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Lettera/Appello:
proclamare uno sciopero dei produttori e dei consumatori contro la guerra

Proclamare uno sciopero dei produttori e dei consumatori contro la guerra

La voce del popolo della Pace non arriva sui media e non è udibile dalla gran parte della popolazione.  I conflitti armati continuano in un’ escalation senza limiti e le persone continuano a morire senza che si intraveda una possibile soluzione pacifica: nel conflitto ucraino, a Gaza,in Libano e in diverse altre parti del mondo.

In Italia e in tutta l’Europa i Governi  non mettono la loro autorevolezza e la loro iniziativa al servizio di trattative di Pace, nulla viene fatto per far terminare i massacri a Gaza e in tutta l’area mediorientale.

Scriviamo questa lettera appello rivolta a tutti i sindacati italiani affinché valutino l’indizione di uno sciopero generale nazionale che noi proponiamo sia dei produttori e dei consumatori. Il Paese si deve fermare e fare arrivare al Governo la nostra richiesta: lavorare per fermare le guerre e per una politica di Pace che metta al bando le armi, soprattutto quelle nucleari.

Invitiamo tutti i lavoratori, le lavoratrici, i giovani, i pensionati e tutte le persone che condividono l’idea a sottoscrivere la lettera al link seguente:

https://www.change.org/p/proclamareunoscioperodeiproduttoriedeiconsumatoricontrolaguerra di divulgarla e di promuovere iniziative di discussione e mobilitazione. Per comunicazioni potete scrivere all’indirizzo:

piacenza@mce-fimem.it

 Lettera/ Appello per uno sciopero contro la guerra

Si è appena concluso ad Assisi l’Incontro Nazionale delle Costruttrici e dei Costruttori di Pace promosso dalla Fondazione Perugia Assisi e in diversi abbiamo partecipato il 18 maggio all’Arena di Pace a Verona con Papa Francesco e tutti i movimenti che chiedono Pace e Giustizia. Ma la voce della Pace non arriva nei media e sulla stampa. A parlare sono sempre generali, ministri, deputati, magari con intensità diversa, ma sempre a favore dell’ineluttabilità della guerra. Coloro che sono a favore della Pace e di un modo diverso di affrontare i conflitti non trovano spazio.

In una Nazione fondata sul ripudio costituzionale della guerra chi invoca e lavora per la Pace viene attaccato, espulso dal sistema, messo all’indice. Papa Francesco all’Arena di Pace ha detto che per risolvere i conflitti armati, lui ha fiducia soprattutto nei popoli. Forse è per questo che anche sua Santità viene messo a tacere e non viene preso in considerazione.

C’è un’alternativa alla guerra, ma non le si dà spazio e non viene sperimentata. Si continua a perpetrare il conflitto armato. Dopo 940 giorni di guerra in Ucraina, dopo 350 giorni di massacri a Gaza, noi dobbiamo riconoscere che alcune forze potenti stanno facendo di tutto per trascinarci in guerra e che i principali responsabili della politica internazionale, europea e italiana non stanno facendo nulla per impedirlo.

Come si può assistere con indifferenza senza intervenire all’orrenda carneficina che si protrae a Gaza? Come si può fare i tifosi di fronte al milione di vittime del conflitto ucraino? E i morti della Somalia, del Myanmar, del Sudan, del Congo, del Libano e di tutti gli altri Paesi? Forse non è chiaro a tutti che continuando l’escalation potremmo arrivare ad una situazione ancora peggiore?

I potenti dimostrano assoluto disprezzo per la vita umana e per le sorti dell’umanità, si fidano solo delle armi. Non hanno un’idea di come si possa mettere fine ai combattimenti, non hanno un’idea di come si possa arrivare alla pace e stanno trascinando l’Europa intera in una guerra senza precedenti. Dall’altra parte chi è davvero convinto che siamo arrivati ad un passo dal punto di non ritorno, dovrebbe mettere in campo tutte le proprie forze per fermare le guerre.

Sappiamo che non è facile perché la propaganda di guerra in atto nel nostro Paese e negli altri dell’Europa, impedisce di avere chiara la situazione ma pensiamo che sia giunto il momento di lanciare uno “Sciopero, sia dei produttori, sia  dei consumatori” contro la guerra e le difficoltà economiche che derivano da essa. È in corso una vertiginosa corsa al riarmo mondiale, stanno aumentando le spese militari che costringono a tagliare le risorse per la salute e l’istruzione e stanno impoverendo tutti. Stanno installando nuovi missili nucleari in Europa, il che ci rende ancora più fragili.

E’ “adesso” il momento di fermare l’escalation della guerra e dobbiamo chiedere ai sindacati di valutare la proclamazione di uno sciopero generale e chiedere ai lavoratori di fermare la produzione e scendere in piazza. Mentre ai consumatori, cioè a tutti noi, diciamo di  astenersi, nello stesso lasso di tempo, dall’acquisto di qualsiasi bene di consumo. Una grande dimostrazione di opposizione alla guerra e di consenso verso la Pace. Al Governo italiano deve arrivare forte e chiaro la richiesta: No a tutte le guerre e impegno per la

Pace attraverso un’azione di mediazione che coinvolga tutta l’Europa. Sappiamo che non è una cosa facile per questa Europa, ma questi non sono momenti per risposte facili.

Che cosa rispondono i sindacati? Auspichiamo un confronto e se si pensa che questa non sia la strada ce ne indichino un’altra altrettanto o maggiormente incisiva.

La Pace non ha tempo di aspettare! Noi aspettiamo le vostre risposte!

 

Primi sottoscrittori:

Roberto Lovattini –  – insegnante / Coordinatore Europe for peace Piacenza, promotore dell’appello

Mauro Annoni – Presidente Istituto di Storia Contemporanea Pesaro

Barbara Archetti, presidente Vento di Terra

Domenico Barrilà Psicoterapeuta, Analista Adleriano – Milano

Giansandro Barzaghi – Associazione NonUnodiMeno

Pietro Bartolo – ex medico Lampedusa, già parlamentare europeo

Pierluigi Bersani- Presidente Istituto di Storia Contemporanea Piacenza

Luciana Bertinato -insegnante, già collaboratrice di Mario Lodi

Daniele Bruzzone – docente Università Cattolica

Emanuela Maria Bussolati- autrice di libri per l’infanzia

Mario Busti – Presidente Università per la pace delle Marche

Roberto Camarlinghi – Animazione Sociale

Gianluca Carmosino, giornalista Comune-info

Giulio De Vivo – insegnante e formatore

Beppe Giulietti  –  Articolo 21

Davide Guidi – Coordinatore delle attività Università per la pace delle Marche

Flavio Lotti, Presidente della Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace

Alessandro Marescotti – Peacelink

Luisa Morgantini- AssoPace, già Vice Presidente Parlamento Europeo

Juri Meda – docente Università di Macerata

Daniele Novara – Pedagogista.  Direttore CPP. Scrittore

Mauro Presini- insegnante e formatore

Lauro Seriacopi – Vice Presidente Fondazione Don Milani

Laila Simoncelli – Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII

Mauro Spallucci – Animatore cittadinanza attiva Trani

 

Altri firmatari a livello nazionale:

 

Sara Cambrini, Funzionario Ministero Cultura, Fano

Fabrizio Cracolici –  videomaker e attivista di pace

Carlo Devoti – Maestro dello Sport/ Ambasciatore dell’Accademia Olimpica Nazionale Italiana

Gruppo Territoriale Mce di Piacenza

Oriano Giovanelli – ex Sindaco di Pesaro, già parlamentare, consigliere comunale Urbino

Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni – Rete Pace Rimini

Paola Massaro – insegnante/formatrice Urbino

Claudio Orazi – Associazione La Lupus in Fabula (Pesaro e Urbino)

Laura Tussi  – giornalista e scrittrice

Teresa Rabitti – formatrice Associazione Clio’92 Mantova

Gruppo Territoriale Mce di Pesaro

Alessia Balducci, docente di scuola secondaria di secondo grado

Ramona Orizi, insegnante Pesaro

Michela Arseni, insegnante Pesaro

Francesco Paolo Romito, Teresa Roselli, Lucrezia Sisto, Rosaria Zonno, Francesca Damiani – Bari Scuola di Pace di Fano

Donatella Giulietti – insegnante/formatrice Associazione Clio’92 Fano (PU)

Chiara Benegiamo – insegnante Urbino

Daniele Marzi ed Emanuela Sbriscia-Fioretti – Presidenti Scuola di Pace di Senigallia

Veronica Bernini – Brescia

Scuola di Pace “L. Panzieri” di Pesaro

Chiara Balduini – insegnante

Ugo Milella – pensionato Bari

Simonetta Romagna – Presidente Biblioteca Bobbato Pesaro

Marinella Topi – ex insegnante Pesaro

Lorenzana Rossi, Milena Rossi, Lea Benoffi, Rita Giomprini , Caterina Profili – Pesaro

Corrado Donati, Roberto Bernardini,  Giacomo Alessandroni , Roberto Ricci – Pesaro

Isacco Mascarin – attivista

Samuele Mascarin – consigliere comunale Fano

Susanna Cangiotti, Giovanna Catto, Fatima Morelli

 

Volontariato:
un chiarore nelle tenebre del mondo

Volontariato: un chiarore nelle tenebre del mondo

In un momento molto difficile del panorama internazionale, dove le guerre ai confini dell’Europa fanno tremare la Terra, è difficile trovare la voglia di guardare con occhi benevoli il mondo e pensare che c’è ancora speranza per chi vive su questo pianeta martoriato. Se lo sforzo è più impegnativo, la motivazione è pressante e può essere aiutata dalla consapevolezza che senza la valorizzazione di ciò che è ancora buono, questo mondo ricco di tendenze consumiste, individualiste, capitaliste e post-moderne è destinato a distruggere sé stesso implodendo come un soufflè bruciato dall’aria bollente di un forno che nessuno è più in grado di spegnere.

Gli occhi che ci permettono di vedere il bene devono essere aiutati da buone lenti dotate di un duplice fuoco che ci assicura di vedere sia verso l’interno di ciascuno di noi (i nostri buoni pensieri, le nostre tendenze altruiste, la nostra voglia di vedere gli altri felici) sia e verso l’esterno (il mondo che sta fuori, la socialità, la voglia di comunità, la fratellanza).
Verso l’interno si può andare alla caccia dei buoni sentimenti e delle buone intenzioni che animano i nostri pensieri e i nostri cuori.
Verso l’esterno si può cercare una socialità pacifica e includente. In ciascuno di noi c’è la consapevolezza che il bene può esistere e che verso di esso si può tendere, così come esiste il risucchio verso il nichilismo e la conseguente negazione della capacità dei buoni sentimenti di colonizzare il mondo e albergare in esso a pieno titolo. È necessario adottare un approccio autoriflessivo che massimizza senza indugio la tendenza all’altruismo e la convinzione che grazie ad esso si possano fare grandi passi avanti, gli unici che sono davvero “avanti”. Solo dopo questa consapevolezza interiore si può guardare all’esterno di noi stessi verso le persone più prossime e verso gli altri più lontani. Si possono guardare con i giusti occhiali coloro che sono vivi contemporaneamente a noi, vicine e lontani, piccoli e grandi, come noi, poco diversi da noi, molto diversi da noi, divertenti solo a volte, gentili raramente.

Al cuore della questione c’è l’idea che il benessere sociale sia in grado di trascendere quello individuale per tornare alle persone come un boomerang di buone cose. Ritrovare la consapevolezza che aiutare gli altri sia l’unica strada possibile per la socialità, è la premessa per ricostruire un tessuto di buone relazioni che sappiano scavalcare la parentela e il clan per diventare un pilastro universale e fondante dell’essere umano. Un homo sapiens che riesce a vivere con i suoi simili in maniera pacifica e costruttiva.
Una tendenza verso i valori universali del rispetto dell’altro, della tutela del debole, dell’aiuto disinteressato. Principi che fanno a pugni con alcune leggi ascritte ma imperanti, dove chi ha più soldi decide le sorti degli altri, privilegiando parenti e amici. Amici che sono tali in quanto possibili vettori di privilegi. Questo non è di certo un bel mondo nel quale vivere, nessuno vorrebbe lasciare ai suoi figli una terra così.

 

Per fortuna il mondo nel quale viviamo non è sempre nichilista e corrotto e i tanti esempi virtuosi che ciascuno di noi conosce allentano la preoccupazione di una imminente catastrofe, per riportare un po’ di speranza. Credo ci sia un’ulteriore distinzione da fare quando ci si addentra nelle considerazioni sul “benessere collettivo”. Esiste una notevole differenza tra la tendenza alla socialità costruttiva insita in alcuni individui e l’appartenenza ad un gruppo che si occupa di persone bisognose. Mentre la prima pervade tutti gli ambiti della vita e accompagna tutte le scelte che una persona può fare, la seconda può avere un valore strumentale ed essere anch’essa fonte di privilegi. Quando entrambe le tensioni, l’indole altruista e l’appartenenza a un gruppo “socially oriented” convivono, si sviluppa il meglio possibile in termini di propensione individuale al bene collettivo.

Detto che l’appartenenza opportunista ad organizzazioni che si dichiarano altruiste è una contraddizione identitaria e che chi la vive si trova più o meno consapevolmente in situazione di forte stress (causato dal dover perseguire l’egoismo travestendolo continuamente con un atteggiamento altruista), va distinto il buono dal gramo e riconosciuto così che ci sono persone che provano sempre, con il tempo e gli strumenti posseduti, a fare del bene. Questa considerazione è la prima che può risollevare la nostra visione del mondo e aprirla a un panorama più ricco di proposte ed esperienze orientate al progresso, panorama positivo che può migliorare la vita, che ripudia l’egoismo smodato e ancora di più la sua legittimità settoriale.
Incanalare l’egoismo solo in alcuni aspetti della vita (ad es. il lavoro) è tanto brutto quanto lo è essere egoisti sempre.
È la stessa cosa, o sei egoista o non lo sei. Questa è la visione e questa è la strada. Ma il bene esiste e si manifesta spesso in maniera tangibile. Basta pulire le lenti dei nostri occhiali e un nuovo mondo pieno di luce si affaccia ai nostri occhi. Ad esempio, l’Italia è costellata da migliaia di associazioni di volontariato che, grazie alla dedizione di milioni di persone, lavorano ogni giorno per un mondo migliore. Tali associazioni svolgono un ruolo fondamentale nel tessuto sociale. Nei diversi ambiti in cui operano, colmano carenze strutturali e intervengono per portare conforto e un aiuto a chi ha bisogno. Dai diritti delle persone alla tutela degli animali, dalla povertà all’ambiente, i volontari mettono a disposizione tempo e risorse per il benessere della collettività.

Esistono tantissime associazioni di volontariato. Dalle più note e importanti, attive a livello nazionale e internazionale, alle più piccole che operano su scala locale. Le associazioni di volontariato sono enti non profit previsti dal Codice civile italiano. Un’associazione di volontariato unisce cittadini accomunati dallo stesso ideale o dagli stessi interessi. Nasce per iniziativa di un gruppo di soci (persone fisiche o giuridiche) che si occupano direttamente dello svolgimento delle attività dell’associazione stessa. Le finalità che un’associazione può scegliere di perseguire sono molteplici: sociale, culturale, ricreativa, religiosa, sportiva, ambientale ma ciò che la distingue da altri soggetti che operano nel Terzo settore è la presenza, necessaria, dei volontari, cioè persone che scelgono di dedicare parte del proprio tempo per realizzare, a titolo completamente gratuito, le attività dell’ente.
Per fare alcuni esempi molto conosciuti: Unicef , che è il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia. Oggi conta sul supporto di oltre 5.000 volontari in tutta Italia e di 276 mila donatori; L’ Associazione di volontariato Croce Rossa Italiana. Il suo scopo è, da sempre, l’assistenza sanitaria e sociale in tempo di pace e di guerra; Il Rotary International che è una rete mondiale formata da 1,2 milioni di persone. E poi: CESVI – Cooperazione e Sviluppo; Mani Tese; Amnesty International; Emergency; CARITAS; Cuore Amico; Gruppo Abele … e così via fino ad elencarne tantissime.
Il numero di volontari coinvolti in queste organizzazioni è impressionante: circa 6,63 milioni di persone in Italia dedicano il proprio tempo e le proprie energie a attività di volontariato. Questa disponibilità riguarda oltre il 12% della popolazione italiana sopra i 14 anni (dati ISTAT 2024), con una punta di massima disponibilità intorno ai 55. Tali numeri evidenziano l’ampiezza e la profondità dell’impegno volontario che si esprime in una vastissima gamma di settori.

A volte mi chiedo come un impegno così massivo non si traduca in un mondo migliore per tutti, altre volte vengo colpita negativamente dallo “squallore possibile” di un mondo senza la profusione di queste forze. Credo che l’apporto del volontariato sia ammirevole e lo sia ancora di più in quei casi in cui l’adesione all’associazionismo è accompagnata ad un atteggiamento che ripudia l’egoismo in ogni aspetto della vita.

Infine, mi sembra bello fare riferimento ad alcune associazioni piccole piccole che conosco bene e che mi sembrano degli esempi virtuosi e ammirevoli. Abitando in un paese bresciano di 1.500 abitanti conosco tutti e loro conoscono me. In questo paese esiste una sezione AVIS (associazione italiana donatori sangue) che vanta tantissimi iscritti. Oltre alle donazioni di sangue e a tutte le azioni che accompagnano questa attività di vitale importanza, questo gruppo di persone organizza feste all’aperto, giochi e vendite di fiori, piante grasse, cioccolato, mele per varie associazioni benefiche che hanno una natura simile alla loro (associazioni che si occupano di malati di leucemia, di sclerosi multipla, di disagio sociale e psichico, etc). Tutto fatto gratuitamente, a tempo perso, con un’organizzazione molto efficiente.
Il secondo gruppo e quello dei “Volontari del verde”. Tante persone che curano gli spazi pubblici rendendoli belli e vivi. Il parco dove giocano i bambini, il cortile delle scuole, il parco della casa di riposo, la piazza principale del paese. Il paese è diventato molto più bello grazie a loro e sempre grazie a loro il Comune è stato sollevato da una spesa che di fatto, nei modi e nella vastità in cui viene gestita attualmente l’area verde pubblica, non poteva sostenere. Sono due esempi micro ma sono la prova che il mondo si può migliorare, che non è l’apparenza che cambia le cose, che non servono i soldi per trovare ciò che è bello, che la socialità è il tessuto necessario per permeare le relazioni giornaliere di un gruppo di persone che vuole riconoscersi come comunità. Alla fine, la differenza la fa l’altruismo che vive dentro ciascuno di noi e questa non è una risorsa depositabile in una banca del tempo ma un orientamento che accompagna la vita. Allora il futuro sarà migliore, anzi lo è già il presente.

Colm Tóibín:
di che colore è la collina di Vinegar?

Colm Tóibín: di che colore è la collina di Vinegar?

Quando un romanziere famoso, inaspettatamente, decide di pubblicare una raccolta di poesie, probabilmente cede a una legge di necessità. E forse questo è il caso di Colm Tóibín, noto romanziere irlandese ( Brooklin, Bompiani 2009 e il recente  Il Mago, Einaudi 2023).

La raccolta si intitola Vinegar Hill e, a due anni dalla sua uscita in lingua inglese, viene proposta da Interno Poesia in un’edizione italiana curata e tradotta da Philip Morre e Giorgia Sensi con una luminosa prefazione del poeta gallese Patrick McGuinness.

Si diceva di questa ineludibile necessità: perché un narratore così conosciuto a livello internazionale ha voluto raccogliere e pubblicare le sue poesie, “…confezionando per altro un libro coi fiocchi per impegno e per immaginazione tematica e formale , per organizzazione interna e per intensità espressiva…” ?  (R. Galaverini).

C’è forse una necessità di confrontarsi in modo più diretto con la lingua? Oppure è una necessità di trattare ,in una forma più confidenziale e intima, argomenti dei quali Tóibín aveva già parlato nei suoi romanzi?

In una sua lectio magistralis sulla poesia (Poesiafestival, Vignola, 2017), Massimo Cacciari parla di questa “necessità” antica e ineludibile della poesia e dice: “…la nostra epoca… non considera più la poesia come qualcosa di necessaria…” perché la poesia non è più mossa, come un tempo, da una sete del sostanziale che ora (sembrerebbe) essere soddisfatta da altri.

Da chi altri? Ma dalla scienza…dal sapere tecnico-scientifico. È lì che troviamo soddisfazione alle nostre domande…”. Le troviamo nelle ragioni e nelle spiegazioni o, se volete, nella narrazioni bene articolate come quelle rese nei romanzi.

E dicendo questo cominciamo ad avvicinarci a quella necessità sostanziale della poesia, qualcosa che gli autori dal linguaggio raffinatissimo, come lo è Tóibín, comprendono molto bene.

Se mai un devoto del linguaggio (romanziere o poeta) dovesse sottostare a un unico obbligo verso la società, sarebbe il seguente: scrivere bene. Non ha altra scelta che questo “dovere” e Tóibín, in generale, non scriverebbe se non sentisse questo dovere.

E questo dovere risponde a una necessità urgente: resistere.

A chi? A cosa?

Il premio Nobel Iosip Brodskij risponde chiaramente a questa domanda: “…la società, maggioranza per definizione, presume di avere altre opzioni…” (quelle ricordate da Cacciari), per orientarsi nella nostra realtà; sicuramente opzioni “…diverse da quella di leggere versi, per quanto ben scritti”.

Ma” – continua Brodskij – “se [la maggioranza della società] trascura di leggere versi rischia di scivolare a quel livello di eloquio al quale una società diventa facile preda di un demagogo o di un tiranno”[I. Brodskij, Fuga da Bisanzio, Adelphi, 1987].

Ed è proprio questo che si coglie nella raccolta di Colm Tóibín. In quanto prima raccolta di poesie di un romanziere, Vinegar Hill è un libro pienamente formato nella sua varietà metrica, nel suo senso del verso e in tante altre particolarità che evidenziano una indubitabile frequentazione dell’autore irlandese con tantissima…lettura poetica.

Nella sua prefazione Patrick McGuinness sottolinea questo aspetto di “…un libro pieno di varietà – di tono, di argomento, di tempo e luogo e forma – [di] un libro che parla del presente mentre capisce i modi in cui la storia, o meglio, le molteplici storie, sovrastano i nostri giorni”.

Così nella delicata poesia che dà il titolo alla raccolta (Vinegar Hill, pg. 81), Tóibín allude a una importante battaglia svoltasi in quel luogo nel 1798 per l’indipendenza irlandese e contemporaneamente ricorda sua madre che cerca di dipingere  la collina che si vedeva dalla loro casa.

Cosicché una semplice parola “hill” (collina) può essere la sostanza di una disfatta ( la battaglia fu vinta  dalle forze governative britanniche e irlandesi) , oppure il dilemma cromatico di un’artista, addirittura la collina può assurgere a simbolo nazionale e, perché no, a titolo di una raccolta poetica.

Di tutto questo, ovviamente, alla collina non interessa “… restando sostanza intrattabile, impenetrabile e serena”.

La poesia si conclude con una maestosa metafora finale, nella quale nuvole sognanti, smarrite e  senza una vera strategia vengono paragonate alle truppe irlandesi di quella battaglia.

Una metafora potente per chi in maniera autoironica chiede a S. Agnese , in un’altra poesia (Preghiera a Sant’Agnese, pg. 259):

Sant’Agnese, guariscimi da metafore!/Fammi dire esattamente ciò che intendo,/senza inganni e senza ricorrere/ a parole che non siano chiare e linde.

Ed eccola la necessità ineludibile del poeta Colm Tóibín: resistere a un linguaggio che si va sempre più deteriorando che diventa sempre più oscuro e sciatto; resistere al linguaggio di demagoghi, tiranni, pubblicitari e imbonitori che non sanno più dire cosa è e di che colore è la collina di Vinegar.

 

Cover: Vinegar Hill – Irlanda

 

Presto di mattina /
Jon Fosse e l’inevidenza evidente

Presto di mattina. Jon Fosse e l’inevidenza evidente

«Quando scrivo, ascolto.
Ascolto il silenzio e cerco di farlo parlare»
(Jon Fosse).

Ad attrarre la mia attenzione verso lo scrittore norvegese Jon Fosse è stato dapprima leggere in un articolo della sua abitudine di scrivere all’albaPresto di mattina, come riporta il titolo di questa rubrica – ma soprattutto il fatto che per lui la poesia stia a fondamento delle molteplici forme della sua scrittura.

Non mi ha sorpreso, dunque, che l’anno scorso abbia ricevuto il Nobel per la letteratura, perché – queste le parole a motivazione del premio – «la sua drammaturgia e la sua prosa innovative danno voce all’indicibile».

Tutto ciò mi ha spinto in biblioteca a cercare un suo libro e, inaspettatamente, proprio sugli scaffali delle novità nell’atrio dell’Ariostea, mi sono ritrovato con meraviglia, faccia a faccia, con il suo libro di poesie Ascolterò gli angeli arrivare (Crocetti editore, Milano 2024), che sembrava aspettasse proprio me.

A farmi decidere però di percorrere un tratto di strada in sua compagnia è stato leggere nel saggio introduttivo di Andrea Romanzi, qualcosa dell’autore che ho sperimentato anch’io:

«“Quando scrivo bene, non sono io che scrivo. [ … ] scrivere dischiude dimensioni dell’esistenza che non si possono spiegare, ma che sono comunque attive”. La cifra spirituale della scrittura di Fosse – afferma Romanzi – risiede quindi in un’assenza, in un essere altrove e altro-da-sé, nell’esperienza paradossale del voler insistere nella fatica di comunicare l’incomunicabile.» (ivi, 8)

Letteratura è il profondo, il silenzio narrato in parole, come la scrittura è il tacere della voce, la narrazione dell’indicibile la troviamo attraversando il silenzio delle parole e la notte della luce. Dalla poesia non ci vengono informazioni, essa ci comunica la sua stessa vita.

Le stelle hanno la propria notte
e la notte ha le proprie stelle                          Esco nel mattino e
ascolto una chitarra La stella abita nella notte
e la notte dà alle stelle la propria luce                      Ti tengo la
mano
e tu tieni la mia mano                                   Entriamo in noi e
usciamo nel mondo
(ivi, 147)

«E per me, scrivere – ha ricordato Jon Fosse – è ascoltare: quando scrivo, non preparo mai niente, non pianifico niente, vado avanti ascoltando. Quindi se dovessi usare una metafora per scrivere, sarebbe ascoltare… La scrittura, come ho detto, è un’attività solitaria, e la solitudine è buona fintanto che, per citare un altro poema di Olav H. Hauge, la strada di ritorno verso gli altri rimane aperta» (Un linguaggio silenzioso 7 Dicembre 2023 – Stoccolma, discorso del Premio Nobel).

Ascoltare gli angeli arrivare

Così Ascoltare gli angeli arrivare è lo stesso che restare aperti e attendere dal silenzio il venire delle parole; ed è tutto un ascoltare il brusio del silenzio. Mi vengono così improvvise anche a me, ora, parole inattese come ricalcate su quelle del poeta, germogli sulle sue radici, replicando a modo mio le asciutte, stringate parole di Jon Fosse, senza punteggiatura e con stacchi e pause tra di esse. E così scrivo a lui di rimando:

Le parole hanno il proprio silenzio,
e il silenzio ha le proprie parole,                             Esco ascoltando il mattino
La parola abita il silenzio
e il silenzio dà alle parole la propria voce.               Tenendosi la mano
entrambi entrano in me e io rivivo,
spalancato                                                              al mondo altro.

E di nuovo la sua risposta non tarda a venire:
te ne stai nella luce del tuo volto
dove un nuovo silenzio
ha iniziato il suo lavoro
non racconti storie, sono
soltanto piccoli scorci concordati
di un insieme
troppo luminoso                        per te                             è così
che puoi raccontare
il tuo insieme illuminato, silenzioso                        silenzioso
mentre la notte canta i suoi soli
[e tu devi, tra non molto, entrare nel grande movimento
dove il giorno arriva col suo dolore]
(Ascolterò gli angeli, 85).

Come amore nei capelli

e fuori dall’ oscurità.
proprio come un amore
che ci piace respirare Ti prego
apri la finestra
e lasciami vedere
che il fiordo è azzurro
E nel fiordo ci sono barche
e il vento è trasparente
ed è come amore
nei tuoi capelli
(ivi, 137)

Colui che scrive si perde come barca tra i fiordi del mare del nord, che si muove cercando un approdo che non c’è ancora e tuttavia nella scrittura egli ritroverà se stesso come un altro, su un nuovo arenile che egli stesso non sa dire, se non nel movimento, come un’onda dopo l’altra nel flusso di quelle parole.

La scrittura è un movimento, un movimento d’amore – ricorre come un leitmotiv in Fosse – ti porta dove non te l’aspetti, verso ciò che non è ancora nelle profondità dello spirito, che è amore, e provando ad illuminarlo con parole, se vi riesci, fai luce agli altri e anche a te stesso.

«E l’amore non è mai qualcosa che è!/ È soltanto rivolto verso qualcosa che è. Per questo io sono amore! Sono rivolto verso ciò che è/ ma come movimento Sono un movimento in un movimento/ Io sono in un movimento d’amore! / E guardo le barche/ muoversi attraverso uno stretto/ E allora tutte le barche non devono far altro che arrivare» (ivi, 117).

C’è ancora un verde possibile e una scintilla nella vita trasformata in morte

I due estremi della vita narrati nei due margini del giorno: mattino e sera: un bambino nasce si chiamerà Johannes, un vecchio pescatore muore, si chiamava Johannes.

«Johannes rimane in piedi a guardare i pendii e le alture e le rocce e le case sulla terraferma, c’è la sua piccola barca a remi che si trova ormeggiata a una boa ed è attraccata anche al molo, e osserva le rimesse delle imbarcazioni e vede le case lassù in cima e lungo la strada e si sente colmare da una sensazione molto forte per via di tutto questo, per l’erica, per tutto quanto, conosce ogni cosa, è il suo posto nel mondo, è suo, tutto quanto, i pendii, le rimesse delle barche, i sassi sulla battigia e ha la sensazione che non rivedrà mai più tutto questo allo stesso modo, ma rimarrà dentro di lui, come ciò che è davvero, come un suono, sì, quasi come un suono dentro di lui, pensa Johannes e si porta le mani agli occhi e li sfrega e vede che ogni cosa riluce, dal cielo laggiù, da ogni parete, da ogni sasso, da ogni barca, tutto scintilla verso di lui» (Mattino e sera, La nave di Teseo editore, Milano 2019, 83-84).

Che cosa scintilla? Ho pensato: è la barca della più grande vita, quella rilucente nella barca grande dell’oceano, della barca che è l’oceano, che è la vita come amore.

Sono lì come barche
su un oceano
grande come tutto ciò che è
molte
barche
piccole
e piccole e immobili sono cullate avanti
e indietro
e avanti
sulle barche del grande
oceano
dentro la grande barca
sulle barche del grande
oceano
dentro la grande barca
la grande barca dell’oceano
la barca grande quanto l’oceano
la barca che è l’oceano
e che vede 1’oceano                                      Le piccole barche sul grande
oceano
Vedo le piccole barche sul grande oceano      E afferro
di fronte a me il bordo della barca
E l’amore che ho
possa
restare con voi
miei cari
(Ascolterò gli angeli, 133 e 135).

Scrittura: una mistica dell’altro

La scrittura e la parola come apertura al mondo nel suo trascendimento, sono una ricerca e movimento che si orienta verso una totalità misteriosa, un luogo dove tutto converge ed irradia e per questo rivela in Jon Fosse una sensibilità mistica, una perdita della parola nel silenzio della scrittura ed il suo ritrovamento nella lettura.

«Quando scrivo, scrivo sempre in direzione di una totalità che immagino esistere in un luogo, come qualcosa di assolutamente determinato, e qualsiasi cosa io scriva, qualunque periodo, anche una parte un po’ più estesa, qualsiasi cosa, è una ricerca della totalità di cui non ho in anticipo conoscenza alcuna, trattandosi di una totalità verso cui mi oriento scrivendo» (Saggi gnostici, Cue press, Imola 2018, 56).

E ancora, sempre nei saggi si legge: «Alcune delle mie esperienze più profonde possono, come ho compreso a poco a poco, essere definite esperienze mistiche. E queste esperienze mistiche sono connesse alla scrittura come un «essere consegnato all’altro e nelle mani di quel ch’è altro» (ivi, 25).

Scrittura: un atto musicale

Jon Fosse ritrae insieme ai paesaggi della sua terra − i monti, la nebbia e la trasparenza del vento, l’azzurro dei fiordi − anche il mattino e la sera dell’esistenza, il nascere e il morire, morte e vita, il credere e il non credere e il provare a credere di nuovo.

Nei personaggi cerca non solo l’oltre, ma lo sprofondo, ciò che vi è di più intimo e oscuro. Entra nei grovigli, nelle fragilità e resistenze della loro interiorità e sintonizza il linguaggio e le parole come una musica che si adatta di volta in volta al loro spartito d’esistenza vissuta in quel determinato momento.

Esse declinano il ritmo delle loro interiorità che fa vibrare, intensificare anche quella di chi legge: una lettura difficile quella di Fosse, perché ti costringe a corrispondere alle variazioni e ai sussulti del ritmo, delle sue parole quasi come note.

In un’intervista dice: «Le mie prime esperienze con la scrittura risalgono a quando, ragazzo, ho iniziato a scrivere testi per le melodie che componevo con la chitarra. A quel tempo per me la musica era l’elemento più importante, ma anche oggi, scrivere per me rimane comunque un atto musicale, in fondo, e questo vale sia che io scriva poesia, prosa o drammi» (Teatro, Editoria & Spettacolo, Spoleto (PG) 2006, XIII).

Il trascendente si cela nella scrittura

Tra i fiordi delle sue parole e i silenzi, le pause, i ricominciamenti vi si trova non solo trascendenza della parola ma ricerca del trascendente, che il più delle volte è nascosto tra i vuoti, i silenzi delle parole e nelle innumerevoli ripetizioni che rallentano ma non fermano il movimento della scrittura.

Nella letteratura patristica il simbolo della barca è molto frequente: e il gesto di Gesù di salire sulla barca è detto con l’espressione “salire sul legno” l’equivalente di salire sulla croce. Ecco allora

Il dio morto
vedo un occhio in fiore
posarsi sul fiordo, una mano
tiene aperta una finestra: un vento
da un oblio
dice nella sua foschia azzurra
che c’è ancora un verde possibile
dietro ciò che chiamiamo vita e morte                     Sulla croce Dio
ha terminato la sua vita
e le nostre vite furono terminate                              Sulla croce Dio è
morto
Sulla croce è morta la vita
morta la morte Un verde trasparente
si diffonde dal dio morto
come una foschia azzurra
di vita trasformata in morte
(ivi, 121).

Profondamente credente, a modo suo, Fosse è passato in anni recenti dal protestantesimo – nella Chiesa luterana di Norvegia – al cattolicesimo. Una volta si lasciò sfuggire che la letteratura non solo era per lui un dono, anzi una grazia, ma pure una preghiera.

Così racconta nel discorso fatto alla consegna del Nobel: «In un’intervista, molto tempo fa, ho detto che la scrittura era una sorta di preghiera. E mi sono vergognato quando ho visto quelle parole stampate. Ma un po’ più tardi ho letto, e mi ha confortato, che Franz Kafka aveva detto la stessa cosa. Allora forse – dopo tutto?».

Nel suo romanzo Melancholia vi è un personaggio Vidme, uno scrittore agnostico che, pur riconoscendo l’ispirazione artistica somigliante ad una grazia accadutagli di fronte al quadro che s’intitola Dall’isola di Borgøya del pittore Lars Hertervig (1830-1902) di cui voleva scrivere un libro, cerca altre parole per definire quell’esperienza, quel lampo di creatività, ma nessuna arrivava ad essere come quella che si rifiuta di pronunciare: “un lampo divino”.

«Vidme crede che il suo lavoro di scrittore lo abbia condotto nelle profondità più recondite di qualcosa che lui in momenti improvvisi, istanti felici di lucidità, è arrivato a considerare come un lampo di divino, ma sia il lampo sia il divino sono espressioni che a Vidme non possono piacere, se non avesse disprezzato così tanto queste espressioni avrebbe potuto dire che in singoli istanti illuminati ha avuto un’ esperienza che non può negare, un’ esperienza che può anche sembrare ridicola, è ridicola, sia per Vidme sia per la maggioranza della gente, però in alcuni istanti di grazia, se solo potesse fare uso di questa espressione, Vidme, uno scrittore fallito quanto basta, invecchiato presto, si è reso conto di essere stato in prossimità di ciò che con un’ espressione che non si sarebbe mai immaginato di utilizzare non può chiamare altro che il divino.

Per questo adesso Vidme sta camminando lungo il marciapiede. Ma il divino, per non dire Dio, è un’espressione che Vidme non può tollerare di usare. Eppure non ha un’espressione migliore con cui definirlo» (Melacholia I-II, La nave di Teseo editore, Milano 2023, 283-284).

L’abbandonarsi dell’abbandonato è la fede, un movimento resistente che ti solleva

Sto in piedi nel vento
La pioggia cade dal cielo
Apro i miei abiti
Afferro
e vedo quel movimento dentro di me
che scompare
e diventa un movimento grande che mi solleva
abbandonandomi
(Ascolterò gli angeli, 155).

L’amore: l’inevidenza evidente

mani invisibili ci guidano
intorno nessuno vede le mani nessuno sa di loro
ma senza queste mani la nera nebbia nei nostri cuori
ci trascinerebbe in un’inquietudine schiacciante
mentre stiamo lì
e non riusciamo a vedere
Sono queste mani invisibili che distendono la propria
musica silenziosa
dentro di noi
come un vortice che ci solleva
all’interno di quel silenzio
che fa sì che il giorno si possa vivere

sei così evidente
così presente
nelle cose piccole e in quelle grandi
e in tutto ciò che avresti dovuto fare
Vai lontano
Lo fai lentamente
ma per te
così infinitamente veloce
Sei il mio più grande amore
Se devo dire che cosa è l’amore
posso dire il tuo nome
Sei il mio amore
Sei il tuo proprio amore
Sei amore.
(ivi, 157 e 159)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

A GAZA UNA NUOVA EMERGENZA: LA MALNUTRIZIONE INFANTILE

A GAZA UNA NUOVA EMERGENZA IMPENSABILE FINO A UN ANNO FA:
LA MALNUTRIZIONE INFANTILE

  • 1,1 milioni di persone (metà della popolazione di Gaza) in grave insicurezza alimentare1.
  • La malnutrizione, quasi inesistente un anno fa, è in forte aumento.
  • 41.000 persone sono le perdite a Gaza dall’inizio del conflitto.
  • L’86% del territorio di Gaza è soggetto a ordini di evacuazione forzata da parte di Israele e, di conseguenza, considerato insicuro, lasciando milioni di persone senza accesso ai beni essenziali.
  • L’arrivo dell’inverno aggrava il rischio di malattie e peggiora le condizioni degli sfollati

MA un anno dall’escalation di violenza che ha colpito Gaza, Azione contro la Fame lancia un allarme preoccupante: l’approssimarsi dell’inverno e la crescente malnutrizione pongono milioni di persone in una situazione di grave emergenza. Circa la metà della popolazione di Gaza, 1,1 milioni di individui, vive attualmente in condizioni di insicurezza alimentare, con la malnutrizione che torna a colpire in modo preoccupante.

Malnutrizione e accesso limitato ai servizi essenziali

La malnutrizione, quasi inesistente prima del conflitto, è diventata una grave minaccia. L’accesso limitato a cibo, acqua, servizi igienico-sanitari e vaccinazioni di routine contribuisce a questa crisi. Inoltre, la mancanza di articoli per l’igiene, unita a condizioni abitative precarie, aggravano ulteriormente la situazione. Oltre il 60% delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie di Gaza è stato distrutto, riducendo l’accesso all’acqua potabile a soli 2-8 litri al giorno per persona, ben al di sotto degli standard minimi per la sopravvivenza.

I bambini sotto i cinque anni sono ad alto rischio: quasi il 90% dei casi di malnutrizione (acuta, grave e moderata) è stato riscontrato in bambini di età inferiore ai due anni, i più vulnerabili, nati subito prima o durante la guerra. Purtroppo, almeno 34 bambini sono già morti a causa della malnutrizione (dato di giugno 2024), della fame e della disidratazione, e il numero reale potrebbe essere significativamente più alto.

I nostri operatori a Gaza continuano a curare e sottoporre a screening i bambini per verificare la presenza di malnutrizione acuta. Inoltre, molte donne fanno fatica ad allattare a causa dello stress e utilizzano integratori di latte, che necessitano di acqua potabile per evitare malattie causate da acqua contaminata.

Oltre 340 persone sono costrette a condividere un solo bagno e 1.290 si devono servire di una sola doccia, laddove queste strutture sono disponibili. A causa della scarsità d’acqua, i residenti riescono a lavare i vestiti solo sporadicamente e spesso sono costretti a utilizzare le latrine come docce.

«La malnutrizione, che sembrava un problema superato, sta tornando a livelli allarmanti», dichiara Cristina Izquierdo, coordinatrice nutrizionale del team di emergenza di Azione contro la Fame. «Un anno fa, non avremmo mai immaginato di dover misurare la circonferenza del braccio dei bambini per identificare il rischio di malnutrizione. Oggi, tutti i bambini di Gaza sono a rischio». La nutrizione è stata uno dei pilastri della nostra risposta in questa emergenza e Azione contro la Fame è diventata l’organizzazione leader in questo ambito.

Un impegno continuo per prevenire la carestia

«La malnutrizione e la carestia sono prevenibili», afferma Natalia Anguera, responsabile operativa per il Medio Oriente di Azione Contro la Fame, sottolineando l’importanza degli sforzi dell’organizzazione per fronteggiare questa crisi. Nonostante le enormi difficoltà, oltre 1.100.000 persone a Gaza sono state raggiunte con interventi umanitari da Azione contro la Fame, tra cui la distribuzione di milioni di litri di acqua potabile e la fornitura di cibo e kit igienici.

Le organizzazioni umanitarie, tra cui Azione contro la Fame, stanno fornendo circa 600.000 pasti giornalieri in tutta Gaza, ma oltre 1,4 milioni di persone non hanno ricevuto le loro razioni alimentari a settembre, secondo quanto riportato dall’OCHA2.

A causa dell’assenza di produzione alimentare e della limitata quantità di prodotti che entrano nella Striscia, la popolazione è particolarmente vulnerabile. Infatti, dal 7 ottobre 2023, gli agricoltori dei Territori Palestinesi Occupati hanno perso molti dei loro raccolti o non possono più raggiungere i loro campi. Questo non solo ha un impatto devastante sui mezzi di sussistenza e sul potere d’acquisto delle famiglie, ma sta anche distruggendo il mercato locale: il cibo è sempre più scarso e quel poco che è disponibile è estremamente costoso.

Sebbene almeno il 75% delle terre coltivabili di Gaza sia stato danneggiato, gli operatori di Azione contro la Fame a Gaza stanno già rispondendo ai bisogni sul campo, assicurando che i contadini che stanno ancora lavorando dispongano degli strumenti e delle risorse necessarie per ricostruire

Crisi umanitaria anche in Cisgiordania e Gerusalemme Est

Non solo Gaza: anche la Cisgiordania e Gerusalemme Est stanno vivendo un’escalation di violenze e restrizioni senza precedenti.
Le incursioni militari, la violenza dei coloni e il trasferimento forzato delle popolazioni sono aumentati in modo drammatico negli ultimi 12 mesi.
Le squadre di Azione contro la Fame riportano condizioni mai viste prima, con demolizioni di infrastrutture essenziali come strade, reti idriche e fognarie. La situazione richiede un intervento deciso e immediato.

Il freddo in arrivo e le condizioni degli sfollati

Con l’avvicinarsi dei mesi invernali, il freddo e la pioggia, le famiglie sfollate – molte delle quali vivono in tende danneggiate o all’aperto – affrontano un rischio crescente di contrarre malattie come infezioni respiratorie acute e diarrea. Natalia Anguera esprime profonda preoccupazione: «Le famiglie che vivono in queste condizioni precarie non sono pronte ad affrontare il freddo. Molti sono costretti a dormire all’aperto, in aree in cui si accumulano acqua piovana e rifiuti, aumentando il rischio di epidemie».

Azione contro la fame
Milano 8ottobre 2024,

Cover: Gaza, bambini in fila per il cibo – Foto: [Omar El Qattaa – Anadolu Agency]

Parole a Capo
Marta Casadei: “Quello che resta” in alcuni “scatti” poetici

Questo numero di “Parole a capo” è dedicato ad un’opera poetica piena di rimandi ad una vita vissuta a due. Un percorso intimo, profondo che Marta Casadei ha compiuto accanto al compagno di una vita. “Quello che resta” (Ed. La Carmelina, 2024) è un’opera prima che parla di ricordi, di invecchiamento assieme, di presenze ed assenze, di piccole complicità, di progetti comuni, di vuoti, del tanto amore che resta, che c’è stato e che ancora resterà nel tempo.
Nella prefazione, Piero Stefani esordisce chiamando in causa la poesia “Invecchiare“. “Quando si è in due, se si cade l’altro ti rialza, dice la parola antica, ma chi solleva sa di essere a propria volta confortato dalla constatazione che il suo essere stato lì non era privo di senso. Anche quando le forze si affievoliscono e non si è più in grado di alzare il proprio coniuge o quando non si sa più giudicare fino a che punto la propria presenza sia percepita dall’altro, rimane sempre la possibilità di stare accanto. Poi cessa anche il comune invecchiare e subentra il grande distacco. Nell’ordine del tempo “ciò che resta” riguarda innanzitutto il proprio rimanere soli”.

INVECCHIARE

Ci si incurva piano piano
non te ne accorgi…
finché d’un tratto
sempre più cose sono irraggiungibili:
la lampadina fulminata
il pacco del caffè sullo scaffale
più alto… Per altre poi
viene meno la forza e non riesci
ad aprire un vasetto sottovuoto
a sollevare la tanica dell’acqua
e ti occorre la sporta con le ruote
per fare spesa.
E la memoria ti tradisce, prima
di quando in quando e poi
sempre più spesso.
Una scoperta amara il tradimento
del corpo… e tu mi soccorrevi
mi toglievi il disagio e la paura
anzi, il decadimento inevitabile
e necessario
diventava occasione di un bacio
e di un sorriso complice
un poco scaramantico.
Era bello in fondo
invecchiare insieme
e scoprire i tanti modi
di inventarsi l’amore:
nella cura reciproca
nell’insaponarci la schiena
nel prevenire un desiderio
nell’intuire l’un l’altro i pensieri
in un’idea espressa all’unisono.
E nella tenerezza
di piccoli gesti
come quando prendevi
l’accappatoio dal gancio
per me ormai troppo alto
e mi aiutavi ad infilarlo
con le mani tremanti;
ci voleva del tempo
ma era il tempo per me
di un abbraccio dolcissimo
di una lunga carezza
delicata, occhi chiusi
a fermare il tempo.
Ora che sei inciampato nella morte,
in questa casa
straniata
dove non c’è niente
a mia misura, io mi ritrovo
inadeguata a tutto, prigioniera,
impigliata nella vita.

Dal ripercorrere vicende, emozioni, esperienze, col filtro della memoria ho tratto giovamento emotivo e accettare la realtà è stato piano piano possibile. La dolente memoria della persona che più mi era stata cara, all’inizio era tremendamente acerba e non lasciava spazio ad aperture di speranza. Il tempo lentamente l’ha resa sopportabile fino a farla diventare una dolce compagnia” (Marta Casadei).

La lettura si presenta difficile non per il linguaggio o per le parole usate ma perché senza fronzoli, per la forza dei sentimenti messi in campo che coinvolgono emotivamente, che vanno dritti al cuore. Con l’andare del tempo si restringe il libero arbitrio, o almeno ci sembra. Montaigne scriveva che “la riflessione sulla morte è riflessione sulla libertà”. La si guarda in umiltà, “in timore e tremore” come diceva San Paolo.

 

LA SEDIA VUOTA

Non avverto profumi né sapori.
Sulla tavola nuda consumo
distratta il mio pasto da sola
senza arte né grazia; di fronte
la tua sedia vuota
restituisce, muta, sensazioni.
Volti e volti mi sfilano davanti
camionisti e rappresentanti di commercio
chini sul piatto, sguardi assenti
taciturni e soli.
Stanchi sorrisi di presentatrici
di quanto più mirabolante e nuovo
offra il mercato
e di professoresse segaligne,
visi rugosi e sogni adolescenti.
Su quelle rassegnate solitudini
quasi avevo pudore
di essere in due a gustare parole
al tavolo con la cartapaglia
del menù a prezzo fisso.
Era il lusso che ci regalavamo
nei nostri giorni speciali,
quelli da ricordare,
rivalsa a buon mercato.
La mente e il cuore inseguono ricordi,
emozioni passate, ma le mani
si muovono sul filo di abitudini
remote mentre tagliano la mela
ponendone metà proprio davanti
alla tua sedia… dove manca il piatto.
Una gioia di lacrime improvvisa
un calore avvolgente
(ne avevano rubato la memoria
i giorni duri che ti han portato via)
e ti ho rivisto seduto al tuo posto
dividere con me cibo e parole.
E’ stato il nostro rito
taciuto e rispettato
mangiare insieme in sala nelle feste
e nella ferialità della cucina.
Ci aspettavamo anche se era tardi
e, tutta nostra, una consuetudine,
piccolo segno di alleanza:
facevamo a metà l’ultimo frutto…
era come godere
un intimo sapore condiviso.
Era un dono reciproco a sancire
intesa e pace e complicità.
Era conferma di una comunione
irriducibile…
un gesto che nessuno ha mai notato…
ritrovarlo così ha colorato
il film in bianco e nero dei miei giorni.
E non sarà che una cosa da niente
come la morte tagli quel legame.
Tu non sarai mai più troppo lontano
non lascerai mai più la sedia vuota
e sarai qui con me, sono sicura.
Da domani
stenderò la tovaglia di bucato
e apparecchierò con molta cura
e indugerò un po’ seduta a tavola,
e potrò assaporare i tuoi pensieri
insieme ai miei:
ancora e sempre un unico sapore,
nel tempo che mi resta della vita.

 

PARLARNE CON TE

Cammino guardo leggo penso vedo
incontro osservo mi stupisco fremo
mi indigno mi ricordo di qualcosa
o di qualcuno. Vivo…
Ho un lampo di memoria, una banale
curiosità…
Mi riprometto
di parlarne con te appena torno
(o appena torni) e capita
che affretti il passo verso casa
per raccontarti una qualche novità.
A volte
ti do la voce: ma lo sai? ricordi?
E ci metto del tempo a realizzare…
tante le cose rimaste in sospeso
troppa la vita rimasta da dire.

 

E QUANDO ANCH’IO

 

E quando anch’io passerò il confine
con timore e tremore,
fra tutti quelli che mi hanno amata
vorrei che fossi tu a venirmi incontro
col tuo largo sorriso e le tue mani.
Vorrei sentire per prima la tua voce.
Chissà se ci potremo
abbracciare davvero.
E ti farò un rimprovero
(ci sei abituato!)
per avermi lasciata
per tanto tempo sola e spaventata.
E ridendo dirai che come al solito
non ho capito niente. E mi dirai
dello stupore per tutto il coraggio
che non sapevo di avere
e per le cose nuove inaspettate
e sorprendenti che mi hanno consolato,
che anche così la vita ha regalato.
E mi dirai che tutte erano state
le tue carezze all’anima
che la tua tenerezza
aveva mosso a compassione Dio.

 

Marta Casadei si descrive così: ”Sono nata a Riccione moltissimi anni fa. Da oltre 50 anni vivo a Ferrara, una città che adoro. Qui mi sono dedicata alla famiglia maturando un grande amore per i bambini e la consapevolezza del diritto di tutti i piccoli ad avere una famiglia, per cui ho scelto di dedicarmi per molti anni all’affido familiare. Per questo ho abbandonato la passione giovanile dello scrivere per riprenderla adesso in età avanzata. Per me è una terapia alla solitudine e risponde al bisogno di mettere insieme dei ricordi da lasciare ai figli. Non ho velleità artistiche, il mio è uno stile datato però a volte si compie il miracolo di un incontro di anime e diventa senza tempo e bello”. Alcune sue poesie sono uscite su “Parole a capo” il 20 aprile 2023.

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 250° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

XVI Forum Internazionale per la Salvaguardia della Natura

#buildingfuturetogether: XVI Forum Internazionale per la Salvaguardia della Natura, Roma-Frascati dal 10 al 12 ottobre 

Tra crisi pandemiche e crisi belliche, crisi socio-economiche e climatiche, rischiamo di compromettere l’avvenire dell’umanità. Serve un radicale cambio di paradigma, culturale e morale, che ci consenta di passare dall’antipatia all’empatia, dalla belligeranza alla fratellanza, dall’individualismo al pluralismo, perché come indichiamo nel titolo del nostro XVI Forum Internazionale, il primo dopo il Covid, il futuro lo salviamo solo se lo ricostruiamo insieme, nella convivialità delle differenze e nella riduzione delle disuguaglianze”.

Il presidente di Greenaccord Onlus Alfonso Cauteruccio, nel presentare l’ampio e originalissimo programma del nuovo appuntamento internazionale del network ecologista di ispirazione cristiana che si svolgerà tra Roma (nella giornata del 10 ottobre presso il Centro di Preparazione OIimpica del Coni di Roma) e Frascati (nelle giornate di venerdì 11 e sabato 12 ottobre presso il Centro Giovanni XXIII), sottolinea, in particolare, alcuni aspetti. Il primo dei quali è il contributo straordinario portato dalle donne nel progresso e nella prosperità inclusiva del pianeta. “La nostra scelta di aprire il Forum con una riflessione sul protagonismo delle donne – ha ammesso Cauteruccio – nasce dal consapevole riconoscimento del valore di quanto le donne, con la loro creatività e genialità e generosità, stanno operando nel mondo in termini di attivismo, di ricerca scientifica, di sensibilità politica e di scelte concrete. Appare chiaro che le donne hanno una marcia in più e sanno essere più determinate e incisive”.

Dall’innovazione sociale alla promozione manageriale, dalla valorizzazione museale all’affermazione sportiva, le donne stanno mietendo successi incredibili e sempre più spesso i loro percorsi sono di ispirazione per le più giovani generazioni che ricercano esempi positivi in una società sempre più dilaniata dalla violenza e dall’indifferenza. In particolare, anche per l’intima relazione con l’integrità dei paesaggi e nell’evidenza che l’attività sportiva ed agonistica contribuisca al benessere fisico e psicologico degli individui, lo sport è al centro della seconda sessione di giovedì 10 ottobre.

Infatti, uno spazio apposito, programmato con il decisivo apporto del CONI e dell’USSI (Unione Stampa Sportiva Italiana) sarà dato al contributo dello sport alla sostenibilità ambientale. Lo sport è una medicina per il corpo e la mente, un bisogno imprescindibile e se praticato all’aperto è la natura stessa a rigenerare la persona. Infine non va sottovalutato il contributo che può offrire il giornalismo sportivo per sensibilizzare quanti seguono qualsiasi tipo di competizione sportiva.

La conversione ecologica, tuttavia, come periodicamente viene sottolineato dai principali report internazionali che monitorano lo stato di avanzamento delle politiche pubbliche incardinate sugli istituti della mitigazione e dell’adattamento ai cambiamenti climatici, è soprattutto una complessa “questione politica”. Al contributo della politica e delle Istituzioni, nonché a quello dell’economia e della finanza, ma anche della tecnologia e dell’impresa, sono dedicate, pertanto, le successive sessioni, da venerdì 11 a Frascati, con il precipuo e ambizioso obiettivo, attraverso la partecipazione di prestigiosi relatori nazionali e internazionali, non solo di fotografare i quadri conoscitivi della nostra contemporaneità, ma anche di restituire un ventaglio di prospettive e di opportunità per una transizione ecologica ed energetica equa e giusta. In dettaglio, osservando cosa succede tanto nel nostro Paese quanto in realtà emergenti come la Cina o l’America Latina, si indagheranno le evoluzioni, tra successi e criticità, dello sviluppo sostenibile e dell’economia circolare, delle energie rinnovabili, dell’agricoltura rigenerativa e di precisione, della decarbonizzazione urbana, delle tecnologie ecodigital e della finanza climatica.

Parafrasando il sociologo Beck, nella nostra moderna società del rischio – ha dichiarato Giuseppe Milano, Segretario generale di Greenaccord – la sfida collettiva che ci deve vedere impegnati, mediante l’uso etico e consapevole delle nuove tecnologie industriali e digitali, è sia quella dell’adattamento ai fenomeni naturali sempre più intensi e frequenti, sia quella di una profonda e coraggiosa rivisitazione dei nostri quotidiani stili di vita, nonché pratiche di consumo, perché il nostro vigente modello economico lineare impatta dolentemente sui fragili ecosistemi del pianeta esasperando la vulnerabilità dei Paesi in Via di Sviluppo che oggi sono quelli maggiormente colpiti dalle catastrofi ambientali, pur essendo i meno responsabili delle crescenti concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera. Oggi sostenibilità e solidarietà devono essere le due facce di una stessa medaglia: quella di una realtà da aumentare nei dettami dell’ecologia integrale, come ci ricorda sempre Papa Francesco”.

Un’ultima riflessione, perciò, è dedicata alla comunicazione ambientale, tra divulgazione scientifica e diffusione civica, nell’evidenza che occorra modificare, sotto la spinta e l’influenza dei social media, i linguaggi e semplificare i contenuti senza banalizzarli per rendere la conversione ecologica “socialmente desiderabile” e, quindi, democraticamente accettabile, dando cosi plastica rappresentazione al tema del XVI° Forum internazionale di Greenaccord: il mondo lo salviamo e lo ricostruiamo soltanto insieme, imparando a prendercene cura e a preservarlo per il benessere anche delle future generazioni.

In conclusione, infine, verrà conferito il “Greenaccord International Media Award”.

La sessione mattutina del 10 ottobre è riconosciuta dall’Ordine dei Giornalisti del Lazio come corso di formazione con relativi 4 crediti formativi.

Vite di carta /
Il gelso di Gerusalemme e l’ecocidio.

Vite di carta. Il gelso di Gerusalemme e l’ecocidio.

Da alcuni giorni rielaboro nei miei pensieri, sotto la superficie della quotidianità, quanto ho ascoltato andando a Ferrara a sentir parlare a vario titolo della città come spazio vitale. Vivo in paese, ma mi muovo spesso a Bologna e a Ferrara, dove ho ampie zone che mi sono familiari e abitudini che ogni volta trovo sempre più assediate da forme di accesso distopiche.

Dal libro di Paola Caridi, Il gelso di Gerusalemme, imparo a riconsiderare la categoria del” nonumano” e dopo ne parlerò; ora mi lascio trasportare da lei nell’area urbana di Roma, dove la generazione di suoi nonni, contadini, ha vissuto un rapporto di convivenza tra la terra e la città nel quartiere della Balduina, con alberi e colture a un tiro di schioppo dalla Cupola di San Pietro. Ora la città si è appropriata di ogni spazio.

Cambiare la città per cambiare il mondo mi sembra allora un titolo tempestivo. Mi è piaciuto ancora prima di partecipare al convegno di giovedì 3 ottobre organizzato dal gruppo Ferrara, le donne e la città, per riflettere sugli spazi urbani in un’ottica femminile e femminista non aggressiva e più inclusiva proprio a partire dal rapporto tra esseri umani e natura.

Ho ascoltato le relatrici e mi si è aperto un mondo, mentre raccoglievo abbozzi di idee accumulate negli anni riuscivo a  sistemarle in un quadro. Occorre un mutamento culturale per reimpostare la città come spazio di vita, serve un approccio multidisciplinare che relazioni i bisogni dei cittadini alle risposte di una politica esperta e lungimirante.

Dalla città delle disuguaglianze alla città delle pari opportunità, con spazi pubblici ripensati per essere accoglienti a tutte e a tutti, con una progettazione urbana coerente con le esigenze di aggregazione e convivenza.

Una delle espressioni chiave che ho sentito mi pare piena di bellezza anche nei suoni, ed è la città della curadella responsabilità collettiva, inclusiva e con meno barriere che si può.

Entro il programma di Internazionale a Ferrara, il festival del giornalismo giunto alla diciottesima edizione, venerdì 4 ottobre vado a sentire la scrittrice e giornalista Paola Caridi, esperta di politica del mondo arabo, che presenta il suo ultimo libro Il gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi.

Siamo in Sala Agnelli alla Biblioteca Ariostea, un luogo che frequento abitualmente. Sarà che gli spazi in cui esperiamo non sono fondali neutri, sarà che vengo dall’Aula magna della Facoltà di Economia, che invece mi era estranea, fatto sta che le parole di Caridi e della sua brillante intervistatrice, Catherine Cornet, mi trovano particolarmente ricettiva.

Ho accanto due studentesse del Liceo Ariosto che conosco da tempo, Sofia e Martina, due giornaliste in erba che seguono come bloggers tutto Internazionale e ci scrivono su anche per la stampa locale. Più a casa di così non potrei sentirmi.

Prendo appunti gomito a gomito con loro, che più tardi dovranno farle l’intervista; Paola Caridi intanto parla del gelso che aveva davanti alla sua casa a Gerusalemme e che non ha più trovato tornandoci dopo alcuni anni. Al suo posto, un moncherino di tronco e una assenza che lei avverte con sofferenza. Sente una mancanza culturale di quel gelso, unico rimasto in vita di sette che erano, sente il tempo della sua lunga storia sradicato con lui.

Quanti altri alberi sono rimasti travolti dalla lunga guerra israelo-palestinese dal 1948 in poi. Quanti spazi e territori sono stati ridisegnati e segnati dalle ferite di muri e linee divisorie. Attraverso gli alberi Caridi dice di avere capito molto di più del rapporto con la terra che hanno i due popoli.

Quando nasce lo stato di Israele l’atto di piantare un esercito di alberi significa legittimazione della propria presenza e totale appropriazione della terra per costruire “un paesaggio che rispecchi la visione dello Stato”. All’opposto i palestinesi, che vengono cacciati dalla loro, vedono infranto il senso di appartenenza, il legame atavico con la loro casa, con i campi e gli alberi da frutto.

Ripenso alla città come ne hanno parlato le relatrici al convegno di giovedì, al suo rapporto necessario con la campagna circostante e con l’ambiente nella sua accezione più vasta. Oggi sento Caridi definire nonumani  tutti gli elementi di un mondo fatto non solo di noi, a cui abbiamo riservato un atteggiamento distruttivo, un ecocidio. Parla di colonialismo botanico e fa l’esempio della monocultura dei gelsi in Libano, che ha provocato migliaia di morti per fame negli anni della prima guerra mondiale. Allude alla necessità di una botanica decoloniale femminista.

Mi viene in mente l’albero gigante che mio padre mi ha mostrato nei lunghi anni dei nostri giri in bici in campagna: una quercia, che ha visto piantare nel 1930 sul davanti di una casa colonica lunga e bassa. Un albero che aspettavamo di vedere dopo una curva dello stradone non asfaltato, sapendo che ci saremmo fermati sotto la sua ombra a riprendere fiato. Se voglio, ancora oggi posso raggiungerlo e in raccoglimento ricordare mio padre.

Alberi così, che Caridi chiama “alberi-piazza”, si trovavano in gran numero sul territorio di Gaza, prima che la Striscia venisse murata. Gelsi, sicomori, ulivi, carrubi, palme. Soprattutto sicomori, presso i tanti santuari sparsi in tutta la Palestina e anche dentro i villaggi e le città: alberi sotto le cui fronde era possibile incontrarsi, rifocillarsi e raccontare storie.

Alberi sacri vicini ai luoghi della preghiera. Dalla Nakba in poi, la cacciata dei palestinesi nel 1948, gli alberi sopravvissuti hanno mantenuto le loro posizioni su un territorio che si è andato riempiendo di fitte linee di demarcazione che sono l’eczema della terra di Palestina, come scrive Susan Abulhawa nel suo bellissimo Ogni mattina a Jenin.

A loro, conclude Paola Caridi, dobbiamo chiedere perdono.

Nota bibliografica:

  • Paola Caridi, Il gelso di Gerusalemme, Feltrinelli, 2024
  • Susan Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, Feltrinelli, 2013

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Le voci da dentro /
Lettera dal carcere di Ferrara al Presidente della Repubblica

Lettera dal carcere di Ferrara al Presidente della Repubblica

Un gruppo di persone detenute nella Casa Circondariale di Ferrara ha scritto una lettera che ha inviato al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio e al Ministro di Giustizia. Propone spunti di riflessione alternativi sul tema delle condizioni delle persone ristrette in carcere e suggerisce alcuni interventi urgenti. È scritta con intelligenza e garbo, evitando critiche sterili. Diventa pertanto credibile e degna di essere presa in considerazione in quanto scritta da chi vive i problemi dall’interno.
Mi auguro che sia letta, discussa, diffusa e spero che chi ne ha la possibilità intervenga in tempi rapidi, con professionalità, nel rispetto del dettato costituzionale.
(Mauro Presini)

 

Egr. Presidente della Repubblica Italiana Dott. Mattarella Sergio
c/o Palazzo del Quirinale P.zza del Quirinale
00187 Roma

E.P.C.
Egr. Ministro della Giustizia Dott. Carlo Nordio
Via Arenula N° 70 00186 Roma

Ili.mo Presidente,
siamo un gruppo di detenuti della Casa Circondariale di Ferrara “Costantino Satta” che hanno deciso di esporsi, in prima persona, per offrire uno spunto di riflessione, alternativo, sul tema, sempre più drammatico e allo stesso tempo sempre più mediatico, delle condizioni dei carcerati in Italia.
La nostra missiva vuole, senza alcuna pretesa, suggerire alcuni interventi che riteniamo essere meritevoli di ricevere attenzione, se non altro, perché immaginati da chi vive i problemi dall’interno, punto di osservazione, ahi noi, privilegiato. Ci asterremo, per cui, dal sollevare alcuna critica sterile di un sistema che zoppica, né avanzare l’ennesima richiesta di clemenza.

IL SOVRAFFOLLAMENTO

Quasi giornalmente sentiamo parlare di provvedimenti necessari per risolvere l’annoso problema del sovraffollamento carcerario. In quasi tutte le discussioni, viene paventato un qualche atto di clemenza che, sbrigativamente, porterebbe a una immediata riduzione del numero dei detenuti.
Abbiamo avuto modo di osservare, in passato, come, questo tipo di soluzioni, oltre a non essere risolutive, poiché il problema si ripresenta, prendono in considerazione solo l ‘aspetto quantitativo del problema, cioè il mero numero di detenuti stipati all’interno d i una struttura. Tralasciano, completamente, l’aspetto qualitativo d i questa piaga, ovvero le altre mille difficoltà che fanno, delle carceri, un luogo di immane sofferenza, dove regna il degrado e l’umiliazione.
Un atto di clemenza risolverebbe il problema della metratura pro-capite, ma per quelli che inevitabilmente restano ospiti delle patrie galere, la condizione risulta degradante, con un po’ di spazio in più, ma con tutte le criticità ancora ben presenti e irrisolte.
Come sancito da molteplici pronunce di vari organi, sia Italiani che Europei, lo spazio a disposizione nelle celle, per ciascun detenuto, non può essere l’unico parametro per valutare la vivibilità e idoneità del regime detentivo applicato. Se, al contrario fosse davvero l’unico parametro da tenere in considerazione, rispettandolo, il regime detentivo risulterebbe, iniquamente depurato da tutte quelle violazioni dei diritti umani, da troppo tempo tollerate e sedimentate, che negli anni sono divenute, addirittura, una squallida “normalità”.

OGNI CARCERE È UN MONDO A SÈ

Prima stortura del sistema che, a parer nostro, andrebbe sanata, nel più breve tempo possi bile, è l’incomprensibile diversità di trattamento e di condizioni all’interno dei vari carceri Italiani. “Ogni carcere è un mondo a sé” è un detto in voga in tutti gli istituti che, in modo semplice e chiaro, certifica l’abbandono della legalità, per favorire la praticità, spesso, a scapito proprio del rispetto dei diritti umani.
Ogni detenuto ha, già, dentro di sé le proprie fragilità personali. Vi si aggiunga lo sconforto di trovarsi in un carcere dove la parola diritto è solo un’utopia lontana e, di contro, sapere d i altri detenuti che godono di un trattamento, decisamente, più consono e rispettoso dei principi ispiratori, in un istituto che, magari, dista solo qualche kilometro da quello dove egli è detenuto. La sensazione di frustrazione e lo sconforto si possono trasformare, facilmente, in depressione.
Scontare la propria pena in una cella di oltre 20 mq, con altri due detenuti, con acqua calda e doccia in cella, in un istituto con molteplici attività proposte, possibilità lavorative importanti e, soprattutto, un programma di trattamento serio è decisamente meglio, se paragonato ad una cella di 12 mq con altri due detenuti, costretto a dormire in un letto a castello a 3 piani, senza acqua calda né doccia in cella, i n assenza d i qualsivoglia attività, che porta il detenuto a dover restare a ciondolare in sezione, anche, 20 ore al giorno. L’unico modo, per “uscire” dall’ incubo che il ristretto vive ad occhi aperti, è quello di rifugiarsi nell’abuso di sostanze antidepressive (che le amministrazioni incentivano pur di sedare, sul nascere, eventuali contestazioni).
Non è solo “diverso”, è INGIUSTO.
Non riteniamo necessario ricordare, banalmente, che l’art. 3 Cast. sancisce l’uguaglianza tra tutti i cittadini, ma sottolineiamo proprio la frase che noi tutti abbiamo visto scritta a grandi lettere in tutti i tribunali Italiani: “LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI”.
Ci interroghiamo su questo tema e ne condividiamo con Lei le nostre riflessioni. Se la legge, per un determinato reato prevede una pena di 3 anni, e questi tre anni hanno un peso decisamente diverso se scontati in un carcere modello, come quello di Bollate, piuttosto che nel tugurio dell’istituto di Caltagirone, dov’è l’uguaglianza della condanna?
Oppure, 3 anni nel carcere, ??? ali ‘ avanguardia, di Padova non sono nemmeno paragonabili a 3 anni scontati in quello Treviso. Sono realtà vicinissime, dal punto di vista geografico, ma distanti anni luce se si paragonano le condizioni dei detenuti in essi ristretti.
Ci asteniamo dal contestare l ‘aspetto che concerne l’edilizia carceraria, elemento per il quale, ci rendiamo conto, evidentemente, servirebbero ingenti stanziamenti per un livellamento delle strutture.
A titolo esemplificativo, Le facciamo presente che i colloqui con, le così dette, “terze persone”, dopo i l giudizio di primo grado, sono autorizzate a discrezione della direzione dell’istituto, senza alcuna indicazione da parte del legislatore.
La conseguenza di quanto descritto è quella di avere istituti in cui si possono avere colloqui con persone diverse dai famigliari ed istituti dove, questa possibilità, è assolutamente negata.
Lo stesso vale per uno svariato ordine di autorizzazioni:
carceri in cui è consentito il possesso di un proprio persona! computer ed altri in cui non lo è; alcuni consentono l’utilizzo di lettori mp3 altri no;
ci sono istituti in cui è permesso l ‘utilizzo delle chiavette usb, mentre in altri è vietato;
carceri che mettono in chiaro solo 12 canali tv, mentre altri prevedono l’accesso alla totalità delle trasmissioni televisive;
persino sulla ricezione dei pacchi postali da parte dei famigliari ci sono autorizzazioni
differenti, che arrivano al punto di avere carceri che consentono la ricezione di generi alimentari altri che li negano completamente.
In Italia abbiamo circa 200 istituti di pena e, attualmente, circa 200 mondi diversi in cui
scontare le proprie condanne.
Non può continuare ad essere così. DEVE esserci parità di trattamento, quanto meno per le autorizzazioni.
Ci auguriamo più uniformità tra le diverse realtà delle carceri italiane, prendendo come esempio gli istituti più virtuosi e in linea con le normative comunitarie, per livellare tutti gli istituti d’Italia a quel modello.

LA STRATIFICAZIONE DEI PROBLEMI

Un altro problema che crea immani difficoltà, all’interno degli istituti, è l’abitudine, di molti operatori, (in generale tutte le tipologie di figura professionale che ruotano intorno al mondo carcerario) di procrastinare qualsiasi adempimento di loro spettanza, spesso, nell’assurda speranza che il problema si risolva da solo. In realtà, il risultato è, solamente, quello di inasprire i rapporti detenuto-operatore.
Troppe volte, alla richiesta di una prestazione, l ‘atteggiamento dell’operatore è lo stesso: procrastinare fino al cambio turno, lasciando l’incombenza all’operatore che lo sostituirà e che rimanderà, a sua volta.
Perpetrando questo comportamento fino allo sfinimento del detenuto, si creano i pretesti, mai giustificabili, per insulti, proteste, aggressioni e, nei casi più gravi e sedimentati, si può arrivare, facilmente, a vere e proprie rivolte che coinvolgono più detenuti o intere sezioni. In altri casi questa stratificazione, dei problemi irrisolti, può portare a stati depressivi, del detenuto, che possono indurre anche al suicidio.
Una soluzione, a parer nostro, potrebbe essere l’addestramento specifico del personale, impiegato all ‘interno degli istituti carcerari, nell ‘approccio ai problemi e al controllo della frustrazione dei detenuti. Ci rendiamo conto che, a volte, l’operatore può essere mal disposto perché sottoposto a richieste molto simili tra loro, se non uguali, ma è altrettanto vero che in un luogo come il carcere, dove si è privati praticamente di tutto, anche un piccolo gesto di interessamento può fare la differenza, tra il sentirsi abbandonati e i l sentirsi, invece, parte d i un sistema.
Una preparazione specifica, sotto il profilo psicologico, sarebbe, quanto meno, auspicabile per coloro i quali debbano avere un rapporto professionale con persone fragili.
Una formazione improntata al problem solving, piuttosto che alla negazione del problema sarebbe un ottimo punto di partenza.

L’AMBITO SANITARIO

Il numero estremamente esiguo, dei controlli psicologici, è un problema che riguarda tutti i detenuti. Infatti, a parer nostro, tutti i ristretti dovrebbero essere sottoposti ad uno screening periodico, atto a valutare lo stato di salute mentale.
Com’è noto, la depressione è spesso un declivio lento dello stato di salute mentale di chi se ne ammala. Altre volte, invece, è frutto di eventi traumatici.
Ad oggi, chi entra in carcere per la prima volta o comunque è sottoposto a misura cautelare in attesa di giudizio, non rientra in alcun percorso, né psicologico, né rieducativo. In molti casi si è potuto osservare come i suicidi, tra i detenuti, abbiano visto come protagonisti persone in attesa di giudizio.
La soluzione, al momento, è quella di privare il detenuto di lenzuola, indumenti e accessori, che possano essere utilizzati per farsi del male, oltre ad una sorveglianza che prevede un passaggio ogni venti minuti davanti alla cella.
Secondo la nostra opinione, oltre alle iniziative messe in atto, sarebbe opportuno attivare, in concomitanza con la carcerazione, un supporto psicologico, come già avviene, in altri ambiti, in risposta ad eventi traumatici. L’obiettivo è quello di intercettare, con anticipo, situazioni di disagio, che potenzialmente possano sfociare in gesti estremi. La nostra convinzione è rafforzata dal fatto che, spesso, la difficoltà più grande per una persona, detenuta o libera che sia, è quella di chiedere aiuto. In ambito carcerario, anche chi chiede aiuto, talvolta non può essere seguito a causa dell’ampia forbice, in termini di rapporto numerico, che c’è tra i pochi psicologi, in forza all’istituto, e il numero elevato di detenuti da seguire.
L’attivazione di contratti con psicologi che possano colmare questo squilibrio, l ‘avvio di screening periodici e un supporto psicologico immediato, sarebbero auspicabili.

IL LAVORO COME SCUOLA DI VITA

Il tasso di recidiva, nel nostro paese, supera il 70%. Un valore decisamente alto, se paragonato a quello di altri paesi europei. Molti detenuti hanno storie di vita simili, caratterizzate da ambienti sociali con scarse opportunità di lavoro, molto tempo libero trascorso oziando, in giovane età, che li ha resi facile preda della criminalità.
Un istituto carcerario che ha, come primo obiettivo, quello di rieducare al fine di reinserire il detenuto nella società, si trova molto spesso a lasciare, i ristretti, ad oziare all’interno delle sezioni. Ripropone, cioè, le stesse condizioni sociali che hanno spinto, gli stessi detenuti, tra le braccia della delinquenza.
Ci sono pochi istituti virtuosi, in Italia, che propongono un lavoro fisso alla propria popolazione carceraria. Nella maggioranza dei casi, le opportunità lavorative sono pochissime e vengono proposte rotazioni, tra i detenuti, che permettono loro di lavorare un paio di mesi all’anno.
Secondo le nostre osservazioni, la miglior scuola di vita, per chiunque, è il lavoro. Il lavoro svolge molteplici funzioni:
Una funzione economica, perché permette al lavoratore di auto sostentarsi, di essere un operatore economico in grado di risparmiare supportando, così, gli investimenti, alimentare i consumi e generare ricchezza;
Una funzione sociale, perché rende i l lavoratore parte di un ‘organizzazione. L’uomo è completo se è parte d i una comunità. Il lavoro, inoltre, permette, all’individuo, di gettare le basi per poter costruire una propria famiglia;
Una funzione psicologica, perché il lavoro restituisce soddisfazione e autostima. Inoltre alimenta l’ambizione a volersi migliorare, seguendo dei modelli virtuosi che l’ambiente stesso propone;
Il lavoro ci impegna le giornate, sostiene i nostri progetti e ci permette di perseguire i nostri obiettivi. Se viene insegnato ad assaporare il valore prezioso delle opportunità che il lavoro può dare, nella completa legalità, molti meno detenuti vorranno rischiare di perdere quanto di buono hanno conquistato, compiendo ulteriori reati.
Ed ecco, perché, secondo la nostra opinione, proprio il lavoro dovrebbe rappresentare le fondamenta del percorso atto a riabilitare il detenuto. Non può esserci percorso di rieducazione senza lavoro. Crediamo che si possano avviare collaborazioni con aziende pubbliche e private per garantire un lavoro ai detenuti.

SEZIONI DISTACCATE PER DETENUTI A BASSA PERICOLOSITA’

Seguendo questa linea di principio ci sentiamo di suggerire alcune azioni che, a parer nostro, potrebbero alleviare, in parte, alcuni problemi dei detenuti.
L’Italia è stata colpita da diverse crisi, negli ultimi anni, che hanno interessato molti settori della nostra economia. Anche i l settore alberghiero e dell’ospitalità ne ha risentito. Attraverso i telegiornali, siamo venuti a conoscenza di alberghi in difficoltà, che rischiano di dover chiudere e, nei casi più gravi, di dover dichiarare fallimento.
Acquisire, o prendere in gestione, oltre ad implementare le opportune modifiche per trasformarle in sezioni distaccate dei vari istituti di pena, questo tipo di strutture non dovrebbe avere un costo eccessivo per lo Stato, rispetto a quello necessario per la costruzione di un nuovo carcere.
In queste “sezioni distaccate” potrebbero essere allocati detenuti a bassa pericolosità sociale. In particolare, queste strutture, potrebbero essere dedicate a coloro che stanno finendo di scontare la propria pena in regime di articolo 21 O.P. (lavoro all’esterno) e articolo 50 O.P. (semilibertà).
È già previsto che questa tipologia di detenuti debba essere allocata in sezioni apposite e separata dagli altri detenuti. Queste sezioni, già oggi, sono strutturate in modo da essere molto meno restrittive del carcere tradizionale e quindi non troppo differenti da una struttura alberghiera, anche se un po’ spartana.
Anche la sorveglianza, nei suddetti casi, è molto ridotta, quindi sarebbero necessari pochissimi agenti per la gestione delle strutture.
Spesso, le domande per le assegnazioni al lavoro all’esterno o alla semilibertà vengono rigettate per mancanza di posti disponibili. Con questo semplice escamotage si potrebbero avere molte più assegnazioni .al lavoro e più detenuti ammessi a regime di semilibertà ·(quasi sempre concessa con un lavoro o del volontariato).
Queste “sezioni distaccate” potrebbero ospitare anche quei detenuti che hanno tutti requisiti per poter ottenere una misura alternativa, ma che non riescono ad accedervi in quanto non hanno un domicilio presso il quale legare la misura alternativa.
Maggior accesso al lavoro all’esterno e semilibertà, uniti alla possibilità di scontare in misura alternativa, per quelli che non hanno una casa, potrebbe alleggerire di un numero cospicuo il totale dei detenuti ristretti all’interno delle carceri, con una serie di benefici consequenziali:
Il primo, di facile lettura, sarebbe la diminuzione del tasso di sovraffollamento;
aumentando il numero di detenuti che scontano la propria pena in misura alternativa, considerando che chi finisce di scontare la propria pena in misura alternativa ha un tasso di recidiva molto inferiore rispetto a chi sconta interamente la propria pena in carcere, avremo un minor ingresso di detenuti per il futuro;
avendo molti più “detenuti lavoranti” si avrebbe anche un maggior introito dal pagamento del mantenimento carcerario. Perché, anche se tale somma è richiesta a tutti i detenuti, solo chi lavora la paga realmente, quindi l’introito potrebbe aumentare, proporzionalmente, tanto più si agevoleranno questo tipo di misure.
Risultati simili si potrebbero ottenere se il ragionamento delle “sezioni distaccate” viene riproposto anche su strutture come le caserme dismesse. Si dovrebbe tenere conto, però di tempi più lunghi per la riqualificazione degli edifici e dei costi più elevati, che sarebbero comunque inferiori rispetto alla nuova edilizia carceraria.

DIFFERIMENTO DELLA PENA

Troppe volte abbiamo avuto a che fare con detenuti che hanno commesso un reato parecchi anni prima e, dopo un brevissimo passaggio in carcere, sono stati rimessi in libertà in attesa di condanna definitiva.
Anche se la costituzione recita che la durata del processo debba avere una durata ragionevole, nella realtà constatiamo continuamente come i processi abbiano una durata estenuante che facilmente arriva a un decennio.
Questo vuol dire che, dopo il primo periodo di carcerazione (che a volte nemmeno c’è), ci potremmo trovare con persone che, dopo la commissione del reato, sono state reputate non pericolose per quasi un decennio. Appena arriva la condanna definitiva devono essere messi in stato di detenzione, per scontare la loro pena, perché considerati “pericolosi”.
Nella stragrande maggioranza dei casi, la pena residua da scontare, risulta essere ampiamente al d i sotto dei limiti di legge per poter accedere a misure alternative al carcere. Nella quasi totalità dei casi, non possono beneficiarne in quanto occorre una relazione di sintesi che deve essere redatta durante un periodo di osservazione obbligatoria post condanna definitiva.
Il risultato è che queste persone entrano in carcere per poter scontare il loro periodo di osservazione, per essere affidati ad una misura alternativa. Il periodo di osservazione coincide, in molti casi, alla pena residua da scontare, con il risultato che il detenuto accede alla misura alternativa per pochissimo tempo.
Il nostro pensiero è che, se una persona che ha commesso un solo errore nella sua vita, non ha mai più sbagliato e ha avuto una vita regolare, è ingiusto che dopo molti anni dai fatti, in assenza di errori, sia penalizzata da una pratica burocratica che si annoda su sé stessa.
A nostro avviso sarebbe opportuno prevedere un differimento pena della durata dell’osservazione necessaria a produrre una relazione di sintesi. In modo da poter ottenere direttamente l’applicazione di una misura alternativa al carcere senza dovervici per forza trascorrere infruttuosamente del tempo (se il tempo da trascorrere presso un istituto è molto breve, nessun percorso rieducativo o riabilitante è possibile, tant’è che gli operatori nulla prevedono per questa categoria di detenuti). Ovviamente bisognerebbe prevedere che il periodo di osservazione possa essere effettuato attraverso colloqui regolari con psicologi ed educatori esterni al carcere.
Se si decidesse di credere in questa idea, il beneficio sarebbe quello di avere un più basso ingresso di detenuti in carcere. Inoltre si potrebbe creare un deterrente per coloro i qual i, in attesa di pena definitiva, non dovendo più pensare “tanto in carcere ci dovrò finire lo stesso”, presi dallo sconforto, abbandonino ogni remora e, anche nel periodo di attesa del definitivo, commettano altri reati proprio perché, in cuor loro, si sentono già finiti.

APPLICAZIONE DELLE LEGGI ESISTENTI

Il governo attuale, come i precedenti del resto, hanno provato a porre rimedio, al problema delle carceri, approvando nuove leggi e decreti, che prevedono misure sovrapponibili a quelle che la legge precedente già prevedeva. Quello che a noi detenuti sembra essere il nocciolo della questione risiede nella discrezionalità affidata ai magistrati di sorveglianza che in maniera, talvolta, indiscriminata si astengono dall’interpretare la norma da applicare, ma ne generano delle loro.
In troppi casi si vedono rigetti di misure alternative, perché, “a parere” del magistrato di sorveglianza, il periodo di espiazione è troppo breve e quindi si richiede un ulteriore periodo di osservazione.
Richieste che sono supportate, come effettivamente la legge prevede, dai termini raggiunti per la concessione della misura richiesta, dalla relazione di sintesi del carcere favorevole alla concessione della misura alternativa, dalle indagini degli assistenti sociali del territorio con esito positivo e dal contesto famigliare idoneo alla concessione della misura. Questo, in pratica, vuol dire che non importa cosa dica la legge, cosa dichiarano i vari operatori che hanno avuto rapporti professionali con il detenuto, ma che l’unica decisione che conta, una volta avanzata una richiesta di misura alternativa, è l’impressione che il detenuto da al magistrato di sorveglianza, nei dieci minuti dell’udienza.
Signor Presidente, Lei, già in passato, intuendo la grandezza del problema, disse che discrezionalità non è arbitrio.
Oggi noi Io ribadiamo con forza e, altrettanto veementemente, affermiamo che la legge va interpretata seguendo il principio ispiratore del legislatore e non l’umore, del momento, di un giudice, che esprime un parere dettato dalle sue impressioni e non da dati di fatto accertati e verificati.
Se non si prevedono degli automatismi all’interno delle nuove proposte di legge, ogni nuova stratificazione sarà inutile, perché sarà immediatamente vanificata da quella discrezionalità, massima espressione di libertà di un giudice che, ad oggi; non ha limiti o imposizione alcuna.
II giudice è soggetto soltanto alla legge, recita la costituzione, ma se un giudice può disapplicare la legge in ogni momento, senza alcuna responsabilità, chi è soggetto a chi? Il giudice alla legge o la legge al giudice?

Signor Presidente, il nostro è il più umile grido di aiuto del quale siamo capaci. Nonostante i nostri errori, per i quali stiamo pagando, e la nostra attuale condizione, ci sentiamo ancora parte attiva di questo grande sistema che ci ha fatto conoscere i valori più importanti della vita e che ci ha garantito, per iscritto, una seconda possibilità. Sistema del quale vogliamo fare, ancora una volta, parte, nel rispetto della legge e dei princìpi dell’umanità. Un sistema che ci ha premiati e puniti, cresciuto e accolti, aiutato e abbandonati. Sistema del quale vogliamo essere orgogliosi di fare parte.
Questo sistema, che con gli occhi lucidi per la commozione, chiamiamo Italia. Cogliamo l’occasione per porgerle cordiali e distinti saluti.

Ferrara, 24/10/2024

Un gruppo di detenuti della Casa Circondariale “Costantino Satta” di Ferrara

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A un anno dal 7 ottobre il messaggio dei Combattenti per la Pace: la pace è la via

A un anno dal 7 ottobre il messaggio dei Combattenti per la Pace: la pace è la via

Riprendiamo da Pressenza (testata nostra partner) questo articolo sul dialogo tra palestinesi e israeliani che lavorano per la PACE. l’articolo originario è Qui.

Intervista di Pressenza e ImaginAction alle combattenti per la pace (Foto di from Pressenza IPA YouTube)
Oggi, dodici mesi dopo il massacro del 7 ottobre, Israele commemora i propri morti, le famiglie degli ostaggi che (si spera) siano almeno in parte ancora vivi si sono date appuntamento nelle prime ore della mattina proprio lì, tra quei kibbutz che vennero presi d’assalto dai miliziani di Hamas, mentre Gaza piange i suoi 42 mila morti accertati ed è macerie ovunque: i bombardamenti sono proseguiti anche questa notte, la guerra non conosce pause né lutti.   

In questo scenario di totale devastazione che ormai da settimane ha esteso il conflitto all’intera regione, volentieri pubblichiamo questo messaggio di Eszter Koranyi e Rana Salman, co-direttrici dell’organizzazione israelo-palestinese Combattenti per la Pace:

Svegliandoci di fronte all’orrore del 7 ottobre, sapevamo che le nostre vite non sarebbero più state le stesse. La violenza, il dolore, la paura e la perdita che si sono riverberati nelle nostre vite sono stati testimoni dell’enorme portata della violenza. Per tutti coloro che chiamano casa questo luogo tra il fiume e il mare, ogni giorno da allora è stato come se i nostri cuori continuassero a spezzarsi più e più volte.

Oggi ricorre un anno da quella data e di nuovo chiediamo con forza un accordo di cessate il fuoco, che ponga fine alla violenza e apra la strada a una soluzione politica fondata su principi di libertà, uguaglianza e pace per tutti.

Siamo solidali con i palestinesi di Gaza che soffrono e lottano per sopravvivere sotto i bombardamenti aerei, che subiscono lo sfollamento forzato, oltre alla fame e all’infinità dei traumi. Siamo solidali con gli israeliani che hanno perso i loro cari in modi così brutali al Nova Festival e nell’area Sud del paese. Siamo solidali con i palestinesi che vivono in Cisgiordania e che quotidianamente vengono allontanati con la forza dai loro villaggi e terrorizzati dalla crescente violenza militare e dei coloni. Siamo solidali con le famiglie degli ostaggi, che aspettano con ansia di sapere se i loro cari sono vivi o se torneranno mai da loro. Siamo solidali con gli israeliani che vivono sotto un intenso fuoco di razzi e che sono stati evacuati dalle loro case nell’area nord. Siamo solidali con i cittadini palestinesi di Israele che sono stati messi a tacere per aver mostrato qualche barlume di simpatia per Gaza. Ci riconosciamo nel dolore di ogni essere umano che sta affrontando le conseguenze della violenza di questa guerra. 

Particolarmente in questo giorno, mentre piangiamo insieme e insieme tentiamo di ricucire i nostri traumi sia sul fronte personale che collettivi, continuiamo a professare la massima empatia l’uno per l’altro, compreso per il cosiddetto “nemico”. Continuiamo ad attivarci per la pace, la giustizia e la liberazione che non può essere di una parte soltanto e che perciò dovrà essere per tutti, collettiva. 

E’ più che mai imperativo adesso, come palestinesi e israeliani uniti in questa condivisa speranza che è diventato movimento in comune, far sentire la nostra voce. Sappiamo che le nostre vite e i nostri futuri sono intrecciati da sempre e che un’altra strada è possibile. 

Perché come ha detto Thich Nhat Hanh: “Non c’è via per la pace, la pace è la via”.

Eszter Koranyi e Rana Salman saranno presto in visita in Italia (dal 15 al 21 novembre) e presenteranno il libro edito da Multimage Combattenti per la Pace e non mancheremo di dare notizia dei loro appuntamenti su questa testata. A entrambe e al movimento di pace che rappresentano i nostri auguri più sinceri.

Traduzione in italiano di Daniela Bezzi

In copertina: Intervista di Pressenza e ImaginAction alle combattenti per la pace (Foto di from Pressenza IPA YouTube)

 

 

Arriva il programma della VII Edizione del Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica” (FFCF)

Annunciato  il programma della VII edizione del Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica” (FFCF), fra i partner anche Periscopio

Annunciato oggi il programma della VII edizione del Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica” (FFCF), che si terrà nella città estense dal 23 al 26 ottobre presso la Sala Ex Refettorio del Chiostro di San Paolo, la Sala Estense e lo Spazio Factory Grisù (con anteprima il 22 presso Notorious Cinemas). Oltre alle proiezioni dei cortometraggi in concorso, molti gli eventi distribuiti durante le giornate.

A concorrere ai 10 i premi, di cui 3 principali in denaro, 43 cortometraggi giunti da 18 paesi: 16 nella categoria “Ambiente è Musica”, 18 in “Indieverso” e 10 in “Buona la Prima”. 23 i corti italiani, 20 quelli esteri.

A valutare i cortometraggi in concorso, la prestigiosa Giuria Professionale 2024, presieduta da Andrea Guerra (musicista e compositore di colonne sonore), composta da cinque illustri personaggi del mondo del cinema, dello spettacolo e delle arti, in maggioranza femminile: Loredana Antonelli (regista e artista multimediale), Ludovica Manzo (performer e compositrice), Rita Bertoncini (documentarista e formatrice) e Roberta Tosi (storica e critico d’arte).

La Giuria Giovani, composta dagli studenti del Liceo G. Carducci e dall’I.I.S. Luigi Einaudi di Ferrara, dopo la frequenza delle proiezioni in sala, valuterà i film in concorso e attribuirà un Premio Speciale dedicato al Miglior Cortometraggio, da consegnarsi durante la serata finale di Cerimonia di Premiazione del Festival.

Un’anteprima del festival avrà luogo martedì 22 ottobre alle 21:00 presso Notorious Cinemas a Ferrara, che inaugurerà la settima edizione di FFCF con la proiezione speciale del cortometraggio fuori concorso “Sans Dieu” di Alessandro Rocca (Italia, 11 minuti), con Sebastiano Berti, Aaron Guey, Elouan Gauffny, presentato alla Selezione Ufficiale della 39ª Settimana Internazionale della Critica di Venezia.

A seguire la proiezione del lungometraggio di animazione fuori concorso “Ozi: la voce della foresta” di Tim Harper (USA, 87 minuti), prodotto da Leonardo Di Caprio e Mike Medavo. Con le voci di Amandla Stenberg, Laura Dern, Djimon Hounsou, Donald Sutherland, in collaborazione con Notorious Cinemas e Q&A con cast/crew di “Sans Dieu”.

Il Festival entra nel vivo la giornata di mercoledì 23 ottobre.

Dalle 10:00 alle 13:00 presso lo Spazio Factory Grisù avrà luogo un interessante Industry panel a cura di Officine Europa APS, realizzato con il sostegno della Regione Emilia-Romagna, dal titolo “Officine Europa MEDIA – Networking. Supporto e promozione della comunità indie”. La prima di tre tappe del progetto “Officina Europa MEDIA”, ideato con l’obiettivo di fornire a giovani cineasti e piccole società di produzione indipendenti informazioni sulle opportunità offerte dal Programma Europa Creativa – Sezione Media.

Dalle 14:30 alle 19:30 presso la Sala Ex Refettorio Chiostro di San Paolo avranno luogo le proiezioni dei primi cortometraggi in concorso (FFCF DAY 1).

Il Concerto del trio jazz sperimentale NUATR3 (Koun Jeong, Giulia Carriero, Andrea Fabris) sarà un piacevole intermezzo fra le proiezioni, dalle 16:20 alle 17:10.

A seguire una Sessione di Q&A/incontro con gli autori dei film in concorso, moderata dal giornalista Cristiano Bendin, Capo Redattore de Il Resto del Carlino Ferrara.

La prima giornata si concluderà al Teatro Sala Estense, dalle 20:30 alle 23:30, con il concerto dei NIGHT PLEASURE HOTEL (Alex Mari, Sebastiano Barbirato, Mr. Pisu), seguito da un incontro con gli artisti.

Il programma di giovedì 24 ottobre inizierà con due laboratori per le scuole superiori e gli allievi della Blow Up Academy, presso lo Spazio Factory Grisù.

Dalle 10.00 alle 11:15, Giovanna Mattioli, giardiniera-architetto e origamista ferrarese parlerà di “GIARDINI AL CINEMA, un percorso didattico multimediale che coincide con la presentazione dell’omonimo libro della Mattioli (2023, Edizioni Pendragon). Un’occasione di dialogo fra due mondi abitualmente considerati distanti, come quello del giardino e quello del cinema. Prendendo come riferimento i giardini e i film proposti nel libro saranno sottolineate alcune chiavi di lettura attraverso la visione di alcuni spezzoni di film. Per riscoprire il valore e le suggestioni della natura attraverso il cinema. E viceversa.

A seguire, dalle 11:15 alle 12,30, il laboratorio “CINEMA TRA LE PAGINE”, tenuto da David Tolin in collaborazione con Edizioni Primavera e Cooperativa Culturale Giannino Stoppani / Accademia Drosselmeier. Un’introduzione alla settima arte, partendo dai libri per ragazzi (albi illustrati, romanzi, fumetti), con un approfondimento su Jacques Tati, reinterpretato dall’artista belga David Merveille: albi, silent book e cinema muto. Il tutto con l’obiettivo di far scoprire e conoscere ai giovani, la tradizione, le basi del cinema, attraverso i protagonisti di questo linguaggio (registi e attori, soprattutto, ma anche costumisti e altri mestieri legati alla settima arte), attraverso generi e film. Con proiezione di alcune sequenze.

Si continua alla Sala Ex Refettorio Chiostro di San Paolo con le proiezioni dei cortometraggi in concorso (FFCF DAY 2).

Nell’intermezzo (16:15-17:15) “Meravigliose Creature incontra Il Groviglio Verde”, dialogo fra Stefano Mazzotti, zoologo e Direttore del Museo Civico di Storia Naturale di Ferrara e Danilo Zagaria, biologo, divulgatore scientifico e redattore editoriale, che presentano i rispettivi libri, dedicati alla salvaguardia della diversità naturale e alla cultura dell’ambiente (“Meravigliose Creature”, Stefano Mazzotti, Il Mulino, 2024 e “Il Groviglio Verde”, Danilo Zagaria, Add Editore, 2024). Sarà presente la Libreria Feltrinelli di Ferrara.

A seguire una Sessione di Q&A/incontro con gli autori dei film in concorso, moderato dal giornalista Nicolas Stochino, Collaboratore de La Nuova Ferrara.

Si chiude alle 20:30 al Teatro Sala Estense con lo spettacolo di teatro contemporaneo “MALE BIANCO” (liberamente ispirato a “Cecità” di José Saramago), con Ada Alberti, Agata Bovolenta, Matei Covasa, Sara De Zordo, Eleonora Ferri, Giulia Guariento, Stefano Marraffa, Carolina Martinez, Valeria Miotto, studenti della scuola di teatro sociale Officina Teatrale A_ctuar, in collaborazione con Consorzio Factory Grisù. La compagnia teatrale dialogherà con il pubblico per un approfondimento sulle tematiche dello spettacolo.

Anche il programma di venerdì 25 ottobre inizierà con due nuovi laboratori per le scuole superiori e gli allievi della Blow Up Academy, presso lo Spazio Factory Grisù.

Dalle 10:00 alle 11:15, la critica d’arte e curatrice di mostre internazionali Roberta Tosi presenta “Che ti move, o homo…? – Quel che la natura racconta tra arte e cinema”, un percorso didattico multimediale per accostarsi ad alcune opere d’arte “iconiche” fonte d’ispirazione per registi e sceneggiatori. Opere che rappresentano uno sguardo sul mondo naturale e su ciò che caratterizza l’essere umano, i suoi sogni, desideri, ispirazioni.

Dalle 11:15 alle 12:30 l’Architetto Alfredo Bigogno, ricercatore e progettista nel campo degli ambienti sonori, presenterà “Il legno di risonanza tra scienza ed arte – il Sistema MAMI VOiCE”. Durante l’incontro sarà esplorata l’interazione tra la voce materna e le vibrazioni armoniche come strumento terapeutico, nonché l’utilizzo della “Collezione Armonica”, strumenti costruiti in legno di abete rosso armonico, per terapie vibrazionali a beneficio di persone affette da disabilità e malattie gravi, sfruttando la risonanza naturale a 432 Hz. Verrà dimostrata la declinazione artistica del legno di risonanza, utilizzato anche nell’ambito della musica, del cinema e delle arti in generale.

L’incontro sarà preceduto dalla proiezione del documentario fuori concorso “Suono del Legno”, di Samuele Giacometti (Italia, 9 min), vincitore del Premio per il Miglior Documentario alla VI Edizione di Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica” 2023.

Come di consueto, il pomeriggio della Sala Ex Refettorio Chiostro di San Paolo, continuerà con la proiezione dei film in concorso, dalle 15:00 alle 18:30 (FFCF DAY 3).

A seguire una sessione di Q&A/incontro con gli autori dei film in concorso, moderato dal giornalista Nicola Cavallini, Vicedirettore di periscopionline.it

Ci si sposta allo c/o Spazio Factory Grisù – Sala Atelier dove, dalle 18:45 alle 20:15 avrà luogo la performance “TOBEES — sonorizzazioni per la biodiversità” di e con Azzurra Fragale e Marna Fumarola, a cura di Alessio Papa, Consorzio Factory Grisù. Una violinista, apicoltrice per passione, che suona abitualmente di fronte alle sue arnie e una sound designer, che trasforma i suoni delle api attraverso microfoni e sintetizzatori. Dialogando con la natura e il paesaggio, compongono insieme una “musica dalle api e per le api”. Il pubblico fornito di cuffie wireless ascolterà così il paesaggio sonoro che si verrà a creare. Il progetto nasce per sensibilizzare le persone al tema della biodiversità.

Si conclude, dalle 20:30 alle 23:30 al Teatro Sala Estense con la serata evento, realizzata in collaborazione con Ferrara Musica, dedicata alla presentazione e proiezione fuori concorso del lungometraggio “100 Preludi” (Italia, 100’), regia di Alessandra Pescetta, con Erica Piccotti, Giovanni Calcagno e Margherita Fortini. Una produzione REVOK e RAI CINEMA, con il contributo del MIC e il sostegno di Emilia-Romagna Film Commission. Alla regia e alla produzione sarà consegnato il “Premio speciale annuale della città di Ferrara alla valorizzazione del territorio”.

A seguire la performance musicale esclusiva della violoncellista di fama internazionale Erica Piccotti, che eseguirà dal vivo una suite scritta dal compositore Lorenzo Fornasari, con la collaborazione di Lisa Gerrard (Nomination agli Oscar e vincitrice Golden Globe per “Il Gladiatore”) per la colonna sonora di “100 Preludi”.

Chiude la serata una sessione di Q&A/incontro con gli autori e le personalità presenti in sala, moderato da Simonetta Sandri, per un approfondimento sulle tematiche del film.

Erica Piccotti e Lorenzo Fornasari dialogheranno con il Maestro Dario Favretti, direttore organizzativo dell’Associazione Ferrara Musica, riguardo gli aspetti musicali di “100 Preludi”. Alla équipe del film sarà consegnato il “Premio speciale annuale della città di Ferrara alla valorizzazione del territorio”.

Sabato 26 ottobre si apre con la “Camminata delle Rose Rosa”, organizzata dalla personal trainer Lyubov Hudyma. Si parte alle 10:00 da Piazza della Cattedrale, e dopo quattro tappe (Piazza Municipale, Piazza della Repubblica, Cortile del Castello, Piazza Savonarola) vi si torna alle 11:30. L’iniziativa, mirata al benessere personale e ambientale, invita a lasciare l’auto a casa, include momenti di stretching, cardio-fitness e allenamento funzionale con elastici e si conclude con una sessione di stretching finale e una breve conferenza sulla nutrizione a cura della nutrizionista Dr.ssa Rossella Gelsi.

Dalle 10:30 alle 12:30 presso lo Spazio Factory Grisù si terrà il Corso di formazione “Cortometraggio, documentario e informazione”, organizzato in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna, che patrocina il Festival. A coordinare gli interventi di giornalisti ed esperti del settore, Alberto Lazzarini, Vicepresidente dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna. Il corso riconoscerà 2 crediti formativi ai giornalisti ma è aperto al pubblico.

Dalle 21:00 alle 23:30 presso il Teatro Sala Estense avrà luogo la SERATA FINALE e CERIMONIA DI PREMIAZIONE.

Si apre con il concerto esperienziale a 432 Hz del pianista e compositore Emiliano Toso, biologo cellulare e musicista compositore a 432Hz. Le sue composizioni sono utilizzate in centri olistici, in laboratori di ricerca scientifica quali l’istituto Marques di Barcellona, ed ospedali come il San Raffaele di Milano, l’Ospedale Salesi di Ancona (dove per la prima volta al mondo è stato effettuato un intervento chirurgico con un pianoforte in sala operatoria), il Bambin Gesù e il Gemelli di Roma. Nel 2023, pubblica il suo primo libro “In Armonia – Un viaggio alla scoperta del sorprendente legame tra la musica e le nostre cellule” edito con Mondadori. Il 5 aprile 2024 riceve il prestigioso Premio Montale FDC per la sezione Musica. Una sessione di Q&A con l’artista approfondirà le tematiche della performance.

Si conclude con la Cerimonia di Premiazione dei cortometraggi in concorso, con attribuzione dei premi principali nelle 3 categorie di iscrizione “Ambiente è Musica”, “Indieverso” e “Buona la Prima” (targa e premi in denaro) e dei 6 premi speciali (targa). Verranno presentati gli autori vincenti e la Giuria Professionale 2024 e consegnato il premio speciale attribuito dalla Giuria Giovani al miglior corto in concorso.

Il Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica” è Patrocinato dalla Regione Emilia-Romagna, dalla Provincia di Ferrara, dal Comune di Ferrara, dall’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna e dalla RAI TGR.

Con il sostegno di Beauty Pioneers, Giannantonio Negretti-Humanistic Cosmetics, Terra Viva Design, Pubbliteam; partner istituzionali: Museo Civico di Storia Naturale di Ferrara; partner organizzativi: Associazione Ferrara Musica, Consorzio Factory Grisù, Officine Europa APS, Scivales Pianoforti, Mami Voice, Notorious Cinemas; partner didattici: Istituto di Istruzione Superiore Luigi Einaudi, Istituto di Istruzione Superiore G.Carducci, Istituto di Istruzione Superiore Vergani Navarra, Blow Up Academy; partner distributivi: Associak, Première Film, Son of a Pitch, Sayonara Film; ospitalità: Radisson Ferrara, Hotel Touring, Princess Art Hotel Ferrara. Partner editoriali: Add Editore, Edizioni Primavera, il Mulino, Pendragon; in partnership con: Ferrara La Città del Cinema, Luoghi dell’Anima Ita Film Fest, Settetre Music, Wildflowers Laboratorio Floreale, Periscopionline,it, CNA Ferrara, CNA Foer, Officina Teatrale A_ctuar, ESMA Creative Studio. Un ringraziamento alla libreria laFeltrinelli, alla libreria per ragazzi Testaperaria di Ferrara e alla Cooperativa Culturale Giannino Stoppani / Accademia Drosselmeier.

Parole e figure / Libero di volare

Da poco uscito in libreria, il delicato albo illustrato del francese Barroux, “Libero di volare”, edito da Babalibri, è una storia per piccoli lettori che racconta con sensibilità temi importanti come l’amicizia, la cura e il desiderio di libertà.

Jonas, il guardiano del faro, ha appena fatto un sogno incredibile: volava sopra l’oceano a tutta velocità, come un uccello! Che bello ammirare il mondo da lassù, leggeri come una piuma, felici e spensierati, fra le nuvole di panna …

Doccia, colazione veloce, una ciotola di cereali e via! Non vede l’ora di dirlo alla sua più preziosa amica Blu, la grande e buona balena, con la quale ormai condivide tutto, gioie e dolori. E, soprattutto, tante, tantissime avventure. Che gioia immensa l’amicizia! Che meraviglia poter contare sempre sul calore della sua amatissima Blu.

Ma quando la trova, si accorge che sopra la sua testa c’è un piccolo, minuscolo, passeggero: è un uccellino esausto, impaurito e malridotto. Solo, perso e indifeso. Si muove a malapena. Pare impietrito.

Proveniente da un paese lontano, dove l’aria profuma di gelsomino e menta e i rami degli alberi si piegano al peso di frutti zuccherini, l’uccellino racconta di essere fuggito dalla guerra, attraversando mari tempestosi e onde nere schiumose e gigantesche, e di avere rischiato la vita per mettersi in salvo, alla ricerca di un posto sicuro dove approdare.

È sempre triste scappare, dover lasciare tutto, amici, paesaggi e oggetti, abbandonare il passato e i ricordi, non voltarsi indietro a guardare ciò che si abbandona, ciò che non tornerà. Partire è sempre un po’ morire … si diceva.

È sempre triste non avere scelta, soprattutto quella di restare là dove si è nati e cresciuti. Lottare contro il vento. Triste essere stanchi, chiudere gli occhi per un attimo e non trovare più nulla. Vedersi sfuggire e offuscare i sogni.

Senza perdere tempo, Blu e Jonas portano quel nuovo amico al faro e se ne prendono cura. Fino a quando quella piccola creatura, raggiunta da altri amici provenienti da molto lontano, continua a diffondere il suo dolce e bel canto. E rimane. Lui e il suo profumo di gelsomino che aleggia e si spande per l’aria cristallina.

Un canto che raggiunge, come la voce suadente di una sirena, chi, come lui, sta fuggendo in cerca di una vita migliore e trova nel faro un rifugio sicuro e accogliente, da cui ricominciare. Sponde che accolgono, mani tese che avvolgono, spalle su cui piangere, prati su cui approdare, porte che si aprono, occhi che sorridono, bocche che si sfamano.

Qualcuno si ferma, riprende le forze e poi riparte lontano, qualcuno resta. Molti cantano insieme.

Un libro empatico importante sulla speranza, la cura, la compassione e il diritto a migrare. La compassione, magnifico dono a sé stessi e agli altri. Un dono che pare perduto nella notte dei tempi.

Barroux, nato a Parigi nel 1965, dopo aver trascorso la maggior parte della sua infanzia in Nord Africa ha studiato fotografia, arte, scultura e architettura in Francia, presso le famose École Estienne ed École Boulle. Si è poi trasferito in Canada e negli Stati Uniti, dove ha iniziato la sua carriera di illustratore per la stampa e per bambini. Ha lavorato per molte importanti riviste, fra cui il “New York Times”, il “Washington Post”, “Forbes” e ha pubblicato diversi libri per l’infanzia, caratterizzati dal gusto per il colore e la fantasia. Le sue opere sono tradotte e pubblicate in tutto il mondo e ha ricevuto riconoscimenti dalle più prestigiose istituzioni per l’infanzia. Vincitore, fra gli altri, del Premio Andersen, Barroux oggi è uno dei più importanti illustratori della scena internazionale.

Avevamo parlato di lui a proposito di Mio papà supertuttofare”

Tirocini distruttivi

Tirocini distruttivi

Ti offrono un contratto di tirocinio: paga bassa, full time, tante speranze e nessuno che ti dica che molte di quelle speranze, purtroppo, rimarranno totalmente infondate.

Che teneri, noi giovani! Crediamo che, una volta finito il nostro percorso di studi, verremo assunti con uno stipendio dignitoso che ci permetta di non indebitarci dal fornaio. Speriamo ancora, piuttosto ingenuamente, che prima o poi qualcuno riconosca il nostro valore, che ci dia fiducia e decida di investire nel nostro futuro.

Baggianate, del nostro futuro ora io vedo solo le vaneggianti baggianate su cui ci siamo crogiolati durante il nostro percorso di studi, per rincuorarci e autoconvincerci che tutta la fatica verrà ripagata.

La mia primissima esperienza lavorativa è stata davvero traumatica, e di quello stage, di quell’incubo ad occhi aperti, da dimenticare, non mi era rimasto altro che la speranza che la prossima esperienza non sarebbe potuta che essere migliore, vista l’impossibilità di peggiorare.

Iniziamo con l’elenco dei personaggi della mia storia:

  • un capo assente, che di tanto in tanto riappare all’improvviso, dopo settimane di assenza, con il tipico fare angosciante di un dissennatore, che, volteggiando tra un ufficio e l’altro, mormora cose a caso, rimproveri senza fondamento, frasette fatte senza logica continuativa tra l’una e l’altra, tentando di incutere timore con affermazioni inconsistenti a scopo intimidatorio ( ma più che intimidire confondono);
  • una tutor che non parla, che accennando labili sorrisini rimane taciturna. La intravedi di tanto in tanto aleggiare dal suo ufficio alla stampante, scambiare un mezzo saluto per grazia concessa, o meglio, un cenno di saluto, e poi ritornare in ufficio;
  • le “colleghe”, che avrebbero dovuto formarmi, ma che alla fine avrebbero preferito distruggermi ( non so ancora quanto di quei barbari atteggiamenti fossero intenzionali, ma sicuramente non c’era l’intenzione né di formarmi, né di affiancarmi, in niente);
  • la donna delle pulizie, gentile, amante delle chiacchiere. Forse avrò parlato più con lei in quei pochi minuti la mattina prima che andasse via, che con le “colleghe” in mesi interi.

Le “colleghe”

C’era la “collega” aggressiva: lei di certo non aleggiava, galoppava. Sentivi il suo passo pesante da metri di distanza, il suo respiro affannato e ansioso, il nervosismo caricarsi come un toro inferocito, la maleducazione che iniziava a riempire la stanza prima ancora che lei iniziasse a parlare… insomma se fossi stata Spiderman, i miei sensi da ragno mi avrebbero fatta fuggire via in tempo, ma ormai ero lì, povera preda indifesa, senza lavoro, senza un soldo.

Inutile dire che qualunque domanda facessi per lei era una domanda stupida.

Inutile dire che probabilmente non fosse cosciente del fatto che fossi lì per imparare, da poco, che le sue spiegazioni fossero mal organizzate e frettolose, un po’ arrabbiate anche loro, che non fosse cosciente che era suo dovere rispondere a quelle domande, e magari ripetere le risposte, se necessario, in modo migliore.

Inutile dire quanto ogni parola rabbiosa che usciva da quella bocca cavallina era pronunciata con un senso di disturbo costante, misto a nervosismo e disprezzo… verso di me, verso il mondo, verso se stessa? Chi lo sa, qualcosa mi dice che non avrei mai voluto saperlo, e posso dire, ora come ora, che non lo saprò mai, e per fortuna.

Le sue rapide “spiegazioni” erano scandite da un puntuale tono infastidito e saccente, frammentarie come un indovinello, un macabro gioco a premi, in cui io avrei perso comunque e il premio sarebbe stato solo per lei: tentare di sbranare la mia dignità.

Spesso mi rivolgevo a lei come se avessi dovuto parlare con un orso, di quelli molto affamati, ringhiosi, che non aspettano troppo prima di saltare addosso alla preda indifesa: mani avanti e tono basso, scandire bene le parole in modo che non risultassero una minaccia per la belva allo stato brado (perché lei poteva offendere, ma non poteva essere offesa)… Chissà, magari al posto della mia calma e gentilezza avrebbe fatto più effetto un tranquillante ( o due) per cavalli… o dell’acqua benedetta!!

L’altra “collega”, finta tranquillina coi nervi a fior di pelle, almeno spiegava, qualche volta, rispondeva, il più delle volte, saccente ma non troppo, in bilico tra l’infastidito e il “non sono pagata abbastanza per accollarmi pure questa”.

Se osavi fare due volte la stessa domanda, magari a distanza di giorni… Sacrilegio! Non si fa! Dimenticare qualcosa in un un ambiente nuovo (e questo, nello specifico, particolarmente caotico), stracolmo di tantissimi input, spesso in contemporanea… Non si fa! Far sprecare fiato prezioso alle poverine, piene di lavoro… Non si fa! E io ero la str***a che non faceva niente (forse perché non le spiegavano niente, ma futili dettagli);

C’era poi la dipendente repressa, la finta calma, un po’ insipidina, con la vocina sommessa, ma anche lei dall’infastidimento molto facile.

A questo punto credo ci fosse qualcosa nell’aria, in quel posto, visto che erano tutti perennemente infastiditi.

Ogni mattina ero sola, circondata dalla solitudine totale, ogni tanto vedevo un dissennatore nervoso, ogni tanto un saluto forzato. Clienti che andavano e venivano, due chiacchiere con la donna delle pulizie, e i mesi sono passati.

Il “dissennatore”

Più di una volta il dissennatore mi ha urlato contro, rinfacciandomi i miei errori, che, per carità ho fatto, nulla di irreparabile, ma li ho fatti. Oltre ad urlarmi contro per cose che avevo fatto, mi ha rinfacciato anche cose che non avevo fatto, o meglio, che non potevo fare perché non ero stata formata in merito. Urlava contro di me, attribuendomi la colpa di cose che non facevo perché semplicemente non sapevo farle.

Traduzione e parafrasi di “dissennatorese”: urlava contro di me perché si stava rendendo conto che la tirocinante doveva essere formata, ergo non era utile all’azienda come aveva saggiamente (maldestramente ) pianificato (o forse, solo sognato la notte).

Perché ovviamente ha senso prendersela con chi deve essere formato e non con chi deve formare: un filo logico, seppur flebile, ci deve essere, o quantomeno era la logica malmessa del povero dissennatore incompreso… che non sapeva coordinare i suoi dipendenti. E chissà se ha mai seguito un corso di leadership, poi. Se lo ha fatto, i risultati sono stati a dir poco infruttuosi.

Dulcis in fundo, tra un urlo e l’altro, sono state messe in dubbio persino le mie capacità intellettive, mnemoniche, attentive, comunicative, ad un certo punto mi hanno portata a dubitare persino di aver preso una laurea, di come mi chiamassi e chi fossi.

L’empatia scarseggiava come acqua nel deserto, mentre il fastidio, quel cavolo di fastidio, tracimava. In pratica non mi voleva nessuno là dentro, forse nemmeno chi mi ha assunta. E la domanda allora sorge spontanea: perché assumermi, se dopo poco ve ne siete pentiti e fin da subito avete provato fastidio nell’avermi lì, sfogando su di me il fatto che non mi avreste mai voluta? Perché?

È un nuovo hobby assumere tirocinanti per passare il tempo, senza avere la premura di ORGANIZZARE la formazione, GESTIRE i dipendenti affinché venga davvero fornita (anche se avrebbero preferito un bastone arroventato nel deretano piuttosto che formarmi), COORDINARE e MONITORARE il tirocinante e i dipendenti, al fine di assicurare una buona formazione continuativa (vera) e quindi dei buoni risultati nel tempo (non dopo due settimane)? Strano modo di divertirsi, prendendo decisioni affrettate, senza prendersi nemmeno la briga di pensare alle conseguenze.

Il tirocinio è…

In Italia ormai si continua a legalizzare lo sfruttamento di poveri tirocinanti disperati in cerca di lavoro e di sostentamento per non morire di fame, facendo proprio leva sulla loro disperazione, dopo aver rischiato magari di mandare sul lastrico i propri genitori per ottenere una laurea.

Si continuano a normalizzare comportamenti MALEDUCATI, INAPPROPRIATI e AGGRESSIVI  da parte dei propri datori di lavoro e “colleghi”, in particolare del capo, solo perché nelle sue mani c’è il potere di mandarci fuori a calci.

Senza contare che però il suo potere risiede solo in quello, perché chi agisce con spropositata aggressività e immotivata maleducazione cela, dietro quel fare tracotante, una profonda debolezza, una sconfinata insulsaggine e una più che evidente incapacità di ricoprire il ruolo di dirigente.

Per non parlare poi dell’incapacità di rispettare l’essere umano (sì, perché si parla di esseri umani, non di pezzi di cartone), di valutarlo e osservarlo, con i dovuti tempi e accortezze, dedicandogli del tempo per crearsi un’idea basata sui fatti e non sui pregiudizi affibbiati frettolosamente, e soprattutto con i propri occhi, non con quelli degli altri.

Assumere un tirocinante non deve essere un gioco, fatto con superficialità, un buttarlo negligentemente nella fossa dei leoni per scommettere sulla sua vita. Il tirocinio è più un escamotage per pagare meno e far lavorare tanto, senza la benché minima formazione. Il tirocinante viene gestito come un peso, a meno che non diventi in grado di acquisire conoscenze in totale solitudine tramite illuminazioni spirituali… No, anzi, non è gestito affatto.

Sarebbe ora si smettesse di equiparare un tirocinio allo sfruttamento, e il tirocinante, non deve essere per forza bistrattato solo perché non sa, perché sbaglia, ma dovrebbe essere capito e accompagnato nel suo percorso formativo proprio per le stesse ragioni.

L’empatia non deve rimanere solo un’antica leggenda, che riecheggia nelle pubblicità della Mulino Bianco, o in qualche banale film strappalacrime, una mera strategia comunicativa delle pubblicità, ma dev’essere qualcosa che ci faccia riavvicinare alla nostra natura di esseri umani, prima che dipendenti, prima che dirigenti, di esseri viventi dotati di sensibilità e di un vissuto unico, che va rispettato, sempre, e mai giudicato.

Le critiche, ci devono essere, quelle belle, quelle davvero formative, ma non quelle distruttive. Le critiche servono, aiutano a crescere, a migliorarsi, e tanto meglio se vengono fatte anche dagli altri, oltre che da noi stessi. Ma è estremamente importante che queste critiche mirino ad una resa migliore, a dei risultati positivi, non a distruggere, a disintegrare la sensibilità dell’altra persona, fino a limitarla e ad ottenere i risultati opposti, in cui l’unico a gioire è il sadismo di chi non conosce empatia, ma solo disprezzo e vacuità di contenuti (eh sì, sia intellettivi che morali).

Questa esperienza non mi ha distrutta, mi ha formata, a suo modo, mi ha insegnato a mettere dei paletti, a distinguere la formazione e le critiche costruttive dal semplice annichilimento (tentato ma non riuscito) di una persona che avrebbe voluto solo imparare, senza mollare alla prima difficoltà, al primo ringhiare inconsulto di un nevrotico orso imbizzarrito.

Smettiamola di normalizzare la violenza (anche se solo verbale, anche se “solo” psicologica) nei luoghi di lavoro (come da qualunque altra parte, in qualunque tipo di situazione) : l’errore è un conto e la persona è un altro. Nessuno si deve sentire in diritto di offendere qualcun altro solo perché ha sbagliato, perché non apprende abbastanza in fretta per sopperire alle carenza di personale, o non ha ancora sviluppato la capacità di leggere nel pensiero.

Ed è proprio da qui che si nota la grandezza di una persona: l’umiltà e la sensibilità con cui si pone verso gli altri, che sia un superiore, un sottoposto, un semplice tirocinante, uno sconosciuto.

7 Ottobre: prima e dopo.
“Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”

7 Ottobre: prima e dopo. “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”

articolo originale su pressenza del 6 ottobre 2024

“Dove fanno il deserto, lo chiamano pace” Publio Cornelio Tacito

Il 7 ottobre è l’anniversario dell’attacco delle milizie palestinesi ai kibbutz israeliani nel Negev. Il 7 ottobre 2023 ha rappresentato la prima aggressione all’interno del territorio di Israele dalla guerra arabo-israeliana del 1948.

L’intervento delle milizie palestinesi è avvenuto durante la festa ebraica della Simchat Torah e lo Shabbat, e anche nel cinquantesimo anniversario della guerra del Kippur fra Egitto e Israele, anch’essa iniziata con un attacco a sorpresa nel Sinai occupato.

Subito dopo l’assalto, il comandante delle Brigate al-Qassam, Mohammed Deif, ha dichiarato che l’operazione militare palestinese, denominata Operazione Alluvione Al-Aqsa, costituiva la risposta alla “profanazione della moschea di Al-Aqsa” e all’uccisione e al ferimento di centinaia di palestinesi da parte di Israele durate tutto il 2023.

L’operazione militare palestinese, condotta dalle brigate militari di Hamas, della Jihād Islamica, del Fronte democratico e del Fronte Popolare, e la successiva reazione di Tsáhal (l’esercito israeliano) ha prodotto almeno 1200 morti fra militari e civili israeliani e il sequestro di più di cento cittadini israeliani.

La reazione del Governo sionista ultraconservatore a guida Netanyahu non si è fatta attendere ed è stata di una violenza inaudita e sproporzionata, causando la distruzione quasi totale delle città della striscia di Gaza (dove vivono due milioni e centomila palestinesi), senza risparmiare moschee, scuole, ospedali, sedi dell’ONU, campi profughi, e provocando la morte accertata di più di 40.000 civili.

La stessa strategia la stiamo osservando in questi giorni anche contro la popolazione libanese che subisce quotidianamente massicci bombardamenti che mietono centinaia di vittime civili.

Una strategia chiara ed inequivocabile: fare deserto, distruggere tutte le infrastrutture civili, costringere la popolazione palestinese ad abbandonare la propria terra. Strategia già perseguita tante volte e in tante parti di quella martoriata terra mediorientale.

Lungi da me voler giustificare la strage di civili del 7 ottobre 2023, ma questa non può assolutamente giustificare la condotta criminale dell’esercito israeliano.

Una storia lunga un secolo

Il 7 ottobre, del resto, non è l’inizio della storia, è solo una tappa: tutto comincia da molto lontano, da più di un secolo fa.
La stessa creazione del Medio Oriente come lo vediamo oggi è la causa evidente di un secolo di conflitti che hanno reso quella regione uno dei posti più pericolosi del Pianeta.

Dobbiamo riandare al 1916, quando i diplomatici dell’Impero Britannico Mark Sykes e della Repubblica di Francia François Marie Picot con un righello tracciarono confini, fino ad allora inesistenti, dividendo l’Impero Ottomano, e quella che per secoli era stata un’unica regione e luogo d’incontro di genti differenti, in zone d’influenza delle potenze coloniali europee, zone che successivamente sarebbero state elette a stati-nazione e governate in modo dispotico da monarchie o dittature assoggettate ai vari imperialismi.

Tracciando linee col righello, su forte pressione britannica, fu disegnata la Palestina, terra da assegnare all’immigrazione ebraica, indicata come “terra senza un popolo, per un popolo senza terra”.

L’immigrazione ebraica in Palestina, favorita dal governo britannico e dal movimento sionista, diventò fenomeno di massa nel secondo dopoguerra anche a causa l’olocausto per mano nazifascista.

Questa invasione portò allo scontro violento fra le popolazioni palestinesi stanziali e i nuovi coloni ebrei. L’intervento della neonata ONU partorì il Piano di partizione della Palestina (Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale ONU) che prevedeva la divisione del territorio palestinese fra due istituendi Stati, uno ebraico, l’altro arabo, con Gerusalemme sotto controllo internazionale.

Cartina Piano di partizione della Palestina 1947 – foto Wikipedia

Lo Stato ebraico proposto era più ampio di quello arabo (ammontava al 56% del territorio complessivo) e comprendeva la maggior parte delle zone più fertili per l’agricoltura, l’arido deserto del Negev, e l’accesso esclusivo al Mar Rosso e al lago di Tiberiade. La parte essenziale delle terre costiere coltivabili sarebbero peraltro state di sua pertinenza. In totale sarebbero stati assegnati così alla comunità ebraica, circa il 55% del territorio totale, l’80% dei terreni cerealicoli e il 40% dell’industria della Palestina.

Agli ebrei sarebbe stata assegnata la parte più sviluppata economicamente, che comprendeva quasi del tutto le zone di produzione degli agrumi.
Nonostante ciò, la destra sionista giudicò inaccettabile la divisione e il comandante dell’Irgun (futuro primo ministro di Israele) ’immigrazione ebraica in Palestina dichiarò: «La divisione della Palestina è illegale. Non sarà mai riconosciuta. La Grande Israele sarà ristabilita per il popolo di Israele. Tutta. E per sempre.»

Al momento del Piano di partizione della Palestina dell’ONU, la popolazione totale della Palestina era composta per due terzi circa da arabi e per un terzo da ebrei. Su un totale di 1.845.000 abitanti, il 67% (1.237,000) era composto da cittadini arabi e il 33% da coloni di religione ebraica (608.000).

Questo Piano totalmente iniquo scatenò la prima guerra arabo-israeliana del 1948, guerra vinta dal neonato stato d’Israele, che con la Conferenza di Losanna del 1949 accrebbe ulteriormente la sua estensione dal 55% al 78% dell’intera Palestina, anche se tale estensione allora fu accettata solo in modo provvisorio.

Foto NOMAD PUBLISHING

Con la vittoria israeliana si generò l’esodo forzato della popolazione araba palestinese. I palestinesi chiamano Nakba (la catastrofe) questo dolorosissimo evento. Durante tale conflitto, più di 700.000 arabi palestinesi furono espulsi da città e villaggi e, successivamente, si videro rifiutare ogni loro diritto al ritorno nelle proprie terre.
I rifugiati palestinesi e i loro discendenti nel 2015 sono stati censiti dall’ONU in 5.149.742 individui, distribuiti in Giordania, Striscia di Gaza, Cisgiordania, Siria e Libano.

Oggi il governo sionista di Israele sta usando lo sdegno generato dall’attacco del 7 ottobre 2023 per portare a termine il progetto della Grande Israele, dal fiume al mare, ripulito dalla ingombrante presenza palestinese.

L’estensione degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, la distruzione totale delle città della striscia di Gaza, la pressione violenta sul Libano, ma anche sulla Siria (ricordiamo che Israele occupa le alture del Golan siriano dal 1967) sono il preludio dell’allargamento dei confini dello Stato sionista che vede nella possibile elezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti un grande viatico per la realizzazione del progetto d’espansione territoriale e di pulizia etnica.

Al criminale piano sionista si contrappongono le tendenze più retrive dell’integralismo islamico che, cavalcando la comprensibilissima rabbia dei palestinesi per i crimini subiti da Israele e la loro legittima aspirazione a vivere in pace in una terra libera dall’apartheid e dal terrore, spingono nel radicalizzare in senso religioso il conflitto arabo/israeliano contrapponendo allo stato sionista un futuro stato islamista.

Una soluzione possibile al delirio nazionalista e integralista religioso che impregna ambedue le parti israeliana e palestinese è l’unità dei popoli di quella terra per la costruzione di una società laica, multietnica e multireligiosa.

Prospettiva che oggi appare lontana, ma che a mio avviso rimane l’unica perseguibile, guardando anche con attenzione l’esperimento che si sta realizzando in Siria del Nord dove diverse etnie, diverse tendenze religiose, convivono e cooperano nella costruzione di una nuova società basata sul Confederalismo Democratico e dove le popolazioni curde (anche esse penalizzate e private di un proprio territorio dal piano Sykes-Picot del 1916) costituiscono un forte collante e l’elemento propulsivo e vitale di quel progetto.

Renato Franzitta
Attivista politico e sindacale sin dai primi anni del liceo nei movimenti studenteschi, giovanili e di quartiere. Protagonista del movimento del ‘77 e dell’IMAC (international meeting against Cruise) di Comiso. Fa parte sin dalla fondazione dell’Esecutivo Nazionale della Confederazione COBAS. Attualmente impegnato nel movimento NoGuerra, è animatore e coordinatore politico-culturale del Laboratorio “Andrea. Ballarò” di Palermo.

 

Se il PD e la Sinistra continuano a sbagliare.
Ferrara: appunti del dopo elezioni

Se il PD e la Sinistra continuano a sbagliare.  Ferrara: appunti del dopo elezioni

Il 30 settembre scorso “Pluralismo e dissenso” mi ha invitato a partecipare a una discussione pubblica sulla sconfitta elettorale del centro-sinistra alle ultime elezioni comunali di Ferrara. “Periscopio” mi ha proposto di scrivere quelle mie personali considerazioni. Ringrazio Mario Zamorani e Francesco Monini per questa opportunità di riflettere sulle vicende, non solo locali, della politica del centro-sinistra, cui appartengo anche se ormai (solo) da spettatore. Andrò per punti, scusandomi per la sintesi forse eccessiva con cui tratto alcuni temi che meriterebbero una ben più ampia discussione. Una discussione che spero si apra, prima che sia troppo tardi.

1 : Quando ho partecipato, nel 2007 a Mirafiori, alla nascita del Partito Democratico ero convinto che, dopo 60 anni di contrapposizione, si stessero finalmente unificando il meglio della cultura riformista del PCI con il meglio di quella cattolica-sociale della DC. Dopo 17 anni la mia opinione è che si siano invece unificate le due prassi di gestione partitocratica fatte di correnti personali, poca dialettica interna sui contenuti (molta sulle poltrone) e distacco dai problemi dei territori e della gente

2 : Sia a livello nazionale che a livello locale è prevalsa l’idea che il PD avesse (ed abbia) una rendita di posizione che garantisca, malgrado la distrazione, il consenso elettorale. Per cui, una volta decisi internamente i candidati, il voto sarebbe comunque giunto in continuità con le dinamiche politiche del secolo scorso.

3 : Non è accaduto così alle elezioni nazionali del 2013 e nemmeno a quelle locali del 2019 e 2024. Le elezioni politiche del 2023 hanno dimostrato che vince chi rappresenta una innovazione e non una continuità: chi parla ai cittadini (anche se alla loro pancia piuttosto che non alla loro testa) e non chi si misura solo con le élite intellettuali, istituzionali, amministrative e partitiche.

4 : Se questo è vero, credo sia necessario “rifondare” il PD, prima che non abborracciare delle alleanze senza una identità culturale e programmatica condivisa. Per dirla in fretta, occorre costruire un campo largo sociale prima di improvvisarne uno politico che, da solo, non sta in piedi. Ho votato Schlein nella speranza che rigenerasse il PD: spero ancora ci possa riuscire.

5 : In caso contrario continuerà a crescere il partito delle astensioni: primo partito in Italia in quanto a numero di non votanti. E questo faciliterà il successo del centro-destra.

6 : Per venire a noi: è il centro-destra che ha vinto a Ferrara o il centro-sinistra che ha perso? La mia personale opinione è che nel 2019 (stando ai numeri assoluti, non alle percentuali dei voti) sia stato il centro sinistra a perdere. Nel 2024, invece, dati gli spostamenti dei voti (anche del PD) tra le elezioni europee e quelle comunali, sia stato il centro-destra ad attrarre più voti e quindi a vincere. Non essendo il centro-sinistra stato in grado di allargare nemmeno il numero dei cittadini votanti (non solo dei propri consensi).

7 : Questo un punto che a me pare fondamentale. Se si va alle elezioni fidando sulla propria “rendita” e quindi individuando “un solo capitano” da imporre a tutte le forze, indipendentemente dalla capacità di allargare i consensi degli elettori è molto probabile che si perda.

8 : Altra cosa sarebbe stata se il “tavolo” del centro-sinistra avesse deciso esplicitamente e in trasparenza di condividere alcune priorità programmatiche e dar vita, come sempre si è fatto, a diverse liste che poi sarebbero confluite sul nome del più votato tra i candidati. Invece l’accordo si è fatto, “a prescindere” (come diceva Totò) su un nome, addirittura impedendo da Roma l’uso di altri simboli politici se in dissenso da quel nome. Un’assurdità che nemmeno negli anni 50 si è mai vista.

9 : Se si parla solo di nomi, c’è il rischio che le alleanze si facciano a prescindere dai contenuti e dalle culture politiche di ciascuno e che allo stesso “tavolo” si presentino forze politiche anche molto distanti da una cultura di centro-sinistra (come è accaduto nell’ultima tornata elettorale).

10 : Non so di chi siano le responsabilità personali e dirette di queste scelte sbagliate (e nemmeno mi interessa saperlo). Se vogliamo ricostituire una cultura politica del PD e del centro-sinistra credo si debba partire prima di tutto dall’ascolto dei cittadini (i giovani, le donne e gli anziani) e dei loro bisogni: nei quartieri e nei territori extraurbani e da lì costruire un programma politico partecipato e condiviso. Un campo largo sociale prima che politico, appunto. Altrimenti altro che campo, l’orto resta piccolo e partitico: una tattica di sopravvivenza e non di rigenerazione del centro-sinistra.

 

Per certi versi / Avere un tu

Avere un tu

Indefinibile
È la bellezza
Di avere un tu
Che condivida
Le mie follie
Quelle baguette
Accartocciate
Che profumano
Di poesie
Cover: elaborazione grafica da Magritte.
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

La sconfitta dell’Occidente che ha il culto di un solo Dio: il Denaro

La sconfitta dell’Occidente che ha il culto di un solo Dio: il Denaro

L’antropologo francese Emmanuel Todd ha pubblicato in settembre un libro che in Francia è già diventato un best seller (oltre 80mila copie vendute) dal titolo La sconfitta dell’Occidente (Fazi ed., 20 euro, pag. 369).

In esso Todd analizza non tanto quella che si profila come una probabile sconfitta esterna dell’Occidente (la guerra in Ucraina), quanto la sconfitta interna dovuta al suo declino demografico, che per Todd è anche morale ed economico, causato dalle sue classi dirigenti, in primis degli Stati Uniti.

Todd usa le categorie antropologiche per offrire una lettura dei punti di forza e debolezza dei due paesi in guerra (Russia e Ucraina), dei principali paesi occidentali (Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Francia), dei paesi scandinavi e dell’Europa orientale, senza dimenticare il resto del mondo. Analizza i processi in corso, i modelli familiari e le statistiche demografiche ed economiche con una ricca documentazione basata su 50 anni di ricerche, lontano dalle approssimazioni che caratterizzano il dibattito attuale.

Come ha potuto un paese come la Russia, con un PIL pari al 70% di quello italiano e al 5% dei paesi Nato, reggere il confronto militare con l’Occidente intero che ha speso nel solo 2023 900 miliardi di dollari a fronte dei 100 della Russia? In Occidente la produzione di armi è dispersa in un coacervo di imprese private che operano secondo logiche finanziarie e di profitto, mentre la produzione bellica russa è pianificata da uno Stato che consente di avere economie di scala e vantaggi tecnologici con investimenti di lungo periodo (i missili ipersonici che raggiungono 10 volte la velocità del suono) e poter dispiegare un esercito (si vince coi droni ma solo se poi hai un esercito) che non teme confronti con quelli delle democrazie liberali. Le quali non sono più in grado di mandare i propri giovani in guerra, se non a prezzo di un dissenso interno enorme. Com’è nella stessa Ucraina, dove si contano 80mila disertori (su 400mila) ed è sempre più difficile reclutare giovani che vadano al fronte, sapendo cosa li aspetta.

Un boomerang sono state anche le sanzioni economiche alla Russia proposte da Draghi, sulla base di considerazioni solo finanziarie ed economiche. Avrebbero dovuto annichilire un paese piccolo in termini di Pil e vulnerabile, con i suoi 300 miliardi di riserve finanziarie depositati nelle banche dell’Occidente. Un errore di valutazione che considerava solo gli aspetti economico-finanziari, sottovalutando la geopolitica e il sostegno che avrebbe ricevuto dal Sud del mondo e dai paesi musulmani, nel momento in cui l’Occidente appoggia acriticamente Israele nella carneficina del medio-oriente; senza capire che con l’accordo del 2009 i cinesi, se costretti a scegliere, avrebbero preferito la Russia, che conta su un amplissimo consenso interno a Putin, dopo i disastri della liberalizzazione occidentale del decennio 1990-1999 in Russia. Una guerra che vede contesi territori (Crimea e Donbass) dove abitano in prevalenza russi.

Le sanzioni si sono così rivelate un “suicidio assistito”, mandando in recessione la Germania mentre la Russia spostava l’export di petrolio e gas dall’Europa per ¾ verso l’India e per ¼ in Cina. L’obiettivo della Russia non è invadere l’Europa – fantapolitica, se si pensa che ha solo 144 milioni di abitanti in un territorio smisurato – ma acquisire i territori in cui abitano in prevalenza russi e la neutralità dell’Ucraina. Zelensky si sta muovendo perché teme che la vittoria di Trump porti ad un accordo di pace che preveda la cessione alla Russia di Crimea e Donbass.

Gli Stati Uniti hanno capito nel 2009-afferma Todd- che non solo non potevano più essere i padroni del mondo, ma che la loro sopravvivenza materiale dipendeva anche da quanto sarebbero riusciti a far diventare vassalli i paesi amici del resto dell’Occidente (Europa in primis), anche se ciò avrebbe comportato un prezzo alto per l’Europa (e la Germania soprattutto) e la fine di un’Europa “indipendente”, trasformata in un mero mercato.

L’azzardo di disintegrare il sogno europeo, avviando un impoverimento delle classi più deboli e la prospettiva di gettare l’Europa (la zona più prospera del pianeta) in una guerra di lunga durata con la Russia, ha spinto le classi più svantaggiate a chiedere la pace con la Russia. Ma l’élite europea tira diritto (Trump permettendo) e rischia di far crescere l’opposizione a chi ha governato, facendola diventare maggioranza.  Dalle ceneri nessuno sa cosa potrà nascere. Speriamo non nuovi nazionalismi, piuttosto un’altra Europa: meno monetaria, più popolare, basata sul benessere, occupazione e welfare con al centro la più temibile paura degli americani: l’asse Germania-Russia.

L’errore più grande, secondo Todd, è quello di élite politiche che si sono attorniate da esperti yes man che supportavano le loro convinzioni, senza far notare i profondi mutamenti che erano in atto e l’indebolirsi del benessere interno dell’Occidente per seguire la finanza e il Dio Denaro. Ora il risveglio sarà molto doloroso, specie per i comuni cittadini.

Una condanna alla politica di sfruttamento:
illegittimi gli accordi commerciali tra UE e Marocco per i prodotti di origine saharawi

Una condanna alla politica di sfruttamento:
illegittimi gli accordi commerciali tra UE e Marocco per i prodotti di origine saharawi.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha sentenziato per l’illegittimità degli accordi commerciali tra UE e Marocco per i prodotti di origine saharawi.
È una condanna alla politica di sfruttamento dei mari del Sahara Occidentale con la libertà di pesca che le società europee avevano conquistato con quegli accordi.
Lo stesso per lo sfruttamento dei giacimenti di fosfati del Sahara Occidentale esportati come concimi per l’agricoltura europea.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, infatti, sostiene che gli accordi con il Marocco hanno violato i diritti del popolo saharawi non tenendo conto del loro principio di autodeterminazione.
Questa è una sentenza definitiva. Già nel 2021, era stata emessa una sentenza di primo grado dello stesso tenore, alla quale la Ue ha fatto ricorso.
La sentenza riconosce il Fronte Polisario, rappresentante del movimento indipendentista saharawi, come persona giuridica legittimata a contestare gli accordi commerciali sulla pesca e sull’agricoltura, poiché queste attività commerciali si svolgono nel territorio del Sahara Occidentale occupato dal Marocco.
In copertina: Smara, campo profughi saharawi, Algeria – ph. Franco Ferioli

A UN ANNO DAL DECRETO CAIVANO:
il sistema della giustizia minorile è in crisi. Il Report di Antigone

Dal decreto Caivano il sistema della giustizia minorile è in crisi. Il Report di Antigone

E’ passato un anno dall’approvazione del Decreto Caivano e tutti gli effetti negativi che in tanti avevano facilmente pronosticato sono ora del tutto evidenti. Il sistema della giustizia minorile si sta drasticamente modificando e si sta allontanando da quel modello che aveva attirato le attenzioni dell’Europa, spostandosi verso un modello criminalizzante, “carcerocentrico” e, purtroppo, privo di prospettive. Lo dimostrano i dati del dossier di Antigone sull’emergenza negli Istituti Penali per Minorenni (IPM).

Al 15 settembre erano 569 i ragazzi reclusi negli IPM, il numero più alto mai fatto registrare. Dall’insediamento dell’attuale governo nell’ottobre 2022, le presenze nelle carceri minorili sono aumentate di quasi il 50%. Così come il numero più alto mai registrato è quello degli ingressi nelle carceri minorili, ben 889 fino a questo punto dell’anno. I posti in IPM sono 516 e il tasso di affollamento medio è dunque pari al 110%: dei 17 IPM presenti sul territorio, ben 12 ospitano più persone di quelle che dovrebbero. Nei 5 Istituti attualmente non sovraffollati, si registra comunque una situazione assai precaria, essendo tutti al limite della capienza. Per far fronte al sovraffollamento sono state aggiunte brandine da campeggio e in alcuni casi anche materassi per terra.
La presenza negli IPM oggi è fatta soprattutto di ragazzi e ragazze minorenni che rappresentano il 61% del totale dei reclusi. Un trend invertito rispetto a poco tempo fa, quando ad essere in maggioranza erano i giovani adulti (ragazzi fino a 25 anni che erano entrati nel sistema della giustizia minorile da minorenni). ll DL Caivano ha infatti reso più facile il trasferimento dei ragazzi che hanno compiuto la maggiore età a un carcere per adulti, misura troppo spesso applicata per problemi di sovraffollamento o per gestire situazioni problematiche, ma che va a interrompere un percorso educativo magari risalente e rende ben più difficile la reintegrazione sociale del giovane.

I numeri – sottolinea Susanna Marietti, coordinatrice nazionale e responsabile dell’osservatorio sulle carceri minorili di Antigonecrescono proprio per effetto del Decreto Caivano, approvato per rispondere ad una presunta emergenza criminalità minorile che i dati ci dicono non esistere. Nel 2023, infatti, i ragazzi denunciati e/o arrestati sono diminuiti del 4,15% rispetto al medesimo dato raccolto nel 2022, permanendo ad un livello che già in passato era stato registrato, senza che questo avesse portato a stravolgere il sistema della giustizia minorile creando una situazione di malessere generalizzato. Proprio questo malessere è sfociato in numerosi atti di protesta che hanno coinvolto la quasi totalità degli istituti minorili presenti in Italia. Proteste che dovrebbero portare ad ascoltare questi ragazzi, capire cosa hanno da dire, mentre il messaggio implicito che arriva sembra essere quello del teneteli voi, neutralizzateli, senza preoccuparsi del loro futuro e del loro recupero sociale“.

E per la prima volta anche le carceri minorili sono alle prese con il sovraffollamento. Complessivamente, i posti in IPM sono 516. A fronte delle 569 presenze di metà settembre, il tasso di affollamento medio è dunque pari al 110%. Non si tratta solo di qualche Istituto particolarmente pieno, ma di una situazione diffusa in tutto il Paese: dei 17 IPM presenti sul territorio, ben 12 ospitano più persone di quelle che dovrebbero. Il più sovraffollato in termini percentuali è l’IPM di Treviso, con 22 ragazzi per 12 posti regolamentari (tasso di affollamento 183,3%). Seguono il Beccaria di Milano, con 54 ragazzi per una capienza di 37 (145,9%) e l’IPM di Acireale con 22 ragazzi per una capienza di 17 posti (129,41%). Nei 5 Istituti attualmente non sovraffollati, si registra comunque una situazione assai precaria, essendo tutti al limite della capienza. In tutti e cinque basterebbero solo un ingresso in più per superare i posti disponibili.

Di fronte a questa situazione Antigone scrive: “Non avevamo mai visto nulla di simile. Nonostante la nostra lunga esperienza nel monitoraggio delle carceri italiane, è la prima volta che troviamo un sistema minorile così carico di problemi e denso di nubi. La nostra preoccupazione cresce di giorno in giorno. Non riusciamo a immaginare come potrà finire questa storia. (…) Nelle carceri minorili si respira una tensione mai vista prima, data dall’affollamento e dalla progressiva chiusura del sistema. Da tanti IPM ci segnalano la chiusura di attività, le difficoltà per i volontari, il ritorno a un modello di detenzione fatto solo di cancelli e sbarre, i trasferimenti forzati.”

[Qui] il testo del dossier di Antigone “A UN ANNO DAL DECRETO CAIVANO”  sull’emergenza negli Istituti Penali per Minorenni.  

Cover: .Foto di Antigone

TOP200, la crescita del potere delle multinazionali.
Il report del Centro Nuovo Modello di Sviluppo

La pericolosa crescita del potere delle multinazionali.
Il report TOP200 del Centro Nuovo Modello di Sviluppo

di Rocco Artifoni
articolo originale su pressenza del 2 ottobre 2024

Senza consapevolezza, non ci sono speranze di cambiamento. Potrebbe essere riassunta così la motivazione che spinge il Centro Nuovo Modello di Sviluppo (CNMS) a predisporre ogni anno (siamo nel 2024 alla 14a edizione) un report sulle 200 multinazionali economicamente più importanti [Vedi qui] . L’argomento di per sé sarebbe molto complesso, ma il CNMS coordinato da Francesco Gesualdi riesce a renderlo comprensibile a tutti, con testi chiari, tabelle e grafici esplicativi.

Il confronto tra la situazione del 2013 e quella del 2023 indica le tendenze in atto. I dipendenti delle 200 più grandi multinazionali sono aumentati in dieci anni da 39 a 42 milioni (+7,8%), il fatturato da 20mila a 27mila miliardi di dollari (+33%) e i profitti da 1.438 a 2.114 miliardi di dollari (+47%). Tra le TOP200 soltanto 9 chiudono il 2023 con perdite anziché profitti. La peggiore è la russa Gazprom che nel 2023 con un fatturato di 100 miliardi di dollari, ha registrato un disavanzo di 7,3 miliardi.

Tra le TOP200 ce ne sono 60 con sede negli USA, 55 in Cina, 16 in Giappone, 12 in Francia e 11 in Germania. Le italiane sono 2: Enel al 97° posto (61mila dipendenti, 103 miliardi di fatturato e 3,7 miliardi di profitti) e Eni al 98° (33mila dipendenti, 102 miliardi di ricavi e 5,1 miliardi di utili).

Restringendo il campo di osservazione alle prime 10 multinazionali, si scopre che 6 hanno la sede principale negli USA, 3 in Cina e 1 in Arabia Saudita. L’Europa è fuori dalla TOP10. Al primo posto della classifica troviamo stabilmente Walmart, nel settore del commercio e dei trasposti, con 2,1 milioni di dipendenti, 648 miliardi di dollari di fatturato e 15,5 miliardi di profitti. Al secondo posto si colloca Amazon con 1,5 milioni di lavoratori, 575 miliardi di ricavi e 30,4 miliardi di dollari di guadagni. Sul terzo gradino del podio c’è la cinese State Grid (che fornisce gas, luce e acqua) con 1,3 milioni di dipendenti, un giro d’affari di 545 miliardi e 9,2 miliardi di utili.

Al di là della fotografia della situazione attuale è utile cercare di comprendere l’evoluzione della classifica delle multinazionali. Ad esempio si può notare come Amazon in un decennio sia passata dal 112° al 2° posto della graduatoria. State Grid dieci anni fa era al 7° posto ed ora è al 3°. Apple raggiunge il 7° posto provenendo dal 15°. La finanziaria americana UnitedHealth Group sale dal 39° all’8° posto. A fare evidenti passi indietro sono invece le principali società multinazionali che si occupano di energia e petrolio: Shell che scende dal 2° al 13° posto, Exxon Mobil dal 5° al 12° e BP dal 6° al 25° posto.

Dai dati presenti nel report si può calcolare il rapporto tra profitti e fatturato, evidenziando i relativi margini di utile. In questa logica al 1° posto troviamo la Taiwan Semiconductor Manufacturing con profitti pari al 39,4% del fatturato, seguita dalla banca svizzera UBS con il 39%, dalla Johnson & Johnson nel settore della chimica con il 36,9% e dalla Microsoft con il 34,1%.

In alcuni settori si nota una predominanza cinese. Ad esempio sono cinesi 6 delle 7 multinazionali delle costruzioni inserite in TOP200, 6 su 8 della metallurgia e minerali, 6 su 9 della chimica e farmaceutica. Nel settore bancario, assicurativo e della finanza ai primi 14 posti troviamo 8 multinazionali degli USA e 6 della Cina.

Particolarmente illuminante è il confronto tra i fatturati delle multinazionali e le entrate degli stati. In una classifica unificata ai primi 100 posti troviamo 70 stati nazionali e 30 multinazionali. La Walmart ha ricavi superiori alle entrate dell’Australia e di poco inferiori a quelle della Spagna. La Saudi Aramco ha un fatturato nettamente superiore alle entrate dello stato dell’Arabia Saudita.

Le classifiche sulle multinazionali in realtà rappresentano soltanto la prima parte del report predisposto dal CNMS, che contiene alcuni approfondimenti davvero interessanti. Il primo focus è sulle più importanti società “multifondo”, che investono denaro in partecipazioni societarie: in particolare vengono analizzate le multinazionali statunitensi Black Rock, Vanguard, Fidelity e State Street, che complessivamente gestiscono patrimoni per quasi 30mila miliardi di dollari. Si tratta di una cifra enorme che può condizionare fortemente la finanza, l’economia e la politica mondiale.

Un altro approfondimento ricostruisce le vicende e le contraddizioni dell’impero economico e patrimoniale di Elon Mask, oggi considerato l’uomo più ricco del mondo. Molto attuale è anche la pagina dedicata alle azioni di boicottaggio delle multinazionali che conducono affari in Israele, che mostra come in alcuni casi stiano funzionando.

Non mancano i dati sulle multinazionali di origine europea, oltre alla preziosa informazione che l’Unione Europea ha recentemente approvato una normativa che impone alle aziende che producono e vendono in tutto il mondo l’obbligo di verificare che lungo tutte le proprie filiere produttive e commerciali siano rispettati i diritti umani e l’ambiente.

Nel report c’è anche una scheda sull’Italia: viene delineato l’intreccio di affari della famiglia Angelucci, in particolare nel settore sanitario e dell’informazione, evidenziando alcune minacce per il sistema democratico da parte di chi detiene e controlla le agenzie di stampa.

Il sottotitolo del dossier TOP200 elaborato dal CNMS è inequivocabile: “la crescita del potere delle multinazionali”. Dopo averlo letto ci si può interrogare sulle pressioni e sui condizionamenti che le multinazionali possono esercitare nei confronti del potere pubblico. Il report contiene già una possibile risposta: “possiamo avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose” (Louis D. Brandeis, membro della Corte Suprema degli Stati Uniti dal 1916 al 1939).

Storie in pellicola / Le giornate del cinema muto di Pordenone, evento di preapertura

Stasera, venerdì 4 ottobre, al Teatro Zancanaro di Sacile, “Girl Shy” di Fred Newmyer e Sam Taylor apre la 43ª edizione delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone che si terrà dal 5 al 12 ottobre, sia in presenza che online

L’appuntamento che anticipa l’avvio ufficiale, a Pordenone, della 43ª edizione delle Giornate del Cinema Muto, è la preapertura, stasera venerdì 4 ottobre al Teatro Zancanaro di Sacile, alle ore 20.45, con uno dei campioni della comicità, Harold Lloyd, in uno dei suoi film più divertenti, Girl Shy (Le donne…che terrore), del 1924, di Fred Newmeyer e Sam Taylor.

L’accompagnamento dal vivo è della Zerorchestra, che eseguirà la partitura composta da Dan van den Hurk,  anche alla direzione e al pianoforte. L’evento sarà replicato giovedì 10 ottobre alle 21 al Teatro Verdi di Pordenone.

Girl Shy (Le donne… che terrore, US 1924) di Fred Newmeyer e Sam Taylor

Il protagonista del film è un giovanotto che vive in una cittadina del Nebraska, lavora come sarto nel negozio dello zio ed è talmente imbranato che quando ha a che fare con le clienti comincia a balbettare. Per superare la timidezza, Harold (il personaggio ha lo stesso nome del suo interprete), si mette a scrivere un libro in cui millanta una serie di conquiste femminili dando anche consigli sui metodi di seduzione più efficaci. Convinto della bontà dell’opera, si reca in città per presentare il manoscritto a un editore e durante il viaggio conosce una ricca e affascinante fanciulla di cui inevitabilmente si innamora. Da qui comincerà una lunga serie di disavventure con il lieto finale d’obbligo. La scena madre del film è la vorticosa corsa, utilizzando ogni mezzo (varie automobili, una motocicletta della polizia, cavalli, carri e un tram) per raggiungere l’amata e impedire che sposi un altro, scena che è stata ripresa per intero, tale e quale, in un videoclip musicale del 2010.

Quando uscì cent’anni fa, il successo di Girl Shy fu tale che il cinema Criterion di Los Angeles lo proiettava ininterrottamente ogni giorno dalle 10 del mattino fino a mezzanotte.

Pensare che solo poco più di dieci anni prima il giovane Harold era approdato con il padre a Los Angeles, anche lui dal natio Nebraska, sognando una vita sul palcoscenico. In quei tempi eroici il talento premiava e così, dopo essere entrato in società con Hal Roach e aver affinato il mestiere in oltre 60 corti ottenendo anche un discreto successo con un personaggio a imitazione di Charlot, ecco nel 1917 la svolta: via i baffi, indossa un paio di occhiali dalla montatura rotonda e nasce Harold Lloyd, l’americano virtuoso, impavido, industrioso, ottimista.

Girl Shy (Le donne… che terrore, US 1924) di Fred Newmeyer e Sam Taylor

La sua popolarità negli anni Venti del ’900 era pari a quella di Chaplin e Keaton e i suoi film contenevano spesso sequenze da brivido, come quella in Safety Last! (Preferisco l’ascensore, 1923) in cui Lloyd è appeso alle lancette di un orologio di un grattacielo. Pericoloso, certo, ma accentuato dalle angolazioni della cinepresa di Walter Lundin, il fedele direttore della fotografia, presente anche in Girl Shy. Harold Lloyd sopravvisse al passaggio al sonoro e girò parecchie commedie parlate; il ritmo però non era più quello di un tempo e inevitabilmente la sua popolarità diminuì. Finì per ritirarsi dal cinema e dedicarsi ad altre attività soprattutto nel campo della fotografia, ospitando nella sua faraonica residenza di Beverly Hills i primi esperimenti della Technicolor sul colore. Approfondì la tecnica della fotografia in 3D e si cimentò egli stesso come fotografo, immortalando in celebri scatti anche Marilyn Monroe.

Prima del film, la piccola Orchestra della Scuola Media “Balliana-Nievo” di Sacile sotto la direzione di Didier Ortolan accompagnerà due cortometraggi comici, La storia di Lulù (1909-10) e Attentato anarchico (1912).

Le Giornate del Cinema Muto sono realizzate grazie al sostegno della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, del Ministero della Cultura – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, del Comune di Pordenone, della Camera di Commercio Pordenone-Udine e della Fondazione Friuli. Sito web

 

 

ANTIFASCISTI/E PER LA COSTITUZIONE
Presidio sabato 5 ottobre, ore 17,30 alla Galleria Matteotti, Ferrara

 

Antifascisti/e per Costituzione

Le Forze democratiche e antifasciste di Ferrara richiamano le istituzioni al dovere di prevenire atti contro la Costituzione.

Forza Nuova ha annunciato l’apertura di una nuova sede a Ferrara con l’inaugurazione sabato 5 ottobre alle ore 18. Ci pare utile ricordare che Forza Nuova fa esplicito riferimento, sia dal punto di vista ideale che culturale, al fascismo e alla Repubblica di Salò.

Lo statuto di Forza Nuova, i suoi simboli, gli slogan, gli indirizzi chiaramente xenofobi, razzisti, omofobi e transfobici, i ripetuti atti di violenza e le aggressioni non sono certo compatibili con quanto recita la Costituzione repubblicana: “E’ vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista“.

Alla luce di tutto questo sottolineano la necessità e l’urgenza che la legge sia fatta rispettare dalle autorità competenti.

Le scriventi associazioni, organizzazioni, forze politiche, movimenti di Ferrara, città democratica, antifascista e antirazzista, contrastano fortemente manifestazioni inaugurative e ogni forma organizzativa di chiaro stampo fascista nonchè qualunque forma di violenza squadrista e non.

Ritengono che questa sia un’offesa ai sentimenti antifascisti e democratici dei cittadini di Ferrara, città Medaglia d’Argento al Valor Militare, per l’alto contributo offerto nella lotta per liberare il nostro Paese dalla occupazione nazista e dalla tirannide fascista.

Manifestano al Prefetto di Ferrara la preoccupazione per quanto potrebbe accadere se si dovesse riproporre, in un quartiere cittadino di vivaci tradizioni popolari e di partecipazione democratica alla vita politica e sociale, la manifestazione pubblica di simboli e atteggiamenti che si configurano come apologia di fascismo.

Non possono tollerare la passerella in città di pseudo dirigenti nazionali, condannati in primo grado a più di otto anni tra l’altro per l’assalto squadrista alla sede della Cgil nel 2021 e, ancora peggio, di chi è stato latitante per fuggire una condanna per banda armata e associazione sovversiva.

Sorprende e sconcerta, infine, il silenzio delle Istituzioni di fronte all’appropriazione indebita del nome “Casa della Patria” che a Ferrara esiste da cento anni ed ospita le associazioni combattentistiche che si sono contraddistinte nelle battaglie e nelle lotte per la libertà, la Resistenza e la liberazione.

Aderiscono (elenco in aggiornamento):

ANPI, Arci Ferrara, Arcigay Ferrara “Gli Occhiali d’Oro”, Associazione Culturale Umanità,

Associazione Piazza Verdi, Associazione Migrantes, Auser Ferrara, Azione Civica,

Biblioteca Popolare Giardino, Centro Sociale La Resistenza, Centro Donna Giustizia

Ferrara, Cgil Ferrara, Cittadini del Mondo, Coalizione Civica, Comitato per la memoria dei

X Martiri di Porotto, Comitato Ferrara per la Costituzione, Comunità Emmaus, Europa

Verde, Famiglie Arcobaleno Associazione Genitori Omosessuali, Federconsumatori

Ferrara, Ferrara Bene Comune, FIAB Ferrara APS – Amici della bicicletta, Forum Ferrara

Partecipata, Gruppo Consiliare Civica di Anselmo, Istituto Gramsci Ferrara, Istituto di

Storia Contemporanea di Ferrara, La Comune di Ferrara, La Sinistra per Ferrara,

Legambiente Circolo Pianura Nord, Libera Coordinamento di Ferrara, Lista I Civici,

Mediterranea Saving Humans Ferrara, Movimento 5 Stelle Coordinamento di Ferrara,

Movimento Nonviolento Ferrara,

Partito Comunista Italiano Ferrara,

Partito Democratico Ferrara,

Possibile Ferrara,

Rifondazione Comunista Federazione di Ferrara,

Sinistra Italiana,

Sunia Ferrara,

Udi Ferrara,

UDU Ferrara,

UIL Ferrara.

“Periscopio” quotidiano nazionale on line

 

Cover: particolare della sede di Ferrara di Forza Nuova di cui è prevista l’inaugurazione sabato 5 ottobre

Parole a Capo
Walter Chiesa “Il canto della strega” e altre poesie

“Non è necessario essere una stanza o una casa per essere stregata. Il cervello ha corridoi che vanno oltre gli spazi materiali.”
(
Emily Dickinson)

 

Il Canto della Strega

(ispirata al 17esimo arcano maggiore dei tarocchi, La Stella)

 

Mi sporgo sull’acqua del fiume
che muta, ed è uguale a se stessa –
E osservo la volta riflessa
del cielo, e gli occulti segreti

 

Avverto il chiarore lunare
che sfiora e carezza la pelle –
Io, figlia di tutte le stelle,
raccolgo i rabeschi del vento

 

E mescolo l’oro e l’argento,
l’eterno e i confini del tempo –
E tutto, ormai saldo nel Centro,
diviene presenza ed Incanto

 

Io Strega, incoercibile santa,
mi arresto e rinasco a ogni istante –
E so che alla luna calante
già segue la falce d’oriente

 

E ancora, mi sporgo sull’acqua
e osservo il mio volto, riflesso –
La mia solitudine, adesso,
trasmuta e s’invola
in un cono di luce
che a un nuovo Congresso conduce

 

*

 

L’albero degli impiccati

Ha serrato le imposte e le porte, la notte,
ed il borgo trasuda silenzio
Annebbiato di vite e d’assenzio
muovevo i miei passi, svegliando la sorte

…Non volevo insozzarne la carne, i pensieri,
né spezzare il suo gesto, lo giuro –
Se soltanto invertissi le carte,
e l’alba – domani – chiamassimo ieri…

Ma l’aurora, infuocata di sangue,
riversava i suoi raggi sul suolo
E tracciava un sicuro percorso
davanti al mio uscio, il Giudizio del cielo

I gendarmi hanno letto il mio nome, e la colpa,
occultando ogni lume, ogni specchio
…Hai rubato la vita e l’onore – hanno detto –
la tua morte non ti vedrà vecchio!

…Ora tutto è già freddo e silenzio,
mentre pendo col cappio alla gola
Neri corvi volteggiano in cerchio,
fiutando il peccato nel sangue che gela

Questo è l’albero degli impiccati,
del suicida, di chi è giustiziato
Non v’è uno che pianga o disperi…
Per ladri e assassini non sprecano ceri

Ed io – ormai – più non sono, e la bocca
per gli insetti diviene una tana
Pare bruna, la pelle, qui al buio
E i miei occhi, sbiancati di luna

 
*
Quiete

 

Ora siedi, ora riposa,
entro i solchi del tramonto –
La penombra è un quieto manto,
e si chiude ormai la rosa
a proteggere i confini del tuo pianto

Il profilo della luna
lento si assottiglia
…E’ tardi –
Puoi riporre i tuoi ricordi
e l’antica, eterna offesa,
nella stanza silenziosa del letargo

Levo il drappo dagli specchi,
per ritrarre i tuoi sorrisi –
…Chiusi gli occhi, forse sogni,
ma nei tratti del tuo viso
leggo l’ombra inquieta dei tuoi mille affanni

Non temere, questa è l’ora
tra l’allodola ed il gufo
…Presto il vento sarà muto –
Nello sguardo del rapace
scorgerai la pace che ti ha destinato

 

Walter Chiesa, docente di chitarra, risiede in provincia di Milano.  E’ risultato vincitore in numerosi concorsi musicali e letterari, sia nell’ambito della prosa che della poesia.
Per anni ha collaborato con periodici locali, curando prevalentemente la pagina culturale. Alcuni suoi racconti e testi poetici sono stati inseriti in pubblicazioni firmate da autori vari.
Alla fine del 2022 ha pubblicato con le edizioni Ester “La notte e i suoi abitanti“, che coniuga prosa e poesia ed è risultato finalista in due concorsi letterari. Nel 2023 ha pubblicato il libro di narrativa “Dei mondi riflessi”, edizioni Zephyro, la cui prima parte è incentrata sul mondo magico delle bolle di sapone. Entrambi i testi sono a carattere fantastico e intrisi di atmosfere oniriche.

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 249° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

Ritorno a scuola, più incubi che sogni

Ritorno a scuola, più incubi che sogni

 

Lo psicologo americano Jonathan Haidt ha scritto un libro di grande successo, “La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli” (ed. Rizzoli), in cui conferma le fosche preoccupazioni che già altri autori avevano anticipato (Manfred Spitzer, Demenza digitale, ed. Corbaccio 2012, Connessi e isolati, 2018), sugli allarmanti effetti dell’iperconnessione: riduzione drastica del tempo dedicato al gioco, calo a picco della capacità di concentrarsi, peggioramento del sonno, sviluppo di una dipendenza simile a quella da slot machine, alcol o droghe. Una disconnessione dalla realtà che li rende molto più soli, meno capaci di osservare, di fare (e farsi) domande, di parlare di fronte a un compagno/a o un adulto (le interrogazioni sono un disastro), ma anche di scrivere perché implica sapersi soffermare a pensare (cosa che col cellulare non si fa più).

Oltre alla catastrofe all’insegna del “w il digitale”, c’è poi un contesto sociale che oggi ci viene rimproverato dai giovani. Lockdown e mascherine hanno limitato per un tempo straordinariamente lungo la libertà di muoversi, incontrarsi, riconoscersi e oggi vediamo gli effetti drammatici di quella scelta. Non solo una perdita di apprendimento significativa, ma danni rilevanti in termini di riduzione di anni di vita. Una recente ricerca dell’Università di Washington, pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), una delle riviste scientifiche più note a livello internazionale, ha “fotografato” il cervello dei ragazzi/e (9-17 anni) e fatto emergere come le misure restrittive abbiano provocato un’accelerazione dell’invecchiamento cerebrale di circa 4,2 anni nelle ragazze e di 1,2 anni nei maschi. Risultati visibili nello spessore della corteccia cerebrale, lo strato di tessuto esterno che si assottiglia con l’avanzare dell’età o in caso di forti stress. “In nessun caso della storia recente una quota così ampia di popolazione è stata tenuta in uno stato di libertà limitata come nel 2020” dice Liliana Dell’Osso, presidente della Società Italiana di Psichiatria. Un trauma di massa che si poteva evitare secondo Sara Gandini, bio-statistica e direttrice Ieo di Milano, che aveva presentato a suo tempo al nostro Governo studi che mostravano come non ci fossero evidenze scientifiche sugli effetti positivi della chiusura delle scuole, come aveva ammesso lo stesso Brusaferro, coordinatore allora del Cts, al ministro Speranza. Solo gli adolescenti svedesi si sono salvati da questa prolungata limitazione delle libertà. Non se ne parla perché, avendo ottenuto poi la Svezia, la minore mortalità in eccesso in tutta Europa dal 2021 al 2024, si dovrebbe ammettere che quelle scelte furono sbagliate, in particolare, per i nostri adolescenti.

C’è poi il contesto di guerre continue, per gli europei anche vicino a casa, e un orizzonte in cui non si intravvedono quei possibili progressi sociali e quei valori umani che animavano le generazioni precedenti e che sono stati anche alla base dello sviluppo eccezionale nei primi 30 anni del dopoguerra, all’insegna di più uguaglianza e più welfare. Più che un mondo multiculturale, più fraterno, più ugualitario, con maggiore welfare le parole che si sentono nel nostro ricco Occidente, sono quelle di perdita di competitività, perdita di produttività, lotta per non perdere il dominio sul mondo, mentre prosegue l’impoverimento sia economico che di valori e il declino delle nostre comunità. Senza considerare i rischi di un conflitto nucleare sempre più vicino per evidenti interessi legati al Dio quattrino.

In questo contesto la scuola potrebbe essere l’agenzia culturale fondamentale che supporta i nostri giovani. Invece naviga indifferente come un Titanic verso un gigantesco iceberg. Il precedente ministro Bianchi aveva lanciato le parole d’ordine di Costituzione, sostenibilità ambientale, cittadinanza digitale, inclusività, scuola affettiva. “Temi più in sintonia con lo spirito del tempo -scrive Carlo Verdelli su Il Corriere della Sera del 10.9.2024- ma rimasti sulla carta”. Il nuovo ministro Valditara ha tolto (giustamente) i cellulari a scuola fino alle medie inferiori (come altri Governi, Gran Bretagna in testa), chiede di tornare a scrivere sul diario, a fare i compiti a casa, idee giuste ma troppo piccole che non sono in grado di cambiare l’impianto di una scuola sempre più afflitta da procedure formali e che vede gli studenti “incatenati” al banco per oltre 30 ore alla settimana col cellulare sotto il banco in attesa di sms o di consultarlo appena possibile. Per non dire di quelle moltissime classi alle superiori che hanno metà studenti (8-10-12 su 20-25) indisponibili a seguire le lezioni ex cathedra, da cui un abbassamento pauroso dell’apprendimento per tutta la classe, essendo impegnato il docente a tenere un minimo di “ordine pubblico” più che a insegnare.

Docenti che, senza risorse aggiuntive, scappano (chi può) dalle scuole più periferiche e turbolente in quanto impotenti di fronte ad un fenomeno di “scarsa disponibilità a seguire le lezioni” che dovrebbe essere al centro del confronto pubblico, anziché relegato ai margini.

Io insegno Economia e Scultura in un liceo di scienze umane (ad indirizzo Steiner) di Trento. I nostri allievi sono di fatto “selezionati” in quanto chi viene apprezza la pedagogia steineriana che si alimenta di una enorme quantità di apprendimenti da Sperimentazione con laboratori vari (forestazione, dove si sta per una settimana nel bosco a lavorare coi forestali-, pittura, scultura, modellaggio, battitura del rame, cesteria, tessitura, falegnameria e i numerosi viaggi d’arte in Italia), che integrano le materie da Istruzione (lettere, scienze umane, storia, geografia, astronomia, inglese, tedesco, matematica, fisica, economia), svolte partendo dal vissuto degli adolescenti. Nonostante ciò e pur avendo classi piccole (in media 10-18 studenti) anche noi abbiamo spesso 2-3 ragazzi (spesso maschi) per classe che faticano a “stare sul banco” tante ore, nonostante ci siano lezioni molto partecipate (capovolte, a coppia, etc.). Ecco perché quest’anno faremo una sperimentazione in cui sarà offerto agli studenti meno “tagliati” a “scaldare la sedia” un percorso che li vedrà impegnati per 2-4 ore alla settimana in attività manuali e artistiche (al posto delle ore in aula). I primi risultati sono incoraggianti: gli studenti che svolgono tali lavori manuali sono molto motivati e chi rimane in classe è meno “disturbato” e le lezioni sono più fruttuose. Per fare questo occorrono risorse aggiuntive (sia economiche che di persone competenti). E mi chiedo: “come fanno quelle scuole dove in classe ci sono 25 studenti di cui la metà non vuole studiare?” Questo è il grande problema della scuola italiana. Non si vuole vedere ciò che sta accadendo perché sarebbero necessarie più risorse (soldi e docenti), come ha fatto la Finlandia che ha introdotto la falegnameria al liceo, perché lavorando anche con le mani gli studenti accrescono le loro capacità non solo manuali, ma di connessione neuro-cerebrale e di autostima nel creare. Avete idea di quanto costa avere un’aula aggiuntiva dedicata alla falegnameria tra banchi, attrezzatura per 20 studenti e relativo esperto? Ecco perché non se ne parla, nessuno vuole vedere il Titanic che va verso l’iceberg, né si vogliono tirare fuori i soldi che servono. Per le armi si trovano, ma non per le scuole. La maggioranza poi dei genitori anziché chiedere una scuola diversa, chiede solo che il proprio figlio/a non sia bocciato. E infatti non si boccia quasi più nessuno. Così chi è di famiglia ricca userà le proprie relazioni per “piazzare” al lavoro il proprio figlio/a, gli altri si arrangeranno. Un salto indietro alle condizioni della prima metà del Novecento, quando solo pochi studiavano. La scuola di massa infatti, se non è qualificata non consente di premiare i “meritevoli”, al di là della famiglia di origine, com’è stato per noi anziani nella seconda metà del secolo scorso.

 

Photo cover: Officine Meccaniche Becherini, falegnameria interna. Wikimedia Commons.

NON È MALTEMPO, È CRISI CLIMATICA
Verso la manifestazione regionale del 26 ottobre a Bologna

NON È MALTEMPO, È CRISI CLIMATICA .
Verso la manifestazione regionale del 26 ottobre a Bologna

In molti, tra tecnici e politici, avevano spergiurato che i fenomeni alluvionali verificatisi in particolare in Romagna nel maggio 2023 avevano caratteristiche del tutto eccezionali e che capitavano ogni 100-200 anni. Non ho, ovviamente, alcun compiacimento nel vedere come, purtroppo, queste previsioni si sono dimostrate del tutto fallaci, guardando a ciò che è successo in Romagna, in Appennino e anche in altri territori italiani nei giorni scorsi.
Ormai è sempre più evidente come i pesanti fenomeni alluvionali (e poi, ragionamento specifico, ma analogo, si potrebbe fare per quelli sciccitosi) sono il prodotto congiunto del cambiamento climatico, dello sfrenato consumo di suolo e dalla mancata prevenzione e contrasto rispetto al dissesto idrogeologico. Cambiamento climatico che fa sì che si alternino in modo sempre più ravvicinato precipitazioni intense e irregolari e aumento delle temperature dell’aria e dei mari. Consumo di suolo che significa, contemporaneamente, impermeabilizzazione dello stesso ed edificazione diffusa e in aree improprie. Mancato contrasto al dissesto idrogeologico, che comporta l’amplificazione dei rischi in territori già di per sé fragili.

A questo riguardo, per stare all’Emilia-Romagna, i dati sono impietosi: solo per esemplificare, secondo l’ultimo rapporto di Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione la Ricerca Ambientale, lEmilia-Romagna risulta essere la quarta regione in Italia per consumo di suolo netto nel 2022 rispetto al 2021: 635,44 ettari di suolo perso e il valore relativo al 2022 è superiore dell’8% alla media delle ultime sei annualità.
Tra il 2020 e il 2021 l’Emilia-Romagna è stata la terza Regione del Paese per consumo di suolo, più 658 ettari cementificati in un solo anno, pari al 10,4% di tutto il consumo di suolo nazionale. L’80% di questa superficie riguarda aree a pericolosità idraulica,
dove è alto il rischio di esondazioni. Inoltre si consuma suolo nelle aree protette (+2,1 ettari nel 2020-2021), nelle aree a pericolosità di frana (+11,8 ettari nel 2020-2021) e nelle aree alluvionali, dove l’Emilia-Romagna registra purtroppo un record nazionale.

A fronte di questa situazione, si rimane costernati, per usare un eufemismo, dalla volgare strumentalizzazione elettorale messa in campo dal governo, ad alluvione ancora in corso, rispetto all’individuazione delle responsabilità addossate unicamente alla Regione Emilia-Romagna. Come, d’altro canto, è debole e insufficiente la risposta data da quest’ultima, nel momento in cui si è sostanzialmente limitata a denunciare quest’atteggiamento governativo.

Chi ha responsabilità di governo nazionale e regionale dovrebbe sentirsi in dovere di dare un riscontro preciso alle popolazioni colpite ben 3 volte in quest’ultimo anno e mezzo, offrire un resoconto preciso delle risorse stanziate e degli interventi realizzati, ciascuno per la propria parte di competenza.

In ogni caso, non si può continuare a stare a guardare e chiedere semplicemente ai governi nazionali e regionali di chiarire le azioni da loro messe in campo.

E’ a partire da qui che numerose realtà ambientaliste e sociali della nostra regione, iniziando da RECA ER (Rete Emergenza e Climatica e Ambientale ER), insieme a Comitato Besta BO, Comitato contro ogni autonomia differenziata ER, Confederazione Cobas BO, Legambiente ER, Parents for future BO, Un altro Appennino è possibile, USI CIT BO, PR. MO e RE, hanno deciso di promuovere un’importante manifestazione regionale sulle questioni ambientali a Bologna per il pomeriggio di sabato 26 ottobre.

Ci ripromettiamo di rendere evidente, oltre all’inaccettabile negazionismo del governo, che fa il paio con le volontà repressive di colpire qualunque forma di dissenso, come fa il disegno di legge 1660 sulla “sicurezza”, anche la forte assenza e le politiche sbagliate prodotte dalla Regione Emilia-Romagna su questo terreno.

Esemplificativo, prima di tutto, è il magnificato Patto per il lavoro e il clima del 2020, che ha visto l’opposizione di RECA ER sin dall’inizio e, poi, anche il ritiro della firma da parte di Legambiente ER poco più di un anno fa. A distanza di pochi anni non si può non vedere come esso sia andato incontro ad un deciso fallimento, rivelandosi, da una parte, come un “ libro dei sogni” senza essere supportato da iniziative concrete e, dall’altra, come foglia di fico che ha legittimato scelte che hanno continuato a procedere in direzione contraria rispetto al contrasto al cambiamento climatico e alla necessità della transizione ecologica.

Basta pensare, ad esempio, al fatto che, rispetto ad uno degli obiettivi più importanti definiti a parole nel Patto per il lavoro e il clima, e cioè il raggiungimento del 100% sui consumi finali di energia da fonti rinnovabili, nel 2023 siamo solo al 23%, oppure all’aver assecondato le politiche governative basate sul rilancio dell’utilizzo del gas, con la realizzazione del rigassificatore di Ravenna, continuato con un’idea di mobilità fondata sul trasporto privato su gomma (vedi il Passante di mezzo a Bologna), proseguito nella privatizzazione dei beni comuni, a partire dal ciclo dei rifiuti e dall’acqua, prorogando tutte le gestioni esistenti fino alla fine del 2027, che si è risolto, nella sostanza, nel fare un grande favore alle multiutilities Hera e Iren.

Potrei continuare su questo piano, ma, a riprova, è sufficiente vedere come vengono presentati i risultati del predetto Patto per il lavoro e il clima nella pagina web della Regione ad esso dedicata. Lì campeggiano, prima di ogni altro dato, tutte le buone prestazioni dell’Emilia-Romagna in termini di sviluppo quantitativo (PIL + 4,7% rispetto al 2019, export + 8,1% sempre rispetto al 2019, apertura internazionale + 4,1%), indicatori che, com’è noto, non significano nulla, se non persino possono essere peggiorativi, in relazione all’approntamento di politiche efficaci dal punto di vista ecologico, orientate a perseguire un miglioramento della qualità della vita e dell’ambiente in cui siamo immersi. E, infatti, quando si arriva alla presentazione dei dati più specifici alla transizione ecologica, si vedono, accanto a omissioni, quanto i risultati siano modesti.

La manifestazione regionale del 26 ottobre, peraltro, non vuole semplicemente indicare la necessità di una svolta radicale per invertire le politiche sbagliate sinora condotte dalla Regione sui temi ambientali, ma intende prefigurare anche le scelte alternative che si tratta di mettere in campo e che, appunto, investono l’insieme del modello produttivo e sociale dominante, visto la connessione stretta esistente con lo stesso.
Parliamo
di avviare l’uscita dall’economia del fossile, a partire dalla messa in discussione del rigassificatore di Ravenna, del CCS e del gasdotto, per realizzare più rapidamente possibile il passaggio al 100% di energia prodotta da fonti rinnovabili; di difesa, ripubblicizzazione ed estensione dei beni comuni, iniziando dall’acqua e dal ciclo dei rifiuti; di una moratoria su tutte le opere che prevedono ulteriore consumo di suolo, con particolare riferimento ai poli logistici, e invece della messa a punto di un programma serio di rinaturalizzazione dei corsi d’acqua, di riassetto idrogeologico e di tutela del verde; di radicale rivisitazione della legge regionale in materia di consumo di suolo e uso del territorio; della ridiscussione delle grandi opere stradali in rapporto ad un’idea alternativa di mobilità, fondata sul rilancio del trasporto collettivo e di quella ciclabile e pedonale.

E altro ancora che va nella medesima direzione, dal fermare nuovi impianti a fune volti a sostenere lo sci da discesa e nuove piste da sci alla ridiscussione degli assetti aeroportuali e allo stop definitivo all’espansione degli allevamenti intensivi.

Infine, ovviamente, facciamo riferimento alla necessità di approvare le 4 leggi di iniziativa popolare regionale promosse da RECA ER e Legambiente ER e sottoscritte da più di 7000 cittadini emiliano romagnoli in tema di acqua, rifiuti, energia e stop al consumo di suolo che, nonostante siano state presentate alla fine del 2022 e siano trascorsi più dei 18 mesi entro i quali esse dovevano essere discusse dall’Assemblea regionale, sono state praticamente ignorate dalla discussione politica regionale.

Un momento di riflessione e confronto: Bologna, 5 ottobre, ore  9,00 – 17,00

Questo fa emergere anche un problema di democrazia, e, in particolare, di quelle forme che prevedono l’attivazione diretta delle persone e dei soggetti sociali operanti nel territorio e che ha spinto le realtà che, in questi anni, si sono cimentate in questi percorsi a promuovere un importante momento di riflessione e proposte il 5 ottobre a Bologna (vedi sotto programma definitivo)

Ho ben chiaro che la manifestazione del 26 ottobre si svolgerà nel pieno della campagna elettorale delle prossime elezioni regionali – ed è una scelta voluta di collocarla in questo contesto. Ancora una volta, a parte l’impegno della lista di sinistra Emilia-Romagna per la pace, l’ambiente e il lavoro, sembra emergere che le forze politiche maggiori, di centrosinistra e di destra, siano animati più da logiche di collocazione e schieramento politico piuttosto che da una discussione reale sui contenuti e sulle scelte che si intendono compiere per il futuro, su cui, in particolare per quanto riguarda le politiche regionali, non sembrano portatrici di visioni realmente alternative. Persino il tema che finora sembra essere maggiormente al centro della discussione, quello relativo alla sanità, non presenta queste caratteristiche, visto che sia il centrosinistra che la destra, al di là dei tatticismi del voto parlamentare in Europa, si ritrovano nel condividere il nuovo Patto di stabilità dell’UE, che prevede per i prossimi 7 anni austerità e taglio alle spese sociali.

Ma, proprio per questo, serve far sentire la voce delle persone, dei soggetti sociali e politici che propongono il tema di costruire un modello produttivo e sociale alternativo a quello dominante anche in Emilia-Romagna, a partire dall’esplicitazione dei contenuti su cui esso si può costruire. Da questo punto di vista, l’affermazione di un nuovo paradigma sulle scelte da compiere sui temi ambientali ( e non solo) diventa un banco di prova importante e una forte partecipazione alla manifestazione regionale del 26 ottobre può utilmente rafforzarla.

Per vedere tutti gli articoli e gli interventi di Corrado Oddi su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

In copertina: Il Senio esondato allagando le campagne di Cotignola (RA), settembre 2024 (foto Condifesa Ravenna)

Donne in carcere.
Caratteristiche di un piccolo universo

Donne in carcere. Caratteristiche di un piccolo universo

Il numero di donne detenute nelle carceri italiane costituisce una piccola percentuale della popolazione carceraria nazionale. Nelle nostre carceri oltre il 95% dei detenuti sono maschi e solo il restante 5% appartiene al genere femminile (il dato si riferisce alla tendenza media degli ultimi dieci anni, con oscillazioni minime che possono essere attribuite a ogni singola annualità).

Il problema è quindi prevalentemente maschile e il genere delimita caratteristiche ben precise delle modalità di delinquere, dei modelli di vissuto legati alla pena, degli stili di comportamento in carcere, della qualità della vita riacquisibile una volta scontata la detenzione.

In questo caso il “disagio sociale” è maggiormente legato al genere maschile e proprio in questo segmento di popolazione si trovano coloro che hanno maggior bisogno di interventi riparativi, riadattivi, rieducativi. Il supporto al disagio si interseca con il tema della “pari opportunità per tutti”, compresi i suoi corollari di pari dignità e rispetto dei diritti umani, accompagnando le riflessioni con apporti contenutistici importanti.

Inoltre, la questione della riorganizzazione nella vita libera una volta scontata la pena, interfaccia il tema del reinserimento lavorativo e la necessaria capacità di costruire e mantenere relazioni comunitarie accettabili.

Come in tutti i fenomeni che hanno una forte rilevanza sociale e che traggono da essa alcune caratteristiche e alcune possibili motivazioni, la conoscenza possibile è pluridisciplinare e la complessità del fenomeno aumenta all’aumentare dell’esperienza diretta che in questo contesto è possibile agire. È proprio di fronte a questo problema che i paladini delle P.O. invece che occuparsi di donne devono evidentemente occuparsi di uomini.

Dopo questa premessa, appare però rilevante il fatto che le donne in carcere sono spesso dimenticate. L’attenzione delle amministrazioni è da sempre rivolta prevalentemente al genere maschile che è di gran lunga preponderante, non solo per numerosità complessiva, ma anche per “spessore criminale” (gravità del reato commesso). È inoltre noto che la ricerca contemporanea sul diritto penale e sul carcere ha ignorato le donne, concentrandosi prevalentemente sui maschi.

Alla fine di febbraio 2024 le donne in carcere erano 2.611, pari al 4,3% della popolazione detenuta totale, una quota che negli ultimi decenni ha visto solo piccole oscillazioni. (Antigone – Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione).

Le carceri interamente femminili sul territorio italiano sono quattro (Roma, Venezia, Pozzuoli e Trani), mentre le restanti sono miste. A febbraio 2024 vi erano recluse 646 donne, di cui 366 al Rebibbia-femminile di Roma, il carcere per donne più grande d’Europa.

A questi spazi si aggiungono inoltre i tre ICAM (Istituti a custodia attenuata per madri) attualmente in funzione, a Milano, Torino e Lauro (Avellino). Gli ICAM sono strutture costituite in via sperimentale nel 2006 per consentire alle detenute madri, che non possono usufruire di alternative alla detenzione in carcere, di tenere con sé i loro figli. In essi sono recluse complessivamente 12 donne con i loro figli.

Le detenute transessuali, che sono circa 70 nelle carceri italiane, vengono collocate dall’Amministrazione Penitenziaria secondo il loro sesso biologico, ma vengono tenute separate dal resto della popolazione reclusa. Il tema delle detenute transessuali è impegnativo e la loro necessaria tutela in carcere è un terreno che necessita di investimento e miglioramento.

Considerando il fatto che la popolazione penitenziaria è spesso portata ad accanirsi contro le minoranze di qualunque natura esse siano e indipendentemente dalle modalità di segmentazione identitaria a loro attribuite, la tutela delle transessuali rientra a pieno titolo nei doveri di ciascun ente penitenziario. Tutte le minoranze sociali che si distinguono per processi identitari autonomi e/o sessualmente fondati sono facilmente bersaglio di discriminazione. Gli esempi sono molteplici e ognuno di noi ne conosce almeno alcuni.

Uno dei problemi più annosi legati alla permanenza in carcere delle donne è quello della contemporanea permanenza in carcere dei loro figli. Ai bambini è consentito di vivere con la madre solo i primi anni di vita, ad eccezione di specifiche circostanze. Complessivamente, tra ICAM e sezioni nido di carceri, 19 donne vivono attualmente in carcere con i loro 22 bambini. Erano 20 con 20 bambini al 31 dicembre 2023, quando le detenute incinte erano 12 (sempre dati Antigone). Il numero dei bambini in carcere è fortemente diminuito negli ultimi anni.

La consapevolezza da parte della magistratura del pericolo che il Covid-19 poteva costituire per i bambini ha fatto sì che, senza cambiamenti normativi, si applicassero le leggi già esistenti al fine di farli uscire dal carcere. L’applicazione capillare della normativa ha diminuito di molto il numero dei bambini che vivevano in carcere con effetti (solitamente) positivi per i bambini e (solitamente) negativi per le madri.

Non si conoscono approfonditamente le conseguenze sullo sviluppo che può aver causato la permanenza in carcere per la prima parte della vita, così come si conoscono solo in parte le conseguenze che possono verificarsi su bambini e adolescenti che sono stati separati da uno o entrambi i genitori.

Esistono studi che hanno portato a ritenere che la sofferenza che accompagna bambini che vivono questo tipo di esperienza, presenta delle caratteristiche da non sottovalutare. Secondo René Spitz (1887 – 1974) psicoanalista austriaco tra i primi che hanno utilizzato l’osservazione, concentrandosi sullo sviluppo del bambino e sottolineando gli effetti della deprivazione materna ed emotiva, “i bambini senza amore diventano adulti pieni di odio“.

Spitz sostiene che nei bambini che hanno subito l’esperienza del carcere e la successiva separazione dalla madre nei primissimi anni di vita, esiste un rischio di devianza superiore alla “norma”. “…l’unica strada che rimane loro aperta è la distruzione dell’ordine sociale di cui sono vittime”. (Renè Spitz, The first year of life a psychoanalytic study of normal and deviant development of object relations – Intl Universities Pr Inc).

La detenzione comporta deprivazione affettiva, relazionale e sensoriale. Delimita gli spazi, li chiude, scandisce il tempo in modo rigido e innaturale. Il bambino subisce la rarefazione dei contatti e l’isolamento. Tutto ciò rischia di compromettere uno sviluppo equilibrato e sereno. Molti bambini manifestano ansia e depressione.

Ma il problema ha anche il rovescio della medaglia: come può una madre continuare a vivere in carcere dopo che suo figlio le è stato tolto dall’istituzione e affidato, di fatto, alla rete parentale che si occuperà della sua educazione? Si interrompe improvvisamente un rapporto affettivo, che lo si voglia o no.

Le conseguenze sulla madre sono sicuramente significative, tranne quei pochi casi in cui le caratteristiche di una personalità che delinque siano associate a uno stato di inaffettività radicale o le condizioni psico-fisiche della detenuta siano profondamente alterate.

E quindi cosa fare? Nessuno ha la soluzione magica a problemi così annosi che interferiscono in maniera radicale con la vita delle persone, ma l’attenzione verso questa situazione deve essere massima, come sempre dovrebbe succedere quando si tratta di tutelare un minore e, contemporaneamente, una persona adulta in situazione di grave disagio.

La vita di un delinquente prevede per il suo recupero sia il sostegno delle istituzioni che la precisa volontà della persona di non commettere più reati, è evidente come questo non abbia alcun corrispettivo nelle capacità di capire e comprendere di un bambino.  Rispetto alla questione del rapporto tra genitorialità e privazione della libertà, non è di certo positiva la perdita di vigore del dibattito sulle pene alternative, quali la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali e la semilibertà.

Per le donne che non presentano profili di pericolosità alti, è infatti prevista anche la possibilità di risiedere in Case-famiglia protette, che, al contrario degli ICAM, sono delle strutture private, non penitenziarie, veri e propri appartamenti in cui la madre può stare con il suo bambino.

La legge 62/2011 ha tuttavia istituito le Case-famiglia protette senza prevedere oneri per lo Stato, ragion per cui, in assenza di fondi, le Case-famiglia attive in Italia sono pochissime. Si coglie così il paradosso del carcere riabilitativo. Così sosteneva Mary Belle Harris, una delle più importanti sostenitrici dei riformatori femminili dell’inizio del secolo scorso: “Come si può insegnare a esseri umani in cattività a vivere una vita da liberi e da libere?”.

In questi giorni con 163 voti favorevoli, 116 contrari e due astenuti è stato approvato l’articolo 15 del decreto sicurezza: per le donne incinte e per le madri con figli entro l’anno di età, non è più obbligatorio il rinvio della pena, ma facoltativo.

“L’art. 146 del Codice penale prevede il rinvio obbligatorio della pena detentiva nel caso di una donna incinta o di una madre di un bambino di età inferiore a un anno”, dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “L’interesse superiore del minore è, in tutta evidenza, di vivere fuori dal carcere e non è necessaria una valutazione individuale per stabilirlo. Dal primo al terzo anno di vita del bambino, la decisione di differire o meno la pena viene lasciata alla valutazione del giudice. Il nuovo articolo elimina il rinvio obbligatorio della pena creando così un vulnus intollerabile dal sistema giuridico, sociosanitario e pedagogico per il minore”.

Davvero un grave problema quello dei bambini in carcere e davvero un grave problema la sofferenza causata alla madre quando il bambino viene allontanato. Una situazione che, oltre all’allertamento di tutte le vie istituzionali, dovrebbe, più di quanto fa, suscitare l’attenzione di chi per competenza e/o mandato, si trova nelle condizioni di poter far qualcosa.

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