Nella vita sono impiegati, manager, avvocati. Poi salgono sul palco e sono comici, istrionici, sorprendentemente coinvolgenti. Sono gli attori della compagnia Teatro21 di Ferrara che sabato sera (21 aprile 2018) hanno portato in scena in sala Estense la loro versione della commedia francese “La cena dei cretini”.
La commedia è basata su un’opera teatrale portata in scena per tre anni a Parigi dal regista francese Francis Veber e poi approdata al cinema nel 1998, con il film scritto e diretto dallo stesso Veber che diventa un successo internazionale. Un’ironia basata su una serie di equivoci e di gaffe che si succedono con un ritmo incalzante portato avanti con dialoghi brillanti.
Protagonista è l’editore di successo Pierre Brochard, interpretato dal bravo e poliedrico Paolo Garbini. Ogni mercoledì sera il professionista della borghesia parigina organizza una cena con un gruppo di amici, dove ognuno degli invitati deve presentarsi accompagnato da una persona che può essere definita “un perfetto cretino”. E qui entra in scena l’attore Francesco Cositore, applauditissimo nel ruolo davvero esilarante di ‘cretino’, che via via trascina nel disastro tutte le situazioni e le relazioni che vengono a intrecciarsi nel salotto del fascinoso e sicuro di sè padrone di casa.
La comicità sta proprio in questa inversione sottile dei ruoli, che va espandendosi fino alla nemesi finale, dove il burlato finisce per far piazza pulita di tutte le burle, trascinando in difficoltà ognuno dei personaggi più scaltri e sgamati con una sorta di candore catastrofico.
Pierre ha infatti individuato la sua vittima in François Pignon, interpretato da Cositore, nel ruolo di contabile del ministero delle Finanze con la passione di realizzare modellini di monumenti famosi con i fiammiferi. Un inconveniente blocca in casa Pierre proprio la sera della cena e da lì inizia la sequela di incontri tra amici e familiari di passaggio nel suo salotto, che in una notte rivoluzionano tutti gli equilibri presenti, passati e futuri. Teatro stracolmo in sala Estense, con il pubblico che ha partecipato con grande coinvolgimento e applausi a tutto lo spettacolo. La messa in scena è documentata dalle belle fotografie di Valerio Pazzi. La regia è di Catia Gianisella, aiuto regia Alessandra Alberti, audio Alessandro De Luigi, scenografia di Valentino Guzzinati. (gio.m)
Varie sono state le reazioni al raid targato Usa-Francia-Gran Bretagna della notte tra venerdì 13 e sabato 14 aprile. Anche Ferrara ha visto qualcuno muoversi nella direzione della condanna. Così domenica 15 aprile, alle ore 16, ero lì in piazza municipale a seguire le dichiarazioni di chi si è schierato contro quest’azione.
Piccola premessa. Non posso approfondire qui, in poche righe, tutta la situazione siriana, ma due cose devono essere chiare: sì, sono state usate armi chimiche a Douma e no, non abbiamo la certezza che sia stato Assad, ma molte prove indirizzerebbero a lui la colpa, nonostante la strenua difesa da parte del governo russo. Altra cosa che sappiamo: la guerra in Siria è complessa, ci sono molti attori e sicuramente quello di venerdì non può essere chiamato un ‘bombardamento’ per tante ragioni. Se aggiungiamo che la Francia ha 4000 uomini impegnati in Mali e non ha quasi munizioni a disposizione, mentre la Gran Bretagna dopo la guerra in Iraq non ha fondi per iniziare qualsivoglia conflitto, capiamo che non è cominciata nessuna nuova guerra. Né, probabilmente, comincerà, perché non è negli interessi degli ‘attori’. La guerra civile siriana, infine, dura da ben sette anni e questo non è stato il primo bombardamento di forze occidentali in Siria, e nemmeno la prima volta che si sono usate armi chimiche. La prima volta sono state usate nel 2013: fu bombardata Damasco proprio da Assad, ma nessuno fece nulla.
Ma, lo ripeto, non voglio entrare nella questione siriana. Restiamo a Ferrara.
Domenica alcune sigle, tra le quali Potere al Popolo, Rifondazione Comunista, Partito Comunista Italiano, Usb, Comitato per l’Acqua pubblica, Emergency, Arcigay, Arcilesbiche e Anpi, hanno manifestato per dire il loro no alla guerra. Un’analisi delle parole dette non sarebbe giusta. Forse sono io a pretendere troppo da una discussione, forse il luogo non consono, ma limitare a degli slogan una situazione complessa come la Siria non credo sia corretto.
Avrei voluto sentir parlare un po’ di più dei motivi reali della guerra. Avrei voluto sentire parlare di ‘Pipeline’, ma anche di come il governo di Assad non sia tra i migliori al mondo e di quali prove a riguardo si abbiano. Avrei voluto sentire, al fianco alle critiche verso gli Usa, delle critiche altrettanto severe verso la Russia, la Turchia e lo stesso Iran. Avrei voluto che, visto che si condannava la guerra e si parlava di “movimento pacifista”, la discussione si fosse allargata a tutto il Medio Oriente. Avrei voluto sentir parlare delle armi italiane usate dai sauditi nello Yemen, della peggior crisi umanitaria secondo l’Onu in quest’ultimo paese. Avrei voluto sentire di come questa guerra nello Yemen sia stata fatta per punire l’Iran, di come sia cambiata la linea proprio sull’Iran con l’inserimento di Pompeo a segretario di Stato negli Stati Uniti.
Avrei voluto sentir parlare di commercio in nero di petrolio e del perché questo ‘bombardamento’ sia stato fatto di venerdì: forse proprio per non far avere crolli sul mercato azionario, soprattutto del greggio, e lasciare tre giorni per far ‘rielaborare’ la notizia e far aprire le borse senza sbalzi il lunedì successivo.
Avrei voluto, infine, sentire qualche voce condannare non solo la guerra, ma anche la disinformazione che rischia di trasformarci in tifosi di questa o quella fazione. Avrei voluto sentir parlare di Afrin e di come forse non ci sia stata la denunciata “pulizia etnica”. Avrei voluto, e qui la smetto, sentir parlare qualche siriano, o almeno qualcuno che in Siria, ultimamente, ci sia stato.
Oltre a sentire avrei voluto anche vedere. Vedere più gente. Avrei voluto vedere un pubblico più numeroso, partecipe, coinvolto. Avrei voluto tante, forse troppe cose, da una manifestazione che voleva solo, in fin dei conti, dire che la guerra è uno schifo e che alla fine, a pagarne le conseguenze, sono sempre le popolazioni civili inermi e indifese. E credo che una volta sentito questo, non ci sia stato più bisogno di nulla.
Disegni stilizzati e puliti, architetture riconoscibili, un’impaginazione dove il vuoto dello spazio bianco rende arioso il pieno di una folla di personaggi indaffarati, che a guardarli nel dettaglio rivelano mestieri, tic, abitudini e in molti casi anche precise identità di persone realmente esistenti o esistite, spaziando dall’umarèl al geometra locale per arrivare fino ad Ariosto e al compianto architetto Carlo Bassi.
Nelle opere artistiche e grafiche di Claudio Gualandi – un’attività decennale alle spalle per dare bellezza, eleganza e significato ad allestimenti, accessori di moda, prodotti commerciali, ma anche edifici cittadini che sotto i suoi teloni disegnati sono diventati temporanee sculture giganti – vale il principio contrario a quello del romanzo, dove di solito si garantisce che “Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale”. Gualandi i fatti li osserva, le persone le conosce e le cose le studia per poi trasporle con il tratto delle sue matite fini e appuntite di ironia e giocosità, come il guizzo ridente del suo sguardo.
Ora nelle sale in pieno centro storico ferrarese della galleria del liceo artistico Dosso Dossi (via Bersaglieri del Po 25, Ferrara) con il titolo ‘Claudio Gualandi, la mia Ferrara’ è in mostra un ampio campionario delle sue opere, illustrazioni e prodotti di comunicazione.
Nella presentazione di sabato scorso (7 aprile 2018) il critico d’arte Lucio Scardino ha sottolineato come “in questa sua mostra Gualandi non presenta solo i ‘quadri in libertà’ ambientati a Ferrara o vari luoghi d’Italia, dalla Lombardia alla Sicilia, ma anche le illustrazioni su commissione. Ci sono i teli parlanti per il restauro di edifici novecenteschi come è successo per la palazzina dell’ex Mof in corso Isonzo a Ferrara, pannelli e bozzetti che raccontano storie di aziende di alto artigianato, celebrazione di anniversari, promozione di attività di grande distribuzione e commercio”.
Un omaggio tutto particolare è riservato poi ai ragazzi che stanno studiando in quella scuola come, all’epoca, aveva scelto di fare lui trasgredendo le aspettative del padre che sperava di averlo come successore alle redini dell’azienda di famiglia. Dedicato a quelli che come lui l’arte la praticano, è la scelta di esporre insieme ad opere finite – come la borsa a secchiello di Felisi degna di una influencer a passeggio per le giornate della moda milanese – anche bozzetti ancora allo stadio progettuale.
Così avviene per il bellissimo, colorato e lungo pannello orizzontale, che crea come un grandangolo dilatato sulla città di Ferrara partendo dal ponte di ferro sul Po di Pontelagoscuro per percorrere le mura ed arrivare al parco urbano Bassani, alla distesa verde di piazza Ariostea e poi a Palazzo dei Diamanti, al Castello estense, al Duomo qui libero nella sua bellezza marmorea con in cielo tutto un popolo di volatili, aquiloni e mongolfiere e, in terra, di ciclisti, sbandieratori e turisti. Il collage di disegni, fotografie e fotocopie di cartoline ritagliate sono il regalo di chi fa il mestiere di comporre le immagini a quelli che a questo stanno dedicando i loro studi e le loro realizzazioni. “Perché non tutto si realizza al computer – racconta Linda Mazzoni, sua compagna di vita e di lavoro – ma nella maggior parte dei casi l’idea prende forma ancora in modo manuale”. (gio.m)
Nel fotoreportage di Luca Pasqualini una carrellata delle opere in mostra.
‘Claudio Gualandi, la mia Ferrara’, galleria del liceo artistico Dosso Dossi, via Bersaglieri del Po 25, Ferrara. Visitabile tutti i giorni ore 10.30-12.30 e 16-19 con ingresso libero.
Vincitore per sette volte del World Press Photo, uno dei più prestigiosi concorsi di fotogiornalismo mondiale organizzato con cadenza annuale dalla omonima fondazione che ha sede ad Amsterdam, Francesco Zizola è considerato uno dei maggiori fotoreporter contemporanei. Ospite del festival di fotografia ‘Riaperture’ (leggi QUI), in corso a Ferrara durante lo scorso fine settimana e in quello in arrivo, Zizola è stato protagonista domenica scorsa (8 aprile 2018) di un incontro pubblico sul palco dello spazio Grisù, in via Poledrelli a Ferrara, dove ha parlato del suo lavoro, sollecitato dalle domande del giornalista Stefano Lolli. A chiarire l’approccio che contraddistingue la fotografia di Zizola, ci riesce subito la considerazione di Lolli:
Io ti ho detto che le tue sono foto belle, ma tu mi hai corretto dicendo che non sono affatto belle, semmai buone.
“La foto bella – sottolinea Zizola – è quella che compiace il pubblico, ammicca a una realtà lontana e ne costruisce un’altra. Potrebbe essere bella la fotografia che dà corpo alla fantasia, all’immaginazione e alle capacità visionarie di un mondo interiore con poca attinenza coi fatti. Una foto, invece, che funziona da un punto di vista informativo, può essere buona, non bella; attraverso gli elementi che stanno dentro a questo rettangolo bidimensionale crea una sintesi tra la visione del fotografo e un primo grado di notizia. È buona una foto che riesci a leggere e la lettura di questo tipo di foto suggerisce il secondo grado di notizia, quello che trascende i fatti e ne fa un’icona di situazioni che gli esseri umani hanno vissuto e possono vivere. Questo credo che sia un buon servizio a un buon giornalismo.
Cosa serve per essere un buon fotografo?
La capacità di fare una buona fotografia non è scontata, perché riguarda anche lo spessore umano. Il giornalismo esiste perché, sin dagli albori, gli esseri umani avevano la necessità di sapere cose che andavano oltre a ciò che potevano raggiungere con i loro sensi. È un bisogno dettato essenzialmente dalla paura. I graffiti, nelle caverne degli uomini primitivi, erano istruzioni precise trasmesse ad altri esseri umani. Spiegavano cose pratiche – da dove arrivavano i bisonti e come si inclinava l’erba in una certa direzione – fornendo informazioni essenziali per la sopravvivenza. Non è la macchina fotografica che fa il fotografo, ma il contrario; è chi c’è dietro all’obiettivo a fare la differenza. Alcune delle foto che ho fatto e che sono anche in mostra sono fatte con il telefonino. E quando lo dico vedo che le persone sussultano.
L’uso del cellulare ha cambiato la fotografia?
Nei quasi 175 anni che sono passati dacché la fotografia è stata inventata noi, il mondo occidentale, siamo stati gli unici a usare le foto per auto-celebrarci, per raccontarci. Di recente, con quell’aggeggio lì, hanno iniziato a farlo anche in tante altre parti del mondo. Oggi, finalmente, la fotografia è usata, letta e prodotta dalla stragrande maggioranza degli esseri umani. In certi villaggi africani che non hanno nemmeno l’elettricità ho visto che ciascuno di loro andava in giro con al collo un sacchetto di cuoio con dentro una schedina Sim chiusa nel cellophane. Il cellulare, lì, ce l’aveva solo una persona, ma le donne grazie a quello e alla Sim potevano spedire la fotografia con le ceste di pomodori prima di mettersi in cammino per venderle a chilometri di distanza. Mandavano la foto e col cellulare qualcuno dall’altra parte dicevano loro se, di ceste di pomodori, ne servivano di più o di meno. L’uso del cellulare con dentro la lente fotografica sta cambiando molte realtà.
Internet e gli smartphone cambiano anche l’approccio all’informazione.
Due anni fa ho fatto una presentazione al ‘National Washington’, negli Stati Uniti, e loro mi dicevano che stanno cercando di capire come fare. Gli abbonamenti e le vendite del giornale stanno crollando. I lettori, per quanto interessati, non comprano più la carta. Io stesso mi rendo conto che leggo la maggior parte delle notizie online. Manca un ricambio generazionale e i vecchi abbonati non sono rimpiazzati da quelli nuovi. Le persone, poi, non si accontentano più della stessa pappa pronta. C’è anche un’esigenza narrativa. La formula che andava prima non basta più. Si è molto più liberi di esplorare la realtà usando più media. Se non ci fosse stato questo cambiamento tecnologico, non avrei portato quelle immagini con movimento e suoni che sono esposte nella mia mostra. Il nuovo pubblico vuole avere più dettagli e in un flusso continuo, in cui è il fruitore, non l’editore o il caporedattore, che decide in quale ordine prendere le notizie. Il mondo è complesso, le persone ne sono consapevoli, e questa complessità va trasmessa.
La tecnologia è sempre più sofisticata, ma di foto come quelle di Zizola è difficile trovarne.
Di fotografi bravi ce ne sono tanti. Uno dei miei maestri di riferimento, Henri Cartier-Bresson, diceva che fotografare vuol dire porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore in una frazioni di secondi. Da dire è semplicissimo, per farlo servono l’intelligenza, le cose che leggi, i film che vedi. Bisogna riempirsi ed elaborare; sentire, provare, arrabbiarsi. Senza tutto questo la fotografia non viene fuori. Cioè, la fotografia viene fuori, ma non c’è tutto l’aspetto interiore. Senza questo allenamento, senza questa sensibilità, le cose non le vedi nemmeno se ti passano davanti. La mia disciplina è quella di affinare una visione. Questo non è semplice, e affinare questa dote spesso è causa di grandi sofferenze, soprattutto se hai a che fare con persone che soffrono.
C’è chi dice – fa notare Lolli – che un fatto di cronaca parla da sé, che sia un incidente o una notizia eclatante.
A volte mi capita di fare workshop. Di recente, a uno di questi a Roma, c’era un ragazzo che aveva fatto foto durante una manifestazione dove c’erano stati scontri con la polizia. Era molto coinvolto e orgoglioso di mostrarmi quelle immagini e, mentre me le faceva vedere, mi raccontava le sensazioni che aveva provato: i gas lacrimogeni che gli bruciavano negli occhi mentre scattava, la concitazione. Ma lui stesso, credo, mano a mano che faceva scorrere davanti a me quelle immagini si deve essere reso conto che tutte quelle sensazioni, lì, non c’erano. Ti può succedere di tutto, davanti agli occhi. Ma bisogna saperlo tradurre in una visione più complessa; più complessa è la visione che trasmetti, più l’immagine è buona.
Ma di fotografie brutte, tu, non ne fai mai?
La maggior parte delle fotografie sono brutte. Serve un po’ di fortuna, ma per averla, di biglietti della lotteria ne devi comperare tanti. Ci deve essere una costanza nel porsi nel posto giusto al momento giusto. Costanza nel sapere anticipare un movimento, un evento. Perché sai che quella cosa potrebbe succedere. C’è una similitudine tra chi fa fotografia e il cacciatore. Chi caccia conosce le abitudini della sua preda, si predispone controvento nel posto giusto, nella stagione giusta, per poterla catturare con il minore sforzo possibile.
La mostra con le tue fotografie che è allestita nello spazio dell’ex drogheria Bazzi, in piazza Municipio a Ferrara, è dedicata ai migranti.
Girando per il mondo ho potuto vivere le tantissime differenze di trattamento degli esseri umani (documentando dalla fine degli anni Ottanta in particolare le condizioni dell’infanzia in diversi luoghi del mondo, dai figli delle guerre in Iraq, ai piccoli lavoratori dell’Indonesia, ai bambini di Los Angeles, ndr). E ho riflettuto sulla necessità di migrare da parte delle persone per cercare situazioni di vita migliori. Persone che provengono da luoghi molto remoti, rispetto alla nostra presunta centralità sia sociale sia politica. È stato un percorso di condivisione ed empatia.
Nelle fotografie esposte a Ferrara e nel video installato lì, si vedono le persone che salgono senza soluzione di continuità a bordo di una barca.
Sì, sono stato per tre giorni a bordo delle navi di salvataggio di ‘Medici senza frontiere’ e ho partecipato con loro alle operazione di recupero dei natanti in difficoltà, che l’associazione ha ottenuto di poter fare nell’agosto 2015. Negli anni precedenti questo non si faceva: quando le navi venivano avvistate, si metteva la prua in direzione opposta e questi natanti di solito affondavano con a bordo il loro carico di uomini, donne e bambini. Poi c’è stata la grande tragedia del naufragio di quella caretta strabordante di persone (il 18 aprile 2015 un peschereccio con oltre 700 migranti a bordo affonda al largo della costa della Libia, ndr). Così, in quel momento l’organizzazione di soccorso sanitario ottiene di poter operare sia nei salvataggi sia in veste di testimone degli interventi delle navi militari, affinché non potessero più dirigere le prue di questi barconi nella direzione contraria. Adesso hanno deciso che questo non si faccia più, e quindi in decine di migliaia riprenderanno a morire. Ma in quei giorni io ho potuto stare a bordo con loro. Ho visto salvare circa tremila persone. Il video filma un’operazione di salvataggio di un battello da pesca abilitato per portare 30 persone, che si trovava in mare con a bordo oltre 150 persone. Ho fatto video, foto, filmati per cercare di ampliare più che potevo il tentativo di racconto.
Come ti ponevi con le persone che avevi intorno e che fotografavi?
Nei momenti più salienti loro pensavano a tutt’altro che a me e io stesso ho dedicato molte ore non a fotografare, ma ad aiutare i volontari nell’assistenza, a distribuire le sostanze energetiche, a scartare coperte, a darle alle persone che salivano. Poi ci sono stati momenti in cui ho raccolto storie, ho fatto ritratti. Se loro non volevano, ho rispettato la loro volontà. Per questo motivo, ad esempio, si vedono così poche donne. Perché la loro religione vieta di essere riprese ed esposte.
Il fotogiornalismo implica che non ci sia manipolazione dell’immagine. Tu che tipo di post-produzione fai?
Fotografare è di per sé un processo manipolativo. C’è una trasformazione dell’energia, che è la luce, in un segnale luminoso. La necessità è quella di mantenere credibilità. E questo fattore non dipende dalla tecnologia, ma dalla cultura delle persone; è un elemento che passa attraverso l’etica. Io uso quella scala che va dal bianco al nero, eliminando tutti i colori. Il fotogiornalismo si distingue all’interno della fotografia per l’introduzione di alcune regole, che sono prima di tutto quelle di non manipolare la realtà; se arrivo che un fatto è già avvenuto, non posso chiedere ai protagonisti di riproporre una scena. Poi non posso con un software eliminare un pezzo di fotografia che non è funzionale e nemmeno aggiungere qualcosa che ho in un’altra immagine. Detto ciò, capita che l’intervento avvenga anche nelle redazioni e all’insaputa del fotografo. Come successe dopo l’attentato di Nassiriya a L’Espresso. Perché, oltre ai fotografi, ci sono anche i foto-editor. Ma in Italia chi manipola e mente spesso viene premiato, perché ha la fiducia di direttori e caporedattori. All’estero, invece, quando ciò viene fuori, l’editore licenzia tutti, dal direttore in giù, per far sì che il suo giornale sia credibile. Perché si ritiene che sia la credibilità a fare la differenza, a rendere un giornale degno di essere letto, cercato, creduto.
Riaperture Photofestival torna a Ferrara da venerdì 13 a domenica 15 aprile 2018, ore 10-19, con 15 mostre in 8 spazi tra chiese dismesse, palazzi in ristrutturazione e negozi chiusi aperti appositamente per l’occasione.
La mostra ‘In the same boat’ di Francesco Zizola è visitabile negli spazi dell’ex drogheria Bazzi, piazza Municipio 18-22, Ferrara. Aperta 6-7-8 e 13-14-15 aprile 2018, ore 10-19
“Questa è una lotta tra una generazione giovane, diversa, femminista, contro una minoranza maschile, bianca, vecchia, disperata, che si aggrappa al potere”. E’ l’incipit di un articolo molto interessante scritto da Jessica Valenti sul Guardian dal titolo ‘Il dibattito sulle armi è una guerra culturale. E i giovani la vinceranno’.
La tesi, molto ben argomentata, è che oggi le contraddizioni di un patriarcato esacerbato dalle impellenze capitaliste stanno deflagrando. Non sfugge più agli occhi di molti, in particolare dei giovani nativi digitali che hanno accesso a molte informazioni provenienti da diverse fonti, l’arroganza di pochi, maschi, bianchi appartenenti a certe élite.
Alla marcia “in difesa della nostra vita” del 24 marzo scorso, organizzata da un movimento di giovanissimi, promossa per rivendicare il diritto a una regolamentazione dell’uso delle armi dopo la terribile strage di adolescenti nella scuola a Parkland in Florida, spiccavano slogan del tipo “Dovrei scrivere il mio saggio universitario, non le mie ultima volontà”, “Le pistole hanno più diritti della mia vagina”, “L’abbigliamento delle ragazze a scuola è più regolamentato delle armi in America”.
Nell’articolo la giornalista riporta che “solo il 3% degli americani possiede metà delle armi che si trovano in America”. E quel 3% non sono chiunque. Secondo uno studio fatto ad Harvard pubblicato su ‘Scientific American’ di questo mese, la persona che con maggiore probabilità accumulerebbe armi negli Usa è un anziano, maschio, bianco proveniente da un’area rurale conservatrice. “Una ricerca allarmante mostra che sono motivati dall’ansia della razza e dalla paura di perdere la loro mascolinità”, continua Valenti e aggiunge: “Uno studio della Baylor University del 2017, ad esempio, ha scoperto che l’attaccamento degli uomini alle armi da fuoco deriva spesso da guai economici e dalla paura di perdere lo status di “capofamiglia” tradizionale”.
C’è un filo ormai, neanche più tanto invisibile, che lega il dibattito sulle armi alle questioni di discriminazioni di genere, razziali e generazionali. Il secondo emendamento della Carta Costituzionale degli Stati Uniti d’America dice che: “Essendo una milizia ben organizzata necessaria alla sicurezza di uno Stato libero, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto”. Sembra, alla luce delle tragiche stragi nelle scuole americane degli ultimi 15 anni, contraddire il senso stesso di Stato Libero. Libero per chi?
I cambiamenti delle nostre società ci obbligano a una riflessione profonda. È sempre più evidente che le carte costituzionali su cui sono scritti i fondamenti per una sana convivenza tra le persone che vivono in una stessa comunità non tengono conto della spaventosa accelerazione nel cambiamento sociale. Le leggi, il cui punto di riferimento è sempre la carta costituzionale, oggi sembrano fatte esclusivamente a beneficio di una minoranza di pochi, per lo più maschi bianchi, a scapito di una maggioranza fatta di giovani, bianchi e neri, di femministe/i, la cui diversità di estrazioni culturali diventano un collante e un punto di forza e non più una debolezza. La libertà solo teorica, vessillo del capitalismo, si rivela in tutta la sua fallacia e la democrazia che si fonda su un concetto ideologico di libertà e autodeterminazione, vacilla. Ma questo è un fenomeno solo americano o la contraddizione potente e innegabile della strenua difesa di un concetto di libertà individuale, astratta, neutra e non calata nella realtà di tutti i giorni riguarda tutte e tutti noi e tutte le democrazie occidentali?
“Fotografare, per me, non è stata un’operazione artistica: è stato vivere, una specie di resistenza a quello che stava accadendo nella mia città, a Palermo. Quando fai le foto per la cronaca nera di un quotidiano hai pochi secondi per scattare prima che arrivino calci e pugni. Attimi che servono a mettere a posto cervello e obiettivo. Non si trattava di fare opere d’arte, ma di raccontare che noi stavamo soffrendo, che un governo italiano permetteva questo”. Letizia Battaglia, 83 anni compiuti il mese scorso, ha la vivacità anticonformista di una ventenne, i capelli color verde turchese, dritti a caschetto sotto la frangia che incornicia quel viso che si può vedere nelle foto delle schede biografiche, di solito in bianco e nero. Sabato pomeriggio, invece, nel cortile dell’ex caserma dei vigili del fuoco, a Ferrara in via Poledrelli, la “fotografa della mafia” è apparsa in tutta la sua colorata vivacità, combattiva e tenace con la disarmante sfacciataggine di chi è abituato a scendere in strada, ad andare dritto al punto senza girarci tanto attorno.
Il merito di averla portata in città va agli organizzatori del festival di fotografia ‘Riaperture’, che nel fine settimana appena concluso e anche il prossimo continuerà a invadere Ferrara con quindici mostre allestite aprendo temporaneamente sontuosi palazzi storici accerchiati dalle impalcature, spalancando porte chiuse da decenni e alzando serrande abbassate di negozi. A presentare la fotografa palermitana insieme con il direttore del festival Giacomo Brini è stata la giornalista Daniela Modonesi che l’ha intervistata sul palco allestito nell’area all’aperto di Spazio Grisù.
Come inizia la professione fotografica di Letizia Battaglia?
“A 40 anni – ha raccontato la fotografa – dopo aver fatto fino ad allora la madre e la moglie, sono andata a Milano, ero inquieta, ho iniziato a fotografare senza saperne molto. Poi a ‘L’Ora’ di Palermo mi hanno chiesto di gestire l’organizzazione fotografica del giornale e sono andata con entusiasmo nella mia città. Lì però ho scoperto la violenza, i corleonesi, la droga, tanti ragazzi che per quella sono morti, gli uomini migliori (giudici, poliziotti) che sono stati ammazzati. Falcone e Borsellino sono stati solo gli ultimi di una lunga fila di eroi. C’è collusione e spesso i poliziotti sono stati uccisi a causa del tradimento di altri poliziotti. Non è vero che c’è un codice d’onore. Tutto sta nei soldi e nel potere, e non importa se per averli c’era da ammazzare donne e bambini. Veniva ammazzato chiunque si avvicinasse alla loro droga, alle loro rapinerie”.
Quali sono i segni che il tuo lavoro ha lasciato in te? Hai detto del sogno in cui bruciavi tutti i negativi delle foto.
“Vivendo quelle cose, mi è venuto da pensare che quelle foto non le volevo più vedere. È chiaro che non posso e non devo distruggere quelle foto. Però la rabbia per ciò che c’era mi ha fatto pensare di bruciare i negativi e ho fatto il video dove in realtà bruciavo le foto. Ma con quelle foto ho raccontato fatti, non menate intellettuali. Palermo non è una città normale, è una città simbolo dove è bello combattere. Quando con il mio compagno di allora, Franco Zecchin, decidemmo di fare una mostra contro la mafia che ancora stava sparando, nessun altro volle partecipare. Siamo andati a Corleone con i pannelli con sopra le foto dei mafiosi corleonesi arrestati e ammazzati. La piazza era piena di gente che si godeva il giorno di festa. Tutt’a un tratto la piazza si è svuotata; siamo rimasti solo noi con le nostre foto. Tutti hanno fotografato quello che ho fotografato io. Dove sono gli altri? Il punto è che i giornali non le chiedono più, quelle foto. Ora, non lo sapete, ma a Palermo c’è un grande processo. Il giudice Nino Di Matteo sta facendo un processo contro lo Stato, perché c’è stato un patto affinché la mafia non uccidesse più. Ma la mafia c’è ancora, c’è ancora il pizzo e c’è la droga. Circola non solo a causa dei nostri mafiosi, ma perché gli italiani fanno un affare con gli spacciatori. Eppure la mafia non è più fotografabile. Sono tutte persone pseudo perbene che dirigono banche, business, non sono più i cafonazzi che sono in galera. La mafia c’è ancora, c’è anche qui, anche se voi non ve ne accorgete”.
I programmi di Letizia adesso?
“Il prossimo anno farò una grandissima mostra a Venezia con foto mai viste. Il bianco e nero era una scelta per me, l’ho mantenuto come una necessità anche dopo che è arrivato il colore. Il rosso, il sangue, non me li volevo permettere. Un giorno avevo messo il colore e sono dovuta andare dove c’era un morto ammazzato e poi un altro, che era un bambino: il figlio di quello che avevano ammazzato, ucciso perché aveva visto i killer. La pellicola che avevo era a colori, ma la foto l’ho messa in bianco e nero; per me era più pudica. Nella mostra che farò ci saranno le mie foto che non si sono mai viste e che non si vedono più. L’unica a colori, grande grande, sarà quella di quel bambino. Perché quando si dice che la mafia non tocca i bambini non è vero. Come Giuseppe Di Matteo: fu rapito (23 novembre 1993, ndr) che era un bambino e l’hanno tenuto mesi e mesi sotto terra, poi l’hanno strangolato e bruciato perché suo padre si era pentito”.
Su Facebook vengono censurate foto come quelle della bambina che scappa nuda dal Napalm, in Vietnam.
“Io spero che Facebook o qualcuno di loro vada in carcere. Chi pensa di censurare una bambina in quella situazione perché è nuda, deve avere la testa malata. Come quando hanno detto che non si doveva mostrare il bambino siriano, Aylan, morto annegato sulla spiaggia. La fotografa (la giornalista Nilufer Demir dell’agenzia di stampa turca Dogan, il 2 settembre 2015, ndr) ha fatto bene a scattarla. Quelle foto raccontano più di tanti libri. È importante fare vedere quello che accade. Come nel caso di Andreotti. Non è vero che è stato assolto, come a volte si legge sui giornali: questa è una gran balla. Lui andò in prescrizione, ma la polizia ha cercato nel mio archivio e ha trovato la sua foto insieme con i mafiosi e con Salvo, e io nemmeno sapevo di averla, quell’immagine. Le foto possono servire, anche dopo tanti anni, per raccontare qualcosa. Peccato che non ci sia un archivio, in Italia, dove i fotografi possano depositare i loro lavori”.
L’attività di Letizia Battaglia adesso.
“A Palermo, le foto, io le sto raccogliendo. Ho fondato il Centro internazionale di fotografia dentro un edificio bellissimo, fatto da un’architetta donna e vecchia come me. Vorrei che fosse una specie di roccaforte di difesa (o forse di attacco). Per fortuna al Comune la mafia non entra, abbiamo il sindaco Orlando. È una città dove avvengono tutte le cose brutte e tutte le cose belle”.
Unica donna – ha commentato Daniela Modonesi – in mezzo a scene di delitti tra poliziotti, magistrati, giornalisti. Cosa ha significato?
“Per diciannove anni, sono stata molto orgogliosa di essere una fotoreporter, fotografa donna, l’unica in quegli anni a fare questo lavoro per un quotidiano. Essere donna, però, con i capelli che non erano verdi, ma sempre un po’ colorati, all’inizio mi ha creato qualche problema. Ricordo ancora con molta rabbia che sulle scene del delitto già transennate facevano passare tutti tranne me. Allora a un certo punto ho iniziato a gridare, come una cretina. Mi ha aiutato molto Boris Giuliani, il capo della polizia, che disse ai suoi che questa signora stava lavorando e andava fatta passare. Il giornale mi pagava per un servizio che doveva essere migliore di quello della concorrenza e io sentivo forte questo senso del dovere”.
La Palermo che hai fotografato – ha ricordato l’intervistatrice – è anche quella delle donne e delle bambine. Qual è la situazione a cui sei più legata?
“C’è quella foto lì, della bambina, che poi è diventata la mia foto più famosa. Per spiegarla devo tornare a quando io avevo dieci anni. Fino ad allora ero vissuta a Trieste, perché mio padre era un marittimo, lui girava e noi, la famiglia, lo seguivamo. A Palermo ci sono arrivata che avevo, appunto, dieci anni. Una volta uscii e un uomo si esibì. Mi spaventai e tornai a casa piangendo. Mio padre decise che era meglio che rimanessi chiusa in casa. Allora divenni un po’ matta, una bambina ribelle. A 16 anni volli sposarmi. La bambina che cerco in ogni dove, magra, con le occhiaie scure – l’ho capito dopo molto tempo – sono io. Perché è quell’età che non sei ancora donna e non sei più bambina. È un momento intenso, bellissimo della vita, quando nascono i primi desideri, pensieri. La volta che ho fatto quella foto, trentotto anni fa, avevo incontrato in strada un gruppo di bambini normalissimi che giocavano, non avevano nessun fascino particolare. Poi ho visto la bambina, l’ho fatta andare verso quella porta chiusa, lei ha alzato il braccio col pallone, clic. E quella è diventata la foto per la quale tutti mi conoscono. Mi sono resa conto che ogni volta che incontravo delle bambine così, era come se ritrovassi la pace, la bellezza. Ora vorrei fare un libretto, una cosa a parte, con tutte le mie bambine”.
Oltre alla fotografia c’è l’impegno politico.
“Era il 1985 quando Lanfranco Colombo della galleria Diaframma Canon ha pensato di spedire le mie foto al Premio Eugene Smith, a New York. Io non lo sapevo nemmeno. Poi ricevo il telegramma che sono tra le finaliste. E alla fine vinco, ex aequo, insieme a un’altra donna (l’americana Donna Ferrato). È stata un’emozione enorme! Così ho capito che volevo fare di più. Allora c’erano i Verdi, che difendevano l’ambiente, le piante, erano il nuovo. Mi piacevano molto e con loro entro in Consiglio Comunale. Orlando, nel frattempo, lascia la Democrazia Cristiana e fa una giunta insieme con i Verdi e io divento assessore. Non sapete cosa ha significato per una fotografa con gli zoccoli ai piedi come me! Sono stati gli anni più belli in assoluto. Perché avevo come un potere: di fare, di levare le pietre brutte, aggiustare le strade, mettere le panchine, salvare una ragazza madre, pretendere il rispetto per la gente che era in carcere. Quattro anni importanti, in cui ho fatto cose piccole piccole, ma così importanti per me. Poi fui candidata a deputata e fu un errore. Avevo uno stipendio grandissimo, ma non potevo fare niente. Non ho fatto neanche fotografia. Il fatto è che non sono né una fotografa né una politica, ma una persona che ha cercato di fare il meglio, di mettercela tutta, con questa passione, e ora sono anche contenta di essere bisnonna di tre bambini meravigliosi. È tutto un circolo… Poi leggo che sono la ‘fotografa della mafia’. Ma che cos’è questa storia?! In italiano vuol dire che sei assoldato dalla mafia. Ma ho il mio Centro di fotografia a Palermo, è un periodo bello, ogni giorno dalle 4 alle 6 e un quarto sono là. Insieme con altre persone, tutte giovani, ho già fatto sei mostre. Non è facile, voi di ‘Riaperture’ lo sapete. C’è il sindaco qui? Sindaco, dagli i soldi a loro di ‘Riaperture’, per fare mostre e organizzare cose. Ci vogliono i soldi anche quando tu lavori gratis, perché servono le cornici, i microfoni, le assicurazioni. Questo rende viva la città. Ciao!”.
Grazie, ciao.
‘Fotografie’ di Letizia Battaglia in mostra per Riaperture Photofestival a Palazzina Cavalieri di Malta, corso Porta Mare 9 – Ferrara. Visitabile venerdì 6, sabato 7, domenica 8 e venerdì 13, sabato 14, domenica 15 aprile 2018, ore 10-19.
Quanti di noi ritengono onorevole contrarre dei prestiti per far studiare i propri figli? Negli Stati Uniti il prestito per poter frequentare l’università è una prassi e ci si indebita di molte migliaia di dollari sapendo che in futuro bisognerà restituirli a rate e per decenni. Quindi si spende oggi più di quello che si possiede, ci si indebita per assicurarsi un futuro da ingegnere oppure da avvocato o addirittura da astronauta e scienziato.
A nessuno verrebbe di imporre al buon padre di famiglia di non contrarre un prestito per migliorare le aspettative sul futuro di suo figlio o addirittura di punire quest’ultimo quando lo si scoprisse a varcare la soglia del college.
Agli Stati invece viene imposto il controllo del deficit di bilancio sui conti pubblici facendolo passare per una cosa logica, auspicabile, di buon senso; e si impiega addirittura l’anno solare come termine per rientrare del proprio investimento come se questo possa convergere con l’anno economico.
Un investimento va visto in termini di ciclo economico: il prestito o deficit fatto per lo studio è un investimento che si calcola su un’intera vita umana, un ciclo economico che solitamente dura dall’iscrizione all’Università, passa per la ricerca di un lavoro, fino al miglioramento delle proprie condizioni di vita sociale. Una durata anche di venti o trent’anni.
Una spesa a defict per un investimento in ricerca sul cancro significa aspettarsi un ritorno, in termini di miglioramento delle condizioni di salute, per le prossime generazioni. Spendo quindi oggi e indebito l’attuale generazione – in termini di moneta, cioè nella realtà in termini macroeconomici e di Stati: “non indebito” – per lasciare una vita più lunga e più sana ai miei figli e nipoti. Tito Boeri eventuale ministro delle Finanze forse calcolerebbe la cosa in maniera diversa: vedrebbe la spesa di oggi come un peso per le future generazioni in termini di soldi, perciò raccomanderebbe di non spenderli oggi per lasciarli ai malati di cancro di domani, i quali, ovviamente, sarebbero molto contenti della scelta ed esulterebbero di essere più ricchi finanziariamente anche se malati di cancro.
Anche in termini politici esiste una differenza tra l’anno solare e l’anno politico, che rimarca la differenza di visione tra lo ‘statista’ e il ‘politico’. In Italia viene comunemente attribuita ad Alcide de Gasperi la frase: “Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione”.
Del resto queste sono le ricette economiche e le politiche consigliate dal Fondo monetario internazionale, che prima di concedere prestiti si assicura che i soldi prestati non vengano spesi in investimenti improduttivi, come la salute o l’istruzione, ma solo che si possa essere in grado di restituirli con gli interessi. Immaginatevi se tutte le casalinghe cominciassero a ridurre la spesa giornaliera e quindi mettessero a tavola ogni giorno meno pane, pasta, vino e smettessero anche di comprare biscotti e brioches per la colazione. Mangiare di meno, spendere di meno, produrre di meno, lavorare di meno, tutto di meno compreso ovviamente i deficit. A quel punto di più avremmo solo la disoccupazione, i poveri, il numero delle aziende costrette a chiudere.
In realtà l’unica differenza tra la politica economica involontaria e immaginaria della casalinga di Vogh(i)era e quella reale e volontaria del Fmi è la cattiveria di fondo: l’una lo farebbe pensando di far del bene, mentre l’altro per i propri interessi e quelli dei creditori finanziari, che mai coincidono con gli interessi del popolo. La politica, concorde nel guardare all’anno solare, all’elezione prossima e alla punta del naso, legifera per l’occasione spaventando e utilizzando i mostri da tutti temuti: shrek, la notte fonda, la Cina, l’inflazione e l’immancabile debito pubblico.
L’errore quindi, o uno degli errori, nel giudicare la bontà di un investimento, è il lasso di tempo che gli si mette a disposizione per la verifica degli effetti e davvero risulta complicato, se non assurdo, immaginare che la spesa di uno Stato possa essere verificata di anno in anno. Uno Stato spende per sanità, ricerca, benessere dei suoi cittadini e persino quando elargisce pensioni o stipendi non fa altro che aumentare la possibilità di spesa e di richiesta di beni, quindi espande la sua economia piuttosto che contrarla. Lo Stato dovrebbe preoccuparsi di come possano essere creati beni e servizi da comprare con i soldi, non se mettere o meno questi ultimi a disposizione della cittadinanza.
La spesa dello Stato è uno degli strumenti a disposizione per governare l’economia piuttosto che subirla, per controllare e modificare i cicli economici ed evitare boom e crisi, per assicurare un futuro alle prossime generazioni senza distruggere quelle attuali.
Come dice l’economista americano Mark Blyth, “sarebbe difficile pensare che oggi avremmo avuto internet, il we, e lo smartphone senza gli investimenti del governo federale partiti negli anni Sessanta”.
Gli effetti delle politiche e degli investimenti macroeconomici degli Stati, come quelli delle famiglie per i figli, si vedono nel tempo. Chi non investe e non spende rimane al punto di partenza e le generazioni future non raccolgono i frutti dell’impegno e della visione di quella precedente.
A cosa ci hanno portato i valori del controllo del deficit, del debito pubblico, del pareggio di bilancio? Bisogna ricordare che sono valori perseguiti e ottenuti non da oggi, ma dall’inizio degli anni Novanta e che proprio questi hanno portato ai disastri attuali, come la svendita del patrimonio pubblico, la mercificazione dei valori di condivisione, partecipazione e cooperazione. Hanno portato ad avere un popolo che lavora, suda e soffre da solo con sempre meno Stato su cui poter contare e sempre più mercato a cui pagare interessi.
Due grafici per sintetizzare. Il primo del Ministero dell’economia e delle finanze, dove si evidenziano i continui surplus di bilancio dello Stato italiano, maggiori dei suoi competitor europei e realizzati per poter pagare gli interessi sul debito togliendo risorse ai cittadini.
Il secondo, invece, mostra dove vanno a finire sangue e sudore della gente comune (fonte:Oxfam).
“Attendo la bufera”, scrisse don Minzoni poco prima di essere ucciso, consapevole che la sua opposizione al fascismo gli sarebbe costata cara. Ma il sacerdote di Argenta aveva una convinzione profonda: “Spendere la vita per un ideale non è morire, è vivere”. E così è stato.
L’esistenza di don Giovanni Minzoni non è finita il 23 agosto del 1923: quasi un secolo ci allontana da quell’omicidio efferato, don Giovanni Minzoni torna a vivere, a far sentire la sua voce nel film ‘Oltre la bufera’. Ideato da Stefano Muroni, scritto da Marco Cassini in collaborazione con Valeria Luzi e Stefano Muroni, il lungometraggio sarà girato ad aprile in quindici location del territorio ferrarese: a Mesola, al Centro etnografico di documentazione del mondo agricolo ferrarese di San Bartolomeo in Bosco, al teatro Concordia di Portomaggiore, alla pieve di san Vito a Ostellato, a Palazzo Crema a Ferrara. Un film ambientato tra il 1919 e il 1923, con costumi e oggetti scenici originali curati da Luigi Bonanno, il costumista di Giuseppe Tornatore. È la prima grande sfida di Controluce, la società di produzione fondata nel 2017 da Cassini, Luzi e Muroni.
La regia di ‘Oltre la bufera’ è affidata a Marco Cassini, che già ha diretto ‘La notte non fa più paura’ e ‘La porta sul buio’: “Titoli scuri – spiega il regista – perché cercano di analizzare l’animo umano alle prese col buio”.
Perché è importante un film dedicato a Don Minzoni per Ferrara e Provincia? A risponderci è Massimo Maisto, vicesindaco e assessore alla cultura di Ferrara: “Questo film è significativo per tre aspetti. In primis è un film dedicato a una persona che è stata ammazzata perché voleva proporre un’idea di educazione alternativa; non è solo un capitolo della storia, ma un tema ancora molto attuale. In secondo luogo, tra i nostri obiettivi c’è quello di valorizzare la creatività giovanile: conosco da qualche anno Stefano Muroni per la sua attività di fondatore e di formatore del Cpa (Centro preformazione attoriale) e ritengo sia importante sostenere e aiutare i giovani talenti. Infine – insieme a Emilia Romagna Film Commission – stiamo facendo un lavoro per promuovere e attirare produzioni cinematografiche a Ferrara e provincia, come già è avvenuto con Pupi Avati, che ha scelto il nostro territorio per girare una nuova serie televisiva. L’obiettivo è valorizzare le risorse professionali, culturali e ambientali del territorio, per garantirne una maggiore visibilità”.
Quali aspetti della storia mette in luce la personalità di Don Minzoni?
La parola questa volta va ad Anna Maria Quarzi, direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, riferimento per la consulenza storica, grazie ai preziosi materiali custoditi nell’archivio dell’Istituto, tra i quali il famoso ‘Diario’: “Don Minzoni è una figura chiave della nostra storia. Ho trovato molto interessante la proposta di Stefano Muroni, in questo film, di analizzare e mettere al centro la figura dell’educatore, piuttosto di insistere sull’omicidio, che insieme al delitto Matteotti, segna la storia del fascismo. Perché viene ucciso don Minzoni? È proprio la sua opera di educatore che lo rende insopportabile al fascismo. L’educazione dei giovani italiani era uno dei pilastri del regime totalitario di Mussolini: dalla culla ai campi sportivi, poi le divise nere dei Balilla con le esercitazioni ginniche e le grandi manifestazioni. Si trattava di un lavoro capillare sulla popolazione, dalla nascita all’età adulta, per plasmare una mentalità, per formare il ‘fascista perfetto’. Il fatto che ci fosse un sacerdote con un forte ascendente sui giovani – che proponeva cose diverse, come il movimento Scout – era inaccettabile per il regime. Inoltre don Minzoni era un giovane, si interessava alle persone, era riuscito ad organizzare una ‘cooperativa’ bianca dove le donne potevano cucire e lavorare. Gli interessava rendere consapevoli i cittadini. Educava alla libertà”.
Generosità, impegno, coraggio, tenacia: erano i tratti di un uomo dal grande carisma. Don Giovanni – nella sua parrocchia come in guerra – seppe conquistarsi affetto e riconoscimenti, fra cui la medaglia d’argento al valore militare.
“Conoscevo la storia di don Giovanni Minzoni da quando ero bambino. Non ricordo chi me l’avesse raccontata. Ma sentivo l’esigenza, un giorno, di narrarla, per non perderne la memoria, per non farla svanire nel vento”, osserva Muroni, che vestirà i panni di don Minzoni. “Personalmente non ho mai creduto che possano esistere storie di destra o storie di sinistra. Per me, per noi piccoli cantastorie della bassa, esistono solo storie belle o storie meno belle. Da quando ho iniziato questa avventura ho sempre cercato di raccontare storie belle, che potessero commuovere ed emozionare, e che potessero dare un esempio alle future generazioni. La bellezza, dunque, di cui ne abbiamo tanto bisogno. L’armonia nella drammaticità. La favola che supera la storia”.
E quella di don Minzoni è appunto una “storia bella” che Stefano Muroni ha scelto di narrare per immagini. Chiediamo a lui – ideatore, sceneggiatore e attore protagonista – di raccontarci qualche particolare di ‘Oltre la bufera’, le cui riprese sono iniziate proprio in questi giorni di aprile.
Dove ha trovato l’ispirazione per questo film?
Nessuna ispirazione. Le storie soffiano nel vento. Basta solo mettersi in ascolto. Sono loro che scelgono te. Tu hai solo il dovere e la responsabilità di raccontarle. Mi è successo sempre così, fin da bambino. Così sto facendo, con passione ed entusiasmo.
Da quanto tempo ci state lavorando?
Da due anni, se considero il progetto iniziale, poi la scrittura del soggetto e la ricerca finanziamenti. Personalmente da quasi 29 anni: nulla arriva per caso, ma tutto è il risultato delle proprie esperienze, della propria esistenza su questa Terra.
Perché per lei questo film è importante?
Perché parla di noi, del nostro presente, del nostro vicino futuro. Tratta di un uomo, prima che di un prete, che torna dalla trincea con l’anima mutilata, e cerca di portare gioia e coraggio tra la sua gente attraverso l’educazione dei giovani, con la consapevolezza che sarebbe stato ucciso. Ieri come oggi ci sono persone che scambiano l’educazione per strategia politica. Don Minzoni ebbe il coraggio di dire no a questo sistema violento e denigratorio. Pagando con la vita.
Il coraggio di dire no. Ecco perché è importante questo film, questa storia. Per ricordarci che a volte bisogna dire no, costi quel che costi.
Che cosa può insegnare don Minzoni alle giovani generazioni?
Quella di don Minzoni era una generazione che non possedeva nulla: non aveva soldi per comprarsi le scarpe o una camicia. C’era gente che non vedeva un pasto al giorno. Alcuni avevano perso il marito, o il fratello, o il padre in guerra. Non avevano nulla se non gli ideali. Sia da una parte che dall’altra. Ideali giusti o sbagliati. Ma lottavano per qualcosa. Ecco l’esempio di don Minzoni che ci parla ancora oggi, l’enigma eterno da risolvere: vivere per niente o morire per qualcosa.
Che cosa rappresenta un film come questo per Ferrara?
Intanto un tempo e uno spazio di riflessione sul presente. Ricordarsi che gli estremismi portano inevitabilmente a scontri spesso violenti. E la storia a volte si ripete. Forse non insegna, purtroppo, ma si ripete ancora oggi. Ce lo dice l’attualità. E poi ritorna il cinema a Ferrara, nel ferrarese, fatto da ferraresi, dopo ‘La notte non fa più paura’. Voglio dimostrare che anche qui, nella mia terra, è possibile fare cinema di alta qualità, con la professionalità di gente del posto. E che ‘La notte’ non è stato solo un caso, ma può diventare la regola.
Come vi siete documentati per ricostruire la vicenda storica?
Leggendo tutti i libri storici presenti, i diari, andando al museo di Argenta dedicato a don Giovanni, parlando con Anna Maria Quarzi, con lo storico Giuseppe Muroni, ma anche respirando l’aria dei posti dove ha vissuto il nostro protagonista.
Qual è il rapporto tra storia e finzione? Tra fatti documentati e poesia?
La biografia di alcuni personaggi realmente esistiti non era suffragata dalla sufficiente documentazione, così abbiamo cercato di immaginare alcune loro azioni, rendendo il tutto molto verosimile. La poesia? Ce ne sarà molta, nonostante sia un film anche molto violento. Ma non dico ancora nulla.
Qual è la frase più bella della vostra sceneggiatura?
Secondo me quella che pronuncia don Minzoni al ricreatorio, davanti al popolo argentano: “D’ora in avanti, abbiate il coraggio di dire no!”
Che cosa la spaventa e che cosa la attrae di questa sua nuova avventura professionale?
Non nascondo che la produzione di questo film sia estremamente complessa, ed è la prima volta che mi trovo a ‘maneggiare’ un progetto così importante, sia a livello produttivo che a livello artistico. Senza contare che è un film d’epoca, girato in costume. Ma è questo ciò che mi attrae: la complessità. Se portiamo al cinema un bel lavoro, mi sentirò per la prima volta un ‘adulto del settore’. Per adesso mi sento ancora un ragazzo di cinema.
Una dedica particolare per questo film?
Alla mia famiglia. A Valeria, mia futura moglie. A Marco Cassini. A chi mi ha messo i bastoni fra le ruote, ma non ce l’ha fatta. A chi ha creduto in me e al progetto.
E, soprattutto, alla memoria di Folco Quilici.
“La verità dei fatti”: a parlarne sarà Paolo Pagliaro, ora coautore ed editorialista di “Otto e mezzo” (in onda ogni sera su La7), e in precedenza caporedattore di Repubblica, vicedirettore dell’Espresso e direttore di vari quotidiani locali. L’occasione è il secondo seminario del ciclo “l’Etica in pratica 2018” organizzato a integrazione del corso di Etica della comunicazione e dell’informazione tenuto a Unife dal professor Sergio Gessi. Partecipazione libera per tutti (anche per i non iscritti all’Università). Gli incontri hanno lo scopo di favorire il confronto e la conoscenza, presupposti alla consapevolezza e condizione per un responsabile e attivo esercizio dei diritti di cittadinanza.
Nel dettaglio ecco il calendario completo di EtInPra’18 – Gli incontri si tengono nell’aula magna Drigo del dipartimento di Studi umanistici, in via Paradiso, 12 a Ferrara fra le 10,15 e le 12:
23 marzo – Prologo: Etica, comunità, solidarietà
“Sotto lo stesso cielo”
relatore: Gaetano Sateriale, sindacalista (ex sindaco di Ferrara)
6 aprile – Etica e comunicazione giornalistica
“La verità dei fatti”
relatore: Paolo Pagliaro, giornalista, direttore dell’agenzia Nove colonne, editorialista di La7
13 aprile – Etica e comunicazione ambientale
“Che brutto ambiente! La comunicazione sostenibile tra etica e cinismo”
relatore: Andrea Cirelli, coordinatore scientifico di AccaDueO
20 aprile – Etica e impresa
“Fra cooperazione e vincoli di mercato”
relatore: Andrea Benini, presidente Legacoop Estense
27 aprile – Etica e medicina
“Avere cura”
relatore: Giancarlo Rasconi, medico, direttore sanitario poliambulatorio Caritas
4 maggio – Etica e marketing
“Parole dolci come biscotti”
relatrice: Valentina Preti, copywriter di Alce Nero
11 maggio – Etica e culture
“L’altro”
relatore: Raffaele Rinaldi, direttore associazione Viale K
23 maggio (mercoledì, ore 8,30-10) – Etica e sport
“Vittoria morale: il calcio fra ansia di affermazione e rispetto”
relatore: Luca Mora, calciatore Spezia
25 maggio – Convenzioni e riti fra palco e quotidianità
“La vita in scena”
relatore: Marco Sgarbi, attore-regista, fondatore Teatro Off
Greenstone stava ancora dormendo dalla sera prima quando nel sonno gli parve di sentire una voce familiare che lo chiamava da lontano. Lentamente riemerse dal torpore dei sensi, aprì gli occhi e vide Juan con una caffettiera in mano.
L’indio gli fece un cenno di saluto, «Sir Joseph, buongiorno… Monsieur Verdoux si è svegliato e chiede di voi.»
«Oh bene, vediamo come sta.» Greenstone, ancora intorpidito dal fresco risveglio, si girò verso il paleontologo e lo vide seduto nel suo giaciglio. Jacques Verdoux era pallido, ma l’espressione del viso era distesa e lo guardava mostrando un timido sorriso.
Greenstone contraccambiò il sorriso, si alzò, gli andò incontro e si sistemò al suo fianco.
«Amico mio, come vi sentite? Ci avete fatto stare parecchio in pensiero, sapete?»
«Mi dispiace Joseph, ma non dovete più preoccuparvi, ora sto meglio!», fece una breve pausa e sospirò profondamente, «Decisamente meglio… E suppongo grazie a voi, mio caro amico.»
«No no, non ringraziate me, ringraziate Juan! È lui che ha preparato la medicina che vi ha curato… E a questo punto sospetto anche che vi abbia salvato la vita!» s’affrettò a precisare lo scozzese.
«Dite sul serio Joseph? Ma come avrebbe fatto?»
«Non sono mai stato più serio.» rispose Sewell a voce alta, poi si piegò verso Jacques e fece finta di bisbigliargli all’orecchio. «Pare che il nostro Juan sia uno sciamano!» rivelò.
Jacques Verdoux guardò negli occhi lo scozzese. Vi lesse un’aria vagamente divertita, ma capì che ciò che gli aveva appena detto era vero, quindi si voltò verso Juan.
L’indio in quel momento stava arrivando con due tazze fumanti nelle mani, ne porse una contenente caffè a Sewell, mentre l’altra piena di zuppa la diede al francese.
Jacques prese la tazza e afferrò la mano del ragazzo, «Grazie Juan, a quanto pare ti devo la vita!»
«Monsieur Verdoux, ho fatto soltanto ciò che andava fatto… Sono contento che ora stiate meglio.»
«Ragazzo mio, hai fatto molto di più… Ti sarei grato se mi chiamassi Jacques.»
«Va bene, Monsieur Jacques.»
Il ragazzo tornò verso il fuoco lasciando i due scienziati a conversare tra loro.
Greenstone volle accertarsi meglio delle condizioni del collega. «Come vi sentite di preciso, avete ancora dolore alla schiena?»
«Non direi… No!», Jacques esitava, alzò a fatica un braccio e cercò di toccarsi la zona della ferita ma non vi riuscì, «Sono solo molto stanco, però il peggio è passato. Vedrete, mi servirà solo un po’ di riposo, poi potrò venire con voi a ispezionare quelle rovine. Ci attende un gran lavoro là sotto…»
Greenstone diede un’occhiata alla ferita, sollevò la maglia del francese e rimosse delicatamente la pezzuola. In effetti l’edema del giorno prima sembrava si fosse in parte riassorbito, la lesione non era più purulenta, l’aspetto generale era rassicurante e preludeva a una progressiva guarigione.
«Oggi la situazione mi sembra decisamente migliore di ieri, i buchi dei morsi si sono richiusi e l’infezione sta guarendo.» fu il suo commento.
«A dire il vero mi duole ancora un po’… se penso a quella bestiaccia…» Jacques rabbrividì, la carcassa dell’animale era ancora lì per terra con le innumerevoli zampette ricurve verso l’alto.
Greenstone risistemò le bende all’amico, «Siete a posto Jacques… Sapete che dovremo starcene laggiù qualche giorno e che non sarà una passeggiata. Siete sicuro di potercela fare?»
Jacques Verdoux sbuffò. «Ovvio che diamine! Datemi solo qualche ora per riprendere le forze e vedrete che potrò fare la mia parte!»
Il francese era spazientito, la malcelata e reiterata mancanza di fiducia dello scozzese riguardo la sua capacità di reggere quella situazione lo indispettiva. Cercò di controllare le proprie emozioni, poi disse: «Lo so che siete preoccupato per me, ma ve lo ripeto: se capirò di non potercela fare, non esiterò a farmi da parte, ve lo prometto!»
«Io non voglio che vi facciate da parte, Jacques. Penso soltanto al vostro bene!»
«Mais oui oui, ho capito Joseph… Su ora, datemi una mano ad alzarmi, voglio provare a camminare!»
Sewell lo afferrò per un braccio e lo tirò su, il francese si appoggiò al compagno puntellando le gambe malferme, poi si staccò e fece per camminare ma stramazzò al suolo.
Sewell si chinò a soccorrere l’amico. «Diavolo! Jacques, come state?»
«Bene bene! Non è nulla… Solo che… non mi sento le gambe.»
Greenstone e Juan, accorso in quel momento, aiutarono il francese a sedersi. Lo sistemarono in un angolo accanto al fuoco e rimasero in silenzio al suo fianco.
Per alcuni minuti nessuno riuscì a dire nulla. Jacques aveva un’espressione vagamente stranita, guardava i due compagni come se li vedesse per la prima volta, poi ruppe il silenzio: «Sapete… credo d’essere arrivato al capolinea!»
«Cosa volete dire Jacques?»
«Dico che avevate ragione voi… Non sono più in grado di proseguire, Joseph!» Il francese puntò lo sguardo verso un orizzonte immaginario, poi proseguì: «Ho creduto che la sola forza di volontà mi avrebbe consentito di potervi seguire ovunque, di superare qualsiasi ostacolo… E invece mi sono sbagliato! Il mio corpo mi ha appena parlato… e ha detto basta!»
«Ma forse è solo questione che vi riposiate, l’avete detto prima…»
«Prima non l’avevo capito, ma ora ne sono sicuro… Non potrò venire con voi!»
Anche Juan, rimasto in silenzio fino a quel momento, sentì il bisogno d’intervenire: «Monsieur Jacques, il vostro corpo e il vostro spirito hanno ritrovato una strada comune. Ora siete di nuovo completo e pronto a seguire la strada che il destino vi ha riservato…»
«Juan, ma che sciocchezza è questa?» l’interruppe Sewell, «Noi e Jacques seguiremo la stessa strada, e ce ne torneremo tutti e tre laggiù, dritti dritti verso quelle dannate rovine! Lo sapete Jacques, c’è bisogno anche di voi là sotto!»
Jacques scosse la testa. «Ora siete voi che non volete capire, Joseph! Comunque, per quel che potrò, cercherò di rendermi utile lo stesso. Magari all’accampamento insieme a Pedro.»
Jacques Verdoux parlava in modo insolitamente calmo e distaccato, ma ai due compagni apparve subito chiaro che la sua intenzione di non proseguire sarebbe stata irremovibile. Lo pervadeva una consapevolezza nuova, disillusa e si scoprì risoluto come mai prima di quel momento.
Dal giorno del suo arrivo in Perù, la malattia era sempre stata dentro di lui e lo accompagnava silenziosa, non dava sintomi evidenti, ma lo consumava e lo indeboliva ogni giorno di più. Era solo questione di tempo e, prima o poi, gli avrebbe presentato il conto.
E il momento era arrivato proprio quella mattina, quando sembrava che il peggio fosse passato. Il morso della scolopendra, un banale incidente di percorso, si rivelò invece un colpo fatale per un corpo ridotto allo stremo come quello del francese.
Il fisico di Verdoux non era più in grado di reggere lo sforzo, aveva iniziato a spegnersi, ed egli l’aveva capito.
Erano trascorsi due giorni da quando Jacques Verdoux era stato trasportato dai compagni dalla gola all’accampamento. Fu un’operazione assai delicata e non priva di rischi.
Jacques aveva perso l’uso delle gambe e si era proceduto alla costruzione di una barella di fortuna dove il francese era stato sistemato e successivamente legato per evitargli di cadere. La salita venne affrontata in un punto del pendio relativamente poco ripido e sgombro di ostacoli, in quel punto erano stati fissati nel terreno dei passanti per far scorrere la fune che doveva issare il francese.
I tre compagni di Jacques si divisero i compiti: due in cima a tirare e uno in basso, Pedro che era il più robusto, a spingere la barella sulla quale era stato assicurato il francese. Ci volle quasi un’ora, ma alla fine Jacques fu tradotto in cima senza inconvenienti, a parte tre schiene doloranti e tre paia di braccia indolenzite.
Quella di trasferire Jacques Verdoux all’accampamento fu una scelta obbligata: Jacques non era più autosufficiente, aveva bisogno della costante presenza di qualcuno che potesse assisterlo, e a Pedro venne affidato il compito di affiancare il paleontologo per il resto della spedizione.
Greenstone era tormentato: non era stato in grado di capire se la paralisi alle gambe dell’amico era stata causata dagli effetti del morso della scolopendra o dall’aggravarsi della malattia, oppure se fosse stata la somma di entrambe le cose. Si sentiva in qualche modo responsabile e, anche se si sforzava di non lasciar trapelare le sue emozioni, non riusciva a farsene una ragione. “Se solo fossi stato più attento” continuava a ripetersi.
Era anche consapevole che le condizioni fisiche del compagno difficilmente sarebbero potute migliorare e si preparò al peggio. Questo non gli tolse la speranza che la salute di Jacques potesse stabilizzarsi permettendogli di adattarsi alla sua nuova condizione e di partecipare, nonostante tutto, alle attività del gruppo con il suo prezioso contributo di conoscenze.
In ogni caso quell’evento cambiò, suo malgrado, i piani dello scozzese, facendo slittare di alcuni giorni il previsto ritorno nella caverna.
La mattina del 23 settembre 1884 Greenstone e gli altri membri della spedizione si trovavano nell’accampamento della radura sul margine occidentale della Gola di Valverde, erano intenti nei loro preparativi per l’imminente discesa nella gola e il successivo trasferimento in pianta stabile di due di essi nella caverna, dove sei giorni prima avevano fatto l’eccezionale scoperta delle rovine.
Dialogo sulla morte tra Sewell e Jacques del 23 settembre 1884
Erano circa le tre del pomeriggio, faceva caldo e l’umidità era opprimente. Greenstone era rimasto all’accampamento a occuparsi del francese costretto nel suo giaciglio.
In mattinata i due indios erano partiti diretti al vicino villaggio per procurare le provviste necessarie al prosieguo della spedizione.
Gli scienziati attendevano da un momento all’altro l’arrivo dei loro giovani aiutanti. Per tutta la mattina Sewell e Jacques si erano scambiati poche laconiche battute, il primo aveva occupato gran parte del tempo a riempire di annotazioni l’ennesimo taccuino, mentre il secondo si era immerso nella lettura dell’unico libro che si era portato dall’Europa: ‘Le Confessioni’ di Jean-Jacques Rousseau.
Poi Sewell ripose il suo quaderno ormai pieno zeppo di appunti e finalmente si rivolse all’amico:
«Oggi come vi sentite Jacques?»
«Meglio Joseph, non sento più alcun dolore… È sparito… Come le mie gambe!»
«Le vostre gambe non sono sparite.»
«Ci sono, ma non mi appartengono più… Era meglio se sparivano, almeno Pedro avrebbe un fardello meno ingombrante da spostare.»
«Non parlate così, sono sicuro che prima o poi camminerete di nuovo.»
«Sentite Joseph, amico mio, ormai credo di conoscervi abbastanza bene per capire quando dite la verità e quando mentite, e ciò che avete appena detto non lo pensate… Ammettetelo su!»
«Io non ho nessuna intenzione di mentirvi, voglio solo pensare che la sorte possa ancora riservarci qualcosa di buono… È forse sbagliato?»
«No, non lo è… Però ve lo dico per esperienza: in passato ho mentito sia a voi che a me stesso. Pensavo che così facendo potesse servire a piegare il destino in mio favore, ovviamente mi sbagliavo… Ora è solo la consapevolezza a muovere i miei pensieri, e i fatti mi dicono che non camminerò più! Quindi perché ingannarsi con false illusioni? Del resto non sono affatto triste… Mi vedete triste?»
«No, non lo sembrate affatto. Forse più cinico… con voi stesso, intendo.»
«No ve l’assicuro, non è cinismo… piuttosto realismo! Prima non volevo guardare in faccia la verità. La conoscevo, sapete. Ma mi voltavo dall’altra parte, probabilmente per paura… forse, non so…»
«Io ho sempre ammirato il vostro pragmatismo, la vostra fede nella verità e la tenacia con cui avete portato avanti le vostre idee… Come dimenticare il vostro fervore a sostegno della mia causa… Mi riesce difficile credere che abbiate avuto paura di affrontare la vostra malattia come avreste dovuto.»
«Quando ho appreso della mia malattia, ho inteso la notizia come se il cancro riguardasse un altro uomo. Inoltre il tempo a disposizione si era ridotto all’osso e avevo troppe cose da sistemare per potermi permettere di consumarlo piangendomi addosso. Ma non era paura, credo sia stato stordimento! Mi sono posto l’obiettivo di seguirvi in questa missione a qualunque costo! Tutto il resto l’avevo fatto sparire… Rimuginare sulla malattia sarebbe stata una distrazione inutile…»
«Quando vi incontrai otto mesi fa a Londra, non immaginavo quello che stavate passando, né voi mi avete fatto mai intuire nulla…»
«Cosa c’era da intuire? Quando ci vedemmo ero euforico, eccitato dal vostro progetto. C’era da organizzare questa spedizione… La malattia, come ho detto, era l’ultimo dei miei pensieri, credetemi!»
«Adesso è tutto diverso…»
«Sì, ora è diverso. Non posso camminare e sto perdendo le forze, mi sento ogni giorno più debole e sono diventato un peso per tutti voi. Era proprio questo ciò che temevo di più… Poi, casomai, arriverà la morte! Sapete Joseph, vi sembrerà strano, ma fino a qualche giorno fa non ci avevo ancora pensato… all’idea di morire intendo!»
«Eppure mi avete detto che avevate agito nella consapevolezza di trascorrere i vostri ultimi giorni di vita proprio quaggiù. L’idea della morte dovevate averla fatta vostra ormai!»
«Un’idea romantica… Niente di più lontano dalla realtà!»
«Tutti dobbiamo morire prima o poi. Qualche giorno fa vi dissi che nessuno di noi è al sicuro quaggiù, la nostra vita è in bilico… Io stesso non so cosa mi aspetterà una volta tornato alle rovine.»
«Dimenticate che state parlando con un sicuro condannato a morte…» Jacques sorrise, «Io so per certo che dovrò morire, e che questo avverrà presto!»
«Perdonatemi Jacques, non volevo sminuire la vostra condizione…»
«No no, non scusatevi affatto amico mio! Capisco cosa volete dire, e capisco quanto sia difficile trovare le giuste parole. Il fatto è che in questi casi non ci sono mai parole giuste, perciò non sforzatevi a cercarle! Anche la vita di un bambino è in bilico, sempre, ogni giorno e per tutti i giorni che verranno. Se sarà fortunato diventerà vecchio, ma alla fine morirà, inevitabilmente… È una legge universale!»
«Vero… Mi chiedo solo che senso abbia tutto ciò…»
«Oh Joseph, rischiamo davvero di spingerci in percorsi filosofici che servono soltanto a tenere impegnate le nostre menti ma che in realtà non ci porteranno mai alle risposte che cerchiamo… In fondo, io vecchio ci sono diventato e alla fine dovrei considerarmi tra i fortunati. Evidentemente, ormai, devo essermi giocato tutte le mie carte… Ma forse la risposta sta proprio nella morte… Magari sarà un’esperienza affascinante.»
«Beh Jacques vi dirò, a me l’idea di morire non fa paura, più che altro la trovo un’enorme seccatura ecco… Doversene andare prima di aver finito l’elenco delle cose che si volevano fare, è questa la cosa che più temo, credo… Ma la nostra carne è fragile, basta poco per distruggerla, per imputridirla, veramente poco! Passiamo la maggior parte del tempo a nostra disposizione a curarla per mantenerla in salute, abbarbicati nei nostri corpi, non immaginando che prima o poi ci tradiranno. E in questo senso la morte, a volte, può essere addirittura una liberazione…»
«Una liberazione avete detto? Per caso, mi state suggerendo qualcosa?»
«Che intendete dire?»
Il francese infilò la mano destra nella tasca del panciotto e vi estrasse una piccola Derringer a doppia canna, dalle incisioni dorate e il manico in madreperla. «Ecco qua.» disse, «Era il mio ultimo segreto, vi giuro che non ne ho altri… Avervi detto l’altro giorno che non avevo armi è stata la mia ultima bugia, sebbene non fosse mia intenzione mentirvi…»
Sewell osservò l’arma. «Dall’aspetto mi sembra non l’abbiate mai usata.»
«Beh, se l’avessi già fatto è probabile che non sarei qui a parlarvene. L’ho acquistata un paio di settimane dopo aver saputo del cancro. L’ho considerata una più che valida alternativa a un’eventuale lenta agonia… Spero che possiate capire…»
«Caro Jacques, io non devo capire proprio nulla. Non spetta a me giudicare ciò che deciderete di fare, la vita è vostra ed è solo vostra la scelta! Ma una cosa voglio ribadirla: farò tutto ciò che posso per voi, sono vostro amico e lo sarò sempre, qualsiasi cosa accada…»
In quell’istante Juan e Pedro sbucarono dal muro di vegetazione sul margine ovest della radura, erano carichi di fagotti e sudati fradici.
Giunti all’accampamento, abbandonarono i loro fardelli e si fermarono a bere e a prendere fiato. Greenstone si diede da fare aiutando i due giovani a sistemare i rifornimenti. La visita al villaggio aveva procurato al gruppo di esploratori viveri e provviste per parecchi giorni.
Il Centro di Documentazione di Santa Francesca Romana e l’Istituto Gramsci presentano Lunedi 26 Marzo ore 16,30 presso la Sala del Centro di Documentazione di Santa Francesca Romana via XX settembre 47 Romana, il volume “ DON PIERO TOLLINI – TRA PROFEZIA E CAMBIAMENTO” realizzato con i contributi di Camilla Ghedini, Miriam Turrini, Don Andrea Zerbini. Parteciperà Mons. Gian Carlo Perego Arcivescovo di Ferrara-Comacchio. Coordina l’incontro Roberto Cassoli .
Don Piero Tollini nacque a Besozzo, in provincia di Varese il 12 aprile del 1921. Dopo il diploma dell’istituto Tecnico Commerciale del capoluogo, lavorò per un breve periodo a “La Prealpina” . Su suggerimento di Don Primo Mazzolari, che reggeva la Chiesa di Bozzolo, frequentò il Seminario di Ferrara, ai tempi in cui Vescovo era Monsignor Ruggero Bovelli. Venne ordinato sacerdote il 20 maggio 1952, e successivamente inviato come cappellano nella Parrocchia della Sacra Famiglia e San Martino dal 1954 al 1971 e successivamente parroco a Montalbano dal 1971 al 1988, per poi passare nella nuova parrocchia di Santa Maria del Perpetuo Soccorso a Borgo Punta fino al 1998 . Nel 1998 si ritirò in un appartamento messo a disposizione dalla Diocesi di Ferrara. Tra i suoi maestri riconobbe sempre don Bosco, don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani, padre Ernesto Balducci e padre David Maria Turoldo.
Un libro è stato scritto a più mani, con Camilla Ghedini, Andrea Zerbini e Mirian Turrini. Nel libro si raccolgono i ricordi degli amici, dei suoi parrocchiani e nel contempo è una riflessione sul sua vita, sulla sua esperienza sacerdotale letta nel contesto storico in cui è vissuto, nell’ambito di un difficile periodo storico attraversato da profondi cambiamenti, da qui il titolo “UN PRETE NEL CAMBIAMENTO”.
La città di Ferrara fa capolino tra le pagine di uno dei libri più coinvolgenti di questi anni. In ‘Storia della bambina perduta’ – quarto e ultimo volume della quadrilogia de ‘L’amica geniale’ di Elena Ferrante – a un certo punto la protagonista Elena-Lenù fa riferimento al suo viaggio nella città emiliana per presentare un libro. L’episodio è raccontato nella parte iniziale del romanzo che conclude la serie di quattro.
Al pagina 77 di ‘Storia della bambina perduta’ si legge: “I tempi avevano quell’andamento. Andò male anche a me, una sera, a Ferrara. Il cadavere di Moro era stato ritrovato da poco più di un mese quando mi scappò di definire assassini i suoi sequestratori. Con le parole era difficile sempre, il mio pubblico esigeva che sapessi calibrarle secondo gli usi correnti della sinistra estrema, e io stavo attentissima. Ma spesso finivo per accendermi e allora pronunciavo frasi senza filtro. Assassini non andò bene a nessuno dei presenti – assassini sono i fascisti – e fui attaccata, criticata, sbeffeggiata. Ammutolii. Quanto soffrivo nei casi in cui all’improvviso mi veniva tolto il consenso. […] Se si ammazza qualcuno, non si è assassini? La serata finì male, Nino fu sul punto di fare a botte con un tale in fondo alla saletta. Ma anche in quel caso contò solo tornare a noi due”.
La misteriosa Ferrante ha quindi probabilmente messo piede a Ferrara, ha avuto modo in quegli anni di frequentarne almeno un po’ le strade, i luoghi d’incontro. Non ci sarebbe stato motivo di citare Ferrara al posto di un’altra città, se non forse per la sua collocazione ideologica ben schierata a sinistra, significativa in effetti per descrivere l’atmosfera che si respirava negli anni di piombo. Il momento storico, nel romanzo, è identificato e circoscritto in modo preciso. Aldo Moro fu sequestrato il 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, e il suo corpo senza vita fu ritrovato il 9 maggio successivo in via Caetani. Quindi la visita ferrarese raccontata nel romanzo va collocata intorno alla metà di giugno del 1978. Ma se davvero c’è venuta, in quale veste si è presentata a Ferrara l’autrice che con tanta cura ha sempre tenuto nascosta la sua vera identità? All’epoca poteva avere sui 25 anni, neo laureata, forse scriveva articoli, saggi, o poteva essere impegnata per qualche ricerca. Non può certo esserci stata per presentare un libro firmato come Elena Ferrante, perché questo non l’ha mai fatto, di mostrare il volto associato a quel nome. E, inoltre, il primo libro firmato così risale ad anni molto successivi: è ‘L’amore molesto’ che esce nel 1992.
Le ricerche fatte dal ‘Sole 24Ore’ per dare un’identità reale all’autrice hanno portato a identificarla nella traduttrice dal tedesco all’italiano della casa editrice E/O, che è poi l’editore che ha anche pubblicato tutti i volumi firmati Ferrante dal 1992 a oggi. Così infatti emerge dall’articolo “Ecco la vera identità di Elena Ferrante” di Claudio Gatti uscito sul quotidiano economico-finanziario italiano del 2 ottobre 2016 , che attraverso un’indagine sui flussi di denaro tra chi pubblica e chi scrive attribuisce ad Anita Raja, traduttrice dal tedesco di molte opere in catalogo, la paternità (ma in questo caso sarebbe meglio dire maternità) de ‘L’amica geniale’ e di tutto ciò che è stato stampato a nome di Elena Ferrante. Il primo indizio è comunque una conferma: la casa editrice E/O, così strettamente legata all’autrice, nasce proprio a cavallo di quegli anni di grande tensione del Paese, fondata a Roma nel 1979 dall’ex militante di Lotta continua Sandro Ferri insieme alla moglie Sandra Ozzola, esperta di letteratura russa. A tracciare un identikit di Anita Raja ci pensa invece, senza malizia e prima che vengano fatti questi collegamenti-scoop, l’organizzazione del Festivaletteratura di Mantova, che invita la traduttrice all’edizione del 2014 della manifestazione letteraria e la inserisce tra le schede degli ospiti come “Nata a Napoli nel 1953, si è laureata in Lettere e vive a Roma. Ha tradotto dal tedesco gran parte dell’opera di Christa Wolf. […] Ha altresì tradotto per antologie e riviste testi di Ingeborg Bachmann, Hermann Hesse, Ilse Aichinger, Irmtraud Morgner, Sarah Kirsch, Christoph Hein, Hanz Magnus Enzensberger, Veit Heinechen e Bertolt Brecht, sia di prosa che di poesia. Ha pubblicato innumerevoli articoli e saggi sulla letteratura italiana e tedesca e sui problemi relativi alla traduzione”. Presentandola al pubblico in un incontro del 6 settembre 2014, una delle organizzatrici del festival Annarosa Buttarelli la definisce come “direttrice della biblioteca europea di Roma” nonché “traduttrice senza tradimento della vita di una scrittrice famosa come Christa Wolf”. E la Raja – nell’incontro registrato nell’archivio del sito di Festivaletteratura – parla della traduzione come di una pratica basata su “una forte empatia”, sul “rapporto non tra due persone ma tra due lingue, dove chi traduce deve lasciarsi invadere e pervadere dalla lingua dell’altra, un atto che espande la tua lingua” e che poi nel caso di lei e della Wolf è diventata anche “un’esperienza unica e irripetibile” basata su un rapporto personale, con la frequenza della sua casa di Berlino e di quella natale del Magdeburgo, vedendola “nella sua normalità, vedendo come preparava una torta o come stendeva i panni, così come sbrigava la corrispondenza o lavorava nel suo studio”. “Christa Wolf – dice la Raja – vuole raccontare il versante quotidiano della storia, anche quando ha scritto i suoi romanzi di argomento mitico, come Cassandra e Medea, c’è un forte legame con l’esperienza biografica”, “ha sviluppato un’ossessione per il racconto della quotidianità, per fermare la vita quotidiana, usando una forte alternanza tra discorso alto e basso, citazioni letterarie molto colte e tanto linguaggio orale e modi di dire” con “un’estrema attenzione per il sessismo della lingua”.
Potrebbe essere in veste di collaboratrice della casa editrice E/O che la Ferrante è venuta a Ferrara alla fine degli anni Settanta? Improbabile: il nome della Raja compare per la prima volta su opere del catalogo E/O solo quattro anni dopo il rapimento Moro, nel 1982, nel ruolo di autrice 29enne della traduzione dal tedesco e delle note a corredo della pubblicazione di ‘Nozze a Costantinopoli’ di Irmtraud Morgner, poi nel 1984 per la prima traduzione di opere di Christa Wolf (‘Cassandra’ e ‘Premesse a Cassandra. Quattro lezioni su come nasce un racconto’). Da lì in poi è lei che firma tutta la versione italiana dell’opera della Wolf, fatta conoscere qui proprio grazie a questa casa editrice e alle sue traduzioni.
Nel frattempo, però, nel catalogo della casa editrice fa la sua comparsa pure il nome dell’autrice Elena Ferrante, al debutto nel 1992 con ‘L’amore molesto’. La pubblicazione coincide con l’avvio della collana di ‘narrativa italiana’ all’interno di un catalogo fondato inizialmente con l’obiettivo di “far conoscere la letteratura contemporanea dei paesi dell’Est”, e allargato in seguito – come spiegano gli stessi editori nella presentazione online – ad altre letterature. Il nome della Ferrante riappare in catalogo nel 1996 per la seconda edizione de ‘L’amore molesto’ ridato alle stampe dopo l’uscita del film di Mario Martone nel 1995. Del 2002 ‘I giorni dell’abbandono’, seconda opera letteraria firmata Ferrante, poi nel 2003 ‘La frantumaglia’ che è invece un resoconto della sua esperienza di scrittrice, nel 2005 la versione inglese del secondo romanzo intitolato ‘The Days of Abandonment’ per i tipi di Europa Editions (consorella americana fondata dagli stessi proprietari della E/O, ma con sede a New York), nel 2006 il romanzo ‘La figlia oscura’, nel 2007 il racconto per bambini ‘La spiaggia di notte’, nel 2011 il primo capitolo de ‘L’Amica geniale’, seguito nel 2012 dal secondo ‘Storia del nuovo cognome’, nel 2013 dal terzo ‘Storia di chi fugge e di chi resta’ e nel 2014 dal quarto e ultimo ‘Storia della bambina perduta’.
Ormai entrata nel turbine del coinvolgimento, la possibilità di un passaggio a Ferrara della Ferrante riesce ad accalorare me, così come accalora l’amica di letture con cui ho percorso uno dopo l’altro i suoi romanzi in una rete di collaborazione che ci ha fatto mettere insieme i quattro volumi tra regali, acquisti e prestiti.
Quello sperimentato in prima persona da chi è rimasto conquistato dalle vicende de ‘L’Amica geniale’ è l’effetto a cui gli americani hanno dato il nome di ‘Ferrante fever’, una sorta di slogan e hashtag lanciato da una piccola libreria degli Stati Uniti e poi reso ufficiale con la produzione del film-documentario che ha questo stesso titolo, diretto da Giacomo Durzi, uscito nelle sale nell’autunno 2017 e ancora visibile sui canali di Sky. Il film dà voce alle testimonianze entusiastiche raccolte soprattutto negli Stati Uniti anche da parte di noti scrittori americani e fa sentire meno soli nel proprio entusiasmo che invece qui – nella ristretta cerchia delle persone che frequento – ha finora avuto esiti alterni. Tra i sei amici e familiari che conosco che hanno letto ‘L’amica geniale’ sono solo tre (inclusa me) e l’hanno amata così tanto, mentre altrettanti (inclusa mia madre) ne sono stati quasi urtati, trovandola troppo avvezza a rovistare nel torbido dei sentimenti interiori e nella realtà cruda che circonda i personaggi di una Napoli piena di ombre dal sapore neo realista.
Diventa allora quasi commovente scoprire quanto si siano appassionati i nostri compagni di lettura statunitensi. Un interesse testimoniato anche attraverso le recensioni pubblicate da autorevoli testate giornalistiche. Su ‘The Guardian’ la rubrica ‘The Little Library café’ firmata da Kate Young si è adoperata persino per rintracciare e realizzare le ricette di alcuni dolci citati nel primo e nel terzo volume della serie (i dolci napoletani al pistacchio nell’articolo pubblicato il 22 ottobre 2015 e le frittelle fiorentine in quello del 21 gennaio 2016). Per non dire dell’interesse turistico-geografico con una sorta di guida ai luoghi in cui la storia è ambientata. Il New York Times prima (14 gennaio 2016) e lo stesso The Guardian poi (7 novembre 2017) si prendono la briga di dar corpo alle immagini napoletane evocate nei libri con tanto di mappa geografica del rione e delle vie della città frequentate dai personaggi romanzeschi. The Guardian affida al fotografo partenopeo Giuseppe Di Vaio un intero reportage in giro per i quartieri di Napoli a immortalare i luoghi che possono corrispondere a quelli narrati: il tanto nominato “stradone” del rione Luzzati, la scuola elementare che potrebbe essere quella frequentata da Lila e Lenù, una pasticceria e un bar che danno forma e colore a quelli descritti sulle pagine, persino il famigerato tunnel di via Gianturco che le due amiche nel primo romanzo imboccano di nascosto da sole per andare nel centro di Napoli.
A Ferrara che mappa di ipotetico passaggio potremmo tracciare? Tra gli anni Ottanta e Novanta c’erano Spazio Libri come libreria impegnata, il Centro documentazione donna-Cdd tra i centri donna italiani di più lunga tradizione (nato nel 1980 e ancora più che mai attivo), le sale delle biblioteche comunali, Feltrinelli che però apre la libreria ferrarese soltanto nel 1994, e poi diversi circoli. Potrebbe essere venuta in uno di questi posti l’autrice ancora sconosciuta per parlare dei libri che traduceva?
Il più accreditato potrebbe essere il Centro documentazione donna, da sempre attento a scrittrici di nicchia e sicuramente in linea con i temi e l’approccio letterario di un’autrice come la Wolf. La pista, però, va esclusa. La presidente del Cdd ferrarese Luciana Tufani racconta: “Gli editori della E/O hanno partecipato a nostre iniziative, ma non abbiamo mai avuto ospite Christa Wolf o la sua traduttrice, mentre ebbi occasione di incontrarle entrambe andando appositamente a Torino in occasione del Salone del libro (nel 1997, ndr)”. La sala Agnelli della Biblioteca Ariostea, in via Scienze 17 a Ferrara, potrebbe invece essere benissimo la famosa “saletta” a cui si fa riferimento nel romanzo, luogo possibile di presentazione e dibattito riservato perlopiù a incontri con gli autori e le autrici; ma non risulta che siano passate di qui Wolf o Raja. Durante il festival Internazionale a Ferrara (organizzato in anni recenti, dal 2007 ad oggi) la sala di Palazzo Paradiso è stata più volte riservata a momenti di riflessione sul tema della traduzione dei testi. Raja-Ferrante potrebbe esserci venuta anche solo come partecipante, professionalmente interessata all’argomento, e – al momento di scrivere il romanzo – la visita può averle dato lo spunto per citare il passaggio ferrarese, ambientandolo a quel punto in tutt’altra epoca. Il mistero rimane. Ma a ben vedere è il ventaglio di possibilità che intriga il lettore, già conquistato dai testi coinvolgenti, introspettivi e impudicamente intimi di questa scrittrice. E l’incognita – come è accaduto per l’identità misteriosa dell’autore – facilita l’elucubrazione, induce a far spaziare a tutto campo la mente in virtù di quell’intimità così forte che si crea nel corso delle oltre 1.700 pagine de ‘L’Amica geniale’.
Prima gli Italiani. Dal quattro di marzo populisti e sovranisti sono la nuova religione, oltre il cinquanta per cento del paese.
Il credo nell’Io e Mio assoluti, Qui e Ora e in ogni luogo dello stivale, il popolo di santi, poeti e navigatori, il culto del popolo sovrano, del cittadino primus inter pares è la nuova confessione a cui tutti si dovranno convertire.
Se mai abbiamo temuto uno Stato confessionale, ora è giunto il suo momento, è la stagione della nuova religione che celebra il popolo sovrano, il popolo che comanda, la religione che deve pervadere di sé ogni angolo del paese, ogni sinapsi dei cervelli di questa nazione.
Gli Unti dal Signore hanno ceduto la scena agli Untori, se non sei un fedele del nuovo culto, sei un paria, un reprobo, un nemico del popolo.
Un popolo di cittadini molto post millesettecentottantanove che va all’assalto delle casse dello Stato per rivendicare il diritto naturale al reddito di nascita, passando così dai vitalizi della casta ai vitalizi dei cittadini, perché l’uomo in natura nasce pagato, poi è la politica che lo corrompe, fregandogli il suo malloppo guadagnato per diritto di nascita.
È sempre la solita storia di Giangiacomo, che si nasce buoni in natura, e poi è la società che ci corrompe, non c’è società che si salva, ma si può sempre recuperare la purezza se si è sovrani a casa sua.
Ci aspettiamo la nazionalizzazione delle banche e l’esproprio di tutti i ricchi, una società senza classi, tutti cittadini a reddito o rendita di nascita.
Fuori tutti gli altri, a partire dall’Europa che è solo un accidente geografico e pertanto non può vantare pretese. Per la moneta non c’è bisogno dell’euro, se ci sono i bitcoin che promettono rendite favolose, ci potrà anche essere l’Italo, la moneta fai da te, perché il ritorno alla lira sarebbe un deja vu, Italo è più creativo e fa più sovranità popolare.
Noi poi in quanto ad autarchia e a sovranità popolari abbiamo a nostra disposizione la memoria di un glorioso ventennio di fasti littori da cui attingere e c’è già chi è pronto a dare una mano.
Il lavoro non ci sarà più non perché ci siamo liberati dalla condanna biblica del lavoro, ma perché è il lavoro che si è liberato di noi, di noi non ne ha più bisogno.
Non è che il lavoro è un vecchio arnese destinato a scomparire, che ha finito di sfruttare uomini e donne, semplicemente ha trovato come sfruttarli meglio di prima, con il lavoro sottopagato, con il lavoro in nero, schiavizzando la mano d’opera degli immigrati.
Allora, mettiamoci in salvo almeno noi con il nostro reddito di nascita, chiudendo le frontiere, circondando di filo spinato ad alta tensione le nostre coste, così in casa nostra non ci sarà più nessuno da sfruttare. Non è chiudere gli occhi, e solo allontanare per non vedere. Cosa c’è di male? Deglobalizziamoci in nome della localizzazione estrema, l’Italia agli Italiani e tutti gli altri fuori.
Gli immigrati a casa loro, a casa loro li possiamo anche aiutare, così loro, da casa loro, in cambio ci pagano il reddito di nascita. Mica vorranno venire a fare le colonie qui da noi, che la colonia la facciano là da dove sono venuti.
Perché combattere il sistema? Roba di cinquant’anni fa! Facciamoci piuttosto il capitalismo di casa nostra, ognuno per sé tutti per uno.
Destra, sinistra, antifascismo litanie d’altri tempi. L’economia oggi corre sul digitale, nell’accumulo delle ricchezze non ce n’è per tutti. Ma non preoccuparti perché se anche nella corsa resterai ultimo per tutta la vita, l’importante è che resti nel tuo guscio con il tuo reddito di nascita garantito. Non pretenderai mica una vita di realizzazione? Non pretenderai mica di correre, se le gambe per correre non ce le hai! E poi, diciamocelo, la felicità, la felicità vera è decrescita. La felicità è non desiderare, la felicità è non avere bisogno, desiderio e bisogno il reddito di cittadinanza li sconfigge alla nascita.
La felicità è qui, lontani da ogni invasione, da ogni cultura che non sia il tuo rassicurante, conosciuto folk. Vuoi scherzare? La parola d’ordine d’ogni novax che si rispetti è “no contaminazione”!
Il 16 marzo ritornano vecchie ferite che, purtroppo, fanno sempre meno male. Quanto ha inciso la dicotomia Est-Ovest nel caso del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro? Il libro di Giovanni Fasanella ‘Il puzzle Moro’ ne indaga le oscurità nei giorni in cui si ricordano i 40 anni del triste evento che è rimasto nella memoria dei più anziani, mentre è completamente oscuro ai più giovani. Un momento della nostra storia relegato all’oblio e molte volte raccontato, incredibilmente, dai protagonisti della parte sbagliata che come in tanti altri casi, nel nostro Paese, contribuiscono a tenere alta la cortina di fumo.
Un libro che oggi mi piace mettere in relazione a un altro di qualche anno fa: ‘La sfida totale: equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali’ di Daniele Scalea, perché tratta di geopolitica e quindi proprio dell’eterno conflitto tra Est e Ovest. Un conflitto che spiega, costruisce e mantiene gli equilibri mondiali, giustifica le azioni, le uccisioni, le guerre e anche le condizioni della pace.
Gli assetti geopolitici mondiali non cambiano mai. Qualche nemico occasionale durante la strada del tempo si aggiunge, ma i protagonisti sono sempre gli stessi e, visto dalla nostra parte, il nemico è sempre l’Unione Sovietica che, seppur scomparsa da qualche decennio, viene tenuta in vita nell’immaginario occidentale proprio perché garantisca sia il conflitto sia la pace.
La Russia (nella continuazione dell’Unione Sovietica) deve contrapporsi all’idea della libertà occidentale, essere a tratti l’impero del male, la sobillatrice dei conflitti europei, la distributrice di gas nervino e di attacchi informatici tendenti al sovvertimento della pax americana post seconda guerra mondiale.
Certo, guardando sulle mappe aggiornate, l’Unione Sovietica non esiste più ma il mondo occidentale continua a ragionare come se invece esistesse ancora. Lo capiamo in Siria, quando si fatica a trovare un accordo che indirizzi tutti alla pace, ma ancor meglio lo vediamo nelle trame delle spie russe su suolo britannico, laddove la premier May è pronta a ricevere pieno appoggio da parte degli Usa, della Germania, della Francia e ovviamente dell’Italia. Trame per le quali non è consentito avere prove che gli stessi russi chiedono, ma che dovrebbero essere rese chiare agli ‘alleati’ occidentali e magari anche alla gente comune, soprattutto dopo che gli stessi inglesi hanno giurato di avere prove inconfutabili trascinandoci nella guerra all’Iraq che, tra le altre cose, ci ha regalato anni di guerra ai fanatici dell’Isis.
Le scuse di Blair, in ogni caso, sono state ampiamente accettate dal mondo, digerite e dimenticate mentre ci si appresta, magari, a ricevere un giorno quelle della May dopo che ci avrà condotto, chissà, ad una guerra nucleare. Putin continua a essere presentato all’immaginario collettivo come il successore di Stalin e come se la sua politica estera fosse impregnata di quel Niet tipico dell’epoca delle spie venute dal freddo. Certo non possono esserci dubbi sulle sue colpevolezze visto che è al potere da 17 anni, mentre la Merkel solo dal 2005, e non giova sapere che non è stato lui ad affamare la Grecia e distruggere le economie dei paesi del sud Europa. Lui è l’Est e noi l’Ovest, il resto sono congetture e filosofie del terrore.
E’ un fatto, comunque e fuor di metafora, che non riusciamo a uscire da quel circolo vizioso per cui è da una parte necessario vivere con la sindrome della contrapposizione Est/Ovest e dall’altra accettare che la Russia sia semplicemente un partner commerciale. Magari un Paese con una cultura millenaria, anello di congiunzione, piuttosto che motivo di contrapposizione, tra Oriente e Occidente. Un Paese intento molte volte a difendersi e a fare i suoi interessi politici, economici e strategici, come in fondo fanno tutti e quindi nell’alveo delle cose possibili.
Nel caso agli onori della cronaca di questi giorni la Gran Bretagna, come dicevamo, offre prove inconfutabili della colpevolezza russa o sovietica, insomma dell’Est. Più o meno come le cople attribuite a Gheddafi, quando anche noi Italia ci siamo precipitati a seguire la Francia, pur contro i nostri stessi interessi, che ci hanno poi regalato il disastro Libia. Il tutto consegnato serenamente alla storia anche dopo aver scoperto che dietro quei bombardamenti c’erano gli interessi petroliferi e geopolitici di Francia e Inghilterra. E per gli stessi interessi, forse e magari non nostri ma dell’Occidente tutto (dicono), abbiamo appoggiato la Turchia che diceva di bombardare l’Isis ma intanto gli comprava il petrolio e bombardava i Curdi oppure, più vicino temporalmente, abbiamo condiviso la missione francese in Mali.
Moro e la Siria, Mattei e la Libia. Giochi di geopolitica non più alle nostre spalle, ma alla luce del sole, verità inconfutabili senza prove da mostrare al mondo, ma con scuse successive, brigatisti che raccontano le loro verità in conferenze pubbliche e istituzioni che garantiscono libertà di espressione e interessi. Di chi?
Gli Stati Uniti sono in guerra un po’ in tutto il mondo, arrivano da terra e da cielo, ma soprattutto da televisione e giornali come una volta l’Inghilterra delle regine arrivava dai mari. Quando arrivano lasciano basi militari a difesa del loro interesse vitale: la supremazia del dollaro, che deve rimanere moneta di riferimento internazionale in quanto alla base della sua sopravvivenza. Da qui la necessità di intervenire e di controllare che la Russia (che pensa o dice ancora essere Urss) non si allarghi e che l’Europa non capisca o pensi di potersi sottrarre all’ombrello americano.
I due libri, di Farinella e Scalea, si incrociano e dettano le trame, letti di seguito potrebbero dare delle risposte, se mai le volessimo e ci ritenessimo capaci di gestirle.
Nel frattempo c’è una guerra perenne per mantenere gli equilibri, una corsa alle armi mai sopita e che dà linfa anche alle nostre esportazioni, quasi 8 miliardi nel 2015 e 14,6 miliardi nel 2016, a dimostrazione che la strategia funziona. Per chi e fino a quando?
Una guerra fredda continua, nonostante il crollo simbolico del muro di Berlino, alimentata da annunci, rivoluzioni colorate mal riuscite e persino soldati occidentali mandati nei Paesi Baltici in esercitazioni al limite della paranoia. Risposte vecchie a scenari nuovi!
E dunque adesso, a ridosso della commemorazione di un nostro lutto nazionale che pretenderebbe verità e che affonda le sue radici, forse e chissà, anche nelle assurde contrapposizioni tenute (ancora) in vita da interessi indegni, siamo costretti a rispolverare l’agente 007 e i piani anti-invasione della Russia. Di cui, del resto, è chiara l’ingerenza nei nostri affari nazionali. Siamo sovrastati dalle loro basi sul nostro territorio, alzano i dazi contro di noi, attentano alle nostre istituzioni repubblicane e il Kgb non ci lascia in pace come invece fanno Cia e Fbi. Per finire, i nostri partiti politici sono ancora costretti, per essere accreditati al mondo civile, a presentarsi al Cremlino per rassicurare il tiranno sulle loro intenzioni.
“Ci rifiutiamo di imparare nella paura, ci rifiutiamo di vedere trasformate le nostre scuole in delle prigioni. Non accetteremo nulla che non sia la comprensione che è necessario agire per il controllo delle armi e se sarà necessario faremo vergognare i nostri politici nazionali per non essere in grado di proteggerci”. Non si arrendono questi giovani, il grado di consapevolezza che hanno raggiunto è straordinario, sono davvero bravi!
Vedono bene, non sono più ingannabili e anche noi vediamo meglio, grazie alle loro parole. “Non è una questione partigiana, non c’è nulla di partigiano sui grandi temi della vita o della morte, tutto ciò riguarda le armi e la moralità di questo paese. Quando i nostri capi ci dicono che la soluzione è nell’avere ancora più armi allora abbiamo un problema morale nella Casa Bianca. Quando i nostri politici tengono in conto il denaro sporco dell’Nra più della vita dei nostri bambini allora abbiamo un problema morale dentro al nostro Congresso. […] Quando derubrichiamo le morti dei ragazzi a effetti collaterali allora abbiamo un problema morale nel nostro paese!”, ha proseguito uno di loro parlando alla folla radunata per la marcia del 14 marzo davanti alla Casa Bianca. Che coraggio e che determinazione!
Esattamente il giorno dopo la marcia degli studenti negli Stati Uniti, il 15 marzo da noi in Italia, ancora il 14 in Sud America, in Brasile viene freddata con cinque colpi di pistola Marielle Franco, consigliera municipale di Rio De Janeiro. Donna, lesbica, attivista politica, nera, paladina dei poveri e dei diversi e in migliaia scendono per strada. Una delle più imponenti manifestazioni spontanee di questi ultimi anni. L’infame assassinio di Marielle viene definito un’esecuzione, si vocifera la responsabilità sia della polizia militare che aveva incarico di mantenere la sicurezza nella favelas e che proprio Marielle il giorno prima aveva accusato di essere responsabile di violenze inaccettabili. (Leggi QUI l’articolo di Valerio Petrano)
Lo stesso giorno viene assassinato un noto ambientalista in Amazzonia, Paul Sergiò, che si batteva per i diritti delle popolazioni indigene. Il suo avvocato ha accusato gli agenti locali della Polizia Federale di essere coinvolti, forse loro stessi gli assassini.
Come spesso accade in questi casi i leader politici assicurano che si farà giustizia, che ci sarà un’indagine, che si accerteranno i responsabili, ma queste parole non convincono più. Non basta perseguire i responsabili materiali di queste morti, non sono si possono derubricare a morti collaterali, non sono morti per mani di pochi cattivi.
Qui c’è un intero sistema che è malato e coloro che occupano posizioni di potere e decisionali, democraticamente eletti, se non sapranno sottrarsi alla dittatura del sistema potrebbero essere considerati collusi e corresponsabili.
La velocità della circolazione delle notizie ci sta permettendo di mettere insieme fatti che apparentemente non sembrano avere una radice comune che invece hanno: l’enorme ricchezza concentrata nelle mani di pochissimi (studio Oxfam: 1% dei più ricchi possiede più del 99%), per lo più maschi bianchi attempati, e l’ insopportabile e ingiusta disuguaglianza sulla quale si fonda questa ricchezza. È globale la presa di coscienza.
“Gli adulti ci hanno deluso”, conclude il giovane dal palco “tutto questo ora è nelle nostre mani e se gli eletti ci ostacoleranno sulla via del cambiamento, li cacceremo e li rimpiazzeremo noi stessi. Enough is enough!”
Oggi ho un grande speranza: questa generazione non arretrerà e noi donne con loro.
Roberta Trucco
Chi siamo Il gruppo Molecole è un momento di ricerca e di lavoro sul bene, per creare e conoscere, scoprire e dialogare con altre molecole positive e provare a porsi come elementi catalizzatori del cambiamento. Nasce agli inizi del 2016 a Casanova Staffora, dall’esigenza di supportare le persone nell’esplicazione delle proprie potenzialità e successivamente costruire processi di associazione e interazione, poiché ogni molecola, aggregandosi, potrebbe generare un corpo finito ed operante, una parte viva e attiva della società, diventando elemento di speranza e di pressione.
Il gruppo si riunisce ogni due mesi presso la sede di Ce.L.I.T. a Santa Margherita di Staffora (provincia di Pavia) ed è aperto a contributi e collegamenti con altre esperienze analoghe.
Sono state le proiezioni di ‘9/11’, il film con Charlie Sheen e Whoopi Goldberg che narra i tragici eventi dell’11 settembre da un punto di vista inedito, e quella del film ungherese “Sing” ad aprire ieri sera – venerdì 16 marzo 2018 – al Cinepark Apollo il Ferrara Film Festival, terza edizione della rassegna di anteprime cinematografiche internazionali, ma anche di incontri tra professionisti del cinema e di confronti con le realtà produttive e artistiche. In mattinata gli organizzatori hanno presentato l’evento, organizzato dalla società Perpetuus con il patrocinio del Comune di Ferrara.
Alla conferenza stampa ospitata nella sala dell’Arengo del Municipio di Ferrara il direttore della manifestazione Maximilian Law ha spiegato come è nata l’iniziativa.
“Da Los Angeles, che è la città del cinema dove vivo e lavoro – ha detto Law – cinque anni fa ho avuto una visione, quella di portare un pezzo di Hollywood nella mia città natale, Ferrara, dove da bambino è iniziata la passione e l’ossessione per fare cinema. Grazie alle istituzioni di Ferrara ho potuto così dare l’opportunità a film-maker provenienti da tutto il mondo di mostrare i loro lavori in questa meravigliosa città”. Sono quindi intervenuti il vicedirettore del festival Giorgio Ferroni, l’assessora comunale alla Pubblica istruzione Cristina Corazzari, il regista del film di apertura Martin Guigui, il direttore tecnico che si occupa delle relazioni con Oriente Giovanni Moriconi, il presidente del Comitato provinciale Unicef Gianni Cerioli, il direttore della fotografia Massimo Zeri.
Ferrara Film Festival porta a Ferrara 27 anteprime cinematografiche con proiezioni dal 16 al 24 marzo 2018 al cinepark Apollo (piazza Carbone 32, Ferrara) con ingresso a pagamento con questo calendario: venerdì 16 (ore 20), lunedì 19 (ore 20 e 22.30), martedì 20 (ore 20 e 22.30), mercoledì 21 (ore 20 e 22.30), giovedì 22 (ore 17.30 e 20), venerdì 23 (ore 17.30 e 20) e sabato 24 marzo 2018 (ore 16, 17.30 e 20). Domenica 25 marzo alle 18 le premiazioni in sala Estense (piazza Municipio 14) con ingresso libero per assistere alla consegna dei tredici Dragoni d’oro che verranno alle diverse categorie filmiche in gara.
Ferrara Film Festival 2018: presentazione in Municipio, 16 marzo 2018 (foto Valerio Pazzi)
Ferrara Film Festival 2018: selfie dei protagonisti e organizzatori (foto Valerio Pazzi)
Ferrara Film Festival 2018: Giorgio Ferroni, Gianni Cerioli, Maximilian Law, Martin Guigui (foto Valerio Pazzi)
Ferrara Film Festival 2018: Maximilian Law, Martin Guigui, Giovanni Moriconi, Massimo Zeri (foto Valerio Pazzi)
Da Valerio Petrano, collaboratore residente in Brasile
Mercoledì 14 marzo è stata assassinata a Rio de Janeiro la consigliera comunale Marielle Franco, assieme al suo autista Anderson Perdo Gomes. Al momento non si hanno certezze su chi sia il mandante, ma è molto probabile che le ragioni siano l’impegno da attivista di Marielle e le proteste portate avanti su tutto il territorio.
Alle 21.30 del 14 marzo (ora locale), mentre Marielle Franco, consigliera comunale di Rio de Janeiro, tornava da una manifestazione a favore dei diritti delle donne di colore, una macchina si è accostata alla sua in zona Estácio, in pieno centro, e dal suo interno sono partiti una pioggia di proiettili in direzione di Marielle, rimasta uccisa sul posto insieme al suo autista.
L’assassinio ha subito suscitato reazioni nelle diverse istituzioni: dal presidente Tamer e l’ex presidente Lula sono venute immediatamente condanne per l’accaduto. Human Rights Watch ha commentato l’accaduto parlando di “Impunità che esiste in Rio de Janeiro” e “sistema di sicurezza fallito”. Amnesty International ha invocato un’inchiesta. Le parole dell’ex presidente Luiz Inácio Lula Da Silva sono un misto fra cordoglio e denuncia, adombrando che possano essere state le forze dell’ordine stesse a orchestrare l’assassinio: “Se foi a polícia fica muito mais fácil descobrir” (se è stata la polizia sarà ancora più facile scoprirlo). Marielle aveva denunciato sui social network l’azione della polizia nella favela di Acari. Le indagini verranno portate avanti dalla polizia provinciale che, inusualmente, ha rifiutato l’aiuto della polizia federale offerto dal presidente Tamer, rimanendo gli unici ad investigare su un delitto che vede proprio la polizia provinciale fra i sospettati.
Marielle Franco, 38 anni, ha da sempre militato come attivista. Nata in una favela di Rio è cresciuta a contatto con la violazione dei diritti umani portata dalla miseria e dalla violenza delle forze dell’ordine. Sensibile ai temi della violenza sulle donne, soprattutto se in condizioni di povertà, molto spesso donne di colore, degli abusi della polizia e della precarietà della vita nelle favelas. Dal 2006 era impegnata in politica e dal 2016 era consigliera comunale per il gruppo ‘Mudar è possível’ (Psol e Pcb), il quinto candidato più votato. Il suo schieramento da tempo porta avanti inchieste contro la corruzione nelle istituzioni.
L’Onu aveva provato a mettere in allarme le autorità brasiliane su minacce di morte indirizzate a diciasette attivisti, tra cui Marielle, senza però ricevere alcuna risposta.
In queste ore si sta indagando sulla possibilità che ci fosse una seconda macchina di copertura, appostata per due ore sotto casa di Marielle. La polizia è stata in grado di identificare la targa dell’auto. Al momento non ci sono altre notizie rilevanti riguardo le indagini.
Esther Kinsky è l’autrice del romanzo ‘Hain’, ambientato anche a Ferrara e Comacchio, che sta avendo un’eco straordinaria fra i critici di lingua tedesca: tanto che, notizia di ieri, è stata insignita dell’importantissimo Deutscher Buchpreis 2018 (Premio di Letteratura tedesca 2018). Il testo sarà prossimamente disponibile anche in italiano. Pochi giorni fa, anche grazie al legame che sente con la città e il territorio estense, fra terra e acqua, ha accettato di rispondere ad alcune domande per Ferraraitalia.
E’ difficile definire il suo libro dal punto di vista letterario. E’ un romanzo, un libro di viaggi, un diario o un volume di racconti? Lei stessa lo definisce, nel sottotitolo, un “Geländeroman”. Come dobbiamo interpretare questa definizione e come possiamo tradurla in italiano, forse come romanzo del paesaggio’?
In tedesco potrei definire chiaramente la differenza tra Landschaft, paesaggio, e Gelände, terreno. Gelände è una parola più aperta, con più significati e forse potremmo renderla meglio con il termine luogo, ma ciò di cui sto realmente parlando è la lettura, l’interpretazione soggettiva di un luogo, che conserva tracce di qualcosa che è successo. In francese c’è l’espressione ‘recit‘ che, così come Gelände rispetto a paesaggio, è un termine più aperto. Per quanto riguarda il genere letterario, ogni volta che leggo la traduzione ‘romanzo’, tutto in me si ribella, anche se queste sono solo convenzioni.
Però bisogna ammettere che nelle tre parti in cui è diviso il libro viene raccontata un’unica storia che le comprende tutte e tre, si tratta quindi di un unico percorso, pur con sentieri e deviazioni, che si snoda attraverso i temi di perdita e lutto. Questo giustifica questa definizione di genere.
Sicuramente non è un diario e non sono neanche racconti. Piuttosto direi che nel libro ci sono temi fondamentali, strettamente uniti nelle loro motivazioni profonde più che in avvenimenti precisi. Gli uccelli, come l’airone per esempio, giocano un ruolo importante, e infatti il tema degli uccelli si dipana attraverso tutto il libro, così come quello delle necropoli.
Anche il titolo tedesco, ‘Hain’, non è facile da tradurre in italiano. Nei vocabolari troviamo il termine “boschetto”, ma questa parola esprime davvero il senso del tedesco Hain? Come mai ha scelto questo titolo, che fa pensare molto più al romanticismo che al neorealismo? Hain è una parola antica, che non definisce soltanto un piccolo bosco, ma che richiama un’atmosfera legata a miti e rituali del passato.
Il libro ha come motto principale una citazione della ‘Grammatica filosofica’ di Wittgenstein, che esprime meravigliosamente il mio tema della lettura del mondo attraverso i suoi segni visibili, ed in questo tema si si infiltrano sicuramente associazioni con il romanticismo, le cui tracce mi interessano sempre.
Parlare di romanticismo tedesco crea sempre molta confusione, perché l’appropriazione borghese e reazionaria di questo termine, e la sua volgarizzazione, hanno sempre gettato una pessima fama su molti aspetti che sono invece rivoluzionari.
La traduzione “boschetto” mi piace però, anche perché la scena centrale della seconda parte del libro, la scoperta di piccoli uccelli morti, si svolge proprio in un boschetto. Nel mio immaginario in queste scene il boschetto di oggi si trasforma lentamente in quello antico, anche se forse non riesco a esprimere bene a parole questo concetto. Comunque per me non sussiste nessuna reale contraddizione tra romanticismo e neo-realismo.
In tutti i suoi libri, soprattutto nelle poesie, al centro dell’attenzione sono luoghi dimenticati e perduti. In poche parole: sembra che non le interessino i tramonti lirici, ma molto di più le atmosfere brumose. Ma, soprattutto, lei ha un occhio particolarmente attento ai cespugli ai bordi dei fiumi o delle ferrovie, alle zone industriali, in breve agli angoli ‘sporchi’, ai luoghi “con cui nessuno vuole avere niente a che fare”, per dirla con le sue stesse parole. E’ giusta questa interpretazione?
Sì, mi interessa molto di più ciò che è ai margini, rispetto al centro. Nelle città di oggi, con i loro centri supercontrollati e snaturati da una pesante massificazione tesa solo al profitto, si è sviluppata una dinamica per cui tutte le cose più interessanti sono state spinte verso le periferie, per questo i margini sono più interessanti del centro.
Io sono nata sulle rive di un fiume e i margini mi hanno sempre interessata, perché il fiume stesso è definito dai suoi argini, dai suoi limiti; attraverso la discontinuità dei suoi margini, lo specchio d’acqua diminuisce, aumenta, si libera, divora lo spazio; questa è una dinamica che sfida il controllo.
A me interessano luoghi che contengano tracce, come ho già accennato, ma che sviluppino anche una propria, peculiare vita. Direi che questo è il punto fondamentale.
Uno dei termini più importanti per me è diventato Gestörte Gelände, terreni disturbati, un termine mutuato dalla storia naturale, che definisce così quei terreni che sono stati sovrasfruttati dall’uomo, che presentano tracce di interferenze umane, ma che tuttavia lottano contro queste tracce, sviluppando una flora ed una fauna del tutto peculiari.
Naturalmente spesso accade che i terreni abbandonati siano anche l’unico rifugio rimasto a quelle persone per cui è andato perduto il diritto a un proprio, legittimo spazio.
Mi riferisco per esempio a un boschetto a est di Budapest dove si sono rifugiati i senzatetto, ma anche agli insediamenti provvisori dei Rom intorno alle grandi città, ai molti che sono senza più patria: non parlo solo dei senza tetto, perché l’essere senza patria è uno stato di emarginazione in sé e questo è quello che mi interessa.
I tre capitoli del libro prendono il nome da luoghi italiani: Olevano, nella provincia laziale; Chiavenna, nel Nord della Lombardia, direttamente al confine con la Svizzera; e Comacchio, nel Delta del Po a est di Ferrara. Cosa lega questi tre luoghi?
Sono tutti luoghi che svolgono un ruolo determinante in ogni rispettiva parte del libro. Olevano è la scena dominante nella prima parte, nella seconda Chiavenna è il punto di partenza dei ricordi, per questo volevo che fosse una città di confine. Comacchio è invece un luogo che non si sa se appartenga alla terra o all’acqua, uno stato di indefinizione per me essenziale nell’ultima parte.
Il luogo più significativo in realtà è Spina, che si trova nella prima parte, ma non volevo dirlo chiaramente perché si tratta di una necropoli e avrebbe dato a tutto il libro un’atmosfera completamente diversa.
Una parte del suo libro è dedicata anche a Ferrara e in una frase lei afferma che: “Ferrara non si fa capire troppo facilmente”. Perché per lei Ferrara è una città che non si fa capire facilmente?
Ferrara è per me una città piena di misteri, ha qualcosa quasi di ottomano, si ha la sensazione che dietro queste facciate si dispieghino mondi che a coloro che passeggiano per le strade rimangono completamente nascosti.
Quando passeggiavo per le strade di Ferrara, mi venivano in mente i film di Satyait Ray, quegli sguardi dalle finestre piccole, strette e perfino sbarrate che davano sulla strada, mi immaginavo addirittura che le persone guardassero me in questo modo, che mi vedessero come ‘la straniera’ che passava nel vicolo. È una città dai confini netti dentro e fuori, esattamente come nei film di Ray, dove tutto ciò che è esterno è straniero.
Sicuramente il mio sguardo sulla città è stato condizionato da ‘Il giardino dei Finzi Contini’, il romanzo di Giorgio Bassani, che è un libro pieno di misteri, ma devo anche dire che mi ha sempre interessata il fatto che Ferrara fosse la città italiana che a Goethe non era mai piaciuta. Si ha quasi la sensazione che nel suo ‘Viaggio in Italia’, Goethe avesse paura di Ferrara, naturalmente non lo ha mai ammesso, ma è tuttavia incredibile come egli si sia espresso contro questa città. Io credo che non l’abbia capita.
E spesso ho la sensazione che la gente del Nord Europa abbia bisogno, quando visita la Bassa Padana, dei tesori artistici e del significato culturale dei luoghi per riuscire a entrare in relazione con loro, mentre ha poco amore per questo paesaggio spesso nebbioso e nordico, con la malinconia della pianura che circonda Ferrara, mentre è proprio per questo che trovo questa città così affascinante, anche se dovrò visitarla ancora tante volte prima di riuscire a farle rivelare tutti i suoi segreti.
Ma va bene così, niente batte la curiosità insoddisfatta.
Nel capitolo che riguarda Spina lei scrive che qui ci si trova di fronte ad un “paesaggio, o all’assenza di un paesaggio”. Può spiegarci?
L’area intorno a Spina, questa terra strappata all’acqua, al Delta del Po, è fortemente segnata dall’intervento dell’uomo. Tutto ha qualcosa di molto funzionale, quasi brutale. Tutto il terreno è sfruttato, ma si percepisce che qui c’era qualcosa di originariamente diverso. Come un altro elemento. Quest’area non è ancora un ‘paesaggio’, direi, ma è sicuramente ‘un luogo’. Credo che a volte si perda troppo tempo a cancellare i segni del passato, mentre parallelamente se ne inseguono le tracce attraverso la meticolosa ricerca dei reperti archeologici. Questa, per lo meno, è la mia sensazione.
L’opera di Giorgio Bassani è citata più volte nel suo libro. Lei cerca, come tutti i turisti che si interessano di letteratura, il famoso giardino dei Finzi Contini e, come tutti gli altri, non lo trova. ‘L’airone’ assume addirittura un ruolo centrale nella sua esplorazione del Delta. L’opera di Bassani è significativa anche per il suo modo di scrivere?
Io ammiro la scrittura di Giorgio Bassani: ha una tale sintonia con la gente, una tale comprensione per i dilemmi umani che mi coinvolge sempre. Al tempo stesso i suoi sono anche romanzi e racconti storici: nessun trattato sul giudaismo tra le due guerre mondiali mi ha insegnato tanto quanto ‘Il Giardino dei Finzi Contini’ e nessun saggio sul dopoguerra in Italia tanto quanto ‘L’airone’ di Bassani.
Per me ‘L’airone’ è forse il testo più importante di Bassani, perché sono gli elementi che colpiscono i sensi a dominare la scena: i colori del cielo, l’odore dell’aria, è tutto un mondo di sensazione e ricordo, un dramma straordinario che si svolge contemporaneamente nei pensieri e nel corpo.
Come lettrice ho quasi la percezione che tutto il Delta del Po scorra dentro di me, che la lettura stessa si impadronisca di me ogni volta, ancora e ancora.
Questo mi fa sentire in sintonia con Bassani, ogni volta è così, ma io ho uno stile di scrittura molto diverso e inoltre ho letto i suoi libri nella traduzione tedesca, con solo occasionali digressioni nell’originale, quindi non possiamo parlare di influenza diretta.
Ma di grande ammirazione sì, in ogni caso.
Si ringrazia Emilia Sonni per la traduzione dell’intervista
“E fai l’estetista e fai il laureato
E fai il caso umano, il pubblico in studio
Fai il cuoco stellato e fai l’influencer
E fai il cantautore ma fai soldi col poker
Perché lo fai?”
Così cantano gli Stato Sociale, band bolognese ‘rivelazione’ – come si dice spesso – di questo Sanremo 2018, un po’ per la loro musica un po’ per le loro esibizioni, fra denuncia sociale e ‘vecchie’ che ballano. Rivelazione per il grande pubblico televisivo della kermesse, ma non per occhi e soprattutto orecchie più esperti: quelli della KeepOn LIVE Parade, la classifica – mensile e annuale – di qualità relativa alla musica del vivo scelta e votata dai gestori e direttori artistici dei live club che aderiscono al Circuito KeepOn LIVE.
Nulla di nuovo: l’edizione del 2000 ha visto per esempio in gara Subsonica, approdati sul palco dell’Ariston direttamente nei big grazie a un numero esorbitante di live accumulati durante il loro tour. È capitato anche con i Perturbazione e i Marta sui tubi. Il secondo posto de Lo Stato Sociale, in gara tra i big dopo anni di gavetta e con i numeri dei palazzetti sold out dalla loro, è stato un piccolo grande successo per quella musica che nasce nei club, che si costruisce di data in data per tutta la penisola, spesso senza avere alle spalle network radiofonici e/o talent. Quella musica per la quale lo staff di KeepOn LIVE, il primo circuito nazionale che promuove e sostiene la cultura della musica italiana originale dal vivo, non passa ‘Una vita in vacanza’.
289 club aderenti al circuito, 605 concerti settimanali con 1378 artisti coinvolti e un totale di pubblico di sei milioni e mezzo di persone. A questi numeri vanno poi aggiunti quelli dei festival: 60 rassegne in 15 regioni da Nord a Sud, con 890.000 presenze, 2.892 musicisti, 504 tecnici e 3.983 figure retribuite. Questi gli highlights del 2016 (quelli del 2017 saranno disponibili a giugno – ndr): cifre di tutto rispetto che confermano quanto ci sia “voglia da parte delle persone di tornare a conoscersi dal vivo e provare esperienze. La sfida è spostare questa curiosità in modo diffuso anche ai locali ed eventi medio piccoli, mentre spesso rimane appannaggio dei grossi eventi”. A parlare è Federico Rasetti, ferrarese, direttore di KeepOn LIVE.
Federico, cos’è KeepOn?
KeepOn è un progetto sociale nato tredici anni fa per sostenere la musica dal vivo partendo dalle fondamenta, i palchi dove le band si esibiscono, spesso ancora prima di incidere un disco. Con la crisi del disco, la digitalizzazione e la smaterializzazione della musica, il palco rimane una delle fonti di introito più importanti per gli artisti, ma al di là di questo il palcoscenico di fatto è il luogo dove l’artista espone le sue opere ed esercita – attraverso la musica – un diritto umano che tutti abbiamo, quello di espressione. Ecco perché la musica live originale va tutelata.
KeepOn riunisce e rappresenta i locali e i festival dove si programma prevalentemente musica dal vivo italiana originale, dagli artisti più famosi alle band emergenti, anzi, per queste ultime le attività del circuito hanno ha ancora più valore perché è esibendosi nei live club che fanno la famosa ‘gavetta’. Se togliamo i piccoli locali dove i musicisti si esprimono e possono crescere andiamo a tagliare le gambe a una grossa fetta di creatività e di espressione. Basta pensare a quanto le esibizioni nei locali sono state un percorso tipico dei cantautori e band italiane: da Guccini a De Gregori fino a Levante, Calcutta e gli Afterhours.
Un locale come può aderire al vostro circuito?
I criteri fondamentali per poter aderire a KeepOn sono: dare maggior spazio possibile alla musica live originale, avere un palco e un impianto audio residenti. L’obiettivo è diventare da settembre una vera e propria associazione di categoria. A oggi siamo un circuito inclusivo, ma qualificante, perché se a un locale manca uno dei criteri di adesione facciamo il possibile per aiutarlo a migliorarsi e poter entrare, per esempio li aiutiamo ottenere impianti a prezzi convenzionati attraverso sponsorship con i nostri partner tecnici. Offriamo loro anche rappresentanza europea, facendo parte di una associazione di circuiti simili: Live DMA, che riunisce 17 circuiti nazionali in 13 paesi per un totale di circa 2.500 locali e festival.
Come avviene concretamente questo sostegno? E perché avete deciso di aderire alla rete DocServizi?
La mission di KeepOn è sostenere e aiutare i locali piuttosto che i singoli artisti perché è difficile far suonare gli artisti se non si hanno sale dove farli esibire. Paragonando la musica originale ai film d’autore, è un pò come se cercassimo di aiutare dei cinema d’essai. Agiamo quindi su due livelli per aiutare i gestori, che di fatto sono veri e propri imprenditori culturali che si assumono un rischio programmando musica originale piuttosto che cover band o dj set (anche questi in realtà in crisi).
Da una parte interpretiamo un ruolo di rappresentanza istituzionale, facendo azione ‘lobbistica’, massa critica, nei confronti delle istituzioni locali e nazionali, ma anche a livello europeo tramite Live DMA. Dall’altra parte – e questo ci differenzia rispetto agli altri circuiti europei, è la nostra specificità – agiamo sul versante privato per attivare e facilitare collaborazioni, sponsorship, convenzioni.
Creiamo poi occasioni di formazione e networking, come al KeepOn LIVE Club Fest, un vero e proprio meeting di settore dove tutti i professionisti Italiani – e anche europei – della musica dal vivo si riuniscono insieme a Live Club e Festival per eventi di formazione, scambio buone pratiche e incontro di domanda/offerta fra agenzie di booking e promoter locali.
Inoltre aiutiamo i gestori sul lato della promozione: abbiamo una rivista, KeepOn Magazine, e la Live Parade, la classifica mensile curata dai direttori artistici che ogni mese segnalano la migliore band, la migliore nuova band e il miglior performer che hanno ospitato sui loro palchi. E’ una classifica importantissima e le majors così come le etichette indipendenti cominciano ad accorgersene: c’è una giuria ampia e qualificata che giudica non un disco, ma l’impatto delle performances dal vivo. Brunori, Afterhours, Calcutta, The Giornalisti, solo per farti alcuni esempi erano tutti stati segnalati nella nostra live parade prima di diventare famosi.
Per quanto riguarda Doc Servizi: è il giusto ambiente per regolarizzare contratti e servizi e garantire così la legalità nel settore, inoltre offre una rete molto ampia di contatti. Entrando nella rete di Doc abbiamo avuto l’opportunità di elevare il valore di tutto il Circuito e iniziare a lavorare per promuovere i concetti di legalità e lavoro in regola in tutta la penisola. Il lavoro nero è una grossa piaga in questo settore, l’obiettivo di Doc è contrastarlo per portare più sicurezza sopra e attorno ai palchi, oltre a creare la consapevolezza che vivere e lavorare di musica è possibile e lo si può fare con tutte le tutele di qualsiasi altra professione.
E tu Federico come sei arrivato a KeepOn?
Da appassionato di musica, mentre frequentavo l’università, ho iniziato a lavorare il commesso in un negozio di strumenti. E’ partito tutta da lì fra i clienti c’era il titolare di un’azienda di webmarketing presso la quale, successivamente, iniziai a fare uno stage. Quando mi riconobbe mi volle conoscere meglio e scoprii che era un musicista jazz e titolare anche di un’agenzia di booking: mi propose di organizzare i concerti della sua band. Lì imparai a fare l’agente booking e decisi di buttarmi completamente in questo mondo. Iniziai a collaborare con le realtà culturali di Ferrara come Arci, Ferrara Sotto Le Stelle e il Festival di Internazionale e frequentai un corso a Roma in produzione discografica e organizzazione eventi live al seguito del quale fondai un’agenzia di booking dedicata agli artisti emergenti e dove conobbi Piotta – una persona di un’intelligenza fuori dal comune – che aveva bisogno di qualcuno che gli curasse i live ed iniziai così a lavorare con molte altre band come Africa Unite, Perturbazione, Linea 77, Cisco e molti altri. Nel frattempo fondai una mia agenzia dedicata agli artisti emergenti e continuai a curare le competenze in marketing e comunicazione con un master e un successivo lavoro presso una grossa compagnia di assicurazioni e banking con sede a Bologna. Grazie ad un contatto della mia agenzia conobbi KeepOn che in quel momento cercava una risorsa che tenesse i rapporti con tutti i locali italiani: ci siamo sposati e non ci siamo più lasciati. In questa realtà per la prima volta ho avuto l’opportunità di unire passione per la musica, sull’organizzazione di eventi e competenze più ‘aziendali’, come per esempio sul versante del marketing e delle sponsorship.
So che con DocServizi sei dietro le quinte anche di Internazionale a Ferrara…
Mi occupo della direzione del personale: in poche parole seleziono formo e coordino il personale di staff – tranne i professionisti della produzione, tecnici ed elettricisti – circa 120 persone. E’ un lavoro e un team che adoro!
Torniamo a KeepOn e ai locali live. Quali sono a vostro avviso i problemi principali di questo settore?
Le problematiche più sentite che ci riferiscono locali e Festival sono tre.
La prima riguarda la riconoscibilità dei locali di musica dal vivo: spesso i Live Club vengono scambiati per pub comuni perché fanno somministrazione di bevande e cibo e non vengono riconosciuti come luoghi di cultura per questa parte commerciale del loro lavoro. Il fatto è che proprio questa fonte di introiti rende sostenibile il loro programmare band di musica dal vivo originale, che comporta per altro diverse spese, dalla Siae all’Enpals, al giusto compenso per musicisti e tecnici audio e di palco. Stiamo lavorando molto su questa percezione errata, soprattutto per farla capire agli Enti locali perché agevolino questi locali che non sono discoteche, ma luoghi dove c’è inclusione e aggregazione sociale, dove si fa cultura, luoghi di espressione e scambio di idee.
La seconda, che in parte deriva da quanto ti ho appena detto, riguarda proprio i rapporti con gli enti locali per quanto riguarda permessi, regolamenti ed altri aspetti. Proprio perché a volte non c’è una conoscenza vera e propria del settore musicale e delle tipicità che ha. KeepOn si affianca ai gestori per far capire all’ente locale che c’è una rete, a livello nazionale ed europeo, per fare massa critica, come ti dicevo prima.
Il terzo, sul quale ci stiamo interrogando molto anche a livello europeo, riguarda il ricambio generazionale: si fa fatica a capire i trend che hanno, per esempio, i millennials, il target 18-25, e quindi diventa difficile capire che programmazione fare per andare incontro ai loro gusti. Quelli della mia età, che hanno più di 30 anni, vanno meno ai live: lavoro, famiglia, si arriva spesso troppo stanchi per andare ai concerti, che iniziano sempre più tardi. Nonostante questo, sembra che la fascia 25-35 sia ancora lo zoccolo duro, perché rappresenta la maggior parte del pubblico dei locali e dei festival.
Federico, so che ti metto in una posizione scomoda e me ne assumo tutta la responsabilità: ci puoi fare una sorta di play list dei locali del vostro circuito? Quali sono?
La programmazione dei nostri locali è molto varia: escludendo il punk, il jazz e il dj set, per il resto trovi tutto. Una buona notizia per l’Emilia Romagna: è la regione con più club aderenti al circuito.
La domanda su quali locali mettere in play list è effettivamente scomoda – scherza Federico – per quanto riguarda Ferrara, c’è il Black Star, nella zona di San Giorgio, mentre come festival non posso non menzionare naturalmente Ferrara sotto le stelle. Se poi vogliamo citarne solo alcuni fra i tanti aderenti da Nord a Sud, partendo da quelli più vicini: in regione, a Bologna, c’è il Locomotiv, mentre a Este c’è l’I’m Lab. A Torino il Cap10100, ora chiuso, col quale grazie a KeepOn stiamo facilitando i rapporti col Comune; La Latteria Molloy e il Festival Albori a Brescia; il Magnolia e l’Ohibò a Milano; il Karemaski ad Arezzo; il Lanificio 159, Na’Cosetta, L’Asino che vola e il Monk a Roma; l’Hart a Napoli; l’Off a Lamezia Terme; il Morgana a Benevento e I Candelai a Palermo.
Sul nostro sito comunque si può trovare l’elenco completo, per tutti i gusti e le provenienze.
A Ferrara la bicicletta non è un mezzo per spostarsi da un posto all’altro, è uno stile di vita, si potrebbe quasi dire: dimmi come pedali e ti dirò chi sei… un ferrarese!
Ferrara in tutto il mondo è ‘la città delle biciclette’, ma forse non tutti sanno che la città del Rinascimento vanta anche un altro primato su due ruote: la si potrebbe chiamare anche la città del Giro d’Italia.
Ferrara, infatti, ha ospitato il primo arrivo di una tappa a cronometro nella secolare storia della corsa rosa. Correva l’anno 1933, il giorno erra il 22 maggio, 13esima tappa da Bologna a Ferrara a cronometro individuale. Un anniversario importante, se consideriamo che quella leggendaria frazione, celebrata dai grandi suiveurs, primo fra tutti Orio Vergani, vide primeggiare un grandissimo campione come Alfredo Binda, trionfatore quell’anno del suo 5° Giro d’Italia: un record che appartiene soltanto a 3 campionissimi: Binda, Fausto Coppi e Eddy Merckx.
Quest’anno Ferrara sarà di nuovo protagonista della 13esima tappa del Giro: non l’arrivo ma la partenza, il 18 maggio 2018.
Mentre ci si prepara per questo importante appuntamento ciclistico, questo weekend la città e il territorio sono stati invasi da due ruote d’altri tempi, grazie alla ciclostorica La Furiosa, da quest’anno all’interno del circuito Giro d’Italia d’Epoca. La Furiosa nasce dal desiderio di rivivere le emozioni, le sfide con se stessi tipiche del ciclismo dei tempi passati. Su strade secondarie, alcune bianche per sfidare non i compagni d’avventura ma se stessi e nel caso anche il tempo avverso, su biciclette che hanno fatto la storia del ciclismo degli anni passati attraversando le campagne degli Estensi. Il percorso di 60 chilometri porta alla scoperta del territorio e delle Delizie Estensi, antiche dimore estive della nobile famiglia ferrarese. Al ristoro speciali “integratori” vi aspettano: salame ferarese, salamina da taglio, affettati vari, torte di zucca e di asparago, formaggi, pane ferrarese il tutto accompagnato dal tipico vino della sabbie.
Ecco alcune immagini scattate dal nostro Valerio Pazzi (clicca sulle immagini per ingrandirle).
Ferrara città delle biciclette
Luciano Boccaccini, scrittore e speaker al Giro d’ Italia negli anni ’80 per La Gazzetta dello Sport, e Michela Moretti Girardengo, pronipote del grande campione
Partenza!
Ferrara città delle biciclette
Michela Moretti Girardengo e Michela Piccioni, vice presidente del Giro d’Italia d’Epoca
Tornando al pozzo non ebbero imprevisti. Il solo vero ostacolo fu una condizione fisica portata al limite, perché tutti e tre erano ormai stremati dal freddo e soprattutto dalla fame. Per tutta quella giornata passata sotto la montagna avevano potuto nutrirsi soltanto con una piccola razione di manioca dolce a testa, e questo stava minando la loro resistenza.
Il più provato era di certo Jacques Verdoux, la cui salute si assottigliava di ora in ora. Dal momento in cui il francese aveva rivelato la sua malattia, Sewell lo teneva d’occhio in maniera discreta ma costante ed era seriamente preoccupato, s’aspettava che l’amico potesse avere un crollo improvviso. E tuttavia si sforzava di non fargli pesare i suoi timori, anzi, non perdeva occasione di sdrammatizzare la situazione con la tacita complicità di Juan, che, senza farlo notare, si prodigava in ogni maniera per alleviare le fatiche del vecchio scienziato.
Durante il cammino, la parte più difficile fu superare il ripido dislivello nel quale era caduto lo scozzese. La corda che l’indio aveva saldamente fissato alla roccia in alto era lì ad attenderli.
Juan, con l’agilità di un gatto, fu il primo a salire. Una volta giunto sopra, issò l’equipaggiamento che gli altri due da sotto avevano imbracato. Toccò poi a Greenstone che con qualche impaccio riuscì comunque ad arrivare in cima. Per ultimo rimase Verdoux, per lui venne preparata un’imbracatura da assicurare alla vita e alle braccia, poi non restò che farsi sollevare di peso dai due compagni che, non senza difficoltà, alla fine lo tirarono su.
Quando i tre esploratori uscirono dalla grande breccia della parete rocciosa, nella gola le ombre della sera avevano ormai oscurato tutto quanto, obbligandoli a lasciare le lanterne accese. Ci volle un’altra mezzora per arrivare al pozzo. Proprio lì, un centinaio di iarde più su, Pedro li attendeva con una certa apprensione. Per tutto il giorno non aveva mai abbandonato la sua posizione accanto al verricello, aspettando un segnale dal basso che tardava ad arrivare.
Poi, all’improvviso, il segnale arrivò e la campanella fissata alla carrucola cominciò a tintinnare: fu Sewell a tirare la corda, annunciando a Pedro che erano finalmente tornati dall’escursione e attendevano di ricevere le provviste.
Greenstone agganciò alla fune un foglio di carta con le consegne per Pedro. Issata la corda, l’indio lo lesse attentamente eseguendo alla lettera tutte le istruzioni dello scozzese. Quando ebbe finito, se ne tornò alla tenda dove s’accinse a trascorrere il resto della nottata.
I compagni in fondo al pozzo s’addormentarono molto più tardi: nonostante la stanchezza generale, l’adrenalina accumulata a causa delle incredibili scoperte di quel giorno venne smaltita soltanto a notte fonda, dopodiché s’abbandonarono a un sonno pesante e senza sogni.
Il mattino seguente Juan, svegliatosi come sempre prima degli altri, sistemò arnesi ed equipaggiamento negli zaini e preparò le provviste per l’imminente ritorno in caverna. Greenstone aveva previsto di rimanere là sotto almeno un paio di giorni, tanto sarebbe bastato, secondo lo scozzese, per iniziare a perlustrare tutta la zona intorno al tempio. La cosa non rendeva felice il ragazzo, che avvertiva il lago sotterraneo come una sorta di minaccia incombente, non sapeva spiegarne la ragione, così pensò bene di tenersi quegli strani pensieri per sé.
Autodisciplina, buoni riflessi e un’intelligenza brillante facevano di Juan un aiutante efficiente e fidato. Nulla traspariva del suo stato d’animo, nemmeno nelle situazioni estreme perdeva il controllo e la freddezza che lo contraddistinguevano. Era un ragazzo forte e coraggioso, dalle indiscusse capacità e sempre pronto ad assolvere qualsiasi compito con diligenza e precisione. Proprio per questo, Greenstone lo apprezzava sempre di più e stava imparando a fidarsi dell’indio in modo quasi incondizionato. Nel tempo, la condivisione di tante avventure e pericoli di ogni genere avrebbe trasformato Sewell e Juan in due inseparabili compagni di viaggio. Quello che era nato come un semplice rapporto di lavoro tra un padrone e il suo aiutante sarebbe diventato un profondo legame d’amicizia. Un’amicizia reciproca e sincera, anche se, all’apparenza, nessuno dei due manifestò mai l’intenzione d’abbandonare il ruolo che si era dato dal giorno del loro primo incontro.
Quella mattina, tuttavia, accadde un fatto che segnò in modo determinante il resto della missione.
L’orologio di Sewell faceva le nove e cinque, e lui e i suoi due compagni erano pronti a incamminarsi nella gola per il ritorno in caverna. Ognuno di loro si caricò sulle spalle il proprio fardello costituito dallo zaino e dal resto delle attrezzature necessarie per il nuovo bivacco.
All’improvviso Jacques Verdoux urlò. Sewell e Juan si girarono e lo videro cadere in ginocchio in una smorfia di dolore e accasciarsi a terra su un fianco.
In un attimo Sewell gli fu sopra, «Che è successo Jacques?… Cosa avete?»
Il francese aveva gli occhi sbarrati, con lo sguardo supplicava aiuto ma non riusciva ad articolare nessuna parola. Poi con uno sforzo disperato sussurrò: «Vi prego Jo…Joseph, aiuta…temi, toglietelo… mon Dieu… vi prego toglietelo!»
Sewell intuì qualcosa e immediatamente liberò il paleontologo dello zaino, poi, aiutato da Juan, gli tolse il pastrano e la camicia.
In quell’istante vide la causa della disperazione dell’amico: un enorme chilopode era penetrato nella camicia attraverso la parte posteriore del colletto ed era rimasto schiacciato, probabilmente quando Verdoux si era sistemato lo zaino sulle spalle. Prima di morire però aveva affondato le forcipule nella carne del suo ospite, inoculando tutto il veleno che aveva.
Il biologo tolse la carcassa della bestiaccia dalla schiena del francese, poi si rivolse a Juan: «Maledizione! Juan non si parte più! Prepara un giaciglio e accendi un fuoco! Dobbiamo evitare che Jacques abbia un collasso… Nelle sue condizioni sarebbe fatale!»
Nell’arco di pochi minuti, le tossine del veleno sarebbero entrate nell’organismo dell’uomo, provocando i primi danni al sistema nervoso centrale, poi via via al sistema linfatico già minato dalla malattia.
Il francese fu cautamente adagiato su un giaciglio di fortuna accanto al fuoco. I sintomi cominciavano a comparire e si sommavano in modo preoccupante: Jacques era ormai in stato confusionale, la schiena era rigida, il collo e le braccia s’erano gonfiate mentre un esteso edema rossastro era comparso sulla schiena attorno al morso.
In genere, il veleno della scolopendra gigantea non è mortale per un essere umano, ma può recare danni permanenti come necrosi dei tessuti con conseguente infezione. Il morso poi era stato inferto in una parte del corpo relativamente vicina agli organi vitali, il che complicava non poco la situazione.
Greenstone ordinò a Juan di farsi calare da Pedro la bottiglia di cachaca che si trovava nella tenda assieme alle altre provviste. Praticamente alcool puro che il capo villaggio aveva donato allo scozzese nel giorno del suo arrivo ad Auzangate.
Era la cosa che più si avvicinava a un disinfettante, e sarebbe servita proprio per sterilizzare la ferita qualora fosse diventata purulenta.
Nell’immediato si rese necessario tenere il francese al caldo, per questo fu messa a bollire dell’acqua che venne versata dentro alcuni otri in pelle. Gli otri furono poi sistemati attorno al corpo di Jacques che Sewell si premurò di avvolgere con un pesante panno di alpaca.
Era solo un espediente improvvisato ma servì allo scopo: Sewell sapeva che in quel momento il rischio maggiore era rappresentato dalla pressione del sangue che, per effetto del veleno, poteva alzarsi in modo incontrollato. Così pensò che l’unica misura per cercare di contrastare una simile eventualità era quella di alzare in qualche modo la temperatura corporea dell’amico.
Frattanto Jacques dava segnali di ripresa riacquistando di nuovo lucidità, con lo sguardo cercò lo scozzese e provò a parlare: «Joseph… ho sentito una fitta lancinante alla schiena… Un dolore mai provato! Ora mi sento bruciare tutto… Cosa m’è successo?»
«Siete stato morso Jacques…»
«Un serpente?»
«Nessun serpente! Ve l’ho detto Jacques, qua sotto non ci sono serpenti! Siete stato morso da una scolopendra!»
«Un centopiedi m’ha fatto questo?»
«Se volete chiamarlo così… Comunque un centopiedi corazzato lungo quasi un piede e mezzo, con due uncini da un pollice impregnati di un veleno molto potente… Direi di sì!»
Sewell fece qualche passo, si chinò e raccolse l’animale stecchito per mostrarlo a Jacques, «Eccolo! Che ve ne pare?»
«Mon Dieu! C’est horrible!» esclamò il francese inorridito.
Sewell non avrebbe voluto impressionare il povero Jacques, ma lo fece comunque. Faceva parte del suo carattere, amava la sua professione e si appassionava a qualsiasi creatura gli capitasse tra le mani, e più un animale appariva terrificante e pericoloso più ne era attratto. Se mai avesse potuto addomesticare i ragni, gli scorpioni e le scolopendre dell’Amazzonia, l’avrebbe fatto con entusiasmo.
«Non è orribile, è la natura che ci circonda!» Si sedette di fianco all’amico esternando il resto delle sue elucubrazioni: «Noi quaggiù siamo i veri intrusi, i mostri. Tutti gli esseri che ci circondano sono i figli naturali di quest’ambiente, vivono per riprodursi in armonico equilibrio gli uni con gli altri. Uccidono per mangiare o per non essere mangiati, perfettamente inseriti in un ciclo vitale che vede preda e predatore indissolubilmente legati l’una all’altro e viceversa.»
Jacques non smise di fissare l’animale morto nelle mani dello scozzese, probabilmente non l’ascoltava nemmeno. Sewell non sembrò accorgersene e proseguì: «Credo che questa scolopendra si sia nascosta nelle pieghe della vostra coperta durante la notte, è un predatore notturno… Poi stamane, durante i preparativi, ve la siete presa addosso! Purtroppo, schiacciandola, avete innescato la sua reazione di autodifesa…»
«Capisco… Joseph… ma… non mi sento più le mani… e nemmeno le gambe!», lo sguardo atterrito di Verdoux incrociò quello dell’amico, «Che mi sta succedendo? Ho freddo…»
Sewell gettò in terra la scolopendra morta e si avvicinò al francese, gli esaminò le mani e con delicatezza lo girò sul fianco per osservare la ferita. Gli arti di Verdoux si erano irrigiditi e sembravano rattrappiti. Sulla schiena i fori provocati dal morso della bestia s’erano allargati e, con ogni probabilità, di lì a poco avrebbero iniziato a suppurare. Con una pezzuola imbevuta di cachaca lo scozzese disinfettò accuratamente la ferita, dopodiché la bendò con una fasciatura pulita.
Jacques Verdoux iniziò a lamentarsi con insistenza, il dolore si era diffuso dalla schiena alle spalle e al collo, poi alle braccia e alle gambe, era un dolore paralizzante.
Il respiro si fece frequente e pesante. Era chiaro che stava peggiorando. Sewell gli prese il polso, i battiti erano accelerati e c’erano evidenti sintomi di una crisi in arrivo.
Purtroppo, almeno per il momento, non restava altro da fare che confidare nella tempra del francese. Sperando che il suo organismo potesse resistere in qualche maniera all’azione distruttiva del veleno. Si trattava però di un paziente già indebolito da una grave malattia e la speranza di Sewell che l’amico potesse cavarsela era ridotta al lumicino.
Verdoux tremava, aveva la vista offuscata ma manteneva una certa lucidità. Dopo qualche minuto di silenzio afferrò la mano dello scozzese, la presa era debole come la voce, «Joseph, vi avevo detto che non sarebbe stata la malattia ad abbattermi… ma qualche altra cosa…»
«Amico mio, so dove volete andare a parare, ma non lo sarà nemmeno una dannata scolopendra. Siatene certo!» Sewell cercò di convincere più se stesso che il compagno, «Su Jacques, cercate di stare tranquillo… Io e Juan ci prenderemo cura di voi finché non starete meglio. Siete in buone mani.»
«Lo so Joseph, ma sarei più tranquillo se non avessi questo dolore… Credetemi, è quasi insopportabile, toglie il respiro… Datemi la mia bottiglia per piacere!»
Sewell era indeciso, non sapeva se in quelle condizioni l’azione del laudano mescolato all’assenzio potesse creare più danno che beneficio. Alla fine scelse d’accontentare l’amico.
Jacques iniziò a bere l’assenzio a piccoli sorsi. Sewell volle fargli compagnia versandosi due dita di cachaca in un gotto, ma anche un bevitore esperto come lui dovette ammettere che quell’intruglio alcolico era veramente difficile da buttar giù.
Alla fine Jacques s’addormentò, il respiro era lento e profondo, Sewell gli controllò ancora il polso che stavolta batteva in modo regolare.
Poco più tardi la situazione del paziente parve stabilizzarsi. Probabilmente le proprietà oppiacee del laudano stavano dando i loro effetti regalandogli, anche se per un tempo limitato, un po’ di sollievo.
Sewell fissò la fiaschetta di cachaca che teneva in mano e si chiese come diavolo facevano i Chamboa brasiliani a bere quella roba infuocata come fosse acqua.
In quell’istante Juan si avvicinò, «Sir Joseph, sembra che Monsieur Verdoux stia un po’ meglio…»
«Adesso sì, poi vedremo… La battaglia che sta combattendo sarà lunga. Per oggi dovremo restare qua e occuparci del professore… sperando che possa farcela…»
«Sir Joseph, è appunto di questo che volevo parlarvi.» Fece una pausa, aspettando che lo scozzese focalizzasse tutta l’attenzione su di lui, «Vi chiedo il permesso di salire all’accampamento. Io e Pedro conosciamo delle erbe in grado di curare Monsieur Verdoux dagli effetti del veleno… Le possiamo trovare nella giungla, poi dovremo farle bollire e prepararle… Se tutto va bene questa sera potremo dare la medicina al professore, e domattina vedrete che starà meglio!»
Sewell lo guardò a lungo con un’espressione di finta disapprovazione, poi disse: «Juan, non finisci mai di stupirmi! Mi chiedevo che cosa mi sarei dovuto inventare perché queste ore d’attesa non mi facessero sentire inutile», fece un sospiro. «Ok, vai pure!»
Il ragazzo si congedò in fretta: prese con sé zaino, coltello e una borraccia, fece un cenno di saluto e s’avviò.
Sewell lo vide correre e sparire nella gola, si voltò verso l’amico addormentato e disse: «Caro collega, ora siamo rimasti solo voi ed io… Speriamo che il nostro Juan sappia il fatto suo!»
Jacques Verdoux si svegliò intorno a mezzogiorno.
Sewell stava scrivendo nuovi appunti sull’eccezionale ritrovamento del giorno prima quando sentì l’amico che riprese a lamentarsi. Il francese era pallido e madido di sudore, Sewell gli asciugò la fronte e s’accorse che aveva la febbre alta. Gli fece bere dell’acqua fresca e gli controllò la schiena: l’animale l’aveva morso tra le scapole, e proprio la parte superiore della schiena, fino alla nuca e le spalle, appariva sempre più gonfia e livida. I due fori provocati dall’affondo delle forcipule s’erano ulteriormente allargati lasciando intravedere la carne purulenta, da essi iniziava a fuoriuscire del pus giallo e denso, segno inequivocabile dell’incedere dell’infezione.
Sewell cercò di ripulire e disinfettare la ferita con i pochi mezzi che aveva a disposizione. Poi si rese conto che Jacques non avvertiva più alcun dolore, e la cosa lo preoccupò ulteriormente perché significava che il francese stava perdendo sensibilità. Si fece strada in lui il sospetto di un imminente processo necrotico dei tessuti colpiti dalle tossine.
Quel pomeriggio Sewell vegliò l’amico senza sosta, gli diede conforto nei brevi momenti di lucidità e si premurò di controllare costantemente che le sue condizioni non peggiorassero. Tuttavia le ore passavano e le speranze di salvare il francese si affievolivano sempre di più.
Era già buio quando Juan tornò.
Erano circa le sette di sera e Sewell lo vide arrivare dal fondo della gola tutto trafelato, portava lo zaino sulle spalle ed aveva il viso sporco d’erba e terra mescolate a sudore.
«Allora, hai la medicina?»
«Sì professore, ho tutto nello zaino!»
L’indio posò lo zaino a terra e tirò fuori due vasi di terracotta sigillati da un coperchio, uno lo porse allo scozzese, «Questo servirà come scorta, tenetelo voi Sir Joseph… potrebbe essere prezioso.»
Sewell l’afferrò senza minimamente immaginare cosa potesse contenere. Intanto Juan si mise subito all’opera: s’accovacciò a fianco del francese, aprì il secondo contenitore estraendovi un unguento arancione che applicò sulla ferita in grande quantità, infine coprì il tutto con un panno pulito. Quando ebbe finito si sfilò la borraccia che teneva a tracolla poggiandola sulla bocca di Jacques, che, mezzo assopito, iniziò lentamente a deglutirne il contenuto.
Juan e Sewell si guardarono negli occhi senza dire una parola, poi Jacques, quando ebbe finito di bere, tossì un paio di volte e si riaddormentò. Sewell l’osservava con attenzione e gli parve che avesse finalmente un’espressione serena, non tormentata come durante tutto quel lungo pomeriggio d’attesa. Intimamente temeva che potesse trattarsi solo di un’illusione dettata dalla speranza, ciononostante non gli rimase che aggrapparsi a quest’ultima.
E comunque, ora Jacques dormiva un sonno profondo, un sonno che si sarebbe protratto ininterrottamente fino all’indomani.
Sewell si voltò verso Juan, aveva ancora in mano il vaso di terracotta che l’indio gli aveva consegnato.
«Che cos’è?» chiese guardando il contenitore, «Juan, adesso raccontami cosa c’è qua dentro… Vorrei capire anch’io che roba è questa!»
Il ragazzo si sistemò accanto al fuoco, prese l’altro vaso e lo aprì.
«Sir Joseph, abbiamo cercato le piante che ci servivano nella foresta intorno alla radura e le abbiamo trovate tutte…» disse. «Sentite, l’odore è quello del camote!»
Sewell ne annusò il contenuto, «E’ vero! Sembrerebbe camote… Invece?»
«E’ una miscela di una dozzina di piante diverse… Ogni pianta ha una proprietà specifica. La combinazione di queste proprietà deve essere eseguita secondo un preciso rituale sciamanico. Noi ci siamo attenuti al rituale e abbiamo creato la cura per Monsieur Verdoux.»
«Stai parlando per enigmi Juan, io voglio sapere cosa c’è in questa miscela. Se la medicina dovesse rivelarsi efficace devo capire come posso riprodurla.»
«Professore, non potete… Solo uno sciamano può farlo!»
Sewell fissò il ragazzo con sorpresa, «E tu lo sei?»
«Sono un curandero!»
Juan comprendeva le perplessità dello scozzese e decise di spiegare con chiarezza ciò che fino a quel momento aveva soltanto accennato. «Ho appreso l’arte delle erbe quando vivevo alla missione, a Marquena. Ero ancora un bambino ma imparavo velocemente… C’era un vecchio guaritore nel villaggio, era lo sciamano e diceva che sarebbe morto presto. Mi scelse come suo apprendista e mi volle insegnare i suoi segreti. A me piaceva ascoltarlo e imparai molte cose… Ciò che diceva era vero, infatti poco tempo dopo morì.»
Greenstone fu affascinato dal racconto del ragazzo appena ventenne che gli stava di fronte, e intanto si domandava quali e quanti altri segreti gli avrebbe rivelato nei giorni a venire.
«Professore, io vi posso elencare le piante che ho usato… Ma la loro preparazione dovrete eseguirla voi stesso, e lo farete soltanto se sarete disposto ad accettarne il rituale. Io vi dirò come fare quando sarà il momento. Accettate?»
«Accetto!»
Per la prima volta Greenstone ebbe l’impressione di parlare con l’indio da pari a pari, senza le distanze dovute ai rispettivi ruoli. Questo non lo infastidì affatto, anzi, scoprì d’esserne lieto. Lieto di avere al suo fianco una persona di così grande affidabilità e inaspettatamente così interessante, ma soprattutto una persona che aveva imparato ad ammirare.
Juan, dal canto suo, ricambiava la stima dello scozzese dimostrandosi sempre fedele e rispettoso del suo ruolo, in fondo era stato assunto per eseguire degli ordini e gli andava bene così.
L’indio iniziò a elencare le piante che aveva raccolto, Sewell intanto aveva estratto un taccuino dal suo zaino e si mise a scrivere. La miscela di erbe era composta da parecchi estratti vegetali ricavati da piante, o meglio, da parti di esse, come radici, foglie e fiori. Avevano nomi che provenivano dalla lingua quechua, poi tradotta in spagnolo: maraka, choqueta, asmachilca, retania, cola de caballo, cachalagua, sanguinaria e soprattutto la guayacana. Nomi che per lo più suonavano sconosciuti alle orecchie di Greenstone, ma che le popolazioni locali ben conoscevano. Solo la valeriana e l’eucalipto gli erano familiari, ma erano anche i due ingredienti più marginali, poiché la loro funzione era calmante e tonificante, non curativa.
Sewell ne scrisse l’elenco specificando le proprietà terapeutiche per ognuna di esse. Riempì parecchie pagine di appunti, poi, resosi conto che per il momento Juan non gli avrebbe rivelato nulla riguardo la loro preparazione, ripose il taccuino tra le sue cose.
Più tardi, i due mangiucchiarono un po’ di provviste sorseggiando del caffè d’orzo. Dopo il pasto Sewell andò a controllare Jacques, lo vide tranquillo che dormiva profondamente e gli toccò la fronte: la febbre era scomparsa. Alla fine lo scozzese e l’indio decisero di mettersi a riposare, confidando che il giorno seguente fosse foriero di buone notizie.
Un ciclone. Un uragano. Un terremoto. Comunque la si voglia definire, l’immagine che queste storiche elezioni politiche 2018 restituiscono è quella di un impressionante cataclisma, destinato a segnare in maniera profonda il presente e il futuro del nostro Paese.
Ma se ampiamente atteso e prevedibile, almeno ai nostri occhi, appare il risultato nazionale, lo scenario locale che emerge ha invece un carattere in qualche misura sconvolgente, forse anche perché le scosse sismiche vissute in casa propria hanno un impatto emotivo più forte.
Specchio ed emblema della caduta degli dei è la sonora e inattesa – questa sì, inattesa e clamorosa – debacle del ministro Dario Franceschini, disarcionato da cavallo, proprio sulla pista amica, con la Lega che diventa secondo partito in città a un’incollatura dal Pd.
Tornando al panorama generale, l’affermazione del Movimento cinque stelle si presta a una duplice chiave di lettura: porta con sé la speranza di una politica di cambiamento improntata alla rottura dei rituali e delle liturgia della vecchia politica, delle rendite di posizione, proiettata verso la ricerca del bene comune e la semplificazione delle pastoie burocratiche; ma insieme è gravata dalla zavorra delle non poche ambiguità politiche, da una notevole dose di ingenuità e soprattutto dai sostanziali fallimenti che i Cinque stelle hanno registrato finora nelle loro esperienze amministrative, là dove hanno governato le città in questi anni.
Il risultato del Centro-destra, importante ma probabilmente insufficiente per propiziare la guida dell’esecutivo, era tutt’altro che inatteso, ma inquietante risulta l’affermazione della Lega che conferma nei numeri la sensazione di una cavalcata possente. Ed è questo un elemento che genera forte preoccupazione derivante dal carattere intollerante (sui temi interculturali in genere, non solo per gli aspetti razzisti) di cui il leghismo è espressione.
Inequivocabile e catastrofico invece è il giudizio sul fronte del centrosinistra. Rovinosa è la sconfitta del Pd le cui politiche sempre più moderate e distanti dai tradizionali orizzonti valoriali della sinistra sono sonoramente bocciate dagli elettori. E miseramente sprofondano anche le velleità del nuovo soggetto antagonista, Liberi e uguali, i cui propositi vengono castrati dalla trasformistica presenza fra le proprie fila di molti ingombranti vecchi rottami, emblemi della peggior sinistra ipocrita e affarista, che hanno presidiato (e inquinato) quest’area con la sola ambizione di consumare la propria personale rivincita e magari guadagnare il biglietto per un altro giro di giostra.
Ma, dato per acclarato lo scenario nazionale, la nostra analisi si incentra su quello locale dove il risultato – che pure è sostanzialmente specchio di quello nazionale – appare ancor più sconcertante, se non altro perché l’Emilia Romagna (e con essa Ferrara) è da sempre stata baluardo di una tradizione progressista oggi sonoramente messa all’angolo.
Qui, in casa nostra, ancor più che a livello nazionale, fa impressione la cavalcata delle valchirie leghiste e la loro debordante vittoria. Qui, fra un anno, si vota per il rinnovo dell’amministrazione comunale e l’attuale esecutivo locale unitamente alle forze politiche che lo sostengono, incapaci di fare argine, non possono rifugiarsi semplicemente nella constatazione che ciò che avviene è riflesso di ciò che è capitato in tutto il Paese. Tagliani, primo sindaco eletto in città estraneo alla storia politica della sinistra e in particolare dell’ex Pci, si è trovato catapultato in maggioranza in quanto esponente del Ppi e poi della Margherita, ma la sua vicenda di esponente della ex Democrazia cristiana e fino al 1999 di oppositore dai banchi del consiglio comunale dei sindaci alla guida delle locali amministrazioni di sinistra, ha forse contribuito al disorientamento del tradizionale elettorato cittadino che per decenni ha decretato i successi del Pci con la maggioranza assoluta dei voti.
Ciò che più preoccupa, qui e ora, è che la protervia e la tracotanza dei Naomo Lodi, che popolano le stanzette dei bottoni dell’emergente leghismo, possa trovare consenso e seguito nei prossimi dodici mesi anche nel cuore del futuro esecutivo locale. Occorre quindi, fin da subito e senza indugi, una profonda, seria e impietosa autocritica da parte di tutti i soggetti che gravitano nell’area progressista, una loro coerente presa di coscienza e la conseguente assunzione di responsabilità, con l’immediata discesa in campo di tutte le forze sociali in grado di contrastare una deriva di civiltà che potrebbe risultare devastante. E, accanto a loro, serve l’impegno attivo dei singoli individui che per mille ragioni in questi anni si sono progressivamente distaccati dalla politica attiva: solo così si potrà ridare ossigeno e credibilità al progetto di città futura.
Di fronte a un risultato che anche in città ha proporzioni sconcertanti, il sindaco Tagliani non può fare spallucce e attribuire la responsabilità alle ricadute della politica nazionale. Certo, si è votato per il Parlamento e non per il Consiglio comunale, ma il giudizio degli elettori ferraresi non prescinde dalla considerazione di quello che è il valore dell’azione politico-amministrativa svolta e la qualità degli amministratori che rappresentano a livello cittadino le forze politiche che si propongono per il governo del Paese.
Di certo, quella che è apparsa a molti una sostanziale inerzia, l’assenza di un disegno politico-programmatico per la città – cioè la chiara visione di un futuro sostenibile e e la coerente definizione di un progetto teso a garantire a Ferrara una prospettiva desiderabile, l’incapacità di contrastare i fenomeni di imbarbarimento della vita civile e di fornire serie risposte alle sottovalutate emergenze sul terreno della criminalità – sono macchie che sporcano la pagella dell’esecutivo locale e condizionano il giudizio dell’elettorato, a prescindere dai trend generali.
Prenderne atto con serietà e impegnarsi fin da subito a ridefinire un percorso virtuoso che riporti al centro della scena i valori ideali propri di una comunità che deve tornare ad essere coesa e solidale nel nome della civile convivenza e del reciproco rispetto e che sappia definire un orizzonte programmatico e un modello di sviluppo adeguato ai bisogni alle attese della comunità è ciò che i superstiti di questa squinternata sinistra devono immediatamente impegnarsi a fare. Ma, lo ribadiamo, non nel chiuso dei palazzi, bensì in un’ideale piazza aperta al concorso e al contributo di quella che tradizionalmente si è definita società civile, cioè quelle componenti libere, attive sul territorio, impegnate nel fare e profonde conoscitrici della realtà concreta che scaturisce dalla quotidianità. E questo deve avvenire subito, prima che questi valori di civiltà e di coesione sociale siano fagocitati dal gelido vento del nord.
Ripartire, per le componenti progressiste, non sarà facile. Il rilancio, per avere speranza di successo, dovrà necessariamente avvenire al di fuori degli steccati delle forze partitiche. Lo ribadiamo: la linfa deve arrivare da quei soggetti attivi sul territorio, che vivono a contatto con la cittadinanza, caratterizzati dalla concretezza del fare, capaci di coniugare i valori propri della sinistra con una schietta e realistica analisi del presente e in grado di definire nuove inedite ricette per una società malata che ha bisogno di ritrovare il proprio collante sociale senza ignorare i danni che al proprio interno dissennate politiche tese a tutelare un ipotetico sviluppo senza reale progresso e un imperante individualismo hanno determinato in questi ultimi decenni.
Bisognerà mettere da parte per un po’ l’io e tornare al noi, accantonare la vuota retorica e rimboccarsi le maniche, misurarsi con i problemi concreti e gli affanni delle persone in carne ed ossa, affrontare il gorgo della realtà con tutte le sue contraddizioni, sporcarsi le mani mantenendo però sempre lucida la mente, limpido il pensiero e specchiata la coscienza.
Alla vista della bambina vestita da soldato, esibita da Erdogan come possibile martire mentre lei piange a dirotto, le bandiere turche che sventolano e lui che la bacia, lo stomaco mi si rivolta. Vorrei urlare. Il mio è un urlo silenzioso che sale dalle viscere, quanto il rifiuto della piccola bambina che non lo può esprimere, ma che il suo corpo non può nascondere. E così mi sorge spontanea una domanda: uomini, padri, dove siete? Come potete stare in silenzio di fronte a tanto orrore?
Di fronte a un Trump che parla di armare gli insegnanti per rendere più sicure le scuole, di fronte alle parate militari di Kim Jong-un, puro esibizionismo narcisistico, di fronte a un Salvini che, con un ghigno, parla di buttare a mare gli immigrati perché “prima gli Italiani”, ai grillini che si dichiarano salvatori della Patria, utilizzando inconsapevolmente quella retorica, tutta patriarcale, legata al sacrificio del sangue che ha portato i nostri nonni in guerra facendo dell’Europa un cimitero a cielo aperto.
Ora basta! L’urlo deve uscire e fendere l’aria asfittica che mi circonda.
Parlo alla mia generazione, sono una cinquantenne. Dobbiamo scendere al fianco delle giovani studenti della Florida: ragazze che hanno dicharato che non si arrenderanno finché coloro che fanno le leggi non cambieranno le regole per l’acquisto delle armi, finché i politici non smetteranno di accettare i soldi dalla Nra (National Rifle Association), finché noi adulti non faremo qualcosa!
Oggi più che mai gli uomini, i nostri mariti, i padri dei nostri figli/e devono scendere al fianco delle donne, delle loro figlie, sostenere la loro rabbia e frustrazione, perché sarà la loro passione il motore del cambiamento.
Diceva bene Adriano Sofri, alcuni anni fa, in un articolo su La Repubblica: “la terza guerra mondiale è in atto e il campo di battaglia è il corpo delle donne”.
La rivoluzione verrà, sta già venendo, proprio dal quel corpo femminile martoriato, ucciso, torturato, vilipeso, barattato, venduto, esibito in modo strumentale da maschi cinici e ambiziosi.
E’ sano e auspicabile che oggi gli uomini accettino di non essere i protagonisti per smontare la retorica ormai defunta del Padre di Famiglia che in nome del Bene comune sceglie per tutti. Quel padre di famiglia che sceglie quando fare imbracciare i fucili in nome della sicurezza e della salvezza dei propri consanguinei.
Noi donne non ne possiamo più di questa visione: vogliamo difendere la nostra terra, la nostra nazione con la cura affettuosa che si riserva a una madre stanca. Vogliamo un nazionalismo compassionevole, come lo definisce bene Teresa Forcades in ‘Nazione e compassione’ (ed. Castelvecchi); un nazionalismo femminista capace di esprimere riconoscenza alla terra e alla tradizione che ci ha accolto ed educato, ma che non fa delle ‘differenze’ una gerarchia di razza.
È venuto il momento di lasciare uscire allo scoperto “i ragazzi vivi”, quelli che – come racconta bene Michel Serres in ‘Non è un mondo per vecchi perché i giovani rivoluzionano il sapere’ edito da Bollati Boringhieri – dicono “basta con il sangue come coagulante sociale. […] Non vogliamo più costruire collettività sul massacro di un’altra o sulla propria immolazione; è questo il nostro futuro vitale contrapposto alla vostra storia e alla vostre politiche di morte”.
Le bandiere, le divise e gli onori a esse legati sono stracci se a indossarli sono giovani maschi che non riescono a darsi una identità diversa dai vecchi padri. Quei maschi che mostrano tutta la loro alienazione sparando nelle piazze e nelle scuole ai loro simili che invece si stanno già reinventando.
L’unica grande speranza per il futuro è l’alleanza generosa tra femminismo (femmine e maschi due pari e diversi) e le nuove generazioni, tra padri e madri femministe e figli/e con il sorriso compiacente di quei padri e madri cresciute nella cultura patriarcale.
Padri abbiate il coraggio di lasciarli/e andare in una direzione opposta alla vostra.
Sono uno dei fenomeni mediatici del momento. Con i loro video divenuti virali, hanno conquistato tutta l’Italia dei social e con i loro tormentoni sono riusciti ad arrivare fino al teatro Ariston quest’anno. Stiamo parlando di Casa Surace, casa di produzione video, la cui pagina facebook vanta più di un milione di followers. E proprio uno dei personaggi principali, il ‘milanese’ Ricky ha accettato di fare una chiacchierata con FerraraItalia.
Com’è nata l’avventura di casa Surace?
Casa Surace è una vera e propria casa, o meglio lo era.
Casa Surace era la casa di Paolo e Simone Petrella – fondatore e regista della società – ed era la classica dimora di amici dove si facevano le feste in pieno stile americano: bottiglie del discount e musica trash. La pagina Facebook era nata proprio per dar sfogo a questo spirito goliardico e i primi video erano veramente fatti in maniera spontanea e home made. Io e Pasqui (al secolo Bruno Galasso, ndr) siamo sbarcati a Casa Surace come molti per le feste, ma la nostra prima apparizione in un video arriva con ‘Il Primo Maggio ai tempi del social network’ in cui io interpretavo FaviJ, famoso youtuber polentone, e Pasqui un grafico pugliese. Da lì nacquero i nostri personaggi e l’idea di sviluppare un format che parlasse dei fuorisede e del Sud e Nord.
Parlaci un po’ del Riccardo pre Casa Surace e del Riccardo di oggi.
Prima di scoprire che potevo stare tranquillamente davanti a una telecamera, ho sempre pensato e sognato di finire dall’altro lato, infatti ho studiato e lavorato per un lungo periodo come operatore, regista, videomaker, montatore, insomma un tuttofare dell’audiovisuale. Mi sono laureato in lingue (inglese e spagnolo) e ho lavorato a lungo come fotografo e videomaker, continuando a coltivare la mia passione per la musica, suonando la chitarra in vari gruppi, facendo occasionalmente il dj, organizzando serate e facendo radio, in particolare io e Bruno gestivamo una web radio in cui facevamo in coppia un programma comico ricco di imitazioni e dialetti, da lì è nata la nostra coppia comica dagli scambi veloci e serrati.
Com’è nato il tuo personaggio?
Mio nonno era di Tarcento, un paesino vicino Udine, e mio padre ha vissuto a lungo a Milano. Adorava quella città e ne parlava sempre, anche un po’ con rammarico. Fin da quando ero piccolo a tavola volavano aneddoti, battute e racconti con accento meneghino. Crescendo scoprii Aldo, Giovanni e Giacomo e la loro comicità, imparavo a memoria i loro spettacoli teatrali e tutte le battute dei loro film, in particolare mi piaceva molto Giovanni e la sua comicità pungente e riuscivo a imitarlo quasi alla perfezione, credo che sia così che abbia perfezionato il mio dialetto milanese nonostante io abbia vissuto tutta la mia vita in mezzo a pizze, soli e mandolini.
Avete una casa di produzione? Come funziona il vostro lavoro?
Casa Surace ormai è una società strutturata che collabora con una agenzia di produzione media digitali, la Netaddiction, che ci aiuta con le proposte lavorative. Surace srl si divide in tre microgruppi. La produzione, che si occupa della logistica e di tutto quello che serve per girare un video dalla location alla scenografia alle comparse etc. etc. nonché di comunicare con il brand e di stabilire un rapporto lavorativo coerente. La parte autoriale, che si occupa della stesura e delle idee dei video, la scrittura dei post, delle foto meme etc. Infine una parte attoriale, che interpreta le idee della parte autoriale e si occupa di interagire con i fan e di gestire gli eventi live, quali presentazioni, incontri etc. Queste tre aree si incontrano e interagiscono. Spesso chi fa produzione è anche un attore, chi fa l’attore è anche autore e chi scrive i video spesso si occupa anche di parlare con i brand, insomma siamo davvero una bella famiglia, e poi c’è nonno Andrea.
Quest’anno Sanremo, progetti futuri?
Sanremo per noi è stato un punto di arrivo che ha consacrato il nostro essere riconosciuti in ambito nazionale, essere ingaggiati dalla Rai per gestire i social ufficiali di Rai 1 e del Festival è stata una grande soddisfazione (web: lo stai facendo nel modo giusto). Però è stato anche un punto di partenza: partecipare all’evento televisivo più visto d’Italia ti mette in una posizione dalla quale poi puoi solo continuare a salire. L’avventura con la Rai è stata molto positiva e divertente e non escludiamo di continuare la nostra collaborazione, abbiamo scoperto di poter essere anche degli entertainers, i quali se la cavano anche al di fuori del web, quindi un obbiettivo nel breve periodo sarà sicuramente quello di arrivare a fare spettacolo utilizzando altri media. Come dice il detto: “non importa che tu stia in radio al Cinema o in TV, starai sempre sciupato a Nonna!”
Può un sacerdote dubitare della presenza di Cristo nell’ostia? Ma soprattutto, può un’ostia dimostrare di essere carne sanguinando? E’ quello che sarebbe accaduto durante il Medioevo ferrarese, quando non poche erano le voci che mettevano in dubbio i dogmi della Chiesa.
Al 971 risalgono le prime testimonianze sulla chiesa di Santa Maria Anteriore, che si trovava nel luogo del primo nucleo abitativo della città, sulle rive di un guado – o vado – fluviale.
Inizialmente, in realtà, si trattava di un semplice luogo sacro dove si venerava un’immagine greca della Madonna, posta su un capitello, che fu il primo oggetto di devozione a Ferrara. L’edificio venne costruito attorno all’anno Mille, ma nel Quattrocento fu in gran parte demolito per la costruzione di una imponente basilica rinascimentale, ancora oggi viva e visitabile, Santa Maria in Vado. Fu Ercole I a decidere la modernizzazione dell’antico luogo di culto, aiutato dal geniale e fedele ingegnere Biagio Rossetti. Ci vollero quarant’anni per terminare i lavori, al termine dei quali la chiesa venne consacrata all’Annunciazione della Vergine. Presto, però, un nuovo evento avrebbe danneggiato gravemente l’intera struttura: nel 1570 la città fu colpita da un importante terremoto e parte della costruzione dovette essere prontamente rifatta. Qualche anno dopo, il duca Alfonso II volle di nuovo modificare l’edificio, chiamando l’architetto ducale Alessandro Balbi che portò a termine l’impresa.
E dopo gli Estensi, la Santa Sede: alla fine del Cinquecento Ferrara venne devoluta allo Stato della Chiesa e circa vent’anni più tardi l’abate esternò l’intenzione di cambiare volto alla basilica. La decorazione pittorica fu perciò affidata allo straordinario Carlo Bononi, che realizzò un ciclo sui soffitti e sulle volte dedicato alla Trinità e a Maria. Nel Settecento per la chiesa iniziò un momento di degrado, culminato nel suo restauro ottocentesco, ma viene da chiedersi, a questo punto, come mai così tanto interesse nei secoli per preservare e rinnovare continuamente questa costruzione, che non smette ancora di stupirci, se pensiamo alle recenti scoperte di decorazioni cinquecentesche e affreschi settecenteschi nascosti dietro le sue pareti.
Per trovare la risposta, dobbiamo tornare molto indietro nel tempo, prima cioè della vera e propria edificazione di Santa Maria in Vado per come la conosciamo oggi. Il priore Pietro da Verona, da non confondere con l’omonimo santo, non era convintissimo della transustanziazione, cioè della reale presenza di Cristo nel sacramento eucaristico. Quel giorno di Pasqua del 1171, tuttavia, dovette incredibilmente ricredersi: proprio durante la Messa domenicale del 28 marzo, mentre stava elevando l’ostia consacrata, da questa iniziò a zampillare sangue vivo, con una tale intensità da sporcare la volta del catino absidale sopra l’altare, lasciando una macchia indelebile che ha resistito al trascorrere dei secoli. Quella cappella, non a caso, fu in seguito chiamata Cappella del Prodigio: un prodigio riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa cattolica come miracolo eucaristico, e da allora diversi furono i pontefici che gli resero omaggio venendo a visitare la basilica. Possiamo ben immaginare lo scalpore che il fatto avvenuto e il segno perfettamente visibile destarono nella popolazione, ma la notizia giunse non solo in tutta Italia bensì anche all’estero.
Esistono infatti documenti inglesi coevi o poco successivi che descrivono l’avvenimento ferrarese correlandolo con gli altri miracoli eucaristici. E non si fa fatica a pensare ai numerosi pellegrinaggi che da allora iniziarono a svolgersi, non per andare a controllare di persona la veridicità di quanto sentito in giro, ma piuttosto per avvicinarsi sempre di più a Dio attraverso i luoghi in cui Egli ha scelto di manifestarsi e rivelarsi.
La Cappella del Prodigio, oggi, si trova nel Santuario del Preziosissimo Sangue, eretto nel 1595 durante il governo di Alfonso II. La fede, certo, non ha bisogno di prove o segni tangibili, ma al di là della religione e delle convinzioni personali, il miracolo del preziosissimo sangue fu un momento saliente e documentato del nostro passato, da studiare e trattare con rispetto e attenzione.
Bologna, una fredda domenica come tante, fra gennaio e febbraio. La città è piena di gente che chiede l’elemosina.
All’entrata di un supermercato una ragazza intabarrata, con un berretto di lana in testa, seduta a gambe incrociate in compagnia di due cani, sorride alla gente che entra ed esce lasciando di tanto in tanto qualche monetina in una ciotola che lei ha posizionato davanti a sè. Oltre a quello che indossa ha con lei solo uno zaino nero, gonfio di roba. Mi fermo, lascio qualcosa, è le chiedo come mai si trova li. Non ha abitazione, dice, ed è di Bologna.
La rivedo alla sera all’entrata di un altro supermercato, con i suoi cani e il suo berretto; mi riconosce, mi accomodo a terra con lei e iniziamo a chiacchierare. Accetta tranquillamente di farsi intervistare.
Come si chiamano i tuoi cani?
Lei Merita ha dodici anni e lui Pupui, nome francese, ha un anno; e poi c’è suo figlio della Merida che però sta con mio marito. Anche mio marito, anni fa a Roma, è stato filmato da una ragazza cinese che ci ha fatto un film… lo hanno visto in Cina.
Mi racconti un poco la tua storia?
Io sono di Bologna. Mio papà e mia mamma si sono conosciuti al Roncati che è l’ospedale psichiatrico di Bologna. Mio padre voleva rimanere lì, da quanto io so:lì dentro si è innamorato di mia mamma. Mio padre è schizofrenico, mia madre aveva psicosi con depressione; aveva perché è morta 8 anni fa, di tumore all’utero. Si sono conosciuti lì, mio padre si è innamorato di mia madre, e quando lei è uscita lui l’ha seguita. Sono andati dove aveva una casa, a C. (nella periferia bolognese, ndr), supportati dai servizi… Ho imparato da loro che una famiglia, anche se con problemi, se è supportata riesce comunque a crearsi, ecco… una coppia riesce a formarsi una famiglia.
Hanno avuto due figlie, io e mia sorella più grande; della la mia infanzia mi ricordo poco… sono venuta a sapere da grande che… fecero un ricovero subito a mia madre quando io ero appena nata. Anzi non dovevo neanche nascere perché mentre era incinta le fecero un tso e volevano farla abortire perché i farmaci potevano aver creato dei danni. Mia mamma si è opposta, era al quinto mese: volevano farla abortire e lei si è opposta e io sono qua.
Devo tutto a lei.
Il primo ricovero di mia mamma l’ho visto a nove anni, io invece non sono mai stata ricoverata. Prima ho conosciuto di più la malattia di mia madre perché ha avuto più ricoveri…
Fino a 9 anni sono stata in un gruppo appartamento, perché quando lei veniva ricoverata mio padre beveva e non mi lasciavano con lui, anche per la sua malattia.
E niente, questo fino a 16 anni circa …
A 17 anni ho preso il mio primo cane, che era il nonno di Fiuto… che sarebbe il suo papà di Merita… adesso sono alla terza generazione, ho preso vari altri cani…
Stavo a casa loro, dei miei genitori, ho iniziato a fare le feste, i rave, giravo un pò la vita quando avevo 17-20 anni. Poi a 22 anni mi sono messa insieme a un ragazzo mezzo marocchino mezzo francese che era stato adottato e col quale ho avuto due figli.
Adesso dove sono i tuoi figli?
In casa famiglia, sai ho avuto dei problemi ultimamente, con un altra persona…
Lui, il padre, è buttato a merda in centro, non mi vede dal 2012. Delira, si fa… sta a merda.
Aveva iniziato ad alzare le mani quando i miei figli erano piccolini, la femmina è nata nel 2008 il maschio nel 2009.
Li vedi?
Li vedo ogni 20 giorni, sono a Genova, perché io stavo lì prima; mi ero trasferita nel 2012 a Chiavari e avevo conosciuto un altro ragazzo, molto più grande di me, aveva 13 anni più di me che adesso ne ho 34.
Un pò a fatica, però facevo le stagioni, lavoravo,
Prima di questo però sono stata anche in una comunità di mamme, ho fatto un anno e mezzo circa, poi tornata la casa lui ha alzato le mani, era agosto, A gennaio, il giorno del mio compleanno, di nuovo è successo: allora ho chiamato i carabinieri e lui ha dato di matto, lo misero in carcere… così… e poi mi decisi a lasciarlo ad agosto 2012.
Poi ho conosciuto quest’altra persona più grande di me che lavorava a Chiavari, un sardo; è andata avanti per 4 anni la storia, ma con molte probematiche, anche perché anche lui è caduto nella tossicodipendenza; quando ho deciso che tanto ormai la cosa non andava, io dormivo in una stanza lui in un altra, ho deciso di lasciarlo.
Ho conosciuto l’attuale marito, l’unico che ho sposato per fortuna, son finita fuori di casa perché il mio ex mi minacciava. I bimbi facevano judo e anche io lo facevo, chiesi alla maestra di judo se me li teneva perché continuassero ad andare a scuola e però poi sono intervenuti i servizi perchè il mio ex sardo mi ha creato dei problemi e a luglio c’è stato un decreto del tribunale di Genova che ha emesso una sentenza dura. Ero venuta qua a Bologna per recuperare una casa, avevo mollato il lavoro e casa non ce l’avevo più per venire intanto a recuperare la casa. Sono andata a casa di mio padre, che stava appunto a C. e niente, da lì non ho potuto fare domanda alle case del comune, perché dovevo essere residente qua da tre anni e non posso fare qui…
Che altro? Siamo venuti qua a Bologna con i bimbi e – al tempo – il mio compagno, Lucas, è arrivato questo decreto e diceva che affidava i bimbi a Chiavari ai servizi sociali, e li hanno quindi rimessi in casa famiglia. Li vado a trovare, e poi non si sa…dipende un pò dai tribunali…
A mio padre gli hanno data un’altra casa, un cambio alloggio, e io avevo la chiave per dormire, a dicembre avendo la chiave andavo a dormire nella casa dove ero cresciuta, dove non c’era niente.
L’altro giorno è venuta qua mia sorella, incazzata, anche perché non sa che vita faccio. Mi ha detto “Vieni che ti apro la porta, è l’unica volta che ti apro la porta, solo per prenderti le tuo cose”.
Tua sorella abita qui? Che vita conduce?
Si abita qui, ma lei ha una vita molto diversa da me, è materialista anche, si fa viaggi, sta dietro a mio padre però. Ha due figli e convive con un senegalese, uno a posto. Ma io non ho rapporti con lei. A Natale per dire, che è anche il suo compleanno, la ho chiamata alle cinque e mezza e mi ha detto “Pensavo che non chiamavi neppure”… Se non chiamavo io lei non chiamava neanche per gli auguri di Natale. Io compio gli anni il 5 gennaio, ma non mi è arrivato neanche un messaggio da lei…
Ding! (un passante getta una moneta nella ciotola) Grazie!
Hai uno sguardo vivo, solare, come ti senti adesso?
Se penso alla situazione dei miei bimbi ci sto male, non sarei neanche qui se li avessi avuti con me, non starei a fare l’elemosina per strada. Quello mi mette giù, mi mette tristezza… perché li ho cresciuti io… anche rispetto al padre naturale: lui se ne è fregato, ma il tribunale ci ha messo anni a fare un decreto… prima quello di Bologna, poi quello di Genova, ci ha messo un tre anni per fare un inizio di decreto e a me in un mese che ho avuto dei problemi che ho cercato di risolvere e mi è arrivata una mazzata così. Due pesi e due misure; ma io i bimbi me li sono tirati su e avevo riscontri positivi dalla scuola: mio figlio l’anno scorso ha fatto un anno un pò difficile a scuola… adesso hanno 8 e 9 anni,
Ding! (un passante getta una moneta nella ciotola) Grazie!
Come fai per guadagnarti da vivere? Prima lavoravi a Chiavari ma qui niente lavoro…
Ho vissuto un pò con i soldini messi da parte, questa vita la faccio da giugno dell’anno scorso, anzi per strada ho iniziato a settembre…
Adesso non ho più la casa, per la verità non ce l’avevo neanche prima, ero abusiva; tramite il consolato ceco (il marito è della repubblica Ceca, ndr) e un associazione di Bologna dovrei avere una casa per un tot per emergenza abitativa, e poi da lì muoverci a prendere un tot che danno a chi e senza fissa dimora, emarginati… solo che ci sono stati dei problemi: dovevamo entrare a ottobre e non siamo ancora entrati… adesso dovremo entrare a fine gennaio, primi di febbraio. Abbiamo dato quello che ci hanno chiesto di pagare, un minimo di quota da pagare, per 10 mesi poi… speriamo!
Tutto il tuo avere sta quindi dentro lo zaino che porti con te?
No, ce l’ho in una cantina qui e anche a Chiavari.
Com’è la tua giornata quando sei per strada?
Inizio la mattina, ma non sempre; di solito ci si alza e si raggiunge il luogo, ci si mette lì… Oggi perché eravamo fuori Bologna e quindi c’era il treno alle 8 e mezza o alle 11 e mezza, mi pare, ci siamo svegliati alle 8, abbiamo raccattati i panni e ci siamo mossi verso qua…
Poi ci siamo divisi, come facciamo quasi sempre… mio marito era qui prima…
Ci sta pochissimo qua insieme a me perché con tre cani, questi due e quello di mio marito è difficile… tendenzialmente qui ci sono io.
Ma come scegli i posti, qualsiasi posto va bene?
Non tutti vanno bene… verso il centro io non ci vado, c’è tanta gente verso il centro, c’è gente a distanza di 20 metri che fanno colletta in tre…
Alla mattina qui, per esempio, c’è un ragazzo di colore, al pomeriggio ci sono io… un giorno ci siamo trovati qui nello stesso orario e ci siamo messi d’accordo ecco…
A volte vado con mio marito Lucas a fare colletta se ci sono altri…
Quindi conosci altri che fanno colletta?
No, non ci si conosce più di tanto… io conoscevo qualcuno, dei vecchi di qualche anno fa che facevano colletta in centro…
Adesso dove vivi, dove passi la notte?
All’ addiaccio e stamattina c’era il ghiaccio sulle macchine… ma se trovi il posto… noi abbiamo trovato un posto bello coperto… riparato.
Ding! (un passante getta una moneta nella ciotola) Grazie!
Hai mai avuto problemi con le forze dell’ordine mentre elemosini?
Mi è successo solo una volta che li hanno mandati e hanno chiesto un documento e mi hanno fatto un po’ di domande… non mi hanno neanche chiesto i documenti dei cani perché hanno visto che stavano bene… e niente, mi hanno lasciata qua.
Certo se magari sei per le vie del centro… mi è capitato di passarci una mattina che dovevo fare gli esami del sangue che… ho visto in centro in via indipendenza, alle 8.30-9.00 gente che dormiva sotto i portici, ma io non ci vado mai, li forse controllano di più…
Sennò c’è la stazione, i dormitori ci stanno, uno è vicino al carcere, ma i cani stanno in gabbia, poi ci si può andare solo per 15 giorni e i cani fuori… e poi ti dividono tra maschi e femmine… un conto se sei da solo ma una coppia ci rinuncia…
E il lavoro?
Il problema e che sono oltre l’apprendistato, a volte fanno problemi anche perché sei donna, ti vogliono automunita o motomunita,…
Io poi ho solo una qualifica di cucina, però in cucina ho lavorato in albergo: facevo le stagioni magari di tre settimane senza fermarmi e senza fare la pausa… e avevo comunque qualcuno che stava dietro ai bimbi…
I servizi sociali fanno qualcosa per te?
C’è l’assistente sociale di Chiavari che segue i bambini, adesso dovrei pagare i denti di mia figlia; la ho sentita e anche se non ho lavoro le ho detto che dividiamo in tre con i nonni paterni e poi pagherò la mia parte… e una parte loro… ma deve sentire perché non essendo residenti lì, non siamo più a Chiavari… dare i contributi a uno di fuori diventa un problema…
Oggi tutti usano smartphone e computer, voi come fate a comunicare?
Abbiamo un telefono in due, vecchio, da 50 euro, il minimo per essere contattati e contattare…
ho anche una mail.
Se guardi al futuro, come lo vedi?
Il futuro non lo vedo cosi, deve cambiare. Adesso ho beccato una signora che può farmi lavorare in un’agenzia di pulizie, mando il curriculum e vediamo. Poi un altro signore, ma ha la ditta un pò ferma e lì dipende… ho fatto un colloquio l’altro giorno ma mi volevano automunita perché era fuori, di sera e non c’erano mezzi per tornare indietro…
Si fa tardi, le ginocchia gemono per l’insolita postura ed è ora di porre fine alla conversazione. G. mi saluta con un sorriso e una stretta di mano, forse con un pò di quella soddisfazione derivante dal puro e semplice contatto umano; forse per la più venale soddisfazione derivante dalla buona raccolta di monetine. Sembrerà strano, ma ogni volta che mi capita di fermarmi a parlare con qualcuno che elemosina in strada, come ben sanno gli psicologi sociali, le donazioni dei passanti aumentano.
Penso alla tenacia di G. e penso che ce la farà a cambiare il proprio futuro: ce la farà perché non ha perso il rispetto per sè stessa, perché riesce ancora a stabilire un rapporto con le persone. Perché malgrado tutto, in un mondo che sembra aver perso il senso dell’umano, la sua esperienza può ancora insegnare qualcosa a chi sa ascoltare.
Il graffio del pennino sulla pergamena. Il fruscìo del foglio, l’inchiostro, il calamaio: una vita che lascia la sua traccia in una lettera. Una storia personale incisa sulla carta e nella memoria.
Ma cento, mille altre storie riecheggiano in quella voce che racconta, che scrive nell’intimità di una stanza.
Si intitola ‘L’ultimo grido’ la nuova web-serie scritta e diretta dall’autore ferrarese Giuseppe Muroni e prodotta dall’Istituto dell’Enciclopedia Treccani in collaborazione con Controluce Produzione in occasione degli ottanta anni dalle Leggi razziali. Monica Guerritore, Francesca Inaudi, Francesco Montanari e Stefano Muroni sono gli attori protagonisti dei quattro video – veri e propri piccoli corti – in onda sul canale Treccani Web Tv (www.treccani.it.): un viaggio a tappe nella memoria del nostro Paese, alla ricerca di storie dimenticate o disperse nel contenitore dell’oblio. Quattro letture della durata di cinque minuti per raccontare poeticamente trame di vita di cittadini italiani di religione ebraica rimaste ai margini della Storia.
‘L’ultimo grido’ – una puntata a settimana a partire dalla Giornata della Memoria 2018 – è il secondo capitolo di una trilogia della memoria, e segue ‘Voci di r-Esistenza’, presentata in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione.
“Questa nostra iniziativa indica con chiarezza la decisa apertura nei confronti del mondo digitale che la Treccani ha voluto, con coraggio, percorrere – ha osservato Massimo Bray, direttore dell’Istituto Treccani – Un progetto pensato interamente per la diffusione sul web: questo è un esempio di divulgazione storica interessante, innovativo, fatto con cura, con intelligenza da Giuseppe Muroni”.
Attraverso il ritrovamento e la lettura di quattro lettere, vengono ripercorsi tragici momenti occorsi tra il 1938 e il 1943.
“Nell’Italia delle Leggi razziali compiere gesti eclatanti o urlare non serve più: gli appelli degli ebrei sono inascoltati e stigmatizzati pubblicamente. Prevale l’isolazionismo e la solitudine; quest’ultima è interrotta dalle migliaia di lettere che vengono inviate quasi quotidianamente da una comunità estremamente vivace e attenta a ciò che succede – spiega l’autore – È dalla dimensione privata che bisogna partire per comprendere le vicissitudini degli ebrei italiani durante il regime fascista e non è un caso se la lettera, quindi la capacità di articolare un pensiero personale, intimo, è stata scelta come emblema del viaggio che ci porta a ritroso nel tempo. Nel contrasto tra “spazio privato-libertà” e “spazio pubblico-negazione” si poggiano le fondamenta di una comunità che, come nessun’altra, tentò di non piegarsi alla bieca violenza. Fino a quando le porte di casa rimangono invalicabili viene coltivata una speranza, nutrita dalla fede e dalla cultura; nel momento in cui verrà violata la dimensione privata-familiare, mediante rastrellamenti e deportazioni, inizierà la persecuzione delle vite e il periodo più fosco della storia del Novecento. Le epistole diventano veri e propri luoghi della riflessione, della paranoia, del ripensamento, della scissione, dell’auto-analisi, del malessere, dell’intimità, della resistenza e della libertà”.
La scelta stilistica di Giuseppe Muroni ci affida un’opera garbata, rispettosa, un testo che sa unire rigore scientifico e poesia.
Il titolo è ‘L’ultimo grido’, ma le parole sono sussurrate all’orecchio, soppesate, confidenziali. Sono le lettere scritte nella propria casa, tra gli oggetti che appartengono alla sfera dell’intimità (la tazza nell’abbraccio delle mani, la luce calda dell’abat-jour, i libri) oppure in un campo di internamento, dove la penna offre l’unica via di fuga possibile.
Scrivere diventa il gesto per far cadere le pareti del silenzio.
L’inchiostro sulla pergamena trattiene la caducità degli eventi e dei pensieri, garantisce la persistenza delle cose.
“I personaggi, in un percorso di trasformazione e maturazione, diventano persone: la finzione letteraria lascia il posto al documento, alla testimonianza orale, alla storia. Le molteplici domande che compaiono nelle lettere diventano l’auto-analisi di una nazione, che con le leggi razziali conosce uno dei momenti più drammatici della sua storia, e di una comunità, quella ebraica, qui in grado di leggere criticamente il succedersi degli eventi”.
Il lavoro è stato patrocinato dal Meis (Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah), dal Cdec (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea), dall’Ucei (Unione Comunità Ebraiche Italiane) e dalla Comunità Ebraica di Ferrara. La consulenza scientifica è stata fornita dall’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara.
Francesca Inaudi
Monica Guerritore
Il tratto distintivo di ogni video è l’attenzione al particolare. “La mano stringe la penna, che oscilla irrequieta da parte a parte del foglio e registra il logorio psichico della persona consapevole che i cambiamenti della società stanno condizionando in modo indelebile la propria vita. Le parole codificano i pensieri volubili, carichi di tensione emotiva e angustia, e riempiono il foglio bianco. C’è sempre un misto di incredulità e pacata preoccupazione nella voce di Stefano, Francesco, Monica e Francesca, i quattro protagonisti di questa storia che si sviluppa tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta del Novecento”.
Le note struggenti della musica di Martina Colli, le luci e le ombre, i pappi del tarassaco rubati dal vento – nella grafica di Giulia Pintus – sono il preludio ad un’interpretazione intensa, appassionata: primissimi piani, sguardi profondi, voci calde che orlano il silenzio.
Testi affidati a quattro attori di forte personalità, professionisti del piccolo e grande schermo. Stefano Muroni interpreta la parte di un ebreo di Venezia, dipendente della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, che viene improvvisamente licenziato nel dicembre del 1938, dopo molti anni di onorato lavoro. Lui, come altre migliaia di ebrei italiani, invia una lettera al Duce: “Ci viene negato ogni diritto e non ne capiamo il motivo. (…) Attendo le parole che ci facciano di nuovo uguali agli altri”.
Gli appelli restano inascoltati, le persecuzioni diventano più violente e iniziano i primi attacchi fisici. Nell’ottobre del 1941 viene presa di mira la sinagoga di Torino. Una delle attrici italiane più importanti, Monica Guerritore, entra nei panni di un’ebrea torinese che cammina per le strade vuote del ghetto sotto una pioggia incessante: sono passati pochi giorni dall’affissione di manifesti e volantini con i nominativi degli ebrei della città, tra i quali il cognome della donna, che tornata a casa scrive una lettera commovente al marito, morto a New York: “La pioggia mi riconcilia con la vita, Mario, quella che ci toglieranno a breve”.
Dominano i luoghi chiusi: le mura di casa così come la Sala F del convento-caserma di San Bartolomeo a Campagna, in provincia di Salerno, sono la sede dei dubbi esistenziali e della presa di coscienza. Francesco Montanari scrive da uno dei campi di internamento del centro-sud della penisola, nella luce incerta di “due finestrelle che lasciano penetrare la luce sufficiente per sognare di scappare”. Perché, appunta Francesco, “La vita è una questione di spazio e quando non ne hai sei già un po’ morto”.
Come passeggeri su una metropolitana della memoria, si fa sosta nella Ferrara di Giorgio Bassani. Francesca Inaudi interpreta un personaggio ispirato a Matilde Bassani: arrestata perché la sera del 10 giugno 1943 affigge manifesti in ricordo a Giacomo Matteotti, una volta liberata scrive una lettera ad una amica per documentare ciò che le è accaduto. E nelle parole di Francesca, frante dalla sofferenza del ricordo, è racchiuso il senso profondo de ‘L’Ultimo grido’:
“Ti scrivo queste cose non per rivendicare i torti che ho subito, ma per lasciare una traccia di ciò che sta accadendo in questi anni. È una questione di memoria, anche se mi costa ricordare. A volte dimenticare è più facile”.
Erano anni difficili quelli che abbiamo lasciato alle nostre spalle appena un secolo e mezzo fa. Ci è voluta l’annessione della città al Regno d’Italia per porre fine al feroce tribunale della Santa Inquisizione, attivo a Ferrara almeno dal 1265. Fu abolito e ripristinato varie volte, nei suoi periodi migliori il potere che aveva nello Stato estense si estendeva anche a Modena e Reggio Emilia, e non erano rari i casi di confessioni estorte con la tortura senza prove di accusa.
La Biblioteca Ariostea, tra le centinaia di migliaia di opere che custodisce, ci offre al proposito un documento interessante, il ‘Libro dei giustiziati’, una vera e propria raccolta di verbali stilati dagli inquisitori. 853 condanne a morte in pieno Rinascimento, tra il governo di Niccolò III e quello di Alfonso II, non solo per eresia o crimini contra Dei, ma anche per reati legati alla sfera civile, come furti e omicidi. E quanto a eresie o culti proibiti, c’è da dire che Ferrara non si lasciava mancare niente, tra Templari, catari ed ebrei!
Il ‘Libro dei giustiziati’ ci riserva però anche un’altra sorpresa: tra tutti i nomi riportati, solamente ventidue sono femminili, contribuendo a sfatare il mito della caccia alle streghe. L’Inquisizione, nella sua storia ferrarese, si è spesso rivelata magnanima con le donne e non si fa fatica a trovare casi di ragazze liberate dopo che avevano abiurato.
Che si trattasse di donne o uomini, tutti i processi si tenevano tuttavia in un luogo ben definito, una chiesa naturalmente, ancora oggi in piedi nonostante sia stato l’edificio religioso più devastato dal sisma del 2012 nella nostra città. Una vela del campanile di San Domenico, infatti, a causa del terremoto si è staccata, sfondando il tetto e finendo all’interno della costruzione. Le esecuzioni, invece, avvenivano nella piazza di fronte alla facciata, ben visibili dalla popolazione.
L’edificio, un tempo appartenente a un intero complesso domenicano, venne eretto nel 1726 al posto di una chiesa più antica, orientata, come spesso accadeva in passato, sull’asse Ovest-Est: si entrava con l’oscurità di Ponente per avvicinarsi alla luce dell’altare rivolto a Levante. La costruzione attuale ha l’orientamento opposto, ma della vecchia chiesa, risalente al XIII secolo, rimangono il campanile e la cappella Canani, ovvero la primitiva struttura absidale. All’interno, la chiesa ci accoglie con varie meraviglie: si passa dai dipinti di importanti artisti ferraresi, quali lo Scarsellino o Carlo Bononi, al magnifico coro ligneo del 1384, uno dei più antichi della regione, fino ad arrivare al pavimento quasi interamente ricoperto di lapidi sepolcrali antiche.
Noi oggi guardiamo tutto questo con gli occhi dello stupore e del fascino, ma se ci immaginiamo la reale funzione di ciò che resta, l’atmosfera cambia drasticamente. Una vicenda, in particolare, attirerebbe l’attenzione di chiunque: è quella del mago Benato. Accusato di utilizzare la propria magia contro il marchese Leonello d’Este, venne condannato a morte e bruciato sul rogo. Consumatosi il fuoco, però, un terribile terremoto si abbatté sulla città e qualcuno pensò a Lucifero o alle forze degli inferi.
Ma non è questa l’unica storia a nascondere del macabro. Il 1744 è l’anno in cui a Mantova vide la luce un futuro fisico e ingegnere, Bartolomeo Chiozzi, giunto presto a Ferrara, dove prese casa in un grande e curato palazzo. Un giorno, rovistando in cantina, trovò un libro di formule magiche per invocare il demonio. E a questo punto le fonti si dividono: da un lato, sembrerebbe che Chiozzi avesse un fedele servitore di nome Magrino; dall’altro, pare che Magrino fosse addirittura il nome del diavolo che si materializzò dopo le invocazioni dello studioso. Dopo aver venduto l’anima al demonio, comunque, ed essersene pentito, mago Chiozzino, come iniziava a chiamarlo la gente, si recò alla chiesa di San Domenico per purificarsi, contro la volontà di Magrino, servo o diavolo che fosse, che per la rabbia assunse forma caprina e diede una zampata sulla porta.
E ancora oggi, nell’attesa di poterci entrare, fermiamoci davanti all’entrata laterale. L’impronta del diavolo è il ricordo di esseri umani torturati e uccisi da altri esseri umani, un monito austero e tangibile per il futuro.
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