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Ripoliticizzare l’economia passando per la sovranità popolare e statale

Al dibattito pubblico su “euro sì – euro no” mancava una base di dati, uno studio su cui elucubrare, o magari fare acrobazie sul trapezio delle ipotesi, e finalmente … ’20 Years of the Euro: Winners and Losers’.
Ma, nonostante i dati e come ricorda l’economista Giovanni Zibordi, in economia non esiste una metodologia standard come nelle scienze per cui ai report, ai paper e agli studi econometrici “si possono trovare approcci totalmente diversi e da qui discussioni infinite che lasciano il pubblico perplesso”. E allora ben vengano i prospetti e gli studi sull’argomento per aiutare la discussione, l’importante però è tener presente che le ipotesi restano ipotesi.
Del resto che l’euro abbia funzionato male e continui a farlo è la vita reale a dircelo, ma questo è tanto vero quanto è vero che è tutta l’impalcatura dell’eurozona a funzionare male e non sarà certo ad uno studio concentrato sul dato finanziario che cederemo l’onere di dimostrarlo.
A dirci che l’impianto non funziona è l’alta disoccupazione, le aziende che chiudono, i giovani che emigrano, il sistema pensionistico che viene messo in discussione, i salari che ristagnano da vent’anni, la disuguaglianza che cresce insieme al conflitto sociale e persino il fatto che la gente è costretta ad affidarsi alle promesse della Lega e del M5s per sentirsi meno sola. Un partito liberista da una parte, e quindi naturalmente contrario al primato politico rispetto all’economia, e dall’altra un movimento che confonde la democrazia popolare con il voto on line.
Fatti gravissimi nel loro insieme, e già di per sé sufficienti a dimostrare che le cose proprio non vanno nel verso giusto, aggravati dal fatto che la sinistra è incapace di ritrovare il suo spirito anti capitalista e soprattutto di antitesi all’attuale costruzione finanziaria e globalista.

I dati (finanziari)
È appena uscito il report del think tank tedesco CepStudy intitolato ’20 Years of the Euro: Winners and Losers’ che prova a quantificare quanto hanno guadagnato o perso gli stati che hanno aderito all’euro. Ebbene la Germania avrebbe complessivamente guadagnato dal 1999 al 2017 ben 1.893 miliardi di euro, ovvero 23.116 euro per abitante mentre quella che una volta avremmo chiamato “l’economia dei puffi”, ovvero i Paesi Bassi, che con l’euro sono diventati persino più influenti dell’Italia, avrebbero guadagnato 346 miliardi ovvero 21.000 euro per abitante.
L’Italia è, invece, quella a cui è andata peggio. Avrebbe perso, in questi 18 anni, qualcosa come 4.300 miliardi e 73.605 euro pro capite e l’effetto grafico è il seguente:

Le considerazioni politiche e di politica economica
Se l’economia fosse una scienza esatta, o anche solo una scienza, allora queste sarebbero le prove di un disastro. Ma, come dicevamo in premessa, nell’economia non c’è niente che non sia opinabile, tranne ovviamente in eurozona dove esistono addirittura le sacre tavole che impongono un tetto al deficit e uno al debito pubblico. Disastro di sicuro c’è stato, ma non per colpa dell’economia, che è incapace di far male se non lasciata agli impulsi primordiali del profitto, né per colpa della valuta euro, che come tutte le valute esiste se qualcuno decide che debba esistere.
Keynes diceva che l’economia va pianificata e a farlo deve essere lo Stato. Cioè lo Stato deve fare quello che un individuo non può fare. Cioè, appunto, pianificare l’economia in maniera democratica e che possa dare frutti per tutti.
La ratio dell’affermazione di Keynes, spiegata anche dallo stesso economista, è che lo Stato deve tenere in mano i controlli centrali per modificare e plasmare l’ambiente in cui deve operare l’individuo perché, se decide di non intervenire, allora l’economia perde la sua parte politica e quindi prende il sopravvento e la società comincia rincorrere la concorrenza, la privatizzazione e il profitto. Quindi una struttura in cui il più forte inevitabilmente vince. Tesi ripresa magistralmente anche dal prof. Ha-Joon Chang dell’Università di Cambridge per spiegare che l’economia funziona se è politica, cioè se è controllata e pianificata.
Sulla spoliticizzazione dell’economia e sui riflessi sulla società e sulla democrazia ha scritto, magistralmente e senza andare troppo lontano, anche il prof. Alessandro Somma dell’Università di Ferrara nel suo libro ‘Sovranismi‘ che avrò il piacere di presentare, insieme ad altri, il prossimo 12 marzo presso l’Ibs+Libraccio di Ferrara.
Ma ritorniamo al nostro report. I dati mostrano che nella struttura liberista dell’eurozona emergono i più forti, a danno dei Paesi che hanno modelli di sviluppo più partecipativi e improntati al “sociale”. Questi dati in realtà, e a ben vedere, non parlano di euro, di valuta, ma di un disastro sociale che viviamo tutti i giorni nella nostra quotidianità. Parlano di scelte che hanno portato all’abbandono delle persone a vantaggio di una élite disposta a vivere di esportazioni e vogliosa di plasmare le élite degli altri paesi europei sulle proprie linee guida.
Parlo di élite e non di stati perché il pil non mostra realmente o necessariamente il benessere di una nazione, perché il pil non è democratico né tantomeno il suo rapporto percentuale con il debito. Ed infatti in Germania, e nonostante il pil, il welfare non è più quello di una volta che è stato sacrificato alla competitività e alla deflazione salariale. L’export non porta benessere per tutto il paese ma solo alle aziende che lo praticano e agli operai che vi lavorano per il tempo che ne possono usufruire, perché l’export, si sa, dipende dalla domanda estera che per definizione non è controllabile dallo stato esportatore.
E forse per questo la Germania ha fortemente voluto il progetto europeo, per avere una domanda costante dagli stati satelliti (cioè dall’Unione Europea) e una domanda accomodante mondiale grazie al fatto che il valore dell’euro viene tenuto basso dai PIIGS (maiali) del sud. In pratica vendono almeno al 20% in meno rispetto ad un ipotetico marco, cioè la Bmw e la Mercedes costano almeno il 20% in meno ad un acquirente americano o italiano.
L’Italia in questo studio è stata paragonata a paesi ritenuti simili, Uk e Australia in primis.

E non a caso questi paesi dopo il 2008 hanno fatto una enorme spesa in deficit, cosa che gli ha permesso di risollevarsi prima e meglio dalla crisi post Lehman Brothers e senza cadere nella superstizione di problemi quali il debito pubblico e i limiti al deficit, superstizioni tutte da eurozona e in particolare italiane. Mentre noi perdevamo il 20% della produzione industriale e, secondo questo studio, un 40% di pil, i paesi “simili” agganciavano la crescita del debito semplicemente facendo crescere il pil che a sua volta cresceva perché si pompavano soldi nell’economia.
In questo studio si scopre che la Spagna è un loser meno perdente dell’Italia avendo lasciato sul terreno “solo” 224 miliardi di euro per 5.000 euro pro capite. Insomma la Spagna ha reagito molto meglio dell’Italia e quindi per qualcuno potrebbe essere la controprova che se l’Italia perde è semplicemente perché è poco competitiva rispetto agli altri. In realtà, come riportato anche da Giovanni Zibordi in un suo articolo che riprende a sua volta argomentazioni di economisti spagnoli, questo (molto) parziale successo è dovuto all’aumento della spesa per consumo. Infatti gli spagnoli hanno aumentato il loro debito privato fino ad un picco del 260% del pil, tornando poi al 210%, mentre l’Italia ha contenuto il debito privato intorno al 160%.
La contromossa spagnola alla crisi è stata di aumentare il debito pubblico che nel 2008 era al 45% fino al 100%. Questo per non aumentare le tasse e permettere alle banche di continuare a fare credito. Quindi se non puoi permetterti un surplus germanico delle partite correnti dovresti quanto meno permettere ai cittadini di spendere di più in altro modo evitando politiche recessive in un momento di crisi generale.
La Spagna, inoltre, ha mantenuto per anni deficit molto alti e ben al di sopra del fatidico 3% permesso dai trattati europei, almeno lì la ragion di stato ha evidentemente un senso.

Le conclusioni logiche
Quindi se le cose vanno male la colpa non è dell’euro, come non è delle bombe se esplodono o dei proiettili se uccidono. La colpa del disastro economico è la mancanza di attivismo politico da parte dei nostri rappresentanti e della perdita della visione dell’interesse primario della politica stessa: l’essere umano.
Un report interessante, ma vietato fermarsi alle considerazioni finanziarie. Da utilizzare per ravvivare il dibattito politico e un argomento in più per auspicare un allargamento alle ragioni dei cittadini, del sovranismo democratico come cornice e confine per la difesa dei primi 12 articoli della costituzione italiana (per iniziare) e per superare i limiti imposti dai Trattati Europei ad una sana, generale e reale ripresa economica.

in copertina illustrazione di Carlo Tassi

ARTE
San Giorgio e il drago: mostra di Scardino sull’eroe e i suoi mostri

La figura di San Giorgio con il drago ha un fascino particolare. Mette insieme il cavaliere integerrimo, corazzato e senza paura con tutto ciò che invece è spaventoso, leggendario e fuori controllo.

“Leggenda ferrarese” di Mimì Quilici Buzzacchi, 1943

Il critico d’arte e collezionista Lucio Scardino ne propone una mostra intitolata ‘Moderne devozioni – Il culto e il mito di San Giorgio col drago’ – visitabile negli spazi Mediolanum (via Saraceno 24, Ferrara) – che è gara di intuizioni e interpretazioni, disfida di creatività che dà il meglio della personalità di artisti contemporanei che operano tra Ferrara e dintorni e che si sono cimentati su questo tema in vista dell’esposizione. Agli artisti attivi sul territorio, la rassegna affianca personalità della storia dell’arte che su questo soggetto avevano lavorato in autonomia, com’è il caso della litografia di Mimì Quilici Buzzacchi del 1943 che mette in scena il duello tra santo e drago con una visione aerea e dettagliata di corso Martiri, accanto al muretto del castello di Ferrara, o del veloce schizzo a matita di Silvan Gastone Ghigi (1966) e del disegno a matite colorate di Alfredo Filippini (1976) con il guerriero nudo a cavallo che Scardino paragona a quelli rappresentati da Fidia sul Partenone.

Lucio Scardino con l’artista Daniele Cestari davanti alle opere di Alfredo Filippini e Daniele Ricciardi (foto Luca Pasqualini)

Nell’indicare il tema da interpretare agli artisti, Scardino è partito dall’idea che per una città come Ferrara che ha in San Giorgio il riferimento di patrono, la sua figura può rappresentare la vittoria dell’uomo sull’invasione mefitica delle acque.

“San Giorgio” di Gianni Cestari, 1990

Insomma una metafora figurata della bonifica che controlla e vince il dilagare delle paludi e delle umide contaminazioni malariche, tenute tuttora a bada dall’incessante attività di pompe e meccanismi di difesa idrovora. Ecco allora il delizioso San Giorgio di Gianni Cestari (1990) che il tema aveva evidentemente intuito e sviluppato in autonomia, con un piccolo olio su tavola dove l’acqua è protagonista, mentre del drago emerge solo un collo sinuoso e un’ala verdognola e frastagliata con la zampa del cavallo e la punta della lancia che si inseriscono appena nell’angolo in alto a sinistra del quadro. Giocoso, invece, l’inserimento del santo in cima a una nuvola che sovrasta la chiesa di Santa Francesca Romana nella stampa del grafico Claudio Gualandi (2017), dove – come sempre nei suoi disegni – i personaggi bisogna andarseli a cercare tra una miriade di gente e dettagli che popolano le sue rappresentazioni, e così pure Andrea Amaducci (2015), che ne fa un graffito di sapore fumettistico realizzato sopra a una cassettiera.

Lucio Scardino illustra il quadro a tecnica mista su tavola di Lorenzo Romani (foto Luca Pasqualini)

Di sapore più aulico la tela dal segno nebbioso, usurato e inconfondibile di Daniele Cestari che riprende l’iconografia di Albrecht Dürer, ma anche l’altorilievo in argilla di Leo Cattabriga (2003) e la sequenza di schizzi a sanguigna di stile rinascimentale di Pier Luigi Berto (2018).

“Cielo stellato sopra San Giorgio”, 2018, di Daniele Cestari
“San Giorgio uccide il drago”, 1504, Albrecht Dürer
“San Giorgio a Pontelagoscuro”, 2018, di Mauro Ruggeri

Che la si veda con ironia come fa Riccardo Guasco con il suo ‘San Giorgio fa pace col drago’ (2018) o Vilfrido Paggiaro che dipinge una specie di cartoon con la vendetta della dragonessa che si avventa focosa sul cavaliere in ‘Cuore di mamma’ (2018), in ballo c’è la razionalità determinata e composta che affianca la fantasia infuocata e dilagante. Non a caso, a cercarlo nelle biografie dei santi, del valoroso Giorgio non si trovano appigli storici, ma rimandi che ne fanno una figura leggendaria, presente nell’agiografia cattolica, ma pure nel mito, nelle favole, nelle credenze antiche d’Oriente e d’Occidente. Una metafora del bene che affronta e vince il male, ma anche del dualismo spirito-carne, conscio-inconscio, raziocinio-bestialità. Di fatto una rappresentazione figurata dello yin e yang e della contrapposizione notte-giorno, ombra e luce, istinto e controllo. A me questa iconografia ha sempre affascinato e con orgoglio l’ho sentita come riferimento personale, una figura doppia e solida, dove l’eroe esiste ed è riconoscibile nella misura in cui con la sua armatura ferrea, impenetrabile e inossidabile affianca il mostro con le sue ali colorate, il suo corpo di ghirigori squamosi e il suo spettacolare talento di sputafuoco.

Celato e protetto, il cavaliere affronta l’inaffrontabile e, tutto sommato, lo fa suo. È la forza controllata che si contrappone alla rabbia furibonda; la strategia calibrata e imperturbabile che riesce a dominare l’anima vulnerabile e furiosa che alberga nelle viscere di ognuno.

“San Giorgio” di Paolo Uccello, 1470, National Gallery, London

Paolo Uccello mi folgorò, da ragazza a Londra, con quella tavoletta esposta alla National Gallery, che allora mi apparve immensa ma che è solo poco più di 55 centimetri per 74, dove la fanciulla entra in scena a pari diritto portandosi il drago al guinzaglio, come ulteriore combinazione di contrasti tra la gentilezza e la furia da sottoporre all’ardito cavaliere.

A Lucio Scardino apparirebbe forse meno gradita, tant’è che nell’introduzione al catalogo – a mo’ di epigrafe – specifica “Vorrei essere al tempo stesso un drago e San Giorgio. Mai la principessa” ribadendo così il connubio indissolubile tra i due caratteri contrastanti che questa figura rappresenta e fonde, dove comunque l’uno esiste ed è riconoscibile nella misura in cui è presente l’altro.

Foto-servizio di Luca Pasqualini

Lucio Scardino al’inaugurazione
Taglio della torta con figura di San Giorgio
Lucio Scardino illustra la mostra

‘Moderne devozioni – Il culto e il mito di San Giorgio col drago’, mostra a cura di Lucio Scardino, sala Mediolanum, via Saraceno 24, Ferrara, 1 marzo-26 aprile 2019, visitabile dal lunedì al venerdì ore 9-13 e 15-19.


Per saperne di più sulla figura di San Giorgio si potrà ascoltare anche la conferenza di Lucio Scardino dedicata a ‘Moderne devozioni: una mostra ferrarese sul culto e mito di San Giorgio’, in programma lunedì 15 aprile 2019 alle 16.45 nella sala Conferenze della Contrada del Borgo di San Giorgio, via Ravenna 52, Ferrara con ingresso anche dal cancello di via Ferrariola, ingresso 3 euro.

PER CERTI VERSI
Un’amica al sole

Ogni domenica Ferraraitalia ospita “Per certi versi”, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.

ODE AL SOLE

io dio degli dèi
Il più antico e remoto culto
Approda nel nostro locus amoenus
Ci bagna i volti
Scalda dai vetri
Il freddo mondo che ci circonda
Ti guardo piena di luce
Sotto una cascata di luce
Entra il mare
Dentro di noi
Sotto di noi
Il soffice bianco
Gli scogli del dire
I ricci come punti
I pesci come virgole
Del trattato ecumenico
Che stiamo componendo
È azzurro
È smeraldo
Ci uniamo
Sotto la coperta delle onde
Sei lo specchio
Dell’eterno

POESIA PER UN’AMICA

Tu sai cosa mi piace
Con te mi beve la vita
E noi siamo un uomo e una donna
sotto la luna
Che parcheggiano la fantasia
A fianco del carro
Noi siamo due nuvolari
E a te piace la mia volatilità
La mia testa fra le nuvole
Il mio essere senza casa
Libero come tu sei libera

La mia mancanza di praticità

Le mie mani
che non sanno piantare un chiodo
Ma estrarre
Le note più belle del tuo cuore sì
Amica dai capelli neri

Come le ruote

Dei Sumeri

Se vinci con la destra, è la destra che vince

Si ganas con la derecha, es la derecha que gana”. Se vinci con la destra, è la destra che vince, è una frase che ha scritto Marco Damilano su ‘L’Espresso’ del 13 gennaio scorso ed è lo slogan usato nel Cile prima del golpe del generale Pinochet. Il direttore del settimanale ricorda che a dirgliela fu l’amico Paolo Giuntella, indimenticato giornalista Rai, cattolico democratico di razza, con un passato ai vertici dell’Azione Cattolica e fondatore della Rosa Bianca.
Il significato di quelle parole è che se si pensa di utilizzare la destra per vincere, alla fine sarà la destra a prevalere.

È successo un secolo fa quando l’agonizzante Italia liberale pensò di utilizzare la violenza fascista per regolare il biennio rosso e credette di farlo la Chiesa, così dicono gli storici, ritenendo che un regime autoritario avrebbe reso il tessuto sociale pronto e allenato per una sedimentazione gerarchica delle verità rivelate.
Impedire il traumatico cedimento fu anche il disegno di una vita di Aldo Moro, raccontato nel consigliatissimo libro di Guido Formigoni ‘Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma’ (Il Mulino 2016). Una strategia politica per allargare le basi democratiche di una fragile Italia repubblicana con la formula dei governi di centrosinistra degli anni Sessanta, fino all’epilogo traumaticamente interrotto della Solidarietà nazionale nel 1978.
Un disegno perseguito per sdoganare lo status di interlocutori pienamente democratici prima ai socialisti e poi nientemeno che ai comunisti, passato lungo strettoie che solo a rileggerle viene la pelle d’oca e contro resistenze e diffidenze in settori della politica, Dc, Chiesa, vescovi, cattolicesimo, e ceti produttivi. Senza contare che nella seconda, fatale, mano tesa al Pci di Enrico Berlinguer, si aggiunse l’ostilità, e forse non solo, di Washington e Mosca (contraria solo all’idea di un partito comunista al potere per via democratica, sconfessando quella leninista della presa del Palazzo), in un mondo ancora dentro Yalta.

Naturalmente è sempre improprio fare paragoni con il presente, se non si vuole pagare pagare dazio a forzate semplificazioni.
Ma nel piccolo scenario politico di questi anni, la frase ricordata da Damilano non è forse rappresentata anche dalla parabola dell’italico centrodestra? Iniziato nel 1994 con la trionfale discesa in campo del Cavaliere di Arcore, sulle macerie della cosiddetta Prima Repubblica, dopo un paio di decenni il centrodestra non è ora nettamente sbilanciato a destra?
Una frase sul web attribuita a Umberto Bossi dice: “Berlusconi ha voluto sposare la Lega e ora deve eseguire gli ordini”.
A lungo Berlusconi ha minimizzato sulle esagerazioni leghiste fra rutti, usi impropri della Carta costituzionale e della bandiera tricolore, diserzioni – se non irrisioni – del 25 aprile, Ministeri del Nord, deodoranti spruzzati nei vagoni ferroviari a neri e immigrati, adunate celtiche alle fonti del sacro Po con tanto di ampolle, menefrego sulle quote latte comunitarie, questione meridionale a lungo impostata al suono di terùn, i campi nomadi trattati a colpi di ruspa, membri del Parlamento chiamati orango anziché per nome etc… Chi vuole può farsi un giro su Google digitando “Lega Nord insulti”, per vedere i risultati.

Folklore? Fatto sta che dopo anni di questa musica di sottofondo, i numeri elettorali tra Forza Italia e Lega si sono esattamente capovolti.
Si può certamente obiettare che analoghe parole in libertà si possono trovare in opposti schieramenti politici, ma questo non risolve il problema, semmai lo aggrava.
Il ragionamento si può applicare all’attuale governo giallo-verde. Le recenti elezioni regionali in Abruzzo e Sardegna ci dicono che i rapporti di forza tra Lega e M5S si sono rovesciati rispetto a quelle nazionali dello scorso 4 marzo: es la derecha que gana.
Tutti i recenti sondaggi danno il partito di Salvini, veleggiare oltre il 30%, mentre il movimento guidato da Di Maio – dicono ormai in tanti – ha perso l’anima (a patto che ci si metta d’accordo sul significato del termine).

“Può la nostra democrazia reggere a lungo – si chiede Gianfranco Brunelli (‘Il Regno’ 2/2019) – un governo frutto di un compromesso che mette insieme velleità autoritarie con elementi eversivi?”.
Da mesi Massimo Cacciari sta dicendo davanti a tutte le telecamere che bisogna arginare la sutura, per quanto contrattuale per il momento, di un esecutivo che – di fatto – sta unendo la via nazionalista (sovranista) con quella sociale (dalla sconfitta della povertà al reddito di cittadinanza).
È fin troppo evidente, anche solo lessicalmente, la gravità del monito lanciato dal filosofo, dal momento che si sta pericolosamente ricongiungendo lo spettro nazionalista-sociale.
Operazione che sta lentamente sedimentandosi in un’acquiescenza culturale, innanzitutto, che il direttore de ‘La Civiltà Cattolica’, Antonio Spadaro, ha definito di colonizzazione ideologica. “Una colonizzazione – dice in un’intervista (‘L’Espresso’, 3 febbraio 2019) – di intelligenza e cuore che ci porta, tra l’altro, a vedere in un pover’uomo affogato innanzitutto un potenziale nemico invasore. Questa è colonizzazione ideologica della nostra umanità. Una cultura della diffidenza come prospettiva privilegiata sul mondo – conclude – ha esiti drammatici”.

LA FOTONOTIZIA
Amélie Nothomb a Ferrara: “Leggere è trovarsi davanti a una concentrazione di realtà”

“Chi crede che leggere sia una fuga è all’opposto della verità: leggere è trovarsi di fronte il reale nella sua massima concentrazione, il che, stranamente, è meno spaventoso che avere a che fare con le sue eterne diluizioni”.

Amélie Nothomb a Ferrara (foto di Luca Pasqualini)

Basterebbe forse questa farse scritta da Amélie Nothomb nel suo romanzo ‘Antichrista’ (Voland, 2004) per capire il cuore della sua scrittura e il legame che unisce così tanto a lei i suoi lettori, che attraverso le sue pagine ritrovano se stessi, sciolgono i loro nodi o perlomeno li dipanano e li illuminano, sentendoli meno schiaccianti.

Incontro con Amélie Nothomb nel salone della Pinacoteca di Ferrara (foto di Luca Pasqualini)

Un legame forte – quello tra la scrittrice e le persone che leggono i suoi libri – che si è sentito intenso e palpabile mercoledì nel salone d’onore della Pinacoteca Nazionale di Ferrara. L’incontro è stato aperto dall’assessore comunale alla Cultura Massimo Maisto.

L’assessore Massimo Maisto all’incontro con Amélie Nothomb a Ferrara (foto di Luca Pasqualini)

La presenza a Ferrara ha un particolare significato: a tradurre i romanzi bestseller di una delle più rinomate scrittrici francofone è, infatti, una docente dell’Università di Ferrara, la professoressa di letteratura francese Isabella Mattazzi, ritratta con lei nella foto di copertina.

La Nothomb a Ferrara tra l’interprete e la sua traduttrice Isabella Mattazzi (foto di Luca Pasqualini)

La scrittrice Amélie Nothomb a Ferrara ha presentato il suo ultimo libro ‘I nomi epiceni‘, appena uscito in questo mese di febbraio per la casa editrice Voland.

Momento degli autografi di Amélie Nothomb in Pinacoteca a Ferrara, 27 febbraio 2019 (foto di Luca Pasqualini)

È il ventisettesimo romanzo che ha scritto in altrettanti anni. Nata nel 1967 a Kobe, Giappone, Amélie Nothomb ha trascorso infanzia e giovinezza in vari paesi dell’Asia e dell’America, seguendo il padre diplomatico di origine belga. Si è poi stabilita in Francia. Il suo primo libro ‘Igiene dell’assassino’ è uscito il 1° settembre 1992 per la storica casa editrice Albin Michel e si è affermato fin da subito come uno dei titoli più interessanti della narrativa francofona contemporanea. Da allora pubblica un libro all’anno, scalando ogni volta le classifiche di vendita. Ha anche ottenuto numerosi premi letterari.

Momento dell’incontro (foto Luca Pasqualini)
Ritratto di Amélie (foto Luca Pasqualini)

La diretta audio e video dell’incontro ferrarese con Amélie Nothomb si può ascoltare cliccando sul link della registrazione sulla pagina del quotidiano online CronacaComune del 27 febbraio 2019.

Pubblico di lettori (foto di Luca Pasqualini)
Intervento di una lettrice (foto Luca Pasqualini)

Servizio fotografico di Luca Pasqualini

Mafie al Nord tra Triveneto ed Emilia

È di inizio febbraio la vicenda del patrocinio e dell’uso gratuito del teatro comunale negati da Maria Scardellato, sindaco leghista di Oderzo, in provincia di Treviso, per una manifestazione con ospite don Luigi Ciotti, per timore che il sacerdote – fondatore del Gruppo Abele e di Libera Associazioni, nomi e numeri contro le mafie – potesse incentrare il suo intervento sul tema dell’immigrazione. Ed è cronaca di qualche giorno fa la notizia della ‘retata’ a Eraclea, comune del veneziano distante da Oderzo solo 32 chilometri: l’operazione della Magistratura veneziana, in raccordo con la Direzione Nazionale Antimafia, ha messo a segno “la più importante operazione contro la Camorra a Nord Est”, nelle parole del Procuratore capo Bruno Cherchi. Monica Andolfatto, cronista del Gazzettino e segretaria del Sindacato Giornalisti Veneto, sarebbe finita per ben due volte, si apprende dopo gli ultimi arresti, nel mirino della criminalità organizzata per aver parlato dei “casalesi di Eraclea”. Ora il prefetto di Venezia deve cercare di capire se la giunta di Eraclea può continuare a gestire il comune dopo gli arresti ordinati dal gip e il sospetto di infiltrazioni camorristiche nel territorio. Eraclea è a rischio commissariamento e potrebbe essere, come a suo tempo Brescello in Emilia Romagna, il primo Comune del Veneto sciolto per infiltrazioni mafiose.

Il prossimo 21 marzo, la XXIV edizione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, promossa da Libera e Avviso Pubblico, avrà la sua piazza principale a Padova e coinvolgerà il Veneto, Friuli Venezia Giulia e le province autonome di Trento e Bolzano.
Libera – si legge sul sito del coordinamento di associazioni – ha scelto Padova “per stare vicino a chi, nel Nordest, non si rassegna alla violenza mafiosa, alla corruzione e agli abusi di potere, per valorizzare l’opera di tante realtà, laiche e cattoliche, istituzionali e associative, impegnate in quella terra difficile ma generosa per il bene comune, per la dignità e la libertà delle persone”.
“Nel Nordest – e le tante inchieste giudiziarie lo stanno a dimostrare – la criminalità organizzata ha attecchito e prosperato con lo spaccio di droga, ma pure nel più recente traffico di rifiuti, nelle finanze, nel riciclaggio di denaro sporco con l’acquisto di immobili, fino alle redditizie sale scommesse”, ricorda don Luigi Ciotti.
L’obiettivo è andare a Nord Est per parlare di giustizia sociale, ambientale ed ecologica, per rivendicare il diritto a democratizzare lo sviluppo, utilizzandolo per garantire lavoro, difesa dell’ambiente e partecipazione democratica alle scelte. “Le vittime innocenti del Triveneto infatti non sono solo persone”, si legge ancora su libera.it, “ma interi luoghi distrutti e calpestati, esseri viventi e territori, sui quali i rapporti di forza possono essere ancora sovvertiti se mettiamo insieme la necessità di giustizia e l’urgenza della sostenibilità, senza lasciare nessuno indietro”.
Dal rapporto LiberaIdee, una ricerca sociale svolta su un campione nazionale dal coordinamento di Associazioni fondato da don Ciotti, risulta che per quasi la metà dei rispondenti veneti (45,3%) la presenza della mafia nella propria zona è marginale, mentre in meno di un caso su cinque è ritenuta preoccupante e socialmente pericolosa. Quasi la metà dei rispondenti (44%) ritiene che la corruzione sia “abbastanza” presente nel territorio veneto, mentre soltanto uno su dieci la ritiene molto diffusa. “Per i cittadini veneti che hanno risposto alla ricerca – commenta Roberto Tommasi, referente Libera Veneto – la mafia è percepita come fenomeno globale ma sotto casa nessuno la vede”.”E’ fondamentale – prosegue Tommasi – prendere coscienza del contesto criminale, premessa indispensabile per il contrasto alle mafie e alla corruzione. Per quanto efficaci, le sole misure repressive non basteranno infatti mai a eliminare il crimine organizzato nelle sue molteplici forme. Mafie e corruzione, prese insieme e alleate, sono un male non eminentemente criminale ma culturale, sociale, economico, politico. Occorre allora una grande opera educativa e culturale perché è la cultura che sveglia le coscienze”.

“Insegnare i dettagli significa portare confusione. Stabilire i rapporti tra le cose significa dare conoscenza”, affermava Maria Montessori. Forse la sindaca di Oderzo dovrebbe rivedere le priorità della sua amministrazione.

E l’Emilia Romagna? Qual è la situazione nella regione dell’operazione Aemilia, che ha dato origine a uno dei più importanti processi sulla criminalità organizzata al Nord?
Per quanto riguarda l’iter giudiziario dell’inchiesta Aemilia, il 24 ottobre 2018 la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza del 12 settembre 2017 della Corte d’Appello di Bologna, per gli imputati che avevano scelto il rito abbreviato, emettendo quaranta condanne definitive e comminando un totale di oltre 230 anni di reclusione.

Reati sintomatici di criminalità organizzata registrati in Emilia Romagna nel primo semestre del 2018. Fonte: Relazione Dia 1. semestre 2018

E proprio grazie ad Aemilia, è ormai acclarato che “in Emilia Romagna, l’elevata propensione imprenditoriale del tessuto economico regionale è uno dei fattori che catalizza gli interessi della criminalità organizzata, sia autoctona che straniera, anche ai fini del riciclaggio e del reinvestimento in attività economiche dei profitti illeciti”, come si legge anche nella relazione semestrale della Dia (Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, 1 semestre, gennaio-giugno 2018).
La ‘ndrangheta, si legge nella relazione, ha “messo in atto, con pervicacia, un grave processo di commistione con l’imprenditoria”, prediligendo “l’infiltrazione sia del tessuto economico produttivo sia delle amministrazioni locali”. Il territorio dunque, non viene aggredito attraverso il predominio militare, ma “orientandosi alla corruttela e alla ricerca delle connivenze, funzionali ad una rapida acquisizione di risorse e posizioni di privilegio”. A Ferrara la Dia segnala la consorteria criminale dei Pesce-Bellocco di Rosarno.
Per quanto riguarda Cosa Nostra “negli ultimi anni non sono emerse risultanze investigative che abbiano fatto emergere un’operatività strutturata sul territorio delle famiglie”, mentre anche “la presenza della camorra risulta connessa all’infiltrazione nell’economia legale e al riciclaggio di capitali”. In particolare, si legge nel rapporto della Dia, “i monitoraggi delle attività imprenditoriali, propedeutici all’emissione delle interdittive antimafia o dell’iscrizione nelle cosiddette white list, hanno evidenziato infiltrazioni della camorra nel settore degli appalti pubblici, attraverso l’adozione di metodologie orientate a dissimulare gli interessi mafiosi”. E ciò avviene grazie alla “mediazione di imprenditori compiacenti”, necessaria per avviare investimenti e aggiudicarsi le gare di appalto di opere pubbliche. È “un modus operandi ricorrente principalmente per il cartello dei Casalesi, come emerso in occasione di un’operazione nel modenese che ha svelato anche un connubio tra sodalizi campani e calabresi. Restando ai Casalesi, questi sono stati segnalati soprattutto nella provincia di Modena, con diramazioni nelle province di Ferrara, Ravenna, Reggio Emilia, Rimini e Parma”. E rimanendo nella nostra città: “oltre al cartello dei Casalesi, un’indagine recente dei Carabinieri ha svelato l’operatività di elementi collegati al cartello napoletano dell’Alleanza di Secondigliano, dediti al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti”. Che sia il caso di alzare lo sguardo oltre il Gad per chiedersi da dove viene la droga che viene spacciata?

Per quanto riguarda i gruppi criminali di matrice straniera, “le investigazioni degli ultimi anni hanno fatto rilevare dei modelli di cooperazione tra sodalizi stranieri di diversa nazionalità, talvolta partecipati da pregiudicati italiani”. Non c’è alcuna segnalazione specifica sul nostro territorio riguardo la criminalità nigeriana, che in Emilia Romagna “si conferma attiva nel traffico di stupefacenti e nello sfruttamento della prostituzione in danno di donne provenienti prevalentemente dalla Nigeria, nonché nella consumazione di reati a carattere predatorio e legati all’abusivismo commerciale, specie nelle zone del litorale adriatico”. La relazione della Dia segnala poi nella nostra provincia, oltre che a Reggio Emilia e a Rimini, “la presenza della criminalità di matrice cinese”, attiva soprattutto “nel favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e nello sfruttamento della prostituzione e della manodopera irregolare”.

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Il mondo dell’arte piange Mario Piva, scultore e imprenditore fondò la Stayer

Il mondo artistico e culturale ferrarese piange la scomparsa del maestro scultore Mario Piva che ci ha lasciati in nottata, poco prima dell’alba, dopo una brevissima malattia e a pochi giorni dal suo 88esimo compleanno, che avrebbe celebrato l’8 marzo.
Artista coerente, Mario Piva si è affermato attraverso un ponderato e geniale percorso di crescita, pervenendo via via a un alto livello di maturità con opere che hanno confermato la sua creatività e che lo pongono come uno dei migliori interpreti di una scultura di originale espressione. Numerose le mostre realizzate in Italia e all’estero, a dimostrazione della sua intensa e apprezzata attività. Ha lavorato per lasciare un segno, una traccia importante sul grande libro della vita e dell’arte. Presenta per la prima volta i suoi lavori nel 1977 a Palazzo Ducale di Pesaro per poi approdare al Castello Estense della sua città di Ferrara nel 1978 e al Palazzo dei Diamanti, nel 1987, quindi all’Università di Sarajevo, alla Casa di Raffaello ad Urbino, solo per citare alcuni dei luoghi più significativi. Il 15 ottobre 2005 venne inaugurata la sua tanto amata Collezione, a Ferrara, in via Cisterna del Follo 39, che contiene numerosissime sue opere e che diventerà anche un luogo polivalente con eventi culturali, letterari e musicali.
In permanenza a Ferrara vi sono alcune testimonianze di prestigio: “Il Cavallo” in rame di due metri e sessanta posizionato nella rotonda fra via Kennedy e via Bologna; “L’Abbraccio” in rame, di 4 metri, esposto nel giardino di Palazzo Massari a Ferrara; “Il Cristo” in rame di 5 metri posizionato sul sagrato della chiesa di Tresigallo e donato alla Comunità tresigallese; il Cippo commemorativo nella caserma di Comacchio, con la collocazione di un’opera scultorea alla memoria del giovane carabiniere Cristiano Scantamburlo, ucciso dal malvivente che aveva appena bloccato (anno 2009).
Da ricordare anche la sua figura come industriale, che nel 1958 ha fondato la Stayer, la fabbrica che fa parte della nostra storia ferrarese a pieno titolo, ceduta poi negli anni ’90.

La scommessa del Venezuela, una bomba per l’economia mondiale

Venezuela: abbiamo considerato tutto?

“Il Petro – si legge sul sito web dedicato https://www.petro.gob.ve/index.html – è uno strumento che consoliderà la stabilità economica e l’indipendenza finanziaria del Venezuela, unitamente a un progetto ambizioso e globale per la creazione di un sistema finanziario internazionale più libero, equo ed equilibrato”.
Il petro è una cripto valuta, è venezuelana ed è la prima controllata da un governo statale. Dal 21 agosto 2018 la Banca centrale di Caracas pubblica il valore del petro rispetto alle principali valute estere fissato ad un prezzo fisso di 60 $ e legato direttamente alle riserve di oro, ferro, alluminio, diamanti e petrolio. Ad oggi, in ogni caso, un altro fallimento del contrastato governo venezuelano in quanto impossibile anche solo capire quanto sia stato raccolto dalla sua sottoscrizione.
Un tentativo di Maduro, promosso in realtà già da Chavez nel 2009, di difendere le materie prime di cui il Venezuela è ricco e di svincolarsi dal dollaro. Ovviamente negli Usa fu subito impedita ogni transazione in petro e Trump rispose con nuove sanzioni, questa volta indirizzate all’oro (di cui il Venezuela è il secondo produttore al mondo). “Sono stati impediti tutti i rapporti commerciali con aziende connesse al settore aureo venezuelano e, di conseguenza, ora Caracas si trova in difficoltà nel ricevere certificazioni estere sulla qualità della materia prima” ha spiegato Vasapollo, docente di Politiche Economiche Locali e Settoriali presso La Sapienza, al seminario internazionale ‘Relazioni politico-economiche ed autodeterminazione dei popoli: la Nuestra America di Martì e la Patria Grande di Bolivar per una futura umanità’, tenutosi all’Università di Roma La Sapienza il 27 novembre 2018.
Le misure imposte da Trump hanno impedito l’acquisto di debito venezuelano, l’acquisto di titoli della società pubblica che controlla il petrolio, di ogni altra società venezuelana e di società partecipate dal governo di Caracas, nonché bloccato ogni finanziamento in dollari al Paese. In sostanza, il Venezuela è stato escluso dal mercato più grande del mondo (il dollaro rappresenta tra il 40 e il 60% delle transazioni finanziarie globali). “Ne hanno risentito, di conseguenza, le importazioni di cibo, medicinali, pezzi di ricambio e così via. Si tratta delle sanzioni più gravose che abbiano mai colpito un Paese latinoamericano nell’intera storia del Sud America, peggiori di quelle contro Cuba” ha aggiunto l’ambasciatore del Venezuela in Italia, Juliàn Isaìas Rodrìguez Dìaz, durante lo stesso seminario.
Seguire il vil denaro, anche nelle sue accezioni moderne ed elettroniche, aiuta a capire qualcosa in più dei tragici avvenimenti che si stanno susseguendo in questi giorni in Sud America e quel che vorrei fare con queste righe è stimolare la ricerca e l’approfondimento, senza dare giudizi.
Ripartiamo dall’inizio.

Le insidie al potere del dollaro

Stampare denaro non costa nulla da quando Nixon decretò la fine degli accordi di Bretton Woods, ovvero dal 1971. Fino ad allora per farlo bisognava avere dell’oro come sottostante ma già la Fed si era accorta che la guerra del Vietnam e la corsa agli armamenti avevano fatto sì che ci fosse in circolo un volume di dollari di 6/7 volte superiore al corrispettivo valore delle riserve auree.
Gli Stati Uniti ne stampano tanti e praticamente a costo zero, comprano beni e servizi in tutto il mondo, ma la Cina, la Russia e tutti gli altri pagano dollari veri per avere le stesse cose. Attualmente, il debito pubblico statunitense ha raggiunto il livello record di 21 trilioni di dollari, superando il 100% del Pil.
Questo vuol dire, nel caso unico degli Usa, che il mondo finanzia la sua spesa. Il mondo compra il debito USA perché questi possa comprare i beni che importa e che il mondo stesso gli vende. Non è difficile da capire, così come comprendere che lo possano fare solo gli Usa grazie al controllo militare del mondo. Ma come il sistema di Bretton Woods crollò quando alcuni paesi cominciarono a chiedere indietro oro al posto dei dollari, così il sistema attuale potrebbe crollare se alcuni paesi cominciassero a chiedere qualcosa di più reale del dollaro o, magari, semplicemente qualcosa di diverso, in pagamento delle proprie esportazioni.
Ergo, bisogna stare sulla difensiva e per tali motivi è interesse degli Stati Uniti, che ha, oltre ad un debito pubblico finanziato dall’estero, anche un deficit di bilancia commerciale che superava gli 800 miliardi di dollari nel 2018, mantenere politiche debitorie e far sì che la domanda di dollari sia costantemente sostenuta dall’estero perché con quei pezzi di carta ci paga i beni che importa.

Le insidie al potere del dollaro e gli assetti geopolitici

Questi sono un po’ dei motivi che rendono Maduro più detestabile di quanto magari sia davvero e si trovano anche un po’ di fondamenta per le sanzioni contro il Venezuela. Ma il pericolo viene anche da altri luoghi. Ad esempio, l’India ha siglato con la Russia il più importante contratto di difesa denominato in rubli dal 1991, come affermato ad Ottobre del 2018 dal vice premier russo Yury Borisov. Pechino sta scambiando energia con la Russia in yuan e spinge i suoi principali fornitori di petrolio in Arabia Saudita, Angola e Iran a fare lo stesso. La Banca di Russia in un anno ha incrementato la quota di attività cinesi nelle sue riserve auree di 48 volte. La Turchia sta cominciando a comprare grandi quantità di grano in rubli e le società petrolifere russe stanno cambiando la valuta dei contratti da dollaro a euro. Dal momento che la Cina è il primo importatore mondiale di petrolio, è logico che voglia acquistarlo nella propria valuta e quindi evitare le commissioni di cambio sulle transazioni. E la Cina insieme alla Russia parla di queste cose con Caracas, dato che il Venezuela dispone dei più vasti giacimenti di petrolio del pianeta (shale oil a parte), e comunque sembra che Pechino abbia già lanciato un contratto future sul greggio denominato in yuan.
Se un Paese vive di materie prime, come fa il Venezuela, non ha un gran futuro ma di sicuro una priorità strategica per la propria economia è limitare la propria esposizione al rischio valutario statunitense.

Le insidie al potere del dollaro, gli assetti geopolitici ma anche colonialismo, imperialismo e neoliberismo

Facendo di nuovo un passettino indietro, senza esagerare, arriviamo alla dottrina Monroe (5° Presidente degli USA) che sanciva, il 2 dicembre 1823, la supremazia degli Stati Uniti nel continente americano e sottolineava che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato alcuna intromissione negli affari americani da parte delle potenze europee.
Dottrina contro il colonialismo da una parte, ma anche dottrina considerata come la primissima formulazione teorica dell’imperialismo statunitense. E in effetti la teoria fu rivista da Theodore Roosevelt (26° Presidente degli Usa) che la utilizzò come base per affermare una forma di egemonia sul continente americano, una specie di no fly zone, un protettorato sull’area centroamericana e caraibica, che durante la guerra fredda servì anche a giustificare interventi politici e militari statunitensi in America centrale e meridionale.
Da sempre la politica estera degli Stati Uniti consiste nel dividere il mondo in Stati amici e Stati canaglia, e di questi fanno parte tutti coloro che la pensano diversamente. Chiunque rischia di diventare un dittatore quando c’è bisogno di giustificare un intervento armato per avere l’approvazione e l’aiuto del mondo civilizzato e legato al potere del dollaro. Gran Bretagna e Canada in primis e poi Europa a seguire.
La sola vicenda dell’Iraq di Saddam Hussein, con annesse scuse postume di Blair, dovrebbe bastare per calmare gli animi sul Venezuela e stimolare quanto meno la prudenza. Personalmente ho dato un’occhiata ad alcuni cambiamenti che si sono avuti fin dall’insediamento del “dittatore” Chavez e mi hanno lasciato perplesso.
Utilizzando come fonte gli ultimi aggiornamenti del Ci World Factbook si osserva che la mortalità infantile in Venezuela passa dal 26,17% del 2000 al 12,2% del 2016; la linea della povertà è passata dal 67% del 1997 al 19,7% del 2015; il tasso di alfabetizzazione dal 91% del 1995 al 97% del 2016; il Pil pro capite in dollari americani è passato dagli 8.000 del 1999 ai 12.400 dollari del 2017.
Insomma ci sono altri aspetti da considerare per la comprensione del fenomeno venezuelano e della rivoluzione chavista che Maduro ha provato a portare avanti, che non dovrebbero escludere il potere, in pericolo, del dollaro. E poi gli assetti geo-politici, una considerazione globale di quanto successo in tutto il Sud America e le altre rivoluzioni contro le imposte dottrine neo liberiste o i rimedi già imposti altre volte dagli USA e benedetti dalla comunità internazionale chiamata ad essere coesa e solidale con la “democrazia occidentale”.

Per chiudere: “La guerra è una mafia”

Smedley Darlington Butler (1841 – 1940) è stato un generale statunitense insignito due volte della Medal of Honor, la più alta decorazione militare assegnata dal Governo degli Stati Uniti. Durante la sua carriera di marine durata 34 anni partecipò ad azioni militari nelle Filippine, in Cina, in America Centrale e nei Caraibi durante le guerre della banana. Guerre così soprannominate ad indicare una serie di occupazioni, azioni di polizia e interventi militari attuati dagli Stati Uniti nel Centroamerica e nei Caraibi tra il XIX secolo e la prima metà del XX. Il Generale ci lasciò questa frase, tra le tante: “Ho trascorso trentatré anni e quattro mesi in servizio militare attivo come membro della forza militare più agile di questo paese, il Corpo dei Marines. Ho prestato servizio in tutti i gradi commissionati dal secondo tenente al maggiore generale. E durante quel periodo, ho passato la maggior parte del mio tempo a fare l’uomo muscolare di alta classe per il Big Business, per Wall Street e per i banchieri. In breve, ero un racketeer, un gangster per il capitalismo, uno di quelli che ritirano il pizzo.
Ho aiutato la United Fruits (oggi Chiquita) in Honduras nel 1903; ho contribuito a ripulire il Nicaragua per la Banca d’affari Brown Brothers (oggi Bbh) dal 1902 al 1912. Nel 1914 ho reso il Messico un posto sicuro per i petrolieri americani. Ho portato la luce nella Repubblica Dominicana per gli interessi delle imprese della canna da zucchero nel 1916. Ho fatto in modo che Cuba e Haiti diventassero un posto accogliente per i ragazzi della National City Bank (oggi Citigroup Inc.), in modo che potessero rendere profitti. Ho contribuito a stuprare una mezza dozzina di repubbliche centroamericane a beneficio di Wall Street.”
E conclude “… potrei dare dei consigli ad Al Capone. Il meglio che lui sia riuscito a fare è stato operare in tre quartieri. Io l’ho fatto in tre continenti”.

in copertina illustrazione di Carlo Tassi

LA RECENSIONE
Le vie traverse della musica sublime

di Monica Pavani

Il pianista tedesco Alexander Lonquich, protagonista di un imperdibile appuntamento di Ferrara Musica lunedì scorso, prima di immergersi e immergere il pubblico in un concerto a dir poco alchemico, si palesa sulla pedana su cui il pianoforte attende imponente e con grande semplicità si rivolge direttamente al pubblico, dicendo che gli “hanno chiesto” di spiegare la particolarità del programma che propone per la serata. Fa un parallelo con youtube: avete presente – dice – quando si passano le serate a cercare un brano dopo l’altro che si ha voglia di ascoltare, fino a comporre la propria playlist adatta all’umore di quel momento? Ecco, l’accostamento dei vari autori è avvenuto proprio così, seguendo una logica ‘associativa’, e mettendoli tutti insieme – una grande squadra di grandi compositori – non è stato difficile scoprire che non solo si parlano a vicenda, ma anche rivelano l’uno dell’altro aspetti reconditi che magari erano sfuggiti in altri ascolti. Ecco perché il concerto reca il titolo ‘Affinità elettive‘: una forza magnetica attrae le opere tra di loro svelandone ‘sgabuzzini’ oscuri assolutamente stupefacenti.

Comincia dunque il viaggio di Lonquich nella musica, che parte da Stravinsky e arriva a Janáček, a dispetto di qualunque ordine cronologico o coerenza di genere. Perché si passa per esempio per un Grieg con il suo ‘Suono di campaneì del 1891 che – come ci allerta il pianista – sembra scritto cinquant’anni dopo. E accanto a un delicatissimo pezzo di Bruckner, ‘Erinnerung’, del 1868, si scatena il furore di Rachmaninov con il suo Preludio op. 23, dove le connessioni cerebrali si intrecciano in una danza sfrenata a tratti dilaniante. Ci sono attimi che aprono alla meditazione, altri che invitano ad affacciarsi sulla vita con un sorriso ironico e divertito. E Lonquich si muove da un umore all’altro, scalando pareti e scendendo per discese innevate o seccate dal sole. Tutto parla, come in uno spettacolare scenario naturale al variare delle stagioni. Questo è il tempo della musica, un ciclo continuo da primavera a inverno, senza che venga annotato il computo degli anni o ne resti traccia organica.
Ma è con le Variazioni Diabelli di Beethoven che il senso del titolo ‘Affinità elettive’ diventa ancora più lampante. Dice infatti Goethe nel romanzo omonimo: “In questo lasciare e prendere, fuggire e ricercarsi, sembra davvero di vedere una determinazione superiore: si dà atto a tali esseri di una sorta di volontà e capacità di scelta, e si trova del tutto legittimo un termine tecnico come affinità elettive”. Nel caso del grande Beethoven, gli ‘esseri’ sono da intendere come le infinite varianti dell’animo del compositore, ma anche le cascate di note che afferrano il valzer di Diabelli e lo plasmano in molteplici esplorazioni dove il tema iniziale tende a scomparire – tanto viene ricreato di volta in volta in sempre diverse armonie. Basta leggere la successione delle variazioni (Poco allegro, Grave e maestoso, Adagio ma non troppo, Piacevole…) per avere uno spaccato emotivo assolutamente esaustivo di ogni piega e riverbero dell’esistenza. Si ha l’impressione che Beethoven avrebbe potuto non mettere mai fine a questa serie di opere, e che – se come meritava – gli fosse stata donata davvero l’immortalità, avrebbe ideato sempre nuove formule di bellezza.

Lonquich tiene il pubblico in uno stato di incantamento, con il respiro quasi sospeso, e con l’ultima nota delle Variazioni si scatenano ondate di applausi che lo richiamano più e più volte alla ribalta, ottenendo l’esecuzione di ben tre bis, quasi a rimandare all’infinito il momento del commiato (e dunque la fine della musica).

LA FOTONOTIZIA
Gli Este tornano a Palazzo Costabili

La Corte ducale è tornata ad animare le sale di Palazzo Costabili in via XX settembre. E’ successo domenica mattina, nell’ambito delle iniziative in programma per il Carnevale degli Este, che riempirà il centro storico della città con maschere e personaggi della Ferrara del Rinascimento (leggi QUI il programma).

Ecco le foto scattate dal nostro Valerio Pazzi durante e due performance: ‘… al fin che gli astri siano propizi al nostro Signore e Duca…’ della Corte Ducale e ‘Eco e Narciso’ del Rione di San Benedetto (clicca sulle immagini per ingrandirle).

Meno debito pubblico non necessariamente vuol dire più benessere sociale

Il debito pubblico italiano è arrivato a 2.350 miliardi di euro mentre quello mondiale ha superato i 58.000 miliardi di dollari. Cifre enormi ma che allo stesso tempo non dovrebbero spaventare perché il debito pubblico non nasce per essere saldato, anzi la sua esistenza assicura che gli Stati stanno spendendo per il benessere dei cittadini. I dati di tutti gli indicatori mondiali confermano che un basso o inesistente debito pubblico corrisponde a un basso tenore di vita ovvero poca assistenza sanitaria, niente istruzione e risparmio assente.
Il debito pubblico mondiale nel suo complesso potrebbe essere tranquillamente coperto, da un punto di vista puramente contabile, dal fatto che il Pil mondiale supera gli 80.000 miliardi di dollari. Quello italiano, invece, attualmente non viene coperto dal Pil del Paese solo perché, da un trentennio, è al potere una classe politica non all’altezza dell’operosità dei suoi cittadini.
In ogni caso al di là del rapporto debito/Pil a cui siamo abituati a guardare, i 2.350 miliardi di euro sono comunque “coperti” finanziariamente dalla ricchezza dei privati residenti. Questa infatti supera i 4.000 miliardi, e tanto dovrebbe già bastare per dare solidità e ricevere giudizi lusinghieri da parte delle agenzie di rating, inutili e fastidiose mosche che vivono del cattivo odore delle società moderne.
In realtà il debito degli Stati non dovrebbe mai essere coperto dai cittadini e probabilmente nemmeno dovremmo pensare che debba necessariamente essere coperto finanziariamente da qualcuno, almeno quando si comprenda la differenza tra il finanziario e il reale. In ogni caso lo stesso Fondo Monetario Internazionale sollecita a che si guardi a tutti gli asset che uno Stato normalmente possiede, prima di lanciarsi in un confronto tra uno stock (debito pubblico) e un flusso (il Pil).
E allora si scopre che l’Italia ha ancora proprietà immobiliari, artistiche e, sempre secondo il ragionamento del Fmi, tubi fognari, strade, ponti e quant’altro di attivo a fare da contrappeso al passivo. Proprietà statali che hanno un senso e che dovrebbero essere salvaguardate anche in un’ottica neoliberista e di economia moderna, cosa che invece a partire dagli anni ’90 in Italia non è stato fatto. Abbiamo infatti rincorso il mito della privatizzazione a tutti i costi rinunciando a numerose proprietà, dalle banche alle industrie, che oggi avrebbero reso quel rapporto di cui parla il Fmi ancora più favorevole e confortante.
Ma c’è anche altro. Esiste anche il debito detenuto dalle banche centrali che in sostanza non è un vero e proprio debito, e la sua cancellazione è un fatto meramente contabile.
Procediamo con ordine.
La Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea (Bis) afferma nel Working Papers n.399 “Global safe Assets” del dicembre 2012 che “le Banche Centrali … sono state create per essere le banche del sovrano e i gestori del debito del sovrano. Per questo si potrebbe sostenere che le banche centrali furono create per rendere il debito pubblico un asset sicuro”. Ora, nei tempi moderni, il sovrano si identifica con lo Stato e quindi le banche centrali servono a rendere il debito dello Stato sicuro, esente da default e questo per la loro capacità di creare denaro.
Infatti, proseguendo il ragionamento con l’aiuto della Bce, nel documento n.169 dell’aprile 2016, dal titolo “Profit distribution and loss coverage rules for central banks“, nota n.7 a pagina 14, proprio la Banca Centrale Europea scrive che le Banche Centrali “sono protette contro l’insolvenza a causa della loro capacità di creare denaro e possono perciò operare con patrimonio netto negativo“. Cioè una banca centrale ha la capacità di creare denaro per cui può operare, a differenza di qualsiasi altra azienda, in negativo. Del resto, come potrebbe fallire finanziariamente chi può garantire il debito governativo in contanti e in pieno in tutti gli Stati del mondo? (cit. Benoît Cœuré del Comitato Esecutivo della Bce)
A questo punto però il Working Paper nr. 2072 del 2017, sempre della Bce, a pagina 4 e 5 nel confermarci quanto riportato in precedenza “… l’autorità monetaria e l’autorità fiscale possono coordinarsi per garantire che il debito pubblico denominato in quella valuta non sia inadempiente, vale a dire che i titoli di Stato in scadenza saranno convertibili in valuta alla pari, così come i depositi di riserva in scadenza presso la banca centrale sono convertibili in valuta alla pari…” specifica “… Tuttavia, sebbene l’euro sia una valuta fiat, le autorità fiscali degli stati membri dell’euro hanno rinunciato alla capacità di emettere debito esente dal rischio di insolvenza”. Cioè sebbene le banche centrali siano nate (nel mondo) per rendere sicuro il debito degli Stati e sebbene queste possano sempre garantirlo attraverso la monetizzazione dello stesso, i 19 paesi che hanno aderito all’eurozona … hanno rinunciato a questa possibilità.
Lo so, non sembra una cosa possibile ma è così ed è scritto, per cui se noi non possiamo ricostruire dopo i terremoti oppure non possiamo avere sufficienti ospedali e istruzione a livello Norvegia è semplicemente perché abbiamo scelto che dovesse essere così. La buona notizia a mio avviso è che, essendo stata appunto una scelta, si può di nuovo scegliere, magari in maniera più logica e più confacente alle esigenze dei cittadini piuttosto che a quella della finanza. E questa frase è ovviamente rivolta a chi si dovrà recare alle urne il prossimo maggio.
A questo punto: una soluzione immediata per abbassare il debito pubblico domani? Cancellare il debito detenuto dalle banche centrali. Come abbiamo visto, la stessa Bce scrive che le banche centrali possono in ogni momento monetizzare i titoli acquistati e quindi i quasi 400 miliardi in possesso dalla Banca d’Italia potrebbero essere trasformati in moneta e messi in circolazione attraverso programmi di lavoro temporanei, centinaia di opere pubbliche per mettere in sicurezza i territori e magari gestiti dagli Enti Territoriali con ferreo controllo centrale.
Il debito pubblico passerebbe da 3.250 a 1.850 miliardi di euro, portando il rapporto debito/Pil a poco più del 100%. Ma non sarebbe questa la buona notizia, in quanto esclusivamente un dato finanziario. La buona notizia è che la disoccupazione potrebbe passare dall’11% al 3 o al 4%, cioè potremmo avere un dato reale di riferimento per il benessere piuttosto che le solite alchimie contabili.
Un’altra buona notizia potrebbe essere che, passando dai dati finanziari a quelli reali come misura del miglioramento sociale, la vita potrebbe apparirci migliore di quella che solitamente sembra essere.

in copertina illustrazione di Carlo Tassi

Presentazione del libro “La lega Salvini. Estrema destra di governo” alla Libreria Ibs+Libraccio di Ferrara

Da: Ibs+Libraccio

Martedì 26 Febbraio alle ore 18:00, presso la storica sala dell’Oratorio San Crispino Libreria Ibs+Libraccio di Ferrara, Gianluca Passarelli e Dario Tuorto presenteranno il libro “La lega Salvini. Estrema destra di governo“. Dialogheranno con gli autori Giuseppe Scandurra e Sergio Gessi


«A livello internazionale la priorità è sgretolare questo euro e rifondare questa Europa. Sì, quindi, alle alleanze anche con gli unici che non sono europirla: i francesi della Le Pen, gli olandesi di Wilders, gli austriaci di Mölzer, i finlandesi… insomma, con quelli dell’Europa delle patrie» (Matteo Salvini)

Da tempo la Lega ha scelto di posizionarsi nell’area dell’estrema destra: una virata che ha consentito al partito di legittimarsi come forza trainante della coalizione conservatrice, tanto da stravolgerne l’assetto indebolendo l’area moderata. Nello scenario emerso con il voto del 2018 la Lega compete con l’altra formazione anti-establishment, il Movimento 5 Stelle, nel tentativo di monopolizzare il disagio economico e il disorientamento elettorale e di ricomporre, sul piano socio-territoriale, le istanze di cambiamento avanzate dagli elettori. Uno scenario inedito in cui due frères-ennemis si disputano l’egemonia politica e culturale in Italia.

Gianluca Passarelli è professore associato di Scienza politica nella Sapienza-Università di Roma. È ricercatore dell’Istituto Cattaneo e membro di ITANES (Italian National Election Studies). Tra i suoi libri ricordiamo «The Presidentialization of Political Parties» (Palgrave, 2015).
Dario Tuorto è professore associato nell’Università di Bologna e fa parte del Comitato scientifico di ITANES (Italian National Election Studies). Per il Mulino ha di recente pubblicato «L’attimo fuggente. Giovani e voto in Italia, tra continuità e cambiamento» (2018).

PER CERTI VERSI
Azzurri, malinconici versi

Ogni domenica Ferraraitalia ospita “Per certi versi”, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.

ODE ALL’AZZURRO

Ci sono diverse nature dell’azzurro
Variazioni sul tema del cielo
Sui quadri che si amano
Le sfumature della memoria
Quell’azzurro tu mi sei femminile
Appena pallido di foschia
Che sfuoca i contorni
E un mantello di bucaneve
Sorti dal tepore
Di un sogno di primavera
Te li offro come un dono di carnevale
Coriandoli di note blue
Che affondano
Nella mia voce
Sul pianoforte azzurro
della mia poetessa preferita
Le nostre ballate
Encomio di luce
Celestina
Il nome di una mia zia centenaria
Che visse tutto
Quel campo insanguinato
Dai papaveri del Novecento
E tu mi riporti ancora
All’indaco che smalta
Le unghie delle nuvole
Alte sottili
Come le tue labbra
Il vestito alla marinara
Che disegnò mio nonno
Per me in sartoria
Ti dono oggi
Che la tua bellezza
Mi preme
Ascoltare
No non si vede
A tratti solo
Appare

ODE ALLA MALINCONIA

No non poteva mancare
L’ombra sul mio cuore
Quella macchia che nessuno
Può togliere né cancellare
Nemmeno l’allegria
di cui è stretta parente
Lo sanno in pochi
Ma è patente e palese
Come anche il tuo cuore
seppur meno evidente
porta con sé quella macchia
Che li rende unici
Leggeri e pesanti
Assolutamente loro
Fuori dal coro
Dei cuori senza quella macchia
Tutti uguali non distinti
L’ombra mi accompagna
Si stira come un mantello
Anche se sogno
Tu ed io nel momento più bello
Mi fa sentire il tuo eterno vuoto
La tua infinita mancanza
L’autunno delicato
Della speranza
Ma sarebbe folle amore
senza quell’ombra
senza la sua macchia
La poesia non ha risposte
Se le ha
Per sé se le tiene
Non c’è felicità
che non sorga dal soffrire
Né amore
Che non sia
Un andare e venire
Dal cielo
O stare come NOI sul melo
Fiorito
O sì tu torni
È destino
Che ti invito

Con “Futuro anteriore” Teatro Off mette in scena la fragilità della vita

Una continua fluttuazione di stato, fra giovinezza e vecchiaia, autonomia e inettitudine, dovere e bisogno. E quattro giovani attori a rappresentare i personaggi che si inseguono sul palco, vestendo idealmente i panni ora degli uni, ora degli altri, in un continuo carnevale di emozioni, vivendo e trasferendo al pubblico la costante tenerezza che si genera – e talora sconfina in tensione – fra il bisognoso, non sempre consapevole del proprio stato (o disponibile ad accettarlo), e il soccorritore che presta assistenza e talvolta, per frustrazione e sconforto, si intristisce o va in collera.
In platea si ride, si sorride e si riflette.

E’ uno spaccato di vita quotidiana quella messa in scena al teatro Off di Ferrara, un’opera che affronta il delicato tema della vecchiaia, della perdita di autonomia e della conseguente necessità di accudimento che genera tensioni emotive fra chi avverte il dovere di prestare aiuto e colui che talvolta, per inconsapevolezza o rifiuto della propria condizione, quel soccorso respinge. Fra il pubblico, con un sorriso velato di malinconia, si assiste alla perdita di coscienza dell’anziano e alla perdita di pazienza del giovane.

Ma i ruoli si scambiano di continuo sul palco, fra gli interpreti, e si ribaltano le situazioni, con l’anziano che rinsavisce e il giovane che repentinamente invecchia, a emulare l’imprevedibilità della vita, il continuo ribaltamento di stati a cui ciascuno è esposto e dunque a sottolineare anche l’instabilità – oltre alla caducità – del nostro essere e insieme la fragilità della vita.

E’ stata davvero convincente la prima messa in scena di “Futuro anteriore”, opera prodotta dal Teatro Off di Ferrara, con il sostegno del Mibac e Siae, che ha debuttato ieri sera nello spazio-laboratorio al baluardo del montagnone e che ha già fatto il tutto esaurito anche per le due repliche odierne.

Merita però attenzione questa proposta. Il tema, delicato, è affrontato con una garbata ironia che non urta la sensibilità, ma anzi la amplifica, poiché in questo sarabanda di ruoli interscambiabili e di situazioni continuamente incerte e mutevoli, lo spettatore viene coinvolto e avviluppato senza la possibilità di identificarsi in una specifica figura, ma, anzi, indotto a calarsi nei panni di ogni personaggio.
Il copione riproduce precarietà e alternanza di stati assumendoli come peculiarità proprie della vita, che non garantisce certezza ad alcuno e che ci rende oggi re e un attimo dopo schiavi, ora felici e domani affranti, ieri migranti e adesso signori…

Bravi e convincenti Matilde Buzzoni, Antonio De Nitto, Gloria Giacopini, Matilde Vigna guidati dal regista Giulio Costa che ha lavorato su un testo originale di Margherita Mauro. Con la loro recita hanno saputo significare e sottolineare la caducità della nostra umana condizione, alludendo al destino incerto che ognuno deve affrontare. Abili e convincenti nel passare a scena aperta, nel tempo di una battuta, e in una sorta di recita a soggetto, a interpretare contrapposte situazioni sempre ben caratterizzate nei toni, nei gesti, nella mimica peculiare delle figure evocate (figli e genitori, individui autonomi e soggetti non autosufficienti), rendendo credibili i propri personaggi. Il pubblico ha più volte sottolineato il proprio apprezzamento, durante e al termine della recita.

No alla demagogia sul GAD: la soluzione non è militare

da: Ferrara che accoglie e Rete per la pace

LA SICUREZZA E’ UN DIRITTO. E’ UNA COSA SERIA. SI COSTRUISCE ASSIEME.
NON FACCIAMOCI IMBROGLIARE DA CHI PENSA SOLO A DIFFONDERE PAURA E ODIO PER INTERESSE ELETTORALE

Repressione della criminalità, non delle comunità.

Ferrara è una città aperta e sicura, ma ancora una volta viene dipinta come “città sotto
assedio”, “città della guerriglia urbana” e perfino “città della guerra”. Questo è l’uso che sta
facendo la politica dei nostri disagi. Cercano di guadagnare voti con promesse di soluzioni
semplici e radicali come l’uso dell’esercito, scelta rarissima persino nei quartieri più violenti
delle metropoli europee. Tante promesse urlate nessun progetto realistico o realizzabile.
Anche se i reati complessivi sono in calo, in certe zone della nostra città alcuni atti criminali
sono in aumento. I problemi che esistono nella zona GAD vanno contrastati con maggiori
investimenti, maggior coinvolgimento delle comunità, maggior formazione delle forze
dell’ordine, e maggiore conoscenza dei contesti multiculturali.

Spacciatori e comportamenti scorretti vanno perseguiti, la legge va applicata. Questa
criminalità va contrastata dai professionisti delle forze dell’ordine, che devono avere tutte le
risorse e le competenze necessarie per svolgere il lavoro. Non esistono soluzioni a basso
costo. Non esistono soluzioni semplicistiche e militaristiche.

In un contesto di crescente povertà, le prime vittime della criminalità sono sempre i più
poveri, i più vulnerabili. In Italia, e in tutto il mondo, la povertà è sempre stato terreno
fertile per l’instaurarsi della cultura dell’illegalità. Uno dei primi doveri delle autorità
cittadine è quello di proteggere i cittadini più disagiati, per il bene di tutti.

Le esperienze di centinaia di città in tutto il mondo ci insegnano che questo lavoro si basa
anche sulla creazione di canali di comunicazione e di legami di fiducia con le comunità più
a rischio. Se ci sono bambini che hanno difficoltà ad andare a scuola vanno aiutati, se ci
sono donne che hanno bisogno di uno spazio, cerchiamolo insieme. Le barriere linguistiche
e culturali vanno superate puntando anche sulla collaborazione delle famiglie, dei figli
scolarizzati in Italia. Il rapporto di fiducia con i giovani della prima generazione dell’Italia
multietnica è molto importante.
Il quartiere va rivalutato incentivando l’apertura di esercizi commerciali, l’uso dei locali
vuoti, promuovendo attività culturali.

La demagogia non serve. Crea solo danni.
Più di qualsiasi altra cosa, le famiglie, immigrate o non, desiderano un futuro sereno
per i propri figli, come tutti.
E’ la nostra città! Ne vogliamo perdere un pezzo?

Spaventano le parole che sentiamo circolare, anche da soggetti pubblici. Dove portano? Ad una battaglia razziale?
Un quartiere militarizzato è un quartiere perso per tutti.
Ferrara è una città aperta e sicura, e deve rimanere tale per le prossime generazioni.

quale-futuro

Un futuro da sognare non da dominare

Guardiamo al futuro con ansia, desiderio, aspettative, speranze, disillusioni, inquietudine, preoccupazione, a volte anche gioia, perché costruire visioni dà alle nostre azioni una qualche direzione. Il futuro, così come lo cerchiamo nelle nostre raffigurazioni mentali, nelle proiezioni o nella letteratura d’anticipazione è un’astrazione, l’astrazione di un desiderio o di una paura che abbiamo oggi e che diventa una presenza impalpabile. Nel nostro sistema cognitivo siamo costretti a immaginare il futuro ed è ciò che ha reso grandi i nostri progenitori: preconizzare un tempo a venire è ciò che dà forma al presente.
Abbiamo bisogno di profeti e profezie; i media chiedono previsioni di esperti e siamo intransigenti quando falliscono, anche se sappiamo che la complessità rende tutte le previsioni inevitabilmente difficili, a volte impossibili. Abbiamo bisogno che il futuro possa essere predetto per scienza o magia, da una maga affabulante o dagli algoritmi sofisticati della supertecnologia informatica.

Gli scrittori del passato come Verne, Abbott, Wells, si avventuravano nel futuro con le loro narrazioni affascinanti e straordinarie, ma si tratta di un divenire in cui persone e personaggi rimangono immutabili, mentre tutto intorno a loro cambia, presupponendo che le percezioni culturali e i valori sociali rimangano costanti, mentre ciò che cambia è la tecnologia, che contribuisce a cambiare cultura e valori, accompagnata anche dalla casualità. Oggi il futuro non è più un tempo ‘ulteriore’ ma è diventato un tempo ‘che sta dopo’ diventando una procedura, una mera amministrazione del presente applicata nel futuro, sottoposta a controlli che convalidino la correttezza dell’intero processo. Studi sul futuro e metodologie di previsione da parte del mondo accademico sono state sviluppate per informare i politici sugli scenari ipotizzati, rassicurare o allertare investitori e imprenditori, tracciare linee previsionali in merito a ciò che deve ancora accadere a breve, medio e lungo periodo, sulle tematiche più diverse.

Nelle opere letterarie delle varie epoche passate, in cui dominano l’aspetto onirico, l’attesa, la scoperta, la conoscenza e la straordinarietà di un futuro, ciò che colpisce profondamente sono i dettagli, spesso incredibilmente esatti, che accompagnano le profezie visionarie che a volte richiamano a un ritorno darwiniano, altre volte sono di rottura totale col presente e con il conosciuto. Romanzi che contengono verità e realtà accostabili alla nostra epoca e rendono il futuro di allora, ormai il nostro passato. Già nel 1818 Mary Shelley nel suo capolavoro ‘Frankenstein’ anticipa il trapianto di organi, proprio quando la scienza dell’epoca stava appena iniziando a esplorare le nuove possibilità della rianimazione di tessuti morti attraverso l’elettricità, e qualche decennio più tardi, Michel Verne, figlio di Jules, descriveva nel suo romanzo ‘Un espresso per il futuro’ (1888), un sistema di trasporto simile ai treni ad alta velocità, in grado di viaggiare a 1000 km/h: lo stesso Hyperloop in fase di realizzazione che collegherà, entro il 2025, San Francisco a Los Angeles. Nello stesso anno, Edward Bellamy introduceva il concetto di carta di credito nel suo romanzo utopico ‘Guardando indietro: 2000-1887’, mezzo di pagamento che acquista diffusione solo a partire dal 1950. Nel romanzo di Herbert George Wells del 1899, ‘Il risveglio del dormiente’, esistono porte automatiche scorrevoli che funzionano tramite sensori, scoperta che sarà realizzata nel 1960. Lo scrittore americano Mark Twain, in ‘From ‘The London Times’ in 1904’, un breve racconto del tempo, immagina un dispositivo capace di collegarsi alla rete telefonica per creare un sistema mondiale di condivisione di informazioni, chiamato telectroscopio, attraverso il quale le persone rendono pubbliche e commentano le proprie azioni quotidiane, pur essendo molto lontane. I social di oggi. Scrive: “La connessione fu fatta con la stazione telefonica internazionale e giorno per giorno parlò con la sua gente, e si rese conto che per grazia di questo meraviglioso strumento, era quasi libero come gli uccelli del cielo, sebbene prigioniero sotto serrature e sbarre”. E sempre a proposito di tecnologia, Hugo Gernsback descrive senza esitazione l’impiego dell’energia solare, la tv, i registratori a nastro, i film sonori e i viaggi nello spazio, nel suo romanzo ‘Ralph R4 C 41+’ del 1911.

Intuizioni, visioni, immagini, grande slancio creativo fantastico che accompagna anche l’immancabile ‘Farenheit 451’ di Bradbury (1953), popolato di nuovi congegni e scoperte come la tv a schermo piatto e le ‘conchiglie’, dispositivi portabili non molto diversi dagli attuali auricolari. Ambientato nel 2540, il romanzo di Aldous HuxleyIl mondo nuovo’ (1931) anticipa la nascita degli antidepressivi o ‘pillole dell’umore’, che i personaggi chiamano ‘Soma’ e che gli scienziati non iniziarono a studiare prima degli anni Cinquanta. Il ritratto di una società capitalistica dipendente dalle droghe, che dà più valore alla libertà sessuale che alla monogamia ed è strutturata in caste. Un cult del romanzo anticipatorio è naturalmente ‘2001 Odissea nello spazio’ di Arthur C. Clarcke (1968), dove si scrive di vita intelligente, guerra nucleare, evoluzione e pericoli dell’intelligenza artificiale, super computer. Ma la previsione più accurata riguarda i fogli elettronici o ‘newspad’, che assomigliano molto all’iPad. In tempi più recenti, ‘Neuromante’ di William Gibson (1984) anticipa quello che negli anni Novanta diventerà popolare: la diffusione del World Wide Web e la nascita degli hackers. La maggioranza della gente stava ancora esplorando il funzionamento del computer, mentre i personaggi di Gibson lo utilizzavano agevolmente e altrerttanto agevolmente rubavano i dati agli altri utenti. ‘Tutti a Zanzibar’ è il romanzo di John Brunner del 1968, uno dei libri con il maggior numero di spoiler: si parla di tv on demand (che acquisterà diffusione nel 2009), tv satellitare, stampante laser, auto elettriche, legalizzazione della marijuana in molte nazioni ed Unione Europea. Il romanzo è ambientato negli Stati Uniti, governati dal Presidente Oboni.

Sogni, deliri, profonde intuizioni o cos’altro? Scriveva Karl Popper: “Il futuro è molto aperto, dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero, dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte”.

Cinema e psicanalisi: guardare il conosciuto con un paio di occhiali diversi

da Elena Lo Sterzo

In una stagione in cui le ‘piazze’ virtuali stanno prendendo il sopravvento su quelle fisiche e reali, e in cui c’è quindi il rischio che le interazioni e le comunicazioni umane prendano le sembianze di gare narcisistiche a chi crea l’identità più incisiva e attraente, oppure di discussioni aggressive senza preoccuparsi troppo di conoscere l’altra persona, gli spazi e le occasioni di creare confronto più genuino e riflessione comune sulle tematiche più disparate costituiscono nuovi catalizzatori di connessione umana ed empatia.
A Ferrara si è provato a fare un esperimento per esplorare queste potenzialità utilizzando la ‘cassetta degli attrezzi’ che ci siamo costruite negli anni, quella da psicoterapeute, unendola alla passione per il cinema. Il binomio psicologia e cinema non costituisce una gran novità: da sempre il cinema ‘attinge’ dall’inesauribile bacino costituto dalle emozioni e si sporca le mani infilandole nel torbido delle passioni. Comprensibilissimo, essendo il cinema una modalità di raccontare il quotidiano, che risponde pertanto a un bisogno, quello della narrazione, che l’essere umano ha da sempre. Narrare storie, da quelle fittizie a quelle più realistiche, aiuta a spiegare, a dare un senso, ma anche creare e consolidare un senso di identità e di comunità. Allo stesso tempo, immaginare scenari alternativi può anche servire a sperimentare un nuovo punto di vista nei confronti del già conosciuto e vissuto quotidiano: a tal proposito si pensi al fatto che le primissime scene girate dai fratelli Lumiére hanno ripreso proprio momenti di vita quotidiana, e per di più personali: gli operai all’uscita della fabbrica dove loro stessi lavorano, una petit dejeneur con moglie e figlia di uno dei registi…
La necessità insomma di provare a guardare il conosciuto con un paio di occhiali diversi. In questi termini, prezioso è il parallelismo tra i meccanismi psicologici messi in moto dal cinema (inteso sia come sua creazione che come sua fruizione) e quelli messi in moto dalla psicoterapia, che tra gli obbiettivi principali ha proprio quello di far “decentrare” la persona dalla narrazione della vita in cui è immerso e alla quale è profondamente attaccato e osservare con consapevolezza le caratteristiche del proprio personalissimo “paio di occhiali per guardare il mondo”.
Desiderando proseguire con tale parallelismo tra cinema e psicoterapia, meccanismi cognitivo-emotivi potentissimi che si attivano nella visione di un film sono quelli dell’empatia e dell’immedesimazione: pur consapevoli che ciò che vediamo sullo schermo è fittizio, inevitabilmente cediamo alla “suspension of disbelief” (Coleridge) che consente di immedesimarsi nei personaggi e nelle storie raccontate e provare emozioni reali, e fare riflessioni, siano essi parallelismi o prese di distanza, tra ciò che vediamo e la vita vissuta. E ancora, il riconoscimento sullo schermo di emozioni o situazioni simili a quelle da noi vissute nella realtà ha un potente effetto di validazione, ovvero la conferma del fatto che un particolare vissuto è comprensibile, normale, e, potenzialmente universale (soprattutto tenendo in considerazione il contesto e gli antecedenti nei quali è prodotto). Validare un’emozione aiuta a sentirsi meno soli, alieni o diversi da ciò che ci circonda (sensazioni che spesso possono essere all’origine del malessere interiore).

Nel primo esperimento di questo Cineforum sulle emozioni – intitolato ‘CINEMozioni‘ – abbiamo affrontate tre tematiche: ‘Connessioni Pericolose, il ruolo della Rete nel plasmare il quotidiano’; ‘Imbarazzo ed estraneità, 100 sfumature di timidezza’; ‘Il re è nudo! la coesistenza di grandiosità e fragilità nel Narcisismo’. Tali tematiche sono state affrontate proponendo una breve introduzione iniziale ai temi trattati, la visione di alcuni spezzoni di film (per esempio per la serata sulle Connessioni Pericolose il film ‘Her’ di S. Jonze e l’episodio ‘Caduta Libera’ della serie Black Mirror; per la serata sulla timidezza pezzi di ‘Il riccio’ di M. Achache, ‘I sogni segreti di Walter Mitty’ di B. Stiller ed ‘Emotivi anonimi’ di J. Ameris; per la serata sul narcisismo i film ‘E’ solo la fine del mondo’ di X. Dolan e ‘Anomalisa’ di C. Kaufman), seguita da un confronto libero finale.

Cosa è successo in queste serate? Ci siamo ritrovati circa in una ventina di persone complessivamente e dopo le visioni proposte si sono creati momenti di confronto e discussione sui temi proposti ed i vissuti attivati, spaziando da tonalità di piacevolezza, a sfumature di fastidio e bisogno di rimarcare la distanza o il non accordo con i vissuti rappresentati. Attimi e fenomeni, noi crediamo, molto preziosi. Vorremmo ripetere questa esperienza aumentando ancor di più la dose di partecipazione, partendo per esempio proprio da una progettazione partecipata: quali tematiche affrontare? Attraverso quali pellicole? E’ possibile creare momenti e spazi di condivisione e di ‘ri-alfabetizzazione’ emotiva attraverso il cinema, anche per promuovere una visione della psicologia non basata sulla demarcazione tra salute e malattia, ma su un continuum tra benessere e malessere che caratterizza la condizione umana?

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Il pranzo della suocera

L’interesse inatteso, la telefonata al momento giusto e la condivisione di una passione comune erano segnali che le facevano pensare a qualcosa di diverso, finalmente.
L’età matura di entrambi sembrava una garanzia di rispetto dell’altro, di un gioco finito, di un tempo più adatto all’equilibrio che ai rapporti di forza.
Per settimane si erano sentiti e visti tra amici, nella quotidianità di lei lui era entrato esibendo da subito la sua patente: sono sposato ma con mia moglie è finita da anni, frequentiamoci.
La presenza e il fare garbato l’avevano persuasa a vivere quella conoscenza con fiducia e sguardo avanti, da tempo non riceveva tante attenzioni.
Il primo appuntamento era fissato per una domenica pomeriggio d’inverno: cinema e pizza. Ma dal mattino di quella domenica il telefono era rimasto inspiegabilmente muto, nessun saluto, nessuna conferma.
Poco prima dell’orario stabilito per l’appuntamento, lei prova a contattarlo, vuole sapere.
“Sto tornando dal pranzo della suocera, ho mangiato troppo. Alla prossima”.
Lei è una donna solida e non permette che ci sia una prossima volta, non così. Coglie immediatamente la verità, non cade nella dipendenza, non gli offre la sua attesa né intende mettersi in coda. È finita l’indulgenza che scusa sempre tutto, non è vero che tanto è lo stesso e può capitare. Crede invece che non serva lui ne faccia un’altra e che la prossima volta diventi l’ennesima volta. Può bastare la prima. Non è arrabbiata, ha visto cosa potrà esserci (e non esserci) davanti e preferisce di no.
Prende la macchina, esce lo stesso e cena da sola, festeggiando buona la prima.

A voi è mai successo di intuire, dai segnali, che un rapporto non sarebbe andato e avete lasciato perdere o vi siete accaniti, provandoci a tutti i costi?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

La fabbrica dell’insicurezza

Ferrara andrà presto a elezioni. Onde per cui, dopo i fatti di sabato sera, non potendoli schierare contro i Gilet Jaunes francesi che piacciono tanto a Di Maio, Matteo Salvini manderà altri militari in Gad.
E’ così che la nostra povera città sale agli onori delle cronache. Siamo dunque allo stato di guerra? Scusate, ma io non ci credo. La ‘soluzione militare’ è la peggior soluzione possibile, è pura follia: un buon modo per attizzare il fuoco invece di spegnerlo. Forse però bisogna alzare gli occhi da Ferrara, guardare il quadro da un po’ più lontano. Altrimenti non si capisce.

Prologo western
Tutte le volte che incontro il ministro Salvini – e lo incontro almeno 20 volte al giorno, data la sua sapienza a materializzarsi in qualsivoglia media. Tutte le volte che lo vedo – e lo riconosco all’istante, anche se lui cerca di disorientarmi cambiandosi la felpa e travestendosi da sceriffo, poliziotto, militare, pompiere, militante di Casa Pound o volontario della protezione civile. Tutte le volte che lo ascolto parlare – usando carezze e promesse, minacce o avvertimenti – mi viene in mente il Vecchio West .
Ho sempre avuto un debole per i film western. Dai classici in bianco e nero come “Ombre rosse” ai capolavori di Sergio Leone, dagli spaghetti western pieni di salsa di pomodoro a quelli dalla parte degli indiani come “Piccolo grande uomo”, da “Kill Bill Volume 1” di Quentin Tarantino, a “Il Grinta” dei fratelli Coen.
Anche il genere western è epica, ancorché un’epica minore rispetto a quella che si studia a scuola. Così, non si dà western senza un eroe in primo piano. Senza uno sceriffo e un fuorilegge. Un buono e un cattivo.

La strategia dello sceriffo furbo
In America – nel Vecchio West, ma anche oggi in molti Stati dell’Unione – la carica dello sceriffo è elettiva. Per diventare sceriffo devi convincere i tuoi concittadini che sei tu l’uomo giusto, il più fottutamente duro, l’unico in grado, quando arrivano i cattivi, di “mettere le cose a posto”.
Matteo Salvini è uno sceriffo particolarmente furbo. La sua nuova Lega, meno nordista e più nazionalpopolare, ha sostituito il rito dell’ampolla del fiume Po con il formidabile algoritmo ‘Bestia’, basando molte delle sue fortune sul martellamento mediatico: viva la sicurezza e addosso gli immigrati.
Che poi in Italia, dati ministeriali alla mano, non ci sia né un’emergenza sicurezza (nel Belpaese si delinque più o meno come ieri o l’altro ieri) né tantomeno una emergenza sbarchi (calati di oltre l’80% nell’ultimo anno), ha poca importanza. Né ha importanza che l’Italia (quella in carne e ossa) sia afflitta da ben altre emergenze: poveri in aumento esponenziale, disoccupazione al palo, aziende che chiudono, produzione industriale a picco, ambiente disastrato, periferie abbandonate a se stesse, scuole col tetto pericolante e senza termosifoni .
L’elenco potrebbe continuare, ma sarebbe davvero inutile. Il superlavoro mediatico, l’infinita campagna elettorale dello sceriffo furbo è tutta concentrata sulla paura. La paura degli immigrati: che ci portano via il lavoro, abitano nelle nostre case, mangiano il nostro pane a ufo, vendono droga agli angoli delle strade. E soprattutto delinquono: a tutto spiano: da mane a sera: di giorno e di notte.

La insicurezza non è un’invenzione, però…
Bisogna intendersi. La insicurezza non se l’è inventata Salvini. In Italia sono insicuri i giovani, senza prospettive e che scappano all’estero. Sono insicuri i 6 milioni di italiani sotto la soglia di povertà. E’ insicura una classe media sempre meno media e sempre più impoverita. Sono insicuri i milioni di lavoratori precari senza alcuna protezione. Gli operai che perdono il lavoro. I vecchi sempre più soli. L’insicurezza esiste eccome, ma il capolavoro del leader leghista, la sua idea geniale, è quella di aver ‘scovato il colpevole’, di aver offerto agli italiani un capro espiatorio (nero, per giunta) a cui addossare la colpa di tutti i mali.
Per vincere – anzi, per trionfare, visti gli ultimi sondaggi – lo sceriffo d’Italia ha bisogno di aver di fronte un pericoloso fuorilegge. E se il cattivo non c’è, lo sceriffo furbo se lo inventa. Così Salvini ha incanalato tutta la insicurezza che gli italiani vivono ogni giorno, gli ha dato un nome e un cognome: i clandestini, gli africani, gli invasori.
Il cerchio si chiude. Sarà poi lo stesso sceriffo, sfidando a duello il cattivo, a riportarci la pace e la sicurezza perduta.

Decreto Sicurezza? Aou contraire
C’è però qualcosa di peggio, di più furbo – e di più cinico – nella strategia di Matteo Salvini (sul cinismo leggete “M” di Antonio Scurati e vi chiarirà molte cose). Nei panni del Grande Comunicatore, il leader maximo della Lega alimenta una formidabile macchina mediatica contro profughi, immigrati e stranieri in genere. E sempre lui, questa volta come Ministro degli Interni e domus del governo giallo-verde, si impegna concretamente per aumentare il tasso di insicurezza in circolazione nel Paese. Perché, come si sa, le parole non bastano: ci vogliono i fatti.
Il fatto più eclatante, il provvedimento più gravido di conseguenze nefaste è il D.L. 113, meglio conosciuto come ‘Decreto Sicurezza’, voluto fortissimamente da Matteo Salvini e votato con la fiducia da un Parlamento silenziato. Un decreto che sembra fatto a bella posta per mettere in circolo altra insicurezza, altra paura, altro razzismo.
Il decreto dimezza i fondi per l’accoglienza, segnando la probabile morte dell’esperienza degli SPRAR, un esperimento forse imperfetto, a volte mal gestito, ma sicuramente il progetto più avanzato e intelligente per l’integrazione. Chiudono gli SPRAR e vengono ‘liberati sul territorio’ migliaia di profughi: a stazionare nelle piazze e nelle stazioni, a ingrossare l’esercito dei lavoratori schiavi, alcuni ad arruolarsi nelle fila della malavita organizzata.
L’articolo 13 del Decreto reca invece le “Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica”. Bastano poche righe e il permesso di soggiorno non costituisce più un titolo per aver diritto al certificato di residenza. E’ una misura assurda, lesiva dei diritti più elementari della persona, ma – vista dalla parte dello sceriffo Salvini – è un modo perfetto per fabbricare nuovi clandestini. Un sistema per creare più disagio, più precarietà, più insicurezza.

Il monello e il vetraio
Alla fine, non ci vuol molto a scoprire il gioco di Matteo Salvini. La sua strategia si basa su un trucco vecchio come il mondo. Ce lo racconta Charlie Chaplin, senza bisogno di parole, nel suo capolavoro “Il Monello” (1921). Il monello passa per la strada, tira sassi e rompe i vetri delle finestre. Appena dietro di lui, arriva un omino con il suo carretto: è il vetraio che offre il suo servizio ai poveri abitanti con le finestre rotte.
Il monello e il vetraio – ma gli abitanti della via non lo sanno – lavorano assieme, fanno parte della stessa ditta: uno rompe e l’altro si offre di aggiustare. Salvini però è ancora più bravo, recita entrambe le parti in commedia: il monello e il vetraio. Fabbrica ogni giorno più insicurezza e contemporaneamente appare come colui che ci porterà in dono la sicurezza perduta.
Ma se il giochino della ‘fabbrica della insicurezza’ è così elementare, perché gli italiani (compresi i tanti con le finestre rotte) non hanno ancora mangiato la foglia?
Evidentemente non è così semplice.
Infatti la fabbrica della insicurezza lavora senza sosta. In tutto il mondo. Di qua come di là dell’oceano, dove, per finanziare il suo Muro contro un nemico inesistente, Donald Trump bypassa Congresso e Costituzione americana e proclama lo stato di emergenza nazionale.
La fabbrica della insicurezza non è una novità. L’abbiamo già vista in passato in piena produzione. Anche in Italia, con un esito tragico. Quella volta ci sono voluti più di vent’anni e una guerra orrenda, perché noi italiani aprissimo gli occhi. La speranza è che questa volta ce ne possiamo accorgere un po’ prima.

in copertina illustrazione di Carlo Tassi

Il buonismo all’eccesso è la benzina del razzismo

Voglio essere estremamente chiaro a proposito dei fatti accaduti a Ferrara sabato notte.

  1. Quel che è successo è gravissimo e non ha precedenti nella nostra città.
  2. Siamo di fronte a una pericolosa banda di criminali e spacciatori.
  3. Gli artefici dei disordini sfruttano la loro nazionalità e il colore della pelle come alibi.
  4. Nazionalità e colore della pelle non sono un’attenuante. Diritti e doveri sono gli stessi per tutti. Questo pone sullo stesso piano chiunque, di qualunque razza o credo religioso e politico sia. Le attenuanti valgono solo in ragione (per esempio) di uno stato di necessità o di estrema indigenza. E valgono per tutti alla stessa maniera. C’è una differenza abissale tra chi ruba o delinque per lucro e chi lo fa per sopravvivenza.
  5. I delinquenti che hanno creato una situazione di forte allarme sabato sera nell’area del grattacielo non agivano in stato di necessità, ma mossi dai loro loschi interessi e per la tutela dei loro traffici illeciti. Non meritano alcuna indulgenza.
  6. Chi sui social minimizza o esorta il ministro Salvini ‘a guardare piuttosto a quel che succede a Napoli’, usa un espediente arrugginito: non è cercando di spostare l’attenzione altrove che si risolvono i problemi. E, anzi, in questa maniera si inaspriscono gli animi e si inducono reazioni altrettanto insensate, come quelle di chi, esasperato, finisce per assimilare indiscriminatamente tutti i migranti ai criminali.
  7. Va ribadito che la distinzione fra persone perbene e delinquenti è trasversale alle razze, alle religioni, alle ideologie. Ciascuno per sé è chiamato a rispondere di ciò che fa e di ciò che non fa. E nessuno può essere accusato di correità semplicemente per il fatto di condividere il colore della pelle oppure un credo politico o religioso.
  8. Per contrastare il fenomeno della criminalità è necessario creare un coordinamento tra le forze dell’ordine sotto il patrocinio della Prefettura, così come avvenne a Ferrara, con ottimi risultati, già una dozzina di anni fa fra Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, quando, fra l’altro, fu sgominato lo spaccio di droga nel sottomura.
  9. L’Amministrazione comunale è chiamata prioritariamente a intervenire su due fronti: quello della mediazione culturale attraverso i propri operatori e quello dell’ascolto dei cittadini e delle loro esigenze, per fornire risposte concrete tenendo conto anche delle soggettive ‘percezioni di insicurezza’, ed evitando sterili predicozzi sociologici.
  10. In conclusione: un gruppo di delinquenti ha tenuto in ostaggio la città per qualche ora, come mai era accaduto prima, minacciando, creando impedimenti al traffico, ostruendo l’accesso alla stazione e generando un situazione di evidente pericolo. Se si nega questa evidenza (paradigmatica rappresentazione di altre, meno drammatiche ma analoghe quotidiane situazioni di pericolo), si finisce inevitabilmente per suscitare una reazione di rabbia che andrà ad alimentare il pregiudizio anche attorno ai migranti che agiscono correttamente e si arrabattano ogni giorno per sopravvivere in maniera onesta.

DIARIO IN PUBBLICO
Vacanze speciali in luoghi speciali

Con un po’ d’apprensione partiamo per elaborare il lutto della pelosa. Destinazione, la città che dopo Venezia amo (forse) di più al mondo: Napoli. Albergo antico, quando a Napoli soggiornavano i reali e naturalmente si chiamava Excelsior, a via Partenope con vista sul borgo di santa Lucia. “Luxe, calme et volupté”.

Sembra una città totalmente diversa da quella che ero uso frequentare. Il caos è lo stesso, ma disciplinato. La luce accecante di giornate ventose e limpide crea quell’ambiente che solo Napoli sa inventare tra povertà e ricchezza; tra bassi apparentemente infrequentabili e palazzi che mostrano con indifferenza e noia le loro ferite, portate come medaglie. Certo un po’ di apprensione fugata da compatte schiere di guardie e poliziotti che ti sorridono e ti augurano ‘buongiorno’ mentre ‘lento pede’ ci avviciniamo a Piazza Plebiscito, immensa, dove i ragazzini giocano a pallone e nel momento in cui il crepuscolo accende di luci rosate un cielo di porcellana facciamo la nostra entrata al ‘Gambrinus’. Un perfetto cameriere nero con voce profonda e totalmente napoletana ci avverte che i tavolini sono riservati per la conferenza. “Quale?”, domando incuriosito. “Quella sul libro del prof Occhetto” mi si risponde. “Se vuole…” No! grazie.

Dall’altra parte della strada occhieggia l’insegna della Trattoria del professore Posso lasciarmela scappare? Ma risulta esaurita. Ci rimane la Galleria Umberto; il sorriso si spegne quando osserviamo i preparativi degli homeless – tanti – che si preparano per la notte e noi ci dirigiamo per l’aperitivo da Bellavita, che offre quello più classico della città. La direttrice mi sussurra “amore, le è piaciuto l’aperitivo?”. Assento vigorosamente e l’ex bella accenna a un sorriso sdentato. La sapiente cognata ci aveva indicato una trattoria che risulta tra le sorprese più belle del soggiorno: Da Marino a Santa Lucia. Quarta generazione di proprietari. Ex latteria aperta nel 1934; locale assai piccolo ma… un ‘biggiù’ direbbero lì. Profumi, sapori, accompagnati da trionfali Falanghine.
Il locale sembra un santuario. Sotto vetro tutte le maglie del Napoli compresa quella di Maradona. Dentro una teca il pallone naturalmente firmato da lui e alle nostre spalle la foto di un’immensa macchina anni Trenta dove, accanto ad essa, un fiero signore osserva orgoglioso grappoli di scugnizzi che s’arrampicano su ogni sporgenza della vettura. Chi sarà mai stato?

Il giorno dopo ci rechiamo a Capodimonte. Il parco è pieno di gente che passeggia. I poliziotti ci accolgono con squillanti benvenuti. Arriva un colosso in divisa. Tiene sotto braccio, come una baguette, un pelosino felicissimo. Mentre gli gratto la gola racconto all’umano la fine della mia Lilla tra sprizzi di lacrime. Mi consola con generosa partecipazione e la baguette-canino ci elargisce una leccatina comprensiva. Entriamo al Museo e non possiamo credere: siamo soli come fossimo Carlo III che passeggia nella sua quadreria. Le meraviglie pittoriche ci osservano e ci chiamano. Così Bellini, Tiziano, Raffaello, Goya, Bruegel e uno sdegnato pannello di piccoli quadri ferraresi tra cui Dosso e Garofalo ci avvertono di non fare i furbi che ‘loro’ sono i concittadini! Poi l’ascesa alla stanza 68. Qui il divino Caravaggio sembra spiegare tutta la sua forza a contrastare i visi malvagi dei torturatori e un bianco velo copre il sesso elevandolo a poesia. Storditi da tanta bellezza sentiamo improvvisamente bisogno di ‘lavarci le mani’. Un sollecito guardiano ci indica una porta grigia proprio accanto al quadro. Siamo un po’ imbarazzati, quasi sorpresi a compiere un affronto alla bellezza. Ma poi pensiamo: dove trovava i suoi modelli? Proprio in luoghi come questo. E trascurando perfino l’Agrippina di Canova usciamo felici nel sole ventoso. Chi ha avuto un san Valentino più speciale?

E sempre più ci immergiamo nella napoletanità. Chiese e chiese. Il Gesù, il chiostro di Santa Chiara, san Domenico, il Duomo e il tesoro di san Gennaro, a confrontare con la moglie, stupita, se sono più grossi gli smeraldi della mitria o quelli della corona d’Inghilterra. I Domenichino ci ammiccano accennando ai fedeli che s’inginocchiano e accendono candele nella cappella votiva: volti e statue dorate ripetono la grande leggenda del santo napoletano.
Inebriati dalla folla, dai rumori, scendiamo e saliamo: Spaccanapoli, via Toledo. E infine sosta nella piazza più allegra di Napoli: non può essere che piazza Dante. Così a poco a poco si forma la mia geografia interiore: via Francesco de Sanctis, in fila a bocca aperta ad ammirare il Cristo velato, piazza Dante sotto l’immagine paterna, Port’Alba a curiosare tra i libri, san Domenico tra antifonari e meravigliosi manoscritti e tra i presepi a san Gregorio Armeno.

Cosa può avere ancora Napoli? Ma certo i castelli e le fortezze. Il Maschio angioino, il cui nome è già segno di napoletanità, Castel dell’Ovo e lontano, sfumati nella leggera nebbia, Posillipo e Mergellina. Ricordo ancora un piccolo albergo a Posillipo. Si chiama Paradiso. La sera che arrivammo tentarono il furto della macchina e facemmo la guardia tutta una notte nella macchina stessa. Poi arrivò Maradona e ne fece il suo quartier generale. Il chiacchericcio con i tassisti si fa sempre più cordiale. Quasi tutti conoscono Ferrara. Quello che ci riporta alla stazione ha lavorato per anni come camionista tra Napoli e l’Austria e ricorda la nebbia che, gli dico, non c’è più. Quarto di dieci fratelli. Il suo babbo gli chiese se voleva studiare, ma lui preferì il lavoro. A Natale quando si riuniscono l’assemblea è formata da una novantina di persone: fratelli, cognate figli e nipoti. Con orgoglio gli dico che sotto casa a Ferrara ho un vero pizzaiolo di Napoli che le fa buone come nella sua città.
Mi sorride complice e promette che passerà a salutarlo quando ritornerà a Ferrara.

L’uomo della Provvidenza (vestito da poliziotto)

“Notte di disordini a Ferrara. Roba da matti. Grazie alle forze dell’ordine. Sarò presto in città per mettere un po’ di cose a posto”. Quanto ci sia dello Spaccone-Paul Newman e quanto dell’uomo della Provvidenza-Benito Mussolini nel ministro dell’Interno – nonché segretario nazionale della Lega – Matteo Salvini è difficile valutare. Di certo, avessimo le doti dell’esorcista, intimeremmo un “esci da quel corpo, spirito immondo”. Il problema è che quello spirito non pare un intruso, ma si direbbe proprio connaturato nell’alfiere leghista.
Una nuova occasione per mostrare le sue muscolari e taumaturgiche doti gliel’hanno offerta i disordini scatenati a Ferrara sabato notte da un gruppo di nigeriani nella zona del grattacielo. Così, come i Pigiamini supereroi dei cartoni animati che stuzzicano la fantasia dei bimbi e “di notte risolvono la situazione”, il Matteo-nazionale è pronto per un’altra impresa. E proclama, spavaldo, la sua intenzione.
Lo attendiamo, dunque, con indosso la consueta divisa, ormai suo costume di rappresentanza: giubba della polizia che ostenta con sistematicità, suscitando nella pancia di qualcuno un senso di protezione e nella testa di altri i fantasmi di uno Stato repressivo che, incapace di far valere le norme del diritto e di favorire un civile dialogo all’interno della comunità, sceglie sbrigativamente di risolvere i problemi a pistolettate, non sempre e solo verbali. Intendiamoci: un conto sono i poliziotti veri, quelli che tutti i giorni svolgono con dedizione il loro lavoro per garantire la nostra incolumità. Altro è il ministro-travestito, travisato da tutore dell’ordine per ragioni scenografiche e dimentico del fatto che il suo dovere non è intimare, ma esortare, non è mostrare i muscoli ma il cervello.
La polizia è un apparato dello Stato, ed è intollerabile la concezione di uno Stato di polizia evocata dalla divisa indossata da un ministro…

PER CERTI VERSI
Come due maggiolini

Ogni domenica Ferraraitalia ospita “Per certi versi”, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.

SALVIAMO LA BIOSFERA!

Muoiono tanti insetti
Troppo cemento
Troppi veleni
Troppo caldo
Loro tengono in ordine il pianeta
Sono i pifferai del polline
Cibo per gli uccelli
Gli anfibi
I rettili
E questi dei mammiferi
E loro di noi
Noi padri e madri
Vediamo incenerirsi il domani
Del mondo
Mentre chiusi nel qui e ora
La nostra era
É autodistruttiva
Siamo ancora in tempo
Cambiamo rotta
Salviamo la biosfera

DUE MAGGIOLINI

Tu ed io siamo
Due maggiolini
Non Volkswagen
No quegli insetti
Rotondi piccolini
Un po’ alieni
prediletti
Muoiono nella luce
A milioni
I nostri beni
Naturali
Nel buio corrotto
Da prodotti letali
Nuovi fitofarmaci
Che uccidono a dirotto
NOI siamo quelli
E stiamo vicini
Nella oasi fiorita
Stiamo la’
Tutta la vita

Riflessione sul mondo dell’arte

Da: Alberto Vita Finzi

Non è mia abitudine scrivere sui social nè di dare sfoggio di me pur consapevole di quanto la pubblicità sia l’anima del commercio. Sento comunque il dovere morale di prendere posizione a favore di ciò che è solita affermare il curatore d’arte Laura Rossi relativamente al mondo dell’arte e come questo sia spesso gestito da individui, cosiddetti critici, ma anche galleristi o comunque fabbricanti di artisti, venditori di parole e di illusioni. E’ noto a tutti, o quasi a tutti, come codesti artigiani lavorino: l’illusione di essere considerato un artista o quantomeno un buon pittore piace a tutti coloro che praticano questa attività. E’ risaputo, l’artista o chi si ritiene tale è spesso preda di una componente narcisistica non indifferente, non un sano narcisismo che spinge a proiettarsi in avanti, ma una debolezza che spesso rende schiavi. E’ proprio su questa debolezza che personaggi con pochi scrupoli, bravi illusionisti giocano le loro carte. E’ solo questione di prezzo! La grandezza di un neofita aspirante artista o anche di un vecchio mediocre praticante dell’arte è direttamente proporzionale all’esborso. Vuoi farti conoscere? Nessun problema! Mostre, cataloghi, articoli su quotidiani o anche riviste d’arte, basta pagare. Mi chiedo se esista un tariffario nazionale. Non hai un curriculum adeguato? Lo si costruisce. Vuoi una pagina su cataloghi anche importanti? Paga! Vuoi vedere le foto delle tue opere pubblicate? Paga! Pagando puoi persino esporre in America…Può succedere, probabilmente questa è la regola, perlomeno questa è la mia esperienza che qualcuno ti proponga di firmare ” un contrattino” dove ci si impegna a fare almeno due mostre all’anno per un certo periodo di anni. Ovviamente la presentazione delle mostre e la stesura dei relativi cataloghi sono appannaggio del personaggio con cui ti sei vincolato firmando il ” contrattino”, ovviamente previa adeguato pagamento che viene stabilito verbalmente all’atto del contratto. Può accadere che una volta arrivato, o credendo di essere arrivato l’artista costruito debba continuare a pagare per restare in auge e non cadere nel dimenticatoio. Nel migliore dei casi, nell’ipotesi in cui ci si affidi a qualche gallerista devi dipingere su commissione, che so tre nature morte, due vasi di fiori, dieci paesaggi, cinque informali rossi, due verdi e tre neri. Certo i guadagni per sopravvivere ci sono ma a quale prezzo? Chi scrive è un produttore, forse mi auguro, un ex produttore di ” paccottiglie”, un ex narcisista guarito ed ora disilluso. Siamo nel 1991 o giù di lì che a qualcuno viene l’idea di invitare ad una mia mostra il maestro Franco Farina, direttore della galleria d’arte moderna di Ferrara. In quell’epoca facevo del figurativo ,scimmiottando o credendo di scimmiottare Alberto Sughi. Di quei lavori non resta quasi più nulla, solo alcune tracce che conservo per me come ricordo di un passato poco brillante ( ho avuto il pudore di recuperare le tele e di ridipingendovi sopra). La critica come è intuibile fu inclemente, devastante, spietata tanto che per circa due anni non fui capace di guardare neppure una tela bianca, ma in compenso ho tanto riflettuto guardandomi dentro. E’ grazie a quella critica, che ferì il mio orgoglio ma guarì il mio narcisismo che ho trovato una mia dimensione pittorica. Non vidi più Farina quindi mai saprò cosa direbbe ora dei miei lavori, purtroppo è morto, ma a lui sarò sempre grato. L’augurio che rivolgo a tutti coloro che si dedicano alle pratiche artistiche è quello di incontrare tanti maestri Farina e nessun critico pennivendolo, nessun operatore del settore che sfrutti illudendo. Questo lo so, è solo utopia. Non c’è rancore, nè invidia come qualche meschino potrebbe pensare. Il mio è solo amore per l’arte, quella vera, così svilita in un mondo tanto corrotto che non risparmia nulla. Ho quasi settanta anni ed è finito il tempo della rabbia, è ora il tempo delle riflessioni, se vogliamo della denuncia.

Renzi vs Berlinguer e gli equivoci di una Sinistra confusa

Da: Cristiano Mazzoni

Sentire parlare Renzi di Berlinguer è come sentire Gelain parlare di Edson Arantes Do Nascimiento. Non è semplicemente offensivo, è fuori tema. Non c’entra nulla, sono piani contrapposti, è come scivolare sulle pendici del Montagnone seduti su un cartone e fare la discesa libera sulla Streif a Kitzbühel.
L’ex leader di un partito, che alcuni, ancora, purtroppo, imperterriti ritengono di sinistra, che con orgoglio dichiara di mai essere stato comunista, rivendicando, anche se non palesemente, le sue origini democristiane, è la vera nemesi della evaporazione dei valori di sinistra nella società italiana.
Sia chiaro, nessuna critica a chi è diverso da me, io sono il solito, anacronistico dinosauro e quindi non faccio testo. Ma è interessante analizzare, in maniera sociologica il percorso effettuato dal Partito Democratico, figlio della tradizione catto-comunista italiana, da prima della sua fondazione ai giorni nostri.
Il povero Renzi, figlio dei fantasmi dei Natali precedenti, non perde occasione per dimostrare il suo fastidio nei confronti dei rossi, la lettera scarlatta che lui e pure gli altri, rifiutano senza se e senza ma.
Addirittura nel criticare Berlinguer ed il Pci addita il fatto di essere stato tra la gente, come un difetto, mettendo al primo posto la vittoria elettorale e non la rappresentanza di un popolo. Ricordo al ragazzaccio di Firenze che un Italiano su tre era comunista e che 12.600.000 nostri connazionali a metà degli anni settanta votarono il primo partito in alto a sinistra nelle schede elettorali.
Il coinvolgimento, il sentirsi una piccola parte di una grande utopia, non ha eguali nel misero panorama politico della nostra penisola.
Sarebbe bello un mondo dove i tasselli del puzzle riprendessero ad avere la loro consona collocazione.
Il Renzismo è un sepolcro imbiancato del neoliberismo attuale, il Partito Democratico è (a parere mio) un raggruppamento moderato di una destra liberale.
Mi assumo le responsabilità delle mie opinioni, criticabili, opinabili, ma mie.
Vedrei bene uno schieramento elettorale in stile Nazzareno, probabilmente competitivo alle elezioni.
E la sinistra ?
E’ un’altra cosa.
Non potrà mai esistere, e storicamente mai esistette, una ipotetica unità a sinistra, se non verrà fatta chiarezza su che cos’è o cosa vuole essere la sinistra italiana.
Mille anime, mille rivoli, mille raggruppamenti, che mai vinceranno le elezioni. Ma per ricreare un popolo e ritornare a parlare con quel medesimo popolo è fondamentale, partire da una vittoria elettorale ?
Ecco, io credo sia quello il problema. E’ come se una squadra di calcio dei dilettanti si ponga il problema di vincere la Champions.
Occorre camminare, prima di iniziare a correre.
La modernità di Berlinguer sta nelle sue idee, sta nell’aver capito che il mondo non è o bianco o nero, sta nella ottusa convinzione che gli ultimi sono la base di un qualsiasi raggruppamento di sinistra, che non si vergogna della bandiera rossa e che addirittura ne rivendica la forza trainante di cambiamento della società.
Io ritengo legittime le posizione centriste e centripete di molti esponenti della sedicente sinistra italiana.
Ma non sono le mie.
Non credo che si esca dalla crisi stando né a destra e né a sinistra, così facendo si diventa barricata, parafrasando Lenin.
Semplicemente credo che l’evoluzione del capitalismo rapace, quello della mercificazione e privatizzazione del tutto, abbia fallito, così in Italia e così nel mondo.
La cosa pubblica, il welfare, il solidarismo, “ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni” (cit.), non sono concetti superati e nemmeno ottuse paturnie di pochi trinariciuti vetero comunisti. Sono il punto di partenza o meglio di ripartenza, di una sinistra di popolo, una sinistra dell’anima, che non ha la velleità di ricostruire uno sbriciolato centro sinistra, ma ha l’obbiettivo di ricostruire se stessa.
Matteo, non volermene, ma non metterti più contro Enrico, non ne hai il fisico, sarebbe come se Patricio Sumbu Kalambay avesse voluto sfidare Muhammad Ali.
Sarebbe stato un match senza storia.
Cordialmente rosso,
e senza vergogna.

ARTE
Quell’influencer di Boldini: la nuova mostra a Palazzo dei Diamanti

Un artista che ha anticipato gli influencer con cent’anni di scarto: è stato anche questo Giovanni Boldini, il pittore nato a Ferrara nel 1842 e diventato uno dei più ricercati ritrattisti del bel mondo a Parigi, dove è morto nel 1931. Nella capitale mondana a cavallo tra fine dell’Ottocento e primi del Novecento, infatti, il pittore ferrarese ha saputo cogliere il grande potere delle immagini, diventando con il suo pennello il veicolo capace di trasformare un abito in un’icona di stile. A raccontarlo – con una mostra creata apposta in base a studi dei carteggi e della documentazione legata alle opere di cui il Comune di Ferrara detiene la più grande collezione al mondo – è l’allestimento intitolato “Boldini e la moda”, che sarà visitabile a Palazzo dei Diamanti di Ferrara (corso Ercole I d’Este 21) da sabato 16 febbraio fino a domenica 2 giugno 2019. A svelare in anteprima alla stampa e ai mass media ferraresi l’indagine sullo stretto rapporto tra l’arte e il mondo dell’artigianato, del lusso e dell’alta società che diventa il cardine attorno a cui cresce la popolarità delle opere è stata la curatrice dell’esposizione Barbara Guidi, esperta delle Gallerie civiche d’arte moderna e contemporanea che per l’occasione si è avvalsa anche della collaborazione con la storica del costume Virginia Hill.

Allestimento della mostra “Boldini e la moda”, Palazzo dei Diamanti di Ferrara (foto GM)

Gli stilisti creavano gli abiti e lui li faceva indossare a celebrità come la cantante lirica Lina Cavalieri definita la “Venere in terra” da Gabriele D’Annunzio o la ballerina Cléo de Mérode che fece innamorare il re del Belgio. E così il gioco – anzi il quadro – era fatto, in quell’alone impalpabile di sete, veli e velluti preziosi l’incanto si compiva e nasceva la prima grande alleanza tra abilità sartoriale, celebrities e divulgazione per immagini incorniciate e rimbalzate di Salone in salotti.

“Donna con turchese (Cléo de Mérode)” di Giovanni Boldini, photogravure a colori, 1901
“Donna con cappello (Lina Cavalieri)” di Giovanni Boldini, photogravure a colori, 1902

Il nero è chic: altra constatazione modaiola che arriva con un secolo di anticipo. A consacrare il colore dei trend-setter del primo Millennio è un’intuizione che resta inizialmente élitaria e che la mostra testimonia, dedicandole un’intera sala del palazzo dei Diamanti. Sdoganato il colore dall’ambito del lutto e della sera, il total-black diventa segno di distinzione, enfatizzato – come ha spiegato Barbara Guidi – dal fatto che all’epoca solo stoffe di alta sartoria riuscivano a rendere elegante e raffinata questa tinta, impossibile da riprodurre con efficacia su materiali meno lussuosi. E Boldini sulle sue tele ne sa enfatizzare la matericità, rendendo ad esempio davvero palpabile la differenza tra la parte in seta lucida e quella in feltro nella tuba di uno dei ritratti maschili in esposizione.

Ritratto di “Cecilia Fortuny” in giacchetta nera (foto Dino Buffagni per Palazzo dei Diamanti)
“Visite – cappotto in velluto e raso di seta neri appartenuta a Cecilia de Madrazo”

Donne che gli abiti li vestono e svestono. L’altra grande intuizione o anticipazione che si può collegare a Boldini è la sapienza nel rivelare la sensualità che sta sotto gli abiti. Un aspetto a cui è dedicata un’altra sala della mostra “Boldini e la moda”, quella dove si svela il segreto della “Silhouette” accentuata da quell’accessorio intimo che è il corsetto. Ecco allora la bellezza prorompente de “L’attrice Alice Regnault” in abito bianco discinto e già immortalata da Boldini in un paio di stanze prima in abito nero da amazzone che ne stringe sempre la sottilissima vita. Lo stesso accessorio spunta nel disegno a matita e pastello di stile boldiniano ma dell’artista Paul Helleu (“Elegante di spalle con corsetto azzurro”, 1896) e poi c’è lui – il corsetto in raso, seta e stecche di balena – che viene dal Musée des arts décoratifs di Parigi.

“Elegante di spalle” di Paul Helleu, 1896 (foto Dino Buffagni)
Corsetto, Musée des Arts Décoratifs,Parigi (foto Dino Buffagni)

Memorie letterarie sotto le tele. A sancire il peso mediatico dell’arte di Boldini e a conferire alle sue opere quel salto di qualità che le fa uscire dall’effimero modaiolo per consacrarle come stile evocatore di femminilità, lusso e bellezza assoluta contribuiscono le parole scritte. Ecco allora che nella rassegna le pareti di ognuna delle sale dove sono raccolti quadri, abiti e oggetti riporta una citazione presa di volta in volta da scrittori, poeti o anche stilisti. In apertura il riconoscimento di quanto senso di fascinosa bellezza emanino i dipinti boldiniani viene dal grande stilista Christian Dior, che ha scritto “Delle donne della mia infanzia mi resta soprattutto il ricordo dei loro profumi, dei vortici di pelliccia, dei gesti alla Boldini”. Poco dopo è la volta di Charles Baudelaire che coglie il binomio che ci sta sotto, dove ciò che è il presente e l’effimero diventa canone fuori dal tempo: “La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte la cui altra metà è l’eterno e l’immutabile”. Nella sala dedicata a “Il tempo della modernità”, infine, il rimando tra la signora in rosso del ritratto “Miss Bell” di Boldini e le pagine del libro di Marcel Proust. Perché il dipinto sembra dare forma e colore alla visione della fascinosa donna evocata da Marcel Proust nel romanzo “Du côté de chez Swann”, un’immagine materializzata anche dal recupero di un paio di scarpe di quella stessa tonalità ed epoca, appartenute a una celebre contessa.

Scarpe della contessa Greffulhe e una preziosa edizione del libro di Proust. Sullo sfondo il ritratto in rosso di “Miss Bell” (foto Dino Buffagni)

“La mostra – fa notare l’assessore comunale alla cultura Massimo Maisto – è il risultato straordinario delle competenze messe a frutto dalle Gallerie civiche e Ferrara Arte, che non si comprano ma si fanno crescere sul territorio e restano un patrimonio della città, capace di creare eventi come questo, auto-prodotti e propedeutici a valorizzare una collezione d’arte locale con un valore internazionale”.

Allestimento della mostra “Boldini e la moda” a Palazzo dei Diamanti di Ferrara (foto GM)

“Boldini e la moda”, Palazzo dei Diamanti, corso Ercole I d’Este 21, Ferrara, sabato 16 febbraio-domenica 2 giugno 2019, tutti i giorni orari 9-19

Nella foto di copertina abito da gran ballo bianco con maniche a sbuffo della Fondazione Vassiliev esposto insieme al ritratto della donna in abito bianco “Fuoco d’artificio” di Giovanni Boldini (foto GM)