allora lo sforzo in questo momento non è il ritorno nuovamente a casa, ma l’uscire fuori, sostituendo alle mura domestiche il territorio con una alleanza tra famiglie, amministrazione scolastica e amministrazione comunale per utilizzare tutte le risorse di spazi e di persone che si possono reperire e attivare. Dovremmo fare l’abitudine a incontrare per le strade gruppi di alunni che si muovono da un luogo all’altro per far scuola, nelle biblioteche, nei musei, nelle sale cinematografiche, nei teatri, parrocchie, oratori, centri sociali, mense, palestre e piscine, negli spazi all’aperto come negli spazi chiusi, in tutti quei luoghi che possono divenire aule e laboratori o essere reinventati per accogliere ragazzi di tutte le età, che studiano in modo nuovo fuori dall’aula tradizionale, come lontani dallo schermo del computer. Anziché insegnamento a distanza, dovremmo coltivare l’insegnamento in lontananza, lontani dai luoghi tradizionali del far scuola, lontani dai ripieghi dell’emergenza, per sperimentare un modo nuovo di apprendere, che sa usare la molteplicità delle risorse umane e materiali, la versatilità del territorio come una grande aula. Le occasioni dell’incontro, del confronto, della scoperta e delle relazioni si ampliano, si moltiplicano, i bambini e le bambine, i ragazzi le ragazze, anziché essere relegati negli edifici scolastici, invadono di scuola il territorio e la vita degli adulti. La loro crescita non è più un fatto privato dei singoli ma un impegno e una responsabilità dell’intera comunità.

Si può fare? Certamente. La riforma del titolo V della Costituzione ha introdotto il principio di sussidiarietà che consente di intervenire e non essere costretti ad accettare il piatto freddo offerto dalla ministra dell’istruzione. Se non vogliamo che da settembre prossimo i nostri ragazzi riprendano la scuola con la prospettiva di un anno scolastico ripartito tra l’aula scolastica e le pareti domestiche, bisogna muoversi da subito. La soluzione ci sarebbe, basterebbe che in tempi rapidi il sindaco convocasse un tavolo tra amministrazione comunale, dirigenti scolastici e presidenti dei Consigli di Istituto, in grado di dar vita a un gruppo di lavoro per utilizzare oltre agli edifici scolastici tutto ciò che è sfruttabile del territorio: spazi, risorse, associazionismo, volontariato, adulti disponibili e progettasse un anno scolastico diverso, non solo per l’emergenza, ma anche per il futuro.

PAROLE A CAPO
Antonio Spagnuolo: “Il gioco delle mele” e altre poesie

Rubrica a cura di Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini
Da poche settimane è uscito Polveri nell’ombra, Edizioni Oedipus. Con questo volume di poesie, Antonio Spagnuolo partecipa al Premio Napoli 2020. Siamo felici per la sua collaborazione a Ferraraitalia e alla nostra rubrica.
(I Curatori)
Il gioco delle mele
Quello che adesso stringi fra le coltri
è soltanto il ricordo di follie
che rincorresti al tempo delle mele:
fantasmi
che ti ripetono gesti allucinanti.
Null’altro che illusioni aggrappate ad un sogno
rimasto indiscreto .
Lo spazio che le dita riuscivano a comporre
sgualciva l’orlo dei quaderni segreti.
Nel lampo che lo sguardo franava al passo
e ricamava le fantasie dell’orizzonte
tu eri la carne da mordere,
colorata per vaneggiamenti tutto svaniva inesorabilmente
tra le carte ed il video, in abbandono,
trattenendo le mani sul bordo delle vene
che scorrevano tra i minuti dell’ignoto.
Ecco i miei sogni radunati alla sera
pronti a sconvolgere il vuoto dei muscoli.
Pronti a rigare i margini del cielo
con le vocali di fuoco che disgregano il senso.
A volte torna, a volte riprende le parole
ed una luce forsennata
come il pensiero di colpa o di fuga
rinverdisce la pelle, nel passo liquefatto.
Non ha più senso la bocca inaridita
dove parlava il petalo a confondere
lo sciogliersi dell’onda.
All’improvviso ti svegli e chiedi una carezza
crogiolo di future inesattezze
punto e daccapo nel rombo di un naufragio.
Accade
E’ sempre la prima volta quando rincorro il tuo labbro
tra le nebbie del sogno , come per colpire, e punire
un incontro clandestino nelle spire del vento.
Incastonato buio recito il monologo
sfidando gli specchi e a goccia a goccia
confondo il sudore incandescente nelle parole incise alle pareti.
Il dubbio è nella storia ormai disfatta,
frammentata da scaglie ed irrequieta nel rivolo
di un arcobaleno indiscreto,
quasi lo spazio aperto a declinare nuove illusioni
nella tenue ragnatela che ti avvolge.
L’intarsio custode di esplosioni ritorna vertigine.
Ancora tu
Ancora tu riduci all’impotenza
vertiginosamente dilagando
tra le fauci affamate dell’inferno.
Dove c’è dato aprire una parola?
Dove portare il corpo che si estranea
nel lucore di morte, se non conosce sussulti?
Potesse adagiarsi l’illusione candida
fra gli alberi e gli uccelli, fra le strade deserte,
il respiro del vento sospingerebbe
il cervello che dorme nel torpore
a nuovi insulti, a leghe inaspettate
in cerca di vecchie musiche tra i versi.
Ora possiedi le metropoli stranite
a rinnovar l’infamia dell’insulto,
le lacrime che ripetono paure,
lo stupore di segrete solitudini,
trascinando galassie nei viali.
Impenetrabile alle stelle stringi
sanguinanti dita a radunare suoni
tra le incredibili lesioni della mente.
E’ l’alchimia della clessidra
che riduce frantumi del mio inconscio.
Antonio Spagnuolo è nato a Napoli il 21 luglio 1931. Ha fondato e diretto negli anni ’80 la rivista Prospettive culturali e, dal 1991 al 2006, la collana L’assedio della poesia. Presente in numerose mostre di poesia visiva nazionali e internazionali, inserito in molte antologie, collabora a periodici e riviste di varia cultura. Nel dicembre 2019, Lettera in versi, newsletter di poesie di BombaCarta, gli ha dedicato un numero monografico sulle sue ultime produzioni. Attualmente dirige la collana Le parole della Sybilla per Kairòs editore e la rassegna poetrydream
La rubrica di poesia Parole a capo esce tutti i giovedi su Ferraraitalia.
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I DIALOGHI DELLA VAGINA
Forza madre

Fare il saldo di un rapporto e svelare con la lucidità di un attimo tutto il sommerso. Un lettore e una giovane lettrice parlano di “forza madre”, razionalità e disincanto.

MASCHERE E RIGHELLI

Cara Riccarda,
le maschere sono l’ordinario e cadono solo per eventi traumatici che, se considerati opportunità, permettono di cambiare atteggiamento. La riga ho potuto tracciarla solo quando è intervenuto un breve momento di disillusione. Mentre siamo accecati piacevolmente dall’amore, non siamo in grado di tirare righe. Spesso sono i comportamenti dell’altro che ci danno occasione di riflettere più lucidamente e fare di conto, con la razionalità che i conti richiedono.
Paolo

Caro Paolo,
poi magari capita anche che il saldo sia positivo. Ma il solo fatto di mettersi lì e allineare tutto, richiede la lucidità di accostare l’illusione alla disillusione, la parte gradita a quella meno. A me è successo di scavare solchi, un tratto di riga non sarebbe bastato.
Riccarda

DICIASSETTE ANNI E NON SENTIRLI

Ciao Riccarda,
quanto ho letto rispecchia il mio punto di vista sul termine donna. Mi interesso particolarmente di svariate tematiche perché nel mio piccolo sono attivista di tante campagne di sensibilizzazione anche solo attraverso i social. Scopro molto diffuso il fattore “inizialmente la donna perdona e successivamente dice addio per sempre”. Noi donne, anche forse spesso abituate dalla società maschilista in cui viviamo, ne facciamo passare tante alle persone. Personalmente io desidero avere molto rispetto ed è difficile che perdoni un grosso errore, però riscopro in molte mie coetanee il perdono anche di gravi maltrattamenti psicologici e in alcuni casi fisici da parte dei fidanzati. Inizialmente pensano tutte “non posso vivere senza di lui” senza rendersi conto della loro forza madre, fiera di indipendenza che potrebbe smuovere interi paesi. Tutto questo è perché si sottovalutano e vengono sottovalutate, non si pensano abbastanza per combattere la mancanza e ricominciare da zero anche lavorando sulla propria personalità. In un secondo momento, in una fase che arriva tardi, si rendono conto e capiscono che alla fine potevano farcela benissimo, e che dovevano solo trovare il coraggio di abbandonare la loro sottomessa monotonia per iniziare una nuova avventura su un percorso personale.
Giulia, 17 anni

Cara Giulia,
hai diciassette anni e già padrona di consapevolezze che spesso donne mature nemmeno raggiungono. Complimenti, usala quella ‘forza madre’ di cui parli e sicuramente possiedi, ti sarà genitrice di molto, non essere tirchia con lei e ti ripagherà con abbondanza.
Riccarda

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

Il PICCOLO IMPERATORE PENTITO
(e della differenza tra bancari e banchieri)

di Alice Ferraresi

Durante il lock-down i bancari non hanno mai smesso di lavorare, come i sanitari. Solo che i sanitari sono eroi (iperbole pelosa, peraltro), mentre i bancari notoriamente sono ladri e, da un mese, anche affamatori del popolo.

Gli strali più velenosi contro i bancari li lancia, dal suo blog ospitato da un quotidiano (Il Fatto Quotidiano, ndr.) che talvolta frana verso la demagogia, tale Vincenzo Imperatore,  “consulente di direzione (quale direzione, non è dato sapere, nda,), giornalista e saggista”. L’unica certezza sui suoi titoli ed abilitazioni in realtà riguarda il suo passato in banca: è stato per molti anni manager di un grande gruppo bancario.  Imperatore, a proposito delle lungaggini e dei problemi relativi al ‘decreto liquidità’, scrive che i bancari “godono dei loro deliri di onnipotenza”, si dilettano in “risposte evasive e rimpalli di responsabilità”, godono della loro “arroganza relazionale” ed hanno in corpo un “virus culturale”  per cui riescono a “sentire appagati i propri sensi di fronte ad un cliente insoddisfatto”. Le citazioni sono testuali. Non c’è una sola parola sui banchieri. [leggere qui il blog del Fatto]

Usando le debite proporzioni, sarebbe come accusare gli operai dell’Eternit dei tumori che colpiscono la popolazione di Casale Monferrato. Per fortuna c’è stato un giudice che nel caso specifico, invece, ha ritenuto di condannare l’imprenditore.

Va comunque detto che Imperatore è coerente: lui ce l ‘ha sempre avuta a morte con i bancari. Ce l’aveva con loro – parole tratte dalle sue interviste, reperibili sul web – quando li convocava alle sette del mattino in ufficio e diceva loro di fare profitto, “fregandosene della clientela”. La spietata disinvoltura che pretendeva dai suoi sottoposti è quella che gli ha permesso – sempre parole sue – “i benefit, gli incentivi, i viaggi gratis, le giornate nelle migliori Spa, i collier Damiani per le mogli”. Adesso fa il pentito e scrive libercoli che, tra l’altro, hanno la grave colpa di scimmiottare frasi di Pasolini (“Io so e ho le prove” si intitola uno dei suoi pamphlet).

Con dei Vincenzo Imperatore, i bancari ci devono fare i conti tutti i giorni. Sono gli Imperatore delle varie banche che rendono ansiogeno, oppressivo, angosciante il lavoro dei bancari che vogliono lavorare perbene, avendo il cliente come fine e non come mezzo per fare avere collier alle mogli del capo. Quelli come lui non sono la soluzione, sono parte del problema.  E’ beffardo che i lavoratori bancari si debbano far dare lezioni di moralità da uno che prima vessava collaboratori e clienti per il suo lucro, e adesso fa il manager pentito per il suo lucro, manco fosse Edward Snowden o Julian Assange. Non risulta abbia restituito ai suoi clienti i collier, i premi da 30.000 euro, le giornate nelle Spa. Contribuire alla degenerazione di un sistema e raccontarlo a pagamento non gli consente di rifarsi una verginità a spese dei lavoratori.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

Perché le Biblioteche del Comune di Ferrara non hanno ancora riaperto

Nonostante il Covit, maturano le prime ciliegie. A Ferrara, nella Ferrara sgovernata dalla Lega, dal Sindaco Fabbri e dal suo Luogotenente in Capo Naomo Lodi, le vergogne sono come le ciliegie: una tira l’altra. Tralascio l’elenco (i ferraresi hanno buona memoria) e vengo direttamente all’ultima vergogna. “Ferrara rimane l’unica città capoluogo della Regione Emilia-Romagna con le biblioteche ancora chiuse”, lo denunciano i sindacati (vedi più sotto) dopo un infruttuoso incontro con i rappresentanti della Giunta di Ferrara. Dunque, la cinquantina di operatori sono pronti a riprendere servizio, pronti cioè a dare un servizio ai lettori e agli utenti, ma il Comune non ha predisposto le minime misure necessarie per evitare pericoli di contagio e non si è  fatta carico di fornire i normalissimi e altrettanto necessari dispositivi (leggi guanti e mascherine monouso). 
Non ci voleva  tanto. E c’era tutto il tempo per farlo. Così hanno fatto a Bologna, Ravenna e Reggio Emilia. E così hanno fatto altri comuni della provincia di Ferrara che la loro biblioteca pubblica l’hanno riaperta: il 18 maggio (cioè ieri: ‘giornata nazionale delle riaperture’), o addirittura la settimana scorsa, come a Portomaggiore o in altri paesi. Dunque, quando riapriranno le biblioteche di Ferrara, ex città d’arte e di cultura? Per ora non è dato sapere. Quel che è invece è da aspettarsi è una prossima ciliegia, una nuova vergogna. I ferraresi sono avvertiti.
(Francesco Monini)

 

Da: FP CGIL, FP CISL,FP UIL FERRARA

A proposito del fatto che le biblioteche del Comune di Ferrara non sono ancora riaperte, ci interessa precisare quanto segue: – avevamo già posto la questione della riapertura delle biblioteche comunali durante un incontro sindacale tenuto in data 6 maggio e ci è stato risposto da parte del Direttore generale dell’Amministrazione Comunale che le biblioteche stavano chiuse fino al 18 maggio, perché ciò era quanto previsto dal DPCM del 26 aprile, al di là dell’ordinanza regionale che lo consentiva anche prima, a partire dal 4 maggio; – la posizione da noi espressa in quell’incontro è stata quella di aprire in tempi rapidi tutte le biblioteche comunali, ovviamente in condizioni di tutela della salute e della sicurezza sia di chi lavora sia degli utenti; – siamo tornati sulla questione della riapertura delle biblioteche in un successivo incontro il 15 maggio, durante il quale è emerso che non era fissata una data per la riapertura e che soprattutto non erano ancora disponibili i meccanismi di protezione individuale per le lavoratrici e gli utenti. Successivamente è stato fissato un nuovo incontro tra Amministrazione Comunale e OO.SS.- RSU del Comune per la tarda mattinata di giovedì 21 maggio per esaminare tutte le problematiche inerenti la riapertura delle biblioteche.
Da parte nostra, come abbiamo fatto presente nel corso degli incontri suddetti, ribadiamo il nostro giudizio negativo sulle responsabilità dell’Amministrazione comunale, che non ha affrontato in modi e tempi utili il tema della riapertura delle biblioteche, tant’è che oggi Ferrara rimane l’unico capoluogo di provincia della Regione Emilia-Romagna che vede le proprie biblioteche chiuse.
Ci attendiamo che, nel corso del prossimo incontro del 21 maggio, tutte le questioni vengano risolte positivamente per dare corso rapidamente alla riapertura delle biblioteche, a partire dalla dotazione dei meccanismi di protezione della salute e sicurezza, ma anche degli altri punti non ancora chiariti, in particolare relativi al fatto che riapriano tutte le biblioteche presenti nel territorio comunale e che arrivino risposte sulle carenze occupazionali che il servizio continua a registrare. In mancanza di ciò, dovremmo concludere che perdura una forte e inaccettabile sottovalutazione da parte dell’Amministrazione comunale dell’importanza delle biblioteche comunali e continuare, nelle forme adeguate, la nostra iniziativa perché, invece, ci sia un giusto riconoscimento e valorizzazione del ruolo che esse svolgono nella città.

PER CERTI VERSI
A una donna

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

A UNA DONNA

Se tu fossi una città
saresti Medicina
Perché hai sofferto e soffri
Le tante crepe del tempo andato
e di oggi che getta
le sue nere nuvole
sul tempo a venire
Saresti Medicina
Perché ci sono tornato come si torna sempre
a ciò che si ama
E mi è parso
di cambiare vita
Dopo mesi secoli
di solitudine
Mi è parso di vedere
il verde più verde
Il rosso dei portici
più rosso
Il giallo come una trafila
di luna
Un brulichio d’oro
Come nei tuoi occhi
I petali del cielo
Che volavano sospesi
Erano mesi
Si anni
Che non cambiavo vita
Sotto le tue ali
E la luna grande
Grande Diva
Rossa di emozione
Il mio viso a rivederti
Più che mai viva
Che guarita

PRESTO DI MATTINA
Pentecoste e il ‘rigioco della speranza’

Si entra nel Regno di Dio giocando! Penso che si possa intendere anche così l’ammonimento di Gesù quando ci dice che “Se non diventeremo come bambini, non entreremo nel Regno dei Cieli”. In che cosa infatti sono da imitare i bambini? Perché sono più grandi e degni del Regno di Dio? Perché sono inclini alla ricezione, sono disponibili a lasciarsi coinvolgere, a mettersi in gioco, a immedesimarsi, interpretare, trattenere in sé stessi, come una ragnatela, un radar per intercettare il reale che s’imprime in loro dal di fuori. Essi fanno così discernimento, apprendono, rielaborano, come un caleidoscopio, e ricreano la realtà ‘ri-esprimendola’ con il movimento del loro cuore di sistole e diastole, interiorizzazione ed estroversione; vengono impressi e si esprimono a loro volta. In una parola, ‘irradiano perché si sono lasciati irradiare’.
Allo stesso modo, i credenti che si mettono in gioco e si lasciano prendere dal Vangelo della gioia, ‘mollano gli ormeggi’ delle loro resistenze e prendono il largo. L’annuncio del Regno non rimbalza loro addosso come fossero roccia refrattaria, ma essi si fanno porosi e permeabili al Vangelo, come rocce ospitali ad acque sorgive, che li impregna e risgorga in loro rendendoli conca e canale dell’acqua viva dello Spirito, portatori di significati nuovi per gli altri. Occorre allora ri-diventare discepoli tramite la ‘scienza’ dei bambini: ovvero attraverso quel esercizio vitale dello spirito che è il gioco. Non per finta, intendo. Ma con la serietà del bambino che s’immerge nella propria attività, che vi ‘mette tutto se stesso’, senza risparmiarsi, con tutto il proprio corpo, intrecciando nella gestualità pensieri e azioni, facendo riemergere e rigiocando tutto quanto si è impresso in lui della realtà, che egli ha colto e accolto dall’esterno.

È lo stesso processo di assimilazione creativa che genera i loro sogni. Ne nascono fantasie, immagini, invenzioni che i bambini poi rigiocano al di fuori, sparpagliandoli, a testimonianza dello spirito che li abita. Quell’atteggiamento cui penso alludesse Gesù quando disse che “ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52). Così, in fondo, è stato anche del ‘sogno di Dio‘, rigiocato prima da Gesù con il suo annuncio e la sua vita e poi nuovamente rimesso in gioco dal suo Spirito consolatore a Pentecoste. Tanto da far dire a Paolo, l’apostolo delle genti, impressionato dalla luce del Risorto sulla via di Damasco e poi divenuto “strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli” (Atti 9, 15): “Sia benedetto Dio, il quale ci consola in ogni tribolazione” (2 Cor 1, 3.4).
Tutto ciò mi richiama alla mente il sogno di Dio narrato dal profeta Zaccaria, il quale, nelle sue visioni, si prefigura il ricostituirsi del popolo di Dio disperso nell’esilio babilonese. In queste profezie è come se Dio sedesse, sconsolato, sui gradini del tempio di fronte a una città deserta, svuotata dei suoi abitanti e sprofondata nel silenzio: e lì Egli sogna la sua città com’era prima, brulicante di gente, di anziani e bambini schiamazzanti nelle piazze. Finché, ridestandosi da quest’immagine oramai perduta, promette a se stesso che “non può finire così; non può restare solo un bel ricordo; io sono un Dio fedele, lento all’ira e grande nell’amore; nulla mi può impedire per questo amore di ristabilire le sorti, di benedire ancora il mio popolo con quella benedizione capace di consolare e rinnovare l’alleanza”.
Così dice il Signore delle costellazioni: vecchi e vecchie siederanno ancora nelle piazze di Gerusalemme, ognuno con il bastone in mano per la loro longevità. Le piazze della città formicoleranno di fanciulli e di fanciulle, che giocheranno sulle sue piazze. Così dice il Signore delle costellazioni: Se questo sembra impossibile agli occhi del resto di questo popolo in quei giorni, sarà forse impossibile anche ai miei occhi?” (Zac 8, 4-6).

Le letture bibliche di questa VI domenica dopo Pasqua, con l’intreccio di verbi che le caratterizza, sono un invito alla ricezione e al rigioco: esse richiamano quella capacità di agire, di fare passi incontro, anche quando il movimento sembra partire da altri. Non si tratta infatti di replicare, ma di ricreare in modo nuovo: perché ‘ricevere‘ e ‘rilanciare‘ vanno all’unisono, tanto nel gioco quanto nella vita. L’intensità contenuta nell’azione ricevuta trova maggior slancio e ardore in chi, facendosi parte attiva della relazione, rilancia quanto ha ricevuto. Prima lettura: a coloro che “erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù, i discepoli imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo” (At 8,17); seconda lettura: “Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza” (1Pt 3,15-16); vangelo: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre” (Gv 14, 15). Osservare (ob-servare) significa tenere gli occhi addosso, spalla a spalla, l’uno per l’altro; prendersi cura dell’altro, custodendo il comando dell’amore nelle relazioni e nelle proprie scelte. Aiutati in ciò dal Consolatore, Colui che resta e, continuando la presenza e l’opera di Gesù, insegna a fare memoria in noi della benedizione e della consolazione.

Maestri di questo stile di vita, allenatori di questo gioco in cui siamo chiamati a rilanciare l’amore ricevuto, sono Paolo e Barnaba (i.e. figlio della consolazione): “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio” (2Cor 1,4). Un intreccio di relazioni quanto mai in sintonia con questo tempo dopo la Pasqua: un tempo unico di celebrazione e di vita incentrato sui suoi tre fuochi: il Figlio, il Padre, lo Spirito. Un’unica universale benedizione si sprigiona dalla risurrezione del Cristo dai morti, ascende con Gesù al Padre, per poi discendere con l’invio dello Spirito sui discepoli. Un tutt’uno, dunque, ben presente ai Padri della chiesa, per i quali le celebrazioni dopo la Pasqua non si distinguevano da essa, tanto da considerare i cinquanta giorni che disgiungono la Risurrezione dalla Pentecoste un unico grande giorno pasquale. Di qui il segno liturgico che, anche oggi, ci ricorda questa inscindibile connessione unificante: il Cero Pasquale sempre acceso, nell’unico tempo intervallato da cinquanta notti, che ci separa dall’arrivo dello Spirto.

Così, protesi al compimento della Pasqua che avverrà a Pentecoste, sulle orme del Risorto, proviamo questo esercizio spirituale che è il ‘rigioco della speranza‘. Si è ricevuto speranza: si rilancia sperando per tutti. Benedetti, si risponde benedicendo. Consolati, si reinfonde consolazione. Un po’ come nella storia di Rut (=amica), la straniera che, pur nella sua vedovanza, non rinuncia a farsi carico di Noemi, la suocera, e decide, per il bene ricevuto, di restarle accanto, ritornando con lei a Betlemme, la casa del pane. Noemi (=delizia) cambiato in Mara, (=amareggiata) potrà alla fine dire, non solo di Dio e di Booz, il suo parente che sposerà la nuora, ma anche di Ruth la straniera: “Benedetto colui che non rinuncia alla propria bontà” (Rt 2,20). Del resto, chi è, veramente, colui che è benedetto? Chi non rinuncia a benedire. E chi il consolato? Chi non rinuncia a consolare. Non stupisce allora che il termine ‘bontà’ sia reso in ebraico con hesed, fedeltà, come amore che scaturisce da viscere di compassione materne. Quell’amore Consolatore che a Pentecoste scenderà con l’impetuosità del vento e si dividerà in tante lingue come di fuoco; e posandosi sui discepoli infonderà loro vita, così da generare una ‘moltitudine di consolatori’, composta da tutti coloro che, come Lui, non rinunceranno a ‘stare vicino’ (parakaléin) e a ‘lasciarsi coinvolgere quando chiamati’ (ad-vocati). Tra essi, v’è sicuramente don Alessandro, che prima di ricoverarsi in ospedale scriveva ai suoi parrocchiani di Malborghetto invitandoli a non rinunciare “all’occasione di ritrovare uno sguardo di amore vero, sincero, buono verso il nostro prossimo… ‒ e continuava ‒ il nostro prossimo”.

Pensavo in questi giorni a una riflessione di Don Milani che sento molto mia. Più o meno era così: “Caro Signore, a voler essere sincero, mi rendo conto di averti amato e voluto un bene immenso, ma è molto di più quello che ho avuto per la mia gente e i miei ragazzi. E mi consola la certezza che Tu non dai peso a questi dettagli, che valuti come sciocchezze, perché il tuo sguardo sa dilatarsi e tutto comprendere, tutto discernere, in niente e in nulla si lascia sporcare dai sentimenti feriti, ma sa gioire dove, anche senza saperlo, l’amore lo accoglie, lo comprende, lo serve, lo cura“. E non dimentico, tra la moltitudine di consolatori, neppure il mio parroco don Piero e la sua consolante benedizione. Ricordo che, una mattina in ospedale, avevamo parlato insieme, a tratti. Don Piero faceva fatica a esprimersi, ma io avevo continuato a incalzarlo con alcune domande sul modo in cui comprendere una riforma nella chiesa. E lui, che era di poche parole, mi rispose che il cristianesimo doveva umanizzarsi, volgersi verso l’uomo, perché è attraverso gli uomini che Dio si mostra e vuole essere incontrato da noi. È la strada di un ‘umanesimo essenziale’; poi aggiunse: “La chiesa deve centralizzarsi», centrarsi” ‒ si corresse – e io gli chiesi: “In che senso?”. Rispose: “il centro è Cristo“. Quella volta, la penultima che lo vidi tra noi, gli chiesi di benedirmi. Lo fece con mano tremante e poi, in silenzio, toccò stranamente le cose attorno a lui: il suo braccio, il mio, la coperta, indicò gli oggetti sul comodino, poi sollevò lo sguardo verso di me e, dopo un momento di incomprensione, capii il linguaggio dei suoi occhi, che sembrava mi dicessero: “Ma come, don Andrea, dopo tanto tempo che ci conosciamo non hai ancora capito che già tutto è benedetto? In ogni cosa è racchiusa la benedizione di Dio, perché ogni cosa è suo dono, perché Lui è in tutte le cose”.

La rubrica di don Andrea Zerbini Presto di mattina torna tutti i sabati su Ferraraitalia.
Per leggere i precedenti interventi clicca [Qui]

Al cantón fraréś
Vito Cavallini: l’è difìzil scrìvar poeśìi in fraréś.

Vito Cavallini ha scritto una storia del nostro territorio, in endecasillabi e ottave, ricca di episodi e personaggi storici. Ne tratteremo prossimamente in questa rubrica. Nella pagina odierna l’autore considera, in tono scherzoso, la difficoltà del poetare in dialetto, essendo il ferrarese ricco di espressioni asciutte, brusche, quasi sgarbate, e non armoniose come vorrebbe una certa poesia.
(Il curatore Ciarìn)

Dó paròll ad preàmbul

Cara la mié źént, avì doηca da savér che scrìvar in fraréś l’è un cvèl piutòst difizilòt, spezialmént in poeśia: parché la poeśia l’ha da èsar armonia, e iηvéz al nòstar dialèt, tut piη ad cich e ciòch, al n’è pròpi briśa armonióś.
Elora bisogna zarcàr ill paròll filanti, coη purasà vocàll, in mod ch’ill pósa dar un póch ad musichina ai vèrs dal pòar poeta.
Agh è iηvéz di dialèt che in fat ad musicalità j’è pròpi di azidént, e j’è al veneziàη e al napulitàη.
A vrév spiegàram coη n’eśempi. A tgnusén tuti quant la prima strofa, alméη la prima, dla poeśia “A Marechiare” ad Salvatore Di Giacomo, un sgnór poeta da dialèt più in grand che as pósa truvàr. L’è na poesia ch’l’è servì aηch par far una bèla caηzón, ècla:

“Quanno spónta la luna a Marechiare
pure li pisce nce fanno all’ammore,
se revóteno l’onne de lu mare,
pè la priezza càgneno culore,
quanno spònta la luna a Marechiare… “

Bén, èco adès la traduzión in fraréś; a vòj dir in dialèt fraréś, e aηch ambientàda dai nòstar cò. A santirì che dśàstar:

“Quand a spunta la luna sóra Cmać
anch i zévul is mét a far l’amor,
l’aqua d’val la s’arvòlta int i tramàć,
par l’alegria la cambia iηfiη culór,
quand a spunta la luna sóra Cmać… “

Iv santì che roba? E bòna che aη ho briśa tradót “quand a spunta la luna a Magnavaca”, ch’l’è pròpi al sit fraréś curispundént a Marechiaro. Eco, vdiv, quel ch’jéra comozión iη napulitàη, l’è dvantà roba da rìdar, chì da nù. Al géva mi, l’è difìzil scrìvar poeśìi iη fraréś.
di Vito Cavallini

Due parole di preambolo
Cara la mia gente, dovete dunque sapere che scrivere in ferrarese è una cosa piuttosto difficile, specialmente in poesia: perché la poesia deve essere armonia, e invece il nostro dialetto, tutto pieno di suoni duri, non è per niente armonioso.
Allora bisogna cercare le parole scorrevoli, con molte vocali, in modo che possano dare un po’ di musichina ai versi del povero poeta.
Ci sono invece dialetti che in fatto di musicalità sono proprio dei portenti, e sono il veneziano e il napoletano.
Vorrei spiegarmi con un esempio. Conosciamo tutti quanti la prima strofa, almeno la prima, della poesia “A Marechiare” di Salvatore Di Giacomo, un signor poeta dialettale più grande che si possa trovare. È una poesia che è servita anche per fare una bella canzone, eccola:

“Quanno spónta la luna a Marechiare
pure li pisce nce fanno all’ammore,
se revóteno l’onne de lu mare,
pè la priezza càgneno culore,
quanno spònta la luna a Marechiare… “

Bene, ecco adesso la traduzione in ferrarese; voglio dire in dialetto ferrarese, e anche ambientata dalle nostre parti. Sentirete che disastro:

“Quando spunta la luna sopra Comacchio
anche i cefali si mettono a far l’amore.
l’acqua di valle si rigira nei tramagli,
per l’allegria cambia perfino colore,
quando spunta la luna sopra Comacchio… “

Avete sentito che roba? E buono che non ho tradotto “Quando spunta la luna a Magnavacca” che è proprio il sito ferrarese corrispondente a Marechiaro. Ecco, vedete, quella che era commozione in napoletano, è diventata roba da ridere, qui da noi. Lo dicevo, è difficile scrivere poesie in ferrarese.

Tratto da: Vito Cavallini, Stòria dal mié paéś e tutte le poesie, Ferrara, Cartografica, 2007. Con la collaborazione di Lorenzo Malservigi, Alberto Ridolfi, Leopoldo Santini.

Vittore Cavallini (Portomaggiore 1905 – Ferrara 1983)
Avvocato, giudice capo Conciliatore. Primo Sindaco di Portomaggiore, dopo la Liberazione. Direttore del periodico L’idea Socialista. Presidente della CARIFE dal 1960 al 1962. Socio fondatore de “Al Tréb dal Tridèl” Cenacolo di cultura dialettale ferrarese. Autore, fra l’altro, di A trebbo col duca d’Este (1978) repertorio di parole insolite o difficili del nostro dialetto.

 

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce regolarmente ogni venerdì.
Per leggere tutte le puntate clicca [Qui]

Cover: foto di Beniamino Marino: Comacchio, Santuario di Santa Maria in Aula Regia, meglio conosciuto come Chiesa dei Cappuccini.

CONTRO VERSO / Shoah Party

Nel 2019, in 17 province, 25 ragazzi in buona parte minorenni hanno inventato e divulgato una chat inneggiante all’odio e al sesso. L’hanno intitolata “Shoah Party”.

Filastrocca dello Shoah Party

Faremo una gran festa
Filastrocca dello Shoah Party
con quello che ci resta.
Si chiamerà Shoah.
Vedrai che piacerà.

Ti muove nel profondo
è la più antica del mondo.
L’odio scava, e stupisce
per come ci riunisce.

Ci sarà una gran torta
stravista e stracotta.
Avrà per ingredienti
pianto e stridor di denti.

Perché si sa, i diversi
sono tutti perversi
a starli ad ascoltare
rischi di non odiare.

Pensa agli handicappati
ai negri, ai neonati.
Pensa a tutte le schiave:
che tacciano, da brave!

Pensa certo agli ebrei.
Stimarli? Non potrei.
Come coi musulmani
mi prudono le mani.

Ti sto seduto accanto.
Che c’è? Ti vedo stanco.
Hai forse il rifiuto
di quello che hai goduto?
Pensa dunque a te stesso.
Vuoi essere diverso?
Ti consiglio di no
perché ti annienterò.

La notizia è emersa nell’ottobre 2019 quando i promotori dello “Shoah Party” sono stati messi sotto indagine dalla Procura di Siena. Nella chat si scambiavano immagini, battute, video che potremmo definire pornografici per i contenuti sessuali molto espliciti, anche pedofili, e che potremmo considerare ugualmente pornografici per i contenuti brutalmente violenti e discriminatori verso ebrei, musulmani, disabili, immigrati…

CONTRO VERSO, la rubrica delle cantilene indisponenti, le filastrocche con rime bambine rivolte al pubblico adulto, tornano su Ferraraitalia tutti i venerdi. Per vederle tutte clicca [Qui]

PER RICORDARE GIORGIO BASSANI

Nel ventennale della scomparsa di Giorgio Bassani serve ancora oggi capire come ogni suo libro che comporrà quel testo definitivo chiamato Il romanzo di Ferrara vada letto, adoperandosi a riconoscere oggetti, pitture, luoghi che l’autore incontrò nella sua esistenza e che saranno trasformati in quell’universo autoriale, di cui lo scrittore è l’unico creatore e l’unico responsabile. Bassani fu sempre molto attento a tenere distinti i piani della creazione artistica e ritrovare i segni del ‘reale’ nella scrittura e oltre, che permettano di concludere e interpretare questa creazione. Così come Micòl non può essere la copia di qualche giovane donna incontrata nella sua avventura esistenziale, ma tutte queste servono a creare la vera Micòl, quella che solum è sua e di cui può dirsi il creatore. Così l’esistenza offre la capacità necessaria  a ‘scegliere’ e a integrare il modello vivo nella mente dell’autore.

Un oggetto che nella sua necessaria consistenza diventa integrante al suo lavoro di scrittore è la sua macchina da scrivere, che lo seguì in tutta la sua vita e che generosamente fu donata ad Anna Ravenna dalla segretaria di Bassani alla sua morte ed ora è visibile al Centro studi bassaniani di Ferrara. Nel romanzo Il giardino dei Finzi-Contini il protagonista si è trasferito nello studio del professor Ermanno Finzi Contini, generosamente messogli a disposizione dopo che è stato cacciato per le leggi razziali dalla Biblioteca Ariostea:
“Cosa combini? Stai già ricopiando? – gridò allegro. Mi raggiunse e volle vedere la macchina. Si trattava di una portatile italiana, una Littoria, che mio padre mi aveva regalato qualche anno prima, quando avevo superato l’esame di maturità. Il nome della marca non provocò il suo sorriso come avevo temuto. Anzi. Constatando che ‘anche’ in Italia si producessero ormai delle macchine da scrivere che, come la mia avevano l’aria di funzionare alla perfezione, parve compiacersene.” ( GIORGIO BASSANI, Il giardino dei Finzi-Contini in Opere a cura e con un saggio di Roberto Cotroneo, Mondadori, I Meridiani, Milano 1998, pp.494-495.)

foto di Lorenzo Caruso

Storie di Jor.
Nel Giardino si legge:
“Di là dal muro si levò a questo punto un latrato greve e corto, un po’ rauco. Micòl girò il capo, gettando dietro la spalla sinistra un’occhiata piena di noia e insieme d’affetto. Fece una boccaccia al cane, quindi tornò a guardare dalla mia parte.
– Uffa! – sbuffò calma . – E’ Jor.-
-Di che razza è? –
-E’ un danese. Ha un anno soltanto, ma pesa quasi un quintale. Mi tiene sempre dietro. Io spesso cerco di confondere le mie tracce, ma lui, dopo un poco, sta pur sicuro che mi ritrova. E’ ‘terribile’ ” (Il giardino dei Finzi-Contini in op.cit, p.356).
Si presenta così uno dei personaggi principali della storia di Micòl che fedelmente accompagna la padrona e il narratore alla scoperta dell’universo segreto del giardino e della magna domus.
La presentazione, che si conclude con quel ‘terribile’, proprio del finzi-continico di Micòl, si riallaccia nella realtà a una serie di cani posseduti, amati, spartiti tra la tribù dei Bassani e soprattutto allevati, protetti e difesi da Dora, la madre di Paolo, Jenny e Giorgio. Le storie di questi pelosi, raccontatami con le fotografie qui accluse da Dora Liscia che qui ringrazio, si estendono nel tempo e non contemplano solo i cani Bassani, ma si ampliano a una possibile altra discendenza, quella esibita dal ramo Magrini della famiglia di Andrea Pesaro, che esibiscono anche loro uno Jor. L’unica differenza la I iniziale al posto della J.

Ferrara, casa Magrini. Albertina Bassani Magrini, Silvio Magrini, Andrea Pesaro e Renata Pesaro e il cane Ior

Per la famiglia Bassani fondamentale fu il rapporto con Lulù, un fox- terrier fotografato qui in braccio a Paolo; poi nella seconda foto assieme all’elegantissima madre dei fratelli Bassani e ancora lungo un canale. Dori Liscia racconta che alla partenza di Ferrara Lulù, già vecchio, non voleva abbandonare la casa di via Cisterna del Follo, ma un provvidenziale malore lo fece morire prima del trasloco. Un’altra Lulù entrò poi nella vita dei Bassani, questa voluta da Jenny, che la trovò incatenata presso un contadino nella campagna toscana. Il marito, dottor Liscia, pronunciò solennemente che mai un cane sarebbe entrato in casa sua, ma quando la moglie ritornò con Lulù il giorno dopo dormivano nel letto assieme e, come asserisce la figlia, per tutto il tempo che visse il padre stava sulla punta della seggiola per non disturbare la reginetta di casa.
Altri cani vennero a rendere più lieta la vita della famiglia: dal bassotto Mimì, al barboncino Kiki e ai meravigliosi afgani del fratello Paolo. Quando nella vecchiaia della madre lo scrittore veniva a trovarla a Ferrara, sempre la trovava con un cane in grembo, finché s’accorsero che quel cagnolino aveva perso quasi completamente il pelo e la Jenny di nascosto lo sostituì con un altro.
Dei cani direttamente posseduti dallo scrittore poco si sa ma è fondamentale capire come la vita di tanti pelosi reali crearono l’immagine di Jor il compagno fedele della castellana del mitico giardino.

Lulù
Lulù

Champs (afgano biondo) Kushka ( afgano nero)
Champs e Kiki

Altri luoghi vissuti contribuirono a rendere ‘reale’ il giardino che non esiste a Ferrara dei Finzi-Contini, tra cui il gruppo delle palme del deserto.
C’era in fondo alla radura del tennis, per esempio, ad ovest rispetto al campo, un gruppo di sette esili, altissime Washingtoniae graciles, o palme del deserto, separate dal resto della vegetazione retrostante […] Ebbene , ogni qualvolta passavamo dalle loro parti, Micòl aveva per il gruppo solitario delle Washingtoniae sempre nuove parole di tenerezza. – Ecco là i miei sette vecchioni – , poteva dire, – Guarda che barbe venerande hanno! – (op.cit., p. 408.)
Si sa che la mancanza di conoscenza della flora da parte dello scrittore veniva integrata da accurate escursioni all’Orto botanico di Roma, dove appunto esisteva ed esiste il gruppo delle palme. Una tecnica che anche negli estremi anni della sua vita lo portava a visitare luoghi reali, per poterne trarre materia di racconto. Come racconta Portia Prebys nella casa di Roma davanti al letto c’era una preziosa carta topografica di Roma, quella celebre del Nolli, che ora è stata trasportata al Centro studi bassaniani.

Al suo risveglio, lo scrittore la osservava e, puntando il dito sulla zona di Roma che gli interessava vedere, vi si recava o con la sua macchina, o facendosi accompagnare. E l’antica ossessione del ‘vedere’, superbamente espressa in un famoso passo del Giardino dei Finzi-Contini. Il protagonista sta celebrando con i suoi familiari la Pasqua. Attende con ansia di telefonare o ricevere una telefonata da Micòl e il suo sguardo vaga per la stanza da pranzo della sua casa, ritmato dall’incipit ‘Guardavo’: “Io guardavo mio padre e mia madre[..] Guardavo Fanny[…] Guardavo in giro zii e cugini[…] Guardavo la vecchia Cohen […] Guardavo infine me, riflesso dentro l’acqua opaca della specchiera di fronte, anch’io già un po’ canuto, preso anch’io nel medesimo ingranaggio, però riluttante, non ancora rassegnato” (op. cit., pp.478-479).
Anche qui e a maggior ragione, la specchiera e il salotto di casa Bassani sono reali come attesta questa foto.

Guardare dunque costituisce la fondazione dell’operazione scrittoria. Guardare dunque il reale per vederne le possibilità di creazione.
Molto poi si è scritto delle copertine dei suoi testi che, per tutto il tempo che visse lo scrittore, vennero sempre da lui scelte, come integrazione e commento al testo. Un capitolo affascinante dell’esegesi bassaniana condotta in primis da Anna Dolfi e da chi scrive queste note. Si trattava ancora – e se è possibile – di condurre in modo ancor più raffinato e complesso il rapporto tra vedere e scrivere. Significava in fondo creare, più che un paratesto o un commento, un unicum che giustificasse la creazione. Ancor più paradigmatico il caso della prima edizione del Giardino, dove nel testo viene inserita una celebre litografia di Morandi, che riproduceva il campo da tennis dei giardini Margherita di Bologna, dove nella ‘realtà’ si svolgevano le partite tra Bassani giovane campione e i suoi amici, arbitro Roberto Longhi.

A questo punto mi sembra di poter affermare ancora una volta ciò che avevo scritto nel mio saggio apparso su Vivere è scrivere. Una biografia visiva di Giorgio Bassani, Edisai, 2019: “Nella poetica bassaniana la possibilità rappresentata dalle copertine come modo di spiegare il testo o di metterne in luce le valenze segrete, diventa necessario, senza dover ricorrere a un troppo corrivo paragone di ut pictura poësis. Occorre invece cogliere nelle indicazioni di quelle pitture, di quegli autori scelti, le spie o tracce del modo di narrare dello scrittore e soprattutto del modo di ‘vedere’.” (p.195) .
Dunque una scelta d’autore come dichiarazione di poetica.
Vorrei concludere con un caso assai sintomatico:

Questa copertina riproduce una traduzione nordica de Il giardino dei Finzi-Contini. Il termine italiano del titolo viene sostituito col nome della protagonista, ma soprattutto la bionda Micòl viene rappresentata come una bruna mediterranea scollacciata, secondo l’interpretazione corrente delle ragazze italiane e per questo, come per la macchina da scrivere ‘Littoria’, ha un posto d’onore nella vetrinetta che al Centro studi bassaniani custodisce il manoscritto del Giardino e la macchina da scrivere. Potenza del vedere!

Foto di Lorenzo Caruso per il Centro studi bassaniani di Ferrara

REGOLARIZZARE I MIGRANTI
Nell’interesse di noi italiani, dei migranti e delle aziende sane

Mentre aggiungo qualche riga di introduzione all’articolo di Andrea Gandini (chiaro e preciso come sempre, dati alla mano) a notte fonda arriva dal telegiornale l’ultimora che tutti aspettavamo: il Governo avrebbe finalmente trovato l’accordo sulla regolarizzazione degli immigrati irregolari: sul chi, sul come e per quanto tempo.
Il condizionale è d’obbligo, perché sono svariati giorni che i partiti di maggioranza e i rispettivi ministri se le danno di santa ragione. Irresponsabilmente, visto che questo punto di contrasto ha di fatto bloccato il varo di tutto il decretone della fase 2, un mega provvedimento con una dote di decine di miliardi e strapieno di disposizioni, finanziamenti, commi e sottocommi. In pratica – questo gli esponenti politici non lo dicono ma è opinione comune di tutti i commentatori – il Governo ha rischiato di saltare (e complimenti per l’alto senso di responsabilità!) per l’irrigidimento dei 5 Stelle, l’indecisione amletica del Partito Democratico, l’ansia di protagonismo del micro partito di Matteo Renzi.

Domani (oggi per chi legge) sapremo quale punto di mediazione, quale topolino avrà partorito il Governo dell’Avvocato del Popolo Giuseppe Conte. Personalmente non nutro eccessive speranze. Nonostante sia chiarissimo che senza immigrati, compresi gli irregolari (e irregolari per una legge durissima quanto irragionevole) l’economia del Paese non riparte. Non può materialmente ripartire. Nonostante le imprese, specie le aziende agricole del nostro Sud, senza quella forza lavoro siano ferme, bloccate, e frutta e ortaggi marciscano sugli alberi e nei campi. Nonostante sia inumano tenere ‘sospesi’ centinaia di migliaia di uomini e di donne straniere (che Salvini, Meloni & company si ostinano a chiamare clandestini e delinquenti) in estenuante attesa di una risposta dalle commissioni e dai tribunali competenti. Insomma, nonostante il buonsenso (basterebbe il buon senso, non si chiede nemmeno il senso civico), imponga un’ apertura umanitaria e l’abolizione dei Decreti Sicurezza, maggioranza e opposizione si stanno dimostrando molto al di sotto degli cittadini italiani che vorrebbero governare da sopra.
(Francesco Monini)

Per via del Covid-19 le frontiere sono chiuse fino al 15 maggio. Creare ‘corridoi verdi’ dai Paesi dell’Est Europa (da dove in genere provengono) è previsto dall’Europa, ma sono proprio questa volta i migranti a rifiutarsi di venire. C’è una trattativa con la Romania in corso che non ha portato a nulla. Secondo i dati dell’Inps nel 2017 gli stagionali stranieri erano 344mila (36% del totale); in agricoltura il 91% degli occupati sono stagionali, di cui 100mila erano rumeni. Gli irregolari in agricoltura secondo stime Istat sono circa 170mila. L’idea di offrire opportunità di lavoro a italiani con reddito di cittadinanza o disoccupati è giusta. Non è possibile invece far lavorare i cassintegrati per il divieto di cumulo tra retribuzione e Cig, lo sarebbe col sistema dei voucher (proposto dalle aziende) ma i sindacati sono contrari perché ritengono la paga poco dignitosa. Sappiamo però che difficilmente il fabbisogno di lavoro agricolo sarà coperto da italiani in cerca di lavoro (o di quel 25% con reddito di cittadinanza che potenzialmente potrebbe lavorare), perché si tratta di un lavoro duro e malpagato per cui sono quasi sempre le stesse imprese che preferiscono prendere stranieri in salute, forti e in grado di garantire una certa produttività del lavoro. Una cosa che avviene anche in molti altri settori (edilizia, commercio,…) anche per la maggior disponibilità degli stranieri alla flessibilità o a fare straordinari poco o per niente pagati. La Francia ci ha provato col “job market online” ma i livelli di soddisfazione delle e di produttività del lavoro sono stati modesti. In ogni caso è giusto anche in Italia provarci chiedendo anche a studenti e disoccupati. Ma non si può pensare di risolvere il problema con questa sola via.

La regolarizzazione dei migranti irregolari rappresenta quindi una via obbligata per far fronte all’attuale drammatico fabbisogno (e potrebbe anche essere non sufficiente) ed è anche una difesa elementare della dignità umana oltre a consentire di lavorare ad aziende sguarnite in larga parte di manodopera locale.

Garantire a questi lavoratori salari dignitosi ha, peraltro, un effetto positivo sull’intero lavoro perché impedisce un trascinamento verso il basso della struttura dei salari ed evita la concorrenza sleale a quella maggioranza di aziende che non usano il lavoro nero. Sono politiche perseguite in tutti i paesi civili anche per avere maggiori entrate da tasse e contributi che favoriscono lo sviluppo del Paese e non una manciata di “padroncini avventurieri”. E’ la stessa cosa di chi è favorevole all’evasione fiscale o ruba o truffa per propri interessi, una cosa assurda per un Paese civile. Il Comitato “scientifico” Covid-19 fa notare che “l’impiego di lavoratori stranieri irregolari e privi di permesso di soggiorno è un rischio anche per la popolazione residente nelle medesime aree dove i migranti saranno destinati al lavoro”. E’ infatti del tutto evidente che, così come prima, a maggior ragione col Covid-19, se hai in Italia 650mila irregolari puoi tutelare meglio la tua (e loro salute) solo se crei un percorso di “emersione” fatto di permesso di soggiorno, formazione e infine lavoro. Un percorso fatto in Germania e in tutti i Paesi europei (seppure con quote) e che potrà durare anche 2-3 anni, ma che darebbe all’Italia (e a loro vantaggi) sia civili che sanitari. Se invece non si regolarizzano aumenta la possibilità che siano preda di sfruttatori e che violino per sopravvivere ogni regola sociale e sanitaria, creando problemi a loro stessi e a noi.

FEMMINICIDI: UNA RIFLESSIONE
il fenomeno della violenza di genere è in buona parte sommerso

Secondo il rapporto Eures, nel 2019 i femminicidi in Italia sono stati 95. L’ultima vittima dello scorso anno si chiamava Elisa, strangolata in casa dal marito mentre le figlie dormivano. Oltre l’85% dei casi di femminicidio avviene tra le mura domestiche per mano di un compagno o ex compagno della vittima. Dal 2000 a oggi le donne uccise in Italia sono state 3.230, di cui 2.355 in ambito familiare e 1.564 per mano del proprio compagno. Nel 2018, le donne uccise sono state 142, una in più dell’anno precedente. Il 2019 ha registrato dunque 47 vittime in meno del 2018, ma anche  un aumento degli episodi di stalking. Una situazione davvero triste e che colpisce sempre per la sua violenza, la sua sistematicità, la sua capillarità sul territorio.

Più se ne scrive e parla e più sembra che la situazione non migliori, anzi. Credo che le cause dello scatenamento di tale violenza siano ormai conosciute e si possano riassumere in:
– una cultura sessista che perpetra l’idea del maschio ‘padrone’;
– una educazione dei bambini che (a volte) associa all’idea di maschio quella di violenza, aggressività, arrivismo;
– una interiorizzazione del ruolo maschile come soggetto dominante che poi non trova attuazione nella vita reale in quanto le donne chiedono parità, ma l’uomo educato e socializzato come prepotente (e quindi in uno stato di grande fragilità) non può accettare tale richiesta;
situazioni di grandi degrado: spazi non sufficienti, presenza di più generazioni di persone nella stessa abitazione, matrimoni spezzati e ricuciti e ricuciti ancora che creano problemi relazionali a tutti;
– il problema del lavoro come agente d’identità maschile quasi esclusivo (senza lavoro un uomo rischia di sentirsi una nullità in quanto la sua socializzazione l’ha addestrato alla esclusiva funzione di capo branco);
– l’incapacità del maschio di sopportare l’abbandono e il tradimento, da qui la conseguente vendetta piena di odio e rancore.
Ci sono poi anche dei casi limite che rasentano la follia più assoluta: rapimenti dei figli, uccisione dei figli con conseguente annientamento dei cadaveri, omicidi e suicidi in contemporanea.

Esistono centri specializzati per le donne vittima di violenza; Provincie e Commissioni sulle P.O. gestiscono centri di ascolto, counseling, sportelli di orientamento e, con il supporto del terzo settore, comunità di accoglienza. Il Ministero delle Pari Opportunità mette a disposizione ogni anno molti soldi per il contrasto al fenomeno.
Eppure la situazione non migliora. Non migliora e non si riesce a farlo emergere. Le donne che subiscono violenza sono spesso confinate all’interno delle loro mura domestiche, hanno un lavoro, ma questo non garantisce loro sufficiente autonomia decisionale, sufficiente forza per ribellarsi. La violenza subita tende a essere giustificata da una personalità femminile che si annulla nell’obbedienza a tutti i costi, nella spasmodica ricerca di un senso a una quotidianità che, di suo, sarebbe assolutamente inaccettabile. Le ‘botte’ diventano meritate e ci si tormenta sullo sbaglio commesso come causa dell’evento drammatico.
C’è una alterazione del meccanismo di causa-effetto. Siccome nessuno di noi può sopportare degli effetti senza una causa riconosciuta e soggettivamente legittima, l’attribuzione di causa diventa ‘strana’ e si orienta su predisposizioni interiori del soggetto che subisce la violenza. Per farla breve, la persona che subisce violenza arriva in molti casi a pensare di essersela meritata e che un suo comportamento diverso potrebbe cambiare la situazione. Per acquisire consapevolezza che si è vicino all’annientamento della personalità e alla traslazione soggettiva del principio di causa-effetto su oggetti non reali, ci possono volere anni, a volte non ci si riesce mai.

Ci sono anche casi in cui la donna è riuscita, dopo molte sofferenze, a ribellarsi, ad andarsene da casa, a chiedere il divorzio. Alcune di queste donne coraggiose sono state uccise. La nostra società con tutti i suoi servizi, tutti suoi esperti e le forze dell’ordine dedicate non è riuscite a proteggerle. E loro sono morte lasciando bambini e famigliari disperati.
Quindi una dei primi auspici è che si aumenti ulteriormente la tutela delle donne che hanno cercato, dopo travagli interiori indicibili, di andarsene.

Una seconda questione fondamentale è quella dei luoghi dove si può davvero intercettare il fenomeno. Bisogna conoscere e mappare i luoghi dove le donne si ‘confidano’: parrucchieri e estetisti sono molto più aggiornati dei centri preposti a tale funzione. E’ più facile che una donna con questo tipo di problema  si confidi con il suo estetista, piuttosto che con qualcuno che non conosce e di cui non si fida (anche se ha ufficialmente una funzione coerente). Le persone in forte stato di disagio sono molto diffidenti. Tendono a non fidarsi di nessuno. Hanno paura. I luoghi dove davvero si possono intercettare donne maltrattate sono quelli informali da loro abitualmente frequentati, all’interno  dei quali agiscono  soggetti di cui loro si fidano. E’ qui che si può/deve intervenire in maniera più radicale e capillare con la speranza che possa essere, almeno in alcuni casi, risolutiva. E’ il lavoro quotidiano sul territorio che, almeno in alcuni casi, paga.

L’ultima nota riguarda una esperienza di femminicidio che ho visto da vicino: una donna uccisa dal marito. L’uomo è attualmente condannato all’ergastolo. Una situazione in cui la donna si era ribellata, aveva lasciato il marito che la riempiva di ‘botte’ e  vissuto protetta per alcuni anni in una comunità di  Brescia. Poi aveva provato a ricostruirsi una vita affittando un appartamento sempre a Brescia, dove era andata a vivere con i suoi bambini. Il marito è riuscito a trovarla e l’ha uccisa. Molte persone sapevano, conoscevano la situazione, ma chi ha provato ad aiutarla non ha trovato la giusta strada, non ha saputo mettere in atto tutti sistemi di protezione necessari. Il problema è radicato in quanto riguarda il nostro tessuto sociale, il nostro stile di relazione, le nostre forme di tutela del disagio e i nostri standard istituzionali di risposta. L’intervento possibile va ripensato partendo dal coinvolgimento dei soggetti informali del territorio che davvero conoscono le situazioni drammatiche sommerse.  Siamo alle prese con un problema molto serio che necessita di ripensamento sia delle cause che delle risposte.

Secondo il CNR (indagine CNR- IRPPS su rilevazioni del 2017) sono complessivamente 338 i centri e i servizi specializzati nel sostegno alle donne vittime di violenza, ai quali si sono rivolte almeno una volta in un anno 54.706 donne; di queste il 59,6% ha poi iniziato un percorso di uscita dalla violenza. A quanto pare, questa organizzazione e questo tipo di risposta seppure ben strutturata, non basta, serve altro, serve l’aiuto di tutti coloro che davvero sanno.

LA SCUOLA DELL’I CARE:
Dalla classe al patto formativo

È difficile credere che la pandemia cambierà la nostra scuola. Non si è fatto prima, quando si sarebbe potuto farlo, perché mai ora, per di più in una situazione di crisi economica aggravata. È più facile che la pandemia la cambi in peggio e già ora i segnali ci sono a partire da una didattica dilaniata tra presenza e distanza, tra reale e virtuale.
Qualcuno, che si scuote da un lungo assopimento, pare scoprire solo ora le prodigiose opportunità offerte dal  territorio, come se il territorio non fosse una grande aula da frequentare fin dai tempi del Pestalozzi, che proprio non era il massimo della pedagogia, potremmo dire addirittura che, con la sua fiducia nelle innate capacità educative della madre, sia stato un antesignano delle homeschooling.

Dopo l’elogio della predella di Galli della Loggia oggi leggiamo l’elogio della classe di Asor Rosa. Sempre con gli occhi nella nuca a guardare indietro, soprattutto con il timore dell’innovazione e del cambiamento. Preoccupa la resistenza dei luoghi comuni, degli stereotipi a proposito della scuola, preoccupa sentire ancora parlare degli esami di stato come riti di passaggio, che devono essere celebrati. Sembra che a esprimersi siano menti decerebrate, incapaci di intendere che le sfide dell’istruzione e i bisogni dei nostri giovani necessitino di ben altro.
Che non si possa cambiare perché non ci sono i soldi passi, ma che non si voglia cambiare perché ciascuno difende i propri occhiali, con cui guarda al presente e al passato senza riuscire a guardare lontano, non è più possibile né tollerabile.

Per decenni in questo paese si sono frapposti ostacoli allo sviluppo di un discorso nuovo sulla scuola, senza rendersi conto che la storia non stava ferma e che intanto qualcosa cambiava a proposito di istruzione come, ad esempio, il rapporto tra conoscenza e competenza, che certo non apparteneva alla cultura del paese all’epoca della predella e della classe, quando a scuola ci andavano Galli della Loggia e Asor Rosa.
Si impone la necessità di dotarsi di strumenti di misurazione e di valutazione non per continuare ad appioppare voti ad alunni e studenti, ma per disporre di informazioni importanti sull’efficacia del sistema formativo e sul funzionamento dei suoi istituti; penso inoltre alla sempre più crescente tendenza a personalizzare i percorsi di apprendimento, che la classe di Asor Rosa certamente escludeva.

Ciò che la storia ha cambiato nella cultura dell’istruzione è la conquista dell’integrazione di tutti e l’avvento dell’I Care. Che certo all’epoca dei giovani Galli della Loggia e Asor Rosa non erano neppure immaginabili. Oggi, la scuola o è la scuola dell’I Care o non è. La scuola che cura il successo formativo di ogni alunna o di ogni alunno. Se non si parte di qui non c’è cambiamento. Perché è con l’I Care che cadono tutti gli stereotipi e le pratiche insensate che abbiamo accumulato a proposito di educazione. L’I Care di don Milani che nella sua canonica a Barbiana non aveva classi. Si tratta di pensare ad un sistema formativo capace di assumere pienamente la responsabilità del progetto di vita di ogni bambina e bambino, di ogni ragazza e ragazzo, non indistintamente come avviene nella tradizione della classe, ma uno per uno, a ciascuno il suo e nel contempo di rispondere della qualità del fare scuola e del futuro che per ognuno si costruisce, un sistema formativo amico che cura, affianca e accompagna,  portatore del massimo interesse per la riuscita di ogni Gianni e Pierino.

E allora ci si renderebbe conto che la classe è un intralcio. La classificazione è la madre di ogni omologazione ed essere classificati per età anagrafica, come le classi di leva di una volta, antepone un accidente cronologico, come l’età anagrafica, alla considerazione dell’individuo in quanto tale, al suo essere, alla sua storia, alla sua unicità. A Barbiana i ragazzi erano diversi per età e per capacità, ognuno era lì con la sua biografia e la loro è stata indubbiamente un’esperienza di formazione unica e indimenticabile, senza classe, predelle ed altri orpelli.
Dunque non è la classe l’architrave del sistema formativo come sostiene Asor Rosa. La formazione è fatta di persone, esperienze ed incontri, non certo di banchi in fila in aule affollate a contemplare la nuca dei compagni e delle compagne che ti stanno davanti. Ciò che conta è la qualità del progetto formativo, quanto calzi con la tua storia e con le tue esperienze, con quello che sei e non con quello che dovresti essere e quanto ti coinvolge per interesse e motivazioni. Questo richiederebbe di essere accolti a scuola non per età anagrafica, e finire nella classe corrispondente, ma sulla base di un patto formativo concordato all’atto dell’iscrizione da ciascuno con la scuola, in modo da garantire la flessibilità dei gruppi, degli spazi, dei luoghi in cui apprendere, dentro e fuori dagli edifici scolastici, la ricchezza e la pluralità delle esperienze formative, delle relazioni e dei saperi, in un’epoca in cui l’istruzione non inizia e non finisce a scuola.
Ma temo che anche questa volta ci troveremo di fronte ad una occasione perduta.