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Mondi che non comunicano

Vincitore di tre Nastri d’Argento, tre candidature a David di Donatello, il divertente ‘Come un gatto in tangenziale‘ racconta di Giovanni (Antonio Albanese), presidente di un think tank, alle prese con la figlia Agnese (Alice Maselli) che intreccia una storia d’amore adolescenziale con Alessio (Simone de Bianchi), del difficile quartiere romano detto Bastogi. Un non luogo, fatto di storie di vita complesse e intrecci delle più disparate comunità.
Anche la madre di Alessio, Monica (Paola Cortellesi), non vede di buon occhio una storia fra due ragazzi di estrazione tanto diversa, appartenenti, a suo avviso, a mondi opposti non comunicanti. Ragionando solo con gli occhi di due innamorati, Agnese e Alessio non vedono però tutti quegli ostacoli: non lo sono il quartiere fitto di graffiti che cade a pezzi, i diversi stili di vita, la caotica coccia di morto (lido di Fiumicino) contro la tranquilla Capalbio, i padri – Giovanni, pensatore che frequenta Bruxelles, contro Sergio (Claudio Amendola) che invece entra ed esce dal carcere- o le madri, la senza lavoro Monica contro Luce (Sonia Bergamasco), trasferita in Francia, dove coltiva lavanda per profumi, sentendosi francese.

Quando Luce rientra dalla Francia, Monica invita tutta la famiglia a pranzo a casa sua. Qui irrompe Sergio, appena uscito dal carcere grazie a un indulto, che manifesta il proprio disprezzo per le rispettive professioni dei genitori di Agnese. Luce è scioccata dal contesto, il caso regna sovrano, insieme a malintesi e colpi di scena. Non si è uguali, inutile illudersi, si pensa da entrambe le parti. Un divario difficile da colmare. Un centro ricco e prospero e una periferia caotica e perduta che non comunicano, intellettuali-borghesi e storie di emarginazione che appaiono lontano anni luce. Ma Monica si informerà sui fondi europei, quelli di cui tanto parla Giovanni, alla ricerca di uno spiraglio, di una rinascita che si può sempre sperare. E che a chi sogna e sa impegnarsi apre ogni porta.

Una commedia ironica ma un po’ amara, che fa riflettere.

Come un gatto in tangenziale, di Riccardo Milani, con Paola Cortellesi, Antonio Albanese, Sonia Bergamasco, Luca Angeletti, Antonio D’Ausilio. Italia, 2018, 98 mn.

Consigli di letture sotto l’albero

Vacanze di Natale: tempo di regali, tempo di letture sotto l’albero al tepore di un camino o al calduccio di una coperta colorata. Sorseggiando magari una bella tisana calda…

Qualche consiglio di lettura, da regalare o da regalarsi.

Michelle Obama, Becoming, la mia storia, Garzanti, 2018, 498 p.

La biografia sincera e coinvolgente dell’ex-first lady Michelle Robinson Obama, dal piccolo appartamento nel South Side di Chicago circondato dall’affetto dei genitori Fraser e Marian e del fratello Craig, passando per le aule di Princeton, fino alle grandi sale della Casa Bianca. Sempre accanto a quello studente di giurisprudenza, amante dei libri e della filosofia, di nome Barack che entrando nell’ufficio legale dove lavorava le aveva sconvolto tutti i piani.

Roberto Cotroneo, Niente di personale, La nave di Teseo, 2018, 376 p.

Un inno a un tempo andato e perduto, un viaggio nella memoria, la fotografia di quello che siamo diventati, di un mondo culturale che se ne è andato e scomparso, una “grande bellezza” cha lascia spazio a macerie di grandi intellettuali che furono, di una nazione che non è più. Tra un’autobiografia che riporta alla nonna Fortunata o al padre Giuseppe e la cronaca, si risveglia la nostalgia del lettore per tante storie nella storia e molti ricordi che si perdono.

 

Chandra Livia Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Einaudi, 2018, 133 p.

Meditare è prima di tutto stare fermi, sedersi e seguire umilmente e con estrema pazienza il proprio respiro, accoglierlo in silenzio, conoscere ma non pensare. Meditare non significa vuoto ma capire il caos della nostra mente, la ristrettezza del nostro cuore, stare dentro noi stessi e connetterci con il mondo. In ogni momento, consapevolmente. Sapendo che nel dolore, ospite scomodo, irruento e tempestoso, c’è la soluzione al dolore.

Francis Halle, Ci vuole un albero per salvare la città, Ponte alle Grazie, 2018, 115 p.

Il più grande botanico francese e uno dei maggiori esperti di foreste primarie ci guida nel comprendere non esista tecnologia più complessa e perfetta di un albero, che, da solo, può salvare una città. Esso, infatti, rinfresca le estati con la sua ombra, aumenta l’umidità dell’aria abbassando la temperatura, assorbe anidride carbonica e polveri sottili. Da qui la necessità di comprenderli, amarli, rispettarli, pensarli come amici, guardiani e cittadini del mondo.

 

Riccardo Bozzi, La foresta, illustrato da Violeta Lopiz e Valerio Vidali, Terre di mezzo, 2018

Un prezioso libro rilegato, con stampe a rilievo e doppia carta che lascia intravvedere le belle illustrazioni a colori nitidi e intensi. La storia è una metafora della vita (“all’inizio non è che un boschetto di giovani pini, generalmente privo di pericoli e piuttosto divertente da percorrere”), lo si comprende sfogliando le pagine dove si alternano squarci di bosco, occhi e volti che ricordano Munari. I giovani esploratori giocano tra palme e scimmie, man mano che la foresta misteriosa si infittisce, mentre si passa dalla luce al buio. E noi ci troviamo al centro.

Pascal Fauliot, Racconti dei saggi buddhisti, L’ippocampo, 2017, 237 p.

La tradizione orale delle gesta dei saggi buddhisti, raccolta in un prezioso volumetto rilegato in tela con bellissimi e delicati motivi iconografici incisi. Il potere delle parole, la natura di Buddha, i maestri. Su tutti, un insegnamento: Tutti i fenomeni scaturiscono dallo Spirito. In sostanza, non vi è alcuna dualità, alcuna distinzione fra il puro e l’impuro, il Vuoto e le forme, se stessi e gli altri. Tutti gli esseri sono soltanto gocce d’acqua dell’Oceano originario.

 

AA.VV., Fiabe faroesi, Iperborea, 2018, 153 p.

Un viaggio nella tradizione popolare delle isole Faroe, le isole verdi del Nord Atlantico, antiche fiabe venute dal freddo tramandate, trascritte nell’Ottocento e pubblicate per la prima volta in Italia. Eccoci allora immersi in storie di orchesse che catturano i bambini, di troll che rapiscono principesse, di folletti, streghe, demoni, orfani e incompresi. Avventure funambolesche che intrecciano humour, astuzia, sangue e poesia. E un po’ di tremore.

 

I continui autogol nella partita degli interessi sul debito

La partita ItaliavsBruxelles si è conclusa con un risultato non inedito, uno -0,4% che ribadisce un trend inaugurato in precedenza da Berlusconi e Renzi. Diversi premier dall’attacco scompaginato e nessun vero Ronaldo per sfondare la difesa della Commissione europea che invece è forte, ha in mano le leve del potere e non è disposta a cedere quando si tratta di scendere in campo contro l’Italia.
Quindi perché non prendere finalmente e definitivamente le sue indicazioni come leggi costituenti? Eviterebbe oltretutto di vedere i nostri Presidenti del Consiglio andare allo sbaraglio come dei novelli Don Chisciotte che poi tornano a casa con la coda tra le gambe.
Le manovre italiane, a differenza di quelle francesi, vanno realisticamente elaborate a ‘saldi invariati’, cioè devono essere sviluppate senza creare debito, all’interno di un sostanziale pareggio di bilancio. Lo Stato italiano è stato ridotto a comportarsi come il droghiere all’angolo, l’aberrazione Stato = famiglia in eurozona (e solo qui!) è realtà.
Allora accettiamo di essere in gabbia, che non siamo capaci di uscirne qualunque sia la guida politica, e proviamo pacatamente a partire dalla contabilità, quindi dall’ultimo Def, per capire cosa si potrebbe migliorare.

Come si vede dai riquadri in rosso, paghiamo e mettiamo in bilancio una cifra spropositata in interessi sul debito pubblico che, tra le tante cose, ci privano della possibilità di attuare politiche economiche autonome. I riquadri blu ci mostrano che la spesa diminuisce ogni anno rispetto a quanto entra da tasse e balzelli vari che sono invece rappresentati nei riquadri verdi.
Dall’avanzo primario (blu) si evince che lo Stato è un ‘buon padre di famiglia’ perché spende meno di quello che incassa ma, nonostante questo, continua a indebitarsi a causa degli interessi sugli interessi (rosso). Inoltre questi interessi non tendono a calare ma anzi si alzano a ogni minimo starnuto dell’economia mondiale, come abbiamo imparato dagli avvenimenti degli ultimi dieci anni, nonostante il papà chieda sempre più soldi alla sua famiglia (riquadri in verde).

La spesa per interessi è diventata la terza spesa dello Stato, subito dopo pensioni e sanità, e questo papà, per migliorare la situazione, accetta di andare a lavorare fino a 70 anni con una pensione più bassa ed evita di spendere in medicine. Propone poi alla moglie e ai figli la sua ricetta ‘miracolosa’ dicendo che in futuro staranno tutti molto meglio lavorando di più ed evitando di disturbare il pronto soccorso.
Ma come mai non pensa di agire sul debito che, invece, è l’unica spesa improduttiva per lui e la sua famiglia in quanto si sta indebitando da quarant’anni non per comprare l’auto, le scarpe, le palline per l’albero di Natale ma solo per pagare interessi sugli interessi?
Chiaramente il ragionamento è valido solo in contesto eurozona perché basterebbe avere una Banca Pubblica oppure che la Bce avesse voglia di continuare a comprare titoli di stato e allora il resto dell’articolo non avrebbe senso. Qui si cerca solo di evidenziare l’inerzia (o l’inezia) politica degli ultimi decenni e quindi si accetta che la situazione attuale sia scritta sulle tavole di Mosè, come del resto la Commissione europea sembra volerci far credere.

Dunque, fatta la necessaria premessa, riprendendo il discorso e rimanendo sulla contabilità, quale padre di famiglia va in banca per chiedere un mutuo e accetta la prima proposta che gli viene offerta? Penso nessuno, invece è più o meno quello che fa lo Stato italiano quando vende i sui titoli di Stato. Abbiamo infatti un sistema che prevede che tali debiti vengano in primis acquisiti dagli ‘specialisti dei titoli’ (mercato primario) e solo in seconda istanza da tutto il resto del mondo, cittadini compresi (mercato secondario). Dopo aver ristretto la possibilità di partecipazione alle aste e quindi aumentato la possibilità che aumentino gli interessi da pagare per mancanza di concorrenza, si stabilisce che il metodo da utilizzare per le vendite sia quello dell’asta marginale invece di quella competitiva.
Attualmente i ‘nostri’ specialisti sono i seguenti:

Banca Imi S.p.A
Barclays Bank Plc
Bnp Paribas
Citigroup Global Markets Ltd
Crédit Agricole Corp. Inv. Bank
Deutsche Bank A.G.
Goldman Sachs Int. Bank
Hsbc France
Ing Bank
Jp Morgan Securities Plc
Merrill Lynch Int
Monte dei Paschi di Siena Capital Services Banca per le Imprese S.p.A
Morgan Stanley & Co Int. Plc
NatWest Markets Plc
Nomura Int
Société Générale Inv. Banking
UniCredit S.p.A

Queste banche, per ricavare il massimo possibile, non hanno che da mettersi d’accordo sulle offerte da presentare, infatti l’asta marginale che dovranno affrontare funziona pressappoco così: se c’è una emissione per 200 miliardi di euro di btp e vengono richiesti lotti al tasso del 3%, del 4% e del 5%, alla fine tutti i lotti vengono assegnati per il tasso offerto sull’ultimo lotto, ovvero tutto il debito produrrà interessi futuri per il 5%.
In Germania vengono invece preferite le aste competitive, il che garantisce già di poter controllare meglio gli interessi. E se non vengono venduti tutti i titoli? In Italia si rifà l’asta, e si può immaginare con quali risultati sugli interessi, mentre in Germania interviene la Bundesbank che congela l’invenduto classificandolo come “conto future vendite”, non potendolo comprare sul mercato primario per le regole dell’eurozona, per poi collocarli con comodo sul mercato secondario.
Nelle ultime aste i nostri vicini hanno invitato le seguenti banche/Istituti:

Bnp Paribas S.A.
Commerzbank Aktiengesellschaft
Nomura International plc
Hsbc France S.A.
UniCredit Bank Ag
Deutsche Bank Aktiengesellschaft
Citigroup Global Markets Limited
Goldman Sachs International Bank
Barclays Bank Plc
J.P. Morgan Securities plc
Dz Bank Ag Deutsche Zentral-Genossenschaftsbank
Morgan Stanley & Co. International plc
The Royal Bank of Scotland plc
Société Générale S.A.
Merrill Lynch International
Danske Bank A/S
Crédit Agricole Corporate and Investment Bank
Landesbank Baden-Württemberg
Bankhaus Lampe Kg
Rabobank International
Banca Imi S.p.A.
Ing Bank N.V.
Abn Amro Bank N.V.
Landesbank Hessen-Thüringen Girozentrale
DekaBank Deutsche Girozentrale
Girozentrale Natixis
Ubs Limited
Norddeutsche Landesbank Girozentrale
Bayerische Landesbank
Jefferies International Limited
Banco Santander S.A.
Mizuho International plc
Nordea Bank Ab
Banco Bilbao Vizcaya Argentaria S.A.
Scotia Bank Europe plc
Oddo Bhf Aktiengesellschaft

Se sembrano di più e perché lo sono. 36 banche, più del doppio di quelle invitate dal Ministero del Tesoro italiano. A queste si aggiungono tutte le banche dei Lander e gli istituti centrali tedeschi.
Il nostro Stato sbaglia nello scegliere il tipo di asta, preferendo il sistema che fa salire gli interessi e accumulare conseguentemente più debito, e sbaglia invitando alle aste solo pochi competitors, falsando il mercato… a suo netto svantaggio.
Insomma, come dire, non abbiamo attaccanti che riescano a segnare nella porta avversaria ma neanche buoni difensori, visto che continuiamo a farci autogol.

in copertina elaborazione grafica di Carlo Tassi

Angelo, il bambino con la testa fra le nuvole

Questa storia nasce in una classe quarta dopo una discussione sui diritti che i bambini dovrebbero avere.
Secondo loro, oltre a quelli della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, tutti i bambini dovrebbero avere anche il diritto di: aiutare, avere amici, avere la testa fra le nuvole, avere del tempo libero, avere una casa, avere una famiglia, ballare, cantare, correre dalla mamma o dal papà, crescere in tranquillità, dire di no, dire la verità, dire quello che si pensa, disegnare, divertirsi, esprimersi in modi diversi, essere abbracciati, essere accolti, essere accuditi, essere aiutati, essere amati, essere ascoltati, essere coccolati, essere curati, essere felici, essere liberi, essere nutriti, essere protetti, essere rassicurati, fare cose sicure e adatte, fare sport, festeggiare, giocare, imparare tante cose nuove, imparare una lingua diversa, impegnarsi nelle cose che si fanno, innamorarsi, inventare giochi e storie, lavarsi, oziare, piangere, recitare, ricordare, ridere, riposarsi, sognare, sporcarsi, stare al caldo, stare all’aria aperta, stare bene, stare in compagnia, suonare, vedere luoghi diversi.

La Storia di Angelo, il bambino con la testa fra le nuvole

C’era una volta un bambino di nome Angelo che abitava a Quelpaese.
Era un bambino come tutti gli altri bambini: allegro, vivace, distratto, divertente e con tanta voglia di giocare. E come tutti i bambini andava a scuola e a scuola qualche volta si divertiva, qualche volta si annoiava, qualche volta si interessava e qualche volta veniva rimproverato dalla maestra perché non stava attento. Infatti quando la maestra spiegava, a lui veniva da prendere la gomma e immaginare che fosse una nave che stava salpando per i mari del sud, oppure quando c’era la prova di verifica e lui era agitato gli veniva da immaginare di essere un cameriere in una pizzeria, di portare una pizza gigante a un signore seduto al tavolo e poi di organizzare uno scherzo per farlo alzare e potergli mangiare tutta la pizza. Una volta mentre la maestra stava spiegando le catene montuose dell’Italia, Angelo cominciò a immaginare di costruire una macchina che scartasse i cioccolatini, un’altra volta uno strumento che facesse i gelati alla crema, ma così piccolo che potesse stare nella cartella della scuola.
A lui insomma piaceva sognare da sveglio.

Angelo si distraeva anche a casa: quando stava studiando, quando i suoi genitori gli facevano vedere i programmi culturali, quando lo portavano dalla zia e anche quando non riusciva a dormire.
Una volta, mentre era da sua zia e lei gli stava raccontando di come le faceva male la schiena, lui invece di ascoltarla andava con la sua “testa fra le nuvole” e immaginava per esempio di nuotare in una piscina tutta piena di pop corn. Un’altra volta, invece, mentre suo papà gli stava facendo vedere un programma in televisione sugli allevamenti di gamberi in Giappone, immaginava di diventare il protagonista di un film d’azione: ‘Angelo Jones e i pescatori della barca sperduta’, riusciva a sconfiggere i cattivi e tutti lo consideravano un eroe.
Lui si divertiva a fantasticare perché poteva immaginare quello che voleva e poi gli piaceva stare in un mondo fantastico perché era più bello che stare nel mondo vero.

Immaginare però gli creava qualche problema perché, quando non stava attento, non capiva la lezione, si confondeva, faceva confusione e alla fine si sbagliava.
Ma a distrarsi non era l’unico: quando Angelo raccontava tutte le belle cose che pensava, anche i suoi amici gli confessavano che si distraevano e che viaggiavano molto volentieri “con la testa fra le nuvole”. La cosa cominciò ad assumere un andamento preoccupante perché più la maestra era noiosa più i bambini si distraevano e più i bambini si distraevano più la maestra li sgridava.
Venne anche il momento in cui lo disse ai loro genitori e lo riferì alla direttrice della scuola.
La direttrice della scuola di Quelpaese ne fu molto preoccupata perché credeva che i bambini imparassero soltanto se stavano attenti mentre la maestra spiegava.
Pensò allora di riferire la sua preoccupazione al presidente dell’associazione “B.A.B.B.E.I.” di cui anche lei faceva parte.
B.A.B.B.E.I. era l’acronimo di: “Basta! Attenti Bambini Bisogna Essere Immobili”. L’associazione era composta da vecchi professori che volevano a tutti i costi che i bambini ubbidissero senza tante storie, che rispettassero le regole, che dicessero sempre di sì ai grandi e che stessero sempre attenti a scuola come stavano attenti loro ai loro tempi. Per risolvere il problema imposero alla scuola di Quelpaese tre regole molto ferree che tutti i bambini della scuola dovevano rispettare.
Le tre regole erano queste:
1) Bisogna stare attenti.
2) Bisogna stare sempre attenti.
3) Per stare più attenti bisogna stare sull’attenti.
I bambini però non ci riuscivano proprio a rispettare quelle regole, neanche con la minaccia delle punizioni e poi anche quando sembravano rispettarle la loro testa voleva andare per conto suo fra le nuvole a pensare, a ricordare, a immaginare, a fantasticare. Più lo facevano e più pensavano che tutte le invenzioni importanti, le grandi teorie, i bei libri, i quadri famosi, le sculture, le canzoni, le poesie dovevano essere nate proprie nei momenti in cui le persone avevano la testa fra le nuvole. I bambini si convinsero che avevano ragione, ma non sapevano come fare per far cambiare idea alla maestra.
Un giorno Angelo, che era quello che stava più “fra le nuvole” degli altri compagni, inventò una filastrocca sulla loro situazione. Faceva così:
Mi chiamo Angelo, sono un bambino
un po’ pensieroso, un po’ birichino,
ho sempre fra le nuvole la testa
così è come se fosse sempre festa.
È vero, a volte non sto attento
e di questo mica son contento.
Ma quando io ho immaginato
nella mia mente ho già creato.
Ognuno di noi usa la sua fantasia
per mettersi in testa un po’ d’allegria.
Tutti adoperiamo l’immaginazione
per dare al futuro un’accelerazione.

Piacque a tutti i suoi compagni che, durante l’intervallo in cortile, si divertivano a recitarla, a cantarla e a ballarla.

Un bel giorno passò vicino al cortile della scuola il Dj RAPpaello, un giovane musicista rap; si accorse di quella filastrocca, la ascoltò e gli piacque così tanto che la copiò, la musicò, la registrò e cominciò a diffonderla dalle antenne della radio libera di Quelpaese. In men che non si dica, il ‘Rap del bambino con la testa fra le nuvole’ (così aveva intitolato la sua canzone) diventò molto conosciuto, talmente conosciuto che la televisione di Quelpaese intervistò Dj RAPpaello chiedendogli, fra le altre cose, dove aveva trovato l’ispirazione per quella canzone
Il Dj, che in realtà si chiamava Raffaello ma gli piaceva farsi chiamare RAPpaello per infilare nel suo nome la parola RAP, confessò che l’aveva sentita dai bambini che la scandivano nel cortile della scuola. Allora il giornalista di Quelpaese andò in quel cortile e chiese a quei bambini perché avevano inventato quella filastrocca. Loro gli dissero di parlare con Angelo che gli raccontò la storia dei B.A.B.B.E.I. e nell’intervista aggiunse anche che, per avere una buona testa, era importante stare attenti, ma era altrettanto importante avere un po’ la testa fra le nuvole, una testa capace di “futurare”, cioè di immaginare il futuro in maniera originale.
Il giornalista della televisione di Quelpaese riportò la notizia in un servizio speciale ed ebbe subito un grande clamore. I genitori, che non ne sapevano niente, si arrabbiarono molto. Tante persone telefonarono alla televisione e scrissero sui giornali, lamentandosi delle brutte regole imposte a scuola. L’interesse di tutti fu talmente grande che il Ministro della Scuola di Quelpaese sciolse immediatamente l’associazione dei B.A.B.B.E.I., tolse quelle tre regole e fece una legge che diceva: “Se si vuole un mondo più bello, bisogna vedere, ascoltare, leggere, prendere e imparare dal bello che c’è già, perché le cose belle non si consumano anzi più si impara da loro più loro crescono”. Fra le altre cose, disse anche che bisognava pubblicare su tutti i giornali, almeno una volta alla settimana, le immaginazioni dei bambini, i loro testi, le loro storie, i loro disegni, le loro ‘futurazioni’.
Angelo e i suoi compagni furono molto contenti. Dj RAPpaelo fu davvero felice.
Anche la gente di Quelpaese iniziò a essere più serena perché finalmente aveva imparato che la speranza non è un’illusione ma è la realtà concreta rappresentata da tutti i bambini e le bambine che devono essere educati e istruiti nel modo giusto, anche lasciandoli viaggiare con la testa fra le nuvole.
Solo dopo aver imparato questo, tutti quanti potranno vivere felici e contenti.

Un Natale e un 2019 pieni di speranza e serenità a tutti voi dai Bambini del Cocomero e dalla redazione di Ferraraitalia

Senza freni: la democrazia cristiana illiberale e gli attacchi alla chiesa di Bergoglio

“C’è un’aria, un’aria, che manca l’aria”, cantava Giorgio Gaber. Paiono scritte per i giorni nostri quelle parole. “Bisogna bruciarli tutti gli extracomunitari insieme a chi li accoglie e si fa le budella d’oro”, è la frase che si è sentito dire don Domenico Bedin in piazza Duomo.
È solo uno dei tanti esempi, ormai a due alla volta finché non sono dispari si dice dalle nostre parti, per raccontare un tempo che pare deciso di passare alla storia sotto l’insegna del degrado e della mancanza della minima dose di buon senso. Quello stesso equilibrio che ci si aspetterebbe da una persona che al trascorrere delle primavere anziché trovare saggezza apostrofa in quel modo privo di riscontro un prete al quale tutti, credenti o no, dovremmo dire grazie.
E invece.
Maleducazione, politically scorrect, pulsioni senza freni e provocazioni, sono poi cavalcati da tempo a livello politico e persino istituzionale. Tanto che questa appare la normale grammatica sociale, mentre anormale è lo stile poco ciarliero, e men che meno social, di un capo dello Stato, che proprio nei suoi gesti al limite dell’impaccio finisce per sottolineare la natura pro-tempore del proprio mandato e ricordare che egli stesso è innanzitutto a servizio delle istituzioni, non il contrario.
Ma perché si stanno scendendo un po’ ovunque le scale della ragionevolezza e scalando con passo da bersagliere il monte del sen perduto?
Cos’è successo perché qualsiasi provocazione senza fondamento proveniente da una destra estrema trovi davanti a sé una comoda discesa, mentre qualsiasi cosa con un minimo di senso, non importa se da sponda conservatrice o progressista, è destinata a scalare un Mortirolo? Naturalmente moderati e progressisti ci hanno messo nel frattempo molto del loro per mettersi fuori gioco e in questo l’Italia può ben rivendicare il podio di laboratorio politico.
Ma questo non sposta di una virgola il quesito di fondo: perché? Tante sono le risposte possibili, ci mancherebbe, però qualche minuto non è speso male se si ferma l’attenzione su una in particolare. Questo è un tempo che, in generale, non sopporta la diversità. In tutti i campi, se ci pensiamo.
Nel nostro mondo, come l’abbiamo conosciuto finora, non esiste più la famiglia, ma le famiglie. Hanno fatto il giro dei media le immagini piene d’affetto del giovane omosessuale che ha adottato una bambina down. Non c’è più la religione, ma le religioni. Gli esperti dicono, da tempo, che i principi morali da universali sono diventati regionali e in pratica si va verso un futuro in cui ognuno ha i suoi.
Idee, opinioni, culture, modi di vita, fedi, hanno rotto i contenitori novecenteschi di partiti, sindacati, ideologie, associazioni e chiese e hanno intrapreso una rotta (postmoderna) in cui ogni orizzonte è stato cancellato, come scrisse Nietzsche ne La gaia scienza. Sotto la spinta populista la società è preda di una disintermediazione in cui i rapporti si semplificano fra il leader e il popolo, senza più alcunché in mezzo, ma non è ancora chiaro quanto i corpi intermedi stiano contribuendo a disintermediarsi da soli, spesso attardati in logiche e liturgie autoreferenziali.
Il fenomeno migratorio, per il quale nessuno ha ancora trovato una soluzione di governo, è solo la punta dell’iceberg di una diversità che, per il momento, spaventa. Il problema si complica quando la diversità irrompe in un momento in cui si dilatano le differenze. Un conto è affrontare il tema delle diversità a stomaco pieno, un conto è farlo quando redditi e reti di protezione sociale arretrano e il discorso dell’equità, storico terreno della cultura di sinistra come ha scritto Norberto Bobbio, non trova più nemmeno un vocabolario per il presente.
E così prevale la paura e dove si è creduto, ingenuamente, irreversibile l’apertura (la globalizzazione, i commerci, la rete, l’Europa), tornano i confini, i sovranismi, le chiusure, le nostalgie di un ordine perduto, non importa se fuori tempo massimo.
Dal ministro Salvini che, di fronte allo spettro dei genitori “uno e due” (rappresentazione plastica dell’incapacità anche lessicale di abitare il nuovo della diversità), rassicura rieditando nostalgicamente le figure di papà e mamma, allo slogan “Prima i nostri” col quale si vincono le campagne elettorali in mezzo Occidente, agli uomini forti additati come i soli capaci di fare sintesi di una diversità eccedente che frantuma le sicurezze della tradizione e porta le democrazie sull’orlo del caos.
Il presidente ungherese Viktor Orban, parlando quest’anno in un’università romena, si è detto fermo sostenitore di una democrazia cristiana illiberale, contro la democrazia liberale, dove l’aggettivo “cristiana” è usato come simbolo a difesa non di un modello religioso, ma culturale-identitario. Un perimetro, cioè, da difendere, per tenere il modello di famiglia al riparo dalle derive liberali, in senso plurale, e di comunità nazionale preservata dalla contaminazione migratoria.
Sicurezza e identità diventano pertanto i banchi di prova culturali e politici per un tempo che ha smarrito entrambe e che non sa resistere alla tentazione di spostare indietro le lancette della storia, pur di restaurare la quiete di un mondo passato.
Restaurare e ripristinare, perché rifugiarsi nel tepore della tradizione di un mondo perduto – artificialmente mitizzato – appare più rassicurante rispetto a un nuovo per il quale occorre essere attrezzati e che non si sa verso quale meta stia conducendo.

Qualcosa di molto simile sta succedendo dentro la chiesa cattolica e al pontificato di Bergoglio.
Non si è mai visto, almeno nella storia recente, un tale livello di contestazione del papato, tanto che diversi esperti stanno parlando del rischio scisma nella chiesa di Roma. Il motivo va probabilmente cercato nel tentativo di papa Francesco, per quanto prudente, di riformare la chiesa cattolica nel solco delineato dal concilio Vaticano II. I termini collegialità e sinodalità, oltre all’insistenza per una chiesa meno universale e verso il modello sacramentale-patriarcale di chiesa di chiese, è fumo negli occhi per chi vede il rischio di rompere con una tradizione ecclesiale e teologica a forte impronta gerarchica e centralistica in senso romano.
Da qui gli attacchi: dai Dubia dei cardinali Brandmüller, Burke, Caffarra e Meisner (2016), fino alla clamorosa contestazione dell’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, Carlo Maria Viganò (2018).
Universalità-centralismo-tradizione, da un lato, e collegialità-sinodalità-comunità, accompagnati dallo stile della povertà e misericordia che pone la priorità dell’incontro con la persona in qualunque situazione rispetto alla rigidità dottrinale, dall’altro, paiono i termini di uno scontro senza precedenti, che avviene, anche in questo caso, sul crinale della diversità.
Occorre avere ben chiari i termini della questione per comprendere lo spessore della sfida. Lo fa molto bene il teologo africano Léonard Santedi Kinkupu, ponendo il quesito se la chiesa sia oggi in grado di mantenere in armonia unità e letture diverse della rivelazione, nella consapevolezza che una cattolicità aperta implica, in prospettiva, una diversità delle formulazioni delle verità di fede nell’ordine etico, religioso, teologico e dottrinale.
O la pluralità-diversità è la nuova frontiera anche per la chiesa di Roma, innescata dal concilio convocato nel 1962 da papa Roncalli, oppure prevale il timore di rompere con un ordine secolare e con una tradizione sostenuta da un corpulento pensiero dogmatico, col rischio di compromettere l’autorità di una struttura ecclesiale che nell’unità si è lungamente autocompresa come soprannaturale e consequenziale veicolo della verità rivelata.
E finché la diversità è motivo di paure, la tentazione di guardare indietro, e non avanti, giocherà fino in fondo la sua partita.

Tutto un altro Natale

Il Natale è il protagonista indiscusso in numerosi romanzi e racconti: si presenta festoso e leggero, intimistico e sentimentale, sacro e solenne, consumistico e superficiale. Le mille sfaccettature di una festa che comincia ben prima del 25 dicembre ed elargisce i suoi effetti oltre questa data. La festività più attesa dell’anno, che con il cambiare dei tempi si è adattata a nuovi canoni, mantenendo comunque sempre quel tocco di mistero. Ritorna puntuale con il suo carico di emozioni, i suoi riti, le sue luci e i suoi colori che hanno finito col perdere gran parte del loro significato. Le decorazioni in serie hanno preso il posto delle delicatissime e affascinanti sfere in vetro soffiato del passato; le luci intermittenti colorate al posto delle fiammelle delle candeline, il karaoke natalizio invece dei canti che trascinavano anche i più stonati. L’attesa a mezzanotte di Gesù Bambino con i doni – perché di questo si trattava, e non di Babbo Natale – lasciava i bambini col fiato sospeso come se proprio quella notte dovesse avvenire il miracolo dei miracoli. Non è sterile nostalgia o rimpianto per tempi diversi: è semplicemente un’immagine indelebile, che contiene tutto il calore incontaminato di una festa che ha cambiato i connotati.

In ‘Il Natale di Poirot’ di Agatha Christie (1939), tre giorni prima della festività l’anziano Simeon Lee riunisce i suoi figli che non vedeva da vent’anni. Comunica che vuole cambiare testamento, li insulta e li schernisce per divertimento. La sera di Natale si sente un grido pietrificante provenire dal piano superiore della casa e viene rinvenuto il cadavere di Simeon, in una pozza di sangue. Il mitico ispettore Poirot indaga e scopre che nessuno di familiari presenti poteva contare su un alibi credibile. Un intricato giallo come solo Agatha Christie sapeva immaginare e scrivere; una famiglia impegnata in intrighi, segreti, relazioni complesse, che a Natale scopre le sue carte tra eredità, diamanti misteriosamente comparsi, menzogne e, infine, la resa dei conti.
Ben diverso è il Natale che Giovannino Guareschi, scrittore, giornalista e umorista, descrive in ‘La favola di Natale’, nata in un campo di concentramento tedesco, nello Stalag XB di Sandbostel, nel dicembre 1944, dove lo scrittore si trovava internato. L’autore scriveva che le muse che lo avevano ispirato erano Freddo, Fame e Nostalgia. E’ la storia di Albertino, del suo papà prigioniero, della mamma e della nonna, di piccole creature buone o cattive che vivono e parlano in un bosco fantastico. Ma è anche la storia di quegli uomini affamati e sofferenti che ascoltavano il prigioniero Guareschi, in una baracca del lager e ascoltando le letture, mantenevano la speranza del ritorno. L’autore scrisse questa favola rannicchiato nella cuccetta inferiore del misero letto a castello, desideroso di dare voce ai sentimenti del momento, interpretando anche l’angoscia e allo stesso tempo la speranza degli altri. E’ la storia di Poesia, prigioniera nel campo, che tenta la fuga nascondendosi nella gerla di Babbo Natale; dei tre Re Magi illustrati come tre nanetti che sembrano usciti dal cartellone pubblicitario di qualche fabbrica di posate perché reggono come doni una forchetta, un coltello e un cucchiaio; del re della Pace e il re della Guerra; di panettoni che sanno di cielo e di bosco. Ma soprattutto di Albertino che vuole raggiungere il suo papà e gli scrive. “Posta per il nr. 6865! Da quattro mesi il nr. 6865 non riceve posta ed eccolo generosamente ricompensato della lunga, penosa attesa. Perché si tratta di una lettera d’importanza eccezionale, una lettera piena di ricami, angioletti d’oro, stelle di neve e zampette di gallina. ‘Caro papà, è natale e io penso a te…’”.
C’è poi un racconto classico della letteratura americana, ‘Ricordo di Natale’ di Truman Capote (1958), in cui l’autore trasferisce i suoi ricordi più vivi autobiografici di quel Natale in cui, scrive, vuole fissare uno dei pochi momenti felici trascorsi nella sua infanzia. Alla soglia delle festività natalizie, in un paesino dell’Alabama, Buddy, un piccolo orfano di sette anni e Sook, una lontana e anziana cugina pazzerellona creano un legame profondo, lontani dai parenti che mal tollerano la loro presenza in casa. La loro complicità fatta di amore e amicizia è quella che si stabilisce tra abbandonati, emarginati, poveri e soli, ma ricchi nella loro interiorità. Il bambino e l’anziana tagliano di nascosto un abete nella foresta per farne un albero di Natale e impiegano i loro scarsi risparmi per comprare farina, uvetta e whisky per fare il panfrutto, che verrà spedito con semplicità e desiderio di donare anche a Mrs Roosvelt, la moglie del Presidente degli Stati Uniti. Un racconto pieno di calda partecipazione e rimpianto struggente. Alla fine, ognuno di noi trova collocazione in un proprio Natale in cui riconoscersi, sentirsi e rifugiarsi; un Natale che smuova i sentimenti più belli e profondi, che restituisca ricordi sopiti, propositi dimenticati, pensieri e progetti rivitalizzanti per sé e per gli altri. Se non riusciamo a trovare tutto ciò dentro di noi, non possiamo pretendere di trovarlo sotto l’albero. Buon Natale!

Sgarbi e insulti: appello per un confronto politico senza volgarità, 145 le firme

Ancora una volta il critico d’arte e deputato Vittorio Sgarbi ha passato il segno. L’accusatorio intervento contro il Sindaco assomma un accumulo di offese che colpiscono la massima figura istituzionale della città. Non è in discussione la normale e legittima dialettica tra posizioni diverse sulla vita di una comunità, ma il rispetto per le persone che ricoprono cariche pubbliche. Per troppo tempo si è accettato e permesso che Vittorio Sgarbi usasse un linguaggio violento, offensivo, aggressivo, intollerante, intimidatorio, volgare. E’ accettabile che un uomo di cultura che scrive libri e fa discorsi sulla ‘bellezza’, sia nello stesso tempo uno dei principali responsabili del degrado etico-linguistico della nostra vita pubblica? La democrazia, il pluralismo, il confronto, la libertà richiedono una particolare responsabilità nell’uso della parola. Quale messaggio di consapevolezza della cultura e di corretta pratica della buona politica potrà arrivare ai giovani da testimonianze come quelle rappresentate dall’on. Sgarbi? E’ vero, come ha confermato l’ultimo rapporto del Censis, che la società si è incattivita. E’ vero che un diffuso sentimento di inimicizia sta compromettendo e logorando il ‘legame sociale’. Ma è anche vero che una parte di opinione pubblica è stanca di risse. Mentre esprimiamo la nostra piena solidarietà al Sindaco Tiziano Tagliani, intendiamo manifestare all’intera città e a tutte le forze politiche il nostro disagio e indisponibilità a subire come un destino ineluttabile il declino di una civiltà democratica fondata sul dialogo, sul rispetto per le persone, sulla pluralità delle idee, sulla bellezza dell’arte e della cultura, sull’autonomia e libertà di ciascuna persona. La cultura è ricerca della bellezza come decisivo segno di realtà e induce alla riflessione sul significato della verità. Il linguaggio smodato e offensivo con cui il critico formula le sue accuse conduce all’esito opposto, ovvero alla falsità del discorso e all’irrilevanza di un confronto fecondo.

1) Abruzzese Sandro insegnante e scrittore
2) Alessandrini Nicola insegnante
3) Alvisi Angela
4) Balestra Enrico
5) Baraldi Ilaria segretaria del Comitato Comunale di Ferrara del Pd
6) Baratelli Fiorenzo direttore Istituto Gramsci Ferrara
7) Barbujani Guido docente universitario e scrittore
8) Belcastro Salvatore primario chirurgo a riposo e scrittore
9) Benasciutti Nadia dirigente pubblica amministrazione a riposo
10) Bertaso Maria Grazia insegnante a riposo
11) Bertoni Laura
12) Bertozzi Marco direttore dell’Istituto di Studi Rinascimentali Ferrara
13) Bigoni Ilaria
14) Bolzoni Lina docente universitaria a riposo della Scuola Normale di Pisa
15) Bonazzi Fiorenza direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
16) Bondi Loredana dirigente delle scuole dell’Infanzia del Comune a riposo
17) Bonini Lidia
18) Bonora Lola
19) Bordini Maria
20) Bottoni Giorgio
21) Bottoni Silvia dipendente comunale
22) Bregola Irene insegnante
23) Buratti Marcella
24) Calabrese Maria direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
25) Cambi Ivana
26) Cambioli Sara
27) Cappellari Marco
28) Cappagli Daniela direttivo Istituto Gramsci
29) Carantoni Cinzia
30) Carli Ballola Sandra insegnante
31) Carrara Diego
32) Casazza Agnese direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
33) Cassoli Roberto direttivo Istituto Gramsci
34) Castagnotto Paola presidente Centro Donna Giustizia
35) Castelluzzo Mario
36) Cavalieri Gabriella
37) Cesari Tino dirigente Lega coop
38) Chendi Maria
39) Chiappini Alessandra dirigente Biblioteca Ariostea a riposo
40) Cirelli Andrea dirigente d’azienda a riposo
41) Civolani Daniele
42) Coghi Marco
43) Colaiacovo Francesco
44) Cristofori Tommaso capo gruppo Pd in Consiglio Comunale Ferrara
45) Cuoghi Tito
46) De Bernardi Ultimo
47) Dell’uomo Biagio Antonio
48) Dolfi Anna docente universitaria e critica letteraria
49) Dolfi Laura docente universitaria a riposo
50) Domanico Rosa dirigente pubblica amministrazione a riposo
51) Ericani Giuliana vicepresidente Edizione Nazionale delle opere di Antonio Canova
52) Falciano Annabella
53) Ferrari Annalisa
54) Fioravanti Giovanni dirigente scolastico a riposo
55) Fiorentini Leonardo consigliere comunale
56) Folletti Marcello
57) Folletti Nicola
58) Fornaro Giuseppe giornalista
59) Franchi Maura docente universitaria
60) Franesi Pietro
61) Gallo Rossana
62) Gardenghi Marco giornalista
63) Gareffi Andrea docente universitario
64) Genta Maria Luisa docente universitaria
65) Gessi Sergio giornalista
66) Ghetti Roberto
67) Giorgi Dario
68) Giubelli Paolo Niccolò radicali Ferrara
69) Grandi Enrico docente universitario a riposo
70) Grossi Alessandro ingegnere professionista
71) Guagliata Cristiano direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
72) Guelfi Nadia direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
73) Guerra Guerrino
74) Guerrini Pier Luigi
75) Gullini Sergio professore di Gastroenterologia Università Ferrara
76) Iacono Maria Rosaria dirigente nazionale Italia Nostra e membro Premio Bassani
77) Lavezzi Francesco giornalista
78) Lugli Daniele Movimento nonviolento
79) Mambriani Anna Paola direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
80) Mangolini Fabio operatore culturale
81) Mantovani Ida segretaria generale SLC-CGIL
82) Manzoli Silvia
83) Marchetti Lucia
84) Marcolini Paolo
85) Martino Antonio
86) Marzola Roberto
87) Mazza Luana giornalista
88) Mazzoni Paolo dirigente della Lega coop a riposo
89) Mezzetti Corinna archivista
90) Mosca Gil
91) Mosca Raffaele
92) Moschi Antonio insegnante
93) Mottola Molfino Alessandra direttivo nazionale Italia Nostra
94) Nanni Davide insegnante
95) Nerieri Piero dirigente pubblico a riposo
96) Pagliaro Roberta
97) Pagnoni Carla direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
98) Palara Francesca
99) Paparella Daniele
100) Pasquesi Gloria direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
101) Pasti Ilaria
102) Pavanelli Lina direttivo Istituto Gramsci
103) Pavani Elisabetta Centro Giustizia Donne
104) Pavoni Mario
105) Pavoni Sandra
106) Peverin Paola
107) Piazzi Rita
108) Potena Alfredo pneumologo, Università Ferrara
109) Raimondi Paolo
110) Ravenna Marcella docente universitario
111) Rigon Fernando Centro studi Palladiani di Vicenza
112) Rodia Giuseppe sindacalista
113) Romagnoli Cinzia
114) Roncagli Laura
115) Roncagli Maria Grazia
116) Roncagli Maria Lodovica
117) Rossi Daniele ex direttore della Biblioteca Bassani di Codigoro
118) Rossi Francesco
119) Saccomandi Antonella
120) Sani Paolo
121) Sansonetti Giuliano docente universitario a riposo
122) Scandiani Riccardo
123) Siconolfi Paolo presidente del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
124) Simeone Rosanna
125) Stabellini Gianna
126) Stefani Franco giornalista
127) Stefani Piero direttivo Istituto Gramsci e saggista
128) Talassi Renata ex parlamentare
129) Testa Enrico giornalista
130) Trondoli Adriana dirigente del circolo culturale Il Doro
131) Tuffanelli Alessandra Articolo 1-MDP Ferrara
132) Turchi Marco
133) Vasilotta Gabriella
134) Venturi Gianni curatore del Centro Studi bassaniani
135) Venturi Ivana insegnante a riposo e dirigente del circolo culturale Il Doro
136) Veronesi Claudio
137) Vinci Antonio
138) Vinci Francesco coordinatore provinciale Articolo 1-MDP di Ferrara
139) Vitellio Luigi segretario provinciale Pd
140) Zagagnoni Gianfranco ex assessore nel Comune di Ferrara
141) Zamorani Mario gruppo “+ Europa”
142) Zanotti Carlo
143) Zucchi Luca dirigente amministrativo
144) Farnetti Monica
145) Vullo Giulia

La storia dell’albero di Natale di Ferrara

Questa è la storia dell’albero di Natale di Ferrara. L’albero, grande e molto bello, è un abete bianco nato da una pigna dischiusa in un pezzo di terra sull’Appennino tosco-emiliano, nel comune di Lizzano in Belvedere.

Già nel 2014 Comune di Lizzano in Belvedere  aveva donato albero (fonte CronacaComune)

Gli abeti lì ci stanno bene perché le temperature sono adatte e il terreno è umido senza che ci siano ristagni d’acqua, così la crescita è abbastanza rapida, sana e generosa.

Anno dopo anno l’abete cresce e lì vicino c’è un palazzetto dove le persone vanno a fare sport, ma anche a partecipare a incontri e gare, a iniziative culturali e feste. Nei comuni di montagna chi si occupa del verde sa che abeti e pini resistono abbastanza bene al vento perché hanno la loro forma affilata, ma sanno anche che hanno radici poco profonde. Questo permette loro di infilarsi nelle pareti rocciose e sui pendii, ma quando la dimensione delle piante diventa molto ampia, il rischio è che le forti raffiche di vento possano strattonarle indebolendo il loro appiglio a terra fino a farle cadere. Per questo i giardinieri montanari tengono d’occhio le conifere e le tolgono quando si accorgono che possono diventare pericolose. E questo è quello che è successo a questo abete, dopo diverse decine di anni che era cresciuto e cresciuto.

L’albero di Natale 2018 appena era stato collocato in piazza (Ferrara, 21 novembre 2018 – foto GM)

L’altezza dell’albero ha raggiunto i diciassette metri e la base oltre otto metri di diametro. Così, nell’autunno di questo anno 2018, a Lizzano in Belvedere hanno valutato che l’abete vicino al palazzetto cominciava a diventare troppo grande, un pericolo nel caso in cui si fosse scatenata una tormenta, tanto più che lì accanto c’è un continuo via vai di persone, famiglie, automobili e furgoncini.

Albero di Natale 2018 in piazza a Ferrara decorato e illuminato – 27 novembre 2018 (foto GM)

Un abete così bello, però, era un peccato rovinarlo o ridurlo a pezzetti. Ecco allora che nel Comune di Lizzano hanno deciso di farne dono al Comune di Ferrara, per il Natale in piazza. A fare da tramite sono stati gli imprenditori dell’Associazione temporanea di imprese (Ati) a cui è affidata l’organizzazione di eventi, addobbi e iniziative messi in campo dall’amministrazione comunale per il periodo natalizio della città.

Il giorno dell’accensione delle luci dell’Albero di Natale 2018 a Ferrara (24 novembre 2018 – foto Valerio Pazzi)

“Non c’è mai stato in piazza un albero così bello e così grande”, dice con orgoglio Riccardo Cavicchi che, con la sua società Delphi International, fa parte dell’Associazione imprenditoriale che già da alcuni anni organizza le iniziative natalizie ferraresi insieme con Made Eventi e Sapori d’Amare.

Albero di Natale 2018 in piazza della Cattedrale a Ferrara (foto Valerio Pazzi – 1 dicembre 2018)

Anche l’albero di Natale di Bologna è meno maestoso – fa notare Cavicchi – perché misura 15 metri, uno dei quali è interrato, e quindi svetta per 14 metri solo, rispetto ai 16 di altezza scoperta di quello ferrarese”. A rendere ancora migliore l’allestimento, quest’anno, si è aggiunta infatti l’opportunità di potere collocare l’abete nel punto in cui dovrebbe effettivamente stare: tra la piazza del Duomo e il Listone, dentro a un tombino creato apposta per poterci inserire dentro il tronco per la profondità di un metro, lasciando per il resto svettare la pianta direttamente dall’area di pavimento urbano lastricato di ciottoli.
L’Albero di Natale di Ferrara si innalza da quel punto come se fosse piantato nella piazza, senza bisogno di ingombranti manufatti a sostenerlo. Per valorizzare la sua presenza c’è la decorazione: le grandi sfere trasparenti con all’interno i manufatti realizzati con oggetti di recupero dagli studenti della sezione Ambiente del liceo Carducci. E poi c’è l’effetto delle luci. “L’illuminazione – racconta Cavicchi – è fatta con fili di piccole lampadine che emanano la luce giallo dorata che caratterizza anche lo scintillio della stella sulla cima. La punta dell’albero, però, è decorata con luci di colore bianco freddo come se la cima fosse ghiacciata, in modo da accentuare ulteriormente la sensazione di altezza”. L’effetto è riuscito e l’albero chiude in bellezza la sua carriera di abete natalizio.

Nella foto in alto l’Albero di Natale di Ferrara nello scatto scenografico di Valerio Pazzi, autore anche delle ultime due suggestive immagini notturne

APPUNTI SUI POLSINI
La partita Iva di San Giuseppe

Un’inchiesta giornalistica coraggiosa e, bisogna dirlo, ‘miracolosa’ condotta dal quotidiano ‘Il Giornale’ – l’organo di stampa fondato da Montanelli e noto in tutto il mondo per la sua imparzialità e il suo amore per la verità – ha recentemente sconvolto non solo le stanze del Vaticano, ma il miliardo e passa di fedeli della chiesa capeggiata da Papa Francesco.
Ma andiamo per ordine. Erano state proprio le reiterate dichiarazioni – a voce e per iscritto – del pontefice argentino smaccatamente a favore di esuli, profughi, immigrati e poveri in genere che a detta di Papa Francesco avrebbero la precedenza o comunque posti assicurati nel Regno dei Cieli, come pure le sue sospette citazioni evangeliche fuori contesto (“Gli ultimi saranno i primi” e via dicendo) a insospettire i giornalisti più avveduti e a convincerli di un necessario approfondimento storico ed esegetico.

In Italia, regnante Matteo Salvini, appena dopo l’approvazione del Decreto Sicurezza e con l’approssimarsi del Santo Natale, Papa Francesco era ritornato sugli argomenti a lui cari, mentre qualche parroco provocatore aveva allestito il presepe condendolo con statuette di neri, arabi, africani e migranti in genere. Come ogni anno – ma quest’anno molto di più – sono montate le polemiche fra i teologi e biblisti tradizionalisti e quelli ormai conquistati dalla strisciante ideologia comunitaria (leggi: comunista). Naturalmente lo scontro verbale si è subito trasferito anche tra gli esponenti della classe politica nazionale, invadendo poi le pagine dei media e i dibattiti televisivi.
Poco è servito osservare – e qualcuno ci ha pure provato – che il nocciolo, il senso delle parole del Papa non volevano riscrivere la storia di 2.000 anni fa ma richiamare tutta la comunità all’impegno verso la misericordia, l’accoglienza, l’amore per il nostro prossimo. Inutile insomma buttarla sul generale, ormai il vero tema del contendere era chiaro: Gesù bambino era o non era un profugo, un esule, un migrante? E se non lo era, che ci azzeccano i migranti dentro l’italico presepe?
Gesù era appena nato (o stava appunto nascendo) e, giusto una trentina d’anni prima del processo sommario davanti a Pilato, veniva già indagato: lui e la sua Sacra Famiglia. Come in tutti i processi, gli avvocati, e ancor più il giornalisti al seguito, si affannano nella ricerca di un qualsiasi indizio utile. Caso difficile assai, sia per la lontananza nel tempo della nascita in questione sia per l’esiguità delle fonti disponibili, tanto che il dibattito sul ‘Gesù storico’ prosegue da secoli senza aver raggiunto ancora una conclusione condivisa.
I santi vangeli vengono compulsati esaminati palmo a palmo e qualcosa alla fine si trova. Da una parte si ergeva la figura di Erode: niente da dire, un losco figuro persecutore di bambini. Dall’altra si sosteneva però che la Sacra Famiglia non scappava affatto dalla fame o dalla guerra, ma andava a Betlemme per un normalissimo censimento. E prima di adattarsi a una misera grotta (o a una capanna) Giuseppe e Maria avevano cercato alloggio in un albergo (non è dato sapere se a due, tre o cinque stelle) trovandoli purtroppo al completo. Ergo, se Giuseppe cercava una camera doppia in albergo, non poteva certo dirsi un disperato nullatenente: qualche tallero in tasca doveva averlo!

Già da queste semplici deduzioni, la tesi del ‘povero Cristo’ profugo errante usciva piuttosto compromessa. Ma qui – colpo di scena – è intervenuto il sensazionale scoop del giornalista Nicola Carter del ‘Il Giornale’. Dimostrando un fiuto e una costanza degni di Carl Bernstein e Bob Woodward (autori dell’inchiesta giornalista che svelò i retroscena del Watergate, n.d.r.), Nicola Carter tralascia la figura del Bambinello e si concentra su quella del capofamiglia. Chi era Giuseppe il falegname, e soprattutto, quale era il suo reddito imponibile?
Le sue ricerche lo portano in Terra Santa. Consulta gli antichi archivi di Gerusalemme, Betlemme e Gerico, interroga gli impiegati dell’anagrafe, perseguita gli archeologi, pedina rabbini e prelati cattolici e ortodossi. Si confronta a mani nude con la lingua greca, l’ebraico, l’aramaico.
Eureka! Alla fine i suoi sforzi vengono premiati. E’ storia di questi giorni di Avvento: Nicola Carter torna in Italia con un fascio di documenti (papiri, tavolette di cera, eccetera) letteralmente esplosivi. Basterà citare il documento principe (“la prova regina”) datato “anno 2 avanti Cristo”, e cioè la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore Giuseppe di Nazareth. Il reddito annuale, tradotto in valuta corrente, ammonta a 107.560,00 Euro. Il falegname Giuseppe della tribù di Levi risulta titolare di partita IVA e socio di maggioranza di una fiorente impresa (con marchio regolarmente registrato); aveva sotto di lui tre dipendenti (regolarmente assunti a onor del vero); era proprietario di un capannone adibito a falegnameria (non risulta che avesse acceso un mutuo). Da altri documenti desumiamo che Giuseppe era anche proprietario (al 50% con sua moglie Maria) di una seconda casa nella campagna di Gerico, affittata a equo canone, e aveva il conto aperto in tre istituti bancari.

Ne esce insomma il ritratto non di un Giuseppe semplice artigiano (un povero falegname sul genere Geppetto di Pinocchio), ma di un piccolo imprenditore di successo, un tipico rappresentante della classe media emergente.
La grande scoperta – e non si parli in questo caso di una fake news messa in giro da qualche leghista o lefevriano – rischia di far saltare le fondamenta stesse di una religione millenaria? E’ probabile. Quello che è certo è che il Santo Natale del 2018 ne esce con le ossa rotte, mentre nei prossimi giorni si prevedono controlli a tappeto sui presepi per espellere gli intrusi extracomunitari. Anche tra le statuette si anniderebbero alcuni pericolosi elementi radicalizzati.

in copertina illustrazione di Carlo Tassi

BORDO PAGINA
E’ a pezzi l’Europa delle banche a trazione francotedesca

“L’Europa è a pezzi e difficilmente potrà uscire da una crisi strutturale che sembra essere irreversibile. Non è la tesi di un qualunque organo di stampa “sovranista” o euroscettico ma di Foreign Affairs, l’autorevole rivista statunitense dedicata alle relazioni internazionali pubblicata dal Council on Foreign Relations. È un’analisi a tinte foschissime per il futuro dell’eurozona quella descritta da Helen Thompson, professoressa di economia politica presso l’università di Cambridge. Secondo Foreign Affairs, lo scontro tra il governo italiano e la Commissione Europea sulla manovra economica è la dimostrazione dell’incapacità dell’Ue di rispettare la sovranità e il voto democratico dei suoi stati membri” (leggi l’articolo)
In Italia, periferia della Terra, si discute ancora di antipolitica, populismo, del futuro (sic!) del Pd, della Tav, dei vaccini, dei migranti da accogliere con un Paese in semidefault, del ritorno del fascismo (dopo quasi 80 anni!) della Ferragni o di Fedez… mentre questa previsione autorevole dal cuore planetario degli Usa, molto semplicemente è come una Tac che viene da lontano sul problema invece probabilmente strutturale del nostro tempo che riguarda in primis proprio l’Europa e per cascata ovviamente l’Italia. E non a caso il monito viene dagli Usa, piaccia o meno al Bel Paese, dove nel 2018 l’Intelllighenzia sogna ancora miraggi anticapitalistici! E l’analisi indicata è impietosa: in Usa le 50 Stelle e passa delle nazioni federate funzionano sincronicamente con il Governo centrale senza problemi di sovranità relative nel rispetto della Sovranità generale americana: con regole però similari non solo monetarie e finanziocratiche come nell’Unione Europea, ma anche fiscali, penali, civili, militari e culturali. Quell’unione nella diversità culturale che poteva fare grande l’Europa, fallita come pure i punti chiavi non solo elusi nel miraggio europeo ma neppure – se non vagamente – all’orizzonte!
Se l’analisi previsionale è verosimile come probabile, quel che è anomalo non è lo scenario “distopico” annunciato ma persino la sua semplicità. E i segnali nello specifico italiano erano già visibili, come pure certuni – politicamente scorretti – proclamavano a suo tempo, eleggendo un 25 Aprile alla rovescia quando tutto il pseudo progressismo italiano inneggiò al golpe Napolitano-Merckel-Monti per fare saltare l’ultimo governo democratico e “sovranista” italiano dell’ex premier Berlusconi (almeno fino al 4 marzo scorso, ma come noto – e come scrive la testata americana – sotto ricatto dall’Europa): l’analista autorevole del Forreign Affairs è esplicita, al di là delle rivoluzioni liberali fallite per gravi limiti come politico e statista dell’imprenditore Berlusconi e quelle stagioni… Lì l’Italia ha iniziato la sua perdita di sovranità e s’è infilata nel Buco Nero dell’Unione Europea finanzocratica a trazione tedesca già in atto dall’Unione Monetaria (e solo quella!). Unione Europea a ben vedere, poi, nata morta (almeno nella sua versione dominante finanzocratica e francotedesca) quando in realtà fin da Yalta dopo la seconda guerra mondiale, l’Europa era regredita a una grande periferia geopolitica della Terra, ma periferia, con il sistema nervoso del Pianeta pulsante soprattutto e strutturale in Usa, l’Urss, e via via l’emersione prima del Giappone e dopo la fine dell’Urss (con ulteriore regressione continentale con l’Europa dell’Est) della Cina. Nessuno ricorda che fino al Pci era zeit geist italico “progressista” sbandierare ai 4 venti l’inconsistenza dell’Europa colonizzata dal consumismo americano capitalista, altro modo di dire che dopo Yalta l’Europa non contava più nulla o quasi? Ecco, ai tempi della Guerra Fredda, poteva avere un senso una Super Nazione Europea (ma unitaria nei punti chiave di cui sopra) per bilanciare le superpotenze Usa e Urss. Invece, tra altri errori strutturali, non ultimo che una Nazione Nuova artificiale e non secondo i ritmi della Storia che è lenta a livello psicologico e antropologico, è impossibile come Istant Creazione… se non con un Regime Totalitario. Hanno fondato l’Unione Europea come fosse l’Esperanto!
Inoltre, l’Unione Europea è nata in realtà come supernazionalismo, fatta in quel modo, storicamente proprio mentre i mercati sono diventati globali e planetari, una grave contraddizione in termini. La nota crisi infine strutturale e occidentale ancora in corso è stata ed è il Marcatore neoplastico per l’Unione Europea…
Ergo, qualsiasi riflessione italiana sul Futuro , in qualsiasi ottica sociopolitica, neoconservatrice o neoprogressista non dovrebbe prescindere dall’abc di una Unione Europea strutturalmente in coma e nata geneticamente malata. Altrimenti, come poi i fatti segnalano fin da dopo Tangentopoli nel sottomenu italico rispetto al mondo, è, male o bene poco importa con sguardi – pensieri diversi futuribili (per dirla con Wittgenstein e altri “lungimiranti”) sempre Piccola Politica, mai quella Grande Politica che certi bivii nel divenire storico esigono, come ben pronosticava Nietzche, sul piano intellettuale il più grande degli Europei….

A Modo suo

Agli amici confida che da dieci anni studia da sindaco. Ed è vero! Ma il sogno nasce probabilmente già alla fine degli anni ’90, quando inizia l’apprendistato come presidente della circoscrizione Giardino (sì, proprio la famigerata Gad), e si fa più concreto dal 2003, con la nomina ad assessore comunale, dapprima alle Attività economiche e in seguito a Lavori pubblici e mobilità.
La lunga strada percorsa da Aldo Modonesi, (auto)candidato in pectore che nessuno però candida, lo ha portato oggi a concludere l’ultima conferenza stampa plenaria dell’ultimo capodanno di quella che molti considerano l’ultima Giunta a trazione Pd, partito erede della principale forza politica che, dal dopoguerra, ha ininterrottamente governato la città. E lui, Aldo Modonesi, Aldino, in questa così particolare situazione, dopo avere ascoltato tutti i colleghi di Giunta e il Sindaco, ha preso la parola proprio in chiusura, come di norma fa il padrone di casa e, dulcis in fundo, ha detto la sua, a suggello di un’esperienza che – comunque vadano le cose – termina (in quel ruolo) anche per sé. Ha tenuto un discorso da reggente, sciorinando – peraltro con invidiabile scioltezza, gli va riconosciuto, e completamente a braccio, quindi senza consultare appunti, tanto si sente cucita addosso la missione – i molti traguardi tagliati in questi anni nel suo ruolo di amministratore comunale.
Un cammino, il suo, ben dosato e misurato, che lo proietta ora a un passo dalla vetta, dunque dall’ipotetico agognato trionfo; o, per eventuale rovescio della sorte, sull’orlo di un precipizio e di una rovinosa caduta. Sciagura! Ma lui vuole, fortemente vuole: per quel traguardo si sente pronto e a quella meta ambisce, fortemente ambisce… Non si è fatto, dunque, sfuggir l’occasione per sciorinare il catalogo dei trofei.
Con l’umile premessa che mettendo assieme tutti i nastri delle inaugurazioni fatte si riempirebbero due sale mostra, ha ricordato i suoi successi: 4 scuole, 2 biblioteche, 3 parcheggi, 3 piazze, il raddoppio delle piste ciclabili, 180 alloggi di edilizia pubblica, la ristrutturazione dello stadio, la riapertura del campo scuola e del motovelodromo, i cantieri post sisma, l’apertura dell’ospedale di Cona, la sistemazione dell’ex Mof, di casa Nicolini e di Porta Paola… “Da qui si parte”, afferma mr. Inpectore, e aggiunge: “Tornerà di moda la serietà, sfioriranno i ‘ciaone’ e le felpe”.
E ha poi ringraziato tutti, proprio come ogni buon padrone di casa, dal Sindaco ai colleghi di Giunta, ponendosi ex cattedra, quasi fossero le prove generali di uno spettacolo annunciato. Andrà davvero così? Con pazienza, anche la “sala rotonda” – che ha ospitato la conferenza stampa – attende di conoscere i suoi futuri frequentatori. E’ lì, infatti, che di norma si svolgono le riunioni di Giunta. La denominazione attuale deriva (per scarsa fantasia) dalla presenza di un grande tavolo di cristallo, tondo perlappunto. Appellarla “sala dei Savi”, com’era anticamente, oggi è forse apparso fuori luogo…
Comunque sia, una certezza l’abbiamo; anzi, due: la prima è che in quello stesso spazio, fra dodici mesi, altri saranno i volti dei protagonisti chiamati a rendere conto ai giornalisti – e per loro tramite alla città – di ciò che, nel bene e nel male, come governanti di Ferrara, saranno stati in grado di fare. La seconda è che di ‘savi’ (saggi), in grado di reggere le sorti della città, tutti avvertiamo un gran bisogno.

 

CARTOLINE DA FERRARA – sintesi per immagini a cura del Comune di Ferrara

Investimenti 2018 – 12 mesi in 12 foto

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Arrivano le crocerossine!

La serie di Candy Candy e l’archetipo della crocerossina. Scrivono a I dialoghi della vagina le bambine degli anni ottanta.

Prevenire è meglio che curare

Cara Riccarda,
impossibile liberarsi di Candy Candy, quasi l’unica forma di educazione sentimentale per le bambine degli anni ottanta. Ci ha puntellato in testa che noi donne dobbiamo avere l’istinto della cura. E, chiaramente, quante fregature sono venute di conseguenza!
M.

Cara M.,
è stata una iattura e la mia amica B. non vuole convincersene. B. si giustifica dicendo che però c’era il valore dell’amicizia e dei buoni sentimenti. Ma quali buoni sentimenti, Candy viveva fra le serpi e l’invidia degli altri, marginalizzata, incompresa e, soprattutto, con l’istinto della cura. Sempre.
Ma un po’ di sano egoismo per l’autotutela non possiamo praticarlo? Candy rappresentava l’opposto. Ciò che più mi ricordo di lei, è l’inafferrabilità della gioia, la brutta sorpresa sempre in agguato e il senso di ingiustizia. Mi angosciava, eppure la guardavo lo stesso. A pensarci, qualcosa di simile l’ho replicato anche da grande.
Riccarda

Da Candy alle Winx… passando per Padre Ralph

Cara Riccarda,
non so dirti quante volte, da bambina, ho guardato la serie di Candy Candy. Mi piazzavo a mezzo metro dalla tv per seguire le sventure della mia eroina. Davanti a quelle immagini di sofferenza e a quella musica malinconica, capivo che c’era qualcosa di affascinante nel destino dell’orfanella, lei era un passo più avanti rispetto a me perché aveva vissuto davvero. Non so quanto mi sia rimasto del suo spirito di crocerossina, trovavo più interessante le vicende d’amore col bellissimo Terence che poi speravo di sognare. Da adolescente spesso sognavo a occhi aperti e speravo di incontrare un ragazzo che assomigliasse a un idolo della tv, cosa che non è successa mai.
Poi sono cresciuta, oggi ho due figli che hanno vissuto l’epoca dell’esibizione dei corpi delle Winx e un mondo parallelo dove tutto è possibile. Sarebbe bello dire ai figli facciamo un disegno o impastiamo una torta, ma bisognerebbe essere mamme Wonder Woman. I figli davanti alla tv o allo smartphone, se vogliamo riuscire a preparare la cena o altro, ci sono e ci saranno sempre . Magari, con un genitore che spieghi loro che la realtà è tutta un’altra cosa.
Elena

Cara Elena,
se all’epoca, qualcuno mi avesse detto che si possono anche fare scelte diverse, cioè un po’ più felici, e che le cose possono andare meglio, avrei guardato Candy con maggiore serenità, ma forse meno interesse.
Quanto alla più rassicurante Uccelli di rovo, ricordo ancora che fu lì che chiesi a mia madre come si fanno i bambini. “Così”, mi rispose lei, indicando lo schermo e dandomi da leggere l’ultimo volume dei Quindici.
Riccarda

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

  • La rubrica I dialoghi della vagina riprenderà venerdì 11 gennaio 2019.
    Auguriamo serene festività a tutti i lettori.

I sogni avverati di Vasco Brondi al Teatro comunale di Ferrara

Grazie Ferrara. Un grande dono di cui sono grato alla città è che qui, da giovani, ci si annoia moltissimo. Ed è in giornate come oggi, con il cielo bianco e nulla da fare, che io ho iniziato a leggere, scrivere, suonare. La noia è importante, aiuta a sviluppare la creatività”.
Esordisce così Vasco Brondi sul palco del Teatro Comunale di Ferrara, la città dove è cresciuto e da cui è partito nel 2008 con il nome di Luci della centrale elettrica. Un concerto quello di domenica (16 dicembre 2018) pensato come conclusione di un percorso, momento di bilancio di un viaggio fatto di musica e parole che da Ferrara è partito e che ora giunge al termine per diventare non si sa ancora bene cosa: sempre sulle scene a cantare ma con il suo nome di battesimo, scrittore come fa già nei libri che alterna con i suoi album, oppure autore di cinema, fumetti, poesia, più difficilmente barman (cosa che – già con poca convinzione, dice – faceva in gioventù).

Vasco Brondi (foto Max Cardelli 2018)
Brondi a Ferrara (foto Luca Stocchi 16 dicembre 2018)

L’ironia e la capacità di trovare sempre un senso al paradosso sono il segno distintivo delle cose che Vasco Brondi dice, scrive e canta. E così, con questa sua modalità alternativa e obliqua, fa il punto sull’attività artistica che ha trasformato un giovane sperimentatore di suoni e testi in un cantautore che con emozione ha scoperto di essere apprezzato dapprima dall’artista concittadino Giorgio Canali, poi da una star della musica come Jovanotti, guardato con familiarità da Battiato, coinvolto dai suoi idoli, Cccp, e dall’amato De Gregori, finendo con lo stupore di vedere i versi di una sua canzone scritti sul muro in una strada di Catania.

Sono passati dieci anni dall’esordio con quel nome lungo e un po’ fuorviante di Le luci della centrale elettrica. “La cosa buffa – dice – è che prima erano tutti lì a chiedermi ‘Ma perché Le Luci della centrale elettrica?’ E adesso invece non fanno che interrogarmi ‘Ma perché basta con Le Luci della centrale elettrica?’”
Spiega che proprio a Ferrara è nato ufficialmente il nome, che sembra quello di un gruppo o di un album o chissà che. “È un nome che avevo nella mia testa da tempo, ma che non avevo condiviso con altri. È diventato pubblico il giorno in cui mi hanno dato l’opportunità di esibirmi in un locale ferrarese di via Bologna, dov’era in programma il concerto di un gruppo affermato e serviva qualcuno che cantasse prima”. Nel manifesto della serata dovevano scrivere anche il suo nome. “Così ho detto per la prima volta a voce alta che volevo usare Le luci della centrale elettrica. Manu dello studio di registrazione mi fa ‘Mi sembra una cazzata, magari pensaci e poi mi dici’. Alla sera mi chiama per chiedermi cosa mettere e gli rispondo che va bene Le luci della centrale elettrica. Lui sta zitto e poi: ‘Contento tu…’”.

Pubblico e tecnici al termine concerto di Vasco Brondi al Teatro comunale di Ferrara

A trentaquattro anni compiuti, Vasco ha alle spalle quattro album usciti per l’etichetta Tempesta Dischi  (‘Canzoni da spiaggia deturpata, 2008; ‘Per ora noi la chiameremo felicità‘, 2010; ‘Costellazioni‘, 2014; ‘Terra‘, 2017), un Ep allegato a XL Repubblica nel 2011 ‘C’eravamo abbastanza amati‘, il doppio album di questo tour dedicato al decennale ‘2008-2018: Tra la via Emilia e la Via Lattea‘, ma ci sono pure tre libri (‘Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero‘, uscito per Baldini Castoldi Dalai nel 2009, ‘Come le strisce che lasciano gli aerei‘, scritto insieme ad Andrea Bruno per Coconino Press nel 2012 e il resoconto del viaggio sul Po ‘Anime Galleggianti‘ scritto insieme con Massimo Zamboni per La nave di Teseo nel 2016).

Vasco Brondi-Luci della centrale elettrica a Ferrara

Tanti i pensieri e le parole che hanno scandito la sua avventura artistica e che, come spesso avviene nelle sue esibizioni, si accompagnano a pensieri e parole di altri autori che ha letto, a immagini e suggestioni raccolte in giro. In passato Vasco Brondi ha condiviso con il pubblico il suo amore per la scrittura di Gianni Celati e per la fotografia di Luigi Ghirri, la rivelazione di ritrovare pezzi di pianura emiliana infilati dentro una canzone di Lucio Dalla o dei Cccp. I libri, i film e la musica sono strumenti di interpretazione del mondo e di definizione della propria identità da cui ‘Le Luci della centrale elettrica’ attinge a piene mani. La letteratura non poteva quindi mancare in questo appuntamento conclusivo. Vasco Brondi ha ricordato: “A Italo Calvino una volta chiedevano quale sarebbe stato il talismano per il Duemila, e lui diceva: ‘Imparare poesie a memoria. Perché le poesie ti tengono sempre compagnia’. Ora leggerò alcuni ‘Sogni’ di Roberto Bolaño, sono poesie di questo scrittore cileno che dopo il colpo di Stato aveva scelto di vivere in Spagna”. Il sogno, del resto, è un filo conduttore presente spesso nei suoi brani. Ne ‘I nostri corpi celesti’ (2010) cantava “ti ricordi che i nostri sogni sfondavano i soffitti/ti ricordi i nostri disperati sogni di via Ripagrande e di viale Krasnodar” e la capacità di sognare è arrivata fino al più recente ‘Chakra’ (2017) dove, più appagato, rivela “ti sogno spesso e nel sogno una città si sta per allagare/ti do l’ultimo bacio sul portone/e mi liberi dal male e ti libero dal male”.

La chiusura del concerto di domenica 16 dicembre 2018

Il concerto, nella sala elegantemente classica e ovattata del teatro ferrarese si è aperto nella penombra di luci basse e bluastre per passare a colorazioni via via più calde, dal viola al rosso fino al culmine della conclusione in piena luce. Lì, sul bordo del palco illuminato, Vasco Brondi e i suoi musicisti si sono sporti per una finalissima a tutto ritmo, accompagnata dal battimano del pubblico con il brano che racconta lo stupore “dei nostri sogni assurdi che si sono avverati/…ci sarò io e arriverò, felice da fare schifo/e libererò tutti i tuoi pianti trattenuti” [per ascoltare il brano clicca sul titolo ‘Questo scontro tranquillo’].

Il sogno avverato chiude la carrellata delle visioni di un ragazzo che fantasticava un sacco di cose e magari si tuffava nella nebbia. Come “Michelangelo Antonioni – ha detto –  che raccontava che i suoi giorni preferiti erano quelli in cui si accorgeva che la nebbia era così fitta. Allora correva in piazza ed era felice perché diceva che finalmente poteva credere di essere altrove”. Altrove, dove Vasco Brondi andrà ancora una volta. Come nei versi di Bolaño che ha letto durante il concerto: “Ho sognato che mi rimettevo in viaggio sulle strade, ma questa volta non avevo quindici anni ma più di quaranta. Possedevo solo un libro, che tenevo nel mio zainetto. All’improvviso, mentre stavo camminando, il libro si incendiava. Albeggiava, e non passava quasi nessuna macchina. Mentre gettavo in un fosso lo zaino bruciacchiato ho sentito che la spalla mi pizzicava. Come se avesse le ali”.

Ad accompagnare Vasco Brondi sul palco del Teatro comunale di Ferrara c’era la band formata da Rodrigo D’Erasmo al violino, Andrea Faccioli alle chitarre, Daniel Plentz e Anselmo Luisi alle percussioni, Daniela Savoldi al violoncello, Gabriele Lazzarotti al basso e Angelo Trabace al pianoforte.

Fotografie di Luca Stocchi

Ecco perché la Francia può permettersi un deficit più alto dell’Italia

Tra la Francia e l’Italia c’è sempre stata competizione ma per lo più hanno sempre vinto loro potendo godere di Istituzioni più solide delle nostre perché più antiche e quindi di più larga esperienza. Nella storia i francesi hanno cercato sempre di primeggiare sia in Europa che nel mondo, contendendo colonie e sfere di influenza all’Inghilterra.
Poi con l’arrivo degli americani sullo scacchiere internazionale hanno allentato la presa, come del resto l’Inghilterra, ma sono comunque riusciti a tenersi strette un bel po’ di “prerogative” in maniera forse più subdola di questi ultimi: in Africa, nel Medio Oriente e ovviamente nel mediterraneo. Incuranti, e tante volte in contrasto, con gli interessi italiani.
Sono nazionalisti e molto attenti alla difesa dei propri interessi, non seguono ma precedono. La Nato per averli ha dovuto inserire il francese come lingua ufficiale insieme a quella inglese ed infatti la Nato, per i francesi, si chiama Otan.
Si dice che l’euro sia stato pensato per ruotare intorno agli interessi di Germania e Francia e che quest’ultima abbia accettato proprio per contrastare il crescente potere economico tedesco. In ogni caso da fondatori di fatto e non di “carta”, possono permettersi ciò che altri possono solo chiedere e vedersi, per lo più, rifiutato.
Oggi, causa manifestazioni di piazza, la Francia ha bisogno di spendere e quindi di indebitarsi di più di quello che aveva previsto. Moscovici, Cottarelli e Repubblica sono concordi nell’affermare che può farlo a differenza dell’Italia che invece non può perché, dicono, ha dei fondamentali economici peggiori.
Proviamo a farci un’idea obiettiva della questione e cerchiamo di capire come sono effettivamente i conti e se la questione sia realmente … economica. Andiamo a guardare questi fondamentali.
Iniziamo dal deficit, la tabella di seguito è alquanto esplicita. Il punto interrogativo sul 2019 indica che si tratta, ovviamente, di una previsione. Per la Francia un 3,4% opzionato da Macron per placare le richieste dei gilet gialli e un 2,4% per l’Italia che Conte sta trasformando in un 2.04%.

La curiosità: la Francia nel periodo 2012 – 2014 si mantiene sulla media del deficit al 4%, in quel periodo era Ministro delle Finanze l’attuale Commissario europeo per gli affari economici e monetari Pierre Moscovici. Quando invece raggiunse il record di deficit al 7,2% nel 2009 lo stesso Moscovici era Ministro degli Esteri, sempre presente nel Governo ma, diciamo così, meno “responsabile” dell’accaduto.
Per quanto riguarda il debito pubblico l’Italia cresce nel periodo 2007 – 2017 di ben 686 miliardi di euro. Una cifra enorme considerando che i Governi che si sono succeduti hanno imposto manovre “lacrime e sangue”, taglio di salari e pensioni, taglio delle assunzioni, degli investimenti e di qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani proprio nel tentativo di abbatterlo senza, evidentemente, riuscirci.
Una cifra enorme che però, se confrontata con i 1.025 miliardi di aumento del debito francese diventano poca cosa. Nel 2018, poi, aggiungerà altri 60 miliardi di euro, il doppio dell’Italia che dovrebbe fermarsi a 32 miliardi.
La Francia, nello stesso decennio, ha aumentato la spesa governativa di quasi 300 miliardi, circa tre volte in più dell’Italia che non è arrivata a 100 miliardi.
L’Italia spende però di più in interessi sul debito pubblico. Mediamente una spesa in debito pubblico superiore di 20 miliardi all’anno rispetto alla Francia, a dimostrazione del fatto che i nostri governi hanno prestato più attenzione alle esigenze dei mercati che a quelle dei cittadini.
Interessante, conseguentemente, il confronto sul piano del bilancio primario, ovvero la reale spesa dello Stato al netto degli interessi sul debito pubblico. Un modo per constatare effettivamente il livello di “consolidamento” dei bilanci, quanto realmente spende uno Stato per andare incontro ai bisogni dei cittadini e quanto per i mercati.

Ebbene da questo grafico del Mef si ricava che per il periodo 2009 – 2016 l’Italia ha una media positiva del 2,8%, mentre la Francia ha invece una media negativa di circa 1,5%. Insomma mentre l’Italia consolida (riduce) la spesa e sta attenta a far quadrare i conti, la Francia spende più di quanto riceve dai cittadini ancor prima di spendere per gli interessi sul debito.
Passiamo alla bilancia commerciale e ai suoi saldi, un altro fattore da considerare per avere un quadro corretto della situazione economica di un Paese. Ebbene anche qui la Francia non si comporta granché bene ed infatti, come si vede dal grafico seguente…

la Francia è in deficit all’incirca dal 2006 mentre l’Italia dal 2012 sta avendo ottime performance e ha chiuso il 2017 con un surplus di 47,5 miliardi di euro.
In sintesi, la Francia ha una storia di deficit annuali ben superiori a quelli italiani e per i quali non è stata mai multata. Inoltre, ha un deficit “gemello” ovvero è in negativo sia sulla bilancia commerciale che sul settore pubblico. In quest’ultimo caso ho sottolineato che il settore pubblico si indebita sia sul bilancio primario (al netto degli interessi) che sul bilancio finale, cioè dopo aver introdotto in contabilità gli interessi sul debito pubblico.
L’Italia invece ha surplus sul bilancio primario da decenni, quindi restituisce ai cittadini meno di quello che da loro incassa. Contemporaneamente, esporta più di quello che importa a riprova che ha un’economia in grado di competere sui mercati internazionali secondo i canoni imperanti e liberisti.
Sul piano del debito dobbiamo aggiungere un grafico, anzi due. Il primo sul debito delle famiglie

E il secondo (dati: bloomberg.com) sul debito totale

Dati causa e pretesto, bisogna aggiungere che nonostante la Francia sia fuori quasi da tutti i parametri tanto cari all’eurozona, vede il suo Pil superare in crescita di circa 3 volte quello italiano nel periodo 2007 – 2017, il che copre la montagna di debito e di deficit da cui è sommerso e le permette di mantenere la forbice debito/pil sotto il 100%. A guardare la situazione francese verrebbe da pensare che in fondo uno Stato che spende non sia una tragedia, non sarà che a noi mancano proprio i suoi deficit?
A noi sognatori, stranamente, piace pensare che la matematica non sia un’opinione, che i grafici inseriti in quest’articolo abbiano un senso e quindi che la Francia sia migliore di noi per il fatto che fa Politica, decide cosa è meglio per i suoi cittadini e come un buon padre di famiglia che pensa prima ai suoi figli, i Governi francesi hanno pensato e continuano a pensare prima ai francesi, anche se devono dare giustificazioni all’Europa a volte ridicole come fa Moscovici (francese alla corte di Bruxelles).
E forse spendere di più fa bene anche all’occupazione, visto che loro hanno 3 punti percentuali di disoccupazione in meno rispetto all’Italia, hanno più servizi e quando scendono in piazza sanno farsi ascoltare. Noi abbiamo Monti, Fornero, Cottarelli e Boeri passando per Calenda, Renzi e la Boldrini. Tutti impegnati, insieme a Rai, Mediaset e grandi giornali nazionali, a elogiare qualsiasi cosa che sia contro l’Italia e gli italiani.
Quello che non reggiamo con la Francia non è il confronto con l’economia ma il fatto che la nostra politica non fa gli interessi nazionali, che i sindacati sono troppo impegnati a “concertare”, che l’informazione è troppo occupata a parlare male dell’Italia, in un sistema in cui di conseguenza i cittadini hanno finito per essere troppo confusi da decenni di cattiva politica, cattivo sindacato e cattiva informazione per cui continuano a cercare nelle ideologie la soluzione di problemi pratici.
Non essendoci visione, rappresentanza e verità si è realizzato il sistema perfetto che annulla da solo qualsiasi tentativo di miglioramento, insomma la realizzazione ultima della società gattopardesca.

in copertina elaborazione grafica di Carlo Tassi

PER CERTI VERSI
La canzone del Principe /1


Ogni domenica Ferraraitalia ospita “Per certi versi”, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.

 

LA CANZONE DEL PRINCIPE

La musica, spente le dolci note, vibra nella memoria (J. Keats)

PROLOGO

i morti
sui campi di battaglia
esangui
al cielo avvoltoio
si conficcano
le ragioni e i torti
nella pelle della storia
fumano
le armature sciolte
in ferro nemico
tra il sogno spento
di Carlo Quinto
e la fredda pace
di Vestfalia
*
splende a lampi
di sole notturno
l’ultimo rinascimento
fu tempo
di amore e sangue
*
unghie
di neve
le vette
dalle grandi mani
sfiorano
tastiere di nuvole
nei singulti di luce
cola cera
alla fiamma mattina
sole sole
che prendi
che apri
la scatola dei denti
al sorriso
vai anche tu
a stracciarti
contro gli scogli
del cielo
*

CARLO E MARIA

poiché mia cruda sorte…
così nel suo castello
Carlo Gesualdo
principe di Venosa
pensava a Maria
bellissima moglie
che privò
di quella passione
che nudamente
l’ardeva
*
lei aveva tutto
il lucore svevo
degli occhi
bagnati dal Golfo
della malinconia
la stazza degli avi
nella sensualità
ardente di vita
giovane vedova
si adagiò a prima vista
all’amore tenero e fraterno
l’amore di sempre
che non tracolla mai
del cugino
Carlo Gesualdo
principe di Venosa
*
nel palazzo degli splendori
il cuore di Maria si rannicchiava
nel petto esuberante
opera collinare
di perfetta bellezza
la luce di Napoli
cadeva contro gli scuri
dell’antica dimora
dove la musica era regina
lei solo principessa
*
iniziò così per gioco
il tradimento
l’amore a suo piacimento
lei che tutto aveva
tutto pretendeva
Maria
non fece eccezione
con l’amante Carafa
scaltro tessitore di trame
cortigiane
*
vo’ gridando la mia libertà
ai mille occhi
del sospetto
Maria così
spianava
il suo demone
Napoli guardava
ipnotizzata dalla bellezza
e dalla follia
esibita
guardava
coniugi
amanti
*
come poteva lui
il Principe
sopportare?
come poteva lei
la venere sveva
continuare?
lavare l’onta
salvare l’onore dei Gesualdo
Carlo non ebbe scelta
*
le tragedie si nutrono
della tracotanza
delle ristrettezze
del cuore
così fu
*
di notte fu uccisa
colta nel letto
al lume delle torce
Carlo delirando gridava:
uccidi uccidi
ancora
*
poi fuggì
coi coltelli del rimorso
piantati nel ventre
il tempo lo angosciava
allargava le ferite
della sua anima
perché mia cruda sorte
non mi hai tagliato le vene
perché anch’io non sono caduto
sotto i colpi inferti a Maria
perché amore affondava
nella carneficina?
*
solo
nel castello
che portava
il suo nome
Gesualdo
compose struggenti
madrigali d’amore
*

1. continua

LA RECENSIONE
Waiting for Jan Fabre
sospesi fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti

di Monica Pavani

Avete presente quella scena di ‘Amleto’ in cui il Principe di Danimarca, trepidante e impaurito, aspetta che gli appaia il fantasma del padre per ascoltarne l’anima inquieta? O quando Dante discende nell’oltretomba, e deve affrontare il buio e l’orrore dello Stige, e le creature mostruose come Cerbero, il rabbioso cane a tre teste che si trova a guardia del terzo girone dell’‘Inferno’, se vuole incontrare i peccatori che gli stanno più a cuore? O ancora, le scene di tanti telegiornali in cui qualche creatura umana – munita di spirito eroico – si aggira per trarre in salvo chi è rimasto vittima di un disastro, di un incidente, di un tracollo o di un attentato?

Lo stesso brivido che coglie di fronte a quel proliferare di immagini a cavallo fra il mondo dei vivi e dei morti, non abbandona un istante chi assiste al meraviglioso spettacolo – presentato ieri e in replica questa sera, 14 dicembre, al Comunale nell’ambito della Stagione di Danza – ‘Attends, attends, attends… (pour mon père)’ di Jan Fabre, artista belga poliedrico e geniale. Il traghettatore Caronte, che nella Commedia dantesca trasporta le anime dannate, è il magnifico Cédric Charron (Charron è Caronte in francese), performer nato in Bretagna, che collabora con Fabre dal 2000, e per il quale questo imponente poema visivo è stato concepito.
Su una scena spoglia, volute di fumo si addensano e si diradano come i confini labili di un oltremondo, mentre il gondoliere – più che traghettatore – Charron, tutto vestito di rosso sangue, ma anche rosso amore, afferra brandelli di luce e ombra nel suo lunghissimo viaggio attraverso il tempo, più che attraverso lo spazio. La sua figura leggerissima e vorticosa è dominata da un impeto che spesso caratterizza gli interpreti degli spettacoli di Fabre: la disponibilità alla metamorfosi. Ogni istante sul palco è una rivelazione, un vissuto, un impulso, che Charron asseconda o contrasta. Diventa cane che latra, lupo che guaisce, amante lascivo, figlio addolorato, addirittura compagno di viaggio del padre: “Ti vedo, in piedi, in lontananza. Di spalle” – ripete più volte. L’infaticabile attesa e ricerca di un contatto con il la figura paterna (o patriarcale, o divina) va di pari passo con la scoperta di un tempo che trascende il quotidiano, dove gli istanti sono scanditi dal perpetuo ‘canto del desiderio’.

La consistenza fisica di Charron è data dalle parole, dal bellissimo testo che muove letteralmente gli agili arti del danzatore – intriso di rimandi a Shakespeare, a Beckett, e amplificato dagli echi di tanta poesia francese (pare di sentire anche Yves Bonnefoy che trapela tra i vapori bianchi che agitano la scena). Il performer è avventuroso, provocatorio e a tratti diabolico, ma contemporaneamente aleggia come un angelo estatico su cui si consuma e viene agito il mistero della creazione.
Fra il Padre spirituale (Fabre) e il Figlio (Charron) si tesse un dialogo intimo e vastissimo incentrato sull’intensità della vocazione artistica portata fino in fondo, come emerge anche dall’incontro con Charron che segue lo spettacolo. ‘Attends, attends, attends… (pour mon père)’ in sostanza mette in scena l’indugio necessario di chi si sente chiamato alla guerra pacifica per la conquista della bellezza. E dunque è disposto a spogliarsi di sé, a sprofondare negli abissi distruttivi e creativi del proprio animo, inoltrandosi al cospetto di forze immense, sulfuree e impercettibili, ma così dirompenti.
Un’ora (di spettacolo) passa come un’era, e ci si ritrova – immobili e rapiti – a provare nostalgia per quel restare in attesa – in attesa, in attesa… – dello svelarsi del mondo di Jan Fabre.

La foto di copertina e di Marco Caselli Nirmal

Stranezze dal Giappone: c’è una bicicletta Bianchi in strada

Tutte le cose hanno una memoria. Noi la riconosciamo e l’interpretiamo. Così Remo Bodei si affianca all’idea giapponese del valore delle cose. Non è un valore puramente economico, ma principalmente personale. La scelta di una cosa è dettata dalla nostra memoria culturale, da significati estetici e tecnici. Considerando che la scelta delle cose è riflesso della nostra personalità, le cose acquisiscono valore personale. Se c’è rispetto per la persona, c’è anche rispetto per le sue cose.
Fuori dalla vetrina di una pasticceria giapponese a Tokyo vedo una straordinaria bicicletta Bianchi. Alta tecnologia su due ruote, telaio speciale, di un bel mite azzurro tradizionale. C’è anche la borraccia, forse la stessa che nel 1952 si stavano scambiano Coppi e Bartali nella famosa tappa Losanna-Alpe d’Huez, sul passo del Galibier, del Tour de France.
Tutti le passano davanti, tutti forse l’ammirano, ma nessuno la tocca.
Perché mi deve sembrare strano?

Leggi anche:
Stranezze del Giappone: antica tradizione e moda occidentale a braccetto

PER CERTI VERSI
La mostruosa contorsione dell’identità padana a tutto tondo

Ogni domenica Ferraraitalia ospita “Per certi versi”, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.

I BAMBOLOTTI NERI

il profondo Nord
è così profondo
da andare in asfissia
facendosi scudo
con una gretta ideologia
che sottointende
l’esistenza di una sola etnia
quella bianca autoctona
e così i suoi figli
devono rispecchiarsi
fin dall’asilo
nel Tagliamento
o nel Timavo
con le bambole di pelle chiara
e così ogni figliolo bravo
che sia ospite
del Nord profondo
e del suo rude vento
a Codroipo la tara
dell’ignavo consiglio comunale
ha deliberato in maggioranza
questa mostruosa contorsione
dell’identità padana a tutto tondo

 

 

MANCA POCO A QUESTO MONDO

Tu sei l’arpa delle mie costole
Come le pizzichi
Cantano le arie
Nella sala del cielo
E mi sollevi
Come fossi una rondine
E le tue dita
Di asfodelo
Sono lievi
Sul torace
Che vibra
Allora
Una musica
Soave
Mi ricordo tutto
Persino il Piave
Che con un filo di voce
Mormora che resta poco
A questo mondo
Tu mi raggiungi
E noi voliamo
A me
Con un bacio
Ti congiungi

Verso le elezioni. Bernabei apre il confronto: “Voglio una città forte e gentile, nel rispetto dei diritti e dei doveri di tutti”

“Ci sono. E mi pongo prima di tutto in ascolto: aperto al confronto e attento a ogni voce”. Così Fulvio Bernabei scioglie le riserve, dopo un tam tam alimentato in questi mesi dalla stampa cittadina, e dichiara la disponibilità a candidarsi a sindaco di Ferrara, con una lista civica al momento ancora da costruire.
“Prima bisogna incontrarsi, parlare, discutere e insieme definire le priorità, i problemi e le appropriate soluzioni”. L’ascolto e la riflessione, però, sono già da tempo avviati. E la cornice valoriale c’è ed è imprescindibile. “La Costituzione è il primo riferimento, meravigliosa sintesi di tutti i valori in cui credo e che vorrei portare al centro dell’agire pubblico. I principi che mi guidano impongono uno stop alle rendite di posizione, ai favoritismi, alle raccomandazioni. La mia testa resta sempre solidale e rivolta agli ultimi della fila”. E, non a caso, Bernabei cita papa Francesco come la personalità più importante e influente dei nostri tempi.

Di sé, dice: “Non sono uno a cui la vita ha riservato il posto in prima fila, né in seconda, né in terza: solo posti in piedi… So bene, dunque, cosa significhino il sacrificio e il duro lavoro perché ciò che ho me lo sono guadagnato. Mi candido con spirito di servizio, forte di questo mio vissuto. Ferrara l’ho scelta – aggiunge – sono arrivato qua nel 2004, dopo avere girato 13 città, e me ne sono innamorato”. Per otto anni è stato comandante della Guardia di Finanza, nel 2012 è stato trasferito a Pordenone e successivamente a Roma, ma ha continuato a vivere a Ferrara, “in zona Gad” – sottolinea – con la famiglia. “La nostra città deve ritrovare l’orgoglio di sé stessa. Voglio confrontarmi e capire le speranze, i sogni, le paure della gente in carne ed ossa, voglio ragionare di cose pratiche, concrete, della vita reale, non di quello che ci viene mostrato attraverso i monitor della tv”.

“In questi ultimi tempi – racconta – mi è capitato di assistere alle riunioni dei ragazzi della ‘Città che vogliamo’: mi è parsa una preziosa finestra da cui entra aria nuova. E’ stato presentato un manifesto bellissimo che individua obiettivi e criticità e indica soluzioni concrete prendendo spunto dagli esempi migliori realizzati nelle città europee. È l’atteggiamento giusto di chi vuole reagire alle difficoltà in maniera positiva, per cambiare in meglio. Assistiamo invece, a livello politico generale, a mille strumentalizzazioni e vediamo tanti, anche ai vertici delle istituzioni, che calpestano i valori della democrazia. La politica deve ritrovare la gentilezza e la mitezza – aggiunge – che non significa debolezza, tutt’altro: chi è mite è tale perché è forte e consapevole delle proprie capacità”.

Bernabei mostra insofferenza per la mancanza di rigore e di serietà nel dibattito pubblico. “E’ un’epoca, la nostra, in cui verità e menzogne si mescolano facilmente. Dobbiamo avere chiaro che il rispetto della verità dei fatti è il presupposto e la premessa logica a ogni ragionamento. Poi sulle soluzioni si possono legittimamente nutrire opinioni diverse, ma non si può prescindere da una seria analisi della realtà”.

Sulla incandescente questione dei migranti – che orienterà il voto anche di tanti ferraresi – mostra di avere le idee chiare: “C’è un dovere di accoglienza, ma c’è anche una corrispettiva responsabilità di chi è accolto, ed è il rispetto delle leggi: su questo non si può transigere!”. Il criterio dirimente è quello indicato da Don Milani: “Amici sono le persone perbene, nemici coloro che perbene non sono”. Vincoli di legge, vincoli etici, vincoli di bilancio sono i punti cardinali che condizioneranno i progetti e scelte: “Sono i riferimenti con cui ogni serio amministratore dovrebbe sempre fare i conti”.

“Entro in punta di piedi – aggiunge – non voglio insegnare nulla a nessuno: ho le mie idee ma sono pronto a rivederle: il confronto serve a questo. Voglio anche essere chiaro su un altro aspetto: non posso assicurare che ogni volta in cui mi troverò sul dischetto del rigore riuscirò a fare gol, ma posso garantire che ci metterò sempre il massimo dell’impegno. L’importante è saper imparare, anche dagli errori, e chiedere scusa per poi correggere il tiro”.

I temi scottanti? “Sicurezza, lavoro, ambiente, investimenti. Bisogna anche ricostruire le reti sociali che la paura ha infranto, per contrastare la solitudine che oggi condiziona la vita di tanti individui”. Sul tema della sicurezza, molto caldo “serve un impegno concreto, senza tentennamenti, un controllo adeguato, il rigoroso rispetto della legge e un maggiore coordinamento fra tutti i soggetti coinvolti nel contrasto alla criminalità”.

Lo sguardo su Ferrara prende spunto “dalla tragedia Carife, che ha significato per migliaia di risparmiatori la perdita dei risparmi di una vita. La città ha vissuto e sta vivendo tuttora le conseguenze. Si doveva fare di più per evitare questo dramma e si deve alzare la voce quando la crisi economica morde le imprese, piega i lavoratori e sbanca il commercio”.

Sarà necessario anche “continuare l’opera di recupero dei monumenti, delle piazze, delle vie e del patrimonio urbano di questa magnifica città. Favorirne la vocazione turistica. Bisogna rafforzare i servizi pubblici e intervenire nelle periferie. Fondamentale poi è porre al centro l’Università, perché è la fucina del sapere nella quale si forgiano i nostri giovani e dalla quale escono gli artefici del futuro”.

Nell’incontro con la stampa sono emerse, ovviamente solo alcune idee dalle quali questo non convenzionale candidato sindaco intende partire e avviare il confronto. “Apertura” è il suo mantra: “La nostra civica deve superare gli steccati ideologici e favorire l’incontro anche fra chi ha idee e posizioni diverse. Penso a una città bene organizzata che guardi avanti e non al passato, che coinvolga, ascolti e renda protagonisti i giovani; una città che vogliamo consegnare ai nostri figli ricca di potenzialità e non di macerie”.

“Io ho scelto di vivere a Ferrara e di restare qua: questa è la ragione e la radice del mio impegno. Vedo che la città che ho conosciuto 15 anni fa ha perso progressivamente considerazione di sé. E’ tempo di ritrovare l’orgoglio e l’entusiasmo. Oggi bisogna rilanciare la qualità della vita urbana senza snaturare l’identità cittadina: Ferrara deve tornare ad essere la città gentile, forte, accogliente e rispettosa che mi ha conquistato”.

Si riparte dai valori, dunque. “I programmi vengono dopo, in un secondo momento: saranno definiti coerentemente con quelli che sono i principi e gli obiettivi che dovranno orientarli. Le soluzioni si troveranno insieme, ora cerchiamo di individuare i problemi, le opportunità e definire le priorità”.

Infine, una riflessione personale: “Io non ho padroni né padrini: mi rendo conto che questo può rappresentare una debolezza nel momento in cui si va ad affrontare una campagna elettorale che certamente avrà dei costi non trascurabili. Per farvi fronte penso a forme di autofinanziamento trasparente, come per esempio il crowdfunding. Ma questa mia condizione rappresenta anche una grande forza: significa poter agire davvero liberi, senza il peso e il condizionamento di alcuna lobby e di alcun potentato”.

Un ferrarese fra le stelle

L’atterraggio su Marte del lander sonda InSight della Nasa, che dovrà studiare l’interno del Pianeta Rosso, è avvenuto con successo tra il plauso in diretta del mondo intero, dopo il fallimento di numerose missioni e con costi finanziari considerevoli. Un’impresa che va a confermare l’umana brama di scoperta, la necessità di spaziare oltre il conosciuto, il bisogno di risposte su forme di vita extraterrestri o universi paralleli o, in termini molto più speculativi, nuovi spazi da colonizzare.

Tra i nomi di coloro che si dedicarono allo studio dell’ignoto, sfidando nei tempi passati l’ostracismo dei contemporanei, l’indifferenza e lo scetticismo dell’opinione pubblica e l’ostilità del mondo scientifico, c’è anche quello di un ferrarese, Alberto Perego, il Console che negli anni Cinquanta, quando iniziò a occuparsi di questi studi, svelò ciò che aveva appreso sull’esistenza e la presenza degli Ufo, in un’epoca di pregiudizio e chiusura su un fenomeno neonato agli albori. Un antesignano nell’osservazione dei fatti e nello studio di questa materia; il ritratto, a modo suo, dell’indagatore tenace e coraggioso nel periodo storico controverso del Dopoguerra e della Guerra fredda, dove sospetti, ombre e giochi di potere dominavano la scena. Non è un caso che in uno dei suoi libri, Perego manifestasse la sua convinzione che dovesse esserci una relazione tra le date in cui si verificavano gli avvistamenti misteriosi e gli eventi politici mondiali, in quel contesto storico di grande tensione militare tra Usa e Urss.

Alberto Perego nasce a Ferrara nel 1903, si laurea in giurisprudenza e intraprende la carriera diplomatica in piena riforma mussoliniana, che potenziava gli incarichi del corpo diplomatico, lasciando però svincolata la diplomazia dall’apparato politico e amministrativo nazionale. Si susseguono i viaggi e soggiorni di rappresentanza all’estero: Brasile, Urss, Cecoslovacchia, Santa Sede, Ungheria, Tunisia, Romania. Riceve direttamente da Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri, la nomina di console generale a Singapore, dove Perego prende parte a una vera e propria operazione di intelligence nella sottrazione dei documenti riservati dalla base inglese di Singapore, a beneficio dei giapponesi. Una vita avventurosa, quindi, in tempo di guerra, non priva di vicende a tinte noir, come il coinvolgimento di Perego e sua moglie nel caso di Ettore Grandi, suo amico diplomatico, accusato nel 1938 di aver assassinato la sua giovane compagna Vincenzina Virando, sposata da appena da cinque mesi. Il Console continuerà a difendere l’amico in un percorso penale che durerà tredici anni.
La carica diplomatica termina con la fine della guerra, con i processi e le epurazioni, istituiti dalle commissioni antifasciste, in un quadro politico nazionale ormai mutato. Nel cambiamento generale, la vita di Perego trova altri risvolti e l’ormai ex console assumerà le mansioni e i ruoli professionali più disparati.

E’ proprio qui che comincia la sua inconsueta avventura umana che lo condurrà alla scoperta di tematiche mai considerate prima. Quando si ritrova a essere testimone diretto di una serie di esperienze riguardanti gli Ufo, racconta la sua biografia, tutto il suo scetticismo e le sue certezze pragmatiche di uomo realista vengono sradicati, lasciando il posto a curiosità e voglia di approfondimento. Nel suo libro-inchiesta ‘Gli extraterrestri sono tornati’ egli afferma di aver assistito all’aviazione elettromagnetica da altri pianeti per ben 56 volte in Italia, 8 in Sardegna, 5 in Corsica, 3 nello stretto di Suez, 1 a Panama, 1 Australia, 2 Brasile. Il 1954 è un’annata eccezionale senza precedenti in fatto di avvistamenti nel nostro Paese e Perego ricorda in particolare il verificarsi di uno di questi a Roma, quando si trovò in presenza di “una macchina volante della forma insolita e dal comportamento rivoluzionario”. Un avvistamento straordinario a cui assistette molta gente, un gioco di movimenti nel cielo sopra il Vaticano, che confluì nella figura di una grande croce greca in soli 3 minuti, per poi sparire. “Da dove vengono? Cosa vogliono? Mi propongo di rispondere a questi interrogativi. A me interessa relativamente conoscere la struttura di questi apparecchi. Non compete a me questa indagine. Mi interessano però le ripercussioni politiche della presenza di questa aviazione intorno alla terra”, scriveva.

Alberto Perego raccoglie e studia in quegli anni tutto il materiale disponibile sull’argomento degli oggetti volanti non identificati, confrontandosi con studiosi stranieri, pubblicando anche ricerche, rapporti, dossier, rivolgendosi e facendo pressione in Parlamento, affinchè questo tipo di studi venga preso seriamente in considerazione. Nessuna forza politica, di fatto, se l’è sentita di assumersi l’onere di affrontare istituzionalmente e fattivamente il problema. “Tra circa trent’anni la popolazione della terra sarà raddoppiata. Come è possibile pianificare, prevedere, decidere se non si ‘vuole’ considerare che non siamo ‘soli’ nell’Universo? Come si può parlare di disarmo atomico se non si ‘vuole’ sapere che un’aviazione esterna ci controlla?”, scriveva come replica Perego. Lo studioso fonda a Roma nel 1958 il Cisaer, Centro Italiano per gli Studi dell’Aviazione Elettromagnetica, con lo scopo di studio e divulgazione delle scoperte e del materiale prodotto; un progetto che lo tenne impegnato per oltre tredici anni, tra enormi sacrifici economici e personali e contò sull’adesione di un centinaio di corrispondenti in tutto il mondo, e sulla collaborazione di studiosi, ufficiali delle forze armate, giornalisti e semplici cittadini. Alberto Perego si dedica in solitudine ai suoi studi anche negli ultimi anni prima della sua morte nel 1981, esasperato e incompreso per le sue teorie forse troppo avveniristiche. Un pioniere che anticipa e precorre i tempi, un animo libero che ha saputo guardare oltre l’attualità e che non ha raccolto tutto ciò che si aspettava; un esempio, nel suo modo di pensare ed agire, di modernità e libertà intellettuale.

Possiamo aderire o meno alle ipotesi o convinzioni di Perego e numerosi altri studiosi, accogliendo o respingendo interpretazioni ed elaborazioni sul tema, ma accanto alle definizioni di ‘idealista’ e ‘utopista’ che gli sono state attribuite nel corso della sua vita, rimane il fatto che fu un uomo coerente che seppe mettere in discussione certezze andando controcorrente in tempi storici di staticità e supponenza.

Elezioni a Ferrara. Candidato Sindaco: il carro davanti ai buoi

L’assessore spallino Modonesi o il colonnello della Guardia di Finanza Bernabei? La novella ex pd Fusari o l’avvocato Giubelli? Uno di partito (leggi sempre Pd) o uno che con il partito non c’entra per niente? L’appuntamento elettorale è ancora lontano ma la Ferrara non-leghista sembra totalmente assorbita dalla ricerca di un capolista ideale. Il nome dovrà essere molte cose assieme: uno (o una) conosciuto, credibile, inclusivo, competente. Possibilmente simpatico e attrattivo. Sperabilmente vincente. Di settimana in settimana, la stampa locale registra le nuove candidature, o mezze candidature, o quasi-candidature: ‘Se proprio insistete… potrei candidarmi io…’. E assieme al totonomi, arrivano puntualmente i veti incrociati, i siluri per affondare questa o quell’aspirante sindaco. Non è propriamente una novità, anzi, era una legge aurea che vigeva nella vecchia Democrazia Cristiana: se ti esponi troppo presto, verrai prontamente impallinato.
Certo, il problema del candidato esiste. Anche un uomo fuori da ogni logica di partito come Daniele Lugli, un grande amico e che, come tanti, reputo carico di esperienza e di saggezza, sembra convinto della necessità e soprattutto dell’urgenza di individuare un nome unico su cui far convergere il voto di una unica – o di più liste – che si opporranno alla nuova Destra. Capisco bene questa preoccupazione ma credo sia lecito chiedersi se sia questo il modo giusto per approcciarsi alla scadenza elettorale.
Ma lasciamo perdere il giusto o il non giusto (sembra che in politica sia un concetto molto relativo); riformulo la domanda: è proprio vero che la possibilità di contendere alla Destra il governo di Ferrara dipende – totalmente o in massima parte – dal trovare un super-capolista? Che per vincere l’unica vera cosa che conta è azzeccare il numero (il nome) giusto al lotto?
La risposta, almeno in questo caso, è no. Avere in testa come prima preoccupazione il candidato salvatore della patria non solo è ingiusto (e le idee, e i programmi?) ma è anche sbagliato. Una strategia perdente: con questa idea fissa, è il mio modesto parere, la Sinistra rischia di perdere subito, al primo turno. Provo a spiegare il perché.
1. La prima ragione è lapalissiana. Se la Ferrara democratica e progressista non ha ancora trovato nessun “candidato forte”, nessun “nome noto”, nessun super-aspirante-sindaco con tutte le caratteristiche di cui sopra, sorge un legittimo sospetto: magari una figura del genere non esiste proprio. Ma allora perché la caccia a questo rarissimo (o forse estinto) “animale” continua ad essere al centro dei pensieri di tutta la nostra classe politica? Non sprechiamo così tempo prezioso? Non sarebbe meglio occuparsi d’altro?
2. Visto che Ferrara non sta in un’altra galassia ma è una città del Belpaese e del continente Europa, visto che le amministrative di maggio si terranno in assoluta coincidenza con le elezioni europee, visto che i legami di appartenenza degli elettori si sono allentati (la chiamano volatilità del voto), visto lo strapotere dell’informazione/disinformazione e dei social in particolare. Visto tutto questo, l’esito del voto a Ferrara sarà condizionato per il 70 o 80% dal clima politico nazionale. L’Emilia rossa è morta da un pezzo, lo zoccolo duro è diventato poco più che una pantofola, quindi la maggioranza dei ferraresi voteranno all’incirca come votano tutti gli altri italiani del Centro Nord. Ma allora, non sarebbe il caso di mettere al centro del dibattito cittadino, e quindi anche della campagna elettorale, i grandi temi che dividono oggi l’opinione pubblica? Cittadinanza, Diritti, Lavoro dignitoso, Uguaglianza, Accoglienza…
3. Ma i cittadini di Ferrara, almeno una parte di loro (il 20, il 30%, io spero di più), non voteranno solo seguendo la grande onda mediatica, ma guardando alla Ferrara concreta, quella che vivono ogni giorno. E aspettano idee, obiettivi, proposte per la Ferrara futura. Una parte non trascurabile dei ferraresi – se almeno abbiamo un minimo di fiducia nelle capacità e nella ragionevolezza dei nostri concittadini – non guarderà a questo o quel candidato ma aderirà con il voto a un programma e a una speranza di una Ferrara migliore.
Per buona sorte, sono davvero tanti i ferraresi che stanno cercando di “invertire la piramide”: invece di partire dalla cima (il candidato sindaco) stanno costruendo dal basso, dalla base, mattone dopo mattone. Censendo i bisogni inevasi, rispondendo alle attese, elaborando idee guida ed obiettivi concreti per una Ferrara coraggiosa, moderna, democratica, accogliente. Da questo “laboratorio diffuso” – questo è almeno il mio auspicio – emergerà un programma coerente e convincente, quindi una grande lista civica democratica e di sinistra. Verrà allora il tempo di pensare al candidato sindaco e alla squadra di competenze che dovrà supportarlo. Ma questo dopo, non prima; per non mettere come sempre il carro davanti ai buoi.

Strike back, il ritorno sul palco della band ferrarese

E’ partito il 3 dicembre il crowdfunding per sostenere “Tutto da rifare” il nuovo album degli Strike, storico gruppo musicale ferrarese, divenuto celebre in Italia e all’estero.
Nati nel 1986 come ska band, gli Strike hanno attraversato diverse mutazioni musicali, che oggi hanno dato vita ad una miscela meticcia incrocio di infinite culture, sonorità e ritmi.
Il loro ultimo – doppio – album “Havana- Kingston-Ferrara-NewYork” risale al 2015, ed è stato finanziato attraverso “MusicRiser” la stessa piattaforma di raccolta fondi on line che ospita l’attuale sottoscrizione.
Il percorso che ha portato qui gli Strike, ha origini in quella che ormai è un’altra epoca, gli anni ’80. Dopo un primo e primitivo 45 giri (1987) sono seguiti i due ep “Scacco al re” (1988) e “Croci&Cuori” (1990) che, con l’album “La Grande Anima” (1992), fanno del combo ferrarese una delle realtà di riferimento della scena alternativa nazionale ed oltre. Hanno condiviso il palco con un’enciclopedia vivente della musica contemporanea tra cui Wailers, Elmer Food Beat, Babylon Fighters, Les Casse Pieds, Vinicio Capossela, Mau Mau, Africa Unite, Sergio Messina e 99 Posse, Aereoplani Italiani, Fratelli di Soledad , Persiana Jones, Ritmo Tribale, Isola Posse, Vallanzaska, Giuliano Palma, Ustmamò, Statuto, Afterhours, Modena City Ramblers, Roy Paci, ai tempi dirompente tromba dei Persiana Jones, per arrivare a Manu Chao e tutta la Mano Negra.

Oggi del gruppo originario sono rimasti Antonio Dondi, voce, Marci “Lee Valdez”, chitarre, e Roby Renesto, tastiere, che si definiscono un collettivo aperto, che collabora con diversi musicisti e artisti. Abbiamo chiesto loro di cosa parla questo ultimo lavoro.
“La Vita, l’Arte, l’Amore. Si affronta la complessità dell’attuale crisi sociale e culturale. L’amicizia e i sogni di persone ‘felici tristi’, a tratti smarrite, sembrano essere l’antidoto in un momento complicato dell’esistenza dove la consapevolezza della propria inadeguatezza porta con sé la gioia di ogni nuovo giorno. Dieci tracce mentalmente libere dove i testi, intimi e visionari, si abbracciano con tenui sfumature anni ’80, atmosfere ‘spy-story’ stile 007, lontani echi tra l’Havana e New York, accenti ska, jazz, soul e disco-funky, sempre nel segno della influente tradizione della musica d’autore italiana”.

Come mai la scelta del finanziamento partecipato?
Crediamo che l’inossidabile amore che le persone continuano a dimostrarci, renderà possibile la realizzazione del nuovo album. Il disco non sarà distribuito nei negozi, non sarà disponibile in alcun punto vendita: sarà possibile averlo solo partecipando al crowdfunding e lo riceveranno a casa, come ricompensa, soltanto quanti parteciperanno alla produzione del progetto con le loro donazioni. La raccolta si concluderà il 3 febbraio 2019: abbiamo 60 giorni per raggiungere l’obiettivo. Chi sosterrà i costi di produzione dell’intero progetto, condividerà con noi un’avventura davvero indipendente che consente a chi ama la musica di parteciparvi: un importante fenomeno sociale oltre che musicale. Un ‘Mantra Pop’ che ci aiuti a farvi arrivare la nostra infinita riconoscenza per essere vivi, qui ed ora, realizzando insieme questo nuovo progetto discografico, che dedichiamo a Simone Andreani e Stefano ‘Massa’ Massarenti.

La stagione dei concerti di “Tutto da rifare” partirà dal New Ideal di Magenta, Milano, a marzo 2019, ed altre date sono in arrivo.
“Il tour – racconta Antonio Dondi – vedrà il classico live elettrico completamente rinnovato in funzione del nuovo album e gli innesti in formazione di Iarin Munari alla batteria e Andrea Marke al basso, ma anche due set semi acustici con reading e vinyl set di cui uno dedicato all’anniversario di “Scacco al re” ed al suo contesto poetico anni ottanta”.

Per un album che deve nascere, ce n’è infatti uno che compie 30 anni, “Scacco al re” del 1988 sta per tornare in un’edizione speciale in vinile e cd, in collaborazione con “Anfibio records” con la copertina a colori e la versione integrale dei brani.

Lunga vita agli Strike.

Questo il video di lancio del crowdfunding

Incredibile Sgarbi

Vittorio Sgarbi si candida a sindaco di Ferrara. Ovviamente, niente da eccepire: è nel suo diritto. Leggo la sua dichiarazione riportata tra virgolette dai quotidiani locali: “Una pseudosinistra opportunista ha rimosso tutti i ferraresi illustri per non riconoscerne la superiorità morale e culturale. Così, oltre a non aver nessun dipinto metafisico di de Chirico, Ferrara ha respinto e umiliato Italo Balbo, Giorgio Bassani ecc.”. Rileggo perché non credo ai miei occhi vedere affiancati nel riconoscimento morale un gerarca fascista tra i più violenti negli anni dell’affermazione del Fascismo, a capo di imprese squadriste con seguito di morti nelle campagne ferraresi, Ravenna, Parma ecc., oltre che essere stato il mandante dell’assassinio di don Giovanni Minzoni e l’autore del racconto “Una notte del ‘43”. No, neanche la tradizionale ‘esuberanza’ del critico o il continuo sconto che si fa alla sua maniera ‘colorita’ di esprimersi può consentire di passare sotto silenzio una tale scandalosa e vergognosa dichiarazione. Per non essere frainteso voglio essere chiaro su un punto fondamentale. Non è accettabile che si superi il confine che separa la libera ricerca storica su tutto ciò che ha riguardato il dramma della dittatura fascista e una strisciante e ‘normale’ riabilitazione di uno tra i capi più importanti e responsabili della dittatura fascista.

*Fiorenzo Baratelli è presidente dell’Istituto Gramsci di Ferrara

I bilanci non misurano la felicità dei cittadini

Il grafico che segue contiene i dati a consuntivo del bilancio dello Stato fino al 2017 e prosegue poi con le previsioni fino al 2021. Cosa ci dice?

Intanto riportiamo il tutto in percentuale del Pil, il che aiuta a fare le proporzioni di quanto si spende in un dato anno rispetto a quanto si ha a disposizione e aiuta a fare un confronto più agevole con gli anni precedenti

Si osserva dunque che l’indebitamento dello Stato si sta assottigliando sempre di più e che, quindi, stiamo andando verso un sostanziale pareggio di bilancio.

Il dato inquietante però è che, come si vede in termini assoluti dai saldi del primo grafico e dalle percentuali del secondo grafico, l’indebitamento si abbassa al crescere del saldo primario, che rappresenta in sostanza la spesa primaria dello Stato, cioè i costi sostenuti dallo Stato nell’assicurare i bisogni primari dei cittadini: istruzione, sanità, welfare, assistenza. In sostanza già adesso sappiamo che per ottenere quei risultati di bilancio avremo sempre meno risultati nel sociale. Avremo insomma: meno istruzione, meno sanità, meno welfare, meno assistenza.

Andiamo al dettaglio.
Dal lato delle spese (uscite), possiamo apprezzare che dal 2015 al 2021 sono previste diminuzioni in termini percentuali praticamente in tutto. 2,3 punti nella spesa corrente al netto degli interessi e 1,2 punti nella spesa in conto capitale. Gli interessi passivi, invece, continueranno a essere una spesa sostanziosa sul totale, caleranno solo dello 0,3%. In termini assoluti cresceranno da 68 miliardi e 61 milioni del 2015 a 72 miliardi e 297 milioni del 2017, in termini sociali continuerà semplicemente a rappresentare la terza spesa dello Stato dopo previdenza e sanità.

Dal lato delle entrate. Un calo delle entrate tributarie dello 0,8% e dello 0,2% dei contributi sociali. Il resto della diminuzione viene dalla voce “Altre entrate correnti”, in pratica da entrate eventuali e non certe, dello 0.5%.

Dunque lo Stato si prefigge di arrivare a un sostanziale pareggio di bilancio che dovrà essere ottenuto attraverso il contenimento della spesa. Si manterranno sostanzialmente stabili le spese per il sociale e non si faranno investimenti, il che rende la crescita solo eventuale e legata a fattori esterni, cioè si dà per certo un costante aumento delle esportazioni, niente shock valutari e materie prime sostanzialmente a buon mercato.
Dovendo rispettare i parametri imposti dai trattati europei lo Stato potrà quindi solo incassare e non spendere, dovrà in pratica finanziare tutte le sue spese con le tasse dei cittadini, i quali dovranno anche finanziare l’indebitamento sui mercati, cioè mantenere costante la spesa per interessi che, nonostante si arrivi al pareggio di bilancio, ci continuerà a costare mediamente 70 miliardi all’anno.
Il tutto nella speranza che non cambino le condizioni internazionali sopra descritte, perché se uno dei fattori variasse allora tutto il costrutto crollerebbe, il pil smetterebbe di crescere e quindi dovrebbero necessariamente aumentare le entrate (tasse) per restare nei parametri di Bruxelles.

Parametri fissi in un mondo in continuo mutamento, un po’ come programmare la nostra vita immaginando una temperatura costante di 20° in tutta Europa per i prossimi 3 anni. In realtà non possiamo sapere se domani il prezzo del petrolio aumenterà o se l’euro si apprezzerà nei confronti del dollaro, quindi non possiamo sapere se dovremo spendere di più in importazioni o se incasseremo di meno con le esportazioni. L’unico modo per non bagnarsi quando ci sono nuvole all’orizzonte in mezzo a tuoni e lampi è uscire con l’ombrello e l’impermeabile, avere insomma degli strumenti da poter utilizzare al bisogno.
Le regole europee impongono invece di lasciare ombrelli e impermeabili a casa per non rischiare di consumarli e contemporaneamente prevedono sanzioni nel caso ci si bagni. Uno Stato ha i mezzi per controllare mercati, interessi, cambi, debito e moneta, ma decide di affidarsi a una Commissione che provveda a sanzionarlo se dovesse decidere di usarli.
In sostanza si creano previsioni che servono solo ad aggiustare i conti, senza tener conto dei bisogni dei cittadini, stando bene attenti a che questi ultimi paghino costantemente gli interessi a banche, finanza e speculatori occasionali o di professione. Interessi che vengono immaginati costanti anche quando lo Stato smettesse di indebitarsi, a pareggio di bilancio raggiunto.

E che i bisogni dei cittadini non siano al centro degli interessi lo si vede dalle previsioni contenute nel Def (documento di economia e finanza) del passato Governo.

Il che vuol dire che ancora nel 2020 più del 10% della popolazione non usufruirà dei vantaggi dell’approssimarsi della messa in sicurezza dei conti, che il cittadino va da una parte e le previsioni economiche dall’altra. E allora non si gridi allo scandalo se qualcuno continuerà ad avere dubbi sulla costruzione dell’impianto europeista basato sulla stabilità dei conti e sul benessere competitivo e concorrenziale alla portata di pochi scaltri o fortunati.

Come se ne esce dal lato del cittadino? Semplicemente imparando a considerare uno Stato diverso dalla bottega del barbiere: ridandogli gli strumenti per proteggersi dalla pioggia ovvero una Banca Centrale di proprietà dei cittadini, ripristinando il controllo sui capitali, mettendo limiti alla globalizzazione e dando più attenzione ai territori, con piccole banche locali che diano credito agli imprenditori locali, sul modello tedesco per esempio, supportando la produzione e l’industria italiana, la piccola e micro impresa, cioè il 95% delle aziende italiane. Aggiungerei un freno all’idea che tutto ciò che è grande è anche bello, quindi un limite alle multinazionali che poco hanno a che fare con la tradizione e la realtà italiana e per finire un deciso stop alle privatizzazioni che limitano la possibilità di poter operare un controllo dello Stato a favore della comunità.

La nostra vita non è rappresentabile in un foglio di bilancio esattamente come il pil non rappresenta la felicità. Inoltre bisognerebbe considerare l’oggetto dei bilanci, cioè i soldi, come il mezzo per scambiare i beni e i servizi e non il mezzo per produrli e, per finire, comprendere non c’è bisogno di tenere realmente il tasso di disoccupazione all’11% perché il lavoro non manca, ci sono tante cose da fare. Quello che oggi manca non è il lavoro, ma solo i soldi per pagarlo e questo in un mondo dove i soldi… non possono finire!

FOTONOTIZIA
Le fontane d’acqua danzano sulla musica della Banda filarmonica comunale Ludovico Ariosto

Dalla musica sinfonica, al rock al pop, al musical. La marcia di Radetzky, ‘Mamma mia’, ‘Eye ofthe tiger’ e ‘Thriller’, fino a ‘New York New York’. E’ stata la colonna sonora, sabato nel tardo pomeriggio, dello spettacolo delle Fontane Danzanti, ormai consueto appuntamento del Natale ferrarese.
Quest’anno però la danza delle fontane è stata accompagnata da un ensemble dal vivo: la Banda Filarmonica comunale Ludovico Ariosto – città di Ferrara, composta da un organico di circa 45 musicisti di tutte le età e diretta dal maestro Stefano Caleffi.

Ecco gli scatti del nostro Valerio Pazzi.
Clicca sulle immagini per ingrandirle.

Dall’alterità fra i generi alla qualità delle relazioni fra i generi

di Roberta Trucco

Quando ho letto la risposta di Umberto Galimberti alla lettera di Giuliano Faggiani dal titolo ‘Che differenza c’è tra l’uomo e la donna?’, su D di Repubblica sabato scorso, sono saltata dalla sedia e ho pensato: “finché questo sarà l’approccio alla differenza tra donna e uomo sarà necessario essere femministe, anche un po’ arrabbiate”. Poi mi è capitato di leggere un articolo di Carlo Revelli sul Corriere della Sera dal titolo ‘Dissentire aiuta, inutile scrivere per i già convinti’ e così mi sono decisa a scrivere per cercare un confronto creativo e per dire garbatamente perché secondo me è un errore cercare di definire uomini e donne a partire da modelli binari.

Cercare una definizione che crei formule applicabili ai generi, sacrificando la complessità dell’essere umano maschio o femmina, è l’errore. Non vorrei essere fraintesa, io sono convinta della grande differenza che segna l’essere umano incarnato in un corpo femminile o in un corpo maschile, la differenza ontologica c’è, è indubbio, ma poi c’è quella unica e irripetibile di ogni individuo, “granello” come lo definisce Revelli, che ha il grande potere, se capace di diventare pensiero collettivo, di segnare la storia e la nostra evoluzione.
Ed ecco arrivo al punto della mia rabbia. Se si continua a relegare la “donna vicina alla natura perché generativa e l’uomo alla cultura perché libero dal vincolo della natura”, si continuerà a non riconoscere quanto la cultura femminile abbia segnato e segni l’evoluzione dell’umanità. Si continuerà a relegare la donna alla maternità come sua unica competenza, una competenza solo naturale, quando invece è assai culturale. E si continuerà, forse involontariamente, a riservare al maschio lo spazio del pensiero (logos) e a negarlo alle donne. Maria Van Shurman, una delle donne più colte del suo tempo, contemporanea di Cartesio (naturalmente quasi mai citata dalla storia della filosofia) contrapponeva al “cogito ergo sum”, il suo “sum ergo cogito”. Ecco, forse questo definisce bene una delle possibili differenze dell’essere incarnati in un corpo maschile o in uno femminile: il punto di partenza del viaggio psichico che ogni bambino/a deve intraprendere per diventare adulto/a, “per rinascere in acqua e spirito” come dice il Vangelo, ma sono convinta che la distanza dal sé autodeterminato del maschio e della femmina non è così facilmente tracciabile nel percorso natura o cultura. Noi tutti siamo animali naturali (da natus): nasciamo e in quella esperienza c’è tutta la forza della vita, in quella prima relazione con la madre certo, ma vista da figli (tutti siamo figli, non tutti forse saremo madri o padri). E siamo animali culturali (da colere, coltivare), in pari modo. Cioè coltiviamo pensiero, generiamo con le mani e con la mente, generiamo ogni giorno attraverso il lavoro intellettuale e materiale, e questo lo facciamo fin dai tempi antichi, maschi e femmine.

E la cosa divertente in tutto questo mio parlare è che sono una femminista atipica: la mia professione primaria è la maternità, sono madre di quattro figli e sono casalinga (scrivo di tanto in tanto). Sono dunque una convinta sostenitrice della maternità come competenza, anche di quella in potenza, convinta che oggi quel sapere ancestrale è necessario al mondo per non collassare, ma non sopporto di vedere ridotta la donna e la sua differenza alla – pur immensa – potenza della prima relazione che segna l’essere umano. Le relazioni sono necessarie all’essere umano, lo definiscono. Senza l’altro non sappiamo chi siamo. Ecco perché gli uomini/maschi, invece di continuare a interrogarsi sulla differenza tra donne e uomini, dovrebbero incominciare a crescere, a mettersi in gioco nella relazione senza timori, senza continuare a giustificarsi dietro l’impossibilità di farlo totalmente perché mancanti dell’esperienza della gestazione. Anche perché, va detto, questa narrazione di alterità donna/natura e uomo/cultura, quando riguarda la sessualità, viene capovolta dagli stessi maschi a giustificazione della loro violenza inaudita contro le donne.

Mettere in Comune, proposta sovversiva per un’economia di scambio

Lo zio di Bruno faceva il panettiere e per il trasporto aveva un carretto che utilizzava solo un paio d’ore al giorno. Per tutto il resto del tempo il carretto restava in sosta davanti al negozio e in paese chi ne aveva bisogno poteva usarlo liberamente: il bene di uno, dunque, era reso disponibile anche agli altri, secondo necessità, senza che il proprietario ne avesse alcun danno e senza pretesa di alcun diretto tornaconto. Il carretto era lì, e anziché starsene fermo tutto il resto della giornata era disponibile e veniva impiegato da chiunque, in base alla necessità, secondo un principio di mutuo soccorso. Lo zio di Bruno non ci guadagnava né ci perdeva nulla. Però maturava un credito di gratitudine, che in qualche modo fruttava benevolenza e favori perché, in genere, quando le persone sono aiutate tendono ad essere riconoscenti. Altri membri della comunità facevano altrettanto, comportandosi in maniera simile allo zio di Bruno: rendevano disponibili i loro beni quando non li impiegavano direttamente. Questo semplice sistema mutualistico, fondato su un’idea solidale della comunità e dunque sulla disponibilità alla reciproca assistenza (che talvolta magari si realizzava nelle forme del baratto), consentiva di massimizzare i benefici dei beni strumentali, rendendo concreto un valore che spesso resta solo potenziale, e dava così beneficio a tanti anziché a uno solo.

E’ quel che accade quando si esce dalla logica dell’egoismo proprietario di cui siamo vittime e si considera la possibilità di socializzare l’uso di ciò che è nella nostra disponibilità. Anche con semplici gesti quotidiani, che possiamo considerare di altruismo, ma che costituiscono potenzialmente un ribaltamento delle modalità padronali e predatorie con cui gestiamo i beni materiali (e talvolta purtroppo anche i rapporti con gli individui), si può – pure nella quotidianità – contrastare la china di una società che, anche nell’esaltazione del mito del possesso, scivola pericolosamente verso il baratro.
Peraltro, il possesso presuppone l’acquisizione; e la brama di avere ci spinge all’acquisto compulsivo, fomentando l’appetito che appaga il mostro del consumismo sul quale si reggono i cardini del nostro sistema economico. Ridurre i consumi e commisurarli alle nostre reali necessità è l’obiettivo da perseguire. Per dirla coerentemente con la ben nota massima profusa dalla saggezza di Erich Fromm, bisogna sfuggire le spire dell’opulenza fortificate dal possesso e ritrovare il senso autentico e realmente appagante dell’essere.

Fuor di metafora, cercando di inquadrare il fenomeno dello squilibrio distributivo, possiamo osservare che da una parte c’è sottoutilizzo, dunque spreco; dall’altra c’è invece carenza, quindi bisogno: razionalizzando l’uso dei beni colmiamo (o attenuiamo) il bisogno, semplicemente eliminando lo spreco.

È un po’ quel che in parte avviene con la sharing economy (e – in forme però pericolosamente deviate – con la gig economy). L’economia collaborativa induce le persone a scambiare beni e servizi attraverso differenti modalità che tendenzialmente implicano un corrispettivo, in termini di compartecipazione alla spesa o di temporaneo baratto di beni: così, come ben sappiamo, ci sono persone che rendono disponibile un passaggio in auto, la propria casa, un posto letto, o un qualsiasi altro genere di beni o servizi…
Il meccanismo di scambio è attualmente intermediato da piattaforme private, che fungono da nodo di incontro e smistamento fra domanda e offerta, ponendo in corrispondenza richieste e disponibilità. I nomi delle più affermate sono ben noti a tutti: Uber, AirBnb, Gnammo, BlaBlaCar… Molti le utilizzando, altri diffidano. Tanti sollevano il dubbio che, dietro l’etichetta di sharing economy, ci stia una nuova conformazione del modello capitalistico che, operando in un terreno ancora ampiamente deregolamentato, aggira così vincoli e imposizioni, attua forme di sfruttamento del lavoro e spesso elude le spire del fisco. Molti, anche per questo, diffidano. Il meccanismo, peraltro, genera a livello mondiale un enorme giro d’affari, stimato in 300 miliardi di dollari.

Il municipio intermediario pubblico fra bisogni e disponibilità

Immaginiamo, però, che la funzione di piattaforma – punto di incontro fra domanda e offerta, nodo degli scambi e fulcro del sistema – sia svolta da un ente istituzionale, il Comune per esempio; e che il conferimento delle disponibilità corrisponda dunque – letteralmente – a una messa ‘in comune’ di beni e servizi, con la tutela e la garanzia offerta dalla pubblica amministrazione.
In questo modo, potenzialmente, tutti i beni resi disponibili (a partire da quelli inutilizzati o sottoutilizzati), come pure la disponibilità individuale a svolgere servizi, verrebbero facilmente posti in corrispondenza con le corrispettive necessità, cioè con carenze e bisogni. E lo scambio sarebbe garantito dall’autorevolezza del mediatore, il Comune appunto, che in tal modo esalterebbe la propria funzione statutaria, quella di essere spazio di incontro e luogo comunitario di condivisione.

In fondo, già ora, il Comune preleva forzosamente dai singoli membri della comunità le risorse necessarie per garantire i servizi; e lo fa attraverso le leve fiscali e i relativi meccanismi di tassazione. Ma in tempi di crisi le risorse scarseggiano e così pure i trasferimenti dallo Stato, sicché molti servizi vengono drasticamente ridotti o tagliati.
Ecco, allora, che un sistema integrativo e complementare di erogazione di beni e servizi, fondato sullo scambio mutualistico volontario fra cittadini, ma favorito, garantito e supervisionato dall’ente pubblico, potrebbe in parte sopperire concretamente alle carenze, dando risposta anche a bisogni ai quali, attualmente, l’ente pubblico non è in grado di fare fronte.
I beni messi in comune dai cittadini e le potenziali prestazioni di servizio rese a titolo volontario sarebbero censite e raccolte in un’unica banca dati pubblica, preposta a porre in corrispondenza disponibilità e necessità, dunque con virtuali funzioni di luogo di incontro fra domanda e offerta. Non ci sarebbero, in tal modo, speculazioni né rischi, poiché i fruitori avrebbero la garanzia offerta dal Comune, cui spetterebbe il compito di censire gli utilizzatori del servizio e vigliare sulla correttezza di tutto il processo.

Non vale la pena, qui, addentrarsi nei dettagli organizzativi di un simile servizio. Sarebbe una rivoluzione, certo. E d’altra parte la situazione attuale impone a tutti, istituzioni comprese, rivoluzioni culturali e organizzative indispensabili per risollevarci dalla crisi e creare nuovi equilibri.
Una rivisitazione delle attualità modalità su cui si fonda l’economia di scambio, che ponesse al centro il municipio come perno e intermediario pubblico, potrebbe utilmente concorrere allo scopo.

#VocidalGad – Massimo Morini: “Fare le regole non basta, bisogna anche farle rispettare”

La quinta puntata di #VocidalGad ha come protagonista Massimo Morini, presidente dell’associazione “Comitato Zona Stadio” di Ferrara.

“L’associazione Comitato Zona Stadio – ricorda Morini – è nata nel 2013 e l’obbiettivo che si pone è quello della salvaguardia del quartiere in termini di riqualificazione, ampliamento delle relazioni interpersonali tra gli abitanti e quindi aumento della socialità. L’esigenza deriva dal fatto che l’associazione è nata in relazione a problematiche di quartiere molto rilevanti, sentite come tali dalla maggior parte dei cittadini, ma che in precedenza non avevano trovato una voce adeguata per portarle nelle sedi giuste”.

Quali sono queste problematiche?
Fondamentalmente sono lo spaccio, la prostituzione e il degrado che ne consegue. Tutto ciò è espressione di forme di microcriminalità nella zona Giardino, che proprio per questo oggi risulta diversa rispetto al passato.

In cosa è diversa?
Pure in passato c’erano fenomeni di microcriminalità, ma prettamente autoctoni e di dimensioni abbastanza gestibili dalle forze dell’ordine. La criminalità che si è sviluppata negli ultimi 10 anni, legata ai processi migratori, in termini quantitativi è molto più solida e organizzata. Questo rende la gestione difficoltosa. Noi come cittadini ci siamo resi conto del peso che ha questa microcriminalità nelle strade, nel senso che c’è un continuo via vai di spacciatori nell’area dello stadio oltre che nella zona del grattacielo, che propongono in maniera diffusa le loro droghe, creando ovviamente fastidio, paura, problematiche di sicurezza.

Anche il prezzo degli appartamenti è sceso drasticamente.
Questa è una conseguenza. Ovviamente nell’arco degli anni c’è stata una grande concentrazione di microcriminalità in quest’area più che nelle altre. Questo problema è sfuggito di mano, non per inerzia dell’amministrazione, ma proprio per la portata elevata.

Magari non ci si è resi subito conto dell’ampiezza del problema?
Diciamo che è stata sottovalutata e quindi l’ondata che ne è conseguita è stata dirompente anche per le normative stesse perché essendo una problematica di microcriminalità ha in sé molte pericolose implicazioni.

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Massimo Morini

Qualcuno però afferma che ci sia stato un abbandono del quartiere da parte dell’Amministrazione.
Dal mio punto di vista non c’è stata la necessaria attenzione, questo non è mai stato considerato un quartiere da sviluppare. La vicinanza alla stazione e la presenza dei grattacieli ha favorito la creazione di un’area di delinquenza e l’amministrazione, almeno fino al 2013, è stata poco attenta. Uno dei punti di forza della nostra associazione, in modo anche dirompente e innovativo, è stato quello di porsi in maniera critica ma collaborativa nei confronti degli amministratori, facendo presente, al di là della mera protesta e dell’evidenziare una problematica, il fatto che questo quartiere aveva bisogno di un intervento non solo delle forze dell’ordine ma anche dell’amministrazione stessa. Un intervento che fosse basato su una vera riqualificazione.

C’è stata una risposta positiva?
Posso dire che dal 2013 il quartiere Giardino è stato molto più ‘attenzionato’ dall’amministrazione, ci sono state tutta una serie di iniziative che sono state fatte, che hanno avuto una finalità di riqualificazione del quartiere in termini di partecipazione e di attività, perché se un quartiere muore da questo punto di vista viene ‘preso in carico’ dalla microcriminalità.

Però è dovuto venire anche l’esercito.
Una delle nostre proposte, essendoci confrontati con le forze dell’ordine, era quella di aumentare il presidio anche in termini numerici e l’esercito ha un significativo ruolo di aiuto. Le cose sono migliorate, ma i problemi non sono risolti. Però c’è un occhio in più.

Quindi in questi ultimi cinque anni è migliorata la situazione?
C’è stata una maggiore presa di coscienza del problema, Ma occorre fare di più, ad esempio dare maggior attenzione alle attività commerciali, e controllare al contempo quelle che sono al limite della legalità e che possono fingere da luoghi di spaccio. Occorre secondo noi anche dare più forza alla polizia municipale. Un’altra cosa che potrebbe fare l’amministrazione con maggiore sistematicità è verificare il rispetto delle normative. Porre per esempio termini restrittivi per la vendita degli alcolici non basta, bisogna vigilare sul rispetto.

Ti riferisci al “Regolamento di Polizia Urbana della città di Ferrara“?
Assolutamente si. Secondo il nostro punto di vista, non viene attuato in questo momento. Sarà per la mancanza di forze, per la mancanza di impegno, ma manca qualcosa. Si può e si deve fare assolutamente di più. Anche nel controllo degli appartamenti, poiché molti di questi affittati da italiani si sono scoperti essere luogo di spaccio e di deposito di droga, quindi capire le persone che ci stanno, in quanti ci stanno, tutta una serie di indagini approfondite che dovrebbero essere fatte partendo dal grattacielo fino a tutta l’area del quartiere Giardino.

Avete cercato un’integrazione, una possibile convivenza con le persone di altre etnie che abitano questo quartiere?
Abbiamo cercato di far si che il problema non fosse quello dell’italiano verso lo straniero o la persona di colore, ma di concentrare l’attenzione sui fenomeni dello spaccio e della criminalità, anche se chi lo fa ora per strada è nigeriano, ma ci sono altre etnie che gestiscono la droga in altre zone di Ferrara. Ci sono anche altre problematiche legate ai furti in casa e alle biciclette che sono gestiti da altre etnie.
Il problema dello spaccio è che l’offerta è legata alla domanda e a domandare sono i ferraresi… In ogni caso un punto è chiaro: chi sta qua deve rispettare le regole. Non ha importanza che sia di etnia nigeriana, scuro o chiaro, l’importante è che rispetti le regole,se no non può stare in questa città. Noi abbiamo cercato anche di collaborare con le associazioni straniere perché riteniamo che sia importante anche capirsi. Cito un esempio particolare che è emblematico: il primo incontro con l’associazione nigeriana è stato fatto nel quartiere Giardino, sotto casa mia, ed è andato male, perché c’era molta diffidenza da parte loro, su chi fossimo, su cosa volessimo, del perché facessimo certe cose. Successivamente gli incontri hanno fatto capire a queste persone che di fronte avevano altre persone che avevano voglia di costruire qualcosa di positivo.

Avevano paura in pratica?
Sì. C’era a suo tempo un sentimento di paura perché si sentivano, giustamente, aggrediti in quanto etnia, poiché una parte di loro delinqueva. Dico una parte perché ci sono nigeriani che sono persone assolutamente integrate, perbene. Per dire come c’è una diffidenza reciproca, noi verso loro e loro verso noi. Abbiamo cercato anche di comunicare con loro perché riteniamo importante far presente a loro il problema, perché se ne rendessero conto in maniera importante, in modo che anche loro isolassero, come facciamo noi con gli italiani, chi sbaglia, perché questo va contro anche a loro stessi, altrimenti ogni volta che si vede passare una persona di colore si dice ”ecco, è passato lo spaccino”, e non è così. Per questo dico che c’è bisogno di socializzazione, e noi con le nostre iniziative abbiamo cercato proprio di coinvolgere, comunicare, capire e conoscere tutti per affrontare i problemi a 360 gradi.
Siccome, però, è un problema grosso, da una parte ci sono le problematiche che devono essere gestite dalle forze dell’ordine e che sono di loro competenze, dall’altra parte un cittadino può anche lui fare qualcosa in qualche modo. È vero anche che ultimamente la situazione è molto difficile, c’è molta tensione ed i cittadini sono stanchi.

Aumenterà secondo te questa tensione con l’avvicinarsi delle elezioni?
Ma al di là delle elezioni, che è uno scontro politico e sicuramente ci saranno delle strumentalizzazioni di destra e di sinistra, come ci sono sempre state, è proprio il cittadino che è stanco di questa situazione.

Secondo te i media esagerano nel riportare il quartiere giardino o la zona Gad come un territorio conosciuta solo per la criminalità?
Diciamo che, come in tutte le cose, forse fa più notizia un fatto negativo che uno positivo. Il tentativo di indurre l’amministrazione a fare dei progetti, partendo dal riconoscimento dei problemi che i media denunciano puntualmente, è per riscattare la nomea del quartier che, avendo in sé la parola ‘giardino’, porta intrinseco il significato di un quartiere bello, residenziale, un quartiere che ha delle potenzialità, e che non può essere schiacciato dalla negatività dello spaccio, deve essere valorizzato nell’ottica della positività che ha. È ovvio che in questi anni il non-interessamento, lo spegnere le luci, le zone buie, hanno fatto avere un vantaggio a chi nel buio si trova bene rispetto a chi sta nella luce.
Un altro esempio  l’aiuola in ‘Giordano Bruno’: abbiamo cercato di appropriarci di una soluzione che aveva proposto il Comune, quella di gestire attraverso l’associazione, il verde e abbiamo pensato di fare un’aiuola di fiori, curata assieme ai bambini, quindi in collaborazione con la scuola, e con dei richiedenti asilo politico, dei ragazzi validi e in gamba, volenterosi, proprio perché riteniamo che sia importante anche far vedere il bello, perché il bello richiama il bello. Se tu in un giardino ci metti dei fiori, lo vivi,  magari le famiglie ci vanno, anziché andarci altre persone. Ma è un percorso duro e lungo.

I prossimi obbiettivi?
Il nostro prossimo obbiettivo è quello di mantenere sempre alto il livello di attenzione da parte dell’Amministrazione, perché comunque non deve terminare il percorso di iniziative che sono state fatte, ma riproporlo anche in maniera standardizzata. Ci è dispiaciuto perdere l’appuntamento del mercatino europeo perché era un’iniziativa importante, adesso abbiamo lo stadio, che speriamo sia fonte di riqualificazione positiva. Poi collaboriamo con le forze dell’ordine per favore un puntuale presidio nel quartiere.