Skip to main content

Per certi versi /
Novembre. una sera

Novembre. una sera

Novembre
una sera
Il silenzio
Rimbomba
stonato
Al vecchio cimitero
Di guerra
a galla
nella fumana
il muro
Le croci
Bianche
Camicie
Vuote
I cani mordono
quel
silenzio
Come un presagio
Di futuro
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

L’Europa e gli armamenti: il finto erbivoro tra i carnivori

L’Europa e gli armamenti: il finto erbivoro tra i carnivori

Il Financial Times ha scritto che chi governa l’Unione Europea vorrebbe usare i miliardi del fondo di coesione (379 miliardi dei quali sono stati spesi solo una ventina) a favore del riarmo. Non proprio in armi vere e proprie, il che sarebbe inaudito, ma in infrastrutture e logistica utili alla difesa militare (porti, ponti, strade, ferrovie,…). Se così fosse sarebbe un argomento ulteriore, se già non ce ne fossero molti, per favorire l’ascesa delle destre che vogliono ribaltare l’attuale maggioranza popolare-socialista-verdi che governa (male), in quanto è nota la contrarietà della grande maggioranza degli europei ad un riarmo.

Non ci sono conferme ufficiali ma non è escluso che possa andare davvero così, visto l’aria bellicista che tira, così come si coglie anche dalla proposta di Draghi (e da molti “esperti”, tra cui un editoriale dell’economista Giavazzi -già consigliere di Draghi- sul Corriere della Sera del 15 novembre), in cui consiglia di dire a Trump (per ammorbidirlo sui dazi) che l’Europa sarebbe disposta a diventare “adulta” e ad armarsi arrivando non proprio al 3,5% delle spese militari sul PIL, come negli Stati Uniti, ma almeno al 2%, come richiesto dalla Nato. La narrazione è sempre quella: Putin vuole invadere l’Europa. Una cosa del tutto improbabile. Per l’Italia arrivare al 2% significa aggiungere agli attuali 33 miliardi altri 16 e arrivare a 50, 2/3 dell’intero budget di scuola e università. Per ora lo impedisce il Patto di Stabilità europeo, ma Draghi e Giavazzi chiedono che l’Italia sia autorizzata a spendere in deficit solo per le armi.

(Walter Veltroni, che scrive qualche editoriale sul Corriere della Sera, nei giorni passati ha lanciato l’idea per l’Italia di un nuovo New Deal, il programma di opere pubbliche lanciato da Roosevelt nel 1933, ma non ha specificato in quali settori, né ha spiegato come potrebbe essere finanziato. Non sarà mica d’accordo anche lui per un New Deal sulle armi?)

Dal 20 gennaio prossimo conosceremo le mosse effettive di Trump, il quale ha sempre detto che vuole chiudere la guerra in 24 ore. Pare certa, dopo la vittoria di Trump, la rinuncia degli americani a supportare ancora l’Ucraina in una vittoria contro la Russia che, peraltro, appare impossibile. Lo stesso Zelenskyj, che capisce che l’aria è cambiata, annuncia che il 2025 sarà l’anno della pace. Il cessate il fuoco (o la pace) è certamente meglio del proseguimento di una guerra atroce di trincee (come nella prima guerra mondiale) che distruggerebbe non solo l’Ucraina – che peraltro conta ormai 80mila disertori – ma tutta l’Europa (oltre alla Russia). Le motivazioni del sostegno all’Ucraina sarebbero che la Russia vuole invadere tutta l’Europa: la qual cosa non solo non è nelle intenzioni di Mosca ma pare del tutto demenziale, se si pensa che la Russia in oltre due anni non è riuscita a conquistare l’Ucraina.

 

L’Europa suicidatasi con due guerre mondiali fratricide si è declassata al rango di potenza di seconda fila…ormai subalterna a nuovi più giovani soggetti” scrive Luciano Canfora nella Grande guerra del Peloponneso (ed Laterza, euro 20): un po’ come Atene e Sparta che, facendosi la guerra per 50 anni, hanno aperto al dominio della Persia su entrambe. Il futuro dell’Europa dovrebbe essere quello di tornare alle sue origini di “polo” mondiale basato sulla cultura, arte, diritti, welfare, stile di vita, né americano né cinese. Un rango che può ottenere non certo col riarmo, ma sviluppando una sua indipendenza e autonomia, dialogando con tutti e imparando piuttosto dalla neutrale Svizzera che ha una spesa militare irrisoria e che non cresce negli anni. Peraltro, la spesa militare dell’Europa è imponente (quasi come la Cina, il triplo della Russia) con i suoi 315 miliardi di euro, che rappresentano il 13% del budget mondiale. Gli Stati Uniti hanno la spesa maggiore (900 miliardi), seguiti da Cina (345), Europa (315), Russia (126), India (83), Arabia Saudita (74), Gran Bretagna (69), Ucraina (62), Germania (61), Francia (57). I paesi occidentali (Nato) spendono il 66% (2/3) di tutta la spesa militare mondiale, mentre i Brics il 28%. I principali 36 paesi al mondo spendono il 94% del totale. L’Italia con 33 miliardi è al 12° posto al mondo: non proprio “noccioline”.

Spesa militare nei primi 36 paesi (94% del totale mondiale, pari a 2.400 miliardi) nel 2000 e 2023, milioni di dollari a prezzi costanti 2022
(fonte Annuario Sipri, 2024)

A mio avviso il futuro dell’Europa non sta nel diventare una super potenza militare, ma semmai un “polo” mondiale di pace e cooperazione come ha dimostrato negli ultimi 75 anni, dopo il periodo coloniale, soprattutto nel momento in cui venisse a cessare la disponibilità a seguire pedissequamente la pretesa degli Stati Uniti di spingere l’Europa ad allargarsi ad est, sapendo che ciò costituisce una provocazione per Mosca. L’Europa potrebbe cooperare coi paesi confinanti della Russia senza per questo doverli annettere all’Europa o alla Nato, fino a cooperare con la stessa Russia.

I fondi di coesione 2021-27 sono nati per ridurre le disuguaglianze territoriali e sarebbe inaudito usarli per un riarmo. La metafora zoologica di Macron di una Europa erbivora circondata da carnivori, oltre che essere falsa è penosa. L’Europa spende, seppure in modo frantumato (e acquistando dagli Stati Uniti per il 50% i sistemi d’arma) il triplo della Russia e ha un partner pronto a intervenire in suo aiuto come nella 2^ guerra mondiale, e che spende 7 volte più della Russia. Ci vuole un bel coraggio a definirsi erbivori.

 

Presto di mattina /
La Terra del tramonto

Presto di mattina. La Terra del tramonto

«C’è nell’uomo un “uomo nascosto all’uomo”»

La terra del tramonto è un saggio di Ernesto Balducci sulla transizione umana, non solo ecologica, ma planetaria, nel quale si sostiene che, arrivati ad una soglia di complessità e coscienza, è dato all’uomo passare oltre se stesso: oltrepassarsi. Il tutto non senza crisi di crescenza, criticità, involuzioni ma anche possibilità di attingere a risorse nuove e abitare orizzonti nuovi.

Una fine dunque che nasconde un inizio ed un arrivo come rimbalzo per una ripartenza (startup): in ogni tramonto è celata l’aurora. Anche simbolicamente, del resto, ogni tramonto è un punto di arrivo provvisorio; è figura della terra “edita”, conosciuta, ma in essa si nasconde una terra inedita, dal volto sconosciuto.

Novus mundus disse Amerigo Vespucci nel 1503 approdando nelle Americhe; “cambiamento d’epoca” ha indicato il tempo presente papa Francesco.

Lo stesso accade per l’umanità e la sua storia così come per ciascuno di noi. Siamo doppi in noi stessi, ricorda Balducci, che ricorre al linguaggio di Ernst Bloch nel suo libro Il Principio speranza, per dire questa identità in divenire del flusso di coscienza umano.

L’uomo edito (homo editus) del già e l’uomo inedito (homo ineditus o absconditus) del non ancora. In questa frattura instauratrice della terra, al tramonto dell’homo editus proteso oltre se stesso, proiettato verso l’ignoto, sta ciò che è costitutivo dell’uomo e della sua storia e tiene insieme le due identità, l’acquisita e quella in divenire. Questo principio costitutivo è la speranza.

«L’uomo inedito non coincide con l’uomo edito e tende a trascenderlo proiettando oltre di esso possibilità che non passano all’atto perché non esiste ancora una terra su cui esse possano poggiare i piedi e cioè non è ancora arrivato al punto giusto il sistema globale delle reciprocità. L’uomo edito è il punto d’approdo momentaneo del flusso coscienziale che arriva da lontano attraverso le metamorfosi della specie e che nel cristallizzarsi in una determinata identità culturale non esaurisce la tensione creativa che lo ha generato» (La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole [FI] 1982, 50).

Tramonto nomade

Per Giuseppe Ungaretti la terra del tramonto è quella del «nomade d’amore». Il tramonto, il volto del cielo che s’incarna nella terra, risveglia inedite oasi di quiete dopo tappe e arsure di deserto.

Si tratta tuttavia di un approdo e riposo provvisorio, perché il verbo usato è risvegliare, associato moralmente all’alba, e il tramonto diviene così un attimo fuggente, punto di arrivo e di ripartenza, transizione non priva di straniamento, uno scarto e nondimeno frattura instauratrice in cui l’uomo edito trapassa nel suo inedito.

Sempre in balia del viaggio, all’uomo sempre in ricerca delle sue segrete risorse è concesso il tramonto.

Tramonto è un testo brevissimo scritto da Ungaretti a Versa frazione del comune di Romans d’Isonzo il 20 maggio 2016.

Il carnato del cielo
sveglia oasi
al nomade d’amore
(Vita d’uomo. Tutte le poesie,.28).

Ricorda ancora Balducci che il linguaggio dell’uomo inedito è quello simbolico, ovvero il linguaggio capace di tenere unite e mettere insieme realtà diverse. Così poesia e profezia sono le voci attraverso cui è udibile e comunica la speranza. All’uomo inedito, come un porto sepolto, vi arriva il poeta; egli giunge a quel «nulla di inesauribile segreto».

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto
(Porto sepolto, ivi 42).

«Tutte le parole sono nate come simboli e poi, com’è loro destino, sono entrate a far parte della grammatica convenzionale, son diventate utensili che trasmettono il pensiero ma non comunicano, nel senso che non realizzano lo scambio tra due interiorità.

La nostra si chiama civiltà della comunicazione ma in realtà è la civiltà della trasmissione. Solo la poesia, quando c’è, viene a interrompere le trame delle parole e delle immagini che chiedono da noi non l’interazione creativa ma il consumo passivo.

Allora le parole immerse nella tensione dell’uomo inedito che aspira a un mondo misurato su di sé perdono la loro inerte disponibilità all’uso e si caricano di un senso segreto (di ‘indefinito’, diceva Leopardi) che ci trascina, se abbiamo orecchie e abbiamo occhi, in quella patria dell’essere di cui l’uomo inedito conserva la nostalgia, o, per meglio dire, la speranza, dato che quella patria non è alle nostre spalle, come un Eden biblico, è dinanzi a noi come identità possibile tra uomo inedito e uomo edito, tra essenza ed esistenza…

E infatti il linguaggio connaturale all’uomo inedito è quello della profezia che ha il suo tratto tipico nel riferimento al futuro inteso come luogo della pienezza. Il linguaggio profetico non è quello che si avventura in predizioni trascritte in calendari immaginari, è quello che denuncia l’inaccettabilità della città presente e descrive la città futura nella quale si sarà definitivamente avverata la coincidenza tra il possibile e il reale» (Balducci, 57; 51-52).

Terra del tramonto, terra di futuro

«Così la terra del tramonto dischiude all’uomo inedito il futuro come un processo non solo di transizione ma di trasformazione, come una metamorfosi, una trasfigurazione. Il futuro dell’uomo nascosto nell’uomo non è il tempo a venire i cui contenuti sono già nel presente; è il tempo che ci viene incontro portando con sé, come possibilità oggettive, nuovi modi di essere rispondenti alle possibilità soggettive latenti in noi.

Ci manca – ed è questo il nostro vero dramma – una mappa delle possibilità umane, perché siamo imprigionati in un’immagine univoca di uomo costruita e imposta, con tutte le iridescenze dell’universalità, dalla cultura in cui siamo cresciuti.

Quell’immagine si sta lacerando e proprio per questo si riapre dentro di noi la dialettica tra uomo inedito e uomo edito. In forza di questa dialettica acquista senso la circostanza che è totalmente nuova nella storia: la compresenza, anzi in certi casi la convivenza di molte umanità, ciascuna delle quali ci apre un distinto spiraglio sulla totalità umana» (ivi, 55).

Come direbbe la poesia l’ineffabile segreto del tramonto?

A proposito dell’uomo inedito che è in lui, Carlo Betocchi scrive che una nube lo nasconde, ma non manca in lui la paziente speranza che «qualcosa non tramonta con il tramonto»:

Lentamente, cosi, sempre in un senso,
le veritiere sorti volgeranno,
quella più luminosa alla più fioca
unite, e a una stessa distanza,
in un disegno
che una nube nasconde e non il tempo.
Che le guida al tramonto, suscitando
in altre l’ineffabile segreto
in custodia alla notte,
e ai miti tetti, ed all’altane;
dove ad un filo di vento si disseta
segretamente l’erba disseccata.
(Carlo Betocchi, Tutte le poesie, 532

Fraterno tetto; cruda città; clamore
e strazio quotidiano; o schiaffeggiante
vita, vita e tormento alla mia anziana
età: guardatemi! sono il più càduco,
tra voi; un rudere pieno di colpe sono…
ma un segno che qualcosa non tramonta
col mio tramonto: resiste la mia pazienza,
è come un orizzonte inconsumabile,
come un curvo pianeta è la mia anima.
(ivi, 361).

E non finisce qui. A Carlo Betocchi risponde Mario Luzi con una poesia a lui dedicata per i «suoi meravigliosi settanta anni»: nel silenzio del tramonto è nascosta la luce del risveglio.

Nel corpo oscuro della metamorfosi

“Tu che hai visto fino al tramonto
la morte di una città, i suoi ultimi
furiosi annaspamenti d’annegata,
ascoltane il silenzio ora. E risvegliati”
continua quell’anima randagia
che non sono ben certo sia un’altra dalla mia
alla cerca di me nella palude sinistra.
“Risvegliati, non è questo silenzio
il silenzio mentale di una profonda metafora
come tu pensi la scoria. Ma bruta
cessazione del suono. Morte. Morte e basta”.

“Non c’è morte che non sia anche nascita.
Soltanto per questo pregherò”
le dico sciaguattando ferito nella melma
mentre il suo lume lampeggia e si eclissa in un vicolo.
E la continuità manda un riflesso
duro, ambiguo, visibile alla talpa e alla lince.
(Tutte le poesie, 381).

Christus editus e Christus indetus

Anche tra il Cristo edito, così come è venuto narrandosi attraverso i modelli culturali e religiosi, e il Cristo inedito, quello che si cela nel futuro di ogni umanesimo, esiste un punto cristico, una discesa nel nulla, un tramonto appunto che tuttavia nasconde in sé un’apertura, una transizione creativa, anzi generativa.

L’ineffabile segreto della speranza, la sua forza, sta in quella frattura instauratrice che è la croce del Cristo, spes unica, salendo la quale ne ha determinato il suo passaggio, ed anche il nostro, verso un nuovo mattino, verso l’homo novus e il cantus novus.

Il Cristus absconditus è così il Cristo nomade d’amore che il tramonto sulla croce risveglia ad un’alba nuova. Il primo Adamo transita nel nuovo Adamo: Cristo. Così il mistero di Colui che verrà è leggibile già nel tempo in quelle pagine viventi che sono le multiformi manifestazioni di umanità planetaria; così pure vi è un vangelo edito ed uno nascosto dentro la vita di quelle persone che in umanità si fanno nomadi di amore.

Scrive ancora Balducci: «Di fronte a questo nuovo inizio ogni altra particolarità culturale e religiosa è legittima, nel senso che non è chiamata a misurarsi con la particolarità storica di Gesù: ogni itinerario umano ha il suo venerdì santo dinanzi a cui si apre, per un paradosso predisposto da Dio, la Pasqua della resurrezione.

“Per i mille sentieri della nostra religiosità cercavamo Dio e finivamo per fare delle immagini di noi stessi. Egli però ci ha cercato e ci ha trovato là dove eravamo completamente perduti e alla fine. A Lui Dio ha detto il suo sì e il suo amen e lo ha risvegliato dai morti” (H. Vogel)”.

Ogni umanesimo, anzi, ogni religione è al di qua di questo punto limite: l’Uomo abbandonato da Dio è sceso agli inferi, è sceso cioè in quella condizione in cui il futuro dell’uomo si identifica col nulla, una condizione in cui, così amo pensare, si trovano in comunione con lui anche coloro che sono diventati atei per amore» (ivi, 152153).

«Egli salì sul tramonto» (Sal 68 [67], 5)

Ai piedi del faro, non c’è luce (Ernst Bloch), così occorre salire “sul tramonto” per scorgere nella croce la vita, nel tramonto l’alba: «incinta di luce, il bianco seme del sole».

«Spianate la strada a chi sale sul tramonto. Il Signore salì “sul tramonto” che fu la sua morte. Effettivamente il Signore salì “sul tramonto” in quanto la sua morte gli servì come alto piedistallo per manifestare maggiormente la sua gloria mediante la risurrezione. Salì “sul tramonto” perché risorgendo calpestò la morte che aveva affrontato».

Questa immagine bella e suggestiva l’ho trovata leggendo nella liturgia delle ore nella festa di san Luca evangelista; un’omelia sui Vangeli di papa Gregorio Magno (Om. 17, 1-3; PL 76, 1139). Mi sembrava celasse dell’altro, mi attraeva cercare il senso nascosto del versetto di quel salmo che certamente significava fare strada al vangelo ancora inedito per editarlo sulle pagine della propria vita.

Una prima tappa fu la traduzione italiana molto poetica ma differiva nelle parole dal testo dell’omelia: «Preparate la via a colui che cavalca attraverso i deserti le nubi», attraversando e orientando la transizione umana. Pensai poi che il riferimento di papa Gregorio era il testo latino della Bibbia detta Vulgata trovai: «Cantate Deo, iter fácite ei qui ascéndit super occásum / fate strada a colui che ascende sopra l’occaso». Occaso è participio passato di “occidere”, cadere, finire e nel senso figurato, tramontare. Più aderente il testo latino che ricalca quello ebraico: “è salito sull’occidente” dove il sole tramonta.

E pensare che proprio questo versetto comparso solo ora in conclusione, come al tramonto, è stato come la prima luce che ha illuminato la scrittura di questo testo, che mi ha portato attraverso la terra del tramonto ancora a “presto di mattina”.

E così mi unisco al canto del “poeta di passo”, Carlo Betocchi “passo dell’uomo di vocazione… che si muoveva nell’aria esclusiva della sua libertà” (Carlo Bo); egli ha scritto del poeta d’amore che proprio al tramonto nel perdersi degli anni ritrova l’incanto irresistibile del verso: «”Nulla al mond’è che non possano i versi”,/ io leggo, e mi ferisce quell’incanto/ del poeta d’amore, e sento quanto/ della lettura in memoria va a perdersi (ivi, 601; 603; 519).

Canto per l’alba imminente

Sei, come Dio ti vuole,
ima* incinta di luce,
bianco seme del sole
che poi in monte riluce:
se quel peso ti duole
tanto, non fai lamento,
non augello ancor sento
che col canto t’ allegri a portar croce.
Misteriosa e bianca
da chius’acqua orientale
tu risali, e s’affranca
la mia pena mortale:
patisci e ti fai stanca
nel destare la rosa
che nel sole va sposa;
poi ti perdi nel ciel, virgo immortale.
([*ima = corda munita di piombi, che tiene la rete sul fondo], Betocchi, 39-40)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

VIVA VITTORIA: 23 e 24 Novembre
Anche a Ferrara in Piazza Castello

Viva Vittoria 2024. Anche in piazza Castello

Sabato 23 e domenica 24 novembre, per la prima volta in Piazza Castello a Ferrara, si terrà la manifestazione: Viva Vittoria, un’opera relazionale condivisa che ha l’obiettivo di richiamare l’attenzione sul drammatico fenomeno della violenza contro le donne. Come strumento per concretizzare questo progetto è stato scelto il “fare a maglia”, metafora di creazione e sviluppo di se stesse perché si tratta di una modalità creativa molto diffusa e facilmente apprendibile che in tutti gli adulti riconnette ad immagini familiari, fa emergere ricordi e crea un’attitudine all’incontro e alla relazione.

Dalla mattina di sabato 23 novembre quindi, l’intera Piazza Castello diventerà un grande tappeto multicolore: saranno stesi gli oltre 12.800 quadrati di 50 centimetri per lato, realizzati a maglia in nove mesi di lavoro.

Quadrati creati punto per punto, provenienti da 45 Comuni italiani che hanno aderito, oltre al coinvolgimento nella sola provincia estense di circoli di maglia, case di riposo, giovani e meno giovani e di 34 scuole. 

Nei giorni precedenti, i quadrati saranno assemblati a quattro alla volta da 200 volontari nella chiesa parrocchiale dell’Arginone in città, con un filo rosso proveniente da Brescia, città dove nel 2015 ha debuttato “Viva Vittoria”.

Su ogni quadrato, sempre con l’utilizzo dei ferri, è anche scritto il nome delle autrici che così unite vogliono dare il loro contributo all’evento e, nello stesso tempo, il segno tangibile di una rete di relazioni, rapporti e solidarietà.

Esattamente come la rete da pesca proveniente dalla coop pescatori di Goro appesa nel cortile del Castello Estense, per celebrare la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 25 novembre.

Le coperte realizzate e assemblate saranno vendute al pubblico al costo di 20 euro, con un’asta finale per le offerte maggiori. Il ricavato, hanno spiegato la coordinatrice dell’evento Donatella Mauro e la presidente Paola Castagnotto, sarà interamente devoluto al Centro Donna e Giustizia di Ferrara per aiutare le donne in difficoltà inserite nei percorsi di autonomia, al termine dei quali c’è spesso la necessità di sostegno in termini di casa, lavoro, pagamento delle bollette. Una forma di aiuto, inoltre, perché siano le donne stesse ad attivare tali percorsi ed evitare di passare da una dipendenza (fisica, psicologica ed economica) a un’altra (quella del Centro Donna).

Sul palco allestito in Piazza Castello, per l’inaugurazione ci saranno il prefetto, l’arcivescovo, il presidente della Provincia e la rettrice dell’Università, cui faranno seguito durante le due giornate del 23 e 24 novembre, gruppi teatrali e musicali delle scuole, associazioni femminili, cori e formazioni musicali in una non stop di animazione e sensibilizzazione, al termine della quale si svolgerà l’asta finale per la vendita delle coperte.

I gazebo allestiti per l’occasione da Croce rossa italiana, Carabinieri e Inps, saranno punti informativi sui recapiti cui rivolgersi in caso di necessità.

Fra tutti i quadrati di maglia che saranno assemblati insieme agli altri, ne sono arrivati 75 anche dalle donne ristrette nel carcere femminile della Dozza di Bologna, che hanno partecipato al laboratorio di cucito e uncinetto coordinato da Anna Rita Di Marco.

Continuo a credere che nella stupenda canzone “La libertà” di Giorgio Gaber ci sia riassunta una delle più belle definizioni di cosa sia la “libertà” (“Libertà è partecipazione”); grazie alle volontarie AVoC, quello delle donne del carcere della Dozza mi sembra un modo bello e responsabile di sentirsi libere.

Grazie davvero a loro, ad Anna Rita e ad Anna Laura che, oltre a renderle possibili, hanno scritto quanto segue per raccontarci meglio di cosa si occupa il laboratorio che curano presso la sezione femminile del carcere della Dozza a Bologna.

(Mauro Presini)

 

“Sono una volontaria AVoC (Associazione Volontari del Carcere)[1] e coordino il laboratorio cucito-uncinetto presso la sezione femminile della Casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna. Questo laboratorio, aperto alle detenute che ne fanno richiesta, è condotto da due volontarie, Amina Majidi (cucito) e Anna Laura Govoni (uncinetto-maglia) che gestiscono con molto entusiasmo il lavoro delle ragazze, insegnando (a volte da zero) e seguendole nei loro progressi.

Il laboratorio di cucito è stato per molto tempo un’attività del reparto per permettere alle detenute di imparare facendo lavori utili per il carcere, oltre a riparazioni di indumenti in un ambiente sereno in cui sentirsi seguite.

In seguito, al tempo del Covid, anche a causa delle difficoltà delle due precedenti volontarie, era stato chiuso. Quest’anno abbiamo pensato di riattivarlo per le importanti valenze educative di queste attività che promuovono un clima di serenità attraverso il rispetto reciproco, l’osservanza delle regole che sono state scritte e condivise con le detenute e la consapevolezza degli impegni assunti sia a livello personale che del gruppo, oltre a stimolare la creatività, il pensiero e la progettazione.

Partendo dai primi punti, da semplici lavori, man mano che miglioravano le loro competenze abbiamo visto aumentare la loro autostima attraverso la scoperta delle proprie capacità, il loro senso di responsabilità e il desiderio di migliorare.

A volte abbiamo avuto modo di vedere come nel piccolo gruppo si crei un clima di fiducia e di comprensione così eventi personali piccoli o grandi, gioiosi o dolorosi, erompono portando alla condivisione dei sentimenti in un modo che direi quasi “terapeutico”

Le detenute hanno voluto partecipare alla scelta del logo aggiungendo un piccolo cuore d’oro perché desideravano che il loro lavoro potesse portare qualcosa di buono a chi lo poteva riceverlo, infatti si era deciso di finalizzare le attività alla produzione di piccoli lavori da presentare a manifestazioni di solidarietà e beneficenza.

Attualmente partecipano 8 ragazze per il laboratorio di cucito e 7 per l’uncinetto e svolgono anche piccoli lavori di riparazione e riattamento dei propri indumenti, nell’ottica della riduzione dello spreco e dei rifiuti, oltre a lavori di cucito utili per il reparto.

Le detenute che seguono il corso di uncinetto hanno la possibilità di continuare a lavorare anche in cella, sia singolarmente che trovandosi in piccoli gruppi che aiutano a superare momenti di inoperosità e di noia. Nel periodo estivo infatti, quando molte attività cessano, le ragazze si sono dedicate con impegno alla produzione dei loro quadrati 50×50 per poter partecipare a W Vittoria nelle giornate di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne così abbiamo potuto consegnare 75 pezzi al Comitato promotore.

Per Natale anche su consiglio della Direttrice e di una volontaria missionaria abbiamo iniziato a realizzare borsine regalo con sciarpa, cuffia, penne e una piccola dama (queste grazie anche ad un laboratorio del legno del maschile) per persone che versano in diverse condizioni di disagio.”

(Anna Rita Di Marco)

 

La proposta di partecipare alla manifestazione Viva Vittoria Ferrara per supportare attività contro la violenza sulle donne è stata colta con piacere dalle partecipanti, diventando occasione per recuperare materiale inutilizzato e già presente nel laboratorio, ma anche di pensare di poter far parte di qualcosa di più ampio portando il proprio contributo. Le partecipanti si sono impegnate negli abbinamenti dei colori, negli aggiustamenti di ciò che era incompleto e tutta l’esperienza è stata l’occasione per imparare a creare i quadretti anche per chi non aveva mai lavorato a uncinetto.

Questa attività sì è conclusa a fine ottobre ed è durata per tutta l’estate. Per riuscire a lavorare la lana anche nelle giornate più torride, abbiamo attrezzato il laboratorio con ventilatori creando così uno spazio confortevole dove era piacevole stare qualche ora in serenità tutte insieme. Al termine di ogni incontro, di circa 2 ore e mezza, venivano scelti insieme i lavori che le partecipanti prendevano con loro per ultimarli durante la settimana fino all’incontro successivo.

Ad ogni quadretto consegnato a Ferrara è stata applicata l’etichetta con il logo del laboratorio ed è stato scritto a penna il nome dell’autrice. Al logo del laboratorio già precedentemente definito, è stata aggiunta la sagoma di un cuore di color oro su proposta delle partecipanti che quando abbiamo chiesto proposte di nomi hanno proposto “Laboratorio cuore d’oro”.

(Anna Laura Govoni)

[1] AVoC è un’associazione che si occupa principalmente di detenuti, intesi come persone recluse o agli arresti domiciliari e del loro reinserimento nella società, una volta usciti dal carcere.
Avoc è nata alla fine degli anni ‘80, all’interno del Baraccano, intorno all’ambiente della Chiesa della pace. Non si tratta però di un’associazione cattolica, vengono svolte perciò attività laiche, come corsi di cucina o di scrittura e molta attenzione viene posta alla visita dei familiari. L’associazione ha, infatti, un ufficio in cui i parenti possono trovare sostegno per il periodo che precede la visita. Ad oggi, per organizzare la rete di supporto ai familiari dei detenuti, AVoC ha 8 appartamenti offerti dal comune e uno donato da un privato cittadino, che riesce a mantenere attraverso diversi eventi di finanziamento. Il rapporto con la famiglia e il lavoro diventano perciò due fattori determinanti per riavvicinare i detenuti alla società e abbassare la recidività delle detenzioni.

Cover:  Piazza Castello a Ferrara ricoperta dalle “coperte” di Viva Vittoria, 24 novembre 2024, ore 1o,00 – ph Mauro Presini

Esperimenti di Pace: il Laboratorio per la Pace di UniFE

COP 29 a Baku, una conferenza antidemocratica

COP 29 a Baku, una conferenza antidemocratica

di Ultima generazione

Tra alcuni giorni, quando anche si conosceranno i contenuti del documento finale, la COP 29 a Baku in Azerbaijan, verrà ricordata solamente per le assenze di gran parte dei leader degli Stati che hanno grandi colpe per il riscaldamento globale e la catastrofe climatica, e per il numero dei lobbisti delle industrie del fossile presenti.

Per il resto, hanno ragione i prestigiosi firmatari della lettera resa nota a Baku il 15 novembre, in cui chiedono una profonda riforma del meccanismo della COP, per primo a livello di democrazia funzionale e decisionale; tra le firme quelle dell’ex segretario ONU Ban Ki-Moon, l’ex presidente dell’Irlanda Mary Robinson, l’architetta dell’accordo di Parigi Christiana Figueres e lo scienziato Johan Rockström.

Le scelte delle COP sconfessate dalla scienza

A Baku è stato presentato il Global Carbon Budget 2024, il rapporto che ci dice quanto siamo vicini al precipizio climatico. Infatti il 2024 sarebbe dovuto essere il cosiddetto anno di ‘picco’ per le emissioni, ma anziché vedere la curva scendere, assisteremo ancora alla sua crescita.

Nel 2024 tutte le fonti fossili sono cresciute: carbone (0,2 per cento), petrolio (0,9 per cento), gas (2,4 per cento). Contribuiscono rispettivamente al 41 per cento (carbone), al 32 per cento (petrolio) e al 21 per cento (gas) delle emissioni che causano la crisi climatica. Nel 2024 raggiungeremo 422,5 parti di CO2 per milione in atmosfera, quando le COP sono partite erano 360 parti per milione.

Lunga la lista degli assenti e dei lobbisti, più numerosi degli scienziati

I leader assenti sono: USA, Francia, Germania, Gran Bretagna, Brasile, Russia, India, Cina e la presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen; mentre il presidente argentino Milei, avendo voluto subito allinearsi a Trump, ha ritirato la propria delegazione il giorno di apertura della COP. Mentre sono 1773 lobbisti dei combustibili fossili accreditati.

Per l’Italia sono 22, tra cui l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, che si è accreditato con l’Azerbaijan e non con l’Italia, insieme a Edison, Italgas e Confindustria. Tutta l’industria fossile è ben rappresentata: Total Energies, Glencore, Sumitomo, Chevron, Exxon Mobil, BP, Shell.

Diversamente presenti i leader ‘alluvionati’ Sanchez e Meloni

Entrambi testimoni delle conseguenze drammatiche più recenti della crisi climatica, Meloni e Sanchez sono stati gli unici leader dei grandi Paesi dell’UE presenti.

Toccata e fuga per la Meloni che ha parlato delle grandi prospettive ambientali e climatiche che porterà l’energia derivante dalla fusione nucleare; che però per gli scienziati più ottimisti, potrebbe essere commerciabile nel 2050, quando in Italia l’innalzamento del Mediterraneo potrebbe essersi già ‘mangiato’ centinaia di chilometri di coste.

Molto più consapevole il premier spagnolo Sanchez sull’urgenza di agire immediatamente con scelta forti e radicali.

Per le multinazionali del fossile la democrazia è un ostacolo

Il richiamo teocratico del presidente del Paese ospitante, Ilham Aliyev, in apertura dei lavori ha subito fatto capire il clima della ventinovesima edizione della Cop: “Il petrolio e il gas sono un dono di Dio, proprio come il sole, il vento e i minerali. I Paesi non devono essere incolpati per averle e non devono essere incolpati per aver portato queste risorse sul mercato”, per poi scagliarsi contro i media occidentali, gli attivisti per il clima e i critici dell’industria petrolifera e del gas dell’Azerbaijan, definendoli ipocriti.

Rieletto per la quinta volta consecutiva a settembre, dopo che aveva fatto eliminare dalla costituzione il limite dei mandati presidenziali, Ilham Aliyev è in carica da oltre vent’anni. Oggi l’Azerbaijan è l’unica repubblica al mondo in cui la moglie del capo di stato è anche la sua vice. Dopo l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, per il terzo anno la COP si tiene in un Paese in cui la democrazia non c’è più e che hanno enormi interessi nazionali sull’industria e la finanza fossili.

Silenziati gli attivisti

La conseguenza di questa deriva sempre più antidemocratica delle varie edizioni della Conferenza delle Parti, è il trattamento riservato a Baku agli attivisti: vietato il corteo e chiusi in una stanza per manifestare senza poter scandire slogan, proprio nel giorno in cui l’Italia ha vinto il Fossil of the Day (una sorta di “Tapiro d’Oro”), il premio ironico assegnato al paese più compromesso con i combustibili fossili.

 

Cover foto di www.lifegate.it

Storie in pellicola / “Sommersi”: la crudeltà inconsapevole dell’adolescenza

Presentato in anteprima al Cinema Modernissimo di Bologna nell’ambito della 30ª edizione del Festival Visioni Italiane e al RIFF – Rome Independent Film Festival, il cortometraggio Sommersi dell’imolese Gian Marco Pezzoli, conduce lo spettatore nei meandri della crudeltà adolescenziale che emerge inconsapevole mentre una tragedia sta per compiersi.

Quante cose, nate per gioco o per scherzo, possono trasformarsi (e si trasformano) in rovinosa tragedia? Senza nemmeno rendersene conto il vortice può, improvvisamente, travolgere. E quando questo avviene, la reazione non è subito e per forza razionale.

Sullo sfondo il dramma dell’alluvione

Due amici, Michael (Ruben Santiago Vecchi) e Lorenzo (Alessandro Antonino) giocano nelle vallate lungo la provinciale Montanara, dove scorre il fiume Santerno. Per la precisione, a Castel del Rio, l’ultimo giorno di vacanza per i due adolescenti che, intrappolati dalla noia e dall’afa, si abbandonano a un gioco pericoloso.

Prima si tirano sassetti fra di loro, poi il sasso aumenta di dimensione e viene lanciato dal cavalcavia, colpendo un’auto che, come un birillo, cade giù. Un gioco pericoloso e mortale.

I lanci di pietre contro le vetture in corsa rappresentano, purtroppo, un fenomeno non isolato, basta leggere le cronache anche meno recenti. Il primo episodio avvenne nel 1986 in cui morì una bambina di soli due mesi e mezzo. Poi l’aumento, soprattutto negli anni ’90, ma il fenomeno non si è mai arrestato. Una sorta di lotteria della morte.

Non se ne parla spesso, negli ultimi tempi non certo avari di tragedie, e Sommersi riporta il tema sotto i riflettori, con sullo sfondo il dramma che ha colpito l’Emilia-Romagna, la violentissima e devastante alluvione del maggio 2023, dove la tragedia ambientale diventa metafora della tragedia interiore che vivono i due giovani protagonisti.

Perché la natura e l’animo umano si specchiano e si parlano.

“Il tema del lancio dei sassi dal cavalcavia è stato il punto di partenza per esplorare il disagio giovanile, che oggi, purtroppo, è diventato quasi ordinario e non suscita più scalpore. Ho voluto andare oltre il gesto, interrogandomi sulle ragioni che spingono tanti adolescenti a compiere atti di violenza”, dice Pezzoli.

Sommersi tutti, i protagonisti e gli abitanti della valle. Sommersi dai rimorsi, dalla tragedia, dal continuo confronto con le conseguenze delle proprie azioni, dalla stupidità che non perdona, dall’incapacità di capire quando è il momento di agire e non stare solo a guardare il destino compiersi, inesorabile.

Mentre il calmo Santerno perde le staffe, straripa e travolge tutto, case, abitazioni e vallate, portando vie vite, oggetti e sogni, Michael e Lorenzo per non essere “sommersi” devono scegliere se convivere con quel terribile sbaglio o redimersi.

Mentre il fiume, passata la rabbia e il furore, li salva e li guida verso un nuovo equilibrio.

Qualche nota di regia e di produzione

Il cortometraggio, scritto da Marta Bedeschi (di Imola) e Giorgia Baracco (di Rovigo) e prodotto da Kamera Film (fondata, nel 2000, dalla regista e documentarista Maria Martinelli), è stato realizzato con il sostegno dellEmilia-Romagna Film Commission,prodotto in collaborazione con l’associazione Noi Giovani e le cooperative Combo e Black Cut, ha ricevuto il patrocinio dei quattro comuni della vallata (Fontanelice, Casalfiumanese, Castel del Rio e Borgo Tossignano). Un forte lavoro di squadra.

“Per Sommersi, mi sono ispirato a film come Elephant di Gus Van Sant, Paranoid Park e Gummo di Harmony Korine, che utilizzano un linguaggio visivo che immerge lo spettatore nel disagio adolescenziale. Un altro importante punto di riferimento è Aki Kaurismaki, per la sua lucidità e la crudezza nei rapporti umani”, spiega Pezzoli.

Per la produttrice Maria Martinelli, il corto “ci fa capire, in modo poetico e tramite lo sguardo di due adolescenti (in una terra segnata dagli sconvolgimenti climatici), quanto sia difficile fare la scelta giusta. Si parla di disagio e si affronta, con una cifra stilistica elegante, l’universo giovanile e come spesso sia rimasto solo, rispetto alle responsabilità”.

Gian Marco Pezzoli: il regista

Originario di Imola, poco più che trentenne, è un regista che ha iniziato il suo percorso artistico partecipando a corsi di recitazione e regia con esperti del settore, tra cui Marco Bellocchio al corso di alta formazione in regia cinematografica della Fondazione Fare Cinema e Mario Grossi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
Dal 2011, si dedica alla regia di cortometraggi che hanno ottenuto riconoscimenti per il loro valore artistico. È presidente dell’Associazione Noi Giovani, che supporta i giovani creativi e promuove iniziative per il miglioramento del territorio imolese.

 

Sommersi, di Gian Marco Pezzoli, Produzione Kamera Film S.r.l. – Soggetto e sceneggiatura di Marta Bedeschi / Giorgia Baracco / Marta Bedeschi; Musica di Giuseppe Tranquillino Minerva, con Ruben Santiago Vecchi e Alessandro Antonino, Italia, 2024, 19 ,m

 

Articolo pubblicato su Taxidrivers

Teatro in Carcere: lo studio teatrale “voci di dentro” alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca

Teatro in Carcere: lo studio teatrale “voci di dentro” alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca per la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne 2024

 

Progetto teatrale Passi Sospesi alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca
studio teatrale voci di dentro
per la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne 2024

Lunedi 25 Novembre 2024, alle ore 16.00, presso la Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, sarà presentato voci di dentrostudio teatrale con alcune donne recluse, che hanno partecipato al laboratorio teatrale permanente Passi Sospesi di Balamòs Teatro diretto da Michalis Traitsis e con la collaborazione artistica di Patrizia Ninu, nell’ambito del progetto teatrale Passi Sospesi di Balamòs Teatro negli Istituti Penitenziari di Venezia, e allestito in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne 2024.

Questa data ricorda il 25 novembre 1960 quando, nella Repubblica Dominicana, furono uccise le sorelle Mirabal, colpevoli di denunciare gli orrori del dittatore dell’epoca e la cultura machista che li alimentava. Da allora divenne il giorno simbolo per ricordare le vittime di maltrattamenti, abusi e femminicidi e per combattere le discriminazioni e le disuguaglianze di genere.

Quello che ancora ci si domanda è come sia possibile non intravvedere soluzioni alle domande: cosa si può fare per contrastare il fenomeno della violenza? Come si può radicalmente agire su una cultura paradossalmente ancora dominante, soprattutto cosa si può fare prima che sia troppo tardi?

Il teatro non ha la pretesa di trovare risposte ma di contribuire ad attivare un lavoro di riflessione, di introspezione e di cambiamento che, pur con difficoltà e fatica, le persone recluse hanno fatto su loro stesse, sui pregiudizi, sugli stereotipi, sul ruolo di eterne vittime, sulla violenza delle stesse donne, le une contro le altre, sul come ritrovare un nuovo modo di essere, di rispettare se stesse e le altre/i, sul depositare la rabbia e la frustrazione del passato per entrare nel dolore senza maschere e per restituirlo in una narrazione, in un gesto, in un movimento, in uno sguardo di solidarietà, di comunanza, di luce e poesia.

Forse attraversavano una strada, forse una frontiera, forse una piazza, forse ogni legge, forse il confine del cielo e l’inizio del mare.

Come vagabonde nella nebbia.

Recitando rosari di sogni abdicati, speranze tradite, corpi violati, errori inconfessabili.

Di nebbia si vestivano per non vedere e sopportare l’Ade, il regno delle anime perdute.

Attraverso la nebbia cercavano segni di salvezza e ripari per intravvedere schegge di luce.

Qualcuna arrivava correndo, un’altra strascicando i passi, un’altra fischiettando, un’altra ancora bisbigliando preghiere e canti e dialogando con le assenze.

Non portavano bagagli, si spogliavano di ogni bene materiale e si riconoscevano in quella bruma dalle voci che premevano per raccontare una storia.

Ciascuna la sua”.

Cover; Le sorelle Mirabal, simbolo del coraggio di tutte le donne vittime di violenza

INSIEME PER UNA NUOVA VISIONE DI CITTA’:
Assemblea Pubblica a Ferrara, martedì 26 novembre dalle ore 17,30 alle 20

INSIEME PER UNA NUOVA VISIONE DI CITTA
Assemblea Pubblica: martedì 26 novembre dalle ore 17,30 alle 20

Lettera per Associazioni e forze politiche

Il Forum Ferrara Partecipata intende aprire una nuova fase di confronto e collaborazione con tutti i soggetti interessati a costruire un’idea alternativa di città e ad operare insieme per una nuova visione di città orientata al contrasto alla crisi climatica e sociale.
 Il Forum, come è noto, è nato per contrastare il progetto FERIS che perseguiva interessi privati e non di pubblica utilità, e ha sviluppato il proprio percorso elaborando proposte per disegnare la Ferrara del futuro, indicando priorità e contenuti alternativi a quelli sino ad ora messi in campo.
In particolare sono stati messi a fuoco i temi della democrazia partecipativa, della transizione e conversione ecologica, dei beni comuni, di un modello sociale giusto e inclusivo. Le proposte formulate sono state raccolte in un documento reperibile sul nostro sito (qui) ed è stata inoltre evidenziata la necessità di elaborare una visione di città che ponga al centro lo sguardo delle donne.
 Abbiamo tentato di dare voce a questi contenuti anche nel corso dell’ultima campagna elettorale amministrativa, pur in un contesto non troppo attento a discutere del futuro di Ferrara.
 Ora vogliamo dare avvio ad un percorso che riprenda quei temi e li selezioni in base alle priorità che devono essere affrontate in tempi brevi.
Le questioni che appaiono più urgenti e su cui pensiamo sia utile formare gruppi di lavoro sono: – la mobilità in un’ottica di conversione ecologica della città – la pubblicizzazione e le politiche della gestione dei rifiuti in una prospettiva di affermazione dei beni comuni – una trama verde per la città in una logica di contrasto al cambiamento climatico.
Riteniamo importante unire tutte le forze e coinvolgere tutti coloro che in città avvertono l’importanza di questi temi e le proposte di fondo che abbiamo elaborato in proposito.
 Invitiamo a lavorare in tal senso tutte le associazioni, le realtà sociali e le forze politiche interessate, ferma restando, ovviamente, l’autonomia reciproca fra soggetti sociali e rappresentanza politica.
Vi invitiamo a partecipare all’ASSEMBLEA PUBBLICA “INSIEME PER UNA NUOVA VISIONE DI CITTA’ “, martedì 26 novembre dalle ore 17,30 alle 20, presso la Parrocchia di San Giacomo (via Arginone 157)
Introdurrà Alessandra Guidorzi del Forum Ferrara Partecipata; seguiranno tre brevi comunicazioni sui temi sopra elencati ( Francesca Cigala su Mobilità; Corrado Oddi su Rifiuti e beni comuni; Romeo Farinella su Trama verde per la città ). Seguirà la discussione per un confronto fra le diverse realtà.
L’assemblea non vuole essere semplicemente un momento di scambio di punti di vista e opinioni quanto piuttosto un’occasione di verifica dell’impegno che ciascun attore intende mettere in campo a partire dalle proposte avanzate e dalla disponibilità a partecipare ai tre gruppi di lavoro.
 Sul tema di una nuova visione di città secondo lo sguardo delle donne, si è formato ed è già operativo il gruppo di lavoro allargato “ Ferrara, le donne e la città “ e chi fosse interessata a parteciparvi può prendere contatto tramite le nostre mail.
 Contando sul vostro interesse, inviamo un cordiale saluto.
FORUM FERRARA PARTECIPATA 

Khady Demba, “Un giorno tutto questo finirà”.
il nuovo spettacolo del Teatro OFF

L’ultimo spettacolo del Teatro OFF: Un giorno tutto questo finirà

Il 7 novembre ha debuttato a Ferrara l’ultimo spettacolo di FERRARA OFF, associazione di promozione sociale che opera nel settore delle arti performative, dal titolo Un giorno tutto questo finirà. L’associazione vanta una solida rete di collaborazioni con enti locali – in termini di ospitalità, coproduzione e scambi – tra cui Fondazione Ferrara Arte, Teatro Comunale Claudio Abbado, Ferrara Musica, Jazz Club Ferrara, Museo di Storia Naturale, Arci Ferrara

Ho assistito all’ultima replica serale il 17 novembre, mentre per chi è interessato rimangono le date delle Matinée : Incontro fra generazioni a Teatro 11, 13, 19, 20, 21, 22, 23, 25 novembre 2024, ore 11:00.

Diana Höbel – Ph Giacomo Brini

Lo spettacolo vuole rappresentare il declino della civiltà occidentale, pervasa da paure di catastrofi incombenti (dalla pandemia all’inquinamento globale, dalla crisi economico-politica alla guerra nucleare) messo a confronto con l’altrettanto pericoloso, ma più vitale, mondo da cui provengono i migranti. Viene messo in scena il racconto della storia di una donna africana che ha perso tutto e che cerca di raggiungere l’Europa, che per lei rappresenta un luogo di salvezza.
Tutto lo spettacolo è infatti liberamente ispirato al racconto Khady Demba di Marie Ndiaye (Histoire de Khady Demba: Trois femmes puissantes), ideazione di Diana Höbel e Giulio Costa, con Diana Höbel e Marco Sgarbi, regia di Giulio Costa.
La scenografia, ridotta ad un tavolo pieno di oggetti per lo più inutili e a due sedie, sottolinea lo scarto fra il racconto della protagonista, che non smette mai di parlare e il silenzio del compagno che si limita per quasi tutta la durata dello spettacolo a selezionare e mettere in ordine gli oggetti ritenuti utili. Lei parla e lui “mette ordine” in un’incomunicabilità non solo di parole, ma anhttps://www.ferraraoff.it/chi-siamo/che di gesti, ridotti al minimo della routine di sopravvivenza.
Il declino dell’occidente è efficacemente rappresentato dallo scarto fra la  povertà dei gesti e il fiume di parole che raccontano l’eroismo di Khady Demba, riportando senza sosta riflessioni, emozioni, sensazioni della protagonista occidentale, interpretata da Diana Höbel, in un gemellaggio  spirituale con la donna nigeriana.

Marco Sgarbi – ph Giacomo Brini

Crisi della coppia occidentale, ridotta all’osso della routine rassicurante di un rapporto apparentemente di lunga data, in effetti con la funzione di paracadute nel disastro imminente della civiltà occidentale.
Con uno scatto che ha del colpo di scena, infatti, il compagno apparentemente acefalo di fronte alla donna cosciente, rivela la sua vera natura di “salvatore”, approntando uno zaino di sopravvivenza, enorme e quasi ridicolo nella quantità di attrezzi da cui penzolano, facendo un salto sul tavolo da cui declama la sua intenzione di fuggire. Rivela cioé di essere un prepper,  un individuo che  si prepara attivamente a difendersi negli eventi estremi. La fuga però è rifiutata della donna, non convinta dall’assenza di mete e di obiettivi.

Il nuovo spettacolo del Teatro OFF  mette in scena con stile iperrealistico le problematiche odierne, con accenti ironici e talvolta sarcastici, strappando a momenti nello spettatore  un sorriso amaro. Fondamentalmente didattico nella rappresentazione, sia delle problematiche planetarie, sia delle reazioni paradossali delle popolazioni, è rivolto in particolare agli studenti delle superiori e agli universitari.

In copertina e nel testo alcune foto di scena dello spettacolo – ph Giacomo Brini

Per leggere tutti gli articoli di Eleonora Graziani clicca sul nome dell0’autrice. 

Parole a capo /
Speciale “Le parole del silenzio” / 2

ALEJANDRA PIZARNIK – Il silenzio

io mi unisco al silenzio
io mi sono unita al silenzio
e mi lascio fare
e mi lascio bere
e mi lascio dire

La lettura collettiva di poesie dedicate al silenzio, nell’incontro pubblico alla Rotonda Foschini del 26 ottobre scorso, è stata piena di emozioni, parole, sguardi introspettivi. Dopo la prima uscita dello speciale (Vedi qui) pubblichiamo un secondo gruppo di poesie lette in quella occasione. Buone letture.

 

Il mio silenzio

Cadono gli idoli
dall’altare di pietra
e non fanno rumore
il vuoto non fa rumore
gli avevo donato fiato
e aria e amore
rotolano ora come noci
senza frutto
sulle gradinate del tempio
osservo la sconfitta
che chiamavo solitudine
che ora chiamo vittoria
nel tempo che sarà il mio tempo
mi nutrirò del mio silenzio
come fosse l’unico amico
di cui fidarsi

(Maggie – Maria Mancino)

*

 

Il silenzio si fa musica

Intima necessità,
attenzione empatica,
la gentilezza fa bene all’anima:
riscalda la solitudine.

Si accoccola in un angolo,
germoglia…
il silenzio si fa musica.

Come nel cuore gentile
si annida l’amore
che scioglie le lacrime,
così un gesto gentile
è il primo passo del cammino.

Come il papavero
si apre stropicciato,
gioisce nel sole, diviene onda,
così la cura dell’anima.

(Cecilia Bolzani)

 

*

 

I dannati della terra

I dannati della terra danzano
al ritmo battuto dai morti
archi sospesi al nulla
oscurano un profilo di luna
dal cielo bucato dai proiettili
piovono uccelli
piovono urla
le rare lacrime costano troppo ormai

si compie la mattanza
del sangue a terra
resteranno solo ombre
si spengono le lucciole
nello stupore di Dio

(Rita Bonetti)

*

 

Oltre, ma sempre noi
Sguardo sperso
Non più negli occhi
Ma lungo, verso la
linea dei tetti;
Orizzonte immaginato…
Dolorosa constatazione
Di distanza magnetica.
Ultime pagine del testo,
Fase conclusa…
Si spegne il monitor
Mentre già si avvia
La mente,
Melagrana succosa,
A illuminare l’altrove
Mescolando colori
Scoprendo nuove direzioni
esplorando occasioni in
Ponderati passi
Su versanti ora ardui
Ora lievi eppure nuovi
ma sempre noi.

(Cecilia Bolzani)

 

*

Prima del verbo, il silenzio

restare in silenzio
ostentare il silenzio
attendere il silenzio
ascoltare il silenzio.

Temere il silenzio
evitare il silenzio
riempire il silenzio
affollare il silenzio
far parlare il silenzio.

Ridurre al il silenzio
rompere il silenzio
squarciare il silenzio
cantare il silenzio…
Alla fine di tutto, il silenzio.

(Anna Rita Boccafogli)

 

*

 

Figlie moderne

Figlie moderne
La nuova era delle Telecomunicazioni,
coronarie a dura prova.
Forse un messaggio
renderebbe il sonno
più pacato.
Silenzio assoluto
Utente non raggiungibile
Telefono spento
Brutti pensieri
L’ansia sale.
Minuti,
ore,
istanti interminabili.
Il silenzio fa rumore
Il cuore batte forte
Sempre più forte
La notte è adulta
È quasi l’alba
Affannoso è il crepuscolo

Ancora silenzio
Tutto tace
Cattivi pensieri
infausti presagi
FINALMENTE
Uno Squillo
È lei,
Sospiro liberatorio
GRAZIE A DIO,
Anche questa volta
Posso
Tornare a vivere


(Vincenzo Russo)

 

*

 

Lo scrivo

Incarti la mia voce
dentro al tuo silenzio
le mie parole si arrendono

dietro i tuoi occhi di ghiaccio
si incarna l’antica paura

Cerco varianti per farmi ascoltare
grida l’anima che non conosce resa

e mi imbavagli ancora una volta

Sarò inchiostro che scorre
Sarò parola di spada
negli spazi e nel perdono

lo scrivo

(Maggie – Maria Mancino)

 

*

 

Ora che piove a tratti

Eppure si può stare dalla parte del silenzio
accudire la stanchezza
custodire il bene ricevuto
e tutto il resto lasciarlo scivolare
come velo di muschio su pietra
verso uno spazio bianco intonso

la notte illumina voci sommesse
disseminate nel buio
a distanza di tenerezza
le sto ad ascoltare
sono i versi che tacciono
ora che piove a tratti

(Rita Bonetti)

 

*

 

La parola vuota

 

La parola vuota
preoccupata
silenziosa, gestuale
la parola regale
legale
speciale
la parola detta male
la parola in più
una parola ancora e poi metto giù.

Parole intrappolate
dalle convenzioni sociali,
parole banali.
La parola immaginata
nel suo corpo, nella sua vita.
La parola incartapecorita
che si sbriciola
che si squama tra le dita.

La parola si libera
viaggia nell’aria e parla ai nostri sogni.

 

(Pier Luigi Guerrini)

 

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 259° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

GRAZIA, FEDE E IPOCRISIA

GRAZIA, FEDE E  IPOCRISIA

L’animale ha fede. Fede nell’ambiente in cui vive. Sa che può fare affidamento su di esso, con la ferma convinzione che non si sarà traditi. Si sente a proprio agio nel suo habitat, come Adamo ed Eva prima della “caduta”. A differenza degli umani, l’animale non è né mentalmente né fisicamente caduto dallo stato di grazia.

Il girino cresce e si sviluppa nelle pozze di acqua pulita, la libellula trova la sua condizione ideale di vita lungo i corsi dei torrenti, la salamandra, l’ululone, i volatili trovano riparo e prede nell’ambiente che li ospita da migliaia di anni.

Gli animali hanno fede che ciò possa continuare nei millenni.

L’essere umano, alterando equilibri naturali perfetti, distrugge la fede degli animali: li disorienta e li confonde. Fino al punto di fargli perdere la “grazia”: la connessione naturale tra il proprio nucleo profondo e il nucleo dell’universo. Che esiste anche nei bambini piccoli.

Gli animali e i bambini condividono uno stato di grazia. Che si potrebbe chiamare spiritualità. La spiritualità è un sentimento di legame con l’universo.

Il sistema sociale in cui viviamo ha distrutto la spiritualità negli umani, e sta distruggendo la fede negli animali.

Un’aquila che veleggia solitaria sospinta dal vento, un gatto disteso al sole che si guarda tranquillo intorno, un asino che bruca convintamente e con calma il suo cardo, sono la raffigurazione perfetta di organismi in pace con se stessi e col mondo.

*****

La società, nelle sue varie aggregazioni economiche e associative che indirizzano e dominano il corso degli eventi sul pianeta Terra – multinazionali, lobby, grandi compagnie mediatiche – ha completamente cancellata da se stessa la grazia e il valore spirituale.

L’umano è diventato merce tra merci, ha rescisso ogni legame con la natura e si è legato a una divinità da esso stesso creato: il dio denaro. A cui sacrificare tutti i beni che il mondo ci aveva donati. Ammantando ipocritamente questo sacrificio interessato con discorsi che lo fanno sembrare utile alla salvezza del pianeta, di fatto saccheggiandolo in ogni dove, in ogni angolo che solo qualche decennio fa sarebbe stato impensabile violare.

Oasi naturali occupate da basi militari; crinali scempiati da mostri smisurati distruttori di flora, fauna, sorgenti, sentieri, storia, cultura, economia.

“Al centro del nostro essere c’è un’anima animale in armonia con la natura, il mondo e l’universo. Se veniamo separati da questo centro, la nostra mente continua funzionare in modo logico, ma i nostri pensieri hanno scarso valore umano. (Alexander Lowen, 1990).

La spiritualità è il sentimento di un legame con l’universo. Riconoscere in sé le stesse pulsazioni di vita, di energia, che sono degli animali, degli alberi, di un bosco, dello scorrere di un torrente. La spiritualità si basa su un sentire condiviso con tutte le creature esistenti.

È un sentire fisico: il respiro, il battito degli organi, lo scorrere dei liquidi… ma proprio attraverso questa comunanza, l’essere umano oltrepassa il proprio Sé, la propria persona, e si riconosce nell’universale.

L’amore, come la “fede”, è un nutrimento spirituale. Consiste in un legame profondo e sincero con altre persone, la natura o Dio.

I distruttori degli ambienti naturali, i guerrafondai, gli ipocriti delle lobby che usano lingua obliqua, tradendo l’amore si pongono come organismi disumani, dei veri e propri OGM (organismi geneticamente modificati). Proprio perché, in omaggio ai loro dei – denaro, potere – non si fanno alcuno scrupolo di assaltare e distruggere la natura, che contiene la cifra comune a tutti gli esseri viventi.

*****

In Europa siamo governati da oligarchie psicopatiche. Su un pianeta già boccheggiante, con più di 50 guerre in corso, non fanno altro che promuovere la costruzione di armi, spianare territori per basi militari, dispiegare missili con testate nucleari… Un incubo.

In un Rapporto dell’osservatorio sui conflitti e l’ambiente, pubblicato a fine 2023, si calcolava che nei primi 18 mesi di guerra in Ucraina erano stati immessi nell’atmosfera CO2 e altri gas serra paragonabili alle emissioni annue di un paese industrializzato come il Belgio.

Ma niente paura, gli impianti di energia alternativa, in particolare l’eolico sui crinali, ci salverà! Lo dicono, tra gli altri, oltre a qualche assessora all’ambiente, a qualche ministro, a qualche commissario europeo, anche le lobby del vento e associazioni “ambientaliste” che hanno smarrito la propria vocazione.

Più guerre? Più eolico!

Ipocriti!

Distruzioni, sevizie, morti atroci, solo per assecondare la sete di denaro delle multinazionali delle armi e la sete di potere dei politici loro servi.

Le guerre? Ignoriamole. Mettiamo pale. Distruggiamo anche dove non ci sono guerre! Ci pensano altri tipi di multinazionali.

Un vero accerchiamento!

*****

L’ipocrisia è anche di sedicenti associazioni ambientaliste, che invece di battersi per la pace e per una generalizzata riduzione dei consumi di energia, hanno preso come loro cavallo di battaglia l’eolico e il fotovoltaico da fare ovunque e a tutti i costi, tradendo gli stessi principi e limiti che si erano dati in origine.

Infatti, nel primo Protocollo d’intesa del 2005, firmato da WWF e ANEV (Associazione Nazionale Energia del Vento), a cui in seguito si è aggiunta Legambiente, si escludeva “automaticamente dalla costruzione di impianti aree interessate dalle migrazioni primaverili e autunnali di avifauna, aree interessate dalla PRESENZA, nidificazione e svernamento di specie minacciate… aree prioritarie per la conservazione della biodiversità”, nonché “aree con presenza di alberi di alto fusto”.

Tutte condizioni presenti, tra l’altro, sul crinale di Villore-Corella dove oggi impazzano escavatori, camion e trattori di dimensioni giganti.

Allora la domanda è: dove sono finiti quei principi, quelle linee guida che pure avete sottoscritto? Cosa è successo nel frattempo? Forse sono aumentate le zone vergini a tal punto che se se ne perde una fa lo stesso?

*****

Ma qui, in Mugello, l’ipocrisia è anche delle piccole oligarchie locali che hanno governato alcuni Comuni fino a poco tempo fa. Affermavano, quei politici, di considerare il Mugello il “polmone verde dell’Appennino”. Invece che hanno fatto? Hanno permesso che quel polmone venisse bucato, con i devastanti lavori che essi stessi hanno autorizzato. Il “polmone verde” ora respira a fatica, si è ammalato. Medici all’incontrario, Magia nera. Hanno detto una cosa e ne hanno praticata un’altra. Ipocriti, appunto.

E ora a cosa assistiamo, a mille metri, sull’Appennino? Innanzitutto il crinale – oasi di pace, contiguo a Zone Speciali di Conservazione e di fronte al Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi – è stato declassato a zona industriale, per la cementificazione di cui dovrebbe essere oggetto e per il silenzio (il silenzio! Dov’è più oggi il silenzio?) che non arriderà mai più su quelle vette. Per il rumore che produrranno le pale praticamente sarà impossibile sostare nelle loro prossimità.

E ci si vanta, da parte dei promotori del progetto, che tutti gli enti del territorio hanno votato a favore di esso. Bugiardi! Tralasciano gli enti di maggior peso, unici non politici ma oggettivamente interessati alla salvaguardia del territorio: il Parco Nazionale Foreste casentinesi e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Firenze e le province di Pistoia e Prato. A cui si sono aggiunti svariati comuni della Romagna più uno toscano: San Godenzo

*****

L’impianto eolico sul crinale di Villore-Corella è un’azione non solo di devastazione, di alterazione di un ambiente votato a tutt’altra vocazione, ma è anche un’azione senza senso, privo di utilità pratica. Si produrranno briciole di energia, nemmeno verificabili nella loro entità, perché mai sono stati resi di pubblico dominio i dati anemometrici.

E comunque, cartine del vento alla mano, si scopre che l’Appennino non è zona sufficientemente ventosa. Nessun ricavo coprirà mai l’esorbitante costo dei lavori.

Briciole di energia pagate a caro prezzo, anche per le nostre tasche. Siamo infatti noi utenti che le paghiamo, grazie alla voce “oneri di sistema”, contenuta nelle bollette che bimestralmente ci arrivano. Sarà per questo che tante grandi aziende del Nord Europa stanno venendo a investire da noi, perché lì non ci sono le sovvenzioni pubbliche, lì si rischia coi propri capitali.

L’aspetto paradossale è che queste sussidi elargiti da noi consumatori vanno sì a sovvenzionare i lavori ma, c’è da supporre, anche le altre voci di spesa che le aziende sostengono, compresi i nutriti studi legali che inviano querele a destra e a manca, non appena una critica coglie più approfonditamente nel segno. Insomma, vien da dire, trattenendo a stento una pantagruelica risata, paghiamo i nostri querelanti!

*****

Il progetto sul crinale Villore-Corella è un vero atto di “hybris”: avrebbero detto i nostri padri greci. Un atto di insolenza, tracotanza, prevaricazione contro la natura, la storia,  la cultura di un luogo e delle sue comunità. È un atto di orgoglio, di superbia, un oltrepassare il limite che l’essere umano dovrebbe porsi di fronte all’ordine naturale delle cose. Azioni così fuori misura, fuori limite, a volte sono destinate a cadere da sole.

Ci teniamo a dire, infine, che per ora il cemento sul crinale ancora non c’è. Ci sono centinaia e centinaia di faggi e castagni secolari tagliati, fonti intubate deviate e sporcate, immondizie varie lasciate in giro, uno sversamento di liquido maleodorante, il sentiero 00 e quello europeo E1 completamente cancellati dalle ruspe, interi costoni di roccia frantumati, strappi di strade nel bosco con pendenza vicino al 20% (e la prevenzione dei disastri idrogeologici dove va a finire? Vi immaginate che fiumi d’acqua vi scorreranno sopra?).

C’è tutto questo ma il cemento ancora non c’è. I danni, anche se notevoli, non sono ancora irreparabili. La natura, nella sua divina magnanimità, può ancora, con gli anni, i decenni, recuperare la devastazione in corso. E allora ci teniamo a dire che la partita è ancora aperta. I giochi non sono ancora fatti. C’è un giudizio che pende al Consigliio di Stato. C’è ancora la possibilità che il crinale, e con esso l’energia dal volto umano, vinca.

Per leggere gli articoli di Tommaso Capasso su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Zebra: molto più di un semplice giornale

Zebra:  molto più di un semplice giornale

Un progetto editoriale e sociale che garantisce un’entrata economica e favorisce la riattivazione di risorse e competenze a persone che vivono un momento di crisi o una condizione di grave marginalità e, al contempo, una rivista che ogni mese accende i riflettori su temi, persone e problematiche che raramente trovano spazio sui media cosiddetti mainstream. Sono queste le caratteristiche principali di zebra., il giornale di strada dell’Alto Adige edito dall’OEWOrganisation für Eine Solidarische Welt Organizzazione per Un Mondo Solidale di Bressanone, dal 2014.

Il principio è semplice quanto efficace. I venditori e le venditrici di zebra. acquistano la rivista per 1,50 euro e la rivendono in strada a 3 euro. L’incasso della vendita, quindi, entra direttamente nelle loro tasche.

I guadagno medio mensile di ciascun venditore si aggira intorno ai 300-400 euro ma chi si impegna di più può ambire a ricavi molto più interessanti. Questo importo consente loro di coprire (almeno) le spese per i bisogni primari e di (ri)cominciare a fare progetti a medio e lungo termine, supportati dai due social worker di OEW.
Essi affiancano le persone inserite in progetto attraverso interventi individualizzati e sono sempre pronti a intervenire anche nei momenti di maggiore crisi: problemi burocratici legati alla richiesta di protezione internazionale, l’accesso al mercato del lavoro e, soprattutto, a quello alloggiativo; trovare una casa in affitto, infatti, è per quasi tutti i venditori un ostacolo insormontabile.
Oltre ai prezzi proibitivi, il team di venditori, attualmente costituito per la maggior parte da uomini africani, deve fare i conti con la diversità culturale e linguistica, a volte con la diffidenza dei cittadini.

La redazione di Zebra pianifica le dieci edizioni annuali, scegliendo i temi – nel 2024 su zebra si è parlato per esempio di giornalismo, spazio pubblico, biodiversità, grave emarginazione e guerra – e costruendo ciascun numero con il fondamentale supporto di un gruppo di volontari e freelance, oltre che con i venditori stessi, con i quali svolgono regolarmente delle riunioni di redazione. Una redazione aperta, dunque, che accoglie, accompagna e fa crescere anche chi vuole misurarsi per la prima volta con la scrittura giornalistica.

È proprio l’incontro uno dei pilastri del progetto brissinese: l’incontro in strada tra chi la rivista la vende e chi la compra, e l’incontro tra i lettori e i temi trattati sulla rivista e tra il giornale stesso ed altre realtà sociali ed editoriali italiane ed internazionali.

Dal 2018, infatti, zebra. è parte di INSP-International Network of Street Papers e da questo mese è molto felice di approdare su Periscopio per allargare i propri orizzonti e, al tempo stesso, la propria platea di lettori e sostenitori.

Per maggiori informazioni in italiano: www.oew.org/zebra   In tedesco: www.oew.org/zebra

Nelle prossime settimane Periscopio ospiterà la voce di Zebra, attraverso gli articoli dei suoi redattori e collaboratori. 

Vite di carta /
Il raffinato romanzo su tempi dimenticati di Sonia Aggio

Vite di carta. Nella stanza dell’imperatore di Sonia Aggio, un raffinato romanzo su tempi dimenticati

Ha meno di trent’anni questa scrittrice e bibliotecaria, nata non lontano da qui, a Rovigo, che ha tirato fuori dall’armadio della Storia stoffe e preziosi costumi bizantini ancora segnati dal profumo di un tempo lontano e di rado messo a fuoco nel nostro immaginario, il X secolo dell’Impero d’Oriente.

Nella stanza dell’imperatore, entrato nella cinquina dei finalisti dello Strega 2024, è immerso nel secolo in cui tra il 969 2 il 976 il protagonista del romanzo, Giovanni Zimisce, guida un impero vasto e forte. Giovanni ne respira gli odori in ogni pagina, sia quando è in guerra e la polvere e il sangue esalano i loro miasmi, sia nei palazzi del potere in cui vive nel corso della sua strepitosa carriera.

Anche la Città per antonomasia, Costantinopoli, esala i suoi profumi e la sua luce fino alla fine: quando l’imperatore è nella sua stanza, in punto di morte, ha visioni e ricordi allucinati e crede di sentire “i profumi intensi dei fiori e degli olivi”.

La suggestione dell’olfatto non è l’unica a trattenermi, al momento, dal definire storico un romanzo come questo: se lo ripenso come operazione narrativa, ritrovo certamente la attenta ricostruzione storica dell’Impero d’Oriente con i suoi complessi ingranaggi di potere, ma sento altrettanto forti gli effetti che producono sul lettore sia la tecnica narrativa che i rimandi letterari al Macbeth di Shakespeare.

Mi pare che Sonia Aggio abbia voluto re-interpretare la struttura compositiva del romanzo, appunto, storico in una chiave decisamente aggiornata, mettendo nella sua narrazione ingredienti della narrativa contemporanea, come la dimensione personalistica del racconto e la sua impostazione cinematografica.

Serve descrivere i contenuti di fondo per ragionare su come sono proposti nel romanzo.

Giovanni Zimisce viene educato e avviato alla carriera militare da Leone e Niceforo Foca, fratelli della madre. A dieci anni viene portato dall’Armenia in Cappadocia per crescere con gli zii e da quel momento la sua vita è fatta di spostamenti di città in città e di regione in regione per interpretare la sua prestigiosa carriera militare.

Si rivela un comandante tenace e ardimentoso, che nemmeno i grandi dolori dovuti alla perdita dei propri familiari riescono a trattenere dal dovere di combattere per la grandezza dell’Impero.

A guidarlo, e a turbarlo, è la profezia che riceve da tre streghe (come accade a Macbeth) in momenti chiave della sua parabola di generale al comando dell’esercito bizantino: è ancora all’inizio della sua carriera quando la prima delle tre gli rivela che diventerà Imperatore, in greco basileus ton Romaion.

Nella sua ascesa al potere Giovanni alterna atti di coraggio a imprese spietate, l’ultima e più tormentata è quella di uccidere lo zio Niceforo, l’imperatore in carica, per prenderne il posto (torna il fantasma narrativo di Macbeth).

Quando nel palazzo di Costantinopoli Giovanni morente rivede la propria vita in forma di immagini allucinate e ricordi insepolti, lo stile narrativo rasenta il fantasy. La percezione distorta della realtà dell’imperatore investe il livello discorsivo del testo.

Ecco la chiave espressiva contemporanea: tutto il romanzo è pervaso dal punto di vista del protagonista, pur mantenendo la terza persona della voce narrante.

Chi narra parla dalla prospettiva del protagonista, col suo sguardo lucido sull’impero e con le suggestioni magico-oniriche delle streghe vigili sul proprio destino. E c’è anche una creatura, una serpe attaccata agli organi interni, che erompe in lui sotto forma di una furia mai sazia contro gli avversari da combattere.

In più, la narrazione è completamente al presente e magnetizza il lettore tirandolo dentro alla pagina. Mettendolo all’altezza degli occhi dell’imperatore, dentro un racconto in progress.

Cinematograficamente, il libro è già pronto per essere trasformato in un film. Con una fotografia limpida su paesaggi dalla bellezza straordinaria e con i colori squillanti della Turchia oggi. Anche con molti effetti speciali, quando Giovanni ha le più intense percezioni della propria vita e della morte che lo accompagna, quando gli appaiono le streghe con le sembianze di donna e le spire del surreale si mescolano alla realtà dei cinque sensi.

Anche la serie delle sequenze è già pronta: il film potrà seguire le sezioni del romanzo, che si articolano a loro volta come nel teatro classico da un prologo (Mezzanotte) all’epilogo (Mezzogiorno), passando per cinque intervalli di tempo, dal 935 al 976 d.C. chiamati rispettivamente Alba, Giorno, Crepuscolo, Notte e Zenit

Ogni parte del giorno richiama un altro ordine di grandezza sulla linea del tempo, come a voler intrecciare al computo lineare di oltre quarant’anni il movimento circolare di una giornata.

Ho letto il libro consultando spesso l’apparato posto all’inizio: alberi genealogici delle famiglie più potenti dell’Impero Bizantino e carta dei themata bizantini nel X secolo. In fondo al libro ho consultato il Piccolo dizionario bizantino. Ci sono più informazioni qui che sui manuali di storia antica e medievale in uso nei licei, dove è dedicata mezza pagina all’Impero Romano d’Oriente, sopravvissuto per molti anni dopo il 476 alla caduta dell’Impero d’Occidente.

Eppure ho tergiversato fin qui e ancora mi trattengo dal definire Nella stanza dell’imperatore un romanzo storico, così come viene definito seccamente in tante recensioni che ho trovato in internet, mentre cercavo il confronto con altri lettori.

Passi il “compromesso tra verità storica e materia letteraria”, di cui ci avverte l’autrice nella nota finale, siamo e restiamo nella fisiologia del genere storico, ma qui sono entrate ben altre componenti narratologiche.

È tempo, ora, di prendere una posizione: e sia. Lo chiamo così a mia volta, ma lo colloco nel livello di energia più esterno della narrativa storica, a un passo dal fare il salto verso altro. Sono numerose le opere della narrativa di questi anni che contaminano volutamente i generi, per esempio proponendo una visione individuale, acuta e personalistica, di come va il mondo, tra autobiografia e critica sociale.

Chapeau per Sonia Aggio, a cui questa contaminazione è riuscita nel recupero di un passato lontano e così poco conosciuto.

Nota bibliografica:

  • Sonia Aggio, Nella stanza dell’imperatore, Fazi Editore, 2024

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Il patriarcato è morto?

Il patriarcato è morto?

A un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin– un anno nel quale si sperava qualcosa cambiasse nelle linee di azione del governo Meloni – il patriarcato è vivo e vegeto.
Sbaglia, e di molto, il ministro Giuseppe Valditara, che aveva promesso grandi cambiamenti nel mondo della scuola, nel dichiarare il decesso del patriarcato. Ad essere morte, nel solo ultimo anno di inazione del suo ministero, sono 120 donne, uccise da uomini.
Non entriamo nemmeno nelle affermazioni sulla nazionalità e l’irregolarità, perché a smentirle stanno le statistiche, di facile accesso per chiunque, quindi anche per Valditara (oltre il 70% delle violenze è da attribuire a cittadini italiani, e ogni anno il dato si riconferma sostanzialmente simile, indipendentemente dall’arrivo di migranti in Italia).
Ma non fingeremo che definire la lotta al patriarcato una ideologia sia una delle tante fesserie che escono quotidianamente dalle bocche di uomini e donne di questo governo. Perché se non ci si ritrova almeno sui fondamentali sarà impossibile trovare un terreno comune sul quale combattere la (sub)cultura che sta alla base dell’uccisione di tante donne e della violenza quotidiana che si consuma nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nelle strade.
Il patriarcato purtroppo è una pianta infestante e resistente, e se non fosse proprio Valditara a essere sequestrato dalle parole chiave della destra semplicistica, riuscirebbe a fare due più due e a collegare che “machismo e maschilismo” di cui parla, sono proprio il frutto della cultura patriarcale che la scuola guidata dal suo ministero dovrebbe contribuire a combattere.
Se la scuola riesce, o almeno prova, a educare e formare bambini e bambine secondo il principio dell’uguaglianza sostanziale e del rispetto dell’altro nelle sue differenze è grazie all’impegno di tante e tanti insegnanti che – nonostante precarietà, mancanza di fondi, libri di testo spesso inadatti e nonostante le promesse non mantenute sull’introduzione di ore di educazione alla sessualità e alla affettività – sanno bene che il patriarcato esiste ancora ed è sui banchi di scuola che può cominciare la sua destrutturazione.
Faccia meno propaganda sulla pelle delle donne, Ministro, e dia alle nuove generazioni qualche strumento in più per crescere libere da stereotipi e diseguaglianze, ottimi fertilizzanti del patriarcato.

 

Ilaria Baraldi
Portavoce Conferenza donne democratiche di Ferrara

Il patriarcato di Valditara:
il sassolino e la montagna

Il patriarcato di Valditara: il sassolino e la montagna.

“Il patriarcato, come fenomeno giuridico, è finito con la riforma del diritto di famiglia nel 1975”  
“l’incremento di fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da un’immigrazione illegale”
(Giuseppe Valditara)

Ieri, 18 novembre 2024, a un anno esatto dal ritrovamento del corpo di Giulia  Checchettin, era il giorno della presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin nella sede più alta, la Camera dei Deputati. Il Ministro dell’istruzione e del Merito Giuseppe Valditara interviene attraverso  un videomessaggio trasmesso nel corso  della cerimonia.

Qualche estratto per  prendere confidenza con il pensiero di Valditara e della destra italiana. Le sue affermazioni sui femminicidi e sulla responsabilità degli stranieri “clandestini” sono smentite dai dati Istat, eppure il ministro impartisce la sua lezione:
Dev’essere chiaro a ogni nuovo venuto, a tutti coloro che vogliono vivere con noi, la portata della nostra Costituzione che non ammette discriminazioni fondate sul sesso. Occorre non far finta di non vedere che l’incremento di fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da un’immigrazione illegale

E Valditara prosegue: “Abbiamo due strade: una concreta, ispirata ai valori costituzionali, e una ideologica. Di solito i percorsi ideologici non mirano mai a risolvere i problemi ma affermare una personale visione del mondo. La visione ideologica è quella che vorrebbe risolvere la questione femminile lottando contro il patriarcato….Il patriarcato è morto 200 anni fa ma certamente il patriarcato, come fenomeno giuridico, è finito con la riforma del diritto di famiglia nel 1975 che ha sostituito la famiglia fondata sulla gerarchia quella sulla uguaglianza. Piuttosto ci sono ancora nel nostro paese residui di maschilismo, diciamo di ‘machismo’, che vanno combattuti e che sono quelli che portano a considerare la donna come un oggetto, come una persona di minore dignità che deve subire”.

Giorgia Meloni, leader maximo incontrastato della destra italiana, proverà a smorzare, attenuare, derubricare l’improvvida uscita di Valditara, nel medesimo modo usato per suo cognato Francesco Lollobrigida (Agricoltura), per il trombato Gennaro Sangiuliano (Cultura) e il suo sostituto  Alessandro Giuli.  Nessuna smentita, nessuna presa di distanza, ma la solita accusa alla sinistra di aver attaccato una frase presa fuori dal contesto generale.

Mentre gli studenti medi (per la destra sono tutti rossi e violenti) si preparano ad una manifestazione nazionale dei 100.000 contro i tagli della scuola di Valditara, mentre lo stesso Valditara è oggetto di innumerevoli meme in rete, è venuto il momento di andare oltre lo sconcerto e l’indignazione, di chiedersi cioè cosa ci sia dietro “le parole in libertà”, di questo o quel ministro della Repubblica. 

Qualcuno sostiene che la destra non era pronta a governare, che i vari amici e parenti elevati al soglio ministeriale, sono solo inesperti, impreparati, ignoranti, digiuni delle regole minime del Bon ton della politica … da qui i piccoli errori … le gaffe … le parole di troppo.  Sarà forse anche così – è infatti sconcertante la pochezza culturale e politica di alcuni ministri scelti da Giorgia Meloni – ma dopo due anni di governo emerge una lettura diversa. Dietro i suoi maldestri moschettieri, la nuova/vecchia destra di Giorgia espone il suo verbo, una nuova ideologia da proporre e imporre al Paese. Una visione ideologica (proprio quella che Valditara dichiara morta e defunta) che vuole affermarsi e scalzare le convinzioni democratiche ed egualitarie ancora maggioritarie nella società italiana e che informano la nostra Costituzione.

Una Costituzione che va smontata pezzo per pezzo. Attraverso la legge sull’Autonomia Differenziata (uscita acciaccata dalla sentenza della Suprema Corte), attraverso il Ddl Sicurezza contro “i comunisti”, i manifestanti e i sindacati, attraverso la legge sul Premierato (ancora in cottura). Ma anche attraverso le parole dal sen fuggite di Valditara e degli altri moschettieri ignoranti: un sassolino oggi, un sassolino domani, così la destra cerca di costruire la sua montagna: la sua egemonia ideologica.

 

Parole e figure / Piccola lei

Da poco in libreria, “Piccola Lei”, di Sophie Caironi, edito da Kite ci parla di sogni. Quelli che ci guidano, quelli che non si perdono mai.

Piccola Lei è una ragazza, come tante, e come loro ha un sogno. Dopo averlo atteso per lungo tempo un bel giorno decide di andarselo a cercare, visto che lui non è tornato.

“Se puoi sognarlo”, puoi farlo ci ricordava Walt Disney e, allora, c’era una volta un sogno.

Fra disegni dominati da tratti di matita blu-azzurro e magenta, la giovane varca mari e monti, sfiora boschi e sentieri, si lascia ammaliare da posti sconosciuti, sempre più lontano, sempre più in alto, in direzione di luoghi misteriosi e sconosciuti. Senza mai perdere di vista l’obiettivo: raggiungere il suo sogno. Tenace, sicura, determinata. Per sempre.

Come è bello il mondo visto da lassù. Ma anche da quaggiù non è poi tanto male. Chiedere forse alla montagna se il suo sogno è passato di lì? O alla foresta? Nessuno l’ha visto.

Ma il vento sente tutto e, soffiando, la prende per mano. Delicato, attento, amichevole.

 

Il bosco le svela che il suo bel sogno non può essere andato molto lontano, magari ha preso una strada diversa dalla sua, teme la nostra amica. E se, poi, il sentiero non ha né inizio né fine, diventa davvero difficile raggiungerlo. Ma la curiosità guida. Tentare la regola. Il mare suggerisce di andare un poco più in là e di continuare a cercare. Senza sosta.

Ma poco più in là non c’è davvero nulla, oddio che paura… ma aspetta, aspetta, si sente un rumore, forse laggiù…

Sophie Caironi, Piccola Lei, Kite edizioni, Padova, 2024, 52 p.

I sogni son desideri
Di felicità

Nel sonno non hai pensieri
Ti esprimi con sincerità
Se hai fede chissà che un giorno

La sorte non ti arriderà
Tu sogna e spera fermamente
Dimentica il presente
E il sogno realtà diverrà.

Avrebbe cantato Cenerentola…

Piccoli topi fascisti contro la grande ambizione

Piccoli topi fascisti contro la grande ambizione

A Roma un gruppo di giovani fascisti ha fatto irruzione nel cinema Atlantic interrompendo la proiezione del film al grido di “comunisti di merda” insultando gli spettatori e aggredendo una donna.

Un fatto gravissimo che ci riporta a un clima pericolosissimo. A rendere pubblica la cosa è stata Bianca Berlinguer.

Questo succede anche perché la non condanna degli squadristi fascisti che hanno marciato su bologna da parte di Meloni e Salvini è stata interpretata dalle organizzazioni neofasciste di tutta Italia come un via libera di fatto per le loro azioni vergognose e intimidatorie.

Enzo Foschi 
https://www.facebook.com/enzo.foschi

Per certi versi / A Marta

A Marta

Perché è sera
Mi piacciono
Gli occhi delle case
Le loro luci
Raccontano
Le sfumature
Delle vite
Le tapparelle abbassate
I cicisbei
Che arrivavano
Con scie di profumo
Lunghe come
 fiumi erranti
Perché è sera
Mi compiaccio
Con le nuvole
Hanno lustrato
Il cielo
Il vento ha smesso
Di rompere
Le scatole
Sì odono
Le preghiere
Del Carmelo
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Siamo prigionieri perché siamo liberi

Siamo prigionieri perché siamo liberi

Cosa è un tratto specie-specifico? Il vostro cane scodinzola e riporta indietro le cose che lanciate. Il gatto fa le fusa e se cade dall’alto si ribalta per atterrare su quattro zampe.

Il «tratto», in generale, è qualcosa di così naturale da essere… dato per scontato.

Ricordo ancora l’ espressione delusa negli occhi delle mie figlie quando lanciarono un bastoncino al nostro West Highland White Terrier: «Papà, Teo non funziona!» così mi dissero. In effetti a quel tempo non sapevamo che i Terrier fossero cani da tana e non da riporto.

Quando portammo Anakin, il nostro gatto, dalla veterinaria dopo che aveva effettuato un volo di due piani, lei serafica, mentre ricuciva la pelle sotto il mento del “cavaliere Jedi”, ci disse: «Fortuna che è caduto dal secondo piano! Ha avuto il tempo di rigirarsi in volo».

Bene. Ci siamo dunque capiti: ogni specie ha dei tratti specie-specifici naturali come quelli appena descritti.

Dalla notte dei tempi pare che la nostra specie, Homo sapiens, si interroghi su quello che avverrà: abbiamo seguito le tracce degli animali per coglierli in imboscate ben architettate; abbiamo osservato il cielo per stabilire il momento migliore per seminare; siamo andati dalla Pizia per un responso; sogniamo persino che qualcuno, in sogno, ci dia i numeri da giocare. E via così.

Immaginare il futuro, sognarlo, programmarlo insomma: “crearlo”, sembra un nostro tratto specie-specifico. L’arte divinatoria in tutte le sue forme, da quella animistico-sciamanica passando per l’altra più strettamente religiosa e terminando con quella, apparentemente più evoluta, tecnico-scientifica, è un tratto specie-specifico di noi sapiens.

Per inciso: molta dell’ansia prodotta dal cambiamento climatico dipende dalla nostra impotenza alla predizione! Dalla frustrazione di un nostro tratto specie-specifico.

Parallelamente a questo particolare tratto specie-specifico, i sapiens ne affiancano un altro molto robusto e , sembrerebbe, frutto di un processo evolutivo: la coscienza o per essere più pratici (si fa per dire) l’intuizione di essere liberi nell’ esercitare in piena autonomia una volontà di scelta.

Evidentemente l’abbinamento di questi due tratti, quello che ci permette di costruire una “storia” in avanti e/o indietro (p.es. un destino, una previsione), e l’altro di sentirsi liberi e responsabili delle proprie scelte, è qualcosa che in una certa misura dovrebbe disturbare un pensiero logico razionale.

Si tratta in tutta evidenza di un vero e proprio ossimoro…creaturale (parola molto cara all’antropologo e cibernetico Gregory Bateson): due tratti specie-specifici praticamente inconciliabili.

Il libro del fisico e cibernetico Giuseppe Trautteur, Il prigioniero libero (Adelphi, 2020) affronta questo insanabile conflitto partendo dal concetto di “libero arbitrio” e più in generale di libertà.

Chi si è occupato della libertà personale (o del “libero arbitrio) e del suo rapporto con i risultati della scienza lo ha fatto con tre diverse finalità:  per mostrarne l’inconsistenza oppure per proporre soluzioni o, ancora, per certificarne definitivamente l’insolubilità.

Ma Trautteur, piuttosto che affrontare il tema dal punto di vista filosofico, lo fa inquadrandolo da un punto di vista delle scienze contemporanee, attingendo alla teoria formale delle decisioni, alle concezioni moderne di tempo, al rapporto tra determinismo e prevedibilità e alle neuroscienze.

Non dimentichiamo che il Prof. Giuseppe Trautteur dal 1970  è consulente scientifico della Adelphi e ha motivato la casa editrice, già nota per la sua produzione letteraria, a lanciare una collana totalmente dedicata alla scienza: la collana «Scientifica» di Adelphi (quella, per intenderci, di colore rosso-mattone ferrarese!).

È a lui che si devono alcune traduzioni e pubblicazioni fondamentali come il famoso volumi di Gregory Bateson Verso un ecologia della mente, primo volume della Scientifica adelphiana, o il quinto volume della collana, Il Tao della Fisica del fisico e teorico dei sistemi Fritjof Capra, fino a quelli più recenti del neurofisiologo Antonio Damasio, Sentire e conoscere e del fisico Carlo Rovelli, L’ordine del tempo.

Come si diceva, Trautteur affronta la questione dal punto di vista empirico, dando forte rilevanza ad alcuni recenti esperimenti di neurofisiologia in grado di superare l’impasse tra i due tratti specie-specifici, vale a dire tra l’essere prigionieri di un fato predeterminato e contemporaneamente liberi di scegliere e agire.

Quando decidiamo di compiere un’azione come, ad esempio, afferrare un oggetto, si attivano dei nervi che azionano il movimento e fin qui è tutto chiaro: 1) volontà di fare una cosa e 2) azione conseguente. Ma siamo proprio sicuri che sia così?  Non tanto. Alcuni ricercatori tedeschi, negli anni ’60, hanno infatti scoperto che quei nervi sembrerebbero attivarsi prima di una libera decisione di afferrare l’oggetto.

Altri esperimenti eseguiti successivamente dal neurofisiologo statunitense Benjamin Libet verificarono questi dati stabilendo così che il cosiddetto potenziale premotorio, preparatorio al movimento della mano, precede l’esperienza cosciente di voler muovere la mano.

Trautteur riassume questo paradosso con una domanda: il corpo precede la mente? Vale a dire: il nostro tratto specie-specifico di costruire una storia (passata o futura) e di essere “pre-destinati” e “pre-determinanti”, precede la nostra libera volontà di scelta?

Alcuni recenti esperimenti di neurofisiologia per rispondere univocamente alla domanda ci dicono che…bisogna eliminare il punto interrogativo: sebbene «…la decisione di iniziare un’azione non può avvenire prima che il soggetto ne sia consapevole, possiamo identificare l’evento neurale di partenza con una decisione di cui possiamo diventare consapevoli poco più tardi» (G. Trautteur).

Il corpo (in questo caso il neurone) precede la mente (la volontà).

Il cane scodinzola inconsapevolmente. Il gatto si ribalta perché è “fatto” così. E, come aveva ben profetizzato Isaac Bashevis Singer: sapiens “crede nel libero arbitrio perché non ha scelta!”

Per leggere gli articoli di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Convegno online su Allevamenti Intensivi
23 Novembre 2024, dalle 14,30 alle 19,30

ALLEVAMENTI INTENSIVI

IMPATTI SU SALUTE, CLIMA E AMBIENTE, SUI DIRITTI DEGLI ANIMALI E SULLE NOSTRE COSCIENZE

23 novembre 2024 – H. 14,30 – 19,30

Gli allevamenti intensivi esistono perché esiste un fabbisogno indotto che è quello di un’alimentazione ad eccessivo contenuto di carne, latticini e uova ormai universalmente riconosciuta dalla scienza come non salutare.

È necessario ritornare ad un’alimentazione sana che eliminando la necessità degli allevamenti intensivi, consenta una vita dignitosa agli animali, elimini l’impatto inquinante degli allevamenti su aria, terra e acqua e l’uso spropositato che richiedono di risorse idriche restituendo anche salute agli ecosistemi e agli esseri umani.

Gli allevamenti intensivi infatti sono una delle cause principali della perdita di biodiversità e di danni alla nostra salute sia per gli inquinanti ambientali che producono che per il rischio di malattie trasmissibili dall’animale all’uomo e di spillover. Concorrono allo sviluppo di antimicrobico resistenza, principalmente ambientale, contro la quale non esistono difese.

Il 23 novembre tutto questo verrà illustrato chiaramente da esperti del settore ma c’è di più.
Con loro cercheremo di capire anche gli impatti degli allevamenti intensivi sui popoli del mondo, in modo particolare quelli più poveri, che più di noi pagano il prezzo della nostra alimentazione anche in termini di migrazioni, per addentrarci poi nel labirinto delle politiche nazionali ed europee con un particolare focus su quelle dell’Emilia-Romagna e arrivare a conoscere alcune delle iniziative in corso per contrastarle.

Il convegno organizzato da RECA è pensato per fornire ai cittadini una cassetta degli attrezzi ricca di argomenti, dati e fatti utile a contrastare il messaggio, travestito da informazione, a sostegno dell’esistenza degli allevamenti intensivi diffuso dalle potenti lobby del settore.

Sarà trasmesso in diretta sulla pagina Facebook di RECA, vi invitiamo a seguirlo, commentare e cogliere l’occasione per porre porre domande direttamente ai relatori, ma per chi non potesse sarà pubblicato successivamente sul nostro canale YouTube per una visione successiva.

PROGRAMMA:

𝗜𝗻𝘁𝗿𝗼𝗱𝘂𝗰𝗲:
𝙇𝙪𝙘𝙖 𝙈𝙖𝙧𝙩𝙞𝙣𝙚𝙡𝙡𝙞 – Giornalista

𝗠𝗼𝗱𝗲𝗿𝗮𝘁𝗼𝗿𝗲:
𝘼𝙣𝙩𝙤𝙣𝙞𝙤 𝙇𝙖𝙪𝙧𝙞𝙤𝙡𝙖 – Medico veterinario

▪️ 𝗜𝗹 𝗰𝗼𝗻𝗰𝗲𝘁𝘁𝗼 𝗱𝗶 𝗮𝗹𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝘀𝗮𝗻𝗮 𝗲𝗱 𝗲𝗰𝗼𝘀𝗼𝘀𝘁𝗲𝗻𝗶𝗯𝗶𝗹𝗲
𝙈𝙖𝙧𝙞𝙖 𝙀𝙡𝙚𝙣𝙖 𝘾𝙖𝙛𝙖𝙜𝙣𝙖 – Biologa nutrizionista ISDE
▪️ 𝗟’𝗶𝗺𝗽𝗮𝘁𝘁𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝗰𝗶𝗯𝗼 𝘀𝘂𝗹 𝗰𝗹𝗶𝗺𝗮: 𝗽𝗲𝗿𝗰𝗵𝗲́ 𝗲̀ 𝗰𝗼𝘀𝗶̀ 𝗴𝗿𝗮𝗻𝗱𝗲, 𝗰𝗼𝘀𝗮 𝗽𝗼𝘀𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗳𝗮𝗿𝗲 𝗶 𝗰𝗼𝗻𝘀𝘂𝗺𝗮𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗲 𝗹𝗮 𝗳𝗶𝗹𝗶𝗲𝗿𝗮
𝙂𝙞𝙪𝙡𝙞𝙖𝙣𝙤 𝙍𝙖𝙣𝙘𝙞𝙡𝙞𝙤 – Ricercatore Politecnico di Milano, Dipartimento di Energia, tra gli autori di “La dieta amica del clima
▪️ 𝗜𝗻𝗾𝘂𝗶𝗻𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗲 𝗱𝗮𝗻𝗻𝗶 𝗮𝗹 𝘀𝘂𝗼𝗹𝗼 𝗱𝗮 𝗮𝗴𝗿𝗶𝗰𝗼𝗹𝘁𝘂𝗿𝗮 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗻𝘀𝗶𝘃𝗮
𝘼𝙣𝙙𝙧𝙚𝙖 𝘽𝙧𝙚𝙜𝙤𝙡𝙞 – Agronomo
▪️ 𝗜𝗻𝗾𝘂𝗶𝗻𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝘀𝗽𝗲𝗰𝗶𝗳𝗶𝗰𝗼 𝗱𝗮 𝗮𝗹𝗹𝗲𝘃𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗶 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗻𝘀𝗶𝘃𝗶
𝙀𝙫𝙖 𝙍𝙞𝙜𝙤𝙣𝙖𝙩 – Già veterinario pubblico, componente commissione scientifica ISDE e RECA
▪️ 𝗥𝗶𝘀𝗰𝗵𝗶 𝘀𝗮𝗻𝗶𝘁𝗮𝗿𝗶 𝗱𝗮 𝗮𝗹𝗹𝗲𝘃𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗶
𝙀𝙫𝙖 𝙍𝙞𝙜𝙤𝙣𝙖𝙩 – Già veterinario pubblico, componente commissione scientifica ISDE e RECA
▪️ 𝗕𝗲𝗻𝗲𝘀𝘀𝗲𝗿𝗲 𝗮𝗻𝗶𝗺𝗮𝗹𝗲: 𝗲𝘁𝗶𝗰𝗮, 𝘀𝗰𝗶𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗲 𝗹𝗲𝗴𝗶𝘀𝗹𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲
𝘼𝙣𝙣𝙖𝙢𝙖𝙧𝙞𝙖 𝙋𝙞𝙨𝙖𝙥𝙞𝙖 – Direttrice di Compassion in World Farming Italia
▪️ 𝗙𝗼𝗰𝘂𝘀 𝗘𝗺𝗶𝗹𝗶𝗮-𝗥𝗼𝗺𝗮𝗴𝗻𝗮
𝘼𝙣𝙙𝙧𝙚𝙖 𝘽𝙧𝙚𝙜𝙤𝙡𝙞 – Agronomo
▪️ 𝗣𝗼𝗽𝗼𝗹𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗺𝗼𝗻𝗱𝗼: 𝗲𝗾𝘂𝗶𝘁𝗮̀ 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗮𝘁𝘁𝘂𝗮𝗹𝗲 𝘀𝗶𝘀𝘁𝗲𝗺𝗮 𝗮𝗹𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗮𝗿𝗲
𝘾𝙖𝙩𝙚𝙧𝙞𝙣𝙖 𝘽𝙖𝙩𝙚𝙡𝙡𝙤 – Vice-Presidente AIDA (Associazione Italiana di Agroecologia), Board Member Agroecology Europe, ex Team Leader del gruppo di Agroecologia e Gestione degli Ecosistemi della FAO
▪️ 𝗗𝗼𝘃𝗲 𝘃𝗮 𝗹’𝗘𝘂𝗿𝗼𝗽𝗮?
𝘿𝙖𝙧𝙞𝙖 𝙎𝙘𝙖𝙧𝙘𝙞𝙜𝙡𝙞𝙖 – Avvocata esperta di diritto e legislazione di ambito veterinario ed ambientale. Iscritta a ISDE Modena, con cui collabora sulle questioni legali e giuridiche
▪️ 𝗟𝗮 𝗽𝗿𝗼𝗽𝗼𝘀𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗹𝗲𝗴𝗴𝗲 𝘀𝘂𝗴𝗹𝗶 𝗮𝗹𝗹𝗲𝘃𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗶 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗻𝘀𝗶𝘃𝗶 𝗶𝗻 𝗜𝘁𝗮𝗹𝗶𝗮
𝙎𝙞𝙢𝙤𝙣𝙖 𝙎𝙖𝙫𝙞𝙣𝙞 – Campaigner allevamenti intensivi di Greenpeace Italia
▪️ 𝗖𝗼𝗻𝗰𝗹𝘂𝘀𝗶𝗼𝗻𝗶
𝙑𝙞𝙫𝙞𝙖𝙣𝙖 𝙈𝙖𝙣𝙜𝙖𝙣𝙖𝙧𝙤 – Coordinatrice RECA
RECA (Rete per l’Emergenza Climatica e Ambientale Emilia Romagna)

Animali umani e non umani: dalla proprietà alla relazione

Animali umani e non umani: dalla proprietà alla relazione

di Emanuele De Gasperis
Articolo originale su Peacelink del 2 novembre 2024

Per un’inclusione all’interno della comunità morale degli animali non umani. Dal tentativo del filosofo Van De Veer di utilizzare la filosofia contrattualistica di John Rawls all’etica del rispetto della vita di Albert Schweitzer. Un percorso di rispetto per la vita.

Come possiamo osservare quotidianamente, la visione antropocentrica e il concetto di dominio sulla natura hanno portato l’uomo a rendere oggetto della propria bramosia l’intero pianeta. Un rapporto distorto questo, basato sull’esercizio del potere nei confronti dei propri simili e degli altri esseri viventi.
Quello della relazione tra animali umani e non umani è un tema complesso e spesso trattato dai media e dalle istituzioni sotto la guida di forti condizionamenti dovuti alla sensibilità diffusa e agli interessi economici prevalenti. Purtroppo, però, il senso comune non sempre corrisponde al buon senso e alle attuali conoscenze scientifiche, mentre gli interessi economici spesso non coincidono con gli effettivi bisogni degli esseri viventi, e in particolar modo con il benessere degli animali.

Innanzitutto, dobbiamo tener conto del fatto che esistono diverse specie animali e diversi modi di relazionarsi a esse, legati alla sensibilità e ai contesti culturali. Si può parlare di animali più o meno liberi in natura, di quelli confinati negli zoo, delle specie ormai adattate a livello urbano e di animali selvatici che si incontrano perché ormai costretti a cercare cibo nei centri urbani che hanno invaso i loro habitat. Esistono anche animali selezionati e/o modificati geneticamente utilizzati a scopo ornamentale o di sperimentazione e ricerca.

Le sensibilità sono tante ma, senza complicare troppo la riflessione, possiamo affermare che la maggior parte di noi vive due situazioni estreme e spesso paradossali nel rapportarsi agli altri animali: da una parte si assiste alla mercificazione, alla reificazione di esseri viventi considerati macchine da produzione; dall’altra si giunge all’antropomorfizzazione dei cosiddetti pet, piccoli animali da compagnia nostri conviventi.

“Pet” e “animali da reddito” egualmente maltrattati

“Pet” e “animali da reddito” sono due termini che, più di qualsiasi altra definizione, descrivono la distorsione che viviamo e la mancanza di rispetto per la vita animale. I primi sono entrati in quasi tutte le nostre case; ma anche se la sensibilità nei loro confronti è apparentemente aumentata, la nostra limitata conoscenza e mancanza di rispetto per le loro esigenze non ci permettono di riconoscere le loro particolarità di specie, la loro individualità, impedendoci di stabilire relazioni sane e rispettose dell’alterità degli altri esseri viventi.

Ci sono razze che vengono di fatto maltrattate a livello fisico e cognitivo. Arriviamo così a parlare di razze sofferenti o di maltrattamento genetico, che in alcuni casi vogliamo somiglianti sempre più a esseri umani (soprattutto ai bambini).

L’esempio più lampante è quello delle razze brachicefale, quelle “con il muso schiacciato”. Nel corso degli anni queste razze sono state selezionate a causa della grande richiesta di animali ‘piccolini’, ‘dolci’, ‘teneri’, con il ‘visetto’ rotondo e gli ‘occhioni’, caratteristiche che soddisfano la nostra motivazione epimeletica, infondendoci piacere.

A causa di ciò, molti cani non riescono più a respirare: per renderli conformi alle richieste, infatti, la selezione ne ha esasperato alcune caratteristiche somatiche. Si può parlare di vere e proprie malformazioni delle vie respiratorie che spesso richiedono delicati interventi chirurgici correttivi.

Questo è soltanto l’esempio più lampante di come cerchiamo di condizionare la vita di alcuni esseri senzienti per il nostro egoismo. Spesso, per costringerli ad una vita simile alla nostra, cerchiamo cani da gestire meglio in appartamento, razze toy, mini-toy e addirittura con meno pelo perché non sporchino la nostra casa.

Vediamo spesso cagnolini ai quali viene negata la socializzazione intraspecifica, costretti ad accontentarsi di traversine al posto dei prati e di peluche come surrogati dei propri simili. Oltre ai problemi di socializzazione, la riproduzione in alcune razze dipende ormai dal ricorso alla fecondazione artificiale e al parto cesareo, e ovviamente non esiste più la predazione. Questi tre importanti aspetti della vita (socializzazione, riproduzione, predazione) vengono negati a moltissimi animali.

Le varie razze canine hanno subito nel tempo le stesse imprevedibili variazioni di popolarità che vediamo nel mondo della moda, non influenzate da fattori come salute, longevità e comportamento. Al contrario, le razze più popolari sono spesso quelle a maggior rischio di problemi comportamentali e di salute.

Nonostante le numerose prove scientifiche sulla sofferenza di questi animali, negli ultimi dieci anni la popolarità di alcune razze brachicefaliche di piccola e media taglia è aumentata a livello internazionale – razze come il Carlino, il Bulldog francese e il Bulldog inglese. La stessa cosa sta accadendo nell’ambito dell’allevamento felino con razze come lo Scottish fold. Si tratta di gatti che spesso soffrono di problemi ossei a causa della manifestazione di una mutazione genetica.

Ma esempi potrebbero essere molti altri. Non è facile comprendere le motivazioni che spingono le persone ad adottare cani appartenenti alle cosiddette “razze sofferenti”, ma purtroppo è sempre il mercato (il consumatore) ad orientare la selezione e a stimolare la “produzione”.  È difficile comprendere il paradosso rappresentato da un lato da una sensibilità diffusa per il benessere animale, e dall’altro dalla mancanza di empatia, due tratti caratteristici della nostra evoluzione sociale e morale.

Se spostiamo la nostra attenzione, all’estremo opposto degli animali da compagnia troviamo gli animali da reddito. Naturalmente mi riferisco a quelli impiegati nell’allevamento intensivo, una forma di allevamento che mira a ottenere il massimo della produzione in spazi ridotti, con la minore spesa possibile e con il più ampio margine di profitto.

L’esempio più eclatante che rende palesi le criticità di cui parliamo è quello delle bovine da latte a elevata produzione (potremmo però riferirci anche ad allevamenti avicoli e suinicoli). Le bovine da latte a elevata produzione continuano a essere considerate macchine da spingere all’estremo, sebbene le condizioni intollerabili di sfruttamento raggiunte nel secolo scorso siano in parte migliorate.

Essendo comunque l’economia a dettare legge, l’attenzione per il benessere animale finisce quando intacca in maniera significativa il profitto (proprio come è successo nel corso della lotta per i diritti umani e contro la schiavitù). Oggi il benessere animale deve comunque rimanere compatibile con la produzione, conditio sine qua non è la “sostenibilità economica”.

Quindi, nonostante una maggiore attenzione per il benessere con spazi più confortevoli, una maggiore disponibilità di cibo, acqua sempre disponibile, nella pratica quotidiana siamo ancora lontani da condizioni da considerare accettabili, sulla base dell’attuale consapevolezza e conoscenza scientifica.

Per esempio, la selezione genetica ha portato a cambiare morfologicamente questi animali al punto da renderne difficile per alcuni la deambulazione a causa delle dimensioni delle mammelle. Ormai gli allevamenti intensivi sono ‘fabbriche’ nelle quali il ritmo è sempre uguale, costante, alienante. Le ‘macchine’ producono molto e quindi hanno bisogno di molto carburante. Gli alimenti sono molti e ricchi, gli organi devono funzionare al massimo, e quando il costo supera i benefici economici, le “macchine” vanno sostituite, come in una catena di montaggio.

In sintesi, se ci guardiamo intorno, ci accorgiamo che, sebbene spesso inconsapevolmente, viviamo un rapporto schizofrenico con gli animali, che andrebbe radicalmente ripensato. Non viviamo più ai tempi di Cartesio, in cui la maggioranza degli intellettuali e della popolazione pensava che l’animale non umano non avesse sensibilità e capacità cognitive.

In pochi anni abbiamo selezionato numerosi animali, riducendone notevolmente la variabilità genetica, per giungere alla creazione di sottospecie e/o razze che rispondono ai nostri bisogni alimentari, estetici e affettivi. La selezione estremizzata e le conseguenti deformazioni invalidanti spesso non permettono loro di adattarsi all’ambiente in cui vivono. Una distorsione di ciò che la natura ha costruito in milioni di anni che produce frequentemente caratteri disadattativi e/o invalidanti e/o addirittura mortali. Stiamo parlando di una condizione di maltrattamento particolarmente grave perché non si limita al singolo individuo, ma riguarda molteplici generazioni, e, a volte, intere specie.

Anche se esistono situazioni peggiori del nostro contesto europeo, per quanto riguarda la considerazione degli animali non umani in una società liberale e democratica, il rifiuto della sofferenza non necessaria non è solo il contenuto di diritti e norme, ma è un principio strutturale e ispiratore della stessa democrazia, che auspicabilmente è accettato e sostenuto da tutti i suoi membri (Pollo 2021: 69). Ci si potrà confrontare sul significato di “necessario”, ma non si può trascendere tale principio.

Nel caso del maltrattamento genetico dei pet c’è l’aggravante della futilità, culturalmente tollerata. Interrogandoci sulla responsabilità morale dell’attuale situazione si può individuarla in tre categorie di cittadini:

  • la responsabilità primaria ricade sul legislatore e sulle istituzioni: visto che nella letteratura scientifica l’evidenza della sofferenza non necessaria in molte razze è ampiamente dimostrata, non può più mancare un intervento legislativo;
  • allo stesso livello, si assiste alla responsabilità dei commercianti e degli allevatori che continuano a perpetrare situazioni di palese ingiustizia, anche se ancora legali, mancando leggi adeguate;
  • infine, ci sono i proprietari dei cani per i quali la responsabilità morale è direttamente proporzionale alla loro personale consapevolezza del problema.

Alla luce di tutto ciò, non c’è dubbio che debbano essere presi seri e improrogabili provvedimenti a livello legislativo e a livello culturale, leggi che vietano la riproduzione di alcune razze, già in vigore in altri paesi europei, come l’Olanda (che nel 2020 ha messo al bando 12 razze) e la Norvegia, in cui nel 2022 è stato annunciato il divieto di far riprodurre Bulldog francese e Cavalier King).

È infatti ormai urgente impedire il perpetrarsi del maltrattamento genetico, adottando leggi nazionali specifiche che vietino la riproduzione di alcune razze e/o linee di sangue di razze sofferenti almeno per gli animali definiti” da compagnia” o “da affezione”.

Purtroppo, fino a quando si applicherà il concetto giuridico di proprietà agli animali non umani, non si uscirà da dinamiche che favoriscono relazioni disfunzionali anche dal punto di vista culturale. Forse i tempi sono quindi maturi per esigere un passo in più, vietando la compravendita di questi animali da compagnia e consentendo soltanto l’istituto giuridico dell’adozione – o quello dell’affido.

Questa posizione non rappresenta una critica nei confronti della proprietà (privata o meno), ma una denuncia dell’inadeguatezza della legislazione, per andare a rimuovere ostacoli che, come dice l’articolo 3 della nostra Costituzione, “impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, grazie alla creazione di un terreno adatto alla fioritura di relazioni costruttive e rispettose della vita di esseri senzienti nostri conviventi.

Questa posizione abolizionista è sostenuta da Gary Lawrence Francione, attivista e filosofo statunitense. Per ora realisticamente inapplicabile nel caso degli animali da reddito, ma realizzabile per gli animali “da compagnia”, o “da affezione”, sancendo l’inizio di un percorso virtuoso e illuminato.

Grazie all’imponente e coraggioso lavoro di Charles Darwin, è stata dissolta l’illusione della discontinuità tra l’animale non umano e l’homo sapiens, perché oltre all’antropocentrismo che viviamo e all’esercizio del dominio, resta da abbattere culturalmente la credenza banale di una nostra radicale differenza dagli altri animali.

Da quando gli studi ci hanno introdotto ad una conoscenza più profonda degli altri animali e di quanto ci somigliano (o meglio, noi somigliamo loro più di quanto potessimo credere, prima delle brecce fondamentali aperte da Darwin), non possiamo più rassegnarci ad un’ostinata ignoranza. Oggi, grazie alla sensibilità contemporanea nell’ambito delle conquiste sociali ottenute, possiamo relazionarci agli altri animali come nostri simili in molte, moltissime cose, rispettandone l’alterità.

Uno statuto degli animali non umani

Storicamente ci si è interrogati spesso sullo statuto degli animali non umani e sulla loro considerazione morale, sul tema della loro inclusione o esclusione dalla comunità morale. Si tratta di un tema in cui le posizioni sono molto diverse. Sono diverse perché c’è chi propone l’uguaglianza tra animali umani e non umani, e chi invece vede ancora gli animali non umani come oggetti di cui servirsi, come semplici cose. Si tratta di estremi, ovviamente.

Tuttavia, nonostante se ne parli molto, si incontrano parecchie difficoltà ad accettare il fatto che gli animali abbiano diritti, essendo incapaci di reclamarli, o di rispondere adeguatamente con dei doveri. Più comunemente gli animali non umani vengono visti come portatori di interessi verso i quali si hanno dei doveri – diretti o indiretti.
Le leggi vengono scritte e promulgate soprattutto in base a questo principio, prendendo in considerazione i doveri indiretti. Infatti, in base a molte leggi, si ha un dovere verso un animale non in quanto essere senziente, bensì in quanto proprietà di qualcuno. Oppure a essere messi in rilievo sono ancora una volta i doveri nei confronti del genere umano: i doveri verso gli animali nascono dal dovere di non urtare il sentimento e la sensibilità umana.

Molto spesso si propone un’etica della responsabilità e della cura facendo leva sulla compassione, un approccio che aiuta all’incontro con l’altro. Vista la complessità del problema però, affidarsi alle sensibilità individuali e culturali è un atteggiamento quantomeno ingenuo, poiché senza il parallelo sostegno di un adeguato quadro normativo che ne favorisca lo sviluppo, queste proposte saranno difficili da realizzare.

Mentre la zooantropologia lavora per creare consapevolezza, incoraggiando e agevolando il desiderio di incontrare e conoscere l’alterità e il valore di arricchimento che ne deriva, si dovrebbero gettare le basi per un patto interspecifico, utile ad arginare la bramosia di potere e a liberare il desiderio di relazioni costruttive, un incontro fra le diverse specie per la condivisione di spazi ed emozioni. Un “contratto” in grado di agevolare incontri e relazioni per mezzo di una crescita culturale ed emotiva.

Per contrattualismo interspecifico si intende una proposta etica avanzata da Donald Van De Veer, ispiratosi a John Rawls e al suo celebre saggio Una teoria della giustizia. Tuttavia, nella teoria contrattualista che Rawls concepisce, si può pensare solo a un livello intraspecifico. In pratica, poiché non essendo gli animali capaci di reciprocità, sarebbero ritenuti al di fuori dei limiti del contratto etico.

Peter Singer avanza critiche a questo riguardo, evocando casi marginali come i portatori di gravi disabilità, oppure le generazioni future dalle quali non può essere pretesa alcuna reciprocità (Singer 1989: 67). Quindi, secondo Singer la mancanza di reciprocità non può limitare l’applicazione dei criteri di giustizia.

Rawls immagina che, prima di stabilire che tipo di società sia preferibile costruire e quali norme prevedere (ovvero in una ipotetica posizione originaria), sia necessario fingere la condizione di trovarsi “sotto un velo di ignoranza”, cioè di non sapere quale potrà essere il proprio ruolo nella società che si andrà a fondare. Partendo da questo esperimento mentale, sarebbe dunque interesse di tutti costruire una società in cui siano minimizzati impedimenti e ingiustizie, massimizzate le possibilità e garantita un’equa distribuzione delle risorse.

Secondo Van De Veer, come abbiamo visto anche in Singer, i criteri di giustizia riguardano tutte le creature senzienti – non solo quelle dotate di senso di giustizia. Partendo dalla teoria di Rawls, Van De Veer arriva quindi a sostenere che in questo caso l’essere umano deve rinunciare al requisito di reciprocità, assumere uno sguardo di imparzialità e, immaginando di trovarsi in una posizione preoriginaria, procedere alla ricerca di principi di giustizia “interspecifica” (De Mori 2013: 64).

La critica di Midgley all’antispecismo radicale (Midgley 1985: 106-121) verrà accolta anche da Donald Van de Veer nella sua proposta di contrattualismo interspecifico (De Mori 2013: 65), che prenderà in considerazione uno specismo sensibile agli interessi degli esseri senzienti. Uno specismo che vede le differenze di specie e ne riconosce l’alterità, si focalizza sulla responsabilità, sulla cura e sul rispetto favorendo le capacità e la fioritura della vita di altri esseri senzienti, arrivando ad aprire le porte a una rinuncia della reciprocità per riconoscere uno statuto morale e la possibilità di un contrattualismo interspecifico.

Van De Veer identifica due principi generici adattabili alle diverse circostanze:

  • nessuna creatura senziente debba essere costretta a subire trattamenti che rendano la sua vita non degna di essere vissuta;
  • nessun essere razionale dovrebbe deliberatamente causare l’esistenza di una creatura senziente quando sia certo (o altamente probabile) che tale creatura avrebbe una vita non preferibile alla non vita (De Mori 2013: 65).

È stata avanzata l’obiezione che il contratto dovrebbe avvenire fra soggetti interessati a se stessi, un contratto razionale comunicabile a tutti i soggetti. Ma l’obiezione non rappresenta un ostacolo insuperabile se pensiamo alla possibile rappresentatività di chi si assume la responsabilità di rappresentare gli interessi di altri esseri umani con gravi disabilità intellettive.

Ovviamente non si può pretendere che una proposta etica sia esaustiva per l’applicazione di un criterio ispirato alla giustizia nei diversi contesti; quindi, si potrà usufruire della complementarietà di approdare a visioni complementari ispirate a un’etica della cura e della responsabilità, facendo leva sulla compassione o meno, fino a giungere a un’etica del rispetto per la vita.

Quest’ultima fu proposta più di un secolo fa da Albert Schweitzer – filosofo, teologo, medico missionario, insignito del premio Nobel per la pace nel 1952. A una prima lettura, la sua potrebbe apparire una visione utopica, perché gli interessi in gioco per l’umano confliggeranno sempre con quelli degli altri esseri viventi, portandolo a scegliere per la propria vita.

Questo dovrà succedere per necessità di sopravvivenza e non sull’onda di frivoli desideri. Certe decisioni dovranno avere il peso di tragiche scelte: davanti a esse ciascuno sarà interpellato personalmente e in base al ruolo che sarà chiamato a rivestire, facendo appello alla propria coscienza. Ogni essere umano dovrà assumersi le proprie responsabilità per le vite che saranno sacrificate.

Anche nel preambolo della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia conclusa a Strasburgo il 13 Novembre 1987 – ratificata dall’Italia soltanto nel 2010, con la legge n. 201 – è scritto: “l‘uomo ha l’obbligo di rispettare tutte le creature viventi”. CETS 125 – European Convention for the Protection of Pet Animals (coe.int).

Schweitzer scrive:

«Il rispetto per la vita scaturisce da una “volontà di vita” che ha imparato a pensare, è dunque un SÌ alla vita, che diventa etica collettiva. Il suo compito primario è la realizzazione del progresso e la creazione di quei valori che possano favorire la crescita materiale, spirituale ed etica del singolo individuo e dell’umanità intera»(Schweitzer 1994: 17).

Bibliografia

  • CETS 125 – European Convention for the Protection of Pet Animals (coe.int) https://rm.coe.int/168007a67d [accesso 02/09/2024]
  • De Mori B. (2013). Che cos’è la bioetica animale. Roma: Carocci
  • LEGGE 4 novembre 2010, n. 201 – Normattiva
    https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2010-11-04;201 [accesso 02/09/2024]
  • Pollo S. (2021). Manifesto per un animalismo democratico. Roma: Carocci.
  • Rawls J. (1999). Una teoria della giustizia. Milano: Feltrinelli.
  • Schweitzer A. (1994). Rispetto per la vita. Torino: Claudiana.
  • Singer P. (1989). Etica pratica. Napoli: Liguori.

Le voci da dentro /
Astrolabio, il giornale del carcere di Ferrara

Le voci da dentro. Astrolabio, il giornale del carcere di Ferrara

Da oggi inizio a presentare alcuni giornali, fra i tanti scritti, curati all’interno delle carceri italiane. Comincio da Astrolabio il giornale del carcere di Ferrara, non certo perché sia uno dei più importanti, ma perché lo conosco meglio di altri, essendone il caporedattore da quasi nove anni.
(Mauro Presini)

Normalmente sappiamo poco di ciò che avviene all’interno di un carcere: i giornali riportano soprattutto i fatti eclatanti negativi, ma quello che non fanno conoscere è tutto ciò che si fa, pur tra mille difficoltà, per attuare quella rieducazione della persona “ristretta” a cui deve tendere la pena secondo la nostra Costituzione.

Ad esempio, sono diverse le attività trattamentali che si svolgono nella Casa Circondariale di Ferrara: l’attività scolastica (dall’alfabetizzazione all’Università), le attività culturali e sportive, il progetto Galeorto, il laboratorio di bricolage, gli incontri con gli studenti, il teatro, lo yoga, il ping-pong, la pittura, la fotografia, il cinema, il giornale.
Ciascuna di queste attività educative, nel suo piccolo, contribuisce a ridefinire un pezzo di orizzonte futuro per le persone detenute che vi partecipano.

Il professor Ivo Lizzola, docente di Pedagogia sociale e della marginalità all’Università di Bergamo, riporta questa frase rivoltagli da un ragazzo del carcere di San Vittore : “Voi non ci state offrendo delle opportunità, voi ci state rendendo possibili”. Credo che in questa frase si possa cogliere il senso della sfida educativa in carcere; quello di non dare per scontata una persona ma di renderla possibile, considerandola soggetto attivo del proprio cambiamento a partire dalla sua legittima volontà di resurrezione.

In particolare io curo da 8 anni la redazione del giornale Astrolabio, che è un progetto editoriale che coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dell’Arginone ed è finanziato dal Comune di Ferrara, attraverso le risorse del fondo sociale regionale.

Il periodico è nato dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere: uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere e che raccolga storie di persone fatte di umanità, potenzialità, voglia di riscatto, offrendo in tal modo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.

Il progetto del giornale in carcere è frutto di una convenzione tra ASP e Cooperativa Sociale Integrazione Lavoro. Dalla realizzazione del suo primo numero nel 2009, Astrolabio è diretto da Vito Martiello e, dal 2016, è curato dal sottoscritto.

Dall’inizio dell’attività del giornale, la redazione era composta soltanto da persone ristrette nelle sezioni comuni. Poi, qualche anno fa, si è offerta la possibilità anche ai detenuti della quarta sezione cioè dei protetti. Nell’ultimo anno, sono state quattro le sezioni che hanno usufruito delle attività del giornale: comuni, protetti, collaboratori e parenti dei collaboratori.

Ci si incontra una volta la settimana per due ore circa: si parla di quel che è successo in particolare a qualcuno o in generale. Se una persona ha scritto qualcosa la legge agli altri, quindi si socializzano le riflessioni conseguenti. Se ho qualche articolo o brano di libro che ho scelto, lo leggo e lo si commenta insieme.

Cerco di indirizzare la scrittura su alcuni argomenti, curando particolarmente l’aspetto della forma, perché questa non dovrebbe risultare solo e sempre recriminatoria o rivendicativa, ma una scrittura che, accogliendo le osservazioni critiche, le faccia seguire da un’adeguata parte propositiva.

In ogni caso, chiunque è libero di scrivere sugli argomenti che ritiene interessanti. Quando si hanno gli scritti necessari per chiudere il numero, si fa attenzione nella distribuzione degli articoli, in modo che ci possano essere autori diversi e quindi diversi punti di vista.

Si concorda l’ultima pagina che, di solito, è dedicata ad un personaggio importante che ha vissuto l’esperienza del carcere. Si discute di quali immagini potrebbero illustrare il numero, si guardano i disegni che hanno fatto altre persone dentro ed infine si sceglie la copertina.

Una volta fatto questo, gli scritti, le foto ed i disegni vengono spediti all’ufficio grafico che propone una bozza. Sistemata e corretta la bozza, se ne distribuisce una copia per cella, se ne spediscono più di un centinaio di copie agli indirizzi selezionati quindi si mette a disposizione su internet una copia digitale.

Tutti i numeri di Astrolabio sono infatti scaricabili gratuitamente sul sito: http://www.giornaleastrolabio.it/

Chi partecipa alle attività della redazione di Astrolabio fa una scelta di impegno e di responsabilità perché, essendo queste collocate dalla direzione in un orario che coincide con l’ora d’aria, dimostra un sincero interesse rinunciando ad un momento importante della giornata.

Inoltre rappresenta un momento di confronto e di condivisione di temi interni ed esterni al carcere, in cui ognuno può intervenire rispettando le regole democratiche di una normale discussione civile.
Il tema proposto può essere un fatto di cronaca, non solo giudiziaria, un’esperienza, una difficoltà o un problema personale.

La metodologia applicata al gruppo prevede che, anche di fronte ai problemi e alle criticità, si cerchi un approccio costruttivo e propositivo per andare verso una soluzione e non verso il conflitto fine a se stesso.
Strumenti di lavoro essenziali sono quindi i consigli di lettura, l’analisi guidata delle letture selezionate, le discussioni su di un tema sollevato dal conduttore o dai partecipanti, la scrittura personale libera, la scrittura collettiva, la correzione.

C’è, da parte di tutti, il desiderio di non fare un giornale pesante, sia per chi lo legge da dentro che per chi lo legge da fuori.

Quindi sono bene accetti articoli che non parlano solo della condizione carceraria, ma che offrono un respiro più ampio che allarghi il punto di vista.
Da qui nasce anche la scelta di usare fotografie o immagini che evochino armonia e bellezza. A noi sembra che ciò possa far sentire il bello e il buono che c’è attorno a noi.

Le persone che hanno partecipano in passato e che partecipano attualmente ai lavori di Astrolabio mi restituiscono l’idea della redazione come di un luogo di parola dove ci si può sentire liberi. Qualcuno, sapendo che sono maestro elementare e che dirigo da oltre 30 anni un giornale scritto dai bambini e dalle bambine intitolato La Gazzetta del Cocomero, mi ha chiesto quali elementi di comunanza trovi fra i due giornali.

Io penso che i bambini e le persone detenute abbiano in comune il fatto che non vengono considerati cittadini degni di esprimere il proprio pensiero, nonostante la nostra Costituzione affermi che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Penso ci sia bisogno di dare a tutte le persone la dignità che è dovuta, siano esse bambini o detenuti.

Il nostro Paese sta vivendo una grossa crisi non solo economica ma anche sociale, culturale ed educativa; io credo che per cercare di risolverla si dovrebbe investire sulla cooperazione e non sulla competizione, sul lavoro vero e non su quello precario, sulla giustizia sociale e non sulle disparità di trattamento, sul rispetto della legalità e non sui condoni agli evasori.

Ma soprattutto credo fortemente si dovrebbe praticare, in concreto, un modello educativo serio, rispettoso ed inclusivo che restituisca a ciascuno di noi quell’umanità che ci sta mancando, quella fiducia nelle persone che ci permetta di vivere insieme e quella speranza in un domani migliore di cui abbiamo tutti bisogno.

Cover: una riunione della redazione di Astrolabio in una saletta della Casa Circondariale di Ferrara.

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.
Per leggere invece tutti gli articoli di Mauro Presini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

Quattro chiacchiere con Forza Nuova

Quattro chiacchiere con Forza Nuova

(Da: Ricamo & Cucito, Anno II, n.21 )

A poco più di un mese dall’apertura a Ferrara della sezione di Forza Nuova, in qualità di editorialista del mensile Ricamo & Cucito, sono stato invitato dal responsabile delle relazioni pubbliche del movimento a visitare la loro sede.

Parcheggio l’auto poco distante e percorro a fatica la via, a causa dei reticolati. Ad un tratto qualcuno mi urla:

– Stia attento, non di li, più a destra, stava per finire sul nostro campo minato! –

– Ma come? Avete reticolati e un campo minato qui, in città? dico.

– Roba piccola, cosa crede? Giusto per tenere lontani ebrei ed africani, sono bombette alla crema, per questo abbiamo la sede in un ex-forno, e i reticolati sono finti, fatti con il filo spinato vero –

Nel dubbio, seguo scrupolosamente le sue istruzioni ed arrivo all’ingresso. Una volta entrato, guardo subito le pareti, alla ricerca dei tanto criticati manifesti del duce e della X mas, ma vedo soltanto cinque o sei poster in stile Walt Disney, a dire il vero un po’ insoliti. Il mio interlocutore, notando la mia perplessità, gentilmente mi illustra le immagini appese:

– Vede, qui, a destra, La carica dei 101 celerini, a fianco Il duce leone, poi abbiamo Aladino e la lampada all’olio di Ricino, e per finire Biancaneve e i sette camerati

– Tutti film educativi – replico.

– Sì, è importante che i giovani balilla.., ehm bambini, volevo dire bambini, crescano con cartoni animati sani e vigorosi, non come i Puffi, quegli extra-comunitari di colore, o quella maialina gender di Peppa Pig –

– Avete avuto molta gente il giorno dell’inaugurazione? –

– Certo, si figuri che abbiamo anche organizzato una vera e propria cena di benvenuto, guardi qui

Mi passa un depliant nero con scritte oro, che riporta il Menù di quella sera:

  • Insalata fredda di Manganelli al nero d’orbace
  • Farinata di Ricino alla Farinacci
  • Salvia fritta alla Salvini
  • Pollo albanese da allevamento-lager con Salsa CPR
  • Gelato di Meloni

Terminata l’illuminante lettura, chiedo alla mia gentile guida di espormi idee e programma del movimento.

– Noi siamo più a sinistra che non a destra rispetto al centro, se venite da Bologna, è il contrario. Siamo anti-sionisti e filo-palestinesi, ma anche un po’ Boy Scout e Testimoni di Genova –

– Nel senso del G8, dei disordini che vi furono? –

– Assolutamente no. Nego ogni legame tra l’estrema destra ed i Black Block o con i Blues Brothers, infatti noi, i nazisti dell’Illinois, li adoriamo –

– Ma in sostanza, come siete orientati verso i partiti e le istituzioni? Come vi definite?

Un po’ pirati e un po’ signori –

– Che fa? Mi cita Julio Iglesias, il cantante spagnolo? –

Ah, credevo fosse Francisco Franco, il padre della Democrazia spagnola, ma ora la devo salutare, è quasi sera e devo prepararmi per il turno di notte

– In fabbrica? –

– Non scherziamo, ronda anti-migranti. Non lasceremo soli i nostri ex-militanti, Ferrara è nel caos, stiamo già pensando ad un presidio, colpa di quest’amministrazione di estrema sinistra! –

– Ecco, questa mi mancava proprio.

Saluto la mia guida ed esco. In testa una frase delle Sturmtruppen di Bonvi: ” Attenzionen al campo minaten!!! – Ach! Il fiero alleaten Galeazzo Musolesi, c’è kaskaten anke stavolten...”.

 

In copertina: Corrado Guzzanti, Fascisti su Marte.

Parole a capo /
Ezio Settembri: alcune poesie da “D’altra luce”

I ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torbido resta sul fondo. Non bisogna agitarla, la bottiglia.
(Mario Rigoni Stern)

 

Sul metodo per le verdure
avrei ancora da ridire.
Non sul sangue che intride
la terra e attinge da sempre
alla falda più profonda.
A questi alberi, sacri porfidi,
è inciso il tuo nome
e il mio cuore lieto
di pagare ogni giorno
il prezzo più alto.

 

*

 

Gli ultimi ricordi,
un incontro all’ascensore,
il giorno del mio compleanno.
Sei sparito
senza tanti complimenti.
Posso ritrovarti
nei mille volti che incrocio
ogni giorno,
l’euforia contagiosa,
un dopobarba troppo forte
per la mia pelle bambina.
Ma la voce che riempiva le stanze?
Ti rivedo al tavolo del Tresette
con “Gli animali”.
Sono tue le mie bestemmie
contro il televisore,
il gol fallito.
E’ fraterno al mio
il tuo dolore
il giorno del mio compleanno.

 

*

 

Vorrei nel mio sangue corresse
la tua generosa tristezza,
il sollievo inesprimibile
che coglieva inatteso
i resti del giorno
per chi tornava
dal tuo capezzale.

 

*

 

Michele

Le prime vere storie
le ascoltai dalla tua voce
nella camera buia,
prima di addormentarci.
Fantasticavi di noi,
delle bande di campagna,
con le tue fughe
dal riposino il pomeriggio,
scavalcando la finestra
davanti a babbo,
assopito come
un Ciclope ubriaco.
C’ero anch’io nelle avventure,
scudiero obbediente,
scendevo dai rami
come il barone rampante
dell’edizione illustrata.
Che ne è stato
te lo chiedo oggi,
in questo tempo assediato,
insignificante,
tra le righe dell’ultimo
messaggio whatsapp.
Non dimentico.
Nonni troppo coriacei, taciturni,
babbo ci leggeva i libri
o raccontava il mito
di Ulisse e Polifemo,
eravamo ancora piccoli.
Finché imparai a cercare luce
in quella voce
che non feriva il buio.

 

*

 

Corridori

Ci vuole forse ben più
di un lungo esercizio di pazienza,
l’accordo segreto con le viscere,
il controllo del pensiero col respiro,
attingere luce ad ogni passo.
Non fidare che nei propri tendini,
allenandosi al più antico dei ritmi,
e poi lanciarsi all’avventura
come il ragazzo che da lontano
vedi correre verso il mare.
Ma noi ci si tiene stretti
mescolando sudore e fatica,
sodali esploratori
del piacere di perdersi.

Dalla raccolta “D’altra luce” (peQuod, collana portosepolto diretta da Luca Pizzolitto, 2023). Ringrazio l’autore per averne autorizzata la pubblicazione.

 

Ezio Settembri (Macerata, 1981) ha studiato Lettere Moderne a Macerata. Ha pubblicato poesie e studi sulle arti figurative su varie riviste, tra cui L’immaginazione, Il falco letterario, La Bottega della Poesia di
Repubblica, Infinito letterario, Poeti e Poesia, Atelier, Menabò. Nella rivista online Nuova Ciminiera, sulla quale sono apparse delle brevi ricognizioni sulla poesia di Sereni, Benzoni, Pasolini, Scarabicchi, Davoli. Nel 2021 è uscito il suo primo saggio, Il mito ritrovato – La poesia di Umberto Piersanti (ed. Industria e Letteratura, vincitore del Premio Lago Gerundo di Paullo, Premio L’arte in versi di Jesi per la critica 2022). Una sua poesia ha ottenuto il secondo posto al Premio di poesia indetto dal Museo Omero e dall’Università per la Pace delle Marche. Nel 2023 ha pubblicato il suo esordio in poesia, D’altra luce (peQuod, collana portosepolto, finalista al Premio Chiaramonte-Gulfi e Alberoandronico). Attualmente vive e insegna in provincia di Mantova.

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 258° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Rifiuti: quando la gerarchia ha un senso

Di Giuseppe Paschetto
 

Il recente provvedimento della magistratura sui migranti che ha ricordato al nostro governo come le norme europee siano gerarchicamente di ordine superiore a quelle nazionali mi ha indotto a una riflessione sul tema dei rifiuti. La gerarchia europea prevede, secondo il dettato delle direttive 2008/98 e 2018/851 la seguente precisa serie di azioni, da applicare in sequenza e non a caso.

  1. prevenzione;

  2. preparazione per il riutilizzo;

  3. riciclaggio;

  4. altro recupero (per esempio recupero di energia);

  5. smaltimento.

Questo significa che uno Stato o una Regione o un territorio prima di pensare alla raccolta differenziata funzionale al riciclaggio e tanto più prima di pensare a termovalorizzatori e discariche deve essere a posto con le azioni in cima alla piramide della gerarchia europea.

Il motivo della scelta della Waste Framework Directive è semplice e rimanda al concetto di economia circolare. La minimizzazione degli sprechi, di materia e energia, parte proprio dalla corretta applicazione di prevenzione e riutilizzo, le prime due azioni in genere bellamente ignorate. Anzi, come nel caso dell’inceneritore di Roma, si passa direttamente al punto 4.

Riformulo ora la gerarchia europea in modo più sintetico e intuitivo all’insegna di 5 R, la lettera iniziale della parola Rifiuto che può facilmente diventare invece un’altra R, quella di Risorsa.

  1. RIDURRE i rifiuti

  2. RIUTILIZZARE

  3. RICICLARE

  4. RECUPERARE

  5. RESIDUI in discarica

La prevenzione, ovvero la riduzione dei rifiuti alla fonte, dovrebbe essere una pratica che contrasti quella dell’”usa e getta” imperante che è alla base da decenni della società dei consumi e dell’entropia. Se parliamo di prodotti durevoli, ad esempio gli elettrodomestici è chiaro che tutto parte dall’impegno a fabbricare prodotti che non siano all’insegna dell’obsolescenza programmata, che siano riparabili e anche fatti di componenti alla fine facilmente riciclabili. In un prossimo mi soffermerò in particolare su quei rifiuti che comperiamo in gran quantità facendo la spesa o andando al bar o al ristorante: gli imballaggi e i contenitori di cibo, bevande, cosmetici, vestiti, ecc.

La seconda azione, conseguente alla prima è il Riutilizzo. Riutilizzare significa che qualcosa che potrebbe diventare un rifiuto, destinato per bene che vada al riciclaggio, viene invece ancora impiegato nella sua destinazione d’uso.

La terza azione, ovvero il Riciclaggio, è sostenuta da un’altra pratica che inizia con R ovvero la Raccolta differenziata. Riciclare significa utilizzare la materia di cui sono fatti i rifiuti per produrre, dopo passaggi industriali, oggetti simili o di tutt’altro genere (ad esempio un maglione di pile da bottiglie di plastica). Si pensa che fare raccolta differenziata sia sufficiente a mettersi la coscienza a posto. In realtà non è così per una serie di motivi. Un raccolta qualitativamente scarsa (ovvero con imballaggi sporchi o non conferiti correttamente) fa finire tutto quanto ai trattamenti numero 4 e numero 5.

La plastica è difficilmente riciclabile tanto che la quantità di plastica effettivamente riciclata è davvero bassa e spesso finisce per essere bruciata in modo improprio finire in fiumi e mari, anche come micro-plastica. I dati stupiranno: la plastica raccolta in modo differenziato in Italia è il 42% e di essa solo il 39% è riciclata, ovvero appena il 16% della plastica prodotta. Dovremmo insomma parlare di plastiche perché la categoria è chimicamente così eterogenea da porre problemi di riciclaggio non ancora risolti. L’unica caratteristica comune è di derivare dal petrolio ma sarebbe come in biologia non differenziare i vertebrati solo perché derivano da progenitori comuni. Infine dal punto di vista energetico riciclare è meno conveniente che riutilizzare.

Tutto quello che non si è potuto riutilizzare o riciclare va trattato secondo quanto prescrive il punto 4, ovvero Recuperare energia con i termovalorizzatori. In parte quindi servono ma solo in misura tale da non permettere di bypassare le fasi precedenti. E’ chiaro che bruciare i rifiuti è in teoria la scelta più comoda. Si fa un bell’impianto e tutto “sparisce” lì dentro.
Ovviamente in realtà dato che la materia non si crea e non di distrugge una tonnellata di rifiuti si trasforma in equivalenti quantità di fumi tossici da trattare e di ceneri sempre tossiche.

Infine l’ultima ratio: la discarica per conferirvi i rifiuti Residui dalle precedenti azioni.. Alcuni decenni fa, diamo fino agli anni 70, era l’unica modalità. Un bel buco, spesso fatto senza i dovuti criteri di sicurezza ambientale e sanitaria e il problema era risolto. I rifiuti nelle vecchie discariche producevano percolati tossici che mettevano a rischio le falde acquifere e biogas estremamente infiammabile ed esplosivo come purtroppo ha constatato sulla sua pelle un cittadino residente nei pressi della discarica di San Giacomo di Masserano nel 1995 ucciso proprio da una fuga di biogas. Entro 10 anni dovranno essere non più del 10% i rifiuti che finiranno in discarica. Gran parte dei 2,5 miliardi di tonnellate di rifiuti dell’UE dovranno quindi essere trattati secondo riutilizzo, riciclaggio, recupero energetico. In un prossimo articolo vedremo con esempi concreti come i cittadini, i Comuni, le aziende che si occupano di rifiuti, gli industriali, il mondo del commercio, lo Stato, potrebbero mettere in campo un’azione sinergica per applicare correttamente la gerarchia europea relativamente proprio alle azioni più trascurate ovvero le prime due.

 

Il folle contrappasso antisemita di Amsterdam, città dell’ Ajax, la squadra “superebrea”

Il folle contrappasso antisemita di Amsterdam, città dell’ Ajax, la squadra “superebrea”

Sono rimasto molto colpito dall’aggressione antisemita che, lo scorso giovedì, alcuni “tifosi” dell’Ajax hanno scatenato contro alcuni appassionati del Maccabi di Tel Aviv, arrivati ad Amsterdam per supportare la loro squadra impegnata in una partita di Europa League. Il fatto assume un significato ancora più sinistro in quanto accaduto ad opera di sostenitori della società che vanta un legame storico con l’ebraismo, essendo nata nel 1900 a Jodenbuurt, il quartiere ebraico di Amsterdam.

Come si può leggere, tra gli altri, in questo articolo, l’Ajax aveva moltissimi sostenitori di origine ebraica. Prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, Amsterdam era popolata da più di un ebreo ogni dieci abitanti, tanto da essere soprannominata “Gerusalemme dell’Ovest”. Ad un certo punto, come purtroppo nella storia accade, una città accogliente e tollerante come poche altre divenne teatro di un’ ondata antisemita di Stato alimentata dal governo collaborazionista insediato nel ’40 dal Reich nei Paesi Bassi, con l’austriaco Seyss-Inquart (poi condannato a Norimberga nel ’46 per crimini di guerra) come commissario. Jodenbuurt divenne un ghetto, i soci ebrei dell’Ajax furono esclusi dalla società, iniziarono i rastrellamenti e le deportazioni dei cittadini di origine ebraica. In realtà, in quel frangente non tutti gli esponenti dell’Ajax fecero onore alla fama del club: Peelsen, vecchio capitano della squadra, si iscrisse al Partito Nazista; Kermer, allenatore delle giovanili, era un collaborazionista e divenne sorvegliante nei campi di concentramento. Viceversa, Leo Horn e Kuki Krol (padre del famoso, anche in Italia, Ruud), compagni di squadra nell’Ajax del tempo, divennero sostenitori della resistenza olandese. Dopo la guerra, i ragazzi delle famiglie ebree sopravvissute all’Olocausto che volevano fare sport si tesserarono all’Ajax, società che era rimasta attiva anche durante il conflitto. Tra di essi figurava “mr. Ajax”, ossia Sjaak Swart, che giocò più di seicento partite coi lancieri. Negli anni ’50 poi un gruppo di imprenditori di origine ebraica rilevò il club, consolidandone la fama di società legata a doppio filo con la comunità joods.

Sembra impossibile che una tifoseria orgogliosa del proprio legame con l’ebraismo, al punto da esporre in trasferta bandiere con la stella di David (ed essere per questo presa di mira dall’intolleranza delle curve avversarie) abbia attualmente, tra le sue fila,  persone che aggrediscono tifosi israeliani in quanto ebrei. Sembra impossibile, così come sembrava impossibile che Sarajevo, un’altra città soprannominata “Gerusalemme d’Europa” per la compresenza nel medesimo quartiere di una chiesa cattolica, di una moschea, di una chiesa ortodossa e di una sinagoga; una città in cui le diverse etnie, radici culturali e religiose erano talmente incistate nelle famiglie da sembrare inscindibili, sia stata teatro dal 1992 al ’96 di una atroce guerra civile che ha stuprato e lacerato quei legami. Eppure non era la prima volta: a Sarajevo nel 1914 fu assassinato l’arciduca d’Austria, evento classificato come la miccia dello scoppio della Grande Guerra. Paradosso nel paradosso: il nazionalista che lo ammazzò era un bosniaco che voleva l’adesione al regno di Serbia, proprio quella Serbia che ottant’anni dopo cinse d’assedio la capitale della Bosnia.

L’equivoco tragico che confonde identità e nazionalismo, facendoli coincidere, è alimentato da quei governi criminali che mandano a morire i loro cittadini in nome della “difesa della nazione”.  Una circostanza che predispone al cattivo nazionalismo (concetto che secondo me non avrebbe nemmeno bisogno di aggettivi) è sicuramente l’omologazione di costumi culturali e la concorrenza sociale – contrario dell’integrazione – che è uno dei mali della cosiddetta globalizzazione, e che danneggia sia chi abita un luogo da generazioni, sia chi vi arriva in fuga dalla guerra o dalla povertà. Ma questo da solo non basta: servono uomini di potere che soffiano sul fuoco della paura e dell’intolleranza. In questo senso Hamas e il governo Netanyahu sono due facce della stessa medaglia che gronda sangue innocente.

Non so dire se quanto successo ad Amsterdam sia imputabile a “tifosi” nella mente dei quali il passaggio generazionale non ha lasciato nulla della tradizione sociale, o se sia attribuibile ad un manipolo di deficienti arrivati da fuori apposta per dare la caccia agli ebrei. Quello che posso dire è che, in entrambi i casi, la sensazione è di grave disagio, e di allarme.  Ci sono fatti apparentemente marginali che mostrano lo spirito del tempo, e il minipogrom di Amsterdam è uno di questi.