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INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Scienza diviso umanesimo, uguale: fanatismo

Rispettavano la natura, la amavano, quasi la idolatravano, come fine a se stessa, come massimo valore. Poi una nuova ideologia, un nuovo desiderio prendono il sopravvento: il bisogno di avere un figlio. E tutto cambia.
Non è stato facile avere Paolo Giordano quest’anno per la prima volta al Festival di Internazionale a Ferrara, visti i suoi numerosi impegni a seguito dell’uscita in libreria di ‘Divorare il cielo’, romanzo best-seller dalla primavera scorsa. ‘Gli scienziati raccontano’, incontro organizzato dal Master di primo livello dell’Università di Ferrara ‘Giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza’, si è svolto venerdì 5 ottobre presso il Dipartimento di Economia e Management. A incontrare lo scrittore, nonché fisico teorico di formazione, il giornalista scientifico Michele Fabbri, fiero di esser parte del master Unife che – ha ricordato alla platea – esiste da ben diciotto anni e ha prodotto ormai più di 800 persone esperte, italiane e non.

La posizione di Fabbri è chiara. Intervistato da Ferraraitalia, ha confermato come sia questa la via maestra per perseguire una vera comunicazione scientifica: “non una semplice divulgazione che cerca di spiegare il difficile con parole semplici, ma una comunicazione in grado di far comprendere come la tecnoscienza si articola nella vita quotidiana; la nostra sfida è formare coloro che formeranno, coloro che si porranno come interfaccia tra chi fa scienza e chi no”. Eh sì, perché il momento storico che stiamo vivendo è, a detta dello scienziato divenuto autore letterario, peculiare: “il divorzio tra racconto e scienza, in tutti i sensi, è sofferenza per la cultura”. Una spaccatura, quella tra sapere umanistico e sapere scientifico, che si realizza molto presto nella vita delle persone, addirittura già alle scuole elementari, quando una parte fondamentale del sapere viene presentata come oscura e violenta, provocando di fatto un istintivo disamoramento che mai potrà venir meno. Giordano, invece, non ha abbandonato un mestiere per intraprenderne un altro. Le opere della sua seconda vita sono profondamente intrise di temi scientifici, estremamente attuali e prorompenti.

Non ci è permessa, oggi, la non comprensione della scienza: se ciò poteva anche essere sopportabile nel passato, oramai è impensabile. Molte sono le sfide etiche che i sempre incessanti progressi della tecnoscienza ci presentano, ma il tempo per metabolizzare tutto questo non è mai sufficiente. E se non si afferrano i termini delle questioni, il rischio è quello di affidarsi all’istinto, all’intuito, se non all’indole o al momento contingente. Amos Oz lo chiamava “gene del fanatismo”: un gene presente in ciascuno di noi, ma attivabile dal contesto che si vive. E, forse, il nostro tempo sta collaborando all’attivazione di molto fanatismo, da una parte e dall’altra, senza vie di mezzo. “C’è ancora molto da fare nella comunicazione scientifica attraverso la letteratura”, ci confessa ancora Giordano dopo l’incontro. “Basti pensare che molti libri narrativi con temi scientifici partono da un livello di complessità medio-alto, perché è difficile partire da più in basso”.
Avevano amato la natura, così com’era, ma ora volevano un figlio, ed essa non glielo concedeva. Eppure la soluzione era là, una via contraria alla precedente. La fecondazione assistita.

LA VIGNETTA
Equivoci

Illustrazione di Carlo Tassi

C’è l’Internazionale a Ferrara… ma stavolta non parliamo di calcio!

5, 6, 7 ottobre 2018. Un weekend con i giornalisti di tutto il mondo. Incontri, dibattiti, laboratori e proiezioni. Tre giorni di interviste, spettacoli e iniziative sociali.

Festival Internazionale 2018:
Programma

Ferrara al voto, prove tecniche di democrazia

Democrazia, come tutti ben sappiamo, significa potere del popolo. E ieri sera allo spazio Grisù si è svolto un inedito esperimento che ha coinvolto oltre 100 persone di ogni età e differente condizione sociale che si sono presentate rispondendo a un appello circolato su Facebook nei giorni scorsi dal titolo “La città che vogliamo”: un appuntamento per il quale sul social network in 718 avevano manifestato virtualmente interesse.
Spazio Grisù si trova nell’ex caserma dei pompieri. Alimentare – attraverso l’ascolto e il confronto – il fuoco della politica e spegnere le fiamme che stanno rendendo incandescente il conflitto sociale è l’obiettivo degli autoconvocati. Il numero dei partecipanti alla serata, che si è svolta in “sala macchine” (altra significativa allusione), è importante e indicativo di un bisogno reale, non sopito. Le modalità che hanno orientato la svolgimento dei lavori sono quelle che tipicamente si definiscono espressione della democrazia ‘dal basso’: tavoli tematici attorno ai quali far circolare idee e proposte, senza gerarchie, secondo il principio che ogni testa e ogni parola conta, è preziosa e merita attenzione. A pronunciare la breve introduzione è il giovane avvocato Federico Battistini. “Un ‘cittadino’, serio, onesto, integro” lo definiscono gli organizzatori, una ventina, appartenenti a vari mondi riconducibili principalmente agli ambiti del volontariato e dell’associazionismo. Segue una spiegazione tecnica di Elena Bertelli (che opera nel campo della comunicazione) circa le modalità di lavoro e interlocuzione. E poi si procede con la formazione di tre gruppi di discussione tematica: su educazione, cultura e integrazione; su sanità e servizi al cittadino; e su territorio, ambiente e agricoltura.
Il confronto è fluito serrato ed è stato vivacemente e rispettosamente partecipato. Allo scadere del tempo assegnato ogni circolo, attraverso un proprio portavoce, ha riferito agli altri il senso della discussione e le proposte emerse. Obiettivo implicito, ma non apertamente dichiarato: definire i prodromi di un programma di governo per quel che il manifesto della convocazione definisce “la città che vogliamo”.
Insomma, ci siamo: prove tecniche di democrazia che si sviluppa dal basso attraverso la costruzione di un programma che scaturisce dai bisogni che i cittadini avvertono e che tiene conto dei loro orientamenti e delle soluzioni condivise.
Non è la prima volta in assoluto che qualcosa del genere succede, ma con queste modalità, negli anni recenti, è forse la prima volta per Ferrara; ed è particolarmente significativo che questo accada oggi, in vista di un appuntamento elettorale il cui esito appare quantomai incerto, a fronte della virulenta avanzata del fronte populista che, anche in città, alle ultime consultazioni, ha marcato una forte crescita e ha visto il contemporaneo declino del partito, il Pd, formalmente erede della tradizione di coloro che da sempre hanno governato.
E’ un seme, quello piantato ieri nel cuore del Gad, il quartiere simbolo della frizione civica; forse un germoglio. Lo spirito positivo e propositivo e la voglia di mettersi in gioco non mancano. Qualcuno, certo, oggi sorriderà per questa impresa naïf, ma domani potrebbe cambiare espressione.
Il grande Bernard Russel ci ricorda che “gli innocenti non sapevano che la cosa fosse impossibile, dunque la fecero”.

La pagina Facebook del gruppo “La città che vogliamo”

Fisiognomica e filologia: ‘Me ne frego’

Riguardo con stupore le foto del balcone che scatenano l’applauso della folla sotto raccolta, e mentre Di Maio alza la mano nel gesto di vittoria, ecco che la memoria involontaria scatta non tanto perché, è ovvio, di trionfi annunciati sotto il balcone è assai prodigo il Novecento ma perché scenografia, luci, impostazioni rimandano a certi attori e tecniche del cinema espressionista con impressionante coincidenza. Così il vice-ministro è la copia perfetta di un grande attore cinematografico la cui carriera è indissolubilmente legata alla nascita del filone dei film horror: Bela Lugosi la cui vita scopro ha molti punti di contatto con quella del vice-ministro. Ecco alcune informazioni:

“Bela Lugosi, pseudonimo di Béla Ferenc Dezső Blaskó (Lugoj, 20 ottobre 1882 – Los Angeles, 16 agosto 1956), è stato un attore ungherese, inizialmente attivo anche come sindacalista. È rimasto celebre per le sue interpretazioni nei film horror, prima fra tutte quella del personaggio di Dracula. Ha recitato in piccole parti teatrali in patria prima di prendere parte al suo primo film nel 1917, ma dovette lasciare il suo paese a seguito della fallita rivoluzione sovietica ungherese del 1919”.

Sappiamo, sappiamo: la Storia non si ripete ma crea impressionanti contatti tra il passato e il presente. Vedere dunque il ghigno di Lugosi e l’inquadratura del politico sul balcone fa una certa impressione, così come sapere che la carriera dell’attore comincia come sindacalista. In più, la sua fama venne presto offuscata da Boris Karloff, insuperato attore inglese che gli contese e alla fine vinse il ruolo di Frankenstein (ogni riferimento alla realtà attuale NON è casuale ma voluto).

D’altra parte le preoccupate note del presidente Mattarella sulla tenuta dei conti e sul rapporto con l’UE provocano in Matteo Salvini una vibrata reazione che si esprime in questa frase: “La Carta non impedisce un cambio di rotta. Mattarella stia tranquillo. Dell’Europa me ne frego“. E nel contesto della giornata mondiale del sordo, così il ministro dell’Interno replica al rischio di una bocciatura della manovra: “Abbiamo fatto una manovra che investe soldi per chi di soldi non ne vede da molti anni: giovani, pensionati, le pensioni di invalidità. E se a Bruxelles mi dicono che non lo posso fare me ne frego e lo faccio lo stesso”.

Ma una parola evidentemente imbarazzante (non per lui) le cui origini sono di natura dannunzian-mussoliniana e che Berlusconi che se ne servì nel 2018 per replicare a chi gli domandava se fosse in ambasce per la decisione di Strasburgo sul suo ricorso (poi ritirato), vale una piccola indagine filologica che s’accoppia per me alla lettura di un libro fondamentale che sta avendo, per fortuna, un successo di pubblico impressionante: M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati (Bompiani 2018) che, uscito agli inizi di settembre, sta già esaurendo la seconda edizione. Sappiamo quanto l’innovazione linguistica in età mussoliniana andasse di pari passo con il rifiuto dell’altro, dello straniero, e quindi fosse ineluttabilmente legato all’ignobile giornale che diffuse nel tempo il concetto della difesa della razza (encomiabile da questo punto di vista, specie nel corredo iconografico, il numero dell’Espresso uscito il 30 settembre che ripercorre il terribile tema nella propaganda mussoliniana). Che si sia poco attenti alle traduzioni e quindi nel recepire una fake news è ormai consuetudine; come quella che riguarda la frase del presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker che, in polemica con l’allora premier Matteo Renzi, usò le parole “je m’en fous”: “La traduzione che andò per la maggiore fu “me ne frego”, con inevitabile coda di polemiche, anche se in francese il senso è tra “non m’importa” e il triviale “me ne fotto”.

Nella volontà di “nazionalizzare” il linguaggio voluta dal Duce e di quanti impressionanti neologismi la lingua italiana si appropriò che oggi suscitano ilarità se non perplessità, il me ne frego ha illustri radici. Fu coniato da d’Annunzio che (come riporta la Treccani): “Un motto “crudo” come lo definì lo stesso poeta, […]. Il motto apparve per la prima volta nei manifesti lanciati dagli aviatori del Carnaro su Trieste. Il motto era ricamato in oro al centro del gagliardetto azzurro fiumani (un gagliardetto che riporta “me ne frego” è presente al Vittoriale degli italiani di Gardone, nella dei legionari sezione “schifamondo. […]Trae origine dalla scritta che un soldato ferito si fece apporre sulle bende, come segno di abnegazione totale alla Patria”.

Accertate dunque le origini dannunziane del motto, quest’ultimo si diffuse presto tra gli squadristi e tra gli Arditi che nell’immediato dopo guerra sembravano divenire una mina vagante e che Mussolini usò per crearsi quel seguito di elettori che la defezione dei socialisti gli aveva fatto mancare, come spiega in modo straordinario il libro di Scurati. Il motto dunque si ripete nell’inno che accompagna le imprese dei fascista di cui diamo qui una strofe:

“Questa nostra bella Italia
non sia usbergo al traditore
e soltanto il tricolore
arra sia di civiltà
Per d’Annunzio e Mussolini
eia, eia, eia
alalà! …

Me ne frego,
me ne frego,
me ne frego è il nostro motto,
me ne frego di morire
per la santa libertà!…”

Con questo intendo dire che Salvini è un fascista? No certo ma che non sappia misurare le parole e non ne conosca l’origine è sicuramente accertato.

Per riprendere a proposito di impressionanti contatti il tema affrontato da Bassani e riproposto da Vancini nel film La lunga notte del ’43 leggo il rapporto esibito da Scurati dell’ispettore di pubblica sicurezza Gasti che nel 1919 scrive: “Benito Mussolini è di forte costituzione fisica sebbene sia affetto da sifilide. Questa malattia particolarmente vergognosa secondo il senso comune ma che il Duce riscatta con le sue avventure amorose è quella che affligge il farmacista Barillari nel racconto bassaniano. Una malattia procuratagli dall’imposizione di Sciagura a frequentare le case di tolleranza tra un’impresa squadristica e l’altra e che procurerà l’atteggiamento di Barillari a non più giudicare ma ad osservare. La sifilide per lui non sarà più segno di virilità.

Come concludere? Mi sembra ovvio. L’attenzione della ‘ggente’ alle imprese dei due dioscuri giallo-verdi andrebbe ‘monitorata’ con un poco di Storia ma purtroppo sembra che questa fondamentale capacità dell’uomo di stabilire una connessione tra passato e futuro e leggerla nel presente sia la grande assente nell’impresa politica non solo italiana ma mondiale.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
La mente collettiva

Non ho rapporti con l’Australia, non conosco nessuno in quel continente, ma ricevo regolarmente le newsletter dall’Amministrazione di Melbourne, perché Melbourne è una knowledge city e di questo mi occupo, così ho potuto leggere il piano della città da qui al 2021.
C’è una bella affermazione a introduzione del loro programma, che voglio condividere. La convinzione che in una città della conoscenza il potere collettivo della mente e dell’esperienza guida la prosperità della città, la sua capacità di competere a livello globale e la qualità della vita di cui godono le persone.
La città come mente collettiva, come somma di esperienze tutte necessarie a far respirare i suoi polmoni. Il tutto supportato da una rete di risorse che va dal sistema di istruzione e ricerca, alla collaborazione con le imprese per produrre una forza lavoro di talento, altamente qualificata e una cultura dell’innovazione. Una città vivace e collaborativa basata sulla cultura dell’apprendimento permanente, sulla conoscenza come impresa sociale.
La conoscenza come risorsa indispensabile all’oggi per impastare il domani.
Temo che da questo punto di vista a noi manchi sempre più la materia prima per costruire il futuro. Intendiamoci, conoscenza significa studio continuo e ricerca continua per scuola, università, istituzioni culturali, persone e imprese, questa è una necessità da cui non si sfugge, per questo dovremmo davvero essere allarmati e non solo per le cifre degli abbandoni scolastici che abbiamo, per la fuga dei nostri giovani laureati all’estero, per cui investiamo in istruzione in perdita.
Se il mondo cambia è ovvio che dobbiamo cambiare anche noi e per cambiare servono come prima risorsa idee nuove, nuove visioni, nuovi cammini da percorrere, e questi possono formarsi solo se le nostre menti vengono alimentate da pensieri inediti che possono nascere solo dallo studio e dalla ricerca. Fortunatamente, contrariamente al passato, le opportunità di studio e di accedere ai saperi si sono moltiplicate, ma dello studio bisogna fare un dato costante per tutti, combattere approssimazioni e superficialità, venditori di favole e del tempo passato.
Quando non si sa più affrontare il presente significa che si è ignoranti, si ignorano cioè gli strumenti per reggere le novità e le nuove sfide, non vengono né le idee né si intuiscono le strade per ricercare soluzioni e, quindi, non resta che studiare, ricercare, se non ci si vuole far spappolare i cervelli dalla propaganda e dalla demagogia del primo venuto, dal fai da te risolutore e salvifico della rete digitale, dagli affabulatori di narrazioni semplificate spesso false.
Che la conoscenza sia oggi divenuto il primo ingrediente delle nostre vite è un dato di fatto, c’è un analfabetismo funzionale che non è incapacità a leggere, scrivere e far di conto, ma incapacità ad accedere ai saperi, a passare dal sapere alla competenza, in un epoca in cui le conoscenze sono sempre più accessibili a tutti, ma è l’uso da farsi delle conoscenze che non si è appreso dalla stragrande maggioranza dei nostri connazionali.
Da qui a dieci, vent’anni il 40% dei lavori attuali con ogni probabilità sarà superato dall’automazione, ci saranno altri mestieri, come è possibile che l’uomo si liberi sempre più dalla schiavitù del lavoro, recuperi il suo tempo di vita.
Non è la dannazione neppure la disoccupazione. Liberarsi dal lavoro significa avere più tempo da dedicare alla mente, a coltivare lo studio e la ricerca, consentire a masse di persone tagliate fuori dallo studio di accedere alla cultura, di acquisire dignità contribuendo con la propria intelligenza alla crescita del patrimonio culturale e di conoscenze del proprio paese, della propria città, dell’umanità intera. Perché l’umanità cresce se cresce il suo sapere, se si incrementa il numero delle persone che indagano quei terreni dello scibile umano che ancora ci nascondono le loro rivelazioni.
Il lavoro di domani sarà sempre più lo studio e la ricerca, pagati con il denaro pubblico, chi perde il lavoro deve riconvertirsi allo studio, recuperare i percorsi scolastici e universitari non compiuti, per poi dedicarsi ad un campo di studio e di ricerca, è questo che è necessario al futuro delle nostre esistenze su questo pianeta. La moltiplicazione degli istituti di formazione e di cultura, il bando ad ogni numero chiuso e l’apertura di campus internazionali, una tassazione generale per finanziare lo studio, la formazione e la ricerca permanenti, per moltiplicare il numero dei lavoratori della conoscenza e pagarne il salario. Da tutto ciò potranno scaturire nuove attività, nuove produttività e nuove opportunità fino ad ora impensabili. È questa la mente collettiva vivace di cui avremo sempre più necessità, è questa la risorsa di cittadinanza che può essere la prospettiva di un futuro che vale la pena costruire, vivere e far prosperare.

La leggenda dei piranha nei prati in fiore

I’m Not in Love (10cc, 1975)

Un cofanetto di latta trovato nell’armadio, una vecchia scatola di biscotti. Guardo dentro e ritorno di colpo al passato.
È pieno zeppo di foto, molte in bianco e nero, alcune a colori…

Anno 1975: un’altra vita, un altro mondo, un altro me stesso. Il mangiadischi di mia sorella suonava ‘rock the boat’, ‘rock your baby’, ‘Love theme’ e tutta la musica luccicante d’allora che portava l’estate ogni giorno dell’anno.
Io e mio cugino, bambini sul lago, persi tra sogni e ricordi, quando voglia d’avventura e meraviglia coloravano le nostre giornate.

Magliette a righe come quelle dei marinai, pantaloncini bianchi e corti alle ginocchia, sandali di gomma per camminare sui sassi immersi nel lago. Due monelli a zonzo per le vie di Garda. Io sono il piccoletto, poi quello spilungone di mio cugino, magro come un’acciuga e più grande di me di quasi tre anni.
Le giornate sono lunghe ma mai noiose perché una storia da inventare la si trova sempre. Ce ne andiamo in giro a cercare qualcosa da fare, concentrati e determinati come due piccoli agenti in missione segreta. Ogni luogo è una terra sconosciuta da esplorare, ogni oggetto trovato è un mistero da risolvere, ogni ostacolo una sfida da vincere. E alla fine di corsa al quartier generale, la grande casa presa in affitto per le vacanze, sicura e confortevole coi nostri genitori sempre ad aspettarci e a far domande.

L’eterna estate degli anni settanta quando luglio e agosto valevano un anno intero. La scuola finiva e iniziava l’avventura. Posti lontani a due passi da casa. I giri con le bici, interminabili viaggi senza tempo… Com’era bella la vita senza i telefoni in tasca!

Dalla spiaggia della Cavalla fino a Punta San Vigilio. Eccolo: è questo il nostro mondo tutto per noi e pronto da conquistare!
Quella volta partiamo a caccia di cagnette armati di secchiello, retino, lenze e mollica di pane. Ci caliamo nei cunicoli semisommersi tra gli scogli e aspettiamo pazienti le nostre prede. Mostri voraci dalle bocche irte di denti, vivono nascosti nel buio di fessure di roccia sommersa: le nostre murene in miniatura.
Per niente buone da mangiare, con una pelle grigia e priva di squame, fredda e sgusciante come quella delle anguille. Sono piccole ma forti e muscolose, munite di dentini aguzzi e dolorosi come aghi…
Per un po’ le cagnette sono il nostro principale passatempo. Una volta catturate finiscono nel secchiello giallo pieno d’acqua e restano lì per tutto il tempo della “missione”, ovvero finché non decidiamo di ributtarle nel lago. Così quella mattina ne pesco una così grossa che ho paura a prenderla in mano. Tiene la bocca spalancata quasi a voler dire “se ti avvicini ti mordo”. Mi ricorda la bocca dei piranha che ho visto tante volte nell’acquario del negozio di animali di via Armari a Ferrara. Quante volte mi son fermato a fissare quella vetrina… ricordo che i piranha erano due e se ne stavano precauzionalmente da soli, mentre al sicuro nell’acquario di fianco c’erano pesci combattenti blu e pesci spazzino sempre indaffarati a dragare la ghiaia ammucchiata sul fondale.
Ma torniamo al lago. Alla fine catturiamo circa una trentina di cagnette. Alquanto soddisfatti decidiamo di raggiungere lo stagno che si trova nel bel mezzo dei giardini pubblici, a poca distanza da noi. Arrivati ai margini dell’acqua liberiamo le cagnette una ad una, come in un rito solenne. Le guardiamo scomparire con guizzi fulminei nelle acque grigie e immobili dello stagno. Siamo fermamente convinti della bontà dell’operazione: una colonizzazione in piena regola, con l’idea che in breve tempo lo stagno si sarebbe popolato di cagnette. E tutto questo grazie a noi.
La delusione è cocente quando l’indomani il signor Romeo, il nostro padrone di casa, ci spiega che le cagnette non sono pesci in grado di sopravvivere in uno stagno. Che al contrario hanno bisogno di acque ricche d’ossigeno come quelle del lago. Senza saperlo le avevamo condannate a morte.
La sera stessa, tormentati dal senso di colpa, torniamo allo stagno nuovamente muniti di lenza, retino e secchiello con la speranza di salvarne almeno qualcuna. Vorremmo catturarle di nuovo per riportarle al lago ma sappiamo che l’impresa è disperata: le acque dello stagno sono torbide, la superficie è ricoperta di piante acquatiche, è impossibile vedere il fondale.
Siamo ormai sul bordo dello stagno. La luce del tramonto dipinge di sfumature arancioni l’ambiente tutt’attorno, le ombre s’allungano rapidamente sui cespugli, sui prati fioriti. Ma è proprio tra l’erba che intravedo qualcosa muoversi. M’avvicino per vedere meglio e chiamo subito Gianfranco. Restiamo a bocca aperta, increduli.
Sotto di noi una processione di cagnette che si trascinano sull’erba non senza difficoltà. Usano le minuscole pinne come delle zampette primitive. In pratica camminano.
Non sappiamo affatto come facciano a respirare fuori dall’acqua ma ci riescono.
Ci guardiamo attorno e alla fine capiamo cosa sta succedendo: a una ventina di metri da noi, proprio nella direzione presa dai pesciolini, passa il torrente che taglia in due il paese segnando il confine orientale dei giardini pubblici. Le sue acque scorrono limpide e veloci finendo nel lago a poca distanza.

Ecco qua: le cagnette non avevano certo bisogno del nostro aiuto, per loro avevamo già fatto anche troppo.
Siamo rimasti ad osservarle nel loro lento e inesorabile cammino verso la salvezza. Ritornavano a casa spinte da un istinto di sopravvivenza a noi sconosciuto, guidate da una bussola misteriosa nascosta nel loro dna.
È già buio pesto quando l’ultima cagnetta, la più grossa, quella che il giorno prima mi aveva ricordato i piranha dell’acquario, raggiunge a fatica il bordo del torrente. Senza pensarci un attimo la prendo in mano per lanciarla in acqua, lo faccio per aiutarla anche se non ne ha bisogno. Prima di cadere nel torrente lei mi ringrazia mordendomi il pollice.
Mai morso fu più doloroso e meritato di quello!

Love’s Theme (The Love Unlimited Orchestra, 1973)

Rock Your Baby (George McCrae, 1974)

Rock the Boat (Hues Corporation, 1973)

Un convegno a Ferrara:
Voci sottili, chiusure identitarie e la macchina della paura

Un vento impetuoso soffia ormai ovunque, sospettoso verso ogni diversità, di fronte alla quale non c’è azione di governo che non sia in difficoltà a fare sintesi.
Crisi che percorre da dentro le democrazie, in difficoltà a conciliare voci, culture, sensibilità, interessi, opinioni e fedi (sempre più al plurale), con il momento della decisione. Controcorrente si pone, a Ferrara, “Una voce di silenzio sottile”, XXIII convegno di teologia della pace, ospitato martedì nella parrocchia di Santa Francesca Romana. Il titolo cita il versetto 12 del capitolo 19 del primo libro dei Re, nella Bibbia.
L’incontro si è aperto con la presentazione del libro “Il folle sogno di Neve Shalom Wahat as-Salam”, curato da Brunetto Salvarani (Milano 2017). Tra gli autori del libro il giornalista Giorgio Bernardelli, che ha raccontato l’esperienza dell’Oasi di pace (traduzione di Neve Shalom Wahat as-Salam nella duplice espressione ebraica e araba), fondata da padre Bruno Hussar nel 1974 in Israele.
Prete cattolico, domenicano, nato in Egitto nel 1911, ebreo e cittadino israeliano. Quattro identità destinate a segnare per sempre la sua vita, che proprio nella terra delle grandi speranze e di permanenti conflitti fonda un luogo d’incontro tra ebrei e palestinesi e poi aperto anche per chi, come direbbe Woody Allen, “credere in Dio è una parola grossa, diciamo che lo stimo molto”.
Persone, famiglie e scuole, per mettere insieme ciò che ovunque è visto come il diavolo e l’acqua santa, o i poli della calamita che si respingono.
Eppure quello che in Israele, e non solo, pare impossibile, diventa realtà a Neve Shalom Wahat as-Salam.
Itinerario di un uomo destinato dalla nascita ad abbattere barriere e pregiudizi, quello di Bruno Hussar. Tanto che arriverà a lavorare a fianco del cardinale Augustin Bea durante il concilio Vaticano II nella scrittura della dichiarazione Nostra Aetate, ossia la svolta conciliare che ha lasciato definitivamente alle spalle la convinzione del popolo deicida e dei perfidi ebrei, ossia i principi ripetuti per secoli nella teologia e nella liturgia cattolica.
Fra le ultime realizzazioni del prete domenicano, la Dumia (in ebraico “silenzio”), una cupola bianca, uno spazio del silenzio. Una stanza vuota, vicino alla sua tomba (morì nel febbraio 1996), in cui, proprio come nel libro dei Re, l’incontro con il mistero divino non avviene nel fragore dei terremoti o nelle tempeste, ma in “una voce di silenzio sottile”.
Come ha detto bene Bernardelli, se si vince l’iniziale perplessità di uno spazio disadorno si riesce a comprendere il significato di un luogo privo di simboli. È, innanzitutto, la volontà di disintossicarsi dalla bulimia di simboli che, in ambito religioso, oggi tornano a essere forti richiami identitari, spesso in senso nostalgico. Rosari e vangeli branditi nelle piazze, le ampolle di sangue omaggiate pubblicamente e le immaginette di santi esibite con recitata ritrosia davanti alle telecamere, non sono che gli esempi più recenti.
Riedizioni di perimetri simbolici e dottrinali (per stabilire nuovi dentro e fuori), che se in ambito religioso motivano fondamentalismi e zelanti purismi, su quello laico-politico finiscono per trovare terreno di sutura nelle rinnovate spinte nazionaliste nel segno del popolo, della stirpe, dell’ethnos e in un concetto marmoreo di tradizione.
Glorioso passato idealizzato, frantumato da una contemporaneità che ha declassato le evidenze etiche da universali a regionali e contaminato da un’inarrestabile complessità che genera timori e insicurezze, e che per questo va restaurato per ripristinare l’ordine perduto.
Perciò riemergono le chiusure identitarie sapientemente cavalcate dalle macchine della paura dell’altro e laddove ci sono varchi aperti, rinascono confini, dazi, fili spinati, muri.
E così le pulsioni sovraniste e nazionaliste sono gonfiate da consensi, che all’ombra di quei vessilli trovano riparo (illusorio) da un clima di caos e da un globalizzazione lontana dall’avere varcato le colonne d’Ercole di una definitiva prosperità generalizzata.
Soffrono invece le ragioni della solidarietà e della fraternità, che stentano a trovare anche solamente un vocabolario in grado di spiegare che la diversità è anche ricchezza e opportunità, non solo motivo di paure e sospetti.
Del resto, la stessa Europa dei popoli finalmente amici e non più in guerra tra loro, in perenne, incompiuto e precario equilibrio fra un assetto intergovernativo, prigioniero degli egoismi nazionali, e il suo approdo federale, ben oltre lo spazio riduttivamente economico di mercato, è sempre più un’immagine al limite dell’inguardabile.
I giovani e talentuosi musicisti dell’ Orchestra Euyo, provenienti dai 28 paesi del vecchio continente, che al termine di ogni stupendo concerto si abbracciano tra loro, cammina nel solco dell’Europa che vorremmo, ma è forte il rischio che tutto si fermi alla retorica di un gesto, per quanto bello a vedersi, dentro un teatro.
Eppure, l’aver parlato dell’esperienza di Neve Shalom Wahat as-Salam, ha richiamato l’attenzione su un’Oasi in cui la convivenza delle diverse identità è stato il principio di vita del suo fondatore ed è tuttora un faticoso sentiero di pace in una terra che tuttora non conosce soluzione al conflitto.
Averlo fatto nella parrocchia di Santa Francesca Romana, significa che anche a Ferrara esiste un avamposto nel quale da 23 anni si cercano le ragioni profonde della pace, a partire da quelle religiose, non importa in quale direzione stia tirando il vento.
Un convegno arrivato all’edizione numero 23, lo stesso numero di papa Giovanni XXIII che aprì il concilio nell’ottobre 1962 esortando a dissentire dai profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi sovrasti la fine del mondo”.
Una voce che per quanto di “silenzio sottile”, è un applauso a un uomo che ha saputo vivere la diversità incisa nella propria carne non come una disgrazia, ma come un sentiero di speranza.

La politica del caos

Adesso andate con la memoria al passato, soprattutto a quello della Prima Repubblica.
Pensate ai vari Andreotti, La Malfa, Fanfani, De Mita, Spadolini, Natta, Iotti, Intini, Amato…
Pensate a quelle interminabili tribune politiche sulla Rai, grigie, pallose e incomprensibili. Vecchi tempi: c’era la Dc eternamente al governo, i suoi alleati, il Pci eternamente all’opposizione, i sindacati incazzati come pantere nelle assemblee di fabbrica, gli scioperi, la lira, l’inflazione, la scala mobile, il compromesso storico, il politichese…

Poi, fuori dai nostri confini, c’era l’America e l’Unione Sovietica, punto. L’Europa era solo una comparsa importante, divisa dal famoso ‘muro’: da una parte le democrazie occidentali e dall’altra i regimi filosovietici, da una parte i capitalisti e dall’altra i comunisti. Il resto del mondo era ancora terreno di conquista degli uni e degli altri, anche dopo tanti decenni dalla fine del colonialismo. Pensate, in fondo, a com’era tutto prevedibile, preordinato, addomesticato dal deterrente di una possibile guerra nucleare tra le due superpotenze d’allora. L’incubo della guerra atomica, un suicidio globale che nessuno sano di mente ha mai voluto, ha di fatto inibito la naturale entropia politica del mondo intero per cinquant’anni.
Pensate ai vecchi film di 007, il super agente segreto britannico eternamente in competizione con l’inseparabile – sempre nemico e a volte alleato – agente sovietico, oppure alle prese col bieco miliardario di turno, tanto folle e megalomane quanto improbabile e grottesco. Film dalle trame semplici e lineari con finale scontato. Confrontateli coi film di spionaggio attuali: verosimili, caotici e ingarbugliati come teoremi di fisica quantistica.
Ebbene, oggi la realtà ha superato la fantasia!

Ormai lo stiamo avvertendo in tanti: la politica ha cominciato a rivelare il suo fascino perverso soprattutto da quando s’è fatta caotica. Da quando cioè sono saltati i vecchi schemi strategici, tutti quegli assetti geopolitici e quelle stesse ideologie che in qualche modo l’avevano resa prevedibile (e forse pure noiosa) per troppi anni.
L’ho appena ricordato: il mondo diviso in due blocchi, comunismo contro capitalismo, e tutti gli altri, che stavano fuori da questi due sistemi, costretti a ubbidire all’uno o all’altro.
Ora, dopo l’implosione e il disfacimento di uno dei due blocchi, l’illusione di quello vincente (?) che tutto il mondo ne seguisse l’esempio s’è dovuta scontrare con una inaspettata e sconcertante realtà che, come accennerò tra breve, semplicemente segue un’unica regola: quella del caos.
La verità è che siamo fatalmente e masochisticamente attratti dalle complicazioni… e cosa c’è di più complicato e masochistico di una politica caotica come quella odierna?
La gente è scontenta, esasperata da una crisi epocale di cui non vede una fine semplicemente perché non si tratta di una crisi ciclica ma sistemica, strutturale. Una crisi cioè che non avrà soluzione se non cambierà tutto il sistema
Ma voi ce le vedete le lobby economico-finanziarie mondiali che accettano di farsi da parte per salvare il salvabile? Per dare maggiore equità al mondo? Per rendere giustizia a tutti coloro che stanno pagando gli effetti delle disparità e delle disuguaglianze generate dal neoliberismo dilagante? A breve aspettiamoci delle sorprese gente… e non piacevoli!
Il modello neoliberista che dagli anni novanta in poi ha goduto di una diffusione senza precedenti sta scricchiolando, sta mostrando al mondo le sue prime crepe.
E ora, l’intera classe politica che ne ha fatto l’unico modello di riferimento – tutta la classe politica – dalla destra, da sempre allineata ai poteri forti e alle élite finanziarie, alla (fu) sinistra, che ha deciso di rinnovarsi sposando senza riserve (dovranno prima o poi spiegarci il perché) la stessa dottrina neoliberista, sta scontando questa scelta attraverso un calo di credibilità epocale. La gente non crede più nelle promesse, nelle dichiarazioni d’intenti, nei proclami. La gente è stanca della formula politica basata sulla rappresentanza, semplicemente perché la classe politica non rappresenta più la gente ma il potere economico.
Ma attenzione, l’attuale spettacolo della politica è desolante solo in apparenza. Soprattutto per chi fa informazione, questo spettacolo non è mai stato così attraente e stimolante.

Preambolo: cominciamo col dire che la politica, come ogni altra disciplina complessa, è composta di due aspetti, uno teorico (in cui, più o meno, siamo tutti bravi, quasi dei geni), e uno pratico (e qui la musica cambia). Nel secondo non basta fare due più due, perché nella realtà della politica due più due non fa mai quattro. C’è sempre una variabile di troppo, un segno invisibile, un’incognita imprevista che scombina i piani, stravolgendo un risultato che sovente (e a torto) si dà per scontato.
È un po’ come nelle teorie del caos. Una di esse, dell’illustre chimico premio Nobel Ilya Prigogine, sostiene, per esempio, che la realtà non segue strettamente il modello dell’orologio, prevedibile e determinato, ma ha aspetti caotici entro i quali instabilità e imprevedibilità sono la norma…
Pertanto, tutti gli elementi che abbiamo considerato, ordinato e che crediamo di avere sotto controllo, sperando di mantenerli in un equilibrio costante nel tempo, sono al contrario esposti a forze che vanno al di là della nostra capacità di comprensione. Questi elementi, spinti da simili energie, finiranno col tempo per attrarsi o respingersi fino a sovvertire l’ordine che avevamo con tanta fatica raggiunto (oppure soltanto auspicato), per sostituirlo con un altro non previsto, poi un altro, e un altro ancora. Ininterrottamente e in eterno.
Il fatto è che il caos trae origine da un fenomeno da cui nessuno di noi può prescindere, qualcosa che è un tutt’uno col concetto stesso di esistenza: il movimento.
Ma proviamo a capirne di più facendo qualche esempio pratico: cosa c’è di più dinamico, movimentato, ribollente, instabile, tellurico, di questo nostro tanto auspicato mondo globalizzato? Reso ancor più traballante da un neoliberismo ormai fuori controllo, responsabile di disequilibri e tensioni destinati solo ad aumentare?
Quando si elimina il controllo di un sistema, il disordine prende fisiologicamente il sopravvento: le forze che agiscono nello spazio si moltiplicano entrando prima in contatto e poi in conflitto. Le forze sono per definizione dinamiche e, una volta liberate, si attraggono e si respingono in un moto perpetuo dai meccanismi imprevedibili. In altre parole, il caos.

Questa è la situazione che l’attuale classe politica di tutto il mondo è chiamata a gestire e a risolvere. E il paradosso è che questa situazione è l’esatto risultato delle scelte fatte dalla classe politica tutta, indistintamente.
In un tale quadro non proprio esaltante, l’informazione è chiamata a svolgere un superlavoro! Ogni giorno vengono divulgate notizie vere e false, o notizie vere che racchiudono falsità e notizie false che sottintendono verità. Un fiume di notizie, di informazioni e disinformazioni, che sfruttano tutti i canali possibili: radio, televisione, internet. Si tratta di una vera e propria proliferazione monstre di dati nel quale è sempre più arduo distinguere il vero dal falso. Il caos porta anche a questo.
Tutto ciò per quanto riguarda la visione d’insieme del problema.

Poniamo adesso il discorso a una dimensione più vicina al nostro quotidiano. Anche se può apparire banale, consideriamo che la politica si rivela risolutiva soprattutto quando la si attiva per raggiungere risultati parziali, cioè per risolvere problemi limitati nello spazio e nel tempo. Sistemare le seccature di un condominio è probabilmente meno arduo che risolvere i problemi di un intero quartiere con la pretesa di rendere felici tutti i suoi abitanti.
Perciò, più l’azione politica è limitata nello spazio e nel tempo, meno saranno le variabili e le incognite in grado di mandare all’aria il buon esito di detta azione. Al contrario, più i problemi sono complessi e allargati nello spazio, più servirà tempo per affrontarli e risolverli, e sappiamo che il tempo, prima o poi, porta imprevisti.
Spesso non è neppure lontanamente sufficiente la durata di una legislatura (cinque anni, se si fa riferimento all’ordinamento italiano). Ed è per questo che quasi sempre la fine di una legislatura coincide col malcontento della gente che l’ha vissuta e subita. Se ci aggiungiamo che in Italia, per la cronica debolezza dei nostri equilibri politici, le legislature non arrivano quasi mai alla fine naturale del loro mandato, la probabilità che un governo mantenga tutte le promesse fatte in campagna elettorale si rivela un’autentica chimera (oggi ancor più che in passato).
E questo non tanto e non solo in ragione di una sua conclamata inefficienza (sarebbe bene che ognuno di noi lo capisse quando viene il momento di tirare le somme), ma soprattutto a causa degli intralci generati proprio da chi è governato, cioè dalla gente. Quella stessa gente che poi sarà chiamata a giudicare i risultati ottenuti o i risultati disattesi e i fallimenti. Gente costituita da un insieme eterogeneo di persone con interessi contrapposti, persone spesso non in grado di comprendere fino in fondo quanto e in che modo le proprie scelte e le proprie azioni individuali possano influire nel bilancio della collettività d’appartenenza.
Un governo non solo ha il compito e il potere di eseguire le decisioni politiche di uno stato, non è solo l’espressione della maggioranza di un popolo, ma diventa anche, suo malgrado, la principale speranza del cittadino nella ricerca di una soluzione ai suoi problemi individuali che non sempre coincidono coi problemi del paese nel suo insieme. È per questa ragione che i governi sono fatalmente soggetti a essere il capro espiatorio preferito dai cittadini quando le cose vanno male.

È così: La politica deve fare i conti con forze centripete (gli interessi individuali dei cittadini) e forze centrifughe (gli interessi strategici degli enti sovranazionali). Forze tra loro antitetiche che di fatto intralciano o addirittura compromettono l’azione politica di uno stato, generando risultati destinati a scontentare tutti con effetti collaterali imprevedibili.
La schizofrenia dell’attuale politica la porta a voler sedurre gli individui e al contempo a farsi sedurre dagli enti sovranazionali. Un atteggiamento contraddittorio che ha provocato una spaccatura coi cittadini sempre più profonda e destinata a peggiorare.
Per questo motivo servirebbe un radicale cambio di rotta della politica, una svolta epocale come epocale è l’entità dell’attuale crisi.
Il caos non è alle porte, il caos è ormai entrato nel nostro quotidiano. E sta già travolgendo tutto quanto, non soltanto il mondo della politica. Dal mondo del lavoro a quello più ampio della comunicazione, dal credo religioso alla sfera più intima dei rapporti umani. La sensazione è quella di una progressiva deregolamentazione imposta da un sistema globale che tuttavia sta rafforzando il proprio controllo su tutto. Una formula non nuova che si regge sull’enunciato che la progressiva debolezza dei controllati rafforza ulteriormente i controllori.

Una destra che parla di uguaglianza, che va nei quartieri poveri e nelle periferie a parlare con la gente. Una sinistra che si siede a fianco di industriali e banchieri. Un nuovo razzismo di pancia, emergente certo, ma fortunatamente orfano delle ideologie aberranti del passato. Una classe operaia che vota Lega, perché abbandonata a se stessa e incazzata più che mai con una classe politica di sinistra considerata (a ragione) traditrice e voltagabbana. Una élite intellettuale di sinistra, appunto, con maglioncini di cashmere e Tod’s che abita gli attici nei quartieri bene e che considera gli operai… anzi non li considera proprio più!
Dicevo, un’Europa falsamente unita che predica l’accoglienza e la pace, ma vende armi ai paesi in guerra e svuota l’Africa delle sue risorse. Un terrorismo non più soltanto circoscritto a un territorio o a un’ideologia, ma motivato da ragioni esistenziali, religiose ed economiche, e con una diffusione più che mai internazionale e capillare.
Infine la favola della globalizzazione, la cui propaganda parla di mescolanza tra i popoli, di interscambio senza più barriere, di fratellanza e di abbattimento delle distanze… mentre la realtà è fatta di povertà e di disuguaglianze in aumento.
Ma la vera notizia sta nella trasversalità. E già… una volta la povertà era appannaggio esclusivo del proletariato e del sottoproletariato, ora si è aggiunta anche la piccola/media borghesia. Quella impiegatizia, dei piccoli imprenditori che non ce la fanno, degli statali senza carriera, dei nuovi disoccupati, dei pensionati con pensioni da fame…
Come si dice: mal comune mezzo gaudio!
Sappiamo però che la realtà è cosa ben diversa di un semplice proverbio, perché questo mal comune ha invece partorito un implacabile comune denominatore: la paura.
Una paura folle di perdere tutto quello che ci è rimasto, quello che ancora non ci è stato tolto.
Adesso, il sistema che ha provocato la crisi, invece di mettersi in discussione, esige ulteriori sacrifici dalla gente, lo fa instillando paura, insicurezza e sensi di colpa. Lo fa con la complicità dell’informazione, quella istituzionale, quella collegata alle lobby finanziarie che, attraverso il sistema del debito, controllano risorse e servizi. Centri di potere che non potrebbero mai concepire un sistema diverso da quello in cui si sono generati. Un sistema folle, fondato su quel colossale gioco d’azzardo sulla pelle dei popoli, chiamato economia finanziaria.
Il caos è il suo habitat, solo nel caos questo sistema è in grado di ordire le sue trame per sopravvivere e continuare ad arricchire quel solito uno per cento della popolazione…
Questa politica del caos non ci riguarda. Questi revisori dei conti, queste guardie giurate in completo grigio con un occhio alle borse e un altro alle poltrone non ci rappresentano.
La politica, quella vera, si dia una mossa!

DIARIO IN PUBBLICO
La città e le sue necessità

“ Aiutiamoli al loro paese!” La perentoria frase del governo giallo-verde risuona lugubremente mentre Zoro alias Diego Bianchi mostra le condizioni della popolazione nel Congo o dei paesi che una volta così si chiamavano nel suo reportage “Propaganda Live” e della funzione svolta da Medecins sans frontieres in quei paesi o città che pretendono di avere questo nome. E’ difficile scordare gli occhi di quei bambini negli ospedali da loro gestiti ma è difficile soprattutto trattare da quasi farabutti (vero Salvini?) chi opera in quel contesto.

La città dunque e chi se ne deve fare responsabile.

Leggo sull’Espresso del 18 settembre la testimonianza di uno scrittore Christian Raimo che è diventato assessore alla cultura nel terzo municipio di Roma dove abitano 210 mila persone, quasi privo di servizi culturali e dove si erge un << centro commerciale ciclopico, Porta di Roma, un cubo enorme, un asteroide, una cattedrale nel deserto, in cui ogni anno entrano 14 milioni di persone>> mentre una fabbrica l’impianto Tmb per il trattamento meccanico biologico dei rifiuti appesta l’aria del luogo.

E’ questo il destino delle città quando si calcola che nel prossimo futuro la struttura della città attirerà la metà e più della popolazione mondiale?

Come riportare alla sua funzione reale la città?

Negando negli editti emanati ieri dal governo la possibilità di intervenire sulla riqualificazione delle periferie? O continuare a ignorare un miglioramento che per la sindaca Raggi di fronte ai miasmi della TMB sostiene sia un disagio temporaneo? Bene ha fatto il sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani a citare in giudizio il governo e l’architetto Roberta Fusari assessore all’urbanistica della città a spiegare tra il dolente e l’indignato il rifiuto del governo a finanziare il bellissimo progetto che avrebbe riqualificato un’ intera area di Ferrara tra l’ex Mof, il Museo dell’Ebraismo e il corso d’acqua del canale. Ma siamo poi sicuri che le decisioni della ‘sinistra’ si siano rivelate abbastanza coraggiose o lungimiranti o semplicemente politiche per ostacolare la trionfante ascesa della Lega?

Questa puntata del mio ‘Diario in pubblico’ doveva trattare di uno degli episodi culturalmente ed eticamente importanti che si sono svolti nella città estense in questo periodo: la proiezione in strada tra le spallette del Castello dove furono fucilati nel 1943 importanti personaggi ferraresi come ritorsione all’attentato che uccise il federale Ghisellini senza dubbio provocato dagli stessi fascisti e la farmacia ‘Barillari’ che si affaccia su quel muretto. Quel luogo ha prodotto un racconto edito nel 1956 nelle Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani, Una notte del’43 che diventa il soggetto del film di Vancini: La lunga notte del ’43. In questo luogo, Corso Roma al tempo degli avvenimenti, ora Corso Martiri della libertà il film di Vancini è stato proiettato con grande affluenza di pubblico, oltre un migliaio, che ha assistito con un silenzio partecipato all’evento.

Avrei quindi dovuto rifarmi allo splendido saggio di Guido Fink, Le tre notti del ’43 che introduce il volume edito per l’occasione e che riproduce la sceneggiatura originale del film fatta da Ennio De Concini, Pier Paolo Pasolini , Florestano Vancini ( La Carmelina, Ferrara 2018) con i contributi di Paolo Micalizzi, Anna Maria Quarzi e dello stesso Vancini. L’edizione è stata patrocinata ed effettuata dall’Istituto di Storia Contemporanea, dall’Assessorato alla cultura del Comune di Ferrara con il contributo del Comitato Nazionale Celebrazioni del centenario della nascita di Giorgio Bassani che ha messo in rilievo l’eccezionalità dell’avvenimento che si pone tra i migliori risultati dell’attività triennale del Comitato delle Celebrazioni bassaniane.

Avrei dovuto dunque ripercorrere con Fink quei momenti che mi videro inconsapevole testimone qualche anno dopo quella terribile notte quando, come ho raccontato in altre occasioni, fui testimone e partecipe di una delle prime produzioni letterarie di Guido e del riflesso che s’irradiava dalla difesa consapevole dell’amico che raccontava di un padre in viaggio che gli mandava tanti regali mentre il suo nome era scritto in quella lapide in via Mazzini dove si leggono i nomi delle vittime dell’Olocausto proprio fuori dalla porta in cui abitava, tra cui quella del padre e di parte della sua famiglia.

Avrei dovuto ricordare l’ospitalità romana negli anni Settanta offertami da Fabio ed Elvira Pittorru affinché potessi sostenere agiatamente il concorso per le scuole che si teneva a Roma. E le serate in pizzeria da ‘Piscia piano gioia mia’ e gli incontri con la colonia ferrarese a Roma tra cui Massimo Felisatti in primis ma anche talvolta Vancini e il seriosissimo e silenzioso Antonioni; poi ancora le vacanze a Lussinpiccolo con Gianni Buzzoni sposo di una sorella Vancini e gli incontri con i nipoti che imparai ben presto a conoscere nelle mie trasferte ferraresi.

Tutto si riconduceva alla protagonista principale delle storie ovvero quella F. che poi divenne Ferrara e al suo romanzo opera omnia del magistero letterario di Giorgio Bassani le cui frequentazioni fiorentine in quel decennio formarono noi giovani intellettuali raccolti attorno all’insegnamento di due ferraresi: Lanfranco Caretti e Claudio Varese.

Una città dunque da cui parte e si sviluppa un episodio che Bassani sigla con l’indeterminativo ‘una’ e che per il regista diventa ‘la’ lunga notte del barbaro eccidio.

Non sarà poi un caso che lo scandalo prodotto nasca non tanto dal racconto di Bassani ma dal film che osava mettere per la prima volta sulla scena quella che si configurerà poi come la guerra civile tra un popolo non più combattente contro lo straniero ma tra di loro come ricorda la testimonianza di Anna Quarzi. Una visione che costò parecchie difficoltà al regista e alla produzione, addirittura la negazione dei contributi ministeriali, come racconta lo stesso Vancini che parlò del film come un episodio di non resistenza <>. Quell’atteggiamento che lo stesso Bassani denunciò nella più bella delle Cinque storie ferraresi, Una lapide in via Mazzini cioè la volontà di dimenticare dei ferraresi come esemplificazione di tutti gli italiani, al ritorno di Geo Josz dall’inferno dei campi di concentramento.

Tutto questo era implicito come il silenzio davvero commosso che è sceso tra gli astanti nel momento in cui il film mostra quei poveri corpi caduti l’un sull’altro e che ci si rendeva conto della barbarie di quel gesto fratricida mentre dall’alto Barillari osserva e si ritrae.

La città dunque centro della Storia che dimostra la realtà e anticipa il futuro.

Quel futuro che ora si fa presente negli ospedali del Congo o nella scelta della realtà virtuale del terzo municipio romano.

A Ferrara il Festival Giardini Estensi in versione autunnale

Da: Ufficio Stampa Giardini Estensi

Dopo il successo dell’edizione primaverile torna, sabato 29 e domenica 30 settembre nella splendida cornice del parco di Palazzo Massari, la rassegna Giardini Estensi, mostra mercato di piante rare e insolite organizzata dall’associazione Ferrara ProArt.

Un appuntamento “green” in salsa autunnale, dedicato agli amanti del verde o a semplici curiosi e turisti, con oltre cento bancarelle dense di fiori e profumi, frutto del lavoro di veri e propri produttori di essenze
vegetali.

Nel ricco carnet di eventi in programma conferenze, workshop, esposizioni, intermezzi danzanti e promenade su musiche dell’800

Fantasia e creatività, colori e profumi per salutare l’estate: Ferrara, città Patrimonio dell’Umanità UNESCO, apre nuovamente uno dei suoi scrigni per l’edizione autunnale del festival Giardini Estensi, giunta alla sua 8a edizione. Lo splendido Parco di Palazzo Massari ospiterà la rassegna del florovivaismo e dell’artigianato d’alta gamma, nelle giornate di sabato 29 e domenica 30 settembre.
Un contesto ideale per gli affezionati della biodiversità e della sostenibilità ambientale: non vi è infatti sede più prestigiosa di quella del grande Parco Massari che, all’ingresso, accoglie il visitatore con due secolari Cedri del Libano ed è un prezioso contenitore di numerose essenze arboree.
L’evento, organizzato come a maggio dall’associazione culturale Ferrara ProArt, propone eccellenze florovivaistiche frutto della collaborazione con oltre cento aziende agricole provenienti da varie parti d’Italia. Gli stand d’artigianato a tema faranno da complemento alla fiera proponendo sorprendenti novità.

Un ricco carnet di eventi e workshop sulla sostenibilità ambientale farà da sfondo alla mostra-mercato, con tante originali iniziative (laboratori didattici, corsi di fotografia e di realizzazione, incontri) a fare da corollario alla manifestazione.

Sabato 29 alle ore 10.30 aprirà il ciclo di conferenze (tutte in programma presso lo Spazio Incontri al centro del Parco) Francesco Scafuri, responsabile dell’Ufficio Ricerche Storiche del Comune di Ferrara, con la conferenza “I giardini a Ferrara nei secoli e l’apoteosi del meraviglioso”.
Nel pomeriggio (ore 15.30) si terrà l’incontro con Carlo Pagani, dal titolo “Il Maestro Giardinie-re Risponde”. Pagani, Garden Designer fra i più famosi esperti botanici d’Italia, conduttore televisivo e titolare di Flora 2000, azienda che propone collezioni di vecchie varietà frutticole, rose, lillà e altri arbusti e che progetta e realizza giardini, sarà a disposizione del pubblico per ogni domanda sulla cura delle piante per l’orto e per il giardino.

Domenica 30 settembre aprirà la giornata un focus sulle orchidee, definite una medicina per l’anima. “Come coltivare le orchidee” è il titolo dell’incontro condotto da Francesco Locatelli (ore 10), un mini corso dedicato a quanti volessero iniziarne la coltivazione.
Alle 11.30 la conferenza “Utilizzo dei microrganismi effettivi EM per la salute dei bambini”, a cura di Carlo Bertoncello, cui seguirà un aperitivo a base di microrganismi effettivi a cura di Marco Dalboni biobarman.
Nel pomeriggio (ore 15) “L’orto creativo con bacche e semi di patata”a cura di Fabrizio Bottari del Consorzio della Quarantina, conferenza accompagnata da una mostra di oltre duecento va-rietà di patate provenienti da varie parti del mondo; chiuderà il ciclo di incontri, alle ore 16.30, il dibattito “Gli alberi in città: delizie e tormenti” con l’agronomo Giovanni Poletti, titolare dello studio Doc Green, esperto di alberi piantati nelle città, sulla cura e manutenzione di parchi e giardini.

Al festival ci sarà spazio anche per dimostrazioni e laboratori didattici.

In entrambe le giornate, presso lo stand dell’artista Teresa Miotti, è in programma una dimostrazione e insegnamento delle tecniche di base per realizzare cappelli in paglia di Firenze.
Sul principio etico del riuso ispirandosi alla natura è incentrato il workshop di ecotessitura creativa tenuto da Monica Zunelli (sabato e domenica 10-12.30 e 14-16.30), textile artist e artcounselor che, dopo l’esperienza accademica e vari percorsi di sperimentazione e progettazione nell’ambito dell’arte tessile e dell’arte visiva, ha sviluppato nella tessitura a mano un modo di comunicare tridimensionale (iscrizioni zunellimonica@gmail.com, 338/7356999). L’obiettivo è quello di raggiungere uno stato di benessere mentale e di rilassamento attraverso il processo creativo.
Sabato alle 15.30 corso di fotografia istantanea per bambini per disegnare foglie e fiori sulla carta con utilizzo di antica tecnica (grazie al sole), a cura della fotografa Annalisa Chierici.
Domenica 30 settembre (ore 15.30 presso lo stand Just Event) ci sarà un corso per realizzare (con fil di ferro, fiori ed erbe aromatiche) splendide ghirlande per decorare la vostra casa, a cura della flower designer Patricia Goedertier.

Assoluta novità di questa 8a edizione il Giardino Verticale Indoor: superfici coltivate in verticale, da un semplice quadro domestico, a intere facciate di abitazioni. Tutta la bellezza e i benefici della natura in casa nelle dimensioni di un quadro vegetale vivente.

Ma un parco è anche luogo ludico. A Giardini Estensi spazio quindi anche ai giochi: presso lo stand di Ferrara Progea aps ci si diletta con “Rinvasa e porta a casa”, attività didattica per i bambini; “Giocare con niente (Il vero giocattolo didattico è il gioco che non c’e’)”, presso lo stand dell’Associazione culturale Erbe Palustri di Villanova di Bagnacavallo, è un laboratorio didattico, rivolto ai bambini da 0 a 99 anni, nel quale vengono presentati e provati alcuni giochi e giocattoli di una volta, che testimoniano le condizioni e le modalità di gioco dei bambini d’inizio ‘900 e degli anni ’50, evidenziando come l’autonomia e la povertà di mezzi portassero a sviluppare grande creatività e abilità manuale, impiegando semplici materiali naturali e di recupero.
Altro laboratorio dimostrativo è “Intreccio delle erbe di valle” (a cura dell’Ecomuseo delle erbe palustri di Villanova di Bagnacavallo), un’originale forma di artigianato sviluppatasi fino a divenire, tra Otto e Novecento, una delle principali imprese economiche della zona. L’Ecomuseo delle Erbe Palustri conserva memoria di quel saper-fare e di quella stagione produttiva e documenta il contesto ambientale ed economico in cui il paese viveva. E ancora, l’artista Roberto Bottaini, con i suoi cesti tipici di Pescia (Toscana), intrecciati con salice e non solo.
Ad arricchire il programma una selezione musicale in tema con il concept del festival: sabato alle ore 18, nel prato a nord del Parco, speciale Bagno di Suoni con Matteo Gelatti (musicista olistico e ricercatore nell’ambito del benessere), mentre in entrambi i giorni del festival le danze di società dell’Ottocento, eseguite su musiche ottocentesche della famiglia Strauss e dei grandi Maestri italiani come Verdi, Rossini e Paganini, faranno da sottofondo a impeccabili cavalieri in frac nero accompagnati da dame in abito da Gran Ballo, che danzeranno, in abiti d’epoca, lungo i viali di Parco Massari. Un modo per esplorare il mondo e l’atmosfera dell’epoca, dal romantico valzer viennese, alla quadriglia, alle contraddanze dalle suggestive mazurke figurate, alle marce (sabato e domenica, per info: Società di danza Circolo Ferrarese, ferrara@societadidanza.it, 366/8293700).

Per tutta la durata della rassegna verrà inoltre allestito, per chi volesse pranzare o cenare, un punto ristoro in stile country-chic in mezzo al verde.
L’ingresso al festival è gratuito ed è visitabile nelle due giornate dalle ore 9.00 alle ore 23.30

SESTANTE
Margot, l’assaggiatrice del Reich

Non c’è stata competizione al premio Campiello 2018: senza alcun margine di indecisione o dubbio, ha vinto meritatamente il romanzo “Le assaggiatrici” di Rosella Postorino, 167 voti su 278, tra i pareri entusiasti di lettori e critici. Un libro che va a riesumare un piccolo capitolo di storia minore sconosciuta della Germania del 1943, che solo un’unica testimone sopravvissuta poteva consegnarci negli ultimi anni della sua vita, Margot Wȍlk, attraverso uno speciale dedicatole dal canale televisivo berlinese RBB nel 2010, all’età di 96 anni. L’autrice Postorino ha tratto ispirazione partendo proprio dal racconto della donna, mancata nel 2014, prima che potesse incontrarla personalmente, romanzando personaggi, fatti e circostanze ma rispettando l’essenza della narrazione e lo spirito della storia inquietante, affascinante e così maledettamente umana da crearne un caso letterario singolare . Era una giovane donna di 24 anni, Margot Wȍlk, figlia di un dipendente delle ferrovie tedesche, segretaria, sposata a Berlino, quando scoppiò la guerra e il marito fu chiamato al fronte. E questo è l’incipit del romanzo ma è anche il punto di partenza della reale confessione della donna, dopo anni di drammatico silenzio, sensi di colpa e vergogna, perché non è facile raccontare violenze, drammi, sentimenti ed emozioni umane straordinarie ed estreme. Margot si trasferì dalla suocera a Gross-Partsch, un paese nella Prussia Orientale – oggi Parcz in Polonia -, dove sarebbe vissuta più tranquilla che nella Berlino bombardata e dove Hitler aveva stabilito uno dei suoi quartieri generali a Rastenburg, a soli 3 km, la tristemente famosa ‘Wolfsschanze’, la ‘Tana del Lupo’. La Wȍlk racconta, nell’intervista televisiva, come il sindaco, vecchio nazista, abbia bussato alla porta e l’abbia costretta a seguirlo per raggiungere altre 15 donne del posto e diventare un’assaggiatrice alla mensa del Führer, sotto il comando diretto delle SS. Esattamente come nel Medioevo, quando il ruolo dell’assaggiatore presso le corti dei Grandi era fondamentale non solo per evitare l’avvelenamento del signore di turno ma anche per una consuetudine ormai radicata. Hitler temeva che gli inglesi potessero avvelenarlo, una delle paure e delle nevrosi che lo portavano anche ad avere la fobia dei dentisti, dei fiocchi di neve e degli ambienti chiusi. Ed ecco che le donne dovevano rendere sicura la somministrazione degli alimenti a lui destinati, mangiando il suo cibo ed attendendo un’ora per verificarne gli effetti. Una convivenza con il terrore e il rischio di morire che è durata due anni e mezzo. La donna racconta: “ Non ho mai visto Hitler di persona ma solo il suo cane Blondi. Il Führer era vegetariano e ogni giorno il cuoco serviva frutta esotica, piselli, asparagi, verdure freschissime, accompagnate da salse squisite.” Dopo l’attentato fallito ad Adolf Hitler del 20 luglio 1944, nella Tana del Lupo, quando alcuni ufficiali tedeschi fecero scoppiare una bomba, i controlli si rafforzarono e le assaggiatrici furono costrette a sottoporsi a un ulteriore regime forzato sotto lo sguardo costante dei soldati. Era una vita di perenne tensione e terrore di morire improvvisamente, che non lasciava respiro nemmeno tra un pasto e l’altro. Giorno dopo giorno le donne erano preda delle emozioni più contrastanti: la gioia di poter raggiungere cibi negati a tutti sentendosi quasi delle privilegiate e al contempo la morsa dell’alto rischio cui andavano incontro. Il pianto liberatorio e le manifestazioni che seguivano ogni pasto danno la misura della tensione elettrizzante, dell’angoscia e della condizione estrema del momento. E se il cibo era sinonimo di vita e sopravvivenza da un lato, dall’altro diventava il simbolo stesso della morte. Nelle ultime fasi della guerra, quando il terrore si sposta sull’avanzata dell’esercito russo, Margot Wȍlk riesce a fuggire, con l’aiuto di un soldato tedesco, su un treno speciale di Goebbles e raggiungere Berlino, dove trova solo devastazione e macerie. Le sue compagne assaggiatrici rimarranno al paese trovando la morte per mano dei militari russi. La Wȍlk racconta di come a Berlino fu portata insieme ad altre 14 giovani donne nell’appartamento di un medico e là, costrette a subire violenza da parte dei soldati russi per 14 giorni consecutivi, ininterrottamente. Non erano serviti nemmeno i travestimenti che utilizzavano spesso le giovani donne per non attirare l’attenzione, che consistevano in camuffamenti da anziana ammalata di tifo. Nella sua testimonianza, la donna racconta tutta la desolante sofferenza: “Dopo stetti molto male, non potei più avere figli. Hanno distrutto tutto, ho avuto incubi terribili. E’ qualcosa che non si può dimenticare.” “Avrei tanto voluto una bambina…” confessa, consapevole delle conseguenze fisiche e psichiche di quel vergognoso stupro di massa. E la sofferenza che interiorizza e deposita negli angoli più nascosti della sua anima non le permetterà neanche di ricostituire un rapporto col marito tornato successivamente e inaspettatamente dalla guerra. Rimarrà vedova negli anni che seguono, inferma e chiusa in casa per 8 anni della sua vita. Ma, racconta Margot come in un inno alla vita, nella sua unica, lunga testimonianza: “Ogni giorno mi vesto, mi metto i miei gioielli e mi trucco, non sono una donna sconfitta, malgrado quello che mi è capitato ho sempre cercato di essere felice, non ho mai perso il mio sense of humor. Sono solo diventata più sarcastica. Ho deciso di non prendere le cose in maniera drammatica, è stato questo il mio modo di sopravvivere.” Margot Wȍlk è morta nel 2014 a 100 anni e ci ha lasciato questo spicchio di storia sconosciuta che Rosella Postorino ha valorizzato, annoverandolo tra gli eventi di storia minore che meritano conoscenza e riconoscimento.

FEsta in pace
La due giorni per la convivenza pacifica e l’accoglienza

Si è svolto nei giorni del 21 e 22 settembre il ‘FEsta in pace’, il festival promosso da ‘Ferrara che accoglie’, che ha visto protagoniste svariate associazioni tutte unite dall’obiettivo comune dell’accoglienza e dell’integrazione. Ben 8 i gazebo di altrettante associazioni allestiti in piazzetta municipale nei quali si sono tenuti dibattiti, raccolte firme ed attività per i più piccoli, affiancati dal palco sul quale si sono avvicendate personalità, associazioni, spettacoli e film. Accanto a tutto ciò anche la mostra fotografica ‘Noidentity’ di Luciana Passaro dedicata agli esseri umani privati della loro libertà.

Il pubblico non è mancato e sono state molte anche le personalità politiche presenti all’occasione, dal vicesindaco Maisto fino all’arcivescovo Perego, che nel suo intervento ha tenuto a sottolineare come la gente in piazza sia stata “ una provocazione verso chi legittima una legge più permissiva sulle armi” – riferimento non tanto velato verso la Lega – e sul come i cittadini stranieri debbano essere visti come una “risorsa” per la città.

Le preoccupazioni verso la deriva “autoritaria” e “razzista” dell’attuale governo non sono mancate anche nelle dichiarazioni di chi, come Adam Atik di “Occhio ai media”, il quale ha aperto la kermesse, ha detto che “bisogna smettere di parlare alla pancia delle persone, siamo tutti sulla stessa barca e una città di pace si costruisce soltanto con persone che vogliono una città di cultura e non di ignoranza.”

Le parole d’ordine di tutta la manifestazione sono state “integrazione”, “no al razzismo” e si alla convivenza pacifica, ottenuta attraverso la reciproca conoscenza e alla multiculturalità vista come la marcia in più per affrontare le sfide del futuro, come hanno cercato di dimostrare tutte le associazioni presenti provenienti da svariati ambiti e collocazioni ideologiche, ma tutte concordi su un aspetto: queste iniziative devono diventare sempre più frequenti per far capire come un futuro di convivenza e tolleranza sia necessario oltre che possibile.

Ferrara città della bellezza e una politica chiusa alla partecipazione

Immagino che le discussioni sulle prossime elezioni amministrative siano già cominciate in altre sedi, nei ristretti cerchi della politica, e immagino che l’attenzione primaria di questa discussione, per i partiti del centrosinistra – Pd in primo luogo – sia centrata sulla preoccupazione di sopravvivere all’onda montante del populismo e della destra. Obiettivo non facile perché la politica vive una crisi di reputazione che va ben oltre i contenuti dei programmi.
Il centrosinistra vive una crisi di credibilità che per essere recuperata richiederebbe alcune condizioni. La prima è quella di mettere in campo figure non identificate con gli interessi “di casta” e che sappiano parlare – con competenza – dei temi e delle preoccupazioni delle persone. La seconda è quella di esprimere idee, configurare obiettivi e traguardi, dare il senso di avere capito la domanda di “nuovo” che viene dai cittadini. E questa condizione è già più difficile. Occorre uno sguardo sulle emergenze del presente che sia nel contempo capace di cogliere le traiettorie future.
La comunicazione è importante, ma non è tutto. Ascoltare non basta, bisogna proporre: questo è uno dei tratti distintivi di una politica seria capace di assumersi la responsabilità di indicare una strada. L’incontro svolto lunedì alla sala dell’Arengo, su iniziativa di Mario Zamorani (Radicali Ferrara), aveva questo obiettivo: offrire alla politica e soprattutto al Pd (riferimento cardine del centrosinistra) alcune riflessioni sulle questioni che riguardano la città. Tutto ciò per cominciare a discutere delle elezioni amministrative, lontani da qualunque intenzione di negoziare posti. Ma un’offerta (di competenze) senza una domanda (di politica) cade nel vuoto.
Provo, comunque, a riassumere alcune riflessioni che ritengo utile proporre all’attenzione. Due parole mi sembrano imprescindibili per costruire programmi per il futuro della città: sicurezza e innovazione.
La sicurezza è una condizione di base della vita delle persone, dobbiamo smettere di pensare che è una parola di destra. La sicurezza travalica la questione dell’ordine pubblico e riguarda la qualità della vita di ogni giorno. La sicurezza è la condizione che fa di una città un luogo senza confini interni mentre la paura alimenta la domanda di recinti ed enfatizza le distanze sociali. Garantire sicurezza è l’unico modo per evitare che si producano luoghi di vita separati per i ricchi e per i poveri: giardini separati, quartieri separati, scuole separate. La sicurezza migliora la qualità dei luoghi pubblici e la qualità della vita. La vivibilità di una città è fatta di tante cose: la qualità dei negozi, gli arredi urbani che comprendono i luoghi di sosta, l’estetica diffusa, i parchetti attrezzati per i bambini e gli attrezzi per la ginnastica degli adulti, le sedi in cui si fa cultura.
Il secondo punto riguarda l’innovazione. Ferrara ha coltivato il mito di città d’arte e su questa cifra ha costruito la sua identità. Ma non ha saputo giocare su questa carta le sue opportunità di crescita. Ha gestito il tema con un approccio intellettualistico, organizzando per lo più eventi di prestigio culturale, importanti, ma che non hanno inciso nelle rotte del turismo. La qualità delle iniziative artistiche del Palazzo dei Diamanti non basta a produrre vantaggi per l’economia della città, per migliorare la vita per i residenti, né per attrarre visitatori.
Per attrarre turisti e migliorare la vita dei cittadini Ferrara deve proporre un’immagine nuova. Può fare questo a tre condizioni: offrire esperienze diversificate, puntare ad una città bella e ricca di opportunità per chi la abita, comunicare meglio. “Ferrara città della bellezza” è un concetto molto più ampio di quello di città d’arte. La bellezza può essere fruita quotidianamente, ha a che fare con la qualità della vita di tutti, riguarda anche spazi pubblici adatti a fare incontrare le persone. Innovare vuol dire guardare fuori dalle mura, ma anche sollecitare il dialogo tra diversi attori pubblici e privati, ma soprattutto presuppone che alla pigrizia (carattere spesso attribuito a Ferrara) si sostituisca una tensione diffusa verso il miglioramento continuo.
Credo che sia necessario innescare un processo di imitazione creativa, fatto della capacità di guardare cosa hanno fatto gli altri, di adattare esperienze che hanno introdotto piccole o grandi innovazioni. Studiare cosa hanno fatto gli altri fa risparmiare tempo e denaro ed evita sprechi di denaro e figuracce, come è accaduto per la raccolta differenziata, una pagina non brillante che poteva essere evitata guardando oltre il cortile.
Non si possono imbalsamare le idee con la scusa che non ci sono soldi per fare progetti. Occorre creare un clima in grado di sviluppare energie diffuse. Le idee non costano, ma vanno coltivate, messe in circolo, anche copiate se serve. Molte idee potrebbero essere raccolte. Ma la condizione perché ciò accada è che la politica colga la domanda e non si limiti ad accordi interni per costruire la lista di candidati.

Che paghi il Comune

“Che paghi il Comune!”, un ben noto refrain. Eppure il Comune siamo noi. E se paga il Comune lo fa pure coi soldi nostri… Che c’è, allora, alla base di questa sindrome dissociativa che rende la casa pubblica un’entità estranea, talvolta nemica? Diffusa – e spesso fondata – è la percezione di un potere autoreferenziale, che risponde alle proprie logiche, incurante dei reali bisogni dei cittadini, e che piega le istituzioni a proprio vantaggio.

Riappropriarsi dei luoghi della democrazia – governo del popolo esercitato tramite i propri rappresentanti – significa scacciare i mercanti dal tempio e ripristinare il corretto ordine delle cose. Per riuscire nell’impresa bisogna saper scegliere e designare persone oneste, affidabili, capaci.

Il politico deve essere onesto, certo. Ma essere onesti non basta, il politico deve essere onesto e capace insieme. Il problema invece è che abbiamo molti politici disonesti e qualcuno, perdipiù, anche incapace.

L’onestà è un requisito imprescindibile, ma di per sé insufficiente a garantire il buon governo; per questo servono anche altre doti: competenza e lungimiranza, per esempio. Unite al sapere e magari al saper fare.

Ma non si può prescindere neppure dalla capacità di mediazione. Sì, perché mediare fa parte delle arti del governo (e della vita)… Su questo punto scivoloso, però, bisogna intendersi, perché il cosiddetto compromesso ha una faccia nobile e una ignobile – spesso prevalente in politica e in affari – che comprensibilmente genera un moto di ribrezzo. Troppe volte, anche in sede pubblica, gli accordi si stipulano al ribasso, in forma biecamente compromissoria, e sono finalizzati alla tutela di interessi opachi delle parti coinvolte che prescindono – quando non ostacolano addirittura – il compiersi del reale bene comune. Ma questa evidenza non può cancellare la considerazione del valore del nobile e imprescindibile compromesso, quello che ricerca un punto di equilibrio a salvaguardia di bisogni e legittime aspettative che, laddove non possono essere soddisfatti appieno, devono essere con saggezza contemperati nell’interesse di tutti e a tutela dei diritti di ciascuno. Ma dei diritti, non degli appetiti!

Compromesso è un termine degradato. Ma, respinto l’ignobile compromesso che ben ci è noto, va praticato il suo opposto: il compromesso virtuoso, spesso indispensabile per conciliare, nel limite del possibile, bisogni e aspettative differenti, limitando le ragioni di conflitto nell’ambito comunitario.

Non sempre però il compromesso è possibile, e talvolta non è neppure auspicabile. E’ lecito e opportuno solo laddove sia coerente con i valori che ispirano il patto di cittadinanza stipulato fra i membri della comunità.

Compromesso è mediazione, a tutela di ragioni, ideali e interessi diversi. Con questo spirito i padri costituenti scrissero la Carta che designa le norme fondanti del vivere comune, nel segno del rispetto e della reciproca tolleranza. Rispetto e tolleranza: concetti oggi estranei al lessico di molte forze partitiche.

La classe politica deve invece recuperare questa capacità di mediare al rialzo, non al ribasso. E deve potersi mostrare senza imbarazzi, senza necessità di maschere e belletti utili solo a celare un’immagine appannata. La politica deve tornare a risplendere nella propria limpida onestà. Valore – questo dell’onestà – imprescindibile ma, ripeto, di per sé insufficiente: tale pre-requisito politico deve infatti accompagnarsi alla visione, quindi alla lungimiranza, e insieme alla concreta arte ‘del fare’, attuata rigorosamente con modalità lecite e azioni limpide e trasparenti.

E’ stucchevole dover ribadire questi concetti e a qualcuno potrà apparire banale. Ma se oggi si rende di nuovo necessario enunciarli – e occorre farlo con forza – è perché evidentemente di queste condizioni basilari – e dei valori da cui promanano gli imperativi a cui il politico dovrebbe ispirare il proprio operato – non vi è più certezza, dacché in molti li hanno calpestati e infangati.

Da qui, dunque, si riparte, dalle basi. E solo su ‘queste basi’ è possibile riedificare un progetto politico, qualunque esso sia, degno di essere considerato. Parliamo, quindi, di una condizione pre-politica imprescindibile per chiunque, al di sopra degli specifici orientamenti: una condizione che precede la formulazione del progetto e del programma di governo, un dovere etico imprescindibile, che chiunque deve necessariamente rispettare. Su queste fondamenta nasce la politica, la bella politica, e germogliano la visione, il disegno programmatico, le linee operative e l’individuazione degli interventi concreti: il fare. L’operoso fare, che personalmente auspico a vantaggio del bene comune e a salvaguardia dei più deboli.

 

(Nella foto un’installazione della mostra “Inganni arcimboldeschi” allestita al museo Bertozzi & Casoni di Sassuolo)

L’unione (europea) non fa la forza

Un popolo unito può sconfiggere il mondo intero. È successo in passato più e più volte, la storia è piena di esempi. E non esistono popoli eletti, quello che conta è l’unità d’intenti, un ideale in comune, un senso d’appartenenza forte, coraggio e spirito di sacrificio.
Ebbene, tutto ciò è proprio quello che manca all’Italia. Quello che è sempre mancato del resto, anche nei momenti più bui della nostra storia. Persino quando siamo stati invasi dal nemico c’erano tra noi quelli che erano dalla parte dell’invasore.

L’Italia è un paese di fazioni, di rivendicazioni di parte, di piccoli egoismi, di invidie e di faide.
Un paese unito è un paese forte, un paese da temere e da rispettare.
L’Italia non lo è, e non può pretendere d’esser trattata come tale. Le colpe sono tante, così come i colpevoli. Correre ai ripari adesso è quasi impossibile, non senza lacrime e sangue almeno. Non senza pesanti sacrifici che nessuno, tra l’altro, pare voglia sobbarcarsi.
In una situazione ingarbugliata come quella italiana, alla fine, a farne le spese sono sempre i soliti: i più deboli. Quelli che subiscono le altrui decisioni, quelli che non hanno alcun potere contrattuale, che hanno meno degli altri o che quel poco che hanno rischiano di perderlo del tutto. Oggi queste persone non sono più gli emarginati di sempre, i reietti, gli esclusi dalla società. Gente che in ogni epoca ha rappresentato quella esigua parte di popolazione che non ce la fa, che per varie ragioni, sociali o esistenziali che siano, non riesce a inserirsi negli ingranaggi giusti della convivenza.
Questa volta non è più così. Questa volta a rischiare grosso è una gran parte della popolazione che nella società è inserita a pieno titolo. La maggioranza di tutti noi… decisamente!
Gente che è uscita suo malgrado dal mercato del lavoro e che non riesce più a entrarvi, gente che non ne è mai entrata, e qui fare distinzione tra vecchi e giovani diventa francamente irrilevante. Gente che un lavoro ce l’ha ma che teme di perderlo: lavoratori dipendenti indeboliti da questa nuova assenza di tutele e quotidianamente ricattati dai datori di lavoro. Poi piccoli imprenditori sempre più a rischio, vessati da tassazioni insostenibili, paralizzati da mille obblighi amministrativi, spesso costretti a competere con colossi industriali e multinazionali impossibili da contrastare, ostaggi di banche perché indebitati oppure scoraggiati a investire per questa rinnovata difficoltà d’accesso al credito. Ma anche giovani pieni di idee che non riescono a dar seguito a iniziative imprenditoriali perché privi di coperture e garanzie.
Gente che si sta impoverendo sempre di più nelle tasche e nello spirito. Con un futuro dove l’incertezza paralizza ogni progetto, dove entusiasmo, desideri e sogni hanno lasciato il posto a pessimismo, paure e rancori.
Il malcontento della gente è più che giustificato. Ma il malcontento da solo non basta a risolvere questi problemi, a superare questi nuovi ostacoli. Specialmente in un contesto dove il nemico da contrastare è nascosto, indefinito, sparpagliato. Dove a volte i nemici siamo noi stessi.
Chiediamoci allora come mai abbiamo questa classe politica, questi amministratori. Come mai non riusciamo a emanciparci da una classe dirigente che ci risulta tanto indigesta e oppressiva quanto incapace e ingorda. Ogni popolo ha i governi che si merita, soprattutto perché in democrazia chi fa politica è stato nominato dal popolo.
Eppure sembra sempre più evidente la distanza tra chi ha il potere e chi lo subisce, tra coloro che decidono nelle stanze dei bottoni e tutti gli altri che stanno fuori.
Negli ultimi trent’anni, in un costante crescendo, sono tante le cose successe sotto i nostri nasi che hanno modificato radicalmente la nostra società e la nostra economia in peggio. Spesso cose decise ed eseguite senza che nessuno contestasse nulla, o meglio senza che nessuno sospettasse di nulla. Sì perché si è trattato di cambiamenti epocali che i loro artefici hanno spacciato per progresso, facendoci credere che fosse l’unica strada possibile per il futuro. Del resto stampa e fior d’intellettuali si sono accodati alla politica, plaudendo ai cambiamenti e condizionando l’opinione pubblica.

Ma restiamo a casa nostra. Qualcuno di voi si ricorda di un governo, passato o recente, che abbia mai fatto nulla per contrastare, o per lo meno criticato, questo fenomeno drammatico (certamente il più drammatico nella storia della nostra economia) chiamato globalizzazione?
Qualcuno certamente dirà che si è trattato di un processo su scala mondiale, inevitabile e irreversibile, quindi impossibile da fermare. Sono d’accordo. Ma allora perché non correre ai ripari attuando politiche mirate a salvaguardare la nostra identità economica? Perché rinunciare al nostro potere decisionale consegnandolo a un ente estraneo come quello europeo? Perché illudersi che un’unione economica e finanziaria europea potesse proteggere la nostra economia dagli attacchi di competitors potenti come quelli provenienti dall’Estremo Oriente o da oltre oceano? Perché farlo quando i più grossi concorrenti ce li abbiamo proprio in Europa? Qualcuno crede veramente che Germania o Francia ci avrebbero dato la precedenza, che avrebbero protetto la nostra economia facendola progredire a discapito della loro? Qualcuno crede sul serio che un’Europa così frammentata politicamente potesse mai trovare una coesione economica stabile?
La verità è che si litiga su tutto. Sulle quote latte, sulle arance, sui pomodori, sul grano, sulle percentuali da assegnare, sui contributi da dare, sui regolamenti da rispettare, spesso vincoli assurdi che dimostrano quanto siano inique e di parte certe decisioni prese a Bruxelles. La verità è che l’Europa del nord non è quella mediterranea e i rispettivi interessi sono quasi sempre contrastanti. La verità è che a Bruxelles l’Europa del nord vince quasi sempre!

Ma se in Europa si litiga, in Italia ci si prende a pugni. Tutti contro tutti, come nella tradizione del nostro “Belpaese”.
Come potevamo pensare di vincere la “guerra” commerciale con la Cina, per esempio, quando dovevamo difenderci dai nostri stessi alleati europei? Quando in casa nostra non c’è stato un governo in grado di mettere tutti d’accordo per contrastare simili attacchi commerciali?
Il “made in China” è ormai la normalità. Dai giocattoli ai casalinghi, dagli oggetti d’uso comune agli attrezzi da lavoro, dall’abbigliamento alle apparecchiature elettroniche fino ai computer…
Tutti quanti i negozi sono pieni di prodotti cinesi, e non è più vero che si tratti soltanto di prodotti di scarsa qualità. Nel frattempo, migliaia di piccole aziende nostrane hanno dovuto chiudere, aziende che campavano producendo questi stessi prodotti. Stare in Europa a cosa è servito allora?

Adesso si ripropone lo stesso problema, anzi peggio. La minaccia è, se possibile, ancor più grande. Riguarda i prodotti d’eccellenza, l’ultimo vero baluardo della nostra economia. Se perderemo anche questa ennesima battaglia, saremo definitivamente sconfitti e dovremo accodarci alle economie povere di questo nuovo mondo globalizzato prossimo venturo.

Un giorno tra la destra ferrarese

Non avrei mai creduto di commentare un evento come quello di domenica scorsa a Ferrara. Non avrei mai creduto non perché non si potesse realizzare, ma non pensavo potesse riportare un successo del genere in una città che, appunto, era rossa. Ma andiamo con ordine. Nell’ampio spazio coperto  di Sala Borsar è andata in scena la “Festa del tricolore”, un evento che tornava a Ferrara dopo molti anni, organizzata da Fratelli d’Italia, e che ha visto come protagonista assoluta della giornata proprio il presidente del partito, Giorgia Meloni. La giornata è stata divisa in tre momenti.

Già durante il primo atto ho avuto modo di scoprire che a Ferrara, al contrario di quanto si possa pensare, la destra è forte ed ha le caratteristiche che mancano in questo momento alla sinistra per vincere, una su tutte l’unità. E proprio sul tema dell’alleanza nel centrodestra si è focalizzata la discussione tra Alan Fabbri, Mauro Malaguti e Paola Peruffo, tutti ospiti del senatore Alberto Balboni, in qualità di padrone di casa. Tutti  i partecipanti hanno dedicato il primo intervento a tastare il terreno e a lanciare segnali in vista delle elezioni della prossima primavera. Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, hanno passato quasi un’ora a complimentarsi vicendevolmente e a sottolineare come, ora più che mai, la destra sia compatta e unita anche a Ferrara. Una coesione che andava pubblicamente mostrata a livello locale – circa duecento gli ascoltatori –  e rimarcata anche davanti agli alleati nel governo giallo-verde. Infatti, lo stesso Balboni ha lanciato verso il Movimento 5 Stelle un appello-avvertimento: “Noi siamo disponibili ad un cammino insieme, purché ci siano obiettivi comuni”. Mancava, però, sul palco qualcuno che potesse raccogliere e rispondere a queste parole.

In sostanza, la prima tranche della festa del tricolore è stata una specie di braccio di ferro per stabilire chi merita e a chi spetterà la leadership nella corsa delle prossime amministrative, che verosimilmente però vedrà il Carroccio guidare la coalizione ed esprimere il candidato sindaco. Mauro Malaguti (Fratelli d’Italia) non ha però risparmiato una frecciatina all’indirizzo della Lega: “Siamo un piccolo partito di coerenza”, alludendo alla coerenza tradita da Salvini colpevole di aver abbandonato il patto siglato dal Centrodestra per andare al governo con un’alleanza sui generis con i pentastellati. Altra parola d’ordine della giornata è stata “cambiamento”, invocato a più riprese da tutti i convenuti,  perché “dopo 70 anni di guida di sinistra della città, l’alternanza al vertice sarebbe segno di democrazia”. Questo messaggio, lanciato in una città dove, appunto, il tessuto di centro sinistra è ancora molto forte, serve a far apparire il voto per il centrodestra come un gesto per salvaguardare la democrazia e riuscire a far cambiare rotta ad una realtà come Ferrara che, sono parole di Alan Fabbri, “ha bisogno di un nuovo respiro”.

In pratica le manovre della prima ora, tra molti convenevoli e qualche stoccata, sono servite ad ogni esponente politico a cercare di scoprire le carte degli altri due partiti potenziali alleati e, soprattutto, a dimostrare quanto forte sia l’alleanza di centrodestra in città. Operazione  che, almeno agli occhi del numeroso pubblico, sembra riuscita.

Il secondo blocco di interventi ha visto come protagonisti Anna Maria Bernini, capogruppo di Forza Italia al Senato, Gianluca Vinci, coordinatore regionale della Lega e Tommaso Foti, coordinatore regionale di Fratelli d’Italia. Anche qui la scelta di fondo è stata ostentare la coesione nelle differenze, come hanno detto gli ospiti. La particolarità di questo dibattito, dal titolo “C’erano una volta le regioni rosse” è stata la presenza del giornalista Stefano Lolli nelle vesti di intervistatore insieme ad un collega. Proprio Lolli, giornalista del Resto del Carlino, era stato di recente protagonista di una piccola ma significativa vicenda, avvenuta quando, durante una diretta social insieme all’assessore Modonesi,  si ironizzava su una manifestazione nella quale le associazioni Gad Sicura ed Insorgenti riaccendevano i riflettori sul caso “Siberiana”. La particolarità sta proprio nel fatto che proprio gli Insorgenti sono stati tra gli invitati della Festa del Tricolore –  infatti la parte conclusiva era riservata alla visione del loro film “Mi chiamo Ida”  – e non sono mancati i mugugni all’insegna del moderatore Lolli per la sua presunta “vicinanza” con l’amministrazione targata Pd. Dopo questo siparietto, è arrivato il turno dell’ospite d’onore della giornata. Alle ore 17 e 50 infatti è arrivata Giorgia Meloni. L’accoglienza  è stata quella delle grandi occasioni e il suo intervento è stato interrotto più volte dagli applausi. Da notare, però, che il suo arrivo ed il suo discorso ha visto la ‘scomparsa’ dei rappresentanti, tra il pubblico, degli altri due partiti del centrodestra. Aspetto da non sottovalutare.

La Meloni, come prevedibile, si è soffermata a lungo sul tema dell’immigrazione, o meglio, dell’islamizzazione che stiamo vivendo, non mancando di far riferimento al quartiere Gad e alle nuove mafie tra cui quella nigeriana. Stoccate a Macron sulla gestione dei migranti e colpe date ai cugini d’oltralpe per aver causato la crisi libica con le conseguenti ondate migratorie. Anche da lei frecciate alla Lega, accusando più  volte Salvini di incoerenza e invitandolo a tornare con chi gli ha consentito di andare al governo, mentre sui grillini è stata molto chiara: “I 5 Stelle non sono sulla nostra stessa linea. Spero ci sia un governo di patrioti di destra”. Anche sulla famiglia ha tenuto a dire la sua sul calo demografico e sullo Stato che deve aiutare le giovani coppie. In poche parole, tutto ciò che da lei ci si aspettava. Doveva essere un’intervista con il giornalista Alessandro Giuli, ma in realtà è stato un vero e proprio comizio nel quale la Meloni ha rimarcato più volte il ruolo fondamentale di Fratelli d’Italia: “Noi non abbiamo mai abbandonato il centrodestra, al contrario degli altri. Siamo i detentori di alcuni valori e proprio per questa nostra coerenza ci spetterebbe un ruolo primario”.

Questo il riassunto di una giornata molto particolare, vissuta da estraneo non essendo io  affine alle posizioni e alle politiche della destra, ma che ha lasciato un segno profondo. Sarà per l’accoglienza calorosa riservata alla leader di un piccolo partito in una città dove a governare è sempre stata la sinistra. Sarà perché quest’ultima, la sinistra al governo cittadino, ha totalmente mancato di far sentire la propria voce. Non un comunicato, non una contromanifestazione. Un silenzio assordante rotto solo dalla sezione ferrarese del Partito Comunista Italiano, che nelle parole del segretario Kiwan Kiwan, ha condannato l’autorizzazione da parte del Comune di questa festa perché “Ferrara è simbolo della lotta partigiana e della Resistenza e non dovrebbe accogliere manifestazioni di partiti che con le loro scelte di campo e azioni politiche si rifacciano all’ideologia fascista”.

Questo ‘esame’, al di fuori del Gad dove a regnare ormai è la Lega, ha funzionato. La destra si è dimostrata compatta, unita e, per alcuni versi, moderata. Moderazione dimostrata proprio con quella parola ripetuta da tutti gli ospiti come un mantra, “alternanza”. Alternanza che, salvo grandi sconvolgimenti, sembra alle porte, visto un PD sempre più allo sbando e in calo nei sondaggi. Le parole di Balboni sono significative: “Non avrei mai creduto di poter vincere a Ferrara con il sistema maggioritario. Ci sono cose che ci dividono, ma dobbiamo investire su ciò che ci unisce”. E questo investimento sembra già aver dato i primi frutti. Nel frattempo si aspetta l’altra parte, ancora troppo impegnata nel capire chi sia più a sinistra degli altri

Balboni, Lodi e Fabbri
La prima discussione tra Fabbri, Malaguti, Peruffo e Balboni
Momenti della festa
In sostegno dei marò
Il consigliere di FI Matteo Fornasini
Momenti della festa
Gli Insorgenti
Momenti della festa
La seconda discussione
Sul palco i giornalisti, tra cui Stefano Lolli e i politici Vinci, Foti e Bernini
Foti e Bernini
La copertina del film “Mi chiamo Ida”
L’arrivo di Giorgia Meloni
L’arrivo di Giorgia Meloni
L’arrivo di Giorgia Meloni
Interviste alla Meloni
Interviste alla Meloni
Interviste alla Meloni
Una panoramica sul pubblico
Balboni e Meloni
Il palco durante l’intervento di Giorgia Meloni con Alberto Balboni e Alessandro Giuli
Il palco durante l’intervento di Giorgia Meloni con Alberto Balboni e Alessandro Giuli
Il palco durante l’intervento di Giorgia Meloni con Alberto Balboni e Alessandro Giuli
Il ritorno alla sua auto di Giorgia Meloni

Foto di Valerio Pazzi

La musica nella fotografia

di Giordano Tunioli

È consuetudine ormai diffusa proporre le proprie creazioni fotografiche con proiezioni unite ad un sottofondo musicale. Normalmente definite “audiovisivi”, tali proiezioni possono acquisire un significato ambivalente; la consultazione di un vocabolario ci riferisce della coniugazione d’immagini e suoni ai fini di una particolare tipologia di comunicazione e non sempre chiarisce come la sinergia di mezzi espressivi diversi – immagine e musica – conducano ad un concetto multimediale più ampio da cui scaturisce un nuovo prodotto nel quale frammenti d’immagini in movimento si alternano con l’immobilità della fotografia, in un contesto in cui il suono è componente imprescindibile. In un secondo caso s’intende per “audiovisivo” la proiezione d’immagini statiche, corredate quasi sempre da un accompagnamento musicale apparentemente complementare e non essenziale. A mio parere, quest’ultimo punto di vista è riduttivo, e ci induce a considerare con maggiore attenzione il rapporto suono – immagine. Questo rapporto si è nel tempo consolidato ed è stato lungamente studiato nell’ambito cinematografico così da appartenere all’immaginario collettivo. Tra il film e l’audiovisivo fotografico emergono soprattutto due differenti elementi: la temporalità e il movimento (componenti che implicano l’evolversi di un nuovo linguaggio). Nondimeno la proiezione fotografica esige un’attenzione peculiare nel connubio tra fotografia e musica. Mi è capitato di assistere alla proiezione di fotografie perfette dal punto di vista tecnico e che possedevano un raffinato senso della composizione, tanto da rasentare la perfezione nella ricerca di un equilibrio grafico e una intuizione nell’uso del colore come raramente accade, ma… Già, c’è un “ma”! La rappresentazione era affrettata, con tempi per ogni singola immagine a dir poco insufficienti per poterla apprezzare nella sua interezza, certamente tali da non consentire il piacere di una ponderata percezione visiva.
L’aspetto, a mio parere, più negativo, fu proprio il commento musicale, del tutto improprio, disarmonico, perfino insensato nei confronti del linguaggio fotografico. Mi stupì poi la risposta dell’autore allorché gli chiesi quale criteri avesse seguito nella scelta musicale: “nessuno in particolare: mi piaceva quella musica”. Ora, premesso che ognuno è libero di pensare e agire come meglio crede, va detto che una presentazione musicale superficiale o impropria equivale ad una brutta cornice o ad una stampa non curata e può sminuire, come accadde, la poesia o il contenuto concettuale dell’immagine. Il fotoamatore dovrebbe sempre tener presente che fotografia e musica possono costituire un momento d’incontro-scontro fondamentale. Anzi! Sarebbe opportuno ricordare come la fotografia conservi nella sua composizione, tale e quale all’arte figurativa in genere e all’architettura, un senso ritmico, una “musicalità interiore” che andrebbe rispettata. Poi la fotografia è fatta anche di silenzi, di concentrazione, di sensazioni. Sarei comunque prudente nell’asserire che una visione pubblica di fotografie necessiti di un commento musicale, magari con l’unico scopo di non annoiare lo spettatore, anche perché ciò potrebbe voler giustificare un mediocre risultato o un lavoro tale da non essere in grado di coinvolgere lo spettatore, di conseguenza non meritevole di attenzione. Neppure è lecito difendersi dicendo che “non sono un musicista, non suono uno strumento, non ho studiato musica” poiché tutto ciò non è richiesto al fotografo, ma da questi, come a qualsiasi artista, ci si attende raffinatezza, gusto, cultura, sensibilità musicale necessaria, quest’ultima, ad una scelta oculata di brani conclusa in un efficace montaggio sonoro, senza che tutto ciò sottintenda una profonda conoscenza specifica. Per altro, molti fotografi del passato ne erano in possesso: Ansel Adams negli anni giovanili era un ottimo pianista classico che faceva preludere ad una brillante carriera musicale, Weegee suonava egregiamente il violino tanto da accompagnare i film del cinema muto, Florence Henri fu allievo di pianoforte a Parigi nientemeno che di Ferruccio Busoni, e molti altri ancora suonavano discretamente uno strumento o, comunque, erano uditori cólti, come William Eggleston, “Chim” Seymour, Lisette Model, James Coburn, Eugene Smith, alla stregua di fotografi che praticavano l’arte della pittura e del disegno (due tra i più grandi: Man Ray e Henri Cartier-Bresson) come vi furono musicisti a loro volta dediti alla pittura (Arnold Schönberg, per esempio) o alla fotografia.
Ovviamente non si fa qui riferimento all’impiego della sola musica cosiddetta “classica” o cólta, appartenente al passato, alle avanguardie del Novecento o al presente, ma alla musica nelle sue varie forme ed espressioni evolute in generale, appartenente sia al genere leggero (o di consumo) sia al jazz, alla musica popolare alla new-age o alla Muzak. Insomma, non è un problema di stile o di appartenenza ad un genere piuttosto che ad un altro, ma è un fattore di compenetrazione tra linguaggi diversi che, nel loro integrarsi, costituiscono una realtà complessa in cui si sviluppa una diversa poetica ed estetica. E’ il prodotto finale nella sua compiutezza che deve essere atteso, valutato ed apprezzato. E’ importante non disconoscere la fondamentale funzione semantica dell’immagine scissa da quella della musica affinché possa scaturire una nuova e diversa dimensione semantica. Non per tutti la fotografia è musica e non è detto che la fotografia debba “essere musica”; forse è meglio così. Neppure la musica deve obbligatoriamente essere al servizio dell’immagine fotografica, cinematografica o video.
Per questo mi sento di asserire che, in molti casi, è preferibile il silenzio o il commento, faceto od esegetico, alle proprie o altrui immagini piuttosto che un inopportuno rapporto sonoro tale da divenire fastidioso rumore.
D’altronde un fotoamatore evoluto non deve neppure essere un artista ad ogni costo; deve comunque possedere sensibilità artistica, curiosità, passione per la ricerca e la cultura. Deve soprattutto essere interessato a ciò che gli sta intorno; certamente può anche divertirsi scattando banali istantanee… purché non le presenti in pubblico.

FACCI CASO
La Borsa o la vita

SkyTg24 di una domenica d’agosto di qualche tempo fa apre l’edizione delle 22 collegandosi con il corrispondente da New York che informa i telespettatori sulle quotazioni dei titoli nella principale Borsa statunitense. Eppure non è successo nulla di particolarmente significativo quel giorno. Ma è una consuetudine di Sky: evidentemente quelle informazioni sono considerate di primario interesse. Qualche settimana prima, il cronista finanziario, commentando il ribasso delle quotazioni del barile di petrolio, affermava che era “il peggiore risultato degli ultimi mesi”. Perché peggiore? Se cala il prezzo del petrolio cala anche quello della benzina e io risparmio. Invece no. Ci abituano a guardare il mondo dalla parte dei padroni del vapore. Per loro se il prezzo del barile cala è un guaio perché calano i loro profitti. E a noi dovrebbe dispiacere! C’è qualcosa che non va, evidentemente. Anche nella facile e prevedibile obiezione: il problema non sono i guadagni dei petrolieri ma l’andamento dell’economia. Certo. Bisogna intendersi però su quali siano gli indici significativi: se valutiamo il Pil mi sa che hanno ragione “loro”, se invece consideriamo il benessere delle persone forse ho ragione io a pensare che siamo al delirio…

Dieci anni dopo il crollo di Lehmann Brothers

10 anni fa crollava la Lehman Brothers iniziando uno dei periodi più catastrofici dell’economia mondiale, crollava mentre le agenzie di settore le attribuivano il massimo del rating. Quando i responsabili di quelle agenzie furono chiamati a dare spiegazione dei loro giudizi al Senato degli Stati Uniti, si difesero dicendo che erano semplicemente dei “pareri”, era la loro opinione per cui non potevano essere addossate responsabilità, e così fu.
Tutti gli intrecci e gli interessi furono portati alla luce ma dopo 10 anni continuiamo a vivere con il terrore del rating, ci hanno detto chiaramente che sono “solo opinioni” di persone con degli interessi economici e finanziari, ma le nostre democrazie continuano a dipendere dai loro giudizi.

Nel frattempo, Mario Draghi con il Quantitative Easing della BCE ha comprato migliaia di miliardi di euro di Bond/BTP europei che hanno tenuto bassi i tassi senza creare danni a nessuno. Quindi ha dimostrato praticamente che una Banca Centrale non ha limiti nel comprare titoli di stato, che questo aiuta le persone, i cittadini, ma a dicembre il programma dovrà essere interrotto.

E allora bisogna correre ai ripari (??), Savona e Tria sembra stiano chiedendo assicurazioni a USA e Cina affinché comprino i nostri titoli. Ma perché andare così lontano quando abbiamo una Banca Centrale che ha appena dimostrato che può farlo senza problemi? Semplicemente perché bisogna preservare gli equilibri di mercato, perché gli equilibri di mercato contano più degli equilibri delle persone.

Viviamo dunque di illusioni, l’illusione che il giudizio di un’agenzia di rating con degli interessi privati possa essere obiettiva, l’illusione che il mercato possa avere un equilibro naturale e quindi ci si possa affidare, l’illusione che il sistema economico possa funzionare senza una guida, l’illusione che il benessere sia a portata di mano come in una sala del Bingo.

Mark Twain scrisse: “Non separatevi dalle vostre illusioni; quando esse sono scomparse, potete continuare ad esistere, ma avete cessato di vivere”. L’abbiamo preso sul serio!

L’appuntamento dopo la pausa estiva è per domani, mercoledì 29 agosto 2018 dalle ore 20.30 alle 22.30 in Via Ravenna 52 (entrata sul retro da Via Ferrariola) – CSV Agire Sociale di Ferrara. L’ordine del giorno:

– Ben ritrovati e facciamo il punto
– Come andiamo avanti con le riunioni

– Come concludiamo il 2018 e cosa prepariamo per il 2019

Claudio Pisapia

Sede G.ECO.FE

Via Ferrariola c/o C.S.V. Agire Sociale
FERRARA

Da: Gruppo Economia Cittadini di Ferrara

Lettera al Governo sulla vicenda della nave Diciotti.

“Le associazioni del Tavolo Asilo chiedono con urgenza al Governo italiano di autorizzare lo sbarco delle 150 persone ancora a bordo della nave Diciotti. I migranti soccorsi dalla nave italiana senza ulteriori indugi devono essere messi in condizione di ricevere assistenza adeguata e di beneficiare di tutte le garanzie definite dalla nostra Costituzione, dalla normativa nazionale, comunitaria e dalle convenzioni internazionali, a prescindere dai tempi e dagli esiti della contrattazione politica tra gli Stati Europei. Le risposte dell’Unione europea alla gestione dei flussi migratori, compresi quelli dei minorenni, nel Mediterraneo deve essere richiesta nelle opportune
sedi e non attraverso il trattenimento illegale di persone a bordo di una nave”.

Caritas Italiana, A Buon Diritto, ACLI, ActionAid, Amnesty International Italia, ARCI, ASGI, Casa dei Diritti Sociali, , Centro Astalli, CIR, Comunità di S.Egidio, CNCA, Emergency, Médecins du Monde Missione Italia, Mediterranean Hope (FCEI), MEDU, Save The Children Italia, Senza Confine, Oxfam Italia del Tavolo Asilo Nazionale

Il Documento inviato al Governo:

Ufficio Politiche Migratorie e

Protezione Internazionale

Da: Sara Cambioli

Ferrara: biblioteche alla riscossa

Il 16 di agosto, sotto “la luna” di un’estate rovente e insanguinata, entro nella splendida Biblioteca Bassani di Barco per ascoltare e partecipare alla tradizionale maratona di lettura, dedicata quest’anno al tema della pace e della nonviolenza. Mi aspettava una felice sorpresa. Sorpreso e felice di vedere in quanti avessero risposto all’appello: decine e decine di persone, conosciute e sconosciute, giovani e anziani. Mi è sembrato un piccolo segno di grande valenza: una specie di conferma che Ferrara può davvero aspirare al titolo di “Città d’arte e di Cultura”, una città della pace, dell’incontro, del dialogo.
Non solo libri: la biblioteca è una piazza
Al termine della maratona, un’altra gradita sorpresa. Angelo Andreotti, il nuovo dirigente del Servizio Biblioteche e Archivi, interviene per ringraziare i partecipanti, e per esprimere in pochi minuti alcuni concetti, in modo semplice e chiaro, senza enfasi, ma aprendo a uno scenario nuovo e promettente per la promozione della lettura (e della cultura) nella nostra città. Aspettavo queste parole da quasi 15 anni, tre lustri in cui le nostre biblioteche hanno conosciuto una progressiva eclissi, una marginalizzazione, una gestione improntata al risparmio e al basso profilo, fino ad arrivare alla recente e sconsolante calo dei fondi comunali destinati agli acquisti documentari e al conseguente crollo dei prestiti. Denunciavo più di un anno fa su Ferraraitalia questa preoccupante deriva (‘La nuova primavera delle biblioteche ferraresi’) augurandomi una svolta nella politica culturale cittadina.
Cosa ha detto Andreotti? Prima di tutto ha comunicato la sua “fede”, un calmo entusiasmo per l’importante incarico affidatogli e il suo impegno per il rilancio del Servizio di Pubblica Lettura a Ferrara. Poi ha spiegato un concetto elementare, che però in tanti anche nella nostra città non considerano o hanno dimenticato. E cioè che una biblioteca pubblica non è solo un luogo dove si va a prendere a prestito un libro, ma è prima di tutto una “piazza”, un luogo dove le persone si incontrano, si parlano, raccolgono e si scambiano informazioni. Per questa ragione le biblioteche pubbliche  – tante, diffuse in ogni quartiere e con una pluralità di servizi – rappresentano una pietra miliare per promuovere e animare una città civile, colta, accogliente.
Nuove biblioteche e nuovi bibliotecari
Molte cose stanno muovendosi, e rapidamente, tanto da incoraggiare l’idea che si possa davvero aprire una nuova primavera per le biblioteche ferraresi. Raccolgo le notizie dalla stampa locale, dal profilo Facebook del Vicesindaco e Assessore alla Cultura Massimo Maisto, dalle parole dei delegati e dei sindacalisti della Camera del Lavoro.
L’inaugurazione della Biblioteca di Casa Niccolini, dedicata ai bambini, ai ragazzi e alle famiglie, è ormai alle porte. Riempirà finalmente un “buco”, perché Ferrara (a differenza di Bologna, Reggio Emilia, Ravenna…) non disponeva ancora di un moderno spazio attrezzato e specializzato per servire questa fondamentale fascia di cittadini utenti. . Intanto, il progetto della “Nuova Rodari”, cioè di un grande spazio culturale polivalente per servire la popolosa Zona Sud di Ferrara, sta diventando realtà. Nell’area del finalmente abbattuto Palazzo degli Specchi i lavori di costruzione vanno avanti  e si parla di poter aprire la biblioteca con annessa sala polivalente già nel corso del 2019. Poter contare, oltre alla storica Ariostea, di una Biblioteca Ragazzi e di una “seconda Biblioteca Bassani” nella zona di via Bologna significa attuare un progetto di politica culturale di grande respiro. Manca ancora, credo, un importante tassello, ma di quello dirò più avanti.
Le biblioteche, le vecchie come le nuove, hanno però bisogno di due cose per funzionare. Di bibliotecari, ossia di personale specializzato e adeguatamente formato. E di carburante, cioè di un rifornimento costante di nuovi libri, documenti su supporto digitale, abbonamenti a banche dati… Anche su questo fronte la situazione che fino a un anno fa appariva perlomeno critica (un calo progressivo degli investimenti del Comune per l’acquisto documentario e la preoccupazione per la tenuta della pianta organica delle biblioteche a causa di alcuni pensionamenti) sembra registrare oggi una svolta. Anche a seguito delle precise richieste  del sindacato, l’Amministrazione Comunale ha comunicato di aver scelto la strada della gestione diretta del servizio di pubblica lettura e che quindi procederà a nuove assunzioni. Attraverso lo strumento della mobilità interna ed esterna, non solo verranno rimpiazzati i posti via via vacanti, ma verranno assunti nuovi bibliotecari per far fronte alla prossima apertura della Biblioteca Ragazzi di Casa Nicolini.
A questo importante impegno se ne aggiunge un altro altrettanto importante – lo ricavo sempre dalle dichiarazioni dell’assessore Maisto – e cioè l’impegno della Giunta a incrementare la somma da destinare annualmente agli acquisti per le biblioteche. Personalmente avevo avanzato una proposta: investire 1 euro per abitante, mettere cioè a bilancio una somma di circa 140.000 euro. Siamo ancora lontani da quell’obiettivo, ma la strada imboccata è quella giusta.
Lungo questo percorso, ci aspetta fra non molto un altro appuntamento decisivo. Per aprire, rifornire di documenti e gestire la nuova grande biblioteca pubblica in Zona Sud ci vorrà sicuramente altra benzina (fondi per gli acquisti ) e altri benzinai (nuovi bibliotecari, documentalisti, operatori culturali). Di questa seconda fase si dovrà però occupare il nuovo governo che i ferraresi si daranno con il prossimo voto di primavera. A leggere cosa combinano i sindaci leghisti in tutta Italia (assai noto l’episodio del siluramento della bibliotecaria di Todi), posso solo sperare che i miei concittadini non si affidino ad un “uomo di cultura” come Naomo Lodi.
Il tassello mancante
Intanto, già da ora, c’è molto da fare. La prossima apertura in città di due nuove e moderne biblioteche pubbliche e più in generale il rilancio del Servizio di Pubblica Lettura, porta con sé un grande lavoro ancora tutto da sviluppare. Faccio solo alcuni esempi  La necessità di dedicare più tempo e più attenzione alla formazione e all’aggiornamento professionale del personale impegnato nelle biblioteche, un maggiore impegno per coinvolgere nella vita quotidiana delle biblioteche le numerosissime realtà sociali e culturali presenti sul territorio, promuovere un rapporto più stretto – quotidiano direi –  tra biblioteche e scuole, dalle materne all’università.
Forse, è un’idea che lancio ad amministratori e funzionari, si potrebbe organizzare a Ferrara – magari in prossimità dell’apertura di Casa Nicolini – un grande Convegno-Seminario sul nuovi orizzonti delle biblioteche pubbliche nel terzo millennio, invitando docenti, bibliotecari e operatori italiani e stranieri. Abbiamo, infatti, tutti bisogno di ascoltare e confrontarci con idee nuove ed esperienze positive.
Al quadro generale manca, dicevo sopra, un tassello fondamentale. Dovete scusarmi se ritorno su un mio chiodo fisso: non avrebbe senso una “primavera delle biblioteche” se, come al solito, il quartiere dolente del Gad ne rimanesse escluso. Per “salvare” il GAD dal degrado, riportare legalità e sicurezza, tornare a un “quartiere giardino” dove i bambini possano giocare tranquilli nel parco del grattacielo, non serve o comunque non basta aumentare agenti, soldati o telecamere, né sono sufficienti i pur lodevoli appuntamenti al cinema di piazza Castellina. Occorre pensare e mettere in campo un piano straordinario, un grande progetto di rilancio economico, sociale e culturale di tutto il quartiere.
Da dove si comincia? Ad esempio da una biblioteca, come proponevo lo scorso ottobre: ‘Mettete dei libri nei vostri cannoni. Perché, come, dove e con chi fondare una biblioteca multietnica in Gad‘.  Paolo Marcolini, allora presidente di Arci Ferrara, si è fatto promotore di un appello che andava proprio in questa direzione, e un gruppo di volenterosi (bibliotecari e non) si è più volte incontrato per dar corpo a questa idea, accorgendosi però ben presto quanto aprire una grande biblioteca nel cuore del Gad  (magari proprio al piano terra del grattacielo) fosse un progetto delicato e complesso. Dunque una  strada tutta in salita – anche perché finora il Comune non ha dimostrato interesse a patrocinare l’idea – ma che non credo debba essere abbandonata.
Proprio qualche giorno fa, un amica ferrarese con casa al Gad ma che da molti anni lavora alla biblioteca di Cologno Monzese (MI) – e per chi conosce un po’ il settore sa bene che trattasi di una biblioteca di assoluta avanguardia – mi ha mandato sul cellulare una foto e un sms. Nella foto si vedono alcune vetrine chiuse di piazzetta Enrico Toti. Ecco il messaggino: “Passa a vedere lo spazio che magari ci viene il guizzo… Ho visto tutte quelle vetrine, il cartello vendesi, e me le sono sognate piene di libri. Si vuole dare una pennellata al quartiere? Ecco che passare e vedere dentro gente che legge sarebbe una piccola cosa sensata. Ci pensiamo un po’?”
In quanto ex bibliotecario, anzi, “bibliotecario forever” – perché è proprio vero che uno rimane bibliotecario tutta la vita – non potevo non rispondere a quell’invito/provocazione. Così sono andato a fare un giretto in piazzetta Toti e dintorni: di negozi chiusi, serrande abbassate, cartelli di vendesi e affittasi ce n’è da stancarsi. E ho pensato che l’idea della mia cara amica, minimale fin che si vuole, era tutt’altro che peregrina. Potrebbe essere invece un modo concreto per iniziare a riempire il “grande vuoto” del Gad. E per sollecitare il Comune ad assumere in proprio il progetto. Allora mi rivolgo ai tanti partigiani delle biblioteche che a Ferrara non mancano di certo. Vogliamo provarci? Io sono pronto a fare il mio turno di apertura.

AIUTIAMOLI
Le loro case distrutte dal terremoto, ma alla gente resta la forza per sorridere

È il 29 luglio, il giorno del mio compleanno, e al telegiornale sento: “Un terremoto di magnitudo 6.4 ha colpito l’isola di Lombok”. Panico totale. A Lombok ho una sessantina di amici e mi precipito immediatamente a cercare di mettermi in contatto con ciascuno di loro.
Per i pochi che la conoscono, Lombok è solamente una delle oltre 17mila isole che compongono l’arcipelago indonesiano, per me invece è una seconda casa, una seconda famiglia, il mio angolo preferito di mondo.
È da quando avevo 7 anni che trascorro ogni estate in questa meravigliosa isola tropicale che, nel corso degli anni, è diventata sempre più meta turistica, insieme alla vicina Bali e alle splendide isole Gili.
Lombok è un piccolo tesoro immerso tra l’Oceano Indiano e quello Pacifico, caratterizzato da un’alternanza di spiagge bianche e nere, da un particolare lago creatosi all’interno di uno dei crateri del vulcano Rinjani (che rappresenta il punto più alto dell’isola), da infinite risaie e piantagioni di tabacco, cacao, caffè, soia e cotone.
O meglio, questo è ciò che Lombok era fino a qualche settimana fa.
Dopo il terremoto di magnitudo 6.4 del 29 luglio, ne sono seguiti altri due: quello di magnitudo 7 del 5 agosto e quello di forza 6.2 del 9 agosto.
La terra continua a tremare, le persone a morire, le case a crollare.
Quest’anno, per la 18^ volta nella mia vita, sarei dovuta andare a Lombok come ogni estate, ma i numerosissimi amici che ho sull’isola mi hanno pregata di non andare, con messaggi del tipo “sembra di essere in territorio di guerra; ti prego resta a casa, qui non è sicuro”, ma anche con messaggi di supplica del genere “abbiamo bisogno di aiuto, ti prego dacci una mano, che Dio ti benedica”.
Ho amici che hanno perso la loro casa e che ora, notte dopo notte, si rifugiano nelle tende, terrorizzati, facendo a turno per dormire, poiché i ladri rubano tutto ciò che trovano.
Ho amici senza un tetto sulla testa e amici in ospedale; Lombok è quasi tutta da ricostruire.
Questi terremoti hanno causato la morte di oltre 390 persone, ma si tratta di un numero destinato ad aumentare. Quando tra una scossa e l’altra le persone riescono a scavare tra le macerie, rischiano continuamente di trovare nuovi corpi privi di vita. Inoltre, specialmente nel nord dell’isola, le persone stanno iniziando a morire di fame.
A Lombok infatti c’è un disperato bisogno di cibo, acqua, vestiti, coperte, tende e medicine. Interi villaggi sono stati rasi al suolo, intere zone non sono altro che un cumulo di macerie, come Kerandangan, la zona in cui ho sempre soggiornato.
La popolazione locale resta impressa per la generosità che la caratterizza. Anche chi vive con poco è infatti sempre pronto a offrire al prossimo un cocco fresco o una manciata di noccioline. Quando passi davanti ai loro villaggi ti invitano ad entrare perché, per loro, è un onore avere degli stranieri in casa propria.
Chi è mai stato a Lombok sa che la gente locale ha costantemente il sorriso sulle labbra.
Ad oggi, famiglie intere, interi villaggi, hanno perso tutto, ma il sorriso, quello lo conservano ancora. Ho amici che mi hanno mandato video di ragazzi locali che cercano di far ridere le migliaia di bambini sotto shock; altri, quelli più fortunati, mettono a disposizione la loro casa per chi ha perso la propria. È meraviglioso, in questo terribile inferno, vedere come la popolazione locale, ma anche gli italiani che vivono sull’isola, si stanno aiutando l’uno con l’altro.
“Bhinneka Tunggal Ika” è il motto dell’Indonesia e significa sostanzialmente “uniti nelle diversità”, proprio perché il paese, seppur a stragrande maggioranza musulmana, accetta ogni altra fede religiosa.
Purtroppo però, gli aiuti locali non sono minimamente sufficienti; a Lombok hanno bisogno dell’aiuto degli altri paesi.
Lombok è un’isola che vive di turismo, ma tutti sappiamo che per anni nessuno la sceglierà come meta di vacanze. Ce l’ho hanno insegnato eventi come la bomba nella discoteca di Bali, lo tsunami del 2004 o il terrorismo dell’Egitto. Per questo ora la popolazione di Lombok ha bisogno di aiuto per rialzarsi.
Ogni anno quando torno in Italia, lascio metà del mio cuore in quest’isola meravigliosa che mi ha accolta come una figlia da quando avevo 7 anni.
Ora è il mio turno di fare qualcosa per lei.

Di seguito vi sono diversi modi per fare una donazione, qualunque contributo sarà di fondamentale importanza. Vi ringrazio, dal profondo del cuore.

https://www.gofundme.com/sos-lombok-aiutiamo-i-terremotati
Sito per la raccolta fondi per Lombok lanciata da Silvia Malacarne qui, e altro sito per dare sostegno alla popolazione qui 

 

La STRAFERRARA, una compagnia teatrale dialettale lunga 87 anni

Di: Maria Cristina Nascosi Sandri



La Straferrara, la compagnia stabile dialettale tutta nostra e più ‘antica’, il 14 di agosto prossimo compirà 87 anni, tranche-de-vie capolavoro di una vita, di più vite, mai interrotto, come è noto, nemmeno sotto i bombardamenti della guerra.
Risale, infatti, al 14 di agosto del 1931 – è sempre giusto ricordarlo – l’atto costitutivo che sancisce la nascita della compagine sottoscritto da Ultimo Spadoni, il fondatore, già maturo attore di fama, insieme con un piccolo gruppo di amici, attori per diletto: Mario Bellini, Piero Bellini, Renato Benini, Leonina Guidi Lazzari, Arnaldo Legnani, Umberto Makain, Norma Masieri ed Erge Viadana, la prima e, per certi versi, insuperata Castalda.
La prima recita avvenne il 3 settembre di quell’anno al Teatro dei Cacciatori di Pontelagoscuro con la commedia Pàdar, fiòl e …Stefanìn e la farsa L’unich rimèdi, scritte entrambe da Alfredo Pitteri, grande drammaturgo, attore, figura di eccellente cultura: non è noto a molti che a novembre del 1921 Filippo Tommaso Marinetti, all’inaugurazione della Mostra d’arte futurista e d’avanguardia organizzata a Ravenna da Mario Hyerace, ne presiede il comitato d’onore cui collaborano Alfredo Pitteri e Gualtiero Medri. Le tracce native di questa intellettuale appartenenza ad uno degli -ismi culturali più importanti del Novecento, tutto Italiano si ritrovano, a tutt’oggi, presso la sua sede ‘naturale’, il mitico Caffè Storico – Letterario delle Giubbe Rosse, a Firenze.
Pitteri, scomparso più di 42 anni fa, da annoverare anche tra i ‘maestri del Maestro’ Michelangelo Antonioni – per sua stessa ammissione – è, così, il primo autore a scrivere opere per la Straferrara che, nel tempo, recitò veri ‘classici’ tradotti o, meglio, adattati, come, ad es., la già citata Castalda ( Giovanni Pazzi l’aveva tratta, nel 1902, da La Locandiera, di Carlo Goldoni).
L’opera è, tuttora, cavallo di battaglia della compagnia che, diretta dal 1967 dalla figlia di Spadoni, ‘Cici’ Rossana e dal marito Beppe Faggioli, subentrati al fondatore cav. Ultimo, ha riproposto nel tempo, opere ‘storiche’ come la sunnominata, con un occhio di riguardo al patrimonio culturale collettivo, scelta coerentemente privilegiata della Compagnia, ab ovo.
La storia della Straferrara è la storia di una compagnia di teatro dialettale, certo, ma ‘è’, anche, parte della Storia della ‘sua’ città, Ferrara, sua di origine e di ‘possesso’, trama ed ordito di uno stesso immortale ‘tessuto’, quello delle loro comuni radici. 
Una storia da non dimenticare di ricordare…

Eclissi

Nessun evento astronomico riesce ad agitare l’immaginazione umana più dell’eclissi del sole o della luna. Impressiona da sempre ed ancora la metamorfosi della luna argentea, algida e rassicurante in una sfera color rosso sangue, minacciosa, inquietante, e la perdita rapida della luce del giorno in un’oscurità fuori programma richiama le suggestioni di antiche leggende e credenze non ancora perdute. Le eclissi hanno determinato il destino di battaglie e dominazioni, hanno accompagnato la morte di re e confermato il pensiero umano nel campo scientifico. Per i testi religiosi, la grande eclissi è quella del giorno della Crocifissione di Cristo, così descritta da Jacopo da Varazze (1228-1298): “Essendo facte le tenebre sopra l’universo terra, non fu usuale eclipse del sole, perochè l’eclipse non remove el lume a tutte le parti della terra; sì etiam che non può durare l’eclipse per tre ore sopra la terra.”, fornendo l’idea dell’eccezionalità del fenomeno. Durante la spedizione ateniese a Siracusa, nell’agosto del 413 a.C. l’eclissi di luna ritardò la partenza dei marinai greci dal porto della città, spaventati dagli auspici negativi legati al fenomeno, favorendo così la vittoria dell’esercito locale. Nel marzo del 4 a.C. la morte di Erode a Gerico fu anticipata da un’eclissi di luna: una data luttuosa e non solo per la scomparsa del despota. Re Erode, infatti, temendo che alla sua morte nessuna lacrima sarebbe stata versata dal popolo, chiamò a raccolta molti insigni giudei e li fece rinchiudere nell’ippodromo, dando ordine che nel momento della sua scomparsa fossero trucidati e le lacrime scorressero almeno nelle loro famiglie. Una luna rosso sangue che marchierà le pagine della storia. Lo stesso Cristoforo Colombo, a nord della Jamaica, nel febbraio del 1504 si servì dell’eclissi per intimorire gli indigeni che, spaventati, accettarono di rifornire di viveri la flotta. E sicuramente il mistero e fascino spaventoso delle eclissi influenzò anche William Shakespeare che in alcune sue opere come Re Lear, Macbeth e Otello scrive della congiuntura astrale nei momenti più drammatici, colmi di attesa, inquietudine, irrazionalità e tragedia, legando la follia umana agli avvicendamenti astronomici. Ma non tutte le citazioni storiche attribuiscono all’eclissi connotazioni infauste, infatti la più influente prova sperimentale del Ventesimo secolo si basa su dati ottenuti durante l’eclissi solare del 29 maggio 1919, che diedero un contributo determinante alla Teoria della Relatività Generale, con lo studio della deviazione dei raggi luminosi da parte del Sole. Si trattava di pochi dati di non alta precisione ma fondamentali per provare la rivoluzionaria ipotesi gravitazionale di alcuni studiosi, primo fra tutti Albert Einstein, l’allora sconosciuto direttore dell’istituto di fisica Kaiser Wilhelm di Berlino. Un oscuramento del sole che diede origine a una grande stella, destinata a notorietà in tutto il mondo. Animali mitologici che sbranano il sole e la luna, eventi apocalittici, effetti di incantesimi magici, catastrofi, anomalie e distorsioni, punizioni divine e peccati da scontare, conflitti e tragiche ricadute sulla vita degli esseri viventi: ecco le immagini associate all’eclisse, da esorcizzare e allontanare con riti, cerimonie e perfino sacrifici nel passato, e con post più o meno allarmistici e ansiogeni sui social del presente. Perché il terrore ancestrale di un tempo non è scomparso: si è solo trasformato assumendo nuove forme. Sono di questi giorni le raccomandazioni con appelli accorati sui social, riguardanti l’opportunità di stare in casa durante l’eclissi lunare, non seguire il fenomeno in tutta la sua durata per ipotetici danni irreversibili e altre amenità, la più sbalorditiva di tutte, quella riguardante l’uso di cellulari, tablet e computer soggetti ad alta radiazione cosmica. Conseguenza, danni terribili all’incolumità fisica. Fondo di verità scientifica o fake news di dubbia provenienza? Per fortuna, in tutto questo esiste anche il popolo dei romantici, che dell’evento lunare ne ha fatto un momento di poesia e ammirazione disinteressata a tutte le speculazioni possibili, semplicemente sedendosi, alzando gli occhi al cielo, pronti a sorridere, grati dello spettacolo naturale.

Il tradimento di una banca nel romanzo di Nicola Cavallini

Sullo sfondo di Bankabbestia di Nicola Cavallini c’è Ferrara, la sua aria umida, i tic degli abitanti, una certa ripetitività del vivere e la fiducia nella stessa banca che tradisce tutti. Si rompe un patto di alleanza non solo tra i risparmiatori e chi doveva essere il custode dei risparmi, ma fra le persone che condividono un progetto, una vita insieme.
I personaggi tradiscono l’un l’altro, si ingannano ingabbiandosi in ruoli e facendo finta di crederci. Marco, Alice, Davide, Cristiana, Leonardo, Francesca sorreggono un grande bluff e lo sanno. Marco recita se stesso, accetta la finzione e la costruzione che ha fatto della propria identità, così la moglie Alice, ma la vita intanto procede per direzioni che non coincidono con la statuto che la coppia si è data, sfuggendo a ogni previsione.
Per Davide e Cristiana, invece, la vita li ha preceduti, inventandosi strade alternative in cui trovare rifugio. Ciascuno ha un vissuto nel vissuto che non è solo una storia parallela, ma una condizione pregressa che ha reso inevitabile la sofferenza del presente.
I confini dei diversi mondi in cui la stessa persona si muove non sono netti, le situazioni si ribaltano in continuazione in uno scambio inarrestabile tra la facciata che ha sempre più crepe e ciò che si vorrebbe vivere a pieno.
Marco ammette di avere messo la sua vita tra parentesi, una vita custodita, arginata, sorvegliata, ma non è l’unico, anche gli altri provano a mantenere un certo equilibrio formale, un bilico doloroso che non può reggere all’infinito.
Bankabbestia è anche un romanzo sui rapporti di coppia come impalcature che tentano di tenere in piedi palafitte pronte a essere travolte dalla prima mareggiata. Nella coppia, le visioni a specchio di lei e di lui viaggiano nell’incomunicabilità e completano un quadro rimesso nella mani di chi legge.
Tutti i protagonisti sono in qualche modo legati, anche senza saperlo, e quando si trovano a convergere nello stesso punto tragico, che è il momento della verità, ci pensa il caso a mandare tutto in frantumi. C’è qualcosa che scoppia e azzera, proprio quando era arrivato il momento di scegliere finalmente che strada prendere.

Bankabbestia sarà presentato lunedì 23 luglio alle 21,30 al Ray gelato di Santa Maria Maddalena, via Eridania 187