Skip to main content

Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Parole a Capo /
Fabio Vallieri: “Poesie in tempi di attesa”

Tornate non dovete fare altro. Qui se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto.”
(Franco Arminio)

 

Non mi è dato sapere
d’essere vivo né
so per certo
se io muoia tra i vivi,
davvero,
ignorando lo spasmo
accentuato del cuore,
il magma di refusi
che scuote le sorde
sembianze incorporee –
poiché noi: si viene, si va
annullandoci.
(Poesia tratta da “Come Ruggine” Book Editore, 1997)


*

 

Possiedo un coltello
per la crosta dei giorni.
Di nuovo nebbia e torba (gradite)
scovando l’edera sotto i calcinacci.
Ho provato l’assedio
fiutando lo stato abrasivo degli oggetti,
in testa uno spazio diluito oltre i tappeti.
“Puoi scegliere la luce più bianca
della lampada” mi dici
lenendo con garza la pelle ustionata.
La notte, veglierò l’esodo dei bagliori
nel silenzio della neve che dorme sulle ortiche.
*
Così hai scelto di morire.
Poi furono le nubi limose e corrotte
dai corvi.
Si rimane ad innaffiare un ricordo
anche quando piove e provare sete
è qualcosa che ci insulta.
(Poesie  tratte da “L’Urto“, Giuliano Ladolfi Editore, 2011)
*
Ormeggio
sulla battigia delle tue labbra
accovacciato
come una gazza che scruta
in attesa che il tuo risveglio
si faccia nitido e il respiro gemito,
alito caldo.
Che l’aria si fenda
sulle tue gambe nude
mentre ti apri e concedi
come al mattino,
la luce che sorge.
*
L’inverno è aghiforme al mio cuore,
ma non è il dolore della frattura che avverto
o il sentore dell’osso che va in frantumi
né lo spavento di una collisione:
è l’assenza di te che matura,
inesorabile distanza, distacco,
un soffitto che cede di schianto
o il salmodiare stanco reiterato nel vuoto.
Questo inverno è umbratile al mio umore,
lascio i pochi oggetti e gli indumenti a terra
ed i capezzoli inturgidire al sole.

(Poesie tratte da: ” Cutter (ciò che si insinua)” Puntoacapo Editrice, 2023)

 

Fabio Vallieri è nato a Ferrara nel 1971. Ha vinto, per la poesia, il Premio “Granaglione” (Bo) 1996, il Premio “Dante città di Ferrara” 1997, il Premio “Gianfranco Rossi” 2001. E’ stato segnalato al Premio “Riverart” città di Venezia 1994. E’ stato incluso nell’Opera Comune. Antologia di poeti nati negli Anni Settanta (Borgomanero, Atelier 1999).
Di “Come Ruggine”, sua opera prima, ne hanno parlato Sandro Montalto, “Il Segnale” n.56(2000); Giuliano Ladolfi, “Atelier” n.11(1998), Giorgio Manacorda, Annuario di Poesia 2002-2003 (Roma, Castelvecchi) e ancora Sandro Montalto nel volume, Tradizione e Ricerca nella Poesia Contemporanea (Novi Ligure, Joker 2008).
Di “L’Urto”(Ladolfi Editore) 2011, sua opera seconda, ha ricevuto una segnalazione di merito al Premio “Antonio Guerriero” Civetta di Minerva (Starze di Summonte, Avellino 2013).
Una selezione di testi tratti da “l’Urto” è comparsa sul numero 16 della rivista “Versodove”. Suoi testi sono stati pubblicati sulla rivista “Atelier”.
Nel 2013, assieme al cantautore Simone Beghi, ha dato vita al progetto TETRO dando alle stampe il cd autoprodotto “Dissonanze Armoniche d’Urto” proponendolo in più occasioni in set live anche presso la “Resistenza”, Circolo Culturale e Sociale ferrarese.
Cutter(ciò che si insinua), Puntoacapo Editrice, terza opera, viene edito nel marzo 2023 con una prefazione di Fabrizio Lombardo.
Lavora nello stabilimento Petrolchimico ferrarese.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Officina Teatrale A_ctuar e la cecità del mondo

La cecità è andata in scena sabato 6 aprile alla Sala Estense, con Officina Teatrale A_ctuar e la colonna sonora di Lucien Moreau. Un viaggio nel mondo di ieri che è anche, tristemente, di oggi.

“Male bianco” è la rilettura del meraviglioso e celebre romanzo di José Saramago, “Cecità”. In scena i giovani attori del progetto teatrale “Mondi (IM)possibili”, curato da Officina Teatrale A_ctuar, con una colonna sonora originale di Lucien Moreau (Eugenio Squarcia) cha fa uso di elettronica generativa e sound design sperimentale.

Sperimentazione e giovani, la platea né è piena, due elementi fondamentali per successi come quello di questo incredibile, originale, e unico, spettacolo, in un percorso teatrale guidato da Sara Draghi e Massimo Festi, con la collaborazione anche della danzatrice Alessandra (Ale) Fabbri, per le coreografie.

“Siamo ciechi che, pur vedendo, non vedono” è la frase di Saramago che, immediatamente, coinvolge e tocca tutti. Se poi si aggiungono il caos della città, un ex manicomio e lo scoppio di un’epidemia improvvisa di cecità con uno Stato invadente che invita al sacrificio e mette in isolamento, che porta la mente ai momenti della recente pandemia di Covid, ci troviamo subito immersi in un mondo distopico. E in quell’esperienza collettiva globale che ci ha profondamente cambiato (si sperava in meglio, ma così non è, se vi pare).

Ci sono tutti gli ingredienti di questa società oscura: l’indifferenza, l’egoismo, il potere e la sopraffazione, le difficoltà dei giovani, l’ingiustizia, la guerra di tutti contro tutti, la violenza, il terrore, il male di vivere, il buio della ragione. La perduta via smarrita.

E se si pensa che il testo di Saramago è del 1995, in un tempo e un luogo non precisati, la riflessione e la visione profetica sono disarmanti e allarmanti.

Con sullo sfondo questo, i giovani attori di A_ctuar (che quest’anno compie dieci anni), invitati ad inserire nella pièce un monologo su sé  stessi, si raccontano, parlano delle proprie necessità, delle difficoltà di crescere, di accettarsi, di piacersi, dell’inadeguatezza che a volte si percepisce, della ricerca di un posto nel mondo dei ‘grandi’.

Un percorso bellissimo di crescita culturale condivisa, di socializzazione e di grande partecipazione. Spazio alla città, allora, spazio ai giovani.

Il progetto teatrale Mondi (IM)possibili è stato realizzato in collaborazione con Consorzio Factory Grisù e il patrocinio del Comune di Ferrara e della Regione Emilia-Romagna

Gli attori: Ada Alberti, Agata Bovolenta, Matei Covasa, Sara De Zordo, Eleonora Ferri, Giulia Guariento, Stefano Marraffa, Carolina Martinez, Valeria Miotto.

Pagina Facebook di A_ctuar

Foto Valerio Pazzi

Emergenza climatica: una sentenza storica della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Emergenza climatica: una sentenza storica della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Sono state emesse stamattina dalla Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo le attese sentenze sulle tre cause climatiche intentate presso il foro. I giudici erano chiamati a valutare se la mancata adozione da parte degli Stati di politiche climatiche in linea con gli impegni assunti con l’Accordo di Parigi configurasse violazione dei diritti dei loro cittadini. È la prima volta che la Corte si pronuncia sulle mancate misure per il clima.

Nel caso Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri contro la Svizzera, la Corte di Strasburgo ha condannato la Svizzera per la mancata adozione di misure in materia climatica, riconoscendo di fatto la relazione tra difesa del clima e tutela dei diritti umani. La CEDU ha stabilito che il mancato raggiungimento degli obiettivi di riduzione dI gas clima alteranti ha violato alcuni diritti umani. La sentenza dovrebbe costringere il governo elvetico a varare politiche climatiche più efficaci e può avere importanti ripercussioni su altri Paesi europei.

Non è invece positivo l’esito della causa Duarte Agostinho e altri V. Portogallo e 32 altri Paesi, presentato da 6 giovani portoghesi. I giudici di Strasburgo hanno infatti dichiarato inammissibile il ricorso: “Per quanto riguarda la giurisdizione extraterritoriale degli Stati convenuti diversi dal Portogallo, la Corte ha ritenuto che non vi fossero motivi nella Convenzione per estendere, tramite interpretazione giudiziaria, la loro giurisdizione extraterritoriale nel modo richiesto dai ricorrenti. Considerato che i ricorrenti non avevano intrapreso alcuna via legale in Portogallo in merito alle loro denunce, il ricorso dei ricorrenti contro il Portogallo è risultato irricevibile anche per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne”. La dichiarazione di inammissibilità va dunque interpretata come una devoluzione alle giurisdizioni nazionali delle cause in materia.

“In altre parole – commenta Lucie Greyl dell’organizzazione A Sud e co-coordinatrice della Campagna Giudizio Universale – la CEDU ha rimandato ai giudici nazionali il compito di pronunciarsi sull’adeguatezza delle politiche climatiche e sugli impatti che la mancata azione ha sui diritti umani. Una ragione in più per impugnare la sentenza con cui il Tribunale ha dichiarato inammissibile la nostra causa”. È di un mese fa infatti la sentenza del Tribunale Civile di Roma ha rigettato la causa intentata da 203 ricorrenti contro lo Stato Italiano per “difetto assoluto di giurisdizione”. Eppure, il contenzioso sul clima contro lo Stato italiano (A Sud et. al. contro Italia) si basa proprio sulla minaccia ai diritti fondamentali causata dall’inadeguatezza delle politiche climatiche e affronta la mancanza di un quadro normativo sul clima e l’assenza di politiche basate sulla scienza. “L’altra novità importante è che il legame inscindibile tra azioni di contrasto ai cambiamenti climatici e tutela dei diritti da oggi ha nella pronuncia della CEDU un riconoscimento fondamentale per le nostre battaglie per la giustizia climatica”.

Respinto infine il caso Carême c. Francia, riguardante il ricorso presentato da un ex abitante e sindaco del Comune di Grande-Synthe: secondo la Corte “il ricorrente non aveva lo status di vittima ai sensi dell’art. 34 della Convenzione”.

Fidest agenzia di stampa

Fidest è un’agenzia giornalistica a diffusione internazionale e generalista. È stata fondata nel 1989 e la sua sede è a Roma. Ha iniziato con periodicità settimanale e in cartaceo per arrivare on-line (nel 2002) con pubblicazione quotidiana. Il suo scopo è quello di alimentare un secondo circuito informativo riprendendo le notizie dai comunicati stampa che pervengono direttamente alla redazione da tutte le parti del mondo sia in italiano sia in altre lingue (principalmente inglese, francese e spagnolo). Le notizie riportate sono accessibili a tutti i visitatori senza limitazione e la consultazione è gratuita. Fornisce, a richiesta, note di documentazione per giornalisti e ha attivato dei centri studi per gli approfondimenti tematici su l’alto sviluppo tecnologico, la pubblicità, il marketing, il sociale e l’educazione politica, l’evoluzione scientifica e il paranormale, gli studi letterari, filosofici, psicologici e storici e la tutela dei diritti dei cittadini. Svolge attività editoriale in proprio con testi relativi agli studi svolti dai centri studi della fidest. Inoltre svolge anche la funzione di ufficio stampa e di pubbliche relazioni.

Vite di carta /
Malinverno, un eroe tardo romantico nel romanzo omonimo di Domenico Dara

Vite di carta.  Malinverno, un eroe tardo romantico nel romanzo omonimo di Domenico Dara.

16 verticale: impazzì delusa dall’amore per Amleto.
Scrivo Ofelia senza pensarci un attimo e intanto valuto che il caso è generoso nel farmela incontrare ultimamente.

Ofelia è il personaggio femminile che ho appena frequentato leggendo il corposo romanzo Malinverno, scritto da Domenico Dara e uscito presso Feltrinelli nel 2020. Corposo e pieno, pienissimo di letteratura.

Lei per prima, la Ofelia ombrosa e dal viso bellissimo che il protagonista ama fino alle vette emotive del sublime, proviene dritta dritta da precedenti letterari. Nella sua malinconia, che è propensione alla pazzia, fa rivivere prima di tutto la eroina omonima creata da Shakespeare nell’Amleto.

Il protagonista maschile, che è anche la voce narrante, si chiama Astolfo Malinverno. Intanto il nome Astolfo è un altro bel marchio letterario che viene dallOrlando furioso di Ariosto, dal paladino degli innumerevoli viaggi che va perfino sulla luna.

Ora vediamo la vita che egli conduce nel suo paese, Timpamara, un posto semi-immaginario collocato in Calabria. Astolfo conduce una vita quotidiana in apparenza monotona e abitudinaria: nelle ore del mattino è custode del cimitero locale, i pomeriggi li passa come bibliotecario a sistemare e prestare libri nella biblioteca del paese.

Per uno che è nato “tre settimane dopo Alain Delon e il giorno prima di Woody Allen” il non aver fatto centro nella vita sembra essere lo stigma inamovibile che lo relega nell’anonimato, alla periferia del vivere. E infatti lo conosciamo all’inizio nella sua quotidianità solitaria di orfano e con il limite della zoppia congenita che lo tiene ancorato ai piccoli spostamenti dentro il paese. 

Eppure dentro le giornate tutte uguali pulsa lo spessore esistenziale che Astolfo si è dato negli anni attraverso le sue letture. Astolfo è uno che si è letto infiniti libri, ha letto i classici di varie letterature, ha conosciuto storie e vite di carta e si è infiammato per i finali dei libri dove il mondo non si ricompone e il protagonista muore.

La morte e i libri sono il binomio su cui è costruita la struttura tematica del romanzo, quando Astolfo comincia il suo lavoro al camposanto le due sfere del suo interesse interagiscono e si contaminano. Si affolla dentro le sue giornate una galleria di paesani, viventi o defunti, con nomi e cognomi strampalati, in una sorta di espressionismo anagrafico che preannuncia le loro stranezze, o le manie, o i tic e le traversie esistenziali.

Le letture di Astolfo lo portano ad abbinare persone e personaggi letterari, come se i viventi fossero espressioni fenomenologiche riconducibili ognuna al proprio paradigma di carta.

Ed ecco entrare in scena Ofelia, che viene in visita alla tomba della madre. È inevitabile l’incontro con Astolfo, che in quanto custode del luogo spesso si aggira tra le sepolture per prendersene cura.

C’è di più: Astolfo si è da tempo innamorato della donna della foto a cui Ofelia somiglia come una goccia d’acqua, è stato attratto irresistibilmente dal mistero e dalla bellezza che promana dal suo volto sulla lapide senza nome e dagli occhi magnetici. Ha voluto darle un nome e ha scelto Emma in onore di Madame Bovary, la celebre eroina di Flaubert.

Lo sguardo della donna emana un mistero assoluto anche nella Testa di Ofelia pazza, il magnifico quadro di Michele Rapisardi che è il pezzo forte della collezione catanese di pittura esposta in Castel Ursino. Giorni fa cercavo i voli per Catania e, eccolo il caso, mi è apparsa la schermata con gli orari di visita al castello e la raffigurazione del volto di Ofelia. 

Davanti a due occhi così si entra nel libro e si comprende come la sensibilità tardoromantica di Astolfo venga travolta dall’amore per la versione vivente di Emma.

L’amore di Astolfo fluisce presto su Ofelia, e Ofelia ama lui: sono compagni nel ricostruire la vicenda triste della madre di lei, ricoveratasi nel vicino manicomio in età ancora giovane e con la figlia piccola da proteggere. Il viaggio dentro al passato serve a Ofelia per comprendere che la madre non l’ha abbandonata: facendosi rinchiudere spontaneamente l’ha salvata  dalle cure inadeguate che poteva darle e dalla sua follia.

La morte e l’amore divengono l’altro binomio che fissa le coordinate della vicenda narrata, e insisto sulla morte non volendo svelare la fine della storia d’amore. 

Mi limito a richiamarli come categorie dello spirito romantico che Dara ha voluto assegnare al suo protagonista, e aggiungo l’estenuazione nel dolore e la propensione alla malattia mentale e fisica come elementi di una sensibilità tardoromantica che affiora tra i personaggi del libro e tra le tombe del cimitero. Con la matita ne ho segnati non pochi di passi così, durante la lettura.

Verso la fine della storia lo stesso Astolfo richiama le sottolineature che ha tracciato nei libri, in un passo che da solo mi rende questo romanzo degno di essere letto:

“Pensai prima di addormentarmi che il libro letto è tutto racchiuso nelle sottolineature. Pensai prima di addormentarmi che un giorno qualcuno avrebbe potuto fare un libro dei libri in cui riportare tutte le frasi sottolineate. Pensai prima di addormentarmi che anche la morte è una immensa sottolineatura, in cui il Grande lettore decide cosa è degno di essere ricordato e cosa invece può scivolare nel fondo del dimenticatoio universale”.

Nota bibliografica:

  • Domenico Dara, Malinverno, Feltrinelli, 2020

Cover : Michele Rapisardi, Testa di Ofelia pazza (1865)

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

A scuola da don Milani (Seconda parte)

A scuola da don Milani. Seconda parte

Don Milani la pace e le mille sfumature del pacifismo, il militarismo, la patria

Non saprei dire se è giusto mettere don Milani nella folta, variopinta, talvolta ambigua, schiera dei pacifisti.

Oggi personalmente tenderei ad escluderlo. Di sicuro si può dire che era per la non violenza. Di ispirazione gandhiana. E quindi contro la guerra (come diceva della sua posizione, lo stesso Gino Strada, che di guerre se ne intendeva, e che non amava il termine “pacifista”).

Era contro la guerra, don Lorenzo, e tutto quel mondo di militari e paramilitari, che campava di retorica bellicista e militarista, convinti che solo la guerra è la levatrice della storia. Quei cappellani che, più militari che preti, pretendevano pure di imporre il loro militarismo alle libere coscienze, abusando delle insegne sacerdotali. Andavano pure avvertiti, questi residui bellici, che i tempi delle crociate erano passati da molto!

Oggi in presenza di due tragiche guerre vere, in Europa e dintorni, la nostra coscienza è tormentata da molti dubbi e poche certezze.

Abbiamo così un triplice confronto morale:

  1. quello contro la guerra, distinguendo fra i carnefici e le vittime (che, come dice don Milani, sono sempre i più poveri) e stare senza esitazione dalla parte delle vittime;
  2. quella contro la retorica intorno al concetto di nazione, indicata come la “patria” e assunta come criterio identitario di appartenenza, ideologica ed etnica;
  3. quello del rapporto fra coscienza libertà e obbedienza.

È la storia che ci insegna che il nazionalismo, frutto dell’idea esasperata di nazione, associato sempre a patria, è la prima causa ideologica delle guerre. Ed è proprio questa associazione, fra patria e guerra, che don Milani rompe, clamorosamente, enunciando la sua originale idea di patria.

Un certo uso dell’idea di patria, diceva il priore di Barbiana ai cappellani militari, ha legittimato, come è stato ricordato, “armi che sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, fare orfani e vedove”, al seguito della retorica imperiale, per la grandezza della patria e della razza.

Nel contempo riafferma la lotta, non violenta, dei poveri. “le armi che io riconosco sono lo sciopero e il voto”….“ e se voi dividete il mondo in italiani e stranieri, io reclamo il diritto di dividerlo in diseredati ed oppressi da una parte, e privilegiati ed oppressori dall’altra”.

Morti e massacri, si diceva, sempre servendosi dell’obbedienza. Quell’obbedienza “che voi esaltate senza nemmeno domandarvi, come fa san Pietro, se dobbiamo obbedire agli uomini o a Dio”. Cosa c’è di più evangelico, di più sacro di queste parole di don Lorenzo?

Che definisce coraggiosi, i pochi che vanno in prigione per fare, come san Pietro: “aspettate a insultarli, dice ancora a loro. Domani forse scoprirete che sono dei profeti.…  che, come sempre, i profeti stanno in prigione…e non è bello stare dalla parte di chi ce li tiene.”

“Nelle figure di Socrate e del Gesù dei vangeli, si incarnano i modi dell’obbedienza e della disobbedienza in quanto entrambi espressione della libertà” nota Maisto.

Difende così la libertà di coscienza don Milani, ma in effetti prende di petto la guerra. “Apertamente antimilitarista e contrario ad ogni guerra” ci dice Gaccione “senza inutili sofismi su quella pratica criminale”. Con una grande novità: l’avvento del nucleare. Una svolta storica che ha cambiato radicalmente anche la posizione della Chiesa verso la guerra, come ci ricorda Davigo.

Ma un contributo fondamentale su questo punto cruciale, ci è dato da padre Balducci con il suo “uomo planetario”, d’accordo perfino con lo stesso Darwin (“una volta che la specie umana si percepirà un tutt’uno, i rapporti di simpatia fra gli uomini si sarebbero estesi fino all’estremità del pianeta”).

“L’uomo planetario” di Balducci, supera non solo ogni distinzione bizantina, soprattutto identitaria, portata dalla storia fino ad oggi. “Anche la qualifica di cristiano mi pesa”, scriveva padre Balducci, perché divisiva degli esseri umani, come ogni qualifica identitaria. Ma spazza via tutto l’armamentario sovranista.

Non sono che un uomo, espressione neotestamentaria in cui la mia fede meglio si esprime”.

Ma la novità più grande che porta Balducci, è che da questa nuova identità sarebbe derivata una “cultura della pace” basata su due pilastri: la politica e l’ecologia. La pace fra gli esseri umani con la politica, la pace con il pianeta con l’ecologia.

È profezia? È utopia? Utopia è anche quella di Kant nella sua “pace perfetta”. Eppure è un contributo importante al pensiero sul tema. Quel pensiero che, come dice Vito Mancuso, ha il compito di indicare l’ideale verso cui camminare, “e senza profezia e utopia non c’è neppure teologia”. Del resto l’alternativa, dice ancora, è il blut und boden, “sangue e suolo” che i nazisti amavano evocare. Un’alternativa tragica molto praticata ancora oggi.

Ebbene questo il milieu intellettuale del laboratorio fiorentino. E non è un caso che Balducci entri, anche lui, come imputato nel processo a don Milani.

Don Milani però va oltre, nelle sue motivazioni contro la lettera ai cappellani militari.

Introduce il principio di responsabilità solidale: chiunque partecipi a una azione collettiva, ne è responsabile morale. L’obbedienza alla legge ingiusta, o a un ordine ingiusto, non deresponsabilizza. Perché allora anche l’olocausto è solo colpa di Hitler che, essendo pazzo, non è responsabile neanche lui. E così l’uccisione di 6 milioni di ebrei non ha colpevoli. Non più l’obbedienza cieca, quindi, ma l’obbedienza consapevole.

Così il principio di responsabilità personale, è la cifra che definisce in positivo la posizione di don Milani sul rapporto con la legge, la coscienza e il militarismo.

E proprio rispetto alla legge, e il costante riferimento alla costituzione, è cruciale l’insegnamento del priore di Barbiana. Intanto la distinzione fra legge e legalità.

Si deve essere sempre dalla parte della legalità, e dalla parte della legge se giusta. E se giusta non è, occorre battersi per cambiarla. Questo insegna ai suoi ragazzi. Non un sovversivo, quindi, ma un educatore che afferma la supremazia della coscienza e della responsabilità, civica e politica. Quella “da esercitare non da soli, il che è egoismo, dice, ma insieme ad altri, che è invece la politica”. “Esortando alla non collaborazione col male” dice Maisto.

La sua radicale avversione alla guerra, come alla povertà, alle ingiustizie, ne fanno un difensore dei poveri, della legalità, di leggi giuste, che sono quelle a tutela dei più deboli. E non è che tutto questo si può cambiare con le giaculatorie.

“Un sistema può cambiare solo se si sconvolgono le sue regole” diceva padre Turoldo. E don Milani ammoniva ancora che “bisogna rimboccarsi le maniche, perché bisogna essere noi a cambiare il sistema, e non aspettare che il sistema cambi noi”.

Don Milani e la scuola classista

Per don Lorenzo la scuola è la via obbligata per la cultura, indispensabile a ciascuno per realizzare la propria umanità. Ed è per questo che, per i suoi poveri la sceglie come progetto centrale della sua missione formativa, ma anche evangelica. Via di uscita dalla emarginazione, attraverso una emancipazione culturale.

Ma che scuola era quella offerta dalle istituzioni? Che scuola è tuttora? Intanto molti ne erano esclusi, e molti erano discriminati in base al censo e alle condizioni di vita. “Un ospedale, quindi, che cura i sani e respinge i malati”. E quanto è vero ancora oggi, soprattutto per i poveri “migranti” universitari.

Gli stessi criteri di giudizio erano intrinsecamente discriminatori. “Se il compito è da 4, io do 4.’ …”, diceva la professoressa della lettera, credendosi giusta cosi. Obbiettiva, pur trascurando del tutto la condizione di vita del ragazzo. Ma questo, era del tutto in linea con i criteri di giudizio allora correnti. Un modo di pensare condizionato dal famoso “velo di ignoranza” di Rowels, che induce a valutare impersonalmente i principi di giustizia.

Una scuola “duramente selettiva”, quindi, come ci ricordano Ichino e Lizzola, che hanno visto perdere quasi tutti i compagni di classe, via via che passavano alle scuole superiori. Un abbandono che contraddiceva quella che pure era una diffusa aspirazione, anche nelle famiglie povere.

Come non ricordare la canzone iconica del sessantotto, Contessa di Paolo Pietrangeli, così ironicamente vera e ficcante. La pretesa indecente, la definirei io, ”….ma pensi, contessa,…del figlio dell’operaio che vuole diventare dottore”.

Ebbene, quel modello, Milani lo ribalta intanto con tre principi basici:

  1. quello di combattere la dispersione scolastica. Cercava i ragazzi, convinceva i genitori
  2. quello di personalizzare l’insegnamento, l’antico adagio che “per insegnare il latino a Giovanni, bisogna conoscere Giovanni, ancora prima del latino” era per lui un must…. Pierino il privilegiato e Gianni lo sfigato, racconta, non sono uguali. “E trattare da uguali i disuguali, è profonda ingiustizia”. E qui si apre tutto il discorso su cosa vuol dire “merito”.
  3. quello di dare un insegnamento vivo, aperto nel mondo, capace di leggere la realtà, conoscere i propri diritti, usare gli strumenti per affermarli e difenderli.

Formare delle personalità che abbiano dignità e autostima. Da sudditi della povertà a cittadini a pieno titolo. Togliendo “questo veleno della educazione all’umiltà degli umili perché è ciò che permette di asservirli…” (Lizzola). E questo attraverso un impegno duro di 12 ore al giorno, per 365 giorni l’anno.

In questo impegno, don Lorenzo parte da una grande scoperta: l’importanza della parola, del linguaggio, che è il fattore discriminante. Il figlio del contadino non aveva meno conoscenze del figlio dell’avvocato (pensiamo al rapporto con la natura). Ma non aveva il linguaggio, e questo lo teneva ai margini, penalizzato da un sistema di giudizi “oggettivi” e quindi “giusti”, tecnicamente, ma non moralmente.

Don Milani organizza un processo formativo/educativo, per dare ai suoi ragazzi il linguaggio. Quello che fa “la saldatura fra la scuola e l’evangelizzazione”, dice Bettoni, che ricorda anche come, ogni rivoluzione di cambiamento che è avvenuta nella storia della Chiesa, “non ha mai fatto riferimento a modelli sociologici, organizzativi, ma al vangelo sine glossa”.

Però la scuola del priore vuole dare anche la conoscenza, il senso critico, la coscienza civica, il senso di giustizia e la solidarietà. Non senza affrontare, in ciò, ostacoli, pregiudizi, ostilità. Ma lui va avanti, e fa, così “una vera rivoluzione didattica, che è una grande battaglia per l’uguaglianza, utilizzando la lingua come strumento”, ci dice Diana De Marchi.

Una uguaglianza che sembra un valore/obiettivo oggi dimenticato. Un clima politico che, rispolverando l’ambiguo termine “meritocrazia”, promuove una ideologia che, ci ricorda Gad Lerner: “Papa Francesco dice che serve a giustificare le disuguaglianze”.

Una scuola che, così invece di essere sul “filo del rasoio fra presente e futuro” come dice Ivo Lizzola, si colloca nostalgicamente fra presente e passato. Con il solo obiettivo di “distribuire potere senza… sapere”.

Pur fra le molte difficoltà, a Calenzano prima e Barbiana poi, don Lorenzo procede con la sua scuola. Una scuola moderna e innovativa. Un lavoro duro, impegnativo, ma anche piacevole e divertente, come dice un suo allievo.

Anche perchè “meglio la scuola che la merda”, (delle stalle ovviamente), scrive un ragazzo nella lettera. Impegnativo e divertente il lavoro della scuola, perché scandaglia il mondo: geografia, storia, materie classiche, ma anche lingue, studio dei classici a partire da Socrate non a caso, pittura, musica, lavoro manuale, esperienze all’estero, i grandi che insegnano ai piccoli, una ricchezza di esperienze insomma, esercitando e stimolando costantemente l’immaginazione.

Una qualità che lui apprezzava molto (che gli stessi Eistein e Fellini consideravano un attributo della genialità). E dalla quale nasce il carattere visionario di chi la possiede.

Si potrebbe dire che Barbiana è un modello, ma non è vero. Lui peraltro lo contesterebbe.

Però è una esperienza ispiratrice di valori e di criteri di comportamento, come dimostra il successo nel mondo.

Studio severo, studio della realtà, a partire dalla lettura dei giornali… il giornale a Barbiana!

Precursore della scuola a tempo pieno, di una didattica creativa, di un modello nel rapporto scuola-lavoro, dello stesso Erasmus.

Corollario importante nella rivoluzione della scuola di Barbiana, e anche centro del processo educativo, è il messaggio che aveva posto all’ingresso “ I care “,  mi importa, mi sta a cuore. Enfatizzando, ma neppure tanto, mi verrebbe da dire che è lo slogan con cui la meglio gioventù americana, ha fermato la guerra del Vietnam.

In tempi nei quali c’è così tanta voglia di tornare al “me ne frego”, e l’egoismo imperante induce, oggi ancor più di allora, all’indifferenza più smaccata, questo anatema dell’indifferenza è anch’esso particolarmente attuale.

Non a caso papa Francesco e un personaggio di grande statura morale come Liliana Segre, battono spesso sul tema dell’indifferenza come uno dei mali del nostro tempo. Anticipatore, don Milani, anche in questo  caso,

Di un tema di prima grandezza, colto dalla realtà della tanto discussa “contestazione” della gioventù americana, e non solo.

Don Milani, un personaggio del paradosso, dei paradossi

Nasce ebreo, diventa prete cattolico. E che prete con la sua radicalità evangelica.

Ama appassionatamente la sua Chiesa. E ne è ricambiato con cattiverie e ostilità.

Nasce ricco borghese e sposa totalmente la miseria contadina montanara.

È il ricco che va in paradiso: attraverso la scelta della povertà.

È il cammello che passa dalla cruna dell’ago

“Uomo di grande cultura, intelligenza, forza polemica passa per la non cultura di un popolo di montanari” (Ronchi)

Cresce fra Firenze e Milano e finisce esiliato in un luogo insignificante dove resterà ben 13 anni fino alla morte.

Anticipa, da profeta, battaglie di civiltà e di liberazione delle coscienze e viene punito come uomo e come sacerdote.

Insegna il rispetto della legge, viene condannato dalla legge.

Di carattere rude (“urticante” dice Ichino, ”duro come il diamante” dice il papa) ha sentimenti e gesti di affetto dolcissimi.

Come si fa a non essere affascinati da una personalità così ricca e poliedrica?

“Come si può non amare un uomo come te, Lorenzo”!

Per leggere la prima parte di questo articolo clicca [Qui]

Per leggere gli articoli di Benito Boschetto su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Demografia, immigrati e occupazione: le mezze bugie dei dati e il nostro deficit di futuro

Demografia, immigrati e occupazione: le mezze bugie dei dati e il nostro deficit di futuro

È il titolo di un editoriale del Corsera di domenica scorsa di Daniele Manca, il quale spiega che “negli Stati Uniti la disoccupazione è scesa al 3,8% e l’amministrazione guidata da Biden ha creato dal suo insediamento 15 milioni di posti di lavoro. Un indice di solidità economica che sembra contare ben poco visto l’indice, anch’esso basso, di soddisfazione degli americani nei confronti del loro attuale presidente”. Manca si interroga perché se così stanno le cose negli Stati Uniti, può essere che in Europa le cose andranno anche peggio per i nostri Governi sia perché l’occupazione è cresciuta meno, sia perché all’orizzonte ci sono minacciose nuvole nere legate al Patto di Stabilità e Crescita europeo che inciderà non poco sulle scelte dei Governi europei dall’anno prossimo, costringendoli a ridurre i deficit (10 paesi nel mirino tra cui l’Italia) con effetti depressivi sull’economia e sull’occupazione.
Manca si interroga su come mai gli ultimi 25 anni di globalizzazione, avviata da Bill Clinton nel 1999, non siano serviti e tantomeno lo slogan di Bill Clinton del 1992 “It’s the economy stupid”.

Per avere un’idea più chiara della situazione bisognerebbe completare l’informazione dicendo innanzitutto che i 15 milioni di posti di lavoro sono stati creati sia da Trump che Biden dal 2014 al 2023 (il trend è stato costante durante le due presidenze, 2020 escluso per via del Covid), ma ciò è avvenuto in gran parte per la fortissima immigrazione degli ultimi anni, la quale ha consentito anche di tenere bassi i salari e non far esplodere l’inflazione. Si potrà notare nella figura allegata che la cessazione dal 2018 di flussi di immigrazione autorizzati ha portato ad un analogo incremento di quelli non autorizzati (clandestini), esplosi nel 2023 a 1,7 milioni su 2,5 milioni di immigrati (inclusi gli autorizzati e coloro che prendono la residenza).

Gli Stati Uniti sono un paese a fortissima crescita sia demografica sia di immigrati, a differenza dell’Europa che cresce poco in quanto ci sono nove paesi in calo demografico, di cui il maggiore è proprio l’Italia. Gli altri sono: Polonia, Bulgaria, Romania, Grecia, Croazia, Ungheria, Latvia, Slovacchia. 

 Variazione della popolazione nei 27 paesi europei, variazione assoluta e % dal 2017 al 2023, fonte Eurostat.

I due milioni di immigrati in Usa nel 2023 (senza considerare i 500mila che hanno preso la residenza) equivalgono a 2,3 volte (a parità di popolazione) quelli immigrati in Italia. E’ come se in Italia anziché 155mila immigrati ne fossero entrati 356mila.

Nell’Europa a 27 invece la popolazione cresce molto meno. Dal 2014 al 2023 è salita +1,3% rispetto a +5,5% degli Stati Uniti e ciò ovviamente influisce anche sulle possibilità di crescita dell’Occupazione.

Tuttavia, nonostante la minore crescita dell’Europa a 27, l’occupazione europea è cresciuta a valori molti prossimi a quelli americani: +8,8% rispetto a +10,3% e, poiché il vero indice di miglioramento dell’Occupazione è dato dal rapporto tra Occupati e Popolazione 20-64 anni (Tasso di Occupazione), esso è cresciuto in USA molto meno che in Europa: dal 59% del 2014 al 60,5% del 2023 versus dal 68% al 75% in Europa.
Nella vecchia Europa c’è quindi molta più occupazione e molto più welfare che negli Stati Uniti e si vive complessivamente (ancora) molto meglio, specialmente per chi lavora o è povero.

In Italia siamo buoni ultimi come Occupati con un tasso di Occupazione del 66%, ma pur sempre sopra gli Stati Uniti, i quali sono uno dei pochi paesi al mondo ad avere avuto (negli ultimi 20 anni e ben prima del Covid) una caduta della speranza di vita e un peggioramento di tutti i principali indicatori della qualità della vita…quelle cose che per Bob Kennedy contavano molto più del PIL (correva l’anno 1968).
La narrazione che ci viene fatta dai grandi media sugli Stati Uniti è quindi molto diversa dalla realtà che vivono la maggioranza degli americani (specie chi lavora o è povero) e basterebbe leggere i libri super documentati di cosa è avvenuto negli States negli ultimi 20 anni.

Benjamin Disraeli direbbe che i media usano la seconda forma di bugie (le mezze verità) che portano acqua alla narrazione di chi non capisce (“stupid”) la bontà dell’attuale economia, i benefici della globalizzazione e la bontà dell’amministrazione Biden e tantomeno di quei cittadini che vivono nelle buone democrazie europee e non ne capiscono il valore.
Il problema è che una democrazia sta in piedi se oltre a crescere più di un autocrazia (e spesso ciò avviene se si considera il PIL), i vantaggi vengono distribuiti su tutta la popolazione o almeno ai 2/3 come diceva il socialdemocratico Peter Glotz negli anni ’80. Se invece i vantaggi vengono distribuiti solo al 20% e soprattutto ai ricchi e i 4/5 della popolazione non hanno alcun beneficio… il loro futuro diventa fosco. La democrazia non è solo poter votare ogni 5 anni, ma anche poter beneficiare di una prosperità diffusa.
Se i Governi cambiano ma la prosperità non si diffonde mai, allora votare serve a poco.

Un altro aspetto interessante è quanto il forte afflusso di immigrati (sia in Usa che in Spagna) abbia contribuito alla fortissima crescita in questi due paesi dell’occupazione, senza portare via lavoro ai locali, in quanto gli immigrati sono stati impiegati in attività “sporche-brutte e cattive e a complemento di quelle produzioni (manifattura, edilizia e servizi) che non sarebbero sopravvissuti senza immigrati.

In Italia il Governo rivendica gli incrementi degli occupati degli 2 ultimi anni, ma si tratta di dati modesti: dal 2013 al 2022 in Italia gli occupati sono cresciuti solo di 603mila unità rispetto ai 2,9 milioni della Spagna, 2,1 milioni della Germania e 1,7 della Francia. La Spagna, nonostante faccia meno figli dell’Italia (1,16 verso 1,24 per donna) ha creato quasi 5 volte occupati di noi. Come mai? Per via degli immigrati .

Les Echos ha scritto che dei 4,9 milioni di posti di lavoro creati nell’Unione europea negli ultimi quattro anni, 3,8 milioni sono stati coperti da persone nate fuori dall’Unione europea stessa, senza i quali non saremmo riusciti ad uscire dalla recessione post Covid. A conferma, ancora una volta, che l’immigrazione (specie se organizzata e programmata) farebbe un gran bene allo sviluppo degli italiani e che una visione neo-autarchica renderà il nostro Paese sempre più povero.

Le cose sono quindi diverse e più semplici di quello che ci viene spesso raccontato e bisognerebbe parlarne. Invece si parla di armi, di esercito unico europeo (cosa pure importante) ma non di quelle “piccole” cose che interessano quotidianamente ai cittadini come la sanità che non funziona, le migliaia di studenti in depressione, la scuola che non funziona, gli aiuti ai 5,6 milioni di poveri assoluti (che sono triplicati in 20 anni), di quei 4 milioni che lavorano con salari da fame e rimangono poveri anche se sono occupati, di quelle migliaia di giovani che scappano all’estero perché qui i salari fanno schifo, di imposte evase ed eluse da super ricchi e di cose di questo tipo, con cui, purtroppo, devono fare i conti tutti i giorni i nostri concittadini.
Affrontando queste “piccole cose” allora quel deficit di futuro si potrebbe trasformare se non in “sol dell’avvenire”, almeno in una qualche speranza, visto che siamo la generazione che ha prodotto la maggior ricchezza al mondo (in termini di denaro) da quando esiste l’umanità.

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore.

Apre la Bologna Children’s Book Fair, dall’8 all’11 aprile 2024

Apre la 61ª edizione di Bologna Children’s Book Fair (BCBF), punto di incontro per la comunità mondiale del libro per ragazzi

BCBF è attesa a BolognaFiere dall’8 all’11 aprile 2024 assieme alle “sorelle” BolognaBookPlus (BBPlus) – l’estensione dedicata all’editoria generalista realizzata in collaborazione con Associazione Italiana Editori (AIE) – e Bologna Licensing Trade Fair/Kids (BLTF/K) – dedicata ai brand e al licensing dei contenuti per bambini e ragazzi.

Dopo l’edizione del 2023, che ha celebrato 60 anni di BCBF, i padiglioni di BolognaFiere ospitano un nuovo appuntamento che attende quest’anno 1500 espositori da circa 100 Paesi e regioni del mondo (tra i nuovi ingressi: Angola, Bielorussia, Benin, Bolivia, Camerun, Colombia, Lussemburgo, Mauritius, Principato di Monaco, Moldavia, Paraguay, Filippine, Repubblica Togolese e Uganda) insieme a nuove iniziative di approfondimento e sostegno all’industria editoriale mondiale rese possibili grazie al sostegno di Agenzia ICE e del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale – MAECI.

PAESE OSPITE D’ONORE

Il 2024 accoglie la Slovenia come Paese Ospite d’Onore: occasione per gli editori di tutto il mondo di entrare in contatto con il ricco panorama editoriale del Paese, promosso in fiera attraverso And then what happens? – mostra che espone le opere di 59 artisti dell’illustrazione slovena contemporanea – e numerosi panel, e, in città, con attività per il grande pubblico.

TEMI E OSPITI

Tra gli autori e gli illustratori più attesi a Bologna: Ximo Abadia, Emma Adbåge, Beatrice Alemagna, Mac Barnett, Anne Brouillard, Nadine Brun-Cosme, Davide Calì, Nat Cardozo, Kitty Crowther, Max de Radiguès, Julia Donaldson, Linde Faas, GUD, Ulrich Hub, Jenny Jägerfeld, Oliver Jeffers, Aviaq Johnston, Joëlle Jolivet, Benjamin Lacombe, Philippe Lechermeier, Leonard Marcus, Lorenzo Mattotti, Bart Moeyaert, Jérémie Moreau, Neal Packer, Lincoln Peirce, Victor D.O. Santos, Lola Shoneyin, Axel Scheffler, Olivier Tallec, Øyvind Torseter, Paloma Valdivia, Edward van De Vendel.

Tra le tematiche oggetto di focus e dibattito in fiera, un ruolo di primo piano sarà rivestito dalla sostenibilità: in collaborazione con l’Organizzazione delle Nazioni Unite e IPA – International Publishers Association, un programma di panel approfondirà il tema.

Spazio anche ai mercati esteri: dalla già citata Slovenia alla Cina, Paese con cui BCBF intrattiene da anni un solido rapporto di collaborazione, anche in veste di co-organizzatrice della China Shanghai International Children’s Book Fair (CCBF). Prosegue il focus sull’Africa, con appuntamenti che mirano a far incontrare l’expertise degli editori espositori a BCBF con l’editoria emergente e sfaccettata di questo ricco continente. Ancora, attenzione alla cultura delle minoranze etniche e indigene e alla ricezione nell’editoria “mainstream” di autori e tematiche legati al mondo afroamericano e afrolatinoamericano.

Si parlerà delle sfide che l’Intelligenza Artificiale pone all’editoria, di un settore in forte espansione come quello dei Comics, dei picture books.

LA COLLABORAZIONE CON L’ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE

Novità del 2024, la collaborazione con l’Organizzazione delle Nazioni Unite, che ha portato alla realizzazione di iniziative condivise tra sostenibilità, mari e diritti dei bambini: il panel “Reading for the Planet: Children’s Books for a Sustainable Future”, la tavola rotonda The Ocean Planet: the Science, Politics, and Culture of the Sea in Children’s Books”, una mostra dei migliori titoli dedicati ai temi della sostenibilità e una lettura collettiva della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia (Convention on the Rights of the Child), a cui prenderanno parte autori e illustratori da tutto il mondo, che leggeranno ciascuno nella propria lingua.

IL NUOVO TV/FILM RIGHTS CENTRE

Da almeno vent’anni BCBF accoglie regolarmente tra i suoi visitatori produttori e operatori professionali del mondo dell’audiovisivo “a caccia” di nuove storie e nuovi personaggi da trasformare in fiction e animazioni. A partire da questa edizione, BCBF offre a questa categoria di professionisti il nuovo TV/Film Rights Centre, un’area business realizzata con la collaborazione di Book on a Tree, che accoglierà i produttori audiovisivi facilitando il networking con il mondo dell’editoria per una maggiore proposta book-to-screen. Uno spazio che si aggiunge al Rights Centre che, rinnovato quest’anno nel suo allestimento, si presenta quale luogo privilegiato per gli scambi dei copyright per ragazzi.

Ancora, il Comics Corner, l’area espositiva dedicata agli editori di fumetti e graphic novel, tra i segmenti più in crescita del settore editoriale; il Centro Traduttori, spazio privilegiato per traduttori o per chi intende specializzarsi nella traduzione di letteratura per ragazzi, tra incontri, seminari e importanti collaborazioni; l’Audio HQ, spazio dedicato all’audio nell’ambito di BBPlus; PublisHer, iniziativa creata nel 2019 da Bodour Al Qasimi (fondatore e CEO di Kalimat Group, Emirati Arabi Uniti) per rafforzare le donne nell’editoria e affrontare i continui squilibri di genere del settore, che a BCBF 2024 presenta una serie di incontri, i suoi premi e opportunità di networking. Ma anche l’International Bookshop e il Book Lovers’ Bistrot, area dedicata agli incontri sulle novità editoriali, da quest’anno ulteriormente ampliata e collocata.

I PREMI A BOLOGNA CHILDREN’S BOOK FAIR

Palcoscenico della migliore editoria mondiale, BCBF influenza e guida le tendenze del settore attraverso i suoi ormai affermati premi: il BOP – Bologna Prize for the Best Children’s Publishers of the Year, dedicato ai migliori editori per ciascuna area del mondo; i BolognaRagazzi Awards, dedicati ai migliori libri e divisi in più categorie, compresa la categoria speciale 2024 I Mari e la nuova categoria permanente Toddler; il BolognaRagazzi CrossMedia Award, per i progetti editoriali trasposti con successo su altre piattaforme. I premi, annunciati oggi in conferenza stampa, vedono quest’anno libri italiani tra i protagonisti della selezione delle giurie: vince la categoria speciale I Mari Giù nel blu – Dalla superficie agli abissi: viaggio sottomarino sfogliabile di Gianumberto Accinelli, illustrato da Giulia Zaffaroni, edito da Nomos; vince

la categoria Comics Young Adult, Il racconto della roccia di BeneDì (Benedetta D’Incau) di Coconino Press; Bambini nascosti di Franco Matticchio, edito da Vànvere Edizioni, riceve il premio speciale The Extraordinary Award for an Extraordinary Book per la capacità di restituire un lucido e magistrale ritratto dell’invisibilità dell’infanzia.

Torna anche la proclamazione del Premio Strega Ragazze e Ragazzi Migliore narrazione per immagini; il concorso di traduzione In Altre Parole, dedicato in questa 14ª edizione alla lingua slovena in omaggio alla Slovenia, Paese Ospite d’Onore 2024; la 6ª edizione del Premio Carla Poesio, riconoscimento per la miglior tesi italiana di laurea in Letteratura per l’infanzia. Ancora, le opportunità per i selezionati della Mostra Illustratori: l’ARS IN FABULA – Grant Award e il Premio Internazionale d’Illustrazione Bologna Children’s Book Fair – Fundación SM. I premi di BolognaBookPlus: Talking Pictures, dedicato a migliori visual book dall’Ucraina; l’Indie Authors Book Jacket Award, con l’obiettivo di dare visibilità alle migliori copertine di autori autopubblicati.

Ma BCBF offre anche il proprio palcoscenico all’assegnazione di importanti riconoscimenti di settore: l’Astrid Lindgren Memorial Award, il premio Hans Christian Andersen Award e gli IBBY Reading Promotions Awards sono annunciati durante la fiera.

LE MOSTRE DI BOLOGNA CHILDREN’S BOOK FAIR 2024

Accanto alla tradizionale Mostra Illustratori troveranno posto le personali di Paloma Valdivia, Inês Oliveira e Andrea Antinori e Mauro Evangelista. Visioni. Illustrazioni 1991 | 2024, dedicata all’artista e fondatore della Scuola d’Illustrazione, da poco scomparso. Ancora, tra le altre, Reading for the Planet: Children’s Books for a Sustainable Future, una selezione di libri sul tema della sostenibilità; When Everything Matters, omaggio all’illustrazione ucraina, in collaborazione con Pictoric e International Book Arsenal Festival; il tradizionale Silent Book Contest – Gianni De Conno Award, per finire con la mostra di BolognaBookPlus: Jackets Off, dedicata alle diverse interpretazioni della copertina di Guerra e Pace pubblicate in tutto il mondo.

BCBF IN CITTÀ

Dai padiglioni, le iniziative si estendono ai luoghi della cultura, biblioteche, scuole e palazzi della città di Bologna in una vera e propria festa diffusa, con un’offerta ricca e diversificata dedicata al grande pubblico di adulti e bambini.

BOOM! – Crescere nei libri, questo il titolo del programma delle iniziative in città (dal 4 aprile al 9 giugno), è promosso da Comune di Bologna e BolognaFiere, curato dal Settore Biblioteche e Welfare culturale insieme ad Hamelin nell’ambito del Patto per la lettura di Bologna e gode del patrocinio di IBBY – International Board on Book for Young people Italia. In calendario, tra gli altri, la prima mostra in Italia della grande illustratrice e autrice belga Anne Brouillard, oltre a più di 40 eventi espositivi, 74 laboratori e 50 incontri con autrici e autori.

A scuola da don Milani (Prima parte)

A scuola da don Milani. (Prima parte)

Don Milani: i poveri, la chiesa, la coscienza e la pace, la scuola

Cosa ci dice in realtà oggi, don Milani, diventato così “di moda”? Dopo oltre 50 anni, le sue idee hanno ancora una qualche validità per i nostri problemi?

Tanto più, si potrebbe anche dire, in un tempo nel quale la scarsità di maestri e di pensiero, impone di tornare ai grandi maestri del passato. “Don Milani ci lascia una eredità scomoda, che però è una grande risorsa” è l’opinione di Paolo Landi, suo allievo a Barbiana.

La ricchezza dei contributi di questa raccolta, mi pare che ce lo confermi.

Io mi limito a riprendere qualche tema che intreccia gli irrisolti problemi di oggi, con l’esperienza del priore fiorentino, cogliendone soprattutto quello spirito alto che muoveva il suo agire.

Don Milani i poveri e la povertà

Certo che la domanda è retorica! Anche perché da Oxfam all’Istat, veniamo informati ogni volta, che la povertà aumenta, ed è addirittura aggravata dalle crescenti disuguaglianze.

La povertà è “il” tema centrale nel pensiero e nel cuore di don Milani. La sua passione. Il dono (la grazia, come la chiama lui), ma anche la sua splendida ossessione. Lui abbraccia francescanamente la povertà. A differenza di Turoldo e Pasolini che, nati poveri di pane e cultura, della povertà hanno fatto il centro della loro poetica, don Milani, nato ricco di pane e cultura, si spoglia di agi e ricchezze, per fare dei poveri e della povertà, la missione evangelica del suo sacerdozio.

Hanno connotazioni diverse, la povertà contadina del Mugello anni ’50, e la povertà urbana/metropolitana di oggi. Il problema, è che non solo rimane come presenza costante nella società, ma si aggrava sempre più. Perché la povertà cresce con la crescita delle disuguaglianze. Cresce infatti la povertà relativa e quella assoluta.

È una povertà di sistema, prodotta da una dinamica infernale del sistema capitalistico a livello globale, in cui, noi, ci siamo dentro “fino al collo”.

E don Milani ne aveva colto proprio il carattere strutturale e potente, che produce un vero paradosso: quello che vede crescere, assieme, ricchezza e povertà. La ricchezza per accumulazione, la povertà per diffusione. Fino a colpire gli stessi lavoratori. Sì che, oggi, ne è colpita perfino la classe media, quella che, secondo Bonomi, “si vergogna di andare in coda alla Caritas”.

E, purtroppo, neanche il lavoro, che ne è stato sempre l’antidoto, basta più per sfuggirla.

Cosa c’è di più tragicamente attuale, quindi, di questo fenomeno, se aggiungiamo gli immigrati che, al carico di sofferenze e sciagure che si portano addosso, devono subire anche lo stigma sociale e ideologico di parte della società e, cosa più grave, della politica? “li trattiamo da delinquenti aggiungendo la vergogna al bisogno” dice Maisto.

Ma l’idea di povertà in don Milani è ampia, e comprende ogni forma di deprivazione. “Oggi arriva la salvezza nella nostra famiglia: sei bambini tutti handicappati” dice, citato da don Colmegna.

Eppure c’è anche di più. C’è che il povero disturba più della povertà. Altro paradosso.

Non solo c’è l’egoismo tradizionale della classe borghese. C’è pure quello di una fetta importante di quelle classi popolari, vittime della propaganda reazionaria e della perdita del senso di appartenenza di classe.

Il povero disturba perché, se nella testa di molti, la povertà è un fenomeno sovrastrutturale che c’è sempre stato, ma è abbastanza distante, il povero no. Non solo è povero “per colpa sua”, e questo già infastidisce, anche se si tratta di un pregiudizio, che è un meccanismo psicologico che oggettivizza, e trasferisce sul povero il proprio senso di colpa. Ma, soprattutto, ci è vicino. Lo vediamo, lo incontriamo, lo tocchiamo perfino. Ci disturba insomma.

Così però, si scivola nella lotta alle persone: i poveri, che si vedono, piuttosto che al fenomeno, la povertà, che non è del tutto percepita. Buon che vada ci si fa un po’ di carità compassionevole, ma a distanza (legge di Rawls).

Eppure, va detto, che, rispetto alla povertà, il problema non è quello di lenire gli effetti (che va sempre bene), ma principalmente quello di aggredire le cause. “Nell’impegno sociale occorre usare due mani: una per rispondere ai bisogni immediati, l’altra per rimuovere le cause che rendono il povero povero e l’emarginato oppresso” diceva don Milani nel ricordo di Landi.

Salvo che, con la globalizzazione del capitalismo finanziario, le cause sono sempre di più e più dominanti. Grandi, lontane, irraggiungibili, inattaccabili. È più probabile che si avveri la profezia marxiana, per la quale il capitalismo sarà distrutto dalla sua avidità.

Don Milani ci ha insegnato, però, che povertà e poveri, non si possono dividere. Sono la stessa cosa, le due facce della stessa medaglia. E così lui abbraccia le persone, ama i suoi ragazzi, li considera un dono prezioso di Dio e del destino, indaga sulle loro condizioni, e su di loro costruisce la sua missione di prete.

Li aiuta ad emanciparsi, a formarsi una identità morale, culturale e civica per passare da sudditi a cittadini, e ad avere la consapevolezza dei propri diritti, a coltivare ed esercitare un forte spirito critico. È la sua idea di cristiano integrale, i cui bisogni sono materiali quanto spirituali e sono inscindibili. “ha consumato anche il suo corpo per i suoi allievi” ci dice Lizzola: “una sorta di eucarestia”.

Ma, per me, nell’innocenza e nell’ingenuità contadina, c’è anche, nel pensiero di don Milani, la ricerca di un’etica nuova (aspirazione pasoliniana), non trasgressiva, ma un’etica dura, convinto che non c’è etica senza severità. E che nella marginalità sociale, vi sia una grande potenzialità di valori. Un’etica nuova utile ad emancipare i poveri e la stessa società.

Il suo vangelo è quindi antropologico, come quello di Papa Francesco, che si identifica con questa visione. Rifiuta un cristianesimo solo dottrinario, vuole un cristianesimo che si misura sull’amore per l’uomo in carne ed ossa…”il mondo delle persone” ci ricorda Gazzaneo.

Gesù e i poveri questo il suo mondo e il suo vangelo “ciò che farete al più piccolo…  “ evocando i bisogni materiali. Perché l’amore per l’uno, Gesù, è l’amore per l’altro, fratello, a partire dal più piccolo.

Ho voluto più bene a voi che a Dio” ci ricorda padre Ronchi. Più uomo che prete, ci verrebbe quasi da dire. Sempreché le due cose, l’uomo e il prete, non debbano stare intimamente assieme, e che lui non si fosse sentito prete profondamente convinto nella fede, per tutta la vita.

Don Milani: la Chiesa e la riforma religiosa

Intanto va detto che per don Milani la chiesa è stata madre e matrigna.

Madre amata come corpo mistico di Cristo, a cui è stato sempre rigorosamente fedele (mai ha rotto la comunione ecclesiale), sebbene non stolidamente obbediente (“quando si fa una cosa che riteniamo giusta, non si deve chiedere il permesso al superiore”).

Matrigna, invece, perché nell’incapacità di capire e priva di carità, era causa delle sue sofferenze. Commovente il pianto nel letto di morte, alla lettura della lettera, molto dura e cattiva, dell’arcivescovo di Firenze Florit.

Si è ripetuto con don Lorenzo, ciò che è accaduto in tanti altri casi, quasi che la Chiesa riscopra la sua santità nel far soffrire i suoi figli, per farsene, poi, ma solo poi, un vanto testimoniale. Dal vescovo Romero, al caso eclatante a lui contemporaneo di don Primo Mazzolari, “santificato” poco prima della sua morte, da Giovanni XXIII, che lo definì “la tromba dello spirito santo”. Dopo aver subito tante angherie e sofferenze.

Analoga si può considerare la sorte di don Milani, con papa Francesco a Barbiana. Solo che lui era morto da molti anni, e non ha potuto umanamente gioire del riscatto.

Sono queste le evangeliche “pietre scartate dai costruttori”, che sono diventate pietre d’angolo.

La Chiesa fatica a riconoscere i suoi profeti, soprattutto quando cavalcano il carattere rivoluzionario del vangelo, quello che non porta “la pace, ma la spada” di fronte alle ingiustizie, che don Lorenzo definisce “bestemmie”. Una postura e un insegnamento pericolosi per l’ordine costituito, con il quale troppo spesso la Chiesa si è sciaguratamente compromessa.

E non c’è anche oggi un problema di “conversione” della chiesa? Le fatiche di papa Francesco per riformarla testimoniano che questo è vero, come conferma anche il recente sinodo dove si è discusso di temi scottanti, ma in modo molto combattuto proprio sul fronte delle riforme.

Non c’è, però, solo la riforma della chiesa, ma anche la riforma religiosa, con la quale si salda tutta l’opera testimoniale di don Milani. A cominciare dall’intreccio, dice Bettoni, “fra scuola ed evangelizzazione”, che aggiunge “è difficile che uno cerchi Dio, se non ha sete di conoscere”.

Il concilio, l’evento da cui parte la riforma della chiesa, inizia, come si sa, da una lettura aggiornata della realtà, con la Gaudium et spes, che è la richiesta forte delle correnti riformatrici. Grandi erano i fermenti che fiorivano allora in tutto il mondo e che, in Italia, avevano proprio a Firenze, con Milani, Turoldo, Balducci, La Pira, Facibeni, Bartoletti, Barsotti…., un laboratorio particolarmente vivace, a cui Lancisi dedica il libro I folli di Dio.

Una lettura indispensabile, quella della realtà, che il concilio fa per innestare l’azione della chiesa nel mondo degli uomini veri, e non su un astratto piano sovrastrutturale, che oggi si direbbe appartenere al metaverso.

Una Chiesa non autoreferenziale, ma dialogante “al servizio dell’umanità a cominciare da quella del territorio” (Bettoni). Chi più di don Milani si può dire ispiratore originale di questa istanza di cambiamento della chiesa?

Tutto il suo lavoro nasce, con “esperienze pastorali”, dallo studio della realtà che lo circonda: a Calenzano come a Barbiana, premessa indispensabile al suo ministero di radicalismo evangelico (“Dio è un mistero da non addomesticare mai”).

E la storia tormentata di “esperienze pastorali”, ci dice quanto fosse ancora distante l’avvento del concilio, a recuperare per prima cosa la dimensione della realtà. Una realtà fatta non solo di vita religiosa, ma della vita tutta. Che interessa la comunità ecclesiale e i singoli fedeli, nella loro integrità esistenziale e vitale.

Una analisi da cui trarre l’insegnamento sul da farsi. A cominciare proprio dall’insegnamento religioso, che doveva essere un processo culturale costruito sul singolo. Personalizzato quindi, a partire dal linguaggio.

Il passepartout del vivere, il linguaggio, affermando il primato della parola, necessario per entrare nel mondo della conoscenza. Quello che dà la consapevolezza di se, del mondo in cui si vive, e delle sue regole. Ma anche della dignità, che è il potere esserne all’altezza, del sapere stare al mondo.

E, soprattutto nel recupero di una coscienza critica, obiettivo escluso, normalmente, dall’insegnamento religioso tradizionale. Perché non solo il dogma, ma tutta la dottrina non si poteva e doveva discutere. L’accettazione acritica era anche l’antidoto alla tentazione protestante. Da questo un catechismo fatto di formule stantie senza pathos.

Una coscienza critica, quindi, da stimolare e recuperare particolarmente nella componente più popolare, la più colpita sui diritti. Portando con il primato della parola e della coscienza, ad affermare il primato del vangelo e la sua libertà. Ciò che pone così il vangelo e la Chiesa al di fuori e al di sopra di ogni ideologia.

Non solo la bella lettera a Pipetta ne è una straordinaria toccante testimonianza, ma sull’accostamento non gradito a rinascita, nella vicenda dei cappellani militari, quando dice che essa ”non merita l’onore di essersi fatta bandiera di idee che non le si addicono, come la libertà di coscienza e la non violenza”, con chiaro riferimento al comunismo.

Una contiguità ingiustamente e maliziosamente evocata dai suoi detrattori, quella col comunismo. Un punto su cui le parole di Ichino spiegano perfettamente il pensiero e il sentire veri e distintivi di don Lorenzo.

Invece anche e proprio, il radicalismo dei poveri, è un tema che vede coincidere la sensibilità di don Lorenzo, quella del movimento riformatore e quella del concilio.

Non si può dire che don Milani abbia riformato la Chiesa, ma la sua idea di come essere prete, ha interrogato la Chiesa, anche nel concilio, sui cambiamenti da fare, come recita l’incipit della Gaudium et spes: ” le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.”

Ancora oggi la Chiesa è il campo minato del cambiamento. Lo sapeva bene papa Ratzinger che, per questo, ha dato forfait. Come lo sa bene papa Francesco, che nel suo faticoso processo riformatore, ancora incompiuto, ci ha messo un po’ di spirito di don Lorenzo, come ha riconosciuto esplicitamente nel discorso a Barbiana.

La seconda parte di questo articolo è disponibile su Periscopio  martedì 9 aprile [vedi Qui]

Per leggere gli articoli di Benito Boschetto su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Per certi versi / Primavestate

PRIMAVESTATE
La pioggia
È zoppicante
Forse chissà
Ha perso
La sua badante
Viene va
La primavestate
Rispunta l’autunno
Camuffato
Zoppica a passo
Largo
Orme e silenzi
Non è sincera
Proprio mai
Questa primavera
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Vladimir Olshansky e la clownerie

Allo European Projects Festival arriva Vladimir Olshansky “The laughter – investigation of an identity”, ovvero la magnifca arte della clownerie

Vladimir Moiseyevich Olshansky, classe 1947, russo di San Pietroburgo che oggi vive in Italia, appare sul palco dell’auditorium dell’ex Teatro Verdi, c’è molta aspettativa, qualche dubbio su cosa ci si aspetti. Per chi ha letto il percorso di Vladimir ce ne è qualcuno di meno, per chi è legato a memorie adolescenziali di alcune inquietanti figure di clown nel cinema, affiora qualche intimo timore. Nulla di tutto questo. In effetti, ci si rende conto che pochi sanno, me inclusa, cosa sia la clownerie, l’arte del clown.

Vladimir, in esordio, lo chiede al pubblico. La risposta arriva dal fondo della sala: il clown è un attore. E un attore con un forte talento comico, empatico, con l’impulso di dedicarsi a sviluppare questo dono per tutta la vita. Non è una maschera di carnevale, non può essere interpretato da chiunque. Un ruolo, dunque, vero, dove, spesso il clown è anche l’autore, il drammaturgo, del suo repertorio. Ci sono poesia, filosofia, ironia, pathos ed empatia.

Durante questa serata incredibile ci troviamo di fronte a momenti coinvolgenti della difficile e meravigliosa arte della pantomima, colei che dà maggiore libertà d’azione, non costringendo l’attore a relazionarsi con l’apparato scenico. Il clown, infatti, può creare il proprio mondo ricorrendo alla propria immaginazione e a quella degli spettatori. Non c’è l’impianto della scenografia, che può stimolare ma anche limitare l’immaginazione, c’è lui e il pubblico. E le sensazioni ed emozioni. In un monologo che subito diventa dialogo.

Anche il mondo interiore dell’individuo, i suoi problemi, la sua psicologia, le sue inquietudini e preoccupazioni possono essere la fonte di alcune scenette: l’uomo comune alle prese con un mondo insolitamente grande e complicato.

Il clown-attore è una figura eccentrica, spesso grottesca, la sua arte spazia dalla pantomima al teatro di parola, fondendo tecniche e stili diversi. La clownerie permette di stimolare la creatività. E di coinvolgere e far viaggiare. Prima regola, esserci.

Al Verdi si sono susseguiti momenti di ilarità (come la scena delle uova) e magia (come la scomparsa sotto il cappello di una pallina solo grazie alla spettatrice Maurizia) e momenti intensi di riflessione malinconica (in una lettera d’amore che inizia con romanticismo ma si conclude male, perché non strapparne e tenersene sono la parte buona???).

Vladimir, che ha fondato con Slava Polunin la compagnia di clown Teatr Licedei e ha collaborato con il canadese Cirque du Soleil, ha ispirato la sua visione a quella dei maestri del cinema muto: Charlie Chaplin, Max Linder e Buster Keaton. Anche se, osservandolo, la mia mente è andata subito al mimo Marcel Marceau e, in particolare, alla pellicola che ne narra le vicende, “Resistance – La voce del silenzio”, del 2020, scritto e diretto da Jonathan Jakubowicz. Il giovane Marcel è un aspirante mimo e, durante l’invasione tedesca della Francia durante la Seconda guerra mondiale, si unisce alla resistenza francese, salvando, anche grazie alla sua arte, molti bambini ebrei. Un film da non perdere dove arte e resistenza di abbracciano.

Come Marcel, infatti, Vladimir ha un importante legame con i bambini sofferenti o in pericolo. Nel 1980 Vladimir emigra a New York e mette il suo talento a disposizione di coloro che hanno un reale bisogno di sorrisi e risate: i bambini malati. Si unisce alla squadra di Michael Christensen e sviluppa il suo lavoro come attore-clown e regista. Supervisiona i clown dell’ospedale nell’Unità di cura dei clown del Circo della città.

In Italia, il fratello Yury (attore e regista) e Caterina Turi Bicocchi (attrice e regista), fondano nel 1996 Soccorso Clown, un’organizzazione no-profit di cui diventa direttore artistico. Vladimir e Yury hanno creato il progetto di formazione europeo “Clown in Corsia”, il cui obiettivo è formare clown ospedalieri professionisti. Soccorso Clown, sotto la supervisione dei fratelli Olshansky, ha introdotto questa nuova professione in molti ospedali italiani (oggi 8), tra cui Roma (Bambin Gesù, Policlinico Gemelli e Policlinico Umberto I) e Firenze (Ospedale Pediatrico Meyer).

Nel 2007, Vladimir e il gruppo di Soccorso Clown hanno introdotto in Russia la professione del clown ospedaliero. Il progetto pilota è stato presentato a Mosca nei reparti di oncologia, radiologia pediatrica, endocrinologia e neurochirurgia.

Il potere di un sorriso, ineguagliabile.

“Alla fine degli anni Settanta, quando vinsi un premio a Mosca per le Arti dello Spettacolo, il mio sogno era quello di fondare un Teatro di Clown. Mi sono laureato alla Scuola del Circo di Mosca. Le mie idee sulla clownérie nascono dai Maestri del cinema muto: Charlie Chaplin, Max Linder e Buster Keaton, oltre ai leggendari registi russi Mejerchol’d e Vachtangov. Mentre studiavo arti circensi ho avuto modo di incontrare lo straordinario clown russo Leonid Engibarov, dal cui talento sono stato completamente sedotto. È stato il primo clown a combinare insieme l’Arte del Circo e il teatro. Me ne tornai, allora, a Pietroburgo con l’idea di un Teatro di Clown, con un clown-attore come protagonista. Insieme a un clown ora conosciutissimo e molto dotato, Slava Polunin, fondammo il Gruppo Clown “Lizidei”. Nel frattempo, io misi in piedi il mio primo “one man show”, uno spettacolo con me unico attore clown, in cui possono riconoscersi le influenze artistiche sia di Beckett che di Robert Wilson. Nel 1997 sono stato invitato da Slava a recitare la parte del principale “clown giallo” nel suo “Snow show” al teatro Old Vic di Londra. I nostri rapporti non si sono mai interrotti. Alla fine degli anni 1990 con mio fratello Yury, regista e attore, e Caterina Turi-Bicocchi, abbiamo fondato “Soccorso Clown”, un’organizzazione no-profit per attività artistiche e sociali. Abbiamo fatto esperienza come “hospital-clown” e lanciato questa nuova professione in Italia. Ho cominciato a lavorare al Cirque du Soleil come “guest-actor” in “Allegria” nel 2000. Ho lavorato con loro nelle tournées in Australia e Nuova Zelanda. Dopo una pausa la collaborazione è ripresa nel 2004 a New York, Philadelphia e Toronto. Il lavoro insieme al Cirque du Soleil mi ha indotto a inventarmi un nuovo spettacolo come clown-attore, “Strange Games”, in cui ho potuto in parte mettere in pratica alcune mie idee sulla clownérie. Poesia e commedia filosofica, comédie humaine e gioia della vita ne sono le fonti ispiratrici.” Vladimir Olshansky

Pagina Facebook di Vladimir Olshansky

Foto di Antonella Marchionni, fotopop.it

Mark Turner Quartet al Jazz Club Ferrara

Ferrara in Jazz 2023 – 2024

06 Ottobre – 30 Aprile 2024

Sabato 06 aprile, ore 21.30

Mark Turner Quartet
Mark Turner, sax tenore – Jason Palmer, tromba – Joe Martin, contrabbasso – Jonathan Pinson, batteria
Mark Turner, oggi nel pieno della maturità artistica, torna al Torrione in qualità di bandleader per presentare “Live at the Village Vanguard”, il suo nuovo album registrato dal vivo nel tempio della musica jazz newyorchese. Il live è una sitensi di “Lather of Heaven” e di “Return From the Stars”, entrambi per la ECM, etichetta con cui Turner ha inciso altri due album con il Trio FLY (Larry Grenadier e Jeff Ballard) Billy Hart (All Our Reasons) ed Enrico Rava (New York Days). Il gruppo è composto dal giovane Jason Palmer, nuovo nome di punta della tromba jazz, dal compagno di Turner di mille avventure Joe Martin al basso e dallo straordinario astro nascente del jazz drumming, Johnathan Pinson. Con questo progetto Turner lascia che i suoi temi, inneschino uno sviluppo che si renda via via sempre più autonomo in modo che la musica, seppur finemente organizzata in geometrie complesse, prenda direzioni inaspettate e si produca in costante evoluzione. Uno spazio aperto, una distesa morbida e lineare dove si distribuiscono senza soluzione di continuità dolci avvallamenti armonici e rilievi melodici dai lunghi contorni. Il suo sax ha un suono denso e brillante assieme, un corpo vibrante che sa distendere la materia timbrica su un tessuto espressivo fatto di linee continue e multiformi.
INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Per informazioni e prenotazione cena 331 4323840 tutti i giorni dalle ore 12:00 alle ore 22:00
Il Jazz Club Ferrara è un circolo Endas.
DOVE
Torrione San Giovanni via Rampari di Belfiore, 167 – 44121 Ferrara.
Se si riscontrano difficoltà con dispositivi GPS impostare l’indirizzo Corso Porta Mare, 112 Ferrara.
ORARI
Apertura biglietteria 19.00
Apertura Wine Bar dalle 19.30
Primo set 21.15
Secondo set 22.30

Qualità dell’aria a Ferrara:
Il 2024 inizia in modo preoccupante

Qualità dell’aria a Ferrara: il 2024 inizia in modo preoccupante

Al di là delle dichiarazioni sulla qualità dell’aria nel comune di Ferrara effettuate, poco prima dello scorso Natale, dall’Assessore con delega all’Ambiente Alessandro Balboni, dichiarazioni puramente di facciata rese in occasione della conclusione del progetto Air Break, può risultare utile un riscontro di tali affermazioni attraverso i dati prodotti da ARPAE in particolare nei primi mesi dell’anno, quelli che normalmente presentano il maggior numero di sforamenti specialmente dei valori delle polveri sottili (PM 10 e PM 2,5).

L’Assessore Balboni, come riportato sulla stampa locale e nella rubrica del quotidiano online dell’Amministrazione comunale ferrarese Cronaca Comune, dichiara che in base ai dati raccolti dalle centraline IoT installate in alcune zone della città, nell’ambito del progetto Air Break, la qualità dell’aria di Ferrara migliora, passando, nel corso degli ultimi due anni, da “accettabile” a “buona”.

Il comunicato presenta sinteticamente gli obiettivi del progetto, le metodologie adottate e i partner dello stesso, enti, istituzioni e aziende tra cui l’Università di Ferrara e il Politecnico di Milano.
L’assessore Balboni ha sottolineato nella conferenza stampa che “il progetto Air-Break è riconosciuto come un grande successo” avendo “infatti ottenuto importanti menzioni e premi sia nazionali sia internazionali per la sua innovatività e i suoi risultati concreti”.

Tutto ciò è stato possibile grazie ai 5 milioni di fondi europei che hanno finanziato Air-Break, attraverso il quale è stata raccolta “un’importante mole di dati, sia di natura ambientale, ma anche sulle modalità di spostamento dei ferraresi”, allo scopo, dichiara l’Assessore, di sviluppare politiche di programmazione più efficaci legate alla mobilità.

L’obiettivo “è donare alle nuove generazioni una Ferrara più verde, un’aria più pulita e una città più vivibile”, oltre, grazie alle attività realizzate da Air Break, “ad essere un esempio di coinvolgimento, innovazione e concretezza a livello nazionale e internazionale”.

Osservando i dati presenti sulle pagine del sito di ARPAE relativi alla presenza degli inquinanti atmosferici mi sembra tuttavia ne derivi un quadro un po’ diverso. E questo è confermato non solo dagli allarmi che i media hanno lanciato in queste ultime settimane rispetto agli elevati livelli di inquinamento, in particolare dell’area padana, ma anche dai rapporti di Legambiente Mal’Aria di Città 2024 ed Ecosistema Urbano 2023. 

Il primo, nel comunicato di presentazione di inizio febbraio, apre affermando che “la lotta allo smog nelle città italiane è ancora in salita. I livelli di inquinamento atmosferico sono troppo lontani dai limiti normativi previsti per il 2030 e soprattutto dai valori suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. La salute dei cittadini è a rischio”.

Poco più avanti: “Nonostante una riduzione dei livelli di inquinanti atmosferici nel 2023, le città faticano ad accelerare il passo verso un miglioramento sostanziale della qualità dell’aria. I loro livelli attuali sono stabili ormai da diversi anni, in linea con la normativa attuale, ma restano distanti dai limiti normativi che verranno approvati a breve dall’UE, previsti per il 2030 e soprattutto dai valori suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, evidenziando la necessità di un impegno deciso, non più rimandabile, per tutelare la salute delle persone”.

Si tratta di considerazioni molto diverse, quindi, da quelle riportate all’inizio dall’Assessore e dai dirigenti dell’Amministrazione comunale di Ferrara.

Riservandomi di approfondire in un successivo articolo i principali argomenti contenuti nei due rapporti di Legambiente, in questo intervento mi limiterò a riportare alcuni dati di Ferrara e delle provincie emiliano-romagnole relativamente ai soli mesi di gennaio e febbraio riferiti agli ultimi cinque anni (2020-2024).

Come esplicitato nel titolo, il 2024 è iniziato, principalmente a causa delle condizioni meteo favorevoli al ristagno degli inquinanti a terra (precipitazioni quasi nulle, così come la ventilazione, alta pressione e nebbie persistenti), con elevati livelli di inquinamento atmosferico in tutta la pianura padana.

Ferrara ha registrato, dal 1° gennaio fino a fine febbraio, 26 sforamenti relativamente ai livelli delle micropolveri PM 10 (i dati sono riferiti alla centralina di monitoraggio che nell’ambito provinciale ha registrato il valore più elevato), mentre 14 sono stati quelli nel solo mese di febbraio. La provincia con il maggior numero di superamenti del limite (50 µg/m 3 ) è stata Modena con 33 giorni (17 a febbraio) tallonata da Piacenza con 31 e 17, a cui segue Reggio Emilia con 27 e 15 giorni di superamento rispettivamente.

Poi Ferrara, di cui si è detto, che si colloca quarta in questa graduatoria per niente positiva, quindi Parma con 25 e 13, Ravenna (25 e 12), Rimini (22 e 10), Forlì-Cesena (20 e 9) e infine Bologna con 19 sforamenti nei primi 53 giorni dell’anno e 10 nel mese di febbraio.

Come si può notare Modena e Piacenza, rispettivamente con 33 e 31 superamenti nei primi due mesi dell’anno, sono molto vicine al limite dei 35 giorni annui consentiti dalle normative europee, che, a meno di particolarissime condizioni, verranno superati da qui alla fine del 2024. Solo le province di Bologna, Forlì-Cesena e Rimini potrebbero non raggiungere tale limite. La situazione per questo inizio d’anno risulta quindi parecchio critica.

Osservando la tabella riportata, relativamente agli ultimi 5 anni, le province dove già a fine febbraio erano stati superati i 35 giorni limite di sforamento sono state Modena e Piacenza nel 2020 (39 e 36 rispettivamente) e sempre Modena nel 2022 con 36.

I dati in tabella potrebbero suggerire l’ipotesi che dal 2020 ad oggi la situazione sia andata migliorando: il 2023 infatti, ad esclusione di Piacenza (20 giorni di sforamento contro i 17 dell’anno precedente), ha mostrato, nei primi due mesi dell’anno, un numero di giorni di sforamento inferiori non solo rispetto al 2022, ma anche al 2021 e 2020.

Difficile comunque trovare una logica e un andamento coerente, dovendo, da un lato, tenere conto non solo della mutevolezza degli eventi atmosferici, ma, specie nel biennio 2021/2022, anche al leggero calo complessivo dovuto probabilmente alle restrizioni derivanti dalla pandemia di covid-19 nei periodi di lockdown.

2020
2021
2022
2023
2024
Piacenza
36
22
17
20
31
Parma
34
25
19
17
25
Reggio Emilia
33
28
31
24
27
Modena
39
31
36
23
33
Bologna
27
24
20
14
19
Ferrara
34
24
30
20
26
Forlì-Cesena
24
15
15
13
20
Ravenna
29
19
19
19
25
Rimini
28
19
21
15
22
Tab 1

Per completezza di informazione e, come già accennato, in attesa di una analisi più approfondita e complessiva, vengono riportano i giorni di sforamento relativi alla fine del mese di marzo (termine delle misure emergenziali decise dalla nostra regione (misure antismog e misure emergenziali – Provvedimenti antismog, limiti alla circolazione, misure emergenziali, uso di biomasse per il riscaldamento domestico https://www.arpae.it/it/temi-ambientali/aria/liberiamo-laria) e al 31 dicembre degli anni dal 2020 al 2023

Analizzando la tabella 2 risulta evidente che i giorni di sforamenti annuali del 2023 sono stati di gran lunga inferiori rispetto agli anni precedenti. Solo Modena (45 giorni), Reggio Emilia e Ferrara (38 giorni) hanno oltrepassato le 35 giornate di superamento dei limiti per le micropolveri PM 10 previsti dalla normativa (oltretutto al 31 marzo nessuna provincia aveva raggiunto i limiti previsti, a differenza invece del triennio precedente).

Una situazione diversa ci mostrano i dati riferiti agli anni 2021 e 2022. Qui il superamento delle 35 giornate dove sono stati superati i 50 µg/m 3 giornalieri è avvenuto per tutte le province della regione ad esclusione di Forlì-Cesena per entrambe le annate. Nel 2020 poi tutte le province hanno superato il limite dei 35 giorni annui, con punte di 79 per Modena e 73 per Ferrara.

Nei 4 anni considerati, secondo i dati riportati dai monitoraggi di ARPAE, il peggior risultato è stato registrato dalla provincia di Modena nel 2022, quando sono state raggiunte le 89 giornate di sforamento.

2020
2021
2022
2023
31-mar*
31-dic
31-mar
31-dic
31-mar
31-dic
31-mar
31-dic
Piacenza
37
53
30
54
27
60
21
34
Parma
35
58
32
51
28
51
18
27
Reggio Emilia
36
63
34
58
44
71
24
38
Modena
41
79
38
69
50
89
23
45
Bologna
25
45
26
39
28
48
14
22
Ferrara
39
73
28
45
38
65
20
38
Forlì-Cesena
30
49
15
29
18
34
14
23
Ravenna
31
60
20
38
25
41
19
32
Rimini
32
56
19
36
24
41
17
34
* Tra il 28 e il 30 marzo dati anomali per sabbia dal deserto (I dati sulla qualità dell’aria in Emilia-Romagna nel 2020, https://www.arpae.it/it/temi-ambientali/aria/report-aria/report-regionali/sintesi-qualita-dellaria-2020.pdf/view).
Tab 2

Per leggere gli articoli di Gian Gaetano Pinnavaia su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Milko Marchetti, condividere emozioni, da 12 volte campione del mondo

Allo European Projects Festival si condividono emozioni. Visitabile ancora fino all’8 aprile all’Ex Teatro Verdi, la mostra del fotografo naturalista Milko Marchetti

Vincitore, per la dodicesima volta consecutiva, della Coppa del Mondo di Fotografia Naturalistica, Milko Marchetti, vero (e noto) talento cittadino, ieri sera ha condiviso un mondo magnifico con il suo pubblico. Lo ha fatto nella serata di presentazione delle due mostre, “Un Po di bianco e nero” e “European Nature Moments”, allestite, grazie a Studio Archeo900, all’ex Teatro Verdi, e visitabili fino all’8 aprile.

Le serate di presentazione del suo lavoro, fatto di immensa passione e dedizione, sono, introduce Milko, momenti di emozioni naturali, pensate e fatte per condividere almeno una delle tante vissute durante un clic. Quel clic che per uscire perfetto necessita di studio, preparazione, attesa, sacrificio e molta pazienza. Dietro le immagini ci sono anche tende, zaini, droni, cieli stellati, diapositive, ali.

Due mostre, la prima, “European Nature Moments”, legata alla natura di Europa, Islanda, Norvegia e Olanda, ritrae stupende scene di vita rubate alla natura, attimi, ed è allestita nella parte superiore dell’ex teatro.

“Amo la natura da sempre”, spiega a un pubblico numeroso e attento. “È importante avere un’etica; fotografare gli animali non è difficile, tutto si può fare, ma nella foto naturalistica è importante conoscere il territorio che si visita e le sue delicate specie, arrecando il minor disturbo possibile. Questo tipo di fotografia è fatto di conoscenza e coscienza”, continua. Aggiungerei di grande rispetto e delicatezza, che qui si toccano con mano.

La seconda mostra, al piano sottostante, “Un Po di bianco e nero”, cerca di trasmettere quanto si vede solo dando vita ai contrasti, senza essere abbagliati dal colore. Sono immagini, spiega Milko, che rispettano la regola del bianco e nero. Ogni fotografo ha il suo, ognuno gioca e crea i propri contrasti.

Se ci voleva dare e infondere energia, con queste meravigliose immagini del Parco del Delta del Po, una delle zone umide più importanti d’Europa, territorio naturale fortemente antropizzato, caratterizzato da un potente connubio fra uomo e ambiente, ci è riuscito.

A mio umilissimo parere, queste immagini sono le più belle. Forse perché ci parlano di una storia che ancora continua, di fatiche di uomini che hanno costruito il nostro futuro, di una natura che mantiene la sua identità selvaggia pur confrontandosi con l’homo faber che qui, a differenza di tanti luoghi nel mondo, riesce a rispettare.

Scorrono immagini e musica, video che solo questa sera possiamo ammirare.

“Il fotografo”, sorride Milko “è, in fondo, uno dei pazzi che se ne sta in un capanno ad attendere l’attimo fuggente”. Catturare qualche attimo è un regalo anche a noi, mi permetto di aggiungere. Ogni immagine ha tanto lavoro dietro, ci spiega. Ci vogliono tenacia e passione per condividere zanzare, freddo, situazioni climatiche avverse. Scorrono sullo schermo emozioni, ancora e sempre loro: foreste, fiumi, rane, gabbiani, danze di uccelli, un’aurora boreale, fenicotteri che si baciano, lunghi colli intrecciati che creano una romantica e fantastica forma di cuore. La magia della natura.

Il lavoro in bianco e nero sul Delta del Po è diviso in due parti, la prima parte è costituita da immagini video realizzate con il drone, vediamo come si presenta la morfologia del territorio dall’alto, la seconda parte è fatta di immagini.

Sia dal drone che dalle foto percepiamo la fusione di terra e acqua, due elementi che si abbracciano verso l’infinito, ci sono alberi che svettano verso il cielo come se nascessero dalla stessa acqua e poi un labirinto, l’Abbazia di Pomposa.

Ci muoviamo al ritmo cullato delle onde che accarezzano le rive, una nebbiolina lascia intravvedere l’operosità dell’uomo e delle sue reti, spuntano raggi di sole, due anatre si baciano, gli uomini remano, una barca va alla deriva mentre un’altra resta ancorata con le sue robuste funi, chi va e chi viene. Le onde paiono onde sonore, ci sono mani forti che lavorano, che parlano di fatica, sacrificio e sudore, così i visi con rughe profonde, quasi solchi, e poi le anguille, le luci.

Siamo ancora a bocca aperta quando passa a presentarci il suo lavoro video sull’Islanda, luogo dal tempo sbarazzino, che può cambiare in soli cinque minuti.

Terra di geyser, di cascate che mostrano la potenza dell’acqua mentre uno sfacciato arcobaleno le attraversa, dell’azzurro potente del mare, di onde che si infrangono sulle rive, di ghiaccio, del bianco della neve, di nuvole che corrono, di vento sulla sabbia, di faraglioni, di potenza del mare infuriato e spettinato.

Terra di fiori viola, di fiumi impetuosi che scorrono verso la vita, di gocce nel fango, di strisce che ricordano i colori del deserto, di pace, di armonia.

Terra di mamme chiocce, di colorate pulcinella di mare, di campanule gialle, di uccelli dalla maestosa apertura alare, di foche che si rilassano, di tramonti impetuosi, di strette gole, di pietre secolari, di cieli, di lastre di ghiaccio che sembrano abbandonate, di iceberg solitari, di abbracci fra cielo e mare, abbracci sempre e ancora abbracci.

Terra di ghiaccio, terra del ghiaccio. Quei ghiacci paiono cristalli preziosi, perché preziosi lo sono davvero. Dall’alto la visione è magnifica, sembrano diamanti.

Lo sguardo si perde e vola su specchi d’acqua dove si riflettono pensieri e sogni, le fessure nel ghiaccio ricordano ferite aperte, quelle della Terra. I numerosi rigagnoli paiono lacrime di commozione di fronte a cotanta bellezza. I raggi di sole attraversano le nuvole, come i desideri. L’aurora boreale ricorda i fulmini a ciel sereno.

E ancora ali in volo, che si chiudono, come danze, ali che si specchiano nell’acqua, una civetta curiosa, un cervo con corna che paiono scultura, prede, predatori, tenerezza di madri, una volpe che si stira, uno scoiattolo che si arrampica, un picchio ballerino, frazioni di secondo che l’occhio non vedrebbe. Cogli l’attimo. E qui è colto. Per davvero.

Anche le immagini del Pantanal in Brasile, una delle zone a maggiore biodiversità al mondo, un Eden in terra, ci fanno sognare. Ecco Sua altezza reale il giaguaro, mentre i caimani osservano qua e là. Da lassù, dagli alberi, un volatile si pettina, si curiosa, si effettuano voli planari, ci si nasconde per attendere la preda, ci si lava, si sbircia dal cavo di un tronco, si nuota, si sbadiglia, si sonnecchia, si prende il sole.

Il pubblico è affascinato e molto curioso, fra le tante domande si chiede a Milko quale è stata la “foto più sudata” (un appostamento di otto ore su un nido di airone cenerino, immersi nell’acqua, mimetizzati) o quando ha avuto davvero paura (in Africa, vicino ad una “piscina dell’ippopotamo”, l’animale più pericoloso e irascibile che ci sia). Gli viene anche chiesto dove non sia mai stato. In molti luoghi, dice. Una vita non basta per visitare il mondo, mentre sogna l’ostica e lontana Antartide.

Dietro ogni immagine c’è un occhio curioso, un cuore che si emoziona. E, nelle foto di Milko, c’è Energia. Energia pura. Vitale. Energia della vita. Meraviglioso.

Foto cortesia di Milko Marchetti, foto in evidenza “Mani che raccontano”

Parole d’Europa, quelle di cui oggi abbiamo bisogno

Parole europee e Treccani: Massimo Bray, Michele Ainis e Maria Vittoria Dell’Anna ci conducono in un interessante viaggio alla (ri)scoperta di alcuni concetti fondanti della cultura europea.

Allo European Projects Festival, che si sta tenendo a Ferrara dal 4 al 6 aprile, ieri pomeriggio è andata in scena la prestigiosa Fondazione Treccani Cultura, luogo di sapere per eccellenza, con tre relatori di eccellenza a introdurre cinque parole dell’Europa: democrazia, libertà, pace, giustizia e plurilinguismo. Massimo Bray (in collegamento video), direttore generale dell’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani dal 2015, Michele Ainis, professore emerito di Istituzioni di diritto pubblico all’università di Roma Tre e Maria Vittoria Dell’Anna, Professoressa associata di Linguistica italiana all’Università del Salento.

A tali illustri personalità il non semplice compito di presentare, a una platea di giovani, parole fondanti della cultura europea, fondamenta imprescindibili di una costruzione solida, legate a un concetto di cittadinanza attiva. Parole di cui oggi abbiamo più che mai bisogno. Giovani e meno giovani.

Di fronte a un deficit comunicativo dell’Unione europea, spesso dovuto alle diverse prospettive di 27 governi nazionali e all’utilizzo di parole ambigue (si pensi al Consiglio dell’Unione Europea, al Consiglio Europeo e al Consiglio d’Europa che hanno ben diversa accezione), non sempre il linguaggio delle nostre istituzioni comuni è intellegibile ai più.

“La stessa parola democrazia è talmente usata”, spiega Michele Ainis “da subire una sorta di azzeramento semantico. Ogni regime ormai si definisce democratico e nella storia la democrazia è, in realtà, un’eccezione; abbiamo osservato, nei tempi, come, di regola, ci siano stati molti più sistemi autoritari. La parola democrazia contiene, tuttavia, tutte le parole di cui si parla in questa tavola rotonda, soprattutto contiene la parola libertà”, continua.

“Dobbiamo distinguere”, si rivolge ai ragazzi, “la democrazia diretta del referendum, quella indiretta della delega e quella partecipativa, che significa concorrere al governo della polis, fare politica riunendosi con altri in movimenti e partiti”.

“La parola democrazia ne contiene molte altre del vivere civile, fondamento del rispetto altrui”, sottolinea, a sua volta, Massimo Bray. Il concetto di libertà, ad esempio, è connaturato a quello di democrazia. Libertà, tuttavia, è un termine anch’esso con una sua ambiguità lessicale. In Europa è anzitutto economica, associata inizialmente alla libera circolazione delle merci e delle persone; solo in seguito ha assunto sfaccettature più ampie, affondando, anch’essa nella storia. Si può esercitare la propria libertà con la semplice non interferenza da parte del potere pubblico, altre volte, invece, per alcune libertà, come quella di cura o istruzione, c’è bisogno del potere pubblico, serve un suo intervento per rendere alcune libertà effettive. Anche Dante, ricorda Bray, percorre il suo viaggio alla ricerca della libertà.

Serve poi spazio per la pace, un termine che pare dimenticato. Eppure, nel 1693, il quacchero William Penn scrisse il “Discorso intorno alla Pace presente e futura dell’Europa. Per la costituzione di un’Europa ordinata in una Dieta, Parlamento o in Stati generali”, prendendo in prestito da Cicerone l’epigrafe Cedant arma togae!. Immanuel Kant ha definito con assoluta precisione la pace e l’ha distinta radicalmente dalla guerra, in “Per la pace perpetua” (1795). La pace, infatti, o è perpetua o non è. Su questa base, il grande filosofo tedesco distingue tra pace e tregua. La prima è la condizione in cui la guerra risulta impossibile, la seconda una semplice pausa tra due guerre. Inevitabile concludere che nella storia dell’umanità vi sono state tregue più o meno lunghe, pace mai.

L’Europa nasce, allora, come progetto di pace, di convivenza pacifica tra popoli che nei secoli si erano fatti la guerra. Vengono anche ricordate le lezioni di Benedetto Croce sull’importanza della libertà e della ricostruzione della pace, di come, per Tahar Ben Jalloun, con la pace si impari a essere cittadini e a vivere insieme, di quanto la pace sia un antidoto alla paura e alla violenza, come diceva Norberto Bobbio. Oggi pare davvero lontana la volontà dei padri costituenti di difendere i valori da cui proveniamo. Serve un impegno quotidiano per costruire la pace. Lo stesso impegno che dobbiamo mettere per coniugare progresso e la tutela del mondo intorno noi. Perché, come ricordano i bellissimi passaggi della “Laudato sì del Santo Padre Francesco, di questo paesaggio, la nostra casa comune, siamo ospiti e non proprietari, e, per questo, non dobbiamo e possiamo sfruttarlo ma gestirlo nel modo migliore in quanto fonte inesauribile di diritti e libertà. Per tutti. Perché la giustizia, soprattutto quella climatica, oggi non può più attendere. Non c’è più tempo. E questo festival ce lo ricorda, anche con la settima arte (vedi 1, 2, 3  4, e 5).

Don Tonino Bello. Riflessioni sulla Pasqua appena trascorsa

Don Tonino Bello. Riflessioni sulla Pasqua appena trascorsa.

A Pasqua i Cristiani celebrano l’evento centrale della loro religione, cioè la resurrezione di Gesù e la vittoria della vita sulla morte. Così diceva Sant’Agostino: “Togli la resurrezione e distruggi il cristianesimo”. Inoltre, nei Vangeli si narra il ritrovamento della tomba vuota da parte delle donne, la proclamazione della resurrezione da parte di un angelo, l’apparizione del Signore risorto e le confessioni che lo testimoniano. Attraverso la sua risurrezione, Gesù ha potuto incontrare i suoi discepoli e incaricarli di una missione mondiale, portare la sua parola a chi non la conosceva.

Il termine Pasqua deriva dal greco: pascha, a sua volta dall’aramaico pasah e significa propriamente “passare oltre”, quindi “passaggio”. Con questo termine gli Ebrei ricordavano il passaggio attraverso il mar Rosso dalla schiavitù d’Egitto alla liberazione. I cristiani ricordano il passaggio dalla morte alla vita di Gesù Cristo.

La data della Pasqua cambia sempre, perché coincide con la domenica successiva alla prima luna piena dell’equinozio di primavera. Quest’anno ricorre presto, il 31 marzo. Esistono molti testi vicini e lontani al cristianesimo che affrontano e descrivono questo evento soprannaturale e unico dal punto di vista storico, religioso, spirituale, ascetico, ma anche apocrifo, eretico, ateo.

Credo che aldilà delle singole fedi, dei credi e anche delle insofferenze a volte superficiali, sia interessante il cammino e il tentativo di rendere attuale la Pasqua che alcuni uomini “illuminati” hanno fatto e cercano ancora di fare. Sacerdoti e laici, dipende.

Uno di questi è stato Don Antonio Bello, ex vescovo di Molfetta e presidente nazionale di Pax Christi (Alessano, 18 marzo 1935 – Molfetta, 20 aprile 1993). La sua opzione radicale per gli ultimi, il suo impegno per la promozione della pace, della nonviolenza, della giustizia e della solidarietà lo rendono, ancor dipiù in questi tempi, un profeta audace.

Tra i suoi scritti ve n’è uno che si intitola: Ti voglio bene. I giorni della Pasqua. Questo particolare e breve testo racchiude gli ultimi scritti che il Vescovo indirizzò alla sua comunità pastorale appena prima di morire. La sua morte avvenne infatti nell’Aprile del 1993, nove giorni dopo Pasqua.

Sono brevi lettere scritte in una situazione di grande sofferenza, era infatti tormentato da un cancro che gli causava molta sofferenza e che lo condusse in breve tempo alla morte. Un piccolo libro piene di luce, di speranza, ma anche di una forte voglia di vivere.

Contiene parole adatte alla Pasqua, che uno creda o meno nell’aldilà.  Del resto, se aprire una porta alla fede migliora la situazione di sofferenza, questa è comunque una strada da provare a percorrere, aldilà della storicizzazione della chiesa, della sua secolarità e dei suoi rappresentanti non sempre all’altezza.

Ma non solo, leggendo queste pagine si resta impressionati dalla forza di questa persona, dalla sua capacità di consolare gli altri quando ne avrebbe avuto bisogno lui, stava infatti lasciando questo mondo. Il 19 marzo del 1993 don Bello registra un messaggio per gli ammalati della sua parrocchia che viene trasmesso dall’emittente locale Radio Christus, la cui trascrittura viene riportata, tra le altre, nel libro.

Che cosa significa speranza? (si chiede don Bello): “Speranza significa forza di rinnovare il mondo. Forza di cambiare le cose: Nonostante tutto. Nonostante la malattia. Nonostante la sofferenza.” e ancora: “Il mondo può cambiare. E noi che siamo ammalati o che siamo vittime di tante sofferenze morali, noi possiamo contribuire a cambiare il mondo”.

Questo mi sembra davvero un bel messaggio Pasquale. La forza di cambiare il mondo. Credere che davvero lo si possa cambiare, migliorare ogni giorno. Un messaggio importante per tutti, credenti e non. Nonostante la situazione mondiale attuale sia pessima per i venti di guerra, il terrorismo, la presenza di armi spaventose e diffuse, si può provare a cambiare il mondo.

A volte mi chiedo se le persone abbiano ancora la consapevolezza che quando fanno volontariato, aiutano un vicino di casa, vanno a trovare un ammalato, oppure semplicemente facilitano il confronto e il dialogo fra le persone, stanno cambiando il mondo. Lo stanno cambiando nel loro piccolo, nelle loro azioni quotidiane, nella vita di tutti i giorni. Ma lo stanno cambiando in meglio.

Lo stanno migliorando “dal basso” (Ora al top down si preferisce la parola “liquido” che ha pervaso tutto e sciolto insieme alla contingenza il suo significato). La convinzione che il mondo può cambiare grazie al nostro operato quotidiano è da riattualizzare con molta forza ed è un atteggiamento educativo che va adottato nei confronti dei giovani.

La passività, il ripiegamento su logiche d’attesa, se non l’inattività, è uno status a cui non ci si deve né adattare, né rassegnare, altrimenti il mondo davvero dormirà nella penombra e non rivedrà la luce. Non la luce della resurrezione, ma nemmeno la luce della speranza. È la speranza che può fare la differenza, è lei che ci ricorda la Pasqua. È utile ritrovare il tempo per osservare il mondo dell’infanzia e per imparare dai bambini ad essere fiduciosi nel domani, nei giorni che verranno, nel sole che splenderà, nelle persone più grandi che ci aiuteranno e ci renderanno felici.

La Pasqua è fatta per ritrovare la speranza in un mondo migliore e non per rannicchiarsi come vecchie tartarughe in un guscio di indifferenza e di protezione dei propri privilegi, pensando che quello sia il modo migliore di vivere, dimenticando gli altri e le loro necessità, le piccole cose che potremmo fare per loro e che non ci costano nemmeno tanto, se non una briciola del nostro tempo.

Una secondo aspetto del libro di Don Bello che si sembra degno di interesse è la sua tensione all’idealità. Esiste e alberga in ognuno di noi un’idea di giustizia, un’idea di legalità, un’idea di pace, un’idea di libertà. Ciascuno di questi temi esiziali ed esistenziali deve tornare al centro delle nostre riflessioni, bisogna riappropriarsi della consapevolezza che riflettere su questi argomenti piò fare la differenza, può elevare il mondo al disopra delle contingenze per aprire a nuovi orizzonti di azione e di riflessione.

L’idealità si scontra con la vita quotidiana che è fatta di arranchi, di errori, di impotenza ma anche di possibili strade che si possono intraprendere oppure no, vie libere e limonose che aspettano di essere percorse. Bisogna avere la forza di vedere, guardare in alto, senza abbassare gli occhi.

A proposito del nostro rapporto con l’idealità don Bello scrive “Non abbiate mai paura di essere carichi di utopie, carichi di queste idealità purissime, soprattutto quelle che si rifanno ai grandi temi della pace, della giustizia, della solidarietà. Sono temi che si stringono intorno ad una parola: Freedom!”

E ancora “La libertà è un dono che dobbiamo implorare dal Signore, perché tutti quanti i popoli della terra siano felici. E noi dobbiamo essere protagonisti di questo rinnovamento culturale, di questo cambio di mentalità. Non dobbiamo stancarci, non dobbiamo demordere anche se le difficoltà sono tantissime”.

Ma cos’è la libertà? Quante volte ce lo dovremmo chiedere? L’idea di libertà ha una definizione ufficiale e una declinazione personale. Una componente utopica e una operativa, che diminuisce la forza indiscussa dell’idealità per ragionare sulla concretezza, per sbriciolare l’idea e renderla azione. Nel passaggio dall’idea all’azione si perde la purezza utopica, non vedo cosa debba cambiare questa consapevolezza.

Il mondo nel quale viviamo non è un mondo puro, è un mondo pieno di disgrazie, accidentalità malefiche e scelte scellerate che qualcuno ha già fatto e che altrettanti stanno facendo. Ma il passaggio dall’idea all’azione resta fondamentale, la consapevolezza che in questo passaggio ci saranno delle accidentalità, importante. Non è forte chi rinuncia ad un ideale perché irrealizzabile nella sua dimensione puramente teorica.

Ogni ideale in quanto utopia è di suo irrealizzabile, è invece realizzabile una concretezza dell’azione che dell’idea si nutre e da essa trova linfa e senso. Non si può abbandonare un ideale in nome di una sua inattualizzabilità. L’ideale è inattualizzabile in quanto utopia ma è percorribile in quanto operatività imperfetta.

L’imperfezione dell’idea attualizzata è una caratteristica di questo mondo, è ciò che lo rende così com’è. È il suo limite ma anche la sua possibile salvezza. Abdicare alle idee impoverisce il mondo fino ad ucciderlo. Rendere gli ideali approssimativi (in quanto approssimabili per prove ed errori) è il meglio che possiamo fare.

Esiste il piano dell’assoluto e il piano del fattibile che solo in momenti di armonia cosmica (chiamiamoli così) è possibile vedere congiunti, esigibili, “esistibili”. È proprio questo che ci regala la Pasqua, un confronto ravvicinato con “l’esistibile”.

Un terzo tema che Don Bello affronta in Ti voglio bene è quello della violenza. Sono molto conosciute le sue posizioni pacifiste ed è molto interessante quello che lui sostiene sulla violenza: “(…) non c’è solo la violenza delle armi. C’è la violenza del linguaggio, quando, per esempio, si risponde male a una persona anche se si ha ragione. Quello è un linguaggio violento. Quando si vuol coartare, piegare la volontà degli altri alla propria, quello è un atteggiamento di egemonia, di superbia. È un atteggiamento violento. (…)

Quando educatori, genitori, maestri, più che modellare l’animo dei discepoli o dei figli (in funzione della loro autentica crescita umana) la modellano secondo progetti anche splendidi, però caparbiamente modellati sulle loro vedute: allora corrono il rischio della violenza. Quando vantiamo un pregio forse anche meritato, per cui chi vede magari ha paura di noi: anche questa è violenza”.

Pensando al mondo che ci circonda, tutti possiamo individuare focolai violenti e rovinose cadute di ideali, ma anche azioni illuminate. La Pasqua ci aspetta in quanto persone che riflettono sul senso del loro vivere e che sperano in un futuro migliore. È la rinascita a vita “buona”.  È un percorso, una ricerca interiore che ciascuno di noi fa e che in alcuni momenti dell’esistere è più presente che in altri.

Non credo ci siano persone che non si pongono mai temi esistenziali, credo però che in molti casi si trovi il modo di dimenticarsi le possibili risposte. Nel futuro si annidano molto insidie, ma la Pasqua ci insegna che nel futuro possono albergare anche le nostre idee più belle, le nostre speranze. Credo che il grande dono che la Pasqua fa a tutti sia proprio questo, una nuova strada e una possibile speranza che riguarda sia una miglior vita sulla terra che l’aldilà.

Per leggere gli articoli di Catina Balotta su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Parole a Capo
Marisa Pia Boscia: “Poesie alla ricerca di un titolo”

C’è un silenzio del cielo prima del temporale, delle foreste prima che si levi il vento, del mare calmo della sera, di quelli che si amano, della nostra anima, poi c’è un silenzio che chiede soltanto di essere ascoltato.
(Romano Battaglia)

 

SENZA TITOLO

Sulla collina dei limoni
cerco l’altare della poesia
per bere
le sanguinanti lettere
del tuo simulacro
e gustare
l’eterno fremito.

 

SENZA TITOLO

Era bambina
e piangeva il giglio
reciso da putide ombre.

Era donna
e lacrimava il garofano
toccato da insipide dita.

 

SENZA TITOLO

Davanti al sepolcro
che sconquassa,
aspettavo l’alba
che mitiga,
per camminare
nella meraviglia.

 

SENZA TITOLO

Dietro un velo buio
la Luna è svanita
con occhi sgomenti.
Gemendo, si è trasformata
in globo oscuro
sospeso nel cielo.
La moltitudine la fissa
con mente colma
di giudizi.

 

SENZA TITOLO

Un vapore funebre
sale dai corpi nudi.
Il sangue delle vittime
feconda i miseri giacigli.

Gocce amare
baciano gli occhi spenti.
Ogni mattino
si colma di tombe.
La luce verde
è stata violentata.

 

Marisa Pia Boscia vive nel capoluogo molisano. Fotografa e scrittrice per passione, unisce i suoi studi da autodidatta alla frequentazione di workshop artistici. Degni di menzione sono: “Proforma – Dalla Forma al Mercato”, il corso di formazione artistica realizzato da Aratro Unimol con il supporto del MIBACT; la masterclass di scrittura poetica del Festival “Il Federiciano 2019” e il “Laboratorio creativo di fotografia e suggestioni poetiche” della WSP Photography. Finalista in concorsi letterari, ha pubblicato versi e racconti in diversi volumi antologici.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Di chi è la città?
L’amministrazione comunale deve ascoltare i cittadini: venerdì 5 aprile Piazza Cattedrale ore 17.30

Di chi è la città?

L’amministrazione comunale deve ascoltare i cittadini

Venerdì 5 aprile in Piazza Cattedrale a Ferrara dalle 17.30 numerose associazioniForum Ferrara Partecipata, Associazione Piazza Verdi, Centro Sociale La Resistenza, Cittadini del Mondo, Ferrara 2030, Koesione 22, Italia Nostra, Caldirolo Libera organizzano un’assemblea pubblica sui temi della pianificazione urbanistica, riqualificazione ambientale e rigenerazione urbana di Ferrara.

Potete scaricare il volantino dell’iniziativa qui sotto:

VOLANTINO VENERDì 5 APRILE FRONTE (1)

VOLANTINO VENERDì 5 APRILE RETRO (2)

Stoltenberg, nomen omen
La guerra che c’è, la guerra che verrà e la gerarchia delle canaglie

Stoltenberg, nomen omen

La guerra che c’è, la guerra che verrà e la gerarchia delle canaglie

 

Vladimir Putin è il nuovo Adolf Hitler? La domanda mi pare al contempo abnorme e legittima. Abnorme, se penso al male assoluto che il nazifascismo ha costituito nella storia del genere umano, imparagonabile in termini ontologici e “filosofici” con altre ideologie criminali. Legittima, perché solo la convinzione che Putin sia il nuovo Hitler può giustificare la sfrenata corsa al riarmo, testimoniata dai seguenti fatti pubblici:

-un ampio fronte di Paesi tra cui Francia, Italia e Germania chiede alla BEI (Banca Europea degli Investimenti) di finanziare il riarmo europeo;

-paesi storicamente neutrali come la Finlandia (e prossimamente forse la Svezia) aderiscono alla Nato;

-il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel dichiara: “La Russia rappresenta una grave minaccia militare per il nostro continente europeo e per la sicurezza globale. Se non reagiamo in modo appropriato a livello di Ue e se non diamo all’Ucraina un aiuto sufficiente per fermare la Russia, saremo noi i prossimi. Dobbiamo quindi essere ben preparati in termini di difesa e passare alla modalità “economia di guerra”…. È ora di assumerci la responsabilità della nostra sicurezza. …Se vogliamo la pace dobbiamo essere pronti alla guerra”;

-ultimo ma non ultimo, i rigurgiti pseudo-gollisti di Macron, che prima dichiara che non bisogna umiliare la Russia e poi afferma di voler mandare i soldati anche da solo per batterla. Del resto, scriveva De Gaulle, “la Francia non può essere la Francia senza la grandezza”. Bisogna vedere la grandezza di cosa: i francesi chiamano con proverbiale eleganza, boutades, anche quelle che noi chiamiamo cazzate.

Saremo noi i prossimi. Noi chi? Immagino che Michel parli della Francia, dell’Italia, della Germania, perché no del Regno Unito passando prima dalla Polonia, dalla Finlandia, dai paesi baltici, dalla Svezia  (e dall’Ungheria? Dalla Turchia? Come dobbiamo considerarle queste, nazioni amiche del satrapo russo? Eppure sono membri della Nato…). Quindi, secondo questa narrazione, Putin sarebbe a capo di una nazione che considera Crimea e Ucraina solo le prime tappe di un disegno di annessione globale su scala paneuropea, sotto il giogo russo.

Qui sotto favorisco una cartina geografica che mostra bene l’espansionismo degli ultimi trent’anni:

Sorpresa. La macchia scarlatta che si è dilatata verso est negli ultimi 24 anni è rossa, ma non è russa. E’ la Nato. Ed è già da aggiornare perchè quella nazione color magenta in alto a destra, la Finlandia, è diventata rossa pure lei. Conosco l’obiezione: la Nato non obbliga nessuno Stato all’adesione. Ma la Nato è un’organizzazione del libero commercio? Un ente filantropico? Un enorme Rotary Club in cui i notabili della Terra si riuniscono per fare il bene dei loro cittadini più sfortunati?

La Nato (Organizzazione del Trattato Nordatlantico) è un’alleanza militare, nata all’indomani della fine della seconda guerra mondiale (1949). Attualmente conta 32 paesi aderenti, di cui solo due sono extra europei, ma uno di questi due, gli Stati Uniti d’America, è di gran lunga il più influente di tutti. Nasce come patto di reciproca difesa nei confronti dell’alleato bolscevico contro il nazismo, l’URSS, che nella spartizione post bellica si prende la Germania dell’Est, gli stati baltici ed è sospettato di avere mire espansionistiche paneuropee: ricordiamo che l’Armata Rossa alla fine del conflitto mondiale era arrivata a 80 km. da Berlino. Il simbolo della spartizione delle spoglie della Germania sconfitta è proprio Berlino, divisa in due fino alla caduta del Muro. Ma perché Berlino fu separata a metà dal Muro? Perché i sovietici, sospettati appunto di mire espansionistiche in tutta l’Europa, decisero a loro volta di creare un’alleanza militare di reciproca difesa – il Patto di Varsavia, 1955, con dentro tra le altre Germania Est, Polonia, Bulgaria, Ungheria e Cecoslovacchia – nata soprattutto sul timore del riarmo occidentale e in reazione all’adesione alla Nato della Germania Ovest.  Tutto ciò accadde dopo che c’erano state trattative per l’ingresso della stessa Unione Sovietica nella Nato: ingresso fortemente osteggiato, tra gli altri, da Hastings Lionel Ismay, britannico, segretario generale della Nato stessa, che affermò come tale istanza era paragonabile alla “richiesta di un ladro impenitente di entrare nelle forze di polizia”.

Quel muro che divideva Berlino non c’è più dal 1989. Il Patto di Varsavia si è sciolto nel 1991, assieme al dissolvimento dell’URSS sotto la guida di uno statista troppo visionario e troppo confidente nella buona fede degli “alleati freddi” americani, oltre che irragionevolmente fiducioso nel genere umano: Mikhail Gorbachev. Quindi, in sintesi: il Patto di Varsavia non esiste più da oltre trent’anni, la Nato esiste tuttora ed è foderata di Stati, alcuni dei quali confinanti con la Russia.

Prima domanda: quale dei due fronti vincitori, dopo la guerra sospettosi l’uno dell’altro, aveva più ragione a sospettare dell’altro?

Seconda domanda: come si comporterebbero gli Stati Uniti se il Messico o il Canada entrassero nell’orbita di influenza russa?

Terza domanda: come si sono già comportati gli Stati Uniti d’America, tutte le volte che una nazione del continente americano (o addirittura asiatico) è entrata nell’orbita sovietica o semplicemente ha tentato di intraprendere una propria via economica, sociale e politica, affrancandosi dalla dipendenza dagli USA? (Un suggerimento per rispondere correttamente: non c’è stata solo Cuba, il Cile, l’Argentina. In Porto Rico e Nicaragua gli yankees hanno proprio invaso il paese. Per brevità non mi dilungo sul Vietnam e sull’Iraq).

“Il contesto era che il Presidente Putin aveva dichiarato nell’autunno del 2021, e in realtà aveva inviato una bozza di trattato che voleva che la NATO firmasse, di non promettere più alcun allargamento della NATO. Questo è ciò che ci ha inviato. Ed era una condizione preliminare per non invadere l’Ucraina. Naturalmente, non l’abbiamo firmato. È successo il contrario. Voleva che firmassimo quella promessa, di non allargare mai la NATO. Voleva che rimuovessimo le nostre infrastrutture militari in tutti gli alleati che hanno aderito alla NATO dal 1997, il che significa che metà della NATO, tutta l’Europa centrale e orientale, dovremmo rimuovere la NATO da quella parte della nostra Alleanza, introducendo una sorta di adesione di serie B, o di seconda classe. Abbiamo rifiutato. Quindi, è entrato in guerra per evitare che la NATO, più NATO, si avvicinasse ai suoi confini. Ha ottenuto l’esatto contrario”.

Questa straordinaria spiegazione non è uscita dalle labbra dei putiniani d’Italia, cioè di tutti coloro che per il fatto di avere un’opinione sono tacciati di intelligenza con il nemico. Sono parole di Jens Stoltenberg, attuale segretario generale della Nato. Nomen, omen.

Sei a casa tua. Un appartamento grande, ma un tempo era praticamente un castello. Ci sei dopo avere vinto una gigantesca faida condominiale, quando un tuo predecessore si alleò con dei condòmini  – che lui reputava schiavisti, inaffidabili, con la fissa del denaro ma non pazzi – al fine comune di sconfiggere il pazzo austriaco dell’appartamento centrale che voleva annettersi la tua casa, quella dei vicini e gasarti portandosi via i tuoi denti d’oro, se per caso non eri biondo e con gli occhi azzurri (che fosse pazzo si capisce subito dal fatto che lui stesso era moro con gli occhi scuri e forse addirittura ebreo, alla faccia delle origini ancestrali del popolo germanico di cui cianciava). Dopo sessant’anni ti accorgi che, lemme lemme, gli ex alleati si sono comprati tutti gli appartamenti attorno al tuo, e accusano te di essere un espansionista perché hai occupato abusivamente una veranda che dà verso il mare. Allora cerchi di accordarti con loro affinché resti libero l’unico appartamento che non hanno ancora comprato, e che ben prima della lite condominiale era una tua pertinenza, affittata poi a gente con strane simpatie per il pazzo austriaco, i cui muri confinano coi tuoi: ma loro ti dicono di no, che se vogliono lo comprano loro – con il denaro loro comprano quello che gli pare -, ma tu devi stare tranquillo perché tanto nessuno ti vuol fare del male. A quel punto decidi di bucare la parete di confine ed entri nel bagno dell’appartamento vicino, al grido di “liberiamo i bidet dai sederi nazisti”.

In questa storiella tu sei Putin. Questo non depone a tuo favore, perché a casa tua picchi moglie e figli, fai avvelenare i parenti scomodi e fai ammazzare chi racconta quello che sei, cioè una gran canaglia. Ma gli espansionisti, chi sono?

Chiedo scusa per avere paragonato la seconda guerra mondiale a una lite condominiale, la Crimea a una veranda e l’Ucraina a una pertinenza. Chiedo scusa per aver raccontato la storiella di una lite di condominio nella quale, fuor di parabola, chi paga il prezzo più alto in termini di morte e distruzione di un presente (e spesso di un futuro) sono le persone, non i potenti, che al massimo si suicidano quando tutto è perduto, compreso il loro popolo. Non chiedo scusa per la repulsione che provo davanti agli elmetti figurati che indossano questi funzionari al soldo dell’industria bellica, volendo spacciare la tesi che loro sono buoni e c’è un cattivo che vuole entrare a casa nostra. In questa corsa alla nuova guerra mondiale – che è già scoppiata in mezzo mondo, o forse non è mai terminata – non c’è nessun buono. Ma quel che è peggio, non riesco a individuare nessun “potente” che possa essere definito uno statista. Se anche Putin potesse essere avvicinato ad uno Stalin – paragone forse meno assurdo di quello con Hitler -, non avendone peraltro più né la stessa sconfinata ampiezza di territori né l’esercito a disposizione e quindi essendo decisamente meno potente e minaccioso, andrebbe ricordato che Roosevelt e Churchill con Stalin ci fecero la pace.

Anche tra le canaglie andrebbe stabilita una gerarchia. Gerarchia di merito ma anche di convenienza. Esiste la gentaglia convinta della propria follia al punto da poter essere paragonata ai nazi, nel ventunesimo secolo di questo straordinario e allucinante antropocene, e non sono Putin e la sua cricca. Sono gli integralisti religiosi, negli ultimi decenni prevalentemente musulmani (non è sempre stato così). Possono contare su una manodopera di folli, talmente accecati dal fanatismo da ammazzare più islamici loro di tutti. Se non si udisse, flebile e disperata, la voce nel deserto di Papa Francesco avrei la peggiore opinione possibile del Dio degli uomini. In realtà gli uomini mi piacciono ancora meno.

 

Cover photo: Borodyanka, Kiev, Banksy graphiti

 

 

 

 

Parole e figure / Lo scrittore, che meraviglia

“Lo scrittore”, di Davide Calì e Monica Barengo: una storia di amicizia e amore, raccontata dalla viva voce di un simpatico e buffo quadrupede

Edito da Kite, “Lo scrittore”, di Davide Calì e Monica Barengo ci porta nel mondo dell’amicizia, di quella pura e disinteressata. Magnifica esperienza, fatta di dedizione, attenzione, cura e fedeltà, come quella che solo i nostri amici cani sanno donare.

Perché, in effetti, essere il cane di uno scrittore implica grandi responsabilità: obbligarlo a rispettare gli orari, preoccuparsi della sua vita sociale, ricondurlo con i piedi per terra.

Lui scrive, scrive, vive nel mondo dei sogni e della fantasia, si dimentica di mangiare, di uscire, tralascia tutto. La scrittura lo avvolge e rivolge, le parole sono la sua vita.

Un po’ come Pongo de “La carica dei 101”, il simpatico bulldog francese de “Lo scrittore” aiuta il suo padrone a staccarsi un po’ dal suo “tic tic tic” continuo, per lui leggermente snervante, che pare scandire ogni minuto della giornata. Certi giorni il suo padrone se ne sta chiuso in casa in pigiama a bere caffè, non si veste nemmeno, null’altro che quel rumore della macchina da scrivere. Che barba, che noia. Se non fosse per lui, non si ricorderebbe nemmeno di mangiare. Meno male che c’è la sua ciotola …Dal basso della sua cuccia con tanto di pallina da tennis accanto, lui, attento, vigila…

Ma cosa scriverà mai il suo padrone? Che mondo sarà mai quello dove pare vivere, da solo? Perché appallottola tanti fogli? A cosa pensa? Per fortuna c’è lui ad aiutarlo a distrarsi, ogni tanto. Guinzaglio e via, fuori a fare una bella passeggiata. Le giornate possono essere tiepide e piacevoli, talora piene di belle sorprese. Gli servirebbe davvero un’altra compagnia, magari una piacevole e bella ragazza… Ma lui non si guarda intorno, non vede davvero nulla, di questo passo resterà sempre e per sempre da solo. Pare una causa persa… Ma, ma, vedi questa… finché un giorno…

Davide Calì, Monica Barengo, Lo scrittore, Kite, Padova, 2019, 36 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Electric Star

Electric star

kosmische musik. La musica cosmica ha avuto un enorme influenza sull’elettronica, la psichedelia, il prog, il noise e persino il metal, andando a costituire uno degli arcipelaghi sonori più preziosi e, tuttavia, meno conosciuti della musica contemporanea occidentale.

Non voci né parole, ma un’isola.

Il suono, tutti i suoni, correnti di suono sotterranee. Spiagge e scogli, un fiume e le sue piene e le sue anse, le sue secche. Onde, erbe selvatiche, sulla spiaggia conchiglie e rami. Il fiume, il mare. Onde sonore come le falesie.

Non il linguaggio, non la conoscenza, ma un’isola.

Nessun telefono, rete, device. Nulla se non stelle elettriche, grida di uccelli, sole e luna e giorno e notte, acqua e nubi, falesie di suoni e Betelgeuse, stelle e nessuna voce umana.

Isola in un tempo algoritmico.

Nessuna voce tranne la tua voce, la tua voce che è voce anche senza suono, il troppo pieno del pensiero, pensieri come onde come frattali, un pensiero via l’altro come bolle di fango e di vapore, bolle che affiorano scoppiano e scompaiono via una avanti un’altra, la mente una caldera una solfatara, né spazio né tempo nessuna voce la tua voce un’isola.

E gli attimi di vuoto tra i pensieri. Nella mente una fiamma si divincola – il bordo, il vuoto, il margine.

Cammini sulla sabbia a piedi nudi, disegni il tuo mandala mentre lo percorri. Isola. Tra sabbia e sassi gigli stella.

Chiamala come vuoi, un’isola. Ora d’aria, vuoto, pura contemplazione. Voce che non dice io, voce sciolta dall’io. Voce che è noi e tu, vita che è e non è persona, stella dell’immanenza, luce nera. Chiamala mare, marea risacca tregua dell’angoscia, gioia senza motivo, placarsi dei pensieri e delle bolle, lux sicca, gioia non spiegabile. Luce emergente dalle nubi, dalla nebbia, chiamala come vuoi, chiamala un varco nel reale, chiamala istante, battito o beatitudine, chiamala stella bipolare. Betelgeuse, astro, supernova, nessun nome è importante. Chiamala come vuoi, colonna d’aria, cisterna di suoni. Shantih, gioia anteriore, silenzio che contiene tutti i suoni. La chiamassi anche George, Albertine o Clelia, isola, quest’anguilla il linguaggio, queste squame cangianti – via, via!, come la pelle usata delle bisce. Anguilla che si addentra in mare aperto. Libera. Voce che non è un io, voce che non dice io. Voce che è una voce è una vita.

Così come in terraferma vivi, dissociando la luce dal rumore: che cosa triste fu l’angoscia, che cosa triste è stata la speranza, vita in tempi algoritmici a guadagnarti il pane, il tetto sulla testa, la macchina di pena del linguaggio e l’ordine del discorso, la terra arsa l’orrore antropocenico, andare avanti come puoi meglio che puoi e quante volte sei dentro la nebbia, d’improvviso davanti a un’acqua nera, niente è reale e niente immaginario e sembra pietrificarsi la realtà, senti il tuo sé fuori dal corpo e innanzi a te si frattura il reale, linea di faglia e vuoto interstellare, la realtà ha abbandonato il mondo e resta un astro deserto oppure nebbia, cadi fuori da te, cadi nel come se, che cose tristi furono le cose. Derealtà, nel pieno troppo pieno del reale. In terraferma il gergo senza fine, il ritorno del ritmo, a ogni giorno la sua pena e procurarsi il cibo, il tetto sulla testa, ti attende la caldera e il vasto gergo del mondo, ti attende e ti respinge, la trascendenza tarda come la speranza e come la tristezza triste, come bolle di fango i tuoi pensieri, caldera cratere solfatara.

Ma ora sei qui, isola. Isola deserta, fiume e mare, pura contemplazione, pura contraddizione – ecco, eccoti qui.

Stella dell’immanenza, sguardo mare, isola di respiro tra i pensieri. Libera in mare questa voce cantora, anguilla e Betelgeuse, voce tra spiagge e gigli stella, dive to deep dreams for spei et metus affectus sine tristitia non dantur, senti il battito il flusso, il ronzio il brusio dei pensieri, la radiazione cosmica di fondo. Stella elettrica sopra di te, notte stellata dentro di te, strida di uccelli e l’arnia dei pensieri, il silenzio che alberga tutti i suoni, tutto qui, luce emergente dall’abisso, gioia senza perché, tu al sicuro nel mondo e nell’istante, nel destino del mondo, atomo del piano in cui sta tutto tutti i pensieri le idee i concetti i suoni le bestie le persone i vivi e i morti, i nostri cari qui nel petto, piante colori e musiche e quale miracolo il mondo, non il mondo com’è ma il mondo in quanto è, nastri galassie e costellazioni, trecce armoniche e grappoli di suoni, corone di serpenti e tu spirale sonora, voce come una voce, significanti come rampicanti, tu isola che appare, istante vuoto tra un pensiero e l’altro, vide cor tuum nella notte stellata, gioia in tempi algoritmici. Canta nel tempo cantando a respiro, nel tessuto celeste strana stella.

Per leggere i racconti di Silvia Tebaldi pubblicati su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Per certi versi /
Non era biondo

Non era biondo

Gesù
Non era biondo
Nemmeno
Gli angeli
Cherubini
Maria era una
Donna
Mise al mondo
Un Bimbo
Lo vide morire
Soffrì molto
Se ne parla poco
I barbari
Erano migranti
Le razze
Sono pesci
Da accarezzare
Gli indiani
Sono indiani
Nessuno è indio
Le foto più belle
Sono in bianconero
La pace
È una tromba
Capace di cantare
Per tutti
Gli umani
Non
La colomba
Animale
Terribile
E spietato
L’uovo
Di Pasqua
È
Nero cioccolato
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Avanti di cinquant’anni (don Milani)

di Eraldo Affinati

Prima di morire don Lorenzo Milani, ricoverato all’ospedale Careggi di Firenze, disse al cardinale Ermenegildo Florit che, dopo averlo tanto ostacolato, era andato a trovarlo: “Io sono più avanti di lei di cinquant’anni”. Era vero perché aveva intuito cose che noi ancora oggi stentiamo a comprendere sul ruolo centrale che la scuola dovrebbe avere in ogni consorzio umano, sul necessario rinnovamento del linguaggio della Chiesa, sul rapporto coi giovani, sulla giustizia sociale, sulla storia italiana, sul pacifismo e sull’obiezione di coscienza.

I lavori di questo convegno lo confermano appieno. Don Milani ci ha fatto comprendere che, al di là dei metodi, che possono essere molto diversi e magari ugualmente efficaci o dannosi, a fare la differenza a scuola è la qualità della relazione umana fra il docente e lo studente: se non si instaura fra di loro un rapporto di reciproca fiducia e rispetto, qualsiasi obiettivo didattico è destinato a fallire.

“Chi insegna pedagogia all’università”, scrisse don Milani in Lettera a una professoressa, “i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline”: con ciò voleva comunicare il suo scetticismo per ogni visione teorica e precostituita.

Al contrario, è necessario partire dalle esigenze del singolo studente, accompagnandolo verso la meta prefissata ed essendo pronti a scomparire quando lui o lei l’ha raggiunta. Bisogna sapere che ogni apprendimento ha una sua forma e un suo tempo. È fondamentale premiare il movimento che i ragazzi fanno registrare dalle loro posizioni di partenza, prima ancora dei traguardi che devono raggiungere, ai quali tuttavia non dovremmo mai rinunciare.

Credo che Lettera a una professoressa sia un testo ancora decisivo, al di là dei fraintendimenti che continua a suscitare. Pierino e Gianni, i due bambini protagonisti di quell’opera, uno avvantaggiato, l’altro svantaggiato, hanno cambiato nome, ma sono sempre gli stessi.

Da una parte abbiamo oggi Giulia e Marco, figli di coppie benestanti; dall’altra Mohamed o Ibrahim, analfabeti nella lingua madre: non possiamo di certo affrontarli nel medesimo modo! Tenendo presente che non stiamo parlando di medici e ingegneri, bensì di adolescenti in via di formazione.

Don Milani, insegnando le parole, costruiva le persone, conduceva alla maturità, formava la coscienza dei futuri cittadini, educava allo spirito critico. Del resto, i grandi linguisti ce l’hanno spiegato: se non avessimo un sistema verbale ben strutturato, ogni nostra emozione sarebbe soltanto un grumo emotivo, qualsiasi esperienza resterebbe inespressa e noi esseri umani non ci distingueremmo dagli animali.

Il priore di Barbiana, prima ancora di qualsiasi ricetta o istruzione per l’uso, ci ha lasciato una grande energia vitale e propositiva: in tale direzione molti insegnanti lo hanno messo a frutto e continuano a farlo, ma l’istituzione scolastica, nella sua struttura complessiva, l’ha ignorato, restando legata a una valutazione standardizzata che, di fronte alla rivoluzione digitale, rischia di penalizzare le nuove generazioni. Basti pensare agli alti tassi di dispersione scolastica presenti in Italia, specie nelle regioni meridionali, per renderci conto di quanto don Milani sia rimasto inascoltato.

I ragazzi di Barbiana di oggi si chiamano Omar e Faris, vengono da ogni parte del mondo, hanno lo stesso problema linguistico che avevano i bambini dell’Appennino ai quali si rivolgeva il priore. Sono loro i nuovi italiani, come hanno più volte affermato, in perfetta sintonia, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Papa Francesco il quale, nel giugno 2017, recandosi a pregare sulla tomba di don Milani, pose fine a una stagione di lunghi e dolorosi equivoci. L’ultima cosa che avrebbe voluto il prete fiorentino, questo ribelle ubbidientissimo, sarebbe stata quella di venire definito un eccentrico ai margini della Chiesa, come invece purtroppo ancora oggi molti lo considerano.

I numerosi convegni scaturiti dal centenario della nascita, importanti soprattutto per diffondere fra i più giovani la sua conoscenza, non ci dovrebbero comunque illudere sul superamento delle questioni sollevate dal priore. Basti pensare alle polemiche derivate dalla nuova denominazione istituzionale del Ministero della scuola e del “merito”.

Siamo di fronte a un tema ad alto tasso di fraintendimento e strumentalizzazione. Ogni insegnante vuole scoprire e premiare i ragazzi meritevoli. Ci mancherebbe altro che non lo facesse! Don Milani puntava proprio a questo. Ma non si sarebbe mai sognato di selezionare o isolare il vincitore dal resto del gruppo, ben sapendo che non soltanto i deboli hanno bisogno dei forti, vale anche il contrario.

Un gruppo scolastico composto di tanti secchioni sarebbe tristissimo, oltre che improduttivo, come pure uno che riunisse i soli ripetenti. Le migliori classi, nell’esperienza di chi ha trascorso la vita in aula, sono quelle eterogenee, composte da bravi e negligenti, maschi e femmine, lenti e rapidi, bianchi e neri, ricchi e poveri.

Se non facciamo parlare fra loro i nostri allievi, non riusciremo mai a creare la coscienza del bene comune, nucleo imprescindibile di ogni cultura democratica, nel solco di quanto ci hanno insegnato i padri costituenti. Ecco perché il motto più bello della scuola di Barbiana resta quello che ci spinge all’azione collettiva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia

Come docenti abbiamo il dovere e la responsabilità di restare fiduciosi. In un mio libro dedicato alla figura di questo straordinario sacerdote (se non fosse entrato al Cestello, il seminario in riva all’Arno dove prese i voti, niente sarebbe accaduto), profeta (la foto in cui tiene in braccio un bambino africano resta plasticamente emblematica), maestro (colui che spezza il pane dell’istruzione) e scrittore (epistolare, nel solco più puro della letteratura italiana, pensando a Francesco Petrarca, Santa Caterina da Siena e Ugo Foscolo), intitolato proprio L’uomo del futuro, ho raccontato i molti don Milani da me incontrati in ogni parte del mondo.

Erano il maestro di villaggio africano impegnato a controllare decine di allievi, il volontario berlinese teso a recuperare l’adolescente naziskin, il padre giuseppino di Città del Messico che giocava a pallone coi bambini di strada, la suora di Madre Teresa di Calcutta che a Benares accoglieva le giovani cerebrolese, l’obiettore di coscienza russo…

Nessuno di questi educatori sapeva chi fosse stato il priore di Barbiana ma io, guardandoli in azione, lo vedevo rivivere grazie a loro.

 

Inizia il cammino della lista civica de La Comune di Ferrara (LCF)
Ecco i candidati

Inizia il cammino della lista civica de La Comune di Ferrara (LCF)

Si è tenuto nei giorni scorsi il primo incontro collegiale dei 32 candidati a Consigliere Comunale della lista civica La Comune di Ferrara, che ha espresso la candidatura a sindaca di Anna Zonari: 18 donne, 14 uomini. Il più giovane ha 21 anni, la più ‘giovane dentro’ ne ha 74. Sono (e sono stati/e) insegnanti, operatori e operatrici sanitari/e, universitari/e, dirigenti, impiegati/e nel pubblico e nel privato, tutte e tutti accomunate/i da esperienze di impegno nella società civile e di politica attiva nei movimenti, nell’associazionismo, nei partiti.

L’estate scorsa abbiamo iniziato come LCF ma non immaginavamo che saremmo arrivati fin qui. Nemmeno la mia candidatura era in programma: a guidarci sono stati il comune sentimento di urgenza, il bisogno di un nuovo modo di fare politica, dal basso, e una visione di città che sia all’altezza delle sfide del presente.” Così Anna Zonari, candidata sindaca, accoglie i suoi compagni di viaggio e li invita a un giro di presentazioni durato quasi due ore: molte persone non si conoscevano tra loro, e il momento di condivisione degli obiettivi è sempre molto importante.

“Quando a fine anno abbiamo deciso di esprimere una candidatura al ruolo di sindaco della città, Anna ci ha chiesto, in quanto membri di LCF della prima ora, quale fosse la disponibilità di ognuno di noi. Personalmente, sono sicura che l’esperienza in Consiglio Comunale non faccia per me, ma ora sono qui: per un senso di responsabilità verso il gruppo di persone che ha preso questo impegno nei confronti della città e per la continuità di questo tortuoso e sorprendente percorso.” Marcella Ravaglia, mamma e impiegata nel settore dei servizi pubblici locali.

“Io e Anna ci conosciamo da anni, ci siamo incontrate alla manifestazione NO CPR. Mi ha parlato del percorso di LCF e mi ha chiesto di salire a bordo; ho pensato che ci fossero necessità e spazio per dare il mio contributo.” Francesca Rinaldi di Viale K.

“Seguo fin dallo scorso settembre il percorso partecipativo di LCF e ho deciso di offrire le mie competenze, accumulate in tanti anni di lavoro in qualità di dirigente tecnico al Petrolchimico.” Enrico Beccarini, nonno e ingegnere meccanico.

“Apprezzo il percorso di LCF e le qualità di Anna Zonari. In quanto cittadino che lavora in Università darò il mio convinto contributo alla campagna elettorale”. Romeo Farinella, urbanista e professore ordinario UniFe.

Si susseguono le presentazioni, arriviamo agli iscritti ai partiti.  Nel caso dei tesserati a Sinistra Italiana e Europa Verdi presenti, avversati dalle rispettive segreterie nazionali, non hanno ottenuto il permesso di utilizzarne il simbolo e sono stati accolti nella lista LCF.

“Abbiamo seguito i lavori del tavolo dell’alternativa, che poi ha preso una strada per noi impercorribile. Ci riconosciamo invece nei contenuti e nel metodo incarnati dalla candidatura di Anna Zonari, che con le sue qualità personali ci trasmette entusiasmo per questa campagna elettorale. Siamo grati di essere qui con tutti voi.” Giulio Mezzadri, co-portavoce di Possibile, assegnista di ricerca UniFe a Fisica.

“Non m’intendo di campagne elettorali ma sento che è necessario impegnarsi per Ferrara e per i suoi cittadini; qui con voi e con Anna mi sento a casa.” Maria Calabrese, ex insegnante e bibliotecaria volontaria alla Biblioteca Popolare Giardino.

Anna Zonari e i candidati di LCF vi aspettano numerosi alla cena di autofinanziamento del 12 aprile al Centro Sociale Barco. Prenotazioni entro l’8 aprile via e-mail all’indirizzo info@lacomunediferrara.it o con un messaggio al 348 598 5435.

La presentazione dei punti di programma avverrà nelle prossime settimane tramite conferenze stampa aperte che si terranno a Factory Grisù tutti i sabati mattina, dal 4 maggio al 1° giugno.

     LISTA LA COMUNE DI FERRARA

 

n. Nome Cognome ANNO DI NASCITA
1 MALEK FATOUM 1997
2 ANDREA FIRRINCIELI 1961
3 FRANCESCA RINALDI 1981
4 ROMEO FARINELLA 1958
5 MARTA LEONI 1986
6 FEDERICO BESIO 2002
7 FRANCESCA CHIARAMONTE 1996
8 SERGIO GOLINELLI 1953
9 GIULIA FIORE 1987
10 MARIA CALABRESE 1949
11 VALENTINA FAGGION 1988
12 RODOLFO BARALDINI 1955
13 MORENA GAVIOLI 1957
14 ENRICO BECCARINI 1958
15 LAURA ALBANO 1973
16 GIOACCHINO LEONARDI 1964
17 MARIA ANGELA MALACARNE 1960
18 PIER LUIGI GUERRINI 1954
19 CAROLA RUGGERI 1970
20 ALESSANDRO TAGLIATI 1953
21 GIULIANA ANDREATTI 1958
22 GIAN GAETANO PINNAVAIA 1949
23 SILVIA TROMBETTA 1970
24 ALBERTO SQUARCIA 1949
25 GIOVANNA TONIOLI 1959
26 VANNI RIZZIOLI 1991
27 CINZIA PUSINANTI 1956
28 GIULIO MEZZADRI 1989
29 EUGENIA SERRAVALLI 1967
30 ALESSIO PAPA 1980
31 MARCELLA RAVAGLIA 1976
32 CLAUDIA TITI 1957

 

 

                                                                                

Presto di mattina /
Pasqua di viandanti

Presto di mattina. Pasqua di viandanti

Pasqua di Cristo, Pasqua del viandante

Cristo è l’uomo che cammina, così lo scrittore Christian Bobin nel suo piccolo libro chiama il profeta di Nazareth. Non si allude solo al suo andare senza sosta, sempre verso qualcuno per ascoltare ed essere ascoltato. Anche la sua parola è come lui: divenuta vangelo buona notizia, gli cammina un passo avanti, e come le acque torrentizie in un wadi dopo le piogge di primavera fanno fiorire il deserto, esse oltrepassano la morte stessa portando vita.

Bobin paragona così la via del Cristo al cammino tortuoso di una falda d’acqua sotterranea che si fa strada; un procedere incerto faticoso ma inarrestabile, fino a sgorgare fuori alla luce con un getto travolgente che ribalta l’ultima pietra: «Non sembra seguire un percorso a lui noto. Potremmo addirittura parlare di esitazioni. Cerca semplicemente qualcuno che lo ascolti. È una ricerca quasi sempre delusa, il suo cammino è quello delle delusioni, da un villaggio all’altro, da una sordità alla seguente.»

Come la falda d’acqua in cerca di una via d’uscita: scava, gira, ritorna, riparte, fino al colpo di genio risolutore: il getto impetuoso che sgorga in un pieno respiro polverizzando l’ultima diga…

«Pochissimi riescono a tenere il suo passo. Una manciata di uomini e alcune donne. …Verso la fine, annuncia che “là dove va” nessuno potrà seguirlo e che non si tratta di un abbandono, perché “là dove va” avrà la stessa costante benevolenza per ciascuno… Non fa dell’indifferenza una virtù. Un giorno grida, un altro piange. Percorre l’intero registro dell’umano, l’ampia gamma emotiva, così radicalmente uomo da raggiungere dio attraverso le radici.

«Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là, se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l’ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Che la morte è nulla più di un vento di sabbia. Che vivere è come il suo cammino: senza fine» (L’uomo che cammina, Qiqajon, Magnano [BI] 1998, 9; 11; 18).

Un volto che cammina

«Il suo volto era andante verso Gerusalemme»: questo ebraismo conservato nel vangelo di Luca 9,56 dice mirabilmente una delle caratteristiche fondamentali del Gesù storico insieme alla pratica della convivialità e a quella taumaturgica.

Il Gesù narrato nei vangeli è sempre in movimento: “in cammino”, un camminare verso Gerusalemme, ma lo stesso verbo descrive pure il suo andare verso la croce per entrare nella morte. Con la sua parola itinerante, egli dischiude alle persone il cammino stesso della fede.

Dopo ogni riconoscimento del credere, dopo ogni guarigione scaturita dalla fede, dopo ogni sua parola accolta egli comanda: “Alzati e va’ la tua fede ti ha salvato”; “Va’ in pace la tua fede ti ha salvata”; Va’ e anche tu fa lo stesso”; “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!”. Va’, andate, caratterizza anche il cammino dei dodici apostoli prima e dopo la Pasqua.

In Giovanni poi, nei discorsi di commiato, Gesù parla spesso ai discepoli del suo andare al Padre. Venuto da lui egli ritorna al Padre, così il suo salire a Gerusalemme ha come prospettiva e meta quella di andare e salire al Padre per poi ripresentarsi di nuovo nello Spirito consolatore che accompagna i discepoli in cammino. «Non mi trattenere – dice a Maria di Magdala il mattino di Pasqua – ma va dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro.” (Gv 20, 17)

La Pasqua stessa dunque è “passaggio”, luogo di transito per un oltre. Transiliens, scrive Agostino ricordando colui che “oltrepassa tutto per non desiderare altro che Dio con tutto se stesso”. Viandante tra i suoi fratelli, li precede anche ora nel cammino della storia come fu viandante in Palestina tra la gente: «Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme» (Lc 13, 22).

«Uno scriba si avvicinò e gli disse: “Maestro, ti seguirò dovunque tu vada”. Gli rispose Gesù: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”» (Mt 19, 20); «Egli disse loro: “È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città”. E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea» (Lc 4, 43-44); «“Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!”. E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1, 36-38).

Pasqua di Cristo, Pasqua di un forestiero in transito

«Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus… Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Egli domanda loro: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?”. Uno di loro con la tristezza sul volto rispose: “Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?”» (Lc 24, 13-18).

La prossimità del forestiero e le sue domande procurano un effetto di straniamento nei discepoli. È questo l’effetto di sconvolgimento della percezione che si ha della realtà quando si incontra uno sconosciuto. Un mutamento di prospettiva operato con l’intento di farne emergere aspetti nuovi, inattesi. Una conversione dello sguardo, tale da indurlo a una prospettiva altra.

È questo che produce l’incontro del forestiero: un guardare non più con i propri occhi, ma con quelli dello straniero incrociato sulla via di Emmaus. E si passa, passo dopo passo, dall’estraneità al riconoscimento, dalla tristezza alla gioia. È anche oggi il Risorto nascosto, e forestiero, che si immedesima con noi, perché noi ci immedesimiamo con lui strada facendo, per incontrarlo ancora nel forestiero, come un fratello.

Il cammino educa a straniarsi, allontanarsi da sé; porta fuori di se stessi. È il dono di riguardare e ricomprendere se stessi e il proprio mondo dalla parte di chi ci cammina accanto. Scrive Claudio Magris ne L’infinito viaggiare:

«Viaggiare insegna lo spaesamento, a sentirsi sempre stranieri nella vita, anche a casa propria, ma essere stranieri fra stranieri è forse l’unico modo di essere veramente fratelli. Per questo la meta del viaggio sono gli uomini» (Mondadori, Milano 2014, xx).

A tutti i cercatori del tuo volto
mostrati, Signore;
a tutti i pellegrini dell’assoluto,
vieni incontro, Signore;
con quanti si mettono in cammino
e non sanno dove andare
cammina, Signore;
affiancati e cammina con tutti i disperati
sulle strade di Emmaus;
e non offenderti se essi non sanno
che sei tu ad andare con loro,
tu che li rendi inquieti
e incendi i loro cuori;
non sanno che ti portano dentro:
con loro fermati poiché si fa sera
e la notte è buia e lunga, Signore.
(David Maria Turoldo)

Pasqua di discepoli, Pasqua di viandanti

Se ci si sofferma anche solo a considerare i diversi verbi delle narrazioni pasquali dei vangeli, ci si accorge che è tutto un continuo via vai. Verbi di moto a luogo e da luogo, andare, venire, giungere, ripartire, entrare uscire; perfino un correre avanti e indietro dal sepolcro di Maria di Magdala, di Pietro e Giovanni.

Spaesamento è il mattino di Pasqua. Sono venuti meno i criteri e l’orizzonte di senso del vivere dei discepoli della loro stessa fede. Per tutta la loro itineranza alla sequela di Gesù è detto che non avevano compreso le sue parole e «cosa volesse dire risorgere dai morti» (Mc 9, 10; Gv 20, 9).

Quel mattino presto ritornano viandanti che cercano, passando dalla paura alla gioia, dalla gioia all’incredulità: «per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore» (Lc 24, 41). Hanno bisogno di una nuova narrazione, di una nuova luce e parola, di un senso altro che può venire solo da altrove:

«[Le donne] videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea” (Mc 16, 4-7).

Viandanti sorpresi da un’alba nuova di un’altra luce, cercando l’impossibile: un virgulto in terra arida, un sorriso spuntato dal dolore, qualcuno nato dalla morte:

Ancora un’alba sul mondo:
altra luce, un giorno
mai vissuto da nessuno,
ancora qualcuno è nato:
con occhi e mani,
e sorride.
(Turoldo, Il grande male, Mondadori, Milano (1995, 11).

Discepoli della via (At 9,2; 19, 23; 24, 14 e 22): viandanti per farsi prossimi

Mentre il sole è già volge al declino
sei ancora il Viandante che spiega le scritture
e ci dona il ristoro con il pane spezzato in silenzio
cuore e mente illumina ancora
perché vedano sempre il tuo volto
e comprendano con il tuo amore
ci raggiunge e ci spinge più al largo.
(David Maria Turoldo)

Scrive Umberto Galimberti: «Il viandante, come l’homo viator di Gabriel Marcel, vuole restituire all’uomo il suo “peso ontologico”, quel di più di essere custodito nelle sue profondità più nascoste che lo spingono a un oltrepassamento dal reale al possibile, consentendogli di sperimentare così la trascendenza nell’immanenza, come Abramo che si incammina verso una terra che il Signore gli avrebbe indicato; come i pellegrini medioevali che, avendo in vista una meta, non esitano a dire addio a ogni tappa raggiunta; come i pastori che senza meta accompagnano i loro armenti; come i profughi di ogni guerra e i migranti dei nostri giorni che camminano ininterrottamente sospinti dal desiderio e dalla speranza che per loro si apra il futuro» (L’etica del viandante, Feltrinelli, Milano 2023, 56).

E citando un testo di Enzo Bianchi sulla parabola del Samaritano, Galimberti scrive: «Il viandante non incontra il prossimo, ma si fa prossimo. “La vera domanda non è “Chi è il mio prossimo?”, ma ‘Chi si è fatto prossimo?’. Perché prossimo non si nasce, ma si diventa, con una scelta, una decisione. Nessuno è prossimo ma ognuno può diventarlo. La prossimità non è già data ma va costruita mediante il movimento di farti vicino e le azioni che ne conseguono”. Apprendiamo così che il prossimo non è definito da una condizione o da un’appartenenza, ma dalla nostra decisione di “renderci prossimi” all’altro, perché noi e l’altro abbiamo in comune quell’elemento essenziale che è l’appartenenza alla stessa umanità» (ivi, 368-369).

Viandante e via

«Sul mare passava la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque e le tue orme rimasero invisibili» (Sal 77),

«“Vado a prepararvi un posto. Ritornerò e vi prenderò con me. E del luogo dove io vado, conoscete la via”. Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?” Gli disse Gesù: “Io sono la via” (Gv 14, 3-5).

È proprio quando non si conosce la via che cresce l’attenzione e l’interesse, si è attratti oltre, perché è proprio verso ciò che è ignoto, camminando nel mistero, che questi si rivela e si fa conoscere. Così non sono solo i viandanti che vanno incontro alle strade, ma è la strada che va incontro ai viandanti.

Viandante, sono le tue impronte
il cammino, e niente più,
viandante, non c’è cammino,
il cammino si fa andando.
Andando si fa il cammino,
e nel rivolger lo sguardo
ecco il sentiero che mai
si tornerà a rifare.
Viandante, non c’è cammino,
soltanto scie sul mare.
(Antonio Machado).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Autonomia differenziata:
un altro passo verso l’ampliamento delle disuguaglianze

Autonomia differenziata: un altro passo verso l’ampliamento delle disuguaglianze

Sembra che finalmente la discussione sull’Autonomia differenziata regionale sia uscita dal cono d’ombra nel quale era stata relegata solo fino a qualche mese fa. Forse perché il suo iter legislativo sta andando avanti: probabilmente, ancor più, perché si sta allargando la presa di coscienza di ciò che essa significa.

Ma cosa vuol dire, in concreto, Autonomia Differenziata delle Regioni? Rispetto alla situazione odierna, secondo quanto prevede il disegno di legge Calderoli (attualmente in discussione) significa spostare a livello regionale competenze e risorse su materie fondamentali, nel momento in cui le singole regioni ne facciano richiesta e a ciò segua un’intesa tra Governo e regione, mentre oggi esse sono oggetto di legislazione concorrente: cioè sia dallo Stato che dalle Regioni, con un’apposita distinzione dei ruoli.  Questo spostamento avverrebbe su 23 materie di grande rilievo, che vanno dall’istruzione alla sanità, dalla tutela e sicurezza sul lavoro alla previdenza complementare, dal governo del territorio alla valorizzazione dei beni culturali e ambientali, dalla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali alla produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, e altre ancora. Come si può facilmente vedere, si tratta di questioni di grande rilevanza, che hanno un’incidenza diretta sulle condizioni di vita delle persone e sui diritti di cui possono usufruire. Ora, non c’è dubbio alcuno che andare in questa direzione comporta il fatto di acuire le disuguaglianze territoriali, in particolare tra Nord e Sud del Paese. In una situazione in cui esse sono già molto profonde, con questo provvedimento sono destinate ad ampliarsi ulteriormente. Né vale la pena argomentare che, nell’ultima stesura votata al Senato, si è stabilito che il trasferimento di poteri e risorse alle Regioni avviene a valle della determinazione dei Livelli Essenziali di Prestazioni da garantire uniformemente sul territorio nazionale, perché si prevede espressamente che la legge Calderoli non può comportare maggiori oneri per la finanza pubblica; che è un modo, neanche troppo elegante, per dire che essi verranno fissati ad un livello minimo e non potranno che fotografare la situazione già diseguale oggi esistente. Non solo: il Ddl dispone che il finanziamento delle funzioni trasferite alle Regioni avverrà tramite la compartecipazione regionale ad uno o più tributi erariali maturati nel territorio della regione, e cioè le imposte dirette, l’imposta sul valore aggiunto e le altre imposte indirette, contribuendo così a scassare ancor di più l’attuale sistema fiscale, già oggi stravolto con la diminuzione della progressività insita nella riforma fiscale in itinere.

Aumentare le disuguaglianze territoriali ha come conseguenza quella di far crescere le disuguaglianze sociali e radere al suolo l’universalismo dei diritti: non ci vuol molto a realizzare cosa succederà del diritto alla salute o all’istruzione quando questi temi saranno normati e differenziati nelle singole regioni. Anche perché l’idea dell’autonomia differenziata è costruita sull’ideologia della competitività tra diversi sistemi territoriali e sociali, per cui quelli più “bravi” sono i più “meritevoli” e chi rimane indietro è solo per colpa sua. Un’idea generale di società, che alla fine sta alla base tutta l’ideologia della destra, in Italia e nel mondo. Solo per fare un altro esempio, è utile ragionare su un aspetto che spesso, nella discussione sull’autonomia differenziata, viene trascurato. Mi riferisco al tema delle aree interne: è evidente che, anche nelle regioni cosiddette “ricche”, le aree marginalizzate saranno quelle che, nella distribuzione interna delle risorse, avranno meno risorse, concentrandolo invece nelle aree forti, a partire da quelle metropolitane e urbane, considerate “vincenti”, maggiormente attrattive per gli investitori e i soggetti di mercato, appunto più competitive.

Inoltre: se, da una parte, affidare una serie di materie, a partire da sanità e istruzione, alle Regioni significa produrre maggiori disuguaglianze, dall’altra, per un’altra tipologia di materie, invece, comporta semplicemente mettere in campo politiche inefficaci e controproducenti. Cosa vuol dire spostare alle Regioni competenze sui temi ambientali, di governo del territorio, delle scelte di carattere energetico? Se pensiamo che tutte queste questioni intervengono in modo significativo su come si intende affrontare il contrasto al cambiamento climatico e la conversione ecologica ed energetica, non ci vuole molto a concludere che frammentare e diversificare le decisioni non potrà che allontanare la possibilità di costruire soluzioni utili e convincenti, mentre esse non possono che essere costruite, se non a livello sovranazionale, perlomeno in una dimensione europea  – che peraltro sta facendo anch’essa vistosi passi indietro.

Insomma, il disegno di legge sull’autonomia differenziata regionale va in una direzione del tutto sbagliata. Stupisce che esso sia potuto avanzare con il contributo non solo di Regioni come la Lombardia e il Veneto, che guardano alla “secessione dei ricchi”, ma anche con quello della Regione Emilia-Romagna che, sia pure in modo meno spinto, è comunque rimasta abbagliata dal voler dimostrare di essere regione competitiva e attrattiva, ma così rompendo quell’idea di solidarismo e universalismo dei diritti che avevano costituito la base del “modello emiliano-romagnolo” nel secolo scorso.

Questo progetto va dunque contrastato e fermato. Da questo punto di vista, è decisamente importante e positivo che La Via Maestra, la coalizione sociale che comprende la CGIL e tantissime associazioni e realtà sociali, in una delle sue ultime riunioni, abbia deciso di promuovere una grande manifestazione nazionale anche contro l’autonomia differenziata il prossimo 25 maggio a Napoli e, soprattutto, di fatto assunto l’impegno che, nel momento in cui il disegno di legge Calderoli, ora in discussione alla Camera dei Deputati, diventasse legge, di promuovere il referendum abrogativo per eliminarla. Così come utile è l’iniziativa del Comitato per il No ad ogni autonomia differenziata dell’Emilia-Romagna, che ha promosso ultimamente una legge di iniziativa popolare regionale, sottoscritta da più di 6000 cittadini della regione, per “dichiarare interrotto” il percorso prodotto dalla Regione per avviare l’autonomia differenziata” o comunque di “non procedere ad altro iter alternativo per l’acquisizione di ulteriori forme di autonomia”.

Questa battaglia è anche fondamentale e in qualche modo preliminare per fermare anche l’intenzione del governo di arrivare alla modifica costituzionale necessaria per introdurre il “premierato”. E’ chiaro il nesso che lega autonomia differenziata e premierato: una società che rompe la coesione sociale, si frammenta e diventa ancora più divisa, fino ad alimentare il rancore, ha bisogno di trovare un punto di unificazione nella figura del Capo. Siamo di fronte ad un progetto autoritario, che si rivela funzionale ad un’ idea di forte restringimento della democrazia. Per fortuna, ci sono le forze e le energie in questo Paese per impedire che si affermi.

Storie in pellicola / Farfalle fino alla fine del mondo

Altri due interessanti cortometraggi verranno proiettati allo European Projects Festival il 4 aprile: “Farfalle” di Marco Pattarozzi e “The end of the world” di Stefano Cinti

Marco Pattarozzi firma “Farfalle”, il cortometraggio di 20 minuti con Marco Celli, Caterina Nardini, Elisa Nardini e Pietro Romano, Premio giuria giovani della sesta edizione del Ferrara Film Corto Festival “per la sua eccezionale regia e produzione, una sceneggiatura scorrevole, una colonna sonora e fotografia di alta qualità e un messaggio profondo”.

I ragazzi della giuria hanno, sorprendentemente, votato un’opera che parla di uno dei temi più scottanti e difficile da affrontare come lo stupro fra giovani. Una storia ambientata nell’Appennino emiliano, con protagonista Caterina, appena maggiorenne, che trascorre l’ultima estate con l’amico d’infanzia Patrick, prima che lui parta per studiare in America. Coinvolti in uno sfrenato festino in cui gli alcolici vengono corretti con una sostanza psicotropa, la ragazza, per tutti Cate, si avvicina all’attraente Nico.

La mattina seguente si risveglia con i segni di uno stupro di cui non ricorda nulla. Mentre cerca di ripercorrere l’accaduto, arriva il giorno della partenza di Patrick. Cate sprofonda nel trauma fino a una disperata richiesta d’aiuto al fratello Antonio, il quale decide di farla pagare a Nico. Quando la ragazza ha un’importante intuizione, è forse troppo tardi per fermare Antonio.

Una storia in cui pregiudizi e repressione generano un senso di inadeguatezza cronica per cui nessuno si sente al posto giusto.

“The end of the world”, del romano Stefano Cinti (Belgio, 5 min.), invece, è un video tratto dall’omonima canzone ‘La fine del mondo’, scritta durante il periodo di confinamento dovuto alla pandemia di COVID-19. È un urlo liberatorio che sintetizza con ironia e sarcasmo gli elementi che caratterizzano il declino delle società moderne e, in generale, il tragico degrado del mondo in cui viviamo.

Il video descrive la giornata di una persona che vive l’isolamento in modo straniante, passando da una frustrazione all’altra per indicare il fallimento della società globalizzata e consumistica e la perdita della libertà. A nulla sembrano servire i goffi e vani tentativi del protagonista di mantenersi in equilibrio sulla palla ginnica, che simboleggia il fragile equilibrio tra uomo e natura. Nel mezzo del video appaiono le meduse, maestosamente indifferenti, per ricordarci che erano qui molto prima di noi.

Il verdetto finale è ancora da scrivere e nell’ultima scena il video suggerisce la riscoperta della bellezza del mondo come chiave di volta per rivedere il nostro atteggiamento verso noi stessi, gli altri e la natura.

Parole a Capo /
“Poeticamente parlando”

“Non usare il telefono. Le persone non sono mai pronte a rispondere. Usa la poesia.”
(Jack Kerouac)

LASCIARE
Lasciare, lasciar scorrere le cose
Scivolare sul tempo con lentezza
Seminare, dissodare dolcezza
Aspettare. Fioriranno le rose
Pianissimo. Avvicinarsi al fiore
come farebbe l’ape laboriosa,
o meglio, la farfalla silenziosa
Non toccare. Lasciarsi inebriare
Immergersi in questa primavera,
perdersi e perdere l’orientamento
Ascoltare i sussurri e il fermento
Come Gazania chiudersi di sera
Cedere al sonno che il sogno profuma,
Belle di notte danzano alla luna
(Sara Ferraglia)
*
FIABE GENER(OSE)
Riccidoro si è stufata
di mangiare la zuppa degli orsi,
si è fatta la testa rasata
e suona la chitarra a morsi
con tre donne metallare.
Bella ha smesso di ballare
il valzer con la Bestia e
accantonata la modestia,
è in corteo da stamattina
contro la guerra in Palestina.
Alice, quella bionda bambina
ha adottato lo Stregatto.
“E’ un po’ matto, ma non deve
star rinchiuso in quel paese.
Lo porterò tra la gente, sia fatto.”
La Sirenetta ha preso atto
che il principe tanto amato,
è violento e prepotente.
L’ha quindi denunciato
al magistrato competente.
Coraggio lettore, non ti crucciare,
la donna nelle fiabe voglio cambiare.
Moglie, madre, sorella, ancora le vedi,
perché le vuoi tener sotto ai tuoi piedi.
(Stefano Agnelli)
*
SPENGO
Spengo il rumore del mondo
Spengo le sue luci violette
Cancello i dialoghi urlati
E tonanti
Accosto le imposte
E giro la testa
Esco di casa e
Mi avvio verso un luogo di silenzio
Dove tu mi darai la mano
Senza richiedere
Arditi sillogismi o
Raffinate prestazioni culinarie.
(Elena Vallin)
*
ESISTERE
Il futuro ha un altro nome
che da questa distanza
non riesco a leggere,
troppa polvere, troppo fumo.
Il futuro ha cambiato suono,
non riesco a sentirlo,
le urla e i pianti lo sovrastano.
Il futuro ha un altro sapore,
riesco a sentire
solo il sale del mare.
Allora
volgerò gli occhi
al sacro
e all’umano
per ricostruire la speranza.
(Maria Angela Malacarne)
*
FUTURO
Ragazzo che guardi il mondo
dalla tua cameretta
davanti ad una tastiera
e uno schermo
ragazzo che guardi una ragazza
colpita da una coetanea
col coltello
e non fai niente per separarle
è molto meglio filmarle
è più bello.
Ragazzo che guardi il mondo
in mezzo al fango e alle macerie
della tua casa
distrutta da una bomba
intelligente.
Ragazzo che cerchi smarrito una ragione
per uscire da questa prigione.
Ogni tanto sentiamo
parlare di futuro
ma prima dovremmo
capire come buttare giù
le fabbriche del muro.
(Pier Luigi Guerrini)

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Accordi /
Un fuoco che brucia ma illumina tutto. Il concerto di Vasco Brondi alla Officina MECA

Un fuoco che brucia ma illumina tutto. Il concerto di Vasco Brondi alla Officina MECA

 Sabato 23 marzo scorso, ho avuto la fortuna di essere nel numero ristretto di appassionati che hanno potuto assistere allo showcase di Vasco Brondi alla Officina MECA di Ferrara.

Nelle intenzioni del cantautore quella era una specie di prova generale o una data zero del tour che partirà il 5 aprile da Livorno (qui le 14 date del tour), dove le canzoni del disco uscito il 15 marzo scorso si sarebbero mescolate insieme a quelle dei dischi precedenti.

Nelle emozioni del pubblico quello è stato un concerto magnifico dove Vasco Brondi, insieme ai cinque bravi musicisti che lo hanno accompagnato, è riuscito a coinvolgere, stupire, commuovere e far riflettere chi era presente… che fossero suoi coetanei, che fossero più giovani o, come nel caso di chi scrive, che fosse quasi sicuramente il più anziano del locale.

La recente uscita, il 15 marzo scorso, del suo disco Un segno di vita ha attirato a Ferrara appassionati “storici”, ma ha coinvolto anche nuovi fans, che hanno apprezzato moltissimo quest’ultimo suo lavoro, frutto di una ricerca e di una selezione azzeccatissime fra tutto il materiale recentemente prodotto dal cantautore ferrarese.

Le dieci canzoni di Un segno di vita sono vere e proprie poesie che, ricercando l’umanità delle persone, attirano in maniera magnetica, sorprendono in un modo diretto, avvicinano con naturalezza e avvolgono chi ascolta con gentilezza, rispetto e tatto.

Se dovessi scegliere una parola chiave per i testi di questo disco sarebbe ‘fuoco’ e non solo perché Vasco ne fa diversi riferimenti, ma perché ho percepito la presenza di questo elemento naturale, distruttivo e rigenerante allo stesso tempo, come forza appassionata, come necessità di ripartenza, come bisogno di luce, come occasione di rinascita, come percorso spirituale che esalta la grandezza e la potenza della vita senza nasconderne le ombre e le difficoltà.

Tutti i testi della dieci canzoni affascinano generando meraviglia e gli arrangiamenti musicali aiutano a creare una cornice preziosa a questi veri e propri quadri lirici.

Io però scrivo da appassionato musicale e non da critico musicale, quindi queste mie parole potrebbero apparire poco professionali a qualcuno. La cosa non mi preoccupa molto, anzi ne approfitto e aggiungo con azzardo che, mentre ascolto le canzoni di Vasco Brondi, mi viene in mente un cantautore che apprezzavo moltissimo nei primi anni settanta: Claudio Rocchi.

Attenzione! Non ho scritto “Brondi si rifà a Rocchi” o lo imita, ma che “lo fa venire in mente” a me perché ho la mia storia, i miei gusti e la mia sensibilità.

Claudio Rocchi, cantando dei suoi “voli magici”, faceva entrare luce, apriva la mente ed illuminava l’anima. Ricordo un concerto di circa quarant’anni fa in un piccolissimo locale di Vidiciatico, sull’Appenino bolognese, dove oltre alle sue canzoni ne improvvisò una per il pubblico presente, guardandoci negli occhi e leggendoci dentro.

Vasco Brondi, in un suo modo personalissimo, canta con sensibilità rara, riuscendo a rendere uniche le avventure intime dei suoi protagonisti. La potenza espressiva dei suoi “voli magici” è una sua caratteristica peculiare che lo rende un comunicatore davvero empatico, capace di leggerti dentro.

La scaletta eseguita sabato scorso da Vasco Brondi e dal suo gruppo merita una sottolineatura particolare, perché è stata composta con la sapiente capacità di alternare i brani del passato con quelli del presente, lasciando immaginare un futuro pieno di luce di cui tutti noi sentiamo il bisogno. Questi i brani riportati nell’ordine di esecuzione:

Illumina tutto (da: Un segno di vita), Le ragazze stanno bene (da: Costellazioni), Meccanismi (da: Un segno di vita), Qui (da: Terra), Fuoco dentro e Incendio (da: Un segno di vita), Coprifuoco (da: Terra), Fuori città (da: Un segno di vita), 40 km (da: Costellazioni), Cara catastrofe e Quando tornerai dall’estero (da: Per ora noi la chiameremo felicità), Macbeth nella nebbia e I Sonic Youth (da: Costellazioni), La stagione buona (da: Un segno di vita), Cosa sarà? (cover del brano scritto da Ron e Lucio Dalla e cantato dallo stesso Dalla insieme a Francesco De Gregori), Notti luminose (da: Un segno di vita), Chakra (da: Terra), Per combattere l’acne e Piromani (da: Canzoni da spiaggia deturpata), Mistica (Tra la via Emilia e la via Lattea), A forma di fulmine (da: Terra), Un segno di vita (da: Un segno di vita) e Nel profondo Veneto (da: Terra).

Alla fine del concerto, qualcuno, che di concerti di Vasco Brondi ne ha visti tanti, mi ha confidato che quello a cui avevamo appena assistito, a suo parere è stato probabilmente uno dei concerti migliori.

Mi fido della sua competenza; io non saprei dirlo, ma so già da ora che seguirò altre tappe di questo tour che si preannuncia davvero di una bellezza “illuminante”.

Cover e foto nel testo di Mauro Presini

Per leggere gli articoli di Mauro Presini su Periscopio clicca sul nome dell’autore