Skip to main content

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Umanesimo e metamorfosi, l’ultima opera di Edgar Morin

L’umano porta in sé l’avventura dell’universo e l’avventura della vita. In questo senso, l’umano è un microcosmo, a immagine dell’universo.
Ma l’avventura dell’umanità può trasformarsi in una folle avventura che rischia il sublime e l’orribile, per Edgar Morin la mente umana viaggia verso due avventure disgiunte.
L’una cerca all’esterno di svelare, e perfino di possedere, i segreti del mondo fisico, della vita, della società, e ha sviluppato una scienza capace di conoscere tutto, ma incapace di conoscersi e che oggi produce non solo “elucidazioni benefiche, ma anche accecamenti malefici e poteri terrificanti”.
L’altra avventura cerca, all’interno di sé, di conoscersi, di meditare su ciò che sappiamo e su ciò che non sappiamo, di nutrirsi di poesia vitale, di sentire il commovente, il bello, il mirabile.
La prima è l’avventura conquistatrice della trinità scienza/tecnica/economia. La seconda è l’avventura della filosofia, della poesia, della comprensione, della compassione.
L’ultimo libro del filosofo francese Edgar Morin, “Conoscenza Ignoranza Mistero” chiama all’appello la nostra intelligenza, accende la spia rossa, l’allarme sulla rotta del vascello spaziale Terra guidato dalla supremazia della triade: scienza/tecnica/economia.
Scienza, tecnica, economia conducono la mondializzazione, promettono all’uomo di sconfiggere la morte e di emanciparlo dal lavoro con le macchine intelligenti. Sempre più la prospettiva della post-umanità si fa immaginabile sotto diverse forme.
Ma questa prospettiva necessita imperativamente di noi, umani, e sin da ora di un pensiero della condizione e dell’avventura umane, di una coscienza delle possibilità e dei pericoli che comporta la complessità antropologica, di una coscienza di ciò che di più prezioso c’è nell’uomo.
È tragico che la metamorfosi post-umana sia cominciata sotto la spinta cieca del triplo motore scientifico/tecnico/economico, mentre la metamorfosi etica/culturale/sociale, sempre più indispensabile a questa metamorfosi resta ancora nel limbo. Peggio: la regressione etica, psicologica, affettiva accompagna la progressione scientifica, tecnica, economica.
Il sonnambulismo del mondo politico, che vive alla giornata, del mondo intellettuale cieco alla complessità, l’incoscienza generalizzata contribuiscono alla marcia verso i disastri.
Il viaggio e la destinazione sono sempre più verso la metamorfosi del post-umano, se non interviene una guida etica/culturale/sociale.
Per questo l’invito è di continuare a pattugliare ai confini della conoscenza per apprendere e sentire l’inseparabilità di conoscenza, ignoranza e mistero, perché il fiammifero che accendiamo nel buio non solo rischiara un piccolo spazio, ma rivela anche l’enorme oscurità che ci circonda. Fino a quando il sapere produrrà la consapevolezza dell’ignoranza, sarà salva la vera forza rivoluzionaria della conoscenza: l’ignoranza sapiente che conosce se stessa, come direbbe Blaise Pascal.
Altrimenti rimarremo ignoranti della nostra ignoranza, incapaci di comprendere che vivere è una navigazione in un oceano di incertezze con qualche isolotto di certezze per orientarsi e approvvigionarsi.
Conoscenza, ignoranza e mistero sono i nostri compagni in seno all’avventura cosmica, i soli che ci possono soccorrere nell’incertezza di quale parte prendere nel corpo a corpo tra Eros e Thanatos, nel sapere dove andare.
Ma è sempre più necessaria la rigenerazione di un umanesimo planetario, radicato nella Terra-Patria per evitare il regno della nuova specie dei signori che dispongono di tutti i poteri, fra i quali quello del prolungamento della vita, sull’insieme degli altri umani asserviti.
La metamorfosi biologica-tecnica-informatica necessita soprattutto di essere accompagnata, regolata, controllata e guidata da una metamorfosi etico-culturale-sociale, per evitare che macchine pensanti pensino per noi e possano dominare il destino post umano.
Per sottrarsi all’inumanità della post-umanità è necessaria una profonda riforma intellettuale e morale come resistenza all’egemonia del calcolo, del profitto, dell’egoismo. Una resistenza animata dai bisogni di realizzazione personale, di condivisione, d’amore, di vita poetica. Un umanesimo antropo-bio-cosmico, una comunità di destino di tutti gli umani sulla Terra con una comune coscienza di Terra-Patria. Da questa aspirazione e da questa doppia coscienza potrebbe nascere una nuova via per un altro avvenire.

Lessico contemporaneo molto (poco) famigliare

di Grazia Baroni*

In un mondo nel quale sta prendendo piede una struttura burocratica che, anziché fornire un servizio pubblico efficace, si affida al mercato assicurativo privato, la democrazia è in pericolo. Freud aveva previsto il rischio: “le persone sono disposte a cedere gradi di libertà in cambio di una falsa sicurezza”, diceva.
Successivamente il mercato ‘assicurativo’ ha indotto la tendenza alla ricerca di un colpevole che è funzionale alla logica del profitto. Quando si parla di sicurezza bisogna tenere conto che chi la richiede è una persona che o è suddito e non ha nessuna responsabilità, o è cittadino, libero e perciò responsabile. Di conseguenza, bisogna sempre modulare tra la persona che si realizza nella società attraverso una cittadinanza attiva e responsabile e la sicurezza di cui ha bisogno per sé e per chi gli sta attorno. Tuttavia, la sicurezza non deve mai prevalere sulla persona come valore.

Come è arrivata qui la mentalità della sicurezza?
Portando esempi parziali, giocando sull’ignoranza delle persone, confrontando dati non confrontabili e questo è stato fatto dall’informazione sostenuta in parte dai governi, in parte dalle aziende. Con una società sempre più complessa, per il cittadino è difficile raggiungere l’informazione utile e su questo hanno giocato coloro che traggono vantaggio dalla mentalità ‘assicurativa’.
Certo, c’è sempre il rischio che chi ha la possibilità, o per ruolo o per situazioni economiche o sociali, possa giocare sulla buonafede e sull’incompletezza della legge. Ma questo è inevitabile: la libertà comporta rischio. Bisogna accettare il fatto che si può sbagliare. Non prevedendo il futuro, quella di sbagliare è una possibilità concreta.

La convergenza di alcuni fattori culturali, tecnologici e socio-politici, rende urgente la necessità di chiarire il significato di alcune parole fondamentali per la nostra società democratica. Si tratta di termini o concetti che, all’apparenza, sembrano distanti e scollegati, ma che invece interagiscono in un reciproco potenziamento di effetti sulla realtà poco controllabile a causa della complessità e velocità di trasformazione sia nei suoi effetti positivi che, purtroppo, in quelli negativi.

Parliamo di concetti e parole fondamentali e caratterizzanti la nostra realtà, quali:

  • Sicurezza
  • Democrazia
  • Politica
  • Burocrazia
  • Uguaglianza
  • Giustizia

Questi concetti, nel loro interagire, stanno ricomponendosi in modo preoccupante in un pensiero che via via legittima sempre più la sopraffazione di un gruppo di persone sulle altre e che, di conseguenza, finisce per riproporre il modello autoritario del nazi-fascismo come soluzione.
Si deforma il linguaggio perché si usano queste parole sostituendo al significato originale un nuovo significato, oppure scambiando la parte con il tutto o il mezzo con il fine.

Sicurezza. Quando si parla di sicurezza, bisogna tenere conto che quando la si richiede sui luoghi di lavoro, sulle strade o nei trasporti è più che legittima e comprensibile, ma il concetto non deve essere esteso all’ambito del sociale. In questo senso si banalizza il nostro desiderio di vivere in una società accogliente e rassicurante perché pacifica chiamandolo sicurezza.
L’unico modo per rendere la società accogliente ed equa – secondo il modello della polis – è ridurre le ingiustizie sociali e sviluppare le buone relazioni. Per questo si è inventata la democrazia al posto del potere assoluto, per creare un ambiente che permetta questo processo. E’ un processo in positivo e non un processo difensivo.
Chi promette la sicurezza barattandola con spazi di libertà sa di promettere il falso perché non esiste sicurezza assoluta dal momento che il futuro non si conosce. Si può tentare di ridurre il rischio ma non promettere la sua totale e permanente eliminazione.
E’ solo dando a ciascuno pari opportunità – e quindi la possibilità di accedere ai servizi per sviluppare le proprie aspirazioni – che si arriva a una convivenza non solo pacifica, ma gratificante. Una persona soddisfatta della propria esistenza non accumula rabbia e non cerca capri espiatori.
Ma restiamo consapevoli che neanche così si elimina il rischio che qualcuno scelga di sopraffare un altro. L’uomo è tale proprio in quanto libero di scegliere.

Democrazia. Per il secondo termine, la democrazia, si scambia il mezzo con il fine, definendo come democrazia il metodo del voto a maggioranza. La democrazia è, invece, la costruzione di uno spazio di libertà comune per l’esercizio delle libertà personali per cui, nella molteplicità delle proposte possibili per raggiungere questo obiettivo, si usa il metodo di scegliere quello che la maggioranza dei cittadini riconosce come la via da percorrere.

Politica. In questa logica di ambiguità del linguaggio la politica, che è l’arte dell’uso della parola e del confronto – inventata per sostituire la guerra come metodo per conquistare e controllare un territorio – viene invece usata come esercizio del potere attraverso la corruzione e la distribuzione di privilegi.

Burocrazia. Viene usata come sinonimo di insieme dei servizi amministrativi, necessari per la gestione di uno Stato democratico, quando invece è una struttura che nasce perché un potere centralizzato abbia possibilità di controllo sull’intero Stato.
La burocrazia si rende apparentemente funzionale alla democrazia attraverso il concetto di uguaglianza dei cittadini che però riduce il cittadino ad una unità quantitativa. Riducendo il cittadino a un numero si permette la standardizzazione della procedura che è quella che certifica il funzionamento del servizio.
Essendo la procedura la garante del funzionamento del servizio, chi lavora nella burocrazia è solo responsabile di rispettare la procedura, quindi, in questa organizzazione perversa sparisce l’esercizio della responsabilità personale, negando in questo modo la democrazia nella sua essenza.

Uguaglianza. Questa parola ha due effetti perversi: uno il ridurre il soggetto a numero, l’altro il mettere in evidenza le differenze come qualcosa di negativo. Insomma, la diversità marca una distanza e una contrapposizione, anziché sottolineare il valore dell’unicità del soggetto.
La diversità, vista come valore negativo, spinge a fare tribù, a riconoscersi tra simili, perché la solitudine fa paura, e quindi porta a fare gruppo attorno a ciò che si sceglie come valore del simile, che sia il colore della pelle, la divisa o la lingua.
Alla democrazia, invece, sarebbe omogeneo il concetto di parità perché riconoscerebbe il cittadino come un soggetto unico e portatore di valori e di diritti al pari di tutti gli altri cittadini. L’unicità non permetterebbe la standardizzazione ma pretenderebbe sempre l’armonizzazione della norma alla singolarità di ogni cittadino.

Giustizia. Con la parola giustizia si definisce il desiderio umano dell’essere riconosciuti nella propria singolarità e di vedere le cose collocate al loro giusto posto; invece oggi si utilizza per indicare l’insieme delle leggi che definiscono il limite a comportamenti oltre i quali si retrocede dal livello di civiltà raggiunto. Se si sovrappone al desiderio di giustizia il valore sanzionatorio della legge si arriva al giustizialismo o allo sterminio del diverso.

Avvicinandosi il giorno delle elezioni sfruttando gli avvenimenti violenti di Macerata, o strumentalizzando e alimentando la paura dei flussi migratori, il tema della sicurezza diventa sempre più dominante. Si promette sicurezza proponendo leggi di esclusione di categorie e di gruppi sociali, di controllo di polizia e di territorio, modelli che ripropongono schemi nazionalisti e una società classista piramidale che non hanno niente a che fare con la democrazia.

Siamo sicuri che sia realistico pensare che un governo autoritario porti sicurezza?
E’ sicuro un mondo dove ogni comportamento è codificato e quindi nessuno è responsabile?
E’ certo che sia più sicuro un mondo nel quale si permette a chiunque di farsi giustizia da sé?
E’ auspicabile un mondo nel quale si toglie ai bambini e ai giovani il loro spazio di esperienza perché non c’è nessuna assicurazione che voglia coprire il rischio che comporta la loro vitalità?
E’ un mondo che risolve o che crea i problemi?

Tra la burocrazia e la sicurezza siamo arrivati a una società impersonale, senza responsabili, ma composta solo da colpevoli contro i quali soltanto la legge potrà fare ‘giustizia’.
La realtà umana e la società sono complessità che non possono essere semplificate. Bisogna rispettarle e conoscerle. Ci vogliono partecipazione e impegno da parte di ciascuno per risolverne le incompiutezze e migliorare il mondo.

*Grazia Baroni, è nata a Torino nel 1951. Dopo il diploma di liceo artistico e l’abilitazione all’insegnamento si è laureata in architettura e ha insegnato disegno e storia dell’arte nella scuola superiore durante la sua trentennale carriera. Ha partecipato alla fondazione della cooperativa Centro Ricerche di Sviluppo del Territorio (CRST) e collaborato ad alcuni lavori del Centro Lavoro Integrato sul Territorio (CELIT). E’ socia e collaboratrice del Centro Culturale e Associazione Familiare Nova Cana.
Dal 2016, anno della sua fondazione, fa parte del gruppo Molecole, un momento di ricerca e di lavoro sul bene, per creare e conoscere, scoprendo e dialogando con altre molecole positive e provare a porsi come elementi catalizzatori del cambiamento.

I colori della conoscenza: le prossime conferenze dell’Istituto Gramsci

Da Istituto Gramsci Ferrara

GIOVEDÌ 1 MARZO BIBLIOTECA ARIOSTEA FERRARA ORE 17-19

IL CORPO E LA MENTE: COME METTERLI IN RELAZIONE

Chiara Baratelli Psicoanalista

Introduce Cinzia Carantoni Wasp Project Management

Psiche e Soma dialogano continuamente. Soma registra gli eventi del corpo accaduti anche molti anni prima che si trasformano in sintomi psichici e corporei. Il corpo è sensibile a qualsiasi incontro spiacevole, anche alle parole e colpisce gli organi, e questi danno segno di aver ricevuto il colpo: una fitta al cuore, un amaro in bocca (che traduce l’amarezza) un colpo allo stomaco, una nausea reale per qualcosa che è nauseante. Le alterazioni dell’esperienza somatica possono andare da lievi e passeggere preoccupazioni ingiustificate riguardo alla nostra salute fino a convinzioni intense e persistenti per gravi minacce che si ipotizzano incombano sul fisico come nell’ipocondria. Il corpo può esso stesso essere vissuto come minaccioso (nell’anoressia mentale), oppure deformato (nel dismorfismo corporeo), oppure estraneo (nella depersonalizzazione somato-psichica). L’alterazione del rapporto tra mente e corpo può arrivare al “divorzio” tra i due. Questo ha spesso carattere difensivo, avendo lo scopo di circoscrivere alla sfera somatica uno sconvolgimento che, altrimenti, sarebbe vissuto come ancora più minaccioso.

L’incontro sarà seguito Martedi 14-3 e Martedì 21-3 da due Laboratori didattici “Il corpo e la mente: Gli Imbrogli del corpo” condotti da Chiara Baratelli Psicoanalista (2 incontri di 2 ore 17-19 presso Istituto Storia Contemporanea, Vicolo Santo Spirito 11, Ferrara)

Sono ammessi ai laboratori, oltre ai docenti iscritti, anche uditori interessati.

Per il ciclo “I colori della Conoscenza” a cura degli Istituti Gramsci e ISCO

LUNEDÌ 12 MARZO BIBLIOTECA ARIOSTEA FERRARA ORE 17-19 IL CORPO E LA MENTE: EDUCARE ALLO SPORT

Ne parlano Nicola Alessandrini Insegnante e Angela Magnanini Docente UniRoma 4

Il complesso rapporto tra mente e corpo percorre l’intero arco della filosofia occidentale, fino a raggiungere, nella modernità, le sembianze di una vera e propria spaccatura tra res cogitans e res extensa. Il divario tra la sfera psichica e quella fisica, fonte d’inesauribili dibattiti filosofici, sembra conciliarsi improvvisamente di fronte all’armonia di un gesto sportivo, dove mente e corpo cooperano all’unisono. Da qui l’importanza di un’educazione attraverso lo sport quale momento di un processo educativo che sappia concepire l’individuo come unità psico-somatica. In tal modo il corpo diventa progetto, grazie alla sua capacità di guardare avanti, di realizzare quanto ancora non c’è. Se è vero – scrive Foucault – che come corpo siamo irrimediabilmente qui, mai altrove, è anche vero che nel corpo nascono i nostri desideri, «è da lui che escono e risplendono tutti i luoghi possibili, reali o utopici». Per questo il nostro corpo è «luogo d’ogni utopia».

Per il ciclo “I colori della conoscenza” a cura di Istituto Gramsci e Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara

IL CACCIATORE DI LEGGENDE
Il tempio nascosto

CAPITOLO PRECEDENTE

CAPITOLO VII – Il tempio nascosto

Di fronte a loro apparve dalle ombre una sorta di altare in pietra. Era grande, costituito da una massiccia lastra di forma rettangolare che poggiava su due blocchi squadrati posti alle due estremità della tavola. Subito dietro l’altare spiccava un’imponente colonna cilindrica, probabilmente in granito, alta circa una decina di piedi e sulla cui superficie si distinguevano numerosi bassorilievi. A destra invece, distanziato di una decina di passi, un gigantesco totem, scolpito su una colonna calcarea generata dall’unione tra una stalattite e una stalagmite, era seminascosto dall’oscurità. Il totem raffigurava una strana chimera i cui tratti erano stati probabilmente modificati dall’azione dell’acqua che colava incessantemente dall’alto della colonna facendola brillare alla luce delle lanterne. Dalla parte opposta, a sinistra dell’altare, la superficie nera e perfettamente ferma del lago completava la scena.
I tre uomini erano nuovamente ammutoliti. Restarono immobili a guardare quella visione per parecchio tempo.
Storditi dalla sorprendente scoperta, non si accorsero che qualche passo più in là, dietro la colonna di granito, una strana creatura quasi completamente avvolta nel buio li stava osservando.

Greenstone si avvicinò all’altare. Sul ripiano di pietra si notavano quattro grossi fori levigati, probabilmente dei passanti, e dei legacci di cuoio quasi del tutto consumati che penzolavano dal bordo della tavola, l’uomo vi poggiò sopra la lanterna e, nel farlo, notò diverse macchie scure sulla superficie.
«Questo è sangue!» constatò.
«Mon Dieu, Joseph! Ci troviamo davanti a una scoperta sensazionale: un antico altare sacrificale inca situato sottoterra… Il primo mai scoperto finora!» esclamò il francese in preda all’eccitazione.
«Jacques, forse l’altare sarà antico. Ma questo sangue di sicuro non lo è…» osservò Sewell.
«Ma… che volete dire?» chiese turbato il francese.
Greenstone tirò fuori un coltello dall’astuccio di cuoio che portava agganciato alla cintura e iniziò a grattare il sangue essiccato dalla pietra: «Vedete Jacques, in questo avvallamento della pietra ce n’è una discreta quantità, una vera e propria pozza di sangue… L’incrostazione poi s’allarga sino al bordo della tavola disegnando dei rivoli. Se date un’occhiata in basso, ai piedi dell’altare, ci sono tracce di gocciolamento. Non pensate che ci sia un po’ troppo sangue per essere solo la testimonianza di un evento vecchio di secoli?»
Verdoux non rispose, fissava quelle macchie nerastre cercando di dare un senso logico alle parole dello scozzese.
Sewell continuò: «Ma la cosa che mi ha tolto ogni dubbio è questa…» indicò una chiazza biancastra che ricopriva parte dell’incrostazione, «È muffa! In altre parole la dissoluzione di questo sangue non è iniziata secoli fa… direi piuttosto settimane o giorni!»
Jacques era pallido, gocce di sudore gli imperlavano la fronte a dispetto del freddo che avvolgeva l’intera caverna. Per Greenstone non era chiaro se l’aspetto precario dell’amico fosse imputabile al retaggio della malattia o alla forte emozione del momento. Alla fine pensò che probabilmente fosse la combinazione delle due cose.
Il francese farfugliò qualcosa nella propria lingua che si rivelò incomprensibile alle orecchie dei due compagni, frugò nella bisaccia ed estrasse la bottiglietta di assenzio. Ne bevve due sorsate e, per la prima volta, l’offrì allo scozzese che declinò.
Juan, che si era spinto in avanti in perlustrazione, chiamò i due scienziati: «Professori, da questa parte… prego venite!»
Sewell imbracciò il fucile e corse dall’indio aggirando l’altare, subito imitato da Verdoux.
Arrivarono dove li attendeva Juan. Poco più avanti sulla destra dell’altare, tra la colonna di granito e il totem, alla luce delle lampade apparve un ampio braciere circolare ricavato da un unico blocco di roccia, alto più o meno tre piedi e largo il doppio, l’interno era completamente annerito e conteneva tracce di cenere. Addossata al braciere c’era un’enorme catasta di legna.
Greenstone aveva in testa mille domande a cui non sapeva dare nemmeno una risposta. Tutta la situazione aveva preso una piega strana, quasi surreale: dall’iniziale e ovvio stupore, i tre uomini erano passati a una condizione di tacita accettazione di qualsiasi nuova eventuale sorpresa dovesse via via manifestarsi.

Juan si rivolse ai due esploratori, gli occhi gli brillavano più del solito: «Ora potremo illuminare la caverna!»
«E magari scaldarci un po’…» aggiunse il francese rinfrancato dall’assenzio.
I tre non persero tempo e si adoperarono per accendere subito un fuoco. L’esigenza di doversi scaldare e l’occasione ghiotta di poter finalmente rendere visibile buona parte della caverna li distolsero, almeno momentaneamente, da dubbi ed elucubrazioni sulla provenienza di quelle tracce e l’origine di quegli oggetti apparsi dal nulla.
Misero nel braciere tutta la legna che poteva contenere e, utilizzando le lampade a petrolio, appiccarono il fuoco.
In pochi istanti la legna perfettamente asciutta iniziò a bruciare con vigore e ci vollero alcuni minuti perché le fiamme si sviluppassero fino a creare lingue verticali alte dieci piedi. Ben presto un calore confortante si propagò nello spazio tutt’attorno al braciere. Greenstone stava argomentando sul modo di sfruttare al meglio il fuoco nel prosieguo dell’esplorazione, quando le parole gli si smorzarono in gola. Rimase immobile, la bocca aperta come inceppata nel vano tentativo di terminare un discorso ormai inutile, lo sguardo fisso davanti a sé.
Il bagliore del fuoco si era intensificato a tal punto da permettere alla propria luce d’invadere gran parte della vasta caverna che fino a poco prima era stata celata dall’oscurità. Fu così che i tre esploratori videro apparire la cosa più strabiliante che mai avrebbero potuto immaginare.

Ora davanti a loro, a una cinquantina di passi lungo la linea retta che univa altare, colonna e braciere, era appena apparsa una gigantesca costruzione fatta di grossi blocchi di pietra intagliati. Era addossata alla parete della caverna che si sviluppava in altezza per alcune decine di iarde.
Il manufatto aveva l’aria d’essere antichissimo. La sua forma a piramide lo faceva assomigliare a un tempio maya piuttosto che un edificio inca, tuttavia delle costruzioni inca conservava l’assemblaggio e la forma delle pietre. Al centro spiccava un ampio ingresso che lasciava intuire ai tre spettatori una grande profondità di spazio al suo interno. Il portale era a forma di trapezio ed era sovrastato da un pesante architrave in pietra squadrata come il resto dei blocchi che costituivano il muro di facciata del palazzo, tutti sagomati al punto da ottenere un incastro perfetto. Il muro di facciata, che si elevava verticalmente pendendo verso l’interno, si estendeva dai due lati del portale fino a fondersi con la parete rocciosa ai margini dell’enorme nicchia in cui si trovava l’edificio.
L’imponente costruzione si elevava su quattro volumi concentrici a base quadrata e ampiezza decrescente, con tre larghi terrazzamenti che nel complesso ricordavano appunto un tempio maya. Le facciate dei tre volumi superiori poi, anch’esse inclinate verso l’interno, accentuavano l’impressione della piramide.
Al centro delle tre facciate superiori erano collocate due grandi aperture circolari che davano all’intero edificio, come se ce ne fosse bisogno, un’aria sinistra. Ricordavano vagamente le orbite vuote di un teschio gigante, orbite dietro le quali dominava il buio più totale.
Ma non era finita lì!
Sul lato destro del tempio, distanti poche iarde e anch’esse addossate alla parete della grotta, si scorgevano delle piccole costruzioni in pietra, distribuite lungo il perimetro meridionale della caverna e disposte secondo un preciso schema geometrico. Erano una sorta di cubi costruiti con pietre posate a secco e privi di finestre, vi si poteva accedere all’interno soltanto attraverso delle strette aperture poste sui tetti piani.
L’intero scenario aveva tutta l’aria d’essere una specie di antico villaggio, probabilmente legato alla civiltà inca, raccolto attorno a un tempio dalle origini incerte.
In quei territori la cosa di per sé non era da considerarsi eccezionale, molti siti archeologici erano stati appena scoperti e altri lo sarebbero stati negli anni a venire.

Dunque, c’era un villaggio e un tempio a forma di piramide, poi c’era un lago sulla cui riva era posto un altare sacrificale. E tutto quanto racchiuso dentro un’immensa e buia caverna nelle viscere di una montagna. Ce n’era abbastanza per far precipitare le menti dei suoi scopritori nella confusione più totale.
Peraltro, Greenstone e compagni erano talmente rapiti e sconcertati da quella visione che non s’accorsero d’essere osservati a loro volta.

Erano rimasti in religioso silenzio per parecchi minuti, l’unico rumore era il crepitare del fuoco nel braciere, poi lo scozzese finalmente parlò: «Credevo d’essere preparato a tutto, ma questo non me l’aspettavo… Questa scoperta cambia i nostri piani…» si passò una mano sul volto e poi riprese, «Dobbiamo capire cos’è questo posto! Voi che ne dite Jacques?»
Il francese era sempre più pallido e sudava copiosamente, si schiarì un poco la voce prima di parlare, «Joseph, lasciatemi pensare… Dovremo esaminare bene tutta l’area, occorrerà disegnarla e prendere appunti. Cercare reperti che documentino le cause di questo insediamento… Ci vorrà del tempo.»
Sewell era pensieroso, continuava a osservare il tempio addossato alla parete di roccia, poi abbozzò una proposta: «Abbiamo il fuoco e abbiamo l’acqua, potremmo accamparci qua.»
«Questo posto non mi convince, Joseph! Come avete detto anche voi, ci sono tracce di qualcosa avvenuto non troppo tempo fa… Il sangue… e tutta questa legna per il fuoco, sicuramente è stata portata qua di recente.»
«Concordo con voi Jacques, ma non possiamo andarcene senza prima aver cercato di capire cosa abbiamo trovato… Siamo scienziati!»
Jacques Verdoux, seppure riluttante, dovette dargli ragione. Era vero: il credo di entrambi imponeva la ricerca della verità in ogni situazione, e quella scoperta era un’occasione troppo ghiotta per non farsi coinvolgere.
«In ogni caso staremo in guardia. Abbiamo le armi, se sarà necessario le useremo!» chiarì Sewell per rassicurarlo.
«Io non ho mai sparato Joseph.» confessò il francese.
«Non occorre che lo facciate Jacques, ci siamo già io e Juan per questo!» diede un’occhiata all’indio e aggiunse, «Dovremo comunque tornare al pozzo e aggiornare Pedro sulla nuova situazione. Lui ci calerà l’altro fucile, le provviste e quant’altro sarà necessario.»
Detto questo, Greenstone estrasse dal taschino l’orologio, un Waltham con le iniziali del padre incise sul coperchio d’acciaio placcato in oro, le lancette indicavano poco meno delle sei del pomeriggio.
«Se ci muoviamo adesso, quando saremo fuori sarà già buio… ma almeno arriveremo al pozzo dove potremo rifocillarci e trascorrere la notte senza problemi. Domattina torneremo quaggiù equipaggiati a dovere!»
Jacques e Juan annuirono, poi insieme a Sewell s’accinsero ad abbandonare il luogo della scoperta.
S’avviarono così nella direzione da cui erano venuti, non prima d’aver dato un ultimo sguardo a quelle misteriose pietre.

Il fuoco nel braciere continuò ad ardere per diverse ore dopo che i tre uomini se n’erano andati.
Due piccoli occhi obliqui rimasero a osservare quelle fiamme a lungo. Brillarono di luce riflessa fino a che l’ultima brace si spense facendo ripiombare tutto quanto nell’oscurità più assoluta.
Solo allora, un’ombra nell’ombra si mosse lentamente verso le acque del lago, vi s’immerse e scomparve nell’abisso.

CAPITOLO SEGUENTE

Sulla Ferrara infelice e disperata de L’Espresso

Del reportage su Ferrara di Fabrizio Gatti, che ha destato scalpore e provocato la conseguente replica del sindaco, devo dire che ho trovato molto proficuo lo sforzo di raccontare ‘l’altra Ferrara’, cioé la parte più povera e a volte invisibile della città. Si tratta però di prenderne il buono – la prospettiva, alcuni dati – e lasciar perdere la retorica della disperazione e dell’infelicità. Questo a mio avviso sarebbe utile alla città per comprendersi.

Il giornalista ha infatti usato statistiche socio-economiche quali i dati sull’occupazione, la povertà, gli indici demografici, alcune cifre sull’assistenza sociale. Ha inoltre ricordato la presenza della mafia nigeriana, dello spaccio di droga e, in alcune aree della città come il Gad, la perdita del controllo del territorio da parte delle istituzioni. E per fortuna, bontà sua, ha dimenticato il tasto dolente dell’inquinamento.
La ricostruzione, dicevo, va salvata per farne un dibattito serio e anche per non lasciare l’argomento a una facile ironia o peggio relegarlo a monopolio e strumento di propaganda delle odierne e odiose destre xenofobe. I punti sollevati da Gatti esistono, sono urgenti e meritano attenzione.
La risposta del Sindaco invece, soffermandosi sulla crescita del turismo, le nuove fermate dei veloci (e costosi) treni di Italo e Trenitalia, le nuove infrastrutture ecc., ha finito per ricordarmi un famoso film con Gene Wilder intitolato ‘Non guardarmi: non ti sento’. Insomma la sua mi è parsa una difesa d’ufficio dell’amministrazione piccata e tuttavia fuori fuoco poiché i treni veloci o le infrastrutture, le mostre, le piste ciclabili parlano di una Ferrara ampiamente visibile e pubblicizzata che poco ha a che fare con la parte povera e multietnica della città. Non credo fosse in discussione questo.
Come difesa d’ufficio, peraltro, sarebbe bastato incrociare qualche statistica nazionale per confutare i dati utilizzati da Gatti sull’impoverimento, sulla demografia, sull’immigrazione, e sottolineare come queste cifre riguardino dinamiche nazionali e internazionali contro cui nessuna amministrazione comunale ha colpe né può vantare soluzioni. Non è a Ferrara, ma in Italia che ci sono pochi nati. Non è a Ferrara, ma in Italia che la povertà relativa ha raddoppiato le sue percentuali. Non è a Ferrara, ma in Europa e nel mondo che le migrazioni stanno cambiando la realtà di interi continenti. È quindi Ferrara il simbolo di un periodo europeo e non il contrario. Anzi la retorica della disperazione, se paragonata alla realtà e ai numeri di altre aree del Paese, o del Mezzogiorno, dove risiedono la maggior parte delle famiglie povere italiane, risulta del tutto inappropriata.
Su questo però, ripeto, sarebbe utile a tutti discutere, spiegarsi, argomentare.

Tornando al reportage, ebbene i parametri valutativi usati dal giornalista non mettono in discussione di certo la ‘felicità di Ferrara’, bensì il suo benessere. È il binomio ‘benessere-felicità’ o quello ‘povertà relativa-disperazione’ ciò che contesto al giornalista, o meglio ai titoli sensazionalisti dell’articolo.
Allora è il caso di aggiungere altre prospettive al racconto della città e dire magari che, a dispetto di tante altre città padane, Ferrara non è infelice né disperata prima di tutto perché è ancora un luogo. È uno spazio vissuto che genera senso e relazioni umane, memoria, conoscenza e condivisione. Sono le relazioni simmetriche, la capacità di muoversi liberamente e partecipare, è la capacità di vivere la propria sfera privata per poi condividerla in una sfera pubblica che fanno di una città un luogo vivo (costo di un affitto o di una casa, mobilità, gratuità di eventi e servizi, ecc.).

Dunque, Ferrara è ancora un luogo e lo è proprio perché non è particolarmente ricca né industrializzata e non è ancora soffocata né snaturata dal turismo di massa o dalla diseguaglianza. Questi fattori, insieme agli impulsi positivi legati alla sua antica università, le hanno consentito di conservare il suo corpo, la sua forma, e di attirare costantemente nella sua orbita.
Certo, stiamo parlando di un’Italia tremendamente invecchiata e la felicità di Ferrara, va detto, non è eterna né scontata. Essa dipenderà dalle sue capacità residue di generare radicamento nei nuovi ferraresi (le statistiche demografiche restano inesorabili), di generare uguaglianza e di difendersi dal consumo del suolo, dalle speculazioni edilizie, dal proliferare di centri commerciali, dall’inquinamento, che pure ne hanno minacciato e continuano a minacciarne l’essenza.

Ebbene, vale la pena ricordare che una città che genera radicamento è l’antidoto migliore a qualsiasi tipo di fondamentalismo o fanatismo e le città della desolazione italiane sono proprio quelle industriali e postindustriali che vantano pil, cifre e dati più virtuosi. È lì che crescono i focolai d’odio, di rabbia e rancore dovuti allo sradicamento e alla fine delle comunità, ed è lì che nascono e attecchiscono le leghe e i Salvini.
In questa vicenda è chiaro che spetterà un ruolo importante alla nostra classe dirigente, la quale nel complesso, se confrontata al resto d’Italia, viene da diversi mandati positivi, e tuttavia dovrà nell’immediato futuro favorire la maggiore compartecipazione possibile tra la città dei poveri e quella dei ricchi, tra i nuovi e i vecchi ferraresi.
Insomma, Ferrara è anche l’altra città di cui il giornalista Gatti parla, e agire su di essa è un’occasione, forse l’unica, di rigenerazione, per creare nuovi, inediti equilibri.
Il fatto è che, purtroppo, – come la peste di Camus o la cecità di Saramago, – l’odio, la paura, l’isolamento degli italiani, lo stallo politico nazionale, la mancanza di idee e visioni precise del Paese, si propagano su e giù per lo stivale al pari di un morbo inarrestabile, rendendoci disperatamente inermi, soli, a volte miopi.

Dossieraggio: forma di delazione o ricerca di trasparenza?

Un tempo era ‘delazione’, ‘spionaggio’, ‘denuncia anonima’, ‘calunnia’, ‘indagine segreta’. Oggi è diventato ‘dossieraggio’. Un termine semanticamente più soft nel tentativo di apparire politicamente corretti, anche se proprio di politica si tratta e sulla correttezza in politica non mettiamo la mano sul fuoco. E se accanto alle parole delatore e spia abbiamo introdotto il termine di nuovo conio ‘whistleblower’ (colui che soffia nel fischietto), non dimostriamo altro che l’antica prassi continua, anche se quest’ultimo dovrebbe essere un delatore a fin di bene, difensore degli apparati burocratici contro vessazioni psicologiche, illeciti e corruzione, una figura addirittura istituzionalizzata con tanto di legge recentissima.

Una storia lunga, quella dell’accusa anonima, perché la pratica della delazione associata inevitabilmente all’omertà e alla vigliaccheria è antica come l’uomo. Ricerca di giustizia o del consenso screditando l’avversario? C’è sempre una grande ambiguità, spesso una mistificazione, in questi comportamenti che tendono sempre al raggiungimento del potere in forme e modi così sottili e subdoli da spostare frequentemente il confine tra la correttezza etica e l’immoralità. Nonostante i mascheramenti o i tentativi di far apparire legittimo e nobile ciò che è deprecabile, la delazione rimane comunque un segno di stupidità morale, una lacuna interiore, indifferenza profonda verso l’umanità, un dito puntato impietosamente verso ciò che non si vuol capire, un liquidare sbrigativamente chi ci ostacola nei nostri propositi o ambizioni, annullando in tutto questo le relazioni umane.
“Una lince che gira sempre, con occhi che trapassano le muraglie ed esplorano gli abissi”, scrisse Giulio di Saint Felix in ‘L’ultima cena di Nerone’ (1837) e mai definizione più calzante fu scritta. Nella Roma antica, Tacito si scaglia contro i delatores e parla di un’arma politica a contenuto ricattatorio, molto diffusa nel Senato dove i senatori appaiono disposti a tutto per salvare la carriera. Nel periodo d’oro dell’Impero, vennero creati dei veri e propri apparati di intelligence affidati ai pretoriani e con l’Imperatore Tiberio la delazione raggiunse l’apice della sua nefasta efficienza. Egli fece uccidere stuoli di presunti traditori, ne fece arrestare i figli e stuprare le figlie, sulla base di confidenze prezzolate. Contro questo perverso costume tuonarono invece Costantino e Teodosio che proibirono severamente questa pratica, pena la riduzione in schiavitù o addirittura la pena capitale se il colpevole fosse alla terza delazione.

Le tristi pagine del Medioevo sono note a tutti e il delatore assunse in quest’epoca il ruolo del buon cattolico, ligio e premuroso nell’accusare sospettati di eresia, stregoneria e altro. Il sistema inquisitorio dei famigerati tribunali dell’Inquisizione era basato sulla delazione, il sospetto, il carcere preventivo, l’interrogatorio con tortura e il segreto processuale. Repressione e intolleranza segnano per sempre quelle pagine di Storia di oscurantismo, ignoranza e superstizione. Le comunità ebraiche furono particolarmente colpite dalla furia dell’Inquisizione e le popolazioni erano invitate a prestare attenzione a ogni segnale che potesse rivelare la pratica della religione ebraica: accensione di lampade o candele nuove il venerdì sera, cambio di biancheria e pulizie il sabato, astensione da certi cibi, digiuni in giorni diversi dal cristianesimo, mangiare il sabato cibo cucinato il giorno prima, uccisione di polli con il taglio della gola, dare ai bambini nomi dell’Antico Testamento. Nella Spagna del 1488, oltre 700 roghi nella sola Siviglia, cui vanno aggiunti ergastoli, disseppellimenti, roghi in effige, attraverso l’invito pressante e massiccio alla delazione. Della Repubblica di Venezia, famoso rimane il mascherone in bassorilievo sul Palazzo Ducale che raccoglieva al suo interno le delazioni che rivelassero chi occultava proventi da cariche e privilegi, la propria redditività ai fini fiscali.
Nell’Ottocento, sotto il dominio degli Austriaci in Italia, si istituzionalizzarono due forme di delazione: quella pubblica in cui il denunciante si esponeva di persona e quella segreta da parte dei vigilatori pubblici, tutelati nella loro veste di servizio. La delazione veniva vista come prevenzione al crimine, mentre quella riguardante gli aspetti etico-morali riguardanti la vita privata del cittadino non veniva vista di buon occhio. Per non parlare poi del ruolo e degli effetti della delazione in tempi più recenti, nelle grandi dittature del Novecento. Nella Russia staliniana la delazione caratterizzava la massima prova di patriottismo, la prova decisiva dell’attaccamento all’ideale comunista. Emblematico il caso del giovanissimo Pavel Morozov che denunciò il padre con l’accusa di nemico del partito e di aver protetto alcuni kulaki, i contadini che si erano opposti alla collettivizzazione finendo poi nei campi di lavoro del Gulag. Il ragazzo morì a bastonate, colpito dai parenti del padre e questa morte venne celebrata e esaltata dal regime elevandolo ad eroe. A questo fatto seguirono, tragico effetto domino, molte altre denunce. Lo scrittore Michail Bulgakov nei suoi ‘Racconti’ (1925) confiscati all’epoca dalla censura, ricorda il periodo di tenebre dominato dalla propaganda e dalla delazione e nel suo pessimismo la lancinante consapevolezza dell’impossibilità di creare un mondo nuovo su queste premesse. Durante il Nazismo e il Fascismo la delazione gioca un ruolo fondamentale nell’individuazione e persecuzione degli Ebrei. Il delatore poteva essere chiunque: il vicino di casa, il portiere, i familiari, il negoziante. Potevano essere anche quei falsi amici che per soldi estorcevano informazioni utili al regime o assoldati dal regime stesso. Delazione, il cancro dei totalitarismi. Molti delatori furono processati, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, come collaborazionisti. Esiste una blacklist dei delatori presso la Comunità Ebraica di Roma, che rimane a disposizione di studiosi e ricercatori, ricordando per sempre il sangue versato, l’immane sofferenza causata e il dolore delle generazioni a seguire che non potranno dimenticare. ‘La delazione’ di Roberto Cazzola (2009) è un romanzo incentrato sull’effetto e le conseguenze della delazione e sul senso della memoria. Ambientato nella Torino del 1944, racconta la storia d’amore tra l’interprete ebrea Selma Lavàn e l’ingengere Alfredo Dervilles, interrotta drammaticamente e improvvisamente da una denuncia che la individua come ebrea, intrappola e condanna Selma. La giovane viene strappata alla sua vita e condotta al campo di concentramento di Bergen Belsen in seguito alla delazione di una ambiziosa e sradicata diciassettenne vicina di casa. La domanda che percorre e aleggia nel romanzo è: perché Luigia Zonga ha denunciato Selma?
Perché? La strada della delazione è cosparsa di viltà, fragilità, bisogno di denaro, falsi ‘who is who’, ambizione, pretese politiche, mancanza di scrupoli, cinismo, falsi ideali e stupido zelo. Qualche rigurgito è rimasto anche oggi. La parola ‘dossieraggio’, accompagnata dall’esortazione da parte di qualche forza politica alla raccolta di informazioni su qualunque aspetto di vita pubblica e privata per bruciare l’avversario politico e rendere apparentemente il terreno più facile, non regge più. Non è questo il modo per chiedere pulizia, onestà e sani diritti per una buona governabilità, perché se così non fosse, pagine di roghi, processi e giustizia sommaria, menzogne e tradimenti non sarebbero serviti ad arrivare alla vera civiltà. Per dirla con lo scrittore Georges Bernanos: “ Il regime dei sospetti è anche il regime della delazione”. E questo non ci piace.

L’addio a Luana Vecchi, staffetta partigiana: una vita a difesa dei diritti delle donne e dello stato sociale

di Loredana Bondi

Onore a Luana Vecchi, una donna che ci ha insegnato il valore della partecipazione e guidato nelle battaglie a difesa dei diritti delle donne e dello stato sociale. E’ venuta a mancare ieri. Era una “storica” figura dell’Udi e della Cgil ferrarese, oltre che una cara amica. Sento il dovere di ricordare pubblicamente il suo valore. Luana ha portato avanti con grande coraggio, coerenza e competenza la difesa dei diritti delle donne, della salute e del lavoro in tutti i contesti in cui era prevista una partecipazione attiva dei cittadini e delle cittadine ferraresi.

Luana Vecchi durante una manifestazione sindacale

La ricordo quando ero ancora bambina e lei già donna adulta, sempre attiva, focosa, disponibile a lottare contro le discriminazioni, le ingiustizie sociali. Abitavamo in quel Borgo di San Luca dove vivevano molti personaggi che, come lei, giovane staffetta partigiana, avevano lottato contro il fascismo e noi giovani, però, lo eravamo venuti a sapere solo molti anni dopo la guerra. Per molti anni ho seguito una strada professionale diversa, pur sempre nella direzione della difesa dei diritti e soprattutto della partecipazione attiva alla vita pubblica, poi la condivisione di idee e principi ha fatto sì che percorressimo negli ultimi anni un comune cammino, fino ai giorni nostri.
Ci siamo ritrovate qualche anno fa nell’ambito dell’attività dell’Udi e sembrava che il tempo non fosse passato. Ho riscoperto il suo dinamismo e soprattutto la sua grande esperienza sorretta da un continuo e puntuale aggiornamento e formazione in diverse direzioni sia normative che sociali, oltre che una conoscenza approfondita delle istituzioni e della possibilità di contribuire, nei vari contesti pubblici, a discutere aspetti non sempre positivi sulle scelte fatte dalle istituzioni o dai sindacati, ma sempre disponibile a dare contributi costruttivi, stando “dentro” al sistema.
Sembrava che per lei il tempo non fosse passato: l’energia e la forza sprigionate a difesa dei diritti l’hanno portata ad avere una conoscenza così profonda dei temi civili, che ben pochi oggi sono in grado di avere. Non è un caso che abbia continuato, nonostante avversità di salute, a mantenere la sua forza per ricominciare sempre verso nuove battaglie, profondamente sostenuta dal valore della partecipazione alla vita civile; è stata un esempio per tutti noi e per ciò che potremmo ancora fare per cambiare le tante cose che non vanno.
La sua umiltà, la competenza e il controllo costante delle scelte fatte a nome e per conto delle cittadine e dei cittadini nel confronto diretto con le istituzioni, sono impresse nella vita stessa della città e molte donne e molti uomini lo possono confermare.
Come Udi abbiamo affrontato con la sua guida e il suo entusiasmo veri e propri studi e ricerche a livello di temi afferenti la salute delle donne, insomma era una forza inesauribile di risorse umane e professionali. Possiamo apertamente dire che è stata una delle protagoniste più attive della storia ferrarese non solo del movimento delle donne, ma della città.
Ancora negli ultimi suoi giorni di vita, lucida anche se dolorante, mi ha chiesto di portare avanti le tante cose che stavamo affrontando nei vari tavoli istituzionali. Le ho promesso che lo farò, anche se senza di lei non sarà la stessa cosa.
Credo che come me, tanti debbano ringraziarla, perché la sua testimonianza è un insegnamento di vita che vale la pena di essere vissuta.

Doc Servizi: incontro a Comacchio

Da organizzatori

Lavori nel mondo dell’arte e della cultura? Sei un musicista o un fotografo e vuoi dare valore alla tua professione?
Sabato 24 febbraio, dalle 15:30 alle 18:00 presso Spazio Marconi, in via Marconi 4 a Comacchio, si terrà il primo evento di presentazione della cooperativa Doc Servizi.
Doc Servizi è la cooperativa dei lavoratori dello spettacolo, dell’arte, della cultura. Con oltre 5.000 soci e 30 filiali sul territorio italiano, Doc Servizi unisce tutti coloro che condividono l’amore per l’arte, lo spettacolo, la cultura e la conoscenza.
Le persone che si rivolgono a noi per diventare soci, così come gli Enti e gli organizzatori che utilizzano i nostri servizi, hanno la certezza che ogni attività viene svolta in piena regola da professionisti esperti, nel modo economicamente più vantaggioso e nel rispetto dell’unicità di ogni specifica mansione, con la competenza, cortesia ed entusiasmo di chi vede la propria passione diventare lavoro.
I Valori di Doc Servizi: Passione, Onestà, Condivisione e Conoscenza
Insieme a Doc Servizi, musicisti, tecnici dello spettacolo, attori, grafici, fotografi, videomaker, web designer, social media manager, insegnanti e moltissimi altri lavoratori del settore dell’arte e della cultura hanno dato valore alla loro professione.
L’incontro è gratuito ed aperto a tutti gli interessati.
Programma dell’incontro
*** Quali sono le difficoltà, le opportunità e le prospettive per i professionisti della cultura? ***
*** Come si crea valore cooperando? ***
Programma:
SALUTO DI APERTURA
>> Chiara Bertelli – Legacoop Estense
INTERVENGONO
>> Antonello Piparo – Spazio Marconi
>> Francesca Tamascelli – Doc Servizi Ferrara
Per informazioni:
info@spaziomarconi.it
ferrara@docservizi.it

DIARIO IN PUBBLICO
La vita è bella anche per i giovani ottantenni

E così si è arrivati alla soglia degli 80. Numero scaramantico che tuttavia nel dormiveglia ci fa intristire se non fosse che la sublime Natalia Aspesi su ‘La Repubblica’ pubblica un commento il cui titolo e contenuto valgono un Perù come diceva la mia nonna millenni fa: “La grande bellezza di noi vecchi” in cui meditando sulle meravigliose possibilità che ci aspettano scrive: “essere vecchi può rendere invisibili. Però basta un bastone e anche il più corrucciato dei taxisti si precipita a fornire un gradino mobile e spingere dentro dal sedere, il corpo in difficoltà” Non occorre che l’amatissima Aspesi racconti della gentilezza dei taxisti avendone noi a Ferrara i migliori in assoluto che ti mettono la spesa dentro l’ascensore, che scambiano con te i progressi e regressi dei nostri pelosi che pur loro stanno raggiungendo età venerabili e che ti prestano libri e dischi e che ti sorridono affettuosamente ai concerti. Ma che ne è dei nostri ragazzi/e a cui per un tempo limitato potevi apparire un maestro? Quei settantenni che ora si vogliono appropriare del potere (?) cacciandoti poco elegantemente dai luoghi e dalle associazioni che avevi contribuito a creare e a difendere? Certo a vedere la nonna ballerina di Sanremo puoi congratularti con l’età che sembra inesistente o puoi piangere d’altra parte  su altri ottantenni che firmano contratti con il popolo ‘itagliano’. Dunque i ragazzi settantenni o nel caso gli infanti tra i sessanta e i sessantacinque hanno un loro popolo che li ammira e li segue fatto di giovani che sembrerebbe affidino a loro il senso del tempo. Così mi consolo pensando che l’età incolmabile tra discente e docente, specie negli studi ‘umanitari’ come suona la scellerata gaffe di Mauro Gola della Confindustria di Cuneo (Chi vuole fare gli studi tecnici. Chi vuole fare gli studi economici. Chi vuole fare gli studi umanitari)  si sta assottigliando a una manciata di tempo. Perciò m’affanno a scrivere festschrift ai miei valorosi discenti di un tempo che a loro volta sono supportati da altri allievi che li imbalsamano in una visione atemporale. Quando con poca eleganza la mia città pensò che era ora che mi ritirassi nel limbo dei senza tempo – un po’ rudemente –  mi aspettavo che quella posizione venisse affidata a bambini/e cinquantenni. Macché! Tutto è tornato in mano ai settantenni che gioiosamente si affidano a questa nuova visione del mondo. Ma, scrive Natalia Aspesi  spargendo balsamo sulla età dei vecchi “Commovente la scoperta di quanto i vecchi, in un tempo in cui si smania per prolungare una sfinita giovinezza, possano essere rasserenanti, fisicamente belli di una loro bellezza data proprio dagli anni; i capelli bianchi (illusione per chi scrive in quanto i capelli li perse già nella prima giovinezza) e la pancetta degli uomini, l’irrinunciabile vanità delle donne ben vestite e ben pettinate, con le loro vite di prima in altri luoghi, con altre persone, con altri dolori e speranze.” Sembrerebbe dunque che i seniori o senatori della vita pubblica fossero i pilastri su cui si fonda la società italiana; poi ci s’accorge che quei seniori o presunti tali  peccano e di brutto. Non vorrei ritornare allo scandalo della grillineria 5 stelle che definitivamente ha insegnato (se il movimento assegnasse un ruolo all’insegnamento) quanto sa di sale salire le scale del potere. Come i conti che non tornano rinfacciati stupidamente da un Pd che dovrebbe a sua volta tacere. Cosi le polemicuzze della campagna elettorale rinfocolano una nostalgia di ottantenni seri che bacchettino gli scapestrati settantenni il cui compito sarebbe quello di farsi ascoltare dai quaranta-cinquantenni. In questo triste tempo, dove le violenze, le stragi, i femminicidi e gli squartamenti occupano sempre più le prime pagine, la nazione più potente del mondo e il suo presidente versano lacrime di coccodrillo non impedendo il mafioso e spaventoso uso disinvolto delle armi che si possono comprare come caramelle. Poi c’è un quarantatreenne Matteo che infuriandosi sempre di più vuol cacciare i migranti per proteggere gli ‘itagliani’ e paragona a bambola gonfiabile la rispettabile Boldrini. La campagna elettorale raggiunge abissi mai visti come la sceneggiata di B. alla scrivania riesumata (come lui) dall’attrezzeria di Vespa. O il salotto della Gruber i cui occhi esprimono la disperazione per non poter contenere le tesi inesorabilmente distorte dei candidati che le sfuggono dalle mani come serpenti. Un caro amico mi consiglia di ritirarmi dal diario in pubblico perché noi, gli ottantenni, non possiamo più commentare nulla. Il nostro sarebbe il tempo del passato che non sa né può costruire il futuro.
Ma ancora non mi rassegno per rispetto a quei ragazzi che forse pensano di non andare a votare in quanto sarebbe inutile.
E in questo caso, pur per nostra responsabilità, sbagliano in quanto votare deve far parte del loro diritto-dovere di vivere in una società.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Scuola in chiaro ora ti vedo

Non era necessario attendere le iscrizioni on line tramite il sito del ministero “Scuola in chiaro” per scoprire che il nostro sistema formativo, ancorché inclusivo, è ancora classista. La stessa ripartizione in licei, istituti tecnici e professionali è per sua natura una macchina di selezione sociale, neppure tanto occulta, per cui non è il caso di inscenare la solita commedia all’italiana gridando allo scandalo.
La discriminazione non la compiono i dirigenti scolastici che descrivono il contesto economico-sociale della scuola che dirigono sulla base degli indicatori forniti dal Sistema nazionale di valutazione che sono appunto: provenienza socio-economica delle famiglie, la presenza di alunni stranieri, portatori di handicap, nomadi, ecc.
Servono per compilare il Rav, il Rapporto di Autovalutazione di ogni istituto scolastico, necessario a incrociare dati di contesto e risorse in modo da accompagnare i processi e verificare i risultati.
Per cui non si faccia gli ipocriti, fingendo di accorgersi solo ora che i licei classici nel nostro paese continuano ad essere la scuola delle élite sociali per censo e per cultura. Sarebbe più onesto chiedersi perché questo stato perdura, perché disabili, nomadi, stranieri e figli di famiglie economicamente disagiate non giungono a iscriversi ai vari licei Visconti, Doria, Parini e Falconieri.
Ci sono evidenti contraddizioni in tutto questo. Innanzitutto a partire dalla “Scuola in chiaro” che espone in vetrina l’istruzione come “prodotto” confezionato dalla scuola e “consumato” dallo studente, quasi si trattasse di un mercato dove le marche più blasonate offrono la merce migliore, salvo scoprire poi che per i tempi in cui vivranno i nostri giovani è pure avariata. Il persistere del liceo classico come fastidiosa sensazione di voler continuare a restaurare un mondo morente che si ritaglia la sua isola felice nel 6% di iscrizioni. In fine, è del tutto evidente, che il sistema formativo a monte del liceo seleziona anziché promuovere.
Ciò che c’è di realmente chiaro nella nostra scuola è che così com’è funziona poco e male, è poco efficace e incapace di ridurre le diseguaglianze all’interno del sistema.
Negli Stati Uniti d’America la Chan Zuckerberg Initiative di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, e di sua moglie Priscilla Chan, pediatra, investe milioni nell’istruzione pubblica per personalizzare insegnamento e apprendimento. Ogni bambino deve crescere in un mondo migliore, sostengono. Due sono le idee che guidano la Chan Zuckerberg: far progredire il potenziale umano e promuovere le pari opportunità. L’obiettivo è investire su quanto può essere grande ogni vita umana, assicurarsi che tutti abbiano accesso a queste opportunità indipendentemente dalle circostanze.
Questa è la forbice dei tempi, la distanza nel divario: l’ombra del miliardario benefattore che si stende come salvezza sui nostri sistemi formativi ancora d’altri tempi.
Le nostre vetrinette di scuole in chiaro, il nostro mercato degli open day di fronte a tutto ciò fanno sorridere, per non dire che producono tristezza, per la nostra ristrettezza mentale, per le nostre deliranti discussioni sullo smartphone sì, lo smartphone no a scuola.
Prima che arrivi anche da noi la Chan Zuckerberg Initiative, prima di passare dal liceo ginnasio al liceo facebook avremmo bisogno di spremere la materia grigia, di imparare a ripensare alla radice il nostro sistema scolastico, invece di fingere ogni volta di cadere dal pero.
Un sistema scuola che innanzitutto ha necessità di apprendere a funzionare insieme, come corpo di organi affiatati tra loro, a funzionare per un progetto condiviso da tutto il paese, un progetto che accompagni la vita di ogni singola ragazza e di ogni singolo ragazzo dal nido all’università, indipendentemente dalla condizione economica, dall’essere portatore di handicap, straniero, nomade o quant’altro. Una scuola aperta in una società aperta, dalla parte di ogni singola ragazza e di ogni singolo ragazzo.
La grande rivoluzione compiuta dalla tecnologia è quella di consentire a tutti di vivere in ambienti sempre più intelligenti, l’intelligenza ci accompagna ormai dappertutto con i suoi microprocessori, microcomputer, microchip. Questa intelligenza è una grande risorsa per essere noi stessi più intelligenti.
Si sa che un ambiente intelligente cresce l’intelligenza, crea le sinapsi e l’intelligenza si gioca nei primi anni della nostra infanzia.
La scuola in chiaro di cui abbiamo bisogno è una scuola capace di accogliere le nostre bambine e i nostri bambini e sviluppare la loro intelligenza, il pensiero, la mente, capace di offrire ambienti intelligenti ricchi di occasioni di apprendimento e di stimoli dai nidi alle superiori. Non importa se non tutti sapranno tradurre una versione di greco o di latino o risolvere un’equazione differenziale, la cosa che importa è che la cultura diventi per tutti familiare, non qualcosa da temere e da evitare, che ognuno familiarizzi con la propria intelligenza e con quella dell’ambiente che gli sta intorno. Un abito diffuso e quotidiano per tutti in modo che le giovani generazioni vivano immerse nella cultura, nutrendosene e respirandola fin da piccolissimi, e tutti possano decidere liberamente come approfondire i propri interessi e impiegare i propri talenti senza dover più scegliere tra l’angustia selezionatrice di licei, tecnici e professionali, ma tra luoghi di studio dove crescere la propria intelligenza e curare le proprie passioni.

IL CACCIATORE DI LEGGENDE
Sotto la montagna

CAPITOLO PRECEDENTE

CAPITOLO VI – Sotto la montagna

Procedettero spediti nel largo cunicolo avvolto dalle tenebre che avevano già esplorato e superarono il punto in cui si erano imbattuti nella colonia di pipistrelli, anche se degli animali non c’era più traccia a parte il guano che ricopriva il terreno. Giunsero così al crocicchio in cui il giorno prima avevano deciso di fermarsi e di tornare indietro.
Davanti a loro si apriva uno slargo in cui si distingueva, nella luce tenue e tremolante delle lanterne, una serie di tre gallerie disposte a raggiera.
Greenstone si fermò, posò a terra la lanterna e indicò un punto imprecisato oltre il suo sguardo. «Ora dobbiamo decidere da che parte andare…» disse. Poi tirò fuori la bussola d’ottone dal taschino del giubbetto che portava sotto il pastrano, e fece la sua proposta: «Io direi di procedere nella direzione iniziale, e cioè verso est. L’ingresso della galleria a est mi sembra abbastanza ampio, se la sorte ci assiste è probabile che sia la via principale che porta sotto la montagna… Il regno di Alatapec!» Fece un accenno di sorriso e rivolse lo sguardo al francese, «Voi che ne pensate Jacques?»
«Penso che sia la scelta più sensata, non c’è motivo di cambiare direzione… Continuiamo a est e speriamo che questo dio della montagna oggi sia di buon umore!»
Decisa la direzione da prendere, Sewell estrasse la piccozza dallo zaino e fece un solco ben visibile sulla parete della galleria da cui erano provenuti perché servisse come segnale di riferimento per guidarli al ritorno, dopo di che i tre s’incamminarono nella nuova galleria.
Il terreno era molto accidentato e declinava verso il basso con una pendenza ancora più accentuata. La volta della galleria era fitta di stalattiti appuntite che lambivano le teste degli esploratori. Sewell, il primo della fila e il più alto dei tre, aveva non poche difficoltà a evitare di sbattere la fronte contro quei cunei di roccia che nella semioscurità apparivano all’improvviso. Fu forse  proprio per questo che, tutto intento a controllare la parte alta del tunnel e ignorando completamente il vuoto che si apriva sotto di lui, cadde in una voragine!
Ruzzolò lungo una discesa ripida e ricoperta di pietrisco. I sassi lo accompagnarono nella caduta e ne attutirono i colpi ricevuti mentre impattava sul terreno. Ciò gli permise di raggiungere il fondo in una nuvola di polvere ma praticamente illeso.
Tentò subito di rialzarsi ma non vedeva nulla, solo il buio più totale. Quasi immediatamente giunse il suono delle voci dei compagni che, da qualche parte sopra di lui, gridavano il suo nome.
«Joseph! Joseph, mi sentite?… Rispondete, Joseph!»
«Sono quaggiù Jacques! Quaggiù… ma non so, non vedo nulla… Ho perduto la lanterna nella caduta!»
«Joseph, state bene?»
«Sono tutto intero… credo… a parte qualche graffio, direi che poteva andarmi peggio!»
«Va bene, ora veniamo a prendervi!»
Juan fece passare una corda attorno a una stalagmite posta a ridosso del buco dov’era precipitato Greenstone, la fissò con un nodo semplice, poi imbracò la fune alla vita del francese aiutandolo a calarsi giù. Jacques scese lentamente puntellando i piedi al ripido terreno franoso. Mentre con una mano si teneva assicurato alla fune, con l’altra impugnava la lanterna cercando di intravedere il fondo della discesa.
Quando fu giunto in basso trovò subito Sewell a riceverlo. In una manciata di secondi i due furono raggiunti dall’indio che nel frattempo aveva recuperato la lanterna dello scozzese che non si era danneggiata, la riaccese e gliela porse.
Greenstone si sistemò alla meglio, raccolse lo zaino e controllò che gli strumenti di lavoro al suo interno non si fossero rotti per la caduta. Fortunatamente era tutto a posto.
«Quando vi ho visto cadere ho pensato al peggio…» disse Jaques.
«Come vi ho detto, amico mio, quest’avventura mette tutte quante le nostre vite sullo stesso piano… ed è un piano assai traballante!» replicò lo scozzese che aveva ripreso il pieno controllo di sé. Probabilmente la caduta gli era servita per recuperare lo spirito e la consapevolezza che credeva d’aver smarrito. «Ho la sensazione che finché ci troveremo qua sotto non avrete tempo di preoccuparvi della vostra salute, preoccupatevi piuttosto di dove mettete i piedi… Avete visto cos’è successo a me, giusto?» aggiunse ironico.
«Concordo in pieno Joseph! Credo che almeno quaggiù la malattia mi darà tregua… Magari lascerà che sia un burrone o una belva affamata oppure una freccia avvelenata a finire il lavoro che ha iniziato… vedremo!» si schernì il francese.
«Bene Jacques! E’ così che vi voglio… Un inguaribile ottimista!» concluse Sewell con un mezzo sorriso velato d’amarezza.
A quel punto i tre uomini dovettero decidere se risalire e tornare indietro oppure proseguire l’esplorazione nonostante l’imprevisto della buca. Sewell sollevò la lanterna cercando d’illuminare più che poteva lo spazio attorno a sé. Ben presto si rese conto che erano scesi in un enorme antro di cui non era possibile calcolare l’ampiezza.
L’aria era ancora più fredda e umida, l’eco delle loro voci pareva confermare un grande spazio vuoto tutt’intorno, ma uno spazio reso invisibile da un implacabile muro di tenebre che solo in minima parte la luce delle lanterne riusciva a perforare.
«Ok, a questo punto, se siete d’accordo, direi di cercare di capire bene dove ci troviamo ora…» propose Sewell dando un’occhiata alla bussola, «la cosa più prudente è proseguire il cammino verso est, mantenendo l’ovest come riferimento per il ritorno. Ci faremo guidare dalla bussola e ogni dieci passi lasceremo un segno sul terreno per più sicurezza!»
Lasciarono la fune legata alla roccia in cima alla salita e ripresero il cammino verso l’ignoto.

la Stanley di Greenstone

Percorsero un centinaio di iarde senza incontrare alcun ostacolo, camminavano su una vasta distesa di roccia piana in gran parte ricoperta di pietre rotondeggianti di varie dimensioni.
I tre procedevano con cautela. Greenstone guidava il gruppo mantenendo alta l’attenzione davanti a sé per evitare altre sgradite sorprese. Juan lo seguiva agitando la sua lanterna per illuminare il più possibile lo spazio tutt’attorno. Infine Jacques Verdoux camminava dietro ai compagni e osservava con interesse i propri passi.
All’improvviso il francese s’arrestò.
Si chinò poggiando a terra la lanterna e iniziò a rovistare il terreno, afferrata una conchiglia andò a mostrarla a Greenstone. «Joseph, guardate che ho trovato!»
Greenstone guardò distrattamente l’oggetto nelle mani del francese e disse: «Jacques, la caverna è piena di fossili… È da quando siamo entrati che vedo trilobiti e ammoniti da ogni parte! Questa è materia vostra… pensavo che li aveste notati pure voi!»
L’orgoglio dell’esperto paleontologo non fu affatto scalfito dalle parole un po’ affrettate di Sewell. Il francese porse la conchiglia nelle mani dell’amico e chiarì: «È vero Joseph, la caverna è piena di fossili… Il fatto è che questa conchiglia non lo è!»
Il biologo osservò meglio il reperto, poi esclamò: «Diavolo, è vero! Questo non è un fossile…»
«Esatto!» l’interruppe il francese, «Questa conchiglia sembra sia stata appena raccolta dalla sabbia di qualche arenile, e ce ne sono altre come questa tutt’intorno!»
«Significa che qua sotto vivono o vivevano fino a poco tempo fa dei molluschi, ma soprattutto che fino a poco tempo fa in questo posto c’era l’acqua!» concluse Sewell.
«Direi proprio di sì, e lo conferma anche la morfologia del terreno. Avrete notato Joseph che le pietre sul terreno sembrano levigate e non abbiamo ancora visto l’ombra di una stalagmite da quando ci siamo calati quaggiù! Ho il sospetto che ci troviamo nel letto prosciugato di un lago sotterraneo!»
La voce di Juan irruppe tra i due scienziati, «Sir Joseph, Monsieur Verdoux, prego signori venite da questa parte… Il lago c’è ancora!»
All’appello dell’indio i due accorsero immediatamente.
Il giovane si trovava a una quindicina di iarde dai due e poco prima, mentre gli altri parlavano, s’era messo a perlustrare la zona scrutando nell’oscurità con la sua lanterna, almeno finché non intravide una vasta distesa liscia come uno specchio e ancor più nera del nero delle tenebre che ammantavano tutto il resto. Era la superficie assolutamente immobile di un lago la cui ampiezza, in quel momento, nessuno era in grado di determinare.
Tutti e tre rimasero in silenzio a osservare quelle acque immote e buie per diversi minuti.
Lo stupore e un vago sentimento mistico accomunò tutti: era forse proprio questo il regno di Alatapec? Il fantomatico e leggendario dio della montagna tanto caro agli incas?
Greenstone si stava convincendo che il mondo sotterraneo in cui si trovava fosse in realtà l’enorme guscio vuoto di una montagna cava. Un mondo in cui un’immensa distesa pianeggiante circondava un lago altrettanto immenso. Un mondo magari popolato da creature evolutesi nell’oscurità e quindi in grado di sopravvivere e riprodursi nella più totale assenza di luce. Era incredibile ma possibile, del resto gli indizi erano lì a dimostrarlo.

Juan si chinò immergendo le mani nell’acqua del lago, le unì catturando una manciata di liquido che portò alla bocca e bevve.
«Quest’acqua è gelata… ma è buona!» sentenziò un attimo dopo.
«Riempiamo le borracce… L’acqua del villaggio che ci ha passato Pedro l’altro giorno ha un saporaccio! Jacques, sono sicuro che almeno di sete non moriremo!» dichiarò euforico lo scozzese.
«Magari avvelenati!» insinuò Jacques, «Ho notato che qua attorno ci sono parecchie rocce di pirite e accanto ho visto dei cristalli di zolfo allo stato puro… C’è una discreta possibilità che queste acque siano contaminate!»
«Alludete all’acido solforico? Ma non si avverte nessun odore…»
Greenstone era pensieroso, in effetti i dubbi di Jacques erano più che giustificati. «Juan, come ti senti?» domandò preoccupato.
L’indio guardò l’acqua ai suoi piedi e si passò una mano sulla pancia, «Io sto bene, per me l’acqua è buona!»
«Se Juan sta bene e dice che l’acqua è buona, significa che probabilmente sono acque sulfuree con una bassa concentrazione di solfuri…» si affrettò a dire il francese, «non sono un chimico, però mi sembrava opportuno stare in guardia… Comunque non credo che possano esserci forme di vita in questo lago!»
«E le conchiglie?» obiettò Sewell.
«Non lo so, può darsi siano arrivate quaggiù dall’esterno.» rispose Jacques.
«Ma in che modo?» insistette lo scozzese.
«Professori, forse io lo so!» s’inserì ancora una volta Juan, «Tempo fa ho sentito uno al villaggio che raccontava che la gola di Valverde raccoglieva le acque di piena del Rio Angraves che scorre a nordovest, dalla parte opposta della vallata. Trent’anni fa poi, il governo ha deviato il corso del fiume per irrigare la piana di Oroya, può darsi che questo lago sia ciò che rimane dell’ultima piena dell’Angraves.»
«Giusto Juan! Ora sappiamo com’è finita l’acqua in questo posto! Resta il fatto che non abbiamo visto nessuna conchiglia percorrendo la gola fino alla grotta!» osservò il francese.
Sewell riguardò con attenzione la conchiglia che aveva ancora in mano: era il guscio vuoto di una chiocciola. Era in parte scolorito ma restavano le tracce del suo colore originario, un giallo intenso ornato da striature longitudinali di color marrone. «Conosco solo due tipi di molluschi capaci di galleggiare e di farsi trascinare dalla corrente, uno lo escluderei perché vive nell’oceano, l’altro invece credo proprio sia il proprietario di questo guscio!» spiegò, «Si tratta sicuramente di un’ampullaria! In queste zone i fiumi e i laghi ne sono pieni… La forza della corrente deve averle portate sin qua e qua sono rimaste. Ecco tutto!»
Greenstone osservava il fragile guscio che aveva in mano e pensò che quella doveva essere la spiegazione più logica, anche Jacques ne sembrò convinto.

ampullaria

Rimaneva il fatto che a quel punto bisognava decidere quale direzione prendere, dato che il lago sbarrava loro la strada obbliganodoli a scegliere se andare a sinistra o a destra.
Dopo una breve consultazione, i due scienziati concordarono di proseguire il cammino scegliendo la destra, cioè percorrendo il bordo del lago che, secondo la bussola, si estendeva verso sud.

Il silenzio era totale, l’aria era fredda e pesante. Si sentiva una strana brezza, appena percepibile e a sprazzi, come se da qualche parte in quel luogo di tenebre qualcosa smuovesse l’aria creando dei minuscoli vortici che per brevi tratti investivano i tre esploratori.
Forse quell’ambiente sotterraneo in cui si stavano aggirando era assai più vasto di quanto potessero immaginare, tant’è che la sensazione generale non era affatto claustrofobica, semmai l’esatto contrario.
Per un breve momento Greenstone credette che, alzando lo sguardo sopra la sua testa, avrebbe visto apparire dal buio più totale il bagliore di qualche stella. Prova indiscutibile di non trovarsi più rinchiusi nelle viscere profonde di una montagna, ma in una landa a cielo aperto oscurata da una notte senza luna.
Ma non era affatto così, e Sewell lo sapeva bene. Entro breve avrebbe dovuto decidere di tornare indietro e uscire da lì. La situazione ambientale e soprattutto le loro condizioni fisiche non consentivano ai tre uomini di poter resistere in quel luogo ancora per molto.

Camminavano con passo regolare sul bordo di quell’immenso bacino sotterraneo permeato di mistero. Lo specchio d’acqua alla loro sinistra era assolutamente immobile e silenzioso, tanto che pareva fosse una superficie solida e compatta, un’enorme lastra nera translucida che inghiottiva la debole luce delle lanterne celando tutto ciò che giaceva nelle sue profondità.
Greenstone procedeva in testa al gruppo, gli altri lo seguivano in fila indiana distanziati di due passi l’uno dall’altro. Mentre lo scozzese guardava avanti, Verdoux, che lo seguiva immediatamente dietro, continuava a indugiare lo sguardo in basso cercando di cogliere qualche altro particolare del terreno. Il giovane indio chiudeva la fila e camminava fissando con ostinazione la superficie del lago che, dal primo momento in cui l’aveva scoperto, esercitava su di lui una profonda attrazione.
D’un tratto lo scozzese si fermò, posò la lanterna ai suoi piedi e imbracciò il fucile come aveva già fatto il giorno prima.
Indicò in avanti, puntando il fucile come per prender la mira, e disse: «Credo che davanti a noi ci sia qualcosa di strano, guardate anche voi!»
Gli altri due si portarono al fianco dello scozzese e si misero a scrutare lo spazio di fronte a loro, la luce delle lanterne a malapena rivelò delle sagome insolite poste a una trentina di passi sulla loro direzione di marcia. Sebbene a quella distanza fossero poco più che delle ombre avvolte nel buio, s’intuiva dai loro contorni una forma tutt’altro che naturale.
Dopo poco il mistero fu risolto: i tre uomini percorsero con estrema cautela la poca distanza che li separava da quelle ombre e, quando finalmente le loro lanterne svelarono con chiarezza ciò che li attendeva, rimasero sbalorditi!

CAPITOLO SEGUENTE

Cronaca nera: quando l’Italia si specchia in Macerata

L’oscura morte di Pamela e il raid fascista ci raccontano il malessere degli italiani, la cattiva coscienza della politica, il voyerismo dell’informazione.

Macerata 1: Uno, anzi due fascismi
Si può essere più fascista dei fascisti? Si direbbe proprio di sì.
Forza Nuova ha un conto aperto con i cugini di Casa Pound. In questi ultimi anni la storica formazione estremista, che evidentemente si ritiene la legittima depositaria di camicia nera e saluto romano, si è sentita ‘scavalcata a destra’ dai movimentisti di Casa Pound, decisamente più moderni, molto più presenti sul territorio – non solo a Ostia e dintorni – e molto più forti, più organizzati.
Così mentre Casa Pound – che un’Italia distratta (distratta?) ha permesso di presentarsi alle prossime elezioni – si permette il lusso di prendere le distanze dal pistolero vendicatore della razza bianca, Forza Nuova sfila per le strade di Macerata.
Ma la manifestazione era autorizzata? Certo che no, ma una quarantina di militanti di Forza Nuova ci hanno provato lo stesso. Erano in pochi, ma ce l’hanno fatta, in barba a Casa Pound, alla questura e alla decenza costituzionale. E visto che chi doveva impedire la marcia fascista non ha potuto o voluto impedirla, un gruppo dell’area dei Centri Sociali e di Autonomia hanno organizzato una contromarcia. Da qui gli inevitabili scontri, tra i manifestanti e i manifestanti e le forze dell’ordine.
Dopo gli scontri è arrivato il nuovo, rigoroso, invalicabile divieto di manifestazioni pubbliche nella città di Macerata. Divieto per tutti, senza distinzioni: per chi vuole solidarizzare verso gli assalitori, come i gruppi, i comitati e le associazioni chi vogliono marciare a fianco delle vittime.
Da questa presunta decisione salomonica – ché, come noto, il vero Salomone diceva per scherzo ed era assai più saggio – verrà tutto il contrario della calma sociale. Impedire di scendere in piazza a coloro che vogliono manifestare per la democrazia, contro la violenza e per difendere i diritti degli immigrati, dei più deboli, dei senza diritti, porterà a nuova tensione e a nuovi scontri. (Articolo redatto prima del corteo, ndr)

Macerata 2 : ma di chi è la colpa?
Tutti gli altri, cioè il 90 e più per cento delle forze politiche, ha deciso che a Macerata non andrà a manifestare. Non per questo hanno seppellito le asce di guerra. Fra tre settimane si vota e la polemica non si placa.
Naturalmente tutti condannano il raid razzista, a parte i ma… Salvini attacca: l’Islam è incostituzionale e tutta la colpa è del Pd, del governo e della “invasione di migranti” che crea disagio e scontro sociale! Risponde Renzi: è la Lega che pesca nel torbido, scatena la guerra tra i poveri ed è la responsabile ultima del clima da far west!
Eppure, mai come questa volta le condanne e le accuse incrociate non riescono a chiudere la partita, anzi, lasciano a noi spettatori molta confusione e più di un dubbio. Mai come ora il reciproco rimpallo delle responsabilità, come pure gli impegni solenni a risolvere il problema alla radice non sono credibili, non riescono a convincerci della giustezza di questa o quella soluzione.
Il batti e ribatti, tutto in proiezione elettorale, tra i due Matteo, sembra in realtà nascondere un generale imbarazzo, un segretissimo senso di impotenza. Che non riguarda solo Lega e Partito Democratico, ma tutti i partiti e tutta la classe politica italiana.
E’ difficile infatti credere alle ricette proposte da una parte e dall’altra. Gli accordi e i soldi alla Libia e il foglio di via alle Ong umanitarie del prefetto di ferro Minniti? I poliziotti di quartiere e i militari a presidiare le strade invocati da Berlusconi? Le ‘deportazioni di massa’ proposte dalla Lega e Fratelli d’Italia? Non si tratta solo di strade sbagliate e illiberali (anche l’ONU ha bocciato il decreto Minniti), ma di soluzioni irrealistiche, di inutili prove muscolari che mancano l’obiettivo e rischiano di peggiorare i problemi.
La battaglia sulle cifre degli sbarchi ci ha accompagnato negli ultimi sei mesi e tutti i partiti sembrano contenti di aver ridotto i flussi e di aver pagato la Libia per rinchiudere migliaia di disperati nei lager d’oltremare. Ma senza una vera soluzione alla disperazione africana, gli sbarchi continueranno. Arriveranno da nuovi porti, troveranno nuovi approdi e nessun decreto riuscirà a fermarli.
Ma c’è molto altro che sono in pochi a voler considerare. Al di là della continua emergenza profughi, ci sono i milioni di stranieri che già vivono nel nostro Paese – proprio come quelli che camminavano per Macerata e che si sono beccati una pallottola – quelli arrivati da anni e da anni “in attesa di asilo”, quelli costretti a vivere ai margini, senza diritti, senza la prospettiva di una vita dignitosa.
Se vogliamo la pace sociale, promuovere una serena convivenza, combattere la marginalità e il degrado sociale, togliere spazio e occasioni all’estremismo e all’odio razziale, abbiamo una sola strada da percorrere. Affrontare seriamente non solo il problema dell’accoglienza degli ultimi arrivati – lo stiamo facendo troppo poco e spesso male – ma riformare in toto la nostra legislazione e le nostre norme sull’immigrazione.
La chiusura all’immigrazione legale, le strade sbarrate verso il diritto d’asilo, la mancata approvazione della Ius soli, hanno prodotto in ogni città una ‘Italia parallela’, una società parallela di diseredati, figli di un dio minore. E come possiamo offrire agli italiani – a tutti – una convivenza sicura e serena, se condanniamo i nuovi arrivati a una esistenza fuori dalla legalità?
E’ lo stesso ‘sistema italiano’, la porta in faccia alla immigrazione legale e al diritto di cittadinanza, a costringere gli immigrati a essere fuorilegge, a vivere ai margini e nelle periferie, a subire per primi il ricatto del lavoro nero e sottopagato, a diventare, in alcuni casi, manovalanza a costo zero per i mercanti della droga.

Macerata 3 : contro l’Italia guardona
“Ultime nuove sul delitto di Macerata!”
Sì perché, se la politica si interroga o finge di interrogarsi sul raid fascista, televisioni e social preferiscono occuparsi della povera Pamela Mastropietro, solo diciott’anni per morire, essere fatta a pezzi e impacchettata in due trolley.
Anch’io mi auguro che venga fatta luce, sia resa giustizia, trovati colpevoli, complici e tutto il resto. In Italia non accade troppo spesso. Ma confesso che non ne posso proprio più di Chi l’ha visto, Quarto grado e trasmissioni consimili.
Quando i mulini erano bianchi (Barilla), o al tempo delle “Porte aperte” (Sciascia), quando insomma a comandare c’era il “Predappiofesso”, il “Batrace stivaluto” – come Carlo Emilio Gadda scriveva di Mussolini – la cronaca nera non esisteva proprio. Niente furti, niente rapine, niente stupri, omicidi, delitti passionali. Niente sangue sui giornali controllati dal regime.
Ovviamente cosi non era, perché Homo homini lupus vigeva ben prima del Ventennio; nessun contratto sociale è mai riuscito a metterlo in gabbia. La censura fascista aveva solo sotterrato, reso invisibili i comportamenti e gli atti criminali. Così, appena finita la seconda guerra, la stampa libera si buttò a pesce su Rina Fort, subito soprannominata “la belva di San Gregorio”. Il Corriere della Sera del 1° dicembre 1946 titolava in grassetto: “Massacrati in via San Gregorio una madre coi tre figlioletti”.
Con Rina Fort – su di lei, sul processo, fino alla sua oscura uscita di prigione per fine pena, ha scritto pagine memorabili Dino Buzzati – nasce (ri-nasce) la cronaca nera nei media italiani. Da allora, grazie alla pertinace attenzione di stampa e televisione, ogni anno può essere intitolato a un grande delitto: una sorta di storia d’Italia attraverso la cronaca criminale. Il caso Montesi (1953), il mistero di via Veneto (1963), Milena Sutter (1971), il massacro del Circeo (1975), il mostro di Firenze (1968-1985), il delitto di via Carlo Poma (1990), quello dell’Olgiata (1991), quello dell’imprenditore Gucci (1995), le bestie di satana (1998- 2004), l’infanticidio di Cogne (2002), l’omicidio di Meredith Kercher (2007), la strage di Erba (2006), il delitto di Avetrana e quello di Yara Gambirasio (2010).
Ogni “efferato fatto di sangue” – ne tralascio volutamente almeno una trentina – è passato agli annali e alla rete con un nome evocativo, un inconfondibile marchio di fabbrica. Intanto, la passione per il delitto, la vivisezione televisiva del dna, la chiacchiera (idiota) tra improbabili esperti, avvocati rampanti e ‘giornalisti criminalisti’ ha letteralmente invaso i palinsesti.
Il prodotto evidentemente funziona. Le storie si assomigliano tutte ma con un po’ di fiction, qualche modellino, e pugnali, rivoltelle e provette lo spettacolo e gli ascolti sono assicurati. Non c’è pietà per Sarah Scazzi o Pamela Mastropietro, il loro destino è morire altre cento volte per il piacere di un’Italia trattata come un popolo di guardoni.
Davvero ci meritiamo questa vivisezione morbosa e criminale, questa becera istigazione al voyerismo? E cosa c’entra questo commercio con il dovere di cronaca e la libertà di informazione?
Hanno deciso di non mandare in onda le teste mozzate dall’Isis. Giusto, ma date un taglio, una regola, un minimo di misura, un confine anche a questo stillicidio di sangue mediatico. Non per dar ragione alla censura, non per tornare al Ventennio, ma per minimo di buongusto. E per chi, dopo il sangue, dopo l’orrore, ha diritto a un po’ di riposo.

Caro Presidente Gola…

Gentile Presidente Gola*,
Le scrivo questa lettera dopo aver letto la Sua, dedicata ai ragazzi del cuneese, che quest’anno insieme ai genitori dovranno fare una prima grande scelta e cioè quella riferita alla scuola superiore.
Le scrivo questa mia piccola riflessione, a margine di tutto ciò che i giornali hanno detto. Io concordo con Lei. Ecco perché.

Giustamente fa notare che il mondo degli ideali, dei sogni, dovrà scontrarsi con la cruda realtà. Mai cosa fu più azzeccata. In questo mondo globalizzato, sognare fa in qualche modo perdere del tempo, tempo che sta diventando una merce preziosa e molto costosa. Lo saprà bene Lei.
In questo pianeta, in questo sistema capitalistico e liberale, un ragazzo deve essere subito catapultato in quella che è la vita vera: sacrificio, duro lavoro, basse aspettative. Perché l’invito che Lei fa, giustamente, non è quello di essere ambiziosi, di voler osare un passo in più, non è quello di puntare in alto. No. Il suo è un chiaro monito a rimanere con i piedi a terra, magari anche con lo sguardo chino.

Non me ne voglia chi, per aspirazione personale, vorrà fare consapevolmente tale percorso professionalizzante: ha tutta la mia stima.
La mia lettera è rivolta, oltre che a Lei, a quella fetta di indecisi o, peggio ancora, sognatori. A chi, nel suo piccolo, vorrebbe cambiare le cose. A chi, nonostante tutto, nonostante la crisi, nonostante la consapevolezza magari di un futuro difficile, vorrebbe fare una semplice cosa: studiare.

Lei ha ragione, signor Presidente, la vita è fatta di cruda realtà, e la realtà dei fatti sta anche in questo, nel dover tagliare le ali prima che spicchino il volo perché, lo si sa, se poi si cade ci si può far male.
E’ di gran lunga preferibile fermare subito questi sognatori, questi ‘Icaro’ Che vorrebbero lanciarsi in questo volo.
Meglio far capire subito come va il mondo: c’è chi potrà permetterselo, ma non sei tu. Meglio abituare subito chi ha un ideale, un desiderio, a far passare in fretta tali aspettative e appiattirsi in un globo sempre più diviso tra chi può e chi non può.

Io, caro Presidente, non la conosco, ma sono certo che anche a Lei, agli albori della Sua illuminante carriera, avranno fatto lo stesso e identico discorso, sbattendoLe in faccia questa crudele vita.
Sono certo, pur non sapendolo, che se ha figli avrà fatto loro imparare a memoria le Sue lapidarie parole sulla cruda realtà della vita.
Sono certo, infine, che prima o poi la realtà dei fatti Le darà ragione.
Nel frattempo mi perdonerà se io, come tanti altri, vorrò continuare a sognare.

Cordialmente
Un sognatore

*Presidente di Confindustria Cuneo

LA FOTONOTIZIA
Chi si nasconde dietro la maschera?

Carnevale in filastrocca,
con la maschera sulla bocca,
con la maschera sugli occhi,
con le toppe sui ginocchi:
sono le toppe d’Arlecchino,
vestito di carta, poverino.
Pulcinella è grosso e bianco,
e Pierrot fa il saltimbanco.
Pantalon dei Bisognosi
“Colombina,” dice, “mi sposi?”
Gianduia lecca un cioccolatino
e non ne da niente a Meneghino,
mentre Gioppino col suo randello
mena botte a Stenterello.
Per fortuna il dottor Balanzone
gli fa una bella medicazione,
poi lo consola: “È Carnevale,
e ogni scherzo per oggi vale”.
(Gianni Rodari)

Reportage dal Carnevale di Venezia di Valerio Pazzi e Emanuele Selvatici. Clicca sulle immagini per ingrandirle.

IL CACCIATORE DI LEGGENDE
Il segreto di Jacques

CAPITOLO PRECEDENTE

CAPITOLO V – Il segreto di Jacques

La mattina successiva Juan era già al lavoro quando i due esploratori si svegliarono. Nella gola rocciosa l’aria era particolarmente fredda e umida, e i raggi del sole avrebbero impiegato ancora qualche ora prima di lambire il fondo del pozzo. Fu necessario buttare altra legna sul fuoco per mantenere il bivacco al caldo. La legna però, inumidita durante le ore notturne e una volta a contatto delle braci, produsse un fumo denso e lattiginoso che invase tutto l’emiciclo e che non ne voleva sapere di disperdersi verso l’alto. Era un fumo pesante e intriso di vapore che rese l’aria del pozzo irrespirabile. I tre furono costretti a ripararsi in un anfratto dell’imboccatura del tunnel che conduceva alle grotte e lì attesero che il fumo si diradasse.
Finalmente le fiamme iniziarono a crepitare e il fuoco riprese vigore. La legna, ormai completamente asciutta, cominciò ad ardere illuminando e riscaldando le pareti di roccia circostanti. Ora, nonostante nell’aria vi fosse ancora l’odore acre del legno carbonizzato, il fumo era ridotto a una colonna verticale e rarefatta che puntava velocemente verso l’alto.
Greenstone e gli altri poterono così risistemarsi attorno al fuoco.
Stava iniziando il terzo giorno da quando i membri della spedizione avevano lasciato il villaggio, e fino a quel momento tutti quanti avevano sostenuto sforzi fisici ben superiori a quelli di un qualunque borghese di Londra o Parigi, certamente più abituato alle rassicuranti comodità della vita di città.
Soprattutto loro, i tre scesi nella gola, avevano dovuto subire ogni genere di avversità in un ambiente quanto mai ostile. Un luogo che in quel breve lasso di tempo aveva già palesato buona parte delle difficoltà che di lì a poco avrebbero dovuto affrontare.
Tutto questo si leggeva, manco a dirlo, sul viso stravolto di Jacques Verdoux, che si sforzava di nascondere all’amico scozzese le sue ormai pessime condizioni di salute.
«Jacques come vi sentite? Non mentitemi, lo vedo che non state bene… Se siete mio amico dovete dirmi la verità!» chiese Sewell preoccupato.
«Ma no, che dite! Amico mio, sono solo molto stanco… Queste ultime giornate movimentate mi hanno dato del filo da torcere… Vedrete che mi riprenderò!» s’affrettò a garantire il paleontologo, ostentando una finta sicurezza.
Sewell fissò Verdoux negli occhi. Quest’ultimo accennò un mezzo sorriso imbarazzato e distolse subito lo sguardo. Poi, frugando nella sua borsa di cuoio, estrasse una bottiglietta contenente un liquido verde smeraldo e ne bevve due sorsate.
A quel punto Sewell parlò di nuovo: «Diavolo d’un francese! Nascondete dell’assenzio, ve lo portate appresso in mezzo alla giungla… e non l’offrite nemmeno ad un amico?»
Jacques Verdoux non colse il tono ironico dello scozzese.
«Vedete Joseph, questo non è assenzio… È un preparato di un mio vecchio amico medico, mi serve per curare una dannata ulcera che mi tormenta da parecchi mesi, tutto qui… E poi ha un saporaccio!»
L’espressione di Sewell si fece seria. «Caro Jacques, dimenticate chi avete di fronte? Anche se vado in giro per il mondo in cerca di strani animali sono pur sempre un biologo. Mio padre, come ben sapete, era farmacista… io sono cresciuto tra provette e alambicchi… Insomma dovreste saperlo! I distillati non hanno segreti per me e quello è assenzio… e dall’aroma direi di ottima qualità!»
Sewell fece una pausa aspettandosi un’obiezione del francese che invece rimase ammutolito, poi continuò: «Ieri sera vi eravate addormentato da poco e dalla vostra borsa stava per cadere quel flacone da cui avete appena bevuto, così l’ho raccolto e ho annusato il suo contenuto… Absinthium non c’è dubbio! E capisco anche perché lo bevete di nascosto… Forse per via del laudano che ne è disciolto? Siate sincero con me Jacques, da quanto tempo assumete laudano?»
Verdoux si rese conto che era inutile continuare a nascondere la verità all’amico, non gli rimase che ammettere la sua dipendenza dal laudano. Ma lo fece in modo inaspettato.
«Sto morendo Joseph! Il mio sangue è malato… Ho un cancro! Già un anno fa i medici mi avevano dato pochi mesi di vita, quindi il mio tempo è quasi scaduto… Quando mi parlaste del vostro viaggio e mi diceste che probabilmente sarebbe stato l’ultimo. Quando mi offriste di unirmi a voi… Ebbene in quel momento sentii che avrei potuto dare un senso a quel poco che ancora mi restava da vivere. Non avrei aspettato passivamente la morte, le sarei corso incontro a testa alta in un’impresa che sarebbe stata ricordata anche dopo di me! Il laudano serve solo ad alleviare il dolore, niente di più.»
La sorpresa di Sewell fu evidente e la sua reazione fu istintiva. «Diavolo Jacques! Avreste dovuto dirmelo, io avrei capito… Invece mi avete ingannato! Mi avete nascosto la verità e ora la vostra condizione manderà all’aria l’intera missione! Dovrò portarvi a Lima perché qualche dottore possa prendersi cura di voi… Eravamo a un passo… e non avrò più un’altra occasione!»
«Joseph, non me ne vogliate… Io non tornerò indietro! Ho deciso che rimarrò qui e lo farò con o senza il vostro permesso!»
Il volto del francese appariva più disteso, aver nascosto la verità per tutto quel tempo era stato un fardello troppo pesante. Finalmente se n’era liberato e ciò gli permise di parlare all’amico con franchezza: «Il mio viaggio qui in Perù è un viaggio di sola andata. Sapevo che non avrei avuto un’altra opportunità per vivere un’avventura come questa… Joseph, vi ho nascosto la verità è vero! Ma ho già rimediato…»
«Che intendete dire?»
«Come ben sapete, a Parigi ho una buona reputazione. Ho speso tutta la mia vita dedicandola al Centro di Paleontologia, e il Museo Verdoux mi ha dato tante soddisfazioni e un discreto guadagno. Sono un uomo ricco, sapete bene anche questo… E sapete che ho solo e sempre avuto il mio lavoro. Non ho famiglia, quindi nessuno che possa rivendicare alcunché dopo la mia morte. Prima di partire ho dato incarico a un mio legale di fiducia di trasferire tutte le mie sostanze al vostro Dipartimento di Ricerca di Cambridge, con il vincolo che foste voi l’unico amministratore nonché beneficiario!» Dopo un accenno di sorriso il francese continuò: «Inutile dire che, comunque vadano le cose quaggiù, il vostro rettore, Mr. Hackett, vi accoglierà a braccia aperte quando ritornerete. E anche se questa missione non dovesse dare i risultati sperati avrete abbastanza fondi per finanziarne altre a vostro nome… Comunque sono sicuro che questa spedizione sarà un successo. Lo sento!»
Sewell rimase in silenzio. Le parole del francese avevano lasciato un solco profondo nel suo animo. Un misto di collera, imbarazzo, riconoscenza, ma soprattutto una profonda tristezza lo prostrarono rivelando il lato più nascosto e sensibile del suo carattere. «Jacques, io non so, non so che dire… Non dovevate… Non posso permettere che moriate quaggiù, lontano dalla vostra casa, dalla gente che ha stima di voi…»
«Di stima mi basta la vostra, amico mio… sempre che ne proviate ancora…» s’affrettò a dire il paleontologo, «Ad ogni modo non sono ancora morto mi pare, mi reggo ancora in piedi e sento che aver vuotato il sacco mi ha fatto bene direi… Quando arriverà il mio momento sarete il primo a saperlo. Intanto che ne dite di spiegare a me e a Juan cosa avreste deciso di fare per oggi?»
«E’ difficile adesso… Lasciatemi un po’ di tempo per riordinare le idee. Siete un vecchio pazzo testardo! Però siete anche l’amico migliore che potessi incontrare…»
Sewell si girò e si allontanò, non voleva che l’amico s’accorgesse del subbuglio di emozioni che stavano mettendo a dura prova il suo abituale autocontrollo. Camminò fino all’ingresso della volta arborea e si fermò a riflettere. Guardava dritto verso il fondo del tunnel per scorgere gli ostacoli che avrebbero dovuto superare di lì a poco, ma la vista si era offuscata. Fu allora che con una mano si asciugò le lacrime.

Alle dieci e mezzo del mattino i tre uomini si avviarono nel tunnel della gola diretti alla grotta principale dell’enorme complesso sotterraneo di Arauna. Si erano equipaggiati a dovere: indossavano giacconi di tela grossa trattata con cera d’api e olio di lino per renderla impermeabile. Sotto i giacconi delle maglie di alpaca li avrebbero tenuti al caldo, mentre come attrezzature si portarono corde, picconi, strumenti per la raccolta di eventuali reperti e le indispensabili lanterne.
Greenstone fu l’unico a portarsi un’arma da fuoco: il suo Winchester 1876. Juan invece aveva con sé un Bowie da caccia che, anche se lo considerava un semplice attrezzo da lavoro, nelle sue mani poteva diventare un’arma micidiale.
Poco prima l’indio aveva udito le parole dei due scienziati standosene in disparte, in fondo lui era lì unicamente per svolgere le mansioni per cui era stato assunto. Durante il cammino tuttavia, quando si trovò ad affiancare lo scozzese, sentì il bisogno di dire qualcosa: «Sir Joseph, non preoccupatevi per Monsieur Verdoux. La forza di volontà può fare miracoli, ed egli vuole continuare la missione… Non si arrenderà facilmente! E poi lo terrò d’occhio, quindi state tranquillo!»
Sewell fece un cenno d’assenso senza dire nulla, lo sguardo fisso in avanti esprimeva tutto il suo disagio.
Greenstone era un uomo ancora giovane. Aveva compiuto da poco trentasei anni, ma aveva vissuto una tale quantità di esperienze in giro per il mondo che si era ormai temprato ad affrontare e superare ogni tipo di avversità, o quasi. Era abituato a valutare e risolvere le situazioni accorpando tutto sotto il suo esclusivo controllo. Non si fidava granché del prossimo e fino a quel momento i fatti gli avevano dato ragione.
Ma quella mattina, la confessione dell’amico l’aveva spiazzato.
Era successo tutto all’improvviso e in uno dei momenti forse più delicati dell’intera spedizione. Si rendeva conto che la situazione non era più sotto il suo controllo, anzi. La morte dell’amico era dietro l’angolo e non poteva farci nulla. Non c’era un nemico da cui difendersi, non c’era una scappatoia al destino, era soltanto questione di tempo.
Per uno come lui era una sensazione d’impotenza quasi insopportabile. Lo scopo stesso della missione che l’aveva portato fin lì rischiava di finire in secondo piano.

Dopo la confessione di Verdoux i due scienziati non si erano più scambiati una parola. Il cammino procedeva di buon passo e Greenstone aveva impartito le istruzioni per l’esplorazione della grotta a voce alta, evitando di guardare in faccia i due compagni. Il suo disagio era evidente, ma non riuscì a trovare nessun modo per superarlo se non quello di rinchiudersi in un silenzio meditabondo. Jacques Verdoux, dal canto suo, si era tenuto in coda al gruppo limitandosi a osservare l’ambiente circostante con apparente noncuranza.
Una volta giunti all’imboccatura della grotta, il francese si portò al fianco di Sewell e gli afferrò un braccio bloccandolo. «Joseph, ho bisogno di sapere se vi fidate ancora di me!» disse con tono quasi implorante. «Ditemi dunque, vi fidate ancora di me?»
La veemente quanto improvvisa iniziativa del francese sortì l’effetto insperato di scuotere Greenstone dal suo isolamento. Lo scozzese si voltò, fissò l’amico con un’aria di sincera riconoscenza e dichiarò: «Jacques, non ho mai smesso di avere fiducia in voi… Come potrei? Mi avete sempre dimostrato di credere in me anche quando tutti i nostri stimati colleghi, da Parigi a Londra, ridevano del sottoscritto. Ricordate? Avete messo in gioco la vostra reputazione per sostenermi! Ora scopro pure che siete mio benefattore, mettendomi nel vostro testamento…» fece una breve pausa poggiandogli una mano sulla spalla. Poi aggiunse: «Sarò sempre in difetto con voi, lo sapete Jacques… E sono onorato che abbiate deciso di affrontare questo difficile momento con me al vostro fianco… E in ogni modo, per quel che ne so, in questo dannato posto abbiamo tutti quanti una discreta probabilità di lasciarci la pellaccia!»
I due risero e si abbracciarono.
Anche Juan, di solito imperturbabile, accennò un sorriso, poi disse: «Sir Joseph, col vostro permesso io accenderei le lanterne…» ficcò una mano nella bisaccia estraendovi un acciarino e un paio di radici sbucciate di manioca, si avvicinò allo scozzese e gliene porse una, «Tenete, è yuca dolce. Stamane non avete ancora mangiato nulla!»
Greenstone accettò volentieri, addentò la radice e s’inoltrò oltre il buio della caverna.
I suoi due compagni fecero altrettanto.

CAPITOLO SEGUENTE

IL CACCIATORE DI LEGGENDE
La gola

CAPITOLO PRECEDENTE

CAPITOLO IV – La gola

Il giorno seguente il cielo iniziò a schiarire intorno alle sei del mattino. I primi ad alzarsi furono Juan e Pedro. I due si rassettarono alla meglio e, prima che gli scienziati si svegliassero, cominciarono a spianare il terreno per potervi piantare la tenda. Mezz’ora dopo Sewell aprì gli occhi e vide la caffettiera sul fuoco che fumava. Per un attimo pensò d’essere ancora al villaggio, poi allargò lo sguardo sulla vegetazione che avviluppava tutto l’ambiente circostante.

uno scorcio della foresta attorno alla radura

Era una visione stupenda: il cielo completamente sgombro di nuvole era di un azzurro intenso mentre le montagne che chiudevano l’orizzonte erano come gigantesche dune colorate di verde scuro. Il crinale sul lato opposto della gola faceva intravedere l’innumerevole varietà di alberi secolari che ricoprivano tutta la montagna, alberi e felci dalle foglie grandi come lenzuoli. Tutto quanto sembrava lo scenario di un paradiso pullulante di vita.
E in effetti intorno all’accampamento di vita ce n’era parecchia: farfalle con enormi ali dalle livree cangianti svolazzavano sulla radura; più in alto uccelli dal piumaggio multicolore eseguivano le loro evoluzioni aeree come fossero privi di peso; poi, c’erano le scimmie appostate sopra gli alberi.
Le scimmie erano praticamente ovunque, decine e decine. Controllavano a distanza gli strani intrusi capitati nel loro territorio e si allertavano scambiandosi urla assordanti. Erano agili e scattanti, si muovevano nella folta vegetazione come folletti, era difficile seguirne i movimenti: scomparivano e riapparivano qua e là. Alcune erano grandi come gatti mentre altre sembravano più massicce. In ogni caso tutte accomunate da una grande curiosità verso gli umani che avevano occupato la vasta radura sottostante.

scimmia urlatrice

Sewell osservava i primati che si muovevano agili come scoiattoli tra i rami degli alberi tutt’intorno, cercava d’individuarne le varie specie quando una voce rauca dal chiaro accento francese lo distolse dalle sue meditazioni.
«Bonjour mon ami, dunque oggi è il gran giorno!» esclamò Jacques Verdoux.
«Ah vecchio mio, vi siete svegliato finalmente! Bene… avete recuperato le forze? Temo che oggi ne avrete bisogno sapete!»
«Credo di sì, ma sarò più preciso dopo aver messo qualcosa in pancia!»
I due esploratori si sedettero davanti al fuoco e iniziarono a consumare le provviste sorseggiando del caffè bollente.
Dopo essersi rifocillati, Greenstone e Verdoux si unirono ai due giovani inservienti che intanto avevano già fissato i pali della tenda. I quattro uomini impiegarono all’incirca un’ora per terminare i lavori. Già all’alba faceva caldo e ci volle parecchio sudore e olio di gomito, ma tutti fecero la loro parte e alla fine l’accampamento fu completato a regola d’arte.

Alle nove del mattino iniziarono i preparativi per la discesa.
Greenstone aveva individuato un punto della radura lungo il margine del crepaccio che finiva in uno strapiombo. Prese una corda, vi legò un grosso ramo precedentemente levigato per evitare che si potesse impigliare e lo gettò nel baratro. Si sentì un tonfo sordo, segno che il ramo aveva impattato il fondo, iniziò così a recuperare la corda fino a che non trovò la resistenza del peso del ramo adagiato da qualche parte in fondo al crepaccio, allora fece un segno sulla corda e lo issò. L’espediente gli confermò una profondità approssimativa di un centinaio di iarde. Il cordame a loro disposizione per la discesa era più che sufficiente.
In quel preciso punto fece fissare da Juan un verricello a cui applicò la corda con la quale avrebbe calato l’attrezzatura pesante per le probabili operazioni di scavo e che successivamente sarebbe servita per issare gli eventuali reperti. A tale scopo Pedro sarebbe rimasto in cima all’accampamento per provvedere al recupero. Tutto questo perché la difficoltà della discesa era tale da imporre agli uomini di non appesantirsi di fardelli che avrebbero potuto essere d’intralcio, così facendo ognuno di loro si equipaggiò del minimo indispensabile.
Greenstone scrutò il collega francese. «Allora Jacques, siete sicuro di voler scendere? Se non ve la sentite potrete sempre rimanere quassù a dare una mano a Pedro quando dovrà issare il materiale.»
«Monsieur, vi assicuro che è tutto a posto. Vedrete, mi renderò utile anche laggiù.» rispose perentorio Verdoux.
Sewell capì una volta per tutte che, nonostante gli acciacchi e i problemi di salute che da tempo tormentavano il compagno, ormai niente al mondo avrebbe fatto desistere il francese dall’andare fino in fondo.

Sewell, Jacques e Juan iniziarono a scendere. La pendenza andava da un minimo di trenta a un massimo di quarantacinque gradi e per questo motivo era necessario puntellare ogni passo per evitare di scivolare. Era anche indispensabile dover usare le mani per trovare un appiglio nel fitto intrico di rami e liane che ricoprivano il pendio.
Certo la vegetazione intralciava il cammino, ma ben presto si rivelò utilissima a impedire a ciascuno dei tre di rovinare verso il basso rischiando di spezzarsi l’osso del collo. Occorreva comunque stare molto attenti a dove metter le mani per evitare spiacevoli sorprese. Come quella che ebbe Juan quando non si accorse di uno spuntone di roccia nascosto sotto le foglie, inconveniente che gli procurò un lungo taglio all’avambraccio. Fortunatamente la ferita non era profonda e l’indio la fasciò prontamente con una benda.
Juan faceva da battistrada e Greenstone lo seguiva a ruota. Più indietro c’era Jacques, visibilmente impacciato e goffo nei suoi sforzi per non rotolare giù. Greenstone, preoccupato per l’evidente difficoltà del francese, non smetteva di tenerlo d’occhio.
Per arrivare in fondo non ci volle più di mezz’ora e, giunti alla meta provati ma soddisfatti per essere ancora tutti interi, i tre uomini si fermarono per rifiatare.
Fino a quel punto era andato tutto bene e Sewell si compiacque coi compagni per non essersi ancora rotti nulla o quasi. In quel momento Juan si tolse la benda e si controllò la ferita, poi cercò sul terreno qualcosa, la raccolse e la poggiò sull’avambraccio ferito.
Lo scozzese, incuriosito, s’avvicinò al ragazzo per osservarlo meglio. Vide che l’indio raccoglieva delle grosse formiche rosse, le posava sopra la ferita in modo che queste serrassero le mandibole simili a due pinze chiudendone i bordi come i punti di un chirurgo, poi staccava i corpi degli insetti lasciandovi solo la testa con le mandibole conficcate. Finita l’operazione la ferita appariva ben chiusa e curiosamente ornata da una quindicina di teste di formica grosse come chicchi di caffè.

morso di formica

«Sei un tipo pieno di risorse Juan!» commentò Sewell, affascinato da quella strana sutura, «Dove hai imparato questi trucchi da abitante della giungla?»
«Ho fatto da guida nella foresta colombiana per conto di una compagnia americana prima di lavorare per i francesi… e laggiù, dalle tribù locali, ho imparato molte cose!» disse senza distogliere lo sguardo dalla fila di formiche superstiti che scompariva tra le pietre.
«Americani… E cosa cercavano degli yankees in Colombia?»
«Erano di una società mineraria di Boston, almeno così ci dissero. Cercavano dei giacimenti di un minerale chiamato bauxite, vi si estrae un metallo resistente come il ferro ma molto più leggero…»
«Idrossido d’alluminio… il metallo si chiama alluminio!» precisò lo scienziato. «In Europa c’è già chi lo produce in serie… Ricordo che dai nostri cari rivali di Oxford ne esaminai un campione tempo fa.»
«Io credo che in realtà cercassero l’oro… Poi comunque me ne andai, non c’era da fidarsi… Così ho accettato di lavorare a Panama, coi francesi, il resto lo sapete!» aggiunse il ragazzo.
Jacques Verdoux, rimasto in silenzio fino a quel momento, esclamò: «Sentite signori, tutto questo è molto interessante… Volevo solo chiedervi se vi siete accorti che siamo in fondo a una gola in cui la luce del sole filtra a malapena! La discesa che abbiamo appena fatto adesso ha un altro nome: adesso dovremo chiamarla salita! E ho paura che tornare lassù non sarà facile come lo è stato scendere!»
«Avete perfettamente ragione, mio caro Jacques! Non è il posto ideale per chiacchierare, del resto vi avevo avvisato amico mio, ma voi avete insistito a voler venire giù con noi…» ribatté sornione lo scozzese.
«E lo confermo!» ribadì prontamente il francese, «Sono tuttora convinto che non potevo fare scelta migliore, ma Joseph, amico mio, volevo soltanto attirare la vostra attenzione sul posto in cui siamo finiti… Guardatevi attorno, sembra l’anticamera dell’inferno!»
Alle parole del francese Sewell si rese conto che era giunto il momento di dare un’occhiata più attenta all’ambiente circostante.
L’osservazione di Verdoux era quanto mai calzante: i tre uomini si trovavano in una profonda depressione poco illuminata, per nulla accogliente. Era una stretta fenditura che sprofondava tra le montagne incuneandosi verso est per miglia e miglia, un percorso a ostacoli fatto di anse e strettoie irte di spuntoni rocciosi da cui sarebbe stato assai arduo risalire.
Ma ciò che impressionava di più era l’impossibilità di scorgere il cielo. Pareva di essere finiti in un tunnel a malapena illuminato da quel poco di luce che filtrava dal fogliame, la volta del tunnel era formata da un formidabile intreccio di rami e liane reso ancor più omogeneo da una fitta cortina di foglie gigantesche.
Ogni cosa in quella gola appariva sproporzionata, dalle piante che dominavano dall’alto alle rocce disseminate sul fondo, e proprio le rocce rappresentavano l’insidia maggiore. Tra le rocce infatti si nascondevano profonde voragini, trappole mortali per chiunque ci finisse dentro, ma anche gli unici ingressi a una serie di gallerie sotterranee: Le famose grotte di Arauna. Quelle che, secondo l’ipotesi di Greenstone, dovevano essere l’habitat del lithofagus.
Le misteriose grotte di Arauna erano, in definitiva, l’ambita destinazione dei tre esploratori.
Quegli attimi di muta contemplazione fecero notare allo scozzese che in quel posto dominava un silenzio tombale. Si rammentava che la foresta era pur sempre un concentrato di suoni che testimoniavano la vita pulsante di cui era intrisa, neppure di notte la giungla era priva di rumori, anzi. Ma laggiù non si udiva nulla, assolutamente nessun rumore. Le loro stesse voci risuonavano stranamente ovattate, il che contribuiva a rendere tutta quanta la situazione quasi surreale. Eppure non era affatto strano: gli esseri che abitavano quel posto non emettevano né grugniti né nessun altro tipo di suono. Erano assolutamente muti e silenziosi, e questo fatto li rendeva in qualche modo ancor più pericolosi di quanto già non fossero.
La scarsa luce ambientale poi si diffondeva in un insolito grigiore crepuscolare.
“È esattamente come il cielo plumbeo della Scozia durante i temporali dei tardi pomeriggi autunnali” pensò Sewell in quel momento. Del resto, era solito dire che dovunque andasse nel mondo c’era pur sempre un pezzetto di casa propria ad attenderlo. Persino in quel posto alieno riuscì a trovarlo.

A quell’ora del mattino la luce solare stava illuminando la foresta sovrastante riscaldandone l’aria. L’umidità che di notte aveva inzuppato la vegetazione evaporò lentamente creando una bruma pesante che iniziò a scendere nella gola. In basso la temperatura più fredda fece condensare le goccioline di vapore che, cadendo dalla volta arborea di quello strano tunnel, formarono una sorta di pioggerella fitta e pungente.
Tutto questo rese ancor più sgradevole la già brutta impressione che quel posto aveva fatto ai tre uomini, ma non era ancora finita: alla semioscurità, al freddo e alla pioggia si aggiunsero… gli insetti!
Sciami di zanzare imperversavano ovunque, creando fitte nuvole d’insetti attorno alle liane che penzolavano dalla volta. Sul terreno una moltitudine di formiche grosse come grilli marciava in svariate direzioni, formando lunghi torrenti brulicanti color porpora che si perdevano nelle larghe fessure tra le pietre.
E, come se ciò non bastasse, Greenstone sapeva bene che laggiù le vere insidie erano rappresentate da quello che non si vedeva. «Bene signori, temo che dovremo abituarci a questo nuovo ambiente… Comunque vorrei mettervi al corrente di una cosa: questo posto è noto agli indios come la “fossa dei veleni”, quaggiù esistono piante tossiche come la strychnos o come le stesse liane che penzolano sopra di noi, i cacciatori si spingono da queste parti per procurarsele e ricavarci il curaro per le loro frecce.»
«Avete letto il trattato di Bonpland?» chiese a quel punto il francese.
«Ho studiato i resoconti di Von Humboldt e anche gli studi del vostro illustre compatriota, vecchio mio!» precisò Sewell.
«Ma non è solo questo.» proseguì, «Da adesso in poi dovremo stare molto attenti a tutto ciò che si muove! Questo è l’habitat ideale di ragni, scorpioni e scolopendre, il veleno di alcuni di loro può essere letale.»
«Avete dimenticato i serpenti!» eccepì il paleontologo.
«Non sono da escludere in effetti! Tuttavia dei serpenti non mi preoccuperei più di tanto adesso, casomai al nostro ritorno nella giungla. In questo territorio le specie sono quasi tutte arboricole e amano scaldarsi al sole, quaggiù ci sono solo pietre e fredda penombra!»
Juan, che fino a quel momento era rimasto a osservare l’ambiente intorno a sé, s’intromise nella conversazione: «Sir Joseph, dovremmo avvisare Pedro che siamo arrivati e che cominci a calare le attrezzature.»
Seguendo il suggerimento del giovane indio, i tre s’avviarono verso il punto dove era stata gettata la corda: il fondo del crepaccio con le pareti a strapiombo in solido granito, dalle quali affioravano lunghi filoni di quarzo azzurro. Il luogo era spoglio e si allargava in un lato formando una sorta di emiciclo che pareva appunto il fondo di un pozzo. Man mano che i tre esploratori vi si avvicinavano, la volta arborea che li sovrastava diventava più rada lasciando filtrare sempre più luce. D’improvviso sbucarono in uno slargo e finalmente rividero il cielo.
Greenstone e gli altri furono subito investiti dalla luce del sole che a quell’ora era allo zenit facendo capolino sopra di loro, in qualche modo si sentirono come rincuorati, anche se restavano pur sempre in fondo alla gola.
Il biologo intravide la corda che penzolava al centro dello spiazzo e si diresse verso di essa, poi puntò lo sguardo in alto e scorse la carrucola del verricello a cui era appesa la fune che sporgeva dal ciglio. Fece un cenno ai compagni e tirò con forza la corda verso il basso: era il segnale per Pedro.
Pedro era rimasto tutto il tempo appostato a lato del verricello in attesa. Finalmente, quando vide la fune tendersi, poté iniziare a calare le attrezzature ai compagni in fondo al crepaccio.
Furono calati due picconi, due vanghe, tre lampade a petrolio, coperte e impermeabili, una borsa con una scorta di provviste e un fucile. A parte lampade e fucile, tutto fu sistemato in un angolo del pozzo. Poi, distribuiti i rifornimenti da portarsi appresso, Greenstone e compagni tornarono nel tunnel della gola, sotto l’intrico di alberi aggrappati ai due pendii laterali e intrecciati gli uni agli altri.
I tre si diressero verso le fenditure della roccia che avevano scorto appena giunti in fondo alla gola. Quei grossi squarci erano gli accessi ad una complessa rete di cunicoli che scendevano ancora più in basso per aprirsi infine a un mondo sotterraneo fatto di antri enormi collegati da un dedalo di gallerie che si intrecciavano sotto la montagna per diverse miglia.

Le grotte di Arauna erano considerate maledette dagli indios perché molti cacciatori che vi erano entrati non ne erano mai più usciti. Gli indigeni sostenevano che la montagna non voleva essere disturbata dagli uomini, e che da troppo tempo ormai non erano stati più offerti sacrifici umani per placare la sua collera. Per questo motivo il dio Alatapec vegliava su di essa, divorando chiunque osasse profanarla.
Le ataviche superstizioni che condizionavano quei luoghi non scalfirono in alcun modo la determinazione del biologo scozzese. Pur tuttavia, l’atmosfera spettrale che permeava tutto l’ambiente spinse ognuno dei tre esploratori a fare i conti con le proprie inquietudini.
Greenstone era un passo avanti al gruppo quando si trovò di fronte a un’ampia spaccatura della parete rocciosa sul lato settentrionale della gola. Era l’ingresso di una delle tante gallerie che s’inoltravano nella montagna calandosi nel buio, verso abissi inesplorati.
Decise di entrare.

Quando percorri un sentiero mai battuto da nessuno, quando oltrepassi la soglia dell’ignoto, devi fare i conti con la vera solitudine. È la solitudine dell’uomo al cospetto dell’immensità della natura, intesa come l’Universo e tutti i suoi fenomeni; tutti quei meccanismi, quelle leggi che lo governano e che ogni uomo di scienza rincorre cercando di carpirne i segreti. Oltrepassare i confini della conoscenza dentro le anguste pareti di un laboratorio maneggiando provette e alambicchi e osservando le reazioni di minuscole particelle al microscopio, oppure andare per il mondo inseguendo remote tracce di antiche civiltà o sfidando terre ostili per scoprire nuove forme di vita o per conoscere le cause di eventi naturali ancora avvolti da mistero. Tutte le molteplici facce della ricerca umana hanno uguale dignità nel primato della verità. L’uomo di scienza che, spinto da un’incorruttibile sete di verità, rimane solo davanti alla scoperta di ciò che prima era ignoto, è il vero motore dell’evoluzione umana.
J. S. Greenstone

Il credo di Joseph Sewell Greenstone era dunque questo.
Era un fuoco che ardeva nel suo cuore fin da bambino e che lo spingeva a porsi continue domande e andare oltre le rassicuranti apparenze. Le sue convinzioni sul primato della conoscenza a ogni costo l’avevano portato fin lì.
Egli aveva messo in gioco la sua stessa vita, rischiandola innumerevoli volte, per poter finalmente risolvere l’enigma che aveva motivato tanti anni di ricerche e di viaggi intorno al mondo.

ingresso della grotta

Entrò attraverso la cavità nella roccia e si trovò in una spelonca buia e fredda. Decise di accendere la lampada a petrolio, dovette farlo con l’acciarino che teneva nella bisaccia poiché i fiammiferi che aveva in tasca e usava per dar fuoco al tabacco della sua pipa di bambù erano stati bagnati dalla pioggia.
Aiutati dalla luce delle lanterne, Greenstone e compagni iniziarono a spingersi all’interno della galleria. Man mano che avanzavano l’aria si faceva sempre più pungente e l’oscurità sempre più impenetrabile. Le lampade riuscivano a malapena a delineare i contorni della grotta che nel tratto iniziale era costituita da un largo cunicolo che declinava verso il basso, puntellato qua e là da spesse stalattiti e stalagmiti che si univano saldandosi in maestose colonne di calcare.
Il terreno in pendenza era viscido, irregolare e disseminato di detriti, e obbligava i tre ad avanzare con cautela per non scivolare.
Greenstone, che si era sempre mantenuto in testa al gruppo, improvvisamente s’arrestò. «Penso ci sia qualcosa là in fondo!» disse con lo sguardo fisso oltre l’oscurità.
Poggiò la lanterna in terra e imbracciò il fucile che aveva con sé, era un Winchester 1876 acquistato da un armaiolo di Richmond nel suo ultimo viaggio in Nord America di due anni prima. Greenstone era un ottimo tiratore e all’epoca quell’arma era il meglio in circolazione.
Jacques Verdoux, allarmato, si rivolse all’amico: «Cosa avete visto Joseph? Io non ho notato nulla… Dobbiamo preoccuparci?»
«Non lo so, ma sono sicuro che là davanti c’è qualcosa che s’è mosso… e non credo si tratti di un gatto!»
Rimasero tutti e tre in allerta per alcuni minuti, la luce tremolante delle lampade non riusciva a scardinare la cortina di tenebre che, a pochi passi da loro, avvolgeva tutto quanto. Poi Juan notò qualcosa ai suoi piedi, si chinò, ne raccolse una piccola quantità e infine disse: «Sir Joseph guardate, è wano de cueva… murcielagos señor!»
«Ma certo! Dovevo immaginarlo! Caro Jacques siamo capitati in mezzo a una colonia di pip…» lo scozzese non poté finire la frase. In un istante i tre esploratori furono travolti da una miriade di grossi chirotteri svolazzanti. Erano migliaia, e invasero tutta la galleria dirigendosi verso l’uscita. Tutti e tre si dovettero accucciare per evitare l’impatto con quelle creature che sembravano non finire mai. Il battito di migliaia di ali provocò un rumore talmente assordante che rischiò di lacerare timpani che fino a quel momento avevano goduto di un silenzio assoluto.

pipistrelli vampiri in volo nella grotta

Poi, così com’era iniziato, il caos cessò all’improvviso. Il tutto durò appena una sessantina di secondi, ma ai tre parvero trascorsi parecchi minuti e si risollevarono guardandosi intorno con cautela, frastornati e intontiti dal rumore che ronzava ancora nelle orecchie.
Greenstone posò il calcio del suo Winchester a terra e riprese a parlare: «Come avete ormai capito, abbiamo messo in fuga una colonia di pipistrelli! Dal colore delle ali azzarderei… diaemus youngi!»
«Vampiri dunque!» tradusse il francese.

diaemus youngi

«Evidentemente il fumo delle nostre lanterne li ha infastiditi e allarmati… tanto che l’istinto li ha fatti fuggire in massa all’esterno della grotta.» rifletté lo scozzese, «Direi di continuare a camminare in questa direzione ancora per un po’ e vedere cosa c’è oltre, poi torneremo indietro, il petrolio delle lampade dovrà bastarci anche per domani.»

Proseguirono il cammino per una buona mezz’ora senza incontrare grossi ostacoli. Anche se percorsero in tutto poche centinaia di iarde, la grotta s’inoltrava nella montagna probabilmente per chissà quante miglia ancora.
I tre esploratori giunsero in un crocicchio di gallerie secondarie, si delineava un vero e proprio labirinto sotterraneo, fu a quel punto che decisero di tornare indietro.
Per una volta il buonsenso, il freddo e le tenebre ebbero la meglio sullo spirito d’avventura del gruppo.

Quando uscirono dalla caverna era ormai tardo pomeriggio, all’esterno le ombre della sera imminente stavano oscurando la foresta sul versante occidentale della vallata. Il buio in fondo alla gola era ormai tale da obbligare Greenstone e gli altri a tenere le lampade accese, almeno finché non giunsero all’emiciclo in fondo al pozzo nel quale penzolava la fune di Pedro. Lì la luce residua del giorno li aiutò a sistemare gli equipaggiamenti per trascorrere la notte nella gola di Valverde.

il cielo rischiara il fondo del crepaccio

Alla fine di quella prima giornata si ritrovarono esausti e infreddoliti. Juan accese un fuoco con dei rami secchi che Pedro, un centinaio di iarde più su, aveva precedentemente calato con la corda, dopodiché iniziò a scaldare un po’ di zuppa.
Era necessario riprendere le forze e un buon pasto caldo, seguito da una notte di riposo, erano ciò che serviva al gruppo per ricaricarsi e affrontare il giorno successivo che si preannunciava intenso e ricco d’incognite.
Dopo aver cenato i tre si sistemarono alla meglio intorno al falò.
Il giovane indio si mise nella sua posizione abituale: seduto in terra avvolto nel suo poncho, le gambe intrecciate, le braccia conserte e la testa reclinata in avanti. Greenstone era affascinato da quello strano ragazzo, e ogni volta si chiedeva come potesse restare per ore immobile in quella posizione senza svegliarsi poi col collo bloccato.
Il francese, che quella sera pareva fosse invecchiato di dieci anni, cercò di modellare il pagliericcio del proprio giaciglio per poter attenuare gli acciacchi che quella notte da passare sulla nuda pietra gli avrebbe certamente procurato. Poi, trovata la posizione giusta, si addormentò dopo pochi istanti.
Lo scozzese invece, come al solito, rimase per lungo tempo a vegliare prima d’addormentarsi. Quella era la parte della giornata in cui era sua abitudine fare un bilancio delle cose fatte per poi fare un programma delle cose da fare l’indomani.
Assorto nei suoi pensieri, sentiva il paleontologo russare e il suo sguardo cadde accidentalmente su una bottiglietta di vetro che sporgeva dalla bisaccia dell’amico poggiata a due passi da lui. Nella bottiglietta intravide un liquido color verde che l’incuriosì, così la raccolse, la guardò e poi, tolto il tappo, ne odorò il contenuto.

Greenstone fece un lungo sospiro e scosse la testa, rimise a posto il flacone nella borsa del francese e s’accucciò sul fianco.
Altri pensieri si sommarono nella sua mente, prima di abbandonarsi a un sonno pesante e tormentato.

CAPITOLO SEGUENTE

CAMBIA-MENTI
La scuola come mondo protetto o come occasione di scoperta?

In queste settimane chi ha bambini che a settembre dovranno iniziare la scuola primaria si appresta ad effettuare le iscrizioni nelle diverse scuole. Ciò avviene peraltro dopo un’esplorazione delle alternative in parte ansiogena perché orientata alla ricerca della scuola “giusta” in rapporto all’idea che ognuno ha dell’istruzione.
Nel compilare il modulo di adesione vengo colpita dal riquadro in cui si chiede di esprimere fino a due preferenze di compagni della scuola materna che si desidera siano nella stessa classe elementare del bambino che si iscrive. La scelta deve essere reciproca, vale a dire condivisa dai genitori di entrambi i bambini.
Mi viene spontanea una riflessione! Ai miei tempi (non tanto tempo fa, poiché non ho un’età così avanzata, ma già sufficiente per usare quest’espressione) questa possibilità non era contemplata.
Mi chiedo se in un tempo in cui il mondo è sempre più variegato e in cui si fanno continui proclami per costruire l’integrazione tra culture anche molto diverse abbia senso sottolineare questa possibilità di scelta e cosa rappresenti per le nuove generazioni.
Non è forse anche questo (insieme a tanti altri) un modo per far crescere bambini troppo protetti e tutelati? Non è un modo per non abituarli a fare i conti con ciò che la vita presenta come imprevisto o effetto del caso? Che effetto può avere su dei soggetti in crescita e che dovrebbero essere aiutati a comunicare tra loro e a giovarsi delle reciproche differenze, indirizzare così tanto i loro destini e abituarli a comunicare solo con i propri “simili” per estrazione sociale? Non contribuisce ciò a renderli fragili e più facilmente vulnerabili? Come immaginiamo che possa avvenire l’integrazione se alcuni bambini risulteranno molto “gettonati”, mentre altri non saranno “preferiti” da nessuno?
Queste alcune delle domande che mi ha suscitato il tema; mi sono risposta che la scuola non dovrebbe prevedere questa possibilità. È importante aiutare il bambino ad integrarsi e ad adattarsi a qualsiasi contesto si ritrovi, è importante trasmettergli il messaggio che è interessante ed è un’opportunità conoscere persone diverse, è importante insegnargli che ciò che non si conosce non è necessariamente qualcosa che deve spaventare e deve incutere timore.
Trovo che vi sia un’eccessiva enfasi sulla continuità delle esperienze che il bambino si appresta a compiere e che questa stessa continuità lo esponga al rischio di rappresentarsi un mondo poco realistico in cui tutto è programmato e definito a priori da qualcun altro e che sia in questo modo eliminato il costo della fatica, ma insieme il piacere della scoperta.
Le fatiche aiutano a crescere. Senza fatica non si ottiene nulla. Avere degli adulti non abituati alla fatica e poco preparati ad affrontare imprevisti significa avere adulti esposti al rischio di crollare di fronte alle minime difficoltà. Per questo iscriverò la mia bambina senza esprimere alcuna preferenza e lascerò che il caso decida la composizione della sua classe così come lo è stato per me.
Immagino che sarà forse solo il primo degli interrogativi che mi solleciterà questa esperienza della scuola delle mie bambine, ma in ogni caso mi farà piacere discuterne.

Maternità surrogata: dono o mercato

da Roberta Trucco

Inizia così una Lettera aperta ai presidenti e ai segretari dei partiti che partecipano alle prossime elezioni politiche a firma di molte femministe

“Siamo una rete di associazioni, gruppi e singole che intendono far valere – tra i principi fondativi della nostra civiltà e di una visione ricca della libertà delle donne – il rispetto della personalità femminile, la procreazione come atto libero non soggetto al mercato e la salvaguardia dell’umanità del bambino che non può essere oggetto di scambio. La pratica della maternità surrogata, in qualsiasi forma venga presentata, contravviene all’insieme di questi principi. La Corte costituzionale in una recente sentenza lo ha ribadito sostenendo che la maternità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità delle donne e mina nel profondo le relazioni umane”. D’altra parte la maggioranza del popolo italiano, come un recente sondaggio ha rilevato, resta fermamente contraria alla surrogata.”

In Italia la maternità surrogata è un reato ma questo non impedisce a coppie eterosessuali e omosessuali di procurarsi un bambino, letteralmente di acquistare un bambino all’estero e poi portarlo in Italia senza dovere incorrere in alcuna sanzione.
È iniziata la campagna elettorale e noi femministe siamo convinte che oggi sia necessario affrontare questo tema perché lo riteniamo dirimente rispetto alla società che stiamo costruendo.
La battaglia per l’abolizione universale della maternità surrogata è una battaglia di civiltà, demarca il confine della idea stessa di essere umano, stabilisce l’idea antropologica fondante la nostra civiltà.
La cancellazione del volto e del nome della madre, ridurre a frammenti e spezzettare la maternità, come se la riproduzione fosse un segmento della costruzione di un prodotto, il bambino, è il volto aberrante di un capitalismo neoliberale che si ciba ormai dei corpi umani.
La politica deve prendere atto che il mercato dell’utero in affitto non può essere venduto come una battaglia progressista e di libertà, ma nasconde la terribile realtà della schiavitù del terzo millennio: le donne come fattrici della riproduzione e i bambini come “pacchi dono”.
La mercificazione dei corpi delle donne non è una novità, la prostituzione intesa come “ il mestiere più antico” fa parte anch’essa di un discorso politico antico. Oggi, drammaticamente, si torna a parlare di legalizzare la prostituzione.
Nel mercato della prostituzione e in quello della maternità surrogata la materia prima e la forza lavoro sono le donne, i loro corpi e le loro relazioni.
La libertà di fare dei propri corpi ciò che si vuole è una fallacia.
E’ la domanda che fa il mercato.
La nostra battaglia è dunque una battaglia trasversale che interroga tutti i singoli candidati, di destra di sinistra, di centro etc. Ecco perché, come donne italiane, chiediamo a tutti di sottoscrivere la petizione
https://www.change.org/p/partiti-che-partecipano-alle-prossime-elezioni-politiche-firma-per-chiedere-a-partiti-impegno-al-rispetto-del-divieto-di-maternit%C3%A0-surrogata
che chiede a tutti i candidati di impegnarsi a far rispettare il nostro ordinamento, di assumere misure per impedirne l’aggiramento e di agire a livello internazionale perché la gestazione per altri venga progressivamente abolita.
In sostanza chiediamo ai nostri politici di dimostrare che la legalità non è contenitore vuoto e che ne sono i garanti.

Il palazzo della discordia

A ognuno il suo: Roma ha la Galleria Borghese, Milano il Palazzo reale e Ferrara il Palazzo dei Diamanti. Sono tutti e tre sedi di numerosissime mostre, che si susseguono quasi ininterrottamente, come in un luna park con sempre nuove e interscambiabili attrazioni. C’è chi si esalta gridando al successone, chi invece versa lacrime per la prostituzione dei monumenti.
Il Palazzo dei Diamanti, unico per la sua eccellenza architettonica, rientra tra gli edifici rinascimentali più conosciuti al mondo. Storica residenza ducale, nel 1842 il Comune lo acquista, sistemando al suo interno la Pinacoteca Comunale – che da allora non si sposterà più, divenendo poi Pinacoteca Nazionale – e la sede dell’Università cittadina.
Le continue mostre, che lo vedono protagonista da decenni, lo hanno decretato ormai come il luogo ferrarese per eccellenza dedicato a queste ultime. Mentre il primo piano, infatti, ospita la mostra permanente della pinacoteca, il piano terra è dedicato alle mostre temporanee, cioè esposizioni che per un determinato periodo di tempo stazionano in un preciso posto, dopodiché, se ciò è previsto, si spostano verso altri luoghi.

Le finalità principali di una mostra sono due: rimettere al centro dell’attenzione di studiose e studiosi, di tutto il mondo accademico, qualcuno o qualcosa di importante che è stato dimenticato o sottovalutato; e permettere, al maggior numero di persone possibile, di poter vedere dal vivo opere che normalmente si trovano dall’altra parte del mondo, ponendole a confronto con artiste e artisti coevi del luogo, oppure instaurando altri tipi di logiche. Se quest’ultimo scopo, forse, può essere oggi raggiunto anche grazie all’utilizzo di tecnologie avanzatissime, in grado di riprodurre molto fedelmente qualsiasi cosa, o anche grazie a persone esperte, che sfruttando le tecniche originarie, riescono a ricreare le opere con risultati del tutto interessanti, per il primo è sicuramente la mostra uno degli strumenti più efficaci. Attenzione, però, non è detto che debbano essere necessariamente le opere originali a essere esposte: anche in questo caso si può trattare di fedeli riproduzioni, necessarie a chi studia per poter capire il senso e il motivo di fondo dell’esposizione.
Dunque, il problema dove sta? Come sempre, sta nell’esagerazione. D’altronde, riuscire a mantenere l’equilibrio è uno sforzo continuo per noi esseri umani, anche a livello fisiologico: basta provare a rimanere in piedi qualche minuto, e si noterà come il nostro corpo in continuazione abbia bisogno di ricalibrare il peso per evitare di farci cadere.

Di fatto, organizzare una mostra serve (anche) a far carriera e a fare cassa. E si cerca di farlo a tutti i costi. Crediamo davvero che le migliaia di mostre che ci ritroviamo ogni anno in Italia siano tutte utili? Perché è questo il punto: una mostra deve essere utile. Utile al progredire della conoscenza, in senso generale e per ognuno di noi. Già Federico Zeri, in un articolo del 1996, si lamentava delle “pleiadi di mostre e mostriciattole, spesso insignificanti”, un male che da allora non avrebbe fatto altro che crescere a dismisura. In nome di una mera logica quantitativa, che fa delle visite e del turismo i propri dèi, si fa grande uso di ricostruzioni supertecnologiche e di luci strabilianti, capaci di illuminare in modi particolari e mai visti prima le opere d’arte, senza portare rispetto, in realtà, a ciò che il nostro passato ci ha lasciato.
Noi italiane e italiani non possiamo ridurci a tutto questo. Siamo noi che abbiamo cambiato il mondo in millenni di Storia. Le invenzioni italiane ci circondano ogni giorno, e senza di esse la vita moderna sarebbe impensabile. Viviamo nel Paese con la più alta concentrazione di ricchezza faunistica e floreale del globo, in un minuscolo fazzoletto di terra; viviamo nel Paese della dieta mediterranea, quella che fa più bene al nostro organismo; viviamo nel Paese dell’opera e della commedia dell’arte, esportate in tutto il pianeta. Possiamo inoltre vantarci di avere palazzi ed edifici straordinari, dove ospitiamo musei secolari e mostre temporanee. Non chiediamoci se, ma quali di queste sono davvero degne di prendere vita nel nostro Paese.

La questione afghana

Quell’albergo era “sotto stretta sorveglianza”, così una fonte ufficiale riferendosi all’Hotel Intercontinental di Kabul trasformato in campo di battaglia. Sembra una battuta ma non lo è. E’, invece, una delle innumerevoli facce del caos imperante da quelle parti. Sabato notte parte di quel caos si è manifestato all’interno dell’Hotel Intercontinental, dove i talebani hanno dato l’ultimo esempio della loro fatale determinazione facendosi saltare volontariamente per aria e riempiendo di raffiche stanze e corridoi. Alla fine, venuto giorno, c’è chi ha contato 22 uccisi più quattro aggressori morti (ma il numero rimane incerto).

In Occidente (è da lì che vengono gli anti-talebani) è dilagato un misto di sgomento e di stupore, quasi si fosse scoperto che il terrorismo infesta ancora i nostri incubi. Sai la novità. Nella settimana precedente l’assalto all’Hotel Intercontinental le cronache afghane, totalmente ignorate, avevano certificato l’eliminazione di una novantina di talebani e la scarcerazione di altri 75, ex seguaci di quell’anima nera della guerra civile degli anni Novanta di nome Guldbuddin Hekmatyar, classificato “terrorista globale”. Hekmatyar era stato a sua volta scagionato dopo mesi di trattative che avevano garantito a lui e a 2.200 dei suoi l’impunità per i crimini compiuti. Una simile manica larga potrebbe sembrare un avvio di pacificazione nazionale ma non lo è perché la ribellione non ha ridotto i suoi cruenti ritmi letali.
Non è servita a niente neanche la spavalda incursione del vicepresidente Mike Pence, arrivato a Kabul per comunicare che gli americani non se ne andranno dall’Afghanistan finché non l’avranno liberato dal terrorismo. Ossia mai. A conclusione del suo fervorino Pence aveva comunque ringraziato le autorità locali per “la collaborazione nel mantenere la sicurezza”. Collaborazione per la verità fin troppo stagionata avendo imboccato il diciassettesimo anno di anzianità e servita, come scritto dal memorialista americano Philip Caputo, a bombardare “non solo i ribelli ma anche gli ideali americani”. E poi c’è la questione della sicurezza, che Pence ha evocato con disinvoltura. Nessuno sa dove stia di casa, di certo non in Afghanistan e tantomeno a Kabul. Però le truppe americane non solo vi restano parcheggiate, ma sono in crescita (sono già in 14.000). Probabilmente si stima sconveniente andarsene da un Paese con oltre un trilione di dollari di minerali non sfruttati e con la maggiore produzione mondiale di eroina. E poi c’è la questione Cina-Russia- Iran, tre Paesi che i ‘signori della guerra’ di Washington considerano nemici e che stanno appena oltre il confine afghano. Kabul può dunque costituire una magnifica base di partenza per sovvertirli. Per non contare l’affluenza in Afghanistan dei miliziani dello Stato Islamico cacciati dai fronti iracheno e siriano. Mosca già ne valuta in 10.000 individui la loro presenza. Fanno di tutto per imporsi all’attenzione, come se coltivassero l’intenzione di giustificare il proposito degli antiterroristi occidentali di mettere radici nella regione. Nel mese di dicembre il terrorismo ha infatti provocato un paio di centinaia di vittime, quasi la metà delle quali (85 per l’esattezza) provocate dai pro-Califfo rimasti senza Califfo.

Apparentemente meno eccitato di molti suoi colleghi il generale John Nicholson, comandante delle truppe americane in Afghanistan, ha ammesso che la situazione è “in stallo” e che le possibilità di vittoria vanno valutate in base alle condizioni che verranno prospettandosi e non sul tempo. Con ciò riprendendo quasi alla lettera un vecchio detto locale secondo il quale gli invasori avranno anche l’orologio, ma chi li combatte ha il tempo dalla sua. L’esercito del generale Nicholson arrivò in Afghanistan con l’idea di “impalare” quel barabba di Osama Bin Laden. Fu il capo degli antiterroristi della Cia, un tale Cofer Black, a usare quell’espressione prima di prendere l’impegno di “portare la testa di Bin Laden al presidente”. E invece dovette dedicarsi ad altro, essendo l’obiettivo trasfiguratosi nell’importazione di una democrazia da scaffale di supermercato inscatolata a Washington. Un altro buco nell’acqua, tanto da costringere uno dei direttori della Cia messo a forza in pensione, il genenerale David Petraeus, a piangersi addosso lamentando che né gli Stati Uniti né la Nato avessero vinto il terrorismo. E non si riuscirà certo a vincerlo con i 3.000 soldati aggiuntivi che Trump ha deciso di mandare portando a 14.000 il totale. Quest’altra spedizione è stata chiamata New War Strategy, in realtà niente di più vecchio.
Per spiegarla al presidente afghano Ashraf Ghani arrivò inatteso a Kabul il segretario di Stato americano Rex Tillerson, già autore di una dichiarazione curiosamente enigmatica, stando alla quale sul campo di battaglia afghano non vinceranno né i talebani né gli Stati Uniti. Dopo 16 anni di guerra, e chissà quanti altri ancora, sarebbe questo il finale di partita immaginato a Washington. Naturalmente i talebani la pensano in altro modo e ne avevano già informato il segretario della Nato Jens Stoltenberg, che aveva annunciato più finanziamenti (un miliardo di dollari l’anno fino al 2020) “a sostegno dell’Afghanistan”. Dovrà prepararsi a una lunga guerra, gli avevano detto.

Terrorismo di talebani e di pro-Califfo a parte, in Afghanistan anche la Cia avrebbe avviato un programma di squadre clandestine per decimare i quadri della ribellione. Tattica forse già impiegata nel Vietnam che non produsse risultati apprezzabili. Adesso, cocciutamente, la si rispolvera. Non è l’unico riferimento alle sciagure del Vietnam. L’altro è la droga. L’85 % dell’eroina e della morfina prodotta nel mondo viene dall’oppio afghano procurando utili per tre miliardi di euro l’anno. Poi c’è il resto, che in un rapporto Onu del 2009 era così descritto: “Ogni anno muoiono più persone a causa dell’oppio afghano che per qualsiasi altra droga: circa 100.000 in tutto il mondo”. In Afghanistan in particolare “il numero di persone dei Paesi Nato decedute per overdose di eroina è cinque volte maggiore del numero di truppe Nato perdute dall’inizio delle operazioni militari”. La guerra come droga e la droga per fare la guerra.

LEGGI ANCHE
DIARIO DALL’AFGHANISTAN 1
DIARIO DALL’AFGHANISTAN 2

IL CACCIATORE DI LEGGENDE
Il reperto

CAPITOLO PRECEDENTE

CAPITOLO III – Il reperto

Sewell cercava senza successo di capire cosa i due si dicessero, poi finalmente Juan si voltò verso lo scienziato e gli parlò in un inglese elementare ma privo di incertezze: «Professore, lo stregone ci ha appena ammonito a non proseguire le nostre ricerche. Ha detto che c’è una maledizione su tutti coloro che disturbano la quiete di Alatapec.»
«Alatapec quello delle leggende?» chiese a quel punto Greenstone.
«Esatto, intende dire il dio della montagna. Colui che vive sotto di essa e si nutre delle rocce di cui è fatta!» rispose prontamente il giovane aiutante.

Juan

Quelle parole furono musica per le orecchie dello scienziato scozzese, era chiaro che il vecchio alludeva al lithofagus. L’avvertimento aveva peraltro sortito l’effetto contrario e, anziché scoraggiarlo, convinse una volta di più Sewell della bontà delle sue teorie.
Finalmente Sewell era in possesso della prova che le farneticazioni dello sciamano non erano frutto di dicerie locali o di antiche leggende tramandate. Ora sapeva con certezza che l’oggetto della sua ricerca era esistito realmente e forse esisteva ancora: lo attestava il pacco misterioso che Juan gli aveva consegnato la sera prima!
Il pacco conteneva una mandibola intatta di forma assai strana, mai vista prima, chiaramente appartenente a una specie sconosciuta. Era molto larga e massiccia, insolitamente pesante per un reperto fatto di osso, ricordava quasi una grossa scodella, all’interno di essa una serie innumerevole di incavi stava a indicare gli alveoli dentali.
Per Greenstone era tutto fin troppo chiaro. Il reperto osseo presentava curiose analogie con le numerose tracce iconografiche nazca che aveva raccolto nei suoi appunti. Con l’aiuto di Juan era entrato in possesso di ciò che in realtà era una delle tante reliquie di Alatapec, divinità pagana di origine inca.
Ora non restava che mettere a posto l’ultimo tassello: dove era stata trovata la mandibola del lithofagus australis?
L’ostinata reticenza del vecchio sciamano obbligò Greenstone a dover battere altre strade per poter rispondere a quel quesito. Egli sospettava che molti indios della zona sapessero dove trovare quei reperti ossei. Il problema fu che il veto imposto dallo stregone e il timore della maledizione indussero gli indigeni a tenere le bocche cucite, soprattutto nei confronti di stranieri ficcanaso.
Quelli erano luoghi dove le superstizioni e il culto della magia e del soprannaturale avevano radici millenarie assai difficili da estirpare. Oltre a ciò, la diffidenza verso gli europei rendeva quasi impossibile trovare qualche indio disposto a parlare, nemmeno in cambio di ricompense generose.
Jacques Verdoux, informato da Sewell del ritrovamento della mandibola, volle esaminarla immediatamente. Una volta osservata, il francese ne fu entusiasta. Dichiarò che essere entrati in possesso di quell’oggetto avrebbe rappresentato una svolta decisiva per l’intera missione. Propose poi che si poteva tentare di sorvegliare di nascosto gli indigeni che si inoltravano nella giungla e attendere che qualcuno si dirigesse nel luogo dei reperti.
L’idea fu subito scartata da Greenstone. Egli obiettò che attraversare la giungla per seguire la gente del posto non era una cosa semplice, occorreva discrezione e comportava lunghi appostamenti a distanza che avrebbero impegnato il gruppo di esploratori per parecchio tempo, non dando nessuna garanzia di successo. Anzi, nel caso fossero stati scoperti, rischiava di rendere ostili uomini già diffidenti. Era necessario trovare un’altra soluzione, più rapida e meno rischiosa.
Ma proprio mentre i due esploratori discutevano su come risolvere il problema, un tarlo si era insinuato nella mente dello scozzese. A dire il vero il dubbio l’aveva assalito già la sera prima, ma solo in quel momento sentì l’esigenza di esternarlo ai compagni. «Mi chiedo come mai lo stregone si sia privato di una preziosa reliquia in cambio di una semplice lampada a petrolio…» disse.
«Mio caro collega, quello che è semplice per voi può non esserlo per un indio e viceversa.» chiosò frettolosamente il paleontologo.
«Professore, e se per lo sciamano fosse più preziosa la lampada dell’osso che mi ha dato? Io ho visto che nel villaggio tutti indossano qualcosa fatto di osso!» intervenne Juan.

Pedro

A quel punto anche Pedro sentì l’obbligo di dire la sua: «Señor, io due giorni fa ho visto un uomo tornare al villaggio, era diretto alla casa dello sciamano con un pesante cesto sulle spalle e due torce spente in mano, forse c’è un legame…»
«Hai visto cosa c’era nel cesto?» domandò molto interessato Greenstone.
«No… beh forse, señor credo fossero frammenti di osso, o forse pezzi di rami secchi, non ho visto bene señor…»
«Erano senz’altro pezzi d’osso!» l’interruppe il biologo. «Credo che il nostro stregone non sia affatto un vecchio bacucco come pensavo, credo che sia molto furbo invece. Ascoltatemi bene: il vecchio si serve di un aiutante per procurarsi le reliquie da rivendere o barattare alla gente del villaggio, ora non so se appartengono tutte al lithofagus, la nostra certamente sì, le altre dovrei esaminarle… Comunque se ciò fosse vero, dovremmo concludere che queste reliquie si trovano in un posto buio, probabilmente una grotta. Ecco perché per lo stregone la lampada a petrolio è così preziosa!»
Il ragionamento di Sewell fu subito condiviso da tutto il gruppo. Tutti quanti poi maturarono la convinzione che l’unico posto dove lo stregone poteva procurarsi le reliquie era all’interno delle grotte di Arauna, che si trovavano in fondo alla Gola di Valverde, a una quindicina di miglia a est del villaggio.

Gola di Valverde

Ci si arrivava seguendo un sentiero battuto dai cacciatori, che si inoltrava nella giungla tra le montagne. In prossimità della meta si era obbligati a scendere in una ripida gola nascosta dalla vegetazione, il cui fondo era squarciato da una fitta rete di gallerie scavate nella roccia dall’erosione di un antico fiume sotterraneo, le grotte di Arauna appunto.
Non era esattamente un luogo dove poter fare un picnic: ragni e scorpioni enormi, serpenti tra i più letali, scolopendre di mezzo metro… A parte i giaguari, non ci sono animali feroci nelle Ande amazzoniche, ma tutto ciò che si muove è comunque potenzialmente assai pericoloso, e questo Greenstone, da biologo esperto, lo sapeva bene. Inoltre, anche la vegetazione poteva riservare brutte sorprese agli esploratori incauti: tutta la foresta pullulava di piante velenose, spine acuminate, fiori dai colori splendidi ma intrisi di tossine mortali.

Quella sera stessa Greenstone, Verdoux e i due giovani indios prepararono l’equipaggiamento necessario per l’escursione prevista il giorno seguente. La distanza tra l’accampamento e la Gola di Valverde non era molta ma la natura del percorso era tale che Sewell stimò che il viaggio sarebbe potuto durare tutta la giornata. Per questo decise di portare il necessario per poter trasferire l’accampamento nelle immediate vicinanze della gola. Una volta stabiliti laggiù, anche se provvisoriamente, avrebbero potuto svolgere le loro ricerche senza dover ripercorrere ogni giorno miglia e miglia nella giungla per tornare al villaggio.

foresta andina

La mattina dopo i quattro uomini partirono diretti a Valverde. Il cielo stava schiarendo e una bruma sottile ricopriva il terreno dando l’illusione di camminare immersi in un liquido bianco e impalpabile. Già dopo un’ora di cammino i raggi del sole filtravano attraverso le fronde degli alberi e un caldo opprimente iniziò a rendere il viaggio sempre più arduo.
Il sentiero dei cacciatori non era altro che una linea appena visibile creata a colpi di machete, attrezzo che gli indigeni impiegavano per farsi largo nella fitta vegetazione. Anche i quattro esploratori dovettero usarlo per poter avanzare in quel sottobosco sempre più intricato, e tutto questo contribuiva ad accrescere la fatica. Ognuno di loro poi doveva portarsi un fardello di attrezzature e vettovaglie che rendeva il cammino ancor più massacrante.
Sewell camminava in testa al gruppo, alla sua destra Juan avanzava sferzando con energia il machete per liberare il sentiero ormai quasi cancellato dalle piante che parevano crescere repentinamente ai suoi margini. Il giovane indio, come sempre silenzioso, masticava delle foglie che si era procurato al villaggio. Il ragazzo, vedendosi osservato, si girò, «Professore, ne volete un po’? Servono per la fatica…»
«Che roba è?»
«Sono foglie di coca», rispose Juan, «La gente qua le usa per alleviare la fame, la sete e la stanchezza. Vi fanno stare meglio, prendete…» Il giovane infilò una mano nella bisaccia che portava a tracolla ed estrasse una manciata di foglie verdi, le porse a Greenstone che accettò di buon grado. Pedro, a sua volta, fece altrettanto offrendone un mucchietto al paleontologo francese, il più provato del gruppo.
I quattro, quasi certamente stimolati dalle foglie, aumentarono il passo in direzione est.

giungla amazzonica

A metà pomeriggio, col sole ormai alle spalle, Sewell e compagni giunsero finalmente sul bordo della gola. Fino a quel momento il tragitto era stato estenuante, ma ben presto tutti quanti compresero che la parte più complicata del viaggio sarebbe iniziata solo da lì in poi.
Dal sentiero al fondo della gola c’erano almeno un centinaio dì metri di dislivello da percorrere superando un formidabile intrico di rami e liane, oltre a pietre taglienti che spuntavano dal terreno ripido e in buona parte roccioso. Dall’alto era praticamente impossibile riuscire a vedere cosa li aspettasse giù in fondo, una cortina impenetrabile di fogliame aveva creato una barriera capace di impedire alla luce del sole di passare. Il che voleva dire che quel posto era dominato dal buio anche durante il giorno.
Dette premesse instillarono nel gruppo un vago e inatteso senso d’inquietudine e incertezza, e Greenstone pensò bene di rompere il silenzio per distogliere i compagni dai brutti pensieri.
«Sentite! Ora che siamo qui direi di sistemare tutto quanto per la notte. Ci accamperemo in quella radura là in fondo!»
Indicò un punto della foresta privo di alberi a margine di un crepaccio tra le rocce. Gli altri si rianimarono mettendosi tutti quanti al lavoro.
Il sole era appena scomparso, a quelle latitudini i tramonti sono brevi e il buio arriva presto. La prima cosa da fare era accendere un fuoco e così fecero. Poi finirono di sistemare il bivacco predisponendo le attrezzature per allestire la tenda il giorno seguente.
Juan e Pedro armeggiavano attorno al fuoco per preparare la cena, mentre i due scienziati discutevano su come organizzare le operazioni di discesa nella gola all’alba.
«Jacques, ve la sentite di scendere domani?» chiese Sewell all’amico.
«Ma certo parbleu, sono arrivato sin quaggiù e non me la voglio proprio perdere…» rispose. Gli occhi tradivano la stanchezza, ma quando parlava brillavano di eccitazione. Poi aggiunse: «A mille miglia a ovest da dove siamo ora, Darwin andava nel Pacifico a studiare le tartarughe e voi siete qui a un passo dallo scoprire la creatura più strabiliante che sia mai esistita… Lo so, lo so… Darwin è stato vostro maestro, che Dio l’abbia in gloria, però questa è la volta buona che l’allievo lo supererà. Sono pronto a scommetterci!»
Il tono del francese era entusiasta, era quello di un uomo che stava realizzando il sogno di una vita.
D’altra parte, Charles Darwin era morto due anni prima e Greenstone si trovava negli Appalachi in Nord America quando apprese la triste notizia. Da quel giorno il giovane scienziato scozzese si rammaricava sempre di non aver potuto partecipare ai funerali solenni del vecchio naturalista, cerimonia che si era svolta una mattina di primavera del 1882, nell’abbazia di Westminster a Londra.

funerali di Charles Darwin a Westminster Abbey (stampa dell’epoca)

Tuttavia, Jacques Verdoux era, suo malgrado, l’anello debole del gruppo…
Ormai prossimo alla sessantina, era uno stimato cattedratico dell’università parigina. Famoso in patria per aver fondato a Parigi il primo museo di storia naturale francese, dopo aver letto un trattato di Greenstone che elencava le sue teorie sull’esistenza del lithofagus, Verdoux, incuriosito, volle incontrarlo personalmente.
Si conobbero in occasione di un congresso svoltosi a Londra nel 1880 e divennero amici. Il paleontologo si appassionò talmente alle ricerche del collega scozzese che ne sposò integralmente la causa, scrivendo diversi articoli a suo favore e organizzando incontri tra lo stesso Greenstone e i suoi colleghi parigini. In cambio ottenne dall’amico una promessa: tutti i reperti trovati che fossero stati in grado di testimoniare l’esistenza del litofago, ed eventualmente il litofago stesso, sarebbero stati esposti nel proprio museo di Parigi.
Ma Verdoux pativa più degli altri i disagi della giungla. Aveva deciso con entusiasmo di unirsi al collega nell’avventura in Perù, ma ora doveva fare i conti con uno stato di salute precario che in quella situazione rischiava di peggiorare ulteriormente. Sewell intuiva le difficoltà dell’amico e si pentì di averlo convinto a partire per il Sud America offrendogli la possibilità di condividere la scoperta insieme a lui.
Otto mesi prima, i due scienziati si erano incontrati a Londra. Greenstone in quell’occasione informò Verdoux della sua imminente partenza per l’America Latina, confidandogli di aver raccolto nelle precedenti spedizioni abbastanza elementi per poter finalmente concludere le sue ricerche con un successo. Occorreva solo un ultimo viaggio. Fu a quel punto che gli chiese se volesse raggiungerlo in Perù per partecipare alla missione, e Jacques Verdoux accettò con gioia e senza esitare un solo istante.

Quella notte un cielo privo di nuvole permise alla luna quasi piena e a migliaia di stelle luccicanti di spandere la loro luce azzurrognola sulla radura attorno all’accampamento. Sewell rimase sveglio a lungo nel suo giaciglio prima di addormentarsi.
Dopo la cena i suoi tre compagni si erano sistemati attorno al fuoco e si erano assopiti quasi subito. Verdoux era caduto in un sonno pesante sopraffatto dalla stanchezza, mentre i due giovani indios giacevano curiosamente seduti poggiando le due schiene l’una contro l’altra, infagottati nei loro pesanti ponchos di lana di alpaca.
I due dormivano, ma qualunque rumore insolito nel silenzio imperante li avrebbe immediatamente destati. Sewell, osservandoli, ne era sicuro, e si compiacque ancora una volta di averli al suo servizio.
Mille pensieri gli impedirono di prendere sonno quella notte. S’alzò e s’avviò verso il crepaccio distante poche decine di metri, giunto sul bordo della gola iniziò a contemplare l’oscurità che la celava. In qualche modo gli pareva di avvertire la presenza di innumerevoli creature che brulicavano e strisciavano nella voragine sottostante, buia e invisibile. Improvvisamente un rumore di passi lo fece trasalire, si voltò, «Juan… sei tu!»

«Sir Joseph, è pericoloso allontanarsi dal fuoco, quelli del villaggio dicono che questo territorio è zona di caccia del tigre delle montagne…»
«Lo so Juan, ma non sono di certo i giaguari a preoccuparmi stanotte, di solito quei gattoni stanno alla larga dagli uomini. Non sarà così per le creature che troveremo laggiù domani…»
I due rimasero in silenzio, pensierosi. Lo sguardo di entrambi era perso nel nero profondo della gola che incombeva davanti a loro.
Poi Sewell, come per spezzare un’inquietudine opprimente che cominciava a farsi strada nel groviglio di pensieri che lo avevano attanagliato per tutta la sera, tornò al fuoco del bivacco seguito da Juan.
Mentre l’indio si risistemava nell’insolita postura che condivideva con Pedro, Joseph Sewell si adagiò nel suo giaciglio e finalmente si abbandonò anch’egli alla stanchezza.
Dopo nemmeno un minuto il sonno riuscì a vincere ogni residuo pensiero.

CAPITOLO SEGUENTE

Un castello da record

E’ l’unico nel suo continente a essere ancora circondato da un fossato con acqua e ponte levatoio originale; è uno dei monumenti del Paese più visitati in assoluto; e di anno in anno si conferma, nella sua città, come il museo con il maggior numero di biglietti acquistati: sembra essere l’identikit perfetto di un posto da favola, una meraviglia frutto dell’immaginazione, eppure esiste realmente e si trova proprio qui, nella nostra Ferrara. E’ il Castello Estense, simbolo per eccellenza della città.

Appena qualche giorno fa i giornali hanno pubblicato i dati relativi allo scorso anno, che evidenziano ancora una volta il trend positivo del castello: quasi 180.000 sono state le visite nel 2017, cioè il 7% in più rispetto al 2016. Un risultato derivato dall’attenzione allo studio, alla conservazione e alla valorizzazione che i nostri beni italiani, invidiati in tutto il mondo, meritano.
Era il 1927 quando per la prima volta venne apertamente espresso il concetto di recuperare la bellezza del castello, in occasione della pubblicazione dell’articolo ‘Per il decoro e per l’arte: sgomberiamo il Castello Estense’. Fortunatamente il suo stato di conservazione era sempre stato molto buono, essendo rimasto un edificio vivo lungo tutto il corso della sua esistenza. All’inizio però non tutti erano d’accordo sulla sua edificazione. Anzi, fu addirittura costruito contro la volontà degli stessi abitanti.
Nel 1385, infatti, alla notizia dell’ennesimo aumento delle tasse, la popolazione insorse contro il responsabile della riscossione delle gabelle, Tommaso da Tortona, uccidendolo. Niccolò II, terrorizzato da tanta ferocia, decise pertanto di far costruire un castello a nord della città, a ridosso delle vecchie mura, per proteggere sé stesso e l’intera famiglia estense. Era una rocca difensiva talmente avanzata per il tempo, che fu studiata da molti architetti, persino da Michelangelo.

In seguito, nel 1476, Ercole I trasformò il castello da fortezza medievale a principesca residenza rinascimentale, restaurandolo e impreziosendolo al suo interno. Non solo: attraverso la sua famosa addizione, rese il Castello estense da costruzione periferica a centro esatto della città. Un edificio imponente, dunque, con sale affrescate, lunghi corridoi, cortili all’aria aperta, alte torri e prigioni sotterranee. E proprio in una di queste particolari prigioni, riservate ai personaggi di alto rango, furono rinchiusi Giulio e Ferrante d’Este, figli di Ercole I, che dopo la sua morte ordirono un complotto per uccidere i loro fratelli più grandi, il legittimo erede Alfonso e il cardinale Ippolito, e impossessarsi dei loro poteri. Una volta scoperti, furono imprigionati. Ferrante, dopo 34 anni, morì in cella, mentre Giulio riuscì ad arrivare a 81 anni e venne graziato, con più di 50 anni di prigionia alle spalle.

Nessuno ha raccontato di aver mai visto, in quelle oscure stanze, il fantasma del povero Ferrante… Ma in compenso varie sono le leggende che parlano di antichi spiriti che vagherebbero nei bui sotterranei del castello. La vicenda più famosa è una triste storia d’amore, la storia di Ugo e Parisina. Nel 1418 fu celebrato il matrimonio tra Parisina Malatesta, di 15 anni, e Niccolò III d’Este, che aveva già avuto un figlio in precedenza, Ugo, di un solo anno più piccolo della sua matrigna. Ugo all’inizio provava un duro sentimento di antipatia per Parisina, ma presto l’odio si trasformò in amore appassionato, un amore pericoloso da tenere segreto. Niccolò, contento del cambiamento e allo stesso tempo ingenuamente ignaro della nuova situazione, iniziò a lasciarli spesso da soli, per esempio in occasione dello scoppio della peste, quando decise di proteggerli facendoli soggiornare in una villa di campagna, dove i due diedero pieno sfogo alla propria passione. Non sfuggirono, tuttavia, agli occhi della servitù e le voci del tradimento giunsero ben presto a Niccolò, che precipitandosi sul luogo, li sorprese in flagrante. Furioso, li fece imprigionare nel castello e condannare a morte, insieme a tutte le adultere ferraresi. Le anime dei due giovani e delle adultere si aggirerebbero ancora piangenti per il castello, un castello di un fascino terribile.

IL CACCIATORE DI LEGGENDE
Uno scozzese in Perù

CAPITOLO PRECEDENTE

CAPITOLO II – Uno scozzese in Perù

Dopo l’arrivo degli europei in America Latina, le leggende sul litofago, le numerose testimonianze e le tracce rinvenute tra le varie raffigurazioni delle culture precolombiane incuriosirono un gran numero di studiosi e di avventurieri. Molti archeologi e naturalisti spesero gran parte delle loro risorse nell’intento di verificare la reale esistenza di questa enigmatica creatura.
Il più famoso di tutti fu senz’altro Sir Joseph Sewell Greenstone.

Nato a Edimburgo nel 1848 da John Greenstone, farmacista, e Mary Elisabeth Haslow, maestra elementare, Joseph Sewell si interessò fin da subito, forse ispirato dal padre, allo studio delle scienze naturali. Ben presto il giovane Greenstone si appassionò alle ricerche sull’evoluzione, tanto da schierarsi in favore delle teorie darwiniane.

Il St. John’s College di Cambridge

Laureatosi al St. John’s College di Cambridge nel 1868, Joseph Sewell Greenstone iniziò la sua carriera universitaria come biologo ricercatore e zoologo per conto dell’Accademia di Scienze Naturali di Cambridge. Con questa investitura intraprese varie missioni, molte delle quali in Sud America.
Proprio una tappa in Perù segnerà l’inizio del suo appassionante viaggio sulle tracce del verdone. Una ricerca che lo porterà a dedicare l’intera carriera allo studio di questo animale unico al mondo.
Il primo periodo trascorso in Sud America non fu facile per Greenstone. Egli dovette misurarsi con l’ostilità delle popolazioni locali che mal sopportavano questo nuovo e insolito interesse di tanti stranieri verso un animale che avevano sempre considerato sacro e inviolabile.
Greenstone si trovava da un paio di settimane accampato presso un villaggio tra le montagne. Era a circa ottanta miglia a est di Cuzco, nelle vicinanze di un sito sul Passo di Auzangate dove erano stati rinvenuti alcuni reperti nazca, assieme a lui c’erano un collega paleontologo e due inservienti assunti a Lima.

Il sole era ormai scomparso oltre la Cordigliera, lo scienziato si trovava nella sua tenda e stava esaminando una serie di frammenti di vasellame e alcune rudimentali lame d’osso. Improvvisamente si precipitò all’interno Juan, uno dei due inservienti peruviani. Si trattava di un indio di vent’anni circa, basso di statura ma robusto, e parlava uno spagnolo con il tipico accento dei nativi.
«Sir Joseph, ho fatto uno scambio con lo sciamano del villaggio, gli ho dato la lanterna a petrolio e lui mi ha dato questo…» disse tutto trafelato il giovane mentre porgeva a Greenstone un fagotto.
Joseph Sewell prese il pacchetto e lo aprì. Quando ne ebbe visto il contenuto sgranò gli occhi, abbracciò il giovane sollevandolo praticamente da terra, accennò quasi un balletto e intonò una specie di ringraziamento in gaelico. Appena si fu calmato esclamò: «Caro Juan, qui ci vuole una bevuta!»

Joseph era uno scozzese delle Lowlands un po’ atipico: rampollo di una rigida famiglia presbiteriana, era altresì un discreto bevitore di whisky e un donnaiolo impenitente.
Superava il metro e ottanta, aveva un fisico asciutto e atletico, capelli castani e occhi grigi.

Joseph Sewell a 24 anni

Appariva abbronzato in ogni periodo dell’anno, con la faccia perennemente incorniciata da una barba incolta e da un vecchio cappello australiano di pelle di canguro. Portava un paio d’occhialini tondi appoggiati sul naso per aiutarsi nella lettura e, stretta tra le labbra, l’immancabile pipa di pannocchia e bambù (lo aiutava a pensare, diceva).
In altre parole, aveva l’aspetto più di un avventuriero che di uno scienziato accademico. E in effetti trascorreva più tempo in giro per il mondo che nella sede della sua università.
Ma questo suo costante girovagare verso terre lontane lo rese anche un esperto conoscitore di molteplici culture. Era poi famoso tra amici e colleghi soprattutto per la sua innata capacità di cavarsela in ogni situazione si venisse a trovare, una dote che gli salvò la pelle in più di un’occasione.

Ebbene, quella sera Joseph Sewell e il suo giovane aiutante si ubriacarono con del whisky che lo scienziato si era portato dalla Scozia. In patria, tra i numerosi detrattori che Greenstone aveva nel mondo accademico, circolava voce che fosse più avvezzo alle sbornie che alle scoperte scientifiche. In effetti, riguardo ai suoi studi, negli ambienti dell’università c’era sempre più scetticismo e, alla vigilia di quell’ultima spedizione, il Rettore dell’Accademia delle Scienze di Cambridge, Sir Bernard Hackett, gli comunicò senza mezzi termini che, se anche stavolta non avesse portato a casa risultati significativi, i fondi per altre spedizioni sarebbero stati tagliati definitivamente.
Così, molto probabilmente, quello sarebbe stato il suo ultimo viaggio in Sud America.
Però, quella sera di settembre del 1884, successe qualcosa che avrebbe cambiato la vita di Joseph Sewell Greenstone per sempre.

Lo sciamano di Auzangate

All’alba del giorno seguente Joseph Sewell chiamò Juan e gli chiese d’accompagnarlo dallo sciamano con cui aveva fatto lo scambio. Il giovane indio, ancora intontito dall’alcool, ubbidì portandolo al vicino villaggio.
Giunti di fronte alla dimora dello stregone, una bassa casupola fatta di mattoni d’argilla e ricoperta da un tetto di canne e malta indurita, Sewell entrò scostando un pesante tendaggio posto all’ingresso. Davanti a sé, nella penombra, vide il vecchio indio seduto che lo fissava.
Greenstone non aveva ancora aperto bocca che lo sciamano cominciò a cantilenare in una lingua incomprensibile. A quel punto Juan, che era rimasto fuori, entrò e, ottenuta con un’occhiata l’approvazione di Sewell, parlò al vecchio in un misto di spagnolo e quechua.

A quell’epoca, le comunità andine del nord non avevano ancora abbandonato l’uso dell’antico linguaggio inca. Soprattutto gli anziani, restii ad accettare una lingua, quella spagnola, assai lontana dal loro modo di comunicare, resistevano tenacemente alle imposizioni delle autorità continuando a parlare la lingua degli antenati.
A dire il vero, se gli europei non comprendevano una sola parola di quechua, al contrario gli indios avevano ormai imparato lo spagnolo alla perfezione. Questo difetto di comunicazione si traduceva in un vantaggio per gli indios che, spesso, si prendevano gioco dei bianchi approfittando della situazione in varie maniere.
All’inizio della spedizione, Joseph Sewell, consapevole di questo fatto, si era convinto che sarebbe stato necessario assumere due giovani aiutanti in grado di parlare perfettamente sia lo spagnolo che la lingua inca, e magari di poter comprendere anche l’inglese. Egli lo riteneva un requisito essenziale, e la piega che presero gli eventi dimostrò quanto avesse effettivamente ragione.
Qualche tempo prima, Greenstone si occupò personalmente dell’assunzione dei suoi servitori.
Lo fece con scrupolo e pazienza, scegliendo coloro che, secondo lui, rispondevano a requisiti imprescindibili per il buon esito della missione. Gli uomini che cercava dovevano parlare più lingue, essere giovani, forti e in buona salute, non superstiziosi e nemmeno analfabeti, e possibilmente senza precedenti con la giustizia. Dovevano poi essere in grado di saper maneggiare armi, anche se non dovevano assolutamente essere ex soldati. Sewell sapeva per esperienza che tra i militari c’era la feccia della società peruviana: mercenari violenti e ubriaconi, ovviamente inaffidabili.
Fu subito chiaro allo stesso scozzese quanto fosse difficile riuscire a trovare soggetti con tutti quei requisiti, vista la situazione sociale in cui versava il Perù all’epoca dei fatti.
Il paese era ridotto in ginocchio: povertà e analfabetismo erano dappertutto; un’economia già precaria era stata azzerata dalla recente sconfitta subita nella guerra contro il Cile; bande di sanguinari fuorilegge infestavano le campagne e pure le comunità degli indios erano in fermento contro il governo centrale.
Ciononostante, alla fine, la perseveranza di Greenstone fu premiata.
Si trovava a Lima ormai da una settimana e, mentre di giorno progettava le varie tappe della spedizione nel chiuso della sua stanza d’albergo, di sera si aggirava senza successo per le varie bettole della capitale alla ricerca degli uomini giusti da assoldare.

Jacques Verdoux nel 1878

L’ottavo giorno, un fattorino dell’albergo gli consegnò un telegramma. Era del suo collega e amico Jacques Verdoux, un anziano paleontologo della Sorbona in arrivo dall’Europa per unirsi alla spedizione di Greenstone.
Il messaggio, partito dalla vicina Colombia, diceva che lo scienziato sarebbe giunto l’indomani al porto di El Callao a bordo di un brigantino proveniente da La Palma. Il giorno dello sbarco Sewell andò al porto a ricevere l’amico, e ivi lo trovò in compagnia di due giovani indios vestiti all’europea.
Dopo un caloroso abbraccio e una serie di energiche pacche sulle spalle, il francese presentò a Sewell i suoi due compagni. Si chiamavano Juan e Pedro, erano due giovani peruviani sui vent’anni circa, e avevano incontrato Verdoux a Panama dove lavoravano per una società francese. Una compagnia che era stata incaricata di progettare un canale in grado di unire l’Atlantico al Pacifico: un’opera colossale che però sarebbe stata realizzata soltanto dopo circa una trentina d’anni.
I due indios erano stati cresciuti dai Gesuiti, erano ben istruiti e conoscevano almeno tre lingue ciascuno. Avevano accettato di seguire il vecchio scienziato perché la Societé Eiffel, sull’orlo del fallimento, non li pagava più da mesi, mentre Verdoux aveva promesso loro un lauto compenso.
Quell’incontro fu per Greenstone un vero e proprio colpo di fortuna: finalmente aveva trovato gli uomini che cercava!
Accordatosi con l’amico francese, assunse Juan come aiutante personale, mentre Pedro rimase al servizio del paleontologo.
Quel giorno segnò ufficialmente l’inizio della spedizione alla ricerca del lithofagus.

Due giorni dopo i quattro esploratori partirono da Lima diretti a Cuzco.

CAPITOLO SEGUENTE

Diciannove anni fa…De André

Diciannove anni fa ero solo un bambino. Diciannove anni fa vidi i miei genitori con le lacrime agli occhi. Diciannove anni fa non capivo il perché tutti i tg mostrassero i video di un signore con dei grossi occhiali e con una chitarra in mano. Diciannove anni fa mio padre mi insegnò una canzone che porto ancora nel cuore. Diciannove anni fa, in quell’11 gennaio, avevo solo 9 anni, ma riuscii a percepire che qualcosa era cambiato e non sarebbe stato più lo stesso. Diciannove anni sono un tempo per alcuni breve, per altri lunghissimo. Non conobbi mai quell’uomo visto in tv, se non attraverso i racconti e le note della sua musica. Diciannove anni fa moriva un signore dalle mille sfaccettature ed etichette: cantautore, poeta, scrittore, anarchico, terrorista, comunista, filo-cinese, filo-br, musicista, folle, genovese, genoano. Diciannove anni fa, e questo lo so ancora oggi, iniziai a conoscere sempre di più quello che oggi considero di diritto un mito, una leggenda, anzi, e più giustamente, un uomo con pregi e difetti, il quale semplicemente volle raccontare ciò che lo circondava, senza fronzoli. Diciannove anni fa moriva il cantore degli ultimi. Diciannove anni fa moriva Fabrizio De André e mi sembrava giusto, diciannove anni dopo, ricordarlo.

Disturbi sonori, ne soffre il 16,2% degli italiani. Il silenzio chiama…

Il silenzio, questo sconosciuto. La tranquillità delle orecchie (e non solo), tempi lontani.

Quasi un quinto degli europei soffre di disturbi sonori dovuti al rumore proveniente dalla strada o prodotto dai vicini: la proporzione è doppia per chi vive in città rispetto a chi sta in campagna, e diminuisce a seconda del numero di persone che vivono in casa. Gli italiani sono sotto la media Ue per i fastidi provocati dai rumori molesti. E’ quanto emerge dai dati Eurostat relativi al 2016. Secondo questi, il 17,9% degli europei è vittima del rumore: il 23,3% nelle aree urbane e il 10,4% in quelle rurali. Gli italiani che patiscono di disturbi sonori sono invece il 16,2%, mentre erano il 18,3% nel 2015. I Paesi dove la gente si lamenta di più del rumore, ovvero circa una persona su quattro, sono Malta (26,2%), Germania (25,1%) e Olanda (24,9%), seguiti da Portogallo (23,1%), Romania (20,3%), Grecia (19,9%) e Lussemburgo (19,7%). Lo stato più ‘silenzioso’, con il minor numero di ‘problemi sonori’, è invece l’Irlanda (7,9%), seguito da Croazia (8,5%), Bulgaria (10%) ed Estonia (10,4%). In generale, a livello Ue ad essere più sensibili al rumore sono i ‘single’, con il 20,8% di persone che si sono lamentate dei vicini o della strada, poi le coppie, con il 17,8%, e infine le famiglie più numerose, con il 16,6%. In particolare, il 18,4% delle famiglie senza figli è infastidita dal rumore, mentre la percentuale scende al 17,5% per quelle con figli.

Sono i dati che ANSA pubblica il 2 gennaio 2018, dati attuali, che fanno riflettere. Da non credere, ma proprio durante le vacanze natalizie pensavo all’importanza del silenzio, a quanto mi mancava, alla sua insostituibile funzione terapeutica, a quanto il rumore sia ormai il primo insopportabile e fastidioso compagno quotidiano di molti di noi. Troppi. Non per nulla durante la pausa festiva mi sono dedicata, fra gli altri, alla lettura de ‘Il silenzio’, di Erling Kagge (Einaudi, 2017, 120 p.) e di ‘Elogio del silenzio. Come sfuggire al rumore del mondo’, di John Biguenet (Il Saggiatore, 2017, 176 p.).

Kagge ricorda come, in media, perdiamo la concentrazione ogni otto secondi e come la distrazione sia ormai uno stile di vita, l’intrattenimento perpetuo una brutta abitudine che ciascuno ormai ha preso. E quando incontriamo il silenzio, lo viviamo come un’anomalia, come un qualcosa di strano ed estraneo che non ci aspettiamo: spesso, invece di apprezzarlo, ci sentiamo a disagio e persi. Erling Kagge, al contrario, del silenzio ha fatto una vera scelta di vita. Nei mesi passati da solo nell’Artide, al Polo Sud o in cima all’Everest, ha imparato a fare propri spazi e ritmi della natura oltre che a immergersi in un silenzio interiore ed esteriore: un incommensurabile tesoro e una fonte di rigenerazione che tutti possediamo a cui è però difficile attingere, immersi come siamo nel frastuono, nel chiacchiericcio (e nel rumore continuo) della vita quotidiana. Ma che cos’è veramente il silenzio? Dove lo si può trovare? E perché oggi è tanto importante? A queste tre domande Kagge fornisce trentatré possibili e interessanti risposte, riflessioni scaturite da esperienze, incontri e letture, tutte animate da un’unica certezza: che il silenzio sia la chiave per comprendere la vita. Cercare il silenzio. Non per voltare le spalle al mondo, ma per osservarlo e capirlo. Perché il silenzio non è un vuoto inquietante aldilà della nostra portata ma l’ascolto dei suoni interiori che abbiamo sopito e dimenticato. Magari non riconosciuto.

Anche John Biguenet si domanda cosa sia il silenzio. Se una semplice assenza di suono, un’estrazione del pensiero o se, come scrisse Saramago, in realtà non esista, perché anche la nostra voce e i nostri pensieri riflessi in noi, in fondo, hanno un suono, quasi un’eco. Quello che è certo è che in esso si possono riordinare pensieri scossi dai ritmi frenetici di ogni giorno, trovare pace da delusioni, incertezze, soprusi, ingiustizie. Riposare. Mentre oggi la scienza, ricorda l’autore – attraverso gli esperimenti con la camera anecoica (ambiente di laboratorio strutturato per ridurre il più possibile la riflessione di segnali sulle pareti. Il termine, dal greco, significa infatti “privo di eco”) – pone in dubbio la sua reale esistenza, autori come William Shakespeare, Laurence Sterne, Mark Twain, Edgar Allan Poe e Rainer Maria Rilke, e pittori come Mark Rothko e Marcel Duchamp, si sono interrogati sul significato del silenzio e sulla sua rappresentazione in letteratura e arte. Biguenet in questo bellissimo libro indaga le mutevoli sembianze del silenzio: premio o punizione, arma letale o strumento di resistenza, vuoto da riempire o sensazione di pienezza, bene di lusso o disturbo da evitare. Il silenzio è oggi spesso, e sempre di più, prerogativa dei ricchi, continua l’autore. Di chi può avere il privilegio oltre che i mezzi per vivere lontano dal rumore che non produce, da sferraglianti rotaie, da fabbriche chiassose o da roboanti autostrade. Alcune automobili di lusso vengono prodotte a rumore quasi zero, le lounge silenziose degli aeroporti sono prerogativa di pochi. Anche gli scompartimenti silenziosi dei treni costano di più, laddove è proibito il telefonino o parlare a voce alta. Lo stesso dicasi per atolli isolati o alberghi intimi abilmente e unicamente posizionati in luoghi lontani dalla folla e immersi nella natura. Sembrerebbe proprio che chi è più povero è più rumoroso, o meglio che abbia meno diritto al silenzio. In un mondo febbrile, snervante, sfiancante, rumoroso e caotico, sempre più spesso il silenzio sa esprimere meglio delle parole le passioni umane. Inseguirne l’incantesimo e la magia è oggi il modo migliore per curarci di noi stessi. Un privilegio?

Cambio d’anno e di governo, ma il rinnovamento dipende dal nostro voto

Cambio d’anno come metafora del prossimo cambio di governo? Tempo di bilanci, somme e sottrazioni per chi vuole segnare questo passaggio ponendo un doveroso accento su quello che è stato e ciò che si vorrebbe vedere realizzato.

Un cambio che per essere tale dovrebbe contenere la svolta, quella reale e percepibile fin da subito, quella che presuppone davvero un giro di boa che permetta di affrontare un futuro nebuloso e preoccupante con almeno un pizzico di speranza e rinnovata energia. Sono caduti gli slogan e i modi di dire tanto sbandierati di un recente passato e di ogni estrazione come ‘rottamazione’, ‘yes we can’ (preso a prestito da Obama), ‘dialogo al posto di insulto e scontro’, ‘Un impegno preciso: città più sicure’, ‘Prima il Nord’, ‘Ricostruire tutto senza paura’, ‘O noi o loro’, ‘I want you’ (ma perché scopiazzare sempre dallo zio Sam?), ‘Cambiamo musica!’ e chi più ne ha più ne metta. Un vero e proprio dizionario di sparate elettorali classiche e del tutto scontate, una raccolta di espressioni che, nell’ottica politichese dovrebbero catturare l’immediata simpatia del cittadino creando pathos, rabbia, familiarità, carica.

Sono tramontate le frasi a effetto perché non scaldano più i cuori. E quello che doveva essere il tanto atteso processo di ‘rottamazione’ (che brutta espressione!) è ritornato a essere solo una parola sbiadita e non più spendibile perché il millantato miracolo del rinnovamento totale che avrebbe guidato l’Italia verso approdi felici rimane sulla carta, o meglio sui cartelloni. Sono finiti i tempi in cui le note di ‘Io lo so che non sono solo’ di Jovanotti percorrevano il Palazzo dei Congressi dell’Eur a Roma, accompagnando empaticamente le convention del Partito Democratico, inneggiando a quella che allora sembrava una rivoluzione pacifica di grande forza e impatto. “Ora la città è un film straniero senza sottotitoli/le scale da salire sono scivoli, scivoli, scivoli/il ghiaccio sulle cose/la tele dice che le strade sono pericolose/ma l’unico pericolo che sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente…”, recitava il pezzo di Lorenzo Cherubini-Jovanotti. E siamo rimasti là, con le nostre paure, le insicurezze sociali, gli interrogativi sul futuro, gli indici che ci passano sotto il naso tentando di creare ottimismo quando la realtà parla del contrario, linee programmatiche da scrivere nella disperata ricerca del consenso di chi è stanco, demotivato, disilluso o indignato, i partiti in affanno che si stanno dimenando come i capponi di manzoniana memoria: quattro povere bestie in attesa di essere consegnate al dottor Azzeccagarbugli, che a testa in giù sono intente a beccarsi fra loro.

Ha ragione Jovanotti: l’unico pericolo è proprio quello di non sentire più niente. Ci ritroveremo chiamati al voto nelle prossime scadenze elettorali nazionali, regionali, provinciali e amministrative con una nuova tornata di slogan e sciorinature luccicanti, magari un po’ meno americane e più ruspanti, perché il ruspante e il ‘nostrano’ ora fa più appeal. Chi parlerà di populismo, chi di responsabilità di governo, chi di un’ennesima ‘svolta’ nel nome dell’onestà e della trasparenza… Verrà rispolverato e tirato a nuovo il tema dei vitalizi con tutte le considerazioni del caso, che risolleverà l’ira popolare a ragion veduta, corredato di tutti gli scenari possibili, testimoni di un’Italia che viaggia su più binari molto diversi tra loro. Il cambiamento? Forse, difficile, impossibile, timidamente probabile…chissà!

Intanto affacciamoci sui prossimi appuntamenti elettorali senza dimenticare, forse illusoriamente, che il nostro voto è un’affermazione di volontà di cui essere consapevoli. Almeno quello. Una cosa è certa: il 2017 se ne va e il 2018 è l’Anno Nuovo che comparirà nei nostri calendari con tutte le sue sfide, sorprese, certezze e imprevisti. Buon Anno a tutti e che i nostri buoni propositi del primo gennaio ci ricordino ogni giorno che possiamo, dobbiamo rendere le nostre comunità un luogo sano da valorizzare, giusto e completo, in cui crescere, vivere ed esprimere ciò che siamo e possiamo offrire. Ciascuno nel proprio pezzetto di esistenza.

IL CACCIATORE DI LEGGENDE
Una curiosa creatura

Davvero credete che la scienza vi abbia svelato tutto del pianeta su cui camminate?
Davvero pensate che sulla Terra non esistano più creature sconosciute, aliene, o luoghi ancora inesplorati, misteriosi?
Io dico che c’è ancora moltissimo da scoprire… Oltre i confini del sapere ci sono cose inaspettate, strabilianti. Esseri e posti capaci di mettere in discussione le più elementari certezze.
Come oggi, in passato ci furono uomini di scienza che non si accontentarono, che non smisero mai di cercare e che scoprirono cose fino a quel momento confinate nel mondo dell’immaginazione e della fantasia. Cose che dopo divennero elementi tangibili da accogliere definitivamente nel regno dell’esistente.
Nelle prossime righe vi racconterò le gesta di uno di loro, che oltre un secolo fa iniziava la sua avventura al confine tra immaginario e reale. Buona lettura.

Da ʿAppunti di viaggio di J. S. Greenstone: alla ricerca del verdone australeʾ
(Ricostruzione storica di Charles Greenstone)

Premessa
Mi presento: mi chiamo Charles Sewell Greenstone Secondo, sono docente di biologia alla Yale University in California, ho pubblicato alcune importanti ricerche sulla criptozoologia, attualmente sono consulente scientifico per la rivista di divulgazione ‘Archos’, più precisamente sono curatore della rubrica sulla biodiversità.
Tempo fa entrai in possesso di un carteggio del mio bisnonno Joseph Sewell Greenstone, il celebre zoologo scozzese conosciuto per aver scoperto nuove specie animali tra le quali il famoso quanto bizzarro verdone mangiasassi. Si trattava di una serie di diari autografi risalenti al periodo dei viaggi in Sud America, viaggi che egli intraprese tra il 1878 e il 1885.
Facendo un raffronto delle date dei diari, mi resi conto con assoluta certezza che quei venti taccuini con le copertine in pelle e le pagine zeppe di appunti scritti di suo pugno altro non erano che la cronaca dettagliata della sua scoperta più controversa e discussa.
Le pagine che seguiranno sono il frutto della lettura di quei taccuini, un resoconto sommario degli avvenimenti che accaddero immediatamente prima, durante e subito dopo il rinvenimento dell’incredibile creatura che la scienza conosce col nome di smeraldino litofago e che Joseph Sewell ribattezzò verdoux australis, in omaggio all’amico e compagno d’avventura scomparso nel corso di quella spedizione: Jacques Verdoux.
Il mio racconto vuole essere un contributo, seppur modesto, alla memoria di un grande esploratore oggi quasi dimenticato. Un uomo di scienza illuminato e anticonformista. Un appassionato assertore delle proprie idee che osò sfidare lo scetticismo di amici e colleghi; che fu isolato e deriso dai suoi contemporanei, ma che, alla fine, vinse la sua folle scommessa con la scienza passando definitivamente alla storia come il più grande scopritore di specie sconosciute.
Quest’uomo era Sir Joseph Sewell Greenstone, il mio bisnonno.

CAPITOLO I – Una curiosa creatura

Il verdone australe (smeraldino lithofagus), popolarmente conosciuto col nome di verdone mangiasassi, è uno strano animaletto verde e tozzo. Poco più grande di un koala ma col muso che ricorda quello di un ippopotamo. Il corpo è massiccio, con quattro zampe corte e robuste, ciascuna munita di tre lunghi artigli. La pelle è glabra, dura, callosa e di un color verde pallido.
Il verdone è privo di coda ed è invece munito di una spessa cresta coriacea che, posta sul dorso, è capace di mutare colore a seconda dell’umore dell’animale. Le orecchie, dalla curiosa forma a imbuto, sono molto sensibili a qualsiasi tipo di vibrazione e sono in grado di percepire sia gli infrasuoni che gli ultrasuoni a bassa e alta frequenza. Dopo l’udito, il senso più sviluppato del verdone è l’olfatto, capace di avvertire un odore anche a un miglio di distanza. Per contro, il verdone è quasi cieco e distingue a malapena gli oggetti posti a pochi centimetri dal proprio muso.
Esso vive principalmente sottoterra, si sposta scavando gallerie con le possenti zampe anteriori e solo eccezionalmente fa qualche breve apparizione in superficie. È un animale schivo e solitario ed è assai raro riuscire a vederlo perché la sua estrema timidezza lo rende sfuggente alle altre creature, soprattutto all’uomo.
Da un recente studio sui resti fossili del protosmeraldino pristinus, l’antenato dell’attuale verdone, si è ipotizzato che i primi verdoni vivessero in superficie. Nel corso della sua lenta evoluzione il lithofagus si è poi specializzato nella vita sotterranea, al riparo dalla lotta per la sopravvivenza con le altre specie e lontano dal pericolo di eventuali predatori.
Struttura fisica e peso lo rendono assai lento e impacciato, eppure il verdone mangiasassi è forse la creatura vivente più longeva del regno animale, in grado di sopravvivere più di ogni altra specie a qualsiasi avversità.
Ma la peculiarità che più lo contraddistingue da ogni altra creatura, rendendolo forse l’animale più bizzarro al mondo, è la sua dieta: esso infatti si ciba prevalentemente di sassi! (*)
La struttura ossea robustissima, costituita da un mix di calcio alluminato e carbonio concentrato, e l’apparato digerente, in grado di sintetizzare qualunque composto minerale disgregandone le molecole attraverso processi chimici/metabolici unici in natura, danno al verdone mangiasassi l’eccezionale capacità di mangiare e soprattutto digerire la pietra e i minerali più duri. Il suo stupefacente apparato masticatore, costituito da possenti fasci muscolari ultra fibrosi e da ossa craniche e mandibolari dure come il metallo, è in grado di sbriciolare qualunque roccia, sedimentaria o lavica che sia.
È chiaro che siamo di fronte a un animale unico nel suo genere, una bizzarria della natura che ha ispirato la fantasia dell’uomo fin dall’antichità.

Smeraldino Litofago (Verdoux Australis)

(*) A questo punto sarà bene fare una precisazione: la dieta del verdone è oggetto di un’annosa discussione tra gli studiosi di tutto il mondo, divisi tra “radicali” e “moderati”. I primi sostengono l’unicità della dieta del litofago, teorizzando che l’animale si sia biologicamente ed eccezionalmente evoluto per assimilare nutrimento dall’assunzione esclusiva di minerali di vario genere. I secondi, invece, affermano che l’alimentazione del litofago sia essenzialmente organica, ipotizzando che la dieta a base di minerali (pietre e sassi) sia soltanto una componente marginale, seppure eccezionale, di un regime alimentare molto più ampio e variegato. In sostanza, la corrente moderata, ritenuta più attendibile, descrive il verdone mangiasassi come un animale onnivoro.

Geoglifo nazca della Piana di Ingenio

I primi a testimoniare l’esistenza del verdone furono i Nazca che già in periodo litico e preceramico lo rappresentavano nei loro graffiti, e più tardi anche nelle decorazioni su vasellame e in riproduzioni di feticci in pietra e osso. Gli esempi più eclatanti della familiarità del popolo Nazca con il verdone rimangono comunque i famosi geoglifi zoomorfi della Pampa di Ingenio e di Nazca in Perù e a Cerro Pintado in Cile.
Secoli più tardi, testimonianze del culto del verdone si hanno a Vilcas, villaggio inca nei pressi di Macchu Picchu, dove si trovano incisioni su pietra con raffigurazioni di sacrifici umani a divinità con sembianze di enormi lithofagus.
In genere, in tutta l’America precolombiana, le antiche civiltà hanno dato prova di conoscere l’esistenza dell’insolito animale. Esso peraltro, probabilmente originario della Patagonia, ha via via allargato il suo habitat sotterraneo colonizzando il sottosuolo di tutta l’America Latina.
E fu soltanto durante e dopo la scoperta dell’America che in Europa giunsero le prime sparute voci sulla sua esistenza.
In proposito, sarà bene segnalare un episodio risalente all’epoca della conquista spagnola del Perù.
In un passo del diario di Pablo Armando Castillo, luogotenente al seguito di Hernando Pizarro durante l’assedio di Cuzco nell’estate del 1536, il soldato spagnolo narra del suo incontro con una strana creatura: “… All’alba di stamane mi trovavo con la mia guarnigione nella radura rocciosa nei pressi del Picco di Watzaclan, portavo il mio cavallo a bere al torrente a monte del Rio Matako quando mi accorsi della presenza di una creatura del demonio. Era appoggiata su un gruppo di pietre e pareva fissarmi, in attesa e pronta ad attaccare. Mi voltai indietro e urlai ai miei compagni di accorrere, ma nessuno di loro udì e rimasi solo con quel drago temendo il peggio. Fu allora che avvenne una cosa che tuttora stento a credere: la bestia cominciò a divorare le pietre che aveva intorno, una ad una, e il rumore che emettevano le sue fauci era terrificante. Distratta dal suo pasto non faceva più caso a me, dandomi il tempo di raggiungere il cavallo e afferrare l’archibugio. Caricai lo schioppo e mi voltai verso di essa per prendere la mira e sparare, ma la bestia era scomparsa. Al suo posto era rimasta soltanto una voragine senza fondo…”

Pablo Armando Castillo

Il resoconto di Castillo non fu preso in grande considerazione dai suoi contemporanei, e, anche se poi si ebbero notizie di altri avvistamenti, tutto quanto cadde ben presto nell’oblio, alimentando per lo più dicerie a uso e consumo dei nativi.
Gli Europei, tuttavia, poterono avere prove inconfutabili dell’esistenza del lithofagus solo molto più tardi, quasi quattro secoli dopo, e proprio grazie alle scoperte di Joseph Sewell Greenstone.

CAPITOLO SEGUENTE

Le illustrazioni del litofago sono di Carlo Tassi

Incredibile risveglio

Un uomo che si risveglia dopo 30 anni di coma, un viaggio tra due generazioni in un mondo completamente, profondamente e inevitabilmente cambiato. Difficile immaginare di dormire per un tempo così lungo. Se solo si pensa, però, ai cambiamenti avvenuti in un simile lasso di tempo, si comprende come siano stati talmente tanti in un periodo che, alla fine, appare poi breve. Questa la riflessione che porta l’ultimo libro di Walter Veltroni, ‘Quando’, l’incredibile storia di Giovanni, una parentesi intima che mette a confronto momenti di dolore, sconforto, gioie e scelte difficili con l’evoluzione storica di un Paese, le differenze di generazioni, il cambiamento della sinistra.

Giovanni entra in coma a causa di un incidente avvenuto il giorno della morte di Enrico Berlinguer, il 13 giugno 1984, e si risveglia oltre 30 anni dopo, nel luglio 2017, in un mondo completamente cambiato, del quale deve imparare a capire tutto, dalla caduta del muro di Berlino all’arrivo dei cellulari, del web e dei computer. “Mi viene da piangere. Se Berlinguer muore, finisce tutto”, aveva detto allora Ettore, il padre di Giovanni, prima che suo figlio si addormentasse e partisse per un lungo sonno da cui nessuno pensava si sarebbe mai risvegliato. Quello del leader del Pci è un funerale che annichilisce una generazione, che si riunisce nel dolore a Piazza San Giovanni a Roma aprendo a quella trasformazione della sinistra ancora oggi alla ricerca di una sua nuova identità. Giovanni, in tutti questi anni, è stato amorevolmente e dolcemente accompagnato da Suor Giulia, la suora ‘tormentata’ figlia di padre comunista; nella sua nuova vita lo seguiranno Daniela, la psicologa malinconica con cui il protagonista stringerà un tenero e unico rapporto affettivo, e suo figlio Enrico, un ragazzino compito, preciso e saggio, forse troppo per la sua giovane età. La fidanzata Flavia dopo una prima pacata e delicata presenza, scomparirà verso un nuovo matrimonio, con una figlia in comune che non saprà di avere un padre “che dorme”. Tanti i personaggi e gli intrecci. Fitte le parole e i sentimenti.
Giovanni, ha cinquant’anni quando si risveglia ed è come un bambino che scopre il mondo, che si deve affidare agli altri per capire e camminare. Era e diventerà un uomo sospeso, accompagnato dall’implacabile riflessione di Enrico, per cui “siamo tutti soli, ma insieme, siamo veloci, ma superficiali, fragili, interconnessi ma fragili”. Le grandi battaglie collettive, le lotte, gli ideali, le manifestazioni, i movimenti studenteschi appartengono a un passato romantico e lontano. “Tu invidi i nostri sogni, io invidio la vostra realtà. Chi avrà ragione?”, si chiede Giovanni. “Spero tu, temo io”, è la risposta di Enrico. Un libro profondo, piacevole. Da leggere e regalare.

Walter Veltroni, Quando, Rizzoli, 2017, 320 p.