Skip to main content

HA VINTO LA VECCHIA EUROPA NEOLIBERISTA
Nonostante gli applausi, l’accordo non apre verso un futuro federalista e solidale

Dopo più di 4 giorni di discussione, alla fine è arrivato l’accordo sul Recovery Fund europeo. L’accordo prevede che siano disponibili sempre 750 miliardi di euro, rimodulati però tra 390 come sovvenzioni a fondo perduto e 360 come prestiti, rispetto ai 500 dei primi e 250 dei secondi, come precedentemente convenuto. Peraltro, all’Italia spetterebbero 82 miliardi di risorse a fondo perduto, 3 in meno della proposta iniziale, mentre i prestiti salirebbero a 127 miliardi, 38 in più, sempre rispetto a prima. Vengono confermati sconti significativi nei contributi al bilancio europeo a favore di Olanda, Danimarca, Svezia, Austria e Germania. Sul rispetto dello stato di diritto, questioni rivolte in primo luogo ad Ungheria e Polonia, ci sono solo affermazioni e procedure generiche.
Cambia, in modo sostanziale, il meccanismo decisionale per accedere a tali finanziamenti: intanto rispuntano le famose condizionalità per cui gli Stati membri devono presentare propri Piani nazionali di ripresa e resilienza (Recovery Plan) che devono rispettare le raccomandazioni che la Commissione produce sulle politiche economiche e sociali dei singoli Stati. In più, la sede decisionale per l’approvazione di tali Piani passa dalla Commissione Europea al Consiglio Europeo, che li assume a maggioranza qualificata, dando così vita al tanto declamato ‘freno a mano’ rispetto alle scelte nazionali.

Tale complesso di decisioni rappresenta un ulteriore arretramento rispetto alle discussioni precedenti, non tanto sulle risorse stanziate, quanto sui meccanismi decisionali e sulle dinamiche che sono state messe in campo.
A differenza della narrazione che è stata presentata dalla gran parte del nostro sistema mediatico, secondo la quale è stata sostanzialmente bloccata l’offensiva dei Paesi cosiddetti ‘frugali’, in realtà quello che è successo è che l’Europa ha fatto un ulteriore passo indietro rispetto alla possibilità di rispondere in modo utile alle questioni che la crisi sanitaria, economica e sociale propone. Mi riferisco in particolare al meccanismo decisionale definito, che, nei fatti, rimette in piedi l’idea di un’Europa che deve controllare chi si discosta dall’ortodossia delle politiche di matrice mercatista e di vincolo del debito e che si basa sulla mediazione intergovernativa, che è quella che esalta le posizioni dei singoli Stati o di coalizione degli stessi.
Infatti, assumere la condizionalità del rispetto delle raccomandazioni dell’Unione europea implica, prima di tutto, ridare centralità al tema del rientro dal debito pubblico, che è stato il faro da cui sono partite le politiche di rigore e austerità dagli anni ‘90 in poi, oggi sospese, ma destinate ad essere ripresentate una volta superata l’attuale fase di emergenza. Basta pensare che anche le ultime raccomandazioni della UE rivolte all’Italia in piena pandemia, nel maggio di quest’anno, oltre ad indicare alcuni provvedimenti per far fronte ad essa, ricordano che “l’Italia presenta squilibri macroeconomici eccessivi. In particolare l’elevato debito pubblico  e la prolungata debolezza della produttività…”.
Inoltre, il passaggio dell’approvazione dei Piani nazionali dalla Commissione Europea, che, almeno, è organismo che deve essere legittimato dal voto del Parlamento europeo e non rappresenta i singoli Stati membri, al Consiglio Europeo, che, invece, è composto dai capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri ed è  esattamente rappresentativo dei governi nazionali significa proprio legittimare l’idea di un’Europa come assemblaggio di singoli Stati o coalizioni di essi, con la conseguenza di doversi misurare con il possibile potere di veto delle stesse.

Con questo arriviamo alla dinamiche presenti oggi in Europa.
Da una parte, ci sono i Paesi ‘frugali’, la coalizione formata da Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia e Austria. Intanto, bisognerebbe smetterla di continuare ad usare quest’appellativo, che dà un’idea distorta delle posizioni in campo, come se ci fossero i Paesi ‘attenti ai conti’ e quelli, in particolare del Sud dell’Europa, ‘spendaccioni’. Meglio sarebbe definire questa coalizione come quella del ‘neoliberismo nazionalista’, nel senso che essa esplicita un approccio fondato sul dogma dei vincoli di bilancio e sulla preminenza dei singoli Stati nella costruzione europea.
Da qui l’avversione alla concessione di risorse a fondo perduto e l’insistenza sui prestiti (che dovranno essere restituiti) e la sorveglianza sui singoli stati rispetto al loro utilizzo. Del resto, il profilo del loro portavoce, il premier olandese Rutte è esemplificativo al riguardo: ex manager della multinazionale Unilever, strenuo difensore del paradiso fiscale del suo Paese, ben attento a non farsi insidiare dalla forte destra sovranista olandese.

Poi, ci sono i Paesi del cosiddetto ‘blocco di Visegrad’: in testa l’Ungheria, assieme a Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia, interessati in primo luogo a mantenere la propria posizione per cui ricevono, anche in tempi ‘normali’, più risorse dall’Europa di quanto ne versano. Soprattutto, usando questo surplus per costruire il proprio consenso interno con vere e proprie politiche antieuropee e lesive dei diritti umani, dal costruire muri rispetto all’immigrazione extracomunitaria ad attaccare stampa e magistratura. Insomma, sono loro I veri “sovranisti”.

Ancora, i Paesi mediterranei: oltre all’Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e, a fasi alterne, la Francia (che non ha perso la velleità di giocare anche il ruolo di partner minore della Germania), che sono quelli che patiscono di più la crisi, provano, anche se in modo confuso, a perorare la causa di un’Europa più solidale e, dunque, accennano ora a politiche che possano mettere in discussione la linea dell’austerità e della centralità del rientro dal debito.
Potremmo denominarli come gli ‘incerti riformisti’.

A tentare di tenere insieme queste spinte contrapposte e anche tatticamente mutevoli, ci prova la Germania, a cui a volte si associa la Francia, che pare aver compreso che, dentro la crisi, è a rischio la stessa tenuta dell’Unione Europea e che, almeno adesso, occorre mettere in campo iniziative in discontinuità con il recente passato. Peccato che ciò sembra avvenire più per necessità che per virtù: insomma, ‘l’arte suprema della mediazione’. Che quindi si traduce nel trovare un punto di equilibrio tra le varie spinte in campo, peraltro molto distanti tra loro, piuttosto che nella capacità di delineare un progetto compiuto per un’altra idea di Europa per il XXI secolo.

Che, invece, è quello di cui avremmo bisogno e di cui continua a non esserci traccia. Del resto, è evidente che stare su questo terreno comporta un cambio di paradigma, una rottura con le scelte che l’Europa ha compiuto da decenni in qua: significa non semplicemente sospendere, ma abolire il Patto di stabilità, quello che ha imposto i parametri stupidi sui vincoli di deficit e debito pubblico, fare della Banca Centrale Europea una reale banca pubblica, costruire politiche che sul serio assumano il lavoro e i diritti come bussola di fondo per delineare un’altra idea di modello produttivo e sociale, modificare i Trattati europei in queste direzioni.
Qui potrebbero dare un contributo i Paesi del mediterraneo, a partire dal nostro. Certo, non aiuta in questo senso il Programma nazionale di riforma, deliberato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 6 luglio, che dovrebbe costituire la base per l’elaborazione del Recovery Plan italiano da portare in Europa. Purtroppo, il piano governativo si muove troppo in continuità con il passato, parla in modo insufficiente di scuola e sanità, enfatizza le grandi opere e la digitalizzazione come vettori di sviluppo e già si pone l’interrogativo centrale di come uscire dal debito pubblico che è stato creato in questi mesi. Anche da qui si può facilmente capire che il futuro non può semplicemente nascere dai governi e dalle mediazioni tra gli stessi in Europa. Solo uno scatto dei movimenti e della società  nazionale ed europea può mettere all’ordine del giorno il cambiamento che è necessario e, senza il quale, non si possono profilare soluzioni adeguate.

TRASPORTO PUBBLICO: ARIVANO I RIMBORSI
Per il mancato utilizzo di Bus e Treni da parte di Studenti e pendolari

e studenti Da: Ufficio Stampa Regione Emilia-Romagna

Trasporto pubblico. Bus e treni, arrivano i rimborsi a studenti e pendolari per il mancato utilizzo di abbonamenti e biglietti durante il periodo del lockdown imposto dall’emergenza Coronavirus. L’assessore Corsini: “Regole condivise con le aziende dei trasporti pubblici e le associazioni dei consumatori”

Via libera della Giunta alla delibera che fissa gli indirizzi rivolti alle aziende di Tpl per uniformare l’applicazione sul territorio regionale di quanto previsto nel Decreto Rilancio

In arrivo i rimborsi agli abbonati e utenti del servizio ferroviario regionale e del trasporto pubblico locale (bus urbani ed extraurbani) per il mancato utilizzo dei titoli di viaggio durante il periodo del lockdown imposto dall’emergenza Coronavirus. Lo prevede una delibera approvata dalla Giunta regionale che fissa gli indirizzi destinati alle aziende di trasporto pubblico per uniformare l’applicazione sul territorio regionale dell’articolo 215 del Decreto Rilancio, convertito in legge in via definitiva la scorsa settimana dal Parlamento italiano.

“Si tratta di una misura di ristoro sollecitata dalle stesse Regioni- afferma l’assessore regionale ai Trasporti, Andrea Corsini- che va incontro alle legittime aspettative dei pendolari e, più in generale, degli utilizzatori dei mezzi pubblici, oltre a definire un quadro di riferimento certo ai fini del riconoscimento dei mancati ricavi delle aziende di trasporto pubblico locale. Nella stesura della delibera abbiamo tenuto conto delle osservazioni avanzate dalle stesse aziende di Tpl e dalle principali associazioni dei consumatori dopo un approfondito confronto e vigileremo affinché i rimborsi arrivino nel modo più veloce e senza complicazioni burocratiche ai cittadini interessati”.

Hanno diritto al risarcimento, precisa la delibera regionale, gli studenti e i lavoratori-pendolari titolari di abbonamento mensile e annuale, rispettivamente per il periodo 23 febbraio-3 giugno 2020 e 8 marzo-17 maggio 2020. La richiesta va presentata entro il 30 novembre prossimo all’Azienda di trasporto pubblico che ha emesso l’abbonamento, preferibilmente on line sul portale della stessa azienda, allegando alla domanda l’autocertificazione della condizione di studente, se richiesta.

Il rimborso sarà effettuato mediante l’emissione di un voucher rilasciato al massimo entro 30 giorni dalla richiesta, come disposto dal Decreto Rilancio. L’entità sarà calcolata in rapporto ai giorni di mancato utilizzo dell’abbonamento, sia mensile che annuale. In alternativa, possono richiedere il rimborso in contanti, secondo modalità definite da ciascuna azienda di Tpl, gli studenti under 14 già titolari di abbonamento annuale che a partire dal prossimo mese di settembre non lo pagheranno più per la decisione presa dalla Giunta regionale di renderlo per loro gratuito.

Per quanto riguarda i biglietti ferroviari di corsa semplice acquistati prima dell’8 marzo e con scadenza 8 marzo-17 maggio 2020, sarà riconosciuto un voucher di pari valore. Nessun rimborso invece per i biglietti di corsa semplice e i carnet validi sui bus urbani ed extraurbani in quanto per questi titoli di viaggio non è prevista una scadenza di utilizzo.

I voucher rilasciati dalle aziende di trasporto saranno validi fino ad un anno dall’emissione, sono spendibili in un’unica soluzione, non si possono cedere e vanno utilizzati preferibilmente come sconto sull’emissione di un nuovo abbonamento o per l’acquisto di singoli biglietti o carnet di biglietti.

Regole particolari valgono per alcune tipologie di abbonamento. Per quelli mensili, annuali e annuali per studenti della tipologia “Mi muovo anche in città” è previsto il rimborso per la sola tratta ferroviaria pagata dall’utente. La richiesta di rimborso va presentata all’azienda Trenitalia Tper anche se gli abbonamenti sono stati emessi da Tper. Per gli abbonamenti riconducibili a politiche di “mobility management”, le modalità di rimborso saranno definite direttamente tra società di trasporto pubblico e azienda o altra istituzione convenzionata.

Per quanto riguarda gli abbonamenti ferroviari a tariffa sovraregionale, modalità e misura dei rimborsi dovranno necessariamente essere coordinate a livello nazionale e quindi al momento esulano dagli indirizzi regionali. /G.Ma

L’EDUCAZIONE CIVICA TORNA A SCUOLA
Bellissima idea, a patto di prenderla sul serio.

Da bambini era in programma anche l’educazione civica. C’era un libro apposito, adatto a pareggiare i tavoli zoppi. Tutti dicevano che era importante però poi si sa, bisogna finire il programma di storia e di letteratura, recuperare i ponti, e quel giro di interrogazioni saltato con le influenze… L’educazione civica restava all’ultimo posto. Talmente tanto che per un po’ è completamente scomparsa.

La Legge n.92 del 2019 [Qui il testo della Gazzetta Ufficiale] l’ha reintrodotta ma, essendo stata approvata il 30 agosto dello scorso anno – cioè troppo tardi per spiegare in tempo utile come applicarla nell’anno scolastico che iniziava a settembre – dopo qualche polemica non se n’è fatto niente. Quest’anno, il 23 giugno scorso, la Ministra Azzolina ha inviato alle scuole una lettera e delle Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica [Qui] che spiegano che cosa ci si attende. Il Ministero nelle sue articolazioni organizzerà corsi di formazione per dirigenti e insegnanti per supportarli in questo nuovo vecchio compito.

Sono tre gli assi intorno cui muoversi: Costituzione, Sviluppo Sostenibile, Cittadinanza Digitale. Verranno inseriti in tutti gli ordini di scuola a partire dalla materna, entreranno anche nei percorsi dell’istruzione per adulti e saranno affrontati con metodi e contenuti appropriati all’età e alle competenze degli allievi.

Si legge sulle linee guida: “La Carta è in sostanza un codice chiaro e organico di valenza culturale e pedagogica, capace di accogliere e dare senso e orientamento in particolare alle persone che vivono nella scuola e alle discipline e alle attività che vi si svolgono”. La sfera della Costituzione include la conoscenza dell’ordinamento nazionale e locale, i valori di legalità e solidarietà, il contrasto alla cultura mafiosa, la cittadinanza europea ed altro ancora.

Anche lo Sviluppo Sostenibile porta con sé una molteplicità di contenuti, non soltanto in tema ambientale. C’è il rispetto per gli animali, l’attenzione per la raccolta differenziata o la lettura dei complessi problemi energetici e climatici del pianeta, ma c’è anche la sostenibilità delle città o delle società, la capacità di includere le minoranze e le differenze, il rispetto per i diritti di ciascuno.

Nella Cittadinanza Digitale, poi, è inclusa l’alfabetizzazione consapevole all’uso di strumenti che bambini e ragazzi frequentano dalla nascita ma non sempre con competenza, come ha dimostrato l’esperienza recente di didattica online nella quale gli insegnanti hanno spiegato ai nativi digitali come utilizzare l’email e altro di apparentemente scontato, e si parlerà pure dei rischi che si corrono in rete, dalle fake news agli odiatori passando per le svariate forme di bullismo elettronico.

È un bel programma, e dovrà svolgersi in almeno 33 ore scolastiche nel corso dell’anno. Non ci sarà un solo insegnante coinvolto ma un coordinatore che lavorerà con i colleghi secondo un progetto pensato a inizio anno, con obiettivi di apprendimento legati alle linee guida, indicatori da rilevare e valutazioni da svolgere. “Le Istituzioni scolastiche sono chiamate, pertanto, ad aggiornare i curricoli di istituto e l’attività di programmazione didattica nel primo e nel secondo ciclo di istruzione”, si legge nelle Linee guida, “al fine di sviluppare ‘la conoscenza e la comprensione delle strutture e dei profili sociali, economici, giuridici, civici e ambientali della società’ (articolo 2, comma 1 della Legge), nonché ad individuare nella conoscenza e nell’attuazione consapevole dei regolamenti di Istituto, dello Statuto delle studentesse e degli studenti, nel Patto educativo di corresponsabilità, esteso ai percorsi di scuola primaria, un terreno di esercizio concreto per sviluppare ‘la capacità di agire da cittadini responsabili e di partecipare pienamente e consapevolmente alla vita civica, culturale e sociale della comunità’ (articolo 1, comma 1 della Legge)”.

Dedicarsi a questi progetti, se verrà preso sul serio, sarà entusiasmante, e molto proficuo il risultato in termini di formazione dei giovani cittadini. Soprattutto se, come le stesse Linee guida propongono, l’educazione civica non sarà una materia a sé stante ma un altro modo di svolgere l’esperienza scolastica e di vivere le relazioni tra tutti i soggetti.
Significherebbe, a mio avviso, non limitarsi a studiare la democrazia ma viverla davvero, così come nell’educazione alla pace e alla nonviolenza si può, certo, introdurre ‘l’ora di nonviolenza’ e fare lezione su Gandhi o Capitini, ma il loro studio diventa vivo e coinvolgente se abbraccia il modo stesso di fare scuola, di protestare davanti alle possibili ingiustizie, di aprirsi agli altri anziché coltivare egoismi. Nel caso dell’educazione civica, si potrebbe ripartire dando fiato agli organi collegiali ormai sempre più asfittici e asserviti alla logica della scuola-azienda, o della scuola bene-di-tutti-cioè-di-nessuno, e riconsegnare/riassumersi la responsabilità del proprio stare a scuola non solo trasmettendo contenuti ma incarnandoli nella relazione con gli altri.

Bisogna sapere che questo processo, a prenderlo sul serio, può generare conflitto, quello costruttivo, che prelude al miglioramento dei contesti di relazione, a scuola e fuori. Mi torna in mente un episodio avvenuto a Ferrara tanti anni fa. Nella zona con la maggior concentrazione di migranti il Centro di Mediazione Sociale del Comune di Ferrara aveva svolto appunto attività di educazione civica. Un bel giorno una bambina del quartiere, 10 anni, nata da genitori cinesi, si è presentata al Centro con la Costituzione in mano, il libriccino aperto sui diritti fondamentali. Aveva rimostranze sul modo in cui la trattavano in famiglia, e non aveva dubbi che fosse un’ingiustizia: “C’è scritto qui!”.

Questo articolo è apparso con altro titolo anche sull’edizione in rete di Azione nonviolenta, la storica rivista del Movimento nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

PER CERTI VERSI
Di queste cose si può anche guarire

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

DI QUESTE COSE SI PUO’ ANCHE GUARIRE

di queste cose si può anche guarire
erano le diciassette di venerdì
diciassette marzo
millenovecentonovantacinque
non era primavera

SONO PASSATI ORMAI DIECI ANNI

sono passati ormai dieci anni
sai com’è fatta la memoria
si pensa si racconta
si fa storia

E TUTTA LA VITA SI SPANDEVA

si può guarire da certi mali
e tutta la vita si spandeva
liquida nella mente
mi ero fatto piccolo
infinitamente

SOVRANISMO: DIO, PATRIA e ZAR
L’antica ricetta per un nuovo Peron alla milanese e un’Evita all’amatriciana

Dio, patria e Zar. Il sovranismo in tre parole. Nulla di nuovo sotto il sole, aggiungi alcuni concetti a caso tipo famiglia tradizionale, valori cristiani, prima noi, ci stanno invadendo, ospitiamoli a casa loro, autarchia, stampiamo moneta, difendiamo la nostra razza, libertà (intesa come la mia e non la tua), ed ecco pronto un perfetto strumento ideologico per definire i padroni a casa nostra. A piccole dosi, aggiungerei un po’ di insofferenza nei confronti dell’antifascismo (superato perché non c’è più il fascismo – cit.), disagio nei confronti della scienza, ricerca continua e imperterrita del complotto, costruzione del nemico e sua conseguente disumanizzazione e il giochino è fatto.

Il concetto di sovranità nazionale e di confine chiuso ci porta indietro negli anni, nei secoli, in cui il sovrano, lo zar instillava nei sudditi l’amor patrio, come siero per immunizzare il popolo dalle velleità di rivolta. Le dittature si mantengono su questi valori, guerra continua e senza limiti contro nemici veri, verosimili o inventati.

La cultura ad esempio. I professoroni, gli intellettuali, i radical chic, primo ed importante nemico da abbattere e delegittimare.
E come si fa?
Facile.
Ora, nei tempi del tutti connessi è semplicissimo, basta gridare più forte da una tastiera, spammare di continuo fake news costruite ad arte, lanciare input alle bande di sudditi che fanno il lavoro sporco, distruggendo il pensiero civile di chi vuole esprimere un parere discordante o peggio irrispettoso del sultano, su un qualsiasi social network.
E il gioco è fatto. Il primo tassello del domino inizia a cadere.

«Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola», la frase attribuita a Goebbels di non accertata provenienza è l’emblema del concetto del populismo sovranista. La personalità malata del ministro della propaganda nazista tendeva a costrure gigantesche menzogne a cui alla fine credeva pure lui. Quale miglior metodo per convincere gli altri se non quello di essere convinti delle proprie bugie?

I tre elementi cardine che citavo all’inizio continuano a mantenere lo stesso valore dei secoli passati. Attraggono i sudditi come una calamita, facendoli sentire migliori, più forti, parte di un gruppo dominante. Il famoso ‘noi’ è la più grande delle fandonie. Lo zar, quando parla di noi si riferisce a lui, mentre il popolino quando parla di noi non riesce a capire che anch’esso parla di lui. I privilegi di cui sarebbero dotati gli avversari o meglio i nemici, perché le schiere fedeli al sovrano devono proteggere il loro duce da masnade di cattivi, clandestini, esseri contro natura, comunisti che sbucano in ogni dove, peccatori che intaccano le bianche vesti del sultano, non esistonoE quindi vanno costruiti.

I limiti intellettuali di molti sovranisti di casa nostra non sono nemmeno ritenuti limiti dagli accoliti, anzi. Il linguaggio da bar sport, le movenze, l’abbigliamento fintamente trasandato sono prettamente costruiti a tavolino per assomigliare ai propri elettori. “Vedi lui è come me, come noi, dice pane al pane e vino al vino, non come loro che studiano, studiano e non sanno un cazzo”.

E voi? Ma voi chi?
Non sto cercando di analizzare le differenze, con la mia piccola testa, ma sto cercando di raccontare il perché un trinomio vecchio di millenni continua ad essere appetibile alle genti di questo fetente ventunesimo secolo.
Mi sento dire spesso, ma come fai ad essere ancora Comunista? Berlinguer è morto, il Pci non c’è più, il comunismo è stato sconfitto dalla storia. Mi viene da rispondere: “Ma tu, cazzo! che ti ritieni rappresentato dai valori di Romolo, non è che sei più retrogrado di me?”

Qui non parlo di una destra moderna, in quanto i valori sopra enunciati nulla hanno a che vedere con una destra liberale, moderna e repubblicana. Sempre, ovviamente, lontana da me, ma con cui dibatterei volentieri sui tanti valori avversi. Mi riferisco proprio alla maggioranza della destra italiana. Ora, capire perché il popolo italiano, in una sua parte, non so se maggioritaria o meno abbia bisogno di un conducator, di un Peron alla milanese e di una Evita all’amatriciana è materia per sociologi, quello che è decisamente avvilente è capire perché il resto della popolazione italica non sia in grado di smontare le fandonie sovraniste.

Forse se ne esce solamente da sinistra, da una vera sinistra.
Ma anche questo è un tema da dibattere, un po’ come cercare un unicorno in un gregge di mucche. Occorrerebbe un nuovo umanesimo, una compattazione sui valori dell’antifascismo, una riscoperta dei valori fondanti del progressismo. Ma a dire il vero io non vedo luce in fondo al tunnel. Forse quella fioca fiammella che emerge dall’oscurità, sono solo i fari del treno che ci viene addosso.

Al cantón fraréś
Guido Angelo Facchini: “Piaza dal Dòm”

L’autore, Guid’Anzul per gli amici, ha cantato con nostalgia e calore le bellezze di Ferrara. I palazzi, le vie, i monumenti, le mura, i miti, sono presentati con passione in un dialetto nitido, gradevole e schietto. La poesia di oggi è accompagnata, nel volume da cui è tratta, da riproduzioni di E. Baglioni, M. di Shar, A. Pisa, M. Quilici Buzzacchi, G. Barberis.

Piaza dal Dòm

Piaza dal Dòm! L’è ‘l cuór dla mié zità:
na piaza bèla, placida e serena
aηch quand tut i źanìn jè chì al marcà
e i vénd furmént o i compra sac d’avena
propria davanti a cal miràcul d’art
che da ot sècul al sta lì in dispàrt!

Piaza dal Dòm! L’as pòl ben dir parfèta
s’la dèsta in ogni cuór l’amirazióη:
la tór ad Rigobèlo, la turéta,
la statua dla Vitoria e ‘l graη vultóη;
po’, da na part, la nóva pizunàra
e, s’il culòn, i du graη sgnóri ‘d Frara.

Davanti al Dòm agh è du omn ad sass
che, iη zima a di leùn, i fa ‘η graη sforz
par tgnir su la fazàda; lì da bass
as ved cal graη gueriér che l’è Saη Źorź,
ma la cosa più bèla, più divina,
l’è là più iη sù e l’è la Madunìna!

Basta star soquànt dì luntan da Frara
par sintìrs int al cuór uη zèrt śbliśghìη,
na nustalgìa ch’la dvénta na fugàra
sól che ‘s posa sugnàr uη cvèl divìη:
la Madona dil Grazi, al cvèl più bel
ch’agh sia s’la tera e ch’al sta vśin al ziél!

 

Piazza del Duomo (traduzione dell’autore)

Piazza del Duomo! È il cuore di Ferrara: / solare e ariosa, placida e serena / pur se i ‘giannini’ fanno qui cagnara / nel contrattar frumento oppur avena / proprio davanti a quel miracol d’arte / che sta da otto secoli… in disparte. /
Piazza del Duomo! Si può ben dir perfetta / se desta in ogni cuore ammirazione: / la Torre dei Ribelli, la Torretta, / la Vittoria alata e il gran voltone / con, su in alto, i signori di Ferrara; / da una parte, la nuova piccionara! /
Presso il portal due uomini di sasso, / in groppa a dei leon, fan sforzo fiero / per regger la facciata, dove, in basso, / si vede Giorgio, Santo e gran guerriero. / Ma la cosa più bella, più divina / è un po’ più in su ed è la Madonnina. /
Basta che sia Ferrara un po’ lontana / per sentirsi nel cuor un gran languore / di nostalgia che divien caldana / sol che si pensi, pregando con fervore, / alla Madonna, fiore sullo stelo / ch’è qui con noi e sta vicina al cielo.

Tratto da: Guid’Anzul, Il blezz ad Frara, Ferrara, Banca di Credito Agrario, 1976. Presentazione di Luciano Chiappini. Strenna corredata da splendide illustrazioni di artisti molto noti.

 

Guido Angelo Facchini (Ferrara 1904 – Prato 1977)

Laureato in matematica e fisica, giornalista, poeta e storico, direttore artistico della Gazzetta Ferrarese, poi dirigente amministrativo del Corriere Padano.
Il Resto del Carlino del 27 marzo 1977 riporta: “… fu l’appassionato promotore di manifestazioni culturali e artistiche negli anni ’30, quali La settimana ferrarese, L’ottava d’oro, Le Celebrazioni Ariostesche e la ripresa del tradizionale Palio di San Giorgio”. Nel dopoguerra insegnò fisica e matematica; si dedicò anche all’amministrazione e alla consulenza commerciale di aziende tessili. (Note biografiche dall’Archivio Storico di Leopoldo Santini)

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica settimanale curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce al venerdì mattina.
Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

Cover:  Ferrara, piazza Trento Trieste (piazza del Duomo, Listone), foto di Marco Chiarini, luglio 2020)

L’AMICO NASCOSTO DELLA CITTÀ DI FERRARA
Un ricordo di Padre Marcello

Qualche giorno fa, il 13 di luglio, don Andrea Zerbini ha celebrato una messa in ricordo di padre Marcello, di cui di seguito riportiamo il testo dell’omelia. Molti ferraresi, anzi moltissimi – a patto che abbiano superato gli anta – si ricordano di quel frate mistico, mite e gentile, con il pensiero rivolto all’alto e con il dono dell’accoglienza e dell’ascolto.
(Effe Emme)

Padre Marcello dell’Immacolata, carmelitano, potremmo definirlo l’amico nascosto della città di Ferrara. C’era per chiunque fosse segnato dall’afflizione e dal peso della vita, disponibile sempre per chi suonava il campanello del suo confessionale e nessuno se ne andava senza luce, forza e consolazione, rialzato sul cammino arduo della speranza. Un “Avanti”, sorridente era sempre la parola del suo congedo. Al secolo Carlo Zucchetti nasce a Vighignolo, frazione di Settimo Milanese (Mi) il 29 Novembre 1914; nel 1948 è mandato a Ferrara presso il convento di San Girolamo: per trentasei anni la città ha conosciuto l’incessante servizio di carità di Padre Marcello, soprattutto come confessore e direttore spirituale. Nel 1960 diventa Cappellano della Divisione Pediatrica dell’Arcispedale Sant’Anna e qui sperimenta la notte oscura delle famiglie e dei bambini ammalati dell’IPI. Muore nel triduo della festa della Beata Vergine del monte Carmelo il 13 luglio 1984.

Ferrara, Chiesa di San Girolamo

Una domanda mi è nata in cuore: «Chi è Gesù per padre Marcello dell’Immacolata?»
Potremmo rispondere lasciandoci ispirare dai nomi delle poesie di san Giovanni della Croce: Gesù è per lui Fiamma, Cantico, Notte, Fonte.

Fonte cristallina che si infonde nell’anima sprofondata nell’oscurità, presenza di luce. Fiamma viva, come lo sposo del Cantico, l’amico del Vangelo, lo Spirito del Cristo, lo stesso respiro di Gesù: «fiamma che consuma e non dà pena». Ma Gesù è anche notte, dice Giovanni della Croce, «che mi guidasti, oh, notte più dell’alba compiacente! Oh, notte che riunisti l’Amato con l’amata, amata nell’Amato trasformata!». Cantico nuovo è, infine, Gesù quello di un amore inesausto, proprio di chi continua ad amare, anche se cammina per una valle oscura.

Ma non solo. Gesù, per padre Marcello, è la sorgente del suo desiderio di umanità, di libertà di dono: «Cercate – egli scrive – di vivere impostando su Cristo i vostri desideri, le vostre aspirazioni; tenete Cristo come il vostro primo e più caro Amico, a cui confidare ed aprire il vostro cuore; non stancatevi di chiamarlo: è Lui che vi ha chiamati, e più vivrete con Lui, più lo obbligherete a rimanere con voi». «Il desiderio di Dio dispone all’unione con Lui» ci ricorda ancora san Giovanni della Croce; esso è generativo della fede e dell’abbandono in Lui: «La fede, infatti ‒ è ancora padre Marcello ‒ è confidenza e amore, che ci impegna a vedere e sentire anche quando il buio e il chiuso ci circondano: è luce nelle tenebre e armonia serena nel mutismo umano».

L’esatto opposto del sentimento vissuto dal popolo, di cui ci parlano la prima lettura (Is 1,10-17) e il salmo (Sal 49) di oggi. Un popolo senza desiderio, o meglio adulterato dai molti desideri. In esso non arde più un cuore desiderante e amante del proprio Dio, ma un cuore doppio, animato di finta fede e devozione, che recita con le labbra senza tradurre in fatti, che pratica riti vuoti perché privi di un autentico sacrificio, privi del culto spirituale nella vita che è la pratica della giustizia. Gente religiosa che onora con le labbra ma non con il cuore. Essi pongono al centro se stessi, i propri interessi, e così, ricolmi del proprio io, credono di guadagnare il senso della vita senza accorgersi di perderlo perché dimentichi dell’insegnamento del Maestro: «Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, troverà il centro della sua vita».

Diversamente, il vero discepolo di Gesù è colui che ama il maestro più e oltre gli amori umani, pur sempre limitati. È colui che corre fuori di sé alla ricerca di un amore che da dentro il cuore, lo dilata oltre ogni confine, sino a creare una sconfinatezza di bene.

Questo è stato Gesù per padre Marcello. Il centro della sua vita. Ma un centro convesso ‒ per così dire ‒ rivolto verso un altro, dipendente da un altro: «Il centro dell’anima è Gesù». Si è veramente sé stessi nel momento in cui ci immergiamo in lui. La mia risposta, il mio sì di amore mi porta al mio centro, mi unisce a lui, nel centro di me stesso. Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.

L’approdo è strabiliante, ma basta veramente poco per raggiungerlo. Basta anche solo un «bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli», come ci esorta il vangelo di oggi. «Basta un solo grado di amore ‒ ricorda san Giovanni della Croce ‒ perché l’anima si trovi nel suo centro, che è Gesù, essendole sufficiente uno solo per unirsi a Lui per grazia».

E così torno ancora a domandarmi: “Chi è Gesù per padre Marcello?”

Gesù, per padre Marcello, è colui che vuol restare in compagnia nostra. Vuol essere con noi presente e vivo per condividere gioie e speranze, lutti e angosce; per introdurci e renderci partecipi di quella stessa compagnia di amore che si vive nell’intimità trinitaria, dove il Padre e il Figlio escono l’uno verso l’altro, cercano l’uno la compagnia dell’altro grazie a quella vitalità di amore che è lo Spirito santo.

L’amore di p. Marcello per l’umiltà lo si comprende perché ai suoi occhi Gesù è “l’umiltà dell’amore”. Egli ha ricalcato così le orme della pazienza del Cristo e si è immedesimato nell’umanità mite e umile di Gesù vedendo in essa il segno rivelativo dell’amore di Dio per noi: «Sì, per una fede semplice e fiduciosa si richiede umiltà, che non è una virtù degradante, ma considerazione leale e reale di ciò che siamo e di ciò che valiamo. È la virtù della realtà e della verità che offre alla nostra anima sicurezza e prontezza ad accogliere e vivere ciò che Dio ci dice, e a vedere ciò che Dio spera in noi e per noi».

Si scorge in questo pensiero l’esperienza dei Padri del deserto, i quali ritenevano che il demonio può ingannarci e depistarci solo fino a un certo punto. Può imitare tutto ciò che concerne il digiuno, perché egli non mangia, e tutto ciò che concerne il sonno, perché egli non dorme mai. L’umiltà e l’amore però non può mai imitarli. Per questo, padre Marcello non ci ha insegnato né a digiunare né a fare veglie prolungate, ma ha condotto coloro che a lui si sono affidati a camminare sulla via dell’umiltà e dell’amore.

Anche in questo, padre Marcello ricorda il ritratto di quell’amico di Dio ‒ e anche nostro ‒ tratteggiato da San Massimo il Confessore nelle Settime centurie raccolte nella Filocalia: «Un uomo, solo che abbia fede, allontana la montagna del peccato, secondo il Vangelo (Mat. 17, 19-20), con una vita attivamente buona, respingendo da sé i precedenti legami con le realtà dei sensi, incostanti e variabili. Chi è riuscito a divenire un discepolo riceve dalle mani del Verbo frammenti di pani di conoscenza spirituale, ne riempie migliaia di persone e manifesta così con i fatti il potere del Verbo di moltiplicare (Mat. 15, 32-33). Chi è stato capace di divenire un apostolo, risana “ogni genere di malattia e di infermità” e scaccia gli spiriti immondi (Mat. 10,1); bandisce l’attività delle passioni; guarisce le malattie; cioè per mezzo della speranza conduce a rette disposizioni coloro che le avevano perdute».

La gamba di Costantino

Mia madre ha un solo fratello e una sola cognata: lo zio Giovanni Ghepardi e sua moglie Ester. Gli zii hanno tre figlie: Ines, Bella e Guenda Ghepardi, che sono le mie cugine. Ines e Bella sono due ragazze bionde con gli occhi azzurri, simpatiche e socievoli. Gestiscono un bar a Cremantello in provincia di Varese, mentre Guenda fa tutt’altro.
In questo periodo di Covid-19 al bar di Ines e Bella è successo di tutto: prima hanno cominciato ad ammalarsi clienti e non si sapeva cosa avessero, poi è arrivata la clausura, poi la riapertura di solo qualche ora al giorno per i tabacchi, poi la riapertura di sei ore al giorno con distanziamento sociale, poi la riapertura definitiva sempre con distanziamento sociale.  Per fortuna il bar Ghepardi è dotato di uno spiazzo antistante il locale dove è possibile mettere tavolini.  Può così ospitare clienti senza ridurre gli accessi in maniera tanto drastica da rendere inutile la riapertura.

Uno dei clienti più assidui del bar è Costantino, guardiano del museo della ceramica di Cremantello.
Costantino ha una gamba sola, una necrosi ossea ha portato all’amputazione dell’arto sinistro quando aveva vent’anni. Ora ne ha sessanta. Al posto della gamba amputata ha una protesi che lui ogni tanto toglie, appoggiandola al muro più vicino e poi dimenticandosela. Resta tranquillo con una gamba sola e non sa più che l’altro arto non è al suo posto “usuale”.  Quando si rende conto che è ora di andare a casa, non sempre ha voglia di riposizionare l’arto finto e chiede a Ines di  riportarlo a casa. E’ già successo più volte. Ines carica Costantino e la sua gamba sulla sua Twingo e li porta a destinazione. Sono solo cinque minuti di macchina. Bella invece non vuole sapere nulla della protesi di Costantino, credo che le faccia impressione.

Costantino dice che ciò che è importante non è la gamba finta, ma quella vera, visto che ne ha solo una. Credo sia proprio così. Avere una sola gamba, una sola mano, un solo occhio, un solo rene, cambia la vita delle persone. Noi non siamo una mente che prescinde dal corpo. Noi siamo mente e corpo insieme. Se cambia il corpo, cambia anche la mente. Cambia il modo in cui noi percepiamo noi stessi, cambia il modo in cui noi ci approcciamo agli altri e soprattutto cambiano le nostre aspettative nei confronti del mondo. Inoltre resta la paura per ciò che potrebbe succedere al corpo rimasto. Una volta ho provato ad approfondire la questione con Costantino.
E’ come pensavo. Costantino ha cambiato vita nel periodo dell’amputazione. Ha smesso di amare il mondo per come l’aveva sempre amato ed ha dovuto da solo ritrovare il senso dell’esistere. Mi ha raccontato che ha passato un intero anno a guardare la gamba che non c’era. Le parlava addirittura: “Gamba mia, perché te ne sei andata, come potrò vivere senza di te?. Tu che eri parte di me più della mia vita, più del mio sangue e delle mie ossa. Come potrò alzarmi al mattina e non vederti con me, sapere che te ne sei andata per sempre?. So che a volte può capitare, ma ora sono qui solo in questa stanza e guardo il vuoto. C’è uno spazio tangibile che prima era occupato da te e che ora non appartiene più a nessuno: come faccio a gestire un posto che prima era tuo e ora è solo del vento?.” Povero Costantino ha sicuramente passato un periodo molto brutto, era anche molto giovane.

Sua sorella ha raccontato a Ines che, dopo il primo periodo di “quasi-autismo”, Costantino ha ripreso a camminare con le sue gambe: a destra quella di carne, a sinistra la protesi. Su e giù per Cremantello con le stampelle, intanto che il cervello e i muscoli si abituavano alla nuova situazione. Si trascinava con il nuovo arto che non aveva niente di simile al precedente e che non gli piaceva per nulla. Era duro, insensibile, poco adattabile ai cambiamenti, si lasciava dimenticare.
Costantino camminò tanto con quell’arto finto, ma così tanto, che alla fine lui e la protesi diventarono familiari e nell’imparentarsi, si riappacificarono.  Arrivarono a quella specie di indifferenza che li contraddistingue attualmente. Una coppia di fatto, mia troppo felice. A Costantino non importa molto della sua gamba finta, dice che a lei non importa nulla di essere dimenticata.

Sempre curiosa la vita degli uomini.  Nelle menomazioni che possono capitare e nel conseguente riadattamento, c’è sempre molto dolore. Il sentirsi diversi, sfortunati, perseguitati, brutti fa molto male. Un “brutto” che dipende dalla diversità è ancora più drammatico.

In questo momento sono al bar Ghepardi. E’ pomeriggio inoltrato, fa caldo. Guardo i clienti che vanno e vengono, la macchina del caffè che sbuffa mentre lavora a pieno regime. Costantino è là con la sua gamba finta. Se ne sta seduto, parla con tutti, gioca a carte. Chissà come sarebbe stata la sua vita con entrambe le gambe. Magari sarebbe diventato un podista, un motociclista, un grande scalatore. Oppure no, sarebbe comunque stato un guardiano di ceramiche.
Ines dice che Costantino le piace, peccato che abbia sessant’anni e sia troppo vecchio per lei. Dice anche che a lei della protesi non importa nulla e nemmeno della gamba sinistra che non c’è. Costantino sa che è così, per questo va sempre al bar Ghepardi.

Una sera, il giorno del compleanno del guardiano di ceramiche, tutti i clienti più assidui del bar si sono legati una gamba con una corda,  dopo averla girata all’insù sotto il ginocchio, in modo da tenere il piede fermo incollato alla coscia e da sembrare tutti degli amputati. Come tante gru addormentate che stanno su una gamba sola, così i clienti del bar sono diventati tanti Costantini. Quando il vero Costantino è arrivato al bar, ha capito subito cosa stesse succedendo e ha ringraziato per gli auguri. Però non ha riso come gli altri speravano. Il vedere tanta gente come lui non l’ha divertito troppo, anche se ha apprezzato lo scopo buono dell’iniziativa.
Ines ha stappato una bottiglia di vino e tutti sono rimasti in bilico su una gamba sola fino all’orario di chiusura. La mattina dopo al bar c’erano pochissimi clienti. Quello strano tenersi in equilibrio come delle gru senza esserci abituati, aveva lasciato alcune conseguenze. Nella notte erano comparsi ai festaioli dolore ai fianchi, alla schiena e alle gambe. La posizione tenuta il giorno prima li aveva temporaneamente messi fuori combattimento.
Uno dei pochi cliente di quella mattina deserta fu Costantino con la sua gamba finta.  Come al solito, dopo un po’ si levò la protesi, dicendo a Ines: “Al Ghepardi oggi c’è una sola gamba buona, quella che è rimasta a me. In questo momento voi di arti buoni non ne avete, quindi per una volta quello messo meglio sono io”. Poi ha sorriso divertito. Era in vantaggio di una gamba su tutti.  Ines e Bella si sono rasserenate.
E’ brillato il sole sul bar Ghepardi, ed era particolarmente bello.

MORTI DI REGGIO EMILIA
Avevo 19 anni: il mio ricordo per i ventenni di oggi.

«Compagno Ovidio Franchi, compagno Afro Tondelli,
e voi Marino Serri, Reverberi e Farioli
dovremo tutti quanti aver d’ora in avanti
Voialtri al nostro fianco per non sentirci soli»
Fausto Amodei: Per i morti di Reggio Emilia

Mi chiedo cosa dica oggi (e a chi) una vicenda di sessanta anni fa e la canzone che ne fa memoria, Per i morti di Reggio Emilia. I miei ricordi sono più o meno questi.
Con l’amico di sempre, Ranieri Varese, frequento il Consiglio Provinciale della Resistenza, che si occupa di diffondere la conoscenza di quelle vicende tra i giovani. È un argomento pressoché tabù negli anni ’50. Ricordo in particolare, come illuminanti, le conferenze di Riccardo Bauer ed Enzo Boeri. Ranieri ed io siamo i più giovani in quegli incontri preparatori.
Nella primavera del 1960, in un incontro in vista del 25 aprile, vengono espresse preoccupazioni per la situazione del Paese. Si è insediato il governo Tambroni, monocolore democristiano con l’appoggio determinante dei neofascisti. La convocazione del congresso nazionale del MSI a Genova riceve una netta ripulsa dalla città. Viene annullato a fine giugno.

Manifestazioni contro il Governo, per la democrazia e l’antifascismo, si svolgono in varie città nei primi giorni di luglio. Anche a Ferrara, come a Reggio Emilia, la data è il 7 luglio, piazza Municipale strapiena, direi di ricordare una sola camionetta della Celere a garanzia dell’ordine pubblico. Tutto si svolge tranquillamente. Più oratori si susseguono. Saprò poi che la notizia dell’eccidio di Reggio Emilia è giunta al palco, ma è responsabilmente taciuta.

Reggio Emilia, 7 luglio 1960. Le Forze dell’Ordine sparano sulla folla.

Reggio Emilia, 7 luglio 1960. Le Forze dell’Ordine sparano sulla folla.A Reggio Emilia la Celere apre il fuoco sui manifestanti. Muoiono Ovidio Franchi, operaio, 19 anni; Lauro Farioli, operaio, 22 anni, orfano di padre, sposato e padre di un bambino; Marino Serri, pastore, 41 anni, partigiano della 76SAP, primo di sei fratelli; Afro Tondelli, operaio, 36 anni, partigiano della 76a SAP, quinto di otto fratelli; Emilio Reverberi, operaio, 39 anni, partigiano nella 144a Brigata Garibaldi e commissario politico nel distaccamento G. Amendola.

Quest’anno Reggio li ha ricordati con diverse iniziative e in particolare con una manifestazione – promossa da Comune, Provincia, Cgil, Cisl e Uil, Anpi, Alpi-Apc, Anppia, Istoreco e Comitato democratico e costituzionale – il 7 luglio. Partecipava pure Silvano Franchi, il fratello di Ovidio. A Reggio, evidentemente, pensano che la data qualcosa ci dica sessanta anni dopo.

In quel tempo un giovane cantautore, Fausto Amodei, fa servizio militare soldato semplice, Centro Addestramento Reclute di Montorio Veronese. La notizia lo sconvolge e il suo modo di solidarizzare consiste nel comporre una canzone [puoi ascoltarla qui]. Sarà la sua più ascoltata e cantata. Amodei è già attivo nel gruppo di Cantacronache, sorto a Torino nel 1957 tra musicisti, letterati e poeti. Sono le prime canzoni ‘impegnate’ – pure belle – che ho modo di sentire nell’ospitale casa, a Ferrara, di un compagno di Liceo, Afro Maisto. Nella canzone l’autore chiama a una nuova resistenza nel nome dei caduti, già partigiani o loro eredi ideali, i due giovanissimi. Ranieri ed io abbiamo la stessa età di Ovidio!

Di Amodei non dirò altro. Le sue canzoni si possono ancora ascoltare con piacere. Io non le so cantare. Alla cresima, nelle prove del coro, mi dicono “Tu apri solo la bocca!”. Le parole però le so, non solo Per i morti di Reggio Emilia, ma almeno La zolfara, Qualcosa da aspettare, La marcia della pace. Le suggerisco quando qualcuno, chitarra in mano, le intona. Ora non succede più. Di Fausto Amodei, che però non ho mai incontrato, ho condiviso pure una parte di percorso politico: Unità Popolare, Psi, Psiup…

Io sono sicuro che occorre recuperare il meglio dell’Antifascismo e della Resistenza, di fronte al ritorno di un passato infame, nell’esplodere della diseguaglianza sociale, nella negazione delle diversità, nel connubio tra nazionalismo e religione, nella negazione dei diritti fondamentali.
In una intervista Enzo Biagi chiede a Primo Levi: “Come nascono i lager?” “Facendo finta di nulla” è la risposta. È una risposta che condivido e che considero attuale.

Le vicende che ho semplicemente evocato sono state importanti nella mia formazione. Mi piacerebbe parlare ai ventenni di oggi per sentire se a loro questa vecchia storia dica qualcosa di vivo nel loro presente.
Poi penso: se a me, diciannovenne, avessero chiesto di riflettere su un fatto avvenuto sessanta anni prima, nell’anno 1900 cioè, come avrei reagito? Posso pensare all’uccisione di Umberto I o alla Guerra Boera. Alla monarchia si è posto fine con un referendum e non con colpi di pistola e tra coloni olandesi e soldati inglesi i più simpatici sono gli zulù. Sono risposte possibili. Non so se le avrei date.

Questo articolo è apparso con altro titolo anche sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento Nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

Cover: Il corpo di Lauro Farioli, una delle cinque vittime della strage (wikipedia commons)

ABITARE UNA CASA DI VETRO
Cattolici e politica nel Terzo Millennio

Scrive Gregory Bateson: “Dice il proverbio che quelli che abitano in una casa di vetro, soprattutto se vi abitano con altri, dovrebbero pensarci bene prima di tirarsi dei sassi; e penso che sia opportuno ricordare a tutti gli occidentali che leggeranno questo saggio che essi vivono in una casa di vetro… In altre parole, noi tutti abbiamo in comune un groviglio di presupposizioni, molte delle quali hanno origini antiche. A mio parere, i nostri guai affondano le radici in questo groviglio di presupposizioni, molte delle quali sono insensate. Invece di puntare il dito contro questa o quella parte del nostro sistema globale , dovremmo esaminare le basi e la natura del sistema .”.

Vorrei provare, in merito al tipo di testimonianza che potrebbero offrire oggi i cattolici nella vita politica, proprio ad  addentrarmi in quel «groviglio di presupposizioni, molte delle quali sono insensate», «molte delle quali hanno origini antiche», che induce quotidianamente a “tirarci dei sassi”, incolpandoci gli uni gli altri dei «nostri guai», senza accorgerci che il mondo della politica in cui viviamo tutti insieme  è una fragilissima «casa di vetro» e che oggi necessita e più che mai invoca a gran voce un significativo progetto di liberazione. .

Da un punto di vista storico, fino al 1993 la Democrazia Cristiana ha rappresentato il partito di riferimento principale per i cattolici italiani.
Due elementi  ascrivibili agli ultimi decenni del XX secolo poi  hanno impedito oltre quella data alla Dc di continuare a detenere questo ruolo egemone  all’interno dell’elettorato cattolico.
Da un lato la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la disintegrazione dell’Impero sovietico, hanno fatto venire meno il potentissimo collante ideologico anti comunista. Dall’altro le inchieste milanesi di Mani Pulite dell’inizio anni Novanta hanno avuto un ritorno devastante sull’opinione pubblica, all’interno della quale si è arrivati all’ identificazione di una immagine di partito formato da soli corrotti e corruttori.

Il 18 gennaio 1994 segna la data dell’atto di costituzione di un nuovo partito, il PPI, con segretario Martinazzoli. Abbiamo quindi assistito da lì in avanti ad una sorta di ‘diaspora cattolica, con la creazione sia a destra che a sinistra, di tutta una serie di fondazioni e successivo scioglimento, di nuovi gruppi ,partiti, movimenti di ispirazione cattolica la cui ricostruzione però esula dagli intenti di questo scritto.

L’impegno dei cattolici in politica oggi

 Dal Non éxpedit (in italiano: “non conviene), disposizione della Santa Sede con la quale nel 1868  si dichiarò inaccettabile che i cattolici italiani partecipassero alle elezioni politiche del Regno d’Italia e, per estensione, alla vita politica nazionale italiana, il cammino fatto dalla Chiesa in merito all’impegno dei credenti nelle cose del mondo si è evoluto in modo sostanziale.
Non potendo qui riportare tutte le tappe di tale percorso desidero richiamarne il punto di arrivo conclusivo, estrapolandolo però da un documento che, pur non occupandosi in modo diretto di tale questione, riassume magistralmente i caratteri principali su cui oggi la Chiesa legge il suo rapporto con il mondo e conseguentemente la relazione dei credenti  con la politica. Si tratta del Discorso di  Papa Francesco alla Curia Romana tenuto in occasione degli auguri natalizi del 21 dicembre 2019 .

Il punto di partenza di tale documento è il riconoscimento che “quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali”. Si sottolinea quindi che “l’atteggiamento sano è piuttosto quello di lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente e di coglierle con le virtù del discernimento”.
A tal fine viene suggerita una modalità decisamente innovativa rispetto alla tradizione:
”Noi dobbiamo avviare processi e non occupare spazi: Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa. Da ciò siamo sollecitati a leggere i segni dei tempi con gli occhi della fede, affinché la direzione di questo cambiamento risvegli nuove e vecchie domande con le quali è giusto e necessario confrontarsi”.

Nel documento si prende atto della fine di una epoca, l’epoca in cui esisteva il mondo cristiano da una parte e  un mondo da evangelizzare dall’altra: “Adesso questa situazione non esiste più… Nelle grandi città abbiamo bisogno di altre mappe, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti: Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata.“.

E infine il richiamo all’ultima intervista del Cardinal Martini, fatta  a pochi giorni dalla morte, non lascia alcun dubbio interpretativo sul senso della riflessione fatta nel documento e sulla direzione da prendersi:
«La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. […] Solo l’amore vince la stanchezza»”.

Sono affermazioni queste di una portata ‘politica’, nel senso dell’etimo greco del termine, straordinaria, in continuità senza dubbio con la direzione tracciata a suo tempo dal Concilio Vaticano Secondo, ma direi ancora più potenti oggi, poiché parlano direttamente all’uomo del terzo millennio e ad una società diversa da quella a cui si rivolgevano i padri conciliari.
La direzione dell’impegno della chiesa e del credente è chiaramente leggibile in questo documento, ma desidererei renderla ancora più evocativa affiancando una immagine metaforica tratta dal Mito della caverna narrato nel settimo libro de  La Repubblica di Platone.

In estrema sintesi il Mito della caverna descrive la condizione di uomini incatenati in un antro sotterraneo e costretti a guardare solo davanti a sé delle ombre, riflesso di immagini di oggetti che si muovono alle loro spalle. Platone ipotizza che uno di loro riesca a liberarsi dalle catene e quindi a vedere  le ombre per quel che sono, a risalire poi all’apertura e poter ammirare lo spettacolo scintillante delle cose reali. Ovviamente lo schiavo vorrebbe rimanere sempre là, a godere di quella grande bellezza, ma invece decide di tornare dentro la caverna per liberare i compagni, correndo il rischio di non essere creduto.
Platone intende far riferimento indubbiamente al ritorno del filosofo – politico, il quale se seguisse il suo solo desiderio, resterebbe a contemplare il vero, e invece superando il suo desiderio, scende per cercare di salvare anche gli altri: il vero politico, secondo Platone, non ama il comando ed il potere, ma usa comando e potere come servizio per attuare il bene.
Non esiste liberazione se non c’è liberazione anche dell’altro.

Saper ascoltare…

Volendo riassumere in un parola sola tutte le modalità dell’impegno politico del credente, utilizzerei il significato originario di quel “saper ascoltare “ spiegato dal professor Umberto Curi nel suo saggio La porta stretta: Il verbo ascoltare deriva dal greco akounein e nella Bibbia viene utilizzato non soltanto per significare prestare attenzione, ma soprattutto per invitare ad aprire il cuore e mettere in pratica ciò che si è ascoltato.”
Questo ascoltare profondamente è tipico dell’uomo di fede. e non potrà mai essere separato da quella dei bisogni del prossimo.

Se l’impegno politico del credente vuole essere lievito, se vuole essere non un elemento di divisione ma di unione, se vuole essere una ulteriore possibilità per l’altro, allora questo impegno deve essere coraggioso, credibile e creativo.
Ed ecco che una partecipazione coraggiosa, credibile e creativa al progetto di liberazione per il nostro tempo deve essere in grado di rimettere in discussione per lo meno tre antinomie classiche inerenti all’impegno politico del cristiano:
la contrapposizione individuo-comunità, l’opposizione corpo-spirito, il rapporto Chiesa istituzione-popolo.

Per quello che riguarda la prima,quella tra individuo/comunità ,bisogna subito ricordare che è stato il cristianesimo ad introdurre nella cultura occidentale il primato dell’individuo, sconosciuto infatti  sia alla tradizione giudaica dove l’alleanza era tra Dio e il suo popolo, sia alla cultura greca dove alla polis, alla sua salvezza e alle sue leggi, era da subordinare l’interesse individuale. E’ il cristianesimo ad introdurre la salvezza individuale dell’anima: da Agostino in poi la scissione tra individuo e società sarà un suo elemento caratterizzante . E’ questo principio che ha consentito alla Chiesa per secoli di subordinare la politica alla propria visione del mondo. Ma se ascoltiamo il mondo secolarizzato, oggi il rapporto, paradossalmente. si è invertito: il principio del primato dell’individuo introdotto dal cristianesimo, è diventato nel nostro tempo il principio che i cittadini di uno stato laico invocano per esercitare diritti di scelta individuale inalienabile in tema di fecondazione, di fine vita, di unioni civili…fondando così il primato della politica sull’ingerenza ecclesiastica
Il rapporto quindi individuo – comunità deve essere ripensato, poiché oggi non è più sostenibile una salvezza individuale che prescinda da quella collettiva, come ci ha fatto toccare con mano questa ultima emergenza sanitaria. Se esiste il tribunale della coscienza individuale a cui sempre potersi appellare, questa deve tenere conto di una coscienza collettiva a cui rispondere ad esempio in tema di responsabilità ambientale, fiscale, sanitaria e culturale.

Se Antigone, l’eroina della tragedia di Sofocle, da un lato viene presa a modello della difesa di un diritto naturale, di una legge sacra non scritta superiore alle leggi dello Stato, dall’altro ci dobbiamo domandare se è condivisibile la sua scelta di togliersi la vita in nome di quelle idee, ponendo così un ostacolo insormontabile alla possibile apertura di un confronto a causa del suo gesto diventata impossibile.
Solo l’ascolto profondo e reciproco del ‘mondo’ e della ‘fede’ può portare a creare soluzioni inedite dove per entrambi il fine ultimo deve essere comunque il Bene dell’uomo.

Il confronto sulla seconda antinomia, corpo/spirito , può partire dall’ acquisizione  del principio per cui in uno Stato laico le decisioni sul corpo, quelle che riguardano il vivere e il morire, appartengono ai singoli cittadini. “La regola è quella del consenso, dunque della volontà liberamente manifestata da ciascuno”, come ha scritto  Stefano Rodotà in un articolo su Repubblica del 2006.
Al fine però di non permettere la degenerazione di tale principio di autonomia della volontà, in una gestione dell’esistenza dominata da imperativi del consumo e dal narcisismo, serve oggi più che mai dimostrare che le decisioni autonome sul corpo non comportano necessariamente l’appiattimento su una concezione della vita di tipo meramente materialistico, ma che esiste una sua dimensione spirituale non oscurantistica, dove rinuncia, empatia, perdono, sopportazione, dolore possono essere accolte e condivise con dignità.

Infine per introdurre  la terza antinomia Chiesa /popolo può essere utile tornare al recente episodio dell’allontanamento di Enzo Bianchi  dalla comunità di Bose.
Questa dolorosa vicenda ha messo in luce tutta la difficoltà che ha ancora oggi la Chiesa nel gestire in modo efficace le relazioni conflittuali. Per un’autorità  ecclesiale che si impone con criteri di tipo gerarchico piramidale non opponibili e che allo stesso tempo auspica rapporti interpersonali improntati al principio dell’amore evangelico e del servizio, il rischio di mandare messaggi contraddittori, di doppio legame, è altissimo.
Qui la riflessione nelle organizzazioni ecclesiali è carente. Dovrebbe essere fatta finalmente una analisi seria sui meccanismi di esercizio del potere sia a livello di istituzione ecclesiastica, ma anche a livello di rapporti interpersonali, dove invece ci troviamo di fronte ad un vuoto conoscitivo sostituito, a seconda dei casi, da raccomandazioni  alla preghiera, dall’azione dello Spirito, dall’obbedienza se non dal silenzio,  soluzioni che non possono evitare incomprensioni nei fedeli e profonde lacerazioni  nelle comunità.

“Non siamo migliori”

Se l’impegno politico all’interno di un progetto condiviso di liberazione viene esercitato, a vantaggio dell’intera comunità per la destrutturazione di  tutti i meccanismi e le posizioni di potere, allora perde di senso la difesa del proprio particulare, dell’identità specifica cattolica da salvaguardare per esempio nella scelta dei candidati politici, o nelle scelte etiche e  culturali…anche perché “non siamo migliori”. 
“Non siamo migliori” è l’adagio coniato da Enzo Bianchi fin dai primi anni di vita comunitaria, per sottolineare  bene, nel nostro agire, i limiti della nostra umanità; e significativamente è anche il titolo dell’ultima comunicazione della comunità di Bose del 19 giugno scorso, dopo l’applicazione del decreto di allontanamento dello stesso Bianchi.

Illuminante rimane infine sulle modalità di tale impegno politico  uno scritto del’43 di don Primo Mazzolari nel passaggio in cui afferma:
“Ci impegniamo noi e non gli altri, unicamente noi e non gli altri…ci impegniamo senza pretendere che altri si impegni con noi o per suo conto, come noi o in altro modo…ci impegniamo senza giudicare chi non si impegna… Non ci interessa la carriera, non ci interessa il denaro…non ci interessa il successo, né di noi stessi né delle nostre idee…ci interessa perderci per qualche cosa che rimarrà anche dopo che noi saremo passati”.

Cover: foto di Sergio Cebotari

PAROLE A CAPO
Beniamino Marino: “Il volo” e altre poesie

Rubrica a cura di Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini

“La poesia ci abitua a pensare. Il pensare ci abitua a pensare l’essere (fisico, psichico, storico) dentro al tempo, come suo orizzonte”.
(Gianni D’Elia)

 

DIETRO L’ORIZZONTE

Apro gli occhi ancora assonnati.

Scruto l’orizzonte e il cielo azzurro di stamani.

Si insinua agile il pensiero bello di te

nelle fessure del cuore mio torvo.

Vago indolente per le strade deserte, mi segue il ricordo

del suono argentino del tuo sorriso e della voce.

Vorrei che tu fossi accanto a me ora.

Quante emozioni si ridestano, rinasco finalmente.

Incedono come selvaggi cavalli, onde di un mare procelloso.

Desideri che si eclisseranno dietro l’orizzonte tra qualche ora, il sole

declinante li imporporerà coi suoi raggi.

Forse ti rivedrò?

Saremo felici di nuovo.

 

IL VOLO

Fuggi, ti esorto con tutto

il cuore. Fuggi lontano

da questi miasmi pestiferi,

da questo assordante

chiacchiericcio.

Bevi fino ad ubriacarti

il liquido prezioso del

cielo terso

di questo mattino invernale.

Danza mostrando

il corpo tuo sinuoso,

effondi i tuoi

profumi inebrianti,

fai ondeggiare la tua

ricciuta chioma.

Fai strabuzzare

gli occhi degli angeli

ancora assonnati.

Ridesta la loro voglia d’amore.

Rendi meno infelice,

grama la loro vita.

 

TRAMONTO SURREALE

Incedo lentamente sul

sentiero del bosco

cosparso di foglie gialle e

rosse,

i miei piedi le frantumano,

il loro suono interrompe il

silenzio.

Pensieri che volteggiano

insieme

ai ricordi nella mente.

Occhi bagnati dalle lacrime

che brillano come perle preziose.

Il sole scaglia i suoi ultimi

raggi,

tinge le nuvole di rosso,

prima di

scomparire oltre la linea

dell’orizzonte.

Si odono le grida di

bambini

che giocano lontano

da me.

Nulla scuote la mia

indifferenza,

la speranza si allontana

per andare altrove.

Lascia le sue impronte ed

io le seguo

con gli occhi invano.

La notte cala dal cielo,

un prezioso sudario

avvolgerà la città.

Il mio cuore si distende su

quel letto di foglie,

il silenzio del bosco lo

inebrierà.

Beniamino Marino
“E’ un compito ostico e semplice quello di scrivere pochi pensieri per descriversi. Sono un 58enne, amo leggere romanzi, poesie e saggi.  Nutro un grande interesse per l’arte. Faccio fotografie con cui esprimo le mie emozioni. Dipingo saltuariamente. Scrivo da pochi anni poesie.”.

Dal 6 al 18 luglio  Parole a capo, la rubrica di poesia di Ferraraitalia, esce ogni mattina durante tutta la settimana.
Per leggere tutte le puntate e tutti i poeti di ‘Parole a capo’ clicca [Qui]

PAROLE A CAPO
Andreina Moretti: “La mia terra” e altre poesie

Rubrica a cura di Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini

“La poesia è qualcosa, o qualcuno, che dentro di noi vuole disperatamente essere”
(Marina Cvetaeva)

 

LA MIA TERRA

La dolce voce di mia madre,

il caffè che borbotta sulla fiamma,

la tenda leggiadra volteggia come una ballerina

sospinta da un brezza salmastra e conosciuta,

i profumi rapiti ai gerani sui balconi assolati,

odore di rose, di baci rubati, di resina e mare,

di conchiglie naufragate e reti addormentate.

Il campanile scava dentro il cielo

tingendo di azzurro le ore,

la salubre pineta  abbraccia d’ombra i sogni di un bambino,

le fontane abbandonate agli angoli  delle vie

gocciolano memoria.

La sabbia incandescente e bianca

corre a smarrirsi nel mare e nel suo orizzonte,

una radio, una canzone, evocano ricordi

come briciole di pane scrollate dall’alto.

L’odore dei viali fiancheggiati dalle siepi

mi conducono a casa,

la mia terra è una bruna donna,

una dura zolla dissodata,

è il tramonto sulle barche,

un odore di festa e tradizioni,

un mare di storia e civiltà,

la mia terra è la culla del cuore e dell’amore.

 

L’ONDA E IL SUO RICORDO

Mentre il mare consuma

l’eterno all’orizzonte,

le stelle e le conchiglie

raccolgono silenzi

di  pietre e  desideri.

L’onda e il suo ricordo

cullati nelle  reti

colme di canti di sirena

di voci di madri

e odori di  lontani mari.

Gli scogli dimenticati e sconosciuti,

vestono cappotti di alghe

e granchi morti,

abbracciano l’immenso circostante

raccontano di perle e di maree.

Sul manto dell’acqua più celeste,

le  anime affamate dei gabbiani

vagano con piume più leggere,

in cerca di pesci sconosciuti,

nel sale che avvampa le ferite.

L’onda torna al suo ricordo

per morire nuovamente

e  risorgere d’incanto,

intona una melodia assai remota

che solo gli angeli hanno già ascoltato.

 

SONO UN ALBERO

Io sono un albero

con il corpo abbottonato alla corteccia,

rifugio degli spettri nella notte,

impigliato al vento il suo mantello

ridesta ogni bimbo dal suo sonno.

Sono un albero e una sposa,

di fiori e di profumi un anello,

in pegno la  promessa del suo frutto.

Sono un albero che annusa la natura circostante,

respira l’universo della gente,

cercando il destino e il suo disegno.

Sono un albero che cerca nel passato la sua storia,

affonda le radici assai bramose

nel sangue e nella terra dei ricordi.

Sono un albero e sono un guerriero

che lotta contro il tempo e le stagioni,

illusa protendo all’ infinito e all’ eterno.

Le braccia al cielo in preghiera

e Dio si inginocchia e spera,

rapito dal battito di un cuore.

Sono un albero solcato dalle rughe,

dalle pene e dagli errori,

è scritto che i germogli dell’amore

l’anima del poeta  desteranno.

 

Andreina Moretti
(Roseto degli Abruzzi, 1959). Da bambina sognava di divenire una scienziata, ma la famiglia non ha avuto la possibilità di farle continuare gli studi, così la sua vera scuola è stata la vita, e la scrittura è diventata il suo magico mondo in cui rifugiarsi. Tra le pubblicazioni segnaliamo: Nel cielo di Erode (poesie, 2015); La fontana del Santo (2016), in cui narra la storia di Roseto degli Abruzzi; Il cuore in tasca e i ricordi in valigia (romanzo, 2017); Il sonno dei pesci (poesie, 2019). Ha partecipato a numerosissimi premi letterari tra cui segnaliamo: Prima classificata al concorso “Per te donna”; Medaglia ad honorem al concorso “Giovanni Paolo II”; Prima classificata al concorso “Troskijcafè”; finalista al concorso “Alda Merini”; Prima classificata al concorso “Peppino Impastato”. Regista ed autrice di opere teatrali.

Dal 6 al 18 luglio  Parole a capo uscirà ogni mattina durante tutta la settimana.
Per leggere tutte le puntate e tutti i poeti della rubrica Parole a capo clicca [Qui]

Guerriere

C’è sempre e ancora quella sottile pellicola di fragilità e debolezza che avvolge le donne dell’immaginario collettivo, anche se oggi ci si limita a pensarlo perché non sarebbe politically correct esprimerlo ad alta voce. Un’idea dura da estirpare, nonostante l’evidenza. Eppure le donne hanno contribuito a far andare avanti l’Italia della pandemia, della difficoltà estrema, dello shock.
Ci ha pensato il grande disegnatore di fumetti Milo Manara, maestro dei comics, a rendere riconoscimento e omaggio al genere femminile impegnato a soccorrere, accudire, aiutare e dare un senso di quotidianità rassicurante alle giornate più buie. Uscirà a fine luglio “Lockdown Heroes”, una raccolta di 25 illustrazioni che rappresentano dottoresse, infermiere, commesse, operaie, poliziotte, ferroviere…, il cui ricavato verrà destinato all’Ospedale Sacco di Milano, al Cotugno di Napoli e al Policlinico universitario di Padova.
Il loro spirito battagliero, il coraggio irriducibile e l’abnegazione, hanno valso quella definizione, “Heroes”, meritata come tante medaglie guadagnate sul campo. Donne guerriere della nostra epoca, che non hanno nulla da invidiare alle eroine del passato di cui ci narra la storia, spesso accompagnate nelle loro battaglie da un alone di leggenda.

Artemisia, sovrana di Alicarnasso (VI – V secolo a.C.), accompagnò il re persiano Serse nella campagna contro i greci a Salamina, vestendo il ruolo di comandante. Nel vederla combattere, il persiano pronunciò la frase “I miei uomini sono diventati donne, mentre le donne sono come gli uomini”.
Una figura sorprendente è l’ultima grande donna del Medioevo, Caterina Sforza (1463-1509), Signora di Imola e Contessa di Forlì, soprannominata “tigre” per lo straordinario coraggio. Difese con i denti i suoi regni dalle pretese di annessione di Cesare Borgia, pianificando manovre e addestramenti per le milizie. Nella vita privata amava occuparsi di alchimia e di caccia. Visse tra complotti, infedeltà, minacce e violenze, matrimoni e vedovanze senza mai lasciarsi intimorire. Incinta di uno dei suoi figli, si asserragliò nel Castel Sant’Angelo per 12 giorni, minacciando il Vaticano a difesa dei  suoi territori. A 36 anni, con 8 figli, rimase vedova per la terza volta e dopo una breve prigionia a Roma, passò il resto della sua vita a Firenze.
Ching Shih, cinese, (1775-1844) passa alla storia come la pirata più potente che si conosca. Prostituta di Canton nel bordello di Guangzhou, sposò un pirata, e alla sua morte ne prese il posto.  Il suo esercito piratesco consisteva in 80.000 uomini e 1800 navi. Era considerata spietata e crudele ma attenta alle altre donne: nel suo codice di leggi per le donne prigioniere proibiva ogni violenza da parte delle ciurme, anche se poi le destinava come mogli ai suoi filibustieri. Fu sconfitta dall’esercito portoghese nel 1810 e si ritirò dalla pirateria, conservando i suoi bottini.
Un nome ricordato nella storia delle donne guerriere e in quella dell’imperialismo britannico è Rani Lakshmi Bai (1827-1858), proveniente da una famiglia altolocata della città di Varani, in India. Studia arte militare e combattimento e a 15 anni va in sposa al sovrano di Jhansi. Alla morte del marito e del loro figlio, rimane unica sovrana. Si ribella agli inglesi che vogliono annettere il suo regno e combatte strenuamente per due settimane, prima che la città cada. Si unisce ad altri leader della rivolta antibritannica e si batte con estremo coraggio, definita dagli inglesi “la più bella, intelligente e pericolosa tra tutti i leader indiani”.
La giapponese Nakano Takeko (1847-1868) fu una onna-bugeisha, una donna samurai che praticava le arti del combattimento per protezione. Fu a capo dell’esercito di guerriere che combattevano con la naginata, la temibile spada a lama ricurva. Trova la morte a soli 21 anni, nella battaglia di Aizu, durante la sanguinosa guerra civile che devastò il Giappone settentrionale.
Durante la II Guerra mondiale, Lyudmila Pavlichenko, Nancy Wake, Marina Raskava sono solo alcuni dei nomi da ricordare. Lyudmila, combattente nelle file dell’esercito sovietico dal quale era stata respinta inizialmente perché donna, fu uno dei migliori cecchini che la storia ricordi. Uccise 187 tedeschi solo nei primi due mesi di conflitto e divenne figura molto temuta. Nancy Wake, agente speciale britannica e comandante della resistenza,  si battè contro i nazisti, sabotando depositi e distribuendo le armi ai partigiani francesi. Specialista nelle fughe, venne soprannominata dai tedeschi “topo bianco”. Divenne il primo nome della lista dei ricercati dalla polizia nazista, con una taglia sulla sua testa di 5 milioni di franchi. Marina Raskava fu pioniera dell’aviazione russa e, delegata da Stalin, addestrava al volo le giovani reclute. Fondò le “Streghe della notte”, una flotta aerea al femminile, che pilotava aerei biplano di legno, sorvolando i bersagli e creando azioni di disturbo con un carico limitato di bombe.
La lista di guerriere sarebbe ancora lunghissima ma ne ricordiamo in particolare una: la giovane Asia Ramazan Antar, curda. A soli 16 anni è entrata nell’unità di protezione delle Donne, le truppe siriane femminili in lotta contro l’Isis e la dittatura repressiva di Bashar al-Assad. Giovane donna, simbolo di una resistenza eroica insieme ad altre sue compagne, è morta in combattimento nell’agosto del 2016.
Donne sensibili ed emotivamente vulnerabili che diventano leonesse quando la vita glielo impone, ora come un tempo.

PER CERTI VERSI
I giorni di Ustica

Ogni

domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

I GIORNI DI USTICA

Sono i giorni di Ustica
Ero un ragazzo dai tanti capelli ricci
Tu eri aria
Chissà forse ci incontravamo già nella bassa
In uno dei sabati come questi dove nessuno passa
Neanche il dolore passa
Per tutti i morti durante lo scontro
E dopo
Una serie impressionante
Di intrighi
Forse tutti e due siamo aria
Entra dal finestrino
Mentre fumi
E poco si spiega
Di quella storia
I frantumi

LO CUNTO DE LI CUNTI
La Taverna di Dio

Rubrica a cura di Fabio Mangolini e Francesco Monini

“Siamo in missione da parte di Dio”: chi non ricorda la mitica frase passe-partout che il mitico John Belushi pronunciava nel mitico The Blues Brother? Da allora di acqua ne è passata davvero tanta. il film è del 1980, e il ‘fratello’ John Belushi se n’è andato dopo un paio d’anni, ma – come miracolosamente accade a quei rari manu-fatti che si tramutano in Mito – molte di quelle immagini, e parole, e musiche e gesti sono rimaste impigliate nella nostra memoria collettiva.
Ed è rimasto soprattutto un particolare ‘clima’, una specie di sorriso struggente che solo a volte ci capita di rincontrare. Come ad esempio in questo racconto di
Cristiano Mazzoni, ambientato non a Emmaus ma in una taverna contemporanea e dove un Dio in persona strapazza a dovere i suoi moderni apostoli disobbedienti e mette in croce guerre, ricchezze e malefatte di 2.000 anni di Chiesa-Stato.
Legge il racconto
Fabio Mangolini. Buon ascolto, buona visione e buon divertimento.
(I Curatori)

Lo Cunto de li Cunti – Cristiano Mazzoni “La taverna di Dio”, letto da Fabio Mangolini

 

LA TAVERNA DI DIO

In un angolo della piccola sala, ad un tavolo appartato, seduto su una seggiola impagliata, giaceva un uomo, canuto, robusto, di corporatura possente. L’uomo aveva una lunga barba bianca, capelli molto lunghi acconciati con strani dreadlock ante litteram. Era abbigliato in modo strano, sembrava avesse una tunica bianca lunga, con calzari antichi, simili a quelli utilizzati dai romani duemila anni fa. Anche la taverna a dire il vero era strana, si direbbe vintage, utilizzando un vocabolo moderno che però poco si addiceva al luogo. Pochi ed educati avventori, nessuno schiamazzo, musica irriconoscibile in sottofondo, molte caraffe d’acqua e vino sui tavoli, fette di pane ed olio, zuppe di ceci e fagioli. Nessuno che si abbuffasse o che galleggiasse sopra alle righe.
L’uomo, nel tavolo più lontano dal bancone, fumava assorto una pipa, lunga e sottile, davanti a se una piccola caraffa di vino vermiglio ed un bicchiere mezzo vuoto, una fetta di pane intonsa e le posate ordinate a lato del piatto. L’uomo, di cui si capiva l’ascendente ed il carisma, aveva la faccia particolarmente corrucciata, rughe di pensiero ed espressione gli solcavano il viso abbronzato. Con la mano sinistra si sorreggeva la testa, appoggiando il gomito sul tavolo. Fumava talmente lentamente che le braci nella caldaia rischiavano di spegnersi.
Borbottava tra se, sembrava disperato era come se fosse consapevole del suo fallimento, senza conoscerne appieno le ragioni.
« Dove ho sbagliato ? Quando sono diventato l’oggetto, l’arma con cui gli uomini mascherano la propria ottusità e la propria cattiveria ? Si scannano tra di loro da millenni, inneggiando ai miei nomi, mi dipingono su scudi crociati, su mezze lune, sui baveri di nere uniformi, crociate e controcrociate, inquisizione, evangelizzazione, olocausti, religioni di stato e stati religiosi »
« Giuro, se non fossi colui che è, darei ragione a quel ragazzone tedesco, con la barba, che è qui da noi da poco; si la religione è l’oppio dei popoli, il fumo con cui le menti ottuse si inebriano confondendo la morte con la salvezza, l’intolleranza con la tolleranza, il profitto a discapito di tutti e tutto, l’abbruttimento con la bellezza. Blasfemi. Uccidono con tutte le armi visibili ed invisibili, con le bombe intelligenti e sante, con le lame antiche e nuove, col fuoco depuratore, col petrolio ed i soldi, con gli imperi e l’imperialismo. A mia immagine e somiglianza ? ma chi ha scritto questa cazzata ? occhio per occhio dente per dente, per rimanere ciechi e sdentati. Credono di conoscermi, vogliono sapere, mi trasformano in ciò che gli fa più comodo. Se non fossi io, sarei ateo ».
Nel frattempo, altri due uomini, altrettanto fuori dal tempo discutono a bassa voce, quasi sussurrando per non farsi sentire, al bancone del bar. Uno di spalle, sui trent’anni, atletico, capelli lunghi e barba incolta, non fosse stato per la tunica e i sandali sarebbe stato tale e quale al front man dei Doors, Jim Morrison, l’altro altrettanto aggraziato nelle membra ma più anziano, aveva una kefiah sulla testa ed una lunga barba scura.
I due, sembrava non volessero farsi sentire dagli altri, strani avventori della locanda.
« Preparati che fra poco ci chiama e vedrai, quanto sarà incazzato con noi ».
« Lo so, Lui ci ha mandato sulla terra a diffondere il verbo, ma che colpa ne abbiamo noi, se quelli non hanno capito una parola, che sia una. Hanno traviato, stuprato, violentato il nostro esempio. Sono acciecati dalle scritture, sono avulsi nelle loro idee, che non riescono a capire quanto sia bella la diversità, di pensieri parole opere e omissioni. La storia insegna, ma gli uomini sono degli scolari inetti, disattenti ed ottusi».
Nella taverna, si aggiravano nel contempo, con fare rilassato strani personaggi. Un corpulento uomo glabro, abbigliato con una specie di pannolino gigante, parlava roteando ritmicamente le braccia ed indicando punti lontani in un immaginario universo di luce, mentre due avventori lo ascoltano con dedizione. Un indiano metropolitano, raccontava, deluso e rassegnato, fiabe sulla natura, sull’ acqua, sull’ aria, sulla madre terra e sul fuoco, nel paese degli uomini, oramai popolato solo da ombre erranti, disperse tra i fumi di un alcool velenoso.
Sembravano tutte persone importanti, anche se definirle persone era abbastanza riduttivo, se non offensivo, forse blasfemo.
L’interno della locanda era caratterizzato da una luminosità tenue, emessa da antiche lampade ad olio, con una strana caratteristica, non si esaurivano, lo stoppino rimaneva acceso e non si accorciava mai. Tavolini quadrati e tondi apparecchiati in maniera minimal con tovaglie di carta del pane, gialla. Qualche caraffa di vino si perdeva nel mare magno di brocche d’acqua, fresca e talmente limpida da sembrare inesistente.
L’unico vizio che pareva concesso in quel locale, era quello del fumo, che a dir la verità sembra più vapore, non si percepiva infatti lo sgradevole odore del tabacco stantio, ma un salubre aroma salmastro, quasi termale.
« Muhammad, Emanuele, venite qui ! »
Una voce possente, impositiva, saturò l’ambiente dell’osteria. Dopo quel tuono, tutti gli occhi si rivolsero ai due uomini appoggiati al bancone.
« Lo sapevo, questa volta è arrabbiato forte, e pure sono millenni che gli uomini utilizzano il suo o nostro nome per compiere delle immani porcherie » sussurrò a mezza voce uno dei due.
« Siamo qui Padre, ci devi parlare ? »
« Vi devo parlare ? Ma la guardate la TV satellitare oppure state tutto il giorno a cazzeggiare nel limbo ? »
« Ma noi veramente …. »
« Mi piacerebbe sapere che cosa gli avete raccontato a quelli laggiù, ho investito un sacco di forze per farvi studiare, vi ho mandato a mio nome e questo è il risultato ? Guerre sante, guerre di religione, guerre umanitarie, guerre di evangelizzazione, guerre di potere, guerre economiche, guerre per il petrolio, guerre tra razze, guerre tra pastori ed allevatori ed altre mille. Non ci siamo dimenticati che siamo monoteisti vero ? no perché, se così non fosse, al vostro posto avrei mandato giù Marte ! »
« Io ho 99 nomi, sono uno e trino, molti mi aspettano come Messia, altri mi vedono come essere femminile, altri come Budda, altri come il tuono, il magnanimo, come il Creatore, come la luce, ecc. ecc. e noi da quassù solo questo siamo riusciti a creare ? un mondo d’odio ? La tolleranza, la giustizia, la bontà, la pace, ma dove sono finite ? siamo solo chiacchiere e distintivo ? e poi, ma voi lo sapete, che saranno almeno 5 secoli che qui su da noi arrivano più atei che credenti ? abbiamo creato dei mostri che si nutrono dei bambini, altroché i comunisti di una volta …. »
E continua « Col diluvio abbiamo già provato e non abbiamo risolto nulla, ho scacciato i mercanti dal tempio, ma si sono moltiplicati come i Gremlins, le sette piaghe sono diventate sette milioni e niente, Gomorra è più potente che mai; questi sono di capa tosta. Un idea ce l’avrei. Mi incazzo, scendo giù io, tolgo il potere ai potenti e lo consegno nelle mani dei bambini, creo delle infantocrazie e gli adulti intolleranti e tronfi, i capi, i governanti, gli egoisti, i predicatori d’odio, li faccio tutti lavorare in fabbriche di giocattoli. Gli vieto la tessera della FIOM e li faccio sgobbare in catene di montaggio, senza pause e con gli straordinari non pagati. Altro che armi e bombe. Prendo le armi del mondo, le fondo e costruisco materiali per cavalli a dondolo ».
L’uomo dalla lunga barba bianca pareva davvero arrabbiato, nella taverna calò un ondata di freddo glaciale, tutte le fiammelle delle candele e delle lampade ad olio sobbalzarono all’unisono.
Nello stesso momento entrò nella locanda, un ometto vestito di tutto punto, giacca e cravatta compresi, che si diresse nel tavolo d’angolo, dove erano seduti i tre.
« Amici, sono venuto a regalarvi il libro con le parole di Geova, non abbiate indugio, leggete il verbo e cantate con noi ». Disse, l’ometto appena entrato.
« Testimone ? ma non hai visto chi siamo ? il libro delle parole, a noi ? Ascolta, non abbiamo tempo, prenditi una pausa e vatti a vedere la partita. Al campo celeste c’è un partitone, profeti contro angeli, di alla maschera che ti mando io. Vedrai che ti fanno entrare. »
« Grazie, grazie, vado subito e chissà che non riesca a piazzare qualche libro. »
« Ecco. Bravo, vai. »
« E quindi capo, cosa facciamo come mettiamo una pezza ai nostri errori ? »
« Stavo pensando di rimandare giù, a mio nome un po’ dei ragazzi che non credono in me. Comincerei col tedesco, l’argentino e due italiani (sardi). Li manderei in missione per conto di Dio, in ogni angolo di quel piccolo e derelitto pianeta e farei capire a quel branco di testine di cernia, che la vita è gioia, tolleranza, ricerca delle differenze, biodiversità di pensiero, luce. Il male è l’oscurantismo del denaro, degli assolutismi, degli integralismi, delle religioni vissute come prevaricazione, come noi contro di voi, come il mio Dio è migliore del tuo. Sulla terra esiste una sola razza, quella umana, diceva uno scienziato, che pure lui non credeva in me. E poi, mi viene pure una domanda, com’è che tutti quelli che mi rappresentano, che conoscono la mia parola, che hanno vissuto nella rettitudine, pur essendo peccatori, non sono religiosi ? Non è che poi, alla fine, sono ateo anch’io ? »

Il racconto Cristiano Mazzoni  La Taverna di Dio è già apparso su Ferraraitalia il 31 dicembre 2016.

Lo Cunto de li Cunti, i racconti da leggere, guardare e ascoltare, torna su Ferraraitalia ogni domenica mattina. Per guardare e ascoltare tutte le videoletture del Cunto de li Cunti clicca [Qui] 

Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi

OLTRE LA BUFERA
Oggi, venerdi 3 luglio, ore 21.15 su Rai Storia
Prima Tivù del film di Marco Cassini su Don Minzoni

di Stefano Muroni

Nelle settimane drammatiche dell’epidemia, la società Controluce, fondata da Stefano Muroni e Valeria Luzi, con sede a Roma e a Ferrara, ha continuato a lavorare intessendo rapporti importanti con la Rai.
A marzo la società ha presentato all’azienda televisiva l’ultimo lavoro, Oltre la bufera, ultimo film scritto e diretto da Marco Cassini, su don Giovanni Minzoni, parroco ucciso dai fascisti ad Argenta nel 1923.

dal film su Don Minzoni di Marco Cassini Oltre la bufera (2019) – foto di scena

La chiamata da parte di Rai è arrivata ad aprile da parte di Marina Chiaravalle – braccio destro di Paolo Del Brocco, amministratore delegato di Rai Cinema – la quale ha comunicato alla società la volontà della Rai di acquistare il film. Nel mese di giugno è stato contrattualizzato l’accordo, che prevede 4 anni di acquisto di cui i primi otto mesi di esclusiva.
Il film sarà messo in onda oggi, venerdì 3 luglio, in prima serata, ore 21.10, su Rai Storia, canale 54, a pochi giorni dai 135 anni dalla nascita del parroco ravennate, festeggiati il 29 giugno.
Ci sarà subito una replica il giorno dopo, sabato 4 luglio alle 9.40 del mattino. La Rai ha già espresso la volontà di portare il film in altri canali Rai, in concomitanza con altre ricorrenze minzoniane e storiche.

dal film su Don Minzoni di Marco Cassini Oltre la bufera (2019) – foto di scena

Sono orgoglioso di essere riuscito a portare un film così importante in prima serata sulla Rai. Intanto perché è la nostra storia, dei nostri luoghi, dei nostri nonni. Poi il film è stato girato interamente nel ferrarese: da Ferrara a Mesola, da San Bartolomeo in Bosco a Portomaggiore, da San Vito di Ostellato fino ad arrivare al Museo della Civiltà Contadina. Per me l’arrivo in Rai è la vittoria di un intero territorio, rappresentato da comuni, società, Camera di Commercio, CNA, cooperative, banche, Rotary, Lyons, privati, Regione Emilia Romagna, Istituti di Storia, che si sono messi assieme perché hanno creduto a questo progetto. Il merito va a loro, in primis.

Infine questo film è stato realizzato con un concetto imprenditoriale precisissimo: abbiamo fatto esordire ragazzi del ferrarese che si sono formati al Centro Preformazione Attoriale e che poi sono entrati alla Scuola d’Arte Cinematografica Florestano Vancini. Stiamo diventando una città, un territorio dove le nuove generazioni possono preformarsi, formarsi professionalmente e muovere i primi passi nel mondo del lavoro, trovandosi in prima serata sulla Rai a 20 anni. E’ per me una rivoluzione, motivo di grande soddisfazione, anni fa queste possibilità erano impensabili a Ferrara.

Questa filiera, che noi chiamiamo Ferrara La Città del Cinema, la ufficializzeremo dopo l’estate, assieme all’Amministrazione Comunale di Ferrara, la Provincia e la Regione.Partendo da questo venerdì, prima serata sulla Rai, col film su don Giovanni Minzoni”.

Stefano Muroni, ideatore, produttore e protagonista di Oltre la bufera

LA RIQUALIFICAZIONE DI CEMENTO
“Spero che questa Giunta abbia il coraggio di bloccare il nuovo mostro della Darsena”

Marzia Marchi – Ambientalista

Gentile direttore,

Trovo veramente curioso che ogni intervento di cosiddetta riqualificazione urbanistica si traduca inevitabilmente in una nuova colata di cemento!
L’avevo scritto in occasione della fantomatica piazza Verdi che da parcheggio, una volta riqualificata si è trasformata in immenso dehoors per i bar circostanti. Costi pubblici e guadagni privati!
Pertanto, spero davvero che questa Giunta abbia il coraggio di bloccare il nuovo mostro della Darsena, ovvero il parcheggio multi piano dell’ex Mof. Una struttura che qualcuno definisce agile perché in acciaio e reversibile!!! Ovvero un manufatto di acciaio che dovrà contenere migliaia di auto e di corriere! Ms che colata di cemento serve per sostenere questa strutturina agile? E dunque, quando l’ex assessore Fusari parla del più importante progetto di riqualificazione urbanistica di Ferrara, ha una visione ben limitata della città se riqualificare significa invitare auto ad avvicinarsi al centro, cioè aumentare mobilità inquinante in prossimità delle mura, in strade mal conformate per grande traffico e in una zona densamente abitata.

Mentre la Darsena giace arenata nel suo fango mefitico, senza barche e ora anche senza alberi. La stessa zona, già stuprata dall’orribile torre inutilizzata che svetta sul fallimentare Darsena City, aveva bisogno di ben altro intervento di riqualificazione che non un nuovo mostro a complicarne lo skyline.
Il mercato dell’auto è in crisi e la mobilità automobilistica dovrà prima o poi cedere al passo ad una mobilità sostenibile, ovvero metropolitane leggere e soprattutto biciclette.
Proprio davanti all’ex Mof è stata inaugurata in pompa magna la ridicola striscetta di 100 metri di pista ciclabile che nasce e sparisce nel nulla. Ecco, la riqualificazione urbanistica nell’ambito di un piano periferie avrebbe dovuto progettare una rete di viabilità ciclistica che dalla periferia conduce al centro in sicurezza.

Ma è più comodo seguire il percorso dannatamente tracciato in questo Paese: coniugare lo sviluppo al consumo di suolo. Non dovrebbe scendere un solo chilo di nuovo cemento sul nostro martoriato territorio, invece si continuano a progettare autostrade, vedasi l’altro scellerato progetto Cispadana, tanto per rimanere a casa nostra.
Sulla qualità ambientale di questa Giunta ho la stessa scarsa fiducia che avevo nei confronti di quella precedente, ma spero che, se non altro per ragioni di contrapposizione politica, non si dia avvio all’ennesimo scempio architettonico dell’ormai ex quartiere Giardino. Poi i mostri restano! Come l’orrendo stadio, sovradimensionato rispetto al contesto e tra un po’, temo, anche rispetto allo scopo!

EMILIA ROMAGNA IN FESTIVAL
Per il Ventennale 36 concerti live: dal 26 luglio al 10 settembre

Da: Regione Emilia Romagna

Novità e graditi ritorni, eccellenze italiane, con una forte presenza femminile. La “grande musica” che fa riferimento ai compositori del passato ma anche del presente. E poi gli omaggi ai compositori che hanno scritto per il festival, le orchestre La Toscanini e La Toscanini Next in residenza, la dedica nel concerto inaugurale al direttore, pianista e compositore Ezio Bosso, recentemente scomparso.

Emilia Romagna Festival compie 20 anni e festeggia questo importante compleanno con un ricco programma composto da 36 eventi live, dal 26 luglio al 10 settembre, in luoghi in gran parte all’aperto e suggestivi, nel pieno rispetto delle nuove misure di sicurezza.

Dando continuità alla sua vocazione di rassegna dedicata alla musica classica esplorata nelle più diverse sfaccettature, Emilia Romagna Festival conferma più che mai per questa edizione il proprio ruolo di importante realtà di promozione culturale al servizio del territorio e degli artisti italiani e internazionali.

Il cartellone ospiterà grandi artisti internazionali come Richard Galliano, Ramin Bahrami, Cristina Zavalloni, Danilo Rea, Ivo Pogorelich, I Solisti Veneti, Moni Ovadia, Daniela Pini, Silvia Chiesa insieme a giovani talenti di assoluto valore quali la violinista Sharipa Tussupbekova e l’ensemble Young Musicians European Orchestra.

“La Regione Emilia-Romagna- ha commentato l’assessore alla Cultura Mauro Felicori durante la presentazione del Festival tenutasi stamattina- intende confermare anche per il futuro il sostegno, ormai consolidato, all’Emilia Romagna Festival che nei 20 anni ha saputo conquistarsi prestigio e popolarità, rafforzando la musica di qualità nel brillante dialogo dei generi musicali, nello scoprire talenti, trovare nuovi luoghi, suscitare il lavoro dei compositori e quindi la creazione di nuova musica. Tutte virtù di questo festival, che la Regione apprezza e che il programma che sembra non risentire dei mesi passati ed è sintomo di vitalità, conferma”.
“Ieri abbiamo presentato Santarcangelo Festival nell’edizione del cinquantennale, poco tempo fa il Ravenna Festival. La cultura riprende possesso dei suoi spazi e luoghi- ha aggiunto l’assessore-, quale elemento fondamentale nella vita delle persone. Tutto questo mi fa particolarmente piacere. Apprezzo infine il ruolo de La Toscanini, orchestra in residenza, a cui daremo molta attenzione accompagnandone la crescita a livello nazionale e internazionale”.

Ai grandi compositori del passato Vivaldi, Bach, Rossini, Verdi e Beethoven, e a quelli contemporanei che hanno scritto musiche per ERF, Morricone, Bacalov, Gubajdulina, Sollima, Nyman, Glass e Penderecki è dedicata l’immagine del ventennale del festival.

“I compositori sono sempre stati il motore del festival- dichiara Massimo Mercelli, fondatore e direttore artistico della rassegna-. Fin dalle prime edizioni, ci siamo distinti con proposte di ascolto dei più interessanti compositori di oggi e dei grandi del passato, offrendo al nostro pubblico anche le creazioni di giovani autori, ancora sconosciuti poi giunti alla fama internazionale”.

Le orchestre in residenza di questa edizione si inquadrano tra le eccellenze italiane e quelle fiore all’occhiello dell’Emilia-Romagna: La Toscanini con i suoi organici modulabili, fondazione musicale di Parma acclamata da pubblico e critica nelle maggiori sale da concerto di tutto il mondo, e La Toscanini Next, neonato progetto di alta formazione in campo musicale mirato all’accrescimento delle competenze dei musicisti under 35, con sede nella scuola di musica Giuseppe Sarti di Faenza e nel centro di produzione musicale Arturo Toscanini di Parma.

II festival inaugura il 26 luglio all’Arena San Domenico a Forlì, con un debutto d’eccezione: il Concerto n. 2 di uno dei più celebri protagonisti della musica contemporanea internazionale, il pianista e compositore Michael Nyman, scritto per il flauto di Massimo Mercelli e dedicato all’amico comune Ezio Bosso, recentemente e prematuramente scomparso. Il brano sarà eseguito dallo stesso Mercelli con I Solisti Veneti, che insieme affronteranno anche Contrafactus di Giovanni Sollima, scritto su commissione del Festival proprio 20 anni fa, e due pezzi di Giuseppe Tartini, poliedrica personalità musicale e culturale dell’Età dei Lumi, di cui quest’anno il festival celebra i 250 anni dalla morte. Il concerto verrà trasmesso in global streaming in collaborazione con ItaliaFestival e il Ministero degli Esteri.
Sulle note della Sinfonia n. 7 di Ludwig van Beethoven, di cui quest’anno ricorre il 250° anniversario della nascita, riarrangiata dal compositore Fabio Massimo Capogrosso e delle elaborazioni per orchestra delle canzoni di Francesco Paolo Tosti a cura del Maestro Francesco Lanzillotta, la Filarmonica Arturo Toscanini diretta dallo stesso Lanzillotta con il mezzosoprano Daniela Pini chiuderà il festival il 10 settembre alla Rocca Sforzesca di Imola. /CL

Per avere tutte le informazioni sulle location e sul programma: [vedi qui]

DONNE, FORME E COLORI
Mostra a Palazzo Bellini: 4 luglio – 1 agosto 2020

Da: Organizzatori

La consueta esposizione artistica “Donne, forme e colori” curata dall’Unione Donne Italiane in occasione della Festa internazionale della Donna, quest’anno si apre all’estate proponendo il linguaggio artistico femminile nella mostra allestita nelle sale della Galleria d’Arte di Palazzo Bellini.

Le misure cautelative previste nella fase post emergenziale hanno dettato tempi e modi di apertura: le porte della sale saranno aperte sabato 4 luglio con un’inaugurazione simbolica ritmata sul filo del distanziamento, tuttavia l’esposizione sarà fruibile fino al 1° agosto 2020 nelle giornate di martedì e giovedì (dalle ore 10 alle 12 e nel pomeriggio dalle ore  16 alle 18) e il sabato (dalle ore 10 alle 12), sempre nel rispetto delle condizioni previste dai regolamenti anti Covid 19.

La sorveglianza e l’accesso ai visitatori verrà garantita dalle volontarie dell’Associazione UDI in stretta collaborazione con l’Amministrazione Comunale.

L’esposizione presenterà le opere di Sonia Avellino, la quale attraverso i suoi segni, quasi ossessivi, compone immagini complesse in assenza, quasi, di gravità.

E poi, le numerose artiste del territorio che, ognuna con il proprio linguaggio, esprimono le diverse declinazioni dell’arte.

L’UDI, nata dall’esperienza della seconda guerra mondiale, sostiene i diritti per una piena cittadinanza delle donne: per questo all’interno delle sale espositive verranno esposte le “Sagome Parlanti” prodotte dal laboratorio inclusivo finanziato dal progetto regionale “Opportunità condivise alla pari 2.0” e dall’Amministrazione Comunale, condotto da Isabella Guerra e Sonia Avellino.

Un progetto che per il secondo anno ha visto il coinvolgimento delle donne straniere residenti nel Comune di Comacchio, creando un’occasione di solidarietà, confronto e scambio tra donne.

IMBOCCARE UN’ALTRA STRADA
Investire nei Servizi che abbiamo abbandonato
Ridurre le diseguaglianze che si sono aggravate

Ho avuto modo di scrivere nei giorni scorsi su questo giornale dell’esito deludente degli Stati Generali dell’economia, [Vedi qui] Rispetto all’impostazione che mi è sembrata prevalente in quell’assise, e cioè di una dialettica tra Confindustria e governo, con differenze sui provvedimenti da adottare ma non alternativa nella visione di fondo, bisogna invece dire che la strada da battere dovrebbe essere tutt’altra.
Occorre avere il coraggio di percorrere un disegno che guarda ad un’idea alternativa di modello produttivo e sociale, un progetto che, al di là di come lo si voglia definire, capace di sottrarre alla logica di mercato e alla realizzazione di profitto la loro centralità nel definire le priorità nelle scelte economiche e sociali.
In primo luogo, serve un massiccio investimento nella scuola, nella sanità pubblica e, in generale, nei beni comuni. Per la scuola, anche solo per la ripartenza a settembre nelle condizioni imposte dal contrasto al Coronavirus, si tratta di mobilitare tra i 3 e i 6 miliardi (più del doppio di quanto sinora stanziato) per avere più insegnanti e reperire spazi adeguati per tornare alle lezioni ‘normali’, superando la modalità non utile della didattica a distanza. Sopratutto, va cambiato il modello aziendalista e di puro assecondamento alle tendenze del mercato del lavoro, che si è affermato negli ultimi anni, e  colmato il divario nei confronti della spesa media per l’istruzione in Europa. Gli ultimi dati Eurostat disponibili, relativi all’anno 2017, mostrano, infatti, una percentuale della spesa suddetta nel nostro Paese per tutti gli istituti del sistema di istruzione (dalla primaria alla terziaria) pari al 3,8 per cento del PIL a fronte del 4,6 per cento della media europea, che attualmente ci colloca negli ultimi posti: l’Italia è quartultima tra i 28 paesi dell’Unione europea.

Per la sanità – senza dover ricorrere al MES, visto che i pochi risparmi in termini di minor tassi di interessi lì previsti, nel medio periodo costerebbero assai più cari sul piano delle condizioni da rispettare ( che rimangono non all’entrata, ma durante e alla fine del prestito) – l’ordine di grandezza dell’investimento necessario è perlomeno pari al definanziamento del sistema sanitario degli ultimi 10 anni e al raggiungimento dei livelli della spesa percentuale di Paesi come la Francia e la Germania. Non ci discostiamo di molto da circa 40 miliardi di Euro, che vanno prioritariamente utilizzati per potenziare i servizi territoriali, l’attività di prevenzione e il numero degli operatori, ridottosi fortemente in questi anni.

Oltre a questi interventi fondamentali nei campi principali del Welfare ( a cui, peraltro, ne andrebbero aggiunti altri, in particolare quelli volti a ripubblicizzare i servizi pubblici consegnati ai privati, dall’acqua al ciclo dei rifiuti), punto decisivo diventa quello di mettere in campo un Piano straordinario di investimento e intervento pubblico, in grado di produrre una nuova traiettoria di crescita sociale e occupazionale.
Qui non si tratta – come non smette di proclamare ad ogni piè sospinto il presidente di Confindustria Bonomi – di voler essere dirigisti o di imporre una sorta di visione astratta e ideologica per affermare il primato dell’intervento pubblico rispetto al mercato, ma di avere la consapevolezza che non sarà il mercato a poter dare risposte utili alla crisi aperta dinanzi a noi. Persino Cottarelli – il padre della spending review, fustigatore della spesa pubblica- riconosce che gli investimenti pubblici sono quelli che generano il ‘moltiplicatore’ ( cioè l’impatto sulla domanda e sull’occupazione) più alto rispetto ad altri tipi di interventi, come quello sull’IVA o sul fisco. A maggior ragione se si considera che le questioni da affrontare implicano un salto di paradigma rispetto agli orientamenti ‘naturali’ del mercato e che sono rappresentate dalla riconversione ecologica dell’economia, dalla cura e risistemazione del territorio e dalla creazione di lavoro, che vanno assunte come obiettivi in quanto tali. E’ su questi terreni che vanno indirizzate le risorse – e non solo quelle – che deriveranno dal Recovery fund che arriverà dall’Europa, anche se probabilmente depotenziato rispetto alle ipotesi iniziali.

A questi interventi, poi, bisognerà affiancare un’azione forte per ridurre le disuguaglianze sociali che si sono prodotte e amplificate in questi anni. Questo tema è stato finora troppo oscurato e sottovalutato, e non casualmente. Vale la pena approfondirlo.
Nel nostro Paese, secondo i dati elaborati da Eurostat nel 2018, il rapporto fra il reddito equivalente totale ricevuto dal 20% della popolazione con il più alto reddito e quello ricevuto dal 20% della popolazione con il più basso reddito è pari a 6,09. In sostanza il 20 per cento delle famiglie più ricche in Italia ha un reddito annuale oltre sei volte superiore rispetto a quello del 20 per cento delle famiglie più povere, che è il quinto rapporto più alto nell’Europa a 28 Stati, superati in questo solo da Lettonia (6,78), Lituania (7,09), Romania (7,21) e Bulgaria (7,66), mentre quelli di Germania e Francia sono pari rispettivamente a 5,07 e 4,23. Peraltro la media Ue a 28 Stati risulta essere di 5,17.
Ancora peggio va se guardiamo alla distribuzione della ricchezza ( che misura non il reddito, ma il patrimonio posseduto): qui l’elaborazione di OXFAM ci dice che la ricchezza del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41% della ricchezza nazionale netta) è superiore a tutta la ricchezza detenuta dall’80% più povero. La posizione patrimoniale netta dell’1% più ricco (che detiene il 22% della ricchezza nazionale) vale 17 volte la ricchezza detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione italiana.

Sono dati impressionanti, se ci si sofferma un attimo a rifletterci sopra, che rendono necessario un intervento perlomeno per ridurre questa forbice. E, si badi bene, non solamente per una ragione di equità, ma anche perché, come ormai è sufficientemente noto, la crescita delle disuguaglianze è anche una delle radici da cui diparte la stagione delle crisi iniziata con il 2008. Non c’è dubbio – e questo vale in particolare per il nostro Paese – che la crescita della domanda interna, sostenuta in particolare dai redditi bassi e medio bassi, è componente importante per disegnare una nuova traiettoria di uscita dalle crisi. Non mi dilungo sui vari interventi che si possono mettere in campo in proposito: da una reale riforma fiscale che ripristini un tasso consono di progressività fiscale (a questo proposito sembra un’eresia ricordare che nel 1974 l’aliquota fiscale sui redditi superiori a 75.000 Euro andava dal 54 al 72%, mentre oggi essa è al 43%) all’istituzione strutturale di un reddito e di un salario minimo garantito, arrivando anche – altra eresia – alla tassazione sui grandi patrimoni.

Tutto quanto esposto rischia però di essere un’esercitazione intellettuale se, a partire dall’autunno, non si produrrà una mobilitazione sociale adeguata allo scontro che si profila. Una mobilitazione sociale che sui punti decisivi di una piattaforma di politica economica e sociale alternativa riesca a creare uno schieramento largo, partendo dalla costruzione di connessioni tra i vari movimenti sociali e, possibilmente, anche con il movimento sindacale. Vale la pena iniziare a lavorare per questa prospettiva.

PER CERTI VERSI
A V.

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

A V.

Eri un amico
Di un mio amico fraterno
In parte infermo
In una casa di riposo
Ah il riposo
È diventato sonno eterno
Il covid fu un soffio
A una farfalla morta

PRESTO DI MATTINA / Un parroco griot
che sciacqua i panni nell’acqua viva della gente

“Sciacquare i panni in Arno”: è la celebre espressione usata da Alessandro Manzoni per esprimere il desiderio di adattare lo stile dei Promessi sposi alla lingua toscana, la koiné di quello che poi diventerà l’idioma di una nazione sempre alla ricerca di unità, non solo linguistica. “Ho settantun lenzuoli da risciacquare, egli scriveva, con precisione, all’amico e poeta Tommaso Grossi, riferendosi alle pagine del romanzo bisognose di purificazione e autenticità.

Me ne rammento ora pensando che anch’io ‒ nella mia primordiale vocazione, quando ancora mi aggiravo in parrocchia ‘per prova’ ‒ scelsi di sciacquare i panni della mia ‘teologia accademica’, immergendola simbolicamente nelle acque del Nilo e del Danubio. Proposizioni, tesi teologiche e concettualizzazioni dogmatiche decantati e resi vivi dalla lettura di quelle tradizioni e linguaggi spirituali trasudanti esperienza e prassi di vita. Quei testi, intrecciati alle parole e ai concetti studiati, li purificavano, come a contatto con la lisciva dei lavandai e incarnandoli nella vita reale: domande e risposte, inquietudini e dubbi scaturenti dai vissuti delle persone incontrate. Così, poco a poco quell’immersione nelle acque profonde del vivere umano in compagnia di maestri spirituali dai nomi strani (staretz, zaddik, hassid) mi facevano ritrovare la strada di una teologia umana, narrativa e dialogica, capace di comunicare con la gente perché in ascolto dei loro vissuti, così da poter ridire a ciascuno, con il proprio linguaggio, per strada o agli incroci, nella piazza affollata o sull’autobus quasi vuoto, ridire quelle “immense parole” di quel caro fratello: “ama il prossimo tuo come te stesso”.

E come diventarono sempre più vere, per me, strada facendo, le parole del Concilio, scoprendo che non vi è nulla di quanto è genuinamente umano, che non trovi eco nel cuore di un discepolo di Cristo. Il vissuto del suo annuncio, per essere credibile, dovrà sempre di nuovo intrecciarsi con “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono”, (Cfr. Gaudium et spes, 1).

Così fu decisivo per me, fin dall’inizio, l’incontro con i Detti dei Padri del monachesimo antico, continuato poi anche in occidente con Benedetto. Parole centellinate con il setaccio del silenzio, generate dal distacco da sé stessi e dalla pace in Dio: fuge, tace, quiesce, lungo il corso del Nilo nel deserto egiziano. Ma pure fu alleata preziosa in quella sfida volta a rendere intelligibile il sentire e l’intelligere della fede con il cuore, l’optima lectio di quelle due tradizioni spirituali sorte nell’800 in Europa orientale, tra i Carpazi e lungo il Danubio: l’ortodossia, detta dell’’esicasmo’ e il giudaismo, ‘hassidismo/chassidismo‘.

La tradizione esicastica, da hesychia, che esprime calma, pace, tranquillità, assenza di preoccupazione; uno stato d’animo generata dalla sperimentazione concreta e persistente di quel sereno affidamento evangelico al quale Gesù ci invita: “Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita… Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?” (Mt 6, 25-26).

Questa esperienza ascetica, attraverso una preghiera incessante del nome di Gesù, era diffusa fra i monaci dell’Oriente cristiano fin dai tempi dei Padri del deserto. Conosciuta già da Evagrio Pontico, e praticata con uno stile gioioso dallo staretz Serafino di Sarov, il san Francesco russo, e da molti altri maestri spirituali, essa approdò tra i monaci del monte Athos dove è tutt’ora in uso. Una tradizione spirituale che ben è riassunta in un celebre detto di Evagrio sulla realtà costitutiva del teologo, in cui questi afferma che “se sei teologo pregherai veramente e se preghi veramente sarai teologo” (De Oratione, 60).

Ma non solo. Sciacquando il detto di Evagrio nelle acque profonde del vivere umano, ben si potrebbe anche aggiungere che “per essere teologo devi essere misericordioso, e solo se sei misericordioso sei davvero teologo”. “La verità cristiana, infatti, non può essere che verità pratica in quanto capace di orientare la vita”. Un fare dunque, una prassi, quella della misericordia, che è un dire anche nel silenzio della parola. Testimoniare, attuando la parola di Dio: che si può comprendere e credere solo facendosi.

Per Martin Buber, autore de I racconti degli hassidim, il ‘chassidismo’ rivela con l’immediatezza delle sue narrazioni che l’uomo può vivere come un tutto, unificato, in comunicazione con la totalità della realtà. Dio lo si sperimenta attraverso uno spirito di gentilezza. È presente in ogni cosa e lo si raggiunge anche nel più semplice avvenimento attraverso un’attenzione ai piccoli e alle piccole cose. Del resto, Hasid (che significa ‘pio’; plurale Hassidim), deriva da chesed, parola che designa lo stesso amore di Dio, amore di viscere materne, la compassione di un amore che tutto perdona e giustifica rendendo capaci di amore, giusti (Tzaddikim), anche quelli che lo praticano.

Per questo, nei racconti dei Chassidim si legge che se qualcuno esercita veramente l’ospitalità acquista i privilegi dei suoi ospiti. Chiesero a Rabbi Israel: “Da dove trae il giusto quella che tu chiami la ‘sola forza della giustizia’; forse che il Santo dei Santi, tale lo creò fin dalla nascita?”. Rispose: “Quando nasce, il giusto non riceve dal cielo un dono speciale. Il Giusto trae la sua forza di giustizia dai dolori, dalle sofferenze e dalle angosce della vita di questa terra”. Allora un altro discepolo, che aveva ascoltato l’insegnamento domandò: “Ma i giusti che con la sola forza della Giustizia consentono al mondo di continuare ad esistere, a quale popolo appartengono?”. Ed egli rispose di nuovo: “Essi provengono da diversi popoli che vivono su questa terra. E un filo sottile, ma possente, li unisce: il profondo amore verso il Santo dei Santi, il profondo amore per la parola di Dio, e il profondo amore per tutte le creature umane”.

Divenuto parroco, ho continuato a sciacquare i panni del mio catechismo nell’acqua viva della gente. Sotto forma di un Vangelo narrante e di una teologia narrativa disposta ad ‘investire nel ‘racconto’, ho cercato di ri-divenire discepolo di colui che esprimeva in parabole la bellezza del mistero di Dio e del suo Regno. In ciò mi sono sempre sentito molto vicino ai griot, di cui parla anche Cristina Campo; i cantastorie girovaghi della savana africana, figure di libertà e fedeltà insieme, uomini e artigiani della ‘parola’, che ebbi la fortuna di conoscere quando visitai per una decina di giorni la missione di Fratel Silvestro in Burkina Faso. In antichità, ad ogni principe era addetto un griot, il quale, nelle riunioni pubbliche, presentava il suo signore e ne proclamava la vita e le imprese. Ma di volta in volta egli si faceva anche araldo, annunciando le novità che sentiva lungo il cammino. Nelle adunanze diveniva portavoce di chi non aveva voce, conciliatore nelle controversie, mediatore tra famiglie e individui, conosceva la storia e custodiva la memoria delle genealogie dei clan che raccontava nel corso di pubbliche riunioni.

Animato da questa cifra narrativa, ho continuato negli anni a sciacquare i miei panni nelle modestissime acque del Po di Primaro e del Volano. E da quel risciacquo emerse anche un libretto di tanti racconti, intitolato Come alberi piantati lungo corsi d’acqua, che raccoglieva le storie scritte ogni Natale per la gente della messa di Mezzanotte. Ogni anno una storia: il racconto di un albero. Perché un albero?

Perché l’albero, come scrive Romano Giardini: “diventa figura del carattere simbolico delle cose e simbolo dell’esperienza del sacro, di come l’occhio umano deve rivolgersi al mondo e penetrarlo fino a coglierne il mistero”, (Religione e rivelazione, Milano 2001, 22). Del resto ‒ a pensarci bene ‒ si scrivono storie come si piantano alberi: a partire da un seme. Un seme che ogni volta può essere una domanda, una promessa, una speranza, un dolore o una gioia che l’incontro con gli altri ci affida. Sementi, verso cui ci si scopre responsabili, debitori di una corrispondenza di amore che ci chiama a divenire seminatori. Una parola neonata dunque, che attende un’altra parola e poi un’altra ancora, più coraggiosa, più vagabonda, che si metta a girare in cerca di altre per fare nascere piccoli racconti, nei quali ‒ come ha scritto Cristina Campo ‒ viene alla luce quello che copertamente sono tutte le grandi fiabe: “una ricerca del Regno dei cieli (Gli imperdonabili, Milano 2002, 223-224).

Prendiamo ad esempio la parola ‘ranno, che non conoscevo. Così è chiamato quel miscuglio filtrato di cenere e acqua bollente usato anche da mia nonna per lavare le lenzuola e renderle candide. Ecco la sua storia. “Un giorno mentre Rabbi Isacco Eisik stava cantato la canzone del sabato, dal titolo Quando osservo il sabato, in cui è detto: – Perciò lavo il mio cuore come ranno -, egli si interruppe e disse: – Il ranno non si lava, si lava col ranno! -. Poi però replicò a sé stesso: – Ma nella santità del santo sabato, un cuore può diventare così pulito da acquistare la forza di pulire come il ranno altri cuori”.

Lo scolaro che riferiva questo, molti anni dopo, quando era diventato egli stesso uno zaddik, raccontava ai suoi hassidim: “Sapete come sono diventato un ebreo? Il mio maestro, il santo Rabbi di Kalew, mi ha tolto l’anima dal corpo, e, come le lavandaie al fiume, l’ha insaponata e battuta e sciacquata e asciugata e ripiegata e me l’ha rimessa dentro pulita. A Rabbi Isacco fa eco dal deserto Abba Isacco il Siro che alla domanda: – In che cosa consiste la purezza di cuore? – , rispose: – in un cuore pieno di misericordia – . Gli fu chiesto ancora: – Che cos’è un cuore pieno di misericordia? –  – È un cuore pieno di compassione per tutta la creazione…-  Colui che ha la purezza del cuore porta dentro di sé la sofferenza dell’intero universo».

FOGLI ERRANTI
SCAMPOLI DI LOCKDOWN (3) – Tecniche di respirazione in apnea

di Giovanna De Simone

Tutto sommato mi sto abituando a questa reclusione. Non scalpito più come un animale in gabbia, come il giorno in cui il mio padrone mi mise agli arresti domiciliari.
Qui, in questi spazi ristretti, ho ricominciato ad inspirare ed espirare anche con poca aria a disposizione. Bisogna solo cambiare il modo di respirare, dice sempre il mio maestro yoga Raffaele durante le sue dirette facebook.
A proposito, ne ho una alle 18.30, ma oggi ho talmente tante cose da fare che non so se riuscirò ad essere puntuale all’appuntamento.
Alle 10.00, dopo il saluto al sole e la colazione, ho una lezione di risveglio muscolare, poi doccia, qualche telefonata di lavoro ed è già ora di preparare il pranzo ed infornare una nuova ciambella per la merenda mattutina.
Dopo pranzo è il momento della siesta, che trascorro dormicchiando sul divano tra notiziari e social, per ridere o piangere con i miei simili, stringendoli in un grande abbraccio virtuale.
Caffè e alle 14.30 ricomincio a lavorare in procedura smart working, come direbbe l’uomo forte che mi governa. Devo inviare alcune mail, far misurare in videochiamata la febbre a tutte le ospiti delle strutture di accoglienza che gestiamo, fare una riunione di équipe con le mie colleghe, per il monitoraggio dei casi.
Tempo prima, questo confronto si svolgeva una volta alla settimana, ma in quest’epoca di coronavirus e con le case piene di donne recanti vari disagi e svariate violenze, il confronto on-line è diventata una pratica quotidiana.
L’unica figata dello smart working è che mentre lavori puoi fare un sacco di cose contemporaneamente: rimestare il ragù, sistemare alcune foto del 2013 sparse sul desktop del computer casalingo, fare un solitario mentre si è in conference call con Bruxelles.
Solo al termine del mio finto orario di lavoro mi rendo conto che non ho ancora trovato il tempo di stendere i panni e guardarmi la 9° puntata, terza stagione, di una serie TV che manco Beautiful mi ha mai appassionato tanto.
Alle 18.30, in diretta su youtube, ho lezione di pilates, e poi via per la preparazione della cena.
Ho deciso di saltare l’appuntamento delle 18.00 con Borrelli, mi avrebbe rallentato tutte le attività, oltre a lasciarmi una carica di tristezza che avrei smaltito solo il giorno dopo come una brutta sbronza.
Da quando ho deciso di bannarlo, mi leggo i resoconti del bollettino on-line solo dopo cena, sdraiata sul divano e con un amaro nel bicchiere. So che è brutto dirlo, ma bisogna pur sopravvivere.
Rimane fisso il mio appuntamento delle 21.30 con la spazzatura. Mi metto il giubbotto, mi rullo una sigaretta ed esco fino ai bidoni, aspirandomi l’aria della sera.
Alle 22.00 ho la meditazione collettiva con il gruppo Osho Shao in diretta su istagram. Poi mi faccio ancora la doccia e mi corico esausta a letto, entrando nella meravigliosa residenza di Downton Abbey che mi aspetta a braccia aperte.
Inspirare. Espirare.

CONTRO VERSO
L’occhio nero della mamma

È ormai provato scientificamente che la violenza in famiglia fa del male ai bambini, quella vista come quella subita. La riconoscono, anche quando non ne sono spettatori diretti, e la loro sorte è affidata alle scelte degli adulti.

L’occhio nero della mamma

La mia mamma ha un occhio nero.
Non lo so se è proprio vero,
lei m’ha detto questa volta
che ha sbattuto nella porta.
S’era fatta ancor più male
scivolando sulle scale.
Una cosa non mi piace:
babbo strilla e mamma tace.
Un agente è stato qui,
lunedì, poi martedì…
Fino al sabato è tornato
l’ispettore ed il tenente
e la mamma gli ha giurato
che non è successo niente.
Lei dev’esser proprio buona
– a me sembra di capire –
se ogni volta lo perdona
on il rischio di morire.
Ora il giudice in udienza
vuol saper la verità,
lo ripete con veemenza,
lo ripete a sazietà.
Dice che io son bambino
e i bambini, per decenza,
han diritto d’imparare
cose belle e non violenza.
“Son caduta per errore”,
dice mamma al magistrato
Sì, lo sbaglio dell’amore…
Lui capisce – ma è spiazzato.
Il mio babbo ormai non cambia,
mamma non lo cambierà.
Ho paura, e pianto, e rabbia…
Chissà come finirà!?

Secondo l’unica ricerca nazionale sul maltrattamento all’infanzia in Italia, condotta da Cismai, Terres des Hommes e Autorità Garante dell’Infanzia e Adolescenza, la violenza assistita è la seconda forma di maltrattamento più diffusa in Italia.
Si dice ‘violenza assistita’ quella in cui il bambino è – non ‘assistente’, ma – spettatore della violenza su un familiare, più spesso la madre ma ipoteticamente anche il padre, i fratelli, i nonni…

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia tutti i venerdì.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

PAROLE A CAPO
Pier Luigi Guerrini: “Evasioni e visioni” e altre poesie

Rubrica a cura di Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini

“La poesia non è una cosa morta, ma vive una vita clandestina.”
(Edoardo Sanguineti)

 

Pensieri per strada
Mancano punti di riferimento
al mio cruciverba quotidiano,
troppe caselle nere
sommergono definizioni
senza portamento.
Mi faccio società
delle mie azioni,
incontro persone
incastri di nazioni
si affiancano,
si sfiorano
si staccano
ignorando mete, storie,
destinazioni.

 

Questioni di tempo
Tempo nuovo temporaneo
Tempo differente dal tempo vissuto
Temporale con tempesta incorpo(do)rata
Temp(orale) e tempo scritto
Tempera(na)tura: misurazione del tempo corporeo in tempi di quarantena
che trascorrono restringendo la vita.
Temperare la matita in tempo reale.
Tempo del nonlavoro dilatato, tempo perso dilaniato.
Tempo rubato
Tempobliterato, tempo alienato
Tempo scordato
Tempo rincorso
Tempo del rimorso
Tempo silenziato
Tempo cronometrato, misurato
Tempo storico
Tempo anacronistico, tempo cronachistico
Tempo rifinito, tempo riservato.
Tempo di saldi. Ritagli di tempo.
Tempo del lavoro alienato
Tempo della creazione, tempo della riproduzione.
Lo spazio infinito del tempo limitato.
Tempo musicale, tempo individuale, tempo industriale
Tempo della semina e tempo del raccolto
Tempo diserbato, tempo disturbato, tempo intubato.
Tempo intero o parzialmente scremato
Tempo liquido, tempo secco
Tempo di risacca, tempo di risulta.
Tempo di rivolta.
I risvolti del tempo contemporaneo chiedono un tempo
supplementare d’attenzione e un maggiore tempismo.
Nel frattempo,
i frattali del tempo
frugano tra le pieghe del giorno
e si danno appuntamento ad incroci lampeggianti notturni.
(inedito)

 

Ponte di marzapane
Un triste cemento (armato di vergogna)
che grida vendetta,
colpevole appalto e improbabile fretta
si dice incuria, si legge interesse
s’invoca attenzione, ma la morte
fa Messe.

 

Evasioni e visioni
Si evade nel condizionale, nel condizionarsi, nel futuro improbabile. Nel consumismo con la carta di debito. Nelle prigioni di mercato. Nei bitcoin del desiderio. Nelle banche dal volto umano e dalle finestre sul vuoto.
Si evade negli emendamenti perdenti ma rassicuranti, negli emendamenti di testimonianza. Nella lista civica, nella lista cinica, nella lista comica.
Si evade nei cerchi magici dell’empireo infernale, nei buchi neri, nelle posizioni di principio, nelle statistiche virtuali, nelle sette macrobiotiche, nelle (nuove) sette sorelle, nelle sfere di cristallo, nelle scelte obbligate che ci rendono più leggeri. Nell’etichetta sul campanello, nell’etica condominiale.
Si evade nei diritti umani sacrosanti purché non danneggino i mercati. Nelle guerre commerciali.
Si evade dalla sinistra perché ci fa male la spalla e il pugno non si chiude più. Si evade dalla sinistra dopo aver atteso a lungo una grazia non pervenuta. Ci si butta a destra, cercando di parare il rigore economico.
Pertanto,
pertanto si faccia
pertanto ci piaccia,
un altro giorno
è sbucato dietro l’angolo.
Intanto, un altro appello alla ricerca di frasi d’incrocio per nuove abitudini d’amore.
Intanto, si traccia.
(inedito)

Pier Luigi Guerrini
Pier Luigi Guerrini (1954) è di Ferrara. Ha fondato, con Roberto Guerra e Lamberto Donegà, la rivista Poeticamente (1980). Ha pubblicato: Il fenomeno scomposto (Reggio Emilia, 1984) e l’ebook In prosa per la foto (ISNC Edizioni, 2014). Ha pubblicato in numerose antologie, riviste in cartaceo e online.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

RITORNA LA NOTTE ROSA:
dal 7 al 9 agosto a Comacchio e in tutta la Costa Romagnola

Ufficio Stampa Ascom Confcommercio – Comacchio 

La Notte Rosa si farà e verrà realizzata su tutta la Costa Romagnola (da Comacchio a Misano Adriatico come da tradizione) e relativi entroterra, centri urbani compresi.
Quando ? Nel secondo week end di agosto (7/8/9). A darne notizia Gianfranco Vitali, presidente di Ascom Confcommercio di Comacchio ma sopratutto in questo ambito coordinatore della cabina di regia di Destinazione Turistica Romagna:
“La Notte Rosa si farà – spiega Vitali – anzi sarà una vera e propria Pink Week perché gli eventi partiranno già da lunedì 3 agosto. Era necessario sopratutto in questo momento complesso per l’economia turistica anche del nostro territorio dare continuità ad un appuntamento importante per creare flussi di visitatori. Si tratterà di eventi diffusi sia nell’entroterra come sulle spiagge, insomma una Notte Rosa …soft allo scopo da un lato di salvaguardare la sicurezza ma dall’altro di richiamare turisti in un appuntamento entrato ormai stabilmente nell’immaginario collettivo. La Notte Rosa è uno stimolo in più”.
Una filosofia di piccoli eventi (cene romantiche al lume di candela….appuntamenti musicali più confidenziali, per fare solo due esempi…) che comunque permetteranno alla costa romagnola di promuoversi con entusiasmo e professionalità, con la madre di tutte le notti unendo sicurezza e divertimento. Un appuntamento che verrà lanciato come Pink Week a livello europeo (a breve saranno disponibili i programmi) e che testimonia la volontà di non rinunciare alla promozione in grande stile.

La ballerina di Pontalba

Sono le sedici. Oggi a Pontalba ha appena smesso di piovere. Nelle pozzanghere si vede la luce del sole e le  nuvole bianche che corrono come pecore.
Io esco  a fare una passeggiata. E’ il momento migliore per farlo.
Pontalba è un paese lombardo di pianura. Conta circa duemilacinquecento abitanti. Ha due frazioni:  Cominella e Milzuno.  Vicino a Pontalba scorre uno degli affluenti del Po: il Lungone. Per questo il paese fa parte del parco del Lungone Nord. Abbiamo una miriade di vincoli architettonici e paesaggistici, volti a fare in modo che l’insediamo umano non rovini la bellezza naturale del parco.

Esco e mi incammino verso il centro del paese, dove c’è la piazza principale con il suo monumento ai caduti della seconda guerra mondiale. Sull’angolo di via Santoni Rosa, c’è una forneria. Sull’insegna si legge “Da Camilla”. La fornaia si chiama Camilla. La conosco da sempre, ha un solo anno più di me, abbiamo frequentato lo stesso liceo e ci conosciamo da allora. Dopo la maturità lei ha ereditato la forneria del padre e ha cominciato a sfornare meravigliosi panini, mentre io facevo tutt’altro.

Guardo nelle pozzanghere e mi ritrovo a pensare a quando ero bambina. Anche allora amavo le pozzanghere trasparenti. Quelle dentro le quali si vede il cielo. Dopo una pioggia violenta, il cielo è limpido e l’aria  pulita. Guardando verso nord, si vedono le Alpi con le loro creste perennemente innevate. L’aria profuma d’acqua e di foglie. Faccio altri due passi e mi avvicino ad un’altra pozzanghera. Vi guardo dentro e vedo una piccola Costanza. Sono io da piccola.
Una bambina mora, con i capelli lunghi e lisci e gli occhi color delle foglie d’autunno. Un po’ verdi e un po’ nocciola. Una volta Tito sentenziò che quello strano color d’occhi faceva di me una persona speciale. Grande Tito, come sempre.
Da piccola ero una bambina musicale e ballerina. Il mio tempo libero era in buona parte dedicato ad ascoltare musica e a danzare.

Sognavo d’essere una ballerina del Teatro Bol’šoj, piroettavo trasognata sul cemento del mio cortile sognando le luci della ribalta.  Il Bol’šoj di Mosca è un teatro tra i più famosi e blasonati al mondo. E’ il tempio del balletto classico russo. La sua compagnia di danza, famosa ovunque, conta più di duecento ballerini. Uno dei primi ballerini della compagnia  è stato Rudol’f Nureev, considerato uno tra i più grandi danzatori del XX secolo insieme a Nizinskj e Bariysnikov. Per la sua velocità nel danzare e l’abilità nel compiere acrobazie di ogni genere era soprannominato the flying tatar, cioè “il tataro volante”.  Anch’io avrei voluto essere una tatara volante. Mi dedicavo a esercizi acrobatici con una certa assiduità e mettevo musica classica a tutto volume, costringendo gli abitanti di Via Santoni Rosa al supplizio della stessa musica riascoltata all’infinito.

Nella pozzanghera di oggi c’è quella bambina che mi è tornata alla memoria con molto vigore, sembra viva dentro l’acqua trasparente.

Il Sogno del Bol’šoj non esiste più. Solo i sogni alimentati da aspettative importanti, impegno, costanza, dedizione, fedeltà hanno qualche possibilità di realizzarsi. Tutti gli altri se ne vanno un po’ alla volta e, un bel giorno, spariscono. A dire il vero io un piccolo Bol’šoj  ce l’ho avuto.  Qui in paese c’era il teatro della parrocchia. Un teatrino piccolo che serviva per proiettare degli vecchi film la domenica pomeriggio e che, un paio di volte all’anno, accoglieva spettacoli di personaggi locali. Alla fine del mio primo anno di scuola elementare, le maestre organizzarono uno spettacolo per i genitori. A me fu assegnato il ruolo di prima ballerina. Un vero balletto classico con una parte da solista. La nonna Adelina, che da giovane aveva fatto la sarta,  mi fece un tutù bianco come la neve, riutilizzando il velo da sposa di mia madre. Io danzai magnificamente, per quel che può fare una bambina di sei anni autodidatta, ce la misi proprio tutta. I presenti applaudirono entusiasti e chiesero anche il bis, che naturalmente fu concesso. I bambini che parteciparono come protagonisti a quello spettacolo ora hanno tra i quaranta e i cinquant’anni, mentre gli spettatori dai cinquant’anni in su. Fu un successo, tanto che andammo anche in trasferta a Cominella, la nostra frazione più grande e ci invitarono per il Natale dell’anno seguente alla Casa di Riposo di Pontalba.
Alla fine dello spettacolo furono buttate sul palco una valanga di caramelle di zucchero. Dei fruttini duri come proiettili. Uno colpì un bambino sulla fronte con tale vigore che gli fece crescere il bernoccolo.

Credo che nella distanza di performance che c’è  tra una bambina che danza sul palco  del teatro dell’oratorio di Pontalba e una ballerina  del Bol’šoj di Mosca, ci stia tutto l’universo. Per fare i ballerini professionisti occorre una dedizione, una determinazione e un coraggio che la Costanza bambina non aveva. Era tutto sommato un po’ fragile. Poi quella bambina è cresciuta, ha imparato che la convinzione e la tenacia sono fondamentali, ed è riuscita a realizzare altri suoi sogni. Ma non quello.

Riguardo nella pozzanghera, la piccola Costanza sta volteggiando sulle note del Lago dei cigni di Čajkovskij. Entrambi i piedi sulle punte, fa passetti piccoli e agili, mentre le braccia sono alzate verso il cielo e si muovono leggere come le ali di una libellula. Il tutù è fatto di vere piume di cigno bianco e le sta rigido intorno alla vita, forma una corolla rovesciata intorno ai fianchi. Calzamaglia bianca, capelli legati e altre piume di cigno che incorniciano il volto.
Danza, ballando una specie di omaggio alla vita, un’interpretazione  della musica che sta ascoltando. Il cigno nasce, muore e rinasce ancora. I passi accompagnano la danza come fedeli esecutori di un copione già scritto, come il tramite tra il pensiero e ciò che il  corpo permette di fare.
Piedi che si muovono senza risparmiarsi, in maniera disciplinate ed elegante. Braccia che sembrano ali, che si librano in cielo. Un vortice di bianco, di piume, di leggerezza e d’infanzia. Un sogno d’eternità, di capacità di vincere la forza di gravità. Una magia, una favola unica. ll Lago dei Cigni è uno dei più famosi e acclamati balletti del XIX secolo musicato da Pëtr Il’ič Čajkovskij. La prima rappresentazione ebbe luogo al Teatro Bol’soj di Mosca il 20 febbraio 1877 con la coreografia di Julius Wenzel Reisinger.

Riprendo la mia passeggiata e lascio la bambina che danza felice. Arrivo sull’angolo della via, di fronte al negozio di Camilla e poi faccio dietro front, ritorno verso la pozzanghera, sono assalita dalla nostalgia per la Costanza ballerina. Voglio guardarla ancora un po’.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.