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PER CERTI VERSI
Ta Adynata (le cose impossibili)

TA ADYNATA (LE COSE IMPOSSIBILI)

Lo sai
Forse…
Forse lo sai
Quando
La tua voce
Accade sempre…
Ah sempre no
Sei allergica…
Apre il mio cuore
Da dietro
Una porticina
Nel retro
Tu l’hai vista
Da sempre….
Ancora!
L’hai vista
L’hai dipinta
Non di più
Perché non sei pratica
Ci hai messo
Il tuo piedino
Chiedi permesso
E io sogno
Di trascorrere con te
Il mare
Non mi vergogno
Anzi
L’infinito impossibile
L’infinito impossibile
Mi prende
Ta Adynata
Le cose stupende

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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PRESTO DI MATTINA
Uscì il seminatore a seminare….

 

Uscì il seminatore a seminare… «Ed il seme di un nuovo cielo s’interra nel freddo infinito./ È l’aurora del frutto. Quella che ci dà i fiori/ e ci unge del santo spirito dei mari./ Quella che diffonde vita sulle sementi/ e nell’anima tristezza di qualcosa di vago. È un bacio azzurro che la Terra accoglie.»(Federico García Lorca, Tutte le poesie e tutto il teatro, 366; 101; 1258).

Sono come cento sementi, ho pensato rileggendo le Cento parole di comunione di Carlo Maria Martini [Qui] nel cono di luce delle cinquanta parole García Lorca. Il testo fu scritto da Martini nel settimo anno del suo ingresso come vescovo di Milano il 10 febbraio 1980, ministero episcopale retto fino al 2002. In quella tappa del settimo anno Martini si domandava se non fosse stato possibile scrivere una Carta di comunione di intenti, non più ampia di un biglietto da visita, per dire in cento parole il cammino pastorale che stava facendo con la sua chiesa, lo stile pastorale volto a favorire l’incontro con la gente, il modo della parola di Dio di donarsi agli uomini e le donne del nostro tempo.

Non fu difficile per lui trovare una parabola di cento parole – per la precisione 98 – nel testo greco di Mc 4,3-8: la parabola del prodigo seminatore. Più di qualunque altra essa contiene infatti quello che si potrebbe chiamare un «abbozzo di antropologia pastorale». Quale uomo è incontrato dalla Parola di Dio? Chi è colui che è chiamato alla sua amicizia, a vivere l’alleanza e la comunione racchiusa in quell’invito? Divenendo uditore di quella Parola, l’uomo si scopre capace di una relazione dialogica; non terra desolata, ma capace di ospitare il seme della parola dell’altro. Per la via del linguaggio sente allora di doversi incamminare verso un ‘dove’ che non conosce ancora; chiamato fuori di sé a divenire ciò che segretamente è fin da principio, dimora degli affetti che si genereranno con la pratica dell’ospitalità che costruisce poco a poco comunione. La parola è per l’uomo la sua aurora, come il seme lo è per la terra; ed il “bacio azzurro” di cielo, che la terra riceve dal seme, è promessa di fecondità futura per l’uomo, di commensalità che sarà piena, attorno a una mensa comune, che principia allo spuntare dell’aurora quando “il seme di un nuovo cielo s’interra nel freddo infinito”.

La parabola del seminatore prodigo – letteralmente il gesto del “cacciare in avanti”, di chi “agisce avanzando”, “spinge fuori” e che in Giovanni si fa pastore che fa uscire il suo gregge, chiama ed è seguito perché riconosciuto dalla sua voce – ci interroga sullo stile della Parola che si dona senza sapere prima il suo destino. E ancor più ci chiama a comprendere il senso di uno stile pastorale, quello del Seminatore, che va incontro alla gente senza parsimonia, senza risparmio, senza selezionare prima il terreno su cui gettare il seme e verificare se sia buono oppure no.

E «il terreno – scrive Martini – è l’uomo, è l’umanità, sono i singoli uomini, è ciascuno di noi. Noi siamo terra in attesa del seme, terra ricca di potenzialità e di succhi vitali… La terra significa dunque l’uomo, la nostra gente, pronta a ricevere il seme della parola di Dio, capace di accoglierlo e di fargli produrre frutto. La terra senza seme è brulla e infruttuosa, la terra seminata può diventare un giardino rigoglioso. Accogliere la Parola significa credere. L’uomo si realizza nel credere, così come il terreno si realizza nel ricevere il seme». Noi siamo fatti allora per accogliere la Parola e portiamo frutto nella misura in cui ci rendiamo disponibili all’ascolto, a riceverne il seme. Ma non si può forzare la libertà con mezzi esteriori. Sarebbe vano piegarla con costrizione, perché ciò che viene seminato è un amore, un’amicizia, un’alleanza di comune destino che fruttifica solo nella forma di una libertà che si affida e che acconsente anche all’altro, sempre tramite la sua libertà, di donarsi.

Nel simbolo del seme entra in scena l’altro personaggio della parabola: «Il seme è la parola di Dio (Lc 8,11). Il vero protagonista di tutta la storia del campo è la Parola. La Parola seminata, la Parola calpestata, la Parola soffocata, la Parola dissipata, la Parola accolta e che mette radici nel terreno per poi germinare, fino a produrre il cento per uno. Questa Parola non è semplicemente qualcosa di estrinseco, di aggiunto all’uomo – ricorda ancora Martini – qualcosa di cui l’uomo possa fare anche a meno. Terreno e seme sono stati creati l’uno per l’altro. Non ha senso pensare al seme senza una sua relazione con il terreno. E quest’ultimo senza il seme è deserto inabitabile».

Favorire, sostenere, incoraggiare, difendere pure il rapporto con la Parola è dunque mettersi dalla parte dell’uomo, rispettarne la coscienza, come il terreno più sacro e inviolabile in cui entrare solo se invitati, in punta di pedi, con le scarpe in mano, a piedi nudi come fece Mosè avvicinandosi al Roveto ardente; «difendere semplicemente l’uomo, i suoi spazi di espressività e di relazione autentica, i suoi orizzonti di senso». Essere cristiani significa allora anche «avere riconosciuto il primato e la principalità di questa Parola. Vuol dire riconoscere che essa è attiva fin dalle origini del mondo, e che ci raggiunge e ci interpreta in ogni momento della nostra vicenda umana».

La Parola è schierata per l’uomo, spalla a spalla nella lotta della vita. Si pone in sua difesa, è suo partner, è amica e compagna amorosa nel viaggio che condurrà il seme caduto nel terreno a diventare spiga. Anche per la parola di Dio: «Quanto morir perché la vita nasca», ci ha ricordato Clemente Rebora.

Così tra semente e terreno non solo destini incrociati, ma un unico destino: «La Parola è per il terreno. La sua efficacia si manifesta non in astratto, ma nel suscitare, interpretare, purificare, salvare la vicenda storica della libertà umana. La Parola incontra e incrocia le aspirazioni dell’uomo, i suoi problemi, i suoi peccati, le sue nostalgie di salvezza, le sue realizzazioni nel campo personale e sociale». Un unico destino di umanità e santità lega la Parola a noi.

«Ma chi è questa parola?» – si domanda Martini e la sua risposta: – «è la Parola che si è fatta uomo e ha preso la sua dimora in mezzo a noi. La centralità e l’unicità di Gesù Cristo è infatti anche la “singolarità” di Gesù Cristo: cioè il suo essere non un qualunque ideale religioso, sia pure altissimo, non una personalità profetica generica, ma “questo Gesù, che voi avete ucciso – annuncia Pietro alla folla che lo ascolta nella narrazione degli Atti degli Apostoli – e che è stato risuscitato dai morti». È questa stessa Parola sprofondata nella sterilità del terreno a capovolgerne il destino, a renderlo fecondo, abitabile sino a generare in esso la risurrezione.

Scrive ancora Martini che «il vero protagonista dell’azione pastorale è dunque la Parola: tutta la storia del cammino pastorale di una comunità è la storia, non tanto delle sue realizzazioni esteriori, dei suoi raduni, dei suoi congressi, delle sue processioni o delle sue iniziative; ma quella della semina abbondante e ripetuta della Parola, e della cura affinché questa parola trovi le condizioni per essere accolta»; ed invita a praticare l’interiorità nello stile conciliare: “Tutti i cristiani apprendano la sublime scienza di Gesù Cristo con la frequente lettura delle divine Scritture. L’ignoranza delle Scritture infatti è ignoranza di Cristo” (cf. Dei Verbum, 25).

Se la Parola mette radici nel cuore, nell’intimo, nel luogo delle decisioni più profonde e umane si «inizia un cammino di interiorità e di convinzioni non solo di gesti e di abitudini. I gesti e le abitudini sono utili se nascono da una convinzione interiore, la esprimono, la incarnano e la irradiano. Senza libera convinzione interiore non c’è cristianesimo. L’uomo è fatto per la Parola e trova se stesso nell’ascolto della Parola; l’uomo merita perciò il massimo rispetto e va servito con attenzione e dedizione, sempre, aiutandolo a trovare la verità di se stesso e la sua autenticità; la “contemplazione” è la dimensione ideale e necessaria per l’accoglienza della Parola: togliere sassi le spine, la dissipazione».

Presentando questo testo delle cento sementi di Martini, così scrive il vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla: «Credo che tutto il magistero di Martini possa essere riassunto in questo intento: favorire il «meraviglioso scambio» (admirabile commercium) tra la coscienza e la Parola, tra il terreno dell’umano e il seme della Parola. È l’incontro in cui coscienza e Parola, terreno e seme devono perdere qualcosa per arricchirsi reciprocamente: il terreno perché deve essere dissodato e diserbato per accogliere il seme; il seme perché deve morire nel terreno della coscienza per far germogliare in esso lo stelo e il frutto».

Perché così prodigo il seminatore? Perché disperdere e scialacquatore così il buon seme? Perché gli sta a cuore l’uomo più di se stesso e non smette di seminare in lui la parola, al modo del pastore che va in cerca della pecorella smarrita, lasciando le altre novantanove con grande rischio e pericolo nell’ovile. Cento sono le pecore e non si siederà a mensa a fare festa se ne mancherà anche una sola. La risposta di Martini è questa: «La coscienza si sviluppa e si evolve in maniera misteriosa e imprevedibile. Persone su cui avevamo posto fiducia e cure che procurano amare delusioni e, viceversa, altre su cui non avremmo scommesso niente rivelano potenzialità insospettate. È per questo che la parola viene seminata dappertutto, anche sul terreno sassoso, perché qualsiasi terreno, anche il meno adatto, può dare il suo frutto. “Non esiste nessuna persona che per sua natura sia del tutto impenetrabile alla Parola”».

Uscì il seminatore a seminare, camminando sulla seta.
Già si è aperto il fiore dell’aurora …
Che infantile dolcezza
nel mattino quieto!
Gli alberi protendono
le loro braccia a terra.
Un soffio tremulo
ricopre le sementi,
e i ragni distendono
le loro strade di seta
– raggi sul cristallo limpido
dell’aria

(García Lorca, Poesie).

 

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Una parte microscopica del cosmo

Ho ripescato dall’archivio di Internazionale (https://www.internazionale.it/opinione/oliver-burkeman/2017/09/19/ansia-consuma) un interessante articolo di questo scrittore e giornalista. Il pezzo parla dell’ansia, uno stato d’animo sul quale, in questi giorni, sentivo il bisogno di leggere qualcosa di terapeutico. La prospettiva eccentrica dell’articolo risiede nella considerazione di come l’ansia non si combatta “vivendo nel presente” secondo un precetto di ispirazione buddista, ma anzi dandole tempo, anche solo qualche giorno, per capire che ciò che ci preoccupava qualche giorno fa, oggi potrebbe addirittura farci sorridere; come ogni presagio di catastrofe allenti la sua presa emotiva, non appena ci si rende conto che la catastrofe non è arrivata, e la nostra ansia per il disastro mai avvenuto era, proprio lei, il vero e unico disastro. E che siamo “una parte microscopica del cosmo”, come potremmo verificare con Google street view e Google earth, partendo dall’immagine di casa nostra e allargando il campo fino a mostrare l’intero pianeta.

Quasi tutte le cose che ci preoccupano si dimostrano sopportabili, se non addirittura positive, o semplicemente non si verificano mai. La prossima volta che avrete paura che qualcosa vi rovini la vita, provate a pensare che se in passato aveste avuto ragione, oggi la vostra vita sarebbe già rovinata.”

Oliver Burkeman

Ferrara. “Vogliamo un incontro pubblico sulle biblioteche”
L’Amministrazione Comunale non risponde.
I cittadini insistono

Ferrara, 8 giugno 2021

Sabato 22 maggio abbiamo promosso, come Gruppo di cittadine e cittadini a difesa delle biblioteche pubbliche, una partecipata manifestazione per sostenere il rilancio delle stesse. In quell’occasione, oltre a criticare l’idea delle esternalizzazione delle biblioteche Rodari, S.Giorgio e Porotto presentato dall’Amministrazione comunale perché priva di un progetto complessivo e ispirato ad una pura logica di risparmio e disinvestimento, abbiamo presentato anche le nostre proposte. In particolare, abbiamo evidenziato la necessità di costruire proprio un nuovo e strutturato progetto, basato su un reale processo partecipativo e di coinvolgimento dei vari soggetti presenti nella città, capace di esprimere un nuovo modello per l’offerta culturale nella città, anche in connessione con la rete provinciale, fondato sul potenziamento delle strutture, sull’assunzione di un numero congruo di bibliotecari comunali e di un rapporto positivo tra gestione pubblica e altre realtà operanti nel settore.

Nei giorni successivi, sempre come Gruppo di cittadine e cittadini a difesa delle biblioteche pubbliche, abbiamo inviato una lettera al Sindaco, all’Assessore alla Cultura e al Dirigente del servizio per chiedere loro la disponibilità a partecipare ad un incontro pubblico per discutere i temi da noi sollevati e le scelte per il futuro del sistema bibliotecario comunale. Ad oggi non abbiamo ricevuto nessuna risposta in proposito. Nel frattempo, abbiamo appreso dalla stampa l’intenzione espressa dall’Assessore Gulinelli di dar vita ad un percorso partecipato, coinvolgendo vari soggetti in esso, ma ci tocca constatare che a quest’annuncio non è poi seguito più nessun atto conseguente.

Ora, da parte nostra, ci teniamo a ribadire che riteniamo importante che si promuova un percorso partecipato di confronto con l’Amministrazione e altri soggetti che possono intervenire sul futuro del sistema bibliotecario, ma quest’ intenzione deve essere suffragata dalla volontà di partire senza posizioni precostituite e precisando i passaggi che si intendono compiere per dar vita a tale percorso. In caso contrario, dovremmo prendere atto che siamo in presenza più di operazione di immagine che di reale disponibilità al confronto. Per questo, rinnoviamo la richiesta al Sindaco Fabbri, all’Assessore Gulinelli e al Dirigente Andreotti di svolgere un confronto pubblico con noi e di esplicitare come si intende procedere per costruire un reale percorso partecipato con tutte le realtà interessate.

 GRUPPO CITTADINE E CITTADINI A DIFESA DELLE BIBLIOTECHE PUBBLICHE

Giovani e scuola: l’aria che tira

 

La fine della pandemia prometteva che l’aria sarebbe cambiata, meno viziata dai miasmi del passato. Invece tira aria di restaurazione. Sembra che i giovani siano minori, non perché più piccoli, ma perché ‘minus’, cioè meno dotati, meno dotati di noi adulti. Dove inizi e dove finisca la minore dotazione è tutto da stabilire. Intanto Frida Bollani Magoni, a soli sedici anni, suona la sua interpretazione dell’Inno d’Italia alla presenza del Presidente della Repubblica e il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, rivendica il voto ai sedicenni.

Eppure c’è sempre qualche adulto che sente il bisogno di dare una qualche lezione ai giovani, perché i loro modi di essere non combaciano con la sua cultura, con i modelli comportamentali introiettati. Così Chiara Saraceno [Qui] concorda con la dirigente dell’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano, che con circolare interna ha dettato il dress code, a cui si devono attenere le sue studentesse e i suoi studenti. Perché l’abito fa il monaco, ogni luogo ha il suo abbigliamento, in particolare le istituzioni come la scuola. Secondo la sociologa i giovani devono essere educati al rispetto che si deve ai professori e all’ambiente scolastico e questo rispetto passa prima di tutto attraverso a come ti vesti.

Pretendere di insegnare questo rispetto puzza sempre di accusa, di punitivismo nei confronti dei minori, preoccupa perché denuncia le frustrazioni che nascono da un senso di impotenza comunicativa con i giovani, vuoto che si pensa di colmare dettando le regole, le norme, i principi di normalità a cui attenersi, gli unici accettati per essere ammessi nei santuari del sapere. Come ti devi regolare se vuoi vivere in un mondo in cui ci sono anche gli adulti con le loro pretese.

Puzzano di rivincita sui patimenti subiti negli anni della propria adolescenza per via dei soprusi del mondo adulto. Semmai si condannano quei soprusi, ma non il rispetto di quelle, che nonostante la rivoluzione dei costumi, si continua a considerare buone regole, abitudini da inculcare, la ‘buona educazione del tempo che fu’. Le ragazze acqua e sapone e grembiule nero, i ragazzi giacca, cravatta, scarpe lucide e capelli corti.

Pensavamo di essere riusciti ad andare oltre, ma pare che ora si esageri ed è dunque necessario tirare il freno. Spuntano le mutande dai jeans, alcune magliette e braghe pare lascino trasparire troppo del giovane corpo che le indossa, poi ora ci sono i piercing, che sono ammessi solo se all’orecchio, per non parlare dei tatuaggi, delle scritte insidiose su magliette e felpe. Poi la scuola non è una spiaggia, niente infradito e occhiali da sole, a meno che lo ordini il medico.

Se si consultano i siti delle scuole nostrane, come quelle del mondo, i dress code sembrano copiati gli uni dagli altri. Dunque milioni di studenti dagli Usa all’Arabia, dall’Europa all’Australia hanno bisogno di essere educati all’abbigliamento, cosa è consono e cosa non lo è a seconda dei luoghi, a partire dalla scuola. Qualcuno l’ha risolto da tempo con le divise del college, che pure inculcano un senso di appartenenza e di identità, altri restano affezionati al grembiule delle elementari con nastro rosa per le bimbe e azzurro per i bimbi, addirittura l’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano indica ai genitori dove andarli a comprare, in modo da essere sicuri di rispettare il dress code della scuola.

Siamo sempre alla solita questione, quando l’istituzione non sa accogliere e dialogare, creare un clima di parità e di intesa nel rispetto delle differenze, si ricorre a proibire, a scrivere regole e catechismi, anziché contaminarsi, capirsi reciprocamente, assegnare valore ai luoghi e a quello che in quei luoghi si fa e si vive insieme. Non accade in famiglia, non accade a scuola e la scorciatoia che solleva gli adulti da ogni responsabilità è scaricare sulle spalle dei giovani un bel dress code, in nome dell’autorità degli adulti e dell’inviolabilità sacra dell’istituzione.

Il problema è che abbigliarsi è un’esigenza e un’arte, è l’arte dell’identificazione, del ritrovare se stessi, dell’interpretare la vita, del comunicare il proprio tempo, il proprio mondo e se la scuola è luogo di socializzazione e come tale viene vissuto, la socializzazione ha le sue regole e i suoi codici. E se una generazione ha un suo linguaggio, perché dovrebbe lasciarlo fuori dalla porta della classe, lasciare una parte di sé fuori dalla scuola, essere a scuola sempre dimezzati. Così la scuola non è la vita, è una para-esistenza, quello che puoi indossare per strada, in famiglia, quando incontri i tuoi amici non va bene, può dare scandalo, distrarre l’attenzione dalle lezioni e dai compiti scolastici, può indurre pensieri carnali, attrazioni sessuali. Ma dove sta tutto questo se non nella mente patologicamente sospettosa di qualche adulto?

L’ossessione del dress code ha accompagnato anche la didattica a distanza, nel sospetto che qualche studente, sotto il mezzobusto della webcam, indossasse i pantaloni del pigiama, bermuda e le detestate infradito, una imperdonabile mancanza di rispetto nei confronti dell’istituzione seppure virtuale, perpetrata per di più clandestinamente. Il sospetto è che gli insegnanti non siano stati da meno.

A leggere Week Education, rivista statunitense online, si scopre che durante la pandemia la maggior parte degli insegnanti impegnati nella Dad ha vissuto come un vantaggio, in un periodo particolarmente stressante, potersi disinteressare dell’abbigliamento dalla cintola in giù.
Ora per ridurre lo stress dovuto alla ripresa della didattica in presenza agli insegnanti di un distretto scolastico del Missouri è stato consentito di continuare a vestirsi in modo casual.

Negli Usa i codici di abbigliamento degli insegnanti non sono una novità. Un contratto dei dipendenti della Ohio Education Association, datato 1923 e rivolto esclusivamente alle insegnanti vietava i colori vivaci o di tingersi i capelli, richiedeva di indossare “almeno due sottovesti” e abiti non più di due pollici sopra la caviglia. I tempi sono cambiati ma non mancano i ritorni di fiamma.

Nel 2018, We Are Teachers ha compilato un codice di abbigliamento per insegnanti con quattordici regole, tra le quali il divieto di indossare jeans e scarpe da ginnastica.
Fortunatamente a calare il sipario sulla assurdità di tutto questo ci hanno pensato gli insegnanti spagnoli del movimento La Ropa non Tiene Genero.Dal 2020 sempre più alto si è fatto il numero dei docenti, che hanno scelto di accantonare l’uso dei pantaloni in classe durante le lezioni, per combattere gli stereotipi di genere e per sostenere Mikel Gómez, lo studente cacciato da scuola per essersi recato in aula con una gonna.

Invece noi siamo il paese in cui, mentre in parlamento si discute il disegno di legge Zan contro pregiudizi e stereotipi di genere, ci si preoccupa di come le nostre studentesse e i nostri studenti si vestono per andare a scuola, senza rendersi conto di quanto rasentiamo il ridicolo e che le circolari sull’abbigliamento a scuola meriterebbero di essere sepolte da una solenne risata.
Considerate le statistiche relative all’abbandono scolastico, sarei tentato di suggerire ai presidi di usare lo slogan: “A scuola come ti pare purché tu ci venga per imparare”.

L’impressione però è che a scuola tiri una brutta aria, un’aria di reazione e di ostilità nei confronti dei giovani. Allarma il post di un docente su Facebook, che esalta il suo consiglio di classe, perché allo scrutinio di fine anno su 25 alunni ne ha promossi solo quattro, tutti gli altri respinti o con il giudizio sospeso. Inquietante perché quel docente, anziché inorgoglirsi, dovrebbe preoccuparsi seriamente del fallimento professionale suo e di un’intero consiglio di classe.

Dovremmo essere vicini ai nostri giovani, invece crescono gli atteggiamenti pedagogicamente punitivi, che celano sempre frustrazioni e un patologico bisogno di rivincita.
Cambiamo strada è il titolo dell’ultimo libro del filosofo francese Edgar Morin [Qui], nello stesso tempo un invito. Ci avverte del pericolo di un grande processo regressivo che viene da lontano, ancora prima della crisi del virus e che si accentuerà nel post-epidemia. Il timore più grande è che questo processo regressivo, già in corso nel primo ventennio di questo secolo, possa avere varcato anche le porte delle nostre scuole.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Google, Facebook e Amazon pagheranno le tasse: poche, ma meglio di niente.

Google, Facebook, Amazon, Microsoft finalmente pagheranno le tasse. Almeno, un po’ di tasse, perchè attualmente il loro contributo alla fiscalità dei paesi nei quali vendono i loro beni è praticamente pari a zero. Tra i vari articoli usciti in questi giorni sulle nuove regole di tassazione minima per i colossi del web, citiamo questo di Open:

https://www.open.online/2021/06/05/g7-tassa-minima-globale-colossi-web/

I due colossi del web (Google e Facebook) si sono detti a favore dell’accordo del G7, riunitosi a Londra, sulla tassazione globale delle multinazionali, che tocca direttamente i loro interessi. La misura che è stata introdotta prevede una tassazione minima del 15%, da pagare in quei paesi dove le multinazionali vendono i loro beni e servizi, e non, come possono fare adesso in maniera legale, spostando i proventi su filiali aventi sede legale (spesso, una semplice casella postale) in paesi “paradiso” in cui pagare poi aliquote minime. Il presidente degli affari globali di Facebook afferma: «vogliamo che la riforma della tassazione internazionale abbia successo, e riconosciamo che potrebbe significare un carico fiscale maggiore per Facebook, e in diversi Paesi». Un portavoce di Google, secondo Sky News, dichiara: “il gruppo è fortemente a favore dell’iniziativa e spera in un accordo finale «bilanciato e durevole»”. Tutti filantropi? No di certo: anzi, le azioni di filantropia e beneficenza privata di questi giganti sono tanto più possibili quanto più ingenti sono i fondi sottratti alla tassazione pubblica. Il fatto che si dichiarino prontamente favorevoli ad una misura che li obbligherebbe ad eludere meno e a pagare di più potrebbe quindi far sorgere il sospetto che si tratti di uno specchietto per le allodole.

Eppure non credo che sia questa la ragione delle loro dichiarazioni di favore. Si tratta, probabilmente, di una mossa di immagine dietro la quale si può facilmente immaginare una accorta azione di lobbying nei confronti delle istituzioni politiche che al G7 hanno raggiunto questo accordo. Infatti una tassazione del 15 per cento è largamente inferiore alle aliquote applicate sia alle imprese “tradizionali”, sia ai redditi da lavoro. Un imprenditore italiano non avvezzo ai magheggi della fiscalità creativa (che, attenzione, non è affatto una pratica semplice: necessita di una accurata e specialistica conoscenza dei meccanismi dell’elusione) può confrontare la tassazione complessiva che grava sulla sua azienda rispetto a quella che graverà su questi giganti: rimane sempre un delta a suo sfavore, che può andare dal 20 al 30%.Un lavoratore dipendente può agevolmente controllare la tassazione che grava sulla sua busta paga: il 15% non lo paga nessuno. Si va dal 23 al 40% circa. E’ per questo che il noto economista progressista francese Thomas Piketty si è affrettato a definire questa riforma “scandalosa”, affermando “anche a me piacerebbe pagare il 15% sui miei guadagni” e facendo i conti su quanti sono i miliardi di maggiori entrate fiscali cui i paesi europei rinunciano(120 miliardi di euro) per non aver deliberato una tassazione minima al 25%, anzichè concentrarsi su quelli che guadagneranno (50 miliardi) rispetto alla situazione attuale (stime dell’Osservatorio europeo sulla tassazione). E’ per questo che Gabriela Bucher, direttore esecutivo di Oxfam International, dichiara che il G7 “aveva la possibilità di mettersi al fianco dei contribuenti, invece ha scelto di stare al fianco dei paradisi fiscali”. In effetti, per rendere la proposta digeribile per quei Paesi industrializzati, anche membri della UE, che prosperano grazie ai trattamenti di favore riservati alle multinazionali (Cipro, Irlanda, Paesi Bassi, Lussemburgo), l’asticella è stata abbassata dall’ipotesi iniziale del 21% all’attuale 15%.

Certe affermazioni sulla inadeguatezza delle nuove misure, tuttavia, puzzano molto di naftalina, quella abitudine accademica a discettare con tono professorale del “meglio”, senza considerare che in molti casi il “meglio” è nemico del “bene”. Per fare un solo esempio: il ministro delle Finanze cipriota Constantinos Petrides ha preannunciato l’intenzione di porre il veto su questa proposta di riforma al Consiglio Ue, dove le decisioni in materia fiscale vanno prese all’unanimità. Certo, si potrebbe dire che sarebbe opportuno cambiare la norma e stabilire che certe decisioni vanno approvate a maggioranza. In attesa che questo avvenga, bisogna fare i conti con le regole vigenti, che non consentono di fare rivoluzioni proletarie, e farsi una semplice domanda da uomo della strada (che spesso ha torto, ma a volte esercita un elementare buon senso): ma attualmente le cose vanno bene? Attualmente i nostri Stati quanto ricevono da questi colossi per finanziare le loro scuole e i loro ospedali, che sono le nostre scuole e i nostri ospedali? Zero. E allora per quale ragione, in nome di una ortodossia del pensiero redistributivo, dovremmo considerare un male questa riforma? Perchè si poteva far meglio? E con quale consenso, ammesso che questa misura riesca a passare il vaglio del Consiglio europeo?

Ho più stima di chi si sporca le mani con le difficoltà di una politica che provi a spostare certi equilibri (e questa è comunque alta politica, perchè combattere lo strapotere di multinazionali che sono diventate più potenti di uno Stato non è una passeggiata), rispetto a chi si limita a criticare la timidezza di certe novità dall’alto del suo Aventino di purezza dottrinale. Naturalmente spero di non essere smentito da una versione finale ulteriormente annacquata di questa riforma.

 

 

 

 

Frattesina e la Via dell’Ambra

Frattesina fu un villaggio dell’età del bronzo situato a sud-est dell’attuale centro di Fratta Polesine in provincia di Rovigo. Si trovava lungo un fiume oggi scomparso, il​ Po di Adria; questo ramo del Po permetteva il collegamento da una parte con l’antica fascia costiera per le rotte mercantili dell’Adriatico,​ dall’altra con la Valle dell’Adige, lungo la cosiddetta “Via dell’Ambra”.​
Si trattava di un’articolata rete di contatti commerciali che collegava le coste meridionali del Baltico alla testa dell’Adriatico. Uno dei maggiori giacimenti di ambra al mondo si trova infatti nella regione del mar Baltico; non si sa esattamente quando questa via fu fondata, ma i ritrovamenti provano che il commercio lungo questo percorso esisteva molto prima dei tempi romani.
Nel 2009, a Grignano Polesine (a pochi chilometri ad est di Frattesina) è stato rinvenuto un deposito di schegge e perle d’ambra a diverso stadio di lavorazione. Da ciò si evince che la preziosa e antica resina era lavorata dagli artigiani nelle fabbriche locali, per essere poi messa in commercio dal centro di Frattesina.
L’ambra veniva commerciata perché veniva usata come ornamento dalle donne; si credeva inoltre che fosse un biostimolante, che combattesse la depressione, che fosse una “calamita per la gioia” la quale poteva trasformare l’energia negativa in positiva. Indossarla purificava l’anima, lo spirito e la mente.

7 giugno 2021: Erdogan bombarda i curdi

Pubblichiamo questo breve articolo appena inviatoci da Hazal Koyuncer, rappresentante della comunità curda di Milano, che denuncia la ripresa dell’aggressione armata dell’esercito turco contro le libere comunità curde. Nei prossimi giorni, affrontando i gravi rischi che è possibile immaginare, Hazal Koyuncer si recherà nelle zone di guerra insieme ad un gruppo di osservatori internazionali. Come Ferraraitalia cercheremo di mantenere i contatti con lei, informando i nostri lettori e sostenendo la resistenza del popolo curdo.
[Francesco Monini]
di Shorsh Surme
Kurdistan, 7 giugno 2021 – Mentre la comunità internazionale celebra la giornata dell’Ambiente, l’esercito turco continua a tagliare gli alberi e distruggere i boschi nel Kurdistan dell’Iraq, nel silenzio totale dei media.
Con questo comportamento la Turchia del “sultano – presidente” Recep Tayyp Erdogan ha violato per l’ennesima volta il diritto internazionale oltrepassando i confini della Regione Federale del Kurdistan Iracheno.
La cosa più grave è che l’esercito turco ha costruito delle fortezze sulle montagne nella provincia di Dohuk e nella zona di Barzan, nella provincia di Erbil: il governo di Ankara vorrebbe creare un’altra Cipro, ed ormai occupa da anni molti villaggi curdi sono stati evacuati e la popolazione costretta a lasciare le loro case.
Proprio oggi tre persone hanno perso la vita a causa di un attacco aereo turco vicino al campo di Makhmour, ed infatti mercoledì scorso Erdogan aveva dichiarato alla TRT statale che il prossimo obiettivo dopo Qandil è Makhmour.
Il campo di Makhmour ospita più di 12mila rifugiati curdi fuggiti dalla persecuzione dello stato turco, principalmente negli anni ’90. Si trova in aree contese tra Erbil e Baghdad. Il piano di Erdogan è molto chiaro, e cioè di occupare la città curda di Kirkuk, ricca di giacimenti di petrolio. Così facendo realizzerebbe il suo sogno di ricostruire una sorta di Impero Ottomano.

DA PAVIA A VENEZIA SUL FIUME PO
reportage della gara motonautica più lunga al mondo

 

Quest’anno, dopo 10 anni di assenza, abbiamo potuto assistere al passaggio sul Po della prestigiosa gara di motonautica, Raid Pavia Venezia.
Dalle prime edizioni degli anni ’20, è la gara di motonautica più lunga al mondo per quanto riguarda le acque interne400 chilometri sul Fiume Po da Pavia a Venezia. Personalmente la definirei la mille miglia fluviale, per le bellissime e storiche barche che partecipano in questa rinata edizione.
Organizzata dall’Associazione Motonautica Pavia e Associazione Motonautica Venezia, la Pavia Venezia nella sua 69° edizione ha raggruppato diversi settori e categorie di imbarcazioni comprese le imbarcazioni storiche, moto d’acqua e da diporto, offshore e tante altre categorie di barche.

Le imbarcazioni si sono confrontate da Pavia a Brondolo di Chioggia e arrivo a Venezia in un percorso di oltre 400 km. Abbiamo visto sfrecciare a velocità anche superiori ai 200 km orari, oltre 60 equipaggi. tra cui nomi noti e campioni di fama internazionale della motonautica Italiana come Maurizio Bullieri, 8 volte campione Italiano, campione Europeo endurance, e Campione mondiale Powerboat P1 nel 2005, e ancora, il campione Guido Cappellini con alle spalle diverse vittorie e 10 titoli mondiali in F1 da Pilota. Il Campione mondiale Endurance in carica, Tullio Abbate Jr con diversi titoli e vittorie ottenute in gara. Lo abbiamo visto in questa edizione, in coppia con  con il Conte Marco Massazza D’Aresi  a bordo della Sea Star uno tra i primi scafi in vetroresina costruiti dal padre Tullio Abbate, una barca che fu costruita nel 1969 per Sir Jackie Stuard.
Nella categoria moto d’acqua, Michele Cadei 6 volte campione Italiano. E ancora il Pilota Inglese Drew Langdon, tra i molteplici titoli e vittorie lo ricordiamo in 5 volte campione del mondo.
E da non dimenticare un veterano ferrarese della Pavia-Venezia Alessandro Andreotti e da quest’anno al suo fianco l’argentano David Maiani, della Società Canottieri Ferrara.
La premiazione è avvenuta all’Arsenale di Venezia
Per i dati tecnici riportati, ringrazio gli amministratori del gruppo FB Raid Pavia Venezia [Vedi qui] 


La foto in copertina e quelle del reportage che illustrano il testo, sono state scattate durante la manifestazione da Valerio Pazzi e ritraggono alcuni momenti del passaggio delle imbarcazione sul Po in località tra Stellata di Ferrara e Ficarolo di Rovigo.
(clicca su ogni foto per ingrandirla)

strage etiopia

25 APRILE A METÀ
Radici del razzismo e scheletri negli armadi:
I Fantasmi del passato (VIII Parte)

Etiopia Debra Berhan – Egitto el Alamein: a volte ritornano, per singolo o doppio caso fortuito, i fantasmi del passato coloniale italiano.

Nel maggio 2006, il quotidiano La Repubblica ha pubblicato le foto e un’inchiesta del proprio inviato Paolo Rumiz Etiopia quella strage fascista (poi riproposto online nell’aprile 2018 da The Magazine Italia), che confermerebbero “le prove di un efferato crimine italiano in Etiopia, 70 anni dopo la proclamazione dell’Impero” e che rigetterebbero “luce sinistra su un conflitto che la nostra memoria ancora rimuove o traveste da scampagnata coloniale”.

Tutto comincia con un primo caso, grazie il ritrovamento da parte di un dottorando dell’università di Torino di un pacco di telegrammi dimenticati in un faldone dal titolo “Varie” presso l’archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito di Roma. Dentro, un manoscritto senza firma, una mappa, altri documenti di conferma e un contenuto agghiacciante. A riemergere dall’oblio del passato e dalla profondità delle grotte naturali presenti nell’area montuosa di Debra Berhan – 100km a nord di Addis Abeba, nell’alto Scioà – sarebbe la conferma di una strage avvenuta tra il 9 e l’11 aprile 1939.
In base a quanto scoperto dal ricercatore, nel luogo indicato dalla mappa e in quei giorni vennero fucilate dopo la resa o avvelenate con i gas più di mille uomini, donne, vecchi e bambini, componenti una carovana del reparto ‘salmerie’ dei partigiani di Abebè Aregai, leader del movimento di liberazione etiope, rifugiatisi nella grotta dopo essere stati individuati dall’aviazione e circondati da un numero soverchiante di militari italiani.

Il gruppo è in realtà composto in larga misura da fuggitivi, feriti, anziani, donne e bambini, parenti degli uomini in armi, che garantiscono la cura dei feriti e l’appoggio dei partigiani alla macchia e da alcuni combattenti guidati da Tesciommè Sciancut.
L’ordine del Duce è perentorio: stroncare la ribellione. Ma stavolta stanare i ribelli è impossibile, così il 9 aprile la grotta viene attaccata con bombe a gas d’ arsina e con la micidiale iprite nonostante l’Italia abbia firmato la messa al bando internazionale di queste armi letali sancita dalla Convenzione di Ginevra del 1928.

Dalle carte emergono dati incredibili.
Nella grotta il ‘bombardamento speciale’ sarebbe stato portato a termine dal ‘plotone chimico’ della divisione Granatieri di Savoia, da sempre ritenuta una delle più ’nobili’ delle nostre Forze Armate e si sarebbe svolta secondo strategie, procedure e fatti inenarrabili.

Il mio compito – scrisse nel suo diario il sergente maggiore Boaglio – era far scendere e scoppiare i bidoncini…nel punto di entrata della caverna, in modo da ypritare tutto il terreno, impedendo così a eventuali fuggitivi di cavarsela impunemente….”.

La notte successiva, una quindicina di ribelli armati avrebbe tentato una sortita riuscendo a scappare. Molti cadaveri vennero gettati fuori dalla grotta. Moltissimi si arresero all’alba del giorno 11. Ottocento persone, si legge nel documento, in quel mattino stesso vennero fucilate su preciso ordine dato dal Governo Generale, cioè o dal generale Ugo Cavallero o dallo stesso Amedeo di Savoia.

Ma non è finita. Dentro c’è chi resiste ancora – uomini, donne e animali – e i nostri chiedono i lanciafiamme per ‘bonificare’ l’antro, ramificatissimo.

I dettagliati telegrammi degli alti comandi sono istantanee dall’inferno. “Si prevede che fetore cadaveri et carogne impediscano portare at termine esplorazione caverna che in questo sarà ostruita facendo brillare mine. Accertati finora 800 cadaveri, uccisi altri sei ribelli. Risparmiate altre 12 donne et 9 bambini. Rinvenuti 16 fucili, munizioni et varie armi bianche”.

Le prove, schiaccianti, entrano nella tesi di dottorato ma mancano ancora i riscontri sul campo, così il ricercatore organizza una missione col supporto dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia e viene accompagnato dal giovane studioso etiope Johnatan Sahle.

La mappa trovata allo Stato maggiore consente di individuare facilmente la zona, a un giorno di macchina dalla Capitale, in un altipiano di grotte e punteggiato di chiese copte, attorno alla cittadina di Ankober, 2600 metri di quota, sulle valli dei fiumi Uancit e Beressà. E’ dai preti dei villaggi che arrivano le prime conferme (“non ottocento, ma migliaia di morti”) e l’indicazione delle strada giusta, fino al paesino di Zemerò, e poi – per altri 30 chilometri fuori pista – fino al villaggio di Zeret, una ventina di tukul in pietra e paglia, 180 metri a picco sopra la bocca dell’inferno.

Il nome della grotta dice già tutto: Amezegna Washa, antro dei ribelli. Sotto, il fiume Ambagenen, che vuol dire Fiume del Tiranno. All’imboccatura, lo stesso muretto protettivo descritto nei rapporti dell’esercito italiano.

armi chimcheDentro la grotta non c’ è più andato nessuno, da allora. Dentro, un labirinto, in parte impercorribile. Ma bastano i primi cento metri alla luce delle torce per dare conferme. “Ossa dappertutto – racconta il ricercatore – quattro teschi, di cui uno con addosso la pelle della schiena; proiettili, vestiti abbandonati, ceste per il trasporto delle granaglie”. E poi rocce annerite, forse dai bivacchi (ma era difficile che i ribelli accendessero fuochi il cui fumo li segnalasse all’aviazione italiana) o forse dai lanciafiamme. Gli italiani, raccontano i figli e i nipoti di chi vide, calarono verso l’imboccatura della grotta dei pesanti bidoni che poi furono fatti esplodere con i mortai. E ancora: chi non fu fucilato, fu buttato nel burrone sotto la grotta. “Fu colpa degli Ascari”, le truppe indigene inquadrate nell’esercito italiano, “è l’obiezione ricorrente di fronte ai massacri in Abissinia. Ma gli ascari non si muovevano mai senza l’ordine di un ufficiale bianco. La ferocia di queste repressioni era anche il segno dell’esasperazione dei fascisti di fronte alla resistenza degli etiopi. La rabbia per un controllo incompleto del territorio”.

Oltre all’autore della scoperta anche l’autore del reoprtage Paolo Rumiz pare non avere più dubbi sia sui fatti che sulle conclusioni da trarre e aggiunge: “No, il camerata Kappler non fu peggio di noi. Il governatore della regione di Gondar, Alessandro Pirzio Biroli, di rinomata famiglia di esploratori, fece buttare i capitribù nelle acque del Lago Tana con un masso legato al collo. Achille Starace ammazzava i prigionieri di persona in un sadico tiro al bersaglio, e poiché non soffrivano abbastanza, prima li feriva con un colpo ai testicoli. Fu quella la nostra ‘missione civilizzatrice’? L’ Africa per noi non fu solo strade e ferrovie. Fu anche il collaudo del razzismo finito poi nei forni di Birkenau. Negli stessi anni, un altro personaggio con la fama di ‘buono’ – Italo Balbo governatore della Libia – fece frustare in piazza gli ebrei che si rifiutavano di tenere aperta la bottega di sabato. Quanti perfidi depistaggi della coscienza”.

impero italianoC’ è bisogno di parlarne” – conclude Matteo Dominioni, l’autore della tragica scoperta in Etiopia – “il vuoto storico e morale da riempire è enorme”.
Tutto è cominciato così e così tutto continua per un secondo puro caso consecutivo, dal momento che lo stesso cognome, Dominioni, appartiene anche ad un altro ricercatore sul campo, Paolo Caccia Dominioni, conte di Sillavengo, il Sandgraf -Conte della Sabbia- come lo avevano soprannominato i generali tedeschi o il ‘samaritano del deserto’, cioè colui che percorse 30.000 chilometri nel corso di 355 ricognizioni che lo portarono a recuperare, riconoscere e raccogliere, ad uno ad uno, i resti dei suoi commilitoni caduti in Libia e in Egitto dopo oltre quattro mesi ininterrotti di attacchi e contrattacchi, offensive e controffensive, nel corso della più grande battaglia della seconda guerra mondiale combattuta in Africa, e che si concluse il 23 ottobre 1942 ad El Alamein, stabilendo la tragica fine dell’avventura coloniale italiana.

 

 

Leggi la Prima Parte [Qui], la II [Qui],la III [Qui], la IV [Qui], la V [Qui], la VI [Qui]

Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è il curatore della rubrica Controinformazione. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna,

PER CERTI VERSI
A te amica unica

A TE AMICA UNICA

Essere amico tuo
È un privilegio
E un miracolo laico
Avere te come amica
Non è come avere
Un amico
Sarebbe una frase banale
Se non ci fosse
Una differenza
Incolmabile
Abissale
Tu mi fai pensare
Che mai soli…
Meglio essere accompagnati
Dalle tue mani
Ma soprattutto
Dal tuo cuore
Lo sai che il mio
All’ombra del tuo
Della tua cura
Sbatte meno sulla scogliera della paura
Guarda la strada
Bianca
Dei ciliegi
E aspetta i tigli
Per respirare insieme a te
Quel profumo
Che mescola
Gentilezza
Calma
Oriente
Occidente
La gioia
Sensuale
Di trovarti sempre
Ovunque
Mezzala di vita
Carnevale

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

PRESTO DI MATTINA
La Parola che si fa corpo vivente

 

«Entrando nel mondo, Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato“. Allora ho detto: “Ecco, io vengo- poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10,5-7). È un frammento della Lettera agli Ebrei ispirato dal salmo 40: “Gli orecchi e tutti i miei sensi hai aperto all’ascolto, il desiderio hai acceso: la tua parola nel mio intimo, così non ho nascosto la tua giustizia dentro il mio cuore, né il tuo amore e la tua fedeltà, neppure ho tenuto le labbra chiuse ho proclamato invece tra la gente la tua cura per la vita”. L’autore della Lettera agli Ebrei intende così esprimere la sua fede nella Parola che si fa carne, nel Verbo che era da principio e che ora, nella umiltà dell’esistenza umana, prende come sua dimora un corpo a lui preparato.

Accadde che la smisuratezza della parola di Dio si fece così piccola e angusta da assumere la natura di un corpo concepito e generato in umanità. Ma fu solo breve momento, per quanto fondamentale, della storia umana. Il Verbo che dapprima si rapprese in un uomo, nel volgere di poco si dispiegò al mondo, come un libro srotolato, allungandosi, distendendo gambe e braccia, operando con le mani, muovendo i piedi e, passo dopo passo, facendo strada sui sentieri della nostra umanità, crescendo in sapienza, statura, età e grazia per dire e fare le parole e i gesti di Dio, quelli della sua compagnia tra noi. Corpo preparato alla Parola perché divenga dono udibile, afferrabile, visibile attraverso le molteplici scritture e riscritture di una persona viva, che ascolta e risponde, imprime ed è impressa, inspira ed espira, piange e ride al modo in cui un corpo vive.

“Corpo/vivente”: non sono due, spirito e corpo; neppure il verbo da un lato, prioritario, assorbente, e il sentire del corpo dall’altro, secondario, scorporato. L’endiadi, una realtà per mezzo di due, esprime un unico e indissolubile corpo esistente e senziente: vivo. Corpo/vivente, “viatico di presenza”, un intreccio di vicinanza e lontananza, che tiene uniti estraneità e prossimità, familiare e straniero ad un tempo; vero pane di viaggio, che nutre la vita e si lascia nutrire da essa. Il corpo, pertanto, non solo oggetto ma soggetto, realtà non solo plasmata, modellata, ma ad un tempo forgiante, educante, perché a sua volta forma e sapere viventi, materia che è accolta ma pure ospitale, in quanto ospitante lo spirito. In breve: il corpo/vivente, reale, simbolo di ospitalità promessa.

Nell’antichità con il termine ‘simbolo’ (dal verbo symballo/gettare, riconoscere, mettere insieme) si indicava anche la ‘tessera hospitalis’, o hospitalitatis, un anello o altro contrassegno che si rompeva in due pezzi, da conservare come documento di riconoscimento, di garanzia, perché servivano a comprovare, una volta riuniti, l’ospitalità data e ricevuta, l’autenticità della relazione e del riscontro. La valenza simbolica del “vivente corpo” porta alla luce la necessità di darsi agli altri e di dirsi a se stessi, nella forma propria del simbolo che è quella dell’ambivalenza, vale a dire un’unica realtà che si presenta sotto due aspetti e valori differenti: una presenza simultanea di valori anche estranei, opposti o conflittuali, ma indissociabili, indivisibili.

Il ‘corpo/vivente’ esprime l’uomo nel suo essere al mondo: così il mondo, secondo l’espressione di Maurice Merleau-Ponty [Qui], viene ad essere «il corpo allargato dell’uomo», mentre il corpo da parte sua è «il cardine del mondo», il mondo addomesticato. In quanto simbolo, il corpo è allora anche linguaggio e sacramento; è atto ed esperienza comunicativa, relazione che unisce. La vocazione di ciò che è spirituale nell’uomo non è quella di tacitare, diluire o far evaporare ciò che è corporeo. Al contrario questi non deve soffocare lo spirito schiacciandolo sotto il suo peso: entrambi sono chiamati a custodirsi reciprocamente, a corrispondersi nella pratica dell’ospitare, del prendersi cura della diversità ed estraneità dell’altro. «Egli infatti non si prende cura degli angeli [incorporei], ma della stirpe di Abramo si prende cura», (Eb 2,16).

«Luogo di trasbordo» è così il corpo/vivente, un valico tra il mondo di dentro e il mondo di fuori, tra natura e cultura, tra individuo e società. La riflessione e la ricerca portate avanti dal pensiero fenomenologico hanno aperto un varco oltre il dualismo platonico, che ha influenzato in positivo e in negativo anche il pensiero delle origini cristiane e quello cartesiano, che separava la realtà psichica, cogitante, libera, consapevole, illimitata, dalla realtà fisica, limitata estesa, inanimata. Si è sviluppata così una riflessione sul sensibile, a partire dal corpo come unità vivente della persona umana, un’unità insieme attiva e passiva, di soggetto e oggetto, di percezione ed intuizione, di sensibilità e intellezione.

L’affiorare in questa unità nella differenziazione, sia dell’alterità ed estraneità degli altri, come dell’estraneità sentita in se stessi, sollecita e invoca un’etica della responsabilità, “responsiva” direbbe Bernhard Waldenfels, che invoca il dono e il compito di una risposta proprio a ciò che accade imprevisto e non dipendente da me: l’incontro con l’altro, lo straniero non appena fuori, ma con lo straniero che io sono a me stesso.

Nella fede si entra certamente per la via intellettiva e per quella etica; e tuttavia esse sono vie seconde, non secondarie però rispetto a quella principale che è quella relazionale, vivente dell’incontro dialogico dei corpi. Di qui un primato della relazione rispetto ad ogni tentativo di razionalizzazione o moralizzazione dell’esperienza della fede. «Il corpo è un anelito e un peso; un richiamo e una distanza da percorrere. Il corpo esprime gioia e debolezza, incanto e aridità, peso e levità. [Il corpo d’amore] è fatto di gocce di balsamo e di immensità assetate di deserto, di rari fotogrammi di assoluta chiarità e di lunghe pellicole di buio. Il corpo sarà nutrito di giorni e giorni di fame, notti e notti di lacrime e di assenza», (R. Virgili, Servitium, 1-2, 2005, 40).

Distanza da percorrere è il “corpo/vivente”: quella orientata verso la promessa di trasformarsi, trasfigurato, in un corpo/glorioso. L’incarnazione del Verbo e il mistero pasquale, di morte e risurrezione, hanno ispirato di senso e di speranza la nostra forma carnale. Hanno seminato nel corpo un credito ignoto e un futuro imprevedibile. Si dà allora una buona novella anche per il corpo: un vangelo è nascosto in esso, ben più che straniero, ospite e pellegrino in mezzo a noi che chiede di essere ospitato per ospitarci e renderci familiari suoi e a noi stessi.

Il poeta Carlo Betocchi [Qui] dedica a questa “distanza da percorrere” a questo destino glorioso che attende il “corpo/vivente” una sorta di inno liturgico: «Tu concedesti di vedere il tuo corpo che s’avanza!… Lui che mi dette con la vita il corpo,/ questo campo robusto che assicura/ l’anima, in cui alligna e matura la grazia,/ Lui non ha avuto paura che mi guastassi,/ che perdessi la fede: ed ha lasciato/ che il nemico infierisse. Che cos’è/ che voleva, allora, se non che alla fine/ mi ricordassi che non si vive di solo/ pane, e nemmeno soltanto di grazia,/ ma anche di buio coraggio di quando/ Lui può mancarci: e occorre rifarlo in noi,/ e riconoscersi vivi nei gemiti/ delle montagne squassate dai terremoti,/ perché l’evenienze del mondo sono/ infinite, le catastrofi miserevoli/ e senza alcuna spiegazione plausibile/ alla nostra esigenza d’amore. Lèvati/ allora, e datti da fare col tuo/ coraggio. Dio ti riconoscerà per suo», (Tutte le poesie, 517; 571).

Il corpo/glorioso è così ferito da una fiamma di amor vivo. È l’amore che glorifica il corpo errante dell’homo viator. Quell’amore resosi straniero ai viandanti verso Emmaus. La sua gloria è l’amore del corpo crocifisso e risorto; il Corpus Domini che rincuora, apre gli occhi, rimette in cammino, pone sulle labbra l’annuncio pasquale che narra l’incrociarsi delle sorti, lo scambio dei destini: colui che ha scambiato il suo destino di vita con il nostro destino di morte, il suo corpo di gloria con il nostro di carne ha pure condiviso il pegno della sua risurrezione, il suo corpo/glorioso in un pane spezzato come cibo dato a tutti perché diventi un solo corpo. «Come questo pane spezzato era sparso sui colli e raccolto è diventato una cosa sola, così si raccolga la tua Chiesa e l’umanità dai confini della terra nel tuo regno», (Didaché, IX, 4) e ci ricorda Paolo: «Il nostro corpo è per il Signore e il Signore è per il corpo» (1Cor 6,13).

Scrive il poeta inglese John Donne: «I misteri d’amore crescono nelle anime, ma il nostro corpo è il libro dell’amore», (nella traduzione poetica di Cristina Campo).

La fede cristiana ha conosciuto la tentazione gnostica come fuga dal corpo e esaltazione di una conoscenza, di un sapere e pensiero disincarnati, rimandando indietro Dio nel suo empireo celeste ‒ una torre senza porte e finestre ‒ privandolo così del suo luogo più proprio: la relazione con il mondo e con la libertà dell’uomo. L’esperienza cristiana è vita secondo lo spirito ‒ ci ha ricordato Karl Rahner [Qui] ‒ che si realizza nel corpo e attraverso il corpo. Questi è l’esistenza concreta dello spirito nello spazio e nel tempo, la corporeità umana è il suo luogo rivelatore, tanto che facendosi ospitale dello Spirito, ogni uomo entra a far parte del corpo vivente di Cristo, e in lui viene seminato il suo corpo glorificato, caparra e primizia di umanità nuova.

La svalutazione del corpo, originata dall’influenza di correnti di pensiero estranee al mondo ebraico-cristiano, si è fatta a lungo sentire anche nell’esperienza cristiana e nella sua spiritualità. Fin dai primi secoli una rigida ascesi penitenziale, manifestava un disprezzo evidente della carnalità, considerata come la sorgente del male.

LA STORIA DI ANASTASIO

Si narra di un monaco nel deserto egiziano che, volendo raggiungere la perfezione spirituale con una durissima ascesi corporale, cominciò a sentire sempre più il peso del suo corpo e a disprezzarlo, perché sembrava trattenerlo e rallentare le sua ascesa; così, volendo significare il desiderio di separarsi da esso come da una zavorra, si amputò una falange del dito e lo seppellì accanto alla sua cella, come a ricordagli che al cielo e non alla terra, allo spirito e non al corpo era volto ogni suo desiderio.

Alla sera, rientrato nella cella e raccolto in preghiera, aprì a caso il libro delle Scritture e iniziò a leggere. Vi si narrava della visione del profeta Ezechiele che, condotto dallo Spirito in alto sopra i cieli, fu poi deposto in mezzo a una valle piena d’ossa. Profetizza su queste ossa – disse lo Spirito: “Ossa inaridite Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete”. A quelle parole Ezechiele senti un rumore, vide movimento fra le ossa, che si accostavano e si corrispondevano l’una all’altra. Poi vide ancora sopra di esse i nervi, la carne che cresceva e la pelle che le ricopriva, ma non c’era spirito in loro. Così Ezechiele profetizzò di nuovo e annunziò su quei cadaveri lo Spirito: “Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano”. In quel momento lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi.

Anastasio, questo era il nome del monaco ‒ che significa risurrezione ‒ non poco turbato da quella lettura si addormentò pensieroso. Il mattino uscendo dalla cella si accorse che qualcosa era cambiato. Nel luogo del seppellimento di quel frammento del suo corpo era cresciuto un gelsomino bianchissimo e un profumo soave si era diffuso tutt’intorno e una siepe cingeva tutta la cella. Con la mano sfiorò appena il gelsomino e non poté proprio non sentirne il profumo, ne rimase inebriato. Respirò allora profondamente come non aveva mai fatto prima; sentì il suo corpo rivivere, anzi rifiorire nonostante fosse vecchio e, toccando il fiore con le dita, udì affiorare dentro di sè le parole: Corpus Domini e allora capì tutto, gli si aprì il cuore e l’intelligenza e gli occhi si sciolsero in lacrime non penitenti, ma di pacificante e umile gioia.

Fu così che gli ultimi anni li visse errando alla ricerca di quella compassione di Dio per il Suo corpo umiliato, mutilato e disprezzato nei corpi di tutte le sue creature. E ogni volta che vedeva una pietra, un albero, una pozza d’acqua, le stelle, un gregge con il suo pastore, una famiglia in viaggio, un lebbroso, un funerale, bambini che giocavano, sposi che andavano a nozze e cristiani raccolti nella chiesa la domenica attorno alla mensa eucaristica, si fermava, faceva una metania, una prostrazione profonda e sentiva salire dal cuore fino a divenire pensiero e voce interiore il nome del corpo/glorioso: Corpus Domini.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Torna la saga delle piratesse di Stefania Magnano: Iris’ Faith e il diamante in libreria dal 12 giugno

da: BookTribu

Con un’ambientazione all’epoca dei corsari, ma tutta al femminile, esce il 12 giugno Iris’ Faith e il diamante, edizioni BookTribu, di Stefania Magnano.

Nel mar dei Caraibi, un equipaggio di piratesse sfida pericoli, ma anche difende diritti. Nelle pieghe del romanzo ambientato nel 1717, si trovano temi di stretta attualità come l’uguaglianza di diritti fra uomo e donna e la tenace ostinazione nel proteggerli. Con Iris’ Faith e il diamante continua la storia della ciurma di piratesse che aveva già conquistato il pubblico di lettori con il loro sogno di liberare le donne oppresse dagli uomini e punire quegli stessi uomini. In questa nuova avventura, vengono illuminati alcuni retroscena della vita dei personaggi e della missione dell’equipaggio, attraverso gli occhi, che ancora non riescono a spiegarsi fino in fondo la violenza del mondo pirata, del mite protagonista, il dottor Blake. Libertà e violenza, luci e ombre, dolore e piacere si alterneranno per tutta la lettura, non priva di colpi di scena.

Stefania Magnano ha l’abilità di concepire una trama avvincente e originale, portando alla luce le sofferenze e il desiderio di riscatto di donne che scelgono la pirateria come via di affermazione, vittime divenute carnefici, per poi rischiare di non trovare via di uscita dalla violenza che hanno subito e che ora, per scelta, alimentano. Stefania Magnano, tuttavia, non perde mai i punti di riferimento della giustizia per cui il lettore si immerge in una storia sapendo che l’autrice veglia su di lui e sulle proprie protagoniste: in alcun modo si corre il pericolo che venga confusa la netta distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e sul tema universale del rispetto dell’altro. E sarà proprio il rispetto a riportare l’amore anche nel cuore più duro che mai avrebbe scommesso sul suo ritorno.

“A tutti piacciono le storie di pirati – chiosa l’autrice – non c’è niente di meglio che evadere dalla realtà per stare un po’ sul ‘mondo di legno’, andare all’avventura e vivere seguendo soltanto le proprie regole e i propri desideri, ma se nella storia i pirati fossero tutte donne, sarebbe altrettanto bella?”

Stefania Magnano, avvocato per professione e scrittrice per passione, vive e lavora a Siracusa. Iris’ Faith e il diamante fa seguito al romanzo Una donna a bordo porta male vincitore del premio romanzo d’avventura nell’ambito del quarto concorso letterario nazionale per opere inedite di BookTribu.

Presentazioni di libri e visite guidate, il calendario di giugno del Microfestival

da: organizzazione Microfestival

Il candidato al premio Flaiano Giosuè Calaciura sarà tra gli ospiti del Microfestival delle storie. La programmazione di giugno, ancora con appuntamenti online, comprende autori come, appunto, Calaciura e altri due libri di autrici di fama nazionale come Sarah Savioli e Paola Peretti, quest’ultima in uscita a fine mese per Rizzoli. Il primo libro in calendario sarà Il testimone chiave, Feltrinelli, di Sarah Savioli in libreria dal 27 maggio, intervistata da Consuelo Pavani lunedì 14 giugno alle 21; seguirà il 18 giugno, alle 21, Io sono Gesù, Sellerio, di Giosuè Calaciura, intervistato da Riccarda Dalbuoni. Il 24 giugno, sempre alle 21, Paola Peretti, dopo il caso editoriale La distanza tra me e il ciliegio, presenterà il suo ultimo romanzo in uscita a fine mese per Rizzoli La brigata delle cinque sorelle. Paola Peretti dialogherà con Riccarda Dalbuoni.

Nel calendario del Microfestival anche un appuntamento a cura dell’associazione Teradamar: domenica 20 giugno alle 9.30 visita guidata ‘verde tesoro’ fra le essenze botaniche del territorio, con Fabrizio Barbieri che ha raccolto i saperi sulle erbe autoctone nel libro Andare per erbe nel Polesine e nel Delta del Po, che sarà presentato in sala Agostiniani in occasione della visita.

Le presentazioni dei libri saranno trasmesse in diretta sulle pagine facebook del Microfestival delle storie e di Ferraraitalia.

CONTRO VERSO
Per la giustizia “minore”

 

Per la giustizia “minore”

Ogni tanto mi capitava di distaccarmi da questa o quella storia per concentrarmi sull’insieme, o proprio sulla cornice, sul funzionamento della giustizia minorile. Immagino sia simile a ciò che si vive in un servizio territoriale, e non solo quelli rivolti all’infanzia. Sporgersi oltre il bordo è uno sport estremo che mette a confronto con se stessi attraverso le vite degli altri.

Benvenuto in tribunale:
qui inizia il tuo viaggio
che non si può fermare.
Procedi con coraggio.

Che tu abbia o no la toga
urge cintura di sicurezza.
Ti travolgerà la foga
e crudeltà e bellezza

della vita che t’inonda,
esce fuori dalle carte,
potente ti circonda
e non arriva e non parte

Ma poi dovrai difenderla
da innumerevoli agguati,
cercare di proteggerla
per tutti i nuovi nati.

Il giudice ha certezza
di tenere la briglia:
ci sia amore e sicurezza
con o senza famiglia.

A volte tutto rotola,
non ti ci raccapezzi
la vita scorre a rivoli
e ha mille ed altri mezzi

però ci sono i giorni
che qualcosa hai realizzato
e subito ritorni
al perché hai incominciato.

Il senso del cammino
è tessere la rete
che accoglie un bambino.
Milioni di comete

su case e grotte e ville
a destar la meraviglia
con milioni di scintille,
ed è la vita che brilla.

Ti dice l’esperienza
e il cervello e il cuore
che questa è un po’ l’essenza
della giustizia “minore”.

Si sa poco o niente della giustizia minorile italiana. Quando se ne parla in tv o sui giornali, quasi sempre si dicono strafalcioni, inesattezze più o meno dolose, generalizzazioni che hanno il solo effetto di approfondire il solco tra le aule giudiziarie e le famiglie. La giustizia minorile italiana non è esente da errori ma è molto diversa da come viene rappresentata di solito. Sarebbe bello che un giorno o l’altro si trovasse il modo per offrirne un’immagine aderente alla realtà.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

UN ALTRO INCONTRO
(un racconto)

 

Quasi tutti i posti a sedere della sala grande della libreria Nannini a Milano erano oramai occupati.
Mancava infatti molto poco alla presentazione dell’ultimo romanzo di Edoardo Casati , autore molto amato in città, affermatosi per quel suo raccontar storie ricche di emozioni intense, mai banali.
La conclusione dell’intervento di Edoardo fu accolto da un applauso caloroso da parte di un pubblico molto attento.

La firma delle copie del suo libro aspettava adesso l’autore.
Già si era formata una discreta fila di persone che si sviluppava per tutta la lunghezza della libreria
-A Elena e Daria. Grazie!-
A sentire queste parole Edoardo smise di scrivere la dedica,
alzò gli occhi quasi a volersi sincerare bene della provenienza di quella voce che gli suonava particolarmente familiare.
-Elena! – esclamò sorpreso- ma allora non mi sono sbagliato, sei proprio tu!-
Elena sorrise
– Dai scrivi i nomi che ti ho detto ma, dopo, non scappare!
Ti aspetto qui a pochi passi, mi trovi al Continental, ci prendiamo un caffè insieme-

Edoardo spinse la porta girevole del bar con una certa decisione mentre con uno sguardo veloce passava in rassegna tutte le persone sedute ai tavoli della distesa all’aperto del Continental , ma Elena non c ‘era . In quel momento si sentì chiamare:
– Edoardo, sono qui.. finalmente sei arrivato! Ho trovato due posti nella saletta rossa, di sopra…dai vieni con me-
Elena gli era venuta incontro e insieme si diressero verso la stretta scala a chiocciola di legno che portava ad una piccola sala tappezzata di velluto rosso da dove si godeva una splendida vista sulla piazza principale.
– Qui stiamo più tranquilli. Cosa aspetti a baciarmi?-
Edoardo la guardò sorridendo mentre il viso di Elena si avvicinava al suo.
-Ma come hai saputo?-
-Sei famoso adesso. Te lo avevo detto che le tue cose sarebbero piaciute molto qui.
Ho letto l’articolo sul Corriere di giovedì ed eccomi ,se aspettavo che mi chiamassi tu…-
– Ma sai quante volte ho fatto il tuo numero e poi …-
– Non cambierai mai!- disse Elena con un velo di tenerezza-.ma adesso non mi importa. Piuttosto dimmi: come stai ?-
In quel preciso istante entrò il cameriere
– I signori hanno deciso? Vogliono ordinare.- disse entrando nella saletta .
-Ma siete voi!Che piacere signor Edoardo e signora Elena! quanto tempo è passato…
allora so già cosa portarvi :il solito! Vero?
-No…per me solo un caffè , Mario, doppio però!-
-…per me invece il solito…grazie- disse con un sorriso Elena

– Ma cosa vuoi che ti dica…Sono sceso dal mio rifugio in collina per questa presentazione…sai oggi si fa così…-
– Lo so…questo lo so- lo interruppe Elena- ma intendevo tu come stai?-
– Non sono più abituato a questo genere di domande- rispose Edoardo
– Come sto? Non ci penso. da quando sono rimasto solo passo le giornate a lavorare e faccio anche un po’ di volontariato, ho aperto una specie di doposcuola .Abito adesso in un piccolo borgo e là non c’è nessuno , i ragazzi delle scuole medie cioè non hanno nessuno che li possa aiutare… nulla Do loro una mano coi compiti.
In cambio alcuni mi fanno da guida in montagna, ma ogni anno che passa il percorso diventa sempre più corto e non sono più un ragazzino…
Invece tu ? Fatti guardare…sei sempre molto bella Elena-
– Non vale, tu sei di parte!- disse Elena abbassando lo sguardo- Quindi insomma sei… un orso!
Quello che poi sei sempre stato solo che, almeno fino a quando sei rimasto in città con me, qualche cena, un cinema, il tuo pallosissimo teatro-
– Elena!-
– Oh sì… scusami.- disse con un sorrisetto Elena
– Ma raccontami di te! Perché quella volta non sei venuta? E poi non ti sei più fatta trovare-
disse Edoardo riponendo la tazzina che teneva ancora in mano sul tavolino.
Non fece in tempo ad aggiunger nulla che Elena gli prese la mano adesso libera stringendogliela forte quasi a volerlo rassicurare e disse:
– Lo so che avevamo deciso diversamente…ecco, come al solito adesso piango…uffa!-
Elena accettò con aria rassegnata il fazzoletto offertole da Edoardo
– Adesso ce la faccio….
Dicevo…sono andata a casa a prendere le mie cose, ma una volta là, ricordi? Ti ho telefonato…-
– Ma si… si…ti ho chiesto se potevo venire a prenderti ,ma tu…-
– Ti prego non mi interromper, è già difficile così, molto difficile
Insomma ho voluto sentire la tua voce quasi per trovare la forza .E ti ricordi cosa mi hai detto?-
– Si…anzi no!-
– Mi hai detto che mi amavi e che volevi sposarmi….”basta aspettare!”…solo queste parole-
-Allora ho cambiato idea, non ero più sicura, ero spaventata-
-Ma perché…-
– Non ce la fai proprio a stare zitto vero..
Non volevo il matrimonio, la famigliola felice .Siamo stati insieme tanto tempo e siamo stati bene…liberi…tu avevi i tuoi sogni …non volevo costringerti a cambiarli per me…tu troppo giovane e io avrei solo complicato la tua vita, il tuo avvenire-
-Potevi almeno chiedermelo…-
– Per sentirmi dire cosa? Che saresti stato un marito e un padre premuroso e attento? Che avresti abbandonato i tuoi progetti e cercato un lavoro qualunque subito, che avresti rinunciato a tutto per me? No grazie, non me la sono sentita-

Edoardo stette alcuni secondi in silenzio
-Hai trovato quello che cercavi?-
– Ho trovato Daria mia figlia…-
-Ti sei sposata?-
-Si…-
-Sei felice?-
-Si…-

Elena non aveva ancora staccato la sua mano da quella di Edoardo fino a quel momento.
Quasi istintivamente a quell’ultima domanda la lasciò.
Prese la sua borsetta e tirò fuori un pacchetto.
-Tieni questo è per te-
Edoardo ancora tutto concentrato sulle parole appena dette, senza dir nulla prese il regalo e aprì il pacchetto.
Era un album.
Un album di fotografie, immagini del tempo passato insieme.
Elena si alzò e si sedette in silenzio vicino a lui.

– Mi dispiace disturbarvi..- disse il cameriere entrando nella saletta – ma siamo proprio in chiusura…
– Ma certo Mario, adesso andiamo via subito-
Uscirono lasciando su quel tavolino non solo uno scontrino pagato.

-Deve aver piovuto…-
disse Elena allacciandosi anche gli ultimi bottoni del soprabito per tener lontana un’ aria fredda che adesso le pungeva il viso.
-Dai, cosa dici se facciamo ancora due passi…non è tardi-
-Volentieri…anche perché ti devo ancora chiedere un piacere-
-Cosa mi devi chiedere…dimmi tutto-
– Beh…non è semplice…-
– Se è una domanda di matrimonio me la hai già fatta quaranta anni fa!-disse Elena sorridendo
– E ti ho fatta scappare! No, ho bisogno di te qui adesso…di un accompagnatore per essere precisi-
-Un accompagnatore… un viaggio? Magnifico…e dove ? Montagna come al solito?-
Edoardo la guardò.
Il suo viso assunse una espressione che Elena non riconobbe come una delle solite di Edoardo
-Cosa c’è…non capisco-
– Non posso andarci da solo.È necessario che mi accompagni qualcuno…È tanto che ci penso e
adesso ho deciso. La vita non mi interessa più…da alcuni anni lotto con una malattia mi sta divorando…giorno dopo giorno.. mi sono rivolto ad una clinica oltre confine…-
Edoardo continuò ancora a parlare, ma la mente di Elena si rifiutava di accogliere le sue parole, le respingeva …la testa adesso le girava..
Purtroppo aveva capito bene.
Implacabili le parole di Edoardo continuarono a colpirla
– Devo essere là lunedì prossimo all’ora di pranzo…
Non ho neppure la macchina!-

Edoardo alla fine tacque.
Elena voleva chiedergli tutto e non disse nulla.

Per la strada non passava nessuno.
Elena cercava qualsiasi cosa che le permettesse di scappare, ma tutto intorno a loro era come se si fosse fermato.
Si sedettero lì vicino, su una panchina di legno ancora un po’ bagnata di fronte ad un parco .
– Se non fosse tutto così assurdo ci sarebbe da …-
-Cosa vuoi dire Elena?
-Voglio dire che io ero venuta per chiedere a te… io a te …-
-Cosa volevi chiedermi?
– Ma adesso non riesco…sono sconvolta…-
-Dimmi di cosa hai bisogno, ti serve del danaro…io non ho problemi…lo sai…adesso me lo posso permettere-
-Macche’ danaro…assurdo…non ci vediamo da una vita e tu la prima volta che ci incontriamo cosa mi chiedi? Di….-
Elena non trattenne più il suo pianto
– E io invece che vorrei vivere…che mi sveglio di notte angosciata con l ‘incubo di non vedere più mia figlia…che respiro ogni giorno questa aria come se fosse l’ultima…-
– Ma cosa hai? – chiese Edoardo prendendole una mano
– Tieni leggi tu stesso-
Elena prese dalla borsetta una lettera di dimissioni del San Camillo.
Edoardo la aprì nervosamente e lesse tutto di un fiato la descrizione dell’ evoluzione di un sospetto melanoma e la richiesta di una operazione chirurgica immediata.
– Ero venuta per averti vicino…ai miei non ho detto nulla…aspetto prima l’ esito dell’intervento e dell’esame istologico…inutile allarmarli prima, ma ho paura…tanta Edoardo…anzi sono decisamente terrorizzata…
Tu sei l’unico che può starmi accanto adesso, sei sempre stato con me anche quando eri lontano…poi però dall’anno scorso più nulla. Adesso ho capito…allora ti sono venuta a cercare
Ma io non sapevo …scusami.. però non riesco ad accompagnarti…e poi cosa mi fai dire! Non voglio farlo, non lo farei mai!-

Mentre Elena parlava Edoardo non era riuscito a guardarla negli occhi.La ascoltava facendo ben attenzione a non incrociarne lo sguardo.
La vita ancora una volta aveva rovesciato i suoi progetti.
Dall’addio di Elena era nato il suo successo come scrittore e adesso dalla sua richiesta, una domanda di aiuto di Elena
Mentre rifletteva sull’assurdità della situazione che si era venuta a creare si sentì come portato fuori da quel suo bisogno ossessivo di porre una fine a tutto ciò che lo aveva perseguitato negli ultimi tempi fino a fargli perdere ogni interesse per la vita.
– Non c ‘è tempo da perdere Elena…- alla fine disse Edoardo- lasciami due giorni…devo sistemare tutto ancora una volta…ancora una volta mi cambi la vita… mi servono due giorni ..solo questo-

Quindi si avvicinò ad Elena e, come aveva sempre fatto con lei, le passò dolcemente una mano aperta sulla fronte diverse volte come per mandarle via i pensieri e le preoccupazioni.

Elena a quel gesto dimenticato ma così familiare alzò il suo viso e gli sorrise.

– Non scappo più…rimango qui con te…come ho sempre fatto…faremo questa cosa insieme…non sei sola Elena e, anche se me lo ero dimenticato, non lo sono neppure io

Al cantón fraréś
Italo Verri: “Gli aventur ad Pinochio”

 

Nell’estate del 1881 Collodi iniziava a pubblicare a puntate “La storia di un burattino” diventata poi, in unico volume, Le avventure di Pinocchio. Da 140 anni tradotto, illustrato, adattato per il cinema e il teatro in tutto il mondo. Innumerevoli gli adattamenti dialettali nel nostro paese: triestino, milanese, bergamasco, veneziano, perugino, romanesco, napoletano, cosentino, siciliano, sardo e via discorrendo. Pure in occitano, latino, esperanto. Presentiamo il primo capitolo nella versione “tradotta” in ferrarese da Italo Verri, il quale rivolgendosi ai cultori del dialetto precisa:
“… Non me ne vogliano se il ‘mio’ ferrarese non corrisponde e non ubbidisce sempre ai canoni ortografici, lessicali e grammaticali ortodossi codificati… ho usato il dialetto della comunità che mi ha nutrito nei primi anni della mia vita e ciò ho fatto con umiltà e dedizione.”
(Ciarìn)

Gli aventur ad Pinochio – Storia d’un buratìn
Indóv ch’as conta come Màstar Zréśa, falegnam ad mastiér, al tróva un pèz ad légn ch’al pianźéva e al rideva com un putìn.

Agh jéra na volta…
– Un re! – i dirà sùbit i mié pìcul lètùr.
– Eh no, ragazìt, avì sbaglià. Agh jéra na volta un pèz ad légn.
Al n’jéra briśa un légn ad lusso, al jéra sól un zòch ad quéi che d’invèran is mét int la stua o su l’aròla pr’impizàr al fógh o scaldàr ill càmar.
An sò briśa com l’è andàda, al fat l’è che un bèl dì stal zòch al va a finir int la butéga d’un vèć falegnam che ad nóm al faśeva mastr’Antoni, sol che tuti j’al ciamàva màstar Zréśa par via ch’al gh’éva al naś sémpar lùstar e pavunàz come na zréśa madùra.
Non apéna che màstar Zréśa al véd cal pèz ad légn, al’s dà na sfargadìna al man da la cuntantéza, burbutànd a mèźa voś:
– Stal zòch l’è pròpia capità a faśòl: al vói dupràr par far na gamba ad taulìn.
Dit e fat, al tòl sùbit al manarìn guzà da frésch e al taca a scurtgàral e a sbuzàral, ma quand l’è dré mulàragh la prima smanarà, al vanza là còl braz suspéś a mez’aria, parché al sent na vuśìna sutìla sutìla ch’la s’arcmànda:
– Briśa piciàrm acsì fòrt!
Av las imaginàr la faza ‘d cal bón vèć ad màstar Zréśa.
Tut cunfùs, al źira j’òć in za e ‘n là par la càmara par védar d’indóv la putéva gnir cla vuśìna, ma an véd nisùn; al guarda sot’al banch, nisùn; al guarda int l’armàri, ch’al jéra sémpar sarà, nisùn; po’ al guarda int al zastìn di rizó e dla śgantìna, nisùn; al vèrź l’us dla butéga par dar n’ucià anch su la strada, ancora nisùn, e alóra?…
– A jo capì – al diś ridénd e gratàndas al paruchìn: – as véd che cla vuśìna am la són figuràda mi. Dài, métat mò a lauràr.
Al branca da nóv al manarìn e al dà na gran smanarà al pèz ad légn.
– Ahi, ta m’ha fat mal! – la ziga, lamentàndas, la solita vuśìna.
Stavolta al pòvar vèć al vanza ‘d stuch, con j’òcc fóra da la testa da la paura, la bóca avèrta e la léngua ch’l’agh rivàva fin sul barbùz, come chi mascarùn ch’i’ss tróva sul funtànn.
Dòp aver ritruvà la parola, tarmànd e bacuclànd tut spavantì, al taca a dir:
– Ma d’indù pòlla gnir fóra cla vuśìna ch’l’ha dit ahi!? … Epùr chi ‘n gh’è anima viva. Ch’al sia par caś stal zòch ch’l’ava imparà a piànźar e a lamentàras cóm un putìn? A mi l’am par impusìbil. Ècal chi cal pèz ad légn: l’è un zòch da fuglàr, come tut chi àltar: al bastarév par cuóśar na pgnata ‘d fasó. E alora? Ch’agh sia lugà déntar qualchdùn? S’al’gh duvés èsar, pèź par lu. Adès al sistèm mi!
Dit e fat, al branca con tuti dó ‘ll man cal pòvar pèz ad légn e zó pach senza remissión contra i mur dla butéga. Po’ al’s mét in urciùn par santìr s’agh fus incóra qualch vuśìna ch’l’as lamentàs. Al ‘spèta du minùt, gnént; zinch minùt, gnént; diéś minùt, gnént.
– A jò capì, – al diś, sfurzàndas ad rìdar e sparnaciàndas al paruchìn: – as véd che cla vuśìna ch’la zigàva am la són figuràda mi. Dài, mitémas a lauràr!
Sicóm ch’agh jéra saltà adòs un gran scagabórd, al’s mét a cantàr par fàras curàģ.
Intànt, mis da na part al manarìn, al tòl in man la piòla par piulìr e tiràr a pulimént al pèz ad légn, ma intànt ch’al la piulìva avanti e ‘ndré, al sént la solita vuśìna ch‘l’agh diś, ridénd:
– Ció, smétla bén che t’am fa ill gatùzal da par tut!
Stavolta al pòvar màstar Zréśa al casch’indré cópa come fulminà! Quand al vèrź j’ò ć, al’s tróva santà par téra.
Al gh’éva la faza stravolta e parfìn la punta dal naś, da pavunàza com la jéra quasi sémpar, la jéra dvantàda turchina dal gran spavént.

Le avventure di Pinocchio
Come andò che Maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino.
– C’era una volta…
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
– No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome Mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.
Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto; e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce:
– Questo legno è capitato a tempo; voglio servirmene per fare una gamba di tavolino.
Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo; ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentì una vocina sottile sottile, che disse raccomandandosi:
– Non mi picchiar tanto forte!
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!
Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il banco, e nessuno; guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; aprì l’uscio di bottega per dare un’occhiata anche sulla strada, e nessuno. O dunque?…
– Ho capito; – disse allora ridendo e grattandosi la parrucca – si vede che quella vocina me la sono figurata io. Rimettiamoci a lavorare.
E ripresa l’ascia in mano, tirò giù un solenissimo colpo sul pezzo di legno.
– Ohi! tu m’hai fatto male! – gridò rammaricandosi la solita vocina.
Questa volta maestro Ciliegia restò di stucco, cogli occhi fuori del capo per la paura, colla bocca spalancata e colla lingua giù ciondoloni fino al mento, come un mascherone da fontana.
Appena riebbe l’uso della parola, cominciò a dire tremando e balbettando dallo spavento:
– Ma di dove sarà uscita questa vocina che ha detto ohi?… Eppure qui non c’è anima viva. Che sia per caso questo pezzo di legno che abbia imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino? Io non lo posso credere. Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno da caminetto, come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c’è da far bollire una pentola di fagioli… O dunque? Che ci sia nascosto dentro qualcuno? Se c’è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l’accomodo io!
E così dicendo, agguantò con tutte e due le mani quel povero pezzo di legno, e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della stanza.
Poi si messe in ascolto, per sentire se c’era qualche vocina che si lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla!
– Ho capito; – disse allora sforzandosi di ridere e arruffandosi la parrucca – si vede che quella vocina che ha detto ohi, me la son figurata io! Rimettiamoci a lavorare.
E perché gli era entrata addosso una gran paura, si provò a canterellare per farsi un po’ di coraggio.
Intanto, posata da una parte l’ascia, prese in mano la pialla, per piallare e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo piallava in su e in giù, sentì la solita vocina che gli disse ridendo:
– Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo!
Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giù come fulminato. Quando riaprì gli occhi, si trovò seduto per terra.
Il suo viso pareva trasfugurito, e perfino la punta del naso, di paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran paura.

Pinochio VerriTratto da:
Gli aventur ad Pinochio, Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, voltate in dialetto ferrarese da Italo Verri,
Ferrara, Comune di Ferrara, 2011.

Italo Verri (Pilastri-Fe 1933)
Professore di lingua e letteratura inglese, ha insegnato in varie scuole di ogni ordine e grado. Ha pubblicato Fin’amor : cinquanta sonetti amorosi (1997). Ha tradotto dall’inglese il radiodramma ambientato nella Ferrara rinascimentale Il miracolo del duca di Allen Curnow (stampa 1993). Ha scritto e musicato tre canzoni, di cui due nel suo dialetto. A tempo perso compone poesie ed epigrammi.

 Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca (Qui)

In copertina:  Avventure – foto di Marco Chiarini, 2021

Parole a capo
Paola Sarcià: “Quando l’agonia dei raggi” ed altre poesie

“La speranza è qualcosa con le ali, che dimora nell’anima e canta la melodia senza parole, e non si ferma mai”
(Emily Dickinson)

Camminiamo abbracciati

Camminiamo abbracciati
quando le ombre si allungano
profumate di timo e di salsedine
ammantano il profilo
di spazi conosciuti
annullano
la fragile frontiera
tra il qui e il quando

Guidano i miei passi miopi
i tuoi occhi
curva dell’orizzonte
cielo e mare
onde e nuvole in fuga

 

Saranno inverni

Saranno inverni
di ginestre in fiore
profumati di ginepro
e mirto selvatico
di sentieri  inesplorati
custodi  gelosi
dei nostri passi
intrappolati  fra terra e roccia
fin dove il vento darà  voce
al mare

 

Quando l’agonia dei raggi

Quando l’agonia dei raggi
insanguina il cielo
lento
l’imbrunire rapisce il giorno
affrettando il volo dell’airone
sui canneti
Sul limite estremo
dove la terra sfuma
là ti troverò
nell’istante che scardina il tempo
onda perduta in cerca del suo oceano
ancora una volta
accolta dal tuo abbraccio

 

Brindo a questa notte

Brindo a questa notte
di stelle confuse
di profondi respiri
spettinati dal vento
di speranze ingabbiate
attese tradite
di luna uncinata
arpionata alla pelle
Brindo a questa notte
mascherata di allegria
calici colmi di parole vane
ubriaca di vita
impigliata ad un cielo irriverente

(Poesie tratte da: “Echi dall’onda” ed. Il Foglio 2012 e “A fior di pelle” ed. Cicorivolta 2019)

Paola Sarcià (Bologna,1962), risiede a Ferrara dal 1986; è docente di lingua e letteratura inglese. Ha partecipato a diversi premi nazionali ed è stata inserita in diverse antologie; ha conseguito il Premio d’Onore alla IV edizione del Premio Letterario Internazionale Archè “Anguillara Sabazia Città d’Arte” 2006.  Con le Edizioni Il Foglio ha pubblicato “Occhi di Zagara” (2008), “Echi dall’Onda” (2012), “Trema anche la Luna” (2014) e con le Edizioni Cicorivolta  “A fior di Pelle” (2019).

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

 

 

FERRARA, IL TESORO DELLE BIBLIOTECHE:
rilanciare il servizio di Lettura e riprendere la Ricerca

 

Per vari impedimenti non ho potuto partecipare alla manifestazione che si è tenuta, nella mattinata del 22 scorso, per dare visivamente il senso e l’impegno di una parte dei cittadini per la difesa, lo sviluppo, il progetto e l’organizzazione di un rinnovato sistema bibliotecario, per il ruolo e il senso delle biblioteche decentrate.
Condivido le argomentazioni che il successivo documento ha raccolto e inviato alla Amministrazione Comunale. Non vi è bisogno che le ripeta.
Aggiungo un tema che non vorrei venisse sottovalutato e meno considerato; del quale poco si è parlato nel corso di questo dibattito. Non è apparso nemmeno fra gli oggetti della riunione della II commissione consigliare dell’11 maggio.
Credo non vada dimenticato che le biblioteche oltre ad essere luogo di incontro e occasione di socialità sono anche luoghi di studio e di ricerca. Questo vale non solo per la Biblioteca Ariostea ma anche per quelle decentrate. I due momenti non sono in contrapposizione ma debbono integrarsi e rendersi specifici a seconda del rapporto che le strutture hanno con la rete sociale di riferimento.
Le biblioteche decentrate dovranno saper essere anche momento di raccolta e conservazione degli avvenimenti, non solo del passato ma contemporanei, che avvengono nel territorio. Dovranno essere in grado di fornire gli strumenti di conoscenza per capire la contemporaneità e divenirne archivio.
Tutto questo non solo in collegamento con le istituzioni scolastiche ma con la realtà articolata e plurale del mondo associativo, con le varie comunità, con le espressioni della religiosità e le manifestazioni della vita quotidiana. Una occasione di integrazione nella società civile della quale la biblioteca può essere parte costruttrice, testimone e conservatrice per il futuro. Non ci si può limitare alla pure essenziale ‘pubblica lettura’.
Il ruolo della Biblioteca Ariostea non può essere solo quello di coordinamento e di indicazione. La Ariostea è anche una grande biblioteca di conservazione; raccoglie largamente testimonianze della vita passata della città, ne custodisce parte consistente della memoria: ha l’obbligo, complesso ed oneroso, della custodia e della tutela delle opere conservate ma ha anche quello di fornire strumenti per agevolare la ricerca, costruire progetti e realizzarli insieme con altri attori, in primo luogo con l’Università e l’associazionismo culturale: penso alla meritoria attività della associazione ‘Amici della Biblioteca Ariostea’ e della ‘Deputazione di Storia Patria’.

Faccio qualche esempio: guardando in SBN non si trova mai digitalizzato un volume della Ariostea; ancora molto modesto è il trasferimento delle schede Staderini; pochissime sono le scannerizzazioni. Tutto questo limita pesantemente la conoscenza del patrimonio librario conservato e l’accesso degli studiosi.
Fra i progetti credo molto interessante quello proposto da una funzionaria per il catalogo e la edizione dei Nuptialia: fornirebbe per il ‘600 e il ‘700 uno spaccato della società ferrarese che ancora manca. Importante sarebbe l’organizzazione di una collana per l’edizione di almeno parte dei manoscritti: penso ad esempio alle varie cronache, al catalogo degli Accademici Intrepidi, ai molti testi letterari e a quelli scientifici; al catalogo dei codici miniati; agli annali, libro in mano, degli editori ferraresi. E molto altro ancora si potrebbe indicare.

Egualmente si può per l’Archivio Storico Comunale principiando dalla Raccolta dei Bandi, dal Censimento del 1816 e dalle Carte Migliori.
Tutto questo in passato è avvenuto; basti ricordare la, ahimè troppo breve, presenza del Bollettino di notizie e ricerche da Archivi e Biblioteche, la pubblicazione del catalogo degli Statuti; i molti lavori che autonomamente i funzionari dell’istituto hanno fatto apparire e quelli di ricercatori che alla Ariostea fanno riferimento.
Bisogna augurarsi che la Amministrazione Comunale si renda conto del patrimonio, umano e di opere, che a lei fa riferimento, che lo riconosca con investimenti e impegno.
Questo intervento sarebbe manchevole se non ricordassi la competenza specifica e la professionalità dei funzionari della Biblioteca Ariostea; la cortesia e la pazienza di tutti gli addetti. Non posso non unirmi ai molti che auspicano l’integrazione dei ruoli attraverso una selezione che garantisca capacità e preparazione precisa: in biblioteconomia, come in ogni altra professione, non sono ammesse improvvisazioni.

FANTASMI
L’ACCIUFFASUONI

 

Ho sempre avuto una grande curiosità per i suoni.
La goccia che cade nel mezzo del lago di Braies ha una voce diversa se rimbalza sul tettuccio della mia roulotte bianco sporco. Addirittura la stessa goccia, che dal tettuccio scivolando lungo il vetro dell’oblò si tuffa al centro della corolla di quel tulipano, emette qui un piccolo gemito, breve, impercettibile. Ma io lo aspetto per ascoltarlo. E quando lo acciuffo sono brividi di gioia.
E il vento? Anche lui è affetto da disturbi della personalità. Quando soffia umido per i vicoli di Otranto bisbiglia all’orecchio, dolce, accompagnandoti nella tua passeggiata lenta, tenendoti sotto braccio, facendo le fusa frusciando i tuoi abiti leggeri. Poi prendendo la rincorsa si gonfia borioso entrando prepotente a Trieste con fiato secco e freddo. Ti ammonisce e fischia se provi ad aprire la porta. Non vuole che tu esca da casa.

“E l’allodola come fa?”
“Trilla” mi rispondeva nonno Giacomo.
“E il picchio verde come fa?”
“Ride”
E ridevo anche io da bambina fino alle lacrime scoprendo che il giaguaro brontola, le scimmie farfugliano, il furetto pot-potta, il gufo bubola, il cobra sibila e la zanzara zufola.

E poi iniziai a osservare lo zio Carlo quando veniva scarmigliato dai suoi lunghi giri all’estero a cena a casa nostra. Era pieno di penne nel taschino lo zio Carlo; le teneva lì al posto del fazzoletto. Ma le sue erano penne magiche che lo mantenevano in vita, mi diceva, poteva perdere tutto ma non le sue penne. Ci osservavamo in silenzio e incontrando i suoi occhi capii che avevamo una indole simile.
Fu con lui in segreto tra me e me che proseguii quel mio antico gioco.
“E lo zio Carlo come fa?” non lo rivelai mai a nessuno.

E così cominciai ad ascoltare ogni persona.
Ad esempio: perché a un certo punto tutti i giovani romani hanno iniziato a parlare con la zeppola in bocca?
Perché le ragazze orientali non camminano nel traffico metropolitano come tutti noi a singhiozzo sgraziati con momenti di arresto e ripresa, ma scivolano eleganti come se discendessero da una collina abbagliante di riso?

Il suono a seconda di come viene pronunciato modella i tuoi connotati, il tuo atteggiamento. E quel suono è territoriale. Quel suono, quegli accenti e quelle pause hanno bisogno di quel paesaggio, di quei colori, di quella temperatura per nutrirsi.

E fu così che non mi bastarono più i suoni della mia famiglia che avevo lungamente scandagliato, della mia città, della mia regione, della mia nazione. Iniziai a girovagare con la mia roulotte per acciuffarne di nuovi, per imitarli, immaginando come sarei stata ogni volta diversa indossandoli.

Mi trovai da grande a giocare proprio con una penna d’airone del Vecchio Mondo regalatami da mio zio. Provai a tradurre lingue lontane per renderle più familiari senza tradire lo spirito, il temperamento del personaggio creato dallo scrittore. Si trattava di compiere tripli salti mortali: individuare lo stile dell’autore, scoprire la voce di quel personaggio, immaginare la sua forma fisica, il suo modo di muovere le mani quando versa il vino per sé o per gli altri, insomma tutto quel che viene orchestrato dalla sua voce. Solo in questo modo puoi tradurlo in un’altra lingua. E’ un faticoso sondare solitario, affollata da tanti volti.

Più degli uomini i miei amici erano le creature galleggianti nei pensieri d’inchiostro di scrittrici e scrittori. E per ricambiar l’amicizia, a quei personaggi volevo restituir loro degne parole che non tradissero la loro anima.

“Si diverte tanto a tradurre signorina?”
Ingenuamente avevo detto di si; avevo risposto sinceramente a una persona reale in carne ed ossa che non si fece scrupoli, spazzandomi via, prosciugando la mia scintilla, derubando le mie impronte digitali, riducendomi ad ombra, impossessandosi dei miei pentagrammi di parole. Mi risucchiò fino a farmi scomparire. Imprimendo il suo nome a fuoco sui miei zampilli d’ingegno. Piantando la sua bandiera sulle mie proprietà, sul mio terreno dissodato dalla vanga del mio talento.

“E il negriero come fa?”

NOTE:
Questo racconto è stato liberamente ispirato alla grande traduttrice degli anni ’30 Lucia Morpurgo Rodocanachi. Un omaggio a Colei che definì Elio Vittorini “il negriero”. Indovinate perché.
In copertina:“Metamorphosis” di Tito Alacevich, 30 Maggio 2021

Racconto inedito, proprietà dell’autore.

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Vintage school:
gli intellettuali e “la nuova scuola”

Non conosco gli estensori del Manifesto per la nuova scuola [Qui] sottoscritto da uno stuolo di intellettuali che vanno da Alessandro Barbero a Chiara Frugoni, da Vito Mancuso a Massimo Recalcati, da Tomaso Montanari a Gustavo Zagrebelsky che, ovviamente, non potevano mancare.

‘Nuova scuola’ sta a significare che questa che abbiamo è la ‘vecchia scuola’, diversamente non si comprenderebbe la necessità di un manifesto. Le ‘buone scuole’, ‘le offerte formative’: tutto tempo sprecato, inquinamenti nell’esercizio principe della trasmissione del sapere, come nel lontano 1994 il Testo Unico aveva decretato consistere la funzione docente.

Nuova scuola e non ‘scuola nuova’, forse perché agli estensori risuonava un po’ come le ‘scuole nuove’, il movimento di rinnovamento scolastico dei primi del novecento sorto per rispondere ai bisogni di un mondo in rapida trasformazione.

Le trasformazioni del mondo non sono cura di cui prendersi per i promotori del nostro manifesto, perché la nuova scuola in esso disegnata è atemporale, fuori dallo spazio e dal tempo, un’entità dello spirito, un tabernacolo del sapere dispensato dai suoi sacerdoti. Un ritorno allo spirito di Hegel e di Croce tanto bistrattati dal materialismo dei tempi della scienza e della tecnica.

Una scuola senza storia, senza prima e senza dopo, senza ricerca, senza un propria cultura accumulata nel tempo, senza conflitti, anzi una scuola dall’identità violata, sfregiata dalle riforme e dagli interventi legislativi che si sono succeduti negli anni, che ne hanno deturpato la sua vera natura di otia studiorum.

Se qualcuno mai avesse pensato che fosse finalmente giunto il tempo di porre fine alla pratica dell’insegnamento ex cathedra, dell’insegnamento trasmissivo, di un sistema scolastico cattedracentrico, per gli estensori del manifesto è bene che si metta il cuore in pace.

Restituiamo centralità all’ora di lezione, alle discipline, ad ogni singola disciplina senza alcuna contaminazione, alla trasmissione del sapere. Le competenze sono nemiche del sapere e di ogni dimensione “integralmente umana” è scritto nel manifesto. Le competenze come lo sterco del diavolo, asservite al mercato.

Pensiero inquietante, perché suggerirebbe che neppure chi siede in cattedra è fornito di competenze, quelle necessarie a illuminare gli studenti della luce della sua disciplina. E cosa mai possederà al loro posto? L’ispirazione dello spirito santo? Avremo nella ‘nuova scuola’ i docenti pentecostali?

Nessuna contaminazione con il lavoro, più che mai con l’insensata alternanza scuola lavoro, via ogni orpello dalla scuola, dal digitale all’autonomia scolastica, niente offerte formative, ma centralità del docente in cattedra. Gli unici ammessi  all’aulica scuola i mediatori linguistici per gli studenti stranieri e gli psicologi dello sportello d’ascolto, per rimuovere eventuali interferenze prodotte dall’età evolutiva delle ragazze e dei ragazzi, che potrebbero ostacolare l’attenzione che è necessaria ai distributori del sapere in pillole, ai performer dell’ex cathedra.

Questo è il catechismo del manifesto, non avrai altro docente al di fuori di me, ma in questo manifesto gli studenti non ci sono, se ci sono sono schierati nei banchi, attoniti ad ascoltare la voce del maestro, affascinati dal suo eloquio e dalla sua padronanza della disciplina perché, come premette il manifesto, bontà sua: “..quello tra gli insegnanti e gli studenti è prima di tutto un “rapporto umano”. Grazie tante!

Ma quell’articolo ‘la’ determinativo della nuova scuola non offre alternative al mondo fermato nell’ipostasi del sapere, della cattedra, semmai con la predella come auspicava tempo fa Galli della Loggia, dell’aula e della classe, degli orari e dei programmi, unico universo della nuova scuola.

Preoccupa che questi signori scrivano di scuola, intanto perché è evidente che non di tutta la scuola si occupano, la loro enfasi cattedratica rimanda ad un grado di scuola prevalentemente secondario. Sarebbe da brividi per bimbette e bimbetti la scuola che prospettano, con maestri saputi che propinano pillole di nozioni già confezionate come quelle di Rodari, almeno per l’epoca che viviamo e per la cultura che sull’infanzia ci siamo anche a fatica conquistati, sarebbe davvero preoccupante. Forse agli estensori del manifesto sarebbe consigliabile prenotare qualche seduta presso uno degli epigoni del dottor Freud.

Restituire centralità allo studente che apprende, che in autonomia costruisce le sue conoscenze sarebbe lesa maestà.

La ‘nuova scuola’ è in realtà la scuola di ieri, come se il mondo si fosse fermato a quando sui banchi sedevano gli autori del manifesto. La scuola è tale solo se immobile, fotografata al tempo dello loro infanzia e adolescenza, dopo, solo la rovina, il degrado, l’imbarbarimento.

La ‘nuova scuola’ è esattamente quella già scritta da Gentile [Qui], essersene allontanati per adeguarsi ai tempi, a nuovi bisogni educativi è stato per gli autori del manifesto un’eresia che richiede oggi una pubblica abiura.

Ma viene da chiedersi se il manifesto è il manufatto di docenti che quotidianamente vivono il rumore d’aula, o il risultato piuttosto di pensieri subliminali frutto di frustrazioni che non si è più in grado di gestire e che la pandemia ha finito per esasperare.

Sconcerta che professionisti della cultura, come ogni insegnante dovrebbe essere, dimostrino di essere privi di una solida cultura scolastica, psicologica, pedagogica, didattica, ripiegati come sono nell’angustia della loro disciplina, senza considerare che ormai non esiste disciplina che non viva dell’apporto delle altre. Non si nasce insegnanti, e non è sufficiente essere esperti di una disciplina per essere dei bravi docenti. Essere docenti richiede quel molto di più di cui il manifesto non scrive, perché l’unica idea su cui regge tutto il manifesto è la nostalgia del carisma. Io, disciplina e carisma, si potrebbe dire. Una visione narcisistica dell’insegnante artigiano del sapere, ma non tutti sono dei poeti e se uno il carisma non ce l’ha, non se lo può inventare. Socrate e peripatetici restano confinati alle pagine dei manuali di storia della filosofia, bisogna farsene una ragione.

Di fronte alla restaurazione proposta da questa millantata ‘nuova scuola’ anche il pensiero del buon Dewey [Qui] agli albori del secolo scorso, quando nelle scuole del nostro paese prendeva corpo l’idealismo gentiliano, suona eretico nel suo pragmatismo, ma noi vogliamo concludere citandolo da Scuola e Società: “È la nostra un’educazione dominata quasi interamente dalla concezione medioevale del sapere. Essa si rivolge in gran parte soltanto al lato intellettuale della nostra natura […] non già ai nostri impulsi e alle nostre tendenze a fare, a costruire, a creare, a produrre sia per scopi utilitari sia per scopi artistici. […]  Ne consegue che noi scorgiamo dovunque intorno a noi la divisione fra persone ‘colte’ e ‘lavoratori’, la separazione della teoria dalla pratica”.

La ‘nuova scuola’ del manifesto non è certo la ‘scuola nuova’ di cui hanno necessità i nostri giovani per vivere in questo millennio, per affrontare le sfide che attendono loro e non certo chi oggi siede in cattedra, a cui competerebbe la responsabilità di attrezzarli per il futuro, un futuro che non consente di guardare indietro, di rifugiarsi nel passato, solo perché è l’unica coperta di Linus che si possiede di fronte alla propria impotenza intellettuale e culturale.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

La riva del tempo di Roberto Dell’Oglio in libreria dal 5 giugno

da BookTribu

Un viaggio di ricerca, comprensione e accettazione. La riva del tempo di Roberto Dell’Oglio, edizioni BookTribu, in libreria dal 5 giugno, conclude la trilogia dell’autore Il fiume di mondi. Il viaggio di Edrik Akenah porta il lettore nel fluire di mondi fantastici che risponde al titolo della trilogia. Ma il viaggio non appartiene solo a vaste praterie azzurre e terre argentate, quanto al fluire di vite del suo protagonista che porta a riflettere su concetti atavici quali il bene e il suo opposto, il male. In questa saga fantasy, sorprendentemente, il bene e il male non sono altro da sé, bensì parte di chi legge, parte dello stesso Akenah. E così il viaggio, oltre alla ricerca, diviene superamento e infine scelta di chi vogliamo essere.

Roberto Dall’Oglio sottolinea come La riva del tempo sia “l’ultimo viaggio di un giovane eroe oltre i confini del tempo e dello spazio per restituire libero arbitrio là dove il destino è già stato scritto”.

Il primo romanzo della saga, La viola di Akenah, ha vinto il premio personaggi e ambientazione nel secondo concorso letterario nazionale di BookTribu, testimoniando la forza narrativa dell’autore, la sua capacità di concepire Il fiume di mondi e dargli corpo, voce, sentimenti e anima nei suoi protagonisti. E’ un fantasy che va oltre il suo genere, in quanto propone al pubblico un nuovo modo di concepire il fantastico e di renderlo presente in una lettura coinvolgente e mai uguale.

Roberto Dell’Oglio, nato a Trani nel 1995, è laureato in Informatica Umanistica all’università di Pisa, dove sta continuando gli studi per la laurea magistrale in Tecnologie del Linguaggio. La riva del tempo è il terzo e ultimo titolo della saga iniziata con La Viola di Akenah a cui ha fatto seguito La luna del deserto.

PER CERTI VERSI
Il pianto delle sirene

IL PIANTO DELLE SIRENE

Vorrei viaggiare
Laggiù
Con te
Poco importa
Se è difficile
O più ancora
Improbabile
Forse impossibile
Sono tutti dettami
della ragione
Poco importa
Per me vale
La tua bellezza
La gioia che esprimi
Dello spirito e della carne
La gioia che io avverto
Alla sola idea
Di sfiorarti
Mio fiore
Di donna
Immarcabile
E dolce
Con te
Vorrei ascoltare
La voce delle sirene
Piangere
Di fronte a te
Alla tua

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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PRESTO DI MATTINA
Il nome a te dovuto

 

«Mi diranno: “Qual è il suo nome?” E io che cosa risponderò loro?», (Esodo 3,14)». Qual è il nome a te dovuto? Perché si creda che esisti, che sei vero, realtà e non pensiero, un sogno, un idea mia? Non desiderio mio di darti un nome, un mio vaneggiamento; al contrario: «al tuo nome e al tuo ricordo si volge tutto il mio desiderio» (Is 26,8).

Solo l’esperienza mistica e quella poetica riescono l’impossibile: nominare l’alto senza nominarlo e dire il nome segreto dell’amore fin dall’inizio e cantarlo senza enunciarlo, come è nel Cantico dei cantici: «Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, migliore del vino è il tuo amore. Inebrianti sono i tuoi profumi per la fragranza, “aroma che si spande è il tuo nome”: per questo le ragazze di te si innamorano. Trascinami con te, corriamo!», (Ct 1, 2-4).
Solo quando si ama si sperimenta la voce a lui dovuta: «Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline», (Ct 2,8).

Proferire la voce ‘trinità’, come pure il lemma ‘amore’, senza il cuore, senza averlo incontrato, senza la paura di averlo perso e poi la gioia di averlo ritrovato e di nuovo di correre a cercalo, questo dire e confessare senza amore, è come l’eco di conchiglie vuote sulla spiaggia, labbra ruminanti dall’onda mosse, muovono il vuoto di una mortale afasia. O come “stroboli” aperti di pigna, dopo che il vento ne ha disperso le sementi, stanno come lingue rinsecchite tramutate in legno: fremono al vento parole prive di vocali, inservibili: «Quand’anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non ho amore, divento un bronzo risonante o uno squillante cembalo. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l’amore, non sono nulla, a nulla gioverebbe», (1Cor 13,1-2).

Così è di chi prova a dire l’Altro nome ed ogni nome, senza l’arte “scombinatoria” dell’amore che lega e scioglie, costruttiva e creatrice di parole sempre nuove, e tuttavia ancora parole abbreviate, tronche nella loro finitezza, bisognose sempre di trascendersi, di protendersi al di là di sé stesse verso la loro intima sorgente, quella oltre ogni incontro: il volto dell’altro, sempre segreto e svelato ad un tempo, indecifrabile e detto, nascosto e ritrovato, circoscritto nella sua forma e cangiante e dispiegato all’infinito.

Così nome dopo nome, voce dopo voce, sguardo dopo sguardo, ancora oltre si ode nel silenzio il nome impronunciabile che è a lui dovuto: «Si, al di là della gente/ ti cerco./ Non nel tuo nome, se lo dicono,/ non nella tua immagine, se la dipingono./ Al di là, più in là, più oltre./ Al di là di te ti cerco./ Non nel tuo specchio/ e nella tua scrittura,/ nella tua anima nemmeno./ Di là, più oltre./ Al di là, ancora, più oltre/ di me ti cerco, Non sei/ ciò che io sento di te./ Non sei/ ciò che mi sta palpitando/ con sangue mio nelle vene,/ e non è me./ Al di là, più oltre ti cerco», (Pedro Salinas, La voce a te dovuta, Torino 1979, 11).

Anche i più solenni nomi e concetti della tradizione e teologia cristiane, distillati tra mille idiomi, come oro nel crogiolo nei primi concili, con l’intento di esprimere in sintesi la fede di tutti, decantati nel cuore di differenti culture di popoli per esprimere l’unico mistero della fede – come pure i misteri più insondabili della liturgia come quelli celebrati nella domenica della Santissima Trinità o del Corpus Dominirestano puro flatus vocis, semplici nomi, privi di consistenza per noi se non riescono a far udire l’altra voce: «Una voce! L’amato mio! Eccolo».

«La poesia è un’avventura verso l’assoluto. Si può arrivare più o meno vicino; si può fare più o meno strada, ecco tutto. Bisogna lasciar correre l’avventura, con tutta la bellezza del rischio, della probabilità, del gioco». Così Pedro Salinas descrive il suo itinerario poetico: un’erranza innamorata. Pertanto l’assolutezza della parola, come l’unicità del nome d’altri, sta oltre le parole e i nomi che nominiamo, voce che non può essere raccolta, se non continuando a desiderare, cercando e chiamando sempre di nuovo, attendendola anche quando giunge solo il suo silenzio e in quel silenzio gridi: “Trascinami con te, corriamo!”, tra un pieno e un vuoto, tra oscurità e chiarore, verso l’assoluto.

Lo stesso possiamo dirlo dell’esperienza mistica che è esperienza non di solitari e solitarie, neppure di pochi, ma di tutti coloro che osano la bellezza e il rischio dell’amore. Per Giovanni della Croce poesia e mistica furono abbracciate insieme come un’unica avventura, notte oscura, fiamma d’amor viva, salita al monte verso Kerem-El, il Carmelo, letteralmente ‘Vigna di Dio’.

Sabato scorso di mattina in libreria, sembrava aspettasse solo che gli passassi accanto per chiamarmi. La sua copertina non era nascosta tra i dorsi degli altri libri, ma esposta sullo scaffale in bella mostra. Proprio non si poteva non vederla, così familiare nel formato della collezione di poesia dell’Einaudi, nero su bianco: La voce a te dovuta. Poema, di Pedro Salinas, (Torino 1979). E lessi in fretta il breve testo per sentirne la voce e diceva: «E sto abbracciato a te/ senza chiederti nulla, per timore che non sia vero che tu vivi e mi ami». Trasalii! È questo un verbo che dice tutto e non esprime minimamente la dirompenza del sentimento che provai. Ma resistetti a quella voce seducente e non presi con me il libro; ne avevo già preso un altro: Scrivere per dire sì al mondo. Allontanandomi però stentii che era già segretamente entrato dentro di me a sparpagliarmi il cuore e i pensieri. Così andai all’Ariostea, certo che era là ad aspettarmi.

La raccolta poetica La voce a te dovuta appartiene alla piena maturità dell’autore, costituita da una settantina di brani. È tuttavia una raccolta unitaria, riunita come un poema d’amore per la continuità del tema che in essa si dispiega. L’ho sentita subito in alcuni tratti e versi così simile, oserei dire, così consonante al Cantico dei cantici, che è il luogo letterario, insieme ai testi profetici e alle beatitudini e parabole del Regno che meglio ci consente immaginare le cose future promesse nel Vangelo: promesse di giustizia, di pietà, di quell’amore più grande di tutti che sta nel dare la vita; un amore di cui non possiamo portarne il peso, se non a condizione che diventiamo familiari alla sua voce e la seguiamo come fosse una via, il nome a lui dovuto.

Immaginare la promessa: ecco il dono e il compito che lo Spirito chiede oggi ai cristiani per una conversione pastorale in stile sinodale. Occorre ridare volto, mani, piedi, cuore alle promesse e alle parole della fede di cui essi sono portatori, ascoltando, incontrando, accompagnando con il cuore. E non serve a nulla un semplice maquillage; non si cambia con i ritocchi di una cosmesi di superfice; non serve l’acido ialuronico per eliminare l’indurimento del cuore.

«Che cosa ci è stato promesso?»: si interroga Agostino nel suo Commento alla Prima lettera di Giovanni (IV, 6): «Saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è», ma aggiungeva con il sapere di chi ha amato e continua ad amare questo invito: «La lingua non è riuscita ad esprimersi meglio, ma il resto, le altre cose immaginatele, pensandole col cuore, (cetera corde cogitentur)». Ricreare il dirsi e il donarsi della fede, il suo credere e il suo sperare, a partire da un cuore pensante (Etty Illesum).

Le riflessioni di Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) offrono alla teologia e al cristianesimo l’orizzonte di una fenomenologia della percezione e dello stile che consente di riscoprire uno “stil novo”, stile di abitare il mondo: «[Oggi] impariamo a veder nuovamente il mondo attorno a noi, da cui ci eravamo distolti nella convinzione che i nostri sensi non potessero insegnarci nulla di valido e che solo un sapere rigorosamente oggettivo meritasse di esser preso in considerazione … In un mondo così trasformato non siamo soli, e non siamo soltanto tra uomini. Questo mondo si offre anche agli animali, ai bambini, ai primitivi, ai pazzi, che lo abitano a modo loro e che coesistono con esso», (Conversazioni, Milano 2002, pp. 43-44).

Nel testo di Pedro Salinas c’è un passaggio per me significativo, illuminante, che mi ha ricordato il passare attraverso la notte oscura dei mistici spagnoli. Nella notte oscura, come insegna Giovanni della Croce, occorre restare abbracciati a colui che sembra averci abbandonato, lasciando solo il ricordo di una “pura voce d’ombra” e quella “solitudine immensa” di essere rimasti i soli ad amare l’altro che si è sottratto, come evaporato: «E sto abbracciato a te/ senza chiederti nulla, per timore/ che non sia vero/ che tu vivi e mi ami./ E sto abbracciato a te/ senza guardare e senza toccarti./ Non debba mai scoprire/ con domande, con carezze,/ quella solitudine immensa/ d’essere solo ad amarti».

Ma questa notte è per i mistici e i poeti e, per chi crede amando, la porta stretta che fa accedere ad un amore ancora sconosciuto; fa riudire una voce, una parola nuova oltre la parola, inimmaginabile e indicibile: un “incendio di amore” lo chiama Giovanni della Croce. Egli scrive: «se è vero che all’inizio della notte dello spirito non si avverte ancora quest’incendio d’amore, perché non ha ancora cominciato ad agire, tuttavia al suo posto il Signore dona subito un amore che verifica, permette di valutare, giudicare, un amore ‘estimativo’ di ciò che si sta vivendo». Una ferita d’amore sentita come un abbandono: «si tratta di un amore così elevato, che tutto ciò che l’anima soffre e sopporta di penoso nelle prove della notte oscura è il pensiero angosciante di aver perso Dio e di essere da lui abbandonata» (Notte oscura, 13,5). Oltre la porta della notte oscura si dice nel Cantico «trovai l’Amato del mio cuore, lo strinsi fortemente, e non lo lascerò» (Ct 3,4).

Nemmeno quel Dio, che ha ispirato il Cantico dei cantici per dare voce al suo nome impronunciabile Jhwh, è stato risparmiato da questa ferita d’amore, come di costato trafitto da lancia, “solitudine immensa” di essere il solo ad amare il suo popolo e sentire di non essere da lui riamato. «Perciò il Signore dice: “Poiché questo popolo si avvicina a me solo con la bocca e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me, e il loro timore di me è solo un comandamento insegnato da uomini, perciò, ecco, io continuerò a fare meraviglie in mezzo a questo popolo, sì, meraviglie e prodigi; la sapienza dei suoi savi perirà e l’intelligenza dei suoi intelligenti scomparirà”», (Is 29, 13-14). «Essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua», (Gr 2, 13). Ed ancora «Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore. Come potrei abbandonarti. Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11, 3-4; 8).

Il modo tuo d’amare
è lasciare che io ti ami.
Il sì con cui ti abbandoni
è il silenzio. I tuoi baci
sono offrirmi le labbra
perché io le baci.
E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero
che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te
senza guardare e senza toccarti.
Non debba mai scoprire
con domande, con carezze,
quella solitudine immensa
d’essere solo ad amarti.
Se ancora non lo credo,
qualcosa già più denso,
più palpabile, la voce
con cui dici: «Ti amo»,
lotta per affermarti
contro il mio dubbio. Accanto
un corpo bacia, abbraccia,
frenetico, e cerca
qui la sua realtà,
in me che non ci credo;
bacia
per guadagnare la sua vita
ancora incerta,
puro miracolo, in me.
La notte è il grande dubbio
del mondo e del tuo amore.
Ho bisogno che il giorno
ogni giorno mi dica
che è il giorno, che è lui,
che è la luce: e li tu.
Ho bisogno del miracolo
insolito: un altro giorno
e la tua voce, a conferma
del prodigio di sempre.
Ed anche se tu taci,
nell’enorme distanza,
l’aurora, almeno,
l’aurora sì. La luce
che oggi lei mi porterà
sarà il gran sì del mondo
all’amore che ho per te.

Pedro Salinas, La voce a te dovuta. Poema, Torino, 1979

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

25 APRILE A METÀ
Radici del razzismo e scheletri negli armadi:
fortuna, violenze e morte di Italo Balbo (VII Parte)

“Un’immensa voragine di sabbia”: così all’inizio del XX secolo, Gaetano Salvemini definì la Libia, quando ebbe inizio l’avventura coloniale italiana.
Qualche anno più tardi furono molti contadini italiani a non credere ai miraggi di quella terra promessa, che la propaganda fascista descriveva fertile, rigogliosa, “liberata” e pronta per essere coltivata. Mussolini, volle che fosse il gerarca Italo Balbo ad occuparsi della colonizzazione agricola della Libia, dopo averlo sollevato dall’incarico di Ministro dell’Aeronautica del Regno d’Italia e inviato in qualità di Governatore nel 1934.
Balbo dichiarò che avrebbe seguito le gloriose orme dei suoi predecessori e avviò una campagna nazionale che voleva portare due milioni di emigranti sulla Quarta Sponda Italiana del Mediterraneo. Ne arrivarono soltanto 31mila, ma furono un numero sufficiente da trincerare dietro un muro militare, costruito nel 1931 in Cirenaica, per contrastare la resistenza delle tribù beduine degli indipendentisti libici Senussi.
Quel muro, il muro italiano di Giarabub, è tuttora presente, visibile e in funzione. Oggi viene indicato, mantenuto e utilizzato come efficace barriera anti-immigrazione. Si ritiene cioè che trattenga il flusso migratorio clandestino diretto verso l’Italia attraverso il Mar Mediterraneo, impedendo di raggiungere i luoghi di imbarco più facilmente accessibili che si trovano sulla costa del Golfo di Sirte.
muro italiano di Giarabub

muro italiano di Giarabub
Il muro italiano di Giarabub. 1931 (Libia)

Il muro italiano in Libia si presenta come una doppia linea di recinzione metallica lunga 270 chilometri, larga quattro metri, alta tre, visibilmente malandata ma resa insuperabile da chilometri di matasse di filo spinato che si srotolano dalle regioni a ridosso del porto di Bardia, lungo le sterpaglie desolate della Marmarica, fino a perdersi nel Grande Mare di Sabbia del Deserto Libico.
Questa grande opera venne commissionata alla Società Italiana Costruzioni e Lavori Pubblici di Roma, che la realizzò in sei mesi, dal 15 aprile al 5 settembre 1931, ad un costo complessivo di circa venti milioni di lire, impegnando nella costruzione 2.500 indigeni sorvegliati da 1.200 soldati e carabinieri, lungo un percorso totalmente privo di strade e di risorse idriche.
Il reticolato di filo spinato è sostenuto da paletti di ferro con base in calcestruzzo, vigilato dai ruderi fatiscenti di tre ridotte e sei ridottini. Lungo il suo percorso venero costruiti tre campi d’aviazione, una linea telefonica, vennero utilizzati 270 milioni di paletti di ferro e ventimila quintali di cemento.

Non potendo che apparire come ben piccola cosa di fronte all’immensità del paesaggio che la ospita, la presenza di questo muro colpisce perché oltre ad essere nel deserto, è deserto. Il compito di sorveglianza e controllo è sempre stato principalmente garantito dall’innesco di migliaia di mine antiuomo, cioè armi automatiche che esplodono e uccidono selettivamente, tutte le volte che vengono attivate da presenze umane.
Per un certo periodo, va però detto che fu oggetto di ricognizioni aeree sistematiche che venivano audacemente condotte, oltre che dai piloti dell’Aeronautica Militare, anche e direttamente dal loro capo supremo e Maresciallo dell’Aria Italo Balbo.
Oltre al muro, Balbo continuò a mantenere in vita quello che era stato fatto prima e qui negli anni precedenti: missioni e bombardamenti aerei.
E le derivazioni dei trimotori Savoia Marchetti usati da Balbo nelle transvolate atlantiche divennero caccia bombardieri siluranti chiamati Sparvieri, che continuarono ad essere utilizzati contro un’etnia composta da famiglie di pastori nomadi o seminomadi considerati ribelli, in bombardamenti incendiari e tossici.
Nei sei anni che Balbo visse e volò in Libia lo Sparviero abbatté tutti i record e tutti i primati di volo civile, velocità, trasporto, durata, distanza.
Poi il salto di qualità e da civile divenne un aereo militare: nella versione militare S.79K, il primo impiego operativo di 99 veivoli di questo tipo avvenne con l’intervento italiano nella guerra civile spagnola come “Aviazione Legionaria” e il 26 aprile 1937, tre S.M.79 dell’Aviazione Legionaria presero parte al bombardamento della cittadina basca di Guernica, un’incursione aerea compiuta (sotto il nome in codice di Operazione Rügen) in cooperazione con la Legione Condor nazista, che colpì nottetempo la popolazione civile inerme e ispirò il celeberrimo dipinto di Pablo Picasso.

L’allontanamento dal Ministero aveva eliminato Balbo dal centro del sistema di sviluppo industriale dell’Aeronautica, per cui lui, dopo esserne stato il motore e l’immagine, si ritrovò ad occuparne il ruolo di fantasma dell’opera in corso.
Sette anni prima era alla guida di imprese di voli transatlantici: il primo nel 1930 da Orbetello a Rio de Janeiro; il secondo tre anni dopo, da Orbetello a Chicago. Questa seconda crociera atlantica, organizzata per celebrare il decennale della Regia Aeronautica Militare Italiana nell’ambito dell’Esposizione Universale Century of Progress che si tenne a Chicago tra il 1933 e il 1934, lo aveva coperto di gloria.
Il governatore dell’Illinois e il sindaco della città di Chicago riservarono ai trasvolatori un’accoglienza trionfale: a Balbo venne intitolata una strada, tutt’oggi esistente, e i Sioux presenti all’Esposizione lo nominarono capo indiano, con il nome di Capo Aquila Volante. Il volo di ritorno proseguì per New York, dove il presidente Roosevelt organizzò, in onore agli equipaggi della flotta di 25 idrotransvolanti italiani, una grande street parade. Italo Balbo fu così il secondo italiano, dopo Diaz, ad essere pubblicamente acclamato per le strade di New York.
Gli esaltatori delle trasvolate atlantiche non mancano di citare ogni tipo di manifestazione organizzata a Chicago in onore del grande pilota: chissà perché omettono sempre di citare lo striscione che recitava “Balbo, don Minzoni ti saluta” e che commemorava il suo precedente onore acquisito come pioniere omicida dello squadrismo fascista.

Italo Balbo diario 1922Là, in Italia, partendo dalle valli del delta padano, aveva visto portare a compimento grandi opere di bonifiche che strapparono alle acque nuove terre da coltivare e nuove forme di diritti sindacali da reprimere grazie alla ”esaltazione della violenza come il metodo più rapido e definitivo per raggiungere il fine rivoluzionario”(Italo Balbo, Diario 1922, Mondadori).
Sempre là, nella bassa provincia Ferrarese, aveva inaugurato la strategia criminale delle esecuzioni mirate come responsabile diretto, morale e politico dei due omicidi premeditati, da lui considerati ’bastonate di stile’, che significavano frattura del cranio, somministrate al sindacalista Natale Gaiba e al sacerdote don Giovanni Minzoni.
Natale Gaiba venne assassinato per vendicare l’offesa, compiuta quando il sindacalista argentano era assessore del Comune di Argenta, di aver fatto sequestrare l’ammasso di grano del Molino Moretti, imboscato illegalmente per farne salire il prezzo, venisse strappato ai latifondisti agrari e restituito al popolo che lo aveva prodotto coltivando la terra, ridotto alla fame.
don minzoniDon Minzoni, parroco di Argenta, venne assassinato dai fascisti locali: Balbo non volle ammettere che fossero stati individuati e arrestati coloro che organizzarono l’assassinio e intervenne in molti modi, anche con la costante presenza in aula, per condizionare lo svolgimento e il risultato sia delle indagini che del processo penale, garantendo l’impunità del crimine.
Più infame ancora dell’appoggio politico e morale agli assassini, la diceria che don Minzoni fosse rimasto vittima di una ‘questione di donne’ e avesse un’amante, ignobile falsità costruita a partire da una colletta fatta dal parroco per consentire a una contadina di andare a nozze con un vestito degno: calunnia propagata anche dalle pagine del Corriere Padano, il quotidiano fondato da Balbo che chiamò Nello Quilici a dirigere immediatamente dopo che quest’ultimo, in qualità di caporedattore del Corriere Italiano, venne coinvolto a Roma nell’ambito delle indagini sul rapimento e omicidio dell’on. Giacomo Matteotti, segretario del Partito Socialista Unitario.

Qui, in Libia, Italo Balbo trovò condizioni esattamente contrarie e non riuscì a trovare, nemmeno con la forza, l’acqua sufficiente da donare alla terra di quei pochi coloni veneti e della bassa ferrarese, disperati e poverissimi, che, sotto l’enfasi propagandistica del regime, lo avevano raggiunto, si erano rimboccati le maniche e si erano illusi di rendere verde il deserto.
Fu sempre qui, in Libia, che Balbo, per tragica ironia della sorte o per fatale coincidenza, precipitò realmente in una voragine di sabbia e trovò la morte, colpito dal fuoco amico della artiglieria contraerea italiana.
Non fu peraltro l’unico ferrarese a rimanere vittima e protagonista di questo oscuro episodio avvenuto il 28 giugno 1940 nei cieli e sul suolo di Tobruk agli inizi della Seconda Guerra Mondiale. Con un ennesimo tributo di sangue vanamente versato qui, sulla sconfinata superficie libica, dove un muro difensivo alto pochi metri, è il beffardo simbolo di una torre di Babele che avrebbe dovuto innalzarsi fino in cielo, assieme a lui persero la vita anche i suoi più cari parenti e fidati collaboratori.

Evidentemente, mentre lui seguiva le orme dei grandi colonizzatori italiani, qualcos’altro stava seguendo le sue tracce, poiché la responsabilità storica di quanto avvenuto per sbaglio, come tragico errore e incidente di guerra, venne assunta in prima persona da un capo pezzo del 202 Reggimento di Artiglieria, che ammise di aver sparato raffiche di artiglieria contraerea all’indirizzo del trimotore Savoia Marchetti 79 pilotato dal suo comandante supremo nonché concittadino Italo Balbo, essendo significativamente pure lui, Claudio Marzola, 20enne, un ferrarese purosangue.
I colpi letali partirono da una delle tre mitragliatrici da 20 mm in dotazione a un Incrociatore Corazzato della Marina Regia che permaneva in rada semiaffondato e a scopo difensivo antiaereo, varato con lo stesso nome del santo patrono della città di Ferrara: San Giorgio.
Al momento del varo, avvenuto a Genova nel 1911, il motto dell’Incrociatore San Giorgio fu “Tutor et ultor” e a partire dal suo impiego nel primo e nel secondo conflitto mondiale venne cambiato in “Protector et vindicator” (Difensore e vendicatore).

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Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è il curatore della rubrica Controinformazione. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna,