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Le ragioni della sconfitta? Autoreferenzialità ed equivoci su buon governo e diritti

Nei commenti di questi giorni a proposito della sconfitta del centro-sinistra e, segnatamente, del Pd, nella tornata elettorale amministrativa nella nostra città, è ormai diventato un ritornello quello di individuare la responsabilità primaria nell’opzione di continuità politica e programmatica rappresentata dalla scelta di aver candidato a sindaco Aldo Modonesi e nell’atteggiamento di “arroccamento” del Pd locale. Tutto ciò è senz’altro vero e indica gravi errori di impostazione della vicenda elettorale da parte del Pd ferrarese, cui è necessario che seguano coerenti interventi. Ritengo però quest’analisi un po’ troppo sommaria, con il rischio che essa finisca persino quasi auto assolutoria per troppi. Intendo dire che, forzando solo un poco questo ragionamento, si potrebbe arrivare alla conclusione che, se si fosse avanzata la proposta di un candidato “civico” sostenuto dal Pd, ciò sarebbe stato da solo in grado di produrre un altro risultato oppure che, oggi, il pur indispensabile azzeramento e ricambio dei vertici locali del Pd sortirebbe di per sé un effetto risolutivo rispetto ai problemi aperti. In realtà, a me pare che la scelta di continuità operata dal Pd ferrarese anche in quest’ultima vicenda elettorale non sia altro che la “punta di un iceberg” di questioni ben più profonde e che datano da non poco tempo. Infatti, se, da una parte, è evidente che il voto amministrativo nei Comuni discende sia da elementi di contesto nazionale che da specificità locali, dall’altra, non c’è dubbio che, in una fase di forte mobilità del voto e di frammentazione sociale e politica in particolare nel campo del centro-sinistra e della sinistra, queste ultime acquistano particolare rilevanza. Detto in altri termini, se il Pd paga fortemente gli errori del renzismo e della stessa nuova stagione a guida Zingaretti che non riesce a distaccarsi sufficientemente da esso, quelli che l’hanno portato a separarsi da una parte molto significativa dal “popolo della sinistra”, è altrettanto chiaro che, a livello locale, sempre dal Pd, sono state avanzate ipotesi politiche e di governo che non si discostavano da quell’impostazione e che, in un contesto economico e sociale non semplice come quello ferrarese, hanno rappresentato ulteriori ragioni per alimentare il distacco con le persone che storicamente sono state rappresentate dalla sinistra, a partire dai settori più deboli e fragili della società.

Vale la pena, allora, indagare alcune di queste ragioni. Lo faccio in modo certamente incompleto e in termini esemplificativi ma, spero, sufficientemente chiaro, anche a costo di essere un po’ schematico. Il primo tema riguarda le politiche economiche, sociali e di bilancio realizzate in tutti gli anni dei mandati del sindaco Tagliani dal 2009 ad oggi, di cui peraltro sono stati artefici anche esponenti – penso ad esempio a Marattin – oggi tra i più impegnati a prendere le distanze dalle scelte del Pd ferrarese.

Intanto, penso si possa dire che, in questi anni di crisi economica e sociale, la ricetta del “buon governo”, gravata anche da forti vincoli nazionali, ha assunto come priorità anche a Ferrara la riduzione del debito, sacrificando ad essa la spesa del lavoro pubblico, che è stata presentata come costo e non come risorsa che produce servizi, e la stessa spesa sociale, che pur non riducendosi in termini significativi, ha finito tuttavia per risultare insufficiente rispetto alle povertà, vecchie e nuove, che la crisi produceva. Tutto ciò, oscillando, tra l’altro, tra rappresentazioni ottimistiche – la crisi è alle nostre spalle – e asserzioni “rinunciatarie” – le risorse sono scarse, non possiamo più permetterci le tutele e le protezioni precedenti – ha ulteriormente rafforzato l’effetto di rendere più vulnerabili, e anche più sole, le fasce di reddito medio-basse.

Una seconda fondamentale questione è quella relativa al discorso sulla sicurezza e al legame improprio costruito con l’immigrazione, in particolare quella extracomunitaria. Qui, da parte di chi ha governato la città in quest’ultimo decennio, dapprima – e anche giustamente- si è voluto contrastare un’idea per cui Ferrara o almeno una sua parte era strumentalmente diventata “città invivibile e sotto assedio”, per poi, però, successivamente, dimostrarsi subalterni ad una lettura per cui essa andava affrontata prevalentemente come problema di ordine pubblico. Non si è costruita una “narrazione” alternativa e tantomeno politiche efficaci di legalità, accoglienza e inclusione, che fossero contemporaneamente capaci di produrre contrasto alla criminalità, rigenerazione del territorio e creazione di dialogo interetnico e interculturale. Lasciando spazio ad una “narrazione” di stampo sostanzialmente razzista e xenofoba, quella del “prima gli italiani”, su cui il populismo estremista di destra sta costruendo un egemonia culturale anche nei ceti sociali deboli. Che, non a caso, ha anch’essa come substrato l’idea che, in una situazione di “scarsità delle risorse”, non è possibile ragionare sul rispetto e l’estensione di diritti universali, ma qualcuno, necessariamente, starà indietro e, in questo caso, meglio gli ultimi che i penultimi.

Infine, terzo punto che merita una riflessione, e che ha a che fare con l’impostazione politica di fondo che il centro-sinistra ha messo in campo anche a Ferrara, è quello dell’autoreferenzialità del Pd e dell’Amministrazione comunale di questi ultimi anni, che, proprio per essere messo in discussione, va vista come corollario di una lettura sbagliata della società e delle sue dinamiche dentro la crisi. Detto in altri termini, è evidente che quando si usano lenti che non sanno cogliere i processi e le trasformazioni in atto e questi vanno in una direzione diversa da quanto si supponeva, ciò che mette in discussione dall’esterno le  certezze consolidate (e questo è valso non solo per il Pd, ma anche per settori della sinistra cosiddetta “radicale”, in specie quella di derivazione partitica) viene percepito come potenzialmente minaccioso, le critiche vengono vissute come attacchi strumentali e la partecipazione diffusa viene, nella migliore delle ipotesi, confinata e ricondotta lungo percorsi predefiniti.

Ho ben presente che già la sostanza del ragionamento che ho avanzato indica che risalire la china non sarà compito agevole e di breve durata. Non solo perché dobbiamo aspettarci che la nuova Amministrazione a trazione leghista, al di là di quello che potrà essere un “buonismo” di facciata, non potrà, come del resto succede a livello nazionale, che mettere insieme l’ incapacità di risolvere i problemi di fondo della città (imputati ovviamente ad altri) al fatto di fare strame di diritti umani fondamentali e produrre ulteriori regressioni sul piano culturale. Non solo perché le questioni da affrontare, a partire dai punti di criticità che ho sollevato, sono impegnative e necessitano di risposte complesse, non tutte risolvibili solo a livello locale. Soprattutto perché, se sono almeno parzialmente vere le considerazioni che ho avanzato, ciò significa predisporsi  ad un lavoro importante sul piano culturale, su quello sociale e su quello politico. Non si tornerà ad essere egemoni se non si lavorerà con un progetto sufficientemente definito sull’insieme di questi piani.

Ciò a me pare implichi almeno due terreni di impegno, da far vivere entrambi: un nuovo pensiero, che progressivamente faccia emergere un progetto rinnovato per la Ferrara degli anni a venire, ripartendo e potenziando il lavoro con cui diversi soggetti si sono cimentati anche nella vicenda elettorale (ho in mente, per esempio, i punti programmatici che Il battito della città, La città che vogliamo e Addizione civica avevano condiviso a suo tempo), e una nuova pratica, prima di tutto sociale. Che metta insieme su decisive questioni di scontro culturale e politico, a partire dall’antirazzismo e dall’antifascismo, le tante realtà che sono presenti in città e che possono convergere su contenuti condivisi e precisi, superando le spinte alla frammentazione e le tentazioni della primogenitura. Ma di questo, se il dibattito continuerà, si potrà tornare a parlare in modo più approfondito.

Il neoliberismo non è la fine della storia, serve un’uguaglianza sostenibile

Ottimo consiglio quello di Giangi Franz, lanciato via social, di leggere l’intervista di Fabrizio Barca a Gea Scancarello e pubblicata su Business Insider Italia. L’incipit è già un programma: “Oggi la sinistra è più moderata dei liberali: mancano i valori e una classe dirigente capace”. Un titolo che sembra cadere a fagiolo su un dibattito aperto anche a Ferrara, all’indomani dello storico risultato del ballottaggio alle elezioni amministrative di domenica 9 giugno.

Giuro che ignoravo quest’analisi quando ho scritto il pezzo che Ferraraitalia ha pubblicato con il titolo: “Voto e discernimento: strumenti democratici contro l’internazionale sovranista”, ma conforta verificare che la ben più autorevole lettura della realtà dell’ex ministro per la coesione territoriale del governo Monti, non fa sembrare frutto di allucinazioni le righe che ho messo in fila lo scorso 7 giugno. “Quando si raggiungono certi livelli di disuguaglianze e il malessere è così diffuso – dice Barca – l’idea stessa del capitalismo non può reggere, perché il capitalismo dà il meglio di sé quando è stimolato dalla riduzione delle disuguaglianze”.

A scanso di equivoci, il cofondatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, è perfettamente consapevole che “il capitalismo è sfruttamento per definizione”, ma subito dopo aggiunge che “è questione di bilanciamenti”. È l’antico adagio socialdemocratico del tosare la pecora. Se quindi da decenni si sono prodotte disuguaglianze mai viste prima è perché “sono state fatte scelte politiche sbagliate”. Anziché tosarla, la pecora è stata pettinata.

E qui arriviamo al cuore delle critiche mosse alla sinistra. “La prima è culturale: 30 anni fa, non ieri, molti partiti socialdemocratici – afferma – hanno comprato l’ideologia del “Non c’è alternativa: il capitalismo è uno solo” e se si pensa che non ci siano più i margini per lavorare sui meccanismi di formazione della ricchezza, non lo faccio; non per interesse ma perché mancano i valori”. La seconda è rivolta alle classi dirigenti: “quelle venute su in questi 30 anni sono state selezionate su questo credo, senza più la convinzione di un cambiamento che toccasse i sentimenti delle persone”. Di questo passo i partiti sono diventati “non valoriali”, quasi ossessionati dalla “mitologia del centro”, del “bisogna governare”, dei governi del fare, lasciando stare le visioni. Se si concorda che il ragionamento fila, si può osare un passo avanti.

Si discute, comprensibilmente, di ripartire in casa Pd dopo la caduta di Ferrara, con un dibattito già nelle prime battute plurale di posizioni, opinioni, riflessioni e analisi. Ora, se la questione di fondo è di uscire dallo schema “Non c’è alternativa”, per mettere al centro la necessità di un riequilibrio del sistema capitalista che così com’è non sta in piedi, per la stessa logica capitalista, allora parrebbe logico pensare di trovare un rilancio sfatando quella che Barca chiama la “mitologia del centro”, per riabitare, innanzitutto culturalmente, lo spazio che Bobbio definì quello naturale per la sinistra: l’uguaglianza. Vale a dire quel concetto che sottende un retroterra valoriale, che in questa lunga fase storica è stato svuotato da una drammatica e insostenibile situazione di disuguaglianza e di suicida concentrazione di ricchezza.
Per non parlare della spaventosa concentrazione di potere per il mancato governo dello sviluppo tecnologico e in particolare di internet, che fa dire ad Alex Zanotelli intervistato da Ferraraitalia: “Attraverso i nostri smartphone sanno tutto di noi, ci spiano di continuo. Quelle informazioni sono oro, chi le possiede comanda il tavolo. È ridicolo e grottesco che poi ci riempiono di moduli da firmare a garanzia della privacy”.

Quello di Barca non pare essere il solito appello per una sinistra di testimonianza, dei pochi ma buoni, perché dall’alto della sua osservazione registra che “c’è un pezzo del mondo del business, rappresentato dall’Economist, cioè un giornale liberale, che dice apertamente che così non si può reggere e sta dicendo che è tempo di accettare cambiamenti significativi”. E prosegue citando come esempio concreto l’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria sulla “necessità di una partecipazione strategica attiva dei lavoratori nelle aziende”, perché “bisogna ridare al lavoro una parola significativa nelle scelte strategiche imprenditoriali”.
Ci sarebbe – così afferma – anche parte del mondo imprenditoriale “che non vuole un mondo autoritario, che ha incassato i benefici di un brutto mondo e adesso si accorge della degenerazione”.
Un segnale che si aggiunge in questa direzione è il documento prodotto dal gruppo socialdemocratico europeo intitolato “Uguaglianza sostenibile”, presentato a Bruxelles il 27 novembre 2018. Fabrizio Barca è inoltre cofondatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, impegnato a studiare e proporre soluzioni concrete che restituiscano senso ai concetti di uguaglianza, pari opportunità e dignità del lavoro, garantiti dalla Costituzione.

Una sfida, quella di uscire dal vicolo cieco neoliberista del “Non c’è alternativa”, che si gioca sul piano europeo, ma che non vede completamente disarmati i contesti nazionale e persino locale, tanto che Barca si dice sicuro che “ogni livello ha spazi di manovra: chi dice il contrario semplicemente non vuole cambiare”. Anche il tempo per aprire questi nuovi fronti ci sarebbe e non pare neppure consegnato a un futuro indistinto: “un arco di tempo di tre, cinque anni”, se ci fosse la volontà delle “forze più avanzate della produzione, del mondo del lavoro e della cittadinanza attiva” di costruire nelle città “piattaforme aperte, collettive, tecnologiche e trasparenti”, di avviare “consigli di lavoro e cittadinanza” e di “sperimentare una strategia sulle periferie”. Un insieme di azioni “che farebbe la differenza e costruirebbe un’alternativa, che diverrebbe poi anche un’alternativa elettorale”.

Senza sapere leggere né scrivere, io un orecchio lo presterei a queste proposte, studiandoci sopra e magari invitando anche gente così a un congresso o a un convegno, giusto per avere un’idea di come ripartire dopo una sconfitta, si dice, non qualunque. Altrimenti occorre prepararsi a “una spirale di meno libertà, meno crescita e più disuguaglianza – è la conclusione – in cui vince il peggio del nostro paese, non il meglio”.

L’Eremo di Camaldoli: fuori dal tempo… per trovare un nuovo tempo

La mia recente esperienza, limitata a qualche giorno, all’interno di un monastero dalla tradizione millenaria, l’Eremo di Camaldoli, cercando di vivere il quotidiano ‘nella prossimità‘ della vita monastica potrebbe apparire a prima vista anacronistica per quella parte di donne e di uomini che mai l’hanno vissuta. È un percorso che non appartiene in generale alle persone, me compreso, che vivono la contemporaneità troppo spesso distratte dalla velocità delle proprie azioni e che non si accorgono, se non tardi, dello scorrere rapidissimo del tempo e di ciò che ci lasciamo di prezioso della Vita irrimediabilmente alle spalle.

All’inizio del Millennio precedente, ma ancora secoli prima, una certa nobiltà si rifugiava nei monasteri per obbligo o per necessità, mentre ora il sentire comune, alimentato dai media di ogni ordine e grado, giudica l’estraniarsi dalla roboante società che ci circonda un esercizio corroborante per la mente e per lo spirito.
Se escludiamo le sincere vocazioni, l’esperienza viene generalmente intrapresa da diverse categorie di esseri umani di vita laica: imprenditori e alti manager dell’industria afflitti nel profondo dallo stress da frenesia di obiettivi o da politici presi da sincera autocritica o da persone comuni attratte all’interno delle mura del monastero dal dubbio esistenziale circa la possibilità di un distacco dall’incombente quotidiano in un diverso equilibrio di vita basato sul silenzio e, perché no, sulla meditazione. Oppure, come il sottoscritto, interessato alla celebre e antica biblioteca dell’Eremo, fondata nell’XI secolo e ampliata nel Cinquecento, ricca di migliaia di preziosi manoscritti, cinquecentine, incunaboli e alla conoscenza del secolare quotidiano dei monaci, utile per un mio lavoro di scrittura in preparazione, ma poi presto coinvolto emotivamente nel temerario tentativo di comprendere il mistero che da circa due millenni motiva donne e uomini a pregare per la salvezza di altre donne e uomini.

Il Sacro Eremo di Camaldoli è stato ‘il mio quotidiano’ per alcuni giorni. Lo si raggiunge dopo circa quaranta minuti di auto uscendo dalla E45 a Bagno di Romagna con direzione Passo dei Mandrioli. Le alte e aride rocce stratificate della prima parte del percorso si trasformano percorrendo la strada tortuosa in pochi attimi in un bosco continuo denso di alberi ad alto fusto fra i quali si intravedono all’ultimo istante, e prima di un pianoro, le alte mura di sasso e malta che cingono le costruzioni monastiche.
Fondato a metà dell’XI secolo da San Romualdo a 1200 metri di altitudine in un’area isolata, di grande emotività, fra i boschi secolari del Casentino che lo hanno protetto come un confine naturale, il complesso dell’Eremo è circondato da mura che si elevano per oltre tre metri e abbracciano la foresteria, la chiesa, l’orto dalle piante officinali e, all’interno di un’area non accessibile ai visitatori, le tante singole cellette che ospitano i monaci di clausura.
Nei suoi quasi mille anni di storia l’Eremo ha ospitato i pellegrini in viaggio verso la Terrasanta e ha conservato immutato per i fedeli più ferventi lo status di luogo di preghiera e di meditazione. Per il sottoscritto, un laico, un luogo di grande fascino, attrazione interiore, misticità e anche curiosità.
Un tempo forse troppo limitato di permanenza il mio, ma l’ho deciso in funzione del mio crescente dubbio di non riuscire a resistere dentro un modello di vita che per certo volevo indagare e conoscere meglio, ma che avevo solamente appreso nei libri letti sul tema storico-politico del monachesimo medievale e dalle informazioni fatte circolare da chi con probabilità ne aveva solamente sentito parlare.

La vita monastica occidentale, eremitica o di comunità nel cenobio, pur nei secoli declinata dai diversi ordini è ancora riferibile alla Regola di San Benedetto, scritta a Montecassino dal santo nel VI secolo d.C. La prima stesura poneva forti limitazioni nella vita quotidiana ai monaci quali la povertà, la castità, l’obbedienza. Tutta la vita si svolgeva all’interno del monastero e, in larga parte, ancora si svolge nella preghiera e nella meditazione per la salvezza degli uomini e, nel passato, nel lavoro interno all’orto e nelle attività collegate che per alcuni ordini rappresentavano la fonte di sostentamento: “ora et labora”. Le attività lavorative si sviluppavano poi anche all’esterno grazie alla popolazione contadina e alle risorse e ai frutti che nei secoli si erano resi disponibili al monastero in ragione le consistenti donazioni di terreni e immobili da parte di nobili o proprietari terrieri locali.

Il lato forse meno conosciuto del monachesimo medievale, e certamente di valenza più terrena, fu l’influenza che famosi abati, il più noto l’Abate Bernardo poi diventato San Bernardo di Clairvaux, esercitarono a partire dall’ XI fino al XIV secolo su papi, re e imperatori. Fu decisivo il loro ruolo giocato nell’epopea delle Crociate in Terrasanta, dall’epica liberazione di Gerusalemme nel 1099 nella prima crociata e nelle successive, e in seguito la presenza si rafforzò con la filiazione delle abbazie in Europa e oltre e con il controverso clamore ottenuto con gli ordini dei monaci guerrieri/cavalieri fra cui il più famoso il potente ordine dei Cavalieri Templari.

La Storia si evolve. Oggi all’interno delle mura l’ambiente della foresteria camaldolese nel quale ero ospitato mantiene i caratteri invalicabili dell’estremo silenzio utile a ripercorrere, nei momenti del quotidiano riposo combinato alla mancanza di ‘connessione’, i cardini della nostra esistenza, il dolore, l’amore, la speranza, la gioia o le profonde amarezze della vita. Questi pensieri venivano bruscamente interrotti dal violento suono delle campane che nei secoli hanno scandito, e ancora oggi scandiscono e organizzano, la giornata dei monaci.
Nel nostro contemporaneo, cosi come nel Medioevo, i momenti della preghiera dei monaci sono regolati con il primo forte scampanio di possenti campane per le preghiere prestissimo il mattino quando ancora è buio. Le Lodi e poi attraverso l’ora sesta, la nona, il Vespro fino alla serale Compieta, verso le 20, che conclude la giornata monastica dedicata alla preghiera per monaci e laici all’interno delle abbazie, ma che secoli orsono gestiva anche la vita lavorativa nei campi dei contadini e degli abitanti dei villaggi non impegnati, come tutti noi oggi con continuità, alla schiavitù (ora irrinunciabile) del telefono portatile o delle conferenze via Skype.
Un mondo monastico quello dell’Eremo di Camaldoli oggi aperto all’esterno con monaci, quelli di Comunità, che insegnano nelle Università, vicini e sempre disponibili al dialogo con le persone ospitate, ma che all’interno delle alte mura di sasso ha conservato nei secoli i principi fondanti originari, declinati in parte alla vita contemporanea ma protetto per i credenti e per i monaci da un filtro antico che è quello della fede e della preghiera.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Alfabeto di sguardi, le parole silenti

Sguardi fugaci e muti mentre si aspetta il treno possono essere la metafora di una voglia di evasione, un tentativo di seduzione, ma anche di una incomunicabilità che non trova parole.

N: In attesa del treno, uomini e donne in attesa del treno. Peccato sia chiaro, guardando anche distrattamente, chi è maschio e chi è femmina; almeno nella grande maggioranza dei casi. Sarebbe divertente mascherare tutti, uomini e donne, con un analogo burkini nero, che lasci scoperti solo centimetri di pelle, per giocare a individuare chi è maschio e chi è femmina solo dall’atteggiamento.
Vedresti individui che lasciano passare altri individui e concentrano lo sguardo su di loro solo dopo che sono passati: e lo sguardo si posa, come uno scanner, prima sui piedi, poi sale lungo le gambe, indugia sul sedere come a soppesare mentalmente una fulminea equazione, infine risale fino alla testa, non prima di una ulteriore tappa intermedia di tre quarti.
Vedresti altri individui che, invece, ti catturano con un’occhiata fugace, fulminea, lunga quella frazione di secondo in più che non ti lascia scampo: o capisci tutto lì o non capisci niente, e non ti sarà data un’altra possibilità.

R: Sulla banchina del treno o dove vuoi tu, se non capisci in quel momento, non lo capirai mai. Un po’ manicheo, ma è così. Prova a pensare a qualcosa di importante che tu non hai afferrato in un certo momento, puliscilo dal contesto in cui eravate (lo sai vero che è solo con l’altro che capita di prendere o perdere per sempre?) e fatti venire in mente tutte le volte che poi è successa la stessa cosa. Chiaramente vale anche il contrario: quando cogli lo sguardo e il messaggio, ci sei. E credo stia davvero tutto lì, centrare quell’occhiata fugace e fulminea, farla tua oppure guardare da un’altra parte, facendo finta di non avere visto.

N: A dire il vero di occhiate fugaci e fulminee ne colgo troppe per seguirle tutte. Credo che spesso siano davvero la spia di una fuga istantanea dalla propria vita, di un altrove che non verrà mai sperimentato, di un invito al quale il proprietario stesso dello sguardo si sottrarrebbe, imbarazzato o sdegnato.

R: Caro Nickname, ci piace anche giocare con l’immaginazione delle nostre possibilità: attirare l’altro, vedere quanto siamo capaci in pochissimo tempo di agganciare uno sguardo, pensare che sì potrebbe essere, ma questa banchina del treno non mi permette altro tempo e non voglio fermarmi proprio ora. Che tu sia proprietario dello sguardo o il destinatario, in stazione o a una cena con chi conosci da sempre, è un attimo decidere di non andare avanti e non fare quella domanda che potrebbe metterti su un altro binario.

Vi è mai capitato di essere in situazioni in cui uno sguardo, un gesto, una parola avrebbero deciso o cambiato il corso delle cose?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

PER CERTI VERSI
Ode inversa per Ferrara leghista

Ferrara
Che strazio
Ha perso la testa
Ha verniciato il suo cuore
Sepolto in un angolo di miseria
Gettando nel fango la memoria il prestigio di una storia ora venduta alla paura
E all’ebbrezza del vuoto
Di una cupio dissolvi
Furente e indifferente
Ha perso la testa
Verniciato il suo cuore
La pancia no
Ha trionfato
Di odio risentito
Di bieco sentore provinciale della gente bramosa di nemici
Ribollente

Tristi ma non sconsolati. Si riparte dalla ‘questione ecologista’

Esiste una bellissima frase di un bravo, anche non molto conosciuto scrittore tedesco, Johannes Kühn: “Ganz ungetröstet bin ich nicht”. Vuol dire: “Sono triste ma non totalmente sconsolato”.
Vale anche  per le elezioni di Ferrara, la città che ho scelto come seconda patria. La Lega ha vinto questa tornata elettorale senza se e senza ma, come ha scritto giustamente Fiorenzo Baratelli su questa testata (leggi QUI). Devo dire, grazie a Dio o, come più si addice a un laico, grazie all’elettorato democratico è stato un risultato chiarissimo che non lascia spazio per qualsiasi scusa. Così esiste finalmente una possibilità di cogliere un ‘momento storico’ per ricominciare e far nascere una ‘sinistra nuova’: più giovane, più aperta, meno chiusa in se stessa, meno ‘arrogante’ – “noi siamo i buoni sempre parte del mondo migliore, loro i cattivi che pensano solo alla sua pancia” – più ‘ecologica’, come peresempio in Germania con l’avanzata dei Verdi.

Un po di questo ‘Rinascimento civile’, senza i riferimenti dogmatici, l’ho sentito personalmente anche in occasione dei alcuni incontri del Terzo polo di Ferrara. Certo il risultato del voto ferrarese è molto deludente, quasi un incubo, certo un brusco risveglio come ha scritto Francesco Monini su Ferraraitalia (leggi QUI-link), ma per un democratico è da accettare. Una realtà politicamente nuova di sicuro apre anche un momento da non perdere per creare qualcosa di nuovo: un progresso di una città con tantissime risorse di passione civile.

La Lega, secondo me, vuole difendere solo un sogno di un passato che non c’è più e un’idea di società ormai anacronistica. Curare solo il proprio giardino, pensare solo e prima di tutto ai connazionali ‘di sangue’ sono concetti senza futuro in un mondo che cambia velocemente e nel quale è spesso molto difficile capire in quale direzione ci porta la ‘globalizzazione’.

Devo dire che all’inizio non sono stato un grande fan delle manifestazioni Fridays for Future perché mi sembravano un po’ troppo naiv e anche sponsorizzate da una grande macchina mediatica (e dalla famiglia di Greta ecc.). Dopo la grande vittoria dei Verdi in Germania (e non solo) ho cambiato il mio giudizio. Oggi ogni tipo di politica deve avere al suo nucleo la ‘questione ecologica’.  Parafrasando il famoso slogan di Trump e di Salvini: “Il mondo prima di tutto”. Così si può difendere il proprio territorio: ‘regionalismo’ sì, ma in un altro modo.
Come ha detto una volta Pier Paolo Pasolini parlando del regionalismo di Giorgio Bassani – che diventa nei tempi della Lega sempre più importante da conoscere – “Abbiamo bisogno di un regionalismo estremamente moderno, ovvero un regionalismo civile e non popolare”. Forse un bel punto di partenza dopo il deludente voto ferrarese.
Morale: sono molto triste per il voto ferrarese, ma non totalmente sconsolato…

Save the Children : “dolore per la morte di un bambino di 5 anni, primo caso in Uganda”

Da: Save the Children
Ebola: Save the Children, dolore per la morte di un bambino di 5 anni, primo caso in Uganda. In 24 ore sono già tre i casi confermati. Stigma e disinformazione tra le principali cause di diffusione della malattia

Save the Children esprime profondo dolore alla notizia della morte del bambino di cinque anni a cui era appena stata diagnosticata l’Ebola in Uganda. Il bambino era il primo caso di Ebola confermato nel Paese, era stato isolato e aveva cominciato la procedura per il trattamento, ma non è stato possibile salvarlo. Nelle ultime 24 ore altri due casi sono stati confermati, portando a 3 il numero totale in Uganda.

“L’Ebola è una terribile malattia che sconvolge il corpo umano, provocando gravi sintomi, come il vomito di sangue. Siamo particolarmente preoccupati per lo stigma che continua a esistere in alcune comunità, che può ostacolare gli sforzi delle equipe sanitarie e far sì che la malattia si diffonda più rapidamente. La disinformazione e la sfiducia delle comunità riguardo all’Ebola è un fattore importante nella sua diffusione nella Repubblica Democratica del Congo e stiamo sollecitando i donatori e i governi a investire di più nelle attività di prevenzione a livello di comunità in Uganda”, afferma Brechtje van Lith, direttore di Save the Children in Uganda.

In risposta a questi primi casi di Ebola in Uganda, Save the Children – l’Organizzazione internazionale che da 100 anni lotta per salvare i bambini a rischio e garantire loro un futuro – sta incrementando le attività di prevenzione già in corso, incluse le sessioni di sensibilizzazione e mobilitazione delle comunità e la formazione dei team sanitari dei villaggi. Finora nella confinante Repubblica Democratica del Congo orientale sono stati segnalati più di 2.000 casi – tra cui centinaia di bambini – e sono aumentate le paure di un contagio oltre confine.

L’Uganda occidentale sta facendo fronte a un forte afflusso di rifugiati congolesi, quasi 20.000 finora solo quest’anno e oltre 300.000 in totale. Il mese scorso Save the Children e altre 17 organizzazioni umanitarie hanno lanciato l’allarme sul crescente rischio di diffusione dell’Ebola a causa di un giro di vite che limita la fuga delle persone dalla violenza nella Repubblica Democratica del Congo orientale verso l’Uganda. Di conseguenza, molti hanno evitato i punti di confine ufficiali e attraversato le foreste o il lago Albert. È fondamentale che i rifugiati e gli altri civili possano attraversare legalmente e trovare adeguata assistenza ai punti di frontiera ufficiali.

Nell’ultimo anno Save the Children ha lavorato con le comunità locali dell’Uganda occidentale per aiutare a mitigare la diffusione dell’epidemia. L’Organizzazione ha formato più di 1.000 operatori sanitari, volontari, insegnanti, squadre sanitarie dei villaggi e personale di laboratorio ugandese per prevenire e rispondere ai casi; ha fornito i materiali principali per il controllo e la prevenzione delle infezioni nelle strutture sanitarie e nei punti di ingresso e installato strutture per lavare le mani nelle comunità rurali al fine di ridurre il rischio. Nel caso di ulteriore diffusione della malattia in Uganda, Save the Children è pronta a garantire una protezione ai bambini in situazioni critiche e servizi psicosociali per i minori e le famiglie colpite dall’Ebola.

Da: Save the Children

A Ferrara il suicidio di un Pd che ha perso contatto con la realtà

di Nicola Cavallini

Parto da Ferrara. Stavolta il Pd poteva schierare anche l’Uomo Ragno, e avrebbe perso lo stesso. Stavolta la Lega poteva schierare anche Naomo, e avrebbe vinto lo stesso. Ah, c’era Naomo. Appunto. Ha vinto.
A poco è servito l’ultimo roadshow di un onnipresente Modonesi,novello Zelig. Il Pd ha perso perché si è suicidato a Ferrara. Al ducetto toscano è bastato tirare appena il guinzaglio per indocilire una già mansueta pattuglia di parlamentari ferraresi, il cui grado di fedeltà al capo di turno è canino. Guai a muovere un dito, guai ad alzare un sopracciglio per difendere non la banca, ma i risparmi dei propri compaesani, quelli che li avevano mandati a Roma. Trentamila famiglie azzerate, tipo un quinto del bacino elettorale della Provincia. Alle ultime politiche il mitico Franceschini ha avuto meno preferenze di un semisconosciuto 5stelle, ed è stato ripescato con il proporzionale. Impensabile fino a qualche anno fa, eppure è accaduto. Quindi questa è una sconfitta annunciata e tafazziana, a dispetto di un Sindaco che ce l’ha messa tutta ma è stato isolato dal suo stesso partito, fatto di mezze figure e che Ilaria Baraldi non poteva certo risollevare in qualche mese (anche se un candidato sindaco discontinuo si doveva trovare, ma il guinzaglino del Regionale ha dettato la linea, prendendo l’ennesimo granchio).
Passo alla nazione, quella che non siamo: noi siamo un insieme di famiglie, alcune delle quali controllano il territorio e l’economia. Non parteciperò al coro autoriferito e troppo comodo che si indigna sui social per il nuovo fascismo dei brutti, sporchi e cattivi. Noi siamo belli? Può darsi che siamo troppo belli, che siamo dei fighetti, e che qualcuno che friggeva pinzini ai festival adesso si senta più a suo agio tra i finti celti della Burana. Noi siamo puliti? Forse troppo, perché a forza di stare in un posto pulito, illuminato bene, poi in un caffè come quello del racconto di Hemingway così intitolato è più credibile trovarci un Alan Fabbri(e chi non l’ha capita vada a leggersi il racconto). Siamo buoni? No, siamo tremendi. Siamo settari, perpetuiamo faide sanguinose coi nostri compagni e il nostro settarismo non è duro, puro, ideale, macché, serve solo a ritagliarsi uno spazio di piccolo, tapino, miserevole potere. Parliamo sempre delle masse popolari e a forza di parlarne le abbiamo perse. Alcuni di noi sono più colti, più formati, e questa è una aggravante. Le masse sono moltitudini di singoli individui. Credo che alcuni di noi – non i migliori, che sono spesso i più sommessi – dovrebbero riavvicinarsi alle loro mitiche masse partendo da una severa analisi di come sono loro, di che individui sono.

Save the Children : almeno 20 bambini uccisi nell’attacco di Sobanou-Kou

Da: Save the Children
Save the Children, almeno 20 bambini uccisi nell’attacco al villaggio di Sobanou-Kou.
I corpi carbonizzati dei minori trovati nelle case date alle fiamme

Almeno 20 bambini sono stati uccisi nel terribile attacco di ieri nel villaggio di Sobanou-Kou, nel Mali centrale, nel quale hanno perso la vita circa 95 persone. I corpi carbonizzati di alcuni dei minori sono stati ritrovati nelle loro case date alle fiamme, rende noto Save the Children, che chiede una indagine indipendente che faccia luce sugli attacchi e che sia in grado di assicurare alla giustizia i responsabili dell’uccisione e delle violenze nei confronti dei bambini e delle loro famiglie.

Secondo Save the Children – l’Organizzazione internazionale che da 100 anni lotta per salvare i bambini a rischio e garantire loro un futuro – il massacro di ieri è solo l’ultimo caso di violenze in corso nella regione e a subirne le conseguenze maggiori sono soprattutto i bambini. A causa dell’insicurezza, infatti, 935 scuole sono state chiuse e circa 250.000 bambini, nel nord e nel centro del Paese, non possono andare a scuola.

“Ancora una volta, i bambini e le loro famiglie perdono la vita a causa degli attacchi che dall’inizio dell’anno stanno colpendo diverse comunità. Questa strage è avvenuta di sera, quando le persone si trovavano nelle loro abitazioni sulle colline. Gli assalitori hanno dato fuoco alle case mentre le famiglie erano dentro, le persone e il bestiame sono stati massacrati e all’interno delle abitazioni sono stati ritrovati i corpi carbonizzati di bambini innocenti”, ha raccontato Amavi Akpamagbo, Direttore di Save the Children in Mali.

“I dettagli dell’attacco non sono ancora noti del tutto, quindi non sappiamo esattamente cosa sia successo ai sopravvissuti, molti dei quali risultano ancora dispersi. I bambini potrebbero essere stati rapiti o sono scomparsi. Molti di quelli che sono sopravvissuti potrebbero avere visto i loro cari ammazzati davanti ai loro occhi. Tutto questo è inaccettabile, i bambini devono essere protetti sempre e comunque ed è fondamentale che ricevano il prima possibile gli aiuti di cui hanno bisogno e il supporto per riprendersi da questa terribile esperienza. Chiediamo inoltre alle autorità e alla comunità internazionale di agire con tempestività per garantire la sicurezza nella regione e fare in modo che i minori colpiti dalle violenze nel Mali centrale e settentrionale possano tornare a vivere in pace”, ha proseguito Amavi Akpamagbo

Save the Children, attraverso i propri partner locali, è già al lavoro per raggiungere i bambini e le loro famiglie sopravvissuti a questa tragedia e garantire loro tutto il supporto che necessitano per superare il trauma subito, come già avvenuto in seguito a un attacco simile avvenuto nel marzo 2019 a Ogossagou.

Da: Save the Children

Le responsabilità della sconfitta

La vittoria della Lega a Ferrara è netta. La sconfitta del centro-sinistra è pesante. Il significato simbolico di questo esito ferrarese assume giustamente un valore nazionale. La batosta di ieri segna il culmine di una catena di sconfitte subite dal centro-sinistra in molti comuni ferraresi negli anni scorsi. A ciò si aggiunge la clamorosa sconfitta di Dario Franceschini nelle elezioni del 4 marzo 2018 nel confronto diretto con una mediocre e anonima candidata leghista. A fronte di questi segnali inequivocabili di crisi profonda dell’identità culturale, politica, programmatica e organizzativa del maggior partito della sinistra ferrarese, il suo gruppo dirigente ha sempre evitato un’analisi seria delle ragioni delle sconfitte, rimuovendo i ‘fatti’ e perpetuando se stesso. Adesso basta!

La vittoria della destra a Ferrara è evento troppo pesante e traumatico per archiviarlo senza trarne le rigorose conseguenze. Nel merito, poche osservazioni…
1) Sarebbe errore grave attribuire la sconfitta ferrarese alla tendenza nazionale, perché questa ‘causa’ è smentita da ottimi risultati ottenuti sia in Emilia-Romagna (la netta vittoria del candidato del centro-sinistra a Reggio Emilia e la vittoria a Modena nel primo turno), sia in altri ballottaggi tenutesi domenica dove la Lega non ha stravinto (sette a sei).
2) E’ sulle responsabilità locali che bisogna concentrare l’analisi. Come culmine di una sequela di errori compiuti da chi ha diretto il Pd negli anni scorsi va considerato la scelta di un candidato sindaco vissuto come perdente fin dall’inizio. Da parte mia non è in discussione il valore di amministratore di Aldo Modonesi, ma la sua immagine di ‘continuità’ con un passato che una parte larga di opinione pubblica chiedeva di interrompere con una forte discontinuità di programma e di leadership. Non c’è dubbio che durante la campagna elettorale il candidato del centro-sinistra abbia compiuto uno sforzo di innovazione sul piano programmatico, ma la sua immagine ‘vecchia’ e in assoluta continuità con una classe dirigente che monopolizza la rappresentanza del Pd ferrarese da troppi anni ha annullato ogni possibile impatto positivo delle proposte nuove.
3) La domanda che viene spontanea è evidente: esisteva la possibilità di proporre alla città una candidatura diversa e vincente? Sì, esisteva… E c’è chi l’aveva segnalata per tempo sia nel dibattito interno al Pd, sia nel campo largo e plurale della coalizione del centro-sinistra. Quindi si poteva vincere, come è accaduto in altre città emiliane e nel Paese. E’ questa convinzione che rende più dolorosa e bruciante la sconfitta subita.

E ora, che fare? Intanto, non va demonizzato l’elettorato che ha eletto il nuovo sindaco. Quando si perde in modo così netto, bisogna fare i conti con i propri errori, senza inventarsi alibi di nessun tipo. Abbiamo bisogno di un severo esame a raggio largo, non di ripiegamenti lamentosi e vittimistici. Ritengo che le condizioni per risalire dal buco nero in cui siamo caduti ci siano. A patto che il Pd ferrarese archivi autosufficienza e chiusura in se stesso del gruppo dirigente. C’è bisogno di organizzare una grande e capillare discussione che coinvolga le fresche risorse umane messe in campo con generosità dalle liste civiche che hanno sostenuto Modonesi nel ballottaggio. E, più in generale, rendere permanente il rapporto con la cultura e il vario e plurale associazionismo democratico per capire meglio i grandi cambiamenti in corso nella società civile e per riqualificare la presenza di un nuovo centro-sinistra come unica alternativa etico-politica alla Lega nello spazio pubblico. In conclusione… Ciò che è avvenuto non è la fine del mondo, ma l’esito normale della democrazia. E come deve avvenire in democrazia, da qui bisogna ripartire…

Rispettare il voto

È la prima regola della democrazia: rispettare il voto. Alan Fabbri è il nuovo sindaco di Ferrara, la Lega e i suoi alleati hanno vinto le elezioni e amministreranno il Comune di Ferrara per i prossimi cinque anni. Piaccia o non piaccia l’esito delle urne, il dovere di tutti è accettare il risultato. Dare atto, prendere atto. Riconoscere la vittoria dell’avversario da parte dello sconfitto; assumere consapevolezza dei doveri (oltre che dei diritti) e svolgere con equilibrio le funzioni di governo da parte del vincitore, trattando amici e avversari alla stessa maniera.

La democrazia si fonda su questo presupposto: il riconoscimento della dignità dell’altro, anche nella divergenza, quando professa idee o propone soluzioni non gradite. Ma deve esserci reciprocità fra gli attori sociali: da parte degli sconfitti nel riconoscere il legittimo diritto dei vincitori di governare e sviluppare i propri programmi; e simmetricamente il dovere, da parte di chi ‘pro tempore’ assume la conduzione della casa comune, di considerare anche esigenze e diritti di coloro che dissentono, tutelando sempre la libertà di azione e di espressione di tutti.

Nelle prossime ore e nei prossimi giorni, svilupperemo e approfondiremo a trecentosessanta gradi l’analisi sul voto, sui suoi presupposti e le sue conseguenze

DIARIO IN PUBBLICO
Le mani, i gesti, gli eventi nella città delle 100 meraviglie

Ho resistito fino all’ultimo, ma non ce l’ho fatta! E penso alla faccia dell’ottimo direttore, Sergio Gessi, che con aria fatalistica sarà costretto a pubblicare il mio pezzullo quando ormai le jeux sont faits, dopo le 23 di domenica.

Questa volta partiamo dal movimento delle mani evidentissimo in tutte le trasmissioni o nelle informazioni social.
Salvini le congiunge in atto di preghiera secondo quella mistica del rosario che ha fatto furore in questi ultimi giorni.
Di Maio le strofina come se le lavasse. Probabilmente gesto apotropaico a scongiurare eventuali interventi in Europa.
Calenda avvicina pollice e indice quasi a sottolineare la minimalità della presenza del Pd nel ‘dibbattito’ nazionale e internazionale
Nicola Zingaretti le sbattacchia rumorosamente o ne alza una in timido segnale dei suoi trascorsi di sinistra radicale anche, diciamolo, radical chic.

E i nostri?
Uso contenuto del candidato Pd Aldo Modonesi che se le infila spesso in tasca.
Alan Fabbri le usa per non mollare il microfono o per stringere in morsa d’acciaio Matteo Salvini.
Ds gran signora l’uso che ne fa la Fusari: non gesticola ma al massimo delinea cerchietti in aria.
E avanti così.

Mentre i nostri dunque si esercitano nella speranza di arrivare primi, a Ferrara e per Ferrara sono successe cose ed eventi mirabili, spesso ignorati da tutti. Vale a dire la strepitosa presentazione alla J. Cabot University di Roma del volume su Bassani “Vivere è scrivere” presenti un’ottantina di studiosi americani, inglesi, italiani con commovente finale di una cena alla casa della Fornarina. Sì! Proprio la casa della giovanetta immortalata da Raffaello. Al premio Ippogrifo d’oro assegnato a Portia Prebys per i meriti acquisiti nel donare a Ferrara opere e oggetti appartenuti al grande scrittore e ora depositati nel bellissimo Centro studi bassaniani allocato in Casa Minerbi di Via Gioco del Pallone, ha fatto seguito un importantissimo convegno in cui si sono misurati i migliori critici di Bassani delle due sponde dell’oceano. Probabilmente l’argomento non sembrava adatto al tempo e alla curiosità dei ferraresi se solo una ventina di qualificatissimi uditori si sono presentati all’appuntamento che si è concluso con una visita speciale al Meis condotta dalla direttrice Simonetta della Seta che ha illustrato la splendida mostra sul Rinascimento ebraico, ricca di capolavori e di idee. Il convegno darà luogo a un volume di Atti che sanciranno l’attività scientifica del Centro studi bassaniani per il 2019/2020.

Dopo un giorno ecco che nell’afoso pomeriggio mi sovviene con un po’ di ansia di dovermi recare al Meis per sentire il concerto dedicato alle musiche di Salomone de’ Rossi nell’ambito della mostra sul Rinascimento ebraico. E’ stata un’esperienza straordinaria. Quelle musiche inducevano alla gentilezza e alla cortesia. Di là dal muro spuntavano le cime degli alberi e mi sembrava di essere in un racconto di Amos Oz o di David Grossman. I profumi del giardino si mescolavano al profumo dei sentimenti e accanto a me una deliziosa bambina batteva le mani e si lasciava andare accarezzandosi i lunghi capelli all’armonia. Che pace dei sentimenti, che nobiltà del cuore! Grazie al Meis e al Conservatorio Frescobaldi e a tutti gli straordinari artisti che hanno permesso questo momento di ‘cortesia’.

Ecco allora che in tutta la sua potenzialità si spiega l’attività culturale di questa strana città che s’inventa in una turbinosa ripresa di motivi, interventi, spunti, un passato e un presente degno di alta considerazione.

E domani? Chissà.

Voto e discernimento: strumenti democratici contro l’internazionale sovranista

“La convinzione che sia l’efficienza economica dei mercati liberalizzati e globali a portare all’aumento del benessere collettivo, è alla radice dell’esplosione di populismi e particolarismi nazionali”. Lo scrive Francesco Saraceno su ‘Il Mulino’ (1/2019).

Al di là dei responsi delle elezioni europee e amministrative dello scorso 26 maggio, che pure non hanno decretato l’annunciato sfondamento della destra populista e nazionalista, almeno a livello continentale, se non si capisce il motivo di quest’avanzata, che pure c’è, chi intende porvi argine rischia una navigazione senza bussola. E quindi di combattere contro i mulini a vento.
Il punto di partenza è l’aumento vertiginoso delle disuguaglianze prodotto dalla crisi deflagrata nel 2008, cioè l’anno in cui falliva Lehman Brothers. Aumento spaventoso che vede vincitori un ristretto gruppo chiamati dagli esperti i “plutocrati globali” e un chiaro perdente che è la classe media e inferiore dei paesi avanzati, usciti da questo terremoto con meno redditi, meno welfare e meno reti di protezione.
Per la verità, il crollo iniziato nel 2008 è solo il risultato di scelte che risalgono a decenni prima. È l’affermazione – nelle università, nella politica, nei governi e cancellerie – del modello neoliberista.
Il politologo polacco Jan Zielonka, allievo di Ralf Dahrendorf, parla (‘L’Espresso’ 26 maggio) della resa incondizionata all’ineluttabilità del Tina: l’acronimo di conio thatcheriano per dire che ‘There Is No Alternative‘.
Non c’è alternativa alla vittoria inarrestabile della “dittatura dei mercati”. Lo scrive, da liberale, anche sul suo libro ‘Contro-rivoluzione. La disfatta dell’Europa liberale’ (Laterza 2018).
Lo scrive Alessandro Somma commentando le elezioni europee (‘La Nuova Ferrara’ 30 maggio): “il quadro politico è monopolizzato da due modi di interpretare il neoliberalismo come ideologia fondativa dell’Unione Europea: un neoliberalismo nazionale e un neoliberalismo cosmopolita”.
Lo sta scrivendo da tempo anche Claudio Pisapia su Ferraraitalia.
Si può continuare con gli esempi, ma non è questo il punto.

All’adagio “Non c’è alternativa” si sono accodati per anni partiti e governi indistintamente conservatori e progressisti.
Il capitalismo predatorio e deregolato, degli animal spirits, è stato assecondato e pettinato nelle varie declinazioni, credendo alla teoria che gli studiosi chiamano dello ‘sgocciolamento’: ridistribuire in favore dei più ricchi favorisce la crescita, perché remunerando chi è più produttivo da un lato aumenta risparmi e investimenti e dall’altro fornisce i giusti incentivi per l’accumulazione del capitale.
Un circolo virtuoso che si è imposto nella sua autoevidenza meccanica, ma che gli economisti giudicano dotato di pochissimo supporto empirico.

Questo ha portato acqua al mulino di chi sostiene che efficienza ed equità sono alternative, non possono stare insieme.
Carlo Triglia (‘Il Mulino’ 2/2019) scrive che sono ancora parecchi coloro che sostengono che “il capitalismo non sarebbe compatibile con una democrazia politica forte e ben salda, perché quest’ultima, perseguendo inevitabilmente obiettivi di riduzione delle disuguaglianze, finirebbe per intralciare la libertà dei capitalisti di ricercare il profitto”.
E qui arriviamo al punto.
Se non c’è alternativa, hanno cominciato a dire in tanti, a cosa serve andare a votare? Se il nostro voto non serve a cambiare marcia, che ci andiamo a fare?
Il fenomeno corrosivo dell’astensionismo nelle democrazie occidentali, troverebbe in questo dilemma una sua spiegazione.
Si arriva così a quella che è stata chiamata ‘democrazia a bassa intensità‘.
Se non c’è altra strada all’inevitabile contrazione della spesa sociale, all’impossibilità di redistribuire la ricchezza, ai tagli e all’erosione progressiva del welfare, la politica stessa abdica al suo ruolo fondamentale di riequilibrio e le distanze sociali sono lasciate correre.
Si fa strada la narrazione secondo la quale la proliferazione di istituzioni non elettive provochi una sensazione di confisca del meccanismo decisionale, di un suo inaridimento verso un binario laterale, se non morto di certo burocratico.

Le reazioni di un Matteo Salvini alle ‘letterine’ di Bruxelles e, più in generale, il dilagare dell’eurosceticismo, non dicono niente?
Non fanno forse più breccia in opinioni pubbliche stremate e impoverite queste letture, di quelle più articolate, e spesso fumose, di moderati e progressisti alla ricerca di complicate misure di contenimento, equilibrio, rispetto di parametri, tutte comunque dentro a quel There is no alternative?
C’è bisogno che qualcuno dica che capitalismo e giustizia, e quindi democrazia politica, possono stare insieme, come sostiene Carlo Triglia.
C’è bisogno di dimostrarlo nelle aule universitarie di mezzo mondo, tante delle quali, come ci ricordò Luciano Gallino, restano contrarie.
C’è bisogno di dimostrarlo sul piano politico, perché queste idee si traducano in proposte, in azioni che stiano in piedi, come, per esempio, scrive Fabrizio Barca (‘L’Espresso’ 26 maggio), declinando il concetto di giustizia sul piano sociale e ambientale.
E c’è bisogno che lo dimostrino i governi, nazionali ed europei, perché dicano che un’alternativa invece c’è e che sarebbe bene che lo Stato ritrovasse il proprio ruolo regolatore, perché questo ha garantito stabilità .

Altrimenti?
Altrimenti si fa strada il morbo populista e nazionalista, che con i suoi slogan d’assalto rimane l’unico giocatore in campo a sostenere che un’alternativa c’è. L’unico giocatore in campo che sfilando dalle mani il tema per antonomasia della sinistra, come disse Norberto Bobbio, ossia l’uguaglianza, trova orecchi sempre più stufi, arrabbiati e disposti a rivoltare il tavolo.
E proprio qui, in questo rumore assordante di parole d’ordine, si rischia di non prestare l’attenzione dovuta alla vera posta in gioco.
Papa Bergoglio lo chiama discernimento.
Non ci si accorge che l’onda sovranista, finalmente liberata dai vincoli di burocrati e banchieri, vorrebbe declinarsi in un nuovo ordine internazionale, mentre è un controsenso, un ossimoro: come sta in piedi un’internazionale sovranista, quando è basata sulla difesa, ciascuno e prima di tutto, dei propri interessi nazionali? Come può reggere un ordine basato sul “Prima i nostri”?

È esattamente il motivo per il quale l’Unione Europea di adesso non funziona, perché ancora prigioniera di un assetto intergovernativo che la trattiene dall’essere completamene foedus .
Come non capire che misure come la flat tax sono musica per le orecchie degli straricchi, cioè nuova linfa allo strapotere dei plutocrati globali e di quel neoliberismo destinato a moltiplicare le distanze?
Qualcuno vuole ancora credere alla teoria dello sgocciolamento?
L’unica sovranità possibile è quella europea, come scrive Massimo Cacciari (‘L’Espresso’ 19 maggio), perché sbandierare la difesa degli interessi nazionali fuori da quel perimetro, significa “ridursi a nani impotenti nei confronti dei grandi Imperi contemporanei”.
Come altrimenti interpretare l’esultanza di un Donald Trump di fronte alla Brexit, cioè al tentativo riuscito di disarticolare l’Ue con la promessa di accordi commerciali mirabolanti, o l’iniziativa cinese di insinuare la propria via della seta?
Lo spirito europeo non è nato per generare sviluppo di scienza, tecnica ed economia, disgiunte dal sistema di libertà e giustizia. Per quanto, purtroppo, il percorso appaia decisamente in salita, è su questo piano, non su quello nazionale e tantomeno locale, che si gioca la vera sfida di questo incremento.
Se vincono populismo e nazionalismo si continua cioè a viaggiare, con l’illusione di rovesciare regole e parametri e di disintermediare corpi intermedi e rappresentanze, sul binario neoliberista, nel quale la ricchezza esclude democrazia e giustizia.
Se in Cina il problema nemmeno si pone, negli Usa di Trump non si pensa lontanamente di redistribuire la ricchezza in senso egualitario.
Senza parlare di un Orbán che da tempo predica una democrazia illiberale.

Così la democrazia a bassa intensità viaggia diritto verso l’assenza d’intensità e verso l’assenza di democrazia.
E tutto accade lentamente, come dovrebbe insegnare la storia, con la legittimante acquiescenza di opinioni pubbliche abbagliate dal ritorno degli Stati-nazione, euforicamente salite sul treno populista, utile veicolo per trasbordare in modo non traumatico l’oggi verso un futuro tremendamente simile a un passato che è sbagliato pensare definitivamente alle nostre spalle.
Dopodiché, noi sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale …, cantavano Dario Fo, Enzo Iannacci e Giorgio Gaber.

Volare alto: Gramsci e la politica come strumento di progresso e libertà

Il tuo pensiero era forza e volontà,
tu eri il concetto stesso di intellettuale,
il tuo intelletto era un’arma invincibile, contro il sopruso.
Chi ti critica, ora come allora,
non sa chi eri, non sa chi sei e cosa rappresenti.
La questione morale, la forza delle idee,
contro le idee della forza.
Ti hanno ucciso ma hanno reso immortali le tue idee,
chi pensa, senza pensiero, che tu sia solo un simulacro,
non capirà mai cosa significa essere partigiano.
La tua lungimiranza ti ha fatto vivere troppo poco,
in un mondo troppo antico,
rispetto alla tua lucente modernità.

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Un gigante dell’intelligenza, muscoli d’acciaio del pensiero,
racchiusi in un corpo all’apparenza debole,
pensiero critico, pensiero libero, intelletto nato per essere avanguardia,
forza trainante della mente, messa a disposizione del popolo.

Ti sarebbe bastato, rinnegare le tue idee, sarebbe stato sufficiente,
avresti potuto andare in esilio, avresti potuto scappare,
ma non si scappa da se stessi e dalle proprie responsabilità verso gli altri.

Le sbarre della tua prigione erano come nuvole,
la tua mente spezzava le catene e vagava libera,
le tue preoccupazioni erano gli altri,
tua mamma, tua moglie, tuo figlio,
la tua forza, era per loro e per i tuoi ideali.

Vivo, per sempre, a traino delle moltitudini,
hai cambiato la storia, fossi vissuto in un mondo meno nero,
la avresti rivoluzionata, con le armi della ragione.

Tu odiavi gli indifferenti, ed eri partigiano della libertà e della giustizia,
in un mondo che sognavi migliore, ma che adesso a tanti anni dalla tua morte,
non ti sarebbe piaciuto

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Le ceneri di Gramsci, scriveva il poeta (PPP), non sono state sparse nel vento per nulla, la forza della ragione contro le ragioni della forza.

Nino, così come lo chiamavano in famiglia, ebbe la capacità di superare i suoi limiti fisici, era alto appena un metro cinquanta a causa del morbo di Pot, (una specie di tubercolosi ossea) che lo colpì dall’età di due anni e ne precluse lo sviluppo.

La forza della sua mente, riuscì per tutta la sua vita a trascinare i suoi muscoli deboli e la sua schiena anchilosata, fino a farlo diventare un gigante dell’intelletto, un culturista del pensiero moderno.
Socialista come il fratello in gioventù, fondatore dell’Ordine Nuovo, fondatore del Partito Comunista d’Italia nel 1921, con lo scisma di Livorno, fondatore de L’Unità, Marxista interpretativo, Leninista, critico già dal 1926 nei confronti dell’operato di Stalin.

Un precursore, avanti nei tempi rispetto al secolo in cui nacque, (forse pure avanti rispetto al secolo successivo), la sua modernità credo andrebbe riscoperta, molto probabilmente sarà rimpianta dalle future generazioni.

Sentire parlare di Gramsci da uno come me è come sentire parlare di Pelé da un calciatore degli amatori, ma appunto per la mia inadeguatezza, vorrei provare a spiegare perché ritengo il suo pensiero un traguardo per il futuro e non un semplice esercizio della memoria.

La “dittatura del proletariato” è un ossimoro, che fu causa, dai tempi in cui Marx la pensò, di infinite critiche mosse nei confronti dei comunisti, da parte dei loro detrattori di tutti i tempi, la frase ha un significato chiaro, per Gramsci (e anche per me), significa dare l’opportunità alle masse popolari di incidere, di decidere, di essere il loro potere.
Agli antipodi del concetto di oligarchia del partito e dei funzionari, che poi si sviluppò in Unione Sovietica.

Le masse popolari come attori del proprio futuro, le moltitudini, il quarto stato (come ben rappresentate dal pittore Pellizza da Volpedo), che si prendono in mano il potere, come non fu mai nel passato e neppure nel presente, un concetto talmente rivoluzionario da non essere capito tutt’ora da molti.

Oggi che si dibatte di cambiamenti climatici, di flussi migratori biblici, di guerre, di schiavitù dell’uomo nei confronti delle merci, dell’oppressione dei mercati nei confronti delle persone, quanto avremmo bisogno del pensiero gramsciano, applicato alla nostra presunta modernità.

La schiavitù, che pareva debellata secoli orsono, si ripresenta nel nostro secolo buio, sotto forme differenti, figlia di quel neoliberismo sfrenato, capitalismo 4.0 in un mondo senza quasi più opposizione, indifferente ai mutamenti, senza ribelli né ribellioni.

La vittoria del Capitalismo, gretto e senza limiti, dal crollo del muro alla realizzazione dei mille muri di oggi, ha falsato la visione del progresso, della modernità, portandoci a pensare che il privato è sempre bello ed il pubblico è sempre brutto.

Una visione gramsciana della società, internazionalista, non permetterebbe la schiavitù del pensiero, l’omologazione, la standardizzazione della società attuale, così come avviene oggi, in Italia e nel mondo.

Odiava gli indifferenti, Nino, perché lui era partigiano, stava chiaramente da una parte, dalla parte delle masse operaie e contadine, quelle stesse masse che ora, in questa derelitta Italia pensano che i nemici arrivino con i barconi, che il prima noi e poi loro sia cosa buona e giusta.

L’avversario politico, gira con la Ferrari o l’auto blu, non vende gli accendini in spiaggia o ai semafori. Il dividi et impera di Cesare è applicato oggi come mezzo di distrazione di massa, i penultimi contro gli ultimi, è diventato sistema di governo, nel XXI° secolo, in Europa, come in Gallia duemila anni fa.

Il concetto di intellettuale Gramsciano è lontano anni luce dal distaccato filosofo da salotto televisivo di oggi. Noi vediamo nelle TV, signori brizzolati di mezza età, dibattere sul mondo con termini difficili e poco comprensivi, che si contemplano l’ombelico della propria cultura, senza preoccuparsi se i loro concetti vengono capiti o assimilati da chi li ascolta.

Gramsci, al contrario era consapevole che l’intellettuale, l’operaio della mente, il manovale della cultura, era un’avanguardia, doveva mettersi al servizio delle classi subalterne, per svilupparne la dignità, per dar modo ai braccianti, ai contadini, agli operai di autodeterminarsi.
Come diceva Di Vittorio, per insegnare ai cafoni a non togliersi il cappello di fronte al padrone.

Così, Gramsci in carcere creò una biblioteca, gestì dei corsi di studio, insegnò l’abecedario a chi non sapeva né leggere e né scrivere. Aveva ben chiaro in mente che la cultura è rivoluzionaria.

La cultura è una delle poche speranze che abbiamo per il futuro, è l’unica arma utilizzabile per una legittima difesa consapevole e mai eccessiva.

L’esatto contrario di ciò che ci dicono di questi tempi, un tal sottosegretario odierno che gioisce perché in Italia nel 2018 ci sono state 30.000 iscrizioni in meno all’università, o quell’altro che alcuni anni fa disse: “con la cultura non si mangia”.

Certo, questo è il modo di pensare di oggi, dei nostri governanti, presenti e passati un popolo ignorante si fa poche domande, non ha strumenti per controbattere l’oligarchia dominate. Per questo motivo Gramsci pensava che un popolo istruito potesse essere la prima arma contro la dittatura, la pistola fumante contro i soprusi dei pochi, nei confronti dei molti.

“Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza.”

Questo pensava dei giovani.

Gramsci era l’antitesi del culto della personalità, sull’Ordine Nuovo, nel 1924 lanciò una critica feroce a Mussolini, in quanto immagine dell’uomo forte, egocentrico, nuovo imperatore di un sacro romano impero, costruito sulla menzogna e sulla cattiveria “Mussolini [… ] è il tipo concentrato del piccolo-borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica.”

Ma, sinceramente, solo a me queste parole ricordano qualcuno? I ducetti, sono ben presenti tutt’oggi, li vediamo, li sentiamo ai telegiornali, io non credo che oggi ci sia un clima di neo-fascismo, ma di pre-fascismo, forse si.

Le parole uccidono, le parole sono pietre scagliate nei confronti delle minoranze, delle diversità, delle donne, dei deboli. Allo stesso modo fece il regime con Antonio, lo delegittimò, non lo uccise con una esecuzione sommaria, o non lo riempì di botte come da prassi, lo incarcerò e lo sacrificò, lentamente in oltre dieci anni di detenzione.
La sera del 25 aprile 1937 Antonio venne colpito da un’emorragia cerebrale. Neppure in questa estrema circostanza fu assistito adeguatamente, dal punto di vista clinico, (le suore della clinica dove fu segregato negli ultimi da due anni di detenzione, gli mandarono un sacerdote).
Gramsci si spense all’alba del 27 aprile, alle ore 4,10.
Gli ideali di Nino, i suoi pensieri, non morirono con lui.

Grazie alla cognata Tatiana, abbiamo avuto la fortuna di leggere le lettere dal carcere ed i quaderni.
Pensate, se non fosse stato incarcerato e se non ci fosse stato il fascismo, quante idee, parole e riflessioni avrebbero reso più ricca l’intera umanità.

Quanta rivoluzione del pensiero civile, illuminista, libertario e progressista, sarebbe potuta uscire da una delle menti più ricche e brillanti della storia dell’uomo.

In fondo Gramsci diceva solo che ad ogn’uno occorreva dare le stesse possibilità, sognava una mondo libero, equo, senza oppressori e senza confini, intagliato sulla pianta della giustizia sociale, dove i libri, al posto delle armi diventavano, il grimaldello per aprire le saracinesche del privilegio.

Nulla, a mio modestissimo parere di più moderno ed attuale è mai stato pronunciato, oggi, le moderne élite dominanti di politici e politicanti, vanno bene solo a contare i voti, come noi, da ragazzi contavamo le figurine dei calciatori.

Gramsci, come ricerca di un nuovo futuro, Gramsci come speranza, Gramsci che per non rinnegare i propri ideali rimase in carcere fino alla fine, pensate quanta differenza con chi ancora oggi rincorre il moderatismo, l’appiattimento verso destra del pensiero politico.

Perché è proprio in questo “mondo di mezzo”, che si generano i mostri che potrebbero distruggere il genere umano, se non la smettiamo di vergognarci della radicalità, rossa e libera come la mente di Antonio Gramsci.

Per crescere all’Italia servono meno letterine e più spesa pubblica

Calo del Pil e aumento degli interessi sul debito pubblico. Questo in sintesi il motivo per cui il debito non scende e l’Europa manda letterine.
Nel primo caso è presto detto. Per fare un bel matrimonio devi spendere, per rendere felici gli invitati e magari per ricevere bei regali in cambio. Perché ci possa essere crescita bisogna spendere in investimenti, opere pubbliche, assunzioni e magari incentivare aumenti di stipendio.
Ovviamente, quando si lanciano i semi sul terreno poi bisogna aspettare che l’albero cresca ed è inutile nel frattempo piangere sui semi versati. I frutti ci saranno ma bisognerà aspettare. Quindi l’investimento oggi, sotto qualsiasi forma si decida di farlo, produrrà frutti tra qualche anno ma nel frattempo il debito crescerà perché quegli investimenti saranno il risultato di una spesa dello Stato.
Ciò che serve è allentare la borsa, aumentare i deficit per fare investimenti e fare in modo che le persone abbiano più soldi da spendere. Poi si aspettano i risultati che non potranno arrivare prima di due o tre anni almeno.
Impossibile contabilizzare annualmente gli investimenti e stupido pretendere di fare questi conti anno per anno. Quindi quello che non funziona, come sempre in questa Europa, è il metodo e l’ossessione per il debito e la spesa dello Stato conteggiata anno su anno e nelle previsioni per gli anni a seguire. Il problema non è certo il governo di turno, soprattutto se si pretende che l’unica cosa che debba fare e accondiscendere i mercati e controllare se i bilanci siano in linea con le attese dei fantomatici investitori. L’impedimento alla crescita viene dalle regole economiche che si pretende debbano essere in posizione privilegiata rispetto alla politica.
Il secondo caso contempla gli interessi che annualmente si pagano sul debito pubblico. Anche qui si guarda al dito e non a quello che il dito mostra. Il debito cresce perché non migliora il rapporto con il Pil, cioè se è vero quanto abbiamo detto ai precedenti punti, sarà vero anche che il debito è destinato a crescere.
Si potrebbe però abbatterlo in tanti modi. Vendendo i btp attraverso aste competitive piuttosto che aste marginali (vedi precedente articolo qui I continui autogol nella partita degli interessi sul debito), oppure si potrebbe non considerare nel conteggio del debito i btp già riacquistati e in possesso della Banca Centrale. Ancora, si potrebbe incentivare l’acquisto dei btp da parte delle famiglie e aziende italiane seguendo il modello giapponese oppure si potrebbe concordare con gli altri paesi dell’eurozona un efficace e costante intervento a sostegno dei debiti pubblici da parte della Bce, sul modello giapponese, americano, coreano, svedese, ecc…
E si potrebbe soprattutto pensare seriamente alla crescita. Ma bisognerebbe rilanciare gli investimenti. E per rilanciare gli investimenti potrebbe seriamente intervenire una Banca comune europea che lo faccia “senza scopo di lucro” perché agirebbe come una banca pubblica e quindi si dovrebbe preoccupare che gli investimenti vengano effettivamente fatti sui territori, e non certo di riavere indietro gli interessi su quanto prestato.
E poi si potrebbe aumentare la liquidità in giro con l’idea dei mini bot, oppure con i certificati di credito fiscale. Ovvero strumenti che potrebbero essere paragonati ad una moneta parallela. Strumenti che permetterebbero l’aumento degli scambi all’interno della Nazione senza creare debito perché funzionerebbero come una moneta complementare e non si toccherebbe l’euro. Ma anche qui parte la litania dello spaventare i mercati e gli investitori.
Siamo all’isteria. Non è più nemmeno possibile immaginare delle soluzioni che, ancor prima che qualcuno si spaventi realmente, ci pensa Ilsole24ore a mettere in guardia, a frenare qualsiasi possibilità di scostamento dalla linea tracciata dai padri fondatori della gabbia neoliberista.

Il consiglio è sempre lo stesso. Provare a capire chi si sta difendendo quando si rifiuta di prendere in considerazione strade diverse, quando si attacca chi propone qualcosa di nuovo e si impone la strada vecchia. La stessa che sta distruggendo la nostra economia e costringe uno Stato a programmare l’esistenza dei suoi cittadini affinché siano in grado di pagare dai 50 ai 70 miliardi di interessi all’anno, quando non ce ne sarebbe alcun bisogno.
Tutti i modi per aumentare il benessere dei cittadini passano da decisioni politiche e non da regole tratte dal manuale del piccolo economista. Tante soluzioni o strade che sarebbe possibile seguire, o tantomeno discutere, affinché la crescita sia non solo possibile ma anche equa e costante e che si basi su cooperazione e condivisione piuttosto che su mercati finanziari, borse, guerre commerciali, competizione e letterine dei soliti noti.

L’uomo con la pistola

A.A.A. Avviso agli elettori
Fra pochi giorni i ferraresi sono chiamati al ballottaggio.
Gli elettori hanno sempre ragione, quindi sarebbe stupido oltreché inutile prendersela con i tanti che al primo turno hanno dato il loro voto alla Lega e ad Alan Fabbri. Ma è lecito chieder loro di aprire gli occhi. Su quanto gli aspetta, a loro e alla nostra Ferrara, se Fabbri dovesse diventare Sindaco. E su quali saranno i suoi compagni di avventura.
Credo che siano in tanti i cittadini che hanno votato Fabbri, non per un’adesione convinta al suo partito o perché affascinati dall’uomo con il codino e dalle sue pochissime idee, ma semplicemente per affermare un bisogno di cambiamento. Cambiare per cambiare… senza però chiedersi dove ci porterebbe il cambiamento della nuova Destra.
Per farsene un’idea, per aprire gli occhi prima che sia troppo tardi, se già non l’avete fatto, può bastare la visione di un video che in queste ore sta girando per tutti i social.
Regista, autore e protagonista del video è Stefano Solaroli, candidato eletto al Consiglio Comunale tra le fila della Lega con 100 preferenze. Prendetevi un minuto e mezzo – tanto dura il video – per guardare e ascoltare il videomessaggio di Solaroli. Disteso sul divano, sorridente, ammiccante, l’occhio pallato, il candidato eletto si passa da una mano all’altra la sua amata pistola, una Berretta 70 del 1969. La mostra in primo piano, la accarezza e, tutto contento, promette di diffondere il più possibile quel ‘video verità’. Ci è riuscito benissimo perché Il video con la pistola è arrivato anche sui media nazionali.
Che vuole comunicarci Solaroli? Come, quando, contro chi ha intenzione di usare il suo cannone? L’autore e co-protagonista (insieme alla pistola) dello spot elettorale non ha nessun bisogno di entrare in particolari. La messa in scena dice già tutto. E cioè: Cari ferraresi, la musica è cambiata, non abbiamo più paura di mostrare quello che siamo, perché d’ora in poi saremo noi a dettar legge, con le buone o con le cattive.
Domenica prossima torneremo a votare. Avremo davanti cinque anni di un ‘governo con la pistola’ o i ferraresi apriranno finalmente gli occhi?

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Le parole chiave

Ho dormito a fianco del Velino con il Terminillo per sfondo. Ho percorso la città sotterranea che si snoda lungo il viadotto costruito nel III secolo a. C. dai Romani per consentire alla via Salaria, l’antica via del sale, di superare il fiume Velino e di raggiungere la città. Ho visitato il teatro Tito Flavio Vespasiano, unico per la sua acustica, e la Biblioteca Paroniana con la sua preziosa collezione di atlanti antichi come l’Atlas sive Cosmographicae Meditationes di Gerardo Mercatore, l’olandese Gerhard Kremer, e l’Italia di Antonio Magini, pubblicato a Bologna nel 1620.
Sono stato invitato a Rieti dall’associazione Nuovi Percorsi per parlare di Città della Conoscenza. Quando ci si interroga sul futuro, la prima cosa che una città oggi ha necessità di apprendere è quella di sapersi porre le domande giuste per evitare di sbagliare la strada nella ricerca delle risposte.
E le domande giuste le ho trovate nelle parole chiave con cui gli amici di Rieti hanno preparato il nostro incontro. Quattro: territorio, società, cultura, identità. Ma non perché siano nuove, semplicemente perché sono “le parole chiave”.
Cosa significa territorio, cos’è territorio? Una parola, preceduta dal suo articolo determinativo “il”, “il territorio”, di cui abbiamo abusato nel secolo scorso e che la globalizzazione anziché dilatare ha ristretto, fino a farlo scomparire. Il territorio si è ammalato. Il territorio è stato soppiantato dall’ambiente. Non dagli ambienti, ma dall’ambiente e ce n’è solo uno in tutto il mondo: l’ambiente. La sua difesa, la sua tutela, pena la sopravvivenza della specie umana.
E mentre il territorio si faceva “iper” per perdersi nell’ambiente, la storia, le migrazioni si appropriavano dei luoghi della nostra stanzialità. Così dal territorio siamo regrediti al luogo, da chiudere tra paratie per impedire che l’onda del fiume in piena di una umanità in movimento ci travolga. Col mutare della geografia degli spazi è mutata anche la geografia dei pensieri.
Le pietre che limitano gli spazi, che consentono di riconoscere le aree comuni sono state divelte. Società è parola destrutturata. L’abitare insieme tutti differenti per età, culture, occupazioni, redditi, stili di vita, l’interagire di ogni individuo continuamente con un numero di altri individui per le ragioni più disparate, tutto è stato ridotto ad un unico comune denominatore: il popolo. Socio, compagno, amico, alleato, relazione, organizzazione, interagire per obiettivi comuni inaspettatamente non appartengono più al lessico della polis, come se improvvisamente avessero bruciato i loro significati.
Non viviamo più entro i limiti dei nostri confini, vale a dire entro lo spazio dei fini condivisi, ma abbiamo innalzato le frontiere. La comunità che innalza le frontiere non è più “socievole”, “abile socialmente”, ma al contrario si fa “tribù”. Troppo difficile da reggere la società aperta e i suoi nemici, meglio la società chiusa con pochi amici.
La cultura, il coltivare insieme il sapere non si fa più. Non c’è un sapere comune, del sapere si è giunti a diffidare. La cultura è il passato. Dinamicità e processualità della cultura sono i nemici del sistema di senso dominante che ha soppiantato ricerca, cultura scientifica e competenze. La cultura è l’élite che si contrappone al popolo, che ha il sapere della pancia che va celebrato a folklore e salsicce. La cultura sono le radici ancestrali di un popolo da contrapporre alle culture dei popoli che lo vogliono invadere e ridurre alla fame.
La cosa peggiore che può accadere è perdere la propria identità, annullata dall’etichetta posticcia e indefinita di popolo. Cancellare l’identità di una persona è negarne l’esistenza, privarla del diritto di essere persona, con la sua storia, le sue emozioni, le sue memorie.
La riconoscibilità, cancellare la riconoscibilità che non sia l’identificarsi con il popolo o con il “cittadino” di lontano ripescaggio.
I nuovi soggetti al governo del paese hanno cassato significato e futuro di parole che sono la chiave della convivenza, della crescita, dello sviluppo, della democrazia: territorio, società, cultura, identità.
Parole rispetto alle quali abbiamo invece l’urgente bisogno di apprendere a dare risposte nuove, a indagarne la complessità e le sfide a partire da dove stiamo insieme, da dove condividiamo le vite: le nostre città. Fare delle nostre città i sistemi complessi che apprendono, l’opera della “rinascita” come è stato nella storia e nella cultura del nostro paese. In un sistema sociale maturo gli attributi che consentono agli individui di essere cittadini attori interagenti sono l’apprendimento, l’invenzione e l’adattamento. Non ciò che conosciamo ma ciò che ancora non sappiamo.
Si tratta di uno spostamento nel nostro modo di pensare che comporta la partenza verso terre non ancora esplorate, pertanto non possiamo permetterci di perdere la bussola dei quattro punti cardinali: territorio, società, cultura e identità.

Qualche riflessione sul voto in attesa del 9 giugno

A Ferrara gli elettori sono 108.509. Domenica 26 maggio, si sono recati alle urne 77.589 elettori, che valgono il 71,50% del totale. Numeri non da poco e che testimoniano indubbiamente una volontà di partecipazione. Del resto il momento era storico e lo è ancora, visto che lo vivremo fino al 9 giugno prossimo

Guardando i numeri si nota una particolarità nel modo di votare dei ferraresi. L’osservazione è nata quando ho letto su Estense dell’ottima performance di Naomo Lodi che ha ricevuto ben 1.197 preferenze, risultando sicuramente il candidato alla poltrona di consigliere più votato tra gli oltre 500 candidati, sparsi tra le 17 liste presenti.
Ferrara era chiamata a eleggere, oltre al Sindaco, anche 32 consiglieri, ma i 77.589 elettori confluiti alle urne hanno espresso 71.416 voti di lista validi e solo 23.786 voti di preferenza. Cioè solo il 33,3% degli elettori che si è recata alle urne ha voluto esprimere una preferenza. Ma vediamo i numeri un po’ più nel dettaglio.

La Lega, risultato primo partito a Ferrara, ha ottenuto 22.093 voti di lista ma solo 3.415 voti di preferenza. Dietro Lodi arriva Zocca Benito che di voti ne ha presi 239. Un abisso, poi tutti gli altri.
L’ultimo dato in colonna rappresenta la percentuale di voti di preferenza rispetto al voto di lista. Si va da un massimo del 53,43% ad un minimo del 6,93% nel caso del M5S.

Alle comunali del 2014 abbiamo avuto più o meno le stesse proporzioni tra voto alla lista e voto di preferenza. Il M5S ottenne 11.742 voti alla lista e solamente 795 preferenza. Il Pd 34.464 alla lista e 12.262 voti di preferenza. La Lega (allora Nord) 245 voti di preferenza contro 2.471 alla lista.
L’impatto visuale dei dati relativi a questi tre partiti è il seguente

Singolare che Pd e M5S abbiano mantenuto la stessa percentuale a distanza di 5 anni.
Addentrandoci nell’interpretazione dei numeri, come prima conseguenza di questi ‘voti mancati’ siederanno in Consiglio Comunale della città estense consiglieri con una dote di 61 oppure 41 preferenze, che dovrebbero essere proprio quelli del M5S. Su una popolazione votante di 77.589 cittadini risulta quanto meno singolare.

Di seguito uno sguardo ad altri Comuni che si sono recati al voto il 26 maggio 2019: Pescara, Civitavecchia e Campobasso. Tre Comuni di Regioni diverse.

L’unica analogia con Ferrara la troviamo nel dato di Pescara relativo al M5S. Per il resto, nelle altre città prese a campione, i voti di preferenza si avvicinano a quelli di lista e in molti casi li superano, grazie al voto disgiunto.
Guardando ai numeri, potremmo dire che in queste tre città gli elettori abbiano dato maggiore importanza alla persona. Sembra siano stati più attenti ai nomi da mandare nei propri Consigli.

Il confronto tra questi dati mostra che l’elettore ferrarese confida più nel simbolo, nella lista, che nelle persone. Ma in un’elezione comunale in genere si tende a scegliere il candidato più che la lista. E questo in particolare nei Comuni piccoli o medi, dove ci si conosce un po’ tutti. La conoscenza personale diventa meno palpabile nelle grandi città come Milano, Roma o Napoli.
Poca considerazione del candidato, quindi? Eppure nelle varie liste erano presenti persone anche molto impegnate sul territorio e nel sociale che sembra proprio siano state quasi ignorate.
Resta il dato. A Ferrara solo un candidato supera quota 1.000, Naomo Lodi. Seguito dalla consigliere uscente Ilaria Baraldi, a quota 516. Più o meno si ferma a metà.

PER CERTI VERSI
Il 2 giugno

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’.

Era un giorno
Speciale
Si aprì il cielo
E una metà era ancora buia
La corsa al seggio
Portava i capelli al vento
Finito era il peggio
Dicevano il meglio arriverà
Il vento i capelli scompiglio’
Correvano al seggio
Piene di sorriso
Il loro sorriso
L’altra metà del cielo
Finalmente illuminò

PER CERTI VERSI
Tra natura e società

Ogni domenica Ferraraitalia ospita “Per certi versi”, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.

LA TUA LUCE.

La tua luce corre
sul confine
dei miei occhi
Indossa un pullover grigio
dalle sfumature arancio
È l’anima di una notte
Che sta alitando sulla Terra
Persa nella sera
Dei fischi di pioggia
Tu sei la voce
Che scivola
Sul filo
Della radio
dentro la rotta
della vita mia
Spalata
Da un quadrifoglio
Del caso
E se ne stanno
Appese al filo
delle acque
le rane
al pericolo
di un cane gracidando affannate
Nella stessa ora delle rondini
e la fame che sbatte
i loro piccoli ai nidi
Siamo fatti
di albume noi due
Lo sai
Albume coperto di zucchero
E tu sei il lume
che corre
sul confine dei miei occhi

VUOTO PNEUMATICO

No
non riesco proprio
a guardare
Nel vuoto pneumatico
Di questi tempi
Cosi brutali
di questa politica
senza polis
di queste poleis
senza politica
di uomini e donne
dilavati dal senso civico
dal dissenso
non riesco
a cozzare contro la spessa
Muratura dell’incompetenza
O fare il filo con le semplificazioni
E le facilonerie da bar
Come se tutti fossimo cuochi
e cuoche con ottime ricette
Per l’Italia
e persino il mondo intero
dentro il baluardo
delle mura ombelicali
del prima noi poi loro
prima l’io poi gli altri
i dannati della Terra…
La verità è che l’estrema ricchezza
è la fonte
Della grande disperata povertà

APPELLO PER IL VOTO A MODONESI
Cambiare in meglio, contro l’onda oscurantista: hanno firmato in 240

Pubblichiamo, qua di seguito, l’appello – sottoscritto da 240 concittadini – che motivano il loro voto al candidato sindaco Aldo Modonesi con la volontà di propiziare un cambiamento in senso progressista: “…Gli chiediamo di porre in opera politiche concrete per la riqualificazione urbana e la sicurezza, per l’ambiente e la cultura, risorse fondamentali del bene comune cittadino. E di assumere con coerenza come priorità l’impegno a favorire la permanenza sul nostro territorio dei giovani che qui sono nati o che qui sono arrivati per studiare o lavorare…”.
Fra i firmatari, moltissimi nomi noti della cultura, dell’università e della scuola, dell’associazionismo, del giornalismo, delle professioni e del sindacato

Appello per il voto ad Aldo Modonesi

Ferrara è una città unica, ricca di potenzialità straordinarie.
Siamo fieri – come lo è la grande maggioranza dei ferraresi – di vivere in una delle capitali del rinascimento italiano, in uno dei Siti Patrimonio Unesco più importante d’Italia.
E siamo indignati da quanti oggi vogliono descrivere Ferrara per quello che non è: decadente, malavitosa, disperata. Sono gli stessi esponenti di quella vecchia destra politica che cerca da decenni di appropriarsi del governo della città, strumentalizzando a questo fine ogni malcontento e ogni sofferenza, senza fornire prospettive credibili.
Si fingono protettori di una parte fragile e indifesa della società, esasperata da questi anni di crisi economica. Ma in realtà mirano solo a contrapporre persone deboli a persone ancora più deboli, ad amplificare il malcontento senza alcuna proposta per ridurre il disagio e le disuguaglianze. Se vincessero, i deboli resterebbero deboli, i privilegiati lo sarebbero ancora di più. Basta guardare cosa stanno facendo al Governo del Paese per rendersene conto.
A Ferrara si propongono come “il cambiamento” ma l’unico cambiamento che ci si può attendere da loro è un imbarbarimento delle relazioni sociali, una riduzione degli spazi culturali e associativi, la dissipazione delle risorse, un crescente isolamento che si rifletterà negativamente anche sui servizi sociali, sul turismo e sull’economia locale.
Anche i firmatari di questo appello vogliono e chiedono un cambiamento, ma in una direzione completamente diversa, meno propagandistica e più ancorata ai problemi delle persone e del territorio. Meno finalizzata, anche a sinistra, a catturare il consenso elettorale a breve e più impegnata e capace, anche a sinistra, di guardare al futuro della città e al benessere delle persone che ci vivono: una politica dotata di una visione del futuro che in questi anni di crisi si è appannata.
Vogliamo un cambiamento meno generico, meno animato da un’indistinta furia distruttrice verso tutto ciò che è stato fatto in passato e più fondato sulla competenza, sulla fatica di distinguere tra le cose, non poche, che vanno salvate e anzi valorizzate e quelle che invece vanno migliorate o radicalmente riviste.
Per questo in vista del ballottaggio del 9 giugno sosteniamo con convinzione la candidatura di Aldo Modonesi, come artefice di una unità programmatica delle liste e dell’elettorato civico e di sinistra. Per questo chiediamo a tutti i cittadini di votare per lui e aiutarci ad arginare il disfattismo e il qualunquismo.
Ma non è un mandato in bianco. A Modonesi chiediamo di farsi con più chiarezza portatore di un messaggio di cambiamento nel rapporto con la comunità, con le associazioni, con i cittadini. Gli chiediamo di assumere impegni netti e precisi di fronte alla città intera: impegni che guardino al mondo del lavoro, ai giovani che non lo trovano, agli anziani fragili, soli e insicuri e a quelli che vogliono continuare ad essere cittadini attivi, non un costo ma una risorsa della nostra comunità. Gli chiediamo di porre in opera politiche concrete per la riqualificazione urbana e la sicurezza, per l’ambiente e la cultura, risorse fondamentali del “bene comune” cittadino. Assumere con coerenza la priorità di favorire la permanenza sul nostro territorio dei giovani che qui sono nati o che qui sono arrivati per studiare o lavorare. Gli chiediamo di fare di questi temi l’asse portante di questi ultimi giorni di campagna elettorale: le priorità condivise dalle liste che sostengono la sua elezione.
A nostro avviso ciò darebbe alla candidatura di Aldo Modonesi, e alla sua giunta che dovrà essere di riconosciuta competenza, non solo la spinta necessaria a battere l’onda oscurantista della lega ma la prospettiva per offrire alla città una visione nuova e partecipata del futuro.

Elenco sottoscrittori:

Paolo Accardo
Giuseppe Adesso
Sara Aggio
Francesco Aguiari
Dario Alba
Simone Alberti
Silvia Albieri
Alfredo Alietti
Sandro Arnofi
Hugo Aisemberg
Marco Ascanelli
Monica Ascanelli
Fabio Artosi
Adam Atik
Raffaele Atti
Fiorenzo Baratelli
Guido Barbujani
Francesco Barigozzi
Ibrahim Bashar
Davide Bassi
Pier Giorgio Baroni
Francesca Battista
Marco Belli
Susi Bennati
Eugenio Benini
Giuliana Besantini
Matteo Bianchi
Andrea Bignardi
Paola Bigoni
Marco Blanzieri
Francesca Boari
Gino Boari
Alice Bolognesi
Barbara Bolognesi
Alessandra Bolognini
Dino Bonazza
Loredana Bondi
Silvia Borelli
Andrea Borgi
Giorgio Bottoni
Alessandro Bratti
Marcello Brondi
Elena Buccoliero
Ivan Bui
Nausicaa Bulgarello
Rita Busoli
Laura Calafà
Vittorio Caleffi
Fabio Campagna
Laura Campoli
Daniela Cappagli
Miriam Cariani
Ermes Carlini
Emanuele Casalino
Roberto Cassoli
Gabriella Cavalieri
Maria Cavalieri
Mirko Cavallini
Emanuela Cavicchi
Franco Cazzola
Barbara Celati
Sabrina Cerini
Massimo Chiacchiararelli
Alessandra Chiappini
Enrica Cicerone
Annamaria Cino
Andrea Cirelli
Luigi Cocchi
Paola Cocchi
Sebastiano Correggiari
Rosanna Covi
Eva Croce
Tito Cuoghi
Ennio Dal Bo
Giuseppe D’Arelli
Fabio De Luigi
Sergio Dolci
Massimiliano Diolaiti
Rosa Domanico
Gabriella Dugoni
Enrico Duo
Robert Elliot
Roberto Evstifew
Gabriella Fabbri
Irene Fantini
Manuela Fantoni
Alessandra Farnetti
Grazia Fergnani
Annalisa Ferrari
Davide Ferrari
Loredano Ferrari
Giovanni Fioravanti
Davide Fiorini
Elena Forini
Michele Frabetti
Maura Franchi
Catia Franchini
Giuliano Gallini
Rosanna Gallio
Riccardo Gallottini
Alessia Gamberini
Silvano Gambi
Elena Gamboni
Giampiero Gargini
Susanna Garuti
Sergio Gessi
Luisa Ghezzo
Davide Ghidoni
Manuel Gigante
Giulia Gioachin
Dario Giorgi
Micol Giorgi
Donata Giusti
Gianfranco Goberti
Edy Golinelli
Riccardo Grazzi
Luca Greco
Salvatore Greco
Ludovica Grillo
Cristina Gualandi
Silvia Guaraldi
Giuliano Guietti
Domenico Laganà
Mattia Lanzoni
Francesco Lavezzi
Massimo Leoni
Luca Liguori
Silvia Lodi
Fiorella Longhini
Franca Longhini
Claudio Lorenzetto
Daniele Lugli
Kalaja Lutmuri
Carl Wilhelm Macke
Massimo Maisto
Lolita Magnanini
Mara Mangolini
Ida Mantovani
Marilena Marassi
Lucia Marchetti
Ilaria Marchi
Giovanna Marchianò
Paolo Marcolini
Mario Mascellani
Annalisa Massarenti
Alessandro Massarenti
Filippo Massari
Luana Mazza
Cristiano Mazzoni
Glauco Melandri
Francesca Mellone
Corinna Mezzetti
Paola Migliori
Letizia Minotti
Dino Montanari
Patrizia Moretti
Mascia Morsucci
Rosi Murro
Italo Nenci
Carlo Occhiali
Mariangela Occhiali
Silvana Onofri
Sandra Pareschi
Michele Pastore
Renata Patrizi
Carola Peverati
Elisa Piacentini
Sonia Pico
Patrizia Pigozzi
Graziella Piola
Cristiano Pistone
Paola Poggipollini
Barbara Poltronieri
Marcello Pradarelli
Ferdinand Preka
Alessio Pulizzi
Anna Quarzi
Antonio Raimondo
Giuliana Rasi
Maurizio Ravani
Enrico Ribon
Marco Righi
Carlo Rivetti
Giorgio Romagnoni
Eileen Romano
Leone Rossatti
Gabriella Rossetti
Flavia Rossi
Guglielmo Russo
Erika Salvioli
Giovanni Sandri
Gaetano Sateriale
Erika Savaglio
Letizia Savonizzi
Laura Scagliarini
Sabrina Scanavini
Giuseppe Scandurra
Savina Scavo
Ansalda Siroli
Rodolfo Spanazza
Lidia Spano
Velleda Strozzi
Daniele Serafini
Daniela Siri
Silvia Sitta
Gianna Stabellini
Franco Stefani
Veronica Tagliati
Renata Talassi
Alessandro Talmelli
Marco Tassinari
Fabrizio Tassinati
Marisa Tassinati Cardin
Maria Antonia Trasforini
Cadia Terenzi
Enrico Testa
Ruggero Tosi
Giusi Trentini
Luciana Tufani
Alessandra Tuffanelli
Rita Turati
Leonardo Uba
Gabriella Ursino
Alessandra Vaccari
Nazzareno Valenti
Federico Varese
Gianni Venturi
Elisa Veronesi
Alessandro Vignali
Rita Vitafinzi
Natale Vitali
Vincenzo Vona
Liviana Zagagnoni
Cristiano Zagatti
Davide Zanella
Marco Zanirato
Elisabetta Zannini
Roberto Zapparoli
Giorgio Zattoni
Valentina Ziosi

La regola del mare: perché sottoscrivo l’appello per il voto a Modonesi

Quando la nave è in pericolo, anche se non si è condivisa la rotta, è saggio che tutti i passeggeri contribuiscano a ripristinare il giusto assetto. Sciocco e fatale – in quel frangente – è restare inerti a discutere con il comandate le scelte compiute. Poi, una volta ripristinate le condizioni di sicurezza della navigazione, si potrà a giusta ragione valutare come si debba orientare il timone…

Ho spesso criticato, in passato, Aldo Modonesi. Ma oggi Ferrara si trova a un bivio molto rischioso: cedere al semplificazionismo leghista, credere che i nostri problemi si possano risolvere con facili e vaghe ricette, alimentare uno scontro fra soggetti deboli e altri ancora più deboli finirà col creare una sempre maggiore disuguaglianza sociale: a trarne vantaggio sarà chi già si trova in una condizione privilegiata.

Ferrara per la prima volta è posta dinanzi alla prospettiva di una radicale svolta amministrativa. L’alternanza, in politica, è una sana prassi che spesso contribuisce a rendere dinamici i meccanismi gestionali ed evita il rischio di incrostazione clientelari e consociative. Ma chi oggi si candida al governo della città non offre sufficienti garanzie, né sul piano delle competenze, né tantomeno, su quello del rispetto dei diritti di tutti membri della comunità.
La linea politica della Lega, di cui Alan Fabbri è rappresentante, fa leva su parole d’ordine violente e su un modello di società divisivo, nel quale non si ricerca il confronto e l’intesa ma, al contrario, alla sana prassi del dialogo si sostituisce l’invettiva. Il risultato rischia di generare una città non accogliente né inclusiva, incapace di essere rispettosa dei diritti di tutti e tantomeno di tutelare i soggetti più deboli (anziani, malati, disoccupati…); propensa, semmai, a garantire proprio coloro che già godono di privilegi.

Per questo, a prescindere dai rilievi mossi all’attuale candidato del centrosinistra, volgo lo sguardo ad Aldo Modonesi e individuo in lui un politico in grado di tutelare i valori di civile e democratico confronto nei quali mi riconosco. Dunque, in vista del ballottaggio del 9 giugno per l’elezione del sindaco, ho sottoscritto l’appello in suo favore (diffuso oggi e pubblicato anche su Ferraraitalia) e invito a sostenerlo con il proprio voto tutti coloro che condividono queste mie valutazioni.
Sento il dovere di chiarire, per correttezza, che questa scelta – libera e individuale – impegna me solo e non coinvolge coloro che, a qualunque titolo, collaborano con la testata di cui sono direttore.

Nei prossimi giorni mi aspetto che il candidato dia ancor maggiore sostanza al proprio programma. Ottime idee, per esempio, sono state espresse e tradotte in concreti progetti da Coalizione civica e Azione civica, due dei soggetti che lo appoggiano al ballottaggio. L’obiettivo è definire strategie e linee d’azione in grado di favorire un forte rilancio della città. Spero anche che Modonesi decida di rendere preventivamente noti i nominativi dei componenti sulla sua eventuale futura Giunta, per rendere chiaro che accanto a lui opereranno i migliori e più qualificati esperti in ogni ambito proprio dell’amministrazione comunale, offrendo così preventiva garanzia ai cittadini di chi avrà cura della nostra città.

C’era una volta Roberto Soffritti, un bieco comunista… E Ferrara sembrava Bengodi

C’era una volta un sindaco, a Ferrara, che si chiamava Roberto Soffriitti ed era uno dei loro, cioè un bieco comunista. C’erano – e forse ci sono ancora – due schiatte sociali, i signori padroni e i lavoratori, operai e impiegati, gente da basto, da bastone e da galera, insomma il paradiso e l’inferno: dietro ogni angolo si nascondeva un assassino in camicia rossa, ora più semplicemente in scarpe da tennis, pantaloni stracciati e possibilmente telefonino incorporato. Sempre più difficile distinguere le appartenenze visto che i figli dei signori sembrano i rampolli di operai, quelli che restano, di operai dico, perché le macchine di ogni genere, piccole e grandi, semplici o complicate, manuali o informatizzate, troppo spesso pericolose e omicide, macchine che schiumano chimica e ammazzano anche chi sta più lontano, come mamme e bambini, sono diventate armi micidiali, subdoli carri armati invisibili, dissolti nell’aria e respirati a pieni polmoni.

Non è che anche allora, prima metà degli anni Novanta, quando Soffritti fu nominato sindaco in sostituzione del suo predecessore che andò a Roma, le armi micidiali e subdole non ci fossero, semplicemente non si pensava che fossero nascoste ovunque, anche nel giardinetto di casa, il veleno era diventato un sacro compagno di vita. Non era facile un terzo di secolo fa, quando ancora giravo per l’Italia su e giù, capire che oramai il problema ecologico era diventato un primario argomento politico, chi osava dirlo veniva accusato di essere un catastrofista, un disfattista, minimo minimo un pericoloso pessimista. Se gli raccontavo le macabre storie delle fabbriche in Lombardia, in Liguria, in Piemonte chiuse, falcidiate dal cancro contratto sui luoghi di lavoro, un sorriso di compatimento nasceva sui volti di datori di lavoro, di impiegati, di sindacalisti. E la gente moriva. Senza sorrisini di compatimento. “Bisogna fare la rivoluzione”, dicevo al mio sindaco, che spesso mi stava dietro le spalle, poi mi metteva una mano sulla spalla e mi diceva in dialetto: “Gian Pietro, a tiè un poeta”. E se ne andava. Inutile ricordargli ciò che scrisse Victor Hugo: “Soltanto quando governeranno i poeti ci sarà giustizia”. Ma allora tutto sembrava andare nel verso giusto a Ferrara: Farina aveva inventato le grandi mostre, celebrate e poi copiate in tutto il mondo, da Roma arrivavano i fondi per recuperare le Mura e trovare l’acqua calda nel sottosuolo, il danaro contante giungeva dalle casse gonfie della benedetta Coop Costruttori, le prebende venivano suddivise tra Pci, Psi e poi gli altri a scendere, Soffritti era molto attento alla spartizione degli incarichi, la Cassa di Risparmio s’ingrandiva fino a scoppiare, Ferrara sembrava diventata Bengodi.

Ma c’era un inghippo: i soldi finivano quasi sempre nelle tasche più note, mentre cominciavano a giungere attorno al Castello le facce straniere, gli slavi scivolavano giù dall’Est confondendosi – per il colore della pelle – con la popolazione autoctona, i ferraresi non protestavano, erano democratici i ferraresi, porca miseria se erano democratici! Tutti avevano dimenticato! Poi arrivarono le facce scure, anzi nere, e l’antico razzismo si diffuse sulle bancarelle; i negozi più popolari furono affittati a organizzazioni, sempre più forti, di venditori cinesi o bengalesi; i bar, antico crocevia di amicizie, di scambi di opinioni dimenticarono lo strascicato discorrere locale, il dialetto senza doppie, la “s” che si pronunciava “sc”: niente di male se questo disordine sociale fosse stato (e fosse) pilotato. No, i bambini appena sanno stare i piedi vengono mandati nei negozi a maneggiare frutta, di scuola nemmeno parlare, crescono così i bambini senza educazione civica e con le mani sozze. Ma la città non è un campo, non un piccolo agglomerato di case senza ordine: non erano questi i problemi ai tempi del primo Soffritti, l’errore à stato lasciare che le cose andassero avanti alla bengodi. Una nostra collaboratrice domestica un lunedì disse: “Ho portato ieri i bambini a vedere il Castello”. Meno male – ho pensato – ma era il supermercato. Bartolino da Novara, poveretto, si è rivoltato nella tomba.

Luci e ombre delle navi da crociera

Bansky, il famoso street artist inglese dal volto ignoto, ha colpito ancora. E’ sbarcato a Venezia con due recentissime opere: un murale raffigurante un piccolo naufrago che indossa un giubbotto di salvataggio e brandisce con forza una torcia segnaletica rosa e un collage di dipinti che mostrano una enorme nave da crociera che naviga sul Canal Grande, coprendo la vista della città, circondata da minuscoli gondolieri indaffarati a destreggiarsi al passaggio della pachidermica imbarcazione.
Opera, quest’ultima, rimossa in tutta fretta su intervento della polizia municipale, causa la mancanza delle adeguate autorizzazioni. ‘Venice oil’, titolo provocatorio a doppio senso – ‘oil’ in inglese significa non solo olio, ma anche petrolio – del lavoro di Bansky, è una chiara denuncia davanti ai realistici, dannosi effetti del transito continuo dei giganti del mare a contatto fin troppo ravvicinato con la città.

Due opere che sollevano interrogativi, polemiche, critiche e riflessioni su due tematiche scottanti attualissime legate indissolubilmente al mare, che infervorano e alimentano scontri ideologici: l’immigrazione e la navigazione nella città lagunare. La composizione di quadri che nella sua sequenza modulare ci fornisce un effetto d’insieme di grande impatto, raffigura una nave protagonista assoluta della scena, circondata dallo sfondo di una Venezia d’altri tempi, in cui poco rimane di Piazza San Marco e del Campanile. Per quanto riguarda la Venezia di oggi, invece, il Tar, il Comune, la Regione e il Governo stanno valutando le soluzioni più idonee per superare l’impatto ambientale della navigazione pesante a ridosso dell’abitato, le ricadute penalizzanti in termini strutturali, che essa induce in una città fragile, talmente particolare da meritare tutta l’attenzione e la risonanza del caso.

E mentre si studiano gli aspetti logistici più sicuri e percorribili che possano offrire alternative ragionevoli alla grande navigazione, l’industria turistica della crociera è in continua ascesa e il viaggio per mare è una delle scelte più ambite per una vacanza. Secondo i report Clia (Cruise Lines International Association) e Fcca (The Florida-Caribbean Cruise Association), i 9.020.000 di viaggiatori del 2000 sono diventati 23.200.000 nel 2015, destinati ad aumentare esponenzialmente in questi ultimissimi anni. Il Mediterraneo orientale rimane la prima meta scelta dai passeggeri, seguita dal Nord Europa e quindi dai Caraibi. Al primo posto in Europa, la Germania rappresenta il Paese con più richieste di imbarco, seguita dalla Gran Bretagna-Irlanda. L’Italia occupa il terzo posto. Con un giro d’affari notevole, stimato attualmente in 39,6 miliardi di dollari annui, il mercato crocieristico è diventato il tempio del lusso e del divertimento accessibile a una ormai vastissima maggioranza di fruitori, perdendo gradualmente le caratteristiche di vacanza di nicchia che lo aveva caratterizzato agli esordi, negli anni Settanta. La crociera come modalità turistica porta indotto significativo a numerosi altri settori correlati come cantieri, porti e hinterland degli scali, alloggi e ristorazione, visite e itinerari a terra, spettacolo e intrattenimento, dando lavoro a migliaia di persone con le più disparate competenze, offrendo ai giovani sbocchi professionali di non poco conto. Federica S., giovane laureata in Relazioni internazionali, lavora sulle navi da crociera come animatrice.

Qual è stato il tuo esordio in questo contesto lavorativo?
Mi sono appena laureata e volevo provare un’esperienza nuova. Non è semplice per noi giovani trovare un lavoro perché non ce n’è o comunque non c’è garanzia di continuità: niente contratti a tempo indeterminato, ma soltanto a chiamata e poche garanzie anche da parte dello Stato che non ci supporta. Ho avuto la fortuna di essere chiamata a firmare un contratto a tempo indeterminato dalla mia attuale compagnia di navigazione, una delle più grandi al mondo, dopo aver presentato il curriculum. Per un giovane che ha appena terminato gli studi è fondamentale partire da una certezza per poi realizzarsi e rafforzare conoscenze e competenze.

Quali sono gli aspetti positivi e quelli critici del lavoro sulle navi da crociera?
Tra gli aspetti positivi c’è senza ombra di dubbio la possibilità di girare il mondo, conoscere tanta gente, di approcciarti a tante culture, di praticare lingue diverse, cosa fondamentale al giorno d’oggi, soprattutto in alcune professioni, come questa. Qui siamo ben retribuiti e questo è un ulteriore incentivo per dare il meglio. Gli aspetti negativi sono tanti; è difficile stare a bordo lontani da tutto e da tutti coloro che fanno parte della nostra quotidianità a terra, della nostra vita affettiva. Sei sempre in mezzo al mare, non hai punti di riferimento, devi sempre stare all’erta 24h su 24 perché lavorare in mare comporta anche questo; se si verificano emergenze devi essere pronto a lasciare tutto e cercare di salvare la vita altrui. Ci sono anche tante responsabilità e molto spesso questo non viene capito dal passeggero. Io e i miei colleghi non facciamo soltanto animazione: alle spalle abbiamo corsi di formazione di mesi e mesi e ognuno di noi ha un compito preciso per poter salvare una vita in caso di emergenza.

Con quali criteri viene scelto il personale per i vari ruoli e mansioni?
Non è importante la nazionalità, l’appartenenza culturale, come non sono importanti altri aspetti. Importante è invece parlare almeno due lingue oltre la lingua madre, prioritario l’inglese. Il fattore età premia i giovani, verso i quali la compagnia riserva attenzione e permette la possibilità di percorrere una carriera. A bordo c’è una rappresentanza di moltissime nazionalità differenti ed è bello lavorare insieme perché impari tanto, anche quegli aspetti di culture diverse dalla nostra che altrimenti non coglieresti.

La tua attività attuale potrebbe essere il lavoro per la vita?
Sì, perché puoi crescere, non ti fossilizzi nel tuo settore, puoi diventare qualcuno all’interno della compagnia e la compagnia ti apre tutte le porte e ti offre tutti i vantaggi per formarti, approfondire, aggiornarti e migliorare: una grossa opportunità di lavoro anche per tutti quei giovani laureati che non hanno sbocchi professionali. E quello che si guadagna ti rimane perchè non è sottoposto alla legislazione tributaria in vigore nel nostro Stato dal momento che le navi battono bandiere diverse.

Enormi cittadelle naviganti illuminate nella notte, che fanno sognare gli ultimi romantici; bianchi giganti che affrontano i mari sfidando le avversità meteorologiche come un’immagine descritta da Melville; uniche rappresentanti del vero concetto di ‘viaggio’, come sostiene Erri De Luca, quando l’orizzonte è vuoto e niente intorno, per poter assaporare l’immenso. Lasciamole libere di solcare il mare, lontane da costrizioni, percorsi soffocanti, rotte e tracciati che non appartengono loro. Lontane da Venezia.

Secondo turno: mission impossible?

A guardare i numeri della grande batosta, ma anche solo ‘le facce del giorno dopo’ di tanti amici ferraresi, la partita sembra già chiusa e il ballottaggio solo una penosa quanto inutile ginnastica elettorale. Il dato più inquietante? Le 1.200 preferenze raccolte da un eroe popolare come Naomo Lodi. Il distacco tra il primo e il secondo pare davvero incolmabile: una salita più impervia di Cima Coppi. Troppo travolgente l’onda leghista; e troppi gli errori, le divisioni, le timidezze di chi da Sinistra a quell’ondata si voleva contrapporre.
Ci sarà tempo – molto tempo temo, cinque anni tondi tondi – per riflettere su quanto si doveva dire, fare, proporre ai ferraresi e non si è fatto, per ammettere di aver sottovalutato il disagio diffuso che serpeggiava in città e la profonda voglia di cambiamento dopo settant’anni di continuità nel governo cittadino, per capire fino in fondo quanto fosse assolutamente necessario mettere in campo nomi nuovi, proposte inedite e coraggiose: non una edizione riveduta e corretta del passato, ma una nuova idea di città per il prossimo futuro.

Si dirà che ben poco qui, nella piccola periferica Ferrara, si poteva fare per opporsi al vento impetuoso della nuova Destra – quasi una bufera – che ha spazzato tutto il Belpaese e in particolare il Nord d’Italia. E’ vero, ma non del tutto. Qualche cosa si poteva e doveva fare. In due parole: schierarsi non per la continuità, per la conservazione – di quanto, anche di buono, si era fatto negli anni e decenni passati – ma puntare decisamente il proprio obbiettivo sul cambiamento. Invece, un grande pezzo di città che sentiva il bisogno e la voglia di cambiare, alla fine ha trovato casa solo nello slogan assai furbo ‘Ferrara cambia’, e lì ha votato, pensando che quello sarebbe stato l’unico modo per ‘smuovere un po’ le acque’. Purtroppo dall’altra parte non c’era una proposta altrettanto chiara e radicale, ma candidati – onesti e preparati quanto si vuole – ma comunque rappresentanti della vecchia classe politica e dei governi passati. Cambiare, è ovvio, non significa di per sé cambiare in meglio. Un deciso cambio di direzione può portarci nel futuro oppure regalarci decadenza e malgoverno. Ed è precisamente questo, un pericoloso salto all’indietro, ciò che ci aspetta se, com’è probabile, Alan Fabbri uscirà vincitore al 2° turno.
Inutile però correre avanti. Oggi siamo ancora nella Terra di Mezzo. E diventa obbligatorio chiedersi se il 48,5% raccolto da Fabbri al primo turno sia davvero una quota inarrivabile e insuperabile o se Modonesi, rimasto indietro di così tanti punti, possa recuperare. Chiedersi insomma se, e come, una apparente mission impossible possa diventare possibile. Siamo nel campo dell’improbabile, del difficile, del complicato, ma è giusto ricordare che i precedenti ci sono: in qualche altra occasione, in qualche altra città, chi era in basso, chi sembrava inesorabilmente battuto, è riuscito a recuperare tutte le posizioni e a tagliare per primo il filo di lana e laurearsi Sindaco.
L’esempio più vicino a noi è quello della città di Padova, dove alle scorse elezioni comunali due liste progressiste (una a guida Pd e una grande Coalizione Civica autonoma dai partiti) erano state battute entrambe al primo turno da un Centrodestra leghista vicinissimo al 50%. Al secondo turno, e senza bisogno della Madonna o di un miracolo del locale Sant’Antonio, il Centro Sinistra uscì alla fine vincitore.

Nemmeno a Ferrara occorre un miracolo. Oppure sì, ma i miracoli bisogna meritarseli. Per risalire una china ripidissima, per rendere possibile una missione impossibile, bisognerebbe che il Centrosinistra in questi pochi giorni ‘cambiasse spartito’ – non ho scritto partito ma spartito – fosse capace cioè di parlare in modo muovo e dire cose nuove e diverse agli elettori, presentando un progetto concreto e coraggioso nel segno del cambiamento. Immagino Aldo Modonesi impegnato in queste ore a dialogare e trattare per raccogliere l’appoggio degli altri candidati sconfitti. Non credo ci riuscirà – non tutti lo sosterranno – ma anche dovesse riuscirci, non saranno operazioni del genere a consentirgli, non dico di vincere, ma nemmeno di avvicinarsi al bottino di voti raccolto da Alan Fabbri.
Cambiare registro, mettere sul piatto un disco nuovo, mi pare essere l’unica strada per farsi ascoltare da cittadini finora attratti dalla propaganda leghista e conquistare nuovi consensi. Ci si può provare in così pochi giorni? Probabilmente no, ma se non basterà per vincere, sarà comunque questo il cammino da percorrere nei prossimi cinque anni.
Non c’è ovviamente una ricetta infallibile da applicare al caso Ferrara, ma mi vengono in mente due scenari – difficili ma necessari – che potrebbero mostrare a tutti gli elettori un deciso cambio di marcia. Due fatti che potrebbero rimescolare il mazzo e magari, chissà, regalarci qualche sorpresa.

Il primo fatto, la prima mossa, deve venire dalla politica, cioè in primis dal candidato sindaco Aldo Modonesi che dovrebbe assumere alcuni obbiettivi precisi da perseguire nel prossimo quinquennio. Non semplici promesse o buone intenzioni, ma impegni concreti da realizzare nel corso del mandato e che, presi nel loro insieme, propongano un cambiamento nelle politiche fin qui attuate, un deciso cambio di passo nel governo della città. Alcuni di questi punti qualificanti sono stati già suggeriti da gruppi ed esponenti della società civile. Ne elenco alcuni: dall’impegno per la ripubblicizzazione del servizio idrico e del servizio rifiuti allo stop alla esternalizzazione dei servizi comunali, dall’allargamento e promozione di nuovi spazi della democrazia partecipata e decentrata alla costituzione di un grande osservatorio per l’occupazione giovanile e il lavoro dignitoso, dall’impegno per mettere soldi (tanti) e idee (anche) per un progetto sociale, economico e culturale per la rinascita del Gad, al rilancio della mobilità urbana pubblica, alla difesa e valorizzazione dell’ambiente, all’aumento dei servizi, specie quelli domiciliari, rivolti alle fasce deboli e alle famiglie sotto la soglia di povertà. E si potrebbe continuare: a Modonesi basterà prendere in mano e assumere come impegno di mandato almeno alcune delle idee e delle sollecitazioni elaborate dalle tre grandi assemblee civiche: Il Battito della Città, Addizione Civica e La Città Che Vogliamo.
Per marcare ancora di più questa scelta di cambiamento, lo stesso Modonesi potrebbe dichiarare già da ora che a formare la sua squadra di assessori e collaboratori non saranno funzionari, esponenti di partito membri della tradizionale classe politica dirigente, ma personalità scelte dalle fila della società civile, competenti e impegnati in prima persona in campo sociale, economico e culturale.

Intanto dovrebbe accadere qualcosa anche nel più vasto orizzonte sociale. La società civile ferrarese – tanto attiva e propositiva in questi ultimi mesi – dovrebbe ritrovare una unità di intenti che si è andata purtroppo sfilacciando e parlare con un’unica voce. Le tre grandi assemblee civiche, le decine e decine di gruppi e associazioni culturali e di volontariato sociale, i sindacati, le tante centinaia di cittadini che si sono mobilitati in queste settimane, potrebbero tutti assieme fare un appello pubblico per invitare gli elettori ferraresi a votare per cambiare la città. Ma cambiarla davvero e in meglio. Non per tornare indietro, come propone la Lega, ma per costruire insieme una Ferrara più democratica, più civile, più solidale, più moderna.
Mancano pochi giorni al ballottaggio ed è difficile pensare che possa avverarsi un cambio così radicale di prospettiva e di proposta politica. Passare dall’idea della continuità e quella del cambiamento è quasi una rivoluzione copernicana. Significa, soprattutto, attraversare il territorio dell’autocritica, un esercizio difficile, anche doloroso, che la Sinistra – a Ferrara come nel vasto mondo – ha sempre preferito evitare. Ma sarà da lì che occorrerà passare: nei prossimi 10 giorni o nei prossimi 5 anni.