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Sedici febbraio

di Carla Sautto Malfatto

SEDICI FEBBRAIO

Io lascio una traccia,
si somma a quella degli altri
si sovrappone
si interseca.
“Gli avi”, dicevano una volta…
La trama è fitta,
un telo, una coperta
per proteggere chi amo,
chi ancora non conosco.
Qualcuno, ne dovrà tenere conto.

Non sono ancora pronta
ad annullarmi nell’insieme
ma vi sto lavorando
con un filato che non producono più
che è solo mio.
Nulla andrà perduto
è un miracolo, e un peccato.
Sempre più lo comprendo
all’imbrunire.
come altri prima di me,
in quegli occhi
spaventati e grati.

Oggi, il mio compleanno,
è un ricamo di fino
per esperti e clementi.

Con visetto fresco
mi hai regalato il disegno
di un cielo arcobaleno,
con pianeti e astri sfolgoranti.
Hai dimenticato di colorare
solo una stella.

Non avere fretta…

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

Invalsi abbandonati: una scuola in fuga da se stessa

L’Invalsi, ma i comuni mortali non credo sappiano cosa si cela dietro il fatidico acronimo, sta per Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema. Nel caso specifico il sistema è quello scolastico del nostro Paese.

A leggere che nel decreto Mille proroghe è previsto che l’esito dei test Invalsi, che dovranno affrontare gli studenti dell’ultimo anno delle superiori per essere ammessi all’esame di stato, non fa curricolo, vale a dire sarà ininfluente per la valutazione finale e per il profilo delle competenze in uscita, dà l’impressione  che a cadere a pezzi oltre agli edifici scolastici sia anche il sistema formativo. Non è che la cosa sia nuova, già l’ex Ministro dell’istruzione in quota Lega aveva provveduto a togliere le prove Invalsi dal curricolo degli studenti di terza media. Ora anche la Ministra grillina si accoda, per dire quale lungimiranza guidi chi siede al governo delle nostre scuole.

Evidentemente, su ogni altra riflessione, fa buon gioco un facile populismo che porta ad assecondare quella parte del mondo scolastico da sempre ostile nei confronti delle prove Invalsi, con l’intento di accattivarsene le simpatie. Ora, l’idea che ha ispirato il provvedimento è che a contare sono i voti dei docenti e non l’esito ottenuto ai test dell’Invalsi in italiano, matematica e lingua inglese.

Qualunque persona dotata di buon senso è, a questo punto, tentata di chiedersi: a che fare ci teniamo un istituto di valutazione se su di esso prevale il giudizio degli insegnanti? È come se il medico ci diagnosticasse una malattia che però, a seguito delle analisi, risultasse essere tutt’altra cosa da quanto ipotizzato dal nostro dottore. Ma siccome sul responso delle analisi prevale la diagnosi del medico, degli esiti degli esami non si tiene conto. Sarebbe un modo veloce per far fuori buona parte della popolazione. Infatti, con questo metodo, il nostro sistema scuola si colloca nelle ultime posizioni delle classifiche Ocse, con preoccupanti divari tra nord e sud del Paese.

Il compito dell’Invalsi non è quello di dare voti, ma di fornire alle scuole e agli studenti indicazioni per individuare i punti di forza e i punti deboli. Funziona come le analisi cliniche che ci dicono cosa va e cosa non va nel nostro corpo. Ma senza queste analisi, nessun medico potrebbe intervenire a somministrare il farmaco e la cura corretti. Altrettanto vale per il sistema scolastico, sta poi alla competenza professionale degli insegnanti intervenire per migliorare la didattica e favorire la riuscita di ogni studente.

Il compito dei docenti non consiste nel distribuire voti, ma nell’innalzare i livelli di istruzione e di competenza degli studenti. E’ questo il ruolo centrale della scuola nella società della conoscenza. E non è possibile farlo senza l’opera preziosa di uno strumento fondamentale come un istituto nazionale di valutazione. Non è mica un delitto se qualcuno ci indica che possiamo fare meglio, sia professionalmente che come sistema; è invece una fonte preziosa di arricchimento individuale e collettivo.

Assistiamo invece a una scuola in fuga da se stessa, che teme ogni verifica, ogni valutazione, ogni esito di prove oggettive, denunciando così un profondo senso di insicurezza. L’ostilità alle prove Invalsi è segno di una professionalità debole, di una sfiducia nei confronti delle proprie competenze da parte della classe insegnante. Grave, perché se un docente non è fornito di autostima, come possono avere fiducia in lui gli studenti, le famiglie, la società. E forse anche con questo si spiega come siano andati deteriorandosi in alcuni casi i rapporti tra genitori e scuola.

Non è fuggendo da sé e dalle proprie responsabilità che si affrontano i tanti problemi del nostro sistema scolastico. La nostra scuola ha necessità di incontrare l’Invalsi e non di fuggire da esso. I nostri studenti devono essere garantiti, devono sapere cioè che il loro tempo e i loro sforzi compiuti negli studi sono serviti a qualcosa, che fanno curricolo e certificano le loro competenze. E’ quello che da anni ci chiede l’Europa.

La scuola ha bisogno di un giudice terzo che l’aiuti a migliorarsi, che consenta agli studenti di giungere al termine degli studi sicuri che le loro competenze valgono, che saranno riconosciute nella società e sul mercato del lavoro. E questo non lo può fare il voto di uno o di dieci insegnanti, ma solo un sistema di valutazione nazionale riconosciuto a livello europeo e mondiale.

Quello che noi abbiamo è l’Invalsi, che ha dimostrato di funzionare bene. Non è necessario copiare gli americani che affidano agli esiti dei test nazionali la sorte delle scuole e dei docenti. La nostra storia e la nostra cultura non sono queste. Dovremmo smetterla di continuare a nasconderci dietro i voti, dovremmo lasciare la valutazione, che è questione difficile e complessa, a chi la sa fare e la sa gestire, non per giudicare ma per aiutarci ad essere sempre migliori.

Curiosi e sorprendenti.
Quando a stimolare la ricerca sono i più piccoli

C’era un tempo in cui le cattedre sovrastavano imponenti e imperiose la timida ignoranza di gente comune. Chi non aveva avuto la fortuna di studiare, o era conoscitore di altri saperi, o semplicemente era ancora in fase di scolarizzazione, ben poco avrebbe potuto comprendere entrando in un museo. Finché qualcosa cambiò.

L’attenzione odierna ai pubblici che in un modo o nell’altro incrociano la propria vicenda con quella di un museo, è cosa recente. Fino alla prima metà del secolo scorso, non esporre l’intera collezione in possesso sarebbe stato impensabile. Senza alcunché di esplicativo, oltretutto, poiché risultava scontato che la persona interessata fosse già in grado di ricostruire le situazioni esposte, basandosi sul proprio background. Pareti tappezzate di opere d’arte e vetrine stracolme di oggetti antichi hanno in seguito lasciato spazio a una nuova concezione di museo come servizio pubblico. Se è la cittadinanza tutta a contribuire alla sua stessa esistenza, è giusto che possa essere vissuto dall’intero corpo civico come luogo sociale, senza distinzioni professionali o anagrafiche. Il museo si configura così non solo come spazio deputato alla ricerca e alla conservazione, ma imprescindibilmente anche alla comunicazione. Non è la pochezza di chi vuole piegarsi al “marketing a tutti i costi”, bensì la consegna di informazioni sull’allestimento proposto e sul significato del museo. Il solo modo, questo, per permettere il raggiungimento di una reale messa in comune – comunicazione, ça va sans dire – delle conoscenze attuali in qualsiasi campo. Non rivolgersi alle scuole, momento principe dell’educazione, con una didattica mirata risulterebbe pertanto incomprensibile, certo, ma ciò non toglie che non sia una sfida ancora non del tutto tratteggiata. Senza una sistematica didattica è stato, finora, il nostro Museo Archeologico Nazionale, conosciuto e amato come Museo di Spina, che a ciò ha cercato di sopperire con l’aiuto saltuario del volontariato e di progetti di alternanza scuola-lavoro. E’ grazie a due realtà locali, però, che la mancanza sofferta inizia a trasformarsi in realtà. ‘Al Museo con l’Archeologo, gli Amici dei Musei per Spina’ è l’incontro che sabato 15 febbraio ha visto la presenza dell’associazione Amici dei Musei e Monumenti Ferraresi, la cui attività è diretta alla conoscenza e promozione del patrimonio artistico ferrarese e nazionale, e della cooperativa Le Macchine Celibi, funzionale alla gestione di servizi per gli enti pubblici e di eventi culturali, entrambe protagoniste di un cambiamento in atto. Il progetto consiste nell’offerta, da parte dell’associazione, di visite guidate a dieci classi di dieci istituti superiori ferraresi – almeno per il momento – , gestite dalla cooperativa. Un bell’esempio di interazione tra mondi vicini, che faranno apprezzare alle nuove generazioni la vita quotidiana degli oggetti nel loro contesto e le antiche storie che quei reperti possono raccontare con la loro iconografia.

E poi capita che durante un’attività laboratoriale al museo, quella intelligente bambina dagli occhi vispi e incontenibili prenda la parola e ponga la domanda che da qualche minuto le assilla la mente. Una domanda che spiazza, così innovativa da stimolare un nuovo dubbio, un nuovo percorso di ricerca. E’ il bello della comunicazione: si mette in comune per arricchirsi vicendevolmente.

 

Museo Archeologico Nazionale di Ferrara
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L’inverno del nostro scontento

L’inverno del nostro scontento è un romanzo del 1961 di John Steinbeck. Il titolo del romanzo, tradotto in italiano da Luciano Bianciardi, fa riferimento al celebre primo verso del dramma shakespeariano Riccardo III: “Ormai l’inverno del nostro scontento / s’è fatto estate sfolgorante ai raggi di questo sole di York”.  Ma se in Shakespeare è il passaggio dalla triste stagione ad una solare ottimistica e trionfante che tuttavia diverrà drammaticamente tragica coinvolgendo un’intera nazione, nell’opera di Steinbeck il fallimento delle ambizioni del protagonista Ethan, che tenta di ridare una dignità economica alla propria famiglia, produce una catastrofe morale di cui il personaggio è il simbolo più evidente.
Nell’inverno 2020 in questa città, in questa nazione, l’inverno del nostro scontento ha per protagonisti i politici che cercano il sole e ci ricacciano invece in un inverno senza fine. Due intellettuali (una qualifica che nonostante tutto non è stata del tutto consumata) affrontano da due diversi punti di vista lo scontento che lucidamente o confusamente si respira: Roberto Pazzi, il bravo scrittore e poeta, in una intervista al direttore del Carlino Ferrara Cristiano Bendin (13 febbraio), e nella stessa data Francesco Merlo su la Repubblica.

Roberto Pazzi è una voce assai autorevole della cultura ferrarese. Non si dimentichi che qui abita e che qui ha il suo osservatorio privilegiato. Lo conosco da quando eravamo ragazzi, abbiamo insegnato nella stessa scuola, abbiamo avuto gli stessi amici e molto spesso, come accade tra persone che condividono gli stessi propositi – in questo caso il senso dello scrivere nella vita e nella conoscenza del mondo- abbiamo avuto parecchie discussioni anche animate e spesso sull’orlo della rottura; poi invece si è ripreso e ricominciato a discutere. So che Pazzi non ha mai dimostrato una propensione a giustificare il proprio lavoro appoggiandosi a un’evidente parte politica. Sicuramente un democratico, un precursore dei tempi, ma non certo impegnato – come si diceva una volta – nella politica. E proprio da questa sua lunga fedeltà al principio della scrittura che lo fa insorgere e rendere giustamente ‘politico’ procede il suo discorso. Così scrive: “Non usare la scrittura per diffondere cattiveria e odio, divisione e razzismo. C’è già tanto male nel mondo, non ci si deve mettere anche la penna a seminare il male.”.  Poi la durissima presa di posizione per gli exploits a cui si lasciano andare certi politici ferraresi e qui la sua limpida condanna appare degna di un ‘vero’ uomo di cultura: “la democrazia anche durante le elezioni amministrative è sacra, fragile come cristallo, in politica non esistono nemici ma solo avversari. Certo la precedente amministrazione aveva creato sistema, un ricambio non faceva male…Ma il rimedio è peggiore assai del male. Ignoranza, incompetenza, volgarità, arroganza sono il cocktail sinistro di questi che oggi governano. Una vergogna.”.

L’articolo di Francesco Merlo, che puntualizza l’aspetto più sconcertante dell’attività politica di Salvini, mi ricorda un aspetto del film vincitore di 4 Oscar Parasyte, che ho trovato abbastanza sconcertante e non certo degno di tanti premi. Quel film però riesce a trasmettere l’aspetto più difficile dell’arte visiva: quella di restituire gli odori e le puzze. Così l’articolo di Merlo restituisce non gli odori, ma la brutta volontà di servirsi di un privatissimo sentimento, qual è l’amore dei figli, per farne strategia politica. Come si vede in tantissimi servizi dei telegiornali o nei talk show, il politico, dopo aver salutato il suo pubblico con quelle mani giunte che ormai insopportabilmente rimandano al saluto preferito dai cantantucoli e dagli eroi del calcio, cioè alla sua platea preferita, avrebbe raccontato come sua figlia Mirta – riferisce Merlo – si sarebbe spaventata per il titolo apparso su La Repubblica Cancellare Salvini: “Ma papà, perché ti vogliono cancellare?”. E il vittimismo, commenta il giornalista, è diventato qui “barocco e minaccioso come vuole la nuova sottocultura della destra , da Trump a Orbán”. Poi si scopre che questi ragionamenti sono fatti da una bimba di 7 anni!

Non siamo immuni, tutti noi, da una foga di parte che determina, soprattutto in politica, atteggiamenti leggermente schizofrenici di cui l’altro Matteo, il Renzi, sta ora dando illuminanti esempi. Cerchiamo nella vita di ricostruire un impegno che sembra essersi totalmente esaurito negli ultimi anni. Nella nostra ‘singolare’ città, ormai lo posso dire con cognizione di causa, accadono strani avvenimenti difficilmente spiegabili se non alla luce di una continua campagna elettorale che ci oppone come nemici che come avversari politici.
Mi si potrebbe chiedere. Ma perché continui a tormentarti e a tormentare? A testa bassa rispondo: per l’alta e imprescindibile passione della verità della parola e degli atteggiamenti che ancora , direbbe Lui, Dante, nel lago del cor m’era durata e mi dura tuttora.

“Dunìn l’è mort”.
Come e perchè la ditta F.lli Sgarbi sta conquistando Ferrara

Chi frequenta, almeno un po’, il vizio della scrittura, conosce bene il ‘tormento del titolo’. Ti lambicchi il cervello ma il titolo, il titolo giusto, non arriva. Alla fine lo trovi, ma non ti convince, e lo cambi e lo ricambi. Fermo e Lucia? Gli Sposi Promessi? I Promessi Sposi? Ma succede anche il contrario. A volte, invece di uno, ne trovi dieci di titoli. E vanno tutti bene, ti piacciono tutti, non vorresti scartarne nessuno.
Su Vittorio Sgarbi, su sua sorella Elisabetta, sulla nota vicenda della Collezione Cavallini Sgarbi, di cose da dire ce ne sono davvero tante. E ognuna di queste merita il suo titolo proprio. Così, abusando della pazienza dei miei venticinque lettori (una stima molto più vicina al reale di quella fatta un po’ per piaggeria dal sommo Manzoni), nel seguito troverete diversi titoli paralleli. Parafrasando il famoso detto: “A ogni titolo il suo lettore. A ogni lettore il suo titolo”.

Dunìn l’è mort

Dunìn – così si chiama a Ferrara, ma vive in qualsiasi altrove con altro nome –  era un tale che donava senza pretendere nulla in cambio. Nel detto popolare Dunìn è morto, se n’è spenta la genia, perché nella dura realtà della vita, chi dona, chi ama presentarsi come benefattore disinteressato, spesso nasconde un suo personale tornaconto. Insomma, quel che sembra un dono è spessissimo uno scambio commerciale ben camuffato.
La Collezione Cavallini Sgarbi ‘donata’ alla città in cambio del 20 per cento degli incassi, ha suscitato un gran polverone. E’ un fatto piuttosto vergognoso, e bene ha fatto la neonata Associazione Piazza Verdi a denunciarlo, rivelando tutti i dettagli della vicenda.  E inaugura anche una prassi inedita – scambiare in vita l’affidamento al Pubblico di un bene privato in cambio di un congruo affitto – che è sperabile non faccia scuola.
D’ora in poi, mi viene da dire, dovrebbero essere severamente vietate le donazioni, o presunte tali, che non siano post mortem. Vuoi donare un bel quadro alla Collettività? Grazie tante, è un gesto nobilissimo. Ma aspetta di morire.
Insomma, anche a me tutta la storia non piace per nulla. Sono disposto anche a scandalizzarmi, ma non riesco a fingermi sorpreso. Dunìn l’è mort da molto prima che Vittorio Sgarbi venisse al mondo. Anzi, che io sappia, il proverbiale signor Dunin non è mai esistito.
C’è però qualcosa che mi è sembrato davvero insopportabile: le parole di Vittorio Sgarbi appena dopo la vittoria del Centrodestra e l’elezione di Alan Fabbri a Primo Cittadino di Ferrara. Siccome Sgarbi possiede un formidabile megafono, e siccome Sgarbi ama le ripetizioni (vedi il fatidico “capra, capra capra”) è difficile dimenticare la sua dichiarazione di intenti, la sua solenne promessa: per Ferrara lavorerò gratis, dalla mia città non voglio neppure un soldo, farò il presidente di Ferrara Arte senza stipendio.
Ecco, almeno questo Vittorio Sgarbi poteva risparmiarcelo.

Le urne dei Forti

Vittorio Emiliani ha scritto aI Fatto Quotidiano (12 febbraio) una appassionata e dolente lettera sulla decadenza di Ferrara. L’occasione per il suo intervento, quasi un de profundis, è ancora una volta la vicenda di cui sopra e, insieme, le ultime sparate pubbliche del Vicesindaco Naomo Lodi. Emiliani, che a Ferrara aveva frequentato il Liceo Ariosto e che per la nostra città conserva un amore profondo, ispirato dalle ‘urne dei Forti’, pensando cioè ai tanti e trapassati ferraresi illustri, lamenta l’abisso di volgarità in cui è caduta la città degli Estensi. Volgarità che, sia detto per inciso, noi indigeni dobbiamo sorbirci quotidianamente.
Ferrara è da tempo e stabilmente alla ribalta delle cronache nazionali. Per la clamorosa sconfitta del Centrosinistra e l’avvento del primo Governo Leghista, per il falso e sciagurato storytelling su un quartiere Gad in mano alla malavita, per la rimozione dello striscione di Giulio Regeni dallo Scalone del Comune, per la ‘proposta indecente’ di assunzione fatta dal Consigliere Comunale Armato Stefano Solaroli, per la ruspa sgombra-rom e le minacce sui social del capopopolo Naomo… L’ultimo capitolo della nuova ‘fortuna mediatica’ di Ferrara è, per l’appunto, l’accordo artistico-commerciale tra i fratelli Sgarbi e la nuova Giunta leghista. Altri seguiranno.
La “triste Ferrara” di cui scrive Emiliani, è tanto più triste per noi ferraresi. Che, quando incontri un amico foresto, questi non ti chiede più del Meis o della mostra di De Nittis e di Previati, ma sfodera ironie o ti sussurra all’orecchio le sue condoglianze per la discesa agli Inferi di Ferrara.
I Forti, gli Uomini illustri di Ferrara – nella sua lettera Vittorio Emiliani ne nomina tanti – probabilmente in questo momento si rivoltano nella tomba. Aggiungo altri nomi all’elenco di Emiliani: che cosa penserebbero della Ferrara di oggi, cosa direbbero, che proposte farebbero persone del calibro di Silvano Balboni, Vittorio Passerini, Paolo Ravenna, Guido Fink, Adriano Franceschini, Luciano Chiappini, Carlo Bassi se fossero ancora tra noi?
Rimangono i vivi. Ma questi preferiscono strillare vanamente. O starsene in silenzio. Forse il nostro guaio non si chiama Naomo, non dipende dalle vere o presunte malefatte della premiata ditta F.lli Sgarbi. Forse il guaio (la nostra colpa) è non svegliarci da un profondo sonno civile, prima ancora che culturale e politico.

Peccato Vittorio!

Attenzione, quel che dirò di seguito, mi guadagnerà dei nemici.
Non conosco di persona Vittorio Sgarbi. Culturalmente e politicamente sono ai suoi antipodi: non c’è bisogno di aggiungere altro. Ma non capisco, e non approvo, quel livore che tante e tanti amici di sinistra nutrono verso di lui. Sembra quasi obbligatorio esternare verso Sgarbi un sovrano disprezzo, dargli dell’incompetente, del farabutto, del fascista e consimili. A me pare una solenne cretinata.
Non conosco Vittorio Sgarbi, non ho il numero di uno dei suoi numerosi cellulari. Se lo avessi, se una sera mi venisse voglia di fare quel numero e lui, per qualche caso, rispondesse al telefono, gli direi che io non la penso cosi. Che, anzi, lo ritengo persona di profonda conoscenza della storia dell’arte e di grande curiosità intellettuale, con una rara sensibilità e intuito nello scoprire e valorizzare tanti nostri artisti ‘minori’ e ingiustamente dimenticati. Gli concederei volentieri talento nella scrittura, in particolare nella divulgazione. Confesserei che molti suoi libri, anche se non geniali, sono godibili e scritti in un buon italiano. Libri utili, in mezzo a un mare di libri inutili.
Certo, Sgarbi è anche affetto da un egotismo al quarto stadio; è un Grande Narciso, un polemista che ama trascendere nell’insulto. Ma quanti, tra politici ed intellettuali, e con meno talento di lui, coltivano i medesimi vizi?
Vittorio Sgarbi non mi piace. Eppure lo compiango. Mi spiace che nella sua vita, percorsa sempre a cento all’ora, abbia compiuto quell’errore fatale e irrimediabile. Ha voluto occuparsi e occupare la politica. Così è diventato un politico mediocre, un saltafossi, un arraffino: ‘uno come tanti’, proprio lui che per vizio e vocazione si è sempre pensato unico e inimitabile.
Si fosse limitato a fare bene il suo mestiere, avesse continuato ad arare il suo campo e coltivare le sue messi,   Vittorio Sgarbi sarebbe diventato un altro Federico Zeri (da Sgarbi tanto odiato, ma che tanto gli assomigliava, nel fiuto, nell’anticonformismo, come nelle inevitabili cantonate). Non esageriamo, Sgarbi non è e non sarebbe mai stato un Roberto Longhi, ma pian piano avrebbe potuto occupare un posto significativo nella storia della critica dell’arte figurativa. Si sarebbe preso le sue soddisfazioni. E avrebbe fatto i soldi ugualmente.
Senza la politica, con la passione e la strenua applicazione al lavoro che tutti gli riconoscono, poteva fare molta strada. E magari, con un po’ di fortuna, andare anche lontano, arrrivare a incontrare i suoi posteri, entrare addirittura nel novero dei ferraresi illustri. E invece niente. Capra, capra, capra… Che peccato Vittorio!

 

17 Febbraio: “I Vitelloni” di Federico Fellini, al Cinema Boldini.

Da: Arci Ferrara APS.

Continuano al Cinema Boldini le proiezioni che omaggiano il cinema di Federico Fellini in occasione del centenario della sua nascita (20 gennaio 1920).

Lunedì 17 febbraio l’appuntamento che chiude la rassegna FELLINI100 (sono cinque i capolavori felliniani che sono stati portati in sala tra gennaio e febbraio) è con I VITELLONI in versione restaurata.

“Vitelloni” vengono chiamati, nelle città di provincia, quei giovani di buona famiglia che passano la loro giornata nell’ozio, tra il caffé, il biliardo, la passeggiata, gli amori inutili, i progetti vani. Tali sono, nella loro piccola città, cinque amici: Fausto, Moraldo, Alberto, Leopoldo e Riccardo.

Fausto amoreggia con Sandra, la sorella di Moraldo e quando lei rimane incinta, per volere del padre deve sposarla. Ma né il matrimonio, né la paternità hanno la virtù di renderlo più serio perché Fausto è sempre lo stesso “vitellone”, amante dell’ozio, delle avventure, dei passatempi. Dopo avergli ripetutamente perdonato i suoi tradimenti, Sandra un bel giorno perde la pazienza e scappa di casa col bambino.

E’ un duro colpo per Fausto, che comprende finalmente tutto il male che ha fatto a sua moglie: la cerca disperatamente, la trova, si riconcilia con lei, mentre suo padre completa, a suon di bastonate, la lezione.

Gli altri vitelloni continuano a trascinare la loro inutile esistenza e tra loro campeggia il personaggio di Sordi (Alberto), punto di fusione di violenza satirica, grottesco e patetismo. Il film si chiude con la partenza all’alba di Moraldo, il meno intorpidito del gruppo, salutato alla stazione da Guido, il piccolo aiuto ferroviere, simbolo di un mondo dove la fatica quotidiana è la regola.

Uscito nelle sale nel 1953, I VITELLONI è il terzo film diretto da Fellini, dopo “Luci del varietà” e “Lo sceicco bianco”. Il primo a vincere un riconoscimento importante come il Leone d’Argento al Festival di Venezia, oltre che il Nastro d’Argento come miglior regia, miglior attore non protagonista per Alberto Sordi e miglior produttore.

Riflessioni post elezioni regionali in Emilia Romagna.

Da: Il Comitato Politico Federale di Rifondazione Comunista di Ferrara.

In queste ore si sta insediando il nuovo Consiglio regionale dell’Emilia Romagna e alla vicepresidenza avremo Elly Schlein con delega alle politiche sociali e al coordinamento di un Patto per il clima, sono d’obbligo gli auguri alla neo-eletta con la speranza di essere in grado d’incidere positivamente in regione, in merito alle politiche ambientali e infrastrutturali, e non solo. Sono passate ormai alcune settimane dagli esiti elettorali, e ancora scottante appare la sconfitta subita da L’Altra Emilia Romagna e dalle altre forze di Sinistra. Il “voto utile”, propagandato come l’unico capace di scongiurare l’inevitabile discesa barbarica, come se il male minore fosse contribuire al processo di cementificazione e legittimazione dello spostamento a destra; il bipolarismo dei candidati alla presidenza e infine il sistema elettorale maggioritario, hanno avuto come esito l’annientamento pressoché totale di una qualsivoglia altra voce critica, se pur rappresentata da contenuti e competenze qualitativamente alti. E’ stato un voto contro e non a favore di qualcosa, di una prospettiva di società ad esempio opposta alla scelta secessionista di originaria memoria leghista, a favore dei ricchi, peculiare nell’autonomia differenziata, subito confermata dal rieletto presidente. La vittoria se pur di scarsa misura di un candidato alla presidenza regionale come Stefano Bonaccini che ha prevalso sulla proposta della Lega Lucia Borgonzoni, è una cosa positiva, L’Altra Emilia Romagna così come Rifondazione Comunista sono stati da sempre, innanzitutto contro le destre in una posizione precipuamente antifascista, ma questa non si può definire una vittoria di Sinistra. A livello numerico la maggior parte dell’elettorato regionale ha votato Lega, come si conferma a Ferrara; da segnalare inoltre che un terzo degli aventi diritto non si è recato al seggio elettorale, infine non di poco peso è la sconfitta del Movimento 5 Stelle a favore di un voto disgiunto di centro-sinistra, finalizzato a non far cadere il governo attuale. Rifondazione Comunista dell’Emilia Romagna, sin dall’inizio ha reputato imprescindibile continuare il percorso intrapreso cinque anni fa di proposta alternativa ai poli politici esistenti. Si è cercato di unire tutte le forze politiche che si riconoscevano negli ideali dell’antiliberismo, dell’anticapitalismo e del comunismo, ma purtroppo solo una parte ha aderito a questa proposta, mentre gli altri hanno intrapreso strade solitarie di autoreferenzialità, come a confermare l’immagine della sinistra suicida ed incapace di far fronte comune in modo incisivo contro le destre. Non appare scevro da ogni responsabilità, il fronte di coloro che potendo costruire un consenso indipendente a Sinistra ha preferito fare da stampella ad un Pd legittimandolo a posizioni sempre più spostate a destra; ma nel gioco di potere si sa è necessario stare dalla parte di chi ti garantisce qualcosa di concreto. Lo stesso movimento, più o meno spontaneo, delle Sardine si è schierato acriticamente dalla parte del governo uscente. In un prospettiva ai limiti della psicanalisi si è preferito fermare “la lega in sé”, a favore di un consolidamento “dell’autonomia differenziata in me”.

In conclusione a seguito dell’innegabile risultato disastroso, non è semplice ricominciare, ma è assolutamente necessario risalire questo impervio percorso di ricostruzione della Sinistra d’alternativa che ascolti la voce di coloro, che con un voto di protesta manifestano sofferenza e disagio, spesso provenienti da territori isolati geograficamente, quasi lasciati soli dalla politica. La riflessione sta anche ripartendo dalle consultazioni dei diversi organismi provinciali per decidere come continuare il percorso, per questo motivo appare improcrastinabile una profonda riflessione sulle modalità, sui processi e sull’utilità di presentarsi alle prossime competizioni elettorali in questo periodo storico con l’esiguità di risorse umane ed economiche a disposizione. Più importanti degli schieramenti aprioristici elettorali, ci saranno le lotte politiche, espressione delle specificità territoriali.

“Eppure ci sono anch’io!”
Storia di un’infanzia con un fratello disabile

Mio fratello nacque nel 1944 in una cittadina del nord della Germania. Infuriava la guerra. I nazisti erano ancora al potere, specialmente nelle menti delle persone. Per i miei genitori deve essere stato scioccante apprendere che mio fratello era nato spastico.
Mia madre ammutoliva sempre quando noi, più tardi nella vita, parlavamo della disabilità di suo figlio, mio fratello. Mio padre, interrogato sui suoi ricordi, amava rifugiarsi impacciato nelle frasi fatte: “Sono stati tempi difficili”.
Ad un certo punto i miei genitori avevano anche sentito dell’Eutanasia, la ‘eliminazione delle ‘vite senza valore’, come si chiamava nel gergo dei Nazisti. Ma cosa importava a loro, fino a quando erano gli altri ad esserne colpiti? Certo, pochi mesi dopo la nascita di mio fratello, era finita la guerra e con essa il nazionalsocialismo, ma erano forse per questo diventate prive di fondamento le paure dei miei genitori? Dal momento della nascita di mio fratello, per quanto io potessi percepire, i miei genitori cominciarono a comportarsi diversamente. Ci si vergognava di uno della famiglia, i cui modi di muoversi e di parlare erano diversi da quelli degli altri ‘bambini normali’. Tra la famiglia e il mondo esterno vennero eretti alti muri di paura e di distanza. La vergogna determinava interamente i nostri rapporti con le altre persone. Ora I miei genitori evitavano l’ambiente circostante e si chiusero nel proprio mondo. Mio fratello venne iscritto nella scuola elementare di zona e non in una scuola differenziale. Una cosa positiva, si direbbe oggi, ma allora fu l’inizio di una via crucis. In quel periodo venni al mondo io. Solo anni, forse decenni dopo, cominceranno a crescere in me certi interrogativi.
Una rete emozionale intrecciata di affetto e repulsione, di ostentato amore e rabbia repressa, di sfida e disperazione, si posa sopra una famiglia con un bambino disabile. Perché proprio noi, perché proprio io?
Sebbene fossi un bambino sano, venni allevato in un modo fatto a misura di un bambino disabile. Non ho mai imparato ad essere indipendente. Mi si veniva incontro su tutto. Non dovevo dare nell’occhio, e dovevo ringraziare di non essere disabile. Il dover rinunciare al proprio tempo, per doversi orientare su quello quello altrui, lo ha ben espresso Carmelo Samonà nel suo racconto Fratelli. Riconoscente lo ero pure, ma avrei dovuto forse dire grazie di non essere preso in considerazione all’ombra di mio fratello?
Mia madre si impappinava con frequente evidenza quando chiamava i suoi figli. Diceva che le veniva sulle labbra innanzitutto la prima sillaba del nome di mio fratello. Si correggeva immediatamente e chiamava il mio di nome. “Di problemi ne abbiamo già abbastanza”, replicò, quella volta che esposi al pubblico il nome della nostra famiglia, per aver sottoscritto una lettera di plauso all’obiezione di coscienza, pubblicata da un giornale.
Oggi il mio riserbo verso gli sconosciuti non é venuto meno, più o meno come non si è placata la paura di far qualcosa di male e di dare nell’occhio. Continuo a sentirmi in molte cose inferiore. Ma perché, per quale ragione? I miei interessi li devo sempre porre in secondo piano. Avere riguardo per mio fratello era il mio primo dovere, che valeva sempre e dappertutto.
Oggi qualche volta penso che i miei genitori e io abbiamo patito della disabilità di uno della famiglia, più di quanto non sia successo al diretto interessato. Ma è consentito pensare una cosa del genere? È consentito anche pensare, magari addirittura dire, che nei confronti di un membro della famiglia disabile qualche volta si serbano anche sentimenti di livore, di rifiuto, persino di profonda rabbia?
Si può dire che una persona che vive con il permanente dovere di aver riguardo verso un prossimo più debole, venga anche privata di una parte della propria esistenza? “Eppure ci sono anch’io” – quante volte è echeggiato dentro di me, ciò che spesso non mi era permesso di dire. Le derisioni e le umiliazioni sbattute in faccia a mio fratello, a volte con cattiveria, a volta per divertimento, colpivano anche me. Per una formazione da Body Guard non c’è nulla di meglio che un’infanzia al fianco di un fratello disabile.
Quando camminavo con lui per strada, avvertivo la paura verso coloro che ci venivano incontro. Si sarebbero messi a ridere, avrebbero iniziato a barcollare anche loro, lo avrebbero fatto passare per un ubriaco? Ridevano di mio fratello e in quel modo ridevano anche di me, il ragazzino al suo fianco. Ancora oggi mi è rimasta l’abitudine di guardarmi intorno, per vedere se qualcuno mi viene incontro. Voglio vedere se si girano a guardarmi e magari se mi ridono dietro. Mio fratello non potè finire il ciclo scolastico nella scuola elementare di zona. Insufficiente sostegno, fu la spiegazione ufficiale. Rifiuto dei compagni e dei maestri è quella probabile. Mio fratello ebbe la fortuna di venire aiutato davvero in un istituto per l’istruzione di bambini disabili. Incontrò professori comprensivi e competenti, dai quali imparò ad avere un approccio consapevole alla propria disabilità e un’altra percezione della normalità.
Le necessità di una famiglia con un bambino disabile sono molto grandi e non bisognerebbe minimizzarle con patetici appelli, o sermoni moralistici e pietistici. E tanto più grave è la disabilità, tanto più grandi sono gli oneri per tutti. Ma si impara molto presto a riconoscere quali sono i valori realmente importanti nella vita: Solidarietà verso i più deboli, pazienza verso chi esula dalla norma e verso le minoranze; riguardo, rispetto e responsabilità anche verso coloro che vivono all’ombra dei disabili. Nonostante tutto, ci sono anche loro.

Sicurezza dei lavoratori e lavoro irregolare all’esame dell’Osservatorio provinciale sulla sicurezza e legalità, riunitosi oggi a Palazzo Giulio d’Este

Da: Prefettura di Ferrara.

La situazione sulle condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro e l’attività di prevenzione e contrasto al lavoro irregolare nella provincia di Ferrara, sono stati i temi di cui si è occupato stamane l’Osservatorio provinciale sulla sicurezza e legalità presieduto a Palazzo Giulio d’Este dal Prefetto Michele Campanaro.
All’incontro hanno partecipato i rappresentanti degli Enti previdenziali e di vigilanza, delle parti sindacali e datoriali di categoria e del Comando provinciale della Guardia di Finanza.
I dati introduttivamente illustrati dal direttore provinciale dell’INAIL Davide Lumia, sull’andamento del fenomeno infortunistico nell’anno 2019, hanno evidenziato un quadro di luci e ombre sulle diverse tipologie statistiche monitorate dall’Istituto, sollecitando importanti spunti di riflessione.
A fronte di un lieve aumento del numero di denunce di infortunio rispetto all’anno precedente (5.043 per il 2019 rispetto alle 4.942 del 2018, pari al +2%), si è registrata, d’altra parte, una diminuzione del numero degli incidenti con esito mortale, passati dai 13 nel 2018 ai 5 del 2019, tutti verificatosi non sul luogo di lavoro, ma “in itinere”. In decisa crescita, invece, il numero di denunce di malattie professionali che, nell’anno appena trascorso, ha subito un rialzo di +18,47% rispetto all’anno precedente (da 249 nel 2018 a 295 nel 2019), con un trend in crescita molto più accentuato rispetto alla situazione su scala nazionale (+2,89%) e regionale (+3%).
“Questi dati – ha rimarcato il Prefetto – ci spronano a profondere ogni sforzo utile per contribuire a rendere più trasparente il mercato del lavoro, in particolare nei settori più vulnerabili sotto questo profilo e, cioè, quelli degli appalti privati, della logistica e dell’agricoltura, per implementare misure condivise di prevenzione sui temi del lavoro nero o irregolare e della sicurezza sui luoghi di lavoro. Intendo, per questo, favorire una più stretta sinergia tra l’attività del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica e quella di questo Osservatorio, in modo da aggredire con maggiore efficacia, sia sotto il profilo della prevenzione sia sotto quello del contrasto, il preoccupante diffondersi di forme di lavoro irregolare, spesso di subdola e complessa individuazione”.
Il Prefetto ha, pertanto, chiesto al direttore provinciale dell’INAIL di estendere in seno all’Osservatorio, in un’ottica di messa a sistema delle migliori strategie adottate, alcune delle esperienze progettuali che lo stesso Istituto ha avviato nell’ambito del protocollo di intesa “Salute, comfort e sicurezza” in materia di sicurezza sul lavoro, prevenzione e protezione della salute dei lavoratori, coinvolgendo Provincia, Comune di Ferrara, Azienda Sanitaria Locale, Università degli Studi, oltre allo stesso INAIL ed all’Ispettorato Territoriale del lavoro.
In relazione ai casi registrati di frodi fiscali, unanime consenso ha, infine, trovato l’indicazione del Prefetto Campanaro di organizzare con il locale Comando provinciale della Guardia di Finanza, specifiche attività formative e informative, indirizzate agli operatori dei diversi settori economici e produttivi del ferrarese, sulle tematiche del rispetto degli obblighi fiscali e tributari.

Il treno di Margherita

Conoscete tutti il detto ‘Sbatti il mostro in prima pagina‘. Beh, è sempre successo, e succede ancora, anche nel tempo dei social del Terzo Millennio. Nel Mondo Lontano, che oggi è diventato prossimo, proprio come il bar sotto casa. E nel Mondo Vicino, che invece è diventato lontano, perché incollati allo schermo dello smartphone. non riconosciamo il nostro vicino. Succede dappertutto, anche nella periferia del mondo, Ferrara compresa. Il mostro in prima pagina, o l’ultima sparata di Renzi e di Salvini, o il contatore  dei morti del Coronavirus… Sembra che non se ne possa fare a meno. Funzionano. Mediaticamente parlando sono un must. Un appuntamento obbligato. Un necessario tributo che ogni giornale deve pagare. Per essere letto. Per avere successo. Per raccogliere più pubblicità.

Ma qual è il giornale, il quotidiano (sia fatto di carta e inchiostro o viaggi per l’etere) che si sognerebbe di ‘sbattere in prima pagina’ un racconto? Chi è quel pazzo che può fare informazione attraverso la letteratura? Una musica? Una canzone? Una foto, Una poesia? Se siete già lettori di Ferraraitalia, avrete capito che quei pazzi siamo noi. Leggete Il treno di Margherita di Carlo Tassi. Racconta solo una storia. Una di quelle brutte storie che continuano a succedere. Lontano, Vicino, anche Vicinissimo. Un fattaccio di cronaca che riempie la prima pagina per un giorno (ricordate una decina di giorni quel treno sulla Ferrara – Bologna fermo per intervenuto suicidio?), e subito dopo sparisce. E non ci si pensa più. Noi invece ci pensiamo ancora. Buona lettura.

Effe Emme

Who’s Gonna Find Me (The Coral, 2006)

Il sovrintendente passava sempre alla solita ora. Era un tipo preciso, pignolo, non ti guardava mai in faccia. Per lui eri merda, merda come tutti quelli che stavano sotto di lui.

Quel lunedì tre agosto gli uffici erano chiusi per ferie. Io ero stato chiamato all’ultimo momento per fare uno straordinario: mi dovevo occupare delle pratiche inevase di Margherita.
Margherita Cantelli aveva lavorato nell’ufficio a fianco al mio fino a tre giorni prima. Poi, venerdì mattina, aveva deciso di salutare tutti gettandosi sotto l’intercity per Bologna.

Margherita entra in stazione alle dieci e tre quarti circa. La stazione è affollata, molta gente è in viaggio per le vacanze. Margherita non ha bagagli, si ferma a dare un’occhiata al tabellone degli arrivi e delle partenze, sembra tranquilla, addirittura sorridente. Poi s’avvia spedita nel sottopasso. Sale la rampa, sbuca sulla banchina tra i binari quattro e cinque e resta in attesa. Ha pure il tempo di fumarsi un’intera sigaretta mentre aspetta sul bordo del quinto binario.
Una voce metallica gracchia dall’altoparlante: “Attenzione, allontanarsi dal binario cinque. L’intercity proveniente da Venezia e diretto a Firenze è in transito ad alta velocità!”
Un potente fischio in lontananza annuncia l’imminente arrivo del convoglio e in un attimo il treno sfreccia sul binario con un frastuono assordante. Tutta la stazione sembra tremare al suo passaggio mentre lo spostamento d’aria fa volare le cartacce lasciate per terra e le pagine d’un giornale dimenticato su una panchina. Il treno sembra non finire mai e la sua velocità è tale da non riuscire a distinguere le facce dietro i finestrini.
Poi, finalmente, l’enorme serpentone d’acciaio passa e s’allontana. La gente, all’apparenza indifferente, resta stordita per qualche secondo. Una bimba, in attesa di partire assieme a sua madre, guarda a terra e vede qualcosa d’insolito, sembra una biglia di vetro. La raccoglie. È morbida, calda, e le tinge la manina di rosso. La porge alla mamma. La donna riceve l’occhio azzurro rigato di sangue, lo fissa: un intero bulbo oculare, un macabro regalo dalle piccole mani innocenti della figlioletta. Grida inorridita.
Un secondo grido e un altro ancora. La gente si sporge dal bordo della banchina, guarda in basso, sulle rotaie del binario cinque. Un ragazzo di vent’anni si piega in avanti e vomita, un poliziotto sbuca dal sottopasso, accorre e chiama il collega sull’altra banchina, gli dice di far presto e di portare dei teli bianchi. Altri restano a guardare in silenzio, espressioni d’orrore e di disgusto nelle loro facce…

Music at Night (The Coral, 2007)

Margherita era bella, una mora con gli occhi d’uno splendido azzurro chiaro. Proprio bella!
Prima o poi le avrei chiesto d’uscire…
Il sovrintendente era brutto. Ma non solo brutto, era un fottutissimo stronzo. E per lui ogni occasione era buona per dimostrare a tutti quanto era fetente.
“Sortini, ha liberato la scrivania della Cantelli?” urlò alle mie spalle.
Ebbi un sussulto e mi girai. “Non ho ancora finito dottore…” risposi.
Il sovrintendente Soprani attraversò la porta dell’ufficio e mi si parò di fronte. “Si sbrighi! Non dorma come al solito!” sbraitò a due centimetri dal mio naso. “Tutta la roba della Cantelli dev’essere portata via e sistemata entro mezzogiorno! Sennò peggio per lei!”
Girò i tacchi e uscì, tronfio e impettito come al solito.
Io continuai il mio lavoro senza fiatare. Mi rimase appiccicata addosso quella sua alitosi fatta d’acetone, aglio marcio e fondi di caffè che mi rivoltava lo stomaco. Spalancai la finestra, tornai alla scrivania di Margherita, aprii i cassetti e tirai fuori tutto.
Elenchi, preventivi, contratti, schede di lavoro. Poi un sacchetto di caramelle, un gufetto di porcellana, due cornici con le foto di lei durante una vacanza di qualche anno prima. Guardai ancora una volta il suo sorriso incantevole e mi venne un groppo alla gola.
Mi chiedevo perché era successo. Se lo chiedevano tutti naturalmente.
In fondo all’ultimo cassetto trovai un libretto con la copertina celeste. Lo aprii, lo sfogliai: era un diario.
Non avrei dovuto ma iniziai a leggere. Magari c’era scritto qualcosa che potesse spiegare il suo gesto…
Magari…

Scorsi le pagine velocemente e mi soffermai sulle ultime.
Lessi: “Il maiale, m’ha toccata anche oggi. Ha avuto il coraggio di sorridermi e di dirmi di star tranquilla. Che tanto rimarrà un segreto tra di noi. Di non preoccuparmi, che, se faccio quello che mi chiede, poi l’assunzione me la rinnova anche stavolta… Mi faccio schifo… Vuole guardarmi mentre ingoio il suo sperma… Sto male, non riesco a togliermi quel sapore dalla bocca, quella puzza orrenda mi perseguita… Sono andata in bagno a vomitare per l’ennesima volta. Vorrei gridare a tutti che lo odio ma non posso, non adesso che son rimasta sola… Ieri gli ho detto che con lui avevo chiuso, che non venisse più a cercarmi, che avrei detto tutto all’ispettorato, che l’avrei denunciato, sputtanato. Ma lui è Soprani, l’onnipotente, e m’ha risposto che può mettermi a casa in qualunque momento e che nessuno mi crederebbe… Poi se l’è tirato fuori e m’ha riso in faccia… Forse me lo merito, forse sono marcia io, sennò non mi spiego perché a me e non ad un’altra… Oramai la soluzione è una sola, devo soltanto trovare il coraggio di farlo e buonanotte…”
“Sortini, ancora qui? Non ha ancora finito con la Cantelli?” risuonò la solita voce sgradevole, sempre alle mie spalle.
“No dottore… m’è capitato tra le mani il diario di Margherita e ho letto qualche riga…” dissi io fissandolo negli occhi.
Il sovrintendente impallidì e per la prima volta incrociò il mio sguardo. Sembrava sorpreso, disorientato. “E che c’è scritto?” balbettò.
“Delle cose assai interessanti. C’è anche il suo nome sa?” gli dissi, “Cose incredibili. Dovrò darlo alla polizia ferroviaria che sta indagando sulla disgrazia…”
“Sortini, lo consegni a me. Ci penso io a darlo a chi di dovere!” mi disse col sorriso più falso che abbia mai visto.
“Mi dispiace sovrintendente, qui Margherita parla di lei e dei vostri rapporti particolari… Dovrò consegnarlo io a chi di dovere!”
“Sortini, non sia stupido. La Cantelli soffriva di depressione, lo sanno tutti. Avrà scritto sicuramente delle cazzate senza senso… lo dia a me!”
“Era depressa, certo… e qui se ne capisce il motivo!”
“Ha cominciato a dare i numeri dopo la morte dei suoi. Ho pure cercato d’aiutarla, ma non è servito a nulla.” sospirò. Aveva la stessa faccia tosta d’un mafioso al funerale della sua vittima.
“Ma la pianti per piacere!” sbottai. Ormai la mia sopportazione era giunta al limite massimo.
“Su Sortini, mi dia quel diario se ci tiene a continuare a lavorare in questo posto!” m’intimò.
“Mi sta minacciando dottor Soprani? Lo sa cos’ho appena letto in questo diario? Lo sa che potrebbe essere denunciato per quello che c’è scritto qua dentro?”
“Denunciato per cosa? Per i vaneggiamenti di una troietta arrivista?” chiese con strafottenza. Quella sua maschera di superiorità e finta sicurezza si stava sfaldando davanti ai miei occhi. Era evidente la sua paura così come la meschinità di cui era impregnato. Vedevo un ometto piccolo piccolo sul punto di crollare.
Andai alla finestra per respirare. “Lei ha un problema di alitosi… gliel’ha mai detto nessuno?” dissi.
Improvvisamente Soprani s’avventò verso di me. “Dammi quel cazzo di diario!” gridò.
Lo scansai e gli afferrai un braccio spingendolo via. Tentò di colpirmi con un pugno ma era più bravo a comandare che a fare a botte. Lo afferrai e lo lanciai oltre la finestra.
Sentii un tonfo sordo, m’affacciai dal davanzale e lo vidi: giaceva immobile in una pozza di sangue, un fantoccio disarticolato sul marciapiede del cortile interno.
Dopo un volo di cinque piani l’impatto col cemento gli aveva fracassato il cranio, spezzato le ossa e spappolato gli organi interni. Era morto sul colpo.
Mi guardai attorno, non vidi nessuno. In quell’ala del palazzo tutti gli uffici erano chiusi da venerdì.
Me ne andai. Il giorno stesso portai il diario ai carabinieri, del volo dalla finestra del sovrintendente non dissi nulla. Lo trovarono due giorni dopo già gonfio e pieno di mosche.

Passarono altri tre giorni quando, sulla prima pagina della Nuova, lessi questo titolo: “Molestie sul lavoro, duplice suicidio di vittima e carnefice”. Così andai al cimitero a trovare Margherita, sulla tomba c’era ancora il manifesto funebre. Posai un mazzolino di fiori di campo in un vaso e le dissi: “Mi dispiace non averlo capito prima Margherita. Ti vedevo tutti i giorni e non immaginavo quanto soffrissi… Non è vero, quel treno non t’è passato sopra. Tu quella mattina sul treno ci sei salita e te ne sei andata per fare finalmente il viaggio che volevi. Ora sei lontana da tutta questa merda! Ciao Margherita, sii felice. Sappi che quello stronzo ha avuto ciò che si meritava, è in viaggio anche lui adesso… Ma stai tranquilla, non lo rincontrerai più, è andato nella direzione opposta!”

Tra simbolismo e futurismo. Gaetano Previati Castello Estense

Da: Fondazione Ferrara Arte.

Giovedì 13 febbraio, alle ore 17.00, presso la Sala Boldini (Via Previati, 18), la curatrice della mostra Tra simbolismo e futurismo. Gaetano Previati, Chiara Vorrasi, presenterà la rassegna ai Presidi, ai Dirigenti Scolastici e ai docenti di Ferrara e provincia. Sarà presente Marco Gulinelli, Assessore alla Cultura, Musei, Monumenti Storici e Civiltà Ferrarese, Unesco del Comune di Ferrara.

Gaetano Previati ha avuto un ruolo fondamentale nel rinnovamento dell’arte italiana alle soglie della modernità. Egli è considerato un erede della tradizione romantica, un interprete delle poetiche simboliste e, per la sensibilità visionaria e sperimentale della sua pittura divisionista, un anticipatore delle ricerche d’avanguardia futuriste. La mostra, frutto di una campagna di ricerca dedicata all’artista, rilegge gli aspetti più affascinanti e innovativi della sua opera. Un centinaio di dipinti, disegni, cimeli e documenti inediti ripercorrono l’appassionante avventura che ha condotto Previati dalle visionarie interpretazioni storiche e letterarie alla pittura degli stati d’animo, attraverso illustrazioni fantasmagoriche, radiosi paesaggi, toccanti icone e suggestioni musicali.

DOPOELEZIONI
Premio al buongoverno o apertura di credito?

di Davide Nani

Dopo aver trepidato e poi gioito per la fallita ‘liberazione al contrario’ della Emilia Romagna, ho letto i dati del nostro Comune e della nostra Provincia e un certo allarme mi è rimasto.

E non solo. Se guardiamo alle scorse elezioni regionali del 2014, Stefano Bonaccini superava il candidato della Lega di quasi 20 punti, in una magra di voti mai vista in regione (37,70%), e l’allora candidato della destra (mi perdoni l’attuale) Alan Fabbri era. a mio parere di gran lunga più credibile. Fatto dimostrato dalla sua storica vittoria alle elezioni comunali di Ferrara delle scorso anno. Un intero partito da percentuali attorno al 30% nel 2014 disertò le urne. Forse la grande astensione fu in parte provocata dalle dimissioni di Vasco Errani (ricordo a tutti che fu poi assolto con formula piena!), ma a mio parere la prima responsabile fu la politica del Pd di Renzi, con i suoi messaggi di liberismo e la sua personalissima definizione di ‘Sinistra’ che si sarebbe poi rivelata pian piano per quello che era, cioè tutt’altra cosa.

Che ne è stato di quel partito fantasma del 2014? Certo, è tornato a votare ma se i calcoli non mi ingannano, nel frattempo ha subito una metamorfosi che ha ridotto il vantaggio del Centrosinistra da 20 punti agli 8 di oggi. Non vi è il minimo dubbio che molti a sinistra (e col voto disgiunto, anche molti 5 Stelle) hanno messo la crocetta per un atto di resistenza.

A Ferrara non è comunque bastato. Non è stato sufficiente, nemmeno dopo il dimostrato inganno sul millantato pugno duro nei confronti degli stranieri: “Tutti voi sapete che non ho poteri sulle forze dell’ordine come carabinieri e polizia”, ha scritto Alan Fabbri. Strano che prima delle Comunali si imputasse a Tagliani la colpa di non fare abbastanza in GAD. E non è bastato, nemmeno dopo le gesta discutibili di qualche notabile della Lega cittadina.

Il messaggio di quei benedetti 8 punti in regione, a mio avviso, è più un’apertura di credito che un premio al buongoverno. Rappresenta un invito, forse l’ultimo, a un profondo rinnovamento di linea e di volti nel Pd. Il movimento delle Sardine ha dimostrato che la base del Centrosinistra su alcune priorità è più unita del vertice. Mi pare un paradosso, se non altro geometrico.

AVVISO AI LETTORI DI FERRARAITALIA

Care lettrici e cari lettori. Amici, collaboratori, sostenitori di questa piccola grande impresa.
Avrete visto che tutte le foto di copertina anteriori al 31 dicembre 2019 sono state rimosse e sostituite da un’immagine standard. L’abbiamo fatto in via precauzionale per non incorrere in problemi con il copyright. Siamo sempre stati molto attenti: cauti nell’utilizzo e rispettosi dei diritti di immagine laddove fossero con chiarezza evidenziati. Prova ne sia che, in oltre sei anni di pubblicazioni e con più di quarantamila illustrazioni utilizzate, abbiamo avuto solo tre contestazioni…  Ma nel frattempo la legislazione in materia è diventata più stringente, l’attribuzione della paternità della foto non è sempre chiara e Ferraraitalia non si può permettere né di pagare le foto, né tantomeno di pagare eventuali multe e spese processuali.
Le immagini non sono però state cancellate, ma solo oscurate. Nelle prossime settimane recupereremo (una per una…) tutte le foto e le illustrazioni di nostra proprietà, frutto del lavoro dei nostri fotografi o comunque dichiaratamente libere da diritti, e le renderemo nuovamente visibili sul giornale.
Continuate a seguirci con l’affetto di sempre.

La redazione

PER CERTI VERSI
Mare di plastica

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

MARE DI PLASTICA

È morta
gonfia di plastica
Sulla costa
dei cosiddetti VIP
in Sardegna
Chili 22 di rifiuti
Ed era incinta
La giovane capodoglio
Soffocata dal nostro rusco
Un giorno
Quando ci sarà più plastica che pesce
Vorrei tornare bambino
E pregare lui
Di ripulire tutto
Sì proprio lui
Il mago Merlino

Signor Sindaco Risponda!
L’Assemblea del bibliotecari vuole chiarezza

Come direbbe il bracchetto Snoopy, “l’affare si infittisce”. Parliamo ancora – e non ci stancheremo di farlo – delle biblioteche ferraresi. Il sistema bibliotecario pubblico rimane in emergenza. Dal Sindaco e dalla Giunta sono arrivati messaggi contraddittori, belle promesse e repentine marce indietro. Tant’è, Il cielo rimane pieno di nuvole. Già da oggi il personale dipendente in forza alle biblioteche non può garantire la continuità del servizio; è sufficiente che qualche operatore si prenda un’influenza di stagione – mica il Coronavirus – e una biblioteca rischia di chiudere. E’ già successo, due settimane fa, i lettori di Ferraraitalia sono informati.
Non c’è da far tanti discorsi. Bisogna solo rispondere. L’Amministrazione Comunale ha o non ha intenzione di assumere dieci nuovi bibliotecari, perché tanti ne servono (non uno di meno) per rimpiazzare tutti coloro che stanno andando in pensione? Il Sindaco Fabbri si prende seriamente l’impegno, davanti a tutti i cittadini, di individuare entro questo 2020 la location dove far sorgere la nuova grande biblioteca della Zona Sud? E di metterla poi in funzione entro la fine del suo mandato? Glielo hanno chiesto 2.000 ferraresi firmando una petizione popolare. Ora, dopo risposte ondivaghe e insoddisfacenti, sindacati e lavoratori delle biblioteche gliene chiedono di nuovo conto (leggi di seguito il documento approvato all’unanimità). 
Sembrerebbe che la Nuova Giunta leghista sia bravissima a far promesse, proclami, campagne propagandistiche. Molto meno in tutto il resto. Ho il sospetto che i nostri nuovi amministratori non siano avezzi frequentare libri e biblioteche. Forse sono un pochino ignoranti sull’argomento. O si sono fatti l’idea che Biblioteche Pubbliche siano un ‘piccolo particolare senza importanza’. Soprattutto, non sembrano essersi resi conto che i ferraresi sono affezionati alle loro biblioteche. E le vogliono salvare. E non molleranno l’osso.
Effe Emme

L’assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori del servizio Biblioteche e Archivi ha compiuto una valutazione dell’iniziativa sviluppata negli ultimi mesi per affrontare le problematiche presenti rispetto alle prospettive del servizio stesso e alla situazione occupazionale. Abbiamo espresso soddisfazione per la raccolta firme sul rilancio del sistema bibliotecario promossa dall’assemblea stessa, con il sostegno di CGIL-CISL-UIL di categoria e delle RSU, che ha visto la firma di ben 2065 cittadini nell’arco di neanche un mese. Così come abbiamo ritenuto andare nella giusta direzione le risposte, sia pure tardive, arrivate da parte dell’Amministrazione, per bocca del sindaco, nell’incontro che si è tenuto il 15 gennaio scorso, in particolare per quanto riguarda l’impegno a ricoprire tendenzialmente tutti i pensionamenti realizzati alla fine del 2019 e previsti nel corso del 2020 ( 9-10 unità) e la volontà di realizzare, nel triennio 2021-2024 e comunque entro la fine del mandato, una nuova importante biblioteca nell’area Sud della città, facendola precedere da un tavolo di studio e confronto, nel corso del 2020, prevedendo che lì siano presenti anche le rappresentanze sindacali e altri soggetti associativi.
Non altrettanto si può dire della risposta formale arrivata sulla petizione sempre da partedell’Amministrazione, in cui si ridimensionano gli impegni in materia di copertura tendenziale del turn-over (le nuove entrate di personale passano da 9-10 unità a 5 certe) e anche quelli relativi al percorso per la realizzazione della nuova struttura bibliotecaria ( non c’è più traccia del tavolo di progetto congiunto per il 2020, ma si parla semplicemente del fatto che quest’anno l’Amministrazione studierà la sua collocazione e la realizzazione viene spostata alla fine del mandato amministrativo).
A questo punto, l’assemblea ritiene fondamentale che si svolga un nuovo incontro con l’Amministrazione Comunale per arrivare alla firma di un vero e proprio accordo sindacale, che ristabilisca in modo preciso gli impegni assunti dalla nostra Amministrazione nell’incontro del 15 gennaio. Nello stesso tempo, valutiamo importante la mobilitazione che si è prodotta anche da parte dei cittadini, a sostegno del rilancio del sistema bibliotecario comunale: ovviamente, intendiamo relazionarci con tale mobilitazione, per produrre una convergenza tra le istanze da noi avanzate e quelle dei cittadini, a sostegno e difesa di un bene comune importante come sono le biblioteche comunali.
Infine, l’assemblea ribadisce che, se non si realizzasse un accordo sindacale in linea con le richieste avanzate e con quanto convenuto nell’incontro con l’Amministrazione del 15 gennaio, si darà continuità alla nostra iniziativa e mobilitazione, nelle forme che riterremo adeguate.

Assemblea dei Lavoratori del Settore Biblioteche e Archivi del Comune di Ferrara
Ordine del Giorno approvato all’Unanimità : Ferrara, 7 febbraio 2020

 

DOPOELEZIONI
Il voto dell’Emilia Romagna rilancia l’importanza delle coalizioni

Sono state già ampiamente indagate le ragioni della vittoria di Stefano Bonaccini e della coalizione di Centrosinistra nelle recenti elezioni per il rinnovo del Consiglio Regionale dell’Emilia Romagna. Senza nulla togliere alle motivazioni da più parte addotte, a partire dalla rilevanza del ruolo esercitato dal movimento delle Sardine: vedi ad esempio, su queste pagine, le osservazioni per me in larga parte condivisibili formulate da Corrado Oddi [leggi qui], vorrei riportare l’attenzione su un aspetto che mi sembra sia passato troppo in secondo piano.

Una delle ragioni del successo di Bonaccini sta, inutile negarlo, nel sistema elettorale adottato in Emilia Romagna. Non solo per la possibilità, offerta all’elettore, di votare in modo disgiunto le liste e i candidati alla Presidenza, possibilità della quale hanno usufruito a conti fatti diverse decine di migliaia di elettori. Ma anche, e soprattutto, in virtù di un sistema elettorale che alimenta e premia la formazione di coalizioni a sostegno di un unico candidato Presidente. Il sistema elettorale adottato nella nostra regione, infatti, attribuisce in modo proporzionale, senza sbarramento alcuno, 40 dei 50 seggi complessivi sulla base dei voti riportati dalle singole liste; riserva comunque uno dei 10 seggi rimanenti al candidato Presidente arrivato secondo, e infine attribuisce alla coalizione vincente tutti i restanti 9 seggi se nel proporzionale ne aveva ottenuti meno di 25, oppure soltanto 4: in questo caso gli altri 5 vengono distribuiti proporzionalmente tra tutte le altre liste. In questo modo si ottengono contemporaneamente diversi risultati:

  1. Si rispetta un principio di rappresentanza, perché è relativamente facile anche per le forze minori ottenere un seggio, soprattutto se si partecipa ad una coalizione. Infatti la lista Europa Verde ottiene 1 seggio con meno del 2% dei voti e i Cinque Stelle, benché non fossero in coalizione, ne ottengono 2 con appena il 4,7%.
  2. Si favoriscono le coalizioni, il che significa dare piena espressione alle differenze legittimamente esistenti all’interno di ciascuno schieramento elettorale, ma al tempo stesso –  e senza necessità di ricorrere a precarie e improbabili aggregazioni – evitare una frammentazione eccessiva che renderebbe molto complessi, e a volte totalmente ingovernabili, gli esiti di moltissime delle consultazioni elettorali.
  3. Si garantisce sia alla coalizione di maggioranza la possibilità di governare, sia alle altre formazioni, singole o coalizzate, di avere i numeri per svolgere adeguatamente il proprio ruolo di minoranza.

Si tratta insomma di un sistema elettorale che tiene sufficientemente in equilibrio le due esigenze fondamentali di qualsiasi sistema democratico: rappresentatività e governabilità. Aggiungo che il termine governabilità può essere fuorviante, forse sarebbe più giusto parlare di responsabilità, perché chi vince ha prima di tutto il dovere di assumersi appunto la responsabilità di governare, senza doversi inventare soluzioni improbabili ma anche senza potersi nascondere dietro scelte di altre forze.

D’altronde basta fare qualche semplice calcolo ipotetico per rendersi conto di cosa significa. Con un sistema elettorale proporzionale con sbarramento al 5%, come quello nazionalmente concordato (almeno così sembra) dalle forze attualmente al governo, solo 4 liste avrebbero ottenuto seggi in Emilia-Romagna: PD, Lega, Fratelli d’Italia e Bonaccini Presidente. I voti riportati dalle due liste di Centrodestra sono praticamente pari (anzi un pizzico superiori) a quelli riportati dalle due liste di Centrosinistra. I seggi sarebbero equamente distribuiti: 25 al Centrosinistra e altrettanti al Centrodestra. Sarebbe quindi veramente complicato mettere in piedi un governo, a meno di mettere dentro tutti, oppure di contare su qualche defezione individuale.

Se invece si fosse optato per un sistema puramente proporzionale, senza sbarramenti, nessuno dei due schieramenti avrebbe verosimilmente avuto i seggi sufficienti a costruire un governo e quindi sarebbero diventati decisivi i seggi (probabilmente 2) conquistati dai 5 Stelle, mettendo questi ultimi in una posizione tale da poter dettare condizioni decisive ai possibili alleati, sfruttando un potere di condizionamento ben superiore al  4,7% ottenuto.

Si tratta, è chiaro, di un esercizio puramente teorico, visto che è facile obiettare che le scelte delle singole forze politiche o aggregazioni elettorali siano state influenzate dal sistema elettorale vigente e che in un altro quadro avrebbero probabilmente compiuto scelte almeno in parte diverse. Tuttavia credo che l’esercizio sia piuttosto esplicativo dell’efficacia o meno di un sistema elettorale.

Personalmente penso da molto tempo che il sistema elettorale preferibile, tanto più per un Paese come il nostro molto frantumato socialmente e politicamente, sia quello a doppio turno, sulla falsariga di quello adottato per l’elezione dei sindaci. Purtroppo, invece. in Italia si continua ad affrontare questo tema fondamentale in modo tatticistico e confusionario, essendo tutte le forze politiche impegnate ad inseguire opportunisticamente la soluzione che appare sul momento a loro più favorevole. Siamo così passati, in poco tempo e come se nulla fosse, da un estremo all’altro, da sistemi ultramaggioritari, che se ne infischiano di rappresentare adeguatamente le articolazioni di interessi e le diversità di pensiero esistenti nella società,  a sistemi ultraproporzionalistici, che obbligano poi a cercare di formare un governo attraverso complesse e spesso opache alchimie di palazzo. Fino a giungere al sistema elettorale attualmente vigente (il famigerato Rosatellum) che riesce mirabilmente a coniugare i difetti del proporzionale con quelli del maggioritario, garantendo al contempo scarsa rappresentatività e scarsa governabilità.

C’è un concetto che credo dovrebbe illuminare la Sinistra italiana, nella sua da tempo indispensabile opera di radicale rinnovamento, un concetto colpevolmente abbandonato 12 anni fa, dopo la caduta dell’ultimo governo Prodi: quello di coalizione. La Destra può pensare di tenere insieme le proprie differenze con un uomo forte, un leader. La Sinistra ha invece costituzionalmente bisogno di trovare un modo per tenere insieme le proprie differenze, le proprie articolazioni, senza negarle, ma mettendo in rete idee e conoscenze diffuse e costruendo un metodo di confronto permanente e – come ci hanno insegnato le Sardine – gentile e rispettoso, mai supponente.

Per questo credo che oggi sarebbe fondamentale promuovere sistemi elettorali che favoriscano e premino le coalizioni, come è appunto quello della regione Emilia Romagna. Anche grazie al quale – non a caso – le forze di Centrosinistra questa volta hanno vinto.

 

Che si nasconde dietro il Caso Solaroli?
Alan Fabbri e la grande ombra di Naomo

“La S.V. è invitata a partecipare alle sedute del Consiglio Comunale indette in 1^ convocazione…”. Tutto è cominciato oggi pomeriggio (3 febbraio) ma i lavori continueranno anche domani (4 febbraio): una seduta fiume, tante cose da discutere a cui corrisponde un ordine del giorno sterminato [leggi il testo completo della convocazione]. Un elenco che prevede 17 punti, e dove, solo all’ultimo posto, si può leggere l’ordine del giorno URGENTE presentato dai tre gruppi di opposizione presenti in Consiglio “sull’inchiesta giornalistica relativa al tentativo di indebita pressione nei confronti della Consigliera Anna Ferraresi e richiesta di dimissioni del Consigliere Vicecapogruppo Lega Stefano Solaroli.”.

Sulla grave e spinosissima vicenda i ferraresi risultano già informati sui fatti, basterà quindi riferire il nocciolo di quella ‘incredibile’ telefonata (ma invece credibilissima, anzi vera tout court, dato che la telefonata è stata registrata) in cui Solaroli offre uno scambio alla compagna di partito dissidente Ferraresi: un lavoro in cambio delle dimissioni. Ma già il solo fatto di aver relegato in fondo alla lista delle cose di cui parlare il caso Solaroli, significa che tra maggioranza e opposizione sarà ancora muro contro muro.

Già a gennaio, nella scorsa seduta del Consiglio Comunale, la minoranza di Centrosinistra aveva chiesto di mettere al primo posto dell’ordine del giorno il ‘caso Solaroli’, come logica e a gravità del fatto suggerivano. La maggioranza di Centrodestra (che in Consiglio è appunto maggioranza) aveva opposto un rifiuto. Allora la minoranza aveva lasciato l’Aula per protesta, mentre la maggioranza aveva deciso di interrompere e rimandare la seduta.

Uno a Uno, anzi, Zero a Zero e Palla al Centro.  E da subito aspettiamoci altre scintille. Alla rinnovata richiesta dell’opposizione di parlare subito del vergognoso affaire Solaroli e delle necessarie dimissioni del Consigliere Stefano Solaroli, la maggioranza ha risposto con un nuovo rifiuto; come a gennaio, trattando la questione come una estrema e trascurabile ‘varie ed eventuali’. Non si tratta, è evidente, di una semplice questione procedurale. Siamo di fronte ad uno scontro senza esclusione di colpi, a una spaccatura verticale, profonda, insanabile all’interno del Consiglio. A Ferrara non era mai successo. Del resto, non è forse lo specchio di quanto sta succedendo in città? Ferrara stessa, i suoi abitanti, sembrano  sempre più dividersi in due poli opposti. Non so se già oggi esistono due Ferrara distinte, ma il processo di radicalizzazione è del tutto evidente.

Vedremo come si svolgeranno questi due pomeriggi di Consiglio Comunale, se avremo o no un altro Aventino o se lo scontro assumerà altre forme e altri contenuti. E vedremo come questo processo di polarizzazione, in Consiglio e nella Città Reale, sopra e sotto lo Scalone, si evolverà.  Qui vorrei svolgere un altro tema, una suggestione che però mi arriva dallo stesso caso Solaroli, o più precisamente, dalle reazioni di Sindaco e Vicesindaco davanti al montare mediatico del caso.

Anche su ciò i ferraresi sono abbastanza informati. Le parole – le difese – di Alan Fabbri e di Naomo Lodi le abbiamo lette o ascoltate sui giornali locali e nazionali, su tutti i social possibili e immaginabili, nelle interviste e nelle ospitate televisive. A farla breve: Il Vicesindaco ha difeso in toto il comportamento di Stefano Solaroli (sostenendo la  tesi insostenibile che ‘il fatto non sussiste’), d’altro canto Il Sindaco Fabbri – pur pressato dalle richieste di una sua decisa presa di distanze – si è limitato a dire che sì, il Consigliere Solaroli aveva sbagliato, ma accettava di fatto le sue scuse: quindi  nessun suo allontanamento dalla carica di Vicecapogruppo in Consiglio, niente espulsione dalla Lega, nessuna richiesta di dimissioni dal Consiglio Comunale. Dalla montagna un misero topolino: l’autosospensione.

Il Vicesindaco ormai abbiamo imparato tutti a conoscerlo. E’ un uomo sempre e comunque all’attacco. Che, come vuole la storia italica, ‘se ne frega’ delle critiche: al suo patentino invalidi o alla sua abitazione a mini-canone popolare. Un uomo che se qualcuno gli intralcia il passaggio… lo denuncia e lo porta dritto in tribunale (fra qualche giorno si celebra l’udienza contro i quattro cittadini denunciati da Naomo). Insomma, la difesa – la totale assoluzione – dell’indifendibile Solaroli da parte di Naomo Lodi era del tutto prevedibile. Avremmo potuto raccontarla con un giorno di anticipo, prima ancora che il Vicesindaco aprisse bocca. Solaroli è un uomo di Naomo, e Naomo non abbandona i suoi uomini.

Stupiscono invece, almeno in apparenza, le parole – pochissime – pronunciate dal Sindaco Alan Fabbri. Il quale Fabbri non si smarca in nessun maniera dal suo viceE tantomeno scarica Solaroli. Usa un altro tono rispetto a Naomo Lodi – i due hanno stili affatto diversi – ma si accoda diligentemente alla linea di difesa ad oltranza tracciata dal suo Vicesindaco. Questa volta, e non è la prima volta, tra le posizioni dei due leader della Lega non si intravvede neppure un granello di differenza.

La figura, il ruolo, il potere del Sindaco sono cresciuti moltissimo in questi ultimi quindici vent’anni. La legge ha investito la carica di Sindaco di poteri sempre più ampi. Per fare un solo esempio: se il Presidente del Consiglio non va più d’accordo con un suo Ministro, non può mandarlo a casa, al massimo può chiedergli gentilmente di farsi da parte. Un Sindaco invece è Dominus, e può dimissionare a suo piacere un suo Assessore. E’ quello che ha fatto Tiziano Tagliani con  l’Assessore  Annalisa Felletti, estromessa  dalla Giunta il 22 maggio 2017 per il suo passaggio dal Partito Democratico ad Articolo Uno-MDP.

Quel che è vero per i sindaci in generale, è ancor più vero per il Sindaco di Ferrara. Perché nella nostra città – a partire almeno dal lungo regno di Roberto Soffritti, non a caso soprannominato ‘Il Duca’ – il sindaco ha sempre goduto di un potere eccezionale. Quel che il Sindaco decideva era legge, in Giunta e nel Consiglio, come dentro il suo Partito.

Concludendo. Forse non è vero che il Sindaco attuale di Ferrara ha in mano la sua squadra di governo e il suo partito. Forse non e nemmeno vero che ci sono 2 figure, Alan Fabbri e Naomo Lodi, che si dividono i ruoli (poliziotto buono e poliziotto cattivo) e condividono la guida del governo locale e della Lega, partito di maggioranza relativa. Forse a decidere, a dare la linea, è solo uno. E non è il sindaco.

Dietro alla miserrima vicenda Solaroli – mentre continuiamo a sperare che la magistratura lo persegua per la sue azioni – si staglia la grande ombra di Naomo Lodi. Il Vicesindaco sembra detenere il vero potere, nella Lega di Ferrara quindi nel governo della città. E il Sindaco, che non è autoctono e non ha in mano il partito cittadino, deve accodarsi.

Quindi Naomo decide su tutto e su tutti? Forse no, ma almeno su due cose sì, assolutamente: sulle politiche della Sicurezza e sulle cariche di partito. Come a dire: caro Alan tieni pure un profilo morbido, prometti pure la cittadinanza onoraria a Liliana Segre, ma non azzardarti a entrare nel mio recinto. Non metter bocca sulla sicurezza. E non toccare i miei uomini. Solaroli compreso.

Potete prendere queste mie note come semplici e opinabili supposizioni. I prossimi mesi ci diranno meglio cosa succede a Ferrara, davanti ai nostri occhi e dietro le nostre spalle. Quello che su cui non è più lecito indulgere è quell’aria di superiorità intellettuale (tipicissima di una certa Sinistra), quegli sfottò all’indirizzo di questo curioso personaggio. Perchè Naomo non appartiene alla Commedia dell’Arte. Non è una macchietta. E’ sarebbe ora di prenderlo sul serio.

 

DOPOELEZIONI
Matteo Salvini e la Vogelschiss. Una nota tedesca dopo il voto

Lunedì 27 gennaio era il Giorno della Memoria, domenica 26 gennaio c’è stato il voto in Emilia Romagna. Cosa c’entra il giorno della memoria con le elezioni emiliane? A prima vista molto poco, perché emiliani e romagnoli hanno votato per il rinnovamento della giunta di una regione italiana nell’anno 2020, ben lontano dagli anni ai quali il giorno della memoria rimanda. Ovviamente non era presente, fra le diverse formazioni in lizza, un partito che negasse i fatti di Auschwitz e di tutti gli altri campi di concentramento per quali sono stati responsabili i nazisti tedeschi.
Ma attenzione: mi ricordo benissimo un comizio di Salvini alcuni mesi fa assieme a un rappresentante ufficiale di Afd (Alternativa per la Germania), un partito tedesco di estrema destra, che definiva l’epoca nazista in Germania come un vogelschiss, ovvero “piccola merda di un uccello”. Sicuramente la Lega italiana non è un partito fascista paragonabile con il fascismo italiano di una volta e men che meno con i nazisti tedeschi, ma a ben guardare ci sono tanti aspetti della propaganda leghista che ricordano la weltanschaung delle Destra estrema della Germania di ieri e di oggi.
Per questo, a mio avviso, rimane vergognosa l’amicizia dell’onorevole  Vittorio Sgarbi con la Lega e il suo furioso attacco al movimento delle Sardine, che ha risvegliato in Italia il sentimento antifascista. Assolutamente inaccettabile la sua strumentalizzazione di Giorgio Bassani e Paolo Ravenna e, più in generale, le sue continue e quasi sempre violente aggressioni verbali contro gli avversari politici. Le ho ascoltate ancora, appena due giorni prima del voto emiliano.
Ciò detto resta almeno una speranza, quella che ci viene dalla nuova e giovane cultura delle Sardine: l’epoca politica di uomini come Sgarbi è in declino.
Per l’Europa nuova e giovane il risultato del voto emiliano apre una finestra. Un po’ più di speranza e dignità. E meno aggressività e volgarità verso il prossimo.

DOPOELEZIONI
Scampato il pericolo, c’è molta strada da percorrere

Adesso che abbiamo tirato un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, vale la pena ragionare su cosa ha determinato questo risultato e su alcune tendenze di fondo che percorrono la società regionale e quella ferrarese in particolare. Dal punto di vista dei flussi elettorali, ci soccorrono le analisi, come sempre molto puntuali, dell’Istituto Cattaneo che giustamente individua nel passaggio del voto M5S delle scorse elezioni europee al campo del Centrosinistra e nella crescita della partecipazione i due fattori fondamentali della vittoria del Centrosinistra. A cui si può aggiungere il voto disgiunto per Bonaccini, anche se, comunque, a differenza delle elezioni europee, in queste elezioni regionali il consenso alle liste del Centrosinistra supera quello andato alla coalizione della destra.

In particolare, va notato il tracollo del M5S che passa, su base regionale, in valori assoluti, da più dei 600.000 voti delle elezioni politiche del 2018 a 290.000 nelle elezioni europee a poco più di 100.000 voti in questa tornata regionale. Con una dinamica che – detta un po’ grossolanamente – ha visto la propria perdita dalle elezioni Politiche fino a quelle Europee dirigersi prevalentemente verso la Destra e l’astensione, mentre quella dalle Europee del 2019 ad oggi verso il Centrosinistra. Così come va sottolineato che la crescita della partecipazione è sì generalizzata, ma, in termini percentuali, registra valori più alti in quelle province dove è più forte il Centrosinistra, a partire da Bologna, Modena e Reggio Emilia.

Non c’è dubbio, come in molti hanno già fatto presente, che questi spostamenti elettorali, sul piano politico, sono innanzitutto il prodotto dell’emergere del movimento delle Sardine, da una parte, e dalla reazione all’estrema radicalizzazione dell’impostazione e dei toni della campagna elettorale in terra emiliana, dall’altra. Radicalizzazione voluta in primo luogo da Salvini, che di fatto ha evocato un referendum sulla Lega e sulla sua fisionomia di ‘uomo solo al comando’,. Matteo Salvini, inoltre, intendeva verificare anche la propria ipotesi strategica: arrivare a prendere i ‘pieni poteri’, “liberando” dapprima l’Emilia Romagna per poi dare una spallata al governo e approdare a nuove elezioni anticipate.

Da questo punto di vista, anche per le ragioni che provo subito dopo ad avanzare, non penso sarebbe bastato a costruire un argine sufficiente sottolineare che le elezioni avevano un carattere regionale – ragionamento peraltro giusto e che è stato bene avanzare – che l’esperienza amministrativa emiliano-romagnola aveva rappresentato un solido esempio di ‘buon governo’. In realtà, come si è realizzato nei fatti – e non per un’operazione programmata a tavolino – serviva anche una narrazione di carattere generale capace di contrapporsi a quella di Salvini. Serviva, per fermare il suo disegno, un sentimento popolare, proprio come quello proposto dal movimento delle Sardine e scaturito anche come rigetto dei toni pericolosi e sopra le righe continuamente avanzati da Salvini. Parlo di sentimento popolare come dato politico e culturale, perché di questo si è trattato, di una forza che ha contrastato con efficacia l’idea di una società divisa, incattivita e impaurita, che può essere governata e rimessa a posto solo con politiche securitarie e repressive, cioè quella idea di fondo che alla fine costituisce la vera cifra della destra salviniana. Opponendo a questa, una visione alternativa per cui – ancora prima dei contenuti che sono tutti quanti ancora da mettere a fuoco –  si sente la necessità di costruire una responsabilità sociale condivisa, una politica capace di progettualità e che necessariamente si alimenta della partecipazione, Dunque una visione, quella proposta dal movimento delle Sardine, che rifiuta il manicheismo, la semplificazione, e ancor più l’insulto e la demonizzazione dell’avversario.

E’ stata questa grande spinta politica e culturale che è stata fortemente in campo nella vicenda elettorale emiliano-romagnola e ha determinato la polarizzazione elettorale, ben di più e ben al di là della vulgata di un ritorno al bipolarismo come prodotto dell’esistenza di due schieramenti contrapposti, del pesante ridimensionamento del Movimento 5 Stelle che ha visto evaporare definitivamente la propria già malcerta identità di non essere né di destra né di sinistra, e anche dell’irrilevanza delle liste a sinistra del Pd che non hanno proprio capito ciò che si stava producendo nella realtà emiliana..

Serve però scavare ancora più a fondo per comprendere davvero ciò che ci consegna il risultato elettorale emiliano-romagnolo. Anche qui i dati sono molto chiari: non esiste più un’unica società regionale, tantomeno il modello emiliano. Anche in Emilia Romagna il tessuto sociale ed economico si è fortemente differenziato e si è determinata una ri-gerarchizzazione territoriale e sociale. Ciò è stato il prodotto, in primo luogo, del predominio delle logiche neoliberiste e mercatiste che, ancor più dentro la crisi, hanno messo in discussione il compromesso sociale costruito in passato e accentuato le disuguaglianze e alle quali, nei fatti, le stesse politiche di governo, nazionale e locale, del Centrosinistra si sono mostrate subalterne. Ce lo dicono gli stessi risultati elettorali, che, non a caso, vedono prevalere del Centrosinistra nelle aree più forti della regione ( Bologna, Modena e Reggio Emilia) e nella Romagna (con l’eccezione di Rimini), mentre nelle province di Piacenza, Parma, Ferrara e Rimini, fuori dall’area forte si estende una cintura dove la Destra è maggioritaria. Così come il centrosinistra realizza i risultati migliori nelle aree urbane e nei Comuni medio-grandi, come già ci aveva avvertito sempre l’Istituto Cattaneo sin dalle elezioni europee dell’anno scorso.

In proposito possiamo anche utilizzare, in modo emblematico, anche la situazione di Ferrara, dove nel Comune capoluogo la destra subisce un arretramento rispetto alle elezioni comunali dell’anno scorso e la differenza tra i due candidati è favorevole alla Borgonzoni per soli 142 voti ( 48,05% per lei e 47,85% per Bonaccini), ma il risultato  degli altri Comuni della provincia fa sì che nella circoscrizione provinciale la distanza significativa a favore della candidata della destra ritorna pesantissima: 54,88% contro il 40,76% di Bonaccini.

Insomma, lo scampato pericolo non deve trasformarsi in un’autoassoluzione. Penso, prima di tutto, a una  tentazione, prima di tutto nel Partito Democratico: quella di pensare di avere battuto definitivamente la destra e quindi si poter proseguire in continuità con le politiche fin qui attuate, di occultare che ci sono grandi questioni irrisolte, invece di costruire un nuovo pensiero e un’azione politica adeguata alla situazione che si è squadernata di fronte a noi e di mettere in campo nuove politiche economiche e sociali. Occorrono cioè politiche concrete capaci di aggredire i nodi delle fratture e delle disuguaglianze sociali e territoriali, senza le quali non si potrà mettersi alle spalle il disagio sociale, l’insicurezza e l’incertezza sul futuro, che costituiscono il terreno di coltura su cui si innesta la propaganda della destra razzista e autoritaria.

Tutto questo vale anche per Ferrara. Per risalire la china è possibile, ma solo se non ci si culla nell’illusione che basta aspettare gli errori dell’attuale Amministrazione. Servono invece, e contemporaneamente, forte mobilitazione sociale e nuova progettualità per prefigurare la città del futuro.  Non saranno sufficienti iniziative puntuali ma frammentate, né ragionamenti astratti sulla città ideale: abbiamo bisogno, con pazienza ma determinazione, di individuare alcuni punti di fondo che costituiscano il cuore di un progetto – innovativo, attrattivo e vincente – per la Ferrara dei prossimi anni e, nello stesso tempo, far crescere su questi temi partecipazione e attivazione delle persone. Non è una strada né facile né breve, ma probabilmente l’unica efficace.

 

Occhi a cui non puoi sfuggire.
Perchè la giornata della memoria continua a interrogarmi

Non so se succede a tutti, ma ogni volta che arriva il 27 gennaio, giornata internazionale della memoria, provo una resistenza interiore forte. Guardare gli orrori accaduti soli 80 anni fa, perpetrati e voluti con una logica agghiacciante e premeditata, fa così male, fa così paura che viene voglia di sfuggire al ricordo, anche se è solo un ricordo che arriva tramite il racconto di altri.

Dunque mi interrogo: se io, che non ho parenti ebrei o comunque finiti nei campi di concentramento, provo una resistenza così forte a guardare quell’orrore inimmaginabile persino nei più terribili incubi, chissà quale resistenza deve aver accompagnato i sopravvissuti? Chissà il combattimento interiore che ha vissuto chi quell’orrore l’ha vissuto e ne è stato testimone. Chissà quanto avrà vacillato: da una parte il desiderio profondo, l’istintivo di rimuovere e cancellare, dall’altra il senso del dovere di urlare che l’indifferenza uccide quasi più della logica aberrante dello sterminio. Molti testimoni del lagher parlano del silenzio che ha sigillato, nel profondo di se stessi, quel pezzo della loro vita. L a stessa Liliana Segre con coraggio ha raccontato di un silenzio durato 40 anni e della rivelazione che fu per lei la lettura di “Se questo è un uomo“ di Primo Levi.

La battaglia, dunque, di chi ha voluto che non si seppellissero queste storie, di chi ha filmato, di chi ha raccontato e continua a battersi perché questi racconti circolino, vengano proiettati alla televisione e nelle scuole, diventino film (quante storie ci sono ancora da raccontare!) è una battaglia del coraggio che coinvolge tutti noi.
Parlare di sterminio attraverso i numeri non restituisce, non può restituire la realtà di quanto è avvenuto. È necessario vedere gli occhi di quei bambini, di quelle madri, di quei giovani e di quelle giovani, di quei padri, occhi, occhi e occhi. Occhi smarriti che quando ti fissano, ti terrorizzano perché ci vedi i tuoi stessi occhi.

Non so se succede a tutti, ma io mi sento quel bambino o quella bambina strappata alla mamma per pura ferocia, mi sento quella madre a cui strappano un figlio appena nato e lo affogano davanti ai suoi occhi, e l’urlo di disperazione mi muore ancora prima di giungere alla bocca, mi entra nelle viscere e me le attorciglia. Mi sento anche quei soldati guardiani, i loro occhi raramente sono inquadrati, eppure non oso guardarli, ho paura di vederci i miei occhi, vigliacchi. Avrei mai avuto il coraggio di ribellarmi agli ordini dei superiori?

Gli occhi che guardano dietro il filo spinato hanno fornito le parole a chi poi ha scritto e raccontato. Anche gli occhi spalancati dei morti ammucchiati come roba vecchia, ci parlano. A quegli occhi interrogativi anche se vitrei, non puoi sfuggire. Quegli occhi devono restare impressi dentro di noi perché orientano il nostro sguardo sulla vita presente, ci aiutano a individuare dove si insinua una narrazione che può portare alla giustificazione di tali orrori, a identificare i luoghi in cui, sotterranea, continua a sopravvivere. Ecco perché la giornata della memoria per me è così importante, perché mi mostra con chiarezza le mie paure, perché mi mette a nudo, ma anche perché mi conferma che non dimenticare è necessario non solo per onorare la sofferenza di tanti, troppi, bambini, donne e uomini, ma per l’oggi che viviamo, perché quell’indifferenza alla sofferenza umana non abbia il sopravvento.

DOPOELEZIONI
La cometa del 26 gennaio ha portato molti doni,
ecco perché Ferrara è rimasta a bocca asciutta.

Molti, moltissimi, i commenti del Dopoelezioni. Si sapeva che mai prima d’ora una elezione parziale, anche se in un territorio importante come l’Emilia Romagna (senza nulla togliere alla Punta dello Stivale), avrebbe significato qualcosa di tanto decisivo per tutto il Paese. Così è stato.

Tutto il quadro politico nazionale è stato investito dal sisma emiliano e ne ha registrato le conseguenze. La pesante battuta d’arresto per una parabola salviniana che sembrava puntare diritto in cielo, la definitiva liquefazione del Movimento Pentastellato, qualche pastiglia ricostituente per un Partito Democratico in perenne ristrutturazione, infine, un probabile scampolo di vita per il traballante Governo Conte. E’ indubbio, le elezioni emiliane hanno portato in dono queste quattro cose: dolcetti per gli uni, carbone per altri.

Eppure, a guardar bene, queste 4 cose non sono le più importanti, E’ successo qualcosa di molto e di più. Mentre infatti i quattro effetti ricordati segnano un contingente (e forse effimero) cambiamento degli equilibri politici, un riposizionamento delle strategie dei partiti e dei vari leader, una grande cosa è successa sotto i nostri occhi, un fatto nuovo destinato a segnare profondamente la società italiana. Dopo svariati anni in cui il vento di destra ha soffiato, con una tale violenza che sembrava non trovare nessun ostacolo di fronte a sé, da un paio di mesi si è levato un vento uguale e contrario. Non proprio uguale: il vento populista, sovranista, egoista, assomigliava (e assomiglia) a una tempesta, a una rabbiosa bufera, mentre Il vento messo in moto, forse inconsapevolmente, dalle prime quattro sardine bolognesi, sembra piuttosto una brezza leggera, gentile e nonviolenta, pacifica e pacifista, accogliente e pluralista.

Bene ha fatto il Segretario del Partito Democratico, nella stessa notte di domenica, a ringraziare in primis Le Sardine e il grande risveglio che hanno saputo suscitare. Lo stesso ha fatto il neoeletto Stefano Bonaccini, anche se con meno enfasi e forse minor simpatia. Ringraziamenti assolutamente doverosi perché, ed è bene scolpirselo in testa, Bonaccini non avrebbe vinto, non ce l’avrebbe fatta senza quella brezza leggera, senza quel grande movimento che ha riempito le piazze e acceso un nuovo protagonismo.

In Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha lasciato indietro Lucia Borgonzoni di quasi 8 punti. Una vittoria netta, indiscutibile, superiore ad ogni previsione. Matteo Salvini ce l’ha messa tutta, ha battuto la regione palmo a palmo, dalla Riviera Romagnola a Bibbiano, lanciando pubblici avvertimenti e suonando privati campanelli,  ma la sua candidata è naufragata nelle urne. L’Emilia Romagna (scusate, non posso nascondere un filo di orgoglio) si è dimostrata ancora una volta un baluardo della democrazia e dei valori costituzionali. L’avanzata populista della Nuova Destra si è trovata davanti un argine invalicabile e ha dovuto arretrare. Questo è il primo, fondamentale successo, che in molti oggi celebriamo. A cui ne aggiungerei un secondo: l’exploit di Elly Schlein, la più votata in assoluto in regione, con oltre 22.000 preferenze, e nonostante fosse la capolista non di uno squadrone di partito ma di una piccola lista di sinistra collegata. Elly Schlein entrerà in Consiglio Regionale e ci porterà un po’ di quella brezza leggera. L’unico rammarico è che, se tutto il Centrosinistra avesse scelto di puntare su di lei, se oggi potessimo festeggiare in lei la prima Governatrice donna, non saremo a festeggiare solo lo stop alla Destra, ma l’inizio di un nuovo corso, l’apertura cioè a quel cambiamento radicale di cui la Sinistra ha un disperato bisogno.

Dentro questa grande festa, non tutti possono gioire. Se Bologna, Modena, Reggio Emilia si sono ‘slegate’, votando in massa contro il populismo e ricacciando indietro la Lega e i suoi alleati, la nostra Ferrara è rimasta saldamente in mano al Centrodestra. Lo stesso Centrodestra che nel maggio scorso aveva vinto a mani basse le elezioni comunali.

Sul triste destino di Ferrara –  e sulla sua figura vergognosa, come denuncia Giovanni Fioravanti su questo giornale [qui] – ho ascoltato molti lamenti, e anche qualche tentativo di spiegazione. Perché la Lega di Salvini e i suoi uomini (Alan Fabbri e Naomo Lodi in testa) sono riusciti a conquistare stabilmente il favore della maggioranza dei ferraresi? Un caro amico vede in questa resa alla Destra radici antiche. In poche parole, dietro la Ferrara democratica e antifascista, dietro la Ferrara governata per Settant’anni dal Pci e dai suoi nuovi avatar, dietro – ma nemmeno tanto – c’è ancora la Ferrara culla del fascismo. La Ferrara che nel giro di due o tre anni si trasformò da inespugnabile roccaforte socialista in città fascistissima. La tesi di questo amico, pessimista o semplicistica la si voglia giudicare, suona come una sentenza, una condanna della storia. Ferrara diventerebbe la peggiore incarnazione della nostra tara nazionale, il trasformismo, essendo passata con imbarazzante disinvoltura dal socialismo turatiano, al fascismo di Italo Balbo, al comunismo di Togliatti, per giungere oggi al leghismo proto-squadrista di Naomo. Un viaggio lungo un secolo: dalla Destra… alla Destra.

Il discorso è assai scomodo, e meritevole di approfondimenti. Lo dico a chi nella nostra città coltiva la passione per la storia. Personalmente però non mi sento di aderire a questa lettura; ne uscirebbero dei ferraresi ‘geneticamente tarati’, impermeabili al libero arbitrio e alla responsabilità individuale.No, non siamo così. Non siamo peggiori degli altri italiani.

Le ragioni del ‘ritardo politico’ di Ferrara e dei suoi abitanti, mi sembrano avere radici più recenti. Stanno in buona misura nel ritardo – nella miopia, nel conservatorismo, nella pigrizia – della sua classe politica, e segnatamente nella classe dirigente del Partito Comunista ferrarese e dei partiti che l’hanno via via incarnato dopo la svolta della Bolognina. Con rare eccezioni, i leader locali della Sinistra e i candidati selezionati per tutte le elezioni per sedersi negli scranni del Consiglio Comunale, Provinciale o Regionale, fino ai ‘posti sicuri’ in Parlamento, non hanno mai rappresentato e dato voce alla necessità del cambiamento. Brave persone, oneste, ma sempre polli allevati alla disciplina del partito e del sindacato. Chi proponeva nuove idee, chi chiedeva nuove regole, ma razzolava fuori dal pollaio, è stato sistematicamente accantonato.

Da qui – o almeno, anche da qui – la mediocrità della Sinistra Politica ferrarese, la sua autoreferenzialità, la sua incapacità a rapportarsi e valorizzare la ricchezza della società civile, e corre dirlo, anche la sua superbia. E dove lo mettiamo il Buongoverno? Certo, ma il mondo va veloce e alla fine il Buongoverno non basta (vale anche per Stefano Bonaccini che non ha vinto per il suo Buongoverno). Anche alle ultime elezioni a Sindaco il Pd ferrarese si è presentato all’insegna della continuità, riproponendo il vecchio: sia nei programmi sia nei candidati. E per queste elezioni regionali, a Ferrara la musica non è affatto cambiata. Con tutto il rispetto, chi può sostenere che la candidata di punta Marcella Zappaterra, già assessore a Portomaggiore, già Presidente Provinciale e ora eletta in Consiglio Regionale, rappresenti in qualche modo il nuovo che avanza?

Ora il pollaio è vuoto. Il Partito Democratico di Ferrara è ridotto ai minimi termini. C’era un segretario che aveva aperto un dialogo aperto e coraggioso con la società civile; è stato prima sconfessato, quindi sostuito. La sinistra a sinistra del Pd si diletta in un inutile e suicida tiro al bersaglio. A Ferrara la situazione è tutt’altro che eccellente. La Destra rimane forte, nonostante le scivolate del Sindaco e del Vicesindaco. Per riconquistarla fra quattro anni non serviranno le baruffe in Consiglio Comunale, né saranno sufficienti le pubbliche denunce o i sacrosanti flash mob. Bisognerà ripartire insieme. Da capo. Dal basso. Da domattina..

 

DOPOELEZIONI
La vocazione populista per il sedere e l’autogol di Naomo

Jean Paul Sartre sosteneva che l’universo intero gira intorno ad un paio di chiappe, senza sospettare che un giorno il fondo schiena sarebbe assurto agli onori della politica, nel qual caso forse anche lui ne avrebbe avuto ‘nausea’.

Dall’enfasi di Beppe Grillo in piazza Maggiore a Bologna ormai diversi anni fa, alle ultime minacciose esternazioni parapolitiche del Naomo de noantri, il ‘culo’ è assurto agli onori delle dirette televisive, dei social e dell’informazione in generale. Pare che il turpiloquio degli italiani si sia aggravato e a trionfare sul sedere sia l’organo sessuale maschile, dall’etimo incerto, che per pudore sui giornali continua a essere scritto “c.zzo”, come se una ‘a’ facesse la differenza. Ma è dalla loro accoppiata che parte il più minaccioso degli strumenti di persuasione ora usato con generosità di eloquio anche dal nostro vicesindaco.

Non siamo più all’evocazione del sedere per mandare a quel paese un’intera classe politica, propria del grillismo della prima ora, adesso si promettono asfaltamenti di elettori del centrosinistra con esecuzioni di massa a carico dei loro posteriori da parte di intere legioni di leghisti, disposti a sospendere per una simile evenienza anche la loro risaputa omofobia. Minaccia preoccupante dai tempi del ‘celodurismo’ del loro fondatore, che sta a significare come l’organo maschile, con annessi e connessi, costituisca una tara genetica del leghismo.

Così Ferrara, tra i siti patrimonio dell’umanità, Ferrara città del Rinascimento che si candida ad essere capitale europea della cultura, viene umiliata facendo il giro delle reti televisive e della stampa nazionale attraverso l’immagine burina e volgare del suo vicesindaco.

Qui bisogna decidere se è il signor Nicola Lodi, detto Naomo, ad essere incompatibile con la nostra città o se è la città ad essere incompatibile con questo vicesindaco. Non ho sentito scandalo in giro. Il rischio, nel migliore dei casi, è che si accetti per indifferenza di  vivere come i personaggi di una commedia dell’assurdo all’Achille Campanile tra il grottesco e il paradosso. Personalmente credo che ci sia una dignità della cittadinanza, dell’essere cittadini, dello stare insieme, dell’abitare lo stesso territorio che non può ammettere di erigere mura da cui sparare le proprie bordate nei confronti dell’altro che non nutre le nostre stesse idee. La diversità, anche quando le distanze sembrano agli antipodi, è una ricchezza che va rispettata,  ascoltata, mai minacciata, semmai sfidata, sfidata al meglio senza umiliare e calpestare chi sta dall’altra parte.

Non vorrei che con il cambio della guardia alla guida della città avessimo perduto un patrimonio importante che è quello di saper stare insieme, rispettandosi anziché covando la tentazione di annullare l’altro. Avrei voluto una città che reagisse in massa alle parole di Lodi e alla pistola di Solaroli, che non archiviasse questi fatti come episodi di costume, della normale dialettica politica. Il vulnus creato al nostro tessuto sociale dalle parole del vicesindaco avrebbe dovuto indurre tutti coloro che credono in una cittadinanza amichevole, anche se diversi, a chiedere le immediate dimissioni del vicesindaco. Lo stesso sindaco Fabbri ha il dovere di tutelare la città dissociandosi dal suo vice, ricordando di essere il sindaco di tutti e, dunque, anche di quella parte della città che si è sentita ferita dalle parole e dal comportamento di Lodi.

Ritengo gravissimo tollerarne la condotta, derubricarla a macchietta, perché potrebbe essere molto vicino il giorno in cui in tanti non ci riconosceremo più come cittadini di questa città e il suo tessuto umano e culturale, che è costato la fatica di tanti anni di storia, potrebbe essere lacerato per sempre.

In conclusione, sebbene senza speranza, inviterei Naomo e anche il sindaco Fabbri a consultare il dizionario della lingua italiana del Battaglia, ammesso che ne conoscano l’esistenza, potrebbero chiarirsi le idee, e Naomo scoprirebbe che a esprimersi sui social e sulle reti televisivi con un certo linguaggio può rivelarsi un autentico autogol. Perché, scrive il Battaglia, “Fare il culo a qualcuno” significa ingannarlo, imbrogliare, primeggiare su di lui con mezzi sleali. A questo punto, è lo stesso Naomo  ad averlo ammesso pubblicamente.

Per i miei concittadini ferraresi citerò invece il Tommaseo – Rigutini: “Perdoni il lettore l’enumerazione… ‘Natica’…’Chiappa’…’Culo’ è voce bassa che non dovrebbe mai comparir né negli scritti né risonar sul labbro delle persone”. Specie, aggiungo io, se persone chiamate ad amministrare la cosa pubblica.

Cella 22

racconto di Maurizio Olivari
foto di Giordano Tunioli

Il clac clac metallico della chiave della cella 22 nel carcere femminile di Como era penetrata come una stilettata nella sua testa già turbata dal protocollo d’ingresso nella casa circondariale. La consegna di tutti gli effetti personali, di fatto, l’avevano staccata definitivamente dal mondo esterno.
La cella era una stanza lunga cinque metri e larga circa quattro, con una piccola finestra in alto da dove entrava un raggio di sole interrotto dal disegno di sbarre verticali e orizzontali che formavano sulla parete opposta l’ombra di una scacchiera. Due reti per dormire lungo le pareti e un tavolino sotto la finestra, due sedie con la vernice scrostata, due mobiletti e due mensole a fianco e sopra i letti.
Sara, con un fagotto di indumenti fra le braccia, fece due passi avanti, fermandosi di fronte alla finestra, rimanendo poi immobile a guardare il raggio di sole, quasi non accorgendosi della presenza nella stanza di un’altra persona.
“Ciao sono Angela, sedici anni per omicidio colposo, fra quattro esco” esordì con tono garbato la compagna di cella “accomodati pure, non fare complimenti, fai come fossi a casa tua” continuò sorridendo “tu perché sei qui ? Devi aver fatto fuori qualcuno, l’importante che tu non abbia fatto del male a bambini. Se hai fatto fuori un uomo, hai fatto bene. Sono delle bestie, come il mio compagno, ex compagno… Mi trattava come un animale, soprusi, sevizie e io a sopportare, sopportare, sopportare… Fino alle cinque coltellate che gli ho dato mentre dormiva come un ghiro ubriaco. Zac zac zac zac zac… fine della trasmissione!”
Sara si girò lentamente verso quella voce e, sedendosi sul ciglio del letto con in grembo il suo fagotto di indumenti, vide di fronte a lei una donna minuta con i capelli neri appena segnati da qualche ciocca bianca, gli occhi di un azzurro intenso ma con un velo di tristezza e le labbra coperte da un rosso intenso, appena dischiuse in un sorriso, rimasto dopo aver detto zac zac zac zac zac.
Rimasero qualche minuto senza parlare, solo guardandosi negli occhi, trasferendo nel silenzio, le emozioni che provavano in quel momento.
”Mi chiamo Sara…” Fu interrotta dall’apertura della cella e dalla voce della secondina: ”Fuori! C’è l’ora d’aria!”
Angela prese sottobraccio la novizia ed insieme si avviarono in fila indiana con le altre detenute verso il cortile interno recintato da muri altissimi che impedivano la vista dell’esterno, tranne la punta di un campanile di una chiesa che confinava con il carcere.
Camminando lungo il recinto, Angela dispensava consigli a Sara sul comportamento da tenere verso le altre detenute. ”Quella rossa di capelli, lasciala perdere” sussurrò “è sempre pronta al litigio e nessuna compagna la vuole frequentare. Ha ucciso i suoi due bambini… le hanno dato 30 anni ma meritava l’ergastolo. Della secondina bionda ti puoi fidare, puoi anche chiederle qualche favore e se può ti aiuta, è una brava ragazza. Con quella cicciona là in fondo invece non ti confidare, va subito in Direzione a spifferare tutto.”
Sara ascoltava mantenendo però uno sguardo assente, come se le parole le sentisse solamente, senza capirne il senso. Tornate in cella, la compagna riprese il discorso interrotto: “Dicevi che ti chiami Sara… e poi?”
Così Sara, con un filo di voce, iniziò a raccontare: “Avevo dieci anni e vivevo ai margini di un paesino di campagna dove la mia famiglia lavorava la terra, terra che ci ha dato il Duce, ci diceva mio padre che s’impegnava venti ore al giorno per ottenere i migliori raccolti ma non il sabato, perché andava alle adunate fasciste con il vestito della festa e la camicia nera. Mia madre si raccomandava di non andare sempre a quelle manifestazioni, lui per tutta risposta le rispondeva di stare tranquilla perché in Italia son tutti fascisti. Poi la politica coloniale di regime l’aveva portato in Africa alla ricerca di un posto importante, lasciando alla mamma tutto il peso del lavoro e della famiglia che si era allargata per aver ospitato una mia zia, anche lei rimasta sola perché il marito s’era arruolato nella Decima Mas.
Al mattino mia mamma, dopo aver munto le tre mucche che avevamo, m’accompagnava alla scuola elementare facendo quasi cinque chilometri a piedi lungo uno stradone sterrato che quando pioveva diventava un torrente di fango. Quel tempo trascorso per arrivare al paese era per me piacevolissimo, era l’unico momento che mi permetteva di stare sola con lei. Ascoltavo i suoi racconti, le sue raccomandazioni, perché la sera era talmente stanca che dopo cena, mi portava con sé nel lettone e subito s’addormentava. Io la guardavo e pregavo il Signore di darci la salute e d’aiutare il papà che era lontano…”
“Vuoi molto bene a tua mamma” l’interruppe Angela.
“Volevo molto bene… adesso la tengo nel cuore” precisò Sara.
”Dimmi perché sei qui!” insistette Angela.
Sara riprese a raccontare: ”Avevo dieci anni, nel 1944 e c’era la guerra. Noi in campagna la sentivamo meno però i pericoli c’erano, non solo dagli alleati che bombardavano ma anche dai soldati tedeschi che si ritiravano. Quell’anno non andai più a scuola, era stata chiusa per mancanza della maestra che aveva lasciato il paese e, poiché rimanevo tutto il giorno a casa sola con lo zio che era tornato dal fronte perché aveva perso una gamba, mia mamma mi diede una rivoltella dicendomi di usarla solo per difendermi. Una sera appena prima di cena, intorno al tavolo illuminato dalla luce di una candela per evitare che gli aerei ci potessero bombardare, la mamma, la zia e lo zio sulla sua sedia a rotelle, dicevano sottovoce, tanto che facevo fatica a sentire, che in zona c’era un gruppo di partigiani che se ne stavano nascosti da qualche parte. Chiesi senza ottenere risposta chi fossero. Ma proprio allora si sentirono delle voci provenire dal cortile…”
In quel momento una voce proveniente dall’esterno della cella ordinava d’uscire per la cena.
Angela prese sottobraccio la sua compagna, che appariva ancora immersa nei suoi pensieri e forse rattristata dall’interruzione del suo racconto, e insieme s’avviarono verso la sala mensa che era molto grande, con tre file di lunghi tavoli ed un bancone dove veniva distribuito il pasto. Nel vassoio trovarono minestra di verdura, tre fette di prosciutto cotto, un formaggino molle, un pezzo di pane e posate di plastica. Sul tavolo una brocca con acqua di rubinetto.
Sara, dopo due cucchiai di minestra, abbassò la testa rifiutando il resto del pasto. Una detenuta accanto, l’apostrofò con “la signorina non ha gradito il menù, cameriere porti caviale e champagne!”
Angela intervenne apostrofando la vicina con uno spregiativo “stupida!”
Il ritorno in cella fu per Sara un sollievo, tanto che, dopo il solito rumore del clac clac della chiave che chiudeva la porta, continuò a raccontare cosa successe quell’aprile del quarantaquattro.
“Mia mamma andò alla finestra e da una fessura dell’imposta vide un gruppo di uomini armati che si avvicinavano alla casa. Non avevano una divisa, quindi non erano né tedeschi né soldati della Repubblica di Salò. Si spaventò e corse da noi urlando che erano partigiani. Io però non capivo perché avesse così paura. Sentimmo dei colpi forti contro la porta finché non la sfondarono ed entrarono coi fucili spianati. Cercavano mio padre e tutti gli altri fascisti della zona. Così presero mio zio, lo strattonarono, lo buttarono a terra e lo trascinarono fuori in cortile. Io m’ero aggrappata alla mamma e alla zia che venne staccata da noi e portata via. Poi sarebbe toccato a noi due e quasi gentilmente, quello che doveva essere il capo, perché gli altri lo chiamavano comandante Mauro, ci prese sottobraccio e ci invitò a seguirlo. Gli altri trascinarono lo zio e la zia dietro la stalla e scomparvero alla nostra vista. Uno di loro tornò dal capo chiedendogli cosa dovessero fare. Lui rispose che lo sapevano. La mamma intanto mi strinse a lei così tanto che sentii il suo cuore che batteva forte su di me. All’improvviso sentii una raffica di mitra e mia mamma che gridava disperata. Un secondo partigiano arrivò per ricevere ordini dal loro capo. Lui gli ordinò di prendere mia madre, così il partigiano me la strappò dalle braccia e la portò via. Questo comandante Mauro mi teneva stretta mentre io gridavo mamma e piangevo, e lei, mentre la trascinavano via, urlava il mio nome!” Sara s’asciuga una lacrima e continua: “Incrociai lo sguardo del capo, era magro coi baffi, vedevo nei suoi occhi il piacere per quello che stava per succedere. Ho nella testa l’ultimo urlo che ho fatto chiamando mia madre e la raffica di mitra che è seguita. Poi rivedo il sorriso beffardo di quell’uomo… alla fine mi lasciarono in mezzo al cortile e se ne andarono lungo lo stradone che portava al paese. Io piangevo, piangevo e piangevo!”
Mentre Sara pronunciava quelle ultime parole, Angela le prese le mani e gliele baciò. Poi le accarezzò il viso rigato di lacrime.
La lampada della cella si spense, era arrivata l’ora del silenzio. Rimase solo il tenue bagliore blu della luce d’emergenza che permetteva alla ronda notturna di controllare l’interno delle celle.
“Proviamo a riposare” sussurrò Angela.
“Proviamo” rispose Sara.
In carcere il mattino arriva presto col suono assordante della sirena. Ma Sara si svegliò molto prima. Aveva visto spuntare l’alba attraverso la finestrella con le sbarre incrociate che quel giorno non disegnarono la loro ombra sulla parete.
Quella mattina il cielo era grigio e metteva ancor più tristezza di quanto già non facesse lo stare in quel posto.
Angela si svegliò, “maledetta sirena” disse. Poi invitò Sara ad andare con lei al turno dei bagni. Dopo il clac clac della serratura della porta, si unirono alle altre detenute e s’avviarono ai bagni.
Al mattino le porte delle celle rimanevano aperte e questo fatto offriva l’impressione di una certa libertà anche quando rientrarono dalla colazione.
Sara riprese il suo racconto, bisbigliando le parole, quasi non volesse far sentire oltre la porta della cella 22.
“Avevo dieci anni quando, dopo l’uccisione di mia madre, venni accolta da una sua cugina vedova che viveva a Fusignano, in Romagna, assieme al figlio di quindici anni. Era molto lontano dal mio paese ma mi trattavano benissimo…”
“Ma tuo padre che fine fece?” chiese d’un tratto la compagna.
Prima di rispondere Sara cambiò espressione, socchiuse gli occhi quasi a voler scavare nella memoria. Poi disse: “Solo dopo qualche anno ho saputo che era stato catturato dagli inglesi e rinchiuso nel campo di concentramento di Assau. Finita la guerra fu liberato, ma intanto s’era ammalato e, quando seppe ciò che ci era successo, s’aggravò… Morì proprio mentre la Croce Rossa lo stava trasportando in Italia. Io non riuscii nemmeno a vederlo un’ultima volta.”
“Per te fu un’ulteriore disgrazia…” cercò di consolarla Angela.
“Quando hai vissuto tante tragedie, quello che arriva dopo ha un peso minore… Era comunque mio padre e, con la sua morte, rimasi definitivamente da sola. Ho passato sei anni travagliati, sono entrata e uscita da diversi istituti. Ho avuto problemi comportamentali, fobie e raptus isterici. Sono stata in cura per anni, anche se i medici non si facevano illusioni sulla mia guarigione. Nonostante ciò mi ero molto affezionata alla mia nuova famiglia e provavo per mio cugino Fulvio molta tenerezza, tanto che mia zia già ci immaginava sposati… Dopo l’ennesima cura, il dottore disse che nel mio caso l’arrivo di un figlio sarebbe stata probabilmente la soluzione a tutti i miei problemi. Così a sedici anni e, col benestare di tutti, mi decisi a sposare mio cugino Fulvio, anche lui minorenne…”
“Avete avuto figli?” chiese Angela.
“No… Stavo un po’ meglio ma il mio tormento non è mai passato e l’unico mio desiderio era quello di sapere chi fosse quel bastardo… il Comandante Mauro, il boia che ha distrutto la mia famiglia!” Sara fece un lungo sospiro, poi riprese a raccontare: “In Romagna dove abitavo ci vivevano tanti ex partigiani, così andai alla sezione dell’Associazione Partigiani d’Italia a chiedere informazioni su questo Comandante Mauro. Non è stato facile perché faceva parte di un gruppo che operava in un’altra zona d’Italia, molto a nord, in provincia di Como per l’esattezza. Mi dissero che sarebbe stato necessario chiedere in altre sezioni dell’Associazione. Però qualcuno dal cielo m’ha aiutata, perché dopo qualche tempo ho saputo finalmente il suo vero nome: Anteo Raditti!”
“Hai saputo anche dove abitava?” chiese incuriosita Angela.
“No Purtroppo… ma, non so perché, pensai che dovevo andare a chiedere al mio vecchio paese. E così ho fatto. E venni a sapere che i Raditti erano diventati proprietari dei vecchi terreni che sotto il fascismo erano stati assegnati a mio padre. Ho scavato nella memoria per vedere se tra la mia famiglia e loro ci fossero mai stati dei contrasti, dei rancori. Trovai la conferma parlando con una vecchia signora novantenne che abitava ancora in paese e che all’epoca aveva lavorato alle poste. Mi disse che aveva visto molte volte mio padre litigare fortemente con Anteo Raditti per vecchie questioni sui confini dell’azienda agricola, tanto da venire alle mani. Una volta sentì il Raditti gridare a mio padre che gliela avrebbe fatta pagare. Adesso tutto appariva più chiaro, l’esecuzione della mia famiglia non era stata frutto di un’azione militare ma di una vigliacca vendetta personale. Continuavo a star male, anche se mio marito faceva di tutto per consolarmi. Mi sentivo sola, il figlio non arrivava e nella mia testa risuonava sempre il nome di Anteo Raditti. Ho cercato conforto nella fede, non ho mai pensato alla vendetta, ma avrei voluto tanto incontrarlo, guardarlo in faccia e chiedergli il perché di tanta cattiveria. Avevo dieci anni quando mi tolse tutto. Ora ne ho trenta e dopo vent’anni di dolore… adesso sto bene, abbastanza bene direi.”
“Andiamo a fare due passi nel corridoio?” propose Angela.
“Sì andiamo!” annuì Sara.
Il corridoio di quella sezione della casa circondariale, era molto lungo e l’andirivieni delle detenute lo faceva somigliare al passeggio domenicale in una via del centro, con la differenza che, al posto degli alberi, ai lati c’era una fila di celle con le porte di ferro aperte che alla sera si chiudevano, chiudendo al loro interno le speranze, i sogni, i ricordi, i pentimenti e le rabbie di tutte quelle detenute.
Mentre camminavano avanti e indietro lungo quel corridoio, il volto di Sara appariva più sereno, quasi che il racconto fatto ad Angela, l’avesse in qualche modo rasserenata.
Angela l’aveva capito, ma la sua curiosità non era stata soddisfatta completamente. D’un tratto ruppe il silenzo e le chiese: “E poi?”
“E poi qualcuno dal cielo m’ha aiutato ancora…” riattaccò Sara “perché mio marito, che insegnava a scuola, fu nominato preside di una scuola media vicina a Como, a pochi chilometri da qui. Ci siamo trasferiti e siamo andati ad abitare in una bella villetta appena fuori paese. Iniziai le pratiche per il cambio di residenza e un giorno andai in Comune per consegnare dei documenti. Forse era la vecchia Casa del Fascio, ora era il Municipio.
Nell’atrio c’era un pannello dov’erano indicati tutti gli uffici e i nomi dei responsabili, poi vidi per caso il nome del sindaco… era Anteo Raditti!”
“Cazzo! Alla fine l’avevi trovato!” esclamò Angela sempre più coinvolta.
“Proprio così…” continuò Sara “Il suo ufficio si trovava al secondo piano. Avevo il cuore in gola e dovetti sedermi per calmarmi. Avevo il dubbio che non fosse lui, che fosse solo un omonimo. L’unica cosa da fare era incontrarlo. Così ho salito le scale, mi sono fatta coraggio e ho bussato al suo ufficio. Uscì una segretaria che mi disse che il sindaco era fuori città e che sarebbe rientrato il giorno dopo. Quando tornai a casa non dissi nulla a mio marito, ma quella notte non riuscii a dormire. Il giorno dopo sono riaffiorati tutti i ricordi, gli incubi, tutto il dolore vissuto in quegli anni. Così ho tirato fuori l’abito più bello che avevo, ho messo un filo di trucco, un po’ di rossetto e sono tornata in Comune. Per salire di nuovo quelle scale ho fatto uno sforzo enorme, ogni gradino mi faceva rivivere quel giorno tremendo, rivedevo mia madre, i miei zii, sentivo le grida, il terrore, gli spari, la disperazione… poi lui, la crudeltà del suo sguardo, il comandante Mauro… Sono arrivata al secondo piano, mi fermo davanti alla porta del suo ufficio, busso, apro. Mi viene incontro la segretaria che mi chiede chi deve annunciare al Signor Sindaco che si trova dietro un’altra porta. La scanso in malo modo e le rispondo che mi annuncio da me. Faccio tre passi e apro la porta, entro in una sala molto ampia, in fondo vedo un salottino in pelle con una grande scrivania, dietro vedo il sindaco che si alza e mi viene incontro lentamente. Incrociamo lo sguardo. Quella faccia magra, i baffetti sottili, era il comandante Mauro… S’avvicina, mi guarda con stupore, era incredulo. M’aveva riconosciuta come io avevo riconosciuto lui! Buon giorno Comandante Mauro, gli dico. Poi, prima ancora che quel boia potesse dire qualcosa, tiro fuori dalla borsetta la pistola che m’aveva dato mia madre. Lo sentii gridare, implorare come aveva fatto mia madre… Gli ho sparato tre colpi nel petto ed è caduto ai miei piedi, morto stecchito. Ho gridato con tutto il fiato che avevo il nome di mia madre, poi ho pianto…”
“Vieni, andiamo” Angela la prese sottobraccio e, stringendola forte, la fece sedere sul letto della cella. Sara era tornata silenziosa, con lo sguardo verso la finestra. Un raggio di sole, che filtrava fra le nuvole, formava un disegno a scacchi sulla parete.
Una guardia entrò in cella invitando Sara a seguirla. “Sei trasferita al carcere di Ravenna!” Sara raccolse il suo fagotto di indumenti, s’avviò verso la porta e girandosi sussurrò: “Ciao, auguri!”
“Ciao a te!” rispose Angela piangendo.
Dopo due giorni si riaprì la porta della cella 22. Entrò una giovane ragazza, con una coroncina di fiorellini finti inserita fra i capelli rossi, indossava un giaccone verde con sotto un maglione, più grande di almeno due taglie, e pantaloni che in fondo si allargavano a coprire gli scarponcini con la suola a carrarmato.
“Ciao sono Angela, sedici anni per omicidio colposo, fra quattro esco. Accomodati pure, fai come fossi a casa tua. E tu chi sei?”

LA GRANDE ARTE DI IRENE NEMIROVSKY
Un ricordo della scrittrice ebrea morta ad Auschwitz

di Michele Balboni

All’approssimarsi del 27 gennaio, trascorsi tre quarti di secolo dall’ingresso nel campo di sterminio di Auschwitz, mi chiedo quale modestissimo contributo posso fornire io. Parlare con chi ti sta vicino e sensibilizzare i figli, presenziare ad iniziative, leggere qualcosa e anche – perché no –comporre un testo originale e proporlo. Anche Irène Némirovsky, attorno al 1938, davanti alla marea  montante dell’ antisemitismo, annotava nei suoi appunti: “Cosa posso fare io se non scrivere”.

Irène Némirovsky è la mia scrittrice preferita. Ebrea di nascita di padre e di madre, trova la sua fine proprio ad Auschwitz il 17 agosto 1942. Il registro di morte del campo parla di tifo, ma non v’è dubbio che sia passata per i camini. Irène è “nel vento” da allora, ma i 17 romanzi e le decine di racconti che ci ha lasciato sopravvivono alla umana follia e resteranno per sempre vivi.

Era nata a Kiev, capitale della Picccola Russia (ora Ucraina), l’11 febbraio 1903. Figlia di un banchiere ebreo, Leonid, e di una madre che non le ha mai voluto bene, Anna Margulis; vive quindi poco più di trentanove anni. Ma valgono un secolo. Il ‘900 vede in Europa molteplici avvenimenti di portata epocale, e lei è protagonista diretta di due grandi accadimenti, forse quelli di maggiore impatto e drammaticità: la Rivoluzione Russa e – tragicamente – la Shoah.

La vita stessa di Irène Némirovsky è un romanzo: per quello che vive, per gli avvenimenti che affronta direttamente, per ciò che le succede vicino. Tutta la sua vasta produzione narrativa, letta in controluce con la biografia, racconta il romanzo di una vita. Scrive lei stessa: “Nella mia vita ci sono abbastanza ricordi e abbastanza poesia per farne un romanzo”. E nel 1933, già famosa scrittrice, dichiara ad un giornale russo: “Con tutti gli episodi della mia vita si potrebbe scrivere la sceneggiatura di un film”. Inevitabile richiamare alla memoria il famoso “Ho visto cose che voi umani..” di Blade Runner.

Il film della sua vita si dispiega tra la Rivoluzione Russa con i turbolenti anni che la precedettero, fino a quando, nella sua nuova patria, la Francia, viene caricata su un treno con destinazione sterminio. Nel mezzo, stanno ben vivi i suoi ricordi. Nei suoi romanzi la sua prosa racconta il pogrom di Kiev del 1905, i moti rivoluzionari sotto casa sua, il suicidio della sua tata Zezelle, la fuga da San Pietroburgo in slitta, la guerra civile finlandese, un quasi naufragio nel viaggio verso la Francia, le ultime luci della Belle Epoque vista dalla sua finestra a Parigi, il successo come scrittrice, il bel mondo, la ricchezza, l’amore e il matrimonio, due figlie, l’antisemitismo arrembante, il confino nella campagna francese, la (quasi) povertà, l’invasione dell’esercito tedesco, la stella gialla degli ebrei cucita sul petto, le ultime righe scritte seduta nel bosco della campagna francese dove era riparata, la porta del vagone che si chiude.

Tra i tanti romanzi e racconti composti, vere punte di eccellenza letteraria sono Suite francese  (incompiuto, pubblicato postumo solo nel 2004 e diventato un caso letterario internazionale), David Golder (1929) che le da successo e popolarità, il romanzo breve e sferzante Il Ballo (1930). Io – forse perché per me è stato il primo incontro con la scrittura di Irène Némirovsky  – sono particolarmente legato a Jazabel (1936), la storia di una bella donna tremendamente egoista e ispirato a sua madre.

Il 13 luglio 1942 viene prelevata dai gendarmi francesi collaborazionisti e portata via. Lei e la famiglia ignorano  ancora la destinazione finale. Poche settimane dopo anche il marito Michel Epstein troverà il medesimo destino. Nel vagone Irène trova ancora il modo di scrivere: “Non rimpiango niente. Dunque sono stata felice. Non lo sapevo, ma ho avuto tutte le fortune. Sono stata amata. Lo sono ancora, lo sento nonostante la distanza, nonostante la separazione“. Di lei, che ha prevalentemente vissuto a Parigi, un biografo scrive: “Nata a Est è andata a morire a Est. Ma chi può oggi mettere in dubbio che Irène Némirovsky sia straordinariamente viva?”.

Per chi non la conosce, un atto di ricordo in occasione del Giorno della Memoria, può essere la lettura di un suo romanzo.

Aspettando Godot
Lettera aperta al Sindaco di Ferrara

Da: Cgil Cisl Uil Ferrara

Il 29 luglio 2019, a seguito dell’incontro con le confederazioni di CGIL CISL UIL con il Sindaco di Ferrara, sulla stampa locale viene pubblicato il resoconto dell’incontro: “Insieme per capire cosa si è fatto e cosa si può fare per migliorare l’aspetto socio-economico e occupazionale del nostro territorio”. Alan Fabbri si è dimostrato disponibile al dialogo e al confronto su modelli di progettualità condivise ecc.
Un incontro che nella forma e nei contenuti ci aveva fatto credere nella possibilità di costruire un sistema di relazioni con l’unico scopo di intercettare i bisogni dei cittadini e con l’impegno di ricercare, attraverso il confronto, soluzioni condivise. Quello fu l’unico incontro avuto con il primo cittadino. Un incontro cordiale e utile (a Fabbri) per farsi fotografare facendo così trasparire il lato “umano e moderato”
Così come avevamo creduto nell’incontro con l’Assessora Coletti sulle politiche di welfare che, merito a parte, ha dimostrato un netto profilo di incoerenza perché dopo svariate rassicurazioni sulla disponibilità al confronto sul regolamento per le case popolari, interviene sui criteri per l’assegnazione degli alloggi senza il confronto con il Sindacato, lasciando intendere che forse la tutela che le è più a cuore è quella del vicesindaco.
Siamo sempre in attesa del confronto con l’assessore Maggi, il cui dialogo con la sola rappresentanza imprenditoriale, non può, per sua natura affrontare il problema della tutela del mondo del lavoro nella filiera degli appalti e nei lavori pubblici senza la parte che rappresenta i lavoratori.
Così come da troppo attendiamo la prosecuzione del confronto con l’assessora Travagli che in sede istituzionale si era assunta l’impegno per collaborare ad un sistema condiviso di misure a sostegno delle lavoratrici e dei lavoratori che si trovano o dovessero trovarsi in difficoltà a causa della perdita del posto di lavoro.
Allo stesso modo ci aspettavamo (perché così ci era stato detto da Fabbri e Fornasini) l’incontro per la discussione del DUP, mentre sulle partecipate avevamo ricevuto rassicurazioni sul mantenimento dell’intera proprietà del Comune. Al contrario la giunta ha fatto assumere al Consiglio Comunale una decisione in senso contrario.
Cosa diversa è accaduta con l’Assessore Balboni: alle dichiarazioni che annunciavano un intervento SOLO a sostegno delle imprese che avevano sforato i conferimenti dei rifiuti, la richiesta (soddisfatta) di incontro fatta dalle Confederazioni ha permesso, sia al sindacato che all’amministrazione, un serio approfondimento del problema. È stato il confronto che ha consentito di trovare la soluzione alla richiesta di CGIL CISL UIL di ricercare risorse economiche a sostegno ANCHE dei cittadini e delle famiglie che avevano sforato il numero dei conferimenti.
Ci siamo rivolti al Sindaco pubblicamente perché le richieste formali che già da tempo avevamo inviato hanno avuto risposta solamente oggi, ossia al termine del ciclo di assemblee con i lavoratori che hanno manifestato grande preoccupazione. Una convocazione che fissa la data di incontro il 19 febbraio, cioè tra un mese!
Solo per non offrire terreno di polemica strumentale a nessuno, valutiamo questa disponibilità, seppur tardiva, come segnale di apertura e immaginiamo che la disponibilità al dialogo non sia da intendere solo come uno slogan e che questo decreti la fine della disintermediazione delle relazioni con i sindacati più rappresentativi.
Ci aspettiamo che il giorno 19 febbraio alle ore 10,00 iniziamo a discutere del tema delle aziende partecipate a garanzia del servizio ai cittadini e a tutela del futuro di chi ci lavora, e al contempo si allarghi il confronto su tutti i temi che hanno ricadute sulla qualità della vita dei cittadini e nel rispetto reciproco del ruolo che rappresentiamo il Sindaco sottoscriva insieme a noi un Protocollo di relazioni sindacali che definisca modalità, radicalmente diverse da oggi, e di confronto concreto.
La informiamo che dal confronto ci aspettiamo di affrontare e trovare soluzioni ai problemi che le poniamo da mesi e che non faremo la fine dei personaggi dell’opera teatrale “aspettando Godot”.
Per questi motivi, le categorie di CGIL CIL e UIL convocheranno assemblee con tutti i lavoratori da svolgersi nei giorni immediatamente successivi al 19 febbraio per decidere le eventuali iniziative da intraprendere a sostegno delle nostre posizioni.

Le dimissioni di Luigino e i pugnali di gomma della nostra Repubblica

Luigino ci è rimasto male.  Per spiegare le sue dimissioni da Capo Politico ci ha messo tre quarti d’ora. Non per annunciare il suo passo indietro, quello lo conoscevamo già tutti, ma per lamentarsi, sfogarsi, lanciare velati avvertimenti ai colleghi e ai falsi amici (Dibba in testa) che gli hanno assestato una o più pugnalate alle spalle.

Prima di Luigino, Matteo Renzi è incappato nello stesso, spiacevole inconveniente. Una brutta storia, che Matteo non riesce proprio a mandar giù. Beh, è comprensibile, pugnalate e tradimenti non piacciono a nessuno. Così, da due anni a questa parte, tutte le volte che un giornale lo intervista, o quando riesce a tornare in televisione, anche se si parla di Libia o di Alitalia o di new economy, lui la ritira fuori. Ai sicari non promette vendetta, non sta bene e non conviene, ma fa capire a tutti che si vendicherà eccome. Un politico è un lupo per gli altri politici, la sua idea è quella lì. Uguale a quella del dimissionario Luigino.

C’è però qualcosa che non funziona nella narrazione (parola idiota ma adesso si dice così) di Luigino e Matteo. E cioè: se uno che credevi un amico e sodale, uno del tuo campo, uno che vedi e con cui parli tutti i giorni, trama contro di te, se col favore dell’ombra sta affilando il suo pugnale, perché non te ne sei accorto?  Perché non l’hai smascherato, allontanato, denunciato? Perché non l’hai fatto fuori, prima che lui facesse fuori te? E c’è un’altra cosa che proprio non quadra. Se ti hanno pugnalato alle spalle, perché non sei morto?

Cesare Augusto – era un politico dell’Ultima Repubblica – dai 17 congiurati si prese 17 pugnalate in pieno Senato. Non sappiamo se tra loro ci fosse la presidente Casellati, ma c’era sicuramente Bruto, il figlioccio di Cesare. E’ improbabile che, con diciassette coltellate in corpo, il dittatore romano avesse ancora il fiato per pronunciare la celebre profezia all’indirizzo di Bruto. Quel che è certo è che Cesare stramazzò al suolo e tirò le cuoia.

E’ facile notare due plateali differenze tra il regicidio di Cesare e gli accoltellamenti di Renzi e Di Maio. Punto primo, Cesare è stato affrontato di petto, a viso aperto, in pieno Senato della Repubblica, mentre i due leaderini della nostra repubblica sarebbero stati assaliti da dietro. Seconda differenza, decisiva: il grande Cesare è perito nell’attentato delle Idi di marzo, mentre Luigino e Matteo non sono solo sopravvissuti, ma non hanno riportato nemmeno un graffio.

Caio Giulio Cesare è affidato ai libri di storia, di Maio e Renzi continuano a popolare quello che Berlusconi (un pugnale che funzioni con lui non l’hanno ancora inventato) ha definito genialmente il ‘teatrino della politica’. Generalmente fondano un nuovo partito con nuovi amici.

E Bruto? Il povero Bruto, che oltre ad essere “Un uomo d’onore”, era un sincero democratico e difensore della Repubblica, fu puntualmente sconfitto nella battaglia di Filippi e non gli rimase altro che suicidarsi. Invece i presunti congiurati di oggi – gli occulti e maldestri pugnalatori dentro il Pd e nei 5 Stelle – se la passano piuttosto bene. Gli capita anche di incontrare le loro presunte vittime alla buvette del Parlamento, fare uno spuntino e scambiare due chiacchiere.

Ferrara Film Corto al via il festival di cortometraggi dedicato al cambiamento climatico

Da: Ufficio Stampa di Ferrara Film Commission

Si inaugurerà martedì prossimo la 3^ edizione del FERRARA FILM CORTO 2020, Festival Nazionale di cortometraggi organizzato dalla Ferrara Film Commission – in collaborazione con Cineclub FEDIC, Ascom Confcommercio Ferrara, Apollo Cinepark e Hotel Torre della Vittoria, con il patrocinio del Comune di Ferrara – che avrà luogo dal 28 gennaio al 1 febbraio 2020 dalle ore 16.00 alle 19.00 e dalle 21.00 alle 24.00 presso la Sala Estense (Piazza Municipale 2, Ferrara).
Denso e articolato il programma di eventi del Festival intitolato #CLIMATECHANGE, in quanto dedicato interamente alle tematiche del Cambiamento Climatico, la cui direzione artistica è affidata al critico e storico del cinema Paolo Micalizzi.
Diciassette i cortometraggi in Concorso, rispondenti al tema proposto, che saranno premiati da una prestigiosa Giuria di esperti, con targhe e premi in denaro. Dopo ogni tranche di proiezioni, si terrà un Incontro con gli autori presenti coordinato da Cesare Bastelli (Regista e Direttore della fotografia di numerosi film di Pupi Avati a partire dagli anni ‘90) e da Giorgio Ricci (Filmmaker e Presidente Nazionale FEDIC).
Il Festival risulta arricchito di numerose nuove iniziative, oltre a quelle ormai consolidate come la collaborazione con il Festival Internazionale Roma Film Corto, del quale sarà proposta una selezione di cortometraggi, e con Apollo Cinepark, che proietterà il lungometraggio “Domani” di Cyril Dion e Mélanie Laurent. Da segnalare anche la collaborazione con l’Università IULM e il Festival CinemAmbiente.
Tra le novità, è prevista una Tavola Rotonda, che si terrà al Palazzo Roverella, sede dell’antico Circolo dei Negozianti, alle ore 10.30 di sabato 1 febbraio, intitolata “Essere filmmaker”, avente lo scopo di porre l’attenzione sugli autori di cortometraggi e di metterli in contatto con realtà che possano favorire la loro opera creativa e produttiva. Realtà quali il Cineclub FEDIC (Federazione Italiana dei Cineclub) e Ferrara Film Commission che ha tra le finalità quella di dar supporto alla realizzazione di opere cinematografiche in questa splendida città. La Tavola Rotonda, sarà coordinata dal critico e storico del cinema nonché Direttore artistico del Ferrara Film Corto, Paolo Micalizzi, interverranno: il Presidente del Cineclub FEDIC Ferrara, Maurizio Villani, e il Presidente della Ferrara Film Commission, Alberto Squarcia, ma anche un filmmaker storico e Presidente Nazionale FEDIC, Giorgio Ricci, alcuni ospiti del Festival e filmmaker ferraresi o di altre città partecipanti al Ferrara Film Corto.
Inoltre, saranno proiettati i lungometraggi “Baraka” di Ron Fricke, “The Human Element” di Matthew Testa e “Una gita a Roma” di Karin Proia (tra gli attori Claudia Cardinale e Philippe Leroy) in anteprima per Ferrara. Karin, madrina del Festival, ha recitato nella fortunata serie TV ”Boris”.

Addio a Emanuele Severino, maestro del pensiero e amico del festivalfilosofia

Da: Ufficio Stampa MediaMente

“Il Consorzio per il festivalfilosofia partecipa con cordoglio alla scomparsa di Emanuele Severino, maestro del pensiero e tante volte ospite della nostra manifestazione. Severino è stato un pensatore di livello europeo e grande protagonista dell’eredità classica della filosofia. Con la sua dottrina dell’Essere ha presentato anche al pubblico del festival l’esercizio del pensiero nella sua forma più pura”. Così Daniele Francesconi, direttore del festivalfilosofia, ricorda uno dei più grandi filosofi, scrittori e intellettuali del nostro tempo.