Skip to main content

Bambini: i nuovi ostaggi della comunicazione

di Roberta Trucco

 

Il 10 luglio su Repubblica è apparso un articolo di Vittorio Zucconi dal titolo ‘L’estate Terribile dei Bambini’. In quell’articolo Zucconi tracciava un filo rosso che unisce vicende apparentemente lontane che hanno come comune denominatore la sofferenza, la vulnerabilità e a volte la morte dei bambini e cita fatti che sono assurti alla cronaca proprio per la loro drammaticità: i bambini annegati nel mediterraneo con le magliette rosse, unico segno visibile per i soccorritori, i bambini messicani strappati violentemente dai loro genitori a causa delle scellerate politiche estere dell’amministrazione Trump, i bambini thailandesi, guidati incautamente da un allenatore, un irresponsabile, a suo dire, “salvati come piccoli Lazzari dalla spelonca”. La tesi di fondo del suo articolo era che quando i bambini diventano protagonisti della cronaca è un brutto segno, segno che invece di correre felici e spensierati durante le vacanze estive, in modo anonimo, sono invece ostaggi di scelte scellerate di chi ha potere su di loro. E in parte ha ragione, ma solo in parte perché il punto è che i bambini sono, in realtà, ostaggi di una cultura che li ha confinati ovunque nel mondo, in particolare e grazie alle “illuminate” democrazie occidentali, in recinti dove correre felici e spensierati non è più lecito, a meno di non fargli correre qualche rischio come nel caso, un po’ estremo, ma del tutto naturale (nel senso che li abbiamo sfiorati tutti quei rischi) dell’allenatore di calcio thailandese. In quel correre felici, nelle avventure, ci sta tutta la palestra che fa dei bambini dei futuri adulti abili a rispondere alle difficoltà. Ma questo non si può più fare, nelle città, nelle stazioni balneari, nelle campagne. Per noi adulti oggi, ogni spazio libero, ogni prato, ogni marciapiede è popolato di mostri dai quali difenderli (i mostri li abbiamo creati noi e sono i nostri privilegi) e non li mandiamo in giro in modo autonomo a meno di non avere altra scelta, come nel caso delle madri/donne disperate che per sfuggire alla morte li imbarcano su bagnarole vestiti di rosso. Io, al contrario di Zucconi invece, credo che sia un bene se i bambini tornano ad essere i protagonisti delle cronache, se occupano spazio nelle prime pagine, anche se alcune loro storie sono drammatiche, perché abbiamo l’occasione di tornare a ripensare le nostre attitudini nei loro confronti, a ripensarci come loro guide. E credo che i buoni giornalisti dovrebbero interessarsi di più alle loro storie, raccontarle, approfondire le straordinarie risposte abili (etimologicamente responsabili) di cui sono capaci (penso al ragazzino thailandese che per primo ha risposto in inglese al soccorritore) se sono bene guidati ma non controllati. Sarebbe bene renderli dei veri protagonisti invece che riservare pagine e pagine a “semidei” (così lo definiscono per lo più i maschi) a un campione di calcio che oltre a far rotolare bene una palla in un recinto sicuro e a guadagnare una cifra spropositata e non eticamente accettabile, non sembra sappia fare molto di più. Penso alle scelte redazionali della maggior parte dei giornali in cui la figura di Ronaldo, che compare sempre in prima pagina, diventa, grazie e solo al dissertare degli adulti su di lui, una figura da emulare quando in realtà è uno sciagurato, molto di più del giovane allenatore thailandese. Perché Ronaldo non ha molto da insegnare ai nostri figli anche perché dei bambini non ha alcuna considerazione se non quella di acquistarli come fossero oggetti: li ha infatti commissionati a una madre surrogata, contribuendo ad arricchire il mondo d’affari che gira intorno a questa pratica aberrante (la surrogazione di maternità fa delle donne e dei bambini merce di scambio ed è un business in continua crescita). O alle prime/seconde pagine, di questi giorni in cui campeggia un Salvini sorridente con un fucile in mano, e che di certo è tutto tranne che educativa. Credo che i giornalisti in primis dovrebbero promuovere nuovi modelli, non piegarsi al potere della propaganda e del soldo, mettersi stampato sulla scrivania quanto diceva Maria Montessori “il bambino non è debole e povero; il bambino è il padre dell’umanità e della civilizzazione, è il nostro maestro anche nei riguardi della sua educazione. Questa non è un’esaltazione fuori misura dell’infanzia, è una grande verità” e coraggiosamente provare a ripartire da lì per costruire nuovi immaginari e nuovi simboli.

Quei due che hanno vinto il mondiale

Lo sanno tutti, Russia 18 è stato un affarone. Un mastodontico business economico e mediatico. Stadi colmi fino all’orlo e più di un miliardo di telespettatori. Un trionfo per lo zar Putin. Un’iniezione di popolarità per il declinante Macron.
Dopo il fischio finale, a Parigi una folla immensa ha festeggiato fino a notte fonda. Perché la Grande Francia ha battuto la piccola Croazia e si è laureata Campione del Mondo per la seconda volta nella storia secolare del “gioco più bello del mondo”.
Ma attenzione a quello che vi raccontano. Non è proprio vero che ha vinto la Francia. I vincitori, quelli veri, sono due uomini. Molto diversi tra loro. Uno è un mingherlino, 1.74 per 65 chili di peso, l’altro una torre di un metro e novanta. Il piccoletto è un croato, il gigante è un serbo. Tutti e due hanno 32 anni; erano bambini al tempo della guerra jugoslava, una delle più sanguinose della storia.
Luka Modric in quella guerra ha perso madre e padre, uccisi dalle milizie serbe, ha dovuto fuggire all’Ovest, un “rifugiato” come tanti altri, prima e dopo di lui. Ma era bravo a giocare a calcio. Anzi, era bravissimo. La sua favola ha un lieto fine: è diventato il regista del Real Madrid, la squadra più titolata del pianeta.
Mentre Modric, come capitano della nazionale croata, superava i quarti di finale e poi le semifinali di Russia 18, il gigante serbo Novak Djokovic, di professione tennista, era impegnato nel torneo più antico e prestigioso del mondo. Era arrivato a Wimbledon dopo un anno terribile: infortuni a catena, morale a terra, nessun torneo vinto. Ora Djokovic sembrava rinato, ma in semifinale doveva affrontare il numero uno del ranking, lo spagnolo Nadal.
A mosca, un giornalista ha chiesto al piccolo Modric per chi tifasse, per Djokovic o per Nadal? Per Djokovic, ha risposto il centrocampista croato. Stupore del giornalista: Ma è serbo! E Modric, l’orfano di guerra Modric, a spiegare che lui non voleva avere la testa nel passato ma nel futuro. Voleva pensare alla pace, non alla guerra,
Intanto, a Londra, un altro giornalista ha chiesto a Novak Djokovic per chi tifasse nella finale del campionato del mondo: per la Francia o per la Croazia? Per Modric e per la Croazia, ha risposto il grande tennista serbo.
In Serbia e Croazia, storicamente nemiche, con due governi fortemente nazionalisti, le dichiarazioni dei due campioni hanno scatenato un putiferio di critiche, polemiche, perfino minacce. Ma né Modric né Djokovic hanno ritrattato di una virgola.
Poi sappiamo com’è andata. Djokovic ha vinto la semifinale contro Nadal, quasi sei ore di gioco, e anche la finale, aggiudicandosi l’insalatiera d’argento di Wimbledon. La Croazia di Modric si è invece dovuta piegare alla fortissima Francia, anche se il regista istriano è stato eletto miglior giocatore del torneo, pallone d’oro di Russia 18.
Ma non c’era bisogno di coppe e insalatiere, il piccolo croato e il gigante serbo avevano già vinto. Per la loro amicizia, suggellata dalle foto in rete che li ritrae insieme sorridenti, e per quelle poche parole, così semplici, così normali ma che sanno di pace.

L’Australia di Elsa

 

Appena arrivata cominciò subito a chiedere in giro, e già questa non era impresa facile, trovare qualcuno a cui chiedere intendo. Ma Elsa era una grande camminatrice, lo era sempre stata, da bambina a lei venivano affidate le commissioni da fare in paese. Il paese era lontano alcuni chilometri dalla casa sopra la collina verde, Elsa andava a scuola tutte le mattine a piedi, e a piedi tornava in paese almeno un’altra volta al giorno, con la lista della spesa o per comprare il tabacco per il padre, e dopo, per il marito Franco. O per correre dal dottore quando suo figlio Nuccio aveva le crisi. Questo succedeva prima, ma anche ora, cioè adesso che era appena arrivata, anche ora provava gusto a camminare. Alla fine qualcuno a cui chiedere lo avrebbe incontrato in quel posto cosi diverso da come lo aveva immaginato, e le era tornata in testa la sua maestra della scuola elementare e quella lezione di geografia sull’Australia, la quale Australia, oltre ai canguri e agli aborigeni, aveva anche una bassissima densità di popolazione per chilometro quadrato. Qui è proprio come in Australia, pensava Elsa mentre non smetteva di camminare, le persone c’erano ma erano lontane l’una dall’altra, sparse in un grande mare di spazio.
Al principio non riusciva a crederci, ma le risposte erano sempre piuttosto pacate, tranquille anche, ma tutte dicevano la stessa cosa. Elsa non sapeva nulla di quel posto che qualche volta aveva solo immaginato, così si aspettava di tutto o quasi, ma questo assolutamente no che non se lo aspettava. Passava per una donna spiritosa, questo prima, ma un poco di spirito le era rimasto, anche ora che era appena arrivata, così quando dopo una serie di interviste dovette credere a quella realtà, le venne da pensare che quella non era proprio “una sorpresa da niente”, ma “la sorpresa del niente”, come dire il contrario o qualcosa del genere.
In quel niente, in quell’altipiano senza misura, in quel paese oceanico e rarefatto, Lui non c’era. Glielo avevano confermato tutti, anche chi era arrivato molto ma molto prima di lei. Un tizio con la barba lunga e lo sguardo autorevole l’aveva anche sgridata: “Troppo comodo cara mia, uno si comporta non dico bene, diciamo decentemente, evita le cazzate, una preghiera quando non se ne può proprio fare a meno, e alla fine pensa di arrivare qui e di trovarselo bello e pronto, scodellato nel piatto”. Lui non c’era, almeno non era lì, anche se Lui – qualcuno degli intervistati lo sosteneva con forza opponendo ragionamenti fisici o metafisici – Lui c’era, certissimamente, non lì ma nel Terzo Tempo, cioè alla fine, quando sarebbero stati finalmente dall’altra parte.
Peccato che Elsa, dopo una vita complicata, provvista di una fede vera anche se in bilico come a quasi tutti capita, quando se n’era partita e non senza dolore all’età di 82 anni, e quando era arrivata nell’altro mondo, era sempre stata certa di quella e quella cosa soltanto. Di trovare Lui, di raggiungere la pienezza – Vai in pace, quelle parole le aveva sentite in cento funerali – e non di trovarsi in un altro niente, non di dover riprendere a camminare, non di tornare a vivere un’altra vita, non di dover raggiungere un’altra fine. E per quanto tempo poi? Quanto sarebbe durato il Secondo Tempo? E con quali compagni di strada? E dopo che ci sarebbe stato?
Elsa, per la prima volta nella seconda vita, per la prima volta dopo la sua prima morte, si sentì stanca da morire. Si fermò. Sul lato della strada polverosa vide un grande masso rotondo, rosso e liscio come un pesce, e si lasciò cadere.

(Francesco Monini – tutti i diritti riservati)

Autori a Corte- presentazioni letterarie con degustazione.

Dopo il successo della passata stagione e dell’appuntamento natalizio, ritorna nella splendida cornice del Giardino Creativo del Factory Grisù di Via Mario Poledrelli 21 a Ferrara, la rassegna Autori a Corte- presentazioni letterarie con degustazione.
La manifestazione che gode del Patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Ferrara, della collaborazione con l’Istituto Città del Ragazzo e del sostestegno di Pressup Srl, Banca Mediolanum, Sara Assicurazioni, Hotel Carlton e della testata giornalistica Estense.com, è organizzata dall’Associazione Culturale Charles Bukowsky.
La kermesse letteraria che prevede 5 serate nell’arco del mese di luglio, vedrà l’alternarsi di 20 autori locali con anteprime assolute ed autori di respiro nazionale.
L’inaugurazione della rassegna avverrà Mercoledì 11 luglio alle ore 19.45 e vedrà protagonisti i danzatori della Jazz Studio Dance che si esibiranno in una coreografia ideata e diretta da Silvia Bottoni, ispirata al libro di Marco Gulinelli, “Il trapezista”.
Danzeranno: Vladislav Kniazev, Martina Saccenti, Sara Pozzati, Giulio Fortini, Cristiana Brunazzi, Eleonora Balleri, Giulia Perinati (con la partecipazione del piccolo Edoardo Bozzoli).
Alle ore 20.00 Marco Gulinelli presenterà il suo nuovo libro “Il trapezista” (La nave di Teseo Edizioni). Modererà Andrea Ansaloni.
Il romanzo di Marco Gulinelli è una storia di tradimenti, di amore, di “salti”. E di “cadute”. Protagonista è il chirurgo Marcello Codeluppi, detto Lupo, che prima di diventare un medico dalla brillante carriera, ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza tra i tipici inverni grigi di Ferrara e le fiabesche estati delle fiere tra l’Emilia e la Romagna. A rivoluzionare la sua vita sarà l’incontro con il circo di Alfio Brillante e l’affascinante Colette che lo inizierà all’arte del trapezio. Sogna di intraprendere una vita da circense, prima che una bruciante delusione lo costringa a tornare alla monotonia della vita cittadina. Dopo lunghi anni, l’incontro con Pilar farà rinascere in lui l’ingenuità e la spensieratezza dell’infanzia, capace di riaccendergli il desiderio di buttarsi come un trapezista in un sogno tutto da vivere. Con il nuovo romanzo, Gulinelli evidenzia le zone d’ombra nelle quali il recondito fallimento delle persone è sempre pronto a rivelarsi.
Alle ore 20.30 saranno presentati in anteprima il giallo del poeta e giornalista Sergio Gnudi, “La statua del potere” (La Carmelina Edizioni) e “La tradicesima Musa” (La Carmelina Edizioni) di Carlo Degli Andreasi.
Le protagoniste del giallo di Sergio Gnudi sono Chiara e Giulia, due giovani donne, amiche e colleghe. Grazie alla loro intraprendenza ed audacia, risolveranno uno strano caso ed affronteranno prove di coraggio e di resistenza psicologica che le porterà dalla nave da crociera “La regina Blu” alle porte del Sahara. Il romanzo è il primo, riuscito esperimento dell’autore, concepito per un pubblico young adult ma che risulta fruibile anche da un pubblico adulto.
“La tredicesima Musa” di Carlo degli Andreasi è una sorta di spice story che si sviluppa all’interno del treno che ospita i protagonisti del romanzo d’esordio dell’autore.
Modererà il Direttore editoriale Federico Felloni.
Ospite d’onore della serata sarà il giornalista padovano e scrittore noir Massimo Carlotto, che alle 21.30 presenterà il nuovo, atteso romanzo “Cristiani di Allah” (E/O Edizioni).
Siamo ad Algeri nel 1541. Da una parte l’armata di Carlo V, punta di lancia della Cristianità, dall’altra i corsari di Hassan Agha, rinnegati europei cristiani che hanno abbracciato l’Islam. Anche i protagonisti del romanzo, Redouane e Othmane, sono dei corsari rinnegati. Il primo albanese, il secondo tedesco, ex lanzichenecchi, hanno scelto la libertà di Algeri, da dove salpano sul loro sciabecco per le scorrerie e dove credono di poter vivere indisturbati la loro storia d’amore proibita. Othmane commetterà l’errore di invaghirsi di un giannizzero e trascinerà anche Redouane in un gorgo di vendette, agguati ed affascinanti intrighi.
Modererà il giornalista Sergio Gessi.
L’ intera serata sarà accompagnata dalla degustazione di birra artigianale offerta dal birrificio trevigiano Morgana.

Da: Autori a Corte

Scrivere di Marco
Prove letterarie negli anni settanta e ottanta in una terra di provincia

a cura di Laura Fogagnolo e Pier Luigi Guerrini

Nei primi anni settanta, si assiste ad un consistente cambiamento della poesia italiana che riflette il contesto politico in cui matura: ad es. l’esplosione del fenomeno terroristico e la nascita dei gruppi extraparlamentari, ma anche un forte impulso di liberazione dalla morale tradizionale.
Assistiamo ad un riposizionamento delle correnti poetiche, secondo nuovi canoni dove la poesia “tradizionale” sembra dover lasciare il passo a nuove esperienze, sperimentazioni, contaminazioni.
L’intensità linguistica riveste i panni politici, la poesia assume più marcatamente una coloritura sociale e insieme alla rottura della tradizione poetica muovono nuove esperienze che si formano, spesso, attorno a nuove riviste come ‘Altri termini’; ‘Tracce’; ‘Anterem’; ‘Niebo’.
Ad esempio, a commento della poesia di Patrizia Vicinelli (che aveva aderito al Gruppo ’63), Giorgio Linguaglossa in ‘L’ombra delle parole’, Rivista Letteraria Internazionale, scrive che “conformemente alla moda letteraria degli anni settanta, vocalità e testualità si imparentano in un mix di poesia visiva e sonora in un permanente gesto di rottura degli schemi poetici acquisiti di destabilizzazione del linguaggio poetico istituzionalizzato”.
Così la provincia, anche Ferrara quindi, scontando il ritardo nelle innovazioni letterarie per la sua sonnolenza tipica, riflette il panorama letterario nazionale. Di questo ed altro diamo conto, in una lettura sicuramente incompleta ma senza intenti censori in ‘Scrittura poetica in provincia negli anni ’70 – ’80: elementi per un itinerario ferrarese’ di Laura Fogagnolo e Pier Luigi Guerrini.
Negli stessi anni, un poeta fragile e nascosto come Marco Chinarelli (amico e compagno di scuola dei due curatori) raccoglie i suoi elaborati letterari (poesie e brevi scritti tra l’annotazione ed il racconto, scoperti casualmente dopo la sua prematura scomparsa) in anonimi quaderni, mescolati ad appunti di lezioni universitarie, critiche cinematografiche, approfondite annotazioni di analisi e critica politica, ecc. senza ambizioni letterarie come sfogo alla propria solitudine in un linguaggio essenziale, fortemente emotivo. In particolare, le prove poetiche di Marco sono versi distillati dai ricordi di un’infanzia mitica, dalle visioni padane, dalle immagini delle città, nella voglia di partire, nel tormento dei sogni, nella rabbia di un giovane uomo e nella disillusione politica che segnerà quegli anni. Nel 1988, nella collana ‘Testi’ della rivista ferrarese ‘Poeticamente’, è stata pubblicata una piccola raccolta di poesie di Marco Chinarelli che furono scelte da Laura Fogagnolo. Con questo breve lavoro di ricerca, intendiamo mantenerne il ricordo, valorizzando scritti che altrimenti sarebbero scomparsi nell’oblio, come il più delle volte accade per tanti altri aspiranti scrittori.

COMUNICATO STAMPA
Guide turistiche, il caos normativo penalizza il settore e i visitatori

Da: GTI – associazione Guide turistiche italiane

Lettera aperta al ministro per il Turismo, Gian Marco Centinaio

Gentile Signor Ministro,
i beni artistici, architettonici, naturalistici sono fra le principali attrattive del nostro Paese e rappresentano una risorsa fondamentale anche per l’economia nazionale. Le guide turistiche svolgono una funzione insostituibile nella promozione di questo patrimonio. Il loro operare garantisce una corretta conoscenza, favorisce la divulgazione delle informazioni e assicura un pieno godimento dei pregi e una appropriata comprensione delle peculiarità delle opere d’arte e dei beni culturali.
Nel settore, però, la situazione è caotica. La normativa vigente, che disciplina ruolo e operatività delle guide, presenta ambiguità, nodi irrisolti, ed è pertanto oggetto di difformi interpretazioni che ostacolano il regolare svolgimento della professione.
La normativa europea di riferimento è stata recepita dall’Italia nel 2013 con la legge 97, art. 3 che regolamenta e introduce la figura della guida nazionale, superando le frammentazioni derivanti dalla precedente disciplina. La valenza nazionale dell’attestato viene considerata da GTI (Associazione Guide Turistiche Italiane) come elemento imprescindibile per l’evoluzione e l’ammodernamento del ruolo professionale delle guide turistiche, anche al fine di un organico servizio di illustrazione e spiegazione, che in precedenza contrastato dal frazionamento, talvolta eccessivo, delle competenze territoriali. I continui cambi di guide imposti dal vecchio ordinamento, penalizzanti per i turisti, risultano conseguenza di una legge ormai obsoleta.
Pur consapevoli che la guida turistica esercita il proprio compito in stretto legame con un territorio che deve conoscere in maniera adeguata ed approfondita per rendere un servizio di qualità, riteniamo vadano superati tutti quei vincoli e quegli ostacoli di carattere normativo che impediscono alle guide turistiche italiane di essere una categoria professionale in grado di esercitare la propria funzione con quell’imprescindibile ampio sguardo che deve arricchire la conoscenza particolare.
Il settore necessita, perciò, del pieno e urgente compimento di una riforma che stabilisca regole chiare, uniformi e che metta i professionisti in condizioni di godere di un trattamento di parità ed uguaglianza sull’intero territorio nazionale.
A differenza del passato, ora la figura di “guida nazionale” preposta a fornire informazione e sostegno ai turisti, non è più vincolata all’autorizzazione che limitava l’esercizio della professione in un ristretto ambito territoriale. Coerentemente con una visione ampia e in previsione di fornire funzionalmente risposta alle esigenze dei tanti gruppi italiani e stranieri che attraversano spesso vaste aree del territorio nazionale si è resa operativa una figura professionale qualificata che possa fungere da riferimento costante per tutto il tour, sia che l’itinerario si compia in una sola provincia o, invece, in una intera regione; sia, infine, che vada a toccare più città anche distanti fra loro. Non è fatto banale: con la guida i visitatori spesso stipulano rapporti empatici e fiduciari, non indifferenti al reale godimento del viaggio. Anche per questo la legge ora prevede la possibilità di esercitare le funzioni di guida su tutto il territorio nazionale.
Tali normative sono state però, da subito, oggetto di contestazione da parte di coloro che si oppongono all’innovazione e rifiutano – talora anche a tutela di vecchi privilegi – di recepire questa moderna concezione del ruolo di guida turistica. A tali opposizioni, fortunatamente, è stato dato un freno con le sentenze del Tribunale amministrativo del Lazio e del Consiglio di Stato nel 2017, a seguito di ricorso contro due decreti del MIBACT volti a limitare gli effetti della legge 97/2013, ricorso promosso da GTI e altre associazioni di categoria, che hanno ribadito la piena validità della normativa e la legittimità ad operare sull’intero territorio nazionale senza alcuna restrizione.
Attualmente, purtroppo, restano aperte delle questioni che vanno risolte in maniera urgente al fine di mettere in atto una vera riforma professionale di cui tutti sentiamo la necessità. A titolo esemplificativo, guardiamo – come condizione per esercitare la funzione di guida – alla necessità del conseguimento della laurea a seguito di un coerente percorso di studi. In tal modo si valorizzano competenza, specializzazione e si eleva la qualità di un servizio che non può più prescindere dalle giuste esigenze di un turismo che richiede figure altamente qualificate.
Purtuttavia ci si dibatte in una condizione di estrema ambiguità, a seguito della quale non solo la qualifica di “guida nazionale” viene contestata, ma l’operato delle guide viene contrastato con azioni ostili da parte delle vecchie guide provinciali; si assiste a sconcertanti episodi di boicottaggio, complici anche più o meno consapevoli funzionari statali o appartenenti alle Forze dell’ordine. Di recente, per esempio, in Toscana una guida locale ha assunto i panni di ‘sceriffo’ svolgendo impropriamente una sorta di servizio di pattugliamento territoriale e, affiancata dalla polizia municipale, ha ostacolato il lavoro delle guide nazionali che regolarmente svolgevano le proprie funzioni. Qualcosa di analogo è capitato a Pompei pochi giorni prima ed episodi di questa natura sono assai frequenti.
Il danno non è solo per i professionisti. A rimetterci sono anche i turisti, con conseguenti negative ricadute sull’immagine del nostro Paese. Insomma, è urgente un’attenta riconsiderazione della situazione e una rapida chiarificazione che ponga fine al caos normativo attuale.

Auspichiamo pertanto che Lei, dottor Centinaio, in qualità di ministro che ha ora assunto la delega per il Turismo, possa farsi coscientemente carico del problema; e ci rendiamo immediatamente disponibili ad un incontro per poter meglio articolare e chiarire le problematiche che penalizzano il settore nonché le potenzialità che andrebbero meglio sviluppate.

Caricento: la nostra solidità non è in discussione

I vertici della Banca ribadiscono la stabilità della Cassa centese

Cento, 5 luglio 2018 – A seguito degli articoli pubblicati sulla stampa locale nel corso delle ultime settimane, contenenti dichiarazioni che insinuano dubbi circa la solidità della Cassa di Risparmio di Cento SpA, il Consiglio di Amministrazione e la Direzione della Cassa intendono ribadire la totale inconsistenza di tali affermazioni improvvide, dannose e senza alcun fondamento.

I dati del bilancio della Cassa di Risparmio di Cento SpA confermano la stabilità della Banca: l’esercizio 2017 si è chiuso con un utile pari a 9,453 milioni di euro e con la ulteriore crescita dei coefficienti di solidità patrimoniale. Al 31/12/2017 il CET1, Common Equity Tier One, si attestava al 13,52%, a fronte di un coefficiente minimo assegnato alla Cassa dalla Banca d’Italia pari al 6,875%.

Nel corso degli ultimi mesi, pur in coincidenza con la trattativa tra la Fondazione e la Banca Popolare di Sondrio, la Cassa non ha mai rallentato nel perseguimento dei propri obiettivi strategici. L’acquisizione di Ifiver ha sancito la costituzione di Cassa di Risparmio di Cento come Gruppo Bancario, in coerenza alla strategia di cercare nuovi margini di redditività nel mercato retail, grazie alle cessioni del quinto dello stipendio offerte da Ifiver, che si affiancano ai nuovi prestiti personali iWish! della Cassa.

Gli investimenti in tecnologia, in incremento nel 2018 e che cresceranno ulteriormente nel 2019, nonché il rimodellamento e potenziamento della struttura organizzativa, sono funzionali a garantire maggior flessibilità e velocità, oltre all’erogazione di un servizio di alta qualità alla clientela come è nella tradizione della Banca.

Infatti, nel 2017 sono stati oltre 4.400 i nuovi clienti che hanno scelto di affidarsi ai servizi di Caricento, ed oltre 2300 solo nel primo semestre del 2018. Pienamente funzionanti e già in utile anche le nuove filiali dell’area Romagna (Faenza e Lugo), aree di espansione della Cassa.

L’accresciuta solidità patrimoniale vede in ulteriore miglioramento i coefficienti di copertura dei crediti deteriorati nel corso del primo semestre 2018; attualmente è in corso un processo di cessione delle sofferenze che porterà la Cassa ad avere un rapporto crediti deteriorati su crediti totali allineato agli standard richiesti dalla BCE.

Sul piano delle sponsorizzazioni, importanti interventi sono stati deliberati, in particolare a favore del territorio centese.

Caricento quindi non si ferma, forte della propria solidità patrimoniale: il Consiglio di Amministrazione, la Direzione e tutto il personale, animati da profondo spirito di squadra, ribadiscono fermamente e con orgoglio la volontà di continuare ad interpretare il ruolo di banca locale in maniera coerente
con il contesto che si prefigurerà, con l’unico obiettivo di generare valore nel tempo per Soci e Clienti.

Da: Ufficio Relazioni Esterne – Cassa di Risparmio di Cento

Regresso e progresso, è tempo di agire

La parola d’ordine, oggi, è sicurezza. Il diritto al lavoro, alla pensione, all’assistenza, all’alloggio – tutte conquiste che nel secolo scorso, grazie alle politiche di sostegno attuate dallo stato sociale, apparivano acquisite e indiscutibili – ora vacillano. Ovunque – e anche in Italia – le certezze che hanno accompagnato le nostre esistenze sono svanite. E la vita attuale, per milioni e milioni di donne e di uomini, è densa di insidie e di preoccupazioni.
Anche per questo i fenomeni migratori vengono percepiti come una minaccia. Frutto essi stessi di profondi squilibri geopolitici – eredità delle vicende coloniali – e ora generati da situazioni di miseria estrema e da pericoli incombenti (spesso aggravati da conflitti armati o persecuzioni attuate da regimi dittatoriali nei confronti della popolazione), divengono motivo di tensione e di paura per i cittadini di quegli Stati, meta dei disperati esodi, che individuano negli “invasori” un ulteriore elemento di sottrazione alle già risicate risorse di cui dispongono. E’ la guerra dei poveri che torna ad affacciarsi. Ma il paradosso è che deprivazioni e indigenza colpiscono ampie fasce della popolazione, mentre ristretti gruppi di individui possiedono ricchezze superiori a quelle di intere nazioni. Basti pensare che oggi dieci persone possiedono da sole il cinquanta per cento delle ricchezze dell’intero pianeta.

Lo scenario, dunque, è drammaticamente dissestato. Gli squilibri sono vertiginosi. Il tessuto sociale è sfilacciato, al sentimento di solidarietà si è sostituito quello, prevalente, di paura. L’altruismo cede il passo a un egoismo difensivo. L’idea di un costante progresso nel cammino sociale si scontra con ostacoli imprevisti. La prospettiva per le generazioni future è di vivere in un mondo peggiore rispetto a quello che noi abbiamo ereditato, in condizioni di maggiore incertezza e di instabilità e privi di quelle tutele che hanno garantito a tutti (o quasi), per decenni, dignitose condizioni di vita.
In questa temperie prospera la criminalità, che in parte costituisce l’estrema derelitta risposta al disagio.

Il punto di ripartenza, per un umano consorzio che intende – e deve – recuperare i caratteri di civile e solidale convivenza, può essere la città, il luogo in cui i rapporti personali in parte si alimentano ancora della fiducia che scaturisce dalla conoscenza e il legame sociale, per questo, non si è del tutto dissolto.
Occorre però un salto di qualità per recuperare, da un filantropico mutualismo di prossimità, una dimensione di relazione e di azione collettiva, fondata su un più esteso patto di cittadinanza.

Un tempo si era arrivati a dire: tutto è politica… Oggi si è alla esasperazione opposta: il rifiuto della politica come cosa sporca, cosa inutile. E al respingimento tout court dei suoi attori (tutti uguali, tutti corrotti…). Ma la politica non è altro che l’autogoverno della comunità, e in questa prospettiva nessuno può sentirsi escluso e ciascuno ha il dovere di rendersi disponibile e partecipe a un progetto di rinascita civile, solido e concreto. Per conferire respiro a tale scenario – che parte dall’oggi e guarda al domani – serve però pure una visione utopica, la definizione di un futuro desiderabile che dia senso al cammino e ai sacrifici necessari per compierlo. Utopia non è l’astratta terra promessa. E’ la stella polare che orienta i nostri passi e delinea l’orizzonte verso il quale indirizzarci. E attraverso il progetto si definiscono concretamente le tappe di approssimazione alla meta.

Bisogna ripartire da quella che i tedeschi definiscono weltanschauung, una visione del mondo che tenga insieme valori, credenze, ideali. E’ ciò che potremmo tradurre in ideologia se il termine non fosse stato corrotto dall’improprio uso propagandistico e dogmatico che ne hanno fatto nel secolo scorso regimi illiberali d’ogni fronte per piegarlo al proprio interesse di potere, bollare d’eresia ogni manifestazione di dissenso e confiscare così la libertà di pensiero e di opinione.

E bisogna necessariamente agire per superare la deresponsabilizzante dicotomia “noi-loro” quando si ragiona di politica, perché l’evidente presenza di una casta separata – quella degli eletti – deputata a governare le comunità, se ora trova riscontro nella realtà dei fatti, non ha fondamento dottrinario poiché la dimensione politica va riconsiderata nella sua classica e appropriata concezione: governo della polis, cui ogni cittadino è idealmente preposto. Serve, allora, un impegno attivo, personale, propositivo da parte di tutti coloro che a questa situazione non intendono più sottostare.

Scrittura poetica in provincia negli anni Settanta e Ottanta: elementi per un itinerario ferrarese

di Laura Fogagnolo e Pier Luigi Guerrini

“Uno scrittore dovrebbe vivere in provincia, dicevamo: e non solo perché qui è più facile lavorare, perché c’è più calma e più tempo, ma anche perché la provincia è un campo di osservazione di prim’ordine. I fenomeni sociali, umani e di costume, che altrove sono dispersi, lontani, spesso alterati, indecifrabili, qui li hai sottomano, compatti, vicini, esatti, reali.” (L. Bianciardi, Il lavoro culturale, Ed Feltrinelli, 1974, p. 19)

Senza l’ambizione dell’esaustività, queste righe vogliono tentare una raccolta di autori e produzioni uscite negli anni settanta e ottanta nella provincia di Ferrara. Per scelta dei redattori di queste note, non si sono presi in considerazione gli autori dialettali. Nessuna spocchia intellettualistica ma solo una delimitazione del campo e degli autori.
A nostro giudizio, Lamberto Donegà è sicuramente un poeta che nasce artisticamente in questo periodo. Ad una prima ‘Domanda-confronto generazionale’, libro datato 1970, ne segue sei anni dopo ‘Il sollievo del sole’ in cui richiami/ricami bassaniani s’inseguono per tutta l’opera. Nel 1978 esce una piccola collettanea di poeti ferraresi di nascita o d’acquisizione. ‘Biottica delle parole superstiti‘, questo era il titolo, nelle intenzioni degli ideatori doveva essere una rivista di poesia e critica letteraria ma, come spesso accade e non solo nelle situazioni di provincia, si fermò al primo numero. Al suo interno, oltre a Donegà, c’erano tra gli altri Alberto Poggi e Pier Luigi Guerrini che idearono la rivista ‘Po/etica/mente‘, come testimonia un ciclostilato di due pagine con cenni poetici “mescolati” a spunti progettuali. Poi, il percorso di questa rivista prese una strada differente.Poeticamente‘ si ricompose in un’unica parola e la redazione di fondazione (1980), sotto la direzione responsabile di Donegà, vide la presenza di Emanuela Calura, Pier Luigi Guerrini e Roberto Guerra. La rivista venne diffusa in una rete di piccole librerie militanti dell’area della nuova sinistra e, dopo alcuni numeri in cui si pubblicavano diversi interventi in prosa o in poesia di vari autori, si scelse la strada dei numeri monografici. Ne ricordiamo tra gli altri: Selim Tietto, Alberto Bertoni, Carlo Villa, Roberto Guerra, Claudio Strano, Marco Chinarelli. ‘Poeticamente’ manterrà al proprio interno una vivacità intellettuale attraverso uno stretto legame con riviste pubblicate negli anni ottanta: i riferimenti saranno Anterem e Niebo.
Il poeta ferrarese Roberto Guerra inizia le sue prove poetiche alla fine degli anni settanta, partecipando alla redazione della rivista Poeticamente. Negli anni ottanta, ha partecipato (con Franco Ferioli), con Fiori della Scienza alla rassegna video U-Tape 1985, a cura del Centro Video Arte di Ferrara. Ha collaborato (anni ottanta e novanta) con il periodico Futurismo Oggi (a cura di Enzo Benedetto, Roma). La sua attività poetica e di produzione è tutt’ora molto fertile. E’ coordinatore del Llf, Laboratorio Letteratura Futurista (Ait).
Pier Luigi Guerrini, dopo la pubblicazione per le edizioni Ottantagiorni del libro di poesie ‘Il fenomeno scomposto’ (1984) e nell’antologia ‘Trame della parola’ (1985), Ed. Tracce a cura di Antonio Spagnuolo, ha lasciato segni di stampa collegati da vicino ai percorsi lavorativi intrapresi, mentre la produzione poetica è riemersa con decisione solamente dal 2010 in avanti.
Roberto Pazzi, scrittore e poeta di fama internazionale tutt’ora attivo e scrittore di romanzi che hanno incontrato i favori del pubblico, ha pubblicato le raccolte poetiche ‘L’esperienza anteriore’ (1973), Ed. I Dispari; ‘Versi occidentali’ (1976), Ed. Rebellato; ‘Il re, le parole’ (1980), Ed. Lacaita; ‘Calma di vento’ (1987), Garzanti Editore.
Verso la fine degli anni settanta, nasce la Coop. Charlie Chaplin che tenta senza successo di introdursi nel mercato editoriale con tre produzioni: il primo romanzo di Stefano Tassinari ‘Riflessi di ruggine’, una raccolta di poesie dialettali ‘Poesii fraresi’ e un’antologia sul cinema e la letteratura della science fiction curata da Alberto Poggi, a corollario di un convegno organizzato a Ferrara. Sotto la spinta determinante di Stefano Tassinari, nacque in quegli anni il mensile ‘Luci della città‘ che si rivelò anche un luogo di produzione e contaminazione poetica, letteraria e politica.

Qualche anno prima, era approdato in edicola ‘Porto Ferrara‘ (si rinvia agli articoli ‘Porto Ferrara: una sinistra plurale col desiderio di capire’ e ‘Porto Ferrara, una rivista non provinciale’ per un approfondimento a due voci) che aveva tra i redattori e collaboratori diverse persone che, poi, intrapresero l’avventura di ‘Luci della città’.
Di Gianni Goberti ricordiamo l’ottima prova poetica di ‘Logica del caos’ (1979), Forum/Quinta generazione e ‘A due passi da Itaca’ (1983), Casa Editrice Alba.
Uno “spazio” importante va dedicato alla poesia visiva (dal medium libro cartaceo al medium quadro più parola): Michele Perfetti, Maurizio Camerani, Enzo Minarelli, Lola Bonora, Romolina Trentini, Federica Manfredini, Luciana Arbizzani, sono alcuni dei protagonisti di questo ambito. Luciana Arbizzani è autrice, per le Edizioni Rebellato, di ‘In parti uguali’ – 1972 e ‘Argille d’esistenza’ – 1975, poi, entrando sempre più in affascinanti percorsi di contaminazioni sperimentali, ha pubblicato ‘Che la goccia sia sferica’ – 1979, Ed. Geiger e ‘Transuraniche’ – 1981, Ed. TamTam, rivista di poesia totale di livello internazionale dove ha fatto parte della redazione. In quegli anni, a Ferrara la Sala Polivalente del Palazzo Massari fu un centro molto attivo ed importante di performances audiovisuali e di readings di poesia con presenze di livello internazionale.
Anche la Stanza di San Giorgio, ebbe importanti momenti dedicati alla poesia visiva da parte degli autori succitati. Ricordiamo, di quegli anni ottanta, la performance in progress curata da Sergio Altafini in cui Federica Manfredini, presentò esperimenti di rara comunicazione, parole libere, riflesso della migliore neoavanguardia filtrata da un lirismo visivo-orale pieno di femminilità/femminismo con anti-rime molto divertenti usando parole e lingue differenti. Poeta impegnata dagli anni ottanta in una progressiva costante ricerca di “aggregazione-disgregazione” della parola, per ricreare realtà diverse nella scrittura, nella poesia visuale e nella poesia sonora.

La Manfredini fu protagonista anche in numerose pubblicazioni, ad esempio ‘Dif-frazioni’ (dismisura testi, 1985), oppure i suoi interventi per la rivista trimestrale Edigraf, 1985, 1989, ecc. diretta da Carla Bertola e Alberto Vitacchio, fino alla sua prematura scomparsa nel 1997. Numerose le performance in varie sedi, dall’inizio degli anni ottanta.
Significativamente ogni sua mostra o installazione era completata dall’esecuzione di una performance. Vengono segnalate: all’Arte Studio di Ponte Nossa nell’84, a Bondeno, a Ferrara in varie occasioni, all’Emporium Arte Contemporanea ad Ivrea ’87. Ha partecipato a ‘Rendez-Vous’ a Villorba ’89, alla Galleria delle Donne di Torino ha esposto ed eseguito performance nel 1988.
Con ‘Ipotesi per un teatro di poesia’, ha iniziato negli anni settanta una lunga produzione Ines Cavicchioli, Dirigente Scolastica, regista e attrice di teatro, scrittrice e scultrice. Negli anni ottanta, la Cavicchioli ha pubblicato ‘Parole in nero’ (1981), ‘Poesia e immagine’ (1983), ‘I messaggeri dell’inquietudine’ (1984), ‘Prove di recitazione’ (1989). Altro poeta ferrarese, che negli anni ottanta ha fatto parte dell’avanguardia poetica della poesia concreta che s’ispirava ad Adriano Spatola, è Sergio Gnudi che ha ripreso a produrre nel nuovo millennio, dopo una pausa di una ventina d’anni. I volumi pubblicati nel periodo da noi preso in esame sono: ‘Tra due fuochi’, ‘Scorie padane’ e ‘Iperbolia’.

Andate… a visitare Quel Paese

Dopo la marcia anti rom organizzata da Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia davanti al campo nomadi di via delle Bonifiche (un centinaio scarso di persone, ma assai arrabbiate e invadenti), dopo le iniziative di solidarietà promosse da una rete di associazioni ferraresi schierate per difendere il diritto di cittadinanza e la pacifica convivenza tra culture differenti (anche questa testata ha aderito), è forse il momento di riflettere più a fondo sulla nostra storia e su cosa si nasconde dietro la proposta d censire e schedare i nomadi.

La storia ce lo ha insegnato: chi vuole fare un censimento dei rom, in realtà vuole “schedare gli zingari” e chi vuole schedare qualcuno è perché lo considera diverso, pericoloso e lo vuole isolare, carcerare, allontanare.
Chi vuole far questo, oltre a proporre qualcosa di anticostituzionale, sceglie la pedagogia della paura, insegna l’odio verso chi è diverso e mette in pratica la didattica dello stereotipo: il suo metodo è quello della generalizzazione, il suo stile è quello di sussurrare alle pance piuttosto che parlare alle teste e ai cuori.
In pratica, chi vuol far questo estende la responsabilità di un fatto di cronaca legato a una persona di una certa nazionalità, di una certa etnia o di una certa categoria di persone a tutti gli appartenenti a quella nazionalità, a quella etnia, a quella categoria.
In sintesi, prende per vera un’ipotesi, crede in una una congettura, pensa che un luogo comune sia la verità.
È così che nasce l’idea bugiarda che tutti gli zingari siano ladri e rapiscano i bambini.
È così che molti vogliono far credere che tutti i musulmani siano terroristi dell’Isis, che tutti gli americani siano guerrafondai, che tutti i rumeni siano ladri, che tutti gli svizzeri siano puntuali, che tutti i turchi siano fumatori incalliti, che tutti gli ebrei siano avidi, che tutte le donne ucraine siano badanti, che tutti gli albanesi siano criminali, che tutti gli africani abbiano il ritmo nel sangue, che tutti gli olandesi fumino marijuana, che tutti i cinesi mangino i cani, che tutte le donne svedesi siano di facili costumi, che tutti gli irlandesi siano ubriaconi, che tutti i napoletani puzzino, che tutte le donne non sappiano guidare e potrei continuare a lungo con altri esempi.
Allo stesso modo, le persone che pensano le assurdità di cui sopra dovrebbero accettare l’idea di essere definiti mafiosi in quanto italiani… perché è questo che pensano di noi le persone straniere che generalizzano.

In pratica, chi pensa e insegna in questo modo, fa di tutta l’erba “un fascio”: volendo giocare con le parole, chi fa questo è doppiamente “fascista” (vedi:http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/F/fascista.shtml).
Gli stereotipi, i pregiudizi ed i luoghi comuni nascono dall’ignoranza, cioè dalla non conoscenza. Un buon antidoto per questo, oltre allo studio, è il conoscere attraverso il viaggio perché viaggiando si incontrano persone diverse, si possono conoscere nuove culture e, oltre alle naturali differenze, si potranno scoprire molte similitudini e imparare a spostare il proprio punto di vista.
A chi invece non vuole viaggiare, a chi non vuole conoscere, a chi vuole tenersi i suoi pregiudizi, agli insegnanti di odio, ai pedagogisti della paura, ai demolitori di accoglienza, ai distruttori di solidarietà, ai chiuditori di porti, agli schedatori di rom, ai guidatori di certe ruspe consiglierei sinceramente di andare a visitare almeno un paese: Quel Paese.
Andate a “Quel Paese”, ma andateci sul serio… farete sicuramente un favore alla cultura e a “questo Paese”.

Il nuovo corso della dialettica politica

L’ambito reale dello scontro intrapreso dal Ministro Di Maio non è tra i rider e la tecnologia, come dice l’amministratore delegato di Foodora Gianluca Cocco, ma tra i cittadini, gli esseri umani, e l’uso strumentale che della tecnologia alcuni, come lo stesso Cocco, fanno.
Al momento, infatti, funziona che questa è al servizio delle grandi aziende, delle multinazionali, dei pochi geniacci dell’app mentre i restanti 6.5 miliardi persone (… e il calcolo è alla buona) si connettono ad internet ed usano Whatsapp.
Un po’ come i vantaggi dell’eurozona. Da una parte pochi esercitano il potere, fanno affari, traggono interessi e aumentano il lusso, dall’altra la maggior parte delle persone grazie all’euro va in vacanza in Francia, Germania, Spagna e Grecia senza il fastidio di dover cambiare valuta.
Nel caso specifico, si impone nella discussione la “necessaria” flessibilità, la diminuzione dei diritti, delle tutele e degli stipendi in cambio del lavoro. O lo si accetta oppure l’arroganza del potere minaccia la fuoriuscita dal Paese alla ricerca di altri luoghi dove imporre la giungla del mercato. Ed è chiaro che in questo momento storico questo potere vincerà perché fuori dalla portata di Di Maio e del tentativo tutto italiano di mettere la dignità davanti al potere c’è il mondo. Un mondo neoliberista, flessibile, disuguale e classista che non sa che farsene della coscienza di un ragazzo di trent’anni che vuole fare il Ministro e vorrebbe andargli contro.
La tecnologia aiuterà l’essere umano solo quando sarà democratizzata ma in questo momento bisogna prendere atto che laddove non fossimo capaci di piegarla al nostro bisogno allora Foodora, come minacciato dal suo Amministratore, può accomodarsi alla porta, ce ne faremo una ragione. Non vogliamo avere uno schiavo a consegnarci la pizza, non necessariamente dobbiamo essere partecipi di questo obbrobrio, possiamo perfino scegliere di comprare le scarpe al negozio all’angolo e, forse, in questo sistema sbagliato di valori contribuiremmo a migliorare la vita di tutti.
Il bisogno di rivolgersi ad Amazon è un falso bisogno o, meglio, un bisogno indotto dalla necessità di contenere le nostre spese e gestire il nostro tempo. Ma questi purtroppo sono due aspetti della vita moderna scolpita nello stampo neoliberista che vuole lo scambio sociale al minimo al pari dei salari, in modo da avere più potere di contrattazione e controllo del dissenso.
E quindi la battaglia di DI Maio mi sembra una gran bella battaglia, dignitosa e onesta, che meriterebbe un sostegno forte almeno da parte di noi cittadini, anche di quelli che hanno un lavoro meglio pagato e tutelato dei “porta pizza”. Un momento, questo, in cui fare Paese e smetterla di attaccare l’operato di questo Governo, di tener conto sì dei 620 migranti indirizzati in Spagna ma anche considerare i 1.000 appena sbarcati e metter insieme le due cose, riflettere per indirizzare la lotta politica e di opinione, comprendere di cosa ha realmente bisogno la gente.
E prendere atto che la politica sta davvero cambiando, bisogna farsi forza e vedere cose che ci sono finora sfuggite. Il PD aveva torto e continua ad averne. Perché dell’impatto della tecnologia sulla dignità del lavoro, dello strapotere delle multinazionali, dei riders e dei migranti utilizzati nella raccolta dei pomodori e della frutta a 2 euro all’ora, della schiavitù sempre più evidente a cui il lavoratore italiano e straniero è sottoposto sul nostro territorio, non si è mai occupato veramente oppure l’ha accettata o, peggio, ha fatto finta di niente e l‘ ha nascosta dietro le belle chiacchiere di Saviano. Sono mesi che il PD parla dell’importanza di fare autocritica ma i suoi dirigenti continuano a sparlare e ad attaccare più gli altri che se stessi perché forse hanno già deciso di non avere niente di cui pentirsi o da rimettere in discussione.
E gli attacchi arrivano da tutte le TV dando l’impressione, viste le presenze, di aver occupato lì le poltrone che gli sono sfuggite a Palazzo Chigi.
Questo Governo non sta’ facendo campagna elettorale ma qualcosa a cui non eravamo abituati: sta facendo. Eravamo abituati alle grandi promesse prima e al silenzio dopo, invece Salvini sta procedendo come i treni, su binari tracciati in campagna elettorale. Sta mettendo in atto, lui come Di Maio quello che avevano annunciato di voler fare.
La cosa ci sconvolge talmente tanto che questo darsi da fare non sappiamo come chiamarlo e lo chiamiamo campagna elettorale, cioè, invece di appoggiarlo e rispettarlo e magari legittimamente criticarlo e indicare vie diverse senza dimenticare l’obiettivo, lo denigriamo. Rivogliamo dunque Renzi, Del Rio, Padoan e la Boschi? E per far cosa, perché tutto rimanga fermo e uguale seguendo quel processo che la sinistra ha iniziato negli anni ’80 quando ha abbandonato la gente, le persone, i lavoratori per dedicarsi al grande capitale e alla finanza?
In questi anni è stato creato un modello di società diviso in due, poveri e ricchi. Come non se ne vedevano dai tempi peggiori dei re e dei nobili con l’aggravante che i tribuni della plebe, negli ultimi decenni, parteggiavano per i ricchi. E questa situazione ci costringe a gridare al miracolo quando un partito, talmente liberista da proporre addirittura la Flat Tax di Milton Freedman, dimostra di tenere di più alla gente dei tribuni della plebe, mostra un volto umano e si preoccupa non di risanare a parole l’immagine del mondo ma nei fatti di migliorare l’esistenza di qualche milione di italiani e di coloro, non italiani, che ci vivono, di ridare dignità alle città e alla convivenza insieme ad un altro partito che vuole ridare dignità al lavoro rimettendo mano alle opere di “sinistra” come il Job Acts e la legge Fornero e tutti insieme rivedere i termini dell’Unione Bancaria per evitare la completa distruzione e precarizzazione del sistema bancario.
E magari ridare dignità al processo di unificazione europea guardandolo, finalmente, non dal solo punto di vista finanziario e di tutela delle élite, ma anche dal punto di vista delle persone reali e degli europei, se mai esistesse una identità in tal senso anche fuori dai confini del limes romano.

Porto Ferrara: una sinistra plurale col desiderio di capire

di Laura Fogagnolo

E’ un’interessante pubblicazione ‘Porto Ferrara‘ che chiude gli anni settanta in città. Un mensile d’informazione culturale che ha l’esordio interno alla CoopStudio nel gennaio ‘82, poi, dal numero due del marzo dello stesso anno, l’intera progettazione grafica sarà curata da Claudio Gualandi come libero professionista. Tiratura: cinquemila copie.
E’ un odore di polvere stantia quello che coglie le narici, quando si sfogliano le pagine di questa rivista dal taglio innovativo, unita ad un superbo corredo fotografico.
Anime redazionali ne sono: Luciano Bertasi, Mario Fornasari, Stefano Tassinari, Giuliano Guietti, Sandra Pareschi, Marco Tani, Alberto Tinarelli e Marilena Zaccarini, coadiuvati da una nutrita compagine di collaboratori fissi e saltuari che si alternano nel dibattito sull’attualità, sulle problematiche sociali nonché sul ruolo del sindacato e sulla cultura con incursioni nella critica cinematografica, teatrale e musicale.
Sono le voci e le espressioni dei futuri quadri professionali e dirigenziali dell’Ente Locale, dell’Università unite a quella del Sindacato.
In una nota rivolta alla critica dietrologica, il comitato redazionale afferma testualmente che “la pubblicazione nasce come iniziativa aperta, luogo di espressione e confronto di posizioni diverse dentro la sinistra. Suo scopo è di contribuire ad un innalzamento del dibattito politico e culturale della città e della provincia”.
Gli articoli economici registrano la grave crisi aziendale dell’allora Montedison, uscita da una Cassa Integrazione di dieci mesi nel 1981, quando si paventavano cinquecento licenziamenti per ridimensionamento nel Petrolchimico. L’ex sindacalista, segretario provinciale della Federazione Lavoratori Chimici, e futuro Sindaco della città nella seconda metà degli anni novanta, Gaetano Sateriale auspicava l’apertura di un dibattito culturale sulle scelte di politica industriale e sulle trasformazioni che il tessuto sociale stava subendo.
Negli stessi anni la Berco, l’industria metalmeccanica di Copparo, dopo aver conosciuto uno sviluppo senza precedenti dal ’75 all’80, a causa della saturazione dei mercati e del blocco delle opere pubbliche nei Paesi occidentali, era afflitta da una caduta e da una grave crisi che sboccava nella proposta di riduzione di mano d’opera di centosettantotto unità e l’avviamento alla Cassa Integrazione di duemila operai.
Sorge inevitabilmente, dalla lettura degli articoli economici, una riflessione amara sul destino e sulla sorte della classe operaia oggi, a quasi quaranta di distanza, che ci interroga sul futuro e sulle mutazioni in corso della forza lavoro.
Risolleva, per fortuna, l’umore la lettura dell’articolo di Francesco Monini sulla mostra: Ferrara a Parigi dal diciannove aprile alla fine di maggio dell’82. Rivolta al pubblico cosmopolita di Parigi, l’esposizione rappresentava un assaggio di Ferrara che permetteva alla città di affacciarsi al mondo e di incrementare l’industria turistica, mentre le aziende di casa se la passavano male.
Si delineano, in quegli anni, le direttrici della promozione turistica della città che daranno frutti duraturi con le grandi mostre di Palazzo dei Diamanti, patrocinate dal genio di Franco Farina, e le iniziative culturali che faranno conoscere Ferrara a livello europeo ed internazionale.

La fragilità come valore

“Fragilità, il tuo nome è donna” sosteneva Shakespeare, nonostante l’ombra della fragilità incomba su molti suoi personaggi maschili. Uomini fragili come Otello, travolto dalla passione e tormentato dal tradimento di Desdemona, come Amleto, in preda alle ossessioni e ai fantasmi, o come Macbeth, manipolato abilmente dalla moglie, indotto a pulsioni aggressive che sfociano in omicidi efferati. In realtà la condizione di fragilità riguarda il genere umano nella sua interezza, si manifesta con mille sfaccettature, a volte ci caratterizza per l’intera vita, in altri casi ci coglie alla sprovvista, senza preavviso alcuno. La vulnerabilità fa parte integrante della natura umana perché non siamo onnipotenti o supereroi e tutti dovremmo avere il diritto di sentirci coscientemente fragili, senza dover simulare cortecce o corazze che rappresentino un tentativo di difesa da un’immagine di invincibilità che la società spesso impone.

Lo spettro delle fragilità è molto ampio e va dal disagio creato dai piccoli patemi d’animo alle grandi questioni molto più impattanti, condizioni che meritano tutte attenzione e sostegno. Un tempo esisteva un codice di comportamento condiviso, ora mancano spesso legami e riconoscimento reciproco, persi come siamo in uno smarrimento esistenziale evidente, dove infelicità e insensibilità trovano terreno fertile. Spiragli di fragilità sempre più rimarcabili vengono categorizzati e gestiti troppo spesso come emergenze burocratiche piuttosto che attivare umanità autentica e senso di protezione, impedendo in questo modo a chi è debole di rimanere parte attiva e costruttiva della propria vita. Silenzio e indifferenza, omertà davanti a bullismo e violenza in generale, sgretolamento del sistema familiare e relazioni virtuali che passano come sostitutive dei reali rapporti personali, prospettano un’immagine di società disorientata, vicina al collasso relazionale e comunicativo, semiparalizzata nella sfera emotiva e spirituale.

La letteratura non mente sulle fragilità: le descrive, le racconta, le sviscera, le accompagna, le asseconda; ha la capacità di scavare silenziosamente dentro i personaggi scorticati dalla vita, fino ad arrivare negli abissi dell’interiorità. Ce lo dice Alda Merini che ci sbatte in faccia le sue fragilità gridandole. Ce lo scrive Cesare Pavese quando dichiara: “In sostanza chiedo un letargo, un anestetico, una certezza di essere ben nascosto. Non chiedo la pace nel mondo, chiedo la mia”. Ce lo scrive Giuseppe Ungaretti in ‘Veglia’, dove trascorre impotente la notte accanto al cadavere di un amico in trincea “massacrato, con la sua bocca digrignata”, nel 1915, alla vigilia di Natale. Lo scrive anche Moravia in ‘La romana’ (1949), dove Adriana, modella mancata, prostituta e madre per caso, confessa: “Avevo capito che la mia forza non era il desiderare di essere quella che non ero, ma di accettare quello che ero. La mia forza erano la povertà, il mio mestiere, la mamma, la mia brutta casa, i miei vestiti modesti, le mie umili origini, le mie disgrazie e, più intimamente, quel sentimento che mi faceva accettare tutte queste cose e che era profondamente riposto nel mio animo come una pietra preziosa dentro la terra.”
Anche Isabel Allende ci consegna le pagine più intime, profonde e intense della sua carriera letteraria, quando descrive la propria condizione di estrema fragilità al capezzale della figlia Paula, gravemente malata, nel romanzo che prende proprio il suo nome: ‘Paula’ (1995). “Ho passato quarantanove anni correndo, nell’azione e nella lotta, dietro mete che non ricordo, inseguendo qualcosa senza nome che era sempre più in là. Ora sono costretta a rimanere ferma e silenziosa; per quanto corra non arrivo da nessuna parte, se grido nessuno mi sente. Mi hai dato il silenzio per riflettere sul mio passaggio per questo mondo, Paula, per tornare al passato vero e recuperare la memoria che altri hanno dimenticato… Sono impaurita. Altre volte, prima, ho avuto molta paura, ma c’era sempre una via d’uscita, persino nel terrore del colpo di stato c’era la salvezza dell’esilio. Adesso sono in un vicolo cieco, non ci sono porte aperte sulla speranza e non so che fare”.
Il filosofo Seneca, in ‘La condizione umana’, richiama in modo molto moderno e attuale alla solidarietà verso tutti gli esseri umani, i più poveri, i disprezzati, schiavi, sofferenti, unico tra i filosofi pagani a pronunciarsi apertamente contro l’inumano e barbarico spettacolo delle arene. Vede gli uomini del suo tempo senza veli e mistificazioni: creature fragili, ignare, vittime di illusioni dovute dagli impulsi irrazionali. Un uomo inquieto, lacerato fra spinte contrastanti, conscio della sua stessa debolezza. ‘Fragilità’ deriva dal latino ‘frangere’, rompere: rompere un equilibrio, una condizione, una simmetria, un’armonia, un’unità dal punto di vista psicologico o fisico. Dovremmo dare fondo a tutte le nostre risorse per trasformare questa condizione in opportunità aiutandoci e facendoci aiutare.

In Giappone esiste una pratica, l’Arte del Kintsugi, dal profondo valore concreto e spirituale. Si dedica a riparare le fratture di un oggetto con l’oro e l’argento; la crepa diventa valore e rende l’oggetto unico e irripetibile e la linea di rottura diventa meravigliosa traccia luminosa di un solco dorato.

C’è un strada sul mare: lettera aperta al Ministro dell’Interno Salvini

Respingere, chiudere i porti, accelerare i rimpatri: la linea dura di Matteo Salvini e del governo giallo-verde, non è solo razzista e antiumanitaria. E’ anche sbagliata e fallimentare. Proprio come quella dei precedenti governi, a guida Forza Italia e Partito Democratico. Per affrontare davvero e seriamente la grande migrazione occorre percorrere una strada completamente diversa, quella della legalità. Occorre prima di tutto riscrivere i regolamenti per il rilascio dei visti nei paesi africani. Introdurre il visto per ricerca di lavoro, il meccanismo dello sponsor, il ricongiungimento familiare. E negoziare in Europa affinché siano visti validi per circolare e cercarsi un lavoro in tutta la zona Ue.
Sono queste le ‘proposte ragionevoli’ che da molte parti si levano, ma che non trovano ascolto da parte della nostra classe politica, sia nelle forze politiche che stanno ora al governo, sia in quelle che al governo ci sono state fino a ieri l’altro.
Lo spiega molto bene, nella lettera aperta che pubblichiamo, Gabriele Del Grande, blogger molto noto, regista, ‘contabilizzatore’ di stragi di migranti, autore di reportage nei paesi nordafricani e non solo.

Francesco Monini

Confesso che su una cosa sono d’accordo con Salvini: la rotta libica va chiusa. Basta tragedie in mare, basta dare soldi alle mafie libiche del contrabbando. Sogno anch’io un Mediterraneo a sbarchi zero. Il problema però è capire come ci si arriva. E su questo, avendo alle spalle dieci anni di inchieste sul tema, mi permetto di dare un consiglio al ministro perché mi pare che stia ripetendo gli stessi errori dei suoi predecessori.
Blocco navale, respingimenti in mare, centri di detenzione in Libia. La ricetta è la stessa da almeno quindici anni. Pisanu, Amato, Maroni, Cancellieri, Alfano, Minniti. Ci hanno provato tutti. E ogni volta è stato un fallimento: miliardi di euro persi e migliaia di morti in mare.
Questa volta non sarà diverso. Per il semplice fatto che alla base di tutto ci sono due leggi di mercato che invece continuano a essere ignorate. La prima è che la domanda genera l’offerta. La seconda è che il proibizionismo sostiene le mafie. In altre parole, finché qualcuno sarà disposto a pagare per viaggiare dall’Africa all’Europa, qualcuno gli offrirà la possibilità di farlo. E se non saranno le compagnie aeree a farlo, lo farà il contrabbando.

Viviamo in un mondo globalizzato, dove i lavoratori si spostano da un paese all’altro in cerca di un salario migliore. L’Europa, che da decenni importa manodopera a basso costo in grande quantità, in questi anni ha firmato accordi di libera circolazione con decine di paesi extraeuropei. Che poi sono i paesi da dove provengono la maggior parte dei nostri lavoratori emigrati: Romania, Albania, Ucraina, Polonia, i Balcani, tutto il Sud America. La stessa Europa però, continua a proibire ai lavoratori africani la possibilità di emigrare legalmente sul suo territorio. In altre parole, le ambasciate europee in Africa hanno smesso di rilasciare visti o hanno reso quasi impossibile ottenerne uno.
Siamo arrivati al punto che l’ultima e unica via praticabile per l’emigrazione dall’Africa all’Europa è quella del contrabbando libico. Le mafie libiche hanno ormai il monopolio della mobilità sud-nord del Mediterraneo centrale. Riescono a spostare fino a centomila passeggeri ogni anno con un fatturato di centinaia di milioni di dollari ma anche con migliaia di morti.
Eppure non è sempre stato così. Davvero ci siamo dimenticati che gli sbarchi non esistevano prima degli anni Novanta? Vi siete mai chiesti perché? E vi siete mai chiesti perché nel 2018 anziché comprarsi un biglietto aereo una famiglia debba pagare il prezzo della propria morte su una barca sfasciata in mezzo al mare? Il motivo è molto semplice: fino agli anni Novanta era relativamente semplice ottenere un visto nelle ambasciate europee in Africa. In seguito, man mano che l’Europa ha smesso di rilasciare visti, le mafie del contrabbando hanno preso il sopravvento.
Allora, se davvero Salvini vuole porre fine, come dice, al business delle mafie libiche del contrabbando, riformi i regolamenti dei visti anziché percorrere la strada del suo predecessore. Non invii i nostri servizi segreti in Libia con le valigette di contante per pagare le mafie del contrabbando affinché cambino mestiere e ci facciano da cane da guardia. Non costruisca altre prigioni oltremare con i soldi dei contribuenti italiani. Perché sono i nostri soldi e non vogliamo darli né alle mafie né alle polizie di paesi come la Libia o la Turchia.

Noi quelle tasse le abbiamo pagate per veder finanziato il welfare! Per aprire gli asili nido che non ci sono. Per costruire le case popolari che non ci sono. Per finanziare la scuola e la sanità che stanno smantellando. Per creare lavoro. E allora sì smetteremo di farci la guerra fra poveri. E allora sì avremo un obiettivo comune per il quale lottare. Perché anche quella è una balla. Che non ci sono soldi per i servizi. I soldi ci sono, ma come vengono spesi? Quanti miliardi abbiamo pagato sottobanco alle milizie libiche colluse con le mafie del contrabbando negli anni passati? Quanti asili nido ci potevamo aprire con quegli stessi denari?
Salvini non perda tempo. Faccia sbarcare i seicento naufraghi della Aquarius e anziché prendersela con le ong, chiami la Farnesina e riscrivano insieme i regolamenti per il rilascio dei visti nei paesi africani. Introduca il visto per ricerca di lavoro, il meccanismo dello sponsor, il ricongiungimento familiare. E con l’occasione vada a negoziare in Europa affinché siano visti validi per circolare in tutta la zona Ue e cercarsi un lavoro in tutta la Ue, anziché pesare su un sistema d’accoglienza che fa acqua da tutte le parti.

Perché io continuo a non capire come mai un ventenne di Lagos o Bamako, debba spendere cinquemila euro per passare il deserto e il mare, essere arrestato in Libia, torturato, venduto, vedere morire i compagni di viaggio e arrivare in Italia magari dopo un anno, traumatizzato e senza più un soldo, quando con un visto sul passaporto avrebbe potuto comprarsi un biglietto aereo da cinquecento euro e spendere il resto dei propri soldi per affittarsi una stanza e cercarsi un lavoro. Esattamente come hanno fatto cinque milioni di lavoratori immigrati in Italia, che guardate bene non sono passati per gli sbarchi e tantomeno per l’accoglienza. Sono arrivati dalla Romania, dall’Albania, dalla Cina, dal Marocco e si sono rimboccati le maniche. Esattamente come hanno fatto cinque milioni di italiani, me compreso, emigrati all’estero in questi decenni. Esattamente come vorrebbero fare i centomila parcheggiati nel limbo dell’accoglienza.
Centomila persone costrette ad anni di attesa per avere un permesso di soggiorno che già sappiamo non arriverà in almeno un caso su due. Perché almeno in un caso su due abbiamo davanti dei lavoratori e non dei profughi di guerra. Per loro non è previsto l’asilo politico. Ma non è previsto nemmeno il rimpatrio, perché sono troppo numerosi e perché non c’è la collaborazione dei loro paesi di origine. Significa che di qui a un anno almeno cinquantamila persone andranno ad allungare le file dei senza documenti e del mercato nero del lavoro.
Salvini dia a tutti loro un permesso di soggiorno per motivi umanitari e un titolo di viaggio con cui possano uscire dal limbo dell’accoglienza e andare a firmare un contratto di lavoro, che sia in Italia o in Germania. E dare così un senso ai progetti che hanno seguito finora. Perché l’integrazione la fa il lavoro. E se il lavoro è in Germania, in Danimarca o in Norvegia, non ha senso costringere le persone dentro una mappa per motivi burocratici. Altro che riforma Dublino, noi dobbiamo chiedere la libera circolazione dentro l’Europa dei lavoratori immigrati. Perché non possiamo permetterci di avere cittadini di serie A e di serie B. E guardate che lo dobbiamo soprattutto a noi stessi.
Perché chiunque di noi abbia dei bambini, sa che cresceranno in una società cosmopolita. Già adesso i loro migliori amici all’asilo sono arabi, cinesi, africani. Sdoganare un discorso razzista è una bomba a orologeria per la società del domani. Perché forse non ce ne siamo accorti, ma siamo già un noi. Il noi e loro è un discorso antiquato. Un discorso che forse suona ancora logico alle orecchie di qualche vecchio nazionalista. Ma che i miei figli non capirebbero mai. Perché io non riuscirei mai a spiegare ai miei bambini che ci sono dei bimbi come loro ripescati in mare dalla nave di una ong e da due giorni sono bloccati al largo perché nessuno li vuole sbarcare a terra.

Chissà, forse dovremmo ripartire da lì. Da quel noi e da quelle battaglie comuni. Dopotutto, siamo o non siamo una generazione a cui il mercato ha rubato il futuro e la dignità? Siamo o non siamo una generazione che ha ripreso a emigrare? E allora basta con le guerre tra poveri. Basta con le politiche forti coi deboli e deboli coi forti.
Legalizzate l’emigrazione Africa –Europa, rilasciate visti validi per la ricerca di lavoro in tutta l’Europa, togliete alle mafie libiche il monopolio della mobilità sud-nord e facciamo tornare il Mediterraneo a essere un mare di pace anziché una fossa comune.
O forse trentamila morti non sono abbastanza?
Gabriele Del Grande

Matteo Salvini: l’assalto all’Europa e gli ostaggi in mezzo al mare

E’ vero, l’Italia è stata lasciata sola, mentre la grande onda immigratoria è un problema e una responsabilità comune di tutti i paesi europei e dell’intero Occidente. Ma il ‘sistema Salvini’ , la chiusura dei porti, incammina il nostro paese verso una deriva illiberale, verso un’autarchia miope e suicida.

Per tutta la notte, poi sotto un sole infuocato, e non sappiamo ancora per quanto, la nave Aquarius è andata avanti e indietro tra l’Italia e l’isola di Malta con il suo carico dei 629 migranti. Abbiamo visto i video e le foto dei salvataggi in mare, le facce impaurite, i bambini, le donne incinte. Sono lì, aspettano. Il ministro dell’Interno Salvini ha chiuso i porti, decidendo di passare dalle parole ai fatti. Il suo è un braccio di ferro, una prova di forza, un messaggio non tanto a Malta, che i porti li ha già chiusi da un pezzo, ma all’intera Europa che “ha lasciato sola l’Italia davanti all’emergenza sbarchi”.

Ora, ci sono tanti modi per ‘far pressione’ per costringere l’Europa a farsi carico di una responsabilità che, ovviamente, non è solo italiana, ma europea, collettiva, di tutto il ricco Occidente. Probabilmente Pannella avrebbe iniziato uno sciopero della fame e della sete, qualcun altro avrebbe bloccato l’invio dei contributi italiani all’Europa, Matteo Salvini ha scelto invece un metodo antico – e il più odioso – lo stesso utilizzato da Billy the Kid, Renato Vallanzasca, o da qualsiasi rapinatore di banche. Per compiere la sua impresa, non ha puntato solo la pistola, ma ha preso degli ostaggi.
Mentre arrivano notizie di altre navi, altre centinaia di disperati, in viaggio per il Mediterraneo in cerca di approdo – per buona sorte la nuova Spagna del socialista di Sanchez ha aperto i suoi porti alla nave Aquarius – il nuovo governo giallo-verde vive la sua prima crisi d’identità. Alcuni esponenti pentastellati, e tantissimi simpatizzanti, non vogliono proprio mandar giù la ricetta draconiana imposta dalla Lega.

Intanto, sui social impazzano gli hashtag contrapposti. Da una parte #chiudiamoiporti, dall’altra #portiaperti , o anche #umanitaperta. E troppo semplicistico? Certo, scrivono i commentatori intelligenti, i problemi non si risolvono con gli hastag o con gli slogan, specie un tema enorme e complesso come quello della gestione di una imponente ondata migratoria. O quello di un’Europa mai come oggi incerta, divisa, periferica, sbeffeggiata: dalla Russia di Putin come dall’America di Trump.
Però – questa almeno è la mia idea – a volte, poche volte, nella storia di una nazione, prima ancora di approfondire, analizzare, mediare, viene il bianco e il nero. Occorre cioè prendere una posizione netta. Schierare la propria coscienza, i propri atti, la propria vita da una parte o dall’altra.
E’ successo con il fascismo e la Resistenza: rimanere buoni e zitti, accettare un regime illiberale o promuovere – e muoversi – per la libertà e la democrazia. E sta succedendo oggi. Il bianco e il nero. Senza sfumature. O vogliamo un’Italia blindata, sempre più vecchia e più povera di libertà (#chiudiamoiporti). Oppure crediamo in un’Italia aperta, coraggiosa, accogliente, capace di dialogo e integrazione (#portiaperti).
Le prossime settimane e i prossimi mesi non ci diranno solo o tanto la tenuta o la rottura dell’alleanza giallo verde. Morto un governo se ne fa un altro, e dalle nostre parti i governi muoiono molto più spesso dei papi, senza portare a necessarie sciagure. Ci aspetta invece un confronto – e uno scontro – molto più importante. Un quesito semplice quanto decisivo. Quale idea di Italia e di democrazia abbiamo in testa? Porti aperti o porti chiusi?

Porto Ferrara: una rivista non provinciale

di Pier Luigi Guerrini

Nel 1982, quando esce in edicola, a Ferrara si erano spente da tre anni le note musicali in fm di Radio Ferrara Centrale, dalla Torre dell’Orologio sulla piazza principale. Il Pci aveva traslocato da poco tempo da Via Carlo Mayr al “botteghino” di Via Porta Mare.
Fin dal primo numero, il mensile Arci dedica una forte attenzione al fattore culturale, la “mission” per eccellenza, dando spazio a ciò che si produceva sia dentro le Istituzioni, nel “palazzo”, sia nel tessuto associativo diffuso. Nelle due pagine centrali del numero d’esordio, Franco Farina (scomparso di recente), allora Direttore del Palazzo dei Diamanti e delle Gallerie d’Arte moderna e Musei, rispondendo alle domande pungenti di Stefano Tassinari, esprimeva con chiarezza il suo amore per Ferrara, presentava alcuni progetti in corso d’opera o in nuce, non nascondendosi però le difficoltà di rapporto col carattere dei ferraresi, generosi ma mai contenti di ciò che si proponeva.
Con un esempio paradossale, un po’ ruvido, Farina diceva “che se scomparisse il castello la gente se ne accorgerebbe soltanto perché verrebbe a mancare l’ombra durante le passeggiate in Corso Martiri. Si avverte molto la mentalità borghese del ‘cittadino’, quello che magari non si sente mai appagato dalle iniziative culturali, ma che se fosse proprietario del giardino situato dietro Palazzo dei Diamanti, penserebbe a costruirci un condominio”.
In ogni numero, ci sono rubriche fisse che danno conto puntualmente di avvenimenti, mostre, incontri attinenti l’ambito della poesia. I curatori di queste rubriche sono: Roberto Pazzi, che non disdegna di sviluppare piccoli bellissimi racconti tra fantasia, storia locale e attualità; Massimo Cavallina, di Ricerche inter/media (poesia fonetica e spettacol-azioni visive) che aveva sede presso la famosa agenzia libraria Einaudi gestita da Roberto Niceforo; Maurizio Camerani (mail art, biennali di arti visive e recensioni librarie).
Nel numero quattro si dà ampio spazio al ‘1° premio nazionale di poesia Castello Estense‘, promosso dalla rivista Poeticamente. Vengono riprodotte tre liriche di alcuni finalisti tra cui un’opera di poesia visiva di Romolina Trentini. Purtroppo, come spesso accade, alla prima edizione di un premio nazionale manca il seguito di una seconda edizione… Le responsabilità erano, a mio parere, da ricercare sia nel passo un po’ avventato degli organizzatori (che andavano comunque incoraggiati) e sia nelle Istituzioni che erano (sono?) ancora “ammalate” di un dirigismo culturale che decretava chi doveva essere sostenuto e chi, invece, no. Un esempio, una conferma di quanto abbiamo appena fermato sul foglio, lo troviamo nel numero successivo di ‘Porto Ferrara’ (il numero cinque). Si parla dell’organizzazione della manifestazione culturale di respiro nazionale ‘La nuova poesia’, curata dall’Assessorato alle Istituzioni Culturali del Comune di Ferrara. Viene annunciato l’arrivo a Ferrara (alla Sala Polivalente) di numerosi poeti e critici da tutta Italia. Tra i poeti attesi, in gran parte nati attorno al 1945, si citano Bianca Maria Frabotta, Alfonso Berardinelli, Vivian Lamarque, Sandra Petrignani, Adriano Spatola, Franco Cordelli, Valerio Magrelli, Giuliano Gramigna e Roberto Pazzi. Nel numero doppio (sei/sette) successivo, un ampio resoconto di Stefano Tassinari, dal titolo ‘La Polivalente in versi‘, analizzava senza sconti l’esito della manifestazione sulla “nuova poesia”. Accanto ad alcune, poche, valorizzazioni ovviamente soggettive (Magrelli e Pazzi), Stefano Tassinari descriveva la delusione, del folto pubblico accorso all’evento, per l’assenza di gran parte degli autori annunciati. Un’iniziativa lodevole, concludeva Tassinari, ma che “per attecchire deve mettere radici con un dipartimento specifico di cui facciano parte operatori artistici, persone in grado di dare continuità e profondità ad una ricerca”. Una proposta molto interessante che non sappiamo se sia stata presa positivamente in considerazione e l’eventuale durata nel tempo. Nel numero seguente, l’informazione è sul Convegno dedicato alla ‘Editoria femminista‘, organizzato dal Centro Documentazione Donna di Ferrara e coordinato da Luciana Tufani. Nel numero di dicembre (11/1982), Daniela Rossi, nell’articolo ‘Una rivista al femminile’, fa un resoconto critico di questa due giorni sulla stampa e l’editoria femminista. Il focus dell’articolo è sulla rivista Dwf (Donna Woman Femme). La direttrice Annarita Buttafuoco evidenzia il tema del rapporto sempre più difficile tra la sfera dell’ambito personale e la connessione col politico. Un politico che, anche e soprattutto, tra le donne appare sempre più frammentato. Col numero di gennaio 1983, la rivista chiude la propria breve storia. Una fine precoce, forse dovuta a difficoltà economiche del committente Arci.

La paura e la (falsa) coscienza della Sinistra: anatomia di un tracollo

A giudicare dall’analisi post voto fatta dal Pd e da molti commentatori (alcuni non sospetti di simpatie del partito di Renzi), sembra che la vittoria delle cosiddette forze populiste e xenofobe sia il risultato di un’invasione aliena. Oppure, il frutto dell’imbecillimento di un popolo bue che si è lasciato infinocchiare dalle fake news. Nessuna autocritica da parte di chi ha governato e ha perso la tornata elettorale. Ma neppure da parte di quella sinistra di testimonianza divenuta più borghese e snob persino della componente renziana del Pd.
Prendiamo il fenomeno migratorio su cui molto si è giocato e che molto ha inciso sull’esito elettorale. Proprio su questo fenomeno il Pd, in tutte le sue ramificazioni, non ha saputo proporre un punto di vista, non dico di sinistra (che sarebbe troppo), non dico progressista (anche qui si rischia di esagerare), ma nemmeno liberal-democratico per governare il fenomeno mettendo al centro i diritti delle persone. Si è osannato Minniti per aver fatto un accordo con una banda armata di criminali libici ai quali abbiamo affidato (dietro lauto compenso) il lavoro sporco di controllare i porti da cui salpavano i barconi, disinteressandosi completamente di quanto poi accade nei lager (perché tali sono) in Libia dove gli stupri, le torture e sicuramente anche le uccisioni sono all’ordine del giorno. Ma come si dice: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Ci si è bellamente voltati dall’altra parte gongolandoci nei complimenti dei partners europei che così hanno visto ridursi un po’ la pressione migratoria. Ma anche a quelli che sono riusciti a sbarcare sulle nostre coste, tutto ciò che si è saputo offrire loro sono stati due anni di reclusione (perché tanto durano in media le pratiche per il riconoscimento dello status di rifugiato) nei centri di accoglienza a scontare una pena che nessun giudice ha stabilito. Un obbrobrio giuridico in piena regola. E quando qualcuno riesce ad uscire da lì, oppure da lì riesce a non passare dandosi alla macchia prima, tutto ciò che li aspetta è vivere di elemosina davanti ai negozi delle città (Ferrara compresa) o in alternativa accettare una condizione da semi schiavi nelle campagne del sud in condizioni inumane. Per non parlare di quelli che finiscono nelle braccia della criminalità organizzata come manovalanza per lo spaccio. Pochi sono quelli che trovano una vera occupazione, nessuno tra quelli senza permesso di soggiorno. A chi fa comodo questo esercito di manodopera di riserva? Sicuramente alla criminalità organizzata. Sicuramente ad alcuni settori tecnologicamente arretrati della nostra economia (agricoltura ed edilizia) e spesso tra i due settori (economia e criminalità) c’è una saldatura in cui la linea di confine tra proprietari terrieri, caporali e criminalità organizzata, praticamente non esiste, come l’assassinio del sindacalista Soumayla Sacko, il 29enne del Mali, in Calabria ancora una volta sta dimostrando. Su questo gravissimo episodio che avrebbe dovuto rimandare le coscienze alla storia di questo paese quando i sindacalisti dei braccianti venivano assassinati dalla mafia, si sarebbe dovuto levare un coro assordante di condanna. Invece, nulla o quasi. E quindi, di cosa meravigliarsi se i Salvini (che non è nemmeno il peggiore, nel senso che declinato su un sedicesimo su scala locale poi si arriva ad un Naomo, esponente ferrarese della Lega) poi vincono le elezioni? Ma non è tutto, perché questo esercito di manodopera di riserva serve ad abbassare pericolosamente il livello dei diritti dei lavoratori in generale in una guerra tra poveri senza tregua ed è ciò che non ha capito la sinistra o non ha voluto ammettere esplicitamente perché confliggeva con la falsa morale dell’accoglienza. Ed è qui che la xenofobia fa presa sui sentimenti di paura e di esclusione dalla possibilità di avere una vita ed un lavoro dignitosi. E dunque, come non pensare che questi flussi migratori siano, in fin dei conti, funzionali a questo sistema di produzione capitalistico onnivoro che ha continuamente bisogno di forze fresche, giovani, vigorose, ma soprattutto a basso costo e a bassi diritti perché facilmente ricattabili? Perché non pensare che questi flussi siano il prodotto di una lotta di classe del capitale che vuole assestare il colpo di grazia definitivo ai diritti dei lavoratori in quei paesi dove più questi diritti sono avanzati? Forze fresche funzionali soprattutto in un’economia come la nostra a basso tasso di innovazione tecnologica dove i picchi di produttività sono dati soprattutto dal fattore umano.
La sinistra tutta, dal Pd in giù, non ha saputo riappropriarsi di un concetto cardine che storicamente le è stato proprio: la difesa della dignità umana. Un concetto che unisce i lavoratori e le persone di tutti i colori e potrebbe essere un cardine programmatico per il rilancio di un pensiero di sinistra. Dove sta la difesa della dignità delle persone quando le si costringe a chiedere l’elemosina? Dove sta la difesa della loro dignità quando le si costringe a vivere in condizioni inumane? Li abbiamo salvati dal mare, e poi? Li abbiamo abbandonati a se stessi. Nessun progetto di inserimento serio. Nessun percorso di alfabetizzazione obbligatorio, che non vuol dire solo alfabetizzazione alla lingua italiana, ma anche ai nostri usi costumi norme e alla nostra Costituzione. Molte di queste persone vengono da paesi in cui non sanno nemmeno cosa sia una Costituzione, né tanto meno sanno quanto ci è costato conquistare la nostra (per la verità sono in buona compagnia con molti nostri connazionali italiani doc). Questo sì che è un problema serio per la “tenuta democratica del nostro paese”, per usare le parole dell’ex ministro Minniti.
La risposta al fenomeno migratorio non può essere principalmente di tipo sicuritario, anche se la pena per chi delinque e la persecuzione dei reati devono essere certi, immediati e senza sconti. Ma non è con questi strumenti che si fa integrazione e si combattono le sacche di marginalità che sfociano nella delinquenza. Resto convinto che lo strumento principale sia il presidio del territorio attraverso la cultura, portando le iniziative culturali in tutti i quartieri e le frazioni, soprattutto in quelli più problematici, aprendo una biblioteca per ogni quartiere che diventi centro di aggregazione per i cittadini di tutte le età e polo culturale a tutti gli effetti in cui discutere e confrontarsi sui temi scottanti della nostra epoca in una sorta di moderna agorà della polis greca. Si tratta, insomma, di immaginare pensare costruire città policentriche e non centro-centriche dove tutte le iniziative culturali e di intrattenimento si tengono nei salotti buoni dei centri storici.
La nostra falsa coscienza intrisa da una cultura cattolica ipocrita che apre le porte a tutti, gonfia il nostro narcisismo di italiani brava gggente, ma nasconde le brutture sotto il tappeto. Tanto la nostra accoglienza ha funzionato, si dice. E ci si continua a raccontare questa favola anche ora a tre mesi dalle elezioni che hanno, invece, dimostrato che gli italiani alle favole non credono più. Dimostrazione che la lezione non è servita a chi ha perso le elezioni. Ha un bel daffare Papa Francesco a spazzare via l’ipocrisia dei cattolici, dei molti sepolcri imbiancati che si aggirano anche nelle istituzioni. Credo sia consapevole di quanta fatica e forza ci voglia per un’opera simile se ogni domenica, al termine dell’Angelus, invoca per sé la preghiera dei fedeli.
Vogliamo parlare, poi, dei giovani che prima di trovare un lavoro stabile devono passare per le forche caudine degli stage, dei tirocini, dell’apprendistato, del contratto a termine e poi, forse, della stabilizzazione? Contratti capestro, senza diritti o con pochi diritti, sottopagati per fare un lavoro pieno e vero a tutti gli effetti, come se questi nostri giovani debbano dimostrare costantemente al mondo il proprio valore prima di raggiungere un meritato posto al sole. Sappiamo tutti che questi contratti sono stati pensati per spremere dalla forza giovane risorse a basso costo, quaranta ore settimanali a 450 euro al mese in tirocinio. E allora ha fatto bene Di Maio, come primo atto, ad incontrare i riders in sciopero per le loro precarie condizioni di lavoro, senza tutela e a cottimo. Si dice che in politica i simboli contano e il gesto di Di Maio è un simbolo che pesa. Vedremo se avrà continuità o se sarà stata solo la propaggine di una campagna elettorale che stenta a chiudersi. Resta il fatto che nessun esponente del Pd ha sentito l’esigenza di fare altrettanto, né prima quando erano al governo e c’è stata una sentenza del tribunale di Torino che non ha riconosciuto loro la tipologia di lavoro dipendente, né dopo. Del resto sono impegnati in una lotta intestina che prosciuga le forze. Avanti così con il metodo Tafazzi!

L’immaginario poetico di Silvia Belcastro “Nella città di formiche di luce”

di Loredana Bondi

Ho assistito recentemente alla presentazione del libro di poesie di Silvia Belcastro ”Nella città di formiche di luce” (Kolibris edizioni) presso il caffè letterario di Via Ripagrande a Ferrara.
Davvero una bella esperienza: una giovane donna che affronta il mondo della poesia nei suoi meandri più impervi, fantasiosi e reali insieme, traducendo sensazioni, esperienze e ricordi che aleggiano in un clima di sopravvivenza, nella continua lotta fra la triste verità e la bellezza del vivere.
In effetti, il tempo che passa mi fa sempre più sentire quanto la poesia sia un compendio di musica, di suono, di parola e movimento che s’innescano in uno strano e magnifico preludio di bellezza, amore e di senso della vita…basta ascoltare ogni suo suono che muove i sentimenti fin giù nell’anima.
Ecco la sensazione che succede leggendo, ma soprattutto ascoltando la poesia di Silvia… Nella città di formiche di luce… questa donna sa penetrare in fondo all’anima lasciando intatti la bellezza, le immagini e suoni dei luoghi come la sua Ferrara, dei luoghi di vita e di sogno, dove frammenti di luce “…sconosciuta, scintilla d’acqua e fuoco insieme” appaiono come il vero mistero della vita pieno di attese e di speranze, che aspettiamo, senza che mai si annunci…
In “Nella città di formiche di luce” è rappresentata una trilogia di passaggi: dalla dolorosa scoperta dell’io sommerso, della diversità, della chiusura verso ciò che sta fuori e la fatica quasi eroica di fuggire per cantare, come dice Orlando un canto… di ricordi come ferite… poi vi porrò un seme, lama tagliente, da cui prenderanno il volo mille colombe, ad un volo per la prima volta, verso la città. Qui si aspetta… un riflesso di luce sconosciuta…una scintilla d’acqua e fuoco insieme, quel mistero egoista che si rimpinza di attesa e di speranze, senza annunciarsi mai… Pare addirittura l’evocazione di una vita vissuta mille e mille anni che tenta di scoprire il significato del proprio esistere. Un epilogo di questo cammino sta tra il rosso del corallo che richiama la speranza e quello… straccetto logoro di felicità che il tempo le ha lasciato.
In questa città delle formiche di luce, in fondo, c’è la storia di un’umanità che cerca di comprendere il non senso dell’immane dolore che ci circonda, per trovare qualche frammento di luce in tanti piccoli segni e cantarne la bellezza, scoprendo le voci, i suoni e colori che stanno nell’aria e provare a vivere.
Davvero un percorso poetico che vale la pena scoprire.

Donne e montagna

“Le montagne sono le grandi cattedrali della terra, con i loro portali di roccia, i mosaici di nubi, i cori dei torrenti, gli altari di neve, le volte di porpora scintillanti di stelle” sosteneva lo scrittore, pittore e critico d’arte John Ruskin e non si può che essere d’accordo. Un tacito riconoscimento a quella parte del nostro Paese che vive tra le montagne e da esse tra linfa vitale. E in questo contesto il rapporto tra le donne e la montagna ha sempre avuto connotazioni speciali, un legame fortissimo intessuto di fatica, dedizione, coraggio, grande spirito di adattamento, rispetto e quella profonda conoscenza del territorio dettata dalla necessità di trarne benefici e sussistenza. Le donne sono sempre state le depositarie di quel sapere specifico che consentiva di interpretare e tradurre i segnali della natura, sfruttarne le risorse, mantenerne attentamente l’equilibrio e le caratteristiche, grate di tutto ciò che si poteva ricevere da un ambiente a volte magnificente, altre impervio e ostile.

Le icone della donna di montagna sono presenti in numerosi dipinti di Giovanni Segantini (Arco 1858, Svizzera 1899) che ci avvicinano a figure femminili che compaiono nell’habitat montano in tutto il loro impatto emotivo. Donne che trascinano faticosamente nella neve una slitta carica di legna, che lavorano serenamente a maglia mentre badano al pascolo del bestiame, si dissetano avidamente a una fontana di paese o reggono sulle spalle pesanti recipienti d’acqua, oppure ancora conducono una coppia di cavalli reggendoli energicamente per il morso. Altre immagini si soffermano su donne intente a raccogliere il fieno, scrutare l’orizzonte da un’altura con la voglia negli occhi di raggiungere casa, dopo una giornata di fatica massacrante. Ma la scena che dà il senso più completo e profondo dell’essere donna di montagna è quel capolavoro che rappresenta le due madri: una donna che alla luce fioca di una lanterna, nel tepore della stalla, tiene tra le braccia il proprio figlio, accanto alla mucca che veglia sul suo vitello, in un muto, complice legame tra mondo umano e mondo animale privo di mediazioni e considerazioni superflue.
La montagna ha sempre accolto una strana società e cultura al femminile in maniera più significativa che altrove per ragioni ben precise, le cui fondamenta storiche trovano giustificazione nell’emigrazione degli uomini in molte epoche e nelle guerre che allontanavano mariti, figli, fratelli, fidanzati; in molti casi anche le donne lasciavano le valli e paesi per lavorare lontano, ma dove sono rimaste, la montagna è uscita dalla marginalità, potenziando la propria cultura, conservata gelosamente, senza rinunciare all’innovazione e alla modernità che i tempi hanno via via richiesto. Le donne sono state da sempre le custodi della memoria, facendosi carico dei vivi e dei morti mantenendo attivi i legami col passato e col presente, imparando ad andare avanti da sole dove ce ne fossero state le condizioni. La presenza femminile è essenziale e preziosa per l’esistenza, la vita e la crescita culturale in tutti i suoi aspetti delle comunità alpine, anche se per molto tempo questa consapevolezza è stata soffocata dalla chiusura dell’ambiente che impediva un giusto riconoscimento: un clima sociale che imponeva ruoli rigidi e controllati, un senso del dovere intransigente che non lasciava spazio a legittime aspirazioni, paura della critica e della stigmatizzazione, conseguenti disagi nella salute fisica e nello spirito che derivavano dalla solitudine come persona ancor prima che come donna.
Oggi, la cultura di montagna ha lo stesso bisogno della componente sociale femminile e ne riconosce il valore. La donna è all’avanguardia nelle attività innovative di un’economia identitaria legata alle risorse del territorio: produzioni di qualità, turismo sostenibile, capacità comunicativa con l’esterno, visione e anticipazione. Molte donne hanno trovato spazi e collocazione con creatività ed energico entusiasmo in quegli esempi vincenti di microeconomia che a volte diventano anche eccellenza, dando un valore aggiunto a scenari naturali che sono già di per se stessi un miracolo di bellezza e fascino. La comunità ha imparato, nel tempo, a restituire alle donne quello spazio che nei vecchi stereotipi educativi era stato negato o sottratto, accordando loro più rispetto e fiducia. Sicuramente non siamo ancora arrivati ad un equilibrio ideale e i fatti di cronaca ci riferiscono ancora e purtroppo di drammi consumati spesso in famiglia ai danni delle donne a cui qualcuno si ostina a negare dignità. Il percorso è ancora da completare ma le donne di montagna non si fermano perché, come qualcuno ha fatto notare sorridendo un po’, “le donne non hanno vita facile; le donne di montagna ancora meno perché devono camminare in salita”.

Primo giorno del governo Salvini: Conte e Di Maio che fine hanno fatto?

Il giorno della festa della Repubblica e della Costituzione è stato anche il primo giorno del nuovo governo Giallo-Verde. Un solo giorno è bastato per capire chi è il vero premier, non Conte e nemmeno Di Maio, ma l’ipercinetico Matteo Salvini. In Sicilia ha licenziato le Ong umanitarie e minacciato i migranti. Tutti d’accordo? No, a Roma gli ha risposto la Cei a nome del papa e dei vescovi italiani, mentre a Ferrara Massimo Maisto ha difeso i diritti delle coppie arcobaleno e la scelta dell’accoglienza diffusa.

Il 2 giugno non è stato solo la festa della Repubblica – folla, battimani e applausi per il mega-tricolore sceso dal cielo – è stato anche il primo giorno del nuovo governo che aveva appena giurato davanti a Mattarella, la mano sul testo costituzionale.
Ora, diranno i più fiduciosi, che si può combinare in 24 ore? Mica si può ribaltare l’Italia dalla sera alla mattina? Anche Di Maio l’aveva detto: “Dateci un po’ di tempo, non giudicateci prima ancora di cominciare”. Giusto, ragionevole, aspettiamo pure. Però la giornata e le “sparate governative” del 2 giugno vanno raccontate. E meditate.
Il ministro della famiglia Lorenzo Fontana (lo ricordo in un recentissimo ‘Porta a porta’: gongolante, ma con evidenti problemi di sintassi) ha dichiarato, testuale: “Le famiglie arcobaleno non esistono per la legge”. Intanto, Matteo Salvini si è precipitato in Sicilia, nella doppia veste di Capopopolo e di Vicepremier: qualche comizio infuocato, ma anche l’incontro con i prefetti. Salvini ha stoppato Fontana (veronese e un po’ troppo Liga Veneta), ha detto che la legge sulle unioni civili non si tocca, ma ha aperto il suo cuore agli astanti: “Per me una famiglia deve avere un papà e una mamma”. Tanto per chiarire il concetto.
Matteo Salvini – per chi non l’avesse capito è lui il dominus del governo, altro che Di Maio o l’avvocato Conte – non è però persona ordinaria; la sua tempra, il suo vitalismo, il suo portentoso eloquio sono noti al pubblico. Lui può fare il capopopolo e contemporaneamente il ministro dell’interno. Può sparare sul quartier generale e, dal medesimo quartier generale, buttare olio bollente sugli assalitori. Può recitare molte parti in commedia: dategli ‘Sei personaggi in cerca d’autore’ e lui li interpreta tutti e sei.
Così Matteo (quello nuovo che le elezioni ci hanno dato in sorte) dall’estremo lembo della penisola lancia due proclami, anzi avvertimenti, anzi minacce. “Stop agli sbarchi” e quindi stop alle Ong che salvano i migranti in mare. Ci era riuscito, in parte, Minniti e lui vuol portare a termine il lavoro (sporco). Proprio in quelle ore arrivavano le notizie di due nuovi naufragi, davanti alla Turchia e alla Libia: decine di morti, adulti e bambini. Quanti morti conteremo quando Salvini farà piazza pulita delle ultime barche umanitarie rimaste a solcare il Mediterraneo?
Salvini ha un’altra promessa elettorale da mantenere. “I migranti regolari non hanno nulla da temere, i loro figli sono come i miei figli, ma per i clandestini è finita la pacchia: si preparino a fare le valigie!” Non dice che per avere un permesso di soggiorno in Italia passano anche due anni. Non dice che quelli che chiama clandestini, sono i cosiddetti “migranti economici”. Quelli che scappano dalla fame e che rappresentano più del 90% del totale. Non racconta che la vita di un migrante non è propriamente una pacchia.
Insomma, sono bastate 24 ore per mettere in chiaro cosa dobbiamo aspettarci dal governo “a trazione leghista”, nonostante qualche irrilevante obiezione avanzata da un paio di ministri pentastellati. Matteo Salvini ha già allargato le spalle. Detta la direzione di marcia. E il povero avvocato Conte? Beh, per ora sembra che abbia fatto una telefonata ad Angela Merkel.

E’ giusto registrare due reazioni, una nazionale e una locale. Due prese di posizione nette contro questa deriva: morale e ideale prima ancora che politica.
Su tutti i media il segretario della Cei (Conferenza Episcopale Italia), rilancia l’impegno inderogabile a salvare vite umane e all’accoglienza dei disperati che arrivano sulle nostre coste. La Chiesa di Papa Francesco si schiera apertamente contro l’intolleranza e i respingimenti e propone la via concreta del dialogo interculturale, della solidarietà, dell’integrazione sociale. Non si tratta solo di una lodevole posizione umanitaria, ma di una visione alternativa che propone un piano antitetico rispetto alla propaganda sovranista e identitaria. L’unica strada che possiamo percorrere se vogliamo affrontare seriamente i problemi dell’oggi e costruire un’Italia unita e solidale.
A Ferrara il dibattito e lo scontro fra queste due visioni – respingere e negare il confronto con la realtà, oppure affrontare i problemi e accogliere e integrare i nuovi arrivati – si ripropone nei medesimi termini. Ecco allora ‘Il Resto del Carlino’, ormai programmaticamente deciso a dar voce alla pancia del Paese, sempre più allineato alla Destra più ignorante e retriva, che dedica nella sua edizione cittadina due pagine al Gad che “spera in Salvini” per liberarsi dal disagio portato dai neri. Per fortuna non tutti sono convinti delle virtù taumaturgiche di San Matteo Salvini e del suo ruspante referente in loco Naomo Lodi. Occorrerà lavorare in profondità per far rinascere una quartiere e i suoi residenti da troppo tempo lasciati a se stessi. Da questo punto di vista la prima autocritica dovrebbe partire dai rappresentanti del governo locale.
La seconda reazione ferrarese – questa volta lodevole – al primo giorno del ministro dell’interno, sta nella dichiarazione rilasciata da Massimo Maisto, vicesindaco, assessore alla cultura e alle pari Opportunità. Con parole nette Maisto ha difeso la “scelta dell’accoglienza diffusa” fatta al Comune di Ferrara, che ha dato in effetti risultati importanti anche se necessariamente non definitivi. Poi, in veste di assessore alle pari opportunità, si è opposto all’attacco del ministro Fontana alle famiglie arcobaleno. Vorremmo che Maisto proseguisse su questa strada. Magari che fosse lui stesso a lanciare l’idea di una sorta di Piano Marshall – sociale, economico, culturale – per la zona Gad.

Ci aspettano momenti difficili, in cui l’ideologia della chiusura, del rifiuto, addirittura della difesa della razza alzerà sempre più la testa, rimbalzando sui media e nelle piazze. L’ultima polemica Salvini-Saviano ne è la più recente riprova. E’ questo il momento – prima che sia troppo tardi – in cui è importante avere il coraggio di opporsi a questo pericoloso piano inclinato e invertire la marcia. E non sarà sufficiente acclamare Mattarella, sventolare le coccarde tricolori, celebrare la festa della Repubblica e i settant’anni della nostra Costituzione. Servono parole e azioni, molto lavoro e molto impegno, buone pratiche e buona volontà.

L’afflizione e l’orgoglio. Confessioni di un cinquantenne innamorato e tradito dalla politica

Lo confesso, sono preoccupato per la nascita di questo governo che porta in pancia il razzismo e il qualunquismo della Lega e insieme il semplificazionismo, il populismo e l’ingenuità di una larga parte del Movimento 5 Stelle. Ma sono anche curioso. Curioso di vedere cosa questo strano governo riuscirà a combinare. Di certo non farà più guai di quanti ne abbiano generati tanti dei governi che lo hanno preceduto (Berlusconi e non solo), ai quali tuttavia siamo sopravvissuti, perché gli uomini, specie nelle condizioni più drammatiche, trovano in sé risorse che neppure immaginano di avere.
Non potranno fare troppi guai, i nuovi governanti, anche perché le istituzioni hanno un solido sistema di pesi e contrappesi e una serie di vincoli che spesso frenano il cambiamento ma in questi frangenti risultano salvifici poiché preservano la loro stessa integrità.
Certo, vedere Salvini ministro dell’Interno mi inquieta. Ma, ben più di questo, mi inquieta e mi fa arrabbiare non avere una sinistra degna della propria storia e all’altezza dei propri ideali. Non è merito di Salvini e Di Maio se ora stanno al governo e non è colpa loro se la sinistra si è rinsecchita sino a diventare un fossile. La responsabilità è tutta nostra, che per decenni ci siamo incartati in sterili e capziose discussioni, mentre lasciavamo filtrare nei nostri animi – sino ad esserne soggiogati – il fascino tutt’altro che discreto del capitalismo e della borghesia che ne è espressione, sino a scimmiottarne i modi, assorbirne la forma mentis e le ambizioni, sino a modificare il nostro dna. Non abbiamo saputo adeguare le nostre analisi al mutare della realtà, né superare le vane contrapposizioni interne spesso dettate più dalla vanità che dalla ragione; siamo rimasti ancorati a vecchi schemi, incapaci di discernere fra formalismi e sostanza. Intanto il mondo è andato avanti ed è cambiato e noi non ce ne siamo accorti. O abbiamo finto di non capire.
Anzi, non “noi”, per dirla presuntuosamente e provocatoriamente alla Nanni Moretti: “voi”. Voi vi siete parlati addosso, voi vi siete scannati per le vostre poltroncine, voi vi siete polarizzati fra dogmatici e “miglioristi”, voi avete giocato a fare i politici moderni e voi siete imbruttiti. Noi siamo “splendidi quarantenni”.
Noi stavamo dalla parte del torto, come sempre. Derisi. Commiserati con quella bonaria sufficienza che si riserva a chi, poverino, è troppo ingenuo per capire… E allora ci siamo sottratti. Non perché non ci abbiate voluto, non perché non ci fosse un posto apparecchiato a tavola, ma perché a quella tavola abbiamo scelto di non esserci, perché continuiamo ostinatamente a pensare che un mondo diverso sia davvero possibile, che il capitalismo non sia l’unica forma di organizzazione praticabile, che per questo nostro mondo esista un altro modello, un’altra via. Ma non per questo siamo nostalgici. Arrabbiati e delusi, questo sì.
Oggi manca il progetto, la visione. Un orizzonte verso il quale muovere il passo, un traguardo che giustifichi il nostro impegno e i nostri sacrifici.
Personalmente non rimpiango certo il tempo in cui il mondo era diviso in blocchi: i gulag di Stalin erano specchio dei campi di sterminio nazisti. E il pensiero unico dell’Urss non poteva rappresentare un’alternativa alla tracotanza imperialista dell’America. I fondamentalismi non sono buoni o cattivi a seconda del colore della loro bandiera. Lo spirito egualitario che sta a fondamento del comunismo non ha mai trovato albergo nelle umane intraprese statuali e nelle sue espressioni comunitarie. Né l’evangelica fratellanza predicata da Cristo e da Francesco ha mutato le ambizioni o l’agire dei potenti. Qua e là c’è traccia solamente di piccole riserve indiane di resistenti.
Ma insisto: il rispetto, l’autentica tolleranza, la solidarietà, l’equità, l’onestà sono i valori da praticare (e non solo da professare e strillare nei comizi). Appartengo a quella minoranza di persone che cercano di fare di questi ideali il loro stile di vita. E non siamo poi così pochi. Se lo sembriamo è forse perché non gridiamo, perché non battiamo i pugni sul tavolo, perché non scalpitiamo per affermare noi stessi e pretendere il posto a tavola. Però ci siamo. E osserviamo questo spettacolo – del quale pure siamo partecipi, sebbene spesso con disgusto – respingendo il demone della rassegnazione. Resistiamo
Volgendo lo sguardo fra le macerie della nostra civiltà cerchiamo ancora uno spiraglio di luce e il conforto di solide mani per tentar di ricostruire ciò che si può. Siamo resilienti. E dall’esperienza abbiamo imparato a diffidare degli apocalittici annunci che accompagnano ogni nuova temperie. No, non sarà neppure stavolta la fine del mondo. Siamo ancora qui. E se serve, ci faremo trovare pronti a riprendere la marcia: scarpe rotte eppur bisogna andare. Come sempre.

La memoria corta tedesca

di Gianfranco Marzola

Sono un promotore finanziario e leggo tutte le mattine il Sole 24 Ore per dare un’occhiata ai mercati e a notizie che possano essere utili alla mia professione. Così l’altro giorno, spulciando le pagine online del quotidiano, mi capita sotto gli occhi un interessante articolo di qualche anno fa firmato da Riccardo Barlaam che parla di Germania e dell’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer, che nel suo libro appena pubblicato aveva scritto: “E’ sorprendente che la Germania abbia dimenticato la storica Conferenza di Londra del 1953, quando l’Europa le cancellò buona parte dei debiti di guerra. Senza quel regalo non avremmo riconquistato la credibilità e l’accesso ai mercati. La Germania non si sarebbe ripresa e non avremmo avuto il miracolo economico.”
Fischer rincarava la dose spiegando che, col pretesto del risanamento economico, la coppia Merkel-Schaeuble ha imposto un regime di austerità usando lo spauracchio dei debiti contratti dai paesi area euro. Ha imposto un rigore che ha provocato una deflazione dei salari e dei prezzi che ha di fatto impedito a questi paesi di sviluppare la propria economia per uscire dalla crisi, un ossimoro economico che lo stesso ex ministro definì devastante, finendo per accusare la coalizione tedesca di euroegoismo e di dimenticare con troppa disinvoltura la storia della Germania dal dopoguerra ad oggi. Per Fischer, una posizione, quella tedesca, certamente di comodo. “Se la Bce non avesse seguito le decisioni di Draghi ma le obiezioni dei tedeschi a quest’ora l’euro non esisterebbe più. Il più grande pericolo per l’Europa – scriveva Fischer – attualmente è proprio la Germania.
Passiamo ai fatti storici che Barlaam, nel suo vecchio articolo, ci riassume: alla Conferenza di Londra del 1953, la Germania, attuale portabandiera europeo di stabilità e rigore che durante lo scorso secolo ha rischiato il default due volte, cioè nel 1923 e nel secondo dopoguerra, con un animo del tutto estraneo all’attuale atteggiamento di rigore assoluto, chiese ed ottenne d’essere aiutata a ripartire proprio attraverso il condono del proprio debito. Poiché è noto che i debiti tedeschi di due guerre mondiali, provocate e perse entrambe, le avrebbero reso impossibile la ripresa economica.
E, leggendo l’articolo, non mi sorprende più di tanto apprendere che tra i paesi che in quella conferenza internazionale decisero di non esigere il conto vi fossero anche l’Italia di De Gasperi, padre fondatore dell’Europa e la Grecia, paese che aveva subito per mano dell’esercito tedesco danni immensi a impianti produttivi, infrastrutture stradali e portuali che ne hanno minato l’economia per sempre (senza dimenticare il pesante tributo di vite umane e di inestimabili opere artistiche) e che in questi anni è uscita con le ossa a pezzi nella missione impossibile di allinearsi ai parametri stabiliti e imposti proprio dalla Germania.
Dopo il 1945 la Germania aveva un debito colossale (23 miliardi di dollari di allora) che, tenendo conto del loro prodotto interno lordo (circa la stessa cifra), senza il generoso intervento del 24 agosto 1953 in cui ventuno paesi (Belgio, Canada, Ceylon, Danimarca, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Norvegia, Pakistan, Regno Unito, Francia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Sudafrica e Jugoslavia) le avevano consentito di dimezzarne l’ammontare e dilazionarlo in trent’anni, non avrebbe mai potuto pagare.
Di tutto ciò rimane traccia di questa buona disposizione d’animo nella storia recente degli smemorati tedeschi?
Come ricorda sempre Barlaam, l’altro 50% doveva essere restituito dopo l’eventuale riunificazione delle due Germanie ma, a riunificazione avvenuta, nel 1990 il cancelliere Helmut Kohl evitò il terzo collasso tedesco semplicemente opponendosi alla rinegoziazione del debito. E ovviamente Grecia e Italia accettarono di buon grado, consentendo ai tedeschi di “regolarizzare” con 69,9 milioni di euro quanto stabilito dallo sciagurato (per tutti i paesi area euro), e pur ottimo (per i Tedeschi), accordo di Londra, senza il quale avrebbero avuto debiti da rimborsare per altri cinquant’anni.

Per leggere l’articolo di Riccardo Barlaam sul Sole 24 Ore del 15 ottobre 2014:
La Merkel ha dimenticato quando l’Europa dimezzò i debiti di guerra alla Germania

La crisi, la vecchia politica, il nuovo governo Conte: che brutta pagella

Tutto quello che non avreste mai pensato possibile e che invece è realmente successo. Ecco la storia della crisi di governo più lunga della Repubblica italiana raccontata punto per punto, con tanto di voto ai protagonisti e alle loro imprese.

Avvertenza ai lettori: nell’ultima settimana ho cominciato e cancellato questo articolo cinque o sei volte. Colpa dei continui corteggiamenti, dichiarazioni, posizionamenti, svolte, incontri, scontri, contratti, prime bozze, ultime bozze, ultimissime bozze, appelli alla piazza e voltafaccia che hanno punteggiato la più lunga crisi di governo della nostra Repubblica. Scrivevo una cosa al mattino e a mezzogiorno era già carta straccia.
Ho deciso di riprovarci, dopo che Cottarelli ha salutato (e tutti a fargli i complimenti: “Ma che signore, che stile quel Cottarelli con lo zainetto sulle spalle”), dopo che l’avvocato Conte con voce un po’ malferma (ma era emozionato o semplicemente atterrito dall’arduo compito?) ha letto/annunciato la lunga lista dei ministri del Primo Governo Giallo-Verde: potevo finalmente mettermi a scrivere. Intendiamoci, non qualcosa di duraturo, di definitivo – ché nelle prossime settimane e mesi ne vedremo di belle e di brutte, di cotte e di crude – ma insomma, almeno dal 1 giugno qualcuno bene o male proverà governarci.

Seconda avvertenza ai lettori: questo che segue non è propriamente un ponderato commento politico. Lo stile? Un strano tentativo, un incrocio tra un editoriale domenicale di Eugenio Scalfari e le pagelle sportive di Gianni Mura. Un elenco, ovviamente incompleto, di temi e protagonisti, con a fianco il voto raggiunto. E, visto che stiamo entrando in tempi di esami, vedrete che siamo assai lontani dalla sufficienza e dalla promozione.

Terza Repubblica: voto 4. Perché questa storia ce l’hanno detta e ripetuta di continuo durante 87 giorni (e sicuramente continueranno), ma abbiamo capito benissimo che quella che andava in scena era l’identica trama della Prima Repubblica. Le stesse furbizie, gli stessi avvertimenti trasversali, il dire Bianco al mattino e giurare Nero alla sera, gli stessi identici forni (aperti, chiusi, riaperti, richiusi) tipici della ingloriosa era democristiana. Per ora siamo fermi alla Prima Repubblica. Con una sola variante: la perdita della riservatezza (di un minimo di mestiere e spesso della decenza), cioè l’avvento dell’impero veloce e volgare di twitter, di facebook, degli hashtag applicati alla lotta politica.

Contratto di governo: voto 4. Stiamo parlando della “grande novità”. Molte bozze, aggiunte, cancellature, ingenuità, sparate, ritirate, e nessun numero concreto (le coperture di spesa, le grandi assenti) per arrivare a 42 pagine controfirmate in calce: un contratto privatistico tra i due leader di Lega e 5 Stelle. “Un ottimo lavoro” a detta loro. Salvini: “Dentro il Contratto ci sono tutti i nostri obiettivi”. Di Maio: “Abbiamo portato al governo il nostro programma elettorale”. Naturalmente non è proprio così. Il contratto, invece di costituire una mediazione, è una sommatoria confusa di impostazioni e promesse spesso divergenti. E tanta vaghezza sui punti dolenti: Europa, Euro, Deficit, Grandi Opere, Immigrazione, Superamento Legge Fornero.
Insomma, più che un piano di governo, il contratto è un mix confuso dei due rispettivi programmi elettorali. I due garanti (Salvini e Di Maio), non a caso Vicepresidenti del Consiglio, hanno apparecchiato e imbandito il la tavola (tanta roba!) e l’hanno messa in tasca all’avvocato Conte. Saranno loro i padroni del “governo del cambiamento”, non il Presidente del Consiglio come vuole la Costituzione. E se i due galli non si troveranno d’accordo? Si rivolgeranno al garante previsto dal contratto? Beh, in ogni caso ce lo comunicheranno con due righe di twitter.

Governo di cambiamento: voto 4. Uno slogan, niente di più. Al principio, appena dopo le elezioni del 4 di marzo, faceva un certo effetto, suonava bene. Ma alla fine, quando al Quirinale Conte ha presentato l’elenco dei ministri, non se l’è sentita di ripetere la formuletta. Del resto, i “nuovi politici” non sono sembrati diversi dalla produzione in serie della classe politica italiana. Dediti all’eterna propaganda, sicuramente più chiacchieroni dei predecessori (anche se Matteo Renzi era un bel campione), più ingenui e inesperti (Di Maio), o più tattici e comizianti (Salvini), ma perfettamente in linea con il peggior costume politico del Belpaese. Ricordate? “Il mio interesse è solo il bene degli italiani”, “Sono disposto a fare un passo indietro”, “Bisogna che (un altro naturalmente) faccia un passo a lato”, “Non ci interessano le poltrone, vengono prima i contenuti”.
Governo del cambiamento? Forse il voto giusto sarebbe N.S. (non classificato). Governo rimandato a dopo l’estate, ma con poca speranza di passare l’esame di riparazione.

Di Maio: voto 3. Dilettante allo sbaraglio, è in assoluto quello che le ha sparate più grosse. E ha rischiato grosso. Designato dominus del Movimento, lo ha trasformato in pochi mesi nel suo “partito personale” (superando il fondatore e Kingmaker, ma inaugurando uno stile compito, perennemente in giacca e cravatta). Dopo una campagna elettorale passata a corteggiare e blandire “i padroni dell’Europa e dei mercati”, la sbornia di voti ricevuti il 4 marzo lo ha portato dritto dritto al delirio di onnipotenza. “Il Presidente del Consiglio? O io o nessuno!” ha ripetuto tutti i santi giorni. “E’ un momento storico!”. Intanto ha tentato di svaligiare tutti i forni a disposizione (trovandoli chiusi o senza pagnotte). Non pago, ha cercato di scavalcare a destra il suo alleato: più sovranista della Lega, più anti-euro di Salvini.
Infine, il suo capolavoro: un tentato (e quasi riuscito) suicidio politico: la richiesta (senza basi giuridiche, senza nessuno sbocco) di messa in stato d’accusa del presidente Mattarella. In calo nei sondaggi, criticato apertamente dai suoi colleghi parlamentari, sommerso dai mugugni via twitter e facebook (chi di spada colpisce…) ha fatto una improvvisa inversione a U. Per salvare la pelle è andato a Canossa dal Presidente della Repubblica. Ha ritirato fuori dal congelatore Conte. Ha implorato il permesso a Salvini per spostare dall’Economia lo scomodo Savona. In cambio la Lega si è preso la maggioranza dei ministeri di peso e la guida di fatto del governo.

Salvini: voto 90. Ho messo quel numero perché “la paura fa Novanta”. Parlo della mia paura, e quella di tanti (spero siano tanti) italiani. Non a caso a Salvini gli elogi più sperticati, anche in queste ultime settimane, gli sono arrivati da Marine Le Pen e Nigel Farage. E’ Lui il padrone di casa, non solo del cruciale e muscolare Ministero dell’Interno, ma di tutto il governo. Il vero conte del castello governativo è Salvini, mentre l’avvocato Conte farà più o meno il maggiordomo.
Ovvio, come politico, come tattico, comunicatore, comiziante, arringatore e capopopolo Matteo Salvini si è dimostrato un cavallo di razza e si merita invece un 10 con lode . Lo hanno capito tutti. E lo ha capito anche lui. Sarà lui a dare la linea, e se qualcuno gli metterà il bastone tra le ruote, farà crollare tutto il castello. Darà la colpa a Di Maio, ai Poteri Forti, all’Europa e andrà alle elezioni a cuor leggero visto che i sondaggi arrivano a stimare la Lega sopra il 30%. Ha forse un unico problema – e la parabola di Matteo Renzi dovrebbe insegnargli qualcosa – che l’eccesso di esposizione mediatica può stancare il pubblico.
Chi sceglierà Matteo Salvini come alleato del futuro? L’usato sicuro Berlusconi e quindi il Centro Destra oppure Il Movimento Pentastellato, novello partner di governo? Salvini non ha fretta di scegliere. Intanto il vento gonfia le sue vele.
Se però la Lega alla fine decidesse per la seconda opzione, la mia paura sale. Si impenna come lo spread. Penso a Ferrara, alle elezioni della primavera 2019, a un governo locale stanco e a una sinistra senza un progetto e ripiegata su se stessa. Ma il fosco orizzonte cittadino merita un approfondimento a parte.

L’avvocato e Premier Giuseppe Conte: voto 5. Un assoluto Carneade, un vaso di coccio in mezzo a due vasi di piombo, trovate voi l’immagine più calzante. La sua colpa non è quella di aver taroccato il curriculum – in questo anzi fa tenerezza, mi sembra “un italiano vero” – ma aver accettato (forse per troppa ambizione, ha confessato suo padre) una mission impossible. Come diavolo fai a guidare una macchina se al posto di guida c’è seduto un altro? No, nessuno ce la farebbe, nemmeno l’unico, autentico avvocato Conte, nemmeno quel genio di Paolo Conte.

Mattarella: voto 5. Perché è vero che ha avuto tanta ma tanta pazienza. E secondo il dettato costituzionale, “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e su proposta di quest’ultimo gli altri ministri”, ha quindi voce in capitolo e può chiedere (molto sottovoce) e ottenere dal premier incaricato che venga cambiato o spostato un ministro indegno o inadatto (l’hanno fatto diversi suoi predecessori), ma Mattarella ha fatto qualcosa di più, di diverso e di grave. E’ entrato a gamba tesa, ha motivato il suo rifiuto al professor Savona con una motivazione tutta politica: i mercati, l’adesione all’Europa, la difesa dell’euro, il pericolo per i risparmi e i mutui degli italiani.
Un arbitro non può entrare in campo, pena l’appannamento del suo ruolo. Certo, Mattarella non è un traditore della Repubblica (infondata, ridicola e risibile la richiesta di impeachment), ma ha comunque esorbitato dalle sue funzioni. Senza contare che – ma sempre in via riservata, a tu per tu con il presidente incaricato – Mattarella avrebbe fatto meglio a opporsi aquello che è stato il vero strappo costituzionale, quello cioè di un governo diretto (e governato) dall’esterno, da due leader politici e dal contratto da loro siglato, non da un Presidente del Consiglio in piena autonomia.

Partito Democratico: voto 4 meno meno. Un voto meritato in campagna elettorale e confermato nei tre mesi successivi. Diviso, rissoso, opaco o addirittura oscuro, alieno ad ogni analisi autocritica, incapace di parlare ai suoi iscritti e agli italiani. Con un ex segretario ancora padrone dei gruppi parlamentari e della maggioranza della Assemblea e della Direzione. Con un reggente che campa alla giornata, in attesa di essere silurato. Con tanti capi e capetti con poco coraggio e pochissime idee. Ma di che parlerà il congresso?
Il partito trova prima l’unità sull’opposizione dura e senza paura. Poi sul voto a favore del governo tecnico di Cottarelli. Poi sull’astensione a Cottarelli: giusto per non rimanere ancora più soli e abbandonati. Poi per fortuna arriva il governo Conte e si può tornare all’opposizione. La base del partito? “Percossa e attonita” mi verrebbe da dire.
E’ brutto ammetterlo, ma il PD sembra vivere uno stallo infinito. Non è solo fuori dai giochi, da ogni gioco, ma è incapace di scegliere a quale gioco giocare, quale idea di Italia e di Futuro promuovere
.
Carlo Calenda; voto 2. Potrei dare i voti a tanti altri esponenti del Centrosinistra, tutti ampiamente sotto la sufficienza; un bel 3 a Renzi, un 3 all’ex giovane turco Orfini, un 3 ½ al fido Guerrini, un 3 anche al democristiano Franceschini, un 4 al timido Orlando, un 4 ½ a Del Rio ma solo perché sembra una brava persona.. Un 4 a Grasso, Un 4 anche alla Boldrini, un 3 a D’Alema. E Gentiloni? Diamogli un 5+, solo per la fatica degli ultimi 15 mesi.
Basta, non vi annoio oltre, voglio concentrarmi su Calenda. Sarebbe lui, l’ex Ministro per lo Sviluppo Economico, il nome nuovo, l’astro nascente, il prossimo jolly da giocare in parlamento e nel risiko elettorale. Nel partito non tutti credono in Calenda. Ma non è importante: è lui che ci crede fermissimamente e tanto basta al suo ego. Per questo Calenda lo incontri ovunque e a ogni ora del giorno e della notte: cinguetta sui social, partecipa a convegni ed eventi, rilascia interviste a raffica ai giornali, appare su tutti i canali dell’orbe televisivo. Ha solo un’idea da comunicare (lui la trova strepitosa): smontare il partito (a cui si è iscritto il mese scorso) e fare il “Fronte Repubblicano”, europeista e neoliberista. Il Fronte Repubblicano è la meravigliosa macchina da guerra (sappiamo com’è finita), il grande motore per rianimare il fronte degli sconfitti. Qualcuno dovrebbe dire a Calenda che la sua idea è vecchia e perdente, che non si può confondere il 2018 con il 1948.
Ma Calenda insiste – per questo merita un bel 2 – continua a sognare “un fronte ampio” (altra idea nuovissima!), una destra in doppiopetto che si contrapponga alla destra in jeans, felpa e megafono dei neopopulisti. Qualcuno dovrà spiegarglielo: con una formazione e un mister del genere non c’è partita, si perde di goleada.
N.B. Per motivi di spazio e di tempo l’autore si scusa con i lettori e con i leader rimasti senza pagella.

La politica italiana del dopo Moro: un presente senza domani

Il 9 maggio di quarant’anni fa fu trovato il corpo senza vita di Aldo Moro, riverso nel bagagliaio di una Renault 4 in via Caetani a Roma.
In questi tempi di commemorazioni abbiamo sentito e risentito la telefonata di Valerio Morucci a Franco Tritto, quel 9 maggio 1978, per indicare il luogo di quello spietato epilogo.
Le indagini condotte dalla commissione parlamentare, presieduta da Giuseppe Fioroni, e le considerazioni più volte espresse da Miguel Gotor, Gero Grassi e dallo stesso Fioroni, portano ad avere seri dubbi su come siano andate realmente le cose. Sintomatiche le parole di Grassi, secondo il quale la mattina del rapimento, 55 giorni prima della sua uccisione, in via Fani “c’erano anche le Br”.
Non è la prima volta che verità storica e giudiziaria non coincidono. È successo anche, per esempio, con l’omicidio di Pier Paolo Pasolini, del quale restano famose le parole secondo le quali sappiamo chi ha messo le bombe nella lunga e insanguinata storia stragista italiana, “ma non abbiamo le prove”.

Bello e intenso è stato il ricordo di Moro andato in onda su Rai Uno martedì 8 maggio con letture di Luca Zingaretti e un’interpretazione del presidente della Dc di Sergio Castellitto da levarsi il cappello.
Per inciso, un’operazione che ha ascoltato le voci dei suoi studenti universitari di allora e di chi ha seriamente lavorato sulle carte, a differenza di altri programmi televisivi che hanno invece ossessivamente acceso il microfono davanti alle bocche (reticenti, smemorate?) dei brigatisti, grandemente ignari del prezzo che tuttora l’Italia sta pagando a causa di quel colossale errore.
Tutto per sentire Valerio Morucci ammettere davanti alla telecamera che invece del veleggiare trionfante della barca rivoluzionaria sopra un fiume di sangue, il risultato è stato il suo affondamento.
Ma che scoperta!

Al netto di quello che si sa, di quello che non si sa e di ciò che si può solo supporre, col senno di poi si può dire che ad Aldo Moro l’Italia ha preferito la Dc di Giulio Andreotti.
Sulla politica di respiro e disegno, di prospettiva e inclusione democratica, ha prevalso quella del tirare a campare. Lo stesso Andreotti disse una volta di Moro: “La differenza è che lui parla con Dio, io parlo con i preti”.
Così quel tragico e sanguinoso 1978 partorì la Democrazia cristiana del Preambolo e poi gli esecutivi del Caf (Craxi, Andreotti e Forlani), trascinando formule e schemi di governo in evidente stato di decomposizione. Il risultato è stato che il tirare a campare si è tradotto in un acido corrosivo delle fondamenta istituzionali e culturali della Repubblica. Un lento e agonico tirare le cuoia, pertanto, sospinto da una corruzione istituzionale a livelli di metastasi; da una criminalità organizzata con la quale, così pare, si sono fatti accordi inconfessabili per allentare misure detentive e per scopi elettorali; dal sovrapporsi nella politica di destini e interessi personali a quelli generali, col risultato di una classe dirigente perfettamente sintonizzata su quest’orizzonte e incurante delle conseguenze.

Una cieca esaltazione del presente senza domani e uno sfrenato spendere le risorse anche di chi verrà dopo, che ha portato diritto a Tangentopoli e alla fine, impropria, della prima Repubblica. Impropria, perché una seconda non è mai nata, visto che l’asfittico spazio politico italiano non è mai riuscito a dare respiro e gambe a un necessario e ancora urgentissimo processo riformatore costituzionale e istituzionale.

Troppo è stato il tempo perso a contare inutilmente il numero di Repubbliche a Costituzione invariata (articolo più, articolo meno), mentre l’unico ideale sublimato ad alta carica dello Stato è diventato l’interesse personale. “Se diventa ricco lui, lo diventiamo tutti”, si ammetteva spudoratamente plaudendo alla discesa in campo di Silvio Berlusconi, illusoria traduzione in politica del principio dei vasi comunicanti.
Ne è seguita una lunga caimanizzazione della politica, d’altronde già resa una canna al vento dopo gli urti della ‘Milano da bere’ e del ‘così fan tutti’.
Lo capì fin dal primo momento Indro Montanelli.
Una sorta di Adamo Smith in stile Pulcinella, secondo l’antico automatismo: “L’interesse del macellaio finisce per procurarci la bistecca”.
L’unico automatismo prodotto, nei fatti, è una politica senza classe dirigente, perdutamente distante dalla realtà. Basti pensare che nell’agenda di ogni governo da anni a questa parte c’è il problema della legge elettorale.
Ora, oltre al distacco dalla realtà c’è chi rileva quello dalle istituzioni. E ciò che abbiamo visto dal giorno dopo delle elezioni dello scorso 4 marzo ne è la disinvolta messa in scena.

In questo deserto non è esente la sinistra, con l’ultima sua creatura: il Pd.
Dalla sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale del 4 dicembre 2016, pallida copia del tentativo già ulivista per una democrazia competitiva e governante, è stato un susseguirsi di rovesci.
Impietoso, in proposito il giudizio di Gianfranco Brunelli (‘Il Regno’, 6/2018): “Nessuno è stato all’altezza del proprio ruolo e del proprio compito”.
Non il gruppo ex-comunista che, fin dall’Ulivo, ha sistematicamente rifiutato ogni trasformazione del modello partito e mai accettato la messa in discussione della propria leadership interna, col risultato di non salvare nulla della propria storia.
Non Matteo Renzi, che ha preteso di piegare a un ego incontenibile e impaziente un cruciale tornante di modernizzazione costituzionale e istituzionale, che andava ben altrimenti oggettivato e condiviso.
Diversi dicono e scrivono che questo scenario sconfortante non è il prodotto di questi tempi, ma ha origini lontane.
Alcune di queste risalgono a quel tragico 9 maggio 1978.

GIARDINI ESTENSI
Passeggiata letteraria dal Giardino di Bassani a quelli inglesi e giapponesi

Una passeggiata immaginaria tra i giardini letterari e i loro riferimenti reali quella fatta domenica (6 maggio 2018) all’interno della bella manifestazione ‘Giardini estensi’ con l’intervento di Giorgia Mazzotti e Simonetta Sandri, che hanno parlato di ‘Natura tra letteratura e realtà: dal Giardino dei Finzi-Contini alla siepe leopardiana’.

Giardini Estensi 2018 a Parco Massari di Ferrara

L’incontro sotto il gazebo al centro di Parco Massari di Ferrara è seguito a quello di sabato con lo scrittore Tiziano Fratus intervistato da Mimma Pallavicini e a quello, nella prima mattina di domenica, con il maestro giardiniere Carlo Pagani.

Tiziano Fratus con Mimma Pallavicini (foto GiardiniEstensi 2018)
Il maestro giardiniere Carlo Pagani (foto Valerio Pazzi)
Pubblico all’incontro sui “Giardini letterari” a Parco Massari di Ferrara

[cliccare sulle immagini per ingrandirle]

“A Ferrara – ha raccontato Giorgia Mazzotti – quello dei Finzi-Contini è il giardino per eccellenza, che tutti cercano o hanno cercato. Questa ricerca fa spaziare tra diversi luoghi verdi della città e finisce per condurre più lontano, fuori anche dai confini regionali”. Da questo riferimento letterario si è quindi avviata la ricerca attraverso gli spazi verdi di ispirazione dello scrittore, partendo dalla casa natale della famiglia di Giorgio Bassani, in via Cisterna del follo 1 a Ferrara, non visitabile né visibile dall’esterno, ma documentata dalle fotografie storiche di Paolo Zappaterra, con il suo cortile interno dominato dalla magnolia, celebrata anche in una delle poesie dell’autore.

L’albero di magnolia nel giardino di casa Bassani fotografato da Paolo Zappaterra

Si prosegue con il giardino della casa della famiglia dei (Finzi)-Magrini [per conoscere la loro storia clicca qui], che tanti elementi biografici ha in comune con i protagonisti romanzeschi, anche se poi completamente ridisegnata nella trama letteraria. Il giardino, tra l’altro, è quello che sarà visitabile in via Mascheraio 14 a Ferrara all’interno della manifestazione ‘Interno Verde’ sabato 12 e domenica 13 maggio 2018.

Altra tappa fondamentale quella del giardino di Palazzo Prosperi-Sacrati, in corso Ercole I d’Este 23, dirimpetto a Palazzo dei Diamanti, dove grazie alle visite organizzate dall’associazione Arch’è presieduta da Silvana Onofri si ritrova il riferimento alla dimora immaginata dal romanzo. Il palazzo, infatti, si può identificare con quello descritto da Bassani come “grande, singolare edificio, assai danneggiato da un bombardamento del ’44, è occupato ancora adesso da una cinquantina di famiglie di sfollati”. A documentarlo durante le belle visite al Giardino del Quadrivio [clicca qui per leggere l’articolo sulla visita] c’è stata anche la testimonianza di Valerio Trevisan, che – durante le occasioni di apertura al pubblico – ha raccontato la sua esperienza di bambino che negli anni ’50 abitava con la famiglia in quel palazzo trasformato in alloggi comunitari, fonte di avventurose scorribande per lui e gli altri numerosi giovanissimi abitanti.

Cimitero ebraico di Ferrara affacciato sulla Mura degli Angeli

Da non dimenticare, infine, l’analogia tra il giardino romanzesco e il cimitero ebraico di via delle Vigne 12, così verde e piacevolmente alberato in maniera quasi selvaggia. Quale altro “intrico selvoso dei tronchi, dei rami, e del fogliame” si vede infatti se non questo, quando si cammina sulla “cima della Mura degli Angeli”? Una distesa verde e boscosa che rimanda proprio a quella indicata sulle pagine romanzesche come “imminente al parco” della dimora dei protagonisti.

Il dialogo, partito da questo riferimento ferrarese, si è quindi allargato a giardini letterari di altri luoghi del mondo attraverso le letture illustrate da Simonetta Sandri anche con l’ausilio delle proiezioni fotografiche, purtroppo impallidite sullo schermo a causa della luminosità circostante. Ecco allora la ricerca de ‘Il giardino segreto’ di Francis Hodgson Burnett di cui si possono ritrovare riferimenti nei parchi di tre differenti castelli inglesi: quello a cui lei fa riferimento nella narrazione che è Misselthwaite Manor nello Yorkshire; quello della dimora natale dove materialmente scrive il libro (Great Maytham Hall nel Kent) e quello usato come location per una delle principali trasposizioni cinematografiche (Highclere Castle nello Hampshire).

Allerton Castle, nello Yorkshire, luogo di ambientazione romanzesca
Great Maytham Hall a Rolvenden in Kent, dove la Burnett scrive “Il giardino segreto”
Highclere Castle nello Hampshire che fa da set al film

Dall’armonico avvicendamento di elementi naturali del giardino anglosassone, si passa in Iran con ‘Il giardino persiano’ raccontato da Chiara Mezzalama e, infine, in Giappone con quello narrato da Banana Yoshimoto ne “Il giardino segreto” con tutta la simbologia dello spazio orientale.

“Giardino segreto” di Francis Hodgson Burnett illustrato da Inga Moore, 2008
Cancello del castello nello Hampshire, set del romanzo

Modi diversi di raccontare giardini, con diverse sfumature di significato metaforico e letterario e riferimenti a spazi verdi che si possono rintracciare nella realtà. Non sono mancati i riferimenti al giardino come luogo di privilegio e protezione, che nel romanzo dei Finzi Contini si pone in contrapposizione con l’Italia fascista che sta fuori, un esterno da dove la tragedia è pronta a irrompere, ma anche nel giardino persiano che nella storia della Mezzalama isola e protegge dall’esterno dove la tragedia è in atto.

Modello di giardino persiano tradizionale
Sede dell’ambasciata italiana a Teheran raccontata nel “Giardino persiano” (foto Chiara Mezzalama)

Perché “Il giardino persiano” è ambientato a Teheran nell’estate 1981, stravolto dalla rivoluzione islamica dell’Ayatollah Khomeini, dalla crisi degli ostaggi americani, da un buio terrore, dalla povertà e dalla guerra con l’Iraq.

Giardini Estensi 2018 – pubblico a incontro con Giardini letterari per Giorgia Mazzotti e Simonetta Sandri (foto Valerio Pazzi)

Parlando di giardino come luogo lontano da tutto, fonte di protezione e ispirazione, si è quindi arrivati a Villa Ninfa, lo spettacolare parco dove Bassani fisicamente scrive il suo romanzo, uscito nel 1962. In un’intervista pubblicata solo nel 2016, ma realizzata dal giornalista Carlo Figari all’epoca della sua laurea in lettere nel 1979, Bassani ha infatti rivelato che quel luogo rappresenta la vera fonte di ispirazione per descrivere il suo “Giardino”. “I Finzi Contini – confessò Bassani al futuro giornalista – in verità derivano da una famiglia aristocratica romana, i Caetani di Sermoneta, e i luoghi che mi hanno ispirato l’ambientazione del romanzo sono il parco che questi nobili possiedono a Ninfa, vicino a Latina, e l’orto botanico di Palazzo Corsi, dietro le logge di Raffaello a Trastevere”. Il riferimento all’orto botanico e alle frequenti e attente visite fatte con il padre è stato in diverse occasioni riportato anche dalla figlia dello scrittore, Paola Bassani.

Giardini letterari raccontati da Simonetta Sandri e Giorgia Mazzotti (foto Valerio Pazzi)
Pubblico all’incontro di Giardini Estensi 2018 (foto Valerio Pazzi)
Pubblico a Giardini Estensi 2018 (foto Valerio Pazzi)

Da notare che l’incontro si è realizzato all’interno del bel (e pubblico) Parco Massari di Ferrara, che nella trasposizione cinematografica de “Il Giardino dei Finzi Contini”  identifica la collocazione dell’ingresso alla dimora nel suo cancello laterale, accessibile da corso Ercole I d’Este 40, riprodotto anche nelle locandine del film dove fa da sfondo al gruppo di Micòl e dei suoi amici.

Locandina del film “Il Giardino dei Finzi Contini” col cancello d’ingresso a Parco Massari
Cancello d’ingresso a Parco Massari di Ferrara nella realtà (foto GM)

[cliccare sulle immagini per ingrandirle]

Dalle calotte a una nuova gestione pubblica del ciclo dei rifiuti

Da organizzatori

Continua con successo la petizione popolare: al sabato e alla domenica si può firmare in piazza presso i banchetti.

Continua con successo la raccolta di 500 firme per richiedere al Consiglio Comunale di Ferrara di discutere e deliberare la realizzazione di uno studio di fattibilità per la ri-pubblicizzazione del servizio di raccolta dei rifiuti. L’iniziativa, lanciata appena dieci giorni fa dalla Associazione Politico Culturale ferraraincomune e dal Comitato Mi rifiuto, ha raggiunto e superato il giro boa, hanno infatti già firmato oltre 250 cittadini ferraresi.
Com’è noto, nel dicembre scorso è scaduta la concessione ad Hera, la stessa Hera che in accordo con il Comune di Ferrara aveva avviato appena pochi mesi prima la discussa e discutibile “operazione calotte”, limitandosi a informare la cittadinanza, senza cioè richiederne democraticamente il parere. Scaduta la concessione siamo quindi in regime di proroga, c’è quindi ancora il tempo di “fare le cose per bene”, cioè di valutare attentamente le varie opzioni per la futura gestione, scegliendo la soluzione più economica (e quindi meno onerosa per gli utenti), la più ecologica ed efficace, la più aderente ai bisogni dei cittadini residenti.
L’opzione di una gestione pubblica partecipata, piuttosto che istruire una nuova gara per la concessione del servizio ad una azienda privata, a noi sembra la strada giusta da percorrere. La stessa strada che altri Comuni, in Veneto Lombardia ed Emilia, hanno già intrapreso con buoni risultati.
La raccolta di firme impegnerà Il Consiglio Comunale a valutare questa opzione, e in ogni caso ad approfondire il tema, valutare attentamente le varie esperienze e i vari modelli esistenti, avviare cioè un serio studio di fattibilità. I risultati – così noi intendiamo la democrazia partecipata – dovranno poi essere presentati e discussi nelle assemblee di quartiere con tutti i cittadini, raccogliendo pareri, obiezioni, suggerimenti.
Aderire all’iniziativa è molto semplice. Tutti i residenti del Comune di Ferrara possono recarsi nei giorni festivi e prefestivi presso i nostri banchetti in piazza: per avere una più completa informazione, esprimere la propria opinione e firmare la petizione popolare. Sabato 4 maggio e domenica 5 maggio, il banchetto è in Piazza Castello (lato Duca D’Este) dalle 10,00 alle 13,00 e dalle 16,00 alle 19,00. Vi aspettiamo.
Associazione ferraraincomune Comitato Mi rifiuto

DIARIO IN PUBBLICO
La città del fiore ovvero la sconfitta della cultura

E dopo alcuni mesi ritorno a F. – effe puntato – non la città indicata da Giorgio Bassani con questo monogramma, Ferrara, ma a quella ideale, in cui ho passato esattamente metà della mia vita (1954-2017), Firenze.
Già all’uscita dalla stazione (avevo chiuso gli occhi per non vedere e non ricordare le dolci colline di Castello che il treno sfiorava) sono accolto dalla completa distruzione di uno dei luoghi più noti dell’architettura novecentesca, cioè la stazione di Santa Maria Novella, ormai Gotham City, dove il cataclisma provocato dai mostri non ha un Batman che la salvi. Percorro via Cerretani tra tripudi di scarpe e borse. I vecchi ristoranti hanno ceduto il posto a esoteriche gelaterie e uno di essi porta l’insegna di un luogo dove ho studiato per anni: “la Dantesca”! Fendo folle sudaticce e non certo odoranti di mughetto, il fiore di maggio; ascolto scalpiccii di piedi che sortono dalle più impensabili “scarp da tennis” direbbe Jannacci. Come in un ritratto ricordo vecchi alberghi, negozi raffinati che s’accalcavano attorno alla svolta per via Tornabuoni e poi e poi la marea vociante si confonde in un unico balenare di teste e di selfie attorno al Battistero irriconoscibile.

In questo confuso accavallarsi di arte, ‘magnate’, compere si rispecchia non a caso la confusa situazione della politica italiana che non riesce e non vuole organizzarsi in un serio progetto di salvezza nazionale. Il panciuto e affannato mister s’adopera a condurre le sue greggi nei luoghi sacri dell’arte: chissà se ancora potrà risuonare attuale l’invito alla salvezza del mondo proposto da Giotto o da Brunelleschi o dal ‘Devid’, che sovranamente indifferente spalanca l’occhio a guardare con aria perplessa le folle adoranti che gli scrutano i cabasisi per valutarne la virile qualità non capacitandosi della loro piccolezza.
L’arte viene dunque mangiata. A morsi. A bocconi. Come una pizza d’asporto senza nemmeno più il decoro di un buon ristorante. E se si fa giustamente un caso della perdita di un dito nello spostamento della Santa Bibiana del Bernini che dire dei fiati, degli umori, dei vapori comprese le puzzette (una fragorosa mi riporta all’oggi transitando in Piazza della Repubblica) che lentamente come le fibre dell’eternit mangiano il nostro patrimonio artistico? Firenze è dunque sulla via del non ritorno? Penso proprio di sì. E l’ombra di questa minacciosa lebbra sta invadendo poco a poco anche le città di provincia, come la nostra. Le mostre inutili, gli ‘eventi’ che servono ormai a diffondere la sbrigativa consapevolezza che un nome di un artista può produrre economia. L’arte a tutti, per tutti, di tutti e senza difese cancella l’arte. Che fare? Ritirarsi sull’Aventino e attendere? Oppure denunciare, riflettere, organizzarsi? Gli amici fiorentini preoccupatissimi assistono allo sgretolarsi dell’influenza dell’associazionismo culturale che pur combattendo perde sempre più terreno.
Del nostro ferrarese non sono più al corrente.

Mi siedo all’antico caffè in piazza del Battistero, che per decenni zuccherava il mio spleen con pasterelle deliziose. L’espresso sbattuto lì con malagrazia da un cameriere nervoso (a Firenze una condizione immutata nel tempo) è un’acqua tinta – direbbe Dante – mentre il conto ovviamente è all’altezza del luogo. M’intenerisce una coppia non giovanissima, forse della mia stessa età. Lei si china sul quadernuccio e annota le sue riflessioni: un raggio di sole nel caos infernale di una piazza degna del Paradiso.
Passo da Seeber, ormai Ibs-Libraccio, e mi rifugio per un attimo tra i bambini-libri mentre attorno e di lontano lo strascinamento dei piedi fa da coro muto (o quasi) al lento sfaldarsi della bellezza.
E’ un atteggiamento da radical-chic? Forse. Ma è pur vero che la denuncia può e deve essere l’ultima difesa contro l’immagine del degrado. Nel suo bellissimo libro Chaim Potok, ‘Il mio nome è Asher Lev’, l’artista che insegna il senso della pittura al ragazzino Asher afferma: “ La pittura di un uomo riflette la sua cultura o è un commento ad essa, oppure è semplice decorazione o una fotografia.” Ecco. In questo mondo infelice è necessario indicare di nuovo come meta ultima la connessione dell’arte con il suo contesto. Oppure contentarci di vivere nel mondo irreale dei social.
Vedo in tv la nipote della mia dea: Laura Morante. E’ spronata dalla Gruber a dire qualcosa sulla politica del Pd. La dice col suo bellissimo e mobile viso. Si vede che è tesa; infatti nella trasmissione sarà annunciata l’uscita del suo primo libro di racconti.
Questo è sì vero coraggio. Non temere l’inevitabile confronto con lei nonostante sia inevitabile. E dopo due bruttissime biografie uscite in questo mesi sulla Morante, una francese di René de Ceccatty, l’altra italiana di Anna Folli, la sfida o l’amore per la parola e nella parola riporta di nuovo un filo di speranza a contrastare l’Altro Mondo: quello della bruttezza e del caos.
Salviamo Firenze, salviamo Venezia e pure Roma se potrà essere possibile.

LA FOTONOTIZIA
Ferrara LiberA

Anche quest’anno, come è ormai tradizione, nel pomeriggio del 25 aprile 2018 il centro di Ferrara rivive la propria ‘LiberAzione’, grazie un’azione teatrale che quest’anno ha visto coinvolti diversi soggetti accomunati dal riconoscersi nei valori della Resistenza e dalla convinzione che l’arte possa essere un valido strumento per tramandare la memoria.

Oltre al sostegno dell’ANPI Ferrara e del Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara, e con il patrocinio del Comune di Ferrara, la compagnia teatrale A_ctuar, l’orchestra della scuola di musica Musi Jam, il Coro delle Mondine di Porporana, il gruppo di lavoro nato all’interno del Centro Sociale La Resistenza di Ferrara ed un gruppo di cittadini di Pontelagoscuro provenienti dalla precedente esperienza del Teatro Comunitario.

Lo spettacolo itinerante ricorda il 24 aprile 1945, giorno dell’entrata in città delle truppe inglesi che sancì il definitivo ritorno alla pace e alla libertà anche per Ferrara.
‘LiberAzione’ perché al centro della scena c’è la ricostruzione attiva e comunitaria della memoria da parte di una comunità.
Una liber-azione per ricordare quanto la libertà sia un bene comune che si difende con la partecip-azione.

Il racconto fotografico dell’azione teatrale è di Valerio Pazzi.
Clicca sulle immagini per ingrandirle.

‘LiberAzione’ messa in scena mercoledì 25 aprile (foto Valerio Pazzi)
Accompagnamento musicale a ‘LiberAzione’ (foto Valerio Pazzi)
Un momento della messa in scena nel centro di Ferrara (foto Valerio Pazzi)
Gruppo di attori (foto Valerio Pazzi)
‘LiberAzione’ (foto Valerio Pazzi)
La ‘LiberAzione’ rivive in piazza (foto Valerio Pazzi)
Un momento della rievocazione del 25 aprile (foto Valerio Pazzi)
Le mondine (foto Valerio Pazzi)
I musicisti e il coro (foto Valerio Pazzi)
Rievocazione di ‘LiberAzione’ (foto Valerio Pazzi)
Scene nel centro storico di Ferrara (foto Valerio Pazzi)
‘LiberAzione’ (foto Valerio Pazzi)