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LA RECENSIONE
‘Last work’ di Ohad Naharin al Teatro Claudio Abbado: tempo di comprendere e liberare

di Monica Pavani

Un paio di giorni prima di vedere al Teatro Comunale lo spettacolo ‘Last Work’ (andato in scena domenica 25 novembre) di Ohad Naharin, il coreografo israeliano che guida la Batsheva Dance Company dal 1990, mi è capitato di leggere il discorso tenuto dallo scrittore israeliano David Grossman in occasione del Premio per la tolleranza e la comprensione che gli è stato conferito in questi giorni al Museo ebraico di Berlino. In particolare, mi hanno colpita due affermazioni di Grossman: l’impossibilità di distinguere “fra il me politico e il me scrittore, né tra il me scrittore e il me uomo”; e che la tolleranza – per lo scrittore – “nasce dalla disponibilità di sentire e comprendere l’altro dentro di noi, anche quando l’altro ci minaccia perché è diverso, e incomprensibile”.
Ho ritrovato questi due moti – più che pensieri – in ‘Last Work’ di Naharin, del quale avevo già visto, sempre al Comunale, alcuni lavori, fra cui DecaDance. Ricordavo l’energia dirompente dei suoi danzatori, i movimenti quasi esplosivi, e una specie di esaltante poesia che scaturisce dalla liberazione di una forza sopita o forse soffocata. Naharin ha canonizzato questo suo approccio in un vero e proprio metodo, chiamato Gaga, basato sul “piacere fisico dell’attività fisica”, che potenzialmente può essere sperimentato da ogni persona di qualsiasi età, e non solo da chi danza.
Eppure, in questo ‘Last Work’ ho trovato che il coreografo si spinga ancora più oltre nella sua ricerca, esplorando, appunto, quell’altro “dentro di sé” che è mosso da una forza più contemplativa, fatta di gesti anche minimi, movenze flessuose e lente che sembrano provenire dal mondo arcano di felini che si aggirano silenziosi su un pianeta un po’ disabitato, un po’ ignoto, o forse solo in fase di mutamento.

Viene da chiedersi se questo titolo, ‘Last Work’, che allude a una fine, possa riferirsi all’affacciarsi di una nuova esigenza espressiva del coreografo, che non si limita più a scatenare (letteralmente: togliere le catene) ai suoi danzatori, ma li accompagna in un nuovo viaggio che passa anche per i vuoti, le soste, e gli arresti. Gli spettatori sono chiamati ad assistere a una serie di movimenti d’insieme (e spesso a duetti) dal ritmo ipnotico che può ricordare lo sboccio di un fiore, petalo dopo petalo, o il dispiegarsi di una farfalla dal bozzolo. E la mente è partecipe, chiamata com’è a interpretare, ma soprattutto a leggere e a lasciarsi leggere da ciò che accade. I magnifici danzatori diventano sacrificali, non in senso religioso, bensì artistico: fanno dono di sé senza risparmiarsi e per di più con straordinaria grazia. Durante tutto lo spettacolo una danzatrice corre instancabilmente, ma con compostezza, su un tapis roulant. Allude al tempo che passa? Al movimento imperterrito che trascina l’universo nella sua corsa verso il dissolvimento? O solo all’impossibilità di fermare le lancette e di costringere la vita in una singola forma?

Naharin libera le immagini, non le costringe. A fine spettacolo, dopo uno strepitio di proiettili, e grida ferine sparate a tutta gola da un microfono, i danzatori si fermano e vengono legati con lunghi fili di nastro adesivo che forse li unisce o forse li paralizza per sempre; mentre una grande bandiera bianca sventola dietro di loro, decisa e affaticata.

Ecco perché il debito pubblico italiano continua a crescere

Il fatto che il debito pubblico italiano continui a crescere è dovuto esclusivamente all’impossibilità di controllare gli interessi. Nel sistema attuale, del resto, l’unica entità che potrebbe farlo è la Banca Centrale Europea acquistando i Titoli in ultima istanza, ovvero autorizzando le banche centrali dei 19 Paesi dell’eurozona a farlo.

Operazione del resto effettivamente autorizzata per quasi tre anni attraverso il programma denominato Quantitative Easing (alleggerimento quantitativo), un programma lanciato in Europa dopo che anni prima anche altri Stati come gli U.S.A. e il Giappone avevano fatto altrettanto. In eurozona siamo partiti tardi e questo ha prodotto effetti incerti soprattutto sulla disoccupazione che mentre negli altri Paesi è scesa anche sotto il 5% in Italia si è tenuta ben al di sopra del 10%.

Quando una banca centrale fa da “pompiere”, raffredda le tensioni sui mercati intervenendo per comprare Titoli del debito pubblico, toglie alla speculazione parte del ricatto nei confronti degli Stati, tiene gli interessi bassi ed evita ai telegiornali di dover aprire tutte le loro edizioni gridando all’innalzamento dello spread e al prossimo e sicuro default.

Nel 2011, in pieno governo Berlusconi, lo spread arrivò a 552 e, nonostante l’arrivo di Monti, lo stesso altalenò fino a quando Draghi, Governatore della Banca Centrale Europea, pronunciò la famosa frase “Watever it takes…”. Disse, in pratica, che la BCE avrebbe difeso l’euro, cioè avrebbe acquistato Titoli di Stato. Non lo fece, ma la sola “minaccia” fece calare definitivamente lo spread, cioè i tassi di interesse che si pagano sul debito pubblico. Da notare, infatti, che il programma di acquisto iniziò solo nel marzo del 2015, ben due anni dopo, ma la sola frase bastò ai mercati perché smettessero le loro azioni speculative e a riportare la pace nei telegiornali.

Durante i governi successivi e quindi di Monti, Letta, Renzi e Gentiloni però al debito pubblico successe questo

Grafico dal def 2017 fonte MEF

Una crescita esponenziale, un regalo per le “generazioni future”, volendo imitare Cottarelli, nonostante l’aiutino di Draghi.

In ogni caso, e grazie alle operazioni di acquisto della BCE, lo spread si è tenuto basso fino ad oggi che siamo in zona tapering, ovvero in dirittura d’arrivo. E’ stato infatti stabilito che tali acquisti si dovranno interrompere alla data del 31 dicembre 2018 e che in questi ultimi tre mesi le banche centrali potranno acquistare solamente 15 miliardi di titoli di stato al mese.

Bisogna, insomma, far riabituare il mercato ai suoi ritmi normali e, considerando che si era arrivati a comprare Titoli fino a 80 miliardi al mese, si comprenderà che siamo prossimi alla riapertura delle autostrade della speculazione. Già lo spread comincia a lanciare i suoi segnali di ripresa, nascosto però nelle sue ragione dalle urla di Salvini e Moscovici.

Purtroppo i Governi che si sono succeduti nonostante l’ombrello di protezione offerto dalla BCE non hanno saputo approfittarne per “manifesta incapacità gestionale”, né sul piano dello sviluppo, né per la riduzione della disoccupazione, né tantomeno per la riduzione del tanto temuto debito pubblico. La cattiva gestione della cosa pubblica degli ultimi anni, nonostante le ottimi condizioni generali relative ai tassi di interesse e al credito a buon mercato, lascia oggi una situazione difficile.

Alto debito, visto come la peste nera dagli euro burocrati, e in crescita per il rialzo degli spread, alta disoccupazione con poca capacità strutturale di poterla assorbire, condizioni internazionali sempre più critiche sul piano delle esportazioni per le crescenti tensioni tra USA, Germania e Cina (cioè tra chi compra – USA – e chi vende – Germania e Cina) che potrebbero portare a guerre commerciali e veti incrociati, non fanno ben sperare per il futuro. Soprattutto in virtù del fatto che dall’ultimo Marzo in Italia stiamo ancora attendendo operazioni politiche degne di questo nome.

DIARIO IN PUBBLICO
Notizie dalla città murata

“Sous le ciel de Ferrare… L’espoir fleurit au ciel de Ferrare” per imitare la celebre canzone “Sous le ciel de Paris”.

Basta sostituire Paris con Ferrare e… les jeux sont faits. Poi se invece di cantarla Yves Montand la canta Roberta Fusari allora veramente ci siamo. Che la sua candidatura sia un fatto a mio parere positivo è indubitabile nonostante le riserve Dem; che la sua lista civica abbia un rapporto con i radicali a cui guardo non tanto per i rappresentanti cittadini quanto per la grande Emma che continuo a considerare tra le persone più oneste della nostra politica allora qualche speranza si apre per una ripresa della sinistra sprofondata nell’umiliazione di un baratro da cui spero voglia sollevarsi come appare anche dalla determinazione della pugnace Ilaria Baraldi. Spero solo che altri nomi, altri rappresentanti di un rinnovamento (e il pensiero corre a Fulvio Bernabei) sentano il richiamo di un dovere che la politica impone come primario.

Frattanto son trascinato in avventure culturali sempre più complesse e affascinanti che in ordine alfabetico suonano A B C e che risultano Ariosto, Bassani, Canova.

Si sta preparando la serata conclusiva del centenario ariostesco che coinvolge poesia musica e filmati di spessore davvero straordinario. Il 10 dicembre dalle 20.30 al Teatro comunale Abbado si celebrerà “l’evento”( e con le lacrime agli occhi uso la tremenda parola che impazza sia quando è usata per mangiare un panino innaffiato da vino scadente o per partecipare a questo spettacolo davvero imponente) che ovviamente sarà gratuito.

Il nome, la voce, la scrittura di Bassani richiamano nella sua città poeti e traduttori, attori e intellettuali. Il primo dicembre in Castello gli eredi Ravenna doneranno al Comune di Ferrara documenti e lettere. E anche questo è un segno che ormai Ferrara, la città dello scrittore, si è impegnata a custodirne le memorie .

Frattanto in équipe si lavora per comporre uno straordinario libro visivo dove le fotografie commenteranno la vita e le opere di Giorgio Bassani.

Continuo con l’autore il tour per presentare lo straordinario libro di Andrea Emiliani “Opere d’arte prese in Italia” che racconta attraverso documenti originali la missione di Canova di riportare in Italia i capolavori strappati da Napoleone alle città italiane. Questa volta è toccato a Faenza dove nella cornice unica del neoclassico Palazzo Milzetti diretto con garbo, intelligenza e passione dalla nostra concittadina Enrica Domenicali si è parlato anche dell’amicizia Cicognara-Canova. Il libro sarà presentato a Ferrara in Marzo alla Pinacoteca di Palazzo dei Diamanti all’interno dei cicli di conferenze organizzati da Francesca Cappelletti.

Direte: “Ma allora perché ti lamenti?”
Perché il troppo stroppia, perché la volontà di non fare l’“umarel” che commenta in piazza i fatti del giorno alla fine poi ti atterra per troppo lavoro.

Guardo e spero che i giovani o i maturi (lontani dal ‘de senectute’ che sto vivendo) accolgano un’eredità culturale senza la quale Ferrara diventando ‘Ferara’ rischia di perdere le sue qualità che l’hanno fatta unica. Quella Ferrara che nella indimenticabile mostra di Bruxelles sotto l’egida della comunità europea organizzò una mostra esemplare il cui titolo era “ Ferrare. Une Renaissance singulière” che si potrebbe tradurre anche come “Ferrara. Un Rinascimento speciale”.

Altro che i “me ne frego” che qualcuno potrebbe pronunciare! La cultura deve essere gestita con la consapevolezza di quel che si vuol fare e si deve fare. Anni tristi ci aspettano causa i danni del terremoto che hanno lesionato tanti palazzi e chiese così che la depisissiana “citta delle 100 meraviglie” si trova in fase di restauro. Non so se riuscirò a vedere lo splendore dei suoi monumenti rimessi in sesto. Ma lavoro per quello, per una speranza che va trasmessa ai più giovani a cui ci si si affida per trasmettere il testimone.

Ci riusciremo? Chissà! Comunque è la Speranza l’ultima dea.

In un cinema d’estate

racconto di Maurizio Olivari
foto di Giordano Tunioli

Si erano incontrati casualmente una sera d’estate nel cinema all’aperto del parco Pareschi di Corso della Giovecca. Il film ‘Assassinio sull’Orient Express’ era iniziato da non più di mezz’ora quando all’improvviso, preceduto da lampi e tuoni, si scatenò un forte temporale che provocò un fuggi fuggi generale. Molta gente trovò un riparo provvisorio in attesa che si placasse la furia della pioggia e del vento.

All’interno del parco, tutt’attorno allo spazio allestito per le proiezioni, si stagliavano alcuni grossi alberi frondosi presso i quali ci si poteva comodamente riparare. Paolo decise di mettersi proprio sotto uno di questi. S’era messo sulla testa il maglioncino di cotone che portava sempre con sé per non patire l’umidità della sera, e questo gli conferiva un aspetto alquanto buffo.
L’albero si trovava in fondo verso l’uscita, distante dallo schermo. Le immagini del film continuavano a scorrere, ma la visibilità era scarsa e l’audio era coperto dal rumore della pioggia. Tutto questo stava convincendo Paolo ad andarsene quando una ragazza accanto, anche lei col capo coperto da un giubbino, gli disse che di solito i temporali sono di breve durata e forse conveniva attendere qualche altro minuto prima d’arrendersi.
Paolo, un distinto sessantenne che si vantava di dimostrare meno anni di quelli che aveva – anche se una volta chiese a una ragazza: “quanti anni mi dai?” e questa gli rispose: “L’ergastolo!” – si voltò e replicò che non era una cosa saggia rimanere sotto gli alberi durante i temporali, dato che i fulmini li prendono spesso di mira.
Poi guardò meglio la ragazza che rimaneva in silenzio senza commentare, quindi decise di presentarsi: “Piacere, Paolo”
“Piacere, Francesca” rispose la ragazza.
Scoppiarono entrambi a ridere, pensando al dramma dei due amanti tragicamente inseriti nell’Inferno Dantesco.
La pioggia invece di calare, aumentava d’intensità e Paolo decise di tornarsene alla macchina posteggiata poco lontano e andare a casa.
“Io debbo per forza aspettare che smetta di piovere perché sono venuta in bicicletta” disse Francesca.
Paolo rispose dicendole di lasciare la bicicletta e permettergli d’accompagnarla a casa in macchina. Il giorno dopo lei sarebbe tornata a riprenderla.
Lei non volle accettare e lui fece per salutarla, non prima di un’ultima battuta: le disse che quella sera avrebbe scritto un racconto e lo avrebbe iniziato con la frase ‘S’erano incontrati casualmente una sera d’estate…’
La ragazza sorrise e gli augurò una buona serata. Paolo s’allontanò sotto la pioggia bagnandosi completamente, ma non ci fece caso: il pensiero di quel breve incontro lo distraeva piacevolmente.

Paolo, scapolone per scelta, aveva trascorso la sua vita lavorativa in giro per l’Italia, era stato ispettore per una compagnia di assicurazioni. Si fermava per qualche periodo in un posto poi ripartiva, finendo per fare come i marinai che si diceva avessero una donna in ogni porto. Così era stato per lui.
Ora, in pensione da pochi mesi, trascorreva le sue giornate dedicandole finalmente ai passatempi che prima, quando lavorava, aveva sempre trascurato: scrivere, fotografare, andare al cinema.

Il remake di ‘Assassinio sull’Orient Express’, a causa del temporale, venne riproposto qualche sera dopo e Paolo, col biglietto già pagato, tornò al parco e si mise a sedere nella solita fila quasi in fondo, impiegando il tempo in attesa dell’inizio del film a scorrere le mail del suo smartphone.
“Questa sera speriamo non arrivi il temporale.”
Una voce femminile arrivava dal posto accanto a lui, occupato con sua sorpresa da Francesca. Con un sorriso luminoso rispose che aveva portato un ombrellino d’emergenza ed era contento di vederla. Al riaccendersi delle luci, durante l’intervallo, si trovarono entrambi rivolti uno di fronte all’altra, a guardarsi, parlandosi solo con lo sguardo.
Francesca non era bellissima ma aveva un viso molto interessante ed espressivo, e a Paolo le tipe come lei piacevano parecchio. La osservava cercando d’indovinare quanti anni avesse. Non più di 30, pensò.

Durante la seconda parte del film giocarono a indovinare chi fosse l’assassino. Paolo, che aveva visto la versione originale, si divertiva a depistare Francesca su quale fosse il finale.
La serata era molto calda, il cielo sereno e una luna piena a schiarire il buio del parco. Paolo pensava che quella sarebbe stata la serata ideale per due innamorati, magari seduti vicini che si tenevano la mano e guardavano il loro film preferito. Non era affatto il suo caso: Francesca la vedeva per la seconda volta e lui poteva benissimo essere suo padre.
“Questa sera sono venuta con l’autobus, se vuoi mi puoi accompagnare a casa con la tua macchina.”
“Certamente Francesca, con molto piacere.”
Arrivati a destinazione, accompagnando alla porta la ragazza, avrebbe voluto fare come nella scena di molti film americani, dove l’attore, guardando negli occhi l’attrice, accennava ad una canzone, le prendeva la mano e finiva per darle un timido bacio. Non lo fece, sarebbe stato ridicolo. Si lasciarono con un arrivederci.
Era molto tempo che non provava quella strana sensazione di serenità. Avere incontrato una persona
che gli piaceva lo rallegrava. Dentro di sé si diceva di non fare i soliti voli pindarici, che molte volte lo avevano portato a forti delusioni; alla fine era soltanto una giovane ragazza educata, spigliata, che aveva accettato la sua momentanea compagnia. Niente di più.
Aveva avuto il numero di telefono di Francesca, segnandolo sul biglietto del cinema. Fortunatamente non lo aveva buttato.
“Posso invitarti a mangiare un gelato? Vuoi che una prossima sera andiamo al cinema? Andiamo a fare un giro in bicicletta?” si ripeteva. Come un ragazzino, era indeciso quale scusa usare telefonando a Francesca. Questa ragazza gli era rimasta nella mente. Desiderava rivederla, per conoscerla meglio, sapere di lei, della sua vita, della sua famiglia.
“Ho ancora tre giorni di ferie – gli rispose – possiamo uscire quando vuoi.”
Andarono un giorno a fare fotografie sul Po, lei con una Canon, lui con la Nikon, lei foto al paesaggio, lui a riprendere il suo viso. Scherzavano, sulla loro bravura di fotografi e si criticavano simpaticamente sulla marca delle loro macchine fotografiche. Si scattarono anche un selfie con il telefono giudicandolo, ridendo, una pessima immagine.
Il giorno successivo, lo trascorsero il mattino alla mostra del Palazzo dei Diamanti e il pomeriggio a passeggiare sulle mura della città.
Paolo notava sempre di più, delle affinità caratteriali e di comportamento, con il suo carattere, le sue preferenze, il suo modo di interagire. Insomma le piaceva moltissimo.
Durante quella passeggiata Francesca parlò della sua vita. Era figlia unica, aveva trentadue anni, non aveva conosciuto il padre perché la madre, appena saputo di essere in stato interessante, era stata obbligata dai suoi genitori ad abbandonare quello che era definito uno scansafatiche, non adatto a lei. Era nata lontano da Ferrara, dove era tornata solo dopo la morte dei nonni materni.
Paolo, mentre sentiva questa storia, si rendeva conto del perché questa giovane donna uscisse volentieri con lui. Ne vedeva una figura paterna. Cercò quindi di frenare un principio di passione che lo aveva coinvolto. Sentiva le famose farfalle nello stomaco
“E tu perché non sei sposato?” gli chiese improvvisamente, mentre si erano fermati vicino alla Casa del Boia.
Era imbarazzato, ma rispose di essere stato innamorato una sola volta più di trent’anni fa. Un amore finito male. Dopo, aveva fatto un po’ il farfallone e quindi ora, da anziano, cupido si era dimenticato di lui.
“Non esiste età per l’amore. Sai ho fatto vedere a mia madre il selfie che abbiamo fatto. Non ha gradito, anzi mi ha invitato a non rivederti più… Non uscire con uno così vecchio che potrebbe essere tuo padre” m’ha detto!
Nel pronunciare queste parole scoppiò in una fragorosa risata.
“Dai, prendila anche tu in ridere, vecchio signore! Adesso portami a casa, domani sera andiamo al cinema. Danno il film di Luciano Ligabue.”

Non riusciva a prendere sonno, le parole di quella ragazza lo avevano turbato. Era stato costretto a ricordare e raccontare di quello che era stato il suo grande amore.
Una ragazza, con la quale condivideva la bellezza della gioventù, spensierati ed allegri. Un amore però contrastato dalla famiglia di lei, tanto che un giorno la giovane non si fece più trovare. Mai una lettera, un contatto che lui aveva cercato invano.
Cercò di togliersi quei ricordi dalla mente, pensando che il giorno dopo avrebbe incontrato Francesca, nella quale aveva trovato la stessa gioventù, spensieratezza e allegria.
“Ho letto la recensione – disse – vedrai questo film ti piacerà.”
Entrarono cercando quelli che erano ormai diventati i posti consueti.
Mentre iniziava il film, gli sussurrò: “Ricordati che dopo debbo dirti una cosa importante.”
“Dimmela ora” rispose Paolo.
“No! Silenzio e guarda il film, pa…” non terminò la parola.

Non si erano fisicamente sfiorati nemmeno con un dito, tranne il casto bacio sulla guancia, quando si lasciavano a fine giornata, trascorsa insieme.
Paolo, mentre sullo schermo passava una scena d’amore, ruppe gli indugi e dolcemente prese la mano della ragazza, che guardandolo negli occhi, non negò l’atto, ma evitò l’incrociarsi delle dita.
Era un bellissimo momento e il cuore di Paolo iniziò a battere sempre più forte.

Erano appena passati dieci minuti, che improvvisamente si alzò un forte vento, in lontananza il rumore del tuono, le prime gocce che cadevano sempre più copiose.
Sorridendo Paolo e Francesca si guardarono negli occhi e ricordando il giorno del loro primo incontro, nello stesso cinema all’aperto, nella stessa situazione, corsero a ripararsi sotto le fronde del grande albero.
“Vado a prendere l’ombrello in macchina” disse Paolo.
“Va bene ti aspetto, ma ricordati che debbo dirti una cosa importante” rispose la ragazza.
A passo svelto uscì dal parco che ospitava il cinema e si diresse alla macchina, riparandosi sotto i cornicioni dei palazzi . Improvvisamente, un bagliore molto forte rischiarò la via, seguito dal boato del tuono, che somigliava allo scoppio di una bomba.
“Questa volta ha colpito vicino” pensò mentre si avvicinava alla macchina. Tornò camminando più lentamente, per riprendersi dalla precedente corsa. Arrivato al parco, si diresse verso il grande albero, dove un piccolo gruppo di persone si era riparato dalla pioggia ma avvicinandosi vide alcune di queste chine sul corpo di una donna. Il pensiero andò subito a Francesca. Infatti era così: la ragazza era distesa a terra con lo sguardo fisso nel vuoto.
“Il fulmine, è stato il fulmine” diceva la gente. “Sta arrivando l’ambulanza” esclamò una signora.
Paolo si mise in ginocchio e prendendole la mano la chiamò con dolcezza: “Francesca, sono qui”
“Non mi lasciare – sussurrò la ragazza – e ricordati che debbo dirti una cosa importante.”
Una sirena annunciava l’arrivo dell’ambulanza. Mentre caricavano la barella, la voce flebile di Francesca arrivò a Paolo.
“Debbo dirti una cosa importante… papà.”

Intanto sullo schermo appariva la parola ‘Fine’

Inverno

Non possono esistere mezze misure per parlare, scrivere, dipingere l’inverno, perché questa stagione è radicale, senza compromessi, così profondamente delineata e riconoscibile nei suoi tratti che si fatica ad attribuirle risvolti diversi da ciò che ci offre. L’inverno gioca la sua partita in una dualità che alterna il calore della casa al gelo circostante, le luci delle ore centrali delle giornate più corte alle lunghe ombre che dominano gran parte della nostra quotidianità, le albe siderali ai tramonti di fuoco, la vita vivace sulle nevi al bisogno di introspezione.
I mesi invernali trovano le loro forme più movimentate e festose nei dipinti fiamminghi e olandesi di Hendrich Avercamp, Jan Griffer, Isaack van Ostade, popolati di pattinatori sui canali, bambini su rudimentali slitte, barche a vela trascinate sulla superficie cristallina cariche di legna, carbone e altra mercanzia, carri incagliati nel ghiaccio e ruote di mulini coperte di ghiaccioli, ricchi signori impellicciati che passeggiano sulla lastra sdrucciolevole e improvvisati giocatori di curling che colpiscono i sassi con bastoni. E ancora, quei cacciatori circondati da una muta chiassosa, che al ritorno a casa osservano dall’alto la folla vivace sul ghiaccio, come li ha voluti dipingere Pieter Bruegel il Vecchio.
Inverno aspro, invece, quello con cui i romantici tedeschi e inglesi identificavano lo spirito nordico. Nel dipinto dell’inglese William Turner ‘Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi’ (1812), viene rappresentata la potenza distruttiva della natura invernale che domina la scena, eclissando gli uomini. Un inverno a volte desolante e straniante, altre impetuoso e aggressivo, compare nei dipinti del tedesco Caspar Friedrich. ‘Il mare di ghiaccio’, conosciuto anche come ‘Il naufragio della speranza’ (1811), infonde un immediato senso di sopraffazione davanti a un ammasso irregolare, incontenibile e pericoloso di acuminate lastre di ghiaccio in movimento; mentre in altre opere, come ‘Paesaggio invernale con chiesa’ e ‘Paesaggio d’inverno’ (1811), le ombre scure rimangono sullo sfondo e l’atmosfera cupa viene attutita dal candore della neve in primo piano.

Un inverno eccezionale viene magistralmente descritto in letteratura, nell’affascinante romanzo di Virginia Woolf ‘Orlando’ (1928), nelle pagine in cui si parla del Grande Gelo, una piccola era glaciale a tutti gli effetti. Tra il 1608 e il 1695 il Tamigi gelò completamente bel dodici volte e il pack ghiacciato raggiunse i 30 cm di spessore. Era talmente resistente da permettere la creazione di grandi ‘Fiere sul ghiaccio’, con percorsi, luoghi di commercio e divertimento. In quel secolo l’ondata di gelo si fece sentire in tutta Europa e sulle Alpi i ghiacciai raggiunsero il massimo della loro estensione. Molte popolazioni della Savoia e del Tirolo dovettero spostarsi dai loro villaggi. A Londra, l’eccezionalità dell’evento diede vita ad attività di ogni genere sul fiume gelato: si aprirono negozi di barbieri, si crearono barche a slitta, si arrivò ad organizzare le tradizionali caccia alla volpe lanciando sul ghiaccio le prede, ci si dilettava al gioco delle bocce e del pallone, ci si ubriacava con bevande alcoliche calde, oltre che pattinare e passeggiare. Scrive la Woolf: “Il Gran Gelo fu, secondo quello che tramandarono gli storici, il più rigido che mai avesse colpito le nostre isole. Gli uccelli gelavano a mezz’aria e cadevano a terra come sassi. A Norwich, una giovane villana, la quale si era accinta ad attraversare la strada in ottima salute, fu vista dagli astanti andar in polvere e volare in un angolo al di sopra dei tetti, all’urto del vento gelido. Immane era la moria negli ovili e nelle stalle. I cadaveri gelavano e non potevano essere rimossi. Non era raro imbattersi in interi branchi di porci che il freddo aveva colto e solidificato in mezzo alle strade, una specie di pietrificazione”. Le cronache dell’epoca aggiungono ancora che il fiume luccicava alla luce dei falò che non riuscivano a sciogliere il ghiaccio che aveva la durezza dell’acciaio ed era talmente trasparente che si poteva scorgere sul fondo qualche imbarcazione affossata e imprigionata.
Lunghi inverni rigidi, dai contorni tragici, difficili ma familiari sono i protagonisti dei romanzi russi. ‘La tempesta di neve’ (1831) di Alexander Pushkin descrive la tormenta, ambientazione del racconto: “Il vento ululava, le imposte tremavano e sbattevano, tutto pareva minaccia e triste presagio”. E infatti la bufera interviene nei destini dei protagonisti e cambia le loro vite. Mur’ja non riuscirà a sposare il fidanzato perché il giovane, bloccato dalla neve alla vigilia delle nozze, non trova la via della chiesa. E ancora di inverno russo si parla nel romanzo ‘Il dottor Zhivago’ (1957) di Boris Pasternak, dove la tundra coperta di neve scintilla al sole e ci fa sognare. Troike che corrono veloci sulla superficie innevata, l’ululato dei lupi, i colbacchi di folta pelliccia e il silenzio che solo l’inverno sa reggere sono quasi vivi e palpabili, mentre il freddo e il gelo sono in contrasto con il calore delle relazioni umane.

L’inverno è amato da pochi, è una stagione solitaria, senza fronzoli e attrattiva immediata, quasi incolore, zitto e sfuggente da ogni percezione di movimento e vitalità ma il suo fascino discreto e pudico ha dato origine a molte pagine di letteratura, dipinti, brani musicali che ne hanno colto i segreti trasformandoli in emotività pura. Marcela Serrano scriveva: “Mi sono affezionata all’inverno perché sento che è vero, non come l’estate che vola via e sembra così divertente e allegra ma non lo è, perché il sole è sempre di corsa e lascia tutti con l’amaro in bocca. L’inverno non pretende di confortare, ma in fin dei conti sento che è consolante, perché una si raggomitola su se stessa e si protegge e osserva e riflette, e credo che soltanto in questa stagione si possa pensare per davvero”.

PER CERTI VERSI – D’alberi e magia

A partire da oggi, ogni domenica Ferraraitalia ospiterà “Per certi versi”, angolo di poesia curato dal professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.

Roberto Dall’Olio

Roberto Dall’Olio insegna Storia e Filosofia al liceo classico “Ariosto” di Ferrara. Nativo di Medicina, è attualmente anche assessore all’Intercultura, valorizzazione dei beni culturali e sport del Comune di Bentivoglio, ove risiede, nel cuore della pianura bolognese.
Poeta e autore dal forte impegno civile, ha vinto il concorso nazionale di poesia va pensiero a Soragna (Parma).Tra le sue pubblicazioni: Entro il limite. La resistenza mite in Alex Langer (La Meridiana, 2000); Per questo sono rinato (Pendragon, 2005, con una nota di Roberto Roversi); La storia insegna (Pendragon, 2007); Il minuto di silenzio (Edizioni del Leone, 2008), La morte vita (Edizioni del Leone, 2010);  La notte sul mondo. Auschwitz dopo Auschwitz (MobyDick, 2011); Viole d’inverno. Canzoniere d’amore (Edizioni Kolibris, 2013, con note di Giampiero Neri e Umberto Piersanti). Sue poesie sono apparse su riviste e in antologie. Ha pubblicato il saggio Entro il limite. La resistenza mite in Alex Langer (La Meridiana, 2000). E’, inoltre, redattore della rivista “Inchiesta” diretta da Vittorio Capecchi e membro del Direttivo bolognese dell’Anpi.

Ecco, dunque, le prime tre composizioni liriche che l’autore ha riservato ai nostri lettori.

 

Alle nostre foreste

Cadono gli alberi
sradicati
dal vento
un crudo barbiere
taglia la gola
ai tronchi
come peli oziosi
dei monti
delle valli
sconvolte
sembra fuoco
che rade
è sangue
di fango
la memoria
atterrita
mai accaduto
non chiediamo
aiuto
cambiamo la vita

 

***

Tutto è magico intorno a noi

Tutto è magico
Intorno a noi
La fumana dalla terra
Avvolge in una pellicola
il cielo
E si srotola il film
della nostra vita
Un abbraccio
Nell’abbraccio
Quel grigio
Sfumato di bianco
Che pittura e sfiamma i mondi
Che abbiamo attraversato
È tenero ricordare coi passeri
Che l’amore è tutto
La sorgente
La foce
La pioggia
Valliva
La saliva che dipinge
Il tuo corpo
Nella mia tela
Tu la sfiori
Io accorro
E trovo
La melagrana aperta
La lingua
Dei baci
Solo noi
Ne siamo capaci

 

***

Mi dai lezioni

Ci amiamo tanto
e da così tanto
che abbraccciarci è
Già fare l’amore
Che baciarci le mani
Accarezzarle
È già fare l’amore
Che parlarci
Rilascia un lieve profumo
di una vita
Di due vite
Avvitate
Come dei filari
Diseguali
Che a te piacciono
Per la geometria
Nodosa
Tu mia Yin
Amorosa
Mi emozioni
sempre
E sempre la nostra pianta
Si disseta
Rimane umida
La terra
Tutte le volte
Che sto con te
Che ti penso

Mi dai lezioni

 

***

L’Emilia crocevia della droga, anche Ferrara nella rete del narcotraffico

“Rimanendo invariato l’attuale trend ci porterà a mercati nei quali, progressivamente, i beni ed i servizi che acquisteremo ed il lavoro che avremo, ci saranno, in larga parte, forniti dalla emanazione di associazioni criminali. Dunque, il rischio è che la nostra democrazia liberale si trasformi in democrazia criminale, nella quale, le persone oneste che vogliono mettersi sul mercato ed iniziare una qualsiasi attività economica parteciperanno ad una gara truccata”.
Democrazia criminale: dovrebbe essere un ossimoro. Eppure è l’allarme lanciato nell’ultima relazione della Direzione Nazionale Antimafia a inizio 2018. Basta riflettere solo un momento sulla capacità corruttiva che una liquidità “quasi illimitata” può garantire. Una liquidità assicurata dal narcotraffico, come sostiene l’ultima relazione della Commissione parlamentare antimafia (febbraio 2018): “l’economia illecita delle mafie si alimenta in primo luogo dei lucrosi proventi del narcotraffico”. Secondo i dati 2016 di Unodc – United Nations Office on Drugs and Crime – il giro di affari del narcotraffico supera i 560 miliardi di euro a livello globale e in Italia i 30 miliardi di euro, circa il 2% del Pil nazionale.

Ma cosa c’entra la ridente, benestante Emilia Romagna con questi loschi scenari del crimine internazionale? C’entra perché, come ha dimostrato il processo Aemilia conclusosi lo scorso ottobre, i nostri territori ormai sono ‘fortini’ conquistati alle organizzazioni mafiose e Bologna è “crocevia dei traffici di droga”.
‘Bologna crocevia dei traffici di droga’ è il titolo di un dossier, a cura di Libera Bologna e Libera Informazione, uscito nello scorso maggio, che evidenzia alcuni dei maggiori cambiamenti avvenuti negli ultimi anni. Il settore del narcotraffico, insieme a quello dei giochi e delle scommesse illegali, è una delle attività economico-criminali ad alta complessità organizzativa. Inoltre la portata degli interessi in gioco è tale da far prevalere, tra camorra, ‘ndrangheta e cosa nostra, la convenienza di una spartizione concordata dei profitti illeciti piuttosto che puntare a posizioni monopolistiche che potrebbero determinare situazioni di contrasto” (fonte: relazione della Direzione investigativa antimafia al 1° semestre del 2016). Infine si è creata una sinergia tra diverse organizzazioni criminali con ramificazioni internazionali per la gestione delle fasi di approvvigionamento delle droghe che rende ancora più complesse le attività investigative. Per esempio, la ‘ndrangheta vive di rendita, non organizza neanche più i trasporti: è un broker. Le poche volte in cui sono direttamente gli ‘ndranghetisti a comprare, le condizioni sono di assoluto favore: possono pagare dopo oppure non pagare il carico se viene sequestrato, due privilegi enormi per il narcotraffico, perché si azzera il rischio d’impresa. È accertato poi che la ‘ndrangheta, per ridurre i rischi di sequestro della merce nei porti calabresi, sottoposti a pressanti controlli delle forze di polizia giudiziaria, si avvale sempre più di gruppi criminali stranieri che controllano le aree portuali di altre regioni italiane. Quali sono? Per esempio l’Emilia Romagna, dove c’è una nuova rotta marina tracciata dalla criminalità organizzata albanese: tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre 2017, in due distinte operazioni antidroga effettuate dai Carabinieri, sono state sequestrate complessivamente oltre 5 tonnellate di marijuana trasportate su gommoni e scaricate lungo il litorale di Ferrara e di Ravenna. Insomma, la costa adriatica romagnola, dopo quella pugliese e marchigiana, sta diventando di particolare interesse.

Premettendo che i sequestri operati dalle forze di polizia territoriali rappresentano, mediamente, una percentuale di circa il 15-20% del totale delle droghe immesse sul mercato nazionale, questi sono i dati dei sequestri di stupefacenti (sia pure provvisori) effettuati nella prospera Emilia Romagna nel 2017: 15.334,09 kg. Un dato decuplicato rispetto solo all’anno prima. E nel 2018, stando ai primi dati ‘in lavorazione’ alla Direzione Centrale per i servizi antidroga, “la situazione in regione sul narcotraffico è destinata a peggiorare e non si vede, allo stato attuale, nessuna ragionevole iniziativa per arginare un fenomeno criminale così devastante”. A scriverlo, nel dossier di Libera Bologna, è Piero Innocenti, ex dirigente della Polizia di Stato, direttore del Servizio Affari Internazionali e Servizio Operazioni Antidroga della Dcsa.
A Bologna nel 2017 alla data del 1 ottobre sono 1.281,835 i kg sequestrati, di cui circa 30 kg di cocaina, 12 kg di eroina e la parte restante di hashish (oltre 900 kg) e di marijuana. Sul dato del 2017 incidono però notevolmente i sequestri avvenuti sulle coste di Ravenna, di Ferrara e nel territorio di Parma: tre ingenti quantitativi di marijuana in buona parte di provenienza albanese per complessive 12,5 tonnellate circa destinate ai ‘rifornimenti’ di altre piazze.
E, infatti, se il primato 2017 spetta alla provincia di Parma con 8.323,390 kg di merce sequestrata, di cui 8.153 kg di marijuana, intercettati a febbraio, e la seconda posizione va a Ravenna con 2.561,541 kg – in prevalenza di marijuana (2,4 ton) ma anche 5,5 kg di eroina, 4,5 kg di cocaina e 236 piante di cannabis – la ‘nostra’ Ferrara si colloca al terzo posto con 2.243,621 kg di cui circa 1 kg di eroina, poco più di mezzo chilogrammo di cocaina, 912 piante e 147 persone denunciate all’autorità giudiziaria, di cui 71 stranieri (il 48%).

Cosa fare poi di questa enorma quantità di denaro a disposizione? Una volta soddisfatte le esigenze di finanziamento delle attività criminali tout court, le mafie hanno la necessità di ripulire i fondi illeciti per ricollocarli nell’economia legale, e parallelamente, quella di occultarne la provenienza delittuosa. L’ammontare delle segnalazioni di operazioni sospette di riciclaggio trasmesse alla Unità di Informazione Finanziaria (UIF) da parte di intermediari, professionisti ed altri soggetti obbligati nelle sole province dell’Emilia Romagna per l’anno 2017 è stato il seguente: Bologna 1.502; Modena 991; Reggio Emilia 830; Parma 804; Rimini 622; Ravenna 470; Forlì Cesena 482; Piacenza 382. Ferrara, questa volta, è fanalino di coda con 255 segnalazioni.
Le modalità di infiltrazione nell’economia legale sono diversificate. Accanto alle imprese mafiose, sorte ab origine da fondi illeciti, esistono e hanno ormai un ruolo di canale di riciclaggio privilegiato, soprattutto al Centro-nord, le imprese a partecipazione mafiosa, cioè quelle che pur essendo nate nel rispetto della legalità hanno visto in seguito una compartecipazione criminosa oppure hanno acconsentito all’entrata nella compagine sociale di ‘soci occulti’. C’è poi il settore degli appalti pubblici: l’organizzazione non si serve della forza intimidatoria di uomini armati, ma ricorre all’enorme quantità di denaro accumulato per foraggiare funzionari compiacenti e per pagare l’assistenza di soggetti che non appartengono direttamente al sodalizio criminale, ma che rivestono ruoli chiave nelle società, nella finanza e nel commercio. Aemilia docet.
Oggi inoltre la criminalità organizzata può giovarsi di opportunità e tecniche di riciclaggio mai sperimentate nel passato, favorite soprattutto dall’integrazione dei mercati, dalla liberalizzazione della circolazione dei capitali e dalle potenzialità offerte dal web: le valute virtuali, come per esempio bitcoin, forniscono un nuovo strumento di riciclaggio per i criminali, consentendo loro di far circolare e conservare fondi illeciti, nell’assoluto anonimato. Urge una regolamentazione legislativa del settore, possibilmente a livello internazionale, anche e soprattutto penale.

Ecco che dall’economia si passa alla democrazia. Dalla democrazia liberale alla democrazia criminale. E allora la domanda diventa: quanto il narcotraffico incide non solo a livello economico, ma anche a livello di democrazia?
E la risposta la si può leggere ancora nella relazione della Dna: “la partita del contrasto al narcotraffico rimane decisiva. Non solo perché è indispensabile frenare e contenere un fenomeno, quello della diffusione degli stupefacenti, che ha riflessi assai rilevanti su beni di primario rilievo costituzionale quali la salute e l’ordine pubblico”, ma perché “contrastando il narcotraffico, in modo adeguato, si prosciuga la principale risorsa finanziaria delle grandi organizzazioni criminali e, fra queste, di tutte le mafie e di vari sodalizi terroristici […] si diminuisce la forza, l’efficienza, la capacità criminale, la capacità corruttiva, in una parola, la ricchezza, di tali organizzazioni e di tutta la complessa filiera che vi gira intorno”.

Per leggere il dossier ‘Bologna crocevia dei traffici di droga’ clicca QUI

Di narcotraffico in Emilia Romagna si parlerà lunedì 26 novembre alle ore 21 a Factory Grisù nell’incontro “Droghe: tra narcotraffico e spaccio in Emilia-Romagna” organizzato da Libera Ferrara.
Clicca QUI per visualizzare la locandina dell’iniziativa e QUI per la pagina fb dell’evento

Dal bagno alla stanza da letto la strada non sempre è breve

Il water-closet così come lo conosciamo oggi è stato inventato intorno al 1885, quando Thomas Crapper aggiunse alla tazza lo sciacquone. Un’invenzione rivoluzionaria in quanto l’acqua permetteva di pulire il gabinetto consentendo di liberarsi in modo efficiente di materiali ad alto contenuto batterico che altrimenti avrebbero potuto favorire l’insorgenza e la diffusione di malattie e infezioni. Come non ricordare che tutto questo, nell’indimenticato film ambientato nel medioevo “Non ci resta che piangere”, terrorizzava il compianto attore napoletano Massimo Troisi.

Per noi occidentali, europei e nord americani, rappresenta una realtà scontata e i più giovani, e più abituati alle comodità della nostra vita moderna, faranno molta fatica ad immaginare che circa 4,5 miliardi di persone non hanno ancora accesso alla toilette. In realtà, fuori dal cerchio magico, l’accesso all’acqua è una realtà fatta di file e di lunghe passeggiate e il problema è particolarmente acuto nel continente africano. Più della metà della popolazione di Eritrea (76%), Niger (71%), Ciad (68%) e Sud Sudan (61%), ad esempio, non ha accesso a servizi igienici di base. In altre parole defecano all’aperto.

Anche in India si vive lo stesso dramma, rappresentato tra l’altro in un film bolliwoodiano dal titolo “Toilet: a love story”. In questo caso un dramma dovuto più a scelte legate alla tradizione che alle possibilità economiche. Costume indiano vuole, infatti, che gli escrementi in casa ne deturpino la purezza per cui meglio andare per campi e magari di notte.

In Africa il problema è un po’ più variegato e sotto certi aspetti ci interessa anche di più dovendo convivere con i suoi flussi migratori. Nel 2015 l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha classificato il Ghana come settimo paese più sporco del mondo, e questo dovuto proprio alla pratica della defecazione all’aperto. Secondo David Duncan, responsabile di Wash (Water, Sanitation and Hygiene) nell’ufficio dell’Unicef in Ghana, la maggior parte delle persone nelle tre regioni del Nord del paese non vede un bagno come una necessità perché la defecazione all’aperto è una pratica diffusa da generazioni.

In ogni caso, al di là di tradizioni o sentimenti, l’accesso all’acqua e alla toilette vanno di pari passo con il dramma della mortalità per malattie dovute alla carenza di igiene. Secondo i dati dell’Unicef e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità l’accesso all’acqua in questo continente avviene come da tabella di seguito:

Regione Da fonte: gestita in modo sicuro di base limitata Non controllata Da acque di superfice
Middle East and North Africa 77% 16% 4% 2% 1%
Eastern and Southern Africa 26% 28% 18% 16% 12%
West and Central Africa 23% 40% 10% 20% 7%

che rapportato a quanto succede dalle nostre parti dà l’idea del dramma

Regione Da fonte: gestita in modo sicuro di base limitata Non controllata Da acque di superfice
North America 99% 1%
Western Europe 96% 3% 1%

Secondo il World Economic Forum, l’acqua rappresenta un rischio globale tra i più importanti a livello mondiale anche dal punto di vista economico. Infatti stima che ogni anno si perdono 260 miliardi di dollari a causa della mancanza di acqua di base e di servizi igienico-sanitari. Per il Ghana, che abbiamo citato sopra, il costo fu stimato nel 2012 dalla Banca Mondiale in 79 milioni di euro l’anno. Un accesso universale a questi servizi porterebbe invece benefici per quasi 18,5 miliardi di dollari.

Garantire l’accesso all’acqua, scrive il W.e.f, ha profonde conseguenze. Per ogni dollaro investito in acqua e servizi igienico-sanitari, c’è un ritorno di 4 dollari dovuti a costi sanitari più bassi, maggiore produttività e meno decessi.

Ma passiamo alla buona notizia.

Bill Gates, l’inventore del Dos prima e del Windows dopo, ha presentato a Pechino il water del futuro, che funziona senza acqua né fognature. La ‘Reinvented toilet’ grazie a una reazione chimica trasforma i rifiuti umani in acqua pulita, elettricità e fertilizzante. Per il progetto la Fondazione Bill e Melinda Gates ha stanziato 200 milioni di dollari in sette anni, meno di 30 milioni l’anno.

L’idea della fondazione è di destinare questo water in particolare ai paesi poveri dove le scarse condizioni igienico-sanitarie uccidono ogni anno quasi mezzo milione di bambini di età sotto i cinque anni, dice la pubblicità.

Certo sapere che meno di 30 milioni l’anno in ricerca potrebbero salvare la vita a milioni di bambini africani e creare migliori condizioni igieniche e di vivibilità in un intero continente dovrebbe far venire i brividi. Pensare a quanto la tecnologia stia andando avanti, a quanto il futuro sia già alle porte, al fatto che forse siamo già noi il futuro dovrebbe porci domande molto intriganti, sollevare dubbi riguardo al nostro modello di sviluppo e persino avanzare accuse rivolte ai padroni del progresso.

Mentre milioni di bambini, donne e uomini soffrono e muoiono per malattie legate alle condizioni igieniche scopriamo che modesti investimenti potrebbero risollevare le loro sorti. Abbiamo la tecnologia per andare avanti ma rimaniamo ancorati a concetti vecchi come l’attesa dell’iniziativa privata, della carità e dei tempi del ricco uomo d’affari.

Discutiamo su che tipo di politica dobbiamo applicare nei confronti dei migranti ma non ci chiediamo come aiutarli davvero e questo perché la risposta passa sempre dagli interessi economici nonostante sia anche provato che a far stare bene l’Africa ci si potrebbe anche guadagnare. Si guadagnerebbe di più portando sviluppo e donando condizioni migliori di vita attraverso il progresso tecnologico piuttosto che essere costretti ad inviare aiuti, cibo e medicine.

Ma se il dibattito fosse approfondito si rischierebbe di scoprire che le spese degli aiuti sono a carico della collettività mentre i guadagni dello sfruttamento a beneficio di azionisti di multinazionali, petrolieri, finanzieri e grandi società (mi permetto di consigliare la lettura di “Confessioni di un sicario dell’economia. La costruzione dell’impero americano nel racconto di un insider” di John Perkins).

Il punto, come sempre, è che noi (gente comune con molto cuore e pochi soldi) ci guadagneremmo mentre tutti gli azionisti che operano, a volte inconsapevolmente, in questi Paesi e in compagnia dei Paesi occidentali che trovano più comodo sfruttare (vedi Francia) che cooperare, ci perderebbero.

Che sforzo sarebbe stato per uno Stato investire 30 milioni all’anno per creare un oggetto salva vite del genere? E forse ci sarebbero voluti anche meno di 7 anni se avessero partecipato tutti insieme i paesi europei. Avrebbero creato ricchezza anche da noi, pagando ricercatori e dando contributi alle università e si sarebbero meritati quel premio Nobel 2012 per la pace che ad oggi risulta un po’ “rubato”, viste le troppe partecipazioni ad interventi armati e la continua vendita di armi all’estero.

Da una parte gli stati africani non possono spendere perché hanno debiti da ripagare, non hanno personale specializzato né un sistema per poter arrivare ad invenzioni di tale portata. Dall’altra la ricca Europa dell’euro non può spendere per le regole di Maastricht e di Lisbona che impongono austerità, anche questa per ripagare i debiti. L’Africa accomunata all’Europa, entrambe carenti di sovranità, entrambe avviluppate nell’incubo del debito mentre aspettano l’autorizzazione alla sopravvivenza, allo sviluppo, al progresso.

Sempre di più il nostro futuro dipenderà da un ricco privato, da una multinazionale o da qualche lobby. Questo è il mondo senza sovranità, ovvero senza la possibilità di decidere in autonomo la propria evoluzione oppure attraverso libere istituzioni, rappresentate da persone liberamente elette dai popoli. Un mondo privato dello spazio dove poter esercitare la democrazia, globalizzato d’imperio, finanziarizzato per legge, povero e senza futuro per scelta.

Giuliano Gallini presenta il libro “Il secondo ritorno”

Da: Organizzatori

Mercoledì 21 novembre incontro con l’autore alla libreria Feltrinelli

Mercoledì 21 novembre alle ore 18 Giuliano Gallini presenterà alla libreria Feltrinelli il suo ultimo libro “Il secondo ritorno” (Edizioni Nutrimenti). Modera l’evento Sergio Gessi.

Giuliano Gallini è nato a Ferrara e vive a Padova. È sposato e ha una figlia. È direttore marketing strategico e comunicazione di Cir food dalla fondazione del gruppo (1992). Precedentemente ha lavorato a Conad. Tra i suoi maggiori interessi, la lettura e la scrittura. Nel 2017 è stato pubblicato il suo primo romanzo, Il confine di Giulia, che ha avuto un grande successo di critica.

BORDO PAGINA
Wall Street 2019, intervista al Maestro d’Arte Daniele Carletti da Ferrara

Protagonista sempre raffinatissimo tecnicamente (una neometafisica o neopop anche molto molto Personal…) di lunga data a Ferrara e non solo, il Maestro d’arte Daniele Carletti ha appena pubblicato Wall Street 2019, Asino Rosso ebook, sorta di microcatalogo web, tra opere e rassegna stampa fin dagli anni novanta, impreziosita dalla cover con il grande Pavarotti (con dedica) conosciuto a suo tempo per la sua partecipazione a ‘Pavarotti International’.
Carletti vanta mostre anche in Usa, Francia e in Italia (Artisti in Fiera, Torino 2002) e numerose altre città (ai tempi di Don Patruno, Casa Cini a Ferrara).
Una presenza ancora recente e costante nella Galleria d’Arte Il Rivellino, curata dal ben noto Emidio De Stefano, e diverse iniziative, stage per giovani artisti e anche diverse mostre collettive.
Soprattutto in questo 2018, dopo una certa assenza per questioni extra artistiche, è ritornato alla ribalta su scala nazionale partecipando a Lucca (Villa Bottini) a un importante edizione del Festival del Nuovo Rinascimento a cura del fondatore e curatore Davide Foschi, gruppo in cui è coinvolto attualmente e in forte progress nella cultura italiana nuova e creativa (non solo Arte, una visione neorinascimentale 2.0 di speciale effervescenza).

Maestro, un suo nuovo percorso artistico di ampiezza nazionale, neorinascimentale come focus del festival, un approfondimento?
Lucca è stata una grande opportunità. Ringrazio innanzitutto il curatore Davide Foschi e tutto il suo staff che mi hanno permesso di poter esporre e confrontarmi con gli altri artisti del nuovo rinascimento. Esperienza questa importante che allarga il mio percorso artistico.

Daniele, una ormai lunga e nota carriera come artista, uno zoom autobiografico?
Il mio percorso artistico parte nel 1992, dopo avere svolto esposizioni importanti in buona parte del territorio nazionale e non. Ad oggi con l’esplosione di Lucca mi ha ulteriormente stimolato alla ricerca di nuovi orizzonti.

Daniele Carletti, l’arte contemporanea oggi, come la vedi?
Molte sono le espressioni artistiche oggi, facilitate da supporti tecnici infiniti. In questa società apparentemente libera ma appannata da falsi valori ,l’artista contemporaneo, ha il dovere di rilanciare con il proprio lavoro, un messaggio forte e di scuotere gli stati d’animo dell’osservatore, è ribadire con forza il suo valore sociale.

Daniele… Lucca neorinascimentale… e Ferrara?
Due città apparentemente uguali, ma con qualche differenza. Lucca città aperta alle opportunità e preparata con occhi di riguardo verso artisti, poeti e scrittori che hanno accolto il nuovo rinascimento. Ferrara purtroppo ancora no.

Info
Ferrara Italia Festival del Nuovo Rinascimento, Lucca, 2018
Ferrara Italia eBook Asino Rosso – Wall Street 2019 (2018)
Mondadori eBook

Circolo Unione Ferrara – Film “Il Crollo di un Impero” di Massimo Sani, 1968

Da: Circolo Unione Ferrara

Venerdì 23 novembre alle ore 17,30 -Circolo UnioneVia Lollio 15, Ferrara

Nel centesimo anniversario della caduta dell’impero austro ungarico il Circolo Unione di Ferrara invita la città ad assistere alla proiezione del film inchiesta “Il crollo di un impero” realizzato nel 1968 per la RAI dal regista ferrarese Massimo Sani, recentemente scomparso.
Il film, di proprietà della Fondazione Sani, dura 70 minuti. La proiezione sarà preceduta da una presentazione della Prof. Anna Maria Quarzi, presidente dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, con la partecipazione del Prof. Andrea Baravelli, professore di Storia Contemporanea presso Unife.
La proiezione si terrà venerdì 23 novembre alle ore 17,30 presso la sede del Circolo Unione in via Lollio 15, Ferrara. Gli interessati possono accedere liberamente al Circolo, fino ad esaurimento dei posti disponibili.

Il film
Il crollo di un Impero è un docudramma realizzato nel 1968 da Massimo Sani in collaborazione con il regista tedesco Pierre Hoffmann per la rubrica «Almanacco» della RAI-TV, in occasione delcinquantesimo anniversario della fine della prima guerra mondiale. Il lavoro, della durata di 70minuti, esplora le cause della caduta della monarchia austro-ungarica al termine del conflittoconcentrandosi in gran parte sulla ricostruzione dell’ultima seduta della Camera dei Deputati (Abgeordnetenhaus) del Parlamento austriaco ( Reichsrat), apertasi a Vienna l’1 ottobre 1918 etrasformatasi ben presto in un accesissimo terreno di scontro tra la cancelleria asburgica e ideputati appartenenti ai vari territori dell’Impero sulla questione dell’autonomia delle nazionalitàdal governo centrale, che di lì a poco avrebbe condotto alla dissoluzione di quella articolatacompagine statale. A distanza di cinquant’anni da quei fatti Massimo Sani è tornato all’interno delParlamento di Vienna servendosi di una serie di attori professionisti, ai quali ha affidato il compito difar rivivere, attenendosi fedelmente ai verbali originali delle sedute, la rovente atmosfera diquello storico dibattito dando così vita ad un vero e proprio lavoro di teatro-inchiesta televisivoin bianco e nero di rara efficacia.
In allegatoalcune foto dello storico edificio del Parlamento di Vienna al cui interno Massimo Sani ha girato le sedute del Crollo di un Impero nel 1968 per la RAI-TV.

Congresso nazionale Arcigay Macario nella segreteria nazionale

Da: Argigay Ferrara

Si è svolto a Torino il 16-17-18 Novembre, il XVI Congresso Nazionale di Arcigay che ha proclamato Gabriele Piazzoni Segretario Generale e Luciano Lopopolo neo Presidente al posto dell’uscente Flavio Romani, ferrarese di adozione e al suo secondo e ultimo mandato.
Ma Ferrara rimane protagonista della scena nazionale di Arcigay, giocando un ruolo impotante nella governance dei futuri quattro anni di mandato dell’associazione. Manuela Macario, attuale Presidente di Arcigay Ferrara è stata eletta componente della Segreteria nazionale con la delega al Lavoro e Marginalità. Un compito che la vedrà impegnata sul fronte dei diritti sociali e civili. nella lotta alle discriminazioni nei contesti lavorativi, nel contrasto alla marginalità ancora troppo spesso conseguenza del proprio orientamento sessuale e identità di genere. Anche Eva Croce, attuale Vice Presidente di Arcigay Ferrara rivestirà un ruolo nazionale come componente del Collegio dei Revisori dei Conti, mentre Simone Buriani, attuale responsabile del tesseramento del comitato ferrarese, è stato eletto Consigliere nazionale di Arcigay.
Un successo per il comitato di Arcigay Ferrara che è il risultato di tre anni di intensa attività, di crescità dell’associazione che conta oggi più di duecento tesserati e una cinquantina di attivisti che sono il cuore, l’anima e il motore di un’associazione giovane e dinamica.
Ora si apre per Ferrara una nuova fase congressuale locale che sì concuderà il 12 Gennaio 2019 con il Congresso Provinciale per il rinnovo delle cariche sociali.Dopo tre anni di presidenza Manuela Macario passerà il testimone anche a fronte di questo nuovo incarico nazionale e si avvicenderà alla guida del comitato ferrarese Eva Croce, attuale vice presidente e coofondatrice del Gruppo TransFer.

Asino Rosso Ferrara – Ebook, Wall Street 2019 di Daniele Carletti, Maestro d’Arte ferrarese

Da: Asino Rosso Ferrara

On line per la ferrarese Asino Rosso eBook, Wall Street 2019 di Daniele Carletti, Maestro d’Arte e storico Pittore ferrarese contemporaneo.
” Protagonista sempre raffinatissimo tecnicamente (una neometafisica o neopop anche molto “molto Personal…” di lunga data a Ferrara citta d’arte e non solo, il Maestro d’arte Daniele Carletti nasce a Porotto (Ferrara) nel 1952. Attratto fin da piccolo dalle arti plastiche e figurative, dopo la scuola dell’obbligo si iscrive Bologna, dove si diploma brillantemente in pittura nel 1975, sotto la guida del maestro Walter Lazzaro. Numerosi i suoi quadri acquistati da collezionisti e amatori, Tra le mostre più importanti, ricordiamo: Jacob Javits Centre di New York (Artexpo 1994), Sala Zanolini di Ferrara (1994,1995 e 1997), Sala Marta del Comune di Ivrea (1995); Pavarotti International (1996), Galleria Oreste Marchesi di Copparo (Ferrara, 1997), Saturnia, Comune di Manciano (Grosseto, 1997 e 1998), Torre Matildea di Viareggio (Lucca, 1998), Castello di Capalbio, (Grosseto, 1998) , Bnl di Ferrara per Téléthon 1998, Trofeo “Art & Golf’ a Franciacorta (Brescia, 1999), Chiesa di Santa Lucia a Macerata Feltria (Pesaro 1999), Sala “Loggia Amblingh” di Vasto (Chieti, 1999), Galleria “Préau des arts” a Nyons (Francia, 1999), Saturnia(1999), Biblioteca comunale di Peschiera del Garda, Galleria “Marchesi” di Rovigo, Circolo culturale “Vincenzo Civerchio” (Crema, 2001), Art Gallery di Pienza (Siena, 2001 e 2002), Villa Pomini in Città di Castellanza (Varese, 2001), Artisti a Torino (2002), Galleria Via Maestra di Poggibonsi (Siena, 2002), Castello di Lerici (La Spezia, 2003), Casa Ariosto (Ferrara, 2004), Villa Bottini con il movimento Nuovo Rinascimento (Lucca, 2018, a cura di Davide Foschi). Questo microcatalogo web cristallizza per la prima volta il suo percorso artistico, tra mostre, opere in “versione digitale” e puntuali note critiche.

“Sulla Mia Pelle”… e sulla nostra: l’inadeguatezza del ministro Salvini

da: Alessandra Tuffanelli

Alla presenza della famiglia Cucchi, ieri pomeriggio a Roma, c’è stata una proiezione del film “Sulla Mia Pelle”, organizzata e fortemente voluta dal Presidente della Camera Roberto Fico. Un evento ufficiale, pubblico e aperto a cui erano stati invitati in primis tutti i membri del governo, i responsabili istituzionali, i parlamentari, e tutti i cittadini che avessero sentito il desiderio di presenziare.
Clamoroso assente Salvini, che ha liquidato la questione con un: “Sono troppo impegnato per andare al cinema”. Gesto gravissimo, che denota tutta la sua inadeguatezza a ricoprire il ruolo di vicepremier, ma soprattutto di Ministro degli Interni, che avrebbe dovuto presenziare, attento e rispettoso, in prima fila.
Mostra tutto lo spregio e la mancanza di rispetto verso la vittima di uno dei più gravi fatti italiani degli ultimi decenni, e verso la sua famiglia, che dopo 10 anni ancora attende verità e giustizia, risposte che proprio lui, in virtù del suo ruolo, dovrebbe garantire venissero date.
Dimostra il totale disinteresse e la mancanza di condivisione, da parte del Ministro, dei principi fondanti della nostra Costituzione e che stanno alla base della nostra idea di civiltà e di comunità.
Atteggiamento gravissimo, dunque.
92 minuti, invece, di (simbolici) applausi per il Presidente della Camera Fico, che nonostante le evoluzioni funamboliche del governo, tira dritto, perfettamente consapevole del suo ruolo, rispettoso dei principi costituzionali e di quel bagaglio di valori e di idee che ha promosso e promesso per tutta la campagna elettorale e a cui ora continua a restare saldamente legato, a differenza di tanti dei suoi. Sinceramente non capisco come possa ancora riconoscersi e rimanere all’interno di quel carrozzone dai mille e opposti volti che alcuni ancora si ostinano a chiamarsi movimento politico.

Presentata la nuova stagione del Teatro Comunale di Occhiobello

Da: Teatro Comunale di Occhiobello

Si è svolta venerdì mattina, alla presenzadel SindacoDaniele Chiarioni, dell’Assessore alla Cultura del Comune di Occhiobello Silvia Fuso edel Direttore Artistico del Teatro Comunale Marco Sgarbi,la presentazione della stagione teatrale 2018/2019, giunta quest’anno alla diciottesima edizione.
L’Assessore ha sottolineato l’importanza che la programmazione riveste nel panorama culturale del territorioche,per il secondo anno consecutivo, prevede anche una stagione dedicata ai ragazzi grazie al progetto Next Generation sostenuto da Funder35, bando nazionale vinto dall’associazione Arkadiis nel 2016. “ L’aspetto più innovativo di questa edizione – ha detto l’Assessore – è il contributo economico che la regione del Veneto ha stanziato a favore della manifestazione. Abbiamo sempre creduto in questa programmazione e sapere che ci sono altre istituzioni che hanno deciso di investire parte delle loro risorse, per noi fondamentali, a favore del nostro territorio, ci rende orgogliosi. Importante è stato anche l’intervento degli sponsor Wavin Italia, Selecta e Unaway Hotel.”
“È il diciottesimo anno che si svolge la stagione teatrale – ha detto il Sindaco Daniele Chiarioni – siamo partiti nel 2001, con una rappresentazione ideata dallo stesso Marco Sgarbi sull’alluvione del ’51. L’esperienza di direzione è iniziata come esperienza solitariapoi cresciuta; attorno a Sgarbi è nata l’associazione, Arkadiis, fatta da tanti giovani che hanno collaborato con lui in questi anni. Se c’è un rammarico personale che ho, è che in questi anni l’amministrazione comunale non è riuscita a costruire un vero e proprio luogo dedicato esclusivamente al teatro, ma la sede attuale è rimasta una sala utile a tante altre attività. Spero che le prossime amministrazioni si pogano l’obiettivo di realizzare una vera sede teatrale, che questo territorio merita”.
La parola è passata poi al Direttore Artistico Marco Sgarbi che ha presentato i vari appuntamenti in cartellone, a partire dallo spettacolo fuori abbonamento andato in scena venerdì sera, ‘Stabat Mater’ con Maria Paiato, che ha riscosso grande successo e apprezzamento da parte del numeroso pubblico presente in teatro.
Si è poi entrati nel vivo della programmazione in abbonamento, che inizierà il 14 dicembre con il ritorno di Davide Enia, attore, drammaturgo che porterà in scena ‘L’Abisso’,spettacolo che tratta i temi scottanti dell’immigrazione, vissuti da Enia insieme al padredurante il loro viaggio sull’isola di Lampedusa.
Uno spettacolo che tratterà temi analoghi, ma attraverso un altro punto di vista, sarà ‘Albania Casa Mia’,con AleksandrosMemetajin scena il 18 Gennaio. Il protagonista,29 annidi origine albanese, arrivò in Italia all’età di sei mesi,nel 1991, su un barcone. Insieme alla sua famiglia si trasferì in Veneto, in un contesto sociale allora intriso di paura verso tutti coloro che provenivano dall’altra parte dell’Adriatico.
L’1 febbraio sarà la volta del Teatro dei Gordi che porterà in scena uno spettacolo singolare: maschere contemporanee di cartapesta, figure familiari che racconteranno, senza parole, i loro ultimi istanti, le occasioni mancate, gli addii;storie semplici con ironia ‘Sulla morte senza esagerare’.Il 15 Febbraio Gaetano Colella, attore pugliese,porterà inscena ‘Icaro Caduto’ per la regia di Enrico Messina. La storia ripercorre le vicende di Icaro che precipita in mare dopo essere fuggito col padre Dedalo dal mitologico labirinto di Minosse. Lo spettacolo racconta ciò che accadde a Icaro dopo la caduta, nella travagliata ricerca della madre e del padre.
L’1 marzo, torna a Occhiobello una grande interprete:Anna della Rosa andrà in scena con un monologo,tratto dal romanzo di da Michela Murgia,‘L’Accabadora’; storia di una ragazzina cresciuta accanto all’antica figura sarda che accudisce le persone nel fine vita,accompagnandolealla morte.La stagione si chiuderàil 15 marzo con Eugenio Allegri, attore che per il venticinquesimo anno consecutivo porta in scena‘Novecento’,esordio teatrale che consacrò Alessandro Baricco, che nel 1994 scrisse appositamente il monologo per il regista Gabriele Vacise lo stesso Allegri.
Prosegue anche quest’anno‘Next Generation’,la programmazione dedicata alle suole dell’Istituto Comprensivo di Occhiobello. Cinque gli spettacoli in cartellone, quattro organizzati da Arkadiis e uno dalla compagnia il Baule Volante che da anni lavora con le scuole del territorio. Una stagione ricca di appuntamenti che a tutti gli effetti rappresentano un’offerta di teatro contemporaneo unica all’interno del panorama culturale della provincia, una scelta che da anni caratterizza questa programmazione.“Abbiamo deciso di parlare della difficoltà del cambiamento nel quale tutti noi siamo immersi” – ha concluso Marco Sgarbi – “stupisce e affascina che il luogo della finzione per antonomasiasia diventato nel tempo un avamposto della verità. Proprio questa apparente contraddizione ci offre lo spunto per riflettere ancora una volta sulla nostra condizione umana”.
Abbonamenti disponibili fino al 30 novembre. Prevendita singoli spettacoli dall’1 dicembre.Per informazioni 349.8464714 – 0425.76611www.teatrocomunaleocchiobello.it

Rassegna della storica e nuova canzone d’autore: musica come impegno ed emozione

Storie che ti portano in viaggio nel tempo e nello spazio attraverso parole e musica: sono quelle che entrano nella testa e nel cuore con la Rassegna della storica canzone d’autore, a Ferrara per la sua settima edizione, andata in scena nella sala Estense di Ferrara nelle serate di venerdì 2 e sabato 3 novembre 2018. E non poteva essere altrimenti per questa carrellata di concerti all’insegna di uno dei cantanti più impegnati nella musica d’autore come Claudio Lolli e il suo album ‘Aspettando Godot’ che dà il titolo all’associazione che, per il settimo anno, è riuscita a organizzare queste serate musicali ferraresi con grandi nomi che negli anni sono diventati meno presenti sulle scene e anche con nomi di talenti emergenti.

I Cranchi  in sala Estense a Ferrara, venerdì 2 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Ad aprire le due serate il gruppo dei Cranchi composto da musicisti trentenni che vivono tra Mantova e Ferrara. Tra gli altri, i Cranchi hanno presentato un brano originale intitolato proprio “Ferrara” [clicca sul titolo del brano per ascoltarlo], dove ci si immerge tra la Darsena e corso d’Este, Savonarola ed Ariosto.

Beatrice Campisi con i suoi musicisti sul palco della Rassegna ferrarese, venerdì 2 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Capace di conquistare cuore e orecchie del pubblico Beatrice Campisi, cantautrice di origini siciliane che dà il meglio di sé nell’esecuzione di un brano tutto in dialetto siciliano, come “Luna Lunedda” [clicca sul titolo del brano per ascoltarlo].

Beatrice Campisi (foto Luca Pasqualini)

Una piccola riscoperta Max Manfredi, apprezzato anche da Fabrizio De Andrè, che con le sue canzoni spazia dal porto di Atene alla stazione ferroviaria di Asti facendo ironia sulle strane suggestioni che possono uscire da un inceppamento del tele-indicatore a palette. Così l’errore finisce per indicare come destinazione del viaggio un surreale ed esotico “Kukuvok” che magari era solo un domestico Sanremo.

Max Manfredi (foto Luca Pasqualini)

Travolgente, infine, Francesco Baccini, che rivela non solo le note capacità trainanti e pop, ma anche un risvolto critico e impegnato.

Francesco Baccini – Rassegna storica e nuova canzone d’autore – Ferrara, venerdì 2 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Proprio la verve dissacrante di Baccini, si capisce così, ha contribuito a renderlo una voce inaspettatamente scomoda e quindi sempre meno presente sulle scene, dal momento in cui – come ha raccontato con la consueta ironia – ha fatto un album dove faceva letteralmente nomi e cognomi (da “Giulio Andreotti” a “Renato Curcio”).

Francesco Baccini (foto Luca Pasqualini)

La seconda serata della Rassegna – sabato 3 novembre 2018 – si è aperta con il cantante-mattatore Leonardo Veronesi.

Leonardo Veronesi (foto Luca Pasqualini)

Ad accompagnare sul palco Veronesi due ottimi musicisti e la coppia di performer usciti dalla scuola di danza di Silvia Bottoni, a commentare visivamente i brani dell’album “Non hai tenuto conto degli Zombie”.

Leonardo Veronesi in scena – Rassegna storica e nuova canzone d’autore – Ferrara, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Occhi e orecchie sono così appagati dallo spettacolo con Silvia Marcenaro concentrata al violino ed Eugenio Cabitta alla chitarra.

Leonardo Veronesi in scena – Rassegna storica e nuova canzone d’autore – Ferrara, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Di grande impatto il duo che si presenta in scena come Canzoni da Marciapiede, formato dalla cantante Valentina Pira e dal pianista Andrea Belmonte.

Duo Canzoni da Marciapiede – Rassegna storica e nuova canzone d’autore – Ferrara, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Il duo ha fatto ascoltare in particolare un brano composto proprio a Ferrara, “16 luglio 1809” [clicca sul titolo del brano per ascoltarlo], dedicato all’insurrezione dei contadini negli anni della dominazione francese. Con ritmi epici e impegno sociale, la canzone riporta in auge la forza e il coraggio dell’impegno di chi decide di opporsi all’oppressione a costo della sua stessa vita: seimila persone che marciano dalla campagna verso la città, provati dalla carestia e decisi a protestare contro le tasse che li affamano e li schiacciano, come è il caso della terribile tassa sul macinato.

Duo Canzoni da Marciapiede (foto Luca Pasqualini)

Un capitolo a sé Giorgio Conte, musicista e cantante con quella voce roca e accento piemontese, capace di fare un’autoironia esilarante sul fatto che ogni volta la sua fama sia ricondotta a quella del noto fratello Paolo Conte, con errori o aggiunte buffe, tipo quando la titolare di un bed&breakfast si raccomanda di salutare da parte suo anche l’assonante Carlo Conti.

Giorgio Conte – 7.a Rassegna storica e nuova canzone d’autore – Ferrara, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Molto coinvolgente – oltre ai testi – l’accompagnamento musicale dei fenomenali Alberto Parone alla batteria e al basso vocale, Bati Bertolio alla fisarmonica e alle tastiere a fiato e Alessandro Nidi al piano.

Giorgio Conte – 7.a Rassegna storica e nuova canzone d’autore – Ferrara, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Anche testi semplici come quello di “Stringimi forte, abbracciami/Stringimi un po’ di più” [clicca sul titolo del brano per ascoltarlo] finiscono per diventare davvero un abbraccio che avvolge tutto il pubblico in un’emozione collettiva grazie alla musica travolgente e alla capacità di coinvolgere il pubblico a fare da sostegno canoro.

Giorgio Conte con i suoi bravissimi musicisti a Ferrara, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Musica che diventa narrazione poetica, infine, quella di Mario Castelnuovo, che in occasione di questa tappa ferrarese ha presentato anche il suo secondo romanzo “La mappa del buio” in un’affollata e attenta sala della caffetteria del Castello Estense.

Mario Castelnuovo con i suoi musicisti – Rassegna storica e nuova canzone d’autore – Ferrara, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

“Stella del Nord” di Goran Kuzminac la canzone con cui Castelnuovo ha aperto il suo concerto ferrarese  [clicca per ascoltarlo], per chiudere con il lungo racconto “Michel” del cantautore recentemente scomparso Claudio Lolli, a cui appunto è stata dedicata la rassegna. In scena al suo fianco Giovanna Famulari al violoncello e Stefano Zaccagnini alla chitarra.

Mario Castelnuovo sul palco della Sala Estense, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Pubblico partecipe in un’atmosfera che sa sempre sorprendere con brani noti e piccole rivelazioni inaspettate per una Rassegna che sarebbe bello potesse continuare a portare a Ferrara cantanti da riscoprire e un impegno a cui non bisognerebbe mai rinunciare né sul piano degli interessi del tempo libero né su quello della vita di ogni giorno.

Foto-servizio è di Luca Pasqualini. Clicca sulle singole foto per ingrandirle

Pubblico sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)
Serata di venerdì 2 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)
Beatrice Campisi coi suoi musicisti (foto Luca Pasqualini)
Max Manfredi dietro le quinte (foto Luca Pasqualini)

 

 

Ferraraitalia al Lucca Comics & Games

E’ calato il sipario sul Lucca Comics & Games 2018, forse la massima kermesse europea del settore, che è arrivata quest’anno alla sua cinquantesima edizione.

Tantissimi gli ospiti di caratura internazionale che hanno contribuito a decretare anche quest’anno il successo della manifestazione che dal 31 ottobre a l 4 novembre ha invaso le strade di Lucca. Il nome che spicca su tutti è sicuramente quello di Leiji Matsumoto, papà di Capitan Harlock, Yellow Kid Maestro del Fumetto 2018, a cui Lucca ha dedicato una mostra, con suoi disegni originali, e che ha posato le impronte nella Walk of Fame di Lucca Comics & Games.

251 mila le presenze registrate nei cinque giorni di kermesse, superando il dato del 2017, con oltre 2.000 eventi, più di 700 espositori e 102 location.
Ecco il fotoreportage del nostro Valerio Pazzi

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Destra e sinistra, dall’analogico al digitale e ritorno

In questa società liquida, magistralmente descritta da Bauman nei suoi libri, anche i partiti le cui origini risalgono al secolo scorso sono diventati liquidi, almeno quelli del campo progressista. In questa liquidità sociale la destra, invece, resta ancorata alla solidità della presenza sul campo, alla vicinanza fisica alle persone, al presidio del territorio. Hanno ascoltato gli umori delle persone e li hanno tradotti secondo la loro impostazione ideologica.
Mentre i partiti liquidi si ritiravano dal campo, loro sono rimasti, da qui il crescente consenso della destra. Insomma, è un po’ come nel passaggio dall’analogico al digitale: la sinistra è passata al digitale, la destra è rimasta all’analogico. Sembra, dunque, che in questo mondo liquido e digitale ci sia ancora molto bisogno di solidità, di presenza fisica, di vicinanza, di analogico. La destra lo ha capito e ha capitalizzato il consenso.
Diverso il discorso sul M5S. Nasce digitale, riempie prima le piazze virtuali del web, poi quelle reali delle città e torna nel mondo virtuale rivolgendosi prevalentemente ad un elettorato giovane, appunto la generazione digitale. Ogni tanto Beppe Grillo ha bisogno di radunare il popolo del web nelle piazze reali perché questo serve al movimento per tenere il polso al suo elettorato. E così via in un’andata e ritorno dal digitale all’analogico.

Il Pd e gli altri satelliti di sinistra, invece, hanno smobilitato sia nell’analogico che nel digitale. Ora, dopo la sconfitta, sembrano tentare di recuperare nell’uno e nell’altro campo, ma il ritardo accumulato nella conoscenza dei meccanismi di funzionamento digitale e l’essersi disabituati alla presenza in quello analogico sul terreno reale li fa essere in affanno, persino invisibili. Il massimo che riescono a fare e organizzare, male, flash mob, confondendo il flash con l’improvvisazione. Molto meglio quelli organizzati dal M5S che li ha inventati. E così si espongono ad un costante flash… flop che gratifica solo gli organizzatori. Tutto ciò, a mio parere, è il risultato di una chiusura nei palazzi del potere, soprattutto da parte del Pd partito di governo, con la convinzione di avere come missione prioritaria quella di stare all’interno delle compatibilità imposte dall’Europa sposando una logica più finanziaria che attenta allo stato sociale su cui l’Europa unita è nata per garantire pace e stabilità. Se si smantella lo stato sociale; non si fa una politica occupazionale seria, ma anzi si aboliscono le garanzie per un lavoro stabile; non si prevede una politica economia e industriale di lungo periodo; si smantella il sistema previdenziale allungando l’età pensionabile e quindi impedendo l’ingresso di forze giovani nel mondo del lavoro; si approva una legge Costituzionale sull’obbligo del pareggio di bilancio, come espressione lampante di una scelta di campo precisa dalla parte dei conti economici più che delle persone in carne ed ossa, è evidente che si è alzato un muro tra sé e la vita reale delle persone. Per lo meno della maggioranza delle persone. Perché tutto ciò a Confindustria e alle banche, invece, andava benissimo.

La conferma la si trova nelle nostre città. Basta fare un esperimento per rendersene conto: girate per le città e fate un censimento di quante sezioni dei partiti di sinistra trovate e quante di queste sono aperte come luogo di socialità. Una volta le sezioni di partito erano aperte tutti i giorni, soprattutto quelle dei partiti più grossi, Pci in testa. I compagni si ritrovavano a giocare a carte, a discutere, incontravano i dirigenti, scambiavano opinioni. Oggi non è più così. È più facile che troviate aperta una sezione della Lega, o che vi imbattiate, per quanto non possa piacervi, in gruppi di cittadini che cercano di presidiare il loro territorio contro il degrado (non chiamatele ronde, anche se la sinistra preferisce le etichette alla comprensione dei fenomeni) piuttosto che una sezione di uno qualsiasi dei partiti di sinistra, Pd in testa che in teoria dovrebbe essere quello con più risorse economiche da potersi permettere qualche sezione.

Disastri naturali campanello d’allarme per un’umanità che non ascolta

Il rumore del torrente che diventa rombo, un’anomala aria calda, pesante, umida che porta l’odore intenso di terra smossa, una pioggia battente che insiste senza tregua. E il livello di quell’acqua che sale, sale rapidamente a vista d’occhio mentre il fluire assume una potenza furiosa e travolge tutto ciò che trova sul suo percorso, precipitando a valle, assumendo sempre più velocità e portata. Erode argini, ruba spazio ai prati e ai campi, si innalza in onde spaventose che qualche passante guarda affascinato come fosse uno spettacolo allestito per quella sera.
Poi cominciano a passare gli alberi divelti con le zolle in cui erano ben piantati e i tronchi che galleggiano seguono la furia dell’acqua sembrando tante navi fantasma su quella superficie liquida che ormai non conosce limiti. E dopo la notte insonne a fissare il livello che non smette di salire, arrivano i conti del day after, come in quei film post apocalittici dove il paesaggio non è più lo stesso e non sarà mai come prima.
La montagna che si vedeva e respirava aprendo le finestre la mattina, appare tristemente spelacchiata dopo lo schianto di moltissime piante, perdendo la sua identità e disorientando chi si riconosceva in essa; frane sulle arterie di comunicazione, allagamenti e crolli di tetti e caseggiati più vetusti, cumuli di detriti depositati sulle strade, cambiano anche l’aspetto urbano. Mentre squadre di operatori e volontari danno il meglio del volto umano, di quella solidarietà e partecipazione fattiva di cui c’è estremo bisogno, instancabili, presenti, rassicuranti. Ma questo non è un film e la realtà supera per certi versi di gran lunga la fantasia. E se non si parla della montagna, è il mare il protagonista di altrettanti cataclismi con maremoti, tsunami e tempeste che invadono e colpiscono coste e litorali lasciando dietro di sé relitti e devastazione.

Alluvioni, terremoti, eruzioni, ondate di calore, drastici cambi climatici: non siamo mai completamente pronti ad affrontare questi eventi perché, come scriveva Seneca, “Nessuna cosa privata e pubblica è stabile: il destino corre veloce e imprevisto per gli uomini e per le città. Proprio mentre tutto è calmo e placido sorge il terrore […]. Quante volte le città dell’Asia, le città dell’Acaia crollarono per un solo tremito della terra? E quanti paesi in Siria e in Macedonia furono inghiottiti dal suolo? […] E non soltanto cadono le opere innalzate dall’ingegno dell’uomo: si disgregano giogaie di montagne, si abbassano intere regioni, si trovano esposte alle onde terre che prima erano lontane anche al cospetto del mare e del fiume […]. Un qualsiasi accidente può togliere te alla patria o la patria a te, può gettarti nella solitudine di un deserto e fare il deserto in un luogo dove ora c’è la folla”.
L’Italia è un Paese fragile, esposto per sua conformazione – e troppo spesso per l’errato intervento umano – a terremoti e disastri idrogeologici e altre situazioni di rischio, per il 77% conseguenza diretta dei cambiamenti climatici, come ci ricordano i dati Unisdr, l’agenzia delle Nazioni Unite per la riduzione dei rischi catastrofe, la quale rileva anche come le catastrofi naturali siano triplicate negli ultimi 30 anni. Nessuno può negare che i segni di rapidi cambiamenti in atto siano ormai evidenti e se teniamo conto delle recenti dichiarazioni dell’Economist, condivise dagli scienziati, le prospettive diventano ancora più catastrofiche. Il Mediterraneo, scrive la prestigiosa testata, scomparirà riducendosi a una pozzanghera d’acqua. Nascerà un solo continente abnorme, l’Eurafrica, una massa di terre emerse. In alternativa al corrugamento della crosta terrestre – e sarà ancora più spaventoso – nascerà una catena montuosa alta come l’Himalaya e le Alpi non saranno che minuscoli contrafforti. Un mondo che emerge dagli studi geologici del movimento delle placche terrestri. Altre ipotesi portano a considerare una frattura asiatica che spaccherà in corrispondenza di India e Pakistan oppure finiremo tutti a Nord, a ricreare un maxicontinente dove ora regnano solo iceberg. Se consideriamo proiezioni possibili riferite all’Italia, Luca Mercalli, presidente della Società Meteorologica Italiana, lancia un grido d’allarme: il nostro Paese è a rischio desertificazione nell’arco di un secolo, con la Pianura Padana come il Pakistan e la Sicilia deserto africano.

Questo lo scenario, se non applicheremo subito gli impegni dell’accordo di Parigi sul clima. Nel frattempo, le coste del Mediterraneo si stanno avvicinando l’una all’altra di due centimetri all’anno, i cataclismi diventano frequenti, irrompono nella nostra vita quotidiana e richiedono sempre più preparazione nella gestione dell’emergenza. I nuovi obiettivi tassativi del millennio e dello sviluppo sostenibile evidenziati dall’Unisdr devono indurre tutti gli Stati e la comunità internazionale a collaborare a uno sviluppo in funzione dei rischi, affrontando seriamente le tematiche della comprensione dei rischi di disastro, il potenziamento della governance dei rischi stessi, l’investimento per la riduzione del rischio ai fini della resilienza, il miglioramento nella preparazione alle catastrofi, la capacità di dare risposte efficaci e realizzare pratiche di ‘Build Back Better’ nelle fasi di recupero, ripristino e ricostruzione.

Fantasmi /
La montagna di Onorato

Niente di più facile. Entri dall’ingresso principale, stai attento, non il 2, l’ingresso 1, entri e a sinistra ci sono gli ascensori, sali al primo piano e prendi il corridoio numero 1. No che non è difficile, ci sono solo tre immensi corridoi, il corridoio 1, il numero 2 e il numero 3. Ci sei fino a qui? Cammini, a destra c’è la chiesa dei cattolici, poi una stanza con un cartello che dice Altri culti, passi davanti al reparto 2B1 e entri nel 3C1: Neurologia. Stai calmo, i matti non c’entrano, quelli, se non son fuori, li mettono in Diagnosi e Cura. Ma cos’è questa paura dei matti? In ogni caso, ora sei entrato in reparto. Vai sempre dritto, io sono in fondo al corridoio, camera 13, letto 45.

Letto 44, di fianco a me – la camera è ampia, luminosa. azzurrina, con solo due letti – c’è il signor Onorato. E’ arrivato in reparto mezz’ora dopo di me, accompagnato da una moglie monumentale – che il giorno dopo conoscerò come la signora Marisa e il giorno appresso come Marisa e basta – una donna tranquilla e potente, solida come un faraglione di Capri. C’è anche il figlio, in versione autista, ma capisco subito che non conta molto, un elemento aggiunto per fare i servizi. Onorato mi sembra esageratamente vecchio ma magari non lo è; minuto, magrissimo, scuro di carnagione. Da solo non sta in piedi; non parla, non mangia, neppure il passato di verdure, e vuole andarsene al più presto, dall’ospedale o anche, chissà, dalla vita, direttamente. Dalla mattina alla sera la signora Marisa sta sempre attaccata a Onorato. Lui dorme, lei lo guarda. Arriva l’infermiera e gli cambia la flebo. Arriva il pranzo, il pranzo d’ospedale che puoi immaginare, e la signora Marisa lo aiuta ad alzarsi, lo sorregge fino al tavolino, ma Onorato guarda il piatto e non mangia, non mangia nemmeno la ciambella portata dalla signora Marisa da casa. Mi ci metto anch’io a incitare l’inappetente, e passo al tu per essere più convincente: Insomma Onorato almeno il prosciutto crudo lo puoi mangiare! Pare impossibile, ma non è niente male questo prosciutto dell’ospedale. O sono io che ho imparato ad accontentarmi? La signora Marisa mi guarda e scuote la testa. Poi fruga nella borsa e tira fuori un involto. Mi sono guadagnato anch’io una fetta di ciambella casalinga. Vedi le buone azioni. Grazie, buonissima, ma ci ha messo il burro o l’olio? Certo l’olio, volevo ben dire. Ne vuole un’altra fetta, chiede Marisa.

A sera la figlia femmina viene a “ritirare” la mamma. Al mattino il figlio e la sera la figlia. Poi viene notte e mi chiedo come sarà la mia prima notte. Io in questo letto non riesco a dormire, è troppo duro, è troppo morbido. Passo da un libro all’altro, ma questa notte non trovo il libro giusto. Spengo la luce, mi giro sul fianco, mi metto a panza in su, riaccendo la luce, scelgo un altro libro dalla generosa scorta che ho portato con me. Onorato è immobile, dorme, ma invece non dorme, grazie a una lunga e laboriosa operazione si mette a sedere sul fianco del letto, si alza, si dirige barcollando verso la porta del bagno. Che gran lusso, abbiamo il bagno in camera. Tutto bene Onorato, mi informo. Magari è sonnambulo. Invece Onorato mi fa un piccolo cenno e si infila in bagno, per uscirne cinque minuti dopo e compiere il cammino a ritroso verso il letto. Ogni mezz’ora, minuto più minuto meno, come il tocco della mezzora delle campane, Onorato va a fare pipì; pochissima immagino, vista la frequenza; oscilla pericolosamente sulla strada di andata e ritorno, ma ce la fa sempre.

Tutto bene, mi dico, io leggo.Ho trovato una storia che forse fa al mio caso; non è un capolavoro questo Professore Desiderio ma Philip Roth scrive da dio, sempre sulla superficie della vita e del suo io, con una sincerità imbarazzante, e una lingua incalzante, percussiva, sfrontata. L’ebreo Kepesh, alter ego dell’ebreo Philip Roth, insegna all’università, studia perennemente e cita in continuazione i suoi amati Cechov e Kafka. Kepesh racconta la sua vita ma sopra tutto il suo intricato rapporto con le donne. Che ama, che insegue, che fugge, che desidera con tutto il suo sesso e tutta la sua mente. In definitiva, prima di Kafka e prima di Cechov, il vero protagonista è il desiderio sessuale e il desiderio in generale. Continuo leggere e rimango di stucco quando arriva l’erezione. Potenza della letteratura, ma no, sarà l’effetto dei farmaci anticoagulanti. Mollo il libro e finalmente prendo sonno. Mi sveglio poco dopo e guardo alla mia sinistra verso il letto 44. Onorato non è al suo posto. Guardo la porta del bagno, aspetto, ma Onorato non sortisce. Aspetto altri cinque minuti, dieci minuti, mi alzo e apro la porta del bagno, Onorato non c’è. Suono il campanello, non viene nessuno, suono più a lungo, arriva finalmente l’infermiera, una ragazza super (sarà l’effetto Philip Roth?) ma molto addormentata, che però capisce il problema. La scomparsa di Onorato mette in moto tutto il reparto. Io seguo le ricerche dalla mia postazione,  e alla fine Onorato riappare, scortato da due infermiere, due inservienti e il medico di guardia. Non aveva trovato la porta del bagno e si era infilato in un ripostiglio in fondo al corridoio, era lì dentro, buono buono da non so quanto tempo. Lo riportano a letto e lui sorride, chiede scusa, ringrazia tutti.
Ora è giorno, Onorato dorme, la signora Marisa non si muove dalla seggiola di fianco al letto; lui dorme e lei lo guarda. Poi siamo seduti al tavolino per il pranzo. Marisa mette sul tavolo un piccolo contenitore: Ti ho portato del purè, mangiane un pochino che quello ti è sempre piaciuto. Onorato guarda Marisa e fa no con la testa. Ma cazzo Onorato!, intervengo io in qualità di legittimo compagno di stanza, se non mangi fra un poco scompari! Non ho proprio voglia, sussurra lui, poi si scusa con me: Sai, io non sono mai stato un gran mangiatore, neanche da ragazzo. E sorride a me e a Marisa.

Invece, il terzo giorno, Onorato risorge. Niente di plateale e di glorioso ma sottobraccio a quella roccia di Marisa che sembra sua mamma invece che sua moglie, a braccetto come due fidanzati degli anni Trenta, Onorato e Marisa si spingono fino al lontano confine del reparto 3C1. E mangia perfino: talloncini minuscoli di prosciutto e qualche briciola di parmigiano. Cammina, mangia e soprattutto parla. Io domando e lui risponde, anzi, racconta, così imparerò la storia di un piccolo uomo, un comunista per l’esattezza visto che lui ci tiene a specificarlo, un uomo che da solo ha spostato una montagna, un’intera montagna da cima a fondo. Ma questo dopo, alla fine della storia, perché prima Onorato mi racconta di quella sera d’estate quando Bartali stava mettendo sotto i francesi. Noi stavamo tutti con il Campionissimo, a nessuno piaceva Bartali, ma eravamo tutti e dieci in cucina, compreso il nonno che non ci sentiva quasi più ma era un appassionato di bicicletta. In un silenzio perfetto ascoltavamo la voce della radio che mio padre aveva appena comprato. La cucina era piccola che faceva fatica a contenere i corpi sudati e i fiati caldi. Ero il più piccolo e avevo il permesso di stare attaccato all’apparecchio, l’orecchio destro incollato alla grata dove usciva la voce del radiocronista. Ero il più vicino così mi sono accorto per primo che qualcosa non andava, la voce rallentava e pareva distratta da qualcosa. Poi il commento si è interrotto lasciando una parola a metà, si sentiva il ronzio dell’apparecchio, e un’altra voce ha dato la notizia dell’attentato.

Il 14 luglio per i francesi è un giorno di festa nazionale ma intanto a Roma avevano sparato a Togliatti, tre colpi di rivoltella. Noi in famiglia si era tutti comunisti, e che cosa dovevamo essere con tutta la fame e la miseria della nostra terra? Mio padre si è messo a piangere e prima non aveva mai pianto. Poi stavano operando Togliatti e quella sera mia madre non preparò la cena. Mio fratello più grande si chiamava Primo, dico si chiamava perché è morto che non aveva quarant’anni. Mio padre piangeva e nascondeva gli occhi così ho chiesto a Primo cosa dovevamo fare. Andiamo, dice Primo, andiamo tutti e vediamo cosa fanno gli altri. Tutti voleva dire tutti gli uomini: Primo, Nevio, Nestore e anche io che avevo sedici anni ma che quella sera ero già un uomo. Anche mio padre si alza in piedi, si sfrega la faccia ispida con una mano, Andiamo, dice, e guida la compagnia fuori dalla porta verso la Casa del Popolo di Castelnuovo Sotto. Appena fuori ci fa cenno di aspettare, torna indietro e riappare con il suo Sten al collo.

Mi sembra di vederli gli Zuffoli al completo, il papà partigiano – era a Montefiorino, precisa Onorato con molto orgoglio – e i quattro figli maschi scendere muti nella notte per ricevere ordini dal Partito. Onorato continua a raccontare, parla veloce, e infatti la piccola squadra è già arrivata in paese, alla Casa del Popolo che trabocca di uomini e di voci. Molti hanno disseppellito le vecchie armi, i fucili Sten, i Thompson, un raro e prezioso mitra Beretta che mio padre si incanta a guardarlo, le Colt 1911 e le preziose Luger rubate ai tedeschi uccisi, e poi tante bombe a mano di varia provenienza. Nella sala, sopra il tavolone, troneggia una mitragliatrice da campo, lucida di grasso e completa di una lunga striscia di pallottole d’ottone. Perfettamente funzionante, sussurra Marco Salmi, ma al Salmi non c’è da credergli troppo. Restammo lì tutta la notte, e il giorno e un’altra notte, scordandoci di mangiare, nervosi eccitati e pronti a riprendere la nostra guerra dopo che alle elezioni De Gasperi con i preti e i padroni avevano cantato vittoria. Invece due giorni dopo Togliatti dal letto d’ospedale ha richiamato tutti alla calma. A Milano Torino e Genova c’erano stati scontri e più di trenta morti, noi invece eravamo rimasti per 48 ore chiusi nella Casa del Popolo di Castelnuovo, a parlare e a fumare perché il vino era finito subito. Dopo una settimana il democristiano Bartali vinceva il Tour.

Ma questo è solo il prologo, il bello del racconto deve ancora venire. Qui entra in scena Serafina, la mamma adorata di Onorato, che vorrebbe mostrarmi una sua foto ma l’unica foto di Serafina è sopra il suo letto matrimoniale, facendo egregiamente le veci di una madonna. Serafina ama sopra tutti il piccolo Onorato perché non è venuto su bene come gli altri. L’ultimogenito era rimasto piccolo, magro e nervoso come lei, mentre Primo e tutti gli altri fratelli erano alti e robusti come il padre Desiderio. Dice Onorato: Io non ci riuscivo proprio a lavorare i campi, alla sera mi si alzava la febbre. Un giorno mia mamma Serafina è andata dritta nel magazzino, una vanga in mano, ha cominciato a scavare la terra dura del pavimento. Scava e scava, tira fuori un involto, una pezza di cotone ingiallito, ecco qua dice mia mamma e mi consegna il cartoccio di panno. Apro e vedo gli anelli d’oro e gli orecchini e le spille. Questi li vendi e ti compri il tuo camion, dice Serafina, li voleva il Duce ma mica glieli ho dati.

Così Onorato, regolarmente patentato, ma inabile per costituzione fisica al lavoro agricolo, fu promosso camionista. Correva l’anno 1952 e Onorato adesso di anni ne aveva 20 tondi tondi. I soldi ricavati dalla vendita dei miseri gioielli di famiglia bastarono appena per la prima rata, ma l’occasione andava colta al volo, il Ford 412 aveva fatto la Campagna d’Italia, poi gli Alleati l’avevano parcheggiato in un deposito a Terracina, ma era quasi nuovo e robusto e perfetto di motore. Mancava solo una ritoccatina. Nevio, il fratello con la vocazione del commercio, si procurò a prezzo di fabbrica 20 latte di vernice. A quella ritoccatina ci lavorò tutta la famiglia, chiusi dentro al magazzino per tre giorni che non si riusciva a respirare. Era domenica mattina, Primo ed Ennio spalancano il portone del magazzino, Dai Sali su!, mi ordina mio padre, mia mamma ride, i fratelli e le sorelle guardano tutti me. Non c’è più da aspettare e mi arrampico fino al posto di guida e giro la chiave del mio camion rosso fiammante. Il ruggito del motore copre tutte le voci. Tiro giù il finestrino, sporgo la testa e grido: Signori, in carrozza! Così tutti gli Zuffoli salgono nel cassone di dietro, ingrano una marcia qualsiasi e il Ford 412 si muove sulle sue enormi ruote. Quel giorno è stato il giorno della festa più bella, rossi di vernice sulla pelle e sui vestiti, felici come mai più saremo stati. Il Ford 412 girò tutta la mattina su e giù per Castelnuovo, mentre cantavamo le vecchie canzoni che ora non canta più nessuno.

Il Ford 412 “rosso comunista” ebbe una vita lunga e operosa. Sopravvisse ai genitori e a tutti i fratelli più grandi di Onorato. L’ultima è stata Isolina, senza marito e senza figli, che non era mai uscita da Castelnuovo a dare un’occhiata al mondo e aveva lavorato più di tre uomini messi assieme. Quel camion era stato un vero affare, aveva dato da mangiare a tutti, ché loro due, il camion ma anche Onorato, lavoravano sempre, anche quando la pioggia non cadeva per mesi e i campi erano gialli che veniva da piangere. E per Onorato di lavoro ce n’era in abbondanza: Non andavo nemmeno a cercarlo perché il lavoro veniva lui da me. Si ricostruiva l’Italia distrutta e io trasportavo tutto, rottami, assi, sabbia, calce, mattoni. Ma era passato nemmeno un anno e una sera arriva un signore molto distinto, con gli occhiali giacca e cravatta, dice che lui è un ingegnere idraulico della Grande Bonifica e che laggiù c’è bisogno assolutamente di me e del mio camion. Quando, chiedo io. Subito dice lui, domani mattina. Dove, chiedo io. L’aspetto a Jolanda di Savoia, in piazza, domani alle nove di mattina. E non si preoccupi, la paga è buona.

Non ci pensavo allora che l’ingegner Missiroli era l’uomo del mio destino che veniva addirittura a cercarmi a casa mia, ma il mattino dopo, prima delle sei ho salutato tutti e parto con il Ford 412 in cerca di Jolanda di Savoia, che ricordavo doveva essere una regina. Niente di più facile, aveva detto l’ingegnere, devi andare sempre contro il sole, quando arrivi a Ferrara prosegui dritto verso il mare, segui la freccia Comacchio, volti a sinistra verso Massa Fiscaglia; a un certo punto ti accorgi che finiscono gli alberi e la terra diventa nera come il cioccolato, allora sei arrivato a Jolanda di Savoja. E così in due ore arrivo a Ferrara, a Ferrara c’è un castello come quello delle favole. Parcheggio vicino al castello e me lo guardo ben bene, per non dimenticare niente di quel primo castello della mia vita, ma mi torna in mente l’ingegnere della bonifica, che del castello non mi aveva detto niente ma che mi aspettava nella piazza di Jolanda di Savoia. Dopo Ferrara la strada diventava più complicata, mi fermo ogni cinque minuti e chiedo ai bambini davanti alle case di campagna, ai vecchi seduti in silenzio sulle sedie in cerchio, ai braccianti che faticano nei campi, ma poi mi accorgo di passare davanti alla stessa casa e che sto girando in tondo. Ma cosa mi aveva detto l’ingegnere, mi aveva detto del sole, degli alberi, della terra nera. Allora non chiedo più niente a nessuno e guardo avanti verso il sole che è già alto nel cielo bianco, guardo a destra e a sinistra, gli alberi sono sempre più radi e alla fine non ce n’è più nemmeno uno. Mi passa vicino un trattore più grande di una casa, sta arando non con uno ma con tre vomeri, dietro si lascia una scia nera, lucida come una biscia d’acqua.

Nella piazza di Jolanda di Savoia l’ingegner Missiroli è lì in piedi che mi aspetta, e mi sorride quando scendo dal mio camion rosso comunista, ma lui gli frega poco di fascisti o cattolici o comunisti, lui vuole solo che il lavoro sia fatto bene. Bene e in fretta. Ci siamo capiti Zuffoli? Ora le faccio vedere. Mi fa salire di fianco a lui sulla sua Aprilia nera, facciamo un piccolo pezzo di strada e ci fermiamo in un grande parcheggio polveroso. Qui, dice l’ingegnere, passerà La Gran Linea, ma io non vedo un bel niente, c’è solo un mare nero di terra arata, non c’è un animale, una casa o un albero. Guardi che fino a due anni fa qui c’era solo acqua, spiega con pazienza l’ingegner Missiroli. Per fare le strade ci vuole il fondo, capisce cosa intendo, intendo ghiaia, sabbia, stabilizzato, se non c’è un bel fondo quando posiamo l’asfalto la terra se lo inghiotte in un boccone. L’ingegnere fa una risatina e continua: Lei andrà con il suo camion a Monselice che è appena prima di Padova, da quelle parti ci sono dei monticelli tondi come panettoni, non sa com’è fatto un panettone? Queste colline adesso sono nostre. In che senso vostre, chiede Onorato. Nel senso che la società Strade Piane Spa le ha appena comprate dal demanio. Vengo al punto. Lei arriva a Monselice, gira a destra in fondo al paese, e comincia a contare: prima collina, seconda collina… la sua collina è la numero tre. E le posso assicurare che è la migliore.

Lunedì mattina alle otto del mattino ero di fronte alla mia collina. Un gruppo di operai aveva aperto la prima ferita nel suo mantello verde, una cicatrice bianca come il burro di campagna, e già una scavatrice cominciava a mangiarsela quella collina, raccoglieva quel burro prezioso e lo posava sul piazzale del cantiere. Quando arriva il Ford 412 di Onorato, si ferma ogni altro lavoro e subito comincia il carico della selce dorata. In meno di un ora il camion era pieno e Onorato partiva per la Grande Bonifica con il suo carico di miele. Appena due ore dopo, Onorato stazionava sul grande piazzale di Jolanda di Savoia. Lì batteva il cuore della Grande Bonifica, l’ultima e definitiva, quella che dopo settecento anni avrebbe finalmente cacciato in ritirata le valli. Dove avevano fallito gli Estensi e i Veneziani, gli ingegneri di Napoleone e le compagnie inglesi, dove persino il Duce si era ritirato a metà gara, ora si faceva davvero sul serio. Uomini e mezzi, come si dice. E scienza pure, perché occorreva immaginare e costruire idrovori giganteschi per liberare la terra dalle acque. Ogni anno la terra avanzava e l’acqua si ritirava: prima Valle Pega, poi Valle Giralda, e la Valle del Mezzano così grande e bella che sembrava un mare, per ultima Valle Falce.

Nella nostra camera hanno già portato via i vassoi della cena ma noi due rimaniamo seduti al tavolino. Onorato racconta e nei suoi occhi c’è una specie di orgoglio, come se finalmente avesse raggiunto suo padre nella guerra partigiana e camminasse di fianco a lui con lo Sten a tracolla. L’impresa di Onorato, avanti e indietro dai Colli Euganei al Basso ferrarese era durata quasi 21 anni. Non ci si crede, ma non si può dubitare di uno come Onorato. Io non mi fermavo mai, facevo tre viaggi, a volte quattro, a volte cinque viaggi in un giorno. Di notte si viaggiava più in fretta e la strada la sapevo a memoria, quando arrivava il sonno dormivo dentro il mio camion, dormivo poco ma dormivo bene, mi svegliavo, giravo la chiave e continuavo a guidare. Nel 1971, era la fine di maggio, ho portato l’ultimo carico. Asfaltavano l’ultimo chilometro della strada che attraversava le valli da Argenta a Comacchio. Intanto a Monselice la mia collina non c’era più.

Questa mattina a mezzogiorno ci dimettono tutti e due, la famiglia si rompe e non vale niente la mia promessa di andare a trovarli a casa uno dei prossimi giorni, o magari mai come succede sempre. Tanto la famiglia ospedaliera è finita, nella nostra camera, nei nostri letti, si sono appena istallati due sconosciuti. Onorato si è tolto il pigiama e indossa una camicia elegante, io impilo i miei libri e disfo le pile e ricostruisco piccole e ordinate piramidi che caccio alla rinfusa nello zaino. C’è quell’aria vaga di smobilitazione generale, una fine che ha ucciso tutte le parole. Così ci abbracciamo e lui se ne va per primo, a braccio di Marisa e preceduto dal figlio autista, impiegato in Comune all’anagrafe e che non sospetta nemmeno la grandezza dell’impresa di suo padre.

Quando Compagnoni e Lacedelli affrontavano l’ultimo leggendario tratto verso la cima, Onorato Zuffoli e il suo Ford 194 già viaggiavano tra Monselice e il Basso Ferrarese. Onorato non aveva scalato una montagna, lui la montagna l’aveva semplicemente spostata, smontata pezzo per pezzo, secchio per secchio. Se ora imboccate la statale da Ferrara verso Padova e guardate verso sinistra, verso i colli, potete vedere un specie di buco nel panorama, in quel buco un volta c’era la montagna di Onorato e adesso è rimasto solo il buco. Se poi vi interessa sapere dov’è finita la montagna di Onorato, girate l’auto e andate verso sud, verso la Bassa, talmente “bassa” che a Jolanda di Savoia un piccolo cartello vi avverte che siete a 6 metri sotto il livello del mare. Le strade che attraversano la Grande Bonifica sono dritte in un modo stupefacente, attraversano il nulla, hanno un piglio americano, e mentre le percorri senti di essere vicino a una qualche frontiera, o di averla superata la frontiera e di trovarti al di là delle cose. Sotto le vostre ruote, sotto quelle strade, sotto ogni metro d’asfalto e invisibile agli occhi, riposa la montagna di Onorato.

(Francesco Minimo – tutti i diritti riservati)
Anteprima in esclusiva per Ferraraitalia del racconto tratto da ‘Noi fantasmi’ di prossima uscita.

Nota Stampa Insorgenti Ferrara – 27 ottobre 2018

Da: Articolo 1 – MPD Ferrara

Oggi nella nostra città un gruppo di cittadini sedicenti Insorgenti, accompagnati da striscioni raffiguranti guerrieri in armatura e figure banditesche, ha manifestato contro l’Arcivescovo Perego, a difesa di una inesistente e incontaminata ferraresità. Ci preoccupa che posizioni di tale natura, razziste, xenofobe, violente, antiscientifiche e di chiaro stampo fascista, possano ottenere qualche diffusione, complici la continua propaganda che grida all’invasione e l’immotivato sentimento di insicurezza che ne deriva.

Le parole pronunciate da alcuni partecipanti, “abbiamo già respinto orde di barbari” o “dovremmo riallestire i forni”, risuonano come un allarme che non può più essere ignorato dalla parte democratica, solidale e pacifica, che vogliamo credere prevalente nella nostra realtà comunale. Opporsi a queste aberrazioni risolutamente e in forme unitarie è un dovere civile.

Fortunatamente anche in questa triste occasione si è visto un gruppo di oppositori, che ricordando che il cosiddetto meticciato è già presente in ognuno di noi, ha dimostrato che un’altra Ferrara è ancora possibile.

Tuttavia affinché tale prospettiva si affermi occorrerà presidiare ogni frazione, ogni quartiere, recuperando un rapporto sentimentale con chi ha paura o vive serie difficoltà e per questo è maggiormente esposto a mistificazioni di tale pericolosità. Non esiste alcuna specificità biologica da custodire, bensì una città da salvare da chi la vorrebbe deprivare della vivacità culturale, della gentilezza e dell’accoglienza che sinora ha saputo garantire.

Delibera rifiuti. Alcune necessarie precisazioni da Ferraraincomune.

Da: Associazione Ferraraincomune

Ci tocca tornare sulle vicende relative alla delibera in tema di studio di fattibilità volto alla ripubblicizzazione del servizio rifiuti approvata lunedì in Consiglio comunale e sulle polemiche che ne sono seguite. Lo facciamo perchè ci sembra utile rimettere al centro il merito della questione, che si rischia di perdere quando prende il sopravvento la politica “urlata”, che sembra andare molto di moda in questi tempi, fatta più di insulti, demonizzazione dell’interlocutore e giudizi sommari piuttosto che di valutazioni precise.
La delibera approvata lunedì sera con gli emendamenti “pesanti” introdotti dal PD è distante e non corrisponde al senso profondo della delibera di iniziativa popolare su cui abbiamo raccolto 955 firme. Infatti, pur notando che l’oggetto dello studio di fattibilità volto alla ripubblicizzazione del servizio rifiuti, va almeno parzialmente nella direzione indicata da noi, il fatto di assegnare lo studio ad Atersir significa svuotare l’effettiva possibilità di partecipazione dei vari soggetti presenti nel territorio all’impostazione dello studio di fattibilità. In questo quadro, il tavolo partecipativo si riduce ad essere un puro elemento di contorno e di commento da quanto prodotto da Atersir. In più, la scelta di far svolgere ad Atersir lo studio di fattibilità si scontra con il dato che Atersir non è propriamente un soggetto terzo ed autonomo nei confronti di Hera e delle scelte di privatizzazione del servizio dei rifiuti. Infine, non possiamo sottacere che l’ipotesi di affidare lo studio di fattibilità ad Atersir non è mai stata avanzata nel corso dei due confronti avvenuti tra noi e il Gruppo consiliare PD, prima della seduta del Consiglio comunale ed è apparsa solo in quella sede. Nè possiamo non rilevare l’atteggiamento dell’opposizione che, nei fatti, si è dimostrata impreparata e conseguentemente poco disposta a sostenere la nostra proposta di delibera di iniziativa popolare.
In quanto alle prese di posizioni di Paolo Pennini, non solo non concordate con noi, ma inviate alla stampa senza tener conto di quanto avevamo convenuto tra la nostra associazione e il comitato Mi rifiuto nell’esprimere un giudizio di merito e privo di polemiche e attacchi di carattere personalistico, dobbiamo necessariamente prenderne le distanze, non riconoscendoci nei toni e nelle modalità di discussione. La nostra concezione della politica, anche nei momenti di contrapposizione più aspri, non prescinde dal rispetto delle persone e delle opinioni avverse alle nostre.
Per quanto ci riguarda, continueremo la nostra battaglia per arrivare alla ripubblicizzazione della gestione del servizio dei rifiuti e degli altri servizi pubblici, che hanno a che fare con i beni comuni, a partire dall’acqua. E continueremo a farlo con una modalità che appartiene alla “buona politica”, quella interessata alle scelte di merito che riguardano la nostra comunità locale e non ai toni urlati e che non sono utili per svolgere una discussione produttiva.

Giardini rubati negli scatti di Paolo Zappaterra per una Ferrara lunare e nascosta

“Giorgio Bassani non era simpatico, come non lo sono io; era un originalissimo, un anticonformista, quando io l’ho letto mi sono detto ‘qua ci siamo'”. Non ti annoi mai quando parla Paolo Zappaterra. Ti spiazza e ti accorgi che hai teso i muscoli e stai in guardia, come sul tappeto davanti al maestro di Ju-Jitsu. Forse è per ciò che intorno a questo fotografo coi baffi e i capelli bianchi ci sono sempre tanti giovani. Così è avvenuto martedì sera per la serata intitolata ‘Giardini trasparenti’, dedicata alla visione dei suoi scatti realizzati a partire dagli anni Settanta e conservati su diapositive mai presentate in pubblico. Organizzata dai ragazzi dell’associazione IlTurco, l’iniziativa fa parte del festival ‘Itacà migranti e viaggiatori’, manifestazione unica a livello nazionale, che da dieci anni si dedica al turismo responsabile e che per il terzo anno approda anche a Ferrara (da martedì 23 a sabato 27 ottobre 2018).

Serata col fotografo Paolo Zappaterra all’associazione IlTurco e in alto il pubblico che guarda le sue diapositive (foto Luca Pasqualini)

Tra gli eventi in programma c’era appunto la visione di queste immagini realizzate da Zappaterra “infilandosi nei portoni lasciati aperti, citofonando agli sconosciuti, cercando i balconi giusti su cui salire per catturare in un’immagine l’anima verde di una città solo apparentemente rossa di muri e mattoni”.
Cosa sono queste foto di giardini proiettate sul foglio bianco appeso nel cortile dell’associazione IlTurco, nella viuzza omonima dentro al cuore vecchio e scrostato di Ferrara? Le guardi e stringi gli occhi per capire, cercando di mettere a fuoco quello che lui cerca di stanare, quello che c’è e quello che manca. L’atmosfera è quasi carbonara nel cortile chiuso da muri di mattoni a vista, con la grande luna velata di foschia che fa da spot a questo un evento notturno e pieno di suggestione. Spiega il fotografo: “Sono voluto andare a fondo, cercare Ferrara oltre lo stereotipo del duomo e del castello, ho voluto aprire le porte che erano chiuse. È un atto d’amore per la mia città”.

Il fotografo Paolo Zappaterra (foto Luca Pasqualini)

Parlando con Paolo Zappaterra ho sempre l’impressione che la sua visione del mondo si basi sull’essere ferraresi o non esserlo. Un’idea che trova conferma mentre il video su Bassani non parte subito e la colpa viene data al giovane assistente teutonicamente biondo “che ha un nome stranissimo sctrinzantzag che non riesco a pronunciare”. Poi quando la padrona di casa Licia Vignotto presenta l’iniziativa, Zappaterra le chiede se può cercare di tramutare la sua nordica erre moscia in una esce e magari in una grassa elle ferrarese.

Pubblico per Zappaterra (foto Giorgia Mazzotti)

Alcuni non possono fare a meno si invocare il nome di dio, lui evoca sempre quello di Ferrara: nelle parole, negli spazi, nelle inquadrature, come se non potesse avere altro io di questa città. Incalzato, chiedendogli del suo rapporto con Ferrara – però – prende le distanze pure da questo, dicendo che lui ha origini romagnole.

Diapositive in esposizione (foto Giorgia Mazzotti)



Dopo la proiezione del video con la sequenza di foto tutte dedicate ai luoghi ferraresi legati a Bassani e alle sue poesie, Zappaterra chiede: “Lo conoscete Bassani, ragazzi?”. E davanti al silenzio della platea allarga le spalle: “Allora non è poi così famoso”. Poi spiega: “La curiosità è importante da matti, non basta trovarsi tutti le sere a bere e chiacchierare. Fanno i film e dentro ci mettono Berlusconi. Che ce ne frega di Berlusconi a noi?! La democrazia si regge sulla partecipazione, non si può accettare tutto quello che ci propongono. Noi siamo nati unici, non possiamo seguire quei percorsi che altri hanno deciso per noi, perché questo porta alla farmacia, agli psicofarmaci. Non dovete lasciare che vi incanalino”.

Tra il pubblico l’attore Giulio Costa del teatro Ferrara Off (foto Giorgia Mazzotti)

Pungente ma poi pieno di slanci, come nelle sue riprese fotografiche a caccia di dettagli sfuggiti, Zappaterra si lascia alla fine andare. E al pubblico, che ha un po’ provocato e strattonato, confessa: “Con voi giovani io faccio benzina tutti i giorni; più uno è giovane, più dentro ha speranza, ha il fuoco”. E i ragazzi che evidentemente lo conoscono e apprezzano, gli rispondono con i loro diversi accenti di studenti fuori sede, ammaliati dalla sua dialettica volutamente provocatoria come da questa città lunare e inafferrabile che rimbalza dai suoi “Giardini trasparenti” per cercare di raccontare quello che sfugge, quello che si rifugia negli angoli, nell’ombra.

Serata col fotografo Paolo Zappaterra nel cortile di via del Turco a Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Un’altra occasione per guardare Ferrara da un punto di vista inedito la offrirà l’iniziativa MigranTour Experience Ferrara: una visita nel centro della città estense con il ruolo di guida affidato ai cittadini stranieri che ci vivono e che la mostreranno secondo i loro punti di riferimento. I migranti-ciceroni saranno affiancati da una guida ferrarese, che potrà inquadrare i luoghi indicati anche da un punto di vista storico-artistico. L’appuntamento, in programma nella mattinata di sabato 27 ottobre 2018 alle 11, è gratuito ma solo su prenotazione (con email all’indirizzo camelot@coopcamelot.org) per la giornata finale della tappa ferrarese del festival ‘Itacà – migranti e viaggiatori’.

Sprofondo nord: anche sul Trentino si abbatte la valanga leghista

Terremoto politico in Trentino Alto Adige, dove si è votato per il rinnovo del governo delle due province autonome di Trento e Bolzano. In Trentino la destabilizzazione, rispetto lo status quo che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni, preceduti da una lunga fase presidiata dall’inamovibile feudo di potere democristiano, è stata totale: la Lega ha fatto man bassa di consensi e il suo leader, il deputato e attuale sottosegretario della Sanità, Maurizio Fugatti, ha raccolto il 46.7% delle preferenze correndo con ben 9 liste di sostegno, lasciando alle spalle Giorgio Tonini (25,4), candidato Presidente del Pd e più volte parlamentare, con un abissale margine di distacco. Regge bene il Patt, partito autonomista, anche se la sua corsa solitaria non è stata d’aiuto. Il Trentino vira a destra (o verso il centro-destra, dice qualcuno per edulcorare la pillola). Il dato emerso dalle urne resta significativo non solo in termini di leadership politica, quanto come indice di cambiamento epocale socioculturale da valutare attentamente e monitorare nel tempo.
Uno scossone c’è stato anche in Alto Adige, dove la solidissima Sudtiroler Volkspartei, tradizionale forza trainante locale perde due consiglieri e non raggiunge il 40%, pur rimanendo primo partito. Sfonda invece, in modo del tutto inatteso, la lista guidata dall’ex pentastellato imprenditore Paul Koellensperger, con una civica costituita quasi in sordina solo un mese fa e lontana, nelle previsioni, all’exploit che ha colto tutti di sorpresa. Qui la Lega è terzo partito e fa il suo ingresso nel bolzanino con un buon risultato. Un segnale di ‘italianizzazionedel voto in un territorio che storicamente si è sempre orientato verso modelli nordeuropei a matrice austriaca e tedesca perché il senso di identificazione ha sempre portato a questo.

Per molti è storia di una morte annunciata. Le cause: litigiosità, frammentarietà, poca lungimiranza delle forze alleate di sinistra, affermano gli elettori delusi. Ma la conclamata nettezza dei risultati dei due blocchi a confronto lascia lo sbigottimento in un Trentino che si risveglia il giorno dopo toccato nel profondo, stravolto nel suo percorso lineare e perciò rassicurante, messo in discussione negli indirizzi strategici che riguardano ogni aspetto della sua lunga vita di terra di centrosinistra.

Voto di pancia sulle ali dell’acrimonia, la protesta, l’insoddisfazione? Voto che costituisce il riflesso della lunga onda delle elezioni politiche nazionali? La storia di questa regione è lunga e non scevra da profonde tribolazioni, come tutte le terre di confine, con le influenze, le peculiarità culturali e le responsabilità che investono le ‘terre di mezzo’. Una terra autonoma a statuto speciale, sospesa tra il mondo mediterraneo e il Nordeuropa, importante snodo tra Italia e Mitteleuropa, che ha sempre viaggiato su binari propri perché le è stata storicamente riconosciuta e conferita la proprietà di legiferare nella specificità del territorio, e lo ha sempre fatto bene.
Gente di montagna, abituata all’accoglienza, alla solidarietà, all’aggregazione, alla cooperazione perché la vita nella valli non era facile, l’ambiente impervio e le risorse da utilizzare in comune, perché ‘insieme era meglio’. Questi tratti sono rimasti nel tessuto sociale, perché non è facile sbarazzarsi della propria storia, del proprio passato e delle intime vocazioni di una popolazione, anche se atrofizzati, spesso inespressi, fuorviati e contaminati dalle ondate esterne di ostilità e chiusura verso ciò che si teme, nascosti per la vergogna di dover ammettere di essere controtendenza, manifestati con circospezione e cautela. Voglio credere che l’orgoglio dei trentini non venga accantonato e che quello che inizialmente era un ‘canto delle sirene’ o il timido soffio del ‘pifferaio magico’, trasformatosi ora in un forte vento travolgente generale, non affossi definitivamente quei valori e quelle azioni che hanno sempre accompagnato la gente comune, in buonafede, desiderosa di promuovere benessere e giusto progresso per le comunità. “E ora espugniamo la Toscana”, ha dichiarato subito tra il serio e il faceto Matteo Salvini, in una delle sue battute, neanche tanto battute, dopo il voto trentino. Spero nessuno si stia sentendo terra di conquista…

Le bravate leghiste nella Ferrara distratta

Ho dedicato all’osservazione e alla decifrazione di Ferrara ben quattro lunghi anni di scrittura e documentazione fotografica. Ne è venuto fuori un reportage strampalato, d’accordo, ma quello che ho appreso, in questi anni, è quanto, al di là delle continue e meritevoli occasioni di dialogo offerte dalla città, sia lo spazio pubblico a parlarci delle nostre condizioni odierne. Ed è in grado di farlo con una sincerità che abita tra le maglie, che va scrutata nei gesti, nell’apparenza, per essere poi tradotta, con abnegazione e fatica.

Ebbene, questa volta l’occasione per interrogarci sulla città viene da una serie di filmati che girano in rete dal 16 ottobre scorso. Ritraggono alcuni leghisti ferraresi, i quali strumentalmente radunano clochard nel centro storico, li prendono in via Beretta convincendoli, con vaghe promesse d’aiuto, a seguirli davanti alla sede dell’arcivescovado.
Le persone in questione sono in evidente difficoltà psico-fisica e il chiaro intento dei leghisti è usarli per attaccare il vescovo Perego, l’amministrazione, e strizzare l’occhio all’elettorato di questa città in qualità di partito d’ordine, del ‘fare’ a favore esclusivo e indistinto degli ‘italiani’.
Se si osservano i filmati con cura, si capisce che il raid dei leghisti è un’operazione elettorale a sfondo razzistico e discriminatorio, fondata cioè sulla dicotomia italiano-straniero. E non c’è dubbio che l’operazione si annidi negli interstizi lasciati aperti da una politica per troppo tempo realmente distante dai problemi della gente comune.
Tuttavia la scena finale, proprio lì, sul corso intitolato ai martiri della libertà, è squallida e umiliante per tutti. E parla di noi.

“Questa gente continua a dormire nel centro di Ferrara e nessuno muove un dito”, dice il leghista rubicondo e tarchiatello, protagonista dei filmati. Ma al di là dei proclami, si intuisce che il problema vero è la visibilità dei clochard, il fatto che siano nel salotto buono e deturpino, con la loro presenza, il decoro dei luoghi cittadini.
Il vero consenso, beninteso, verrà dalla semplice cacciata dei barboni: si tratta della politica di breve raggio a cui i leghisti ci hanno abituato, quella di allontanare i problemi, non certo di risolverli con dignità.
La preoccupazione per le sorti dei ‘senza tetto’, poi, non è che mera finzione scenica al punto che, in un attimo di lucidità sospettosa, uno dei protagonisti, il clochard-panettiere, colto da dubbi, si arresta, lancia le sue coperte sul marciapiede e chiede: “Aspetta, perché io non capisco, questa è una tua cosa che ci tieni veramente o la fate per…”. In un altra ripresa lo stesso clochard-panettiere dirà: “Sai cosa mi fa incazzare: che stiamo dando spettacolo!”. Oppure sempre più consapevole della strumentalizzazione: “Vi siete divertiti stasera? Avete passato una serata differente?”.

Insomma, i filmati sono in rete e ognuno ne potrà trarre le proprie conclusioni.

Quello che vorrei fare qui, dicevo in principio, è isolarne lo sfondo. E sullo sfondo di questi filmati, nello spazio in cui la pagliacciata prende forma, si scopre una città distratta.
Mi interessa, dell’accaduto, la città gremita di gente del mercoledì sera, mi interessano i passanti, la folla vociante della movida a pochi passi. Si tratta di una città svagata e impolitica come il resto del Paese, che magari osserva incuriosita la scena e procede con una disarmante indifferenza. Nessuna attenzione, nessun coinvolgimento, a parte una donna che chiede se sono autorizzati a filmare delle persone in evidente difficoltà e viene per questo zittita dai leghisti con slogan preparati ad arte.
Anzi, ad aggiungere amarezza all’immagine, c’è lo schieramento di forze dell’ordine, il quale a sua volta manda un messaggio chiaro. Già, quella presenza sproporzionata, dispiegata grazie alle telefonate fatte in diretta video dal tozzo e rubicondo leghista, ci dice che non c’è nulla di cui preoccuparsi, che lo Stato è lì con ‘loro’, col raid xenofobo e strumentale, di ordine e pulizia cittadina. L’igiene è salva.

Forse allora è da questo sfondo notturno che occorre ripartire. Sì perché qualsiasi spazio pubblico vissuto da semplici estranei può trasformarsi in uno spazio privato, in uno spazio chiuso, ideale per la sospensione dei diritti e per i soprusi. E oggi a Ferrara i leghisti si muovono negli spazi pubblici come fossero a casa loro. La disinvoltura, l’uso di strumenti istituzionali e mediatici, lo sprezzo ostentato, non possono che esser generati dalla certezza di non essere mai massicciamente contestati nei loro arbìtri da chi li circonda.

Da qui l’invito a tutti quelli che hanno a cuore la città, a lavorare per costruire una città fieramente antifascista in ogni sua piega, in ogni piazza e vicolo. Questo potrebbe essere il proposito più importante dei prossimi decenni. Fare di Ferrara una città aperta, in cui lo spazio pubblico sia tutelato anche attraverso l’attenzione e il coinvolgimento di ogni singolo cittadino.
Fare politiche per radicare le persone, affinché il corpo della città sia quanto di più simile a un unico luogo di cura reciproca, di partecipazione e relazione, perché la vera sicurezza è sapere di non essere soli tra estranei, ma circondati da con-cittadini. Questo aiuta e facilita enormemente, benché gravemente sottodimensionate, anche il lavoro delle forze dell’ordine.
Se il tempo delle deleghe è concluso e direi fallito del tutto, e se il pericoloso allineamento tra pratiche di repressione e rigurgiti fascisti in Italia non è mai stato così vergognosamente ostentato, allora la prima difesa della città viene dal civismo diffuso, dalla coesione sociale, che costringe alla trasparenza, spegne la violenza e assicura diritti.

Vigliacchi

Il foro nel vetro
Il pallino rinvenuto in casa
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Raffaele Rinaldi, direttore dell’associazione Viale K

Questa notte qualcuno ha sparato un piombino contro una delle finestre dell’abitazione di Raffaele Rinaldi, direttore dell’associazione Viale K, attiva da anni nell’accoglienza dei senzatetto e dei migranti. E’ un evidente atto di intimidazione che impone una risposta forte, chiara e immediata dalla città (non avvezza a questo genere di barbarie), dalle sue componenti associative, dalle istituzioni che la rappresentano.
Se qualcuno pensa di trasformare Ferrara in un Far West sappia che troverà questo giornale in prima fila a contrastarlo
A Raffaele, con un fortissimo ideale abbraccio, esprimiamo la nostra piena e totale solidarietà. Siamo con te