Skip to main content

DIARIO IN PUBBLICO
Ma i comunisti han sempre fame di bambini

Non inganni la seriosità con cui ho svolto il ‘tema’ della Storia nell’ultima puntata di ‘Diario in pubblico’. Il tempo che viviamo e non certo il ‘disio d’onore’ mi hanno indotto a qualche nota accademica necessaria di fronte alla minaccia dell’abolizione all’esame di maturità della traccia di Storia. Pericolo rientrato? Non so. In questi tempi agitati dai Dioscuri gialloverdi escono continui proclami e immediate ritrattazioni, mentre caterve di bene informati tendono a spiegarci ciò che forse loro stessi non hanno ben chiaro o non hanno capito; come del resto gli stessi Dioscuri.

Cominciamo tuttavia con una immagine consolatoria apparsa su un quotidiano cittadino. Una coppia scende dallo Scalone di Palazzo Comunale, dopo essersi sposata, accompagnata non solo da parenti e amici, ma dai loro fidi pelosi. Lo trovo confortante e amicale.
L’amicizia tra umani e pelosi è un segno di civiltà.
Altrettanto se non più confortante la splendida iniziativa di Monumenti Aperti, la presentazione di diciotto monumenti, novecenteschi in gran parte, spiegati da ragazzi e bambini che, ottimamente preparati dai loro insegnanti, hanno fatto da guide a un flusso ininterrotto di visitatori che hanno affollato quei luoghi. Ho assistito alle presentazioni fatte a Casa Minerbi. Solo qui, in due giorni, 1150 visitatori, e 100 rimandati per eccessivo affollamento, sono stati intrattenuti da piccoli Giorgio Bassani e Giuseppe Dessì che si sono alternati mostrando ottima preparazione e capacità di spiegazione, ma soprattutto assimilazione di ciò che gli insegnanti hanno loro comunicato.
Poteva mancare la polemica? No certo! In questo caso innescata dal portavoce di Fdl Mauro Malaguti che così scrive su un quotidiano cittadino:
“Sabato e domenica scorsi, c’è stata l’iniziativa ‘Monumenti aperti’ in cui si potevano visitare palazzi del ‘900 solitamente chiusi al pubblico. Una iniziativa che mirava a riscoprire un patrimonio architettonico poco conosciuto, con l’opera divulgativa assicurata dagli studenti delle scuole elementari e secondarie di primo grado, che dovevano guidare il pubblico in un percorso di valorizzazione dal punto di vista turistico del nostro patrimonio architettonico e culturale del Novecento, in un programma che prevedeva di approfondire l’evoluzione e la nascita delle correnti artistiche […] Eppure, in tale ‘programma’ i ragazzini di 8-10 anni si sono prodigati, evidentemente ben istruiti, nel recitare anche le aberrazioni della dittatura fascista che, credo, poco abbiano a che vedere con arte e tecniche architettoniche. Per altro, proprio il 16 ottobre ricorre il giorno del rastrellamento nel ghetto ebraico di Roma, ed è sacrosanto ricordarlo, magari nelle opportune sedi e non per bocca di bambini di 8 anni. […] Ennesimo episodio, evidentemente, in cui la sinistra non perde l’occasione per infarcire una iniziativa di stampo culturale con i richiami storici che più gli sono congeniali, evitando accuratamente ogni riferimento contestuale gli sia sgradito […]”.

Non mi sarei permesso di riportare questa sgradevole protesta se l’evidente faziosità con cui è stata scritta non m’inducesse a controbattere come del resto ha fatto un lettore sulla ‘Nuova Ferrara’. Ma davvero si può pensare che i giovani protagonisti di questa ottima iniziativa siano stati indottrinati dai cattivi comunisti che mangiano i bambini? O che gli insegnanti diretti dal Minculpop ferrarese avessero così ben indottrinato i poverini, inducendoli a pericolose dichiarazioni politiche e ad altrettante dimenticanze ‘dell’altra parte’. Ormai la disconnessione tra parole e pensiero induce a sostenere affermazioni che se non avessero un risvolto etico potrebbero apparire ridicole. Proprio sicuro il signor Malaguti che ai bambini di 8 anni (in realtà le guide quasi tutte erano di 12-13 anni) non si possa spiegare la Storia? E che non abbiano diritto di sapere che nelle carceri di Ferrara, ora sede del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah venisse rinchiuso Giorgio Bassani perché ebreo? E che a Ferrara, se ci fossero stati reperti sulle foibe e sulle atrocità commesse dai titini, gli insegnanti non avessero compiuto con eguale competenza e serietà il compito che si erano ripromessi di fare? Fossi in loro, a qualsiasi credo politico appartenessi, mi risentirei della nota del solerte politico.

Altrettanto significativo della piega politica a cui ormai rivolgiamo ogni pensiero, compreso quello delicatissimo e assai complesso della nozione di cultura in una città che si fregia del titolo di ‘città della cultura’, il fondo apparso in un quotidiano cittadino. Leggo infatti l’editoriale del ‘Resto del Carlino’, Cronaca di Ferrara del 14 ottobre 2018. Una piccata protesta per l’accoglienza riservata alla mostra in Castello della collezione Cavallini-Sgarbi; protesta che, secondo l’estensore, “smaschera, al di là delle positive intenzioni di Tagliani, la reale ostilità del mondo culturale ferrarese ufficiale non solo per gli Sgarbi – visti come un corpo estraneo – ma anche per quella straordinaria mostra, a mala pena tollerata. Insomma, una figura un po’ da provinciali nei confronti di due personaggi, magari ingombranti e sopra le righe rispetto allo standard ferrarese, ma protagonisti assoluti della scena culturale, artistica, politica e mediatica italiana”. Non esprimo giudizi sulla mostra – non è qui né il caso né l’intenzione, ma resto assai stupito che l’estensore della nota poco ricordi (o conosca) dello “standard ferrarese” culturale. Forse sarebbe ingeneroso ricordargli le strepitose mostre organizzate da Farina ai Diamanti che portavano a Ferrara le più audaci proposte del mondo contemporaneo o le compagnie più all’avanguardia nel rinnovato teatro comunale poi dedicato ad una delle figure più importante del Novecento culturale: il maestro Abbado. Quindi non sarei così sicuro che lo standard ferrarese sia così provinciale come si vorrebbe far intendere. Un pochino di conoscenza da parte dell’editorialista della storia culturale ferrarese avrebbe evitato un imbarazzante – per lui – giudizio.

Attendo la macchina che mi porterà a Mantova per presentare il bellissimo volume scritto da Andrea Emiliani su Canova ambasciatore del Papa che si reca nel 1815 a Parigi a recuperare le opere d’arte trafugate da Napoleone. Accanto a casa arrivano gli studenti per prendere il bus. Ogni parola è condita col termine forse più diffuso oggi in Italia: c…o, disinvoltamente usata da ragazzi maschi, ma soprattutto femmine che, intendo le ragazze, lo intercalano con la frase “non rompermi i c…i”, quasi un’invidia freudiana per l’organo sessuale maschile. Del loro organo non c’è traccia tra un battere il cinque e abbracciarsi come fanno i giocatori. Mi spiace che vivendo al Nord non venga usato il termine più gentile ‘minchia’ forse sconosciuto a questa eroica gioventù.
Giungiamo a Mantova dopo un’avventurosissima traversata perdendo a ogni svolta la strada e andando dalla parte opposta indicata dal severo tom tom.
Poi il premio. La squisita direttrice dell’archivio in nostro onore estrae dalle segrete stanze dell’edificio la bozza della lettera che Baldassar Castiglione scrisse a Leone X. Un tesoro acquisito dallo Stato l’anno scorso e che qui è stato depositato.
Ci troviamo di fronte al documento che sancisce l’istituzione della cura delle opere d’arte.
Consolati, dopo averla accarezzata, ovviamente con i guanti bianchi, cominciamo il nostro lavoro. Culturale, mi si permetta.

Gemellaggio Ferrara – Riace
La lettera aperta della società civile e del mondo del volontariato sociale

A Ferrara – lo scrivevo qualche giorno fa –  continuano i contatti sottotraccia, i messaggi incrociati, le proposte di alleanze elettorali. Qualcuno comincia già a fare il nome del “candidato ideale”: chissà se per lanciarlo o per bruciarlo. Ma è proprio questa la politica? Forse la politica vera, quella fatta di contenuti, di idee, di proposte, magari anche di provocazioni, abita altrove: sempre a Ferrara, ma nel vivo della società, lontano dalle piccole strategie dei partiti e degli schieramenti politici. Basta guardarsi intorno; la città è tutt’altro che addormentata, anzi, è una città che si interroga sul nuovo, si riunisce in assemblea, parla, discute, chiede, propone. Gli esempi virtuosi sono davvero tanti.

Un bell’esempio, molto significativo – nuovo nel merito ma anche nel metodo –  andrà in scena tra un paio di giorni. Lunedi 22 ottobre il Consiglio Comunale di Ferrara, per la prima volta nella sua storia, si troverà a discutere una proposta di delibera di iniziativa popolare. Il testo, che reca la firma di 955 cittadini, chiede di istituire un tavolo partecipato per produrre uno studio di fattibilità finalizzato alla ripubblicizzazione del Servizio di Raccolta dei Rifiuti. Vedremo come andrà a finire.

C’è però un’altra iniziativa, direi clamorosa, che circola in queste ore nelle vene della società ferrarese. Simbolica? Certo, ma tutta politica, che chiede a Ferrara di compiere una precisa scelta di campo. Un gran numero di gruppi, associazioni di volontariato, sindacati, movimenti ed  enti laici e di ispirazione cattolica, sindacati, ong, cooperative sociali (l’elenco, già nutritissimo, è destinato ad allungarsi nelle prossime ore) ha sottoscritto una lettera aperta  indirizzata al Sindaco di Ferrara, alla Giunta e al Consiglio Comunale.  Chiedono di fare qualcosa  per salvare “il modello Riace”: dare la cittadinanza onoraria al Sindaco Mimmo Lucano e di gemellare la Città di Ferrara con il Comune di Riace.

In cosa consista il “modello Riace” si può dire in poche righe. Ed è un racconto che assomiglia a una favola. C’era una volta un sindaco, una persona normale – non un intellettuale, o un politico di rango, o un capopopolo –  a cui viene un’idea normale, tutt’altro che “rivoluzionaria”. Ha visto che anche a Riace arrivavano profughi, disperati, richiedenti asilo. E ha visto diminuire anno dopo anno gli abitanti del paese, le tante case vuote, i campi lasciati andare alla gramigna. Nasce così, dal riempire di vita il vuoto di un paese morente, dall’inversione del circuito tra una (secolare) emigrazione e una dolente (nuova) immigrazione, un modello di accoglienza e integrazione che ha fatto il giro del mondo, ricevendo premi e riconoscimenti internazionali.

Ora la favola si è spezzata. Qualcuno ha deciso di “rompere la favola” –   non è un reato previsto dal codice penale ma se vi è capitato di essere stati bambini sapete bene che si tratta di un peccato mortale. Mimmo Lucano, indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per abuso d’ufficio, è stato sottoposto prima agli arresti domiciliari e quindi allontanato (ma perché?) dal suo paese. Intanto con una circolare il Ministro dell’Interno (di cui ora non ricordo il nome) ha deciso di smontare pezzo per pezzo il modello Riace, tagliando tutti i fondi al Comune e sloggiando i “clandestini”. Siamo così al colpo mortale. Se l’esperienza di Riace era un modello riuscito di umanità e convivenza, il suo azzeramento suona come un monito (e una minaccia) per tutti gli immigrati e per coloro – Chiesa compresa – che in tutta Italia si adoperano per l’accoglienza, il dialogo, l’integrazione.

Forse Domenico Lucano è colpevole di “disubbidienza civile”. Seguendo la sua coscienza ha disobbedito a norme ingiuste in nome di leggi superiori: il dettato della nostra Costituzione, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, le leggi non scritte del diritto naturale. Solo per questo merita la Cittadinanza Onoraria di Ferrara. Ma in gioco c’è molto di più, salvare cioè quella straordinaria esperienza di umanità e solidarietà, salvare un paese come Riace che era tornato a vivere e che ora rischia di morire del tutto, tendere la mano ai nuovi arrivati come ai vecchi abitanti di Riace. Decidere di gemellare Ferrara con Riace non è quindi un semplice segno di vicinanza, ma comporta l’impegno a sostenere concretamente le tante iniziative – economiche, sociali, culturali –  che in questi anni erano fiorite a Riace. Se il governo italiano ha azzerato i fondi, quell’esperienza potrà continuare grazie al sostegno di Ferrara, delle sue istituzioni come della sua cittadinanza. Ferrara e tutte le città che vorranno seguire questa strada.

Il Sindaco, la Giunta, il Consiglio Comunale di Ferrara riceveranno a breve la Lettera Aperta. C’è da sperare che ne facciano motivo di attenta riflessione. Questa volta il gemellaggio non sarà l’occasione di piacevoli e spensierati viaggi in comitiva, ma qualcosa di molto impegnativo. Un impegno che tanti ferraresi sono pronti ad assumersi in prima persona: “Per favore, non rompeteci la favola”.

 

Continuano ad arrivare le adesioni alla Lettera Aperta. Dal GAD-Gruppo Anti Discriminazioni (che ha lanciato la proposta) alla Cgil, dalla Rete per la Pace ad Arci a Unicef,  da Pax Christi al Arcigay, dal CISV alla Coop. Meeting Point. Tantissime le associazioni:  Viale K, Cittadini del Mondo, Ferraraincomune, Orto condiviso, Filippo Franceschi. Papa Giovanni XXIII …

 

Sessantotto, le pagine dell’anno che ci ha cambiato la vita

Il titolo del libro allude alle favole, ma la storia che Maura Franchi e Augusto Schianchi ci raccontano ha molto a che fare con le nostre vite e la realtà dell’Italia di ieri e di oggi: con “C’era una volta il ’68, prima e dopo” (Rubbettino editore) gli autori (entrambi docenti all’Università di Parma) conducono una ricerca – e coerentemente sviluppano una riflessione di alto profilo – sui presupposti che hanno originato il movimento che ha squassato tutto il mondo occidentale, e ne valutano gli effetti attuali.

A base della rivolta indicano “un vago senso della giustizia sociale” saldato a “un forte desiderio di libertà”. Ricordano le gesta di una generazione “che pensava davvero di fare storia”, e che in parte, nel bene nel male, c’è riuscita. “Non era una domanda di sicurezza né tantomeno di benessere a guidare le attese future, ma un generale bisogno di una verità diversa che consentisse di descrivere il mondo con un linguaggio originale”.
Ecco perché anche semplici marcatori di stile, come il vestiario e gli atteggiamenti, risultavano fondanti dell’identità di quella generazione. La giovinezza era un valore in sé perché si contrapponeva all’obsolescenza della tradizione. E così la contestazione del principio di autorità significava il rifiuto di accogliere la lezione e i valori dei padri. Lo stesso impulso si traduceva nel respingimento del nozionismo scolastico, nell’esaltazione della democrazia diretta priva di capi e fondata su ascolto, partecipazione ed egualitarismo…
La strenua difesa dei diritti civili e l’insofferenza verso qualsiasi forma di gerarchia sono il collante che tiene insieme un movimento in sé variegato, al punto da esplodere negli anni seguenti in tanti rivoli orientati verso differenti approdi. Ma, appunto, quella che si può definire spinta alla libertà è il legame forte che tiene salda l’unione fra le giovani generazioni protagoniste della fase nascente di un movimento che, già agli albori del ’68, comincerà ad essere percorso da aneliti contraddittori, come la simultanea esaltazione del collettivo e insieme della soggettività; la domanda di partecipazione e la strenua difesa della libertà individuale, il noi e l’io.

A consentire l’affermazione del protagonismo di quella generazione, e il tentativo di compiere un salto in avanti, è il potente sviluppo economico che l’Italia conosce nel decennio precedente. Giovani e donne sono i principali protagonisti della fase nascente della nuova stagione, che lascerà tracce incancellabili nei decenni seguenti.
Il cinema, la musica, la narrativa non solo accompagnano ma spesso trascinano, con la loro forza evocativa e suggestiva, la marcia verso il cambiamento. Le avanguardie intellettuali, che si esprimono attraverso le poliedriche forme dell’arte, accendono la luce che rischiara il movimento, di cui il libro traccia i più significativi passaggi.

Tra le positive eredità che il ’68 ci consegna, Franchi e Schianchi indicano l’universalizzazione dei diritti, l’autodeterminazione degli individui (in particolare in riferimento agli stili e alle condotte di vita), la trasformazione dei modelli familiari e dei rapporti di coppia, la liberazione dai tabù sessuali, la spinta verso modelli inclusivi (specie nell’ambito del sistema scolastico ed educativo), la tutela di diritti fondamentali quali la salute e la parità di genere, la ricerca e la creazione di canali di controinformazione, il rifiuto dell’autoritarismo.
Fra le negative ricadute, gli autori indicano anche l’attuale deriva populista, intesa come moderna e deviata riproposizione dell mito della democrazia diretta. In ogni caso, affermano, “il 68 segna un prima e un dopo, per cui niente resta più com’era”.

Il volume di Maura Franchi e Augusto Schianchi “C’era una volta il ’68. Prima e dopo” sarà presentato domani alle 17 all’Istituto di Storia contemporanea di Ferrara, in vicolo Santo Spirito 11. Interverranno l’autrice Maura Franchi, Fiorenzo Baratelli direttore dell’istituto Gramsci di Ferrara. Introduce Sergio Gessi direttore di Ferraraitalia

APPUNTI SUI POLSINI
Il nuovo sindaco di Ferrara? Speriamo che sia femmina

Mancano ormai meno di sette mesi alle elezioni, in Europa, ma anche a Ferrara. In un clima sempre più confuso, e che presto diverrà rovente, c’è per ora una sola cosa certa: non saranno elezioni normali. C’è un terremoto in atto e in tanti prevedono un cataclisma.
A Ferrara significa che, per la prima volta in settanta e più anni di storia repubblicana, il governo della città appare contendibile. Di più: per la prima volta il Centrodestra, e segnatamente la Lega, sembra essere la grande favorita alle amministrative di maggio. Viva l’alternanza? Purtroppo non si tratta di una Destra moderata, ma di una formazione con valori e umori estremi, decisa a ‘ruspare’ via le molte buone cose che una città civile e democratica ha costruito dal Dopoguerra a oggi. Per questo, quale che sia il giudizio anche critico sulla giunta uscente, la vittoria di Alan Fabbri e di Naomo Lodi segnerebbe per Ferrara un drammatico passo indietro. Quanto indietro lo lascio alla fantasia dei lettori.

Mentre ascolto la preoccupazione di tante persone impegnate nel sociale, incominciano ad arrivare le voci (ancora sommesse) di alcuni che, nel frastagliato campo della Sinistra, stanno pensando a nomi, liste, alleanze per arrivare a maggio con le carte in regola per contendere alla Lega e ai suoi alleati il futuro governo della città. Va bene, siamo ancora all’inizio, la campagna elettorale non è ancora incominciata, ma posso confessare tutta la mia delusione?
Pare che il problema, l’unico problema – fuori e dentro il Pd – sia individuare un ‘nome buono’, il personaggio ‘attrattivo’, il capolista potenzialmente vincente. Anche sui media locali si rincorrono nomi e profili, candidature offerte o rifiutate. Come se tutti avessimo introiettato la medesima filosofia: che in politica si vince solo con ‘un uomo solo al comando’.
Non sento invece parlare, discutere, proporre contenuti concreti, un cambio di passo nelle scelte politiche locali, una idea nuova (di Sinistra) per la Ferrara futura. Come se per vincere bastasse la strenua difesa dell’esistente e lo spauracchio di una Ferrara in mano alla Destra. Invece, oggi più che mai, “far quadrato” attorno a un leader non basterà. Dentro quel “quadrato” bisogna metterci qualcosa.

Ma vogliamo parlare del candidato possibile per l’area progressista? Non mi va di partecipare al giochino del totonomi, registro però anche in questo campo il conservatorismo, una specie di senescenza della classe politica locale. Di tutti i nomi proposti o ventilati, politici o esterni, nessuno si è sognato di fare il nome di una donna.
Servirà allora un ripasso di storia patria. Andando indietro negli anni – nei decenni, anzi, nei secoli – Ferrara ha avuto solo una volta un Primo Cittadino donna. Se volete levarvi una curiosità, cercate “Sindaci di Ferrara” su Wikipedia e date un’occhiata a quel lunghissimo elenco di personaggi illustri: da un certo Guido (Console di Ferrara dal 1105) a Antonio Montecatini (Giudice dei Savi 1598), da Giovanni Roverella (Confaloniere 1831) a Anton Francesco Trotti (Sindaco dal 1867 al 1870), da Michele Rinaldi (Regio Commissario 1919-20) a Renzo Ravenna, Podestà di Ferrara dal 1926 e allontanato nel 1938 dopo le ignobili leggi razziali.
Nel dopoguerra la lista degli uomini reggitori della città continua, da Giovanni Buzzoni (1946-48) fino al sindaco in carica Tiziano Tagliani. Con un’unica eccezione, e non di poco conto, perché Luisa Gallotti Balboni, sindaca dal 1950 al 1958, antifascista e in seguito Senatrice della Repubblica, non fu solo l’unica sindaco donna di Ferrara, ma anche la prima sindaca di una città capoluogo di provincia in tutta Italia.
Se per vincere la Destra non serve sostenere le vecchie politiche ma occorre pensare e proporre il nuovo, cominciare da una candidata sindaca sarebbe finalmente un buon segno.

Leggi anche
Luisa Gallotti Balboni. A Ferrara la prima sindaca d’Italia
Luisa, a Ferrara prima sindaca italiana

DENTRO E FUORI: LA CITTA’ E IL SUO CARCERE
Il Galeorto di Ferrara

di Domenico Bedin

L’ottava porta si chiude dietro di me ed entro nell’area pedagogica dove durante l’anno scolastico si tengono le lezioni delle varie scuole. C’è un assembramento di detenuti inconsueto. Cerco di capire e riconosco gli alunni della scuola di agraria. Mi vengono incontro eccitati: stanno sostenendo l’esame orale per la maturità. Sono sorridenti, tutto sta andando bene. Mi chiamano dall’aula d’esame perché il commissario vuole congratularsi per l’attività dell’orto che ha permesso agli studenti di esercitarsi praticamente tutti i giorni. Gli insegnanti si congratulano per l’impegno e i buoni risultati ottenuti dai detenuti esaminati. Mi chiedono di parlare del “famoso” Galeorto.
L’idea è nata da una richiesta degli stessi detenuti che già in passato coltivavano un pezzo di terra all’interno del grande muro di cinta. Ma mancava l’acqua e il terreno era catalogato come area di riunione per le emergenze e perciò si smise di seminarlo.
Tre anni fa invece la direzione ha individuato un nuovo grande appezzamento di circa 6.000 mq. Un gruppo di amici ha offerto la possibilità di scavare un pozzo artesiano. E’ nata così l’idea del Galeorto. La Casa Circondariale ci mette il terreno, l’Associazione di volontariato sociale Viale K lo prende in comodato e realizza il pozzo e dissoda il terreno; procura le piantine, i semi, i concimi eccetera; e soprattutto associa i detenuti che desiderano coltivare l’orto. I detenuti-ortolani vengono assicurati come soci volontari di Viale K e producono gratuitamente gli ortaggi da mettere a disposizione delle varie sezioni del carcere.

Piantine, erbe infestanti e cappelli di paglia
Così una quindicina di ortolani dalle 9 alle 11 e dalle 13 alle 15 può dedicarsi a turno alla zappa. Subito c’è la richiesta di un secondo orto per una sezione speciale. Si parte subito e in poco tempo si ottiene una striscia coltivata con ordine e una buona professionalità. Gli ortolani-studenti scendono con il professore di agraria che indica loro metodologie e distinguono una parte di terreno che diventa sperimentale. Assisto a discussioni interessantissime sui diversi prodotti da seminare o trapiantare, sull’orientamento dei filari riguardo al sole. E sull’uso più corretto dell’acqua e dei concimi, sulle malattie e gli insetti o le erbe infestanti… procuro dei cappelli di paglia perché non si prendano un’insolazione.
Nascono contrasti tra i detenuti Rumeni e Magrebini circa le date della semina e della raccolta, gli uni vogliono le verze e i cavoli gli altri le spezie i peperoncini. I nostri meridionali supportati dagli agenti preferiscono le cime di rapa. Io opto per le fragole. Dalle discussioni nasce la consapevolezza che in ogni angolo del pianeta ci sono usi e tradizioni e tempi diversi per coltivare l’orto legati ai climi e ai gusti di ciascuno.
Alla fine ci troviamo tutti d’accordo sul piantare quello che una ditta di piante da orto ci regala! Gli insegnanti poi stabiliscono i tempi e gli usi legati al nostro territorio. Comunque è assodato che le verze, le rape e i cavoli li mangiano quelli del nordest Europa. Meno male che le patate e i pomodori mettono tutti d’accordo. L’anno passato è avvenuto un fatto strano. A grande richiesta ho procurato semi di peperoncino calabrese (anche questo amato dagli agenti). Seminati con grande attesa sono spuntate piantine strane che nessuno riconosceva, ciascuno faceva pronostici e riconosceva un tipo particolare di peperoncino. Un giorno mi chiamano e troviamo una campetto fiorito tra le zucche e le fragole; non erano peperoni ma fiori coloratissimi. Tutti hanno convenuto che ci stavano proprio bene e che i fiori sono molto belli anche in carcere.

Il Galeorto si espande, evade, e arrivano le Zucche Violine
Ma il Galeorto si estende anche oltre il muro grande di cinta. E’ avvenuto proprio così. Una mattina passeggiavo col Direttore del carcere nel corridoio che dà verso l’esterno e stavamo valutando come estendere anche ai detenuti ‘semiliberi’ (o con l’art 21) che stanno nella parte esterna della Casa Circondariale una attività che li coinvolgesse e facesse loro guadagnare qualcosa. Alcuni detenuti ‘lavoranti’ stavano sfalciando il grande prato che come un anello circonda tutto il carcere. “ Facciamone un orto grande. Saranno almeno tre ettari”. Il Direttore mi ascolta, tace e sorride, poi con aria convinta mi dice di fare domanda al Prap. Nasce così la coltivazione di Zucche Violine nel terreno “inercinta” : tra la rete di confine del carcere e il l’ultimo grande muro. La Zucca Violina, sia detto per inciso, serve ai ferraresi per fare i famosi Cappellacci di Zucca. Gli Estensi ne andavano ghiotti e ne erano fieri.

Dentro e (appena) fuori: due orti per avviarsi verso una nuova vita
I lavori di dissodamento, di allacciamento al canale di irrigazione, di ‘paciamatura’ e trapianto di 3.000 piantine di zucca ci fa arrivare praticamente a Luglio. I più ottimisti ci dicono che sarà un fallimento: – troppo tardi e troppo caldo quest’anno! Ma le piantine “si tengono” e, anche se un po’ in ritardo, a settembre riusciamo a vendere zucche a mezza città. Le zucche del Galeorto. Ci hanno lavorato tre detenuti che ormai hanno finito di scontare la pena. Hanno guadagnato anche qualche soldo tramite un tirocinio formativo e uno di loro, rimasto senza famiglia, ormai vive presso una delle comunità gestite dalla associazione Viale K. Logicamente fa l’ortolano.
Per sostenere il Galeorto ho fatto il trattorista riscoprendo la mia ancestrale vocazione contadina, ma immediatamente, si sono aggiunti alcuni volontari che danno continuità a questo progetto che sta diventando sempre più strutturato.
All’interno del carcere si coltiva gratuitamente per stare impegnati e fornire di verdura fresca un po’ tutti i detenuti che lo desiderano, all’esterno invece si lavora per dare una possibilità economica e mettere alla prova quelle persone che si preparano ad uscire a breve dal carcere.
L’associazione Viale K svolge ormai da venti anni un lavoro di accoglienza dei detenuti che usufruiscono di misure alternative al carcere e spesso li ospita anche dopo la scarcerazione. Si tratta di un lavoro fatto di relazioni che si intessono partendo da colloqui e attività che si svolgono prima di tutto in carcere e che poi si estendono nelle varie comunità di accoglienza che Viale K gestisce nel territorio ferrarese.
La maggior parte di loro, dopo un periodo di permanenza in comunità, trova la propria strada e se ne va. Alcuni invece rimangono, impegnandosi nelle varie attività dell’associazione, secondo il bisogno e le capacità di ciascuno. Alcune volte qualcuno ricade nei vecchi errori, o più semplicemente torna in carcere per scontare reati vecchi, ma la relazione ed il contatto rimangono. Ci si occupa soprattutto dei più giovani senza possibilità famigliari.

Invece di andare avanti, si sta tornando indietro
Speravamo che queste esperienze che ormai in tante parti d’Italia si stanno realizzando in una bella collaborazione tra amministrazione carceraria e terzo settore trovassero finalmente conferma e nuovo slancio nella nuova legge che doveva regolare la materia del trattamento alternativo al carcere.
Tutto si è bloccato con il nuovo governo che purtroppo ha deciso di andare in tutt’altra direzione, verso una detenzione punitiva e chiusa. Si sta però andando contro la storia e soprattutto contro l’esperienza consolidata in questi anni che dimostra che la corresponsabilità di vari soggetti nel trattamento della pena e la valorizzazione delle misure alternative produce un grande risultato sia nel recupero, sia, di conseguenza, sul piano della sicurezza sociale.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Scrivere, verbo al femminile

di Irene Lodi

Concita e le altre. Fra le molte protagoniste di Internazionale, uno spazio particolare va dedicato alle scrittrici che hanno incontrato il pubblico nella tre giorni ferrarese. Venerdì pomeriggio gli appuntamenti di letteratura al femminile, introdotti dalla psicanalista Chiara Baratelli, sono stati inaugurati da Concita de Gregorio, che ha presentato in Sala Estense “Chi sono io?”. Il filtro della macchina fotografica è stato parte integrante del lavoro della scrittrice, che ha raccontato proprio insieme a una delle fotografe, Silvia Camporesi, come mai si siano concentrate sull’autoritratto e sull’immagine. “Non sentirsi mai a proprio agio – ha detto De Gregorio – è una condizione che ti mantiene vigile. Ha dei vantaggi: non ti fa mai abituare o distrarre, ti fa mettere a fuoco meglio quello che vedi, ti fa sentire dentro e fuori dalle situazioni”. L’appartenenza e la non appartenenza alle cose, alle persone, dunque, è stato il motore del libro, che è una raccolta di storie e una riflessione sullo sguardo: quello degli altri e il proprio. Perché osservarsi ed essere viste, per le donne è una questione cruciale. Una autoanalisi, quella femminile, che parte spesso dai momenti di fragilità: “Quando siamo felici non ci facciamo caso – ha concluso la scrittrice – quando c’è qualcosa che non va, invece, pesa molto. Quando tutto è al suo posto, un momento che dura poco, non si nota: l’ordine però è un nostro tentativo di controllare ciò che succede, quando la regola è il disordine”. Caos e cosmos si contrappongono e si fondono, in un gioco di riflessi che consente di scrutarsi dentro.

Gli spunti narrativi sono continuati nella presentazione de “Le assaggiatrici”, vincitore del premio Campiello, di Rosella Postorino. “Gli esseri umani hanno questa ostinata tensione per la sopravvivenza – ha affermato l’autrice – è la loro più grande risorsa, ma è allo stesso tempo anche una condanna, e il male nasce da questo: per sopravvivere siamo disposti a qualunque compromesso, siamo disposti a giustificare qualunque azione per la volontà di sopravvivere”. Il suo è un libro di relazioni e di persone “normali”, e la sua è una penna che intriga grazie alla schiettezza:”Volevo raccontare una persona qualsiasi, una che non ha scelto di diventare nazista, non aveva neanche l’età per votare quando Hitler è salito al potere. Rosa si trova in quella situazione, non ne è causa”. Dalla vita di Rosa Sauer parte una riflessione politica: “Chiunque cresca in un sistema oppressivo, che sia un sistema totalitario, un clan mafioso, una famiglia tirannica, è vittima di quel regime, anche se ne diventa complice”, ha detto Postorino, “Questi regimi non solo hanno la colpa di coercire, ma anche di togliere l’innocenza a chi ne è parte, rendendolo sempre più parte del sistema”. Le assaggiatrici è anche un libro intrinsecamente legato al cibo, che diventa metafora del ciclo vitale, un ciclo continuo, che non si ferma davanti a niente: “La vitalità del mondo che continua nonostante tutto può contagiarci, ma ci fa sentire tutta la nostra piccolezza, tutta la nostra miseria – ha concluso – Le persone continuano anche durante l’orrore della guerra, anche nel dolore, a stringere amicizie, ad avere voglia di ridere, a fare l’amore, a essere umani”.

Un altro libro che torna a parlare di amore è quello di Daria Bignardi, Storia della mia ansia, presentato sabato pomeriggio in Sala Estense. “L’amore è una cosa semplice e banale – ha esordito l’autrice ferrarese – ma non così decodificata. Viene relegato, soprattutto in letteratura contemporanea, in spazi marginali, è difficile che si stia su temi semplici, come quello della pienezza e della totalità dell’incontro. Il tema mi interessava: è impossibile l’incontro autentico e assoluto, ma nonostante questo continuiamo a innamorarci e a parlare d’amore”. Sono poche le persone in grado di accettarne la relatività, secondo Bignardi, mentre per tutto il resto riusciamo a scendere a patti con i compromessi nella nostra lettura del mondo. Anche il tema della corporeità e della concretezza si ritrova in questo romanzo: “In tutto ciò che scrivo ci sono vita, morte, incidenti, malattie, tutto quanto riguarda il corpo – ha concluso la scrittrice – perché questi momenti rappresentano la realtà che irrompe nel quotidiano, il senso implacabile e devastante della realtà, ma a volte anche la pienezza della realtà, una sensazione che a volte perdiamo”.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Chi sono io? L’identità ai tempi dei social network

di Laura Fabbri (allieva del liceo classico Ariosto, Ferrara)
“Non mi vedo come mi vedono gli altri”. Dinanzi al pubblico della sala Estense, la scrittrice Concita De Gregorio, rivela la sua difficoltà nel farsi fotografare: “Avverto un senso di estraneità e disagio che mi fa sentire fuori posto”. Ma questa “non appartenenza” a suo avviso sottintende in realtà una libertà, un’indipendenza. L’occasione per questa confessioni in pubblico è offerta dal Festival di Internazionale. A far da contraltare, la psicanalista Chiara Baratelli – coadiuvata da alcune studentesse del Liceo Roiti – ha gestito un interessante dibattito sull’importanza delle immagini come fonte identitaria, del quale è stata coprotagonista la fotografa Silvia Camporesi, che incalza: “La fotografia è una una terapia, uno strumento di indagine volto a cogliere ed interpretare l’identità personale, vincere il disagio e accettare le imperfezioni; inoltre evidenzia come, in prima persona, sia riuscita a vincere le sue debolezze grazie ai ruoli interpretati nei suoi autoritratti”.
Anche dal pubblico arrivano sollecitazioni: “Che cos’ha il dolore che non ha la gioia?”, domanda una delle studentesse, spiazzando la scrittrice… “Tutte le forme d’arte nascono dal dolore”, risponde direttamente lei, dopo un attimo di riflessione; “quando si è felici non lo si nota, ma quando c’è qualcosa che non è in ordine ci si fa subito caso: “Lo stato di equilibro è il disordine. Quando gli uomini cercano di dare una parvenza di logica alla vita, il dolore si impone più forte”.
Un altro tema affrontato è quello dei social network e come questi abbiano modificato il ruolo della fotografia nella società. L’autrice sottolinea come questi abbiano fatto perdere importanza all’esperienza: “Prima di essere ricordato un momento va vissuto, non si può vivere per vedere cosa si conserverà di questo momento”. Inoltre, sottolinea, spesso i ‘social’ non sono altro che una storpiatura della realtà, una finzione che ha come unico scopo quello di suscitare invidia nell’osservatore, una pura esibizione dove “non è più permesso avere dei difetti”.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Vite in fondo al mare

di Ines Ammirati (allieva del liceo classico Ariosto, Ferrara)

“N.N 2 uomini più o meno 18 anni. Annegati. N.N 9 uomini. Annegati”. L’elenco dei nomi continua senza sosta, come rintocchi riecheggiano nella piazza della Cattedrale negli albori di questa prima giornata di apertura del Festival di Internazionale. “N.N uomo. N.N uomo, più o meno 25 anni. Congelato”…
Ogni anno migliaia di persone intraprendono un viaggio verso l’Europa con l’obiettivo di lasciarsi alle spalle gli orrori di una vita che non li soddisfa, alla ricerca di un posto dove ricominciare, un luogo da poter chiamare di nuovo casa. La maggioranza non sa che non raggiungeranno mai una meta nel loro peregrinare: secondo gli ultimi dati UNCHR, dei 100.000 migranti che partono ogni anno tra i 3000 e i 5000 muoiono o sono dispersi lungo la strada, altri rimangono bloccati per anni in un Paese che non fornisce loro i permessi per terminare il loro viaggio.

A molti questi numeri sembreranno solo una serie di dati statistici senza valore; non vedono che ad ogni cifra corrisponde il volto di un uomo, di una donna o di un bambino senza nome, il cui valore di essere umano unico ed inimitabile è stato dimenticato.
Gipi, pseudonimo di Gian Alfonso Pacinotti, fumettista, illustratore e regista italiano, è la prova vivente che non tutti dimenticano.

Nel corso della lettura ininterrotta dell’elenco, in continuo aggiornamento, compilato dall’ong olandese “United for intercultural action”, il fumettista ha infatti dato voce alle trentamila persone morte dal 1993 a oggi in viaggio verso l’Europa, dimostrando così al folto pubblico riunito di fronte alla Cattedrale, che, anche dall’alto di un piccolo palco in mezzo alla folla, un solo uomo può fare la differenza, ricordando che oltre i numeri ci sono persone con sogni ed aspirazioni comuni a tutti noi, la cui memoria non può, anzi, non merita di essere dimenticata.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
“La globalizzazione è il nuovo colonialismo”

di Maria Guandalini e Federico Izzi (allievi del liceo classico Ariosto, Ferrara)

Suad Amiry scrittrice e architetto palestinese è stata ospite del programma radiofonico di Radio3Mondo, Il giro del mondo in sessanta minuti, condotto dalla giornalista Anna Maria Giordano e andato in onda dal cortile del castello Estense nell’ambito del festival di Internazionale. L’incontro Palestina sconfinata, moderato dall’arabista e traduttrice Elisabetta Bartuli, ha visto coprotagonisti gli scrittori Atef Abu Seyf ed Elias Sanbar, l’autrice Selma Dabbagh e la fotografa Rula Halawani. La Amiry, attivista per i diritti palestinesi, ha introdotto brevemente il conflitto arabo-israeliano, oggetto delle sue riflessioni e dei suoi libri (tra gli altri ricordiamo Sharon e mia suocera. Diari di guerra da Ramallah, Palestina, Feltrinelli 2003). Poi ha preso la parola Marta Dillon, attivista argentina e parte attiva del movimento “Ni una menos”, che ha brevemente illustrato la lotta sua e di molte altre donne sudamericane, per la parità dei diritti e contro la “violencia machista” (violenza maschile), concentrandosi particolarmente sulla campagna per la legalizzazione dell’aborto in Argentina.
Anna Maria Giordano ha poi introdotto Raj Patel, scrittore britannico, di origine figiana e kenyota, il quale ha parlato della propria esperienza alla protesta anti-globalizzazione di Seattle del 1999. “La globalizzazione è il nuovo colonialismo”, ha sostenuto Patel, che si batte per la preservazione delle culture di tutto il mondo. Shamiso Mungwashu, protagonista del quarto intervento, ha sottolineato l’importanza di nuovi metodi di produzione agricola, nel rispetto del pianeta e del lavoro. Nel suo progetto vengono coinvolte molte donne zimbabwesi, che partecipano attivamente alla coltivazione biologica ed ecosostenibile proposta da Shamiso, contro l’uso e l’abuso di sostanze chimiche. L’imprenditrice ha inoltre rimarcato l’importanza del coinvolgimento delle nuove generazioni in un nuovo modo di produrre alimenti. Ha concluso il programma la riflessione della giornalista pachistana Rafia Zakaria, sulla troppo frequente stereotipizzazione attribuita da alcuni giornalisti occidentali ai musulmani e alle persone di diverse etnie. Troppo spesso l’informazione va contro il rispetto dei diritti umani, dice. Tra un ospite e l’altro due studenti del Conservatorio G. Frescobaldi di Ferrara hanno eseguito due brani per vibrafono e batteria.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
L’America in fermento tra rivolte e proteste

di Camilla Finotti, Giulia Pirazzini (allieve del liceo classico Ariosto, Ferrara)

Giornalisti americani a confronto sull’attuale fermento sociale negli Stati Uniti, all’arena del cinema al Apollo nell’ambito del festival di Internazionale. La giornalista Sarah Jaffe ha parlato degli scioperi dovuti alla crisi economica del 2008: gli insegnanti del Wisconsin e di altri Stati repubblicani hanno protestato per settimane davanti alle istituzioni per ottenere maggiore tutela sul luogo di lavoro. Nonostante ciò, gli scioperi sono aumentati raggiungendo il picco massimo nel 2017. E’ poi intervenuto di Gary Younge che, avendo vissuto per 12 anni negli Stati Uniti, ha potuto vivere appieno il cambiamento politico; nell’agosto 2015 non si credeva possibile una futura vincita di Donald Trump, come non si pensava ad una uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Young definisce questi due avvenimenti “connessi”, sostenendo poi che l’attuale presidente degli Stati Uniti appare come un personaggio soggetto a molte critiche e segnalando come “ogni Nazione ha il proprio Trump”.
Si è poi parlato di “obamafilia”, ossia la voglia di un cambiamento di potere, come accadde ai tempi del presidente Bush, rispetto al quale Barack Obama apparve come un promesso ‘principe, in sintonia con i desideri e i pensieri della gente.

Dalla letteratura ai social l’onda lunga dell’odio

Basterebbe un’affermazione di Baudelaire per definire l’odio: “L’odio è un veleno prezioso più caro di quello dei Borgia; perché è fatto con il nostro sangue, la nostra salute, il nostro sonno e due terzi del nostro amore.” Perché l’odio è legato all’amore, separato da esso da un confine così labile da permettere a volte una sorta di scambio osmotico. Due sentimenti estremi, totalizzanti, dei quali l’uno può sfociare talvolta nell’altro con una deflagrazione altrettanto potente.

L’odio rappresenta il più elevato, definitivo impedimento allo sviluppo della compassione e della felicità, anche quando qualcuno si appella al ‘sano odio’ come tentativo di mediazione e disonesta giustificazione di questo sentimento di per sé nefasto. L’odio non patteggia attribuendosi aggettivi moderati perché, per definizione, è un sentimento eccessivo, morboso, catastrofico. Oggi, forse, non abbiamo il tempo di soffermarci sul valore delle relazioni umane, ma continuano a sopravvivere i sentimenti forti, intensi, struggenti, passionali che animano i gesti, i pensieri, le giornate. L’odio di oggi, sempre più spesso si mantiene in vita artificialmente sui social, alimentato e incrementato dal potere e dagli spazi che l’web garantisce, protetto dall’anonimato e dalla possibilità di esercitare la sua vigliacca funzione. Il popolo degli haters si nutre di risentimento estremo, calunnia, accusa, illazione, fakenews, attacchi gratuiti, nascosto sotto fantasiosi nickname avvelena le discussioni con discorsi e interferenze improntati all’odio violento, privo di fondamento, inquina iniziative, provoca ulteriore odio con il suo disprezzo. L’epidemia dell’odio sembra quasi rispondere a una necessità fisica, un istinto che trae soddisfazione e appagamento dall’attacco verbale, violento tanto quanto un’aggressione fisica, addentando la vittima di turno fino ad annientarla. Un odio travestito spesso da capacità dialettica, acutezza di argomentazioni e soprattutto dalla rivendicazione del diritto alla legittima libertà di espressione e manifestazione di pensiero.

In letteratura l’odio nasce spesso da profonde ferite che fomentano un atteggiamento di oscura incontrollabile avversione nei confronti di chi o cosa è responsabile della sofferenza. Questo sentimento viscerale devastante diventa epidemico perché l’odio non può che generare odio: diventa contagio, lievita, fermenta, si moltiplica come la peste bubbonica. Nel romanzo ‘Cecità’ del 1995 Jose Saramago lo descrive molto bene quando parla della diffusione generale della cecità che colpisce l’umanità, una condizione che rappresenta l’indifferenza che sfocia nell’odio tribale violento da parte di gruppi malvagi che esercitano prevaricazione e sopraffazione cruenta sui più deboli. “Secondo me non siamo diventati ciechi”, afferma la protagonista, unica indenne alla perdita della vista, “secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono”. La prima figura emblematica legata all’odio è Caino, personaggio biblico archetipo del fratricidio, diventato la quintessenza di tutti i mali oscuri.
Anche Dante, nel Canto VIII dell’Inferno ha riservato un posto particolare a coloro che in vita hanno coltivato e nutrito l’odio. Li troviamo immersi in una mefitica e densa palude, una bolgia chiassosa di disperati costretti a dilaniarsi fra loro. Tra loro c’è anche il fiorentino Filippo Argenti – così denominato perché soleva boriosamente ferrare il proprio cavallo con ferri d’argento – la cui famiglia pare avesse incamerato i beni di Alighieri, sottoposti a confisca. L’uomo, immerso nella brodaglia fangosa si morde e si lacera nella sua solitudine.
Pagine che trasudano odio sono quelle del romanzo ‘A sangue freddo’ (1966) di Truman Capote, l’atroce storia vera di due ragazzi che sterminano quattro membri della famiglia Clutter senza motivo evidente. Il primo romanzo-reportage nella storia della letteratura. Lo scrittore si trasferì a Holcomb, Kansas, la cittadina che era balzata agli onori di cronaca per quel fatto sanguinoso, e raccolse tracce e informazioni minuziose sull’accaduto: una famiglia di agricoltori benestanti che improvvisamente, senza precedenti e motivi, viene strappata dalla sua dorata e monotona realtà da due giovani in preda a un odio gratuito e devastante, Perry Edward Smith e Richard Eugene Hickock, che verranno arrestati proprio mentre Capote si trova a indagare sul luogo. ‘Passaggio in India’ (1924), di Edward Forster, racconta di un’India che deve fare i conti con la colonizzazione britannica. Siamo a di Chandrapore, dove gli indiani occupano la parte bassa della città e la Cittadella che domina è riservata agli Inglesi. Il giovane medico musulmano, dr. Aziz, si trova accusato ingiustamente di violenza nei confronti dell’inglese Miss Adela Quested, la quale sosteneva che il fatto fosse avvenuto in occasione di un’amichevole gita alle grotte di Marabar. Nel romanzo è costantemente presente il binomio Io-L’Altro in un’incessante contrapposizione e opposizione, una conflittualità palese che genera odio: Oriente/Occidente, Inghilterra/India, uomini/donne, cristiani/indù. La diversità sociale, culturale, politica e religiosa tra colonizzatori e colonizzati che vivono ciascuno nel proprio mondo chiuso, genera un clima di disprezzo che versa in un odio sordo, spesso sottaciuto ma molto vivo, ancora lontano dalla dottrina della non-violenza di Gandhi, che sarà successivamente il vero e autentico momento di riscatto per l’India e gli indiani.

Il grande scrittore russo Lev Tolsoj sosteneva che le uniche cose che legano gli uomini sono la lotta per l’esistenza e l’odio, quasi che fossero le uniche due grandi forze cosmiche capaci di tenere viva interiormente l’umanità. L’odio è la fucina della vendetta ma, come sosteneva tristemente e realisticamente Arthur Schnitzler, quando l’odio diventa vile, si mette in maschera, va in società e si fa chiamare giustizia.

Cose da matti

Scarse risorse, soluzione lontana. La rassegnata inerzia del presidente dell’Ausl, Claudio Vagnini, che traspare nelle dichiarazioni riportate da Estense.com in risposta a una denuncia dei sindacati, avrebbe certamente creato scandalo e magari fatto scattare una richiesta di sue immediate dimissioni se il riferimento fosse stato a una struttura sanitaria di servizio e accudimento destinato a cittadini “normali“.
Ma siccome è di San Bartolo che si tratta – residenza pubblica, ma destinata ai matti – ed è lì che, secondo l’esposto, circolano topi nei locali di cucina, bisce e scarafaggi in ogni anfratto, cimici e zanzare che non danno tregua ai degenti, ecco allora che tutto si smorza e s’attenua…
I matti e i cosiddetti sani sono ancora separati da un solido steccato di pregiudizi che relega i primi nel limbo della sostanziale indifferenza, nonostante decenni di battaglie per restituire la dignità di esseri umani a quelle donne e a quegli uomini che soffrono di disturbi psichici.
E poco conta che a San Bartolo, con i malati di mente, a patire gli effetti di una situazione da film dell’orrore ci siano anche medici, infermieri e personale di servizio: come si suol dire, chi sta con i matti tanto sano non è nemmeno lui. E dunque, pazienza.

Tutto questo proprio alla vigilia del ritorno nella civica pista ferrarese (ad opera del Centro teatro universitario) del prode Marco Cavallo, emblema in cartapesta della rivoluzione psichiatrica di Franco Basaglia che, esattamente quarant’anni fa, culminava con una legge – la 180 – che ha ribaltato la concezione di malattia mentale fino ad allora imperante e portato all’abbattimento dei muri fisici e culturali che cingevano i manicomi, e poi alla loro definitiva chiusura.

Oggi a Ferrara si compie un atto di vigliaccheria sociale. E paradossalmente avviene nella città che al dottor Antonio Slavich, stretto collaboratore di Basaglia, qualche anno fa conferì il premio Ippogrifo, a testimoniare la gratitudine della comunità verso “colui che seppe umanizzare i luoghi di cura e il rapporto con i malati e che in ogni circostanza, nella professione e nella vita, rifiutò le sbarre come soluzione ai problemi e si oppose ai ghetti come luoghi in cui rinchiudere il disagio e la sofferenza”.
Ma i tempi cambiano. E cambia il vento.

I profeti dello spread

Forza Italia (almeno quel che ne resta) e Partito Democratico (almeno quel che ne resta) a far fronte comune contro questo governo di irresponsabili e fascisti.
Allarmi! Allarmi! La democrazia è a rischio! Tutti sull’Aventino per protesta… anzi no!
“Anzi no… Perché mai tacer quando tutti i media stanno dalla nostra parte? Quando ogni santo giorno, da mattina a sera, televisioni, radio e giornali ospitano e pubblicano fior di esperti e opinionisti e politici e giornalisti a parlar male e a criticare ogni azione e ogni parola di questo infausto governo?
Anzi no… stiamo sul pezzo! Non sia mai che la gente – e pure quegli stupidotti (tanti) che questa assurda maggioranza l’han votata – finalmente si convinca. Si renda conto del tremendo rischio che sta correndo”.
Bene, di quale rischio stiamo parlando?
Rischio per la democrazia? Capirei che si parlasse di rischio per la democrazia se adesso fossimo in democrazia.
Ma è vera democrazia un paese in cui il governo non possa decidere in piena autonomia la propria politica economica e sociale perché posto sotto ricatto dai mercati finanziari internazionali?
Rischio di fallimento del paese?
Ma come può l’Italia fallire se tuttora siamo uno dei paesi più ricchi al mondo. Un paese in cui, nonostante tutto, il risparmio privato (contrariamente rispetto all’estero) è uno dei maggiori al mondo.
E allora, con queste premesse, perché l’Italia è finita nell’occhio del ciclone? Perché è diventata bersaglio dell’Unione Europea? Perché lo spread sale minacciosamente?
Ma poi, cosa diavolo è questo spread, e perché le agenzie di rating ci stanno prendendo di mira?

Esponenti illustri di Forza Italia parlano di rischio per la democrazia e di deriva sovranista. Intanto il buon Silvio va a trovare il suo caro amico russo Vladimir, che proprio democratico non è, e un po’ sovranista sì.
Quelli del Pd, renziani in testa, si augurano che questo governo mandi in malora il paese. Se lo augurano per rinfacciarlo poi al popolo ignorante e beduino, colpevole di non aver capito nulla. Se sapessero, quelli del Pd, che sono proprio loro a non aver capito nulla della gente.

Il fatto, a me pare, è che in questo marasma generale nessuno voglia sprecarsi per cercare di capirci qualcosa. È più facile fare il tifo. Prendere per buono ciò che ci fa più comodo.
Lo fanno i partiti, i politici, lo fanno le persone. Ma la cosa più grave è che lo fanno pure i giornalisti. Non dubito che molti di loro siano in buona fede, questo però non aiuta, anzi.

Tutti noi guardiamo sempre la tv e qualche volta leggiamo i giornali. Ascoltiamo con attenzione ciò che ci dicono e leggiamo ciò che scrivono. Adesso cerchiamo di ripassare le informazioni che ci arrivano e con esse proviamo a immaginare questa scena: un tizio che arringa la folla sul pericolo rappresentato da barboni e mendicanti, mentre tutto intorno la gente intenta ad ascoltare non s’accorge che distinti signori in doppio petto e scarpe firmate stanno sfilando a ognuno dei presenti il portafogli. Il paradosso è che anche quelli che se ne accorgono fanno finta di niente perché indotti a credere che, se i soldi te li porta via uno che veste elegante, certamente dietro ci deve essere un motivo ragionevole e inevitabile.
Ebbene, se i signori distinti ed eleganti fossero le banche?

Chiediamoci anche il perché, nei vari dibattiti che tutti i giorni infiammano i talk show televisivi, esperti economisti, giuristi, sociologi, e chi più ne ha più ne metta, che dissertano e pontificano su economia e finanza, non pongano mai in discussione i criteri di calcolo dei tassi d’interesse sul debito, men che meno i meccanismi reali che stanno dietro il fenomeno dello spread. Ovvero non si chiedano mai quale sia la sua vera ragion d’essere, o perché debbano esistere le agenzie di rating.
Ciò che costantemente si sente sono continue discussioni sullo spauracchio del suo innalzamento e delle conseguenze che questo comporterebbe sulla gente. Terrorismo istituzionalizzato.
Si dà per scontato che il meccanismo dello spread sia lecito e inevitabile. Che non sia invece frutto di speculazioni della finanza. Che sia normale che queste famose agenzie di rating, col potere di declassare l’economia di un intero paese e, guarda caso, appartenenti a grandi multinazionali finanziarie private, abbiano di fatto il diritto di influenzare le decisioni politiche di un governo.

Le parole sovranista e populista sono diventate bestemmie da scandire in ogni dibattito. Si pensa ai vari Le Pen, Orban, fino al Salvini nostrano. Disprezzabili esempi di politiche di chiusura e isolamento, di tendenze antidemocratiche, di ideologie razziste? Probabilmente sì, o forse non esattamente. Questi tizi non stanno simpatici neanche a chi scrive, ma dobbiamo seriamente preoccuparci? Davvero crediamo all’approssimarsi di nuovi Hitler o Mussolini? Davvero siamo così condizionati da decenni di asservimento al modello corrente da non vedere che già da tempo non godiamo più delle nostre libertà?

Ma concettualmente cosa significa il tanto temuto sovranismo? Magari riappropriarsi della sovranità del proprio paese, del proprio potere decisionale. Senza rendere conto a enti stranieri privati che tutto hanno a cuore fuorché il benessere del cittadino.
E cosa significa il tanto vituperato populismo? Magari rivendicare una politica più attenta al suo popolo, alla sua gente, quindi alla risoluzione dei suoi problemi e dei suoi bisogni. E magari non ossequiosa di banche estere e nemmeno sotto ricatto di speculatori finanziari stranieri. Cosa c’è di così sbagliato in tutto ciò?
Dall’Enciclopedia Treccani.
“Sovranismo: posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovranazionali di concertazione”.
“Populismo: movimento culturale e politico sviluppatosi in Russia tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo. Si proponeva di raggiungere, attraverso l’attività di propaganda e proselitismo svolta dagli intellettuali presso il popolo e con una diretta azione rivoluzionaria, un miglioramento delle condizioni di vita delle classi diseredate”.
Tutto questo merita davvero lo sdegno e l’insofferenza del mondo intellettuale? Non sarebbe forse meglio capirne le ragioni profonde senza preconcetti?

Nasce il sospetto che certa intellighenzia, quella con il pass d’accesso ai principali media istituzionali, si sia definitivamente appiattita all’establishment. Che il modello dominante e ormai straripante, quello dell’economia finanziaria globale, sia considerato sempre più un totem inattaccabile e imprescindibile. Che quei pochi pensatori – di fatto relegati ai margini, se non addirittura esclusi da ogni dibattito pubblico – che osano metterlo in discussione siano soltanto poveri utopisti, sognatori patetici, come tanti Don Chisciotte, o magari pericolosi sobillatori anti-sistema alla Guy Fawkes. Tutto fuorché gente con cui confrontarsi e discutere.
Così assistiamo come degli intrusi – e con un misto di fastidio e apprensione – alle performance dei primi, quelli pro-sistema, che dialogano comodamente tra loro dalle poltrone dei salotti televisivi, amabilmente accolti da giornalisti compiacenti, tutti intenti a mettere a proprio agio i loro ospiti.
Intanto, il solco tra questi autorevoli esperti, convinti portavoce del modello dominante, e la gente semplice diventa sempre più profondo e incolmabile.

Paragonano l’Italia alla Grecia, senza considerare il fatto che l’Italia è un paese ricco, mentre la Grecia era ed è rimasto un paese povero. Lo fanno senza denunciare l’assoluta ingiustizia subita dai greci, depredati da un giorno all’altro dei loro risparmi per ingrassare le casse già grasse di banche estere ‘amiche’ e dei loro azionisti (soltanto speculatori spacciati per benefattori).
Ci mettono in guardia da catastrofi imminenti, ci minacciano e ci impauriscono riempendosi la bocca con lo spettro di uno spread alle stelle e di una condanna senza appello delle agenzie di rating. Lo fanno con aria saccente e si sognano bene dal mettere in discussione l’eticità e la legittimità di codesto spread e di codeste agenzie. Lo fanno senza chiedersi assolutamente se questi meccanismi voluti e generati da una finanza speculativa in netto contrasto coi bisogni del cittadino non siano invece una forma di vera e propria aggressione all’autonomia decisionale di un paese. Tutto ciò non fa onore a questa genìa d’intellettuali, politici e giornalisti trasformati in sibille dell’Apocalisse, in profeti dello spread.

Per capirci qualcosa:
Di seguito gli approfondimenti di Guido Grossi (giurista esperto di economia e finanza), Marco Bersani (filosofo esperto di dinamiche sociali), Nando Ioppolo (avvocato ed economista).

Il furto del debito pubblico
Perché non ti fanno ripagare il debito
Cos’è lo spread?

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
La destra: donna e sovrana

Quando si parla di estrema destra spesso ci vengono in mente immagini di ragazzi ben piazzati, con capelli rasati e facce seriose. Questo è lo stereotipo che ci ha consegnato il Secolo breve. Il nuovo millennio o, per meglio dire, gli ultimi anni ci hanno fatto conoscere, invece, un lato diverso dei movimenti reazionari, sovranisti e populisti. L’immagine che sta emergendo oggi nella destra è quella di donne emancipate, divorziate, omosessuali, sicure di sé, che portano avanti dei valori legati a domande alle quali il femminismo progressista non ha saputo dare risposte e che, a ben vedere, come ha affermato Ida Dominijanni durante il festival di Internazionale 2018 a Ferrara, si scontrano con la misogenia intrinseca alla sinistra.

  • Dalle ‘donne’ di Berlusconi all’ascesa delle leader

I quattro governi Berlusconi che si sono avuti in Italia dal 1994 al 2011 hanno segnato sicuramente dei cambiamenti radicali da quella che era la politica della prima Repubblica a quella che sarà la seconda. Tra questi sicuramente il ruolo della donna e l’immagine che si dà di essa all’interno della politica cambia radicalmente nel tempo, unitamente a una ascesa del femminile all’interno di tutti i compartimenti della società. Il modus operandi dell’ex premier però è stato spesso criticato perché accusato di non badare alla capacità, ma all’aspetto fisico della candidata. Questo si innesta in un più ampio cambiamento della figura della donna sempre attuato da Berlusconi sin dagli anni Ottanta con l’avvento della tv commerciale.

Comunque sia, ecco fare la propria comparsa tra le file di Forza Italia e PdL varie donne che riescono a ritagliarsi ruoli di prestigio. Potremmo citare: Stefania Prestigiacomo, Ministro in ben tre governi Berlusconi; Mariastella Gelmini, Ministro dell’Istruzione e firmataria di una legge sulla riforma universitaria molto criticata nell’ambiente accademico; Mara Carfagna, Ministro per le Pari Oppurtunità, prima show-girl, modella e Miss Cinema 1997; fino alla più discussa Nicole Minetti. Su quest’ultima si è scritto moltissimo sul come sia arrivata in politica e sul coinvolgimento nel caso Ruby, ma una cosa è certa: la sua candidatura alle regionali del 2010 con un posto ‘blindato’, fu fortemente voluta dal cavaliere.

Tra tutte le donne dei governi Berlusconi, però, una solo si innesta nel discorso di “donne sovrane” ed è riuscita a emergere e a diventare segretaria di Fratelli d’Italia. E’ Giorgia Meloni. Ministro del quarto governo Berlusconi a soli 31 anni, oggi è la leader di un partito che si richiama ai valori della ‘fiamma tricolore’, tra le cui file è cresciuta. Incarna in sé i valori della donna moderna sovranista: difende le conquiste femminili avute nei decenni passati da un’”islamizzazione” che le metterebbe a rischio, porta avanti battaglie sulla famiglia tradizionale, pur non essendo sposata e avendo una figlia. Proprio l’essere oramai un capo carismatico le consente da un lato di partecipare ai Family day e attaccare un ‘complotto’ che vorrebbe l’imposizione della teoria gender, ma anche di difendere gli stessi omosessuali, le donne e le libertà occidentali proprio da un ‘nemico’ che la sinistra ed i progressisti non riescono a gestire secondo le femministe di destra: l’islam e la sua deriva radicale.

  • Paese che vai, sovrana che trovi

Come Giorgia Meloni in Italia, così anche nel resto d’Europa l’ondata del femminismo più o meno ‘nero’ da anni ha preso piede. Ecco solo alcuni dei nomi più famosi delle donne al potere di movimenti.

Marine Le Pen e il nuovo nazionalismo francese
Ha preso il partito del padre e lo ha quasi portato alla guida del paese. Ha divorziato per ben due volte, ha un compagno e tre figli. Il suo carisma le ha fatto guadagnare fiducia soprattutto nell’elettorato giovanile della società francese. Pur essendo alla guida di un partito reazionario, non ha mai presenziato a una manifestazione anti-Lgbt, proprio perché tra la popolazione giovanile i matrimoni tra coppie dello stesso sesso non vengono visti come un problema. Anche lei ha incarnato su di sé i valori del nuovo femminismo che nella difesa delle libertà acquisite si lega alle ideologie di destra contro il ‘nemico’ islamico.

Beata Szydło e la destra cattolica polacca
Lei è arrivata a essere Primo Ministro in Polonia, con un governo conservatore e di stampo cattolico alla guida del partito Prawo i Sprawiedliwość. Le battaglie di questa donna l’hanno portata a essere tra i firmatari della legge antiabortista da molti definita come un grandissimo passo indietro nei diritti delle donne che prevede il divieto di interrompere la gravidanza anche nel caso di gravi malformazioni del feto.

Alice Weidel, l’omosessuale filo-nazista
Dire che il suo è un caso più unico che raro sarebbe comunque poco per descrivere la posizione della leader dell’Afd, partito dichiaratamente filo-nazista, che tanto sta facendo discutere in Germania. Secondo le sue parole è di destra proprio perché omosessuale e non “nonostante”. Si è espressa in riferimento alle libertà e, oltre ad affermare che l’Afd difenderebbe i diritti degli omosessuali, accusa i partiti tradizionali di essere troppo morbidi e vieterebbe volentieri il burka perché “simbolo sessista di un’apartheid tra donne e uomini”.

Theresa May e i problemi anglosassoni
A lei è stato affidato l’arduo e durissimo compito di traghettare la Gran Bretagna fuori dall’Unione europea. La Brexit le sta costando il suo posto di Primo Ministro a causa delle spaccature interne ai Tory, ma di sicuro rimane un esempio per le donne conservatrici inglesi e non solo.

Anke Van dermeersch e il belgio sovranista
È tra i leader del partito Vlaams Belang, coloro che difendono i fiamminghi all’interno dello stato belga. Il suo partito in passato è stato tacciato di essere razzista e solo ultimamente ha provveduto a cambiare parti del suo programma, passando da partito di destra radicale a una destra conservatrice. Senatrice, ex modella, di sicuro in lei si possono rivedere le donne che guardano con fascino alla destra più radicale e meno avvezza alle discussioni.

È evidente come il trait d’union che collega queste donne sia, come già detto, l’essere diventate il punto di riferimento di un movimento che non riesce a riconoscersi più in chi – sbagliando – ha interpretato il multiculturalismo come solo il parlare di diritti, senza interrogarsi sulle sfaccettature più profonde. Soprattutto per quanto riguarda quegli aspetti religiosi dell’Islam più controversi, che spesso il progressismo fa finta di non vedere in nome di quel relativismo culturale che troppo spesso si trasforma in giustificazione a oltranza verso ogni tipo di comportamento, voltandosi altrove di fronte ai problemi e alle domande più scomode delle femministe del ventunesimo secolo. La sfida è aperta e una riflessione ulteriore bisogna intraprenderla guardando nuovamente all’Italia: oltre ad avere l’unico segretario di partito donna tra i partiti in Parlamento, la destra è stata la prima ad aver portato una persona di colore nel senato italiano. Qualche domanda i progressisti dovrebbero farsela.

Leggi anche
Donne di tutto il mondo unitevi!

Il ponte Morandi bene comune

di Roberta Trucco

A due mesi dal crollo del ponte Morandi Genova scenderà in piazza. La manifestazione si terrà il 13 ottobre alle ore 17 in piazza della Vittoria. È un’iniziativa che nasce dal basso, dai cittadini e da loro è stata chiamata ‘Riprendiamoci Genova’ (clicca QUI per scaricare la locandina dell’iniziativa).
Gli organizzatori, Camilla Ponzano di Riprendiamoci Genova, Andrea Acquarone di Che l’inse! e Filippo Biolé di EmerGente, scrivono nel manifesto: “Presi dalla vita di tutti i giorni, dai nostri fatti privati, ci siamo dimenticati di essere una città, una comunità, un popolo, che può e deve far sentire la sua voce. E pretendere di essere ascoltato […] No bandiere, no partiti, no grida e tifo da stadio, bensì: cittadini responsabili, impegno, idee, partecipazione, proposte e dialogo, sotto l’unica bandiera che ci unisce tutte/i, quella di Genova”.
Parole che mi risuonano dentro e che mi spingono a condividere ora quanto scrissi a pochi giorni dal crollo, probabilmente per elaborare il lutto. Abbiamo bisogno di noi. Non solo il ponte va ricostruito ma anche il dialogo tra diversi e all’interno delle comunità.

Agosto 2018
Sono partita per le vacanze nella dolorosa giornata del crollo del Ponte Morandi, partita con il cuore pesante per la tragedia annunciata che si è portata via tante vite giovani. Ero passata su quel maledetto ponte il giorno prima e, come molti altri genovesi, mi sento una sopravvissuta. Ho provato per giorni un misto di rabbia e di senso di colpa. Ogni volta che lo attraversavo ero inquieta. Quell’inquietudine oggi so che era autentica, non era il frutto di una fantasia un po’ paranoica, ma realmente un campanello d’allarme a cui avrei dovuto dare ascolto. Era il buon senso che bussava alla porta.
Sapevamo tutti delle continue manutenzioni. Da almeno un ventennio si parlava dell’aumento del traffico e del fatto che quel ponte non era stato progettato per sostenere un carico in continuo aumento. Negli ultimi anni nelle ore di punta quel ponte era sempre intasato, una lunga coda di tir e auto che procedevano a passo d’uomo. Se capitava di essere intrappolati lì per ore, convivere con l’ansia diventava un’impresa, credo per tutti. Un caro amico francese, che è venuto con la sua famiglia a trovarci, il giorno del crollo mi ha scritto per sapere come stavamo e mi ha raccontato che sia all’andata che al ritorno, alla fine del ponte, ha scherzato con il figlio dicendo “è andata bene, siamo dall’altra parte”. Un’amica giornalista che doveva essere intervistata dalla Bbc ha chiesto a diversi amici di dirle cosa rappresentava quel ponte per noi. Per molti era la via di casa al ritorno dalle vacanze, per molti il simbolo dell’orgoglio genovese, il nostro ponte di Brooklyn. Per me quel ponte era disagio, senso d’insicurezza, che da quando sono madre sento nel profondo. Sono una donna fortunata, ho una bella famiglia, una vita agiata e certo non mi posso lamentare, ma osservo sempre di più il declino della nostra civiltà. Abbiamo costruito ponti, ma non abbiamo educato alla convivenza tra diversi, al rispetto delle differenze, a partire da quelle di genere. Abbiamo scambiato l’omologazione per eguaglianza e con il passare del tempo ci siamo trovati immersi in un sistema capitalistico che ci alleva ‘come galline da batteria’. Le relazioni, la cura reciproca, la cura dell’ambiente, abbiamo abbandonato tutto nelle mani di Istituzioni e Servizi senza un volto, ma sappiamo bene che la cura è legata indissolubilmente al volto di chi la pratica: lo impariamo alla nascita nel primo incontro con il volto materno. Ci ritroviamo in un sistema malato, che ammorba le nostre coscienze.

Quel ponte per me rappresenta le contraddizioni del nostro sistema, un ponte necessario alla nostra comunità, un ponte che unisce la città divisa in due dalla val Polcevera, che unisce la nostra regione e l’Italia alla Francia, ma che nella furia della crescita sempre più rapida non ha tenuto conto dei tempi della cura e delle relazioni, subordinandole al profitto. Noi donne e madri lo sappiamo, il bene comune non è un progetto che si può costruire a tavolino, con formule matematiche, seguendo le logiche del profitto, ma deve tenere conto delle persone, delle relazioni e delle contingenze di ogni momento della vita. È venuto il tempo di dire che abbiamo bisogno di noi e delle nostra capacità di fare comunità.

ECOLOGICAMENTE
Acqua e innovazione

Il settore dell’acqua continua ad essere di grande interesse industriale e soprattutto di grande importanza ambientale, però le contraddizioni continuano a produrre gravi criticità strutturali e la situazione delle infrastrutture idriche e della gestione dell’acqua rimane fortemente penalizzata. Negli ultimi anni molti risultati positivi e un segnale decisivo di cambiamento sono stati prodotti da una forte regolazione con cui l’Autorità ha saputo realizzare e coordinare, dopo i primi anni di avvio, il settore con grande credibilità e autorevolezza, non solo autorità. Anche le Istituzioni stanno rafforzando le loro politiche ambientali per mezzo di progetti di crescita, e non più solo programmi di speranza, così come alcune aziende dei servizi pubblici ambientali hanno prodotto una forza e una capacità tecnologica molto superiore rispetto al passato. Molti investimenti si stanno facendo e cresce la capacità di reazione e innovazione nel ciclo dell’acqua (soprattutto grazie al nuovo metodo tariffario) e le aziende di prodotti e di servizi hanno mantenuto alto il presidio di offerta qualificata. Ma non basta.

Serve un approccio moderno e sostenibile al problema della qualità verso una sostenibilità economica circolare che deve fare riferimento alla qualità dei corpi recettori, sia in senso generale, sia in funzione della specificità degli usi; bisogna incentivare la riduzione degli sprechi, migliorare la manutenzione delle reti di adduzione e di distribuzione, ridurre le perdite, favorire il riciclo dell’acqua ed il riutilizzo delle acque reflue depurate. Di recente si rilevano tendenze nel settore innovazione di grande importanza e si registra un crescente interesse, sia a livello istituzionale che a livello produttivo, verso tecnologie di trattamento appropriate e sistemi/ tecniche volti ad una riduzione dei consumi, alla razionalizzazione (contemplando anche le opzioni di recupero e riutilizzo) dei flussi idrici e al recupero di materia nell’ambito dei processi produttivi. Però serve di più: dalla digitalizzazione del settore, allo smart metering, ai nuovi contatori (di cui scontiamo ancora una carenza normativa), al monitoraggio del microbiologico, alla riduzione dei consumi energetici e alla risoluzione del problema fanghi. L’innovazione sarà di grande aiuto. Serve però lo sviluppo di una cultura economica dei servizi pubblici ambientali, una maggiore attenzione sia a livello di costi che soprattutto di prezzi e dunque di tariffe. Serve un percorso di civiltà, ma anche il necessario sviluppo di una cultura economica del settore.
Se ne parlerà dal 17 al 19 ottobre a Bologna ad Accadueo (www.accadueo.com).

Amaro lucano

Veniamo a sapere da stampa e tv che il sindaco di Riace, Domenico Lucano, è messo agli arresti domiciliari, il 2 ottobre scorso, perché la magistratura gli contesta alcuni reati, fra i quali l’affidamento diretto del servizio di raccolta rifiuti, invece di una gara d’appalto, e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Immediatamente interviene sulla vicenda lo scrittore Roberto Saviano in difesa del sindaco e di un modello di accoglienza e integrazione dei migranti, indicato come esemplare per il suo alto valore umano.
Alla voce di Saviano si aggiungono quelle di autorevoli firme e di parte della sinistra, del mondo ecclesiale, associazioni, persone. Si moltiplicano le manifestazioni a sostegno del sindaco e in difesa di quel modello d’integrazione sociale, posto sotto attacco da un clima ormai irrespirabile di intolleranza, la cui fonte è riconducibile alle politiche del governo del cambiamento e, in primo luogo, al ministro dell’Interno, Matteo Salvini.
Il cartello con la scritta: “Il mondo lo adora, l’Italia lo arresta”, issato durante la manifestazione a Riace sotto casa del sindaco, il 6 ottobre, esprime bene la sintesi di questa ondata di protesta.
Un attacco, questo è uno dei punti, cui presterebbe il fianco anche la magistratura, con il provvedimento emesso nei confronti di Lucano.
Qui si apre un primo punto della questione: se, come si legge ovunque, fra il giudice per le indagini preliminari e la procura di Locri non c’è accordo su quali reati siano effettivamente da contestare a Domenico Lucano, tanto che lo stesso gip avrebbe scritto che l’indagine condotta da procura e Guardia di Finanza presenterebbe “congetture, errori procedurali, inesattezze”, questo significa in effetti che un problema c’è.
Allo stesso modo, sono sbalorditive le dichiarazioni rilasciate a caldo da un ministro dell’Interno che, senza alcuna sentenza, apostrofa il comportamento di un rappresentante delle istituzioni, sulla base di un’indagine giudiziaria in corso e su cui gli stessi livelli della magistratura devono chiarirsi su quanti e quali reati sarebbero stati commessi.
Il problema numero due è che lo stesso ministro sovrappone continuamente il livello istituzionale con quello di leader politico, per cui non è più chiaro quale sia l’azione di governo e quale la campagna elettorale.
E se questo comportamento è per molti normale, significa che decenni di analfabetismo istituzionale di chi si è ritenuto classe dirigente stanno purtroppo presentando un conto salatissimo.
Desta tuttavia non meno stupore il moltiplicarsi di manifestazioni a sostegno del sindaco calabrese. Non tanto per l’espressione di solidarietà e affetto nei confronti di una persona che è il simbolo di un modello civico da togliersi il cappello, in una terra, la Locride, infestata dalla piaga della criminalità organizzata, quanto perché – così si è sentito da più parti – quel modo di agire va difeso senza se e senza ma perché a fin di bene.
Perché, in ogni caso, è un esempio di convivenza, come ha detto Saviano, studiato in tutto il mondo.
Ci può essere tutto il consenso che si vuole su quel “a fin di bene”, ma siamo sicuri che un rappresentante delle istituzioni possa non rispettare le leggi, sia pure per uno scopo sacrosanto?
Perché se il sindaco di Riace non rispetta le leggi, per quanto contestabili esse siano, è un attacco a un esempio di civiltà, mentre se il sindaco di Verona decide di non rispettare la legge che riconosce il diritto di aborto è un oscurantista?
Se si esce dallo stato di diritto, al quale tutti i cittadini decidono di sottostare compresi tutti i livelli istituzionali (nonostante i pessimi esempi, proprio istituzionali, ai quali abbiamo assistito negli anni), chi può ergersi a giudicare se il mancato rispetto della legge è “a fin di bene”?
E’ forse la volonté générale di Jean Jacques Rousseau che, molto prima della Piattaforma dei Cinquestelle, gli studiosi hanno additato come l’anticamera dei poteri assoluti, perché, prima o poi, qualcuno pretende di parlare e agire in nome e per conto del popolo?
Se poi si ammette che per governare le regioni del Mezzogiorno o si forza la mano oppure è impossibile raggiungere risultati di buona amministrazione, non si finisce per esprimere la condanna che il Sud Italia sia un irrimediabile Far West?
E tutti gli altri sindaci calabresi, siciliani, campani e pugliesi, che ogni giorno, tra milioni di difficoltà, cercano di fare del loro meglio, facendo i salti mortali pur di rispettare un quadro normativo che, in più di un caso, pare scritto da chi ha problemi con l’alcol?
Per non dire di chi, in tanti, hanno dato la loro vita perché, come direbbe il commissario Montalbano, chi di dovere sapesse che anche in Italia “tanticchia di legge c’è; tanticchia, ma c’è”.
Ognuno è libero di intonare la canzone che vuole, ci mancherebbe, ma cantare “O bella ciao” sotto le finestre di Lucano si rischia un’operazione di assuefazione rispetto a un contesto su cui occorrerebbe fare dei distinguo.
Se Resistenza e partigiani giustamente si ribellarono, lo fecero nei confronti di un regime che era totalmente altro rispetto a un sistema di garanzie democratiche. Qui, grazie al cielo, le garanzie democratiche, per quanto minacciate, esistono ancora e ogni sforzo andrebbe fatto per conservarle e, se possibile, rafforzarle.
Nella sala dei Nove di Palazzo Pubblico a Siena (cioè la sala di chi governava la città) c’è il grande, stupendo, affresco di Ambrogio Lorenzetti del Cattivo e del Buon Governo.
Nella parte del Cattivo Governo il tiranno è seduto in trono e sotto di lui c’è la Giustizia, legata e costretta ai piedi del potente.
La tirannide – questo l’eterno e geniale monito – avviene quando il governante si pone sopra la giustizia, la legge.
La conseguenza è che tutto cade in rovina.
Sulla parete di fronte, chi governa è raffigurato sullo stesso piano delle virtù, fra le quali c’è la giustizia, e il simbolo del suo comando è portato con una corda da una schiera di cittadini.
Così, nella città e nei campi del Buon Governo regna su tutti la securitas.
Il capolavoro di Lorenzetti è un insuperato avvertimento rivolto a chi aveva in mano le redini di Siena. Una sorta di Cappella Sistina laica, se si pensa all’analogo monito che Michelangelo osò lanciare col suo strabiliante Giudizio Universale ai cardinali nell’aula in cui, ancora oggi, eleggono il papa della Chiesa cattolica.
Bisognerebbe organizzare delle visite guidate al meraviglioso affresco senese (altro che i secoli bui del Medioevo), per chi avesse ambizioni di classe dirigente.
Dunque, occorrerebbe decidersi se si vuole stare dentro lo stato di diritto, se cioè si preferisce la forza della legge – per quanto imperfetta e riformabile – alla legge della forza.
Indipendentemente dalle migliori intenzioni.
Dopodiché l’auspicio di tutti è che, nel caso concreto, il sindaco Domenico Lucano possa dimostrare di avere operato per il bene comune e nel rispetto della legge, perché se si inizia a scindere le due cose la storia dimostra che sono guai.
D’accordo che Ennio Flaiano definì la situazione italiana “grave ma non seria”, ma non sarebbe male astenersi dall’inseguire chi in questi anni ha dato il pessimo esempio di agitare le tifoserie per contestare un potere dello Stato – la magistratura – perché non eletto dal popolo.
Se è interesse di tutti che il modello di Riace possa continuare a essere un punto di riferimento, lo è altrettanto il rispetto della legge.

La libertà di stampa non è una fake news

“Per fortuna ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale, dalle fake news dei giornali, e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini tanto è vero che stanno morendo parecchi giornali […] nessuno li legge più perché ogni giorno passano il tempo ad alterare la realtà e non a raccontare la realtà”. Parole del vice-premier Di Maio in una diretta facebook del 6 ottobre 2018.
Verrebbe istintivo ricontrollare la data, perché argomentazioni di tale contenuto rappresentano rigurgiti di un passato tristemente noto, che evoca controllo, limitazione, censura nei confronti delle voci fuori regime. Ci si sta avviando verso una china che preoccupa e si intravvede un atteggiamento ossessivo verso il mondo dell’informazione e della stampa che squalifica i giornali e suggerisce di imbavagliare coloro che dell’informazione e della comunicazione hanno fatto una seria professione. Il Governo sta già pensando a provvedimenti penalizzanti come la prospettiva di aumentare l’iva per la stampa e la pubblicità viene passata per immorale, suggerendo velatamente che non è altro che un escamotage delle aziende per comprare i giornalisti, chiaro monito a quelle aziende a partecipazione statale che potrebbero trovarsi a fare i conti con tutto questo. Una forma di nuovo oscurantismo che rifiuta le linee di pensiero delle opposizioni e nega la possibilità di dialogare a più voci.

Ma si può cominciare a parlare di limitazione della libertà di stampa già ai tempi di Johannes Gutemberg (1394-1468), quando si assiste a un eccezionale aumento delle pubblicazioni e della loro circolazione, sottoposte a controllo da parte delle autorità. Nel 1501 papa Alessandro VI (1431-1503) introduce con bolla la ‘censura preventiva’, decretando il divieto di stampare senza autorizzazione delle autorità religiose e nel 1564 il provvedimento viene completato con un Indice dei Libri proibiti. In Inghilterra la censura preventiva è istituita nel 1531 da Enrico VIII e superata solo nel 1644, con la Seconda Rivoluzione, rendendo giustizia alla libertà di pensiero e alla sua divulgazione. Il primo quotidiano della storia viene pubblicato a Lipsia nel 1660, epoca in cui i periodici esistenti erano semplici strumenti in mano ai potenti, che attraverso essi esaltavano la propria immagine. Cronaca e politica erano del tutto assenti e gli argomenti a contenuto culturale erano appannaggio di un pubblico elitario. Occorrerà arrivare alla Rivoluzione francese per riservare al diritto di stampa il posto che merita e riconoscerlo nell’art. 11 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del Cittadino (1789). Due anni più tardi, la stessa dichiarazione verrà pronunciata nella Costituzione degli Stati Uniti d’America, dove la stampa libera viene identificata dai leader rivoluzionari come uno degli elementi prioritari di lotta.

In Italia la libertà di stampa viene riconosciuta nell’art. 28 dello Statuto Albertino del 1848 e le lotte per il pieno diritto a questa libertà continuano per tutto il diciannovesimo secolo, mentre il numero dei quotidiano e dei lettori cresce. Questo percorso si interrompe nel ventesimo secolo con i regimi totalitari di triste memoria. Il rapporto tra stampa, informazione e potere conserva in questi regimi un carattere ambivalente: se da un lato la stampa rappresenta un utile strumento di raggiungimento e conquista delle masse, dall’altro può essere fonte di critiche e quindi va controllata e manovrata. Mussolini mette fuori legge i giornali di opposizione e irregimenta le principali testate. Nel 1930, per ordine di Hitler, in Germania vengono messi al rogo i libri definiti ‘culturalmente distruttivi’ e si assiste all’esilio di molti autori. Anche nell’Unione Sovietica viene istituita una censura ferrea che mira al controllo da parte del regime e all’eliminazione di ogni traccia di dissidenza. Nel 1929 viene creata una lista nera delle pubblicazioni e degli autori nemici del popolo e nel 1935 si contano più di 24 milioni di libri distrutti e dati alle fiamme.

Al termine della Seconda guerra mondiale la libertà di stampa è solennemente sancita dall’Onu nell’art. 19 della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo (1948): “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, questo diritto include la libertà di sostenere opinioni senza condizionamenti e di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo ai confini”. Una descrizione chiara, precisa e inequivocabile, frutto di tante lotte e conquiste, presente anche nell’art. 21 della nostra Costituzione Italiana. Attualmente, le ombre gettate sull’informazione ripropongono il dibattito sulla libera circolazione delle idee e delle manifestazioni di pensiero, fondamento dello Stato di Diritto e di una società democratica. “Dove la stampa è libera e tutti sanno leggere, non ci sono pericoli” affermava Thomas Jefferson. Preferisco condividere senza esitazione quest’affermazione che trovare accettabile quanto Benito Mussolini espresse sul ruolo della stampa: “ La stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana. Il quotidiano italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime; è libero perché nell’ambito delle leggi del Regime può esercitare, e le esercita, funzioni di controllo, di critica, di propulsione.”

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Volti e incontri dal terzo giorno di Festival

Anche per il terzo e ultimo giorno di questa edizione 2018 del Festival di Internazionale a Ferrara il nostro Valerio Pazzi si è aggirato nelle varie location, fra le file e ha documentato volti e situazioni.
Ecco di seguito il suo reportage di questa domenica di giornalisti e non solo a Ferrara.
Clicca sulle immagini per ingrandirle.

Legalità, femminile singolare. Dall’Italia al Messico, l’impegno delle donne contro il crimine organizzato
Con Valentina Fiore, Consorzio Libera Terra Mediterraneo, Anabel Hernández, giornalista investigativa messicana, Federico Varese, criminologo esperto di mafie

E poi…

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Prima gli italiani brava gente

Un video che mette tutti insieme, tutti in fila, gli episodi di aggressioni ai danni di stranieri avvenuti negli ultimi mesi in Italia, da Macerata a Firenze, dagli spari di Napoli alle uova di Daisy nel torinese: una serie che mette i brividi in un paese che sta ricordando quest’anno gli ottant’anni delle leggi razziali, o meglio razziste come dovrebbero essere definite.
Non ci hanno pensato i media mainstream, ma i ragazzi ferraresi di Occhio ai media: “E’ una sequenza che i media italiani esitano a mettere insieme perché potrebbe ledere l’immagine del paese. Guai a dire che in Italia esiste il razzismo”. A dirlo è Gad Lerner, domenica mattina sul palco del Teatro Comunale – dal quale quel video è stato proiettato poco prima – durante uno degli incontri conclusivi della tre giorni di Internazionale a Ferrara 2018: ‘Italiani brava gente’. L’anno in cui ricorre l’anniversario del vergognoso atto di razzismo istituzionale nell’Italia del 1938 “è anche l’anno in cui ricorderemo che si è rotto l’argine, che si è passati dalle parole ai fatti”, continua Lerner, che non a caso sabato 6 è stato intervistato dai ragazzi di Occhio ai Media in un appuntamento intitolato ‘Così comincia la persecuzione’.

“La differenza fra ieri e oggi è che allora il razzismo istituzionale arrivò a freddo, aveva ideologi e radici, ma fu una scelta improvvisa del nascente impero; oggi, invece, la strada è stata preparata, i decreti sono stati preceduti da una lunga politica di razzismo culturale”. Tuttavia “l’indulgenza è la stessa – ci risponde quando chiediamo le analogie fra la situazione di allora e quella odierna – prosegue la bugia storica che i ‘cattivoni’ sono gli altri; eppure gli ebrei sono stati cacciati dai loro posti di lavoro e dalle scuole e poi arrestati e deportati grazie a zelanti delazioni di italiani. Italiani che poi si è voluto presentare come persone che avevano commesso uno sbaglio”, così come ora gli episodi di razzismo sono definiti “provocazioni simboliche, goliardate, atti di pazzi isolati”. Ecco dove sta “la continuità con l’Italia razzista di ottant’anni fa”. Lerner ci parla addirittura di “sudditanza ideologica” nel discorso pubblico: per esempio “i conduttori dei talk show televisivi si sono contesi gli ospiti più prelibati, da Salvini a Di Maio, quando palavano dei ‘taxi del mare’, del ‘business dell’immigrazione’, oppure quando dicevano che gli italiani sono vittime di questi palestrati, di questi finti profughi. Gli occhi dei conduttori luccicavano di soddisfazione perché l’audience saliva e perché era l’onda che dovevano cavalcare. In questo modo però, almeno io la penso così, gli si è spalancata la strada a un’egemonia culturale che ha intimidito le forze alternative”.

Sul palco con Lerner c’era anche il sindacalista Usb italoivoriano Aboubakar Soumahoro arrivato direttamente da Riace, dalla manifestazione di solidarietà a Mimmo Palladino. Anche lui ha insistito su un’interpretazione che non si fermi allo sgomento, all’indignazione del momento, ma che legga la realtà nella sua complessità, che alzi lo sguardo e consideri il contesto nel suo insieme e si ricordi la storia, ciò che è stato in Italia e nel mondo: “L’indifferenza – dice Aboubakar citando Gramsci – che opera nella storia e nel nostro quotidiano ci riporta alle leggi razziali e all’apartheid”. È già accaduto: la separazione della popolazione fra bianchi da una parte e dall’altra neri, indiani, tutti coloro che erano diversi, allora come ora “la diversità non è stata valorizzata, ma è divenuta la base della discriminazione, della separazione, della segregazione spaziale, politica, economica”. Allora come ora è accaduto “in un contesto di crisi e di smarrimento dei valori”. “La deriva non si fermerà alle persone di colore e ai migranti, ma arriverà agli italiani emarginati, in condizioni di difficoltà” che verranno trattati come ora si trattano gli stranieri, verranno lasciati fuori dallo steccato degli aventi diritti.

Nessuno dei due è stato tenero con le forze di sinistra. Aboubakar, da sindacalista, afferma con forza che “i lavoratori prima di essere tali sono esseri umani e il sindacato si deve interrogare su quale sia il proprio ruolo oggi nel mondo dei dannati della globalizzazione”. Mentre Lerner parla di “timidezza” e di abdicazione “ai principi e valori fondamentali” nel contrasto ai “cattivi sentimenti, che nelle società ci sono sempre stati, ma che oggi vengono legittimati e dichiarati orgogliosamente da chi sta ai vertici”.
Che la sinistra usi l’antirazzismo e l’intercultura in modo “folkloristico” l’aveva sostenuto poco prima anche Pape Diaw, rappresentante della comunità senegalese fiorentina, che insieme ai famigliari di Idy Diene è venuto a portare la testimonianza di una comunità colpita due volte da aggressioni razziste nel 2011 e nel 2018. “La sinistra – ha detto Pape – non ha capito che l’intercultura non è cous cous e tamburi, ma una pratica quotidiana, non ha capito che l’antirazzismo non si pratica a parole, ma con i fatti”. Diaw è “molto deluso dalla politica e dal Comune. Io, l’omicidio di Firenze, lo ricorderò per una città che piange le fioriere”.

Un teatro Claudio Abbado gremito fino al loggione ha ascoltato in un silenzio reso attonito dal senso di impotenza le parole di Aliou Diene, fratello di Idy, e della cognata Marema. È lei a rispondere alla domanda di Annalisa Camilli di Internazionale “Che cos’è il razzismo?”. “Io ho partorito tre figli qui in Italia, vanno a scuola e all’asilo a Pontedera insieme agli altri bambini. Il razzismo è quando porto i miei bimbi a scuola e i compagni corrono verso di noi, mentre le mamme li tirano indietro. Loro hanno paura di noi e noi ora abbiamo paura di loro”. Diversa è la risposta di Bouyagui Konaté, vittima di un’aggressione razzista a Napoli: nel giugno scorso mentre usciva dal suo ristorante multietnico e si avviava a piedi verso casa due persone gli hanno sparato da un’auto con un fucile a piombini. “Sono qui da circa quattro anni, mi sono integrato, ma sono una di quelle persone che vedete tutti i giorni arrivare con i barconi. Io penso che il razzismo si possa definire in molti modi: c’è chi commette le aggressioni e chi convince gli altri a commettere questi atti”.
Che fare quindi, chiede in conclusione Camilli, per contrastare la cultura razzista ormai dilagante nel nostro Paese?
Per Gad Lerner il fronte antirazzista si deve ricostruire come “nuova resistenza” dal basso unendo le varie istanze, dal sindacalismo di base al volontariato dell’accoglienza, al movimento cooperativo. Aboubakar ha aggiunto che “l’antirazzismo oggi non può essere praticato senza interagire con il tema della giustizia sociale” per disarmare chi usa disoccupazione giovanile e povertà diffusa nelle famiglie italiane come armi del razzismo.

Guarda il video ‘Occhio all’odio’ realizzato da Occhio ai media

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
La ricerca della felicità

Di storie personali e professionali deve averne sentite tante Pietro Del Soldà, filosofo e conduttore della trasmissione ‘Tutta la città ne parla’, in onda su Rai Radio 3. Le telefonate di chi lo segue lo riempiono di racconti di vita e di sfoghi sinceri; qualcuno ha voluto riportarlo domenica 7 ottobre a Palazzo Roverella, durante l’incontro ‘Non solo di cose d’amore’, dal titolo della sua nuova fatica letteraria. A intervistare e intrattenere l’autore, con efficaci sketch teatrali, le ragazze e i ragazzi del Liceo Ariosto di Ferrara, applauditi dal folto pubblico del Festival di Internazionale.

La ricerca della felicità. Una fatica atavica dell’essere umano, che nel libro viene indagata seguendo tre filoni: l’io interiore, l’io nella società e la felicità stessa. Guida in questa indagine: il grande Socrate. “La figura di Socrate, pur appartenendo a 2500 anni fa, epoca in cui la scrittura era ancora per pochi, è capace di risvegliare chiunque la approcci, in qualsiasi contesto, dunque anche noi che viviamo nell’oggi”. Contrariamente ai sofisti, “venditori del sapere”, Socrate personalizzava l’insegnamento che forniva ai suoi discepoli, valorizzando l’individualità di ciascuno, poiché ciò che si apprende ha a che fare con le peculiarità del singolo. Vedeva nella maggior parte delle persone una sorta di muro interiore, cioè una separazione tra ciò che si è realmente e ciò che si mostra all’esterno.
Diversamente predicavano i sofisti, suoi nemici: il loro sapere era nozionistico, uguale per tutti, perché tutti potessero raggiungere l’obiettivo della vita, la felicità. Una felicità particolare, però, poiché non differenziata, considerata come superiorità sugli altri, rimasti ancora indietro nella gara della vita, una gara a chi apprende prima il maggior numero possibile di nozioni. Ma Socrate andava oltre, nei dialoghi di Platone. “Non solo le persone possono avere una scissione interiore che impedisce loro di riuscire a realizzarsi ed esprimersi totalmente, ma ogni qualvolta degli individui infelici si mettono insieme per formare una comunità, questa necessariamente presenterà una scissione al suo interno, visibile nella separazione tra chi ha il potere di governare e chi no”.

Viviamo oggi il “paradosso della solitudine”: la piaga di una realtà dominata dalla possibilità di relazionarsi con chiunque è proprio la solitudine, definita dal Governo britannico perfino “piaga nazionale”, probabilmente dovuta alla disgregazione di tessuti connettivi molto forti in passato, come la famiglia, e alla non capacità o volontà di relazionarci con il prossimo interamente, in maniera trasparente, non scissa appunto. Individui infelici costruiscono una comunità infelice, ma non nel senso che intendiamo noi. Socrate chiamava felicità la pienezza di sé in ogni gesto: basta essere sé stessi per conquistarla . E qualsiasi azione, che mai avviene nell’isolamento e prescinde dalle differenze tra le persone, è sempre condizionata da una tensione verso di essa, ovvero da Eros, Amore. Tutto è Amore.
“Ritenere che la filosofia antica contenga le soluzioni per il mondo contemporaneo è una moda editoriale degli ultimi tempi, ma in realtà quello che può fare è attivare dentro di noi delle riflessioni che altrimenti ci sarebbero sfuggite”. Socrate lo dimostra: nel suo pensiero sembra prendere forma la società attuale, molto diversa e neppure ipotizzabile ai tempi dell’antica Grecia.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Volti e incontri dal secondo giorno di Festival

Ecco la foto-cronaca del secondo giorno del Festival di Internazionale a Ferrara.
La pioggia non ha fermato il nostro fotografo Valerio Pazzi.
Clicca sulle immagini per ingrandirle.

Così comincia la persecuzione. Ottant’anni fa in Italia venivano approvate le leggi razziali contro gli ebrei. Perché è importante ricordarlo oggi
Gad Lerner intervistato dai ragazzi di Occhio ai media a Palazzo Roverella

Con voce di donna. Perché certe persone si innamorano proprio di chi le fa soffrire? Cosa ci fa avvicinare agli altri e cosa ce ne allontana?
Con Daria Bignardi, Hanne Ørstavik, Rosella Postorino

E tanto altro ancora…

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Marco Morosini: “Stiamo andando verso una Chernobyl diffusa senza rendercene conto”

Ecco di seguito le dieci tesi di Marco Morosini, scienziato ambientale italiano e docente del Politecnico federale di Zurigo/Eth, sul Pd.

1. Il digitale è struttura: è il core, l’ideologia unica del partito.
2. Il partito è elitario, perché possono votare solo gli users.
3. Il partito è tecnofatalista: sarà la tecnologia a rendere necessario e inevitabile che il popolo si governi da solo.
4. Si arriverà a una concentrazione di potere come mai è esistita nella storia.
5. Il potere non è nei soldati ma nei dati.
6. La rete rende possibile la manipolazione dei dati.
7. Il partito è autocratico.
8. Quello della rete non è un potere liberatorio ma un martello per martellare.
9. Il partito è maschio, come si era già capito da tutto quanto detto fin qui.
10. Il digitale è il nuovo atomico.

Ma cosa avevate capito? Il Pd cui si riferisce Morosini non è certo il partito democratico di Renzi&co., ma il partito digitale come si è venuto a strutturare nella realtà italiana: il Movimento 5 stelle. E lui ne sa qualcosa dato che, per sua stessa ammissione, può essere considerato l’alter ego politico di Beppe Grillo: per 26 anni “io ho tentato di insegnare a lui la serietà e la pesantezza, mentre lui cercava di insegnarmi la leggerezza”. Se il partito digitale, o meglio la sua versione italiana, “è un auto con il motore ecologista di sinistra e la carrozzeria e il volante di destra, populista”, Morosini si assume la paternità solo del motore, dell’occasione di “avviare per la prima volta in un paese del G7 una transizione ecologica e sociale”. Non certo “del cavallo di Troia per dare un colpo all’Europa dall’interno”. “Dove le devo inchiodare secondo voi le mie dieci tesi?”, scherza Morosini con il pubblico.

Lo scienziato e giornalista parla all’incontro di Internazionale ‘Il digitalismo politico’, che sabato pomeriggio nonostante la pioggia ha riempito più di un’aula del dipartimento di economia e management di Unife, tante erano le persone in fila in via Voltapaletto. Insieme a lui c’è un altro esperto del Movimento 5 stelle: il giornalista de La Stampa Jacopo Iacoboni, autore di ‘L’esperimento’ (Laterza), nel quale le origini del partito digitale italiano vengono rintracciate in un esperimento di ingegneria sociale iniziato da Casaleggio padre molti anni prima di diventare una realtà, pubblica, votabile, addirittura in lizza per il governo del Paese.

A detta di Morosini, Casaleggio e Grillo in realtà non hanno inventato nulla di nuovo: il digitalismo politico è nato nella Silicon Valley, “quando i valori libertari della cultura hippie californiana si sono intrecciati con gli yuppie dell’industria hi-tech, che avevano avuto successo ed erano usciti dai loro garage”.
Tornando alle sue tesi: il partito è elitario, perché possono votare solo gli users, considerando che “solo in Italia abbiamo il 47% di analfabetismo digitale, torniamo indietro di almeno cent’anni”; “il potere non è nei soldati ma nei dati, o meglio nei big data”; “il partito è autocratico, ci sono pochi colonelli e tutti sono informatici, nessuno è stato eletto”.
La sua profezia, non molto ottimista, è che “ci dobbiamo preoccupare di quello che ancora ci aspetta”: “Il digitale è il nuovo atomico stiamo andando verso una Chernobyl diffusa e nessuno se ne sta accorgendo”, “il digitale sta cambiando sì la specie, ma in peggio”.

Da sinistra Marco Morosini e Jacopo Iacoboni

Iacoponi, dal canto suo, è meno oracolare e più materiale, ma certo non meno pessimista, tanto da esordire con la notizia che “Tim Berners Lee, inventore del world wide web, sta mettendo in piedi una nuova start-up perché secondo lui bisogna rifare Internet da capo”.
Secondo lui la grande intuizione di Casaleggio è “aver applicato alla politica il detto che se qualcosa è gratis è perché la merce sei tu”. Dato che “il partito è gemmato direttamente dall’azienda Casaleggio e dalla piattaforma Rousseau”, ci sono infatti molte domande riguardo l’utilizzo dei dati e la profilazione e la targetizzazione degli utenti alle quali non è mai stata data risposta. E poi c’è un problema di conflitto di interessi 3.0: “a quale titolo per statuto tutti i parlamentari eletti devono versare 300 euro al mese alla piattaforma Rousseau, che è un’associazione privata? Come vengono usati questi fondi”. Insomma il Movimento sarebbe “un animale pericoloso perché è concepito come strumento neutro, come strumento di costruzione del consenso, che può essere indirizzato verso diversi obiettivi”, non a caso ultimamente ha virato molto a destra, perché “si regola con gli strumenti del web marketing, i sondaggi e i social media, e quindi va dove va il consenso”. Eppure, sottolinea Iacoponi, “non cadete nell’equivoco di considerarlo una cosa effimera e cialtrona”: ci sono le personalità di facciata “selezionati per recitare ruoli, dal belloccio Dibba al moderato di Maio, mentre Fico è quello più a sinistra”, ma dietro ci sono quelli che furono “i collaboratori di Casaleggio, molto intelligenti e competenti, se dovessi costruire un partito mi rivolgerei proprio a loro”.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Il valore sociale dell’arte

Dai futuristi, al Neorealismo di Vancini e Antonioni, fino ai fumetti di Gipi e Zero Calcare, lo sguardo degli artisti è sempre stato fondamentale per interpretare e raccontare la realtà attraverso uno sguardo che unisce etica ed estetica; in particolare a partire dal Secolo Breve, quando le masse e la cultura pop hanno fatto prepotentemente il loro ingresso nell’orizzonte di chi lavora nel campo dell’arte. In più con la rivoluzione digitale il lavoro dell’artista è radicalmente mutato e si è ampliata la gamma dei pubblici, dei linguaggi, dei soggetti, dei materiali con cui lavorare, tanto che si parla sempre più di creatività e mestieri creativi in senso lato.
La domanda però è sempre la stessa: può l’arte dare una mano per cambiare il mondo? L’artista come può essere agente di un cambiamento sociale attraverso il proprio lavoro? Come, in una società sopraffatta e anestetizzata dall’abbondanza delle immagini, si può trovare uno sguardo artistico efficace per risvegliare e, perché no, provocare il pubblico?

Come ritrovare il valore sociale dell’arte e trasmettere attraverso di essa i valori di legalità, giustizia sociale, solidarietà, raccontando e interpretando il mondo che ci circonda è stato il punto di partenza della call europea ‘Artists@Work’, progetto promosso da Fondazione Unipolis, Atelier Varan, Cinemovel Foundation, Libera Associazioni, nomi, numeri contro le mafie, Udruzenje Tuzlanska Amica e cofinanziato dal Programma Europa Creativa dell’Ue.
Una call europea con tre paesi partner – Italia, Francia e Bosnia ed Erzegovina – e tre linguaggi, cinema, fotografia e fumetto, per un progetto formativo a metà fra passato e presente: se da una parte l’obiettivo è stato la multidisciplinarietà e la crossmedialità, sempre più necessari nel contesto artistico contemporaneo, dall’altra il metodo di insegnamento “è stato l’imparare facendo tipico delle botteghe rinascimentali”, come ha spiegato Roberta Franceschinelli di Fondazione Unipolis.
Dalla corruzione alla violenza di genere, dal degrado urbano alle politiche di rigenerazione, criminalità organizzata, immigrazione, tratta degli esseri umani, politiche di integrazione e interculturalità, sono solo alcuni dei contenuti delle 64 opere realizzate da 85 giovani artisti con l’aiuto di sei maestri di bottega, due per ciascuna arte. Tre di loro, oltre ad alcuni dei loro allievi, erano presenti come ospiti all’ incontro ‘Arte di valore’ sabato mattina alla Sala Estense nell’ambito di Internazionale a Ferrara 2018.
Renaud Personnaz, direttore della fotografia e maestro di bottega insieme al regista Bruno Oliviero per venti giovani filmmakers, ha spiegato che il lavoro è stato sulla dinamica io/noi: “abbiamo dato loro la possibilità di esprimere il proprio sguardo singolare, ma al plurale perché i film sono stati realizzati da gruppi di due o tre ragazzi”. “Quello che ne è venuto fuori è uno sguardo molto acuto sul mondo di oggi” e “un vero atto politico” perché la creazione di un’opera d’arte collettiva “nel mondo che viviamo oggi in fondo è un atto necessario, ma anche ribelle”.
L’approccio collaborativo e partecipativo, il sentirsi coinvolti in un progetto comunitario, nel racconto di una storia comune, anche quando si parte da posizioni lontane od opposte, è anche quello del fotografo Patrick Willocq: quando lavora alla realizzazione di uno scatto o di una serie di immagini “ognuno si deve rispettato nella propria posizione in una piattaforma creativa neutra”, in questo modo anche chi guarda “si può ritrovare in un’opinione espressa nell’immagine”.
Per Pietro Scarnera, maestro di bottega per il mondo del fumetto e dell’illustrazione – che ha esordito nel 2009 con il graphic novel ‘Diario di un addio’, sulla sua esperienza personale di figlio di un genitore in stato vegetativo, e nel 2014 ha pubblicato ‘Una stella tranquilla – Ritratto sentimentale di Primo Levi’ – il bello dei fumetti è “la possibilità della delicatezza”. I fumettisti non raccontano la realtà aggredendo il lettore, piuttosto “circondandolo con tutta una serie di emozioni”; ma “affrontare temi così complicati con l’illustrazione è possibile solo essendo profondamente onesti con sé stessi, raccontando qualcosa che sta veramente a cuore usando un punto di vista personale”.

Le opere di ‘Artists@Work’ sono in esposizione in anteprima assoluta a ‘Just/Art’ fino a domenica 7 ottobre nei locali di Factory Grisù in viale Cavour.
Clicca sulle immagini per ingrandirle

Tutte le info su ‘Artists@Work’ sono disponibili al sito www.artists-work.eu

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
I briganti si uccidono, i mafiosi si usano

Sono parole molto dure quelle pronunciate da Enzo Ciconte, studioso, scrittore e docente, autore del monumentale volume ‘La grande mattanza: Storia della guerra al brigantaggio’, edito da Laterza. Intervistato da Giuseppe Rizzo sabato 6 ottobre alla Biblioteca Ariostea, lo storico controcorrente ha approfittato del Festival di Internazionale per porre le basi di una questione imponente che non si potrà ignorare ancora per molto.
Il fenomeno del brigantaggio sembra una semplice querelle storiografica, poco più di una curiosità intellettualistica, in ogni caso ormai superata. Ma nonostante il banditismo identificabile come brigantaggio risalga almeno al Rinascimento, e non sia solamente ascrivibile alle vicende risorgimentali, in realtà molti nodi che ha intrecciato nella sua lunga esistenza sono riscontrabili e ben visibili ancora oggi, se non addirittura fin troppo presenti e troppo potenti.
Il lavoro di Ciconte, a cavallo tra inchiesta giornalistica e storiografia, ricostruisce una sorta di controstoria, perché molto spesso di quegli anni si è parlato poco e a volte anche male. “Non erano comuni criminali, né militanti politici pronti a difendere il proprio governo e la propria patria: il brigantaggio vero, infatti, era un fenomeno sociale, legato alla terra occupata dagli invasori, chiunque essi fossero”. I francesi a inizio Ottocento, i Borbone dopo il Congresso di Vienna, la borghesia a metà secolo, i piemontesi durante il Risorgimento: il bisogno della povera gente è stato sempre quello di sfamarsi, tanto è vero che solo nell’entroterra e lungo i fiumi il fenomeno veniva registrato, mentre sulle coste, dove non c’erano problemi legati a possedimenti terrieri, mai nulla.

Ciò che si visse nel diciannovesimo secolo era “una vera e propria lotta di classe”, tra contadini da una parte e proprietari invasori dall’altra, con in mezzo la borghesia che reclamava un proprio posto nella società, possibilmente in alternativa alla vecchia aristocrazia, che invece le classi povere rispettavano, in quanto secolare e riconosciuta. Né tantomeno il brigantaggio fu una manifestazione soltanto italiana; la nostra peculiarità, rispetto al resto del continente, fu semmai “la tarda unificazione”, che di conseguenza fece slittare in avanti il problema e la sua soluzione. I libri di scuola ci indicano come termine il 1870, ma la questione è più complicata. Difatti, dopo innumerevoli tentativi di risolvere la difficoltà con il terrore e le armi, fu “solamente con la legge di riforma agraria del 1950” che si riuscì infine a eliminare il gravoso problema. La sconfitta fu efficace perché avvenne sul piano politico: in pratica, venne data finalmente la terra ai contadini. Fino ad allora, tuttavia, quanta violenza fu utilizzata per contrastare il brigantaggio. E non si trattava di settentrionali contro meridionali, poiché la borghesia del regno siciliano era complice. “L’esercito scendeva in campo solo contro i briganti, però. L’altra faccia della medaglia, le organizzazioni criminali quali la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta, venivano lasciate tranquille, dato che proteggevano le proprietà terriere e venivano usate dal potere in caso di bisogno. Ne paghiamo ancora oggi le conseguenze”.
Non erano eroi romantici o criminali feroci, ma uomini derubati in cerca di lavoro per non patire la fame. Furono vittime di contesti sociali difficili e precari. Da noi non può che scaturire rispetto e desiderio di verità per un passato ancora presente.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Volti e incontri dal primo giorno di Festival

Il primo giorno di questa edizione di Internazionale a Ferrara è trascorso.
Il nostro fotografo Valerio Pazzi ha immortalato per voi sguardi, volti, momenti: dall’inaugurazione, con il conferimento del premio giornalistico Anna Politkovskaja al giornalista curdo iraniano Behrouz Boochani, alla lettura dei nomi delle 30.000 persone morte dal 1993 a oggi nel viaggio verso l’Europa da parte del fumettista Gipi. L’elenco, in continuo aggiornamento, è stato redatto dall’ong olandese United for intercultural action sulla base dei dati raccolti da ong, stampa e altre fonti: è la lista più completa finora esistente delle vittime accertate durante il viaggio in mare ma anche nella traversata via terra, nei centri di detenzione e nelle comunità per richiedenti asilo.
E tanto altro ancora…

Clicca sulle immagini per ingrandirle.

‘Fino a quando resisto’. Gipi legge i nomi delle 30.000 persone morte dal 1993 a oggi nel viaggio verso l’Europa

L’inaugurazione del Festival al Cinema Apollo

‘Chi sono io? Autoritratti e selfie, identità e reputazione. Quando le donne fotografano se stesse per trovare il loro posto nel mondo’. Con Concita De Gregorio, la fotografa Silvia Camporesi, Chiara Baratelli e con gli studenti del Liceo Roiti di Ferrara

‘Ti racconto una storia’
Voci e volti dal Cortile del Castello Estense

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Per un nuovo welfare europeo

Dalla culla alla tomba: era lo slogan del welfare socialdemocratico del Dopoguerra che ha reso l’Europa un modello e un punto di riferimento nella seconda metà del ventesimo secolo. Ormai solo un lontano ricordo: eroso a partire dagli anni Ottanta dal turbocapitalismo e dalla finanziarizzazione dell’economia e, negli ultimi anni, anche dalla crisi, che ha creato ancora più diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza e sempre più ridotto le risorse degli Stati. Quelle politiche di austerity riassunte così spesso dalla frase “Ce lo chiede l’Europa”.
Un’Europa costruita – nonostante le utopie dei suoi fondatori, a partire dal Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi – a partire dai mercati e dalle politiche economiche, piuttosto che dai diritti dei cittadini, soprattutto quelli sociali. Eppure sembra che dall’impasse che l’Europa sta vivendo, se proprio non vogliamo parlare di vera e propria crisi, non si possa uscire se non capovolgendo la situazione: ripartendo cioè dai diritti e costruendo un vero e proprio welfare europeo sempre più condiviso e integrato fra i vari Paesi, che esca dalle mere dichiarazioni di principio e che unifichi l’attuale disomogeneità di politiche negli Stati dell’Ue. Da soli i Paesi e le loro classi politiche non possono farcela contro aziende e mercati globali, che possono spostarsi da una realtà all’altra con un click in cerca di situazioni e condizioni più favorevoli, giocando continuamente una partita al ribasso.
È quanto emerso venerdì pomeriggio dall’incontro ‘L’Europa a misura di cittadino’, svoltosi all’interno del programma di Internazionale a Ferrara nell’aula magna del Dipartimento di Giurisprudenza. Ospiti: Michael Braun di Die Tageszeitung, Antonia Carparelli della Commissione Europea, il docente di Unife Alessandro Somma e, come moderatore, Dino Pesole de Il Sole 24 Ore.

Una discussione quella su sussidi, salario minimo, reddito di cittadinanza, di stretta attualità, dato che proprio in questi giorni si sta svolgendo il braccio di ferro fra Italia e Ue su manovra economica, documento di aggiornamento al Def e finanziamento del reddito di cittadinanza così come concepito dai Cinque Stelle: 6,5 milioni di italiani destinatari di circa 680 euro al mese, per un totale di 10 miliardi di euro.
Antonia Carparelli è partita dalle cifre Eurostat del 2016 sulla povertà: “118 milioni di persone a rischio di povertà in Europa, cioè con un reddito inferiore del 60% al reddito mediano della popolazione, inoltre 12 milioni di persone in una situazione di deprivazione materiale. Per quanto riguarda l’Italia, c’è un 30% di persone a rischio povertà, mentre il 10% delle persone più ricche ha aumentato la percentuale di ricchezza totale del Paese detenuta dal 40% al 50%”. Per la funzionaria della Commissione Europea “bisogna prima di tutto chiedersi quali sono le cause di queste povertà, altrimenti il rischio è che gli interventi siano una goccia nel mare e soprattutto che vengano allocate male le risorse. Per esempio sarebbe un grosso errore dirottare le risorse sul reddito di cittadinanza, lasciando indietro il sistema scolastico”.
Per Michael Braun “l’Europa tornerà a misura di cittadino quando si realizzeranno politiche per far tornare le persone, soprattutto della classe media, a credere nella scommessa, nella promessa del futuro”. Per il giornalista tedesco il successo di populismi e sovranismi deriva dal fatto che “la classe media si preoccupa per il suo futuro e pensa che i suoi figli staranno peggio”. A suo parere il reddito minimo o di inclusione, come dovrebbe essere definito il sussidio concepito dai pentastellati, dato che è una misura condizionale e non universalistica, “è una misura di civiltà. Non credo che sia criticabile l’approccio di dare a ciascuno per garantire un minimo di dignità”. Il rischio però è che accada quello che è avvenuto in Germania, dove questa misura già esiste: “che l’integrazione al reddito diventi un incentivo per i datori di lavoro per pagare di meno”. Per questo Braun insiste sul fatto che non si può prescindere dal “salario minimo garantito”.

Somma, invece, riporta l’attenzione sulle politiche attive del lavoro: i veri problemi sono la mancanza di lavoro e “il lavoro povero” perché così “si rompe il patto sociale” sul quale il welfare è sempre stato concepito. Per nulla tenero sia con l’Ue sia con il Movimento cinque stelle, Somma prefigura addirittura “il lavoro coatto” e di conseguenza “l’ulteriore abbassamento dei salari”, dato che le condizioni per avere il reddito di cittadinanza sono: dimostrare di aver cercato attivamente lavoro, non rifiutare più di due offerte di lavoro in un anno e divieto di licenziarsi più di due volte nell’arco di un anno. “Siamo addirittura giunti al consumo coatto – conclude Somma – dato che uno dei due vicepremier ha affermato che con il reddito di cittadinanza non si potranno fare spese immorali. Chi deciderà quali sono queste spese? È molto preoccupante perché i soldi saranno erogati tramite microchip, con la possibilità quindi di essere controllati e chi sgarra rischia almeno sei anni di galera”.
Ecco allora che sui social già fioccano gruppi sugli acquisti immorali, come per esempio… la pizza all’ananas. Si ride per non piangere!

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Donne di tutto il mondo unitevi!


‘Tremate, tremate’, questo il titolo di uno degli ultimi incontri della prima giornata di Internazionale a Ferrara 2018. Un titolo che richiama uno degli slogan delle femministe italiane negli anni delle lotte per la sessualità consapevole, la maternità responsabile e la riforma del diritto di famiglia; e sul palco del Teatro Comunale Claudio Abbado sono appunto salite cinque donne rappresentanti di diversi femminismi in diverse parti del mondo: le giornaliste Ida Dominijanni e Katha Pollit, Marta Dillon del movimento argentino Ni una menos, ispiratore dell’italiano Non una di meno, la polacca Marta Lempart e la pakistana Rafia Zakaria. Già questa è una testimonianza di quanto le lotte femministe stiano vivendo una stagione di nuovo internazionalismo e di reciproca influenza, quando non collaborazione. E qualche volta le cose cambiano, come dimostra per esempio l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2018 al ginecologo Denis Mukwege e a Nadia Murad, ex schiava del sesso dei miliziani dell’Isis, per il loro impegno contro l’uso della violenza sessuale come arma di guerra.
Tutto questo ha portato Dominijanni a dire che “il nuovo filo rosso fra i femminismi non è più solo la lotta contro la violenza di genere, sulla sessualità, sulla procreazione, ma anche quella su tematiche più strettamente politiche”: insomma se da una parte ci sono “la crisi del patriarcato e i rigurgiti dei nazionalismi” dall’altra “il fiume carsico delle lotte femministe riemerge in tutto il mondo”.

Anche la femminista e attivista lesbica argentina Marta Dillon ha affermato con forza e orgoglio che “il femminismo è l’internazionalismo che dobbiamo costruire oggi e per il futuro”, mettendo nel centro del bersaglio il sistema maschilista, patriarcale e capitalista nel suo insieme come si è venuto a costruire dal Medioevo. Non si può contrastare la violenza di genere senza combattere e decostruire “la violenza politica ed economica” creata dal contesto in generale; “dobbiamo cambiare la distribuzione della ricchezza, il modello di costruzione della famiglia”. Come farlo? Dillon usa un’espressione di una potenza e di una poeticità assolute: “trarre forza dalla vulnerabilità, trasformare la sofferenza in potenza, questi sono da sempre gli strumenti di lotta di tutti gli emarginati da chi detiene il potere”.
Ecco allora che anche il corpo da oggetto di violenza diventa strumento di lotta: lo si porta in strada per manifestare, per scioperare. Lo hanno fatto le argentine, come prima di loro, un anno fa, lo avevano fatto le polacche: uno sciopero femminista e classista. Il messaggio è “se siamo inferiori e inutili provate a far andare avanti il mondo senza di noi”. Per un giorno intero non sono andate al lavoro o a lezione all’università, hanno lasciato i bambini alla cura di qualcun altro e non si sono occupate delle faccende di cui di solito di occupano, hanno manifestato vestite di nero in segno di lutto per la possibile perdita dei loro diritti e della loro libertà, per protestare contro un disegno di legge che vieterebbe praticamente ogni forma di aborto, in un paese dove la pratica dell’interruzione di gravidanza è già ristretta a pochissimi casi. E da allora le cose sono cambiate, ha spiegato Marta Lempart: “prima solo il 37% della popolazione era favorevole all’aborto, ora siamo saliti al 69%”, ora lei, femminista e lesbica, può candidarsi per la prima volta alle elezioni comunali della sua città. E allora si va avanti e si combatte contro i neonazisti ai quali il governo permette di sfilare nelle strade delle città: “a Varsavia 14 donne si sono messe di traverso a 61.000 neonazisti. Sono state insultate e picchiate e ora sono addirittura sotto processo, accusate di aver tentato di fermare la marcia”. “Il nostro programma si chiama ‘Polonia per tutti’, per una Polonia nella quale i diritti siano garantiti per tutti: siamo in tante e anche se qualcuna di noi viene messa a tacere le altre sono pronte a prenderne il posto”.

E chi incarna il modello capitalista e machista meglio del Presidente Usa Donald Trump? “Negli Stati Uniti ci sono sempre più donne che si candidano proprio come reazione all’elezione di Trump: sono infuriate perché non è solo un reazionario, ma è anche una persona che ha compiuto atti terribili verso le donne e ne è contento”, ha spiegato Katha Pollit, che ha poi aggiunto “Me too, finora associato solo al mondo dei media statunitense e hollywoodiano, in realtà associa la lotta alla violenza contro le donne e quella alle discriminazioni sul lavoro”. (Leggi l’articolo di Ferraraitalia sulle femministe americane e le ultime elezioni americane)

Rafia Zakaria ha portato la prospettiva delle femministe dei paesi islamici che devono combattere una doppia battaglia: contro gli estremisti islamici e contro gli occidentali che le vogliono emancipare con le bombe. “Dobbiamo scontrarci con le interpretazioni misogine dell’Islam e con chi dice che quello è l’unico modo per essere musulmano e poi con il neoimperialismo. Gli islamisti ci dicono che il femminismo è un’invenzione occidentale e quindi non possiamo essere femministe, mentre gli occidentali ci vogliono insegnare cosa significa essere femministe ed emancipate, mentre invece c’è un femminismo autonomo nei paesi musulmani. Spesso abbiamo l’impressione che le alleanze femministe siano per così dire condizionate dall’ammissione da parte nostra che tutti gli uomini musulmani sono cattivi”.

Tanto, tantissimo è stato fatto e tanto, tantissimo potrebbe offrire la visione femminile e femminista del mondo in un momento di crisi e trasformazione come quello che stiamo attraversando. Ma c’è ancora tanto, tantissimo da fare: sono ancora le donne a dover tremare purtroppo, anche qui in Italia, se giovedì notte anche grazie al voto di una donna, capogruppo del Pd in Consiglio Comunale, Verona è diventata ufficialmente “città a favore della vita” grazie a una mozione con la quale fra l’altro saranno finanziate associazioni cattoliche che portano avanti iniziative contro le interruzioni volontarie di gravidanza.