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Ferrara Film Festival: presentazione della 5° edizione

Da: Ufficio Stampa Ferrara Film Festival

Nel corso di una conferenza stampa tenutasi presso la Sala dell’Arengo del Comune di Ferrara è stata presentata, la quinta edizione del Ferrara Film Festival che inizierà il prossimo 17 settembre e si concluderà domenica 20, in forma ridotta e in totale sicurezza per via delle restrizioni da Covid-19. Il benvenuto lo dà l’assessore al Turismo di Ferrara Matteo Fornasini che parla di coraggio degli organizzatori “in quanto realizzare eventi nel corso delle restrizioni sanitarie comporta ancora più impegno. Malgrado questo a Ferrara, oltre a veder confermati appuntamenti in calendario gli anni scorsi, si aggiungono anche nuovi eventi. Per quanto riguarda il Ferrara Film Festival rivolgo i complimenti dell’Amministrazione perchè si inquadra all’interno di appuntamenti di spessore che creano indotto, dando modo alle attività commerciali di lavorare richiamando turismo in città”. Maximilian Law, nella veste di direttore del Festival, ha poi specificato i temi di rilievo, a cominciare dai grandi ospiti. “Consegneremo 3 premi alla carriera, tra cui due internazionali. Parlo di Nastassja Kinski, che non ha bisogno di presentazioni, Bille August, regista pluripremiato con film eccellenti, quali la Casa degli spiriti, Les Miserables, Il senso di Smilla per la neve, oltre ad Alessandro Haber che conosciamo tutti. Una delle novità di quest’anno – ha precisato il direttore – sta nella formula più ridotta, sulla base del weekend, con la proiezione dei 13 film premiati dalla giuria, sui 38 che avevano scelto di candidarsi. A questi si aggiunge la premier italiana del film “The poison rose”, un film uscito negli USA, con John Travolta e Morgan Freeman. Noi presenteremo l’anteprima nazionale nella versione director’s cut, con 20 minuti di scene totalmente inedite, con la partecipazione del regista e del cast italiano del film. Ricordo anche la partnership con RDS con cui abbiamo avviato un progetto interessantissimo teso all’organizzazione di un grande concerto in programma a Ferrara per il prossimo anno in occasione del giorno della Terra 2021. Se ne parlerà più approfonditamente insieme al direttore di RDS che sarà nostro ospite nel corso del Festival. Intanto possiamo anticipare che, grazie a delle partnership con UNICEF e Italo Treno siamo arrivati all’ideazione di due premi speciali per nuove categorie di film incentrati su argomenti di rilievo (“Young UNICEF”, sul tema umanitario, e “FFF Earth”, sul tema dell’Ambiente). Il Ferrara Film Festival non è solo cinema ma anche beneficienza, così come precisato dal vicedirettore Giorgio Ferroni: “Non lavoriamo solo per questo weekend lungo di cinema: il nostro è un impegno che si sviluppa durante tutto l’anno per creare appuntamenti anche in ottica di beneficienza e solidarietà. Il 17 abbiamo in programma una cena il cui ricavato verrà devoluto all’associazione A-Rose impegnata nella ricerca sul cancro”. Infine l’arte, con Palazzo della Racchetta (via Vaspergolo 6 a Ferrara) storica e confermata sede del FFF, diretta da Enrico Ravegnani, che ospiterà sia la mostra artistica di Alberto Andreis che la proiezione del docufilm “Art Backstage – la passione e lo sguardo” di Manuela Teatini in programma il 16 settembre alle 21.

LA SCIENTIFICA TRINITA’ DIGITALE E LA VITA NELL’AMBIENTE INTELLIGENTE:
Internet delle Cose, Megadati, Intelligenza Artificiale

Oggi, proprio adesso, ci troviamo tutti coinvolti in un cambiamento radicale; nulla di nuovo per certi versi poiché il cambiamento continuo è stato la cifra della modernità tanto quanto la distruzione creativa resta, oggi più che mai, la specifica cifra del capitalismo. Tutto nuovo invece se osserviamo spassionatamente l’ambiente entro cui conduciamo le nostre vite quotidiane, se lo confrontiamo con quello che potevano esperire in gioventù i nostri genitori e prima di loro i nostri nonni.
Gli sviluppi globali e locali di questo ambiente, sempre più tecnologicamente pervasivo, superano di gran lunga ogni precedente storico e rappresentano una diversità radicale nella misura in cui esso diventa e già ampiamente è un Ambiente Intelligente in grado di interagire con oggetti e persone.
Internet delle Cose, Big Data e Intelligenza Artificiale ne sono i pilastri che, a loro volta, si fondano su una gigantesca infrastruttura fisica indispensabile per rilevare, raccogliere, elaborare e trasmettere l’informazione digitale che contiene in potenza sapere, ricchezza, conoscenza, potere, bellezza e i loro contrari.
Una trinità tecnologico-scientifica che sta diventando ed in parte è già, il terreno (artificiale) e la base indispensabile non solo per il funzionamento della società ma per la vita stessa dei singoli umani sempre più incapaci di vivere al di fuori di essa.

Senza entrare nell’ambito delle applicazioni industriali e militari, l’Internet delle cose (IoT) può essere compreso dal profano (non addetto ai lavori) se solo si pensa alla possibilità (oggi quasi banale) di installare su ogni oggetto della vita quotidiana e su ogni corpo un chip, un sensore elettronico, di fatto un piccolissimo calcolatore, dotato di un indirizzo internet necessario per poter colloquiare con altri calcolatori vicini e lontani. Oggi, ognuno di noi è connesso solamente a pochi di questi dispositivi (uno per tutti: l’irrinunciabile smartphone che accompagna la vita delle persone) ma, nel breve volgere di un decennio, perdurando l’attuale tasso esponenziale di crescita, ognuno potrà (o forse dovrà) essere connesso a centinaia di oggetti intelligenti, a loro volta connessi tra di loro e collegati in una grande rete globale.
In questa prospettiva anche il corpo umano come fonte preziosissima di informazioni e di dati, è destinato ad essere integrato nella rete tramite dispositivi esterni (sensori) ed interni (microchip)  diventando esso stesso oggetto tra gli oggetti, intelligente non per sé e in sé, ma a causa della tecnologia che su di esso è installata e che consente l’interazione automatica con l’ambiente intelligente circostante di cui diventa parte. Le richieste di sicurezza e di salute rendono queste soluzioni molto appetibili ai cittadini a presindere da ogni elucubrazione complottista mentre – per inciso e sinteticamente – il tanto discusso 5G è semplicemente l’infrastruttura che si rende necessaria per trasmettere velocemente  l’enorme flusso di dati indispensabile a far funzionare l’internet delle cose.

L’assoluta centralità dell’informazione quale principale motore della società contemporanea è riconosciuta fin dai primi anni sessanta, quando fu coniata l’espressione Società dell’Informazione; l’avvento dei social e dell’internet delle cose, aumentando esponenzialmente la quantità di dati disponibili, riempie il concetto di un significato più concreto anche agli occhi dei cittadini non addetti ai lavori: essi però colgono solo il lato che riguarda le informazioni codificate in forma linguistica e simbolica, quelle che si possono leggere o guardare attraverso i media e i social, così numerose da aver causato una infodemia che rende quasi impossibile riconoscere la verità dalla finzione o dall’inganno. Esiste però un altro tipo di informazione generata da tutti i sensori installati nell’ambiente intelligente, partendo a titolo d’esempio dalla tastiera del PC, passando attraverso i navigatori dell’auto, per arrivare alle telecamere che ormai popolano ogni territorio.  Questa enorme disponibilità di dati e informazioni digitali in crescita esponenziale rappresenta un patrimonio dal valore incommensurabile quanto sbalorditivo: da esse si può estrarre di tutto. Già oggi sono disponibili raccolte di dati digitali, così estese in termini di quantità e varietà, da richiedere tecnologie e metodi analitici per spremere da questi archivi conoscenza utilizzabile. Questi grandi archivi digitali (Big Data) sono il terreno dove si sviluppa una vera e propria scienza volta ad estrapolare e mettere in relazione grandi quantità di dati eterogenei strutturati o non strutturati, allo scopo di scoprire tendenze, individuare legami causali e correlazioni, svelare scenari e prevedere sviluppi futuri, costruire profili personali sempre più precisi man mano che più informazioni vengono integrate. Al livello della vita quotidiana vediamo già adesso la potenza di questi sistemi nella precisione con cui ci vengono suggerite opzioni di consumo in funzione dei nostri comportamenti rilevati ed elaborati tramite algoritmi; e siamo solo all’inizio! 

Una così grande disponibilità di dati e di connessioni è una spinta potente anche per far fare un salto di qualità  all‘Intelligenza Artificiale disciplina dell’informatica che studia i fondamenti, le metodologie e le tecniche che consentono di progettare hardware e software capaci di garantire al calcolatore elettronico prestazioni che, all’osservatore comune, sembrano di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana quali, ad esempio, le percezioni visive, spazio-temporali e decisionali.  Non solo dunque macchine dalla straordinaria capacità di calcolo come è stato fino a poco tempo fa, ma anche e soprattutto macchine in grado di apprendere, dotate di abilità per risolvere i problemi in funzione del contesto, capaci di decisione non puramente logiche, capaci insomma di comportamenti intelligenti.
Questa replicazione tecnologica delle attività del cervello e delle forme del pensiero umano intelligente  pone delle sfide davvero drammatiche e – sia detto per inciso –  ha suscitato forti perplessità perfino in soggetti insospettabili come il fisico Stephen Hawking o l’imprenditore Elon Musk icona del progressismo tecnologico ottimista, che in questo tipo di sviluppo vedono pericoli superiori a quelli già gravi delle armi atomiche.

Questo tre ambiti tecno-scientifici in forte crescita, diventano  sempre più integrati e sempre più diffusi generando quello sviluppo inarrestabile sta alla base della costruzione del nuovo Ambiente Intelligente che rende e renderà il mondo esperito dalle persone nella vita quotidiana così originale e così diverso da come lo abbiamo vissuto fino a poco tempo fa.
Se l’evoluzione è questa, e tale sarà a meno di drammatiche catastrofi, viene da chiedersi da un lato se ci saranno esclusi dal “paradiso” tecnologico e, dall’altro se sarà possibile per chi è incluso, uscire dal sistema, ritirasi per così dire in qualche luogo libero dalla connessione. Certo è che ognuno dovrà fare i conti con questa realtà, inventarsi il modo per vivere in questo nuovo ambiente intelligente reso possibile dall’Internet delle cose, dai megadati e dall’intelligenza artificiale. Ma come?

Molte persone convinte che la tecnologia sia dominabile e gestibile ritengono che l’attuale fase di consumo sostanzialmente acritico possa continuare fornendo al consumatore sempre nuove opportunità e occasione per curiose esperienze; lo sviluppo dell’ambiente intelligente guardato con l’occhio del consumatore è semplicemente un progresso, un miglioramento rispetto al passato. Non si colgono in tale visione ottimista i rischi ambientali e sociali, né la cifra del cambiamento antropologico delle generazioni che nascono e crescono in un nuovo ambiente così diverso da quello delle generazioni precedenti.
Questo ottimismo superficiale nasconde appena il timore latente, la paura che dal godimento di queste tecnologie si possa essere esclusi, che vengano a mancare le risorse  economiche e finanziarie per poterne godere i frutti; o al contrario che queste tecnologie possano essere imposte dall’alto e diventare quindi manipolatorie e liberticide.

Altre persone, ancora poche per ora, vedono con estremo favore la possibilità dell’ibridazione cosciente, ovvero la scelta di potenziare corpi e menti attraverso la tecnologia: una strada ampiamente descritta nell’immaginario della fantascienza e riccamente articolata nelle riflessioni dei movimenti transumanisti che, nelle forme più radicali, predicono un’estensione indefinita della vita e ipotizzano perfino la possibilità di scaricare la mente (download) su supporti digitali e conquistare in questo modo una sorta di immortalità tecnologica. Già oggi ognuno di noi è un nodo  connesso alla rete digitale alla quale fornisce informazione e dalla quale informazione riceve tramite i dispositivi che sono per noi delle protesi tecnologiche che ampliano le nostre capacità; entro pochi anni è facile prevedere che dispositivi tecnologici saranno installati direttamente sui o nei corpi delle persone iniziando da innocenti applicazione biomediche peraltro già note. Ibridazione e potenziamento tecnologico possibile, proponendo la realizzazione concreta della mitica figura del cyborg, mezzo uomo e mezzo macchina, come ultimo e sviluppabile anello di un’evoluzione ormai assoggettata alla scienza, propongono la possibilità di un salto evolutivo decisamente sconvolgente che (per fortuna?) non sembra ancora così prossimo; ma già adesso pongono una domanda inquietante: chi potrà godere delle nuove tecnologie e chi ne sarà escluso?

Altre persone ancora, quelli che vedono in questi sviluppi i rischi oltre alle opportunità, quelli che non si sentono semplicemente consumatori passivi e temono l’ibridazione, quelli più attenti a vivere bene il presente piuttosto che attendere un futuro percepito come dubbio, possono guardare all’ambiente tecnologico intelligente come si guarda ad una sfida che rimanda innanzitutto verso l’interiorità, una sfida che può portare verso un’evoluzione spirituale. Evocare il concetto inneffabile di spirito può sembrare fuori luogo in un mondo dominato dalla tecnoscienza e dalla presunta razionalità; ma, a ben vedere è una soluzione non propriamente residuale visto l’attuale grande successo di sette, conventicole, religioni e pseudo religioni, comunità utopiche, discipline e tecniche occulte, misticismo e contattismo, pratiche sciamatiche, esoteriche e new age; risposte sociali attuali che attestano al di la di ogni dubbio la grande domanda di senso e di significato, di relazione e di amore, che sotto sotto agita uomini e donne che vivono in un ambiente sempre più intelligente, certo affascinante, ma incapace di rispondere alle domande ultime generando pace e felicità.
Anche in questo caso i confini tra ricerca seria e moda, tra autenticità e mercificazione sono assai sfumati e non di rado intrecciano antropologia e storia delle religioni, ricerca scientifica e ritualità tradizionale, ascesi ed uso di sostanze stupefacenti come sostenevano i profeti della psichedelia degli anni ’60 e ’70 (Timothy Leary e Aldous Huxley ad esempio) che praticarono l’uso di LSD come un vero e proprio sacramento laico.

Certo è che il nuovo ambiente tecnologico pone una sfida che investe non solo l’organizzazione della società ma anche e soprattutto la soggettività e l’interiorità di ogni persona: non prendere sul serio la sfida ci pone nella brutta situazione della rana che, immersa nella pentola d’acqua riscaldata poco a poco, non si rende conto del cambiamento ambientale in cui è immersa, e finisce con l’essere bollita viva.

Basta tacere, basta voltarsi dall’altra parte

La narrazione sulla tipologia di cambiamento (o piuttosto di non – cambiamento) della nostra condizione sociale e politica, ci porta a constatare che il mancato appuntamento con la storia, con ciò che è già stato e ha segnato elevati gradi di responsabilizzazione civile, sta immiserendo e mettendo in crisi tutte le democrazie liberali, a cominciare dalla nostra… Tanti e tali sono ormai gli esempi di arroganza, malaffare e violenza che viviamo ogni giorno, talora nell’indifferenza più completa della comunità, che viene spontaneo chiedersi cos’altro possa accadere.
Qualche riflessione su cosa sta succedendo a Ferrara, vorrei comunque farla, perché vivo con una certa sofferenza e indignazione questo clima, anche se non vorrei soffermarmi troppo su considerazioni e analisi sulla situazione sociale, politica e culturale della nostra città, già chiaramente espresse, per esempio, da Giovanni Fioravanti e Federico Varese in alcuni articoli pubblicati proprio su Ferraritalia qualche giorno fa .
Non posso fare a meno di riscontrare, infatti, l’assordante silenzio che ruota attorno alla politica di sinistra a Ferrara, che sembra aver disperso non solo la propria voce, ma anche la propria anima, la sua mission, in fondo, dello stare con la gente e fra la gente. La sensazione è un po’ quella di trovarsi ad un bivio dove la direzione precisa non si conosce: siamo soli e non c’è alcuna precisa indicazione per procedere. Come cittadina devo dire che questo clima sta diventando insopportabile e mi auguro che vi sia quanto prima una seria reazione della gente a questa mediocrità quotidiana, fatta di beghe di mercato, piuttosto che di gestione della vita e dei problemi di ogni giorno.
Per restare su situazioni concrete, forse l’ultima spinta a reagire mi è giunta quando ho letto notizie come quella della esternalizzazione di due scuole dell’infanzia comunali, già data per effettuata, senza che ne fossero al corrente le famiglie, il personale scolastico e i sindacati, fatto salvo che due giorni dopo il Sindaco ne smentiva la decisione per riparlarne più avanti.

Ebbene so cosa comportano queste decisioni, perché ho diretto i servizi educativi e scolastici Comune di Ferrara per anni, cercando di sostenerne il valore sul piano sociale, culturale e politico. E’ da tempo dimostrato anche sul piano scientifico, che una società che investe e agisce precocemente con programmi di intervento educativo sulla popolazione, promuovendo educazione e istruzione, ne ricavi benefici sia sul piano della crescita dei propri cittadini, che del sistema sociale e lavorativo generale, in termini di crescita della comunità intera. Non è un caso che i bambini che frequentano scuole e servizi educativi fin dai primissimi anni di vita, come statisticamente dimostrato, abbiano minore probabilità di insuccesso scolastico.
Nel corso di questi decenni, diverse amministrazioni succedutesi nel governo della città, hanno dimostrato grande lungimiranza, promuovendo importanti politiche di investimento delle risorse pubbliche nella realizzazione di servizi per l’infanzia destinati a tutta la cittadinanza. Fin dall’immediato dopoguerra, infatti, grazie anche allo straordinario supporto offerto da importanti associazioni femminili come l’Udi, l’attenzione al mondo educativo e scolastico è stato prioritario. Ho avuto modo recentemente di scrivere e documentare alcuni testi, in collaborazione con il Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia e la Regione Emilia Romagna, la storia di questo lungo cammino che ha segnato la stessa qualità di vita della nostra città.

Non si tratta quindi solo di non esternalizzare le scuole comunali, né tantomeno di favorire il privato a danno del pubblico, perché abbiamo creato e sostenuto da anni la gestione integrata dei servizi e della formazione comune del personale pubblico e privato. Si tratta piuttosto della conservazione della qualità raggiunta in anni di duro lavoro e di grandi risultati peraltro riconosciuti anche a livello nazionale ed europeo. Grazie al sostegno di politiche regionali mirate e investimenti in questa direzione, si è consolidato anche a Ferrara un sistema di offerta educativo scolastica davvero eccellente, che per decenni ha prodotto una sorta di nuovo tessuto culturale, specchio di una città che cresceva insieme alle nuove generazioni.

Allora perché esternalizzare? L’ex Sindaco Tagliani in un suo recente intervento non si stupiva tanto della possibilità di esternalizzare qualche scuola o nido d’infanzia comunale, giacché proprio la sua giunta poco tempo fa aveva proceduto ad effettuare questa scelta affrontando però un confronto serrato con la gente … dopo innumerevoli infuocati incontri con il personale, i genitori, le rappresentanze sindacali, si sono spiegate le ragioni e raccolti i suggerimenti a difesa del sistema pubblico… e si stupisce che oggi si esternalizzi “a freddo” il lunedì e poi si faccia dietro front il martedì. E’ sicuramente discutibile la modalità di agire da parte della nuova giunta, ma devo purtroppo dissentire sul fatto che si possa difendere il sistema pubblico dei servizi, esternalizzandoli, sia pure nelle condizioni di maggiore accortezza possibile.
Tutto il lavoro fatto per qualificare la scuola sul territorio, e non solo quella rivolta all’infanzia, ha sortito anche forme di intervento istituzionale più vicine alle trasformazioni del tessuto sociale cittadino, accompagnandone il percorso diretto a tutto il sistema scolastico territoriale.

Perché allora procedere ad esternalizzare? Perché i servizi costano? Perché non si vuole assumere personale? Ma cosa ne pensano le famiglie di tutto questo? E il personale cosa ne pensa?
Mi chiedo dov’è la politica vera della città basata sul confronto? E i partiti dove sono?
Certo non c’è solo la scuola, ci sono anche le mille altre problematiche connesse al lavoro, al sistema economico, all’integrazione, ma non possono certo ridursi a ricette estemporanee come ci è capitato di assistere in questi mesi e non certo solo per l’emergenza Covid.

Credo sia giunto il momento di chiedere ai nostri concittadini, ai nostri giovani se intendono lasciarsi fagocitare da questa mediocrità, nella quale ognuno oggi pare sentirsi autorizzato a fare ciò che vuole e nessun altro può avere il diritto di obiettare in una sorta di isolazionismo padronale, costituito da stereotipi e massificazione di luoghi comuni, che trovano il loro sfogo esplosivo in insulti, provocazioni o violente invettive contro tutto e tutti, a cominciare dal dilagare su ogni tipo di social, di esempi di grossolana meschinità e vigliaccheria.

Ma dove si è nascosto quel modo di fare politico, quel coraggio di difendere le proprie idee in relazione e confronto diretto con i cittadini? E’ piuttosto ridicolo il modo con cui in consiglio comunale maggioranza e opposizione si confrontano. Osiamo chiamarlo vero confronto?
E’ pur vero che il sistema politico partitico così come si è evoluto negli ultimi anni, non è riuscito a fare alcun tentativo serio per arginare l’indifferenza della gente o per capire i sintomi della patologica trasformazione comunicativa fra la gente e la vita di ogni giorno, fra la gente e i propri amministratori. Non ha aiutato certo il dominio pressoché illimitato della rete e dei social, della tecnologia de’ noantri che, se mal utilizzata, può davvero minacciare la nostra stessa democrazia, soprattutto perché utilizzata come fine e non come strumento, laddove il virtuale diventa l’unica realtà. Sono convinta che a nulla valga la potenza di questi nuovi invasori della comunicazione, se vengono a mancare il senso del vivere, la tensione verso uno scopo e la conoscenza, infatti credo che la prima difesa della democrazia stia proprio nella difesa della conoscenza, dell’intelligenza che danno senso alla dignità umana in continuo confronto con gli altri. Mi son chiesta perché la gente non partecipa più, non si relaziona, non chiede di essere presente nelle decisioni se non per interessi prevalentemente di carattere individuale o di piccoli gruppi e non di carattere generale? Perché i partiti di sinistra in particolare quelli che hanno governato la città negli ultimi decenni non hanno saputo leggere fino in fondo queste trasformazioni sociali?
Stanti così le cose, con le ultime amministrative potevamo almeno aspettarci una capacità della destra di proporre un nuovo senso di cittadinanza, ma ai cittadini sono bastate una serie di manifestazioni più o meno estemporanee di qualche figura locale che, erigendosi a salvatore della patria, si è esibito in uno spettacolo che se non fosse stato (e sia ancora) deprimente, ricordava quantomeno uno spettacolo circense. A questo livello l’attenzione della gente è stata catturata su aspetti concreti come quelli dei neri sotto casa, dello spaccio nei giardini, della prostituzione (fenomeni tuttora nemmeno scalfiti e che hanno solo cambiato qualche postazione) come se l’emigrazione fosse l’unico problema dei ferraresi. Una vera e propria sequela di spettacolarizzazioni a livello di armata Brancaleone. Qualcosa di vero per fare opposizione alla staticità del governo cittadino di centro sinistra c’era e possiamo dire che non è stato cavalcato con metodologie di politica attiva, ma col metodo della provocazione continua da avanspettacolo e non certo con vere proposte di risoluzione dei problemi concreti che la gente in una situazione generale di crisi, stava realmente vivendo.
Qualche azione roboante e poi siamo ancora al «Bisogna cambiare tutto per non cambiare niente”, così scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne ‘Il Gattopardo’ ed è ciò che sta esattamente avvenendo nel nostro contesto e non solo.

Ebbene, un tempo si diceva “ogni lasciato è perduto” e a distanza di poco più di un anno non si è ancora provato a recuperare né confronto, né ricerca di soluzioni alternative a questa mediocre stagione della politica locale. Nel corso di questi mesi ho conosciuto e seguito l’attività espressa da un buon numero di cittadini inseriti nelle diverse liste civiche, ma ancora una volta, nonostante la buona volontà dei tanti, la frammentarietà, la mancanza di una visione prospettica comune, seppur sostenuta finalmente anche da giovani che da tempo non si vedevano così impegnati, non ha saputo ancora produrre una vera alternativa, con un Pd che non ha tentato di unirsi alle altre forze laiche, né nel percorso elettorale, né ora, per un piano programmatico e organizzativo comune.
Se donne e uomini di questa città non riescono a capire che solo unendosi, relazionandosi, possono costruire e dare senso a quel futuro assai incerto che spetta in ogni caso alle nuove generazioni, evidentemente non hanno capito che vivere significa partecipare e non essere indifferenti a quello che succede, come diceva Antonio Gramsci. “Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. L’indifferenza è il peso morto della storia”
Dinnanzi alle grandi trasformazioni tecnologiche soprattutto a livello di comunicazione, la forza del mercato globale nel quale siamo immersi, ha sicuramente preso il sopravvento per allontanarci gli uni dagli altri, favorendo il distacco e l’indifferenza per la politica attiva, ma sono convinta che la difesa della conoscenza e dell’educazione possono ancora salvarci dalla miseria morale e intellettuale. Per non riferirmi solo al problema politico locale mi sovvengono pensieri che non riguardano solo la situazione locale o nazionale , ma un po’ tutte le società cosiddette democratiche. Ritengo siano vere le parole che un grande filosofo come Habermass sostiene a proposito delle nostre istituzioni democratiche. In effetti le trasformazioni cui stiamo assistendo dipendono da vere e proprie trasformazioni sociali dovute anche al potere dei mercati di una globalizzazione spinta e ormai potentemente irrinunciabile, che lascia spazio a problemi di mancata relazione e confronto fra individui, fra paesi e una loro autonoma gestione politica dei territori. In una siffatta società politicamente frammentata, ma altamente integrata sul piano economico, non disponiamo di organizzazioni che possono compensare questo divario e dunque combinare questo divario e la capacità di azione democratica e di controllo democratico.

Forse sarebbe proprio il caso di ricostruire tutti insieme, organizzando dal basso, le premesse minime per la formazione di una cultura politica protesa più al benessere comune e all’eliminazione delle disuguaglianze sociali.

BUFALE & BUGIE
Mascherine e ossigeno: il falso mistero

Fino a prima che scoppiasse il caso mediatico della diffusione globale del nuovo ceppo di coronavirus, era abbastanza raro trovare nei comuni sistemi di informazione notizie e approfondimenti dal mondo scientifico. Nell’ultimo periodo la tendenza sembra essersi invertita, se dovessi però scegliere tra poca ma buona, e tanta ma pessima divulgazione, credo che la preferenza ricadrebbe sulla prima possibilità.

Molte testate e persone si sono dovute reinventare per l’occasione. L’edizione italiana di un sito statunitense dedicato a economia e politica, Business Insider Italia, titolava il 10 agosto: “Un medico corre 35 km con una mascherina anti Covid per sfatare una convinzione sbagliata sui livelli di ossigeno”. La notizia dell’impresa compiuta dal dottor Tom Lawton – impegnato nel campo dell’anestesia e della rianimazione, con un particolare interesse per l’informatica – , finanziata dal basso [vedi qui] e raccontata in presa diretta da egli stesso su Twitter [vedi qui], meritava certamente una sua diffusione al grande pubblico, parimenti ad altre sperimentazioni similari con risultati opposti. Il problema condiviso da questi test è tuttavia uno: non avvenendo in una situazione controllata e non seguendo un protocollo approvato a monte e descritto nel dettaglio, per consentire la ripetizione della prova da persone terze sulla base di uno studio regolarmente refertato e pubblicato, non possono ambire a un loro pieno riconoscimento di validità scientifica. Ecco dunque emergere l’imprescindibile e disattesa necessità, da parte dell’articolista, di contestualizzare correttamente la notizia all’interno delle attuali conoscenze mediche. Malgrado si parli di “convinzione sbagliata sui livelli di ossigeno”, è già nutrita la bibliografia che evidenzia la possibilità di una riduzione dell’ossigeno disponibile e di un’alterazione dell’aria inspirata soprattutto durante lo svolgimento di un’attività fisica. Ciò non vuol dire che le condizioni appena descritte debbano sempre verificarsi, poiché sono da tenere in considerazione varianti quali il tipo di mascherina, la persona che la indossa, le azioni eseguite, l’ambiente circostante… Allo stesso modo, gli esperimenti che giungono a conclusioni diverse sono validi per gli individui e lo scenario analizzati, ma non sono estendibili in generale a tutta la popolazione e a tutte le situazioni possibili. Del resto, gli effetti collaterali che possono derivare da uno scorretto utilizzo di tali dispositivi sono già conosciuti, e riconosciuti anche da chi è più incline a ritenere maggiormente rilevanti i benefici, in una immaginaria pesatura dei pro e dei contro.

Tom Lawton ha fatto vedere come le misurazioni effettuate dal proprio strumento sull’aria trattenuta dalla propria mascherina rientrassero nei parametri definiti sicuri. Ma trasformare questo dato in un consiglio comportamentale indiscriminato può rivelarsi un pericolo per la salute.

BUFALE & BUGIE, la rubrica di controinformazione di Ivan Fiorillo esce ogni mercoledì su Ferraraitalia. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

Un referendum tutto sbagliato

Secondo i sondaggi i sì al Referendum del 20-21 settembre per la conferma della legge costituzionale sulla riduzione dei parlamentari, non dovrebbero avere problemi a vincere sui no.
Eppure.
Nel fronte della destra, ad esempio, non si capisce bene l’indicazione ufficiale della Lega per il sì. Faceva parte delle condizioni del contratto che avevano dato vita al governo giallo-verde, ma dal momento che quella maggioranza non c’è più non è chiaro perché non prevalga il “liberi tutti”.
Ci sarebbe una ragione in più, da quelle parti, per rimettere tutto in discussione.
Da destra, infatti, si attende con ansia l’esito delle concomitanti elezioni regionali e se il centrosinistra dovesse portare a casa la sola Campania (con la perdita di Puglia, Marche e Toscana e la conferma di Toti in Liguria e Zaia in Veneto), per il governo in carica non sarebbe un bel segnale.

Si dice che la prova regionale, da sola, non basterebbe a produrre la caduta del Conte bis (anche perché il presidente del Consiglio su questa partita non si è esposto in prima persona), ma se si dovesse aggiungere il risultato negativo del Referendum le cose potrebbero prendere un’altra piega. E a quel punto un semplice rimpasto di governo, dato per possibile in caso di sconfitta alle regionali, potrebbe non bastare più.

Se a destra i rebus non mancano, a sinistra la musica non cambia.
Nel Pd, ad esempio, pare tutto un ribollir di tini.
Accanto alla posizione ufficiale per il sì, si allarga giorno dopo giorno la schiera di quanti fanno pronunciare quella decisione sempre più a denti stretti.
Anche in questo caso, l’impegno risale al momento in cui si è formata la nuova maggioranza giallo-rossa che ha dato vita al governo Conte due. L’accordo è stato che il Pd, contrariamente a quanto fatto fino a quel momento in Parlamento, avrebbe votato favorevolmente in ultima lettura alla legge costituzionale per la riduzione dei Deputati da 630 a 400 e dei Senatori da 315 a 200.

Siccome era chiaro anche alla casalinga di Voghera che questa riforma, da sola, non stava in piedi, il partito di Nicola Zingaretti aveva strappato la promessa di ottenere il contrappeso di una nuova legge elettorale che però, a pochi giorni dalle urne, rimane una promessa.
Non ci voleva un oracolo per prevedere che, a questo punto, si sarebbero levate le voci di quanti hanno sottolineato la debolezza della linea del partito sul punto.
Comprese quelle, silenzi inclusi, che sono state in cabina di regia a tessere le ragioni della nuova alleanza, vincendo anche le iniziali resistenze del segretario nazionale, che non scartava l’ipotesi di andare a elezioni a costo di andare incontro a una sconfitta più che prevedibile.

Va bene che la politica non è uno sport per signorine, ma si fatica a non notare le singolari traiettorie di una strategia tutta celebrata, così pare lontano dai Palazzi, sull’altare della tattica. Anche perché i presupposti politici di non lasciare il Paese in mano ai populisti e di un’alleanza strutturale con i pentastellati, rimasta nel libro dei sogni nella preparazione delle prossime sfide regionali, stanno mostrando la corda.

Fin qui le mosse, almeno alcune, di una politica che, anche nel caso specifico, muove i pezzi su una scacchiera sempre più prossima allo stallo. Se poi si vuole dare un’occhiata ai contenuti della riforma, a fare acqua sono le ragioni dell’impostazione di partenza.

Molti ricorderanno l’esultanza in piazza Montecitorio dei 5 Stelle, a legge approvata, con Di Maio (un ministro della Repubblica) che con tanto di forbice simulava il taglio delle poltrone.

Prima ancora di qualsiasi tecnicismo costituzionale, una riforma di rango costituzionale si può basare sul risparmio dei costi?
Se si accetta la tesi che la democrazia sia un costo, prima o poi il problema sarà “il” Parlamento, non più solamente quello di adesso, certamente bisognoso di cambiamenti.
Dovrebbe preoccupare che le scorie di tante parole in libertà seminate negli anni si stanno sedimentando non solo nel dibattito politico, che è già un problema, ma anche nel quadro istituzionale, oltre che in tanta acquiescenza. E qui il danno diventa difficilmente calcolabile e dio solo sa se reversibile.

Se si prestasse attenzione allo stato di salute che gode la stessa cultura democratica sulla scena globale, oltre che nazionale, dovrebbe suonare come un allarme il fatto che con questa riforma, come fa notare anche l’Istituto De Gasperi di Bologna, il rapporto abitanti-deputati passerebbe dagli attuali 96.006 ai prossimi 151.210, vale a dire il numero più elevato tra tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, Regno unito incluso. Con tutte le conseguenze sulla rappresentanza di interi territori e di collegi così ampi da richiedere campagne elettorali alimentate con spese che solo pochi possono permettersi.

Diversi fanno notare che così il potere rischia di concentrarsi nelle mani dei capi e la partitocrazia farebbe festa. L’opposto di ciò che il movimento lanciato da Beppe Grillo ha sempre urlato, sublimato nello strampalato slogan di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno.

In letteratura si chiama eterogenesi dei fini: costruire inconsapevolmente (sic?) l’esatto contrario di ciò che si sbraita a parole.
Se non si comprende fino in fondo la posta in gioco, sarebbe bene che chi si è finora contraddistinto più per dire quello che pensa che per pensare a quello che dice, si astenesse nel mettere le mani a cose che vanno ben oltre le possibilità di certe teste inutili e dannose.

Il problema è che entrare in questo ordine d’idee richiederebbe una visione che, l’esperienza di anni ci racconta, pare fuori della portata di, almeno, buona parte di una classe dirigente che finora ha prodotto prevalentemente disastri.
Ma questo non fa che rendere più preoccupante la temperatura di un intero paese, pandemia a parte.

Sapersi interrogare apre la strada al futuro

Dopo la pubblicazione, in questa rubrica, dell’articolo Per un’ecologia della parola, Massimo Angelini mi ha onorato col mandarmi in dono un suo libretto di cento pagine sullo stesso tema, pubblicato dalla sua casa editrice Pentàgora di Savona. L’ho trovato prezioso e ne raccomando la lettura.

La sostanza è che ecologia ed etimologia della parola finiscono per combaciare. La parola come ambiente storico sociale che sovrintende allo sviluppo delle funzioni psichiche superiori secondo la lezione vygotskijana. Un ambiente, anche per questo, da tutelare e da riabilitare per ritornare, come scrive Angelini a ‘sguardare’, a rivolgere lo ‘sguardo’ in profondità.

Il sale è il capitolo in cui spiega la differenza tra ‘conoscere’ e ‘sapere’. “Voi siete il sale della terra” sono le parole che Matteo nel Vangelo attribuisce al Cristo, il sale che verrà gettato e calpestato dalla gente se dovesse perdere di sapore. Il sale che rende sterile il terreno, ma non la conoscenza. Sapere, ci ricorda Angelini, viene dal latino sàpere, che deriva da sale e, dunque, significa ‘avere sapore’, perché il sale conferisce sapore alle cose e ne esalta il gusto, mentre senza sale il cibo è insipido. Così la conoscenza che non si traduce in sapere isterilisce, allo stesso modo del sale della parabola evangelica.

Se la conoscenza chiede di apprendere con l’intelletto, la sapienza pretende di gustare in profondità, di ‘assaggiare’. Tutte parole tra loro etimologicamente imparentate. Da sapere non vengono solo parole come ‘assaggiare’ e ‘sapidità’, ma anche ‘sapienza’ e ‘saggezza’. Insomma o si conosce con tutto noi stessi o la conoscenza resta solo un orpello, al massimo fonte di erudizione. Della conoscenza occorre farne esperienza diretta, sensoriale, sapere qualcosa implica che va assaggiato, toccato, esperito, provato, sentito. Del resto ormai ce lo dicono anche le ricerche più recenti delle neuroscienze (è sufficiente leggere Lo strano ordine delle cose di Antonio Damasio), Angelini ci ricorda che si conosce con l’intelletto, ma si ‘sa’ attraverso  l’esperienza dei sensi.

La cosa è bella, perché ci induce a considerare che siamo ‘individui’, vale a dire ‘indivisibili’, che non possiamo essere scissi in spirito e carne, in anima e corpo, che non ci è permesso separare la mente dai sensi, che sono i canali attraverso i quali apprendiamo. Dobbiamo accettarci così, nell’interezza della nostra unità. Per essere noi stessi non abbiamo la necessità di rinunciare alla nostra ‘individualità’, di indossare la maschera che ci nobiliti come ‘persone’ sul palcoscenico della vita quotidiana, per dirla con Erving Goffman.
Può accadere di conoscere tanto, di essere imbevuti di conoscenza e non sapere nulla, perché se la conoscenza non si esperisce nella nostra carne, non si traduce in sapere.

È la questione della presenza fisica a scuola, che è assenza del corpo negli apprendimenti. Si possono passare anni a scuola a conoscere, a conoscere molte nozioni e a leggere molti libri e uscire dalla scuola vuoti di sapere, perché l’ascolto, lo studio, la lettura non sono passati attraverso l’esperienza diretta, non hanno percorso la nostra carne. La parola ‘conoscere’ contiene il greco nous, come l’inglese ‘to know’, conoscere e ‘knowledge’, conoscenza. In greco nous è la mente, l’intelletto: conoscere è apprendere con l’intelletto. Ma apprendere con l’intelletto non significa di per sé ‘sapere’ e, se la conoscenza non muta in saperi, la scuola fallisce il suo compito.

Nella conoscenza l’intelletto sopravanza il corpo che lo ospita, il mediatore della relazione tra la mente e l’ambiente, il luogo delle appercezioni nella molteplicità degli eventi che viviamo. Sapere è l’equilibrio raggiunto tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori di noi, per citare Jean Piaget, fondatore dell’epistemologia genetica, come tutti gli esseri viventi tendiamo all’omeostasi, ed è questa tensione all’equilibrio tra dentro e fuori che è all’origine del sapere.

Spesso si sente parlare in maniera sprovveduta di ‘competenze’. Spaventa il passaggio dalla scuola della conoscenza, quella delle nozioni, alla scuola delle competenze, come se le competenze fossero la traduzione utilitaristica della conoscenza, anticamera dello sfruttamento di uomini e donne. Eppure la ‘competenza’ è la chiave del percorso dalla ‘conoscenza’ al ‘sapere’, attraversando le praterie della ricerca, è dunque libertà.
‘Competenza’ discende dal latino petere, chiedere, domandare, preceduto dal prefisso cum. Chiedere insieme, interrogarsi insieme, per poter camminare uno accanto all’altro, per andare verso un medesimo punto.

Mai c’è stato un tempo in cui la ‘competenza’, il sapersi interrogare insieme, per procedere uniti fosse indispensabile come ora nel nostro. Invece è proprio la competenza che spaventa, che viene osteggiata, mentre l’ignoranza trionfa. Cum-petere significa saper chiedere, sapersi interrogare, essere capaci di formulare le domande giuste, ed è questa la sfida della nostra epoca, se vogliamo incamminarci alla ricerca delle ‘giuste’ risposte, che non è detto, popperianamente, che siano quelle vere.

Chi non è competente è ‘ignaro’, dal latino gnarus che significa esperto, pratico, preceduto dal prefisso privativo in. ‘Ignaro’ è chi non conosce e per questo non può che ‘ignorare’ le domande da formulare, non sa interrogarsi per poter procedere verso il sapere. Il nostro tempo brulica di risposte quanto è avaro di domande e la nostra scuola non è meno responsabile. Ma gnarus per i latini ha un’altra peculiarità, quella di essere affine a ‘narrare’. È gnarus  chi è consapevole in quanto ha fatto esperienza e di quella esperienza è divenuto ‘gnarus’ , è divenuto il narratore, perché se non c’è l’esperienza non c’è neppure la narrazione. Non possiamo narrare i saperi se quei saperi non appartengono alla nostra esperienza, se cioè di quei saperi non siamo esperti.

Sono le scuole i luoghi deputati ai saperi degli esperti, a narrare lo scibile umano, non per tramandarne la memoria e neppure per erudite citazioni, ma per divenire a nostra volta i protagonisti di questa narrazione.

Un ‘Repair Cafè’ per una Sinistra Nuova:
Pensieri da lontano dopo il crollo di una ‘Fortezza Rossa’

“Così lontano, così vicino”. Carl Wilhelm Macke, il nostro collaboratore,di Monaco di Baviera ma ferrarese d’elezione, interviene nel dibattito sulla Sinistra a  Ferrara.

Oggi in quasi tutte le grandi città della Germania si trovano i cosiddetti ‘Repair Cafè (Caffè per la riparazione). Posti, spesso un pò fuori dei centri urbani, aperti a tutti i cittadini che hanno problemi tecnici con le macchine elettroniche di base e cercano cose utili a buon mercato per sopravvivere. Li ci sono soprattutto giovani capaci di trovare soluzioni pragmatiche per non buttare via oggetti rotti o comprare subito qualcosa di nuovo che sarebbe altrimenti e quasi sempre molto costoso. Mi pare un bel modello per riflettere sulla città di Ferrara dopo il crollo della ‘Fortezza Rossa’ negli ultimi anni.
Ma devo fare all’inizio una premessa.
Da lontano non è facile intervenire nel dibattito locale in una città che è diventata quasi una seconda patria per me, ma che è ancora troppo complicata per capire tutta la grammatica della lingua e della cultura e per comprendere la ’vita intima’ della politica locale. Detto in lingua calcistica: sto fuori dal campo ma seguo la partita sempre con la passione di un fan con la propria bandiera.  

Ben prima delle elezioni locali, a Ferrara si poteva già sospettare che al terremoto del 2012 sarebbe seguito, prima o poi, un terremoto anche nella politica. La destra, debole da decenni in tutta l’Emilia, ha concentrato, nel periodo immediatamente precedente le elezioni comunali, la sua propaganda su pochi ma scottanti temi di attualità, sia in regione che in città.
Il crollo della Cassa di Risparmio di Ferrara ha colpito molti piccoli risparmiatori e clienti bancari della classe sociale, che un tempo appartenevano alla clientela abituale del PCI e successivamente a quella del PD. E poiché i membri o simpatizzanti del PD sedevano in quasi tutte le sedi bancarie e nei loro consigli di amministrazione, la rabbia del popolino della città si è riversata su di loro.
I rumorosi militanti della Lega, in particolare, sono riusciti a rendere argomento politico il crescente numero di immigrati in città con sempre nuove notizie di cronaca nera, nonostante il numero, statisticamente, non fosse davvero così allarmante.
Il parco intorno ai due grattacieli, veri e propri mostri architettonici nel quartiere della stazione ferroviaria, è stata dichiarato off limits dai ferraresi, da quando hanno cominciato a soggiornarvi giorno e notte molti immigrati, prevalentemente africani;  e nonostante le dichiarazioni moderate provenienti dalla Polizia Locale, la città di Ferrara è stata dipinta dai leghisti come una roccaforte del narcotraffico e della criminalità violenta.
Il PD locale ha resistito a questi scenari di violenza oltremodo esagerati grazie alle statistiche e ai rapporti che descrivevano il successo del governo della città guidato dal sindaco Tagliani, un bravo cattolico di sinistra: devo dire che con lui sindaco mi sono sentito sempre ben protetto a Ferrara.

Ma torniamo all’argomento.
Convinti di aver lavorato bene, si credeva che nessuno avrebbe dovuto temere per la propria sicurezza nella tranquilla e civile Ferrara. Insomma: cittadini, potete dormire bene, è tutto sotto controllo. Così, purtroppo, invece di cercare le ragioni del crescente successo della politica di pancia della destra, i gruppi del Centro Sinistra si sono persi in litigi interni.
Mentre nessuno comprendeva, al di fuori dei confini del partito, le differenze all’interno della sinistra locale, la destra ha saputo destreggiarsi con successo con un programma elettorale che, a parte il rabbioso rifiuto degli immigrati e l’aumento della presenza della polizia, conteneva, in fin dei conti, solo ulteriori dichiarazioni.
Sono sicuro che un’alleanza tra il PD vecchio e stanco e i rappresentanti spesso giovanissimi dell’associazionismo e della società civile locale avrebbe potuto impedire la vittoria della destra politica. Ma, come in Germania è successo al partito SPD, la maggior parte dei funzionari del PD, ciechi alla realtà delle cose e carrieristi, non erano disposti a questo sforzo. Per loro, il risultato elettorale del giugno 2019 è stato di conseguenza un grande shock, un vero e proprio disastro. Ma tutti gli osservatori della politica locale, ad eccezione dei funzionari e dei più leali elettori dei partiti di sinistra, sono rimasti ben poco sorpresi dall’esito delle elezioni comunali.

Si potrebbe disquisire senza fine sul declino della ‘sinistra storica’ non solo a Ferrara ma, come ha scritto una volte l’anarchico tedesco Gustav Landauer all’inizio del secolo scorso e prima del nazismo: “Non mi interessano i fiumi che sono già sfociati nel mare”.
Dopo il cambio di potere politico a Ferrara, se si decide di visitare questa città, un tempo così orgogliosa della sua grande tradizione rinascimentale e per decenni convintamente antifascista, a prima vista e molto superficialmente, sembra essere cambiato poco o nulla. La presenza della polizia era già visibile negli ultimi anni gestiti dal centro sinistra, perlomeno nelle piazze più grandi.  Il sostegno della città al festival annuale di grande successo promosso dalla rivista di sinistra-liberale “Internazionale” non è diminuito; forse appare un pò ridicola esorprendente la dichiarazione del molto provinciale sindaco Alan Fabbri di essere orgoglioso di “avere il mondo come ospite” per un lungo fine settimana.
E se sono ben informato alcuni esponenti della Lega avrebbero dimostrato il loro sostegno al movimento “Friday for Future” e sarebbero stati anche visti partecipare ai loro eventi.

Queste manifestazioni apparentemente così spontanee del cosmopolitismo liberale della nuova Ferrara contrasta in modo impressionante con un gran numero di azioni politiche e simboliche che sono state avviate: in tutti gli edifici pubblici le croci, in quanto simboli dell’identità cristiana della città, vanno obbligatoriamente attaccate, in modo visibile. Un’azione fortemente criticata dal vescovo Perego come una forma di strumentalizzazione politica troppo trasparente.

Anche Markus Soeder, il Presidente della regione Baviera dove vivo, proprio un giorno dopo la vittoria del suo partito democristiano alle ultime elezioni regionali ha attaccato personalmente le croci nel suo ufficio. Ma sia il Vicesindaco di Ferrara che l’attuale Presidente di Baviera devono sapere che viviamo in una società laica dove la vita pubblica va regolata secondo il Codice Civile e non come vuole un vescovo, un rabino, un Iman o qualsiasi autoproclamato salvatore dell’Occidente.
Come segno della decisa lotta contro il traffico di droga in città, l’amministrazione comunale di destra ha eliminato le panchine in prossimità degli alloggi degli immigrati. La città ha protestato contro queste ridicole misure di sicurezza.

Il Comune, tuttavia, non si lascia dissuadere da questa esorbitante politica simbolica. Mentre il sindaco Alan Fabbri si presenta come un politico vicino al popolo (e amico della buona pasta emiliana) nelle varie feste di strada e di quartiere, il vicesindaco Nicola Lodi assume il ruolo di un Rambo del governo cittadino di destra. Nei media locali, online e offline, sono state presentate notevoli immagini in cui questo bonificatore di destra, forte e muscoloso, che è stato visto alla guida di una ruspa che ha raso al suolo un campo rom alla periferia della città.

Il fatto che il giorno dopo il PD al consiglio comunale abbia presentato una richiesta per sapere se il vicesindaco fosse in possesso della patente di guida per la ruspa ci fa capire come l’opposizione di sinistra sia in difficoltà ad affrontare la nuova politica della maggioranza di destra in città; i politici di Centro Sinistra a Ferrara dall’inizio del governo di Destra non hanno saputo che creare alcuni ‘temporali in un bicchiere d’acqua”. Cosi l’opposizione ‘Non-Leghista,’ per non usare l’adesso molto pallida e porosa etichetta ‘Sinistra’, non ha oggi la minima possibilità di cambiare la direzione del vento politico in città durante gli anni che verranno e fino le prossime elezioni.
Per questo mi pare molto utile e da approfondire l’intervento di Federico Varese dedicato alla situazione attuale della ‘Sinistra ferrarese’. Al centro di un nuovo programma, di una nuova visione politica nell’epoca della globalizzazione, della pandemia Covid-19, del Nuovo Ordine mondiale  e della Re-Nazionalizzazione,  in tutto il mondo e anche a livello locale, deve essere posta la ricerca di nuovi soggetti politici, la scelta di nuovi temi fondamentali per affrontare i gravi problemi ecologici e sociali creati da un capitalismo aggressivo che sta cambiando il mondo come lo Tsunami che anni fa ha colpito le coste dell’Asia.

A tale proposito mi pare che un lato molto debole della Lega sia oggi la mancanza totale di un contatto con il mondo “fuori dalle mura”, dunque fuori da Ferrara e fuori dall’Italia.  Il solo “Festival Internazionale” infatti non basta per aprire la città verso il mondo: secondo me il “Festival” va sicuramente bene e va certo incoraggiato e sostenuto ma, talvolta, si presenta troppo autoreferenziale come “una Messa per i già fedeli”.  
Una sinistra nuova dovrebbe invece essere diversa, dovrebbe creare nuove opportunità, fornire nuovi stimoli; per questo ogni tanto servirebbe anche ascoltare di più qualche discorso di Papa Francesco sul futuro della Chiesa Cattolica alla periferia ed al centro di un mondo sempre più precario. 
Insomma, c’è molto da fare, da pensare, da difendere e da costruire una ‘Nuova Ferrara’ non murata in un bunker senza finestre. Per questo forse il ‘Popolo Non-Leghista’ deve frequentare di più i ‘Repair Cafè nelle periferie della città e meno i Street Bar e i salotti dei Palazzi dentro le mura.

Perché, parlando come tedesco, il mondo reale non si trova nei ‘Night-Clubs’ del centro di Berlino o nei salotti dei ricchi intorno alle fabbriche di Porsche, di BMW e di Mercedes. Se non sbaglio la Sinistra tedesca, la SPD, il partito “Linke” e una buona parte dei Verdi, ha capito la sua responsabilità nei confronti della forte crescità di una Destra che sta raccogliando le proteste in tempo di Covid-19 e di una forte scissione sociale dentro la società tedesca.

Sfatiamo il mito:
Il debito pubblico giapponese non è diverso da quello italiano

Ciò che fa la differenza non è tanto la nazionalità del debito (l’essere giapponese piuttosto che l’essere italiano) ma la volontà di gestirlo bene e il mantenimento degli strumenti per farlo.

Ma andiamo per ordine. I dati ci dicono che nel 2019 il debito pubblico giapponese ha superato il 240% e che per l’Italia si prevede il superamento del 166% entro la fine del 2020.

Nonostante una differenza a nostro favore di circa 100 punti percentuali, per il Giappone non sembra essere un problema, la sua credibilità non vede crisi all’orizzonte. L’Italia invece da giornali e tv è data sull’orlo del baratro. A questo punto la domanda è: cosa sfugge ai commentatori ‘seri’?

Chi ha letto l’articolo apparso sul Wall Street Journal il 4 settembre scorso ha già capito che questo articolo seguirà esattamente il filo di quel ragionamento per dimostrare, ovviamente, l’esistenza di un diverso punto di vista. Per dimostrare, sostanzialmente, che nulla, nel mondo dell’economia, è così oggettivo come si vuol far credere. L’economia vive di decisioni politiche come il consenso vive di televisione e di repubblica.it. Il debito pubblico può essere un debito oppure una risorsa, dipende da quali interessi si vogliono difendere.

E’ giustamente vero che il debito pubblico italiano non è sostenibile, o è meno sostenibile di quello giapponese, ma solo alle condizioni attuali. Ed è di queste condizioni che si dovrebbe discutere, di chi e perché le ha create. Se queste siano immutabili oppure frutto di decisioni politiche e, quindi, se queste decisioni abbiano tutelato i cittadini oppure li abbiano esposti a rischi e sacrifici inutili.

Chi scrive ritiene che l’Italia, potendo utilizzare gli stessi strumenti di politica economica e monetaria del Giappone, potrebbe arrivare a gestire anche gli stessi livelli di debito e che già oggi si potrebbe parlare di falso problema semplicemente applicando gli stessi criteri di chiarezza contabile utilizzata per il Giappone.

Con il Wsj siamo comunque d’accordo su un punto: non è solo questione di sovranità monetaria. Si può avere infatti la capacità di stampare la propria moneta ma ci possono essere condizioni internazionali sfavorevoli (si pensi a Weimar), incapacità di gestione della cosa pubblica (si pensi allo Zimbawe) o i due fattori che si manifestano insieme (si pensi all’Argentina oppure al Venezuela). Tolti questi ci sarebbero poi, a volerli vedere, tutti gli esempi in cui comunque la sovranità monetaria funziona e qui andiamo dagli Stati Uniti fino alla Svezia, dalla Corea del Sud, al Giappone, al Canada fino all’Australia e alla Norvegia. Dalla Gran Bretagna fino al Sud Africa ed oltre.

La diversità del debito giapponese sembra risiedere, come fa notare anche Cottarelli, nel fatto che il settore pubblico ne detenga una grande fetta, talmente grande che se la eliminassimo il debito scenderebbe al 153%, meno di quello italiano. Chiarezza contabile dunque. Il debito pubblico giapponese è più al sicuro perché una parte è comprata dallo stesso settore che lo emette, il 37% lo ha acquistato la Boj, poi ci sono i fondi pensione, le pensioni pubbliche e le assicurazioni. Insomma un debito solo formale, una “partita di giro”, un modo per finanziarsi con la propria moneta senza creare problemi. Ovviamente gli interessi che si pagano sul debito detenuto dalla banca centrale ritornano allo Stato generando anche un circolo virtuoso dovuto al signoraggio. Il mondo, e Cottarelli, lo sa e addirittura apprezza.

Se applicassimo lo stesso ragionamento per l’Italia potremmo constatare che attualmente la Banca d’Italia detiene una quota del debito pubblico pari a circa 400 miliardi mentre circa 700 miliardi sono detenuti da istituzioni finanziarie nazionali. Il che ci metterebbe già sullo stesso piano contabile del Giappone, se solo il mondo e Cottarelli se ne accorgessero. Allora la domanda giusta potrebbe essere: “perché non se ne accorgono?”

Poi ci sarebbe la quota detenuta dalla Bce e quindi (cumulativamente), come per il Giappone, ci sono interessi che ritornano allo Stato italiano, il che potrebbe far pensare che questi interessi con i futuri titoli del Recovery Fund andranno persi. Non dico che ciò sia fondamentale, solo che a volte le nostre autorità ci dicono ciò che vogliono dirci omettendo ciò che non vogliono dirci o non vogliono che notiamo, sembra una banale considerazione ma è meglio considerarlo se poi si vuole comprendere davvero le grandi questioni nazionali.

(fonte: statistiche della Banca d’Italia – 15 gennaio 2020)

C’è poi il punto relativo al debito comprato dalle famiglie e quindi del reddito da interesse che rimane all’interno del circuito contrapposto a quello comprato dall’estero, che ovviamente impoverisce finanziariamente il paese che emette il debito (gli interessi vanno all’estero e il capitale è più a rischio perché meno controllabile). Ebbene qui il Giappone fa meglio di noi, infatti solo il 6% del suo debito va all’estero mentre l’1% va alle famiglie, dimostrando quindi di volerlo pienamente gestire sia dal punto di vista di attacchi valutari che inflazionistici. E’ lo Stato, in Giappone, che tiene sotto controllo la politica fiscale e monetaria. Anche qui il mondo osserva e apprezza.

L’Italia ha avuto l’evoluzione come dal grafico seguente, è passata dall’avere un debito estero del 4% nel 1988 al 32% nel 2018 per arrivare a superare i 700 miliardi alle soglie del 2020 (fonte: Statistiche della Banca d’Italia).

Le famiglie passano dal detenere il 57% nel 1988 al 6% del 2018. Quindi sale l’esposizione con l’estero e diminuisce con le famiglie. Una scelta pessima, alimentata dal fatto che in molti casi c’è stata una chiara volontà nello spingere queste ultime all’acquisto di obbligazioni e azioni bancarie allontanandole dai sicuri risparmi assicurati dai Titoli italiani, con le conseguenze che abbiamo visto tutti. Lo Stato, continuamente e secondo gli osservatori nazionali, sull’orlo del baratro ha continuato a tenere fede ai suoi impegni, mentre le banche fallivano lasciando disastri e disperazione. Oggi, costretti a combattere contro il Covid 19, torniamo ai “Bot people” per necessità.

Scelte sbagliate che nell’immaginario comune sono stranamente patrimonio dell’Italia tutta e non solo di quella parte politica che le ha fatte ed imposte, a volte senza neppure passare per il Parlamento. Tanto vero questo che quando, ad esempio, un Draghi qualsiasi fa una considerazione da studente di Liceo viene osannato invece che essere messo di fronte alle sue responsabilità politiche trentennali.

Draghi ‘avverte’ infatti che esiste un debito buono e un debito cattivo. Cioè non vanno bene le mancette ma ci vogliono investimenti, magari in ricerca e infrastrutture, geniale.

Noi però lo sospettavamo e qualcuno addirittura lo sapeva. Si era a conoscenza dell’esistenza di debito buono e debito cattivo, non per particolare bravura ma semplicemente perché bastava ascoltare altri economisti come ad esempio Richard Werner, per rimanere all’oggi, ma potremmo arrivare persino ad aver letto Silvio Gesell per scoprire che i riferimenti alla logica in economia partono da lontano. Ma di più alla portata, in fondo, c’erano anche Keynes e la Costituzione italiana a parlarci della bontà dell’intervento e del controllo statale, in particolare nei momenti di crisi, e degli investimenti e poi del lavoro e della ricerca. La spesa di oggi, diceva Milton Friedman (niente di meno!), farà raccogliere gli interessi alle generazioni future.

Invece la politica italiana ci ha voluto dare altro, l’indipendenza dei mercati, della finanza e delle banche centrali nonché uno stato spettatore più che attore, tranne poi chiamarlo a gran voce quando si è voluto convertire debiti privati in pubblici (per non far fallire banche e istituzioni finanziarie), trasferire gli errori dei singoli alle comunità (per non fargli perdere i bonus milionari) e ridare stabilità al sistema (cioè perché continuasse a trasferire ricchezza dal basso verso l’alto). Il tutto, ovviamente, dando fondo a i nostri risparmi.

La conclusione è che non serve confrontare ciò che non si può confrontare. Il Giappone ha un sistema totalmente diverso dal nostro, ha la possibilità di controllare l’emissione monetaria e la successiva immissione di denaro nel sistema, ha il controllo delle banche commerciali attraverso la sua Banca Centrale che ovviamente è controllata a sua volta dallo Stato, ha la possibilità di decidere autonomamente delle sue politiche economiche. Può quindi riformare ciò che ritiene di dover riformare e indirizzare fondi dove ritiene di doverli indirizzare, può stimolare oppure frenare, può dare soldi alle sue aziende per lo sviluppo e la ricerca, può finanziare le sue università e i suoi ospedali.

Ha, inoltre, dei politici che hanno probabilmente onore, senso dello Stato e del dovere verso i cittadini. Facile governare con tutti questi strumenti a disposizione.

Da questo elenco, cosa ha a disposizione e cosa può fare autonomamente l’Italia? Forse è di questo che si dovrebbe discutere per scoprire che non è semplicemente vero che loro sono bravi solo perché sono giapponesi ma sono bravi perché hanno scelto di essere e rimanere giapponesi pur accettando la complessità del mondo, mentre noi siamo cattivi perché non riusciamo ad essere italiani e inseguiamo il mondo senza capirlo. Nel tempo abbiamo preferito essere un tantino inglesi, francesi, americani e adesso persino tedeschi per avere una direzione. Abbiamo ceduto tutti gli strumenti di natura politica e decisionale per l’incapacità di essere semplicemente noi stessi, convincendoci che la mancanza di capacità dei nostri politici fosse quella di un intero popolo.

UniFe: ritrovato il canino di uno degli ultimi bambini neanderthaliani del Nord Italia

Da: Ufficio Stampa UniFe

Appartiene a un bambino di Neanderthal di circa 11-12 anni vissuto presso il Riparo del Broion, sui Colli Berici (Longare, Vicenza) circa 48.000 anni fa, il dente da latte, per la precisione un canino, che è stato ritrovato grazie a una campagna di scavi condotta nel 2018 dall’Università di Ferrara e dall’Università di Bologna.
Il dentino, che appartiene forse all’ultimo bambino neanderthaliano del Nord Italia, è stato materialmente rinvenuto da Davide Del Piano, Assegnista di ricerca del Dipartimento di Studi Umanistici di Unife e, in tempi rapidi, è stato oggetto di uno studio realizzato da ricercatrici e ricercatori del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna e del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Ferrara.
I risultati pubblicati sul Journal of Human Evolution, in un articolo firmato a primo nome da Matteo Romandini, precedentemente Assegnista di ricerca di Unife e attualmente in forza a Unibo, sono emersi dalle analisi effettuate anche grazie  alla collaborazione con i Dipartimenti di Evoluzione Umana e di Genetica del Max Planck Institute in Germania, con l’Oxford Radiocarbon Accelerator Unit dell’Università britannica, con il DANTE Laboratory dell’Università la Sapienza e il Bioarchaeology Service del Museo delle Civiltà di Roma. 
Lo studio nasce all’interno del progetto europeo ERC-SUCCESS focalizzato sull’arrivo di noi Homo sapiens in Italia e sul nostro primo incontro con i Neanderthal nella Penisola, guidato da Stefano Benazzi dell’Università di Bologna, progetto a cui collabora dal 2017 anche il Dipartimento di Studi Umanistici di Unife.
“Il lavoro è frutto della sinergia di diverse discipline e specializzazioni – afferma Matteo Romandini, primo autore dell’articolo – quali l’archeologia preistorica di campo ad alta definizione tecnologica, che ha permesso il ritrovamento del dente, e gli approcci virtuali all’analisi morfologica, la genetica, la tafonomia e le analisi radiometriche, grazie alle quali è stato possibile attribuire questo resto a un Neanderthal così recente”. 
Lo studio dei reperti recuperati nel contesto del dentino è attualmente in corso, ma i dati mostrano già un uso continuativo del sito e segni di caccia e macellazione di grandi prede.  
“La produzione di strumenti, soprattutto in selce – prosegue Marco Peresani dell’Università di Ferrara – mostra una grande capacità di adattamento e lo sfruttamento sistematico e specializzato di tutte le materie prime disponibili”.
L’analisi del dente è stata condotta con metodi virtuali e altamente innovativi, che “ci hanno consentito di scoprire che si tratta di un canino superiore destro da latte di un bambino neanderthaliano di circa 11–12 anni, che ha vissuto e frequentato il Riparo tra 48000 e 45000 anni fa, rendendolo il resto di Neanderthal tra i più recenti di tutta la Penisola – confermano Gregorio Oxilia ed Eugenio Bertolini dell’Università di Bologna, tra i primi autori del lavoro.  
I risultati delle analisi genetiche evidenziano che, da parte di madre, questo bambino era strettamente imparentato con altri Neanderthal vissuti in Belgio alcuni millenni dopo, rendendo Riparo del Broion uno dei siti chiave per comprendere la progressiva scomparsa della specie a livello europeo, tema che infiamma ancora oggi il dibattito scientifico internazionale.
“Questo dentino è fondamentale – conclude Stefano Benazzi – in quanto è stato perso in vita da un bimbo neanderthaliano in Veneto, mentre nello stesso momento, a mille chilometri di distanza in Bulgaria (Bacho Kiro) era già presente Homo sapiens come dimostrato da alcuni recenti articoli di coautori di questo lavoro”. 
Le ricerche a Riparo del Broion – avviate nel 1998 dal Prof. Alberto Broglio di Unife e tutt’ora in corso – sono condotte sotto la direzione scientifica di Matteo Romandini e Marco Peresani, grazie alla concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e al supporto di Regione Veneto, Comune di Longare (VI), Fondazione Leakey, Fondazione CariVerona, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, e del già citato progetto europeo ERC-SUCCESS.

Il re nudo, una fiaba moderna

I vestiti nuovi dell’imperatore  è una fiaba danese scritta da Hans Christian Andersen e pubblicata per la prima volta nel 1837. La trama della fiaba è nota e parla di un imperatore vanitoso, completamente dedito alla cura del suo aspetto esteriore, e in particolare del suo abbigliamento. Un giorno due imbroglioni giunti in città spargono la voce di essere tessitori e di avere a disposizione un nuovo e formidabile tessuto, ma invisibile agli stolti e agli indegni. I cortigiani inviati dal re non riescono a vederlo; ma per non essere giudicati male, riferiscono all’imperatore lodando la magnificenza del tessuto. L’imperatore, convinto, si fa preparare dagli imbroglioni un abito. Quando questo gli viene consegnato, però, l’imperatore si rende conto di non essere neppure lui in grado di vedere alcunché. Attribuendo la non visione del tessuto alla sua indegnità, anch’egli decide di fingere e di mostrarsi estasiato per il lavoro dei tessitori.
Col nuovo vestito sfila per le vie della città di fronte a una folla di cittadini i quali applaudono e lodano a gran voce l’eleganza del sovrano, pur non vedendo alcunché nemmeno essi e sentendosi essi segretamente colpevoli di inconfessate indegnità.
L’incantesimo è spezzato da un bimbo che grida con innocenza “Ma il re è nudo!”.
Ciononostante, il sovrano continua a sfilare come se nulla fosse successo.

Desidero proporre ora una riflessione che proprio partendo dal messaggio contenuto in questa fiaba possa sostenere il pensiero critico a non rimanere impantanato nei vari ismi che possiamo vedere agitare sempre di più la nostra società nelle forme del negazionismo, populismo, relativismo, dogmatismo, fascismo
Il re è nudo! si grida a gran voce nella fiaba. Questo fatto è talmente evidente da suscitare una reazione paradossale nei presenti: la sua ovvietà viene gridata a gran voce da un bambino, ma allo stesso tempo negata da chi questa evidenza vuole coprire, poiché spinto da interessi di altra natura.

Come si arriva al negazionismo

Siamo tutti uguali. E’ un dato talmente scontato in una società che si definisce democratica, che il rischio è proprio quello di dimenticarselo. Possiamo osservare i nostri figli giocare con gli altri bimbi allo stesso modo negli anni della scuola dell’infanzia, senza nessuna preclusione rispetto al colore della pelle, provenienza geografica o culturale, disabilità. Poi crescendo cosa succede?
Per giustificare certi orrori
, che con una parola chiamiamo razzismo, ecco che diventa necessario mettere tra parentesi il nostro essere uomini, la nostra comune natura, etichettare e ridurre l’altro ad artificiose e reificate identità: quella dell’ebreo, del nero, del migrante dell’omosessuale…

Solo così, da veri anestesisti dell’anima riusciremo passo dopo passo ad arrivare all’insensibilità emozionale, necessaria per giustificare anche linguisticamente la trasformazione della solidarietà in buonismo, per chattare contenuti grondanti di odio, per redigere atti legislativi dove le persone sono ridotte a pacchi postali da collocare in modo burocratico.
Per arrivare a questo risultato è necessario tenere accesa la televisione durante i pasti per vedere, mentre si consuma il pranzo, immagini di esseri umani morire di fame.
E’ necessario smettere di studiare, dimenticare la nostra storia, le nostre radici e appiattire tutto sul presente, non fare memoria di nulla, perché solo così tutto si può negare…anche che il re è nudo!

I problemi legati all’immigrazione ci sono e sono enormi. Devono essere gestiti con responsabilità e competenza. Non affrontarli in nome di una accettazione generalizzata sprovvista di una politica di integrazione è doppiamente colpevole. Altra cosa però è utilizzare queste emergenze solleticando e sfruttando la stanchezza della gente per fini di potere! Non bisogna mai dimenticare che stiamo parlando di esseri umani!
Metaforicamente il bambino della fiaba di Andersen lo assimilerei alla nostra Carta costituzionale, voce che è necessario ascoltare in tutti quei casi in cui vogliamo essere rassicurati sulla congruità delle nostre scelte.
Per esempio sulle democraticità delle scelte politiche.

Quando si perde la memoria 

Eccidio di Sant’Anna di Stazzema 12 agosto 1944,560 morti;
Eccidio delle Fosse Ardeatine, 24 marzo 1944, 335 morti;
Eccidio di Lippa di Elsane30 aprile 1944,269 morti,
Eccidio del Padule di Fucecchio 23 agosto 1944, 174 morti…questo elenco purtroppo è molto lungo e visto che a scuola questi avvenimenti non si studiano quasi più, chi vuole può, consultando L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia 43-45 (,ed.Il Mulino,2016), ritrovare  tutte le stragi di quel periodo con i 5.607 episodi di violenza, per un numero complessivo di 23.669 persone uccise.

Questo fu il fascismo. Ed è per questo che la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.

Desidero proprio rivolgere queste note col cuore in mano a chi è insofferente ed infastidito dalla cosiddetta retorica della Resistenza.
Non lasciamoci tentare dall’opporre, quasi in modo ragionieristico, alle stragi sopra richiamate i morti causati dalla reazione partigiana, nasconderemo solamente che il re è nudo! Dovremmo invece tutti vigilare affinché non siano ostentate, in modo particolare oggi sui social, dai nostalgici del ventennio, simboli, motti, effigi che in un qualche modo possano essere ricollegati a quegli orrori.
Dovremmo tutti ritenere che queste dimostrazioni pubbliche di un richiamo ai caratteri del fascismo storico non siano da archiviare come manifestazioni folcloristiche di un numero limitato di soggetti, ma pericolose deviazioni rispetto a ciò che dovremmo condividere come cittadini per il mantenimento di una società democratica.

L’esempio della Polonia

Guardiamo a ciò che sta succedendo nella Polonia di oggi, il paese che ha conosciuto Chelmo, Belzec, Sobibor, Treblinka, Auschwitz-Birkenau e Maidanek dove oramai da un po’ di anni sta crescendo sempre più un clima antisemita che rischia di rovinare l’Europa intera.
Abbiamo ancora negli occhi l’immagine del 17 febbraio del 2018 quando il primo ministro polacco Morawiecki depose un mazzo di fiori in un cimitero tedesco sulle tombe dei polacchi che durante la seconda guerra mondiale collaborarono con i nazisti, considerando i sovietici e i comunisti un nemico peggiore.
Commenta W, Goldkorn dalle colonne de l’Espresso: “Morawiecki è un signore cinquantenne, colto e istruito. Ha studiato economia in Europa e negli Stati Uniti, è diventato un importante banchiere. Insomma, è un uomo che conosce il mondo. Eppure, quel mazzo di fiori in onore di gente che nell’inverno del 1945 lasciò il territorio polacco assieme ai reparti nazisti – e che tradì la Polonia – veniva deposto proprio nei giorni in cui lo stesso premier spiegava che c’erano ebrei tra i perpetratori della Shoah; e a poche settimane dall’inizio delle commemorazioni del cinquantesimo anniversario dell’espulsione, nel 1968, degli ultimi ebrei rimasti in Polonia: traditi quindi dalla Polonia.”.

Un limite da non oltrepassare

Non c’è il tempo qui per analizzare compiutamente come sarebbe necessario tutti i richiami storici sopra riportati e il rischio è quello di esporsi a immediate contro argomentazioni che però a mio avviso non dovrebbero offuscare il messaggio che faticosamente tento di proporre. Qui non è il problema di dare il torto agli uni e la ragione agli altri, o di imporre sulle una propria verità.
Discutiamo, confrontiamoci, studiamo il più possibile senza trincerarci dietro a barriere ideologiche o pregiudizi di sorta; la cosa importante è porre il limite oltre cui nessuno può andare, oltre cui la facoltà critica diventa negazione dell’altro.
E questo rischio si corre ad ogni livello. E’ in fin dei conti un discorso di assunzione di responsabilità verso le giovani generazioni.

Quando si ha a che fare con l’interesse pubblico il dovere principale è quello di esplicitare quali siano gli interessi in gioco.
Il governo ha obbiettivi di un certo tipo, l’opposizione  un altro, i cittadini spesso  un altro  ancora; la democrazia riguarda l’equilibrata conciliazione di tutti questi diversi interessi attraverso l’arma bianca del compromesso.
E tutto ciò sia che riguardi i problemi di politica internazionale che quelli interni come, solo per fare un esempio, le misure anti covid da prendere per il rientro a scuola (davvero si ritengono provvedimenti adeguati il distanziamento di un metro in classi di 25 studenti, e autobus carichi completamente in tragitti fino a quindici minuti?).

Solo questo modo di agire, disinteressato, pubblico, critico come insegna l’intero percorso conoscitivo di J.Habernas, potrà consentire di formare una coscienza civica sensibile alla ricerca del bene comune, che non giochi a nascondino con la realtà mistificandone i fatti e dove anche in questo caso  possa essere sempre possibile che si levi alta una voce a richiamare tutti che  il re è nudo!

Biasanott

racconto di Stefania Bergamini

Sergio è un biasanott. E mio amico. Entra elegante come un principe, lo trovi sempre al suo tavolo, quello sotto la tenda verde, vicino all’uscita. Sta lì con aria trasognata e un bicchiere di vino rosso. Quando ho un po’ di pausa mi siedo vicino a lui, non parliamo tanto, mi chiede del lavoro, se sono contenta, dei miei desideri, mi racconta un po’ di suoi amori e di fallimenti. Ha una stanchezza Sergio e una eleganza che nemmeno Horowitz. Vestito di bianco pure le scarpe e la sciarpa e i capelli. Un fazzoletto in tasca sempre profumato, mi dice senti questo è un profumo francese, me lo ha regalato Tina e chissà chi era Tina.
Lui la casa ce l’ha da qualche parte (con dentro forse la perdita di un figlio o figlia, qui la raccontano così). Non è un barbone, è un biasanott, tradotto dal dialetto bolognese masticanotte, cioè, lui la vive la notte, la assorbe, la cammina, la mastica, appunto. Ogni tanto viene qui e sta a quel tavolo, guarda la gente che entra e esce, si muove lentamente misurando i gesti come se tenesse in mano una bolla di sapone e mette a posto, quando mi parla, i miei nervi e il collettino della mia camicia.

The Last Good Day Of The Year (Cousteau, 1999)

DIARIO IN PUBBLICO
Il ritorno

Les adieux beethoveniani naturalmente suonati da Pollini concludono, tra finestre che si chiudono e materassi coperti dalle fodere la stagione lidesca. Mi soffermo sui piccoli e spesso inutili objets de vertu che popolano il mio studio; accarezzo con lo sguardo le stampe e i manifesti canoviani, che con un laborioso tragitto da Bassano a Firenze sono approdati al Lido; mi riguardo i limoni in ceramica, dono dell’amico Fernando Rigon e sento lo scadere del tempo. Forse sarà l’ultima volta che dialogherò con quelle mura, quei libri, quei quadri. E il Lido degli Estensi, forse non più Laido, rimarrà un ricordo di altre stagioni, di altri pensieri.

Accompagnati dagli scudieri, che si prenderanno cura dei fiori e delle piante, riapprodo a casa, quasi estranea dopo mesi di assenza. Giochiamo a ricordarci le posizioni consuete degli oggetti e riguardiamo compiaciuti i letti che obbediscono ai filocomandi. Poi cominciano gli appuntamenti medici e, fiduciosi, ci rechiamo al ferrarese Sant’Anna. Qui schiere di dolenti si sottopongono alla pistolettata per misurare la temperatura e inconsciamente si aggregano come pecore al pascolo, ignorando le protezioni anticovid, quando vengono chiamati per il prelievo del sangue. La voce severa degli infermieri produce poca disciplina, mentre trionfalmente la chiamata produce passo svelto, movimenti sciolti e finalmente il distanziamento.

Poi l’inferno. Per lavori in corso è totalmente smantellato il consueto percorso che ci scodellava presso la nostra unità di riferimento dei medici di base e tra strisciar di scarpe, domande sempre più affannate a coloro che ci dovrebbero indicare la via della salvezza ci aggiriamo nei corridoi. Invano. Cominciamo a dubitare che ci fossimo sognati quel luogo, quell’ambulatorio, quegli ambienti. Il vecchio stizzoso, ovvero chi scrive queste note dopo 36 minuti di false speranze, comincia a sbraitare guardato con sufficienza dagli indicatori umani, che come un mantra recitano la strada da farsi e che non si trova. Infine, da una porticina nascosta sbuchiamo al nostro reparto, accolti dai sorrisi ironici degli stessi medici che avevano provato la stessa esperienza. Ma ci consoliamo col perfetto funzionamento di una clinica privata e… la luce rossa, che dopo essersi lavate le mani e prima di cogliere il biglietto d’accettazione dovrebbe misurare la temperatura s’incanta e se.. se dà il via libera del verde, continua ossessivamente a ripetere il suo rosario finché qualcuno dal ricevimento viene a spegnerlo.

Tra un esame e una risonanza s’affaccia il mio amico oculista, fortunato compagno umano di due bellissimi pelosi, a cui rivelo d’essere ormai in dirittura d’arrivo per diventare lo zio di Benny; anzi! Sapientino, il pronipote a cui viene dato il cane, con fare sbrigativo m’informa che faremo una video conferenza (non so cosa sia) per registrare l’arrivo di Benny a casa.

La conferenza parigina su Cesare Pavese per ora sembra essere confermata edi allora il cuore mi si scioglie a pensare a tre giorni parigini tra i ricordi e una rabbia sorda m’invade al solo pensare che potesse venire rimandata. Così è per le celebrazioni pavesiane a Torino. E domani arriverà il Taccuino segreto di Cesarito.

La città è strana. Si parla e si sparla sulle mostre, sui Buskers, sui concerti; ma ogni cosa sembra lontana, priva di senso, come ha saputo ben esprimere il bravo Carofiglio nel suo romanzo A occhi chiusi.
Leggo con grande interesse i commenti che escono sulla ‘fenice’ di Mario Zamorani e spero in un risorgimento delle idee e delle possibilità di chi un tempo si proclamava, e tuttora si proclama, di sinistra.

Ci avviciniamo allora all’autunno, un tempo triste ma che può diventare occasione di riscatto.
Una ultima nota. Ho lavorato talvolta con Philippe Daverio e mi ha colpito la sua morte; tuttavia, pur riconoscendogli effervescenza d’eloquio e capacità d’intrattenimento, non potrò riconoscergli, ma quello forse lui stesso non lo pretendeva, la qualità che dovrebbe distinguere un vero storico dell’arte. Ma la mia generazione era lontanissima nella preparazione al mestiere dalla sua e di altri.

PER CERTI VERSI
Era caldo (in memoria di Alexander Langer)

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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ERA CALDO

era caldo
sul letto di casa
dopo la chemio
arriva una telefonata
fuori orario
infatti è una sassata
Matteo di là della cornetta
mi dice alterato
è morto Langer

si è impiccato

MANCAVA IL PIANISTA

mancava il pianista
ho suonato io
pelato come un bimbo
appena nato
ricordavamo Nagasaki
cinquant’anni dopo
quel buco nero
che segnò per sempre
un solco col passato

LA MIA VITA

la mia vita
ha conosciuto lo zero
il fossato che solca
il dopo dal prima
non ne vado fiero
è stato così
come si cammina

PRESTO DI MATTINA
Chi sono io per te

Chi sono io? Questa domanda, del tutto inattesa, risalita da non so quali profondità dell’inconscio amareggiato, si era dilagata irruente nella coscienza mentre scendevo le scale di un condominio nei pressi della parrocchia, tanto tempo fa. Una domanda scandita come un ritornello, a ogni gradino, dopo la visita a una persona inferma costretta a letto. Ero stato rimproverato per la lunga assenza dall’ultimo incontro, e avevo sentito tutta l’impotenza e l’inutilità di un ministero che ti vuole tutto a tutti. Salire e scendere le scale per incontri brevi, apparentemente insignificanti e vuoti. Mi sentivo come un pane che si disperde in tante briciole senza capacità di sfamare alcuno.

Chi sono io? Attesi un momento lunghissimo per rispondermi. Scartai subito “sono un parroco” – e i suoi equivalenti: “sono un pastore”, “un prete” – quasi a voler lucidare l’armatura ammaccata. Mi accorsi così, scendendo quelle scale, che avevo continuato, come avevo fatto salendo e arrivando in bicicletta, a pregare la preghiera del cuore. Non avevo smesso nemmeno durante l’incontro, a invocare, dentro, il nome di Gesù su quelle interminabili afflizioni di una vecchiaia esausta.
Sentii allora salire la risposta da dentro avvinta ad un sospiro lento e consolante: “sono un uomo di preghiera”. Sì. Sì mi dissi: questo sono io. Qui staziona e da qui parte e ritorna sempre di nuovo, accrescendosi come un albero dalle sue radici, il mio “io” più autentico; quello non ripiegato su sé stesso, ma aperto e disteso al futuro. Avevo ritrovato la coscienza dell’io nella preghiera come essenza e pienezza dell’umano, in quello che chiamerei un sussulto mistico, risonanza del mistero di Dio nella banalità del quotidiano, in fare pregando.

Un “io” orante è “un io sempre in relazione”. Un io che si perde e si ritrova nell’amore per l’altro, pur incontrato nei luoghi del disamore e del non umano o dell’umano finire. Un io orante è un io “in progress; diviene un “io” credente, che si fa affidandosi nella relazione, e rimane irremovibile nel luogo della dignità e nella responsabilità dell’altro, come Tommaso Moro, un credente per tutte le stagioni perché orante. Un adagio liturgico dice lex orandi è lex credendi: la forma della preghiera dà forma alla stessa fede, è legge del suo agire come amore.

Romano Guardini sottolinea un altro aspetto: “Credere con riferimento alla propria vita significa vedere sempre il tutto” (Diario, Brescia, 1983). La preghiera è allora da comprendersi come un atto totale che investe e coinvolge l’interezza dell’esistere. Non sono solo le labbra a muoversi. Le tue cellule pregano, così il tuo corpo, le tue mani, i tuoi piedi, gli occhi e le orecchie. E lo stesso vale per i tuoi gesti, sia che tu stia fermo o cammini. Ma anche il tuo muto e smarrito silenzio prega. La tua preghiera si riveste così della forma, delle parole e delle loro assenze. È nei colori, dai più cupi ai più luminosi. E dimora nei sentimenti, da quelli più tristi a quelli che illuminano il volto: arcobaleno cangiante dell’esistenza, del tuo stesso vivere in relazione o in solitudine, quando abbracci e quando ti astieni dal farlo. La preghiera, come la comprensione dell’essere in Aristotele, “si dice in molti modi”, perché non ha una essenza ma comprende tutte le essenze, e quindi tutte le forme. Essa è nascosta in ogni piega del tempo; occupa ogni spazio; sta nell’intermezzo dell’aurora e del tramonto, tra il buio e la luce ed è di casa in entrambi, di giorno come di notte. È in ogni pausa e sospiro tra le parole, nell’attimo del battito delle ciglia come del cuore, quando si recita nell’arco del giorno per tre volte l’Angelus Domini, o nelle fragilissime ali raccolte di una farfalla come mani giunte in preghiera. Essa è già tutta nel primo vagito della vita nascente ed è ancora lì nell’ultimo rantolo di un morente.

Come la sapienza di Dio la preghiera costruisce pietra dopo pietra nel mondo e in noi la sua casa (Pr 9,1). Le lacrime e i sorrisi sono le sue sette colonne, il dolore del mondo le sue fondamenta. La sua tavola imbandita è la gioia del figlio perduto e ritrovato, dello sposo del Cantico per la sposa; la gioia che scopre la perla preziosa e il tesoro del Regno. Ogni preghiera, gemito inesprimibile dello spirito, converge misteriosamente nel gemito dell’intera creazione: quello delle cerve partorienti, dell’animale preso nella rete, braccato e ferito a morte dai bracconieri, nel silenzio di una stella che si spegne, nel cammino di una cometa. Immancabilmente si fonde con la preghiera eucaristica di Gesù e della Chiesa ogni domenica, preghiera dell’Agnello condotto al macello (Is 53,7; Ger 11,19), Agnello pasquale, immolato ma vivente.

Pregare in situazione di passività è certamente esserci nello sprofondo dell’afflizione che dà angoscia. Si prega allora con “labbra chiuse” come nella preghiera di Paolo VI per la morte di Aldo Moro: “Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il «De profundis», il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui”.

Pregare in ascolto del silenzio di Dio, in compagnia di questo Dio incomprensibile e silenzioso, trovando sempre di continuo il coraggio di parlargli, di parlare entro l’oscurità con fede, confidenza e calma, sebbene apparentemente non venga alcuna risposta se non la vuota eco della propria voce (Cf. K. Rahner), genera un’esperienza di unione che trasforma la solitudine in gioia. È l’esperienza dei poeti e dei mistici, e di coloro che amano perdutamente e nel perdersi incontrano la gioia dell’incontro. Lo scolpisce con un solo verso Mariangela Gualtieri: “Forse la gioia è la preghiera più alta”.
Chi prega accede alla conoscenza di sé e attende la conoscenza dell’altro, anche quella di Colui – direbbe ancora Guardini – “che ha assunto la nostra nella sua esistenza. Così l’eco di questo mistero è che egli ci concede di accogliere la sua nella nostra esistenza” (Ivi, 168-169).

Piuttosto che in lunghe preghiere, Teresa d’Avila scopre sé stessa e si conosce misurandosi nella pratica del vivere e in rapporto al fare, all’azione; e in questo metteva in pratica il detto di Gesù: “Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli” (Mt 6, 7-9).
Così l’esperienza mistica per lei non è fine a sé stessa, ma deve attuarsi in una prassi, in un servizio alla vita; il culmine della preghiera non consiste nei rapimenti estatici, ma nella risposta all’altro. Così Teresa ha compreso se stessa attraverso questa esperienza di amicizia che è l’orazione aderendo alla volontà di Dio al modo di Gesù che diceva: “mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 4,34).
Ora, tutta la storia della sua vita, la sua autobiografia è stata riletta proprio attraverso quella stessa domanda che era affiorata in me: Chi sono io? Lo ha fatto in un saggio Emanuele Riu Chi sono io? Santa Teresa nel Libro della vita (in “La dimora interiore. Mistica e letteratura nel V centenario della nascita di Teresa de Avila“, rivista online, La Torre del Virrey, 2018). Scrive Riu: “La grandezza della Vida di santa Teresa sta dunque nell’illustrare al lettore la quotidianità della propria vita e nell’aprirgli la propria anima, consentendogli di partecipare ai suoi travagli più interiori e rendendolo in qualche modo partecipe di una ricerca del proprio “io”, condotta sul crinale fra l’oggettività patristica e medievale e l’inquietudine interiore tipica del soggetto moderno, acquisendo in vari modi tutti quegli spunti che dalla spiritualità medievale potessero condurla ad un rapporto con Dio in cui la propria interiorità fosse completamente in gioco” (ivi).

L’esperienza di Dio che si incontra nell’orazione è per la mistica d’Avila, non solo possibile a tutti, ma necessaria affinché ogni persona possa giungere alla coscienza autentica della propria identità, alla radice del proprio io che si sperimenta nell’alterità. Noi raggiungiamo l’autenticità della nostra umanità quando giungiamo al suo fondamento ultimo di ciò che realmente l’io è. Un io in relazione in vista dell’unione. E la preghiera è la forma dialogica e generativa di quel vincolo che tiene tutti perfettamente uniti: l’amore.

Una domanda tira l’altra. Non solo Chi sono io? ma pure Chi sono io per me? Come l’autobiografia teresiana, così Le confessioni di Agostino di Ippona costituiscono un percorso mistico, un’uscita dell’“io” da sé, alla ricerca della propria identità che è amore. Amanti e al contempo amati, fonte e destinazione di un sentimento di amore che generiamo e ci viene incontro dandoci una forma.
Si cerca nell’altro ulteriorità di senso e di vita. Ecco allora l’invocazione che cerca il volto dell’altro all’inizio delle Confessioni in forma di domande: Chi sono io per te? e Chi sei tu per me? fanno del testo di Agostino il suo itinerario mistico: la preghiera della sua vita:
“Ma chi mi farà riposare in te, chi ti farà venire nel mio cuore a inebriarlo? Allora dimenticherei i miei mali e il mio unico bene abbraccerei: te. Cosa sei per me? Abbi misericordia, affinché io parli. E cosa sono io stesso per te, sì che tu mi comandi di amarti. Oh, dimmi per la tua misericordia, Signore Dio mio, cosa sei per me. Di’ all’anima mia: “La salvezza tua io sono!” (Agostino, Le Confessioni, 1,1.5).

Non si può, su queste ultime note, non ricordare un episodio della vita di S. Teresa raffigurato anche in un dipinto della chiesa delle sorelle Carmelitane di via Borgovado. Un giorno la santa Madre nel monastero dell’Incarnazione di Avila stava scendendo le scale e quasi inciampò in un bel bambino che le sorrideva. Suor Teresa, sorpresa nel vedere un bambino all’interno del convento, gli si rivolse chiedendogli sorridendo: “E tu chi sei?”, allora il bambino rispose con un’altra domanda: “E chi sei tu?”. La Madre disse: “Io sono Teresa di Gesù”. Il bambino, sorridendo, le disse; “Io sono Gesù di Teresa”.

Dedico questo testo all’amico Gian Franco che ha attraversato la soglia del mistero di Dio, sua nuova dimora; egli mi ha accompagnato nel ministero pastorale, spalla a spalla, dal 1983 a S. Francesca prendendosi cura della comunità nello stile silenzioso e orante di Maria e in quello schietto, familiare e laborioso di Marta.

Occhi

Quella mattina, mentre faceva colazione, Miriam guardava rapita un telefilm. Uno di quelli americani, una serie dipanatasi nel tempo contando chissà quante puntate. Un telefilm “leggero”, ma con interpreti di valore, come fanno negli Stati Uniti dove, anche nelle pellicole più commerciali, sono impegnati attori di grande carisma ed esperienza.
Di tutto l’intrigo della sceneggiatura, l’aveva colpita una sequenza. L’anziano proprietario di un cavallo, dopo vari tentativi di curare l’animale vecchio e artritico, ormai con liquido nei polmoni, si era deciso ad abbatterlo. Alla sua maniera, naturalmente, in perfetto stile western, anche se moderno: con la carabina, puntando alla testa. Era il suo animale, il suo amico, era giunto il momento di alleviare le sue sofferenze.
Nelle sequenze in cui prendeva la mira, le ottime inquadrature del cameraman avevano immortalato la recitazione da oscar dell’attore. La decisione, l’occhio sbarrato sul mirino, il prendere la mira, l’indugio nel premere il grilletto, un battere di ciglia, l’occhio che si appanna, le emozioni che hanno il sopravvento, i ricordi, i muscoli del viso che si rilassano, lo scoramento, l’incapacità di proseguire sino al desistere, affidando il compito al veterinario. L’attore aveva fornito un’interpretazione così veritiera e umana, senza parole, perfetta nei tempi e nell’intensità, che a Miriam si era contratto lo stomaco e aveva emesso un singulto.
Quando le succedeva, la donna aveva un gesto di stizza e insieme di affetto verso se stessa, borbottando che era diventata troppo sensibile. Commuoversi davanti ad un telefilm!
Il fatto era che, al di là dell’eccellente performance dell’attore, Miriam era stata assalita dalla compassione. E dai ricordi.
Anche lei aveva avuto diversi animali. Cani e gatti che aveva amato come si potevano amare gli animali. Mantenendo cioè un distinguo con gli esseri umani. Ma solo perché appartenevano a specie diverse, non per un diverso codice comportamentale che esigeva prima di tutto — prima di tutto — il rispetto. Il rispetto per la loro condizione di cane, di gatto, di animale con marcate caratteristiche. Li aveva amati, quindi, non solo accudendoli e dando loro affetto, ma rispettando la loro natura, senza farli diventare la parodia di un essere umano.
Aveva pianto quando aveva raccolto due suoi gatti spiaccicati sulla strada, quasi un tutt’uno con l’asfalto, da doverlo grattare — il tributo pagato alla libertà che, su consiglio del veterinario, non aveva sottratto loro, rinchiudendoli a vita in casa. Aveva pianto quando aveva dovuto far sopprimere gatti e cani ormai talmente sofferenti incurabili o in agonia che, a non dar loro una morte rapida e indolore, sarebbe stato egoismo, l’ostinazione a tenerli in vita anche a costo del loro strazio.
Il telefilm terminava con una citazione di Konrad Lorenz, riferita al cane ma che, per l’occasione, la nipote del vecchio cambiò rapportandola al cavallo e donandola al nonno: La fedeltà di un cavallo è un dono prezioso, che impone obblighi morali non meno impegnativi dell’amicizia con un essere umano. Il legame con un cavallo fedele è altrettanto “eterno”, quanto possono esserlo, in genere, i vincoli tra esseri viventi su questa terra.
“Ecco” pensava Miriam. “Penso di aver avuto questa fortuna. Che anche i miei animali l’abbiano avuta”.
E le tornavano in mente gli occhi delle sue bestiole — gli occhi. Quelli che le avevano parlato con sentimento puro, con gioia e disperazione, con pena e felicità, con libertà e dedizione. Era sicura che anch’essi avessero visto le stesse espressioni nei suoi occhi. E poiché gli animali erano capaci di interpretare la mimica facciale — gli atavici segni comuni ad ogni essere vivente — anch’essi avevano capito quello che lei provava nei loro confronti. Il rispetto. L’affetto.
E le sovvennero tutti i dibattiti e i discorsi sull’eutanasia, sul testamento biologico, sull’accanimento terapeutico e sulla terapia del dolore o sulla sedazione completa, non sempre applicata, quando la situazione era irrecuperabile… — Parlo per me, — iniziava così, durante le discussioni, infervorandosi. — Io non ho paura della morte, ma del dolore, e credo di essere solo di passaggio sulla terra, perché destinata ad una vita dopo. Ed è inumano e un oltraggio alla mia dignità tenermi a forza qui, a costo di ulteriori sofferenze e di trattamenti sproporzionati ai risultati, invece di sedarmi completamente e lasciarmi andare, quando non c’è più nulla da fare. Perché solo chi patisce sa quanto è lungo un secondo di dolore.
E poi pensava ai morti per coronavirus in terapia intensiva — a quelli nel periodo più nefasto e a quelli attuali, che morivano nello stesso modo ma che, essendo in numero minore, suscitavano meno scalpore, meno riflessioni, meno interesse — e agli infermieri che avevano avuto la pietà e la compassione dell’assistenza, di tenere loro la mano, anche se guantata, sino al momento del passaggio. Pensava ai loro occhi — gli occhi — al muto linguaggio che li aveva uniti, attraverso gli strati di protezione, oltre le parole. E pensava che l’essere umano era capace di cose bellissime.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

SCHEI
Ferrara, idea di città: a voi indré i mié baioc (ridatemi i miei soldi)

In una celebre scena di “Un americano a Roma”, Alberto Sordi aggredisce un piatto di pasta al grido di “m’hai provocato, e mo’ me te magno”. Tiziano Tagliani, sindaco di Ferrara per dieci anni fino al 2019, a un certo punto non ce l’ha più fatta a digiunare sul profluvio di analisi della sconfitta del centro-sinistra locale, e si è buttato sul piatto di maccheroni, avendo tutti i titoli per farlo. Io, che ho meno titoli di tutti gli intervenuti, partecipo all’abbuffata per una ragione: sono un cittadino che ha vissuto dall’interno la crisi Carife, da dipendente e da sindacalista, e la ritengo una delle principali ragioni della sconfitta. Lì mi sento di parlare con cognizione di causa. Sul resto mi esercito da libero pensatore, improvvisandomi “commissario tecnico” come quei sessanta milioni di italiani che parlano dello scibile umano essendosi laureati alla Scuola Radio Elettra o su Google.

Le ragioni della sconfitta? Ne seleziono tre, una (parzialmente) esterna e due interne alla città. La ragione esterna risiede nel vento sovranista che soffia nel mondo, in Europa, in Italia e che non poteva lasciare indenne Ferrara, nonostante il suo essere situata in una buca la preservi dalle folate più violente – ma non dai miasmi mefitici del suo petrolchimico. Questo vento si è mescolato con una voglia, generica quanto prepotente, di “novità” e di “cambiamento”, qualunque esso fosse, che fa anche sorridere se pensiamo che questo afflato rivoluzionario è stato concretizzato, nell’urna, da elettori la cui età media è di cinquant’anni circa. C’è una frase che dice “rivoluzionari da ragazzini, riformatori da  adulti, conservatori da maturi, reazionari da vecchi.”  Il prototipo del ferrarese dovrebbe già essere, per ragioni di anagrafe, nella fase della conservazione, ma in maggioranza ha deciso che bisognava “cambiare”. Cambiare cosa? Le facce, intanto. Un blocco di “potere”, o un sistema di relazioni che durava da circa settant’anni può, in effetti, suscitare una legittima e anche naturale voglia di alternanza. Avvicendare il personale al potere è una regola di buon senso, soprattutto se sono quattro generazioni che questo non avviene. A questo si potrebbe tuttavia obiettare che avrebbe potuto accadere anche prima, e prima non è accaduto; inoltre, che in altre roccaforti rosse o rosa l’elettorato non ci ha proprio pensato di affidare la stanza dei bottoni ad un’allegra quanto sconclusionata armata Brancaleone di “alternativi”, oppure, nella migliore delle ipotesi, di esponenti dell’imprenditoria locale stanchi della dittatura delle cooperative (la dico in maniera grossolana). Allora perchè stavolta a Ferrara, la conformista Ferrara, è successo?

Per provare a rispondere a questa domanda occorre passare alle ragioni endogene della sconfitta. La prima è il caso Carife. La Coop Costruttori, circa dieci anni prima, aveva dato un bello squasso: quasi undicimila creditori, duemila e rotti dipendenti, trecento soci, un fallimento per il quale peraltro, al termine dell’iter giudiziario, i tribunali non hanno riconosciuto la responsabilità degli amministratori per bancarotta, per carenza dell’elemento soggettivo del reato – ad eccezione della “bancarotta per dissipazione” relativa al denaro investito nella Spal. Ecco: se la Coop Costruttori è stata un settimo grado della scala Richter, Carife è stata “The Big One”, il termine con il quale si definisce il terremoto che prima o poi dovrebbe devastare Los Angeles e San Francisco. La responsabilità amministrativa di questo crac è dei dirigenti apicali, a partire da Murolo, e degli amministratori (molti dei quali esperti di banca come io lo sono di astrofisica). Lo ripeto affinchè sia chiaro: la responsabilità amministrativa del crac Carife è anzitutto dei suoi dirigenti apicali, a partire dal mirandolese volante con i suoi tirapiedi, che ha pervertito le regole minime di prudenza fatte raccontare, come un mantra, dai formatori (me compreso) a tutti i seminari sui crediti: frazionare il rischio e prestare sul proprio territorio. Infatti, sotto la sua brillante gestione, la banca ha “prestato” l’equivalente di circa un terzo del suo patrimonio disponibile a due soli debitori: un gruppo di Milano (Siano) per una iniziativa immobiliare mastodontica quanto spericolata, finanziata nel momento in cui il resto del mondo creditizio usciva dal mercato immobiliare; e una compagnia di navigazione di Torre del Greco (Deiulemar)per finanziare l’acquisto di una nave – Deiulemar per inciso soprannominata “la Parmalat del mare” per le caratteristiche del suo fallimento. In due mosse da geniale scacchista, ha messo a repentaglio il patrimonio della banca erogando credito a centinaia e centinaia di chilometri di distanza dal proprio territorio. Se un qualunque direttorino di filiale avesse fatto in piccolo quello che lui ha fatto in grande, sarebbe giustamente stato rimosso dall’incarico e forse sanzionato. Lui, che era il capo, è uscito da Carife con qualche milione di euro e giudizialmente (quasi) immacolato sulla base dell’assunto “tanti colpevoli, nessun colpevole”. In quelle operazioni lì stanno i germi della dissipazione e della malagestio, aggravate dal fatto che già la Cassa stava attutendo la botta dei soldi prestati (e non rientrati) alla Coop Costruttori. Il resto è venuto di conseguenza, ma non è stato ininfluente, è stato anch’esso determinante.

Infatti, la responsabilità politica della “risoluzione” di Carife è tutta ascrivibile ad un governo Renzi a trazione piddina, con Franceschini, ministro teoricamente espressione del suo territorio, a fare la scimmietta (non vedo, non sento, non parlo), e tutti i parlamentari e piddini regionali e provinciali zitti e allineati sulla posizione del capo: di nuovo, Renzi. La banca va disciolta. Decisione condivisa tra Bankitalia (altro manipolo di inguaiati) e Ministero dell’Economia, ossia il Governo e il Premier di allora(sempre Renzi). Carife non era fallita, ma anche se lo fosse stata, sarebbe fallita per la gestione commissariale di Bankitalia, che in due anni e rotti (dal maggio 2013) ha dilapidato i 150 milioni di aumento di capitale del 2011/2012. Già commissariare una banca dopo aver fatto acquistare le azioni dai propri clienti è stato un tiro mancino di Bankitalia, una vera bastardata, perchè significava scientemente azzerare, in sostanza, il valore di quell’investimento per cui tutta la Rete commerciale aveva agganciato tutta la clientela; una usurpazione di fiducia per conto terzi che ha pochi precedenti. Ma non gli è bastato. Dopo aver fatto lentamente cuocere (decuocere) a fuoco lentissimo la banca senza una sola iniziativa di rilancio, facendo quindi uscire una liquidità superiore alla fresca capitalizzazione, e dopo aver fatto deliberare ai soci un aumento di capitale di 300 milioni finanziato dal Fondo di Tutela dei Depositi, Bankit e il Governo hanno iniziato una melina travestita da contrasto con la Commissaria europea alla Concorrenza. Dico “travestita”, perchè nessuno è in grado di mostrare un documento formale nel quale la signora Vestager abbia scritto “è vietato finanziare la Carife con il Fondo di Tutela dei Depositi”(ente completamente privato, finanziato dalle banche). Si accettano scommesse: questo documento non esiste. E’ esistita invece una sudditanza all’Unione Europea, che non si è voluto “irritare” per avere la possibilità di sforare sul tetto al deficit di bilancio. Questa appare come una ricostruzione decisamente più credibile di quella ufficiale, propagandata senza il supporto di alcun documento scritto – tanto è vero che poche settimane dopo la stessa soluzione ha “salvato” Caricesena. Nel frattempo, è appena il caso di ricordarlo, nell’unica reale controversia sollevata dallo Stato italiano contro la Commissione Europea, che aveva ritenuto illegittimo l’intervento del Fondo interbancario su Tercas, il Tribunale ha dato torto all’Europa. A Ferrara invece, la piccola, imbucata, insignificante, indifesa Ferrara il Governo renziano ha deciso di far saltare la banca il 22 novembre del 2015. Il nostro undici settembre.

Sto annoiando qualcuno? Non credo, però, di aver fatto perdere il filo a quei 31.000 risparmiatori che, per effetto della “risoluzione”(adoro il tono asettico che viene introdotto nel linguaggio giuridico per mascherare le atrocità), hanno visto azzerato in una notte risparmi per decine o centinaia di migliaia di euro, persino con le obbligazioni sottoscritte dieci anni prima: una manovra folle e meschina, raccontata come un “atterraggio soffice”. Parlo di pensionati, lavoratori, artigiani, dipendenti della stessa banca. Parlo di un tessuto sociale ed economico raso al suolo peggio di quanto avesse fatto il terremoto fisico di tre anni prima – evento della cui concomitanza sui nostri territori, evidentemente, non è fregato nulla a nessuno, men che meno ai Franceschini e catena alimentare discendente. Spiace la durezza, ma questo è quanto. Last but not least, il “consigliere economico del premier”, Luigi Marattin, ormai star televisiva ora Italia Viva, continua a difendere la scelta dopo aver dichiarato che se “speculi” sulle azioni devi accettare che puoi perdere i soldi. Siccome è un professore di economia (macro), mi permetto di dargli un voto per l’esame di (micro) economia dal titolo “conoscenza dei meccanismi di finanziamento e capitalizzazione delle banche locali”: voto zero.

Questi sono gli eredi, ferraresi e non, del PCI di Berlinguer, tra l’altro. Secondo voi non basta a spiegare l”alternanza”? Basta e avanza. Poi c’è la terza ragione, la seconda interna alla città, che è la sottovalutazione, oggettiva e comunicativa, del problema della sicurezza. Non è la diatriba tra l’ipotesi della mafia nigeriana o la riduzione del fenomeno a microdelinquenza sparsa e (anche) locale, ad avere fatto la differenza. La differenza l’ha fatta il progressivo degrado di alcuni quartieri, tra cui uno signorile anche nel nome (Giardino). Se mi minacciano con un coltello, se mi rubano in casa, se non mi sento sicura a girare da sola, se il prezzo della mia casa crolla questo è un problema di sinistra. E se anche questi problemi fossero esagerati da una “percezione” alterata e gonfiata ad arte, dovrei trarre le conseguenze di questa affermazione (corretta), e “gestire” da sinistra questa percezione; non fregarmene. Se un cittadino che vive in Don Zanardi (zona est lontana dal GAD) a domanda vi risponde che non si sente sicuro in città, non credo che dovreste limitarvi a dargli del visionario, ma chiedervi perchè la pensa così, e porvi il problema sia concreto sia comunicativo. Lasciare l’offensiva mediatica alla destra di naomo su questo tema è stato un errore molto grave.

In tutto questo le responsabilità del Sindaco Tagliani sono, sembra un paradosso, più oggettive che soggettive. Intanto sul caso Carife è stato il solo a criticare con durezza l’inanità del suo partito (dal quale in più di un’occasione credo si sia sentito fregato), e a convocare spesso adunanze di tutta la cittadinanza e associazioni, comprese quelle più incazzate con lui. Sul vento sovranista poteva poco: gli ha scompigliato i capelli come a tutti coloro che ancora ne hanno. Peraltro bene ha fatto a ricordare le cose buone della sua amministrazione, che ci sono state, una fra tante la riqualificazione delle Corti di Medoro (ex Palaspecchi). E ha fatto bene anche a togliersi qualche sassolino a proposito del candidato “indipendente” e fuori dalle vecchie logiche di partito. Sono persuaso che la “colpa” non sia solo sua, e che certo settarismo abbia contribuito a non trovare una soluzione alternativa, anche se la scelta di candidare sindaco proprio l’assessore alla Sicurezza della giunta uscente non è stata la più felice se si voleva comunicare una “discontinuità”. E parlo con il massimo rispetto della persona, la cui attività non può certo essere ridotta ad un luogo comune da chiacchiera al bar.

Ferrara in questi ultimi anni è stata sbeffeggiata, descritta come una nuova Scampia, ridicolizzata, esemplificata come anomalia intollerante, una sorta di enclave nerastra. Non riconosco in queste ricostruzioni la mia città, che è anche molto altro. Prendere sul serio non tanto i propri avversari, quanto le emergenze che hanno peggiorato la vita dei propri concittadini ricoprendo di una patina grigia anche il buono fatto, è il solo modo per diventare a propria volta un’alternativa alla destra.

CONTRO VERSO
Filastrocca della coscienza sporca

Sì questa volta ero proprio arrabbiata. Una bimba prostituita riempe di sdegno e di pena, e se il datore di lavoro, diciamo così, sono papà e mamma viene spontaneo scoccare maledizioni.

Filastrocca della coscienza sporca

Immersa nel Dixan
la mamma maman
e il marito pappone
dentro al Last al limone.
Il cliente porcino
in un litro di Coccolino.
Sua moglie, senza sospetto,
nella bottiglia di Svelto.

Adulti indecenti?
Tonnellate di ammorbidenti!
Adulti trafficanti?
Quintali di sbiancanti!

Per chi vende ragazzine
in strada o in appartamento
proprio non abbia fine
l’orrore e il tormento
d’usar olio di gomito e
vedere quanto è dura
ripulirsi la coscienza
dalla propria lordura.

Vorremmo tutti credere il contrario ma i perversi esistono. Questa filastrocca nasce dall’incontro con una ragazzina che era stata costretta alla prostituzione dai propri genitori, prevalentemente dalla madre, abile a formare la propria bambina, a metterla sul mercato e a riscuotere i compensi. La signora è stata poi condannata a parecchi anni di carcere. La ragazzina si è ricostruita poco a poco. 

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia tutti i venerdì.

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Test volontario gratuito Covid personale scolastico
aumenta la disponibilità

Da: USL Ferrara

L’Azienda USL di Ferrara ha reso disponibili nuovi posti per i test sierologici all’Ambulatorio 1 del Punto Prelievi-Settore 3 Cittadella S. Rocco Ferrara dalle 14 alle 18  di Lunedì 7, Martedì 8 e Mercoledì 9 Settembre, prorogabili in caso di ulteriori necessità, per meglio rispondere alle necessità di tutto il personale delle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche, private, paritarie e degli istituti di formazione professionale caratterizzato da un contatto diretto con giovani e minori: docenti, dirigenti, educatori, ausiliari, collaboratori operanti nei servizi educativi per l’infanzia pubblici e privati; educatori di sostegno, tutor, conduttori di esperienze laboratoriali operanti nei servizi educativi per l’infanzia, insegnanti, ausiliari, collaboratori, personale operante nei servizi di “pre” e “post” nido/scuola, trasporto scolastico e refezio
La Prenotazione è possibile dalle ore 12 di Giovedì 3 Settembre  al link
https://www.ausl.fe.it/gli-ambulatori-riservati-al-personale-scolastico-per-il-test-sierologico-rapido-covid-19
L’esecuzione del test sierologico rapido per la ricerca di anticorpi del virus SARS-CoV-2 per il personale di tutte le scuole pubbliche, statali e non statali, paritarie e private è gratuito e su base volontaria.
Il Numero  Verde 800 277 433 è attivo dalle 11 alle 13 dal Lunedì al Venerdì per ulteriori informazioni.
L’accesso al test è effettuato negli ambulatori contattando direttamente i medici di medicina generale oppure  con la prenotazione on line al link https://www.ausl.fe.it/gli-ambulatori-riservati-al-personale-scolastico-per-il-test-sierologico-rapido-covid-19  nelle strutture aziendali indicate.
In caso di positività al test, entro 24/48 ore, il Dipartimento di Sanità Pubblica provvede ad effettuare il test molecolare (tampone) e attiva le procedure conseguenti sulla base dell’esito.
Il personale scolastico, docente e non docente, assente dal lavoro nel periodo di tempo intercorrente tra l’esito positivo al test sierologico e l’esito del tampone è formalmente assente per quarantena.
I test sono effettuati sino alla settimana prima dell’inizio delle attività didattiche, comunque prima dell’effettiva entrata in servizio nel caso in cui la persona prenda servizio successivamente all’avvio delle attività didattiche.  L’iniziativa -di cui è evidente la rilevante complessità delle procedure- ha la finalità di tutelare la salute dell’intera popolazione scolastica e di sviluppare un importante screening di salute pubblica.

Tiziano Tagliani: una idea di città

di Tiziano Tagliani
(Sindaco di Ferrara 2009-2019)

Mi sono volontariamente sottratto fino ad ora al dibattito sulla ”crisi della sinistra” ferrarese sia perché la difesa d’ufficio non mi appassiona, sia perché essendo divenuta giorno dopo giorno una sequela di rilievi al PD talvolta utile, talaltra meno, penso che esponenti del partito più qualificati di me, alcuni con ruoli di rilievo, altri, assenti anche nella fase delle elezioni, avrebbero dovuto e potuto dire la loro. Io ho detto la mia per diversi anni.

Mi scuote oggi l’intervento di Federico Varese che stimo molto. I suoi rilievi sono due: il mancato coraggio nella scelta di un candidato civico e la assenza di una idea di città. Non sono d’accordo.

Il PD dopo la batosta alle politiche ha verificato se vi fosse un candidato di partito con chance di vittoria, e non lo ha trovato, qualche rifiuto e tanta paura. Pertanto dall’autunno 2018 a gennaio 2019 il PD aveva individuato e lavorato con il candidato Fulvio Bernabei, una scelta coraggiosa in linea con la necessità palese di “allargare” la platea del consenso.

Una scelta all’ultimo tramontata ma non per volontà del PD, o per lo meno non solo del PD, appare quanto meno originale che proprio dalla sinistra, la meno convinta di quella candidatura, venga oggi il richiamo alla mancanza di coraggio. Poi ci furono i “civici”, ma questa è già un ‘altra storia: quella della generosa disponibilità a mettersi in gioco degli esponenti della giunta uscente Aldo e Roberta, per i quali era difficile interpretare il “nuovo”.

Per dire che è mancata una idea di città bisogna scendere dal platonico mondo delle idee e confrontarsi con le “cose”.

Le cause della sconfitta sarebbero da ricondursi al nuovo ospedale o al Palaspecchi ? strano a dirsi, di fronte ad una idea di città che quei problemi ha obiettivamente risolto e non senza fatica spesso nel silenzio di tanti nostri commentatori.

Le cause sarebbero da ricondurre al fallimento di CARIFE ?

Assai probabile, ma avventuroso ricondurne le responsabilità politiche a chi in città, per mesi isolato, si è preso la “ briga e di certo non il gusto” di dire al Governo che fu un errore fare di 4 banche un male comune, certo non un mezzo gaudio.

E’ certo invece che, per chi come il sottoscritto, non ha mai smesso di incontrare i cittadini (non ci sono solo i bar, ci sono anche tribunali, negozi di alimentari, palestre, cinema, librerie…) risultava palese che l’immigrazione massiccia e priva di politiche di integrazione stava creando, anche dentro la sinistra, l’associazionismo ed il sindacato stesso un disagio forte, esteso.

Questo problema reale, magistralmente amplificato dalla stampa locale e dalla comunicazione professionale messa in campo per tempo dalla Lega ne ha fatto “il tema”. Chi oggi lamenta l’assenza di una politica coerente e decisa del PD, i cui sindaci avevano opinioni a volte opposte, dimentica che questo partito è l’unico con un base popolare e che, proprio perché si “percepiva” l’ampiezza di quel problema fra la gente , è risultato complesso allineare le posizioni.

Non è bastata né l’animazione culturale in Gad, voluta a sinistra, né l’esercito osteggiato a sinistra.

Sarebbe il caso, in un dibattito sulla sinistra, dirci chiaramente se chi scrive ha perso o guadagnato voti andando a recuperare 6 donne col pulmino dell’ASP, abbandonate sulla Romea dai Carabinieri, dal Prefetto e da Naomo. Anche questa è idea di città si può certo obiettare in merito , ma non dire che non c’era.

Così come la riqualificazione delle piazze periferiche (Ponte, Revedin) , la realizzazione, dopo anni, dei parcheggi in centro, 140 alloggi di Edilizia residenziale pubblica senza consumo di suolo, la nuova missione affidata a tutti i contenitori culturali cittadini con investimenti per centinaia di milioni sono una idea di città, spesso una parte della sinistra l’ha legittimamente osteggiata, ma questa è cosa diversa dal dire che non c’era.

In passato si è esternalizzato e non poco dopo innumerevoli infuocati incontri con il personale, i genitori, le rappresentanze sindacali, si sono spiegate le ragioni e raccolti i suggerimenti a difesa del sistema pubblico; oggi si esternalizza “a freddo” il lunedì e poi si fa dietro front il martedì. E dite che ha vinto chi ha una idea di città?

Si può sostenere poi che il “porta a porta” fosse meglio della “calotta” o che una società in house fosse meglio di Hera, come anche qui una parte della sinistra ha sostenuto pervicacemente, io non lo penso e nessuno mi ha mai convinto sul punto ( Forlì per prima), ma portare i ferraresi alle vette della raccolta differenziata riducendo le tariffe per l’85% dei cittadini è una idea di città.

Chi ha vinto comunque non ha cambiato neanche una virgola dopo aver suonato la tromba del “paciugo” per anni.

Con Merola e Muzzarelli la città ha proposto alle categorie economiche una forte alleanza territoriale, il Ministro ci ha messo 80 milioni per un progetto “Ducato Estense”, ognuno invece è andato per suo conto ed oggi Ferrara non conta nulla: né a Ravenna, né a Bologna. Ci fu in proposito una idea di città differente ? me la sono persa, non so se ci fosse a sinistra, certamente oggi non la vedo ed il momento tragico che ci aspetta presupporrebbe invece idee ben chiare.

Non siamo stati capaci di valorizzare abbastanza il nostro lavoro?

Il Meis, le tangenziali, i progetti del bando periferie e la riqualificazione del MOF, le politiche trasporto pubblico con l’abbonamento gratis ai ragazzi e l’estensione della tariffa urbana, gli interventi per la sostenibilità e l’accessibilità della città (prima in Italia), gli studentati al palaspecchi:

è certamente vero.

Avevamo strumenti inadeguati e nessun sostegno esterno da un PD che ha scoperto la comunicazione con Bonaccini, ma non direi che non ci fosse un’ idea di città.

PAROLE A CAPO
Cleopatra Scoglio: “In una gabbia” e altre poesie

“Sdegno il verso che suona e che non crea.”
(Ugo Foscolo)

 

In una gabbia

Dentro una gabbia toracica,
non si custodisce un cuore.
Pensieri soavi, come voli di gabbiani,
rasserenano l’animo.
Accendono barlumi di speranza,
acquistano motivi per vivere.
Vivono i più grandi sogni,
chiusi dentro quella stessa gabbia.
Fai volare quel cuore,
utilizzando le chiavi
delle tue capacità.

 

Sana caparbietà

Aspetto un “Sì” da una ridicola vita,
che ignara e sorda,
non guarda in faccia nulla.
Lei, forse non capisce,
non distingue il bianco dal nero,
non nasconde la crudeltà.
Non si ferma di fronte a niente,
la vita mente.
Lei schiaccia i sentimenti,
percuote il cuore,
morde le caviglie,
stringe il collo.
Non perdona,
non demorde, anzi,ossessiona e calibra il colpo
(ma solo quello che si può sopportare).
Se la vita “dura”sembra il peggior male,
allora, ecco che interviene la forza
che credevi di non avere.
Si ribella e cerca coraggio per combattere.
Diventa una battaglia estenuante,
in cui la miglior arma è
questa sana caparbietà insita in noi.


Linfa vitale

Scrivi quando il viso è bagnato,
quando le lacrime partono dallo stomaco.
Dopo aver scritto,
tutto diventa leggero.
Solca il foglio d’inchiostro, ogni volta che,
non senti nessuna musica arrivare all’orecchio del cuore.
Non gettare la penna,
quando l’inchiostro sembra finito.
Continua a cercare parole nuove.
che ti fanno star bene,
nuova linfa vitale dentro te.

 

Cleopatra Scoglio (Reggio Calabria, 1976). Ha conseguito la Laurea in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali, presso la Facoltà di Architettura della propria città. Ha scritto on-line, sul sito ilmiolibro.it, una raccolta di poesie dal titolo: Come fil di ferro e un romanzo di narrativa  Inseguendo una premonizione.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia.
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Salvare Roma ricominciando dall’acqua?

 

Ferraraitalia è un giornale glocal, quindi: Ferrara ma non solo Ferrara. Molti lettori e collaboratori ci leggono e ci scrivono da tutta la Penisola. Da Roma ad esempio.

‘Ricominciamo dall’acqua!’ è lo slogan con cui  Vinicio Capossela presenta l’ottava edizione del suo Sponz Fest che si svolge in Irpinia alla foce del Sele, tra I fiumi Sele e Ofanto. L’evento viene presentato con una fila di piccole barche che scorrono tra quelle acque fluviali, celebrate da una mitologia secolare ma anche bisognose di essere purificate. Tra musica, letteratura e cinema vengono tenuti una serie di eventi decentrati, al massimo 200 spettatori ben distanziati. Ma Capossela non è il solo ad affidarsi in questo periodo tormentato al potere magico-salvifico dell’acqua.

Anche quest’anno si è svolto il Trasimeno blues, una serie di concerti  in cui vengono utilizzate come palcoscenico le barche dei pescatori del lago Trasimeno. Galleggiando e muovendosi lentamente lungo le coste di Castiglione del lago i  musicisti suonano musica blues, tradizionale o sperimentale, dalla mattina fino al tramonto, ognuno dalla sua barchetta. Il pubblico assiste in ordine sparso e a piccoli gruppi seguendoli lungo la riva.

Oliver Stone ha presentato il suo progetto ‘Floatingtheatre dopo aver collocato un grande schermo su una zattera galleggiante tra le dolci onde del laghetto dell’EUR per proiettare ogni sera film da lui accuratamente scelti. Dal 24 agosto al 24 settembre. Capienza massima 150 spettatori all’aperto, ben distanziati e ascolto con cuffie. 30 serate, 2 film a serata e perfino il dibattito con il pubblico.  Quest’ultima iniziativa ha come location un quartiere periferico di Roma che gode di ampi spazi, dotato anche del più grande laghetto artificiale di tutta la città. Ma Roma è una città circondata da acqua, seconda forse solo a Venezia.

Passeggiando per le strade di Roma, alcune deserte, altre affollate di un’umanità variegata come non mai, psicologicamente provata, lacerata tra paure e rimozioni, in preda a una vitalità accaldata e irrazionale, dove l’imprudenza e l’incoscienza si mescolano con una rabbia sorda pronta a scaricarsi sul primo presunto colpevole, con i cervelli intasati da informazioni contraddittorie e propagande politiche avvelenate, alla fine di una lunga estate torrida non può non venire alla mente la meraviglia concreta e simbolica dell’acqua. Assetati come siamo tutti di normalità perduta e di acqua fresca, simbolo di vita e di rinascita, di limpidezza e trasparenza, di mutamento continuo che rinnova e purifica i residui stagnanti. Dopo la tremenda esperienza del lockdown e di un’epidemia che sembra non volerci abbandonare, tutti, ognuno a modo suo, cercano di recuperare una parvenza di una normalità che non esiste più, se mai è esistita, con comportamenti confusi, a volte disperati, sognando di tornare a una libertà perduta. Ma in fondo, anche i più sprovveduti, sanno che tutto è definitivamente cambiato rispetto a un prima che, a ben vedere, era carico di problemi irrisolti e disastri sociali e economici che incombevano sottotraccia. E si è capito che questa volta l’elemento catalizzatore ha preso la forma di un virus particolarmente subdolo.

La vita culturale della città della grande bellezza, della grande storia, della grande architettura da molti anni, anzi decenni, era in costante declino. Al di là dei soliti grandi eventi presieduti da grandi nomi (in questa città l’aggettivo grande viene usato e abusato fino alla nausea) il sostrato sociale che vedeva la partecipazione di migliaia di persone, giovani in particolare, alla vita culturale e artistica della città è andata sempre più scemando. Ed è progressivamente svanita quella tensione utopistica che, al netto di risultati politici non sempre felici, ha comunque in passato favorito  la partecipazione e la condivisione dell’esperienza collettiva della  musica, delle arti visive, della letteratura, la creatività collettiva di masse di persone fino a quel momento escluse dalla vita culturale e artistica. Troppa di quella tensione giovanile si riversa oggi nell’esperienza estetico-estatica del ballo di massa nelle discoteche, storditi e inebriati da droghe varie, o in raduni più o meno clandestini. Momenti di partecipazione collettiva che sotto il nome seducente di ‘movida’ si consumano nell’arco della serata/nottata senza lasciare nulla, se non aumento di malessere sociale e dipendenze varie.

Tolti il Parco della musica e Santa Cecilia, il Teatro dell’Opera, le Scuderie del Quirinale, la Festa del Cinema, le serate letterario-filosofiche alla basilica di Massenzio, le mostre al Campidoglio e a palazzo Venezia, la Fiera autunnale della piccola e media editoria, è rimasto davvero ben poco. La solita alta cultura per grandi nomi applauditi da un pubblico sempre più anziano, sempre più di élite, sempre più chiuso in se stesso e malato di uno snobismo vagamente provinciale. Consorterie, narcisismi estenuanti, radical/chic di destra e di sinistra. E dopo il lockdown e le misure di distanziamento sociale anche quel poco di tensione residua si è drammaticamente ridotto. Mentre la iperattiva instancabile frenetica vita culturale ridotta a frasi a effetto, insulti e polemiche che domina il web, tranne poche, troppo poche eccezioni, non può sostituire la voglia di partecipare, approfondire e trasformare che caratterizza una vita culturale degna di questo nome. Ecco perché  l’ultima grandezza di Roma che ancora non è stata elencata è la grandezza dello spreco. 

E se fosse allora proprio l’acqua l’elemento fisico e simbolico di una possibile rinascita? Roma è una città dove scorrono il Tevere e l’Aniene, un crocevia di acquedotti dove scorre l’acqua dalle tante sorgenti che sgorgano dai monti intorno. Nella mitologia la stessa fondazione di Roma nasce dalle peregrinazioni di Enea per il Mediterraneo e ancora dalla leggenda di Romolo e Remo abbandonati dentro una cesta sulle acque dell’Aniene e poi miracolosamente salvati dal fiume e ritrovati ai piedi del colle Palatino. E’ una città circondata da laghi, a nord come a sud. Si trova in prossimità del mare. Noi inquiniamo, sprechiamo l’acqua in grandi quantità, ma non sfruttiamo quella che abbiamo. E i buchi negli acquedotti sembrano  la rappresentazione simbolica delle tante risorse culturali e artistiche, soprattutto giovanili, che non trovano ascolto nè spazio e che non vengono valorizzate. Giovani che arrancano e sgomitano tentando di emanciparsi dalla tutela finanziaria dei genitori – almeno quando questa tutela esiste – fino a dover rinunciare.

Roma è anche una città in cui abbondano parchi delle più svariate dimensioni, e spesso, da Villa Borghese fino a Villa Pamphili o Villa Savoia, questi parchi ospitano laghetti o altri piccoli corsi d’acqua. Se davvero l’acqua è un simbolo di purificazione e rinascita, questi luoghi, dai più grandi fino ai più modesti giardini di periferia, si potrebbero utilizzare per organizzare eventi decentrati in cui musica, letteratura, mostre di pittura, proiezioni di corti, si alternano dando spazio non tanto ai soliti grandi nomi ma ad alcuni artisti, poeti, pittori, musicisti che conoscono e possibilmente fanno parte del territorio in cui l’evento si svolge. Possibilmente giovani. E  un ruolo centrale nell’organizzare questa rinascita della vita culturale dal basso potrebbe essere affidato al circuito delle biblioteche comunali, fino a questo momento sempre più sacrificate dal punto di vista finanziario e occupazionale. Con l’aiuto delle scuole di zona in grado di partecipare, una volta capito e deciso se, come e quando potranno rientrare veramente in funzione. Ma anche dando vita a eventi pensati più in grande, come il mese di proiezioni sull’acqua organizzato all’EUR da Oliver Stone, o altri eventi che si potrebbero svolgere per esempio alla confluenza del Tevere con l’Aniene a Ponte Salario, o ancora una versione itinerante del Tevere Expo solo per fare alcuni dei tanti possibili esempi. Senza contare i concerti e le letture di poesie e racconti che si possono organizzare sul lago di Bracciano, di Vico, di Nemi, di Martignano sull’esempio del Trasimeno blues. E infine anche molti luoghi di mare, verso nord come verso sud, possono rappresentare splendidi scenari per iniziative simili.

Per concludere con un salto nella musica classica, non potrebbe una nuova politica culturale come questa essere annunciata dalla splendida Water Music di G. F. Handel? Con un grande concerto tenuto sulle rive del Tevere, magari ai piedi di Castel Sant’Angelo?
Ma, come dice il poeta J. Keats alla fine di Ode a un usignolo : “Fu una visione o un sogno ad occhi aperti? Terminata è quella musica: son desto o sono nel sonno?”

Nel frattempo cerchiamo di mantenerci vivi e di poter continuare a sognare.

Comacchio: manufactory – spinafestival – dal 4 al 6 settembre

Da: Ufficio Stampa Comune di Comacchio

E’ ai nastri di partenza la kermesse fra arte e linguaggi musicali, performance, street art: Forza d’attrazione che si svolgerà a Comacchio da venerdì 4 a domenica 6 settembre. Si tratta del connubio di due realtà ormai consolidate sostenute nel corso degli anni dal Comune d Comacchio.

Manutactory e SpinaFestival  in un abbraccio creativo presenteranno le loro creazioni in divenire.

Manufactory sarà attiva nell’area dello stadio comunale (Cittadella dello sport, Raibosola, da venerdì 4 settembre) per dare colore all’ultimo tratto di muro che circonda la struttura. Già dal 2018 Riccardo Buonafede, insieme ad un manipolo di artisti, ha dato vita ad un’esposizione permanente intorno allo stadio. Un’esposizione a cielo aperto fra paesaggio e strutture urbane che accompagna lo sguardo e presenta opere di grande suggestione: 50 importanti firme internazionali per un progetto creativo dedicato all’Urban Art (inaugurazione domenica 6 settembre, ore17).

Anche quest’anno, Manufactory si riserva la presenza di ospiti speciali: Ericailcane, Bastardilla, Luogo Comune e Dissenso Cognitivo dipingeranno i lati delle gradinate all’interno dello stadio. Con la direzione artistica di Pierluigi Mangherini, writer con esperienza ventennale che dirigerà una graffiti jam sul perimetro esterno dello stadio, vedremo all’opera artisti come OrionBlatta, Moe, Pupo Bibbito, Tomoz, Mask, Cause, s404y, Inch, Don Bro, Zest, Tail, Beis, Capo, Enko04, H3mO, Rusty, Stc Crew, Sharko

Videoinsallazioni, arte e contaminazioni per Spinafestival 2020 che ha trovato casa presso il Museo Remo Brindisi (Via Nicolò Pisano 51, Lido di Spina), con la direzione artistica affidata a Silvano Voltolina.

Spinafestival presenterà spettacoli, installazioni, proiezioni di film, concerti e performance: un programma di 3 giorni che permetterà d’incontrare il lavoro di Yuri Ancarani, Francesco Bocchini, Riccardo Buonafede, Romeo Castellucci, CineVillon, DEM, Materia Films, NicoNote, Teatro Medico Ipnotico e ancora Greg Gilg, Frida Split e Peppe Leone (Spina Resident Orchestra).

I visitatori potranno cimentarsi anche in forme d’arte: sabato 5, nel giardino della Casa Museo, anche ISTINTO SCREENPRINTING, che terrà un laboratorio di serigrafia.

Forza d’attrazione si concluderà sempre alla Casa Museo Remo Brindisi, domenica 6 settembre (dalle ore 20) con la proiezione del film di Romeo Castellucci ORPHÉE ET EURYDICE e la musica per piano di Frida Split e per concludere, i Suoni finali della Spina Resident Orchestra.

Forza d’Attrazione 2020 è stata realizzata in collaborazione con l’Associazione di Promozione sociale Spazio Marconi

Partner: Vol. FA, Civica Scuola di Musica, Bh Audio, Belli coffee and drink, Giovani Musicisti Comacchiesi, Holiday Camping Florenz, Istinto Screenprinting, Work & Service, Po Delta Tourism.

PROGRAMMA: FORZA D’ATTRAZIONE

VENERDÌ 04 SETTEMBRE

Lido di Spina / Casa Museo Remo Brindisi

ore 15:00 APERTURA MOSTRA

Yuri Ancarani “Ricordi per moderni” (video, 60’).

Francesco Bocchini “Agave Meconia” (2017, scultura in lamiera di ferro)

Riccardo Buonafede “Come gli Alberi” (2020, scultura in ferrocemento)

CineVillon “Santa Cecilia Pagana“ (video, 20′)

DEM “Creature” (installazione)

MateriaFilms “Automata” (video, 15′)

Giardino di Casa Brindisi

ore 19:30 – LIVE ON AIR (NicoNote / live-set per voce, laptop, dischi, 50′)

ore 20:30 – MOMO, il dio della burla (Teatro Medico Ipnotico / Teatro di Burattini e Visioni, 45’)

ore 21:20 – (Greg Gilg / esperimento di musica e poesia radicalmente romantica, 30’)

ore 22:00 – RICORDI PER MODERNI (Yuri Ancarani, film 60’)

a seguire – SUONI FINALI (Spina Resident Orchestra)

SABATO 05 SETTEMBRE

Prosegue la programmazione delle installazioni e delle videoproiezioni per l’intera durata del Festival.

All’interno del Giardino di Casa Brindisi troverete anche ISTINTO SCREENPRINTING, che terrà un laboratorio di serigrafia.

Avrete l’opportunità di scoprire la tecnica di stampa serigrafica e produrre il vostro stesso gadget.

Oltre ai gadget e al merchandising del Festival saranno disponibili le stampe edizione limitata e numerata degli artisti: ERICAILCANE, LUOGO COMUNE, RICCARDO BUONAFEDE e DISSENSO COGNITIVO.

Giardino di Casa Brindisi

ore 20:00 – IL MESTIERE DEL BURATTINAIO (incontro con Patrizio Dall’Argine e presentazione del suo libro, 30’)

ore 20:45 – OUTSIDERS – A(T)TRATTI GRAVITAZIONALI (una passeggiata nello spazio, 45’)

ore 21:30 – MAGIC TAMBOURINE (Peppe Leone / concerto per voce e tamburi magici, 50′)

ore 22:30 – SUPRA NATURA (DEM+Seth Morley / film 70’)

a seguire – SUONI FINALI (Spina Resident Orchestra)

DOMENICA 06 SETTEMBRE

Lido di Spina / Casa Museo Remo Brindisi

ore 15:00 APERTURA MOSTRA

Prosegue la programmazione delle installazioni e delle videoproiezioni per l’intera durata del Festival.

Ore 17:00 Stadio Comunale

50 importanti firme internazionali per un progetto creativo dedicato alla street art

Vite di carta /
Senza mai arrivare in cima

Vite di carta. Senza mai arrivare in cima

Eccolo un altro scrittore di qualità, anche lui come Marco Balzano nato a Milano nel 1978. Si tratta di Paolo Cognetti, giovane e dalla scrittura intensa, che ora vive per lo più in montagna in una baita a 2000 metri di quota.

L’amore per la montagna lo ha portato a compiere una scelta di vita; lo ha portato a vincere il premio Strega nel 2017 con il romanzo Le otto montagne e poco dopo lo ha spinto ad andare in Himalaya, in un lungo e faticoso viaggio di 300 chilometri nel Dolpo, un distretto del Nepal al confine con il Tibet. Il reportage di quest’ultima impresa ha dato origine a un bel libro uscito nel 2018, dal titolo Senza mai arrivare in cima.

L’ho scelto tra le novità esposte nella biblioteca comunale di Poggio Renatico, quando sono andata su appuntamento lo scorso mercoledì. E l’ho già letto. Perché è un libro piccolo di appena 100 pagine, ma soprattutto perché mi ha appassionata e condotta nelle atmosfere della montagna. Quest’anno non vado come al mio solito in Alta Badia e allora ci pensano le parole di Cognetti a portarmici.

Precisiamo, io sono un’escursionista come tanti, che amano i sentieri tra i boschi e si arrampicano raramente tra le rocce oltre i duemila. Tuttavia certe solitudini in mezzo alla natura le cerco da almeno trent’anni, ogni anno riducendo i percorsi, ma volendo mantenere la fatica delle salite e col senso di rigenerarmi, avendo negli occhi le cime e le valli delle Dolomiti.

Il punto di vista di Cognetti mi offre uno sguardo inusitato sulle mie montagne: Senza mai arrivare in cima è stato scritto da chi conosce meglio di me le Alpi e ormai le considera “abbandonate e urbanizzate”. Per questo è andato alla ricerca di un ambiente incontaminato: “Volevo vedere se da qualche parte nel mondo esiste ancora una montagna integra, vederla coi miei occhi, prima che scompaia”. L’antica cultura tibetana sopravvive solo in una piccola area del Nepal; il viaggio per raggiungerla è arduo, ma il premio che si consegue è straordinario ed è la purezza di pensiero.

Sui sentieri senza fine, che si abbassano dentro le vallate e poi risalgono su altopiani deserti e privi di nuvole, il pensiero si fa essenziale, si nutre dei ritmi della natura e della loro circolarità atavica, si libera del peso della cultura occidentale, incontrando la preghiera e la spiritualità semplice di monaci, uomini e donne e bambini del luogo.

Credo di poter dire che per Cognetti essa costituisca uno stato di grazia, incontaminato ma fragile. Basta poco per smarrirlo, basta avvicinarsi ai confini con la Cina scendendo a 3.900 metri per trovare Saldang, una cittadina adagiata nel fondovalle tra campi coltivati e pascoli, dove già si riconoscono i segni della aggressione del progresso: “le parabole e i pannelli solari, i rifiuti di plastica gettati ovunque, la bandiera nazionale su un tetto”.

La purezza è perduta, quella adesione totale agli elementi che il viaggiatore ha provato lassù, oltre i 5.000 metri.
Se questo è il tenore delle riflessioni del nostro viaggiatore-scrittore, risulta chiaro come il lettore possa esserne affascinato. In certe pagine ho potuto quasi sentire la forza del vento e il rumore che fa il ghiaccio nello screpolarsi all’arrivo del sole.

Ma non è solo questo ad avermi trascinato mentre procedevo nella lettura. È stato il rapporto tra il viaggiatore e il suo libro-guida, il doppio binario su cui è dipanato il suo viaggio, tra cammino e rilettura di un testo magnetico di Peter Matthiessen, Il leopardo delle nevi, uscito nel 1978 che è anche l’anno di nascita di Cognetti. Da questa rilettura dei pensieri di Peter, dall’incanto delle sue pagine il nuovo viaggiatore riceve conferme e suggestioni che danno spessore alle sue faticose giornate sui sentieri del Dolpo.

Egli vede per la prima volta gli scenari delle montagne che si aprono davanti a lui, in realtà ri-vede gli spazi dove Peter è passato quarant’anni prima e non può fare a meno di consultare le pagine del suo libro, di sentire la sintonia profonda con l’ansia di autenticità che si sprigiona da frasi come: “Il segreto delle montagne è che esistono, semplicemente, ed esistono con semplicità, non come me. Le montagne non hanno significato, esse sono significato; le montagne sono. Io risuono di vita e così le montagne e quando riesco a sentirlo c’è un suono che condividiamo”.

A Peter non è toccato in sorte di incontrare il leopardo delle nevi, “senza dubbio il più misterioso delle grandi fiere”, che pochi hanno avvistato sui versanti di queste valli. Ma poco importa. Alcune orme, che potrebbero essere le sue, vengono avvistate dalle guide che accompagnano Cognetti, ma niente di più. Questo viaggio continua a insegnare quanto sia più importante il cammino che si fa, passo dopo passo, rispetto alla conquista del traguardo. La visione del Dhaulagiri con i suoi ghiacciai e le sue creste, il calore del fuoco e i compagni di viaggio con le loro voci e la loro tenacia, i saluti a impresa finita sono il valore che appaga. Insieme al fumo odoroso del ginepro del Dolpo.

Della lettura come viatico, dei pensieri di Remigio che è l’amico di Cognetti venuto con lui dalle Alpi a conoscere queste montagne. Della polifonia delle voci di chi è vivo e condivide lo stesso tempo e di quella di Peter che non c’è più, ma vive nelle parole che ha scritto. Della forza della letteratura, che scavalca il tempo e il significato biologico della morte per riunire tutti intorno allo stesso fuoco. Di tutto questo può nutrirsi il lettore, se il libro è di questo tenore.

Nella lettera scritta all’amico Francesco Vettori* per descrivergli le giornate dell’esilio da Firenze nel suo poderetto di campagna, Niccolò Machiavelli dice che il momento più bello è indubbiamente la sera, quando può lasciare le incombenze pratiche della giornata.

Dopo che ha cenato ed è tornato  all’osteria per giocare “a triche-tach” con l’oste, il macellaio, il mugnaio e due fornai, finalmente si rifugia nel suo “scrittoio”. Stavolta da solo? Nient’affatto, la compagnia è delle migliori. Sono i libri “degli antiqui uomini” per i quali si è spogliato della “veste cotidiana, piena di fango et di loto” e dai quali riceve il cibo della lettura “che solum è mio, et che io nacqui per lui”: poco prima nella lettera ha nominato Dante e Petrarca, Tibullo e Ovidio come se fossero vivi.

Nella tenda di Cognetti, cinquecento anni dopo, quando il sonno tarda a venire il libro di Peter è “un vecchio amico” che tiene compagnia, il viatico custodito nel tepore del sacco a pelo, perché le pagine non si sciupino. Così pone fine alla sua giornata il nostro giovane viaggiatore: “Riuscivo a sentire le voci dei portatori nella tenda cucina. Chissà cosa si dicono, pensai… Con queste voci che non capivo, il mio amico a un palmo di distanza, le poche cose a cui tenevo strette a me dentro il sacco a pelo, sapevo già come sarebbe stata la nostalgia del Dolpo. Ultimi cinquemila, pensai. Poi mi dissi di smetterla con tutti quei pensieri, altrimenti non sarei più riuscito a dormire”.

*Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori. Firenze, 10 dicembre 1513

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

BUFALE & BUGIE Fake news di Trump, o fake news su Trump?

Non è mai terminata la campagna denigratoria contro Donald Trump iniziata oramai in vista delle elezioni statunitensi del 2016, è anzi sempre più accesa e mistificatoria in questi ultimi mesi. Per evitare di assistere a una riconferma del presidente concentrato sulla federazione che governa, si arriva spesso a negare la stessa evidenza dei fatti.

Sul carrozzone della disinformazione si vedono salire anche testate pronte a evadere dal proprio campo di attività pur di sposare un ideale più alto. E’ il caso de Il Sole 24 Ore, specializzato in economia, che il 6 agosto scorso si è avventurato in considerazioni scientifiche: “Facebook rimuove e Twitter blocca video di Trump con false informazioni sul virus”. La notizia, in questo caso, è l’azione portata avanti dai due colossi della comunicazione, ma il giornalista Riccardo Barlaam – i cui argomenti di interesse sono l’economia, la finanza e la politica internazionale, e gli Stati Uniti – ha deciso autonomamente che i materiali incriminati contenessero informazioni errate sull’agente microbico. Di più, perché la teoria del corrispondente è illustrata nel sommario, secondo il quale “il fatto che i bambini sarebbero immuni dal coronavirus” è una “tesi senza fondamento scientifico”. Non si sta parlando, tuttavia, né di una tesi personale né di una posizione controversa, ma dei risultati raccolti nei numerosi mesi toccati dalla diffusione del SarsCov-2: secondo la letteratura scientifica attuale [vedi qui], gli individui con età inferiore ai diciotto anni, in condizioni di normalità, sono praticamente incolumi rispetto alla Covid-19, e pertanto non contribuiscono quasi in alcun modo al contagio, non possedendo abbastanza carica virale. La chiusura dell’articolo, inoltre, marca l’accento sui mancati interventi del passato rispetto a due affermazioni false che avrebbero visto il presidente americano come protagonista. Si tira in ballo il presunto suggerimento alla popolazione di ingerire candeggina contro la malattia, ma ciò non è mai avvenuto, nonostante l’avvenimento sia presentato senza alcuna ombra di dubbio. Per di più, si aggiunge la dichiarazione secondo cui l’esposizione alle luci ultraviolette sia in grado di contrastare il virus in questione; ebbene, anche stavolta non si tratta di una strana convinzione appartenente a una minoranza, ma di una scoperta scientifica nota e acclarata da diverso tempo.

Se anche le linee editoriali condotte dalla maggior parte dei media non combaciano esattamente con le politiche di un esponente al governo, l’inganno e la falsificazione dei dati scientifici condivisi a livello internazionale non dovrebbero in alcun caso essere consentite. Donald Trump si appropria di evidenze scientifiche utili alla propria agenda? Libero di farlo, ma questo non comporta la libertà che si arrogano i mezzi di informazione nel confondere le carte in tavola e comunicare visioni prive di fondamenta al pubblico lettore.

BUFALE & BUGIE, la rubrica di controinformazione di Ivan Fiorillo esce ogni mercoledì su Ferraraitalia. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

Albertino Canali e le ortensie di Costanza

Io mi chiamo Albertino Canali, abito in via Santoni Rosa di fronte alla casa dei Del Re.
I Del Re sono molto conosciuti a Pontalba per vari motivi. La signora Anna faceva la maestra e ha avuto a scuola intere generazioni di Pontalbesi che la ricordano con piacere perché era brava e creativa. Inventava per i bambini problemi da risolvere di varia natura e li portava spesso al museo per consultare  documenti e reperti storici. Il professore, suo marito, era un’autorità del paese e le loro tre figlie: Costanza, Rachele e Cecilia sono davvero “in gamba”. E’ l’unica famiglia di Pontalba in cui ci sono tre sorelle  così particolari. Io le conosco da sempre. Rachele se ne è andata da molti anni perché ha trovato lavoro a Torino, ma Costanza e Cecilia vivono ancora nella vecchia casa di via Santoni, dove sono nate, e io le vedo spesso.
Quando erano piccole la loro casa bruciò, i miei genitori che avevano gli estintori perché facevano i trebbiatori, provarono a spegnere l’incendio, ma le fiamme causate dalla nafta in combustione erano così alte che non ci fu nulla da fare. Si dovettero aspettare i pompieri. Le autobotti rosse ci misero molto tempo ad arrivare. Si erano perse tra i campi della pianura Lombarda in una tremenda sera di nebbia. Poi finalmente arrivarono e spensero quel maledetto fuoco.  Fu un grande spavento per tutti coloro che lo videro quella notte e  anche per tutti coloro che sentirono raccontare l’accaduto il giorno dopo. Fa paura ancora adesso, a ripensarci.

Cecilia è la mia sorella Del Re preferita, Costanza è bella e intelligente, ma troppo strana. Ogni tanto tenta di istruirmi e di spiegarmi cose che lei ritiene fondamentali. Il problema è che io non riesco a capire perché lei le ritenga tali. Non avrei mai potuto innamorarmi di lei, nemmeno quando aveva vent’anni e piaceva a tutti. Ad esempio: per quale motivo Costanza dice con molta convinzione che bisogna coltivare i cespugli di ortensie? E’ forse che le ortensie allungano la vita? Producono semi o frutti salutari? Sono commestibili? Sono profumate? Si possono utilizzare per produrre pigmenti, tessuti, legno, materiali decorativi? No, niente di tutto ciò. Costanza dice che bisogna coltivare le ortensie semplicemente perché sono belle. A me però non sembrano belle, mi piacciono molto di più le rose e le margherite.

Una donna testarda la signora Costanza.  Cosa centro io con questa storia delle ortensie? A me non piacciono. Una volta mi sono azzardato a dirglielo e lei mi ha guardato di traverso con gli occhi ridotti a due fessure e ha anche sussurrato qualcosa fra i denti. Secondo me ha detto tra sé e sé “che tristezza” … ma non ne sono sicuro.
A casa mia non ci sono questi fiori, ma nel cortile dei Del Re ce ne sono due grandi cespugli. Uno fa enormi fiori color celeste  e uno li fa rosa. Costanza mi ha detto che le due piante sono distanziate perché altrimenti si ibridano e i colori cambiano.Mi ha anche detto che una delle cose che rovina maggiormente lo scolorimento di una ortensia “macrophilla blu” è il passaggio intermedio al porpora, prima di giungere al lilla/rosa. Secondo lei è una cosa bruttissima e quasi scandalosa.

A me non importa nulla del colore delle ortensie, ma non glielo posso dire.
Una mattina mi ha interrogato: “ Ma perché i petali di un ortensia cambiano colore?”
“E io che ne so” le ho risposto.
“Beh intanto non sono petali! Sono sepali, questi cambiando colore sostituiscono la funzione dei petali!”
“E allora?” dico io “che differenza fa?”
“Spesso le piante che non riescono a produrre petali li sostituiscono con sepali o foglie colorate (bratee), ma il processo di colorazione di queste parti è diverso da quello necessario per i petali, ed ogni specie ne ha sviluppato uno suo.”
“Davvero interessante” dico. Ma in realtà quasi mi vien da piangere. Adesso ci mancavano solo i sepali.
Poi prosegue: “Una delle cause più frequenti di alterazione del ph avviene durante l’irrigazione”.
“Come no” dico (“signore liberami da questa Del Re”, penso)
“Per esempio:  nel nostro cortile se irrighiamo con l’acqua presa dal pozzo, le piante stanno benissimo, se irrighiamo con l’acqua potabile il ph si alza e tende a diventare più neutro. Capito?”
“Che informazione utile”
E lei imperterrita: “Le ortensie piccole, in vasi con poca terra, sentono prima il cambiamento ed ecco che i coloro cambiano.”
“Wow!” dico (“Siamo arrivati alla fine della storia” penso).
Tiro un sospiro di sollievo ma sto attento a non farmi scorgere perché gli occhi di Costanza sono come periscopi che individuano i microbi sui fondali marini. Trova e vede tutto.
Questa storia delle ortensie è un esempio della stranezza di Costanza. Considera importanti cose inutili, che non interessano a nessuno, che non sa nessuno.

In questo nostro modo di discorrere c’è sicuramente qualche problema. E’ come se fossimo in due mondi paralleli. Io sto davanti a lei, seduto sul muretto di casa mia perché mi piace quel posto e l’aria fresca della mattina. Lei sta sulla porta di casa sua e lascia il cancello semiaperto in modo che io veda tutta la bellezza dei suoi cespugli. Non si è mai  rassegnata al fatto che io non colga la poesia delle ortensie.
Regna l’incomunicabilità. Io le voglio bene comunque e penso valga anche viceversa. Ma noi non ci diciamo quasi nulla pur parlando. Parliamo perché siamo vicini di casa. Se mai mi troverò una fidanzata devo stare molto attento a che non assomigli a Costanza Del Re. Sarebbe la mia fine. O meglio, fisicamente può andare, non è affatto brutta, ma non può andare quel che dice. Come potrei mai stare con una donna che parla della bellezza delle ortensie come se fosse un argomento di vitale importanza? Io non trovo nulla di essenziale nel colore dei fiori di ortensia.

E’ forse che le ortensie fanno qualche sport? Si interessano di politica? Sanno quanti soldi ha speso il parroco per restaurare le campane? Ma nemmeno per sogno.  Le ortensie sono ortensie e se vuoi parlare di loro devi parlare delle sfumature di colore, della luce, dell’aria, del vento, dell’ acqua e di questo ph che io non so esattamente cosa sia. Non mi fido a chiederglielo perché lei potrebbe inorridire e decidere seduta stante che mi deve spiegare tutta la storia di questo ph.  Così, oltre alle ortensie,  mi imbatto in un altro argomento di cui non mi interessa nulla. Io una moglie come Costanza non la vorrei.  Non si sa cosa desideri, come veda la vita, cosa pensi della malattia  e della morte, nemmeno esattamente cosa pensi di Dora,  la nostra vicina che è morta di Covid-19 quest’inverno. Dice solo che bisogna portare dei fiori sulla sua tomba. E’ andata al cimitero con sua nipote Rebecca, le ho viste uscire insieme. Non mi sono azzardato a chiedere che fiori bisognerebbe portare sulla tomba di Dora, tanto lo so che mi avrebbe risposto di portare le ortensie (forse blu o forse rosa oppure anche quelle bianche).
E pensare che Costanza scrive, balla, fa pilates, guida come un pilota di Formula Uno. Ma lei non vuole parlare di quello che fa … lei vuole spiegarmi tutto di ‘ste maledette ortensie.
Povero me. Alla fine mi viene sempre da pensare la stessa cosa. Che la signora Anna doveva chiamare Costanza Ortensia. Un nome, una storia, una vita, un destino. Io non so nulla di ortensie, ma ho una certezza: era meglio che Costanza si chiamasse Ortensia.

Io mi chiamo Albertino Canali sono il vicino di casa Di Costanza-Ortensia, le voglio bene ma non la potrei mai sposare e comunque lei non vorrebbe sposare me perché non si può stare insieme senza poter parlare di cose che piacciono a entrambi. E lei vuole parlare di ortensie.

FERRARA. UNA NUOVA IDEA DI CITTA’:
puntare su Cultura e Conoscenza per una Cittadinanza Attiva

Il direttore di ferraraitalia mi chiama in causa per aver fatto da megafono a un’idea tanto elementare quanto difficile da fare intendere. Sulla ‘Città della Conoscenza’ si è accumulata a livello mondiale una vasta letteratura a disposizione di chi, dagli amministratori ai politici, avesse voluto, come è accaduto in tante parti del mondo, affrontare più preparato le conseguenze di una crisi che nel passaggio epocale ha scardinato modelli economici e riferimenti  sociali senza risparmiare nessuno.

Europa 2000: un appuntamento mancato con la storia

Occorreva apprestarsi al cambiamento attrezzati con nuovi strumenti culturali, ma le agenzie a cui abbiamo fatto riferimento per decenni e le prassi  consolidate non hanno retto all’urto con la storia.
Non a caso l’Europa nel 2000 a Lisbona proclama il nuovo millennio come il millennio della Conoscenza. Una conoscenza da ricercare, costruire, valutare e rigenerare in modo diffuso, continuativo e permanente.

Fare della conoscenza e del capitale umano, non un modo per accrescere lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma la risorsa più importante per fornire a ciascuno, nessuno escluso, gli strumenti necessari ad affrontare la complessità, le contraddizioni e i conflitti che ogni turning point della storia comporta. Dall’autonomia personale in una società sempre più prevaricante alla difesa delle conquiste democratiche, dal combattere le crescenti diseguaglianze fino alle ingiustizie sociali e allo stravolgimento ambientale.

Alle forze democratiche e progressiste spettava il compito di mettersi a capo della sfida del nuovo millennio, facendosi portatrici di un nuovo umanesimo che ricollocasse ogni donna e ogni uomo al centro della storia, come risorsa da coltivare e far crescere per il bene comune, per sottrarci alle nuove forme assunte dallo  sfruttamento e dalla manipolazione dei poteri forti, per essere padroni di noi stessi e delle nostre vite.
La conseguenza di questo mancato appuntamento con la storia ha portato all’immiserimento delle democrazie liberali fino alla loro crisi, l’ignorantocrazia, l’incompetenza, il movimentismo e il populismo. Non si è compreso che  la difesa delle conquiste democratiche, la lotta contro le ingiustizie, contro i muri da abbattere non si giocano solo nei parlamenti e nelle cabine elettorali, ma anche nei neuroni e nelle sinapsi del cervello delle persone.
Non c’era più spazio per le identità statiche del passato, ormai era giunto il  tempo delle identità dinamiche. E invece le identità di ieri hanno continuato a resistere come amebe incapaci di afferrare il timone del cambiamento. Per cui non poteva che accadere che mentre a Roma si discuteva prima o poi Sagunto fosse espugnata.

Ferrara: il fallimento della sinistra 

Ferrara non è che una didascalia della storia, come tante altre città, basti pensare a Pisa che dopo anni di una più o meno gloriosa amministrazione ha visto i suoi cittadini voltare le spalle a quella esperienza.
Possiamo esercitarci nelle analisi sociopolitiche sul presente e il passato, fino ai passati più lontani, ma il nodo è uno solo: è mancata una sinistra capace di essere portatrice di una nuova cultura e senza cultura non c’è identità, non ci può essere  riconoscimento e, dunque, non c’è neppure futuro.

Al feuilleton di pancia della Destra e della Lega occorreva contrapporre una narrazione capace di parlare alla testa dei singoli, era necessario ritornare ad essere popolari, proporre soluzioni ai bisogni delle persone, anziché rintanarsi negli angusti confini del proprio cortile, prefigurare un nuovo protagonismo per costruire un progetto di futuro comune.

Ora è indispensabile che Sinistra e forze democratiche della città pongano fine ai loro particolarismi, alla frantumazione dei propri orti, come è accaduto in occasione della tornata elettorale, per prospettare alla città un futuro più forte e convincente del presente. Questa è la carne della politica: la lotta tra culture opposte. La cultura della Destra è fin troppo chiara, perché la destra da sempre ha dalla sua il passato. A non essere altrettanto chiara è quella della Sinistra, attualmente è come la Primula rossa, la cercan qua la cercan là ma dove sia nessun lo sa.

Si mettano a lavorare insieme, da subito, accogliendo la proposta intelligente della Fenice di Mario Zamorani, incominciando col mutare i paradigmi finora usati, facendo della città non una comunità di amministrati, ma una comunità di cittadini.

Con La Città della Conoscenza e il suo manifesto, non pensavamo certo di risolvere i problemi della città, ma abbiamo tentato in questi anni di stimolare una idea nuova di città a partire dalla “conoscenza” come linfa vitale di ogni abitare e senza la quale nessuno può essere autore della propria esistenza. E siccome si è cittadini del mondo a partire dai luoghi che si abitano, sono questi luoghi che devono divenire il cuore pulsante della conoscenza e dell’apprendimento permanente: ‘città che apprendono’ è la rete mondiale che ha costituito l’Unesco.

Il governo della città richiede uno sguardo nuovo. Un occhio che si sforzi di vedere lontano e di proporre ai cittadini un’idea rinnovata di cittadinanza. Una nuova agorà, in cui ciascuno è accolto come attore ricercato per il governo della città, perché la città è dei cittadini e per i cittadini.  Con nuove forme di partecipazione pubblica in grado di andare oltre a quelle fin qui sperimentate, organizzate attraverso il sistema dei partiti.  Dando visibilità e un forte impulso al sistema dei forum, in altre parti del mondo sperimentato con successo, a luoghi in cui i cittadini possano prendere parte “in carne e voce”, come direbbe Bauman, al processo decisionale.

Una città capace di mobilitare creativamente tutte le sue risorse per sviluppare il potenziale umano dei suoi cittadini, una città che riconosce e comprende il ruolo chiave dell’apprendimento e delle conoscenze nell’affrontare le nuove sfide di un mondo che si fa sempre più liquido, nello sviluppo della prosperità, della stabilità e della realizzazione personale.
Un luogo di coinvolgimento e di partecipazione, di risorse da valorizzare a partire dai suoi giovani, dalla loro responsabilizzazione nella gestione della cittadinanza, chiedendo il protagonismo dell’università, delle scuole, delle istituzioni culturali. Occorre che i cittadini anziché essere gli uni contro agli altri, come sta operando questa amministrazione a partire dal suo vicesindaco divisivo, tornino a stare l’uno a fianco dell’altro nei quartieri per  dialogare,  confrontarsi e rispondere ai nuovi bisogni.

C’è una scuola di cittadinanza da aprire, come impegno di tutti, dove apprendere ad esercitare la cittadinanza attiva, per imparare a pensare in termini condivisi la politica della città, la sua abitabilità, l’economia, la demografia, l’ecologia, la salvaguardia dei suoi tesori di natura e di cultura.

La gara elettorale alla poltrona di sindaco da questo punto di vista ha denunciato tutta la sua angustia e afasia, lo sguardo corto e miope di una partita a scacchi per occupare la casella del re.
La città è la nostra comunità di destini, parte di quella più complessa che lega insieme le sorti dell’intera comunità umana del pianeta. Questo è il significato del vivere oggi, quello che dovremmo far apprendere a partire dai nostri giovani, uscendo dagli spazi angusti delle nostre visioni e dei nostri particolarismi.

Ultima fermata: la felicità

Le parole sono solo parole.
Questo  è sicuramente il loro limite ma è anche la loro forza.
Se è vero, secondo il noto proverbio, che terminato il ‘dire’ c’è un ancora mare da attraversare, è ancor più vero che è con le parole che comunichiamo il pensiero, e quindi è sempre attraverso le parole che possiamo modificarlo.

Dice un proverbio indiano: L’uomo si mette in ordine i capelli ogni giorno, perché non lo fa anche con i pensieri?
Questa mattina mi sono già pettinato, adesso tocca ai pensieri.

Uno dei doni dell’età che avanza è l’aumentata possibilità di poter fare attenzione. Ciò è dovuto al fatto che di norma i traguardi consueti della vita ordinaria sono stati raggiunti. Si procede più lentamente anche letteralmente a causa dell’usura fisiologica e quindi si ha la possibilità di osservare il tutto da un punto di vista particolare.
Quello che quindi è possibile osservare come dato comune della nostra condizione attuale è la mancanza nella vita quotidiana della felicità. Questo fatto, se da sempre ha interpellato filosofi, scrittori, poeti e uomini qualunque, oggi acquisisce una valenza particolare in quanto oltre al successo, al danaro e alla fama, l’essere felici è il vero brand della nostra società post moderna.
La Vita che rimane – avendo espulso tutto ciò che richiama sofferenza, dolore e la morte – non può che essere la vita felice, come sembrano mostrare i visi raggianti di uomini e donne della pubblicità alla tv e sui giornali.

La società del consumo compulsivo è una società che  fonda il suo essere su dei paradossi, uno di questi, forse il fondamentale, è “Sii felice!”. La società dell’iperconsumo ha riempito di oggetti la vita dei suoi figli sin dalla più tenera età, trasformando in oggetto anche la vita dei soggetti. Tutto ha un prezzo, come un  novello re Mida il Mercato trasforma in oro tutto ciò che tocca. I consumatori sono soddisfatti in tutti i loro desideri, ma in cambio il consumatore non deve criticare, contestare, deve essere cosciente di vivere nel migliore dei mondi possibile. In poche parole il consumatore DEVE essere felice! Al contrario, invece, il limite che naturalmente caratterizza la natura umana, la sofferenza, malattia, morte, ma anche povertà e diversità, devono avere poca visibilità, meglio se relegate in spazi ben delimitati e circoscritti.

Come nel film di Peter Weir, The Truman Show, la nostra società post capitalistica  non rappresenta la Vita ma l’illusione della vita!

Ed ecco che quel Sii felice da augurio diventa comando imperativo, denunciando così la  sua natura di paradosso: perché essere spontaneamente felici ubbidendo ad un ordine è impossibile. O si agisce spontaneamente, quindi di propria iniziativa, oppure si esegue un ordine, e in questo caso non c’è nessuna spontaneità. Si rivela allora la vera natura di quel comando, cioè quella di  mantenere il soggetto in una situazione di dipendenza, depressiva, caratterizzata dal senso di colpa, insomma in una situazione di eterna mancanza, di sete e fame mai saziabili.

“Ma come? La Società ti offre tutto e tu non sei felice? In altre parti del mondo non hanno la tua stessa fortuna!”.
Così il soggetto si trova costretto a cercare la colpa della propria insoddisfazione in se stesso, attenuandola col consumo ulteriore di altri beni che ovviamente non spengono il desiderio, poiché il desiderio dell’uomo non è desiderio di oggetti ma di relazioni autentiche e nessun oggetto potrà mai sostituire un rapporto.
la Felicità non può essere comprata al mercato, non può essere imposta ai figli, non può essere programmata dal sistema sociale, come aveva ben compreso il movimento studentesco del ’77 nel prendere, tra i suoi slogan anti sistema, i versi della canzone di musica leggera sul gatto Maramao, inspiegabilmente morto, nonostante avesse a disposizione da mangiare, da bere e una casa dove stare.

Bisogna quindi cercare in un’altra direzione.
La direttrice, già tracciata da tempo in verità , è quella del trovare o dare un Senso agli eventi che ci colpiscono. Quello che invece si può oggi sostenere è che anche nell’impossibilità di  sapere se esista o meno un senso per tutti,  quel che conta in chiave esistenziale è giungere ad attribuirne uno che amplifichi la nostra vita.

Il valore della vita dell’uomo, di una vita al cui centro non ci sia solo il bisogno ma anche il desiderio: questo impedisce di diventare burattini manovrati dall’esterno e apre alla ricerca ad una felicità non narcisistica, ma intesa come dare libertà a sé e agli altri.

Non esistono ovviamente manuali di istruzioni in merito, ma è possibile fare alcune considerazioni suggerite dagli studi della pragmatica della comunicazione e dall’esperienza delle buone pratiche della comunicazione non violenta.

Cominciando con un principio il più generale possibile, possiamo delimitare il nostro reale raggio di azione accettando che l’universo con le sue leggi, non si piega ai nostri desideri, ma fa quello che deve.
Quindi quello che riusciamo a compiere è confinato nello spazio concesso da quello che possiamo, e quello che possiamo è condizionato dallo statuto delle conoscenze attualmente riconosciuto.
Il resto lo dobbiamo sopportare!

Da ciò discende che dovremmo distinguere tra ciò che da noi è controllabile, da ciò che invece non lo è. L’impegno  quindi dovrebbe concentrarsi sul primo aspetto, lasciando il secondo alla ricerca di una nostra risposta sul Senso.

Come terzo elemento possiamo verificare poi che nessun fattore esterno in sé è positivo o negativo, ma è interpretabile secondo le nostre convinzioni  e i nostri giudizi in merito.
E su questo terzo elemento la possibilità di azione soggettiva è massima. Ad esempio siamo abituati a leggere le offese che ci vengono portate come elementi oggettivamente negativi, giudicando chi le ha proferite come una persona di nessun valore e a cui dover ribattere per le rime.
E’ possibile invece domandarsi a quale bisogno inespresso risponda, per quella persona, l’avermi apostrofato in quel modo. Pensiamo per esempio ad un figlio molto arrabbiato nei nostri confronti. Solo se ci poniamo nella dimensione dell’ascolto del suo bisogno profondo, mascherato da quelle parole così offensive , riusciremo a comprendere e così organizzare una strategia di risposta che sia in grado di salvare la relazione.

E’ possibile quindi proseguire nel cammino appena sommariamente tracciato, o costruirne altri,comunque cercando di mettere assieme altre tappe di riflessione all’interno di un percorso personale che ci porti a dialogare responsabilmente con quello che chiamiamo la nostra Vita.
In questo cammino non siamo mai soli, siamo accompagnati infatti da tutte le persone che per noi sono o sono state significative e che hanno orientato le nostre scelte in una direzione o in un’altra.
E’ all’interno di queste relazioni  che è possibile arrivare all’ultima fermata, quella in cui potremmo  riconoscere negli affetti lasciate da quelle relazioni il vero volto della Felicità.

DIARIO IN PUBBLICO
Il Lido: terra di polpacci e vecchi stizzosi

Il lento e inesausto raschiare di scope e ramazze preannuncia l’imminente chiusura della stagione estiva ai Lidi ferraresi. Attentamente i diversamente giovani s’applicano alla rimozione degli aghi di pino, che inesorabilmente riempiono ogni luogo, anfratto, via piazza, tende e giardini, fino a spingersi, trascinati dal vento, sulla passerella che porta al mare lontano.

In città, quasi un risveglio da un lungo torpore s’aprono fronti di dissenso coordinati da Mario Zamorani, a cui hanno dato rilievo scritti  di alto valore quali – solo per citarne quelli a me più vicini – quelli di Fiorenzo Baratelli,  di Federico Varese e di Alessandra Chiappini. Un vento nuovo che promette finalmente un serio ripensamento sul perché della sconfitta politica.

Frattanto con mossa astuta il festival del Buskers s’apre con la partecipazione di Gianna Nannini, a sorpresa, che raduna folla compatta senza alcuna protezione e rispetto per la distanza. Ma si sa così accade tra musica live, discoteche, movide, come insegna la vicenda del locale del primo Naomo, che come ora è stato rilevato non è il vicesindaco di Ferrara, bensì Flavio Briatore proprietario del Billionaire e accanito negazionista della pericolosità del coronavirus.

Sulla spiaggia intanto l’affollamento si fa sempre più critico, con un’inesauribile passaggio di bagnanti e racchettanti. Dal mio punto di osservazione noto che dagli onnipresenti calzoncini a mezza gamba nella specie maschile escono polpacci mostruosi, che confermano l’assoluta prevalenza di un popolo di sportivi che ciabattano, strisciano le infradito, s’avanzano indolenti a raggiungere il tavolo pronto, dove s’avventeranno sulle delizie mangerecce.

Ma quest’ultima ondata a giudizio del vecchio stizzoso (la categoria a cui  appartengo) produce un allentamento, non tanto delle misure anti covid, ma della dignità vestimentaria. Così delle famigliole che s’aggruppano festanti, ignobilmente vestite, chi si salva sono solo i pelosi che li accompagnano. I loro compagni umani traversano, strade, viali, e luoghi di mercato semisvestiti, quasi nudi coperti dal solito zaino lasciando scie di profumo scadente, di olio da sole, di sudore.

Allora il vecchio stizzoso apre la tv per confrontare se il modello esce da quella fonte. E viene sommerso da orde di pseudo-cantanti vestiti in modo assurdo, accompagnati da schiere di chellerine (ah! Finalmente l’uso di una parola esatta), che servono loro la possibilità di un’esibizione ‘moderna’. Non parliamo poi dei gesti e delle pose dei calciatori con tutto il rituale di cui mi occupai qualche puntata fa.

Quindi la giustificazione dei ‘vestimenta laideschi‘ ha la sua origine e giustificazione dal modello televisivo, che impone come riferimento assoluto la volgarità. Non è dunque scontato che rifacendomi ad antichi studi e ad amatissimi poeti mi torni in mente il celebre incipit di Eusebio-Montale che così suona:
“Felicità raggiunta si cammina per te sul fil di lama” che potrebbe tramutarsi in “Volgarità raggiunta si cammina/per te ormai desnudo/e quindi non si vesta chi più t’ama”.

Chissà se il Laido mi rivedrà ancora negli anni futuri. Frattanto trasloco i libri nella casa-madre e, mentre raggiungo finalmente in ascensore, non più arrancando per scale sempre più difficili per raggiungere il luogo di studio, m’immalinconisco pensando cosa è e cosa avrebbe potuto essere il Laido degli Estensi.