Che legame c’è fra la matita e il film “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi?
Mai sottovalutare il potere di una matita. Oggi più che mai. Il suo tratto può raccontare, disegnare, ritrarre, descrivere, ascrivere, votare. Nata dalla grafite, inizialmente utilizzata per segnare il bestiame, viene chiamata anche làpis, la sanguigna (lapis aematitis) del XVI secolo.
Da sempre simbolo del potere della cultura, minaccia per le dittature – basti ricordare l’intensa pellicola del 1986 di Héctor Olivera, “La notte delle matite spezzate” – la matita ha un posto importante in “C’è ancora domani”, esordio alla regia di Paola Cortellesi. Tutto porta a lei, a quello che può fare e rappresentare. Un giorno pure a far cambiare.
In una Roma in bianco e nero del Secondo Dopoguerra, Delia (Paola Cortellesi) è la moglie di Ivano (Valerio Mastandrea) e la madre di tre figli. Madre e moglie, questo il ruolo di una donna come tante altre del periodo: né Donna, con la d maiuscola, né tantomeno cittadina. Anche il ruolo di lavoratrice con i propri diritti le è precluso: Delia è solo una brava domestica di famiglia, nonché badante del suocero, il dispotico Sor Ottorino (Giorgio Colangeli), che le rimprovera di osare “ribattere un po’ troppo”. Va zittita. Lei come tutte.
Paola Cortellesi, foto Claudio Iannone
Ivano è manesco, lavora duramente per portare i soldi a casa (come se Delia non lo facesse con i suoi frenetici e mal pagati lavori di rammendo, di riparazioni di ombrelli e di iniezioni a domicilio), ama usare la cinghia per farsi ascoltare e rispettare. Non ha altro linguaggio. Unico sollievo di Delia è l’amica Marisa (Emanuela Fanelli), con la quale condivide momenti di leggerezza e qualche intima confidenza. Un incontro di solitudini.
Di questo film pluripremiato al botteghino e con ben 19 candidature al David di Donatello 2024 – record assoluto per un film d’esordio – (e 6 David vinti), sono molti i punti convincenti. I toni del neorealismo, una sceneggiatura – scritta dalla stessa Cortellesi insieme a Giulia Calenda e Furio Andreotti – che parla, in maniera semplice, a tutte le donne, la trovata geniale delle botte di Ivano inferte a tempo di musica in una danza macabra e un ‘paso doble’ del terrore che solo la Cortellesi, con il suo humour da comédienne e da impeccabile imitatrice, poteva inventarsi. Viene quasi da ridere senza che ci sia davvero nulla da ridere. C’è poi rabbia gentile, sullo schermo, quella che fa bene perché fa riflettere.
Vinicio Marchioni e Paola Cortellesi, foto Claudio Iannone
Un thriller, con tanto di suspence che fa temere, ad ogni momento, che possa tornare l’orco cattivo, un principe azzurro in tenuta da meccanico con il quale si pensa (e si spera), fino all’ultimo, che Delia voglia fuggire, la semplicità di una famiglia del passato come ce ne sono state tante, nell’Italia ferita delle nostre nonne operose e delle nostre madri tenaci.
Pur con qualche stereotipo di troppo, come il soldato americano di colore che regala sigarette e cioccolata, il film, girato nel quartiere romano di Testaccio, è intenso e coinvolgente e sfiora le corde dei cuori più timorosi e restii a sapere e ricordare.
Nelle parentesi quotidiane di violenza ci sono amicizia, amore, tenerezza, complicità, sentimenti in equilibrio più o meno precario. La volontà di liberare la giovane e inesperta figlia Marcella (Romana Maggiora Vergano) dallo stesso destino. E poi c’è la messa della domenica, alla quale si deve assolutamente andare, proprio quella domenica precisa, quella di una data storica. Ora si può. Il monito è forte. Non dimenticare mai quel potere che, con lotta e sangue, ci è stato regalato dai nostri preveggenti avi. C’è, infatti, sempre un altro giorno per cambiare. Basta saperlo attendere. Con la matita in mano.
“C’è ancora domani”, di Paola Cortellesi, con Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Romana Maggiora Vergano, Emanuela Fanelli, Giorgio Colangeli, Vinicio Marchioni, Italia, 2023, durata 118 minuti.
un’azione teatrale itinerante, evento finale del progetto “Dentro i Margini”
svolto da Balamòs Teatro APS alla Comunità Papa Giovanni XXIII° di Denore (FE)
diretto da: Michalis Traitsis collaborazione artistica: Patrizia Ninu accompagnamento musicale dal vivo: Chiara Alberani foto: Andrea Casari
Venerdì 28 Giugno 2024, ore 18.30 Comunità Terapeutica Papa Giovanni XXIII°, via Massafiscaglia 434, Denore, (FE)
Presentazione (Alessandro), Accoglienza (Luca), Cambiamento (Salah), Rinuncia e Scelta (Debora), Benvenuto Mondo (Rebecca), Amore (Enrico), Obbedienza (Valeria), Pace (Alessandro).
Che vale avere amato se nessuno se ne è accorto anche se lo hai fatto per il bene di tutti tu con la tua povertà, tu con la tua umiltà, hai saputo umiliarci.
(Poesia a San Francesco, Fabrizio De André)
Forse non si possono neanche contare tutti i saggi, i romanzi, i canti, le immagini, le storie dedicate a Francesco. Chi era Francesco D’Assisi? Vagabondo, folle d’amore, elemosiniere di Dio, provocatore, santo, poeta, giullare di Dio, come amava definirsi?
Attorno a lui si sono appassionati, e talora divisi, laici e religiosi, credenti e scettici di ogni tempo. Ostinato, irruento, libero come nessuno, Francesco compie il gesto più difficile per un uomo: Francesco cambia radicalmente la propria vita e non ritorna più indietro.
Il giullare è anche colui che cammina a testa in giù e che in tal modo ci offre uno sguardo capovolto sul mondo. Abbraccia la povertà, la fratellanza, l’amore universale. Non approda alla solitudine e al ritiro ma sceglie di confrontarsi e di agire nel mondo. Inizialmente contrastato, deriso, messo alla gogna, Francesco dà vita, in un tempo assai breve, a un Ordine di enormi dimensioni e importanza.
L’intenzione di questa azione teatrale itinerante non è quella di ricostruire e raccontare la vita di Francesco ma di scegliere alcune parole che ne hanno punteggiato alcuni episodi della sua vita e che hanno creato echi in ciascuno di noi.
In queste ore si sta tenendo il primo storico sciopero dei lavoratori della Borsa di Milano. Nell’attesa di vedere come sarà andata, postiamo questo articolo tratto da Collettiva nel quale vengono esplicitate le ragioni della mobilitazione.
La Redazione di Periscopio
Primo sciopero del Gruppo Borsa italiana in oltre duecento anni storia. Una protesta che si articolerà domani, 27 giugno, nelle ultime due ore di turno, quando gli operatori del gestore del mercato finanziario italiano, di proprietà del colosso francese Euronext, incroceranno le braccia e scenderanno in piazza, a partire dalle ore 14 a Milano.
A proclamare questa clamorosa azione di protesta, alla quale faranno seguito altre azioni, come il blocco degli straordinari e della reperibilità, fino al 14 luglio, sono state le organizzazioni sindacali Fabi, First Cisl e Fisac Cgil. Due ore di blocco che coinvolgeranno Piazza Affari insieme alle altre società del gruppo: Cassa Compensazione e Garanzia, Mts e Monte Titoli.
Una protesta eclatante che investe un presidio cruciale per il sistema economico e finanziario: dalla stabilità dei mercati finanziari ai riflessi sull’economia reale, che trae carburante dal mercato di Piazza Affari, fino alla delicata gestione del nostro debito pubblico.
Ed è per queste ragioni che, nelle ore immediatamente successive alla proclamazione dello sciopero, si sono fatti sentire due esponenti di primo piano del governo. Da una parte il ministro Urso, che ha convocato per il 3 luglio prossimo le organizzazioni sindacali al ministero delle Imprese e del Made in Italy, mentre la settimana successiva toccherà ai rappresentanti di Borsa Italiana; dall’altra il ministro Giorgetti che ha assicurato l’interessamento del Mef alla vicenda, nonché quello della Consob.
Si delinea un interessamento istituzionale, tutto da valutare, in linea con quanto rivendicato dalla segretaria generale della Fisac Cgil, Susy Esposito, che aveva difatti chiesto “un urgente intervento istituzionale per salvaguardare una realtà di interesse strategico per il paese” proprio perché come sistema paese “non possiamo permetterci che venga minata l’autonomia decisionale e strategica delle società italiane del Gruppo Borsa italiana”.
Quattro le ragioni che hanno indotto le sigle sindacali a questa storica decisione: la tenuta occupazionale e la valorizzazione professionale delle lavoratrici del Gruppo Borsa italiana, la questione salariale, una non funzionale organizzazione salariale e, infine, il tema della governance e della progressiva perdita di autonomia direzionale e strategica delle società italiane del Gruppo Borsa Italiana. Su questo ultimo punto, infatti, la questione diventa geoconomica, ponendo ancora una volta su fonti contrapposti Francia e Italia. Infatti Euronext, la borsa pan-europea nata a Parigi, ha acquistato Borsa Italiana nel 2021 con principali azionisti l’italiana Cassa depositi e prestiti e la francese Caisse Des Dépots, per generare una operazione paritaria, di tipo federativo e non competitivo.
Ma è nel susseguente processo di integrazione, lungo i successivi governi, che le cose iniziano a scricchiolare. “Peraltro come Paese – ricorda Gabriele Poeta Paccati, segretario generale della Fisac Lombardia e delegato a seguire la questione dalla segreteria nazionale – portavamo in dote a questa operazione delle vere e proprie eccellenze tecnologiche: non solo Borsa Italiana ma anche Cassa compensazione e garanzia, Mts e Monte Titoli. Tre gioielli tecnologici, di assoluta avanguardia e competenza, che Euronext non aveva.
Non solo: in termini occupazionali l’Italia è il Paese che pesa di più in Euronext, con 764 occupati, pari al 37% del totale”. Nel silenzio della politica, il merger è andato avanti: “Circa due anni fa – afferma ancora – inizia l’integrazione vera e propria, con lo spostamento dei mercati verso una piattaforma unica parigina. Finiscono le sperimentazioni che Borsa aveva in cantiere e inizia un lento esodo dei dirigenti, tra licenziamenti e allontanamenti, e di piccole riorganizzazioni sostanziali che svuotano i ruoli sulla piazza italiana. Monte Titoli, ad esempio, viene frammentata e splittata tra i vari Paesi europei. Perdiamo centralità”.
La “mente” del Gruppo varca i confini nazionali e approda a Parigi. “Rischiamo di diventare un mercato di periferia – lancia l’allarme Poeta Paccati – in una posizione subordinata, svuotata, rispetto alle decisioni strategiche”. Da qui la necessità che le istituzioni, allo stesso tempo azioniste di Euronext, facciano sentire la loro voce. “Attraverso Cdp siamo tutti azionisti – continua -, c’è bisogno di esercitare un ruolo di vigilanza e di indirizzo. Parliamo, tra le altre cose, della gestione del nostro debito pubblico, tema molto delicato, che non può uscire fuori dal perimetro nazionale. Ma parliamo anche di un mercato cruciale per l’economia reale, il collante tra risparmio e investimenti, a doppio filo legati al tema della crescita”.
Per quanto riguarda la posizione sindacale, le questioni dirimenti nel Gruppo Borsa Italiana sono due: “La tenuta occupazionale e la valorizzazione professionale – aggiunge Poeta Paccati –, che vanno di pari passo con una riaffermata centralità del Gruppo. Viviamo pessime relazioni sindacali, che si riverberano su una non adeguata organizzazione del lavoro: le lavoratrici e i lavoratori lamentano turni massacranti, in ragione di un lavoro che non conosce soste, e una reperibilità continua. Non c’è stato l’adeguamento salariale previsto dal rinnovo del contratto del credito, con l’assorbimento degli ad personam. E le prospettive del prossimo piano industriale sul piano occupazionale non ci fanno ben sperare. Questo complesso di ragioni, sedimentate nel tempo, mesi di malcontento e orecchie sorde del management, ci hanno portato allo sciopero”.
La mobilitazione è per questo in campo, nei prossimi giorni, dallo sciopero di domani alla convocazione al Mimit, capiremo quanto sia davvero strategica, per Euronext e per il paese, Gruppo Borsa Italiana.
“Domani è spesso il giorno più occupato della settimana.”
(Proverbio spagnolo)
Nel mondo dei social
abbiamo disimparato
la comunicazione
Nel mondo dell’abbondanza
la semplicità
è lusso dei ricchi
la serenità
il prezzo scontato
dai poveri cristi
Nel mondo dell’apparenza
i corpi sono commercio
la bellezza una moneta di scambio
la giovinezza un’illusione eterna
Nel mondo della velocità
il tempo è la vera ricchezza
rallentare
la scelta più coraggiosa
Nel mondo degli oggetti
sono le esperienze a fare la differenza
la conoscenza
a indicare la libertà
Nel mondo dell’intelligenza artificiale
l’ignoranza trionfa
il pregiudizio
insegna la paura
Nel mondo della logica
la trascendenza è il bisogno naturale
di chi conserva
scintille d’infinito
Nel mondo del consumo
c’è fame di relazioni autentiche
di mettersi in cerchio
attorno a un fuoco
Nel mondo della norma
le differenze vanno al rogo
ma è l’unicità
la nostra salvezza
Il mondo
che seppellisce la pace
che si abitua alla morte dei suoi figli
e gira la testa verso
un uomo che muore per strada
è già la nostra condanna
*
Poiché a ogni attimo
siamo diversi
avrei voluto
che tu incontrassi
la mia versione intatta
meno ammaccata della tempesta
meno segnata di una banana matura
quella che riceveva rotoli di fax
e a rotoli rispondeva
quella di francobolli/cartoline
e ghiaccioli al tamarindo
con la musica in cassetta
e film a peso da noleggio
la me stessa acerba e disinvolta
che ignorava tutto del vivere
ma ne serbava ogni speranza
non sapendo
che si rimane puri
solo conservando meraviglia
che si rimane vivi
solo se non si diventa
ciò che la vita ci ha fatto
*
Ci pensi mai
a quando saremo fuori
dal limite del tempo?
Quando per ogni cosa
avremo l’infinito
senz’affanno
la calma dovuta
allo stropicciare di papaveri
il lento sostare
lungo la riva del fiume
l’inizio non sarà diverso dalla fine
nessuna fretta
per ogni domanda
faremo risposta
Saremo stagione
che non delude
cerchio perfetto
frutto che coincide
a sé stesso
ancor fiore
ancora seme
compiuta coincidenza
della vita
*
Accettare la morte delle anime belle
è un masso da spostare in salita
una contraddizione in termini
un dispiacere crudele
lama che spezza il cuore
Ci sono destini incomprensibili
che vanno oltre
riservati a ciò
che ancora non capiamo
Non rimane
che lottare con la rabbia
spegnere i pensieri
affidarsi all’altrove
rendere grazia
per il dono ricevuto
anche se troppo breve
Resta tutto il bene
restano ricordi da onorare
con il meglio che siamo
con il meglio che possiamo
*
Amo
le persone finestra aperta
le persone sorso d’acqua
le colonne del tempio
chi porta tutto il peso
i piloni del rugby
Amo
gli angeli in borghese
con le ali dimenticate in valigia
le custodi della casa
chi rende facile
l’immensamente difficile
Amo
ogni forma di brillante umanità
d’alta frequenza
di cuore spalancato
d’inestimabile improvvisazione
di folle indispensabile poesia
Solo così
si vince tutto
Solo così
si vive tutto
*
A quelli che dicono
che la poesia è cosa antica
senza senso ai giorni nostri
io rispondo
che di sensi ne ha più d’uno
L’essenza
in un mondo di eccessi
la messa a fuoco
di quel che conta
Il silenzio
fra il nero inchiostro
e il bianco delle lettere
La musica
che gira intorno
che sta dentro
che esce fuori
La lentezza
dello scrivere
del leggere/rileggere
del sentire
siamo ruminanti di pensieri
La sorpresa
lo svelamento inaspettato
di ciò che abbiamo guardato
milioni di volte
ma solo ora vediamo
Il valore delle parole
ne bastano pochissime
per cambiare il mondo
Ciascuno trovi
le sue
Anna Martinenghi è nata a Soncino (Cr) in una notte di neve del 1972. Nel 2007 ha vinto il concorso indetto dalla casa editrice EDIZIONI CINQUEMARZO di Viareggio, pubblicando la sua prima raccolta in versi liberi “DIDASCALIE” a cui sono seguite la silloge “NUDA” (2009) – “PAROLE POVERE” (2010).
Nel 2010 a seguito della vittoria della XXI edizione del concorso letterario organizzato dall’associazione culturale “Il paese che non c’è” di Bergamo ha pubblicato la silloge “FOTOSENSIBILE” con l’editore Franco Colacello di Bergamo. Nel 2011 la nuova raccolta di poesie “IL CIELO DI SCORTA E ALTRE OFFERTE DELLA SETTIMANA” è stata segnalata durante il premio nazionale “SCRIVERE DONNA 2011” presieduto dalla poetessa MariaLuisa Spaziani, tale raccolta è stata poi pubblicata nel maggio 2013 dalla casa editrice Linee Infinite di Lodi. Nel 2013 con il testo teatrale “HABLA CON EVA” vince il premio PORTALE SIPARIO nel Concorso “Autori Italiani” organizzato dalla Fondazione Teatro Italiano “Carlo Terron” di Milano in collaborazione con la rivista SIPARIO.
Nel 2017 ha pubblicato la raccolta di racconti “SEI TROPPO GRANDE PER CAPIRE CERTE COSE“, Edizioni del Gattaccio – Milano.
Nel 2020 con Giorgia Ferrari e Chiara Nobilia ha curato l’antologia poetica CON-TATTO in risposta al Covid19. Nel 2021 vince il premio Bukowski nella Sezione poesia con la raccolta “O2. Ossigeno”, Giovane Holden Edizioni. Nel 2022 la stessa raccolta vince il Contropremio Carver per la poesia edita. Nel 2023 pubblica la raccolta “Faccio cose del secolo scorso” con Controluna Edizioni di Poesia. In “Parole a Capo” sono state pubblicate altre sue poesie il 9 Novembre 2023.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Tanti femminismi, un solo capitalismo: oltre le identità per una vera lotta di classe
Vorrei riprendere alcune problematiche introdotte da Anna Guerrini nel suo interessante saggio “Femminismo e regime di guerra: oltre le politiche dell’identità”(si può leggere qui).
Prima di tutto il superamento della definizione al plurale di un movimento che ha voluto, evolvendosi nel corso di un secolo, includere diverse appartenenze identitarie, pur rimanendo nell’ambito sociologico e politico di partenza. Si parla molto di femminismi di vario tipo, le cui diciture proliferano di anno in anno, in una rincorsa alla modernità che va dall’intersezionalismo al transfemminismo di ultima generazione. Oltre al fatto di creare un serio imbarazzo negli interlocutori maschi, che capiscono sempre meno di cosa si stia parlando, concordo con la critica della filosofa Donna Haraway, che avverte come le “tassonomie” del femminismo possono creare dicotomie artificiali includendovi discorsi femministi che ostacolanoseriamente i discorsi costruttivi sulla soggettività femminile. In altre parole: se i femminismi sono tanti, i discorsi politici costruttivi sulla soggettività femminile sono ostacolati prima di tutto da uno solo: il capitalismo globale, fagocitante, totalizzante e sempre più armato.
Per questo motivo ho apprezzato la semplice e pregnante definizione della Guerrini: “Per me femminismo è decostruzione e sovversione della riproduzione sociale del capitale […]È una politica di classe, dove “ classe” è il nome di un soggetto che si dà nell’antagonismo, anche nei confronti della politica dei blocchi che il regime di guerra impone.”
Una delle prime e più gravi divaricazioni del movimento femminista è stata fra “emancipazioniste” e promotrici della liberazione della donna. Certo emancipazionismo ha portato al femminismo liberale e neo liberale (di cui possiamo valutare la valenza reazionaria anche nel capo del governo italiano), corredato dalla ridicola legge sulle quote e dalla parola d’ordine “me first” di superwomen rampanti nel mondo degli affari, che rivendicano il diritto di “sfruttare quanto gli uomini”.
Anche uno dei pochi momenti che ha visto l’internazionalismo del movimento femminista lottare per il salario in cambio del lavoro domestico, ormai di lontana memoria, è stato brillantemente superato dal connubio fra razzismo e capitalismo che ha affidato progressivamente il lavoro di cura alle badanti immigrate, trasformandolo gradualmente in lavoro salariato, creando le catene globali della cura, con flussi di capitali, per esempio in Ucraina, ma non solo, da far concorrenza a quelli americani.
Di fatto mentre Russia e Ucraina, Palestina e Israele si fanno una guerra all’ultimo sangue, nel nome del nazionalismo più feroce, stranamente la legge sull’aborto è sotto attacco nei primi tre Paesi (Israele ha invece semplificato l’accesso all’aborto), per non parlare degli Stati Uniti. La spiegazione di questa visione unanime in Paesi con contrasti che paiono insanabili è che il simbolico femminile viene visto come un’arma di guerra, un’enorme riserva di stabilità sociale, di capacità riproduttiva di esseri umani da mandare al massacro.
La violenza specifica a cui sono esposte le donne nelle economie di guerra è che sono quasi sempre vittime di una doppia oppressione: quella del nemico esterno, ma anche quella del nemico interno, che coglie l’occasione per vanificare i diritti faticosamente conquistati. In accordo con le analisi di Max Weber sull’importanza del fattore religioso nella vita economico-politica, l’attacco alle donne avviene subdolamente attraverso l’intervento della chiesa ortodossa per le donne russe e ucraine, la religione islamica di Hamas per le palestinesi, il richiamo del Papa per le cattoliche.
In conclusione il movimento femminista, a mio parere, deve prima di tutto prendere coscienza che l’ideologia della guerra, da cui siamo quotidianamente martellati, obbligandoci allo schieramento rispetto a dimensioni politiche nazionali, è principalmente utilizzata per rideterminare fronti interni, eliminare resistenze, restaurare vecchi paradigmi. Con lo specchietto per le allodole che la partecipazione delle donne alle forze armate sia l’emblema dell’uguaglianza di genere. Se questa è l’uguaglianza, io non la voglio.
A volte serve una bella provocazione per ragionare seriamente sulla società in cui stiamo vivendo e sui modelli culturali che certi mass media ci tengono a veicolare. Ad esempio, il pubblico televisivo sembra attirato magneticamente da programmi ambigui in cui i concorrenti gareggiano fra loro per apparire più capaci, più seducenti o più affascinanti ed al pubblico viene dato il potere di eliminare la persona che non gli piace. Trovo queste offerte commerciali davvero finte ed ipocrite e credo che, forse, avremo bisogno di fermarci a riflettere su quali modelli potrebbero invece esserci utili per poter pensare ad una società inclusiva in cui si possa vivere insieme, cooperando con impegno e sincerità. (Mauro Presini)
The Jail
di V.
Quante volte abbiamo sentito dire che non ci sono soldi per le carceri e soprattutto che un detenuto costa cifre spropositate allo stato?
Davvero le cose non possono cambiare?
E se ci fosse un sistema per far risparmiare lo stato, o addirittura far guadagnare, e addirittura migliorare le condizioni delle carceri?
Si è notato come al pubblico televisivo piacciano sempre di più programmi di reality come Il grande fratello, L’isola dei famosi, Temptation Island, Il collegio, ecc … e soprattutto si è notato come il pubblico sia sempre più disposto a pagare per avere la possibilità di seguire i propri beniamini.
In tutte le carceri italiane sono istallate decine e decine di telecamere per il videocontrollo. La nostra idea è drammaticamente semplice.
Perché non offrire un servizio a pagamento dove poter acquistare la possibilità di vedere cosa riprendono le telecamere istallate nelle carceri? Magari con dei pacchetti realizzati ad hoc.
Provate a pensare se poi in un carcere dove è ristretto un “VIP” della criminalità (solo per non offendere nessuno si faranno i nomi solo di personaggi già passati a miglior vita) come un Messina Denaro, un Salvatore Riina.
Quanta curiosità si avrebbe nel sapere che c’è la possibilità di vedere come vive e che fa un grande capo mafia costretto nelle patrie galere?
Se la serie Gomorra ha spopolato ed era solo una finzione, figurarsi poter avere la possibilità di vedere in diretta il vero male della società.
Come vive uno spacciatore?
Che faccia ha un assassino appena sveglio?
Sono famose le aggressioni che capitano nelle sezioni, perché non monetizzare il macabro spettacolo che spesso viene messo in scena?
Se anche solo lontanamente il pubblico apprezzasse in maniera simile ai normali reality ci potrebbe essere un guadagno nell’ordine di miliardi di euro ogni anno…
Con a disposizione cifre del genere quante cose potrebbero essere migliorate presso tutte le nostre carceri? Ci sarebbe poi un effetto benefico secondario che non è per noi da sottovalutare: se i detenuti sanno di essere osservati in tutto quello che fanno cercheranno di rispettare molto di più le regole imposte dalla legge.
La polizia penitenziaria ha una carenza patologica di organico, poter contare su qualche milione di occhi in più non potrebbe che migliorare l’efficienza anche del loro operato.
In piccolo negli Stati Uniti sono già stati creati programmi televisivi dove si racconta la vita dei detenuti presso carceri a regime attenuato; evidentemente non è un’idea così balorda ma soprattutto è fattibile.
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Ci sarà stato chi ha pensato che invitare per la prima volta un papa al vertice dei potenti del mondo, valeva la pena in termini di immagine, anche a rischio di qualche sbavatura nel rodato copione che queste cose devono seguire.
Trattandosi di questo papa, Francesco, di sicuro ci sarà stato anche chi avrà ragionato sul come “confinare” il suo intervento ad un tema, l’Intelligenza Artificiale, in fondo potesse essere il meno problematico da fargli maneggiare.
Un tema che parla di futuro possibile, di grandi conquiste dovute alla capacità umana, di inimmaginabili opportunità di valicare nuove frontiere. Main un contesto come il nostro, quello della guerra globale, i grandi pensieri positivi sul futuro vengono soffocati sul nascere.
Basterebbe il 3 per cento
La corsa al riarmo, l’industria di morte della produzione di macchine di distruzione di massa, è il vero focus di questo G7 purtroppo. Eppure basterebbe il 3% di ciò che spendono i “grandi” per armarsi, a sfamare tutto il mondo e a cancellare il debito oppressivo della sua parte più povera, come ci ricorda:
“La violenza provocata dalle guerre mostra con evidenza quanta arroganza muove chi si ritiene potente davanti agli uomini, mentre è miserabile agli occhi di Dio” ha ripetuto il Papa nel suo Messaggio per la giornata dei poveri.
E la guerra di poveri ne produce sempre di più. E la guerra contro i poveri, come quella fatta ai migranti, è all’ordine del giorno. E anche quando si parla di IA, inevitabilmente, la guerra entra in gioco, con le sue follie e il suo dominio incontrastato su questo mondo.
Tra intelligenza “naturale” e “artificiale”
Ogni innovazione tecnologica prodotta dall’uomo, ha nell’uso che si decide di farne, la determinazione degli effetti, positivi o disastrosi, sulla vita e sul pianeta. È una intelligenza “naturale”, sulla quale ci interroghiamo sempre meno, che decide.
Sarà forse anche per questo allora, che l’Osservatore Romano pochi giorni fa, ha pubblicato un interessante articolo a firma di Roberto Cetera, proprio sul rapporto tra Intelligenza Artificiale e dispositivo di guerra. L’IA che uccide era il titolo, senza possibilità di equivoci.
Il materiale d’inchiesta preso a riferimento dall’Osservatore Romano, deriva da una pubblicazione del Guardian e di due giornali online israeliani, e riguarda informazioni raccolte soprattutto da alti ufficiali dell’esercito di Tel Aviv.
“Lavanda”
La pianificazione del massacro di Gaza, che ancora non sembra avere fine, è frutto dell’Intelligenza Artificiale. Il software utilizzato per indirizzare i caccia e le truppe d’assalto, per la scelta dei proiettili e delle armi di morte da utilizzare, per calcolare tempi, modi, stategie di uno degli eserciti più potenti del mondo, si chiama Lavender, ‘Lavanda’.
È un sistema sottoposto a pochissima supervisione umana. Seleziona gli obiettivi da “eliminare”, utilizzando un database di informazioni che vengono caricate dalla “control room” della guerra e riguardano profili di migliaia di “potenziali” nemici da colpire. Potenziali, perchè quelli “sicuri” erano già noti e sotto il tiro.
Ma l’eliminazione dei presunti nemici, ritenuti possibili fiancheggiatori delle milizie di Hamas o della Jhiad, è avvenuta sulla base di una “profilazione” di tutta la popolazione civile eseguita dal potentissimo software. 37 mila gli obiettivi individuati, e sottoposti al “processo di eliminazione”.
Lavender ha calcolato tutto, e direzionato gli attacchi, su una base di parametri indicati dal comando “umano” delle operazioni. Tra questi parametri anche il costo valutato di 15-20 vittime civili innocenti per ogni miliziano eliminato, fino a cento innocenti uccisi per ogni alto funzionario colpito.
L’uso dell’IA nella guerra contemporanea, segue una strada antica: le innovazioni tecnologiche sempre hanno avuto come applicazione primaria il “militare”, e questo a testimonianza di quanto sia importante per il nostro mondo “essere più bravi ad uccidere” di tutti gli altri.
La centralità della “tecnica” è spesso servita per creare alibi alle scelte, spesso efferate, prese dall’uomo. Allontanare la “coscienza” dalla “scienza”, ed affidare a quest’ultima una autonomia, una sorta di “neutralità”, allontana anche noi dal pericolo di impazzire di fronte alle mostruosità che siamo in grado di compiere.
Secondo Wired, che riprende la stessa inchiesta, diffusa dal sito di +972 e del giornale di lingua ebraica Local Call, i sei membri dell’unità dei servizi segreti israeliani conosciuta come “unità 8200” intervistati, sono fra coloro che hanno sviluppato e usato Lavender.
Sono loro che hanno rivelato che l’operatore umano, quello che metaforicamente o concretamente, “preme il grilletto”, ha venti secondi per dare l’ok all’obiettivo indicato dal software. Con un flusso continuo di richieste di autorizzazioni a procedere, e con una velocità del genere, nessuna “analisi dell’opportunità” fatta da umani, è possibile. Pena bloccare la guerra, che invece è l’imperativo ultimo, “fino alla vittoria”.
In tempi “normali”, cioè prima della carneficina del 7 ottobre, l’identificazione degli obiettivi avrebbe richiesto l’approvazione di un consulente legale, prima di poter dare il via all’attacco. Oggi non è più così: gli attacchi sono tutti “pre-autorizzati” di default, cioè decide la macchina, compreso il sacrificio di donne, uomini e bambini in altissimo numero.
Il “costo necessario” del quale parla Netanyahu riferendosi al massacro di Gaza, passa tecnicamente dall’eliminazione di qualsiasi procedura di “discernimento” umano, troppo lento e troppo imprevedibile. La macchina, una volta impostati i parametri, procede, e senza alcun problema di “coscienza”. Chissà se in un’ipotetico processo per crimini di guerra, qualche sodato un giorno dirà che “eseguiva gli ordini della macchina”.
Il costo
La guerra, il processo globale che domina il mondo in questo momento, se da una parte si sviluppa come dispositivo che tende ad eliminare il più possibile la dipendenza da valutazioni umane sul “costo” di vite innocenti da far pagare al nemico, dall’altra invece valuta con sempre maggiore importanza il “costo” economico.
Ad esempio sempre dall’inchiesta, si ricava che l’esercito di Tel Aviv fa ampio ricorso anche alle cosiddette “bombe mute”, munizioni non intelligenti che causano un alto numero di vittime innocenti, perché servono a distruggere completamente edifici che potrebbero essere “potenziali” nascondigli per i nemici. Queste bombe “sporche”, che vengono usate in grande quantità con effetti terribili sulla popolazione, costano molto di meno in termini di soldi. E dunque la ragione del loro utilizzo sta tutta nell’economia.
Gospel
Oltre a Lavander, la guerra è condotta da un altro software, Gospel (Vangelo). Questa applicazione dell’intelligenza artificiale è anche chiamata “fabbrica di obiettivi”. Stiamo parlando di una macchina che ha raddoppiato la fornitura all’esercito di obiettivi da colpire con “bombardamenti incessanti e non chirurgici”, passando da 50 bersagli al giorno, a cento.
Nessuno naturalmente spiega quali siano i dati che i profiler abbiano immesso per poi ottenere nome, cognome ed indirizzo di chi annientare. Gospel, dagli ambienti critici sull’uso di questi sistemi, è stato definito “la fabbrica degli assassinii di massa”.
Quando si parla di intelligenza artificiale, si aggiunge sempre il termine “generativa”. Un sistema di “apprendimento” della macchina, capace di elaborare una inimmaginabile quantità di informazioni che potrebbe attingere dalle fonti più disparate. Ad esempio, analizzando il consumo dell’acqua e dell’energia domestica di una popolazione “da profilare”, ma anche mettendosi in rete con i sistemi di controllo della mobilità in una metropoli, oppure con le chiuse di una diga, le dorsali dei dati, le pipeline del gas e del petrolio. Tutto è in rete.
Chi sono i padroni delle macchine? Le macchine hanno certo dei padroni “ufficiali”, ma siamo sicuri che sono quelli che crediamo? Il mercato che abbiamo eletto a unico regolatore globale della vita e della morte sul pianeta, è uno spazio complesso e non trasparente per definizione. Si può comprare tutto nel mercato, e soprattutto si può vendere tutto. E dunque, l’Intelligenza Artificiale Generativa, grande opportunità come dicono al G7, ma anche grande, enorme problema.
Che cosa siamo (diventati)?
Dipende sempre dall’uomo, non c’è dubbio, ma che tipo di “uomo” esiste oggi? Siamo convinti che al ritmo dei nostri salti tecnologici, non sia corrisposta anche una vera e propria mutazione antropologica riguardo a noi stessi? Può esistere l’uomo capace di discernere per il meglio, senza un nuovo umanesimo? Ancora una volta la “tecnica”, e le lodi cantate alla magnificenza dello sviluppo raggiunto, coprono i grugniti di un’uomo ridotto a corpo senz’anima.
I principi, i valori, l’etica, la trascendenza, a cosa servono se l’unico senso che diamo alla vita è uccidere di più e meglio degli altri, arricchirsi di più e meglio dell’altro, sfruttare di più e meglio di ognuno? Qual è il “modello di uomo” che dovrebbe decidere come usare al meglio per noi tutti, l’Intelligenza Artificiale?
Forse quell’Elon Musk che si è appena fatto accreditare uno stipendio annuale da 56 miliardi di dollari, sei milioni di dollari l’ora? E’ lui il Messia? Se non è lui, perché diciamo di affidarci a sistemi sociali e non ai singoli individui, la sistematica demolizione in corso di principi fondanti come quelli di “bene comune”, “collettività”, “solidarietà”, “diritti umani”, ci sta aiutando?
O stiamo solo prendendo atto che, come in guerra, non c’è tempo per una decisione umana, non c’è tempo per la coscienza, e dunque pre-autorizziamo la macchina, il mercato, il denaro, a decidere per noi, ridotti a nostra volta a merce per generare profitto?
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Welfare State e Maria Montessori, tracce della maturità: lo spirito del tempo che potrebbe venire
Quest’anno tra le tracce della maturità c’erano due argomenti che, a mio avviso, indicano lo “spirito del tempoche potrebbe venire”: l’importanza del Welfare (o Stato sociale)[1] e il contributo di Dewey e Montessori a come si dovrebbe fare scuola.
La cosa curiosa è che siamo in una fase in cui le cose vanno proprio nel senso contrario: il Welfare State è in declino ovunque in Occidente (in Oriente non è mai nato) e la scuola (almeno quella italiana) non applica certo le idee di Dewey e/o Montessori. Come mai dunque sono nelle tracce della maturità? Che messaggio mandano i commissari che di certo le hanno attentamente selezionate? Una qualche ragione ci deve pur essere ed ecco perchè parlo di “spirito del tempo che potrebbe venire”, o almeno lo spero.
Ralph Waldo Emerson, filosofo statunitense che concepiva la Natura come maestra di spiritualità, scrisse, a proposito dello spirito del tempo, che “se un uomo vuole familiarizzarsi con la reale storia del mondo, con lo spirito del tempo, deve cercare il sottile spirito della vita nei fatti più vicini”. In sostanza dobbiamo ascoltare i segnali deboli (spesso molto deboli) che ci arrivano da vicino. Non è facile in un’epoca in cui dominano messaggi grossolani e forti, l’immagine sulla sostanza, il profitto come nuovo Dio e gli influencer, ma ci si può provare.
In Occidente, l’area più ricca al mondo, abbiamo sviluppato molto l’autocoscienza ma, come contrappeso, anche la paura. Se uno Stato vuole però ridurre l’insicurezza dei suoi cittadini deve potenziare quei servizi che lo rendono più sicuro: scuola, sanità, pensioni, aiuti ai poveri, ai disabili a chi ha gravi problemi di salute, controlli sull’immigrazione e la criminalità.
Dagli anni ’70 del secolo scorso questi servizi pubblici sono cresciuti tantissimo, specie in Europa e in Italia, contribuendo alla nostra prosperità e sicurezza. Ma da almeno 30 anni sono in declino. Tra i molti cito “Sfidare il capitalismo” (ed. Fazi), di Bernie Sanders, democratico progressista statunitense (che nulla ha a che vedere con il liberale Biden), convinto che oggi la prosperità sia non tanto abbattere il capitalismo ma creare un diffuso Welfare che in America non è mai decollato.
Spero che prima o poi anche i nostri cittadini non accetteranno sempre che una crescente ricchezza non si traduca in veri servizi per tutti. Già l’Inghilterra presenta il conto il 4 luglio, dopo 14 anni di liberismo dei Conservatori, si annuncia una schiacciante vittoria dei Laburisti (i sondaggi dicono 44% verso 23%) e col sistema uninominale il Labour potrebbe prendere oltre 400 seggi su 630.
Martin Wolf è il più noto editorialista del Financial Times (il quotidiano finanziario più letto dal business anglosassone) e di recente ha scritto un libro (La crisi del capitalismo democratico, ed. Einaudi, pag.648, 24 euro) in cui mette in luce quelli che a suo avviso sono i limiti di un sistema di produzione (il capitalismo) che rischia di collassare sotto il peso delle sue “disfunzioni”. Wolf è un liberista e non a caso è un editorialista del più importante quotidiano finanziario occidentale, ma è anche consapevole dei limiti di questo sistema che comunque difende non essendoci, per ora, una seria alternativa. Propone riforme incisive che portino a un tenore di vita in crescita per tutti (e non solo per una minoranza): buoni posti di lavoro, uguaglianza e opportunità per i più deboli, sicurezza per chi ne ha bisogno, fine dei privilegi speciali per pochi, fine della corruzione. In sostanza: rafforzare il Welfare State. Wolf ce l’ha anche con il grande potere assunto dalla finanza globale e da manager ultrapagati che non rendono conto a nessuno[2]. L’idea è “restaurare” un capitalismo democratico rispetto a quello finanziario “cattivo” che oggi domina. Del resto come dargli torto visto il paradosso che i diritti negoziabili per la CO2, nati per i settori industriali che hanno più difficoltà a ridurre il loro impatto sul Pianeta, sono diventati un mercato finanziario, dove i primi dieci attori non sono le industrie ma i soggetti finanziari? Il programma di Wolf è nel complesso “moderato” ma, per molti aspetti, in totale controtendenza con quanto avviene nei nostri paesi occidentali (da cui la crisi della democrazia). Wolf a mio avviso ascolta “lo spirito del tempo che potrebbe venire”.
Trenta anni fa scrisse, sempre sul Financial Times, parafrasando Adam Smith, che una Nazione diventa ricca non se ha risorse energetiche o materie prime, non se ha una buona scuola o una buona sanità,… ma se ha “buone Istituzioni”, cioè se i suoi governanti fanno gli interessi dei loro cittadini, non rubano e sono trasparenti nelle scelte che si sforzano sempre di fare nell’interesse pubblico. Se si comportano così nel lungo periodo, questa Nazione diventerà ricca.
Una delle caratteristiche di molti nostri governanti è invece l’uso personale del potere. Stare al potere sviluppa negli anni amicizie e legami con potenti, ricchi, imprenditori, ma anche semplici amici o “amici degli amici” che portano a favorirli nei loro traffici, spesso contro l’interesse pubblico, in cambio di consensi elettorali per essere rieletti. Per questo è una buona norma quella del ricambio delle classi dirigenti e di avere al massimo due mandati – rammento che al tempo dei Comuni si amministrava massimo per un anno. In alternativa si crea una “cupola” politica, imprenditoriale e burocratica che, al di là dei reati, espropria i luoghi della decisione politica e della partecipazione dei cittadini. Ciò avviene quando si assumono decisioni sul futuro di un territorio in cui, anziché esserci il massimo di trasparenza e partecipazione, c’è il loro contrario.
Termino con la scuola di Dewey e Montessori. Qui i segnali che qualcosa non funziona nella scuola sono, per la verità, non sottili ma giganteschi. Eppure poco o nulla si muove in quanto non ci sono idee, né nell’attuale Governo né all’opposizione, su come cambiarla nel profondo. I commissari ci sono però “arrivati” e propongono (sommessamente) almeno Montessori e Dewey, per i quali conta tantissimo l’ambiente (studiare in una bella scuola), apprendere dall’ esperienza, esplorare l’ambiente circostante, i laboratori manuali e artistici. La scuola non può più essere solo banchi e lavagna come 200 anni fa. Tutte attività che fanno di queste scuole “private”, ottime scuole e che, se ci fosse un sistema nazionale di valutazione di tutte le scuole (private e pubbliche), sarebbero pagate al 100%, in modo da creare uno stimolo per tutti, premiando le pratiche migliori siano esse pubbliche o private. Era un’idea anche del ministro Luigi Berlinguer, bocciata nel 2000 da Regioni e sindacati. Ma Berlinguer aveva le idee chiare quando disse che “è pubblico non ciò che è erogato dal servizio pubblico ma ciò che svolge una funzione pubblica”, anche se a svolgerlo sono privati (che devono esser certamente controllati e verificati…ma alla fine pagati).
[1]Mercato e welfare state (stato sociale) nell’epoca della globalizzazione.
[2] E’ di oggi invece la decisione di JP Morgan e Goldman Sachs di dare bonus ai manager in UK (fuori quindi dai tetti UE stabiliti nel 2014) anche oltre 25 volte lo stipendio base del manager. Vedremo cosa dirà Starmer, prossimo primo ministro laburista.
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Julian Assange è libero e ha lasciato ieri il Regno Unito e la prigione vicino Londra dove era stato incarcerato per cinque anni. Di seguito il commento di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: “Il team legale di Assange ha agito nel migliore interesse del proprio cliente, con l’obiettivo di salvargli la vita, data la gravità delle sue condizioni di salute mentale e fisica. Era improbabile che avrebbe potuto resistere a ulteriori vicissitudini lungo i vari gradi della giustizia britannica. Pertanto, questa decisione è stata la migliore. Tuttavia, resta il fatto che questa persecuzione giudiziaria da parte degli Stati Uniti, senza precedenti e con la complicità di altri Stati, non avrebbe mai dovuto iniziare. Rimane il messaggio minaccioso nei confronti di chi vorrà seguire l’esempio di Assange, rivelando informazioni su crimini di guerra di rilevanza e interesse pubblico. Il messaggio è chiaro: attenzione a ciò che fate”.
Julian Assange ha lasciato il carcere di massima sicurezza di Belmarsh la mattina del 24 giugno, dopo avervi trascorso 1901 giorni. Gli è stata concessa la libertà su cauzione dall’Alta Corte di Londra ed è stato rilasciato nel pomeriggio all’aeroporto di Stansted, dove si è imbarcato su un aereo ed è partito dal Regno Unito.
Questo è il risultato di una campagna globale che ha coinvolto organizzatori di base, attivisti per la libertà di stampa, legislatori e leader di tutto lo spettro politico, fino alle Nazioni Unite. Ciò ha creato lo spazio per un lungo periodo di negoziati con il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, che ha portato a un accordo che non è stato ancora formalmente finalizzato. Anche Periscopio ha appoggiato convintamente questa campagna per la libertà di Julian Assange e la liberta di espressione.
Dopo più di cinque anni in una cella di 2×3 metri, isolato 23 ore al giorno, presto si riunirà alla moglie Stella Assange e ai loro figli, che hanno conosciuto il padre solo da dietro le sbarre.
WikiLeaks ha pubblicato storie rivoluzionarie di corruzione governativa e violazioni dei diritti umani, ritenendo i potenti responsabili delle loro azioni. In qualità di caporedattore, Julian ha pagato duramente per questi principi e per il diritto delle persone a sapere.
Mentre ritorna in Australia, ringraziamo tutti coloro che ci sono stati accanto, hanno combattuto per noi e sono rimasti totalmente impegnati nella lotta per la sua libertà.
Anche i topolini possono essere capitani coraggiosi. Le avventure di una topolina che salva navi in tempesta in “Bianca”, di Max e Lev Kaplan, edito da Orecchio Acerbo, in libreria dal 21 giugno.
I Kaplan, padre e figlio per la prima volta insieme sulle pagine di un libro pieno di vento e di acqua: una storia con suspense che racconta di come il coraggio di una piccola prenda forza dagli insegnamenti di un grande.
“Bianca – L’incredibile avventura di una topolina coraggiosa” è anche la storia di un’amicizia fra una topolina e Gustav, un solitario proprietario di faro, che indica alle navi la rotta lungo la costa. Un faro che mi ricorda la bellissima area di Liverpool Bay, paesaggio unico e indimenticabile in cui mi sono ritrovata anni fa.
Bianca infreddolita, spaventata dalla tempesta, trova rifugio nella casetta calda e accogliente dell’anziano marinaio Gustav che, accogliendola alla sua tavola poveramente ma generosamente bandita, le racconta gesta di tempi passati. Che bello trovare amici che ti ricevono a braccia aperte! Si può essere anche molto diversi, ma l’amicizia non guarda in faccia nessuno, non fa distinzioni. Sa dimostrarsi molto democratica.
I giorni passano e i due si abituano sempre più l’uno all’altra. Bianca aiuta Gustav quando e dove può, vuole essere un valido collaboratore del suo nuovo amico. E Gustav racconta a Bianca tutto quello che vuole sapere sul faro e il suo funzionamento. Le insegna persino l’alfabeto Morse. La topolina adora, però, i nodi marinari… Che fascino!
Un giorno, però, arriva l’imprevisto. La pioggia gelida, la tempesta battente, il vento inarrestabile, l’antenna traballante in cima al faro da riparare, la scalata, la febbre di Gustav, che non ha proprio più l’età per starsene alle intemperie e fare tanti sforzi. Gli ingredienti per una temibile escalation ci sono tutti.
E poi la radio gracchia, un S.O.S. dal mare in tempesta nella notte. Vento e onde alte fanno perdere la rotta. Serve qualcuno che accenda il faro per indicare la via di salvezza.
Il suo nuovo amico non riesce ad alzarsi dal letto, non è proprio riuscito ad eccedere il faro come ogni sera. Bianca è sola, ce la farà? Inizia una corsa contro il tempo. Bisogna salire le scale ripide del faro, arrampicarsi gradino per gradino, giocare di nodi, quelli che Gustav le ha mostrato con pazienza, saltare, trovare attrezzi utili, arrivare alla leva, destreggiarsi fra ruote dentate e viti, usare i fili della maglietta, ingegnarsi, supplicare il proprio cuore di smettere di battere all’impazzata. Per riuscire. Ce la si può fare.
Perché, a volte, a dispetto di tutte le previsioni, “anche se ti senti solo un topo, hai il cuore di un eroe”.
Max e Lev Kaplan, Bianca – L’incredibile avventura di una topolina coraggiosa, Orecchio Acerbi editore, Roma, 2024, 32 p.
Max Kaplan
Nato a Stoccarda nel 1998, si laurea in Studi Letterari Generali e Comparativi e Studi Cinematografici presso la Freie Universität Berlin nel 2023. Scrive poesie e racconti sin dalla scuola elementare. Nel 2017 esce il suo primo libro illustrato “Bianca – L’incredibile avventura di una topolina coraggiosa”, illustrato dal padre, Lev Kaplan. Nel 2023 pubblica “Sperimentare le prospettive del bambino nella letteratura contemporanea in lingua inglese: la coalescenza della realtà e della fantasia come elemento di esperienza”.
Lev Kaplan
Quando descrive sé stesso afferma: “non sono diventato un artista per caso, ma non volevo nemmeno che la mia vita mi portasse dove sono ora”. Nato a Lugansk (Ucraina) il 12 maggio 1967, si diploma in una scuola d’arte e trascorre molti anni a Kiev dove studia architettura. Nel 1992 lascia l’Ucraina per la Germania. Oggi vive a Stoccarda dove lavora come direttore creativo presso un’agenzia pubblicitaria. Dedica tutto il suo tempo libero alla pittura, alla grafica e all’illustrazione di libri per bambini. Le sue illustrazioni hanno reso magnifici molti testi classici per l’infanzia – dal “Barone di Munchhausen” alle “Fiabe” dei fratelli Grimm, passando per “Il giro del mondo in ottanta giorni”. Raffinato disegnatore di architetture e meccanismi complessi, sa essere anche pittore di evanescenti acquerelli in bianco e nero e di quadri con soggetti propri del realismo magico.
Il Consiglio di Stato ripristina i vincoli paesaggistici sul Comelico e sulla Valle d’Ansie.
Una grande vittoria di Italia Nostra, LIPU e Mountain Wilderness.
Italia Nostra
Il Consiglio di Stato con sentenza pubblicata il 21 giugno 2024 ha accolto l’appello con il quale le associazioni ambientaliste Italia Nostra Aps, Mountain Wilderness Aps e Lipu Odv hanno impugnato la sentenza del TAR Veneto n. 1280/2022 che ha accolto i ricorsi riuniti di primo grado dei Comuni di Auronzo, di Comelico Superiore, di Santo Stefano di Cadore, della Provincia di Belluno e della Regione Veneto, volti ad ottenere l’annullamento del Decreto Ministeriale n. 1676 del 2019, n. 1676/2019 recante “Dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area alpina compresa tra il Comelico e la Val d’Ansiei, Comuni di Auronzo di Cadore, Danta di Cadore, Santo Stefano di Cadore, San Pietro di Cadore, San Nicolò di Comelico e Comelico Superiore (BL)”.
La decisione del Consiglio di Stato ha ripreso la sentenza della Corte Costituzionale n. 64/2021 che indica nel paesaggio un bene unitario, primario, assoluto, che rientra nell’ unica competenza dello Stato e precede, comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio. Quindi il Consiglio di Stato ha ripristinato l’efficacia dei vincoli paesaggistici e ambientali decisi nel Decreto Ministeriale n. 1676 del 2019 ribadendone la piena legittimità.
Italia Nostra, Mountain Wilderness e LIPU, dopo essersi confrontati con gli avvocati Laura Polonioli e Andrea Reggio d’Aci, in un comunicato congiunto forniranno maggiori informazioni di dettaglio su questa sentenza destinata a fare storia nella difesa dei paesaggi naturali.
Belluno, 21 giugno 2024
La Presidente di Italia Nostra – Sezione di Belluno
“Come si è potuti arrivare a questo?” La domanda che si pone Francesco Pallante in apertura nel suo “Spezzare l’Italia. Le regioni come minacce all’unità del Paese”, in libreria da qualche settimana per Einaudi, scuote la coscienza del lettore. Come è potuto accadere, quali eventi, quali dinamiche, quale politica ha potuto immaginare uno stravolgimento così evidente della Costituzione italiana e del suo assetto territoriale? Quale orizzonte ci attende? Cosa accadrebbe qualora lo Stato si trovasse improvvisamente privato della possibilità e degli strumenti necessari per realizzare politiche sociali, ambientali, culturali, economiche improntate all’unità e alla solidarietà nazionale?
Le risposte dell’autore sono ispirate a un realismo amaro, ma, al tempo stesso, hanno il vigore di una denuncia, civile ancor prima che giuridica. Una volta in vigore, l’autonomia differenziata di Calderoli e della Lega, supinamente avallata da Giorgia Meloni in virtù di un patto implicito che coinvolge il contemporaneo snaturamento della forma di governo parlamentare (impensabile il premierato senza l’autonomia, ha ribadito in questi giorni, lo stesso Calderoli), produrrà conseguenze gravissime per i cittadini e per i loro diritti, incrementando differenze tra il Nord e il Sud del Paese già oggi insostenibili, nel campo dei diritti fondamentali, dei servizi e della loro fruizione.
L’autore, da costituzionalista, affronta i nodi giuridici del percorso tenacemente perseguito dal Governo in carica, ne segnala le incongruenze e i rischi, ne individua i presupposti storici e politici, restituendo un’immagine inquietante dell’Italia differenziata. Il filo rosso dell’analisi è lo stravolgimento della dimensione costituzionale dell’autonomia, non più pensata come funzionale all’emancipazione, come condizione strutturale in grado di garantire l’effettività dell’eguaglianza sostanziale che la Costituzione prescrive, all’art. 3, secondo comma, come compito della Repubblica, ma come fattore di separazione ed esclusione, a vantaggio dei territori più ricchi e dei cittadini più abbienti.
La riforma del titolo V della Costituzione nel 2001, che Gianni Ferrara definì “un monumento di insipienza giuridica e politica” ha rappresentato, nella prospettiva di Pallante, il momento culminante di un rovesciamento di senso che politicamente e giuridicamente era in atto da tempo. Sul piano politico, in virtù dell’emersione di una paradossale “questione settentrionale” fondata sull’ideologia del “prima il Nord”, stanco di vedere il proprio destino economico condizionato dai “parassiti” meridionali. Sul piano giuridico, attraverso la legge costituzionale n.1 del 1999, che nell’introdurre l’elezione popolare diretta del Presidente della Giunta regionale, accompagnata dal famigerato vincolo dell’aut simul stabunt aut simul cadent, diretto a legare in maniera inestricabile la sorte dei Consigli e del Presidente, aveva determinato la definitiva conversione “iper-presidenziale” della forma di governo regionale parlamentare-assembleare vigente sino al 1995. Quanto accaduto solo due anni dopo, nel 2001, rappresentò, spiega Pallante, il suggello di una tendenza che, all’epoca, i dirigenti del centro-sinistra non compresero, o, peggio, decisero incautamente di cavalcare in omaggio a un confuso tentativo di aggiornamento delle istituzioni, facendo così il gioco della Lega. Il risultato di quelle riforme – opportunamente ricorda l’autore – fu la progressiva spoliticizzazione della vita pubblica e politica regionale, simbolicamente rappresentata dalla marginalizzazione estrema delle assemblee rappresentative regionali, che la tragica esperienza della Pandemia da Covid-19 ha reso, se possibile, ancor più evidente.
La confusione che ne derivò – frutto di una riforma costituzionale priva di pensiero e di progetto, inadeguata nelle finalità e nel metodo (fu approvata, come si ricorderà, a maggioranza assoluta dei voti) – esaltò a dismisura la funzione degli interpreti, Corte costituzionale in primis. A partire dai primi mesi successivi alla modifica del Titolo V la Corte, ricorda l’autore, fu investita da un contenzioso di notevole entità, che provocò l’espansione dei propri poteri e la sua complementare esposizione a critiche giuridiche e politiche. Il risultato – che Pallante evidenzia puntualmente – è stato una trasfigurazione delle stesse parole. L’esempio delle materie trasversali, le ricadute sulla divisione delle competenze, l’intreccio tra materie, non materie, funzioni e compiti, l’emersione del criterio della prevalenza, sono sintomi della fatica compiuta dalla Corte e dagli interpreti per restituire coerenza minima a un sistema divenuto inevitabilmente caotico. Un compito improbo, riuscito solo in parte.
Spesso si dice che il potere ami l’ordine. In realtà è vero anche l’inverso. Il potere prospera nel caos, che, non a caso, consapevolmente produce, anche svolgendo in mala fede la sua funzione di dettare le regole. Per spezzare l’Italia, insomma, è necessario spezzare anche il diritto. Il disegno di legge Calderoli rappresenta, in tal senso, il suggello di una progettualità distorta che da tempo regna egemone nel firmamento dell’autonomia. Al tempo stesso rivela che, oggi, nulla riesce ad intaccare la folle logica di un Governo che, sin dal suo insediamento, ha scelto di fondare la sua azione sulla coppia premierato assoluto-autonomia differenziata. Le decine di audizioni parlamentari di costituzionalisti, economisti, sociologi, tecnici e le critiche serrate al progetto prodotte da associazioni, centri-studi, sindacati e persino dalla Conferenza episcopale italiana, il cui recente appello a “crescere insieme” è stato bollato dallo stesso Calderoli come mera “propaganda”, non sono riuscite a scalfire il nucleo del progetto, la cui definitiva approvazione è prevista in queste settimane.
Tutti gli interventi ricordati sono stati diretti ad evidenziare gli enormi limiti, di metodo, di contenuto, di indirizzo, di un disegno che mortifica le esigenze dell’autonomia costituzionalmente riconosciuta, che deprime il Parlamento, chiamato a ratificare senza indugio le intese che il Governo contratterà con gli esecutivi regionali, che coinvolge tutte le materie indicate in Costituzione senza fare alcun riferimento ai potenziali vantaggi, in termini di maggiore eguaglianza e maggiori diritti e che condiziona l’erogazione delle risorse necessarie per l’esercizio delle competenze trasferite all’azione successiva, segreta e misteriosa, di Commissioni paritetiche destinate a surrogare il Parlamento.
In questo quadro, a tinte assai fosche, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni inerenti ai diritti civili e sociali che, secondo la Costituzione, devono essere garantiti uniformemente su tutto il territorio nazionale, rischia di essere una toppa peggiore del buco, o, ancora, la copertura formale di un disegno per certi versi diabolico. Il laborioso procedimento funzionale alla loro individuazione, la sequenza oscura per la loro concreta definizione, l’incerta sorte delle materie e delle funzioni non LEP, immediatamente trasferibili, che riguardano ambiti di cruciale importanza, costituiscono, per Pallante, segnali indiscutibile di uno stravolgimento della Costituzione che, diversamente da quanto ha deciso di fare il Governo, prevede che sia il Parlamento a definire i LEP tramite legge, che essi siano individuati e definiti in tutte le materie (e non in alcune, come nel disegno di legge Calderoli) e che il loro integrale finanziamento si imponga rispetto alle esigenze di bilancio. Un quadro scomposto e frammentato, che, tra le altre cose, sconta “incredibilmente”, secondo l’autore, la scelta in base alla quale l’assegnazione delle risorse necessarie alle Regioni per l’esercizio delle nuove competenze non dipenderà dall’individuazione dei LEP, ma sarà definito da una commissione paritetica Stato-regioni “sulla base di una complicata serie di parametri incentrata sul gettito dei tributi raccolti sul territorio regionale”. La posta in gioco è, infatti, ancora una volta l’assegnazione del residuo fiscale che la Corte, già dal 2016, ha giudicato essere un parametro insussistente ed inutilizzabile, alle regioni più ricche che, all’indomani della differenziazione, lo saranno, inevitabilmente, ancora di più.
Cosa fare, una volta che il disegna di legge Calderoli sarà in vigore? Come contrastare, con gli strumenti del diritto, la deriva che Pallante lucidamente descrive? Il cerino, come già nel 2001, passa alla Corte costituzionale. Da un lato il Giudice delle leggi potrebbe decidere, data a posta in gioco, di aggiornare la sua giurisprudenza in materia referendaria sulle leggi atipiche e sulle leggi collegate al bilancio, come quella in oggetto, considerando ammissibili eventuali richieste referendarie rivolte alla sua abrogazione totale o parziale, dall’altro potrebbe risultare decisiva dinanzi all’eventuale presentazione di ricorsi in via principale proposti dalle regioni che, per bocca dei loro presidenti, si sono sinora mostrate ostili all’autonomia differenziata. Una strada impervia, alla quale non si sarebbe dovuti giungere, in nome della Repubblica una e indivisibile.
Michele Della Morte Professore di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi del Molise. Ha scritto, tra l’altro, Rappresentanza vs. partecipazione? L’equilibrio costituzionale e la sua crisi (Franco Angeli, 2013)
C’era una volta una canzone, una splendida canzone, una canzone – a volte succede – che parla di noi, di ieri e di oggi, della storia di ognuno e di tutti. Una canzone che racconta l’ “Italia che resiste”, L’Italia che, nonostante tutto, ha conservato la sua bellezza, l’Italia che sopravvive al dolore, alla fatica, alla corruzione, allo schifo che avanza.
Scrive e canta Francesco De Gregori:
La storia siamo noi
La storia siamo noi, nessuno si senta offeso, siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo. La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso. La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare. E poi ti dicono “Tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”. Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera. Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone, la storia entra dentro le stanze, le brucia, la storia dà torto e dà ragione. La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere, siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere. E poi la gente, (perchè è la gente che fa la storia) quando si tratta di scegliere e di andare, te la ritrovi tutta con gli occhi aperti, che sanno benissimo cosa fare. Quelli che hanno letto milioni di libri e quelli che non sanno nemmeno parlare, ed è per questo che la storia dà i brividi, perchè nessuno la può fermare. La storia siamo noi, siamo noi padri e figli, siamo noi, bella ciao, che partiamo. La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano. La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.
Ecco invece l’ultimo lo spot 2024“Enel, l’Italia nel mondo”. Vi sarà sicuramente passato sotto gli occhi, visto che va in onda puntualmente prima, dopo e in mezzo alle partite degli Europei di calcio. Se per caso ve lo siete perso, eccolo qui sotto:
In 60 secondi (ma c’è anche la versione breve di 30 secondi) e un quintale di retorica e di melassa, il colosso multinazionale celebra la sua storia e i suoi successi: “abbiamo unitol’Italia con la rete elettrica” dice lo spot. Il video è molto bello (i soldi possono quasi tutto) e la storia è molto lunga: dall’Enel delle origini (nostalgiche immagini in bianco e nero) ai fantastici traguardi del presente alla conquista del futuro (ecco le riprese degli ex campi di grano ora ricoperti di pale eoliche e di pannelli fotovoltaici).
Tralascio critiche ed obiezioni; ho una inguaribile antipatia per le multinazionali, ma Enel è liberissima di farsi pubblicità. Ci mancherebbe. Quello che è insopportabile è la confusione sulla storia: la storia di una azienda, la storia dell’Italia, la storia di ognuno di noi. Come se fossero la stessa cosa. La stessa storia. E non si tratta di un equivoco, è una confusione voluta e perseguita: nelle immagini, nelle scritte, e soprattutto nella canzone scelta per accompagnare tutto il video.
Da Carosello in poi, gli spot pubblicitari (allora si chiamavano réclame) hanno sempre attinto alle canzonette come colonna sonora. Questa volta però Enel esagera, sceglie una canzone che racconta la nostra storia, la storia di tutti gli italiani, e la trasforma in un enfatico inno aziendale.
E’ una tristezza che Francesco De Gregori, per vecchiaia e per vil pecunia, abbia permesso questo scippo. Enel però, anche se sempre più potente e multinazionale, non può privatizzare la storia. E la storia di Enel non è la nostra storia.
FERRARA: LO STATO DELL’OPPOSIZIONE E L’INTERVISTA A FABIO ANSELMO
Non era mia attenzione intervenire ora sulle questioni poste dalla campagna elettorale ferrarese ma l’intervista a Fabio Anselmo apparsa su La Nuova Ferrara di venerdì 21 giugno, mi ha fatto cambiare idea. Non si tratta di una risposta ad Anselmo, tantomeno di una polemica, ma di una riflessione sullo stato dell’opposizione, o della “sinistra”, in questa città. Una questione che mi interessa anche come cittadino. La mia risposta consegnata a La NuovaFerrara è stata tagliata in maniera talmente brutale da farmi apparire come un rancoroso nei confronti di Anselmo e non come un cittadino che vuole dare un umile contributo ad una situazione di stallo e turbamento che, se non viene affrontata subito “politicamente”, rischia di compromettere ancora di più la situazione. Questo pone un serio interrogativo sulla qualità della stampa locale, ma anche questo è un tema dibattuto da tempo. Ringrazio quindi Periscopio per aver ospitato questa riflessione.
Dall’intervista di Anselmo, e dalle parole usate, sembra che il futuro dell’opposizione alla destra, che governa la città a Ferrara, dipenda da lui. Con tutto il rispetto dovuto alla persona, spero non sia così. I partiti che più rappresentano l’opposizione a questa (e alla precedente amministrazione) hanno una loro responsabilità generata probabilmente anche dauna autoreferenzialità che non gli ha permesso di cogliere il malessere montante in città; quindi, devono assumersi la responsabilità di una analisi e di una proposta di futuro, auspicabilmente da condividere.
L’ossigeno che manca a Ferrara
Anselmo fa alcune affermazioni che si prestano ad un allargamento del dibattito. La prima riguarda il fatto che con la sua esperienza è arrivato ossigeno in città. Credo che di ossigeno alla città e all’opposizione, ne sia arrivato ben poco vista la condizione in cui si trova. Ovviamente l’ossigeno è sinonimo di linfa vitale, di stimolazione intellettuale, di pratiche attive della politica. Di tutte queste cose a Ferrara se ne parla da almeno tre anni, da quanto si è avviata la discussione sul Feris e se questo è stato bloccato lo si deve innanzitutto a un movimento di cittadinanza attiva (il Forum Ferrara Partecipata), al quale hanno aderito anche i partiti di opposizione. Quindi il poco ossigeno che gira nella fumosa Ferrara, “città dei balocchi”, è stato portato da questo movimento (che raggruppa tante associazioni), a detta anche di molti ferraresi che conoscono meglio di me la città.
Credo che le forze “istituzionali” di opposizione dovrebbero aprire un dibattito franco e sincero sul loro ruolo e sui loro errori, anche perché ricordo che questa è la seconda sconfitta. Quindi si persevera. Personalmente ritengo che l’errore primo sia stata la sottovalutazione della valenza politica del processo di “cittadinanza attiva”, avviato in questi anni con il contrasto al progetto Feris e l’avvio di una ricca discussione sul futuro della città, con “portatori di esperienze” invitati da tutta Italia e anche dall’estero. Un’esperienza che spero continuerà.
Gli errori del tavolo delle opposizioni
Su una cosa Anselmo ha certamente ragione, ed è la critica per come è stato gestito il “tavolo delle opposizioni”. Si è costruita la tavola rotonda, si sono individuati i “cavalieri”, si è iniziato a parlare di programmi senza che nessun contenuto trapelasse, mentre Lancillotto è arrivato molto dopo. Infine, aspetto più grave, si è chiusa la porta alla “cittadinanza attiva”, che era l’aspetto di novità di questa città e su cui si poteva innescare, fin dall’inizio, un processo unitario di individuazione di un candidato e di un programma, anche attraverso primarie. E quindi il campo largo si è ridotto ad un budello stretto e buio nel quale sono transitati in pochi.
Soffermiamoci sul PD a Ferrara: 31,4% alle Europee e 22,51% alle amministrative: non vi sembra necessaria una riflessione approfondita? Mi farebbe piacere sentire anche il parere di Fratoianni e Bonelli che hanno brutalmente delegittimato localmente i loro quadri dirigenti e elettori, in nome di una razionalità superiore che, visti i risultati, si è manifestata irrazionale. Anche i 5 Stelle hanno molte domande a cui dare risposte, con le loro spaccature a “processo avviato”.
Anselmo, forse per il lavoro che fa, mi sembra una persona che non si mette in discussione; quindi, si pone come capopopolo, ahimè con poco popolo. Si presenta infatti come leader dell’opposizione e non del suo gruppo di opposizione, non considerando che esiste anche un’altra opposizione, limitata ma significativa, rappresentata da Anna Zonari che comunque Anselmo non ha mai riconosciuto come interlocutrice, rifiutando i tanti confronti che le elezioni avevano creato. Rimango convinto che se i fronti anti-destra si fossero confrontati fin da subito lanciando un messaggio di condivisione dell’obiettivo, pur nel rispetto delle differenze, forse il confronto sarebbe stato più complesso. La complessità è facile da evocare difficile da praticare soprattutto quando nel “campo largo” ci sono forze che nonostante ripetute sconfitte si ritengono depositarie dell’arte della politica, mentre le ragioni degli altri non vale la pena ascoltarle.
Autoritarismo e democrazia
Credo che nell’intervista sia particolarmente infelice il passaggio dove Anselmo invita la Zonari ad ascoltare Barbero per prendere atto che la democrazia è minacciata. Questo passaggio rivela arroganza e disinformazione. La crisi della democrazia e la crescita dell’autoritarismo, è stato uno dei temi strutturali delle riflessioni de “La Comune”, io stesso ne ho parlato in diverse occasioni. Bastava ascoltare e riflettere sulle questioni poste dagli altri. Con tutto il rispetto per Barbero, persona intelligente e grande divulgatore, non è che prima di lui non fossimo al corrente dei pericoli della democrazia e dell’aumento dell’autoritarismo. Nel mio piccolo questo tema l’ho ribadito molte volte sulla stampa ferrarese e non solo, parlando di un Alan Fabbri più orientato al “comando” che non al “governo”. In ogni caso Mike Davis, Noam Chomsky, Luciano Gallino, Nadia Urbinati, Fabrizio Barca, Thomas Piketty per citare alcuni tra i più conosciuti ne parlano da decenni.
L’autoritarismo neoliberista, che sta risucchiando la democrazia, come la conoscevamo, si precisa sempre più: comando/presidenzialismo; deriva bellica; neocolonialismo riguardante i migranti e le materie prime critiche; limitazione del pubblico a favore delle imprese; limitazione delle politiche sociali e interventi pubblici a favore di banche e imprese; esautoramento dei parlamenti (e dei consigli comunali), retorica comunicativa arricchita di bugie. Questa dinamica è avviata da almeno 40 anni e ha determinato un aumento perentorio delle disuguaglianze. Un processo che rivela anche l’incapacità della democrazia e dei partiti che la interpretano, di affrontare la complessità sopra citata. Perché anche i “progressisti” non sono rimasti indifferenti alle sirene neoliberiste e alla prevalenza delle ragioni del “mercato” a scapito delle politiche sociali e di contrasto alle disuguaglianze.
Prima persona o gioco di squadra?
Sottolineo questo aspetto perché Anna Zonari è la portatrice di un “noi”, ovvero rappresenta un gioco di squadra (La Comune) che su questi temi riflette da sempre e che ha introdotto nel dibattito politico. Quindi forse un po’ di umiltà e condivisione da parte di Anselmo farebbe bene a un dialogo orientato alla costruzione di un tavolo di tutte le opposizioni (partiti, associazioni, cittadinanza attiva), in grado di costruire una alternativa condivisa. Sempre che non ritenga di essere lui l’opposizione e l’alternativa…punto.
Questa ripiegamento su se stesso mi sembra emerga continuamente, non so se consciamente o inconsciamente, questo anteporre sempre la prima persona ad ogni discorso: “la mia volontà”, “io farò”, “io ho fatto”, questo minacciare continuamente che lui un lavoro ce l’ha e che non vive di poltrone pubbliche (come se anche gli altri non lavorassero) credo sia una deriva della politica come personalizzazione cha ha il suo contraltare nella vittoria di Fabbri, il vero vincitore, più che la coalizione che lo sosteneva (fatto che forse un giorno un indovino ci spiegherà). Riflettendo sul confronto elettorale mi si rafforza la convinzione che non si siano confrontati due coalizioni portatrici di valori e visioni del mondo diverse, ma due persone che, come ho scritto altrove, mi ricordano i lottatori di Francisco Goya che mentre continuano a menarsi affondano nelle sabbie mobili, e noi con loro.
La personalizzazione è la negazione della democrazia come cittadinanza attiva ed è una delle manifestazioni dell’autoritarismo, ma di questo ne parleremo in altra sede, dobbiamo però prendere atto del consenso crescente che premia le forze che restringono gli spazi di democrazia, in nome di un populismo alla “liberi tutti” e di un indebolimento delle regole come spazio di libertà condiviso di una comunità.
Abbandono del voto e democrazia partecipata
La prova della sfiducia della democrazia è nel crollo della partecipazione al voto, o nella disgiunzione del proprio voto al medesimo partito tra una elezione europea e una locale, come detto sopra. Probabilmente l’incapacità della democrazia contemporanea di affrontare la complessità non consente di contrastare l’autoritarismo e le manifestazioni illiberali, il problema va affrontato più radicalmente, favorendo l’evoluzione di forme di democrazia in grado di affrontare tale complessità e le ansie che genera, a partire da quella ambientale.
L’unica prospettiva in grado di riempire questo vuoto di democrazia credo sia la democrazia partecipata, dunque un confronto (quindi il noi) informato, aperto, consapevole e necessario per contrastare le derive che portano la maggioranza delle persone a identificarsi in qualcuno che comanda, paternalisticamente. Va ridata dignità e riconoscimento alle persone, e come afferma Fabrizio Barca lavorando per una “identità di destino e non identità delle origini”. Questo riconoscimento mette in discussione (perlomeno nel campo progressista e democratico) anche il rapporto tra partiti e cittadini e la politica come ricerca di un leader prima che come definizione del percorso che vogliamo intraprendere e del quadro di valori ai quali vogliamo riferirci. È arrivato il momento di riapparecchiare il tavolo delle opposizioni invitando più persone a sedersi. Ovviamente ognuno porti qualcosa da bere e da mangiare.
Perfect days (4). Il dolore sereno di un uomo compiuto
Dopo averne letto da varie parti, compreso Periscopio: (qui con Giuseppe Ferrara, qui con Francesco Monini, infine qui con Eleonora Graziani), alla fine anch’io ho visto Perfect Days, il film di Wim Wenders. Il motivo per cui l’ho guardato esattamente in un certo giorno, è che in quel giorno, la mattina, ho fatto quella che (secondo me) era una accurata pulizia del bagno di casa mia. Siccome avevo letto che il protagonista di Perfect Days (Hirayama) è un uomo il cui mestiere è pulire scrupolosamente i bagni pubblici di un quartiere di Tokyo, il pomeriggio di quello stesso giorno ho dovuto guardare il film, per confrontare il mio livello di pulizia con quello di Hirayama.
Naturalmente ne sono uscito sconfitto. Non voglio dire umiliato, perchè credo che Hirayama non avrebbe mai quell’intento verso nessuno. Anzi, a Hirayama non verrebbe proprio in mente l’idea di una competizione, non solo nel pulire i bagni. La consolazione è che perdereste tutti, se ci fosse una gara. La svolta è che da quando ho visto il film voglio sempre pulire io il bagno. Voglio farlo io. Mi sono appassionato.
Prendere passione per la pulizia di un bagno è, per me, assimilabile ad appassionarmi alla stiratura delle camicie, o alla matematica. Hirayama mi ha fatto capire quanto è importante mostrare anziché insegnare. Quanto la capacità di trasmettere una propria passione possa influenzarti più delle tue attitudini innate, vere o presunte. Il prossimo passo sarà quello di sviluppare il pollice verde, a me che sono noto per far appassire piante e fiori. Quanto al resto, mi stavo già avvicinando alla giornata di Hirayama, allo stile della sua giornata. Una routine fatta di poche cose, semplici, curate nel dettaglio, con attenzione e concentrazione. Ecco: la concentrazione su quello che stai facendo, come se fosse la cosa più importante del mondo, e in quel momento lo è. Questa capacità di essere completamente dentro le cose nel momento in cui le stai vivendo, e non solo ricordando a posteriori quanto stavi bene in quel momento, ma senza rendertene conto. Mi ha fatto venire in mente la concentrazione di un cane durante la sua passeggiata: il totale coinvolgimento di ogni fibra del suo essere cane nell’annusare, segnare e marcare con il suo odore ogni tappa del percorso, sempre lo stesso, senza avere bisogno di altro, senza aspirare ad altro che non sia il colmare il proprio posto nel mondo. Come le foto ripetute allo stesso albero, tutti i giorni, con la stessa fotocamera analogica. Quell’albero che è lì da prima di te, sarà ancora lì dopo di te, e ti sta accanto, come un amico silenzioso, per il tempo che la natura ti concederà.
Il film lascia intuire, con rapidi cenni, quel che c’è stato prima del film, e quel che ci sarà dopo. Il dolore e la serenità del distacco dalle persone e dalle cose del prima. In questo mi ha ricordato la tecnica di certi racconti perfetti di Hemingway o di Carver: il racconto illumina un frammento di vita, che ha un prima dell’inizio e avrà un dopo l’ultima riga dell’ultima pagina. Perfetto: nell’etimo latino significa compiuto, che è cosa diversa dall’essere privo di difetti. Una giornata perfetta di Hirayama è una giornata alla quale non manca niente, proprio perchè manca il superfluo, l’inessenziale, l’inutile. Uno dei principali segni di questa compiutezza priva di orpelli è il fatto che la tecnologia che usa Hirayama si è fermata agli anni settanta. Hirayama ascolta la musica sul furgone con cui va al lavoro mettendo su i nastri, le musicassette, dove non puoi saltare i brani, non puoi selezionare le canzoni, non puoi impostare un ordine casuale. E’ una tecnologia che ti permette di fare solo la cosa per cui è stata concepita, perchè troppe funzioni ti distraggono, e non ti concentri sull’essenziale. Esattamente il contrario di quanto accade con la tecnologia contemporanea, che dandoti infinite possibilità finisce per obliterare la concentrazione, e ti affoga in una dimensione di distrazione permanente che ha modificato in senso evolutivo, ormai, la curva della nostra attenzione.
Un film privo di una trama che si definisca “avvincente” può risultare noioso? Certo: allo stesso modo in cui una trama troppo piena di eventi può risultare stucchevole. Non chiedetemi mai la trama di un’opera, a meno che non vogliate mettermi in difficoltà. Io non ricordo mai le trame dei film, e nemmeno dei romanzi. Mi rimangono le atmosfere, le sensazioni, le scene. La scena finale di Perfect Days non merita di essere raccontata, tantomeno spiegata. Per quanto si intuisca che dietro c’è una tecnica attoriale magistrale, la sua meraviglia risiede appunto nel fatto che non è la maestria a rimanere impressa, ma le emozioni della vita di Hirayama, quella che è stata, quella che è e quella che sarà. Mostrate con tale forza da essere più efficaci di qualunque narrazione, di qualunque didascalia.
Come sarà incontrare Cristo nei Salmi? Per quali sentieri raggiungerlo? Quali segni e personaggi ci guideranno per arrivare a riconoscere e ad accogliere Lui, in quella raccolta di suppliche e ringraziamenti, desolazioni e consolazioni, notti e giorni mirabilmente intessuti dalla fede di Israele, che va sotto il nome del re Davide, figura e tipo del Re Messia?
Preghiere da subito raccolte dalla Chiesa delle origini quali irrinunciabili parole per la sua liturgia della lode, da intrecciare alla stessa liturgia eucaristica.
È il Cristo stesso che ricorda ai due discepoli di Emmaus che le Scritture, i Profeti e i Salmi parlano di lui (Lc 24, 44).
Incontrare Cristo nei Salmi sarà come incontrarlo in un giardino; sì, proprio così, sarà come incamminarsi per i sentieri di un giardino, quello del mattino di Pasqua, dove Maria di Magdala dapprima lo scambiò per il custode ma poi lo riconobbe come il suo Maestro (Rabbuni).
Non dice forse s. Atanasio, scrivendo a Marcellino sulla intelligenza dei Salmi, che questo libro «è come un giardino che contiene i frutti di tutti gli altri libri e mentre dà a questi lo squisito sapore della poesia, ve ne aggiunge pure dei propri»?
Lo Pseudo Macario, nelle sue Omelie spirituali, mettendo in guardia il cristiano sulla sua terra interiore, perché non sia priva di un contadino che la lavori, non esita ad indicare il Cristo come l’Ortolano celeste, che coltiva il giardino dello Spirito, e Thomas Eliot ci ricorda che, insieme al Cantico dei Cantici, il Salterio è Giardino dei simboli ed a coloro che vi si incammineranno sarà concesso di sentire la stessa Parola di Dio parlare di se stessa e del suo mistero.
Stella pomposiana
Una volta mi trovavo nell’abbazia di Pomposa, guardando il catino absidale con l’affresco del Cristo Pantocrator. Il Cristo, seduto nel trono della sua gloria, è racchiuso in una mandorla con i colori dell’arcobaleno in un cielo stellato. Lo sguardo vi cercava una via d’accesso, un orientamento tra le stelle per farsi più vicino, più intimo a quella visione.
Così spostandosi dal centro della navata verso quella di destra, lo sguardo vi scorse dipinta sulla colonna una stella ad otto punte già vista nelle ceramiche del nartece: la stella con la scritta tra raggio e raggio: P o m p o s i a.
Pensai, il Cristo ai viandanti che lo cercano si fa precedere ancora una volta da una stella. Sotto di essa intravidi come un ingresso simile a una grotta; anzi a guardare bene era un portale da cui, oltre la soglia, si vedeva un albero sbiadito ma carico di frutti.
Pensai subito che fosse l’ingresso di un giardino, il giardino del salterio, quello che tra le mura di Pomposa i monaci, per molti anni, avevano coltivato intrecciando melodie e salmi, l’hortus conclusus del Cantico dei cantici (4,12), il luogo più intimo che c’è, quello dell’amore.
Da quella porta idealmente sono risalito al catino absidale ed ho scorto così un angelo con un cartiglio in cui era scritto: «Beati gli occhi di coloro che vedono quello che voi guardate!».
Dal Padre nostro ai salmi: una via alle beatitudini del monte
San Romualdofondatore di Camaldoli, che fu monaco nelle nostre valli, nel Pereo all’inizio del secondo millennio cristiano, ricordava a Bruno di Querfurt e ai suoi cinque monaci che i salmi sono l’unica strada per fare esperienza di una preghiera veramente profonda: “Una via in psalmis” che conduce all’unione con Cristo al “donum lacrimarum” e al “privilegium amoris”.
Se i salmi sono il giardino della Bibbia, la preghiera del Pater noster è nel giardino il luogo più segreto, la fonte sorgiva, il senso profondo e compiuto di tutte le parole contenute nelle Scritture antiche e nuove.
Scrive s. Agostino: «Se passi in rassegna tutte le parole delle sante invocazioni contenute nella Scrittura, non troverai nulla, a mio parere, che non sia contenuto e compreso nel Padre nostro. Chi dice: “Come ai loro occhi ti sei mostrato santo in mezzo a noi, così ai nostri occhi mostrati grande fra di loro” (Sir 36, 3) e: I tuoi profeti siano trovati pii (cfr. Sir 36, 15), che altro dice se non: “Sia santificato il tuo nome”?
Chi dice: “Rialzaci, Signore nostro Dio; fa` risplendere il tuo volto e noi saremo salvi” (Sal 79, 4), che altro dice se non: “Venga il tuo regno”?
Chi dice: “Rendi saldi i miei passi secondo la tua parola e su di me non prevalga il male” (Sal 118, 133), che altro dice se non: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”?
Chi dice: “Non darmi né povertà né ricchezza” (Pro 30, 8), che altro dice se non: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”?
Chi dice: “Ricordati, o Signore, di Davide, di tutte le sue prove” (Sal 131, 1) oppure: “Signore, se così ho agito, se c’è iniquità nelle mie mani, se ho reso male a coloro che mi facevano del male, salvami e liberami” (Sal 7, 1-4), che altro dice se non: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?
Chi dice: “Liberami dai nemici, mio Dio, proteggimi dagli aggressori” (Sal 58, 2), che altro dice se non: “Liberaci dal male”?
Si deve cercare la vita beata e chiederla al Signore Dio. In che consista l’essere beato è stato discusso a lungo da molti con motivazioni diverse. Ma non è necessario ricorrere a tanti autori e a tante trattazioni. Nella Sacra Scrittura è stato detto tutto con poche parole e con piena verità: “Beato il popolo il cui Dio è il Signore” (Sal 143, 15).
Per appartenere a questo popolo e arrivare a contemplare Dio teniamo presente questo: “Il fine del precetto è la carità che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera” (cfr. 1 Tm 1, 5)», (Lettera a Proba, 130, 12-13).
Nei salmi l’umanità è benedetta: canta l’amore
«Il suo amore è per sempre» : Sal 136 (135); 118 (117); 107 (106); 100, (99).
Agostino sentiva in tutti i salmi le voci degli uomini e delle donne delle beatitudini che esultavano e che gemevano, che si allietavano nella speranza o che sospiravano un’umanità nuova.
Per Ambrogio il salterio è una benedizione e ne indica l’efficacia: «Mitiga l’ira, libera dalle sollecitudini, solleva dalla mestizia. È protezione nella notte, istruzione nel giorno, scudo nel timore, festa nella santità, immagine di tranquillità, pegno di pace e di concordia che, a modo di cetra, da voci molteplici e differenti ricava un’unica melodia.
Il salmo canta il sorgere del giorno, il salmo ne fa risonare il tramonto. Nel salmo il gusto gareggia con l’istruzione. Nello stesso tempo si canta per diletto e si apprende per ammaestramento. Che cos’è che non trovi quando tu leggi i salmi?
In essi leggo: “Canto d’amore” (Sal 44, 1) e mi sento infiammare dal desiderio di un santo amore. In essi passo in rassegna le grazie della rivelazione, le testimonianze della risurrezione, i doni della promessa. In essi imparo ad evitare il peccato, e a non vergognarmi della penitenza per i peccati» (Commento sui salmi, Sal 1, 9-12).
Basilio, che ha ispirato con le sue omelie lo stesso s. Ambrogio e s. Agostino, ne elenca i pregi: «Il salmo è tranquillità dell’anima, arbitro di pace, allontana il tumultuare e l’ondeggiare dei pensieri. Reprime infatti l’ira dell’animo, corregge e modera la sfrenatezza. Il salmo concilia l’amicizia, riconcilia coloro che sono separati, dirime, le inimicizie.
Chi infatti può ancora ritenere come nemico colui col quale ha elevato a Dio un unico, comune canto? Così la salmodia procura anche il massimo dei beni, l’amore, in quanto introduce l’uso del canto comune, come una specie di vincolo di concordia, e in quanto fonde armoniosamente la moltitudine nella sinfonia di un solo coro…
È scudo nei timori notturni, è pausa nelle fatiche diurne; è sicurezza dei fanciulli, ornamento di coloro che sono nel fiore dell’età, consolazione ai vecchi. È l’ornamento per le donne; rende abitabili i deserti, modera le comunità umane. È la base per coloro che muovono i primi passi sulla via della perfezione, incremento di coloro che progrediscono in questo cammino, sostegno di coloro che giungono alla meta» (Omelie sui salmi, Paoline, alba 1978,39-40).
La fede si fa canto e la preghiera si fa poesia in un dialogo senza fine
«I salmi sono espressione poetica di esperienze religiose» ci ha ricordato il biblista Alonso Schökel. La poesia dei salmi è trasformare l’esperienza religiosa in parola che canta o che grida, che supplica o che ringrazia, che attende, che cerca e che trova, che abbassa e che rialza, una parola che è attraversata dal dolore e dal dubbio ma che va sempre oltre, oltre la morte.
I salmi creano così consapevolezza di sé e consapevolezza dell’altro, del mondo dentro e di quello fuori, del cielo e della terra; è il loro movimento dentro e fuori, in alto e in avanti. Ogni salmo è come il continuo ribalzo di una spola sul telaio, un gioco di alternanze dall’io al tu e al noi che genera relazione tenendo insieme, accorpando un filo ad un altro filo.
È come un ritornare su di sè e poi ancora volgersi verso l’altro, come una tessitura della propria con la vita d’altri: «Comprendere e spiegare i salmi è soprattutto comprenderli e spiegarli come espressione di esperienze religiose. Se puntiamo lo sguardo al fine, Dio, i salmi interpellano; se guardiamo all’orante, i salmi esprimono. Così distinguiamo questo corpo letterario dalla profezia, nella quale Dio interpella l’uomo; e dalla storia, che è primariamente informazione.
È vero che ogni parola di Dio all’uomo lo interpella; anche i salmi, come parola ispirata. Ma all’interno di questo valore generale, i salmi hanno uno statuto proprio. Come portatori dello Spirito, mettono in grado l’uomo di rivolgersi validamente a Dio, in spirito e verità. I salmi sottolineano il ruolo di protagonista dell’uomo» (A. Schökel, Trenta salmi: poesia e preghiera, Dehoniane, Bologna c1982, 20).
Essi sono testimoni nel tempo e nello spazio di una esperienza vera, di una storia di storie, luogo di libertà che si donano, attestano infatti la reale possibilità di incontrare Dio come l’altro della propria vita e noi della sua:
«Diciamo che l’esperienza è vera, quando raggiunge veramente un termine reale; ossia, l’esperienza non è puramente immanente; tende realmente ad un termine estrinseco ad essa; non è pura illusione, perché in qualche modo raggiunge ciò verso cui tende. Colui che attualmente, recitando un salmo, raggiunge realmente il vero Dio, lo adora in spirito e verità» (ivi, 24).
Il Cristo, cantore dei Salmi
È Lui il mirabile cantore dei salmi, dice s. Agostino. Egli canta per sé e per ciascuno di noi e per ogni uomo e ogni donna che viene in questo mondo. Egli, a dodici anni, sale a Gerusalemme cantando i salmi delle ascensioni e di pellegrinaggio, il salmo 122 (121): «Chiedete pace per Gerusalemme… Sopra di te scenda la pace… e chiederò “venga su di te il bene”».
Abbazia di Pomposa: Cristo Pantocrator
Quando si fa commensale con i suoi il Cristo canta l’Hallel pasquale dei salmi 114 (113)–118 (117), che dice la speranza presente dentro la storia, e che si compirà andando oltre, in una nuova storia. Nell’ultima cena il canto diventa la sua stessa vita, l’amoroso transito significato nel segno del pane spezzato dato ai suoi e per tutti: «Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (Mt 26,30 = Mc14,26).
I versetti centrali del grande Hallel[166 (114-115), 9-8] dicono il motivo del canto e della lode: «Sì, mi hai strappato la vita alla morte, mi hai terso gli occhi dal pianto, trattenuto il piede dal precipizio. Così avanzerò alla presenza di Dio nei campi della vita».
In croce, sul suo intimo tormento, il Cristo silenziosamente fa scendere il salmo 22 (21), 2: «Élôï, ÉIôï, lama sabachthani!/ Dio mio, Dio mio, perché, ma perché mi hai abbandonato?». Ma l’ultimo salmo lo dirà a modo suo: poche parole come un cartiglio di foglie secche inframezzate al vento, spirando il suo spirito: «Alle tue mani affido il mio spirito».
Fanno parte del salmo 31 (30), parole di colui che prega nella prova; «Mi affido alle tue mani; tu mi riscatti, Signore, Dio fedele… hai conosciuto le mie angosce; non mi hai consegnato nelle mani del nemico, hai guidato al largo i miei passi… Ma io confido in te, Signore; dico: “Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono i miei giorni”».
Senza dimenticare poi il salmo 10: «Perché, Signore, stai lontano, nel tempo dell’angoscia ti nascondi? Il misero soccombe all’orgoglio dell’empio e cade nelle insidie tramate… Eppure tu vedi l’affanno e il dolore, tutto tu guardi e prendi nelle tue mani. A te si abbandona il misero, dell’orfano tu sei il sostegno».
La liturgia dei salmi è come un bacio
Così i salmi pregati nella liturgia delle ore costituiscono il contesto vitale, credente di chi li ha scritti e tramandati, nel susseguirsi delle generazioni di un popolo, forgiati pure nell’abbraccio con la poesia, il canto e la preghiera degli altri popoli del vicino Oriente e pure di chi continua a proclamarli ed a pregarli anche oggi.
Questo perché essi comunicano l’esperienza stessa di una vita che si lega in alleanza, che cerca l’incontro e viene interpellata a corrispondere, un fare strada insieme per aprire spazi di comunicazione, solidarietà, amorevolezza e comunione.
Così nei salmi si intrecciano il desiderio di Dio stesso di parlare agli uomini come ad amici: «Ascolta, popolo mio… Sono io il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto; apri la bocca e io la riempirò» [Sal 81 (80), 9-11] con il desiderio dell’uomo di ricevere dentro di sé, per custodire nell’intimo e non solo all’udito, le parole di Dio: «Apro anelante la mia bocca, perché desidero le tue parole» [Sal 119 (118),131] e ancora: «Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode» [Sal 51 (51),17].
Di Mosè è detto che Dio parlava con lui bocca a bocca e che finì proprio bene i suoi giorni, perché morì nel bacio di Dio, così narra il midrash della sua morte. Nel simbolismo della bocca è la totalità dell’uomo che si rapporta alla totalità veniente dell’altro: significa l’attuarsi del dono e dice pure la sua dimensione costitutiva che è l’essere in relazione, desiderio: mai senza l’altro. Attraverso l’immagine della bocca è la relazionalità dialogica e amorosa che viene alla luce e si irradiata.
Così nel simbolo della bocca-soglia, passaggio, viatico alla parola, si esprimono le dimensioni vitali di ogni persona, quella comunicativa, nutritiva e affettiva. «Mi baci con i baci della sua bocca!»: questo desiderio sta proprio all’inizio del Cantico dei cantici e il termine greco philesáto me e osculetur me della Nova Vulgata, con cui si apre il desiderio della Sulamita, sembra avere qui il senso di una realizzazione immediata e piena del desiderio: «Mi baci subito» (Ct 1,2), un ardente desiderio di unione, non solo proprio dell’amore umano, ma, in modo indicibile, dell’amore mistico.
Il salmo 63 (62) è detto infatti canto dell’amore mistico e così lo traduce David Maria Turoldo: «Dio, Dio mio, o amato Signore, solo te fin dall’alba desidero, il mio essere ha sete di te, per te spasima l’anima mia come arida terra riarsa… le mie labbra per questo ti cantano… A te l’esser mio si stringe, in tua destra è il mio sostegno».
Scrive la teologa e liturgista Morena Baldacci «Baciare qualcuno, baciare un oggetto, abbracciarsi, scambiarsi un bacio, sono riti che accompagnano il nostro vivere quotidiano, ma anche il nostro celebrare cristiano… nelle favole il bacio è in grado di ridonare la vita, di spezzare incantesimi o di trasformare i rospi in principi, anche nella realtà il bacio è pegno sicuro di speranza e di ogni trasformazione!
Nella poesia di David Maria Turoldo, il bacio narra il dramma della lotta tra la morte e la vita, respiro dato e respiro tolto… La liturgia [e così pure quella del salterio] si fa maestra e guida degli affetti: li alimenta e al tempo stesso li contiene, li illumina e purifica, li accende e li eleva, preserva quel delicato confine tra l’esternazione e il riserbo, educando così al giusto rispetto dell’intimità. La liturgia è come un bacio…» (in: Donne, Chiesa, Mondo, mensile de L’Osservatore Romano, n. 124, luglio 2023, 32-33).
«Con i baci che imparai dalla tua bocca
le mie labbra impararono a conoscere il fuoco»
(Pablo Neruda)
«Mi baci con i baci… ». Ma è con il bacio
che Egli il suo respiro di nuovo si prende:
il respiro che alitando bocca a bocca
ti rese «persona vivens», lassù …
Da quella vetta dunque inizia
la grande Contesa
e Morte con Amore convive.
E tu hai solo una scelta:
aspirare il suo alito
con la stessa passione…
(David Maria Turoldo, Canti ultimi, Garzanti, Milano 1991, 199).
Che amare attese, che pianti!
Ma ora ho sentito il tuo lungo
bacio e le nostre carezze ai capelli
non più scomposti dal vento:
l’erba era così dolce, la corteccia
degli alberi quasi carne.
Allora mi prende la danza dei gesti assurdi
e bacio le pietre, la patena, il libro
delle tue parole; a volte, disteso al suolo,
il corpo si fonde in unica realtà con la terra.
E paure e speranza m’invadono che tu parli
e insieme non parli; e sempre
frangendo il pane sgomento m’assale
di veder sangue colare sui lini.
(Id., O sensi miei…Poesie 1948-1988, Rizzoli 1997, 234; 319).
Nel testo foto dell’Autore
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Il momento storico che stiamo vivendo è caratterizzato da tendenze sociali specifiche sulle quali bisognerebbe riflettere più di quanto si fa. Una di queste è la diffusione di sentimenti di antipolitica, che portano a ritenerla inutile, strillona e quasi sempre corrotta.
Questa convinzione è uno dei motivi per cui l’astensionismo alle elezioni politiche, sia degli enti locali che di quelli nazionali e sovranazionali, sta raggiungendo dei livelli mai visti prima. La seconda motivazione dell’astensionismo è l’impossibilità di trovare qualcuno che rappresenti le proprie idee. Forse perché queste ultime sono troppo personalistiche e legate a interessi lobbistici troppo parcellizzati.
Per farla breve, pensando esclusivamente ai propri interessi e non a quelli della comunità in cui si vive, si tende a non riconoscersi in nessun rappresentante. Si avverte chiaramente una progressiva riduzione dei luoghi di partecipazione dei cittadini alle scelte collettive che veicola, tra gli esperti di politica sociale, la convinzione di un necessario rafforzamento del ruolo dei Comuni.
In tutti i Comuni, e a maggior ragione in quelli piccoli e medi, il Sindaco, scelto con elezione diretta, è il primo rappresentante istituzionale per i cittadini. Il Municipio rappresenta un importante elemento identitario in una società sempre più priva di punti di riferimento collettivi.
In Italiasolo quarantasei Città superano i centomila abitanti, con una popolazione residente pari al 23% della popolazione totale italiana. Le dieci città più popolose sono Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari e Catania.
Negli altri 7.954 piccoli e medi Comuni, risiede il 77% della popolazione. Nel generale silenzio di molti mass media, è in atto la riduzione dei nostri Comuni, attraverso l’accorpamento forzoso di quelli piccoli e medi. Si sostiene che siano troppi, in rapporto alla nostra popolazione, ma questo non è vero (si veda rapporto A.N.C.I./Asmel, I Comuni. Una risorsa, non un problema).
Comuni grandi e piccoli
Facendo un confronto con i Paesi a noi più vicini, Austria, Francia, Germania, Spagna e Svizzera, emerge che l’Italia ha il più basso numero di Comuni. È inoltre diffusa la convinzione che la loro eccessiva frammentazione produca costi non sopportabili. Nemmeno questo è vero. Le spese pro capite dei Municipi piccoli sono mediamente pari alla metà di quelli grandi.
Una politica di riduzione della spesa deve semmai prendere esempio dai piccoli Comuni, puntando, in quelli più grandi, a un reale decentramento di funzioni e servizi alle circoscrizioni e ai quartieri. Così si afferma nel rapporto A.N.C.I./Asmel:
“Avvicinare la gestione ai cittadini comporta trasparenza ed efficienza, contrastando sprechi e corruzione. Più è vicino il Comune, più è efficace il “controllo sociale” dei cittadini sugli eletti. In quelli più piccoli, poi, si sopperisce con il volontariato di amministratori e cittadini alle scarsissime risorse, garantendo il presidio e la tutela di oltre la metà del nostro territorio. Un autentico patrimonio da valorizzare e non certo mortificare.”
Ho sempre pensato che fosse così, ancor prima che i dati lo mettessero chiaramente in evidenza facendo fare una figuraccia a tutti i sostenitori degli accorpamenti come modalità di efficientamento e risparmio dell’amministrazione pubblica. Burocrati molto capaci di fare i conti a tavolino, ma non abituati a guardare le strategie gruppali per quel che sono, avevano già formulato ipotesi di accorpamento deprivanti per i territori e per la coesione sociale dei loro abitanti.
Questo non serve solo a dimostrare quanto la conoscenza delle logiche di funzionamento di un gruppo coeso sia utile agli amministratori locali e a tutti coloro che devono gestire persone, ma quanto lo sia anche per coloro che devono efficientare la burocrazia Statale e periferica. Tutti sanno che gli eccessi di burocrazia sono uno dei problemi di questo mondo postmoderno, ipertecnologico, digitalizzato e pervaso da idee immature sull’utilità e sui limiti dell’intelligenza artificiale.
Piccolo è bello, più del grande. Vale sicuramente anche per i Comuni. Basta pensare a qualche piccolo comune montano, o a qualche paradiso isolano per avere immagini stupefacenti che riverberano la veridicità di tale affermazione. Anche limitandosi a una definizione di “bello” puramente paesaggistica, la capacità di mantenere pulito, integro e verde il paesaggio naturale premia i comuni piccoli.
I meccanismi secondo i quali una società è più coesa di altre sono diversi e prevedono: prossimità, condivisione, conoscenza diretta, parentela e partecipazione. Tutte queste dimensioni hanno una connotazione specifica nei comuni piccoli. Mentre mi sembrano chiari i concetti di conoscenza diretta e parentela e altrettanto intuitivo quanto entrambi, se ben organizzati, fungano da collante sociale, vettore di una buona comunità. Provo brevemente ad analizzare gli altri.
Prossimità
La prossimità nasce dalla consapevolezza di un bisogno condiviso tra più persone, accomunate generalmente dalla vicinanza territoriale. Prossimità come disposizione a sentire come propri i problemi di chi ci vive accanto. Da qui nasce una risposta basata sull’impegno attivo di coloro che esprimono il bisogno e che quindi non sono meri fruitori di un servizio, ma anche, almeno in parte, produttori dello stesso.
Gli esempi sono moltissimi: forme di solidarietà condominiale; il reciproco sostegno tra gli abitanti rispetto a bisogni quali la cura dei figli, la vicinanza a persone anziane, o comunque in condizioni di fragilità; comitati di cittadini che prendono in carico la porzione di territorio in cui risiedono, ne ristabiliscono il decoro, la abbelliscono e stabiliscono tra loro nuove forme di socialità e di mutuo aiuto; immobili destinati a degrado, che vengono ristrutturati e diventano la casa di molteplici attività aggregative e di servizio alla cittadinanza.
La prossimità è sicuramente una delle dimensioni che caratterizza i piccoli comuni, dove conoscersi è più facile, dove condividere tempi e modi del fare e del curare, più scontato.
Condivisione
La condivisione è l’utilizzo in comune di una risorsa, di un bene o di conoscenza. Il concetto è anche correlato al processo di dividere e distribuire. La condivisione è l’autostrada per accelerare, favorire e diffondere la conoscenza. Se non fosse possibile condividere le scoperte che ognuno di noi fa, esse rimarrebbero sconosciute e senza alcun valore. Ciò limiterebbe molto la capacità degli esseri umani di evolvere rapidamente, apprendendo dagli altri.
Senza condivisione solo una piccola parte di ciò che ogni singolo individuo è in grado di scoprire, conoscere o apprendere, verrebbe messa in circolazione. Peggio ancora, in mancanza di condivisione scomparirebbe l’opportunità di poter analizzare, rielaborare e migliorare, prima di ricondividerla con altri, qualsiasi idea.
Tra prossimità e condivisione esiste intuitivamente una correlazione. Ciascuno di noi può attingere a qualche esempio legato ad esperienza personale per dimostrarla.
Partecipazione
La partecipazione civica è definita come il coinvolgimento attivo degli individui negli affari e nelle attività della loro comunità, società o governo. Comprende un’ampia gamma di azioni e comportamenti attraverso i quali i cittadini contribuiscono al funzionamento della democrazia, al miglioramento delle loro comunità e all’avanzamento di obiettivi e valori condivisi.
La partecipazione civica comprende ad esempio: votare alle elezioni e partecipare ai processi decisionali democratici, impegnarsi in progetti di volontariato e di servizio alla comunità, aderire o sostenere gruppi di difesa e movimenti di base, partecipare a incontri pubblici, municipi e forum comunità.
Tale partecipazione è essenziale per il funzionamento delle società democratiche, in quanto consente ai cittadini di esercitare i propri diritti, definire le dinamiche pubbliche, chiedere conto ai politici e contribuire al bene comune. Impegnandosi attivamente nella vita civile, gli individui possono dare un contributo significativo alle loro comunità, promuovere la giustizia sociale e l’equità e contribuire a costruire una società più inclusiva e democratica per tutti.
Le comunità
Quindi prossimità, condivisione e partecipazione possono fare la differenza nel funzionamento di una comunità di individui. Senza di esse una comunità nemmeno esiste. Si tratta dei pilastri che tengono in piedi un costrutto sociale e che permettono ad esso di crescere e di prosperare.
Allontanare una amministrazione comunale e un Sindaco dai suoi cittadini, così come l’edificio del comune da un paese, porta di suo a una diminuzione della prossimità, incidendo sui livelli di condivisione e partecipazione. Salvare i paesi piccoli significa salvare i territori italiani dall’isolamento e dall’incuria, evitando problemi alla flora, alla fauna, al clima. I territori soggetti a incuria tendono a non venire più riabitati, mettendo in una situazione di isolamento per chi resta e di lontananza eccessiva chi non si può fermare.
Anche questo innesta una reazione a catena che va fermata subito se si vuole salvare il paesaggio di questa bellissima Italia. Questo ovviamente non significa che non possano esistere azioni, progetti e programmi a rete che coinvolgono più comuni e più territori. Anzi, questi ultimi sono azioni necessarie per evitare l’isolamento eccessivo e per permettere l’esistenza di nuclei comunitari a maglie larghe.
Ma il nocciolo del paese con il suo comune, le sue sale civiche, i suoi gruppi di volontariato e le sue poche ma significative associazioni, va salvaguardato e protetto, perché è attraverso di esso che si impara ad essere una collettività.
Solo un forte e radicato senso di appartenenza può far sì che le persone decidano di dedicare tempo agli altri senza guadagni economici, facendo prosperare la famosa legge del dono, che tanto bene fa a tutti. Anche nelle città, l’appartenenza al quartiere con i suoi luoghi di rappresentanza e incontro andrebbe tutelata e protetta.
Il cuore delle persone e la burocrazia non si parlano, non lo possono fare. Non credo che un apparato pubblico possa funzionare senza burocrazia, ma sicuramente non può funzionare senza la consapevolezza che è al servizio del cuore, di tanti cuori. Non esiste il viceversa.
Credo infine che l’accento sull’essenzialità e la bellezza dei comuni piccoli e la loro necessaria salvaguardia, valga anche per le scuole di paese. Magari scuole piccole e con pochi studenti, ma vive, piene di senso di comunità e di speranze.
Distruggere le comunità significa distruggere pezzi di questo bellissimo paese.
A che pro? Nessuno.
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Il 5 giugno ha preso ufficialmente il via la terza edizione del JFFO, il Festival del Cinema Giapponese online. Le sorprese continuano.
Il Festival offre l’opportunità di guardare comodamente da casa, in streaming gratuito, i 23 film e le 2 serie TV selezionati per la rassegna, in V.O. con sottotitoli in 16 diverse lingue, tra cui l’italiano.
Dopo i 23 film che sono stato resi disponibili dal 5 giugno al 19 giugno, prende ora il via la visione di due nuove serie TV, dal 19 giugno al 3 luglio.
Due grandi attori – Abe Hiroshi e Yakusho Koji – per due avvincenti serie TV inedite in Italia, scelte dal JFFO24 per inaugurare la nuova sezione dedicata ai drama televisivi, un prodotto che anche in Giappone trova ottima accoglienza tra il pubblico.
Trasmessa dal Network TBS nel 2015 e 2018, Downtown Rocket (Tit. orig. 下町ロケット/Shitamachi Rocket) vede protagonista il popolare attore Abe Hiroshi, in veste di ex ricercatore della Japan Aerospace Exploration Agency, con il sogno di sviluppare un motore a razzo nella sua piccola azienda, dando il via a una guerra di brevetti, alleanze e spionaggi industriali.
Nella serie Rikuoh (Tit. orig. 陸王/Rikuoh), trasmessa anch’essa sui canali della TBS nel 2017, il pluripremiato attore Yakusho Koji veste i panni di un piccolo proprietario di un’azienda produttrice di tabi, (tradizionali calze giapponesi con infradito) che – a fronte della diminuzione della richiesta del prodotto e delle difficoltà economiche – deve riciclarsi in una attività più redditizia.
Che errore chiudere il Centro Storico per i concerti
Chiudere i bar del centro per i concerti è insostenibile. Apprendiamo con enorme dispiacere che alcuni locali del nostro centro storico dovranno rimuovere tavolini e sedie per salvaguardare l’incolumità pubblica, come recita l’ordinanza del Comune. Questo avverrà per molte serate di giugno a partire dalle 19:30, creando seri problemi allo svolgimento delle attività dei bar e, soprattutto, un problema economico significativo. Invitiamo l’amministrazione a trovare una soluzione condivisa anche dai locali, per evitare danni economici.
Tra i locali penalizzati citati nell’ordinanza ci sono tre bar, una gelateria, una farmacia e il McDonald’s di piazza Trento e Trieste. Nel programma delle scorse elezioni amministrative di Anna Zonari avevamo già segnalato come i concerti nel centro città potessero creare problemi ai commercianti e ai cittadini, ricevendo diverse segnalazioni proprio da loro. Noi non siamo contro i concerti, ma contro i concerti non sostenibili, sia a livello ambientale che economico. Quelli nel centro storico non lo sono a livello economico e inoltre lo spazio pubblico della piazza viene privatizzato per un tempo esagerato.
Come abbiamo scritto nel nostro programma, vorremmo che questi eventi si tenessero in una zona apposita nel sud della città o magari dentro lo stadio Mazza, come avviene nella maggior parte delle città italiane e non solo. Ovviamente, dopo aver consultato i cittadini della zona per verificarne la fattibilità e per non arrecare danno a nessuno in termini di disturbo. Abbiamo sempre considerato la consultazione dei cittadini come l’ABC del fare politica.
Siamo quindi totalmente contrari a questa ordinanza calata dall’alto, che grava sui locali ferraresi. Inoltre, notiamo una disparità di trattamento: la scorsa estate non era stato preso nessun provvedimento verso alcuni locali. Perché quest’anno la storia è cambiata? Forse perché eravamo ad un anno dalle elezioni, mentre ora, dopo la riconferma di Alan Fabbri, la tornata elettorale è passata. A pensar male ogni tanto ci si azzecca, ma spero di sbagliarmi e che si trovi una soluzione a questo problema al più presto.
In sintesi, chiediamo all’amministrazione di riconsiderare questa ordinanza e di dialogare con i locali coinvolti per trovare una soluzione.
A questo comunicato stampa scritto da Federico Besio (referente Europa Verde Ferrara e candidato nella Comune di Ferrara alle scorse elezioni amministrative), hanno aderito Europa Verde, Sinistra Italiana (Alleanza Verdi Sinistra) e Possibile
Telepass lascia (la posizione di monopolio) e raddoppia (le tariffe)
Gli automobilisti in Italia sono tantissimi, 25 milioni (siamo uno dei paesi che ha più auto al mondo in rapporto agli abitanti). 7,5 milioni hanno il Telepass (380 milioni di ricavi, 50 euro per cliente). Fino al 30 giugno si pagheranno 3 euro al mese(“Telepass plus”)che diventeranno però 4,9 a luglio. La tariffa base passerà invece da 1,83 a 3,9 euro al mese. Telepass è di Mundys (ex Atlantia-Benetton, partecipata dal fondo svizzero Partners Group che nel 2021 ne ha acquistato il 49% per un miliardo di euro) e propone anche una nuova offerta “Pay per use”: con un euro al giorno quando si usa l’autostrada (più 10 euro di attivazione), senza canone mensile.
Chi non vuole subire questo salasso può disdire – la disdetta è gratis – e aderire alla proposta di due nuove società nate nel 2021: Mooneygo di Intesa San Paolo e Unipol Move, che hanno tariffe più basse ma possono fornire solo il telepedaggio presso i caselli. Mooney costa 1,5 euro al mese (più 5 euro di attivazione) e nell’offerta “Pay per Use” costa 2,2 euro nei mesi di utilizzo più 10 euro di attivazione. E’ possibile associare 2 targhe. Unipol Move “regala” un anno gratis a cui segue un euro al mese nel secondo anno. La formula “Pay per Use” costa invece 50 centesimi ogni giorno di utilizzo più 10 euro di attivazione (ma il servizio non è attivo in Sicilia). I costi delle due compagnie entranti sono inferiori a Telepass, che però punta sui molti servizi aggiuntivi (trasporti, treni, skipass,…) per fidelizzare i clienti.
Inizia quindi un periodo di concorrenza dopo 34 anni di monopolio all’italiana: Telepass fu introdotto nel 1990 in occasione dei mondiali di calcio. Nel 1999 lo Stato italiano decise di liquidare l’IRI e vendette a Benetton il 30% delle autostrade, e anche Telepass. E’ noto che lo Stato si fece pagare una cifra irrisoria per concedere 6.000 chilometri di pedaggio. Non a caso, Gros-Pietro (economista), ex presidente IRI, diventerà presidente di Atlantia due anni dopo. Questa volta però l’Europa ha imposto una concorrenza e Telepass probabilmente perderà una fetta di mercato.
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“Vivo ora, qui, con la sensazione che l’universo è straordinario, che niente ci succede per caso e che la vita è una continua scoperta. E io sono particolarmente fortunato perché, ora più che mai, ogni giorno è davvero un altro giro di giostra.”
(Tiziano Terzani)
Briciole disperse, sole e pugni stretti
Raccolgo briciole disperse di me. Ci sono forze che talvolta mi fanno a pezzi, che poi con pazienza e caparbietà ricompongo. Parole, colori, lacrime, grida e pugni stretti, la mia finitezza e il cuore gonfio al punto da non starci più dentro, forte tanto da trattenere il sole. Quel me stessa che deve poter esplodere, darsi forma, sentire che esiste, eccolo finire dentro a versi necessari e carpiti a piene mani nella ragnatela della vita.
Davanti
Davanti ad un unico cielo
che tocchiamo e non vediamo.
A che capitolo siamo?
Tutto ancora da scrivere?
O scritto altrove
per chi schiacciato soccombe?
Non artefice,
marionetta.
Dimenticato deriso.
Sfruttato gettato.
Mercato mercato.
Essere umano
oggi
non conta.
Conta chi
ha scordato
di essere.
Diciotto diciannove
Diciotto
diciannove
vite vissute
ed amate
d’incanto
avvolte
distese
ricamate
a fili
di raggi dorati.
Diciotto
diciannove
bianchi
risvolti
e danzanti
scintille
al suono
silenzioso
attutito
attenuato
e roboante
dentro
profondo
gridato
eterno.
Danzaillusione
Oltre
E il mondo danza
Ma il mio sguardo va oltre
Oltre la gente
e le onde
Suono possente
produce ansia
e poi va smorzando
e io dormo di un sonno
denso.
Dobbiamo fare ancora
tanta strada
Oltre
Oltre la danzaillusione
Nel silenzio dei fiori
Oltre
Dove le rocce
si lasciano smussare
con pazienza.
Oltre
ci siamo di nuovo
e sempre noi.
Ogni forma di me
Ogni forma di me
dispiega le ali
e le possibilità.
Mi piego
e poi risalgo
e poi crollo
e poi risorgo.
Ogni forma di me
ritrova il suo spirito
e gioca le carte che ha in mano.
Accolgo,
distolgo,
sopravvivo,
vivo.
Ogni forma di me
si figura la successiva mentre si scioglie
e recupera ardori dal tempo.
Anticipo le sorti,
svengo sotto i colpi,
patteggio con gli angeli
e scopro altri movimenti.
Ogni forma di me
ambisce ad un suo spazio
e rivendica il suo valore.
Armonia
Armonia.
Solo armonia.
Dai suoni discende melodia
e trovo parole nel sottofondo
tra rigurgiti di dolore
e fatali rime baciate.
Nero e porpora distolgono
attenzione e memoria,
faccio luce nel cieco vissuto,
mentre il cerchio rotola e rotola.
Tengo traccia del temporale
e dell’impeto dei venti.
Armonia.
Solo armonia.
E bianco che inonda,
solo rintocchi di flebile risata,
solo armonia porterò con me.
Non crederò a miti
intrisi di dolci supposizioni,
non cederò
all’ utopia d’ottobre,
la rinchiuderò in un cassetto.
Autunno in ascolto,
allargando le braccia io resterò
e solo armonia porterò con me.
Armonia.
Solo armonia.
Chiara Bignardi, ferrarese, classe 1968, radici contadine, laureata in ingegneria (ma ama definirsi un ingegnere anomalo), si divide tra famiglia e professione, continuando nel contempo a coltivare le proprie passioni. Da molti anni racconta, attraverso poesia e pittura, la propria visione intima ed emozionale dell’animo umano, come una vera e propria necessità del vivere. Poesia e pittura si ispirano spesso l’un l’altra, dando un corpo ed un volto ai moti interiori, così come a temi sociali che riguardano la collettività, ricercandone le sfumature. Ha sinora prodotto in self-publishing due libri che raccolgono le sue poesie e dipinti: “Ci vorrebbe il sole “ (2012) e “Hai fatto di me diamante”(2015). E-mail: chiara_bignardi@hotmail.com
Web: www.chiarabignardiart.com
IG chiarabignardiart
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Referendum avanti tutta: superate le 500mila firme
In tutto le sottoscrizioni raccolte finora sono 582.244. La campagna non si ferma
Quasi 600mila firme raccolte. Il requisito minimo richiesto per i quesiti sul lavoro presentati dalla Cgil è raggiunto e superato (ne servivano 100mila in meno) dopo poche settimane. In tutto le sottoscrizioni sono 582.244. Il giro di boa arriva a metà percorso. Davanti a noi un altro mese abbondante di banchetti che migreranno verso il mare per continuare a macinare adesioni. Con l’obiettivo dichiarato che il Quadrato rosso non ha mai nascosto, mettere insieme più firme possibili, al di là di quel che richiede la legge, che a questo punto è già al sicuro in cassaforte. “Vado al massimo, vado a gonfie vele”, potremmo canticchiare, rubando l’immortale ritornello di Vasco, per accompagnare l’impegno generoso dell’organizzazione e delle mille strutture che si diramano sul territorio. Perché nessuno ha mai temuto di non riuscire a prenderle queste 500mila firme, ma non era neanche facile o scontato che in poche settimane l’obiettivo minimo sarebbe stato superato.
Nell’ora più buia, con l’estrema destra che vince le europee in tanti paesi e in altri convince tante persone a consegnarle il voto di protesta, tantissime italiane e tantissimi italiani restano lucidi, sanno che le cose non vanno per niente bene, ma dimostrano di sapere anche che la reazione a questo disastro deve essere coerente, efficace, di sostanza e non di pancia.
Adesioni di persone comuni ma anche di persone che hanno la credibilità e la capacità di orientare. Politici che hanno fatto della coerenza il cardine della loro azione. Donne e uomini di cultura e di spettacolo, di impegno civile, figure che si sono sempre battute con generosità per tutti, che hanno speso la loro voce per chi non l’aveva o non l’aveva più. Impossibile citarli tutti a questo punto, sono decine e decine; antipatico, forse, farne una sintesi del tutto discrezionale. Eppure facciamo fatica a non farci scappare qualche nome. Mimmo Lucano, Antonio Scurati, Luciana Castellina, Rosy Bindi.
Accanto a loro centinaia di migliaia di persone. Gente che per vivere ha bisogno di lavorare, maggioranza silenziosa – poche parole, molti fatti – cui interessa l’avvenire del Paese. E per loro, anche sotto questo sole, sarà bello continuare a pedalare.
Facevo il giornalista all’Unità e alla fine di aprile del 1984 ebbi l’incarico di seguire Enrico Berlinguer, segretario generale del PCI, che venne a Ferrara per un paio di giorni, per poi recarsi ad inaugurare una sezione del partito a Contarina, in provincia di Rovigo. Dovetti sostituire Ugo Baduel, il suo resocontista ufficiale. Mi recai dove alloggiava Berlinguer – l’albergo Astra, in viale Cavour – per chiedere il testo del discorso che egli avrebbe dovuto pronunciare in serata in piazza Trento-Trieste, da trasmettere al giornale.
Gli uomini della Digos e della vigilanza mi lasciarono passare perché mi riconobbero. Poi Antonio Tatò, l’onnipresente segretario di Berlinguer, mi sbarrò l’entrata nella stanza chiedendomi bruscamente dove andavo; dissi chi ero e perché ero lì. Tatò sparì per telefonare ed io mi trovai in piedi davanti al numero uno del Pci: curvo, quasi aggrappato a un grande tavolo, scriveva e fumava una dopo l’altra le Turmac senza filtro, sigarette ovali che estraeva da un pacchetto bianco. Scriveva lentamente, con caratteri grandi, su fogli che mi parvero da ciclostile, l’occhio destro semichiuso per il fumo.
Eravamo noi due soli. Stetti per qualche minuto in silenzio in preda ad un forte imbarazzo. Fino a quando Berlinguer mi disse:
“Che fai in piedi? Siediti”.
Io zitto. Ero paralizzato. Sedetti.
“Dove lavori?” domandò il segretario.
Gli risposi che lavoravo alla redazione ferrarese dell’Unità, che allora ospitava una pagina di cronaca, inserita nel fascicolo regionale dell’Emilia-Romagna.
Ancora silenzio. Berlinguer continuava a scrivere lentamente, chino sui suoi fogli e fumava, fumava. Mi chiese, forse per non mettermi troppo in imbarazzo:
“Come va la Spal?”
Farfugliai qualcosa, in vita mia sarò andato allo stadio tre o quattro volte… dissi che la Spal non stava attraversando un bel momento.
Fu sempre lui a parlare:
“Che cosa scrivete nella vostra pagina?”
Abbozzai una risposta generica, cercai di spiegare su cosa intervenivamo: l’agricoltura, la chimica, la politica del Pci ferrarese, le lotte sindacali, la cronaca bianca e nera…
“E nella pagina mettete anche i morti?” mi chiese Berlinguer.
“I morti?”
“Sì, i necrologi”.
Proprio così, i morti. Risposi che pubblicavamo anche i necrologi con i quali si facevano sottoscrizioni al giornale e il dialogo finì. Berlinguer mi diede una copia del discorso che aveva terminato di scrivere, poi ci salutammo. Uscii dalla stanza per tornare in redazione. Più tardi ebbi modo di tornare all’Astra per informarmi sull’itinerario dell’indomani; ed ebbi modo di osservare un Berlinguer affettuoso che parlava con la piccola figlia dei proprietari, chiedendole come andava a scuola.
Andai poi il giorno dopo con il segretario del Pci anche a Contarina. Durante il viaggio i dirigenti del Pci lo accompagnarono all’oasi di Boscoforte, piccola penisola incontaminata nel cuore delle valli di Comacchio. Berlinguer aveva un passo tale da lasciarsi indietro gli uomini della scorta. Il mio modesto articolo sull’inaugurazione della sezione comunista di Contarina finì in una pagina interna del giornale – in quarta, se ricordo bene – tagliuzzato qua e là.
Ripenso a volte, con qualche inquietudine, al colloquio, alla domanda sui morti che Berlinguer mi rivolse prima della sua scomparsa poche settimane dopo a Padova, l’11 giugno 1984. Per me una domanda quantomeno singolare, che dopo tanti anni risuona come un presagio.
Vite di carta. Se incontri in un colpo solo Daria Bignardi, Ilaria Cucchi, Fabio Anselmo.
Giovedì 13 giugno alla libreria Libraccio di Ferrara Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo hanno dialogato sull’ultimo libro di Daria Bignardi uscito lo scorso marzo, Ogni prigione è un’isola, rivolgendo all’autrice domande sulla sua esperienza ormai trentennale di volontaria nelle carceri italiane e ricevendo domande da lei. Non è scontato che chi fa l’intervista e chi la riceve siano così alla pari per esperienza e impegno nell’ambito di cui si parla oggi: la situazione carceraria in Italia.
Mi sono seduta in seconda fila una buona mezz’ora prima che l’evento cominciasse, con la mia copia del libro piena di post-it incollati in più pagine e zeppi di appunti e citazioni.
Ci ho infilato anche la schedatura dell’articolo di Mauro Presini apparso l’11 giugno su questo giornale, Le carceri in Emilia Romagna: la relazione del Garante dei Detenuti, e un foglio bianco in cui ho segnato numeri e percentuali e una lista di servizi prioritari di cui i carcerati necessitano per migliorare la loro condizione detentiva.
Sono qui per capire e sapere di più, al centro mantengo il libro. Ho rielaborazioni istantanee che mi passano per la mente, compongo quesiti che potrei rivolgere a chi ne sa più di me e da più versanti. Eppure.
Non ho valutato che questo tipo di incontri non li gestisco più in prima persona, non siamo al Liceo e gli autori invitati non trovano qui – come là accadeva sempre – una platea di studenti lettori pronti al dialogo che conoscono già l’opera.
L’evento mi scivola addosso con la sua logica e con i suoi contenuti di grande interesse per me e per i tantissimi presenti. Prendo appunti e sbircio i volti dei tre relatori, mentre sento che in sala avviene di più e avviene di meno rispetto a ciò che mi aspettavo.
Dice Daria Bignardi che ha inteso scrivere questo libro per capirsi, per sapere come mai continua a tornare nei luoghi di pena vicini e lontani, a San Vittore come a Pozzuoli e fino a Tirana. Lo ha scritto a Linosa, l’isola di fatto in cui si è raccolta a fare sintesi su altre isole che ci sono sparse nei nostri mari, Lampedusa, Stromboli. Nomina isole che sono state la sede di un carcere così come ogni carcere – lo dice il titolo – è un’isola metaforica, circoscritta e orlata da un perimetro netto, da confini marcati, ognuna una summa dell’umanità.
Cita SvjatlanaAleksievič quando a proposito dei militari russi in Afghanistan scrive “Nelle condizioni di laggiù l’uomo era come illuminato a giorno“: anche il carcere è laggiù, dentro c’è l’essenza della vita. Esposta più che in ogni altro luogo dallo stigma della pena o dall’attesa di giudizio. In carcere si ride, anche, nella mia piccola esperienza si leggono poesie e si scambiano sensazioni e pensieri. In carcere si soffre per lo più.
Viene fuori la sofferenza, quando Ilaria Cucchi parla del suo impegno come senatrice per la salvaguardia dei diritti dei detenuti e contro ogni violenza perpetrata dentro le strutture carcerarie, vengono in luce le mancanze e gli errori del nostro sistema carcerario. Li sottolinea a sua volta Fabio Anselmo, che si rifà alla sua esperienza di avvocato specializzato nei casi di abusi delle forze dell’ordine. Si parla di peggioramento in generale nelle condizioni di vita dei detenuti, di suicidi in aumento.
Volano frasi definitive sulla ingiustizia sociale così elevata in questo nostro tempo, sulla inutilità della detenzione che punisce anziché rieducare chi ha commesso un reato. Sul ruoloimproprio che il carcere ha assunto di discarica sociale, uno spazio dove racchiudere come ‘mele marce’ gli individui più fragili e socialmente svantaggiati: drogati e psicolabili, stranieri immigrati, persone senza casa e senza lavoro.
Eppure il carcere dovrebbe essere un luogo di rieducazione, uno spazio il più possibile aperto, dove i detenuti lavorano e fanno formazione: più il carcere è aperto e meglio è per tutti. Scrivo nei miei appunti i dati impressionanti sulla recidiva: in un anno circa il 70% dei detenuti usciti dal carcere tornano a delinquere e ci rientrano, il dato crolla al 20% se hanno potuto lavorare.
Scrivo sulle donne, che sono una minoranza e che soffrono per le condizioni rese ancora più disagiate dagli stereotipi di genere e dalle condizioni di sovraffollamento in cui vivono.
Ecco il di più che esce da un incontro del genere, mi si apre un mosaico grande, dove la tessera del mio laboratorio poetico fatto nel carcere di Ferrara la scorsa primavera trova una sua collocazione tra così tante altre realtà e tessere diverse.
Ho segnato i libri da consultare di cui parla Bignardi, ho trascritto nomi di detenuti che ha incontrato, di un direttore straordinario come Luigi Pagano, di Roberta Cossia, magistrata di sorveglianza che si occupa delle misure alternative alla detenzione, di quelle guardie carcerarie – ce ne sono – che fanno del bene ai detenuti.
13 giugno al Libraccio presentazione di “Ogni prigione è un’isola” di Daria Bignardidi “
Daria Bignardi
Eppure esco dalla libreria con un senso di incompiutezza. È vero che si scrive per raccontarsi, è vero anche che si legge per raccontarsi. Il libro è al centro di un dialogo con chi l’ha scritto, e il libro di Bignardi è fatto per dire “Ecco, a me è andata così….Tu?” Ma non c’è stato spazio per intervenire e in me resta la sensazione di avere assistito a una performance monca, senza reciprocità.
Nota bibliografica:
Daria Bignardi, Ogni prigione è un’isola, Mondadori, 2024
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Uno spettacolo teatrale-evento finale della VII edizione del progetto “Il teatro e il benessere” Venerdì 21 Giugno 2024 – ore 21.15
Centro Teatro Universitario di Ferrara (via Savonarola 19)
Il progetto “Il teatro e il benessere” è rivolto a persone con malattie neurodegenerative, caregivers familiari e non, con la partecipazione di studenti universitari, promosso dal Comune di Ferrara, Assessorato alle Politiche Sociali, e la collaborazione del Centro Teatro Universitario di Ferrara
conduzione progetto e regia spettacolo teatrale: Michalis Traitsis
collaborazione artistica: Patrizia Ninu
contributo della banda filarmonica Giuseppe Verdi di Cona APS, direttore Roberto Manuzzi
scene: Amir Sharifpour, foto: Andrea Casari, video: Marco Valentini
con: Chiara Alberani, Valeria Brina, Antonella Burini, Roberta Capisani, Giancarla Cavallari, Maria Angela D’Aloya, Angela Di Bari, Fabrizio Felisati, Svetlana Grundan, Laura Intelisano, Marilena Marzola, Rosalia Menegatti, Patrizia Mezzogori, Patrizia Ninu, Negar Panah, Rosina Pititto, Giusy Platanìa, Sandra Pozzato, Paolo Maria Ragazzi, Maria Silvia Rolfini, Stefania Romani, Marco Sacchetto, Rosa Sandri, Fiamma Schiavi, Roberta Verri
ingresso libero su prenotazione: ctu@unife.it
Lo spettacolo teatrale “Il paese dei miracoli” conclude la settima edizione del progetto “Il teatro e il benessere”, rivolto a persone affette da malattie neurodegenerative, vulnerabilità psichiatriche, care givers familiari e non, operatori socio assistenziali e studenti universitari.
Il progetto è diretto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro con la collaborazione artistica di Patrizia Ninu. Dalla prima edizione ad oggi, c’è un filo conduttore sotteso al percorso e alla scelta dei temi dell’evento finale, ed è la ricerca di una mappa di relazioni che vada al di là di un raggruppamento di persone, che alluda a legami e condivisioni autentici, solidali, che curi l’urgenza di un viaggio comune inteso come viaggio verso l’integrazione del proprio essere con le proprie qualità e fragilità, ricchezze e povertà, luci e ombre, verso la conquista di una accettazione reciproca fondata sulla pazienza, la fiducia, la comprensione reciproca, la delicatezza.
E poiché l’evento finale è solitamente l’insieme di fili che confluiscono in un ricamo, in un arazzo, il tema privilegiato – sia che si tratti di un condominio o di una piazza o di una radio – non può che essere quello della ricerca di appartenenza, di socialità, di resistenza allo sfaldarsi odierno dei rapporti comunitari.
Da queste riflessioni è originata la scelta della festa del paese, come occasione di aggregazione, interazione e allegria. Come le feste di una volta, dove i suonatori, preceduti dal maestro, aprivano i festeggiamenti sfilando per le vie del paese per invitare la gente alla festa e accompagnando il santo/a protettore del paese medesimo.
La Santa del “Il paese dei miracoli” è particolare, non ha un nome, forse neppure un volto e viene raffigurata con fogli appesi, lanciati, curati. E’ la Santa Protettrice delle storie e a lei sarà dedicata la serata, attraverso un festival in cui ciascun abitante sarà cantastorie e regalerà alla comunità un racconto. Uno che l’ha fatto piangere o ridere o sconsolare o avvelenare, non ha importanza, perché le storie sono comunque miracoli. Per chi le legge, per chi le scrive, per chi le ascolta.
Il progetto “Il teatro e il benessere”
Creare un ulteriore legame tra processi di cura e processi creativi è uno degli intenti del percorso. La malattia e la sua cronicizzazione impongono un cambiamento radicale di vita, delle persone direttamente coinvolte e anche dei familiari, che almeno agli esordi è vissuto prevalentemente come un arresto totale di vita, uno scompaginamento in cui sembra difficile attivare risorse. Un’ esperienza teatrale, se integrata nell’insieme delle attività riabilitative, può considerarsi un efficace strumento all’interno di una riabilitazione multifunzionale.
Il percorso laboratoriale si propone come spazio-tempo separato dalla quotidianità, dove è possibile soprattutto presentarsi agli altri a prescindere dalla malattia, sperimentare insieme ai compagni e ai familiari, un cerchio di attenzione, di solidarietà, di incoraggiamenti reciproci, di costruzione di una impresa comune che crea un respiro collettivo, che mette in contatto con i propri limiti ma nel contempo con le proprie risorse, che mira a riattivare le parti “sane” per contrastare la mortificazione della malattia, che crea nuove modalità relazionali.
La metodologia proposta non prevede copioni preconfezionati ma prende spunto da suggestioni, immagini, reazioni dei partecipanti agli stimoli indotti attraverso musiche, canti, improvvisazioni, esercizi teatrali. La rappresentazione finale risulta dunque intrinseca ai temi emersi durante il percorso.
Nella prima edizione del progetto “Il teatro e il benessere” si è scelto di lavorare sulla memoria emotiva, sul passato inteso come patrimonio di ricordi tradotti in storie e narrazioni.
Nella seconda edizione si è affrontata la sfida del futuro, come sogno da ritrovare, da svelare a se stessi prima che agli altri.
Nella terza edizione si è esplorata, attraverso le storie di bizzarri e surreali personaggi, la possibilità di un Altrove dove è possibile costruirsi realtà altre che sostengono e alleggeriscono le proprie.
Nella quarta edizione ci si è accostati al tema dell’ amore. E cosa poteva esemplificare meglio l’amore, per una certa generazione, di una epistola?
Nella quinta edizione del progetto, gli allievi del laboratorio hanno dato vita alla comunità che abita un condominio condividendo uno spazio abitato da sensibilità e storie diverse.
Nella sesta edizione del progetto è una radio che cerca di raccontare oltre il già detto, di far sentire oltre il già ascoltato e cerca di far vedere l’oltre il già visto, dando voce a tutti i componenti della comunità, soprattutto a quelli meno visibili o almeno a chi sente la necessità di voler dire qualcosa, esprimere la propria visione del mondo. La piazza e il suo mercato che crea una sensazione di appartenenza non appena vai a zonzo alla ricerca di una fame di vita comune. E la sua radio che la promuove la condivisione e l’uscita dall’invisibilità quotidiana.
Lo spettacolo è dedicato a tutti coloro che non ci sono più, o che non ci possono essere, ma che continuano a essere Presenze impossibili da dimenticare.
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