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DA CHE PARTE STAI?
Appello per la fine immediata delle 23 misure cautelari contro compagne e compagni di Bologna

Periscopio aderisce e rilancia la campagna ” Da che parte stai ” per la fine immediata delle 23 misure cautelari contro i giovani del movimento studentesco di Bologna_

Dal 4 giugno 23 persone, attive nei movimenti sociali di Bologna, sono sottoposte a misure cautelari, 13 di loro hanno ricevuto un divieto di dimora, ossia il divieto di poter entrare in città. Il luogo in cui vivono, lavorano, studiano, fanno attività politica, amano, costruiscono relazioni e mondi.

Un esilio a tempo indeterminato che è stato annunciato e applaudito con gioia da vari pezzi del Governo (dal ministro Salvini a Galeazzo Bignami) e della destra cittadina e regionale. Ai loro occhi, e non solo ai loro, le lotte sociali che queste 23 persone hanno portato avanti, insieme a centinaia e migliaia di altre, sono infatti pericolose. Sono pericolose perché mettono in discussione gli attuali rapporti di potere e di proprietà, le culture dominanti. Di quali lotte stiamo parlando?

Parliamo di lotte per il diritto all’abitare, per il reddito, per la solidarietà internazionale con la Palestina, contro la guerra, per un sapere demilitarizzato. Queste lotte che attraversano e creano movimenti sociali aprono spazi di autonomia e processi di liberazione, e di frequente si trovano dinnanzi controparti che questi spazi provano a chiuderli, questi processi tentano di bloccarli.
Questo genera conflitto, un conflitto sociale che senza paura queste 23 persone, che noi chiamiamo compagne e compagni, accettano di affrontare consapevoli dei costi che ciò comporta. Un conflitto sociale che in questi mesi è stato agito da migliaia di persone a Bologna, dalle riappropriazioni abitative ai cortei per la Palestina, dalle lotte transfemministe a quelle ecologiste.

È a questo variegato mondo che queste misure cautelari si rivolgono, non solo alle 23 persone che le stanno subendo.
Vogliono spaventare, vogliono metterci paura.
Queste misure cautelari vogliono “dare l’esempio”, far rientrare nei ranghi, non far straripare nuove maree. Queste misure cautelari fanno venire tanta rabbia.
Al contempo, però, non possono che farci rispondere con un sorriso beffardo, lo stesso sorriso che abbiamo visto fare a Ilaria Salis incatenata nel tribunale di Budapest, lo stesso sorriso che abbiamo visto tante volte sulle labbra di chi è consapevole di quanto costa amare le lotte, di quanto è duro lo scontro, ma che essendo dalla parte giusta della storia non può che guardare con compassione e odio cm prova a fermarci.

Ma allora, chi sono queste 23 persone? Sono forse eroi ed eroine? Certo che no. Persone normali, come tutte noi, con le loro forze e debolezze, ma che hanno scelto da che parte stare.
In particolare in un momento storico terribile, in cui la guerra dispiegata si riaffaccia come possibilità concreta del nostro presente. E’ proprio la dimensione della guerra che sta creando il contesto per grosse operazioni repressive come quella di cui stiamo parlando. Il fatto che molti stati occidentali e la NATO di cui l’Italia è parte siano di fatto già in guerra è una realtà ancora non chiarissima alla “opinione pubblica”, ma inviare armi su fronti bellici, navi militari nel mar Rosso, non condannare il genocidio in corso a Gaza da parte del Governo, parlare di rilancio dell’industria bellica e della leva obbligatoria, sono tutte parti di un quadro di congiuntura di guerra in cui siamo dentro.

Il clima bellico restringe spazi di libertà, punta a eliminare il dissenso e l’opposizione sociale, e diffonde una serie di
“regimi di guerra” in ogni dimensione sociale, e sposta le risorse dal wellare al warlare.
Le 23 compagne e compagni sono dissidenti interni, e come tali vengono trattati. Per noi, sono dalla parte giusta della storia, e per questo chiediamo che vengano immediatamente ritirate le 23 misure cautelari. In gioco è una questione di giustizia, che non è come spesso ipocritamente si pretende un qualcosa di astratto o di vagamente universale, ma di maledettamente concreto. In questo caso, si tratta di schierarsi.
Schierarsi in modo solidale al fianco di chi ha messo in gioco la propria libertà per un’altra visione di società.

Schierarsi al fianco delle e dei 23 è stare da una parte contro un’altra. Da una parte chi diffonde la guerra, tagli sociali, estrazione di rendita, riproduzione di rapporti patriarcali, razzismo. Dall’altra l’eterogenea galassia delle lotte sociali, delle insubordinazioni, dei movimenti, delle resistenze. Quello che sta succedendo a Gaza, dove decine di migliaia di perone vengono uccise da mesi coi bombardamenti indiscriminati; quello che succede tutti i giorno a migliaia e migliaia di migranti che vengono espulsi e confinati; quello che succede nei nostri territori, e la repressione verso le 23 persone di cui stiamo parlando…
Non sono, ovviamente, la stessa cosa. Ma sono dalla stessa parte, nello stesso mondo, dallo stesso lato della storia. 
E tu, da che parte stai?

Sosteniamo la campagna per la fine immediata delle misure cautelari

LIBER3 TUTT3, SUBITO!

Per certi versi /
Le cicogne a Bentivoglio 

Le cicogne a Bentivoglio 

Le cose della natura

Amano il silenzio

Il grande incantatore

Della paura

In ogni veleno

Si nasconde una medicina

Nelle acque palustri

Passeggiano

I cavalieri d’Italia

E’ un’ oasi

Vicina a casa

La casa

Dei migratori

Con o senza ali

Nel suo cuore

Dalla fitta

Boscaglia

Sulle chiome più alte

A santuario

Galleggiano

Le culle delle cicogne

Annunciano le buone

Novelle

Sono perfette

Più che belle

scrutano il tempo

Bisogna aspettare

Con pazienza

Che si aprano in volo

Dolce

Unico assolo

In copertina: foto dell’altore

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Presto di mattina /
Ripenso al tuo sorriso quando giunge l’oscurità

Presto di mattina. Ripenso al tuo sorriso quando giunge l’oscurità

Come restare saldi nella fede?

È la domanda che ritorna sempre di nuovo quando sovrasta la bufera. Che interroga i credenti, i poeti anche. Anch’essi domandano come stare saldi nella parola quando questa ammutolisce, affogata dalle grida del silenzio.

Come stare saldi è la domanda portata ancora e ancora dal respiro sospirato di tutti gli uomini e le donne delle beatitudini a qualsiasi fede e popolo appartengano quando li afferra l’oscurità.

L’espressione ricorre più volte anche negli scritti degli Atti degli Apostoli e nelle Lettere non solo in quelle paoline: «Come dunque avete accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate, radicati e costruiti su di lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, sovrabbondando nel rendimento di grazie» (Col 2,6-7).

«State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» (Ef 6, 14-17; cf anche: Ef 6,13; Col 4,12; 1Cor 16,13; At 14, 22; Tt 2,2; 1Ts 3,8.13; Gal 5,1; Fil 1,27. 4,12; 1Pt 5,9.12).

Nei vangeli è legata all’atto del vegliare e pregare propri di Gesù. Fissando lo sguardo su di lui quando «cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse ai discepoli: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me” (Mt 26,37-38). Così, rivolto verso il Padre suo, restò saldo nella fede filiale fino alla fine, consegnandogli nelle mani lo spirito e così fece anche verso noi quando, chinato il capo, rese lo spirito.

Come restare saldi nella fede? E tutte le volte che mi sovviene questa domanda non ho altra risposta che questa: fissare lo sguardo su coloro che ci hanno preceduto e sono rimasti saldi nella fede e tra disumani fermi in umanità, facendo rivivere la memoria della loro testimonianza.

Lì attinge un’acqua limpida, direbbe il poeta, anche quella fede che è tentata di lasciarsi andare riarsa dall’arsura dell’oblio. D’altronde non ci conferma forse l’autore della lettera agli Ebrei quando scrive che «Anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (12,1-2).

Come restare saldi? Ripensando al tuo sorriso

Ripenso al tuo sorriso è una poesia di Eugenio Montale nella raccolta Ossi di Seppia parole dedicate a Boris Kniaseff (a K) ballerino e pedagogo russo; nella lirica si rievoca la memoria di un incontro a casa di amici a Genova; riaffiora un volto e nel volto un sorriso, rivive una figura e postura mite e quieta, che si erge come cima di giovinetta palma dalle ceneri della memoria.

Come uno spiraglio di speranza, lampo che per un istante fa chiaro nel male di vivere vissuto e di continuo raccontato dal poeta nei suoi testi, che lo fa restare saldo, resistente nel credere ancora alla parola, a proferirla ancora al sopravvenire della bufera sentita come fiumara dolorosa di pietre senza nome, crollo di pietrame.

Resta, la parola: «ciotolo róso sul mio cammino/ impietrato soffrire senza nome». Sta la parola: «informe rottame/ che gittò fuor del corso la fiumara/ del vivere in un fitto di ramure e di strame» (Montale, 56).

Così è proprio ripensando al sorriso sempre riaffiorante di padre Silvio Turazzi ferrarese, missionario saveriano in Africa, nel secondo anniversario della sua morte (26 maggio 2022), che cerco anch’io di ridestare il coraggio e la pratica del credere; di credere ancora nella pace e come lui nella rinascita dell’Africa così brutalmente violata e sfrutta anche oggi.

In questo periodo, in cui per le guerre vicine si dimenticano spesso quelle lontane, desidero così ricordare un’altra bufera che da trent’anni incombe violenta sulle popolazioni africane nella Regione dei Grandi Laghi (Ruanda, Burundi, Repubblica democratica del Congo) e nel Nord-Kivu.

Ricordando soprattutto la città di Goma, la città di padre Silvio e della sua fraternità nonostante tutto. Notizie mi giungono anche dalle lettere dell’associazione Solidarietà Muungano, da lui fondata per promuovere la solidarietà internazionale in RdCongo e l’accoglienza stranieri a Parma.

Sì, per stare saldo rivedo il tuo sorriso, caro Silvio

E così, tenendo fisso nel tuo volto lo sguardo, vado sillabando a fior di labbra, lentamente, le parole del poeta.

Inflorescenza d’edera tra pietraie d’un greto screpolato vedono i tuoi occhi come quelli del poeta. Nell’immane sofferenza di un popolo abbracciato al cielo e sprofondato in un inferno di dolore, i tuoi occhi fissano quell’esiguo specchio limpido, volti di gente che «recano il loro soffrire con sé come un talismano». Talismano, promessa di riscatto, presenza condivisa di un soffrire abitato, dopo il Golgota, da un Dio di uomini, fatto pure lui uomo di croce.

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida
scorta per avventura tra le petraie d’un greto,
esiguo specchio in cui guardi un’ellera i suoi corimbi;
e su tutto l’abbraccio d’un bianco cielo quieto.
Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto s’esprime libera un’anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo
[estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma,
e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d’una giovinetta palma …
(Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1996, 32.)

Idolatria: Non hanno occhi per vedere

«I principi non hanno occhi per vedere queste grandi meraviglie, le loro mani servono solo a perseguitarci». È la citazione che troviamo come incipit della poesia La Bufera di Montale, chiaro riferimento al contesto storico di guerra in cui il testo viene pubblicato in Svizzera nel 1943, a causa della censura fascista e suona come una condanna di ogni dittatura e contro i signori della guerra.

Secondo un elenco delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), perdura la crisi umanitaria più vecchia al mondo, che dura da più di 30 anni. Le violenze dei gruppi armati, nella parte orientale del paese, sono in continua crescita, così come aumentano la fame e gli sfollamenti tra i civili. Più di 25 milioni di persone, un quarto della popolazione, continuano a fronteggiare una grave insicurezza alimentare. Solo negli ultimi mesi, più di 700.000 persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case, portando il numero totale degli sfollati al livello record di 7,2 milioni.

I responsabili dell’Unicef, Oms, Unhcr, Wfp sollecitano una mobilitazione internazionale perché “Il Congo è sull’orlo della catastrofe”. I servizi sanitari continuano a deteriorarsi, come nel 1994 il colera e il morbillo hanno ripreso a diffondersi rapidamente e gli aiuti umanitari da soli non possono risollevare un paese sull’orlo del baratro.

Il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per la Rdc, Bruno Lemarquis, ricorda che «La guerra, è da imputarsi prevalentemente agli ingenti giacimenti minerari di cui la regione è ricca. Si tratta non solo di uranio, oro e diamanti ma, anche di coltan (columbite e tantalite), indispensabile per il funzionamento di telefonini gsm, computer e per la componentistica aeronautica.

Negli ultimi tempi, inoltre, i profitti più importanti arrivano dall’estrazione della cassiterite (biossido di stagno), di cui il Congo detiene un terzo delle riserve mondiali, anch’essa impiegata nella costruzione di apparecchiature elettroniche. Tali ricchezze sono oggetto di saccheggio e di commercio illegale da parte di diversi gruppi di ribelli che, finanziati e sostenuti dagli stati vicini come Rwanda, Uganda e Burundi, trasportano i minerali in questi paesi che, a loro volta, li esportano verso il mondo occidentale, creando un giro di affari di milioni di dollari.

A contendersi questo territorio, da sempre complicato e instabile, sono oltre cento gruppi armati, tra cui le Forze Democratiche Alleate (Adf), affiliate all’Isis. Ma i combattimenti, che si sono intensificati nelle ultime settimane, sono dovuti ai ribelli del movimento M23.

Il gruppo, sostenuto dal vicino Ruanda, secondo il governo congolese e diversi esperti delle Nazioni Unite, cerca di controllare le risorse minerarie compiendo omicidi di massa. In risposta all’attivismo di questo gruppo il governo congolese ha avviato un grande movimento di truppe nella regione, con relativo impegno di risorse. La spesa militare della Rdc è raddoppiata nel 2023 rispetto al 2022. Risorse inesorabilmente sottratte allo sviluppo sociale» (Fonte: L’Osservatore Romano, 11/05/2024).

E Jean Baptiste Salumu, direttore di Muungano Goma, ci scrive in una lettera: «Oggi si stima quasi centomila la popolazione sfollata che si è riversata nella nostra città in una miseria indescrivibile e una promiscuità che non ha nome! In una casetta di tenda, trovate il papà, la mamma e i figli dove passano la notte e il giorno senza nulla fare senza cibo, mentre hanno dovuto abbandonare i loro campi dove coltivavano e vivevano bene.

Quando visitiamo questi campi di sfollati si sente “la miseria”, ci sono già malattie per mancanza d’acqua (colera); infine, non solamente per gli abitanti della città l’aumento enorme dei prezzi delle derrate alimentari, peggio ancora per gli sfollati che sono senza niente e manchiamo di rifornimenti perché tutte le strade verso l’interno sono bloccate dai gruppi armati dell’M23».

Bufera

Les princes n’ont point d’yeux pour voir ces grand’s merveilles,
Leurs mains ne servent plus qu’à nous persécuter …
La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,
(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)
il lampo che candisce
alberi e muri e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella, –
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa …
Come quando
ti rivolgesti e con la mano. sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
mi salutasti – per entrar nel buio
(ivi, 197).

La vita è a misura dell’amore

Dal diario di padre Silvio del 25 luglio 1994: «Ricomincia la settimana. Come una notte interminabile, il tempo sembra fermarsi. [Epidemia di colera]. Vedo il camion, il carico dei corpi, i vuoti da riempire in modo da risparmiare tutti gli spazi con i corpi dei più piccoli … è terribile, non riesco più a piangere, la scena si ripete due volte al giorno. Prego: “prendi anche me Signore, non sono certo migliore dei miei fratelli”.

Continuo a vagare visitando gli ammalati, i bambini. Trovo strano di non essere ancora del gruppo di coloro che hanno lasciato questa terra. Ho voglia di cielo “a chi mi ama mi manifesterò”. So che qui o là la vita è a misura dell’amore che si ha: nella gratuità semplice e aperta. Lo chiedo al Signore come un dono: sapere amare cercando di capire, consolare: come sanno fare tante persone semplici.

Nel “cerchio” del mattino ascolto episodi che suscitano pietà: il neonato raccolto da mons. Charles sul petto della madre agonizzante; due fratelli stesi per terra si tengono stretti per mano, in attesa di morire; la madre che arriva stringendo al petto la sua creatura: piange, chiede la dawa (medicina), l’infermiere risponde che non c’è più posto, ma la donna insiste … così si decide di curare anche alla porta con il preparato di acqua, zucchero e sale.

In giornata conosciamo i dati ufficiali di M.S.F., quaranta mila sono le vittime dell’epidemia. È la guerra che continua; questo esodo di massa, questi morti sono la sconfitta della violenza, della guerra che allontana sempre di più i fratelli della casa comune.

Sento tutto il peso e la responsabilità dei gruppi politici estremisti, che hanno scelto la strada del terrore. Sento la responsabilità delle grandi potenze che avvolgono nel silenzio questo continente, prolungando in modo nuovo lo sfruttamento che dura da cinque secoli.

Mi vergogno pensando al sostegno dato ai dittatori in cambio dei mercati, al commercio delle armi, al debito estero adoperato a vantaggio di alcune famiglie al potere e degli stessi donatori, che ha ridotto il popolo alla miseria; al commercio internazionale che vede il ricco rubare al povero.»

Saldi nell’amore

27 luglio 1994. «Non c’è amore più grande che dare la vita. Ascolto l’esperienza forte di una donna che sta donando la propria vita per servire i rifugiati ammalati di colera, tra vomito e dissenteria. Il Signore parla e dà forza soprattutto in queste situazioni. Nella sua luce si vede il legame tra la terra e il cielo. Anche quei poveri corpi disidratati, stesi sulla nuda terra ai bordi della strada, mi sembrano un ricordo di coloro che dopo tante tribolazioni sono già arrivati alla casa del Padre. Sì, ci può essere pace anche nel lazzaretto di questa città. Lo vedo nella gente che ha aperto la porta della propria casa, in chi si è messo a servire i più poveri, in chi chiede di diventare padre o madre dei bimbi dispersi.

Il cielo di Dio sono i suoi figli.
Così ho visto il futuro dell’umanità
Il nostro buio, il nostro affannarci,
saranno purificati e illuminati
dallo scaturire perenne del suo amore. Silvio»

Cover: padre Silvio Turazzi

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

UN FORTE APPELLO A TUTTI I CANDIDATI:
NON SI SALVA IL PIANETA DANNEGGIANDO IL PAESAGGIO E LA BIODIVERSITÀ

Cosa è quanto sia sostenibile delle attività umane non è facile determinarlo oggi, quando siamo ormai ad un passo dalla catastrofe climatica e già con un piede nella fossa dei disastri ambientali: scioglimento dei ghiacciai e del permafrost e siccità estrema da una parte, alluvioni e piogge torrenziali fuori stagione dall’altra, con le tragiche conseguenze che conosciamo. Ma chi studia i cambiamenti climatici, le ricadute sull’ambiente e sugli ecosistemi, ci ripete da tempo e quasi quotidianamente ciò che ancora la generalità delle persone non riesce a digerire e, purtroppo, anche i politici, coloro che dovrebbero operare le scelte per il bene delle popolazioni e dei territori, non vogliono capire: le RISORSE del PIANETA TERRA, e quindi anche quelle della UE e del nostro Paese, SONO LIMITATE, perciò vanno difese e tutelate tutte! (QUI)

Il 22 maggio scorso a Roma si sono svolti gli STATI GENERALI CONTRO L’EOLICO E IL FOTOVOLTAICO A TERRA, proprio per portare l’attenzione, ancora una volta, sugli ormai  annosi problemi della distruzione del paesaggio italiano e  i danni irrecuperabili alla biodiversità e agli ecosistemi, tanto ricchi quanto fragili, dell‘aumento indiscriminato del consumo di suolo, ad opera degli impianti industriali di energia cosidetta “sostenibile”. Solo nei primi due mesi del 2024 il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (Mase) ha ricevuto ben 168 richieste di Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA) relative a progetti di impianti eolici e fotovoltaici a terra, per un totale di 8.378 MegaWatt (MW) pari al 56% dei 15 GigaWatt fissati dalPiano nazionale integrato energia e clima (PNIEC) come obiettivo da raggiungere entro il 2025. Poco più del 50% dei progetti proposti (4.322 MW) sono impianti a energia solare a terra, il resto è rappresentato da 513 pale eoliche. (QUI)

Da sempre questi scempi di ambiente e natura sono stati ignorati dai media pubblici e privati e dalla stampa locale e nazionale, spesso anzi i nostri bravi giornalisti, da buoni cavalier serventi ai politici di turno e all’impresa/finanziaria che realizza gli impianti e si quota in borsa, (Enel, Sorgenia, AGSM-AIM ecc.) hanno realizzato trasmissioni TV o pubblicato articoli totalmente favorevoli alle rinnovabili industriali ed eretto muri di notizie vaghe e incomplete, per non dire false, contro le ripetute denunce dei  comitati di cittadini e delle associazioni in difesa del territorio.

L’artefice dell’incontro romano è stata #CoalizioneArt 9 (QUI) , che si rifà nei suoi principi generali appunto all’art. 9 della Costituzione, e che in meno di tre settimane ha raccolto circa 500 adesioni all’iniziativa: 90 tra primi cittadini di Comuni e rappresentanti di Amministrazioni locali, 120 tra associazioni ambientaliste e culturali, comitati, e tanti tanti cittadine e cittadini, aziende agricole e imprenditori attive/i nella difesa dell’ambiente e nella tutela del territorio. Provenivano tutti dalle zone invase e danneggiate dalla presenza di enormi  impianti industriali di produzione di energia eolica e/o di fotovoltaico a terra: dal Foggiano e dal Salento, dalla Sardegna e dalla Sicilia, dal Beneventano, dalla Tuscia, dalla Calabria, dall’Abruzzo e dal Molise, e salendo su, lungo l’Appennino, sono arrivati rappresentanti dall’ Umbria e dalle Marche. Erano altresì presenti i comitati antieolico del Mugello e quelli dell’Alta Valmarecchia e Montefeltro, che stanno combattendo proprio ora contro la realizzazione di nuovi impianti eolici di enormi dimensioni (pale alte fino a 230 m) sui crinali appenninici, che la Regione Toscana e il MASE (Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica) hanno approvato o intendono approvare.

Quando si parla di interessi quelli che prevalgono presso quasi tutti i politici non sono quelli delle popolazioni, che da questi impianti ricevono solo danni economici e alla salute, vedendo cancellate le possibilità di uno sviluppo agricolo-ambientale, e turistico-culturale  equilibrati, ma sono gli interessi finanziari delle imprese e delle multinazionali dell’energia,  provenienti la maggior parte dal Nord Europa e da un pò di anni a questa parte anche dal Nord Italia, che hanno tutto da guadagnare dalla loro realizzazione.
Si tratta infatti di investimenti ad elevata remuneratività, assicurata dai finanziamenti a fondo perduto per la realizzazione degli impianti, garantititi anche  dall’enorme flusso di danaro che l’Unione europea ha destinato all’Italia per le energie rinnovabili e l’efficienza energetica, dagli incentivi per la vendita dell’energia prodotta (QUI) e le prospettive di crescita e finanziamento del comparto (PNIEC e PNRR). I costi per la realizzazione dei mega-impianti sono sostenuti ampiamente anche dai contribuenti italiani, anche da quella fetta di popolazione che, pur essendo contraria all’ eolico o al fotovoltaico industriale che gli costruiscono sotto o sopra casa, suo malgrado ne paga la realizzazione attraverso le tasse e altre spese inserite nelle bollette energetiche (luce e gas).  Soldi  pubblici che al 100%, attraverso i finanziamenti nazionali ed europei, serviranno a costruire e piazzare le torri eoliche e i pannelli solari, corredati di tutti gli annessi e connessi, sui crinali delle nostre montagne, nei terreni agricoli e forestali espropriati agli stessi cittadini che oltre al danno subiscono la beffa, se così si può chiamare, di dover convivere con la vista di gigantesche e orribili pale, con il rumore, con i campi elettromagnetici che generano tutto intorno, oltre a tutti i disagi alla salute che la loro realizzazione, mantenimento ed esercizio comportano. Nessun beneficio va al territorio e alla popolazione, si tratta solo di speculazione finanziaria.

Per denunciare i gravi danni economici, ambientali e sociali che derivano ai territori e l’enorme speculazione che si nasconde  dietro al mercato delle rinnovabili,  per dare un segnale forte e chiaro alla politica che così non può e non deve continuare, sono state enunciate le seguenti richieste, che tutti i partecipanti all’evento  hanno condiviso:

1) che i pannelli fotovoltaici debbano essere installati solo sulle superfici edificate, sulle aree degradate o nelle aree di bonifica, al di fuori dei centri storici;

2) che debba essere cancellata ogni forma di incentivo e bandita ogni forma di speculazione a spese delle comunità locali;

3) che gli impianti energetici da fonti rinnovabili possano essere insediati solo ed esclusivamente nelle Aree Idonee definite dalle Regioni, in base a linee guida, senza produrre ulteriore consumo di suolo;

4) che nelle more dell’individuazione delle aree idonee si sospendano nuovi insediamenti;

5) che vengano abrogate le norme che consentono gli espropri di terreni agricoli per la realizzazione di progetti di rinnovabili.

 

 

Coalizione Articolo 9 è formata da numerose associazioni nazionali e comitati territoriali, in questa occasione da Italia Nostra, Amici della Terra, Mountain Wilderness, Ente Nazionale Protezione Animali, ProNatura, AssoTuscania, Altura, l’Altritalia Ambiente, Crinali Bene Comune, Rete Resistenza dei Crinali, Associazione Italiana Wilderness AIW, Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, LIPU Puglia e Basilicata, Centro Parchi Internazionale, Salviamo il Paesaggio, GRIG Gruppo Intervento Giuridico, Comitato per la Bellezza, Comitato per il Paesaggio, Emergenze Cultura e Appennino Sostenibile.

Cover: paesaggio italiano – immagine da www.salviamoilpaesaggio.it 

La scuola di Valditara

La scuola di Valditara

Il ministro Valditara ha scritto un libro (La scuola dei talenti, pag. 192, 18 euro) in cui espone il suo punto di vista sulla scuola. Lo fecero anche altri ministri come Giovanni Gentile nel 1932 con La riforma della scuola in Italia, in cui metteva in luce i grandi cambiamenti fatti nel decennio precedente con una riforma che ancora oggi influenza la nostra scuola. Altri Ministri che si sono cimentati sono Guido Gonella (La riforma della scuola, 1958), Riccardo Misasi (Questa scuola impossibile, 1972), Luigi Berlinguer (La nuova scuola, 2001).

Il libro è ricco di informazioni e ci racconta sull’impostazione che potrebbe avere questo Governo fino al termine della legislatura. Molti punti sono condivisibili, anche se bisognerà vedere come si passerà dalle parole ai fatti, un problema che hanno avuto molti altri Ministri.

Per Valditara la scuola del merito “si fa carico del bisognoe cerca di far fronte all’abbassamento del livello di studi” (a suo avviso prodotto da una certa sinistra e dal ’68) che di fatto ha favorito i figli delle famiglie ricche, in quanto i poveri devono accontentarsi di una scuola non di qualità qual è quella pubblica di oggi. Cita Marx quando dice che “sono i poveri che più hanno bisogno dello Stato”, ma non dice che anche il Governo Meloni vuole chiudere le scuole con pochi studenti, dislocate nei paesi deboli o in montagna.

Valditara vorrebbe dare a tutti la possibilità di sviluppare i propri talenti con una scuola di qualità per tutti. E’ però conscio degli attuali enormi divari che esistono tra gli studenti delle famiglie povere (che solo nel 2,7% raggiungono ottimi voti alla licenza media), e quelli delle famiglie ricche (18% con ottimi voti).

Voti alla licenza media in base allo status socio-economico delle famiglie

Questo divario esiste anche tra scuole del Nord e del Sud e tra quelle del centro e delle periferie nelle stesse città del Nord. Fa l’esempio di Torino, dove la dispersione implicita (diplomati che di fatto hanno un apprendimento pari a quello della licenza media) è del 24% nelle periferie e dell’1,1% al centro. Non c’è dubbio che siano gli studenti immigrati nelle scuole delle periferie ad innalzare questi tassi e ciò pone il problema di come realizzare una vera integrazione degli studenti stranieri, che spesso non conoscono bene la lingua italiana. L’Italia è il solo grande paese in Europa che inserisce i giovani immigrati neo arrivati in classi ordinarie per tutte le lezioni, quando è noto che il tempo minimo necessario per apprendere una lingua che consenta di poter studiare una qualsiasi materia è 12-18 mesi. E ciò spiega perché quasi tutti gli altri paesi europei inseriscano gli immigrati in classi preparatorie (solitamente per un periodo di 12-18 mesi) (Svezia, Belgio) o usino un sistema flessibile (Francia, Germania, Spagna, Finlandia, Polonia) in cui parte delle lezioni sono in classi ordinarie. Valditara è di questa opinione.

Il ministro esalta le recenti innovazioni: insegnante tutor, coordinatore, orientatore (con compensi aggiuntivi) che hanno il compito di personalizzare l’apprendimento e aiutare i più fragili, ma trascura di affrontare il tema della riduzione del numero di alunni (le classi “pollaio”) specie al primo anno dei Tecnici e Professionali. Qualsiasi innovazione si scontra infatti con l’impossibilità di insegnare in classi numerose (25-28 alunni), specie se la metà sono immigrati con scarsa conoscenza della lingua italiana o poco motivati.

Concorda col premio Nobel Joseph Stiglitz che le società sono progredite negli ultimi due secoli soprattutto quando si sono impegnate per aumentare le capacità di apprendimento dei giovani e che bisognerebbe investire di più nella scuola che nell’economia, ma secondo gli stessi suoi dati dice che l’Italia investe il 3,2% del PIL nell’istruzione quando la media OCSE è 3,6%. Ciò significa che per raggiungere questa media dovremmo passare da 55 miliardi investiti a 62.

Ci mancano quindi 7 miliardi con cui finanziare tutte le cose di cui parla: realizzare una vera integrazione per gli studenti stranieri, una educazione affettiva e il rispetto per l’altro per maschi e femmine, contrastare la droga, una scuola inclusiva, insegnanti di qualità, più studenti STEM, sviluppare il pensiero critico e i talenti di tutti. Cita il rapporto del sociologo Usa Coleman del 1966, che sosteneva che se non si interviene anche nelle situazioni famigliari disastrate degli studenti fragili è impossibile educare solo a scuola. Ma chi lo fa, se mancano i fondi anche per cose essenziali?

Per fare bene tutte queste cose servono infatti quei 7 miliardi che questo stesso Governo sta investendo altrove. Se no tutto è retorica, parole buone per tutte le stagioni. Il calo demografico che riduce ogni anno di 100mila unità gli studenti sarebbe in tal senso una grande opportunità, invece lo si usa per ridurre ancora le risorse.

Sono d’accordo con Valditara, quando afferma che il lavoro viene visto come fumo negli occhi da certa sinistra, mentre se fosse usato nel giusto modo (non come professionalizzante ma come formazione umanistica), esso accelera e integra la formazione, come dicevano anche Marx, Engels e lo stesso Gramsci. Il lavoro come aspetto caratterizzante all’interno della scuola e non secondo il modello di alternanza guidato dall’impresa. A tal proposito cita anche Togliatti e Concetto Marchesi che davano al lavoro e allo studio della civiltà classica, della storia, un rilievo importante.

La feroce selezione (e gli abbandoni espliciti) ai primi anni dei Tecnici e Professionali avvengono anche perché ci sono classi pollaio, per l’impossibilità di personalizzare la didattica a 25 studenti, specie dopo che con Covid e Dad si è abbassata tantissimo la disponibilità a seguire lezioni seduti al banco.

Valditara non è in grado di affrontare un punto centrale della debolezza della scuola italiana: la carenza  di una cultura dell’apprendimento da Sperimentazione (via laboratori manuali e artistici), ma anche di apprendimento dalla Vita e dal Lavoro che si potrebbe fare usando bene le imprese e il lavoro con un vero accompagnamento in cui è la scuola a “dirigere” e non l’impresa (come nel modello di alternanza tedesco, che pure, peraltro, funziona).

Valditara (che riprende Ricolfi) ha ragione quando dice che la qualità della scuola italiana si è abbassata. Ma anche qui, come lui stesso fa vedere, ci sono enormi differenze tra scuole e scuole e il Ministro sa bene che ci sono ottime scuole pubbliche e private e pessime scuole pubbliche e private. La domanda allora è: perché non si riprende la vecchia idea di Luigi Berlinguer di una Autority pubblica che analizza seriamente tutte le scuole (pubbliche e private, come avviene anche all’estero) in modo da evidenziare, ben al di là delle prove Invalsi, limiti e talenti di ciascuna imparando da chi lavora meglio, siano queste scuole private o pubbliche.

In conclusione buoni propositi e un grande interrogativo: dove sono i soldi?

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Immaginario /
Sotto il vestito un bel niente

Sotto il vestito un bel niente

Ecco l’immagine intera. Non è un opera d’arte, ma merita di essere osservata con attenzione.

Il parto annunciato

La prima cosa che salta agli occhi è quel FERRARA RINASCE a caratteri cubitali.  Se fate un giro in città ve la trovate ripetuta all’infinito, appiccicata ovunque.  Ma cos’è FERRARA RINASCE? Leggo dalla presentazione sul sito e sulla relativa pagina Facebook: “Ferrara Rinasce è non solo un gruppo, ma anche un messaggio che incarna perfettamente l’anima di una città sempre pronta a rialzarsi. Dopo il terremoto del 2012, e ancor più dopo la pandemia, Ferrara si è risollevata”. Lo spot continua, anche se con un italiano un po’ incerto: “Ferrara è una meta instancabile (instancabile? in che senso instancabile? Ndr.), un luogo suggestivo dove tutto l’anno si susseguono eventi, mostre, rassegne, concerti e appuntamenti culturali…” .

Va bene, abbiamo  capito – anzi, l’avevamo capito da mo’ – FERRARA RINASCE è il nome di battaglia della Giunta Fabbri, lo slogan evocativo e furbetto, mediaticamente trattato e trasformato in un ubiquo tormentone. Così, vedi la foto, FERRARA RINASCE  è sempre associato al logo del Comune di Ferrara. Come per dire: “Eccoci caro cittadino, dai un’occhiata: siamo noi, siamo sempre noi!“. In politica, molte volte apparire (dire, proclamare, ribadire) sostituisce la verità dei fatti. In fondo è la stessa “pubblicità progresso” adottata dalla Giorgia nazionale.

Resta da chiedersi se Ferrara sia rinata o no? A me pare solo un “parto annunciato”,  ma saranno i ferraresi con il loro voto a dire se in questi 5 anni sono stati meglio o peggio, se si sentono “rinati” o più poveri, più inquinati, più abbandonati a se stessi.

Povero San Giorgio

Tornate a guardare la foto. Siamo all’angolo tra via Porta Romana e via XX Settembre, già via della Ghiara, perché corre dentro il letto di un antico Po di Primaro.  La conosciamo tutti, è una strada splendida, rettilinea, che al tramonto ti accoglie con un colore speciale, piena di emergenze architettoniche il cui culmine è il Palazzo di Ludovico il Moro (mio padre: “il palazzo rinascimentale più bello d’Europa”). L’incipit, l’invito alla strada, è una magnifica prospettiva settecentesca, il Portale della Ghiara.
È da restaurare. Ci sono i soldi del PNNR… Giusto, restauriamola.

Infatti oggi il portale non lo vediamo, al suo posto ci sono 300 metri quadrati di una sciccosa tela cerata azzurra, che coprono le impalcature del cantiere. Una tela illustrata, e non come si usa con la silhouette del monumento temporaneamente celato, ma con le celeberrime sagome del dipinto di Cosmè Tura: San Giorgio, il Drago e la Principessa.
In calce al telone azzurro leggiamo: ” ll restauro per esaltare l’architettura di un prezioso portale settecentesco”. 

Cosmè Tura, San Giorgio e la principessa (1469 circa).
I ruderi della Porta di San Giorgio

Ecco allora che la scelta di San Giorgio come illustre testimonial di quel restauro appare poco opportuna, fuori contesto, una citazione tanto suggestiva quanto sbagliata.
Il capolavoro di Cosmè Tura è infatti datato attorno al 1469, tre secoli prima della costruzione del Portale della Ghiara.   

Ma anche il semplice riferimento al nostro santo patrono mi sembra fuori luogo: siamo infatti ben lontani dall’Isola di San Giorgio, e lontani sono i ruderi della antica Porta di San Giorgio, principale ingresso meridionale della città di Ferrara fino al XVI secolo.

 

Scegliere figure del 1400 per magnificare e pubblicizzare un Portale del 1700 non è però un peccato mortale. L’enfasi propagandistica (in questo caso della Giunta Fabbri) si incrocia fatalmente con l’ignoranza e il pressapochismo, ma attenzione, la politica-propaganda c’era anche prima, e ci sarà dopo l’era Fabbri. Se per Henry Ford “la pubblicità è l’anima del commercio”,  la stessa cosa si può dire per la politica. Insomma, non c’è da scandalizzarsi, farsi pubblicità è normale. Solo che non bisogna esagerare. Invece…

Sotto il vestito un bel niente

Nei mesi appena precedenti alle elezioni, la Giunta di Destra che governa Ferrara ha riempito la città di cantieri. Per dimostrare che “Ferrara rinasce” e naturalmente per massimizzare il consenso dei ferraresi. Ecco qualche foto, ma ne mancherà certamente qualcuna.

Area ex AMGA – via Bologna
Palazzo Prosperi Sacrati – via Ercole I d’Este
Via San Maurelio – vicino al ponte di San Giorgio

Il Portale della Ghiara in via XX Settembre, area Ex Amga all’inizio di via Bologna, Palazzo Prosperi Sacrati, Via San Maurelio (ma il catalogo è solo parziale), sono tutti vestiti d’azzurro e tutti targati Ferrara Rinasce. Ma ci passo davanti da mesi, da buon “umarèl” metto un occhio nella grata, cerco una fessura strategica per guardare dentro. E dentro non c’è nulla, nessun operaio, nessun rumore. Sotto il vestito (azzurro) non c’è un bel niente. Infatti non c’è nessun cartello con la data d’inizio e fine lavori. Sono solo cantieri pubblicitari e immaginari.
Il caso del Complesso Boldini, una vicenda vergognosa che i ferraresi conoscono molto bene, si trascina da più di 3 anni. Proprio in questi giorni leggo sulla stampa locale che “Il Comune ha trovato finalmente una ditta” e che i lavori dovrebbero finalmente partire. Non so se crederci, visto che l’annuncio è arrivato a una sola settimana dal voto e dopo molte proteste. Per ora, ci sono passato stamani, dietro il vestito (blu) del Boldini, c’è solo degrado e silenziose macerie.

Flash mob per la riapertura del Boldini

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Parole a Capo
Sonia Tri “Luna tonda” e altre poesie

Devo essere una sirena. Non ho paura della profondità e ho una gran paura della vita superficiale.
(Anaïs Nin)

 

Adesso, la pioggia
mi chiede chi sono.
Vorrei risponderle
che sono la sua
insistenza
sulla terra.
Il suo brusio,
d’api d’acqua.
Ogni suo segreto
perso,
nelle maree.
Sono l’anima inquieta
del vento,
che la spinge.
Dell’uomo che cerca
riparo
sul mio seno.
Sono la strada
inondata.
L’albero inerme.
Io ero la nuvola.

*

Sembra
appena accaduto
di vivere.
Canuti aquiloni
senza filo,
volteggiano
senza vento.
L’abitudine di esistere,
non distoglie
il cielo
e il tempo
ruzzola a picco.
*
“Il tuo caffè caldo, al
mattino.
Le mie rose, guance fresche
di bimba.
Storie da scrivere
in lunghi aloni
di cielo pallido.
Non cerco altra
realizzazione
di me, di te
Vorrei solo essere
abbracciata tutta,
sulla baia china dei
tuoi occhi.
Conservando
la benevolenza
incomprensibile
dell’esistenza.”
*
E poi ci sei Tu.
Rivincita dei miei
giorni,
sconosciuti al mondo.
E sogni e sassi
senza peso ormai.
Poca cosa la coscienza,
quand’è solo
tenerezza di attimi
condivisi, resi.
Brughiera di mare,
tu che nuoti
le mie parole.
Polpa bianca
delle lune,
aroma serale
della calendula.
Incessante pioggia,
che non bagna
il nostro piacere.
Mano che trema,
sole che sorge.
Sonia Tri nasce a Pordenone nel 1969. Appassionata di poesia, si cimenta presto nella composizione in versi. Due, le sillogi pubblicate : “Senti come respirano gli alberi” (2013) e “Tutti i colori del cielo a settembre” (2020). Presente in molte antologie, cura la pagina Facebook: “Le parole di Sonia Tri“. In “Parole a Capo” sono state pubblicate poesie di Sonia Tri il 19 ottobre 2023, il 17 febbraio 2022 e il 1 luglio 2021.

 

LA FERRARA CHE VORREI

LA FERRARA CHE VORREI

Ferrara e la costruzione di una rete di città

La Ferrara che vorrei è una città che inizia il suo racconto affermando che la sua intenzione non è di competere ma di cooperare con le città che gli stanno vicino, con il suo territorio e con le città del mondo, dalle quali ha molto da imparare e qualche cosa da dare.

È una città, quella che vorrei, che mi consente di muovermi utilizzando il trasporto pubblico, sia al suo interno, sia per raggiungere le città vicine, senza dover prendere l’automobile. Potremmo quindi fermarci di costruire strade ad alta velocità e autostrade, ponti, tunnel, parcheggi. Da questo punto di vista siamo già molto infrastrutturati e i denari che risparmiamo, utilizzarli per costruire tram e linee di trasporto metropolitano tra le città.

Da anni si parla di corridoi infrastrutturali europei, questi hanno lo scopo di mettere in relazioni le grandi polarità urbane e subregionali del territorio europeo e di norma intrecciano strade, ferrovie, trasporto metropolitano, ma quando si arriva da noi il dibattito si concentra solo sulla Cispadana e sulla terza corsia dell’A13 (e il passante bolognese), quindi, su strade.

Ma l’UE punta a trasferire su ferro il 30% del trasporto merci su distanze superiori a 300 km e il 50% entro il 2050, questo non dovrebbe spostare l’attenzione sul potenziamento della rete del ferro? Non corriamo il rischio di cantierare nei prossimi anni interventi nati già vecchi? Il mondo più avanzato sta andando in altra direzione, o meglio colloca l’adeguamento della rete stradale dentro una strategia incentrata su ferrovia e metropolitane, ma da noi di questo non se ne parla nemmeno.

Si potrebbe iniziare a parlarne, caso mai rileggendo criticamente il Progetto 80, o le idee di Città-Regione, di cui tanto si parlava negli anni Sessanta e Settanta senza arrivare a nulla, mentre gli olandesi realizzavano la regione metropolitana conosciuta come Randstadt Holland, puntando su treni infraurbani, metropolitane, linee di tram e circuiti estesi di percorsi ciclabili.

È necessario un piccolo sforzo: aprire dei tavoli di confronto e concertazione con le città vicine e con la regione (e con lo stato e l’UE) perché abbiamo bisogno di pianificazione e di strategie condivise (e non solo di gestione delle emergenze).

Ferrara, distretto della conoscenza

Vorrei una città che non sia costretta, per dinamizzare la sua economia, a ricorrere solo alle zone franche urbane (ZFU). Se si realizzeranno le condizioni per attuarle lo si farà, ma bisogna essere consapevoli che il mondo è pieno di zone dove un’impresa può insediarsi spendendo meno, trovando una tassazione o un costo della manodopera più bassa quindi, questo non può essere il motivo trainante di una strategia.

È la qualità del contesto politico, culturale, istituzionale di una città e di una regione urbana che fa la differenza. Gli investimenti di qualità, ad alto valore aggiunto hanno bisogno di ambienti di vita ad alta qualità sociale, di alta scolarità, di luoghi dove sviluppare innovazione, perché vi sono istituzioni attive nella ricerca. Perché le culture si intrecciano arricchendosi l’un l’altra e pure le città, anche economicamente.

Vorrei che Ferrara si distinguesse per essere una città che non esalta la ricerca dei “talenti” o delle competenze. Queste arriveranno certamente se il nostro sistema educativo e formativo si orienterà verso la formazione di cittadini con una diffusa capacità critica nell’acquisizione di competenze.

Le “teste” vanno ben formate (criticamente) e non ben riempite e prima della “competenza” viene la “conoscenza”. L’uso pedissequo di parole come “competizione”, “talenti”, è ciò di cui non abbiamo bisogno, se non vogliamo aumentare le ansie di prestazione per giovani che già vivono quelle ecologiche.

Vorrei che Ferrara diventasse una città della innovazione consapevole e solidale, perché l’innovazione da sola, così come la scienza, non portano con sé progresso, se non accompagnati da regole precise e principi etici. La scienza ha prodotto anche i campi di sterminio, la bomba atomica e la crisi ecologica del pianeta. Vorrei quindi che Ferrara diventasse un luogo di incontro tra scienza, cultura ed etica.

Vorrei che Ferrara insieme a Bologna, Modena e le altre città della regione desse vita ad un “distretto della conoscenza” visto che in 100 chilometri in linea d’aria abbiamo tre storiche università, creando sinergie tra laboratori, enti di ricerca e imprese, dando vita a spin-off, sostenendone lo sviluppo. Quindi non solo una valley dove si mangia e si va veloci in automobile e motocicletta.

Ferrara: per una rete storica di città. Recupero delle aree dismesse e un treno che unisce

Vorrei che Mantova-Ferrara-Ravenna fossero unite da un treno unico, diretto, in grado di supportare progetti culturali che accomunano tre città patrimonio Unesco e analogamente con Bologna e Modena e tra Bologna-Ferrara e il Parco del Delta del Po.

Vorrei anche che l’aeroporto di Bologna fosse l’aeroporto della regione e non solo del suo capoluogo. Vorrei insomma godere del privilegio di vivere in una rete storica di città, muovendomi da una all’altra, di giorno e di notte, senza essere costretto a prendere l’automobile.

Vorrei una città che blocca l’espansione, quindi la cementificazione e l’asfaltizzazione, perché è in grado di riorganizzarsi con quello che già ha, recuperando le sue aree dismesse, il suo patrimonio abitativo pubblico, le sue aree industriali, artigianali o commerciali abbandonate o sottoutilizzate.

Potremmo recuperare gli edifici che ci servono, altri demolirli e poi, perché un’area artigianale, o degli uffici non posso essere dentro un’area verde, anziché essere circondata da grandi superfici di asfalto. Abbiamo tanti edifici anche storici vuoti o sottoutilizzati, perché non recuperarli per usi civici e culturali.

In questi ultimi anni ci siamo riuniti spesso per degli incontri pubblici in una chiesa offerta gratuitamente ad una associazione di cittadini. La nostra città è piena di luoghi di questo tipo perché non usarli? Dobbiamo pensare ai nostri edifici in maniera più multifunzionale, avendo molti edifici e spazi sottoutilizzati.

Un esempio, vorrei che l’ex chiesa di Sant’Apollonia, di proprietà del Museo di Spina, che gli sta di fianco, fosse restaurata per diventare un luogo pubblico culturale. Siamo in fondo una città di uno dei paesi più ricchi del mondo.

Vorrei riscaldarmi e illuminare le mie serate grazie all’elettricità fornitami dalla comunità energetica che il mio comune ha istituito in tutto il territorio.

Ferrara, città solidale e ospitale

Vorrei incontrare in un ufficio pubblico, o in un laboratorio di ricerca, o in una struttura sanitaria a Ferrara giovani laureati e tecnici venuti da paesi stranieri per lavorare a Ferrara, non perché sono emigrati, ma perché hanno trovato qui da noi delle buone condizioni di lavoro e una bella città che li ospita. Come mi capita quando vado nelle università europee, negli uffici di comuni come Amsterdam o Lione, o in laboratori e istituzioni europee, dove trovo tante italiane e italiani che però, ahimè, sono scappati dal nostro paese alla ricerca di un lavoro appagante.

Vorrei che il tema del fabbisogno abitativo venisse affrontato con politiche pubbliche e non solo in termini di detassazione per i privati, anche perché esistono già misure come il canone calmierato e la cedolare secca, che però non vengono sfruttate a dovere, perché gli affitti brevi fanno più comodo. L’emergenza casa non si affronta senza un intervento pubblico, Bologna lo sta facendo, Vienna e Amsterdam lo fanno dagli anni ’20 del secolo scorso.

Sottovalutando il problema, il rischio è che anche a Ferrara si creino delle tensioni tra chi cerca alloggi in locazione, chi li cercherebbe se potesse pagare l’affitto e le esigenze abitative degli studenti. Nel paese la mancanza di una strategia (e quindi di risorse) per la casa e per il diritto allo studio è stata confermata dal disimpegno su questi temi del PNRR, con alcune limitate esperienze come Napoli, dove si sono avviati dei progetti di rigenerazione insieme ad associazioni, comitati e cittadini promossi dal comune, coinvolgendo anche l’Università.

Vorrei che Ferrara fosse una città solidale e ospitale per tante persone che fuggono da situazioni di conflitto e di povertà e che portano tante storie da condividere con noi, rafforzandone il carattere di città del mondo, ma vorrei anche che non si dimenticasse di chi se ne andò.

E la vorrei solidale e ospitale non per spirito caritatevole, ma per volontà politica, perché solo così si lotta contro le diseguaglianze.

Vorrei che la cultura del cibo della nostra città si mescolasse, facendo emergere le tante culture gastronomiche che convivono con la nostra tradizione. Vorrei cenare a Ferrara in un vero ristorante marocchino o tunisino o libanese o africano, mentre nelle nostre biblioteche, librerie, circoli culturali si promuove la conoscenza di altre culture artistiche, letterarie senza nascondere conflitti e problemi, ma affrontandoli laicamente.

Ferrara, un ecosistema urbano per una città-parco

Vorrei vedere anche attraverso una grata di metallo i tanti cortili e giardini interni, di cui sento parlare da sempre, ma che non ho mai visto, perché i portoni sono chiusi, come il cortile di Palazzo Varano-Dotti in via Montebello. Spazi interni che vengono comunicati al mondo come luoghi straordinari, ma che nessun turista vede, perché non esistono dei circuiti dei cortili e dei giardini gestiti attraverso una convenzione tra comune e privati.

Vorrei vedere, passando da via Savonarola, il cortile di Casa Romei con il portone aperto e non semichiuso cosi come vorrei che il giardino del Museo archeologico fosse aperto al pubblico gratuitamente, è in fondo un bene di tutti. Vorrei che i cortili di Sant’Antonio in Polesine diventassero dei giardini pubblici, così come tante aree verdi della città, pubbliche o di grandi proprietà, che attraverso apposite convenzioni possano essere fruibili o visitabili.

Vorrei insomma che Ferrara diventasse una città parco e una città paesaggio, senza ricorrere a immagini bucoliche o nostalgiche. Lo vorrei come progetto politico incentrato sull’idea di Ferrara come ecosistema urbano. Dunque, una strategia realistica, di cui il verde costituisce una componente fondamentale, non l’unica, fondata sulla condivisione di obiettivi, quali il contrasto ai cambiamenti climatici, la valorizzazione di un patrimonio sia culturale che naturale, l’importanza data alla biodiversità, educando alla conoscenza delle altre specie viventi, il riconoscimento di un valore etico, perché la città-parco deve esserlo per tutti.

Vorrei insomma che Ferrara si trasformasse in un sistema antropico e vegetale complesso, dove gli spazi di cultura e di natura si intrecciano, mentre la vegetazione urbana si articola in varie forme: trame, parchi, giardini, viali alberati, piazze verdi cercando di “naturalizzare” una superficie equivalente a quella oggi costruita.

Entrando nel parco urbano a nord e in futuro anche a sud vorrei essere colpito dalla sua complessità e varietà. Innanzitutto, passando a fianco delle masse forestali, ricche di sottobosco, che lo caratterizzano, giustamente non accessibili per me. Seguendo i sentieri che guidano il mio percorso vorrei poi attraversare prati e radure che creano viste e prospettive caratterizzate da tappeti erbosi e prati fioriti con alberi monumentali isolati che mi fanno da guida.

L’importanza dell’acqua mi viene segnalata dalle diverse forme del suo utilizzo, perché mentre consente la prosperità di varie specie animali, svolge un lavoro di fitodepurazione, grazie all’uso delle piante ed inoltre, mi rendo conto che è anche un bacino di acqua dolce, che può ricaricare la falda e accogliere acqua piovana in eccesso.

Tutto questo lo scopro percorrendo la rete dei percorsi ciclabili e pedonali (in materiale stabilizzato e drenante non asfalto o bitume), che mi ricorda che attraverso comunque uno spazio artificiale, esito di un progetto e che necessita di cura, come mi capita quando mi trovo nel Vondelpark di Amsterdam, o nell’Emberton country park, poco fuori Milton Keynes.

Ma il mio desiderio va oltre e vorrei che il territorio attorno a Ferrara diventasse un parco agricolo periurbano in grado di valorizzare, anche attraverso marchi di qualità, una agricoltura biologica, e un paesaggio urbano/rurale ricco nelle sue componenti vegetali. Un percorso possibile, dove la cultura del paesaggio agrario si associa ad un ritrovata naturalità da perseguire, ad esempio, attraverso la reintroduzione delle siepi e la predisposizione di aree forestali di infiltrazione delle acque piovane, alternate ai campi coltivati.

Vorrei ripensare l’ambito delle mura, in particolare la parte sud. Questo perimetro necessita di cura e deve diventare una vera cintura verde e patrimoniale, su cui far convergere la trama della città parco. Va bloccata ogni trasformazione di questo spazio in parcheggio o attività commerciale, cercando, dove possibile, di depavimentare per aumentare le aree verdi.

Vorrei che venissero potenziati, valorizzati e naturalizzati molti spazi aperti presenti nel centro storico, come nel settore dell’ex caserma Pozzuolo del Friuli e di via Savonarola, dove vi è la possibilità di creare una rete di giardini in grado di creare connessioni pedonali con Corso Giovecca, associando l’idea di Ferrara città-parco a quella di Ferrara città-campus, valorizzando la dotazione verde delle sedi universitarie, aprendole al pubblico e organizzandole per lo studio e il lavoro open-air, associate ai giardini pubblici, ai sagrati da riqualificare, agli spazi verdi interni delle mura.

Vorrei che si valorizzasse il quadrivio del Palazzo dei Diamanti, una delle aree dismesse più critiche e dequalificate della città. Il Quadrivio potrebbe essere messo in relazione alla Piazza Ariostea che non può più essere solo un parcheggio, valorizzando un asse dove, oltre a musei, sedi universitarie, abbiamo anche Parco Massari, lo Spazio Antonioni e l’Orto botanico di Unife, costituendo quindi un grande polmone verde nel cuore storico della città, sul modello di tanti importi parchi urbani che associano giardini e orti botanici, dove la cura della biodiversità associa cultura, didattica e tempo libero.

Vorrei che Ferrara avesse un “museo della città” in grado di associare dei luoghi espositivi (da creare, esponendo anche il suo straordinario patrimonio di mappe storiche) con la città storica e sociale delle sue strade e piazze. La città dovrebbe inoltre rinsaldare il suo rapporto con il territorio entrando nel Parco del Delta,  promuovendo la scoperta della sua cultura dell’acqua, dei fiumi, delle bonifiche, della costa per farla diventare un grande progetto culturale, di ricerca e turistico.

La Ferrara che non vorrei

Non vorrei più vedere:

  • i rifiuti dilaganti in giro per la città e davanti a casa;
  • la mobilità e la sosta selvaggia in tutto il centro storico;
  • lo stato miserevole dei marciapiedi e delle piste ciclabili, dove una persona che ha difficolta a camminare non riesce a muoversi;
  • l’inadeguatezza del trasporto pubblico che ci rende dipendenti dalle automobili;
  • la violenza che si riscontra nelle strade della città (alla faccia della sicurezza), anche nelle relazioni interpersonali che hanno bandito la gentilezza e la cortesia;
  • gli allagamenti delle strade, quando piove intensamente;
  • la pessima qualità dell’aria nonostante tutti gli alberi piantati;
  • il calo del turismo e in particolare di qualità (per intenderci quello straniero, che spende);
  • l’economia che stenta e il nostro essere sempre fanalino di coda nelle classifiche sulla qualità;
  • lo spacciare l’apertura di supermercati come rigenerazione urbana mentre nel PUG si dichiara la città di 15 minuti;
  • il degrado dell’area di Darsena city lungo il Burana;
  • il degrado delle piazze storiche coperte da teloni neri, tubi innocenti e bagni chimici;
  • il perseguire una idea di città-prigione e segregazionista, invece di puntare verso una politica inclusiva sui migranti che avrebbe anche, in prospettiva, importanti ricadute economiche per la città e il paese;
  • infine, ma non da ultimo il razzismo latente che si respira in città.
Piazza Trento Trieste. Summer Festival 2023

Vorrei che questo non fosse un sogno, ma un percorso politico da costruire insieme.

Romeo Farinella, Professore di Progettazione Urbanistica del Dipartimento di Architettura di Unife.
Candidato nella lista La Comune di Ferrara per Anna Zonari Sindaca  

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore

Sono in lista perché è l’ora di una sindaca donna

Sono in lista perché è l’ora di una sindaca donna

Sabato 25 maggio 2024 le socie del Centro Documentazione Donna di Ferrara hanno  organizzato un incontro con alcune donne che si sono candidate alle prossime elezioni comunali nelle liste civiche. In redazione è arrivata ieri una email con il testo del breve discorso pronunciato in quella occasione da Laura Albano. Si tratta di un intervento inusuale e importante – un racconto molto personale e  nel contempo  molto politico. Ci è sembrato giusto farlo conoscere ai nostri lettori.
(La redazione di Periscopio)

Mi chiamo Laura Albano,

prima delle ragioni che mi hanno spinto a candidarmi con la lista de La Comune di Ferrara, vorrei brevemente raccontare delle tante volte nelle quali ho subito comportamenti maschilisti, comportamenti che la nostra cultura tende a mascherare e normalizzare.
Le racconto ben consapevole che tutte noi subiamo quotidianamente compio.

Subito dopo la laurea ad ogni colloquio di lavoro una delle prime domande era: lei è sposata / fidanzata? e a seguire: Ha figli? Ne desidera?
Una volta trovato lavoro ero la “ragazza dell’amministrazione” oppure Laura (mai Dott.ssa Albano), ovviamente i colleghi maschi erano tutti dottori anche se non laureati, colleghi che a volte si sentivano in diritto di chiedermi se “gli preparavo un caffè”. In questi casi quello che mi colpiva maggiormente era lo stupore delle colleghe quando riferivo di essermi rifiutata.

In passato, un superiore, con l’ufficio confinante con il mio, ritenendo una scocciatura ricordare il mio numero interno e quello della collega nella scrivania accanto, aveva ideato un simpatico modo per convocarci: un colpo nel muro mi dovevo alzare io, due colpi la collega. Anche in questo caso, quello che mi colpiva maggiormente era lo sconcerto della collega vedendo che non scattavo sull’attenti; rimediava lei, presentandosi prontamente alla scrivania del superiore.

Poi un paio di anni fa, in piena pandemia, su un affollato treno Ferrara – Roma, chiedo gentilmente alla persona (di sesso maschile) seduta nel posto di fronte al mio di indossare correttamente la mascherina (la teneva a mezzo mento, con bocca e naso scoperti). Provoca in lui una reazione talmente rabbiosa che ne resto stupefatta: prima mi chiede di mostrargli il green pass, poi mi applaude con dileggio quando in sottofondo passa il messaggio registrato che ricorda come si indossa la mascherina e, alla mia richiesta di rivolgersi a me con il lei e non con il tu, urla più volte “Stai zitta”.

Mi sono sentita improvvisamente catapultata in uno dei libri di Michela Murgia intitolato appunto “Stai zitta”. La Murgia, quanto ci manca, ci ricorda come la pratica dello “Stai zitta” non è solo maleducata, ma soprattutto sessista, perché unilaterale, invano cercheremo una donna che abbia pubblicamente tentato di imporre il silenzio a un uomo, nemmeno in contesti molto alterati (cit.).

Ecco qui la mia storia, simile a quella di tante immagino … quindi perché mi candido con Anna Zonari? La risposta è scontata, è ora di una sindaca donna!

Una sindaca donna è tutta un’altra storia, un vento nuovo anche nel metodo: concretezza, dialogo, collaborazione, trasparenza, determinazione.

Da oltre 65 anni Ferrara non ha una Sindaca.  Penso che la città abbia bisogno di una donna capace di includere e non escludere, e di attivare strumenti stabili di partecipazione reale. La lista che sostiene Anna Zonari (l’unica candidata donna fra 3 uomini) è anche una lista “a trazione femminile”: siamo 18 donne donne, la maggioranza.

Penso e mi batto per una sindaca che creda nella cooperazione, nella squadra, non nell’individuo solo al comando.

Nel nostro programma abbiamo un punto che si chiama “Ferrara città per le donne”, ci sono varie proposte per la parità e le politiche di genere.

Sono proposte che vanno nella direzione di una sensibilizzazione di tutte e tutti noi, per una nuova cultura, con la promozione di iniziative in collaborazione con le associazioni femminili e femministe e la creazione di un Portale Ferrara città per le donne, per facilitare la diffusione delle iniziative.

Vogliamo il potenziamento dei centri antiviolenza, con la creazione di percorsi di accompagnamento rivolti a uomini che vogliano cambiare i loro comportamenti di maltrattamento nei confronti delle donne.

Vogliamo un Osservatorio dedicato al monitoraggio del livello della Parità di Genere nelle imprese, per avere luoghi di lavoro che rispettino principi di equità, inclusione e trasparenza, e vogliamo la realizzazione di sportelli informativi atti a raccogliere segnalazioni in forma protetta di comportamenti discriminatori e abusivi”.

Laura Albano è candidata lista La Comune di Ferrara per Anna Zonari Sindaca 

In copertina: immagine di Laura Albano

Vite di carta /
L’abitudine al dolore

Vite di carta. L’abitudine al dolore

Dopo avere letto il suo L’abitudine sbagliata, uscito nel 2023, ho voluto vedere il volto dell’autrice, Francesca Capossele. Benedetto Youtube, in questo. Nel video di pochi minuti Capossele ha parlato con fluidità e con voce sicura dei temi del libro e in particolare dei protagonisti: quattro giovani che somigliano ai giovani che siamo stati noi nati negli anni Cinquanta.

Tre di loro crescono in provincia, a ridosso del fiume che bagna un città piccola e dall’aria stantia, il quarto si aggiunge negli anni dell’Università quando per Maria, Bruno e Lalla è avvenuto il trasferimento nella città grande, dopo lo strappo tanto atteso dall’ambiente familiare.

Sono amici fin dalla prima infanzia. Sono anche di più, come dice Maria che è la voce narrante: “Fratelli. Complici. Se preferite, soldati nella stessa trincea”. Lottano da adolescenti contro la mentalità ristretta del loro ambiente, contro le aspettative a tenaglia delle rispettive famiglie.

Concretamente, Lalla e Maria tendono a dare spazio ai loro sogni, sgravandosi da pesi e retaggi degli stereotipi al femminile, Bruno ha a che fare con la propria omosessualità in molti modi, tutti inautentici e corrosivi. Finché non incontra anche lui nella grande città Luis, il quarto vertice del  quadrilatero esistenziale su cui è costruita la storia.

Dice Francesca Capossele che tutto il racconto dipende dalla foto descritta nella pagina iniziale: Maria la porta bene impressa nella memoria, è stata scattata in montagna e li ritrae tutti e quattro mentre camminano nella luce del pomeriggio. È una luce sinistra, lo si capisce dalla chiusa: “L’immagine è terribile, e noi ci siamo dentro, prigionieri”.

Con questo viatico inquietante inizia il racconto all’indietro nel tempo: infanzia, giovinezza ed età adulta dei quattro si dispiegano attraverso la ricostruzione che ne fa Maria, attraverso piani temporali sfalsati che bene si accordano alla soggettività di lei e alle suggestioni della memoria.

Mi sono dovuta interrogare durante la lettura. Da quasi coetanea dell’autrice, da ragazza di paese quale sono stata e tale rimango con serenità, ho mantenuto acceso il laser del mio coinvolgimento. Ho sondato il panorama sociale di quegli anni, i Sessanta e i Settanta, per come ne parla Maria Francesca e mi sono chiesta quale consapevolezza avessi io a quei tempi del cambiamento in atto. Del boom economico che imborghesiva a grandi passi anche le famiglie più modeste. Del costume che si imbizzarriva come un cavallo libero dal morso e scalpitava fino alle esplosioni degli anni di piombo.

Sapevo poco, sapevo di quell’aura che mi cingeva non troppo lontana dal corpo che ho portato dentro le aule scolastiche fino all’Università: un’aura piena di energia. C’era dentro la voglia di riscatto dei miei, che volevano farmi studiare e la mobilità sociale necessaria e sufficiente a farmi arrivare all’obiettivo.

Leggevo i quotidiani con accanimento. Studiavo. Avevo amici, ma senza contrarre il legame così esclusivo, utopistico, che nel libro lega Lalla a Maria, a Bruno e poi a Luis. Ho frequentato solo un coetaneo, che percepivo come omosessuale, ma nessuno di noi ci ha costruito su.

Così come nessuno di noi ha lottato contro la propria famiglia, se non per piccoli oggetti del contendere, una uscita con gli altri o un voto preso al liceo. I miei erano avanti, tutto sommato. Mio padre non trascinabile dal consumismo e mia madre una donna libera. Il disinteresse in ciò che faccio è quello che mi hanno trasmesso e che mi caratterizza.

Se guardo al destino che hanno avuto i quattro protagonisti di L’abitudine sbagliata riconosco varianti che non somigliano alla mia. Nel presente della narrazione due di loro non ci sono più. Gli altri, Maria e Luis, vivono in una solitudine ovattata.

Intuisco che abbiano stipulato una tregua con i se stessi che sono stati. Per Luis, che ha i capelli corti e brizzolati, Maria dice verso la fine del libro che la sofferenza è un’abitudine “ora conclusa”. Vivere al Nord gli ha fatto trovare equilibrio e autenticità.

Quanto a me, posso dire che ho sofferto nella mia infanzia e nella giovinezza, ho sofferto di timidezza. Ma non ho contratto l’abitudine al dolore. Mi sembra che la possibilità di soffrire si spalmi sull’intera nostra parabola di vita, e che il dolore cambi volto nel tempo. Ora anche per me somiglia alla paura e ha i toni della fragilità, a suo tempo è stato senso della perdita.

Riconosco tuttavia ai quattro protagonisti la titolarità a rappresentare una generazione come la nostra, che si è risparmiata la guerra, ma non le compromissioni del benessere venuto dopo e si è liberata dal paradigma culturale del primo Novecento non senza squilibri. Soprattutto Bruno è stato perseguitato dal disagio della sua vita inautentica. Lalla spezzata dalla malattia.

La nostra cifra esistenziale è questa: ci siamo potuti permettere una vita interiore complessa e l’abbiamo scandagliata con qualche raffinatezza. Manteniamo la curiosità e l’impegno, anche in questa epoca che sembra essersene allontanata.

Di questo sarà fatto l’osso a mandorla che abbiamo nella schiena e che non può mai andare distrutto, come usava dire il padre di Maria.

Nota bibliografica:

  • Francesca Capossele, L’abitudine sbagliata, Playground, 2023

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

SonArte per Linea d’Ombra

SonArte per Linea d’Ombra

Domenica 26 maggio alle ore 18:00 alla presenza di circa 200 persone si è tenuto presso la Sala Macchine di Factory Grisù il concerto del coro femminile SonArte di Ferrara a favore dell’Associazione Linea d’Ombra di Trieste.

La Direttrice del coro Sonya Mireya Pico ha ricordato l’impegno del coro femminile ferrarese a favore delle organizzazioni umanitarie di volontariato, un impegno che anche quest’anno, in questo periodo, si concretizza nel grande concerto pre-estivo. Questa volta, a chiusura di una stagione con diversi appuntamenti regionali, oltre al grande coro si è esibito il Piccolo Ensamble recentemente costituito.

Come sempre accade con il coro SonArte anche questa volta si è viaggiato tra le voci, le lingue e i ritmi del mondo, passando dagli inni spirituali africani, ai canti popolari palestinesi e israeliani; deviando anche su sofisticati canoni finlandesi e inoltrandosi in deliziose ninne nanne spagnole, ebraiche e sudafricane e, ovviamente, senza dimenticare di “riprendere fiato” nei canti tradizionali delle donne senegalesi, macedoni e sudamericane.

Il viaggio durato quasi due ore è stato sapientemente accompagnato dalle delicate note pianistiche di Valentina Usai e dai ritmi discreti e mai invadenti di Agnese Pillari e Marco Tassinari.

E di lunghi viaggi, di lingue orientali e balcaniche e ritmi di passi si interessa anche l’Associazione Linea d’Ombra.

Linea d’Ombra è nata a Trieste nel 2018 dall’attività di Lorena Fornasir e GianAndrea Franchi, per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica.

La frontiera della solidarietà continua: Per i migranti dalla rotta balcanica a Trieste

L’associazione rivendica la dimensione politica del proprio agire attraverso l’accoglienza, le cure mediche e il sostentamento a chi transita per Trieste o a chi è bloccato in Bosnia, mettendo così in luce la schizofrenia delle politiche migratorie europee.

Ogni giorno con altri attivisti, medici volontari, scout e con persone della società civile che arrivano da ogni parte d’Italia, i volontari cercano di lenire i traumi delle centinaia di ragazzi che “giocano” il cosiddetto Game:

attraversare il confine italo-sloveno, dopo settimane, mesi e, a volte, anni di cammino spinti dalla necessità di… vivere, cioè di fare quello che siamo cosi abituati a farlo da considerarlo davvero naturale per tutti: studiare lavorare, stare in un luogo tranquillo.

Lorena cura loro le ferite dei piedi e considera questo “ gesto” un atto di importanza imprescindibile, per dare dignità a queste persone, per dare loro speranza.

Anche i canti del coro SonArte hanno fatto, per così dire, parte di questa cura: sono semplici “gesti” che con la solidarietà di tanti potranno contribuire a restituire il desiderio di esseri umani ad… essere umani, sia a coloro che fuggono dalle guerre, dai cambiamenti climatici, dalla povertà, sia a quelli che, sempre di più, accoglieranno e cureranno.

Per leggere gli articoli di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Parole e figure /
“Migranti” di Isse Watanabe

Una storia che non cambia mai, quella di tante persone che fuggono alla ricerca di un destino migliore. “Migranti” di Isse Watanabe ci porta fra loro.

Dopo “Kintsugi”, Issa Watanabe racconta, con immagini straordinariamente forti e, ancora una volta senza parole (che qui, più che mai, non servono), una storia che si ripete tutti i giorni, da secoli, da sempre: le fatiche del viaggio, i pericoli e le incertezze che milioni di persone sono costrette ad affrontare per inseguire la speranza di una vita migliore.

“Migranti”, edito da Logos. Nero, buio pesto. Tratto deciso. In un bosco, di notte, un gruppo di animali si mette in viaggio con qualche valigia e pochi oggetti personali, il minimo indispensabile. Ci sono un po’ tutti, giraffe, conigli, elefanti, tucani, oche, leoni, anatre, orsi, fenicotteri, coccodrilli.

Una figura solitaria e malinconica li segue da lontano, l’unica che abbia fattezze umane. Al lettore incute subito inquietudine e un poco di paura. Lei e la sua borsetta misteriosa fra le mani. Gli animali, invece, accettano la sua presenza apparentemente gentile e nella segretezza della notte procedono sul loro cammino. In diligente fila indiana, fagotti in spalla, i pochi oggetti e ricordi da portare con sé. Quando si fermano per riposarsi ripetono i gesti quotidiani di quando erano ancora a casa. Pentole e pranzi improvvisati, qualche riposino sotto le coperte colorate, tutti vicini vicini. Sempre buio e strade irte, però.

Poi l’atteso arrivo al confine e la corsa verso una barca che li porterà ancora più lontano. La speranza che li sostiene, il pericolo che si profila. Onde su onde, un mare mosso.

Non tutti hanno la forza. La figura solitaria è sempre con loro, pronta ad accogliere coloro che non ce la fanno tra le sue braccia benevole…

Violenza, guerra, bombardamenti, fame, paura, esodo, rifugiati, mamme, bambini, bambine, orfani, migranti, barconi, salvataggi, annegati, scomparsi, illegali, frontiere, diritti umani. Silenzio. Sono le tante parole che leggiamo sulla quarta di copertina, le parole che sentiamo e usiamo quotidianamente per parlare di migrazioni e che troppo spesso si perdono in mille discorsi e nel silenzio di chi potrebbe fare qualcosa.

Una narrazione senza eufemismi, diretta e incisiva, che con estrema poesia e delicatezza vuole incoraggiarci a provare empatia e mostrare solidarietà. Per restare umani.

“Migranti” è stato tradotto in 17 lingue e ha ottenuto vari premi internazionali: Premio Llibreter de Álbum Ilustrado 2020, Premio Banco del libro de Venezuela Miglior narrazione per immagini 2020, Selezione White Ravens 2020, Premio Pictures 2020, Prix Sorcières 2021 Miglior albo illustrato per la categoria ‘narrativa’ 2021, Premio Zlata Hruska Migliore qualità letteraria 2021.

NB: Abbiamo già recensito un bellissimo albo dallo stesso titolo, “Migranti”, di Marcelo Simonetti e Maria Girón, edito da Kalandraka. Vi invitiamo a rileggerlo. Perché il tema è sempre tristemente terribilmente attuale, ahimè. Dalla notte dei tempi.

Issa Watanabe, Migranti, Logos edizioni, Modena, Collana ‘Gli albi della Ciopi’, 2023, 48 p.

Quanti confini dovremo ancora passare per arrivare a casa nostra? Theo Angelopoulos

Issa Watanabe è nata a Lima nel 1980. Cresciuta in una famiglia che le ha trasmesso l’amore per l’arte e la letteratura (la madre era illustratrice e il padre poeta), ha studiato lettere alla Universidad Católica di Lima prima di trasferirsi a Palma di Maiorca per frequentare corsi di illustrazione all’Accademia di Belle Arti. Ha sviluppato e diretto diversi progetti per promuovere l’integrazione sociale attraverso l’arte. In particolare, il progetto “Encuentro con la Mirada”, realizzato in collaborazione con il fotografo Rif Sphani e il Museo d’arte contemporanea di Maiorca Es Baluard, ha ottenuto nel 2012 il premio Obra Social da La Caixa Forum. Per il suo lavoro artistico, Watanabe è stata selezionata dalla Bologna Children’s Book Fair nel 2018 e nel 2020 e da Ilustrarte, nel 2021. Nel 2020, ha ricevuto anche il Gran Premio della Giuria alla BIBF Ananas International Illustration Exhibition di Pechino. Nel 2018 è stata nominata ambasciatrice della linea professionale di Faber Castell. Le sue illustrazioni sono state esposte in Spagna, Italia, Giappone, Corea, Cina, Stati Uniti, Francia, Messico, Brasile, Ecuador, Colombia, Cile e Perù e sono incluse nella mostra “Speechless: The Art in the Wordless Picture Books” dell’Eric Carle Museum of Picture Book Art in Massachusets.

L’ultima settimana

L’ultima settimana

E’ cominciata l’ultima settimana di campagna elettorale. Sono girati nei giorni scorsi alcuni numeri (che non riporto), ma si trattava di pseudo-sondaggi tutt’altro che attendibili. La verità è che il risultato è ancora incerto, e lo sarà fino all’ultimo.

Per riassumere il clima della campagna e l’atteggiamento dei protagonisti in campo (i 3 candidati, sindaco o sindaca), ho scelto una vignetta particolarmente azzeccata apparsa sui social. Vi sono simpaticamente raffigurati i 3 candidati. I primi due (Alan Fabbri e Fabio Anselmo) impegnati in un duello senza esclusione di colpi per rinfacciarsi  questo o quel torto. Sopra di loro, fuori dalle solite schermaglie, vola il tandem di Anna Zonari, protagonista di una campagna tutta centrata sui contenuti e sull’ascolto dei cittadini.

Ecco quindi che le elezioni amministrative risponderanno a due grandi interrogativi.  Prima di tutto c’è il confronto particolarmente duro (a Ferrara come in Europa) tra una Destra arrembante e il fronte variegato delle forze di Opposizione. A Ferrara, se verrà riconfermato Alan Fabbri, dovremmo aspettarci un governo ancora più spostato a destra, con i postfascisti di Fratelli d’Italia ancora più influenti. Se invece prevarranno i due candidati dell’opposizione (Anna Zonari e Fabio Anselmo) si potrà aprire una stagione diversa.

Il secondo interrogativo riguarda in particolare il risultato di Anna Zonari e La Comune di Ferrara, la lista popolare nata e cresciuta fuori dai partiti e dagli apparati, che ha elaborato “dal basso” un metodo e un programma coraggioso e innovativo e che chiede una vera e propria svolta nel modo di fare politica e nel governo cittadino.  Se questa candidatura (una donna in mezzo agli uomini) verrà premiata dagli elettori, sarà il segno che Ferrara e i ferraresi non hanno bisogno e non chiedono solo qualche aggiustamento, ma desiderano un’aria nuova, un cambio di passo e una nuova democrazia partecipata.

E cominciato il conto alla rovescia. Questa volta, vista la posta in gioco, non votare sarebbe davvero un peccato.

Cover: vignetta apparsa sulla pagina Facebook di Mario Zamorani

Lo stesso giorno/
Franz Kafka, uomini e topi

Franz Kafka, uomini e topi

Oggi cent’anni fa, il 3 giugno del 1924, moriva Franz Kafka. Aveva solo 41 anni. La sua tomba è nel nuovo cimitero ebraico di Praga a Žižkov. Una lapide alla base della stele funeraria commemora le tre sorelle dello scrittore, morte nei lager nazisti fra il 1942 e il 1943.

Non sono un critico letterario, tantomeno un germanista. Ma un semplice lettore, un appassionato lettore se volete. Se penso a Kafka mi vengono sempre mille pensieri, mille cose da riflettere e da scrivere, ma Kafka è talmente enorme smisurato buio profondo (chiamatelo pure genio, uno dei pochissimi che si sono affacciati nel mondo delle lettere), che ogni mia parola mi pare mancare il bersaglio, ridurre a poco la vastità del suo pensiero e della sua scrittura.

Franz Kafka è stato un genio universalmente riconosciuto. Per me, e per molti, il più grande autore del ‘900.  Ma perché un Genio? Per provare a rispondere mi viene in mente Giacomo Leopardi, il genio assoluto dell’ ‘800. Ed è interessante come anche la vita di Kafka e di Leopardi sembrano seguire lo stesso faticoso tragitto: un’esistenza infelice, incompiuta, troncata dalla malattia, E anche dal punto di vista letterario: un mezzo o un assoluto fallimento. Un fallimento ancora più duro da digerire, perché entrambi avevano una esatta coscienza del proprio valore.

È noto che dobbiamo al “tradimento” del suo fraterno amico Max Brod, se possiamo leggere le opere, compiute e incompiute di Kafka. In vita era riuscito a pubblicare solo qualche racconto, aveva bruciato  gran parte dei suoi manoscritti e prima di morire aveva chiesto a Brod di distruggere tutto il resto. La gran parte quindi dell’opera letteraria di Kafka è postuma: Il Castello, Il Processo, Amerika, La Tana… Anche per l’opus di Leopardi è rintracciabile un analogia. Certo, aveva pubblicato e con un certo successo I Canti e con molta meno fortuna le straordinarie Operette Morali (le rileggo continuamente), ma quello che viene riconosciuta come la sua “opera mondo”, l’inesauribile miniera, è lo Zibaldone dei pensieri, pubblicato postumo tra il 1898 e il 1900 da Giosuè Carducci.

Franz Kafka a circa 34 anni, luglio 1917 | © Verlag Klaus Wagenbach

Il parallelo, poco scientifico e molto personale, tra Kafka e Leopardi presenta altri capitoli ma mi porterebbe troppo lontano. Voglio invece provare a rispondere a mio modo alla domanda iniziale: perché Franz Kafka è un genio? Non solo, non tanto, per la sua scrittura, per il suo stile, per la sue invenzioni. Del resto, se bastasse scrivere bene saremmo letteralmente sommersi dalla genialità, non sapremmo dove metterli tutti questi geni. Due esempi. Dino Buzzati (poverino, perseguitato tutta la vita  dall’accusa di far il verso a Kafka) è stato un ottimo scrittore, non un genio. E a un’amico che mi decantava l’ultima fatica letteraria di Alessandro Baricco, mi sarei sentito di rispondere come Flaiano (o era Moravia?): “non l’ho letto e non mi piace”. Niente di personale, è solo per mancanza tempo: Baricco è bravo a scrivere, ma non è Kafka. E nemmeno Buzzati.

Invece Kafka – credo che lui stesso ne avesse coscienza – spacca a metà la letteratura, la cultura, il sentimento del tempo. C’è un prima e un dopo Kafka, e noi cent’anni dopo non possiamo ignorarlo. Dopo di lui – anche senza aver letto di lui nemmeno un rigo – non possiamo ignorare quello che ha svelato. Grazie a lui vediamo (possiamo vedere) la violenza insensata del Potere e l’irrimediabile solitudine dell’uomo. Vediamo (possiamo vedere se ci rimane un po’ di coraggio) quanto buio, quanta ombra pesa sopra gli oggetti. Vediamo e riconosciamo come il mistero attraversa prima di tutto noi stessi.

Con Kafka, grazie a Kafka, facciamo conoscenza ed esperienza della Modernità, la stessa che muove le lancette del nostro tempo presente. Più di Marx, più di Freud, Kafka descrive meticolosamente le insidie che nasconde una modernità che ci aveva promesso la felicità e che invece ci ha reso più fragili, indifesi davanti all’imponderabile. Come è capitato a Gregor Samsa. Questo il celebre incipit de La Metamorfosi (1912)
“Una mattina Gregor Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in un insetto mostruoso. Era disteso sul dorso, duro come una corazza, e alzando un poco il capo poteva vedere il suo ventre bruno convesso, solcato da nervature arcuate, sul quale si manteneva a stento la coperta, prossima a scivolare a terra. Una quantità di gambe, compassionevolmente sottili in confronto alla sua mole, gli si agitava dinanzi agli occhi.”

Non siamo stupidi del tutto. Cerchiamo di difenderci (dal male, dal Potere, dal nemico), proviamo a nasconderci, usiamo tutta la nostra perizia e furbizia, ma scontando tutta la nostra impotenza ed ingenuità. Così La Tana (1924), la nostra tana che ci siamo costruiti, abbiamo pensato a uno specchietto per le allodole, una falsa entrata e abbiamo occultiato la vera entrata per renderla inaccessibile a qualsiasi invasore.
“Ho assestato la tana e pare riuscita bene. Dal di fuori, in verità, si vede soltanto un gran buco che però in realtà non porta in nessun luogo. Già dopo pochi passi s’incontra la roccia naturale e solida. Non voglio vantarmi di aver adottato questa astuzia con intenzione […] Ma non mi conosce chi pensa che io sia codardo e scavi questa tana soltanto per vigliaccheria. Ad almeno mille passi di distanza da questo buco si trova, coperto da uno strato spostabile di musco, il vero accesso alla tana che è al sicuro come può essere sicuro qualcosa al mondo.”

Un’ultima annotazione: contrariamente a quanto qualcuno vi avrà detto,  Kafka non è una lettura difficile. Angosciosa? Claustrofobica? Forse per le prime pagine, poi farete una scoperta: ma quello sono io, sta parlando di me, di noi, del mio universo, dell’ombra che ci avvolge. Franz Kafka è entrato nella vostra tana.

 

 

Se avete letto fin qui, consiglio la visione e l’ascolto del magnifico racconto di Franz Kafka Il messaggio dell’imperatore, tradotto dal tedesco per Periscopio da Francesco Tosi, lettura di Fabio Mangolini. [guarda  la videolettura]

 

In copertina: immagine tratta da culturificio.org

Per certi versi
La duna di Pilat,  Bordeaux 

La duna di Pilat,  Bordeaux 

È la più
La più alta
La più
Più solitaria
La più bella
Fronte
La più
Che veranda
Sulle nervature
Del mare
La folla di pini
I grandi specchi
Increspati
Dalla solitudine
Forse i cammelli
Stanno arrivando
Da Samarcanda
O forse da Bayonne
Chi lo sa
Niente che azzurro
Si vede
all’Occidente
Di vento
Mai sazia
Piccoli infiniti
Viaggiano
Come onde
Di cetra
la gioia
pietra
Disciolta
A granelli
Ringrazia

Vannacci? Quando lo schifo vince sull’ironia

Vannacci? Quando lo schifo vince sull’ironia
SCHIFO E RIBREZZO Ieri mattina, a Monaco di Baviera, sono tornato davanti alla fiamma perenne che arde sul monumento che commemora le vittime del nazismo. Là si fanno i conti con i propri orrori. Provo rabbia a valicare il confine e vedere, tra le prime immagini, questo personaggio esecrabile (lo ricordo, ospite riverito in città dell’emerito assessore Andrea Maggi nonché candidato nel partito del ringraziatissimo sindaco Alan Fabbri).
Vorrei essere ironico, e scrivere che sta mostrando la propria firma, perché già la lettura del suo primo libro mi aveva dato molte idee sul suo grado di alfabetizzazione e di coscienza sociale. Ma non ce la faccio a essere ironico con certa gente. Vannacci mi fa schifo, e mi fa schifo chi a ogni latitudine _ compresa Ferrara _ prova a legittimare o anche solo minimizzare i suoi atteggiamenti, riducendoli a calcolo elettorale, o semplicemente a ignoranza.
Qualche giorno di stacco mi fa essere meno coinvolto sulle imminenti amministrative ed Europee (un particolare: a Monaco di Baviera c’era un centesimo dei manifesti affissi nella nostra città), ma forse per questo più lucido. Questo essere, emblema di altre nullità che ben conosciamo, mi suscita ribrezzo.
E con questo, su di lui (e non solo) ci faccio una croce sopra. Non una ‘decima’, proprio la croce della cancellazione. Politica e morale. Ah, chi dice che andrebbe ignorato a mio avviso è un ingenuo o un cretino.
(Dalla pagina Facebook di Stefano Lolli)
In copertina: Roberto Vannacci durante la presentazione del suo libro all’Hotel Astra di Ferrara

BENVENUTO MIMMO LUCANO:
2 giugno, Sala Estense, ore 16

BENVENUTO MIMMO LUCANO
2 giugno Ferrara, Sala Estense, ore 16

Benvenuto Mimmo, dopo 10 anni dall’ultimo invito, le Associazioni “Cittadini del Mondo” e “Viale K” sono felici di accoglierti e confrontare le proprie esperienze di accoglienza con chi è stato in questi anni il nostro faro, punto di riferimento nei nostri percorsi, tra mille difficoltà.
Come noto Mimmo Lucano è l’artefice di quello che è conosciuto a livello mondiale come “MODELLO RIACE”, un modello che non solo fa diventare realtà la coesistenza tra diversi popoli, ma anche un modello che ha come principio cardine l’appartenenza all’Umanità.
Proprio 10 anni fa, Cittadini del Mondo e circolo Resistenza, lo invitammo alla Sala Estense per un confronto, per una visione diversa sull’integrazione, per parlare dell’immigrazione come risorsa e immaginare, come a Riace, che anche nei nostri paesi sempre più spopolati, le case abbandonate vengano abitate, i vecchi mestieri ripresi, i negozi riaperti e anche le scuole, grazie ai figli stessi degli immigrati.

Nel 2016, quando Ferrara apparve in tv e su tutti i giornali nazionali ed internazionali per il respingimento di 12 donne richiedenti asilo con barricate a Gorino capeggiate da quello che diventò, proprio sull’onda di queste bravate, il nostro vicesindaco, proprio la sera stessa Mimmo ci telefonò: “le ospitiamo noi” disse semplicemente.

Per questo, per il “modello Riace”, nell’ottobre del 2018 abbiamo convocato come Cittadini del Mondo, con l’adesione del Festival di Internazionale, una manifestazione a sostegno di Mimmo Lucano, vittima di violenti attacchi da parte della destra al potere con arresto e accuse infamanti poi finite nel nulla.

E ancora oggi a Ferrara lottiamo per un’inclusione diffusa e garantita che non è, purtroppo, quella che vediamo realizzata con sempre meno fondi e sempre più burocrazia. Assistiamo ad una integrazione di facciata, non basta una candidata di origine africana a nascondere le pratiche razziste, i problemi gravi ed urgenti che vivono gli immigrati, la mancanza di alloggi anche se nei paesi limitrofi le case popolari sono vuote, la mancanza di opportunità lavorative anche se manca manodopera in agricoltura e nell’industria e persino chi ha un lavoro in regola non riesce a rinnovare il permesso di soggiorno né a trasformarlo in un permesso per lavoro. Per un immigrato è difficile ottenere la residenza, registrarsi all’anagrafe, persino per i bambini nati qui. Per non parlare del razzismo istituzionale, di quello serpeggiante e della profilazione razziale, se sei nero, se sembri nordafricano, allora le forze dell’ordine anche locali ti fermano continuamente e, a caso, se non hai i documenti a posto, in particolare se sei tunisino per te c’è il CPR con rimpatrio assicurato. I continui fermi a volte sfociano in aperte provocazioni e se qualcuno sembra irrequieto allora c’è il taser, con tutti i rischi già denunciati.

Domenico Lucano è candidato alle elezioni europee come indipendente nelle liste di Alleanza Verdi Sinistra e speriamo davvero che sia eletto per portare a Bruxelles un po’ di umanità.

Associazione Cittadini del Mondo
Associazione Viale K

“Vedere” e capire la Danza… Un percorso di formazione in 4 incontri al Fienile di Baura: giugno 2024

sabato 8 / domenica 9 / sabato 22 / domenica 23 giugno 2024

al Fienile di Baura – Via Raffanello 79 Baura (FE)

Come rendere accessibili gli spettacoli di danza ad un pubblico di persone con deficit visivi?  Come descrivere poeticamente uno spettacolo di danza ad una persona non vedente, con un linguaggio che non sia quello del movimento ma che dal movimento prenda ispirazione?

Audiodescrizioni poetiche  per la danza

Un percorso di formazione in quattro incontri
con Giuseppe Comuniello e Camilla Guarino

  

La fruizione di spettacoli di danza da parte di un pubblico non vedente oggi è ancora molto limitata. Tuttavia negli ultimi anni diversi teatri stanno introducendo l’audiodescrizione all’interno della propria offerta, generando una richiesta di competenze per questa funzione.

L’attenzione alle forme di accessibilità che consentono di aumentare la gamma e la tipologia di esperienze artistiche fruibili da persone con disabilità è fra gli obiettivi del programma R.ACCOLTO del Fienile di Baura. Per questa ragione gli organizzatori hanno deciso di ospitare in quella sede il percorso formativo promosso dal performer e danzatore non vedente  Giuseppe Comuniello e dalla performer, danzatrice e drammaturga Camilla Guarino, con l’obiettivo di formare persone a questa specifica pratica di accessibilità messa a punto e perfezionata da questi artisti, già ospitati nel programma di R.ACCOLTO del 2022 con un workshop e un incontro pubblico.

Il percorso formativo si articola in quattro incontri in due fine settimana di Giugno (sabato 8, domenica 9, sabato 22, domenica 23) con sessioni di lavoro al mattino (10.00 – 13.00) e al pomeriggio (14.30 – 17.30).

Il costo complessivo del percorso è di 150 euro a persona. Al raggiungimento del numero minimo di potenziali partecipanti gli organizzatori invieranno la richiesta di confermare la propria iscrizione versando la caparra di 70 euro (la quota residua potrà essere pagata sul posto il primo giorno di corso).

Seppur di particolare interesse per chi opera in ambito artistico, operatori teatrali e studenti, la partecipazione al corso non necessita di esperienza pregressa in nessun ambito performativo: la proposta formativa si rivolge a chiunque desideri conoscere e imparare ad applicare questa pratica di accessibilità, e a chiunque abbia una personale inclinazione ad acquisire competenze che agevolino la partecipazione sociale delle persone con disabilità.

PRE-ISCRIZIONE: 

l’invio della pre-iscrizione avviene compilando il Modulo di adesione entro il 25 Maggio a questo link:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSek7sPux9Xsk-7ecCm58UKL-s7xgrr4NVv02deJu0q_ZWqxAw/viewform?usp=pp_url

ISCRIZIONE:

la conferma dell’iscrizione avviene versando la caparra  Causale-: Caparra per Corso formazione audiodescrizioni poetiche per la danza

Lo staff di R.ACCOLTO del Fienile di Baura
INFO: info.lstferrara@gamil.com

LA SEDE DEL CORSO: Fienile di Baura
Via Raffanello 79 – Baura, Ferrara

Io davanti al voto.
Per una Europa di pace e una Ferrara “femminile, plurale e partecipata”

Io davanti al voto. Per una Europa di pace e una Ferrara “femminile, plurale e partecipata”

Siamo vicini a scadenze elettorali importanti e, visto che qualcuno dei miei 25 lettori me l’ha chiesto, sviluppo alcuni ragionamenti in proposito e anche le mie intenzioni di voto.

Una Europa con l’ossessione della guerra

Inizio, ovviamente, dalla scadenza elettorale europea, con la consapevolezza che questa volta il suo esito è ben più importante rispetto agli anni passati.
Intanto, perché il ruolo dell’Europa, nonostante le sue contraddizioni interne, è decisamente cresciuto rispetto alla definizione delle politiche anche dei singoli Stati.
In secondo luogo, perché potrebbe essere in discussione lo stesso asse politico – quello tra Popolari e Socialisti – che ha retto la costruzione europea da un bel po’ di tempo in qua. Infatti, ahinoi, il vento nazionalista e di destra spira forte in tutt’Europa, non risparmiando praticamente nessun Paese, dalla Francia alla Germania, dall’Italia a diversi Paesi dell’Est. Non sto ora ad indagare le ragioni di questa situazione, anche se esse sono sufficientemente precise e stanno in particolare nelle scelte sbagliate e vocate all’austerità che sono state dominanti da Maastricht in avanti.

Quello che è chiaro è che un ulteriore spostamento a destra del quadro politico europeo non potrebbe che determinare una regressione ancora più forte delle scelte improvvide che l’Unione Europea ha compiuto nell’ultimo periodo di tempo, schierandosi dentro un orizzonte di guerra, rafforzando le politiche di respingimento dell’immigrazione, allentando gli interventi che guardano alla conversione ecologica e ambientale.

In ogni caso, già oggi assistiamo ad una situazione in cui, da una parte, i singoli Stati europei procedono in ordine sparso, rendendo più forte l’idea della ”Europa delle nazioni” e, però, dall’altra, sono accomunati da un’impostazione per cui si considera inevitabile il ricorso alla guerra e si accantona ogni idea di svolgere un ruolo attivo di rilancio del dialogo e della diplomazia.
Emblematico è ciò che sta succedendo a proposito dell’ultima scellerata ipotesi avanzata dal segretario della Nato Stoltenberg di utilizzare le armi date all’Ucraina anche per attaccare il territorio russo: da una parte Francia, Germania (che in un primo tempo si era espressa negativamente) e Polonia, assieme agli altri Stati baltici si pronunciano in termini favorevoli, Spagna e, per ora, Italia, si dicono contrari, ma, alla fine, tutti si allineeranno nei fatti alle volontà degli USA ( e della Nato), in un ulteriore rafforzamento della spinta bellica.

Siamo di fronte ad un’involuzione profonda dell’Unione Europea: lo dico con le parole efficaci dell’insigne giurista Ferrajoli che, in un recente articolo apparso su Il Manifesto, ha scritto che “ l’Europa sta negando se stessa. L’Unione Europea è nata su due fondamenti, l’uguaglianza e la pace…Entrambi questi fondamenti stanno venendo meno. E’ questa la prospettiva che dovrebbe essere presente…”.

Anche a me pare che questa sia la bussola con la quale orientarsi nelle prossime elezioni europee. E che richiama la necessità di una svolta profonda, partendo dal fatto che la lotta per la pace e il disarmo dovrebbero essere assunti come valori e proposte vincolanti e non negoziabili.
Per dirla in altri termini, bisogna scegliere la pace “senza se e senza ma”, affermare che “la pace viene prima di tutto” non solo per le tragedie che la guerra comporta, ma perché essa diventa sovrastante su tutto, sulla vita delle persone e sul modello produttivo e sociale che costruisce. Si potrà discutere se è meglio la linea regressiva della von Leyen o quella più innovativa di Draghi e Letta, ma non possiamo non vedere che entrambe muovono dall’assumere la difesa e la persistenza della guerra come i tratti fondamentali del futuro del mondo.

Per questo, il mio pensiero e la mia intenzione va nel sostenere chi, con più coerenza e determinazione, sta nel campo del pacifismo, che non è una “nobile ispirazione”, ma l’indicazione di un modello di società e di convivenza, basato sul multipolarismo, la centralità dell’iniziativa diplomatica e della cooperazione tra gli Stati, l’uguaglianza e la giustizia sociale e ambientale.

In questo senso, lasciando perdere la destra che si è velocemente convertita all’atlantismo e al neoliberismo, non si può non vedere come il PD, assieme a tutta la socialdemocrazia europea, rimane imprigionato in una logica per cui lo scenario di guerra, e l’invio delle armi che ne è il presupposto, è un orizzonte inevitabile.

Meglio fanno il M5S e anche l’Alleanza Verdi e Sinistra, ma non tanto da farci fuoriuscire da questa prospettiva. Non il primo che, da sempre impregnato da una cultura politica fragile, continua ad oscillare tra proclami contro la guerra e scelte concrete che vanno in altra direzione, come nel caso del sostegno al primo invio delle armi all’Ucraina durante il governo Draghi e il voto favorevole alla missione italiana nel Mar Rosso per “difendere il traffico commerciale” ( sic!) in quell’area. Anche l’Alleanza Verdi e Sinistra, per quanto esprimano posizioni più limpide e coerenti sul tema, non sfugge al fatto di considerare intoccabile il rapporto politico con il PD, finendo per risultarne subalterno.
Insomma, per quanto mi riguarda, solo la lista “Pace, terra e dignità” risponde alla caratteristiche di provare a segnare un punto di forte discontinuità con le politiche dominanti in Europa, da cui non penso si possa prescindere, al di là del risultato elettorale che sondaggi, forse non del tutto disinteressati ( e che peraltro si sono spesso dimostrati inattendibili), attribuiscono ad essa.

Le elezioni a Ferrara

Qualche considerazione sintetica la dedico anche alle elezioni comunali di Ferrara. Non perché ci sia un nesso diretto e immediato con la scadenza elettorale europea, se non la coincidenza delle date con cui si va al voto.
Tirando un po’ il ragionamento, si può sostenere che anche per la nostra città è all’ordine del giorno la necessità di una svolta radicale rispetto alle politiche che la destra ha realizzato in questi ultimi 5 anni di governo della città.

Occorre “liberarsi” da un’Amministrazione che, da una parte, ha sostanzialmente galleggiato sull’esistente, senza costruire nessuna prospettiva di futuro per una città che ha molti problemi, dall’invecchiamento e dalla solitudine della popolazione all’inesistenza di una struttura produttiva capace di produrre lavoro di qualità e soluzioni per i giovani – solo per citarne alcuni. In compenso abbiamo assistito a scelte che hanno privilegiato unicamente il bacino elettorale della destra, dal lavoro autonomo alle attività legate al commercio e al turismo, peraltro di poco respiro, condite da una propaganda contemporaneamente sopra le righe sulla “Ferrara che rinasce” e regressiva e ideologica sui diritti delle persone, a partire da quelle immigrate.

Mi pare che bisogna essere avvertiti che, comunque, mettere da parte questa destra è possibile, ma non sarà un’operazione semplice, sia perché pesa il fatto che l’opposizione politica di questi anni non è riuscita a presentare contenuti realmente alternativi e a voltare pagina rispetto ad elementi di continuità con le passate Amministrazioni di centro-sinistra, sia perché la stessa campagna elettorale non si è distanziata troppo da un’impostazione, viziata anche dalla legge elettorale esistente, di contrapposizione personalizzata tra i candidati sulla carta più forti.

Invece, la mia convinzione è che insistere sui contenuti, su un’idea alternativa di città, capace di fare i conti con le problematiche emergenti, è il modo più utile per avvicinare quelle parti di società che hanno deciso di non votare nella tornata scorsa e che hanno fatto buona parte della differenza tra destra e centro-sinistra, determinando la vittoria della prima. Con ciò confermando che essa è stata prima ancora un allontanamento delle politiche del centro-sinistra che un “ merito” della destra e che alcune letture, imperniate sull’utilità di costruire un unico soggetto elettorale anziché una pluralità di liste, non hanno fatto i conti con le tendenze reali del corpo elettorale.

Da questi sommari elementi nasce il mio sostegno alla lista “La Comune di Ferrara”, che, sin dalla sua definizione di essere “femminile, plurale e partecipata”, rende bene l’idea di voler avanzare un nuovo e diverso approccio al governo della città. Che poi si esplicita ancor meglio nel programma definito, nel momento in cui si mettono al centro i temi della democrazia partecipativa, del contrasto al cambiamento climatico e della conversione ecologica, della pubblicizzazione dei beni comuni, della “città per le donne”, insomma di un ruolo più forte e condiviso dell’intervento pubblico, come assi portanti per disegnare il futuro di Ferrara.
Poi, certamente, solo un nuovo intreccio tra iniziativa sociale partecipata e ruolo lungimirante delle istituzioni potrà sul serio far iniziare un nuovo percorso anche per Ferrara. Ma di questo si spera si potrà parlare dopo l’8 e il 9 giugno.

Storie in pellicola / Alle “Giornate della luce” di Spilimbergo tornano le mostre fotografiche 

Omaggio a Marcello Mastroianni a 100 anni dalla nascita con la mostra “Marcello Mastroianni ritrovato”, sul set di Paola Cortellesi con la mostra “C’è ancora domani, sempre” e poi, Elio Ciol, con “Gli ultimi”. Le mostre aperte al pubblico fino al 23 giugno.

La manifestazione ideata da Gloria De Antoni e da lei diretta con Donato Guerra sarà l’occasione per celebrare, come di consueto, gli autori della fotografia, veri protagonisti del festival.

Inaugura sabato 1° giugno, a Palazzo della Loggia a Spilimbergo, la mostra fotografica di Claudio Iannone dal titolo “C’è ancora domani, sempre”. 54 scatti realizzati sul set del film di Paola Cortellesi per mantenere vivo, attraverso l’occhio della fotocamera, il messaggio di denuncia e l’impegno civile che lo ha ispirato.

“Nessuna foto posata o elaborazione grafica avrebbero potuto narrare l’insieme dei sentimenti che animano i personaggi di questo film quanto la foto di scena che è diventata la locandina di C’è ancora domani. La presenza discreta e lo sguardo attento e profondo di Claudio lannone – ha detto Paola Cortellesi parlando delle foto di scena del film – hanno permesso di cogliere in ogni scatto l’essenza di situazioni brutali e ridicole, di personaggi disperati e buffi e di restituirne, con forza, le emozioni. La mostra sarà aperta al pubblico fino al 23 giugno.

Mostra fotografica C’è ancora domani, sempre di Claudio Iannone ©
Mostra fotografica C’è ancora domani, sempre di Claudio Iannone ©

Domenica 2 giugno alle ore 12.00 un grande omaggio a Marcello Mastroianni con l’inaugurazione della mostra Marcello Mastroianni Ritrovato – Nelle foto inedite di Paul Ronald sul set di 8 ½. Un omaggio a Marcello Mastroianni, nel centenario della nascita, con la mostra che vede protagoniste le foto inedite di Paul Ronald sul set di 8 ½ di Federico Fellini (1963).

Uno dei principali fotografi di scena del cinema italiano, Paul Ronald (1924-2005), chiamato da Federico Fellini sul set di 8 ½, ha lasciato attraverso i suoi scatti una testimonianza eccezionale sul lavoro del regista.

Aneddotico l’inizio della collaborazione tra Paul Ronald e Federico Fellini. Ronald che aveva lavorato a che da La terra trema (1948) era il fotografo di fiducia di Luchino Visconti, fu impegnato casualmente sul set dell’episodio felliniano Le tentazioni del dottor Antonio (del collettivo Boccaccio ‘70, di cui aveva anche documentato il segmento Il lavoro di Visconti). Fellini ne apprezzò, oltre che la bravura, anche la discrezione (era abituato all’esuberanza e all’invadenza di Pierluigi, fotografo de La dolce vita) e gli chiese di seguirlo per il successivo 8½. Così il fotografo ricorda l’episodio: «Un giorno mi telefona Nello Meniconi, il direttore di produzione di Fellini: “Aspetta ti passo Federico”. E Fellini scherzando mi dice: “Cosa devo fare? Devo venire con gli Oscar in mano per chiederti di fare il mio film?”. “Vengo subito”. Così mi sono ritrovato coinvolto nell’avventura di 8½ ».

Mostra fotografica Marcello Mastroianni Ritrovato – a cura di Antonio Maraldi ©

La mostra, curata da Antonio Maraldi, sarà aperta allo Spazio Linzi di Spilimbergo fino al 23 giugno, tutti i giorni dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 16.00 alle 19.00.

Sempre sul fronte delle mostre, domenica 2 giugno alle ore 12.00, presso la sede del Confartigianato di Spilimbergo, sarà inaugurata quella su Elio Ciol, famoso fotografo friuliano, dal titolo Elio Ciol, “Gli ultimi” e la fotografia come rispecchiamento identitario. Le immagini scattate sul set del film Gli ultimi (1963), affresco della vita dei contadini del Friuli negli anni 1930, sono da considerarsi una documentazione imprescindibile della fotografia di scena nel campo del cinema italiano. La mostra, a cura di Stefano Ciol, in collaborazione con Confartigianato Pordenone, CATA e Cinemazero sarà aperta fino al 23 giugno, dal lunedì al venerdì dalle 8.00 alle 13.00.

A raccontare il rapporto tra cinema e cucina, infine, la mostra fotografica Cinema italiano tra tavola e cucina che si propone di far vedere come il cinema di casa nostra abbia raccontato, in questo scorcio di nuovo secolo, ciò che succede attorno alla tavola e ai suoi commensali. Le foto in mostra, realizzate dai fotografi di cinema delle ultime generazioni, provengono dall’archivio di Cliciak, il concorso nazionale per fotografi di scena organizzato dal Centro Cinema Città di Cesena dal 1998. A ospitare la mostra a Spilimbergo, aperta durante il festival, una serie di locali, ristoranti e osterie cittadine. La mostra è curata da Antonio Maraldi e presentata in collaborazione con il Centro Cinema Città di Cesena e Associazione Nuovo Corso. La mostra è aperta dal 2 al 23 giugno, tutti i giorni dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 16.00 alle 19.00.

Mostra fotografica Cinema italiano tra tavola e cucina, a cura di Antonio Maraldi ©
Mostra fotografica Cinema italiano tra tavola e cucina – a cura di Antonio Maraldi ©

Le Giornate della Luce sono organizzate dall’Associazione Culturale Il Circolo di Spilimbergo e nel 2023 hanno avuto il sostegno di MiC, Regione Autonoma Friuli-Venezia GiuliaCittà di Spilimbergo, Fondazione Friuli, Banca 360 FVG.

Immagini Storyfinders – immagine in evidenza Mostra fotografica Marcello Mastroianni Ritrovato, a cura di Antonio Maraldi ©

Pace subito! Parliamone in classe

Pace subito! Parliamone in classe

 Inoltro in maniera convinta questa proposta del Gruppo Nazionale Ricerca Educazione alla Pace e alla Nonviolenza del Movimento di Cooperazione Educativa alla quale aderisco, contribuisco con un lavoro svolto in classe ed invito a partecipare.

 PER I DOCENTI DELLE SCUOLE SECONDARIE

Cari e care insegnanti, il rischio che le guerre attuali, oltre a non cessare, divampino in guerre ancora più tremende e globali è molto alto e crediamo debba coinvolgere tutti i giovani nella riflessione. Papa Francesco è l’unico leader mondiale che da tempo confida nell’impegno diretto dei giovani e parla di terza guerra mondiale strisciante.

Crediamo che attualmente non ci sia tema migliore da affrontare nelle scuole se non questo e sarebbe un’attività didattica molto utile e pertinente per la crescita e la maturazione dei ragazzi e delle ragazze. Vi invitiamo a dedicare del tempo ad ascoltare il pensiero dei vostri studenti e delle vostre studentesse sulla situazione attuale e sulle proposte che, siamo certi, saprebbero trovare per provare a invertire la tendenza a fare guerre ogni qualvolta si presenti un conflitto tra le nazioni.

Siamo certi che loro e voi insegnanti sapreste farlo nel rispetto delle ragioni e delle priorità dei diversi contendenti. Potreste leggere nelle classi il nostro Appello a cessare il fuoco subito e discuterne (in allegato Appello per il cessate il fuoco di Europe for Peace Piacenza a cui aderisce il MCE e un breve video dei ragazzi di un liceo di Parma).

Altrimenti parlare di Educazione civica a scuola non ha senso, come non avrebbero senso gli articoli approvati nel 1989 nella Dichiarazione dei Diritti dei Bambini e dell’Infanzia e quelli della Costituzione Italiana, dove si dice che anche i bambini e i ragazzi hanno il diritto di esprimersi su tutte le questioni che li riguardano. Con fiducia e speranza contiamo che tanti insegnanti si attivino in questo senso.

PER I DOCENTI DELLA SCUOLA PRIMARIA

Care maestre e cari maestri, sappiamo quanto vi stiano a cuore tutti i bambini e le bambine che quotidianamente accogliete a scuola. Pensiamo che in questo momento occorra farsi carico delle domande che alunni e alunne si fanno e cercare di aiutarli ad esprimere il loro disagio.

Per questo vi proponiamo di far raccontare liberamente ai vostri alunni e alle vostre alunne il loro vissuto ponendogli una semplice domanda: “È importante fermare le guerre? Perché?”

I bambini e le bambine potrebbero esprimersi attraverso un breve scritto, un disegno, un video o altro, sia in forma individuale che collettiva. Chi vuole potrà inviarci il materiale a: educationpaix@mce-fimem.it

CIÒ CHE PREVEDE LA LEGGE PER IL DIRITTO DI BAMBINE/I E RAGAZZI/E AD ESPRIMERSI

Convenzione Onu

La Convenzione Onu è stata adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 20 novembre del 1989.

Sono ben 193 i Paesi che hanno adottato questo strumento internazionale (ad eccezione di Somalia e Stati Uniti). L’Italia ha adottato la Convenzione nel 1991 con la legge n. 176.

La Convenzione si compone di 54 articoli. I primi 41 contengono l’elenco dei diritti e delle libertà riconosciuti ai bambini/e e ai ragazzi/e fino al raggiungimento della maggiore età; gli articoli dal 42 in poi individuano gli obblighi degli Stati nel dare attuazione e garantire l’esercizio e il rispetto dei diritti in essa contenuti.

L’articolo 12 dice che bambini e ragazzi hanno diritto a esprimere la loro opinione su quello che interessa o riguarda loro e che gli adulti hanno il dovere di prendere in considerazione le loro idee.

Dice che hanno diritto di pensare quello che vogliono, in tutta libertà. E che hanno diritto di esprimersi tramite Internet o la stampa, attraverso disegni o con ogni altro mezzo a loro scelta. E anche in questo lo Stato deve aiutarli, non ostacolarli o censurarli e metterli nella condizione di potersi esprimere liberamente nel rispetto della libertà di tutti.

Articolo 13

  1. Il fanciullo ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di ricercare, di ricevere e di divulgare informazioni ed idee di ogni specie, indipendentemente dalle frontiere, sotto forma orale, scritta, stampata o artistica, o con ogni altro mezzo a scelta del fanciullo.

Articolo 14

  1. Gli Stati Parti rispettano il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione.

Costituzione italiana

Articolo 21

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.

 

Appello a cessare il fuoco subito

Scarica e stampa il pdf:
Appello Pace subito

 

Video dei ragazzi e delle ragazze di un Liceo di Parma

Per leggere gli articoli di Mauro Presini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Parole e figure / Issa Watanabe vince il Premio Andersen 2024 “Miglior libro senza parole”

Premio Andersen 2024 “Miglior libro senza parole” a Issa Watanabe, per “Kintsugi”, edito da Logos edizioni. Un libro che parla di bellezza nei momenti bui

Il “Kintsugi” è un’antica arte o pratica giapponese che consiste nel riparare il vasellame rotto riunendo i cocci con un collante naturale misto a metalli preziosi (solitamente dell’oro liquido): il materiale prezioso funziona da collante per rimettere e tenere insieme i cocci, i frammenti dell’oggetto che si è spaccato. Riparare quanto è rotto, perché poi sia meglio di prima oltre che unico.

A questa meravigliosa tradizione è dedicato l’omonimo albo illustrato, silent, di Issa Watanabe, già vincitore del Premio Bologna Ragazzi Award categoria “fiction” 2024 e oggi Premio Andersen 2024 “Miglior libro senza parole”, per l’affascinante e rarefatta grazia di un racconto sospeso nel tempo e nello spazio. Per una metafora potente e al tempo stesso delicata sulla necessità di affrontare le difficoltà della vita. Per un albo dalle molteplici possibilità di interpretazione e lettura delle figure.”

Un albo che invita ad accogliere la pienezza della vita anche nei momenti più bui.

È l’ora del tè. Sfondo nero pece. Un coniglio e un uccellino rosso siedono a un lungo tavolo da cui spuntano rami verdi. Appesi a essi, alcuni oggetti di uso quotidiano, come una tazzina, una scaletta, uno specchio, una lattiera, una bottiglia, una valigia, un carretto, un piatto, un libro, una chiave, un cappello, una conchiglia o una scarpa.

All’improvviso i colori dell’uccellino cominciano a sbiadire, così come la sedia su cui è appollaiato. Entrambi diventano bianchi. La tazzina si rompe. E poi anche il tavolo si rovescia, mandando in frantumi tutto ciò che sosteneva. L’uccellino vola via, tirando con sé la tovaglia bianca. Tutto va all’aria. Sgomento, il coniglio si lancia all’inseguimento ma senza successo. Inciampa e cade. Il suo amico ormai è lontano e non lo vedrà più.

Non gli resta allora che partire, con sempre in mano un ramoscello: sarà un viaggio lungo, faticoso e complesso, fra acque, coralli e ghiacci, un percorso irto e difficile alla ricerca di consolazione e speranza in un mondo dove tutto sembra sgretolarsi.

Riuscirà a trovarle?

Issa Watanabe, che dedica l’albo alla figlia Mae, si addentra nell’animo umano, abbracciando una dimensione intima.

Per fare ciò, come si diceva, l’illustratrice si ispira all’arte del “Kintsugi”: l’oggetto riparato non torna come prima ma acquista nuova vita: le imperfezioni lo arricchiscono rendendolo unico. La sua bellezza è imperfetta, incompleta. È ciò che accade a ognuno di noi. Le incertezze e i dolori fanno parte della vita e, una volta che impariamo a conviverci, ci rendono ciò che siamo: individui splendidi e irripetibili. Insostituibili.

Ancora una volta, le illustrazioni – che riportano alla mente i dipinti di Henri Rousseau –spiccano su uno sfondo nero che accentua il simbolismo insito nell’uso del bianco e del colore e avvolge il lettore nella sua densa atmosfera.

La storia lieve e immediata può essere esplorata su più livelli, rendendola fruibile a ogni età.

Un racconto per affrontare i momenti difficili che ha la forza di una visione e la serenità di una meditazione.

“Speranza” è la cosa con le piume che si posa nell’anima e canta l’aria senza le parole e non smette – proprio mai. E si sente – dolcissima – nel vento e dev’essere furiosa la tormenta per riuscire a intimorire l’uccellino che ha riscaldato tanti. L’ho udito nella landa più fredda e sul mare più sconosciuto eppure, mai, nella disperazione ha chiesto da parte mia – una briciola”. Emily Dickinson

 

Issa Watanabe è nata a Lima nel 1980. Cresciuta in una famiglia che le ha trasmesso l’amore per l’arte e la letteratura (la madre era illustratrice e il padre poeta), ha studiato lettere alla Universidad Católica di Lima prima di trasferirsi a Palma di Maiorca per frequentare corsi di illustrazione all’Accademia di Belle Arti. Ha sviluppato e diretto diversi progetti per promuovere l’integrazione sociale attraverso l’arte. In particolare, il progetto “Encuentro con la Mirada”, realizzato in collaborazione con il fotografo Rif Sphani e il Museo d’arte contemporanea di Maiorca Es Baluard, ha ottenuto nel 2012 il premio Obra Social da La Caixa Forum. Per il suo lavoro artistico, Watanabe è stata selezionata dalla Bologna Children’s Book Fair nel 2018 e nel 2020 e da Ilustrarte, nel 2021. Nel 2020, ha ricevuto anche il Gran Premio della Giuria alla BIBF Ananas International Illustration Exhibition di Pechino. Nel 2018 è stata nominata ambasciatrice della linea professionale di Faber Castell. Le sue illustrazioni sono state esposte in Spagna, Italia, Giappone, Corea, Cina, Stati Uniti, Francia, Messico, Brasile, Ecuador, Colombia, Cile e Perù e sono incluse nella mostra “Speechless: The Art in the Wordless Picture Books” dell’Eric Carle Museum of Picture Book Art in Massachusets.

Issa Watanabe, Kintsugi, Logos edizioni, Modena, Collana ‘Gli albi della Ciopi’, 2023, 48 p.

 

 

Addio a Giovanna Marini, straordinaria cantastorie combattente

Ci ha lasciato Giovanna Marini, straordinaria cantastorie combattente

Redazione di Patria Indipendente- Periodico dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia

Aveva 87 anni. Patria con Chiara Ferrari l’aveva incontrata qualche tempo fa nella sua casa ai Castelli romani. Il racconto di una vita tra musica, ricerca, impegno civile, le collaborazioni con Pasolini, Calvino, Dario Fo, Francesco De Gregori. E la Scuola Popolare di Testaccio: “Era parte della lotta antifascista che arrivava dalla lotta di Liberazione. I giovani stranieri quando sentono noi italiani raccontare i nostri canti, subito si emozionano, perché non hanno questo patrimonio. L’Italia si deve ancora ricostruire. E questi canti hanno una funzione tuttora rilevante”

Addio a Giovanna Marini

Se ne è andata ieri sera, 8 maggio, a 87 anni a Roma, dove era nata il 19 gennaio 1937. Patria con Chiara Ferrari l’aveva incontrata qualche anno fa nella sua casa ai Castelli romani.

Figlia d’arte: «Venivo da una famiglia di quattro generazioni di musicisti: padri, madri, zie, zii. Si parlava solo di musica. Io e i miei fratelli ci sentivamo diversi in mezzo agli altri, ci comportavamo in modo differente, perché venivamo da un mondo altro». Studi classici importanti anche all’estero, in Inghilterra, e le prime scelte coraggiose: «Quando decisi di abbandonare il pianoforte per la chitarra è stata una tragedia per la mia famiglia. È uno strumento minore, uno strumento da posteggiatori, mi dicevano».

Paolo Pietrangeli al centro, con Francesco Guccini e Giovanna Marini

Poi il Folkstudio, locale capitolino mito della nuova musica popolare, dove si esibiva con Bach, e i viaggi a Milano  i viaggi in America. Così arriva alla sua rivoluzione: «All’inizio io suonavo Bach al Folkstudio, non avevo canti popolari – aveva precisato Giovanna –. Poi mi hanno regalato un libro, me lo sono studiato e ho cominciato a trafficare sulle ballate piemontesi. Un giorno si è presentato Roberto Leydi perché al Folkstudio doveva arrivare Pete Seeger, così io venni coinvolta per tradurre la sua intervista. Mi chiese di andare a Milano per cantare con il Nuovo Canzoniere Italiano. Andai e in una sera conobbi Ivan della Mea, Paolo Ciarchi, Giovanna Daffini, Sandra Mantovani, Fausto Amodei. Pensai subito che fosse un gruppo di persone speciali, di estrema intelligenza: Gianni Bosio che parlava come un libro stampato, e poi Luciano della Mea, Michele Straniero, i teorici. Ero colpitissima da tutto ciò. Un mondo di cultura, di storia, di intelligenza, era lì alla Casa di Cultura di Milano. Era un movimento grandioso».

E raccontando a Chiara Ferrari aveva proseguito: «La qualità, comunque, che mi colpì di tutta questa gente era la grandissima umanità, qualcosa che nel mondo della musica classica non avevo mai trovato. La musica classica è fatta di individualismo, mentre io sono interessata al genere umano, quasi più che al suono. Alla fine sono tornata nel piattume romano e ho cominciato a inventare canti popolari perché pensavo fosse così che si faceva: io sono popolo e allora faccio un canto popolare. Naturalmente il primo che scrissi partiva dall’arpeggio di re minore e un esperto capiva subito che non era affatto un canto popolare. Ma a quell’epoca non si era ancora esaminato tanto quel genere per comprendere come la musica potesse accompagnare. È stato comunque molto interessante per me e piano piano mi sono fatta una cultura da autodidatta, anche perché all’epoca non si studiava questo materiale. Poi, lavorando con Leydi, Bosio, Straniero, ho imparato tantissime cose».

Più tardi la Scuola di musica popolare di Testaccio, fondata nel 1975, frutto di una scelta: «In Italia negli anni Cinquanta-Sessanta ci fu un movimento enorme attorno alla canzone popolare, un movimento partito dai grandi intellettuali. Cesare Pavese, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini erano uomini di cultura, antifascisti legati a un’idea politica, una fede politica vera. C’era da vincere la guerra, da buttare fuori i tedeschi, bisognava raccogliere tutte le forze possibili. Quegli intellettuali erano rappresentanti eroici per noi cantautori. Da lì, infatti, da quel mondo, da quelle loro parole, dalle loro letture, siamo tutti provenuti».

Sul palco del 25 aprile 2023 a Roma

Il rapporto con personalità quali Gianni Bosio, Roberto Leydi, Emilio Jona che aveva raccolto per primo i canti popolari, seguito da Michele Straniero. E piano piano quel lavoro era entrato nell’interesse degli italiani, ricordava Marini.  «Un lavoro molto legato al fatto sociale, radicato nella popolazione, sentito dalla popolazione come parte di una lotta. Contro la violenza e la sopraffazione del nazifascismo. Negli altri Paesi questo non c’è stato. I giovani stranieri quando sentono noi italiani raccontare i nostri canti, subito si emozionano, perché non hanno questo patrimonio. (…) L’Italia si deve ancora ricostruire. E questi canti hanno una funzione tuttora rilevante».

Addio Giovanna Marini, la tua voce e la tua chitarra ci hanno aiutato tanto a crescere, capire e lottare.

Qui per leggere l’intervista realizzata da Chiara Ferrari e ascoltare i brani.

Parole a Capo
Elisa Ruotolo: Alcune liriche da “Alveare”

Lasciate un angolo incolto, perché almeno lì possano nascere e crescere anche le erbe e i fiori selvatici.
(San Francesco d’Assisi)

 

INVERNO

Ogni voce è perduta e dagli occhi non arriva
grazia. Inospitale, il gelo ci fa dormire e ottunde
la profezia del verde. Tutto cade dall’alto
la pioggia lava, poi la neve imbianca
e fa di noi soldati che obbediscono contro cuore
alla trincea e già raccontare non sanno
la propria memoria.
Mentre l’inverno apparecchia sventure alle linfe
impariamo una nuova preghiera
e il congedo dai chiodi dell’estate.
La morchia della terra mescolata all’umore
l’innesto del sonno sul moto mercuriale dei corpi,
la breve paga del riposo, ci annodano in un torpore
ingordo, che distanzia ogni amore di veglia.
Il glomere pulsa di fiamma e protezione
nel suo miracolo un delirio senza tregua
– ventre nero, dubbio di vita, antro in cui si scende
da cavatori in cerca d’un rimedio
alla stagione.
I campi sono nudi e i fiori, nel bavaglio del freddo
non chiamano da tempo.
Ogni promessa è rimandata e persino il cielo
– sempre fermo
persino lui ci lascia e va lontano, quasi crudele
va a cercare altrove, in altri deserti
la sua dolcezza.
È inverno, e lui sa farci piccole davvero
mentre la resurrezione è remota,
irreale
quanto la primavera.

 

L’APICOLTORE

Il buio è madre
tutto accade in un ventre.
La luce poi lo insidia
diventa così tanta
da chiudere gli occhi.
Sotto le palpebre restano scintille
ronzanti come sciami.
Tu puoi lottare per tenerla fuori
ma è luce che t’insegue
ovunque
più invadente dell’erba
a primavera, più sfrontata dell’ozio
che divora il gesto,
più assidua del malanno
nel tentare la ferita.
E quando penetra nell’alveare
imbratta il nero
lo trafigge.
Carezza un brulichio di affanni
una fatica che brucia
come sale.
Lo sentite?
Sentite anche voi là dentro
il rumore delle vite?
Ognuna che lavora, vuole, rinuncia,
edifica e distrugge
uccide
e poi alleva.
In questa meccanica non hanno bisogno
di me ed è la mia pena.
Pur non sorvegliando
so che quel lavoro continuerebbe
– come il desiderio a spingere
la rinuncia a incrudelire
la distruzione a fare danni fino a patteggiare
con la pietra che cresce.
È la morte ad accudirle
nella culla, e poi la vita le distenderà
nell’asciutto nido d’una cassa.
Mi avvicino senza essere visto
con la cautela di chi ha paura.
Di me hanno un’idea incerta
sono per loro una specie di infinito
che minaccia
– un estraneo
l’orma di un ordine primario
la possibilità di non discendere dal niente
e non doverci tornare
alla fine.
Amarli? Di loro ho bisogno
o non sarei
– come non esiste fondo senza mare
né figlio senza madre
o grano senza un seme
divorato dalla terra.
Il pastore può forse amare
la moltitudine che si dà ciecamente
al suo governo?
Non è forse dominato dal ritmo
del branco, dal belato che comanda
di restare sulla pietra a sorvegliare,
a contare il patrimonio in zecche e lana,
a vegliare quell’odore di stalla?
Il pastore non ama
ma calcola, pretende,
teme la disgrazia della perdita
e nel suo buio invidia
chi ha giorni fatti di stanze
e di casa.
Come lui lo è del gregge
io sono la creatura dell’alveare
che ogni giorno fa di me l’apicoltore,
il dio d’un nettare che sgorga
non in obbedienza d’un volere
ma in soddisfazione d’una necessità.
Sono imperfetto e fragile
e come gli dei di sempre
annodo alla terra il mio bisogno.
Resto lontano, al riparo
dall’assalto – che non venga a toccarmi
il veleno dello sciame
turbato dalla peste della mia fame.
Dentro è caldo di folla e buio
la mia onnipotenza invece sta nel chiaro
risponde al nome che meno desidero
sa d’una eternità destinata a finire
mentre loro – i vivi dell’alveare
si rinnovano.
Ammassati in un inferno ridotto in scala
pulsano d’un calore che mi esclude,
che osservo senza comprendere La Città del miele
restando incompreso.
Il rischio di provarci, di ferirsi
disgusta ogni voglia
– il mio sapore non sazia
non ho miele da dare, io.

 

VOCI DALL’ALVEARE
ULTIMO STADIO DI SVILUPPO

La Pupa
Quale volto ha la vita? Quale la morte?
E dove collocare il fondale più basso?
Ho troppe domande
in questa notte di voci in cui
non imparo a dormire eppure sogno,
e divento.
Vado avanti senza un luogo
mentre cresco e forzo la poca pelle che resta
contro il mondo.
Infanzia è stare fermi a nutrirsi – è attesa,
fame di tutto
il malinteso di un corpo che vibra
inascoltato, in una cella di limiti
e occasioni.
Uscire dalla culla sarà un andare per briciole
e cimiteri di rami che la vita – di machete
avrà già sfrondato.
Un educare la voce a fare
da lingua madre.
Sono molle contro il ferro del fuori
sono sinistra nel gioco del possibile
che mi rende inaffidabile
alla forma.
Cresco nel desiderio e nella perversione
di amare tutto – il dato e il negato.
Ma alla fine mi toccherà una vita sola
non un andito secondario per fuggirla
o un abaco puntuale
nella conta dei giorni.
Dureranno o sfrideranno in fretta?
Batto contro il diaframma che mi tiene in disparte
e grido da questa infanzia di cautele
da questa cella che sa tutto di me
e io non indovino.
Cieca e bambina accumulo presagi per lo svago
quando arriverà a toccarmi.
Eccomi
rompo il guscio, m’insinuo nel taglio di vita
umida e in paura
mi guardo dall’alto degli occhi
e non capisco
cosa sarò e se dio saprà vedermi.
Nasco, e questa enormità non pesa niente,
questa solennità modesta
non fa rumore.
Sono qui
tra tanti
e non importa a nessuno.

 

ELISA RUOTOLO Scrittrice, poetessa è nata a Santa Maria a Vico (Ce), dove vive. Esordisce nel 2010 con la raccolta di racconti pubblicata da nottetempo Ho rubato la pioggia, Premio Renato Fucini e finalista al Premio Carlo Cocito. Il suo primo romanzo Ovunque, proteggici – uscito per nottetempo nel 2014 e riproposto da Feltrinelli nel 2021 – è finalista al Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane e Selezione Premio Strega 2014. È del 2018 il suo primo testo per ragazzi intitolato Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi, il dono della vita alle parole (edizioni RueBallu) cui fanno seguito, nel 2019, la curatela del volume Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio di Antonia Pozzi (Edizioni Interno Poesia) e la pubblicazione della raccolta poetica Corpo di pane (nottetempo). Il suo secondo romanzo, Quel luogo a me proibito (Feltrinelli, 2021) è finalista al Premio Rapallo e al Premio Bergamo ed è tradotto in Francia dall’editore Cambourakis. Nel febbraio 2023 con l’Editore Bompiani pubblica Il lungo inverno di Ugo Singer (finalista al Premio Campiello junior). Il suo secondo testo poetico è Alveare (Crocetti, 2023).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

Diario in pubblico /
Dante e la scuola

Diario in pubblico. Dante e la scuola

Da dantista che negli anni passati ha insegnato il verbo del poeta all’Università di Firenze, dove detenevo la titolarità dell’insegnamento, resto senza parole a leggere ciò che è accaduto presso una scuola di Treviso, dove la docente di lettere, accogliendo una richiesta della famiglia di due studenti mussulmani, li ha esentati dallo studio del poeta sostituendolo con Boccaccio.

La follia della richiesta e del permesso si lega con la miserabilità di una visione così pericolosa da richiedere un commento che in tempi normali avrebbe dovuto essere niente altro che un manifesto contro la indocta ignorantia che flagella gli stessi dispensatori di cultura, ma che nel caso odierno si rivela un pericoloso strumento della deriva politico-culturale a cui stiamo approdando.

Si parta dunque da una premessa non scontata. Che significa insegnare i classici e come va inteso questo insegnamento? Nella storia del secolo breve molto si è discusso sulla necessità di far entrare lo studio dei classici come modo di capire la Storia e porre il discente nella possibilità di comprenderne l’evoluzione e il conseguente magistero. A dispetto della renitenza tipicamente giovanile (ma non solo) a porvisi a confronto. Eppure, il risultato fu soddisfacente.

Per quello che riguarda la mia esperienza, indimenticabili furono gli anni in cui Roberto Benigni ed io collaborammo nel proporre lo studio del Poeta. Roberto attirava folle entusiaste in piazza Santa Croce, poi la palla passava a me, che esaminavo, usando lo strumento della filologia e della storia della letteratura. Veniva poi affittato un teatro per contenere gli studenti che dovevano passare gli esami, i quali erano di diversissime nazioni, di estrazioni cosmopolite, di culture eterogenee.

Nel caso di Treviso colpisce la totale mancanza di prospettiva professionale della docente che riflette ciò che da sempre è stato il più grave handicap dell’insegnamento quello che ho chiamato ignoranza storica. E qui si apre uno dei problemi più spinosi, a cui ho dedicato molta parte del mio percorso culturale, cioè la pericolosità dei metodi dell’Accademia applicati direttamente al contesto storico-politico.

Mi spiego. Io deus ex machina, cioè professore di ruolo, scelgo i miei collaboratori non solo in base alle loro capacità, ma come riflesso della mia visione culturale e a chi trasgredisce l’ordine “peste gli colga”!

Nel caso della scuola di Treviso, sembra quasi che lo smarrimento attestato dalla insegnante sia legato a quella deficienza di visione che Michele Serra nella sua Amaca del 26 maggio così individua: “La cultura serve a contestualizzare la storia e l’arte, collocando ogni evento e ogni opera nella sua epoca”. Una posizione condivisa anche dall’intervento di Vittorio Sgarbi nella puntata del 27 maggio di Quarta Repubblica condotta da Nicola Porro.

Qui si dovrebbe aprire un a riflessione molto più coinvolgente e necessaria e che riguarda lo stato mai così basso raggiunto dalla scuola pubblica, che sopravvive miseramente tra mancanza di fondi, che dovrebbero consentire un migliore funzionamento di tutti i suoi organi. Altro che fuga in altri luoghi che garantiscono una occupazione migliore!

La vergogna che la politica di tutti gli schieramenti non sa o non vuole (e questo è più grave) sanare.

Alla fine del mio impegno culturale è una colpa che sebbene incolpevole mi grava sulle spalle.

Cover: Domenico di Michelino, Dante con in mano la Divina Commedia, 1465 – su licenza Wikimedia Commons

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Daniele Lugli, idee, lotte, passione civile: “La difesa di cui abbiamo bisogno”

Daniele Lugli, idee, lotte, passione civile: “La difesa di cui abbiamo bisogno”

Ricorre in questi giorni l’anniversario della morte improvvisa dell’amico Daniele Lugli. Ripresentiamo qui il testo integrale di una sua lunga intervista realizzata da Dalia Bighinati  per Telestense e trascritta da Elena Buccoliero. Ai lettori raccomandiamo anche la lettura dei numerosi articoli ed interventi di Daniele apparsi su Periscopio e presenti nel nostro archivio.[vedi qui]
La redazione di Periscopio

La difesa di cui abbiamo bisogno – I parte

Nella primavera 2015 Daniele Lugli è stato intervistato da Dalia Bighinati, giornalista di Telestense, tv locale di Ferrara. La conversazione prende spunto dalla campagna “Un’altra difesa è possibile” che allora aveva in corso la prima raccolta firme, per parlare più ampiamente di quale difesa ci sia necessaria a livello internazionale e non solo. Nell’anniversario della scomparsa di Daniele, riprendiamo i passaggi essenziali di quell’incontro.
(Elena Buccoliero)

“I conflitti anche estremi che ormai lambiscono l’Europa richiedono, proprio per la loro complessità, di non essere affrontati con la soluzione militare. Una convinzione, che non è solo del MN. Alla campagna “Un’altra difesa è possibile” hanno aderito oltre duecento associazioni, alcune piccole come il Movimento Nonviolento, altre di dimensioni ben maggiori come Cgil, Fiom, Lega Coop, Acli, Agesci…  Associazioni di matrici differenti che hanno trovato un punto di convinzione comune. Mai si è mostrato che la soluzione militare sia idonea ad affrontare i conflitti, di solito serve a prepararne degli altri, o ad aggravare quelli esistenti. Ma proprio la complessità dei conflitti, lo scontro di culture differenti, di impostazioni diverse, la difficoltà persino di comunicare su basi comuni impone di avere altri strumenti di contatto e di difesa. Impone di trovare delle possibilità. Prima che i conflitti giungono al loro estremo, intanto, interventi che valgano o a mitigarli o a fargli prendere un’altra direzione”.

La diplomazia dovrebbe essere deputata a questo.

“Certamente, ma vediamo che anche la diplomazia degli stati incontra forti limiti, proprio per i forti interessi, anche spesso distorsivi, che gli stati portano. Mentre da un lato si afferma di voler combattere una certa situazione di ingiustizia all’interno di un paese, e questo diventa motivo di un intervento, contemporaneamente ci sono interessi potenti, magari di carattere economico, che predominano. Abbiamo visto invece che diplomazie dal basso, magari sostenute non dal piccolo Movimento Nonviolento ma dalla Comunità di Sant’Egidio, hanno avuto un effetto che interventi di carattere statuale non riuscivano ad avere”.

Nei conflitti, indipendentemente dagli interessi dichiarati, religiosi, culturali… ci sono sempre anche interessi ulteriori, per esempio quelli della lobby delle armi. Di fronte a questo, scegliere la difesa non armata e nonviolenta non è come andare contro un colosso con uno stuzzicadenti?

“Certo, la sproporzione è evidente. Ma proprio per quello si è pensato a dare strumenti di carattere istituzionale a questa intuizione. Che ci sia questa necessità, è avvertito. Gli stessi militari più avveduti ce lo dicono. In un dibattito che ho avuto ormai anni fa a Viterbo con il generale Mini – un generale importante, che in Kossovo ha assunto ruolo decisivo, ed è credo l’unico generale non americano che ha comandato una divisione di carri armati americani, quindi aveva conoscenza sul terreno – lui stesso riconosceva, come altri, che ci sono cose che i militari non possono fare. Proprio perché hanno bombardato fino al giorno prima, non sono adatti, poi, a ricomporre. Perché bene o male i conflitti finiscono. E anche durante i conflitti, una presenza civile preparata, non improvvisata, non allo sbaraglio, è in grado di mitigarne gli effetti più pesanti”.

Quali sono i contenuti di questa campagna?

“La campagna consiste nell’idea di istituire un Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta, nel quale possano esprimersi capacità che hanno già avuto qualche terreno di traduzione, molto spesso basato solamente su un volontariato generoso. Stiamo parlando da un lato del servizio civile nelle sue dimensioni internazionali, ma anche e ulteriormente dei caschi bianchi, delle brigate per la pace, di formazioni di civili che sono intervenute nei conflitti. Persone che hanno fatto scelte anche estreme, nel collocarsi come scudi umani nei momenti in cui i conflitti erano aperti, però assumendo iniziative che hanno mostrato delle possibilità. Per esempio in Kossovo, ne conosciamo parecchie di queste esperienze. Hanno bisogno di avere un altro respiro, un’altra forza. Ecco, allora, i corpi civili di pace”.

Ci sono degli esempi in altri Paesi?

“Statuali no. Ci sono però degli esempi cospicui, per esempio in Germania, che forse per un lungo periodo, con i limiti che aveva rispetto al riarmo, ha sviluppato un’attenzione maggiore di quella che ha avuto il nostro Paese, e ha sviluppato interventi di una certa efficacia. Ma esempi ne abbiamo anche in Italia, con i caschi bianchi legati in particolare alla Papa Giovanni XXIII, un’esperienza che si è innestata anche su una parte del servizio civile. L’idea è quella che Langer nel ’95 aveva portato al Parlamento Europeo, perché quella a me sembra la sede giusta: istituire dei Corpi civili di pace in grado di intervenire anche fuori dai confini europei”.

Per non essere scambiati per dei pacifisti ingenui, che cosa lei si sente di dire in questo momento, rispetto al bisogno di difendersi dalla paura?

“Internamente, ora che il servizio miliare è stato come tale sospeso e c’è un servizio volontario, portiamo avanti l’idea che vi sia un servizio civile che si preoccupa di difendere l’ambiente, l’equilibrio idrogeologico… che difenda tutti noi da quello che davvero ci minaccia, come la disoccupazione, che oggi preoccupa almeno altrettanto quanto il pericolo esterno.

“Nelle relazioni internazionali si tratta di affiancare alla difesa militare un’altra possibilità di difesa, di intervento, di interlocuzione, sapendo che anche il nemico non è un monolite e che le possibilità passano – come si è visto nelle guerre passate – attraverso le conversioni, attraverso i mutamenti in positivo, attraverso dei punti di sbocco per cui non è vero che uno deve vincere tutto e l’altro deve perdere tutto ma si possono trovare dei punti di saldatura.

“E poi c’è il fatto di comprendere, credo, che è proprio di questa generazione il compito di tradurre quello che generazioni precedenti avevano avvertito come imprescindibile”.

Cioè?

“Nella nostra Costituzione, perché è scritto che l’Italia ripudia la guerra? Avevano scritto prima condanna, poi rinunzia, poi hanno trovato che ripudia era l’espressione più forte. E perché è scritto che la difesa dello stato è sacro dovere del cittadino, e dopo si parla del servizio militare obbligatorio? Originariamente veniva prima il comma sul servizio militare. L’inversione, per significare il fatto che la difesa è molto più del servizio militare obbligatorio, è dovuta a una richiesta di Aldo Moro, molto precisa e molto ben determinata. Così come è in Costituzione l’idea che l’esercito si conformi all’ordinamento democratico della Repubblica: è sempre il cittadino, nella sua pienezza e nella sua dignità, che difende se stesso e la sua comunità”.

La difesa di cui abbiamo bisogno – II parte

Nella prima parte dell’intervista raccolta nella primavera 2015 dalla giornalista Dalia Bighinati per Telestense, Daniele Lugli prendeva spunto dalla campagna “Un’altra difesa è possibile”, che allora era in pieno svolgimento, per parlare di corpi civili di pace e della necessità di costruire a livello internazionale forme non armate di prevenzione, mitigazione e ricomposizione dei conflitti.
Di seguito la seconda parte di quell’incontro, dedicata alle potenzialità e ai limiti della democrazia. La difficoltà, dice Daniele, è “avere il senso di quello che ci sta accadendo”.
(Elena Buccoliero)

In questi anni abbiamo sentito crescere la paura nei confronti dell’invasore, anche se è un invasore macilento che mette a repentaglio la propria vita per arrivare in Italia. Però questo è un tema dominante, insieme a venature fortissimamente razziste, e anche oggi i media lo favoriscono. Nei confronti di questa paura, il Movimento Nonviolento e gli altri movimenti dell’area, cosa argomentano?

Quando c’è la paura non c’è spazio per altro. Ed è vero che la paura come tale, quando c’è, bisogna prendere atto che c’è. Però è possibile, intanto, non farsene imprenditori, al contrario di alcune forze politiche, o di alcune forze che a fatica si possono chiamare culturali. E quindi comprendere il gioco molto sporco che si va facendo, su un elemento drammatico e però costante che è quello delle grandi migrazioni di massa che peraltro si volgono, al 90%, all’interno di questo terzo mondo in difficoltà, aumentandone le difficoltà. E si è visto anche una contrazione dell’immigrazione per quello che riguarda il nostro paese, collegata, ahimè, alla crisi economica. Persone che cercano un posto dove stare meglio molto spesso vedono l’Italia come un ponte per andare in Germania, in Danimarca, in Norvegia… paesi che hanno altre possibilità di occupazione, per cui il disagio nostro, quello di essere attraversati, è limitato rispetto al disagio delle persone che fanno questa scelta.

La difesa però innesca anche reazioni di tipo adrenalinico. Lei dice: va incanalata.

Esattamente. Per questo per noi è molto importante conoscere nel modo più approfondito e più preciso le situazioni per come si presentano. Non abbiamo nessun interesse a fare una rappresentazione irenica della realtà, vogliamo proprio vederci dentro. Non a caso sono i movimenti pacifisti ad avere studiato con più attenzione gli ultimi conflitti internazionali, e ad avere rilevato – questo è diventato ormai indiscutibile – che in ogni conflitto affrontato militarmente si è usciti peggio di come si era entrati. Gli stessi generali hanno detto: va bene, possiamo fare la guerra, ma ci dite per che cosa? E neanche si è capito verso quale direzione di pacificazione, di maggior giustizia, in qualche modo si andasse.

A Ferrara è venuto più volte Yadh Ben Achour, autorità militare e politica in Tunisia, colui che ha guidato una sorta di corte costituzionale per una transizione culturale e politica. Ha scritto un libro molto bello, “La tentazione democratica”. Questo ci dice che ci sono forze in quel mondo che vedono la democrazia come tentazione e come orizzonte. Il problema è, per noi, far vedere che la democrazia è in grado di mantenere le sue promesse. L’unica sua forza è proprio far vedere che nonostante le paure è in grado di mantenere le promesse che fa.

Però ha funzionato l’affermazione per cui la democrazia doveva essere esportata con gli eserciti.

Diciamolo semplicemente: è una cosa infame. Non è mai successo, e non potrà mai succedere. La democrazia deve essere vissuta quotidianamente. Anche nel nostro paese, nel momento in cui se ne avverte la fragilità, se ne avvertono i limiti, se ne avverte l’impotenza, non c’è niente che ce la imponga. Nonostante pensiamo in Europa di essere il cuore della democrazia.

Eppure le armi hanno sempre avuto il loro fascino, anche nei giochi dei bambini. Forse a scuola, nello studio della storia, non c’è abbastanza attenzione nel mantenere la memoria di quello che è stata la guerra. Dopo Auschwitz, altri genocidi sono avvenuti. Forse le nuove generazioni non sono abbastanza coscienti di quello che è accaduto.

Sì, però io credo che la difficoltà sia non solo quella di mantenere la memoria del passato, ma di avere il senso di quello che ci sta accadendo. Passaggi di disumanità che una situazione di pericolo, o come tale avvertito, rende generalizzati.

In questi anni abbiamo sentito crescere la paura nei confronti dell’invasore, anche se è un invasore macilento che mette a repentaglio la propria vita per arrivare in Italia. Però questo è un tema dominante, insieme a venature fortissimamente razziste, e anche oggi i media lo favoriscono. Nei confronti di questa paura, il Movimento Nonviolento e gli altri movimenti dell’area, cosa argomentano?

Quando c’è la paura non c’è spazio per altro. Ed è vero che la paura come tale, quando c’è, bisogna prendere atto che c’è. Però è possibile, intanto, non farsene imprenditori, al contrario di alcune forze politiche, o di alcune forze che a fatica si possono chiamare culturali. E quindi comprendere il gioco molto sporco che si va facendo, su un elemento drammatico e però costante che è quello delle grandi migrazioni di massa che peraltro si volgono, al 90%, all’interno di questo terzo mondo in difficoltà, aumentandone le difficoltà. E si è visto anche una contrazione dell’immigrazione per quello che riguarda il nostro paese, collegata, ahimè, alla crisi economica. Persone che cercano un posto dove stare meglio molto spesso vedono l’Italia come un ponte per andare in Germania, in Danimarca, in Norvegia… paesi che hanno altre possibilità di occupazione, per cui il disagio nostro, quello di essere attraversati, è limitato rispetto al disagio delle persone che fanno questa scelta.

La difesa però innesca anche reazioni di tipo adrenalinico. Lei dice: va incanalata.

Esattamente. Per questo per noi è molto importante conoscere nel modo più approfondito e più preciso le situazioni per come si presentano. Non abbiamo nessun interesse a fare una rappresentazione irenica della realtà, vogliamo proprio vederci dentro. Non a caso sono i movimenti pacifisti ad avere studiato con più attenzione gli ultimi conflitti internazionali, e ad avere rilevato – questo è diventato ormai indiscutibile – che in ogni conflitto affrontato militarmente si è usciti peggio di come si era entrati. Gli stessi generali hanno detto: va bene, possiamo fare la guerra, ma ci dite per che cosa? E neanche si è capito verso quale direzione di pacificazione, di maggior giustizia, in qualche modo si andasse.

A Ferrara è venuto più volte Yadh Ben Achour, autorità militare e politica in Tunisia, colui che ha guidato una sorta di corte costituzionale per una transizione culturale e politica. Ha scritto un libro molto bello, “La tentazione democratica”. Questo ci dice che ci sono forze in quel mondo che vedono la democrazia come tentazione e come orizzonte. Il problema è, per noi, far vedere che la democrazia è in grado di mantenere le sue promesse. L’unica sua forza è proprio far vedere che nonostante le paure è in grado di mantenere le promesse che fa.

Però ha funzionato l’affermazione per cui la democrazia doveva essere esportata con gli eserciti.

Diciamolo semplicemente: è una cosa infame. Non è mai successo, e non potrà mai succedere. La democrazia deve essere vissuta quotidianamente. Anche nel nostro paese, nel momento in cui se ne avverte la fragilità, se ne avvertono i limiti, se ne avverte l’impotenza, non c’è niente che ce la imponga. Nonostante pensiamo in Europa di essere il cuore della democrazia.

Eppure le armi hanno sempre avuto il loro fascino, anche nei giochi dei bambini. Forse a scuola, nello studio della storia, non c’è abbastanza attenzione nel mantenere la memoria di quello che è stata la guerra. Dopo Auschwitz, altri genocidi sono avvenuti. Forse le nuove generazioni non sono abbastanza coscienti di quello che è accaduto.

Sì, però io credo che la difficoltà sia non solo quella di mantenere la memoria del passato, ma di avere il senso di quello che ci sta accadendo. Passaggi di disumanità che una situazione di pericolo, o come tale avvertito, rende generalizzati.

La difesa di cui abbiamo bisogno – III parte

La nonviolenza può essere un criterio che orienta la buona amministrazione? Daniele Lugli ritiene di sì e lo spiega, facendo tesoro di molteplici esperienze: trent’anni di lavoro nell’Amministrazione Provinciale di Ferrara, tanta formazione ai dipendenti pubblici, due incarichi di assessore comunale e, dal 2008 al 2013, quello come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna, una figura che Daniele riassumeva nell’idea dell’uomo-ponte per ricostruire la fiducia e il dialogo interrotto tra i cittadini e la pubblica amministrazione.
Di questi argomenti Daniele Lugli parla nella primavera 2015, intervistato dalla tv locale della sua città, Telestense, in dialogo con la giornalista Dalia Bighinati. Su queste pagine, nelle settimane precedenti, abbiamo ripreso la prima parte di quella conversazione, dedicata alla campagna “Un’altra difesa è possibile” e ai corpi civili di pace, e la seconda parte, sulle potenzialità e i limiti della democrazia.
(Elena Buccoliero)

 Come presidente emerito del Movimento Nonviolento, accanto ai temi della pace e della nonviolenza, è sempre in prima linea quando si parla di lotta alla corruzione. Oppure, in positivo, di promozione della legalità. Fra violenza e diffusione di pratiche di illegalità ci sono delle relazioni?

Certamente. Va bene, quando parliamo di violenza noi pensiamo in genere alle sue manifestazioni estreme. Capitini diceva: scegliendo la nonviolenza io intanto ti dico che non ti ucciderò; io intanto ti dico che rispetto tutto quello che c’è, sono contento che ci sia, e ne voglio la libertà e ne voglio lo sviluppo – che è poi la definizione di nonviolenza che io prediligo. La corruzione, però, induce un elemento di incertezza, uno scadimento nelle relazioni tra le persone, oltre a essere poi veicolo della criminalità organizzata, che non scherza quando di violenza ha bisogno.

La corruzione si può intendere come versione soft della sopraffazione?

Non c’è dubbio. La corruzione è uno strumento attraverso il quale chi ha un potere economico, o comunque un potere di controllo nei confronti delle istituzioni democratiche, riesce a stravolgerne le regole. In questo senso è uno dei potentissimi elementi attraverso i quali una democrazia finisce nel discredito.

Quale può essere l’antidoto?

C’è bisogno di una trasparenza non fatta solo di carta. C’è bisogno di impadronirsi dei termini essenziali. Ho visto, ad esempio, fare bilanci ambientali con parametri complessi che un cittadino difficilmente può comprendere. Quando io ho visto portare via la ghiaia dalle cave, e entrare rifiuti, ho avuto chiaro che il nostro bilancio ambientale non poteva andare bene. Con questo voglio dire che tutti i discorsi sulla trasparenza e sul controllo delle amministrazioni devono essere portati alla capacità del cittadino. Occorre dare ai cittadini il filo per impadronirsi di questi temi, e che ciò avvenga con continuità. Nella mia piccola esperienza di Difensore civico regionale questo era uno dei temi che più mi impegnava. Il Difensore civico non è solo quello che solleva i ritardi della burocrazia – cosa utilissima e vera, certo – ma è colui che si impegna per costruire un ponte di fiducia tra amministratori e cittadini.

Da dove si può partire per fare questo?

Si parte da chi se la sente. Il problema è di avere, su questo, capacità, coerenza e continuità. Quante volte si sente dire che un sindaco che si era dichiarato contro la mafia risulta colluso!? Ma del resto i cittadini, che protestano contro la criminalità organizzata, se solo possono, cercano anche loro una strada di corruzione se questa può risultare conveniente.

Aldo Capitini nel ’44, appena liberata Perugia, la prima cosa che fa è istituire il Cos, il Centro di Orientamento Sociale, un luogo dove le persone si trovano due volte alla settimana, nel centro e in tutte le frazioni del comune di Perugia, e parlano insieme dei problemi che incontrano.

Oggi si direbbe che il web è salvifico perché mette in connessione persone anche molto distanti nella discussione su argomenti comuni.

Sì, ma non è sufficiente. È uno strumento importantissimo, ma il problema è come sempre il modo in cui gli strumenti si usano. E la rete non può sostituire il tempo dedicato all’ascolto. Spesso sui social troviamo dei monologhi in conflitto tra di loro e in una escalation continua, senza che ci sia nessun dialogo, nessuna discussione. “Discussione”, mi ha insegnato Capitini, è una cosa precisa. Vuol dire scuotere con forza. Scuotere che cosa? La tenuta degli argomenti che hai, quando li sottoponi al confronto con le posizioni dell’altro, e sei contento non quando vinci ma quando esci dalla discussione con argomenti migliori di quelli con cui ci sei entrato.

Per me, che venivo da una formazione avvocatesca, questa è stata un’acquisizione importante alla quale non riesco sempre a essere fedele. È stato capire che in una discussione devo uscire meglio di come ci sono entrato. Quando vedo che da un luogo, da un ruolo, esco più stupido e cattivo, vuol dire che è l’ora di smettere. E questo vale anche per l’uso dei social.

Tra le tecniche della nonviolenza c’è il sabotaggio. Oggi viene nominato anche a livello informatico, ad esempio nei confronti dell’Isis.

Certamente, c’è anche questo. E poi, per gli amici della nonviolenza, c’è tutto il campo della formazione nei confronti dei giovani. Chiediamoci perché l’Isis può attrarre, sia pure minoranze ristrette, ma giovani che sono cresciuti nel nostro paese, che ha infiniti difetti, ma certamente ha condizioni complessive di vita, e di rapporti e di relazioni, migliori di quelle che vengono prese a modello. Quindi proviamo a chiederci in quale modo efficace contrastare questa attrazione che i giovani sentono, dando loro la possibilità di fare qualcosa, qualcosa di decisivo, dall’interno della proposta che i nostri paesi imperfetti, ma con una solida Costituzione, possono offrire.

L’intervista integrale può essere vista su telestense  a questo link.