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Elogio della lentezza

La tirannia del tempo. La sua dittatura, il correre a tutti i costi per non arrivare in nessun luogo. Danaro, oggetti, lavoro, treni, aerei, bus. Oggi si ha fretta, sempre più fretta. Non un attimo in più per fermarsi a guardare un tramonto, per prendere per mano un anziano o fargli una carezza sulla testa canuta e stanca. Non c’è il tempo per raccogliere una margherita, per pungersi con una spina di una rosa mentre la si sistema lentamente in un vaso di cristallo, per camminare a piedi nudi sull’erba o per osservare una nuvola bianca che pare di panna. Bisogna affrettarsi, non si può perdere un minuto. L’ipermercato inghiotte, il telefonino ricorda i mille appuntamenti cui precipitarsi, l’agenda non perdona, WhatsApp non molla. Tutti sullo schermo, incollati a un presente che (s)fugge, a notizie che non sono più tali, tanto si legge in fretta e non si assorbe nulla di quelle parole rapide e sempre uguali. Le notizie sono ogni giorno le stesse, cicliche. Un settimana va di moda Kim, l’altra Donald, la successiva sembra che ci siano solo violenze. Le dita scorrono veloci su tastiere che commentano il nulla, i Social media riflettono vite di chi si sente spesso solo e naviga ormai nel vuoto. Il nulla avvolge. È più facile fare solidarietà a distanza, un’azione o un’adozione lontana, che metterla in pratica tutti i giorni, in prima persona. A parte il coinvolgimento emotivo, quest’ultima chiede tempo. E noi non ne abbiamo davvero…. Madre Teresa ricordava come oggi si hanno tanti beni materiali ma se si guarda veramente nelle nostre case spesso è difficile trovarvi il sorriso. Quel sorriso che è il principio dell’amore. La sola risposta alla solitudine. Ma anche questo richiede tempo… Il lavoro, i soldi, le bollette, la banca, le tasse, la macchina… Si deve tempo solo a questo. Ma se si corre sempre, quale è la meta? Non fatemi dare risposte che sappiano di riflessioni filosofiche impegnate o fataliste. Penso solo che si debba recuperare il proprio rapporto con il tempo. Quello che passa, che non ritorna, che va dosato, assaporato, coccolato, donato. Donato agli altri ma soprattutto a se stessi. Prendiamoci allora il lusso di ammirare un prato senza pensare a nulla, di riprendere energia guardando una montagna lontana, di meravigliarsi di fronte a una stella, di prendere per mano il nostro amore di sempre, di abbracciarsi, di baciarsi, di camminare senza meta, a zonzo, per le nostre belle città, con il naso all’insù, senza pensare a nulla. Riprendiamoci il tempo, quello che serve a stare con noi stessi, con la nostra famiglia, bambini o anziani che siano, con gli amici, gli animali. Un caffè spensierato o un gelato gustati piano piano davanti a un monumento glorioso valgono più di mille sms o di cento insistenti post. Un tuffo in libreria, un passaggio dal fioraio, una chiacchiera con il pasticcere, uno sguardo a un negozio di oggetti che parlano di passato, un panino, un fiore, una pedalata in bicicletta. Torniamo a essere persona, recuperiamo il diritto a non fare nulla, a oziare un po’, a ‘flâner’, direbbero i francesi. (Ri)prendiamoci il diritto alla lentezza. Perché questo è un elogio della lentezza. Quella vera.

 

Quando lo Stato sceglie la disoccupazione: l’economia neoclassica e la strategia del ribasso occupazionale

Scegliere tra sotto-occupazione e disoccupazione è la regola nell’economia neoclassica, economia che predilige l’alta disoccupazione e vince grazie al consenso dei cittadini.

L’Ansa ci informa che all’ILVA ci saranno all’incirca 4.000 esuberi, cioè dovranno essere licenziati 4.000 dipendenti. A coloro che rimarranno sarà applicato il jobs act, quindi niente garanzie assicurate dall’art. 18, e saranno cancellate anzianità e precedenti trattamenti economici.
Di certo non sarà il caso di lamentarsi per le nuove condizioni contrattuali, infatti rispetto ai licenziati che andranno ad aumentare l’esercito dei disoccupati italiani, chi rimarrà potrà ritenersi “fortunato” perché almeno avrà conservato il lavoro. E in tempo di crisi e di disoccupazione che supera il 10 per cento, si sa, un impiego a “tutele crescenti” pagato magari anche 800 euro al mese è, più o meno, una manna dal cielo.
Il punto è che l’italiano medio, oggi, può scegliere tra un’occupazione sottopagata e la disoccupazione, e persino nel pubblico, per la gioia dei neoliberisti della domenica tipo il censore Giannino, non si sta più tanto bene come una volta. Sempre di più i lavoratori convergono verso lo stesso punto, lo stesso destino ma incoscientemente divisi verso il baratro. Infatti se è vero che le grandi ditte assumono i nostri ingegneri a 1.400 euro al mese, che le banche non offrono più le belle condizioni lavorative di una volta, che le aziende del mitico nord-est faticano a rimanere aperte e che multinazionali come Ikea o MacDonald offrono quel che il mercato richiede, nel pubblico non si sta poi tanto meglio.
Il precariato continua ad esistere nell’insegnamento ed è stato introdotto nelle forze armate, le forze dell’ordine invecchiano perché si assume molto di meno anche se la sicurezza dei cittadini ne risente, infermieri e medici sono palesemente sotto organico. Tutti hanno visto i loro stipendi bloccati per anni e per tutti, e in maniera solidale, le pensioni verranno calcolate con il contributivo e saranno sempre più basse e distanti nel tempo.
La struttura sociale nella quale viviamo accetta questa condizione perché viene presentata ad arte come unica possibile. La scuola neoclassica che attualmente governa l’economia, e che non è più politica proprio per eliminare la possibilità di un coinvolgimento sociale o statale nelle decisioni che strutturano la nostra vita, non ammette l’esistenza di altre teorie economiche e quindi modella le sue decisioni in base a quello che c’è al momento.
E cosa c’è oggi? Abbiamo l’euro e i cambi fissi pur non avendo più una moneta legata all’oro, i capitali sono liberi di circolare senza restrizioni anche se questo causa crisi continue e dipendenza dai mercati finanziari, la finanza a sua volta è stata deregolamentata nonostante si sia concordi nell’attribuirle la colpa delle continue bolle, la BCE stampa soldi come se piovessero ma nulla arriva ai cittadini. Le banche falliscono ma vengono salvate dagli Stati a spese dei cittadini o dei risparmiatori (che stranamente vengono fatte sembrare categorie separate), Stati che però mai si spingono a salvare piccole o medie aziende in crisi il che potrebbe salvare tanti posti di lavoro e magari evitare il ristagno dell’economia reale.
Quindi la scuola neoclassica dell’economia (non economia politica) ragiona su quello che c’è e non su quello che potrebbe essere. Su una struttura che vede da una parte i ricchi che diventano sempre più ricchi nonostante le crisi, e dall’altra i lavoratori ai quali si possono togliere diritti e abbassare gli stipendi e quindi diventano sempre più poveri. Una struttura, insomma, che funziona molto bene per qualcuno e meno bene per altri. Altri che però si lamentano poco e si distraggono facilmente.
Infatti mentre i parlamentari (solo casualmente di sinistra) digiunano per lo “ius soli” che di sicuro gli porterà molto consenso, tutti si disinteressano delle politiche di austerità che vengono applicate solo ad alcune categorie sociali e del fatto che tutti gli interventi economico-politico-sociali non cambiano il quadro generale, anzi bloccano la crescita e aumentano la disuguaglianza a causa della elitaria distribuzione del benessere. Scelte che mantengono costantemente alta la disoccupazione, che in un mondo normale dovrebbe essere la preoccupazione principale per un governo di sinistra.
Mai far mancare però al ragionamento che, negli ultimi anni, ogni volta che si sono tenute delle elezioni la gente ha votato per i partiti che propendevano all’austerità (cioè abbattimento dei debiti pubblici, eliminazione della spesa a deficit e privatizzazioni con condimento di libero mercato e globalizzazione) e quindi, conseguentemente, ha accettato il mantenimento di un’alta disoccupazione e, per chi lavora, la perdita dei diritti acquisiti e di un trattamento pensionistico decente. Quindi perché lamentarsi? Forse l’idea che non esista alternativa è davvero incredibilmente profonda.
L’economia al comando tende a lasciare tutto come è adesso, con il beneplacito dei cittadini, e sposta le risorse esistenti da una parte all’altra a seconda del consenso che vuole ottenere senza mai crearne di nuove. Senza mai nemmeno provare a riformare la struttura affinché si possa scegliere, finalmente, tra un lavoro pagato bene e un lavoro pagato meno bene, tra un lavoro sedentario e uno che ti faccia viaggiare. Una struttura che tenda, finalmente, al pieno impiego con tutte le garanzie conquistate in decenni di lotte.
Ma per fare questo bisognerebbe vedere oltre la dottrina economica neoclassica al potere, immaginare che possano esistere altre dottrine economiche e, soprattutto, capire che se un governo decide di mettere risorse per la ricostruzione dopo un terremoto togliendole ai fondi per i diversamente abili, non ha cambiato politica economica, ha solo spostato risorse.
E anche che, se verranno licenziate 4.000 persone senza intervenire, ha fatto una scelta, quella di aumentare il numero dei disoccupati in modo tale che tanti altri accettino condizioni sempre peggiori pur di lavorare.

Omaggio (femminista) alla Catalogna

da Roberta Trucco

“Il dibattito sull’identità nazionale rinvia necessariamente a un dibattito antropologico sulla nozione di persona, soggetto o individuo” queste le parole di Teresa Forcades, monaca catalana benedettina, teologa femminista, medica, fondatrice di un partito politico, che in questi giorni si è espressa a favore dell’atto di disobbedienza civile compiuto da buona parte del popolo catalano. Un popolo che si è messo diligentemente in coda per votare un referendum dichiarato illegittimo dalla Corte costituzione spagnola, rischiando, come di fatto poi è avvenuto, la ritorsione della polizia .
Ho conosciuto Teresa circa tre anni fa e come dice molto bene Michela Murgia “Teresa è l’infrazione vivente di tutti gli stereotipi dell’immaginario collettivo sulle suore” e, aggiungo io, sulle donne.
È teorica della teologia ‘Queer’, non intesa, come oggi viene spesso proposta, a sostegno di un genere fluido e dunque neutro, ma al contrario come teoria che valorizza fortemente l’unicità e l’originalità di ogni singolo individuo.
La sua capacità argomentativa e l’autenticità sua e delle sue consorelle benedettine, così limpida e pacifica, mi hanno colpito da subito. L’affetto che mi lega a lei e alle monache di Montserrat mi spinge a interrogarmi sulla questione catalana e a cercare di darne una lettura indipendente dal pensiero dominante. Quanto successo a Barcellona il 1 ottobre ha secondo me una valenza simbolica molto importante per tutti noi, non solo per i catalani. Non credo si possa derubricare a puro egoismo, legato a interessi e benefici economici, il comportamento di più di due milioni di persone. Un comportamento di massa così civile e coraggioso, che non ha risposto con violenza alla violenza subita, non s’improvvisa. E’ evidente: il popolo catalano che ha votato ci ha offerto una lezione altissima di disobbedienza civile. Ma, dunque, qual’è la motivazione profonda che ha spinto più di due milioni a comportarsi così?

Io credo che alla base la risposta sia proprio quella teorizzata dalla Forcades. Esiste un nazionalismo positivo, fondato sul valore che si attribuisce alla Nazione intesa come parte che costituisce il nostro essere persona. Ciò che siamo è anche il frutto di ciò che abbiamo ricevuto senza sceglierlo: lingua cultura, storia, terra, famiglia, nazione. La globalizzazione neoliberista tende a cancellare le nostre identità peculiari in nome di un bene astratto superiore, tende all’omologazione sacrificando le nostre differenze. Il capitalismo neoliberista ha bisogno di cancellare queste differenze per poter funzionare, ha bisogno di omologazione per non dovere affrontare la complessità contemporanea e in un certo senso ne hanno bisogno anche gli Stati Nazione.

Questa la lezione che mi sento di assumere da questa vicenda. La solidarietà che arriva da più parti nei confronti dei catalani mi pare un dato importante. Le strumentalizzazioni da parte di politici a favore di un nazionalismo violento e sciovinista ci sono e continueranno ad esserci. Con coraggio Teresa ,e molti come lei, si battono per far passare invece un nuovo concetto di nazionalismo .
Vale la pena seguire con attenzione quello che sta succedendo, senza pregiudizi e senza rimanere inchiodati a luoghi comuni che semplificano la questione catalana a un puro desiderio secessionista e tentare con loro la faticosa costruzione di nuovi immaginari capaci di dare avvio a modelli di convivenza sociale e politica più umani.

Roberta Trucco
Classe 1966, genovese doc (nel senso di cittadina innamorata della sua città), felicemente sposata e madre di quattro figli. Laureata in lettere e filosofia. Da sempre ritengo che il lavoro di cura non si limiti all’ambito domestico, ma debba investire il discorso politico sulla città. Per questo sono impegnata in un percorso di ricerca personale e d’impegno civico, in particolare sui contributi delle donne e sui diritti di cittadinanza dei bambini.
Da alcuni anni dipingo con passione, totalmente autodidatta. Intendo contribuire alla svolta epocale che stiamo vivendo con la mia creatività unita a quelle delle altre straordinarie donne incontrate nella splendida piazza del 13 febbraio 2011 di Se non ora quando. Credente, definita dentro la comunità una simpatica eretica, e convinta “che niente succede per caso.”

Raee in carcere: una seconda occasione, non solo per i rifiuti

“Non si può stare in cella 20 ore al giorno con solo 4 ore di aria, 2 al mattino e 2 al pomeriggio”, “Una delle maggiori difficoltà è l’impatto quando si entra: se si inizia subito a socializzare, si riesce a passare il tempo impegnati a fare qualcosa, altrimenti è dura. È proprio come se ti dovessi ricostruire una vita dentro: scuola, lavoro, casa, ma non tutti riescono a farlo”.
Aamir è arrivato in Italia dal Marocco nel 2001 e ha iniziato a fare il manovale nel settore edilizio. È stato arrestato nel 2003, davanti a sé ha ancora un anno e mezzo di affidamento ai servizi sociali per terminare la pena. Lo incontriamo nel magazzino di via Boito della Cooperativa sociale Il Germoglio, dove si occupa della raccolta e del recupero dei Raee (rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) e dei toner per stampanti. Lui, infatti, è uno di quelli che ce l’ha fatta a riprendere in mano la sua vita, anche grazie alla Cooperativa Sociale Il Germoglio e al Progetto interprovinciale Raee in carcere.
“Ho sempre studiato e lavorato in carcere – ci tiene a sottolineare Aamir – ho fatto corsi di inglese, grafica, stampa digitale e mi sono iscritto a scuola completando il biennio delle superiori. Nello stesso tempo ho lavorato come manutentore, elettricista, giardiniere, aiuto cuoco: mi sono tenuto impegnato. È l’unico modo per non pensare a quello che ti sta intorno. Per questo è una fortuna che esistano progetti come Raee in carcere”.

E’ Barbara Bovelacci di Techne – consorzio forlivese che si occupa di formazione e inclusione – a spiegarci come è nato Raee in carcere: “nasce con Equal Pegaso, un programma europeo che finanziava azioni mirate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate tra cui detenuti ed ex-detenuti. Nel 2004 abbiamo presentato alla Regione Emilia Romagna e all’Amministrazione Penitenziaria un progetto con l’idea di lavorare sui rifiuti raee in tre province diverse, Bologna, Ferrara e Forlì-Cesena. Da lì è partito un ampio studio di fattibilità, con la consulenza del Gruppo Hera”. “L’idea alla base di Raee in Carcere – continua Bovelacci – è costruire un’alleanza tra enti di formazione e cooperative sociali di tipo b, che si occupano dell’inserimento lavorativo delle persone cosiddette svantaggiate: in questo caso IT2 a Bologna, Formula Solidale a Forlì, Il Germoglio a Ferrara. Le cooperative sociali hanno ruolo di vero e proprio inserimento lavorativo dei detenuti e di gestione dell’attività produttiva nei laboratori, mentre gli enti di formazione hanno la funzione di accompagnare e formare le persone e di seguire il coordinamento dell’iniziativa, favorendo la sinergia tra le tre province coinvolte. La Regione è stata promotrice iniziale del progetto e, con l’Amministrazione penitenziaria, svolge un ruolo di garante istituzionale. Attraverso il suo supporto è stato possibile stipulare il Protocollo di intesa con i Consorzi Ecolight, Erp Italia ed Ecodom”. Proprio qui, sottolinea Bovelacci, sta una delle specificità di questo progetto: “il coinvolgimento dei Consorzi in tutto il ciclo del trattamento dei raee garantisce la trasparenza dello stesso”. Legalità lungo tutta la filiera, dunque: niente esportazione dei rifiuti elettronici verso discariche nel Sud del mondo e niente commercio illegale di pezzi e materiali, come per esempio il rame, diventati più preziosi in questi anni di crisi.

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Per tutte le foto – compresa quella di copertina – ©Elisabetta Zavoli

“Nel 2009 – racconta ancora Aamir – è partito il corso di formazione per lo smontaggio dei raee e la separazione e il recupero dei componenti e dei materiali, stampanti, computer e cose così. Ho partecipato per 3-4 mesi e quando è iniziato il laboratorio per lo smontaggio dei grande raee bianchi, come lavatrici e lavastoviglie, ho lavorato con loro all’interno del carcere: ho iniziato con una borsa lavoro, poi il tirocinio e dal 2014 sono assunto con un part-time, ora che sono fuori in affidamento, mi occupo della raccolta dei raee e dei toner e continuo anche con la divisione dei materiali qui in magazzino”. “Partecipare a questi progetti offre l’occasione di essere positivo, di pensare in modo positivo al futuro, alla possibilità di fare qualcosa quando si uscirà: sono prove all’interno per quando sarai fuori e accompagnano nel percorso di uscita. Se uno non fa niente dentro, arriva a fine pena e lo mettono fuori, ma cosa può fare, dove può andare? Che possibilità ci sono per chi non ha una famiglia fuori? Invece con i corsi di formazione e i laboratori si inizia già a lavorare dentro e si viene messi alla prova prima con permessi e poi con la semilibertà. Tu stesso ti metti in gioco”. Non è facile come si potrebbe pensare: “è una questione di fiducia, che in carcere è difficile da guadagnare e facile da perdere, ma vale tutto”.

“All’interno esistono varie associazioni e realtà che aiutano i carcerati, donando oggetti e beni di prima necessità. Esiste anche un orto gestito dall’Associazione Viale K che fornisce ai detenuti prodotti agricoli (Galeorto). Noi però siamo l’unica cooperativa sociale che opera all’interno del carcere. Siamo entrati nel progetto Raee in carcere nel 2009 – spiega Nicola, responsabile del settore Ambiente de Il Germoglio – Ricordo il primo giorno dentro: quante porte, sbarre, sembrava di entrare in un altro mondo, proprio come vi ha detto Aamir”. “Siamo stati coinvolti da Hera che ha visto in noi il partner ideale grazie al lavoro che già stavamo facendo sui rifiuti, in particolare sui raee. Abbiamo iniziato attraverso un corso di formazione in carcere al quale hanno partecipato 12 detenuti. Di questi ne sono stati assunti 6, inizialmente in borsa lavoro, poi assunti via via dalla cooperativa”. Anche per questo Aamir parla di ‘fortuna’: “Con le altre realtà che ho conosciuto in carcere non c’era un prospettiva di assunzione vera e propria, non portavano molte persone fuori, Il Germoglio invece ne ha portate fuori molte”.
Fra gli obiettivi di Raee in carcere, infatti, oltre alla sostenibilità sociale e ambientale, c’è anche quella economica, in altre parole la produttività: “Il progetto attualmente si finanzia da solo e ci permette di dare lavoro a due detenuti per 15 ore settimanali. Vengono lavorate circa 20 tonnellate di materiale al mese. Il laboratorio ne potrebbe lavorarne anche di più e questo ci permetterebbe di assumere più persone”, spiega Nicola.
Della stessa opinione è Barbara Bovelacci, che alla domanda sulle criticità del progetto risponde: “E’ complesso farla crescere, rimane stabile come quantità di rifiuti trattati e quindi anche come numero di lavoratori. La nostra aspirazione è farla crescere, aumentando i soggetti coinvolti e il volume dei rifiuti trattati e recuperati e sottratti così al destino di rifiuti veri e propri e al mercato illegale”. L’altra sfida, conclude Bovelacci, “è misurare l’impatto sociale sul territorio per avere un quadro reale di quanto questo tipo di iniziative siano utili e sostenibili e poterlo comunicare agli stakeholder e a tutti i cittadini”.

E ora che sei ‘quasi fuori’ Aamir, che fai e cosa vuoi fare in futuro?
“Continuo a tenermi il più impegnato possibile – scherza – mi alzo presto e vengo qui in laboratorio verso le 8.30, faccio 4 ore di lavoro, pranzo e poi, come hobby, faccio piccole riparazioni di oggetti elettronici oppure faccio volontariato: fin da quando ero in semilibertà collaboro con Viale K e con il loro mercatino dell’usato, che ho contribuito ad avviare, e con la loro mensa. Il mio sogno è mettere su una piccola attività per riparazioni di smartphone, pc, tablet, e quindi sto cercando un corso da poter frequentare”.

INTERNAZIONALE
Dalla Brexit a Donald Trump: ecco a voi il sovranismo

Non è un insulto, né un sinonimo di autarchia o peggio di xenofobia. E’ un termine alla moda, tanto abusato nella nostra attualità, quanto poco chiaro. ‘Sovranismo’, ecco la parola incriminata, è anche il titolo dell’incontro tenutosi sabato 30 settembre al dipartimento di Economia e Management dell’Università di Ferrara, durante il Festival di Internazionale a Ferrara.
L’incontro, presieduto dal giurista di Unife Alessandro Somma, ha permesso di analizzare il concetto che ci rende possibile la categorizzazione dei più recenti fatti politici e sociali, dalla inaspettata Brexit alla sorprendente vittoria di Donald Trump, nonostante in entrambi i casi tutti i media fossero dichiaratamente schierati.

Per comprendere il significato di un termine come sovranismo, è necessario non solo avere un retroterra che comprenda nozioni specifiche su cosa siano lo Stato, la sovranità popolare, le organizzazioni diverse da quella statuale, ma anche tenere presente la particolare situazione economica in cui versiamo. Una situazione che deriva da precise ideologie – altro termine estremamente ambiguo! – che governano ancora oggi il mondo occidentale, “in particolare il neoliberalismo”, con le sue innegabili conquiste e contraddizioni. E’ forse la globalizzazione quella più evidente: la libera circolazione dei capitali, ma allo stesso tempo la forte compressione delle libertà politiche, con una trasmigrazione verso “la post-politica – o post-democrazia, o ancora post-sovranismo – della nostra epoca”, chiamata non a caso dalla sociologia post-modernità.

Se Reagan e la Thatcher furono coloro che diedero avvio a tutto questo, oggi Trump e la May stanno percorrendo la strada del dietrofront. Sì, ma verso dove? La risposta è nelle notizie che tutti i giorni ci arrivano da ogni parte del mondo: vi è un bisogno diffuso di “porre fine alla attuale spoliticizzazione e democrazia solo formale”, in altre parole c’è bisogno di tornare a fare politica nel senso aristotelico del termine, come è nella nostra natura. “Lo scollamento tra Stato e nazione sta accentuandosi in maniera irreversibile”, ma questo non vuol dire che si debba tornare indietro annullando tutto ciò che è avvenuto a partire dal secolo scorso – sarebbe una posizione antistorica e anacronistica. Non sappiamo “quanto il capitalismo, responsabile dell’abbassamento dei salari e dell’aumento della pressione fiscale su chi è più debole nei nostri Paesi, sarà ancora il protagonista della nostra società”, ma ciò che sicuramente può essere fatto per contenere i suoi danni sul benessere della cittadinanza è “democratizzarlo”, attraverso politiche che favoriscano la piena occupazione e quella che un tempo era la giustizia sociale.

E così una nuova politica, una vera democrazia, renderanno impossibili le imposizioni più o meno vere di chi grida “ce lo chiede l’Europa!”

La sostanza relazionale del bene e del male

di Vincenzo Masini

Durante le mie ricerche ho lavorato profondamente sulla distinzione tra giudizio e condanna per contrastare l’equivoco presente nel ‘non giudicare’ mal tradotto dal Vangelo. E’ un controsenso visto che il giudizio – e non mi piace sfumare l’equivoco ricorrendo al termine valutazione – è un’operazione mentale continua e sana. Ho lavorato sulla distinzione tra ‘giudicare’, che è nella mente delle persone ed è solo un processo cognitivo, e ‘condannare’: questo sì un atto relazionale e sociale.
La questione è estremamente rilevante perché induce a molte contraddizioni anche sul piano dell’interpretazione della parola.
Il giudizio può essere difficile e a volte sbagliato.
L’albero buono produce frutti buoni e l’albero cattivo produce frutti cattivi. Questa è l’indicazione più semplice per formulare un giudizio; si giudicano assaggiandoli: buoni oppure cattivi se hanno un brutto sapore o se velenosi. Poi si può condannare l’albero, sradicandolo, oppure lasciarlo li. Si può avvisare gli amici della bontà o della pericolosità dei frutti: questo è un atto educativo. Oppure tenersi le informazioni per sé, laddove non si voglia passare per calunniatori dell’albero.
Per questa via si perviene a “ti giudico ma non ti condanno“, lasciando questa seconda parte a chi fa il mestiere del giudice e amministra una pena e, parimenti, si può socializzare il giudizio mettendo in guardia la comunità degli umani sulla nocività dell’albero. ‘Non giudicare’, invece, è la via buonista, ipocrita e opportunista, perché non prende posizione nei confronti dell’albero che, poverino, non lo fa apposta ad avvelenare le persone.
In questo equivoco siamo molto più immersi di quanto non pensiamo, tanto da sviluppare sensi di colpa – se giudichiamo – o opportunismi ipocriti – se non giudichiamo.

Quando si affronta la questione in senso morale ecco che sopraggiunge la ‘questione del male’. Il male esiste? Ha una sua natura? Ha una sua strategia? È semplicemente una conseguenza dell’agire umano o esiste la malvagità in sé?
Charles Baudelaire, il poeta dannato dei Fiori del Male, afferma: “Il più bel trucco del Diavolo sta nel convincerci che non esiste!”, nonostante tutta la letteratura e tutte le scritture ne discutano e ne propongano le più impressionanti immagini.
Le teologie più recenti si muovono, invece, nella direzione della non esistenza del male e lo vedono come un prodotto dell’assenza di amore nel rapporto tra gli uomini. La loro tesi è che il male appare quando Dio non c’è e risolvono in questo modo la questione dell’infinita Onnipotenza (perché, se Dio è onnipotente, non elimina il male?) e della infinita Bontà (perché, se Dio è infinitamente buono, non estingue il male e ce ne libera?). Dunque Dio o non è onnipotente o non è buono.
La soluzione di dichiarare che il male non esiste o che è solo attribuibile alla negatività umana risolve questo ‘giudizio’ su Dio. Contemporaneamente questa teologia ha però il merito di liberare gli uomini dalla paura, dall’oppressione, dai sensi di colpa, dalla dimensione di peccatori che attendono o la misericordia di Dio come premio per le loro azioni oppure la condanna come pena da scontare. È infinitamente triste il ricorso a una immagine di un Dio punitore e inquisitore, perdendo di vista il modo in cui Gesù Cristo ce lo ha invece presentato: come un ‘Papà Buono’. Non nego che nel corso della storia probabilmente il timor di Dio è servito per motivare azioni malvage, odi, stragi, violenze, attraverso la paura della punizione. Forse però anche questa interpretazione può essere messa in discussione fondandosi sul pentimento, autonomamente scaturito in uomini, anche decisamente malvagi, che hanno però convertito il loro operato.

La teologia della relazione affronta la questione da un altro punto di vista. In primo luogo la relazione interumana è fondata sulla risonanza delle onde cerebrali nei momenti di empatia. Tale risonanza, proposta attraverso la scoperta dei neuroni specchio e verificata attraverso la neuroimage e le consonanze degli eeg, consente di dare sostanza alle diverse curve d’onda e di leggerle nella loro qualità di prodotto oggettivo dell’agire relazionale interumano (e non solo). L’amore sarebbe dunque una sostanza prodotta all’interno della relazione che rimane come un dato oggettivo anche al di là della mente delle singole persone che lo sperimentano. L’aumento della sensibilità empatica consente di percepirlo anche in certi luoghi, in certi ambienti, all’interno di particolari momenti di comunione tra persone. Tale sostanza è ciò che si è sempre chiamato ‘spirito’, termine che oggi sostituiamo erroneamente con ‘clima sociale’, ‘vibrazioni in sintonia’, ‘incontro tra i corpi sottili’, ecc.
Erroneamente perché la relazione che dà vita al mondo, quella tra Padre Celeste e Gesù di Nazareth, si chiama Spirito Santo e ha consistenza di Persona all’interno della Trinità.
Il termine persona è una semplificazione indispensabile per prendere consapevolezza dell’intenzionalità, della volontà e dell’irradiazione affettiva nel mondo dello spirito, come caratteristiche delle Persone della Trinità. Ciò consente l’uscita da religiosità che cercano di interpretare le leggi dello spirito all’interno degli schemi, prodotti dall’uomo, più svariati. Ed è questa l’originalità del Cristianesimo, come Gesù spiega a Nicodemo: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito“. Dove vuole è l’intenzionalità della Persona Divina. Del resto se io, essere umano, sono persona, Dio che è più di me deve essere come minimo Persona, oltre un infinito numero di altre cose. Se Dio non fosse persona sarebbe meno di me!
La sostanza relazionale dell’amore è dunque un dato di realtà che, oltre ad essere sintonia nella relazione è sostanza in sé percepibile attraverso lo sviluppo della propria consapevolezza e della propria sensibilità spirituale mistica e ascetica.

E il male? Posto che la sostanza spirituale del male sia prodotta dalla sintonia tra costellazioni cerebrali in uomini che ne condividono il sapore e agiscono di conseguenza, o nei rapporti asimmetrici tra vittima e carnefice in tutte le loro forme possibili (dalla tortura fisica alla squalifica di una professoressa nei confronti di un alunno), questa dimensione assume una valenza spirituale e diventa essa stessa sostanza.
Se è stato l’uomo a produrre il male ormai il male è un prodotto in libera circolazione nello spazio e nel tempo e ha una sua natura e una sua intenzionalità, indipendente da chi lo ha messo in moto. Sottovalutare la presenza del male nel mondo ci espone al grave rischio di non riuscire più a interpretare, nemmeno moralmente, quanto sta accadendo in questa fase della nostra storia evolutiva.
La riproduzione del male e del dolore, nella sua invarianza nella storia, determina ormai la sua presenza nel mondo indipendente dagli umani. Così come esiste la sostanza della relazioni positive e produce benessere spirituale e sociale, anche la sostanza del male prodotta dalle relazioni negative si riproduce nella storia.
Distrarsi e dimenticarlo può essere davvero spiritualmente pericoloso, soprattutto quando tale sostanza malefica sembra aver raggiunto livelli di autocoscienza tali da percorrere vie strategiche per far fallire il progetto di Dio sull’uomo. E per allontanare l’uomo dalla Felicità.
Se oggi osserviamo la manipolazione delle idee e delle informazioni prodotte dall’establishment non possiamo non prendere atto che sono superati i livelli di guardia: non è solo condizionamento di opinioni, ma un processo che intacca le scelte educative e relazionali della vita quotidiana delle persone.
La tecnologia di manipolazione chiamata finestra di Overton, per esempio, ha lo scopo di abituare la gente all’inaccettabile attraverso passaggi successivi che rendono addirittura legale la stessa idea fino a ieri impensabile.

Questa tecnica si fonda sull’ipocrisia e sugli irretimenti che le persone subiscono a causa dei loro copioni primitivi e impedisce lo sviluppo di sane relazioni interpersonali. Abbiamo così accettato il declino dei valori, la diffusione della droga, del gioco d’azzardo, la teoria del gender, la burocrazia informatica, il clientelismo, la corruzione, il consumismo, l’immigrazione forzata, la privacy, la precarietà, le perversioni sessuali, il sadismo, ecc. E ora accetteremo gli obiettivi del Bildelberg e della Trilateral delle multinazionali: la globalizzazione imperante, la guerra, la legittimazione della pedofilia, il ritorno alle aristocrazie medioevali e un sostanziale ripristino delle servitù della gleba. Il capitalismo è oggi una religione che fa della meritocrazia (corrotta) un culto finalizzato alla legittimazione delle disuguaglianze, dove i demeritevoli sono scacciati perché sventurati. La struttura che regge questo sistema è un impianto? Un apparato? Un sistema? E’ la finanza internazionale? E’ il mercato? E’ il denaro? E’ una necessità? E’ il caso? A fronte di tutte queste numerose categorie interpretative ciò che sta alla base del reticolo di potere appare sotto il nome di ‘male’, che si presenta cosciente, consapevole e intenzionale. E la lotta contro questo male non può essere efficace se non parte dal giudizio e dalla condanna e se, soprattutto, non mette in gioco il vero territorio della battaglia: il mondo delle sostanze relazionali o, meglio, il mondo dello spirito.

Dunque il quadro del potere nel mondo si presenta oscuro sia per la caduta delle libertà democratiche mediante raffinati e mutevoli sistemi elettorali sia per i conflitti/intese tra i gruppi di potere. E’ assai probabile che, non essendoci alcun progetto (anche utopico) di società, la web society si presenti come sistema in perenne crisi con continui riaggiustamenti e cambi di linea.
Nel frattempo l’avanzata tecnologica renderà minima la partecipazione attraverso il lavoro liberando i ‘servi della gleba’ dalla fatica del lavoro, ma privandoli dell’identità di produttori.
Tutto ciò apre però un immenso spazio per la formazione di relazioni evolute specialmente nel mondo giovanile che, progressivamente affrancandosi dalle monocordi comunicazioni dei social (pur usandole con competenza) proverà il desiderio di sensazioni, emozioni e sentimenti carichi di sostanza affettiva.
Occorre però che siano in grado di esprimere giudizi e di ricevere protezione dalla sostanza relazionale maligna che circola nel sistema. Ecco perché non va sottovalutato il male e le sue strategie.
Può però diventare oggi possibile un progetto di lavoro che tendenzialmente riguarderà il futuro assetto del sistema sociale fondandosi sulla costruzione di piccole molecole relazionali che costruiscono ed hanno cura del rapporto che si crea tra le persone molto più che dei risultati socialmente visibili e politicamente/economicamente spendibili. Come del resto la storia umana ci ha mostrato attraverso i fari di civiltà e di evoluzione nati nel contesto di comunità, piccole nel mostrarsi ma gigantesche nel proporsi come capisaldi del mondo dello spirito.

INTERNAZIONALE
Gli ‘hater’: quando l’odio corre lungo la rete

Maurizio Crozza con il suo Napalm51 li ha resi un po’ meno antipatici e inquietanti: sono gli ‘hater’, individui che passano le proprie giornate sui loro profili social a insultare gli altri e a mettere in mostra sé stessi; croce e delizia di ogni personaggio pubblico, perché inondano la rete con i loro commenti sprezzanti, più o meno sgrammaticati, e tuttavia se non sei stato insultato insultato almeno una volta su fb o su tw, che personaggio sei?
Nel divertentissimo incontro di Internazionale di domenica pomeriggio ‘Odio tutti’, con Claudio Rossi Marcelli di Internazionale, la giornalista e bioeticista Chiara Lalli e Kyrre Lien, videomaker e fotogiornalista norvegese, si è cercato di capire un po’ meglio chi sono questi follower-hater

Chiara Lalli “è un’esperta di odio perché se lo va a cercare”, ha scherzato Rossi Marcelli, “ha scritto di omogenitorialità, aborto, obiezione di coscienza e il suo ultimo libro parla di mitomani”, “io sono un padre gay e quindi anche io mi prendo la mia bella dose di insulti” – da aggiungere a quelli come giornalista: pare che il più classico sia “ma lo pagate anche per scrivere quelle str**ate?” – mentre Lien è “l’autore del documentario ‘The Internet Warriors’” e gli insultatori li è proprio andati a cercare in tutto il mondo partendo dai loro profili virtuali.
A quanto pare il tipo più comune è maschio, giovane o di mezza età, che vive lontano dalle grandi città, di cultura medio bassa. Perciò l’idea che alla fine scrivano così tanto e con così tanta cattiveria perché non hanno nulla di meglio da fare, forse non è poi così sbagliata. Alcuni hanno scritto fino a mezzo milione di commenti: “avrebbero potuto scrivere un libro, persino un’enciclopedia, invece hanno scritto commenti fb”, scherza Rossi Marcelli. “Il primo che ho incontrato – ha raccontato Lien – è stato un ragazzo che abitava in un villaggio norvegese che non aveva un lavoro, viveva con il sussidio e passava ore e ore a scrivere in internet”.

Siamo tutti potenzialmente odiatori” ha messo però in guardia Chiara Lalli: quello che salva molti di noi sono quie pochi minuti di riflessione fra l’impulso di scrivere e il metterlo in atto. Oltre al facile accesso a una dimensione globale e virale e all’anonimato, garantiti dalla rete, secondo lei c’è la componente del “considerarsi geni, esperti di qualsiasi cosa, per cui gli altri sono delle mezze seghe che se non ti stanno a sentire meritano di essere insultati”. Secondo Lien, invece, bisogna distinguere “fra le persone veramente piene d’odio” e quelle che in realtà sono solo frustrate e “gridano attraverso i loro commenti perché altrimenti nessuno li ascolterebbe”.
A parere di tutti e tre quello che preoccupa è non solo che tutte queste persone pensano di avere il diritto di fare commenti così aggressivi, ma soprattutto il distacco, il contrasto fra realtà vera e realtà virtuale nella loro vita.
La soluzione contro questi haters? Secondo Lien “bisogna incontrarli e parlarci”, aiutarli a vedersi dal di fuori; secondo Chiara Lalli la cosa migliore è ignorarli oppure usare “l’ironia e il senso del ridicolo”, dato che loro si prendono sempre così sul serio.

La domanda vera però è quella emersa verso la fine dell’incontro e riguarda la società nella quale questo fenomeno è nato e si alimenta: una società nella quale nascono pagine e gruppi fb dove si augurano e si minacciano le cose peggiori a chicchessia e sembra che il fatto di scriverle in rete le faccia diventare meno terribili, mentre rimangono veri e propri linciaggi anche se telematici. Una società dove alla morale e al senso del pudore di dire e di fare si è sostituito il moralismo e l’esibizionismo e dove quando il più forte schiaccia il più debole posta il video su internet per vedere quanti visualizzazioni e like riceverà.

Guarda il documentario The Internet warriors su Youtube

INTERNAZIONALE
Vaccini sì, vaccini no: se ne parla a Internazionale

Il filo conduttore di questa undicesima edizione di Internazionale a Ferrara è la prospettiva, per guardare e informare dalla giusta distanza (ammesso che ne esista una o solo una).
Proprio da qui è partito il gettonatissimo incontro ‘Il doppio peso dei vaccini’: sabato pomeriggio i posti della Sala dei Comuni del Castello Estense erano già esauriti dalle persone in coda fin da un’ora prima dell’inizio.
Come giustamente ha affermato Ilaria Sotis, giornalista di Rai Radio1 e moderatrice del seminario, il tema dei vaccini divide subito almeno in due categorie, a seconda della prospettiva dalla quale lo si guarda: nei paesi in via di sviluppo c’è una sempre maggiore richiesta di accesso, in occidente al contrario cresce la diffidenza. I vaccini dividono però anche da un altro punto di vista: a seconda che in ballo ci sia la salute pubblica delle popolazioni oppure i profitti delle multinazionali dell’industria farmaceutica.

Una cosa è certa: da qualunque parte lo si guardi il peso di questo settore è importante. Il mercato dei vaccini vale 20 miliardi di euro e il nostro sistema sanitario nazionale investe in vaccini circa 300 milioni. Eppure nel mondo 19 milioni di bambini non accedono ai vaccini e un milione e mezzo di persone muore perché non è stato vaccinato.
“Nei paesi in via di sviluppo un bambino su cinque non è vaccinato”, ha spiegato Rohit Malpani di Medici senza frontiere, “il nostro obiettivo è l’immunizzazione universale”. Secondo Malpani ci sono tre problemi strutturali. I vaccini “non sono accessibili economicamente” per esempio perché non coperti dal sistema sanitario nazionale; “non sono adatti alle condizioni nelle quali operiamo”, perché in molti paesi manca l’elettricità e non li si può conservare correttamente rispettando la catena del freddo; “non esistono vaccini per le patologie che affliggono persone povere in paesi poveri perché le industrie farmaceutiche non ci vedono profitti”.

Ma i vaccini e più in generale i farmaci, che sono necessari per la salute, possono essere considerati alla stregua di qualsiasi altro bene di consumo? Secondo l’economista canadese William Lazonick non è così, perché “c’è un interesse pubblico” ed ecco perché esistono istituzioni sanitarie pubbliche, non ci si deve rassegnare all’idea che “le cure sanitarie siano un prodotto che ci si può o non ci si può permettere”: le cure sono “un diritto”. A suo parere il problema è la “finanziarizzazione delle industrie farmaceutiche”. “I profitti non dovrebbero essere il fine ultimo, ma un mezzo per reinvestire in ricerca e sviluppo e creare così nuovi farmaci migliori e a prezzo più accessibile”; il problema è che “i profitti sono degli azionisti, gli utili vengono perciò redistribuiti fra di loro e non reinvestiti”.
Nel decennio 2006-2016, continua Lazonick, “tra le cinquecento più grandi industrie quotate in borsa censite da Standard and Poor’s diciotto facevano parte del settore farmaceutico per un fatturato totale, sempre in questi dieci anni, di 525 milioni di dollari: 516 di questi sono stati redistribuiti agli azionisti”. Quanto rimane per ricerca e sviluppo? A voi lettori la risposta.
E non è finita qui: secondo un suo studio “nel 2005 trentacinque alti dirigenti di aziende del settore farmaceutico guadagnavano mediamente 35 milioni di dollari”, una retribuzione “strettamente legata alle performance delle azioni di quelle aziende”.

Secondo Luca Arnaudo, dell’Antitrust, in un settore ad alti investimenti come quello farmaceutico “la tendenza all’oligopolio è naturale”. In questo contesto la fortuna dell’Italia, a suo parere, è “la fantastica situazione di trasparenza. Siamo l’unico paese in Europa nel quale tutti i risultati delle gare d’appalto per le forniture sono disponibili e pubblici”: “abbiamo una grande disponibilità di dati”, quello che manca è l’uniformità. Venendo al tema del nuovo piano di vaccinazione, che ha scaldato il dibattito italiano in questi ultimi mesi, Arnaudo premette che l’Antitrust “non se ne deve occupare”, essendo una “questione di politica sanitaria” e non di concorrenza. Ammette però che “qualsiasi politica sanitaria ha una ricaduta sul settore farmaceutico”: “se un vaccino viene inserito in un piano vaccinale nazionale, questa per l’azienda è una garanzia di acquisto perciò non c’è incentivo ad abbassare il prezzo”.

Interviste sul Futuro di Ferrara: eBook

Da Asino Rosso eBook Ferrara

E ‘ on line l’eBook “Ferrara città d’arte. Virtuale o Reale” (Asino Rosso edizioni, Ferrara), ovvero una serie di interviste a cura di Roby Guerra (già edite negli ultimi anni su riviste e testate on line, local e global) sul futuro di Ferrara.  Interviste a artisti, scrittori, docenti universitari, anche giornalisti e politici speciale guest, della città d’arte contemporanea: lo stesso sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani e il rettore  (a suo tempo) Unife  Pasquale Nappi, gli stessi  giornalisti Marco Zavagli (direttore di Estense.com) , Riccardo Roversi (anche scrittore ed editore) e il direttore di Ferrara Italia, Sergio Gessi.  Non ultimo, oltre allo stesso Guerra si segnalano sempre di Ferrara Italia collaboratori…  Bruno Turra e Claudio Pisapia. Infine scrittori e artisti ( e politici)  noti o relativamente  meno noti “ferraresi” completano il quadro: Carlo Andreoli (Alo), Lorenzo Barbieri, Pier Francesco Betteloni, Bruno Corticelli, Marcello Darbo, Federico Felloni, Zairo Ferrante, Claudio Fochi, Sylvia Forty, Raimondo Galante, Maurizio Ganzaroli, Sergio GnudI, Davide Grandi, Luca Grigoli, Pier Luigi Guerrini, Maria Letizia Paiato, Rita Pasqualini, Alfredo Pini,  Francesco Rendine,  Alberto Squarcia, Vitaliano Teti,  Vittorio Zanella, Carlo Zannetti

Trattasi di un lavoro atipico ed originale nel dibattito culturale ferrarese, una sorta di futurologia di Ferrara città d’arte (come non a caso ha già segnalato la testata web nazionale di orientamento scientifico “MeteoWeb).

Una congettura a più voci, aperte e intenzionalmente anche contraddittorie e diverse che evidenziano scenari paradossalmente in equilibrio tra futuri prossimi ferraresi verso una nuovo rinascimento 2.0 o neodecadenti e neomedievali.

Info

http://www.mondadoristore.it/2020-Ferrara-citta-d-arte-AAVV-a-cura-di-Roby-Guerra/eai978882649293/

 

METEOWEB

http://www.meteoweb.eu/2017/09/futuro-del-villaggio-elettronico-ferrara-modello-2-0/974288/

 

Azienda in crisi? Legacoop mostra come i lavoratori possono fare cooperativa e ripartire

Operai che prendono in mano un’industria e la fanno rinascere, lavoratrici che rimettono in piedi una lavanderia che sta spostando la sede altrove, dipendenti che si mettono insieme per acquistare la fabbrica dal titolare che si ritira. I casi ci sono anche a Ferrara e dintorni: cooperative create da lavoratori, che da dipendenti sono diventati soci. Così le stesse persone che lavorano hanno fatto ripartire un’azienda. Il salto è grosso e comporta un impegno grande, investimenti e responsabilità. In questo modo, però, si evita la perdita del posto di lavoro e si mantengono competenze maturate in anni di servizio, capacità personali e una rete consolidata di clienti. A Ferrara è successo e lo strumento che è stato usato è quello del “Workers Buyout”, un termine tecnico inglese che indica il “recupero di un’impresa da parte dei lavoratori” in forma di cooperativa. Per questo il presidente di Legacoop Estense Andrea Benini ha pensato che fosse importante valorizzare il sistema del Workers Buyout. Per spiegare cos’è e come funziona è stato organizzato un incontro in forma di seminario aperto a tutti mercoledì 20 settembre 2017 alla Camera di commercio di Ferrara. “L’idea – ha spiegato Benini – è quella di riuscire a calare di più il sistema nella realtà ferrarese e vedere se sia possibile aumentare il numero di casi sul territorio”.

Seminario su WBO a Ferrara, Andrea Benini e Alessandro Viola, 20 settembre 2017

Ecco le considerazioni da cui parte il presidente di Legacoop Estense: “Dal 2008, considerato l’anno di inizio ufficiale della crisi, sono fallite tra le 2.200 e le 2.700 imprese all’anno. Questo ha fatto sì che a Ferrara la disoccupazione sia salita sopra la doppia cifra e il territorio resta in forti difficoltà. Non a caso ogni giorno, qui, oltre 25mila persone prendono la macchina o il treno e vanno a lavorare fuori dal territorio ferrarese”. Andrea Benini spiega: “Abbiano calcolato che ci potrebbero essere una cinquantina di casi a cui applicare il modello del Workers Buyout, recupero d’impresa come cooperativa. E come Legacoop abbiamo deciso di investire su questo. Per prima cosa bisogna capire se la crisi di un’azienda è dovuta al mercato strutturale o se ci sono margini di recupero. In certi casi, poi, ci sono aziende che funzionano, ma c’è l’imprenditore che si ritira senza nessuno che rilevi l’attività mantenendola sul posto. Non tutte le situazioni hanno queste caratteristiche. Nei casi in cui questa possibilità c’è ed è applicabile, è importante che ci sia una condivisione della situazione da parte del territorio (istituzioni, associazioni di categoria, sindacati, mezzi d’informazione). Ed è importante che chi lavora sappia che c’è questa opportunità”.

Per capire cosa significa, in pratica, recuperare un’impresa in forma di cooperativa come Workers Buyout, nel corso dell’incontro sono presentati quattro casi e testimonianze di aziende rinate con successo proprio in questo modo.

Matteo Tomasi, presidente Lavanderia Girasole Comacchio (FE)

Caso 1/Lavanderia industriale Girasole, Comacchio (FE)
Matteo Tomasi, presidente della cooperativa Lavanderia Girasole a Porto Garibaldi di Comacchio (Ferrara), ha raccontato: “Da lavoratori dipendenti ci siamo trovati davanti alla prospettiva di dovere fare ogni giorno sessanta chilometri per andare al lavoro da Comacchio a Ferrara dove veniva trasferito lo stabilimento Servizi ospedalieri di Manutencoop. Questo voleva dire allungare ogni giorno di parecchio l’orario di lavoro con disagi per chi lavora, che sono in gran parte donne. Così abbiamo deciso di metterci insieme per continuare a fare lì quell’attività di lavaggio di biancheria industriale, non più come dipendenti ma come soci della cooperativa che abbiamo costituito”. Nel 2015, è nata la Lavanderia Girasole. “Eravamo in 14 persone – racconta Tomasi – quasi tutte lavoratici con esperienza ventennale nel settore. Abbiamo creato la cooperativa e adesso, dopo due anni siamo in 25 lavoratori con un fatturato in espansione tra gli 800mila e un milione di euro all’anno. La stessa Servizi ospedalieri per cui lavoravamo è diventata nostro cliente”. Un’esperienza di successo, ma faticosa. Tomasi scherza: “Io continuo a non dormirci la notte! Non è facile passare da lavoratore a imprenditore, ma per fortuna Legacoop ci ha supportati e continua ad essere per me un punto di riferimento quotidiano di ascolto e sostegno”.

Per approfondire il caso, si può leggere articolo di Ferraraitalia sulla Lavanderia Girasole.

Vincenzo Cangiano, cooperativa Arbizzi di Reggio Emilia

Caso 2/Cooperativa Arbizzi, Reggio Emilia

Vincenzo Cangiano, responsabile della logistica dell’azienda di commercio di imballaggi, ha spiegato: “Nel nostro caso, si trattava di un’azienda giovane, fondata nel 1999, e in pieno sviluppo, ma con il titolare che aveva deciso di lasciare questa attività per dedicarsi completamente a un’altra azienda che aveva creato nel frattempo con altrettanto successo. Il titolare ha deciso di non vendere per cedere a noi lavoratori un’azienda che avevamo contribuito a far nascere e crescere con passione”. Nel 2014 nasce così la cooperativa Arbizzi. “Il lavoro è lo stesso di prima – dice Cangiano – ma con maggiori responsabilità! La situazione è stata studiata molto bene con noi da Legacoop, Fondo di cassa con Cfi e Confidi. La formazione è fondamentale, in questi casi, e abbiamo fatto corsi per essere preparati”.

Cataldo Ruppi di Alfa Engineering, Modena

Caso 3/Alfa Engineering, Modena

Cataldo Ruppi, manager di produzione, ha raccontato la storia di questa impresa: “La cooperativa è nata il 13 febbraio 2012 con 17 addetti. Si occupa di fabbricazione di giunti isolanti per gasdotti e acquedotti destinati al mercato del petrolchimico. Siamo nati dopo che il nostro datore di lavoro, vedendo profilarsi l’ombra del fallimento, ha pensato a uno stratagemma per ripartire fondando lui stesso una cooperativa. Dopo qualche mese è andato via e abbiamo iniziato il nostro vero percorso con l’appoggio di un temporary manager di Legacoop. Come dipendenti eravamo in 22, ma quando si è trattato di decidere di prendere in mano noi la situazione siamo rimasti in 9. Una volta che l’azienda si è consolidata sono venuti in molti a bussare alla porta, ma a quel punto abbiamo detto no e abbiamo scelto invece di assumere persone nuove. Per la formazione abbiamo fatto ricorso ai bandi regionali. È importante che ci sia una maggiore informazione e comunicazione per fare sapere che questa possibilità esiste, farlo sapere a operai e lavoratori che si possono trovare in situazioni del genere!”.

Luigi Patanè di Soles Tech, Forli

Caso 4/Soles Tech, Forlì

Luigi Patanè, direttore commerciale e socio fondatore della cooperativa specializzata in tecniche e brevetti per l’adeguamento antisismico degli edifici, ha spiegato come è stata costituita la cooperativa nel 2015. “Quell’anno – dice – è stato il più martoriato nel settore delle costruzioni e la Soles Tech srl è andata in vendita. La prospettiva era di perdere un lavoro in cui ognuno si identificava. In diversi dipendenti abbiamo pensato all’acquisto, perché sentivamo l’azienda come nostra. Eravamo una trentina di persone a pensarla così, cioè praticamente tutti, ma non avevamo pensato subito alla cooperativa. Fondamentale è stato l’aiuto della nostra associazione, di Confcooperative di Cesena e di Cfi-Cooperazione finanza e impresa. Nel giro di qualche mese abbiamo capitalizzato tanto e nel 2016 siamo partiti già con degli utili. Mettendosi insieme si riescono a fare cose incredibili. La cooperativa è uno strumento prezioso, non diventi padroncino, ma imprenditore protagonista e utile. Con i nostri brevetti siamo intervenuti a L’Aquila e ora, a Mirandola, andremo a sollevare un condominio con una base ammortizzante che serve ad assorbire l’energia dei terremoti. Ci piacerebbe che si facesse anche più prevenzione, non intervenire solo dopo che si sono state le catastrofi”

Nicola Folletti, Alberto Lazzarini, Andrea Benini, Alessandro Viola, Seminario su WBO, Ferrara, 20 settembre 2017

Il presidente della Camera di Commercio di Ferrara, Paolo Govoni ha annunciato che «nelle prossime giunte verranno discussi bandi di finanziamento per questi tipi di attività. Queste situazioni si possono affrontare solo insieme, istituzioni e imprese, perché serve una forte coesione di sistema».

Per il portavoce dell’Alleanza delle Cooperative di Ferrara, Nicola Folletti, si tratta di «una proposta concreta, che mette al centro i lavoratori e consente di superare il puro assistenzialismo per puntare, invece, a una rinascita imprenditoriale».

Molto dettagliato l’intervento di Alessandro Viola, che si occupa di Istruttoria e sviluppo per CFI-Cooperazione Finanza e Impresa, l’apposito fondo partecipato dal Ministero dello Sviluppo economico per la promozione delle imprese cooperative. Viola ha sottolineato: «Serve un presidio di responsabilità, perché l’azienda non solo parta, ma resti in vita. Tra il 2011 e il 2017 abbiamo messo insieme 54 cooperative nate con il Workers Buyout, di cui solo otto sono finite in default, ed erano anche tra le più piccole». Le fasi per rilevare un’azienda privata in forma di cooperativa sono diverse: la start up (“un inizio dove si deve essere molto cauti e verificare che ci siano le condizioni per ripartire”), il refill (“fase di aggiustamento di problemi economici”), quindi il buy (“acquisto del ramo d’azienda”). I lavoratori stessi contribuiscono alla capitalizzazione (utilizzando Tfr e mobilità anticipata). Il problema oggi – secondo Viola – è che occorre promuovere questo strumento e andare a cercare quelle imprese che vanno avanti ma sono deboli con fideiussioni che cominciano a traballare”. A condurre l’incontro è stato il giornalista Alberto Lazzarini.

Arbizzi – gruppo dei soci lavoratori, Reggio Emilia
Pubblico e relatori del seminario sui WBO-Workers Buyout
Presentazione della Lavanderia Girasole, Comacchio (Ferrara)

Per info: scrivere a info@legacoopestense.coop, all’attenzione di Chiara Bertelli.

Rifiuti – Calotta

Da Fabio Tonioli

c.a. Francesco Monini
Ma sì, caro Monini! Lei ha perfettamente ragione. Il sistema della calotta – pur rispondendo ad una logica di miglioramento della raccolta differenziata (costringe a separare plastica, carta e umido dal poco resto per non incorrere in una maggiorazione del costo del servizio) – può essere utilizzato nei paesi scandinavi, non in Italia.

Ritirare la Carta Smeraldo, separare i diversi rifiuti, utilizzare i sacchetti standard per l’indifferenziata, seguire la procedura di apertura/chiusura della calotta: troppo complicato! Occorre una educazione civica che noi italiani ancora dobbiamo acquisire (ah, Massimo D’Azeglio…).

Certo, Hera non si é fatta mancare giuste critiche e queste vanno rimarcate. Su questo aspetto i media é corretto che svolgano il loro ruolo, senza trascurare però di formare un po’ di coscienza civica nei propri lettori, sottolineando le ragioni oggettive che informano il nuovo sistema. Il limitarsi a critiche strumentali o al vizio della “dietrologia” non concorre certo ad accrescere il civismo di cui noi italiani siamo particolarmente carenti.

Buona giornata.

Fabio Tonioli

La Ferrara dei Templari

La Storia è beffarda, specialmente quando si cerca di cancellare dalle sue pagine interi capitoli scomodi o troppo pericolosi. La dantesca legge del contrappasso non vale soltanto per l’oltretomba, spesso chi è vittima di una damnatio memoriae diventa infatti inaspettatamente protagonista delle epoche successive. Tanto da cambiarle.
Proprio questo sembra essere stato il destino dell’ordine religioso e cavalleresco più famoso di sempre: i Templari. Il nome è certo leggendario e ce lo conferma un recente sondaggio, secondo cui si trova tra le cinque parole ritenute più affascinanti da ragazze e ragazzi di oggi. Al di là dei miti costruiti da romanzi e film d’avventura, tuttavia, la loro vicenda è per alcuni tratti ancora misteriosa, ma per altri decisamente definita e chiara. Vennero chiamati così perchè i primi nove cavalieri, a partire dal 1118, ebbero come propria residenza in Terrasanta un palazzo che sorgeva sulle antiche vestigia del Tempio di Salomone. Era l’indomani della prima crociata, il loro compito era proteggere i pellegrini e contrastare la presenza musulmana nei luoghi sacri per la cristianità.

Col passare del tempo divennero però molto potenti, basti pensare che diedero vita al primo sistema bancario moderno e fu proprio una motivazione economica la causa della loro fine, del loro sterminio. Una ricchezza che derivava dalle offerte dei penitenti, dai proventi per i servizi militari, dalle enormi estensioni di territorio donate da sovrani e papi. Addirittura Innocenzo III stabilì che non dovevano obbedienza ad alcun potere statale o ecclesiastico tranne che al papa; inoltre erano esonerati dal pagamento di qualsiasi somma. Ma non è finita qui: l’Ordine divenne anche il consulente, l’amministratore e il depositario dell’erario dei regni di Francia, Inghilterra e Aragona. E proprio la Francia, nella persona del suo re Filippo il Bello, aveva maturato un enorme debito nei suoi confronti. Nessuna voglia di estinguerlo. Un debito che costerà la vita ai Cavalieri del Tempio, costretti a confessare peccati mai commessi, provocando lo scioglimento definitivo dell’Ordine. La notte di venerdì 13 ottobre 1307 – da qui nasce la superstizione legata a questo giorno nefasto – vennero arrestati in massa: era l’inizio della fine.

La loro è stata dunque una presenza capillare in tutta Europa e, grazie a studi attenti e scrupolosi, anche a Ferrara è stato confermato ufficialmente ormai da anni il loro passaggio, nonostante la damnatio memoriae decretata da Giovanni XXII. Tra le testimonianze che possiamo trovare ancora oggi, una si trova sotto, o meglio sopra, gli occhi di tutti: è un bassorilievo che possiamo osservare sulla facciata della Cattedrale, sopra la volta che conduce in via degli Adelardi, raffigurante proprio un cavaliere templare. Un cavaliere che fu molto importante per la città, anzi, nel periodo in cui visse egli fu certamente il ferrarese più importante e influente: era Guglielmo III degli Adelardi, governatore di Ferrara, che aveva avuto modo di vedere i Cavalieri del Tempio proprio in Terrasanta e ne era rimasto talmente affascinato da prendere i voti, diventando così Cavaliere Professo. Un alto grado che fu rappresentato simbolicamente nello stemma di famiglia.
Questo per quanto riguarda la Cattedrale di oggi. Ma se tornassimo indietro di centinaia di anni, troveremmo un altro indizio, sempre riferibile a Guglielmo III, questa volta sul fianco meridionale della costruzione. L’ormai murata Porta dei pellegrini, utilizzata come varco di uscita per i pellegrini diretti a sud, e della quale non abbiamo più tracce, era un tempo decorata da sculture che fortunatamente sono giunte sino a noi, seppur in maniera frammentaria. Sono le Formelle dei mesi, rappresentazioni allegoriche per ogni mese dell’anno. Ce ne interessa ora una in particolare: maggio, il mese in cui gli stenti dei contadini dovevano lasciare il posto ai divertimenti degli aristocratici, è personificato da un cavaliere, del tutto simile a quello della facciata, anch’egli vestito da templare.
Ma la vera sorpresa è un’altra. Nell’ex chiesa di San Giacomo, oggi sconsacrata, il fondatore dell’Ordine dei Templari, Hugues de Payns, starebbe riposando da quasi mille anni

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
La gaia scuola

Ebbene anche quest’anno è arrivato il primo giorno di scuola. Tutti ad augurare un buon anno scolastico alle nuove generazioni.
Dopo un’estate rovente con i figli da sistemare perché le scuole sono chiuse, finalmente ce li siamo tolti d’intorno, riconsegnati nelle mani dei loro sorveglianti, rinchiusi per nove mesi nelle scatole che abbiamo predisposto giusto per loro: le aule, le classi, le scuole sparse nei tanti angoli della città a non interferire con la vita degli adulti che hanno ben altro da fare.
La scuola è sempre questa qui, uguale da secoli. Per i nostri “tesori” non abbiamo saputo inventarci di meglio che metterli a crescere in scatola.
Qualcuno ci ha provato a rompere le scatole a liberare l’infanzia e l’adolescenza, ma è sempre stato considerato strano, singolare, un descolarizzatore da isolare, se mai anche da celebrare, ma sempre con la sicurezza gattopardesca di cambiare per non cambiare nulla.
Già usare lo smartphone a scuola, una protesi della vita delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, fa discutere e ad alcuni pare pure scandaloso, figuriamoci liberarci delle scatole dove con cura li abbiamo ordinati come in un archivio per età anagrafiche.
Eppure il sapere che dovremmo trasmettergli dalla cattedra ai banchi non sta mica nelle scuole, sta decisamente fuori dagli edifici scolastici, sparso per i tanti luoghi della città dai musei alle biblioteche, dagli archivi ai teatri, nelle architetture e nei monumenti, nella vita e nelle esperienze delle persone che potrebbero condividere le tante cose che sanno.
Ma anche quel sapere l’abbiamo catturato, pressato e confezionato nelle nozioni, nei libri di testo, nelle LIM e nei tablet. Tutto per istruirli ed educarli con dosi di sapere artefatto, precotto e predigerito. Impresa difficile dentro quelle scatole portare bambini e adolescenti a scoprire l’avventura del sapere, il piacere del sapere fino ad amarlo e desiderarlo quasi come un oggetto erotico per dirla con Massimo Recalcati.
Viviamo nella società della conoscenza e, strano a dirsi, ai nostri ragazzi la conoscenza gliela forniamo fuori della società, il più lontano possibile dai suoi rumori e interferenze.
Educare, formare, istruire tra gli adulti, anziché separati e lontani da loro, pare qualcosa che sa di addestramento proprio delle società primitive non di una scuola invenzione degli stati moderni.
E allora classi chiuse, perimetri delineati in modo ferreo, zaini, compiti, un’altra vita dalla vita che sta fuori nella società della conoscenza, nella società dell’istruzione continua dalla nascita alla tomba, tutto un altro mondo dal mondo di tutti i giorni.
La gaia scuola un ossimoro sacrilego.
Sarebbe bello se anche nella nostra città amministratori, insegnanti, genitori, dirigenti scolastici celebrassero l’inizio del nuovo anno scolastico trovando il tempo di leggere un libretto, poco più di un centinaio di pagine, “La gaia educazione”. L’ha scritto Paolo Mottana, professore di filosofia dell’educazione all’università di Milano Bicocca, e tra i fondatori del progetto “Tutta un’altra scuola”.
Un’utopia? No, un’eutopia, spiega Mottana. La scuola come luogo buono e giusto, una sorta di tana, di base dove ci si rifugia a organizzare le proprie avventure, le incursioni in città, fuori nella società della conoscenza a scoprire cosa offre o come poter interagire lungo la strada che porta a conquistare il sapere. Per Mottana si tratta di invadere il territorio di esperienze, partendo dalla scuola-tana dove ci si trova la mattina per decidere dove andare, quali esperienze compiere, quali progetti mettere in cantiere. Non per fare cose astratte, ma per fare qualcosa di coinvolgente e partecipativo.
Far cadere le mura dove abbiamo rinchiuso bambini, ragazzi e insegnanti per fare educazione diffusa, educazione che invada delle loro voci, energie e intelligenze la città, che rompa il silenzio assordante degli adulti.
Significa fare del territorio il centro del progetto educativo, il luogo della crescita, delle avventure che attendono chi si incammina lungo la strada della conoscenza.
La scuola diffusa oltre le aule, diffusa non dalla navigazione con i computer, ma tramite la navigazione per le strade e i luoghi della città.
È uscito un altro libretto che Paolo Mottana ha scritto con Giuseppe Campagnoli, architetto, già dirigente scolastico ed esperto dell’Unesco nel campo dell’educazione e della creatività.
La città educante”, Manifesto dell’educazione diffusa, come oltrepassare la scuola. Una alternativa radicale all’istituzione scolastica attuale, per rimettere i nostri giovani, piccoli e grandi in circolazione nella società, ma è necessario che scuola e città imparino a dialogare e si alleino per assumere il ruolo educativo in maniera invasiva.
Ma questo richiede anche che la città sia ripensata e questo è compito e responsabilità dei suoi amministratori, sia ripensata come città dell’apprendimento, dove luoghi e strutture urbanistiche siano progettati per essere gli ambienti di apprendimento dei suoi giovani, per essere luoghi di incontro anche con i saperi, esperienze di conoscenza di prima mano capaci di nutrire il desiderio e la passione del sapere. Luoghi pensati per narrare il sapere, nel senso etimologico di ‘gnarus’, vale a dire di rendere esperti, la narrazione come modo per mettere ordine al disordine delle esperienze.
Ragazze e ragazzi, bambine e bambine costituirebbero una nuova linfa da troppo tempo emarginata, mortificata, imprigionata nelle classi, nelle aule, nei banchi.
Non più insegnanti trasmettitori di discipline ma compagni di viaggio, registi, guide, professionisti capaci di agevolare i percorsi di interconnessione dei saperi, di formare all’autonomia e all’autorganizzazione.
Pensare i luoghi della città come luoghi di apprendimento non occasionale, come parte integrante del progetto educativo, come i luoghi di un’idea di scuola aperta, di scuola totale, di scuola globale, dove gli edifici scolastici sono progettati per essere i punti di partenza e di ritorno.
Il sapere è movimento, è ricerca continua, non può amare la staticità delle aule e dei banchi, come del resto i nostri giovani, a queste condizioni, difficilmente possono innamorarsi del sapere e della fatica di studiare.

Siria: Save the Children, 730.000 bambini rifugiati siriani tagliati fuori dall’educazione e sempre più esposti al lavoro minorile e ai matrimoni precoci

Da Save the Children

Nel mondo più della metà dei bambini rifugiati non vanno a scuola

Alla vigilia dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’Organizzazione si appella alla comunità internazionale per rafforzare gli impegni per assicurare il diritto all’educazione ai minori rifugiati: nell’ultimo anno, secondo l’Organizzazione, i bambini rifugiati nel mondo hanno perso quasi 700 milioni di giorni scolastici

Circa 730.000 bambini siriani rifugiati nei Paesi limitrofi, quasi la metà di tutti coloro in età scolare, quest’anno non andranno a scuola e risulteranno quindi ancora più vulnerabili ed esposti ai matrimoni precoci e a forme di lavoro minorile, un numero che è aumentato di un terzo rispetto all’anno scorso.

È l’allarme lanciato da Save the Children, l’Organizzazione internazionale che dal 1919 lotta per salvare la vita dei bambini e garantire loro un futuro, alla viglia dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si apre domani a New York e nella settimana in cui, nei Paesi mediorientali, è previsto il normale rientro degli alunni tra i banchi di scuola.

Il numero di bambini rifugiati siriani tagliati fuori dall’educazione è passato dal 34% del totale di coloro in età scolare registrato alla fine del 2016 al 43% odierno, mentre negli ultimi 12 mesi i bambini rifugiati siriani in Libano, Giordania e Turchia hanno perso più di 133 milioni di giorni di scuola. A livello globale, secondo un nuovo rapporto dell’Organizzazione, più della metà dei bambini rifugiati sono tagliati fuori dall’educazione e i giorni di scuola persi da 3,5 milioni di bambini rifugiati negli ultimi 12 mesi ammontano collettivamente a quasi 700 milioni.

I Paesi limitrofi, dove da anni vivono milioni di rifugiati siriani, hanno attuato una serie di cambiamenti apprezzabili per accrescere l’accesso all’educazione dei bambini rifugiati, tuttavia gli impegni assunti dai governi ospitanti e dai donatori da soli non possono bastare. La dipendenza delle famiglie dal lavoro minorile dei propri figli, il timore che le ragazze possano essere vittime di molestie o stupri mentre vanno a scuola e la mancanza di mezzi di trasporto rappresentano infatti ostacoli persistenti che vanificano gli sforzi profusi e causano l’abbandono scolastico da parte di bambini e adolescenti.

“Quando i bambini non vanno a scuola, sono più vulnerabili a forme di sfruttamento e abusi. L’educazione è in grado di restituire a questi bambini il loro futuro e può contribuire a proteggerli. Le scuole infatti garantiscono anche uno spazio sicuro per permettere ai bambini che sono fuggiti dalla violenza estrema di recuperare dalle sofferenze psicologiche che hanno vissuto”, ha dichiarato Helle Thorning-Schmidt, Direttore Generale di Save the Children International.

In Giordania, si stima che negli ultimi 12 mesi più di 90.000 bambini rifugiati abbiano perso 16,6 milioni di giorni di scuola; in Libano in 290.000 non hanno invece potuto frequentare 49,6 milioni di giorni scolastici, mentre in Turchia sono 66,6 milioni i giorni a scuola saltati da 338.000 bambini rifugiati.

L’enorme divario educativo periste nonostante gli ampi impegni assunti al Vertice del leader sui rifugiati all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dello scorso settembre, quando i donatori e i principali governi ospitanti di tutto il mondo si erano impegnati per permettere l’accesso a scuola a un milione di bambini rifugiati.

Molte di queste promesse non erano tuttavia nuove e hanno rappresentato un rinnovo di quelle già annunciate in passato, come quelle fatte in occasione della Conferenza sulla Siria a Londra nel febbraio 2016. Tuttavia la vera sfida continua ad essere rappresentata dagli ostacoli che permangono all’accesso all’educazione, come dimostra il fatto che molti dei 300.000 posti a scuola a disposizione dei bambini rifugiati siriani nella regione risultino ancora vacanti.

“Lo scorso anno i leader mondiali si sono riuniti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e si sono impegnati a fare molto di più per i bambini rifugiati e far sì che ognuno di loro possa tornare a scuola entro pochi mesi da quando è stato costretto ad abbandonare la propria casa. Tuttavia l’azione va ancora troppo a rilento. I governi devono rimuovere gli ostacoli che impediscono ai bambini di tornare a studiare e di contribuire alla ricostruzione dei loro Paesi”, ha affermato Helle Thorning-Schmidt.

“Questa settimana la comunità internazionale deve fare dei passi in avanti e dare seguito alle promesse fatte ai bambini rifugiati. Altrimenti, milioni di bambini rifugiati nel mondo, davanti alla prospettiva di un altro anno privati dell’educazione, continueranno a vedere scomparire il loro futuro. A questi bambini il futuro è stato rubato due volte: la prima volta, quando sono fuggiti dalla guerra e la seconda nel momento in cui continuano a vedersi negato il loro diritto all’educazione”, ha proseguito il Direttore Generale di Save the Children International.

Per quanto riguarda i bambini che vivono in zone di conflitto, si stima che in Siria quasi 2 milioni di minori sono ancora tagliati fuori dall’educazione, mentre in luoghi come Raqqa, dove negli ultimi mesi si sono registrati più di 150.000 bambini sfollati, risulta ancora particolarmente difficoltoso riportare i bambini a scuola.

“I bambini che hanno vissuto la guerra e che hanno sperimentato in prima persona le violenze estreme ci raccontano continuamente che hanno un disperato bisogno di tornare a scuola e ricominciare a studiare – ha dichiarato Sonia Khush, Direttore di Save the Children per la Siria – La nostra esperienza nei Paesi vicini dimostra che se siamo in grado di riportare i bambini tra i banchi di scuola e dare loro il supporto di cui hanno bisogno, possiamo realmente aiutarli a superare le sofferenze vissute. Ma per fare questo c’è bisogno di un impegno maggiore in termini di bisogni educativi e di supporto alla salute mentale dei minori”.

Se, da un lato, le iscrizioni dei bambini rifugiati siriani ai programmi di educazione formale nei Paesi limitrofi sono rimaste sostanzialmente stabili, si sono registrate invece forti riduzioni per quanto riguarda l’educazione informale, che è di fondamentale importanza per le comunità marginalizzate e per i bambini che non vanno a scuola da molti anni.

Save the Children e i suoi partner stanno intervenendo in varie parti della regione per garantire l’iscrizione dei bambini all’inizio dell’anno scolastico. Tuttavia, se gli impegni assunti non verranno concretizzati, per molti bambini rifugiati questo significherebbe restare fuori dall’educazione ancora per un altro anno.

Per sostenere gli interventi di Save the Children in favore dei bambini rifugiati siriani: https://www.savethechildren.it/emergenze/emergenza-siria

Per ulteriori informazioni:
Tel 06-48070023/63/81/82
ufficiostampa@savethechildren.org
www.savethechildren.it

Croce Rossa Italiana Ferrara
La forza del volontariato: “Un’Italia che aiuta”

Croce Rossa Italiana, Associazione di Promozione Sociale, ha per scopo l’assistenza sanitaria e sociale sia in tempo di pace che in tempo di conflitto. Posta sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, la Cri fa parte del Movimento Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa. Nelle sue azioni a livello internazionale, nei Paesi in conflitto, si coordina con il Comitato Internazionale della Croce Rossa e con la Federazione Internazionale di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa per gli altri interventi. A livello nazionale è organizzata in Comitati dislocati su tutto il territorio.

Volontario della Croce Rossa dal 1987, attuale presidente del comitato di Ferrara, Alessio Zagniconserva intatta l’energia dell’imprenditore morale che opera per passione e mostra il sentimento di chi, pensando alla propria organizzazione, riesce ancora a commuoversi: “le donne e gli uomini di Croce Rossa sono persone fantastiche e io come molti volontari, sento di appartenere a qualcosa di importante”. E aggiunge subito: “Siamo un’organizzazione molto grande e complessa, forse la più grande in Italia, e ci impegniamo tutti molto per mantenere la nostra indipendenza e l’efficienza su cui si reggono funzionalità e buona reputazione. Pur non avendo mai avuto la stretta necessità di lavorare su comunicazione esterna e immagine, cosa su cui oggi invece investiamo molto, sappiamo che Croce Rossa e Mezzaluna Rossa sono i simboli  più conosciuti al mondo. Anche a livello locale, abbiamo riscoperto l’importanza di comunicare meglio: la recente riorganizzazione dell’ente che lo ha trasformato da pubblico a privato ci spinge in questa direzione, ci spinge a lavorare per uniformare pratiche e strumenti a livello nazionale diventando al contempo sempre più radicati sui territori”.

Come siete organizzati sul territorio ferrarese? Che dimensioni ha l’associazione?
La Croce Rossa di Ferrara si estende sul territorio coincidente con la provincia, fatta eccezione per il comitato di Cento-Bondeno che da poco ha acquisito una propria indipendenza. Con la riforma, tuttavia, il livello provinciale è stato eliminato e questo passaggio ha portato più autonomia ai singoli territori, garantendo un più forte radicamento alla realtà locale e consentendo di sviluppare una visione più imprenditoriale, centrata sul corretto investimento delle risorse per garantire servizi ottimali alle comunità che vivono sui territori.
Oggi operano sul territorio ferrarese circa 500 volontari a cui si affiancano 7 dipendenti, di cui 6 tecnici per trasporti sanitari e un’impiegata amministrativa. Tutti noi volontari, me compreso, garantiamo la nostra opera senza ricevere dall’associazione alcun compenso, come peraltro si evince dal nostro bilancio approvato di recente all’unanimità dalla nostra Assemblea Provinciale.

Una tale organizzazione richiede sicuramente un forte impegno e molte risorse per poter funzionare. Quali sono le risorse finanziarie che usate e come le producete?
Siamo un’Associazione di Promozione Sociale, ma lo spirito è quello dell’impresa sociale, con un bilancio importante di oltre 500.000 euro: ci siamo organizzati per offrire servizi di qualità nel modo più efficiente possibile, valorizzando tutte le nostre risorse per adempiere alla nostra missione: salvare vite umane e aiutare le persone in stato di difficoltà o di fragilità.
Le risorse economiche generate, sono assorbite dai costi fissi (la struttura, i mezzi, il personale dipendente) oppure vengono reinvestite per offrire servizi sempre migliori, per disporre delle risorse necessarie a gratificare l’orgoglio dei volontari, che devono sentirsi competenti, parte di una struttura efficace con mezzi all’avanguardia. Lo spirito imprenditoriale serve a gestire correttamente e valorizzare al massimo tutte le nostre risorse.
Non riceviamo alcuna forma di contributo o sussidio pubblico: ci finanziamo vendendo servizi di alta qualità che produciamo grazie alle competenze dei nostri volontari e dei nostri operatori fissi. Dalla vendita dei servizi che eroghiamo in regime di convenzione deriva oltre il 90% delle nostre entrate; abbiamo due macchine che fanno servizio 118 per il Servizio Sanitario Nazionale; realizziamo interventi di assistenza a manifestazioni, grandi eventi e in tutti quei casi nei quali ci viene richiesta presenza per garantire la sicurezza sanitaria: le partite della Spal, il servizio a Ferrara sotto le Stelle, il Capodanno al Castello, il Palio e poi manifestazioni sportive, culturali e molto altro. Gli investimenti in attrezzature e in formazione ci consentono di gestire al meglio questi grandi eventi. Realizziamo trasporti sanitari da e verso gli ospedali coprendo anche lunghe percorrenze, in tutto il mondo. Abbiamo per esempio accompagnato a casa un assistente familiare filippino in stato terminale, abbiamo fatto rientrare malati da paesi anche molto lontani come l’India o l’Ucraina inviando fin là i nostri operatori.
Ci occupiamo anche di formazione, sia per i nostri volontari che per esterni, soprattutto sicurezza sul lavoro (ex legge 626) e primo soccorso. Proponiamo corsi a prezzi competitivi e rilasciando attestati a norma di legge grazie alla nostra scuola di formazione intitolata ad Alessio Agresti, volontario morto in un incidente stradale ormai 16 anni fa. Altre piccole entrate vengono da attività di fundraising (banchetti, raccolte fondi, lasciti, donazioni: uno per l’acquisto di un’ambulanza molti anni fa e quest’anno una donazione importante per l’acquisto di defibrillatori). Queste sono le nostre entrate: mai ricevuti finanziamenti dal Comitato Nazionale o da altre fonti. Per noi è importantissima questa trasparenza sulle entrate anche per salvaguardare la reputazione di Croce Rossa e la qualità del lavoro dei nostri volontari.

Considerato che la gran parte delle entrate deriva dalla vendita di servizi, come vi siete organizzati per ‘garantirvi un mercato’? Incontrate difficoltà nel vendere i vostri servizi?
Oggi riceviamo tantissime richieste: se avessimo il doppio di mezzi e dei volontari ci sarebbe ancora di più da lavorare! Con l’organizzazione attuale rinunciamo invece a molti servizi – i volontari infatti durante il giorno svolgono altre occupazioni – perché non ci è possibile seguire tutto; in questi casi dirottiamo le richieste verso altre associazioni che godono della nostra fiducia e stanno all’interno della rete. Non puntiamo necessariamente all’economicità dei nostri servizi ma, mettendo in campo attrezzature all’avanguardia e grandi competenze, riusciamo nondimeno a essere molto competitivi. Per i grandi eventi, per esempio, mettiamo in campo di attrezzature il cui valore supera i 150.000 euro, tanto per dare un ordine di grandezza. Investiamo quindi sulla qualità elevata dei nostri servizi.

Hai parlato di un fatturato importante: come utilizzate e investite le entrate?
La maggior parte delle nostre entrate contribuisce al costo per il personale dipendente, per l’acquisto di beni strumentali, per le spese vive e per azioni di inclusione sociale. A titolo di esempio, abbiamo pagato nell’ultimo anno almeno 23.000 euro di assicurazioni per veicoli e personale; abbiamo acquistato due ambulanze, ognuna delle quali costa circa 70.000 euro. Oggi disponiamo di tre ambulanze in servizio 118, di 36 mezzi tra furgoni, mezzi speciali per trasporto disabili, autocarro, carrello cucina, carrello posto avanzato, perfino due gommoni, un campo di addestramento per le nostre unità cinofile e un sistema di radiocomunicazioni digitali tra i più evoluti. Tutta attrezzatura molto costosa, anche per le spese di manutenzione (oltre che di acquisto), ma di qualità e indispensabile per lavorare bene. A livello nazionale, considerando le diverse realtà locali di Croce Rossa, siamo forniti davvero di tutto, comprese motoslitte, generatori e spazzaneve dislocati nei centri presenti sui diversi territori. Ci mancano solo gli elicotteri!
Ciò che resta tolte le spese viene investito in azioni di inclusione sociale: assistenza a famiglie, ma anche a chi ci chiede una mano; ma sempre e solo tramite beni e servizi. Generi alimentari per esempio, che acquistiamo usando gli utili per integrare quello che riceviamo dal Banco Alimentare e da Agea, interventi che sono proposti dai servizi sociali, ragazzi bisognosi, carcerati che chiedono anche solo un paio di occhiali. Comunque non eroghiamo mai denaro, ma lo traduciamo in servizi o in beni.

I volontari sono la risorsa distintiva di Croce Rossa: come si avvicinano all’associazione e come la vivono quando entrano?
In Croce Rossa si può entrare a partire da 14 anni, nel settore giovanile, facendo attività che consentano di crescere poco alla volta. Non vi sono però limiti di età né preclusioni di sorta. Tutti i soci di Croce Rossa pagano una quota associativa annuale: ci sono soci ordinari che sono semplicemente iscritti senza svolgere attività diretta, ma la stragrande maggioranza svolge servizio attivo come volontario. Solitamente il volontario si avvicina perché coinvolto da amici e familiari o perché ha visto lavorare Croce Rossa dopo le grosse emergenze, che solitamente accrescono considerevolmente il numero di richieste di ingresso. C’è anche chi si avvicina, ma poi ‘prende paura’: essere volontario è comunque un impegno di grande responsabilità, verso se stessi e verso gli altri. C’è chi cerca di mettere in pratica valori, chi vuol essere in grado di fare qualcosa di utile in caso di bisogno, chi subisce il fascino della divisa, chi si avvicina per semplice curiosità. Certo, chi si innamora di Croce Rossa ci resta tutta la vita; tuttavia anche da noi, nonostante le numerose richieste, c’è un grande ricambio.
Al volontario viene chiesto molto per mantenere in piedi una realtà così complessa, serve molta motivazione. E anche a noi capita, a volte, di non riuscire a valorizzare a pieno le caratteristiche di una persona oppure di non riuscire sempre a trasmettere quel che vorremo, questa passione, questo senso di identità. Cerchiamo comunque, sempre, di valorizzare anche chi può dare solo un’ora alla settimana. Ma resta il fatto che al volontario si chiede veramente tanto. I volontari lavorano come matti, ce la mettono tutta, sono sempre pronti, partecipano e partono quando c’è bisogno, rinunciano, per qualche giorno, al lavoro remunerato e quando tornano, stanchi, si portano a casa le esperienze, le relazioni personali, un ulteriore bagaglio personale.
Le donne e gli uomini di Croce Rossa sono gente fantastica che si impegna e ce la mette tutta; e lo si vede ancor di più quando ci sono emergenze a livello locale o nazionale. L’estate scorsa, sono partiti il giorno stesso del terremoto e senza sapere che difficoltà avrebbero trovato, dovendo allestire tutto e non sapendo, arrivando sul luogo per primi, cosa li aspettasse. Quando arriva la richiesta di partenza loro sono già pronti, sappiamo che la risposta c’è, sempre efficiente, professionale e disinteressata. Questa è la grande ricchezza del volontariato in ogni ambito.
Quando il terremoto ha colpito la nostra regione, i volontari erano già presenti in sede alle 5 del mattino, subito disponibili per ogni necessità del territorio. Sono cose che emozionano, la grande macchina della solidarietà oggi diventata più veloce ed efficiente. E tra i volontari, i giovani, femmine e maschi sono presenti: la loro presenza mostra che essi sono l’adesso, non solo il futuro, come una certa retorica sostiene in modo scontato.

Come pensi e vedi il futuro della Croce Rossa a livello locale?
Oltre all’impegno nei trasporti sanitari, molti non sanno che, per esempio, disponiamo di unità cinofile e Servizio opsa, operatori polivalenti salvataggi in acqua, tutte figure che rientrano nei soccorsi speciali. Abbiamo un’idroambulanza a Codigoro e una a Ferrara; siamo in ottime relazioni con altri territori, Bolzano per esempio, dal quale abbiamo mutuato l’idea del posto medico avanzato (Pma); abbiamo un gruppo logistico molto efficiente. Per noi diventa importante dare evidenza di questa complessità, comunicare meglio questa ricchezza, che è innanzitutto umana, insieme ai nostri valori. A livello locale vale ciò che è anche generale, internazionale: essere risorsa delle comunità e dei propri territori; senza sostituire il servizio pubblico, ma sostenendolo e creando valore aggiunto. Essere associazione ci permette di fare rete meglio: nel futuro vedo una Croce Rossa con ruoli ben definiti, sociale e sanitario, una rete con tutto il mondo del volontariato e delle istituzioni. Il sogno è quello di vedere Croce Rossa agire in un campo comune dove, con chiarezza di ruoli e perfetta sinergia, operano tutti gli attori in rete.

Per conoscere meglio la Croce Rossa di Ferrara http://www.criferrara.it
Immagini tratte dal profilo fb Croce Rossa Italiana – Ferrara

Valore economico contro valori sociali: quattordici lavoratori de Il Germoglio a rischio

L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro.
(Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 1, comma 1)

L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
(Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 41)

Quanto vale la dignità di 14 lavoratori? Quanto vale l’occasione di riscatto per 10 persone disabili che attraverso il lavoro riprendono in mano la propria vita, danno il proprio contributo alla famiglia e alla società in cui vivono?
25.000 euro. Questa è la differenza fra l’offerta economica della ditta di Roma che ha vinto e quella della Cooperativa Sociale ferrarese Il Germoglio, che ha perso per una manciata di decimali l’appalto di un servizio che gestiva da 12 anni, dal 2005.
Da fine settembre Fabio, Marino, Antonella, Marzia, Melissa, Amin, Stefania, Giuseppe, Sergio, Marco, Gladis, Alessio, Laura e Veronica non sanno che ne sarà di loro.

La gara d’appalto è quella per la fornitura, per conto dell’Asl, di ausili protesici ai cittadini del territorio di Ferrara che ne hanno bisogno e ne hanno diritto: letti, carrozzine, deambulatori e altri articoli.
“Tutti i soggetti che si sono presentati erano profit e non ferraresi, Il Germoglio era l’unica cooperativa sociale e l’unica realtà del territorio”, spiega il presidente Biagio Missanelli. Nessuna irregolarità, chiarisce subito Missanelli, e la gara non seguiva nemmeno il tanto vituperato criterio del massimo ribasso, ma quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa. “La nostra offerta si è classificata prima sul criterio della qualità, che valeva il 60% del punteggio, mentre la ditta di Roma su questo aspetto è arrivata ultima. Per quanto riguarda il criterio del prezzo, che valeva il 40% del totale, noi siamo arrivati terzi, mentre la Srl romana prima”. 300.000 euro la base d’asta della gara, 225.000 l’offerta economica dell’impresa di Roma, 250.000 l’offerta della Cooperativa sociale Il Germoglio.
“Dal punto di vista delle procedure e dei dati oggettivi è tutto regolare”, ripete Missanelli, che però contemporaneamente afferma che oltre la forma c’è la sostanza. “L’Asl ha peccato di superficialità perché ha trattato questo servizio come una qualsiasi fornitura”, non considerando il valore sociale sia per chi riceve il servizio come utente – 16.000 persone in 12 anni – sia per chi lo fornisce come lavoratore, persone seguite dal Dipartimento di Salute Mentale e ad altri servizi della stessa Asl, oltre ai Servizi Sociali.

Il presidente de Il Germoglio e i lavoratori si pongono alcune domande.
Dodici anni di collaborazione non valgono nulla? “I primi anni, ai tempi di Erba Voglio, fornivamo il servizio come attività di volontariato, attraverso una convenzione, poi è venuto l’appalto”, ricorda Missanelli con una punta di amarezza.
I risultati raggiunti in questi anni dal punto di vista della qualità e della sostenibilità del servizio non valgono nulla? Dieci persone, sulle quattrodici che ora vedono a rischio il proprio posto di lavoro, hanno una disabilità superiore al 50% e hanno fornito un servizio ineccepibile: hanno consegnato gli ausili in magazzino o direttamente nelle case di chi non poteva ritirarli, spiegando ai diretti interessati o ai familiari o ai badanti in modo semplice l’uso, per esempio, del sollevatore o del deambulatore. Inoltre, grazie al loro lavoro, “l’Asl è stata l’azienda più virtuosa in ambito regionale con l’89% di ausili usati recuperati”, rivendicano Il Germoglio e i lavoratori.
L’inclusione, l’autonomia, la dignità di queste persone non valgono nulla? Questi quattordici lavoratori non chiedono assistenza, “rivendicano la dignità conquistata attraverso il proprio lavoro”, “sono formati e hanno le competenze per svolgere il proprio lavoro”, sottolinea con forza Missanelli. Alcuni hanno rinunciato alla pensione per avere lo stipendio e con questo stipendio mantengono le loro famiglie, perché spesso è l’unica entrata mensile: “uno di loro, sessantenne, mantiene se stesso e la moglie, un’altra ragazza, insieme al fratello precario, sosteneva i genitori e il fratello disabile, e questi sono solo due casi”, spiega il presidente de Il Germoglio.

Ora tutte queste situazioni sono a rischio perché “sebbene l’appalto preveda una clausola sociale, questa vale nella misura in cui il committente, cioè l’Asl, decide di farla valere”.
Ecco perché la cooperativa e i sindacati chiedono a gran voce che l’Asl e la ditta romana che ha vinto l’appalto prendano l’impegno di “riassorbire questi lavoratori”. Per questo motivo, dichiara Biagio Missanelli unitamente alla dirigenza di Confcooperative Ferrara “faremo sentire la nostra voce attraverso la stampa, andando nelle piazze, facendo appelli. Tutto quello che serve, senza stancarci, per dare un’impronta etica e sostenibile al nostro lavoro, per noi e per chi dovrà subire in futuro la rigidità del principio di concorrenza contro il principio del buon senso, del principio del massimo risparmio contro il principio del valore pubblico di un servizio, del principio della globalizzazione contro il principio della territorialità”.

Un sorriso per l’Africa: intervista al presidente di Smile Africa Gianni Andreoli

“Ho sempre amato le sfide”, sorride Gianni Andreoli, presidente dell’associazione Smile Africa.
Dopo aver collaborato per anni con associazioni di volontariato in ambito nazionale, Gianni partì per l’Africa, in visita a varie missioni umanitarie. Durante il viaggio attraverso Burundi, Congo, Etiopia, Tanzania, insieme a un gruppo di amici, Gianni maturò l’idea di creare una propria realtà di volontariato. Era il 2007 e iniziava l’avventura umana di Smile Africa (www.smileafrica.it), un’associazione che opera in Africa e in Italia e si impegna in attività culturali e progetti educativi volti a migliorare le condizioni di vita delle persone.
“La prima sede di Smile Africa era il garage di mia nonna”, racconta sorridendo il presidente. Ora la sede è a Rovigo, ma Smile Africa è costituita da più gruppi di volontari presenti e attivi nel territorio italiano, che rappresentano il vero motore dell’associazione.
Nel 2010, durante una missione in Mozambico e Tanzania, Andreoli sentì parlare di Chipole, un villaggio “dove nessuno voleva andare”. Insieme all’associazione ferrarese Afrika Twende, con la quale nacque una stretta collaborazione, Gianni intuì che quello sarebbe stato un progetto per Smile Africa. Gli raccontarono di una “lunga strada bianca, sterrata, in mezzo alla foresta” che isolava quel villaggio dalle altre comunità della Tanzania. Non lo scoraggiarono nemmeno le quattordici ore di jeep tra la città di Dar es Salaam e Songea Chipole, traballando tra buche e fango su una panca di legno; anzi, gli ostacoli divennero il mordente per un’appassionante, bellissima sfida.
In questi anni i volontari di Smile Africa hanno realizzato a Chipole un piccolo ospedale – centro sanitario, con l’intento di fornire una struttura per fronteggiare necessità sanitarie alla popolazione più povera del villaggio e di altri sei limitrofi (Progetto‘Hope Of Life’, “Speranza di vita”). L’ospedale è l’unico nell’arco di 100 chilometri e il suo bacino di utenza raggiunge i centomila abitanti.

Il progetto di Isabella Malagutti

Accanto sorge l’orfanotrofio di Chipole, gestito dalle suore benedettine. In questi mesi Smile Africa sta promuovendo e ricercando fondi per il progetto ‘La Casa del sorriso’, per ristrutturare e riqualificare proprio la struttura che accoglie i bambini orfani, alla quale è annessa una scuola.
A Ferrara una coppia di professionisti – l’architetto Isabella Malagutti e il dottore in fisica Andrea Colombani – cura gratuitamente il progetto degli interventi necessari alla riqualificazione dell’orfanotrofio di Chipole.
I volontari di Smile Africa hanno fotografato e misurato la struttura già esistente, che è stata poi ricostruita virtualmente in 3d da Andrea Colombani attraverso il sistema Bim; Isabella Malagutti ha quindi progettato alcuni micro interventi per costruire e riqualificare la struttura nel rispetto dei principi architettonici locali. Gli interventi previsti non andranno a inficiare la tecnologia costruttiva, in continuità con l’esistente: si utilizzeranno materiali reperibili in Africa e tecniche di costruzione tradizionali.

Gianni, qual è la filosofia del progetto?
Noi pensiamo che non abbia senso costruire fabbricati avveniristici, con tecnologie occidentali: strutture come quelle finiscono per diventare le cosiddette ‘cattedrali nel deserto’, destinate a usurarsi o a essere abbandonate perché difficili da gestire e mantenere. Il nostro obiettivo è quello di collaborare rispettando le tradizioni locali, fornendo alle persone gli strumenti per crescere in autonomia. Si coinvolgeranno quindi i lavoratori del luogo, per formarli e garantire la manutenzione della struttura che verrà riqualificata.
Per l’avvio dell’ospedale, per esempio, il governo locale si è impegnato a stipendiare il personale medico-sanitario che lavora nella struttura. Il convento e la missione delle suore benedettine rappresentano il ‘cuore’, il centro di aggregazione di una comunità: l’ospedale, le scuole primaria, secondaria e la scuola di avviamento al lavoro sono realtà attive grazie alle quali Chipole cresce, valorizzando le proprie risorse. La riqualificazione dell’orfanotrofio grazie al progetto ‘La casa del sorriso’ migliorerebbe gli spazi dal punto di vista logistico e socio sanitario.

Come si può collaborare per far crescere la Casa del sorriso?
Al progetto si può partecipare con le donazioni: è possibile destinare il 5×1000 a Smile Africa Onlus per sostenere le opere e i progetti che l’associazione promuove, (scrivendo nella dichiarazione dei redditi il Codice Fiscale: 01330220292; info@smileafrica.it) o inviando sostegni liberali attraverso il conto corrente dell’associazione.
Chi volesse collaborare attivamente, toccare con mano la realtà di Chipole e impegnarsi a lavorare alla ristrutturazione, infine, può recarsicome volontario in Africa (il viaggio aereo è a proprie spese, mentre vitto e alloggio sono garantiti per il periodo di permanenza): un viaggio in Tanzania rappresenta un’opportunità autentica per incontrare e conoscere i destinatari del progetto. Da qualche anno, in collaborazione con le università di Padova, Rovigo e Ferrara, anche gli studenti possono recarsi all’estero per un periodo di tirocinio.
Come si legge nei racconti di chi ha lavorato come volontario, si tratta di un’esperienza che può aprire occhi, mente e cuore.

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volontarie di Smile Africa
Gianni Andreoli con bimbi della missione
bimbi di Chipole

Che cosa ha scoperto andando in Africa?
L’Africa è davvero un altro mondo, quando si decide di partire per l’Africa bisogna abbandonare il pensiero occidentale: là sono totalmente diversi i concetti di tempo e di lavoro. È radicata inoltre la convinzione che in Italia e in Europa sia semplice guadagnare denaro; proprio per questo motivo abbiamo portato in Italia una delle suore benedettine africane che collabora attivamente al progetto: ha assistito ai mercatini, alle manifestazioni e agli spettacoli organizzati con fini benefici e si è resa conto delle difficoltà che i volontari incontrano nel raccogliere fondi per le missioni.
Lavorando nelle zone remote dell’Africa, non solo ho conosciuto un’altra cultura, ma ho riscoperto la mia identità, la mia occidentalità. Ho capito che oltre a dare una mano alle persone in Tanzania, sentivo il bisogno di ritornare a impegnarmi anche nel luogo dove sono nato. Infatti in Italia ci stiamo dedicando alla disabilità e alcuni progetti di Smile Africa sono dedicati ai ragazzi diversamente abili, per favorirne l’integrazione sociale.

Quali difficoltà ha incontrato in questi anni?
È molto complicato fare bene il bene. L’incontro con una cultura diversa richiede molta pazienza. Quando ci si impegna a fare qualcosa per gli altri, è fondamentale la capacità di saper accettare chi ti sta di fronte, senza volerlo cambiare: solo se superiamo questo atteggiamento, riusciremo a costruire società coese. È importante soprattutto tollerare sia i nostri limiti, sia quelli degli altri, senza ricadere nel proprio egoismo, senza dimenticare mai la gratuità. Per me significa non rinunciare a un ideale, vuol dire comunicare verso la vita, costruire una ‘realtà del sorriso’. Questa è la mia filosofia: un atteggiamento di comprensione e di apertura all’altro. Ma non nego che ho attraversato diversi momenti difficili, di fatica e di crisi.

Eppure alla domanda “Non ha mai pensato di lasciar perdere?”, Gianni risponde con un monosillabo inequivocabile: “No”.

La bella estate dei bambini a Ferrara

Anche la pioggia si è dovuta arrendere davanti a quella banda scalmanata e colorata che è il popolo di Estate Bambini. Così, dopo una notte e una mattinata di pioggia intensa, nel pomeriggio di domenica scorsa, le nubi hanno un pochino arretrato, illuminando con bei fasci di luce pomeridiana l’ultima giornata della manifestazione che, da ben 24 anni, anima la piazza dell’Acquedotto. Ma non mi si chieda un resoconto giornalistico sull’evento, perchè quando si parla dei Centri per le famiglie e delle loro innumerevoli attività sono assolutamente di parte, e ridurre a un mero resoconto le attività che per dieci giorni hanno caratterizzato i pomeriggi dei piccoli cittadini e dei loro famigliari sarebbe cosa di poco conto. Mamma non autoctona con bambina piccola, sono stata praticamente adottata dalle educatrici dell’Isola del Tesoro, trovando nel Centro per le famiglie, una solidissima struttura fatta di tante persone che forniscono aiuto, consulenza, pomeriggi di animazione per i bambini o semplicemente due chiacchiere davanti ad una tazza di thè. Io sono italiana e integrata, pensate all’effetto dirompente che questo può avere su chi, spaesato nel vero senso della parola, non parla neanche la nostra lingua. (leggi qui un esempio narrato da Ferraraitalia).

Estate Bambini è quindi il risultato tangibile di questa bella sinergia. Un rapporto di fiducia che lega gli educatori e volontari dell’associazione C.i.r.c.i. e i genitori e che si riverbera sui bambini ai quali, come in un paese delle meraviglie, è regalata una settimana piena di attività, ludiche ed educative, tra le più varie. La festa ha avuto inizio il 1 settembre con la ‘Notte bianca dei bambini’ ed il centro cittadino si è trasformato in luogo di giochi e spettacoli di animazione, per poi continuare, da martedì 4 settembre fino a domenica 10, in piazza XXIV Maggio. Qui la attività proposte sono talmente tante che un elenco esaustivo sarebbe troppo lungo da fare. Credo, aldilà di tutto, che sia importante cogliere lo spirito che anima queste giornate. A iniziare dall’elemento che maggiormente caratterizza in positivo la manifestazione: la presenza dei tanti giovanissimi volontari che, senza sosta, si spendono per la buona riuscita della manifestazione.

Edicola dei giovani volontari
Volontari ad Estate Bambini

Il volontariato dei ragazzi, che nasce all’interno dell’associazione C.i.r.c.i., vede i giovanissimi cimentarsi in diverse esperienze che vanno dall’animazione della baby dance alla lettura di favole e racconti nella Tana delle storie, fino alla cucina nel punto ristoro KinderOne. Sono poi gli stessi giovani volontari del laboratorio teatrale a mettere in scena il bellissimo spettacolo ‘E la nave va’, a cura di Antonella Antonellini e Patrizia Nanu, che ha fatto il pieno di applausi e pubblico. Altrettanto varia e interessante è stata la programmazione all’interno dell’Isola del Tesoro: la biblioteca sempre a disposizione degli appassionati piccoli lettori e una mostra intitolata ‘Mostra Paparapapà’, che rendeva omaggio a tutti i papà che passano a Estate bambini.

Interessante la programmazione dei cortometraggi e lungometraggi dedicati ai più piccoli (da ‘Il Monello’ di Chaplin a ‘Shaun la pecora’, fino a Miyazaki con ‘Il mio vicino Totoro’) nello spazio cinema dell’Isola.

Ho desiderato tornare bambina per poter partecipare sabato notte alla ‘Notte dei piccoli lettori insonni’. I bambini dai sette ai dieci anni, sacco a pelo e pigiamino d’ordinanza, hanno pernottato all’interno dell’Isola del Tesoro tra letture di fiabe, cioccolata calda e battaglie di cuscini. Insomma, spero che concordiate con me: se è vero che l’Italia non è un paese per giovani (parafrasando un famosissimo film) credo proprio che Ferrara sia una città per bambini.

(Foto tratte dalla pagina Facebook di C.i.r.c.i. Ferrara)

BORDO PAGINA
Tra Adriano Spatola e Italo Calvino: intervista a Sergio Gnudi

Biografia minima
Come scrittore e poeta sono attivo dai primi anni ottanta con tre opere “Tra due fuochi”, “Scorie Padane” e “Iperbolia”. Opere che erano certamente sulla scia della tradizione di rottura e di ripensamento dei canoni di Adriano Spatola. Un’azione dirompente nell’ambito della scrittura. Poesia totale è alla base di quelle opere. Dopo molto tempo ho rivoluto gridare non so io nemmeno che cosa, ma certamente produrre qualcosa di nuovo, di stimolante. Nel 2007 è uscito “Del diavolo e della santità” che è il libro di passaggio e di consapevolezza che la rottura dei canoni può avvenire anche attraverso la rilettura degli antichi. Così è nata la trilogia classica “A Cinzia”, “Raccontami o Dea” e “Il filo di Afrodite”. Ma la poesia deve essere totale come aveva insegnato Spatola e allora sono seguite due opere “Stagioni quotidiane” una pseudo bucolica e “Incitamento alla politica” nel 2016. Nel frattempo la mia attività di giornalista, intervistatore e scrittore mi ha portato a ripensare perché così pochi leggono in Italia. E allora nella mia ricerca ho scritto e sto scrivendo libri per ragazzi che hanno avuto un’ottima diffusione nelle scuole “La mamma racconta gli eroi” la cui traduzione in francese ha partecipato al salone del libro dell’Ile de France, e “Le storie di Antonio”. L’espressione attraverso le parole però ti riporta alla contaminazione tra le arti e così insieme con il musicista Beppe Giampà sono nate “Era Febbraio” nel 2015 e “Era ingenuo il tuo sorriso” nel 2016, due reading musicali per il teatro.

Gnudi, il tuo ultimo lavoro dedicato a Calvino e al suo Marcovaldo, presentato anche a Autori a Corte 2017, un approfondimento?
“Era ingenuo il tuo sorriso” nasce inizialmente da una collaborazione con un musicista astigiano, Beppe Giampà, con cui avevo prodotto già nel 2015 “Era febbraio”, un viaggio musicale recitato sulla Resistenza di ieri e di oggi, presentato oltre che a Padova, Asti e Milano anche alla Sala della Musica di Ferrara. Questa seconda collaborazione era comunque inizialmente un lavoro creato per il palco: otto ballate da me scritte e musicate da Giampà e introdotte nello spettacolo da brevi brani del “Marcovaldo”. Un lavoro che nella sua presentazione al palazzetto di Montegrotto Terme ha visto il tutto esaurito. Mancava qualcosa a questo incrocio di espressioni, così è uscito il libro con tredici ballate, illustrato da una brava disegnatrice Arianna Castellazzi. In questo modo ho cercato di chiudere il cerchio delle contaminazioni su un argomento, l’incoscienza di vivere, che Calvino ha voluto lasciarci come eredità. E ho cercato di essere conseguente, magari in forme diverse, alla poesia totale.

Gnudi, infatti un lavoro già multimediale… e sulla scia dell’arte totale preconizzata da un certo Adriano Spatola in fine secondo novecento… stagione di artisti e scrittori intenzionalmente perturbanti sul piano sociale e tua matrice personale storica…
Anche questa è una strada, forse la mia personale, per usare tutte le forme e lavorare sull’archetipo, come dovrebbe fare il narratore di poesia. Questa strada è certamente cambiata da quella intrapresa negli anni ottanta sulla scia di un genio dell’arte totale come Adriano Spatola, che ho avuto la fortuna di conoscere, anche se per poco e sulla scia di persone che, prima di me, alcune con me si sono poste il problema della perpetuazione dello stereotipo che la poesia stava perseguendo. E allora quando si andava ad allestire Casa dell’Ariosto con plastica e terra e luci e parole gettate contro i muri si dichiarava la circolarità dell’arte e non la sua elitaria ripetizione. A me che sono nato a Pontelagoscuro, un quartiere profondamente operaio in quegli anni e in quelli precedenti, pareva normale che l’arte si estrinsecasse in tutte le espressioni umane. “Scorie Padane” nacque in quegli anni, in cui tra una manifestazione politica e un’attività di volontariato, prima ottenni la maturità al Liceo Classico Ariosto e posso assicurarti che non era la normalità allora, poi mi laureai a Bologna in Lettere con una tesi di ricerca in antropologia culturale il cui postulato iniziale era: la cultura classica della scuola e la cultura popolare hanno lo stesso grado di dignità. Ti lascio immaginare lo scalpore in sede di discussione di tesi con Ezio Raimondi. Non potevo non abbracciare in pieno e perseguire fino in fondo la poesia totale del gruppo di Spatola: un’arte che provava la rottura per offrire criteri di approccio nuovi e universali. C’è riuscita? Inizialmente mi pareva che qualcosa si fosse mosso, poi in questi anni mi è parso che tutto sia rientrato, producendo fasulli o scrittori sul tovagliolo della pizzeria.

Perchè secondo te oggi, tempi liquidi, almeno nella superficie prevalente, prevale ovunque certo manierismo senza coraggio propulsivo ed intellettuale?
Un po’ ti ho risposto alla fine della domanda precedente, ma vedrò d’essere più breve e preciso. Vorrei darti intanto la mia idea di tempi liquidi. Sono tempi che non prevedono nessun approfondimento, che non prevedono nessuno o poco studio, sono i tempi dei tuttologi sono i tempi, come hai detto tu, della superficie. Non vorrei essere poi tacciato di vecchio, ma il manierismo, l’utilizzo di standard codificati e sicuri avviene nei momenti di decadenza. Ecco io penso che i posteri penseranno a questi nostri primi decenni del duemila come i tempi della decadenza: questo vale per la politica, per la società e per l’arte. Dopo anni che sembravano preludere all’arte totale per tutti, siamo invece arrivati alla bassa cultura per tutti. Il manierismo rassicura, il coraggio intellettuale in questi tempi e discriminante e discriminato. Quanto c’entra in tutto ciò la globalizzazione uniformante, quanto c’entra in tutto ciò la diversa interpretazione dei valori e delle priorità o quanto c’entra in tutto ciò questo irrazionale desiderio di beni e rifiuto del concetto della morte, sinceramente non so dirtelo.

Progetti prossimo venturi?
Mi sono fatto una promessa quando nel 2007 ho ricominciato a produrre parole: di continuare a farlo fino a quando sentivo di avere ancora qualche cosa di diverso, di nuovo rispetto agli altri da dire, che sia serio o ironico o sarcastico poco conta. Qualcosa di diverso dagli altri.
Fatta questa premessa ti dico che in questo momento oltre a “Era ingenuo il tuo sorriso” sto cercando di far girare anche un libretto contaminato dalla fotografia e già rappresentato un paio di volte in teatro dal titolo “Sensazioni”: cosa è, non lo so e non me ne importa. Sono parole e sensazioni. Alla fiera di Padova di ottobre, oltre che con questi due lavori andrò con una nuovissima produzione fatta con l’astigiano Giampà “La storia delle storie”. Qui si mescolano parole e canzoni sulla storia del Torino calcio, ma anche dei vari periodo storici in questa particolare squadra ha vissuta la propria vita: dalla fondazione nel 1906 al 1994. Passando attraverso il grande Torino. A noi piace molto questo particolare e nuovo approccio. Infine sono in attesa di pubblicazione due libri per ragazzi, che cercheranno di seguire le orme degli altri. Proprio per ultimo sta prendendo forma la modalità delle ballate poetiche che affrontano argomenti di streghe e di storie di vita, ma rispetto a questo avremo tempo di parlare.

Emanuele Tassinari è il quinto finalista del Clara Festival

da CLARA

Ha giocato e vinto in casa Emanuele Tassinari, giovane studente di ingegneria di Renazzo che ieri sera ha vinto la quarta tappa del Clara Festival, a Cento, con una versione di “A man’s world” di James Brown, che ha convinto unanimemente la giuria.
Tappa di Cento che si è svolta a fiera campionaria ormai conclusa, dopo essere stata rinviata di un giorno a causa delle previsioni meteo avverse per domenica. Un pubblico quindi non troppo numeroso ma comunque caloroso, che oltre ai nove concorrenti in gara ha potuto applaudire, fuori gara, Rossella Longo, giovane promessa del panorama musicale italiano, che ha chiuso la sua esibizione con una spettacolare interpretazione di “NewYork New York”.
Ospite fisso del festival Roberto Ferrari, prestigiatore, illusionista e ventriloquo, che con i suoi sketch tematici anche ieri sera ha saputo intrattenere il pubblico ricordando l’importanza di una corretta gestione dei rifiuti e i valori di CLARA, la società pubblica (nata dalla fusione di CMV Raccolta e AREA), che ha promosso la manifestazione per valorizzare i talenti del territorio in un’iniziativa che coniuga musica e ambiente.

La prossima tappa è in programma per domenica 17 alla Fiera di Portomaggiore.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Il cuore oltre la siepe

Lanciare il cuore oltre la siepe non usa più. Forse non abbiamo più un cuore in grado di essere lanciato e non ci sono più siepi che valga la pena scavalcare. Siamo tutti dei burocrati del quotidiano, con i piedi ben piantati per terra, notai dell’esistente. I circospetti della vita, sacerdoti dell’aurea mediocritas. Il massimo è inventare un’app, far partire una start up.
Entusiasmarsi, innamorarsi delle idee, avere prospettive, avere visioni, apparire alla madonna, come scriveva Carmelo Bene, sono tutte cose rischiose per i manager della noia. Meglio inventare l’usato che rischiare il nuovo.
Così ci teniamo i nostri recinti, le nostre certezze, il nostro rovistare nei cassetti delle solite cose. I cassetti già riempiti e ordinati che forniamo alle nuove generazioni perché si abituino a fare come noi, come prima di noi gli altri, perché è sempre l’esperienza del passato a insegnare, perché si sa che il futuro non ha esperienza. È la cecità di Saramago che ci perseguita, ma sebbene lui ce l’abbia descritta non abbiamo ancora imparato a vedere. Tutto è indifferente finché il futuro non si fa presente.
Abbiamo bisogno urgente della terapia dell’utopia, abbiamo bisogno di città capaci di aprire fabbriche di idee e di occupare le piazze con i tavoli delle idee, di vincere il privato con il sociale, che nessuno sia privato della collettività, degli altri, dei loro pensieri e delle loro creatività. Senza prospettiva non si costruisce né si inventa e nemmeno si ha il diritto di mettere le mani in avanti verso il futuro. Senza utopia concreta si vede solo nebbia. Non possiamo essere ciechi di fronte alla necessità di una visione del futuro.
L’obiettivo principale, come scriveva Michel Foucault, non è di scoprire cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo per poter immaginare e costruire ciò che potremmo diventare. Imitare i pensieri che possono venire in mente a un cervello creativo, ecco quello che dovremmo fare. La nostra patria è il futuro, è questa carenza di spinta al futuro che ci affligge e ciò non potrà mai rendere migliori i passati che i futuri inevitabilmente diventeranno.
Intanto noi continuiamo a insegnare, a chi vivrà il futuro più di noi, il passato anziché il futuro e certo questo non potrà garantire futuri e passati migliori.
Il “non ancora”, sognare e avere nostalgia del “non ancora”. Dove sono i nostri “non ancora”, la capacità di sognare il futuro dei nostri figli? I “non ancora” che colpevolmente mancano, di cui portiamo la responsabilità, l’incapacità di costruire i progetti di vita, quei progetti di vita che non abitano le nostre scuole e le nostre istituzioni, che anzi li mortificano.
La vita non basta, la vita non ci basta più. Il respiro della vita è sempre verso il lontano, si nutre del vicino per andare lontano, se non ci fate andare lontano con le idee, il pensiero, l’invenzione, l’immaginazione, la creatività finirete per ucciderci. Non il lontano delle finzioni, ma il lontano degli obiettivi da conquistare, per crescere, per continuare a immaginare il lontano da raggiungere.
È questo che non sappiamo insegnare, è questo che non sappiamo far imparare ad apprendere ai nostri giovani chiusi sul presente delle nostre aule, chiusi al futuro che è l’unico che ci sa attendere.
Abitiamo cittadinanze che non sanno reinventarsi nell’ozio delle teste che non sono mai ben fatte e neppure ci proviamo a pensare come potrebbero essere fatte. È il nostro cancro moderno, il peggiore da sconfiggere, quello senza ricerca per guarire.
Le uniche luci che si accendono sono quelle delle strade nel buio delle nostre notti spente alle luci umane sospettosamente spiate dai led delle nostre tecnologie.
Mentre cresce la solitudine digitale, sempre più quella sociale reclama d’essere sconfitta. Reclama di colmare i vuoti, di scrivere negli spazi bianchi, di liberare le potenzialità individuali e collettive.
C’è chi vive con lo shock del futuro, sono i tanti mestatori di paure, i sequestratori dei pensieri e delle idee. Sono i nemici dell’utopia, quelli che non saprebbero come sopravvivere alla collisione con il domani. Se non avessimo da sempre pensato ai futuri possibili, l’umanità non avrebbe mai conosciuto il progresso. Ora la sfida che abbiamo di fronte è però quella di lavorare per i futuri preferibili, rispetto ai futuri probabili.
Non c’è niente di peggio che viaggiare soli con la propria ombra perché porta a dimenticare la meta e dimenticare la meta, come sottolineava Nietzsche, è la stupidaggine più frequente che si possa fare. Noi è questa stupidaggine che stiamo commettendo.

“Non sono razzista, ma…” Piccola riflessione da viaggio

Seduto in disparte come mio solito, assisto alla scena fingendo disinteresse, distacco.
Il fatto in sé è molto semplice: una donna bianca, sulla sessantina dice di essere una cittadina del mondo e condanna la poca “internazionalizzazione” di questa città. Fin qui si può essere o meno in accordo con la suddetta donna. La scena così descritta non andrebbe neppure riportata su di un giornale. Ma allargando il campo visivo si capisce che il quadro è ben più ampio.
La signora è in piedi, il bus, del quale eviterò di fornire dati su numero e tratta, è pieno. Il buon mattino fa sì che gran parte dei viaggiatori sia stipato in poco spazio. La protagonista, donna bianca, capelli cotonati biondi, porta con sé una borsa che tiene attaccata a lei. Si lamenta salendo del ritardo del mezzo, ritardo di qualche minuto. Dice che lei ha viaggiato in tutto il mondo e che se Ferrara vuole fare un balzo in avanti deve aumentare i propri orizzonti, non essere più un paesotto, ma diventare città internazionale. Sorrido. Mi viene da ridere perché mentre dobbiamo tutti subirci la predica, lei a ogni curva, frenata, scossone, fa di tutto per evitare il sedile accanto, unico vuoto dell’intero mezzo. E lo si vede chiaramente che fa di tutto pur di non sedersi, nemmeno avvicinarsi.
Il motivo è presto detto: lì accanto, poggiato con la testa sul finestrino c’è un ragazzo, avrà 25 anni, vestito in buona maniera, sguardo perso a osservare la città che scorre dal finestrino ascoltando musica da grosse cuffie bianche. Il suo enorme peccato è avere la pelle nera d’ebano. Mi fa molto riflettere questa scena, mi sembra sottratta da uno dei migliori film sul razzismo. Ci si deve ‘internazionalizzare’, ma guai a mischiarsi con ‘quelli’ che fanno paura. Un motto della Lega, qualche anno fa, recitava: “difendi il tuo simile, distruggi il resto”. Questo direi che può riassumere alla perfezione tutto il quadro, degno del miglior artista impressionista. E proprio come propone questa corrente, se lo si guarda da troppo vicino sembra un accozzaglia di pennellate buttate senza senso. E’ da lontano che dà il meglio, nella distanza si può avere la visione olistica dell’ipocrisia che ci circonda, di quelli che si lamentano delle tasse alte, ma non chiedono lo scontrino, di quelli che “o mio Dio, ma che succede a questo clima?!” e lasciano la macchina accesa, di quelle persone le quali “non sono razzista ma…”. Proprio come la signora che nel suo piccolo ragionamento qualcosa di giusto la dice, in questo mondo globalizzato e interconnesso bisogna avere una visione globale, ma meglio nemmeno sedersi di fianco a chi, giustamente o no, fa paura perché valutato tramite lo specchio degli stereotipi.

Ma si sa, oggi la condanna precede la prova, basta un sospetto, un dubbio, una semplice combinazione genetica di fattori per essere etichettati: sei nero? Stupri, spacci e rubi. Sei dell’Est? Sei un alcolizzato, stupri e rubi. Sei musulmano? Sei un terrorista e a casa probabilmente hai una moglie bambina che avrai stuprato. E’ questa la realtà che ci circonda, il mondo della ‘post-verità’, il mondo delle opinioni senza prove, degli articoli letti nei soli titoli, nelle condanne date senza sentenze.
Il mio giro sul bus finisce, la mia fermata è arrivata. Quel bus carico di stereotipi e ipocrisia va via lentamente e io mi dico che “anche oggi diventeremo un paese migliore domani”.

FACCI CASO
L’ipocrisia delle parole

Perché dirigente scolastico e non più preside? Evidente: per attenuare il peso dell’autorità tradizionalmente incardinato nel ruolo e nel termine che lo definisce. Come se cambiare il nome bastasse a cambiare la sostanza delle cose. Infingimenti, ipocrisie. La scuola ne è maestra. Anni fa si erano inventati persino il Centro amministrativo provinciale come nuova denominazione dell’ex Provveditorato agli studi. Ma Centro amministrativo andava bene per qualsiasi generica funzione e non richiamava assolutamente il mondo della scuola, tant’è che anni dopo qualche cervellone del ministero deve averlo capito e lo si è ribattezzato in Ufficio scolastico provinciale. Ma anche ‘dirigente scolastico’ è generico, perché pure l’ex vicepreside è un dirigente scolastico. Se ora si chiama vice dirigente scolastico, per favore non ditemelo. Preferisco restare con il dubbio…

Ma il problema va ben oltre i confini della scuola. Si modificano i nomi ai ministeri, alle tasse, si dà giù la polvere per prevenire le allergie, ma la sostanza non muta.
Un po’ ovunque si guarda come sempre più alla forma che alla vera essenza. Le parole fanno paura ed è comunque più facile cambiare un’etichetta che un’abitudine. Così, demagogicamente, si picconano le targhette e restano inamovibili gli attori del gioco, che gestiscono il potere secondo schemi immutabili a dispetto della loro fluttuante nominalizzazione.

Per altri versi l’ipocrisia della ri-nominalizzazione funziona anche in termini di attenuatore, laddove si occupano spazi scivolosi, come la diversità e la devianza. Ecco allora gli ipovedenti, gli audiolesi, i diversamente abili. Talvolta l’intento è valido, ma il risultato è goffo e imbarazzante persino per i soggetti che si vorrebbero tutelare dalle ingiurie dei nomi, talché spesso sono proprio loro i ‘ciechi’ o i ‘sordi’ a rivendicare nominalmente la loro condizione anche attraverso il recupero e l’esibizione delle espressioni più comuni, dribblando ogni caritatevole attenuazione, proprio per confermare che l’emancipazione passa attraverso i fatti più che attraverso le formule. E comunque, più che nelle parole, il potere di lenire o di ferire sta nei comportamenti. Sono loro che concretamente marcano la sostanza delle cose e che, proprio per questo, risultano più duri da assimilare e digerire. Certo, chiamare negro un nero è offensivo, ma chiamarlo nero non basta a elevare la sua condizione se i diritti civili non gli sono riconosciuti e il rispetto nei suoi confronti non è praticato. Definire audileso un sordo non gli rende l’udito (e forse definirlo sordo non è neppure così oltraggioso…).

In sostanza, tornando al pretesto iniziale di questa digressione: alcune espressioni possono sottendere reali odiose discriminazioni. Ma appellare ‘dirigente scolastico’ un preside non basta certo a rende la scuola migliore o meno verticistica. Per stare all’esempio, coinvolgere concretamente studenti, famiglie e società civile nella sua conduzione contribuisce invece ad allargare le basi di partecipazione. Senza tanti giri di parole.

STORIE IN PELLICOLA
Due ruote di libertà

Diretto dalla prima regista donna del suo Paese, l’Arabia Saudita, Haifaa Al Mansour firma un capolavoro, un film intenso e delicato, che affronta la questione femminile attraverso l’ingenuità e la spontaneità di una bambina, la protagonista Wadjida (Waad Mohammed).
Si tratta de ‘La Bicicletta verde’, film del 2012 che colpisce e commuove, dove una simpatica e brillante Wadjida, pre-adolescente di Riad, esprime esuberanza, sfacciataggine, indipendenza e ingenuità nel volere a tutti i costi la sua bella e fiammante bicicletta verde. A nulla valgono gli sforzi, della madre e della scuola, per convincerla che non si tratta di un passatempo da ragazze, che quell’oggetto è un pericolo vero per la virtù femminile. Le libertà dell’infanzia, fatta di giochi spensierati, meno limiti e imposizioni sta per terminare.

A scuola, rigorosamente femminile, si prega, si studia il Corano, si imparano le regole ferree inattaccabili e indiscutibili della religione. In pubblico bisogna fare attenzione a non mostrare ciocche di capelli o caviglie, sotto le pesanti e faticose vesti nere, guai rivolgere la parola a persone di sesso maschile. Quando non si è a scuola si sta chiuse in casa, dove Wadjda vive con la madre (Reem Abdullah) perché il padre (Sultan Al Assaf) è sempre fuori, libero. Ma Wadjda, sveglia, perspicace ed intelligente, restia a perdere quel poco di libertà che ancora le resta grazie solo alla sua età, ha un amico, Abdullah (Abdullrahman Al Gohani), con cui passa tempo a correre velocemente per le strade e a giocare allegramente, un compagno che le insegna ad andare in bicicletta. Di nascosto. E lei vuole la bicicletta, per batterlo in velocità, passa e ripassa davanti al negozio di giocattoli che espone un bolide fiammante verde, passaporto verso la libertà del cielo, della strada, della volontà che si libra leggera. La prenota, la acquisterà, costi quel che costi. Per racimolare i soldi commercia in braccialetti confezionati da lei, pazientemente, abilmente, con precisione e amore, e audiocassette registrate alla radio. Sempre con il terrore di essere colta in flagrante dalla preside Hussa (Ahd Kamel), donna severa e ligia alle regole. L’unico modo per arrivare al malloppo necessario al tanto agognato acquisto sembra però essere quello di vincere la gara annuale di recitazione del Corano organizzata a scuola. Versetti da mandare a memoria, frasi interminabili, suoni complicati, uno sforzo infinito. Ma il sogno vince, con le sue ali, con la sua forza. Gli 800 riyal che servono per la bicicletta vanno trovati.

Altre donne circondano la vita di Wadjda. Le compagne di scuola, quelle ribelli dalle unghie azzurre e quelle allineate, la preside che nasconde un segreto, la madre, che compirà anche lei un cammino di emancipazione dalle sue difficoltà quotidiane e dalla consapevolezza di essere vicina a essere declassata a seconda moglie perché il marito è in procinto di sposarsi con una donna più giovane per avere un figlio maschio. Il vero scopo di tutto.

Ma alla fine, per mamma e figlia arriverà il riscatto di un gesto che significa libertà e la possibilità di essere diverse, in una società che vorrebbe le donne invisibili. Da vedere.

La Bicicletta verde, di Haifaa al-Mansour, con Waad Mohammed, Abdullrahman Algohani, Ahd Kamel, Reem Abdullah, Sultan Al Assaf, Arabia Saudita, 2012, 100 mn.

DIARIO IN PUBBLICO
All’inseguimento… della carta smeraldo

Abbandonati i L(a)idi al declinare della vampa luciferina, cominciano a Ferrara le mansioni legate al faticoso avvio del dopo-vacanze, scandite da una lettera misteriosa in cui si parla di una ‘carta smeraldo’, di straordinari modelli di raccolta dei rifiuti “coerenti con quanto previsto dalla legge regionale per il raggiungimento del 70% di raccolta differenziata” (cit.).
Mi accorgo con disappunto che l’appuntamento che mi è stato dato, in quanto il mio nome brilla come titolare della tassa sulla raccolta rifiuti, coincide con la presentazione in Castello di un libro su Bassani. Perciò, a meno di non recarmi con l’illustre compagnia nel locale adibito all’ottenimento dello smeraldo, mi rassegno a recarmi subito in quel luogo, via Boccaleone, frequentato da decenni come direttore dell’Istituto di Studi Rinascimentali.

Varco con baldanza la porta esattamente alle 10 e 27 e mi trovo coinvolto in una bolgia infernale dove vagano smarriti anziani/e, giovanotti, bambini in fasce, signore in gravidanza, qualche cane tra un minaccioso rumore di protesta. Mi rendo conto che il numero del display segna 68: il mio numero è il 146. Mi siedo titubante tra una seccatissima signora che protesta a bassa voce su questa indecenza, il cui risultato avrebbe naturalmente favorito i ‘negretti’ che occupano tutte le panchine disponibili nei giardini, e un severo signore che invita a non donare vestiti vecchi alla Caritas, chè li vendono per ottenere soldi. Ascolto almeno per mezz’ora le spiegazioni di una pazientissima addetta che ogni cinque minuti, illustra le meraviglie del nuovo contenitore che accoglierà la differenziata purché… purché ci si munisca di un sacchetto possibilmente di plastica biodegradabile e dalle dimensioni non eccedenti l’imboccatura della nuova macchina. Comincia, come una litania, a esemplificare il contenuto lecito del sacchetto: dai peli del gatto agli spazzolini usati, da ceramiche rotte a spazzole.
Il problema delle cacche del cane è assai dibattuto. Si può lasciare nel contenitore dell’umido, forse anche nell’indifferenziata oppure nei comuni cestini che in tutte le città del mondo le accolgono. Allora? In cosa consiste la grande novità? Restano intoccabili tutte le altre raccolte: carta, vetro, plastica e umido. Solo il macchinario nuovo si comporta come un ‘apriti Sesamo’ al tocco prima di un bottone poi, dopo misteriosi rovelli, al contatto con lo smeraldo. Geniale!

Ma un dubbio m’assale mentre il tempo nella soffocante sala sembra non progredire.
Tutto l’ambaradan a cui in egual misura hanno contribuito l’amministrazione comunale ed Hera non potrebbe qualificarsi come una violenza nei confronti del cittadino? E’ giusto che per una sciocchezza simile – a Firenze è bastato un mese perché tutte le differenziate vengano gettate in sportelli a livello del marciapiede e le scelte sono compito degli addetti – si obblighino i volonterosi cittadini a subire file interminabili e a provocare un clima di malcontento che certo non giova all’attuale amministrazione, che maldestramente ha mandato gli inviti nei mesi in cui la gente va in vacanza.
Scoppia dunque il principio primo della ‘ferraresità’, che spesso si confonde con la rancorosità. I vecchi anche se non tutti accusano l’amministrazione di aver fatto un simile casino (pardon!) per le elezioni, o per rendere le cose più difficili, o per trarne un dovuto compenso politico. E dalli con i migranti, con la Gad, come sbraita con approvazione dei più l’imponente signora che si è dovuta trascinare su tutta la via tra ciottoli sconnessi e livore mal sopito. La più bella sentita: “E già! Così si diffondono le malattie. A forza di manovrare l’impugnatura di chiusura!” A nulla vale ribadire che il contatto lo si ha comunque: sia che si maneggino soldi, o s’impugnino i sostegni nei mezzi pubblici o si pongano le mani nel salire. Nulla! O è colpa dei negri o quella di voler spillare più soldi.

E se mi sento frustrato nel constatare quanta rabbia covi tra il ‘popolo’ è altrettanto vero che si deve ammettere che comunque una violenza è stata perpetrata. Se si vuole che la differenziata regga non si rendano furibondi i ‘cives’ permettendo e fomentando una simile bolgia. La paziente addetta dice che non ci si lamenta se si fanno le code in ospedale o a ritirare analisi o alle banche o alle poste; ma si deve ribadire che per spiegare il funzionamento di una macchinetta ‘differenziata’ tanta violenta imposizione è un punto perso sia per Hera che per l’amministrazione comunale.

Guardie e ladri

di Alice Ferraresi

L’intervento estemporaneo della signora Giovanna Mazzoni al comizio bolognese di Matteo Renzi, nel quale gli ha dato rumorosamente (e a favore di telecamere, piccola malizia necessaria nella società del sensazionalismo) del “ladro” di risparmi, ha suscitato diverse reazioni.
La signora Mazzoni era cliente di Carife e ha avuto, come tanti altri risparmiatori, perdite rilevanti dopo la decisione del Governo Renzi, il 22 novembre 2015, di mandare in risoluzione la banca ferrarese. Forse è il caso di ricordare come è avvenuta, tecnicamente, questa ‘risoluzione’, per poi valutare se ci sono dei “ladri” e in quali file militano.

Il 31 luglio 2015 i Commissari Bankitalia, che stanno gestendo la banca dal maggio 2013, fanno approvare all’assemblea degli azionisti Carife una soluzione di salvataggio che prevede una ricapitalizzazione della banca a opera del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (Fitd), ente che riceve denaro esclusivamente dai contributi delle banche, rilevando le azioni dagli attuali titolari a un prezzo poco più che simbolico (nemmeno trenta centesimi di euro), ma tale da disegnare almeno una prospettiva minima di continuità.
Passano alcuni mesi e i soldi del Fitd non arrivano. Non c’è stata alcuna interlocuzione formale tra il Governo e le autorità europee sulla natura ‘pubblica’ del Fitd e sulla conseguente censura della ricapitalizzazione per ‘aiuti di Stato’: soluzione individuata dalla Banca d’Italia, non da un estemporaneo creativo dell’economia bancaria. Non troverete nessuno che possa allegarvi dei carteggi ufficiali nei quali le autorità europee hanno vietato l’adozione di questa soluzione. Eppure alla stampa viene venduta questa versione: l’Europa non è d’accordo. Come e in che modo si sia manifestato questo disaccordo, non sarà mai chiarito. Di certo non è manifestato attraverso degli atti formali di contrarietà che, semplicemente, non esistono. Esistono invece le dichiarazioni del presidente di Banca Intesa (principale contributore del Fitd) a Cernobbio nel settembre 2015, il quale dice che non saranno certamente loro (Intesa) i soli a pagare per le malegestioni di altri. Chi lavora in banca, un po’ più esperto degli altri, viene attraversato da un brivido ascoltando queste parole: chi saranno gli ‘altri’ a pagare?
La risposta arriva il 22 novembre 2015. La fornisce (formalmente) il Governo: a pagare sono prima di tutto i risparmiatori di Carife (e di altre tre banche, tra cui Etruria). Infatti, la risoluzione abbatte a tavolino il valore di una parte dell’attivo della banca, cioè i crediti cosiddetti inesigibili, a livelli da liquidazione immediata: circa 17 euro su 100 di credito. Parliamo di crediti anche ipotecari, che in alcuni mesi o anni renderanno a chi li recupera ben più di quei 17 euro. Questo abbattimento è la ragione tecnica che giustifica l’azzeramento, di una parte del passivo della banca, che viene individuato nelle obbligazioni sottoscritte dalla clientela nel 2006, 2007 e 2008, anni nei quali il bilancio della Carife chiudeva con un utile di decine di milioni di euro.
Erano finti o gonfiati quegli utili? Probabile che fossero almeno eccessivi, ma se i bilanci venivano licenziati come regolari da profumatamente pagate società di revisione, cosa dovevano pensare i risparmiatori? Che nel 2007 la banca fosse sull’orlo del dissesto?
Alcuni accademici che fanno consulenza economica alla Presidenza del Consiglio continuano a dire che questi sono speculatori, da trattare alla stregua di scommettitori alle corse. Rappresentazione particolarmente odiosa e particolarmente falsa: basta guardare alla composizione sociale, anagrafica ed economica di queste persone per dedurne che ci sono i nostri nonni, i nostri genitori, i nostri vicini di casa. Se uno ha messo parte della sua liquidazione in un’obbligazione acquistata in tempi di banca ‘sicura’ e dopo dieci anni questo risparmio gli viene azzerato dalla sera alla mattina, dovrebbe stare zitto e non lamentarsi in quanto ‘speculatore’?

Non credo sfugga (adesso) alla signora Mazzoni che qualcuno le ha raccontato, al tempo, una mezza balla sulla solidità della banca. Ma chi le ha raccontato questa balla? Consigli di Amministrazione, Revisori contabili, società esterne che fanno questo mestiere. Guardie.
Invece chi, tecnicamente, le ha ‘preso’ i soldi? Difficile non pensare, nei suoi panni, che il ‘ladro’ sia stato il Governo Renzi. Che poi questo ‘furto’ (non in senso penalistico, per carità) abbia avuto diversi complici e più di un basista non fa che accrescere la rabbia e la frustrazione di chi ha perso il suo denaro.

Postilla: l’esperimento fatto sulle quattro banche può essere visto, già adesso, con il disincanto dato dal percorso fatto, nel frattempo, dal resto del sistema bancario. Questo percorso ha portato, tra l’altro, al dissesto delle banche venete e al loro acquisto da parte di Banca Intesa, con un contratto “confidenziale” (neanche parlassimo di segreti di Stato), ma di cui si sa che acquista un patrimonio immobiliare di 500 mln pagando un’imposta al Tesoro di 200 (avete letto bene) euro, una rete di circa mille sportelli, raccolta per 23 miliardi e plusvalenze fiscali per circa 2 miliardi. E il costo degli esuberi viene sostenuto interamente dal Tesoro. Il tutto al prezzo di un euro. E’ legittimo sospettare che l’Europa c’entri poco con il mancato intervento del Fitd? E sia molto più plausibile, invece, che Banca Intesa – che muove le leve del Fitd così come quelle di Banca d’Italia, nella quale detiene un sesto del capitale – abbia, diciamo, lasciato naufragare le banche piccole per uno spregiudicato e cinico calcolo di medio termine, che potrebbe tradursi così: il sistema non fallirà e io ne beneficerò; l’effetto domino sarà contenuto, non travolgerà il sistema e soprattutto io Banca Intesa, il più grosso del sistema, ci guadagnerò, perché potrò assorbire sportelli e immobili a costo zero, scaricando le sofferenze a terzi.
Con l’incredibile, beffardo premio di poter essere considerato il salvatore della patria.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Ricordi di amori fugaci e passioni adolescenti: medicine del presente

Un viaggio di cinque giorni con l’uomo-traghetto e una lettera d’amore rimasta in un cassetto per quarant’anni. Le storie di passione dei nostri lettori.

Il traghetto dell’amor leggero

Cara Riccarda,
la mia storia inquieta è durata appena cinque giorni, ed è stata la mia storia “traghetto”. Uscivo da un amore profondo, nove anni di cui otto di convivenza… finito per mancanza di obiettivi comuni, per inconciliabili tentativi di compromesso, per assenze non colmabili. Ad un corso ho incontrato lo sguardo azzurro e scanzonato di un altro corsista… sposato. Si è seduto vicino a me e da subito ho sentito quella particolare elettricità che si chiama attrazione, che quasi non ricordavo più. Mi ha corteggiata e mi ha fatto sentire bella e desiderabile. Mi è piaciuto, ma ero arrabbiata e delusa per la fine della mia relazione e così, l’ho presa come una rivincita… o meglio come una vacanza. Ho pensato che quei 5 giorni di corso mi sarebbero serviti per riprendermi la mia femminilità dimenticata. E così ho fatto. Senza promesse e senza aspettative, ho avuto la freddezza di vivere quella parentesi come un regalo, un modo per capire che potevo avere ancora delle possibilità di essere felice. Cinque notti di passione, cinque minuti per dirsi addio. E, a distanza di tanto tempo, posso sperare in tanti anni di vita più serena, perché ho capito che ogni fine porta ad un nuovo inizio e che dobbiamo cercare sempre di concentrarci su ciò che di buono ci ha dato un’esperienza, anche la più sofferta.
D.

Cara D.,
conoscevo l’uomo-zattera, quello a cui ti aggrappi quando hai l’acqua alla gola e va bene tutto purchè ti porti via da dove stai annaspando, ma l’uomo-traghetto devo ammettere che è decisamente più confortevole e hai fatto bene a salirci su.
Hai trasformato la rabbia in passione, sempre di fuoco si tratta. Una passione lucida – e non è una contraddizione – è forse il modo più puro per viverla, senza epiloghi nè languidi colpi di coda. Il cerchio si è chiuso in cinque giorni, per te è stato un regalo non solo all’epoca, ma anche oggi che lo racconti.
Come su un traghetto che salpa da un porto per approdare altrove, tu, dalla prua, hai respirato il vento godendoti il viaggio e tutto l’orizzonte.
Riccarda

Passione adolescente, oblio e rimembranza

Ciao Riccarda,
ho letto con molto interesse l’argomento della tua rubrica, mi ha riportato alla mente momenti oramai perduti nel tempo, una passione risalente a 40 anni fa. Mi ricordo che scrivevo molto a proposito di quello che mi stava succedendo perché le cose che provavo erano fortissime. A distanza di tanti anni, ecco una delle tante pagine del diario che risale alla fine dell’estate 1977, avevo 20 anni.
“Questa nostra attrazione così inebriante, che ci sprofonda nell’abisso dell’incoscienza da cosa è nata? Forse è stato il nostro lento frequentarci durante le vacanze estive, o scoprire che abbiamo lo stesso bisogno di dolcezza, coccole e amore. Lentamente qualcosa è sbocciato ed ora quando ci vediamo non possiamo fare a meno di toccarci, baciarci, le nostre menti non ragionano più, prevale solo il desiderio del contatto fisico, i nostri corpi agiscono in sincronia come rispondendo ad un automatismo oramai consolidato. Siamo in balìa delle nostre più pure sensazioni, non riusciamo a contrastare il turbinio di emozioni e ci abbandoniamo a noi stessi. Dobbiamo smettere ma non ci riusciamo, io devo partire, un’altra vita mi attende, tu resterai qui, con lui, vicina al quel mare che abbiamo tanto amato e che ha visto lo schiudersi dei nostri sentimenti e lo sbocciare della nostra adolescenza. Io inizierò la mia vita non so ancora dove, solo il tempo mi dirà se la mia è stata una scelta giusta, so che non ti vedrò più, non ti cercherò più, serberò nella mia memoria e nel mio cuore il ricordo di quei momenti che abbiamo vissuto. Forse un giorno, quando le ferite della nostra passione si saranno rimarginate, riusciremo a parlare con serenità di quei momenti di abbandono totale, ora non è possibile, troppo forte è il dolore causato dal distacco. La tristezza sarà la mia compagna per il prossimo futuro. Un giorno, oramai invecchiato ed al crepuscolo della mia vita rileggerò queste parole e solo allora un sorriso sfiorerà le mie labbra perché saprò di avere vissuto, averti conosciuta ha donato alla mia adolescenza la radiosità e la felicità che solo pochi raggiungono. Per questo motivo seppure con il cuore gonfio dal dolore, ti dico grazie, grazie per quello che hai saputo darmi. (1977)”
Non so se quanto ti ho scritto sia inerente all’oggetto del tuo argomento, spero di si, a me, rileggerlo ha fatto sorridere perché rivedo il giovane pieno di passione e di incertezze di allora. Buona giornata e buon lavoro.
Gigi

Caro Gigi,
non so se quarant’anni fa tu questa lettera l’avessi spedita, spero che oggi in qualche modo lei possa leggerla e sorridere assieme a te. Al di là del contenuto, mi colpisce che questo scritto sia rimasto intatto in un cassetto e nella tua memoria per tutti questi anni. Siamo diventati così automatici nel cancellare sempre tutto per fare spazio in memorie elettroniche fuori di noi, che stupisce la longevità di un pezzo di carta e dei sentimenti che in quel momento non potevi trattenere.
Nel buco nero dell’oblio, spesso ci buttiamo dentro anche le persone, le storie che abbiamo avuto e, quindi, anche un pezzo di noi. Vogliamo dimenticare perchè ci sembra che faccia meno male, soprattutto quando siamo convinti di avere sbagliato qualcosa o qualcuno.
Credo, invece, che dovremmo ricordare il più possibile, pur ponendoci sempre come nuovi di fronte a ogni storia che arriva.
Riccarda

Potete scrivere a: parliamone.rddv@gmail.com

L’acqua che esce dai nostri rubinetti…no, la plastica

La notizia: l’inquinamento dell’acqua causato dalla plastica arriva direttamente nelle nostre case.
L’acqua potabile che esce dai rubinetti in tutto il mondo è contaminata da microfibre di plastica. A dirlo è una ricerca di Orb Media, organizzazione no profit di Washington, che insieme all’università statale di New York e all’università del Minnesota, ha condotto test su campioni di acqua potabile prelevati in città grandi e piccole in tutto il globo.

I risultati pubblicati in questi giorni sono stati sconcertanti: l’83% dei test effettuati ‘worldwide’ sono risultati positivi alla presenza di plastica nell’acqua, con picchi di oltre il 90% negli Usa, compresa la Trump Tower, il palazzo del Congresso degli Stati Uniti o la sede dell’Epa, l’ente per la protezione ambientale americano, mentre in Europa ci ‘fermiamo’ per così dire al 72%. (Leggi qui il rapporto completo)
Facciamoci pure del male. In fondo anche il potere sull’acqua da bere è in mano a grandi gruppi industriali delle acqua minerali.

Qualche tempo fa è uscito un importante dm che si impegna esattamente per il contrario: il Dm Salute del 14 giugno 2017 sui ‘Controlli e analisi delle acque potabili – Recepimento direttiva 2015/1787/Ue – Modifica degli allegati II e III del Dlgs 2 febbraio 2001, n. 31’.
Tra fake news e white washing ormai abbiamo perso la dimensione del “a chi e a cosa credere”.
Io bevo l’acqua del rubinetto e cerco di dimenticare.

Per chi vuole saperne di più invito a leggere il recentissimo documento dell’Istituto Superiore della Sanità relativo alle linee guida per la valutazione e gestione del rischio nella filiera delle acque destinate al consumo secondo il modello dei water safety plan che allego per conoscenza. (Clicca qui)
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha introdotto un decennio fa il modello dei Water Safety Plans (Piani di Sicurezza dell’acqua, Psa) come il mezzo più efficace per garantire sistematicamente la sicurezza di un sistema idropotabile, la qualità delle acque fornite e la protezione della salute dei consumatori. Il modello, seguito in queste linee guida, persegue una valutazione e gestione dei rischi integrata, estesa dalla captazione al rubinetto, per la protezione delle risorse idriche di origine e il controllo del sistema e dei processi, al fine di garantire nel tempo l’assenza di potenziali pericoli di ordine fisico, biologico e chimico nell’acqua disponibile per il consumo.