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PER CERTI VERSI
La chemioterapia

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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LA CHEMIOTERAPIA

ma la debbo fare
La chemioterapia?
Chiedevo al dottore
Con la confidenza
Delle ore spese
Tra visite chiacchiere
E diagnosi a ventre aperto

Se non vuoi andare a Lourdes
Fu la sua risposta

IN UNA NOTTE

In una notte
Di rapido vento
Che soffia via
Tutte le foglie
I capelli cadono a flotte
Perfino i peli ruvidi
I peli più tenaci
Se ne vanno
Come Avari
In una notte

LA CHEMIO II

quando vomiti la fogna
Dell’essere
La chemio ti ha invaso
Il midollo della volontà
Ti esplode nel bacino
Un baratro orizzontale
Con te hai solo
Il paracadute della cecità

PRESTO DI MATTINA
Credo, l’aurora…

Credo l’aurora: la veniente dalle tenebre, l’avvolta dal silenzio, sentiero che porta alla luce e ridona spazio e chiarore alle cose, luminosità al volto dell’uomo.

Credo l’aurora: soffio perenne e spirazione del vento di Dio sull’oscurità di caotiche acque, che apre una via tracciando orme invisibili nella notte, ampio respiro dopo l’indescrivibile affanno che serrava la gola.

Credo l’aurora: nata dal cuore di Dio e, per questo, luogo di cominciamento; momento di risveglio e plasmazione, che rialza e fa ripartire di nuovo ogni giorno finché non sia compiuta l’opera dei giorni. È come una madre che rimette in piedi il figlio caduto dopo i primi passi. Come il vasaio di Geremia che ricomincia da capo quando l’opera non prende la forma voluta: «Questa parola fu rivolta a Geremia da parte del Signore: “Prendi e scendi nella bottega del vasaio; là ti farò udire la mia parola”… ed ecco, egli stava lavorando al tornio. Ora, se si guastava il vaso che egli stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli rifaceva con essa un altro vaso, come ai suoi occhi pareva giusto» (Ger 18, 1-4).

Credo l’aurora: risveglio della creazione nel quotidiano; annuncio della nuova creazione nel mattino di Pasqua, fenditura sempre aperta da cui transitò e continua a irradiarsi la luce del Risorto. «Allora – dice Isaia – la tua luce sorgerà come l’aurora» (Is 58, 8)

Tensione verso la luce è, dunque, l’aurora, perché attesa e al contempo rivelazione della parola per cui tutte le cose sono fatte e ricreate in un processo generativo continuo. È sosta e scoperta pure del Verbo venuto ad abitare la nostra storia legando il suo destino al nostro, per sempre. Verbo che muta le sorti; che fa risorgere dall’oscurità e ripartire verso un cammino sconosciuto qual è, all’aurora, l’aprirsi di un nuovo giorno. È lei che dice all’homo viator con le parole di un poeta: «Viandante, sono le tue impronte/ il cammino, e niente più,/ viandante, non c’è cammino,/ il cammino si fa andando./ Andando si fa il cammino,/ e nel rivolger lo sguardo/ ecco il sentiero che mai/ si tornerà a rifare./ Viandante, non c’è cammino,/ soltanto scie sul mare» (Antonio Machado).

Crede all’aurora anche il poeta del salmo 129 e pure quello del salmo 63. Il primo, nell’oscurità della notte, attende l’aurora più delle sentinelle di guardia alla città: «Sono rivolto al Signore e attendo la sua parola più che le sentinelle all’aurora». Il mistico del secondo salmo, cercatore di Dio, la brama dopo una notte di turbolenta attesa: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua. Sul mio giaciglio penso a te nelle veglie notturne…  A te si stringe l’anima mia: la tua destra mi sostiene». E come non pensare alla notte nella quale Giacobbe lottò con l’angelo di Dio sino al sorgere dell’aurora, in cui lo scontro si mutò in benedizione: alba di un nome nuovo.

Credo nell’aurora: e non sembri eccessivo e indelicato dirlo, pensando al ‘credo’ proclamato nella messa, al termine dell’omelia, quale sintesi e conferma della fede degli apostoli, simbolo, trasmissione di una comune attesa che diviene risposta orante dell’assemblea dopo la proclamazione della Parola di Dio.

Si dichiara di fronte a tutti ciò in cui crediamo, ciò che ci fa vivere, per aderire con l’intero vissuto della nostra testimonianza alla fede apostolica passata di generazione in generazione, di chiesa in chiesa, sino a noi. È lo stesso sì, il credo confessato con il martirio dagli apostoli e poi trasmesso ai loro successori. Una risposta custodita con fedeltà e creatività al Cristo proclamato nel vangelo appena udito. Il credo è l’adesione alla Parola ri-pronunciata anche oggi, vincolo sostanziale tra i credenti, abitato dallo Spirito che attualizza la Tradizione antica, trasmessa dai, Padri nella professione dell’unica fede con una rinnovata epiclesi, una nuova ‘invocazione dello spirito’ nell’atto della celebrazione e nella storia che ricompagina la compagnia della fede di oggi con quella delle origini.

La professione della fede non è appena un pronunciamento dottrinale: è un credere a quello che crede Dio, la famiglia umana, la sua famiglia e noi figli nel Figlio. Risveglia così la coscienza a una responsabilità e prassi interna ed esterna all’ekklesia: l’impegno a una conversione totale del vivere cristiano nel servizio dell’uomo e del vangelo.

Una volta, distraendomi nella recita del credo, mi sorprese un pensiero impertinente, e mi domandai: «Ma Dio crede? Che cosa crede?». Rimasi senza risposta quella volta. Ma una fredda mattina d’inverno, era domenica dopo una nevicata, andai a vedere il sorgere del sole dalle parti di Cona, sulla via della Ginestra. È bello, sapete, vedere rinascere gli alberi, le case, la strada; il loro passare lentamente dall’oscurità alla luce, dalla morte alla vita. Raggiunsi così un piccolo lago nei pressi che era tutto gelato, come del reso lo era anche la strada, e lì attesi l’aurora. Quella volta vidi il sole sorgere per ben tre volte all’orizzonte: tra gli alberi spogli sulle sponde del laghetto, riflesso sulla superfice ghiacciata dell’acqua e infine, facendo alcuni passi indietro, lo vidi di nuovo specchiarsi, e risorgere, dalla strada gelata. Fu allora che arrivò la risposta a quella domanda che si era perduta.

Dio crede l’aurora! Perché egli viene a noi come l’aurora, e come l’aurora la sua venuta è sicura (Os 6,3). Ma non è forse vero che le sue storie e quelle del figlio, iniziano all’aurora? “Uscì il seminatore a seminare…; il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna… Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba… E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!”

Dio crede nell’aurora perché crede nel Figlio, l’amato, è detto nel salmo 110, 3: «dal seno dell’aurora, come rugiada, io ti ho generato». Ma il suo credo l’aurora, Dio lo dice pure con le parole del Cantico dei Canti: «chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole,/ terribile come schiere a vessilli spiegati?». Non è forse costei l’umanità in cammino verso il suo compimento in Dio? Per Gregorio Magno è la stessa assemblea dei credenti, l’ekklesia, che come sposa va incontro al suo sposo: «Il primo albore o aurora fa passare dalle tenebre alla luce; per questo non senza ragione con il nome di alba o aurora è designata tutta la Chiesa degli eletti» (Commento a Giobbe).

Credo nell’aurora – dice Dio – questa mia figlia dello stato nascente, che attraversa la soglia del nulla e fa passare dal buio alla luce, dalla morte alla vita. Essa precede sempre, cammina innanzi a me e ai miei figli e il pensiero di lei risveglia a entrambi il cuore come è detto nel salmo: «svégliati, mio cuore, svegliatevi, arpa e cetra, voglio svegliare l’aurora» (Sal 57,9).

In questi giorni, ascoltando per caso una canzone di Marco Mengoni dal titolo Essere umani, mi è tornata alla mente la domanda: «Dio crede?». E la risposta è stata quasi immediata, ricalcata dalle strofe di quella canzone («Credo negli esseri umani,/ Che hanno coraggio/ Coraggio di essere umani»). Sì, Dio crede negli uomini resi fratelli da suo figlio; egli si affida così nelle mani di coloro che spezzano il pane con l’affamato, accolgono in casa i senzatetto e vestono coloro che sono spogliati della loro dignità. Così mi piace pensare che quando Dio creò la donna, dopo aver addormentato l’uomo, le consegnò le parole da sussurrare al cuore di ogni uomo che viene in questo mondo al sorgere dell’aurora, parole simili a questa canzone: «Ma che splendore che sei/ Nella tua fragilità/ E ti ricordo che non siamo soli/ A combattere questa realtà». Allo stesso modo, il mattino di Pasqua, il Risorto parlò al cuore impaurito delle donne, parole da riferire poi ai discepoli e penso assomigliassero a queste: «Prendi la mano e rialzati/ Tu puoi fidarti di me/ Io sono uno qualunque. Uno dei tanti, uguale a te».

La Lettera agli Ebrei ci chiede di tenere ferma la professione della nostra fede in colui che ha attraversato i cieli, Gesù Cristo, il figlio di Dio. Colui che, salvo nel peccato, ha saputo prendere parte alle nostre debolezze, condividere ogni prova, incluso la sofferenza più atroce e la morte, che attende l’uomo. L’invito è allora quello di avvicinarci con piena fiducia a questa «notte calma molto vicina al sorgere dell’aurora», come canta Giovanni della Croce pensando all’umanità di Dio nascosta in Gesù: «Dove ti nascondi? … L’amato è le montagne, le valli solitarie e ricche d’ombra, le isole remote, le acque rumorose, il sibilo dell’ aure amorose. È come notte calma molto vicina al sorger dell’aurora, musica silenziosa, solitudine sonora, è cena che ristora e che innamora», (CA 13-14). Il Concilio Vaticano IItantum aurora est, “è appena l’aurora” disse papa Giovanni XXIII – ha recepito questa mystica lectio in dialogo con il mondo di oggi quando afferma che «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. [Egli] ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi… ci ha anche aperta la strada: se la seguiamo, la vita e la morte acquistano nuovo significato… perché anche noi, diventando figli col Figlio, possiamo pregare esclamando nello Spirito: Abba, Padre!», (Gaudium et spes, 22).

Al cantón fraréś
Francesco Benazzi: “Un ciclamin”

Un piccolo fiore spuntato sull’asfalto è l’occasione, per Francesco Benazzi, di esprimere temi del suo mondo poetico: la diversità, la sensibilità per l’ambiente, la meraviglia improvvisa. Il profumo di un ciclamino si contrappone ai fumi della città.L’autore si è cimentato anche in traduzioni dialettali, ad esempio dal canto XVIII dell’Orlando furioso l’episodio di “Cloridano e Medoro”, oltre ad altri brani sempre di Ludvìg (l’Ariosto).

 

Uη ciclamìη

Propia iηcòst a cal mur c’l’è dur e fred,
ad co d’uη marciapié quaś sempr a l’òra,
vśin a l’asfàlt, a fiaηc ad un tumbìn,
d’impruvìś l’àltar dì è spuntà fóra
uη fior ad ciclamìη.
– Vdiv, agh son aηca mi -, a par c’al diga,
– Lasèm indùv a sóη, briśa strapàram
a stal filìn ad vita che i m’a dà;
cuηfrónt ai mié fradié più furtunà,
piantà dentr int uη vaś o int uη źardìn,
am sent uη bastardìη.
Lasèm filtràr cal poc d’aria spuzlénta
c’a pósa vivr almen aηch sól pr un dì;
a sarò uη bastardìη, ma aηch mis acsì,
da tut chi altr èsar
la mié sort l’an è briśa difarénta. –
Ben, da cal dì, quand am tróv iηcastrà
int uη ruglòt ad màchin, o iηvlà
dai tub ad scapamént e iη meź ai fum,
am par sempr ad santìr al so profum.

 

Un ciclamino (traduzione dell’autore)

Contro quel muro che è duro e freddo, / in fondo a un marciapiede quasi sempre in ombra, / vicino all’asfalto, a lato di un tombino, / d’improvviso l’altro ieri è nato / un fiore di ciclamino. / – Vedete, ci sono anch’io – sembra che dica, / – Lasciatemi dove sono, non strappatemi / a quel tenue filo di vita che mi hanno dato; / rispetto ai miei fratelli più fortunati, / piantati dentro un vaso o in un giardino, / io mi sento un bastardino. / Lasciatemi respirare a fatica quel po’ d’aria puzzolente, / che possa vivere almeno solo un giorno; / sarò sì un bastardino, ma anche nella mia / condizione, la mia sorte non è differente da / quella di tutti gli altri esseri. – / Ben, da quel giorno, quando mi trovo incastrato / fra le macchine o sotto il tiro dei tubi di / scappamento e in mezzo ai fumi, / mi sembra sempre di sentire il suo profumo.

Tratto da: Francesco Benazzi, Mi, Frara e Ludvìg, Ferrara, La Carmelina, 2010.

Francesco Benazzi (Ferrara 1923 – 2019)
Insegnante di lettere negli istituti superiori cittadini, ha partecipato a numerosi concorsi letterari dialettali conseguendo premi e segnalazioni. Appassionato di musica classica ha tenuto corsi di cultura musicale e guida all’ascolto. Collaboratore della rivista L’Ippogrifo del Gruppo Sscrittori Ferraresi e membro de Al Tréb dal Tridèl – Cenacolo Dialettale Ferrarese. Ha pubblicato fra l’altro Come scrivere 180 lettere al direttore senza mai ricevere risposta : lettere alla “Nuova Ferrara” e al “Resto del Carlino” & scritti vari (2015) stigmatizzando con versatilità, senso civico e ironia aspetti della vita cittadina.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce al venerdì mattina.
Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: foto di Marco Chiarini

Sulla Sinistra a Ferrara

Ho seguito con interesse Il dibattito proposto da Mario Zamorani su cause e concause della storica sconfitta del Centro Sinistra alle ultime elezioni comunali di Ferrara. Le ragioni (parecchie e non ancora tutte) vengono citate anche nel contributo di Federico Varese che di seguito pubblichiamo. Capire gli errori dovrebbe servire a non commetterli nuovamente, ma forse – dopo un anno abbondante di legislatura leghista – è venuto il momento di guardare al presente e provare a immaginare un futuro diverso per Ferrara. Partendo da due nodi fondamentali, due passaggi necessari se non vogliamo rassegnarci alla decadenza di Ferrara: una decadenza culturale, civile, economica, sociale: e una decadenza che non inizia con Naomo ma che data almeno un decennio. Due punti di attenzione, due necessità che Federico Varese mi pare individui molto bene e che provo a riassumere a modo mio. Punto uno: occorre un diverso, inedito e coraggioso progetto sociale e culturale per Ferrara, una nuova idea di Città. Punto due: occorre un nuovo ceto, una nuova classe politica, e più in generale: un modo diverso di fare politica, di agire la democrazia, di ascoltare e interpretare i bisogni e le attese dei cittadini ferraresi.
Il cammino da compiere è lungo. Alla Sinistra non basterà voltare pagina, ma dovrà ‘cambiare pelle’. Insomma, non sarà sufficiente far le pulci (leggi: far opposizione) alle stupidaggini e alle malefatte dell’attuale deprimente amministrazione leghista. Dovrà riuscire a parlare a tutta la città (dentro e fuori le mura), a tutti i ferraresi, non solo agli amici e conoscenti. Dovrà proporre una idea di città (ad esempio “la città della conoscenza” che Giovanni Fioravanti continua a indicarci) che ridia speranza e protagonismo all’ex elettore di Modonesi quanto all’ex elettore di Fabbri. O dobbiamo rassegnarci a questa Ferrara divisa a metà tra guelfi e ghibellini?
Dunque, errori a parte, dove ripartire? Da quali parole, valori, idee, progetti, da quali nuovi volti e comportamenti? Ecco, sarebbe bello che il dibattito riprendesse da qua
.  Ferraraitalia è solo uno strano quotidiano on line, completamente autofinanziato, ma sta cercando di fare la sua piccola parte. E apre le porte a chiunque a Ferrara sogna, desidera, lavora per “La Città Futura”.
(Francesco Monini)

Ho letto che il PD ferrarese ha preso posizione contro l’accorpamento delle Camere di Commercio di Ferrara e Ravenna.
Mi sono chiesto: chi è il PD a Ferrara oggi?
Armato di buona volontà, ho cercato sul web la pagina ufficiale del partito. Ho scoperto che il sito www.pdferrara.it non viene aggiornato dal 20 maggio del 2019. L’ultima notizia è una iniziativa elettorale a favore di Aldo Modonesi sindaco. La pagina fotografa una età dell’oro in cui Tagliani è sindaco, Modonesi assessore, Marattin deputato del PD e Baraldi segretaria comunale. Questa è l’ultima classe dirigente non di destra che ha governato la città.
Perché il PD ha perso le elezioni e rischiamo almeno dieci anni di governo leghista? Il bello di intervenire tardi in questo dibattito promosso da Mario Zamorani è di non dover ripetere le analisi di chi mi ha preceduto. Una per tutti: Alessandra Chiappini, la studiosa che ha diretto per tanti anni la Biblioteca Ariostea, ex assessore alla pubblica istruzione e alla famiglia. Nel suo testo sono snocciolate molte ragioni della sconfitta: scandalo Coopcostruttori, Cassa di Risparmio (“una ferita ancora sanguinante”), sanità (mancano trecento posti letto), gestione del post-terremoto… Vi consiglio di leggerlo. Aggiungo: Palazzo Specchi, politica museale inadeguata, fino alla crisi del ‘pattume’. La lista purtroppo è lunga.

L’errore tattico maggiore è stato non aprire a forze nuove. Sono state le liste civiche di sinistra a mobilitare cittadine/i che volevano cambiare la città senza consegnarla alle destre. Fa impressione vedere docenti di fama internazionale come Guido Barbujani e Piero Stefani, architetti come Beatrice Querzoli, giovani studenti e artisti come Arianna Poli e Adam Atik, attivisti come Marianna Alberghini, medici come Lina Pavanelli e tanti altri, disposti a mettersi in gioco per scongiurare la vittoria della destra. La disponibilità di Fulvio Bernabei è stata sprecata. Va detto che diversi esponenti del Pd, come Ilaria Baraldi e Massimo Maisto, avevano capito che bisognava cambiare, ma purtroppo non sono riusciti a produrre una candidatura condivisa e portatrice di novità. Da alcune conversazioni avute durante la campagna elettorale ho tratto l’impressione che il PD preferisse perdere con un candidato organico piuttosto che vincere con un candidato indipendente. Allora non sorprende che l’esito sia stata la sconfitta elettorale. Fa ancora più impressione che il PD ferrarese non abbia promosso una discussione sul risultato elettorale. Il consigliere Dem Bertolasi sul Carlino ha detto che, in assenza di un dibattito, non ha più senso iscriversi a quel partito. Su estense.com Ilaria Baraldi, la quale con grande coerenza si è dimessa da segretaria cittadina dopo la sconfitta, ha descritto “l’inconsistenza identitaria e la confusione organizzativa” del suo partito.

L’errore strategico è stato non avere una idea di città. Dopo la visione, sviluppata negli anni settanta, di “Ferrara città d’arte e di cultura”, bisognava innovare. Quel progetto benemerito nasceva da un dialogo forte tra Italia Nostra, guidata dall’avvocato Paolo Ravenna, l’amministrazione comunale e i dirigenti dei musei e delle istituzioni culturali ferraresi. Il restauro delle mura resta una pietra miliare nella storia della conservazione dei monumenti in Italia. Ma alla lunga quel modello ha prodotto una attenzione esclusiva al centro storico, ad un turismo di giornata, attratto dalle mostre di Palazzo dei Diamanti. Quella stagione, che si è protratta fino al 2019, ha prodotto risultati straordinari–da ultima la mostra su Ariosto curata dalla Direttrice Pacelli—, ma dopo quarant’anni serviva una nuova visione. Toccava alla politica capire che quel modello andava esteso alla città fuori dalle mura, alla cultura materiale e agricola, legando il comune al parco del Delta, un tema sollevato solo dalla candidata civica Roberta Fusari.

Andare oltre le mura (per ribaltare il titolo di una sezione de Il Romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani) sarebbe servito anche a mettere al centro della nuova visione di città il *disagio* delle periferie, incluso il quartiere Giardino, la povertà, lo sfruttamento e le diseguaglianze, questioni cruciali per la sinistra, che invece sono state lasciate alla destra. Come documentato dall’Annuario Statistico Ferrarese, la povertà è cresciuta negli anni di amministrazione del centro-sinistra. Il tema delle aree interne (posto in Italia da Fabrizio Barca) doveva essere centrale anche nella visione della sinistra ferrarese. Nulla. In campagna elettorale ho proposto di tagliare i costi dei biglietti autobus per i residenti nelle periferie. Mi sono sentito dire che i ferraresi vanno in bicicletta! Le conversazioni che ho avuto con gli esponenti della giunta prima delle elezioni erano sempre improntate all’atteggiamento ‘non disturbare il manovratore’. Nessuna curiosità per idee nuove.

Il PD non aveva un progetto serio per il Quartiere Giardino: ricordo la proposta del candidato sindaco di tagliare le tasse comunali agli esercenti che aprivano attività in Gad. Credere che tagliare le tasse sia una soluzione a complessi problemi economici e sociali è particolarmente miope. Fior di economisti hanno dimostrato che gli imprenditori vogliono servizi sociali che funzionino e un ambiente urbano attraente, che invogli i clienti a frequentare un certo luogo. A quel punto sono disposti a pagare le tasse (chi vuole approfondire il tema consiglio il recente libro The Finance Curse di Nicholas Shaxson).

Bisognava prendere di petto la paura (fondata o meno) di molti cittadini/e sulla sicurezza. Bisognava “invadere” il quartiere Giardino con iniziative, riunire il consiglio comunale lì ogni mese, come poi ha fatto una volta sola la nuova giunta. Ricordo la stucchevole diatriba sulla criminalità cosiddetta nigeriana a Ferrara: “E’ mafia sì o no?” Quello che importava ai cittadini era recuperare gli spazi pubblici. Serviva un patto per la sicurezza e l’integrazione, sottoscritto da città, forze dell’ordine e comunità immigrate. Ignorare il problema è servito a lasciare che altri lo declinassero in maniera incivile.

Cosa fare in futuro? Quello che non si è fatto nel 2019: aprire a forze nuove e costruire una idea di città che parli a chi vive dentro e fuori dalle mura. Aggiornare la pagina web sarebbe comunque un primo passo.

Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi

“Fellini degli Spiriti” all’Apollo per le celebrazioni del centenario

Da: Ufficio Stampa Apollo Cinepark

 

Con la riapertura dell’Apollo riprendono gli appuntamenti con gli eventi speciali e, in occasione delle celebrazioni dei 100 anni della nascita di Federico Fellini, arriva al cinema di via del Carbone “FELLINI DEGLI SPIRITI”, in sala lunedì 31 agosto e martedì 1 settembre alle ore 21.15.

Profondamente innamorato della vita, Fellini ha attraversato la sua esistenza cercandone sempre il senso attraverso il suo percorso cinematografico e il documentario Fellini degli Spiriti, diretto da Anselma Dell’Olio, indaga in profondità la sua passione per quello che lui definiva, in breve, il mistero, l’esoterico, il “mondo non visto” in una ricerca incessante di altre possibilità, altre dimensioni, altri viaggi e di tutto quello che può far volare lo spirito e la mente.

 

Questi gli alti titoli in programmazione questa settimana:  TENET tutti i giorni alle 21.00;

VOLEVO NASCONDERMI, tutti i giorni ore 21.30, SIBERIA fino a domenica 30 agosto alle ore 21.15. 

 

Storia di un lockdown fuori dagli schemi

E mentre oscilliamo tra il credere e sperare che un nuovo lockdown non avvenga e il timore che il prezzo di un’estate all’insegna dell’affollamento potrebbe risultare salato, viene in mente la storia di un lockdown anomalo, completamente fuori dagli schemi, uno sbalorditivo fatto di cronaca appartenente ad un’altra epoca. Un lockdown volontario della durata di 24 anni, quello in cui si ritira Ida Mayfield Wood (1838-1932) assieme alla figlia Emma e alla sorella Mary.
Ida, approdata a New York dal Sud degli Stati Uniti – Louisiana – nel 1857, all’età di 19 anni, diventò l’amante di Benjamin Wood, proprietario ed editore del quotidiano New York Daily News nonché fratello di Fernando, celebre politico dell’epoca e sindaco della città per due mandati. Mise gli occhi su quell’uomo di 37 anni, entrando così nel jet set più esclusivo, e lo fece con una lettera indirizzata a lui personalmente: “Signore, ho sentito parlare spesso di Voi da una delle Vostre amanti, la quale mi ha detto che state cercando un ‘volto nuovo’. Io sono nuova in città e in ‘affari di cuore’ e vorrei propormi per un accordo di intimità con Voi […]”.
Ebbero una figlia, Emma, tenuta lontana dai riflettori della cronaca e quando nel 1867 l’uomo rimase vedovo, Ida diventò la terza signora Wood. La ‘Bella di New Orleans”, come veniva chiamata dai reporter e giornalisti, manifestò subito grandi capacità di relazione in quel mondo altisonante, dove venne ripresa mentre ballava col principe di Galles in visita a New York e mentre intratteneva il futuro presidente degli Usa, Abram Lincoln. E, mentre Benjamin Wood dilapidava somme ingenti al gioco d’azzardo e scommesse, da incallito giocatore, lei vigilava sul patrimonio familiare con grande abilità, si faceva intestare gli averi e condivideva le vincite al gioco per preservare i beni, lasciando le perdite al marito.
Alla morte dell’uomo, lei era già intestataria di quasi tutti i possedimenti e, come ultima grande operazione finanziaria, nel 1901 vendette il giornale ricavandone più di 250.000 dollari, all’epoca somma vertiginosa. Qualche anno più tardi, a quel punto della sua vita, Ida decise che era arrivato il momento di lasciare quel mondo dorato, dopo aver ritirato dalle banche tutta la sua liquidità, affittò con la figlia e la sorella la suite con due stanze numero 552, presso l’Herald Square Hotel, dalla quale nessuna delle tre uscì mai più, vivendo decenni di rigida autoreclusione.

In quegli anni di isolamento totale, ebbero pochissimi contatti con i dipendenti e nessuno fu mai ammesso all’interno delle camere se non in due sole occasioni, convinte da una cameriera ai piani.  Aprivano la loro porta per ritirare quanto ordinato, sempre le stesse cose: latte condensato, caffè, crackers, pancetta, uova e occasionalmente pesce, sigari cubani e tabacco da fiuto di Copenhagen. Ida pagava sempre e puntualmente in contanti, anche l’affitto della suite.
La figlia Emma morì dopo il ricovero in ospedale nel 1928, all’età di 71 anni, mentre Mary, la sorella, si ammalò nel 1931 e, dovendo chiedere aiuto, si presentò per la prima volta l’occasione di violare quel lockdown durato un’eternità. Accorse l’ignaro direttore dell’hotel che, in sette anni di lavoro, non si era mai accorto di quelle strane ospiti, accompagnato da un medico legale, un becchino e due avvocati dello studio O’Brien, Boardman & Early.
Lo scenario che si parò davanti era incredibile: il corpo della povera Mary coperto da un telo, pacchi di giornali ingialliti disseminati un po’ ovunque, scatole di biscotti, rotoli di corda, carta da pacchi, una cucinetta nel bagno (si scoprì che le donne non si erano mai fatte il bagno). Si aprì improvvisamente uno squarcio sullo squallore in cui Ida e le altre erano vissute e tutto venne a galla. Vennero trovati centinaia di migliaia di dollari in contanti, oggetti di grande valore e opere d’arte conservate nella suite e in un deposito nel seminterrato dell’hotel, gioielli di pregio come quello donato dal presidente Monroe alla famiglia e perfino una rara lettera firmata Charles Dickens inviata dallo scrittore a Benjamin Wood.

In una scatola di creckers fu rinvenuto un diamante del valore di $ 40.000.  Vennero trovati anche vasetti vuoti di vaselina, con la quale Ida si massaggiava il viso più volte al giorno per molte ore, mantenendo un incarnato da cameo, di colorazione avorio, nessun segno del tempo, nessuna ruga.
Ida Mayfield Wood fu trasferita in una nuova suite al piano inferiore e al momento del suo trasferimento nel nuovo alloggio, ben 1013 richiedenti, presunti parenti, litigavano per reclamare l’eredità, arrivando anche a dichiararla non idonea a gestire la propria ricchezza. Il 12 marzo 1932, Ida morì all’età di 93 anni. Alla sua scomparsa emerse in tutta la sua drammaticità una verità nascosta: Ida Mayfield Wood non era figlia di un piantatore di canna da zucchero della Louisiana, come lei dichiarava, ma di Thomas Walsh, un povero immigrato irlandese che si era stabilito a Malden, Massachusetts. Sua madre aveva vissuto, prima dell’ingresso negli Usa, negli slums di Dublino, ben lontana dal poter vantare ascendenti di piccola nobiltà.
In realtà, Ida Mayfield non era nemmeno il suo vero nome, che era Ellen Walsh.
E per finire, sembra che Emma non fosse nemmeno sua figlia bensì una sorella minore, segretamente protetta con la connivenza del marito Benjamin. La storia di Ida e le sorelle, vissuta gran parte in un assurdo lockdown,  sembra uscita da un romanzo d’appendice dai contorni nebulosi e tutto cominciò, come Ida raccontava nei rari momenti di  loquacità a una cameriera, quando da povera ragazzina incontrò una zingara che le pronosticò un futuro di fortuna e grande ricchezza a cui aveva sempre creduto fino alla fine.

SCHEI
Naomo (l’originale) e la Nemesi

 

In origine, Naomo non aveva nulla a che fare con l’attuale vicesindaco di Ferrara, usurpatore di nomignoli oltre che di case popolari. Naomo era la caricatura pressochè calligrafica di Flavio Briatore, creata dal comico Giorgio Panariello. Un capellone attempato che girava in pareo, ostentando la sua ricchezza e sfottendo la povertà degli altri (chiamato Naomo perchè, al tempo, Briatore se la intendeva con Naomi Campbell).

A parte Berlusconi, non esiste in Italia un personaggio che incarni l’arroganza della ricchezza meglio di Flavio Briatore. Infatti i due sono grandi amici, e condividono le medesime frequentazioni eccellenti, tra cui quella con il professor Alberto Zangrillo, primario di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale San Raffaele di Milano. Zangrillo è il medico che affermava già un mese fa che il Covid era “clinicamente morto”, supportando l’affermazione coi dati della unità da lui diretta, come se non avere in quel momento contagiati da Covid in rianimazione al San Raffaele fosse più importante, dal punto di vista epidemiologico, delle evidenze mondiali sulla diffusione della malattia; come se la malattia dovesse essere derubricata a raffreddore dal momento che più nessuno finiva intubato da lui. Infatti Briatore qualche giorno fa in tv diceva di avere avuto la febbre, ma che Zangrillo gli aveva detto che era un raffreddore. E giù a prendere per il culo e nello stesso tempo indignarsi per la dittatura del Covid, che legittimava il sindaco di Arzachena a prendere l’illiberale e tirannico provvedimento di chiusura delle discoteche, tra cui il suo Billionaire.

Deve essere stata l’autorevolezza di Zangrillo, imparagonabile alla spilorcia ottusità del sindaco Ragnedda, a convincere Briatore non solo a tenere aperto il Billionaire, ma ad ospitarvi decine di Very Important Persons, da Bonolis a Mihaijlovic, da Della Valle ai calciatori Laqualunque arricchiti da ingaggi faraonici e insensati, e via di calcetto, aperitivi al Sottovento (altro locale per parrucchieri catodici, troniste e ospiti di Barbara D’Urso) e foto di gruppo in rigorosa assenza di mascherina e distanziamento.

In inglese e in altre lingue non esiste la traduzione della nostra espressione “bella figura”. Fare bella figura è una intraducibile esclusiva italiana, il sintomo lessicale della nostra attitudine al magheggio, alla rappresentazione fasulla e brillante di una sostanza misera o truffaldina. Per converso, il microdrama  gallurese può essere inquadrato nella categoria mitologica della nemesi, oppure in quella più prosaica delle figure di merda. Una sessantina di positivi (in aumento) nello staff del Billionaire, Mihaijlovic (reduce dalle terapie per la leucemia e da un trapianto di midollo) positivo, il gestore del Sottovento e Briatore non solo positivi, ma ricoverati in ospedale – il primo a Sassari, il secondo al San Raffaele dall’amico  luminare nonchè vate Zangrillo – in condizioni serie. Un bel cazzo di raffreddore, già denominato infatti “Focolaio Billionaire”. Mi vengono in mente le ironiche e profetiche parole del sindaco di Arzachena, il pezzente Ragnedda, quando disse una settimana fa che la sua ordinanza sulla chiusura dei locali serviva anzitutto a tutelare “gli anziani come Briatore”. (NdA: adesso Naomo l’originale sostiene di avere solo un’infiammazione alla prostata, anche perchè il Covid lo ha già fatto mesi fa, glielo ha detto sempre Zangrillo. Dal Covid al Prostamol.)

Una volta Andy Warhol disse che nessuna somma di denaro, per quanto grande, poteva consentire al ricco di bere una Coca Cola più buona di quella che beveva lo squattrinato all’angolo di strada. Nessuna somma di denaro può consentire al ricco di beccarsi un Coronavirus migliore del povero, ma Briatore anche nella malattia sceglie gli schei. Infatti non lo stanno curando in un reparto Covid, ma in un cosiddetto reparto “solventi”, che non è un reparto di intossicati dalle colle, ma di persone dall’Isee preverificato, come in banca, che consentirà loro di pagare di tasca propria un trattamento Vip (intuberanno con sonde in acciaio cromato?). C’è maggiore giustizia sociale in una bottiglietta di Coca Cola che in un ospedale pubblico.

Avete presente quei serial televisivi ambientati in megalopoli americane, in cui i personaggi si ritrovano puntualmente tutti a bere nello stesso locale, come se invece di essere a Los Angeles fossero a Cocomaro di Focomorto? Ecco. La cafonaggine imperante ha trasfigurato l’immagine della Sardegna, riducendola e identificandola con la sineddoche buzzurra e infetta della posticcia Porto Cervo, due chilometri quadrati brulicanti di calciatori, nani e ballerine che postano stronzate su instagram, più intruppati di un pullman di giapponesi in vacanza aziendale. Uno sciame di vespe contagiose.

La fortuna degli umani, questa strana razza capace di vette e abissi speculari, è che i medici e gli infermieri (molti dei quali senza un contratto dignitoso da 14 anni) cureranno tutti allo stesso modo. Che siano mafiosi, premi Nobel, critici d’arte, operai, casalinghe, serial killer, stupratori o coglioni arricchiti. I quali, fidatevi, appena avranno tirato un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, riprenderanno a berciare con la consueta boria contro la privazione della libertà di fare schei. E intanto i suoi dipendenti in Costa Smeralda si stanno contagiando, molti lo sono già. Un Ispettorato del Lavoro e una Asl indipendenti e degne potrebbero approfittare della situazione per verificare le condizioni di lavoro di queste maestranze. Mentre Naomo (l’originale) fa convalescenza, sarebbe bello fare un bel giro di verifiche sul rispetto delle regole, sanitarie e di lavoro, nei suoi possedimenti.

Vite di carta /
La misura della maturità

Vite di carta. La misura della maturità

Proprio ieri ho fatto visita a una signora più grande di me di qualche anno che vive sola in una grande casa dalle finestre perennemente chiuse. La sua giornata trascorre così, tra studio, lettura e tanto computer. Ha un indubbio carisma e una sofferta maturità.

Mi ha parlato a lungo di questi suoi ultimi anni pieni di dure prove, dei lutti di tutti i suoi famigliari. Ha detto di essersi smarrita in un lungo cammino buio, ma ora si sente di nuovo libera nello stare con se stessa e sul suo volto ancora bello ed espressivo ho letto in effetti un messaggio sereno.

Poi, prima di addormentarmi alla fine della giornata ho voluto aprire il mio nuovo libro. L’ho fatto con delicatezza perché non è mio, ma è il prestito di un amica. L’ho fatto perché molti libri hanno le ali e non vanno spezzate.

Che inizio. Ho ritrovato immediatamente lo stile dell’autore che leggo da anni, le frasi ben scandite  che seguono i pensieri del protagonista e li fissano con precisione semplice. L’autore è Gianrico Carofiglio, il protagonista è l’avvocato Guido Guerrieri, il romanzo ha per titolo La misura del tempo ed è arrivato secondo alla edizione più recente del Premio Strega.

Ci sono giornate in cui i fatti che accadono e le sensazioni che si provano sono tra loro in armonia. Ieri è stato così: la lettura serale mi ha portato di nuovo a riflettere sulla nostra maturità di uomini e donne della seconda età.
Ho letto solo le prime ventidue pagine, per cui mi accingo a scrivere eccezionalmente di un romanzo che non ho ancora letto. Però l’esperienza di vita dell’avvocato Guerrieri si è già accampata nel libro e mi ha dato spunti preziosi per misurarmi con lui.

La nuova cliente, che egli riceve alla fine di una lunga giornata di lavoro, non è una persona qualsiasi, ma una donna con la quale molti anni prima ha avuto una relazione piuttosto intensa, anche se è durata solo alcuni mesi. Quando lei entra nello studio c’è l’impaccio del ritrovarsi dopo un così lungo intervallo e dopo tante esperienze di vita.

Se accadesse a noi che leggiamo, non potremmo che dare conferma di ciò che accade a Guido e Lorenza: lui riconosce lei a fatica, lei lo trova molto simile al Guido giovane, ma si salutano entrambi con un gesto goffo. Lei gli dice sinceramente che non lo trova cambiato, lui sa evitare di dirle la stessa frase che risulterebbe formale se non addirittura insincera. Perché lei porta male i suoi 57 anni ed è lì per un problema serio che riguarda il figlio e che aggiunge altri anni alla pelle del suo volto.

Nel corso della giornata, prima di questo appuntamento delle 19, Guido ha incontrato per caso un amico, Enrico, e l’ha trovato estremamente provato dalla morte della madre. Anche un mio amico ha perso la madre nel mese di giugno e ora sta faticando a riprendersi.

Quanto a me, ho perso madre e padre da molti anni ormai, come Guido Guerrieri. Bene, siamo tutti dalla stessa parte: narratore, personaggio, lettrice (e lettori). Leggo il resoconto che Enrico fa a Guido della scomparsa della madre e sento che mi emoziono e mi scompongo; Guido dice di avere avvertito “come un pugno alla bocca dello stomaco” e credo usi le parole giuste anche per me.

Perché sono parte in causa e anch’io mi libero, sentendo dire da Enrico che è una prova durissima quella di assistere un genitore nei suoi ultimi mesi e giorni, quella che a volte ci ha fatto esasperare e talvolta abbiamo risposto con asprezza o con insofferenza a una delle  persone più care. Enrico dice che questo comportamento ci toglie la “dignità”, io non lo penso: nei brevi momenti in cui è toccato a me ho sentito di smarrire semmai la mia identità, sperduta in uno spazio senza confini e senza leggi.

L’ho chiamata “la terra di nessuno”, anche perché non si lascia governare da alcun principio razionale ed è lei a impadronirsi del nostro smarrimento e di noi, a tratti. Ci rende insensibili, quasi dovessimo metterci in salvo dalla spirale della malattia e della fragilità.

Guido ha invitato Enrico a prendere un caffè e ha ascoltato il suo sfogo. E’ un atteggiamento che mi pare misurato, che soccorre nel modo più naturale l’amico. Enrico ha bisogno di buttare fuori dolore, sgomento e delusione di se stesso. Non servono donchisciottismi, basta esserci nell’istante giusto, prima di tornare ognuno alla propria vita e alla propria identità.

Da ultimo, ma per ventidue pagine può bastare, l’inventario. Spinto dai discorsi di Enrico, Guido ripensa a sua volta ai propri genitori e in sole tredici righe fa un bilancio preciso di quello che gli hanno lasciato. Anche qui mi sono scomposta.

So bene cosa hanno lasciato a me i miei genitori, non so se saprei esprimerli in così poche parole, con nettezza. Tento di occupare le righe del libro con il mio elenco, come se provassi a sovrapporre la mia mano a quella del narratore. L’operazione mi sta riuscendo abbastanza bene: nelle due liste sono compresenti “onestà” e “rispetto per gli altri”.

Nella lista di Guerrieri segue l’”amore per le idee”, nella mia metto l’amore per la creatività e per la sana adesione a se stessi. Quanto al “bisogna sempre sbrigarsela da soli” mi discosto un po’: se Guido fatica ad accettare aiuto dagli altri, credo di essere diventata meno rigida di lui nel tempo, con tutta la collaborazione di cui ho goduto nella mia professione di docente e nei rapporti dentro la mia nuova famiglia.

E’ finita una giornata vissuta in armonia. Mi sento bene, anche se il dialogo con la signora mi ha sbattuto in faccia che il dolore può farci così male e le pagine del nuovo libro mi hanno riportata alle mie manchevolezze. Mi sento al mio posto, anche se stare qui comporta avere paura e prendere la misura ai miei limiti.

Non so quali tra le infinite variabili della narrazione compariranno da pagina 23 in poi; non so intuire gli ostacoli che l’avvocato Guerrieri dovrà superare per condurre a termine il processo al figlio di Lorenza, che si presenta piuttosto difficile. Confido nella sua professionalità e nell’esperienza che ha maturato in ormai molti anni di attività come avvocato penalista.

Conosce i propri punti di forza e le fragilità, sa valutare i rischi e le risorse di cui dispone; saprà ricostruire pazientemente una verità, forse dovrà scegliere tra verità processuale e verità vera, credo che come altre volte cercherà di trovare la loro migliore intersezione. E poi il finale della storia potrebbe piacermi oppure no, spesso i finali sono scontati o poco plausibili o troppo espliciti. Insomma deludono.

Tuttavia non ho scelta, sono o non sono da sempre una lettrice? E allora non posso che accettare il rischio e procurarmi il piacere di continuare a leggere.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

BUFALE & BUGIE
Non servono prove, se accusi Putin e la Russia

L’onere della prova spetta a chi intenda dimostrare una tesi, eccetto quando il bersaglio corrisponde al “diverso” da noi.

A maggior ragione se si tratta della Russia, in mano a uno zar, l’onere probatorio lascia il posto all’accusa gratuita. Secondo un articolo de La Repubblica, pubblicato il 2 agosto, “Romania, la disinformazione russa dietro alle teorie negazioniste del coronavirus”. Un titolo sbadatamente privo di punto interrogativo – necessario poiché riporta le interpretazioni di un sito Internet informativo che nulla dimostra in via definitiva nel proprio scritto – , e che mostra un uso improprio dell’aggettivo “negazionista[vedi qui]. Quella che viene presentata nel sommario come inchiesta del sito riportato, Politico Europe, è in verità una notizia lanciata il 29 luglio dal New York Times Post per dare eco alle parole di Corina Rebegea, sostenitrice della tesi in questione. Ma Andrea Tarquini, che ricordiamo per le informazioni errate sulla Svezia [vedi qui], scivola anche citando il sito Sputnik nella versione romena: secondo il giornalista, dall’inchiesta emerge la sua centralità nel sostenimento di “campagne anti-mascherine rivolte soprattutto ai giovani”; eppure, leggendo l’articolo preso a modello dal giornale italiano, si nota come a parlare di tale argomento sia Raed Arafat, membro del governo, mentre l’agenzia di stampa internazionale è tirata in ballo solo più avanti, parlando in generale di “disinformazione”. L’accusa lanciata dalla dirigente del Center for European Policy Analysis sostiene il ruolo attivo della piattaforma Sputnik nella promozione di “teorie cospirative” sul virus, ma basta visitare l’edizione presente in Romania per verificare che la sua colpa è semmai quella di dare spazio anche a notizie che pongono dubbi. Pura invenzione dell’articolo italiano sono poi i “troll di Putin”, a cui si associa il lancio di “bombe sporche”; non solo, perché apprendiamo anche che la tesi da questi appoggiata prevederebbe “una cospirazione dei servizi d’intelligence occidentali”. Inutile dire che nulla di ciò è documentato, né tra le righe dell’articolo originale, né tra quelle del sito citato. E quando invece l’articolista trascrive un dato che ha sì una fonte, oltre ai due testi, aggiunge però un tocco di immaginazione: secondo il sondaggio nominato, il 41% delle persone intervistate crede che il SarsCov-2 sia un’arma biologica statunitense creata per dominare il mondo, e non “una macchinazione dei servizi segreti occidentali piuttosto che una minaccia reale”. L’ipotesi che il virus sia ingegnerizzato non comporta la sua non pericolosità.

E come mai non troviamo scritto che Politico Europe non è altro che la versione europea del quotidiano americano Politico? O che il Cepa è un istituto americano dichiaratamente atlantista? O che il sondaggio menzionato è stato portato avanti da un centro legato all’Unione Europea? Ma la propaganda è solo quella degli altri.

BUFALE & BUGIE, la rubrica di controinformazione di Ivan Fiorillo esce ogni mercoledì su Ferraraitalia. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

RITORNO A SETTEMBRE:
scuola: dallo spazio che “insegna” allo spazio che “consegna”.

Quando c’era Profumo. Chi lo ricorda? Sono nove anni, poco meno di due lustri, eppure sembra un’epoca lontana, ancora appartenere al secolo scorso. Profumo è stato ministro della pubblica istruzione nel governo Monti. Nel 2012 si è intestato un convegno, tenuto a Roma, molto importante, con una sineddoche per tema: “Quando lo spazio insegna”, nuove architetture per la scuola del nuovo millennio.

La scuola open space, senza aule, né corridoi. Dove studenti e insegnanti lavorano in modo collaborativo, sfruttando le possibilità offerte da internet e dalle tecnologie della comunicazione. Una scuola aperta tutto il giorno, disponibile alle contaminazioni con il territorio: scuola vera e propria al mattino, centro sportivo e di aggregazione al pomeriggio, centro di formazione per gli adulti alla sera. Queste, nelle parole del ministro di allora, le conclusioni del convegno, perché la scuola della società della conoscenza richiede spazi modulari e polifunzionali, facilmente configurabili ed in grado di rispondere a contesti educativi sempre in evoluzione.

Il suggerimento uscito dal convegno era quello di alzare lo sguardo sulle esperienza delle  scuole europee che avevano intrapreso un percorso di ripensamento dell’ambiente di apprendimento. Siamo al dunque, e la legge sull’edilizia scolastica è ancora quella dal 1975, con le aule come unità didattica. Ora che si studiano gli spazi il principio è sempre lo stesso.

Quando si deve mettere in sicurezza un luogo o lo si chiude o, se si tiene aperto, occorre considerare attentamente l’uso a cui è destinato quel luogo e quali attività in esso si svolgono.
Non so chi abbia coniato la pessima espressione “classi pollaio”, so però che la promessa di eliminarle contiene un inganno, perché anche quando si riducesse il numero dei polli il pollaio resterebbe sempre un pollaio. La scuola magazzino, la scuola silos di generazioni non funziona più, non da oggi, ma da tempo. Un tempo nutrito di riflessioni pedagogiche e di esperienze, ma sempre un tempo che la scuola ha tenuto distante da sé.
E, dunque, si continua ad ignorare la necessità di aprire il pollaio, di abbattere le mura del magazzino, di demolire i silos. Ci si comporta come se fosse scoppiata l’aftaepizootica e la soluzione consistesse nel distribuire gli animali in più stalle a ruminare come prima.

Con “andare a scuola” noi intendiamo l’impegno ad apprendere e a studiare, che però non vuol dire per forza di cose stare tutti insieme in una aula ogni giorno per duecento giorni all’anno, come non significa che giunge un momento nella vita di ciascuno di noi in cui si smette di “andare a scuola”, nel senso che si cessa di studiare.

Un aspetto su cui è opportuno fare chiarezza è che ‘cultura’ ed ‘educazione’ sono due cose distinte che non vanno mischiate tra loro come spesso invece ci accade di fare.
La questione se la poneva Lev Tolstoj intorno agli anni Sessanta del diciannovesimo secolo. Tolstoj risolve il problema sostituendo al concetto di educazione quello di ‘cultura’, sostenendo che si deve operare una netta distinzione tra le nozioni di cultura, educazione, istruzione e insegnamento.
La cultura è la somma di tutte le esperienze che formano il nostro carattere, mentre l’educazione è il prodotto della volontà di plasmare la personalità e il comportamento delle persone. Ciò che differenzia l’educazione dalla cultura è, dunque, ‘il carattere coercitivo’, l’educazione è cultura obbligatoria; la cultura è libertà.

Sto sostenendo che volendo riaprire le scuole a settembre, prima sarebbe stato necessario decidere cosa farci dentro a quegli edifici: organizzare il pollaio in funzione della  sicurezza o organizzare la sicurezza in funzione del riprendere a fare cultura?

L’edificio scolastico è un luogo di studio dove i processi di apprendimento sono individualizzati, né più ne meno delle cure mediche, dove si promuove l’autonomia, vale a dire il camminare da soli con le proprie gambe nei territori della cultura, avendo grande attenzione alla qualità dei compiti a ciascuno richiesti. La scuola non può che essere il luogo della flessibilità, della scomposizione e della ricomposizione di spazi, gruppi, esperienze e relazioni. Alla scuola non servono piani d’appoggio, ma tavoli da lavoro, le sedute con il piano ribaltabile vanno bene per l’aula magna, per la sala delle conferenze, non certo per spazi laboratorio, intendendo per laboratorio ‘i saperi operosi’, l’operosità del sapere. L’apprendimento come processo culturale, mai statico ma sempre dinamico. Allora la sfida mancata è quella di riaprire a settembre degli ambienti di apprendimento, degli spazi dove si svolge la cultura, anziché i silos e i magazzini che continuano a contenere generazioni dopo generazioni.

Il tempo ci sarebbe stato già prima, ma volendo, anziché usare la demagogia delle ‘classi pollaio’ come specchietto per le allodole, sempre che si avessero delle idee e delle riflessioni in testa, si sarebbe potuto lavorare fin da marzo per predisporre nuove scenografie, nuove regie degli apprendimenti, della cultura e dei saperi.
Invece si è nominato un commissario al grande Moloch, senza considerare che in un luogo in cui si fa cultura l’uso dello spazio oltre ad essere dinamico è dialettico. Varia dai progetti, dai percorsi didattici, dalle proposte di lavoro, dai conflitti, dalle strumentazioni di cui si dispone, insomma da quello che si intende fare che non sempre è identico a se stesso e da quello che avviene che non sempre è anticipabile.
Gruppi che possono essere anche numerosi, con le necessarie misure di sicurezza, se si tratta di un video o di una conferenza, gruppi più piccoli, monadi che necessitano di spazi in cui gli arredi siano fruibili in modo da permettere sia il lavoro singolo che cooperativo e agli insegnanti di muoversi da un’isola all’altra, di avere un rapporto uno a uno quando necessario.  Aule atelier in cui si può essere anche in diversi e mantenere le distanze, aule di musica dove l’apprendimento dello strumento musicale avviene con la presenza di poche unità di alunni per volta. Se si suona il flauto e la chitarra in forma orchestrale lo si può fare in spazi ampi. E poi c’è il territorio con le strutture e le istituzioni culturali che offre, dunque, una distribuzione degli spazi che va ben oltre l’aula. In questa prospettiva ci sta anche l’ibrido con la didattica a distanza che può funzionare da tutoraggio di ciò che è già stato predisposto a lezione negli spazi scolastici o fuori sul territorio.

Infine la variabile tempo entro cui la cultura non può essere sacrificata come avviene a scuola, un tempo che va dilatato in funzione degli apprendimenti e dell’uso degli spazi. Le scuole sono gli edifici del nostro sistema culturale, pertanto non possono essere adibite alle sole necessità della didattica, come per lo più è accaduto finora, ma devono soddisfare anche quelle del territorio. Per cui non ci sarebbe nulla di scandaloso se si facessero turni di fruizione diversi in edifici predisposti con ambienti di apprendimento anziché di insegnamento, lo stesso vale per l’uso delle strutture messe a disposizione dal contesto urbano.

Da marzo il discorso sulla scuola ha conosciuto solo banchi, piani di riapertura sfornati dai comitati tecnico-scientifici e linee guida riviste e corrette. Tutto è stato enfatizzato come se la scuola fosse una vita a parte, diversa, come se le norme da rispettare non fossero quelle di tutti i giorni, distanziamento, mascherine, igienizzazione.
Siamo transitati dallo spazio che “insegna” vagheggiato dal ministro Profumo allo spazio che “consegna”, alle bambine e ai bambini, alle ragazze e  ai ragazzi che, in tempo di Covid, sono consegnati nelle aule e nei banchi, semmai nuovi, ma sempre in fila gli uni dietro agli altri come plotoncini alla conquista della loro educazione.

Al racconto di idee, proposte e soluzioni sono mancati i professionisti della cultura, gli insegnanti, a cui neppure si è pensato di dare voce o che non hanno avuto la  necessaria autorevolezza professionale per farsi ascoltare. Epidemiologi e virologi sono saliti alla ribalta delle interviste e degli studi televisivi,  gli insegnanti hanno lavorato a distanza, verrebbe da dire in ombra, sopravanzati da una catasta di banchi che non ha mancato di riempire i palinsesti televisivi.

LA STUPIDITA’ NON E’ NECESSARIA
la Scuola della Conoscenza rimane l’unico argine

La frase “La stupidità non è necessaria”  la troviamo scritta in un testo di Gregory Bateson dal titolo Mente e Natura  la trovo straordinaria! Riassume in modo emblematico lo spirito del tempo che ci troviamo a vivere oggi.
Quel verbo impersonale usato in modo così sarcastico!
Quale uomo dotato di un minimo di ragionevolezza infatti potrebbe ritenere sensato utilizzare la stupidità nelle manifestazioni del suo essere! Tutti di regola desiderano distinguersi per l’acume del ragionamento, per la brillantezza delle  idee esposte…non certo per l’ottusità del pensiero.

Paradossalmente, invece, basta leggere i commenti fatti da moltissimi utenti sui social, per esempio in materia di immigrazione, o sui provvedimenti per  contrastare il contagio da covid-19, e risulta lampante che non solo in tali interventi si rinuncia volentieri ad ogni riferimento al buon senso comune, ma si condividono ragionamenti del tutto contrari alla dignità umana semplicemente copiando/incollando documenti aberranti.

Come è potuto capitare che ad ogni livello, cominciando dai leaders politici fino al cosiddetto uomo della strada, sia stato abbandonato l’uso di ogni filtro democratico, ogni principio etico, e circolino sui media impunemente messaggi razzisti, argomentazioni in forme neppure troppo mascherate di  natura fascista  o di comportamenti intolleranti verso ogni tipo di diversità?

Provo a ricostruire un ragionamento che possa giustificare tale cambiamento.

Abbiamo assistito dalla fine degli anni Ottanta fino ad oggi non solo ad una crisi della Politica ma ad una sua radicale delegittimazione; non solo alla perdita di centralità della Cultura ma alla perdita di credibilità della sua agenzia di trasmissione principale che è la Scuola.
Tutto ciò ha portato ad una lenta e pericolosa erosione delle strutture democratiche attraverso cui fino ad oggi si è sviluppata la formazione dell’opinione pubblica, consegnandola alle interazioni tipiche del mercato, alle agenzie di marketing e ai sondaggi di opinione.Insomma non solo abbiamo assistito al passaggio di status da cittadini a consumatori, ma a quello da cittadini consapevoli a consumatori ignoranti e fieri di esserlo.

Questo mi sembra essere oggi il dato più preoccupante, il poter in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo ascoltare e  dire tutto e il contrario di tutto, l’essere felici di aver azzerato  ogni debito col passato sia a livello politico che a livello culturale, per cui in assenza di punti di vista riconosciuti come autorevoli  ne diventa valido uno qualsiasi.
Non interessano più di tanto credenziali, titoli, o requisiti specifici della fonte dell’informazione.
Vengono fatte le affermazioni che più contrastano con quelle dell’avversario non in nome di una faticosa e comune ricerca di una Verità, di cui da tempo si è perduto il tracciato epistemologico, ma al solo scopo di negare la verità dell’avversario.
Ed ecco che il negazionismo conosciuto a livello dello studio del fenomeno storico si sta allargando a quello dei fenomeni scientifici in genere.

Quello che più quindi disorienta è la mancanza di certezze, di attendibilità, di affidabilità.  La confusione regna sovrana e nel rumore generale è una gara a chi grida più forte.
Il 1989 rappresentò l’anno di una nuova era televisiva caratterizzata da violenti scontri verbali. Fu nel programma di Arnaldo Bagnasco, Mixer cultura, che si celebrò infatti l’inaugurazione della stagione delle risse in TV nella contesa tra i critici d’arte Vittorio Sgarbi e Achille Bonito Oliva.
Seguirono poi altri palcoscenici televisivi che offrirono la possibilità di continuare ad altri attori la spettacolarizzazione dell’ingiuria e della lite a livello mediatico ampiamente ripagata dai picchi di ascolto altissimi.

A livello politico poi  il grande primo cambiamento dello scenario tradizionale, della cosiddetta Prima Repubblica, avviene con la discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Con il primo governo Berlusconi, nel 1994, abbiamo una narrazione della politica mai vista prima.
Un imprenditore al governo e un contratto con gli italiani sostituiscono le ragioni dell’economia e dell’interesse a quelle del Bene Comune della politica., contrapposte  alla ragione dei  governi dei professori dei vari Dini, Prodi e, col senno di poi, Monti.

In modo speculare alla Scuola delle tre ‘I’ (inglese, impresa, informatica) venne affidato il compito di condurre al lento declino la Scuola delle conoscenze sostituita da quella delle competenze, richiesta da una Europa portavoce di un mercato a cui necessitava sempre più una forza lavoro caratterizzata da mobilità e flessibilità professionali.

Assistiamo da qui in avanti alla ridicolizzazione di quell’avversario politico la cui profondità di ragionamento intellettuale viene messa alla berlina, da telegenici personaggi politici senza passato che ben padroneggiano la velocità dei tempi televisivi, arena che ben presto costituisce la principale sede del confronto politico.

Tutto il resto è una conseguenza di tali premesse: la crisi della forma partito e la sostituzione con movimenti di opinione o di gruppi validi per una sola stagione, la volgarizzazione del confronto democratico, la sostituzione dell’interesse economico alla tutela dei diritti, la schizofrenia delle leggi di riforma della scuola, la precarizzazione progressiva della condizione giovanile.

In conclusione mi pare  però che non possa esistere alternativa a tale deriva se non nel tentativo, a volte quasi eroico,del proteggere la salute della Democrazia, delle sue istituzioni fondamentali, e, specularmente, nel riportare al centro di ogni interesse la Scuola della conoscenza che da sempre è il più grande ostacolo che si frappone alla barbarie della manipolazione dell’uomo da parte di chicchessia .

Emozioni

Forse perché l’arte rende tutto troppo struggente, troppo straziante, troppo entusiasmante, e non è la tua vita. Innamorarsi perdutamente di un libro, di un’opera, di una canzone fino ad esserne ossessionati è anche un modo di vivere fino in fondo la vita degli altri, ma non è detto che aiuti a vivere fino in fondo la propria. Ti fornisce l’alibi per essere incontentabile, e finisci per scappare.

“Sembra quasi che se metti la musica (e i libri, probabilmente, e i film, e il teatro, e qualsiasi cosa che procuri emozioni) al primo posto, non riuscirai mai a chiarire la tua vita amorosa, e non arriverai mai a considerarla come un prodotto finito. Ci troverai sempre qualcosa da ridire, starai sempre in subbuglio, e continuerai a criticare e a cercare di dipanare la matassa finché non va tutto a rotoli e devi ricominciare daccapo. Forse noi viviamo troppo protesi verso un apice, dico noi che assorbiamo emozioni da mattina a sera, e di conseguenza non riusciamo mai a sentirci semplicemente contenti: noi dobbiamo essere o disperati, o al settimo cielo, e questi sono stati d’animo difficili da raggiungere in una relazione stabile e solida.”
Nick Hornby

Una pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la settimana…

L’estate dell’Ottanta
La vacanza, la bomba, la scelta di mio padre

Brass in pocket (The Pretenders, 1980)

Ricordo bene l’estate dell’Ottanta. La vespa comprata da poco, nel mangiacassette la musica dei Dire Straits, alla radio i Pretenders e nella testa una voglia matta di divertirmi. Ma soprattutto ricordo le lunghe vacanze tra luglio e agosto con mio cugino Gianfranco che finalmente avrebbe condiviso con me noia, divertimento e la costante ricerca d’avventura tra le spiagge di Cattolica e Gabicce. Poi ricordo un’altra cosa…

Agosto è appena iniziato. Sono circa le dieci e un quarto del mattino e alla stazione centrale di Bologna non è successo ancora niente. Niente a parte un mondo di gente che si sposta, parte e ritorna, chiacchiera e aspetta in silenzio.
Mio padre è sceso dall’espresso per Roma e aspetta quello per il mare. È contento, ha anticipato la partenza di un giorno per farci una sorpresa. Il tempo di bere un caffè, comprare le sigarette e il Carlino, e l’altoparlante annuncia l’arrivo sul binario otto dell’espresso per Bari. Ferma a Rimini e Cattolica, è il suo treno. Mio padre s’incammina a passo veloce al binario indicato, sale sulla terza carrozza, entra in uno scomparto di prima classe e s’accomoda vicino al finestrino. È una bella giornata di sole.
Io, mia madre e mio cugino siamo all’Hotel San Marco di Gabicce Mare ormai da una settimana, ignari di tutto.

Circa due ore dopo, di ritorno dalla spiaggia, vedo mio padre nella hall dell’albergo. È tutto sorridente, mi viene incontro col suo immancabile borsello a tracolla e una sigaretta accesa tra le dita. “Ciao Carlo, sono appena arrivato, dov’è la mamma?”
“Ciao papà, la mamma sta tornando dalla spiaggia… Ma non dovevi venire domani?”
“Ho finito le consegne in anticipo, così ho deciso di partire stamattina e farvi una sorpresa!”
“Vieni papà, andiamo incontro alla mamma. Voglio guardare la sua faccia quando ci vede!”

Sono le dodici e tre quarti di venerdì primo agosto. Di lì a poco, io, mio cugino, mio padre e mia madre ci saremmo riuniti a tavola sotto la veranda dell’hotel, per consumare l’ultimo pranzo spensierato di quell’estate.

Stazione di Bologna, sabato due agosto, ore dieci e venticinque del mattino…

Centotrentacinque chilometri. La mattina successiva non ricordo affatto cosa facemmo di preciso. Probabilmente ce ne stavamo tutti in spiaggia a prendere il sole e a divertirci, almeno fino a quando non sentimmo qualcuno che diceva che alla stazione di Bologna c’era stata un’esplosione. “Pare sia scoppiata una caldaia e che sia morta della gente” disse mentre ascoltava il notiziario da una radiolina sotto l’ombrellone a fianco.

Sessantacinque metri. Agostino, quarantaquattro anni, stava facendo manovra col suo taxi nella piazzola della stazione. Sentì un colpo tremendo e la macchina che sbalzò di mezzo metro in avanti. Parabrezza e lunotto posteriore andarono in frantumi e diversi frammenti gli si piantarono tra la guancia e la nuca. Agostino andò a sbattere la faccia contro il volante e si ruppe il naso. Non perse i sensi e barcollò fuori dal veicolo, si sentiva stordito, gli fischiavano le orecchie e gocciolava sangue dal mento. Si guardò attorno ma fumo e polvere coprivano tutto e gli bruciavano gli occhi. Tossiva e sputava sangue, poi riconobbe un collega che giaceva a terra davanti a lui e gli prestò soccorso.

Cinquantotto metri. Manfredo, ventun anni, stava camminando sulla banchina del primo binario con uno zaino caricato sulla schiena e un altro agganciato sul petto. Lo spostamento d’aria lo buttò a terra violentemente procurandogli un forte trauma cranico. Si svegliò al pronto soccorso del Rizzoli con un polso fratturato, una spalla lussata e un fortissimo mal di testa. Un infermiere gli disse che lo zaino gli aveva fatto da scudo impedendo che una grossa scheggia di vetro gli si conficcasse nel petto.

Quarantuno metri. Lorenzo, ventisei anni, doveva partire per Livorno dove si sarebbe imbarcato per la Sardegna. Stava in piedi sotto la pensilina della sala d’aspetto a ripassarsi gli orari d’attracco dei traghetti. Ad Alghero abitava la sua ragazza che aveva incontrato all’università. Era pensieroso, i genitori di lei l’avrebbero conosciuto soltanto al suo arrivo e si chiedeva come l’avrebbero accolto. La forza dell’esplosione lo investì solo in parte perché il muro portante dell’edificio centrale resse facendogli da scudo. Il braccio sinistro gli venne strappato da un pezzo di telaio della porta d’ingresso distrutta e volata via. Il ritorno d’aria lo risucchiò all’interno della sala già crollata seppellendolo sotto decine di chili di calcinacci e pezzi di corpi. Dopo quaranta minuti fu estratto dalle macerie ancora vivo perché il calore delle lamiere roventi gli aveva cauterizzato il moncone fermando l’emorragia. Si svegliò all’ospedale e solo allora venne a sapere d’aver perso il braccio.

Trentadue metri. Giuliana, ventitré anni, stava entrando nella cabina telefonica addossata alla parete esterna della sala d’aspetto. Voleva chiamare il suo ragazzo che l’aspettava nella casa presa in affitto a Riccione. L’avrebbe raggiunto nel primo pomeriggio e insieme avrebbero continuato la vacanza fino a ferragosto. L’esplosione proiettò la parete contro il treno in sosta sul primo binario, portando con sé la cabina e Giuliana. I frammenti della cabina attraversarono come proiettili il suo corpo asportandole parte del viso e crivellandole il torace, mentre la pedana d’acciaio alla base della cabina le amputò di netto entrambe le gambe. Quello che restava del suo cadavere fu ritrovato tra le rotaie sotto il treno investito dalle macerie.

Ventiquattro metri. Antonia, trentotto anni, era appena entrata nella sala d’aspetto e stava controllando quanti spicci aveva nella borsetta, voleva comprarsi qualcosa da leggere per il viaggio. Contò tre monete da cento lire e quattro da cinquanta, ce n’era abbastanza anche per fare colazione. Un cappuccino, due paste e un settimanale di moda. La deflagrazione provocò una fiammata che l’investì in pieno bruciandole in una frazione di secondo i capelli e i vestiti, l’onda d’urto scaraventò il suo corpo rovente contro la parete opposta frantumandole bacino, costole, cranio e spappolandole fegato e polmoni. La sua vita era cessata ancor prima di toccare terra.

Dodici metri. Giovanni, diciotto anni, era fresco di patente. Aveva appena saputo che suo padre gli aveva comprato la macchina dei suoi sogni. Era un Dyane usato color kaki, il suo regalo per il diploma. Stava tornando dalla vacanza appena trascorsa a Senigallia coi suoi amici e non vedeva l’ora d’arrivare a casa e guidare la sua prima macchina. Una lastra di vetro gli squarciò il ventre mentre alcune lattine di bibite lanciate a velocità supersonica gli sfondarono torace e cranio. Nello stesso istante la gamba destra gli venne amputata dal coperchio d’alluminio di un cestino dei rifiuti. Era ancora vivo quando cadde a terra dopo un volo di dieci metri. Giovanni giaceva immobile con gli occhi fissi al cielo, fumo e polvere gli impedivano di vedere ma forse il suo cervello era già spento. Respirò per altri otto minuti prima di morire per collasso cardiaco dovuto a dissanguamento.

Un metro e mezzo. Angela, tre anni, s’era appena chinata a guardare un insetto che giaceva morto sul pavimento in marmo della sala d’aspetto. Era la prima volta che vedeva un animale così strano e non resistette alla tentazione di prenderlo e farlo vedere alla mamma. Mentre allungò la manina per raccoglierlo, venne decapitata da un pezzo di lamiera del tavolino portabagagli che stava dietro sua madre. Una piccola parte del suo corpicino fu risparmiata dalla disintegrazione perché si trovava più in basso rispetto alla traiettoria delle schegge. Intanto pezzi di ferro, vetro, plastica, carne e ossa provenienti da tavolini, panche, bagagli e persone volavano dappertutto uccidendo altre persone e distruggendo ciò che stava intorno in un effetto domino che durò appena qualche decimo di secondo.

Mezzo metro. Maria, ventiquattro anni, s’era appena alzata dalla panca attaccata al tavolino portabagagli sul quale aveva notato una grossa valigia di stoffa. Non capiva chi l’avesse lasciata lì. Poi tutta l’attenzione si spostò sulla sua bambina che s’era chinata a raccogliere qualche schifezza dal pavimento. In un millesimo di secondo, lo spostamento d’aria produsse sul suo corpo una pressione di trenta chili per centimetro quadrato e un calore di duemila gradi, sufficienti a disintegrarla completamente. Il corpo di Maria scomparve in un attimo e risultò essere l’unico, tra i resti delle ottantacinque vittime, di cui non venne mai ritrovato nemmeno un frammento.

Ci misero una manciata di ore per capire che non era stata una caldaia difettosa a scoppiare.
Alcuni testimoni parlarono di una valigia abbandonata su un tavolino della sala d’aspetto distrutta. Altri dissero d’aver visto dei giovani lasciare la valigia e allontanarsi circa mezzora prima dell’esplosione.
Così accadde che dei ragazzi appena ventenni si sostituirono a Dio e rubarono il destino di ottantacinque persone. Ottantacinque universi di pensieri, emozioni, desideri, speranze e sentimenti distrutti. Ci vollero venticinque chili di tritolo e in una frazione di secondo quelle ottantacinque vite vennero cancellate e altre centinaia vennero stravolte per sempre.

E anche noi cambiammo. Io, mio padre, mia madre e mio cugino, protetti e timorosi nel nostro albergo di Gabicce, ringraziavamo la sorte. Lo facevamo di notte, in silenzio, fissando il buio, per tutte le notti che restarono di quella vacanza. Certo, sotto il sole i nostri umori erano altri, distratti com’erano dalla tenace spensieratezza della vita che nonostante tutto ammantava le nostre giornate. Tuttavia ci sentivamo anche noi, in qualche modo intimamente, dei superstiti, dei miracolati, degli scampati all’attentato.
Ripenso spesso a mio padre nei giorni che seguirono. Alla sua faccia quando apprese che, nell’attimo in cui la bomba scoppiò, lui avrebbe potuto trovarsi in quella sala d’aspetto, a due passi da Maria e la sua bimba di tre anni.
Sono convinto che fu il suo amore per noi a salvarlo, a fargli decidere di partire un giorno prima per la voglia di passare più tempo con la sua famiglia.
E forse fu proprio quel giorno in più a consentirgli di trascorrere con noi i restanti quindici anni della sua vita.

Brass in pocket (The Pretenders, 1980)

PER CERTI VERSI
Dileguarsi

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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DILEGUARSI

i pomeriggi ospedalieri erano – a volte –
Liberi dalle attese
E guardavo la luce schiantarsi
Sui vetri dei palazzi
Il mare dei colli ariosi
Dalla loro piccola sommità
Mi dileguavo anch’io
Nel loro grembo

LA SIMONA QUANDO VENIVANO

la Simona quando venivano
Portavano le robe di sempre
Da ospedale…
Ciccioli secchi crescenza e vino
Mentre io andavo a flebo
Era il loro modo
Di reagire al male

VINC E LA WILMA

Vinc e la Wilma
Venivano tutti i giorni
Sono stati assidui e cari
Quasi fuori tempo
Un cofanetto
Di Sperlari

IL VECCHIO LUGUS

il vecchio Lugus
In mezzo agli altri
E tace
Lui lo so
Non si dava pace

DIARIO IN PUBBLICO
Borse, borsoni, borselli e zaini

L’equipaggiamento della foemina et homo laidensi non può prescindere da una serie di accessori che ne fanno l’esatto ritratto del personaggio alla moda: dai tre ai novantacinque anni. Il nucleo del vestimento è dato da una serie di sacche e sacchetti che racchiudono tutto ciò che occorre alla specie marina. Ovviamente accompagnati da pantofole infradito, da berretto portato con la visiera dietro, da cui spuntano, in chi li possiede, una selvaggia massa di capelli (per lui) e da guizzanti e serpentine chiome rinserrate in fasce e calotte (per lei); da crani lucidi per sudore di chi ne è sprovvisto.

Ma torniamo al contenitore. Nella mia infanzia che si perde nella notte dei tempi si usava la borsa da mare, immensa, che conteneva di tutto: dagli asciugamani alla carta igienica, dai costumi di ricambio, alla merenda se non al pranzo, dalle pantofole da bagno alle cuffie e ai giornali e libri per i più colti. Un  peso enorme trascinato faticosamente dal ragazzotto, nelle famiglie era il pezzo forte, in spiaggia inseguito dalle urla materne che ne reclamavano il possesso, pieno di ormoni e che si supponeva fosse il più forte. Una rappresentazione efficace sta in Casotto il film del 1977 di Sergio Citti, l’allievo di Pasolini, abbastanza attendibile seppure velato dalla nostalgia tipica dell’ultima stagione neorealistica.

Ma la borsa! La borsa era per le jeunes filles en fleur della mia giovinezza l’apice della maturità raggiunta. Leggere Bonjour tristesse della Sagan e portare con naturalezza la piccola trousse di Hermès o di Chanel, o partecipare ai moti studenteschi con i capelli avvolti in un foulard francese e sbattere la borsa preziosa contro gli scudi della polizia, qualificava le ragazze: intelligenti, belle – quasi sempre – semmai per le irrimediabili definite interessanti dai loro compagni capelluti, con il foulard alla Battisti al collo e i pantaloni a zampa d’elefante. Che tempi! Ricordo ancora, non potendo sfoggiare neppure un minimo scialo di capelli, i foulard che m’adornavano il collo un po’ gallinaceo, mentre davo il braccio alla mia dea, Elsa Morante, passeggiando a Roma per il Corso. Negli ambienti raffinatissimi fiorentini, dove tutto doveva apparire comodo, usato e mai nuovo le borse venivano comprate in piccoli negozi di via della Vigna nuova o in via Tornabuoni, tra Old England e Ferragamo. Mai esibite; semmai lasciate a maturare dalla stagione precedente. Nelle estati versiliesi le ragazze sfoggiavano piccole sacche di pezza da usare con moto rotatorio, quando si sorbiva il gelato da Fappani o più tardi al Lido di Camaiore ai Sorci verdi. Quando osai per la prima volta presentarmi a Bellosguardo dalla mia vice mamma con un borselletto comprato a prezzo carissimo venni accolto con strida e furore. Mi venne imposto immediatamente di lasciarlo a casa (era una prima del Maggio Musicale dove dirigeva l’amico Riccardo Muti) e di non permettermi mai più simili follie.

Ora dal mio osservatorio laidesco osservo l’assembramento delle sacche. Sull’esile spalla delle donne si contano: borsa normale, e una specie di sacca che contiene oggetti fondamentali per la vita di spiaggia o di discoteca; sull’altra alcune specie di tubi il cui contenuto non riesco a indovinare. I loro compagni maschi aggiungono al tutto uno zaino enorme rigorosamente infilato su una sola spalla e protetto, ovviamente davanti, dal racchettone. Più imbarazzante la mise dei diversamente giovani a cominciare dai quaranta/cinquantenni che si coprono le pudenda con un borsello esattamente posto sull’organo riproduttore. Naturalmente indossano slip anni Ottanta con cui passeggiano anche per viale Carducci. I loro bellissimi cani, indifferenti alle mode, piscicchiano stancamente dopo l’annusata di rito.

Sembra quasi che il fascino delle boutiques dei falsi sia fuorigioco. Provviste di borse, vestiti, orologi, scarpe accuratamente distanziate sulla battigia non attirano più le masse frementi del falso lusso. Ora vanno molto i negozi cinesi provvisti di tutto: dal cocomero al costume da bagno e naturalmente da batterie complete di borse, borsoni, borselli e zaini.

Nello studio, dove mantengo parte dei libri fiorentini, mi diverto la domenica a raccoglierne una decina e portarli alle signore, che hanno il loro banchetto fuori dalla chiesa e che li vendono per beneficenza. Ma anche qui le risposte sono diverse. Da alcune vengo ‘regalato’ di santino e rosario da altre – una in particolare – che mi caccia ululando “corona virus!”. E in questa strana estate anche i libri portano maleficio. All’edicola, dopo aver comprato l’ennesimo Camilleri o Carofiglio, penso con tenerezza ad un me ragazzetto, che sul viale a Viareggio davanti alla libreria accanto al caffè Margherita si scioglieva di commozione a leggere i titoli dei libri che avrebbe voluto leggere e che non poteva permettersi.

Arrivò poi la stagione fiorentina quando in via Tornabuoni la libreria ti permetteva di leggerli, di riportarli o di tenerli e di pagarli a rate. Che scorpacciate! Allora sì che i borsoni erano necessari!

NELL’ANIMA PROFONDA DELLA CORRIDA E DEL FLAMENCO
si nasconde il misterioso e intraducibile Duende

Questa estate mi manca la Spagna: Madrid con i suoi splendidi musei, le biblioteche, i teatri,  Barcellona con gli edifici liberty di Gaudí, Toledo con i quadri di El Greco, Alicante con l’esplanada costeggiata di palme e la prigione dove, appena trentenne, morì il poeta Miguel Hernández, Córdova con la  sorprendente mezquita e le austere muraglie evocate dal poeta barocco Luis de Góngora (“¡Oh excelso muro, oh torres coronadas / […]”), le cuevas di Granada con i gitani cantati da García Lorca, il lento scorrere del Guadalquivir in una Siviglia piena di giardini e di patios fioriti dove la maestosità dell’Alcázar e l’intimità di bianchi e stretti vicoli fecero da sfondo alle avventure di Don Giovanni; o ancora le spiagge rosseggianti dell’arida e subtropicale isola di Fuerteventura (nelle Canarie) dove il poeta Miguel de Unamuno fu esiliato e che da tempo desidero visitare.

Corrida (manifesto 1970),

Ma parlando di Spagna, a questi ed altri luoghi con la loro storia e memoria, sarebbe inevitabile aggiungere un dopocena in un tablao flamenco e una domenica pomeriggio alla plaza de toros. Per molti anni, ed in certo modo ancor oggi, infatti flamenco e corrida sono stati automaticamente identificati con l’immagine di questo paese, fin quasi a divenirne  in certo senso sinonimi. Eppure, per un non andaluso, o più in generale per un non spagnolo, non è facile comprenderne il significato. Ridotto spesso il primo a un rumoroso e ritmato battere di tacchi e allo svolazzare di scialli e di colorati abiti a coda e il secondo (talvolta riportato alla ribalta dei giornali dalle proteste degli animalisti) a una mera espressione folklorica fissata su manifesti che, sotto l’immagine di un matador nell’atto di uccidere il toro, annunziano i nomi dei tre ‘valorosi’ che si esibiranno nell’arena. Il fatto che si tratti di manifestazioni che perdurano li rende però meritevoli di attenzione, nonostante la loro sempre più forte degenerazione turistica.

Tra l’altro del flamenco e dell’allontanamento dalla sua primitiva genuinità si preoccuparono già un secolo fa Federico García Lorca e Manuel de Falla quando nel 1922 organizzarono a Granada il Concurso del cante jondo che vide cantaores più  e meno noti riunirsi a dare testimonianza del loro canto: fu un’occasione storica della quale rimane solo qualche sparsa registrazione.
Della finalità di quella gara possiamo renderci conto ricollegandola a un significativo episodio che García Lorca racconta in una famosa conferenza. In una delle tante taverne della città di Cadice, siamo quindi in Andalusia, una nota cantaora – La Niña de los Peines – esibiva la propria bravura giocando con la sua voce: cantava con una voce “d’ombra”, una voce “di stagno fuso”, una voce “coperta di musco”, l'”arrotolava nei capelli”, la “inzuppava” nella liquorosa manzanilla, la faceva perdere in gineprai bui e lontanissimi. Ma per quanto si sforzasse, gli spettatori rimanevano indifferenti. Così, nel silenzio, aveva finito di cantare. Fu soltanto allora che un omino esile, quasi sbucato dal nulla, a bassa voce e con sarcasmo, esclamò: “Viva Parigi!” Con questo voleva dire – spiega Lorca – “Qui non ci interessano la capacità, la tecnica, l’abilità. Ci interessa ben altro”. E la cantaora capì. Si alzò di scatto, come impazzita, troncata come una prefica medievale, ingoiò tutto d’un sorso un grosso bicchiere di grappa ardente come il fuoco e si sedette a cantare. Ora, non aveva più voce, non c’erano più sfumature, era senza fiato, la sua gola era bruciata,…
“Ma come cantò!”, conclude García Lorca. La sua voce ormai non giocava, era un fiotto di sangue degno del suo dolore e della sua sincerità.  Aveva insomma distrutto tutta la sovrastruttura del canto per lasciare emergere una forza furiosa e cocente che riusciva a coinvolgere chi l’ascoltava, fin quasi a spingerlo a stracciarsi le vesti. Aveva lacerato la propria voce perché si era resa conto di trovarsi di fronte a un pubblico non banale, che non voleva la “forma”, ma il “midollo della forma”. Aveva capito che doveva liberarsi delle proprie capacità e delle proprie sicurezze, che doveva spogliarsi di tutto per lasciare spazio a qualcosa di diverso, di più vero e di più personale.

È duende, una parola praticamente intraducibile (che letteralmente significa “spiritello”, ma  che indica la genuinità, l’originalità, una forza misteriosa) quella con cui Lorca sintetizza il significato di quest’episodio: infine la cantaora aveva cantato con duende. E se in questo caso il diretto rimando è al canto flamenco (o meglio alla sua espressione più genuina e ‘spoglia’ di accompagnamento strumentale, che è il cante jondo) è evidente – Lorca lo precisa sempre in questa conferenza, intitolata appunto Juego y teoría del duende – che tutte le arti possono esserne oggetto. Ma – la puntualizzazione è importante –  ne sono maggiormente coinvolte quelle che presuppongono la presenza di un interprete: la danza, il teatro,  la musica, il canto, ecc. sí che l’interprete dovrà sempre cercare di allontanare da sé ogni elemento esterno (la seduzione della musa, cioè delle competenze acquisite, e l’angelo, cioè la tentazione dell”ispirazione), per andare oltre e cercare di coinvolgersi in quella lotta.

In questa conferenza, però, García Lorca introduceva anche un accenno alla corrida offrendone un’importante chiave di lettura. Ancor più che nel caso del flamenco infatti della corrida è complesso, non solo seguire le fasi, ma soprattutto intendere le motivazioni. Eppure le corride continuano da secoli a riempire le arene, senza parlare del non ridotto indotto che le accompagna: dai settimanali o dagli inserti dei quotidinani dedicati esclusivamente alle cronache taurine agli allevamenti che si dedicano a perpetuare la specifica razza del toro bravo (‘feroce’), per citare solo due esempi. Chi, non esperto, si rechi all’arena una domenica pomeriggio alle 7 (questa infatti l’ora ormai convenzionalmente fissata per l’inizio, e non più le 5 come all’epoca di Federico García Lorca e dell’amico torero Ignacio Sánchez Mejías) ne percepisce inevitabilmente solo gli aspetti più superficiali e l’atmosfera festosa: i colori vivaci dei costumi e l’allegro ritmo del paso doble che accompagna la sfilata dei protagonisti, quasi ossimoro dello spargimento di sangue e della morte che inevitabilmente seguirà poco dopo: sicura infatti l’uccisione del toro, sempre possibile quella del torero (non indifferente infatti il numero dei toreri feriti annunziato ogni domenica dalle cronache giornalistiche e televisive).

Lo svolgimento delle diverse fasi della corrida è noto e facile da riassumere giacché tutto si svolge seguendo un preciso rituale: il presidente, con fazzoletti colorati, impartisce gli ordini dal centro delle gradinate, due guardie a cavallo entrano nell’arena con costumi del seicento e cappello piumato, seguono i tre matadores accompagnati dagli aiutanti toreri, poi i banderilleros e i picadores a cavallo, e infine “il toro” che, spalancata la porta dei toriles, entra correndo nell’arena.
È lui il vero protagonista:  un grande cartello lo presenta al pubblico: data di nascita, allevamento di provenienza e peso. Con il suo arrivo improvvisamente ogni brusio cessa e per qualche minuto domina il silenzio. Sono la  tromba e i tamburi a scandire da ora in poi le diverse fasi del confronto: prima i picadores a cavallo che colpiscono il toro con la loro lunga asta appuntita, poi i banderilleros che, gettandosi contro le corna, cercano a loro volta di ferirlo e infine il matador con la tipica muleta rossa. È questo, come noto, il momento fondamentale perché tocca a lui confrontarsi con il toro per ucciderlo, e saranno allora  fischi, applausi o uno sventolio di fazzoletti bianchi a sancire la capacità dimostrata nell’affrontare l’animale e nel colpirlo al cuore con un unico ed esatto colpo di spada. Nel torero il coraggio è un obbligo scontato; la paura o la rinunzia di fronte a un animale troppo grosso o a delle corna posizionate in modo più pericoloso non sono infatti ammesse (non solo sarebbe sommerso dalle proteste ma verrebbe subito portato in un commissariato e sottoposto a sanzioni finanziarie e, talvolta, all’arresto).

da Picasso (composizione)

È dunque il coraggio la dote fondamentale di un torero e quello che si aspetta lo spettatore della corrida? È in García Lorca – come dicevamo – che troviamo in parte una risposta. Non è questo,  afferma Lorca. Il torero che impressiona il pubblico con la propria audacia non torea, si limita a rischiare la vita in modo quasi ridicolo mentre il torero posseduto dal duende offre “una lezione di musa pitagorica” facendo dimenticare il rischio che corre continuamente esponendo il proprio corpo alle corna del toro. La geometria e la misura – precisa ancora il poeta – sono gli elementi fondamentali della fiesta, quello che conta quindi non è tanto l’uccidere ma il come si uccide: lo stile e il rispetto delle regole.
Non a caso infatti in un paese che – cito ancora Lorca – è l’unico ad aver trasformato la morte in “uno spettacolo nazionale” quello che viene valutato dal pubblico, o meglio dagli aficionados che tutte le domeniche si recano all’arena, è la maestria nell’attaccare (del torero) e la capacità di aggredire (del toro) sí che, a seconda dei casi, la corrida – se ben combattuta – si concluderà indifferentemente con il torero che fa il giro dell’arena tra le ovazioni della folla o con il toro che (ormai morto) viene trascinato dai cavalli lungo il circolo dell’arena a raccogliere i meritati applausi. Anche la corrida insomma – nella sua espressione più ‘vera’ – propone un confronto con il duende, un duende più impegnativo e crudele essendo in questo caso in gioco la stessa esistenza. È una sfida costante con la morte da condurre – potremmo concludere – con sincerità e disciplina; per questo non stupisce che, nei versi scritti per cantare l’amico Sánchez Mejías morto per le ferite riportate “alle cinque della sera”, Lorca ne elogi insieme la “forza” e la “saggezza”, la “grazia” e la “maturità”, l’“eleganza” e la “smania di morte”.

SCHEI
La febbre del sabato sera

Discoteca. Movida. Covid-19. Una volta c’era lo Studio 54 a Manhattan, adesso il Twiga a Marina di Pietrasanta. Ognuno può pensarla come crede sulla evoluzione o sul decadimento del gusto, musicale e del costume, intercorso dagli albori del clubbing (1977 circa) ai giorni nostri. Per me è decadimento, ma potrebbe dipendere dal fatto che sto invecchiando; si sa che i “bei tempi” sono sempre quelli in cui eravamo ragazzi noi. Resta il fatto che non esistono due luoghi/fenomeni che condensino meglio il contrasto di valori e di interessi ed un simbolico contrapporsi tra frivolo e impegnato, tra effimero e duraturo, tra leggero e pesante, in tempi di pandemia.

Parto dai valori. Facciamo finta che chi parla di “diritto al divertimento” e “diritto alla socialità” non stia travestendo con concetti di valore la difesa mera, quanto comprensibile, di concreti interessi economici (di questo parleremo dopo). Voglio prendere sul serio il tema di dove i ggiovani preferiscono ritrovarsi e come i ggiovani preferiscono “divertirsi”. Da una parte c’è il concetto di socialità ludica. Dall’altra c’è la tutela della salute pubblica, che in realtà significa anche della salute privata, individuale, di ciascuno e specialmente dei più deboli (anziani, ammalati, immunodepressi). Non intendo cimentarmi pure io nell’interpretazione dei dati sulla risalita dei contagi; interpretazioni che servono, quasi sempre, a giustificare una tesi o la tesi contraria, le quali hanno un punto in comune: il fatto che preesistono ai dati, non conseguono ad essi. Sono tesi che si vogliono apodittiche, e interpretare la statistica serve semplicemente a rafforzare il proprio dogma, indiscutibile per definizione. Quindi se io sostengo, a priori, che esiste un complotto plutogiudaico per chiudere il pianeta a chiave sotto la minaccia di un orribile virus studiato a tavolino, ma contemporaneamente sovradimensionato e, tutto sommato, poco pericoloso, la risalita della curva contagiosa non è altro che propaganda per giustificare l’introduzione di uno Stato Etico, che mi dice come divertirmi e come curarmi anzi, che mi obbliga a non divertirmi e a curarmi.  Come dire che Bill Gates, il Dio del Male, ha messo in circolazione un pericoloso virus per lucrare sulla commercializzazione del vaccino universale, ma il virus è poco più di un’ influenza; coerenza logica del ragionamento pari a zero (è una guerra batteriologica o è un banale raffreddore?) ma il complottista sa trovare collegamenti fantasmatici tra i fatti del mondo (idioti, svegliatevi!) e sorvola sui palesi ossimori delle sue elucubrazioni.

Se viceversa sono convinto che questo non sia che l’inizio di un’era di piaghe bibliche, e che il terribile antropocene ha ridotto la Terra ad una discarica rovente di cui l’epidemia Covid non è che una delle prime conseguenze, la chiusura temporanea dei locali dove si beve e si balla è una misura troppo blanda. Certi posti andrebbero murati e riconvertiti in fabbriche di mascherine.

Esagero? Se frequentate con un minimo di capacità (auto) critica i social network, converrete che è praticamente impossibile cambiare la propria opinione leggendo quella di uno che la pensa diversamente. Il social non serve a mettere in discussione le proprie idee, serve a sbeffeggiare l’opinione altrui, e glorificare la propria. Le fonti altrui sono fake per definizione, le proprie sono scolpite sulla pietra. La ricerca dell’attendibilità delle fonti non è un’attività contemplata, perché rischierebbe di farci cambiare opinione, e questo non è previsto.

La mia opinione sul versante “valori” prova a seguire, e non precedere, l’osservazione, filtrata dalle considerazioni di qualche tecnico assennato, dei dati sulla pandemia. Una delle principali ragioni per cui il virus colpisce meno duro che in marzo/aprile/maggio, sta nell’adozione di massa delle misure di distanziamento fisico e nella prevenzione con o senza dispositivi (igiene e mascherine, disinfettanti). Un’altra ragione sta nel fatto che le terapie sintomatiche sono più mirate che all’inizio della epidemia, e questo dipende in buona misura dagli errori commessi e dai tentativi fatti. Non esiste, invece, alcuna evidenza scientificamente provata che il virus in sè si sia “indebolito” o abbia perso “carica virale”. Molto più banalmente, se uno si becca uno sputacchio con mascherina addosso (possibilmente indossata sia dallo sputacchiatore che dalla vittima) incamera meno virus di uno che se lo prende in faccia senza protezione alcuna. Sarà anche un risultato parziale, ma serve ad evitare un bel po’ di infezioni severe, di quelle che portano in terapia intensiva. Se le ragioni sono queste, chiudere i locali dove le persone si assembrano naturalmente le une vicino alle altre, e farlo non per sempre, ma temporaneamente e magari diversificando per territori, è una misura di buon senso. Punto. Le altre considerazioni sono ovvie (non puoi evitare la vicinanza fisica in discoteca: appunto, quindi meglio chiuderla per un po’) o ridicole (dalle sette alle diciotto il virus non è meno aggressivo: no, però dalle diciotto alle sei si va in disco, nell’altra fascia oraria no).

Passiamo agli interessi. Qui gli schei sono il fulcro del mondo, di questo mondo. Nel mondo dell’effimero gli schei sono quanto di più duraturo esiste, e quando vengono a mancare la reazione è scomposta e arrogante, perchè scomposto e arrogante è il modo in cui, nel microcosmo del divertimento giovanile, vengono fatti i soldi. Non ho reperito dati attendibili che confermino la leggenda web secondo la quale i gestori delle disco denunciano mediamente un utile di 4.600 euro l’anno. Peraltro non si tratta del fatturato (o ricavi), che invece le stesse associazioni di settore attestano attorno al miliardo abbondante di euro. Diviso circa 3.500 locali, mediamente farebbe circa 340.000 euro l’anno, che ci può anche stare; non perchè questo sia il fatturato reale, ci mancherebbe altro, ma perchè è verosimile che all’Agenzia Entrate il dato medio che perviene sia questo. Diciamo che, visto che in questi giorni le medesime associazioni adombrano una (incredibile ed autolesionista, viste le denunce dei redditi) perdita del settore di 4 miliardi, e scontando una esagerazione di segno opposto in entrambi i dati, una ragionevole media recente degli incassi reali del settore potrebbe attestarsi, in un periodo ante epidemia, sui 2,5 miliardi. E nella media ci stanno gli estremi: come i circoli, che se non hanno già chiuso lo stanno per fare e la cui (purtroppo) marginalità sociale ed economica si riflette anche nell’inesistente eco mediatica delle loro difficoltà. E poi abbiamo l’estremo opposto, rappresentato dai sindacalisti ad honorem della ricchezza arrogante e scomposta, costruita su un disinvolto mixaggio (per dirla alla Bob Sinclar, altro milionario e vaniloquente genio delle consolle) tra risorse ereditate, capacità proprie e spiccata attitudine al delitto fiscale. Flavio Briatore e Daniela Santanchè, soci in affari, pagano per l’affitto dell’area dove insiste il mitico Twiga di Marina di Pietrasanta 17.620 euro l’anno. Avete capito bene. Il locale fattura, secondo gli ultimi dati noti, più di 4 milioni. E in Italia le concessioni demaniali sono state prorogate (in violazione dei dettami europei) fino al 2034, senza gara. Trasmissione ereditaria. Segmenti importanti del settore saranno anche in crisi, e c’è sicuramente una parte dei gestori della balneazione che rischierebbe di perdere le concessioni a favore dei grandi gruppi. Tuttavia, qualcuno mi spieghi perchè lo Stato, altro esempio, deve continuare a far pagare ai gestori del Papeete diecimila euro di affitto l’anno. Tra il non consegnare le nostre spiagge nelle mani degli sceicchi arabi o dei magnati russi e la creazione della ennesima minicasta di ipergarantiti, che non solo hanno la concessione perenne, ma la pagano un prezzo ridicolo, ci sarà pure una via di mezzo più equa. Stranamente, il principio della libera concorrenza vale solo quando riguarda gli altri. Quando riguarda se stessi, deve essere sacrificato in nome della “salvaguardia delle piccole imprese” (toglietevi lo sfizio di leggere qualcuna delle, talora esilaranti, prese di posizione contenute nel sito mondobalneare.com).

In conclusione: è giusto chiudere temporaneamente i locali da ballo, anche all’aperto, in nome della salute pubblica? Si, è giusto. Non c’è nulla di talebano in questa scelta, ma l’applicazione di un principio di responsabilità civica, secondo il quale nessuno può esercitare con arbitrio la propria libertà se danneggia o espone a grave rischio la salute altrui. Altrimenti vale tutto, compreso ubriacarsi e mettersi al volante. E’ giusto pensare a tamponare le conseguenze economiche di queste chiusure? Sì, è giusto, purchè non si trattino tutte le esigenze come se si trattasse invariabilmente di gente che viene ridotta alla fame. Qualunque misura di sostegno al settore dovrebbe essere informata al principio che il “settore” non è un monolite (esattamente come “le imprese”: Confindustria non rappresenta gli interessi del bottegaio), e che alcuni meritano aiuto, altri devono annoverare tra i costi d’impresa anche il pagamento di un giusto prezzo allo Stato, e non hanno diritto a un bel niente.

Per leggere gli articoli precedenti di SCHEI, la rubrica di Nicola Cavallini, clicca [Qui]

CONTRO VERSO
Lo spaccino

I ragazzi osservano gli adulti più che non si creda e notano le loro incoerenze. Come quando parlano dei rischi di giocare con la droga, però poi uno studente spaccia e non succede niente.

Lo spaccino

Hai notato quel biondino?

Qui per tutti è lo spaccino.

Porta il fumo ai suoi compagni

con lauti guadagni.

Sanno tutto gli insegnanti

ma lo trattano coi guanti,

occhi chiusi e labbra strette

che non scattin le manette.

È venuto un genitore

a parlarne al professore

che l’ha detto al dirigente

e a sua volta ad un agente.

C’hanno fatto un bel discorso

che sembrava un predicozzo

e ora so che c’è una legge

e che questa ci protegge.

L’ho imparata, sì, in teoria

come la filosofia

perché poi niente succede:

anche la polizia non vede!

Ma io vedo quel biondino…

Sarà sempre uno spaccino?

 

Tanti insegnanti e operatori sono restii a segnalare un adolescente che cammina sul filo perché temono di farlo cadere. Nel caso da cui prende spunto la filastrocca, perfino la polizia municipale sapeva e non lo diceva a nessuno. Provo ogni volta a spiegare che la giustizia penale minorile è fortemente rieducativa e attenta alle persone, che il carcere è davvero l’ultima, ultimissima soluzione, e che le stesse opportunità non si danno ai maggiorenni, per cui un ragazzo che cammina sul filo se cade da minorenne trova una rete di protezione che a 18 anni e un giorno non avrà.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia tutti i venerdì.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

La politica non funziona, ma tutti vogliono i titoli italiani

Tutti vogliono i Bot e i Btp italiani. Successo nelle aste di ferragosto nonostante la politica continui a non funzionare.

Questa settimana ha visto interessanti spunti di riflessione dal punto di vista dell’emissione di Titoli di Stato. Il dodici agosto il Tesoro ha offerto sette miliardi in Bot annuali venduti in asta ad interesse negativo del -0,192% in calo rispetto al -0,124% offerto nell’ultima emissione del dieci luglio. Il rapporto di copertura è stato del 1,74 in quanto la domanda è stata di 12,2 miliardi, quindi ben superiore rispetto all’offerta.

Giovedì 13 agosto il Tesoro ha invece offerto dei Btp con scadenza a tre, sette e trent’anni, per un importo complessivo di 6,75 miliardi. Il rapporto di copertura è stato anche qui interessante e precisamente del 1,63, 1,43 e 1,39, di nuovo insomma la domanda di Titoli è stata superiore all’offerta.

Ancora una volta è dimostrato il fatto che l’Italia non ha problemi nel trovare finanziatori desiderosi di comprare il suo debito, anzi. Ma sullo sfondo di queste emissioni c’è ancora il Recovery Found e lo Sure e, di certo, non è sparito il Mes con il quale prima o poi ci indebiteremo, visto anche il nuovo posizionamento di Mario Monti all’Oms.

Certo qualcosina in più la paghiamo sugli interessi dei Btp rispetto a spagnoli o inglesi ma questo è dovuto al fatto che l’Italia ha un investment grade bbb-, quindi al fatto che le agenzie di rating, già riconosciute incapaci di dare giudizi seri dal 2008 in merito alla qualità dei debiti, continuano ad avere più credibilità di quanta ne meritino.

Agenzie di rating ma anche Banca Centrale Europea e coordinamento con le politiche fiscali dei Paesi intralciano il corretto andamento degli eventi economici e, di riflesso, condizionano negativamente le aspettative dei cittadini.

Le Banche Centrali “espandono” i loro bilanci e la Bce supera i seimila miliardi seguendo la Fed che ha superato i settemila. Tale espansione è dovuta soprattutto alle politiche di acquisto di Titoli sovrani con lo scopo di immettere liquidità nei sistemi economici in modo da aumentare la capacità di spesa dei cittadini (famiglie e imprese). Acquisti che regolano anche lo spread che si mantiene basso quando c’è in giro la certezza che lo farà davvero o in caso servisse farlo (memo: il “whatever it takes” di Draghi).

Purtroppo le news parlano ancora di recessione, segno che qualcosa non sta funzionando probabilmente perché la moneta da sola non basta. C’è necessità di piani, strategie e unità d’intenti soprattutto nell’eurozona dove le politiche monetarie non trovano il necessario supporto nelle politiche fiscali degli Stati, ognuno segue le sue idee e gli obiettivi non si incontrano. La Bce “produce” soldi mentre gli Stati non li controllano e non decidono correttamente come impiegarli, probabilmente perché non esiste un coordinamento chiaro tra le diverse politiche nazionali che tendono a tutelare interessi particolari piuttosto che quelli della comunità dei cittadini europei.

Insomma, il debito oscilla tra serio e falso problema perché i finanziatori ci sono sempre stati, e continuano ad esserci, dato che l’Italia rimane un buon posto dove investire (un Paese non è fatto di soli politici che ‘discutono’ e giornali che denigrano ma anche di persone che producono, inventano, crescono). Del resto gli investitori sanno che gli interessi dipendono dalle farlocche agenzie di rating americane e non realmente da possibilità di default, quindi mentre comprano sorridono sapendo che non le sostituiremo con serie agenzie europee.

Dietro (o davanti) rimane fondamentale il comportamento (nonché gli Statuti) delle banche centrali che andrebbero rese più dipendenti dalle necessità delle comunità e meno da quelle dei mercati. Per finire, la comunità degli stati europei dovrebbe lavorare seriamente per… la comunità e quindi adeguare le esigenze di spesa (politica fiscale) agli interessi comuni piuttosto che preoccuparsi degli spread e di imporre metodi di indebitamento graditi alle élite finanziarie.

GLI SPARI SOPRA
Alla fine la P2 ha vinto: provate a leggere il programma del Venerabile

“Sono un matto, sono un vetero, sono trinariciuto?” Torna la rubrica GLI SPARI SOPRA , le considerazioni molto politiche di un politico. Ad alcuni i pensieri di Cristiano Mazzoni potranno sembrare solo il frutto amaro della delusione, della sconfitta, della nostalgia del tempo che fu. Sono però anche la rivendicazione di ideali e di valori che forse abbiamo dimenticato troppo in fretta. In un mondo sempre più confuso e complesso abbiamo sempre più bisogno di risposte, ma l’unico modo per trovarle è non smettere di interrogarsi.
(La Redazione)

Quanti di noi avranno letto il Piano di rinascita democratica, il programma politico della Loggia Massonica propaganda due del disonorevole grande maestro Licio Gelli? Pochi.
Io credo di averlo letto per la prima volta agli albori del nuovo millennio, in rete si trovava ancora il documento originale con tanto di timbri e scritto a macchina, poi scannerizzato chi sa da quale mano. Oggi il documento originale in internet non l’ho più trovato ma tantissimi sono i siti che ne riportano il contenuto.

Credo che non sia più nella sfera delle opinioni, ma nei fatti e nelle sentenze cosa fu la loggia P2. Una associazione cospirativa, che ammantata dal sapore di destra democratica e con la responsabilità e complicità dello Stato, fu implicata e mandante, nella figura di Gelli, nella strage della stazione di Bologna del due agosto 1980 e in molti altri fatti oscuri di quel ventennio di sangue.

So i nomi, i mandanti, ma non ne ho le prove scriveva il Poeta e forse quelle parole gli costarono la vita.

Per curiosità, provate a scorrere i punti di quel programma e ditemi se non vi sembra che molti di quei punti si possano derubricare come ‘fatti’, cioè eseguiti, compiuti, insomma: riusciti. L’intento chiarissimo era infatti moderatizzare’ e ‘destrificare’ l’Italia.
Nel programma vi è chiara la volontà di rendere “democratica” la Repubblica eliminando gli elementi di attrito, lotta e aggregazione di sinistra quali il Pci e la CGIL.  Porre cioè un argine  per mettere in un angolo circa il 30% della popolazione italiana. L’obbiettivo mi sembra ampiamente raggiunto, quarantasei anni dopo la scoperta del programma della loggia nel sottofondo di una valigia della figlia del non compianto venerabile, possiamo dire che l’argine ha addirittura prosciugato il fiume. Quel trenta per cento della popolazione non esiste più o forse non ha più rappresentanza, quindi si può ‘crocettare’ la casella morte della sinistra italiana.

La volontà di creare due partiti, uno comprendente i moderati di PSI-PSDI-PRI-PLI di sinistra e DC di sinistra e l’altro di destra DC-PLI-Destra Nazionale, non è stato completato solo per il numero dei partiti citati e per i nomi degli stessi, partiti, ma la vocazione americanista di aggregare tutto al centro con un occhio buono sulla destra mi sembra assolutamente raggiunta.

E che dire della creazione di una TV privata? La nascita di Mediaset negli anni ’80 ha aggiunto un duopolio libero e democratico (sic.), fors’anche con la spinta di Gelli sull’iscritto 1816.

La volontà di cambiare le menti degli italiani, lavorando sulla scuola e sul controllo dei mass-media risulta molto chiare tra le righe del programma di rinascita democratica.
Si vuole inculcare, anestetizzare, instillare, indottrinare, creando una popolazione di ottimi soldatini, applicando il modus operandi di “libro e moschetto, fascista perfetto”.

Occorre intervenire sulla magistratura, dice il saggio, come pure occorre eliminare le province e diminuire il numero dei parlamentari.

Tanto un  parlamento così simile, non ha bisogno di una folta rappresentanza democratica.

Non vi sembrano temi di stratta attualità?

Credo però che queste tematiche, non siano poi tanto di moda, in questo lontano 2020, le persone hanno altro a cui  pensare, ma io che spesso faccio come le cheppie, (nuoto contro corrente), penso invece siano temi da discutere, leggere e ricordare.

Soprattutto quando si cerca di eliminare negli anni e col tempo il significato di antifascismo. In quanti della destra democratica e pure tra la galassia dei moderati ritengono il fascismo un argomento da derubricare nei libri di storia, confinandolo in una ventina d’anni bui trascorsi nella prima metà del secolo? Quanti sbuffano quando si toccano i temi di un fascismo ancora vivo per decenni dopo la liberazione, insinuato tra le fila delle stato, delle fdo, dei rappresentati delle forze democratiche del nostro paese?

Sono un matto, sono un vetero, sono trinariciuto?

Può darsi, ma l’ideologia che ha insanguinato il secolo breve, continua a gocciolare e percolare tra le fila di una popolazione forse non ancora matura, forse ancora desiderosa di avere un uomo forte che decide per te, forse non ancora vaccinata contro il batterio nero.Mi aspetto tra i commenti, un ottimo e Stalin?
Non deludetemi.

Io non sono nessuno per avere la risposta per quello che è il punto focale della anomalia dell’Italia, il connubio tra stato e malavita, tra stato e poteri occulti, tra stato / mafia e terrorismo.
Se un mago Merlino, non scoperchierà questa pentola del diavolo forse mai l’Italia potrà fregiarsi del titolo di Repubblica democratica, fondata sulla verità e non sulla menzogna.

Aggiungo pure la volontà, scientifica e cosciente di adottare quella che fu la strategia della tensione, nata con le bombe fasciste, lanciate a bella posta per fare reagire un terrorismo rosso, molto spesso composto da rampolli della buona borghesia di quegli anni, che uccidevano nella convinzione di essere una avanguardia, mentre gli operai stavano con Guido Rossa. Lo credo realmente, i morti di quegli anni, hanno aiutato il programma della loggia di estinzione del più grande Partito Comunista d’occidente, proprio partendo da quegli anni di piombo.

Chiamati così, per ucciderli meglio.

Un amore

Questo amore sa d’estate. Di passeggiate su e giù per i sentieri, di polvere  fine che si insinua tra i capelli e la pelle. Un uomo normale che a me sembra bello, una voce calda che scioglie il cuore. L’amore è anche questo, un po’ di poesia che arriva a travolgere la mediocrità della vita quotidiana. Per tanto tempo ho pensato che nulla potesse reggere il peso della mia  malsana abitudinarietà.  Come si può resistere con qualcuno che fa un lavoro faticoso, ha gli occhi gonfi la sera e che continua a scrivere in modo un po’ forsennato e folle, in questo divenire sempre uguale che non finisce mai.

Per molto tempo ho pensato che pulire una casa, cucinare, stirare gli abiti fosse noioso e ripetitivo, malefico nel suo pretendere tempo e risorse. Fonte di annientamento, di routine, di stanchezza, di noia. Come è possibile che un amore possa sopravvivere a tutto questo?. In passato me ne sono andata per non soccombere, per non trovarmi imbrigliata in una quotidianità che mi avrebbe uccisa, che si sarebbe portata via parte di me, di quel che faccio e di quel che sono. Quelli come me sono persone strane, comunicano scrivendo, sembrano abbracciare le parole e piroettare con loro in una specie di valzer che dopo un turbinio di sillabe volteggianti, finisce nell’ordine più assoluto.

Come il posizionamento rigoroso di tutte le rondini sul filo, dalla più grande  alla più piccola, così uno scrittore ordina le parole, le frasi, i paragrafi di un libro. Questo faccio ogni giorno, ordino le parole. In questo rigore c’è una via d’uscita, la luce in fondo al tunnel. Poi arriva la sera e io mi fermo  a guardare un lavoro impegnativo e, a volte, un riuscito posizionamento di un po’ di verità su un  foglio. Come può la creatività convivere con tutto ciò che è quotidiano senza stridere, mandare urla di soffocamento, sembrare un lavandino mezzo intasato che produce gorgogli di malumore e arrendevolezza. Come conciliare il lavoro, la noia  dalla quale provo sempre a fuggire e che mi riacchiappa sempre, l’amore.

Un uomo. Eppure mi piace lui e il giorno sembra più bello, i gerani di Teresa brillano di un rosso strano, le mani sulla tastiera corrono veloci e sistemano sicure le parole. Le posizionano una volta per tutte, senza possibilità di scampo e rivalsa. Le inchiodano dentro questo tempo, dentro questo libro che sa di nuovo.

E’ arrivato lui in un giorno di sole. Gli occhi verdi come le felci e la bocca morbida. (Proprio a me doveva capitare). Pelle liscia e calda, un buffo modo di chinare il capo. Una presenza viva che ha invaso e riempito lo spazio, ha assorbito l’ossigeno fino quasi a farmi soffocare. Lui sulla pelle, lui negli occhi, lui nelle mani. Possibile che questo sentire e vedere possa sopravvivere? Che ci sia ancora una possibilità su un milione che questa magia possa diventare verità, che un’emozione possa diventare dedizione, che le mie lacrime abbeverino le felci dei suoi occhi, che si veda il futuro in quel luccichio. Possibile che questo sentire trovi una via per sopravvivere alla mediocrità delle giornate, alla ripetitività di quella mia estenuante ricerca di senso che si consuma ogni giorno tra la carta e l’inchiostro, tra i panni appesi al filo e il cesto in cui si ammucchiano le calze?.

C’è ancora una possibilità, c’è per me, c’è per tutti, c’è per pochissimi?. Lui è arrivato con quel suo modo gentile e non convenzionale, con curiosità e con un po’ di sorpresa. Ma io l’ho sorpreso? Io che scrivo e che infilo le parole come corallini tenuti insieme da un filo che forse un giorno qualcuno chiamerà collana. Li infilo cercando di combinarne i colori. Prima il blu, poi l’azzurro e il verdino, il verde scuro, il nero, il rosso scuro, il rosso geranio, l’arancione, il giallo sole e il giallo limone. Possibile che gli piaccia io  che sono insofferente, testarda, ribelle, perfezionista. Eppure lui c’è ed io l’ho visto. Un profumo di pelle, un bacio, un sorriso, una corsa nel vento e nel tempo. Lui che si ferma a comprarmi un gelato e poi prendiamo un caffè. “Andiamo là. Là fanno il miglior caffè della città”. E poi i suoi jeans un po’ slavati e stretti, una maglietta bianca, una giacca di lino. Quella voglia di toccargli un orecchio, di accarezzarlo, di morderlo. Orecchie belle, piccole. Sanno un po’ di mare, un po’ di sale e un po’ di pace. Come faccio  adesso a conciliare questo vento con la vita che ho. Se mai la mattina mi vedrà con quella maglietta blu che metto per dormire, con i capelli in aria che sembro un istrice, a piedi nudi mentre mi accovaccio sulla sedia come un gatto e mangio il pane fresco con il burro e lo zucchero.  E poi quando andrò in bagno, mi laverò, vestirò, canterò qualche strofa di canzone con parole sbagliate e poi scenderò di corsa le scale come un fulmine che prima o poi si schianterà al suolo, facendo un frastuono da elicottero, svegliando cani, gatti e vicini di casa. Come potrà sopportare tutto ciò, e come potrò io pensare di costringerlo a questo, dentro questo mondo, dentro questa noia. Vorrà accompagnare questi giorni fatti di poco e di ritmi che si riproducono uguali, sempre quelli? Come potrò essere meno uguale o meno diversa, meno strana, meno prevedibile. Eppure lui c’è ed io l’ho visto. E’ pelle e carne viva, è un corpo esigente e sano, è aria da respirare, una parola per nulla banale. Come sia successo non lo so, non sembra vero, non era previsto, nessuno l’ha chiesto o l’ha cercato. Credevo fosse sposato ma non è così, non è nemmeno questo. Non lo è mai stato. Non ho scuse, devo mettermi di fronte a me, devo capire se posso darmi una possibilità, se posso credere che un futuro ci sarà. Lui dice che non sa cosa succederà, si vedrà. Dice che il presente è qui per noi, che il futuro sarà il bene che resterà. E io ora cosa faccio? devo dare una possibilità a questo accadere che non è come lo volevo, a questo tempo strano e sospeso. Eppure nel cielo una nuvola bianca c’è, la nuvola esiste indipendentemente da me. Una grande agitazione, una vita che si alza da terra, che rischia il volo con tutte le sue criticità. E’ rinato il tempo delle favole, il bisogno di un tocco leggero, di una mano che scaccia i fantasmi come fa con le mosche, con le ragnatele. Mi chiedo se possa bastare questo per ricominciare, per cambiare la mia vita, oppure è lei che ha già cambiato me. E’ arrivato lui, in quella giornata normale in cui mai avrei pensato di inciampare. Si è improvvisamente aperta una porta verso il futuro. Posso concedere a me stessa la speranza che domani sarà come oggi, che la nostra forza distruggerà la normalità, che lui potrà sopportarmi e trovare in ogni giorno una rinnovata energia?. Sono franata in uno strano tormento, in qualcosa che travalica i miei confini.  Sono sommersa da lui, con lui. Continuo a pensarci, continuo ad annegare. Questa storia sta nascendo, è già nata.

Ho scoperto ora che voglio che la vita con la sua forza superi le mie convinzioni, i miei malumori e le mie perplessità e che mi porti leggera sulle ali del vento. Voglio lui che è pelle e sudore, carne e vita, sorriso e pensiero, occhi verdi come le felci,  come il mare. In lui c’è un prato, una terra e una casa. Forse proverò ad entrare in quella casa in punta di piedi, cercando di non disturbare. Devo lasciare a questo tempo una possibilità, devo ridare spazio alla libertà ed al canto, alla vita nella sua novità. A lui che forse potrà lenire la paura, la preoccupazione per ciò che sarà. Forse finirà la mia guerra perenne nei confronti della quotidianità. I suoi occhi hanno il colore delle felci. Non resta che aprire la porta e poi si vedrà.

La canzone di Betulla

Mia madre Anna si trasferì a Pontalba quando si sposò. Prima  abitava a Cremantello, il paese in provincia di Varese dove abita suo fratello e dove le mie cugine gestiscono il bar Ghepardi.
Quando mia madre abitava a Cremantello la sua casa non era quella annessa al bar dove ora vivono gli zii, ma era una casa di campagna con cortile, giardino, orto, rimessa, fienile e uno strano stanzino stretto e lungo, con una sola piccola finestra, che tutti chiamavano “il cantinetto”.  Credo che lo chiamassero così perché in origine era destinato alle botti di vino appena fermentato. Il cantinetto era posizionato sul versante nord della vecchia casa  e al suo interno la  temperatura restava costante per quasi tutto l’anno. Si sentiva entrando uno strano odore di chiuso e muffa, forse dipeso dal fatto che il pavimento era di terra battuta, sempre un po’ umido.

In quella vecchia abitazione c’erano tanti oggetti e mobili di sconosciuta provenienza. Nessuno si ricordava che strada avessero fatto per arrivare lì, né  chi fossero stati i primi proprietari della catena ereditaria che aveva destinato tutto quel mobilio nella vecchia casa della nonna Adelina. Si sapeva solo che appartenevano  alla famiglia Ghepardi da generazioni. Mia madre, Anna Gherpardi, era nata tra quelle mura nel 1941.
Io ricordo che al centro del cortile c’era un meraviglioso albero di pere, che produceva dei frutti così dolci e sodi, da attirare l’interesse di buona parte del vicinato. Avevano la buccia color ruggine e dei puntini più scuri sulla parte “panciuta” del frutto. Maturati sull’albero, sotto il sole che arroventava il cortile, erano delle prelibatezze. Tutta via  Don Mazzolari invidiava quelle pere e provava a farsele regalare dalla nonna, non appena le condizioni umorali della vecchia Adelina sembravano propizie.

La nonna aveva infatti un carattere particolare, bisognava incontrarla nel momento giusto, altrimenti invece delle pere ti regalava qualche vecchio maglione da disfare e ti diceva entro quanti giorni le servivano  le matasse di lana già lavate. I gomitoli, gratuitamente arrotolati dai malcapitati vicini, servivano  per confezionare le coperte che venivano vendute durante la festa della Madonna d’Ottobre e il cui ricavato andava alla Caritas di Cremantello. Il dilemma non era da poco: cercare di farsi regalare le pere e rischiare di avere in cambio maglioni da disfare, oppure evitare i vecchi maglioni e non poter assaggiare le pere? Il rischio valeva la pena di essere corso. Le pere erano irresistibili.

Le vicende di Cremantello sono tante e molto curiose. La vita rurale e agricola, con tanto di seconda guerra mondiale alle porte, ha reso  quel posto il potenziale canovaccio di un vero romanzo che prima o poi qualcuno scriverà.
Tra le tante stranezze, vicende e curiosità che ho sentito raccontare su quel borgo, quella che mi fa sempre sorridere quando ci penso, è il nome dei vicini di casa della nonna Adelina. Si chiamavano Betulla e Tomeo e tutti li chiamavano Tulla e Teo.  Da dove venissero quei due nomi esattamente non si sapeva e nemmeno ci si spiegava come due persone, con nomi del genere, avessero potuto sposarsi e vivere insieme serenamente. Ma si sa, la vita reale è molto più bizzarra della fantasia. Ciò che riusciamo a inventare assomiglia quasi sempre a qualcosa che abbiamo già visto e sentito, che fa parte della nostra cultura, del nostro patrimonio genetico. Ciò che veramente è, può davvero stupire. Tulla e Teo erano veri, chi mai avrebbe potuto inventarsi nomi del genere. Nessuno aveva chiaro il numero civico dell’abitazione di questi due personaggi. Non serviva. Quando qualcuno d’estate andava in vacanza e mandava loro una cartolina da qualche località di mare, scriveva sull’indirizzo “Betulla e Tomeo – Cremantello (VA)” e la missiva arrivava senza colpo ferire.

Due nomi davvero strani: Betulla e Tomeo, due diminutivi un po’ meno strani: Tulla e Teo (come una coppia di due comici da prima serata in TV), due cognomi assolutamente inutili. Nessun’altro a Cremantello aveva quei nomi, a cosa serviva aggiungere i cognomi?.
Tulla e Teo facevano i macellai. Aprivano la bottega tre mattine la settimana, il lunedì era giorno di chiusura e il resto del tempo-lavoro era destinato a preparare la carne per la vendita al dettaglio. Comprare le vacche, macellarle, sezionarle, togliere le interiora, lavare la trippa, segare le ossa e preparare dei bei pezzi di carne da vendere. A Betulla piaceva cantare e lo faceva sempre quando andava a lavare la trippa (lo stomaco della mucca) al fosso.  L’acqua corrente puliva perfettamente le interiora. Lo stomaco del bovino diventava bianco e luccicante, pronto da cucinare la domenica. Tagliato a listarelle e bollito con diverse verdure, era uno dei piatti poveri più apprezzati e particolari del paese.
La canzone che Betulla prediligeva quando andava al fosso a lavare la trippa era “La bella la va al fosso”. Una canzone popolare dell’area settentrionale del nostro paese, una delle più conosciute della tradizione lombarda. Ne esistono diverse versioni, molto simili tra loro.

Inizia  più o meno così:
“La bella la va al fosso/ ravanei, remolazz, barbabietol e spinazz/ tre palanche al mazz,/ la bella la va al fosso,/ al fosso a resentà.”
[La bella va al fosso/ ravanelli, rape, barbabietole e spinaci/ tre soldi al mazzo,/ la bella va al fosso,/ al fosso a lavare i panni.]
Betulla invece dei panni lavava la trippa, ma tutto il resto coincideva.
La canzone prosegue narrando che “la bella che lava i panni”, perde nel fosso il suo anello e non sa come fare a recuperarlo. Mentre è indecisa sul da farsi, vede un pescatore e gli chiede se può ripescarglielo. In cambio offre al pescatore un “regalo” in natura.
“E quan’ l’avrai pescato/ un regalo ti farò. […]/Andrem lassù sui monti/ ravanei, remolazz, barbabietol e spinazz/ tre palanche al mazz,/ andrem lassù sui monti,/ sui monti a far l’amor.”
[E quando l’avrai pescato/ un regalo ti farò. […]/Andrem lassù sui monti/ ravanelli, rape, barbabietole e spinaci/ tre soldi al mazzo,/ andrem lassù sui monti,/ sui monti a far l’amor.].

Accidenti che ricompensa per il recupero dell’anello!, forse dipendeva dall’avvenenza del pescatore, sarà stato giovane e bello, e forse anche dall’importanza di recuperare l’anello, magari era l’unica quantità d’oro appartenuta alla bella lavandaia … o forse semplicemente quelle parole permettevano di comporre una rima necessaria al ritornello e, di conseguenza, la canzone era venuta così.
Sta di fatto che Betulla e Tomeo erano conosciuti e stimati macellai e nessuno ha mai saputo che ci siano stati tra loro screzi, malumori o strani amori clandestini. Di certo c’era solo quella canzone innocua che cantava Tulla e non stupiva nessuno. Sicuramente non Teo.

Ma si sa, gli interessi comuni, soprattutto in tempo di guerra, permettevano di mangiare e, in quanto tali, erano imprescindibili. Senza la pagnotta sul tavolo per molti giorni consecutivi, l’amore non si faceva né col marito, né col pescatore, né col garzone delle consegne, né con altri. Credo ci fossero diversi maschi “interessanti” che avrebbero pasteggiato volentieri  con un po’ di ossa e di polpa di carne appena frollata. Quale poteva essere il cambio? La carne fresca sarebbe stata un bel modo per festeggiare come si deve la domenica. La guerra è la guerra, il rispetto del corpo è un grande lusso e, sicuramente tutte le volte che si può, una virtù.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Ho paura del telegiornale

racconto di Patrizia Benetti

Sono fiorite le calle. Vedessi come sono belle, Annina! Ho tolto l’erbaccia dal nostro giardino e ho pure imparato a stirarmi le camicie. Sorridi, lo so.
Ieri sera, Alfio e Giuseppe sono venuti a prendermi e mi hanno “trascinato” al bar. Hanno detto che è dura, ma la vita continua.
Abbiamo giocato a tresette e mi sono divertito. Il tempo è trascorso veloce e l’angoscia si è placata.
Sto preparando gli arnesi: ami, esche e canne, perché domenica mattina andiamo a pescare. Una giornata all’aria aperta mi farà bene.
Alfio e Giuseppe sono i miei amici più cari, ci conosciamo da quando eravamo ragazzini e ci capiamo al volo. E’ bello poter essere se stessi, senza finzioni o forzature, soprattutto quando si soffre.
Mi manchi Annina e adesso che sono solo, la sera non riesco più a guardare il telegiornale. Mi fa paura, con tutte le sue brutture e le sue miserie.
Allora accendo la radio, cucino e penso a te.
Mi sembra di sentire la tua mano che mi accarezza e la tua voce dolce che mi sussurra:
“Coraggio Alfredo. La vita è bella!”.

Quando (Pino Daniele, 1991)

Uno strano agosto

Uno strano agosto, questo, vissuto in punta dei piedi sui ritagli della paura e delle insicurezze che ci hanno accompagnati nei mesi scorsi, ma anche su ciò che rimane dell’impellente voglia di andare avanti, di quella speranza che, in fondo e per fortuna, non ci abbandona.
Ricorriamo al nostro almanacco mentale per richiamare i ricordi belli di annate più fortunate, sorridendo al richiamo di luoghi, fatti e persone che abbiamo incrociato sulla nostra strada nello stesso mese, in un agosto diverso, quando tutto sembrava libero dal vincolo del timore, dell’ansia, della circospezione, degli interrogativi.
Se poi gettiamo lo sguardo a un passato comune, tra fatti ed eventi che hanno segnato molti dei grandi cambiamenti, scopriamo che l’ottavo mese del calendario non è affatto la parentesi di tempo in cui tutto riposa e viene ricondotto all’inattività, alla sospensione di quell’operatività legata semmai al resto dell’anno.

Agosto del 1904, Weed brevetta – e lo raccontiamo con un briciolo di ilarità – le catene da neve, mentre qualche anno più tardi a Le Mans in Francia, stesso mese e stesso entusiasmo, Wilbur Wright, in elegante abito grigio e berretto da golf, si libra in aria con il prototipo di aereo messo a punto con il fratello, per ben un minuto e 45 secondi. Nel secolo precedente, nell’agosto del 1891, Thomas Edison aveva brevettato il kinetoscopio, precursore del proiettore cinematografico, rivoluzionando lo spettacolo e l’intrattenimento, mentre nel lontano agosto del 1609, Galileo Galilei presentava al cospetto del Senato di Venezia il suo telescopio rifrattore, perfezionato da un modello olandese già esistente. L’alacre lavoro e la fervida inventiva dell’umanità non si fermano mai, nemmeno in agosto, come non si fermano i suoi aspetti estremi: la crudeltà demoniaca e la santità. Nell’agosto del 1934, dopo la morte del presidente von Hindenburg, Adolf Hitler si attribuì il titolo di Führer e Cancelliere del Reich, accentrando nelle sue mani i poteri dello stato, instaurando il regime totalitario che conosciamo. Nel periodo agostano del 1910 Padre Pio, destinatario di venerazione popolare di imponenti proporzioni, viene ordinato sacerdote e nel 1978 venne eletto pontefice Giovanni Paolo I, Papa Luciani, che segnò la storia della Chiesa con il suo brevissimo pontificato di 33 giorni e la sua prematura e sconcertante scomparsa. Volti che in quei giorni di agosto, epoca dopo epoca hanno impresso la loro eredità, scellerata o santa che sia, nel ricordo di oggi. E nel sangue finisce il 23  agosto del 1927  con la sentenza di morte e condanna alla sedia elettrica di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anarchici italiani emigrati in USA. L’accusa è omicidio per rapina, un addebito fazioso, un verdetto pretestuale in un clima di ‘politica del terrore’ a sfondo politico, un’ingiusta condanna che suscitò proteste in tutto il mondo; un errore ammesso pubblicamente solo nel 1977 dal governatore del Massachusetts. Un agosto di sangue anche quello del 1990, che racconta dell’omicidio efferato della giovane Simonetta Cesaroni, accoltellata per 29 volte. Un delitto mai risolto, avvolto ancora nell’ombra, che ricorda molti femminicidi attuali. E poi ancora, l’uccisione di Libero Grassi (1991), un uomo tutto d’un pezzo che osò sfidare la mafia. Ed è proprio in agosto che viene ritrovata nel quartiere degradato di Whitechapel a Londra, la prima vittima del non identificato Jack lo Squartatore, Ann Nichols, a cui seguiranno altri macabri ritrovamenti tra agosto e novembre dello stesso anno, il 1888. Un’estate tragica, quella dell’agosto del  1956 nelle miniere di carbone di Marcinelle in Belgio, dove un devastante incendio produsse fumo asfissiante nei cunicoli, uccidendo 262 lavoratori, dei quali 136 immigrati italiani. Un agosto nero da ricordare con cordoglio anche quello delle stragi nella stazione di Bologna (1980) e dell’Italicus (1974), in un’Italia colpita al cuore che si confrontava con l’eversione e il terrorismo, in cui oggi commemoriamo le vittime. E’ agosto anche quando avviene la prima scalata del monte Bianco nel 1956 e due anni dopo viene intrapreso il primo viaggio in sommergibile, sotto i ghiacci del Polo Nord, da parte di W. Robert Anderson e il suo equipaggio, in una missione definita ‘impossibile’. Nemmeno le guerre si fermano ad agosto: la prima guerra del Golfo Persico (1990) e il bombardamento atomico di Hiroshima (1945). Ad alleggerire i ricordi legati a questo mese e conferire una nota di autentica bellezza, ci pensano gli avvenimenti di agosto datati dei secoli scorsi: nel 1483 l’inaugurazione della Cappella Sistina, nel 1778 la prima rappresentazione al Teatro alla Scala di Milano, nel 1793 l’apertura del Louvre, oltre che la più recente prima rappresentazione alla Mostra del Cinema di Venezia (1932). E ad agosto tocca anche l’onere e l’onore di essere depositario della proclamazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, testo elaborato durante la Rivoluzione francese, contenente una solenne elencazione dei diritti dell’individuo e cittadino. Un agosto da dimenticare, il nostro? No, un agosto da ricordare che comparirà negli annali, come tutti gli altri, contornato da una narrativa che creerà suggestioni, solleverà ricordi, scatenerà curiosità in chi vivrà altri tempi, intento a commentare volti mascherati, barchini strabordanti di esseri umani alla deriva, inondazioni e ondate di calore, inaugurazioni di ponti figli di un disastro, politici allo sbaraglio e cittadini alle strette. Ma la vita è bella, e l’estate dura poco. Andiamo avanti.

PER CERTI VERSI
I miei

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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I MIEI

i Miei
Quanto è stata dura…
Il cancro fu un’apnea incerta
Per tutto l’ossigeno che occorse
E chi resta fuori – come loro-
Con tutta la pena in gola
Si domanda
Ce la fara’
A rifiatare ancora?

MIA MADRE HA RETTO

mia madre ha retto
Non so come
La brutalità del nome
Cancro
All’unico figlio
Che ha potuto avere

È stata della speranza
La mia seconda incubatrice

MIO PADRE

mio padre non è cambiato
So che ha assimilato la bufera
Tagliando la legna del dolore
Per i miei futuri inverni
Da professore

PRESTO DI MATTINA
L’Assunta, ovvero il sonno di Maria

Se la Pasqua è il transitus Domini, il passaggio di Gesù da noi al Padre, la festa dell’Assunzione ci ricorda il transito di Maria, la sua Pasqua: “il suo passare a ciò che non passa” direbbe Agostino. L’iconografia in Santa Maria in Vado ce la presenta come Assunta in cielo nel dipinto di Domenico Monio, sovrastante l’altare del presbiterio; mentre la sua incoronazione è resa da Carlo Bononi nel tondo al centro del transetto. Ma è nella cappella di fronte al battistero, nella parete di destra, che essa viene raffigurata appunto nel momento del suo transito. E’ il dipinto di Vittorio Carpaccio di cui in Basilica è rimasta una copia, mentre l’originale si trova in pinacoteca.

Nel raccontarci di Maria, gli Atti degli apostoli fissano un ultimo fotogramma della sua vita, mentre è raccolta in preghiera nel Cenacolo con gli apostoli in attesa della Pentecoste. Non si parla dei suoi ultimi giorni. Sappiamo solo dall’evangelista Giovanni che questi, sotto la croce, la prese con sé come un figlio la madre sua. A colmare questa lacuna ci hanno pensato però i testi non canonici scaturiti dalla venerazione per la Madre di Dio, che riportano tradizioni antichissime, fino a descrivere il momento in cui la Vergine Maria si addormentò (c.d. dormitio virginis) e il suo corpo fu portato in cielo, assunto tra la gloria degli angeli accanto al Figlio risorto.

Transiti e dormizioni divennero così narrazioni che, dal V° secolo, ispirarono padri della chiesa, scrittori medioevali, poeti e pittori. Ne abbiamo una testimonianza meravigliosa nell’affresco, peraltro intatto, che si trova nel monastero di Sant’Antonio in Polesine, dove la Madonna dormiente, circondata dagli apostoli, è sovrastata dal Cristo che l’attende in cielo, reggendo in braccio ‒ sublime chiasmo teologico ‒ una Maria bambina.

Perché l’Assunta dormiente fa ricordare proprio l’episodio evangelico in cui Gesù ridà la vita alla fanciulla dormiente, la figlia di Giairo: «Entrato, disse loro: “Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme. … Prese la mano della bambina e le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico: àlzati!”. E subito la fanciulla si alzò e camminava», (Mc 5, 39; 41). Forse per questo, nel dipinto del Carpaccio, Maria è piccolina davanti al Figlio che l’ha risvegliata dalla morte, rialzata e posta accanto a sé dopo il suo cammino terreno.

Il cammino di Maria è, in fondo, la sua essenza: espressione di una maternità generatrice di grazia anche nel cammino della nostra fede. Lo sottolinea il Concilio che ha ricordato la “peregrinazione di Maria”, lei pure discepola alla sequela di Gesù in ascolto della sua parola: “anche la beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce” (Lumen gentium, 58). Perché la fede è proprio questo andare, di giorno in giorno, di domenica in domenica, portando con sé la Parola e la sua beatitudine.

Beata te! Beata tu che hai creduto al fatto che la Parola di Dio si compisse nella tua vita nella forma di una maternità e così la portasse a pienezza. E lo stesso vale per la nostra fede. La beatitudine di chi crede che la Parola del vangelo compia la nostra umanità; compia la nostra vita, nonostante sia una vita piena di tanti vuoti, soste forzate e situazioni mortificanti; davvero la beatitudine della fede consiste nell’avanzare come Maria verso l’ultima Pasqua, nel ricevere, come Maria, la pienezza dell’ultima Pasqua.

Mi ritornano in mente le parole del vescovo Luigi Maverna, il quale parlava del “dramma della fede” proprio alludendo anche al suo percorso di malattia e sofferenza: “La fede, che nel suo affacciarsi, insinuarsi, ed emergere nella coscienza umana, è tanta fonte di travaglio, di tormento, di dolore e poi di desiderio e di gioia, ed ha come punto di arrivo la Pasqua: la conoscenza pasquale” (Lettera sulla fede 1994).

Non siamo molto avvezzi al libro dell’Apocalisse di Giovanni, malgrado sia un libro scritto per consolare i cristiani nella persecuzione, a noi uomini di oggi risultano molto difficili da cogliere i suoi simbolismi, le lotte, le distruzioni planetarie, i conflitti senza pietà che vi si raccontano. Ma ci può aiutare a comprenderlo il considerare come questo libro è strutturato: come una liturgia, quella dell’assembla domenicale raccolta nella celebrazione pasquale nel giorno del Signore. Potremmo infatti dire che essa nel cono di luce del libro dell’Apocalisse intravede in anticipo e celebra − la Chiesa celebra − l’Ultima Domenica, l’Ultima Pasqua, vittoriosa, di tutti.

Come nella nostra assemblea domenicale c’è l’esortazione alle comunità a ravvivare il loro amore e a transitare la soglia della porta sempre aperta della missione; c’è il libro della vita sigillato che il Signore Gesù presente in mezzo ai suoi riapre con la sua Parola, lo interpreta, rimuovendo i sette sigilli della sua incomprensibilità e mostrando la fine, non come una catastrofe, ma come vittoria sul male, come uno sposalizio tra cielo e terra. C’è la presenza dell’Agnello immolato trafitto ma vivente, in piedi segno di speranza nella persecuzione a cui attesta una fine: “Non avranno più fame e non avranno più sete, non li colpirà più il sole né alcuna arsura; perché l’Agnello che è in mezzo al trono li pascerà e li guiderà alle sorgenti delle acque della vita; e Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”, (Ap 7, 16-17). Vi è pure l’Assunta la donna vestita di sole, la chiesa stessa che nella fede e nelle doglie del parto, nel travaglio della storia, continua a genera Cristo al mondo. La promessa dell’eliminazione della morte e della sua coorte: “non vi sarà più maledizione, non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà” (Ap 22, 3-5).

La sconfitta dello strapotere della “bestia” e dei suoi alleati imperiali introduce la visione della Gerusalemme celeste la nuova umanità che scende dal cielo come una sposa il giorno delle nozze. È questo che noi facciamo ogni domenica: lasciamo entrare il futuro di Dio, il suo sogno, nella peregrinazione della nostra fede; anticipiamo, nell’oggi caotico, dolorosissimo, delle vicende umane, questa primizia del compimento che è l’eucaristia, farmaco di immortalità diceva Ignazio di Antiochia.

C’è un poesia di Mariangela Gualtieri che si sofferma su questo nostro travaglio del vivere e del credere, un questionare anche con “l’azzurrata Maria”, in sua compagnia, un chiedergli ragione se anche lei è passata attraverso “l’assillo che non molla”, dei distacchi generativi di una bruciante e sempre riaffiorante nostalgia e del male del vivere: quello dei pensieri e delle voci come sciame che affolla la mente, che sporcano i sogni come la neve quando cade a terra ed è calpestata nel fango.
Nello sguardo pacificato dell’Assunta dormiente, provvidenza di amore, sarà ridonata integrità e immacolatezza a ciò che non lo è più. Già ora nel suo ricordo, anche oggi, “i capelli sfiniti si mettono a dormire sul cuscino” e le ingombranti parole e voci assordanti ridotti a polvere sotto il letto, aspettando domani.

Me li pulisci tu
i pensieri? Che sai
di questo assillo che non molla?
Del sonno sporco
fitto d’un vociare circolare
che soffia le parole
nel padiglione. Che sai tu
azzurrata Maria? Dimmi che lo sai.
Che tu sai, che l’hai provato che tu
l’hai mondato tutto il pensiero
ne hai fatto Un’aria di colline nuove
pacificata visione
così che il cuore ha traboccato
d’un silenzio subacqueo
fino al grigio disteso cerebrale. Fino
ai capelli sfiniti che ora
si mettono a dormire sul cuscino
e tutte le parole sotto il letto
virano in polvere. Domani spazzeremo – Maria.

(Domande a Maria II, in Quando non morivo, Torino 2019, 23).

Al cantón fraréś
Iosè Peverati: La mlunàra

Con nostalgia e umorismo Iosè Peverati descrive un luogo d’incontro di un tempo, fra amici e famigliari, ovvero in “cumpagné”. I gesti rituali del “mlunàr”, dalla scelta del cocomero ai “”baricòcal” sonori per valutarne la maturazione, agli abili colpi di coltello, così come gli arredi del “caśón”, richiamano con precisione l’atmosfera e l’attesa per il momento conviviale.
L’autore passa dall’esilarante atteggiamento degli avventori di una volta agli ironici suggerimenti delle buone maniere di oggi a tavola, concludendo con una malinconica riflessione.

 

La mlunàra

V’arcurdèv, ragazìt, quand una volta
as andava a pasàr i dopmeźdì
‘vśin i caśùn ad cana dla mlunàra,
o la sira, da prima ch’a fés scur
fin dop ónd’s ór o meźanot pasà?
Agh iéra un tavulón d’ass iηciuldà,
soquànt baηchéti fati źó ala bona
e dill scaraη stabià coi… zucatìn.

Al mlunàr al starnéva na laηguória,
al la pasàva da na man a cl’altra
com s’al la pśés o s’al źughés a bala,
algh cazàva na ciòpa ad baricòcal
par védar se la iéra źa bunìda,
po’ algh fundàva uη curtèl col maηgh ad legn
par fàragh un tasèl làragh dó dida:
al la taiàva ad śbiès, tiràndal fóra
e al la mustràva a tuti, pin d’argói,
génd la solita fraś: “Ohi, taglio rosso!”.

E nu santà a cavàl d’uη santarìn,
una meźa laηguória par da dnaηz,
coη na bela guciàra e uη grustìn ‘d pan
as gudévn a magnàrin di bei tòch
e po’ i aηmìn ai spudàvan in tera.
Agh iéra quìi che spés i s’iηgusàva

e chi s’a sbrudaciàva da par tut:
aηch s’as a stava atenti d’aη spurcàras
par quant as fés, an as vaηzàva sut.
Mo dop, chi’s vléva dar na riηfrescàda
l’andava int al canàl par na nudàda.
Int la staśón d’istà, s’agh fén a ment,
a gustàvn ill laηguóri aηch stand iη pié
però as gh’aveva al mèi di cundimént
ch’al iéra quél ad star iη cumpagné.

Adès che la mlunàra l’è scadùda
tut’ill laηguóri il viéη cargà sui camioη:
śbiàvdi… ad vargógna il vién distribuìdi
int i supermarcà, dai frutaró
e in ogni ristorant, indù ch’il s’magna
par strùsi o par “dessert” iη ftiη sutìli
con i curtlìn e i furzinìn d’arźént;
gli àηm il s’a spuda con delicateza
int al pàlum dla maη coη sentimént
e il s’fa śbliśgàr coη finta indifaréηza
sóra l’urdlìn dal piàt o uη po’ più in déntar.

Agh è la nuvità seηza i aηmìη
mo com as putrà far, dop, par sumnàril?
Ala fiη, malcuntent, spés anuià,
la fila di aventór i salta sù
e i paga al cónt ch’l’è sémpar bel salà.

Purtròp la cumpagné l’as è smarìda,
tut’i zérca ad muciàr dla baiucàra
chi’d za chi’d là… an as tgnuséη gnaηch più:
ognuη peηsa par lu e, d’altra part,
col temp ach fa la vita l’è ‘csì cara…
Aηch la laηguória ch’l’aη custàva nient
al dì d’iηquó la costa purasà.
Che bei i nòstar temp, ala mlunàra!

 

La cocomeraia
Ricordate, ragazzi, quando un tempo / passavamo l’intero pomeriggio / alla capanna del cocomeraio / fino alla sera, oltre l’imbrunire / oppure a mezzanotte già suonata? / C’era un tavolo grezzo di quattr’assi, / alcune panche fatte rozzamente / e sgabelli abbozzati con i tronchi… /

Il gestore sceglieva un bel cocomero, / come per gioco da una mano all’altra / lo palleggiava, quasi soppesandolo, / gli schioccava una serie di colpetti / per stabilirne la maturazione, / vi affondava la punta di un coltello / praticando un tassello di due dita, / lo tagliava di sbieco ed estraendolo / lo proponeva con ostentazione / esclamando orgoglioso: “Taglio rosso!”. /

E noi, a cavalcioni di sgabelli / con un mezzo cocomero davanti / un robusto cucchiaio ed un crostino, / ne gustavam pezzetti deliziosi / e sputavamo in terra i semi scuri. /

Spesso qualcuno si ingozzava in fretta / altri si sbrodolavano di brutto; / ma anche stando attenti a non sporcarsi / era difficil rimanere asciutti. / Ma poi, per salutare rinfrescata, / ci tuffavamo tutti nel canale. / Ed ogni estate, se ricordo bene, / gradivamo i cocomeri anche in piedi, / però c’era il miglior dei condimenti, / ch’era quello di stare in compagnia. /

Or si va meno alla cocomeraia, / i frutti sono messi su autocarri: / pallidi e… smorti son distribuiti / ai fruttivendoli, ai supermercati, / ai ristoranti dove si consumano / in fette trasparenti, per dessert, / con posatine lucide d’argento, / poi si sputano i semi dolcemente / sul palmo della mano con bel garbo / e si fan scivolare di nascosto / sul margine del piatto, al lato opposto. /

I nuovi sono pure senza semi, / ma come li potremo seminare? / Alla fine, annoiati e malcontenti, / se n’vanno gli avventori ad uno ad uno, / saldando conti sempre più elevati. /

Disperse le combriccole di amici, / ognuno è attento a cumular quattrini / quand’è possibile. Non ci si conosce; / si pensa più a sé stessi e, d’altra parte, / il costo della vita è lievitato / ed i cocomeri che costavan poco / aumentano di prezzo giornalmente. / Che bella un tempo la cocomeraia!

 

Tratto da:
Iosè Peverati, La giostra : poesie in dialetto ferrarese e in italiano, Bologna : Ponte Nuovo, 1996.

 

Iosè Peverati (Modena 1927)
Altre notizie biografiche sull’autore nel Cantóη Fraréś del 28 giugno 2020. [Vedi qui]

 

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce il venerdì.
Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

 

 

Cover: Stadiéra con meloni: foto di Marco Chiarini

CONTRO VERSO
Il figlio allungabile

Dare ragione a ciascun genitore a turno è una strategia che tanti bambini sviluppano quando i genitori sono divisi e in aspro conflitto tra loro.

Il figlio allungabile

Sono un figlio molto abile,
sono allungabile.
Coi dispetti che mastico
son diventato elastico
e quando mi sposto
dalla mamma al papà
io non mi riconosco.
A ognuno mostro metà
del loro figlio conteso.
Ma dico, per chi mi avete preso,
per un Cicciobello?
E sul più bello
comprendo il fattaccio:
i genitori, quando si separano,
gli dai un dito e si prendono un braccio.

Il compiacimento riduce il conflitto. In questo modo i bambini si modellano sul genitore che li guarda in quel momento, per poi trasformarsi nel passaggio dall’altro. Il prezzo per questi piccoli Zelig è evidente: non riuscire a sviluppare una propria personalità, non sapere più qual è la propria posizione di fronte a un bivio qualsiasi.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia tutti i venerdì.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]