racconto di Maurizio Olivari
foto di Giordano Tunioli
Il clac clac metallico della chiave della cella 22 nel carcere femminile di Como era penetrata come una stilettata nella sua testa già turbata dal protocollo d’ingresso nella casa circondariale. La consegna di tutti gli effetti personali, di fatto, l’avevano staccata definitivamente dal mondo esterno.
La cella era una stanza lunga cinque metri e larga circa quattro, con una piccola finestra in alto da dove entrava un raggio di sole interrotto dal disegno di sbarre verticali e orizzontali che formavano sulla parete opposta l’ombra di una scacchiera. Due reti per dormire lungo le pareti e un tavolino sotto la finestra, due sedie con la vernice scrostata, due mobiletti e due mensole a fianco e sopra i letti.
Sara, con un fagotto di indumenti fra le braccia, fece due passi avanti, fermandosi di fronte alla finestra, rimanendo poi immobile a guardare il raggio di sole, quasi non accorgendosi della presenza nella stanza di un’altra persona.
“Ciao sono Angela, sedici anni per omicidio colposo, fra quattro esco” esordì con tono garbato la compagna di cella “accomodati pure, non fare complimenti, fai come fossi a casa tua” continuò sorridendo “tu perché sei qui ? Devi aver fatto fuori qualcuno, l’importante che tu non abbia fatto del male a bambini. Se hai fatto fuori un uomo, hai fatto bene. Sono delle bestie, come il mio compagno, ex compagno… Mi trattava come un animale, soprusi, sevizie e io a sopportare, sopportare, sopportare… Fino alle cinque coltellate che gli ho dato mentre dormiva come un ghiro ubriaco. Zac zac zac zac zac… fine della trasmissione!”
Sara si girò lentamente verso quella voce e, sedendosi sul ciglio del letto con in grembo il suo fagotto di indumenti, vide di fronte a lei una donna minuta con i capelli neri appena segnati da qualche ciocca bianca, gli occhi di un azzurro intenso ma con un velo di tristezza e le labbra coperte da un rosso intenso, appena dischiuse in un sorriso, rimasto dopo aver detto zac zac zac zac zac.
Rimasero qualche minuto senza parlare, solo guardandosi negli occhi, trasferendo nel silenzio, le emozioni che provavano in quel momento.
”Mi chiamo Sara…” Fu interrotta dall’apertura della cella e dalla voce della secondina: ”Fuori! C’è l’ora d’aria!”
Angela prese sottobraccio la novizia ed insieme si avviarono in fila indiana con le altre detenute verso il cortile interno recintato da muri altissimi che impedivano la vista dell’esterno, tranne la punta di un campanile di una chiesa che confinava con il carcere.
Camminando lungo il recinto, Angela dispensava consigli a Sara sul comportamento da tenere verso le altre detenute. ”Quella rossa di capelli, lasciala perdere” sussurrò “è sempre pronta al litigio e nessuna compagna la vuole frequentare. Ha ucciso i suoi due bambini… le hanno dato 30 anni ma meritava l’ergastolo. Della secondina bionda ti puoi fidare, puoi anche chiederle qualche favore e se può ti aiuta, è una brava ragazza. Con quella cicciona là in fondo invece non ti confidare, va subito in Direzione a spifferare tutto.”
Sara ascoltava mantenendo però uno sguardo assente, come se le parole le sentisse solamente, senza capirne il senso. Tornate in cella, la compagna riprese il discorso interrotto: “Dicevi che ti chiami Sara… e poi?”
Così Sara, con un filo di voce, iniziò a raccontare: “Avevo dieci anni e vivevo ai margini di un paesino di campagna dove la mia famiglia lavorava la terra, terra che ci ha dato il Duce, ci diceva mio padre che s’impegnava venti ore al giorno per ottenere i migliori raccolti ma non il sabato, perché andava alle adunate fasciste con il vestito della festa e la camicia nera. Mia madre si raccomandava di non andare sempre a quelle manifestazioni, lui per tutta risposta le rispondeva di stare tranquilla perché in Italia son tutti fascisti. Poi la politica coloniale di regime l’aveva portato in Africa alla ricerca di un posto importante, lasciando alla mamma tutto il peso del lavoro e della famiglia che si era allargata per aver ospitato una mia zia, anche lei rimasta sola perché il marito s’era arruolato nella Decima Mas.
Al mattino mia mamma, dopo aver munto le tre mucche che avevamo, m’accompagnava alla scuola elementare facendo quasi cinque chilometri a piedi lungo uno stradone sterrato che quando pioveva diventava un torrente di fango. Quel tempo trascorso per arrivare al paese era per me piacevolissimo, era l’unico momento che mi permetteva di stare sola con lei. Ascoltavo i suoi racconti, le sue raccomandazioni, perché la sera era talmente stanca che dopo cena, mi portava con sé nel lettone e subito s’addormentava. Io la guardavo e pregavo il Signore di darci la salute e d’aiutare il papà che era lontano…”
“Vuoi molto bene a tua mamma” l’interruppe Angela.
“Volevo molto bene… adesso la tengo nel cuore” precisò Sara.
”Dimmi perché sei qui!” insistette Angela.
Sara riprese a raccontare: ”Avevo dieci anni, nel 1944 e c’era la guerra. Noi in campagna la sentivamo meno però i pericoli c’erano, non solo dagli alleati che bombardavano ma anche dai soldati tedeschi che si ritiravano. Quell’anno non andai più a scuola, era stata chiusa per mancanza della maestra che aveva lasciato il paese e, poiché rimanevo tutto il giorno a casa sola con lo zio che era tornato dal fronte perché aveva perso una gamba, mia mamma mi diede una rivoltella dicendomi di usarla solo per difendermi. Una sera appena prima di cena, intorno al tavolo illuminato dalla luce di una candela per evitare che gli aerei ci potessero bombardare, la mamma, la zia e lo zio sulla sua sedia a rotelle, dicevano sottovoce, tanto che facevo fatica a sentire, che in zona c’era un gruppo di partigiani che se ne stavano nascosti da qualche parte. Chiesi senza ottenere risposta chi fossero. Ma proprio allora si sentirono delle voci provenire dal cortile…”
In quel momento una voce proveniente dall’esterno della cella ordinava d’uscire per la cena.
Angela prese sottobraccio la sua compagna, che appariva ancora immersa nei suoi pensieri e forse rattristata dall’interruzione del suo racconto, e insieme s’avviarono verso la sala mensa che era molto grande, con tre file di lunghi tavoli ed un bancone dove veniva distribuito il pasto. Nel vassoio trovarono minestra di verdura, tre fette di prosciutto cotto, un formaggino molle, un pezzo di pane e posate di plastica. Sul tavolo una brocca con acqua di rubinetto.
Sara, dopo due cucchiai di minestra, abbassò la testa rifiutando il resto del pasto. Una detenuta accanto, l’apostrofò con “la signorina non ha gradito il menù, cameriere porti caviale e champagne!”
Angela intervenne apostrofando la vicina con uno spregiativo “stupida!”
Il ritorno in cella fu per Sara un sollievo, tanto che, dopo il solito rumore del clac clac della chiave che chiudeva la porta, continuò a raccontare cosa successe quell’aprile del quarantaquattro.
“Mia mamma andò alla finestra e da una fessura dell’imposta vide un gruppo di uomini armati che si avvicinavano alla casa. Non avevano una divisa, quindi non erano né tedeschi né soldati della Repubblica di Salò. Si spaventò e corse da noi urlando che erano partigiani. Io però non capivo perché avesse così paura. Sentimmo dei colpi forti contro la porta finché non la sfondarono ed entrarono coi fucili spianati. Cercavano mio padre e tutti gli altri fascisti della zona. Così presero mio zio, lo strattonarono, lo buttarono a terra e lo trascinarono fuori in cortile. Io m’ero aggrappata alla mamma e alla zia che venne staccata da noi e portata via. Poi sarebbe toccato a noi due e quasi gentilmente, quello che doveva essere il capo, perché gli altri lo chiamavano comandante Mauro, ci prese sottobraccio e ci invitò a seguirlo. Gli altri trascinarono lo zio e la zia dietro la stalla e scomparvero alla nostra vista. Uno di loro tornò dal capo chiedendogli cosa dovessero fare. Lui rispose che lo sapevano. La mamma intanto mi strinse a lei così tanto che sentii il suo cuore che batteva forte su di me. All’improvviso sentii una raffica di mitra e mia mamma che gridava disperata. Un secondo partigiano arrivò per ricevere ordini dal loro capo. Lui gli ordinò di prendere mia madre, così il partigiano me la strappò dalle braccia e la portò via. Questo comandante Mauro mi teneva stretta mentre io gridavo mamma e piangevo, e lei, mentre la trascinavano via, urlava il mio nome!” Sara s’asciuga una lacrima e continua: “Incrociai lo sguardo del capo, era magro coi baffi, vedevo nei suoi occhi il piacere per quello che stava per succedere. Ho nella testa l’ultimo urlo che ho fatto chiamando mia madre e la raffica di mitra che è seguita. Poi rivedo il sorriso beffardo di quell’uomo… alla fine mi lasciarono in mezzo al cortile e se ne andarono lungo lo stradone che portava al paese. Io piangevo, piangevo e piangevo!”
Mentre Sara pronunciava quelle ultime parole, Angela le prese le mani e gliele baciò. Poi le accarezzò il viso rigato di lacrime.
La lampada della cella si spense, era arrivata l’ora del silenzio. Rimase solo il tenue bagliore blu della luce d’emergenza che permetteva alla ronda notturna di controllare l’interno delle celle.
“Proviamo a riposare” sussurrò Angela.
“Proviamo” rispose Sara.
In carcere il mattino arriva presto col suono assordante della sirena. Ma Sara si svegliò molto prima. Aveva visto spuntare l’alba attraverso la finestrella con le sbarre incrociate che quel giorno non disegnarono la loro ombra sulla parete.
Quella mattina il cielo era grigio e metteva ancor più tristezza di quanto già non facesse lo stare in quel posto.
Angela si svegliò, “maledetta sirena” disse. Poi invitò Sara ad andare con lei al turno dei bagni. Dopo il clac clac della serratura della porta, si unirono alle altre detenute e s’avviarono ai bagni.
Al mattino le porte delle celle rimanevano aperte e questo fatto offriva l’impressione di una certa libertà anche quando rientrarono dalla colazione.
Sara riprese il suo racconto, bisbigliando le parole, quasi non volesse far sentire oltre la porta della cella 22.
“Avevo dieci anni quando, dopo l’uccisione di mia madre, venni accolta da una sua cugina vedova che viveva a Fusignano, in Romagna, assieme al figlio di quindici anni. Era molto lontano dal mio paese ma mi trattavano benissimo…”
“Ma tuo padre che fine fece?” chiese d’un tratto la compagna.
Prima di rispondere Sara cambiò espressione, socchiuse gli occhi quasi a voler scavare nella memoria. Poi disse: “Solo dopo qualche anno ho saputo che era stato catturato dagli inglesi e rinchiuso nel campo di concentramento di Assau. Finita la guerra fu liberato, ma intanto s’era ammalato e, quando seppe ciò che ci era successo, s’aggravò… Morì proprio mentre la Croce Rossa lo stava trasportando in Italia. Io non riuscii nemmeno a vederlo un’ultima volta.”
“Per te fu un’ulteriore disgrazia…” cercò di consolarla Angela.
“Quando hai vissuto tante tragedie, quello che arriva dopo ha un peso minore… Era comunque mio padre e, con la sua morte, rimasi definitivamente da sola. Ho passato sei anni travagliati, sono entrata e uscita da diversi istituti. Ho avuto problemi comportamentali, fobie e raptus isterici. Sono stata in cura per anni, anche se i medici non si facevano illusioni sulla mia guarigione. Nonostante ciò mi ero molto affezionata alla mia nuova famiglia e provavo per mio cugino Fulvio molta tenerezza, tanto che mia zia già ci immaginava sposati… Dopo l’ennesima cura, il dottore disse che nel mio caso l’arrivo di un figlio sarebbe stata probabilmente la soluzione a tutti i miei problemi. Così a sedici anni e, col benestare di tutti, mi decisi a sposare mio cugino Fulvio, anche lui minorenne…”
“Avete avuto figli?” chiese Angela.
“No… Stavo un po’ meglio ma il mio tormento non è mai passato e l’unico mio desiderio era quello di sapere chi fosse quel bastardo… il Comandante Mauro, il boia che ha distrutto la mia famiglia!” Sara fece un lungo sospiro, poi riprese a raccontare: “In Romagna dove abitavo ci vivevano tanti ex partigiani, così andai alla sezione dell’Associazione Partigiani d’Italia a chiedere informazioni su questo Comandante Mauro. Non è stato facile perché faceva parte di un gruppo che operava in un’altra zona d’Italia, molto a nord, in provincia di Como per l’esattezza. Mi dissero che sarebbe stato necessario chiedere in altre sezioni dell’Associazione. Però qualcuno dal cielo m’ha aiutata, perché dopo qualche tempo ho saputo finalmente il suo vero nome: Anteo Raditti!”
“Hai saputo anche dove abitava?” chiese incuriosita Angela.
“No Purtroppo… ma, non so perché, pensai che dovevo andare a chiedere al mio vecchio paese. E così ho fatto. E venni a sapere che i Raditti erano diventati proprietari dei vecchi terreni che sotto il fascismo erano stati assegnati a mio padre. Ho scavato nella memoria per vedere se tra la mia famiglia e loro ci fossero mai stati dei contrasti, dei rancori. Trovai la conferma parlando con una vecchia signora novantenne che abitava ancora in paese e che all’epoca aveva lavorato alle poste. Mi disse che aveva visto molte volte mio padre litigare fortemente con Anteo Raditti per vecchie questioni sui confini dell’azienda agricola, tanto da venire alle mani. Una volta sentì il Raditti gridare a mio padre che gliela avrebbe fatta pagare. Adesso tutto appariva più chiaro, l’esecuzione della mia famiglia non era stata frutto di un’azione militare ma di una vigliacca vendetta personale. Continuavo a star male, anche se mio marito faceva di tutto per consolarmi. Mi sentivo sola, il figlio non arrivava e nella mia testa risuonava sempre il nome di Anteo Raditti. Ho cercato conforto nella fede, non ho mai pensato alla vendetta, ma avrei voluto tanto incontrarlo, guardarlo in faccia e chiedergli il perché di tanta cattiveria. Avevo dieci anni quando mi tolse tutto. Ora ne ho trenta e dopo vent’anni di dolore… adesso sto bene, abbastanza bene direi.”
“Andiamo a fare due passi nel corridoio?” propose Angela.
“Sì andiamo!” annuì Sara.
Il corridoio di quella sezione della casa circondariale, era molto lungo e l’andirivieni delle detenute lo faceva somigliare al passeggio domenicale in una via del centro, con la differenza che, al posto degli alberi, ai lati c’era una fila di celle con le porte di ferro aperte che alla sera si chiudevano, chiudendo al loro interno le speranze, i sogni, i ricordi, i pentimenti e le rabbie di tutte quelle detenute.
Mentre camminavano avanti e indietro lungo quel corridoio, il volto di Sara appariva più sereno, quasi che il racconto fatto ad Angela, l’avesse in qualche modo rasserenata.
Angela l’aveva capito, ma la sua curiosità non era stata soddisfatta completamente. D’un tratto ruppe il silenzo e le chiese: “E poi?”
“E poi qualcuno dal cielo m’ha aiutato ancora…” riattaccò Sara “perché mio marito, che insegnava a scuola, fu nominato preside di una scuola media vicina a Como, a pochi chilometri da qui. Ci siamo trasferiti e siamo andati ad abitare in una bella villetta appena fuori paese. Iniziai le pratiche per il cambio di residenza e un giorno andai in Comune per consegnare dei documenti. Forse era la vecchia Casa del Fascio, ora era il Municipio.
Nell’atrio c’era un pannello dov’erano indicati tutti gli uffici e i nomi dei responsabili, poi vidi per caso il nome del sindaco… era Anteo Raditti!”
“Cazzo! Alla fine l’avevi trovato!” esclamò Angela sempre più coinvolta.
“Proprio così…” continuò Sara “Il suo ufficio si trovava al secondo piano. Avevo il cuore in gola e dovetti sedermi per calmarmi. Avevo il dubbio che non fosse lui, che fosse solo un omonimo. L’unica cosa da fare era incontrarlo. Così ho salito le scale, mi sono fatta coraggio e ho bussato al suo ufficio. Uscì una segretaria che mi disse che il sindaco era fuori città e che sarebbe rientrato il giorno dopo. Quando tornai a casa non dissi nulla a mio marito, ma quella notte non riuscii a dormire. Il giorno dopo sono riaffiorati tutti i ricordi, gli incubi, tutto il dolore vissuto in quegli anni. Così ho tirato fuori l’abito più bello che avevo, ho messo un filo di trucco, un po’ di rossetto e sono tornata in Comune. Per salire di nuovo quelle scale ho fatto uno sforzo enorme, ogni gradino mi faceva rivivere quel giorno tremendo, rivedevo mia madre, i miei zii, sentivo le grida, il terrore, gli spari, la disperazione… poi lui, la crudeltà del suo sguardo, il comandante Mauro… Sono arrivata al secondo piano, mi fermo davanti alla porta del suo ufficio, busso, apro. Mi viene incontro la segretaria che mi chiede chi deve annunciare al Signor Sindaco che si trova dietro un’altra porta. La scanso in malo modo e le rispondo che mi annuncio da me. Faccio tre passi e apro la porta, entro in una sala molto ampia, in fondo vedo un salottino in pelle con una grande scrivania, dietro vedo il sindaco che si alza e mi viene incontro lentamente. Incrociamo lo sguardo. Quella faccia magra, i baffetti sottili, era il comandante Mauro… S’avvicina, mi guarda con stupore, era incredulo. M’aveva riconosciuta come io avevo riconosciuto lui! Buon giorno Comandante Mauro, gli dico. Poi, prima ancora che quel boia potesse dire qualcosa, tiro fuori dalla borsetta la pistola che m’aveva dato mia madre. Lo sentii gridare, implorare come aveva fatto mia madre… Gli ho sparato tre colpi nel petto ed è caduto ai miei piedi, morto stecchito. Ho gridato con tutto il fiato che avevo il nome di mia madre, poi ho pianto…”
“Vieni, andiamo” Angela la prese sottobraccio e, stringendola forte, la fece sedere sul letto della cella. Sara era tornata silenziosa, con lo sguardo verso la finestra. Un raggio di sole, che filtrava fra le nuvole, formava un disegno a scacchi sulla parete.
Una guardia entrò in cella invitando Sara a seguirla. “Sei trasferita al carcere di Ravenna!” Sara raccolse il suo fagotto di indumenti, s’avviò verso la porta e girandosi sussurrò: “Ciao, auguri!”
“Ciao a te!” rispose Angela piangendo.
Dopo due giorni si riaprì la porta della cella 22. Entrò una giovane ragazza, con una coroncina di fiorellini finti inserita fra i capelli rossi, indossava un giaccone verde con sotto un maglione, più grande di almeno due taglie, e pantaloni che in fondo si allargavano a coprire gli scarponcini con la suola a carrarmato.
“Ciao sono Angela, sedici anni per omicidio colposo, fra quattro esco. Accomodati pure, fai come fossi a casa tua. E tu chi sei?”