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Vite di carta /
Se incontri in un colpo solo Daria Bignardi, Ilaria Cucchi, Fabio Anselmo.

Vite di carta. Se incontri in un colpo solo Daria Bignardi, Ilaria Cucchi, Fabio Anselmo.

Giovedì 13 giugno alla libreria Libraccio di Ferrara Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo hanno dialogato sull’ultimo libro di Daria Bignardi uscito lo scorso marzo, Ogni prigione è un’isola, rivolgendo all’autrice domande sulla sua esperienza ormai trentennale di volontaria nelle carceri italiane e ricevendo domande da lei. Non è scontato che chi fa l’intervista e chi la riceve siano così alla pari per esperienza e impegno nell’ambito di cui si parla oggi: la situazione carceraria in Italia.

Mi sono seduta in seconda fila una buona mezz’ora prima che l’evento cominciasse, con la mia copia del libro piena di post-it incollati in più pagine e zeppi di appunti e citazioni.

Ci ho infilato anche la schedatura dell’articolo di Mauro Presini apparso l’11 giugno su questo giornale, Le carceri in Emilia Romagna: la relazione del Garante dei Detenuti, e un foglio bianco in cui ho segnato numeri e percentuali e una lista di servizi prioritari di cui i carcerati necessitano per migliorare la loro condizione detentiva.

Sono qui per capire e sapere di più, al centro mantengo il libro. Ho rielaborazioni istantanee che mi passano per la mente, compongo quesiti che potrei rivolgere a chi ne sa più di me e da più versanti. Eppure.

Non ho valutato che questo tipo di incontri non li gestisco più in prima persona, non siamo al Liceo e gli autori invitati non trovano qui – come là accadeva sempre – una platea di studenti lettori pronti al dialogo che conoscono già l’opera.

L’evento mi scivola addosso con la sua logica e con i suoi contenuti di grande interesse per me e per i tantissimi presenti. Prendo appunti e sbircio i volti dei tre relatori, mentre sento che in sala avviene di più e avviene di meno rispetto a ciò che mi aspettavo.

Dice Daria Bignardi che ha inteso scrivere questo libro per capirsi, per sapere come mai continua a tornare nei luoghi di pena vicini e lontani, a San Vittore come a Pozzuoli e fino a Tirana. Lo ha scritto a Linosa, l’isola di fatto in cui si è raccolta a fare sintesi su altre isole che ci sono sparse nei nostri mari, Lampedusa, Stromboli. Nomina isole che sono state la sede di un carcere così come ogni carcere – lo dice il titolo – è un’isola metaforica, circoscritta e orlata da un perimetro netto, da confini marcati, ognuna una summa dell’umanità.

Cita Svjatlana Aleksievič  quando a proposito dei militari russi in Afghanistan scrive “Nelle condizioni di laggiù l’uomo era come illuminato a giorno“: anche il carcere è laggiù, dentro c’è l’essenza della vita. Esposta più che in ogni altro luogo dallo stigma della pena o dall’attesa di giudizio. In carcere si ride, anche, nella mia piccola esperienza si leggono poesie e si scambiano sensazioni e pensieri. In carcere si soffre per lo più.

Viene fuori la sofferenza, quando Ilaria Cucchi parla del suo impegno come senatrice per la salvaguardia dei diritti dei detenuti e contro ogni violenza perpetrata dentro le strutture carcerarie, vengono in luce le mancanze e gli errori del nostro sistema carcerario. Li sottolinea a sua volta Fabio Anselmo, che si rifà alla sua esperienza di avvocato specializzato nei casi di abusi delle forze dell’ordine. Si parla di peggioramento in generale nelle condizioni di vita dei detenuti, di suicidi in aumento.

Volano frasi definitive sulla ingiustizia sociale così elevata in questo nostro tempo, sulla inutilità della detenzione che punisce anziché rieducare chi ha commesso un reato. Sul ruolo improprio che il carcere ha assunto di discarica sociale, uno spazio dove racchiudere come ‘mele marce’ gli individui più fragili e socialmente svantaggiati: drogati e psicolabili, stranieri immigrati, persone senza casa e senza lavoro.

Eppure il carcere dovrebbe essere un luogo di rieducazione, uno spazio il più possibile aperto, dove i detenuti lavorano e fanno formazione: più il carcere è aperto e meglio è per tutti. Scrivo nei miei appunti i dati impressionanti sulla recidiva: in un anno circa il 70% dei detenuti usciti dal carcere tornano a delinquere e ci rientrano, il dato crolla al 20% se hanno potuto lavorare.

Scrivo sulle donne, che sono una minoranza e che soffrono per le condizioni rese ancora più disagiate dagli stereotipi di genere e dalle condizioni di sovraffollamento in cui vivono.

Ecco il di più che esce da un incontro del genere, mi si apre un mosaico grande, dove la tessera del mio laboratorio poetico fatto nel carcere di Ferrara la scorsa primavera trova una sua collocazione tra così tante altre realtà e tessere diverse.

Ho segnato i libri da consultare di cui parla Bignardi, ho trascritto nomi di detenuti che ha incontrato, di un direttore straordinario come Luigi Pagano, di Roberta Cossia, magistrata di sorveglianza che si occupa delle misure alternative alla detenzione,  di quelle guardie carcerarie – ce ne sono – che fanno del bene ai detenuti.

13 giugno al Libraccio presentazione di “Ogni prigione è un’isola” di Daria Bignardidi “
Daria Bignardi

Eppure esco dalla libreria con un senso di incompiutezza. È vero che si scrive per raccontarsi, è vero anche che si legge per raccontarsi. Il libro è al centro di un dialogo con chi l’ha scritto, e il libro di Bignardi è fatto per dire “Ecco, a me è andata così….Tu?” Ma non c’è stato spazio per intervenire e in me resta la sensazione di avere assistito a una performance monca, senza reciprocità. 

Nota bibliografica:

  • Daria Bignardi, Ogni prigione è un’isola, Mondadori, 2024

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Il paese dei miracoli
Venerdì 21 Giugno, ore 21.15, Centro Teatro Universitario di Ferrara

il paese dei miracoli

Uno spettacolo teatrale-evento finale della VII edizione del progetto “Il teatro e il benessere
Venerdì 21 Giugno 2024 – ore 21.15
Centro Teatro Universitario di Ferrara (via Savonarola 19)

Il progetto “Il teatro e il benessere” è rivolto a persone con malattie neurodegenerative, caregivers familiari e non, con la partecipazione di studenti universitari, promosso dal Comune di Ferrara, Assessorato alle Politiche Sociali, e la collaborazione del Centro Teatro Universitario di Ferrara

conduzione progetto e regia spettacolo teatrale: Michalis Traitsis

collaborazione artistica: Patrizia Ninu

contributo della banda filarmonica Giuseppe Verdi di Cona APS, direttore Roberto Manuzzi

scene: Amir Sharifpour, foto: Andrea Casari, video: Marco Valentini

con: Chiara Alberani, Valeria Brina, Antonella Burini, Roberta Capisani, Giancarla Cavallari, Maria Angela D’Aloya, Angela Di Bari, Fabrizio Felisati, Svetlana Grundan, Laura Intelisano, Marilena Marzola, Rosalia Menegatti, Patrizia Mezzogori, Patrizia Ninu, Negar Panah, Rosina Pititto, Giusy Platanìa, Sandra Pozzato, Paolo Maria Ragazzi, Maria Silvia Rolfini, Stefania Romani, Marco Sacchetto, Rosa Sandri, Fiamma Schiavi, Roberta Verri

ingresso libero su prenotazione: ctu@unife.it

Lo spettacolo teatrale “Il paese dei miracoli” conclude la settima edizione  del progetto “Il teatro e il benessere”, rivolto a persone affette da malattie neurodegenerative, vulnerabilità psichiatriche, care givers familiari e non, operatori socio assistenziali e studenti universitari.

Il progetto è diretto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro con la collaborazione artistica di Patrizia Ninu. Dalla prima edizione ad oggi, c’è un filo conduttore sotteso al percorso e alla scelta dei temi dell’evento finale, ed è la ricerca di una mappa di relazioni che vada al di là di un raggruppamento di persone, che alluda a legami e condivisioni autentici, solidali, che curi l’urgenza di un viaggio comune inteso come viaggio verso l’integrazione del proprio essere con le proprie qualità e fragilità, ricchezze e povertà, luci e ombre, verso la conquista di una accettazione reciproca fondata sulla pazienza, la fiducia, la comprensione reciproca, la delicatezza.

E poiché l’evento finale è solitamente l’insieme di fili che confluiscono in un ricamo, in un arazzo, il tema privilegiato – sia che si tratti di un condominio o di una piazza o di una radio – non può che essere quello della ricerca di appartenenza, di socialità, di resistenza allo sfaldarsi odierno dei rapporti comunitari.

Da queste riflessioni è originata la scelta della festa del paese, come occasione di aggregazione, interazione e allegria. Come le feste di una volta, dove i suonatori, preceduti dal maestro, aprivano i festeggiamenti sfilando per le vie del paese per invitare la gente alla festa e accompagnando il santo/a protettore del paese medesimo.

La Santa del Il paese dei miracoli” è particolare, non ha un nome, forse neppure un volto e viene raffigurata con fogli appesi, lanciati, curati. E’ la Santa Protettrice delle storie e a lei sarà dedicata la serata, attraverso un festival in cui ciascun abitante sarà cantastorie e regalerà alla comunità un racconto. Uno che l’ha fatto piangere o ridere o sconsolare o avvelenare, non ha importanza, perché le storie sono comunque miracoli. Per chi le legge, per chi le scrive, per chi le ascolta.

Il progetto “Il teatro e il benessere”

Creare  un ulteriore legame tra processi di cura e processi creativi è uno degli intenti del percorso. La malattia e la sua cronicizzazione impongono un cambiamento radicale di vita, delle persone direttamente coinvolte e anche dei familiari, che almeno agli esordi è vissuto prevalentemente come un arresto totale di vita, uno scompaginamento in cui sembra difficile attivare risorse. Un’ esperienza teatrale, se integrata nell’insieme delle attività riabilitative, può considerarsi un efficace strumento all’interno di una riabilitazione multifunzionale.

Il percorso laboratoriale si propone come spazio-tempo separato dalla quotidianità, dove è possibile soprattutto presentarsi agli altri a prescindere dalla malattia, sperimentare insieme ai compagni e ai familiari, un cerchio di attenzione, di solidarietà, di incoraggiamenti reciproci, di costruzione di una impresa comune che crea un respiro collettivo, che mette in contatto con i propri limiti ma nel contempo con le proprie risorse, che mira a riattivare le parti “sane” per contrastare la mortificazione della malattia, che crea nuove modalità relazionali.

La metodologia proposta non prevede copioni preconfezionati ma prende spunto da suggestioni, immagini, reazioni dei partecipanti agli stimoli indotti attraverso  musiche, canti, improvvisazioni, esercizi teatrali. La rappresentazione finale risulta dunque intrinseca ai temi emersi durante il percorso.

Nella prima edizione del progetto “Il teatro e il benessere” si è scelto di lavorare sulla memoria emotiva, sul passato inteso come patrimonio di ricordi tradotti in storie e narrazioni.

Nella seconda edizione si è affrontata la sfida del futuro, come  sogno da ritrovare, da svelare a se stessi prima che agli altri.

Nella terza edizione si è esplorata, attraverso le storie di bizzarri e surreali personaggi, la possibilità di un Altrove dove è possibile costruirsi realtà altre che sostengono e alleggeriscono le proprie.

Nella quarta edizione ci si è accostati al tema dell’ amore. E cosa poteva esemplificare meglio l’amore, per una certa generazione, di una epistola?

Nella quinta edizione del progetto, gli allievi del laboratorio hanno dato vita alla comunità che abita un condominio condividendo uno spazio abitato da sensibilità e storie diverse.

Nella sesta edizione del progetto è una radio che cerca di raccontare oltre il già detto, di far sentire oltre il già ascoltato e cerca di far vedere l’oltre il già visto, dando voce a tutti i componenti della comunità, soprattutto a quelli meno visibili o almeno a chi sente la necessità di voler dire qualcosa, esprimere la propria visione del mondo. La piazza e il suo mercato che crea una sensazione di appartenenza non appena vai a zonzo alla ricerca di una fame di vita comune. E la sua radio che la promuove la condivisione e l’uscita dall’invisibilità quotidiana.

Lo spettacolo è dedicato a tutti coloro che non ci sono più, o che non ci possono essere, ma che continuano a essere Presenze impossibili da dimenticare.

Le voci da dentro / Il Diavolo

Questo testo, scritto da chi è in carcere ormai da 5 anni, esprime il difficile percorso di introspezione e di successiva consapevolezza che una persona ristretta ha bisogno di fare su se stessa per poter iniziare un lavoro di rieducazione serio, che possa aver possibilità di successo per il rientro nella società.
(Mauro Presini)

Il Diavolo

di L.

L’ho incontrato nell’infanzia, nella mia timidezza, nei miei timori, nelle mie quotidiane ansie, nelle mie vergogne, nella privacy, nei tabù, nell’adolescenza e, per poco tempo e sporadicamente, mi sentivo libero.

Il mio egocentrismo mi è servito per superare gli ostacoli e sentirmi realizzato.

Che boomerang!

È ritornato come autolesionismo sino alle molteplici condanne e, in carcere, sono stato travolto in quel vortice: il diavolo.

Il diavolo mi aveva talmente posseduto che io mi sentivo un re ma il re dei diavoli.

Ora piango e mi sono purificato l’anima comprendendo con estrema luce, presente e futura, le parabole di Gesù.

Io sono nato puro, ho commesso gravissimi errori di gioventù in quanto diavolo felice.

Ora, riprendo la mia vita in mano e sono vaccinato al diavolo.

Scusate il ritardo.

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica. Per leggere invece tutti gli articoli di Mauro Presini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

Parole e figure /
E se esistesse un Undicesimo Comandamento?

Forse esiste un undicesimo comandamento: non sfidare la natura. Il tema del bellissimo e potente silent book di Davide Calì e Tommaso Carozzi, edito da Kite

E se un giorno, alzando gli occhi al cielo che si è oscurato, vedessimo decine di placide balene? Che reazione avremmo? Meraviglia, inquietudine, paura? Restare a osservare, cercare di comprendere cosa sta succedendo o agire per risolvere la situazione?

Oggi “Undicesimo comandamento”’, di Davide Calì e Tommaso Carozzi, ci invita a riflettere profondamente sul nostro rapporto con la natura: lei esiste, senza di noi, può sopravviverci, sovrastarci, farci estinguere, andare avanti da sola. E se si ribellasse?

Ecco, allora, che nelle prime pagine di questo albo importante, d’improvviso, fra i grattacieli e il traffico congestionato, nel cielo grigio cupo (grigio come tutte le pagine), appaiono mille balene che volano nell’aria oscurandone la luce. Grigio su grigio, grigio dopo grigio. Tutto grigio perla/tortora. Un colore senza colore che simboleggia la mediocrità, la mancanza di energia, la tristezza, la timidezza, l’ambiguità, il compromesso e la prudenza. Scelta perfetta.

L’uomo è spaventato, osserva quegli enormi animali volanti dietro i vetri dei palazzi, dei bar e delle auto, con il suo telefonino in mano, davanti agli schermi dei PC, ne parlano alla televisione come fosse un banale evento meteo, forse solo i bambini ne restano incuriositi. L’uomo reagisce alla sua maniera, come sempre aggressivo e incapace di capire, organizzandosi con le forze armate e uccidendo tutte quelle balene minacciose, senza risparmiarne nessuna. Piani di battaglia, bussole, elmetti, scarponi, tute mimetiche, fucili, parate, armi, carri armati, missili e poi medaglie e onorificenze. Le cose inutili e pericolose che ormai vediamo sempre più spesso. Mentre il meteo torna sereno.

Ma la situazione non è così semplice come potrebbe sembrare. La natura, ferita spesso ingiustamente dalla crudeltà o dall’indifferenza dell’uomo, può reagire con forza superiore e contraria. e in questo caso lo fa. Come?

Un silent book coinvolgente e visionario, che ci fa vivere qualcosa che non avremmo mai pensato di poter vedere o anche solo immaginare.

Davide Calì, Tommaso Carozzi, Undicesimo comandamento, 2022, Kite Edizioni, Padova, 48 p.

Lo stesso giorno /
Italia-Germania 4 a 3: la vittoria del bianco e nero

Lo stesso giorno. Italia-Germania 4 a 3: la vittoria del bianco e nero

17 giugno 1970, stiamo parlando della partita di calcio più famosa della storia d’Italia. Una partita giocata più di mezzo secolo fa e continuamente celebrata, rivista, ricordata, tramandata.

Italia-Germania 4 a 3, definita “la partita del secolo”, una partita vinta rocambolescamente, ma pur sempre e solo una semifinale (pochi giorni dopo, in finale, il Brasile stellare  di Pelé e Rivelino ci rifilò un secco 4 a 1 ), che però si impone e supera nel ricordo la vittoria ai Mondiali in Spagna del 1982, dei Mondiali in Germania del 2006, o del recente Europeo del 2020.
Resta da capire il perché.
Ma prima è obbligatorio trascrivere le formazioni in campo.

Gli Italiani: eroi, gladiatori, indimenticabili campioni
Albertosi, Burgnich, Facchetti, Bertini, Rosato (Poletti dal 90’), Cera, Domenghini, Mazzola (Rivera dal 45’), De Sisti, Riva, Boninsegna. Allenatore: Ferruccio Valcareggi

I Tedeschi: gli avversari, i crucchi, i panzer
Maier, Patzke (Held dal 63’), Schnellinger, Schulz, Beckenbauer, Grabowski, Overath, Vogts, Seeler, Müller, Löhr (Libuda dal 63’). La Germania è allenata da Helmut Schön.

Anche la location ha qualcosa di arcano e di mitico, Si gioca allo Stadio Azteca di Città dl Messico, 2220 metri sopra il livello del mare. Alta montagna. Aria rarefatta. Fatica doppia.

Scorcio dello Stadio Azteca di Città del Messico

Dei protagonisti di Messico 70, Vicecampioni ma subito promossi Campioni per sempre, è rimasto solo qualche superstite, Gianni Rivera l’Abatino, Bonimba Boninsegna.  A gennaio se n’è andato anche Gigi Riva, il Rombo di tuono si è spento. Ma la memoria di quella storica battaglia calcistica invece di sbiadire si è trasformata in leggenda.

Era il 1970, solo 25 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ma era solo una partita di calcio, non credo che gli italiani abbiano vissuto quella vittoria come una sorta di rivincita sulla feroce occupazione tedesca. Piuttosto come una risposta liberatoria, un contrappasso per il trattamento riservato alle decine di migliaia di italiani emigrati in terra di Germania. Ci chiamate terroni? Fannulloni? Pizza e mandolino? Ecco qua: Italia-Germania 4 a 3!

Ma più di tutto, allora come oggi, il moltiplicatore del mito é il bianco e nero. La Tivù a colori sarebbe arrivata solo nel 1977. E per fortuna: con tutti i colori, le cento inquadrature e gli inutili commenti di oggi,  quella partita e quella squadra le avremmo dimenticate in fretta.

La formazione azzurra. Mitica, è il caso di aggiungere
Post scriptum
Ho qualche amico e parecchie amiche che il calcio, non il business, ma proprio il gioco del calcio, non lo possono proprio vedere. Non lo guardano, non lo capiscono, non lo sopportano. Pazienza, non sarò certo io a fargli cambiare idea. A quelli però che mi dicono: Come fai a scrivere su Kafka [qui ad esempio] e la settimana dopo ti perdi dietro 22 in calzoncini che vanno dietro a una palla? A loro lascio qualche riga di un grande scrittore argentino prematuramente scomparso, Osvaldo Soriano, che ha scritto di vita, di amore di morte, e molto e in modo impareggiabile di calcio, che era una delle sue grandi passioni.
Scrive Soriano:
“Ci sono tre generi di calciatori. Quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi spazi che qualunque fesso può vedere dalla tribuna e li vedi e sei contento e ti senti soddisfatto quando la palla cade dove deve cadere. Poi ci sono quelli che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che tu stesso e forse gli altri avrebbero potuto vedere se avessero osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa. E poi ci sono quelli che creano un nuovo spazio dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio. «Questi sono i profeti. I poeti del gioco».
E ancora: “Era uno di quelli che si credono superiori perché sostengono che il calcio consiste in ventidue imbecilli che corrono dietro una palla.”.
Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

Fotografare la musica dal vivo

Fotografare la musica

Da molti anni fotografo per passione e per studio. Alterno la fotografia naturalistica per una mia personale ricerca di armonia e di bellezza, alla fotografia durante i concerti per ritrarre l’intensità espressiva degli artisti che suonano i generi che preferisco: blues, jazz, gospel e soul.

Questi stili musicali, nati direttamente o indirettamente dallo sfruttamento dovuto alla schiavitù delle persone afroamericane, sono il frutto di una scelta artistica per resistere conservando le proprie radici e, nello stesso tempo, per difendere la propria identità inventando nuove modalità comunicative.

Anche per questo motivo, per cercare di interpretare al meglio i vari ritratti, ho deciso di usare soprattutto la fotografia in bianco e nero. Credo infatti che sia il modo più coerente per rispettare l’autenticità, la drammaticità e la vitalità dei testi e della musica.

Preferisco fotografare gli artisti che conosco bene perché gli scatti hanno più probabilità di essere rappresentativi del loro determinato modo di cantare o di suonare. Se invece sono artisti che non ho ancora visto esibirsi dal vivo, ho bisogno di ascoltarli e di osservarli bene prima di scattare; solo così posso tentare di coglierne l’essenza artistica.

Mighty Sam McClain
Billy_Cobham
Sherman Robertson

Non essendo interessato alla fotografia come testimonianza o come documentazione, a mio modo di vedere, diventa fondamentale conoscere i brani e la mimica facciale degli artisti per aspettare attentamente la posa giusta da immortalare.

Infatti, fotografare la musica per me è cogliere l’anima artistica degli artisti, riassumendola in una sola immagine.

Mi rendo conto che non è opera semplice e non so se, attraverso le mie scelte, riesco a comunicare quello che voglio. Del resto non sempre sono soddisfatto delle foto che scatto e, se da un lato ciò mi rende difficile accontentarmi del lavoro fatto, dall’altro mi aiuta nel mio percorso di ricerca.

Irma Thomas
Ray-Charles

Se durante la visione delle mie fotografie si sentono suonare note tristi, malinconiche, intense ed appassionate allora vuol dire che sono riuscito a mostrare l’idea che ho avuto di quel determinato musicista al momento di quello scatto.

Del resto, come diceva un maestro della fotografia del secolo scorso come Ansel Adams: “Ho sempre pensato che la fotografia sia come una barzelletta, se devi spiegarla vuol dire che non è venuta bene”.

Guarda nello Speciale in homepage tutta la galleria dell’autore

Per leggere tutti gli articoli di
Mauro Presini clicca sul nome dell’autore

In copertina: Miles Davis

Per certi versi /
Lucciole nel mio giardino

Lucciole nel mio giardino

Uno sciame

Di lumicini

Sulla terra

Nera

Il cielo capovolto

Si confonde

Sul biliardo

Dei giardini

Non steccano

Mai

Gli usignoli

Nelle loro ronde

Al fischio

Del buio

Le parole gracidano

Tra le acque

Agglomerate

Sciacquano

Panni sporchi

Cercano a tentoni

Una gronda linfatica

Per i nostri

Neuroni

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Daniele Lugli: manifestazioni, controllo, repressione. Quale formazione per le forze di polizia?

Daniele Lugli: manifestazioni, controllo, repressione. Quale formazione per le forze di polizia?

(pubblicato su Azione Nonviolenta)

Daniele Lugli

L’intervento delle forze dell’ordine, nelle manifestazioni o in altre situazioni critiche, può avere segno diverso in relazione a tanti fattori. Tra questi, il mandato e la formazione impartita agli agenti. Ne parla Daniele Lugli [vedi qui un ricordo di un ricordo di Pasquale Pugliese] in questa intervista condotta da Elena Buccoliero nel 2015. In quel momento Daniele era Difensore civico della Regione Emilia-Romagna e si era interessato anche di questi temi in seguito a episodi specifici. Non rientravano esattamente nei suoi compiti (tra le materie di competenza di un difensore civico non c’è il lavoro delle forze di polizia), ma lui si era attivato ugualmente contando sulla leale collaborazione tra le istituzioni che, a onor del vero, ha sempre ricevuto.

Si possono fare varie considerazioni su ciò che motiva la violenza delle forze dell’ordine nelle diverse situazioni, oltre alla necessità, per esempio di fronte a persone armate. Tra le ipotesi – faziose e no – c’è una funzione politica, una frustrazione personale e professionale, la mancanza di mezzi, e certo anche la mancanza di formazione. Che cosa pensi di quest’ultimo aspetto? Può essere uno degli aspetti da cui partire? E come può essere tenuto collegato agli altri?
È un mestiere delicatissimo, quello del poliziotto o del carabiniere, che richiede equilibrio e vocazione, e molta attenzione alle persone. Spesso anche questo manca. Ma succede anche in altri mestieri, come quello di insegnante. Lo scarso civismo, senso di legalità, che ci appare generalizzato nel nostro Paese non è compensato dall’indossare una divisa, che magari aggiunge arroganza e prepotenza, e voglia di rifarsi delle umiliazioni e frustrazioni alle quali la professione spesso espone.
Mi fai pensare che è difficile dare ciò che non si riceve. L’attenzione alle persone, se è poco presente strutturalmente nelle forze di polizia – e io non so se è così, ma potrebbe – capisco sia difficile rivolgerla ai cittadini, quando si ha una divisa addosso. Perciò forse sarebbe auspicabile una trasformazione più profonda, di una formazione migliore. Ma forse è utopistico.
C’è stato, nella polizia, un periodo di impegno per giungere alla possibilità di sindacati e dunque di organizzazioni democratiche che bilanciassero la gerarchia interna, e tra gli stessi carabinieri non manca chi si ricorda la necessità di conformarsi all’ordinamento democratico della Repubblica. Anche in questo caso la potestà conferita agli agenti, che può giungere fino a impedire radicalmente la libertà di uno o più cittadini, è un potere conferito nell’interesse dei cittadini stessi, e questo è un aspetto che non può essere dimenticato ma deve essere continuamente tradotto in pratiche coerenti, per complesso che sia. Ed è vero che, se il potere che sugli agenti si esercita ha caratteri autoritari e repressivi, più facilmente l’azione degli agenti avrà gli stessi, magari accentuati, caratteri. Una formazione, per la quale so esserci impegno sia nelle forze di polizia che nei carabinieri, non può controbilanciare aspetti strutturali. E ancora, non sarà l’aggiunta della materia nonviolenza, alle altre molte materie di studio per diventare graduati o ufficiali, che può porvi rimedio.
E tuttavia, che cosa della nonviolenza – come approccio e come strumenti nella gestione dei conflitti – può a tuo avviso essere utile per un tutore dell’ordine? E poi io a volte mi chiedo anche se il tema nonviolenza verrebbe preso sul serio… Forse travestito da comunicazione interpersonale o altro avrebbe maggiori possibilità?Due elementi fondamentali: l’attenzione alle persone, visto il potere sulle stesse che si è chiamati ad esercitare, e l’adeguatezza dei mezzi rispetto al fine che si persegue, per cui se si può comprendere che in situazioni di difficoltà le persone “comuni” reagiscano, più che agire consapevolmente prevedendo gli sviluppi e considerando le conseguenze delle proprie azioni, lo stesso non vale per gli specialisti della sicurezza, che agiscono tenendo conto della sicurezza propria e di quella delle persone, tutte, per le quali un potere così critico è loro affidato.O che almeno dovrebbero agire così. Cioè dovrebbero essere messi in grado di farlo, sia come consapevolezza di sé e autocontrollo, perché immagino che anche in divisa si possa avere paura, sia come capacità di lettura delle situazioni. Una formazione alla nonviolenza potrebbe aiutare in questo?Sì, perché è una formazione ad affrontare il conflitto e, per quanto possibile, a trasformarlo evitando conseguenze fatali o comunque gravi per le persone coinvolte. È molto importante riflettere su quanto è avvenuto e avviene sia nei confronti di manifestazioni tumultuose che nel fermo di persone difficili da contenere. Come ripete Pat Patfoort, non possiamo cambiare il passato ma possiamo impostare un futuro diverso. Invece spesso sembra che in queste situazioni venga ripetuto un copione già noto.Non so se altrove, certamente in Emilia Romagna, sono state sperimentate politiche per la sicurezza che prevedevano tra l’altro la formazione congiunta tra forze di polizia, operatori socio-sanitari, volontariato ed altro. Tu stesso le hai sollecitate. Con quali obiettivi possibili e quali ricadute?Qualche ricaduta positiva, pur modesta, c’è stata. Ci sono stati progetti, condivisi dalle diverse componenti, entrati nelle pratiche operative e che già vedono una collaborazione tra istituzioni diverse. Ma dev’essere, questa, una caratteristica permanente della formazione, non un’iniziativa di tanto in tanto. Penso ad esempio che, per quello che riguarda le manifestazioni sindacali o simili, una formazione comune potrebbe esserci, promossa dai sindacati, appunto, dei lavoratori, polizia compresa, e organismi di rappresentanza dei carabinieri inclusi, perché le manifestazioni e le dimostrazioni siano quello che il nome sta a significare. Così una formazione che vede come essenziale l’intervento di diverse competenze professionali abitua a una collaborazione nelle situazioni critiche e quindi al ricorso a chi è meglio preparato per affrontarle o alla miglior combinazione delle competenze disponibili. Certo è una preparazione che ha bisogno di continui aggiornamenti, anche perché le persone debbono assumere decisioni difficili e impegnative spesso in tempi rapidissimi. È dunque importante che abbiano l’abitudine a cogliere i tratti fondamentali di ciò che si presenta.

In un pensiero nonviolento, sarebbe possibile una società senza polizia?

Gandhi la collocava in un futuro che non riusciva a vedere, anche se attribuiva questa miopia alla insufficienza della sua persuasione nonviolenta. Capitini ha parlato della necessità di forme di collaborazione con la polizia dandone quindi per scontata la presenza, anche se esperta nell’uso di strumenti non letali. Credo si possa prendere sul serio un’affermazione di Gandhi secondo la quale proprio gli agenti per la sicurezza pubblica dovrebbero essere “riformatori”, le avanguardie in un certo senso di una profonda trasformazione della società verso la nonviolenza, proprio perché a loro è affidata la possibilità di usare il massimo della repressione e della coercizione, sempre nel quadro di una democrazia che ha per sovrano il popolo, non il generale o il capo della polizia, o il Presidente della Repubblica, o il capo del Governo. Il loro comportamento concreto ci dice a quale livello di incivilimento perveniamo. Una formazione aperta, direbbe Capitini, e nel senso che ho cercato un po’ di indicare, mi pare potrebbe mettere su una buona strada.

Cover: La polizia a Pisa immobilizza a terra due studenti, Pisa 23 febbraio 2024 – foto strisciarossa

Per leggere tutti gli articoli su Periscopio di Elena Buccoliero clicca sul nome dell’autrice. 

La morte sotto la sabbia.
Le scorie nucleari francesi avvelenano l’Algeria e ricadono anche in Europa

La morte sotto la sabbia.
Le scorie nucleari francesi avvelenano l’Algeria e ricadono anche in Europa

Le scorie nucleari francesi avvelenano l’Algeria e ricadono anche in Europa.

La corsa agli armamenti, il riarmo globale, non sono soltanto l’alba di oscuri presagi, ma colpiscono in modo diretto la popolazione civile di interi territori.

Siamo in estate, le frequenti ondate di vento africano (scirocco e libeccio), che ingialliscono i cieli di tanti Paesi europei, riempiono l’aria di particelle in sospensione aumentando significativamente le concentrazioni di PM10 a livello del suolo.
Il PM10 è la sigla del materiale particolato con un diametro della particella che può variare fino a 10 micron (1 micron = 1 milionesimo di metro). Il PM10 passando  per il naso raggiunge la gola e la trachea. Il PM2,5 (particelle ancora più piccole) può arrivare sino ai polmoni e i PUF (particelle ancora più piccole; particolato ultrafine) fino agli alveoli polmonari.

Il forte aumento delle sindromi allergiche, delle malattie polmonari, delle leucemie e del cancro sono anche legate alla diffusione nell’atmosfera di polveri sottili e di particelle radioattive estremamente dannose alla salute.
Le polveri sottili possono trasportare numerose sostanze chimiche, come gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) e metalli come piombo, nichel, cadmio, arsenico, vanadio e cromo, determinando effetti dannosi sulla salute delle popolazioni esposte.
Molti disturbi collegati all’apparato respiratorio sono effetto dell’inalazione di PM10. L’IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) ha classificato l’inquinamento dell’aria nel Gruppo 1, vale a dire tra le sostanze cancerogene per l’uomo.

Ma ciò non è tutto: le tempeste di sabbia del Sahara portano con sé particelle radioattive. L’aumento della radioattività è stato registrato dall’organizzazione non governativa Acro (Associazione per il Controllo della Radioattività in Occidente).
Secondo gli esperti, i venti di scirocco hanno trasportato sul continente europeo cesio-137 (generato dal decadimento radioattivo prodotta da una esplosione atomica). Il cesio-137 è molto probabilmente il risultato delle numerose bombe nucleari che la Francia ha fatto esplodere, nei primi anni ‘60, nel deserto algerino per testare le armi di distruzione di massa durante la guerra fredda. Da anni i venti africani portano la morte radioattiva nei cieli d’Europa.

L’università di Tenerife ha rilevato nelle Canarie i prodotti di decadimento radioattivo nella sabbia del Sahara, trasportata dai venti. In particolare i venti africani hanno trasportato sabbia contaminata con potassio-40 e cesio-137.
L’alta concentrazione nell’aria di particelle fini, così come di cesio radioattivo è stata indicata dai medici spagnoli come forte rischio per la salute.

Ogni anno dal Sahara giungono da 60 a 200 milioni di tonnellate di polvere fina.
Questa è un fattore che oggettivamente può provocare il peggioramento di malattie croniche polmonari o asma.
La Francia nel lontano 13 febbraio 1960 fece esplodere la sua prima bomba nucleare (Gerboise bleue) nel deserto sahariano algerino (nella provincia di Adrar). La Francia dal 1960 al 1966 ha condotto 17 esperimenti nucleari nel deserto del Sahara.

Il test nucleare voluto da Charles De Gaulle generò una nube contaminata di Cesio 137 e Iodio 131 in Algeria, nube che, sospinta dal vento, raggiunse anche la Sicilia Occidentale. Una nuvola di fuoco e sabbia salì verso il cielo. Impetuosa come una cascata, micidiale e terrificante come solo un’apocalisse creata dall’uomo sa essere. All’epoca la Francia non rivelò quanto accaduto.

Una catastrofe radioattiva, ben peggiore del disastro nucleare di Chernobyl, contaminò la Sicilia Occidentale con conseguenze ancor oggi pressoché sconosciute. Catastrofe che si ripeté per ben 17 volte tra il 1960 e il 1966. Le esplosioni nel Sahara algerino, poligono atomico francese, generarono nubi di sabbia radioattiva e il conseguente fallout radioattivo contaminò tutta la Sicilia Occidentale.

Gli esperimenti nucleari francesi nel Sahara algerino hanno lasciato un segno indelebile. Fra le popolazioni nomadi si registra un’incidenza anomala di tumori. Il danno ambientale provocato dalle radiazioni sull’ambiente sahariano è irreparabile.
Nella sola zona di Reggane, 600 km a sud di Bechar, vennero fatte esplodere in atmosfera 4 bombe atomiche in poco più di un anno. La “Gerboise bleue” (la prima bomba) era una bomba potente quasi 4 volte quella di Hiroshima.
La Francia non effettuò mai alcuna bonifica, al punto da far ritenere ancora altamente rischiosa la permanenza in quei luoghi di qualsiasi forma di vita.

La Francia non si preoccupò minimamente degli effetti devastanti che le bombe atomiche avrebbero provocato sugli esseri viventi. Gli abitanti di quelle zone non avevano infatti a disposizione nessun indumento protettivo, né alcun posto per ripararsi dalle radiazioni. La gente del posto venne considerata come vittima sacrificale. Dal 1960 in tanti persero la vita o si ammalarono di malattie da radiazioni.

Nel sud dell’Algeria, medici e ONG continuano a denunciare il ripetersi di malattie sospette. Affezioni pressoché sconosciute in questi luoghi prima che la radioattività contaminasse le sabbie del deserto. Il cancro alla tiroide, alla pelle, ai polmoni, al seno, le leucemie e le malformazioni di neonati sono ormai all’ordine del giorno tra le famiglie sahariane.

L’area di Reggane, teatro di test nucleari francesi negli anni Sessanta © Albert Backer/Getty Images

Quasi 150 casi di tumore sono stati diagnosticati nel solo piccolo villaggio di Reggane dal 2000 al 2009; a Timimoun sono state segnalate nascite di bambini con malformazioni gravissime. L’incubo è che la “peste” atomica”, possa essere trasmessa da una generazione all’altra. Il dottor Moustapha Oussidhem ha dichiarato «Una delle cose che ci ha colpito a Reggane è il numero dei malati di mente. Intere famiglie ne sono colpite perché, ci viene detto, il padre lavorava vicino al luogo dell’esplosione e impazzì a causa dello shock».

Nulla è stato fatto per redigere un registro tumori per monitorare l’incidenza della malattia nelle regioni sahariane. Le regioni contaminate sono lontane più di mille chilometri da Algeri ed in molti casi i malati sono lasciati senza cure, in troppi soffrono e muoiono ancora in silenzio.

Ancora oggi il governo di Algeri chiede alla Francia di fornirle le mappe dei siti dei test nucleari. Le trattative vertono sull’assunzione finale delle responsabilità in ordine alle operazioni di riabilitazione dei siti di Reggane e di Ekker, dove vennero effettuati i test nucleari francesi, nonché sull’assistenza per la localizzazione delle zone di interramento dei rifiuti contaminati, radioattivi o chimici, finora non rilevati dagli algerini.

Il riarmo, la potenza militare, la ragion di stato non considerano minimamente le conseguenze delle azioni militari, e i loro effetti sulle popolazioni, anche a distanza di diversi decenni.
La criminale macchina bellica francese oltre ad avere devastato una intera regione in Algeria ha provocato un danno ambientale che produce morti e malattie tumorali a distanza di più di sessant’anni.

Bloccare il riarmo, fermare la folle corsa verso una guerra globale è oggi un imperativo categorico, anche alla luce degli effetti devastanti sulla salute di intere popolazioni che i test nucleari stanno avendo a distanza di decenni.

Nuovo parlamento, vecchia Europa

Nuovo parlamento, vecchia Europa

Il parlamento europeo non sarà molto diverso dal precedente. Le destre sono cresciute (150 seggi su 720, dal 18% al 21%, Identità e democrazia Id, Conservatori e riformisti Ecr ed altri ancora non affiliati ad alcun gruppo) ma non sono in grado di cambiare la maggioranza precedente. Sono cresciute ma meno delle aspettative. Potrebbero però influenzare i Popolari che sono il partito di centro (cresciuto anche lui di 11 seggi) verso politiche più di destra con l’obiettivo di contenerne la loro crescita. E

La strategia è sempre quella di trovare dei “colpevoli” come gli immigrati o una retorica più sovranista che però di fatto non riduce le cause vere della crescita della destra che sono l’enorme malumore delle condizioni socio-economiche di larga parte degli europei che trovano poi il capro espiatorio negli immigrati e nella burocrazia europea, nelle armi all’Ucraina,…. Fasce povere che votano a destra, nonostante le destre abbiamo intenzione di ridurre ulteriormente le tasse anche ai super ricchi e tagliare i sussidi ai poveri (come anche propone Sunak in Gran Bretagna).

In nord Europa la crescita delle destre si è arrestata. In crescita anche l’astensione, cioè la sfiducia nella prospettiva politica europea, come avviene, peraltro, nelle elezioni nazionali.

Il peso delle destre estreme è aumentato però in tutta Europa. Molti commentatori parlano della fine della mentalità del “dopoguerra” che ha segnato la storia dell’Europa anche perché le destre (ID, Ecr e partiti di ultradestra non ancora iscritti ad alcun gruppo parlamentare) sono forti soprattutto nei tre paesi fondatori: Italia (32%), Francia (35%) e Germania (15%) (oltre al 20% in Polonia) che hanno guidato questa Europa nel bene e nel male dalla sua nascita. Negli altri paesi si va da un massimo del 10% in Grecia al 1-3-6% altrove.

I principali sconfitti sono Macron in Francia e il cancelliere socialdemocratico Scholz, entrambi senza più maggioranza a causa della brusca caduta dei Verdi tedeschi e di Macron in Francia. Di certo non ha premiato la retorica bellicista contro la Russia che dirotta fondi, potenzialmente sociali, verso le armi e che non scalda il cuore di nessuno.

Macron in Francia azzarda le elezioni a fine mese sperando che i Repubblicani si alleino con lui e così la parte della sinistra più vicina al centro.
Mentre in Germania l’attuale Governo “semaforo” non pare voglia andare alle elezioni. La rincorsa a destra sui temi dell’immigrazione, delle armi all’Ucraina, la marcia indietro sulla politica climatica e a favore dei “trattori” non hanno arginato l’emorragia del centro e centrosinistra e, nel caso dei Grünen tedeschi, si è tradotta in una implicita condanna per alto tradimento che ha dimezzato l’elettorato verde. La Germania è entrata con la guerra Russia-Ucraina in una crisi, avara di futuro e ciò ha favorito le destre.

Un certo successo si è avuto nella sinistra-verdi in Italia e nelle sinistre al Nord Europa e anche altrove, dove il disagio delle popolazioni premia partiti che chiedono di tassare di più i ricchi e di fare la pace (e non le destre). Anche Sara Wagenknecht che è uscita dalla Linke (sinistra) tedesca per formare un proprio partito (Bsw), usando una parte dei temi della destra (solo immigrazione regolare, no armi all’Ucraina), oltre alle classiche parole d‘ordine della sinistra, ha avuto successo (6,1%, doppiando la Linke). Questo “test” è interessante perché mostra che la sinistra viene premiata se usa parole d’ordine radicali, ma non lascia alle destre questioni centrali per i ceti poveri come: immigrazione, sicurezza e pace.

La maggioranza in Consiglio Europeo (361 seggi) potrebbe essere simile all’attuale, ma più debole.
L’Europa rischia grosso però perché non può restare un gigante economico senza una equivalente forza politica. Impresa sempre più difficile nel contesto di una globalizzazione in cui Cina e USA fanno sul serio e non fanno sconti all’Europa, resasi odiosa a vasti strati sociali come mera curatrice dei mercati, della moneta e della finanza. Le destre puntano su questo disagio sociale, sono contro gli immigrati (di cui pure c’è bisogno con una immigrazione legale e ordinata) e offrono soluzioni nazionaliste ancor meno capaci di risolvere i problemi.

Roberto Napoletano, già direttore de Il Sole 24 ore dal 2011 al 2017, ha aggiornato il suo libro (Il cigno nero e il cavaliere bianco, ed. La nave di Teseo, 2024, pag. 560, 16 euro) in cui fa il paragone tra l’annus horribilis 2011 e il “2024: l’anno della svolta”, sottotitolo della II edizione. Il cigno nero, per Napoletano, sono le politiche europee seguite alla prima crisi finanziaria (dei sub-prime Usa del 2009) che gettò tutta l’economia dell’Occidente in recessione. Gli Stati Uniti si ripresero in un solo anno con politiche espansive (keynesiane), mentre l’Europa ci mise 3 anni a capire che doveva fare anche lei politiche espansive. Tutti citano il “Whatever it takes” di Draghi per difendere l’Euro, ma pochi sanno che quel discorso fu fatto a Londra il 26 luglio del 2012 (3 anni dopo l’avvio della crisi subprime).

Faccio presente che ancora oggi (2024) l’occupazione di cui si dice che l’Italia ha un livello massimo mai raggiunto (di tasso di Occupazione), non ha raggiunto il livello di ULA (Unità di Lavoro) del 2008, un indicatore più preciso degli Occupati (che invece ha superato il livello del 2008) perché considera un part-time la metà di un tempo pieno (potenza della manipolazione statistica).

Per Napoletano allora l’Europa sbagliò con “politiche pro-cicliche – in sostanza di austerità- che si avvitano su sé stesse e invece di curare la malattia l’aggravano”. Allora fummo salvati dal “Cavaliere bianco”, cioè da Draghi che (anche per l’appoggio della Merkel) come presidente della BCE, avviò dal luglio 2012 una politica di espansione (Whatever it takes), garantendo l’acquisto del debito pubblico italiano senza limiti, dando così solidità all’euro contro qualsiasi speculazione finanziaria.
Da allora Draghi ha cambiato idea sull’euro e si è convinto (a ragione) che dietro la moneta deve esserci un sovrano che nell’area euro non si è voluto. Ed è anche convinto (questa la mia opinione) che senza sovrano l’euro finirà. E’ anche convinto (a ragione) che fuori dall’euro non c’è prospettiva, specie per paesi deboli come l’Italia e ciò implica un ruolo politico diretto. Ecco perché Draghi è stato incaricato di fare un piano per l’Europa. Draghi è convinto che bisogna avere una immaginazione politica, un sovrano, una cessione di sovranità dagli Stati all’Europa, una politica fiscale e di bilancio europea.
La sua impostazione è però molto liberista e prevede privatizzazioni e liberalizzazioni.

La mia idea (che ovviamente non conta nulla) è invece che se è vero che ci vuole un sovrano, deve esserci anche una politica estera e di difesa europea, indipendente da quella degli Usa, e che non è vero che sia necessario proseguire nelle privatizzazioni ma che ci vorrebbe una politica economica con investimenti pubblici guidata all’Europa, indipendente dagli Usa, che punta, come avvenuto con Airbus, sui settori del futuro costruendo col debito “buono” più occupazione di qualità e più welfare e ciò implica avere molte risorse con politiche coraggiose di tassazione dei ricchi (che non si fanno e così aumentano le destre) e di chi si approfitta di rendite (come di recente è avvenuto per banche e imprese energetiche).

Oggi invece, dice sempre Napoletano, poiché il Cavaliere bianco non c’è più, tutto dipende dall’Italia che ce la può fare “solo a patto che non lisci più il pelo al populismo elettorale, eviti pasticci come la tassa sugli extraprofitti delle banche e recuperi stabilmente la credibilità fiscale che non dipende dall’Europa, ma solo dall’Italia e per farlo serve una politica economica che faccia della Meloni una nuova Tatcher attuando un conservatorismo moderno”. Se non farà questo il nostro debito pubblico diventerà cattivo e travolgerà l’Italia. Questa l’analisi e le proposte di Napoletano (molto diverse dalle mie).

Abbiamo alcune domande: se lui considera positive le politiche del Cavaliere bianco del 2012 (espansive) perché non si fanno in Europa anche oggi, come ha fatto nel 2009 e fa ancora oggi la Federal Reserve Usa? Il Cavaliere bianco avviò nel 2012 queste politiche, ma perché non le ha fatte prima? Non è forse questo dovuto ad un vantaggio monetario del dollaro?

Purtroppo l’Europa non ha alcuna intenzione di diventare un polo mondiale indipendente dagli Stati Uniti e continua a seguire mini-politiche pubbliche e di austerità che non sono in grado di farci decollare e per l’Italia sarà complicato ridurre il debito pubblico se non si prelevano i soldi da chi li ha (banche con extraprofitti, ricchi che non pagano l’imposta sulle eredità, crescita dell’elusione ed evasione fiscale). Lo scopriremo nei prossimi mesi.

Cover: Mappa dell’Europa del XVIII° secolo, Incisore Giovanni Sansone

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Londra: fissato il 9 e 10 luglio l’appello finale per l’estradizione di Julian Assange

Londra: fissato il 9 e 10 luglio l’appello finale per l’estradizione di Julian Assange

In un importante sviluppo giuridico, l’Alta Corte del Regno Unito ha concesso a Julian Assange il diritto di appellarsi alla sua estradizione negli Stati Uniti.
La Corte ha stabilito che una nota diplomatica statunitense, che pretendeva di assicurare che Assange non avrebbe subito discriminazioni in quanto cittadino australiano, non era sufficiente a garantire i suoi diritti di libertà di espressione.

È stata ora fissata una data per l’appello, che durerà due giorni, il 9 e 10 luglio 2024. L’udienza è pronta ad affrontare questioni fondamentali relative alla tutela dei diritti umani, non solo per Assange ma anche per chiunque, nel Regno Unito e nel mondo, denunci la criminalità di Stato. La decisione dell’Alta Corte britannica potrebbe segnare un momento cruciale in questo caso di alto profilo, impedendo potenzialmente l’estradizione di Assange negli Stati Uniti, dove il Relatore speciale dell’ONU sulla tortura ha avvertito che egli sarebbe sottoposto a condizioni equivalenti alla tortura.

Il sostegno alla causa di Assange è cresciuto sia nel suo Paese natale, l’Australia, sia negli Stati Uniti. La maggioranza degli australiani, insieme a numerosi politici, sostiene il suo ritorno in patria. Negli Stati Uniti, un numero crescente di rappresentanti del Congresso chiede che le accuse contro di lui vengano ritirate. La Risoluzione 934 della Camera, che mira a fermare il procedimento contro Assange, continua a ottenere un crescente sostegno bipartisan a Washington DC. Continuano intanto le manifestazioni di solidarietà nel Regno Unito, in Italia e in tutta Europa .

Traduzione dall’inglese di Thomas Schmid

Cover: “Julian Assange libero: Se le guerre possono essere iniziate con le bugie, la pace può essere iniziata con la verità” (Foto di David Andersson)

FEMMINISMO E REGIME DI GUERRA: OLTRE LE POLITICHE DELL’IDENTITÀ

FEMMINISMO E REGIME DI GUERRA: OLTRE LE POLITICHE DELL’IDENTITÀ

L’obiettivo di questo intervento non è proporre chiavi di lettura definitive e dogmatiche, ma sollevare alcuni problemi, a partire, però, da alcuni punti che credo debbano essere tenuti saldi, anche perché permettono di ridefinire i problemi stessi. Partirò con alcune premesse teoriche, relative al femminismo, poi entro nel vivo della tematizzazione della prospettiva femminista rispetto alla guerra, in particolare rispetto alla Palestina, e poi chiudo con alcune considerazioni e problemi rispetto al lavoro di ricerca e a quello che possiamo definire “privilegio epistemico”.

Femminismo e valorizzazione

Si dice che ci siano molti femminismi. Per me femminismo è decostruzione e sovversione della riproduzione sociale del capitale, a partire da una critica basata su elementi precisi. È una politica di posizionamento, una politica di classe, dove “classe” è il nome di un soggetto che si dà nell’antagonismo, anche nei confronti della politica dei blocchi che il regime di guerra impone. Credo che sia particolarmente importante affermarlo oggi, soprattutto se si chiarisce quali siano i blocchi, che non sono solo geopolitici, ma anche concettuali. Femminismo è una politica di sovversione della riproduzione sociale perché è qualcosa di più di una politica delle identità.

Non intendo sostenere che identificare le soggettività subalterne e riconoscerle, o riconoscersi, come tali non sia determinante; tuttavia, se queste identità non articolano una politica di sovversione, il loro riconoscimento rischia di tradursi in nuovi processi in riduzione ad uno, o a molti uno, e di produrre o ulteriore subordinazione, o una riorganizzazione della subordinazione. La politica di classe assume come obiettivi polemici i nessi che collegano strutturalmente e funzionalmente quelle condizioni subalterne.

Nello specifico, il femminismo che convoco è quello che ha prodotto e continua a produrre una critica complessiva dell’ordine sociale, che non si limita alla determinante e sempre più necessaria denuncia della violenza sulle donne e di genere nelle sue varie forme, ma analizza la funzione costitutiva di quella violenza, tanto rispetto alla nazione e alla retorica dei nazionalismi, e quindi anche dei colonialismi, quanto rispetto alla subordinazione e gerarchizzazione su cui si fonda la riproduzione del capitale.

Affronto brevemente questo secondo tema, per poi tornare alla nazione. I movimenti veneti degli anni Settanta hanno prodotto un avanzamento di analisi e di discorso irrinunciabile proprio rispetto alla riflessione sulla riproduzione sociale. Mi riferisco alla critica femminista dell’economia politica elaborata, a partire da Marx, da Maria Rosa Dalla Costa, Alisa Del Re, Selma James, Silvia Federici e molte altre, all’interno del movimento internazionale per il salario contro il lavoro domestico[1]. Possiamo parlare di “un internazionalismo femminista”, con la definizione proposta da Veronica Gago, che la riflette sull’orizzonte aperto da Ni Una Menos[2].

Non mi soffermo sulla polemica di quel movimento con Marx; mi limito a rilevare gli elementi principali di analisi critica che ha sviluppato. Posto che, per autovalorizzarsi, il capitale sfrutta una forza lavoro che si deve riprodurre, il regime del lavoro salariato si fonda sulla divisione sessuale del lavoro sociale, che attribuisce alle donne un doppio carico di lavoro, quello di cura, e quello salariato. Con una precisazione: negli ultimi decenni, è aumentato significativamente il numero di donne bianche nel mercato del lavoro salariato – con tutte le differenze che pure rimangono rispetto alla forza lavoro maschile in termini di retribuzione, precariato, rischio di licenziamento, demansionamento ecc.

Questo fenomeno va di pari passo con l’attribuzione di buona parte del lavoro riproduttivo alle donne – ma anche agli uomini – migranti, in condizioni di sfruttamento note (ricatto per i permessi di soggiorno, lavoro nero e grigio, caporalato), accentuate dalla recente estensione del circuito delle piattaforme al mercato del lavoro di cura. Esiste, quindi, un differenziale di sfruttamento, contro cui, però, non si rivendica il diritto ad essere sfruttate quanto gli uomini, o di sfruttare quanto gli uomini, ma il rovesciamento delle condizioni di sfruttamento.

Questa critica femminista dell’economia politica non sia limita ad aggiungere un problema a quello, considerato principale, del lavoro salariato, ma mette in luce l’esistenza di un altro “segreto laboratorio”, non solo della produzione ma della riproduzione del capitale, che ha come simbolo e luogo le case, ma che viaggia sulle catene globali della cura. L’analisi dei modi di funzionamento del dominio patriarcale e razzista è imprescindibile per identificare, analizzare e combattere questo differenziale di sfruttamento, rispetto al quale gli strumenti della contestazione dello sfruttamento lavorativo si rivelano necessari ma non sufficienti.

È ora possibile tornare alla politica delle identità: razzismo e patriarcato possono essere due fattori alternativi o sovrapposti di identificazione di soggetti vulnerabili e maggiormente sfruttabili, e lo sono. Ma limitarsi a questo, e orientare prospettiva politica nell’ottica del risarcimento, ad esempio in termini giuridici, per quanto importante e utile, significa arrestarsi sulla linea della politica delle identità – almeno finche non saremo in grado di elaborare una politica del diritto radicalmente altra, che rimane da pensare.

È bene tenere un occhio all’immediato e l’altro all’infinito, e quindi interrogare complessivamente le trasformazioni in cui siamo immerse. L’accumulazione di capitale proietta globalmente la sua capacità di sussumere e organizzare modi di produzione molto differenti entro una serie di “operazioni”[3]: estrattivismo, di minerali e di dati; logistica, di merci, di persone, di idee; produzione industriale “semplice”, che non è sparita, e finanziarizzazione. Sono operazioni che, riorganizzando flussi, consentono al capitale di rispondere alla sua crisi. L’effetto, che osserviamo almeno da un paio di decenni, è una ridefinizione non solo della funzione degli Stati, ma anche di quella degli imperi e delle organizzazioni internazionali variamente intese.

Dentro questo quadro, mi pare rilevante capire in che modo patriarcato e razzismo agiscano congiuntamente nell’organizzare questi flussi di merci, dati, persone; in che modo definiscano le gerarchie che legano persone e merci con l’obiettivo di estrarre valore; e, soprattutto, che funzione avranno nella riorganizzazione di questi flussi nella fase di “ricostruzione” post-bellica, quando si saranno chiusi, si spera il prima possibile, almeno due fronti di guerra (Ucraina e Palestina), e che funzione hanno avuto e hanno ora nel determinare i fronti stessi.

Non per puro interesse analitico, ma perché sono i movimenti forse più rilevanti degli ultimi anni a indicarci gli snodi nevralgici di una lotta che può andare nella direzione della sovversione: le donne in Iran e il confederalismo in Rojava. Sono due esempi che non cito a caso, così come non ho citato a caso Maria Rosa Dalla Costa e Alisa Del Re, che con molti colleghi e compagni hanno praticato un modo di stare in università e di concepire la ricerca che va in una direzione opposta a quella che è ormai eletta a canone.

Per riassumere: la donna migrante non è più rilevante politicamente della donna bianca o dell’uomo migrante “solo” perché tre volte marginalizzata, ma perché occupa una posizione specifica all’interno della struttura della riproduzione sociale, perché incarna un punto di vista a partire dal quale ne rende visibile l’articolazione complessiva. È la posizione del margine, con bell hooks, che ci permette di seguire e ricostruire le catene del valore[4]. Assumere quello sguardo, quella prospettiva, è la sfida, critica e politica, per evitare le insidie di una politica dell’identità e della loro somma, e articolare un nuovo internazionalismo[5].

Riappropriarsi della rivoluzione

Sotto questo aspetto, ci vengono in aiuto tre documenti che non possiamo ignorare: il comunicato delle donne iraniane del movimento Jina di alcuni mesi fa[6], l’intervista all’attivista del Comitato Nesvan[7],– e il comunicato dell’Unione delle Comunità del Kurdistan[8]. Parto da quest’ultimo, che è stato preceduto nel 2023 da un opuscolo dal titolo Opportunità e pericoli della terza guerra mondiale[9]nel quale, di fronte alla Guerra in Ucraina, si ribadiva la necessità di guardare ai conflitti intrasistemici nelle potenze statali e a quelli che riorganizzano i flussi transnazionali del valore, a partire dai movimenti che ne decostruiscono la logica. Tra questi, il femminismo, che, con le parole di Abdullah Öcalan, è ribellione contro la più antica forma di colonizzazione – motivo per cui non c’è liberazione senza liberazione delle donne[10].

Il comunicato delle Comunità curde è del 17 ottobre 2023, condanna ovviamente l’aggressione del popolo palestinese, ma prende anche le distanze dall’attacco del 7 ottobre. Non si può certo accusare il movimento curdo di occidentalismo o di simpatie coloniali, o rimproverargli un rifiuto della rivoluzione armata, visto che la fa quotidianamente sotto le bombe di Edrogan. Il quale accoglie i leader di Hamas e, parallelamente, è finanziato dall’Unione Europea per tenere fuori dai confini i migranti siriani e afgani. La critica curda non si limita all’attestazione di un problema geopolitico, ma ci interroga politicamente in forza della sua chiarezza: «la mentalità statalista è la radice dei problemi della società e dell’umanità», perché non ha fatto altro che «aumentare i conflitti, soprattutto in Medio Oriente in seguito all’instaurazione dello Stato-nazione sviluppato dalla modernità capitalista».

Il movimento rivoluzionario pone, con toni che forse possono urtare, il problema della prospettiva futura, chiedendosi quali siano gli equilibri in gioco, non solo dal punto di vista geopolitico, ma nell’ottica di una democratizzazione rivoluzionaria del medio-oriente, che è stata a lungo al centro della prospettiva palestinese, per poi indebolirsi dopo gli accordi di Oslo[11].

La conferma viene dal primo testo delle donne iraniane, la cui lotta muove dall’omicidio di Masha Hamini, donna curda, e assume come proprie le parole d’ordine della rivoluzione curda: «nell’ultimo anno, siamo state in grado di riappropriarci della “rivoluzione” allontanandola dal discorso “rivoluzionario” corrotto e patriarcale della Repubblica islamica. Abbiamo reclamato la “rivoluzione”, l’abbiamo incarnata nella profondità delle nostre voci collettive e l’abbiamo ridefinita attraverso i nostri valori e desideri femministi».

Decifrare la rivoluzione significa, di fronte alla lotta palestinese «riconoscere la lotta per la liberazione della Palestina come parte del discorso femminista e anticoloniale», ma anche «non […] allinearsi alle narrazioni costruite dalla Repubblica Islamica, perché la lotta palestinese per la libertà non inizia né è definita dalla Repubblica islamica». L’obiettivo è «liberarci dalle catene della Repubblica islamica e dalle forze nazionaliste e di estrema destra», per tracciare «un percorso verso una vera solidarietà femminista transnazionale con le nostre care compagne in Palestina».

Anche in questo caso, e l’abbiamo visto negli ultimi mesi, vale una considerazione geopolitica: l’Iran ha un peso fondamentale negli equilibri tra Israele e Palestina, e il fatto che la morte di Raisi sia stata salutata come la morte di un martire dai leader di Hamas è indicativo. Anche qui, bisogna andare oltre la geopolitica.

Le donne iraniane sottolineano la necessità di vigilare sull’uso delle parole, e di risignificare i concetti che veicolano: una vigilanza che, nel caso di “rivoluzione”, ma vale anche per “resistenza”, richiede uno sforzo specifico e duplice, che passa per la concreta opposizione alle forme di dominio che cercano di appropriarsene, magari riscrivendo la storia delle lotte.

Per questo la critica all’ “asse della resistenza” è al centro dell’intervista a un’attivista del Comitato Rivoluzionario Nesvan, gruppo marxista di donne iraniane, che, nell’esprimere un fermo supporto al popolo palestinese e alla sua lotta di liberazione, sottolinea la difficoltà – ma anche la necessità – di assumere un posizionamento critico rispetto a «tutti i governi corrotti», quelli che fanno parte dell’ “asse della resistenza”, «che si oppongono ai movimenti di liberazione e ai movimenti di base nel loro contesto», che fanno parte di quell’asse, che si richiamano alla legge della terra e del sangue, e che non hanno a cuore i popoli, ma i territori e le loro risorse.

Quello che emerge da questi testi – e vale lo stesso per quello delle donne russe contro la guerra in Ucraina –, è che i concetti di “popolo”, “stato” e “nazione” producono e mettono gerarchicamente a valore le differenze. Questo non significa liquidare in toto le rivendicazioni che si iscrivono nella grammatica del popolo e della nazione: le lotte anti e decoloniali hanno dato delle indicazioni in merito, che però devono essere calate nel contesto della loro formulazione, e prestando attenzione alle interpretazioni, ad esempio, di Franz Fanon come teorico del nazionalismo e apologo della violenza tout-court.

Fintanto che ci si richiama alla logica del popolo e della nazione, che procede per unificazioni rappresentative e per identificazioni – individuale o su scala maggiore –, il rischio concreto è di cancellare le stratificazioni e le resistenze interne. Non si tratta di contestare il diritto del popolo palestinese a riconoscersi in identità – un’identità sistematicamente negata da Israele –, ma di interrogare i modi e i soggetti che stanno ridefinendo questa identità, in particolare nella striscia di Gaza.

L’aspirazione e la pratica anti-statalista del movimento curdo mi pare indicativa in questo senso, perché si realizza non solo nella democrazia radicale, ma anche nella convivenza tra popoli, culture, religioni, oltre ogni confine nazionale, contro ogni nazionalismo sciovinista. In quel caso l’unica unità, mai definitiva, sempre costituente, si concretizza nel progetto rivoluzionario, nella sua capacità di fare i conti con le contraddizioni, tenendo fermi i suoi pilastri, in primis la liberazione delle donne, che non viene dopo, ma è fondamento.

La logica della guerra

Lungi dal pretendere una semplice trasposizione dai movimenti curdo e iraniano alla situazione palestinese, credo tuttavia che questi documenti e prese di posizione siano imprescindibili, nella misura in cui ci danno un’indicazione di metodo e ci aiutano a orientarci nell’identificazione dei problemi entro il regime di guerra. Il femminismo ha messo in luce in modo esemplare la genealogia e gli effetti della dicotomia tra privato e pubblico, suggerendoci di andare oltre per interrogare e pensare una riproduzione radicalmente altra di forme di vita.

Da questo punto di vista, una prospettiva femminista ci aiuta a tenere a mente che la guerra è basata su una logica di contrapposizione che obbliga allo schieramento rispetto a dimensioni statali, nazionali, utili tendenzialmente alla rideterminazione di fronti interni ed esterni, in cui a perdere sono sempre le stesse persone e a vincere sempre i processi di valorizzazione.

Il femminismo ci aiuta a rifiutare la logica di guerra, non solo perché sottolinea che le donne sono esposte a una violenza specifica e determinata in tutti i conflitti, ma perché mostra la funzione costitutiva di quella violenza, ricordandoci, ad esempio, che il simbolico femminile è un’arma di guerra. Mentre la partecipazione delle donne alle forze armate viene eletta a emblema dell’eguaglianza di genere, in Ucraina come in Israele, in Russia l’aborto è sotto attacco, con proposte di legge per vietarlo, elaborate a partire dai documenti della Chiesa ortodossa che esaltano la maternità come valore nazionale.

A Gaza, nel frattempo, stiamo assistendo ad un attacco frontale alla riproduzione, tanto che si parla di “genocidio riproduttivo”. Il colonialismo israeliano, d’altronde, è da sempre caratterizzato da una violenza specifica contro le donne palestinesi, che dipinge come oggetto di una violenza maschile solo islamica per giustificare le sue invasioni. Parallelamente, la fratellanza musulmana ha definito un modello di “donna islamica”, diventato tema di discussione tra le donne palestinesi, sulla spinta, ad esempio, della rilettura dei testi sacri[12].

Non si può negare il fatto che Hamas, mentre ricostruiva la struttura di welfare della striscia di Gaza (asili nido, ospedali) riempiendo uno spazio politico lasciato vacante da gruppi laici e socialisti[13], comprimeva le spinte laiche, i movimenti femministi, quelli studenteschi; che, mentre accoglieva la nascita del comitato femminile all’interno del Partito della salvezza, nel 2021 decideva che le donne non sposate possono viaggiare solo se accompagnate da un parente maschio, dal marito se sposate.

Violenze e legittimizzazioni epistemiche

A partire da questo quadro, credo si possano formulare alcuni problemi in forma interrogativa, compreso quello, non indifferente, della “legittimazione epistemica” e della “residualità” di chi lavora e studia in università[14]. Lo faccio ponendo due domande, che secondo me obbligano a discutere l’altro corno problematico della politica delle identità, il concetto di privilegio.

1) Avanzare una critica ad Hamas significa promuovere un ragionamento coloniale, occidentale, islamofobo? 2) In che modo si può articolare una riflessione in merito senza finire per rafforzare, paradossalmente, proprio un discorso coloniale che, dipingendo le donne palestinesi come vittime dell’Islam, rischia di tradursi in sostegno della colonizzazione israeliana?

Queste due domande nascondono due impliciti, entrambi problematici, perché rischiano di chiuderci in una prospettiva antinomica: o si considerano le donne palestinesi assumendo una prospettiva coloniale, che le vede vittime dell’Islam, oppure, all’opposto, si nega la doppia oppressione a cui le palestinesi resistono.

Per rispondere a queste domande e fare i conti con questi due impliciti, bisogna, a mio modo di vedere, interrogare la questione proprio seguendo le connessioni stabilite dai movimenti, assumerne il quadro epistemico, e tenendo conto dei flussi di valorizzazione, andando oltre la prospettiva geopolitica.

Il tutto partendo da un dato: non sto chiedendo alle donne palestinesi di agire in questa direzione, visto che hanno il problema di sopravvivere alla violenza genocida israelianaTuttavia – ed è questo il punto –, non si può nemmeno fare finta che non l’abbiano fatto nel passato, anche recentissimo. Penso in particolare al movimento Tal’at, che ha sviluppato una prospettiva femminista per la liberazione della Palestina, ricordando che l’aumentata violenza maschile all’interno della società palestinese ha anche una genesi coloniale. «Israele ha lavorato strategicamente per schiacciare e frammentare i palestinesi socialmente, politicamente ed economicamente.

L’eliminazione dell’azione collettiva delle comunità palestinesi va di pari passo con il rafforzamento delle strutture patriarcali delle unità di parentela»[15], che Israele usa a suo vantaggio, perché la denuncia della violenza domestica alle autorità israeliane rinforza l’idea che la violenza sia caratteristica della società palestinese[16].

Se si tiene conto di questo tipo di analisi, che sottolinea il rapporto tra dominio maschile e dominio coloniale, e riconosce l’esistenza di entrambi, senza negare l’uno e l’altro, si può, credo, avanzare un’ipotesi apparentemente paradossale e in parte provocatoria: se rimaniamo ferme a uno o all’altro implicito – se, ad esempio, mettiamo sotto il tappeto decenni di lotta femminista in Palestina[17], non rischiamo di riprodurre un’immagine orientalista delle donne palestinesi vittime?

Non possiamo dimenticare le lotte precedenti al 7 ottobre, contro la dominazione coloniale e la sua violenza, ma anche in contrapposizione con un impianto politico che ha modificato gli assetti categoriali e sociali di una popolazione tendenzialmente laica, come quella palestinese, e chedal punto di vista delle politiche di governo, come ha ricordato Siyâvash Shahabi, agisce come una «borghesia reazionaria»[18].

Contraddizioni e privilegi. Rompere il regime di blocchi concettuali   

A questo punto, credo che il problema si possa formulare in questi termini: si possono avanzare questi ragionamenti e interrogativi, e nel frattempo sostenere la liberazione del popolo palestinese? A mio modo di vedere sì: possiamo e dobbiamo chiedere il cessate il fuoco immediato a Gaza, denunciare le innumerevoli violazioni del diritto internazionale commesse da Israele negli ultimi 75 anni, mettere in discussione il paradigma sionista e sostenere il movimento di liberazione in Palestina.

Parallelamente, credo sia legittimo interrogarsi sulle prospettive future, tenendo conto della situazione politica nei territori occupati – il che significa mettere a tema il fallimento delle politiche di Fatah, dell’ANP, e di Hamas –, ma anche degli effetti che avranno le politiche di alleanze che vanno configurandosi e consolidandosi. Ricordando, parallelamente, che se la liberazione dovesse tradursi nella supremazia di un gruppo sugli altri sarebbe una liberazione per pochi, come insegna l’esempio iraniano.

Detto altrimenti, bisogna valutare quali contraddizioni si aprono, capire se sono davvero contraddizioni e decidere cosa ne facciamo. Possiamo nasconderle? Chi deve nasconderle ora sono le palestinesi e i palestinesi sotto le bombe israeliane. Cosa accade se noi, da una posizione che negli ultimi anni abbiamo definito di “privilegio”, facciamo lo stesso, magari considerando ogni popolo “arabo” (ma vale anche per il popolo israeliano) come un blocco unico, operazione epistemica tipicamente orientalista e coloniale?

Credo da questo punto di vista, si possa tenere a mente l’analisi proposta da Edward Said quasi vent’anni fa. Il 21 marzo 1996, l’intellettuale palestinese sottolineava che un dibattito risucchiato nella polarità noi/loro (che va di pari passo con civile/incivile) avrebbe finito per rafforzare i tratti nazionalisti e identitari, validando a contrario la «dichiarazione di guerra globale» formulata da Huntington con le sue tesi sullo “scontro di civiltà”[19].

Mi pare un’indicazione significativa, perché mette in luce i pericoli di una rigida politica delle identità: richiama costantemente l’importanza di una prospettiva storica di lunga durata, che ricostruisca il contesto (tema centrale anche nel dopo 7 ottobre), in quel caso della nascita di Hamas, per sgombrare il campo da letture unilaterali, incapaci di fare i conti con le responsabilità dell’occidente, ma pronte a ricondurre tutto, appunto, alla logica noi/loro. Parallelamente, e proprio in nome di questa critica, Said mette in guardia dal rovescio interno di questa prospettiva, che tende a consolidare processi di identificazione reazionari, che con quella logica sono del tutto compatibili.

Qui riemerge il tema centrale del punto di vista, della prospettiva: cosa significa produrre un’analisi femminista del sionismo come hanno fatto, tra le altre, le attiviste di Tal’at? Cosa ha significato e cosa significa ora, per le donne palestinesi che vivono e resistono in a una doppia oppressione, coloniale e patriarcale, immaginare e lottare per una liberazione femminista della Palestina? Cosa succederebbe se quella prospettiva venisse meno? Chi ne farebbe le spese?

In questo momento, credo che per evitare approcci da femminismo coloniale, o coerenti con cosiddetto femminismo sionista – per il quale «femminismo significa dare alle donne lo stesso diritto di uomini nel gestire il capitalismo, con il suo sfruttamento, l’occupazione e il razzismo»[20] –, sia utile riconoscere i molteplici modi in cui le donne e gli uomini palestinesi resistono all’invasione e alla violenza israeliana, come hanno sempre fatto, ed essere disponibili nel momento in cui volessero rivendicare, tramite la loro liberazione, la possibilità di una forma di vita diversa all’interno e per la società palestinese libera.

Chiudo con una breve considerazione sull’università, sul lavoro di ricerca e sulle lotte che, tessendo rapporti transnazionali, si sviluppano nel contesto universitario. Come sottolineato da Michele Lancione, smilitarizzare l’università significa inchiestare e opporsi al diretto rapporto istituzionale tra gli atenei, i dipartimenti e i complessi tecnologico-militari come Leonardo o Frontex, pretendere la chiusura degli accordi di committenza mascherati da accordi di ricerca, e che le cordate con gli apparati della difesa vengano cancellate dai pilastri per i finanziamenti europei alla ricerca.

Vuol dire anche, a mio modo di vedere, produrre un discorso critico che rifiuti la logica e il linguaggio di guerra, i blocchi concettuali e identitari, che si riconosca la capacità di convalidare epistemicamente l’opposizione alla guerra nella sua complessità. Bisogna muovere da ciò che si sta già dando, non per automatismo, ma perché le lotte di questi mesi, nei campus e nelle università, hanno prodotto spostamenti e prese di posizione. Perché queste ultime non si trasformino in schieramenti monolitici, e a loro volta identitari, è necessario assumere collettivamente la complessità come punto di partenza, interrogandoci costantemente sugli effetti dei discorsi che “produciamo” nelle università.

Questo articolo è stato pubblicato su globalproject l’8 giugno 2024.


[1] Cfr. M. Dalla Costa, Donne e sovversione sociale. Un metodo per il futuro (1975), OmbreCorte, 2021; S. Federici, Salario contro il lavoro domestico, Napoli, 1976.

[2] V. Gago, La potenza femministaO il desiderio di cambiare tutto, Capovolte, Alessandria, 2022.

[3] Sulle “operazioni” del capitale, S. Mezzadra, B. Neilson, Operazioni del capitale. Capitalismo contemporaneo tra sfruttamento ed estrazione, Manifestolibri, Roma, 2021.

[4] bell hooks, Elogio del margine, Tamu, Napoli, 2022.

[5] Rispetto a nuove prospettive internazionaliste, Sandro Mezzadra e Brett Neilson, Per un nuovo internazionalismo. Considerazioni preliminari, Euronomade 7 Aprile 2024

[6] Jin, Jiyan, Azadî come nella Palestina libera, Connessioni Precarie

[7] Nasvan: Un comitato segreto rivoluzionario per le donne iraniane, Connessioni Precarie

[8] Risolvere la questione palestinese, Globalproject 17 ottobre 2023

[9] Academy for Democratic Modernity, Opportunità e pericoli della terza guerra mondiale, Gennaio 2023.

[10] cfr. Istituto Andrea Wolf, Jin Jiyan Azadi. La rivoluzione delle donne in Kurdistan, Tamu, Napoli, 2022.

[11] Su questi aspetti Tommaso Baldo, Quale liberazione per la Palestina?, Globalproject 29 maggio 2024

[12] Cfr. I. Jad, Islamist Women of Hamas: Between Feminism and Nationalism, REMMM, 128, pp. 137-165.

[13] Cfr. P. Caridi, HamasDalla resistenza al regime, Feltrinelli, Milano, 2023. Sui diritti delle donne palestinesi in West Bank, cfr. M. Hattab & M. Abualrob, Under the Veil: Women’s economic and marriage Rights in Palestine, in «Humanities and Social Science Communications»,10/2023.

[14]Uso le espressioni richiamando il dibattito tra Gennaro Avallone, Valentina Ripa, Michele Lancione e Giso Amendola.

[15] Hala Marshood e Riya Alsanah, Tal’at: a feminist movement that is redefining liberation and reimagining Palestine, Mondoweiss 25 Febbraio 2020. Sul ruolo di Tal’at.

[16] The birds shall return: Imagining Palestinian feminist futurities, Briatpatch Magazine 4 Maggio 2022

[17] Cecilia Dalla Negra, L’8 Marzo e il movimento femminista palestinese, Orient XXI 8 Marzo 2021

[18] Francesco Brusa, La lotta palestinese vista dall’Iran e i rischi dell’islam politico, Dinamopress 4 Dicembre 2023

[19] E. Said, La campagna contro il «terrore islamico». 21 marzo 1996, in Fine del processo di pace. Palestina/Israele dopo Oslo, Feltrinelli, 2002.

[20] Con la definizione di R. Abdulhadi, S. Adely, A.Y. Davis, S. James, Confronting apartheid has everything to do with feminism, Mondoweiss 21 Marzo 2017.

Storie in pellicola – Ciné – Giornate di Cinema, Riccione 2-5 luglio

“Ciné – Giornate di Cinema”, la manifestazione estiva di networking e di aggiornamento professionale dell’industria cinematografica, si terrà dal 2 al 5 luglio al Palazzo dei Congressi di Riccione. Nutrito il programma.

Le convention

Dal 2 al 5 luglio, il programma business, riservato agli addetti ai lavori, si svolgerà al Palazzo dei Congressi con le convention di 01 Distribution, Bim, Eagle Pictures, I Wonder, Lucky Red, Medusa Film, Notorius Pictures, Piperfilm, Universal Pictures, Vision Distribution, Warner Bros. e The Walt Disney Company, a cui si aggiungono le presentazioni dei listini di Adler Entertainment, Europictures, Fandango, Officine Ubu, Plaion, Vertice 360 e Wanted Cinema.

I premi

In occasione di Ciné N.13, ANICA – Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive Digitali, festeggerà l’80° anniversario della propria fondazione, attraverso una serie di iniziative, tra cui il Premio ANICA 80, che fa il suo debutto proprio a Ciné e si svolgerà il 4 luglio.

Il Premio ANICA Mina Larocca, invece, verrà assegnato martedì 2 luglio e premierà una manager o un’imprenditrice del settore cinematografico, audiovisivo e digitale

Panel e convegni

Il programma btob della manifestazione si completa anche con ulteriori momenti di approfondimento e incontri professionali, come il consueto convegno, organizzato da Box Office, in programma nella giornata inaugurale, dal titolo Il pubblico in sala tra rivelazioni al box office, case history e scommesse per il futuro.

Ad arricchire il programma di Ciné, anche l’evento di lancio della seconda edizione LED – Leader Esercenti Donne, il programma di mentoring dedicato alle professioniste dell’esercizio cinematografico, ideato dall’ ANEC – Associazione Nazionale Esercenti Cinema.

Nella giornata di mercoledì 3 luglio ACEC – Associazione Cattolica Esercenti Cinema propone il panel Tra hype e critica cinematografica: le aspettative che spingono il box office. Il dibattito verterà sul ruolo dei critici e degli influencer, ma anche di quanto l’esercizio e la comunicazione alimentare un dibattito e la passione nel pubblico.

Agenda completa

Parole a capo /
Elisa Sansovino e le poete perse d’amor perduto

Elisa Sansovino e le poete perse d’amor perduto

Elisa Sansovino (eteronimo di Beppe Salvia, Potenza, 10 Ottobre 1954-Roma, 6 Aprile 1985). Poeta italiano

 Come le pennellate minuziose e maniacali di un pittore, le singole parole che compongono i versi di Beppe Salvia sono ossessivamente risolte come pixels intermittenti sul foglio o luminose infiorescenze primaverili che appena sbocciate subito rimandano all’autunno.
Lui stesso scrive in una pagina, quasi testamentaria, di Elemosine eleusine:

«…in mia vita ho scritto versi di quattro stagioni. inverno fu la prima, e dello scrivere nemico. venne dunque l’estate, d’Elisa Sansovino. e per la primavera un semplice e celeste quadernetto, cieli celesti suo poverissimo titolo. l’autunno ahimè io non l’ho scritto. perché, come per tutta la poesia grande, esso è l’implicito, sta dietro assai a tutti quanti i miei versi, nella mia vita vana».

Beppe Salvia fu conosciuto dal grande pubblico solo dopo la sua morte avvenuta nella vigilia di Pasqua del 1985 dopo un‘ultima occhiata al mondo. In quello stesso anno fu pubblicata una silloge poetica di una giovane poeta, Elisa Sansovino, dal titolo Estate, curata proprio da Beppe Salvia.

La raccolta, poco più di un quadernetto, recava al suo interno una foto della ragazza insieme a sue compagne di liceo: il curatore si premurava di informare che la silloge era già stata stampata privatamente nel 1949 in “cinquecento copie, legate in brossura e con la copertina di colore grigio”. Continuando questo gioco di rimandi, Salvia segnalava che nella fotografia, con in prima piano una motoretta  e quattro ragazze sedute sul sellino, Elisa era quella con il vestito bianco, la meno carina.

In effetti la raccolta a una prima lettura distratta restituisce la sensazione del diario in versi di un primo amore e, pertanto, la poesia risulta ingenua proprio come quella che ci si può attendere da un ragazzina. Poi, inoltrandosi più attentamente nei testi, si scopre un lessico capace di slanci e ricercatezze che denotano conoscenze ben superiori a quelle di un’adolescente.

Così in quel 1985 si scoprì un po’ alla volta che c’erano già stati altri componimenti poetici di Beppe Salvia sotto eteronimi femminili, come le poesie di Silvia Isola, fatta nascere nel 1962 e pubblicate nella rivista L’oca parlante. E Elisa Sansovino, Silvia Isola e altri eteronimi maschili, a poco a poco, cominciarono a restituire “l’identità” di un vero e nuovo Poeta.

Andrea Zanzotto fu uno dei primi a riconoscere e a definire l’identità di Beppe Salvia :

«…la sua poesia che ha una luce di giovinezza e di alba e nello stesso tempo qualcosa appunto di terribilmente teso  verso lontananze imprendibili, lascia una parola lacerata fra gli uomini e la volontà di prendere contatto con il “cuore” del mondo…[questa poesia] si è fatta subito notare per una straordinaria limpidezza dello spalancarsi di una potenza e di un’unità lirica. Tutto resta preso come in un abbraccio di una sconcertante luce, che da una parte sorregge e dall’altra , però, crea un inquietante sfondo di allontanamento».

Dopo queste parole, le poesie di Estate non solo non sembrano più scritte da una ragazzina di 16 anni ma neanche da un giovane uomo di 10 anni più vecchio di quella ragazzina.

Quelle poesie sembravano davvero essere scritte da un antico poeta cinese che come disse Attilio Bertolucci  guardava fuori, una delle sue ultime ore :

la sdraio a strisce piane
è accanto alla vetrata

e a quelle vane bande
colorate posa accanto

 smesso un abito sgargiante
bianco

Anche in questi versi ci pare di cogliere una luce di sillabe, e il ritocco maniacale delle parole, quasi di una loro disposizione su una tela.

Così come accade per i colori in un quadro di Pierre Bonnard, torna anche qui un’analoga sapienza per le sillabe, “una più vasta scienza”, agognata come un frutto infantile.  È la medesima arte, lo stesso sguardo sulla crescita naturale di colori e sillabe, di un mondo vasto e libero visto dalla terrazza di una  casa e il medesimo tentativo di cogliere la vita in ogni suo dettaglio. E torna quella fatidica impossibilità di contenere tutte le stagioni, quella necessità di dover osare maniacalmente la perfezione riconoscendo, in fondo,  che il cuore, è invaso da un segreto, una segregazione (un autunno) che uccide.

Pochi ricordano che Estate terminava con una poesia mancante nella prima edizione del 1949, quella di Elisa Sansovino, una poesia aggiunta da Beppe che nell’ultima occhiata dalla…terrazza duplica il gioco e lo rovescia.

Elisa/Beppe/Saggio Cinese dedica i suoi ultimi versi a un interlocutore lontano , oltre il quadro, oltre la pagina. Oltre:

vorrei darti conforto, 

ma mi mancasti prima e spesso io
ti cerco invano…

Questi versi versati non importa da chi sembrano diretti ora proprio a chi li ha versati; a chi, con i suoi colori, con le sue parole e con le sue maschere, intendeva celare il suo amore per la vita, alla morte. Riuscendoci per poco.

  

Helle Busacca (S. Piero Patti , Messina, 21 Dicembre 1915-Firenze, 15 Gennaio 1996).
Poeta, pittrice e narratrice italiana.

In un suo curriculum vitae del 1988 Helle Busacca scriveva: «La poesia è il culmine delle infinite stratificazioni che dal primo bang ci hanno creati come siamo: per questo, a memoria d’uomo, possiamo ritrovarci in essa. Dove non ci ritroviamo non c’è poesia».

La coscienza del contesto: questo è ciò che colpisce in queste parole. La poesia è dunque il risultato di un processo evolutivo che dal (primo) Big Bang ha portato alla creazione di specie viventi su un pianeta di un sistema solare remoto in una delle innumerevoli galassie di questo universo che non è forse il primo e né sarà l’ultimo. Anzi la poesia è proprio il culmine di questa evoluzione che conferisce all’uomo, o meglio, lo “costringe” (per la sua stessa natura) a una certezza potremmo dire di specie: quella di ritrovarsi, di conoscersi solo nella poesia e grazie ad essa.

Ma da ben altro bang, di più corte coordinate e scale temporali, è creata la poesia di Helle. Ed è in questo “universetto” e nel suo parlato “telefonico” che Helle continua a riconoscersi e ritrovarsi. Una particolare stratificazione della sua vita… le apparve così importante da non poter essere lasciata cadere nell’oblio: la scomparsa tragica del suo amatissimo fratello Aldo.

Non solo questa fu una dolorosa esperienza personale ma anche la scoperta che la poesia non è mai cosa soggettiva. Quanto più essa prende le mosse da eventi personali e privati, nascosti come se fossero i nodi del retro di un arazzo, tanto più sembra assumere una figura chiara e distinta sul fronte, una risultante necessaria ch’emerge dall’intrecciarsi di tutti i fili che compongono e guardano il mondo.

Da questo momento la sua opera si trasforma in una grande liturgia laica nella quale nodi mediterranei sottostanti

per lui i tappeti

chiari e le finestre piene di cielo

per lui sul terrazzo le azalee vive

e i crochi i voli

 

sorreggono e fanno emergere l’arazzo cosmico

Sì, credo che scrivo un poema

dopo undicimila anni forse è il momento

di inviare un messaggio verso le stelle

…scrivo un poema io donna

che scrive perché è stato assassinato un uomo

 

Come i canti di una commedia postmoderna, le sezioni del libro sono denominati Quanti quasi fossero icone di fenomeni energetici simultaneamente corpuscolari e ondulatori dove la certezza di fissare la qualità della parola si equilibra all’incertezza di catturare una quantità di pathos.

I Quanti dell’integrazione, quelli della rottura, della desolazione fino ai Quanti della discriminazione, del rifiuto e della visione, rappresentano i nodi retrostanti all’arazzo della vita del fratello Aldo, anzi di aldo (come lo fissa, con l’iniziale minuscola, sulla pagina) e quindi di tutti i fratelli. Ne deriva così una sorta di breviario laico che ricercando le tracce del fratello lo individua nella vittima sacrificale di un sistema ambiguo, competitivo/nepotistico, baronale/meritocratico insieme, come lo sono quello accademico e quello lavorativo che risolvono tutte queste ambiguità con gli stessi strumenti di sempre: la furbizia, il sopruso, la prevaricazione, le complicità familistiche e clientelari.

Helle ambienta la sua comedia sull’isola di Creta al lido di Mallia, noto rifugio dei “capelloni”. Tra questi ragazzi idealisti e pacifici lei canta il ricordo del suo amato fratello e dunque di ogni fratello annunciando la scomparsa di molte specie viventi tra le quali, appunto, homo. (Che dire dell’attualità del messaggio, oggi che sono i giovani a ricordare ai “grandi” i pericoli che incombono sugli ecosistemi non più in grado di sostenere – meglio: sopportare – l’umanità?).

Qui i giovani la interrogheranno su ogni specie scomparsa e alla fine le chiedono

aldo? come era?

Helle guarda con tenerezza quei giovani che non si avvedono della scomparsa dei pesci dal mare, degli uccelli dal cielo; che non si accorgono delle foreste che già venivano distrutte, dei mari e dei fiumi che venivano inquinati e si limiterà a rispondere:

Era l’Uomo. E l’Uomo era meraviglioso.

Quando lui c’era c’era anche Dio.    

 

Amelia Rosselli (Parigi, 28 marzo 1930 – Roma, 11 febbraio 1996).
Poeta, organista ed etnomusicologa italiana.

 Nel 1953, a soli trent’anni, Rocco Scotellaro, il poeta-contadino lucano, muore d’infarto.

Da quel momento “i suoi contadini”, come raccontato da Carlo Levi, avrebbero continuato, ogni sera e per altri dieci anni ancora, ad accendere un lumino di cera alle finestre del paese e delle campagne materane. Nel 1953 Amelia Rosselli ha 23 anni e aveva conosciuto Rocco tre anni prima. A 14 anni i fascisti le avevano ucciso il padre, Carlo, e lo zio, Nello e lei e Rocco si conobbero a bordo di un battello a Venezia,  proprio in occasione di un convegno sui fratelli Rosselli.

Tra i due scattò subito una forte intesa. Amelia dopo il rifiuto verso il mondo borghese delle città, ritrovò la sua libertà, grazie a Rocco, in Lucania. E fu proprio in questi tre anni che maturò il suo interesse etnologico. Tra lei che ancora non aveva scritto nulla e il “poeta-contadino” che già scriveva della sua terra e dei suoi affetti, si stabilì un legame fatto di richieste ed esigenze profonde.

Rocco cercava qualcuno al quale svelare la bellezza di un mondo arcaico e contadino fatto di umiltà, semplicità e stagionalità. Inoltre aveva un urgente bisogno di  ricevere stimoli e incoraggiamenti per la sua poesia del mondo ridotto, letteralmente, a terra. Amelia cercava un eden primitivo ed innocente dentro al quale sentirsi a casa, uno spazio rassicurante e protettivo. Entrambi, per motivi diversi, soffrivano di un male inestinguibile: sentirsi legati a radici certe, non  doversene allontanare e cantare in versi quel dilemma dell’erranza che si fa restanza, come dice l’antropologo Vito Teti, e della restanza che si fa esilio. Questi i motivi profondi della poesia e del senso delle loro vite.

Al funerale di Rocco, Amelia perse la memoria e fu rinchiusa in un manicomio in Svizzera, subì l’elettroshock, finché tornò in Italia e cominciò la sua attività poetica in lingua italiana.

Del mondo scriveva:

«è sottile e piano: / pochi elefanti vi girano, ottusi».

Con la morte di Rocco, Amelia inizia a identificarsi con lui, esattamente come successe anni prima quando morì sua madre, e lei cominciò a farsi chiamare Marion. È proprio da questa identificazione che nasce Cantilena (poesie per Rocco Scotellaro), i primi testi della Rosselli in italiano, che fino a quel momento aveva scritto e “cantato” in inglese e in francese. Grazie all’amore per Rocco, quindi, Amelia “cantò” l’italiano per la prima volta.

Questa è la cantilena d’amore e morte per Rocco

Dopo che la luna fu immediatamente calata

ti presi tra le braccia, morto

Un Cristo piccolino

a cui m’inchino

non crocefisso ma dolcemente abbandonato

disincantato

Come un lago nella memoria

i nostri incontri

come un’ombra appena

il tuo volto affilato

un’arpa la tua voce

e le mani suonano

tamburelli

Sposo nel cielo

ti ho tutto circondato

ma sei tu che comandi

e sono tua sposa d’infanzia

sposa trasparente

Poi si gonfierà

il sacco delle lacrime

ma non si spillerà

lo metterò in un vasetto

greco-latino

me lo porterò a casa

trionfante elefante di pena

Tu salito nella bruma

ti vedo lontano che ti aggiri

consigliando

che ne è di me e di te ora dopo la morte

tu, sui colli

Lasciatemi

ho il battito al cuore

donna a cavallo di galli e di maiali

Rocco vestito di perla

come il grigiore dei colli vicino al tuo paese

mostrami la via che conduce

non so dove

nuovo anno

arrivi

teneramente

ossequioso

 

Cristina Campo (pseudonimo di Vittoria Maria Angelica Marcella Cristina Guerrini, Bologna, 28 aprile 1923 – Roma, 10 gennaio 1977).
Poeta, scrittrice e traduttrice italiana.

È un fatto: alcune volte Dio ci sembra molto lontano, anzi come aveva ”bestemmiato” Giobbe, ci appare come un nemico, una…tigre mimetizzata tra l’erba alta della jungla in attesa di assalirci e dilaniarci attraverso la sofferenza e la prova. Quanto evidente risulta questo fatto, oggi, in un’epoca ancora di peste e guerre!

Oh quanto ci sei duro

Maestro e Signore!

Con quanti denti il tuo amore

ci morde…

Così scriveva Cristina Campo, poetessa morta nel 1977 che visse tutta la sua vita con un distacco e una discrezione quasi eremitici. Fu lei stessa a scrivere di sé in un risvolto di copertina:

«Ha scritto poco e vorrebbe aver scritto ancora meno».

Il suo vero nome era un altro ma volle chiamarsi cristina da Cristo, suo segreto e profondo amore, e campo così evocativo del Signore che lavora la terra per vederla fiorire di tutti i suoi frutti. Una donna apparentemente mistica e appartenente a un’epoca medievale ma che nella realtà fu traduttrice, scrittrice e poetessa inafferrabile, di salute cagionevole ma di mente raffinatissima , dalle letture vastissime  e profonda conoscitrice  di tradizioni sapienziali ed esoteriche. Per tutto questo annotò tra le sue frasi preferite il detto di Pascal:

«Un po’ di sapere può allontanare da Dio, ma molto sapere vi può ricondurre».

Incontrare l’Amore può essere drammatico e a volte può comportare tanta sofferenza e lacerazione come dice nel suo frammento Cristina. I denti e gli artigli di questa “tigre” ci mordono, ci lacerano nell’intimo e ci fanno sanguinare ma ecco che l’Amore stesso disvela il mistero del Suo assalto: quei denti e quegli artigli hanno la capacità di ferire e di baciare:

con quanti denti il tuo amore ci morde…

E dunque l’immagine acquista un valore sorprendente lasciando intravvedere (meglio sarebbe dire : infrasentire) fra dolore, ferite e ostilità, il loro controcanto: l’ebrezza di un abbraccio, la pace ritrovata, l’intimità di una certezza.

Bisogna continuare a cercare nei morsi del dolore e tra il sangue delle ferite i segni di un senso dell’Amore, del progetto che Dio ha su ognuno di noi. Bisogna cioè sforzarsi di comprendere il significato delle beatitudini  (Beati i poveri…gli afflitti…gli affamati…i perseguitati…).

Il piccolissimo corpus poetico campiano è costituito da: 11 composizioni che videro la luce presso Scheiwiller nel 1956 nella sola raccolta, Passo d’addio, pubblicata dall’autrice; 6 poesie recuperate dal quadernetto che Cristina inviò all’amica Margherita Pieracci Harwell, quale dono per il Natale del 1954 più 11 testi che formano la sezione delle poesie sparse.

Passo d’addio è un canzoniere delicatamente strutturato secondo una calcolata architettura “quasi” perfetta. La raccolta è imperniata sulla misura temporale dell’anno e del suo ritorno al punto di partenza,  al termine del dodicesimo mese. Le 11 composizioni sono dunque una voluta approssimazione per difetto della…perfezione costituita dai 12 mesi.

Ogni lirica appare come un…passo di avvicinamento al congedo finale: non si dimentichi che il passo d’addio è una prova di danza che un’allieva esegue per le altre allieve al termine del loro percorso comune.

Congedarsi significa preparare la propria anima, il “tu”, all’incontro con il proprio Amore: il Tu. E lo si deve fare intrecciando il filo tematico dell’addio con quello temporale che è insieme esterno e interiore. Così attraverso un cammino avviato in sordina e nascosto sotto una semplice poesia di fine estate si giunge alla richiesta di una folgorazione sulla via di Damasco e all’epilogo finale. Il passo… d’avvìo.

(X)

E la mia valle rosata dagli uliveti

e la città intricata dei miei amor

siano richiuse come breve palmo,

il mio palmo segnato da tutte le mie morti.

 

O Medio Oriente disteso dalla sua voce,

voglio destarmi sulla via di Damasco –

né mai lo sguardo aver levato a un cielo

altro dal suo, da tanta gioia in croce.

 

(XI)

Devota come ramo

curvato da molte nevi

allegra come falò

per colline d’oblio.

 

Su acutissime lame

in bianca lama d’ortiche,

ti insegnerò, mia anima,

questo passo d’addio…

 

Sitografia

http://www.lamacchinasognante.com/versi-di-tre-stagioni-sulla-poesia-di-beppe-salvia-giuseppe-ferrara/

https://www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/bio_busacca.htm

https://biografieonline.it/biografia-amelia-rosselli

http://www.cristinacampo.it/

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Firmare oggi per il Referendum 2025 per il Lavoro:
intervista alla politologa Nadia Urbinati

Firmare oggi per il Referendum 2025 per il Lavoro: intervista alla politologa Nadia Urbinati

di Patrizia Pallara
pubblicato da Collettiva del 11 giugno 2024


Che tipo di confusione si potrebbe creare, professoressa?

Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali possono essere sottoposte a referendum se si verificano determinate condizioni stabilite dalla legge. In tal caso, per la validità della consultazione non è richiesto un quorum minimo di votanti. Per la validità della consultazione popolare proposta dalla Cgil, invece, è necessario che vada alle urne la metà degli aventi diritto al voto più uno. Ecco, questo può creare confusione. I cittadini potrebbero pensare che andare o meno a votare non faccia differenza, mentre non sarebbe così.

Secondo lei bisogna comunque metterci la firma, giusto?

Certo! Nonostante i dubbi sulla tempistica, questi referendum sul lavoro sono sacrosanti: mettere i lavoratori in condizioni di maggiore tutela è una questione straordinariamente importante. Metterci la firma oggi e andare a votare domani. Il numero delle firme raccolte darà l’indicazione della partecipazione e al tempo stesso dello scontento dei cittadini.

È anche vero che in alcuni casi, anche per referendum che hanno registrato una grande partecipazione al voto, la volontà del popolo non è stata rispettata.

Sì, c’è anche questo rischio. Prenda il referendum sull’acqua pubblica, nonostante la vittoria dei proponenti il legislatore non ne ha tenuto conto. Questo naturalmente fa radicare nei cittadini l’idea che lo strumento sia inutile, che loro stessi non abbiano potere, con il risultato che non vanno a votare, come avviene per le elezioni. Questo non è un bel segnale, è un tassello in più di erosione della funzionalità degli strumenti di decisione politica.

Il lavoro e le condizioni di lavoro, che sono al centro dei quesiti della Cgil, sono questioni che riguardano tutti, vecchi e giovani, dipendenti e autonomi. Quanto è sentito secondo lei il tema?

Ci sono due aspetti da considerare. Il lavoro ha una funzione fondamentale per gli esseri umani, lavoriamo anche quando crediamo di non farlo, nel vivere quotidiano. Il lavoro è associato al sacrificio e anche alla sofferenza, ma dall’altro lato ci dà soddisfazione, ci arricchisce e valorizza la nostra creatività perché consente la realizzazione di piani e progetti.

Il lavoro ha quindi caratteristiche opposte, ma le società democratiche moderne hanno voluto attribuirgli una valenza politica e sociale: è condizione di emancipazione e ci consente una vita libera e dignitosa se non è sfruttamento. Per chi è partita Iva il lavoro è essenzialmente un mezzo di guadagno, uno strumento per portare a casa qualche soldo, ma è svincolato dai progetti di vita. È un problema culturale e politico che il sindacato dovrebbe affrontare. Ma è un’impresa titanica.

E il secondo aspetto qual è?

Sono passati i tempi in cui le grandi politiche industriali le facevano i governi, in cui c’era un’industria nazionale e il lavoro era inteso come occupazione stabile, con contratto a tempo indeterminato, e aveva un valore e una potenza. Tutto è cambiato e le responsabilità sono a destra come a sinistra. Oggi il lavoro è sempre più percepito come una condizione di necessità per sopravvivere; è sempre meno assicurato dalla progettualità politica e sempre più un esito delle scelte di mercato, le cui regole assomigliano a leggi naturali come quelle della fisica.

Inoltre dalla fine del Novecento si è generata la convinzione che i governi possano fare ben poco nella progettazione delle politiche economiche, perché queste sono legate più ai flussi globali e internazionali che agli stessi Paesi. In questo contesto l’Europa unita ha dimostrato di avere funzioni antitrust e regolative. È un’ottima cosa che ci sia, ma è la prova che la sovranità degli Stati ha molto meno potere che in passato, se non associata in entità sovrannazionali.

E poi c’è la questione della salute e della sicurezza sul lavoro, su cui il quarto quesito della Cgil prova a mettere un paletto.

Il lavoro non dovrebbe essere sofferenza pura né dovrebbe mettere a rischio la vita di nessuno. Se succede è un campanello di allarme, significa che la società è meno democratica e che c’è più attenzione agli interessi di una parte. Non si può usare il lavoro come strumento per arricchire qualcuno al di là della sicurezza, non si possono ridurre i costi al massimo per espandere i profitti come accade nelle attività di subappalto. Su questo e sul lavoro, destra e sinistra devono dimostrare la loro distanza e differenza.

Cover: immagine da Facebook Cgil Roma Lazio 

Quello che non si può dire: perché l’eolico in appennino non salverà il pianeta

Quello che non si può dire: perché l’eolico in appennino non salverà il pianeta

Già, proprio così, spesso la voce della scienza, quella di ricerca e di studio “serio e senza padroni” nel nostro Paese, spesso e volentieri viene imbavagliata. Se già in Italia abbiamo grossi problemi di trasparenza nelle amministrazioni pubbliche, contiamo decine e decine di giornalisti “embeddeb” cioè incastrati (QUI), che anche in tempo di pace devono soddisfare la linea politica degli editori delle testate e dei media di cui sono a libro paga, anche chi lavora negli enti di ricerca e di controllo, in particolare in materia di problemi e di danni ambientali, sempre più frequentemente è sottoposto al ricatto tra la carriera o addirittura il rischio di perdere il posto di lavoro e la veridicità dei dati, la completezza e l’onestà delle ricerche e delle informazioni. E chi scrive si è scontrata spesso con questo problema e ne ha viste le conseguenze direttamente.  Insomma, lo sappiamo tutti ma non lo possiamo dire: non bisogna disturbare il manovratore, tanto più potente è, tanto meno tollera versioni che contrastano il proprio interesse. Certamente questo è un bel limite alla libertà e all’onestà intellettuale!

Con grande coraggio e consapevolezza della situazione e dei problemi esistenti l‘Associazione Italia Nostra appoggia e diffonde la nota di un gruppo di ingegneri energetici, che  preferisce mantenere l’incognito,  e ci dà l’opportunità di divulgare le informazioni e i dati in essa contenuti, con cui i ricercatori e studiosi dei problemi energetici del nostro Paese ci spiegano “PERCHÉ L’EOLICO SULL’APPENNINO – e a maggior ragione in qualsiasi altro ambiente italiano – NON SALVERÀ IL PIANETA” facendo piazza pulita delle mistificazioni e falsità di chi difende senza se e senza ma l’industria eolica come energia rinnovabile.

L’ITALIA E’ IRRILEVANTE

I promotori degli impianti eolici sulle montagne del nostro Appennino dicono che serve a “salvare il pianeta” e che bisogna fare in fretta perché “non c’è più tempo”. Lo scopo di questa nota è dimostrare, con dati certi e verificabili, che gli impianti eolici non salveranno un bel niente. L’Italia è  in realtà irrilevante rispetto al Pianeta. I cambiamenti climatici sono un’emergenza globale, che riguarda tutto il pianeta. Ricordiamoci sempre che l’Italia da sola può fare ben poco. Ovviamente questo non significa che non dobbiamo fare nulla, ma è importante essere sempre consapevoli delle reali dimensioni del problema. I consumi energetici dell’Italia (e le conseguenti emissioni di CO2) ammontano ad un misero 0,97% del totale mondiale. L’intera Europa non arriva al 9% dei consumi energetici mondiali.
Se per magia oggi stesso l’Italia o anche l’Europa diventasse 100% rinnovabile, il pianeta non se ne accorgerebbe neanche! Quindi tranquilli: non sarà l’opposizione contro l’eolico in Appennino – o nelle altre sub regioni della nostra Toscana – a condannare il pianeta: possono anche riempire l’Italia di pale eoliche e non cambierà nulla.
Però qualcuno potrebbe obiettare: noi dobbiamo comunque fare la nostra parte! D’accordo, allora continuiamo il ragionamento per dimostrare che gli impianti eolici sono inutili anche a fare la nostra misera piccola parte.

QUANTO CONTRIBUISCE L’EOLICO A SODDISFARE IL FABBISOGNO ENERGETICO ITALIANO?

I dati di Terna ci dicono che l’eolico ha prodotto il 7,4% dell’energia elettrica consumata in Italia nel 2022. Attenzione, qui c’è un trucco da smascherare subito! I promotori dell’eolico giocano a confondere il fabbisogno di energia elettrica con il fabbisogno di energia totale, facendoci credere che il consumo di energia elettrica corrisponda al consumo totale. Non è così!!! Spieghiamo bene questo punto fondamentale (non è difficile, ma non lo chiarisce mai nessuno): l’energia complessivamente viene utilizzata in DUE diverse forme: energia elettrica ed energia termica. Con energia termica intendiamo il CALORE e in generale qualsiasi uso dei combustibili (quindi anche benzina e gasolio per i trasporti).
Ebbene, il bilancio energetico nazionale ci dice chiaramente che la ripartizione tra energia elettrica ed energia termica negli usi finali dell’energia è circa 20%-80%, cioè l’energia elettrica è SOLO IL 20% DEL TOTALE! Precisamente, in Italia, nel 2022 la percentuale di energia elettrica, rispetto all’energia totale consumata, è stata del 22,7% (dati Terna).

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Fabbisogno percentuale di energia termica ed elettrica sul totale in Italia e frazione dell’energia eolica sulla frazione elettrica

Come sappiamo, gli impianti eolici producono solo energia elettrica. Questo ridimensiona moltissimo il contributo dell’eolico nel soddisfare il fabbisogno energetico italiano: se consideriamo il totale dell’energia consumata (elettrica + termica), il contributo dell’eolico si ottiene moltiplicando le due percentuali appena viste, cioè 7,4% x 22,7% = 1,45%.

In conclusione, tutte le migliaia di pale eoliche oggi sparse soprattutto nel sud Italia, contribuiscono a soddisfare solo un misero 1,45% del fabbisogno energetico italiano! Il previsto raddoppio degli impianti eolici in Italia otterrà, quindi, come risultato che passeremo dall’attuale 1,45% a circa il 3%. In pratica non cambierà quasi nulla. E ricordiamo che gli impianti eolici attualmente in funzione sono situati nelle aree più ventose, mentre oggi si punta ad occupare anche le aree con vento scarso, come l’Appennino – o le basse colline e le pianure della Maremma –, con conseguente calo della produttività.

QUANTO CONTRIBUISCE L’ITALIA NELLA LOTTA AI CAMBIAMENTI CLIMATICI?

Dato che i cambiamenti climatici sono un problema mondiale, possiamo continuare questo giochino delle percentuali per calcolare quanto contribuisce, oggi, l’eolico italiano alla lotta ai cambiamenti climatici. Se oggi l’eolico soddisfa l’1,45% del fabbisogno energetico italiano, e l’Italia consuma lo 0,97% dei consumi mondiali, possiamo dire che l’eolico italiano contribuisce a soddisfare lo 0,014% dei consumi energetici mondiali, cioè una parte su settemila (infatti: 1,45% x 0,97% = 0,014%). Ma in realtà il contributo è ancora più basso: le statistiche ci dicono che le emissioni di CO2 non dipendono solo dalla produzione di energia, ma anche da altre attività umane (agricoltura, allevamenti, rifiuti, ecc.). Precisamente il contributo del settore energia alle emissioni di CO2 in Europa è circa del 77% (dati Eurostat). Perciò, possiamo dire che l’eolico italiano contribuisce a ridurre le emissioni mondiali di CO2 dello 0,01%, cioè una parte su diecimila (infatti: 0,014% x 77% = 0,01%).
Evitiamo, per carità di Patria, di calcolare quanto sarebbe modesto il contributo di un impianto eolico situato sul nostro Appennino, sarebbe una lunghissima sequenza di zeri dopo la virgola. Con questo non vogliamo dire che le rinnovabili siano inutili, possono avere un’importanza locale a certe condizioni. Vogliamo solo ribadire di pensarci bene prima di distruggere la natura delle nostre montagne, visto il risultato così misero che se ne ottiene in cambio.

RICORDIAMOCI CHE IN APPENNINO NON C’E’ VENTO!

Per renderci conto della bassa ventosità dell’Appennino possiamo ricorrere alle mappe della ventosità dell’European Wind Atlas, dalle quali si vede chiaramente che la ventosità è molto scarsa sull’Appennino (siamo nella zona 1 su una scala di 5), ma anche le altre regioni più ventose d’Italia (Sud e isole) sono molto meno ventose rispetto all’Europa settentrionale e occidentale.
Nella prima versione cartacea dello European Wind Atlas erano riportati dati di ventosità di varie località europee e italiane, ma non erano neanche prese in considerazione le località dell’Appennino centro-settentrionale, considerate improduttive ai fini delle installazioni eoliche. (QUI)

European Wind Atlas: mappa di ventosità dell’Europa

Osservando la mappa, ci si rende conto facilmente che nel ventoso Nord Europa (Danimarca, Scozia, Irlanda, ecc.) la produttività di un impianto eolico è quasi doppia rispetto all’Italia. In pratica, la stessa pala eolica che si vorrebbe piantare sull’Appennino, se piantata in Danimarca produrrebbe circa il doppio di energia (nell’unità di tempo n.d.r.)! E siccome per costruire impianti eolici si utilizzano energia e materie prime preziose, sarebbe logico, allo scopo di “salvare il pianeta” (visto che il problema climatico è globale) impiegare al meglio gli impianti, cioè installarli solo dove producono di più.
E allora, ci si chiede: perché le aziende vengono ad investire da noi anziché andare in Danimarca? Perché sanno che in Italia guadagnano di più: c’è Pantalone che paga incentivi, si assume tutti i rischi, fa investimenti sulla rete elettrica, i politici spesso sono facili da convincere. Evidentemente i danesi, gli scozzesi, gli irlandesi sono più furbi.
Ricordiamo che in alcuni Paesi (Germania, Olanda) da qualche anno si realizzano impianti eolici senza incentivi pubblici. E alcune imprese in quei Paesi hanno rinunciato ad investire nell’eolico perché giudicato poco remunerativo. Se in Italia non ci fossero gli incentivi pagati dai cittadini non verrebbe proprio nessuno ad investire. È un mercato drogato.

IL TRUCCO DELL’ENERGIA DELLE FAMIGLIE

Un altro trucchetto utilizzato spesso dai promotori dell’eolico (non solo in Italia per la verità, anzi il copyright è del Nord Europa) è rapportare la produzione di energia elettrica al fabbisogno delle famiglie. Non c’è nulla di inesatto, intendiamoci: si considera la produzione dell’impianto eolico e si fa il rapporto con il consumo elettrico medio di una famiglia italiana (2700 kWh/anno, secondo Terna). Però l’affermazione si presta a fraintendimenti che è bene chiarire.  Si dice, ad esempio: “l’impianto eolico produrrà energia elettrica in misura tale da soddisfare i consumi elettrici di circa 30 mila famiglie”. Se in una certa area abitano 30 mila famiglie, un ingenuo potrebbe pensare che l’impianto eolico sia in grado di risolvere tutti i problemi energetici della zona interessata. A parte il fatto (già spiegato) che i consumi elettrici sono solo il 20% dei consumi totali (quindi, semmai, sarebbe risolto solo il 20% del problema), bisogna sapere che i consumi elettrici in una certa area geografica non sono dati solo dai consumi domestici, ma soprattutto da tutti gli altri servizi (industrie, attività commerciali, scuole, ospedali, uffici pubblici, illuminazione, ecc.).

I consumi elettrici domestici (dati Terna, 2022) sono solo il 21,8% dei consumi elettrici totali. Quindi un impianto eolico che fornisce energia elettrica corrispondente al fabbisogno di 30 mila famiglie, fornisce solo un quinto dell’energia elettrica necessaria e un venticinquesimo (cioè, il 4%) dell’energia totale necessaria, elettrica + termica.

LE PALE EOLICHE NON SONO RICICLABILI

Le pale eoliche sono realizzate quasi sempre in materiale composito, costituito da fibra di vetro e resine epossidiche, praticamente impossibile da riciclare. Hanno una vita utile di 20-25 anni, dopo devono essere
sostituite e smaltite. Ovviamente l’industria sta cercando di trovare un modo per riciclarle, ma per il momento non sembra aver trovato una soluzione fattibile;  non dimentichiamo mai che per riciclare dobbiamo consumare energia, il che riduce ulteriormente la convenienza dell’eolico ai fini della salvaguardia del pianeta.
Oggi le pale eoliche finiscono in discarica. Considerando che ogni pala può essere lunga 60 metri o più, e che in ogni torre ne sono presenti TRE, ci si rende facilmente conto della quantità enorme di materiale da smaltire. Ogni pala equivale in pratica a smaltire un megayacht, che più o meno è fatto dello stesso materiale.
Qualcuno ha proposto anche di realizzare le pale eoliche in legno lamellare, ma, viste le dimensioni, significherebbe abbattere alberi in quantità. Abbattere alberi per difendere l’ambiente, vi sembra una buona soluzione?

Cimitero di pale eoliche negli USA

UCCELLI A FETTE

La velocità periferica dell’estremità di una pala eolica in movimento può arrivare a 300 km/h: facile capire che i poveri uccelli possono essere colpiti e uccisi. Come documentato in Germania dall’associazione CABS (Komitee gegen den Vogelmord), l’impatto sull’avifauna è notevole, e i dati sulle uccisioni sono fortemente sottostimati perché gli imprenditori dell’eolico tendono a nascondere i dati (se trovano un rapace morto non vanno certo a raccontarlo in giro). Ovviamente l’impatto è molto più pesante se l’impianto eolico è situato in una zona ricca di biodiversità.
Alcuni stanno tentando di ridurre la mortalità degli uccelli attraverso dissuasori acustici. Quindi aggiungendo altro rumore e fastidio a quello che già c’è, e che non è affatto basso.

da documenti della General Electric (industria americana che produce impianti eolici): quanto rumore produce una turbina elettrica e a quanti metri di distanza si diffonde

La potenza sonora emessa dagli impianti, dichiarata dagli stessi costruttori (si vedano ad esempio le schede tecniche della dita Vestas), è di circa 105 dB (decibel). Ovviamente il rumore diminuisce allontanandosi dall’impianto, ma a 500 metri di distanza rimane comunque alto: 40 dB (rumore di un frigorifero). Si veda l’immagine seguente realizzata dalla General Electric (industria americana che produce impianti eolici, quindi non
certo degli attivisti anti-eolico): oltre a riportare i livelli di rumore che abbiamo detto, si raccomanda di non installare impianti eolici a meno di 300 metri dalle abitazioni più vicine, per limitare il disturbo da rumore alle persone (ovviamente, agli animali non pensa nessuno).
Gli uccelli, che volano anche in vicinanza delle pale, si troveranno quindi esposti a rumori fino a 105 dB, laddove in precedenza regnava il silenzio della natura. Non vi sembra un impatto ambientale questo? Come afferma l’ARPAT Toscana (QUI) un rumore di 105 dB è veramente assordante: una via di mezzo tra un concerto rock e il passaggio di un treno. Anche 40 dB non sono pochi, un ronzio in grado di causare nell’uomo “possibile deconcentrazione” (ricordiamo che dovremmo trovarci in aperta campagna).

Tabella dei rumori di ARPAT

QUALI RINNOVABILI?

Le fonti rinnovabili sono preziose e vanno utilizzate con intelligenza. Queste fonti si basano sull’utilizzo delle risorse naturali locali (sole, vento, acqua, calore della terra) e ogni Paese deve sfruttare le risorse di cui dispone maggiormente.
Questo discorso vale anche per l’eolico. Nei Paesi in cui la ventosità è abbondante e costante (come i Paesi del Nord Europa) è giusto che questa risorsa venga sfruttata a pieno. Ma tra questi Paesi non c’è l’Italia. Da noi, come abbiamo visto, il vento è scarso quasi ovunque, le uniche regioni con ventosità decente sono già ampiamente sfruttate e da questo sfruttamento ricaviamo un misero 1,45% dell’energia che ci serve. Invece in Italia abbiamo disponibilità di sole in abbondanza, in alcune aree è possibile sfruttare la geotermia e l’idroelettrico, altre zone hanno disponibilità di biomassa da utilizzare localmente.

Il fotovoltaico ha ancora enormi potenzialità di sviluppo in aree urbanizzate: coperture di edifici, aree industriali, parcheggi, autostrade e ferrovie, ecc., evitando assolutamente di occupare aree agricole, come dimostrano parecchi studi. Altra fonte che presenta grandi possibilità di sfruttamento è il solare termico, oggi utilizzato pochissimo.

Poi non si parla mai della fonte rinnovabile più importante: il risparmio energetico. Avete mai sentito i promotori dell’eolico proporre qualcosa di concreto per ridurre gli sprechi di energia?
Ricordiamo poi che l’eolico è la fonte rinnovabile con maggiore impatto ambientale (sarebbe meglio dire con maggiore impatto naturalistico). Infatti, a differenza di altre rinnovabili, l’eolico deve essere installato inevitabilmente lontano dalle aree abitate, perché gli impianti sono ingombranti, rumorosi, creano interferenze
elettromagnetiche. Ma le aree disabitate sono spesso anche le aree di maggior pregio naturalistico. Quindi un impianto eolico va sempre ad alterare un’area che in precedenza non era urbanizzata.

Un impianto eolico è alto come un grattacielo di 50 piani (e  gli ultimi modelli di pale molto di più, in quanto raggiungono i 230 m di altezza n.d.r.). Nessuna legge urbanistica permetterebbe la costruzione di un ecomostro di 50 piani  in un’area disabitata di pregio naturalistico. Eppure, con gli impianti eolici questo è possibile, perché “dobbiamo salvare il pianeta”.

Con questa nota abbiamo voluto dimostrare come tale giustificazione non stia in piedi. Le informazioni sono tratte dalle seguenti fonti ufficiali:

Consumi energetici in Italia, Europa e mondo (statistiche Eurostat e International Energy Agency) :
htps://ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/nrg_bal_c__custom_11634672/default/table?lang=en

https://www.iea.org/data-and-statistics/data-tools/energy-statistics-data-browser?country=WORLD&fuel=Energy%20consumption&indicator=TFCbySource

Bilancio elettrico italiano 2022 (Terna):

https://www.terna.it/it/sistema-elettrico/transparency-report/energy-balance

htps://download.terna.it/terna/ANNUARIO%20STATISTICO%202022_8dbd4774c25facd.pdf

Bilancio energetico italiano 2022 (MASE):

Emissioni di gas serra per settori in UE (Parlamento Europeo):
https://www.europarl.europa.eu/resources/library/images/20211026PHT15878/20211026PHT15878_original.jpg

In copertina: un disegno di Annette Seipp

Per leggere tutti gli articoli di Marina Carli, clicca sul suo nome

C’era una volta un’idea di Europa

C’era una volta un’idea di Europa

L’Europa dei 6 paesi fondatori è stato un grande sogno per intere generazioni, dopo due guerre mondiali fratricide. Un’ Europa che è stata trainata sin dalle origini dalla Germania (pur sconfitta nella seconda guerra mondiale) e a cui gli americani avevano imposto il federalismo, con l’idea di indebolirla come entità unica statuale. Invece è diventata la leader in Europa e finché aveva come primo ministro Angela Merkel ambiva a diventare un polo mondiale autonomo tra Cina e Usa.

Agli americani un’ Europa autonoma non è mai piaciuta. La prima bastonata all’idea di Europa dei padri fondatori è arrivata con la sua nascita monca: moneta e mercato comune, nessuna ambizione statuale comune, nessuna politica estera e difesa comune. Nonostante ciò, l’Europa è cresciuta tantissimo dal 2001 al 2008, “troppo”, al punto che il cambio con l’euro da paritario era diventato 1 a 1,15 a suo favore. Così è arrivata la seconda bastonata, con la crisi dei mutui subprime made in Usa nel 2008 che ci riporta nei ranghi, compreso il cambio dollaro-euro a 1:1.  Malgrado questo,  l’Europa cerca, almeno finchè non esce di scena la Merkel, di rimanere attaccata all’idea originaria di un polo autonomo nel mondo e, come tale, dialogante con la vicina Russia.

Pur alleata degli Stati Uniti, quell’ Europa a trazione tedesca aveva capito che il secolo americano stava tramontando, che era intelligente e utile fare accordi con Russia, Cina (e Brics) per andare verso un secolo XXI che appariva sempre più multilaterale e in cui l’Europa si sarebbe potuta affermare come un “polo” mondiale in virtù non del suo potere militare (che non aveva), ma in virtù della sua civiltà, del suo modello sociale con al centro il welfare e i diritti, mentre potenti e ricchi sono interessati ai soldi, ai mercati, alla globalizzazione, alla finanza come regolatore dell’economia.

L’Europa, già nata “sbagliata” in funzione esclusivamente di moneta e mercati, commette un primo errore nel 2004, allargandosi a 100 milioni di lavoratori dei paesi dell’Est per smania di conquistare nuovi mercati (spinta dagli americani) e sedotta dalla legge dell’euro e dei mercati su cui si concentra, lasciando perdere la sua costruzione come entità politica autonoma nel mondo. Una scelta a favore dei mercati ma in cui finiscono impoveriti i lavoratori del Sud Europa (italiani, greci, spagnoli, portoghesi). L’alternativa? Bastava fare “accordi di associazione” con questi Paesi, invece si è voluto scientemente allargarsi sia per avere più mercati, sia per diluire il potere dei vecchi fondatori, arrivando sin alle frontiere della Russia e così di fatto provocandola.

Nel 2011 il secondo grave errore, seguire la folle idea dei vincitori della seconda guerra mondiale (Usa, Francia, Gran Bretagna) di distruggere il regime di Gheddafi, il maggiore alleato dell’Italia nel Mediterraneo, fornitore di gas, petrolio, a guardia della Sponda Sud, che soltanto sei mesi prima avevamo ricevuto a Roma in pompa magna, che aveva sviluppato come una Svizzera africana il suo paese e aveva in mente una grande alleanza dei paesi nord africani, includente l’idea di una moneta unica. Un progetto che a Italia e Germania andava benissimo e che li avrebbe rafforzati in futuro. Ma ci è stato ricordato che, essendo paesi sconfitti, abbiamo l’obbligo di seguire i vincitori e siamo, pertanto, a sovranità limitata, come già era successo nel 1999 con il bombardamento degli Stati Uniti a Belgrado e la guerra nei Balcani (condannata dall’Onu).

Ora gli italiani, disinformati dai media, credono di essere “neutrali” nella guerra Russia/Ucraina-USA-Nato perché Governo ed opposizione dell’Italia sono contrari (giustamente) ad usare le armi che diamo all’Ucraina contro il territorio russo. Tuttavia, se e quando sarà guerra vera, saremo coinvolti anche noi, che abbiamo oltre 50 basi militari Nato sul nostro territorio, non siamo certo in grado di controllare come usano le nostre armi gli Ucraini, siamo alleati di una Nato che è caduta (come nel 1999) nella “trappola slava” e andiamo come sonnambuli verso la guerra, senza capire perché – come nel primo conflitto mondiale.

Come sempre decideranno gli americani da soli, com’è stato in Afghanistan e prima ancora in Vietnam, Iraq, Libia e Siria, sempre perdendo.

Come siamo arrivati a questo? Ci siamo arrivati grazie alla propaganda che va avanti da due anni sul fatto che è giusto fare la guerra al russo invasore, come se fosse possibile che l’Ucraina potesse scatenare una controffensiva e battere una potenza come la Russia, dotata di 6mila missili nucleari. Montagne di bugie che vanno avanti da due anni e che ora rischiano davvero di portarci alla terza guerra mondiale.

Del resto gli europei senza la Merkel (un gigante rispetto agli altri statisti) non potevano rimediare agli errori americani, i quali prima decidono di andare in guerra (che è un business) e poi si chiedono perchè. I “nuovi arrivati” slavi in Europa, come la Polonia, hanno poi contribuito a rendere la situazione più difficile, alleandosi con gli Stati Uniti e marginalizzando Germania e Italia.

In questa nuova Europa, a trazione slava (polacca e ucraina) e britannica (fuori dall’Europa ma sono pur sempre i genitori degli Usa), che vuole una divisione storica con la Russia per i prossimi decenni, il prezzo più alto lo pagano proprio la Germania e l’Italia. Se prima la Germania era la locomotiva dell’Unione Europea (e il Nord Italia seguiva), il paese più importante, ora non decide più nulla. Il cancelliere Scholtz venne umiliato alla Casa Bianca ancora prima che la guerra cominciasse quando, l’8 febbraio 2022, Biden testualmente affermò:

Se la Russia invade l’Ucraina, e intendo con carri armati o truppe che attraversano il confine, allora non ci sarà più il gasdotto Nord Stream 2, vi porremo fine”. E ad una giornalista che chiedeva: “Ma come lo farete esattamente, dal momento che il progetto è sotto controllo della Germania?”, Biden rispose: “Ve lo prometto, saremo in grado di farlo”. Merkel lo aveva difeso strenuamente dagli attacchi del Congresso e dell’amministrazione Usa: gli ucraini con gli occidentali lo hanno fatto saltare in aria.

Così l’ Europa che abbiamo sognato si allontana, come ben si vede in Medio Oriente, a Gaza, in Nord Africa e nel Sahel. Ci rimane solo la speranza che la storia svolti improvvisamente con un accordo di pace, prima che la voglia di regolare i conti degli USA non ci trascini tutti nella catastrofe.

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore

Numeri /
Elezioni europee: giovani in direzione ostinata e contraria

Elezioni europee: giovani in direzione ostinata e contraria

The day after. Boom in Europa della Destra. Giorgia Meloni sugli scudi. Tracollo di Macron (che un po’ di destra è anche lui) e cavalcata trionfale di Marine Le Pen. Male anche in Germania. Esulta Ursula von der Leyen, che sarebbe il Centro ma anche lei ultra liberista, perché il prossimo governo  dell’Europa rimarrà probabilmente quello di prima, Sempre atlantista, bellicista, impotente.

Fonte Ministero dell’Interno

C’è però un piccolo dato (fonte Ministero dell’Interno) che racconta qualcosa di diverso. I giovani italiani (18-29 anni) hanno votato a sinistra, e soprattutto per un Europa solidale e di pace.
Fratelli d’Italia, primo partito in Italia con quasi il 29%, tra i giovani dai 18 ai 29 anni scende al 14%, meno della metà. PD, 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra lo precedono nettamente [vedi foto a fianco].

Se poi ci concentriamo sul voto degli Studenti Fuori Sede il dato è ancora più clamoroso.  La lista Verdi Sinistra Italiana – in lista Mimmo Lucano e Ilaria Salis – supera il 40% de consensi. Ecco i dati del Ministero dell’Interno: Alleanza Verdi-Sinistra 40,35 per cento, seguita dalla lista del Partito Democratico (25,47 per cento) e da quella di Azione (10,21 per cento). Seguono poi il Movimento 5 Stelle (7,84 per cento), la lista Stati Uniti d’Europa (7,64 per cento), (3,37Fratelli d’Italia  per cento), Forza Italia (2,33 per cento) e Pace Terra Dignità (1,73 per cento). Con 93 voti, la Lega si è fermata allo 0,53 per cento. Evidentemente il supervotato Vannacci ai giovani non piace. 

I numeri non hanno bisogno di commento. O forse solo uno: i giovani e gli universitari italiani – tanto quotidianamente vituperati, quanto blanditi e corteggiati in tempo di elezioni – non sono dei qualunquisti e neppure degli agitatori. Semplicemente sognano un Italia e un Europa che non c’è.

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Il delitto Matteotti: un fumetto in libreria

Il delitto Matteotti: un fumetto in libreria

A 100 anni dalla morte di Giacomo Matteotti, ucciso da una squadra di fascisti, (ri)esce, in libreria, con BeccoGiallo edizioni, un fumetto a lui dedicato

È il 30 maggio del 1924, quando il deputato socialista Giacomo Matteotti firma, con un discorso alla Camera, la sua condanna a morte. “Tempesta”, come viene chiamato dai compagni di partito per il suo carattere battagliero, ne è consapevole, perché finito di parlare – dopo aver denunciato pubblicamente l’uso sistematico della violenza a scopo intimidatorio usata dai fascisti per vincere le elezioni e contestato la validità del voto – dice ai colleghi: “Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”.

Pochi giorni dopo, il 10 giugno, viene rapito a Roma. Sono da poco passate le quattro del pomeriggio e una squadra di fascisti guidata da Amerigo Dumini lo preleva con la forza e lo carica in auto, dove viene picchiato e accoltellato fino alla morte, per poi essere seppellito nel bosco della Quartarella, a venticinque chilometri dalla Capitale.

 

Francesco Barilli e Manuel De Carli, Il delitto Matteotti, Beccogiallo edizioni, 2024, 144 p.

“Confiteor, l’uomo che sono diventato”.
Piergiorgio Paterlini presenta a Sala Borsa il suo nuovo libro.

Bologna, Sala Borsa, giovedì 13 giugno, alle ore 18 
“Confiteor, l’uomo che sono diventato”. Piergiorgio Paterlini presenta a Sala Borsa il suo nuovo libro

“Confiteor”. In tutte le librerie


«Confiteor è il racconto dell’uomo che sono diventato, non flusso di coscienza, ma fatti, storie. E l’attraversamento, in settant’anni di vita, di tre secoli, dal mio “Ottocento” a oggi». Piergiorgio Paterlini ci consegna un mondo, non soltanto un libro.
Raccontando di sé − in una confessione sorprendente, spregiudicata, il bisbiglìo a un amico durante una lunga notte − incrocia la sua storia personale con quella di un Paese, tra amarcord e ricerca delle radici, tra romanzo di formazione e la scelta di vivere “dalla parte del torto”, in un turbinìo di episodi e riflessioni, fratture, ricomposizioni, struggimenti, sliding doors e sogni impossibili agguantati con tenacia, accadimenti mai svelati, fino all’approdo cui è arrivato come uomo, come pensatore, come giornalista, come scrittore.
I grandi della letteratura fanno così. Non un’autobiografia, ma un modo tutto particolare di guardare retrospettivamente a sé stesso che coinvolge e rapisce, un “memoriale” commovente e colto che tiene insieme forza romanzesca e narrazione civile, passioni, legami, amori, maestri. E i “secoli” che hanno visto protagonista il suo sguardo di intellettuale dolcemente libero.

Giovedì 13 giugno  alle 18 in Piazza CopertaPiergiorgio Paterlini parla del suo libro Confiteor (Piemme, 2024) con Alessandra Sarchi.
L’incontro è realizzato in collaborazione con Edizioni Piemme e Libreria Il Secondo Rinascimento.

Ingresso libero
Una volta raggiunta la capienza massima consentita non sarà possibile entrare e sostare in piedi.
L’incontro sarà trasmesso in diretta streaming anche sul canale YouTube di Bologna Biblioteche.

In copertina: L’autore, Piergiorgio Paterlini

Le voci da dentro /
Le carceri in Emilia Romagna: la relazione del Garante dei Detenuti

Carceri in Emilia Romagna: la relazione del Garante dei Detenuti

Molti paesi europei prevedono una figura di garanzia dei diritti delle persone private della libertà. In Italia, un percorso avviato fin dal 1997 ha portato all’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale alla fine del 2013, ma la nomina del Collegio e la costituzione dell’Ufficio, che hanno consentito l’effettiva operatività, sono avvenuti solo nei primi mesi del 2016.

Il Garante nazionale è un’Autorità di garanzia indipendente a cui la legge attribuisce il compito di vigilare sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà, visitando i luoghi di privazione della libertà. Scopo delle visite è quello di individuare eventuali criticità e, in un rapporto di collaborazione con le autorità responsabili, trovare soluzioni per risolverle. Dopo ogni visita, il Garante nazionale redige un rapporto contenente osservazioni ed eventuali raccomandazioni e lo inoltra alle autorità competenti.

Anche le regioni ed i comuni possono nominare la figura del Garante sulla base di atti istitutivi che ne definiscono poteri e mandato.

Qui metto a disposizione delle persone interessate uno stralcio della relazione (in fondo il link al testo integrale della relazione) delle attività svolte in Emilia Romagna dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale nell’anno 2023. Il dottor Roberto Cavalieri ha presentato la sua relazione il 16 maggio scorso in Commissione per la parità e per i diritti delle persone.

Mauro Presini

La situazione delle carceri in Emilia Romagna

Casi di suicido, di autolesionismo, danneggiamenti alle strutture, abuso di farmaci, mancato o ritardato rientro da un beneficio, manifestazioni di protesta, un tentativo di evasione, ritrovamento di oggetti non consentiti, radicalizzazioni e violazione delle norme penali. È questa l’impietosa fotografia che emerge nella relazione del garante regionale dei detenuti, che ha illustrato lo scorso 16 maggio in commissione per la Parità e per i diritti delle persone le criticità riscontrate nelle carceri della nostra regione. Una situazione che descrive lo stato di difficoltà dei detenuti e conseguentemente di tutte quelle persone che, a vario titolo, operano in questo tipo di strutture. Su un punto il garante è perentorio: la situazione penitenziaria in Emilia-Romagna impone una ridefinizione delle priorità a partire dal tema del lavoro per i detenuti, che, insieme alla formazione, devono diventare l’aspetto centrale nel percorso rieducativo anche attraverso un maggiore coinvolgimento degli enti territoriali attivi sulle politiche sociali e sulle politiche del lavoro così come sulle politiche abitative.

Le richieste di intervento rivolte al garante, come indicato nella relazione presentata in commissione sull’attività dell’ufficio nel corso del 2023, arrivano a 450. Segnalazioni che riguardano, per fare solo alcuni esempi, i servizi sanitari in carcere, la condizione detentiva, l’accesso alle misure alternative, i trasferimenti, i servizi sociali, il lavoro e il rapporto con la magistratura di sorveglianza.

Il garante riferisce di una capienza regolamentare media nelle carceri della regione pari a 2.981 posti, cifra che contrasta con il dato delle presenze effettive di detenuti che, invece, arrivano in media a 3.466, di cui 158 donne (il 4,55% della popolazione detenuta). Gli stranieri presenti sono in media 1.672 (48,2% sul totale). Da non sottovalutare, poi, il dato sui detenuti semiliberi, in media 68 (di cui 21 stranieri), solo l’1,9% del totale. La questione sovraffollamento – rimarca il garante – porta con sé molti altri problemi, come, ad esempio, garantire a tutti i detenuti percorsi adeguati.

Sempre relativamente all’anno 2023, le carceri emiliano-romagnole sono popolate per lo più da detenuti con condanna in via definitiva (77,6% sul totale), di cui il 73,5% stranieri. I condannati con condanna non definitiva (appellanti, ricorrenti e con posizione mista) arrivano al 9,2%, mentre quelli in attesa di primo giudizio sono l’11,8%. Fra questi in molti hanno un residuo pena ridotto, che consentirebbe l’accesso ai benefici, che in molti casi non viene attivato. Da rilevare, poi, che i detenuti che usufruiscono delle attività formative rappresentano una decisa minoranza. Gli ergastolani, invece, arrivano in media a 173, il 66% a Parma, istituto con presenza di circuiti di alta sicurezza (a partire dai casi di 41bis).

Il garante rileva anche l’aumento di casi di violenza in carcere, con protagonisti i detenuti. Inoltre, segnala eccessi, in casi seppur isolati, da parte della polizia penitenziaria, ricordando il caso di un detenuto di Reggio Emilia aggredito da personale della polizia penitenziaria. Riguardo al problema dei detenuti con disabilità, rimarca come in diversi istituti di pena a questi detenuti non venga garantita sufficiente attenzione.

Particolare, poi l’attenzione al sistema del volontariato carcerario: nel 2023 è stato avviato un percorso (ancora in corso) di incontri che toccherà tutti gli istituti penitenziari della regione, al fine di far conoscere e condividere le buone pratiche attivate.

RELAZIONE_GARANTE_DETENUTI  testo integrale della relazione 

In Copertina: Roberto Cavalieri, Garante dei Detenuti dell’Emilia-Romagna

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Daniela Pes ti fa cantare in una lingua che (ancora) non conosci. Racconto di un concerto

Daniela Pes ti fa cantare in una lingua che (ancora) non conosci

L’artista emergente Daniela Pes si è esibita mercoledì 5 giugno 2024 nella nostra città come ospite di “Ferrara sotto le stelle”. Hanno suonato con lei sul palco Mariagiulia Degli Amori e Maru Barucco. Il suo album Spira, pubblicato nel 2023 da Tanca Records, ha vinto il Premio Tenco come miglior opera prima. 

Io e gli altri spettatori arrivati di buon’ora ci sediamo per terra, sul selciato del cortile del Castello Estense; sopra le nostre teste il sole delle otto di sera lavora dolcemente senza togliere il fiato. Da anni, in questo ambiente quattrocentesco, si svolge il festival Ferrara sotto le stelle; così, nel giugno e nel luglio del passato, sul palco che osservo sorseggiando il mio bicchiere di pignoletto hanno suonato tanti musicisti di culto che rinuncio a elencare. Mi limito a sbirciare quella ragazza in prima fila che gli volge con ostentazione le spalle per leggere più comodamente il suo libro, appoggiando la schiena alla transenna. Non sono sicuro di aver dato una bella risposta al mio amico fotografo Luca Pasqualini che, non conoscendo (ancora) bene l’artista per cui siamo qui stasera, mi ha fatto la madre di tutte le domande, nel tentativo di farsi un’idea sul suo stile: che genere fa?

Pubblico nel cortile del Castello (foto di Sara Tosi)

Siamo pochi, a dir la verità, anche se gli organizzatori hanno annunciato il sold-out da diverse ore; mi do la spiegazione che dipenda dalle dimensioni del cortile, che lo rendono adatto soltanto a una quantità di pubblico ridotta, ma cambio idea un’ora dopo, intorno alle nove e mezza, quando la cantautrice che ci traghetta dai toni del tramonto ai colori della notte, scende dal palco, dicendo che anche lei non vede l’ora di ascoltare Daniela Pes, e io, voltandomi, mi accorgo che dietro, affianco e tutto intorno a me si è riempito di persone. Fra le teste, i corpi, le voci e gli sguardi di chi attende la cantante sarda riconosco il candidato sindaco del centrosinistra Fabio Anselmo, che partecipa alla contesa elettorale del nostro Comune. Con il fidato zainetto sulle spalle e la camicia azzurra, sta conversando animatamente in una zona un po’ defilata dalle parti del bar. Io, che non rinuncerei alla mia posizione, attiro l’attenzione di Luca che, vivendo con meno stress la questione, si sposta volentieri per scattargli una fotografia.

I ragazzi della squadra che allestisce lo stage portano dietro le quinte gli strumenti di Birthh, che ha dato il via alla serata con un concerto di apertura, e preparano la scena per l’arrivo di Daniela Pes: il computer, il mixer, i sonagli, il tamburo… Sulla maglia di uno di loro c’è disegnato l’astronauta russo Jurij Gagarin; è ritratto in tuta spaziale, il casco CCCP e la scritta: non c’è nessun dio quassù. Mentre loro si affannano e il fonico risolve gli ultimi capricci tecnici, mi vengono in mente i racconti di Vasco Brondi che non ancora ventenne montava e smontava i palchi di questo festival, anche quando erano venuti i Radiohead a suonarci nel 2003.

Daniela Pes a Ferrara
Vista dall’alto della serata

Rombo di tuono e luce di lampo, Daniela Pes si presenta a noi in silenzio. Mette le mani sul mixer; le due musiciste che la accompagnano si dispongono al suo fianco. Tutte e tre in abito nero, il loro sguardo si rivolge a un punto indefinito lontano, oltre a noi spettatori. Le prime note, alle nove e cinquanta, sono della canzone Ora. È il solo brano in cui la musica non è composta da lei, bensì da Iosonouncane, il produttore, pure lui sardo, del disco. I loro percorsi artistici sono intrecciati anche perché, parlando dei testi, entrambi hanno immaginato una lingua nuova per scriverli. Daniela ha cominciato il suo percorso lavorando sulle poesie in dialetto gallurese di un prete del Settecento che portava il suo stesso cognome – Pes. Col tempo ha fatto una scrematura, arrivando a mantenere di quelle poesie solo un nucleo di lingua arcaica; e ha sviluppato la propria cifra stilistica mescolando a ciò una serie di linee melodiche complementari di sua invenzione.

Iosonouncane ha fatto qualcosa del genere nel suo terzo album, in cui i testi sono una commistione di quattro lingue esistenti diverse.

Termino il pignoletto e, come fa il ragazzo vicino a me, infilo alla buona il bicchiere di plastica robusta nella tasca dei pantaloni, per liberarmi le mani e percepire più intensamente i suoni che infondono ritmo ai piedi e alle gambe, al collo e alla testa. Un trio di ragazze alle mie spalle già non riesce a star fermo, e la cosa mi mette di buon’umore perché, a proposito della domanda del mio amico Luca, la vera risposta che volevo dargli è che la musicista sarda ha fatto un disco di canti sacri che chiedono di essere danzati.

Daniela Pes
Maru Barucco
Mariagiulia Degli Amori

Mentre scorrono Ca mira, Illa sera e Carme sento che le amiche alle mie spalle, e una di loro in particolare, canta gioiosamente i versi nella lingua inventata di Daniela Pes e anche io decido di lasciarmi andare pur senza sapere che cosa sto dicendo. È una sensazione simile a quella che ho provato alla cerimonia della capanna sudatoria. La donna che mi ospitava nella piccola isola della Danimarca in cui ho vissuto per un periodo amava purificarsi con questo rito. Nella versione che io ho sperimentato con lei, l’officiante intonava degli inni nella lingua dei nativi americani, precisamente della tribù Lakota, suonando ferocemente il tamburo. Lui, Jens, aveva imparato l’idioma e i precetti del rituale trascorrendo molto tempo in America con loro, mentre lei, Daffy, era ancora un’apprendista ai primi passi. Cantando gli ultimi fonemi della canzone di Daniela Pes che sta per terminare, mi sento Daffy che cerca di ricalcare le liriche degli indiani. A questo brano ne segue un altro, un’esplosione strumentale di dieci minuti, in cui non c’è niente da intonare. Dopodiché la cantante sarda e la musicista alta e bionda, quella che suona il tamburo, lasciano sul palco l’altra, bruna e piccolina, a sperimentare dei suoni extra-album con i sintetizzatori.

Quindi tutte assieme suonano le ultime tre canzoni; poco prima delle undici terminano il concerto senza aver detto una parola che non fosse di canto; la lunga ovazione finale la accolgono con emozione e ripetuti inchini di ringraziamento come si fa a teatro. Mi soffermo senza fretta di andarmene, nella speranza che magari faranno un’ultima canzone, ma in molti hanno già cominciato a tagliare la corda, ed è chiaro che non ci sarà nessun bis; anche il ragazzo con la maglia dell’astronauta e i suoi colleghi hanno ripreso a darsi da fare e stanno sgomberando la scena dagli strumenti musicali. Mi incammino anche io: attraverso la piazza ciottolata, imbocco la via dei locali, dei bar e dei ristoranti etnici. Degli uomini asiatici, come risposta al caldo urbano improvviso, si sono seduti placidamente ai tavolini, coi piedi nudi per terra e le infradito lasciate poco più in là. Supero dei ragazzi miei coetanei, universitari forse, e sento con un pizzico di sorpresa che stanno parlando di politica e delle elezioni imminenti. Mi torna in mente il candidato sindaco che ho visto al concerto e mi chiedo come abbia trovato l’esibizione di Daniela Pes, se gli sarà piaciuto il concerto.

Un momento del concerto
L’artista in scena

Per quanto mi riguarda questo non era il suo primo live a cui assistevo, l’avevo ascoltata a Milano poche settimane fa al festival Mi Ami. Avevo insistito coi miei amici perché o non la conoscevano o non ne erano incuriositi. Avevo avuto la meglio e c’eravamo andati, ma in quella gran confusione di oltre trenta artisti in poche ore e cinque palchi, non eravamo riusciti ad apprezzarla come volevo. Ricevo su whatsapp un messaggio da Luca, il mio amico fotografo, che dice: “Mi è piaciuta, molto, la riascolterò sicuramente”. Ne sono contento, non la considero una cosa scontata. In effetti, per godere di una musica sofisticata come la sua, credo che l’atmosfera del Castello Estense e di Ferrara sotto le stelle sia l’ideale. Per me ci è voluto tempo, a dire la verità. Ho iniziato ad ascoltarla in Danimarca; sentivo sei, sette ore di musica al giorno: tante playlist, tanta NTS Radio, non molti album interi. Verso la fine di quell’esperienza scandinava stavo già transitando verso una nuova esperienza di ascolto (più selettiva, con momenti di digiuno dalle canzoni, ovvero di silenzio); rientrato a Ferrara, ho ascoltato quasi soltanto dei dischi per intero. Fra questi c’è Spira, che se vi piace camminare da soli alla sera per le vie del centro o della periferia sarà un compagno dolcissimo, ma qualcosa, anzi qualcuna, una ragazza alla ricerca del proprio equilibrio interiore, mi suggerisce che va bene anche se vi piacere sudare, cantare, battere il tempo su un tamburo… insomma, se pensate di partecipare a una capanna sudatoria in futuro, please, remember the nameis it music or new vodoo?

Reportage di Emanuele Gessi, fotografie di Sara Tosi

Numeri /
Flussi regolari di immigrati o criminalità organizzata?

Flussi regolari di immigrati o criminalità organizzata?

L’Italia sprofonda da 10 anni in un calo demografico spaventoso. La cosa è stranota. Le soluzioni sono due:

1.  aspettare che questo tracollo abbia effetti devastanti sullo sviluppo, l’occupazione regolare, con una drastica riduzione delle imposte (le entrate dello Stato) e, di conseguenza, con una drastica riduzione del welfare (meno sanità, meno scuola, meno pensioni, meno per tutto ciò che è bene comune e più poveri) come, peraltro, vorrebbero alcuni partiti, oppure

2.  attivare flussi regolari in modo da dare risposta a quelle 462mila domande di lavoro delle imprese per il solo 2023 e costruire un paese (come già sono tanti in Occidente) dove convivono in pace una maggioranza di italiani e minoranze di stranieri occupati regolarmente che rispettano le nostre leggi e danno un enorme contributo al nostro sviluppo.

E cosa fa il Governo Meloni? Ha alzato il numero dei flussi regolari di immigrati da 69.700 posti del 2001 a 82.705 del 2003 (e questo è positivo) anche se sono molto meno delle richieste delle imprese (ben 462mila), ma non ha cambiato le procedure (demenziali) di reclutamento legate al “click day, un giorno in cui chi arriva prima -con una procedura telematica- prenota l’immigrato richiesto. Il fatto è però che per 100 che riescono ad arrivare primi, gli immigrati che poi vengono realmente assunti sono solo 23 (nel 2003 14mila su 82mila). Le ragioni sono:

1) ritardi delle nostre ambasciate all’estero a rilasciare il visto (per venire in Italia ci vuole quasi sempre il visto e i visti sono stati solo 55mila nel 2022 (su 69mila) e 58mila nel 2023 (su 82mila);

2) ritardi delle prefetture a controllare le pratiche (i giorni sono stati ridotti a 20 dal Governo Meloni),

per cui il risultato finale è che ne arrivano pochissimi (14mila pari al 23% delle domande e 3% delle richieste effettive delle imprese) e quei pochi sono in mano, almeno per la metà, alla criminalità organizzata, cioè imprese che hanno pochi addetti e che ne chiedono 100, finti imprenditori morti, partite iva false. In sostanza false assunzioni organizzate da italiani per sfruttare poveri immigrati che finiscono nelle mani della criminalità organizzata.

Per capirlo basta vedere la tabella allegata. E mai possibile che Napoli, una delle città col più basso tasso di occupazione in Italia richieda immigrati pari al 24% dei suoi occupati mentre Milano l’1,6%.
E così le città che chiedono più immigrati sono le più disastrate: Napoli, Ragusa, Salerno, Caserta Foggia, Latina, Crotone, Matera, Cosenza, Avellino, Rovigo…con Campania e Calabria ai primi posti. Come noto sono le aree a più alta occupazione e sviluppo in Italia! E così regolarizzano immigrati del Bangladesh quasi sempre in assenza dei requisiti richiesti che finiscono poi nelle mani della criminalità organizzata. Basterebbe copiare dalla Germania o da qualche paese serio, ma si sa che siamo governati da incompetenti.

Sta tutto scritto in modo dettagliato nel rapporto “Ero straniero” di Actionaid presentato pochi giorni fa da parte di Asgi, Flai Cgil, Chiese evangeliche, Oxfam e molte altre associazioni non profit che chiedono di riformare dal 2017 una procedura a dir poco demenziale con una iniziativa popolare firmata da 90mila persone. Nessun Governo ha fatto nulla, tantomeno quello attuale.

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore

Elezioni Europee in Italia: il governo perde un milione di voti, i pacifisti avanzano

Elezioni Europee in Italia: il governo perde un milione di voti, i pacifisti avanzano

Il risultato delle elezioni europee conferma una tendenza generale: metà dell’elettorato non va votare. Ma come al solito tutti hanno vinto, secondo il principio che basta guardare i dati che si vogliono guardare e , soprattutto, non guardare i voti che si sono presi, che sono lo specchio reale ed obiettivo del consenso che si ha.

Così, mentre i commenti main stream si soffermano sulle percentuali (che nascondono con abilità e nonchalance la realtà dei fatti) le persone serie e posate dovrebbero andare a leggere i voti. Per farlo sembra ragionevole confrontare i dati delle recenti elezioni con le politiche, in particolare con le elezioni della camera dei deputati del 2022.

Fratelli d’Italia perde voti: insieme al Movimento 5 stelle, Fratelli d’Italia è il partito che ha perso più voti, esattamente 600mila; è il primo partito ma l’entusiasmo immediatamente manifestato da Giorgia Meloni non è giustificato. Per giunta  la nuova alleanza tra Forza Italia e Noi Moderati ha perso 200mila voti e la Lega ne ha presi 350mila circa in meno. In totale il governo che sta cantando vittoria ha perso oltre un milione di voti.

Partito Democratico, avanti piano: anche qui a guardare le percentuali sembra un grande successo, a guardare il numero di voti si scopre che il PD ha preso solo 250mila voti in più. Elly Shlein che ha cautamente portato il partito su alcune posizioni più di sinistra può essere contenta.

Movimento 5 stelle, continua a scendere: 2 milioni tondi di discesa nelle preferenze degli elettori: il ritorno ad alcuni temi classici degli inizi e la scritta “pace” dentro il simbolo non hanno impedito agli elettori di punire un movimento anti-sistema che quando è stato al governo non ha realizzato la maggior parte delle promesse elettorali.

Avanzano i pacifisti: nonostante i movimenti pacifisti non siano riusciti ad esprimere una lista comune come molti  pacifisti italiani  si aspettavano ma si siano divisi in varie liste, l’avanzata dell’Alleanza Verdi Sinistra è stata di oltre mezzo milione di voti mentre la lista Pace Terra Dignità, esclusa dagli eletti per l’incomprensibile soglia di  sbarramento, ha preso almeno centomila voti in più di quelli che aveva preso alla Camera la lista di Unione Popolare, e questo nonostante l’assoluta assenza dalle reti televisive e radiofoniche.  A questi voti vanno aggiunti anche quelli delle altre liste che facevano proposte chiaramente pacifiste (Libertà e Democrazia Sovrana e Popolare in totale altri 300mila voti). Se in questo conto volessimo considerare anche i voti assegnati alM5S potremmo dire che il pacifismo ha ottenuto circa 5 milioni di voti.

Astensionismo: ancora una volta la percentuale di chi non vota è salita, segno evidente che la sfiducia nella politica non ha freno. La propaganda sottile verso il non voto, dietro ai proclami retorici alla “partecipazione democratica” ha vinto una volta di più. Ma dietro l’astensionismo ci sono fenomeni molto diversi, dalla motivazione politica, alla disillusione, al menefreghismo, alla convinzione profonda dello scippo che altri poteri hanno fatto alla politica, in primis le grandi lobby finanziarie. Quello che resta è il fatto che meno gente vota (e non vota per i rompiscatole)  e più per i potenti è facile comprare eletti già “addomesticati”. Si spende meno…

In copertina: Foto di Pexels

Prometeo, Epimeteo e…Apometeo.

Prometeo, Epimeteo e… Apometeo

Nati da Giapeto – figlio di Urano e Gea – e da Climene – figlia di Oceano –, Prometeo e il fratello Epimeteo sono Titani, esseri appartenenti alla generazione divina precedente a quella di Zeus e degli altri dei olimpici: come si sa, nei miti (così come nella scienza), non c’è fine all’origine!

Epimeteo sta, etimologicamente, per «colui che pensa dopo aver agito» e Prometeo, al contrario, per «colui che pensa prima di agire».

Prometeo è senza dubbio il fratello più noto, in quanto è ricordato come colui che ha donato il fuoco agli esseri umani.

Dunque la storia della nostra specie, secondo la cosmogonia greca, inizia dai due fratelli Titani e tutto, secondo quanto vedremo, potrebbe concludersi grazie al “terzo” dei fratelli Titani, il meno conosciuto Apometeo, il fratello che ci servirebbe oggi: «colui che pensa più lontano per spronare ad agire oggi».

Come avrete capito Apometeo non è mai esistito: non è un Titano “vero” come gli altri due, ma in un tempo di fake news e di vere app chi potrà mai preoccuparsi di un “falso Titano”?

Andiamo con ordine. Partiamo dai due fratelli coinvolti nella nascita della nostra specie, secondo quanto ci viene raccontato da Platone nel Protagora (320 C – 324 A).

Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali, cioè tutte le specie animali compresa la nostra. “Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono mescolando… terra e fuoco e ordinando a Prometeo e a Epimeteo di distribuire con misura, a ciascuna specie vivente, appropriate facoltà ”.

Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione: “Dopo che avrò distribuito” – disse – “tu controllerai…”. Così nella distribuzione, Epimeteo decise di dare ad alcuni la forza, mentre ad altri destinò la velocità; ad alcuni fornì artigli, denti robusti,  mentre altri furono dotati di caratteristiche mimetiche, nascondigli sicuri e astuti accorgimenti a garanzia della propria sopravvivenza.

Ma Epimeteo non si rivelò affidabile: avendo consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione non si ritrovò nulla da assegnare al genere umano. Quando giunse Prometeo per controllare la distribuzione, si accorse di questa disparità e che il genere umano era nudo, scalzo, privo di giacigli e armi di difesa, in una parola, destinato a sicura e veloce estinzione.

Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce e quindi Prometeo, non sapendo come porre rimedio all’errore del fratello, rubò a Efesto e ad Atena il fuoco e la perizia tecnica per donarli all’uomo.

Prometeo venne punito dagli dei per il furto, ma da quel momento la specie umana divenne partecipe della sorte divina e in primo luogo, unico fra gli esseri viventi, cominciò a percepire la presenza del divino e a credere agli dei. Inoltre, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, inventò case, vestiti, calzari, giacigli, l’agricoltura e la metallurgia.

La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve. Allora gli individui della specie cercarono di unirsi per difendersi insieme e costruirono luoghi fortificati: nacquero le mura e le città. Ma ogni volta che stavano insieme finivano per commettere ingiustizie gli uni contro gli altri e, dividendosi di nuovo, morivano.

Zeus dunque, temendo l’estinzione della stirpe umana, inviò Ermes per consegnare agli uomini le due cose fondamentali per vivere insieme: il senso del pudore (aidos) e il senso di giustizia (dike) . “A differenza delle doti artistiche e tecniche queste due cose distribuiscile a tutti!” – disse Zeus a Ermes – “Che  tutti ne siano partecipi, in quanto non esisterebbe la comunità, se solo pochi fossero partecipi di pudore e giustizia”.

Per questo motivo, conclude Platone nel Protagora, gli Ateniesi e tutti gli altri, quando si discute di architettura, di salute o di qualche altra attività artigianale, ritengono che spetti a chi è competente la facoltà di dare pareri e prendere decisioni. Quando invece deliberano sulla virtù politica – che deve basarsi tutta su giustizia e saggezza – ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi del senso di pudore e del senso di giustizia.

Ma arriviamo per l’appunto ad oggi e alla necessità di un altro Titano che per la verità introduco in modo surrettizio grazie a una “parabola” del filosofo tedesco Günther Anders riportata in un piccolo ma denso libretto di Jean-Pierre Dupuy (Piccola metafisica degli tsunami. Male e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo,  Donzelli Editore, Roma 2006, pg.8).

Apometeo è il “fratello” più vecchio di Prometeo ed Epimeteo, Titano dimenticato, perché profeta di sventura, che annunciava l’imminenza di una catastrofe (un vero e proprio Diluvio Universale!), che però non arrivava e al quale quindi nessuno più prestava attenzione.

Un giorno decise di provare una cosa nuova. Entrò nella città, dove il senso di pudore e quello di giustizia erano praticamente scomparsi, e vedendo che tutti, indistintamente, davano pareri sulle epidemie, sui cambiamenti climatici e sulla intelligenza artificiale, cominciò a raccontare agli abitanti della città di una catastrofe che si era verificata e molti, radunatisi intorno a lui, gli chiedevano conto di quanti fossero i morti e di chi fosse morto.

Apometeo rispose che erano morti in tanti quanti erano gli abitanti della città e “…con gran divertimento di coloro che lo ascoltavano disse che quei morti erano loro. E quando gli fu chiesto quando si era verificata la catastrofe, egli rispose: domani”.

Approfittando dello sconcerto che aveva creato, Apometeo continuò dicendo: “dopodomani la catastrofe sarà una cosa che sarà stata. E quando la catastrofe sarà stata, tutto quello che ora c’è non sarà mai esistito. Perché quando tutto verrà cancellato dalla catastrofe, sarà troppo tardi per ricordarsene, dato che non ci sarà più nessuno”.

“Se sono venuto davanti a voi, è per invertire i tempi, è per piangere oggi i morti di domani. Dopodomani sarà troppo tardi. Dopo di che se ne tornò a casa”. A sera un gruppo di medici e infermieri bussarono alla sua porta e gli dissero: “lascia che ti aiutiamo con questo vaccino e con la nostra arte: se la catastrofe di domani è una epidemia potremmo esserti utili adesso, cosicché quello che hai detto diventi falso.”

Più tardi un gruppo di imprenditori, sindacalisti e  governanti si aggiunsero agli altri dicendo: l’aria sta cominciando a diventare irrespirabile, lascia che ti aiutiamo anche noi perché quello che hai detto diventi falso. E più tardi ancora degli hackers bussarono alla sua porta e dissero: la conoscenza sta scomparendo così come la coscienza e la verità, lascia che anche noi possiamo darti una mano perché diventi falso quello che hai detto.

Questa storiella titanica ci invita dunque a una inversione temporale per stabilire una reciprocità tra il presente e il futuro: vederci nel presente, con le esigenze di uno sguardo al futuro che saremo noi stessi a generare.

Perché può darsi che il futuro non ci stia aspettando da qualche parte, come pensiamo, o che sia là a vederci arrivare da qui a qualche anno in avanti ma, soprattutto, potrebbe darsi che “questo futuro” non abbia bisogno di noi e che non sia collocato così lontano da noi, ma è qui, presente, seppure… invisibile.

Siamo noi ad aver bisogno del futuro perché è ciò che dà senso a quello che facciamo. Proprio ora.

Magari recuperando un minimo di aidos e di dike.

Cover: particolare del sarcofago di Prometeo e la creazione dell’uomo, Pozzuoli su licenza Wikimedia Commons