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La Banca d’Italia e l’oro degli italiani

Di chi è l’oro detenuto dalla banca d’Italia? Non passa tanto tempo senza che qualcuno riporti l’argomento sotto i riflettori. Qualche anno fa fu Tremonti, ultimamente Borghi e adesso il M5S ne ricerca la paternità. Argomento ad interesse intermittente su cui vale la pena soffermarsi ma che, secondo me, dovrebbe essere inquadrato in un filone più generale e che andrebbe compreso bene. Anche al di là della stessa proprietà dell’oro in questione.
Proviamo dunque a dare qualche spunto di più ampio respiro partendo da questo bellissimo metallo giallo.
Salvatore Rossi, direttore generale di Bankitalia e autore del libro “Oro”, chiarì a dicembre scorso in un’intervista a La7 che “dal punto di vista giuridico-formale è la Bce a doversi pronunciare sulla proprietà dell’oro in quanto abbiamo ceduto sovranità con la creazione dell’euro”. Ma poiché la nostra Banca Centrale è azionista della Bce in quota parte, allora ecco che, sembrerebbe, la proprietà potrebbe tornare di fatto a Bankitalia. Una proprietà assoluta visto che nel suo statuto si precisa che nulla spetta agli azionisti privati.
Sembra utile rimarcare che il dilemma è tutto italiano, ed infatti, come chiarisce anche l’Ansa nella sua pagina dedicata all’economia, “dagli Usa alla Germania alla Gran Bretagna, l’oro appartiene allo Stato” e non, quindi, alle rispettive Banche centrali che, tra l’altro “sono dello Stato”.
Cerchiamo allora di rispondere alle quattro domande di base, per poi arrivare a qualche conclusione e lasciarvi con qualche sano dubbio: 1) quanto oro abbiamo ; 2) dove si trova esattamente; 3) a cosa serve o potrebbe servire; 4) se possiamo utilizzarlo e quali problemi potrebbe eventualmente risolvere.
L’Italia ha la terza riserva di oro nel mondo nella classifica tra Stati, la quarta se si includono anche le riserve del Fondo Monetario Internazionale. Subito dopo Stati Uniti e Germania e prima di Francia e Cina con 2.452 tonnellate, come riportato nell’ultimo Bilancio 2017 di Bankitalia approvato nel marzo 2018. Un valore pari a circa 85,3 miliardi di euro (erano 87 miliardi ai prezzi di mercato di fine 2016), ovvero poco più del 9% del totale dell’attivo di Bankitalia che supera i 900 miliardi.
La maggior parte sono lingotti di varia forma, ma sono presenti anche una parte in monete per un totale di 4,1 tonnellate. Il prezzo dell’oro varia perché è quotato sul mercato e quindi anche il valore totale delle 2.452 tonnellate di oro italiano (in senso lato) è soggetto a variazioni. Attualmente, secondo Rossi, il valore si aggirerebbe intorno ai 90 miliardi.
La maggior parte di quest’oro è stato accumulato tra gli anni ’50 e ’60 e sul sito della Banca d’Italia se ne traccia la storia https://www.bancaditalia.it/compiti/riserve-portafoglio-rischi/evoluzione-riserve/index.html
Ma dove si trova materialmente questo tesoro? Nessun mistero anche in questo caso. 1.100 tonnellate (quindi poco meno della metà, il 44%) di quell’oro è in Italia nel caveau di Bankitalia in via Nazionale 91 di Roma, il resto è detenuto nei caveau di altre banche centrali per ragioni storiche, legate ai luoghi in cui l’oro fu acquistato ma anche per attuare a una strategia di diversificazione finalizzata alla minimizzazione dei rischi e dei costi di gestione: il 43,29% è negli Usa, il 6,09% in Svizzera e il 5,76% nel Regno Unito.
141 tonnellate sono state depositate presso la Bce nel 1999 in occasione dell’avvio dell’Uem.
Nella sostanza, a cosa serve o a cosa potrebbe servire questo tesoro di dubbia proprietà? 90 miliardi sono poco più di un anno di interessi sul debito pubblico che ha oramai superato i 2.300 miliardi. Il nostro Pil viaggia verso i 1.800 miliardi, e il nostro patrimonio artistico supera i 250 miliardi.
Lo Stato italiano possiede immobili e armamenti per 500 miliardi e la Banca d’Italia ha ricomprato debito pubblico, sotto forma di Titoli di Stato, per quasi 400 miliardi che adesso giacciono sempre in Bankitalia e contribuiscono al suo attivo quasi per la metà del totale.
L’oro piace a tutti ed è considerato un bene rifugio ma non ha nessun valore oltre quello di mercato che viene dato dal gioco della domanda e dell’offerta. È un metallo duttile e molto bello che va a ruba nelle gioiellerie e, finché il mercato lo considererà un bene rifugio, continuerà a mantenere un valore.
Bisogna precisare che nell’800 e per alcuni periodi nella prima parte del ‘900 è stato il collaterale della moneta circolante, cioè tutta la moneta in circolazione poteva essere convertita in oro e di converso si poteva emettere tanta moneta per quanto oro si era riusciti ad accumulare. Dopo la seconda guerra mondiale, e per il periodo in cui era in vigore il trattato di Bretton Woods, l’oro rappresentò invece il collaterale del solo dollaro al quale si rapportavano poi tutte le altre valute.
Nel 1971 il Presidente Nixon dichiarò unilateralmente sospeso quel trattato, decretando di fatto la fine definitiva di tutti i vari “gold standard” e la libera fluttuazione della moneta che finalmente fu sganciata dall’oro.
Gli Stati continuano a detenerne una determinata quantità come riserva insieme a valute estere particolarmente pregiate (ad es.: il dollaro) al fine di assicurarsi una certa considerazione nel commercio internazionale nonché una maggiore stabilità finanziaria, in ossequio al principio della diversificazione. Tutti accettano oro a scioglimento di un debito, per cui diventa saggio per uno Stato averne qualche tonnellata come riserva.
Ma possiamo utilizzare le riserve auree della Banca d’Italia per risolvere qualche ristrettezza di politica economica? L’articolo 123 del Trattato Ue prevede che le riserve auree siano sottoposte al divieto di finanziamento monetario, cioè non si possono utilizzare per farci ad esempio una clausola di salvaguardia contro l’aumento dell’Iva, poiché vengono considerate un baluardo a difesa delle crisi valutarie e contro il rischio sovrano. Insomma l’oro dello Stato serve per rafforzare la fiducia nella stabilità del sistema finanziario italiano, come si diceva sopra, e quindi anche di tutto il sistema che gira intorno all’euro. Il successivo articolo 127 dello stesso trattato attribuisce alla Banca centrale europea il compito di “detenere e gestire le riserve ufficiali dei paesi aderenti all’Eurozona”.
Queste ultime considerazioni ci portano all’ultima questione. Le riserve auree non possono servire a risolvere qualche nostro attuale problema perché sono pensate per risolvere il problema ultimo di un eventuale catastrofe finanziaria, una specie di ultima spiaggia per assicurarsi la possibilità di regolare in ultima istanza pagamenti internazionali.
Ma del resto 90 miliardi sono ben poca cosa di fronte ai numeri che ho mostrato in precedenza proprio per rapportare le grandezze in ballo nell’economia attuale. La sola borsa italiana il 7 febbraio scorso ha scambiato azioni per un controvalore di oltre 3 miliardi di euro mentre sul Forex, il mercato delle valute nato dopo il crollo del sistema di Bretton Woods, vengono scambiati valori giornalieri in ordine alla migliaia di miliardi di dollari.
Il punto, che come al solito sfugge, è il principio. Ci dicono che l’oro dell’Italia, la Banca d’Italia e ovviamente la Banca Centrale Europea non appartengono né agli italiani né agli europei. Viviamo in un sistema dove tutto viene rappresentato e preteso indipendente. Oro, riserve, partecipazioni statali e qualsiasi forma di benessere non è riconducibile ai cittadini tranne i debiti. Questi, e in qualsiasi modo si chiamino (pubblici, privati, obbligazionari, azionari, subordinati, ecc.) vanno ripagati attraverso le nostre tasse, i prelievi sui conti correnti, il congelamento dei salari e l’abbassamento delle pensioni.
Tutto questo è quanto meno bizzarro.
E forse le vere risposte alle domande sulla proprietà dell’oro degli italiani, della Banca d’Italia e delle sue funzioni pubbliche, dello Stato stesso con tutti i suoi ministeri, dei suoi scranni dorati e delle belle scrivanie andrebbero ricercate magari attraverso un ragionamento filosofico e sociologico, lasciando da parte l’economia e i trattati europei di cui sono diretta emanazione.

in copertina illustrazione di Carlo Tassi

Il Canada che non ti aspetti

In realtà sarebbe facile produrre un’etica rigorosa, o almeno non sarebbe più difficile che affrontare altri problemi scientifici basilari. Soltanto il risultato sarebbe sgradevole, ma è una cosa che non si vuole vedere e che si cerca di evitare, in qualche misura in modo cosciente. (Kurt Gȍdel)

Tav sì-Tav no, Fazio in Rai o fuori dai palinsesti, reddito di cittadinanza giusto o penalizzante, immigrazione da sostenere o da demonizzare, beneficio di scorta a politici, imprenditori, giornalisti e sindacalisti confermato o revocato, Juan Guaidó presidente del Venezuela riconosciuto ufficialmente tale dal nostro Paese oppure no. Alcuni tra i temi che stanno infervorando l’opinione pubblica, sollevando ragionamenti, critiche, consensi, spaccature, battaglie ideologiche, dissenso, interrogativi, dubbi, malcontento, aspettative, davanti alle scelte politiche da operare e alle conseguenti ricadute concrete o simbolicamente indicative che esse avranno nell’immediato futuro.

E mentre ci dilaniamo nel dibattito più o meno costruttivo o sterile che sia, lo sguardo va anche altrove, in altri angoli di mondo non meno importanti del nostro, perché una delle valenze positive, una volta tanto, della globalizzazione è anche quella di permettere e sollecitare l’attenzione e la visione a 360°. Esistono situazioni, come quella presente in Canada, che passano sottotraccia e non raccolgono il diffuso interesse che meriterebbero, rimanendo nel quasi totale silenzio stampa perché c’è sempre qualcos’altro che ruba la scena e tiene occupate menti, conoscenze e coscienze. Già nel 2015, Karen Stote, docente di Studi femminili e nativi d’America, pubblicò il libro ‘An Act of Genocide, Colonialism and the sterilization of Aboriginal women’ in cui veniva trattato il tema della sterilizzazione forzata delle donne aborigene in Canada. Centinaia di casi documentati, a partire dagli anni Settanta, riguardavano anche disabili e portatori di deficit mentali. Una pratica forzata meno diffusa, estesa ed applicata anche agli uomini tramite vasectomia. Nello stesso anno, il sito di bioetica Bioedge rilanciò con altri portali di comunicazione i contenuti del libro, accendendo i riflettori sul caso. In un Canada felix, connotato da fascino e bellezza, accoglienza e grandi possibilità, il nichilismo si nasconde dietro le facciate che tutti conosciamo e dietro l’idea che ci siamo fatti di questo Paese immerso nelle sue immense foreste, spettacolari cascate e specchi d’acqua, le imponenti catene montuose, le praterie, i ghiacciai perenni dell’Artide, le modernissime e ordinate città di Montreal, Ottawa, Toronto, Vancouver.

Una vera e propria selezione della razza, dal momento che la pratica è applicata ad un gruppo etnico preciso, gli Inuit (chiamati comunemente Eschimesi) e i nativi americani (Pellerossa). Si aggiunga anche il fatto che, tra gli anni Sessanta e Ottanta, molti bambini aborigeni furono allontanati dalle famiglie e inseriti in nuclei familiari non aborigeni. Echi di tutto questo sono arrivati in Italia molto timidamente. Amnesty International ha lanciato una campagna di sensibilizzazione – di cui il Corriere ha dato notizia – mirata alla raccolta di appelli al Primo Ministro Justin Trudeau, affinchè prenda immediati provvedimenti per porre fine alla sterilizzazione delle donne indigene senza il loro consenso. Assistenza al parto solo se la donna acconsente alla sterilizzazione, firme estorte in moduli non tradotti in lingua nativa: una vera e propria forma di violenza e tortura, come definita questa pratica da Amnesty International. Un appello in tal senso, è stato lanciato anche da Niki Ashton, parlamentare canadese, rivolgendosi a Trudeau in Parlamento lo scorso novembre, mantenendo viva l’attenzione sul problema.

Un Paese, il Canada, in cui tra il novero delle ‘conquiste’ e liberalizzazioni ci sono la maternità surrogata con utero in affitto, accessibile a chiunque come bene di consumo, etero, single, gay; lo stesso paese ‘open mind’ che garantisce la pratica dell’eutanasia e della morte programmata, come se la fabbricazione di figli a pagamento e la ‘dolce morte’ tout court fossero forti segni di progresso. Surrogazione ed eutanasia consentono un’umanità replicabile o sopprimibile in modo controllato, diversamente dai legami forti, il corso naturale dell’esistenza e della morte delle genti, le tradizioni contenute in millenni di storia che rendono queste etnie minoritarie scomode, perché posseggono una marcata e radicata identità di appartenenza, non omologata. Scrive Karen Stote: “Mi interessa far capire che la sterilizzazione forzata non è un atto di abuso isolato, ma una delle molte strategie politiche impiegate per danneggiare le donne indigene, per escludere gli aborigeni dalle loro terre e risorse, e per ridurre il numero di quelli verso cui il governo ha degli obblighi. Vi mostro come gli effetti della sterilizzazione degli indigeni, pianificata e non, sono in linea con la politica dl passato sui Pellerossa e servono per gli interessi economici e politici del Canada”.

Ci si aspetta umanamente di più, dal secondo Paese più grande al mondo dopo la Russia, che occupa il 41% del continente nord americano, federazione multiculturale aperta e innovativa, abitato da millenni da First Nations (aborigeni), patria della sensibilità di grandi nomi come Glenn Gould, Leonard Cohen, Neil Young, Joni Mitchell, Cèline Dion, Bryan Adams, Margaret Atwood, Alice Munro, David Cronenberg…

DIARIO IN PUBBLICO
Cronache e riflessioni a margine di Sanremo

Risvegliarsi alla mattina… con quella faccia un po’ così, non è sempre facile.

Pensiamo a un ministro imbufalito con i migranti che si ritrovi ogni giorno a dover contemplare con lo stesso aplomb il viso del suo collega squisitamente mediterraneo tendente al marocchino (bello).
Si pensi allo stesso ministro costretto a riconoscere la vittoria a Sanremo di un bravo cantante dalla voce, dal nome e dall’aspetto squisitamente ‘migrantesco’, benché Mahmood sia lo pseudonimo di Alessandro Mahmoud, un cantautore italiano di origini egiziane
Dubbi.

Come farà Simone Cristicchi a dormire dentro la selva non oscura, ma grigia, della sua capellatura? Pazienza per la Patty nazionale, che confessa di fare dei suoi ‘belin’ color crema pasticcera cuscino da notte, ma per lui sorge il problema: coordina il pelame della barba con quello dei capelli? Entro una struttura adatta allo scopo?
Il Kolossal dell’orrore spetta però alla Loredana Bertè che assomma fattezze alla Blade Runner col filo gentile dei capelli color fata turchina e labbroni un po’ indecenti come quelli di una nudità sfatta.
Il corpo come libro su cui si scrive – e il peggiore a mio avviso momento visivo e musicale – è quello di Achille Lauro, il cui nome evoca fatti e misfatti e che accavalla gambette ragnesche con un viso divenuto saggio di scrittura per poveracci di quartiere. E troppo inoltre significa far risuonare quel titolo ‘Rolls Royce’, che è lo stesso di una grande poesia di Giorgio Bassani

Poi di colpo mi s’illumina la mente afflitta da tali ‘immensi’ pensieri.
Cos’è il lusso per i borgatari italiani (una media dell’80% della popolazione) che si rispecchiano nel modello Sanremo? Paillettes e lustrini, specie per i maschi, anelli, collane e orecchini a sottolineare una pseudo identità sessuale (in realtà la donna, anche nelle scelte sanremesi sta sempre tre passi indietro). Il conduttore s’avvolge in giacche strabilianti passabilmente serie, mentre spicca in tutta la sua elegante provocazione l’unica presenza culturale (cultura seria…) del Festival: la Virginia Raffaele.
Si capisce allora che l’eleganza invocata come segno di distinzione – ricordate le nostre nonne per le quali il massimo del consenso si coagulava nell’aggettivo ‘distinto’? – si rivolge al fascino della divisa, ampiamente sfruttata dal vincitore di ogni sondaggio politico, il signor Matteo Salvini, oppure alle felpe con il cappuccio atte a nascondersi quando si è impegnati in atti, come dire poco eleganti, con propensione attuale per i gilet gialli, oppure ancora allo sfarzo ancor più sontuoso derivato dalla ‘spezzatura’, ovvero la mistione di vestiti solenni quali lo smoking per l’uomo o l’abito lungo delle donne abbinati con magliette e canottiere molto pop. Ovviamente il tutto condito con l’uso smodato del tatuaggio, specie quello nascosto (e un brivido mi riporta alla feroce realtà nel ricordare il corpo di Robert de Niro nel terribile ‘Cape Fear’ di Martin Scorsese).
Straordinaria, invece, nel suo accettato viale del tramonto la grandissima Ornella Vanoni ormai in tutto simile alla Norma Desmond del grande film di Billy Wilder.

Queste considerazioni valgono naturalmente per un pubblico di lettori della mia o al massimo della successiva generazione. Di questi paragoni i giovani nulla sanno come ben sanno gli insegnanti (ah! ministro dell’istruzione Bussetti quando imparerà che il tacere – a volte – è bello?).
La memoria sempre più corta ci invita ogni momento di più a rifugiarci nell’attimo del presente che un minuto dopo è già vanificato. S’aprono scenari incredibili: lotta seria tra i cugini delle Alpi Francia e Italia. Un Presidente del Consiglio che si fa piccino picciò di fronte alla furia iconoclasta dei due reggitor de lo imperio (infernale).

Quale faccia a modello? Almeno due: bianche. L’incredibile pulizia dentro e fuori del presidente Mattarella, impeccabile nella sua soffice aureola di capelli bianchi perfetti, e quella altrettanto bianca nel vestito e nel credo di papa Francesco. Gli unici che spiccano in questo coacervo di invasati che fanno ‘politica’. Tutti, purtroppo.
E a ‘Ferara’? Appena spenta la polemica sui Diamanti altre s’aprono, tra bocche che urlano e minacciano di masticarti intero. Sfilano bandiere nere, s’alzano saluti che ricordano tempi che si credevano passati, si moltiplicano inviti a sagre e ristori di ogni genere, che fanno molto campagna elettorale. Un quartiere, il Gad, diventa terreno di scontro. I telegiornali cittadini si destreggiano abilmente tra l’unica, vera, totale passione dei miei concittadini, la Spal, e avvenimenti culturali ancora di grande rilievo.

Attendiamo con impazienza l’importantissima mostra del Meis sul Rinascimento ebraico. E’ alla fine il grande libro ‘visivo’ su Giorgio Bassani. Il teatro Abbado sforna stagioni straordinarie di prosa, musica, balletto, opera, mentre in platea i soliti noti guardano con preoccupazione chi sfornerà programmi culturali più eccitanti. S’annuncia un Boldini veramente alla moda ai Diamanti, mentre cari amici a Forlì aprono mostre di altissimo spessore sull’Ottocento .
Riuscirà il modello culturale emiliano a reggere l’urto del nuovo che avanza?
Lo sapremo tra qualche mese.

LA RECENSIONE
“Spirito libero”, un viaggio senza tabù fra politica, etica e informazione

di Giovanni Brasioli

Ci sono mondi in cui l’istinto sostituisce il desiderio e l’appetito prende il posto del sogno, mondi in cui tutto diventa numero e vengono introdotti termini quali risorse umane, investimenti affettivi, consumatori; e poi c’è un mondo contrapposto, evocato da Sergio Gessi: giornalista, scrittore e docente universitario. Nel suo universo non c’è una scorciatoia per il paradiso e quindi non ci sono porte a cui bussare per chiedere oboli o assoluzioni; il percorso è senza tabù ed un racconto, spesso impietoso, intessuto di storie realmente accadute. “Spirito libero” è un contenitore di articoli, commenti, interviste con cui Gessi tratteggia un Paese in declino, raccontando le tristi ascese e le altrettanto tristi discese di alcuni dèi di passaggio: da Soffritti a Franceschini, passando per il Pci e gli altri partiti. Nemico del sentito dire, del sentito vivere e del sentito scrivere ‘il professore’ è convinto che anche quando la realtà tocca il buio più fitto c’è pur sempre qualche bussola in grado di indicare la direzione giusta. Sin dalle prime pagine l’autore si muove in “direzione ostinata e contraria”, scagliandosi contro l’idea-moloch secondo cui “se sei in dissonanza con il mondo non è il mondo che devi cambiare ma devi adeguare te stesso”. In un paesaggio di macerie – dove è stato insegnato alla gente a pensare che il contesto in cui vive sia l’unico possibile e immaginabile – Gessi (come scrive Paolo Pagliaro nella prefazione al testo) “procede con lo sguardo del corrispondente di guerra, freddo eppure partecipe”; diverte, commuove e restituisce un po’ di onore al moralismo ‘sano’, come quando spiega che il primo passo per la risalita dagli inferi è il recupero del rispetto autentico per gli altri e di conseguenza, per se stessi.
“Spirito libero” provoca il lettore interrogandolo sul da farsi, riga dopo riga, pagina dopo pagina, in un saliscendi etico che contrappone la scelta incondizionata al conformarsi. Il pronunciamento ideologico del professore declina al plurale esigenze spesso atomizzate, e ci ricorda quanto sia necessario ricominciare a pensare in una prospettiva utopistica, a costo di essere presi per folli, consapevoli che (per dirla con Nietzsche) “quelli che ballano vengono visti come pazzi da quelli che non sentono la musica”. Soltanto così si potrà creare un mondo più vivibile per tutti, anche per gli ‘schiavi, coloro che pur non avendo catene ai piedi sembrano ormai incapaci di immaginare una vera libertà.

Presentato alla libreria Feltrinelli di Ferrara da Andrea Cirelli, Tito Cuoghi e Gian Pietro Testa (che hanno dialogato con l’autore), “Spirito libero” è disponibile in tutte le principali librerie, anche online. La prefazione è di Paolo Pagliaro.

Ferrara dall’abito elegante

di Fabio Strinati

E penso alle tue sere che sfumano
quiete verso le cifre del mattino;
penso alla sensazione di delirio
che mi scuote la vista ricoperta
del tuo sfarzoso nobile splendore,
ricordo il cuore fidanzato in gola, partenza
di un respiro dall’accento indefinito
affannarmi il petto il battito del Reno;
penso al tuo mistero che si rinnova,
la tua storia che a dismisura
cattura il mio sguardo su di te annullato:
ricordo la partenza come momento
eterno, lontano il giorno con stile
Ferrara dall’abito elegante,
una carezza custodita nella mano.

Riforma della famiglia? Qualche riflessione sul ddl Pillon

Credo che sia un dovere etico morale, oltre che politico, che mi porta a prendere in esame e denunciare ciò che sta accadendo circa alcuni provvedimenti attualmente all’esame del Senato. Mi riferisco in particolare al disegno di legge n.735, Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità, proposto dal senatore leghista Pillon e da altri, sul quale vorrei portare la dovuta attenzione, per gli effetti che siamo già sicuri comporterà, se malauguratamente venisse approvato.

Molte sono state le manifestazioni prevalentemente di movimenti e associazioni femminili che di recente hanno denunciato l’allarmante proposta del senatore leghista Pillon, su questa cosiddetta riforma del diritto di famiglia e dell’affidamento dei minori in caso di separazione e, anche se la cosa sembra non turbare più di tanto l’opinione pubblica, credo che per tanti aspetti sia davvero una proposta di legge di inaudita, che presenta una visione distorta dei diritti dei bambini, dei figli e delle donne nei casi di separazione familiare.
Davvero interessante e completa, a questo proposito, l’inchiesta presentata su Rai3 alcuni giorni fa dalla trasmissione ‘Presa diretta’, che ha correttamente presentato i vari aspetti dei motivi ‘ispiratori’ di questi sedicenti legulei, degli effetti e conseguenze gravi che possono derivare dall’approvazione del citato disegno di legge.
Questi i punti cardine su cui si fonda il ddl Pillon : la mediazione civile obbligatoria – e a pagamento dopo il primo incontro – per le questioni in cui siano coinvolti i figli minorenni, la “bigenitorialità perfetta” ossia tempi paritetici per entrambi i genitori con i figli, il contrasto all’alienazione parentale, il mantenimento diretto senza automatismi.

Occorre notare che la figura del mediatore familiare obbligatoria è davvero avvilente: forse il senatore leghista Pillon –  mediatore famigliare – vuole rendere edificante la propria attività, ma è innegabile che vi sia un evidente palese conflitto di interesse, proprio perchè tale figura diventa addirittura obbligatoria e indicata fin dai primi articoli di questo disegno di legge.
La proposta di Pillon prevede diversi cambiamenti rispetto alla norma attuale. In primo luogo c’è l’addio all’assegno di mantenimento, dato nella maggioranza dei casi alle mamme, con cui il padre passa ogni mese una cifra stabilita per i figli. Se il disegno di legge di Pillon venisse approvato, mamma e papà dovranno invece provvedere ognuno a metà delle spese. Viene tolto l’assegno perché i figli avranno due case e due domicili e, a meno di accordi diversi presi dai genitori, ogni bambino o bambina dovrà passare lo stesso tempo con i genitori, che non dovrà esser inferiore ai 12 giorni al mese. Secondo il testo, questo dovrebbe garantire un giusto equilibrio nei rapporti con entrambe le figure genitoriali, senza tenere in debito conto però il problema dei bambini in sempre in trasloco, da una casa all’altra.

Ebbene le preoccupazioni più grandi riguardano appunto la tutela dei bambini, proprio quei soggetti che il ddl n. 735/2018 dice di voler proteggere, ma l’allarme riguarda anche le donne, soprattutto quelle in condizioni di difficoltà e vittime di violenza.
C’è da pensare che chi ha redatto il testo del disegno di legge non si renda affatto conto del contesto in cui viviamo e non sappia minimamente ciò che accade nei tribunali, nei territori e soprattutto tra le mura domestiche. Il testo sembra quasi completamente ignorare la diffusione della violenza maschile che determina in maniera molto significativa le richieste di separazioni e genera gravi tensioni nell’affidamento dei figli, che diventano in molti casi soprattutto per i padri, oggetto di contesa e strumento per continuare ad esercitare potere e controllo sulle madri.
Con l’eliminazione dell’assegno di mantenimento, se si dispone il doppio domicilio dei minori, si danno per scontate le disponibilità economiche anche da parte delle donne, molto spesso impossibili da garantire, proprio perché il nostro paese ha elevatissimi tassi di disoccupazione femminile e presenta ancora un gap salariale che continua a espellere dal mercato del lavoro le madri, ne penalizza la carriera e garantisce sempre meno servizi in grado di conciliare le scelte genitoriali con quelle professionali, mentre scarica i crescenti tagli al welfare sulle donne schiacciate dai compiti di cura. Si tratta di un elemento di grave sottovalutazione, perché vi è un effettivo squilibrio di potere e di accesso alle risorse fra madre e padre, proprio perché sappiamo benissimo quali siano in Italia, nella stragrande maggioranza dei casi, le condizioni lavorative delle donne madri. Proponendo un’equiparazione di contribuzione economica tra i genitori in caso di separazione, emerge che la situazione delle donne è quindi vincolata necessariamente al grado di autonomia finanziaria per reggerne il costo, anche a prescindere dal fatto che la separazione sia richiesta per atti di violenza commessi dal coniuge nei suoi confronti e nei confronti dei figli, perché per provare questi aspetti occorre tempo. Occorre ricordare, infatti, che per le denunce di violenza occorre arrivare ai tre gradi di giudizio per avere sentenze definitive.
Nelle denunce delle associazioni appare chiaro che rispetto a questa situazione, già oggi nei tribunali le donne incontrano difficoltà enormi nel denunciare le violenze subite, non sono credute, devono affrontare una pesante percorso di analisi da parte di un sistema giuridico e sociale che ancora tende a spostare la responsabilità degli atti violenti sulla vittima del reato, piuttosto che sull’autore. Inoltre, in molte interviste a questi legulei, non è raro sentirli ripetere che la colpa, in ogni caso, è delle madri, accusate di inadeguatezza genitoriale per non essere riuscite a tenere insieme la famiglia, per non aver tutelato i minori dalla violenza diretta e assistita o per non consentire ai padri di continuare a mantenere una relazione con i figli generando in essi avversità e alienazione.
Molti giuristi ci dicono che la presenza di violenza rende sconsigliabile se non impraticabile secondo le normative attuali, ma anche secondo le diverse discipline scientifiche chiamate in causa, sia la mediazione familiare, sia l’affidamento congiunto, così come è palesemente riconosciuta l’inefficacia di percorsi prescrittivi ampiamente previsti nella proposta di legge in questione.
Ebbene mi chiedo che ne sarà della vita di quei bambini che si troveranno in condizione di separazione familiare, già in condizione affettivo- relazionale critica, chi pensa a loro?

Penso che il ddl Pillon sia un anacronistico esempio di incapacità di legiferare, che non tiene conto dei diritti di tutti, soprattutto dell’infanzia, di quei figli che vengono contesi e trattati come fossero automi da manovrare verso un genitore o l’altro, senza tener conto della loro sensibilità , delle loro scelte, incidendo sulla loro vita con interventi che segneranno per sempre il rapporto e le relazioni socio affettive con gli altri.
Sto pensando che dovremo trovare il modo per fermare ad ogni costo questo ddl che non fa altro che produrre sui bambini, sui figli dei genitori che si separano, profonde ferite e potenziali danni psicologici se venissero applicate effettivamente le indicazioni del testo. E’ aberrante che i primi a pagare siano proprio i bambini alla faccia della difesa della famiglia, di una famiglia dove possono essere agite anche terribili violenze. Abbiamo capito che l’obiettivo primo è relegare le donne a un ruolo subalterno di pure fornitrici di prole e che devono dipendere da un mondo che ha Dio, Patria e Famiglia come unico e inderogabile feticcio da perseguire. La famiglia per diritto naturale non può sciogliersi, anche se i bambini vivono in un contesto in cui padre e madre litigano continuamente o agiscono abusi e violenze di ogni tipo. Se si rifiutano di andare col genitore violento o abusante vengono comunque costretti a stare anche con questo…che in genere è il padre. Allora può capitare che i figli che si oppongono possano essere allontanati dalla madre e venga invocata “l’alienazione parentale” e addirittura finiscano per essere affidati altrove.
Mi chiedo: è un caso che Pillon svolga patrocinio legale presso l’associazione dei padri separati con la quale ha un palese condizionamento quasi lobbistico?
Tantissime sarebbero le obiezioni da aggiungere, basti dire che la visione del rapporto di coppia, della tutela dei minori e del senso della vita familiare, oltre che del ruolo marginale della donna nel contesto sociale, appaiono declinati secondo una chiusa visione integralista che ci riporterebbe a una dimensione classista di chiusura completa di una reale parità uomo donna e soprattutto della difesa dei diritti dei minori. Non possiamo essere indifferenti perché tutto ciò sembra richiamare inevitabili effetti assimilabili a quelli ai tempi dell’inquisizione.

La famiglia tradizionale

Sua Santità,

sono una cattolica credente e professante, sono sposata da venticinque anni, sono madre di quattro figli e sono femminista, semplicemente perché oggi credo sia la via più autentica per interpretare la contemporaneità.
Scrivo perché sono rimasta profondamente colpita, per non dire agghiacciata, dalle parole che sono state dette da molti degli esponenti del movimento per la vita, intervistati da Giulia Bosetti di ‘Presa Diretta’, nella puntata di lunedì 28 gennaio su Rai3. In realtà tutta l’inchiesta ha rivelato una radice misogina e certamente non cristiana dietro ai movimenti che si battono per una restaurazione della famiglia ‘tradizionale’. Tutti però si sono dichiarati cattolici credenti, convinti di essere mandati da Dio a ristabilire l’ordine naturale di cui ovviamente conoscono la formula.

Intorno a stendardi della Madonna, alla quale Dio ha chiesto se voleva avere un figlio – poteva dire di no -, ho sentito pronunciare parole di condanna per le donne che abortiscono, negare la tragedia dei femminicidi (per le donne tra i 16 e i 44 anni è la prima causa di morte nel mondo), che il posto delle donne è essere sottomesse a un marito anche se violento e abusante, che non necessitano di aspirare ad altro che alla maternità. Ho sentito dire che la famiglia naturale è una sola e infine che lo stupro è meno grave dell’aborto e tutto questo condito dal fatto che sono gli unici veri interpreti del cattolicesimo.

Ebbene le scrivo per dirle che io non mi riconosco in una Chiesa che riduce la complessità della vita a formulette semplicistiche e che accetta che la prospettiva che muove questi movimenti venga sbandierata come cattolica. La legge non sta sopra l’uomo ma di fronte. Gesù lo ha detto in modo molto chiaro (MC, 2, 23/28). Ed è proprio in quello spazio che c’è tra la legge e l’individuo che si rivela la libertà che Dio ci ha donato, dinamica che porta avanti la storia. Credo che l’aborto possa essere una esperienza molto dolorosa, ma sono a favore della legge 194, una legge che riconosce alla donna le sue responsabilità e che onora la sua coscienza individuale, il suo corpo e la sua libertà. Sono per l’abolizione universale della maternità surrogata, ma non certamente per i motivi addotti da questi personaggi davvero equivoci. Sono per il sacramento del matrimonio tra omossessuali e sono per il sacerdozio femminile, che porrebbe fine alla misoginia che abita la struttura ecclesiastica e a una ingiustizia: le donne escluse dal sacerdozio in quanto donne. La libertà delle donne fa paura a tutti, anche a molte donne, ma non c’è amore senza libertà, e senza la libertà delle donne la Chiesa e la società le priva e si priva del loro amore.

Le scrivo perché mi riconosco in una Chiesa capace di dialogo e confronto, che non rifugge le contraddizioni dell’esistenza, che si interroga, che è ricerca continua e che testimonia ogni giorno il suo amore. Credo sia giusto che questa Chiesa mostri il suo volto e abbia il coraggio di denunciare che quanto detto da queste persone non è cristiano. Lei ha mostrato grande coraggio esponendosi personalmente, anche e spesso in controtendenza al pensiero dominante. Quando è stato eletto Papa si è presentato come Vescovo di Roma, riconoscendo che la Sua missione sta dentro il tempo e lo spazio, esattamente come quella di ognuno di noi, e dunque riconoscendo che siamo tutti in cammino verso una umanità più piena. Per proseguire il cammino, quando si giunge a un bivio, bisogna scegliere che strada prendere. Spero si unirà alla mia denuncia: la prospettiva che anima molte persone che militano in questi movimenti non è una prospettiva cristiana.

La crisi venezuelana raccontata da un’italiana

La situazione in Venezuela è sempre più incandescente. Tra proteste, minacce di interventi armati e Maduro che non vuole indire nuove elezioni, i più colpiti, come sempre nei conflitti, sono i cittadini. Ho avuto la possibilità di confrontarmi con una di loro, una figlia di immigrati italiani che hanno costruito la propria fortuna nel paese sudamericano ma che da anni vivono l’oppressione del regime. Questo è il racconto di Paola.

Com’è la situazione in questo momento?
Finalmente abbiamo una speranza che le cose possano cambiare, che ci sia un nuovo governo, siamo felici che ci sia una possibilità, perché stiamo vivendo un periodo terribile con questo regime che espropria, ruba e uccide ragazzi innocenti.

Perché la gente appoggia Guaidó?
Perché è un giovane serio, senza una storia di corruzione alle spalle. Ciò renderebbe un suo governo diverso, un governo del popolo e per il popolo, il quale in questo momento non ha cibo e medicinali e affronta la quotidianità con una grande insicurezza a causa delle violenze. Inoltre Guaidó non ha idee comuniste e non ha rapporti con paesi terroristi. È un giovane, non ha un passato occulto, e potrebbe portarci fuori da questo socialismo del 21° secolo che ha distrutto il Paese, le sue terre vergini, la sua industria… Non è rimasto nulla in Venezuela. Guaidó ci sta dicendo che possiamo tornare ad essere una nazione prospera, con leggi che rispettino la giustizia sociale. Ecco perché la gente è dalla sua parte.

Per voi, se non ci fosse un cambio, che destino ci sarebbe?
Facile: se non ci sarà un cambio di governo dovremmo, con molto dolore, cambiare Paese, lasciandoci alle spalle il nostro capitale economico e umano in questa terra che ci ha accolto a braccia aperte. Avremmo potuto tornare in Italia e ricominciare, ma abbiamo deciso di rimanere e sopportare molte cose in questi 20 anni di socialismo, di epurazioni, di umiliazioni, come la mancanza di medicine, di cibo e l’insicurezza. Credo che questa sia un’occasione d’oro per uscire da questo regime che ci ha affamato.

Come si vive sotto un regime?
Io sono fortunata. Grazie ai sacrifici di mio marito fatti in 60 anni di lavoro possiamo permetterci di comprare il cibo al mercato nero. Ma solo quello che si trova. I servizi sono scarsi, come l’acqua e l’energia elettrica. E alle 18 devo chiudermi in casa perché il tasso di criminalità è troppo alto. Anche per portare a scuola i bambini i più fortunati usano la scorta. I nostri nipoti non sanno cosa voglia dire poter camminare per strada tranquillamente senza essere guardati a vista. Non è vita, è una galera a cielo aperto.

Con Chavez era migliore la situazione?
Chavez è stato l’origine di tutto, è stata la genesi della distruzione. All’inizio ha avuto anche buone intenzioni, ma i condizionamenti dell’ideologia cubana lo ha spinto a favorire quell’alleato, iniziando a mettere cubani in tutte le strutture governative, anche la più delicata, quella della sicurezza nazionale, delle forze armate. Abbiamo cominciato ad essere un Stato associato a Cuba o peggio, sotto la tutela de l’Havana. Chavez ha la responsabilità di averci lasciato Maduro come eredità del male.

Qual è l’opinione generale su Maduro?
È un burattino di Cuba e di Diosdado, il quale ha arricchito sé stesso e chi gli sta intorno, facendo affari e regalando le nostre risorse naturali.

Alimenti e medicinali sono disponibili?
Nel mercato nero (bachaqueo) si ottiene quasi tutto, ma a prezzi esorbitanti e in dollari, e la gente comune non può nemmeno sognarseli. Un antibiotico? Ti costa quello che guadagni con un salario minimo. Lo zucchero? Appare e scompare. I supermercati sono vuoti. I pannolini costano quanto un appartamento e l’inflazione “mangia” gli stipendi. Solo gli aiuti dei parenti dall’estero, se mandano denaro, rendono possibile sopravvivere.

L’interferenza degli Stati Uniti è una realtà che spaventa?
È una benedizione. Il regime ha dalla sua parte la polizia (Faes) che fa ciò che loro vogliono. L’unico modo per uscire dal regime è con l’aiuto di qualcuno, se degli Usa ben venga, non importa. Anche i paesi vicini stanno sostenendo la causa di Guaidó, insieme alla comunità internazionale tranne, purtroppo, l’Italia. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti. Dopo 20 anni di espropri, umiliazioni, famiglie separate, la fine di un governo criminale avrà come alleati anche gli Usa e la comunità internazionale. Anche se le cose stanno andando troppo a rilento: gli ammalati non possono essere più essere curati senza aiuti umanitari, molti pazienti sono morti a causa della mancanza di medicine e della fame. Quella di raccogliere il cibo dalla spazzatura è una realtà crudele, ma cambierà quando i ladri al governo andranno via.

Avete paura di una possibile guerra civile?
No, non ci sarà nessuna guerra civile. Gli unici armati sono loro [le forze governative pro Maduro ndr.], la gente non ha armi, è sempre stata vittima di questo Stato autoritario, che ha criminali armati a proteggerlo. Il popolo non è né armato né violento.

Quali sono le possibili soluzioni e come vedi il futuro del Venezuela?
La soluzione ideale sarebbe vedere Maduro e i suoi alleati esiliati dal Venezuela. Sappiamo, però, che non vogliono lasciare i loro nascondigli. Oramai questa nazione è un covo di criminali, se va via il governo Maduro, chi li proteggerà? Ma finirà tutto questo. Puliremo il Paese e ci sarà di nuovo fiducia. Ci sarà la divisione dei poteri, le leggi verranno applicate e rispettate, il Venezuela tornerà ad essere un Stato di diritto in cui ognuno vive del proprio lavoro e non con i “regali” del governo per comprare la lealtà. Un Paese dove sarà possibile acquistare cibo, medicinali, tutto quello che si vuole, senza sette ore di fila a perdere tempo. Una nazione dove l’inflazione non mangerà gli stipendi, dove le persone potranno invecchiare e godersi la pensione. Il Venezuela è una splendida terra, ma è stata “bruciata” dalle politiche del chavismo e del castrismo. Accetteremo l’aiuto di tutti contro chi ha rubato la ricchezza che apparteneva al popolo venezuelano, come il petrolio, le materie prime, contro chi ha distrutto l’Amazzonia con un ‘eco-cidio’ mai visto prima. Saremo con Guaidó e con la Costituzione, per far sì che torni a governare la legge. Dios salve a Venezuela!

 

Foto della marcia fatta a Chacao il 23 gennaio, dopo la proclamazione di Guaidó

 

Foto della marcia di protesta partita da Chacao il 2 febbraio scorso

I video delle due manifestazioni

Riposizionamenti. Cosa chiede veramente la gente alla politica

Il nostro sistema di sviluppo, improntato alla (e sulla) crescita finanziaria, è profondamente sbagliato, crea disuguaglianze, funziona solo per pochi, non considera la condivisione, ignora la cooperazione e si basa su confusioni macroeconomiche e sul monopolio assoluto del sistema di informazione che ha il compito di oscurare qualsiasi notizia possa tendere a chiarire le dinamiche della creazione delle scelte politiche.
Fatta questa premessa, e considerato che siamo prossimi alle elezioni (europee e comunali), cosa si può pretendere da coloro che vogliano rappresentarci? Semplicemente che portino avanti delle proposte radicali, un cambio di prospettiva dal punto di vista antropologico, sociologico e culturale. Niente di particolarmente complicato, in fondo. L’importante è che non ci parlino del colore delle tende da attaccare alle finestre dell’edificio che sta crollando.
La gente comune si sta accorgendo che qualcosa non va nel rapporto che dovrebbe esistere tra promesse e realizzazione delle stesse. Nota che il sistema si sta avvitando su se stesso, che la crisi non passa, ma anzi si scorre da una recessione grave a una recessione meno grave, attraverso una recessione così così. La gente comincia a chiedersi se non ci sia qualcosa di sbagliato nelle ricette politiche ed economiche, e anche a interrogarsi sull’integrità di chi le ha portate avanti fino ad adesso. Addirittura (!) sta imparando a controllare su google se chi oggi promette sia già stato Presidente del Consiglio, Ministro o Sindaco, almeno dal 2008 a oggi.

Anche a Ferrara, certo. Il Pd non ha funzionato sulle grandi questioni, non ha rottamato, non ha diminuito la disoccupazione, non ha frenato la chiusura delle aziende, non ha difeso il risparmio, ma durante il suo interregno gli amministratori delegati sono rimasti al loro posto, la ricchezza non ha smesso di crescere, ma si è accentrata sempre di più, le banche esistono ancora, mentre i risparmi si sono volatilizzati e ci si sente meno sicuri nel proprio Paese, nella propria città e persino nella propria casa.
E la gente se ne sta accorgendo, anche a Ferrara. Si accorge che qualcosa non sta funzionando e si traveste da leghista perché chi vuole mantenere il potere sulle scelte sta fingendo ancora, ma in maniera diversa e, se possibile, più articolata.
Per certe persone, dal 2008 ad oggi, non è mai venuto il momento di prendersi qualche responsabilità, di uscire dallo schema “ce lo chiede l’Europa”, “lo impongono i mercati”, “non ci sono soldi” e via discorrendo. E non c’è tempo di farlo perché, come al solito, il tempo sta finendo e il cielo sta crollando sotto i colpi giornalieri dei carri armati fascisti e della destra oscura che ha osato persino elargire un reddito di cittadinanza agli italiani fannulloni, come mettono in guardia Forza Italia e la Confindustria.
Il tempo è di nuovo finito, e allora chi può spinge sulla solita nuova vecchia strada. Si grida “al lupo al lupo”, che oggi è Salvini mentre nel 2008 era lo spread e domani chissà, magari il rivoluzionario cubano Di Battista. Bisogna allora affrettarsi a firmare l’appello di Calenda che invita a stringere il legame con l’Unione Europea (premio Nobel per la pace nonostante le bombe e gli interventi armati nel mondo, nonostante la Grecia e la Bce), in maniera tale che tutto rimanga uguale senza rischiare di cambiare qualche principio di base alla struttura dell’inganno.

E Calenda, addirittura, si presenta come il nuovo che avanza, un nuovo che sarà sicuramente in grado di tirare dentro i refrattari della ‘verace’ sinistra di Leu, amica del popolo e dei diritti (purché non siano diritti sociali ovviamente), e, quindi, se vogliamo continuare a tenere la testa ben conficcata nella sabbia, dobbiamo firmare il suo appello ovviamente sostenuto dal Pd sempre attento a non smentirsi (LEGGI QUI), ignorando quello di Malvezzi per una economia umanista (LEGGI QUI).
Ma mentre aspettiamo un appello a nome dei cittadini e il sistema si avvita su stesso, qualcosa comincia a scricchiolare e a seguire il sentimento popolare. IlSole24ore titola “Recessione alle porte, il modello ‘solo export’ non funziona più” e sapete cosa vuol dire? Che possiamo cominciare a segnare qualche punto sulla strada della chiarezza e delle scelte fatte da qualche governo del recente passato. La soluzione non era quella che Monti ci aveva propinato, ma l’esatto contrario, ovvero non doveva essere “distrutta la domanda interna” (https://www.youtube.com/watch?v=LyAcSGuC5zc), come aveva dichiarato, ma andava sostenuta. Perché la ricchezza per un Paese è quello che riesci a creare e a trattenere nel tuo circuito interno. Viene prima l’economia del territorio, della regione, del Paese e poi la tua capacità di esportare l’eccesso. Perché quando un Paese si sviluppa attraverso l’esportazione, necessariamente qualcun altro è costretto ad importare e a svilupparsi di meno.
Esportiamo più formaggi a spese di chi produce formaggi in un’altra parte del mondo, ma il progresso reale sarebbe produrre gli stessi formaggi preoccupandosi che il Paese che li produce li possa acquistare altrimenti sarebbe (anzi lo è) come dire che i paesi africani sono ricchi e felici perché si ammazzano nelle miniere per estrarre diamanti che non potranno mai regalare alle mogli.

Un cambio di prospettiva, appunto. Cooperazione e sostenibilità umana e ambientale, invece che concorrenza sfrenata e legge del più forte che, come sa chi ha studiato un po’ di storia, rende il popolo semplice ragioniere del benessere altrui.
Il sistema scricchiola e Monti, Visco, Radio24 con Giannino provano a riposizionarsi (poco poco, giusto per dire che loro sanno e sono bravi anche se non fanno) ed ecco che in fondo la spesa pubblica, in periodi di recessione, si può fare. Quindi lo Stato potrebbe intervenire adesso, compromettendo la divina neutralità dello stesso, e spendere. Probabilmente lo dicono perché se il sistema si avvita troppo, allora banche, finanza e industriali ci rimettono qualcosa, mentre ieri, quando bisognava aiutare i piccoli imprenditori e i risparmiatori, non si poteva fare.
Dunque sbagliato affidarsi alla crescita attraverso le esportazioni e sbagliato vietare allo stato l’intervento in economia, ma questo non cambia il fatto che abbiamo dovuto sopportare, per politiche sbagliate, consolidamento fiscale (aumento delle tasse) e diminuzione dei salari e delle pensioni (oops… aumento della produttività). L’unica cosa che ci resta è il ricordo, per non cadere negli stessi errori davanti ad una scheda elettorale.
Ma la gente (sempre la stessa) se n’è accorta. Sta capendo che questo sistema non funziona, e qui sta il fatto nuovo (dispiace per il compagno Fratoianni, ma era meglio Che Guevara). La gente sta capendo e ha poche persone a cui affidarsi per portare avanti le proprie istanze, e allora si affida a Di Maio e Salvini che rispondono alla testa delle persone parlando con la pancia. Rispondono ad un sistema di sviluppo sbagliato, certo con mille contraddizioni e con la strategia del gambero, ma la gente si aggrappa a loro perché le cassiere sanno che la domenica è meglio stare con la famiglia, piuttosto che tenere aperta la coop. Ma il Pd, il partito del popolo, risponde che tenendo aperta la coop di domenica si assicurano più posti di lavoro, perché meglio lavorare di più, fare i turni di domenica, accettare limature a salari e diritti che stare in mezzo alla strada.
Ed è qui che la sinistra si perde e perde, perché dimostra ancora una volta che non vuole capire ciò che altri, invece, stanno capendo, si stanno risvegliando dal torpore e pretendono una reale attenzione che tanti, in particolare al Sud, faticano a credere stia venendo dalla Lega (Nord).

Qualcosa non va nella narrazione e ce ne stiamo accorgendo. La gente si è accorta che anche cedendo su salari e diritti come gli è stato chiesto dai partiti della sinistra in sintonia con Confindustria e il guru della finanza Serra (l’amico e consigliere di Renzi), anche aggrappandosi all’Europa della Germania, la disoccupazione è all’11% (mentre lì tende al 3%), le scuole ci cadono in testa, i libri lo Stato non li passa nemmeno per lo studio dell’obbligo, la sanità peggiora e i servizi diventano una chimera… Ma come? Confindustria e Pd e Forza Italia e Più Europa parlano di “industria 4.0” e dell’Europa che assicura i diritti, ma la tecnologia toglie lavoro ed esistono ancora gli straordinari?
Ma dove sono i diritti che il sistema finanziario-capitalista ci doveva assicurare, insieme al benessere e alla crescita esponenziale? Abbiamo meno tempo libero, meno servizi e nemmeno sappiamo più cosa aspettarci dal futuro, in questo disastro contemporaneo dove ognuno grida, etichetta e confonde senza freni. Non è più un diritto il lavoro e nemmeno la famiglia. La ricerca della produttività ci impone di lavorare facendo gli straordinari per comprare l’iphone ai figli che però ci sfuggono comunque e nonostante il registro elettronico. In questo pluridecennale disastro, il problema sarebbe il governo M5s-Lega?

La gente ha capito che non c’è niente da capire e stanno firmando una cambiale in bianco a chi sta dimostrando almeno un po’ di empatia nei loro confronti. E questo per colpa di chi ha venduto fumo per decenni, conformandosi e consolidando un sistema ineguale e a sviluppo verticistico, addirittura considerando quasi una sciocchezza la richiesta di più attenzione alla realtà di tutti i giorni, alla fatica di vivere la quotidianità, preferendo sbracciarsi per affari più “mediatici” come la barca in mezzo al mare che non trova un porto sicuro.
Ed allora, quando parla Salvini si riempiono le piazze semplicemente perché dà l’idea di voler andare, insieme a Di Maio, verso la riaffermazione della presenza dello Stato, di voler ridare centralità alla spesa pubblica, alla direzione politica della cosa pubblica, difendere la democrazia e lo spazio democratico attraverso la sovranità politica ed economica. E la gente apprezza perché comprende che non esiste il pericolo di una destra estrema al governo, fiuta l’inganno dell’esagerazione di gridare ad un pericolo razzismo nel Paese, sa che in Veneto e in Lombardia non è stato ripristinato il sabato fascista ma che, anzi e purtroppo, anche lì è ancora imperante il sistema di sviluppo neoliberista. E che si potrebbe fare meglio, certo la luce è altrove e non siamo ingenui, ma che Monti, Cottarelli, Visco, Giannino e Ilsole24ore hanno fatto e detto molto peggio di così.

Archivio: dichiarazioni di Mario Monti alla Cnn

in copertina illustrazione di Carlo Tassi

Dream team

Continua con ‘Dream team’ (titolo originale ‘Les Seigneurs’) la scoperta di Omar Sy,  che pur avendo una parte minore rispetto a quelle cui ci aveva abituato in ‘Quasi Amici’, in ‘Famiglia all’improvviso’ o in ‘Samba’, ci piace sempre andare a riscoprire.
In questo film divertente, Patrick Orbéra (José Garcia) è una ex stella della Nazionale di calcio francese, tramontata e precipitata nell’alcol. La famiglia non regge e se la moglie chiede la separazione, la volontà di poter continuare a vedere l’amata figlia lo obbliga a liberarsi da tale dipendenza e trovarsi un lavoro. Su questi punti il giudice è irremovibile. L’occasione si presenta con la squadra dilettantistica di una piccola, isolata e un po’ fredda isola della Bretagna, l’Île-Molène, nel dipartimento del Finistère. Qui Patrick viene accolto e ospitato dal sindaco Titouan Legennec (Jean-Pierre Marielle) che, presidente della squadra, deve occuparsi di lui e verificare che righi dritto. La squadra però non va semplicemente allenata, ma deve arrivare il più avanti possibile nella Coupe de France, per salvare, con il danaro dei premi partita, l’antica fabbrica di sardine locali che rischia la chiusura. La squadra non può essere formata solo dagli abitati dell’isola, che sono per la maggior parte operai o pescatori, ma servono rinforzi. Ecco allora Patrick pronto a contattare ex compagni di Nazionale: il portiere Fabien Marandella (Ramzy Bédia), il difensore Wéké N’Dogo (Omar Sy), il centrocampista Shaheef Berda (JoeyStarr), il fantasista Rayane Ziani (Gad Elmaleh) e l’attaccante David Léandri (Franck Dubosc). C’è chi come N’Dogo ha dovuto interrompere la carriera per problemi cardiaci o chi, come Berda, entra ed esce dal carcere. Non mancano i problemi con la cocaina o con il ririo io, ma tutta la squadra ci si mette d’impegno. Si arriverà fino ad incontrare il mitico e imbattibile Olympique Marsiglia. Risate a non finire, bei sentimenti. Con finale a sorpresa.

‘Dream team’, di Olivier Dahan, con José Garcia, Franck Dubosc, Jean-Pierre Marielle, Gad Elmaleh, JoeyStarr, Ramzy Bédia, Omar Sy, Sami Ameziane, Francia, 2012, 97 mn

 

LA FOTONOTIZIA
Ferrara Film Corto: impegno e professionalità in tre premi e cinque targhe

Tre giornate di immersione totale nel cinema in versione breve quelle che hanno visto coinvolti operatori di cinema, spettatori, appassionati ed esperti nella Sala estense di piazza del Municipio di Ferrara prima con una selezione di opere di ogni parte del mondo per la rassegna ‘Ferrara-Roma Film corto’ (in programma venerdì 25 gennaio 2019) e poi per il fine settimana tutto dedicato alla visione e quindi alla votazione di film fatti a Ferrara, legati alla città o diretti da registi ferraresi per la rassegna ‘Ferrara Film corto’ (sabato 26 e domenica 27 gennaio 2019).

Il corto premiato a “Ferrara Film Corto”

Una maratona cinematografica organizzata per il secondo anno da Ferrara Film Commission che si è conclusa con l’assegnazione di tre premi in denaro e di cinque targhe. Il cortometraggio ‘Come la prima volta’ di Emanuela Mascherini è il vincitore della seconda edizione di Ferrara Film Corto. Lo ha stabilito una giuria presieduta dal critico e storico del cinema Paolo Micalizzi e composta, inoltre, dal direttore della fotografia e regista Cesare Bastelli, dall’attrice Gaia Benassi, dalla produttrice e regista Silvia Giulietti e dal costumista Andrea Sorrentino, dopo aver visionato le 42 opere ammesse in concorso.

Consegna della Targa Comune a Guglielmo Poggi per il miglior documentario ‘Cent’anni di corsa’ (foto Valerio Pazzi)

Il premio (500€ e targa) è stato assegnato a ‘Come la prima volta’ di Emanuela Mascherini “per lo sguardo partecipato ed empatico, ma senza retorica, a una storia dei nostri giorni raccontata con sicurezza e delicatezza. L’amore che lega i due anziani coniugi protagonisti vince sulla malattia e ci offre una riflessione sul valore della dignità del dolore e dei sentimenti. Un’opera di una grande sensibilità e forza che non cade mai in eccesso”.

Davide Arosio e Massimo Ali Mohammad ricevono la Targa Apollo Cinepark per il miglior corto ferrarese “Un’altra via” (foto Valerio Pazzi)

A ‘Goodbye Marilyn’ di Maria di Razza è stato invece attribuito il premio per la miglior sceneggiatura (300€ e targa), mentre a ‘83rd Street’ di Tancredi Di Paola è stata assegnata la targa Adcom Bologna per la miglior fotografia.

Targa a Eugenio Squarcia per “The Drop” (foto Valerio Pazzi)

Premio per il miglior videoclip (200€ e targa) a ‘The Drop’ di Eugenio Squarcia perché “questo brevissimo videoclip dimostra come anche ‘su commissione’ (è un video per promuovere un corso di laurea magistrale) si possa realizzare, anche con l’aiuto di effetti grafici speciali, un prodotto farmaceutico e immaginifico che coniuga il passato al presente e anche al futuro. Un messaggio di coesione tra passato e futuro riuscito con fotografia, scene e costumi molto belli e ricercati”.

[clicca sulle immagini per ingrandirle (foto Valerio Pazzi)]

Federico Felloni (Fedic Ferrara) consegna uno dei premi
Federico Felloni con Margherita Pasetti
Cesare Bastelli direttore della fotografia di Pupi Avati
Premiazioni di “Ferrara Film Corto”
Premiazioni dei cortometraggi 2019

Sono stati inoltre attribuiti il premio al miglior attore/attrice  al gruppo di attrici (Francesca Fava, Lucia Batassa, Paola Rinaldi, Antonella Voce e Marta Bulgherini) del cortometraggio ‘Il sexy shop delle ragazze’ di Guglielmo Poggi e la targa Comune di Ferrara per il miglior documentario a ‘Cent’anni di corsa’ di Domenico G.S. Parrino. Altri premi assegnati: targa Fedic, per un’opera di un autore Fedic, al cortometraggio ‘Ultimo minuto’ di Giuseppe Leto (Cineclub Piemonte), attribuita da una Giuria presieduta da Federico Felloni, e targa Apollo Cinepark, per il miglior corto ferrarese, attribuito da una giuria presieduta da Eric Protti a ‘Un’altra via’ di Davide Arosio e Massimo Alì Mohammad.

Attestato a Federica Cipolla
“Ferrara Film Corto” 2019)
Giurati di “Ferrara Film Corto”
Francesca Fava con uno dei premiati
Alberto Squarcia

Foto-reportage delle premiazioni di Valerio Pazzi

I colori della conoscenza: oggi Vygotskij, domani l’educazione linguistica democratica

Da: Istituto Gramsci Ferrara

Eccolo le prossime Iniziative del ciclo I colori della conoscenza, a cura degli istituti Gramsci e Isco Ferrara

1. GIOVEDÌ 31 GENNAIO 2019 ORE 17 BIBLIOTECA ARIOSTEA

Lev S. Vygotskij: le vie dell’uomo verso la libertà e l’individualità

Conferenza di Giovanni Fioravanti

Introduce Nicola Alessandrini

Nel 1978, sulla New York Review of Books, il filosofo Stephen Toulmin consacrò Lev Vygotskij come «il Mozart della psicologia», un genio pari al grande musicista, un innovatore le cui idee avrebbero potuto produrre chissà quali risultati in psicologia se non fosse morto prematuramente, a soli 37 anni. Di Vygotskij si è detto “una voce che emerge dal futuro”. Gli dobbiamo molto e portiamo gravi responsabilità nei confronti del suo pensiero. Il titolo dell’incontro prende a prestito il giudizio che Bruner dà dell’opera dello psicologo e pedagogista russo: una descrizione delle vie dell’uomo verso la libertà e l’individualità. Nelle radici storico-culturali del pensiero di Vygotskij sta la valorizzazione, l’importanza della base culturale di ciascuno di noi, fondata sulle relazioni e sulle connessioni inter-individuali dalla famiglia, alla scuola, alla società. La trasfo rmazione dell’apprendimento, questo è il contributo riconosciuto mondialmente di Vygotskij, l’evoluzione del concetto di apprendimento e delle pratiche scolastiche sotto l’influenza della teoria storico-culturale.

SCHEDA
Lev S. Vygotskij: Le vie dell’uomo verso la libertà e l’individualità

La conferenza di Giovanni Fioravanti nella Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea di Ferrara
giovedì 31 gennaio alle ore 17,30

Diventiamo noi stessi attraverso gli altri. La cultura è il prodotto della vita sociale e dell’attività collettiva dell’uomo. Secondo la concezione storico-culturale di Lev Semënovič Vygotskij, maturazione del cervello, interazione con l’ambiente e sviluppo delle funzioni superiori della psiche sono strettamente connesse.
Questa “la voce che emerge dal futuro” che lo psicologo russo negli anni venti del secolo scorso contrapponeva alla psicologia accademica, alla riflessologia sovietica, fino alla psicologia clinica e all’epistemologia genetica del grande ginevrino Jean Piaget.
Il giovane Mozart della psicologia, morto a soli 37 anni nel 1934, ha svolto un ruolo importante nella storia pedagogica del nostro paese tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, anni di fermenti innovativi, dalla legge sulla scuola materna statale (allora ancora non si chiamava scuola dell’infanzia), alla legge sugli asili nidi, alla legge sul tempo pieno fino alla legge n.517 del 1977 sull’integrazione scolastica degli alunni portatori di handicap.
Dopo la caduta del regime sovietico e il crollo del muro di Berlino, viene meno la censura nei confronti delle opere di Vygotskij, si scoprono i suoi taccuini, opere inedite, la figlia Gita ne pubblica la biografia. Un po’ in tutto il mondo si riaccende l’interesse per lo psicologo russo.
Ciò però non accade in Italia, nonostante sia italiano il maggior studioso di Vygotskij, Luciano Mecacci che ha lavorato con Lurija, collaboratore e collega del giovane psicologo russo, nell’Istituto di Psicologia di Mosca, dove lo stesso Vygotskij condusse le sue ricerche.
Silenzio che è forse segno di come crisi della cultura e crisi dell’insegnamento nel nostro paese vadano di pari passi.
Oggi sarà restituita la parola al pensiero di Vygotskij, fondatore della scuola storico-culturale nell’ambito delle correnti psicologiche.
La nostra psiche non è prodotto solo dell’evoluzione animale, ma è divenuta sempre più complessa sotto l’influenza dei fattori storici, sociali, culturali e questo è un processo in continuo sviluppo. La molla di questo sviluppo è il linguaggio e in particolare la “parola”.
Siamo fatti di parole, di Mythos e Dramma, di narrazione e di azione.

Per il ciclo “I colori della Conoscenza – La lingua e i linguaggi” a cura dell’Istituto Gramsci e Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara

 

2. GIOVEDI’ 7 FEBBRAIO ORE 17-19 BIBLIOTECA ARIOSTEA

TULLIO DE MAURO E L’EDUCAZIONE LINGUISTICA DEMOCRATICA

Conferenza di Daniela Cappagli

Introduce Roberto Cassoli

Raffinato linguista di livello internazionale Tullio De Mauro ha portato nella cultura pedagogica italiana una svolta epocale, talmente innovativa che ancora oggi il suo pensiero, purtroppo, non trova un posto adeguato nei programmi ministeriali e nella pratica didattica. Ha scritto e pubblicato moltissimo con una ricerca sulla lingua che si è dispiegata nei numerosi sentieri di un ampio sapere interdisciplinare, toccando ambiti scientifici, storici, filosofici, sociologici, statistici economici, demografici, politici. Per molti insegnanti è stato un grande Maestro: particolarmente sensibile ai problemi dell’istruzione, alle modalità formative e di apprendimento ha sempre cercato di essere in contatto con le scuole per l’applicazione e la diffusione di quella linguistica educativa che ancora oggi è poco conosciuta. La lingua parlata e scritta, il suo valore di emancipazione sociale, di crescita intellettuale, di comunicazione consapevole sono stati al centro della sua ricerca culturale e civile. Sentiva forte l’esigenza di una linguistica democratica che facesse superare quei dislivelli di cultura che ancora permangono nella nostra società. Riteneva che ‘è la lingua che rende uguali’ ed è condizione fondante della vita della polis.

Per il ciclo “I colori della Conoscenza” a cura dell’Istituto Gramsci e Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara

IL DOVERE DI RICORDARE
Un libro per la Memoria

Ci sono giornate che hanno un carico emotivo particolare. Lo senti dall’aria. Dalle parole che escono dalla radio, dalle tv. La memoria è un esercizio di costruzione e non è assolutamente facile. Per poterlo praticare occorre avere una buona base di “tasselli”, quella dei ricordi. Per suscitare un ricordo talvolta basta un’immagine, un particolare profumo o anche, semplicemente, una parola. Ma costruire la memoria di un evento non è cosa facile per chi, l’evento, non lo ha vissuto. Uno dei pochi metodi di trasmissione efficienti, per far sì che non si disperda la memoria, è di scriverla.

“Sono Liliana Segre e credo che il modo migliore per coltivare e tenere viva la memoria sia attraverso le parole di un libro. Il monito di Primo Levi ci deve sempre accompagnare: ‘È accaduto, può accadere ancora’. Per questo, è così importante conoscere, approfondire, ricordare, trasmettere conoscenza, e per questo vi invito a partecipare a ‘Memorie’: il 27 gennaio regalate un libro ai ragazzi perché anche loro possano conoscere e ricordare”.

Questo è stato l’appello della senatrice Segre fatto per la Giornata della Memoria. Un appello che in sé racchiude due messaggi: uno rivolto al passato, perché ciò che fu, ciò che l’essere umano ha potuto concepire e fare sia “visto” attraverso gli occhi di una superstite dell’odio nazi-fascista. L’altro appello è rivolto al futuro, uno sguardo alle generazioni che non conosceranno superstiti, e potranno sapere di loro, costruire la loro memoria storica, morale, solo attraverso ciò che è scritto nei libri. E bisogna saperli scegliere, appunto, i libri. A Ferrara c’è chi si è impegnato a sceglierne qualcuno, a consigliarne, perché questo giorno possa radicarsi all’interno di ognuno di noi, attraverso l’iniziativa promossa dalla Lega Coop.

Eraldo Affinati, scrittore ed insegnante, a proposito dice: “I dieci libri (in realtà 11) che qui di seguito segnalo sono un sentiero luminoso dentro la galleria di orrori del ventesimo secolo. Credo possano rappresentare l’educazione sentimentale per un giovane in cerca di una bussola interiore. Si tratta di capolavori che andrebbero proposti ai ragazzi con una mediazione mirata da parte dei docenti: se ciò accadesse, avremmo creato i presupposti per un lavoro umano da fare insieme anche nel tentativo di contrapporci al vuoto interiore da cui possono nascere i nuovi totalitarismi”.

Ermanno Cavazzoni, scrittore e sceneggiatore, anch’egli tra gli scrittori che hanno selezionato dei titoli per l’iniziativa aggiunge: “La scelta dei libri riguardanti nazismo e comunismo è perché credo siano due facce dello stesso fenomeno e bisognerebbe abituarsi a considerarle assieme. E sono stati fenomeni così spaventosi che quando leggo queste cronache, alla fine sono nello stato mentale di uno che ha preso delle bastonate. Questo serve per calmare l’orgoglio e il senso di onnipotenza che la nostra società umana attuale fomenta”.

Quindi oggi, per costruire la vostra memoria, comprate un libro, o magari più di uno. Regalatelo. Sia la costruzione della memoria l’unico vero antidoto affinché ciò che in passato è successo, non accada più. Ma per essere così bisogna entrare in contatto con i protagonisti, conoscerli, vivere la loro vita, e solo i libri, a tal proposito possono.

“Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro.” Umberto Eco.

Muri e sbarramenti: monumenti alla paura

Trent’anni fa, il 9 novembre 1989, cadeva il muro di Berlino, costruito il 3 agosto 1961. Con quel muro si sgretolava, idealmente e materialmente, il confine che segnava la cortina di ferro tra est Europa e ovest, tra le zone di influenza americana e quella sovietica, finiva anche la grande illusione del comunismo. Quella di un nuovo ordine liberale sta finendo adesso. Quando quel muro veniva abbattuto, nel mondo ce n’erano altri sedici. Oggi i muri e le barriere sono settanta.
Da sempre nella storia le opere murarie delle civiltà umane costituiscono un potente codice dai contenuti politici e programmatici e diventano chiaro simbolo di progresso, accoglienza e positività oppure chiusura e respingimento. Fino al 1989 l’Occidente voleva abbattere le barriere e oggi, 2019, vuole innalzarle per allontanare chi vuole entrare. Muri che fanno capire come sia cambiata la storia dei popoli in soli tre decenni. Tra Stati Uniti e Messico, una recinzione di più di mille chilometri, munita di sensori elettronici e visori notturni, è diventata la struttura di contenimento per quei messicani che aspirano al varco del confine e non è ancora finita. A loro volta i messicani ne hanno creata una per non permettere ai guatemaltechi di entrare nel loro Paese. E quell’Ungheria che durante la Guerra Fredda aveva aperto un varco nella frontiera con l’Austria, neutralizzando il filo spinato elettrificato e permettendo a molti transfughi dell’Est di raggiungere l’Ovest, ora costruisce una barriera di 175 km, tre metri e mezzo di altezza , sul confine con la Serbia per arrestare gli immigrati. Muri, barriere, sbarramenti, blocchi, ghetti sono testimonianze fisiche di una volontà precisa: fermare, escludere, negare. E dove c’è il mare e non si possono costruire i muri, si chiudono le frontiere o i porti.

Si dice che “Chi ha paura costruisce muri, chi ha fiducia costruisce ponti, chi ha speranza costruisce strade” e niente di più vero e corrispondente è accaduto nella storia. Sulle strade dell’Impero romano hanno viaggiato culture e civiltà, popoli e idee, merci e soldati, pellegrini e viandanti di ogni dove. Una rete di vie lastricate che si dipanava per 100.000 km e univa tra loro territori che corrispondono a trentadue nazioni dei nostri giorni, sistema viario che ha posto le basi per l’Europa di oggi. Tra i grandi esempi di muri eretti a difesa, spiccano sempre la Grande muraglia cinese e il Vallo di Adriano. La prima, oggi patrimonio Unesco, venne costruita nel lunghissimo periodo tra il 215 a.C. e il secolo XIV; conta su una lunghezza stimata 21.196 km e la sua edificazione iniziò sotto la dinastia Quin, dopo la conquista di tutti gli Stati avversari da parte di Quin Shi Huang. Un’opera mastodontica che alla fine si rivelò inutile perché Pechino, capitale da difendere, cadde non già per mano dei tartari, ma per insurrezioni interne. Il Vallo di Adriano è il secondo significativo esempio di muro fortificato nella storia: un’imponente fortificazione in pietra che correva per 117 km sul confine tra la provincia romana della Britannia e la Caledonia, nell’Inghilterra del nord, corrispondente grossomodo all’attuale Scozia. Venne eretto dall’imperatore Adriano nella metà del II secolo e percorreva il nord dell’isola da costa a costa, baluardo contro i Pitti. Diventò nel tempo un confine doganale e linea di controllo, perdendo il suo valore militare e strategico. Vecchi muri della storia che hanno assistito agli avvicendamenti e resistono nel tempo, simbolo di imponenti icone di controllo dei territori, strategia deterrente e minaccia. Caratteristiche che riguardano sempre e ancora gli attuali sbarramenti di ora, ipertecnologici o spartani che possano essere a seconda delle zone.

Nell’Europa dell’area Schengen si contano tredici sbarramenti o muri, tra cui quello tra Grecia e Turchia, tra Belfast cattolica e Belfast protestante in Irlanda, tra l’enclave spagnola di Ceuta e il resto del Marocco, tra la popolazione greca e quella turca a Nicosia, capitale di Cipro, tra Ungheria e Croazia, Bulgaria e Turchia e addirittura attorno al porto di Calais in Francia. Perfino i Norvegesi non hanno resistito alla loro modestissima barriera di 200 m al confine con la Russia presso Storskog, costruita nel 2016. Anche tra Austria e Slovenia corrono dal 2015, 3 km di filo spinato, in Stiria, nella zona di Spielfeld – piccola frazione di 968 abitanti – nome che, ironia della sorte, significa ‘campo da gioco’. Tra i muri nel resto del mondo si contano quello tra le due Coree, tra Cisgiordania e Israele, tra India e Pakistan, Arabia e Yemen, Kuwait e Iraq, Botswana e Zimbabwe, e molti altri. Un mondo recintato da costruzioni di paura, creature di regimi dittatoriali ma anche democratici che si blindano per arginare i flussi migratori e proteggere i territori, generando spesso ulteriore xenofobia. Globalizzazione e guerre hanno messo in movimento milioni di esseri umani, cambiando i termini e le convenzioni della convivenza dei popoli. La risposta sempre più frequente è ‘il muro’, la chiusura in se stessi e l’autodifesa estrema senza appelli: la negazione del cosmopolitismo e il rischio di mettere in crisi permanente i valori dello scambio umano di culture ed esperienze, della solidarietà e della comprensione.

Grandi numeri per il SONDAGGIO sull’Italia che vogliono i ferraresi
a febbraio una finestra sui vostri commenti e il consuntivo finale

A volte i numeri sono importanti: abbiamo ricevuto più di 5.500 visite, quasi 600 condivisioni  e  alcune centinaia di vostri commenti. il tema appassiona (scorrendo alcuni commenti, a volte perfino troppo). A primavera ci sono le elezioni europee insieme a quelle amministrative e l’impressione è che non saremo chiamati a votare solo dei nomi, dei simboli, dei programmi, ma a scegliere una o l’altra idea di Italia, di società, di democrazia. 

Ancora un po’ di pazienza: a febbraio cercheremo di tirare le somme, ospitando su questo giornale anche alcuni vostri commenti, pensieri, riflessioni.

Se qualcuno si è scordato di leggere il sondaggio, ha ancora qualche giorno per farlo e per inviare la sua opinione: 

Da parecchi mesi, ma soprattutto dopo gli ultimi eventi e l’infuocata polemica su #portiaperti o #portichiusi, su come gestire immigrazione, accoglienza, integrazione, sono emerse con forza due posizioni differenti, due approcci antitetici, due soluzioni divergenti, due ricette inconciliabili.
Molti sono intervenuti sul tema, ma senza alcun dubbio, anche se non sono due competitor, i principali testimoni di questo “diverso sentire” sono stati da una parte il Ministro dell’Interno Matteo Salvini e dall’altra il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

  • Matteo Salvini è il campione della fermezza, della chiusura come unico argine alla difesa identitaria, della diffidenza verso le ‘cooperative affariste e verso le Ong complici degli scafisti’.
  • Sergio Mattarella, anche nel messaggio di fine anno, invita invece al dialogo, all’equilibrio dei poteri, alla accoglienza, alla inclusione, alla cittadinanza aperta, mentre promuove il ruolo fondamentale del volontariato.

Non siamo – o non siamo ancora – allo scontro istituzionale, ma le due posizioni, le due idee di Italia non potrebbero essere più distanti. E anche su questo si orienterà il nostro voto la prossima primavera.

Mattarella e Salvini (mettiamo per ora Papa Francesco fuori classifica) sono oggi anche i due uomini politici italiani di gran lunga più esposti e popolari. Ovunque essi appaiono trovano folle acclamanti, grandi incitamenti, infiniti battimani. Entrambi, ovviamente, sostengono che le loro idee, la loro visione, ci consegnerà un Paese migliore.

Ma da che parte sta l’Italia? O, per essere un po’ più modesti, da che parte sta Ferrara?
Non fidandoci degli analisti di professione (non tutti in buona fede), ci è parso giusto proporre noi un sondaggio rivolto prioritariamente alle cittadine e ai cittadini ferraresi. Intendiamoci, non è un test scientifico, ma un modo per misurare la temperatura emotiva e ideale della nostra città.

La domanda a cui rispondere è straordinariamente semplice. E cioè:
A ) mi convince di più l’Italia proposta da Salvini
B ) mi convince di più l’Italia proposta da Mattarella

La domanda può sembrare troppo ‘grezza’, poco intelligente, addirittura provocatoria. Ma i sondaggi sono spesso crudeli: eliminando le sfumature portano a galla un bel pezzo di verità. E aiutano a fare un po’ di chiarezza. Noi almeno ce lo auguriamo.

Avvertenza: per accettare di rispondere a un sondaggio del genere, occorre un po’ di coraggio. Occorre esporsi, esprimere una scelta in prima persona. E non cavarsela con la solita alzatina di spalle.

Scriveteci e raccontateci l’Italia che vorreste.

La domanda la rivolgiamo a tutti i ferraresi, ma in primo luogo agli uomini e alle donne che a Ferrara hanno fatto e fanno politica, ai candidati (in campo o in pectore) che tra poche settimane saranno impegnati nella campagna elettorale, alle persone che in città occupano posizioni importanti nel mondo dell’imprenditoria, delle professioni, delle tante organizzazioni.

Grazie a tutti i partecipanti! 

in copertina illustrazione di Carlo Tassi

Palazzo dei Diamanti, il confronto continua. L’opinione di Michele Pastore

Dopo l’intervento dell’architetto Malacarne, di Italia Nostra Ferrara, Ferraraitalia è lieta di ospitare quello dell’architetto Michele Pastore, presidente di Ferrariae Decus-Associazione per la tutela del patrimonio storico e artistico di Ferrara e la sua provincia, che ha risposto al nostro invito a un dibattito serio, documentato e approfondito a proposito della vicenda di Palazzo Diamanti.

di Michele Pastore

Ferraraitalia invita ad affrontare la ‘Vicenda Diamanti’ in modo serio. Purtroppo è tardi!
La decisione assunta a Roma in maniera centralistica, sorpassando la Soprintendenza locale, che pure aveva contribuito alla definizione del concorso, rende la ripresa del dibattito sterile, soprattutto nei termini in cui si è svolto, di contrapposizione aprioristica più finalizzata ad uno scontro politico che ad un dibattito culturale.

Forse è più opportuno pensare al futuro e qui si presentano due temi.
Il primo, in merito alla decisione romana, ripropone una centralità dello Stato, che con la sua “direttiva” corre il rischio di annullare sempre più il decentramento istituzionale come base delle decisioni e delle responsabilità. A me sembra molto grave che una “direttiva” verticistica, originata da un caso specifico, sia estendibile da una città a tutto il territorio nazionale. Una posizione rigida sul tema della conservazione del patrimonio culturale urbano era indispensabile negli anni Settanta. Infatti quella rigidità, con le relative posizioni vincolistiche, ha fatto sì che i nostri centri storici, compresa Ferrara, fossero salvati dall’attacco indiscriminato delle espansioni. Sono, infatti, di quegli anni i piani conservativi per i centri storici: anche Ferrara nel 1975 si dotò di un piano del Centro Storico che ha contribuito non solo a proteggerla e a conservarne il pregio, ma anche a farla diventare patrimonio riconosciuto Unesco. Oggi il principio e la consapevolezza di conservare il patrimonio storico, proprio a seguito di quei piani e di quelle azioni, non è più in discussione: è un valore collettivo condiviso. Di conseguenza, voler insistere solo sui concetti vincolistici diventa oscurantismo. Oggi è necessario affrontare una discussione nuova: la compatibilità e la convivenza tra antico e moderno.

A questo punto affrontiamo il secondo tema di una possibile nuova discussione in parte pregiudicata dalla “direttiva” ministeriale: la qualità dell’architettura moderna e come i nuovi interventi si possano porre nei confronti delle preesistenze. Sono in disaccordo con chi sostiene che nel caso dei Diamanti non è in discussione la qualità del progetto, ma l’opportunità di progettare in quell’area. Io la definisco “area” perché il retro dei Diamanti non è un parco, ma un luogo anonimo e abbandonato, al massimo utilizzato per qualche anno come cinema estivo all’aperto. Da queste considerazioni si può comprendere quale fosse la mia opinione e l’opinione del Consiglio di Ferrariae Decus sulla possibilità di intervenire in quell’area con un elemento funzionale che non intacca il Palazzo dei Diamanti e si pone in maniera trasparente tra il palazzo e la riorganizzazione dello spazio libero formando, ora sì, un parco.
Conosco Palazzo dei Diamanti e ho avuto occasione di capire il nuovo progetto e lo ritengo funzionale e corretto, espressione di un’architettura moderna che dialoga con l’antico senza prevaricarlo e quindi senza provocare alcun pericolo per la sua integrità e conservazione.

Questi sono i due temi che discendono dalla decisione romana, senza considerare gli anni persi, le risorse economiche e professionali impiegate, il rischio di perdere finanziamenti e, inoltre, il pericolo che questa decisione possa pregiudicare qualsiasi futuro intervento delle istituzioni locali non solo a Ferrara.
Ma poiché il problema della rifunzionalizzazione si era posto fin dalla fine dell’Ottocento e riproposto dopo la guerra con intervento mai realizzato, quello sì condizionante e invasivo, che si fa ora?
Qualcuno propone di spostare le grandi mostre in altra sede, ma ormai Palazzo dei Diamanti è un brand nazionale e internazionale, che identifica il luogo con le grandi mostre che vi si realizzano. Fin dal Progetto Mura si propose la formazione del ‘polo museale’ del quadrivio rossettiano. Se per Palazzo Prosperi, diventato di proprietà comunale, si sta avvicinando il momento del recupero, con un finanziamento già acquisito, per la Caserma Bevilacqua-Palazzo Pallavicino, sede dei servizi della polizia di Stato, fin dai tempi della Giunta Sateriale si è verificata l’impossibilità di entrarne in possesso per indisponibilità dello Stato che ne è proprietario.
Realisticamente resta soltanto quindi la possibilità di utilizzare Palazzo Prosperi. Ma a quali usi può essere adibito? Non certo per il trasferimento delle grandi mostre, poiché dispone solo di un grande salone al primo piano e di alcune sale la cui superficie complessiva è certamente inferiore a quella attuale dei Diamanti, e comunque continuerebbero a mancare, a Ferrara Arte, le funzioni nuove di supporto e di servizio che erano previste nell’ampliamento bocciato. Sono quindi stupito che vi sia chi fa questa proposta.

Già nel gennaio del 2017 un documento a firma di Andrea Malacarne per Italia Nostra, Michele Pastore per Ferrariae Decus, Ranieri Varese per Deputazione Ferrarese di Storia Patria, Gianni Venturi per Amici dei Musei proponeva di destinare Palazzo Prosperi a servizi per la Pinacoteca Nazionale.
A me pare che questa proposta posse essere in parte ancora valida. La Pinacoteca Nazionale, parte sempre più importante delle Gallerie Estensi, proprio in questi giorni si è potenziata con l’apertura al pubblico di nuove sale ristrutturate e riallestite con spazi dedicati allo studiolo di Belfiore, con l’esposizione delle Muse, e alla Bibbia di Borso d’Este.

Ferrara Arte, potendo procedere solo con i lavori del restauro di Palazzo dei Diamanti, pur potendo riorganizzare i propri spazi a disposizione, continuerà ad avere bisogno di quegli ambienti che erano previsti nel progetto bocciato.
Forse proprio alla luce di quanto detto si potrebbe pensare che Palazzo Prosperi Sacrati possa diventare centro ‘integrato’ di servizi comuni da dedicare a Ferrara Arte ed alla Pinacoteca Nazionale. Penso a un luogo per la didattica, per una biblioteca specializzata, per archivi, per sale riunioni, per depositi e piccole mostre. Un luogo cioè di supporto: di ricerca e di studio, a completamento ed a supporto delle due più importanti attività museali ferraresi.

Forse dopo quanto è successo solo questo si può fare.

Samba pour la France

SAMBA, Omar Sy, 2014. ph: David Koskas/©Broad Green Pictures

Un altro appuntamento con Omar Sy, dopo ‘Quasi Amici’ e ‘Famiglia all’improvviso. Istruzioni non incluse’. Ancora un incontro fra due mondi, per ‘Samba’, di Olivier Nakache e Éric Toledano (gli stessi registi di ‘Quasi amici’): quello dei sans papier del maliano Samba (Omar Sy) e della francese Alice (Charlotte Gainsbourg), una dirigente d’azienda che dopo un crollo psico-fisico da stress decide di cambiare vita.

La commedia a sfondo sociale, che ricorda molti temi di Ken Loach, fa dialogare due mondi estremamente diversi. Samba Cissé vive di espedienti e lavoretti temporanei, nel mondo del lavoro sommerso francese che cerca lavoratori a basso presso senza documenti regolari, una vita sospesa e in bilico in attesa della tanto agognata carta di soggiorno che mai arriva. Eppure il protagonista vive lì da dieci anni. Alice, che, dopo la depressione da ‘burn-out’ (o esaurimento da lavoro), cerca di ricostruire il suo equilibrio e la propria vita attraverso il volontariato in un’associazione che aiuta gli immigrati a sopravvivere fra i cavilli burocratici e non solo.  Tratto dal romanzo ‘Samba pour la France’ di Delphine Coulin, non è una storia vera ma vi sono tutti gli elementi per esserlo. Niente di più attuale, infatti.

Una commedia sociale dolce e amara, una ‘dramedy’: chi cerca i documenti regolari e un’identità e chi cerca di ricostruirsi, in fuga da se stesso; entrambi avvolti da un inferno personale che sfianca. Finché le due realtà si incontrano, in una storia, quasi una favola moderna, che fra tante emozioni, simpatia e risate, può aprire un varco verso la serenità.

Samba, di Olivier Nakache e Éric Toledano, con Omar Sy, Charlotte Gainsbourg, Tahar Rahim, Youngar Fall, Francia, 2014, 118 mn.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Ferrara città che apprende

Allora diciamocelo. Abbiamo bisogno di una città laboratorio. Non si cava un ragno dal buco se ci ostiniamo ad abitare la nostra pigrizia mentale, se continuiamo a pensare quello che è già stato pensato.
Dopo i cantieri del post sisma, bisogna dare il via al cantiere delle idee.
E chi pensa che non ce ne sia bisogno significa che conta di affossare per i prossimi anni la città nelle nebbie padane.
La città possiede da sempre l’anima del futuro e attende all’appuntamento con la storia i suoi artefici.
Qualche idea e qualche suggerimento l’abbiamo fornito in questi anni anche noi dalle pagine di questa rubrica, come ad esempio “la città che apprende”.
Perché tutti i sistemi complessi hanno bisogno di apprendere. Figuriamoci quelli dell’abitare e della cittadinanza.
Un’idea che era anche piaciuta a qualcuno dell’attuale amministrazione comunale, ma poi, come succede con le idee nuove, è mancato il coraggio di portarla vanti.
Di idee nuove poi non si tratta, perché nel mondo le città che apprendono si moltiplicano sotto le insegne dell’Unesco e perché anche in Italia altri hanno pensato che l’idea di una città che apprende, l’idea della città educante merita di essere realizzata.
A Torino, dal 29 novembre al 2 dicembre scorsi, hanno festeggiato il terzo Festival dell’Educazione, per coinvolgere scuole e famiglie della città, per parlare di buone pratiche educative. Il tema: Per un Pensiero Creativo, Critico e Civico.
Occuparsi di scuola e di educazione per una città significa avere attenzione per i propri giovani, farsi carico del loro futuro e del futuro della città stessa. Ma pare che noi a Ferrara non abbiamo tempo o non riteniamo tutto questo prioritario.
Ad alcune decine di chilometri da noi, Padova si propone come città che “si innova, che educa che impara”. Per dire come sia strategico l’investimento sui saperi e sul capitale umano, che è risorsa e ricchezza di una città. Il capitale umano di tutte le età.
Dai nidi alle scuole, ai centri culturali, ai centri per la formazione degli adulti. Per garantire il diritto allo studio e progetti di qualità, la partecipazione della città al progetto formativo dei suoi giovani e di chi giovane non è più.
Noi abbiamo da tempo prodotto il manifesto “Ferrara Città della Conoscenza”, è ancora lì che fa bella mostra di sé sulle pagine di questo giornale. In diversi l’hanno letto e sottoscritto. È a disposizione dei candidati che nella corsa per le prossime amministrative lo vogliano far proprio.
Ci sono scritte alcune cose importanti, che tutta la vita è apprendimento, che l’apprendimento è condivisione, è cura, è evento quotidiano gestito dalle persone.
C’è scritto che crediamo che la nostra città, per la sua tradizione e cultura, perché patrimonio dell’umanità, debba far parte della rete mondiale delle città che apprendono, essere una learning city che produce e scambia conoscenze, un luogo dove l’apprendimento è al servizio di tutta la comunità.
Ci piacerebbe abitare una città amica dell’apprendimento, una città riconoscente che celebra e festeggia quanti sono impegnati nello studio, nei saperi, nella ricerca. Una città che fa incontrare e dialogare la scuola, l’università, le istituzioni culturali, i piccoli e i grandi, gli studenti e gli adulti in una esperienza di condivisione e di interesse comune.
Parlare di cultura conduce a prospettare eventi che fanno girare l’economia della città, parlare di apprendimento e di conoscenza è più difficile. Se già per qualcuno con la cultura non si mangia figuriamoci a parlare di città che apprendono.
Eppure la conoscenza è una ricchezza che si può trasmettere senza impoverirsi ed è proprio la conoscenza, la mobilitazione dei saperi, l’investimento sull’apprendimento nelle nostre scuole, sul capitale umano che oggi può fare la differenza, perché senza la loro qualificazione, diffusione e condivisione è difficile pensare alla partecipazione alla vita della città, all’innovazione e al lavoro tanto necessari.
Tutti gli indicatori a livello mondiale oggi ci dicano che strategici sono il “knowledge management”, la gestione della conoscenza e le “knowledge cities”, le città della conoscenza.
Misurarsi con questi temi richiede cultura. Richiede la capacità di investire in saperi e formazione sempre più per tutti, trovare strategie, strumenti e iniziative per fare dell’apprendimento una condizione naturale e diffusa dell’abitare la città.
Dovremmo guardare anche ai numeri. Quanti sono i giovani della città che usciti dalle superiori si iscrivono all’università, quanto è la dispersione scolastica, quanti i laureati ferraresi. È sufficiente consultare l’Annuario Statistico Ferrarese.
Ci sono poi i muri da abbattere, prima di tutto quelli che separano le scuole e i luoghi di studio dalla città, fare della città un libro capace di offrire le sue pagine all’apprendimento, abbattere il muro psicologico per il quale esiste una età per lo studio e una per il lavoro, abbattere il muro che frantuma il sapere in apprendimenti formali, informali e non formali.
Un governo intelligente della città può fare di Ferrara una città che apprende.

Perché è inutile e sbagliato ampliare Palazzo dei Diamanti.

Sull’intervento da realizzare a Palazzo dei Diamanti – una delle glorie cittadine e uno dei più bei palazzi del Rinascimento italiano – si è aperta a Ferrara una vera e propria guerra. Due mozioni e due fronti un contro l’altro armati. Tra i tantissimi firmatari, insieme ad architetti, urbanisti, storici dell’arte e addetti ai lavori, leggiamo i nomi (almeno questa è la nostra impressione) di chi i Diamanti li conosce solo in cartolina e i particolari del progetto non li ha nemmeno esaminati. Tant’è, sulla stampa locale e nazionale i toni della polemica si sono fatti sempre più accesi, mentre giudizi e opinioni hanno assunto sempre più connotati ideologici, o peggio, aprioristiche manifestazioni di appoggio alle posizioni di amici e colleghi.

Insomma, nella foga polemica, si è forse persa per strada la capacità di affrontare la ‘vicenda Diamanti’ in modo serio, documentato e approfondito. Ci piacerebbe che su questo giornale, abbandonando il tifo da stadio, intervenissero i protagonisti: quelli pro e quelli contro il progetto. Magari allargando l’orizzonte a cosa significhi oggi battersi per la tutela e la conservazione del nostro patrimonio architettonico cittadino senza impedirne un utilizzo intelligente, moderno e rispettoso.

Ci è pervenuto l’intervento dell’architetto Andrea Malacarne, esponente di primo piano di Italia Nostra, che ospitiamo volentieri. Aspettiamo nei prossimi giorni le altre opinioni, dei favorevoli e dei contrari.

La redazione di Ferraraitalia

di Andrea Malacarne

Il Comune di Ferrara, cui è stata affidata la cura di uno degli edifici più conosciuti ed importanti del Rinascimento italiano, crede di avere il diritto di modificarne in modo permanente l’aspetto per dare risposta ad esigenze di maggiori spazi di una della proprie istituzioni. Se questo sia lecito o no, necessario o no è il vero nodo della vicenda di Palazzo dei Diamanti e non se il progetto vincitore del concorso sia bello o brutto. L’architettura contemporanea ha, come in ogni epoca, un ruolo fondamentale per la vita delle persone e delle comunità. La buona architettura ha, io credo, il compito e il dovere di portare o riportare qualità dove essa non esiste, soprattutto in quelle parti di città dove l’edilizia e la cattiva architettura hanno prodotto danni per molti decenni dello scorso secolo, in particolare in Italia . Diversamente però da tutte le epoche precedenti, poiché diversa in esse era la coscienza della storia e la percezione dell’importanza delle testimonianze storiche, dovrebbe oggi essere acquisito ed evidente che non può essere buona architettura quella che si realizza a scapito della qualità preesistente o che tende a sovrapporsi ad essa. Non è quindi oscurantismo quello di chi si oppone all’ampliamento, ma seria valutazione di non opportunità di un intervento di architettura contemporanea che creerebbe problemi molto maggiori di quelli che risolve.
Come giustamente denunciato da Italia Nostra fin dall’uscita del bando del concorso di progettazione il problema vero è un altro. Il Comune di Ferrara decide dogmaticamente di voler mantenere nello stesso edificio due funzioni incompatibili con gli spazi disponibili: la Pinacoteca Nazionale e le grandi mostre organizzate da Ferrara Arte. Ritiene giusto, essendone il proprietario, nella convinzione di soddisfare le esigenze di almeno una delle due funzioni (ovviamente quella delle mostre) metter mano al “contenitore” ampliandolo di oltre 500 metri quadrati. L’occasione è offerta dalla possibilità di ottenere i fondi attraverso il progetto del Ministero dei Beni Culturali denominato “Ducato Estense”. E’ un problema se il contenitore è uno degli edifici simbolo del Rinascimento Italiano? Assolutamente no: basta filtrare il tutto, in sorprendente accordo con la locale soprintendenza, attraverso un concorso internazionale di progettazione. Ma un concorso che si basa su presupposti sbagliati non può che produrre risultati sbagliati. Il progetto infatti (e la conseguente realizzazione che io spero mai avvenga) non risolve affatto i problemi delle due funzioni.
La Pinacoteca non ha oggi spazi per ampliarsi e non li avrà nemmeno dopo. Eventuali auspicabili acquisizioni o donazioni sono destinate, a Ferrara, a rimanere nei depositi o ad essere esposte in sostituzione di altre opere. Già questa prospettiva dovrebbe essere inaccettabile per i chi si occupa seriamente di cultura.
Le grandi mostre, nonostante l’assurdo ampliamento del palazzo, continueranno a svolgersi, come avviene da decenni, in ambienti inadatti ad ospitare funzioni espositive destinate a grande affluenza di pubblico. La scelta operata negli anni Sessanta dello scorso secolo di utilizzare parte del piano terra di palazzo dei Diamanti per importanti eventi espositivi si è dimostrata ben presto non adeguata, costringendo ad aggiungere altri ambienti nell’ala opposta del palazzo, uniti poi da un percorso coperto posticcio e decisamente brutto. Nel frattempo molte altre città decidevano, con lungimiranza, di sistemare interi immobili (in genere palazzi o conventi) per dotarsi di strutture adeguate, complete ed efficienti da adibire ad esposizioni temporanee. A Ferrara sembra radicata nelle istituzioni la convinzione assurda che l’afflusso o meno di pubblico agli eventi espositivi sia legato al luogo e non alla qualità delle mostre. L’esperienza di palazzo dei Diamanti dimostra invece esattamente il contrario: se una mostra è bella, perché studiata e preparata con adeguato rigore scientifico, ha successo anche se allestita in locali non adatti come quelli attualmente utilizzati, caratterizzati dalla presenza di ambienti piccoli, che rendono problematica la visita delle mostre con grande affluenza di pubblico, che resterebbero ovviamente tali anche nel futuro progettato allestimento.
Ferrara, proprio per la riconosciuta qualità dei propri eventi espositivi, da tempo necessita di una struttura adeguata e non di invenzioni di ripiego, per di più normativamente impraticabili, come quella proposta. Io credo, guardando al futuro, che sia preferibile che a palazzo dei Diamanti rimanga solo la Pinacoteca Nazionale, quindi con possibilità di espandere gli spazi necessari a svolgere in modo adeguato le complesse attività di una moderna struttura museale (esposizione, studio, deposito, restauro, divulgazione, amministrazione, ristoro).
Lo stesso quadrivio dei Diamanti offre poi le possibili soluzioni per una nuova sede per le mostre temporanee, in sintonia con la politica di recupero ad uso pubblico di importanti edifici monumentali attuata ormai da decenni dagli amministratori di Ferrara, politica che ha avuto forse il punto più alto e significativo nel “Progetto finalizzato al restauro, recupero e valorizzazione delle mura e del sistema culturale – museale della città”, progetto che già nel 1987 prefigurava soluzioni coerenti e lungimiranti per i palazzi del quadrivio.
La soluzione più semplice appare il recupero di Palazzo Prosperi Sacrati, di proprietà comunale, attualmente privo di funzione, del quale stanno per iniziare consistenti opere di restauro con fondi post-sisma. Logica, e maggior coerenza col tema Ducato Estense, vorrebbero che la parte di fondi destinata al solo ampliamento di palazzo dei Diamanti (almeno due milioni e mezzo di euro) potessero essere dirottati per il completamento del restauro dell’edificio rinascimentale.
Nel caso in cui venisse dimostrato, come si è sentito affermare in questo periodo in modo generico e non motivato, che l’edificio non fosse adatto ad ospitare mostre temporanee, la soluzione andrebbe ricercata, come già proposto nel ‘progetto mura’, nel restauro di palazzo Bevilacqua Pallavicino, anch’esso a pochi passi da palazzo dei Diamanti, dotato di grandi spazi, di proprietà demaniale, impropriamente oggi occupato da una caserma della polizia di cui viene periodicamente dichiarata la necessità di trasferimento in sede più idonea. Il destino del palazzo, per la propria collocazione, non può che essere quello, prima o poi, di diventare parte integrante del sistema museale della città.
Altro argomento chiave che induce ad opporsi alla costruzione di un edificio nel giardino di palazzo dei Diamanti è il timore che l’eventuale approvazione dell’intervento proposto in un edificio di questa importanza possa costituire un precedente tale da produrre conseguenze devastanti agli spazi di pertinenza degli edifici monumentali in tante altre parti del Paese: perché a Ferrara sì e altrove no? Gravissimi i danni potenziali anche per la città. Come può il comune continuare ad imporre, con ragione, ai privati il rispetto assoluto dei giardini degli edifici storici se costruisce un edificio di 500 metri quadri nel giardino del più bello ed importante di questi edifici? Se il centro storico di Ferrara è stato dichiarato dall’Unesco “patrimonio dell’umanità” non è per caso, ma perché sono state da decenni definite delle regole. Non può essere l’ente pubblico a calpestare le regole che impone, seppure per presunti (ma in questo caso inesistenti) motivi di pubblica utilità, perché troppi sono gli interessi e le pressioni che non aspettano altro che le regole spariscano per riprendere indisturbati a devastare le parti più belle delle nostre città.
Uno degli argomenti addotti a favore dell’intervento, che denota chiaramente coda di paglia, è la reversibilità. Ma siamo seri: davvero qualcuno può credere che un intervento che costa sulla carta due milioni e mezzo di euro possa essere reversibile? Chi lo sostiene dimostra quanto meno assoluto disprezzo per il valore del denaro pubblico, caratteristica che, onestamente, non mi pare sia stata propria di chi ha governato la città nell’ultimo decennio.
Qualcuno ha affermato, nel corso del dibattito in atto, che la mancata realizzazione del progetto costituirebbe un incredibile smacco “soprattutto culturale”. Io credo che la cultura, quella vera, non quella di chi non sa vedere al di là delle esigenze del proprio orticello, debba avere visioni ampie e complessive, capaci di pensare al futuro, ma sulla base della conoscenza e del rispetto del passato.

Ferrara, gennaio 2019

LA PROVOCAZIONE
“Fine pena mai” o pena di morte? L’ipocrisia del caso Battisti

La cattura di Cesare Battisti pone molti interrogativi all’interno della società italiana. Tralasciando le imputazioni per le quali è stato giudicato colpevole, una domanda si pone: qual è la finalità del carcere? La risposta degli esperti è chiara: la finalità della pena, in Italia, ha valore rieducativo. Il riferimento principe rimane l’Art. 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.  In pratica, andare in galera avrebbe lo stesso valore di entrare in un luogo dove ti ripuliscono, ti rendono presentabile per poi poter rientrare nella società e non essere più un pericolo ma, magari, una possibile risorsa. A partire dal caso Cesare Battisti, riemerge però una realtà molto particolare del nostro sistema giudiziario, quella della legge 356 del 1992 (con l’aggravante dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penale), meglio conosciuto come “ergastolo ostativo”. Questo tipo di pena prevede che sia scritta, sul fascicolo del detenuto, una particolare formula. Alla voce “fine pena” la risposta è chiara quanto lapidaria: mai.

L’ergastolo ostativo, però, non ha solo una durata perpetua per il detenuto, ma non concede alcuno sconto, alcun beneficio. È una norma nata come esigenza straordinaria di contrasto alle organizzazioni malavitose dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, e che, nel tempo, ha trovato ampliamento nel suo utilizzo.
Cesare Battisti dovrà scontare questo tipo di pena, con i primi sei mesi in isolamento.

Non sta a me dire se sia giusto o sbagliato, ma una domanda sorge: il fine di una pena è o non è la rieducazione? E qual è la rieducazione possibile per chi non avrà più nessuna forma di libertà? La risposta non è semplice anche perché impone un altro elemento nella riflessione: l’ostativo lo si ‘prende’ per l’estrema gravità degli atti compiuti e per non aver collaborato con la giustizia. In pratica, quando si parla di questa pena, si sta discutendo di persone che hanno compiuto omicidi, rapimenti, atti terroristici, e dei quali, al momento della condanna, non si sono pentiti. Nella maggior parte dei casi, sono un migliaio gli ergastolani in Italia, si tratta di ex boss e affiliati alle varie organizzazioni criminali italiane. La Corte europea dei diritti dell’uomo, nel 2013, ha stabilito che tale pena violi i diritti dell’uomo, e molti Stati europei concedono, con un media di 25 anni, una revisione del processo e un possibile alleggerimento della pena.

Questo, dunque, il quadro generale. Andando sui quesiti morali che fa sorgere ciò, il primo, già citato, ci pone davanti ad un mondo non semplice, che è quello di persone con le quali un normale processo rieducativo potrebbe non funzionare e quindi si può chiedere: che fare con una persona la quale non si pente dei propri reati? Cosa fare con chi non collabora in nessun modo? Ma, soprattutto, cosa fare, invece, con chi, condannato alla pena perpetua, dimostri di essere cambiato? Gestire queste domande in maniera “empatica” darebbe come risultato l’assoluta solidarietà con le vittime, e la classica massima “buttate via le chiavi” sarebbe sicuramente la vincitrice su tutte le possibili scelte. Analizzando in maniera più razionale, invece, è evidente come una pena perpetua sia un danno su svariati livelli: una persona, dipendente in tutto e per tutto dallo Stato, la quale non porta benefici alla società, e che, come dice Adriano Sofri, ha un’unica certezza: dove morirà. A questo punto, neanche tanto provocatoriamente, mi verrebbe da chiedere: a cosa serve?

L’apparato mediatico, torno all’esempio di Battisti, inscenato per la sua cattura ha un’evidente valenza meramente propagandistica: ministri in pompa magna, decine di agenti e dichiarazioni al vetriolo. Anche le parole di Salvini sono sintomatiche: “marcirà in galera”. Ma a che pro? Siamo una società talmente ipocrita e finto-moralista da non giungere, o non voler giungere, al nocciolo della questione? Perché, infatti, dovrei tenere in vita un essere che, per pena inflitta, non sarà mai più un cittadino libero e produttivo?

Nel momento in cui una pena diventa effettiva e si ha la certezza della non collaborazione e della colpevolezza di una persona si può pensare ad una fine diversa, e ci sono due strade. La prima, molto semplice, eliminare l’ergastolo ostativo, e fare in modo che, allineandoci agli altri Stati europei, massimo ogni 25 anni ci sia un riesame da parte di un organo indipendente del caso. Così facendo si dà sia la possibilità della rieducazione alla cittadinanza a qualsiasi tipo di reato.

Seconda opzione, forse più di pancia, ma sicuramente ragionata, è il riammettere la pena di morte. Quest’ultimo caso sarebbe sicuramente duro da digerire, ma, in fin dei conti, l’ergastolo ostativo non è soltanto una pena di morte mascherata? E se invece di campare un essere che non vedrà più la luce del sole, i soldi che lo Stato avrebbe speso per lui, facendo una stima con l’età media di vita delle persone, venissero dati alle famiglie delle vittime e questa persona fosse semplicemente eliminata dal sistema? In fin dei conti ci sarebbero molti vantaggi: non ci sarebbe il problema di una possibile continuazione di comando, nei casi dei boss. I carceri si svuoterebbero di un migliaio di persone. I soldi verrebbero spesi dallo Stato investendo in persone le quali hanno subito un danno. Ed infine si avrebbe una pena che spaventerebbe parecchio: la possibilità di essere uccisi. In tal modo non ci nasconderemo più dietro l’ipocrisia del non volerci sporcare le mani e non ci sarebbero più dubbi sulla funzione del carcere: punitivo per i più, rieducativo per chi si dimostri collaborativo. Non è questo, alla fine, il messaggio che viene fuori dalle ultime dichiarazione dell’Italia degli ultimi tempi? Invece di “far marcire” una persona in carcere, non è meglio toglierla subito dalle casse della nazione? Siamo così intrisi di morale cattolica deviata da non aver coraggio di uccidere direttamente ma solo di “buttar via le chiavi”?

Prima di dare una risposta affrettata, magari non pensiamo a Cesare Battisti, il quale potrebbe essere soggetto anche ad un “tifo” politico. Pensiamo ad un ‘cittadino’ obbligato di Ferrara: Pasquale Barra detto “o’ animale” per l’efferatezza dei suoi omicidi. Costui non si è mai pentito, definendosi sempre un camorrista e, addirittura, ha fatto danni con la sua collaborazione: fu, infatti, tra i principali accusatori di Enzo Tortora. A questo va aggiunto un altro dato. Il carcere, istituto che dovrebbe rieducare, da lui è stato usato per continuare i suoi affari: gran parte dei suoi delitti, infatti, li ha commessi all’interno degli istituti penitenziari, tra i quali forse il più efferato fu quello ai danni di Francis Turatella. Leggenda vorrebbe che o’animale, nell’atto di ucciderlo, gli abbia “strappato il cuore e il fegato per addentarli”. Un uomo così, lontano da ogni logica di pentimento e rieducazione, come dovrebbe essere trattato? Con umanità? Oppure togliere ogni possibilità di azione, uccidendolo? Costui è morto nel carcere di Ferrara nel 2015, per arresto cardiaco e la domanda sorge spontanea: se fosse stato eliminato prima, si sarebbero potute salvare delle altre persone? Le risposte possono essere facili, ma poi mi viene in mente un racconto, una piccola frase tratta da un libro di Elvio Fassone dal titolo “Fine pena: ora” nella quale un detenuto condannato all’ergastolo dice: “Noi siamo maledetti, o la tomba o la galera [ci aspetta]”. Un chiaro riferimento al fatto che nessuno nasce “animale”, ma lo può diventare a causa delle circostanze. Ma allora se uno “diventa” maledetto, può tornare ad essere “normale”?

Io non so quale sia la risposta giusta, ma so quasi certamente che non è quella che abbiamo ora.

PER CERTI VERSI
Segreto felino

Ogni domenica Ferraraitalia ospita “Per certi versi”, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.

NON DIRO’ MAI A NESSUNO

Non dirò mai a nessuno
Che tu sei la mia vita
Senza volerlo
Che ti basta vuotare
Il sacco del tuoi occhi
E un dono mi spunta
Dall’anticamera della neve
Quel cielo bianco
Di puro sogno
Ho immaginato la fessura
Profumata dei tuoi seni
Ci ho posato le labbra
Le dita
Gli occhi stretti
Come di lucciole
Pieni
Lampeggia
La mia gioia
Con la tua
Lo sai
Non dirò mai
A nessuno
Che tu ridi
Con gli occhi
Neanche al boia

LA MICIA SORIANA

Topaiola incallita
Chiamavi quando la vittima
Era stata colpita
Dopo ore di attesa nella siepe
Tra l’aiuola
Ricordavi che ti avevo curata
Dal morso di una faina
Tu occhioni grandi e testa fina
Giocavi col metro o col filo
Mi chiamavi in bagno
Per fare le coccole tra noi soli
E dormivi in fondo al letto
Delicata
Con rispetto
Mi manchi cara Luxi
Le tue fusa.
Sul pianoforte
Le tue serate sul panno
I gatti sanno
Più di quanto
Noi umani crediamo di saper di loro
È stato un foro
Quasi nella terra gelata
Accanto ai melograni
Che ti ho lasciata

DIARIO IN PUBBLICO
Ritornare alla vita

Sempre più mi risuona nelle orecchie il celebre motivetto “Vengo anch’io? No tu no. Ma perché? Perché no!” a commento della querelle innescata dal dottor Vittorio Sgarbi. E così la silente città si riempie di sussurri e grida. Perfino nel favoloso concerto diretto da Gatti con la Malher Chamber Orchestra, durante l’intervallo, pastori e pellegrini mi s’accostavano per sapere il mio parere. Invano continuavo e continuo a ripetere che quello che a me interessa non è la specificità dell’argomento, per cui di fronte a celebri conoscitori come Albano, D’Alema, Nardella, cedo le armi, quanto riportare la discussione a toni civili degni dell’argomento. Sembra – miracolo! – che il risultato sia stato raggiunto con l’incontro del Ministro Bonisoli con il sindaco di Ferrara e i successivi abboccamenti (leggi QUI la lettera del sindaco Tagliani e QUI la nota seguita all’incontro con il Ministro). Quel che mi rende convinto che, raggiunto lo scopo, me ne tiro fuori.

Troppi e ben più importanti avvenimenti sono passati quasi sotto silenzio rispetto al fragore mediatico innescato dalla vicenda Diamanti. L’incontro tra Liliana Segre e settecento e passa ragazzi ai quali si è rivolta come “nonna viziatrice”. Un colloquio che quasi ha travolto il rapporto tra chi parlava e chi ascoltava in una simbiosi tale che finalmente strappava e tirava fuori da tutti ‘l’humanitas’ che in fondo ci distingue. E la scelta che Liliana Segre ha indicato ai giovani e ai non più giovani percorrendo, lei quindicenne, i ‘resti’ di ciò che rimaneva dell’immane genocidio la via della morte è trasformarla in vita: “Non dite mai che non ce la potete fare, non è vero. Ognuno di noi è fortissimo e responsabile di se stesso. Dobbiamo camminare nella vita, una gamba davanti all’altra. Che la marcia che vi aspetta sia la marcia della vita”. Così dice al Teatro Nuovo di Ferrara; così scrive nel suo libro ‘Scolpitelo nel vostro cuore‘, i cui ricavati andranno all’associazione Opera San Francesco per i poveri Onlus di Milano che s’interessa anche dei nuovi emarginati migranti o rifugiati.
L’aspetto più folgorante del suo magistero sta proprio nella constatazione che lei, una signora di 88 anni che a 15 anni veniva con stupore scambiata per un essere androgino la cui magrezza impressionante faceva sì che le anche le bucassero la pelle, dimostri ora nell’aspetto quella bellezza che è il segno interiore della vita, della giustizia: l’essere giusti. Così quella vittoria della vita contro la morte si legge nell’ultimo libro di Amos Oz, ‘Finché morte non sopraggiunga‘ o nella prossima conferenza del Meis che si svolgera il 22 gennaio quando Daniel Vogelmann, il proprietario della casa editrice Giuntina parlerà del libro che ha scritto su suo padre ‘Piccola autobiografia di mio padre‘: “Mio padre Schulim mi ha sempre raccontato poco della sua vita, e non solo riguardo alla sua prigionia ad Auschwitz. Certe cose, poi, le ho sapute soltanto molti anni dopo la sua morte, come, per esempio, che c’era anche lui nella lista di Schindler. E io, purtroppo, non gli ho mai chiesto nulla, anche perché è morto quando avevo solo ventisei anni. Qualcosa, però, è giunto miracolosamente fino a me, e così ho scritto questa piccola autobiografia per le mie nipotine. Ma non solo per loro“. Ecco. Il silenzio cessa. Testimoni e ricordi si fanno parola dopo il terribile silenzio di chi sapeva che non poteva raccontare l’indicibile. Alla faccia dei negazionisti che anche in Italia rifiutano dalle cattedre universitarie che ricoprono, parole della Segre, la Shoah.

Così, ritornando al mio consueto lavoro senza più timore che la parola ‘intellettuale’ mi sia scagliata in faccia e riprenda quindi il suo significato primitivo, aspetto nel crepuscolo del giorno conforto e sollievo dalla cultura, comunque essa si esprima, sfrondata da toni urlati e da minacce politiche.