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LA FOTONOTIZIA
Buon 25 aprile!

Anche a Ferrara il 25 aprile, la Festa della Liberazione, è stata un’occasione per ritrovarsi insieme, faccia a faccia, i momenti nei quali, dopo anni di dittatura e di guerra, il nostro Paese è tornato ad essere libero e democratico: un passaggio sancito definitivamente poi dal referendum del 1946 e dalla elaborazione e approvazione della nostra bellissima e ancora più che attuale Carta Costituzionale.
Attuale, perché non ancora attuata fino in fondo, perché sancisce valori che non possiamo far ‘passare di moda’, perché per costruire un futuro di speranza, bisogna andare con la memoria a quegli anni in cui si è usciti finalmente da anni di paure e sospetti.

Il nostro Valerio Pazzi ha seguito ‘LiberAzione’, lo spettacolo teatrale che è ormai appuntamento consueto del 25 aprile ferrarese, e il concerto che è seguito, con la partecipazione del Coro delle mondine di Porporana Yoruba.

Clicca sulle immagini per ingrandirle.

Fascismo è il contrario di libertà: Resistenza per un mondo senza oppressi né oppressori

di Cristiano Mazzoni

Ha ragione signor Ministro, lei col 25 aprile non c’entra niente. Noi il 25 aprile del 1945 abbiamo vinto, abbiamo abbattuta la dittatura nazi-fascista, lei signor ministro ha perso. Giusto, vada a festeggiare la più bella festa dell’anno a Corleone o a Cinisi. Le ricordo però che “Cosa Nostra”, odiava realmente solo un partito, il mio, non il suo. La mafia dalle origini pasteggia con lo Stato, e coi padroni del vapore, il prefetto Mori inviato da Mussolini, ottenne in realtà dei risultati, che sparirono appena il prefetto lasciò l’isola, e “l’onorata società” aderì in blocco al fascismo.
Quindi, signor ministro lei fa assolutamente bene a non festeggiare, l’antifascismo, non è roba per lei. I nostro nonni combatterono e morirono in montagna e nelle valli, nelle città, nei paesi e nei borghi, i nostri padri fronteggiarono la Celere di Scelba, rivisitazione post fascista del sopruso e della violenza dopo la guerra, noi siamo i discendenti di quei combattenti, di quei giovani che credettero in un mondo migliore, quello stesso mondo che lei ora divide per razze e racchiude entro muri.
La Costituzione repubblicana è figlia di quel 25 Aprile, lo sviluppo, le lotte sindacali, i diritti comuni, la libertà, rinacquero quel giorno.
In Italia per vent’anni – lunghi e bui anni – la dittatura con l’arma del ricatto e della violenza, pasteggiò con le anime dei morti in guerra, dei morti a causa delle leggi razziali, dei morti fucilati, o picchiati in seguito alle scorribande delle camice nere.
E no, non fece anche del buono signor ministro, legga meglio, si informi, Inps, Inail, pensioni, diritto di voto iniziarono prima il loro percorso e lo finirono dopo la guerra, sempre grazie a noi.
Certo, infrastrutture e bonifiche vennero fatte, ma nello spirito di una finta autoreferenzialità, per dimostrare quanto la dittatura fosse potente.
I morti, signor ministro non furono tutti uguali, durante la guerra civile, da una parte i patrioti, dall’altra quelli che vendettero l’Italia allo straniero, che la condussero in guerra, che causarono centinaia di migliaia di morti, altroché qualche migliaia “per sedersi al tavolo delle trattative”.
Il revisionismo oramai ha contagiato l’intero Paese e lei signor ministro ne è l’espressione massima.
Fascismo, non è il contrario di comunismo, è il contrario di libertà
E poi smettetela di affiancare una teologia del sopruso e della forza, quale fu il fascismo ed il conseguente nazismo, con l’ideale che Marx teorizzò nel Manifesto e nel Capitale.
Libertà contro oppressione, finitela di tirare in ballo Stalin e Pol Pot, i dittatori sono tutti uguali, le idee e le ideologie no. Le brigate Garibaldi, le brigate di Giustizia e Libertà, le Brigate Bianche, liberarono l’Italia spargendo il loro sangue giovane sulle baionette degli oppressori, non era un derby, signor ministro.
Per me l’unico derby è quello col Bologna, la liberazione d’Italia fu la speranza di un popolo oppresso che spezzò a forza le proprie catene, come è possibile dimenticarlo?
Il mio cuore il 25 Aprile sarà ovunque un fiore rosso indichi il luogo del martirio di un partigiano, perché la Resistenza per noi non è un semplice esercizio della memoria, ma un punto di arrivo, nella infinita ricerca di un mondo migliore, senza oppressi e né oppressori.
E lei signor ministro, fa bene a non festeggiare la nostra festa, si mangi un buon piatto di bucatini, perché lei con gli ideali della resistenza, davvero, non c’entra nulla. Ora e sempre, resistenza.

BORDO PAGINA – Franco Cardini
“Noi schiavi della ‘ruota dei dannati’: produzione-consumo-profitto”

Cardini, la sua produzione/ricerca è da sempre politicamente scorretta: per fortuna nessuno discute la sua autorevolezza, tuttavia spicca anche certo andazzo, spesso è bollato di pensiero reazionario, ci pare per questioni meramente ideologiche… Perché in Italia l’Ideologia è come una “religione”e subordina la Cultura?
Di solito a sinistra mi bollano come reazionario, se non come fascista (termine ormai divenuto incomprensibile dato il suo ingiustificato abuso); a destra mi danno del comunista e/o del filoislamico. A chiunque mi chieda se io sia l’una o l’altra cosa, io rispondo di solito “faccia lei”. A giudicare dalla Sua domanda, Lei si riferisce evidentemente a critiche “da sinistra”: se non altro la sinistra, pateticamente, polemizza ancora su cose che essa definisce “cultura”. Mi pare commovente.

Cardini, Lei ha liberato il cosiddetto Medioevo da secoli bui di pensiero unico Illuminista e da certi stereotipi: tuttavia non è ancora pensiero comune o intellettuale. Orwell il suo famoso libro l’ha in realtà scritto nel 1384?
Orwell il suo libro lo ha scritto esattamente quando doveva scriverlo, solo che è partito da un’intuizione geniale ma sbagliata di 180 gradi. Il futuro totalitario ch’egli immagina è tale in termini che sono fantanazisti o fantastalinisti; come avrebbe mai potuto immaginare, ai suoi tempi, un totalitarismo liberal-liberista, una tirannia fondata sul “pensiero unico” e sul politically correct? Ciò rischia di superare ancor oggi, perfino oggi mentre ci stiamo in mezzo,qualunque immaginazione.

Cardini, il “futuro anteriore” a spirale.. e non “lineare” che Lei ha scoperto (certo cosiddetto Medio Evo precursore proprio del Rinascimento e della cosiddetta modernità- ma anche certo Islam e/o pensiero arabo- Avicenna ecc… ben diversi da certa realtà e/o percezione contemporanea) nella sostanza (succintamente) non rigenera anche il “modernismo” contemporaneo dopo certa tabula rasa di certo Grande Passato del “postilluminismo”, liberandolo dalle sue contingenze e fanatismi “storici”.
Nel “futuro anteriore” a spirale c’è un elemento incontrollabile: la variante “imponderabile”, come diceva Pareto; o lo Ezba Elohim, il “dito di Dio”, come nella Bibbia dicono i sacerdoti-maghi al Faraone dopo il prodigio della verga di Mosè mutata in serpente.

Cardini, un breve sguardo sul futuro, come “capta” l’anno… 2100?
Anzitutto, con realistica malinconia, come un orizzonte che non potrò vedere: e me ne dispiace, perché credo sarebbe interessante. Diciamo comunque che “capto” il futuro in modo analogo a come lo “captano” Chomsky, Latouche e Stiglitz: o ci liberiamo dalla “ruota dei dannati” produzione-consumo-profitto che tra XVI e XX secolo ha spinto l’Occidente ad asservire la terra ai suoi progetti di arricchimento e di progresso tecnologico-scientifico illimitato, se non recuperiamo la cultura del limite e il senso del limite, al XXII secolo non ci arriveremo o ci arriveranno in pochissimi, come miserabili superstiti di una qualche catastrofe (è umanamente considerabile come verosimile che la terra rigurgiti di testate nucleari e nessuno le usi mai, o mai accada un errore di gestione, un banale incidente?); dopo di che tutto potrebbe ricominciare da capo per alcuni altri millenni, non so… Ma non è detto: l’uomo propone, poi Dio dispone: e allora, quando ci sentiamo forti, sicuri, inarrestabili, arrivano sempre gli unni, o i mongoli, o la Peste Nera.

Link:
https://www.francocardini.it/
https://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Cardini

Per non rimpiangere il patrimonio dell’umanità

1666 non è un richiamo ad un personaggio satanico, ma è l’anno in cui il Grande Incendio sconvolse l’architettura e la topografia di Londra determinando la fine anche della grande peste. Da ieri Parigi deve rimpiangere la perdita di Notre-Dame. Mentre sto scrivendo, il personale del Museo Nazionale del Brasile di Rio de Janeiro sta passando in rassegna i resti recuperati dall’incendio avvenuto il 2 Settembre 2018. Alcuni di loro hanno rischiato la vita per salvare oggetti preziosi mentre l’inferno ancora imperversava. Il Museo, fondato nel 1818, custodiva circa 20 milioni di oggetti rappresentanti il patrimonio geologico, biologico, archeologico e storico del Brasile. La perdita per i brasiliani è incalcolabile ed irrimediabile, ma il danno è anche per l’intera umanità. L’eredità della conoscenza contenuta nelle collezioni museali apparteneva a tutti noi. Ciò che è particolarmente sconvolgente è che la distruzione era prevedibile. Il museo ha sofferto per decenni di abbandono ed il sistema antincendio era completamente obsoleto. I costi per mantenere adeguatamente il museo erano una frazione infinitesimale dell’incredibile somma spesa per le recenti Olimpiadi. Le Olimpiadi sono durate poche settimane. Il museo, più antico del riconoscimento della Repubblica Federale del Brasile (1825), avrebbe dovuto sopravvivere per i secoli a venire. Così quanto Notre-Dame e tutte le altre cattedrali e musei al mondo.
La perdita del Museo Nazionale del Brasile è appena l’ultimo di una serie di recenti ed irreparabili danni al nostro patrimonio culturale. Il Museo Nazionale dell’Iraq è stato saccheggiato e pesantemente danneggiato durante la guerra del 2003. Lo stesso è successo per il Museo Nazionale dell’Afghanistan da quando è iniziata l’invasione russa durante gli anni ’80. E poi tutti i siti archeologici distrutti in Siria.
Una simile distruzione, a scala inferiore, avvenne a Chicago. Il palazzo originale, le collezioni e la biblioteca dell’Accademia delle Scienze di Chicago, il museo più antico della città, furono distrutti dal grande incendio del 1871. L’Accademia venne ricostruita e le sue attuali collezioni naturalistiche di incalcolabile valore scientifico rappresentano molte specie di organismi oggi estinti nella regione di Chicago.
Tutti i nostri musei, piccoli o grandi, e le relative biblioteche sono depositi del patrimonio della nostra regione, della nazione e del Mondo. I nostri musei sono molto più di un’attrazione (e richiamo turistico) per una mostra sui dinosauri o su Leonardo Da Vinci. Nascoste alla vista ci sono collezioni molto più grandi che documentano la portata della consapevolezza umana del mondo naturale e culturale. Le minacce ai nostri musei non sono solo il fuoco o le inondazioni, ma anche l’erosione della base di conoscenze posseduta dai curatori, gli specialisti nei contenuti delle collezioni e del loro valore scientifico.
Molti musei stanno soffrendo difficoltà economiche. Alcuni piccoli musei stanno chiudendo, altri riducono il personale. I fondi destinati ai musei civici, nazionali ed universitari si riducono sempre più. Negli Stati Uniti, ad esempio, i fondi destinati ai musei si sono ridotti notevolmente. Nel 2000 la città di Chicago finanziava il Field Museum con 7.4 milioni di dollari che sono diventati 5.4 nel 2013, somma mai più modificata. La perdita dei curatori scientifici è poi patologica anche per il famoso Smithsonian National Museum of Natural History di Washington D.C. Ci sono responsabili delle collezioni, ma non curatori scientifici. La perdita dei curatori significa che, mentre le collezioni possono essere mantenute, non c’è nessuno addetto ad implementarle, aggiornarle o utilizzarle pienamente. Uno studio appena pubblicato  suggerisce che nelle collezioni museali paleontologiche ci sono almeno 23 volte più località fossilifere che non località presenti nella letteratura scientifica pubblicata. In altre parole, per ogni dato scientifico ricavato, per esempio, da un esemplare fossile ben studiato ed esposto in una sala del museo, ci sono altri 23 dati scientifici in attesa di essere scoperti negli oscuri magazzini dell’istituzione museale. Sospetto fortemente che lo stesso sia vero per gli insetti, le piante, gli uccelli e tutti gli altri oggetti nascosti sugli scaffali dei musei e nelle cassettiere. Lo stesso fenomeno avviene anche nei musei archeologici e d’arte. Senza un personale adeguato queste collezioni, definite black data, non saranno mai descritte scientificamente ed in caso di disastro (e.g., terremoti, inondazioni, incendi) saranno perse per sempre.
I nostri musei sono la registrazione materiale diretta delle conoscenze scientifiche, tecniche e culturali nel tempo. Sono anche la prima esposizione alle meraviglie della Scienza e dell’Arte per molti bambini e rimangono una fonte di meraviglia e bellezza per gli adulti. Per non rimpiangere la loro perdita meritano ed hanno bisogno di essere supportati e protetti per continuare ad acquisire, catalogare, conservare, ordinare ed esporre beni culturali.

PER CERTI VERSI
Il gomitolo di fuoco, Notre Dame

Povera Notre-Dame
In un bailamme
Di fuoco e fumo
Coinvolta
Morsa e sbriciolate
Il campanile le vetrate
Il cuore del cuore
L’isola e le sue gemme più visitate
Al mondo
Sono un bossolo
Di fiamme
Un gomitolo di fuoco
Che nessuno
Riesce a placare
Come fa male
Questo disastro
Molto male
Ma una voce
Ci fa sperare
In questo storico morire
La bellezza si potrà ricostruire

Pare

Tre poesie di Angelo Andreotti: La scelta, La pena, Incuria

di Angelo Andreotti

 

LA SCELTA

Niente è più chiuso di una porta chiusa.

Oltre la porta soltanto lamenti

su un filo di voce si arrampicano
da un filo di voce scivolano
a un filo di spine si avvolgono.

Tu sei il possibile ascolto.
Tu sei

la speranza
il rifiuto
oppure l’indifferenza.

Tu sei la scelta, la parte del tutto
e il tutto della tua parte.

La differenza nel mondo sei tu.

LA PENA

Preme forte, il grido, sull’aria
scagliandosi contro la porta.
Trema la casa, dove sei svegliato
di soprassalto. Dalle imposte chiuse
non puoi guardare. Soltanto l’udito
chiama scuotendo il tuo corpo. Tu ascolti
il silenzio svuotato dal grido
che continua a tremarti la pelle.
Quel grido ti assale, raggiunge
te. Ovunque tu sia ti raggiunge
attraversando qualsiasi distanza
che ti separa dal te stesso più intimo
chiuso a chiave nella diffidenza.

INCURIA

In quell’esitazione
– quasi il tremito di un’amnesia –
sulle cui bianche spiagge
da tempo muovi in cerchio i tuoi passi,
a testa bassa, senza più un orizzonte,
stupisci distinguendo tra i fragori
in un suono una voce che ti cerca.

E cerca te, te come fossi un altro,
ma tu sei l’altro che nel cerchio resta,
dentro a fissarne il centro chiuso in solchi
così profondi da arginare il vento

ma non la voce a cui volgi le spalle
dopo aver inflitto
un dolore di cui non hai contezza.

(Angelo Andreotti – tutti i diritti riservati)
Le poesie inedite, anticipate per Ferraraitalia, fanno parte dell’antologia ‘L’attenzione’, in uscita a maggio per i tipi di Puntoacapo edizioni.

 

Gianni Berengo Gardin: il mio primo libro l’ho fatto a Ferrara

“La fotografia è documentazione del reale e deve essere verità”. Un’idea chiara, classica, che appartiene alla generazione di un fotografo nato nel 1930, ma che ha ancora una limpidezza schietta quella che Gianni Berengo Gardin esprime con un’energia indomita sul palco allestito nel cortile di Grisù, l’ex caserma dei vigili del fuoco dentro le mura di Ferrara. Berengo Gardin è stato ospite del festival di fotografia “Riaperture”, organizzato a Ferrara per la terza edizione per i fine settimana dal 29 marzo al 7 aprile 2019.

Gianni Berengo Gardin con Daniela Modonesi al festival di fotografia Riaperture 2019 (foto Luca Pasqualini)

“Il mio mito – racconta Berengo Gardin sollecitato dalle domande della giornalista Daniela Modonesi – era Ugo Mulas, e quando mi sono trasferito a Milano frequentavo il bar Jamaica per conoscere lui e gli altri fotografi. Una volta Mulas mi ha invitato nel suo studio e mentre mi mostrava le sue foto non facevo che dire ‘che belle’, ‘questa è bellissima’, ‘guarda questa che bella che è’. Alla terza volta che dico così, lui mi avverte ‘se dici ancora che bella, ti caccio via’. ‘Cosa devo dire allora?’, gli ho chiesto. E lui: ‘Che è buona. Una foto bella può essere ben composta, ma non dice niente. Una foto buona può essere anche tecnicamente imperfetta, può essere un po’ sfuocata , ma ti racconta qualcosa e a volte anche molto. Per lavorare e per vivere, io ho dovuto fare anche una quantità di belle fotografie. Anzi, all’inizio ho fatto di tutto, la puttana nel senso più completo: per il giornale fascista ‘Il Borghese’, per ‘Novella 2000’ con i bambini belli sulle spiagge italiane, per ‘Panorama’ andando a fotografare tre ristoranti al giorno, per i matrimoni. Dopo due anni, però, sono riuscito a incanalare la fotografia dove volevo io”.

“Grandi Navi” di Gianni Berengo Gardin in mostra a Ferrara 29 marzo-7 aprile 2019

Diretto e impietoso anche verso se stesso Berengo Gardin dichiara: “Di libri ne ho fatti 258 e tra questi, di buoni, ce ne sono una quarantina: sono quelli che illustrano anche alle generazioni future come vivevamo nel 2000. Una foto buona è quella che racconta il nostro mondo, la nostra vita”.

Pubblico all’incontro con Gianni Berengo Gardin a Ferrara (foto Riaperture photofestival 2019)

Legame con Ferrara. “A Ferrara sono particolarmente legato, perché è qui che è nato il primo dei 258 libri fotografici. Ero ancora un foto-amatore e Bruno Zevi che insegnava Architettura a Venezia mi ha chiesto di fare le foto delle architetture realizzate a Ferrara da Biagio Rossetti (‘Biagio Rossetti, un architetto ferrarese’, Einaudi, Torino, 1960, ndr). Prima avevo già preparato una serie di immagini scattate a Venezia per un libro che mi avevano rifiutato tutti gli otto editori italiani a cui lo avevo proposto. Perché era una Venezia poco veneziana, sotto la pioggia, avvolta nella bruma e con scorci poco turistici. Piacque a Mermood, un editore svizzero. Uscì nel giro di ventitré giorni (1965, Clairefontaine di Losanna, ndr), ed era un miracolo… erano gli anni Sessanta e ancora non si usava il computer. I testi erano scritti da Giorgio Bassani e Mario Soldati e anche per questo, quel libro intitolato ‘Venise des saisons’, resta forse quello a cui sono più legato. L’amicizia con Giorgio Bassani, poi, mi ha portato ancora una volta qui, per fare un servizio sul cimitero ebraico”.

Il fotografo sul palco dello spazio Grisù, a Ferrara, per il festival di fotografia 2019 (foto Luca Pasqualini)

Fotoamatore o fotografo professionista? “Io ho iniziato a fotografare per passione. Fare il fotoamatore è uno step importantissimo, perché impari tutte le regole fondamentali. All’epoca era anche un po’ più complicato, non c’erano tante scuole o corsi, e neanche libri. C’era solo il manuale Hoepli sulla tecnica e il libro di William Klein con le foto di New York. Noi ci siamo fatti le ossa su questi libri, oltre che guardando la rivista ‘Life’. Io però ho avuto una fortuna in più, rispetto ai colleghi della mia generazione, perché avevo uno zio in America, molto amico del fratello del fotografo Capa. E lui mi consigliò e mi fece avere i libri dei grandi fotografi americani, che qui ancora non erano arrivati. Questo è stato un grande vantaggio per me, perché vedere quelle cose mi ha ispirato e indirizzato nel modo di scattare”.

“Grandi Navi” di Gianni Berengo Gardin in mostra a Ferrara 29 marzo-7 aprile 2019

Libri fotografici anziché scatti per i giornali.  “Io ho iniziato a lavorare per un giornale tra il 1950 e il ’54, che era ‘Il Borghese’ di Longanesi. Poi mi sono stancato di lavorare per una redazione di tendenza fascista e mi hanno suggerito di andare a ‘Il Mondo’ di Pannunzio, che era diverso dagli altri, metteva foto a piena pagina quando ancora non lo faceva nessuno. Non prendevo molto, però, e allora ho tentato di lavorare per altri giornali, ma non sono riuscito. Così mi sono concentrato a fare lavori da proporre per l’editoria, anche se non prendi molti soldi neanche lì. Ma facevo servizi che mi piaceva fare e mi interessavano. Perciò ho preferito continuare a fare quelle cose, anche se guadagnavo relativamente poco”.

Gianni Berengo Gardin abbraccia il collega fotografo Francesco Zizola (foto Luca Pasqualini)

L’impegno politico. “Sono diventato (e sono) comunista non perché avessi letto i testi sacri del comunismo, ma perché frequentavo gli opera dell’Olivetti e soprattutto dell’Alfa Romeo, che all’epoca erano il nocciolo duro del partito. Ancora oggi questo mi rende un nostalgico del vecchio Pci e di quegli uomini straordinari che avevano fatto la Resistenza”.
“Grazie a Carla Cerati, che mi ha chiesto di accompagnarla a Gorizia dove doveva fotografare l’ospedale psichiatrico per Franco Basaglia, è nato ‘Morire di classe’ (Einaudi, Torino, 1969, ndr), il libro con le immagini che documentano non la malattia, ma le condizioni terribili in cui venivano tenuti i malati. Si usavano le camicie di forza (anche se erano già state vietate), le persone venivano legate ai letti, i capelli rapati a zero in modo umiliante e i parenti, in manicomio, non ci andavano nemmeno a trovarli, perché questi legami erano sentiti come una vergogna. Basaglia ha fatto una grande rivoluzione, ha fatto vestire i malati in borghese e ha fatto abbattere da loro stessi le recinzioni che li rinchiudevano”.

Gianni Berengo Gardin a Ferrara (foto Riaperture photofestival 2019)

Colore o bianco & nero.  “Il colore distrae sia il fotografo sia lo spettatore. Fotografare a colori va bene se devi fare un catalogo di garofani. Ma, per il mio genere di fotografia, il bianco e nero è più efficace. C’è anche da tener conto che io sono nato con il cinema in bianco e nero, la tv in bianco e nero e che i miei grandi maestri fotografavano in bianco e nero. Willy Ronis è stato il mio primo maestro, a Parigi, non Cartier Bresson a cui molti mi paragonano. E io mi sento vicino a quello che era lui, un fotografo vero, non un artista. Nel ’55 ho litigato con Robert Doisneau perché faceva foto false. Dentro le immagini ci sono tutti amici o parenti suoi, sono costruite. Per me la fotografia deve essere verità”.

Pubblico all’incontro con Gianni Berengo Gardin a Ferrara (foto Riaperture photofestival 2019)

Digitale o analogico. “Il digitale è una truffa legale. Spendi 5mila euro se non di più per una macchina che, dopo otto anni al massimo, è da buttare. Io ho una Leica del 1955, che è tutta meccanica e va ancora come il primo giorno. In più, quando si usano le tecnologie elettroniche, bisogna tenere conto che i mezzi di lettura cambiano. Già i nuovi pc non leggono più i cd. Gli archivi digitali rischiano quindi di andare perduti. Il milione e 200 scatti che ho io su pellicola, invece, sono archiviati e – dai più recenti fino a quelli di 68 anni fa – si possono stampare anche oggi. Gli assistenti che ho avuto sono arrivati tutti che avevano il digitale e se ne sono andati via che avevano anche la pellicola. La pellicola è più plastica, calda. Il digitale resta luminoso anche a mezzanotte, è freddo, metallico. Ha solo due vantaggi: che la foto la puoi mandare a New York dopo due secondi che l’hai fatta e che puoi cambiare la sensibilità”.

Gianni Berengo Gardin a Ferrara (foto Riaperture photofestival 2019)

Mestiere fotografo. “Oggi è ancora più difficile fare il fotografo di mestiere. Perché, le foto, le fanno tutti e magari le regalano per la semplice soddisfazione di vedersele pubblicate”. Che dire ai giovani che si apprestano a fare questo mestiere? “Bisogna studiare, guardare gli altri fotografi, leggere. Ma il fatto è che con le foto di reportage, che sono l’anima vera del lavoro, non si vive più. Si vive con le foto di moda, con la pubblicità. Consiglio quindi di aprire una drogheria o una parafarmacia e poi di andare a fare le fotografie il sabato e la domenica”.

Foto-servizio per Ferraraitalia di Luca Pasqualini

Il Def garantisce i mercati e scontenta i cittadini

È durata davvero poco la riunione del Governo di martedì sera, circa mezz’ora, a seguito della quale è stata pubblicata una nota che è possibile trovare qui http://www.mef.gov.it/ufficio-stampa/comunicati/2019/comunicato_0073.html in cui si chiariscono i punti principali del nuovo Def 2019.
I numeri sembrano in sintonia con quanto dichiarato precedentemente, quindi nessun aumento di tasse e (più o meno) rispetto degli obiettivi fissati dalla commissione Ue.
Osservando il quadro macroeconomico rilasciato si legge di una crescita programmatica allo 0,2% e di una disoccupazione che non scenderà mai sotto il 10% e fino al 2022.

La crescita del Pil dovrebbe migliorare dall’anno prossimo grazie al fatto “che il Governo ha fronteggiato (…il momento di crisi generale …) mettendo in campo due pacchetti di misure di sostegno agli investimenti (il dl crescita e il dl sblocca cantieri) che dovrebbero portare ad una crescita aggiuntiva di 0,1 punti percentuali, fissando così il livello di Pil programmatico allo 0,2%, che salirebbe allo 0,8% nei tre anni successivi,”

Deficit, debito e investimenti
Il deficit (la spesa non coperta da entrate) nel 2019 tornerà al 2,4% scendendo poi fino al 1,5% nel 2022 mentre il deficit strutturale si dovrebbe attestare al 1,6% nel 2019 per arrivare allo 0,8% per la fine del triennio.
Il debito pubblico salirà al 132,6% quest’anno, al 131,3% nel 2020, 130,2% nel 2021 fino all’ottimistica previsione del 2022 quando si dovrebbe attestare al 128,9%. Debito che comunque cresce anche in considerazione dei 58 miliardi che l’Italia ha versato all’Europa nel 2018 (vedi nota 3) e che continuerà a versare fino al 2022.

Il governo ha in animo di aumentare gli investimenti portandoli dall’1,9% del 2018 al 2,5% del Pil nel 2022 agendo su più fronti per incrementare la produttività di diversi comparti dell’economia e spingendo sulle riforme.

In tale ottica sono previste misure quali:
· l’introduzione di un salario minimo orario per chi non rientra nella contrattazione collettiva;
· la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro;
· strategie nazionali per la diffusione di banda larga e 5G
· il rilancio della politica industriale;
· lo stimolo alla mobilità sostenibile
· le semplificazioni amministrative
· maggiore efficienza della giustizia
· interventi di sostegno alle famiglie ed alla natalità.

Sembra che il Def 2019 prevederà anche la Flat Tax ma difficile dire quali potrebbero essere i termini. Matteo Salvini continua a spingere per la sua introduzione mentre il Ministro dell’economia Tria continua a non esserne entusiasta proponendo come contropartita addirittura l’aumento dell’Iva (23 miliardi di euro), che anche se può non piacere, in macroeconomia ha un senso. Il Movimento 5 stelle e Di Maio ondeggiano tra la fedeltà al contratto di governo e l’evidente ingiustizia sociale del provvedimento.
Si parla comunque di una graduale estensione del regime d’imposta sulle persone fisiche con due aliquote del 15 e del 20%, ad iniziare dai redditi più bassi. Prevista anche una riduzione dell’aliquota Ires applicabile agli utili non distribuiti, una misura volta ad incentivare gli investimenti delle imprese.

Risparmiatori truffati
E il tema dei risparmiatori truffati? Nella giornata di lunedì, l’atteso accordo è stato trovato. Cosa prevede? Nello specifico l’erogazione di rimborsi automatici per chi ha redditi inferiori ai €35.000 o patrimoni immobiliari sotto i €100.000. L’approvazione del decreto è stato per ora rinviato.
La nota programmatica evidenza anche che non vi è nessuna inversione di tendenza sul piano del pagamento degli interessi sul debito pubblico e che questo continuerà ad essere pagato dai cittadini. Infatti si prevede un aumento costante del saldo primario (ovvero entrate superiori alle uscite) fino al 2,4% nel 2022 a fronte di interessi che rimangono costanti nel tempo, il tutto a fronte di un deficit sempre più contenuto. Insomma si continua la strada del consolidamento di bilancio, i cittadini non potranno vedere reali miglioramenti ma continueranno a ricevere generalmente meno servizi rispetto a quanto pagheranno di tasse mentre nulla cambia per i mercati finanziari che avranno, come sempre, chi pagherà i loro guadagni.

Delitti e segreti alla corte estense. Il nuovo romanzo di Elettra Testi

L’attesissima presentazione del romanzo di Elettra Testi, “Il segreto di Barbara. Un delitto alla Corte estense”, Minerva, 2019 che si è svolto nella sala dei Comuni in Castello è stato organizzato impeccabilmente da Ethel Guidi. Dialogava con l’autrice l’ottimo Fabrizio Fiocchi e le letture erano affidate a Riccarda Dalbuoni. E’ già difficile nel mestiere di critico essere obiettivo con chi non si conosce se non per la sua opera; ancora di più se l’autore, come in questo caso, è legato da profondissima amicizia tanto che se non sei capace di equilibrio critico può accadere che più che parlare del libro finisci per parlare di te stesso.
Questo è il terzo romanzo della Testi; i primi due si titolano, ‘La sorella. Vita di Paolina Leopardi’ (1992) e ‘Tavor’ (2005).
Così il profilo della scrittrice:
Elettra Testi, di nobile origine romagnola, vive da quarant’anni a Ferrara, città che adora e che coccola con attività culturali di vario genere. A Ferrara ha a lungo insegnato negli istituti superiori. Nel 1992 con la casa editrice La Luna di Palermo ha pubblicato ‘La Sorella. Vita di Paolina Leopardi’, romanzo che le è valso il premio Bellonci con la segnalazione quale libro di lettura per le scuole. Oltre a Ferrara adora gli amici, suo marito e gli animali, però ha un debole per le pellicce.

Per questo mio intervento occorre ricordare un articolo che pubblicai nel 2005 su ‘Ferrara. Voci di una città’ dal titolo ‘Un secondo viaggio nella realtà letteraria ferrarese’:
“La lettura come baluardo alla disgregazione della psiche, la scrittura come difesa al male di vivere, l’ironia come medicina dell’anima e del corpo intrecciandosi tra realtà autoriale ed esistenziale sostengono, illuminano, chiarificano le pagine di questo singolare e bellissimo racconto di Elettra Testi, ‘Tavor’ (Minerva Edizioni, Bologna, 2005), che conferma la maturità raggiunta da questa scrittrice e le premesse mantenute del debutto, ‘La sorella. Vita di Paolina Leopardi’ (La Luna editrice, Palermo, 1992).
Se sono stato un fedele lettore delle opere di Elettra l’occasione del libro rinvia ad anni lontani quando entrambi insegnavamo, giovanissimi docenti, all’Istituto per Ragionieri di Ferrara ‘Vincenzo Monti’. Ci organizzammo per prepararci all’esame di abilitazione all’insegnamento con la serietà (forse) degna di miglior causa perché gli esaminatori si rivelarono meno preparati di quello che noi fossimo. Cominciò allora una complicità intellettuale che non si è mai spenta e che ha influito anche sulle scelte esistenziali di entrambi, fosse la garbata presa in giro delle mie ossessioni floreali nel buen retiro della campagna veneta quando alla stagione della fioritura delle gardenie, il Conte, cioè chi scrive, riceveva fasci dell’amatissima pianta fiorita secondo un racconto dell’amica scrittrice o, da parte mia, l’accusa di “slealtà” nell’incantare lettori e ascoltatori con la sua splendida voce – rimasta intatta nel tempo – per attrarli nel suo universo fantastico dove la realtà si tinge di vero e il vero trascende nel fantastico.
La laboriosa preparazione de ‘Il segreto di Barbara’ contempla non solo la lettura di ponderosi volumi il cui accesso è riservato solo agli storici di mestiere, ma anche la minuziosa esegesi di testi che una volta si sarebbero definiti “allotri” cioè estranei alla composizione di un’opera letteraria; vale a dire studi come quello di Stefania Macioce sugli ori nell’arte o di Elisabetta Gnignera sui soperchi argomenti doverosamente ringraziate come tutto il personale della Biblioteca Ariostea.
Ma veniamo al romanzo che così viene presentato:
‘Il segreto di Barbara’ è un romanzo storico nel quale si dipanano personaggi e vicende dell’età rinascimentale a Ferrara. Barbara Torelli, originaria di Montechiarugolo, una piccola contea vicino a Parma, sposa senza amore il capitano Bentivoglio, di origine bolognese, che la porta a vivere a Ferrara. Se l’amore per la città aumenta, il rapporto con il marito si fa sempre più difficile finché Barbara s’innamora del grande poeta e giureconsulto ferrarese Ercole Strozzi che ricambia il sentimento. La situazione precipita al punto che Barbara organizza, per sé e per la figlia una rocambolesca fuga dal tetto coniugale. Dopo la morte del marito Barbara sposa Ercole Strozzi, il cui assassinio notturno con 23 pugnalate è rimasto impunito. Non si trovò o non si volle trovare il colpevole. In base alle proprie ricerche l’autrice, per la prima volta, ne svela il nome…”
Il tema dunque s’incentra su un fatto indubitabile come la stessa consistenza storica dei personaggi e la verità letteraria segnata dal sonetto della Torelli tra i più grandi risultati della letteratura italiana del Rinascimento e oltre. Questi fatti si trasformano nella scrittura di Elettra Testi in un universo fantastico dove Barbara è l’autrice e l’autrice è la protagonista. Il tutto avviene per vis stilistica che a mio avviso rappresenta la novità e la bellezza del romanzo: la contemporaneità come prodotto del passato e nello stesso tempo indicazione per il futuro.
La dedica ‘A Giampietro’ nasconde nella semplicità dell’enunciazione una lunga connivenza tra l’autrice e il marito che condividono tutto, anche il nome se non nella vocale finale: Giampietro Testa, Elettra Testi, Nella ricostruzione della scrittrice è stato il marito a farle conoscere il personaggio Barbara e nel primo intento il romanzo doveva essere scritto a quattro mani; ma secondo prassi l’intento non ebbe un seguito e di Giampi rimane solo la dedica, apparentemente ma non solo, come si può riscontrare, in ben più solidi contributi. La lettera a p. 149 che comincia con ‘Amore caro’ non è né della Torelli, né di Ercole Strozzi o di qualche altro letterato bensì de marito. E qui si rivela la capacità stilistica di Elettra che proprio nella “inventio” di una lingua riesce magistralmente a fondere in un’unica, straordinaria prosa lingue classiche e contemporanee, dialetti, piani strutturali diversi fino a ricorrere alla raffinatissima “mise en abyme” o come si suol scrivere anche “mise en abîme”.
Da questo momento l’universo fantastico di Elettra-Barbara si spiega in tutta la sua forza sia nel prato-giardino della Smarrita dove Barbara e la sua “copia” vivono i fremiti e i sogni dell’infanzia-adolescenza:
“Si incamminava per il sentiero dei campi di quella terra parmense che le apparteneva e arrivava fino al limite estremo della proprietà nella spianata del querceto che in casa chiamavano ‘la Smarrita’ […] Era, quel bosco buio, il teatro ideale di una rappresentazione della quale la piccola si appagava di essere l’unica regista e interprete” (p.14). Ecco le parole della trasformazione fantastica affidata ai mezzi di comunicazione contemporanea: “regista e interprete”. Qui è possibile come nei romanzi cavallereschi interpretare le grandi eroine del passato secondo il modello del trobar: Cleopatra, Didone, la fata Melusina, Isotta la Bionda e, of course, Francesca da Rimini. Dalla solitudine fantastica della ‘Smarrita’ fa parte anche il fratello di Barbara Amorotto ‘l’innocente’ che condivide le scelte della protagonista e che nonostante la malattia morirà quasi centenario.
Nel mondo di Barbara-Elettra sfilano paesani e signori, gente umile e potente come l’amica più cara di Barbara che diverrà duchessa di Ferrara: Lucrezia Borgia o le suore e le abitanti del monastero del Corpus Domini. Ma anche la zia Venusta, la mitica zia di Elettra.
E poi Ferrara, che si prende la scena diventando come in Giorgio Bassani la protagonista del romanzo con i suoi palazzi, piazze, cattedrali, castelli. Infine, alla morte dell’amatissimo Ercole, s’apre il mistero che non è giusto svelare e che, pagando pegno, diventa necessità perché chi vorrà svelarlo dovrà leggere fino all’ultima pagina dell’opera.
Brava Elettra!

Nella foto Elettra Testi e Gian Pietro Testa al Premio stampa 2017 (foto Giorgia Mazzotti)

Festival internazione del giornalismo 2019

Da: Organizzatori

Un’edizione emozionante e coinvolgente, la più internazionale e appassionante di sempre.
Cinque giorni intensi per un viaggio attraverso le storie di chi lotta ogni giorno per la libertà dell’informazione, contro ogni censura.

Quest’anno il Festival ha raccontato il coraggio attraverso storie di persone non hanno avuto paura di sporcarsi le mani e hanno messo la loro vita e la loro intelligenza al servizio degli altri e della verità.

Il coraggio di Maria Ressa che nelle Filippine con il suo giornalismo investigativo sfida il governo autoritario di Duterte e, nonostante gli otto arresti e le tremende pressioni ricevute, continua a mettersi al servizio della sua comunità; di Matthew Caruana Galizia che cerca la verità sull’omicidio della madre, la giornalista Daphne Caruana Galizia uccisa nel 2017; di David Hogg e Jaclyn Corin, gli adolescenti sopravvissuti alla strage di Parkland e che con il loro movimento di massa March for our lives lottano per cambiare la legge sul possesso delle armi e non si arrendono all’odio; quello di Oscar Camps direttore e fondatore dell’ONG Open Arms che negli ultimi anni ha salvato oltre 60mila vite umane salvate nel Mediterraneo; e di Rana Ayyub la giornalista investigativa indiana che ha rivelato le collusioni di due importanti uomini indiani, Narendra Modi (attuale presidente dell’India) e Amit Shah e che per questo motivo è stata bersagliata online con allusioni totalmente false.

E ancora, il coraggio dei giornalisti e delle istituzioni che vivono sotto scorta e continuano a indagare su chi li minaccia e dello scrittore Roberto Saviano che ha salutato così il Festival: “Solo qui incontro tutti questi giovani. Riparto da Perugia con un senso profondo di speranza.”

“Quest’anno, più del solito, siamo stati fermati per strada dal pubblico, italiano e straniero, che ci ha più volte ringraziato per la possibilità di scambio, anche umano, fra comunità diverse di tutte le età e con differenti interessi” racconta Arianna Ciccone.

Il pubblico del Festival è cambiato: sempre più giovane, sempre più cosmopolita. Perugia è stata la destinazione di tantissimi giornalisti di testate internazionali – tra cui Reuters, Bloomberg, Politico Europe, Guardian, NBC – a conferma del valore formativo e costruttivo del Festival, evento ormai irrinunciabile per chi fa del confronto la chiave di crescita professionale e personale.

Tantissimi i cittadini che hanno partecipato in massa agli eventi per capire e riflettere. Lunghissime le file per Oscar Camps, ma anche per Nicola Gratteri che ha parlato di lotta alla ‘ndrangheta. Per Domenico Iannacone che ha parlato di sociale a una sala attenta e gremita. Per Veronesi e Albinati e le loro letture sull’odio.

È stato un Festival sui diritti, sulla condivisione, sulla visione di società aperta solidale che vede i cittadini camminare insieme per le conquiste di tutti per una società più giusta e gentile. Citando Gipi, che al Festival ha partecipato a un dibattito molto emozionante e molto seguito sulla satira: “Se lo spirito di un ragazzo verte alla bontà invece che alla crudeltà può essere merito solo della bellezza, non della critica sociale, ma del contatto con la bellezza e la bontà di altre persone.”

La formula del Festival di quest’anno è stata coraggiosa e ha funzionato dimostrando che certe cose si possono fare. Si può organizzare un Festival con più di 300 eventi e 760 speaker da ogni parte del mondo. Si può fare un festival perfettamente bilanciato tra uomini e donne tra i relatori, come ha riconosciuto anche Michela Murgia in un estratto di un suo tweet: “A Perugia le speaker di #ijf19 erano il 49% del totale. Allora si può”

Si può fare un festival in cui parlare di diritti, di minoranze, di migrazioni, di blockchain, di intelligenza artificiale, di cambiamento climatico e avere le sale piene. Si può fare tutto questo in Italia, a Perugia, e lo faremo di nuovo.

L’edizione 2020 del Festival si svolgerà a Perugia dal 1 al 5 aprile.
L’hashtag ufficiale: #ijf20

Dalla Cina a Mosul: quando i libri bruciano

Là, dove si bruciano i libri, si finisce col bruciare anche gli uomini. Heinrich Heine

E’ sempre un gran brutto segno quando si bruciano i libri. E non solo nei falò e nei roghi, ma anche metaforicamente, con le liste nere degli autori scomodi, con la censura di quegli scrittori che hanno esercitato la piena libertà di espressione rivendicando il diritto di pensiero con la fantasia, la formulazione di ragionamenti e riflessioni, l’esposizione di storie, fatti e circostanze da ‘occultare’ al popolo dei lettori perché ritenute ‘pericolose’.
Una nefasta pratica voluta e ordinata da autorità politiche e religiose sulla spinta del fanatismo ideologico, della visione ristretta che passa per rigore morale, dell’odio. I roghi dei libri e la distruzione delle biblioteche, pratiche del passato e di un presente più recente, mirano all’estinzione della storia precedente come fosse un’azione di pulizia intellettuale, l’annullamento del pensiero scomodo che incombe su governi e organizzazioni restrittive. Il fuoco non lascia niente dietro di sé se non cenere; nessuna traccia sulla quale poter ricostruire le testimonianze del passato.

I roghi di libri nella storia sono numerosi. Nel 212 a.C. in Cina, durante il regno dello spietato Quin Shi Huang vennero bruciati numerosissimi libri antichi e assassinati 460 accademici; chiunque si opponesse all’ordine veniva sepolto vivo. Scamparono al fuoco solo i testi di pratiche magiche e i manuali tecnici. L’imperatore fece scrivere: “Io ho apportato l’ordine alla folla degli esseri e sottomesso alla prova gli atti e la realtà. Ogni cosa ha il nome che le conviene. Io ho distrutto nell’impero i libri inutili. Io ho favorito le scienze occulte, affinchè si cercasse per me, nel Paese, la droga dell’immortalità.” Nel 292, secondo testimonianze, furono dati al fuoco i libri di alchimia dell’enciclopedia di Alessandria e nel 642 venne distrutta l’intera biblioteca su ordine del califfo Omar, conquistatore d’Egitto. Nel 1497 a Firenze, Girolamo Savonarola ordinò un imponente rogo di libri e opere artistiche di grande valore, passato alla storia col nome di ‘Falò delle vanità‘, perché ritenuto materiale immorale. Durante l’Inquisizione subirono la stessa sorte i manoscritti delle popolazioni Maya e Aztechi e all’inizio del 1500, in Andalusia, venne emanato l’ordine di consegnare alle autorità castigliane i libri scritti in lingua araba e, tranne quelli riguardanti la medicina, la storia e la filosofia, furono distrutti col fuoco. Nello stesso secolo, era il 1553, Papa Giulio II fece ardere le copie del Talmud in un grande falò. Ma è la distruzione dei libri nella Germania nazista, che ci accosta più da vicino al vero significato del rogo: numerosi roghi in tutto il Reich, organizzati tra il 1930 e il 1945 per incenerire le opere di oppositori politici, scrittori considerati immorali, nemici del regime anche solo per le loro origini etniche. Tra i più significativi, quello avvenuto nella Bebelplatz a Berlino il 10 maggio 1933. Le opere di Brecht, Heinirch e Thomas Mann, Dȍblin, Joseph Roth, Simmel, Adorno, Bloch, Hannah Arendt, Edith Stein, Freud e moltissimi altri scrittori e artisti furono messe al bando e fatte scomparire tra le fiamme del fuoco appiccato ai camion cosparsi di benzina, che li trasportavano. Il sindaco di Berlino inaugurò l’evento, dando alla cerimonia carattere ufficiale, quasi religioso. Dopo il 1933 è il deserto culturale, la diaspora dell’intelligenza tedesca e il più massiccio esodo di intellettuali che la storia moderna abbia mai conosciuto. Ed è storia dei nostri giorni quella del 1961, nella nostra Italia democristiana, quando nel cortile della Procura di Varese avviene l’ultimo rogo improvvisato di libri, per disposizione legale: si trattava della condanna per oscenità dell’opera del marchese de Sade ‘Storielle, racconti e raccontini’, pubblicata nel 1957. I libri ‘proibiti’ furono sequestrati e bruciati; l’editore, l’illustratore e alcuni librai in possesso del volume furono sottoposti a processo. Negli atti venne scritto: “ E non vi è dubbio che tali racconti sia per il linguaggio usato, sia per la natura dei fatti narrati, feriscano il senso di pudore, della decenza e di più intimi sentimenti morali”. In Cile e in Argentina, i libri tra le fiamme confermarono la volontà golpista di annientare la libertà di pensiero ed espressione per rafforzare la dittatura, indicatori di una morsa che stritolava i Paesi: in Cile, nel 1973 dopo il golpe di Augusto Pinochet, e in Argentina nel 1976, per mano dell’ufficiale Menèdez, membro della giunta Vandela. Sparirono nel rogo le opere di Proust, Garcia Marquez, Neruda, Saint-Exupèry, Vargas Llosa e molti altri, con la motivazione: “Con il fine che non rimanga nessuna parte di questi libri, opuscoli, riviste, perché con questo materiale non si continui a ingannare i nostri figli.” Un rogo singolare e particolarmente doloroso fu quello della notte del 25 agosto 1992 in una Sarajevo stremata dalla guerra e dall’assedio: i cannoni nazionalisti serbi distrussero con i loro colpi l’edificio che custodiva la storia di 600 anni di convivenza: 1,5 milioni di libri, 155.000 libri rari e manoscritti. Nel violento incendio che seguì lo scoppio delle granate, molti bibliotecari e cittadini tentarono di salvare i volumi sotto il tiro dei cecchini; la bibliotecaria Aida Buturovič perse la vita.
E la triste sequenza di roghi, inarrestabile, raggiunge anche il 2015, quando, secondo le fonti, sono stati bruciati circa 2000 libri dall’Isis perché non considerati ‘islamicamente corrispondenti’. Tra essi, testi per bambini, di diritto, poesia, filosofia, salute, scienza, prelevati dalla grande biblioteca di Mosul, dall’università, dalla biblioteca musulmana sunnita, da quella della Chiesa Latina e dal convento dei Padri Domenicani che possedevano testi antichi preziosi.

Oggi l’indice puntato della censura dei governi riguarda il ‘troppo ateo’, ‘troppo transgender’, ‘troppo religioso’, ‘troppo espicito’. Qual è l’esatto confine tra eccesso di pudore e censura, tra controllo preventivo e condizionamento, tra fobie infondate e ragionevolezza? Vedremo altri roghi con le avventure di Herry Potter in testa, una delle serie di libri più ostacolati negli Usa e in Arabia Saudita, per istigazione alla stregoneria?

PHOTOFESTIVAL Riaperture riapre con 17 mostre tra caserma e luoghi abbandonati di Ferrara

Ficcare il naso oltre i muri, oltre i portoni sbarrati e chiusi da chiavistelli arrugginiti, scendere in taverna o salire in cima a scaloni e trovarci dentro delle mostre di fotografie con immagini incorniciate alle pareti, appese con funi all’aperto o con le catenelle che scendono dal soffitto. È un’esperienza di scoperta, una caccia al tesoro di spazi e contenuti quella che offre ai suoi partecipanti ‘Riaperture photofestival Ferrara’, organizzato per il terzo anno dall’associazione Riaperture con la direzione artistica di Giacomo Brini. “Sono millecinquecento i visitatori che hanno percorso la città nel primo weekend per le mostre e gli incontri”, spiega Fabio Zecchi che si occupa della comunicazione dell’evento. E ora – da venerdì 5 a domenica 7 aprile 2019 – si potranno tornare a vedere le diciassette esposizioni d’autore in sette spazi diversi di Ferrara (visitabili dalle 10 alle 19), si potrà andare ad ascoltare altri incontri con fotografi o giornalisti, partecipare a laboratori e anche agli appuntamenti mattutini di caffè-fotografici.

La Cavallerizza dentro all’area della caserma Pozzuolo del Friuli, a Ferrara, con una delle mostre di ‘Riaperture photofestival’ (foto Claudia Baldassarra)

Un’occasione per vedere, ascoltare, pensare, camminare. Ci sono cose particolarmente imperdibili, tipo il fatto di potere entrare dentro a una caserma chiusa da oltre vent’anni e sconosciuta alla gran parte degli stessi ferraresi, visto che comunque era un luogo accessibile solo da militari o ragazzi in partenza per la leva. Lo spazio è quello della Caserma Pozzuolo del Friuli, dove si entra sia dall’ingresso di rappresentanza che portava all’area di residenza degli ufficiali (via Cisterna del Follo 10, Ferrara) sia dal portellone per i mezzi militari che per questi pochi giorni resta spalancato (via Scandiana 35).

Ingresso di via Cisterna del Follo
Via Scandiana 35
La Cavallerizza in via Scandiana 18

Di fronte c’è la Cavallerizza, spettacolare edificio tutto aperto, per il ricovero di camionette e strumentazioni varie (via Scandiana 18). Dentro la caserma il percorso espositivo è ambientato attraverso stanze che alternano la visione di autori ospiti con quella della memoria di cosa c’era prima: le targhette ancora inchiodate alle pareti ricordano che un posto era biblioteca; un biliardo impolverato e i dadi segna-punti corrosi fanno immaginare partite giocate fra commilitoni, il bancone evoca la presenza di un bar di cui resta uno specchio per i selfie-souvenir di chi ci passa davanti.

Un’altra immagine di ‘Riaperture photofestival’ a Ferrara, 29 marzo-7 aprile 2019 (foto Claudia Baldassarra)

“È solo un festival di fotografia – si legge nella presentazione postata su Fb degli organizzatori –  ma si porta con sé storie di edicole di Perugia trasformate in centri di produzione culturale (Edicola 518, domenica 7 aprile, alle 10 all’Hotel Astra, ndr), lezioni sulla fotografia con giornalisti di Repubblica (Michele Smargiassi, sabato 6 aprile, alle 16.30 a Factory Grisù, ndr), riviste online dove si mastica cultura (FrizziFrizzi, domenica 7 aprile, alle 16.30 a Factory Grisù, ndr), fotografi premiati che vengono a dirci come hanno fatto, a trovare le storie, a fare pace col futuro”.

Gianni Berengo Gardin con Giacomo Brini sabato 30 marzo 2019 nello spazio di Factory Grisù di Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Il tema di questa terza edizione è infatti dedicato al ‘Futuro’. E, come sempre quando si guarda avanti, pensare al domani vuol dire anche fare il punto su quello che è il presente e il passato: la lunga palizzata in cemento che separa Israele e i territori palestinesi (Francesco Cito nell’ex Caserma di via Scandiana), gli effetti dell’elettrosmog (Claudia Gori nella Cavallerizza dell’ex Caserma), le navi grandi come interi condomini che invadono la fragile laguna di Venezia (Gianni Berengo Gardin a Factory Grisù) o i sex robots (Tania Franco Klein nella vecchia salumaia dell’Hotel Duchessa Isabella).

Tutte le info, il programma dettagliato e gli aggiornamenti sul sito di Riaperture all’indirizzo riaperture.com/festival/programma/.

Il debito pubblico è un problema? Vediamo cosa ne pensano Fmi e Bce

In un interessante ed elaborato paper pubblicato dal Nber (‘Public debt and low interest rates’ che trovate qui) l’economista capo del Fmi Olivier J. Blanchard, prova a rispondere a una domanda che mantiene costante il suo fascino: siamo proprio sicuri che il debito pubblico sia un problema?
Blanchard arriva, molto prudentemente bisogna dire, alla risposta che sostanzialmente non lo sia. In realtà ponendo delle condizioni, di cui la principale è che il tasso d’interesse pagato sul debito sia inferiore al tasso di crescita, ovvero che i sia inferiore a g (i=tasso di interesse, g=tasso di crescita).
Lo studio si sofferma in particolare sull’economia statunitense e mostra che nonostante il debito pubblico sia andato crescendo vertiginosamente, come si prevede faccia anche per il futuro, questi non è mai stato un problema dato che il tasso di interesse è sempre stato inferiore. Così come si presuppone sarà anche per il futuro.
Negli Usa il tasso nominale decennale a fine 2018 era circa il 3%, e le previsioni di crescita nominale (ossia della somma del pil reale e dell’inflazione) è intorno al 4%.
Stessa situazione si riscontra negli altri paesi, del resto sappiamo tutti che, come si dice in giro, siamo nell’era dei tassi zero. Quindi passiamo da un decennale nominale all’1,3% con una previsione decennale di crescita del 3,6 della Gran Bretagna, al Giappone dove il decennale è quotato lo 0,1% e la crescita stimata e è dell’1,4%. Nella zona euro mediamente il decennale quota 1,2% a fronte di una crescita stimata del 3%.
Se poi il fatto di avere il debito sotto controllo possa portare più facilmente benessere ai cittadini rimane controverso in quanto l’economista conclude “Il paper raggiunge conclusioni forti e, a mio avviso, sorprendenti. Dicendola (troppo) semplicemente, il messaggio inviato dai tassi bassi non è solo che il debito può non avere costi fiscali sostanziali, ma anche che potrebbe avere costi di benessere limitati”.
Un’interpretazione di questo scetticismo potrebbe essere dato dal fatto che a dar da mangiare alle persone di sicuro non sono debito e moneta, bisognerebbe qui lasciare la teoria economica e continuare con la politica economica, ma andiamo avanti perché questo report è stato ripreso anche dalla Bce (lo trovate qui).
La Bce si affretta a precisare che “I modelli teorici non arrivano a formulare conclusioni chiare riguardo al segno e alle dimensioni del differenziale tra crescita e tassi di interesse sul debito pubblico”.
Il grafico seguente mostra che laddove persista un debito molto alto, statisticamente il differenziale è più alto, ovvero si pagano più interessi e il debito in generale è meno sostenibile nel lungo periodo, il che costringe un Paese a più alti avanzi primari per coprire gli interessi

Insomma, la situazione italiana dove la crescita non è bastata a pareggiare i costi del debito. La conclusione della Bce sembra proprio essere che seppure il debito pubblico possa non essere un problema, bisogna poterselo permettere. Ovvero il costo degli interessi deve essere inferiore a quello della crescita e non bisogna lasciare che aumenti, perché in questo caso aumentano le possibilità che il differenziale diventi sfavorevole (i>g).
Ma cosa non considera Blanchard e neppure la Bce? Semplicemente che a bloccare la crescita italiana è stata proprio la rincorsa di tutti i governi, dietro costrizione della Commissione europea, ad abbassare il debito. Rincorsa fatta a suon di avanzi primari e tagli alla spesa pubblica che ha depresso sostanzialmente la crescita a differenza degli altri Paesi che invece hanno usufruito o di ampi deficit (quindi spesa) come proprio gli Usa, la Uk e il Giappone oppure confidando sul surplus artificiale e non competitivo come la Germania. La Cina invece ha usufruito di tutti e due gli elementi (deficit reali intorno al 10% e surplus di bilancia commerciale molto alti grazie a un bel po’ di dumping commerciale), raggiungendo vette impareggiabili di crescita del Pil.
Se il debito pubblico sia sostenibile o meno potrà anche dipendere in parte dai tassi di interessi ma dipende soprattutto da altri fattori. In primis, la moneta con la quale ci si indebita e se questa è controllabile dall’emettitore. Se l’Argentina e il Venezuela emettono debito in dollari difficilmente potranno ripagarlo. In questa stessa situazione si trovano i paesi dell’eurozona perchè emettono un debito che non possono gestire.
A tal proposito cito un paper sempre della stessa Bce, Working Paper Series nr. 2072 del giugno 2017 “Con una moneta nazionale, l’autorità monetaria e l’autorità fiscale possono coordinarsi per garantire che il debito pubblico denominato in quella valuta non sia inadempiente, vale a dire che i titoli di Stato in scadenza saranno convertibili in valuta alla pari, così come i depositi di riserva in scadenza presso la banca centrale sono convertibili in valuta alla pari.
Con questo accordo in vigore, la politica fiscale può concentrarsi sulla stabilizzazione del ciclo economico finché non si è ottenuta la guarigione. In particolare, se l’autorità fiscale effettua un trasferimento forfettario alle famiglie, le famiglie sono più ricche a un determinato livello di prezzo e aumentano le spese.
Tuttavia, sebbene l’euro sia una valuta fiat, le autorità fiscali degli stati membri dell’euro hanno rinunciato alla capacità di emettere debito esente dal rischio di insolvenza.”
Il che dovrebbe chiudere il discorso. Il debito pubblico è un problema finché manterremo separate l’autorità fiscale e l’autorità monetaria, situazione che abbiamo voluto, ne abbiamo fatto oggetto di un trattato e lo rispettiamo come fosse scritto sulla tavole sacre nonostante l’evidenza economica e sociale gridi vendetta. Il tutto è diventato talmente dogmatico che le stesse autorità monetarie che ci impongono sacrifici al suon di alta disoccupazione e distruzione di servizi pubblici, possono permettersi di scrivere che stanno operando al di fuori della normalità senza che ci sia una minima reazione da parte di chi legge.
Non ci resta, dunque, che continuare a giocare con i grafici di Blanchard che pur ha un merito, visto che è stato ripreso dalla Bce e quindi dalla Banca d’Italia: tenere viva la debolissima fiammella del dibattito.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Il clima delle persone

La creatività si nasconde nelle vie silenziose della Ferrara che tace. I creativi sono schivi, lavorano in silenzio, ma se hai l’occasione di incontrarli sono ricchi di parola, d’anima, di suggestioni e di energia da donarti. Quella che scopri ti sembra un’altra Ferrara, ma per te, che da anni scrivi di città della conoscenza, non certo inaspettata.
Varchi una porta davanti alla quale sei passato per anni del tutto ignaro e scopri che lì una volta c’era un forno per cuocere le coppie di pane ferrarese, con la sua rivendita accanto.
Il locale è rimasto qual era, con le sue bocche da fuoco che si aprono su una parete di maioliche bianche. Ora non ci fanno più il pane, ora lo spazio è il luogo in cui lavora un’intelligenza creativa della città, come una presenza in disparte, da non disturbare, perché possa sfornare le sue sorprese: una scultrice del legno. Sì perché a Ferrara, terra della bassa e dei filari di pioppi, si dà vita all’acero, al tiglio, al cirmolo, al rovere e al frassino, come nelle nostre dolomiti, dalla Val Gardena al Bleggio Superiore.
Pare un teatro questo atelier, dove forme e oggetti del tempo sostano solo apparentemente in silenzio come quella parte di città che li ospita, ma in realtà attendono di tornare ad essere vivi nel loro forno di una volta appena tu te ne sarai andato, non senza aver compreso il segreto della loro magia.
Noi ferraresi con la terra, intendo la malta, l’argilla, abbiamo un rapporto particolare perché ci sentiamo costituiti di quella fanghiglia che fa il fiume quando lambisce i suoi argini e poi c’è la nebbia che la bagna e le dà forma. Il racconto del Genesi, quando il dio alitò la vita nel fango, doveva essere ambientato qui da noi.
La ceramica ferrarese ha un’antica tradizione, ora da scoprire è quella reinventata nelle botteghe che ormai capita di incontrare sempre più spesso nella nostra città. Tane della creatività dove si impasta l’argilla in nuove forme e nuovi colori, come nella città si lavora il plexiglass, si fanno vetrate, si dipinge con la carta reinventando i grandi gialli e verdi dei campi di girasole di Van Gogh.
Nel silenzio Ferrara custodisce un sapere tacito che nutre i luoghi del “fare creativo”. Crediamo di essere nella società dell’informazione e della conoscenza, ma la creatività resta come in ogni epoca il fattore chiave dell’economia e della società, nel lavoro come in altre sfere della nostra vita. L’impulso creativo è quello che distingue l’umanità dalle altre specie. Di questa creatività brulica la nostra città.
L’abbiamo scoperta la scorsa settimana, il 23 e il 24 marzo, accompagnati dai bravissimi studenti del nostro Liceo Artistico, Dosso Dossi, che ci hanno guidati per gli itinerari di “Cardini” alla scoperta degli atelier di 23 artisti ferraresi, iniziativa promossa dal CNA e patrocinata dall’amministrazione comunale.
Artisti e giovani che si preparano all’arte, una cura, un’attenzione, una solidarietà tra generazioni, bella, nuova e importante. Vorremmo che non fossero occasioni, ma il fare quotidiano proprio di una città della conoscenza, di una città che apprende. Di una città che fermenta di pensieri, di idee, di creazione, di apprendimenti che passano di mano in mano, di testa in testa.
Vorremmo che fosse il clima della città, la sua linea di fondo, la sua colonna sonora, quello che Richard Florida nel suo ‘The rise of the creative class’ definisce come “people climate” contro il “business climate”, il clima delle persone anziché degli affari che invece ancora ispirano l’idea di Ferrara “città della cultura”.
Un clima capace di formare, attrarre e trattenere persone speciali, non solo creative. Perché il futuro si gioca sull’intelligenza e sul sapere, sulle competenze e sulla qualità delle persone, più che sugli affari, più sulle botteghe della creatività che sulle retrobotteghe, a partire dalle città, i nuovi hub del millennio.
Scoprire la creatività che scaturisce dal lavoro delle mani dei giovani studenti del Dosso Dossi impegnati a dare corpo e colore alle loro fantasie sui pannelli di legno che circondano il cantiere delle case dell’Acer in via Fiume, a dimostrare che la scuola può uscire dalle sue mura.
Che è possibile una scuola senza mura che liberi il potenziale di intelligenze giovani che tiene in ostaggio nelle aule tra cattedre, banchi e programmi da condurre in porto.
Che le nostre scuole brulicano di potenzialità preziose che non devono attendere il domani per esprimersi, ma che hanno il diritto già oggi di dare il loro contributo alla città che è loro come di tutti noi. Ed è compito di noi adulti fornire loro più di un’occasione.
Luci, bagliori, flash che contrastano con il grigio squallore della balbettante campagna dei candidati a governare la città, che già mostra d’essere più intelligente di loro. Più intelligente delle paure, più intelligente delle soluzioni che ciascuno presume di tenere in tasca, più intelligente delle assemblee civiche che si guardano dentro anziché apprendere a guardare fuori.
Nessuno si mostra capace di lanciare il cuore oltre l’ostacolo, di accendere il futuro, di illuminare d’entusiasmo il grigiore delle nostre nebbie.
Intanto per fortuna la città, nel silenzio, continua a palpitare dentro.

L’ARIA CHE TIRA:
Su FerraraItalia segui in diretta la campagna elettorale

Mancano meno di due mesi alle elezioni amministrative per la nomina del sindaco di Ferrara: il dibattito pubblico è ancora sottotono, ma comincia a crescere l’attivismo degli esponenti politici e dei partiti. I candidati – tutti o quasi tutti – sono già scesi in campo, manifestato le loro intenzioni. Fino ad ora abbiamo ascoltato slogan e parole d’ordine, ma le pochi programmi e idee precise sulla Ferrara del futuro. Speriamo di capirci di più nelle prossime settimane.

Questo giornale non è interessato a voci di corridoio o illazioni di alcun tipo: gossip e pettegolezzi non ci appassionano. Le elezioni sono una cosa seria. E pensiamo che i ferraresi l’abbiano capito benissimo: il 26 maggio si decide il futuro di Ferrara e, conseguentemente, un pezzo di avvenire per ciascuno di noi.

Questo giornale ha deciso di dare direttamente la parola ai protagonisti: ai candidati e a coloro che li sostengono attivamente. E daremo spazio anche a chiunque voglia dire la sua, commentare i programmi elettorali, esprimere preferenze, indicare i problemi da affrontare e magari anche idee concrete per risolverli.

Abbiamo scelto un modo semplice e innovativo. Aprite la bacheca L’ARIA CHE TIRA  https://www.freedonia.it/ferraraitalia/ e potrete leggere le parole dei candidati e di chi li sostiene. E tutti i ferraresi potranno partecipare al flusso utilizzando Twitter e digitando gli hashtag #Ferraraelezioni oppure #elezioniFerrara19.Ogni nuovo commento farà scalare in basso il commento precedente, sicché troverete il più recente sempre in testa.
A Ferrara, in queste e nelle prossime settimane, il vento soffia e soffierà forte, il dibattito si arricchisce continuamente di nuove voci. Visitando la bacheca L’ARIA CHE TIRA vedrete che gli aggiornamenti saranno costanti e frequenti, minuto per minuto.

L’ARIA CHE TIRA è un modo per seguire in diretta questa lunga campagna elettorale, Un modo per essere informati di ogni appuntamento e dichiarazione, per sapere cosa propongono i protagonisti. E per partecipare.

Fate una prova. Visitate L’ARIA CHE TIRA alle 8 del mattino. Tornate a visitarla a mezzogiorno nell’intervallo del pranzo. E all’ora del te, all’ora di cena, appena prima di coricarvi. Il vento soffia, Il rullo dei commenti continua a girare. Potrete assistere minuto per minuto all’evolversi del confronto e dello scontro elettorale.

C’è solo un vincolo, una cosa non accettiamo, ed è bene che lo sappiano tutti, compresi i candidati e gli esponenti politici: i commenti espressi con insulti, ingiurie, toni razzisti, e frasi violente verranno cancellati. L’ARIA CHE TIRA deve rimanere un luogo civile, uno spazio per esprimersi e per capire, non lo squallido sfogatoio che incontriamo troppo spesso sui social.

Non resta che augurarvi buona lettura.

La redazione di Ferraraitalia

Ripartiamo dal rispetto e dal bene comune

Caro direttore,

la recente presentazione del tuo ultimo libro ‘Responsabilmente liberi’ mi dà lo spunto per qualche considerazione. Parto dall’inquadramento dei tuoi scritti che ha proposto Fiorenzo Baratelli – quello della razionalità, che si lega all’etica e alla morale, richiamandosi soprattutto a Kant – e dal concetto che ne deriva “per li rami”, direbbe Dante, di “civile conversazione”, frutto dell’Illuminismo, oggi rinnegato per far posto alla canea, all’invettiva, all’offesa, alla violenza preconcetta.
Sono convinto, con Baratelli, che oggi la civile conversazione (che è poi un rapporto umano tra le persone, rispetto dell’altro, capacità di ascolto, esercizio che deve tendere dialetticamente al “giusto mezzo” indicato da Aristotele come virtù etica) sia da raggiungere, in politica e nella società, con il conflitto. Cioè con una lotta – non saprei definirla altrimenti – culturale, che può assumere i connotati di un movimento di resistenza e di rivolta civile, in diverse forme (mai violente, sia chiaro!). Ci soccorre, ed è di piena attualità, il pensiero di Antonio Gramsci.

Se questo movimento saprà suscitare sentimenti profondi nella Grande Indifferenza – così per me si esprime oggi lo spirito del tempo – troverà seguaci: anzitutto per difendere la nostra autonomia intellettuale – e quindi la nostra libertà – e la nostra sopravvivenza (leggi: dignità dell’individuo e futuro dell’ambiente e del pianeta) avrà seguaci.
La libertà e la responsabilità del singolo – alla base, credo, dei tuoi scritti – è una questione antica, teologica e filosofica, da declinare nei tempi moderni. Temo che i condizionamenti pervasivi di cui soffriamo abbiano modificato negli anni in moltissime persone i concetti di bene e di male, instaurando progressivamente un relativismo etico che impedisce – secondo me da Nietzsche in poi con ragionamenti progressivamente stravolgenti – di scegliere con ragione l’uno o l’altro (semplifico, ovviamente).

Quello che ieri era illecito moralmente ed eticamente oggi non lo è più: il campo della discrezionalità e dell’arbitrio si è allargato pericolosamente, anche nell’informazione (vedi ad esempio le regole stracciate dal giornalismo dei quotidiani tipo ‘Libero’, la connivenza tra giornalismo e potere, gli effetti ventennio berlusconiano altamente diseducativo, ecc.). C’è bisogno di un nuovo sistema di diritti e di doveri?
Purtroppo sappiamo che non è avvenuto – per colpa di tanti, anche della sinistra, inutile qui riaprire processi – un vero rinnovamento etico dei costumi. Un Rinascimento morale. Viene in mente Franco Fortini, e la sua profetica affermazione: “Tutto è diventato gravemente oscuro”.

Dunque, vivere nella selva di oggi significa resistere, rifiutando con ogni energia le grida e le bestialità, il pensiero unico e le idee imposte; mostri da combattere, ognuno come può e sa fare meglio. Agendo, come ha insegnato Hans Jonas, in modo che le conseguenze di ogni nostra azione “non distruggano la possibilità futura di un’autentica vita umana sulla terra”.
Mi pare un punto di (ri)partenza. Forte? debole? Non lo so. Sono certo però che la battaglia è sui valori, e per l’affermazione di comportamenti rispettosi dell’altro e del bene comune. Forse in questo modo possiamo recuperare una nuova razionalità e una qualche prospettiva, per noi e per chi viene dopo di noi.

Prima di Greta ci fu Suzuki: ecco il suo discorso all’Onu in difesa del pianeta

Prima di Greta ci fu Severn: Severn Suzuki, una bambina canadese che il 22 marzo 1992 parlò davanti all’assemblea dell’Onu in occasione del Word water day. Aveva 12 anni, allora, la piccola Severn, e non fu meno efficace della ormai celebre Greta Thunberg ad esporre dinanzi ai rappresentanti delle Nazioni unite, riuniti in Brasile, le ragioni sostenute da un gruppo di suoi coetanei, in particolare per sensibilizzare i delegati sui temi della fame nel mondo, dell’ambiente (già allora vi era l’allarme destato dal buco nell’ozono) e la necessità della salvaguardia di tutte le creature animali insidiate dall’inquinamento e dai rischi di estinzione.

Allora, come ora per Greta, grandi apprezzamenti, tanta emozione, molte promesse. Ma poi, nulla di fatto… tutto svanì sotto la coltre dell’ipocrisia che sempre cela la difesa dell’interesse dominante: quello di sua maestà il profitto. Si ripeterà la storia?

Ecco il testo integrale del suo discorso:

“Buonasera, sono Severn Suzuki e parlo a nome di Eco (Environmental Children Organization). Siamo un gruppo di ragazzini di 12 e 13 anni e cerchiamo di fare la nostra parte, Vanessa Suttie, Morgan Geisler, Michelle Quaigg e me. Abbiamo raccolto da noi tutti i soldi per venire in questo posto lontano 5000 miglia, per dire alle Nazioni Unite che devono cambiare il loro modo di agire.Venendo a parlare qui non ho un’agenda nascosta, sto lottando per il mio futuro. Perdere il mio futuro non è come perdere un’elezione o alcuni punti sul mercato azionario. Sono a qui a parlare a nome delle generazioni future. Sono qui a parlare a nome dei bambini che stanno morendo di fame in tutto il pianeta e le cui grida rimangono inascoltate. Sono qui a parlare per conto del numero infinito di animali che stanno morendo nel pianeta, perché non hanno più alcun posto dove andare. Ho paura di andare fuori al sole perché ci sono dei buchi nell’ozono, ho paura di respirare l’aria perché non so quali sostanze chimiche contiene. Ero solita andare a pescare a Vancouver, la mia città, con mio padre, ma solo alcuni anni fa abbiamo trovato un pesce pieno di tumori. E ora sentiamo parlare di animali e piante che si estinguono, che ogni giorno svaniscono per sempre. Nella mia vita mia ho sognato di vedere grandi mandrie di animali selvatici e giungle e foreste pluviali piene di uccelli e farfalle, ma ora mi chiedo se i miei figli potranno mai vedere tutto questo.
Quando avevate la mia età, vi preoccupavate forse di queste cose? Tutto ciò sta accadendo sotto i nostri occhi e ciò nonostante continuiamo ad agire come se avessimo a disposizione tutto il tempo che vogliamo e tutte le soluzioni. Io sono solo una bambina e non ho tutte le soluzioni, ma mi chiedo se siete coscienti del fatto che non le avete neppure voi. Non sapete come si fa a riparare i buchi nello strato di ozono, non sapete come riportare indietro i salmoni in un fiume inquinato, non sapete come si fa a far ritornare in vita una specie animale estinta, non potete far tornare le foreste che un tempo crescevano dove ora c’è un deserto. Se non sapete come fare a riparare tutto questo, per favore smettete di distruggerlo. Qui potete esser presenti in veste di delegati del vostro governo, uomini d’affari, amministratori di organizzazioni, giornalisti o politici, ma in verità siete madri e padri, fratelli e sorelle, zie e zii e tutti voi siete anche figli. Sono solo una bambina, ma so che siamo tutti parte di una famiglia che conta 5 miliardi di persone, per la verità, una famiglia di 30 milioni di specie. E nessun governo, nessuna frontiera, potrà cambiare questa realtà.
Sono solo una bambina ma so e dovremmo tenerci per mano e agire insieme come un solo mondo che ha un solo scopo. La mia rabbia non mi acceca e la mia paura non mi impedisce di dire al mondo ciò che sento. Nel mio paese produciamo così tanti rifiuti, compriamo e buttiamo via, compriamo e buttiamo via, compriamo e buttiamo via, e tuttavia i paesi del nord non condividono con i bisognosi. Anche se abbiamo più del necessario, abbiamo paura di condividere, abbiamo paura di dare via un po’ della nostra ricchezza. In Canada, viviamo una vita privilegiata, siamo ricchi d’acqua, cibo, case abbiamo orologi, biciclette, computer e televisioni. La lista potrebbe andare avanti per due giorni.
Due giorni fa, qui in Brasile siamo rimasti scioccati, mentre trascorrevamo un po di tempo con i bambini di strada. Questo è ciò che ci ha detto un bambino di strada: “Vorrei essere ricco, e se lo fossi vorrei dare ai bambini di strada cibo, vestiti, medicine, una casa, amore ed affetto”. Se un bimbo di strada che non ha nulla è disponibile a condividere, perché noi che abbiamo tutto siamo ancora così avidi? Non posso smettere di pensare che quelli sono bambini che hanno la mia stessa età e che nascere in un paese o in un altro fa ancora una così grande differenza; che potrei essere un bambino in una favela di Rio, o un bambino che muore di fame in Somalia, una vittima di guerra in medio-oriente o un mendicante in India.
Sono solo una bambina ma so che se tutto il denaro speso in guerre fosse destinato a cercare risposte ambientali, terminare la povertà e per siglare degli accordi, che mondo meraviglioso sarebbe questa terra! A scuola, persino all’asilo, ci insegnate come ci si comporta al mondo. Ci insegnate a non litigare con gli altri, a risolvere i problemi, a rispettare gli altri, a rimettere a posto tutto il disordine che facciamo, a non ferire altre creature, a condividere le cose, a non essere avari. Allora perché voi fate proprio quelle cose che ci dite di non fare? Non dimenticate il motivo di queste conferenze, perché le state facendo? Noi siamo i vostri figli, voi state decidendo in quale mondo noi dovremo crescere. I genitori dovrebbero poter consolare i loro figli dicendo: “Tutto andrà a posto. Non è la fine del mondo, stiamo facendo del nostro meglio”. Ma non credo che voi possiate dirci più queste cose. Siamo davvero nella lista delle vostre priorità? Mio padre dice sempre siamo ciò che facciamo, non ciò che diciamo. Ciò che voi state facendo mi fa piangere la notte. Voi continuate a dire che ci amate, ma io vi lancio una sfida: per favore, fate che le vostre azioni riflettano le vostre parole.”

(con la collaborazione di Andrea Cirelli)

 

“Istanti”, intrecci di vita quotidiana cuciti dall’estro poetico di Franco Stefani

Franco Stefani, Istanti, Genesi, 2019
Il libro sarà presentato a Ferrara, alla biblioteca Ariostea, mercoledì (3 aprile) alle 17. Con l’autore dialogherà l’attore e conduttore Saverio Mazzoni, che leggerà alcuni testi poetici e in prosa.

dalla prefazione di Sandro Gros-Pietro

La produzione letteraria di Franco Stefani è caratterizzata dalla ricchezza delle forme e delle soluzioni. L’identico rigoglio di scelte si ritrova nei contenuti e nelle tematiche. Si tratta di una traversata dentro la scrittura che approda a una copiosità di destinazioni. Ne deriva un mosaico compositivo ottenuto con l’accostamento armonico di differenti tessere che unite insieme alludono a un’impronta di universalità. Gli scopi verso cui la scrittura di Stefani è orientata sono principalmente la rappresentazione della vita reale e la realizzazione della bellezza della creazione artistica. Il binomio vita/arte è, dunque, al centro del discorso di Stefani. L’opera scorre su due binari paralleli, che sono l’orientamento autobiografico e gli esercizi di stile creativo. I due corni della fiamma si alimentano a vicenda.
(…) Il discorso o per meglio dire l’intreccio poetico diviene allora una rete di continui agganci istantanei, di rimandi, di rimbalzi di sponda, di variazioni e riconversioni. L’esercizio dello stile poetico è modulato sui diversi registri dell’attualità contemporanea, dall’esperimento di ripresa della poesia visiva, come si manifesta in “Dover essere”; agli svoli idealisti di impegno politico, come “Il conflitto esiste ancora”; agli svaghi minimalisti, come “La valigia”; alle compunzioni emotive d’occasione, con riferimento a Montale, come “Magia”; a molti altri schemi e sistemi del linguaggio poetico già registrato nei repertori dell’accademia. Tutto ciò dimostra la competenza di lettura del Poeta e la sua facilità di citazione e di omaggio nei confronti del “déjà lu”.
L’invenzione più radicale di Franco Stefani sta nella concezione stessa della sua poetica, che è stata svuotata di una precisa identità di linguaggio poetico: il suo linguaggio è una pluralità di linguaggi, se fossimo astrofisici lo chiameremmo un “linguaggio a stringhe”, un insieme di “mondi paralleli”.

Dietro questa scelta si intravede un atteggiamento di superamento della cosiddetta “poesia autoreferenziale” (…) La poesia di Franco Stefani al contrario è una poesia referenziale nei confronti delle altre arti e discipline del sapere, in primo luogo della musica, del canto, ma anche della filosofia, della narrativa, del giornalismo o delle scien­ze. Sono continui i riferimenti a cantautori, musicisti, narratori, filosofi, giornalisti o altro. Ciò fa della poesia un arcobaleno che sovrasta le diverse fonti dell’esperienza umana. Detto in termini più attuali, la poesia fa da interfaccia con le diverse forme del messaggio umano: è un’applicazione multimediale del sistema di conoscenza. Probabilmente, è proprio questa la caratteristica più innovativa e moderna della poetica di Stefani.

Il libro Istanti è scandito in tre sezioni che si chiamano, la prima, “Notte, giorno, variazioni”; la seconda, “Suoni diversi”; la terza, “Narrazioni”. Proprio quest’ultima rappresenta un ulteriore aspetto di poliedricità della poetica dell’Autore, in quanto è scritto in prosa, sotto forma di brevi racconti e, in molti casi, addirittura di micro-racconti. In verità, l’accostamento nello stesso libro di poesia e prosa risale alle origini della nostra letteratura (…)

Tra panorami di città e scorci della natura, in un intreccio di fatti della vita quotidiana e nell’eco di eventi storici di attualità o del passato prossimo, si snoda la sapiente ricerca della bellezza impostata dalla poesia e rafforzata dalla prosa di Franco Stefani, che è uno scrittore documentato e sapiente, abile segugio delle piste di scrittura già delineate da un universo di autori con i quali egli dialoga idealmente negli esergo e nelle citazioni e omaggi, tra musica, canto, filosofia e giornalismo, in un giostrare continuo delle coordinate di riferimento, ma nella facondia di soluzioni espressive sempre nuove e personalizzate.

Baratelli, quattro conversazioni filosofico-esistenziali su Giacomo Leopardi

Un itinerario leopardiano in quattro incontri, a cura di Fiorenzo Baratelli (presidente dell’Istituto Gramsci di Ferrara), che si preannuncia come salutare linfa culturale di primavera. Il filo che terrà insieme le quattro conversazioni sarà di carattere ‘filosofico-esistenziale’, non critico-letterario. Giacomo Leopardi è il poeta dei giovani e della giovinezza per la grandezza della sua anima. Il suo dolore è anche il nostro per la comune condizione umana, precaria e fragile. Il suo radicale bisogno di felicità è la nostra continua aspirazione inappagata. E nella guerra quotidiana che è in corso nei nostri cuori non c’è mai definitiva sconfitta per i nostri desideri, ma una continua ‘protesta’ contro la sofferenza e gli ostacoli che insidiano le nostre utopie.

Ecco il programma dettagliato del ciclo che ha per titolo “Giacomo Leopardi, il ‘giovane favoloso’”
Gli incontri si terranno presso la sede del circolo culturale Doro, piazzale Savonuzzi, 8 (Ferrara).

Venerdì 5 aprile, ore 21 “Riflessioni sulla vita di Giacomo Leopardi”
“Ecco entrare il Conte Giacomo Leopardi. Tutti ci levammo in piè. Tutti gli occhi erano sopra di lui. Quel colosso della nostra immaginazione ci sembrò, a primo sguardo, una meschinità. In quella faccia emaciata e senza espressione tutta la vita s’era concentrata nella dolcezza del suo sorriso”. (Francesco De Sanctis “La giovinezza”)

Venerdì 3 maggio, ore 21 “La filosofia di Leopardi. Natura, ragione, pessimismo, dolore, immaginazione, illusione, desiderio”
“…nulla al ver detraendo…” (“La ginestra”)

Venerdì 17 maggio, ore 21 “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani”. Considerazioni su ‘società e politica’ in Leopardi.
“Gl’italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi. L’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta che alcun’altra nazione europea e civile. Sono incalcolabili i danni che nascono ai costumi da un abito di cinismo diffuso”. (“Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani” Marsilio Editore)

Venerdì 31 maggio, ore 21 “L’infinito” (1819): a duecento anni da un capolavoro assoluto.
“Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: / e il naufragar m’è dolce in questo mare”. (“L’infinito”)

Declino demografico e immigrazione: che fare?

“Uno spettro si aggira per l’Europa, anzi due”: il declino demografico e l’immigrazione.
Due fenomeni che fanno paura ma, se ben governati, possono portare a nuovo sviluppo e, paradossalmente l’uno (immigrazione) è la soluzione dell’altro (spopolamento).
Le persone nel mondo sono sempre più mobili: i viaggiatori hanno superato 1,2 miliardi all’anno. Le spese per i trasporti degli italiani sono raddoppiate in 50 anni e sono prossime a quelle per alimenti e bevande. L’aeroporto di Bologna ha un traffico passeggeri doppio del valore del Pil dell’economia della città, è cresciuto anche negli anni della grande crisi e dal 2019 allargherà la pista e attiverà una navetta (people mover) per la stazione ferroviaria. Insomma, muoversi è diventato importante quanto mangiare. E tra qualche anno le spese per trasporti supereranno quelle per l’alimentazione. Si muovono innanzitutto i più ricchi e i cittadini dei paesi ricchi, e non solo per viaggi, ma come residenza: basti pensare che nel biennio 2017 e 2018 300mila italiani si sono trasferiti all’estero (più del il doppio dei 119mila immigrati sbarcati nel 2017).
E’ un fenomeno mondiale: in Gran Bretagna (forse la meta più ambita) quelli che se ne vanno sono la metà di quelli che entrano, in Francia sono equivalenti. In Spagna, invece, sono più quelli che escono di quelli che entrano come immigrati (proprio come per l’Italia). Gli italiani, peraltro, hanno una lunga storia di emigrazione. Dopo molti anni in cui l’emigrazione italiana si era ridimensionata attorno alle 50mila unità annue, ora sta crescendo per l’attrazione esercitata da tutti i paesi europei anch’essi in declino demografico e con un grande fabbisogno di giovani. E’ comprensibile che molti dei nostri figli vadano all’estero non solo attirati da salari e lavori migliori, ma per molte altre ragioni: per imparare una lingua, studiare, fare un’esperienza, incontrare altre culture.
Invece gli immigrati e rifugiati che cercano di arrivare in Europa lo fanno perché scappano da situazioni quasi sempre drammatiche: guerre, violenze, miseria. In genere impiegano più di un anno, rischiano moltissimo e devono pagare spesso somme ingenti ai trafficanti di esseri umani. La strategia di bloccare l’immigrazione illegale funzionerà nei prossimi anni solo se si attiveranno flussi regolari e legali di immigrazione di cui abbiamo bisogno. La storia, infatti, insegna che bandire il traffico di alcolici (o droga o prostituzione…) produce un traffico illegale. L’Italia dal 2012 non ha più flussi regolari e ha ormai un fabbisogno consistente di manodopera esterna stimato attorno ai 200-250mila immigrati all’anno .
E’ un problema diffuso in tutta Europa. Se si escludono Regno Unito, Francia e Olanda, quasi tutti i paesi europei perderanno fino al 2030 un milione circa di abitanti all’anno, ma per l’esiguo numero di giovani nati che si presenteranno sul mercato del lavoro, si stima un fabbisogno di manodopera esterna da 2 a 3 milioni all’anno.

La denatalità colpisce in modo più acuto l’Italia: i nati nel 2017 sono stati 458mila (-21% sul 2008) . La causa fondamentale è lo stile di vita, il lavoro di entrambi i genitori, la mancanza di tempo, il crescente benessere che produce ovunque una diminuzione di figli (anche nei paesi in via di sviluppo). Incide anche la crescente infertilità (specie maschile) dovuta a stress e inquinamento.

Il fenomeno riguarda anche la provincia di Ferrara che detiene quasi un record (negativo) in Italia, avendo uno dei più bassi tassi di figli per donna (1,2).
Sul piano più generale dello spopolamento, però, all’interno della nostra provincia ci sono situazioni molto differenziate. Da un lato ci sono i Comuni dell’Alto ferrarese in forte crescita come Cento che dal 2002 ad oggi è cresciuto del 21%, o Poggiorenatico che beneficia nel trovarsi sulla linea ferroviaria con Bologna (+27%), ma anche Vigarano è cresciuto (+10%), Terre del Reno (+5,9%). L’unico comune in crisi demografica dell’Alto ferrarese è Bondeno che ha perso 1500 abitanti (-9,5%).
In forte crisi sono quasi tutti i Comuni del Basso ferrarese, in particolare Berra (-19,1%), Ro (-15,3%), Jolanda (-15%) . Per questo è stato avviato uno specifico progetto della Regione sul Basso Ferrarese con un finanziamento di 12 milioni di euro. Una crescita hanno avuto, invece, Comacchio (+9,2%) e Lagosanto (+10,5%), il primo in quanto capitale del turismo sui lidi, il secondo per la presenza dell’ospedale del Delta.
Ferrara città, nonostante la perdita di popolazione dovuta ad un saldo naturale in cui ogni anno i morti sono circa 2mila e i nati circa 7-800, ha avuto una piccola crescita demografica (1%) dovuta alla economia terziaria del capoluogo che attrae lavoratori. La popolazione nativa ferrarese , come abbiamo visto, è comunque in forte calo.
Su 132mila residenti, gli stranieri sono 13.616 (10,3%). ma gli immigrati dal sud Italia e da altre regioni sono ormai 30mila. Nel giro di 30 anni si stima che i ferraresi nativi diventeranno la metà della popolazione residente..
La capacità di crescita totale (che somma il tasso naturale –molto negativo- a quello esterno –molto positivo-) di Ferrara città (+2%) si colloca al 30° posto in Italia (sui maggiori 120 Comuni). E’ una posizione molto buona, considerando il forte calo naturale. Significa che la città è molto più dinamica e attrattiva verso l’esterno di quanto normalmente non si pensi, perché la residenza è un indice predittore di sviluppo. Non a caso ai primi posti in Italia per crescita totale troviamo città come Milano (+10,8), Treviso, Parma (+6,5), Bergamo, Trento (+4,9), Bolzano, Rimini, Modena(+3), Padova, Reggio e Bologna (+2,3). Si consideri che la crescita demografica è sempre stato uno dei maggiori fattori di sviluppo economico e paesi come Regno Unito, Germania, Francia, Olanda, Canada, Stati Uniti sono cresciuti molto in passato in quanto hanno sfruttato la forte immigrazione che hanno ben governato facendo dei lavoratori “stranieri” (oggi in gran parte loro cittadini) una base eccezionale della crescita della produttività del lavoro .
Se quindi la crescita demografica fa ben sperare per la prosperità dell’Alto ferrarese, della città capoluogo e di Comacchio, ben diversa è la situazione di alcune Aree interne (7-8 ne ha indicate anche la Regione) dove i residenti si riducono ogni anno in grande quantità con il rischio che, giunti al di sotto di una certa soglia, avvenga un vero e proprio “collasso” con l’abbandono di interi paesi, il che pone gravissimi problemi di sicurezza e manutenzione del territorio. Già oggi la popolazione anziana (con più di 65 anni) è salita ad oltre un quarto e nel 2046 la quota di anziani su bambini passerà da 166 a 238 ogni 100.
Come è già successo negli oltre 3mila Comuni italiani in via di spopolamento sugli Appennini, sulle Alpi e nelle aree interne del Sud, il declino demografico porta alla chiusura di asili, scuole elementari, negozi, servizi. Ma c’è una minaccia più grave, proprio perché invisibile, che è determinata dalla mancanza di giovani che si offrono sul mercato locale del lavoro e che siano in grado (per numerosità e qualificazione) di far fronte anche al solo turn over di chi va in pensione.Qualcuno potrebbe azzardare che avendo quasi tre milioni di disoccupati si potrebbero impiegare questi, ma non si fanno i conti che già esiste un milione di posti di lavoro che non vengono occupati da questi tre milioni per varie ragioni .
Un’altra soluzione sarebbe aumentare il tasso di natalità degli italiani, come in parte tentano di fare giustamente le politiche degli ultimi Governi, ma da un lato gli studi internazionali dicono che l’incentivo economico alla natalità ha sempre sortito scarsi effetti, dall’altro qualora avesse effetti significativi, si tradurrebbe in lavoratori dopo…almeno 20 anni.L’Italia con 23 milioni di occupati che pagano oneri previdenziali tutti gli anni per 16 milioni di pensionati (destinati a diventare 20 nel 2030) ha di fronte a sé due sole alternative: a) aumentare gli oneri previdenziali ogni anno in rapporto alla crescita (certa) dei pensionati e quindi aumentare il costo del lavoro; b) aumentare l’occupazione, il che può avvenire solo con una immigrazione legale dell’ordine di circa 150-200mila immigrati all’anno .
Per quanto riguarda Ferrara ogni politica di aiuto alla natalità e che favorisce le giovani coppie è più che benvenuta, ma è probabile che gran parte dei problemi della mancanza di offerta di lavoro che lamentano già le imprese sarà risolta con i giovani meridionali che vengono a Ferrara a studiare all’Università e da una quota residuale di immigrati.
Ciò pone all’ordine del giorno l’importanza di avviare quanto prima (come hanno fatto all’estero) buone politiche di accoglienza ed inserimento al lavoro per lo sviluppo locale, oltre che per evitare tra Ferraresi e “stranieri” (dei quali c’è necessità) conflitti di ordine sociale.

Le modalità di un’accoglienza che porti all’integrazione sono note: si tratta di programmare flussi legali in base ai bisogni delle nostre imprese. Più che un singolo paese, può farlo molto meglio l’Unione Europea, in quanto sarebbe un negoziatore molto più forte e autorevole al fine di selezionare le migrazioni e fare contemporaneamente accordi coi paesi per il reinserimento dei clandestini in Italia ed Europa, dopo una prima fase in cui converrebbe (anche per i costi) tentare l’inserimento di quelli già presenti con percorsi organizzati, lasciando aperta la strada del rimpatriato assistito per altri.

Il Regno Unito, la Germania, la stessa Polonia e l’Ungheria, proprio come l’Italia, non hanno alcun futuro senza immigrazione. Nell’ipotesi (teorica) di bloccare ogni immigrazione le nazioni si troverebbero in pochi anni in recessione dovendo poi tagliare pensioni, welfare e diritti creando un caos sociale.
Occorre quindi organizzare flussi regolari di immigrazione finalizzati alle professioni di cui abbiamo bisogno, con selezioni che favoriscano coloro che hanno i titoli, la conoscenza della lingua, privilegiando le famiglie sul modello del Canada. Per i rifugiati andrebbero rafforzati i ‘corridoi umanitari’, inventati, peraltro, dagli italiani.
Ciò dovrebbe azzerare il traffico di essere umani. Sarà forse impossibile impedire completamente una modesta immigrazione illegale, ma è questo un prezzo da pagare finché non si aiuteranno in modo consistente i paesi Africani. Si consideri che il piano Marshall americano del dopoguerra che aiutò tutta l’Europa fu pari a circa l’1,2% del Pil Usa all’anno e durò 4 anni: 88% furono aiuti e solo 12% prestiti. Il 70% dell’aiuto venne dagli Usa, 12% da Canada, 7,7% dall’America Latina, altri con 6,2%. Una notevole distanza dall’aiuto attuale dell’Italia alla cooperazione internazionale che è pari allo 0,3% del Pil annuo.

La sfida migratoria ci stimola anche a cambiare il modello di apprendimento scolastico basato solo sull’Istruzione e non anche sulla Sperimentazione. Gli Istituti Professionali raccolgono gli studenti che hanno maggiori debolezze nelle “intelligenze” logico-matematiche e sono le principali agenzie formative di quella fascia di operai e tecnici di cui hanno un grande fabbisogno le imprese manifatturiere. Molti di questi studenti hanno altre forme di intelligenza e necessitano di un apprendimento basato su una parte prevalente di laboratori, apprendimento da sperimentazione e alternanza scuola-lavoro. Riforme che hanno avviato da decenni molti paesi europei (ma anche il Trentino Alto Adige) e che dovremmo applicare in tutta Italia, Ferrara compresa.

Tratto da: ANNUARIO SOCIO-ECONOMICO FERRARESE 2019, a cura del Cds di Ferrara

Gianrico Carofiglio a Ferraraitalia: “Incompetenza e demagogia al Governo. All’Italia serve ben altro”

“Con i piedi nel fango”: un titolo eloquente quello del libro-intervista sulla politica che Gianrico Carofiglio presenterà domani (venerdì 29 alle 15,30 a Ibs Ferrara). “La politica è fare i conti con le cose come sono davvero: cioè spesso non belle e non pulite – è scritto nella presentazione del volume -.  Bisogna entrare nel fango, a volte, per aiutare gli altri a uscirne. Ma tenendo sempre lo sguardo verso l’orizzonte delle regole, dei valori, delle buone ragioni”.
E’ l’occasione per ascoltare un intellettuale lucido, appassionato e tagliente, noto al grande pubblico soprattutto per i suoi splendidi romanzi (fra i quali la serie dell’avvocato Guerrieri e quella del maresciallo Fenoglio). Ma i numerosi e illuminanti saggi di cui, pure, è autore, forniscono chiavi di comprensione e preziosi elementi di consapevolezza relativi al mondo in cui viviamo. Il suo è uno sguardo che tiene insieme gli aspetti antropologici e quelli politici, investigando il carattere e le propensioni individuali, nonché vizi, vezzi e (spesso perdute) virtù della sfera pubblica.
Una perla che fa storia a sé nella ricca produzione dell’autore è, poi, “Passeggeri notturni”, raccolta di brevi e folgoranti considerazioni sul vivere, che traggono spunto da fatti reali, talvolta impastati in oniriche ispirazioni.

“Con i piedi nel fango” è edito da GruppoAbele e riporta l’articolata e appassionante conversazione fra l’autore e il giornalista Jacopo Rosatelli. L’incontro di domani è organizzato dal dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, grazie all’inesausto prodigarsi del professor Andrea Pugiotto, costituzionalista, che con Carofiglio dialogherà. Lo scrittore, che è stato magistrato e senatore,  ha accettato di anticipare a Ferraraitalia alcune delle riflessioni che faranno da filo conduttore alla conversazione, che sarà accompagnata dalle letture del Centro teatro universitario di Ferrara.

La politica è spesso inganno. Nel libro lei sostiene che i meccanismi comunicativi che stanno dietro a pratiche di manipolazione funzionali all’acquisizione del consenso debbano essere conosciuti e padroneggiati pure dal politico onesto. Vuol chiarire questo passaggio?
Sostengo che il politico onesto debba conoscere le tecniche di manipolazione per potersene difendere, ma escludo che debba o possa usarle perché la manipolazione non è mai etica. Ritengo invece che la politica onesta debba impadronirsi di efficaci strumenti di comunicazione che tengano conto, in una pratica etica, del fatto che spesso le scelte politiche sono emotive e non razionali.

Afferma, però, che in alcuni casi la menzogna o la reticenza siano necessari. In quali?
Mi riferisco perlopiù all’omissione: ogniqualvolta sia indispensabile per un interesse superiore (che non può mai essere quello personale del politico in questione) e non implichi la manipolazione dei destinatari.

Per quanto concerne le abilità strategiche, lei sostiene che il politico onesto quando non può sottrarsi al confronto con il mascalzone (o l’imbecille) deve essere capace di neutralizzarne le mosse scorrette. Come?
Prima di tutto bisogna conoscere quelle mosse, come dicevamo prima. Poi una buona tecnica, fra le tante, è rendere manifesto il tentativo di manipolazione, svelare l’inganno. È uno dei modi più semplici ed efficaci per neutralizzarlo.

Scardinando un luogo comune, afferma che al politico consapevole conviene dichiarare i propri limiti e i propri errori. Perché?
Perché gli errori rendono amabili, diceva Goethe. Intendeva che gli errori (quelli che si è capaci di ammettere, naturalmente) sono un segno della nostra umanità. Inoltre ammettere gli errori ci consente di apprendere da essi e dunque progredire.

Giusto! Ma un conto sono gli errori, ben altro invece sono spregiudicatezza e malafede. In questo senso, è d’accordo con Luciano Violante, al quale fa riferimento nel libro, quando ci segnala che in Italia i confini fra illegalità e politica sono stati spesso evanescenti?
Spesso, sì. Purtroppo.

Sullo sfondo il tema centrale, quindi, è ancora una volta verità e menzogna. Al riguardo, principalmente a causa dei sistemi di diffusione delle informazioni tipici dei social network, la possibilità di smentire le false notizie è pesantemente ostacolata, in conseguenza del meccanismo virale di propagazione delle cosiddette ‘fake news’, che di fatto rende impossibile ripercorrere tutti i canali di propagazione. E’ d’accordo?
Parzialmente. È vero che la fondamentale differenza sta nel meccanismo – e dunque nella velocità – di propagazione. Non direi però che sia sempre inibito ogni serio tentativo di rettifica.

A proposito di verità, nel testo lei argutamente segnala tre suggestive rimodulazioni anagrammate del termine: ‘relativa’, ‘rivelata’, ‘evitarla’. Io personalmente  sto con Popper, Pirandello e Zagrebelsky e considero la verità frutto di una ricerca inesausta, condotta con la consapevolezza di non poterne mai pienamente comprendere l’essenza e dunque sempre gravata dal dubbio di un possibile fraintendimento… Lei, che prima di essere scrittore è stato giudice, che rapporto ha con la verità?
Amichevole ma circospetto. L’idea di fondo è che buona parte di quello che chiamiamo verità dipenda dai punti di vista. Bisogna dunque accettare che anche nel nostro punto di vista (che di regola, per ovvie ragioni di miopia, ci sembra il migliore) ci siano profili difettosi e veri e propri errori. Bisogna imparare a guardare le cose dal punto di vista dei nostri interlocutori e anche dei nostri avversari. Questo ci rende più tolleranti e più capaci di cogliere la complessità dell’oggetto: la verità, appunto.

Lei per cinque anni è stato Senatore, eletto nelle liste del Pd. Pensa in futuro di potersi ancora direttamente impegnare in politica?
Non saprei. Quella è un’esperienza passata. Se sorgessero le condizioni, se avessi l’impressione di potere essere davvero utile ci penserei.

Infine, transitando dall’analisi all’attualità, che giudizio dà dell’attuale governo e che futuro immagina per il nostro Paese?
Molto negativo. Una miscela pericolosa di incompetenza, demagogia e arrivismi personali. Immagino – mi auguro – un futuro in cui il nostro Paese sia sorretto da mani ben più esperte. Mani guidate da un senso dell’etica della democrazia che vedo quasi del tutto assente in chi sta governando in questo non fortunato periodo.

 

Per saperne di più, si può leggere anche la cronaca dell’incontro con l’autore in libreria “Gianrico Carofiglio a Ferrara” [fai clic sul titolo per andare alla pagina linkata]

Ka mate, Ka ora: il cerchio della vita dei Māori

E’ dei giorni scorsi la prima grande commemorazione delle vittime della strage nella moschea di Noor a Christchurch, in Nuova Zelanda, avvenuta il 15 marzo. Anche molte donne non musulmane hanno indossato un velo improvvisato, un fazzoletto, una sciarpa sul capo in segno di lutto e vicinanza alla comunità colpita; lo ha fatto anche una poliziotta, reggendo un mitra e una rosa rossa. Ma accanto a questa immagine, rimane scolpito nella mente il grande, inaspettato tributo, il giorno successivo al massacro, davanti al luogo di culto: quello inscenato dal gruppo di motociclisti Māori, Manya Kaha Aotearoa. Un Haka in onore dei cinquanta scomparsi nell’attentato, una manifestazione di profondo rispetto per i morti, le loro famiglie e la loro comunità.

E’ la danza tradizionale dell’etnia Māori neozelandese, che ha saputo mantenere da sempre la sua forte identità e la sua cultura, difendendone tradizioni e tratti caratteristici. Ha mantenuto fino a oggi perfino il proprio re, figura autorevole e prestigiosa, pur non ricoprendo alcun ruolo formale e costituzionale. Un popolo di 750.000 unità, da tempo convertito al cristianesimo, che non ha mai cercato la completa integrazione con le altre etnie, anche se incoraggiato dal governo attraverso programmi di facilitazione alla convivenza, con l’obiettivo di proteggerne e preservarne al contempo la specificità. Un popolo fiero, davanti al quale nel 1997 l’esecutivo neozelandese fece ammenda e riconobbe i danni morali e materiali subiti durante la colonizzazione inglese, mentre la regina Elisabetta II, capo dello Stato, si scusò formalmente incontrando l’allora sovrana Māori, Tea Ata, autentica rappresentante e ambasciatrice della cultura di questo popolo.
Davanti all’efferato attentato di Christchurch i Māori c’erano; sono comparsi improvvisamente, a consegnare un segno della loro contrizione nell’unico modo solenne, grave, intenso ereditato dai loro avi e sempre presente nei loro cerimoniali e avvenimenti importanti: la Haka. Considerata erroneamente una danza di guerra, è la rappresentazione di gioia e di dolore, di liberazione, di sfida, esultanza, accoglienza, disprezzo, che nascono dall’interiorità più profonda. Una complessa composizione di suoni e movimenti del corpo, mani, piedi, braccia, lingua, accompagnati dal tono della voce, eseguiti secondo rigorosi canoni disciplinari che un leader detta al gruppo, incitando o allentandone i ritmi, scandendo i gesti, esortando. L’Haka è emozione pura, forza, espressività e passione con cui ogni volta viene riconfermata l’identità di razza; un rituale che impressiona per la sua potenza e che deriva dallo spirito guerriero che non hanno mai accantonato.
Oggi è praticato nei college, nelle università, nell’esercito e nelle celebrazioni storiche della Nuova Zelanda, ma tutti ricordiamo un’indimenticabile interpretazione di Haka nello stile Ka Mate, del 2005, eseguita dagli All Blacks, la squadra nazionale di rugby neozelandese che, sotto la guida del suo leader, il capitano Tana Umaga, rimase agli annali della storia di questo sport, seppur non rigorosamente di derivazione strettamente originale, ma modificata per l’occasione. E se accostiamo questo rito tribale agli spettacolari tatuaggi diffusissimi tra la popolazione, allora comprendiamo meglio come nella cultura Māori la forte volontà di autoidentificazione passi anche attraverso forme rappresentative artistiche notevoli.

Il Moko è il tradizionale disegno tattoo con cui vengono decorati i volti dei guerrieri un tempo come ora, che raccontano attraverso di esso la propria storia personale. Le donne esibiscono il riconoscibile tatuaggio sul mento per indicare il loro legame matrimoniale. Un popolo a volte indecifrabile, ma che sa esprimersi potentemente con i segni della sua cultura particolare e che ha lasciato tracce indelebili anche nella storia di molti altri popoli, partecipando alle loro vicende belliche. Durante la Prima guerra mondiale 500 Māori vennero arruolati nelle file dell’esercito britannico e formarono il Native Contingent, chiamato anche Māori Pioneer Battalion. Si distinsero nelle battaglie di Verdun e Arras, impiegati nei combattimenti ma anche nello scavo di trincee e tunnel a ridosso della linee tedesche, data la loro riconosciuta abilità in queste operazioni. La loro presenza durante la Seconda guerra mondiale è distinta dal coraggio e dal valore con cui si misurarono nella battaglia di El Alamein e nel nostro Paese, nella battaglia di Montecassino. Nel 1939 vennero arruolati 750 volontari Māori che, su sollecitazione dei loro capi, crearono un’unità esclusiva di nativi che non si risparmiarono per temerarietà, resistenza e capacità bellica. Lo stesso fedelmaresciallo del Reich, Erwin Rommel, “la volpe del deserto”, che li aveva notati nei combattimenti in nord Africa, non risparmiò apprezzamenti nei loro confronti, che contribuirono ad avvolgere di un’aura leggendaria questa popolazione. “Datemi il battaglione Māori e vincerò la guerra” sono le parole famose di Rommel. Il memorabile 28° battaglione Māori neozelandese fu anche il primo a entrare nella città di Empoli nell’estate del 1944, tra le macerie lasciate dai tedeschi in fuga. Non sappiamo se “Ka mate, Ka ora” (è la morte, è la vita), le parole che ricorrono potenti all’inizio dell’Haka come segno di ricostruzione e rinnovamento, risuonarono nelle viuzze della città devastata, come grido di liberazione e vittoria. Sappiamo però che le ultime invocazioni che tuonano nell’Haka sono: “Whiti te rā!” “il sole splende”; “Hī!” “Alzati!”.

LA RECENSIONE
La danza ossessiva di Sharon Eyal punta dritta al ‘cuore’ dello spettatore

di Monica Pavani

Prendi una poesia dal titolo Ocd (acronimo per Obsessive Compulsive Disorder), scritta dal campione texano di Poetry Slam Neil Hilborn. La poesia non è stratosferica, è abbastanza banale, ma picchia su un tasto che colpisce la sensibilità anonima e universale della rete e diventa virale. Chi parla nella poesia soffre di disturbo ossessivo compulsivo – appunto –, s’innamora e l’amore sembra salvarlo ma poi, come spesso accade, lo abbandona di nuovo alla sua solitudine. Il linguaggio è povero e l’enfasi della voce non basta a farne una grande poesia. E tuttavia è sufficiente per scatenare migliaia di click (compulsivi) e – soprattutto – per far esplodere l’immaginario di una geniale coreografa originaria di Gerusalemme, Sharon Eyal, che per ben diciotto anni ha militato – non semplicemente collaborato – con la Batsheva Dance Company di Ohad Naharin, ovvero la più dirompente forza propulsiva della danza israeliana.

Arriviamo allo spettacolo ‘OCD Love’ presentato al Comunale domenica dalla L-E-V Dance Company – “cuore” in ebraico –, fondata nel 2013 da Sharon Eyal insieme all’artista visivo Gai Behar e composta da danzatori mozzafiato. Scena buia, un velo di fumo aleggia in sala, si apre il sipario e l’inizio è già ipnosi: una danzatrice è immersa in un sinuoso assolo dove il corpo raggiunge il punto massimo di sensualità, ovvero ogni arto si muove verso il suo limite estremo, accenna all’infinito e si ripiega, come avesse una miriade di ali. Le movenze non rimandano a nulla che gli spettatori possano avere visto prima. Il metodo Gaga, ideato da Naharin trapela senz’altro come accento sull’intensità espressiva velatamente animale che muove il corpo, ma è un riferimento che deriva dal fatto di conoscere uno dei punti di partenza della compagnia e più oltre non si spinge. Sul palco entra una presenza maschile, poi il mistero si popola fino a comporsi di cinque danzatori, ma niente è svelato, la danza è pura ossessione: la forza di un desiderio assoluto che mai raggiunge il punto di saturazione e continuamente trova nuovi accordi, variazioni e impulsi. Ogni interprete avvita forme da un nucleo centrale, come se dal cuore (vedi il nome della compagnia) si diramassero infinite direzioni e ogni movimento le contenesse tutte potenzialmente. La naturalezza è strabiliante, così come strabiliante è la sapienza dei danzatori che sono al contempo meravigliosi solisti e un coro perfettamente all’unisono.

©Marco_Caselli_Nirmal
Foto nel testo e in copertina ©Marco_Caselli_Nirmal

Non si può prescindere dalla musica techno prodotta in loco da un vero e proprio mago del suono, il dj Ori Lichtik, fedele collaboratore di L-E-V, perché è la linfa che unisce le scene. Lichtik riesce a esasperare ritmi afro fino a farli sconfinare in musica disco o – sull’altro versante – in un’eco di musica classica. Ogni miscela è estremamente viva, e organica, esattamente come il pensiero coreografico che sta all’origine dello spettacolo. Naturalmente c’è una traccia che sorregge la sequenza musicale ma anche Lichtik a suo modo danza con le note al seguito dei ballerini.

A pensarci bene c’è un verso della poesia di Hilborn che dopo aver visto ‘OCD Love’ diventa estremamente suggestivo: “Tutto nella mia testa si è calmato. / Tutti i tic, tutte le immagini in continua successione sono semplicemente scomparse”. È l’effetto che fanno capolavori come questo, che sollevano – letteralmente – gli spettatori e li proiettano in un altro mondo dove l’aria e la luce sono molto più rarefatte.

‘OCD Love’ è l’atto finale di una stagione di danza che anche quest’anno ha offerto un panorama su alcune linee di ricerca – a livello mondiale – che scuotono davvero l’immaginario di chi ha la fortuna di sperimentare lo stra-ordinario qui, a Ferrara. Si auspica un riconoscimento sempre maggiore anche da parte del pubblico perché non è affatto scontato – in tempi di odi e paure in parte innescati dai mezzi di comunicazione con chiari intenti manipolativi – avere la possibilità di aprire i canali della sensibilità, dell’emozione, e assaporare la bellezza al suo culmine che svariati artisti sparsi per il mondo sanno ancora catturare e donare a cuore aperto.

L’addio ad Andrea Emiliani. Il ricordo nelle parole del fratello giornalista Vittorio

Si è spento a 88 anni, dopo qualche settimana di ricovero seguita all’insorgere di una grave malattia, Andrea Emiliani, notissimo storico dell’arte bolognese che a Ferrara ha lavorato come Soprintendente ai Beni artistici e culturali. Appena tre giorni fa la nostra città ha pianto la scomparsa di un altro apprezzatissimo ex Soprintendente, Andrea Alberti, 61 anni, le cui esequie ci celebrano domattina alle 10,30 alla chiesa di San Giorgio, anch’egli come Emiliani deceduto al Sant’Orsola di Bologna.
Andrea Emiliani era nato a Forlì nel 1931. Lo ricordiamo attraverso le parole del fratello Vittorio, giornalista, per molti anni direttore del Messaggero di Roma.

di Vittorio Emiliani

“Nostro fratello Andrea si è spento stanotte all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna dove era ricoverato da oltre due mesi per una grave malattia. Era nato il 5 marzo 1931 a Predappio Nuova (Forlì), ma aveva trascorso a Urbino l’adolescenza e la prima giovinezza appassionandosi all’arte. Abbiamo avuto la fortuna di abitare per oltre dieci anni di fronte al Palazzo Ducale, retto da Pasquale Rotondi, che, durante la guerra, era anche il nostro rifugio antiaereo. Ha terminato il Liceo Classico a Urbino per poi iscriversi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna dove il suo primo vero amico e maestro è stato lo storico dell’arte Francesco Arcangeli. In quell’ambito ha conosciuto il soprintendente alle Gallerie Cesare Gnudi che lo ha assunto, ventenne o poco più, quale “salariato di Soprintendenza” facendolo partecipare subito alle grandi biennali di arte antica. Politicamente si è sempre mosso, come i suoi maestri, nell’ambito del socialismo riformatore.

Laureatosi poi a Firenze con Roberto Longhi con una tesi su Simone Cantarini il Pesarese, grande incisore, allievo di Guido Reni, i suoi pittori sono stato per sempre gli urbinati Raffaello e Barocci e i bolognesi. Successivamente è diventato ispettore della Soprintendenza e quindi direttore della Pinacoteca Nazionale di Bologna, il più giovane d’Italia, che ha concorso a raddoppiare negli spazi e negli allestimenti.

Sulla scia di Cesare Gnudi e di altri grandi intellettuali quali Ezio Raimondi e Lucio Gambi, ha intrapreso i censimenti integrali dei beni culturali e ambientali di intere vallate appenniniche in Emilia-Romagna dando quindi un contributo anche antropologico alla storia dell’arte e del territorio. Uno dei suoi libri più significativi resta “Dal Museo al territorio”, una concezione che lo ha fatto giudicare nel modo più negativo la recente riforma Franceschini che ha tagliato al contrario il rapporto fra Museo e territorio separando assurdamente la tutela (lasciata, indebolita, alle Soprintendenze) e la valorizzazione (affidata ai Poli Museali). Ha partecipato a vari convegni firmando documenti decisamente polemici in materia.

Oltre a riprendere e a proseguire con grande slancio le Biennali di Arte antica a Bologna, organizzate quasi sempre (Guido Reni, Lodovico Carracci, Guercino, Crespi. ecc.) in collaborazione con un Museo europeo e uno statunitense, ha sviluppato la ricerca sulla storia della tutela inquadrando storicamente con Antonio Pinelli la figura di Quatremère de Quincy e la lettera programmatica di Raffaello e Baldassar Castiglione a Leone X e recuperando i primi testi di legge dei Granduchi di Toscana, dello Stato Pontificio (Pio VII soprattutto) e Lombardo-Veneto. Uno dei suoi temi prediletti è stato il neoclassicismo così vivo nella sua Romagna fra Faenza, Forlì e altre città, nei teatri, negli edifici pubblici, nei mercati pubblici, ecc. Fra i suoi amici più cari restauratori quali Ottorino Nonfarmale, col quale aveva impostato un centro studi sulla pietra, e Carlo Giantomassi.

In ottimi rapporti col mondo dell’arte e dei musei di tutto il mondo, ha coordinato e pubblicato di recente con Michel Laclotte, creatore del Grand Louvre, le ricerche di una équipe di storiche francesi sul recupero delle opere d’arte portate a Parigi da Napoleone e in parte recuperate colà da Antonio Canova erede della Soprintendenza pontificia alle Antichità, con l’aiuto anche finanziario del duca di Wellington, il vincitore di Waterloo: “Opere d’arte prese di Italia nel corso della campagna napoleonica 1796-1814 e riprese da Antonio Canova nel 1815”, Cartabianca Editore, Faenza.

Ha curato per l’Alfa diversi volumi di ricostruzione storica e politica sulla Romagna, su Bologna, su Palazzo Milzetti, gioiello neoclassico di Faenza da lui acquistato per il patrimonio statale, restaurato e arredato. Ma fondamentale resta il suo libro “Una una politica per i beni culturali”, uscito da Einaudi nel 1974 e ripubblicato di recente dalla Bononia University Press.

Medaglia d’oro della cultura, Légion d’honneur, accademico dei Lincei, ha presieduto per anni, dopo aver lasciato a 67 anni per limiti di età la carica di Soprintendente ai beni storici e artistici di Bologna, Ferrara, Forlì, Ravenna e Rimini, l’Accademia di Belle Arti di Bologna, l’Accademia Clementina e l’Isia di Faenza. E’ stato fra i fondatori, con Lucio Gambi e Ezio Raimondi, dell’IBC Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna. Innumerevoli i saggi scritti anche sul patrimonio paesaggistico, sul censimento dei beni della Chiesa, sui centri storici. Col grande fotografo Paolo Monti predispose la campagna di censimento fotografico del centro storico di Bologna (10.000 scatti i n due anni), premessa fondamentale al piano Cervellati per il restauro e il recupero a fini residenziali e sociali della città entro le mura. Con Paolo Monti e Pier Luigi Cervellati ha tenuto un corso di lezioni interdisciplinari al DAMS allora nato da poco.

Lascia in tutti noi grande dolore, affetto e rimpianto, ma anche la sollecitazione a servire, senza retorica di sorta, nei fatti, il bene pubblico, lo Stato, con una passione civile, possiamo ben dirlo, senza cedimenti”.

21 marzo a Ferrara: istituzioni e cittadini per mantenere vivi memoria e impegno delle vittime innocenti delle mafie

“Non li avete uccisi. Le loro idee camminano sulle nostre gambe”: è la celeberrima frase sullo striscione della manifestazione all’indomani delle stragi del 1992. “Abbiamo un debito di riconoscenza”, ha detto don Luigi Ciotti nel discorso che ha concluso la manifestazione nazionale di Padova di questo 21 marzo 2019, XXIV Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. “Sono morti, ma in realtà per noi sono ancora vivi, perché i loro sogni, le loro speranze devono camminare sulle nostre gambe”. “Una memoria viva, che ci sfida ad assumerci sempre di più responsabilità e impegno”, “per costruire attorno a noi più vita, perché vinca la vita”, ha sottolineato il fondatore del Gruppo Abele e di Libera.

E anche a Ferrara il 21 marzo quest’anno ha collegato passato e presente, memoria e futuro, a partire dalla lettura dei nomi delle vittime, che si è tenuta giovedì mattina in Municipio in contemporanea con le altre piazze d’Italia.
“Siamo in un momento nel quale forse gli anticorpi etici sono venuti un po’ meno”, ha detto il sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani e, ricordando le inchieste al Nord, in Emilia Romagna, Lombardia e le recentissime in Veneto, ha aggiunto: “siamo ormai consapevoli che nessun territorio si può dire al sicuro”. Anche per questo, ha concluso Tagliani, “E’ un piacere che questo evento si svolga qui nella casa comune, nella casa di tutti i cittadini”. Insieme a lui erano presenti il prefetto, Michele Campanaro, e il questore Giancarlo Pallini. “E’ importante per me essere qui oggi, occasioni come queste possono rinsaldare i legami nei territori e creare anticorpi”, ha affermato il prefetto. Campanaro ha ricordato come “un’esperienza importante, non solo dal punto di vista professionale”, gli anni da vice prefetto vicario a Caserta e l’omicidio di don Peppe Diana, di cui quest’anno ricorre il venticinquesimo anniversario. Pallini si è detto orgoglioso di provenire dalla stessa terra del sacerdote, quella Casal di Principe che ha reagito: don Peppe aveva detto “Per amore del mio popolo non tacerò” e il suo popolo si è ribellato al “clima di omertà e intimidazione”. Un clima che “nelle organizzazioni mafiose raggiunge l’apice, ma che tutti noi possiamo vivere nel nostro quotidiano”. Ecco perché, ha concluso il Questore, “non bisogna chiudersi in sé stessi”.
Magistratura, forze dell’ordine e amministrazioni non vanno lasciate sole: la battaglia contro le mafie “è una battaglia culturale e di civiltà”, ha ricordato il referente del Coordinamento provinciale di Libera di Ferrara, Donato La Muscatella. Per questo la lettura dei nomi è, non solo idealmente, “un passaggio di testimone” perché la memoria delle vittime e dei loro famigliari diventi “un valore condiviso che spinga all’impegno”. Un impegno anche e soprattutto alla ricerca della verità perché, come ha ricordato don Ciotti a Padova “l’80% dei famigliari non conoscono ancora la verità, o la conoscono solo in parte”.
E in questa staffetta, il testimone è passato da Sindaco, Prefetto e Questore, ai cittadini: in trentacinque, fra i quali aderenti ad associazioni e realtà cittadine – Emergency Ferrara, Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, Pro loco Casaglia, Movimento Nonviolento, Unicef, Cgil Ferrara – e giovani del Copresc di Ferrara, del gruppo scout di San Luca e della 5° F del Liceo Roiti, hanno letto l’elenco delle vittime, che parte dal 1879 e arriva al 2018, mentre i nomi risuonavano anche nella piazza municipale, ai piedi dello scalone. Un rito civile e democratico fatto di volti e di voci che si assumono la responsabilità del ricordo e dell’impegno.

La sala dell’Arengo prima dell’inizio della lettura
Alcuni momenti della lettura dei nomi
Alcuni momenti della lettura dei nomi
Alcuni momenti della lettura dei nomi
Alcuni momenti della lettura dei nomi
Inaugurazione della mostra

La mattinata è proseguita con l’inaugurazione della mostra ‘Vittime di mafia’, a cura della casa editrice Becco Giallo. Storie di nuova resistenza contro l’omertà imposta della criminalità organizzata raccontate attraverso un linguaggio vicino ai giovani, ma non solo: le graphic novel. Protagonisti della mostra sono eroi del nostro tempo, che hanno sfidato e combattuto la mafia: Peppino Impastato, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Lea Garofalo, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo e Mauro Rostagno, disegnati da Marco Rizzo, Lelio Bonaccorso, Giacomo Bendotti, Nico Blunda, Giuseppe Lo Bocchiaro, Ilaria Ferramosca, Chiara Abastanotti e Gian Marco De Francisco. La mostra è allestita nell’atrio adiacente la Sala Arengo della residenza municipale, visitabile gratuitamente dal 21 al 27 marzo negli orari di apertura degli uffici comunali.

Nel pomeriggio, invece, due incontri per presentare due testi che allargano lo sguardo, per parlare di legalità come valore fondante di una cultura democratica e di una società solidale. “Abbiamo bisogno di parole e di pensieri che sappiano interpretare i mutamenti, che sappiano orientarci”, ha detto don Ciotti a Padova.
Il primo appuntamento, al dipartimento di giurisprudenza di Unife, con il volume ‘Il diritto al viaggio. Abbecedario delle migrazioni’ (Giappichelli 2018), presentato dai curatori Luca Barbaro e Francesco de Vanna, insieme a Baldassare Pastore, professore di filosofia del diritto presso l’ateneo ferrarese, Emilio Santoro, professore di filosofia del diritto presso l’Università di Firenze e Direttore del Centro interdipartimentale l’Altro diritto, Alessandra Sciurba, coordinatrice delle Cliniche legali presso l’Università di Palermo, e Thomas Casadei, professore di filosofia del diritto presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e membro del CRID – Centro di ricerca interdipartimentale su Discriminazioni e vulnerabilità. “Non basta accogliere, bisogna riconoscere le persone, occorre ritrovare ciò che ci accomuna tutti a prescindere dalle culture, dalle religioni e dalle idee, dobbiamo ritrovare ciò che ci fa riconoscere, ciò che ci rende prossimi e fratelli”, ha detto con chiarezza don Ciotti a Padova, proclamando poi il suo “no alla gestione repressiva dei migranti e all’attacco ai diritti umani”. Le migrazioni sono un fenomeno strutturale e i migranti se ne vanno dai loro paesi non tanto perché “gli va”, come sostengono alcuni politici, ma spesso perché costretti dal “sistema economico dell’occidente, che ha depredato e derubato intere zone del pianeta senza alcun riguardo e pietà per chi le abitava”, ha affermato ancora il fondatore di Libera.
L’ultimo appuntamento di giovedì 21 marzo è stato alla Feltrinelli per la presentazione di ‘Vent’anni di lotta alle mafie e alla corruzione. L’esperienza di Avviso Pubblico’, con Giulia Migneco, coautrice e responsabile comunicazione di Avviso Pubblico, e Antonella Micele, vicesindaco di Casalecchio di Reno e coordinatrice regionale dell’associazione. Avviso Pubblico è la rete di enti locali che concretamente si impegnano per promuovere in Italia la cultura della legalità e della cittadinanza responsabile: fondata nel 1996, conta oggi più di 370 aderenti, fra Comuni, Unioni di Comuni, Provincie e Regioni. Tutti amministratori che ‘a viso pubblico’ – appunto – si impegnano per la formazione dei colleghi e non solo e per (ri)dare credibilità alle amministrazioni locali: le istituzioni più vicine ai cittadini, tra i “maggiori produttori di legami sociali, di solidarietà, di reciproca fiducia tra i cittadini e nei confronti dello Stato”, come scrive nel libro Agnese Moro – ex presidente dell’associazione e figlia dell’on. Aldo Moro.

La presentazione alla Feltrinelli
La serata Da cosa nostra a casa nostra

Nel nostro territorio sono quattro i comuni aderenti: Ferrara, Cento, Fiscaglia e Voghiera. E proprio Isabella Masina, vicesindaco di Voghiera, ha parlato di Avviso pubblico come di un “aiuto fondamentale per orientarsi”, “una spalla professionale per supportare gli amministratori”. Con Antonella Micele si è invece tornati a parlare di come traghettare le esperienze di questi venti anni fatte nel futuro: è necessario e fondamentale “lavorare con le nuove generazioni, perché i giovani di oggi saranno i dirigenti di domani”. Parallelamente bisogna superare la concezione della trasparenza come ‘adempimento formale’: “non è una questione di burocrazia, ma di passione civile”. “Il buon amministrare e l’erogazione di servizi come diritti, oltre la logica del compromesso e dei favoritismi – ha concluso Micele – sono la condizione per una buona vita democratica”. E per togliere alle mafie il proprio paludoso terreno di sviluppo fatto di clientelarismo e corruzione: la criminalità si infiltra e offre servizi laddove lo Stato lascia vuoti.

Venerdì sera poi la parola è passata proprio a loro, ai giovani: al Punto 189 del Grattacielo gli scout del Gruppo Ferrara 4 di San Luca insieme ai giovani della parrocchia Immacolata hanno raccontato, anche in forma di spettacolo, la propria esperienza nelle terre tolte alla criminalità organizzata e gestite dalle cooperative, in un incontro significativamente intitolato ‘Da Cosa Nostra a casa nostra: viaggio di scoperta, conoscenza e responsabilità’.

Il programma delle iniziative ferraresi si concluderà il prossimo 29 marzo con un’altra presentazione alla Feltrinelli in via Garibaldi: ‘Castel Volturno. Reportage sulla mafia africana’ di Sergio Nazzaro, giornalista e scrittore, un viaggio duro e crudele tra Caserta e Napoli, nel delta del Volturno, per il quale Sergio Nazzaro ha ricevuto il Premio Testimone di Pace 2013.

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Accad(d)e oggi 21 marzo con Libera: Orizzonti di giustizia sociale. Passaggio a Nord Est

Papa Francesco: il gesuita pragmatico che fa pulizia nella Chiesa

Il 13 marzo 2013 Jorge Mario Bergoglio è stato eletto 266° pontefice della Chiesa cattolica e si può forse iniziare a racciare un primo bilancio di questi sei anni di papa Francesco. A farlo alcuni giorni fa, Massimo Faggioli, a Santa Francesca Romana, la sua parrocchia prima che spiccasse il volo nel 2008 per gli Usa, dove insegna e fa ricerca storica e teologica, ora, alla Villanova University di Philadlphia in Pennsylvania.

Il profilo tratteggiato di papa Bergoglio è stato quello di un “gesuita pragmatico” che, in sostanza, sta andando avanti per la sua strada innescando processi, più che formulare risposte risolutive. Un incedere incurante dei freni della curia romana, di un Pontefice che non perde il sonno la notte se il suo fare non incrocia il sostegno di un pensiero teologico. Anche se il suo tragitto pastorale non si può dire privo di una teologia e filosofia, come vorrebbe chi lo sminuisce come ‘parroco del mondo‘ in confronto con il papa teologo per definizione: Joseph Ratzinger.

Ma la parte saliente della riflessione di Faggioli è stata riservata allo scandalo degli abusi sessuali nella Chiesa.
Qui l’atmosfera in sala si è fatta densa e preoccupata.
Le rivelazioni nel giugno 2018 a carico dell’ex arcivescovo di Washington D.C., Theodore McCarrich (espulso il luglio successivo dal collegio cardinalizio per decisione di papa Francesco); in agosto il rapporto del gran giurì della Pennsylvania che rivelava il sistema di coperture a favore di sacerdoti accusati di pedofilia e alla fine dello stesso mese la pubblicazione del memoriale dell’ex nunzio negli Usa, Carlo Maria Viganò, con tanto di nomi e cognomi di cardinali e vescovi accusati di collusioni con circoli gay, che avrebbero favorito McCarrick e altri (e invito rivolto al Papa a dimettersi); fino all’annuncio di papa Francesco, in settembre, della riunione straordinaria dei presidenti delle conferenze episcopali a Roma dal 21 al 24 febbraio 2019.
E poi lo choc delle rivelazioni riguardanti l’Irlanda; la vicenda dell’arresto, con sentenza in diretta tv australiana, dell’ex ministro vaticano per l’economia, cardinale George Pell (condannato a sei anni di carcere per abusi sessuali); il film premio oscar ‘Il caso Spotlight‘ sulla diocesi di Boston con le accuse al cardinale Bernard Francis Law (dimessosi nel 2002 sotto il peso dello scandalo e morto nel 2017), di aver coperto in modo costante e sistematico gli abusi compiuti da sacerdoti; fino alla consapevolezza che “quasi tutte le chiese occidentali ne sono coinvolte a livello dei loro più alti responsabili”, scrive lo stesso Faggioli (Il Regno 2/2019).
Sono solamente alcuni esempi di un ciclone che si sta abbattendo sulla Chiesa cattolica (ma il fenomeno non risparmia le altre confessioni e la società in generale, nella sua mutazione antropologica nell’era capitalistico-digitale), senza contare che il silenzio che finora riguarda la Chiesa italiana pare non significhi che qui il problema non esista.

Un macigno grande come una casa, le cui implicazioni non fanno che aggiungere preoccupazione a inquietudine.
Proviamo a dirne solo alcune.
Il tutto accade dopo che per anni la predicazione morale ecclesiale è stata concentrata in modo insistito, martellante e ossessivo sulla sfera sessuale, fino all’irrigidimento intransigente sui valori non negoziabili, tralasciando in secondo piano la questione sociale e imbastendo alleanze – più o meno tattiche (atei devoti, tecocon…) – con abbracci politici imbarazzanti, se non sconfinati nella più plateale incoerenza.
Un’impostazione che, per quanto con l’attuale pontificato stia conoscendo una decisa correzione di rotta, finisce per porre un grande problema di credibilità della Chiesa, nell’impatto brutale contro le proporzioni dello scandalo abusi.
Le conseguenze non sono di portata minore, se si pensa che questo ciclone è facile fianco per usi strumentali sul piano teologico, pastorale, culturale e politico.

Se la globalizzazione, specie in Occidente, sta producendo disuguaglianze dove si attendeva il definitivo passaggio delle colonne d’Ercole di una nuova era di benessere, questo significa società facili prede di paure e nuovi rancori, con tanto di ripiegamenti nostalgici e chiusure dietro ripari, per quanto anacronistici, del passato: nazionalismi, sovranismi, suprematismi, muri, barriere, dottrine, tradizionalismo. Tutte letture che, per quanto strumentali, trovano orecchi sensibili per ostacolare chi vuole incamminarsi sulla strada di una ecclesia semper reformanda.

Restando nel recinto strettamente ecclesiale, non si potrà trascurare a lungo anche il problema di un collegio cardinalizio così pesantemente investito che, prima o poi, dovrà riunirsi per eleggere il prossimo Papa.
Non da meno è, e destinato a essere, il prezzo in termini di vittime innocenti di questo uragano: da chi, devastato, ha subito violenze inconfessabili, e tuttora inconfessate, ai casi, già verificati, di prelati dimessi o allontanati da incarichi pastorali, travolti sotto il peso insopportabile delle accuse, poi scagionati al termine dei processi.

Se poi l’altra categoria di cittadini ecclesiali, oltre ai consacrati, è quella dei laici, dai quali attendersi una ventata di aria nuova dove ristagna un’atmosfera a dir poco plumbea, non si possono trascurare le analisi di chi, con tutto lo spirito costruttivo che si vuole, ha intitolato libri come ‘Il brutto anatroccolo. Il laicato cattolico italiano‘ (2008). In questa riflessione, per esempio, Fulvio De Giorgi fa impietosamente notare che, per ordini partiti dalle alte sfere gerarchiche, per lunghi decenni i paradigmi conciliari della mediazione (Azione cattolica e cattolicesimo democratico) e del paradosso (la linea Roncalli-Dossetti), sono stati sacrificati per dare mano libera al paradigma movimentista della presenza (Comunione e liberazione): al posto del dialogo con la modernità si è dato fiato e spazio all’eterno ritorno del mito della conquista.
Il risultato è, almeno così sembra, che in queste condizioni fare appello al laicato è un po’ come infierire sulla Croce Rossa.

L’impressione, quindi, è che nella tempesta degli abusi sessuali, su cui esperti come Faggioli dicono che si sta solo iniziando a levare il coperchio, lo stesso papa Francesco corra il serio rischio di essere tremendamente solo nel suo pur eroico tragitto.
Da solo, perché ormai è impossibile rimetterci il coperchio: significherebbe andare incontro a una sconfitta tutta consumata sul piano dell’incoerenza, del testacoda.
Da solo, inoltre, perché questa sfida epocale avviene con un corpo ecclesiale a sua volta risultato di un modello formativo (l’età costantiniana, come l’ha chiamata Alberigo, il paradigma tridentino, come l’ha definito Paolo Prodi, o l’età piana di Fulvio De Giorgi), giunto storicamente al capolinea e con un cattolicesimo che tuttora si porta dentro le tossine di un clericalismo invasivo (da leggere la riflessione di Hervé Legrand su Il Regno 2/2019), che al più gli ha concesso ospitalità nella Chiesa, mai cittadinanza.
Non a caso papa Bergoglio, in un’analisi lucidissima, è arrivato a indicare nel clericalismo la radice deviante che in proiezione ha prodotto il disastro drammatico degli abusi, ancora da misurare in tutta la sua estensione.

E tornano alla mente le parole che l’allora cardinale Joseph Ratzinger pronunciò alla nona stazione della famosa via crucis del 2005, al posto di un esausto Giovanni Paolo II ormai al termine dei suoi giorni terreni: “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa”. Lo stesso Benedetto XVI, che nel 2013 rassegnò le sue clamorose dimissioni.

Il tempo è scaduto

da: Addizione civica

Addizione Civica prende atto dell’impossibilità di creare un vero polo civico ampio, coeso, pluralistico, capace di rappresentare quel mondo che si colloca nell’area del centro sinistra, fuori dai partiti tradizionali.

Ci abbiamo creduto non risparmiando energie e impegno nella ricerca della massima condivisione possibile attraverso strade di mediazione che portassero ad un risultato migliore della semplice somma delle idee di ciascuno.
Purtroppo questo tentativo non ha portato i frutti sperati.

Registriamo l’impossibilità di convergere su un unico candidato sindaco e per questo riteniamo concluso il nostro compito.
Pertanto non parteciperemo con una nostra lista alle prossime amministrative, anche per non alimentare la frammentazione che abbiamo sempre stigmatizzato.

Il nostro lavoro di questi mesi ci conforta per qualità, passione e competenza: per questo i componenti del nostro gruppo continueranno singolarmente il proprio impegno nei modi e nei contesti che ritengono più idonei.
Siccome la politica non è fatta solo di appuntamenti elettorali valuteremo come proseguire il percorso che ci ha coinvolti nel nome dell’impegno civico per il bene comune.

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