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castello-fuochi

DIARIO IN PUBBLICO
L’ultimo giorno del 2017

E finalmente l’ultimo giorno è arrivato.
Di un anno che, nel definirlo strano, suona perlomeno eufemistico.
Lo ammetto. Son superstizioso nei numeri e quello che è appena terminato è, da sempre, da me riconosciuto foriero, se non di disgrazie, di spiacevolezze. Ho tentato perfino di adeguarmi alla numerazione civica che inesorabilmente lo marchiava a lettere di fuoco nella mia casa di Firenze: alla fine mi son deciso a vendere l’appartamento. Poco intelligente? Potrebbe darsi, ma visceralmente ineludibile.

Ma cominciamo dagli eventi o meglio avvenimenti (che noia la sacralità dell’ ‘evento’!) che hanno siglato Ferrara e i suoi abitanti.
Certamente l’avvio dell’attività del Meis, il museo dell’ebraismo italiano, con la bellissima mostra sui primi mille anni della presenza ebraica in Y–tal-ya, l’isola della rugiada divina, o l’interessante mostra su Carlo Bononi al palazzo dei Diamanti, un pittore minore che ha il merito di saper raccontare i rapporti strettissimi tra le diverse soluzioni pittoriche del primo Seicento. Una mostra didattica, che se non esplode nei numeri secondo la nuova necessità delle esposizioni e del museo, raccoglie l’invito non a confinarsi nell’evento, ma a far ragionare sul concetto di Storia che dovrebbe essere la prima necessità del ruolo delle istituzioni culturali.
Si è dignitosamente provveduto a svolgere con rigore scientifico le celebrazioni per i centenari di Ariosto e di Bassani. Si è provveduto con inusuale tempismo a sanare le ferite inferte al Centro studi bassaniani, colpito dalle infiltrazioni di umidità che minacciavano di deturpare oggetti, stampe e quadri esposti, tanto da permettere una ri-apertura finalmente sicura nel gennaio del 2018. Procedono alacremente i lavori di restauro di monumenti e chiese colpiti dal terremoto. Le associazioni culturali pur riscontrando un calo significativo tra gli iscritti (non è un mistero che l’associazionismo culturale fa leva soprattutto sulla fascia di iscritti d’età matura o vecchia, mentre sempre più difficile diventa il reclutamento in quella giovanile) svolgono con dignità il loro compito. Nascono nuove e lodevoli iniziative legate al teatro, alla cultura, alla musica. E’ ormai assodato che le punte di Diamante (tanto per usare immagini ferraresi…) della nostra cultura risiedono in due istituzioni di altissima qualità: il Teatro Comunale Claudio Abbado e la Biblioteca Ariostea. Entrambi presieduti e diretti con oculatezza e lungimiranza. E occorre qui dare il benvenuto al nuovo direttore artistico di Ferrara Musica Dario Favretti che tanto in questi anni si è adoperato per tener fede a un concetto di alta levatura culturale da affidarsi alla nostra maggior realtà musicale. Quanto alla funzione operata in città della Biblioteca Ariostea dobbiamo essere grati al dottor Enrico Spinelli, che in questi ultimi anni con un piglio da ‘burbero benefico’ è riuscito a mantenere l’altissimo ruolo della maggior istituzione culturale ferrarese. E sarà veramente una perdita se le istituzioni non penseranno a un recupero di questa esperienza dopo la sua imminente andata in pensione. E’ notizia delle ultime ore il debutto nel concerto viennese di capodanno diretto da Riccardo Muti della giovanissima danzatrice Adele Fiocchi, ferraresissima e figlia del caro amico Fabrizio, vice preside (uso una terminologia antica) del Liceo Classico Ariosto.
Poi la Spal. Ma lì non oso metter bocca e parole vista la mia incompetenza a riconoscer gli eroi della domenica.

Mi accorgo, comunque, nell’elencare le virtù cittadine come siano cambiati, giustamente, clima e motivazioni.
Ferrara è stata colpita da inusitate tragedie a cominciare dalla vicenda della banca Carife, segno di una (posso dirlo?) stupida presunzione e di falsa fiducia sull’economia che tutto può. Nell tragedia è mancata perfino la grandeur di altre disastrose vicende che hanno alimentato rotocalchi di bassa lega e importanti analisi tecnico-scientifiche. Tra gli errori commessi perfino quello di ‘piccole’ soluzioni forse dettate da ciò che da sempre hanno governato la nostra ‘ferraresità’: rancorosità e stizza senza differenza tra una parte o l’altra della distribuzione politica.
Poi le buone cose nel recupero di monumenti e ambienti lasciati in abbandono e recuperati sotto l’urgenza del scisma e un programma poliennale che dovrebbe premere l’acceleratore sul nostro patrimonio culturale, vero e necessario volano delle promesse future del nostro territorio.

Lentamente mi appresto a ritirarmi dai troppi impegni che giovanilmente ( helas!) ho voluto mi accompagnassero in questi anni. Alcuni resteranno immutabili e imprescindibili, in quanto per me fare l’‘umarel’ che osserva e commenta non basta. Ma come insegnava la scuola medica salernitana cercherò di affrontare i problemi culturali ‘lento pede’. Frattanto buone feste anche se per me funestate dall’Incendio del castello che NON capirò mai; ma ‘de gustibus non est disputandum”.
Il maestrino stavolta senza penna…
Gianni Venturi

Secrétaire

di Maurizio Olivari

L’unico mobile che aveva trattenuto dal vecchio arredamento di famiglia, era un piccolo secrétaire “Umbertino” di noce piemonte costruito alla fine ‘800, un gioiello che era stato il vanto di suo padre, acquistato da un rigattiere e a suo dire, facendo un grande affare.
Anche se usato, il mobile si presentava ancora molto bene con la ribaltina sempre chiusa a chiave, chiave che lui gelosamente conservava dentro il portafogli.
In famiglia nessuno sapeva cosa contenesse e tantomeno si permettevano di chiederne conto.
Luca, alla morte del padre, liberò l’appartamento vendendo tutti i mobili a una azienda che trattava l’usato, trattenendo per sé solo il piccolo secrétaire, per poi inserirlo fra i mobli della sala da pranzo del suo appartamento, mobili modernissimi che contrastavano con l’austera forma del mobiletto in noce stile ‘800.
A Luca era rimasta la curiosità di conoscere il contenuto del secrètaire, come aveva da bambino, spiando il padre, quando apriva la ribaltina del mobile, per sistemare qualche documento, richiudendo con la piccola chiave che riponeva dentro il portafogli.
Molte volte, guardando l’intruso, come lo chiamava la moglie, era stato tentato di aprire e finalmente vederne il contenuto, ma nel rispetto del padre non l’aveva mai fatto, quasi che il contenuto segreto lo tenesse legato alla sua infanzia e alla figura paterna.
Capitava talvolta di avere discussioni in famiglia sul tema “secrétaire”, sul desiderio della moglie di liberarsi di quello strano vecchio mobile, che nulla aveva di affine con il modernissimo arredo della sala da pranzo.
Un giorno Luca prese una decisione per lui un po’ sofferta: avrebbe venduto il mobile forse guadagnando qualche soldo. Al diavolo i ricordi del passato!
Rimaneva, non soddisfatta, la curiosità di sapere cosa contenesse e finalmente trovò la forza di aprire la ribaltina. Così prese la chiave all’interno del portafogli del padre, altro oggetto che Luca aveva tenuto per ricordo.
La piccola chiave, un po’ ingiallita dal tempo e dal mancato uso, dopo una leggera resistenza, aprì con un cigolìo la ribaltina del secretaire.
Sollevò lentamente l’antina lasciando scoprire il contenuto del piano d’appoggio.
Sulla destra una serie di fogli con appunti di viaggio che suo padre aveva accumulato negli anni. Li avrebbe letti con calma in altri momenti. Sulla sinistra un pacchetto di fotografie che ritraevano la famiglia nei diversi luoghi visitati durante le vacanze. La mamma era molto bella e anche il padre ben figurava nel gruppo dove Luca, fra di loro, completava quella che si poteva definire una bella famiglia.
Quanti felici ricordi in quelle foto, con i suoi genitori che aveva tanto adorato.
Sul fondo del mobile vide un cassettino che, con titubanza, aprì lentamente. Conteneva una busta indirizzata al padre con mittente “Opera Nazionale per la protezione e l’assistenza alla maternità e all’infanzia”, all’interno un foglio dattiloscritto con oggetto una richiesta di adozione.
“Si comunica che la sua richiesta di adozione del bambino di anni 1 e mesi tre, al quale è stato dato il nome di Luca, ora ospite della struttura di accoglienza dei bambini abbandonati, Santa Maria dei poveri di Roma, è stata accettata.
Potrete prendere contatto con lo scrivente ufficio, per dare corso all’adozione. Roma 30 Agosto 1940″
Luca s’accorse che, mentre leggeva quelle righe, avevano cominciato a tremargli le mani.
Rilesse di nuovo, attentamente, e si lasciò cadere sulla sedia accanto, iniziò a ripetere a se stesso che era stato adottato, che quelli non erano i suoi veri genitori.
Gli tornarono in mente certe frasi sentite di sfuggita in alcuni momenti tra suo padre e sua madre: “sarebbe meglio dirlo a Luca – No… potrebbe essere un trauma per lui – Noi siamo i suoi genitori e Luca deve sentirsi figlio nostro”. Ma anche quegli incontri con alcuni conoscenti che elogiavano la bellezza del bambino con quei bellissimi occhi azzurri e i riccioli biondi, mentre i genitori, entrambi con capelli e occhi scuri, si giustificavano dicendo che il piccolo assomigliava ai nonni paterni.
Luca non aveva mai fatto caso a questi particolari, adorava i suoi genitori che tanto lo amavano.
Davanti a quella lettera, si chiedeva se fosse stato giusto sapere subito la verità, e non ora, dopo tanti anni, con il risultato di avergli procurato oggi, un forte turbamento.
Chi era la madre che lo aveva abbandonato dopo la nascita? Era stata costretta dagli eventi o semplicemente non le interessava avere un figlio? Forse aveva sofferto e magari negli anni, cercato di rivederlo, anche solo per poco.
A Luca, tutti questi pensieri passarono nella mente, come fossero immagini di un film drammatico, vissuto inconsapevolmente. Aveva una certezza, quella di aver amato i suoi genitori, e ancora di più oggi, ammirandoli per il gesto d’amore compiuto con l’adozione.
Ripose la lettera nel cassettino, lasciando tutto intatto come aveva trovato.
Chiusa la ribaltina, gettò la piccola chiave nel cestino dell’immondizia. Quanto successo non era stato altro che una parentesi nella sua vita, e prese la decisione di non vendere più quel mobile, che con il suo contenuto, riteneva essere parte integrante della sua esistenza.
Sentì un piccolo rumore e quindi volse lo sguardo verso la porta della stanza, che, socchiusa, lasciava intravedere il volto di suo figlio che spiava incuriosito cosa stesse facendo il padre, così come faceva Luca stesso tanti anni prima.
“Vieni dentro Eric” gli disse invitandolo.
Il ragazzino di 6 anni entrò, aveva i capelli neri e lisci, gli occhi a mandorla e la pelle olivastra.
“Vieni Eric, siediti qui vicino a me.”, gli fece, “Debbo raccontarti una storia che ti riguarda… Io e la mamma, un giorno, abbiamo deciso di adottare un bambino…”

Roma Eur e sullo sfondo l’attesa di Nina

Due le curiosità che mi hanno attirato verso questo film: la regista, Elisa Fuksas (anche lei architetto) e la sua parentela con il grande architetto della Nuvola, Massimiliano, e lo sfondo, il quartiere dell’EUR a Roma, che attraverso ogni giorno per lavoro. E poi anche una terza, che stavo dimenticando, la presenza di uno dei miei attori preferiti, Luca Marinelli.

Siamo in una Roma estiva, calda, afosa e assolata, non forse così deserta come negli anni passati, ma ci troviamo in una città, qui rappresentata dalle architetture squadrate e monumentali dell’Eur, che la protagonista, Nina (Diane Fleri), scanzonata e libera, percorre a bordo di una Vespa. Ovviamente il ricordo va subito all’affezionata sella di ‘Caro Diario’, di Nanni Moretti, ma qui a dominare è soprattutto la luce, un bianco che abbaglia che sembra spesso trasformare la realtà in un miraggio. Nina è una ragazza trentenne senza certezze, avvolta da una precarietà esistenziale rappresentata da un’irrequietezza fatta di girovagare, senza punti fermi, nell’impossibilità di pensare al futuro o anche solo di immaginarlo. Come la regista, questa bella e seducente protagonista dai capelli corti e sbarazzini, solitaria e indipendente, ama i dolci, Mozart, gli origami, le fiabe, gli incontri impossibili. Nina, innamorata della Cina, insegnante di canto, è una giovane donna che si riempie la vita di cose da fare, tra sogno e realtà: una di queste, l’inizio del film, fare da balia a degli animali rimasti in città perché i padroni sono in vacanza, in modo particolare al cane Omero, depresso, che non può stare da solo. Come racconta la stessa regista, questa pellicola è nata dal desiderio di narrare la storia di una donna che sopravvive alle meglio in un “equilibrio stabile”, incapace di scegliere, di decidere il proprio presente e il proprio futuro, di prendersi ogni responsabilità, di cambiare le cose, una ragazza immobile che preferisce guardare la realtà trattenendo il fiato, come un pesce in un acquario. Nonostante questo ci sono tanti begli incontri: il professor De Luca (Ernesto Mahieux), sinologo napoletano, Ettore (Luigi Catani), undicenne molto maturo, custode del palazzo; il cane Omero; Fabrizio (Luca Marinelli), un violoncellista incontrato per caso e poi cercato volutamente. Si percepiscono attesa, incompletezza, momenti di passaggio. Le immagini sono monumentali, come l’architettura dell’Eur che quasi parla da sé, sembra di vedere Fellini aggirarsi per quelle scale. Mentre si attende e basta: un amore, un lavoro, una vita nuova.

Nina, di Elisa Fuksas, con Diane Fleri, Luca Marinelli, Ernesto Mahieux, Andrea Bosca, Luigi Catani, Italia, 2013, 80 mn.

Bip il salvatempo

di Maurizio Olivari

Sono Bip , il “salvatempo” che abita con un gruppo di tipi elettronici, dentro un marsupio, all’ingresso di un supermercato.
Tutti ben allineati in file orizzontali, veniamo a turno sorteggiati, quando il cliente passa la tessera nel selezionatore.
Fare il salvatempo è un duro mestiere, ad iniziare dall’impulso elettrico che ti arriva nelle parti basse, quando vieni scelto per iniziare l’attività e devi subito accendere la luce di consenso all’uso. Non è finita lì. Pensate che ogni volta che il cliente effettua la lettura ottica del prodotto acquistato, dobbiamo emettere il tipico suono “bip”, di qui il mio nome d’arte.
Tutti i Santi giorni, domenica compresa, siamo attivi decine di volte. Io debbo essere il “Fantozzi” della categoria, perchè otto volte su 10 , quando passano la tessera, l’impulso elettrico arriva a me. Allora vai con il cliente di turno. Da quali prodotti sceglie e dal modo più o meno gentile di usare i pulsanti che ho sulla pancia, posso intuire di chi si tratta.
Potrebbe essere la ragazza veloce, che, uscita dal lavoro, corre a comperare quattro cose per la cena della sera. Bip su una busta di prosciutto cotto (non ha guardato la scadenza e domani la deve buttare), bip su una confezione di formaggio di scarsa qualità, allora io intervengo e non faccio “bip”, costringendola a cambiare prodotto.
Poi di corsa alle casse, mi usano per il conto da pagare e poi finalmente mi ripongono.
Non passano 10 minuti di riposo ed ecco che mi riportano nel marsupio all’ingresso.
Spero di schiacciare un pisolino, anche perchè sono presenti tanti colleghi, invece ecco la casalinga pignola, passa la tessera e zac la corrente nel cu… scusate, nella parte bassa, che mi costringe ad accendere la luce (Fantozzi docet).
La signora mi prende con quelle sue manone un po’ sudaticce e invece di mettermi nella custodia del carrello, mi tiene ben stretto, al punto di farmi sudare e alzare la pressione. Decido di vendicarmi. Al primo passaggio sul lettore a barre, non reagisco. Questa continua con il ditone a premere sul pulsante, tanto da farmi male e allora decido di spegnermi definitivamente, nella speranza di essere riportato al punto d’ascolto e riposizionato fra i colleghi. Nulla di tutto questo: l’addetta al pubblico, mi sblocca la funzione e mi riconsegna alla casalinga pignola, e ora vi dico perchè pignola…
Davanti a ogni scaffale si ferma almeno 10 minuti, prende il prodotto, legge tutte le informazioni: ingredienti, scadenza, produttore, importatore, peso netto e peso lordo. Decide di prenderlo, clic sulla mia pancia, faccio “bip” e avanti un altro.
Il problema è che la signora trova un prodotto simile al precedente e, letto tutto, lo sostituisce a quello già registrato. In quel momento parte una serie di colpi sui pulsanti, togli poi metti, poi rimetti e poi togli, tanto da farmi girare la testa e qualche cosa d’altro. Tutto il percorso in questo modo, riuscendo a riempire il carrello in due ore e venti minuti. Record del supermercato.
Arriviamo alle casse e finalmente mi stacca dalla manona sudata, buttandomi sul tappeto mobile. Sono stressato, stanco e nervoso. Decido di vendicarmi. La cassiera mi clicca sul computer e faccio uscire la scritta “rilettura”!
Che meraviglia! Mentre mi posano nel contenitore, vedo la casalinga pignola, con il viso paonazzo, riporre sul tappeto mobile tutta la spesa effettuata, pagare e andarsene brontolando chissà con quali parole.
Qualche giornata è più felice di altre. Una Domenica mi prende con sé una giovane ragazza. Lo capisco dalle piccole mani, che prima di usarmi mi acarezzano tutto il corpo. Deve essere una ragazza sensibile, di cultura, perchè trascorriamo insieme alcuni minuti nel reparto libreria. Guarda, legge recensioni e alla fine sceglie l’ultimo best seller, un romanzo d’amore di un giovane scrittore, alla sua prima pubblicazione.
Una giovane con giovane. Beata gioventù.
Siamo poi passati al reparto intimo per donna e qui ho chiuso un occhio, quando sceglieva con attenzione, mutandine di pizzo, reggipetto terza misura. Quando mi passava sul cartellino del prezzo, il mio “bip” era un po’ roco e il display rosso, un po’ eccitato.
L’ultimo reparto visitato è stato “cosmetici – creme corpo e viso”. Subito la ragazza va decisa verso le creme corpo e mentre passo il lettore sulla confezione, sogno di essere fra le sue mani, quando lentamente accarezza il suo corpo, distendendo la crema con un morbido massaggio.
Decido di farle un regalo: la crema, invece di marcarla ottantacinque euro l’ho segnata otto e cinquanta.
Alla cassa tutto passa tranquillamente, la ragazza se ne va controllando lo scontrino, incredula di aver speso così poco. Non sa del regalo di Bip.
La giornata è finita, l’ultimo cliente ha lasciato i locali, gli addetti alle pulizie terminano il lavoro, le guardie giurate controllano i vari reparti e prima di andarsene spengono le luci del supermercato.
Anche tutti i salvatempo schierati sulla parete sono a riposo, uno però è rimasto acceso… Sono io, non riesco a prender sonno, un po’ per il nervoso che mi ha fatto venire la casalinga pignola ma soprattutto perché non riesco a dimenticare la ragazza della crema per il corpo.
Comunque, domani è un altro giorno, si diceva in un famoso film. Anch’io, alla fine, ci penserò domani.

Il Bitcoin non è una moneta ma uno strumento speculativo

Il Bitcoin più che una moneta è uno strumento di finanza speculativa e rappresenta l’ennesimo elemento di confusione nell’economia moderna. Ma poiché oggi l’economia è sempre più sinonimo di incertezza e rischio piuttosto che espressione di politica e società reale, persino il mistero sulla sua creazione invece che preoccupare chi mette mano al portafoglio… affascina.
Ma cos’è moneta? In genere identifichiamo la moneta attraverso le sue tre funzioni: misura del valore, mezzo di scambio e riserva di valore. Che non sia un processo esatto è palese, infatti ciò che si fa non sempre è ciò che si è, altrimenti dovremmo anche identificare un cavallo da soma o un guidatore di risciò come mezzi di trasporto piuttosto che come esseri viventi. Per identificare la moneta, inoltre, dobbiamo tener conto di quanto successo il 15 agosto 1971 e delle parole di Richard Nixon (per questo rimandiamo qui http://www.ferraraitalia.it/se-gli-stati-tornassero-a-emettere-moneta-secondo-il-fabbisogno-reale-della-comunita-117095.html) ma, in sintesi e per velocizzare: perché oggi accettiamo l’euro e non il fiorino di Copparo?
Perché crediamo nella possibilità di poterla trasformare in beni reali, perché sappiamo che quel numero impresso su una monetina, su un pezzo di carta o alla fine di un estratto conto rappresenta quanto la società in cui viviamo ci deve, ovvero la nostra quota di partecipazione alla ricchezza generale in un dato momento ed entro dati confini geografici.
Ma la conversione nei corrispettivi beni reali deve essere un obbligo certificato, qualificato, visibile, deve esserci una forza di poter imporre stabilmente questa conversione. Qualcuno che renda la moneta un’obbligazione capace di poter essere sempre assolta e solo uno Stato può dare una garanzia del genere.
Il “Bitcoin moneta” non ha nessuna delle suddette funzioni né alcuna delle citate garanzie. Non mi sembra stia funzionando molto come mezzo di scambio, vista la complessità dell’utilizzo, ma si continua ad attribuirgli la funzione di riserva di valore, cioè risparmio o conservazione dei propri risparmi, dato che il suo accumulo sembra garantire un continuo aumento di valore.
In realtà questi incrementi esistono solo finché vi è la convinzione che qualcun altro li vorrà ricomprare a prezzo maggiorato, situazione tipica nella finanza speculativa. Il Bitcoin è infatti solo uno strumento di investimento speculativo e come tale non dà garanzie di solvibilità. È una scommessa su un guadagno futuro da maneggiare con molta cura, soprattutto in questo momento date le attuali quotazioni.
Non è di certo espressione di un’economia ma di un algoritmo che fa sì tendenza ma non trova posto in prima fila nella gerarchia monetaria, cioè fa parte di quegli strumenti, come i derivati, di cui nei momenti di crisi ci si sbarazza più velocemente possibile per non rimanere con il “cerino in mano” (cioè se c’è un crollo di fiducia cerco di convertire questi strumenti in qualche moneta “più importante”, tipo banconote in euro o in dollari).
È crypto esattamente come il suo inventore, Satoshi Nakamoto, e non può essere duplicata o falsificata. Da questo algoritmo potrà essere generato un totale di 21 milioni di Bitcoin in 130 anni, una quantità prefissata quindi, ed anche questo sa più di giochino speculativo che di supporto all’economia (reale).
Coloro che trovano/estraggono dall’algoritmo i nuovi Bitcoin vengono chiamati miners che vuol dire minatori, richiamando alla memoria i minatori che una volta erano necessari per scavare miniere alla ricerca di oro che giustificasse l’emissione di nuova moneta. Oggi però la moneta non è oro, non è merce e proprio per questo si ha bisogno di capire da chi sia garantita e quindi attiene al diritto prima ancora che all’economia. La moneta è quindi un’obbligazione imposta e garantita dallo Stato mentre il Bitcoin appartiene solo alla parte più profonda e sconosciuta della rete informatica. Una crypto valuta non è un’obbligazione per nessuno e nemmeno un’azione legata alle performance di un’azienda, nessuno è realmente tenuto ad accettarlo come mezzo di pagamento. È insomma una bolla in attesa di esplodere.
Un anno fa valeva 700 dollari mentre oggi ne vale 17.000 ovvero una moltiplicazione del suo valore di oltre 20 volte e senza considerare che nel 2009, alla nascita, il rapporto era addirittura inverso, 1.300 Bitcoin per un dollaro. Con queste performance è chiaro che tutti ne vorrebbero ma allo stesso tempo e allo stesso modo tutti se ne vorranno sbarazzare appena le quotazioni cominceranno a calare o qualche timore di natura indefinita si dovesse diffondere.
Tutte le argomentazioni a sostegno della bontà di questo strumento allontanano dalla sostanza, ad esempio quando si ragiona del sistema blockchain. Questo permette di tracciare tutti i movimenti di un Bitcoin, e allora? Che tipo di affidabilità dovrebbe garantire? Un dato questo che non fa venire meno il suo destino di volatilità e di strumento speculativo. E infatti, oltre che i dati dichiarati potrebbero anche non corrispondere a una reale identità, sapere chi lo ha posseduto non aiuterebbe se il suo valore dovesse crollare.
Come sempre dovremmo spendere meglio il nostro tempo e ragionare di vita concreta ed economia reale. Del fatto che alle persone serve moneta per pagare la spesa alla Coop oppure per fare il pieno all’auto o comprare i regali di Natale, trasformarla poi in risparmio significa che per il futuro la potranno utilizzare per cambiare l’auto o pagare l’Università al figlio. Il Bitcoin è uno strumento speculativo e va usato al momento e tra gli operatori capaci di farlo finché sarà possibile farlo, ovvero finché ci sarà in giro gente disposta a credere al suo assurdo incremento di valore. Il risparmio è una cosa seria e si fa in moneta valida come potrebbero essere monetine, banconote , conto corrente o libretto di risparmio, un’obbligazione o persino un’azione che rappresenti il rischio d’impresa di un’azienda reale. Oppure in oro o diamanti. Insomma non ipoteco gli studi dei miei figli inseguendo una bolla che so destinata a scoppiare, affidata alla volubilità umana e quindi dei mercati finanziari.
L’unica certezza che ha il possessore di un Bitcoin di vedere realizzato un guadagno o anche di riavere indietro soldi veri è che ci sia qualche persona che abbia la sua stessa fiducia. Cioè una persona che sia convinta che il suo valore non possa che continuare a crescere, esattamente come per i terreni della Florida durante gli anni ’20 del secolo passato (vedi qui http://www.ferraraitalia.it/i-giochi-della-finanza-e-i-rischi-per-leconomia-reale-130920.html) e i tulipani olandesi del ‘600. Giochi con una sola certezza: prima o poi si rompono.

Il tempo delle piccole cose

di Carla Sautto Malfatto

L’aveva sempre considerata una cosa normale, e ancora lo credeva. Ma non sapeva che ne avesse il sentore di uno strappo, un cordone ombelicale ancora reciso, e che le mordesse nello stomaco come un vuoto fisico, alimentare. Per questo teneva la porta della stanza chiusa, la tapparella abbassata. Per non vedere l’assenza delle tante cose che prima la riempivano, gli ultimi scatoloni da portare via, il letto perfetto, senza impronte. Per non sentire l’odore neutro dei muri.
E che sarà mai, si ripeteva. Un figlio se ne va, è normale. Fa parte della vita.
Già…
Meglio per lui. Vuol dire che ha trovato la sua strada, la sua compagna.
Speriamo.
Intanto, però, si sentiva un po’ più vecchia. E un po’ più inutile.
Lo sbaglio era stato dedicare tutta la vita alla cura della famiglia – delle persone.
Sindrome del nido vuoto. L’avevano chiamata così, gli esperti, dopo averla studiata.
Beh, lei sarebbe stata un ottimo soggetto da analizzare, perché i sintomi li aveva tutti.
E pensare che ci aveva riso su, quando gliel’avevano detto. – Chi, io? – sbottava convinta, sgranando gli occhi, parlandone con le amiche. – Ma se non vedo l’ora di starmene un po’ tranquilla! Ad una certa età i figli devono andarsene di casa, farsi la loro vita, come abbiamo fatto noi. Sindrome? Assolutamente no. Anzi, così avrò meno impegni e più tempo libero per me.
Più tempo libero… peccato che questo succedesse quando si avevano sessant’anni, e meno forze, e meno idee.
Quando poi se ne fosse andata anche l’altra figlia…
Scese le scale. Quella casa, così grande, e il vuoto che la riempiva.
Aprì la porta della sala. La ragazza era là, intenta a preparare il presepe.
Quando i figli erano piccoli, preparavano il presepe insieme, ma da tempo non ne aveva più voglia. Stanare le scatole ripiene di cianfrusaglie dal sottoscala, la carta da montagna da stropicciare e sagomare su fogli di giornale appallottolati, il muschio da staccare dai muretti e lasciare seccare al sole, eccetera eccetera. E poi la confusione e lo sporco per casa… No, non ne aveva voglia, tempo –lo spirito. Se ne occupava la ragazza.
Si avvicinò. Ogni anno la figlia impostava il presepe diversamente, poi glielo mostrava compiaciuta. Allora lei lanciava un rapido sguardo al manufatto, sperticandosi in esclamazioni forzate, per darle soddisfazione. Ma intanto la sua testa era altrove, distratta da troppi pensieri, da quello che doveva ancora fare, nell’immediato e nel futuro, scalpitando per scappare da lì, la sensazione di un tempo perso, sprecato.
Ma questa volta no.
Si fermò. Seduta sul bracciolo della poltrona, presso il presepe, osservò il labbro di sua figlia che si muoveva morbido enunciando i dettagli e il dito che li indicava, sostando su ognuno, in perlustrazione aerea. Osservò il fuoco finto, le casette di cartone, le trasparenze di certe carte veline, lo stagno, le cascate, il ghiaino bianco a formare sentierini, le statuine di varie grandezze e sproporzionate tra loro, tutte cose semplici, tutte cose note, le solite cose, insomma, ma che le parve di vedere per la prima volta. Osservò le montagne, alcune sbilenche, altre troppo arrotondate per sembrare credibili. Le venne da suggerire qualche cambiamento, ma tacque, serrandosi la lingua in bocca. Osservò sua figlia, gli occhi febbrili di passione creativa, e le parve di vedere anche lei per la prima volta.
Sua figlia. Sempre sotto gli occhi, eppure così diversa. Quando si può dire di conoscere veramente una persona che ti vive accanto? Eppure le aveva dato tutto il suo tempo e tutto il suo amore, comprese le arrabbiature, per farla crescere come Dio comanda. E non poteva dire di averla trascurata, in nessun momento della sua vita, di non averle dato tutto e di più, di non averla ascoltata, osservata, di non essersi persa con lei nei suoi giochi, nelle sue divagazioni. Perché ora le appariva come una rivelazione? Forse perché prima i figli erano due ed ora tutta l’attenzione era incentrata solo su di lei? O piuttosto doveva chiedersi quando la passione, l’entusiasmo si erano trasformati in sterile abitudine, sicurezza della ripetitività, come se le cose non cambiassero mai, come se durassero per sempre – come se poi, al perderle, non ci struggessimo in rimpianti per quello che, a tempo opportuno, non abbiamo fatto?
S’impose di restare ferma e, diversamente da quello che credeva, non le fu di peso. Si pose in ascolto, prendendosi il tempo necessario. Il tempo che necessita, non quello predeterminato a tavolino. Nemmeno le passò per la testa la casa da riassettare, i panni da lavare e da stirare, il pranzo da preparare. E se quei pensieri le passarono per la testa, dovevano aver trovato rapidamente un varco per uscirne, perché non le mossero alcuno scrupolo.
Restò ferma ed ascoltò. E non interruppe sua figlia, come il solito, per accelerare la descrizione, perché avesse presto temine. Attese che la ragazza finisse di esporre il suo resoconto, e poi ritornò a chiedere chiarimenti. E si abbarbicò con l’orecchio alla sua voce, con gli occhi al suo sguardo e alle minuzie indicate, e in ognuna trovò un po’ della sua ragazza – non la perfezione, non quello che voleva vedere. Non più un pensiero diviso tra quello che stava facendo e quello che doveva fare, ma un vuoto in attesa di essere colmato. Una disponibilità. O forse anche solo un’altra occasione. Il tempo delle piccole cose.
Forse questo è invecchiare, pensò. Ma se questa era la vecchiaia, se questa era la molla per il recupero delle sensazioni mai vissute, non le parve così brutta.
Rallentare. Fermarsi per assaporare. Pensò che aveva ancora molte cose da imparare – e che era un peccato morire senza averle viste tutte, come diceva sua suocera.
E sorrise dentro.

Il tempo delle piccole cose è un racconto tratto da ʿFarfalle e Scorpioniʾ, Este Edition, 2015
(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

Ferrara città verde non smeraldo

Sulla gestione del ciclo dei rifiuti Ferrara merita di meglio: andiamo oltre le calotte e percorriamo insieme un’altra strada

La ‘vicenda calotte’ ha occupato negli ultimi mesi, e ancora occupa, le pagine come le lettere dei quotidiani locali. Le foto dei cassonetti traboccanti sacchetti – foto aimè verissime, basta fare il giro del proprio isolato per rendersene conto di persona – ci ricordano ogni giorno quanto l’iniziativa di Hera e Comune di Ferrara sia stata malpensata o, perlomeno, mal gestita.
E’ inutile tapparsi gli occhi (e il naso), il risultato dell’operazione calotte è abbastanza chiaro. Una città che fino a qualche mese fa appariva relativamente pulita, oggi espone a ogni angolo sacchetti e spazzatura en plein air. Una situazione che ci viene continuamente raccontata come ‘temporanea’, ma che non accenna a normalizzarsi. Una vergogna, sia per i residenti, sia per chi viene a visitare una “città d’arte e di cultura”, che prima di tutto si aspetta ordinata e pulita.
E’ colpa dei cattivi cittadini ferraresi? O c’è una oscura banda di luddisti che si diverte a spargere pattume per protestare contro il progresso tecnologico? Qualcuno ha avanzato ragionamenti di questo tipo, ma mi sembrano delle spiegazioni un po’ surreali, se non addirittura offensive. Se prima dell’‘Era delle calotte’ – prendo in prestito il titolo di un interessante incontro promosso di recente dall’associazione Ferraraincomune – i cittadini si mostravano attenti e diligenti, coscienziosi e interessati alla pulizia e al decoro della città che abitano, gli stessi ferraresi non possono essere diventati improvvisamente svogliati, non collaborativi, anti-ecologici, ribelli o addirittura incivili.

Prendersela oggi con i cittadini (che non avrebbero compreso la novità) non è però solo ingiusto. E’ un bruttissimo segno: perché tutte le volte che i governanti, invece di fare autocritica, se la prendono con i governati, puntualmente si allarga il fossato tra la società e la politica, tra il cittadino soldato semplice e il palazzo.
Perché allora non ammettere che l’operazione calotte è stata ed è un mezzo fallimento? Forse l’intenzione era buona – aumentare di qualche punto la raccolta differenziata – ma sono stati sbagliati sia i modi sia i tempi. E’ stato sbagliato decidere dall’alto, invece di coinvolgere preventivamente – con pazienza democratica, prendendosi tutto il tempo che occorre – tutti i cittadini in un grande dibattito su come migliorare il servizio della raccolta rifiuti, come diminuire i rifiuti non riciclabili, come aumentare la raccolta differenziata. Ed è stato sbagliato seminare le calotte in tutta la citta senza aver fatto chiarezza sulle tariffe finali.
Qualche partito si è messo una calotta a mo’ di elmo per far guerra alla Giunta ed entrare in campagna elettorale con un anno di anticipo. Lo dico subito, a scanso di equivoci. A me sembra un’opposizione sterile, pretestuosa, senza idee. E senza amore per Ferrara. Non è certo con “lo sciopero delle calotte”, con la strumentalizzazione politica, con le marce di questo o quel Masaniello, che faremo un servizio alla nostra bella città. Non è così che la renderemo più pulita, più ecologica, più civile.
Occorre piuttosto riavvolgere il nastro. Partire dall’obiettivo comune a cui vogliamo arrivare, che non si esaurisce certo con il dilemma calotte sì o calotte no. L’obiettivo, anzi, gli obiettivi sono tre. Il primo: ridurre i rifiuti, tutti i rifiuti, come consapevole scelta ecologica. Il secondo: aumentare e di molto la quota della raccolta indifferenziata, che ora a Ferrara è ferma sotto il 60%. Il terzo: pensare e organizzare un servizio trasparente che veda il coinvolgimento e l’attiva collaborazione dei cittadini ferraresi. Ci sarebbe un punto quattro, non secondario: la riduzione della Tari, che a Ferrara è particolarmente pesante, ma una tariffa più bassa – almeno questa è la mia convinzione – potremo averla solo facendo passi avanti sui primi tre obiettivi.

Tutti e tre gli obbiettivi, anzi, tutti e quattro, non sono scritti nei libri dei sogni. E’ la strada che stanno percorrendo altre città e altri Consigli Comunali: in Emilia, in Veneto, in Lombardia. E con ottimi risultati. La drastica riduzione dei rifiuti (lo slogan è appunto ‘Rifiuti Zero’), una raccolta differenziata che si avvicina o arriva a superare l’80% (avete letto bene) con costi e tariffe più basse anche del 20% rispetto a Ferrara.
Tutto questo grazie a un coinvolgimento vero delle persone. Raccogliendo osservazioni, critiche e suggerimenti da tutti i cittadini: gli adulti, i giovani, i bambini, gli anziani non autosufficienti. Un lavoro informativo ed educativo capillare, da svolgere prima e non dopo aver deciso d’imperio le scelte sulla gestione, sulle modalità e sugli strumenti utili a migliorare la raccolta. Questo percorso, quello cioè della partecipazione e del coinvolgimento attivo della cittadinanza, a qualche decisionista potrà sembrare lungo e complicato, ma alla prova dei fatti è l’unica strada per incamminarsi verso una “ecologia cittadina”. Dove si è scelta questa strada – e non è in fondo la strada della vera democrazia? – i risultati si vedono. Perché tutti i cittadini si sono sentiti realmente partecipi delle scelte operate e tutti si sentono di collaborare quotidianamente al risultato comune:
I dati, secondo quanto pubblicato sulla pagina facebook Ferraraincomune, ci dicono che il sistema porta a porta, se applicato con, insieme e non ‘sopra’, i cittadini, consente di ottenere risultati di gran lunga migliori. Dobbiamo quindi ‘pattumare’ le calotte e le carte smeraldo? Non lo so, non sono un esperto della materia. Quello che so è che occorre guardare avanti, ‘oltre le calotte’.

Scade in questi giorni la concessione ad Hera Spa del servizio di raccolta rifiuti nel nostro comune. Seguirà l’immancabile proroga: un anno, due anni, non tanto di più perché l’Anac di Raffaele Cantone ha già bacchettato aziende ed enti pubblici. Dunque, mentre siamo in regime di proroga con Hera e le sue calotte, c’è tutto il tempo per imboccare la strada del confronto. Confronto con le altre esperienze e le Amministrazioni Comunali che hanno scelto di riprendere in mano direttamente la gestione del servizio rifiuti (come i comuni del Trevigliano o il comune di Forlì). Confronto con gli esperti che studiano come si possono ridurre di molto i rifiuti procapite, minimizzare i rifiuti non riciclabili e riciclare di più e meglio. Confronto infine, o prima di tutto, con i cittadini ferraresi, quartiere per quartiere, isolato per isolato, casa per casa. Non per proporre una soluzione preconfezionata, ma diverse alternative, e per ascoltare le esigenze concrete e i suggerimenti dei cittadini. Saremo infatti proprio noi cittadini che, se informati correttamente, consultati ed ascoltati che garantiremo un servizio sempre più efficiente. Diventeremo più coscienti, più ecologici, più “riciclatori”, più attenti a ridurre sempre di più i nostri rifiuti.
Se non ci fermiamo alle calotte, se sapremo imboccare un’altra strada – una strada da percorrere davvero tutti insieme – allora Ferrara meriterà un altro primato. Non solo la città del verde e dei giardini ma ‘la città verde’ tout-court, la città della coscienza ecologica e dei rifiuti zero. Sono sicuro che Alex Langer, l’indimenticato umanista cui abbiamo intitolato il ponte che collega le Mura al Parco Urbano, ne sarebbe felice.

Quando il papà smemorato fa ridere

Abbiamo incrociato il canadese Guy Delisle all’ultima edizione di Internazionale, oggi ve lo ripresentiamo… magari per un simpatico regalo di Natale.

I suoi tre volumi a fumetti, ‘Diario del cattivo papà’, sono raccolte di brevi storie umoristiche degne di stare sotto l’albero. Se non altro per sorridere un po’ e passare momenti sereni. Si tratta di quadretti familiari: Delisle dialoga ogni giorno con i suoi due bambini, il papà non ne fa davvero una giusta. Dal coinvolgere il figlio in scherzi poco simpatici all’imporgli le proprie scelte in fatto di videogiochi o libri, fino all’insegnargli la boxe o al raccontare storie spaventose alla figlia, del tipo che le cresce un albero nel pancino…. Cose che non si fanno davvero. E come poi dimenticarsi del topino che porta i soldi alla caduta del primo dentino (fortuna che c’è la nonna a ricordarsi)? Come essere spesso più irrispettosi, irriverenti e discoli dei propri figli? Come spesso parlare troppo, a ruota libera e a sproposito, ed essere così talmente loquaci da zittire e ammutolire i bambini? E perché fare sempre e comunque come si crede e di testa propria? Qui lo si comprende. E bene. I disegni in bianco e nero sono semplici ed essenziali, i tratti chiari, gli ambienti quelli classici di ogni casa normale; sono i testi e le battute fulminanti delle strisce a fare da padrone. Una divertente e autoironica guida alla paternità che si legge tutta d’un fiato, pur nei suoi tre volumi. Dove ogni papà si potrà e saprà riconoscere. Non perfetti ma veri.

Guy Delisle, Diario del cattivo papà, Voll.1-3, Rizzoli Lizard, 2013-2015, 190 p. ciascuno.

Così italiani, così (dolcemente) complicati

“Siamo così, dolcemente complicate, sempre più emozionate”, canta Fiorella Mannoia cogliendo il lato femminile della medaglia umana.
Forse bisognerebbe estendere le stesse parole anche al lato maschile per avere un’idea dell’identità di noi italiani.
Sembra che ci proviamo gusto a complicarci la vita, salvo poi gridare aiuto quando ci si rende conto di essere prigionieri delle stesse suicide complicazioni.
Un esempio? Siamo talmente abituati a vivere nell’emergenza che questa ci pare la più naturale normalità. Tanto è vero che siamo i campioni mondiali in fatto di protezione civile. Quando c’è da prestare soccorso per un disastro non prendiamo lezioni da nessuno e in quelle prime fasi dell’emergenza se ne vanno le nostre energie migliori. Poi, spompati, franiamo miseramente nella gestione dell’ordinario. Una normalità sempre incompiuta in un’interminabile transizione, che finisce il più delle volte per produrre altre emergenze nelle quali siamo sistematicamente risucchiati. E tutto si ripete con una ciclicità sfiancante.

Così, in un quotidiano sistematicamente fuori regola, si seleziona darwinianamente il tipo ideale italiano: il furbo, il guitto, l’esperto nell’arte di arrangiarsi e che a sua volta dà il meglio di sé non nell’applicare le regole, ma nell’aggirarle per fronteggiare le infinite eccezioni. I nostri codici normativi – così ci dicono – sono infatti il trionfo del cavillo, tanto che pare nessuno in Italia sappia esattamente quante leggi esistano. Mentre chi si sforza di osservarle non rientra nel novero delle civiche virtù.
Dolcemente complicati.

La figura dell’italiano un po’ cialtrone e baraccone è il filo conduttore, in fondo, dell’intera narrazione cinematografica di Mario Monicelli: da Brancaleone, alla sgangherata banda dei ‘Soliti ignoti’, fino ai due perennemente imboscati in ‘La grande guerra’. Qui Alberto Sordi e Vittorio Gassman hanno dato, da par loro, volto e parola alla quintessenza della cialtroneria. Salvo uscire, in un sussulto identitario d’indignazione, con quel “Mi te disi propri un bel nient, fassa de merda” che il grande Gassman quasi sputa addosso all’ufficiale austriaco, sicuro di estorcere dai due molli fanti informazioni preziose sui movimenti delle truppe italiane. Un moto di orgoglio fatale che sale dallo stomaco fino alla gola solo quando – ancora l’emergenza – il tedesco guarda l’italiano con disprezzo. In quell’istante i due scansafatiche sono pronti a pagare anche con la vita – sempre più emozionati – il loro essere italiani. Un atto miracolosamente eroico, tuttavia non riconosciuto dai commilitoni salvati grazie a quell’inaspettato sacrificio che, anzi, si chiedono dove quei due si siano nuovamente imboscati, pur di scansare l’ennesima prova.
Dolcemente complicati.

Che dire poi dell’ordinario e atavico guardarsi in cagnesco? Per un verso è stato il principio di quella trama di Comuni e Signorie che furono il ventre gravido di una bellezza sublime – culturale, artistica e architettonica – ancora oggi in grado di sbalordire il mondo intero. Per altro verso, quella stessa trama è stata il fatale varco di una debolezza, del quale hanno approfittato interminabili schiere di eserciti invasori che per secoli hanno calpesto e deriso l’intero Stivale, “perché non siam popolo, perché siam divisi” recita il nostro inno nazionale.
Pure questo fu terreno fertile per il germogliare furbo di una fitta e suicida rete di alleanze, l’un contro l’altro, sempre a somma zero. Lo racconta ancora il cinema con il film ‘Il mestiere delle armi’ di Ermanno Olmi, in cui il duca estense Alfonso I vende allo straniero lanzichenecco i cannoni che spareranno all’italiano Giovanni dalle Bande Nere.
Complicati e, stavolta, neppure tanto dolcemente.

Si potrebbe comprendere con questa rincorsa storica anche l’ultima sciagurata legge elettorale. Molti presagiscono che il nuovo sistema di voto che fa da cornice alla campagna elettorale già iniziata, consegnerà il paese a una pericolosa instabilità
In fondo, nel Rosatellum c’è il guardarsi in cagnesco per far perdere l’avversario, c’è l’algebrica somma zero di una politica incapace di occupare il proprio spazio, tanto che le ultime due leggi elettorali le ha scritte la Magistratura, e c’è la deliberata costruzione dell’emergenza, il prolungamento di una transizione incurante dell’approdo.
Lo scrive bene Gianfranco Brunelli, direttore de ‘Il Regno’ (20/2017). Per la Camera sono assegnati 232 seggi in altrettanti collegi uninominali e 386 con il proporzionale, per accedere ai quali basta raggiungere il tre per cento dei voti. In più, in palio ci sono i dodici seggi della circoscrizione estero.
“Come è stato adeguatamente dimostrato – scrive Brunelli – se uno dei tre soggetti maggiori della competizione – centro-sinistra, centro-destra e M5S – ottenesse il 35 per cento dei seggi proporzionali (cosa plausibile) e il 50 per cento dei seggi maggioritari, il numero dei suoi deputati sarebbe 251, lontano dai 316 necessari per avere la maggioranza”.
Per raggiungere quota 317 (un solo seggio in più della maggioranza), occorrerebbe arrivare al 40 per cento dei proporzionali e al 70 per cento di quelli maggioritari.
Per il Senato, poi, la situazione non è migliore.
“Il prossimo governo – continua il direttore – qualunque sia la formula che adotterà il presidente della Repubblica dopo le elezioni, dovrà necessariamente nascere dalla scomposizione delle coalizioni che si presenteranno unite davanti agli elettori per poter dare vita a una qualche maggioranza. Persino nel caso di un governo provvisorio in vista di un veloce ritorno alle urne”.

Capito? Gli elettori votano per partiti e coalizioni che poi in Parlamento faranno e disferanno alleanze a prescindere dalla volontà dei cittadini. E’ il ritorno della prima Repubblica in pompa magna, con i suoi rimpasti di maggioranze, le non sfiducie e con la girandola di governi che duravano giusto il tempo di una canzone per l’estate.
Così, tutti insieme appassionatamente, si va incontro a instabilità che si aggiunge a instabilità e lo spirito italico continua a vivere sull’orlo del caos.
Sarà anche per questo, forse, che cadiamo e ricadiamo nell’illusione dell’uomo della provvidenza, del leader, lo spavaldo, il guascone, il giovane disinvolto al posto dei parrucconi, il semplificatore, per porre fine col suo polso fermo e il passo veloce del bersagliere, al labirinto claustrofobico del perenne stato d’eccezione e dell’enorme ufficio complicazione affari semplici, in cui ciclicamente ci cacciamo.
Siamo così, noi italiani, dolcemente complicati, sempre più emozionati. O spaventati?

La plastica e gli imballaggi

L’attività di gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio è ispirata all’osservanza dei principi comunitari richiamati nella Parte Quarta, titolo II, del Decreto Legislativo 152/06 e s.m.i., con particolare riferimento a:

  • incentivazione del riciclaggio e del recupero di materia prima, sviluppo della raccolta differenziata di rifiuti di imballaggio e promozione di opportunità di mercato per incoraggiare l’utilizzazione dei materiali ottenuti da imballaggi riciclati e recuperati;
  • riduzione del flusso dei rifiuti di imballaggio destinati allo smaltimento finale attraverso le altre forme di recupero;
  • informazione ai cittadini-consumatori sulla corretta gestione dei rifiuti.

Si tratta di un grande mercato di cui si vuole comprendere nel modo migliore possibile l’intera filiera.
Com’è noto entrano in gioco sia il sistema Corepla sia gli inceneritori. Bisogna essere in grado di saper comprendere nel merito quali sono i principi di miglior riciclo.
Questo principio diventa fondamentale a livello nazionale per individuare le migliori linee industriali per favorire una forte strategia verso la sostenibilità.
Nel 2014 (ultimo dato disponibile) la produzione di materie plastiche globale è stata di 311 Mt (con la Cina primo produttore), con un incremento del 4% rispetto al 2013. In Europa (28+2) la produzione è stata di 59 Mt, con un leggero incremento dell’1,7% rispetto all’anno precedente. La domanda in Europa registra un incremento del 3% riflettendo, quindi, una ulteriore ripresa. Gli imballaggi risultano essere il principale campo di applicazione delle materie plastiche rappresentando, in Europa, quasi il 40% della plastica trasformata.
Noi la chiamiamo semplicemente plastica, ma si tratta di svariati polimeri: polietilene, polipropilene, polivinildicloruro, polistirolo, poliuretano, polimetilmetacrilato, poliacetali, polisolfoni, policarbonato, resine ureiche e epossidiche, etc. Il polietilene tereftalato è tra i più conosciuti perché in genere compone le bottiglie di plastica per l’acqua minerale di cui in Italia si fa ancora largo uso.
Dalla loro raccolta si può fare la selezione e il riciclaggio oppure il recupero energetico. Il riferimento consortile è il Corepla (vedi Conai) che tiene rapporti con i vari impianti di selezione (ce ne sono anche vicini a noi). I Css devono effettuare infatti per conto di Corepla, in impianti idonei, la selezione per polimero/colore della raccolta differenziata dei rifiuti di imballaggi in plastica provenienti dalla raccolta differenziata urbana, ottenendo a valle della lavorazione le seguenti tipologie (tutte o parte) di rifiuti selezionati, conformi rispetto alle singole specifiche tecniche.
Sul totale raccolto dal Conai pari a oltre otto milioni di tonnellate di materiali, solo poco più del 7% è plastica, di cui il 66% è a recupero energetico. Semplice deduzione: la plastica è voluminosa e leggera (e dunque costosa da raccogliere, ma ha un alto potere calorifico). Questo spiega perché anche in Emilia Romagna il tasso di riciclaggio della plastica è inferiore al 30%.

I dati dell’ultimo semestre di Clara dicono che sono state avviate a riciclo 2.163 tonnellate di imballaggi di plastica, un risultato possibile soprattutto grazie alla raccolta porta a porta e all’impegno dei cittadini e dell’aziende che la fanno correttamente. Clara garantisce così un materiale pulito, di fascia superiore, le condizioni ideali per ottenere plastica riciclata dai moderni sistemi industriali di trattamento.
Sono imballaggi in plastica e quindi vanno nella raccolta differenziata le bottiglie di acqua minerale e di bibite, i flaconi dei detersivi, le vaschette di alimenti, i piatti e i bicchieri di plastica, i barattoli di yogurt, le vaschette di gelato in polistirolo, i sacchetti delle patatine e delle merendine (non sono di carta), le shopper. Ma attenzione a non inserire altri oggetti di plastica come le posate, le siringhe, le bacinelle, i tubi da irrigazione, i giocattoli, i palloni, i cd ecc. Piuttosto che sbagliare è preferibile fare una telefonata o consultare il sito web del gestore. Non c’è niente di peggio che ‘inquinare’ il materiale pulito con sostanze non riciclabili.
Suggerimenti: è importante assicurarsi che gli imballaggi non contengano residui evidenti del contenuto (ma se regolarmente svuotati, non è di norma necessario lavarli). Inoltre, per ridurre il volume e ottimizzare così conferimento e raccolta, occorre, quando è possibile, schiacciare bottiglie e contenitori.

Ferrara città cantiere

Vista dall’alto Ferrara assomiglia a tante altre città. Illusione ottica: dall’alto non si ammirano i grandi palazzi rinascimentali, i vicoli medievali, le dannunziane vie larghe come fiumane, le piazze che i cittadini hanno voluto grandi forse per liberarsi delle anguste strade che costeggiano l’antico scorrere del fiume impostosi nella cultura degli abitanti della dimenticata urbe come assoluto protagonista della sua vita. Ma è l’anima di Ferrara che rende diversa questa città, la nostra città, dalle consorelle della regione. I bolognesi sono aperti, laboriosi, i romagnoli pure, i ferraresi no, dominati da una sorda borghesia, sicura di essere il punto d’arrivo del pensiero umano, si sono accovacciati sul ramo più alto dell’albero sociale e da lassù giudicano. Brutta cosa, così la conservazione diventa un boccone succulento e il fatto più importante è che anche le fasce popolari assorbono un’incoscienza destinata a diventare fenomeno sociale. Il fascismo nacque così all’indomani delle sommosse rosse cresciute in uno sciagurato primo dopoguerra, così oggi rinasce sulla schiena portante di una borghesia che può subdolamente e silenziosamente imporre, usando i suoi potenti media, cultura e interesse economico come se fossero operazioni corali di un popolo.

Scendendo dall’alto dei cieli, da cui Ferrara pare normale, e addentrandoci nel tessuto urbano incontriamo subito uno dei simboli del fenomeno che abbiamo descritto, l’abbattimento del famigerato (ma non brutto) Palazzo degli Specchi, divenuto, per la sua inutilità, un inguardabile orpello e, per i costi della sua costruzione, un bubbone purulento. Era necessario liberare la città da questo fastidioso, e per molti versi scandaloso, ricordo, le oscure voci che hanno accompagnato la sua edificazione parlano di interessi mafiosi e spero non sia vero. Costringendo l’animo a essere il più possibile ottimista mi dico: auguriamoci che la demolizione sia l’inizio di una nuova èra dominata non dagli interessi mafiosi ma da un sano rapporto tra gli individui e tra questi e la loro società senza prevaricazioni, violenze, inutili orgogli, capace, infine, di riconoscere i veri meriti. Sto sognando a occhi aperti, ma non si può vivere senza un sogno che ti guidi. Comunque non ci si può fermare al Palazzo degli specchi. Tanti altri esempi, purtroppo, urgono o dovrebbero urgere sulle nostre coscienze: prendiamo il nuovo ospedale, che interessi solo in parte sconosciuti hanno voluto nella landa subsidente a 10 chilometri dalla città, escludendo in un sol colpo tutti gli anziani appiedati o dall’età o dalla povertà, tanto devono morire: per addolcire la pillola i politici dissero , quando si trattò di dare il via alla costruzione e poi all’inaugurazione, dissero che all’ospedale “si andrà con la metropolitana di superficie”: forse non sapevano che cosa stavano dicendo. Chiedo: dov’è la metropolitana? Silenzio. Altri affaristi spiegarono che non c’erano “locations” dove sistemare il mostruoso biscione. Non è vero: il posto c’era ed era già stato localizzato sulla via Copparo, ma, evidentemente, mancavano le voci degli speculatori, i quali avevano tacitato i critici dei nuovi progetti. Ricordo, quando per lavoro frequentavo il consiglio comunale, che nessuna forza pseudo politica fu contraria al piano, saltarono tutti sul treno vittorioso. E’ stata una gran brutta figura della città. La borghesia? Con il suo abituale silenzio si applicò alla costruzione di tanti altri ospedaletti, dove i vecchi possono trovare accoglienza pagando: li chiamano poliambulatori, si paga naturalmente. Il fatto è che con la situazione venutasi a creare e con il numero chiuso all’università, non ci sono più medici, tanto poco chiara è la politica sanitaria ferrarese, bloccati nella carriera, trovano posti più accoglienti in altre città e con altre aziende sanitarie. E adesso che si farà del vecchio, comodo come una pantofola, Sant’Anna? Manzoni risponderebbe “ai posteri l’ardua sentenza”. Ma nessuno parla, un grande silenzio è calato su Ferrara che ha smesso di crescere, non nascono maestosi palazzi da consegnare all’orgoglio dei figli, la città, attonita guarda spaventata i nuovi arrivi di persone già sfigurate dalla vita e strappate alla loro inospitale terra, le quali di questo nostro paese, di cui non conoscono la storia, non vogliono sapere nulla. Ma chi ha fame …meglio un simbolico pezzo di pane. Tempo fa una signora extra comunitaria mi disse entusiasta: ieri ho portato i bambini al castello, ci siamo rimasti tutto il giorno (vedi che hanno interessi culturali? mi sono detto); poi ho chiesto “dentro il cortile? O nelle sale?”, “dentro e fuori”, la risposta, ma lei pensava al centro commerciale. Ora i centri commerciali sono nati dovunque secondo una rigida geografia politica, hanno strappato i ferraresi alle loro abitudini, i vecchi negozi hanno chiuso, non c’è più una latteria, non esiste più l’immancabile merceria di un tempo, ne è rimasta una, presa d’assalto da donne affamate di cotoni, elastici e cerniere lampo. La città è stata trasformata in una landa in cui nascono, amplificandosi, nuovi banchi dove prosperano le merci cinesi in concorrenza con i negozi, a loro volta venduti all’oriente.

Come si può pensare che in una situazione del genere sorga spontaneamente (o con i soldi della defunta Cassa di Risparmio?) che so, un Palazzo dei Diamanti? In codesto bailamme architettonico, senza un disegno per la città del futuro, al massimo vedremo innalzarsi la torre vicino alla stazione. Che nessuno ha capito a che serva e che cosa sia. Ce ne sono tante di costruzioni inutili e inutilizzate, dalle caserme agli ospedali. Che ci importa? Costruiremo un altro palazzo della Ragione dopo avere abbattuto l’esistente, già definito, in un celebre articolo di Bruno Zevi apparso sull’Espresso quando l’edificio di Piacentini fu inaugurato, uno “scandalo”: non resta, a noi ottimisti, che vedere sorgere un altro scandaloso edificio lì in mezzo alla splendida piazza e poi esclamare “maial, sl è brutt!”

BORDO PAGINA
“Cecilia 2.0”, la spia aliena di Firenze. Intervista a Fabrizio Ulivieri

On line per Asino Rosso eBook di Ferrara, “Cecilia 2.0” dello scrittore fiorentino Fabrizio Ulivieri, segnalato anche dalla stampa nazionale (Il Giornale) e internazionale per lavori precedenti (“Rugile” e “Il Sorriso della Meretrice”). Un autore controculturale, tra erotismo e fantascienza. E quest’ultimo racconto ha per focus una splendida e conturbante aliena in missione nella rinascimentale città d’arte Firenze. Ecco una intervista allo scrittore, che stanco di certa Italia, annuncia il suo trasferimento esistenziale e logistico in Lituania, diversamente esempio (letterario in questo caso) di cervelli in fuga dall’Italia.
Tempi neopuritani, l’erotismo sempre zucchero della vita quotidiana autodiretta…
Il sesso nel tempo di crisi sarebbe una grossa arma creativa se si sapesse usarla. Ma se devo essere onesto a me sembra che anche nel sesso (erotismo è già una parola altolocata per i nostri tempi, come la parole letteratura) non ci sia più inventiva/creatività… o meglio, mi sembra (soprattutto fra le giovani generazioni) che vi sia sempre meno interesse per il sesso reale… Il sesso che lo si voglia o no è un “valore” ed è mia personale opinione che i valori crescono solo laddove vi è poca libertà (tirannie, governi autoritari…). Dove regna troppo permissivismo, la libertà non è più un valore ma è solo un pretesto per disinteressarsi di tutto. Le “democrazie” occidentali sono il miglior esempio del fallimento della “libertà” e ergo della creatività supportata da valori connessi al desiderio di libertà.
Nell’ eBook Firenze in primo piano…
Sì, Firenze era allora al centro dei miei interessi. Ora mi ha stancato anche questa città, bellissima ma non più identitaria. Troppe razze, troppe etnie… Io ero nato italiano, ora non so più chi sono… infatti mi trasferisco. Vado a vivere a Vilnius, in Lituania, una nazione ancora identitaria.
Nell’ eBook Cecilia , americana, esprime anche una critica metapolitica e culturale a certo Way of life statunitense e diversamente imperialismo quasi orwelliano…
Vero. L’imperialismo del loro Deep State ci ha portato all’esistenza di una Matrix, quasi. Un Deep State che ormai raramente colpisce in modo diretto ma sempre indiretto tramite terrorismo, false flags, proxy wars, mainstream (che è poi manipolazione dell’informazione a livello globale)… Cecila era a Firenze per questo, per creare i presupposti di un’azione indiretta…

Info
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/sorriso-meretrice-1017945.html

Un grazie al giorno toglie l’infelicità di torno

La riconoscenza è una pratica difficile. Si fatica a ringraziare e si preferisce non curare questo aspetto tanto prezioso quanto raro perché siamo sempre più avvolti nei nostri egoismi e nella nostra autoreferenzialità. Un vero peccato perdere l’occasione di rivolgersi agli altri con quel sorriso di riconoscimento che rende felici prima di tutto noi stessi e contemporaneamente chi ci sta davanti.

La gratitudine è un modo di vivere e guardare alle cose, un atteggiamento mentale, una questione di prospettiva. E’ uno staccarsi dall’assuefazione e dal ‘tutto è dovuto’ per riconoscere di aver ricevuto qualcosa che vale, un dono, un contributo, che il resto del mondo ci offre. Staccarci per un attimo dal nostro egocentrismo per apprezzare e ringraziare, rompe il circolo vizioso delle lamentele, dei mugugnii, l’isolamento, la sfiducia, le privazioni, perché la gratitudine è un antidoto a tutto questo. Essere grati non è forma ma sostanza, a prescindere da idee, appartenenze ideologiche e religiose, correnti di pensiero e tendenze.
Cicerone fa derivare tutte le virtù proprio dalla gratitudine: “Questa è infatti la sola virtù, non solo la più grande, ma anche la madre di tutte le altre virtù…”. Nelle filosofie orientali il sentimento di riconoscenza è fondamentale. Ne ‘La filosofia dell’Aikido’ di John Stevens si considerano i diversi aspetti della gratitudine: verso l’universo, verso gli antenati, verso i nostri simili e verso le piante e animali. I nativi d’America, nell’andare a caccia non dimenticavano mai di ringraziare gli animali che uccidevano, consapevoli del loro sacrificio necessario alla sopravvivenza della tribù. San Francesco ci lascia un grande inno di gratitudine nel ‘Cantico delle creature’, dove nulla viene dimenticato nelle cose esistenti e nella bellezza del nostro mondo, per valore e significato. Nell’episodio dei lebbrosi, raccontato nel Vangelo, solo uno dei lebbrosi si getta ai piedi di Gesù, grato della guarigione ottenuta, guadagnandosi la salvezza. Nelle fiabe la gratitudine viene riconosciuta e compensata: “…e fu così che il re diede in sposa la figlia…”, “ …fu trasformato in un bellissimo principe…”, “…venne liberato da…”, “…ebbe in dono ricchezze…”. Nel suo ultimo scritto ‘Gratitudine’, Oliver Sacks (1933-2015), medico neurologo e scrittore britannico, consegna il suo congedo alla vita, consapevole che sta per morire di cancro. Si tratta di un gioioso bilancio dei suoi amori, dei suoi studi, dei suoi libri: un commosso ringraziamento alla vita, riconoscente perché i suoi scritti e i suoi libri sono stati utili a chi ha letto e condiviso. Scrivere, afferma Sacks, è un privilegio che merita gratitudine; scrivere la verità, non necessariamente la bellezza. Il breve, intenso scritto che Oliver Sacks lascia sulla soglia dei suoi 80 anni, “…grato di essermi grati”.

La gratitudine dovrebbe essere una pratica costante, consapevole, piena, perché tutti abbiamo qualcosa di cui ringraziare e da riconoscere come dono proveniente dall’esterno. “Le persone che ci rendono felici sono affascinanti giardinieri che rendono le nostre anime un fiore”. Lo sosteneva Marcel Proust, ed è proprio questo. “Svegliandomi ogni mattina, vedo il cielo blu. Unisco le mani in segno di ringraziamento per le tante meraviglie della vita e per aver altre 24 ore nuove di zecca davanti a me” (Thich Nhat Hanh). E poi c’è il poeta romano Trilussa, che ci spiega come la gratitudine assuma mille sfaccettature: un gatto che, esaurite le sue aspettative su un pasto a base di pollo, se ne va sfiduciato e un cane che rimane, grato di poter consumare anche solo le ossa… Realismo significativo, ma che lascia comunque qualcosa su cui riflettere. Rimane il fatto che un “grazie” indirizzato nel giusto orientamento, un riconoscimento di qualcosa o qualcuno che merita, un sorriso, un cenno di assenso, un apprezzamento, ci alleggerisce l’esistenza, ci rende quel senso di giustizia di cui abbiamo bisogno, dà un significato a ciò che facciamo e a ciò che gli altri fanno per noi. Grazie!

Roberto Vecchioni racconta Storie di felicità

Non ci sono ricordi di una carriera musicale, concerti, canzoni o spettatori. Ma momenti di vita, semplici, puri bellissimi, quelli di un cantautore che è stato ed è felice, che ama la vita e le sue mille sfaccettature, che cura i sentimenti con parole e pensieri. Nel suo ultimo libro ‘La vita che si ama. Storie di felicità’, Roberto Vecchioni incanta il lettore, veleggiando fra poesie e ritratti, versi, citazioni classiche e richiami lirici che fanno emergere l’amore immenso per la moglie e i quattro figli e la fiducia nella vita. C’è anche Saffo, tra tutti.

Il tempo passa, la felicità va catturata, imbrigliata, Vecchioni suggerisce come farlo. Essa non scompare, al contrario, resta in eterno, va solo capita e (ri)vissuta ogni giorno, facendo tesoro dei momenti felici, piccole cose e momenti che vivono con noi e attraverso di noi. Il testo è diviso in 13 lettere immaginarie dedicate ai figli, missive da inviare loro per trasmettere la gioia e la bellezza di piccoli attimi di vita quotidiana del cantautore-professore che orientano e riorientano ogni giorno la sua esistenza. Vicende che rappresentano attimi immensi di felicità, momenti da condividere e ricordare, da portare con sé. In ogni racconto compare un personaggio chiave, dallo studente brillante che rischia di essere bocciato all’esame di maturità a cause delle sue pene d’amore, fino al padre giocatore e alla madre affettuosa, a un improbabile Chomsky, sfidato a scacchi, o allo stesso Vecchioni che, ogni anno, imperterrito, sistema le luci di Natale nella casa vicino al lago, oasi di serenità.

A chiudere le lettere, bellissimi testi di canzoni dedicate ai figli. La preferita di Vecchioni è ‘Quest’uomo’, in cui il cantante grida l’incapacità di stare lontano dagli amati Edoardo, Arrigo, Carolina e Francesca, per cui ringrazia la sempre presente Daria, moglie e artefice di queste meraviglie. Felicità, forza della parola, bellezza e, allo stesso tempo, difficoltà di essere padre sono i filoni di queste avvolgenti e incantevoli pagine. Contro l’“educazione alla performance” a tutti i costi che domina le nostre vite e, nei momenti più difficili e di sofferenza, difendendosi con la cultura. Ricordando Dostoevskij.

 

Roberto Vecchioni La vita che si ama. Storie di felicità, Einaudi, 2016, 160 p.

Ferrara ebraica tra memoria e presente: da Bassani al Meis pensando al futuro

Tutto pronto per l’inaugurazione. Attentamente controllate le mail con i ‘consigli’ scrupolosamente inviatici per accedere al Meis, estratto dall’armadio il cappotto blu di cachemire triplo, di solito indossato per qualche prima alla Scala, esumato il Borsalino (quello piccolo, più serio di quello a larghe tese), cravatta Hermès d’antan, giacchetta blu ovviamente quella di cachemire e il fazzoletto di seta grigia, che ha ormai due secoli e ho indossato sempre in occasioni speciali, quali quelle di testimone ai matrimoni dei nipoti.
Il taxi l’avevo prenotato il giorno prima, ma una telefonatina di conferma scatta lo stesso. Passo a prendere la mia collega, la professoressa Portia Prebys, curatrice del Centro studi bassaniani, da lei donato alla città di Ferrara. Eroicamente, dopo aver assunto le medicine che le permettono di fare qualche passo senza soffrire troppo, sbarchiamo davanti alle ex-carceri, ora sede del Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah e ci mettiamo in fila, mentre ragazzine saputelle, ma consce del loro compito, scrupolosamente controllano una serie di nomi che sembra non finiscano più. Ma non ci era stato detto che saremmo stati un centinaio al massimo? Al controllo, dopo aver depositato tutto il metallo che possedevamo siamo scrupolosamente palpati. Sto per passare quando fulmineamente mi ricordo d’aver le bretelle con i ganci in ferro. Lancio un urletto e avverto il palpatore. Mi guarda come fossi uno scemo, dice che quelle non contano, mentre febbrilmente penso alle solite truffe dei cinesi che ti vendono ganci di ferro mentre si tratta (forse) di pane masticato e tinto color acciaio.
Nella fila parallela s’accende una diatriba imponente. La voce la conosco: per forza è uno delle archistar fiorentine, che tra l’altro svolge anche il ruolo di rabbino e mio caro amico. Sta sgridando un pezzo grosso dell’organizzazione che non vuol far passare la figlia di Bassani. Alla fine entriamo e siamo di nuovo affidati alle cure di una gentil giovanetta, che indaffaratissima a passo svelto ci fa traversare il giardino. In una specie di recinto riconosco gli amici giornalisti e i fotografi in preda a orgasmo da scatto. Miro e siam mirati mentre la giovane affretta il passo. Afferro la pochette di Portia, le do il braccio e ansimanti arriviamo a una scala. Un secco invito: “terzo piano, salite le scale”. Imploro un ascensore mi si risponde falsamente che non c’è; e infine approdiamo sudaticci e doloranti al loco del desire. Sono le ex celle maschili dove s’aggirano animule vagule e per nulla blandule, sorvegliate dagli occhi di ghiaccio di immusoniti camerieri che servono frittelle fredde – mi pare – e spumantino nelle classiche flûtes di plastica. Uno schermo televisivo sovrasta il tutto.
Portia sfinita s’appoggia al muro; chiedo una seggiola, mi si risponde quasi in un sibilo che non ce ne sono. Domando che la vadano a prendere. Mi guardano con disprezzo. Afferriamo al volo la solita giovanetta chiedendole di portarci di sotto e controllare se, forse, per caso, accidentalmente, non si fossero sbagliati nell’assegnarci la postazione. In fondo la professoressa Prebys è sicuramente una grande benefattrice della cultura ferrarese ed ebraica. Discendiamo le scale che tanto fiduciosamente avevamo salite poi la donzelletta sparisce e ci appare una dama sontuosamente pittata che ha una grossa cartella di fogli misteriosi. Consulto febbrile, conferma che il nostro posto era la piccionaia. Saluta frettolosamente con un ancor più frettoloso ‘scusatemi’ e se ne va. Vediamo allora una importante rappresentante della cultura ferrarese che rivela l’inganno. Non solo gli ascensori ci sono, ma lei stessa l’aveva preso il mattino per la conferenza stampa e non si dà pace della bugia. Ma è ragione di sicurezza!! Sì, penso, va bene però in qualsiasi luogo pubblico, anche d’interesse minore, si debbono predisporre soccorsi per i non abilissimi a sopportare tre ore in piedi, non a dispetto ma proprio in favore della sicurezza. E se qualcuno si fosse sentito male?
Mestamente ripercorriamo il giardino per uscire inseguiti dai flash dei fotografi che ci chiedono ragione della ritirata. Proseguiamo incuranti dei richiami, mentre la fila dei perdenti che s’ingrossa sempre più come a Waterloo s’avvia all’uscita. Incrocio il Sindaco in compagnia del vescovo, che mi guarda con occhio interrogativo. Gli sussurro “lo saprai”. All’uscita l’archistar s’avvia a prendere il treno per Firenze, le signore sconfitte salgono su grandi macchine e noi siamo soccorsi da un autista che ben conosciamo, che affettuosamente ci riaccompagna a casa. Sono le 17.14.
Il presidente Mattarella sta per arrivare: silenziosamente.
La sera si scatena l’inferno. Mi chiamano i giornali cittadini chiedendo conto della ritirata, insinuando motivi volgarotti e banali. Se la prendono con i dirigenti del Meis, che ovviamente non hanno colpa se le direttive – come è assodato – provengono dall’ufficio di sicurezza del Quirinale. Devo promettere smentite feroci per le illazioni. Prebys e io collaboreremo sempre con il Meis, non ce l’abbiamo con loro anzi! Se perfino il rav di Ferrara non può sedere tra gli immortali 70!
Per fortuna la sera rivedo un film di Woody Allen, ‘Tutti dicono i love you’, con le riprese dei miei luoghi dell’anima: Venezia e Parigi. E ancora una volta mi domando: “Ma che ci faccio a ‘Ferara’?” Poi penso: “Va beh! È sempre la mia città”. Soffocando dentro il commento finale che detto in francese suona più fico: “Helas! (Ahimè!)”.

Il giorno dopo ci aspetta una importantissima cerimonia. Per non essere sconfitti ancora e almeno assicurarci una seggiola, un panchetto, un gradino, arriviamo quasi un’ora prima. Tutto è impeccabile. I nostri nomi a lettere di fuoco son stampati sui seggi che ci appartengono e rilassato posso alfine dedicarmi ai cari amici Foscari che avevo incontrato la sera prima anche loro diretti in piccionaia.
Il premio ‘Città di Ferrara’ viene assegnato quest’anno a Ferigo Foscari E’ simboleggiato da un ippogrifo che non sale in cielo, ma è destinato a coloro che si sono particolarmente distinti e che hanno contribuito a valorizzare il prestigio della nostra città. La motivazione dell’assegnazione a Ferigo Foscari Widmann Rezzonico è per aver donato alla città il manoscritto de ‘Il Giardino dei Finzi Contini’ di Giorgio Bassani, attualmente custodito alla biblioteca Ariostea. Alla cerimonia erano presenti il consigliere di Stato, in rappresentanza del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Daniele Ravenna, il presidente della Fondazione Meis, Dario Disegni, il sindaco del Comune di Ferrara, Tiziano Tagliani, il vicesindaco Massimo Maisto e il direttore della Biblioteca Ariostea di Ferrara, Enrico Spinelli, che svolgeva il ruolo di padrone di casa. Alla fine della cerimonia gli invitati, rappresentanti della politica, della cultura e dell’associazionismo ferrarese e nazionale, si sono trasferiti nel giardino della Biblioteca, antico orto botanico di Palazzo Paradiso, un tempo sede dell’Università della città, dove è stata scoperta una lapide in memoria di Teresa Foscolo Foscari, nonna del donatore e musa ispiratrice del romanzo più conosciuto del grande scrittore, che ha ravvisato nella nobildonna veneta la figura di Micol e a cui il manoscritto del romanzo era stato affidato e donato.
La raffinata introduzione di Enrico Spinelli ha messo in luce l’aspetto più propriamente scientifico del manoscritto, la sua straordinaria importanza per chi si voglia dedicare alla ricostruzione delle fasi che portano poi al momento della costruzione di un romanzo, o di una poesia. La filologia al servizio della storia. Ferigo Foscari ha tratteggiato il ritratto della nonna: una donna imperiosa, ma straordinariamente capace di riservare il meglio di sé alla difesa dell’ambiente e del paesaggio, non a caso il rapporto con Bassani è rafforzato dal comune impegno in Italia Nostra. Lo svelamento della lapide a lei dedicata posta in una parte del giardino di Palazzo Paradiso a cui s’accede per raggiungere l’ala dedicata alla biblioteca d’imminente apertura dedicata ai bambini e ai ragazzi è stato un momento di delicata poesia quando Ferigo nello svelare la lapide ha detto che la nonna ora sta in Paradiso pensando al nome del palazzo mentre suo padre Tonci Foscari raccoglie una foglia dal tappeto giallo che la centenaria Ginkgo Biloba ha sparso per terra a rendere omaggio a una donna straordinaria e alla generosità di suo nipote.

Al Meis in mostra primi mille anni di Y-Tal-Ya, l’isola della rugiada divina

di Riccardo Gnudi

“Il primo lotto che inauguriamo è costituito dall’ex-carcere di Ferrara ristrutturato in modo impeccabile per essere adibito a una nuova destinazione d’uso: in una sorta di contrappasso da luogo di segregazione ed esclusione quale è stato per tutta la durata del Novecento si appresta ad assumere il ruolo quanto mai significativo di centro di cultura, di ricerca, di didattica di confronto e dialogo e quindi in una parola di inclusione”. Con queste parole il Presidente della Fondazione Meis Dario Disegni ha aperto mercoledì mattina, 13 dicembre, la conferenza stampa di presentazione della prima grande mostra del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, ‘Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni’in quello che una volta è stato il corpo principale delle carceri cittadine.
All’incontro con la stampa, oltra a Disegni, hanno partecipato il ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini, il sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, il responsabile delle attività culturali di Intesa Sanpaolo Michele Coppola e Daniele Jalla, curatore della mostra insieme ad Anna Foa e Giovanni Lacerenza.
“L’apertura del primo grande edificio del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah con questa mostra che abbiamo chiamato ‘Ebrei una storia italiana. I primi mille anni’ – ha continuato Disegni – rappresenta una tappa di grandissima rilevanza della realizzazione del museo istituito dal Parlamento della Repubblica. Il MEIS verrà poi completato entro la fine del 2020 con la costruzione di cinque edifici moderni connotati da volumi che richiamano i cinque libri della Torà”, dando così vita ad un grande complesso museale e culturale. “Decisivo per il raggiungimento di questo grande obiettivo il supporto del ministero dei Beni e delle Attività Culturali del Turismo che ha garantito l’intera copertura economica del cantiere grazie al forte sostegno del Ministro Franceschini”, ha concluso il Presidente della Fondazione Meis.

Un momento della conferenza stampa al Meis

Lo stesso Franceschini ha sottolineato la propria emozione: “E’ una giornata personalmente emozionate perché arriva a compimento di un percorso che è iniziato molti anni fa, è un segnale di grande attenzione da parte di tutto lo Stato con la presenza del Presidente della Repubblica questo pomeriggio”. E, da ferrarese, il titolare del Mibact non ha rinunciato a evidenziare ancora una volta il doppio filo che lega Ferrara con la Ferrara ebraica: “Molti mi hanno chiesto perché Ferrara: perchè Ferrara nei secoli di difficoltà ha accolto con solidarietà la comunità ebraica, perché Ferrara è conosciuta nel mondo per Bassani, ‘Il Giardino dei Finzi Contini’, un luogo che esiste, se non concretamente nella città, certo nei nostri cuori ma che non esiste . L’ebraismo a Ferrara è dentro le pietre, dentro le persone. A Ferrara c’era la Nuta, con il suo negozietto in via Mazzini, dove ho potuto conoscere cose meravigliose: la cucina dello storione e del caviale secondo le ricette ebraiche tramandate di generazione in generazione. La cultura ebraica si è incrociata con la vita di tutte le persone”. Tornando al progetto del museo nazionale dell’ebraismo e della Shoah, Franceschini ha affermato: “E’ un impegno che si è concretizzato prima con la legge poi con i finanziamenti, che consentono di completare questo progetto nella parte che vediamo oggi e nella parte che di architettura contemporanea”, che sarà costruita da qui al 2020. “Penso che ci sia un grande futuro a livello internazionale per questo museo, siamo stati insieme al Presidente Disegni e Simonetta Della Seta a presentare il Meis a Gerusalemme e New York e abbiamo trovato una grandissima attenzione perché la storia degli ebrei italiani è conosciuta in tutto il mondo forse più che in Italia. Portare qua i giovani significa investire in conoscenza, investire in conoscenza significa offrire l’antidoto più forte a tutti i rischi e le paure di questo tempo”, ha concluso il Ministro.

La parola è poi passata al sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani: “Io, Renzo Gattegna e Carla Di Francesco abbiamo avviato questo percorso nel periodo tra le due disposizioni normative che regolano l’esistenza del Meis tra il 2003 e il 2006, un ruolo il nostro diverso, ma con una decisione e una caparbietà seconda solo al Ministro nel portare a compimento un’opera significativa per il nostro paese. Non dobbiamo dimenticare il ghetto, i secoli successivi, il contributo che gli ebrei hanno dato alla Prima guerra mondiale. Non dimentichiamo quella classe borghese ricordata nella video rappresentazione di Carrada che ci richiama alla presenza del podestà ebreo di Ferrara, che ha vissuto il passaggio dal governo della città alle leggi razziali e alle persecuzioni. Voglio ringraziare tutti coloro che hanno partecipato a questa storia, credo ci sia stata una collaborazione importante tra la città e il Meis”.

Nel corso della mattinata, infatti, è stata inaugurata anche l’installazione multimediale ‘Con gli occhi degli ebrei italiani’, a cura di Giovanni Carrada – autore di ‘Superquark’ – e di Simonetta Della Seta, direttore del Meis, con la ricerca iconografica di Manuela Fugenzi, la regia di Raffaella Ottaviani e la colonna sonora di Paolo Modugno. Ai visitatori, stretti fra due grandissimi schermi, l’installazione immersiva offre la possibilità di fare un viaggio nel tempo con l’intento di coinvolgere fin dall’inizio il pubblico nei temi che il percorso espositivo del Meis esplorerà.

Una sorta di introduzione a una vicenda che pochi conoscono davvero: la storia degli ebrei e dell’ebraismo in questo paese, perché la loro è una storia che a scuola non si insegna, se non per parlare della Shoah. Una storia che il Meis, una volta completato, narrerà per intero. La mostra inaugurata mercoledì pomeriggio dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che non a caso si intitola ‘Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni’, narra l’inizio di una vicenda che, fra alti e bassi, dura da 22 secoli, e che ha caratteri del tutto peculiari rispetto alle altre vicende della Diaspora: I-Tal-Ya in ebraico significa “l’isola della rugiada divina”. Lo fa in uno spazio di più di mille metri quadrati e oltre duecento oggetti preziosi, manoscritti, epigrafi di età romana e medievale, e centoventuno tra anelli, sigilli, monete, lucerne e amuleti, poco noti o mai esposti prima, provenienti dai musei di tutto il mondo: dalla Genizah del Cairo al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dai Musei Vaticani alla Bodleian Library di Oxford, dal Jewish Theological Seminary di New York alla Cambridge University Library.
L’obiettivo dei curatori e del Meis è suscitare riflessioni, attraverso la scoperta e la conoscenza di una parte della nostra storia poco nota: un indiretto invito a porsi domande e a ricercare le risposte, che oggi, a differenza del passato, non possono prescindere dai valori del riconoscimento e del rispetto dell’altro e del diverso.

‘Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni’ e ‘Con gli occhi degli ebrei italiani’ saranno aperti fino a domenica 16 settembre 2018. Sono visibili dal martedì al mercoledì e dal venerdì alla domenica dalle 10.00 alle 18.00, e il giovedì dalle 10.00 alle 23.00. Giorni di chiusura: tutti i lunedì, 31 marzo (primo giorno di Pesach), 10 settembre (primo giorno di Rosh Hashanà) e 19 settembre (Kippur).
Maggiori info su www.meisweb.it

Le raccolte differenziate

È raddoppiata in dieci anni la raccolta differenziata in Italia; lo dice il Rapporto Ispra uscito pochi giorni fa: dal 25,8% del 2006 si è passati al 52,5% nel 2016 (+5% rispetto al 2015), anche se il Paese rimane in ritardo rispetto all’obiettivo fissato per il 2012 (65%).
In Provincia di Ferrara va meglio: il confronto tra alcuni dati sulla produzione di rifiuti e sulla raccolta differenziata nel territorio dei comuni ex Area mostra che in sei anni si è passati da una produzione di rifiuti complessiva di 634 kg/ab a 490 kg/ab e la raccolta differenziata è passata dai 273 Kg/ab ai 365 Kg/ab. Un bel segnale di miglioramento. Il confronto è tra il 2010, quando tutto il territorio era servito con sistema a cassonetti, e il 2016, primo anno di porta a porta a regime in tutti i Comuni soci. Nel primo semestre del 2017 sono stati raccolti 13.230.077 Kg e si è superata ampiamente la percentuale del 70% di raccolta differenziata: un grande risultato che ha permesso anche quest’anno di annoverare diversi Comuni soci di Clara tra gli esempi di buona gestione nella rassegna annuale di Legambiente Emilia Romagna sui Comuni Ricicloni (premiati a Carpi proprio lo scorso 27 novembre).
La credibilità del sistema di raccolta differenziata e delle aziende operanti nel settore è fondamentalmente basata sulla necessità di offrire garanzie circa il rispetto degli obiettivi non solo in termini di percentuali di rifiuti raccolti in modo differenziato, ma anche in termini di qualità del differenziato stesso. Confondere ancora tra raccolto e riciclato non conviene a nessuno, né utilizzare differenti criteri per definire le percentuali dei quantitativi raccolti.
Per coniugare questi vari fattori è necessaria l’adozione di strumenti collaudati e credibili, finalizzati ad aiutare le aziende ad organizzare le attività, razionalizzando i processi e riducendo le diseconomie ma, che al tempo stesso, offrano gli opportuni canali per valorizzare gli sforzi profusi e i traguardi raggiunti. Maggiore trasparenza deve essere posta ad esempio sui criteri con cui raggiungere dette percentuali, smascherando in alcuni casi risultati apparentemente positivi, ma ambientalmente discutibili. Clara infatti per l’organico, la carta e il vetro effettua delle periodiche gare per ottenere il miglior beneficio economico (che in una valutazione di mercato in crescita tende ad essere molo variabile). Questa analisi economica del valore del materiale serve anche per sfatare la leggenda metropolitana che il valore del materiale fa arricchire chi lo raccoglie (e dunque l’impresa).
È inoltre complesso stabilire quale sia la soglia oltre la quale i benefici del recupero di materia sia vantaggiosa rispetto ai costi da sostenere e dunque cercare di far emergere la convenienza delle forme di recupero; ciò dipende anche in buona misura dall’effettiva risposta dei cittadini alle raccolte differenziate, dalla praticabilità di soluzioni come la raccolta porta a porta o il compostaggio domestico, ma anche da altre circostanze. Rimane allora da valutare quali sia la migliore soluzione possibile e per fare questo serve una analisi di dettaglio sia del materiale immesso sia della capacità di raccolta differenziate e della possibilità di reale riciclo. A questo proposito vale la pena ricordare che per “raccolta differenziata” si intende quanto separato alla raccolta in base al tipo e alla natura dei rifiuti (anche alla fine di facilitarne il trattamento), mentre per “recupero” si intende ogni operazione utile all’utilizzo di materiale in sostituzione di altri.
Lo spirito guida della programmazione deve tendere alla ricerca del massimo riciclo (non della massima raccolta differenziata), indipendentemente o comunque senza limitarlo dal raggiungimento di uno specifico obiettivo generale che potrebbe essere non il massimo raggiungibile. E’ importante allineare tutti gli ambiti su livelli omogenei di raccolta differenziate, sempre però senza limitare le iniziative laddove tale obiettivo è stato raggiunto ed in cui è possibile ottenere risultati ancora migliori. Opportuno dunque definire con criteri innovativi le raccolte differenziate (possibilmente con obiettivi di riciclo per materiale, calcolato sulla base dell’immesso in sintonia con le direttive europee).
La composizione merceologica dei rifiuti urbani (in peso e in volume) sta cambiando negli ultimi anni con la crescita delle frazioni secche (carta, plastica, vetro, metalli) rispetto alla frazione organica. Da un confronto di diverse analisi sulla composizione in peso dei rifiuti, l’organico costituisce circa il 30% dei rifiuti urbani, la plastica e gomma circa il 13-15%, la carta e il cartone il 25-27%, il vetro il 5-7% , i metalli il 3-5%.
L’analisi della destinazione dei materiali derivanti dalle operazioni di raccolta differenziata è diventato un elemento fondamentale per la trasparenza del servizio prestato e per la garanzia di rispettarne le regole. I cittadini talvolta infatti sono scarsamente motivati alla collaborazione perché temono che poi il risultato finale non corrisponda a quello dichiarato; in troppi permane infatti ancora il dubbio che “tutto poi finisca in discarica”. Abbiamo dunque il dovere di certificare l’avvenuto riciclaggio con procedure e regole chiare, meglio se controllate e appunto certificate da terzi autorizzati per tale attività (vedi tracciabilità). Anche la qualità del materiale raccolto legato ai concetti di impurità e scarto è un tema che richiederebbe maggiore attenzione. Deve crescere la consapevolezza che il materiale pulito da impurità (altri materiali) ha una migliore possibilità di riciclo e dunque un valore maggiore. Argomento conseguente e di grande importanza è la realizzazione di concrete forme di incentivazione o di premio ai cittadini particolarmente virtuosi e dunque solo chi supera con il proprio contributo la media ottenuta sul territorio.

PERSONAGGI
Wisenthal: il cacciatore di nazisti

Mi guardavo attorno, dalla nebbia bagnata sbucavano, sferragliando e cigolando sulle rotaie, i tranvai: significava che la vita era ripresa nella mia città d’adozione, così diversa da quella lenta dov’ero nato, qui ognuno aveva una meta da raggiungere il più in fretta possibile. Il ragazzo con il cabaret delle brioches, o meglio, delle ‘ofelle’, sgambettava veloce per raggiungere il bar dove, ogni mattina, il vecchio che leggeva il giornale seduto a un tavolino, lo guardava e immancabilmente dava voce alla sua corsa: “ti, pirlèta, porta una pasta, ma senza crema, che la fa mal, t’è capì? ufelè fa el to mestè.”
Insomma, mi guardai attorno e mi dissi: “siamo a Milano”. Avevo appuntamento quella mattina con un signore che conoscevo di fama, un personaggio che mi intimidiva e, insieme, m’incuriosiva: Simon Wiesenthal. Due anni prima aveva individuato e fatto arrestare in Argentina il famigerato Eichmann, l’uomo che aveva inventato e gestito, con l’ordine di un buon imprenditore, i campi di sterminio, tra le sue mani insanguinate erano passati milioni di ebrei e di antifascisti. Quasi tutti morti, ma sempre con il proprio numero tatuato sul braccio.

Simon Wiesenthal era venuto a Milano per presentare quello che sarebbe diventato un grande best- seller, ‘Gli assassini sono tra noi’. Raggiunsi il luogo dell’appuntamento, una camera di uno squallido appartamento nell’ex ghetto milanese, una scrivania e un armadio pieno di scartoffie. Era stimolante il vecchio Wiesenthal, anche se non parlava molto, pensai che mi sarei dovuto inventare una parte dell’intervista. Mi disse della sua prigionia nel campo di Mauthausen, delle sofferenze, della morte di tante persone, che venivano prelevate e non tornavano più. Io sentivo il groppo in gola ingrossarsi e non riuscivo a inghiottirlo, fu in quei momenti che ricordai un documentario visto al cinema-teatro Ristori subito dopo la guerra. Quando la mamma disse “bambini andiamo al cinema” fu una festa: dopo tre anni si tornava alla vita, allo spettacolo, al divertimento. Ci sedemmo nelle poltrone di prima galleria e aspettammo con ansia l’inizio, ma prima c’era un documentario sulle truppe alleate che aprivano le porte del campo di sterminio di Mauthausen: centinaia, migliaia, di cadaveri nudi, sembravano stracci, erano stati donne e uomini, avevano amato, sperato, sofferto. Morti ammazzati, torturati, gasati. Fuggimmo, per la prima volta comprendemmo che cosa era stata la guerra. Non dormii per diverse notti e ora, pensavo, avevo davanti a me uno di quegli esseri che soltanto il caso aveva preservato.

Wiesenthal mise le mani tra i pacchi di libri sulla sua scrivania, ne trasse uno e me lo porse, era ‘Gli assassini sono tra noi’. Poi spiegò che era a Milano soprattutto per rintracciare uno dei più stretti collaboratori del dottor Mengele, il famigerato medico vicinissimo a Hitler, quello che faceva esperimenti obbrobriosi sui bambini dei lager. Il suo obiettivo si chiamava Rajakovitz e a Milano aveva fondato una società di import-export, la Raja in viale Maino, la circonvallazione interna che di notte si riempiva di puttane e di magnaccia. Quando però giungemmo negli uffici della Raja, qualcuno ci aveva preceduto e gli armadi erano stati ripuliti. Non soltanto gli assassini sono tra noi, anche le spie. Di Rajakovitz non si è mai più avuta notizia. Sparito, assorbito da questa società complice.

Ricostituzione di Radicali Ferrara. Emma Bonino e i Babbi Natale

Da Comitato promotore Radicali Ferrara

A metà dicembre a Ferrara, dopo alcuni anni di assenza, si ricostituisce l’associazione Radicali Ferrara, in sintonia con l’ultimo Congresso di Radicali Italiani e per sostenere la lista +Europa di Emma Bonino. Proprio mentre crescono pericolosamente i populismi e le nuove destre, ammiccanti a segnali fascisti e ai naziskin, come babbi natale tutti i principali attori della politica annunciano insostenibili doni elettorali: chi una flat tax al 15 per cento che aprirebbe un pauroso buco di bilancio, chi i tagli delle tasse in deficit, anziché riducendo la
spesa pubblica e, infine, chi propone un reddito di cittadinanza che costerebbe 17 miliardi anziché tagliare la spesa e gli sprechi; il tutto avviene lasciando intatti i principali problemi da cui dipende il futuro del Paese.
La propaganda su bonus e tasse, senza riforme strutturali, è fallimentare in un paese che spende 70 miliardi l’anno in interessi sul debito. Con questi babbi natale non c’è futuro. Per non parlare, un esempio fra i tanti, della volontà di introdurre il vincolo di mandato, aspetto che accomuna Berlusconi al M5S, contro la saggezza dei
costituenti, contro un principio liberale che sta alla base della democrazia rappresentativa. Invece noi crediamo che per affrontare le grandi questioni del nostro tempo occorrano risposte più ampie e responsabili e che queste le possano dare solo un’Italia più europea in un’Europa unita e democratica. Per avere – anche in Italia – più crescita, più diritti, più democrazia, più libertà, più opportunità, più sicurezza, più responsabilità, più rispetto dell’ambiente, serve più Europa. Servono idee e politica, non babbi natale elettorali.

Perché cambiare tutto a scadenza contratto?

Da Comitato Mi Rifiuto

Provate ad immaginare di vivere in un appartamento in affitto il cui contratto di locazione sta per scadere dopo pochi mesi. La casa ha bisogno di una costosa ristrutturazione. Pensate che il proprietario dell’immobile vi dica di provvedere voi a sistemare tutto, a vostre spese ma, ci tiene a sottolineare, non è certo che alla scadenza del contratto ne sarete voi il beneficiario. Potrebbe essere un’altra persona e tutto quello che voi avete speso andrebbe perso. Voi accettereste?
Questo è solo un esempio, per indicare l’attuale situazione esistente tra Hera S.p.A. e il Comune di Ferrara. Hera ha investito milioni di euro nel cambiare un sistema di raccolta rifiuti, le famigerate Calotte, quando mancavano pochi mesi alla scadenza del bando che in teoria dovrebbe essere rinnovato a fine dicembre 2017. E’ scontato che vi sarà una proroga, altra usanza abbastanza conosciuta da Hera che già opera in prorogatio in altri capoluoghi di regione.
Hera in risposta a dei quesiti formulati da un altro comitato ha dichiarato che l’introduzione del nuovo sistema a calotte “è stata una scelta del comune di Ferrara che ha preferito anticipare il conseguimento dell’obiettivo del 70% di differenziata entro il 2020, evitando il rischio di una penalizzazione in caso di mancato rispetto dell’obiettivo per ritardi nell’assegnazione della gara”. E’ questo un improvviso sforzo di etica da parte di una società per azioni quotata in Borsa? Uno slancio umanitario, rivolto esclusivamente al bene della collettività?
Qualcosa non ancora quadra o per lo meno non convince.
Per ritornare al nostro esempio iniziale, nessuno di noi accetterebbe di ristrutturare un appartamento dove ne godrà i benefici un’altra persona, a meno che il proprietario ci garantisca che tutto quello che abbiamo speso ci venga restituito se e quando dovremo lasciare casa o se lo stesso ci assicuri che, quando arriveremo a scadenza contratto, il rinnovo sarà a nostro favore. Nessuna persona assennata butterebbe un sacco di denaro in un contesto di totale incertezza e senza poterne beneficiare dei risultati.
Ecco perché ad oggi le domande rimangono forti nella testa. Cambiare tutto, darsi da fare e sobbarcarsi tutti gli oneri, non solo economici, di una intera manovra come quella di rivoluzionare la mente dei cittadini in un processo di raccolta rifiuti, per puro spirito di servizio all’ente comunale?
Inoltre, nell’affermazione succitata, è la stessa Hera a fornirci altre incertezze: il comune richiede di anticipare di due anni una procedura di raccolta per non incorrere in una penalizzazione in caso di ritardi nell’assegnazione della gara. Ci domandiamo, perché agire in regime di necessità ed urgenza, quando la situazione avrebbe potuto essere affrontata nel 2018, ponendo al vaglio anche proposte di altri gestori, se non per giustificare la prorogatio?
Una recente sentenza ANAC ha ribadito le sue forti perplessità in merito all’applicazione della proroga, che ritiene essere una metodologia poco funzionale alle esigenze del pubblico interesse. Continuiamo a rimanere perplessi, attendiamo ora che le domande poste a Hera abbiano una risposta dalla giunta comunale, quale detentrice dell’interesse pubblico e, purtroppo anche privato, in qualità di socio Hera.

Quando la cannabis diventa una cura

E’ stato approvato da poche settimane un disegno di legge per far in modo che la cannabis terapeutica sia regolamentata a livello nazionale. Una legge che rivoluzionerebbe la vita di migliaia di persone che si affidano a questo tipo di cura, soprattutto per il dolore cronico. Elisabetta è una di loro: una donna che da anni combatte con una serie di patologie e, grazie alla cannabis, aveva ritrovato una serenità nella sua vita. Serenità che, però, le sta venendo meno. Ecco il perché.

“Sono affetta da varie patologie neurologiche che mi hanno portato negli anni a soffrire di dolore cronico. Sono stata curata con antidepressivi e flebol, farmaci dati per la cura del dolore cronico. E poi ancora oppiacei, morfina, ma sono diventata farmaco-resistente. Aggiungiamo anche varie allergie che mi hanno portato questi trattamenti, uniti a blocchi intestinali. In sintesi non posso più usare questa tipologia di farmaci. A questo punto, fortunatamente, non mi sono scoraggiata e ho iniziato a cercare delle soluzioni su Google, fino ad arrivare alla cannabis terapeutica. Ma qui c’è un primo ostacolo: dove andare? I malati non sanno a chi rivolgersi. Io poi ho iniziato il trattamento due anni fa e la situazione era anche peggiore rispetto a oggi. Il primo input è stato quello di andare all’ospedale di Pisa, visto che la Toscana all’epoca era all’avanguardia. Una volta lì, esaminata la mia documentazione medica che attestava la farmaco-resistenza, mi hanno inserita subito nel protocollo di cura“.
Secondo problema: dove reperire il farmaco – continua Elisabetta – Sempre internet mi è stato utile e ho trovato una farmacia nel ferrarese. Terzo problema: aspetto economico. Quando ho iniziato la cannabis costava 30 euro al grammo. Adesso siamo scesi sui 9 euro (esclusi, naturalmente, i costi vivi della farmacia)”.
E anche dopo aver iniziato la cura, prosegue Elisabetta, i problemi non sono finiti: “non c’è nessuno che ti dica quali siano gli effetti, non c’è un bugiardino, e non sapevo a chi chiedere. Da qui è nata l’idea del gruppo facebook ‘dolore e cannabis terapeutica‘ come luogo di confronto tra persone. Su questo servirebbe una migliore triangolazione tra paziente, farmacista e medico. Il fattore ansia va tolto”.
Passando ora ai lati positivi: “Dopo due sere di decotto, comunque, ho notato una cosa: sono riuscita a dormire, dopo anni nei quali non avevo più dormito un’intera notte. Un po’ di più ho dovuto aspettare per l’abbassamento della sensazione di dolore. Da lì, sempre attraverso le mie ricerche, ho trovato un medico privato, esperto in cannabinoidi, il quale mi ha fatto un piano terapeutico ‘su misura‘. Da questo momento c’è stata la svolta: dal decotto sono passata a oli e vaporizzatori e dolore, tremore e i sintomi che non mi permettevano di parlare o mangiare bene, erano sotto controllo. Una vera e propria rincorsa al benessere oltre che alla salute. Un aumento della qualità della vita e della dignità del dolore”.

Qui, però, la storia di questa coraggiosa donna prende una strana piega. “Adesso sta succedendo una cosa che fa rabbia a me e a tutti i malati soggetti a questa terapia: non abbiamo più la continuità terapeutica. E questo si traduce nel riacutizzarsi dei sintomi e in un calo della qualità della vita. Ho due possibilità di cura: bedrocan e bedica. Il primo è ancora presente in qualche farmacia, ma non si sa per quanto. Il secondo, invece, è terminato e fino alla fine di gennaio non ci sarà possibilità di importazione. Il bedica, per far capire la mia preoccupazione, è il farmaco che mi permette di dormire, di mangiare: in pratica, nel mio piano terapeutico, è fondamentale. Il bedrolite, invece, molto usato dai bambini e da chi soffre di epilessia, non si trova addirittura da maggio. Si va verso una fine anno drammatica: io stessa rischio di tornare in ospedale. Vorrei sottolineare che la paura di tornare al dolore, espone i malati a qualsiasi rischio, anche quello di rivolgersi a degli spacciatori, per disperazione”.
Di fronte a Elisabetta, nella sede comunale del Gruppo Consiliare Sinistra Italiana, c’è Leonardo Fiorentini, da sempre impegnato sul fronte della legislazione sulla cannabis terapeutica, che aggiunge ironicamente: “rischia anche meno che coltivarsela in casa”. Prosegue poi Elisabetta: “in Canada si coltiva per i malati in centri appositi. Qui ci stanno completamente ignorando. Abbiamo fatto una diffida mandata all’Aifa, al Ministero della Salute e alla Procura della Repubblica di Roma a inizio ottobre e non ci hanno ancora risposto, nonostante siano legalmente passibili di querela perché hanno sei settimane per rispondere. Siamo abbandonati a noi stessi.” E Fiorentini aggiunge: “Molti i malati che si curano con la cannabis, sono visti come drogati, se riuscissimo ad approvare la legge sulla cannabis terapeutica almeno affermeremo il diritto alla cura. Sempre tramite questa legge ci saranno fondi per l’aumento della produzione dell’Istituto farmaceutico militare di Firenze, che al momento produce solo un tipo di cannabis, ne dovrebbe produrre anche un altro. Questa proposta normativa però autorizza l’Istituto a rivolgersi a coltivatori terzi, soprattutto i colossi canadesi, statunitensi e israeliani, che possono fornire la sostanza. E’ una legge ‘innocua’ che dovrebbe passare in Senato, soprattutto perché non c’è nulla sull’uso ricreativo e, purtroppo, è stata tolta anche la possibilità di coltivazione da parte di chi è malato”. Già perché chi è malato, se coltiva per uso terapeutico, incorre nell’arresto anche se dimostra di farlo per terapia.

Sul finire di questa intervista Elisabetta aggiunge che “l’importante per noi malati è aumentare l’importazione e gli importatori. Tutti gli Stati hanno almeno quattro produttori, noi ne abbiamo solo uno. Questo aumenterebbe anche la possibilità di avere prodotti diversi e quindi fare terapie mirate per ogni soggetto. Ogni fisico reagisce in maniera personale alla cannabis e quindi la terapia va ‘cucita’ addosso al paziente. Assicuro che quando si trova il giusto dosaggio con il giusto tipo di cannabinoide, si sta bene. Faccio un esempio: quest’estate sono riuscita a fare trekking alle Cinque Terre, adesso sono qui messa così, sulla sedia a rotelle. Per tornare al lato economico, aggiungo che qui e in poche altre regioni la cannabis è rientrata tra i medicinali a carico del sistema sanitario, in altre no, il che crea gravissimi problemi perché ci sono delle resine, usate soprattutto in campo oncologico, che costano migliaia di euro al mese.”

Elisabetta conclude con questo accorato appello: “Spero tanto che lo Stato si muova e faccia qualcosa perché le persone stanno male, e non è giusto che stiano così.”

Costituzione dell’Associazione Politico Culturale Ferrara in Comune.

Da Francesco Monini

Ferraraincomune è una nuova associazione politico-culturale, costituita da un gruppo di cittadine e cittadini che intendono impegnarsi per elaborare e attuare proposte per la città di Ferrara.
L’azione di ferraraincomune vuole opporsi e lavorare per costruire un’alternativa al pensiero e alle scelte che, in questi anni, hanno messo al centro il mercato e le sue priorità, quel neoliberismo che ha acuito le disuguaglianze economiche e compresso verso il basso le condizioni di vita, i diritti del lavoro e di cittadinanza, ridimensionato le tutele sociali e l’intervento pubblico, considerati l’ambiente e i Beni Comuni come semplici merci da sfruttare, ridotto il ruolo e la pratica della democrazia, esaltato lo spirito individualistico.
La nostra città, vista la sua economia debole e le scelte dei governi locali centrate sulla riduzione del debito, ha subito più di altre i colpi della crisi più lunga del dopoguerra e presenta oggi una società impoverita, interi quartieri con segni di degrado urbano e fenomeni di disagio sociale. Le cifre della disoccupazione, specie giovanile e femminile, l’allargarsi del lavoro precario e sottopagato, l’aumento delle famiglie che vivono sotto la soglia di povertà, fotografano in modo drammatico i problemi di fondo che Ferrara, i suoi cittadini, il suo governo devono affrontare per risalire la china e porre le basi per un futuro migliore.
Ferraraincomune ritiene che la strada da imboccare debba essere prima di tutto quella del rilancio della democrazia e della partecipazione. Nella nostra città assistiamo, infatti, ad un progressivo inaridirsi dei luoghi dove i cittadini singoli e organizzati sono chiamati a discutere, controllare e giudicare le scelte operate dalla amministrazione pubblica come dalle aziende municipalizzate o dalle multiutility concessionarie di servizi pubblici. I problemi della Ferrara presente, come i progetti per la Ferrara futura, non devono rimanere confinati nell’aula del Consiglio Comunale e nelle polemiche tra i partiti, ma occorre sperimentare nuove sedi e nuove forme di rappresentanza e di cittadinanza attiva.
Non partiamo però da zero. Ferrara esprime anche una grande ricchezza sociale e culturale: sono moltissimi i soggetti, i gruppi, le associazioni culturali e di volontariato sociale che lavorano attivamente in campi e su problemi specifici. Manca però una realtà che interconnetta nel loro complesso le grandi questioni che stanno alla base del vivere urbano, e proprio qui starebbe l’ambizioso progetto di ferraraincomune.
L’associazione politico-culturale ferraraincomune, collaborando con tutte le associazioni cittadine interessate, ritiene quindi urgente intervenire su alcuni temi cruciali (anche se altri potranno aggiungersi) e su cui costruire proposte coraggiose e innovative per la nostra città:
• la sperimentazione di nuove forme decisionali e di controllo ispirate alla democrazia partecipativa;
• il rilancio e la qualificazione di politiche più efficaci rivolte all’accoglienza e all’integrazione, a partire dai migranti;
• l’adozione di misure rivolte alla promozione del lavoro dignitoso e di qualità;
• l’elaborazione di nuove linee nel campo della cultura e dell’istruzione, con particolare attenzione alla dimensione di base e delle periferie;
• la valorizzazione dell’ambiente naturale e urbano;
• l’affermazione dei Beni Comuni, promuovendone la gestione pubblica e partecipata.

Chiunque sia interessato a partecipare o a maggiori informazioni su ferraraincomune può scrivere a ferraraincomune@gmail.com.

Demografia, migrazioni, accoglienza: alcune riflessioni politically (in)correct

Secondo i dati Istat (aggiornati al 31 dicembre 2016) la popolazione residente in Italia è di 60.589.445 persone, di cui 5.026.153 di cittadinanza straniera, pari all’8,3% del totale. Tra questi, i cittadini non comunitari regolarmente presenti in Italia sono 3.931.133, il 78% del totale di stranieri censiti. Mediamente pertanto, 1 cittadino su 12 è straniero, un rapporto però che è estremamente variabile in funzione dei territori che si prendono in considerazione: notoriamente la popolazione straniera si concentra nel Centro-Nord, che ospita quasi l’84% del totale, mentre il Sud ospita un assai modesto 11% e le Isole circa il 5%.
A Milano, Brescia e Prato per esempio, la percentuale sfiora il 19% mentre a Palermo è inferiore al 4%; quote appena superiori si riscontrano a Bari, Catania e Foggia (4%); a Trento la percentuale è dell’11%, mentre a Ferrara si assesta intorno al 10%; a Monfalcone arriva quasi al 21% (dati Istat 2017).

Il tasso di crescita del numero di stranieri residenti in Italia appare in tutta evidenza se si confrontano i dati dei censimenti a partire dal 1961, anno in cui ne furono registrati 62.780; nel censimento del 1971 erano 121.116 e nel 1981 ammontavano a 210.937. Nel censimento del 2001 si registravano già 1.334.889 presenze straniere mentre, nell’ultimo censimento del 2011, il numero era salito a 4.027627 (Fonte: Italia in cifre 2016, Istat). In sintesi il numero di stranieri nel nostro Paese risulta quintuplicato in meno di 20 anni: si tratta della crescita relativa più marcata registrata tra i paesi europei per i quali sono disponibili i dati.
Dal lato degli ingressi, ad alimentare il numero degli stranieri in Italia concorrono non solo le migrazioni dall’estero (il saldo migratorio annuale è positivo con oltre 200 mila stranieri), ma anche i tanti nati nel nostro Paese da genitori entrambi stranieri, le cosiddette seconde generazioni. Dal 2008 le nascite da coppie non italiane sono più di 70 mila all’anno, nonostante una lieve diminuzione tra il 2013 e il 2014. Dal lato delle uscite, oltre alla mortalità e alla cancellazione per l’estero o per altre cause, si registra un numero crescente di persone che ogni anno da straniere diventano italiane (178 mila nel 2015, più di 200.000 nel 2016 per un totale di oltre 1.150.000 persone che hanno ottenuto cittadinanza italiana).

E’ noto che la popolazione straniera residente in Italia presenta una struttura demografica molto diversa dalla popolazione di cittadinanza italiana: per quest’ultima l’indice di vecchiaia (ossia il rapporto tra popolazione ultra sessantacinquenne e popolazione con meno di 15 anni) è il più alto d’Europa con 176 anziani ogni 100 ragazzi, mentre per la popolazione straniera è di 15 anziani ogni 100 ragazzi, il valore più basso dell’Unione. La popolazione straniera è molto giovane (età media sotto i 34 anni), anche se con notevoli differenze tra i diversi gruppi. In generale, la quota di ragazzi (0-14 anni) fra gli stranieri è superiore di 5 punti percentuali a quella che si riscontra fra gli italiani nella stessa fascia d’età. La classe di età tra 15 e 39 anni pesa per il 45% sul totale della popolazione straniera, mentre in quella italiana pesa per poco più del 26%. Al contrario le persone con 65 anni e più fra gli stranieri hanno un’incidenza di poco superiore al 3%, mentre nella popolazione italiana si avvicinano al 24%.

La composizione per genere della popolazione straniera in Italia è mediamente equilibrata (51,4% femmine). Secondo il rapporto Istat sui cittadini non comunitari questo equilibrio nasconde però situazioni molto differenti fra le diverse origini: alcune nazionalità, come quella ucraina, sono sbilanciate al femminile, mentre fra gli originari del Bangladesh, per esempio, si registra una prevalenza maschile. Per diversi gruppi l’equilibrio tra i sessi è stata una condizione raggiunta nel tempo, come nel caso dei marocchini per i quali si registrava in passato un più netto squilibrio a favore dei maschi.

Tutti, italiani e stranieri regolarmente residenti, vivono in un bellissimo paese, caratterizzato però da una disoccupazione media superiore all’11%, da una disoccupazione giovanile che viaggia da tempo tra il 35 e il 40%, dal drammatico ridimensionamento dello Stato sociale, da una corruzione diffusa e dalla forte presenza di organizzazioni di stampo mafioso fortemente radicate e inserite nei circuiti istituzionali. L’Italia, inoltre, è caratterizzata da una pressione fiscale esagerata sulle imprese (68% dei profitti secondo i dati Cgia Mestre), con oltre 9 milioni di italiani a rischio povertà che non ce la fanno più (fonte: AdnKronos); un paese dal quale emigrano (fuggono) italiani con un’incidenza che, secondo l’Ocse porta l’Italia all’ottavo posto mondiale nei paesi di provenienza delle nuove migrazioni (subito dopo il Messico e davanti a Vietnam e Afghanistan) con cifre che vengono stimate mediamente superiori ai 200.000 casi (fonte: Il Sole24ore, 6 luglio 2017). Un paese dal quale moltissimi giovani spesso preparati e formati emigrano in nazioni che consentano loro di mettere a frutto i propri talenti (Regno Unito e Germania in primis) e, infine, un posto nel quale sembra non si riesca a incidere su privilegi scandalosi: pensioni d’oro, baby pensioni, buonuscite faraoniche, falsi invalidi e falsi ammalati.

E’ all’interno di questo quadro generale estremamente complesso che va collocato il flusso migratorio della rotta mediterranea: quello dei barconi e delle ong, quello più drammatico e assai verosimilmente quello più fuori controllo; quello più attenzionato dai media che qui trovano una miniera dalla quale estrarre di volta in volta notizie strappalacrime di bimbi spiaggiati o violenze perpetrate sulle donne, prevaricazioni sui migranti o violenze gratuite sui residenti italiani, torbide storie di sesso e corruzione, equamente distribuite tra stampa di destra e sinistra, ma comunque ottime per attrarre l’attenzione, aizzare gli animi, commuovere o indignare e, naturalmente, vendere. Quel flusso che è ormai diventato per molti cittadini sinonimo di ogni tipo di migrazione, che è invece cosa molto più vasta e complessa e che alimenta il gigantesco business dell’accoglienza.

Il sito Unhcr (Agenzia Onu per i rifugiati) segnala che gli arrivi via mare regolarmente registrati in Italia sono stati nel corso del 2017 (al 31 novembre) oltre 121.000, che si aggiungono ai 181.486 del 2016, ai 154.000 del 2015 e ai 170.000 dei 2014 e ai 40.000 del 2013, per un totale di oltre 650.000 persone arrivate sulle coste italiane negli ultimi cinque anni. Il dato ovviamente non tiene conto nè dei flussi che arrivano via mare senza essere intercettati (di cui nulla si può sapere) nè dei flussi che passano per altre possibili rotte indirette (di cui poco si dice e si parla). La medesima fonte, liberamente consultabile e costantemente aggiornata, mostra che i paesi di origine sono soprattutto quelli dell’Africa nera subsahariana, zona dalla quale proviene oltre il 75% degli sbarchi dell’ultimo anno. Il medesimo sito offre anche una rappresentazione sintetica per genere (novembre 2017): da qui si apprende che tra gli arrivati via mare in Italia il 74,5% sono maschi mentre solamente 11% sono femmine, essendo il rimanente 14,5% rappresentato da minori. Questi ultimi sono spesso di età compresa tra i 14 e i 18 anni e in grandissima maggioranza maschi, seppure con forti variazioni relative agli stati di provenienza. In tale situazione è ragionevole pensare che una quota almeno pari ad 85% degli sbarchi totali registrati sia rappresentata da maschi giovani e giovanissimi di età compresa tra i 14 e 30 anni.
A sostegno di tale stima nel rapporto Istat già menzionato, pubblicato il 17 ottobre di quest’anno, s legge: “la composizione di genere dei richiedenti asilo è particolarmente squilibrata, nell’88,4% dei casi si tratta di uomini. La quota di donne più elevata, poco meno del 24%, si registra per la Nigeria, scende al 12% per la costa d’Avorio e si colloca sotto il 3% per tutte le principali collettività arrivate in Italia in cerca di protezione. I minori rappresentano il 3,2% dei flussi in ingresso per queste motivazioni”.

Questa composizione di genere fortemente polarizzata è decisamente allarmante per un paese caratterizzato da una forte carenza di posti di lavoro. Ed è inquietante per una certa cultura che negli ultimi decenni ha fatto della parità di genere una bandiera, costretta oggi a confrontarsi con realtà culturali assolutamente diverse, spesso caratterizzate da un rapporto maschile-femminile assai lontano dallo stereotipo (apparentemente) dominante in occidente.
Tenuto poi conto che, secondo i dati del Ministero dell’Interno, i dinieghi alla richiesta di asilo sono stati il 58% nel 2015 e il 60% nel 2016 e che la proporzione di rifugiati riconosciuti come tali è molto bassa (mediamente 5% ai quali vanno aggiunte le richieste sussidiarie ed umanitarie accettate) ci si devono porre molte domande sul senso e la qualità di quella che viene definita ‘accoglienza’; nonché sulle motivazioni, sulle risorse, sulle aspettative che spingono e sulle modalità che muovono così tanti giovani ad assumersi il rischio e il costo (dai 1.000 ai 3.000 euro secondo alcune stime) di un viaggio così lungo e pericoloso; un viaggio semplicemente impensabile senza la presenza di informazioni, persone, organizzazioni, reti di collusione e di corruzione, capaci di costruire una solida domanda e quindi un florido mercato.

Di cosa dovrebbero dunque vivere e cosa dovrebbero fare mezzo milione di giovani maschi approdati sulle coste italiane senza compagne, senza famiglia, senza competenze e con poche risorse relazionali in loco che ne facilitino l’inserimento? In che modo dovrebbero regolare la naturale esuberanza giovanile? Che vita dovrebbero condurre una volta usciti dal circuito della prima accoglienza? In che modo dovrebbero guadagnarsi da vivere senza scivolare loro malgrado nella delinquenza o dipendere dai sussidi pubblici o dalla possibile carità dei privati?

Più in generale che l’intero sistema dell’integrazione non funzioni così bene come alcuni professano, trapela dalla composizione della popolazione carceraria: piaccia o meno, i dati mostrano che la percentuale di detenuti stranieri nelle carceri italiane è del 27% (ed è quasi esclusivamente composta da maschi) vale a dire 3,5 volte maggiore di quanto ci si aspetterebbe se i crimini che causano la detenzione fossero equamente distribuiti tra popolazione residente italiana e straniera. Inoltre, piaccia o meno, i dati confermano che le piazze dello spaccio e della prostituzione in molte città italiane sono ormai in mano a specifiche etnie arrivate negli ultimi anni e (purtroppo) non di rado attraverso i percorsi della cosiddetta ‘accoglienza’. Accoglienza che, lo dice il nome stesso, non può essere imposta con la forza senza che si trasformi in qualcos’altro.

Poiché tuttavia, grande è il timore di superare i limiti violentemente imposti dal pensiero unico politicamente corretto ed è oggettivamente molto difficile cercare di comprendere il fenomeno migratorio affrontandolo francamente e da diverse prospettive, resta più che mai vivo il pregiudizio rancoroso su cui si reggono le argomentazioni delle opposte fazioni dei contrari e dei sostenitori dell’accoglienza obbligatoria, e più in generale, dei tanti che non vogliono neppure tentare di capire la realtà. Una situazione che rende più difficile ogni tentativo di trovare (doverose) soluzioni innovative (che pure esistono) e di intervenire con successo in un sistema globale che produce sempre più emarginati (di tutte le razze e nazioni) e li mette in competizione tra di loro. Una situazione non propriamente ottimale anche in vista della campagna per le prossime elezioni dove il tema migrazione, c’è da scommetterci, sarà usato da destra e da sinistra come una clava per conquistare consensi.

Fonti

Ministero dell’Interno. Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione
Report Istat cittadini non comunitari 2015-2017
Istat Popolazione in Italia
Sito Unhcr – (flussi migratori nel Mediterraneo)
Ministero della Giustizia – Popolazione carceraria in Italia
Il Sole 24ore – (Italiani ch emigrano all’estero)
La Stampa – (Stime deI costi dei viaggi)

Il porta a porta: la scelta di Clara

In Italia il sistema di raccolta tradizionalmente più diffuso è ancora quello che utilizza i contenitori stradali, in grado di intercettare mediamente il 34% della raccolta differenziata; si sta però progressivamente diffondendo in molte zone, tra cui i territori in cui opera Clara, il porta a porta.
Sul porta a porta da tempo si è sviluppato un interessante dibattito che vale la pena riprendere. L’applicazione di questa forma gestionale, infatti, sta diventando uno dei temi principali di confronto sia economico che gestionale. Ecco alcune considerazioni di merito con qualche valutazione:

  • Questa soluzione gestionale in determinati contesti permette risultati significativi nel raggiungimento degli obiettivi e dovrebbe avere maggiore spazio; in alcune realtà potrebbe tuttavia comportare maggiori costi per il gestore.
  • Ogni territorio, avendo la sua specificità, raggiunge obiettivi di raccolta differenziata diversi rispetto a zone con caratteristiche differenti; il porta a porta ottiene le performance più elevate nei comuni fino ad 80.000 abitanti circa.
  • È fondamentale il coinvolgimento di quella larga fascia d’utenza non domestica che rappresenta una grossa quota quali-quantitativa nelle raccolte differenziate; produttori di oltre il 50% dei rifiuti con qualità del loro rifiuto selezionato. Bisogna spingere in particolare bar, ristoranti, fruttivendoli, uffici, negozi, etc. con specifici servizi dedicati e sistemi di raccolta porta a porta adattati ai loro bisogni.
  • L’attivazione di circuiti di raccolta domiciliari per la frazione organica (con una elevata e capillare frequenza), consente la riduzione della frazione putrescibile nel residuo.
  • Il porta a porta aumenta il coinvolgimento dei cittadini e consente un rapporto (controllo) più diretto. La raccolta puntale permette frequenti, metodiche e costanti informazioni sui livelli raggiunti, sul grado di impegno e sui risultati ottenuti per aree.
  • Il Porta a porta migliora la qualità del materiale raccolto riducendo impurità e scarto.
  • Aiuta a valorizzare la definizione nell’applicazione della Tariffa. Il sistema puntuale di raccolta favorisce una migliore conoscenza economica da parte degli utenti coinvolti.
  • Un tema importante e spesso difficilmente affrontabile (purtroppo) è la valutazione economica ed il confronto di convenienza per un presunto costo elevato legato al basso livello di industrializzazione del servizio; vede dunque sfavoriti le grandi città e le zone ad alta densità urbanistica.

Clara ha dato una crescente attenzione al porta a porta, con importanti risultati sia in termini di qualità del servizio sia in termini recupero di materia. Oggi tutti i Comuni del medio e basso ferrarese (ex Area) e quattro dei cinque comuni dell’alto ferrarese (tutti a eccezione di Vigarano Mainarda e la località Sant’Agostino di Terre del Reno) vengono gestiti con sistema porta a porta. L’avvio del sistema domiciliare in ogni comune, avvenuto gradualmente a partire dal 2010, è stato preceduto da campagne capillari di comunicazione, con visite a domicilio, incontri pubblici e dettagliati materiali informativi. È chiaro, infatti, che senza l’adesione e la comprensione da parte dei cittadini, un metodo simile – che richiede indubbiamente uno sforzo partecipativo maggiore da parte dei singoli individui – non potrebbe funzionare.
Ogni anno, per ciascun Comune servito, vengono predisposti uno o più calendari (in base alle zone in cui è suddiviso organizzativamente il territorio comunale). Per agevolare il compito dei cittadini i calendari stampati vengono consegnati insieme al Kit annuale di sacchi oppure distribuiti tramite posta o tramite agenzie di recapito. È inoltre sempre possibile consultarli e scaricarli dal sito istituzionale dell’azienda (www.clarambiente.it), selezionando il proprio Comune e la zona di riferimento.

Clara ha evidenziato la sua convinzione sull’efficacia del porta a porta anche nel ‘Manifesto per la rinascita dei rifiuti’, il documento presentato in occasione dell’assemblea costitutiva della nuova società, che raccoglie i valori e i modelli della nuova società. Nel Manifesto si afferma che per raggiungere elevati livelli di recupero di materia c’è solo un metodo di lavoro: il porta a porta. Raccogliendo casa per casa ogni genere di rifiuto in maniera differenziata, ma soprattutto attivando un principio di responsabilità nei confronti di ciascun cittadino, che a fronte di un maggiore impegno richiesto, garantisce risultati qualitativi e quantitativi molto più elevati. I risultati sono facilmente misurabili: nei Comuni Clara serviti con sistema porta a porta l’indifferenziato avviato a smaltimento è passato dai 361 Kg pro capite del 2010 (quando tutti i comuni erano ancora serviti con cassonetti stradali) ai 125 kg medi pro capite del 2016. Ed è aumentata proporzionalmente la raccolta differenziata: la media territoriale è salita dal 43,39% del 2010 al 74,43% del 2016.
Importante, nel Manifesto, anche un principio che spesso viene utilizzato in modo critico da chi non è convinto sul porta a porta, giudicato dispendioso: “Tutto questo porta anche a un significativo aumento dell’occupazione, a parità di costi per la collettività. Infatti, invece di spendere denaro per conferire i rifiuti indifferenziati in impianti/discariche o inceneritori/termovalorizzatori, le risorse vengono investite nel maggiore personale necessario sul territorio per la gestione del servizio porta a porta. Con un beneficio per le comunità locali”.
Il ciclo dei rifiuti urbani e la gestione degli stessi (raccolta e smaltimento) hanno un profondo impatto sull’ecosistema, sull’economia dei servizi pubblici, ma anche sulla salute e sulla politica industriale di un territorio. La conoscenza di questi impatti è un elemento fondamentale per la qualità del processo e deve essere messa a disposizione di tutti gli interlocutori del sistema per perseguire un’attenta politica ambientale orientata alla sostenibilità utilizzando importanti strumenti di rating.
È importante poter dialogare informando, facendo conoscere i pro e i contro di ogni soluzione tecnica e gestionale, coinvolgendo sugli obiettivi e sui principi, ricercando la collaborazione dei cittadini affinché i servizi possano essere utilizzati nel modo migliore e le modalità di informazione siano percepite trasparenti, diffuse e condivise.

‘Musicanti!’: fotocronaca di una banda che marcia in Archivio comunale a Ferrara

‘Musicanti! Le bande marciano in Archivio’. Ed è quello che hanno fatto veramente i musicisti della Banda di Cona, salendo gli scaloni di palazzo Paradiso per andare a suonare nella sala dove si trova la tomba di Ludovico Ariosto in Biblioteca Ariostea a Ferrara in occasione dell’evento organizzato alla biblioteca stessa per celebrare l’acquisizione da parte dell’Archivio Storico Comunale di un consistente nucleo di spartiti e documenti musicali storici. L’Associazione MusiJam (emanazione della disciolta Banda cittadina Francesco Musi) e la Filarmonica Giuseppe Verdi di Cona hanno infatti trasferito all’Archivio comunale la parte più antica dei rispettivi archivi musicali. Circa 40 metri lineari di antichi faldoni sono così approdati nell’Archivio in via Giuoco del pallone 8 a Ferrara, per costituirvi uno speciale Fondo dedicato alla Musica di Ferrara tra Otto e Novecento.

Banda Giuseppe Verdi in Ariostea (foto Valerio Pazzi)
Tutte le età all’opera (foto Valerio Pazzi)
Esecuzione per “Musicanti!” (foto Valerio Pazzi)
Presentazione (foto Valerio Pazzi)

[clicca sulle immagini per ingrandirle]

I faldoni contengono gli spartiti musicali scritti per i complessi bandistici cittadini che, nell’arco di due secoli, hanno divulgato in città il grande repertorio artistico italiano ed europeo. Gli autori, infatti, presenti in archivio, sono quelli dei grandi operisti italiani (Verdi, Rossini, Bellini, Donizetti, Puccini, Mascagni), di musicisti francesi (Bizet, Gounod, Massenet) e austro-tedeschi (Mozart, Beethoven, Strauss, Meyerbeer, Wagner), proposti nelle trascrizioni dei direttori che, di tempo in tempo, guidarono le Bande cittadine:

Banda Giuseppe Verdi in Biblioteca Ariostea – Ferrara novembre 2017 – foto Valerio Pazzi

Benone, Finotti, Giori, Mariani, Vaccari, ma anche Pellegrino Neri e di Francesco Musi. La documentazione è alla base di un progetto di conservazione e di valorizzazione delle fonti musicali antiche di Ferrara che trova dunque nell’Archivio storico comunale un importante punto di riferimento dedicato alla Musica dell’Otto-Novecento.

‘Trombe, Tromboni e Grancassa – Le bande musicali, civili e militari, nella documentazione dell’Archivio storico comunale di Ferrara’ è la mostra sul tema, visitabile in Archivio storico comunale, via Giuoco del Pallone 8, Ferrara, tel. 0532 418243. Aperta gratuitamente fino a venerdì 1 dicembre 2017, orari 9-14 e giovedì anche 15-18

Musica in Biblioteca Ariostea (foto Valerio Pazzi)
La Giuseppe Verdi in Ariostea (foto Valerio Pazzi)
La Banda, 25 novembre 2017 (foto Valerio Pazzi)
Evento per le bande (foto Valerio Pazzi)

[clicca sulle immagini per ingrandirle]

Per saperne di più sul Fondo musicale dell’Archivio storico comunale di Ferrara vedi articolo su CronacaComune del 3 novembre 2017 www.cronacacomune.it/notizie

Il reportage fotografico è di Valerio Pazzi.

LA FOTONOTIZIA
Luci accese per l’albero di Natale 2017

Mancano ormai ‘solo’ 23 giorni e da sabato pomeriggio a Ferrara è ufficialmente arrivata l’atmosfera natalizia.
Pochi minuti prima delle 18 infatti si sono accese dell’albero di Natale cittadino tra la facciata impacchettata del Duomo e il Volto del Cavallo. Tanti i ferraresi che hanno osservato con il naso all’insù illuminarsi il loro albero, sì perché quest’anno sono stati proprio loro a scegliere come decorarlo attraverso l’APP Capodanno a Ferrara: tra l’oro, l’argento e il rosso è stato proprio quest’ultimo a vincere.

Dopo un lungo viaggio dal comune di Lizzano, che lo ha donato in quanto destinato all’abbattimento, l’abete di oltre 12 metri di altezza è arrivato a Ferrara qualche giorno fa per essere addobbato ramo per ramo con luci intermittenti con continui cambi colore, con 30 grandi stelle luminose e 70 grandi stelle colorate.

Foto reportage a cura di Valerio Pazzi. Clicca sulle immagini per ingrandirle. Buona visione!

BORDO PAGINA
Serata in ricordo di Vitaliano Teti, regista e videomaker: intervista ad Alberto Squarcia

Martedì 5 dicembre alle ore 21,00 al Cinema Boldini di Ferrara, proiezione del film ”Inseguendo il cinema che spacca i cuori” in omaggio al regista e fondatore della Ffc Vitaliano Teti, scomparso a maggio di quest’anno.
Intervista ad Alberto Squarcia, Presidente Ferrara Film Commission, curatore dell’evento.

Alberto, il 5 dicembre il primo ricordo ufficiale in memoria di Vitaliano Teti, un approfondimento della serata?
Vitaliano Teti è stato al mio fianco non solo per la più recente Ferrara Film Commission, ma negli anni della gestione della Porta degli Angeli. Eravamo 6 associazioni riuniti in una Rta (Rete Temporanea di Associazioni). Sono stati anni belli e intensi nei quali abbiamo presentato complessivamente 58 mostre d’arte con performance, danza, video arte, musica e teatro.
Una bella esperienza che si è interrotta quando i rapporti con alcune associazioni della Rta si sono logorati e quando, finito il mandato, la Porta degli Angeli è passata dalla Circoscrizione al Comune.
Dopo un periodo di “meditazione” ho pensato che a Ferrara mancava una associazione libera e indipendente che si occupasse di cinema e dato che il vero amore di Vitaliano era l’arte del cinema, il cinema d’autore e la video arte, ha subito aderito al mio progetto. Vitaliano Teti insegnava infatti video arte e tecniche di comunicazione all’Università di Ferrara e presiedeva un’ associazione che si chiama “Ferrara Video & Arte”.
Abbiamo fondato quindi tre anni fa insieme ad altri soci fondatori la Ferrara Film Commission.
Vitaliano ha combattuto a lungo contro la grave malattia che lo aveva colpito; nel frattempo non ha mai smesso di creare, pensare e realizzare cinema e il suo ultimo prodotto insieme al fraterno amico Alessandro Raimondi è stato proprio il docu-film che andremo a presentare il 5 dicembre al cinema Boldini: Inseguendo il cinema che spacca i cuori.
Un film che nasce da una intervista a Gabriele Caveduri che ha percorso in prima persona tutte le vicende del cinema e delle sue sale a Ferrara. Racconta la propria vita di cinefilo iniziata negli anni ’70 alla Sala Estense con l’Arci, fino alla gestione del mitico cinema Manzoni in via Mortara. Una vita per il cinema indipendente intercalata con viaggi anche curiosi e divertenti ai grandi festival come Cannes e Venezia; conoscenze di grandi star del cinema e rassegne importanti a Ferrara che hanno segnato la fantasia e la cultura di chi era giovane in quegli anni, si intercalano nel film, che merita essere visto perché racconta la nostra città, il cinema e il declino delle piccole sale…..un’alchimia che è adattabile a qualsiasi città della provincia italiana.
Massimo Maisto, vice Sindaco e assessore alla Cultura di Ferrara con Paolo Micalizzi, noto critico cinematografico e Presidente onorario della Ffc, Anna Teti, sorella di Vitaliano, Alessandro Raimondi co-regista e per ultimo Gabriele Caveduri, ci introdurranno al film e a come è stato realizzato. Il ricordo di Vitaliano, che ci ha lasciato a maggio, si farà più intenso con la proiezione extra di un breve corto in cui lo si può ammirare nei suoi momenti migliori e felici.
Il grande progetto di Vitaliano Teti fu un festival di Video Arte “The Scientist”, arrivato alla sua VIII edizione dal 2007 al 2015).
La Ferrara Film Commission sarà lieta di collaborare con le persone che hanno realizzato con Vitaliano il festival “The Scientist”. Pensiamo che il festival di video arte ideato da Vitaliano debba continuare, o con noi o senza di noi ….Vitaliano lo voleva e la Video Arte che lui amava, praticava e insegnava ha visto in lui, come pochi altri in città, un sostenitore e un divulgatore.
Abbiamo saputo durante la conferenza stampa che si è tenuta in Comune, che l’Università di Ferrara dedicherà a Vitaliano Teti la bellissima aula piena di computer e di tecnologia dove lui insegnava ai giovani e futuri registi e tecnici della comunicazione come realizzare corti, documentari e film e dove trasmetteva con passione e amore la sua conoscenza.

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Vitaliano Teti biografia
The Scientist Video Festival Internazionale