Skip to main content

LIBERI DENTRO
La libertà corre lungo i canali televisivi dell’Emilia Romagna

 

Irene Fioresi – Funzione Strumentale per la comunicazione – Cpia di Ferrara

Anche Ferrara nel palinsesto di Eduradio – Liberi dentro, il progetto regionale che ha lo scopo di sensibilizzare la cittadinanza sul tema della detenzione e sul reinserimento delle persone detenute nel contesto sociale, obiettivo prioritario per sconfiggere il problema della recidiva, e allo stesso tempo di continuare ad essere presenti nelle carceri della regione Emilia Romagna attraverso le voci e i volti di chi promuove attività riabilitative, istruzione e vari servizi di volontariato. 

Il Cpia di Ferrara sostiene una nuova tappa della programmazione che vedrà l’emissione di una decina di programmi costruiti in collaborazione con il Teatro Nucleo e Astrolabio, il giornale del carcere, assieme ai volontari di diverse Associazioni e Cooperative che regolarmente operano nella Casa Circondariale di Ferrara.

Mercoledi’ 12 maggio sul canale 118 Lepida TV alle ore 13.30 sarà in onda la prima emissione ferrarese, sul tema l’attesa, una delle dimensioni pervasive della vita in carcere.  I video, realizzati in collaborazione con Web Radio Giardino, avranno come filo conduttore “parole – chiave” che attraverso spezzoni del lavoro teatrale svolto nei laboratori in carcere del Teatro Nucleo risuoneranno con accenti diversi dentro e fuori le mura.

Il 21 maggio 2021 il progetto di Eduradio sarà presentato e discusso a livello nazionale, con un convegno online a cui parteciperà anche il Ministro per la Giustizia Marta Cartabia.  Nato dal desiderio di continuare, nonostante l’emergenza sanitaria, il servizio culturale, educativo, di assistenza spirituale nella Casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna, il Progetto Liberi dentro – Eduradio, è riuscito ad unire le voci impegnate nel difficile compito dell’esecuzione penale, per arrivare direttamente nelle celle e accorciare le distanze che separano il carcere dalla società.
Per raggiungere le camere detentive, sprovviste di collegamenti internet, le trasmissioni “a distanza” di informazione, cultura e didattica destinate al carcere e alla cittadinanza, hanno viaggiato, inizialmente attraverso gli apparecchi radio, acquistati dalla rete dei promotori e donate al carcere, su Radio Città Fujiko 103.1 FM, a partire dal 13 aprile dello scorso anno, in piena pandemia, per far sentire ai detenuti una presenza e un’attenzione alla loro situazione e per dare continuità alle attività sospese. In seguito la ‘famiglia Eduradio’ si è allargata agli altri volontari e operatori degli istituti di pena di Modena, Parma, Reggio Emilia, Ferrara e Faenza (Forlì), che hanno deciso di aderire all’iniziativa, che ha trovato spazio anche sul canale televisivo 636 e, da aprile 2021 è in onda quotidianamente anche su Lepida TV canale 118 alle ore 13.30.

Qui il link alla programmazione andata in onda: https://liberidentro.home.blog/podcast-liberi-dentro-regione-er/

Il gruppo di Ferrara, sostenuto dal CPIA, intende dare continuità alla propria partecipazione attraverso una trasmissione quindicinale di un contributo video su racconti dal carcere, per il carcere e sul carcere, che coinvolgeranno non soltanto i soggetti delle attività educative e rieducative, ma anche esperti ed interessati alla realtà carceraria.

 

Le rubriche a tema di Eduradio – alle 6.30 su Radio Fujiko 103.1 e alle 17.00 su Teletricolore 636
Su LEPIDA TV CANALE 118 tutti i giorni della settimana dalle 13.30 alle 14.00 (e il weekend dalle 13):

Lunedì 10 AVoC e Centro Internazionale del Libro Parlato, Voci da dentro

Martedì 11 Poggeschi, Ne vale la pena

Mercoledì 12 CPIA Ferrara con Sonni Boi; Segue Lezioni di cucina con Lost in translation

Giovedì 13 Cantieri Meticci

Venerdì 14 Ginnastica da camera; Segue: Spiritualità Islamica e cultura araba

Sabato 15 (6.00 Radio; 10.30 TV636; 13.00 Lepida): Cappellania della Dozza con Il Vangelo ti è
vicino. Segue (6.30 Radio, 11.00 TV636, 13.30 Lepida): Teatro del Pratello con
Scritture teatrali tra carcere e città. Al termine (6.45 Radio, 11.15 TV 636, Lepida
13.45) la rubrica Parliamo di Buddismo.

Domenica 16 (Ore 6.00 Radio, 10.30 TV636, 13.00 Lepida): CPIA Bologna con School on air. Segue
(Ore 6.30 su radio Fujiko, 11.00 su TV636, 13.30 Lepida) il Teatro dell’Argine

Cover: Carcere di Ferrara, esterno (foto: Cristiano Lega)

UNA VITA MIGLIORE

 

Provai grande delusione quando finirono le speranze di dar vita a una società migliore, trasformata dagli ideali del Sessantotto. Certo quel movimento aveva le sue contraddizioni e la lotta a una società ingiusta era troppo spesso motivata da frustrazioni e rancori personali, dalla noia di un’esistenza troppo comodamente borghese o dall’aspirazione a un potere alternativo non meno elitario. Ma è innegabile che in quel periodo fiorirono nobili ideali di emancipazione e fratellanza tra gli uomini che ancora oggi meritano di essere perseguiti. Per molti anni ho ricercato vanamente un’attività che in qualche modo potesse ridarmi quell’entusiasmo e quella voglia di realizzare qualcosa al di là dell’angusta sfera della dimensione personale.
Poi, un giorno, del tutto casualmente, ho cominciato a praticare lo Yoga e ho appreso così che lo Yoga classico, diversamente da molte fantasiose e discutibili interpretazioni contemporanee, non si limita solo a migliorare la gestione equilibrata delle risorse personali (fisica, energetica e mentale), ma che non può prescindere anche dalla ricerca dell’armonia con l’ambiente circostante: uomini, animali, natura. Questo perché alla base dello Yoga, così come di altre discipline orientali, c’è una visione di sostanziale unità della vita e dell’interdipendenza delle sue manifestazioni. Il benessere profondo, dunque, necessita di realizzare unione con la Vita (yoga vuol dire unione) e svolgere il proprio ruolo in sintonia con gli eventi, in ogni momento della giornata. Centrati quanto più possibile nel Sé interiore, si affrontano le diverse situazioni della vita, cercando di dare il meglio in ogni occasione. Si vive così profondamente soddisfatti per il solo fatto di essere, comunque, dovunque.

Questa visione della vita è evidentemente diversa dalla ricerca della felicità, così come viene intesa nella società occidentale contemporanea, in cui si ricerca generalmente il piacere che deriva dal possedere quantità sempre più crescenti di beni materiali e dalla capacità di assumere ruoli sociali che ci distinguano per importanza e ci facciano sentire ‘migliori’ degli altri. Realizzarsi è diventato desiderare qualcosa, essere qualcuno.
Ma il benessere materiale e il successo personale non sono mai sufficienti, e gli individui, per quanto possano avere o essere, sono ben lontani dalla felicità. Molte persone vivono una tensione ininterrotta e nevrotica verso un piacere effimero e di breve durata; stimolati da una costante pressione dei mezzi di comunicazione, ricercano in modo ossessivo la conquista di sempre nuovi desideri.
Con il prevalere dei valori tecnico-economici, per cui il successo è misurabile in termini di denaro e di notorietà, ci si allontana però dalle esigenze umane più profonde. Manca sempre più un quadro di riferimento condiviso e un comune senso della vita; ciò provoca l’accentuarsi di un individualismo che alimenta un concetto di libertà senza limiti, dove tutto è praticabile per riempire solitudine e vuoto esistenziale. Viene esaltata la retorica di una libertà di scelta che nasconde irresponsabilità, incapacità di autodisciplina e sacrificio. La vita è spesso percepita priva di senso e di scopi degni di essere perseguiti.

Credo sia ormai evidente la necessità di sviluppare un diverso modello sociale, in sintonia con l’attuale globalizzazione, processo di interdipendenze economiche, sociali, culturali, politiche e tecnologiche, che può essere visto come opportunità di operare con una visione unitaria del mondo.
L’importanza del singolo va inquadrata all’interno della comunità umana, dalla quale si può ricevere posizione e significato; è fondamentale che gli individui si sentano uniti dalla consapevolezza di lavorare in una comune direzione e sappiano perseguire esigenze e scopi comuni. Solo se si riesce a vedere il vantaggio di superare i propri interessi particolaristici, si può costruire un mondo giusto e solidale, in cui si ponga un limite allo sfruttamento delle risorse umane e ambientali e si adotti uno sviluppo sostenibile, finalizzando le politiche economiche globali alla lotta contro la disuguaglianza e la povertà. Un tale modello di sviluppo sposa «un modello ‘ecologico’, in base al quale la vita delle parti è tanto migliore quanto migliori sono le relazioni tra le parti» (G, Pasqualotto, East & West, Marsilio).
Risulta ormai urgente porre le basi di un nuovo umanesimo, che metta l’uomo al centro e consideri la tecnica come strumento per la sua realizzazione e felicità, contrastando la tendenza che vede gli uomini al servizio dei beni e della ricchezza. Determinante è un rinnovamento della cultura, tramite l’integrazione di tutte le conoscenze umane, e dell’educazione, con cui alimentare la crescita di individui capaci di costruire un mondo migliore.
Ritengo indispensabile che i diversi tipi di conoscenza sviluppati in ogni parte del pianeta possano connettersi utilmente; in particolare, ritengo auspicabile l’integrazione tra la scienza e la spiritualità.

Lo sviluppo dell’atteggiamento scientifico e del sapere critico-razionale, che hanno portato a indubbi successi relativamente alla qualità e alla durata della vita – (basti pensare agli effetti delle tecnologie di produzione alimentare e della scienza medica) – non è sufficiente a interrogarsi e a progredire sui significati del vivere.
La conoscenza sempre più forte del legame tra gli esseri e il loro mondo, la percezione di questo legame globale è piuttosto l’oggetto caratteristico di una “via del cuore”, una funzione dell’anima, la cui cura resta, ancora oggi, di fondamentale importanza. Proprio l’aspetto spirituale, con la sua visione di una dimensione unitaria dell’uomo e della vita, merita una rinnovata interpretazione, che ispiri azioni di ricerca e sperimentazioni, le quali pragmaticamente offrano soluzioni per superare le attuali criticità sociali dell’Era globale.
Può essere utile una spiritualità che non necessita dell’adesione ad alcun credo religioso, e che al tempo stesso non lo escluda, che non sia necessario catalogare con nessuna formula e che possa essere patrimonio di chiunque, ma che soprattutto si esprima e sia valutata in fatti concreti, in azioni e comportamenti che aiutino il cammino degli esseri umani; che si fondi sulla reale aderenza a principi e valori comuni di fratellanza umana e rispetto dell’ambiente, concretamente espressi nel quotidiano con sentimenti di vicinanza, comunione, condivisione e coesione tra gli esseri. Questi valori devono guidare le scelte, orientare il desiderio, indicare il senso di ogni attività, costituire oggetto fondamentale di trasmissione educativa, fornendo un senso di appartenenza che dia forza per superare le capacità meramente individuali.
Si potrà così coltivare un Uomo globale, che potrà affrontare utilmente le sfide del futuro, comprendendo quanto la collaborazione sia lo strumento più efficace per ottenere i risultati desiderati; egli dovrà avere come obiettivo il migliore destino comune per l’umanità intera, conscio dei legami tra gli individui. Sarà pertanto necessario coltivare apertura mentale, flessibilità e disponibilità a ridiscutere le proprie conoscenze, alla luce di nuove possibilità, trovando ogni volta il pensiero e l’azione più adatta per raggiungere un nuovo equilibrio adatto al mutare degli eventi. Sempre più privo di soluzioni già pronte per l’uso, ovunque e comunque valide, l’essere umano è spinto a sviluppare la consapevolezza, oltre che delle connessioni tra i vari saperi, dei limiti di ognuno di essi e a scegliere liberamente tra più opzioni, nonché a sapere ridiscutere le sue convinzioni quando queste si dimostrino superabili.

Questa consapevolezza è la base più adatta per disegnare un futuro pragmaticamente utile per una visione della vita da cui sviluppare chiarezza, ordine e valore, in sintonia con le conoscenze più moderne. Con questa idea pratico e insegno da molti anni EduYoga, un metodo che ho sviluppato a partire dalle ‘vie’ dello Yoga classico, che ha l’obiettivo di educare il praticante a realizzarsi con generale soddisfazione, esprimendosi in ogni momento della vita con la miglior sintonia possibile al mutare delle situazioni. Ritengo che un percorso di evoluzione e di cambiamento consapevole, nel rispetto delle proprie esigenze e di quelle dell’ambiente circostante, possa supportare lo sviluppo di individui che, migliorando se stessi e le loro relazioni con il mondo che li circonda, siano portatori di benessere, pace e cooperazione.
Nel corso della mia esperienza ho avuto modo di verificare che anche il mondo dello Yoga non nasconde pericoli e contraddizioni. Ho frequentato insegnanti che plagiavano i loro allievi, sono stato costretto ad allontanarmi dalla più grande associazione italiana di insegnanti di yoga perché, insegnando gratuitamente, sono stato accusato di svolgere concorrenza sleale nei confronti dei “professionisti” dello Yoga e ho commesso il terribile errore di credere che donare senza pretendere nulla in cambio fosse in sintonia con un percorso di ricerca spirituale. Ciò nonostante continuo nella mia attività di ricerca e di condivisione perché, indipendentemente dalle inevitabili contraddizioni, penso ancora che perseguire un ideale apprezzabile, seppur con un adeguato senso della realtà, mi aiuti a cercare un’esistenza migliore per me e per gli altri, con i quali condivido questo viaggio della Vita.

25 APRILE A METÀ
radici del razzismo e scheletri negli armadi:
aerei, bombe, iprite e record (VI Parte)

 giulio douhetBombardamenti aerei, armi chimiche, gas nervini, iprite, terra bruciata, terrorismo, sterminio, genocidio: gli orribili record dell’oppressione italiana in Libia. L’impiego operativo dell’aereo come fattore preponderante di superiorità nei conflitti fu teorizzato dall’italiano Giulio Douhet [Vedi qui] nel 1909 e nel 1911 gli italiani in Libia utilizzarono per primi la nuova arma come mezzo di ricognizione e di offesa durante la Guerra italo-turca della Campagna di Libia. Per la prima volta nel mondo, 4 aerostati, 2 dirigibili e 28 aerei furono impiegati a scopo bellico diurno e notturno. BIl 23 ottobre il capitano Carlo Maria Piazza fu l’autore della prima ricognizione tattica, mentre il 1º novembre il sottotenente Giulio Gavotti eseguì da un velivolo in volo il primo bombardamento aereo della storia, volando a bassa quota su un accampamento turco ad Ain Zara e lanciando tre bombe a mano.

aviazione italiana in africa
Attacco aereo italiano in Libia

Gli aerei erano piccoli, potevano caricare modeste quantità di bombe e gli attacchi contro le linee degli arabi o dei turchi sembravano efficaci a livello psicologico più che materiale. I primi anni della Guerra italo-turca, ricordata come ‘Campagna di Libia’, furono per l’arma dell’aeronautica una specie di rodaggio. Un rodaggio che valeva sia per le macchine che per gli uomini e che avrebbe lasciato spazio e tempo allo sviluppo di armi sempre più micidiali e a tecniche di bombardamento sempre più precise. Le vicende della guerra libica fecero sì che cinque o sei anni dopo il suo inizio entrarono in servizio nuovi aerei, più grandi e tecnicamente più capaci di svolgere il ruolo bellico al quale erano stati predisposti e le azioni militari assunsero aspetti diversi.
bombardamenti italiani in africaTra il maggio e l’agosto del 1917 furono eseguite in Tripolitania un centinaio di azioni offensive con il lancio di bombe incendiarie sui campi di cereali dei ribelli, con mitragliamenti nelle oasi di Zanzur, Sidi ben Adem, Fonduc ben Gascir, Fonduc Scrif, Gedida, Agelat, Sormen, Punta Tagiura, Zavia, Azizia.
I campi dei ribelli a Zanzur e a Zavia erano stati bombardati anche nel mese di aprile con 1.270 chilogrammi di liquido incendiario oltre a 3.600 chili di alto esplosivo.La politica italiana nei confronti dei ribelli era già da allora quella della terra bruciata: distruggendo i campi di cereali si costringevano i ribelli, armati e non, ad abbandonare la lotta e a disperdersi verso zone dove sarebbe risultato più facile indebolirli e sottometterli.

Dal 1924 al 1926 gli aerei avevano l’ordine di alzarsi in volo per bombardare tutto ciò che si muoveva nelle oasi non controllate dalle truppe italiane. Non si trattava di azioni militari contro altre forze armate, regolari o ribelli che fossero, bensì di bombardamenti indiscriminati della popolazione civile per fiaccarla e tentare di dividerla dagli uomini in armi.

aviazione italiana la stampa 1932
La prima pagina de La Stampa di Torino celebra i bombardamenti italiani

La politica della terra bruciata e del terrorismo, aveva spinto migliaia di uomini, donne e bambini a lasciare la Libia, chi verso la Tunisia e l’Algeria, chi in direzione del Ciad o dell’Egitto. I morti e i feriti non si potevano contare. E i bombardamenti diventarono più violenti, più scientifici e sperimentali.
Così come il bombardamento terrorista di Guernica nel 1937 fu sperimentale per l’aviazione nazista, l’Arma Aerea Italiana si servì della guerra di Libia per prepararsi alla successiva conquista dell’Etiopia.

L’uso del gas non costituì un episodio isolato, faceva invece parte di un piano preciso e sistematico. I risultati delle incursioni aeree furono attentamente studiati per conoscere non solo il numero delle vittime che immediatamente provocavano come morte chimica, ma anche per conoscere gli effetti ritardati su coloro che risultavano avvelenati dai gas.
E’ un particolare, questo, quasi sconosciuto della guerra di repressione – meglio dire di sterminio – attuata da Rodolfo Graziani [Vedi qui] per conto del governo fascista di Roma contro la popolazione della Tripolitania, del Fezzan e della Cirenaica.
Dal novembre 1929 alle ultime azioni del maggio 1930 l’aviazione in Cirenaica eseguì secondo fonti ufficiali ben 1.605 ore di volo bellico lanciando 43.500 tonnellate di bombe e sparando diecimila colpi di mitragliatrice.

Le fonti, però, non precisano quante tonnellate di bombe erano cariche di iprite.

In Cirenaica pacificata, uno dei volumi con i quali il generale Graziani volle giustificare la sua azione repressiva e rispondere alle accuse di genocidio della popolazione libica che già all’epoca gli vennero rivolte, c’è un breve capitolo sul bombardamento di Taizerbo avvenuto il 31 luglio 1930, sei mesi dopo l’esortazione di Pietro Badoglio all’uso dell’iprite.
Nella lingua dei Tebu, una delle numerose etnie autoctone seminomadi nordafricane, Taizerbo indica ‘sede principale’. Oggi i Tebu vivono più a sud, nelle montagne del Tibesti ubicate parte in Libia, parte in Ciad, ma una volta essi avevano a Taizerbo la sede del loro sultanato: situata duecentocinquanta chilometri a nord‑ovest di Cufra, l’oasi è lunga venticinque‑trenta chilometri, larga dieci ed è solcata nel mezzo da un avvallamento che contiene stagni salmastri e saline. All’epoca dell’intervento italiano vi si trovavano gruppi di palme, tamerici, acacie, giunchi e vi sorgevano una decina di nuclei abitati. Per la conquista di Cufra, sede della Senussia, centro spirituale della resistenza anti italiana e roccaforte dell’imam Omar el Mukhtar, Taizerbo era considerata un’oasi di grande importanza strategica.

Scriveva Graziani: “Per rappresaglia, ed in considerazione che Taizerbo era diventata la vera base di partenza dei nuclei razziatori il comando di aviazione fu incaricato di riconoscere l’oasi e – se del caso – bombardarla. Dopo un tentativo effettuato il giorno 30 – non riuscito, per quanto gli aeroplani fossero già in vista di Taizerbo, a causa di irregolare funzionamento del motore di un apparecchio – la ricognizione venne eseguita il giorno successivo e brillantemente portata a termine. Quattro apparecchi Ro, al comando del ten.col. Lordi, partirono da Giacolo alle ore 4.30 rientrando alla base alle ore 10.00 dopo aver raggiunto l’obiettivo e constatato la presenza di molte persone nonché un agglomerato di tende. Fu effettuato il bombardamento con circa una tonnellata di esplosivo e vennero eseguite fotografie della zona. Un indigeno, facente parte di un nucleo di razziatori, catturato pochi giorni dopo il bombardamento, asserì che le perdite subite dalla popolazione erano state sensibili, e più grande ancora il panico”.

Vincenzo Lioy, autore di un libro sul ruolo dell’aviazione in Libia (Gloria senza allori, Associazione Culturale Aeronautica), ha ripreso senza modificarla di una virgola la versione riferita da Graziani nel suo libro.
Ma Graziani aveva tralasciato l’importante particolare dell’uso di grandi quantità di iprite ed aveva omesso una relazione agghiacciante che gli era pervenuta qualche mese dopo sugli effetti del bombardamento. Questa relazione, regolarmente archiviata, era a disposizione di Lioy quando fece la sua ricerca. Da un rapporto firmato dal tenente colonnello dell’Aeronautica, Roberto Lordi, comandante dell’aviazione della Cirenaica (rapporto che Graziani inviò al Ministero delle colonie il 17 agosto) si apprende che i quattro aerei Ro erano armati con 24 bombe da 21 chili ad iprite, da 12 bombe da 12 chili e da 320 bombe da 2 chili. Stralciando dalla relazione la parte che si riferisce all’avvicinamento, si può leggere “(…) in una specie di vasta conca s’incontra il gruppo delle oasi di Taizerbo. Le palme, che non sono molto numerose, sono sparpagliate su una vasta zona cespugliosa. Dove le palme sono più fitte si trovano poche casette. In prossimità di queste, piccoli giardini verdi, che in tutta la zona sono abbastanza numerosi; il che fa supporre che le oasi siano abitate da numerosa gente. Fra i vari piccoli agglomerati di case vengono avvistate una decina di tende molto più grandi delle normali e in prossimità di queste numerose persone. Poco bestiame in tutta la conca. II bombardamento venne eseguito in fila indiana passando sull’oasi di Giululat e di el Uadi e poscia sulle tende, con risultato visibilmente efficace.

II primo dicembre dello stesso anno il tenente colonnello Lordi inviò a Roma copia delle notizie sugli effetti del bombardamento a gas effettuato quel 31 luglio sulle oasi di Taizerbo “ottenute da interrogatorio di un indigeno ribelle proveniente da Cufra e catturato giorni or sono”.
E’ una testimonianza raccapricciante raccolta materialmente dal comandante della Tenenza dei carabinieri reali di el Agheila: “Come da incarico avuto dal signor comandante l’aviazione della Cirenaica, ieri ho interrogato il ribelle Mohammed abu Alì Zueia, di Cufra, circa gli effetti prodotti dal bombardamento a gas effettuato a Taizerbo. II predetto, proveniente da Cufra, arrivò a Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento, seppe che quali conseguenze immediate vi sono quattro morti. Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo ricoperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce a specificare che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di liquido incolore. Rimaneva così la carne viva priva di pelle, piagata. Riferisce ancora che un indigeno subì la stessa sorte per aver toccato, parecchi giorni dopo il bombardamento, una bomba inesplosa, e rimasero così piagate non solo le sue mani, ma tutte le altre parti del corpo ove le mani infette si posavano”.

carico di armi chimiche per la Siria
2 luglio 2014: la nave cargo danese “Ark Futura” si prepara al trasbordo di armi chimiche dirette in Siria nel porto di Gioia Tauro, (Autore: LaPresse / AP / ADRIANA SAPONE | Ringraziamenti: LaPresse Copyright: LaPresse – licenza Flickr)

Secondo l’Enciclopedia Americana l’iprite può provocare malattie ereditarie ed i suoi effetti si potrebbero riscontrare, perciò, non solo nelle persone direttamente colpite dai bombardamenti ma anche nei loro discendenti. La Treccani afferma che questo aggressivo chimico, chiamato anche ‘gas mostarda’, venne usato dall’esercito tedesco nel settore di Ypres, Belgio, nel corso della prima guerra mondiale e attacca tutte le cellule con le quali viene in contatto, distruggendole completamente. Con la respirazione i vapori d’iprite entrano nel circolo sanguigno, distruggono i globuli rossi, producendo rapidamente la morte.
Non c’è dubbio che l’effetto dei gas sulla popolazione libica, priva peraltro di qualsivoglia possibilità di ricorrere a moderne cure mediche, dovesse risultare micidiale. L’uso dell’iprite, che doveva diventare un preciso sistema di massacro della popolazione civile in Etiopia qualche anno più tardi, fu certamente una scelta sia militare che politica così come i bombardamenti della popolazione civile in Libia doveva corrispondere a scelte di colonizzazione ben precise e sistematiche.

Leggi la Prima Parte [Qui]la Seconda [Qui],la Terza [Qui], la Quarta [Qui], La Quinta [Qui]

Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è il curatore della rubrica Controinformazione. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna,

Ferrara in Movimento:
“Appello alla città per la difesa delle biblioteche”
Firma anche tu…

Il quotidiano online Ferraraitalia ha firmato all’appello per la difesa e il rilancio delle biblioteche di pubblica lettura e invita tutti i suoi lettori ad aderire.
(La redazione)

Appello alla cittadinanza
Vogliamo che le biblioteche tornino a dar vita al territorio

Le biblioteche comunali costituiscono una realtà importante per la costruzione e la diffusione della cultura nel territorio. Almeno per chi, come noi, pensa alla cultura non semplicemente come “fattore produttivo” o elemento di attrazione per il turismo, ma come ricchezza collettiva che fa crescere l’insieme della comunità, aiuta a costruire un pensiero informato e critico, crea legami sociali e di
cittadinanza tra le persone.
Da molti anni ormai non si investe sul sistema bibliotecario, che è stato lasciato a se stesso e che è andato verso un progressivo restringimento, ulteriormente aggravato dalle chiusure dovute alla pandemia. La voce dei cittadini e dei bibliotecari per invertire questa tendenza non è mancata. Solo per riprendere le iniziative messe in campo ultimamente, alla fine del 2019 9 è stata promossa, da
parte dell’assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori, con il sostegno dei sindacati di categoria CGIL CISL UIL, una petizione rivolta all’Amministrazione comunale sottoscritta da 2000 cittadini per rilanciare il sistema bibliotecario pubblico e tra settembre e ottobre del 2020, si sono svolti presidi davanti alle biblioteche Rodari, Porotto, S.Giorgio e Bassani per sottolineare la grave situazione in cui si trovano e le mancate risposte sui problemi aperti.

Il gruppo Cittadine e cittadini a difesa delle biblioteche che ha animato queste iniziative si rivolge alla cittadinanza, all’associazionismo, ai sindacati, alle forze sociali e politiche perché riteniamo che adesso serve una svolta nelle politiche culturali e nel ruolo delle biblioteche
pubbliche della città. In specifico, pensiamo che occorre mettere a punto un progetto complessivo per il rilancio del sistema bibliotecario pubblico, fondato sui seguenti punti:
– riapertura di tutte le biblioteche comunali con orari e modalità di fruizione analoghe a quelle esistenti prima della pandemia, ovviamente misurandoci con la situazione esistente e con la sua evoluzione;

– assunzione di un numero congruo di bibliotecari/e comunali, tramite concorsi pubblici che lo stesso governo dice di voler velocizzare, per risolvere il loro sottodimensionamento causato dai numerosi pensionamenti verificatisi negli ultimi anni e della mancata sostituzione degli stessi;

– elaborazione di un piano di potenziamento dell’offerta bibliotecaria pubblica, comprensiva dell’apertura di una nuova biblioteca nell’area Sud della città, che va comunque discussa nella sua dislocazione, nel suo rapporto con l’attuale biblioteca Rodari e nelle sue caratteristiche, dando vita ad un Tavolo partecipativo con tutti i soggetti interessati;

– conferma della gestione pubblica del sistema bibliotecario cittadino, non prevedendo quindi ipotesi di esternalizzazioni delle biblioteche decentrate Luppi, Tebaldi e Rodari. Al massimo, in via transitoria, tale scelta potrebbe realizzarsi per un periodo di tempo limitato, per consentire il rilancio del sistema bibliotecario pubblico, definendo quindi una data ravvicinata per la reinternalizzazione del servizio. In ogni caso, va comunque garantita la parità di diritti e di salario alle lavoratrici/ori coinvolti nell’eventuale esternalizzazione;

– promozione di un modello di gestione delle biblioteche che non si limiti alla sola distribuzione dei libri, di per sé elemento prioritario, ma, sia luogo di incontro con tutti i soggetti interessati alla promozione culturale, costruendo collaborazioni con tutte le scuole di ogni ordine e grado dei quartieri, interventi di guida alla lettura, animazione teatrale e culturale di riferimento anche per giovani e anziani.

Gruppo cittadine e cittadini a difesa delle biblioteche

Nel giro di 4 giorni sono state raccolte, 570 firme di cittadine e cittadini ferraresi e l’adesione di 26 tra Associazioni, forze sociali (le firme sono in calce). La raccolta firme continuerà anche nei prossimi giorni.
Per contatti:
Ridolfi Silvia   328.3912012
Pasti Ilaria      347.9532282
Oddi Corrado 342.9218650

Adesioni di Associazioni e forze sociali e politiche

ANPI
Associazione CIRCI
Associazione Cohousing Solidaria Ferrara
Associazione Orto Condiviso Ferrara
Associazione Piazza Verdi
Associazione Viale K
Azione Civica
Biblioteca popolare Giardino
Biblioteca UDI
Città in bici, l’informazione ciclabile
Cittadini del Mondo
Comitato delle famiglie di Ferrara
FerraraItalia quotidiano online
FP CGIL
Gruppo informale Parcolibro S. Bartolomeo in Bosco
Gruppo MCE Ferrara
Il Battito della Città
Intercultura Onlus, Centro Locale di Ferrara
Korakoinè APS
Priorità alla scuola Ferrara
Rifondazione comunista
Sardine Ferrara
Sinistra Italiana
Sinistra per Ferrara
Sonarte APS
UILFPL

Adesioni individuali all’appello
1) Bondanelli Elisabetta
2) Testoni Gloria
3) Venturoli Ombretta
4) Bondi Loredana
5) Chendi Arianna
6) Mezzetti Corinna
7) Cavalieri Gabriella
8) Ferrari Teresa
9) Cuoghi Tito
10) Giuliana Castellari
11) Galdi Elena Mariolina
12) Andreotti Elisa
13) Rasetti Luigi
14) Ridolfi Silvia
15) Grata Caterina
16) Pasti Ilaria
17) Tamari Giuliana
18) Marsili Marzia
19) Maccapani Matilde
20) Maccapani Gino
21) Cappozzo Lorella
22) La Torre Lidia
23) Scaramuzza Maria Teresa
24) Bannò in Galliani Laura
25) Schiavi Rita
26) Biolcati Fabio
27) Cirelli Zelima
28) Collini Silvana
29) Borsetti Silvia
30) Bersanetti Graziana
31) Rinaldi Raffaele
32) Oddi Corrado
33) Faccini Annamaria
34) Giovannoni Beatrice
35) Aldighieri Valerio
36) Pirani Claudia
37) Andreatti Giuliana
38) Pusinanti Cinzia
39) Kiwan Kiwan
40) Crepaldi Giampaolo
41) Bressan Lucia
42) Bottoni Stefano
43) Baraldi Alma Maria
44) Ravani Paolo
45) Messina Stella
46) Bonfà Silvia
47) Gabrielli Rita
48) Bottoni Edgarda
49) Lucina Letizia
50) Catani Oscar
51) Catani Irene
52) Venturoli Carlo
53) Belsito Andres
54) Fazzari Giuseppe
55) Melloni Federica
56) Calmistro Marco
57) Fergnani Patrizio
58) Satta Grazia
59) Contarini Marina
60) Gambi Silvano
61) Franz Gianfranco
62) Gabrielli Paolo
63) Pirani Cinzia
64) Poggi Tosca
65) Meliga Raffaele
66) Travagli Alessia
67) Pedriali Luca
68) Pisante Roberta
69) Grimaldi Lucia
70) Capozzolo Michele
71) Bovinelli Anna Maria
72) Lombardelli Annalisa
73) Ferraresi Marco
74) Pagani Roberta
75) Monteleone Federica
76)Monteleone Iolando
77) Pinnavaia Giangaetano
78) Andreotti Leonardo
79) Bertelli Stefano
80) Paparella Daniele
81) Bordini Maria
82) Bertoni Laura
83) Cavallini Stefano
84) Monini Francesco
85) Ghezzo Luisa
86) Ferraresi Caterina
87) Bonini Roberta
88) Travagli Simonetta
89) Rossi Eleonora
90)Bazzi Adriana
91) Capponi Anna
92) Famà Samantha
93) Zecchi Paola
94) Simonetta Fabian
95) Vita Finzi Rita
96) Marzola Sara
97) Balbo Rita
98) Azzi Massimiliano
99) Paliotto Elisabetta
100) Danieli Paola
101) Pagagnoni Fabrizio
102) Lombardi Paola
103) Galliani Vittorio
104) Galliani Tommaso
105) Galliani Gregorio
106) Galliani Rebecca
107) Galliani Virginia
108) Galliani Ginevra
109) Galliani Giuseppe
110) Braglia Maria Pia
111) Deledda Anna
112) Ferranti Marco
113) Cassoli Roberto
114) Lodi Bracciano
115) Mambriani Paola
116) Veronesi Elisa
117) Giorgi Dario
118) Tommasini Oriano
119) Antibo Rosaria
120) Giovanna Foddis
121) Tinazzo Anna
122) Rinaldi Rosalino
123) Mosso Angela
124) Frigeri Martina
125) Buzzoni Denise
126) Mariotto Tiziana
127) Casari Francesca
128) Bandinelli Roberta
129) Rauli Simona
130) Pellizzari Davide
131) Spanò Laura
132) Rubini Luca
133) Parmeggiani Elisabetta
134) Pinotti Erika
135) Mihaela Andrei
136) Mori Antonella
137) Gessi Sergio
138) Turchi Marco
139) Baratelli Fiorenzo
140) Baratella Luciana
141) Parmeggiani Daniela
142) Dalloca Sergio
143) Micai Sandra
144) Grossi Alessandra
145) Castagnotto Paola
146) Ronchi Alberto
147) Stefanati Gianni
148) Guarnieri Antonella
149) Zanoli Gustavo
150) MarchiMarzia
151) Morganti Antonella
152) Pieragostini Stefano
153) Blerina Feshti
154) Klodian Omuri
155) Tasselli Chiara
156) Simani Andrea
157) Menegatti Riccardo
158) Martulli Monnalisa
159) Pasquali Massimo
160) Kushnir Nataliya
161) Grotti Emanuela
162) Dario De Vivo
163) Gjini Mondi
164) Gjini Klodjana
165) Beltrami Maria Cristina
166) Tromba Cristiano
167) Porretta Chiara
168) Golinelli Sergio
169) Diolaiti Barbara
170) Guerrini Pierluigi
171) Guerzoni Paola
172) Ronchi Stefanati Michele
173) Bianchi Matteo
174) Barbujani Chara
175) Casanova Davide
176) Marzocchi Alessandra
177) Malaguti Maria
178) Rinaldi Roberto
179) Tabacchi Luigi
180) Celeghini Marcello
181) Zerbini Annamaria
182) Stefanini Milena
183) Pasetti Ombretta
184) Gregori Fabiana
185) Lepri Patrizia
186) Cornero Ettore
187) Rossi Gabriella
188) Zabini Matteo
189) Zabini Michele
190) Borini Anna
191) Marzi Davide
192) Bregoli Maria
193) Paganelli Maria
194) Piva Ida
195) Fusari Roberta
196) Barillari Antonio
197) Ferrigato Cristina
198) Padovani Stefano
199) Righetti Elena
200) Gioberti Sofia
201) Di Mella Patrizia
202) Bassi Paolo
203) Fioranelli Cinzia
204) Fregola Teresa
205) Manfredini Mauro
206) Felloni Daniela
207) Gallinelli Franco
208) Mondini Maria Grazia
209) Peca Debora
210) Sandri Massimo
211) Sandri Gianluca
212) Galeotti Gioia
213) Mori Roberta
214) De Michele Girolamo
215) Sacchi Luciano
216) Degasperi Sabrina
217) Bonino Barbara
218) Angeloni Patrizia
219) Goberti Alessandra
220) Mastella Maria Luisa
221) Roncatti Edoardo
222) Schmid Sandro
223) Ceramelli Jacopo
224) Cesarini Giada
225) Bonora Francesca
226) Collini Silvana
227) Forlani Chiara
228) Ferro Daniele
229) Finchi Giovanni
230) Preti Elisabetta
231) Zaniboni Gloria
232) Orioli Sara
233) Malacarne Andrea
234) Monini Tullio
235) Atti Raffaele
236) Martinelli Riccardo
237) Rossetti Sandra
238) Rostellato Marta
239) Dedè Cristina
240) Rongioletti Damiano
241) Ravagli Vittoria
242) Calabrese Maria
243) Utili Antonio
244) Cardinali Sandro
245) Frilli Maria Grazia
246) Di Pietro Adriana
247) Chiappini Anna
248) Trentini Diego
249) Bertaglia Nadia
250) Pazzi Paolo
251) Paparella Daniele
252) Trevisan Rossella
253) Peccenini Raffaele
254) Montezemolo Antonella
255) Bellistrazzi Giorgina
256) Pesci Elisa
257) Tassinari Cardin Marisa
258) Spettoli Elisa
259) Magrini Anna
260) Binelli Riccardo
261) Ferraresi Anna
262) Maregatti Lorenzo
263) Schiavi Daniela
264) Gavioli Morena
265) Sacchi Rita
266) Ricci Linda
267) Grillo Ludovica
268) Carion Alessandra
269) Scalabrino Sasso Giorgio
270) Soria Laura
271) Marzocchi Simone
272) Marabese Cristina
273) Soavi Gloria
274) Zucchini Emanuela
275) Galdi Maria Rosaria
276) Bonfante Tiziana
277) Graziani Marina
278) Tacchini Giorgio
279) Cogo Marcella
280) De Vivo Andrea
281) Sgarzi Dario
282) Baraldi Valeriana
283) Cogo Sergio
284) Ferretti Francesca
285) Ariatti Sara
286) Longhini Fiorella
287) Bajo Gena
288) Cataldo Daniela
289) Cenacchi Lorenza
290) Toschi Giulia
291) Nadalini Armanda
292) Galdi Elena Mariolina
293) Marzola Giuseppina
294) Ferretti Patrizia
295) Grata Giovanna
296) Mancino Rita
297) Sateriale Isabella
298) Zecchi Lucia
299) Sandri Cristiana
300) Pintus Federica
301) Cigala Francesca
302) Bergonzoni Luigi
303) Zanotti Claudia
304) Francesconi Ornella
305) Felisatti Morena
306) Merchiori Sebastiano
307) Burini Antonella
308) Savaglio Patrizia
309( Raisi Barbara
310) Sacchetto Elena
311) Ghiglione Lucia
312) Ciciliati Silvia
313) Peretto Silvia
314) Pocaterra Patrizia
315) Magnani Lara
316) Balboni Paolo
317) Mozzetti Lucilla
318) Piccini Filippo
319) Flachi Amedeo
320) Scida Alessandra
321) Magnani Renato
322) Fogli Leonardo
323) Nespolo Sonia
324) Cimino Federica
325) Stocchi Stefania
326) Bertacchini Giorgio
327) Gulinelli Daniele
328) Boschi Giuseppina
329) Palmisano Elisabetta
330) Ramaziotti Patrizia
331) Palmisano Serena
332) Rossi Davide
333) Massari Maria Caterina
334) Rossi Fabiana
335) Conoscenti Gianfranco
336) Talachian Matie
337) Soriani Margherita
338) Poli Davide
339) Soriani Angela
340) Vicentini Maria Teresa
341) Battaglioli Andrea
342) Battaglioli Nikolas
343) D’Olio Carla
344) Roboni Marco
345) Ferrari Loredano
346) Papandrea Donatella
347) Ghinato Rina
348) Semenza Pietro
349) Pedrinazzi Cristina
350) Moretti Graziella
351) Vaianella Sara
352) Morelli Maria Michela
353) Glanas Monika
354) Akhoundzadeh Yousefi Saba
355) Marzocchi Orazio
356) Di Pietro Adriana
357) Fontana Letizia
358) Bonfiglioli Maria
359) Ferioli Sara
360) De Giorgio Cecilia
361) Rossi Francesca
362) Rizzuti Olivia
363) Bianchini Sabrina
364) Ghelfi Ilaria
365) Balboni Maria Chiara
366) Del Favero Laura
367) Bortot Valentina
368) Bersanelli Sonia
369) Tonioli Annarita
370) Mavrikou Evangelia
371) Fattoumi Rihan
372) Pasqualini Roberto
373) Festa Lorena
374) Argento Angelo
375) Geusa Maurizio
376) Cervellati Anna
377) Sarto Davide
378) Munerati Massimo
379) Sulsenti Cristina
380) Martucci Nicola
381) Haro Tatiana
382) Leone Lorena
383) Baglioni Daria
384) Fratti Lara
385) Luciano Daniela
386) Mafodda Antonino
387) Salerno Pietro
388) Faggioli Ilaria
389) Savytska Oksana
390) Pavani Alice
391) Ruscigno Cecilia
392) Piazzi francesco
393) Aleotti Jessica
394) Forini Maria Elena
395) Masini Irene
396) Protomastro Antonia
397) Ferioli Paolo
398) Boarini Claudia
399) Zanella Lara
400) Pareschi Antonia
401) Caraffa Sandra
402) Flachi Giuditta
403) Boccafogli Anna
404) Zerbini Antonella
405) Calvi Claudia
406) Ceci Milena
407) Andreotti Claudia
408) Massellani Francesca
409) Bonati Elena
410) Game Malvina
411) Fabbri Cristina
412) Guerzoni Linda
413) Longhini franca
414) Accorsi Tiziano
415) Gamberoni Roberto
416) Fiorini Giuliano
417) Gaspa Paola
418) Bussolari Alessandra
419) Salmi Arianna
420) Bottoni Andrea
421) Galvani Irene
422) Finetti Daniela
423) Bellinazzi Susanna
424) Dieni francesco
425) Givanni Isabella
426) Orlandi Claudio
427) Biolcati Maurizio
428) Roncagli Laura
429) Rossi Eleonora
430) Gallio Rissana
431) Disarò Antonietta
432) Fergnani Maria Graziana
433) Slujitoru Valentina
434) Cavallari Serena
435) Natale Giovanna
436) Masetti Sara
437) Aragrande Gaia
438) Orlandi Annalisa
439) D’Amore Cristiana
440) Casadei Marta
441) Piazzati Luisa
442) Bolognesi Elisabetta
443) Bovi Vittorio
444) Chiappini Alessandra
445) Dominici Paola
446) Di Vece Francesca
447) Marchetti Elena
448) Zappaterra Manuela
449) Cappelli Anita
450) Zaccaria Silvia
451) Mattioli Luciana
452) Bianchi Giancarlo
453) Bonati Mario
454) Barbagallo Santina
456) Perrone Maria Sole
457) Rizzati Anna Rita
458) Scalambra Tonina
459) Fioravanti Anna Maria
460) Tassoni Costanza
461) Furini Damiano
462) Bononi Ilaria
463) Padovani Anna
464) Mori Simone
465) Previati Cristiana
466) Ferraresi Chiara
467) Poggipollini Paola
468) Marzola Luca
469) Pesci Antonella
470) Rona Tiziana
471) Michelazzo Cristina
472) Varani Vanna
473) Bellani Rolando
474) Cantoni Arianna
475) Ferioli Secondo
476) Mellone Francesca
477) Rossi Valentina
478) Bregola Daniele
479) Ferraresi Giovanni
480) Varani Vannia
481) Ciulla Maria Grazia
482) Ferrari Lucia
483) Morgagni Patrizia
484) Tromboni Delfina
485) Borgatti Paola
486) Gennari Franco
487) Cazzola Gabriele
488) Borgatti Maria Pia
489) Papi Paolo
490) Romagnoli Renza
491) Romanini Mauro
492) Comparato Laura
493) Rossi Valentina
494) Poltronieri ilaria
495) Bonsi Beatrice
496) Taddia Simona
497) Roncarati Paola
498) Finetti Gabriella
499) Borgogni Antonella
500) Orlandi Camilla
501) Cardinali Mariela
502) Neri Maria Cristina
503) Lioi Maria
504) Zuari Isabella
505) Lanzoni Monica
506) Bacilieri Claudia
507) Marchetti Sabina
508) Amarandi Giuliana
509) Pedroni Marino
510) Simoni Roberta
511) Sandri Federica
512) Stagni Carla
513) Randi Franca
514) Leonardi Barbara
515) Scialpi Tiziana
516) Faccini Beatrice
517) Cappagli Daniela
518) Giglioli Rodolfo
519) Stefani Piero
520) Sitta Davide
521) Borghesani Gianna
522) Golfieri Marco
523) Ammirati Angela
524) Furlan Simone
525) Venturi Gianni
526) Migliardi Giulia
527) Rondanin Fabrizia
528) Ferrari Massimo
529) Domanico Rosa
530) Iannaccone Anna
531) Nannini Milvia
532) Bonora Andrea
533) Borghi Valeria
534) Castellazzi Silvia
535) Baraldi Maria Lisa
536) Grillo Ludovica
537) Martinelli Annapia
538) Sandri Donata
539) Scaglianti Davide
540) Lazzari Andrea
541) Forini Giorgio
542) Corà Michela
543) Natati Claudio
544) Zucchini Nicoletta
545) Barbieri Piera
546) Grechi Rodolfo
547) Leo Grazia
548) Benini Eleonora
549) Gardin Myriam
550) Rizzioli Alessandra
551) Bettini Lorenza
552) Rosatti Eleonora
553) Mazzanti Stefania
554) Iodice Assunta
555) Bertoncello Barbara
556) Bagno Maria
557) Bellettini Annarita
558) Stefanini Patrizia
559) Cella Silvia
560) Canfora Ida
561) Manganello Grazia
562) Cosi Maria Donata
563) Rondini Enza
564) Guidetti Federico
565) Quercioli Manuela
566) Bandiera Andrea
567) Martelli Cinzia
568) Buzzoni Massimo
569) Bandiera Sofia
570) Verri Roberta

Eurozona:
Gli squilibri della bilancia commerciale

La Banca Centrale Europea ha pubblicato i dati sulla bilancia dei pagamenti dell’Eurozona chiusi a febbraio del 2021 e da questi risulta un saldo attivo di 259 miliardi, che rappresenta il 2,3% del Pil. Il valore è in lieve calo rispetto a Febbraio dell’anno precedente ma rimane sotto stretta osservazione da parte della Commissione europea che l’ha giudicata una delle principali fonti di squilibrio per i paesi che utilizzano la moneta unica.
Questi i saldi:

L’infografica di seguito ci dice verso chi vantiamo questi crediti.

Come si nota, gli Stati Uniti sono il partner privilegiato per volume di interscambio e con loro abbiamo un saldo attivo di 79 miliardi mentre la Cina si trova in territorio negativo, cioè l’eurozona compra dai cinesi più di quello che loro comprano da noi.
Il Regno Unito è stato invece il Paese che ci ha dato più soddisfazioni. Anche in questo caso l’interscambio è molto alto, il che è sintomo di ottimi rapporti commerciali, ma è anche chiaro che i britannici comprano dall’Eurozona molto di più di quello che vendono ed infatti vantiamo nei loro confronti un surplus di 151 miliardi di euro. Elemento che dovrebbe essere tenuto in debita considerazione quando si discute di accordi politici post brexit.
All’inizio si è parlato di squilibri, ma perché un surplus sarebbe pericoloso almeno quanto un deficit?
Nell’eurozona abbiamo una sola moneta per 19 paesi ma non abbiamo una sola bilancia commerciale e di conseguenza il surplus non è distribuito equamente, come si vede dai dati Oecd.

Il deficit di un paese nei confronti dell’estero può essere percepito dai mercati come un elemento di rischio, questo perché quel paese potrebbe ritenere che per ristabilire la propria competitività con il resto del mondo sarebbe conveniente uscire dall’euro in modo da abbassare il proprio rapporto di cambio, cioè per poter svalutare in modo da rendere le proprie merci più convenienti.
I paesi in surplus commerciale consistente avrebbero pochi vantaggi a lasciare una moneta che tiene basso il loro cambio e che quindi rende competitive le loro merci, ma poiché il rapporto con l’estero di tutta l’Eurozona è determinata da un unico tasso di cambio, il surplus di alcuni paesi implica il deficit di altri paesi dell’area euro.
Ciò che bisognerebbe incentivare, secondo la Commissione europea, è un aumento della domanda interna in quei paesi che riescono ad accumulare maggiore risorse finanziarie dall’estero. L’invito ad incrementare le politiche fiscali, a seconda del portafoglio, era arrivato anche da Draghi quando era presidente della Bce.
Buoni risultati si potrebbero ottenere con una diminuzione della tassazione diretta oppure con aumenti salariali, cioè lasciando o dando più soldi ai cittadini, in particolare sarebbero chiamati a farlo Germania e Olanda. Paese quest’ultimo che a fronte di una popolazione di poco più di 17 milioni di abitanti ha un surplus maggiore di quello dell’Italia.
Oltre allo squilibrio interno ne esiste comunque anche uno esterno e relativo proprio al cambio nei confronti del dollaro, che sta continuando pericolosamente ad apprezzarsi con il rischio di ulteriori tensioni. Un aumento dell’inflazione dovuto ad un aumento della spesa interna porterebbe dei benefici, farebbe da calmiere e porterebbe a un deprezzamento del rapporto di cambio. L’euro, bisogna ricordare, non può contare su aiuti diretti in tal senso dalla Bce, a cui è vietato per statuto, e quindi se l’eurozona non imparerà a risolvere i suoi squilibri in nome di una migliore convivenza, l’equilibrio sarà sempre di più demandato al mercato, cioè alla forza e non alla solidarietà, oppure alla volontà degli stati più forti, che dovrebbero decidere di pensare un po’ di più agli altri e un po’ meno a se stessi.

Il topo spaziale
(racconto di un prossimo virus)

 

Ho un inquilino nella mia cabina. È già da un po’ che lo seguo nei suoi spostamenti. Beh non è proprio come uno se lo aspetterebbe. Prima di riuscire a chiudere occhio, lo sento mentre graffia con le zampe le pareti di lega. Cazzo, mi fa imbestialire quel rumorino notturno, specie quando sai che la notte qui non esiste e il giorno men che meno.
Una specie di topo. In ogni stiva ce n’è almeno uno, anche in quelle spaziali. Non è proprio come quelli di Terra, ha le orecchie più allungate tipo pipistrello e gli occhi di lince per guardare meglio nel buio. L’ho visto in un documentario a casa. Sono chiuso in questo buco, nel culo dell’universo fino a data da destinarsi. Forse dovrei farmelo amico. Dovrei allungargli un po’ della mia razione giornaliera e passare del tempo con lui. Sì forse dovrei.

«Ehi rifiuto, alzati, andiamo dal capitano Douglas, vuole fare due chiacchiere con te».
«Il tuo capitano lo sa che tratti così i suoi ospiti?».
«Sei proprio spiritoso numero 56, questo è solo il benvenuto, vedrai che risate con il capitano».
E mi prende di forza per il braccio, il bastardo, senza esitazione.
«Ah bene, finalmente un po’ d’intrattenimento. Cominciavo ad annoiarmi».

La cabina del famoso capitano Douglas era al 16° piano dell’enorme nave spaziale Tiberius, che faceva capo a una delle più grandi e fottute multinazionali del globo.
In realtà, era molto probabile che la società che dirigeva alcuni tra i più squallidi esperimenti terrestri, non esistesse più. Forse nemmeno tutto quel fottuto mondo che conoscevamo, che con le esplorazioni spaziali era rimasto solo un piccolo pianeta chiamato Terra, esisteva più. Erano anni che non si registravano comunicazioni da Terra, e nessuno se ne preoccupava. Tutti continuavano il loro lavoro nelle sedi distaccate, senza chiedersi il perché e seguendo gli ordini impartiti da Terra una decina di anni addietro. Per la Tiberius invece la scusa era sempre quella, mandare in avanscoperta un manipolo di scienziati in giro per lo spazio, per trovare una risposta alla malattia che stava sterminando la nostra razza. Certo quel bastardo di un virus – se davvero di virus si trattava – non aveva attaccato tutti indistintamente. Era ingegnoso, aveva ucciso solo i bambini. E quello che più faceva paura era che i poveretti non si ammalavano di febbre o chissà cosa – per poi morire come cristo comanda – quei mocciosi diventavano improvvisamente vecchi e decrepiti, fino a tirare le cuoia. Bah, trovare una risposta adesso che senso poteva avere? In dieci anni chissà che cazzo era successo lì. Che tipo di ottusaggine porta una massa di scienziati idioti a cercare risposte anche senza un vero motivo? Denaro e notorietà. Niente era cambiato. Nonostante si fossero superati da tempo i confini della galassia.
Comunque sia, non era certo bello per i genitori – lo devo ammettere – con tutte le restrizioni legali per avere una discendenza e tutti i problemi di procreazione degli ultimi anni, veder invecchiare un figlio invece della nonna. Non era davvero naturale.
Dopo tutto di naturale non era rimasto più molto ormai.

Nella lussuosissima cabina del capitano c’era la moquette più costosa e morbida che avessi mai visto, o meglio, calpestato. Che fosse stata di pelle umana? Era probabile. Questi scienziati non riescono mai a distinguere tra cosa è umano e cosa non lo è. Il più delle volte cercano di innestare impianti emozionali in un robot mentre riempiono – da capo a piedi – un povero cristo di chissà quali diabolici aggeggi meccanici.
Ci provano gusto a fare questi scambi, quasi fosse necessario. Quei bastardi avevano carta bianca quando si trattava di materiale umano da laboratorio, e io non facevo eccezione. Si facevano passare per medici e ci tenevano alla nostra salute. Sì che ci tenevano, da quando quella fottuta malattia era arrivata, subito seguita dal potere di decidere delle nostre vite.

«Signor John Earthman, come lei ben saprà abbiamo avuto l’autorizzazione per prelevarla dalla sua abitazione su Marte, semplicemente per qualche accertamento».
«Non ricordo di aver fatto nessuna richiesta del genere, tantomeno di aver rilasciato la mia autorizzazione».
«Signor Earthman, non sia sciocco. Lei sa benissimo che non c’è bisogno di nessuna richiesta né autorizzazione da parte sua. Ad ogni modo non deve preoccuparsi. Le faremo solo una piccola serie di analisi e accertamenti, quindi la terremo sotto osservazione per qualche settimana. Nessuno è mai morto per questo».
«Lo dice lei. Ne ho di amici ritornati ciechi o zoppi nel migliore dei casi. E nei peggiori… ».
«Solo cattiva pubblicità, signor Earthman. Solo cattiva pubblicità. Lei non ha niente di cui preoccuparsi qui sulla nave».
«La porteremo in camera sua appena finito il tutto, buona permanenza».

Lo stronzo predicava bene – pensavo – mentre due guardie mi portavano in laboratorio. Cosa cazzo c’entravo io coi bambini? Con la malattia? Perché proprio io, un adulto, che aveva vissuto quasi sempre su Marte e che della Terra aveva sentito parlare solo nei video giornali? Mi avevano insegnato a non fare domande e ancor meno a cercare di capire quali idee passassero nella loro mente contorta.
«Sicuramente non troveranno niente e mi riporteranno a casa quanto prima».
Continuavo a ripetermelo passo dopo passo, fino in laboratorio, ma a dire la verità cominciavo a non esserne affatto sicuro.

La “sala delle torture” era tutta bianca e stranamente ammobiliata con un solo metallico lettino posizionato proprio nel centro, gelido alla vista.
Dov’erano tutte le provette? Gli strani arnesi che ogni fottuto dottore doveva avere, tipo stetoscopio o cose del genere? E soprattutto dove nascondevano quello che più odiavo, ovvero siringhe e boccette per il sangue? Ma che razza di laboratorio delle analisi era quello?
Mi trovavo faccia a faccia con quella che pensavo fosse la “sala delle torture” ed era tutto qui? Un lettino gelido sperduto in una stanza? Sì, certo, mi aveva sfiorato il paragone con un lettino da obitorio e qualcosa mi diceva che non c’era di che rallegrarsi.

Quando mi svegliai nel mio letto – o meglio nel letto di quella che per qualche giorno era stata la mia cabina – capii perché i tanti racconti dei superstiti sulla “sala delle torture” fossero sempre vaghi e confusi.
La testa che girava come dopo una sbronza notturna. Le orecchie che fischiavano come dopo una giornata passata a sentire thrash metal. Eh sì, bei tempi! Non c’è che dire, il paragone calzava a pennello. Ed eccomi qui di nuovo a chiedermi se fare amicizia o meno con il mio coinquilino topo.
Il riflesso che vedevo nello specchio davanti al letto era rassicurante. Beh sì, avevo i capelli un po’ sconvolti, ma la faccia era serena e insolitamente più distesa. Mi accorgevo solo adesso di quella differenza. Lo specchio non c’era al mio arrivo. Che razza di test del cavolo mi stavano menando?
«La terremo in osservazione per qualche settimana».
Sì, dovevo arrivarci, lo stronzo me lo aveva promesso. In quel momento nessuno poteva negarmi un gesto di disapprovazione. Niente di che, il classico dito medio alzato. Rivolto allo specchio ovviamente.
Avevo sprecato metà delle ore in una prigione di latta a guardarmi in faccia e a immaginare cosa avrei fatto a quegli spioni di merda che sicuramente mi scrutavano dall’altra parte. Mentre l’altra metà era tutta impegnata su un altro fronte. A che razza di esperimento mi avevano sottoposto?
Domanda lancinante. Più passava il tempo e più pensavo che le due cose fossero collegate. Perché guardarmi allo specchio era diventato un’ossessione. Strano che non vedessi più quella cicatrice sul mento che mi ero fatto più di un anno fa. Era stato difficile fare l’abitudine a uno sfregio del genere, ma era quantomeno imprevedibile che potesse così tanto sconvolgermi la sua assenza.
Che strazio non aver niente da fare. Niente che t’impegni il cervello.

Uno scatto ed eccolo tra le mie mani. Il topo spaziale doveva essere un cucciolo. Dal rumore che faceva me lo ero immaginato più grosso. Chissà dove aveva la sua tana. Sicuramente nei condotti dell’aeratore. La curiosità morbosa è sintomo di noia. Lo lasciai libero e lo seguii con lo sguardo. Dietro il letto, esattamente verso la grata dell’aeratore. Bene, dovevo aspettare che si spegnessero le luci.

«Signor Memphis, come procede la mutazione?».
«Tutto secondo i nostri calcoli, capitano Douglas, al secondo giorno dopo l’uso del preparato, cicatrici e rughe di espressione cominciano a scomparire».
«Bene, bene. Tenga tutto sotto controllo e mi comunichi ogni minimo cambiamento: temperatura corporea, elasticità cutanea, sudorazione, pressione sanguigna… ».

Troppo facile infilarmi nel condotto dell’aria insieme al topo, dopo aver preparato un fantoccio nel letto. Ben altra cosa poi sarebbe stata cavarsela dopo la mia fuga, all’attivazione dell’allarme. Mi chiedevo come cazzo avrei fatto a scappare, ma forse avrei trovato qualcosa di più, almeno una spiegazione a tutto quello. Niente di speciale. Volevo sapere per cosa mi stavo giocando la pelle.
Stretto, troppo stretto il cunicolo. L’ideale per la mia claustrofobia. Ma cosa mi era saltato in mente, pensavo forse che il terrore passasse solo perché ero curioso di avere una risposta?
Anche perché morire per le stronzate era diventata una norma da noi, l’indolenza pure, e non si poteva scappare da una nave in mezzo al fottuto spazio. Le navette erano l’unica area militarmente sorvegliata, andare a zonzo per la Tiberius non era difficile, eravamo “ospiti” per il capitano Douglas. Ma la curiosità non era ammessa.
Sì, perché mentre mi dimenavo al buio nella ricerca disperata dell’ uscita, pensavo che era più la curiosità a spingermi oltre che non la paura di morire.
Luce, la luce… aria, sì aria!
Dopo aver fatto l’uomo-ragno ora dovevo diventare l’uomo-invisibile. Non mi ci vedevo proprio a fare il supereroe. Roba vecchia, fumetti del tempo che fu. Le guardie dormivano. Il loro lavoro era troppo pesante. Che fatica sudarsi quello stipendio da re! Cazzo, forse qualcuno avrebbe potuto svegliarsi. Era meglio affrettarsi. Si fa presto a sfilare dalla tasca di un dormiglione la key card, e sgattaiolare per il corridoio di chissà quale dei sedici piani. Stava per passare la ronda notturna. Era meglio infilarsi in una porta, una qualunque, senza pensarci.

Pessima idea. Quella che mi si presentava davanti era una specie di prigione per soggetti sottoposti a sperimentazioni invasive di quarto o quinto grado.
La stanza era tutta blu, con tante piccole gabbie di vetro disposte a semicerchio e perfettamente linde. Ogni celletta era collegata a un macchinario che monitorava i soggetti lì rinchiusi. “Soggetti”, quanto odiavo quella terminologia saccente tipica degli scienziati sottomessi al volgare dio denaro. Quelle – e mi ci mettevo anch’io – erano solo delle cavie da laboratorio. Sì, perché mentre il topo spaziale girovagava indisturbato per la nave, io e gli altri eravamo solo carne da macello.
Possibile si trattasse di bambini? Ne contavo almeno una trentina. Non credevo ne esistessero ancora! Erano lì per niente disorientati, austeri e dimessi alla volontà dei padroni, ormai rassegnati al peggio. Non era cosa da bambini. Tutti noi abbiamo avuto quel momento di pura anarchia del pensiero e delle azioni. Solo l’età della ragione ci aveva fatto diventare emotivamente statici e indolenti anche alla morte.
Mentre guardavo esterrefatto la tranquillità di quelle facce quasi sopite, mi piombarono addosso le guardie. Era naturale che succedesse, non mi ero neanche accorto dell’allarme che suonava. Mi dispiaceva soltanto non capire il perché di quella situazione.

«Ehi calma. Calma teste di cazzo, portatemi dal capitano, devo parlargli… ».
«Che avevi intenzione di fare? Pensavi di poterci sfuggire? Tranquillo, è proprio lì che vogliamo portarti, rifiuto! Te la vedrai direttamente con lui, numero 56».
«Ah bene, così potrò dirgli che dormivate mentre io me la squagliavo».
«Continua a fare lo spiritoso, non sai quel che ti aspetta».

Il capitano Douglas era tutt’altro che allarmato. Sedeva alla scrivania disteso e calmo.
«Signor Earthman, cosa dobbiamo fare con lei? Mi spiega perché la lasciamo nella sua confortevole cabina e poi la ritroviamo in altre aree non autorizzate della nave?».
«Curiosità, semplice curiosità. Mi annoiavo a stare in cabina tutto quel tempo, sa com’è…».
«No, non lo so numero 56. Sa benissimo che la curiosità non è ammessa. Né qui, né sul distretto Marte, dovrebbe saperlo».
«Allora perché non mi dice com’è riuscito a trovare tutti quei bambini? Non erano tutti morti? E se li avete trovati perché continuate a fare esperimenti del cazzo su di noi?».
«Calma signor Earthman. Quelli non erano bambini. Ha detto giusto, sono morti tutti, anche su Terra. Se fossimo arrivati a questa scoperta non avremmo continuato a ospitarvi qui per qualche semplice test».
«Stia tranquillo ora, la riportiamo nella sua cabina. Avrà modo di pensarci e lo capirà molto presto, glielo assicuro».
Le guardie già provvedevano a spintonarmi per eseguire gli ordini del capitano.
«Non sono pazzo! Ho visto bene! Erano bambini e voi non volete dirci la verità, maledetti!».

La visione della mia stanza vuota – sempre più paragonabile a una cella – era ormai una consuetudine insopportabile e anche quel rumorino di zampette di topo che mi faceva impazzire giorno dopo giorno.
Continuavo a pensare alla stanza dei bambini. Com’era possibile che ci fossero tanti mocciosi tutti assieme, dopo anni che quella peste continuava a imperversare sulla Terra? Erano sopravvissuti. Sì, solo così era spiegabile. I contatti con la Terra erano cessati dopo dieci anni di malattia e morte. Nessuno se n’era preoccupato, si continuava solo a pensare alla risposta dello scatenarsi della malattia e all’eventuale vaccino per uccidere il virus. Nient’altro. Molti degli adulti si erano trasferiti al distretto Marte – compreso me stesso – e per paura di portarsi dietro il virus da Terra si era vietato di fare altri figli, definitivamente. Allora come si spiegavano quei marmocchi chiusi nelle celle?
Quello stronzo matricolato di Douglas, bravo a raccontare balle e poi che significava «lo capirà molto presto, glielo assicuro»… Uff, era ricominciato. Mi arrovellavo il cervello. Era brutto stare senza far niente: noia totale che ti assale sempre più. Dov’era il topo? Il mio unico amichetto?

L’infermiere entrò nella mia cabina dopo qualche ora e senza guardarmi in faccia mi sparò qualcosa nelle vene. Gli chiesi: «cos’è?». Lui, sorpreso dalla domanda, mi rispose: «un tranquillante, la farà stare meglio».
Troppe domande. Da tempo non mi capitava di pensare così tanto. Forse qualche volta da bambino. Non ricordo neanche come fosse essere bambino. Era passato troppo tempo. Sì, ricordo. Tutto era una sorpresa, una scoperta. Mi chiedevo il perché di tutto e avevo paura di stare male e di soffrire. Tutti pensavano ad altro che a giocare e si era curiosi di tutto quello che si vedeva o toccava. Belle emozioni. Bei tempi davvero.

Che dolore sento la pelle tirare in faccia. Alzo gli occhi verso lo specchio. Non riesco a credere a quello che vedo. Sembro più basso. Che strano rinfoltimento ai capelli. La mia faccia è più paffuta e colorita del normale. E… sembra incredibile… le incipienti rughe stanno scomparendo.

Ambra Simeone, Monza, 2015

PER CERTI VERSI
Per mia mamma Diva

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

PER MIA MAMMA DIVA

Tu sei la voce
Quella voce
Del ventre
La voce dolce
Delle fiabe
Sottile voce
Della buonanotte
Della tavola
Che non mangiavo mai
Senza la favola
Mi hai ascoltato
Negli anni della crescita
Della incauta adolescenza
Eri sempre quella voce
Un canale di luce
Per allungarmi
Provare sì
Provare
A diventare grande
Senza farne senza

Guido, il primo

 

Guido è stato il primo dei miei fidanzati. Siamo stati fidanzati un anno e poi ci siamo lasciati perché eravamo troppo giovani e troppo diversi. Da allora gli eventi della vita si sono susseguiti, indifferenti ai nostri sentimenti mutati ma rilevanti per altri aspetti dell’esistenza, facendo sì che il legame che ci accomunava abbia continuato a mantenersi buono e un po’ alla volta si sia trasformato in un’importante amicizia.
Guido abita a Pontalba vicino al fiume e a Villa Cenaroli, la bellissima villa che costeggia il Lungone. Proprio grazie a quell’antica costruzione, il nostro paese è conosciuto anche fuori dai confini Lombardi. La sua casa, come tutte quelle antistanti Villa Cenaroli,  è della contessa Malù che gliel’ha affittata a un prezzo vantaggioso perché le sta simpatico Guido e ama Reblanco, il suo cane. L’abitazione si trova di fronte all’ingresso principale della Villa ed è una vecchia casa con i mattoni a vista, ristrutturata di recente. Ha un ingresso ampio, una cucina-soggiorno, un bagno e un ripostiglio al primo piano, una camera da letto, lo studio e un secondo bagno al secondo piano. Inoltre ha una soffitta mansardata, un cortile, un piccolo orto e un garage. Per una persona sola è una reggia, impegnativa da pulire, molto accogliente e adatta per gli ospiti che Guido invita spesso a casa. Guido è un professore di Storia, insegna in università a Trescia.

Reblanco (Re) è il cane di Guido. Un Akita Inu interamente bianco dal pedigree importante. I suoi genitori sono stati dei campioni di bellezza ed eleganza e, guardando Reblanco, si capisce quanto la genetica influisca sull’aspetto fisico e sul carattere dei discendenti.
Guido e Reblanco sono una coppia fissa. Abitano nella stessa casa. Reblanco ha anche una piccola casa di legno nel cortile, ma non ci sta quasi mai. E’ l’ombra di Guido. Di giorno sta nello studio su una stuoia posizionata vicino alla scrivania dove Guido lavora e, di notte, dorme nella stanza del suo padrone in una specie di ‘cuccia’ di lattice, fatta apposta per le dimensioni e le esigenze degli akita, che gli garantisce uno standard di confort molto alto.
Quando vanno a spasso per Pontalba li guardano tutti. Camminano sicuri, sempre ben tenuti, maestosi nel loro incedere. Guido tiene Reblanco al guinzaglio perché così si deve fare. Ma credo che sia per lui una sofferenza, preferirebbe vedere il suo cane correre libero anche per strada. Appena la strada provinciale finisce e si arriva a quella sterrata che porta agli argini del fiume, Gudo libera Reblanco che comincia a correre felice fermandosi ogni tanto ad annusare la terra o a osservare il fiume, come se fosse indeciso se buttarsi in acqua oppure no.

La presenza di un docente di Storia in un paese piccolo come Pontalba è un evento raro. La gente si ferma spesso a parlare con Guido e lui racconta loro delle stranezze che sta scrivendo e elargisce bizzarri consigli sulla vita politica del paese, sulla salute della gente, sulla salvaguardia dell’ambiente e sul modo in cui una società debba essere sana, generante, rigenerante. Ha una madre e un fratello sposato che abitano a Trieste, quattro nipotini: due maschi e due femmine.  Suo fratello si è sposato due volte e, sia dalla prima moglie che dalla seconda, ha avuto una coppia di gemelli: due bambini nel primo caso (Claudio e Cesare), due bambine nel secondo caso (Bianca e Viola). Le femmine sono le figlie di Emma, la sua attuale moglie, mentre i maschi sono i figli di Aurora, la prima. Siccome Aurora fa la reporter e non c’è quasi mai, anche Claudio e Cesare stanno quasi sempre con la seconda famiglia del padre. Una famiglia allargata che, per fortuna, sembra funzionare. Bianca e Viola hanno sei anni. Claudio e Cesare dieci. Vengono spesso tutti e quattro a Pontalba e dormono in letti a castello che si trovano nella mansarda dello zio Guido. Si divertono molto e credo preferiscano Pontalba ad una vacanza in Sardegna. Sono ancora piccoli. Il “piccolo” ama il “piccolo” perché lo riconosce come simile a lui, della stessa misura.

Questi quattro bambini sono uno dei motivi che rendono il mio legame con Guido perenne. Due coppie di gemelli sono una delle cose più curiose e interessanti che io abbia mai visto. Si comportano in maniera simbiotica due a due. Sembra inoltre che i due maschi che sono più grandi,  abbiano sviluppato un’importante senso di protezione nei confronti delle bambine, le difendono a spada tratta da tutto ciò che considerano un’insidia alla loro incolumità. Ciò che un bambino di dieci anni considera un’insidia è terreno di scoperta. E’ un modo unico per studiare l’infanzia da vicino. Non solo, i due maschi hanno una particolare forma di protezione per una sola delle due gemelle. Ognuno di loro se n’è scelta una. Claudio protegge Bianca e Cesare è il parafulmine di Viola. Le coppie si ricompongono sempre allo stesso modo, non sbagliano mai, così si sono organizzati e così stanno crescendo tutti e quattro. Ognuno di loro con un doppio legame insostituibile. Uno col gemello, l’altro con uno dei due componenti l’altra coppia gemellare. Una cosa del genere non può non stupire, ci si potrebbe fare una tesi di laurea.

Anche a Guido, che è alquanto intelligente e curioso, i suoi quattro nipoti piacciono e incuriosiscono non poco. Li ospita sempre volentieri nella sua casa e li porta lungo gli argini del Lungone appena può. A Pontalba si vede spesso uno spettacolo che esercita un grande fascino su tutti. Guido, Reblanco trainato al guinzaglio da Claudio e Bianca o in alternativa da Cesare e Viola, e gli altri due gemelli che inseguono i primi quattro liberi e divertiti. Questa è la famiglia di Guido. Come sempre lui batte tutti, è sopra le righe, vive così, sa vivere solo così.

Un giorno li ho incontrati mentre anch’io passeggiavo lungo l’argine del Lungono. Mi ero fermata sulla stradina dei castagni per fotografare un albero che aveva alcune foglie illuminate dal sole. Guardando dal basso verso l’alto si vedevano piccoli bagliori di luce che filtravano fra i rami e le grandi foglie del castagno. Piccole fiammelle che accecavano e morivano subito dopo. Ho orientato la macchina fotografica verso l’alto e, stavo cercando di metter a fuoco, quando ho visto l’allegra brigata di Guido in avvicinamento. Reblanco era libero e correva sulla stradina, i quattro bambini erano allineati tenendosi per mano ed erano sfalsati come sempre: un maschio e una femmina e poi ancora un maschio e una femmina. Camminavano in mezzo alla strada. Devono aver imparato da Guido, anche lui cammina sempre in mezzo alla strada. Il vialetto dei castagni è sterrato, macchine non ne passano, al massimo bisogna spostarsi perché passa qualche mezzo agricolo che procede lentamente e si vede da lontano. Dietro alla quadriglia si vedeva Guido che camminava per ultimo in modo da godere di una panoramica privilegiata dei suoi quattro nipoti. Siccome mi conoscono bene, mi hanno riconosciuto da lontano e i  bambini e il cane si sono  messi a correre per venirmi in contro, mentre Guido ha continuato a camminare con il suo solito passo. I piccoli sono arrivati vicino a me tutti affannati. Claudio e Bianca hanno messo il guinzaglio a Reblanco per evitare che si buttasse in acqua, visto che ansimava ed era agitato.
“Cosa stai facendo?” mi ha chiesto Viola.
“Sta facendo una fotografia” gli ha risposto Cesare.
“Perché stai facendo una fotografia al castagno?” mi ha chiesto Bianca.
“Perché le piace” ha risposto Claudio.
“Perché ti piace?” mi ha chiesto Viola.
“Perché è romantico” gli ha risposto Cesare.

Mi sono sentita inutile. E’ stata una conversazione che ho sentito, ma dalla quale sono stata esclusa. Questo è l’incredibile mondo dei gemelli. Sono autonomi, protettivi, curiosi, a volte un po’ assenti. Quasi sempre felici perché bastano a loro stessi e non si sentono mai soli. L’incrocio tra diverse età e la differenza di sesso completa l’opera. Questi quattro bambini sono un mondo, una visione della vita. Un mondo di affrontare le responsabilità, un modo di essere curiosi, una rarità.  Sono affascinanti.

Nel frattempo è arrivato Guido.
“I gemelli sono spettacolari” gli ho detto.
“Certo” ha risposto lui.
“Forse ho fatto un’affermazione banale” ho detto.
“Si” mi ha risposto.

Ci siamo fermati a guardarli mentre sono corsi via tutti e quattro seguendo Reblanco. Sono belli, vivi, giovani e appartengono a un mondo un po’ diverso dal nostro. Forse migliore, sicuramente differente.
“Domani se ne vanno tutti e quattro” mi ha detto Guido.
“Passi da me? Ti faccio vedere il mio ultimo lavoro.”
“Ok” gli ho risposto e poi ho guardato di nuovo i quattro gemelli.
“Loro faranno la storia” ho detto.
“Già loro” mi ha risposto Guido e poi ha sorriso guardando Reblanco che stava abbaiando felice.

 

PRESTO DI MATTINA
L’immagine attesa

 

Immaginare, lungi dall’emulare, è come generare, o meglio farsi portatore di un altro. L’immagine è grembo del pensiero, che attraverso la corporeità sensibile viene alla luce e riceve la sua forma. In questo processo non può prescindere dalla relazione all’altro che si rivela, e implica perciò l’attesa operosa. È quindi, al contempo, ospitalità e raccoglimento, l’essere soglia e dimora, una distensione in tensione, ovvero – come direbbe Clemente Rebora – “Immagine tesa”.

Ne La Vita cosmica Pierre Teilhard de Chardin scrive «Anzitutto espongo vedute ardenti […] Ma non è permesso all’uomo innamorato della verità e della realtà abbandonarsi indefinitamente e con incoerenza a ogni vento che gonfi e amplii la sua anima. Anche se lo volesse, non lo potrebbe fare… Per la stessa intima logica degli oggetti e degli atteggiamenti, viene presto o tardi il momento in cui dobbiamo infine disporre in noi l’unità e l’organizzazione, mettere alla prova, selezionare, gerarchizzare i nostri amori e i nostri culti, rovesciare i nostri idoli e lasciare un solo altare nel santuario» (26-27).

Questo luogo di rivelazione, di autenticità e offertorio cui allude Teilhard de Chardin altro non è che la nostra coscienza. E riscoprirne l’integralità, la sua struttura simbolica, significa divenire consapevoli che in essa non si dà separazione tra pensiero e immaginazione, tra concetto e valore. L’istanza etica (il bene) e quella estetica (il bello) formano con il vero un’unità attraente, desiderabile, appetibile per coscienza e la libertà in essa, quando cerca la strada del proprio comprendersi e conoscersi, quella dell’ ‘intelligere’ il reale per trovare, passo dopo passo, figura dopo figura, azione dopo azione, il senso e la verità di se stessa e del mondo in cui dimora.

Così Pierre Teilhard de Chardin, assumendo la valenza immaginativa e simbolica per esprimere il suo pensiero, non solo nei testi mistici, ma anche in quelli scientifici come visioni e modelli su cui articolare la propria riflessione, li anima di un’intelligibilità nuova, di una ratio imaginis, di un senso, di un orientamento, di una razionalità che scaturiscono dall’immaginazione, dispiegando un ambiente che ospita lo spirito e il corpo, la ragione e la libertà, e per questo muove alla scoperta e all’azione.

La forza dell’immaginazione non è solo quella di operare un’integrazione dei vissuti, ma di essere vettore creativo e pure soglia di superamento e di interiorità per le esperienze fatte e i vissuti stessi. Attingendo alla memoria per protendersi sull’avvenire, l’immaginazione sta in mezzo tra passato e futuro, tra archetipo e creazione, originale e riproduzione, è ad un tempo ancorata e libera. Essa genera una stabilità protesa, un “rimanere” in movimento, una passività creativa, che attinge alla storia per generare altre storie. Anche per questo Teilhard direbbe che l’immaginazione non è fenomeno secondario, o peggio accessorio (epifenomeno), ma una realtà che veicola in germe l’energia di tutto il “fenomeno umano”. Al punto che immaginare può considerarsi il mezzo tramite il quale l’intelletto compie l’atto stesso del suo conoscere.

Come nasce infatti un’idea? «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; un’altra sul terreno sassoso, un’altra cadde sui rovi, un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno» (Mt 13,3-9). Idea è voce che attinge al verbo eidèo connesso al senso del vedere, del mostrarsi, dell’apparire, come il venire alla luce di un’immagine.

La prima tappa di questo processo consiste pertanto nella semina interiore sulle orme del prodigo seminatore; nel terreno della coscienza, come in un caleidoscopio, vengono seminate le immagini che si formano attraverso il sentire complesso e scompigliato dell’esperienza.

La seconda tappa dipende dalla capacità di mettere in relazione e generare sintonie e accordi: trovare e stabilire legami, sinapsi, congiunzioni tra le immagini che si accumulano con l’esperienza. L’idea si origina da una capacità combinatoria con altre e precedenti immagini, che danno vita a nuove combinazioni. Per questo essa richiede una propensione alla ricerca e al cambiamento, all’invenzione. Viene così in mente l’immagine evangelica della vite ed ei tralci (Gv 15, 1-11), una sequenza di immagini che si rincorrono cangianti in molteplici e fantasiose direzioni e si protendono in uscita oltre la vite, figura questa di una stabilità in movimento, che si sviluppa nei tralci e si amplifica rivestendosi di forme nuove, di iridescenti foglie e pampini, inflorescenze e grappoli che sono, come l’idea attesa, il frutto del suo travaglio: i suoi gioielli.

Vi è poi un terzo momento che attende al formarsi dell’idea. Un ulteriore passaggio che può essere reso con un’altra immagine del vangelo: «è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga» (Mc 4,26-28). Ecco: simile è il processo di gestazione e sviluppo nella coscienza del pensiero. L’idea, per venire alla luce, ha bisogno infatti di riposo, di nascondimento, una sorta di gestazione delle immagini in cerca di combinazioni. È questo il tempo in cui nella coscienza si attua una sintesi di ciò che in essa è molteplice, e che si sviluppa e viene fissato a un livello più profondo della stessa coscienza: le immagini latenti vengono introdotte nella camera oscura dell’inconscio.

L’attesa pensierosa e sospirata di maternità in questo tempo senza tempo dell’affiorare dell’idea verrà interrotta solo dalla gioia del suo apparire alla coscienza. Certamente un punto di arrivo, che tuttavia diviene un nuova partenza. Come ogni nascita, infatti, da subito dovrà confrontarsi e misurarsi con la realtà e rigenerarsi sempre di nuovo in essa. Così la realtà sarà il terreno di verifica dell’immaginazione e dei suoi frutti. Sulla soglia fra reale e immaginario essa deve sempre discernere tra due alternative, una che la condurrà ad essere «maestra di errore» – come direbbe Blaise Pascal – e l’altra che la farà valere come «potenza di verità».

La coscienza di ognuno comunica con la realtà e con se stessa mediante il corpo e la sua pluriforme capacità di sentire la vita e comunicare con essa. È Tommaso d’Aquino a ricordarci che il passaggio dall’ignoranza alla scienza deve essere attribuita direttamente al corpo e solo accidentalmente alla parte intellettuale (cf. De Veritate, q. XXVI, art 3, ad 12). Per lui non si dà pensiero senza immagine, poiché le cose esistono solo nel particolare, ma il particolare, il frammento, si coglie solo con i sensi, (cf. S.Th l. q. g4 a. 7 ad 3): «il campanello/ che impercettibile spande/ un polline di suono» (Clemente Rebora).

Nelle lettere di Giovanni la spiritualità si esprime attraverso lo stile di un linguaggio sensoriale volto a comunicare l’esperienza della conoscenza e della comunione con Dio, in Gesù Cristo; non solo la sua immagine, il volto, ma pure le mani, i piedi, il suo stesso corpo: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile) quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi», (1Gv 1,1-3).

Scrive Jean-Pierre Sonnet: «Nelle nostre membra, nell’articolazione dei nostri corpi, nei nostri gesti più elementari, si nasconde un vangelo, che il linguaggio e lo sguardo poetico (immaginazione poetica) portano alla luce», (La scorciatoia divina, 5). E citando una cantica del 1680 Le membra del nostro Gesù, egli evidenzia come l’immaginazione, soffermandosi sui versetti del vangelo che si riferiscono al corpo di Cristo in croce contempli i piedi, le ginocchia, le mani, il costato, il petto, il cuore, la testa. Il corpo di Cristo diviene così come il sentiero più breve e diretto per arrivare a conoscere il Padre, come chiedeva con insistenza l’apostolo Filippo a Gesù: «Mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,8-9). E il poeta gesuita Gerard Manley Hopkins così scrive: [il Cristo] «come Martin pescatore guizza, come libellula attrae la fiamma; in ognuno dimora, si attua, corre le sue vie; attua di fronte allo sguardo di Dio ciò che nello sguardo di Dio egli è: Cristo. Gioca (play) in diecimila posti, amabile (lovely) nelle membra, in occhi non suoi, amabile a Dio Padre, nei tratti dei volti umani», (Poesie, 99).

L’immaginazione ha nel corpo di Cristo il suo evangeliario, e nel pane eucaristico vede la moltitudine dei credenti, dapprima seduti alla mensa con lui a spezzare il pane e poi incamminati, in via, a condividerlo ad ogni incontro. L’immaginazione distende così, lungo la storia dell’universo come un planetario di relazioni, quell’ambiente umano e divino del suo corpo reale e mistico, unità e miriade, monade e pleiade del suo corpo cosmico (Teilhard de Chardin).

In questo testo poetico di Clemente Rebora l’“immagine tesa” è invito a vigilare uno sbocciare che ancora non si vede; sguardo, attento com’è all’istante, di rendere visibile l’udibile: un suono, un bisbiglio, figure d’ombra, profumi, intravedendo alla fine, stupito, nell’attesa di “nessuno” il venire di qualcuno:

Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Al cantón fraréś
Vito Cavallini: “Fetónt”

 

Nella Storia dal mié paés Vito Cavallini, cui è dedicato questo Cantón fraréś, racconta in dialetto il territorio ferrarese, figure della corte estense, personaggi della cultura, e si sofferma fra le leggende in quella di Fetonte.
Il figlio di Febo Apollo, dirigendosi verso il Sole con il suo carro, incapace di governare i cavalli precipita nell’Erìdano. Proprio da queste parti. Le Eliadi, sorelle di Fetonte, mentre addolorate lo piangono sono tramutale in pioppi da Zeus. Pioppi che ancora oggi caratterizzano le rive del Po. (Ciarìn)

 

Fetónt

A ghè na fòla iη mèź a tanti fòl
che la par fata apòsta par sti cò,
quéla ‘d Fetónt, al fiòl ad Fèbo Apòl
ch’al vléva andàr pr’al ziél come in landò
sul cariàģ da purtàr iη źir al Sól,
e a và a finìr ch’al casca, al casca in Po,
int l’Erìdan, iη riva a ‘η paiśìη
che adès la źént l’al ciama Fraηculìη.

Pòvar Fetónt, al jéra uη bel źuvnòt,
uη cosmonauta col so sangv bujént,
al vléva spadrunzàr sul dì e la nòt
e ‘l Sól e ill stéll tacàdi ai finimént:
un iηsóni tant bel, che po’ al s’è rót,
e ill so surèli ill jà tacà ‘η lamént
su cla graη sćiùma iη meź al fium, e dop
si j’àrźan, col dulór è nat i piòp.

È nati ill piopi, j’àrbul dla pianura
d’atórn a Frara luηgh i so canàl,
co’ la fója d’arźént int la calura
ch’l’as móv apena apena al fià dla val,
e ill ran ill canta al temp dla trebiadùra,
dorm al vilàn, arspónd sol ill zigàl…
Fetónte, nat iη ziél e mort a Frara,
l’è chi coη nu, iη Po, ch’l’è la so bara.


Fetonte
(traduzione dell’autore)

C’è una favola in mezzo a tante favole / che pare fatta apposta per questi luoghi, / quella di Fetonte, il figlio di Febo Apollo, / che voleva andare per il cielo come in carrozza / sul carriaggio per portare in giro il Sole, / e va a finire che casca, casca in Po, / nell’Eridano, in faccia a un paesino / che adesso dalla gente è chiamato Francolino. /

Povero Fetonte, era un bel giovanotto, / un cosmonauta col suo sangue bollente, / voleva spadroneggiare sul giorno e su la notte / e il sole e le stelle attaccate ai finimenti: / un sogno tanto bello, che poi si è rotto, / e le sue sorelle hanno avviato un lamento / in quella gran schiuma in mezzo al fiume, e dopo / su gli argini col dolore, son nati i pioppi. /

Sono nate le pioppe, gli alberi della pianura / attorno a Ferrara, lungo i suoi canali, / col fogliame argenteo nella calura / che si muove appena appena al fiato della valle, / e le rane cantano al tempo della trebbiatura, / dorme il villano, rispondono le cicale… / Fetonte, nato in cielo e morto a Ferrara, / è qui con noi, in Po, ch’è la sua bara.

 

 

 

 

 

Tratto da: Vito Cavallini, Storia dal mié paés (Storia del mio paese), Milano, Gastaldi, 1965.

 

Vittore “Vito” Cavallini (Portomaggiore 1905 – Ferrara 1983)
Altre note biografiche nel Cantóη fraréś del 15 maggio 2020 [Qui]

 Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca (Qui)

In copertina:  Alberi in golena sul Po – foto di Marco Chiarini, 2021

Parole a capo
Alberto Ronchi: “Una poesia”

“La poesia è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere.”
(Italo Calvino)

 

e ballavamo
in mezzo alla strada
un’assemblea di sole donne
volevano
le femministe
eravamo usciti
increduli e disciplinati
impegni finiti
inizia la festa

e i sessantottini
sempre un po’ pessimisti
sempre un po’ ottusi
aprivano
discussioni infinite
non può essere considerato
rivoluzionario
rinunciare ad affrontare
contraddizioni movimento
insieme
da compagni

ed era vera gioia
nel sole già tiepido
del mattino
sentire
in leggera lontananza
risposta
scandita in coro
col dito col dito
orgasmo garantito

e in 10 o 12
ci si incamminava
verso la piazza
sempre aperta
la porta della sede
lavorare
al piano del giorno
colletta per il collettivo
stecca di fumo
bottiglia di vodka o grappa
continuare nel tentativo
di forzare porta sgabuzzino
per celebrare in anticipo
festa unione donne italiane
rincorrere
sventurato o sventurata
fuori e dentro sede
varie ed eventuali

e ormai liquefatti
raggiunto eventuali
esprimevamo
nostre migliori virtù
colorare
con dedizione e amore
testa di peltro
lenin reliquia
solidarizzare
con militari
caserma dietro l’angolo
fette di salame
bicchieri di vino
finalmente sottratti dal magazzino

e poi tornavano le ragazze
calze di lana
zoccoli meravigliosi
qualcuno era svenuto sul divano
un altro dormiva per terra
ma le parole
si disperdevano
nelle stanze
per cadere
misteriosamente
negli angoli più appartati
proprio dove
sarebbero letteralmente esplosi
improvvisi e irrinunciabili
amori

Alberto Ronchi è nato a Ferrara l’1 ottobre del 1961. E’laureato in filosofia. Ha svolto diversi mestieri: operaio, operatore culturale, amministratore pubblico. Attualmente è un insegnante (precario). Ha pubblicato due piccoli libri di poesia, entrambi nella collana fotocopie, editi da Modo Infoshop di Bologna.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Vite di carta /
Libri o persone? Tutti e due: persone & libri

Vite di carta. Libri o persone? Tutti e due: persone & libri

Nella foto in bianco e nero c’è un bambino sulla giostra insieme a me; occupa la moto alla mia sinistra e guarda l’obiettivo a occhi sgranati. Io invece sono concentrata a guidare una macchinina, con le mani ben strette sul volante. Di Marco si notano il giubbino fatto a mano con la lana piuttosto grossa e i capelli corti e ispidi, da monello. Oggi è il giorno di San Michele Arcangelo, patrono del mio paese, e la mia pettinatura è quella delle grandi occasioni: il concio o come si dovrebbe dire lo chignon che mia madre abbina ai vestiti eleganti, come questo che è di velluto. Il colore non si può vedere nella foto, ma la memoria mi soccorre e lo ricordo color bordeaux.

Stamattina al mercato del mio paese il giro tra le bancarelle è durato poco: mi hanno assorbita altre commissioni attorno alla piazza, tra cui quella in banca. Lunghissima. Meno male che, nell’attesa di conferire con il cassiere, Marco e io ci siamo ritrovati dopo tutti questi anni e abbiamo rimesso in piedi alcuni ricordi della nostra infanzia. La foto sulla giostra è venuta in mente quasi subito a tutti e due. Con le nostre facce di oltre mezzo secolo fa, ma almeno sono facce complete e non questi ovali coperti dalle maschere anti Covid, che portiamo come segno dei tempi.

Penso che abbia fatto bene a entrambi incontrarci. Certo, la sensazione che lascia il calore umano scambiato dal vivo porta una piccola beatitudine, perché ci fa sentire parte di una tribù a cui abbiamo preso parte fin da piccoli, con i suoi riti identitari; ci fa ricordare insieme e credo sia già una forma di dialogo. Combatte la solitudine della caverna nella quale abbiamo trascorso gli ultimi mesi. Come è accaduto a molti di noi, nell’ultimo anno ho esercitato più che mai la mia capacità ricettiva. Sento e leggo a lungo ogni giorno le news di politica interna ed estera; come avrebbe detto Galileo conosco estensive le cose che accadono nel mondo, molto più di quando insegnavo e lavoravo tutto il giorno per fare lezione da casa e tentavo in qualche modo di salvare la qualità della relazione con i ragazzi. Ora però rielaboro di meno, soprattutto per la carenza di interlocutori. I mass media consentono assai poco la reciprocità del dialogo: ascolto e basta. E mi manca il dialogo quotidiano con le amiche colleghe, compagne di avventure didattiche e dello spirito.

Diciamo che frequento libri e rifletto sulle sollecitazioni che mi dànno con una grande sete di parole. Chissà se in Italia è aumentata la lettura durante il lockdown e di quanto.
Libri o persone? Ho bisogno di tutt’e due. E allora eccomi a comprare appena è stato possibile l’ultimo libro di Marco Balzano, Quando tornerò, e ad aspettare di sentirlo parlare di questa nuova storia durante il collegamento con la sede ferrarese di Libraccio il 15 aprile scorso. Ho conosciuto Balzano un paio d’anni fa quando è venuto a incontrare i ragazzi dei Licei cittadini al Museo di Spina nel salone delle Carte Geografiche. Che bel momento. Lui generoso e attento ai ragazzi come un docente, che è anche scrittore, sa fare, il suo libro, Resto qui, bellissimo.

Volevo riascoltare la persona Balzano, lo scrittore in carne e ossa. In un gioco chiarissimo di complementarità tra autore e narratori, Balzano dice “Io” per tre volte nel nuovo romanzo: parla nelle vesti di Daniela, la madre di famiglia che lascia la Romania per venire a Milano a fare la caregiver (da evitare la parola riduttiva badante, meglio curante o il termine equivalente inglese), poi assume il punto di vista dei due figli, che Daniela ha lasciato soli, con un padre evanescente che riesce solo a fuggire le responsabilità e ad andarsene a sua volta senza lasciare traccia. Lei per prima, poi Manuel e infine Angelica danno la loro versione degli anni in cui da Daniela ha lavorato a Milano, con l’unico scopo di mandare loro i soldi necessari a farli studiare.

E’ la storia dello spaesamento da cui sono stati travolti: lei che come tante donne dell’Est si è trasferita in Italia a prendersi cura di una persona anziana, i figli che per questo sono stati lasciati senza cura. È una storia contemporanea e internazionale: sul tema della partenza e poi del ritorno alla famiglia, dopo un’ intensa esperienza di lavoro e di emancipazione femminile vissuta in un altro paese; sul senso di colpa che divora chi è andato lontano. Lo sa bene Daniela, anche se è stata spinta a venire in Italia dalle necessità economiche e dall’immenso amore per i figli. Ogni sacrificio è stato fatto per loro, che però non possono capire e sentono la ferita dell’abbandono.

Come nel precedente romanzo, mi sembra di nuovo straordinaria la capacità di immedesimazione dell’autore nei suoi personaggi: là era protagonista e io narrante, la maestra di un paese in Alto Adige, Trina; ora lo sono una donna matura e i due figli adolescenti. Ognuno racconta la propria versione della storia con le caratteristiche espressive che gli sono peculiari e con il proprio grado di comprensione della scelta che Daniela ha compiuto. In particolare Manuel, che, a differenza della sorella maggiore avrebbe voluto andare via con la madre, sbanda sotto il peso dell’abbandono.

Nella mia vita ho conosciuto alcune curanti occupate in famiglie del mio paese, poi ho conosciuto da vicino Sofia quando ho avuto bisogno che si prendesse cura di mio padre. E’ stata una guida imprescindibile per me, lungo un cammino senza tracciato in cui rischiavo di sbandare. Ho avuto lei come bussola: la sua laurea in medicina e la sua dedizione l’hanno resa indispensabile a mio padre e al resto della famiglia. Dopo nove anni, anche ora che è tornata a vivere in Polonia, non passa giorno che non ci scambiamo una parola tramite whatsapp. Di lei mi ricordo quotidianamente e dunque il libro che parla di Daniela e dei suoi figli mi suona familiare.

Sofia è venuta in Italia per cercare lavoro, ma soprattutto per lasciarsi alle spalle una storia famigliare dolorosa; ha lasciato in Polonia i due figli maggiori e ha portato con sé il più piccolo, di soli otto anni. Mi viene in mente la sua parabola di vita, nella fase che ho conosciuto, perché ricorda da vicino i sacrifici e le privazioni di Daniela. Nel caso di Sofia, però, l’attaccamento dei suoi figli non è mai stato scalfito dalla lontananza. Il maggior segno di amore le è stato dato dal più piccolo, che ormai trentenne l’ha seguita nel suo ritorno in patria. Lui, più italiano che polacco per il modo di vivere e di pensare, ha ripreso la via di casa insieme a lei, complici anche la precarietà del lavoro qui in Italia e qualche problema di salute.

Mi domando di nuovo: persone o libri? La risposta è la stessa: persone e libri. Perché, come ha detto Balzano a chi gli chiedeva come avesse scelto il tema del badantato per questo romanzo, la letteratura ha la forza di guardare il mondo dall’interno e con efficacia, di trovare empatia nel rapporto con gli altri. Sa andare oltre gli stereotipi. Sa procurare avvicinamento.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

FANTASMI
La quarta parete

 

È l’ultima volta che François si trova davanti a questo specchio, tre parti di vetro e una d’argento. I bordi consumati dalle dita che lo hanno sollevato, smontato, riposto, poi montato di nuovo. Le luci oramai fioche a contorno riescono a fatica ad illuminare il suo volto. Osserva il riflesso, ciò che vede è ancora se stesso, nonostante tutto. Cinquanta anni di finzione non hanno dissipato la coltre di ansia che lo assale prima dell’apertura del sipario, riesce quasi a toccarla.

Ma perché dovrebbe avere paura? Lui è un attore, uno dei migliori.
– Sì avanti.
– Il drink signore.
– Mettilo qui, grazie.
La bottiglia di porcellana bianca di Edmundo Dantes Gran Reserva sul vassoio d’acciaio, irrinunciabile abitudine. Sarà vuota a fine serata, François ne è consapevole.

L’aroma di vaniglia, sgomitando, rincorre il tappo, lo sorpassa. Per venticinque anni ha atteso questo momento, ora improvvisamente la libertà di espandersi, di dare sapore ai sensi.
Il naso corre ad abbracciarlo dimenticando il tanfo della muffa, mesto compagno di una vita. L’alone di invisibile paura che lo circonda assume il colore ambrato del liquido versato nel bicchiere di cristallo, il colore del piacere che diventa dolore, della libertà che diventa solitudine.

L’ultimo spettacolo sta per iniziare, la bottiglia già a metà.

François incontrerà per l’ultima volta il suo fantasma, la quarta parete che lo fisserà immobile, senza farsi vedere, nascosto dietro i riflettori, giudice spietato che alzerà il pollice verso, o le mani per applaudirlo.
Apre la porta del camerino e di nuovo si scontra col puzzo di acqua stantia che pervade il corridoio di velluto rubino.
Facce sconosciute lo aspettano, lo toccano, lo acclamano, ultimi fotogrammi di diapositive che nessuno vedrà mai più, cellulosa disciolta negli acidi del tempo che non torna. Il sipario blu notte emette il suo sibilo minaccioso, mentre un brivido gli percorre la schiena fin sotto la folta parrucca corvina.

L’unico proiettore acceso lo punta diretto mentre il mare di parole si placa ed il brusio in sala cessa.

Il fantasma è lì, immobile.

François contrae i muscoli del viso fino a serrare le palpebre; vuole vedere cosa c’è dall’altra parte, è l’ultima occasione che ha. Chi c’è dietro quel lenzuolo bianco? Perché non si fa vedere?
Gli occhi vermigli rinunciano a frugare nella nebbia, è troppo tardi ormai, le pupille d’improvviso si dilatano. Si spengono i riflettori sull’artista, l’ultimo atto è terminato.

Rimane solo l’inchino, il fantasma è sconfitto.

Per leggere gli altri FANTASMI della rubrica clicca [Qui]

GLI SPARI SOPRA
L’analisi del Boh

 

“La situazione italiana è grave ma non seria”
(Ennio Flaiano)
… ma viene da aggiungere pure un … boh?

Avrei voluto commentare la caduta del governo Conte due e l’arrivo dell’illustrissimo, esimio professor Draghi. Ma, nonostante stia scrivendo – parole che forse cancellerò prima di cliccare un invio – sono decisamente spiaggiato. Non credo sia grave non avere opinioni, per uno come me intendo. Cioè non sono un commentatore di professione, non sono un ‘proto influencer’ o ‘semi giornalista’, sono solo un cazzone di sinistra, sbandato, senza guida politica, che non risponde a nessun politburo.

Dice: ma al mondo cosa può interessare l’opinione di uno che manco ce l’ha una opinione?
Esatto, saggia domanda.

Ma imperterrito, almeno fino a quando non spingerò il tasto canc, provo a spiegarmi una condizione inspiegabile. Perché ritengo il Conte due un governo che ha avuto più positività che negatività? Forse perché siamo da oltre un anno all’interno di una crisi mondiale che ha stracciato le certezze di un ‘sistema mondo’ sul ciglio della sua autodistruzione? Forse perché una persona distinta, in doppio petto, con la riga da una parte, che non mi rappresenta, alla fine mi rappresenta pure? Al netto dei tanti errori e dei molti ministri molto sotto la soglia della sufficienza, la lotta di alcune persone per bene hanno permesso di tenerci a galla nel marasma, dei Gallera, Fontana, Salvini, Melloni e compagnia cantante. Dovessi dare un voto al governo darei un appena sufficiente, ma in un compito di una difficoltà estrema, con domande che non c’erano sul libro, e neppure si poteva attingere da vecchi appunti, perché la storia arriva a mala pena alla seconda guerra mondiale, manca tutto il secondo novecento, figuriamoci il XXI° secolo, per non parlare della fine del mondo. Non lo so se i miei ragionamenti sono di sinistra, forse sono solo scombinati e senza senso.

Dice: ma uno come te non avrebbe voluto un governo diverso?

Certo che si, avrei molti nomi, che vanno dalla sinistra moderata, all’estrema sinistra, con qualche spruzzata di liberi intellettuali anarchici, operaisti, economisti ecologisti, che poi, per cercare davvero dei nomi che mi piacciono dovrei usare Wikipedia. Peccato che in Italia le forze politiche che io voto, sommate insieme, nei mille simboli che li compongono, forse, arrivano al cinque per cento. Percentuale da estinzione che però non sarà mai agglutinata, perché noi compagni (moderni), non quelli veri di un tempo, non sappiamo aggregarci. Non abbiamo attrattiva, discutiamo nei collettivi in rete, dove abbiamo la capacità di scannarci tra leninisti e trozkisti, tra comunisti e comunisti, tra anti euro e anti Nato. Siamo morti compagni. Non so se qualcuno leggendo, e magari conoscendomi, si preoccupa della mia sanità mentale o della mia ottusa coerenza. Non fatelo, non sono una fake, sono io e per me non c’è speranza e né scelta. Continuerò a votare un qualunque partitino dell’ 1%, non ho alternativa, non ho scampo, quello sono e quello rimarrò.

Tornando a Conte, il sicario ha eseguito il suo intervento alla luce del sole, ha consegnato l’Italia nelle mani dell’unico banchiere in grado di coagulare intorno a lui un ampia rappresentanza, creando un governo d’ammucchiata che Boccaccio scansati proprio. Voleva la destra? E la destra ha avuto.
E quindi, quale era l’alternativa? Alle urne compagni, mobilitiamoci nelle piazze. A no, non si può. Attacchiamo le locandine, consultiamoci nelle sezioni. Le sezioni non esistono più e poi non si può fare neppure quello.

Dittatura! Grida il popolo.

No, un virus di merda, che non riusciamo a debellare perché prima, da sconosciuto ha fatto centinaia di migliaia di morti ed ora, perché le case farmaceutiche hanno bisogno di lucro, continua a farli.

Le elezioni sono un diritto! Guardate che lo so.

Quindi ricapitolando, meglio un banchiere, sicuramente ricco di capacità, amico di Silvio, dei Mattei, l’uno diventato europeista, l’altro spalmato a pelle di leone davanti a Montecitorio, per permettere al Migliore di pulirsi i piedi, con un governo ‘all’altezza’, dove spiccano alcuni personaggi da brivido, o meglio le elezioni? Consultazioni da fare nel pieno di una possibile terza ondata, con centinaia di morti al giorno (in Italia), senza comizi, con una campagna elettorale di una violenza immane, al netto di almeno tre mesi di immobilismo, (mentre stanno arrivando i soldi dell’Europa), con un risultato elettorale già scritto. Destra destra, più centro destra, più centro e più né destra e né sinistra.

Ma la sinistra?

Non c’è compagni, noi non esistiamo, finche rimaniamo fuori, arroccati dentro al mausoleo di Lenin non incideremo mai, ora proprio ora, dove c’è bisogno di noi, perché il sistema capitalistico si sta sgretolando, noi non riusciamo a proporre nulla che non sia litigiosità sulle sfumature da dare alla bandiera rossa. Perché? Perché non riusciamo ad aggregarci, mano aperta che si stringe a pugno, fratellanza che ci portava a dividere il pane, corpi tenuti per mano in un nuovo quarto stato, dove tutti invece di guardare al sol dell’avvenire, si guardano le mani che tengono strette un telefono dallo schermo luminoso. Perché non siamo capaci di unirci, di essere il sogno di milioni di persone come nel ‘900, perché non sogniamo più?

Troppi, perché in un mare di parole inutili.

Fedez, l’insostenibile leggerezza dei conformisti

 

Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, studente del liceo artistico mai arrivato, pare, alla maturità, potrebbe essere la prova vivente del fatto che, oggigiorno, stare sui libri non serve a niente: è molto più importante diventare un “manico” nella comunicazione social, magari mettendosi assieme alla numero uno assoluta nel campo, Chiara Ferragni da Cremona, maturità classica e studentessa in legge (mai terminata, nemmeno quella), ma decine di milioni di seguaci (followers), definita nel 2017 da Forbes: “l’influencer di moda più importante al mondo”. Un esempio tratto dal suo blog: “Dopo aver allestito le perfette postazioni smartworking, la voglia di arredare la casa con oggetti inusuali e, soprattutto, di cui non sapevamo di avere bisogno è sempre più forte! Le tendenze in fatto di design parlano chiaro: ad essere predilette sono le linee minimal e i colori neutri, azzardando con forme anti-convenzionali su piccoli oggetti di design come lampade da tavolo, candele o specchi. Beige, colori pastello, vetro e plastica sono i protagonisti degli oggetti che tutti vogliono, per dare al proprio spazio un tocco chic, …Ammiccate (e basta) allo stile bohémienne nelle texture, ma non tentate di strafare, innanzitutto perché non è più così di tendenza come lo era fino a un paio di anni fa e soprattutto rischia di farvi cadere nel kitsch. (A meno che non sia voluto, è ovvio). Il tocco che non può mancare? Pampas e fiori secchi in vasi in vetro soffiato o minimalisti“.
Eviterei di fare della facile ironia. Prima abbiate 23 milioni di seguaci e poi ne riparliamo. Organizzate in pieno Covid una raccolta fondi che mette insieme 17 milioni per l’Ospedale San Raffaele, e poi ne riparliamo. Qui gli intellettuali sarcastici non hanno diritto di parola, a meno che non prendano sul serio questa roba (come la Harvard Business School). Che è una cosa seria: è una storia di rilevanza mondiale (visti i numeri) di raccolta del consenso, e del denaro.

Ma torniamo a Fedez, che diffonde (pare tagliandone una parte) la telefonata intercorsa con la dirigenza Rai, per dimostrarne la volontà di censurare il suo pensiero.
La registrazione di conversazioni telefoniche tra privati non è riconducibile al concetto di intercettazione, né lede l’altrui privacy o integra gli estremi del reato ex art 615 bis c.p., ma, anzi, è lecita purché effettuata da chi ad essa non sia estraneo, da chi vi partecipi attivamente e continuativamente o sia comunque ammesso ad assistervi.
Tuttavia, un conto è la registrazione, un altro è la divulgazione. La divulgazione di una registrazione di conversazioni telefoniche tra privati, pur lecitamente avvenuta, necessita dell’assenso di tutti gli interlocutorisempre che non sia finalizzata a “ far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria”. Quindi il privato potrà servirsi della registrazione fonografica davanti ad un giudice o all’autorità di pubblica sicurezza per tutelarsi in giudizio o esporre denuncia o querela, con l’unico limite che “i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento”ma non potrà, ad esempio, pubblicarla su Internet o su un social network, divulgarla ad una platea o ad un solo uditore. Anzi, in tal caso si incorrerebbe nella violazione dell’art. 617 septies c.p., ovvero della disposizione recentemente introdotta dal legislatore volta a sanzionare, ancora più duramente che in passato, la condotta di chi pubblica o diffonde una registrazione telefonica. Chi diffonde file audio di dialoghi cui partecipi attivamente, ma senza il consenso degli altri conversanti e per perseguire finalità diverse rispetto all’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca rischia fino a 4 anni di carcere.

Questo pistolotto giuridico non serve a puntare il dito contro Fedez, affinché lo stesso venga punito con la galera (figuriamoci), e nemmeno ad affermare con certezza che lo stesso Fedez sia scriminato (ovvero non punibile) in quanto ha esercitato un ‘diritto di cronaca’ o un ‘diritto di difesa’. Sia l’una che l’altra tesi avrebbero bisogno di essere argomentate in ben altre sedi che un modesto articolo di giornale.
Serve semplicemente a inquadrare il fatto accaduto (la divulgazione ad opera di Fedez della telefonata intercorsa coi vertici Rai, che tentano di fargli edulcorare dichiarazioni al vetriolo contro esponenti politici omofobi) sotto un profilo che nessuno, al momento, sembra evidenziare: cioè il fatto che chiunque, da semplice cittadino, avesse fatto una cosa del genere non essendo Fedez adesso rischierebbe grosso, e a difenderlo sarebbe al massimo il suo avvocato. Invece a prendere le parti di Fedez è più di mezza Italia, anche se l’esercizio del diritto di difesa di cui la legge parla non è stragiudiziale, ma si riferisce ad uno che si deve difendere da un’accusa in giudizio (e non siamo in questo caso, almeno per adesso); e anche se l’esercizio del diritto di cronaca di cui parla la legge si riferisce a chi esercita per mestiere questo diritto, mentre Fedez non è un giornalista.

Però non intendo dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Per quanto mi riguarda Fedez ha fatto bene, e se avrà infranto la legge ne pagherà le conseguenze; altro non credo voglia dire la frase “mi assumo la responsabilità di quello che dico e faccio”, a meno che non la si voglia intendere come una espressione stentorea ma priva di qualunque significato reale. Se Federico Lucia comprende realmente il senso di questa frase, vuol dire che si è assunto consapevolmente il rischio di pagare penalmente in nome di una causa che ritiene giusta. Questo gli farebbe onore, anche se occorre aggiungere che il suo rischio è ben calcolato e, a mio avviso, decisamente ‘coperto’ dalla sua celebrità e dal fatto che una denuncia nei suoi confronti lo ergerebbe immediatamente a martire e simbolo della persecuzione censoria. Quindi, se dovessi scommettere, scommetterei che non passerà alcun guaio.

Nel merito, la parte più interessante della sua dichiarazione sul palco del Primo Maggio è quella di quando ha rammentato l’ipocrisia del Vaticano, che ha investito denaro per anni nella Novartis, azienda farmaceutica che produce anche la cosiddetta ‘pillola abortiva’ o ‘pillola del giorno dopo’.
Si tratta di una bella botta, oltre che al Vaticano stesso, a tutti i difensori della morale cattolica condita, oltre che di omofobia, di antiabortismo. Per il resto ha detto cose di buon senso ma ha anche sparato sulla Croce Rossa, nel senso che citare le frasi ingiuriose e cariche di odio di qualche leghista non necessita di una particolare finezza di elaborazione. Tuttavia ha detto pane al pane e vino al vino, e questo lo ha distinto dalla comunicazione ingessata e pallida di chi per mestiere dovrebbe comunicare cercando il consenso.

Quindi, ai nostri politici, soprattutto a quelli di sinistra, un corso di tecniche di comunicazione contemporanea tenuto dai Ferragnez glielo farei fare. Tuttavia mi sento di dover esprimere una sensazione non solo su come comunicano, ma anche su cosa comunicano.
Comunicano, con le parole, messaggi politically correct sui diritti civili. Bene. Tuttavia il pezzo forte della loro comunicazione non sono le parole, ma le immagini, e l’immaginario che proiettano con enorme seguito trabocca di ricchezza, di ostentazione: scarpe da mille euro, orologi da diecimila, accessori griffati che costano quanto uno stipendio medio, automobili di lusso.
Intuisco che la rappresentazione della loro alter – vita su Instagram sia studiata con scrupolosa attenzione ai dettagli, un vero e proprio mestiere, faticoso e totalizzante, non una passeggiata. Ma qual è il messaggio che trasmettono?
I followers dei Ferragnez non sono attratti dal do it yourself del punk, o dalla voglia di emulazione che spinge un individuo a sviluppare il proprio personale talento, o dall’intento di accrescere la propria capacità critica. Non sarebbero così tanti se fosse questa la molla.
Il concerto dei Sex Pistols a Manchester, il 4 giugno 1976, avvenne davanti a 42 persone. Molte di loro in seguito avrebbero formato band popolari come i Joy Division, gli Smiths, Adam Ant. Quello fu un evento per l’influenza che ebbe nel muovere le persone, nel farle agire criticamente.
In questo caso temo sia esattamente il contrario: una adesione acritica ad un modello di consumo irraggiungibile, un desiderio di imitazione (non di emulazione), la costruzione della propria identità attraverso oggetti o simboli che non sono nostri, ma di qualcun altro. Uno spossessamento della personalità che rende le persone, più che degli ammiratori, più che dei followers, degli aspiranti sosia.
L’apparente anticonformismo dipinto sulla pelle di questo ragazzo finisce allora per diventare un rifugio perfetto per il conformismo dei suoi seguaci.

INFALLIBILE?
La domanda scomoda di Hans Küng

Meno di un mese fa, il 6 aprile, è morto all’età di 93 anni Hans Küng. Nato in Svizzera (1928), teologo, prete, perito conciliare, docente universitario, con la sua scomparsa, scrive Antonio Ballarò (Il Mulino online, 8 aprile 2021), se ne va “un largo frammento di storia della Chiesa e del secolo che ereditiamo”. Franco Valenti (settimananews.it, 11 aprile 2021) lo descrive come “probabilmente uno dei teologi più letti dalla ‘gente’ – laici e credenti – negli ultimi 50 anni”. Per la sua ricerca teologica, ricorda Sergio Ventura (Vinonuovo.it, 11 aprile 2021), si è guadagnato gli appellativi di progressista, scomodo, controcorrente, critico, ribelle e addirittura di eretico.

È bene sgomberare il campo dall’ultimo termine: gli fu tolta nel 1979 la cattedra di teologia dogmatica, ma non venne mai sospeso a divinis, né scomunicato. Di conseguenza, in base al Codice di Diritto Canonico, non è possibile giudicarlo eretico.
Anche l’appellativo di “critico della Chiesa o del papa”, puntualizza Thomas Jansen (settimananews.it, 20 marzo 2018), era motivo di “suo grande dispiacere”.
Più appropriata sembra la definizione di chi si è sempre mosso sulla linea di confine, dove si incontrano, mescolano, confrontano e scontrano il dentro e fuori, l’identità e l’alterità. Quella linea sottile lungo la quale cercare di riannodare legami spezzati. “Un cammino di ricerca – prosegue Ventura – che si può riconoscere e bene-dire senza necessariamente approvarne tutti i tornanti e tutti i traguardi”.

Ma perché il suo nome è ancora noto come ‘il caso Küng’?

Non è per niente facile condensare in poche righe il succo di un dibattito teologico durato una vita intera. A titolo di esempio, scrive ancora Valenti, la sola editrice Herder Verlag: “lo ha onorato con la pubblicazione di 24 volumi della sua produzione teologica: un tributo riservato a pochissimi testimoni chiave del ‘900”.
Già la sua tesi di dottorato (1957) gli valse una prima attenzione del Sant’Uffizio (poi Congregazione per la dottrina della fede): scheda protocollata col numero 399/57/i. Con quella dissertazione Küng sosteneva, con Karl Barth, che la dottrina della giustificazione in campo riformato non era da ritenere in contrasto con quella cattolica, “non c’è separazione nella fede”, scrive Rosino Gibellini (La teologia del XX secolo, 1992).

Di fatto, 42 anni dopo, nel 1999 fu firmata ad Augusta la Dichiarazione congiunta cattolico-luterana sulla dottrina della giustificazione, lo storico documento siglato dal capo del dicastero vaticano per l’Unità dei cristiani, cardinal Kasper, e dal segretario della Federazione luterana mondiale, pastore Noko, fortemente voluto da papa Giovanni Paolo II con il consenso del card. Ratzinger. Dichiarazione confermata a inizio 2021, con l’aggiunta di metodisti, anglicani e riformati.
Per farsi un’idea dell’importanza teologica del tema, basti pensare che ha impegnato per due millenni intelligenza e genio di personaggi del calibro di San Paolo (Lettera ai Romani), Sant’Agostino, San Tommaso, Lutero, fino al grande teologo protestante Karl Barth.

A costo di rischiare la banalità, si può dire che giustificazione è l’azione con cui Dio rimette i peccati, riammettendo gli uomini in uno stato d’innocenza causata da Dio. Azione confermata e rinnovata da Cristo, per il quale essere giustificati significa diventare partecipi della sua morte e risurrezione, nell’itinerario sacramentale del battesimo. Due aspetti caratterizzano, dunque, la giustificazione: quello negativo della remissione dei peccati e positivo della creazione dell’uomo nuovo.
Per lungo tempo si è disquisito, specie sulla scorta di Lutero, se la giustizia di Dio, per la quale si diventa giusti per grazia, sia una giustificazione dell’uomo pienamente nuovo, oppure se sia un’azione di carattere forense che ripulisce dai peccati ma permanendo la condizione di peccatori.

Il punto di Barth (protestante) e di Küng (cattolico), è di considerare le due posizioni dottrinali –  riformata che pone l’accento sulla condizione umana di peccator e cattolica dell’intima trasformazione dell’uomo iustusnon come inconciliabilmente distanti, ma due approcci teologici – dal basso e dall’alto – in un certo senso riconciliati dall’azione unificante della grazia come pieno ed esclusivo dono, fonte divina che trasforma.

Gli anni ’60 vedono Hans Küng partecipare al Concilio Vaticano II (1962-1965) in veste di perito, cioè esperto, conciliare. Dell’assise convocata da papa Giovanni XXIII – ricorda Ballarò – ”confesserà la sua parziale delusione per i risultati ottenuti”, resistendo anche all’invito di far parte della Commissione teologica.
Anni che coincidono con un’intensa ricerca ecclesiologica, che – scrive Gibellini – “ha il suo punto più espressivo in La Chiesa (1967) e il suo momento più polemico in Infallibile? Una domanda (1970)”. Ricerche che lo videro entrare di nuovo nel mirino vaticano sui punti caldi della collegialità e democrazia nella chiesa.

Ma è con il libro del 1970 che la temperatura si alza. Küng affronta il tema elettrico dell’infallibilità del papa (definita al concilio Vaticano I, cent’anni prima). Lo affronta con il suo stile pungente, affermando, come scrive Jensen, “che non poteva essere dedotta né dalla Bibbia né dalla Tradizione” e rincarando la dose sul fatto che “alcune decisioni del papa nella storia della Chiesa, a suo parere, erano degli evidenti errori”.
Con un’analisi sul Nuovo Testamento, Küng aveva già prospettato in La Chiesa una soluzione ecumenica dello spinoso problema del primato: se di servizio, e non di potere, non è contrario alla Scrittura. La proposta è quindi per una rinuncia del potere di Pietro per un servizio di Pietro.

Ora, sull’infallibilità, su cui torna nel 1973 con Fallibile? Un bilancio, la proposta è per una chiesa complessivamente indefettibile, che non cade in difetto. In altri termini, una chiesa che, al netto degli errori, non viene meno, ma non a motivo di proposizioni a priori infallibili. Alla stregua della Bibbia, per la quale non si può parlare di un’inerranza proposizionale.
Inevitabile fu il dibattito in ambito teologico. Ad esempio, per Yves Congar, altro gigante della teologia del Novecento, pur apprezzando l’indagine sulle fonti bibliche, l’indefettibilità era un concetto poco convincente. Figurarsi dentro le mura vaticane. La Congregazione per la dottrina della fede, infatti, aprì una procedura che arrivò a un richiamo pubblico nel 1975. Nonostante l’opera di mediazione attribuita al card. Julius Döpfner (fra i più attivi in concilio e al quale era legato personalmente), con il libro Essere cristiano (1974) la misura fu colma, con alcuni passaggi – dalla divinità di Cristo, alla nascita verginale, fino all’eucaristia – finiti sotto la lente d’ingrandimento della Santa Sede.
Il risultato fu il ritiro vaticano nel 1979 della licenza d’insegnamento nell’università di Tubinga, in cui insegnò Ratzinger, dalla quale Küng, però, ottenne in seguito una cattedra di teologia ecumenica indipendente.
In questo nuovo ruolo si dedicò al dialogo tra le religioni, passando dal dialogo interconfessionale a quello interreligioso. Suo fu il progetto Weltethos, ossia per un’etica globale, con la creazione dell’omonima Fondazione da lui presieduta.

Significativo è stato il suo rapporto con alcuni pontefici.
Con Giovanni Paolo II, scrive Francesco Strazzari (settimananews.it, 7 aprile 2021), i rapporti partirono subito in salita a causa di un articolo che Küng scrisse un anno dopo l’elezione di Wojtyla (avvenuta nel 1978), patito dal pontefice come un colpo basso e che pare all’origine del precipitare degli eventi fino al ritiro della cattedra di Tubinga. Nel 1989, infatti, disse in proposito il card. Karl Lehmann, presidente della Conferenza episcopale tedesca: “ho seguito mese dopo mese l’evoluzione del caso Küng. Nel 1975 veniva ammonito e lo si invitava a rivedere le sue posizioni. Non capisco perché abbia ripreso quelle stesse posizioni riaffermandole, anzi, enfatizzandole, con una sfida imprudente”.
Di Benedetto XVI, suo ex collega a Tubinga, va detto che nel 2005 volle riceverlo a Castel Gandolfo. Un colloquio durato quattro ore, sintetizzato in un comunicato che, sostenne Küng, fu redatto dallo stesso pontefice.
Di riconciliazione si può parlare con il pontificato di Bergoglio. Più di tutto, forse, vale il gesto di papa Francesco durante il suo viaggio apostolico in Kenya nel 2015, quando ai rappresentanti musulmani disse: “Nessuna pace tra le religioni è possibile senza un dialogo tra le religioni”. Le stesse parole di Hans Küng nel suo programma ecumenico per un’Etica Globale: “Non vi può essere convivenza umana senza un ethos mondiale delle nazioni; non vi può essere pace tra le nazioni senza la pace tra le religioni; non vi può essere pace tra le religioni senza un dialogo tra le religioni”.

25 APRILE A METÀ:
radici del razzismo e scheletri negli armadi:
la grandezza di Hailè Selassiè (IV Parte)

Nel 1946 Hailè Selassiè, per conto del Governo etiopico, presentò alla Conferenza di Pace di Parigi un memorandum che segnalava le seguenti sconcertanti perdite umane, ma nessun italiano venne mai punito per questi massacri, favorendo la rimozione collettiva e la mancanza di presa di coscienza, tuttora persistente, dei crimini compiuti durante le guerre coloniali fasciste in Etiopia:
Totale esseri umani assassinati: 760.300.
Persone morte a causa della distruzione dei loro villaggi: 300.000
Massacri di civili e religiosi del Yakitit 12-19 febbraio 1937: 30.000
Patrioti morti nei campi di lavoro a causa di privazioni e maltrattamenti: 35.000
Patrioti uccisi dalle corti marziali: 24.000
Donne, bambini e infermi uccisi dalle bombe: 17.800
Patrioti uccisi in battaglia: 76.000
Uccisi in azione: 275.000 

“Fai attenzione a non rovinare il buon nome dell’Etiopia con atti degni del nemico. Vedremo che i nostri nemici sono disarmati e se ne andranno nello stesso modo con cui sono venuti.”  Hailè Selassiè

Il decreto di San Michele, pubblicato il 20 gennaio 1941, contestualmente all’imminente ritorno in territorio etiopico dell’imperatore, concesse l’amnistia a tutti coloro che avevano collaborato con gli italiani e fece appello alla popolazione affinché, malgrado i lutti subiti, agisse con cavalleria e rispetto verso i prigionieri italiani: “Io (Hailè Sallassiè) vi raccomando di accogliere in maniera conveniente e di prendere in custodia tutti gli italiani che si arrenderanno, con o senza armi. Non rinfacciate loro le atrocità che hanno fatto subire al nostro popolo. Mostrate loro che siete dei soldati che possiedono il senso dell’onore e un cuore umano. Vi raccomando particolarmente di rispettare la vita dei bambini, delle donne e dei vecchi. Non saccheggiate i beni altrui anche se appartengono al nemico. Non incendiate le case.”
Quando Hailè Selassiè entrò trionfalmente ad Addis Abeba il 5 maggio 1941, a cinque anni esatti dall’inizio dell’occupazione italiana, riassumendo ufficialmente il titolo di imperatore, anche in questa occasione si comportò in modo cavalleresco verso i civili italiani (circa 35.000) concentrati nella capitale: furono impedite rappresaglie e vendette e fu emanato un editto di perdono in cui tra l’altro si diceva: “Poiché oggi è un giorno di felicità per tutti noi, dal momento che abbiamo battuto il nemico, rallegriamoci dello spirito di Cristo. Non ripagate dunque il male col male. (…) Prenderemo le armi al nemico e lo lasceremo andare a casa per la stessa via dalla quale è venuto.”

Solo a ogni mente abbruttita dall’arroganza colonialista può risultare impossibile, nel considerarne la figura umana, la dimensione politico-religiosa e la statura morale, non comprendere e apprezzare la grandezza e la dignità del Negus Neghest, il Re dei Re, emersa e consacrata a livello mondiale in due memorabili discorsi, il primo precedente e il secondo successivo al suo legittimo re-insediamento.

Hailé Selassié proclamato uomo dell'anno per il 1936 dalla rivista Time
Hailé Selassié proclamato uomo dell’anno per il 1936 dalla rivista Time

Il 12 maggio 1936, davanti all’Assemblea della Società delle Nazioni riunita al completo a Ginevra, ma con la sola assenza della delegazione del governo italiano volutamente autoritiratasi, l’Imperatore pronunciò in lingua aramaica un discorso di condanna dell’aggressione militare italiana, dei metodi di sterminio adottati e sui diritti alla pace, libertà e giustizia di ogni popolo oppresso:
«[…] È mio dovere informare i governi riuniti a Ginevra, in quanto responsabili della vita di milioni di uomini, donne e bambini, del mortale pericolo che li minaccia descrivendo il destino che ha colpito l’Etiopia. Il governo italiano non ha fatto la guerra soltanto contro i combattenti: esso ha attaccato soprattutto popolazioni molto lontane dal fronte, al fine di sterminarle e di terrorizzarle. […] Sugli aeroplani vennero installati degli irroratori, che potessero spargere su vasti territori una fine e mortale pioggia. Stormi di nove, quindici, diciotto aeroplani si susseguivano in modo che la nebbia che usciva da essi formasse un lenzuolo continuo. Fu così che, dalla fine di gennaio del 1936, soldati, donne, bambini, armenti, fiumi, laghi e campi furono irrorati di questa mortale pioggia. Al fine di sterminare sistematicamente tutte le creature viventi, per avere la completa sicurezza di avvelenare le acque e i pascoli, il Comando italiano fece passare i suoi aerei più e più volte. Questo fu il principale metodo di guerra. […] A parte il Regno di Dio, non c’è sulla terra nazione che sia superiore alle altre. Se un governo forte acquista consapevolezza che esso può distruggere impunemente un popolo debole, quest’ultimo ha il diritto in quel momento di appellarsi alla Lega delle Nazioni per ottenere il giudizio in piena libertà. Dio e la storia ricorderanno il vostro giudizio. […]»

La sintesi dell’insegnamento di Hailé Selassiè è contenuta in alcuni passaggi del discorso rivolto di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1963: “Dobbiamo diventare qualcosa che non siamo mai stati, e per cui la nostra istruzione e la nostra esperienza e il nostro ambiente non ci hanno adeguatamente preparato. Dobbiamo diventare più grandi di quel che siamo stati sinora: più coraggiosi, di spirito più elevato e di più larghe vedute. Dobbiamo diventare membri di una nuova razza, superando ogni meschino pregiudizio, offrendo il nostro appoggio finale non alle nazioni, ma ai nostri simili all’interno della comunità umana”.

Hailè Selassiè

L'immagine di Hailè Selassiè portata in trionfo da Bob Marley durante un concerto
L’immagine di Hailè Selassiè portata in trionfo da Bob Marley durante un concerto

Oltre a questo invito rivolto alla capacità naturale dell’umanità di trascendere e rivoluzionare i condizionamenti della propria cultura, del proprio status sociale e della propria appartenenza etnica e quindi di progredire evolvendosi, Hailè Selassiè riuscì ad anticipare il concetto di “cittadinanza mondiale” e di “emancipazione dalla schiavitù mentale” con la forza e l’efficacia di parole che non hanno mai più smesso di essere ripetute, riscritte o ricantate ovunque nel mondo.
Il movimento Rastafari, da molti abbreviato in “Rasta”, dal nome di Hailè Selassiè , prima della sua ascesa al trono – una combinazione del suo nome “Tafari” e del titolo nobiliare “Ras”, che si traduce in “principe”- è da allora universalmente associato a valori di liberazione, pace, eguaglianza, in contrasto con ogni sistema di oppressione fascista, coloniale, imperialista e militarista.

«Riguardo alla questione della discriminazione razziale, la Conferenza di Addis Abeba ha insegnato questa ulteriore lezione, a coloro che la vogliono imparare: finché la filosofia che considera una razza superiore e un’altra inferiore non sarà finalmente screditata e riprovata; finché in nessuna nazione non vi saranno più cittadini di prima e di seconda classe; finché il colore della pelle di un uomo non avrà più valore del colore dei suoi occhi; finché i diritti umani fondamentali non saranno ugualmente garantiti a tutti, senza distinzione di razza; fino a quel giorno, il sogno di una pace duratura, la cittadinanza del mondo e le regole della morale internazionale resteranno solo una fuggevole illusione, perseguita e mai conseguita …

… finché l’ignobile e drammatico regime che oggi opprime i nostri fratelli in Angola, in Mozambico, in Sudafrica, con le sue disumane catene, non sarà rovesciato e totalmente spazzato via; finché il bigottismo, il pregiudizio e l’interesse personale inumano e malevolo, non saranno sostituiti dalla tolleranza, la comprensione e i buoni propositi; finché gli africani non si alzeranno e parleranno come esseri liberi, uguali agli occhi di tutti gli uomini, come sono uguali davanti agli occhi del cielo; fino a quel giorno il continente africano non conoscerà pace. Noi africani, combatteremo, se necessario, e sappiamo che vinceremo, poiché confidiamo nella vittoria del Bene sul Male».
Dopo quasi sessant’anni, mai come in quest’ultimo periodo storico e in concomitanza con la Festa di Liberazione dal Fascismo del 25 Aprile, non è più possibile non constatare la portata e il valore profetico delle illuminanti parole di Hailé Selassiè.

(continua)

Leggi la Prima Parte [Qui]la seconda [Qui] ,la Terza [Qui]

Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è autore e curatore di Controinformazione, una nuova rubrica. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE  ci racconta senza censure l’altra faccia della luna: per leggere tutti gli articoli della rubrica clicca [Qui]

PRESTO DI MATTINA
Accendere l’immaginazione

 

Tornare a immaginare: questa la sfida della fede oggi. Essa è come il cieco nato Bartimeo, a cui Gesù chiedeva: “che cosa vuoi io faccia per te?” “Che io veda” fu la risposta. E quella della fede dovrebbe essere: “Che io torni ad immaginare una cosa nuova, mai pensata prima, una nuova luce capace di far ritrovare la strada nell’oscurità”. Proprio quanto accadde pure nell’esperienza profetica di Isaia, il quale accolse la parola di Dio rivelata in un germogliare di immagini alimentate dall’immaginazione: «Per amore vostro, ecco io faccio una cosa nuova: aprirò una via nel mare, una strada tra le acque profonde e anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa per dissetare la vostra solitudine. Il deserto e la terra arida si rallegreranno, la solitudine gioirà e come fiore di narciso fiorirà; si coprirà di fiori, festeggerà con gioia e canti d’esultanza», (43, 19-20 e 35, 1-2).

Ma ancor più con Gesù è stato un germogliare di parabole, un racconto incessante di immagini e gesti. Un ‘teatro dell’improvviso’ sono i suoi miracoli, le storie del venire inaspettato di un Padre nella vita degli uomini tramite il figlio. Parole e segni generativi di un immaginario capace di trasformare il cuore, di far passare la vita dall’inganno alla verità, dall’illusione alla realtà; del profilarsi di nuovi scenari, di cambiamenti di rotta per dare forma alla fiducia, far rifiorire la speranza mettendo il Padre suo, la sua presenza, nel cuore di ogni immaginazione umana.

Nel vangelo Gesù rivela il Padre, oltre che con la parola, attraverso il suo volto, ma anche riconoscendone i tratti nei volti delle persone che incontra. Egli lo scorge in essi: vede il Padre nei piccoli, nei malati, nei peccatori negli esclusi e ridona forma nuova, umana, filiale e fraterna alle immagini distorte, deformi dell’umano che grida davanti a lui. Come in uno specchio il suo sguardo converte l’immaginazione religiosa stravolta, come le immagini riflesse su specchi deformanti, restituendo dignità a Dio, liberandolo dalle sue caricature idolatriche, e con ciò liberando le persone dai giochi e dai pesi ideologici, moralistici con cui le convenzioni religiose li mortificavano, sino a oscurare l’immagine di figli di Dio presente in loro. Lo stile di Gesù, il suo modo di porsi in relazione, di manifestarsi, l’immagine di sé che dava e che si rifletteva sui volti di coloro che lo contornavano era quella della stessa santità di Dio, la sua santità ospitale, smisurata, che Gesù sperimentava stando nell’intimità con il Padre suo e che si irradiava sul suo volto imprimendosi nei suoi gesti, nelle parole e nel modo di vivere in questo mondo con la gente.

Vedendo il suo abbassarsi sulle persone e il suo rialzarle, la fede che incontra il suo sguardo e vede i suoi gesti, ascoltandone le parole impara così dal maestro a discendere con lui nel cuore di ogni immaginazione umana, anche la più contorta, falsata, sfigurata ed a prendere su di sé le immagini di deformità, di rifiuto, di sopraffazione, di fallimento per trasfigurarle. Non senza conseguenze. A forza di rispecchiarsi nei volti sfigurati portandone il peso, il suo volto diventa quello del servo di Yhwh ‒ come ci ricorda Isaia ‒ deturpato, torna a riflendere. Gesù sfigurato per trasfigurare. La volontà del Padre, diceva infatti Gesù ai suoi amici, è che nulla vada perduto della bellezza/bontà della creazione, dello splendore di grazia che si cela in ogni volto umano: «[Egli] Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima, eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori…  Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce», (Is 53,2-4; 11).

Ha ricordato Carlo Maria Martini che «Il caso serio della fede si gioca soprattutto sulla domanda: credi a un Dio che si presenta umile, benevolo, pieno di tenerezza, a un Dio crocifisso? Rispetto all’incredulità crescente attorno a noi la risposta non può essere: miglioriamo la catechesi, organizziamoci meglio, preghiamo di più. Bisogna puntare sul caso serio, aiutare la gente a riconoscere e accogliere [l’immagine di] un Dio che si esprime nella fragilità e nell’umiltà della carne, nel suo avvicinarsi cortese e delicato alle persone, nella potenza di fronte alle tenebre e nella compassione di fronte alla debolezza umana, un Dio che risplende nell’estrema inermità del Crocifisso», (Imparare a credere, Milano 2019, 175).

La fede deve lasciarsi allora infiammare dall’immaginazione e coinvolgersi pure con l’immaginazione dei nostri contemporanei. Una sorta di ‘gioco’, ma serio e profondo, a scambiarsi immagini, come fanno i bambini con le figurine dei calciatori; a mettere insieme tessere di puzzle per ritrovare i volti, le persone, gli ambienti, i paesaggi, i sentieri. È nell’immaginare e nell’essere immaginato che l’uomo aderisce alla realtà e comunica con essa, la trasforma: è fondamentale che nella nostra fede si lasci entrare in gioco l’immaginazione! Essa sta in strettissimo rapporto con il racconto: è la sua trama, e con la storia, ne è sua sequenza. Raccontare non è cadere nell’immaginario; questo legame non toglie nulla al racconto come luogo rivelativo della verità.

Non è un caso dunque che il Vangelo di Tommaso, conosciuto nell’antichità e riscoperto dal romanzo di Dan Brown, non sia stato inserito tra i vangeli che sono normativi per la fede. Il motivo è molto semplice: esso consisteva in una serie di detti attribuiti a Gesù e verosimilmente attinti alla fonte Q, la maggior parte dei quali erano pertanto presenti anche nei quattro vangeli, ma era privo della forma del racconto. Che non è un ‘contorno’, ma il riflesso vivo del logos che agisce nel mondo e fa storia con noi.

Per questo motivo anche il Concilio vaticano II ci parla della comunicazione che Dio fa di se stesso nella storia, presentando la sua rivelazione sotto forma di un dialogo, con immagini di amicizia, di comunione; e in riferimento alla giustizia con immagini di liberazione, di squarciamento delle tenebre del male; di guarigione, di riscatto e di risurrezione di fronte alla malattia, al perdersi nel male e alla morte. Così pure quando parla della realtà della chiesa usa altrettante immagini bibliche: il campo, il podere, l’edificio di Dio, l’ovile, la porta, la madre e la sposa, la vigna di cui Cristo è la vite e noi i tralci, l’immagine del corpo e delle membra di cui Cristo è il capo. Immagini indispensabili per dire il suo mistero, la sua realtà «visibile e spirituale», (LG 6; 7; 8). La chiesa per essere immaginata e compresa, va messa in relazione ‒ paragonata dice il concilio ‒ al mistero di mediazione del Verbo incarnato; è segno e strumento, germe e primizia di colui che porta in sé l’immagine dell’invisibile Dio e rende visibile nella sua umanità l’immagine dell’uomo nuovo «secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,24).

L’immaginazione è il luogo in cui si manifestano le strutture del mondo; quella parte di noi che dà forma in noi alle cose; generativa di universi simbolici differenziati, in cui trovare e mostrare corrispondenze tra gli uni e gli altri. È un ambiente che fa incontrare gli opposti, permette il passaggio dall’uno all’altro. Ha dunque una imprescindibile funzione mediatrice, perché è soglia e frontiera al tempo stesso, pensata non solo per dividere, ma soprattutto come diaframma che tiene unito. È uno strumento indispensabile della fede proprio perché ne condivide l’esperienza della soglia, del passaggio, dell’incontro con la diversità e la libertà dell’altro.

L’immersione nel mondo simbolico dell’immaginazione chiede di essere incarnato nel reale, ma non in modo confuso, mischiando, sostituendo l’uno all’altro, alterando ciò che è proprio di ciascuno; scambiamo il piano delle immagini con quello della realtà.
Compito dell’immaginazione e suo dono è quello di rigenerare la creatività, accumulare esperienze da riversare nella realtà e interpretarla e condividerla e accrescerla in una forma pienamente compiuta, similmente al modo delle note e dello spartito musicale che si realizza, suonandole in un concerto sinfonico.

L’uso sregolato e invasivo dell’immaginario come avviene oggi, inflazionato da stereotipi a finalità commerciali e ideologiche, allontana dalla bellezza; si ferma agli strati scintillanti, superficiali, incantatori di essa, manipolando e mortificando la sua forza generatrice sino a renderla sterile, priva di creatività nel profondo.

Accendere l’immaginazione è il titolo dell’ultimo libro del teologo domenicano Timothy Radcliffe. Egli ci ricorda che se si vuole che il cristianesimo torni a far ardere il cuore va presentato come un’avventura radicale: «Il cristianesimo in Occidente potrà rifiorire solo se riusciremo a coinvolgere l’immaginazione dei nostri contemporanei. Credo che l’ateismo rappresenti non tanto una sfida per la nostra intelligenza, quanto piuttosto per la nostra immaginazione».

C’è un ambito dell’immaginazione che si concentra sull’orizzonte del finito, quello terreste come fosse unico ed esclusivo, scartando, a volte, quello dell’immaginazione aperta all’infinito, l’ambito spirituale, trascendente. La fede ‒ che si fa discepola di colui che nell’incarnazione è mediatore di nuova alleanza, vissuta e comunicata attraverso questi due immaginari terrestre e celeste, uniti nel suo spirito, nella sua carne, e narrati nei suoi vangeli, in lui congiunti senza confusione e distinti senza separazione ‒ può allora interfacciarsi all’immaginazione dei nostri contemporanei, per ritrarre nuovamente con loro l’icona del Volto santo in cui si incontrano l’orizzonte e l’immaginario del finito e quello dell’infinito, dell’immanenza e della trascendenza per ritrovare ed annunciare ancora quella bellezza primigenia e futura, Alfa e Omega, che salverà il mondo (Fëdor Dostoevskij).

Così ho provato a immaginare con John Lennon: «Immaginate che non ci sia alcun paradiso/ Se ci provate è facile/ Nessun inferno sotto di noi/ Sopra di noi solo il cielo/ Immaginate tutta le gente/Che vive solo per l’oggi … Si potrebbe dire che io sia un sognatore/ Ma io non sono l’unico/ Spero che un giorno vi unirete a noi/ Ed il mondo sarà come un’unica entità». Lennon stesso ne spiegò il senso affermando che il contesto del brano aveva una valenza “anti-religiosa, anti-nazionalista, anti-convenzionale e anti-capitalista”, e se veniva accettato così universalmente era solo perché era “coperto di zucchero”. Ad ispirare Lennon fu un testo poetico di Yoko Ono: Cloud Piece: “Imagine the clouds dripping/ Immagina le nuvole gocciolanti, scava un buco nel tuo giardino per raccoglierle”. Non si tratta qui di cambiare interpretazione ma di scorgere, come una ferita, un varco possibile tra due universi proprio grazie alle parole poetiche che hanno generato il brano: un passaggio attraverso un “frammento di nuvola”.

Vi ho intravisto la figura di una piccola soglia, sul liminare di un confine che sembra ormai invalicabile. Su quel confine ho immaginato il tendersi e distendersi e il venirsi incontro di due immagini: una gocciolante dall’alto, da nubi di un cielo irraggiungibile; l’altra, figura di mani che scavano uno sprofondo nel giardino dell’umano perché «non ci siano patrie/ Nulla per cui uccidere o morire». E poi quasi subito ho immaginato quelle gocce mutarsi in lacrime e bagnare il giardino dei salmi andando a raccogliersi tutte nella cavità del salmo 56 (55); dove il salmista immagina Dio come un viandante, un nomade che attraversa con lui il deserto del suo dolore e si accorge che al posto della preziosissima acqua tiene raccolte le ancor più preziose, preziosissime, sue lacrime: «I passi del mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime: non sono forse scritte nel tuo libro? Nell’ora della paura io in te confido».

Credo che anche dall’immagine di una gocciolante nuvola che si perde nel terreno, dissetandolo, si possa scoprire il reale, immaginandolo di nuovo con umiltà e pazienza.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

LA SBORNIA DA RECOVERY PLAN:
Non è tutto oro quello che luccica

 

Più di un anno di pandemia ci consegna un Paese con meno lavoro, più diseguale e più povero, con un forte decremento del PIL e una grande crescita del debito. I numeri sono impietosi in proposito: nel 2020 sono stati persi circa un milione di posti di lavoro, per lo più di lavoratori precari, indipendenti, giovani e donne.
Per quanto riguarda le disuguaglianze, già un anno fa il governatore della Banca d’Italia Visco avvertiva che “per le famiglie che prima dell’emergenza sanitaria erano nel quinto più basso della distribuzione (del reddito), la riduzione del reddito sarebbe stata due volte più ampia di quella subita dalle famiglie appartenente al quinto più elevato”. Ancora: nel 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta era al 7,7 % della popolazione, mentre nel 2020 esso è arrivato a toccare il 9,4 %. Il 2020 si è chiuso con una caduta del PIL pari all’8,9% in termini reali rispetto al 2019, mentre il rapporto tra debito pubblico e PIL ha subito un’impennata al 155,8 per cento dal 134,6 per cento del 2019. Il debito aggiuntivo cumulato già oggi autorizzato da qui al 2026 raggiungerà la cifra astronomica di 496,8 miliardi (confrontate questa cifra con le risorse provenienti dal Recovery Plan).

Insomma: siamo dentro la più grande crisi ecologica, economica e sociale dal dopoguerra del secolo scorso ad oggi. A cui si aggiunge la crisi democratica provocata dal governo Draghi, ben testimoniata dal totale esautoramento del Parlamento, che è stato convocato per discutere del Recovery Plan alle 16 di lunedì pomeriggio scorso, dopo aver ricevuto la sua ultima versione alle 14, due ore prima, un documento di più di 300 pagine, che, come ha sottolineato lo stesso Presidente Draghi, segnerà il destino dell’Italia per i prossimi anni.
in realtà, questo documento non aveva bisogno di essere discusso, essendo già stato concordato nei giorni precedenti tra il Presidente del Consiglio e la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Un esempio perfetto di tecnocrazia al lavoro, del resto confezionato da esperti di questa tecnica di governo, come Draghi, che già nella precedente crisi economica-sociale del 2011-2012 si proclamava non preoccupato, perché tanto c’era una sorta di ‘pilota automatico’ al comando, ben rappresentato dai vincoli prodotti dall’Unione Europea in tema di politiche di austerità.

Comunque, oggi arriva la ‘risoluzione dei nostri problemi’, con l’approvazione del Piano di Ripresa e Resilienza Nazionale (PNRR). Vale la pena approfondirne i contenuti, gli assi di riferimento di fondo, la sua utilità ed efficacia.
Come sufficientemente noto, esso prevede uno stanziamento complessivo di circa 235 miliardi, suddivisi nelle sei missioni fondamentali: Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (50 mld), Rivoluzione verde e transizione ecologica (70 mld circa), Infrastrutture per una mobilità sostenibile (31,4 mld), Istruzione e ricerca (33.8 mld), Inclusione e coesione (29,6 mld), Salute (19,6 mld), non discostandosi di molto, sia per i capitoli che per le risorse assegnate, da quanto a suo tempo elaborato dal governo Conte.
Su ciascuna di queste scelte ci sarebbe molto da dire, e in termini sostanzialmente molto negativi.

Mi limito ad alcune considerazioni parziali ed esemplificative: su digitalizzazione e innovazione, si assume questa priorità in modo acritico, senza alcuna riflessione sul modello sociale e produttivo che la diffusione dell’utilizzo delle tecnologie informatiche e dei Big Data comporta, in termini di controllo sociale e limitata creazione di occupazione. A quest’ultimo proposito, mi pare particolarmente suggestiva e passibile di utili riflessioni la notizia uscita recentemente per cui Apple ha varato il suo piano industriale da qui al 2026, prevedendo investimenti giganteschi, per ben 430 miliardi $, quasi il doppio del PNRR, per potenziare il proprio impegno nella ricerca hi-tech e nell’intelligenza artificiale, che, però, sono destinati a generare in tutti gli Stati Uniti solo 40.000 posti di lavoro, confermando la tendenza al disaccoppiamento tra investimenti e occupazione nei settori ad alta tecnologia.
In questa missione è inserita anche la voce “Cultura e turismo”, scelta che potrebbe apparire curiosa, ma che viene chiarita dallo stesso testo quando si scrive che ci si prefigge “l’obiettivo di rilanciare i settori economici della cultura e del turismo, che all’interno del sistema produttivo giocano un ruolo particolare, sia in quanto espressione dell’immagine e brand del Paese, sia per il peso che hanno nell’economia nazionale (il solo turismo rappresenta circa il 12% del PIL)”, vale a dire considerandoli sostanzialmente come fattori produttivi.

Per quanto riguarda la transizione ecologica, le risorse a favore delle energie rinnovabili sono decisamente insufficienti, con l’obiettivo di installare impianti per circa 5 GW da qui al 2026, mentre ne servirebbero almeno 25, supportando le politiche di ENI e SNAM che continuano anche per per il futuro a puntare sulle energie fossili, in primis il gas, e a progettare impianti come il CCS di Ravenna per ‘catturare’ e sotterrare la CO2 emessa, anziché evitare di produrla.
Sempre in questo capitolo, non è previsto un intervento efficace per contrastare il dissesto idrogeologico, mentre in tema di acqua e servizio idrico non si ragiona per risparmiare seriamente la risorsa, per esempio costruendo un vero Piano per la riduzione delle perdite delle reti, e si prospetta un nuovo intervento di ulteriori privatizzazioni, consegnando il Mezzogiorno alle grandi multiutilities di natura privatistica Hera, Iren, A2a e ACEA, cancellando così totalmente l’esito referendario di dieci anni fa.
Ancora: si stanziano risorse notevoli per l’Alta velocità, circa 28 mld, più di quanto va al tema della Salute, finanziato con un po’ meno di 20 mld, che non recuperano neanche i tagli effettuati negli ultimi 15 anni e che, soprattutto, dimostrano quanto poco si sia imparato dalla vicenda della pandemia.
Infine, vengono delineate una serie di cosiddette “riforme”, il vero oggetto del contendere con l’Unione Europea, ben più stringenti rispetto al documento del governo Conte: Riforma della Pubblica Amministrazione, riforma della Giustizia, Semplificazione e promozione della concorrenza, Riforma Fiscale e altre ancora, tutte ispirate ad una logica di apertura al mercato e di “liberazione” dai vincoli che lo ostacolano. Qui, in fondo, sta l’anima del Recovery Plan: un’idea di modernizzazione, trainata da una spinta all’innovazione e legittimata da una presunta conversione ecologica, che, però, ancora una volta assume come parametri e obiettivi l’idea della crescita quantitativa, della competitività e della concorrenza, della centralità dell’impresa e del mercato come regolatore fondamentale, peraltro da sostenere con il debito “buono” quando la crisi diventa troppo grave.

Il punto di fondo è che, però, non si vuole vedere – e tanto meno ammettere – che questo meccanismo non funziona più. Ce lo dicono gli stessi numeri del PNRR e del Documento di Economia e Finanza 2021: al di là della propaganda e della grancassa suonata in questi giorni, le stesse pagine del Recovery Plan stimano, nello scenario più ottimistico,  una crescita aggiuntiva cumulata proveniente dallo stesso da qui al 2026 del 3,6%, che vuol dire circa una media dello 0,6% in più ogni anno, mentre l’occupazione, sempre in termini cumulati, dovrebbe aumentare del 3,2%, il che, però, significa che solo nel 2024 si dovrebbe ritornare ai livelli occupazionali del 2019.
Non una grande prospettiva, che poi viene decisamente aggravata se consideriamo l’andamento del debito pubblico: i dati – contenuti nel DEF ma non nel PNRR – dicono che nel 2024 saremo ancora agli stessi livelli registrati alla fine del 2020, attorno al 152% del PILe si ritornerebbe alla situazione pre-Covid, vicino al 135% del PIL, solo nel 2032.
Qui sta un punto decisivo, quello che, passata la sbornia delle “più grandi risorse a nostra disposizione”, nel giro di qualche anno, potrebbe improvvisamente far diventare  ‘cattivo’ il debito che oggi viene chiamato buono, riproponendo nuovi scenari di lacrime e sangue. Soprattutto se non verrà cambiato radicalmente il paradigma del Patto di Stabilità europeo in vigore fino all’inizio della pandemia e oggi sospeso probabilmente fino alla fine del 2022, che però comporta la revisione dei Trattati, la modifica profonda dell’ortodossia economica, che appare anch’essa solo sospesa e non abbandonata, la messa in campo di un’altra idea di Europa e del suo modello produttivo e sociale.
Questo, sia detto per inciso, sarà probabilmente il vero terreno di scontro nei prossimi anni, utile a verificare una possibile svolta, che non c’è stata, a differenza dei tanti che l’hanno esaltata, con la creazione del Next Generation UE, fatto più per necessità che per virtù, come del resto è successo nella gran parte delle economie capitalistiche, a partire dagli Stati Uniti.

All’inizio del suo discorso alla Camera, il Presidente del Consiglio Draghi ha invitato a giudicare il Recovery Plan con gli occhi dei giovani, delle donne, delle persone sofferenti durante la pandemia. Sono d’accordo nel seguirlo lungo questa strada ma, proprio per questo, non posso che essere, nel contempo, preoccupato e distante da chi, come questo governo, non riesce a usare lenti diverse, se non un po’ riverniciate, rispetto al passato per pensare al futuro. Che reclama, invece, un cambiamento radicale e la messa in discussione delle scelte di fondo che ci hanno condotto sino a qui e che si ritrovano, sia pure aggiornate, in questo Recovery Plan. E che per questo va respinto, anche con la mobilitazione sociale e politica, e riscritto.
Stanno provando a farlo un insieme di soggetti e movimenti che si sono aggregati ne La società della cura [Vedi qui]. Ne va, appunto, del nostro destino futuro.

Il mondo tra deficit e risparmio:
Un 2020 da ricordare

 

Il 2020 sarà un anno da ricordare, su questo non ci sono dubbi. Dal punto di vista finanziario è successo tanto, i governi sono scesi in campo per combattere la pandemia incrementando i deficit pubblici, eguagliando e superando addirittura i livelli della Seconda Guerra mondiale.
Ovviamente le misure, sotto forma di politiche fiscali, sono state diverse a seconda dei paesi e hanno riflettuto, in genere, il portafoglio di ognuno.
Di conseguenza, a fronte di un deficit contenuto della ricca e potente Germania che ha registrato un 4,2 per cento, c’è il Giappone che pur essendo stato meno colpito ha aumentato il deficit del 9.2 per cento, fino agli Stati Uniti che sono arrivati al 15,8 per cento. Biden, per il 2021, ha proposto complessivamente uno stimolo fiscale di 1.600 miliardi di dollari.
L’Italia è arrivata ad un deficit del 10,8 per cento e ha speso poco più di 178 miliardi di euro per sopperire ai danni causati dalla pandemia.

È interessante notare che, secondo i dati dell’Abi, i depositi bancari degli italiani sono aumentati da gennaio 2020 a gennaio 2021 di 181 miliardi di euro, questo farebbe pensare che la spesa dello Stato sia diventato il corrispettivo credito per i suoi cittadini, il che non sarebbe da considerare un male.
Da considerare poi che la spesa dello Stato (quindi il debito pubblico) del 2020 è praticamente gratis in quanto acquistato interamente dalla Banca d’Italia e dalla Bce. A fine 2020 la Banca d’Italia deteneva oltre 556 miliardi di Titoli mentre la Bce circa 170 miliardi e la notizia, in un mondo meno capovolto del nostro, dovrebbe rendere più sereno il sonno degli italiani.
A questo dato se ne affianca un altro relativo all’andamento della Borsa che a Marzo 2020 aveva toccato 13.000 punti e che ad Aprile ritroviamo a 25.000. Non siamo ai massimi, considerando che nel 2007 e prima della grande crisi, eravamo a oltre 40.000 punti ma è chiaro che la pandemia, almeno in questo settore, è stata superata.

Cosa significano questi numeri. C’è una spesa dello stato, un debito, sostenuta dalle banche centrali e quindi indolore per tutti ma che non si trasforma in guadagno in maniera altrettanto uniforme. L’aumento della liquidità, in sostanza, viene tenuto fermo sui depositi bancari oppure trasformato in speculazione finanziaria.
La società viene divisa tra chi è costretto a dare fondo al proprio salvadanaio e quelli che hanno aumentato a dismisura i propri guadagni, si pensi ad Amazon o alle case farmaceutiche. Tra l’altro l’aumento della disoccupazione permette salari più contenuti per cui la forbice sociale continua ad allargarsi.
Potremmo dire, per concludere, che i numeri dimostrano la possibilità di avere le risorse finanziarie per risollevarsi dalla crisi ma che queste servono a poco, se non ad aumentare la disuguaglianza, quando sono indirizzate male o non indirizzate per niente. La moneta senza politica aiuta il grande business e la rendita finanziaria mentre la gente ha individuato come nuovo nemico il dipendente, meglio se pubblico, segnando il passaggio dal conflitto generazionale (gioventù versus anziani pensionati), attualmente di cattivo gusto, al conflitto tra categorie.
L’importante, ovviamente, è che non si parli di classi.

Parole a capo
Francesca Marica: “Siamo pelle e ossa nude” e altre poesie

“Mi sarei fatta altissima come i soffitti scavalcati di cieli.”
(Claudia Ruggeri)

Niente resta uguale

Niente resta uguale e tutto si ripete.
Confidarsi è una precisazione di quello che precede,
una semplicità che fa durare le cose.
La casa bianca si racconta, cerca orecchie complici.
Ma la casa è stare fuori, è perdonare chi è partito
con il velo dell’allarme addosso.
Tu insegni alla bambina che la luce è un destino
anche quando gli alberi sono spogli e chiedono una tregua.
La bambina corre e correndo toglie l’aria ai gelsomini.
Ha la forza dei ricordi sottili, solo una mosca trema
e pretende la sua parte di veleno.
Dietro il cancello pesci dorati partoriscono piccoli ami dalla bocca.

Ci sono fantasmi in ogni angolo.
Chiedono di essere messi da parte, di essere lasciati andare,
di essere presi per mano un’ultima volta

 

 La tua è una resistenza coerente

La tua è una resistenza coerente.
Finalmente riposi e non c’è sguardo che possa farti male.
Il tuo corpo è un altare, un luogo di scomparsa
dove la luce entra piano e non ha fretta di arrivare.
Che inutile pudore la riservatezza di una vita.
Si vive di frammenti e tu dovevi morire
per capire di voler essere vivo.

Qui il giorno chiama ancora i suoi delitti ma io oggi
ti perdono e tu mi restituisci una speranza nuova.
Passeggi solo come un fantasma, arrivi piano,
perso nel bianco di una lingua dimenticata e c’è nell’aria
un sentimento antico, una miseria semplice.
Le tue gambe non torneranno più in nessuna casa
e tutte le mie intuizioni avranno subito grandi danni.

Ti cerco sulla spiaggia. Cerco quello che non sarà,
quello che non potrà più essere. La vita è una stagione a tempo,
una nuda terra dove tutto si riduce a una consapevolezza distaccata.
Oggi ti restituisco al mare, oggi ti perdono.
Ti ho perso prima che la terra imparasse la lingua dei vivi

 

Il muso degli animali sulla neve

Tenere insieme i pezzi
per come occorre, per come è possibile.
Le mani nella fessura del legno offrono protezione,
le tele dei ragni disegnano una musica bassa
e luminosa, è lì il teatro.
La legge del fuoco non ammette ignoranza
e se qualcosa rimane è solo un’impronta di realtà.

Il muso degli animali sulla neve è la traccia
di una prima direzione. Tu segui il bianco
anche quello delle parole che non so dire,
il silenzio è la nostra forma di obbedienza.
Verrà il tempo in cui gli spettri schiuderanno
le braccia senza sforzo e senza compassione
e noi non ricorderemo neanche un nome.

Saranno gli alberi il nostro aiuto alla memoria
e scorrerà di nuovo l’acqua e scorrerà di nuovo il sale,
dalla mia alla tua schiena, tra le case rosse,
tra le ossa rotte, oltre quel confine senza
più il rischio di un naufragio

 

Siamo pelle e ossa nude

Siamo pelle e ossa nude davanti alle incognite del mondo.
Siamo latte e sangue.
Un filo trasparente nella bocca dei bambini.
Due gambe nel punto più prossimo dell’acqua
e i cespugli a dire i primi segni dell’abbandono.
Qualcosa cambia prima di cambiare, gli animali hanno
luci gialle dentro gli occhi, quel giallo è un singhiozzo.

Passa il tempo ma la tua bellezza resta intatta
e tu senza sforzo ti avvicini. Entro nella tua saliva.
Io sono la tua malattia, Tu sei il mio contagio.
Ci diciamo cose oscure quando è buio.
Nessuno sa quanto sei grande. Nessuno sa che mi contieni.

(Le spine sono quello che resta quando il mare mangia la terra e riscrive i confini e le frontiere. La pace è nel legno inumidito dal sudore delle fronti: un’eco della terra da cui sono partiti tutti i padri. Il mondo che abita i tuoi sogni è una manciata di pezzi in ricostruzione, parla una lingua rara: è quella del perdono nella bocca).

Francesca Marica (Torino,1981). Vive a Milano dove esercita la professione di avvocato, occupandosi prevalentemente di minori problematici e donne vittime di abusi e violenze.
Poeta lineare e visiva, ha vissuto e lavorato anche in Francia e Spagna arricchendo il suo percorso di diverse contaminazioni. Traduce dall’inglese, dal francese e dallo spagnolo. Da anni approfondisce il tema delle avanguardie. Collabora e ha collaborato con riviste e siti di poesia italiani (tra gli ultimi, Argo, Poesia del Nostro Tempo, Anterem, Carte nel Vento, imperfetta Ellisse, Carteggi Letterari) e fa parte della giuria del premio letterario Internazionale Franco Fortini e di quello Nazionale Gianmario Lucini.
Dopo la recente pubblicazione di Concordanze e approssimazioni (Il Leggio, 2019, segnalato Premio Montano, XXXIII edizione) ha in cantiere un libro di prose poetiche e un libro d’artista a quattro mani con una scultrice contemporanea.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

 

Gli zoccoli di Serafina

 

La contessa Maria Lucrezia Cenaroli, detta Malù, cadde dalle scale.
Inciampò nell’ultimo gradino della scalinata che da Villa Canaroli scende al parco privato che costeggia il Lungono. Un parco molto curato, pieno di piante bellissime, alcune molto vecchie e con tronchi rugosi, altre più giovani, piene di vita. Oltre agli alberi nel parco vivevano diverse specie di animali: cerbiatti, tartarughe, cigni, aironi, anatre e oche. C’era anche un laghetto, con tanto di ponticello per le passeggiate primaverili dei conti.
– Aiuto, aiuto – urlò la contessa dal fondo delle scale, afflosciata sull’ultimo gradino come un gelato alla crema.

Serafina, la cameriera personale della contessa, uscì dalla grande porta a vetri che separava la villa dal poggiolo e dalla scala che portava al parco, e si avviò di corsa verso i gradini per scendere più in fretta possibile. Con la divisa nera svolazzante e gli zoccoli di legno che ticchettavano veloci, sembrava un bel corvo pronto a spiccare il volo. Cominciò a scendere a precipizio, saltando i gradini due a due per arrivare in fretta da Malù. Così correndo scivolò sul terzultimo gradino, fece uno strepitoso balzo e atterrò sulla contessa, spiaccicandola definitivamente a terra.
– Aiuto, aiuto – urlò per la seconda volta la contessa.
Indissolubilmente Malù e Serafina si mescolarono con la terra soffice e l’erba selvatica del giardino che iniziava appena finita la scala e là restarono confuse e capovolte.

Uno dei giardinieri vide da lontano un mucchio di terra che si muoveva e si spaventò. Cosa poteva mai essere quel mucchio vicino alle scale? Un animale selvatico? Ma che animale era? Visto da dove si trovava lui, il mucchio sembrava molto grosso e aveva una strana forma. Si muoveva in maniera scomposta, ondeggiando un po’ di qua e un po’ di là. Ma cos’era? Il giardiniere abbandonò gli attrezzi che stava usando per rastrellare le foglie e corse verso il mucchio.

Mentre si avvicinava vide che si trattava di Malù e Serafina e pensò: “Ma come hanno fatto quelle due a cadere a quel modo e a finire una sopra all’altra?”. Così pensando si distrasse dai suoi piedi, scivolò su un tratto dove l’erba era appena stata innaffiata, le sue gambe si alzarono verso l’alto mentre il sedere rimaneva più o meno dov’era e le braccia iniziavano un inutile turbinio.
Spiccò per un attimo un volo imprevisto e poi atterrò direttamente col sedere su Serafina e Malù. – – Aiuto, aiuto – urlò per la terza volta la contessa.

Ma che mai facevano quelle tre persone mescolate al fango e all’erba?. Un grande pasticcio era appena successo. In quel mucchio si vedevano degli zoccoli, una camicia a quadri, una vestaglia nera, del pantaloni di velluto, una gonna di lana, una sottoveste di seta. Mani, braccia, gambe, sei o sette occhi, non si capiva bene. Una gran confusione.

Il maggiordomo e il secondo giardiniere erano nel frattempo usciti sul poggiolo e guardavano la scena esterrefatti. Si vedeva, mescolate all’erba e al fango, un gran mucchio di persone appena giù dalle scale. Erano una sopra all’altra come un grosso sandwich umano multicolore e dalla forma semovente.
Il maggiordomo disse al secondo giardiniere:
– Ma cosa sta succedendo laggiù?
– Non so. Si sono seduti uno sopra all’altro.

Il secondo giardiniere temeva il maggiordomo che era colui che gli pagava lo stipendio tutti i mesi e pensò che doveva trovare una giustificazione plausibile alla scena che stavano vedendo. Disse:
– È passato un deltaplano, tutti stavano con la faccia in su a guardarlo e sono scivolati uno sopra all’altro.
– Sono scivolati?
– Si – continuò il secondo giardiniere – se si cammina guardando per aria e non dove si mettono i piedi, si può finire su un’altra persona senza accorgersene. Quando te ne accorgi è troppo tardi e la travolgi, rischi perfino di toglierle il respiro.

“Ma cosa sta dicendo questo?” pensò il maggiordomo. “Deve avere visto un po’ troppi film alla Tv.
E poi ora perché i malcapitati stanno lì, seduti uno sopra all’altro senza rialzarsi subito?”.
Il maggiordomo era infastidito dalla scena. Era una scena scomposta, niente era al suo posto, l’ordine gerarchico sovvertito, la distanza tra i sessi e tra i ruoli distrutta dal quel mucchio di gente. Più guardava la scena e più sentiva aumentare l’ansia.

C’era qualcosa di rivoluzionario in quel miscuglio. Come era possibile che si fosse confuso l’ordine che regnava indiscusso a villa Canaroli? Come ripristinarlo subito e far sparire le tracce del brutto accadimento mattutino? Forse si poteva chiedere all’associazione dei deltaplanisti di scegliere traiettorie alternative, che escludevano la villa e anche il parco. Perché un uomo volante era passato sopra la testa della contessa Malù, di Serafina e del primo giardiniere causando quell’ammasso riprovevole e scandaloso?

In fondo alle scale c’era un groviglio umano di due donne e un uomo. Si vedeva che era così, anche se l’uomo aveva del fango sui vestiti e le due donne la gonna attorcigliate intorno alle gambe. Una delle due aveva anche la gonna alzata fino al ginocchio e si vedevano le calze. Poi c’erano degli zoccoli. Uno a terra e uno rovesciato sul terzultimo gradino con il tacco verso l’alto. Una situazione inaudita e imbarazzante.

– Ma cosa ci fanno là degli zoccoli? – chiese il maggiordomo al secondo giardiniere, sempre più agitato.
Anche il giardiniere si agitò. Per quale motivo il maggiordomo voleva sapere cosa facessero là gli zoccoli di Serafina? Era chiaro cosa ci facevano là, erano attaccati ai piedi della cameriera prima che cadesse e ora erano finiti a terra. “Devo pensare a una risposta intelligente” pensò.
E poi disse:
Gli zoccoli sono la versione femminile delle pantofole, mentre le femmine usano gli zoccoli, i maschi preferiscono le pantofole.
Le pantofole? Cosa c’entrano adesso le pantofole? Appartengono a un altro ceto sociale, sono tutt’altro! – urlò il maggiordomo.
– Le pantofole c’entrano perché, se di buon pellame, sono morbide, calde e accoglienti e i maschi, che amano le comodità, le preferiscono. – Rispose quell’impertinente del secondo giardiniere.

Il maggiordomo pensò che non aveva mai visto il giardiniere sotto la sua vera luce. Un uomo dalle dubbie doti morali, che usava dei brutti esempi per spiegare gli strani e inspiegabili accadimenti della vita. Lo doveva interrogare meglio.
– Ma non ti sembra una brutta cosa paragonare le pantofole agli zoccoli? Cosa c’entrano?
Il secondo giardiniere capì che c’era qualcosa che non andava nella conversazione e che il maggiordomo era diventato sempre più agitato e nervoso. Cercò allora di rimediare, senza sapere da che parte dirigere il discorso, perché non sapeva cosa l’avesse fatto deragliare. Forse c’era qualcosa di sconveniente nell’attribuire alle femmine la preferenza delle zoccoli e ai maschi quella delle pantofole. Doveva rimediare alla gaffe.
– Io le pantofole le consiglierei a tutti, anzi proprio a tutti! E non ne farei una questione di maschi o femmine! Per quel che mi riguarda i maschi possono benissimo usare gli zoccoli e le femmine possono benissimo usare le pantofole. Anzi possono fare entrambe le cose. Sia i maschi che le femmine possono usare sia gli zoccoli che le pantofole. – disse preoccupato.

Nel cervello del maggiordomo si fece luce l’idea che doveva licenziare quel rivoluzionario irrispettoso e volgare del secondo giardiniere. Decise quindi di interrogarlo meglio.
– Ma tu che sei un giardiniere e che ami i fiori ti sembra una bella cosa che tutti i fiori vengano considerati belli allo stesso modo?
– Certo! – disse il giardiniere… e con quella affermazione firmò il suo licenziamento.

FANTASMI
Il fantasma della vendetta

 

Roma, Primavera 2005
– Ragazzo, stiamo chiudendo. Non ce l’hai una casa? – disse bonariamente il bibliotecario, sorridendo.
– Veramente ce l’ho, ma purtroppo non c’è gente simpatica come te! – ribattei, contraccambiando il sorriso.
In effetti sono solito trattenermi fino all’orario di chiusura, se non oltre, quando faccio le mie ricerche serali dopo l’università. Ormai mi conoscono, e sono tollerato.
Quello che faccio, invece, non lo divulgo molto volentieri, anche perché molti non capirebbero. È difficile mettersi nei panni di mio padre. È difficile mettersi nei panni di un poliziotto degli anni Settanta.

Roma, Autunno 1979
– Ispetto’, che dobbiamo fa’? Lo chiude lei il verbale dell’arresto?
– Sì Proietti, vai pure. So che è il compleanno di tua figlia. Anzi, falle gli auguri da parte mia.
– Grazie Ispetto’, a domani.
– A domani Proietti. E se vi avanza una pastarella, ricordati di portarmela. Lo sai che adoro quelle che fa tua moglie.
– Comandi!
– Finiamo di scrivere ‘sto verbale. Ma possibile che questo qua lo abbiamo arrestato ieri e oggi stava di nuovo in giro a rubare? Sinceramente a quest’ora meglio non farsi troppe domande. Un bel timbro e il verbale è chiuso. Domani è un altro giorno, e lo inizierò con una bella pasta alla crema! – pensò l’Ispettore.
Scese dalle scale della questura con fare sicuro, si sistemò la fondina ascellare e salutò gli agenti nella guardiola. Una volta fuori dall’edificio tirò su il bavero del giaccone per proteggersi dal freddo, incamminandosi verso la sua macchina, parcheggiata poco distante. Arrivato alla portiera si pulì gli occhiali e nel farlo notò il riflesso di un luccichìo alle sue spalle. Il luccichìo di una pistola.

Roma, Autunno 1979. Il giorno seguente
– Ispetto’, poi non dica che non la penso – disse Proietti, entrando con un vassoio di paste appena fatte nell’ufficio dell’Ispettore Grazioli.
– Proietti ma che stai facendo? – rispose il vicequestore Annibaldi, visibilmente turbato.
– Buongiorno Dottore, cercavo l’Ispettore, gli ho portato le paste…
– Non hai sentito il TG stamattina?
– No – disse l’agente Proietti.
– Allora è meglio se ti siedi – disse il vicequestore Annibaldi.
A quelle parole seguì una sguardo, uno solo, e fu sufficiente per capire cos’era accaduto. Il vassoio si rovesciò, riversando il suo contenuto tra la disperazione dei due colleghi.

Roma, Estate 2005. Dieci giorni alla partenza
– Nicaragua? Hai capito Alfredo! Se ne va in Centro America! – disse Filippo con una certa sorpresa.
Ecco spiegato perché non mi piace dire ai quattro venti che cosa cerco affannosamente, quando passo i pomeriggi in biblioteca. La maggior parte delle persone capisce subito male, e io perdo la pazienza. A me non importa un accidente del Centro America, anzi, non avrei mai voluto fare quel biglietto. O forse sì, per andarci con una bella ragazza, non da solo. Il problema è che se lo dicessi a qualcuno, quello che vorrei andare a fare, mi bloccherebbero subito. E farebbero bene. Perché andare in un Paese che non conosci, dove si parla una lingua che non conosci, dove non hai nessun contatto, al solo scopo di cercare qualcuno che ventisei anni fa ha sparato a tuo padre, uccidendolo, non è una cosa normale. Ma d’altra parte cos’è la normalità? Non conoscere mai chi ti ha amato prima ancora che nascessi, mentre altri se ne vanno al mare con le mani sporche di sangue? Oppure, come è capitato al suo compare, uscire di galera dopo solo quattordici anni, nonostante gli ergastoli che hai alle spalle?
Non c’è un solo filo logico in tutto questo, ma non me ne importa. Ormai è deciso.

Roma, Estate 2005. Quattro giorni alla partenza
Mi piace fare i dolci alla crema. Mi piace farli ma non li assaggio mai: non importa quanto zucchero ci metta, mi lasciano sempre un retrogusto amaro. Ai miei amici piacciono molto, e in fondo va bene così. Gliene ho appena portato uno, ci siamo visti per un saluto: tra poco ci dividiamo per le vacanze. Sempre che così possano chiamarsi le mie. Ora comunque non voglio pensarci, sta arrivando l’autobus e ho fretta di tornare a casa.
Salgo sul bus affollato e, con un po’ di fortuna, trovo un posto a sedere. Mi metto comodo, ho ancora diverse fermate davanti a me.
A un certo punto, mentre ripercorro mentalmente le varie tappe che mi sono prefissato per il Nicaragua, un voce flebile cattura la mia attenzione.
– Giovanotto, mi farebbe sedere per cortesia?
Alzo lo sguardo e vedo un signore attempato con un’aria spenta e gli occhi malinconici. Abbozzo un sorriso e mi alzo per fargli spazio.
L’autobus è pieno, nel corridoio si passa male. Mentre mi scanso per agevolarlo, struscio leggermente sulla sua manica sinistra, scoprendogli il tatuaggio che ha sul polso. Al primo colpo d’occhio lo riconosco subito: è il simbolo del gruppo terroristico che ha ucciso mio padre. Alzo lo sguardo e sento un brivido lungo la schiena: ma certo, come ho fatto a non riconoscerlo?  È mister “quattordici anni di galera”, quello che non ha scontato neanche la metà della pena per i disastri che ha combinato.
Devo aver fatto una faccia strana, il vecchietto non ha più quell’aria docile che aveva prima. Sento la tensione montare, sparisce tutto intorno a me: siamo solo io e lui. Il suo sguardo adesso è più vigoroso, mi pare che abbia i muscoli della mascella contratti, anche se non ne sono sicuro. Potrebbe avermi riconosciuto a sua volta? Lo escludo, non ero nemmeno nato all’epoca. Sono sempre stato molto riservato, e poi alla stampa i familiari delle vittime interessano poco. Loro vogliono vedere i cadaveri a terra, quelli sì che fanno notizia.
Il vecchio fissa continuamente la mia tasca, e in quel momento mi accorgo che sto stringendo con la mano destra il coltello ancora sporco di crema con cui ho tagliato il dolce. Sento i battiti che aumentano rapidamente, mentre dalla fronte del vecchio scende una goccia di sudore.
Tiro fuori una mano dalla tasca, ma è la sinistra: prenoto la fermata, e anche se non sono ancora arrivato a casa scendo appena possibile, con l’autobus ancora in movimento.
Faccio qualche passo e lo vedo ripartire: il vecchio mi guarda dal finestrino. Non so se ha capito. Gli è comunque ritornato lo sguardo buono.
Continuo a camminare e appena trovo un cestino getto via sia il biglietto dell’autobus che il biglietto aereo per il Nicaragua, allontanandomi a passo veloce dalla parte peggiore del mio passato.
A quel punto rimetto le mani in tasca e sento nuovamente il coltello. Lo tiro fuori e lecco un po’ della crema che è rimasta attaccata. Stavolta ha un sapore buono. È dolce.

DIARIO IN PUBBLICO
Settimane letterarie

 

In questi frangenti pandemici si accavallano, si esigono, si compiono a ritmo serrato, presenze in streaming per tener dietro alla fame di cultura attuata in lontananza; purtroppo devo rinunciare anche ad impegni presi molto tempo fa, come il simposio su Parini filosofo dell’educazione tenuto a Brera il 15 aprile e per il quale rimando agli atti.

Stringente ma necessaria invece era la mia presenza alla Giornata di studi organizzata da Italiques LECEMO-Sorbonne Nouvelle Paris 3 Historia Magistra il 16 aprile 2021: Pavese settant’anni dopo Un bilancio critico. Questo convegno aveva lo scopo, come sottolinea il titolo, di tracciare un bilancio dell’attività critica nel giro dei settant’anni trascorsi dalla morte dello scrittore. Organizzatrice dell’incontro una studiosa resasi meritevole per i suoi studi nicciani e per l’encomiabile commento all’ormai celebre Taccuino segreto, pubblicato per la prima volta dal suo ritrovamento tra le carte pavesiane da parte di Lorenzo Mondo in edizione critica dalla casa editrice Aragno nel 2020:
Cesare Pavese, Il Taccuino segreto a cura di Francesca Belviso. Con una testimonianza di Lorenzo Mondo. Introduzione di Angelo d’Orsi, Nino Aragno Editore, Torino 2020.

A tre giorni dal Convegno la BUR pubblica una riedizione del diario pavesiano dal titolo ormai ufficializzato de Il mestiere di vivere con l’aggiunta del Taccuino:
Cesare Pavese, Il Mestiere di vivere. Diario1935-1950 con Il Taccuino segreto. Prefazione di Nadia Terranova. A cura di Salvatore Renna. Introduzione di Enrico Mattioda. Con una testimonianza di Lorenzo Mondo, Bur contemporanea/Rizzoli, Milano, aprile 2021.

E qui scoppia e deflagra un caso che diverrà la ragione principale del Convegno parigino. Leggendo l’introduzione, la bibliografia generale, le note al Taccuino nel volume edito dalla BUR, mi rendo conto dell’improprietà dell’edizione. Ad esempio nella stesura della Bibliografia generale il mio nome è totalmente assente e anche rilevo la trascuratezza con cui vengono usate le note della Belviso al Taccuino senza darne conto critico. Così il tema della mia relazione, che si titolava «L’eterno ritorno». Pavese e il mito in una dimensione europea, si trasforma in un’analisi precisa delle gravi responsabilità dei curatori del volume BUR. A darmi man forte la coordinatrice del pomeriggio, l’amica e collega Anna Dolfi e gran parte dei relatori, tra cui spiccava per acume e comprensione del tema Giuditta Isotti Rosowsky relatrice di Tra i testamenti traditi, il caso Pavese. In conclusione, la giornata pavesiana nello streaming si è protratta dalle 10 di mattina alle 19, con un’ora di intervallo per un frettoloso pasto.

Oggi 25 aprile mi fa piacere trovare sul canale televisivo della Effe riproposto un documentario sul mio autore curato da Paolo Di Paolo, valente studioso che assume particolare importanza nell’essere trasmesso in una data importante come quella in cui si ricorda l’anniversario della Liberazione. Alla sera del Convegno francese mi abbatto sull’accogliente poltrona che nulla ha a che vedere con la tremenda opera di Pesce esposta alla Fiera di Ferrara. Essa mi ha accolto e consolato mentre accarezzavo un libro meraviglioso, la cui importanza è paragonabile per la conoscenza dell’autore ai proustiani Le soixante –quinze feuillets, che l’attivissima amica Dolfi mi aveva spedito con il corriere dalla Biblioteca francese di Firenze il giorno stesso dell’uscita.

Nel caso del volume che accarezzo si tratta di un inedito di Thomas Mann, che è l’autore in assoluto a me più vicino. Il libretto Resoconto parigino, traduzione di Marco Federici Solari, L’Orma editore, Roma 2021, racconta di un viaggio a Parigi fatto nel 1922 dallo scrittore in compagnia della moglie per una serie di conferenze che avrebbero avuto il compito di collegare la cultura francese allo spirito germanico. I nomi che vi compaiono sono quelli che hanno nutrito i miei giovani anni di studioso. C’è perfino citato in positivo Benedetto Croce!

Nel libro si riscontrano alcune scelte linguistiche operate dal traduttore-commentatore assai interessanti, come l’uso reiterato di “suntuoso” in luogo del più comune “sontuoso”. E’ una  rievocazione superba della cultura entre deux guerres che rimanda – e non è un caso – alla straordinaria rievocazione di Oxford in quegli stessi anni, mai uscita in Italia se non in questo 2021 scritta da Evelyn Waugh A Little Learning  (1964), reso in italiano con Autobiografia di un perdigiorno nella ottima traduzione e cura di Mario Fortunato.

Continuo a seguire con evidente interesse trasmissioni assai popolari sulla tv, sia che si chiamino Forum, dove le vicende quasi incredibili dei contendenti dimostrano, se ce ne fosse bisogno, il grado quasi infimo delle relazioni sociali e parentali, quasi tutte legati all’uso del danè, o la serale dose de L’eredità, che mi appassiona per il gioco mnemonico, dove la mia preparazione accademica svanisce nel nulla allorché il soggetto dell’interrogativo da risolvere diventa lo sport o le notizie da social.

Imperdibile invece uno spettacolo che seguo con fedeltà e apprezzamento, il Che tempo che fa condotto da Fabio Fazio, il quale purtroppo è caduto in una imbarazzantissima gaffe allorché, nel presentare il romanzo della mia amatissima amica Edith Bruck, Il pane perduto, la chiama Cruck; forse misteriosamente attratto dal rumore del pane spezzato! Il suo evidentissimo imbarazzo e le sue scuse ne hanno poi dimostrato l’intelligenza e la sensibilità.

Nei miei sempre più brevi spostamenti per raggiungere la libreria e al venerdì la bancarella dei fiori noto tristezza e rassegnazione. Non mi piace nulla questo atteggiamento rinunciatario. Aspetto con ansia dunque le aperture, che avverranno da domani 26 aprile, riponendo ancora una volta la fiducia e la volontà del ritorno in due importanti colonne della vita sociale: l’amicizia e la lettura di ogni forma artistica.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Gli anziani al tempo della pandemia

 

E mentre il furbetto scavalca i diritti degli altri, i turni, le disposizioni per accedere più in fretta, prepotentemente e senza remore, ai servizi vaccinali, all’inserimento in quella o l’altra lista, ai posti disponibili nell’assistenza, o anche solo davanti a un supermercato, scavalcando e sgomitando, c’è anche chi mantiene dignità e compostezza in un clima di esagitazione.
Mi piacciono gli anziani, quelli che non spintonano per avanzare nella coda e attendono pazientemente il loro momento, in silenzio, o magari un po’ borbottando, ma saldamente attaccati al loro concetto di dovere’ nei confronti della comunità e a un’integrità morale costruita nel tempo, alla quale non rinunciano nemmeno nel pieno di una pandemia.

Sono sopravvissuti al laido gioco dei posti letto, della precedenza a categorie ‘più indispensabili’ alla società, all’indifferenza contenuta nelle parole di qualcuno che li voleva ‘morti’ ancor prima che succedesse, in una corsa forsennata a scegliere chi più conviene.
Parlano con voce stanca, a volte sommessa, ai microfoni di qualche giornalista che chiede opinioni e pareri sulla sanità tra i passanti. Qualche nonna stringe al petto con forza la borsetta, qualcuno regola istintivamente la mascherina sul volto, qualcun altro allarga le braccia sconsolatamente, altri raccontano orgogliosamente di aver avuto la fortuna di essere aiutati a farcela e ce l’hanno messa tutta anche loro.

Hanno uno sguardo diverso dagli altri, che contiene una profonda sapienza e tanta commozione. Non è insolito vederli aggirarsi – coloro che possono godere di autonomia di movimento – per le vie o i parchi pubblici con cautela, lentamente, passo dopo passo, misurando forze e spazi secondo le proprie risorse fisiche, reggendo una borsa della spesa non troppo pesante e fermandosi a fare due parole se appena trovano disponibilità.

I nostri anziani ne hanno passate tante e molti ricordano ancora echi ed esiti di una guerra che ha travolto nazioni intere e le loro giovani vite di allora; raccontano qualche episodio, quello più significativo ed emotivamente impattante e per un attimo ritornano i protagonisti di quella loro parentesi di storia, esclamando a volte ‘si stava meglio quando si stava peggio’ oppure ‘era la misera più nera, meglio adesso’ o ‘non avrei mai detto che succedesse questo’.

Forse non si abitueranno mai a quel nuovo linguaggio che sentono in TV e nei discorsi dei figli e dei nipoti, fatto di lockdown, smartworking, dad, cluster, spillover, il salto di specie che li ha fatti scoprire anche l’esistenza del pangolino (ma quest’ultima scoperta è trasversale ad ogni età). Il nuovo linguaggio della pandemia li disorienta, anche se va meglio con i colori delle regioni, almeno quelli sono facilmente riconoscibili e associabili e con i termini di vecchia memoria che suonano tanto familiari, come fronte, trincea, prima linea, eroe che andavano per la maggiore nella prima ondata e ora caduti un po’ in disuso.

Non parliamo di ‘resilienza’ e ’paucisintomatico’: sembrano perfino un insulto davanti a chi ha trascorso gli anni della resistenza vera, del rischio, della precarietà, della totale insicurezza in eventi incontrollabili. Io amo questi anziani che stanno assistendo al declino di un’epoca che stentano a riconoscere perché destabilizzante, eppure non rinunciano alla loro dignità e fermezza nei valori che hanno coltivato.

Apologia dell’anziano? No, soltanto una grande riconoscenza per ciò che rappresentano, i volti saggi della nostra storia che ci hanno preceduto, lasciandoci tracce di inestimabile valore, costruite anche attraverso errori, tentativi a volte non riusciti, sogni infranti e imperfezione, come chiunque, come tutti.