In un momento di follia avevo pensato che Berlusconi fosse finito. D’accordo non si erano svolti i funerali (per un personaggio così ci vuole un traino di otto cavalli bianchi), ma, insomma, la speranza è l’ultima a morire.
Invece il Cavaliere ha fatto mettere nella stalla i suoi focosi destrieri, ha chiamato a raccolta i suoi accoliti più fedeli e ha annunciato al mondo intero che tornava. Le disavventure giudiziarie, le condanne, la moglie incazzata? “Io torno!”, ha detto, “e continuo a fare il leader del partito che ho fondato, che ho diretto e che ha governato per quattro lustri”.
Ma non ha fatto in tempo a finire il suo sorprendente discorso agli aficionados (bellissime ragazze comprese), che… zac! i suoi nemici (i giudici) gli hanno aperto un altro procedimento: sempre affare di soldi. Fin qui le notizie.
Dal canto nostro non possiamo che confermare il nostro (il mio) giudizio. Speravamo di mettere in archivio il Cavaliere, al quale inviamo il nostro a più fervido augurio… di essere nuovamente condannato. Gli prepareremo un Parlamento dove possono entrare soltanto condannati, da un lato malversatori e ladri di galline, dall’altro truffatori e disonesti amministratori pubblici, sarà un po’ affollato, ma che ci vuoi fare cavalie’: anche noi siamo condannati a subirti. Sui muri è già comparsa la scritta “Silvio è vivo e lotta insieme a noi”.
‘L’Ambiente e le persone al centro’. Questo è il titolo della brochure di Clara che rappresenta l’impegno per i prossimi anni. Si tratta di uno dei valori principali da raggiungere: offrire un sistema imprenditoriale e territoriale che rispetti le regole e che soprattutto sia misurabile in un sistema gestionale trasparente. Interessante a questo proposito l’aver creato sul sito aziendale uno specifico spazio Clarainforma e una sezione sulla trasparenza.
Bisogna mantenere alta la sensibilità e la domanda di sostenibilità e qualità sui servizi pubblici ambientali e più in generale di ambiente; e la crescita di una qualità ambientale è un bisogno di tutti. Il bisogno di fiducia e partecipazione deve sostituire il crescente disagio e diffidenza dei cittadini. La qualità della vita, la sicurezza, il rispetto ambientale, la coscienza civica devono contrastare la mancanza di dialogo, la scarsa informazione, le scarse competenze e l’iniqua distribuzione.
Il bisogno di qualità sta diventando un importante elemento di riferimento anche nella politica economico-industriale dei servizi pubblici; vi è uno stretto legame tra sistema di gestione e livello di qualità ed efficienza economica e i sistemi di regolazione devono fronteggiare il tipico dilemma fra incentivare l’efficienza produttiva e trasferire quote della rendita.
La qualità è destinata ad assumere un ruolo fondamentale nella logica di apertura regolamentata dei mercati e dunque come fattore di competizione per la scelta concorrenziale del gestore. Si arriva così alla centralità dell’accountability, come insieme di momenti atti a “Rendere conto in modo responsabile per tenere fede agli impegni presi”. L’accountability è dunque un insieme di modalità attraverso cui rapportarsi con i vari portatori di interesse per ottenere consensi. Questo ci porta a un tema fondamentale: il capitale sociale. Quest’ultimo, come fondamentale valore da difendere è, infatti, quella risorsa che permette di valorizzare il capitale culturale, il capitale simbolico e il capitale economico a disposizione dei singoli individui.
Va rilevato come in particolare si stia passando da una fase di partecipazione e coinvolgimento a una di distacco, di cinismo e dunque di sfiducia. E’ difficile distinguere quanto sia causa di un malessere generale; certo è che questa sfiducia indebolisce il capitale sociale come elemento di successo e di distinzione. Il capitale sociale è un importante valore di sviluppo e deve essere monitorato e analizzato in continuo per meglio comprendere il gradimento dei cittadini e più in generale il loro livello di qualità della vita.
Gli individui interagiscono quando si riconoscono reciprocamente come fini e non come mezzi. Si sente il bisogno di trasparenza e di fiducia; spesso invece si avverte una pregiudiziale diffidenza. Conoscere come le persone sperano e chiedono di star bene sarà lo scopo basilare di ogni politica futura. Indagare sulle dimensioni di fiducia diffusa e di fiducia condizionata nelle relazioni fra erogatori di servizi idrici e di igiene urbana e utenti è un impegno che bisogna ci si assuma collettivamente.
In questa logica diventa molto importante fare delle indagini di soddisfazione dei cittadini-clienti.
Già alcuni mesi fa Clara ha effettuato un’importante rilevazione (dal 2 al 12 maggio 2017) effettuando un’indagine quantitativa campionaria con telefono fisso (CATI), coinvolgendo sia 908 utenze domestiche, quindi famiglie, sia 155 utenze non domestiche, quindi imprese/attività con sede nei Comuni serviti da Clara spa. Le interviste sono state distribuite in modo non proporzionale, in modo da rappresentare anche i Comuni più piccoli
I risultati sono stati positivi, rilevando una quota di insoddisfatti del 22% tra le imprese e del 19% tra le famiglie.
I risultati analitici verranno presentati in specifici incontri. Interessante sarà capire nel tempo e con ripetuti sondaggi come Clara riuscirà a recepire le osservazioni e ridurre le critiche.
È evidente come la partecipazione, la disponibilità e il consenso siano elementi (fattori di positività) strettamente legati all’analisi di queste criticità. L’orientamento al cliente deve infatti partire dal monitoraggio della mappa delle insoddisfazioni salienti, individuando soluzioni di miglioramento. L’obiettivo principale e il risultato atteso è di rilevare direttamente la qualità percepita (bisogni espliciti e bisogni impliciti). In particolare è richiesta la verifica della situazione in relazione a soddisfazione globale (servizi, zone), fattori della qualità (valutazioni), aree d’intervento (proposte, consigli), informazioni utenza (ricordo spontaneo, giudizio) e altro.
Su questo Clara ha promesso di impegnarsi anche nel medio-lungo termine.
Martedì 5 dicembre 2017 alle ore 15,30 presso l’Aula A1 di Palazzo Turchi di Bagno (Cs.
Ercole I d’Este, 32 – Ferrara) si terrà una tavola rotonda dal titolo L’arte e la critica.
Esperienze, linguaggi, pratiche. Dentro e fuori Ferrara.
Intervengono Maurizio Camerani, Enrico Crispolti, Manuela Gandini, Marco Maria
Gazzano, Massimo Marchetti, Gilberto Pellizzola; coordina Ada Patrizia Fiorillo.
Organizzata dalla Cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea, a conclusione delle lezioni di
Fenomenologia dell’arte contemporanea, l’incontro si propone quale momento di riflessione
e di dibattito su aspetti riguardanti il complesso sistema dell’arte contemporanea, le pratiche
e i linguaggi attuali, affrontati da angolazioni che tengono conto, in primo luogo, delle
esperienze delle figure in esso coinvolte.
È un’occasione che prende anche spunto dalla recente uscita del volume collettaneo curato
dalla stessa Fiorillo, Arte contemporanea a Ferrara. Dalle neoavanguardie agli esiti del
postmoderno pubblicato per i tipi della Mimesis, nel quale con uno sguardo lungo e sotto più
angolazioni, sono affrontati trent’anni di vicende storico-artistiche prodottesi nella città di
Ferrara. Vicende legate ad una stagione, in particolare quella relativa ai decenni Settanta e
Ottanta, ricca e propulsiva di eventi e di esperienze che vede l’affermazione di molti artisti
ferraresi nel panorama nazionale e oltre.
L’idea è quella di sollecitare un dialogo che, superando particolarismi, si distribuisca lungo
più spunti di interesse, dalle relazioni dell’arte e della critica al problema dei luoghi
espositivi, dal valore del video e delle arti elettroniche nell’ industria culturale e creativa
odierna, alla figura dell’artista e al ruolo dell’arte oggi. Utopia o pratica sociale? È un
momento di analisi portato sul campo, nel vivo delle questioni attuali, che apre l’opportunità,
foriera di futuri sviluppi, di stimoli indirizzati in particolare agli studenti e ai dottorandi delle
discipline artistiche e della comunicazione.
Per il taglio che lo connota, il tavolo di lavoro è aperto ad un pubblico ampio.
Al termine dell’incontro, alle ore 18,00, presso l’attiguo Salone delle Mostre Temporanee,
sarà inaugurata la II Biennale Nazionale d’Arte “don Franco Patruno”.
Interventi di:
Maurizio Camerani (artista)
Enrico Crispolti (storio e critico d’arte, professore emerito Università di Siena)
Manuela Gandini (giornalista, La Stampa e Alfabeta 2)
Marco Maria Gazzano (storico di cinema, arti elettroniche e intermediali; Università di Roma)
Massimo Marchetti (critico d’arte)
Gilberto Pellizzola (critico d’arte, Accademia delle Belle Arti di Carrara)
Per info: Dipartimento di Studi Umanistici – tel.0532-455107
Sono passati un po’ di giorni dalla conferenza ‘Ius soli e ius culturae una questione di civiltà‘. Giorni nei quali ho avuto il tempo di guardarmi in giro, chiedere, domandare, cercare di capire. All’evento organizzato nella Sala dell’Arengo del Comune di Ferrara hanno partecipato Miriam Cariani, che ha focalizzato il proprio intervento soprattutto sulla forte discriminazione che la legge attuale sulla cittadinanza crea, anche nel mondo del lavoro. C’è stato poi chi, come Andrea Ronchi, ha affermato più volte che Ius soli e immigrazione non sono argomenti da mettere allo stesso piano, mentre il vicesindaco Massimo Maisto ha lamentato addirittura che in Consiglio Comunale “non giudicano, con tutto il rispetto, parlare della Siae una perdita di tempo, e parlare dello Ius soli si”. Ha anche aggiunto che, secondo lui, la legge che si sta proponendo è troppo “moderata” per la sua visione. In sostanza una conferenza con tanti proclami e belle parole, argomentazioni inattaccabili e proposte positive. Purtroppo, però, io odio le conferenze. Ed è per questo che, visto l’ormai diffuso clamore mediatico che questa proposta di legge ha scaturito, uscito dalla sala comunale, ho cercato di intercettare chi, in una maniera o nell’altra, si è trovato a battagliare con le leggi sulla cittadinanza e ho provato a ricavare qualche dato dal web. Tra tutte le testimonianze raccolte, ne racconterò tre, esplicative della situazione degli italiani all’estero e di chi è straniero in Italia.
La proposta di legge.
Non possiamo partire senza chiarire quale sia la legge attuale e quale la modifica che si vorrebbe apportare. La legge 91 del 1992 prescrive che per diventare cittadini bisogna essere figli di almeno un cittadino italiano, perciò è detta ‘Ius sanguinis‘. Un bambino che nascesse sul territorio italiano da genitori stranieri può chiederla dopo aver compiuto 18 anni solo se ha risieduto fino a quel momento qui legalmente e initerrottamente. Il punto focale è proprio questo: escludendo migliaia di bambini nati, cresciuti in Italia, molti la giudicano carente in materia. Teniamo anche conto che, confrontandosi a livello europeo, la nostra legge sulla cittadinanza è tra le più dure del continente. Quelli che si vorrebbe introdurre sono lo ‘Ius soli temperato‘ e lo ‘Ius culturae‘. Il primo prevede che un bambino nato in Italia diventi automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori risiede in Italia legalmente da almeno 5 anni. Se il genitore possessore del permesso di soggiorno proviene da un Paese extraeuropeo, deve soddisfare altri tre criteri:
1. avere un reddito non al di sotto dell’importo annuo dell’assegno sociale
2. avere un alloggio che risponda ai requisiti di idoneità previsti dalla Legge
3. superare un test sul livello della conoscenza della lingua italiana
Insieme a questa possibilità, ci sarebbe anche quella dello Ius culturae come detto. Questo prevederebbe che i minori nati o arrivati in italia prima dei 12 anni possano chiedere la cittadinanza dopo aver frequentato 5 anni di scuola e aver concluso o le medie o le elementari. I minori, invece, che hanno più di 12 anni al momento dell’arrivo sulla nostra penisola, potranno chiedere la cittadinanza dopo sei anni e la conclusione di un ciclo scolastico.
Consultando il sito dell’Istat, si possono apprendere un po’ di cifre riguardanti queste persone.
Partiamo da un riassunto sui cittadini non comunitari con i nuovi dati forniti dall’istituto di statistica.
Il primo grafico sottostante rappresenta la popolazione straniera regolarmente residente in Italia dal 2002 al 2012. Si può notare come questa sia cresciuta negli anni. Non solo per i flussi migratori, ma anche perché i nuovi nati sono considerati stranieri (cifre in milioni). Il secondo invece rappresenta, in migliaia, il numero di acquisizioni di cittadinanza.
residenti stranieri. Fonte: Istat
acquisizione cittadinanza. Fonte: Istat
Anche gli alunni iscritti a scuola sono aumentati: si è passati dai 5.600 del 1994 agli 89.000 del 2013. Il numero sarebbe destinato a diminuire se entrasse in vigore lo Ius culturae (cifre in migliaia). L’ultimo grafico rappresenta infine i nati da entrambi i genitori stranieri sul suolo italiano. Anche questi numeri, entrasse in vigore lo Ius soli temperato, sarebbero ridimensionati (cifre in migliaia).
Fatta questa necessaria premessa, per addentrarsi sulla questione e le varie visioni della cittadinanza, ho chiesto ad alcuni miei amici di parlarmi dei loro casi.
Il primo, qualcuno se lo ricorderà, è Stefano, 28 anni, mente brillante dell’informatica, trasferitosi da qualche tempo in Giappone. Gli ho chiesto due cose:
Com’è l’accoglienza oltreoceano per gli stranieri?
Gli stranieri vengono gestiti nell’adempimento completo e infallibile delle leggi. Io da immigrato non noto alcuna differenza con i cittadini giapponesi. A livello di tasse e burocrazia, non c’è differenza alcuna. Se sgarro ho un po’ di tempo per rimediare, sennò mi mandano a casa.
Se nascesse un figlio in Giappone da genitori stranieri, che cittadinanza avrebbe?
Il figlio sarebbe giapponese.
Questa la situazione nello Paese del Sol Levante.
Nella cara vecchia Europa ho preso un esempio da una nazione molto discussa ultimamente: l’Inghilterra.
Lì si è trasferita Maria Michela, ingegnere, laureata in Italia, vive lì dove ha partorito la piccola Asia.
Com’è la situazione degli italiani dopo la Brexit? Episodi di discriminazione?
Io ho avuto due episodi di discriminazione mentre cercavo lavoro come ingegnere. Arrivata al colloquio la prima domanda che mi hanno posto è stata: da dove vieni? Bah. “Eppure siamo a Londra”… pensavo.
Dopo quanto tempo potrete richiedere la cittadinanza?
Dovrebbe essere dopo 5 anni.
Tua figlia è nata a Londra, ha la cittadinanza inglese oppure no?
Asia è nata qui ma ha il passaporto italiano perché ho fatto tutto tramite Aire. In seguito farò domanda per quello inglese che suppongo sia veloce come tutto il sistema qui. Per ora non ne ho necessità in quanto Asia essendo nata qui, ha tutti i diritti.
Quindi lei non avrebbe problemi anche in futuro?
Il futuro è incerto. A questo non so rispondere perché non possiamo prevedere se cambierà la situazione. Quando ci sarà l’esigenza lo farò.
Queste piccole storie di italiani all’estero fanno capire come sia certe volte difficile, altre meno, essere lo ‘straniero’ di turno.
Ma una storia, tra quelle che ho sentito, mi ha colpito e ho deciso di raccontarla tutta. E’ la storia di Shahzeb, pakistano. In Italia perché il padre, fuggito dal paese di origine, ha chiesto e ottenuto lo status di rifugiato e poi la cittadinanza italiana. Ma farò parlare lui perché il suo è un racconto davvero particolare.
Partiamo da una premessa: Shahzeb, se entrasse in vigore la nuova legge, diventerebbe cittadino italiano perché suo padre ha la cittadinanza e lui ha compiuto un ciclo di studi diplomandosi qui. E il bello è che lui è stato italiano anche per la legge attuale, ma solo per qualche mese. Ecco il perché.
“Il 14 gennaio 2016 mio padre ha fatto il giuramento. Erano le 10 del mattino più o meno. Io anche sono nato il 14 gennaio, alle 22 secondo il mio certificato di nascita. In pratica, nel momento in cui mio padre ha pronunciato il giuramento, io ero ancora minorenne. Quindi, secondo la legge attuale, ho acquisito la cittadinanza italiana. Il Comune di Ferrara, vista questa differenza di orari, ha reputato idoneo il mio caso per assegnarmi la cittadinanza, con passaporto e carta d’identità. Dopo 10 mesi sono stato contattato dal Comune, tramite il nostro avvocato, e mi è stato comunicato che si erano sbagliati e che quindi mi toglievano seduta stante la cittadinanza italiana. Avevo persino votato già a due referendum!! Anche dopo il ricorso che abbiamo fatto, mi è stato negato quello che pensavo essere un diritto. La motivazione del giudice è stata che al momento del giuramento ero sì minorenne, ma lo stesso entra in vigore dopo 24 ore e quindi avevo già compiuto la maggiore età. Farei notare però che il giuramento è stato ritardato perché chi doveva eseguirlo era stato in ferie un mese.
Ora abbiamo una famiglia divisa: da una parte mio padre con mia sorella e mio fratello cittadini italiani, dall’altra io e mia madre pakistani. Io e lei abbiamo il permesso di soggiorno di tipo ‘familiare’. Ora dovrò aspettare, se non cambierà la legge, di avere un reddito per cinque anni, rifare la domanda e aspettare altri due anni per avere la cittadinanza. Tenendo conto che vado all’università, complessivamente dal mio arrivo in Italia alla cittadinanza passeranno 17 anni!!
Faccio un esempio banale per far capire come ci si sente: all’aeroporto mio padre e i miei fratelli fanno la fila con gli italiani, io e mia madre facciamo la fila con gli stranieri. Ma c’è di più. Appena mi tolsero la cittadinanza diventai praticamente apolide. Anzi. Tolta cittadinanza, permesso di soggiorno e passaporto, ero un vero e proprio clandestino!! Lo sono stato per circa 6 mesi, con tutti i rischi che questa situazione comportava. In pratica se mi avesse fermato la polizia, avrei incorso nel reato di clandestinità e sarei potuto essere espulso in Pakistan. Dopo questo tempo mi hanno dato un permesso di soggiorno provvisorio. In pratica 10 mesi cittadino italiano, poi, per un ‘errore’ del Comune, mi sono ritrovato clandestino. E non è stato fatto nulla per rimediare in fretta. Infine, questo nuovo permesso che mi fu dato dopo 6 mesi, un cedolino, mi permetteva di stare in Italia, o di rimpatriare in Pakistan, null’altro. In pratica non potevo uscire dall’Italia. Infatti, quest’estate, i miei familiari sono andati a Londra, dove nel frattempo mio padre si è spostato per lavoro, ma io non ho potuto seguirli. Dopo due mesi passati con questo permesso di soggiorno provvisorio, mi hanno dato, a fine settembre, il visto per i familiari. Ma non posso ancora recarmi in Inghilterra perché serve un altro tipo di visto, essendo io cittadino extraeuropeo. Sottolineo che con il visto provvisorio non si può lavorare”.
Ma l’odissea burocratica (ed esistenziale) di Shazeb e della sua famiglia non è finita a qui. “A mio zio è nata una figlia qui e persino lei, che ora ha un anno, non ha documenti perché per richiedere il visto serve il passaporto ma non glielo danno perché non ha la cittadinanza, è cittadina del mondo in pratica”. “Ricordo anche che il permesso di soggiorno costa sui 300 euro, quindi sono costi su costi, che condannano molti alla clandestinità”, denuncia il ragazzo. “Le persone nelle strutture di accoglienza lo potrebbero trovare un lavoro ma in nero o non retribuito, perché non hanno il permesso di soggiorno. Nemmeno i progetti culturali, come ‘Scambio Linguistico’, visto che sono sovvenzionati dalla Comunità Europea, possono veder partecipare queste persone, ma mi chiedo: quale più di un progetto di lingua per favorire l’integrazione? Il cedolino per la residenza serve solo a non farsi arrestare, ma non consente nulla, nemmeno l’avere un codice fiscale per poter, appunto, lavorare in regola. Ci sono tante persone che hanno vissuto o stanno vivendo quello che ho passato io, e spero tanto che si trovi una giusta soluzione”.
Non sono state modificate le caratteristiche del bando iniziale. E’ ancora una Biennale riservata ai giovani artisti. Restano invariati i premi-acquisto e la mostra personale del vincitore. Questa seconda edizione della Biennale d’arte Don Franco Patruno si apre però con un respiro più ampio. E’ cambiata la geografia di riferimento, dilatata ora a tutto il territorio nazionale.
La Biennale d’arte Don Franco Patruno è una riflessione sulla contemporaneità, sulle risposte e sulle sollecitazioni con le quali l’esperienza artistica si inserisce nella realtà dei nostri giorni.
Nel decennale della scomparsa è giusto ricordare la figura per la quale è nata questa Biennale. Don Franco Patruno è stato un punto di riferimento religioso, intellettuale, artistico per generazioni di giovani, artisti e non solo. I molti legami con il nostro territorio e la sua azione infaticabile dedicata alla scrittura, alla pittura, alla promozione viva della cultura, sono nella memoria di quanti lo hanno conosciuto. In questo decennio per ricordare don Franco si sono svolte molte iniziative – dalla pubblicazione di parte dei suoi scritti all’esposizione di sue opere grafico-pittoriche, e poi convegni e conferenze. Questa biennale diventa l’occasione per dare continuità alle sue idee, allo spirito con il quale amava vivere tra i giovani per ascoltare le emozioni che l’arte sa trasmettere attraverso le sue variate forme di espressione.
G.C.
Dieci anni sono un intervallo di tempo sufficiente per cogliere l’entità di un lascito culturale e umano e ragionare su quello che è stato don Franco Patruno, scomparso appunto un decennio fa, significa inevitabilmente riflettere anche sulla misura della sua assenza. L’impronta delle idee e degli stimoli che don Franco ha elargito nel corso della sua vita si riconosce nitidamente nelle personalità di molti di coloro che, in un modo o nell’altro, hanno avuto la possibilità di entrare in contatto con lui. Quanto abbia quindi inciso la figura di don Patruno nel nostro territorio è presto detto: moltissimo. Basta scorrere negli archivi la mole di attività organizzate e curate, soprattutto nel ventennio in cui è stato direttore dell’Istituto di cultura Casa Cini: centinaia di mostre di arte contemporanea e altrettanti convegni, incontri e dibattiti con le personalità più rilevanti della scena intellettuale italiana.
Ma più facilmente l’importanza di questa presenza – e quindi, oggi, di questa assenza – si può misurare dal numero di occasioni in cui il suo nome viene ancora fatto, non solo per rievocare un’epoca brillante della città in termini di elaborazione di idee e progetti, ma per citare un modello imprescindibile di vigore intellettuale, purtroppo non ben conosciuto da chi era troppo giovane in quegli anni o addirittura doveva ancora nascere.
Uno dei ‘segreti’, se così si può dire, del carisma della sua personalità consisteva nel suo modo di affrontare ogni questione con uno spirito lontano da ogni paternalismo, moralismo o pregiudizio. Se a ciò si aggiunge la sua attività di artista si può intuire quanto lontano dagli stereotipi legati al suo ruolo sacerdotale sia il ricordo che ha lasciato. Con delicatezza e intelligenza ha saputo creare uno spazio comune di confronto con chiunque, e soprattutto con chi si faceva portatore di idee lontane dalle sue scelte, offrendo una dimensione di piena libertà di ragionamento e di espressione. Ciò che per lui, in ultima analisi, contava davvero era la possibilità di rintracciare nel confronto degli strumenti che permettessero di avvicinarsi insieme al senso profondo dell’esistenza. Ѐ una delle sue tante lezioni, questa, che non sembra affatto essere diventata obsoleta.
Massimo Marchetti
Biennale d’arte Don Franco Patruno 2017, 5-18 Dicembre 2017, Palazzo Turchi di Bagno, Ferrara
Se masticate un po’ di inglese vi invito a visitare il portale della città di Dublino. Il Citizens Online si presenta con quattro parole chiave che sono la sintesi della vita in una città: vivere, lavorare, apprendere, eventi.
Colpisce “learning”, apprendere, che nei portali dei nostri Comuni non ha cittadinanza, quel “learning” che si accompagna inscindibilmente al “living” e al “working”: vivere, lavorare, imparare, il telaio delle nostre esistenze, le opportunità che ci attendiamo dalle nostre città.
Il “living” di Dublino propone le cose da fare in città, le informazioni essenziali per i turisti, come raggiungere e visitarne i luoghi, l’orgoglio del rapporto del suo popolo con la cultura.
C’è scritto che Dublino offre il palcoscenico di una città costruita in centinaia di anni di storia, dove le persone sono il vero cuore della città che la rendono uno dei posti migliori in cui vivere. Questo orgoglio per la propria storia e la propria cultura dovremmo apprenderlo anche noi, come vorremmo anche noi vivere in città in cui sentire l’orgoglio delle pubbliche amministrazioni per la qualità dei propri cittadini. Da questo punto di vista nelle nostre città, in generale, si respira ancora un’aria assai viziata. Viviamo tutti, ormai, in città globali, al cui interno risiedono molte culture; come a Dublino anche per le nostre strade risuonano le voci di lingue diverse. A noi la cosa sembra mettere paura, inquieta, ci fa sentire esautorati di chissà quali sicurezze e tradizioni. Siamo sospettosi, anziché vantare con orgoglio la vita in una città a cultura poliedrica, cosmopolita e vibrante, orgogliosa del suo ricco passato che continua a guardare al futuro.
Il portale presenta Dublino come la città in cui il mondo crea, lavora, apprende, si diverte e cresce, un po’ di megalomania che non guasterebbe neppure alle nostre città.
Il fatto è che Dublino negli ultimi decenni è diventata un centro di servizi mondiali, ospitando una cultura aziendale diversificata: servizi finanziari, Ict, scienze della vita, industrie creative, biotecnologie, tecnologie mediche e farmaceutiche.
Se pensiamo alle nostre città ci rendiamo conto dei nostri ritardi, dell’impreparazione di tanti amministratori, della cultura che ci manca e delle nostre gestioni da strapaese.
La storia di Dublino risale alla fine del 1980 quando era una città industriale in declino con un alto tasso di disoccupazione e un basso livello di istruzione. La sfida, allora, fu quella di cambiare questa situazione facendo di Dublino una città della conoscenza. Una scommessa prodigiosa in cui combinare investimenti tradizionali con nuove modalità di capitalizzazione.
La città è riuscita in questo passaggio attraverso l’organizzazione delle forze di cambiamento attorno all’agenzia per sviluppo locale e all’ufficio del sindaco, con il sostegno del governo irlandese. Sono state seguite due strategie convergenti: attrarre le compagnie multinazionali dell’high-tech e investimenti, offerte di lavoro poco costose, lavoratori preparati e incentivi fiscali.
Dublino ha sfruttato in modo intelligente il vantaggio di appartenenza dell’Irlanda all’Unione Europea, acquisendo l’accesso ad una considerevole quantità di fondi per finanziare la propria strategia. L’adesione all’UE si è rivelata un vantaggio per l’Irlanda che ha reso il paese uno dei luoghi preferiti per gli affari delle aziende multinazionali.
Il Governo Irlandese ha giocato un ruolo equilibrato per il miglioramento strutturale di Dublino. Ha emesso potenti linee guida per sostenere le trasformazioni in atto, in particolare incitando altre città irlandesi a seguire l’esempio di Dublino e promuovendo la creazione di agenzie per lo sviluppo locale. Inoltre, è stata vitale e trainante per il successo la partnership tra il settore pubblico e quello privato. Nonostante Dublino sia riuscita a superare una serie di problemi e si sia sviluppata come una città della conoscenza di successo, continua i suoi sforzi per rafforzare la sua posizione come una delle città più importanti della conoscenza a livello mondiale. L’Irlanda vanta una delle forze lavoro più giovani e più istruite in Europa, con oltre la metà dei giovani tra i 30 e i 34 anni che ha completato l’istruzione terziaria, persone altamente qualificate ed entusiaste che fanno progredire le attività d’impresa, la forza lavoro di Dublino è composta da alcuni dei migliori talenti nazionali e internazionali.
Con il 57% di studenti provenienti da tutto il mondo Dublino è diventata un punto di riferimento internazionale per quanti intendono proseguire negli studi, per la sua ricchezza di opportunità di conoscenza, una lunga tradizione di centri di apprendimento, educativi e di comunità, e una vasta gamma di istituzioni di terzo livello tra cui scegliere.
Questo, in primo luogo, è il risultato di Dublino città della conoscenza. Ecco perché nel suo portale appare la parola chiave “learning”, apprendimento, inseparabile dalla vita e dal lavoro delle persone.
Il tema dei rifiuti è tanto articolato e complesso da non potere essere certo definito in poche parole. Per superare definitivamente l’emergenza rifiuti, la più naturale e immediata azione da sviluppare non è solo fermare la crescita dei quantitativi dei rifiuti stessi e quindi produrne meno, ma anche modificare radicalmente il sistema di gestione complessiva dei rifiuti.
Lo scorso anno la quantità media di rifiuti urbani pro-capite nell’Unione Europea è stata pari a 477 kg, in calo del 9% rispetto al picco del quinquennio precedente. L’Italia supera di poco la media europea con una produzione pari a 486 kg per abitante all’anno.
Anche Clara, in una logica di economia circolare, ha tra i suoi obiettivi la riduzione spinta dei rifiuti.
Un primo importante successo è già dato dai Comuni di Formignana e di Ro, che in un confronto dei rifiuti pro capite indifferenziati sono passati rispettivamente dai 39,81 e 44,83 kg/ab del primo semestre 2016 ai 29,13 e 32,13 nello stesso periodo del 2017. Già partivano da livelli di eccellenza, ma sono riusciti a raggiungere una riduzione di quasi un terzo in un solo anno.
Il futuro sarà impegnativo, ma bisogna assolutamente ridurre la quantità dei rifiuti attraverso una attenta politica di prevenzione.
Il rapporto sullo stato della gestione dei rifiuti a livello mondiale, ‘Global Waste Management Outlook’ (Gwmo) redatto nell’ambito dell’Unep-United Nations Environment Programme, dice che:
La gestione corretta dei rifiuti solidi è un servizio essenziale per assicurare condizioni igienico-sanitarie corrette negli ambiti urbanizzati, ma anche per la salute e l’equilibrio dell’ambiente stesso;
Individua come chiave strategica la prevenzione dei rifiuti anche attraverso la trasformazione dei rifiuti in risorsa;
Prevenire i rifiuti non è solo un’azione ecologica ma anche un’azione in grado di far risparmiare denaro e creare posti di lavoro;
Il problema dei rifiuti non è solo locale, ma anche un problema globale;
Evidenzia come affrontare in modo prioritario la gestione dei rifiuti sia fondamentale, per fare ciò propone una roadmap di obiettivi da raggiungere entro il 2020 e il 2030.
Per questo i principali impegni europei dei prossimi anni come direttive e orientamenti sono:
Obiettivo di riciclo rifiuti urbani: 70% al 2030 65% al 2025
Obiettivo di riciclo imballaggi: 80% al 2030 75% al 2025
Obiettivo indicativo di riduzione spreco di cibo: 30% in meno di cibo finito in spazzatura nel 2025
Obiettivi sulle discariche: al massimo il 5% dei rifiuti non pericolosi di origine domestica potranno andare in discarica al 2030 (indicativo); mai discarica per quelli riciclabili o compostabili; fino al 10% dei rifiuti domestici potranno finire in discarica nel 2030 compresi rifiuti riciclabili o compostabili (obbligo vincolante)
Raccolta separata della frazione organica (umido) obbligatoria ovunque entro il 2025 laddove si dimostri tecnicamente, economicamente e ambientalmente possibile.
Per poter migliorare il sistema integrato di gestione dei rifiuti urbani servono scelte radicali e non solo aggiustamenti di indirizzo. E’ dunque richiesto di valutare e rivedere in termini economici e ambientali le scelte che si andranno a operare nell’intero ciclo dei rifiuti, in tutte le sue fasi principali: dalla raccolta differenziata al trattamento, allo smaltimento finale. Diventa pertanto importante costruire un modello integrato dell’intero ciclo di gestione che analizzi i flussi di materia. La conoscenza dei possibili flussi e risultati di gestione delle materie, collegata alla conoscenza dei cicli di vita prevedibili nei prodotti, permette infatti di valutare l’efficacia delle scelte che si andranno a prendere e quindi di valutare gli effetti delle politiche che verranno decise. A monte però rimane un problema di fondo: la crescita della produzione dei rifiuti. Per superare definitivamente l’emergenza rifiuti bisogna fermare la crescita dei quantitativi dei rifiuti. E’ evidente che ciò comporta un cambiamento radicale non solo dell’attuale modello di produzione e di consumo, ipotesi per molti aspetti di non facile e immediata attuazione, ma anche convinti orientamenti culturali i cui obiettivi strategici fondamentali si possono riassumere in azioni di prevenzione (diminuzione della quantità e della pericolosità), di valorizzazione (recupero di energia e risorse dai rifiuti) e di corretto smaltimento (tecnologie compatibili). La trasformazione in atto del sistema di gestione dei rifiuti deve pertanto confrontarsi con una nuova politica industriale nel settore che, insieme alla necessaria definizione del sistema di gestione e alle scelte territoriali, tenga conto delle possibili modificazioni del mercato.
In particolare, partendo dal principio normativo della responsabilità condivisa, della prevenzione, della raccolta, del recupero, dello sbocco finale dei materiali raccolti e trattati, diventa importante stabilire e coordinare i ruoli dei diversi soggetti pubblici e privati che operano nelle diverse fasi di gestione del sistema rifiuti. In sintesi è urgente la definizione di una nuova politica industriale nel settore dei rifiuti, in particolare:
la modifica delle produzioni nel senso della diminuzione dei rifiuti e della riciclabilità dei prodotti (in accordo con principi europei di “responsabilità allargata”);
le attività di ricerca tecnologica, sia nel settore industria che nell’agricoltura, in grado di produrre innovazioni positive, a favore della chiusura dei cicli;
la creazione di interventi diversificati ai vari livelli della distribuzione, dal produttore, al grossista, al negoziante, al singolo consumatore, in modo tale che siano possibili interventi efficaci a livello di città e di bacino provinciale.
l’informazione e il coinvolgimento dei consumatori per adeguarne il comportamento e gli atteggiamenti alle esigenze di prevenzione della produzione di rifiuti da imballaggio e partecipazione alle iniziative di recupero e riciclaggio.
Il 23 giugno moriva Stefano Rodotà, esimio giurista, professore universitario, più volte eletto in parlamento, ma prima di tutto un uomo libero, il ‘politico non di professione’, impegnato a sinistra ma senza tessere di partito, l’uomo che ha dedicato la sua vita a studiare, difendere e promuovere i diritti dell’uomo e del cittadino. Quei diritti sanciti dalla nostra Carta Costituzionale – e che aveva lui stesso contribuito a scrivere nella Costituzione Europea – che però sono ancora largamente incompiuti e messi ai margini dai programmi di governo. Senza la sua passione, la sua libertà di pensiero, la sua intransigenza e la sua mitezza: senza Stefano Rodotà siamo tutti un po’ più poveri e indifesi. Ci rimangono le sue tante opere, la sua lezione morale e politica, che nel suo caso coincidevano in modo raro. Uno degli ultimi suoi libri – ‘Solidarietà. Un’utopia necessaria’, Bari, Laterza – è dedicato a una parola antica, ma che rappresenta oggi la sfida decisiva per la nostra civiltà e per ognuno di noi per disegnare il nostro presente e un futuro più giusto.
Stefano Rodotà è conosciuto anche come il teorico dei Beni Comuni. Uno studioso che però, ancora una volta, si impegnò in modo diretto, diventò un insostituibile compagno di strada di quel grande movimento per l’acqua pubblica che ha promosso il referendum del 2011, ottenendo una grande vittoria. Un pronunciamento vergognosamente disatteso dal governo e dalla nostra classe politica.
A pochi mesi dalla sua scomparsa, oggi lunedì 27 novembre, a partire dalle 16,30, la Camera dei Deputati gli dedica un significativo omaggio. Non sarà un momento formale, ma una specie di piccolo convegno dal titolo ‘La vita prima delle regole: idee ed esperienze di Stefano Rodotà’. Lo ricorderanno una decina di interventi di amici e compagni di strada, tra cui Aldo Tortorella, Gustavo Zagrebelsky, Maurizio Landini, Fabrizio Gifuni e Massimo Giannini. Tra loro, il ferrarese Corrado Oddi, esponente di primo piano del Movimento per L’Acqua Pubblica, interverrà sul rapporto fecondo e affettuoso tra il grande giurista e i movimenti sociali per i Beni Comuni.
Sembra inutile o quasi blasfemo commentare esperienze felici nel momento in cui il mondo impazzito sembra regredire alle crudeltà più mostruose, come insegna l’orribile vicenda del Sinai. Ma proprio perché la bellezza, la cultura, l’idea, riescono a trasformare la vita in arte o in qualcosa di simile all’iperuranio, allora forse non sarà inutile ricordare momenti memorabili della propria esperienza della bellezza.
Come Marco Polo di fronte a Kublai Kan nelle ‘Città invisibili’ di Italo Calvino descrive all’imperatore 55 città del suo impero che il sovrano non ha mai visto, ma che tutte riconducono a un’unica città, Venezia, così anch’io ho sperimentato nell’unicità di quel luogo ciò che maggiormente lo collega al mondo, alla natura all’idea. Un luogo – il luogo – emblema della bellezza/bontà; ciò che l’abitante del mondo può desiderare o concepire.
L’occasione mi è stata data dal simposio su Leopoldo Cicognara che l’Accademia di Venezia ha voluto dedicare al suo primo presidente nel duecentocinquantesimo anniversario della sua nascita. A questa occasione s’accoppia l’altra, straordinaria, della bellissima mostra alle Gallerie dell’Accademia veneziana che illustra le opere di Canova, di Hayez e del mentore canoviano, il conte ferrarese Leopoldo Cicognara. La qualità delle due iniziative appassionatamente condotte a vertici straordinari, tra gli altri, da carissimi amici come Alessandro Di Chiara, Paola Marini, Fernando Mazzocca, si è svolta in queste giornate alla presenza degli allievi dell’Accademia, che hanno potuto partecipare a questi incontri e ai quali sono stato orgoglioso di illustrare il trattato ‘Del Bello’ scritto dall’intellettuale ferrarese per i giovani frequentanti l’Accademia veneziana da lui presieduta e che tre giorni prima avevo presentato nella mia edizione novecentesca nella mostra-convegno dedicati a Cicognara e svoltasi alla Biblioteca Ariostea di Ferrara.
Descrivere cosa è Venezia in questi giorni supera ogni fantasia. Alloggiato accanto all’Accademia, luogo mitico per gli intellettuali otto-novecenteschi che la frequentarono e la frequentano, mi sembrava di essere Henry James all’inizio del secolo. La dominante coloristica era il grigio perla, che per un attimo s’illuminava della gloria del sole. I ragazzi che studiano all’Accademia vengono da tutte le parti del mondo e nell’ex ospedale degli Incurabili, sua sede storica, li vedi intenti ai lavori: scultura, pittura, arti decorative o immersi nella lettura. Hanno mises incredibili e una voglia straordinaria di apprendere. La dolce calata veneziana si scontra con i linguaggi di tutto il mondo. E che serietà nel seguire il difficile percorso del trattato ‘Del Bello’ del conte ferrarese. Poi un seminario tenuto alle Gallerie dell’Accademia, in quegli spazi incredibili a confrontarci tutti con Hayez, l’allievo più dotato del momento storico della pittura neoclassica, del quale campeggia lo splendido ritratto della famiglia Cicognara, suo protettore, accanto alla incomparabile statua del divino Canova che troneggia tra gli oggetti, quadri, tavoli, statue, marmi, che artisti e artigiani veneti crearono per l’omaggio delle province venete presentato per le nozze dell’imperatore e che sono tutte opere straordinarie e coerenti proprio con quel concetto di bellezza che il trattato del Cicognara proponeva per l’educazione teorica degli allievi dell’Accademia.
Questo è studiare, questo è vivere dall’interno il senso di una cultura per poterla contestualizzare. Il cuore mi si è aperto e ho parlato non ai colleghi, ma a questi buffi giovani che ti piantavano gli occhi seri in faccia per dirti “non ingannarmi!” Che gioia lavorare così!
Ritorna in questa occasione celebrativa la necessità di capire la storia, di vederla nel suo percorso e individuare le ragioni per cui proprio nel momento di massima presenza e di totale predominio di un Napoleone conquistatore e tiranno, che non si perita di svuotare i luoghi sacri della cultura europea dei loro massimi capolavori per radunarli al Louvre, l’orgoglioso museo ove tutta l’arte si concentra, l’espressione di quel mondo fu una nuova forma di classicità: gareggiare con l’antico, emularlo, forse superarlo, perché quei tempi vedono il nuovo Fidia, il divino Canova, che aggiunge alla esemplificazione della bellezza condotta sull’antico la necessità di trasformarla, come dirà davanti ai marmi del Partenone che Lord Elgin asporta da Atene e che vennero comprati dal British Museum, in “carne, vera carne”.
La grande cultura di Leopoldo Cicognara che non cessa di ampliarla, tenendosi al corrente delle maggiori opere filosofiche, di estetica e di letteratura europee, tanto da raccoglierle poi in una biblioteca di più di cinquemila volumi quasi tutti attentamente postillati e poi venduta alla Biblioteca Vaticana, venne riversata nella sua opera maggiore, una storia della scultura in Italia che ebbe due edizioni, la seconda delle quali consisteva in ben sette volumi, forse l’opera di quella che oggi noi chiamiamo storia dell’arte più importante del diciannovesimo secolo e non solo.
Si amplia così la conoscenza e l’importanza che Ferrara non solo estense ebbe nei secoli dopo la Devoluzione. Una storia non solo legata all’età delle Legazioni, ma anche oltre fino a concludersi in quel secondo Rinascimento che si sviluppò con la Metafisica nel primo ventennio del Novecento.
E nonostante segni minacciosi inducano a non considerare la storia come possibilità prima di conoscenza e di umanesimo cerchiamo di non lasciarsi travolgere dalla sua negazione come i fatti atroci degli ultimi anni purtroppo ci stanno abituando.
No, avete passato ogni limite. Non siete d’accordo sulle decisioni di Hera? Agìte democraticamente. Un cassonetto dell’immondizia non si brucia, punto. I sacchetti dell’indifferenziata non si lasciano per strada, punto. La differenziata, se la fate, dovete farla bene, punto. Mi sembra estremamente logico che una bottiglia di vetro non vada in “sfalci e ramaglie”, o sbaglio? Con le nuove misure della tanto temuta Hera, chi prima differenziava a piacere ora ci pensa su due volte. Ma opinioni a parte, la bella vista di venerdì mattina in via Lucrezia Borgia è specchio di ignorante inciviltà. Pagate i danni, perché “una giusta punizione salda ogni debito”.
C’è un’insana pulsione che induce molta gente a ‘spiare’ la vita degli altri, come se da questa deprecabile azione dipendesse la propria stessa vita. Un’odiosa propensione che alimenta se stessa, fino a diventare quasi una dipendenza con una forte necessità di continuità. I social sono diventati vie preferenziali per accedere alla sfera privata di ciascuno e subdolo territorio che permette, favorisce e incrementa l’invasione della privacy altrui, con una naturalezza e una leggerezza preoccupanti. Se poi consideriamo anche la tv, allora il fenomeno acquista un’eco enorme, diventiamo tutti insaziabili guardoni, pronti a negare pubblicamente il nostro morboso interesse per l’intimità degli altri.
Sono mediamente 12 milioni i nostri connazionali che hanno seguito e seguono ‘Il Grande Fratello’: non si può ignorare questo dato che, se da un lato ha reso trionfante la produzione del programma, dall’altro fa riflettere seriamente dal punto di vista antropologico e sociale. Stiamo davanti allo schermo fino alle ore piccole, con lo sguardo incollato ai protagonisti della scena tutti più o meno vip che, convinti di offrire grandi lezioni di vita, invidiabili modelli comportamentali e immagini di alta cultura, bellezza e divertimento si muovono h24 sotto telecamere e riflettori per essere ammirati come pesci esotici in un prestigioso acquario, se non idolatrati da una massa che interagisce attraverso i social, proclama consensi o dinieghi, trae conclusioni e spara sentenze. E siccome, in fondo in fondo – ma neanche tanto in fondo – rimaniamo un popolo di moralisti, non ci pare vero poter dichiarare guerra al fedifrago di turno, l’omofobo, l’omosessuale, il bestemmiatore, l’asociale, il fanfarone, il furbastro, lo straniero in suolo italiano, l’italiano con simpatie esterofile, il finto acculturato, il vanesio millantatore, e molte altre categorie su cui sbizzarrirsi ed appiccicare etichette, trasformando il tutto in un grande tiro al bersaglio nel nome di un’etica di cui ciascuno si ritiene sano detentore. Ci identifichiamo o ci dissociamo davanti a questi personaggi, ci infervoriamo, partecipiamo emotivamente a ciò che accade con esultanza o rabbia, spendiamo il nostro tempo a guardare, scrivere i commenti su facebook o twitter, parlarne nella nostra quotidianità come se coloro aldilà dello schermo fossero realmente compagni di vita, guru, persone carismatiche ed esempi da imitare o rifiutare, premiare o condannare attraverso una selezione al televoto.
Cambiano i tempi e a ogni epoca il proprio spettacolo.
Nell’antica Roma lo spettacolo in cui la sovranità del pubblico decretava il diritto di vita o di morte aveva luogo nelle arene e negli anfiteatri. Protagonisti osannati o destinati a morire erano i gladiatori, solitamente prigionieri di guerra, schiavi o condannati a morte, talvolta uomini liberi oberati dai debiti o attratti dalla ricompensa e dalla gloria. Da testimonianze pervenuteci (decreto Tabula Larinas), esistevano anche donne combattenti, le amazzoni, ammesse alla sfida con l’unico vincolo del superamento dei 20 anni di età, ma erano rare. Tutti i gladiatori pronunciavano un solenne e terribile giuramento prima di combattere tra loro o contro tigri, leoni, orsi e perfino coccodrilli e rinoceronti: “Sopporterò di essere bruciato, di essere legato, di essere morso, di essere ucciso per questo giuramento”. Paradossale che attraverso questa promessa il gladiatore potesse trasformare in volontario quello che in origine era un atto coercitivo, imposto, diventando per un attimo un uomo che combatteva per propria volontà. Resta il fatto che chiunque scegliesse di diventare gladiatore veniva automaticamente considerato ‘infamis’ per la legge, perché associato al mondo dei bassifondi e reietti, con la possibilità di diventare però un eroe, lautamente ricompensato, in caso di successo nei combattimenti.
L’esaltazione della massa durante la Rivoluzione Francese raggiunge l’apice dell’intensità durante le esecuzioni di piazza: la morbosa curiosità, l’eccitazione dell’attesa, il brivido del momento in cui cade la testa del condannato rendono animalesche le reazioni, proprio come una belva alla vista del sangue. Una folla urlante in preda al delirio che si accalcava attorno al patibolo accompagnava il macabro spettacolo nel periodo in cui a Parigi si respirava aria di spaventosi massacri. Una scena diventata quotidiana, talmente calata in una costruita normalità che le donne sferruzzavano e cucivano in attesa del momento con una familiarità a-normale. Lo spettacolo pubblico delle ‘messe rosse’ era celebrato su quello che veniva definito l’’altare della patria’ sotto gli occhi avidi di tutti, e non venivano risparmiati neanche i più piccoli. La ghigliottina cessò la sua funzione in Francia solo il 10 settembre 1977 a Marsiglia con l’ultima esecuzione, quella del tunisino Hamida Djanboubi, reo di aver ucciso la sua compagna.
“Che fine ha fatto la semplicità? Sembriamo tutti messi su un palcoscenico e ci sentiamo tutti in dovere di dare spettacolo”, si interrogava Charles Bukowski e, detto da uno scrittore dissacrante, disincantato e implacabile come lo è stato, rappresentante di quello che in letteratura viene definito ‘realismo sporco’, contiene una tensione inequivocabile. Torniamo alle nostre poltrone da cui continuare a seguire gli ‘eroi’ di cartapesta del momento, perché tra luci, riflettori, telecamere, microspie, rilevatori e microfoni “the show must go on…”
Il giornalismo esiste ancora. Non è morto, sopravvive coraggioso al dilagante piattume disinformativo dei media tradizionali, monco di appoggi e visibilità, ma forte di un’etica comunicativa che non può essere tradita. I suoi luoghi non sono le televisioni o i grandi megastore. Sono piuttosto il web e le piccole librerie, dove non si è sopita l’abitudine di fare pensiero: divergente, se necessario.
E’ accaduto così che martedì pomeriggio mi sono trovato, presso la libreria Sognalibro di Ferrara, a partecipare a un dialogo pubblico tra due grandi giornalisti emiliani, Gian Pietro Testa e Gianni Flamini, autore di inchieste sul terrorismo e la politica: ultima in ordine di tempo ‘Maschere e tresche. Il terrorismo da Obama a Trump. Strutture, dinamiche e retroscena globali’ edito da Castelvecchi quest’anno.
Due gentiluomini d’altri tempi, leggende viventi del giornalismo italiano, che nonostante il trascorrere del tempo continuano imperterriti a svolgere il proprio lavoro: informare.
E’ molto chiaro Flamini: “tutti i nostri media sono controllati, per sapere cosa succede nel mondo bisogna guardare altrove”. Quell’‘altrove’ è oggi internet, l’unico mezzo ancora impossibile da manipolare. Ci provano, attraverso il controllo delle cosiddette ‘fake news’, ma senza successo. “Grazie alla rete – continua Flamini – è possibile infatti consultare ogni giorno le agenzie di tutto il mondo”, mettendo insieme i dati e verificando quali sono più o meno attendibili, e soprattutto “evitando di rimanere vittime della grande narrazione occidentalista imperante”. La Storia, si sa, la scrivono i vincitori e la Storia ufficiale degli ultimi cento anni non è ancora stata cambiata. Peggio ancora, l’esistenza di dibattiti storici è persino sottaciuta o risibilmente derisa. “La Storia del passato”, ammonisce Gian Pietro Testa, “è in realtà la Storia del futuro”. Facile dimostrarlo: basta guardare la situazione internazionale di oggi: “Siamo in guerra permanente ormai da decine e decine di anni, con l’Italia sempre in prima fila”, a causa della sua – la nostra! – appartenza alla Nato. “E’ almeno da Pearl Harbour che gli Stati Uniti si impegnano a provocare tensioni, focolai e vere e proprie guerre in giro per il mondo. Noi italiane e italiani lo sappiamo bene, visto il terribile periodo del terrorismo che abbiamo dovuto affrontare nel nostro Paese – ha continuato Testa – Eppure, quante volte viene ricordato il ruolo direttivo rivestito dalla Cia, sin dalle prime elezioni politiche?”
“Non sono bastati”, tuttavia, “neppure la Jugoslavia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, l’Ucraina o la Siria per far prendere coscienza al nostro popolo dei terribili crimini di complicità di cui ci stiamo macchiando”. E’ forse un nostro vanto l’utilizzo di aerei italiani da parte della – democraticissima – Arabia Saudita per bombardare donne, uomini, bambine e bambini yemeniti?
E mentre l’Isis sta diventando un ricordo del passato, grazie alla efficace – ma ‘russofobicamente’ biasimata – azione dell’esercito russo insieme con quello del legittimo governo siriano, nuovi obiettivi spuntano all’orizzonte nel vero e proprio puzzle del Medioriente, Libano in primis. Su chi contare? La risposta non può che essere una: su chi è davvero in grado di informarsi e di comprendere la pericolosità di un’alleanza guerrafondaia. Il popolo del web ha gli strumenti per poter sapere, decidere e agire. Il mondo non aspetta. Ma una speranza c’è.
“Metti in circolo il tuo amore, come fai con una novità”, canta Ligabue. Qui non si tratta di amore, ma di una novità da mettere in circolo sì. Una buona prassi, un servizio che trasforma un problema in una risorsa e che coniuga decoro urbano, recupero e riuso, mobilità sostenibile e inclusione sociale. Stiamo parlando delle riciclette, mezzi ormai conosciutissimi a Ferrara. Sulle loro ruote corre un duplice valore aggiunto, ambientale e sociale: sono state rigenerate, oppure alcune delle loro parti provengono da biciclette non più utilizzabili cui viene ridata nuova vita attraverso il lavoro di meccanici esperti, che collaborano con persone alla ricerca di nuove opportunità di inserimento nel mondo del lavoro e della socialità. Il tutto in maniera economicamente sostenibile, riunendo così i tre cardini dell’economia circolare: sostenibilità ambientale, sociale ed economica.
Ecco perché la Regione Emilia Romagna nel dicembre 2016 ha assegnato alla Cooperativa Sociale il Germoglio, che ha ideato e gestisce il progetto Ricicletta, il premio come Innovatori responsabili, nella categoria ‘L’impresa per la crescita e l’occupazione’.
Ora, a distanza di quasi un anno, si passa a Ricicletta 2.0: da iniziativa virtuosa di una singola cooperativa sociale a progetto di economia circolare e responsabilità sociale di un’intera comunità, grazie al coinvolgimento attivo di Enti Locali, multiutily e agenzia per la mobilità. L’obiettivo, ci spiega Tania – responsabile del settore Mobilità Il Germoglio – è trasformare un’ampia rete di collaborazioni in una pratica strutturata e replicabile: “Ricicletta 2.0 è un protocollo d’intesa che mira creare una serie di strumenti che poi saranno già pronti per altri attori”. “Il territorio di attuazione continua a essere Ferrara, ma il traguardo finale sarà una filiera strutturata e replicabile” per altre realtà e altri prodotti.
La presentazione ufficiale di Ricicletta 2.0 sarà nel pomeriggio di lunedì 27 novembre presso il Palazzo della Regione Emilia Romagna, in viale Aldo Moro 30 a Bologna. “La concessione di questo spazio per la divulgazione di un progetto con finalità sociali – continua Tania – è parte del premio che la Regione ci ha conferito lo scorso dicembre e abbiamo deciso di sfruttare quest’occasione per portare su un palcoscenico più ampio questo progetto, giocando sul fatto che molti comuni della Regione sono sensibili alla cultura della bicicletta”.
Dopo i saluti istituzionali di Manuela Ratta, del Settore Ambiente Emilia Romagna, e di Caterina Ferri, Assessore all’ambiente del Comune di Ferrara, “le varie realtà aderenti illustreranno il loro contributo e le modalità di coinvolgimento nel protocollo”. Il Germoglio, che ha ideato e che gestisce “Ricicletta 1.0” scherza Tania, il Comune di Ferrara “che è coinvolto sul versante del decoro urbano”, Hera “che con la collaborazione di Last Minute Market si impegnerà nella raccolta e nella differenziazione dei rifiuti per il loro successivo riuso”, AMI Ferrara, “che si occuperà del lavoro culturale di sensibilizzazione sul territorio” e Punto 3 Srl, “che ha collaborato alla strutturazione del protocollo”. Alle 18.00 l’incontro si concluderà con un operativo preparato naturalmente da 381 Storie da gustare: “più circolari di così!” afferma Tania sorridendo.
La partecipazione è gratuita, ma è gradita l’iscrizione compilando il form che troverete a QUESTO LINK
“Insomma era una persona per bene! Come mai era un comunista?”
E’ la domanda posta da una studentessa americana a Giovanni Impastato su suo fratello Peppino: una delle icone dell’antimafia, come Falcone e Borsellino o il comandante Dalla Chiesa. Icone, appunto: monodimensionali, lontane e luccicanti, come le opere dell’arte sacra bizantina e orientale. Eppure, anche quando sono martiri dell’antimafia, stiamo parlando di uomini, con le proprie contraddizioni e complessità, in carne, ossa e sangue, quello stesso sangue che è stato versato per noi, i cittadini di questo Stato, anche se a volte sia lui sia noi ce ne dimentichiamo. Ecco perché è stato emozionante sentire la brevissima rappresentazione con la quale Lorenzo, studente del Liceo Ariosto, lunedì pomeriggio ha descritto Peppino: “un uomo pieno di vita e senza paura di perderla”.
L’occasione è stata la presentazione del libro di Giovanni Impastato alla Cgil di Ferrara: ‘Oltre i Cento Passi’, edito a Piemme e illustrato da Vauro. Un libro che “parla di un pezzo di storia drammatica del nostro paese, allo stesso tempo una pagina fra le più vergognose e fra le più esaltanti, dal punto di vista della partecipazione civile”, ha sottolineato il segretario generale Cgil Zagatti, “un libro di analisi” che offre uno spaccato della vita sociale e politica italiana, ha detto Donato La Muscatella, referente del Coordinamento Provinciale di Libera di Ferrara. Soprattutto un libro che “vuole parlare ai giovani”, ha affermato con forza Giovanni: trasmettere loro i valori e la memoria di Peppino oltre quei ‘cento passi’ che ne hanno fatto una figura iconica.
Ecco perché una delle protagoniste è Felicia, la madre dei fratelli Impastato, una donna “piegata su stessa dalle ingiustizie e dalle mezze verità”. Ma anche incredibilmente determinata, con una dignità immensa, capace di ribellarsi al marito per far tornare a casa Peppino e di dire, davanti alla bara del figlio praticamente vuota, al cugino mafioso americano che voleva vendetta: “non era uno di voi, non voglio vendette, voglio giustizia”. È stata lei a porsi da subito il problema della trasmissione della memoria di Peppino e delle sue battaglie: “mi diceva sempre “quando io non ci sarò più devi essere tu a raccontare questa storia” e con i miei figli “quando vostro padre non ci sarà più dovete essere voi a tenere aperta questa porta””. La porta è quella della Casa memoria Felicia e Peppino Impastato a Cinisi, nata nella primavera del 2005, da qui parte il percorso memoriale dei Cento Passi, fino a casa Badalamenti, anch’essa oggi visitabile: “un bagno di memoria e di cultura”, l’ha definito Giovanni Impastato, fra citazioni e biografie di vittime dell’antimafia sociale e istituzionale, l’Antigone e l’Inferno di Dante, appena prima dell’entrata dell’abitazione del boss.
Memoria, non retorica, è il fulcro dell’attività di Giovanni, che proprio come il fratello non ama il politically correct ora così in voga. Senza problemi ammette che uno dei periodi più felici della sua vita è stata l’infanzia “passata nella tenuta dello zio”, quel Cesare Manzella capomafia di Cinisi, predecessore di Gaetano Badalamenti, Tano Seduto. Sarà proprio guardando la sua auto dilaniata dal tritolo che a quindici anni Peppino farà la promessa che gli segnerà la vita: “Se questa è la mafia allora io la combatterò per il resto della mia vita”. Eppure, secondo Giovanni, la battaglia politica, sociale, culturale di suo fratello viene da prima: “Peppino era l’erede del movimento contadino degli anni Quaranta, di Placido Rizzotto e dei martiri di Portella della Ginestra: quello è stato uno dei più grandi movimenti di massa d’Europa, la nostra Resistenza. Il primo maggio 1947 le persone sono morte perché chiedevano l’applicazione di una legge che già esisteva, quella mattanza è servita per fermare il movimento di rinnovamento della riforma agraria”. Peppino però è stato anche “pioniere, perché è riuscito a inventarsi nuovi modi per combattere la mafia, dalle battaglie ecologiche all’impegno culturale con ‘L’Idea socialista’, il circolo Musica e Cultura e Radio Aut”.
Una voce fuori dal coro quella di Giovanni, come fu quella di Peppino, quando per esempio parla di legalità: “bisogna fare attenzione, è un concetto che è stato spesso abusato. Le leggi vanno rispettate, ma non subite, come diceva don Milani: “L’obbedienza non è sempre una virtù”. La legalità è rispetto della dignità umana, se al centro di una legge non c’è questo rispetto allora bisogna lottare perché ci ritorni. Bisogna esercitare la disobbedienza civile perché al sostantivo legalità siano sempre affiancati gli aggettivi democratica e costituzionale”.
O ancora, quando parla della fine della mafia: “dobbiamo smettere di dire nelle scuole che la mafia è antistato. Non è così: la mafia è dentro lo Stato, quando si parla di appalti e di gestione dei soldi pubblici”, per questo non l’abbiamo ancora sconfitta come è successo per il Brigantaggio o per le Brigate Rosse. Certo aveva ragione “Falcone quando diceva che la mafia è un fenomeno umano e come tale ha avuto un inizio e avrà una fine”, ma il problema è che “manca la precisa volontà politica di risolvere il problema”.
E infine quando parla di verità: “Gramsci odiava gli indifferenti. Io temo la rassegnazione perché le persone rassegnate non hanno bisogno della verità e quando non c’è ricerca della verità si aprono le porte alle mafie e al fascismo”, due pericoli molto presenti nel nostro paese come ha dimostrato il caso di Ostia, fra Casa Pound, caso Spada e affluenza alle urne del 26%. “Quel poco di democrazia che è rimasto è in pericolo”, è l’allarme di Giovanni Impastato, che mette anche in guardia sulle mafie al Nord: “A chi mi domanda se oggi ci sia più mafia in Sicilia o Lombardia rispondo Lombardia”.
Il grande obiettivo di Clara è fornire un servizio economicamente compatibile, realizzando anche un tariffa personalizzata, che tenga conto del consumo effettivo, sulla base del principio, da tutti citato e da pochi perseguito, del “chi inquina paga”. Per questo dopo aver parlato di tariffa puntuale e dei suoi principi generali, vediamo cosa sta facendo Clara per il sistema tariffario.
Nell’estate del 2015 è partita nei comuni pilota di Formignana e Ro (3.200 utenze in totale) la sperimentazione di un sistema di tariffazione puntuale, durante la quale un lavoro determinante è stato svolto in termini di comunicazione e contatto con i cittadini e con le aziende. La sperimentazione è stata preceduta, infatti, da una serie di incontri pubblici e da visite informative capillari a tutte le utenze, concomitanti alla consegna dei contenitori appositi, dotati di microchip e associati alla specifica utenza.
Scopo della sperimentazione, che è durata un anno e mezzo, è stato quello di valutare in che misura i cittadini usano i servizi offerti, in modo da costruire una tariffa proporzionata al ‘consumo’ di ogni utenza, razionalizzando nel contempo le frequenze di raccolta e i relativi costi. Questa razionalizzazione aveva mostrato i propri effetti già nei Piani Finanziari dei due Comuni, che per il 2017 hanno visto una riduzione dei costi, rispetto al 2013, del 13,11% per Formignana e del 16,16% per Ro.
Alla fine del 2016 l’azienda ha inviato a tutte le utenze coinvolte una prima lettera informativa contenente le novità riguardanti le frequenze di raccolta, l’utilizzo corretto dei contenitori e i costi unitari precisi dei servizi misurati. Dal 1° gennaio 2017 il nuovo sistema, che Clara ha denominato ‘Tariffa su Misura’, è regolarmente applicato: anche questa nuova fase è stata accompagnata da un ciclo di incontri pubblici nei due capoluoghi e nelle frazioni e da un dépliant informativo completo di tutte le tariffe aggiornate spedito all’indirizzo di famiglie e imprese (LEGGI).
La Tariffa su misura di Clara è costituita da una parte fissa e da una parte variabile, quest’ultima calcolata in base alle scelte e ai comportamenti di ogni utenza. La parte variabile si basa in particolare sul volume di rifiuto non riciclabile (misurato in base al numero di svuotamenti del bidone grigio), del rifiuto umido (bidone marrone), sull’eventuale utilizzo del servizio porta a porta per sfalci d’erba e ramaglie (per il quale, se richiesto, si paga un abbonamento annuale), e sull’eventuale utilizzo dei ritiri su chiamata a domicilio.
I dati delle prime due fatturazioni, riferite al ‘consumo’ dei primi due quadrimestri, mostrano dati molto incoraggianti: il 70% circa delle utenze domestiche di Ro e Formignana ha visto una riduzione delle proprie bollette rispetto agli stessi periodi dell’anno precedente. Inoltre, rispetto al 2016 si rileva in questi due Comuni una riduzione tra il 27 e il 28% del rifiuto indifferenziato raccolto, che per il primo semestre di quest’anno si è attestato su una media di circa 60 Kg pro capite: un dato che ha effetti significativi anche in termini di minori costi di smaltimento all’inceneritore.
Dopo Ro e Formignana, per i prossimi anni è programmato il passaggio alla Tariffa su Misura in tutti i Comuni dell’Alto e del Basso Ferrarese per un totale di circa 200.000 abitanti. Il passaggio alla Tariffa su Misura permette di scegliere i servizi che servono davvero, di pagare in base ai servizi effettivamente utilizzati, avere un territorio più pulito e aiutare Clara a diventare più efficiente. Si tratta in definitiva di approfondire la conoscenza per ottenere equità e qualità grazie a una maggiore responsabilità e sostenibilità.
Un pezzo di storia dell’arte ferrarese del secolo scorso quella che ha messo insieme Assicoop con la collaborazione di Legacoop Estense in una collezione di oltre una ventina di opere, ora finalmente visibili in una mostra aperta a tutti a Ferrara con ingresso libero nelle sale di Palazzo Muzzarelli Crema.
La rassegna ‘Situazioni d’arte – Artisti ferraresi tra ’800 e ’900’ riesce a dare una sintesi dei tanti elementi che compongono la ricerca di quegli anni tormentati e vorticosi, quando i pittori ferraresi esprimono la loro creatività captando le innovazioni e le tendenze, riprendono e stravolgono i canoni dell’arte traducendoli in uno stile personale, che ciascuno esplora e sviluppa in maniera propria: c’è il verismo di sapore familiare e tradizionale dei ritratti di Alberto Pisa e di Arnaldo Ferraguti e l’inquietudine sensuale tratteggiata da una pennellata divisionista nelle tele di Giovan Battista Crema. Come quella chemette in scena nelle ‘Danzatrici’, spettacolare per i colori e i contrasti di luci e ombre che irrompono nei suoi tre metri di larghezza.
Le opere di Ferraguti e Pisa nellla prima sala della mostra
Il presidente di Legacoop estense Andrea Benini davanti alla tela di Crema
L’autoritratto di Roberto Melli a Palazzo Crema
Oltre alle diversità stilistiche, la mostra mette uno accanto all’altro autori di ideologia e posizioni contrapposte nella società dell’epoca. Ecco allora la compattezza delle figure di sapore classico e imponente di un’artista pienamente integrato all’interno del regime fascista come Achille Funi e la malinconia così moderna e quasi monocroma dell’autoritratto e delle periferie così poco auliche che dipinge Roberto Melli, artista di origine ebraica escluso dalla vita pubblica in seguito alla promulgazione delle leggi razziali.
Dopo i ritratti divisi per autore, che alternano mitologia e realtà quotidiana nelle prime tre sale, la mostra si conclude con una carrellata di paesaggi realizzati da autori diversi. A mostrare la propria visione del mondo si alternano gli acquerelli con scorci cittadini da Grand Tour firmati da Alberto Pisa, che illustra corso Ercole d’Este e piazza Ariostea come cartoline che immortalano un viaggio nella storia del Rinascimento, e i pezzi di periferia anonima che raccontano l’ordinarietà del quotidiano negli oli su tela di Roberto Melli. Una giovanile e poetica ‘Campagna ferrarese’ mostra i primi passi di Filippo De Pisis alle prese con la realtà in una maniera già intimista, ma non corrosa e stenografica, ancora lontana da quel disfacimento che poi caratterizzerà le tele successive, famose per il tratto volutamente approssimativo delle macchie veloci che tratteggiano i soggetti nelle sue opere più note.
La mostra d’arte promossa da Assicoop con Legacoop Estense ha il patrocinio del Comune di Ferrara e si avvale della collaborazione delle Gallerie civiche d’arte moderna e contemporanea: 25 le opere esposte, 14 delle quali vengono dalla collezione Assicoop e 11 dalle Gallerie civiche. Un insieme normalmente poco fruibile – ha spiegato Lorenza Roversi, curatrice della mostra insieme con Luciano Rivi – “perché di collezione privata e perché i quadri di proprietà pubblica da tempo si trovano nei depositi a causa della chiusura di Palazzo Massari”, dove sono in corso i restauri dopo i danni causati dal terremoto. Assicoop ha poi contribuito al recupero conservativo delle tre ‘Danzatrici’ in una collaborazione mirata a far conoscere alla città il patrimonio culturale e artistico locale.
“Le opere – spiega il presidente di Legacoop Estense Andrea Benini – fanno parte di una collezione di artisti ferraresi che abbiamo iniziato a mettere insieme dal 2012, da quando Legacoop è entrata a far parte di Assicoop Modena&Ferrara UnipolSai Assicurazioni. E questa è la prima volta che una parte della raccolta viene mostrata. Le acquisizioni continuano e la più recente riguarda alcuni disegni di Mentessi. La volontà è quella di esporre le opere facendo una mostra ogni anno da qui al 2019, scegliendo di volta in volta contenitori diversi, in modo da valorizzare anche spazi meno conosciuti ma assolutamente interessanti da vedere, come è appunto Palazzo Crema”.
La curatrice fa poi notare che gli ambienti che ospitano “Situazioni d’arte” sono doppiamente centrati e significativi. “A Palazzo Crema – dice Lorenza Roversi – ha abitato ed è cresciuto uno degli artisti di cui sono esposti i lavori. Giovan Battista Crema era infatti il figlio della famiglia di avvocati proprietaria dell’edificio. Una famiglia appassionata delle arti, tanto che negli anni Venti del Novecento gli stessi spazi dove sono ora in mostra le opere erano sede della Galleria d’arte moderna di Ferrara. Galleria privata, istituita dalla società Benvenuto Tisi, che tra il 1921 e 1924 qui ospita rassegne di alcuni dei pittori ora di nuovo protagonisti del percorso espositivo messo insieme da Assicoop con il contributo delle gallerie comunali”.
Un ritorno alle origini nel segno dell’amore per l’arte e del mecenatismo che ha sottolineato anche l’assessore comunale alla Cultura e vicesindaco Massimo Maisto lodando “l’apporto concertato di tutti gli attori presenti, perché una città è compiutamente d’arte e di cultura solo se le istituzioni pubbliche e i soggetti privati introiettano convintamente questa vocazione e compartecipano al suo conseguimento”.
Clicca qui per leggere la presentazione della mostra sulla pagina di Legacoop.
‘Situazioni d’arte – Artisti ferraresi tra ’800 e ’900’ è visitabile a Palazzo Muzzarelli Crema, via Cairoli 13, Ferrara. Da sabato 18 novembre al 17 dicembre 2017, aperta dal giovedì alla domenica ore 15-19, sabato e festivi anche ore 10-15. Ingresso libero.
Che dire, il rapporto dell’Ocse anche quest’anno è impietoso. I dati ci danno in crescita, ma la palla al piede del Paese è di quelle da cui è assai difficile liberarsi, se non cambia radicalmente il sistema della formazione. Le nostre scuole mancano della cultura del lavoro e le nostre imprese, in generale, scontano un grave ritardo nell’innovazione e nella formazione.
Le imprese a gestione familiare, in Italia, rappresentano più dell’85% del totale, e circa il 70% dell’occupazione del paese, ma i loro manager spesso non hanno le competenze necessarie per adottare e gestire tecnologie nuove e complesse, tanto che il serpente si morde la coda.
Per non parlare del quasi assoluto disinteresse per le competenze da parte del pubblico, denunciato dalla commissione parlamentare per l’innovazione e la digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni. Dematerializzazione, efficienza dei processi, industria 4.0, sicurezza, smart city richiedono competenze specifiche e un’altrettanta specifica formazione.
Il World Economic Forum di Davos ha confermato che le cinque competenze più richieste dal mercato del lavoro nel 2020 saranno: problem-solving complesso, pensiero critico, creatività, gestione delle persone e capacità di coordinarsi con altri.
Siamo nel terzo millennio, ma le nostre scuole sono sempre le stesse, quelle dell’istruzione di massa ispirata a un modello di fabbrica del secolo scorso. Al leggere, scrivere e far di conto semmai si è aggiunto qualcosa d’altro, tipo il coding, ma nella sostanza le liturgie sono quelle del passato, qualcuno ne ha il rimpianto perché non funzionano più, soprattutto perché non esistono più i luoghi in cui abbiano una ricaduta, un’utilità, dalla famiglia alla fabbrica, fatta eccezione forse per la scuola stessa.
Mi riferisco al curricolo occulto della scuola pubblica di massa: la formazione alla puntualità, all’obbedienza, alle attività meccaniche ripetitive. Un’istruzione di massa che doveva fornire alla fabbrica, non tanto competenze professionali particolari, ma persone che arrivassero in orario, specialmente gli addetti alle catene di montaggio, che prendessero ordini dal superiore gerarchico senza discutere, pronte a lavorare alle macchine o negli uffici nello svolgimento di operazioni ripetitive.
Il problema è che la scuola di massa è rimasta in mezzo al guado e al vecchio curricolo implicito non ha saputo sostituirne uno nuovo in linea con un mercato del lavoro mutato, di conseguenza nel nostro paese il divorzio tra lavoro e formazione si è consumato da tempo.
Oltre al curricolo occulto, per l’Ocse non funziona più neppure il curricolo palese. Il 38% di adulti italiani ha scarse competenze nel leggere, nello scrivere e in matematica, per i lavoratori la percentuale è di poco inferiore al 34%. Dietro di noi si piazzano solo il Cile e la Turchia. I lavoratori italiani sono penultimi nell’impiego delle competenze contabili e di marketing, così come nelle competenze Stem (scienze-tecnologia-ingegneria e matematica) e nella capacità di auto-organizzarsi, terzultimi nell’utilizzo delle capacità di gestione e comunicazione.
La situazione degli studenti non è migliore: restano sotto la media Ocse nelle competenze scolastiche. Il 36% dei nostri giovani diplomati ha capacità matematiche inferiori al livello due, cioè ai livelli minimi di una scala che va da uno a sei. Siamo un paese in ritardo sull’educazione permanente e la popolazione adulta fa registrare un basso tasso di partecipazione alle attività di formazione.
Ci siamo scordati che la formazione permanente è essenziale per lo sviluppo della cittadinanza, la coesione sociale e l’occupazione, stiamo perdendo terreno rispetto alle nazioni concorrenti, sembra che non sia assolutamente diffusa la consapevolezza della situazione risultante da tutti i dati riportati, inoltre manca una strategia che sarebbe cruciale per il nostro futuro.
Il foro economico mondiale di Davos ha ribadito il ruolo fondamentale e crescente che la formazione sta avendo nella rivoluzione industriale 4.0 e nella situazione specifica di ciascun paese. La formazione è dunque la leva fondamentale per la riqualificazione e lo sviluppo delle competenze strategiche, sono le persone con i loro comportamenti e le loro competenze che possono far vincere o far perdere le sfide decisive. Il capitale umano e il capitale intellettuale sono i nuovi indicatori di prosperità delle nazioni. La fondamentale gara mondiale per l’apprendimento richiede consapevolezza e strategie di lungo periodo.
Dovremmo riflettere seriamente sulle ragioni delle proteste di questi mesi degli studenti contro i progetti di alternanza scuola-lavoro. Non sembrano proteste né contro la scuola né contro il lavoro in quanto tali, ma rispetto a una scuola e a esperienze di lavoro che sono fuori tempo massimo. Da un lato una scuola che non sa fornire ai giovani le competenze che saranno a loro necessarie domani, dall’altro un mondo del lavoro, nella maggioranza dei casi, talmente arretrato che quelle competenze, se anche ci fossero, non saprebbe neppure come utilizzarle.
Investire in politiche formative a sostegno dei processi di apprendimento è l’unica giusta strategia per garantire condizioni favorevoli allo sviluppo economico del paese.
Sabato pomeriggio alla libreria Feltrinelli di via Garibaldi, Marcello Pulidori ha presentato il suo nuovo libro ‘Nero Gad’. Redattore della Nuova Ferrara, scrittore, giornalista professionista dal 1995, si è occupato soprattutto di inchieste tra le quali il delitto Manservisi e il caso Palaspecchi. Queste informazioni sono scritte nel retro copertina del libro che ho acquistato prontamente per leggerlo.
Presentato dal suo editore, Faust edizioni, ha raccontato per più di un’ora ai molti presenti delle sue investigazioni nella zona “Giardino Arianuova Doro”, quella che oggi è conosciuta più come il luogo del degrado di Ferrara. Quella che un tempo, ha aggiunto Pulidori, “era un’isola felice dove la delinquenza non aveva ancora messo le mani”. Molti gli esempi negativi, dalle “merde sui pianerottoli dei grattacieli” all’aver fatto diventare questo posto la più grande piazza di spaccio a cielo aperto di Ferrara. Le descrizioni sono state dettagliate, sfiorando anche lo splatter quando si è parlato di efferati omicidi compiuti a colpi di macete. La colpa in gran parte è stata attribuita all’enorme flusso migratorio e alle autorità politiche le quali dicono, secondo i relatori intervenuti, che i problemi della zona dei giardini siano causati da una “distorta visione soggettiva della realtà”.
“Aggressioni, scippi, rapine, ferimenti, prostituzione” sono state le parole più usate nel corso di tutta la conferenza, causate dagli immigrati presenti in quelle vie e che solo l’intervento dell’esercito e delle forze dell’ordine stanno portando a un ridimensionamento, come anche la vigilanza armata all’interno dei grattacieli. Inutile sarebbe sottolineare quali siano stati gli accorati appelli lanciati dagli oratori. E il pubblico in gran parte ha sempre annuito, confermando le parole dello scrittore. Nessuna autorità politica è intervenuta al dibattito, come nessuno dei rappresentanti delle etnie accusate per gran parte del tempo era presente. Posso anche aggiungere, avendo sfogliato il libro, che di esempi che facciano vedere una possibile luce in quel quartiere ce ne sono davvero pochi.
A questo punto non aggiungerò ulteriori riflessioni, non una parola su quello che ho osservato sabato. Il caso Gad è chiuso, il quartiere condannato. Aspettiamo, dopo l’esercito, i bombardieri, e che si ponga fine a questa inutile sofferenza e si riparta da zero.
Alcuni momenti della presentazione negli scatti di Valerio Pazzi. Clicca sulle immagini per ingrandirle
La luce schietta di ottobre, fuori dalla finestra chiusa, stampa lunghe strisce abbaglianti sulle tendine. Sono disteso sul letto, a casa, l’arto operato bloccato in un tutore, dolorante.
Quando mi accadde l’incidente, mi sembrò di piombare improvvisamente in un limbo. Ero lucido, riverso sull’asfalto, il ginocchio e la gamba frantumati da un’auto. O meglio, dalla colpevole disattenzione di un conducente d’auto, che parlava al telefonino e guardava dappertutto, tranne davanti a sé. Sulle strisce pedonali, rannicchiato sul fianco, era un osservare da dentro e da fuori il mio corpo. Solo un elastico mi impediva di sgusciare del tutto all’esterno. Intorno, la concitazione degli animi e l’assembramento di civili, automezzi e forze dell’ordine che fanno seguito ad un investimento stradale. Ed io, a sorprendermi a pensare: non sta succedendo a me.
Anche l’attimo prima dell’impatto ebbi una strana sensazione: che il tempo rallentasse. Ricordo gli occhi del guidatore, all’ultimo, allargati a palla. Ricordo i miei, a gridargli, muto: – Frena!
Frenò, in un tempo dilatato, lunghissimo, fotogrammi di una pellicola che a fatica avanzavano, sostando, inceppandosi.
Ecco. Mentre l’auto si avvicinava, avvertii che era un film già girato, prodotto e concluso. Per quell’attimo – una frazione di secondo – mi vidi protagonista delle sequenze, proiettato sullo schermo, assistere alla mia vita, in un tempo fuori dal tempo, senza tempo, che proseguiva – sulle strisce pedonali, oltre il marciapiede, giù per il corso – non ben definita, ma proseguiva. E mi rasserenai, non ebbi paura. Nonostante il muso del veicolo avanzasse inesorabile, millimetro dopo millimetro, e lo osservassi schiantarsi devastante contro di me – e quasi sperai che si affrettasse, perché mettesse presto fine a quell’impasse.
Lo so: non era la mia ora. Facile, dirlo dopo. Ascoltare i soccorritori, la polizia, i parenti, enumerare le più funeste possibilità, per rincuorarmi. Avrei voluto dire loro: non ce n’è bisogno. Ciò che “non poteva” succedere, lo sapevo già. La questione era che “non doveva” succedere. Io, la mia scelta corretta, l’avevo compiuta: prima di attraversare a piedi sulle strisce, mi ero accertato che non sopraggiungesse alcun veicolo. Il problema era chi, con la sua scelta sbagliata, aveva interferito nella mia esistenza – cambiandola, rovinandola. Per questo, quando scorsi l’auto puntarmi come un birillo, nell’attesa dell’impatto, nel momento dello scontro, nella frantumazione delle ossa e dei legamenti, mentre venivo sbalzato a terra e mi racchiudevo in un bozzolo urlando, con il cervello che mi esplodeva nel cranio, non avevo provato alcuna paura. Solo una incommensurabile incazzatura per quell’individuo che non aveva fatto nulla per evitare quell’impatto, cambiare il copione, quella fase del film, quella scena.
Qualcuno – uno dei soliti, dalla parte del responsabile – potrebbe obiettare che anche per lui era una parte scritta, inevitabile.
No, vi dico. Di quella scena – mentre sbucava dalla curva – erano state impresse diverse pellicole. In una, il conducente guidava attento e si fermava per tempo; in un’altra, mi evitava con una manovra spericolata; in un’altra ancora, mi faceva volare sul cofano; in un’altra, mi passava sopra e mi ammazzava… Era lui, la chiave di svolta. Lui, a scegliere, in quel momento cosa fare della “mia” esistenza. Questione di una “sua” scelta.
Se avesse pagato lui, per la sua decisione sbagliata, non avrei avuto nulla da eccepire. Se avesse guidato prudente e fosse successo comunque l’incidente, potrei capirlo. Posso accettare, di malavoglia, gli insulti del tempo sul mio corpo, le malattie, le catastrofi e gli eventi naturali. Ma l’ingerenza negativa, per consapevole superficialità o intenzionalità, di un essere umano nella mia vita, non l’accetto.
E quel giorno – in quella via, io a terra – ebbi la prova di ciò che fino ad allora avevo solo intuito. Su uno sfondo sfumato di vegetazione, edifici e automezzi, vidi persone collegate tra loro da miriadi di lacci, di catene, che si intersecavano, si sovrapponevano e, ad ogni istante, corde che si slegavano e si riannodavano ad altri individui, in un modificarsi repentino di schemi, ricomponendo nuovi intrecci, congiunzioni, combinazioni, possibilità, sempre diversi.
No, nessuna allucinazione. Mai percepito, prima di compiere una scelta, che fosse quella giusta o quella sbagliata? Mai perseverato in una decisione inopportuna, pur sapendo che vi sareste poi pentiti? Mai avuto la previsione di quello che sarebbe accaduto? Mai ritenuto, come casuale, il concatenarsi di eventi che erano invece frutto di precedenti decisioni?
Se solo sapeste dei fili che ci legano, se solo comprendeste quanto siamo responsabili gli uni verso gli altri, se solo capiste quanto il destino, per quel che ci compete, sia materia duttile nelle nostre mani… e che una volta compiuta una scelta, presa una decisione, non si torna più indietro, non è più come prima – nessuno, è più come prima…
Ma perché sto dicendo queste cose? Lo sanno tutti, no?
E allora spiegatemi perché ora sono qui, con la mia vita stravolta da chi queste cose “le sapeva”, con una gamba che non è più la mia, con un dolore di cui nessuno mi risarcirà, con giorni persi che nessuno mi restituirà, e, insieme alla mia, con l’esistenza di chi mi sta accanto e mi accudisce, sconvolta. E dovendo valutare che, sì, “in fondo” mi è andata bene, che poteva andare peggio…
Fatemi un piacere. Se volete giocare con la sorte, “che tanto, per una volta, cosa vuoi che succeda”, assicuratevi di essere i soli a pagare per i vostri sbagli. Ma credetemi: ci sarà comunque qualcuno che piangerà per la vostra idiozia.
(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)
Sogghigni, arroganza, violenza fulminea, un volto gonfio e tumefatto ripreso in primo piano, un manganello impugnato e maneggiato con un’abilità che fa pensare a grande dimestichezza: ecco le immagini dei fatti di Ostia in cui vittima, aggressore e circostanze rappresentano chiaramente le difficoltà del giornalismo nel trovare diritto e libertà di informazione.
Fotogrammi che creano l’ennesimo dibattito dai toni scandalizzati e raccapricciati, sollevano interrogativi e considerazioni nel confronto politico, nei salotti buoni dei talk show, nei commenti al bar sotto casa, tra chi se ne sta in poltrona a guardare la tv. Sembra quasi che ogni episodio dagli effetti analoghi, e gli episodi non sono più sporadici, sia una novità assoluta per il cittadino che assiste esterrefatto, un’amara scoperta che di volta in volta lo fa risvegliare e riflettere per il tempo che trova su questa ondata ormai crescente di bestialità, di autentica barbarie. Non può essere che l’unica risposta a domande, indagini, ricerca di informazione e verità sfoci nel sangue, come se non esistesse il legittimo diritto di replica. Forse dovremmo essere tutti un po’ più consapevoli che mai come ora la libertà di stampa nel mondo è minacciata, spesso brutalmente negata.
Secondo la classifica annuale di Reporters sans Frontières, il World Press Freedom Index, che ordina ed elenca le nazioni in base al grado di libertà d’espressione nell’informazione, nel 2017 il nostro Paese ha guadagnato qualche posto rispetto il 2016, balzando dalla 77esima alla 52esima posizione, esattamente dopo il Botswana, il Tonga, l’Argentina e la Papua Nuova Guinea. Perfino il Burkina Faso può vantare un 42esimo posto di tutto rispetto, e non verrebbe certamente da pensare a questi Stati come un esempio di democrazia e modello di libera comunicazione. Significativo, ma non sorprendente, che nei primi in classifica ci siano proprio i Paesi del Nord Europa: Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca e Paesi Bassi. Agli ultimi posti la Cina, la Siria, il Turkmenistan, l’Eritrea, la Corea del Nord. Sono 21 i Paesi classificati come “neri”, nei quali la situazione è molto grave: fra questi il Burundi, l’Egitto, il Bahrein, tanto per citare qualche nome. Qualcuno potrà sollevare qualche obiezione e qualche dubbio sui risultati finali, ma i dati di riferimento provengono da questionari tradotti in 20 lingue distribuiti in tutto il mondo, che indagano sui temi importanti come il pluralismo, l’indipendenza dei media, contesto e autocensura, legislatura, trasparenza, infrastrutture e abusivi.
Che ci piaccia o no, l’Italia è al 52esimo scalino, una posizione scomoda che sottende come non ci si sia emancipati da un certo tipo di pressione e coercizione, se non di intimidazione, minaccia e violenza che proviene da molti e diffusi ambienti di sapore malavitoso. Siamo molto lontani dall’immagine leggera, affascinante, guascone e quasi romantica, a volte divertente, altre bohemien del giornalista, che troviamo nella letteratura passata e di tempi più vicini, anche se alcune pagine lasciano capire come esista ancora una forte relazione tra il giornalismo descritto dai romanzieri e l’attualità.
‘Bel Ami’ è il famoso romanzo di Guy de Maupassant (1885) che ci racconta di George Duroy, un giovane ambizioso che da povero militare in congedo inizia la sua inarrestabile ascesa sociale. La bellezza, la capacità seduttiva, il cinismo e la volontà di uscire dalla miseria costituiscono le forti caratteristiche che gli permetteranno di fare molta strada attraverso la manipolazione di numerose persone incontrate sul cammino, soprattutto donne ricche e potenti. Da ex militare e poi impiegato delle Ferrovie Nord, grazie all’incontro con un vecchio commilitone, caporedattore politico presso ‘La Vie Française’, George diventa giornalista, brillante frequentatore di salotti e maschio di successo. Prostitute, donne libere e sposate, modeste e di potere, sono le figure che popolano la sua vita, in una società parigina nella quale il rapporto ‘dietro le quinte’ tra stampa, politica e affari è un legame di interdipendenza evidente. Un romanzo realista di un’attualità spiazzante, dove il sesso è potere e la celebrità un’ossessione.
Lo scrittore britannico Evelyn Waugh ci offre un’altra immagine di giornalismo nel suo romanzo ‘L’inviato speciale’ (1938): John Boot, brillante scrittore, viene scelto da un quotidiano famoso per andare in Africa come inviato speciale e raccontare la crisi politica nel piccolo stato dal nome fantasioso Ismaelia. In seguito a uno strano scambio di persona, al suo posto viene inviato sul luogo William Boot, giornalista di provincia incapace e svogliato. A Ismaelia non accade nulla e così ha inizio tra i molti giornalisti provenienti da tutto il mondo una folle caccia allo scoop, una vera e propria gara a chi le spara più grosse su fatti inesistenti. L’ozioso William rischia il licenziamento proprio perché, nella sua inettitudine, non è in grado di scrivere nulla. Per puro caso egli scopre che realmente è in atto un colpo di Stato nella totale segretezza e improvvisamente diventa eroe involontario e grottesco, finendo in prima pagina.
Nel romanzo autobiografico di Hunter Stockton Thompson, ‘Le cronache del rum’, scritto negli anni Sessanta ma pubblicato solo nel 1998, si racconta del giovane giornalista freelance Paul Kemp, squattrinato, alcolizzato e perennemente alla ricerca di una propria strada. E’ il 1959 e il giovane si trasferisce in Porto Rico, dove inizia a scrivere in un modesto giornale locale, il ‘The San Juan Star’, sempre sull’orlo della chiusura. Travolto da alcol ed eccessi di ogni genere, si innamora di una donna sposata, la bellissima Chenault, che porterà scompiglio ulteriore nella sua vita. Il giovane cronista vuole scrivere un servizio sul degrado e la miseria di San Juan, ma gli è impedito con forza perché risulterebbe dannoso al mercato del turismo. Alcol, droghe allucinogene, curanderos, battaglie di galli, loschi affari e bavaglio alle verità scomode, avventurieri, mafiosi in fuga, giocatori e sgualdrine a caccia di miliardari fanno da sottofondo alla storia di Paul. “Allora non era difficile trovare dei compagni di sbronza. Non duravano molto ma continuavano ad arrivare. Li chiamavo giornalisti randagi perché non esiste termine più appropriato.” Alla fine, il giovane si lascerà tutto alle spalle e tornerà a New York per ricominciare a scrivere liberamente in una stabilità mai conosciuta prima. ‘Igiene dell’assassino’ (1992) è il romanzo di Amélie Nothomb dalla struttura del tutto particolare, fatta di interviste o tentativi di interviste all’autore immaginario Prétextat Tach, Premio Nobel per la Letteratura. Cinque giornalisti tentano di strappargli un’intervista prima che la malattia, un cancro che gli riserva solo un paio di mesi di vita, lo porti via. Tach è un misantropo, capace di mettere in difficoltà chiunque gli si avvicini, un solitario ostinato immerso nella sua cattiveria, di un’intelligenza feroce che mira a umiliare le sue vittime fino all’annichilimento. E’ grasso, si ciba di cibo putrido e la sua trascuratezza è sgradevole. L’intervista riesce solo all’unica giornalista del gruppetto, che compirà l’impossibile arrivando a scavare a fondo nel passato dell’uomo fino a fargliene rivelare l’aspetto torbido che credeva ormai dimenticato da tutti. L’uomo si trasformerà da carnefice in vittima nel momento in cui la giornalista riuscirà a scalfire la sua ferrea logica facendolo vacillare.
Una stampa al servizio del potere, una stampa libera di raccontare ed esprimere, una stampa opportunista e affabulatrice, una stampa coerente e onesta, ecco le immagini che raggiungono il lettore attraverso racconti e romanzi in cui il giornalista è il mezzo attraverso il quale la realtà viene spiegata nella sua verità o stravolta nella manipolazione. Anche se George Orwell, con toni critici ebbe a dire: “Se la libertà di stampa significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuole sentirsi dire”.
Nel terzo trimestre 2017 il Pil cresce dello 0.5 per cento portandosi a 1,8 per cento su base annua (1,5 per cento acquisito). Il Governo esulta e i partiti che lo sostengono, con particolare riferimento al Pd e a Renzi, rivendicano la bontà delle riforme da loro volute che, dicono, stanno sostenendo la crescita della nostra economia.
Robert Kennedy, ex-senatore statunitense ed ex candidato alla presidenza, nonché fratello di John Fitzgerald Kennedy (trentacinquesimo presidente degli Usa), a proposito del Pil disse nel 1968:
“Con troppa insistenza e troppo a lungo, sembra che abbiamo rinunciato alla eccellenza personale e ai valori della comunità, in favore del mero accumulo di beni terreni. Il nostro Pil ha superato 800 miliardi di dollari l’anno, ma quel Pil – se giudichiamo gli Usa in base ad esso – comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità per le sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck, ed i programmi televisivi che esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Comprende le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte urbane. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani“.
Sicuramente uno dei discorsi politici più belli della storia, al pari, forse, di quello sul debito che verrà pronunciato da Thomas Sankarà qualche anno dopo. Oltre ai bei discorsi, in comune tra i due: la morte violenta e prematura. A dimostrazione, forse, che le parole possono anche essere pericolose se pronunciate da uomini in grado di far seguire i fatti.
Kennedy ricordava che ai suoi tempi il Pil misurava anche la produzione di armi e questo purtroppo non è cambiato, anzi. Nel 2016 abbiamo esportato 14,6 miliardi di euro in armi (raddoppiando quanto fatto l’anno precedente), cioè abbiamo esportato miliardi di probabilità di nuove guerre e distruzioni e, nel caso dei 427,5 milioni di euro in armi vendute all’Arabia Saudita, non più probabilità ma certezza, visto che i sauditi continuano a bombardare indiscriminatamente lo Yemen senza troppe distinzioni tra obiettivi militari e civili.
Non so dire se questo genere di crescita sia giusta, a ognuno le sue considerazioni. Personalmente mi piacerebbe che la crescita tenesse conto delle questioni morali, dei principi etici, del rispetto della natura, dell’ambiente e delle persone. In ogni caso, tralasciando il come una Nazione cresce, e anche per essere più pragmatici, andiamo a capire quando la crescita del Pil dovrebbe interessarci.
Per essere efficace e comprensibile la crescita del Pildovrebbe trasformarsi in qualcosa di percepibile per tutti, quindidovremmo averne più benessere, stare meglio rispetto a quando il Pil cresceva qualche punto percentuale in meno. Le persone, infatti, percepiscono il miglioramento non se cambiano le percentuali in tv ma se aumentano i posti di lavoro, se l’istruzione è alla portata di tutti e diventa, insieme alla buona volontà, la misura dell’ascensore sociale, se la sanità è a misura di malato e le pensioni a misura di decenza.
Cosa succede nel mondo reale dove non arriva la psicologia della crescita del Pil?
Per quanto riguarda il lavoro, ci viene detto che il jobs act ha creato centinaia di migliaia di posti di lavoro (Fassino ha detto un milione). Sembra però evidente che i nuovi posti di lavoro hanno meno tutele, salari più bassi e creati con incentivi a carico della comunità presente e futura e che, inoltre, gli effetti ‘benefici’ stiano calando a seguito del calo degli incentivi. Niente di strutturale, quindi. Soprattutto, la disoccupazione resta stabile sopra l’11 per cento e addirittura nel nuovo Def (Documento di Economia e Finanza) si prevede di avere la disoccupazione ancora al 10,2 per cento nel 2019.
Sempre Fassino, e sempre in merito al lavoro, ha detto: flessibilità ma non precarietà. Una frase che ricorda molto l’austerità espansiva di memoria montiana, insomma un ossimoro alla stregua di ‘ghiaccio bollente’ o anche di ‘lucida follia’.
Per l’istruzione è interessante dare un’occhiata al lavoro di Save the Children (leggi QUI) che dimostra, con un bel po’ di dati, che la disuguaglianza sta aumentando sempre di più. Tra nord e sud, tra ricchi e poveri, tra chi può permettersi di tenere i figli a scuola e chi fa i conti con il nuovo libro di testo da comprare. Addirittura una buona fetta dei nostri giovani ha difficoltà a leggere (non ho sbagliato, a leggere).
Per la sanità cominciano a sentirsi lamentele e si diffondono dati sul costo delle malattie croniche e questo non fa ben sperare per il futuro. Quando si comincia a parlare di costi in determinati settori si spiana la strada per future ‘riforme strutturali’. Intanto le persone che non si curano per motivi economici sono passati dall’8 al 12 per cento, i ticket si pagano così come i “contributi” sui farmaci, le attese per le visite specialistiche sono sempre ben lunghe, segno che i medici sono pochi e i mezzi centellinati. Esiste poi una chiara discrepanza nelle prestazioni disponibili tra nord, centro e sud che confermano oltretutto l’incapacità politica di gestire la cosa pubblica in maniera uguale per tutti i cittadini.
Per le pensioni, la Fornero e le buste arancioni di Boeri parlano da sé. La prima ci ha detto che andremo in pensione molto più tardi (e secondo gli ultimi dati siamo già quelli che a livello europeo ci restano di meno), mentre il secondo ci ha detto che le pensioni future saranno molto più basse di quelle odierne. In realtà il messaggio subliminale di Boeri è prepararci alla privatizzazione dell’Inps, causa teleguidato default, e nel frattempo indirizzarci a qualche assicurazione privata.
È chiaro che privatizzazioni selvagge, mance e bugie elettorali sono state il pane sia di destra sia di sinistra negli ultimi trent’anni. Quello che risulta inaccettabile è che dopo la caduta del muro di Berlino e le inchieste di Mani Pulite la sinistra ha avuto le ‘Mani Libere’ e il potere di cambiare le cose, di fare quello che la gente si aspettava facessero le forze di sinistra: fare in modo che continuassero le vittorie dei sindacati, degli operai e un miglioramento delle condizioni lavorative in generale.
Invece è diventata il campione dei diritti negati, ha promosso le privatizzazioni, il mercato libero, la concorrenza selvaggia, le leggi a favore della precarizzazione e ha contribuito ampiamente a realizzare un’Italia divisa sempre più tra ricchi e poveri e che si avvia a scoprire addirittura una divisione tra chi legge bene e chi a fatica. Un’Italia disuguale tanto quanto il resto del mondo e in particolare quanto gli Usa di cui, dopo Veltroni (o forse prima?), il Pd si sente estensione europea. Non gli Usa del folle Trump certo, ma quelli della democratica Clinton e di quello che rappresenta: deregolamentazione, liberismo applicato anche alla finanza, globalizzazione senza tutele, apertura ai mercati coadiuvati dal mercato più truce, quello della moneta, dei soldi e dei derivati. La sinistra avrebbe dovuto occuparsi di più dell’assistenza agli anziani, della sanità, delle pensioni dignitose e conseguite in tempo utile perché potessero essere godute e meno di Marchionne, degli utili dell’ex Fiat e dei finanzieri a caccia di interessi sui debiti pubblici. Avrebbe dovuto preoccuparsi del lavoro e della dignità sul lavoro, di dare più diritti e meno di livellare la società al basso insieme ai salari.
Ma per fare tutto questo avrebbe dovuto essere davvero di sinistra. Sinceramente si fa fatica ad immaginarsi questa classe dirigente del Pd e delle forze alleate come ‘gente di sinistra’, capace di comprendere quanto la popolazione faccia fatica a districarsi con la famosa quarta settimana. Il loro interessamento a temi quali lo ius soli rimarca tutta la distanza con le persone che dicono di voler rappresentare, dimostra l’incapacità di capire la differenza tra globalizzazione e difesa dei lavoratori, di essere sano intermediario tra dignità di questi e diritto alla libera circolazione.
Matasse di interessi intricate come l’Ilva dimostrano l’incapacità di comprendere che qualsiasi battaglia va fatta con idee condivise (da governanti e popolo, non da Renzi e Bersani), con i programmi a lunga scadenza, con i piani industriali e il controllo della politica sull’economia.
Bisognerebbe poi archiviare il populismo sull’Europa e andarsi a leggere ciò che viene scritto per esempio nei Def, dove è previsto che solo per il 2017 e per i programmi europei paghiamo 58,2 miliardi di euro (leggi QUI). Poi ci sono almeno altri 13 miliardi per l’Unione Europea e dei quali ne tornerà in progetti solo una parte (leggi QUI) a testimonianza che non esistono i fondi europei, ma solo soldi versati dall’Italia che ritornano per una quota parte.
Non spendiamo per gli italiani, rinunciamo a pensioni e salari decenti, a ricostruire le nostre città dopo i terremoti, o magari prima, a sostenere le famiglie in nome dell’ossimoro ‘austerità espansiva’, ma diamo ad altri soldi che non abbiamo, alimentando povertà, disuguaglianza e contrasto sociale (sfruttando anche il fenomeno migratorio) in nome di un progetto di unione monetaria che non ha mai lasciato spazio ad un’unione dei popoli e dei valori.
Ma se non ci crediamo noi a questa crescita del Pil ci crederà l’Europa, visto che la paghiamo profumatamente? Sembra proprio di no e ce lo dice attraverso il monito del vice presidente della Commissione europea Katainen: “proprio dai numeri si vede che la situazione in Italia non cambia” e aggiunge “l’unica cosa che posso dire a nome mio è che tutti gli italiani dovrebbero sapere qual è la vera situazione economica in Italia”.
Beh, tranquillo Commissario. Forse non lo sappiamo con i numeri come lo sa Lei, ma di sicuro ce ne rendiamo conto.
Quindi la questione è: se il Pil davvero cresce e nessuno se ne accorge, per chi o cosa cresce?
Ha appena edito “Dieci anni Cento libri. 2006-2016: un decennio di Orientamenti Storici” per la prestigiosa e specializzata D’Ettoris Editori: un lavoro critico politicamente, storicamente e culturalmente scorretto (e non è certamente il primo): al passo con certa storiografia internazionale ancora indigesta nelle città rosse italiche (ad esempio Ferrara) arroccate nel fu Novecento. Ecco un’intervista di approfondimento allo storico ferrarese Andrea Rossi.
Andrea Rossi, un nuovo testo storico metofologico anche e controculturale, esatto?
“Dieci anni Cento libri” è un libro di uno storico dedicato a tutti quelli che cercano letture fuori dal mainstream accademico. ci sono cento recensioni di ricerche uscite negli ultimi dieci anni, che hanno contribuito a spostare avanti il dibattito storiografico, arenato da decenni su stereotipi marxisti. È un libro per tutti gli appassionati di storia del xx secolo che si vogliono avvicinare senza pregiudizi a temi spesso considerati “tabú”: i fascismi europei, la Repubblica Sociale, le stragi del dopoguerra italiano.
Andrea Rossi, in precedenza “Il Gladio Spezzato”, un retro approfondimento?
Il “Gladio Spezzato”, la storia dell’ultima settimana di guerra dei fascisti senza mussolini, è parte di un lavoro piú ampio che sará probabilmente intitolato “la fine di tutto” dedicato alla fine dei collaborazionismi europei occidentali e orientali nel corso della prima settimana di maggio del 1945. Altra ricerca che porterá alla luce storie sorprendenti.
Andrea Rossi, Ferrara, che succede nella città d’arte e dell’Unesco ma negli ultimi anni in degrado multietnico?
Ferrara è un Giano bifronte, i cui due volti ormai faticano a restare uniti assieme. La cittá del degrado è la cittá della cultura, e viceversa, in una torsione socio politica che ormai rischia di spezzare i legami civili fra i cittadini. La vicenda dei “droidi della spazzatura” rifiutati in massa dai ferraresi, è illuminante in merito.
Andrea Rossi, la cultura a Ferrara, libera o ancora ideologica?
Il minculpop dell’Arci ormai segna il passo, e anche negli assessorati si procede a tentoni. Frutto di mancata programmazione unita al disprezzo ideologico per tutto ciò che non è cresciuto sotto l’ala protettrice delle associazioni dell’ex partitone. Purtroppo per tutti.
Andrea Rossi è nato nel 1967 a Ferrara dove vive. È dottore di ricerca in storia militare e cultore della materia presso l’Università di Ferrara. Ha redatto numerosi saggi sulle forze armate della Rsi e sull’occupazione tedesca in Italia pubblicati su riviste scientifiche e in opere collettanee. Fra i suoi volumi: Fascisti toscani nella Repubblica di Salò (2000) e Le guerre delle camicie nere (2004). Per la D’Ettoris Editori ha pubblicato nel 2015 Il gladio spezzato.
A livello nazionale permane un preoccupante ritardo nell’applicazione del passaggio alla tariffa puntuale.
La modernizzazione del settore si ottiene con l’adozione di sistemi economici di gestione integrata, e l’integrazione richiede condivisione, partecipazione e soprattutto determinazione. In questa logica diventa importante la corretta applicazione di equilibrati strumenti tariffari.
L’applicazione della Tariffa porta sicuri miglioramenti: dalla valorizzazione di un corretto sistema economico alla comprensione dettagliata dei costi, al controllo della gestione del settore e soprattutto garantisce una maggiore equità di contribuzione per i cittadini. Il passaggio a tariffa puntuale risponde infatti a tre princìpi di base che si possono riassumere in:
sostenibilità ambientale (perché si auspica la crescita di comportamenti virtuosi),
sostenibilità economica (e dunque l’equilibrio reale tra entrate e costi del servizio),
equità contributiva (pagare per un servizio reale ed effettivamente erogato).
Nell’aprile 2017 è stato pubblicato il Decreto del Ministero dell’Ambiente ‘Criteri per la realizzazione da parte dei comuni di sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico o di sistemi di gestione caratterizzati dall’utilizzo di correttivi ai criteri di ripartizione del costo del servizio, finalizzati ad attuare un effettivo modello di tariffa commisurata al servizio reso a copertura integrale dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati’.
Il principio di riferimento è un sistema di tariffazione puntuale (Payt, pay as you throw) che si basa su due principi guida delle politiche europee:
• chi inquina paga (polluter pay principle, Ppp);
• la responsabilità condivisa (shared responsibility).
La tariffa puntuale infatti garantisce la trasparenza, permette un’equa distribuzione dei costi tra gli utenti, incrementa la separazione dei materiali riciclabili e soprattutto favorisce un comportamento virtuoso. La metodologia tariffaria si articola nelle seguenti fasi fondamentali: individuazione e classificazione dei costi del servizio; suddivisione dei costi tra fissi e variabili; ripartizione dei costi fissi e variabili in quote imputabili alle utenze domestiche e alle utenze non domestiche; calcolo delle voci tariffarie, fisse e variabili, da attribuire alle singole categorie di utenza, in base alle formule e ai coefficienti indicati dal metodo.
Anche per Clara la missione è applicare la tariffa puntuale (o ‘su misura’, definizione coniata proprio dall’azienda) su tutti i Comuni soci. Ora è già operativa a Ro e Formignana, ma il metodo si diffonderà gradualmente su tutto il territorio.
L’obiettivo è creare un sistema economico che abbia una tariffa che per almeno la metà sia composta da costi varabili e dunque direttamente proporzionali al “consumo”, con un obiettivo di medio termine che è quello di ottimizzare i costi e ottenere dei benefici economici per i cittadini.
La struttura operativa del sistema tariffario si basa dunque su tre comparti: una parte fondamentale relativa al costo del servizio (e dunque pagato sulla base del reale utilizzo); una parte di costi aggiuntivi (legata al livello di qualità richiesto da ogni singolo Comune) e una parte di costi impiantistici richiesti dal sistema territoriale (a partire dalla bonifica delle discariche esaurite).
Nel tempo sarà importante aver un confronto analitico di quanto si spendeva e di quanto si spenderà rispetto ai miglioramenti ottenuti e i risparmi economici raggiunti.
Un tema fondamentale sarà quello di trattare le realtà non domestiche (artigianali, commerciali e industriali) come veri clienti a cui sia riconosciuto un corrispettivo competitivo e di qualità superiore.
I principi di applicazione di un metodo tariffario normalizzato si sviluppano sui seguenti punti:
recuperare metodologie e analisi oggettive che raggiungano l’obiettivo di un necessario raffronto economico e valutazioni di equità di giudizio tariffario;
costi del servizio chiari e correttamente imputati;
obblighi di copertura: l’obiettivo è quello della copertura integrale del costo;
trasparenza nella ripartizione dei costi ed in particolare delle quote fisse e variabili;
chiarezza nella ripartizione dei costi fra le macrocategorie (utenze domestiche e non domestiche) e fra le singole categorie stesse associandola alle produzioni presunte tramite studi di settore specifici; maggiori sistemi di controllo dell’evasione ed elusione;
la conoscenza della composizione merceologica dei rifiuti (vedi Ka e Kc) è alla base della valutazione dei sistemi di gestione, così come importante è la quantificazione della produzione e dai relativi indicatori (coefficienti Kb e Kd );
necessità di concertazione nella fase di realizzazione dei regolamenti comunali; esigenza di rendere il più possibile omogenei i regolamenti e di concertazione per ricercare soluzioni applicative condivise (analisi delle esclusioni, esenzioni, riduzioni, univoca interpretazione della superficie tassabile;
criteri di assimilazione omogenei su tutto il territorio in attesa di normative applicative di riferimento; l’accordo volontario è lo strumento per regolare quanto non in privativa;
incentivi: la componente variabile della tariffa dovrebbe già di per sé rappresentare un criterio di incentivazione-impegno alla riduzione della produzione dei rifiuti;
esclusioni: connesse alle specifiche politiche sociali adottate dal singolo Comune che nelle sue determinazioni si sostituisce al soggetto nel pagamento della tariffa in modo da non confondere il principio del chi inquina paga con gli opportuni calmieratori sociali.
Come già annunciato, sono stato trasferito a Vercelli e dopo quasi quattro anni di lavoro a Ferrara lunedì prossimo comincerò una nuova avventura nella città piemontese.
Sono stati anni belli e intensi quelli trascorsi a Ferrara. Anni impegnativi, non privi di momenti critici e difficili, eppure anni meravigliosi che mi hanno dato l’opportunità di fare un’esperienza professionale e di vita per molti aspetti unica.
Non sta a me dare giudizi sul mio operato.
Posso solo dire che ce l’ho messa tutta e sono consapevole di aver fatto sempre il mio dovere, anche nelle circostanze più difficili.
La linea che ho seguito è stata sempre quella della condivisione, nella convinzione che i problemi – anche quelli di sicurezza e ordine pubblico – possono trovare soluzione solo attraverso uno sforzo comune, che riguarda le istituzioni nel loro insieme, ma anche i corpi sociali intermedi e anche i singoli cittadini.
Ho sempre operato in questa direzione, con una particolare attenzione al mantenimento della coesione sociale contro ogni spinta disgregatrice, contro quella marea montante caratterizzata da odio e rancore contro tutti e contro tutto.
Devo ringraziare tutti coloro che mi sono stati vicino e mi hanno aiutato in questo percorso, soprattutto i vertice delle Forze dell’ordine, le istituzioni locali, tutto il mio staff ed anche i tanti cittadini che mi hanno sostenuto ed incoraggiato.
Credo che Ferrara abbia tutte le risorse per avere un futuro roseo: nel corso del mio mandato ho conosciuto tante persone – tanti volontari – che, lontano dai riflettori, operano per il bene comune. E’ un vero e proprio esercito, un esercito del bene, che lavora in silenzio rispondendo ai bisogni della comunità. Grazie a queste persone si può confidare nella tenuta del tessuto sociale malgrado le difficoltà quotidiane.
A loro, in particolare, va il mio ringraziamento.
Un caro abbraccio a tutti i ferraresi, con i migliori auguri di buona fortuna
“L’idea che i bambini italiani non possano vedere la loro Nazionale è una grande ingiustizia”. Partiamo da qui, da questa frase pronunciata da Gigi Buffon e riportata poi da Walter Veltroni nell’intervista a ‘La stampa’. Il dramma è proprio qui: parlare di ingiustizia quando, invece, può essere tutto tranne che ingiusto. E’ triste, è un peccato, forse: quante emozioni si legano alla visione della propria nazionale che compete nei mondiali! Non è però un’ingiustizia se, come è avvenuto, l’eliminazione dal campionato mondiale è dovuta al fatto di avere perso le eliminatorie. Ecco questo mi colpisce: che uomini maschi intelligenti e preparati usino a sproposito le parole.
Ho amato il calcio quando ero giovane, ricordo bene Tardelli, Rossi, Bettega etc. Ricordo di avere scritto tutte le telecronache del mondiale del 1978 con la mia vecchia macchina da scrivere; mi ero persino messa la sveglia alle due di notte per assistere alla storica partita Italia-Argentina, avevo 12 anni e certo non sapevo allora del terribile clima in cui si svolsero quei mondiali e la tragedia che stava vivendo quel paese. Il calcio maschile mi divertiva e mi esaltava.
Poi però ha iniziato a invadere ogni ambito della vita di tutti i giorni, ha iniziato a occupare intere pagine di giornale, interi palinsesti nella tv, trasmissioni alla radio. Abbiamo iniziato a sentire ogni sorta di ragionamento su una palla, sul fatto che rotola – ma và? – su come la si poteva far rotolare meglio, sugli angoli possibili, sui piedi di uno piuttosto che di un altro. Abbiamo visto gonfiarsi in modo spaventoso gli stipendi e il giro di affari che ruotano intorno a questo sport.
Gli atleti sono diventati eroi, e vada per gli eroi, ma sono diventati super eroi, con tanto di alucce quando compivano qualche exploit ginnico. Abbiamo visto sparire il concetto di squadra, per fare spazio solo ad alcuni nomi che sono diventati molto di più che fuori classe, che ci sono sempre stati, ma sono diventati degli Highlander. Abbiamo visto uomini della politica, imprenditori, uomini di potere acquistare squadre di calcio per assicurarsi un’immagine da grandi strateghi: perché si sa se sai riconoscere e comprare buoni giocatori allora saprai governare ogni cosa nel migliore dei modi!
Il calcio è diventato lo specchio di ciò che accade nel mondo, della terribile e inaccettabile diseguaglianza che regna nella nostra società! È la perfetta metafora di quanto ha dimostrato uno studio della Oxfam: “L’1% della popolazione detiene la ricchezza del 99% della popolazione mondiale”. Ebbene questa forbice nella diseguaglianza non è tollerabile e questo sì che non è giusto! Dunque diciamo ai nostri bambini che hanno diritto a sentirsi un po’ tristi se a questi mondiali non vedranno la loro adorata nazionale, ma non è un dramma né tanto meno un’ingiustizia. Gli highlander non esistono, esistono gli uomini e le donne con i loro successi e i loro fallimenti. Da ogni fallimento si può e si deve ripartire, è un’occasione per ripensarsi e per ripensare questo nostro mondo.
Lo vogliamo migliore e per renderlo migliore se c’è bisogno di stare fermi un giro va benissimo così!
Ormai leggiamo i libri con accanto il personal computer o lo smartphone per approfondire immediatamente, attraverso la ricerca in rete, riferimenti, richiami e scoprire i luoghi evocati. Sono soprattutto le città con le loro strade teatro di avvenimenti che animano le narrazioni, dal quartiere ebraico di Praga reso famoso da Kafka alla Londra di Dickens avvolta dalla caligine che domina la città. Ma c’è una strada, in particolare, rimasta impressa nell’immaginario della nostra infanzia: la via Pal di Budapest, che non è un’invenzione letteraria di Ferenc Molnár. Esiste veramente, assieme a Via Práter dove si trova la scuola che veniva frequentata dai ragazzi e, ora, cinque di loro stanno lì, sul marciapiede di fronte, immortalati nel bronzo in una scena vivissima di un verismo eccezionale.
L’uso dello spazio come memoria non solo di personaggi e avvenimenti, ma memoria di pagine letterarie, di citazioni. Le nostre città rivivono nei racconti, perché non conservare nel ricordo queste apparizioni, queste comparse, questi sguardi?
È l’idea che suggerisce la mappa delle citazioni, della città narrata nell’altrove letterario, è la ‘Mappa letteraria di Milano‘, progetto interattivo dell’associazione Quarto Paesaggio e sviluppato su uno strumento semplice e noto a tutti come Google Maps, verrà presentata ufficialmente al BookCity, nel capoluogo lombardo, dal 16 al 19 novembre. La mappa ormai vanta 700 citazioni e il coinvolgimento della gente impegnata a segnalare opere e autori, righe estrapolate dalle pagine della letteratura di tutti i tempi.
L’etnologo di Marc Augè lascia il metrò per risalire in superficie, non più la memoria di generali e battaglie affidata alle stazioni sotterranee del metrò parigino, ma la vita di sopra, oltre il mondo ctonio, che si dilata nelle pagine dei libri.
A Milano l’hanno pensata per Google Maps, così però si ha un’app che per ogni via è un archivio di citazioni non molto differente da una mini biblioteca in rete: luoghi e citazioni fuori dal contesto. Un uso erudito, ma poco urbano, potremmo dire.
Meglio sarebbe se l’idea prendesse concretamente corpo nel tessuto urbano della città. Ritrovare quelle citazioni nei luoghi e nelle strade da cui sono nate, restituire ai luoghi lo sguardo dell’immaginario che hanno ispirato, consentire a chi vi passa di rivivere quel sentire letterario, di percepirne nell’ambiente concreto le emozioni, le sensazioni o di inseguirne con la mente i suggerimenti. Aggiungere al panorama della città il panorama inaspettatamente aperto da una citazione. Dovremmo pensare ad un’architettura urbana della citazione, ad un arredo urbano della citazione o a un uso smart della citazione capace di integrarsi nei luoghi e far rivivere le suggestioni dei loro autori. Sfogliare la città, girarne le pagine come un libro. Le pagine sono le sue vie, le sue strade, le sue piazze, vicoli, luoghi e cantoni. Strade che si prestano a formare le pagine di un parco letterario da sfogliare camminando, assaggi di libri che possono incuriosire, invogliare a recuperare le trame di quelle citazioni, un modo per rendere famigliari le opere e la loro lettura.
L’abitudine a vivere in un contesto di cultura e di conoscenze. Non solo vie intestate alla memoria dei grandi da ricordare e semmai da emulare, ma strade, piazze, luoghi capaci di trasmettere le emozioni che hanno prodotto in altri, capaci di parlare al pensiero, all’immaginazione e non solo alla memoria, non solo al ritenere ma anche all’agire.
Un accorgimento per mettere in moto il sapere, per esporre il nostro patrimonio di cultura e di arte, non solo quello conservato dai musei e dalle biblioteche, ma anche quello che ai musei e alle biblioteche può condurre, può sospingere.
Non solo la letteratura è ricca di citazioni che coinvolgono i luoghi delle nostre città, ma anche il cinema e la pittura. Quante citazioni delle nostre città sono recuperabili nella produzione cinematografica e pittorica. Perché lasciarle alla dimenticanza, all’oblio, perché lasciarle alla nostra coazione a bruciare memorie, immagini e sequenze, a fermare mai l’istantanea.
Cambierebbe il paesaggio urbano se le nostre strade, le nostre vie, le nostre piazze diventassero anche i luoghi dove trovare riproposte le citazioni letterarie, cinematografiche e pittoriche a cui hanno dato luogo, che hanno ispirato. I prodotti della creatività umana ci sarebbero più famigliari, farebbero parte del nostro paesaggio quotidiano, renderebbero meno anonima la nostra esistenza, e ci abituerebbero fin da piccoli, con innegabili vantaggi, ad abitare i prodotti della cultura, della conoscenza, del sapere e della ricerca umana. Ci abituerebbero a vivere l’apprendimento non come un evento ma come una piacevole consuetudine.
Potremmo incominciare anche noi a costruire per la nostra città la mappa delle citazioni, annotandole di volta in volta, si può anche iniziare con Google Maps per non perderne memoria, ma avendo di vista come progetto di mutare il nostro paesaggio urbano dando ad esso un senso che non sia solo della commemorazione sulla targa di una via.
Potrebbe cambiare il nostro modo di abitare in luoghi che nella maggioranza dei casi sono tali solo perché ci si è domiciliati e ci si transita, luoghi spesso senza storia che si sono guadagnati la ribalta della storia nei prodotti artistici di cui è capace l’uomo. Dimensioni che restano sulla carta, nelle parole, nelle sequenze di un film, nel pennello di un pittore, lontane dai luoghi della loro origine dove potrebbero costituire la scenografia capace di dare significato a un modo più umano di stare insieme e di abitare.
Al di là del colpo di testa che il noto signore ha inferto al giornalista Rai, l’attenzione del popolo si sposta al solito su quella che il Sommo Poeta chiama “l’inguinaia”, cioè la zona che “dalla cintola in giù” interessa al popolo (?) italiano. Ormai anche una piccolissima frase di commento non va recepita se non è siglata da c….o oppure dalle sue appendici dette comunemente c….i. I ‘vaffa’ si sprecano e il buco posteriore è oggetto di complicatissimi traffici. Insomma i manganelli metaforici diventano l’arma del comando e non a caso nelle orride foto che documentano il pestaggio ostiense è proprio il manganello l’arma più terribile che insegue, frantuma, colpisce chi ormai ha già il naso rotto.
Ma cominciamo dall’alto. Come è a tutti noto Ferrara vanta una produzione di frutta straordinaria tra cui eccelle la pera. Ecco allora che la frase “At ciocch ‘na pera” non consiste nel gesto gentile di offrire un frutto, ma di mollare un cazzotto o ancor meglio una capocciata. Potenza della lingua che prevede e invera.
Al di là delle metafore e dei paralleli, in questo terribile momento che sta vivendo l’Occidente – ma non solo – il termine violenza si coniuga nelle più diverse accezioni. Si va da quella reale a quella verbale, a cui ci hanno abituato da tempo personaggi noti, politici o no. Le cosiddette ‘risse’ televisive o mediatiche fanno audience e determinano il comportamento sociale e individuale. Così come ormai alzare il dito medio è diventato scambio di saluto (una volta si faceva ‘ciao’ ‘ciao’ con la manina); perfino il gesto dell’ombrello immortalato dal grandissimo Alberto Sordi che lo indirizzava ai lavoratori è rifiutato perfino dai bimbi settenni, che lo trovano poco efficace. Così, nonostante la difficilissima scalata alla parità che le donne conducono ormai da un secolo e nella quale sembra – molto sembra – abbiano l’aiuto dei maschi avveduti e senzienti, il termine di paragone viene esplicitato dal ‘popolo’ come contrasto irrisolto tra pene e vagina. Di fronte agli abusi e ai femminicidi di giovani o non giovani donne sempre più il sussurro si fa grido e si conclude con un soddisfatto: “se l’è voluta”. Così come, assistendo alla trasmissione televisiva di Piazza Pulita, nel ‘dibbattito’ m’impressionavano non tanto le dichiarazioni terrificanti del leader di casa Pound di Ostia sulla vicenda del giornalista picchiato, quanto gli entusiastici battimani del pubblico che sottolineavano le sue più tremende dichiarazioni: veramente “da paura!”
Così ci avviamo alle elezioni nazionali e tra un anno e mezzo anche a quelle comunali. E il coraggio di testimoniare l’appartenenza e la scelta vien sempre meno quando si sente e si vede come crollano miti e persone. Nell’assistere alla puntata di ‘Fratelli di Crozza’ di venerdì 10 ci si rende conto a quale livello si è giunti. Dall’imponente rappresentazione dell’Aida con Radames-Berlu, all’impagabile De Luca, alla new entry Minniti, fino al classico Razzi, la compagine politica si è sciolta sotto i colpi inferti dalla satira come neve al sole. E sempre più ci si domanda: chi votare? Non c’entra nulla la disposizione ereditaria (sono di sinistra e non lo rinnego) ma qual è oggi la sinistra? Si può ancora mettere da parte i fatti e rivolgersi alle idee o in modo misurato anche alle ideologie?
Per fortuna nel panorama politico non tutto è da rifiutare. Penso a una figura come Emma Bonino, al suo radicalismo positivo, al modo e alla dignità con cui ha affrontato il cancro, al suo spendersi per i rifiutati.
E nel mio campo? Tra gli splendidi libri che ci regala la cultura ebraica, con i modesti risultati degli europei, con la mancanza di novità sostanziali di quelli italiani, mi sono imbattuto in un libro corrosivo che ho presentato alla Feltrinelli di Ferrara: ‘Pets. Come gli animali domestici hanno invaso le nostre case e i nostri cuori’, di Guido Guerzoni (Feltrinelli, 2017).
L’autore, come si esplicita nel risvolto di copertina, è un manager culturale che ora dirige il progetto del Museo M9 a Mestre, insegna alla Bocconi e già da tempo lo conoscevo in quanto spesso era di casa all’Istituto di Studi Rinascimentali. Il libro, rigorosissimo, basti vedere l’apparato delle note, vuol dimostrare con ironia e leggerezza la trasformazione del pet da animale di casa ad appendice della nostra vita sostituendo l’infanzia umana con quella animale. La straordinaria invenzione di Guerzoni consiste nel fatto che, mentre gli animali conquistano il loro ruolo umano, quest’ultimo si perde nella virtualità della tecnologia, assumendo il ruolo di avatar di sé stesso. Grandioso. Guerzoni sostiene che tutti gli strepitosi esempi e i racconti sono rigorosamente veri. E questo, come asserisce il cane dell’autore, Pioppo – presente in libreria,un bretone che come sostiene il suo ‘papà’ è un cane di origine ferrarese amatissimo dagli Estensi – produce la progressiva animalizzazione dell’uomo, che a questo punto per forza assumerà gli aspetti primordiali della sua specie (a proposito di capocciate), mentre agli umani pets sarà concesso un comportamento straniante. Si veda l’ultima legge fiorentina che impone agli accompagnatori degli animali di girare con bottiglia d’acqua in modo da poter immediatamente lavare le pipì dei propri ‘bimbi’ per strada. Ma loro come potranno ricambiare? Così: “Non tirare, camminare al fianco, tenere il passo, controllare l’aggressività, non molestare i passanti, non correre in mezzo alla strada inseguendo la palla, non finire sotto le macchine, non fuggire nei centri commerciali, stare buoni in passeggino, non inveire contro gli ospiti, comportarsi urbanamente con i propri simili, stare composti a tavola, non implorare il cibo, non sbavare, non sputare le medicine, non fare i propri bisogni sul pavimento, farsi lavare i denti, sopportare bagni e docce, non vomitare in pulmann, chiedere educatamente di uscire, rimanere soli senza lamentarsi, non mordere a casaccio, non fare i capricci, non essere gelosi, esprimere misuratamente i propri sentimenti, non tirare i fili, non danneggiare poltrone e sofà, non ingoiare solidi pericolosi, non ingerire sostanze tossiche, non lasciare la stanza in disordine, non abbandonare i giocattoli in mezzo al corridoio, non voler dormire a tutti i costi nel lettone con mamma e papà…” (p. 91).
Questo forse gli umani avrebbero voluto dai loro figli e di queste speranze e aspettative caricano i loro pets. Così le ministre debbono far rispettare la legge che impone che fino ai 13/14 anni i figli umani debbono essere accompagnati a scuola e il loro comportamento saggio passerà per forza ai loro fratelli pets.
La sfida del futuro che si apre sia sul piano economico sia sul piano sociale comporta per le imprese processi globali di innovazione non solo sui nodi strutturali (innovazione tecnologica, assetti societari, trasparenza economica etc.), ma anche sugli aspetti culturali.
La qualità dell’ambiente è un diritto fondamentale dei cittadini e dunque deve crescere la ricerca di miglioramento e gli obiettivi di base a cui tendere:
ricerca di efficacia ed efficienza dei servizi (verso la cultura del benessere);
sviluppo dell’informazione (rendere partecipi su qualità e sicurezza);
ricerca costante di collaborazione dei cittadini (impegno civile);
sviluppo di una corretta educazione ambientale (favorire la sostenibilità).
La cultura dei servizi di pubblica utilità, in sinergia fra cultura tecnologica e cultura sociale, gioca un ruolo determinante nel progettare e pianificare il percorso di ‘erogatori responsabili’ impegnati nella gestione ambientale e di impresa.
Bisogna dunque individuare come chiave strategica la prevenzione dei rifiuti anche attraverso la trasformazione degli stessi in risorsa, perché prevenire la loro produzione non è solo un’azione ecologica, ma anche un’azione in grado di far risparmiare danaro e creare posti di lavoro.
Il problema dei rifiuti non è solo globale, è prima di tutto un problema locale; per questo anche Clara si impegna ogni giorno con competenza, efficacia e puntualità per garantire servizi di raccolta funzionali e di alto livello, minimizzando nel contempo l’impatto ambientale dei rifiuti.
Qualche mese fa, in occasione dell’evento costitutivo della nuova società, oltre a illustrare il percorso di fusione e gli obiettivi della nuova società, è stato presentato il ‘Manifesto per la rinascita dei rifiuti’, “un documento che raccoglie i valori e i modelli di Clara condivisi anche da altre aziende che come noi vogliono contribuire a costruire una civiltà in grado di produrre meno rifiuti e trasformare in risorsa quelli che ci sono, attraverso un approccio innovativo alla raccolta differenziata”.
Cinque sono i punti del Manifesto, che ha come sottotitolo “Dal loro recupero nasce la sfida per una società più giusta e un ambiente più pulito”.
Il recupero effettivo deve essere il nuovo obiettivo strategico; la percentuale di recupero è dunque l’indice più affidabile e significativo.
Il metodo di lavoro che garantisce i più elevati livelli di recupero è il porta a porta, che raccogliendo casa per casa ogni genere di rifiuto in maniera differenziata è anche in grado di attivare più efficacemente i principi di responsabilità.
Occorre che i cittadini e aziende che si comportano in modo virtuoso siano premiati con tariffe più basse, pagate in base a quanto effettivamente si getta (principio Pay-As-You-Throw)
Occorre che il modello industriale della società di gestione dei rifiuti sia mirato specificatamente al servizio di raccolta su misura.
L’applicazione di questo modello è rafforzato da un approccio che premi la virtù di interi territori in ambiti di media dimensione integrati e non solo le volontà di singoli Comuni.
Il sistema dei servizi pubblici locali, nonostante sia al centro dell’attenzione da molti anni sia sul piano delle riforme possibili sia sul suo ruolo, evidenzia ancora posizioni contrastanti. Manca una condivisione di politica industriale, di sviluppo sociale ed economico dei territori. Deve crescere la condivisione del servizio pubblico locale in una logica di trasparenza e di sviluppo della qualità.
In alcune regioni, sicuramente in Emilia Romagna, le concentrazioni di imprese, la politica industriale di miglioramento e la crescita dell’imprenditoria pubblica hanno prodotto crescita del valore, economie di scala ed efficienza economica.
Si ritiene debba crescere il confronto sul delicato e prioritario ruolo dell’impresa di servizi pubblici, un’impresa che deve operare economicamente perseguendo fini collettivi e risultati sociali e quindi non è rappresentabile solo dall’efficienza e dal profitto, ma deve essere valutata misurando il contributo che essa apporta al benessere della società. Clara ritiene che insieme ai cittadini si possa costruire una civiltà al tempo stesso più prospera e più pulita. Che produca meno rifiuti e trasformi in risorsa quelli che ci sono. È il principio dell’economia circolare: ovvero superare il concetto che un prodotto alla fine della propria funzione debba essere gettato o bruciato. Quasi sempre, in realtà, può essere trasformato in qualcos’altro. In un ciclo continuo, senza sprechi. Come avviene in natura. Ogni giorno, con un approccio mirato al recupero dei rifiuti, Clara lavora per fare un salto di qualità verso un’economia del benessere sostenibile, che porti vantaggi all’ambiente e costi più equi per i cittadini.
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