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I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Le storie finite dei lettori

La fine di una storia: i lettori raccontano come hanno gestito l’emergenza, gli epiloghi e l’amicizia con l’ex.

Un anno per decidere

Cara Riccarda, caro Nickname,
ho vissuto quanto avete raccontato e ci sono voluti anni per accettare che non ci fosse più soluzione. Il tempo passava pensando di trovare una soluzione per un cambiamento che era diventato anacronistico. E a prendere ‘la decisione’ ci è voluto un anno.
P.

Cara P.,
cambiamento anacronistico, credo, significhi che la cosa non la vuoi più, nemmeno cambiare. Ma prima di arrivare a dirselo (a noi, all’altro) il tempo può anche mangiarsi moltissimo, in certi casi una vita.
Riccarda

Cara P.,
Un ‘cambiamento anacronistico’ lo intendo come qualcosa che sarebbe dovuto accadere talmente tanto tempo prima, che poi diventa normale non cambiare più. Anche la situazione nuova non è più nuova. Sì, credo possa accadere di tutto in queste situazioni, compreso dilatare il concetto di tempo che passa fino a farlo assomigliare ad un’era.
Nickname

Questione di chimica

Cara Riccarda, caro Nickname,
le storie finiscono per definizione, sopraggiunge la morte di uno dei due oppure finisce l’amore, le persone poi mutano nel tempo. Solo se la coppia sopravvive al cambiamento e la chimica rimane, si va avanti.
C.

Cara C.,
sei già la seconda che parla della potenza del cambiamento che, per me, è sempre benedetto. Non so perché, invece, ci rassicuri così tanto saperci sempre uguali e, quindi, statici. Stiamo lì a guardarci nella nostra controfigura conosciuta temendo possa incresparsi. Ogni volta che ho promosso o subito un cambiamento, ho scoperto cose, soprattutto ne ho lasciate indietro perché davvero non mi servivano più.
Riccarda

Cara C.,
condivido entrambe le tue osservazioni. Aggiungo che la chimica non è un concetto solo sensoriale, ma anche emotivo.
Nickname

L’amico delle ex

Cara Riccarda, caro Nickname,
io devo avere un dono per riuscire a rimanere in amicizia con le mie ex compagne. Ci ho pensato, e seppur fossero donne diverse tra loro per età e cultura, è sempre rimasto un buon rapporto in alcuni casi vera amicizia. Sia quando ho terminato io (più frequente) sia quando ho subito un’eutanasia. Credo sia il modo di salvare il tempo trascorso e il senso positivo del cammino fatto insieme. Tu che ne pensi?
Paolo

Caro Paolo,
credo che tu sia stato più bravo di me. A parte con il padre di mia figlia, la mia pars destruens ha dettato le modalità di chiusura, lo ammetto.
Riccarda

Caro Paolo,
con un pizzico di malizia ti dico che mi piacerebbe parlarci, con le tue ex compagne, per sapere se la pensano tutte come te in relazione a questa “vera amicizia” che rimane. Mi basterebbe la conferma del rispetto e dell’affetto e saresti il mio idolo.
Nickname

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

Scuole chiuse e ferme al palo… mentre la Rete corre.

La generazione delle reti, la generazione sempre connessa si trova disorientata ora che le scuole sono chiuse. La scuola rischia di lasciarli a piedi. Non sa come intercettarne l’impegno, come tenere attiva la comunicazione. Eppure pensavamo che al tempo dei Millennials e della Generazione Z qualcosa fosse cambiato.
Ora che studenti e scuole si devono parlare da lontano, diventano buoni anche gli smartphone, banditi in tempi normali dalle aule, dimostrando quanto perniciosa possa essere a volte la stupidità umana.
Oggi, che tra le competenze chiave della cittadinanza è compresa quella digitale, sarebbe stato normale attendersi che la prima a dimostrare di possedere una simile competenza fosse la scuola.
Invece balbetta, ancora una volta si muove a macchie di leopardo con improvvisazioni e approssimazioni.
La sindrome della cattedra, la sindrome trasmissiva continuano ad opporre resistenza alle ICT e ai linguaggi della digitalizzazione, in particolare per supportare nuovi modi di insegnare, di apprendere e di valutare.
Così l’innovazione che sarebbe venuta buona, adesso ci manca.
Non ci è dato di sapere lo stato di salute del Piano Nazionale di Digitalizzazione, promesso nel 2015 dalla legge che ha assunto la vulgata di ‘Buona Scuola’.
Come pure, a cercare nel sito del Miur, non si trova un dato che sia aggiornato sulle ‘Classi 2.0’, i cui studenti non dovrebbero avere difficoltà ad affrontare la chiusura delle scuole, considerato che dispongono di pc personali e la didattica in aula usa quotidianamente i device tecnologici.
Poco si sa, anche consultando il sito dell’Indire, circa lo stato dell’arte della sperimentazione delle Flipped classroom (la classe capovolta). Esperienze in cui l’insegnante. da megafono della trasmissione dei saperi, assume il ruolo di facilitatore degli apprendimenti, sceneggiatore dell’ambiente di apprendimento, regista dell’azione didattica.
E di sceneggiatori e registi della didattica a distanza avremmo bisogno oggi, capaci di scrivere i copioni del sapere in epoca di apprendimento attraverso la rete.
Le responsabilità dei ritardi, delle trascuratezze e delle incompetenze, nel momento del bisogno, assumono il volto tragico degli atti mancati. Le conseguenze dei tagli ai bilanci, di un paese indebitato oltre misura, estendono ora i loro effetti dannosi non solo sulla sanità, ma anche sull’istruzione pubblica.
“Educare digitale” è il rapporto dellAGCOM (Autorità per la Garanzia delle Comunicazioni), uscito un anno fa, a febbraio del 2019. Ci informa che nell’attuazione dell’Agenda Digitale, con cui l’Unione Europea ha fissato gli obiettivi da raggiungere entro il 2020, noi, Italia, ci troviamo al 25esimo posto su 28 paesi.
Il gap digitale che abbiamo accumulato rispetto alle altre nazioni europee avrebbe dovuto imporre un passo più accelerato alle politiche di digitalizzazione, dalla Pubblica Amministrazione, ai servizi, alle scuole. E i tempi che si prospettano non favoriranno certo il recupero che avrebbe dovuto avvenire prima.
Il gap non è solo relativo alle tecnologie digitali, il gap vero è quello sociale, in particolare con i più giovani, per i quali le tecnologie sono parte pervasiva delle loro esperienze di vita quotidiana.
In tutto questo, il sistema scolastico avrebbe dovuto svolgere un ruolo decisivo, invece la chiusura delle scuole trova il nostro sistema formativo impreparato a realizzare un piano di insegnamento a distanza diffuso sull’intero territorio nazionale.
Non sarebbe comunque possibile, almeno per la stragrande maggioranza dei nostri Istituti, perché, oltre agli aspetti tecnici, manca la disponibilità di adeguate competenze a livello didattico e, più in generale, alla diffusione di una cultura orientata al digitale.
Il 97% delle scuole italiane risulta connesso a internet, solo il 3% non lo è, con prevalenza al Sud.
Il problema è che, di quel 97%, solo l’11,2% dispone di una connessione superiore ai 30 Mbps, condizione indispensabile per una didattica digitalizzata, e ancora di più per una didattica a distanza. A questo si deve aggiungere che solo il 17,4% delle famiglie italiane dispone della banda-ultralarga. Gli ostacoli da superare non sono, dunque, solo interni alle scuole, ma anche esterni.
Inoltre, per le scuole la strada è difficoltosa per i costi elevati e per la complessità degli aspetti di natura tecnica. Difficoltà che si moltiplicano là dove ancora persiste una bassa propensione all’uso delle tecnologie digitali a scopi didattici.
La chiusura delle scuole mette il dito nella piaga di un sistema formativo arretrato, non all’altezza della società della conoscenza che corre in rete.

Insegnamento a distanza?
10 piccole certezze contro le ambiguità scolastiche

Ho visto cose che … solo voi insegnanti potreste immaginarvi! Webinar da remoto naufragare al largo di connessioni lente, Conference call balenare nel buio vicino alle porte dell’Auser, Smartphone diventare oggetti ipnotici soprattutto per i bambini al ristorante, Flipped classroom dimenticare chi ha bisogni speciali, LIM infangare la scuola di un LIMO appiccicoso, Bricks lab costruire un muro anziché un ponte, e ho visto praticare e-learning, cioè il tele-apprendimento, da chi ‘te le’ racconta e poi ‘te le’ vuole vendere.

E tutti questi strumenti venir chiamati pomposamente: insegnamento a distanza.

Nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 4 marzo scorso che contiene le norme per affrontare l’emergenza causata dal virus chiamato ‘corona’, tra le altre cose che riguardano la scuola, c’è scritto: I dirigenti scolastici attivano, per tutta la durata della sospensione delle attività didattiche nelle scuole, modalità di didattica a distanza avuto anche riguardo alle specifiche esigenze degli studenti con disabilità“.

A questo proposito, offro un mio pensiero banale, semplice e addirittura superfluo: attivare le “modalità di didattica a distanza” NON VUOL DIRE insegnare.
Lo scrivo, nonostante la consideri una precisazione non essenziale, perché sento che si sta generando una grossa ambiguità a questo proposito e non sono poche le persone che incorrono in questo equivoco. Ma se può essere normale che persone al di fuori della scuola si confondano, è preoccupante se ciò succeda all’interno della scuola.
Chi pensa che si possa insegnare a distanza forse pensa che il ruolo dei docenti sia quello di ‘travasare’ informazioni, indicazioni e istruzioni; pertanto considera gli studenti come ‘fiaschi vuoti’ da riempire.
Chi pensa questo, crede che l’operazione di ‘imbottigliamento’, essendo un procedimento meccanico, possa essere fatta da chiunque e probabilmente pensa anche che, se si userà un  ‘imbuto’ tecnologico, il materiale versato riempirà meglio il contenitore. Chi pensa così, forse, non è interessato al ‘come’ si impara ad imparare e ad essere, ma al ‘cosa’ si mette dentro per riempire.
Chi la pensa in questo modo, può anche immaginare che i docenti non servano e che la scuola possa aver senso anche senza di loro; di conseguenza può giustificare la loro sostituzione con qualcuno o qualcosa che, usando strumentazioni tecnologiche, sappia adottare modalità di didattica a distanza.

Gli insegnanti possono, ed in questo momento di emergenza devono, attivare le “modalità di didattica a distanza”, ma ciò vuol dire prima di tutto preoccuparsi se la modalità immaginata sia alla portata di tutti. Ad esempio, la comunicazione può avvenire per posta elettronica? Gli studenti hanno un loro indirizzo mail? Saranno tutti in grado di visionare un filmato? E di scaricare un file di grandi dimensioni? Tradotto in pratica, fare didattica a distanza vuol dire chiedere ai bambini, alle bambine, ai ragazzi e alle ragazze di eseguire esercizi, di scrivere testi, di leggere, di ripassare, di visionare filmati, di ascoltare registrazioni, di assistere a presentazioni multimediali o qualsiasi altra attività che li aiuti a consolidare apprendimenti e a produrre materiale didattico in modo collaborativo, inclusivo, interessante e coinvolgente.

È importante sapere che, facendo ciò, si sta adottando una modalità didattica sicuramente utile in questa situazione,  ma insegnare è un’altra cosa. Nel senso ampio del termine, non vuol dire ‘mettere dentro’ ma ‘portare fuori‘ (è la traduzione dal latino del verbo educare). E questa operazione, lenta, delicata e complessa è fatta di relazioni educative e non solo di relazioni scritte, di interrogativi e non solo di interrogazioni, di domande e non solo di test a risposta multipla, di problemi di convivenza e non solo di problemi di matematica, di verifiche sul campo e non solo di prove di verifica, di azioni e non solo di spiegazioni, di volti e non solo di voti, di intese e non solo di protocolli d’intesa, di progetti di vita e non solo di progetti integrativi, di programmi per il futuro e non solo di Programmi Operativi Nazionali.

Nell’insegnamento la componente relazionale è indispensabile, come pure è fondamentale che sia caratterizzata da una presenza fatta di sorrisi incoraggianti, di sguardi accoglienti, di ascolto attivo, di toni convincenti, di battute sdrammatizzanti, di posture rassicuranti, di atteggiamenti coerenti. A volte, la convinzione di essere insegnanti all’avanguardia, perché si usano strumenti tecnologicamente avanzati, porta ad essere abbagliati, a confondere l’attivazione della didattica a distanza con il processo di insegnamento.
In questa strana situazione di chiusura delle scuole, è importante aver chiara questa distinzione, sia per non deludere certe aspettative degli studenti e delle famiglie, che per mantenere aperto un canale di comunicazione efficace. In un momento simile, io penso che il primo aspetto da curare con molta attenzione debba essere la comunicazione, sia verso le famiglie che verso gli alunni; non solo per cercare di far sentire la propria vicinanza, ma per condividere un momento difficile tenendosi stretti, per tentare di sentirsi comunità anche in queste occasioni.

Si può comunicare con gli studenti per spiegare cosa sta succedendo, per dare un nome alle emozioni che si provano, per raccontare e raccontarsi, per suggerire attività, per immaginare ed organizzare il rientro ma, ancor prima, per proporre modalità di comunicazione adatte al contesto e alla portata di tutti.
Si può scrivere alle famiglie per spiegare ciò che gli insegnanti sono in grado di fare in questa situazione ed il tipo di aiuto da casa di cui avrebbero bisogno.

Un altro elemento importante da valutare, da parte degli insegnanti, è l’illusione di poter normalizzare una situazione che normale non è. In questa circostanza del tutto imprevista, concordo con il sociologo Edgard Morin quando scrive che ci sarebbe bisogno di “Imparare a navigare in un oceano di incertezze fra alcuni arcipelaghi di certezze“.

Nel mio piccolo, fra le molte incertezze di questo periodo, io individuo queste dieci certezze:

1) la scuola può esistere solo se ci sono gli alunni, gli insegnanti e il personale;

2) la scuola è una parte importante della nostra vita;

3) la scuola, in questo momento, manca a tutti;

4) tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri;

5) insieme si impara meglio;

6) il confronto arricchisce chi lo pratica;

7) il valore della diversità può nascere solo dal confronto;

8) le modalità di didattica a distanza sono più efficaci se sono coinvolgenti;

9) si può imparare anche confrontandosi con l’emergenza;

10) l’emergenza si può affrontare e superare insieme, tenendosi stretti.

Cari colleghi, cari studenti, cari genitori, pur non essendo marinai, ora sta a noi scegliere come navigare: è normale essere spaventati da questo oceano di incertezze; però sappiamo anche quali sono e dove sono i nostri arcipelaghi di certezze – “che, ovviamente, potranno essere diversi dai miei” – e soprattutto, conoscendo la differenza fra insegnamento e modalità di didattica a distanza, possiamo sfruttare le seconde cercando di non dimenticare l’energia relazionale determinante che, anche in una situazione come questa e con i limiti del caso, potrà accompagnarle per far sentire ciascuno ancora parte di una piccola comunità.

Non siamo esperti navigatori ma, in attesa che questo momento passi e che le scuole riaprano, dobbiamo scegliere su quale imbarcazione salire.
Possiamo contare su un’ulteriore certezza: l’energia creativa, le idee, le proposte di tutti i nostri compagni di viaggio, indipendentemente da quale età essi abbiano, sono determinanti per rafforzarci a vicenda senza lasciare indietro nessuno.

Concludendo la metafora marinara, allo stesso modo di padre e figlio nel film Blow [messaggio del padre] io dico: “Che tu possa avere sempre il vento in poppa, che il sole ti risplenda in viso e che il vento del destino ti porti in alto a danzare con le stelle”.

 

l’inconsapevole leggerezza dell’essere… italiani

Stazioni sciistiche frequentate all’inverosimile, neanche fosse la pausa natalizia; movida sui navigli, sui litorali tirrenici e adriatici; picnic fuori porta e street food per le vie mertropolitane del gusto; gruppi e compagnie che popolano i plaid distesi sui prati, parchi stipati di festanti bambini; assalti in massa a supermercati e treni. E’ l’immagine di questo ultimi fine settimana, di questi ultimi giorni: così affollati, straripanti di vitalità, spostamenti, aggregazioni.
Una popolazione in fuga dal proprio abitato quotidiano perché l’energia degli uni accresce quella degli altri, e restare insieme riduce la percezione del pericolo, se distribuita su tutti.

Ci si convince che l’uno non rischia più dell’altro e se lo fa l’altro lo posso fare anch’io. Un movimento unitario che serve alla salvezza di tutti – si pensa – l’esatto contrario di ciò che la realtà attuale richiederebbe.
E qualsiasi considerazione, dimostrazione scientifica, ragionamento accreditato, suggerimento, restrizione normativa che turbi l’andamento di questo esodo, genera panico. Scriveva Elias Canetti in Massa e potere: “Nulla l’uomo teme più che essere toccato dall’ignoto”. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo.
Dunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall’essere toccati inaspettatamente può crescere dal timore di essere toccato. Non si bada più a chi ‘ci sta addosso” perché siamo un corpo unico dove le differenze di prima si annullano davanti alla minaccia comune. Non esiste più un ‘contro gli altri’ ma ‘insieme agli altri’, anche sotto il profilo negativo, laddove invece ci sarebbe necessità di non avvicinare, di porre distanza, di isolare per il bene comune. Si vive tutti nell’interminabile uguale attesa e speranza dove non esistono più i vincoli di prima.

Questa corsa all’evasione in preda al desiderio di conquistare, insieme, spazi di leggerezza e spensieratezza, fa pensare al racconto di Edgar Alla Poe del 1842, la maschera rossa’ i cui protagonisti sono il principe Prospero e i suoi cortigiani, un migliaio di dame e cavalieri che egli convoca in una delle sue magnificenti abbazie fortificate per creare un clima di gaiezza, edonismo e sicurezza, lontani dalla peste che imperversava fuori. Buffoni, ballerine, musicisti allietano i presenti, immersi nella totale bellezza dei saloni, degli addobbi e delle prelibatezze. Nel corso del grande ballo mascherato indetto dal principe, scopriranno la presenza di una figura misteriosa e spettrale con mantello, sotto il quale non esiste nessuna forma tangibile, e che al rintocco della mezzanotte decreterà la fine di tutti. La fuga dalla realtà e l’abbandonarsi alla inconsapevole leggerezza non erano serviti a nulla.

Non sentiamoci invulnerabili e riappropriamoci della consapevolezza, traendo energia da una coesione fatta di buonsenso e volontà di percorrere insieme la direzione giusta, fatta anche di sacrificio e abbandono delle modalità di convivenza del ‘prima’, accompagnati da un pensiero di speranza che José Saramago suggerisce nel suo romanzo Cecità: “ Un commentatore televisivo ebbe l’ingegnosità di trovare la metafora giusta quando paragonò l’epidemia, o quello che fosse, a una freccia scagliata verso l’alto, che, nel raggiungere il culmine dell’ascensione, si mantiene per un momento come sospesa, e poi comincia a descrivere l’obbligatoria curva discendente che, a Dio piacendo… poi ci penserà la gravità ad accelerare fino alla scomparsa del terribile incubo che ci tormenta.”

Da martedì 10 marzo nelle scuole emiliane si potrà fare lezione a distanza:
un servizio gratuito di Google e Cisco

Da: Regione Emilia Romagna.

Forniti a studenti, insegnanti e genitori servizi on line e piattaforme indispensabili per proseguire lezioni e incontri nel periodo di sospensione dell’attività scolastica

Bologna – Più e-learning nelle scuole dell’Emilia-Romagna. In queste settimane di forzata sospensione delle lezioni a causa all’emergenza coronavirus, la modalità di apprendimento e-learning rappresenta un’opportunità per mantenere una relazione didattica con la scuola. Una “classe virtuale” in cui ognuno sarà collegato da casa propria.

Gli strumenti a supporto dell’attività a distanza sono forniti da Google e Cisco, due giganti dell’informatica, che grazie a un accordo tra Regione, Ufficio Scolastico Regionale per l’Emilia-Romagna e Lepida Scpa (la società di gestione della rete a banda larga e dei servizi di connettività delle pubbliche amministrazioni), li metteranno a disposizione gratuitamente, già da martedì 10 marzo, alle istituzioni scolastiche dell’Emilia-Romagna di ogni ordine e grado, statali e paritarie.
I ragazzi potranno inviare video, power point o testi scritti, trovare i compiti assegnati e le correzioni. E gli insegnanti riunirsi in “stanze” virtuali e anche incontrare, sempre on line, i genitori.

“Cerchiamo – spiegano il presidente della Regione Stefano Bonaccini e l’assessore regionale alla Scuola, università, ricerca e agenda digitale Paola Salomoni – di dare supporto alle scuole di tutto il territorio per affrontare questo momento di emergenza che comporta, tra le altre misure, la sospensione delle lezioni per tutti gli studenti dell’Emilia-Romagna”.

“Ci siamo mossi – aggiungono presidente e assessore – assieme all’Ufficio scolastico regionale e a Lepida e in collaborazione con le aziende informatiche, in due direzioni: prima di tutto per mettere tutte le scuole nelle condizioni di poter attivare classi virtuali adeguate, e contemporaneamente dare ai docenti strumenti di formazione per operare sulla piattaforma di e-learning. Un’azione che mira a sostenere la continuità didattica e la partecipazione degli studenti alla comunità scolastica”.

“Le scuole dell’Emilia-Romagna sono al top, a livello nazionale, nell’utilizzo delle tecnologie digitali nella didattica. Lo attesta il rapporto Agicom 2019. L’emergenza coronavirus e la sospensione delle attività didattiche, nelle indubbie difficoltà che pone – precisa il direttore dell’Ufficio scolastico regionale Stefano Versari – ci spinge a un’ulteriore accelerazione nelle iniziative. Per questo si è deciso di rendere immediatamente disponibili, sulla base delle proposte pervenute sinora da Google e Cisco e delle ulteriori che eventualmente perverranno, strumenti digitali alle scuole che non ne posseggano. Nel mercato esistono molteplici piattaforme che consentono – con modalità, qualità e costi differenziati – di realizzare attività di didattica a distanza. Non si intende dunque indirizzare le libere scelte tecniche ed economiche delle Istituzioni scolastiche. Ma piuttosto avviare un percorso per l’impiego diffuso di strumenti per la didattica a distanza”.

“In brevissimo tempo abbiamo reso possibile per tutte le scuole dell’Emilia-Romagna l’accesso a servizi gratuiti per svolgere a distanza attività didattica e incontri con insegnanti, rappresentanti e genitori. Ciò – spiega il direttore di Lepida Gianluca Mazzini – è facilitato anche grazie all’infrastruttura a banda ultra larga di Lepida, già disponibile in oltre 1.200 plessi scolastici dell’Emilia-Romagna,che permette agli operatori della scuola di poter accedere con qualità ai servizi digitali. Un’ulteriore conferma dell’importante ruolo che le tecnologie digitali svolgono al servizio di tutta la comunità regionale”.

Come funziona

A partire da martedì 10 marzo sono gratuitamente attivabili, a richiesta, i servizi per attività didattiche a distanza grazie a G Suite for Education, un insieme di strumenti e servizi Google realizzati appositamente per le scuole e per l’istruzione on line e per l’attività di comunicazione a distanza grazie a CISCO WebEx, una piattaforma professionale per la gestione di incontri audio-video con un elevato numero di partecipanti.
L’attività didattica a distanza tramite Google Suite è già attiva in circa 300 delle 535 scuole statali della regione, con tempi di attivazione del servizio mediamente di 4-5 giorni.
Grazie alla collaborazione fra Lepida Scpa, Google Italia e i suoi partner, le scuole della regione possono aderire al servizio compilando i moduli disponibili all’indirizzo https://gsuite.google.com/signup/edu/welcome#0.

In tal modo sarà possibile ottenere l’attivazione della piattaforma in modalità fast track ovvero accelerando la procedura di attivazione.
Per eventuali problemi durante la compilazione del modulo è disponibile un servizio di supporto temporaneo di Lepida contattabile via e-mail all’indirizzo supporto-scuole@lepida.it.

La piattaforma Cisco Webex

Cisco Webex è una piattaforma che permette a più persone di collaborare a distanza in modo semplice e sicuro. Coniuga le funzionalità di audioconference, webconference e videoconference. La piattaforma è disponibile a livello globale e, già oggi, supporta oltre 100 milioni di riunioni al mese.
Webex è una piattaforma sicura – sia sotto il profilo della crittografia dei dati, che della privacy degli utenti – e interoperabile con altri strumenti applicativi e di collaborazione. Consente una gestione amministrativa avanzata di ogni singola scuola.
Con Cisco Webex l’incontro si svolge in una stanza virtuale che fornisce tutti gli strumenti digitali per una collaborazione avanzata tra i partecipanti all’incontro: mostra documenti, applicazioni e contenuti multimediali; gestisce chat con domande e risposte; offre una sorta di “lavagna virtuale”; registra le sessioni e permette di rivederle con un’alta qualità audio-video.
CiscoWebex mette a disposizione delle scuole dell’Emilia-Romagna una ‘stanza’ virtuale per attività organizzative oltre che didattiche di incontro e scambio online e, per le scuole superiori di secondo grado, più stanze per ogni singolo istituto che i docenti possono utilizzare per gestire attività con le classi. La proposta prevede un supporto tecnico a distanza per le scuole che aderiranno. L’Ufficio scolastico regionale raccoglierà le richieste di accesso da parte delle istituzioni scolastiche.

Entrambi i servizi possono essere utilizzati a partire da qualsiasi dispositivo: personal computer, tablet o smartphone, dotato dei sistemi operativi più diffusi (iOS, Android, Windows, macOS). Il supporto relativo a G Suite Education riguarda la fase di avvio della piattaforma, che rimane poi a disposizione della scuola. I servizi Cisco Webex saranno utilizzabili gratuitamente fino a giugno 2020./OC

La rivoluzione di Guido d’Arezzo… O Guido da Pomposa?

Prima di lui il mondo girava in un verso, e dopo di lui quel verso superò se stesso. Il monaco che avrebbe per sempre cambiato il modo di cantare e suonare, inventando la musica moderna, era un italiano che visse a cavallo tra I e II millennio. Possibile che sia nato vicino a Ferrara?

Siamo in pieno Medioevo. La società è intrisa di religiosità e il cristianesimo pervade città e campagne. Molto diffusi sono i centri di spiritualità, dove suore, frati, monache e monaci meditano e si dedicano al territorio. Fra le attività predilette spicca il canto, particolarmente vitale nella liturgia di allora, per il quale è richiesto uno studio importante grazie all’imitazione mnemonica di chi già conosce le melodie. Una notazione musicale esiste, ma si serve di segni posizionati in corrispondenza delle sillabe, senza valore di durata o altezza dei suoni, fungendo così da traccia per il canto. Tali segni, detti neumi, seguono una tipologia definita adiastematica o in campo aperto, e l’apprendimento avviene grazie al monocordo, antico strumento progenitore del più recente clavicordo. Un ragazzo nato sul finire del X secolo, tuttavia, è destinato a scombinare per sempre le carte in tavola. Forse nel 992, forse ad Arezzo, nasce colui che diventerà famoso come Guido d’Arezzo, monaco benedettino, musicista e teorico, tra i più studiati nell’età medievale. Dal 1013 Guido diviene monaco presso l’Abbazia di Pomposa, e durante l’abbaziato di Guido di Pomposa dà il via a un’invenzione senza precedenti, ma già una questione emerge proprio dal suo essersi formato e fatto monaco nella località ferrarese. Per ricostruire una qualsiasi biografia, infatti, il luogo di nascita più naturale, per un novizio, è la zona dove poi viene intrapresa la carriera monastica. Una lettera che Guido scrive a un confratello sembrerebbe confermarlo, eppure è la stessa lettera a contenere un’espressione interpretata come decisiva per la determinazione di Arezzo quale città natale, espressione però riferibile anche semplicemente alla sua dimora abituale. A ogni modo, l’intuizione che si accende nella sua mente è di quelle osteggiate all’inizio ma poi osannate per sempre. Come in casi simili, tutto nasce da un problema: ogni canto, per poter essere eseguito, necessita in maniera incontrovertibile di essere ascoltato dalla viva voce di chi lo conosce, e soprattutto imparato con un notevole sforzo di memoria. Non solo, poiché in questo modo si rischia che ognuno interpreti e personalizzi il canto a proprio piacimento. La questione è dunque pedagogica e la sua soluzione talmente eccezionale che già al tempo Guido viene prontamente convocato dal papa Giovanni XIX, curioso di sapere come sia in grado di ridurre a un anno o due il tirocinio decennale richiesto per formare i cantori ecclesiastici. Il metodo è presto detto: si tratta di un nuovo sistema di notazione ed esecuzione musicale, la solmisazione, che consente la lettura ed esecuzione dei canti a prima vista. La musica compare così scritta su un rigo musicale, composto da un insieme di quattro linee, il tetragramma, antenato del pentagramma di oggi. Le linee appaiono contrassegnate da lettere-chiave che indicano l’intonazione del divenire melodico, servendosi anche di colori. Su questo schema, avviene la rappresentazione di sei suoni ascendenti, e la loro successione è associata per comodità ai versi di un inno liturgico dedicato a San Giovanni: sono così nate in seguito le attuali note musicali. Ma Guido non tradisce mai la sua vocazione pedagogica, che conferma inventando il solfeggio e la mano armonica, un mezzo meccanico che insieme ai suoi vari trattati mitiga la vita degli scolari a lui sottoposti. Il papa non può, di fronte a tale stupore, esimersi dal premiare il monaco con un prestigioso riconoscimento, invitandolo a istruire persino il clero di Roma, nonostante i passati rifiuti dell’ambiente pomposiano dovuti alla inevitabile possibilità per chiunque, ora, di poter imparare l’arte della musica.

Il celebre monaco italiano, di Arezzo o Pomposa, fu il primo a porre a sistema i timidi tentativi di qualche suo predecessore. Diede il via libera alla definizione dei generi e alla conservazione delle opere. Se ancora oggi possiamo suonare Vivaldi o De André, è insomma merito suo.

La clausura e il sogno di una fuga

Svolacchio con la mente ripercorrendo ciò che mi ha maggiormente impressionato in questa clausura fisica che sta diventando mentale suggerita e giustamente imposta da chi ci difende o tenta di difenderci scientificamente dal maledetto morbo o meglio ( senti come fa fino!) vairus. Mi s’invita alla pazienza mentre conto i giorni che mi rimangono prima della chiusura della mostra Canova-Thorvaldsen che voglio e devo assolutamente vedere. La sfida al divieto era stata decisa qualche giorno fa; poi il mio amico, grande critico d’arte, anche lui operando di nascosto alla famiglia prontissima come la mia a dargli l’ostracismo, rinuncia a causa di un leggero raffreddore di cui si è prontamente rimesso (n.b. abita in Veneto vicino a Vicenza….). Ora la scommessa è: riusciranno i nostri eroi a prendere il treno (orrore!!!) in un giorno fausto come il 13 venerdì? Tramiamo il viaggio in segrete telefonate che s’estendono anche alla Svizzera da cui dovrebbe arrivare la comune amica che tuttavia ha forti dubbi di poter essere riammessa nella ‘polita’ terra senza virus. Frattanto, febbrilmente, sposto la data delle vacanze romane offertemi per il mio ormai imminente genetliaco e aiutato dal ‘santo’ Lorenzo, tecnico che andrebbe continuamente tenuto in servizio attivo. Trionfalmente riesco a impossessarmi di due biglietti per la mostra di Raffaello. Lo comunico fremendo di gioia alla mia vicepresidente che mi ride in faccia (ovviamente con la mascherina anche se siamo al telefono!) facendomi notare che, come socio Icomos, avrei avuto diritto al biglietto gratuito. Assumo un tono annoiato e le domando: “Chi avrebbe fatto poi la coda per il biglietto restante, essendo due in famiglia?”, poi, esultando di piacevole nonchalance, le comunico che appena arrivato a Roma sarei andato a cena da Hang Zhou che come si sa è il miglior ristorante cinese d’Italia se non d’Europa. Rullano i tamburi quando poi mi viene comunicato che la mostra su De Pisis sarà trasferita a Palazzo Altemps a Roma qualche tempo prima del soggiorno romano. E mentre mi lancio esibendomi senza pudore in pescheria in un balletto coronarico –un passo avanti e due indietro-decido di adottare come saluto a distanza il gesto immortale di Alberto Sordi non più accompagnato da ‘lavoratoriii’ ma da “coronaaaa”.
In città alla noia greve si aggiunge l’eterno ritorno dei personaggi di cui ormai tacere è bello. Che clangore di piatti rotti fra le parti contendenti! E’ proprio vero. ‘Ferara’ non cambierà mai, non può cambiare. Frattanto con il passo pesante del fato si chiudono tutte le conferenze e le manifestazioni culturali che riempivano il mio carnet. Ultimo di ieri lo spostamento del Convegno internazionale padovano sui giardini fissato il 2 aprile e rimandato al 15 giugno. Rivedo film meravigliosi alla televisione ma ormai sto scivolando verso lidi infrequentabili. Un popolare show mi produce le convulsioni e devo per forza evitarlo; i seriosi dibattiti tra gli intendenti mi producono crisi frequenti di narcolessia o per fare il figo di tripanosomiasi africana essendo quasi tutti dedicati agli effetti del vairus. Mi rimangono le vicende amorose del Cavaliere ma sono ormai troppo ripetitive.
La nonna mi avrebbe detto severamente “Ti annoi? Allora studia!”. Prudentemente i nipoti informati della mia minacciata escursione mi fanno prudenziali telefonate per vedere se sia il caso di mettermi in isolamento. Mi telefona Francesca Cappelletti che mi avverte che se avessi deciso di vedere la mostra di Georges de la Tour a Milano i biglietti omaggio erano alla cassa e questo mi rende orgoglioso perché vengo trattato da pari a pari da una delle maggiori critiche d’arte!
Come finirà???? Non so né voglio saperlo fino al 12 marzo data ultima per comprare il biglietto del treno.
Il mio grato pensiero ora va a Francesca del Libraccio che assieme alle sue meravigliose ragazze mi indicano libri, mi sorridono, rendono ancora la libreria l’unico, vero posto di contrasto al vairus per cui, scritto il mio pezzullo, comincio la lettura del romanzo di Eshkol Nevo, L’ultima intervista. Appunto.

PER CERTI VERSI
L’albo delle fotografie

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

L’ALBO DELLE FOTOGRAFIE

L’albo delle fotografie
Alla ricerca di una mia
coi folti capelli ricci
e un cane chiamato Pelé
Apposta la cercavo per te
Perché non c’eri

Vedere gli avi sbiaditi e rigidi
Altri cari in allegra lontananza
L’arrivo del colore
I figli
Gli animali di generazioni
Ancora i figli
La storia scorre
Come il tempo
Ne ho timore
Non c’è antidoto
Forse solo l’amore

Fa Trombone o fa Trombetta?

“Lei non sa chi sono io!”. Non c’è frase che riassuma meglio i vizi del Belpaese. Siamo cambiati, siamo progrediti, ci siamo evoluti negli ultimi novant’anni? No, siamo ancora lì. Ancora al ‘mascellone autarchico’ di cui scriveva l’ingegner Gadda. Ancora inchiodati alle italiche presunzioni messe alla berlina da Ennio Flaiano. Ancora su quel treno, nello stesso scompartimento occupato da Totò e dall’Onorevole Trombetta.
“Lei non sa chi sono io!” – tuona l’Onorevole Trombetta.
“Fa Trombone o fa Trombetta?” – gli ripete Totò.
Così è risuccesso. Non poteva andare diversamente. Scrivo due articoli, sottovoce, usando tutto il garbo e l’ironia di cui dispongo.Uno dedicato all’Onorevole Vittorio Sgarbi [qui] l’altro al Vicesindaco di Ferrara Nicola Naomo Lodi [qui]. Per poi scoprire che entrambi mi hanno dedicato un video (postato sulla loro pagina Fb) in cui me ne dicono di tutti i colori.
Me lo raccontano gli amici. Alla fine, di malavoglia, i due film d’autore li ho visti anch’io, e stringi stringi, il succo è sempre quello di cui sopra: Lei non sa chi sono io! Io ho fatto questo e quello, sono amico di Tizio e Sempronio, ho scritto cento libri e ne ho letti un milione, sono stato eletto di qua e di là, sono andato in tutte le televisioni, sono apparso alla Madonna (come Carmelo Bene). Mentre chi è, chi sarebbe questo Monini? una mosca, una briciola, un niente. Un ragazzino (magari!). Un signor nessuno.
Tanto che mio figlio, diciott’anni, che lui i video comici non se ne perde uno, mi fa: “Ohi pà, ma se non sei nessuno, perché Sgarbi perde 20 minuti per fare un video su di te?”.
Non saprei. Forse perché Vittorio e Naomo lavorano troppo, sono stressati, sono sotto pressione. O perché sono un po’ permalosi. No no, non è colpa loro, è colpa di quel maledetto istinto atavico (e italico), quella tentazione irresistibile, quel riflesso di Pavlov: “Lei non sa chi sono io!”.
Certo che lo so, ma “fa Trombone o fa Trombetta?”

La sindrome del colibrì:
il virus che ha infettato la politica

So che il direttore di Ferraraitalia ha scritto, giustamente, di non voler prendere parte al diluvio informativo che sta accompagnando questo difficile periodo contrassegnato dal tentativo di contrastare il diffondersi del Coronavirus.
Queste righe non vogliono entrare nel merito delle misure prese da Governo e Regioni colpite: troppo severe o sensate? Non ne sono capace.
Anche perché resta forte il dubbio che molte voci che ora puntano il dito su provvedimenti giudicati eccessivi (finiscono per aggravare una situazione economica già di suo sull’orlo della recessione), siano le stesse a gridare contro le istituzioni colpevoli, in caso contrario, di avere preso sotto gamba il problema.
Sono piuttosto i risvolti politico-istituzionali della vicenda a suscitare qualche impressione. Lombardia e Veneto, si sa, sono le regioni colpite per prime in Italia e con il maggior numero di casi. Dunque, i loro governatori si sono trovati in prima linea a dover far fronte alla diffusione dell’epidemia.
Sapendo come ragiona la politica, almeno dalle nostre parti, è difficile trattenere la sensazione che fin dall’inizio le due terre per antonomasia del buongoverno leghista, abbiano voluto dare conferma della loro esemplare amministrazione con provvedimenti pronti, chiari, decisi, efficienti e senza tentennamenti, per mettere le briglie alla diffusione del virus.
Di fronte a un governo nazionale ormai più simile a un morto che cammina, l’impressione è stata quella di prove tecniche di buongoverno, per dimostrare che… se si andasse al voto, meglio prima che poi, il Paese può essere messo in buone mani, senza altri inquilini coi quali scendere a patti.
Se, e sottolineo se, qualcuno ha fatto questi conti, ha dovuto scontrarsi con una situazione ben più complessa che ha finito per vanificare ogni ipotesi di blitzkrieg.
Non si spiegherebbero altrimenti alcune uscite singolari dei governatori Attilio Fontana (Lombardia) e Luca Zaia (Veneto).
Attilio Fontana, come scrive Marco Damilano (L’Espresso 1 marzo), prima paragona la sua regione alla città cinese di Wuhan, da cui tutto e partito, poi di fronte al pericolo paralisi della potente macchina produttiva lombarda cerca di correggere il tiro. Quando, in seguito, indossa in diretta video la mascherina anticontagio, persino Giorgia Meloni ha commentato che se la poteva risparmiare.
Il secondo, Luca Zaia, si è invece prodotto in un feroce paragone fra le normali condizioni igieniche del popolo veneto e i cinesi: Tutti abbiamo visto che i cinesi mangiano i topi vivi.
Non è stato da meno il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, quando, con un accenno che tutti hanno inteso diretto all’ospedale di Codogno, se l’è presa con alcune falle del sistema sanitario lombardo, notoriamente un modello in cima a tutte le statistiche nazionali.
La scivolata istituzionale ha prontamente provocato la reazione stizzita del governatore Fontana, che gli avrebbe dato del ciarlatano.
Come se non bastasse, mentre le borse perdono punti come la nostra Spal e lo spettro recessione è sempre più una dura realtà, Matteo Salvini, pare con la sponda dell’altro Matteo (Renzi), se ne viene fuori con la proposta di un Governo di Unità Nazionale per gestire meglio la crisi (il come non è dato sapere) e accompagnare il Paese a nuove elezioni.
Nel frattempo Giorgia Meloni, da Lilli Gruber, lamenta la totale assenza dell’Europa sull’emergenza in corso. La sovranista, nazionalista, italianissima leader di FdI chiama Bruxelles a battere un colpo? Per carità, è sacrosanto denunciare l’assenza di linee europee per evitare che si chiudano a capocchia i confini, ma proprio da quel pulpito dobbiamo sentire la predica?
Per inciso, dopo narrazioni martellanti secondo cui ondate di virus sembravano venire dai barconi dei migranti, con misure draconiane sui porti tricolori, ora sono proprio gli italiani (per giunta lombardo-veneti) ad essere rifiutati.
Chissà se il cuore immacolato di Maria, il crocefisso e la Madonna di Medjougorie, se la sono legata al dito?
Tanto per restare in area celeste: facevamo volentieri a meno anche del monito di don Livio Fanzaga di Radio Maria, secondo il quale Corona-virus ricorda la corona del rosario. Per farla breve, l’epidemia sarebbe un ammonimento divino a pregare prima che arrivi l’apocalisse.
Intanto che ciascuno è libero di immaginarselo all’inferno, condannato a trascorrere l’eternità in compagnia degli inventori delle statuette da giardino di Biancaneve e i sette nani e degli infissi in alluminio anodizzato, più acqua e molto meno vin santo nel calice della messa è il consiglio che mi sento di dare, spassionatamente.
Tornando fra i comuni mortali, sembra proprio che alla classe dirigente che ci ritroviamo manchi il senso della prudenza. Un elemento che dovrebbe essere suggerito dal fatto che un’emergenza come questa presenta più incertezze che certezze.
Non si spiega proprio la fiducia ottocentesca con la quale ci si ostina a chiedere risposte alla scienza. L’impressione è che si possono consultare tutti i virologi che si vuole, ma una risposta certa sul Coronavirus al momento non c’è. Ci sono tante risposte, ma non ‘la risposta’.
Dovrebbe essere noto che, dopo la sbornia positivista, la scienza è ricerca, processo, non ‘soluzione’. Dal principio di falsificabilità (Popper), a quello di indeterminazione (Heisemberg) e alla relatività (Einstein), il mondo scientifico nel Novecento si è ritirato dall’illusione apodittica ed è entrato nella dimensione probabilistica e delle ipotesi. Quindi, la scienza può continuare a essere utile sul piano dell’indagine razionale, ma non su quello fideistico-dogmatico della risposta univoca e definitiva.
In secondo luogo, il momento della decisione politica – chi fa cosa – cade su un assetto istituzionale nel quale le competenze, da troppo tempo, sembrano distribuite da un ubriaco.
E’ del Centrosinistra la riforma costituzionale del 2001, che ha finito per creare problemi in ordine alle competenze statali e regionali, con un’area di materie concorrenti fra i due livelli istituzionali, fonte di contenziosi e discussioni che tuttora attendono soluzioni.
E’ ancora del Centrosinistra una riforma costituzionale e istituzionale (peraltro fallita nel 2016), con la quale si è inteso semplificare il quadro istituzionale giudicato troppo complesso, composto da Comuni, Province e Regioni. Il risultato di questa furia riformatrice (della quale, naturalmente, nessuno rivendica la firma autografa), è un nuovo assetto, più semplice (?), composto da Comuni, Unioni di Comuni, Agenzie, Città Metropolitane e Regioni. Come se non bastasse, qualcuno ha pure ipotizzato le Aree Vaste, non si è mai capito se come livello istituzionale o non si sa bene cosa.
Terzo: dopo decenni di decentramento, sussidiarietà verticale e federalismo, il risultato finale è che mai come oggi le risorse, frutto dell’imposizione fiscale, sono centralizzate. Tanto che i sindaci sono come i soldati lasciati in trincea senza armi, munizioni e con le suole delle scarpe di cartone.
E il peggio è che chiunque voglia mettere ordine in questo tessuto istituzionale, pare lo faccia più per essere fotografato con la scopa in mano, piuttosto che concentrare l’attenzione sul pavimento che s’intende pulire. Così, sono più le scorie che si lasciano in giro, in un disordine crescente di compiti e di norme che, come le pezze, sono sempre peggiori del buco.
Come se non bastasse, l’emergenza Coronavirus grava su un sistema sanitario falcidiato da anni di tagli a risorse, strutture e personale. L’esempio degli ospedali Spallanzani e Sacco, nei cui laboratori sono stati isolati i virus per mano di ricercatori precari, è la cifra drammatica di un Paese ingrato, che chiede adesso a questi cervelli superstiti e maltrattati di compiere il miracolo.
Se questa, appena abbozzata, è l’istantanea di un Paese disordinato, sfibrato e bombardato, con quali velleità di protagonismo una classe dirigente può pretendere di governare un’emergenza, immaginando d’intestarsi qualsiasi vittoria?
Non sarebbe meglio, data la situazione, scendere dal pero della presunzione e cercare insieme le risposte migliori – non miracoli – nell’interesse comune?
Batta un colpo se c’è qualcuno disposto ad aiutare l’Italia a uscire dalla sindrome del colibrì: un Paese che spreca la gran parte delle proprie risorse per restare immobile.

Ferrara, 29 febbraio 2020

Gaetano Previati e le sue emozioni: luce e ombra in mostra al Castello Estense

Dal buio alla luce, è un viaggio di emozioni quello che offre la mostra dedicata a “Gaetano Previati. Tra simbolismo e futurismo”, in corso nel Castello estense di Ferrara fino al 7 giugno 2020. L’esposizione di un un’ottantina di opere del pittore ferrarese (1852-1920), schizzi e documenti consente di partire dalle atmosfere fumose, scure e allucinate che rievocano il clima della poesia maledettista per arrivare fino alle visioni ampie e solari, dove la luce spazza via il decadentismo romantico e apre i quadri a un’atmosfera piena d’aria e chiarore.
Sala dopo sala, si percorre il cammino di un grande interprete dell’evoluzione artistica che contraddistingue la fine del 1800 e l’inizio del ‘900, attento a rendere stati d’animo e atmosfere in uno stile tutto personale. Grazie all’uso sapiente della tecnica del divisionismo, traghettata in Italia dall’avvento dell’Impressionismo, Previati assorbe le nuove tendenze artistiche che contraddistinguono il periodo storico in cui vive e le fa sue riuscendo anche ad anticipare quella ricerca di dinamismo, movimento e voglia di uscire dal limite imposto dal quadro che porterà poi alla nascita del Futurismo. Non è un caso, infatti, che la sua arte venga tanto apprezzata dal giovane Umberto Boccioni (1882-1916), esponente di spicco del movimento futurista.

“La ferrovia del Pacifico” di Gaetano Previati, 1914-16

Nato Ferrara il 31 agosto 1852 e morto in Liguria (a Lavagna) il 21 giugno 1920, Previati ventenne si trasferisce a Milano per studiare all’Accademia di belle arti di Brera e qui conosce e frequenta gli ambienti della Scapigliatura, che imprimono nel suo stile un carattere di anticonformismo e ribellione, non estraneo inizialmente anche all’attrazione per la trasgressione e al fascino per l’irregolarità e la perdizione. Il colore nero e le terre scure dominano la tavolozza giovanile di Previati, che realizza opere già molto caratterizzate da un segno originale e dalla capacità di avvolgere lo scenario in un involucro suggestivo e, in questa fase, più fosco. Ecco allora le tele con le trasgressive “Fumatrici di oppio” dipinte dall’artista trentenne (1887), ma anche una “Prima comunione” (1884) assolutamente fuori dai canoni, dove la partecipazione delle ragazzine che si accostano per la prima volta al sacramento eucaristico prende toni esoterici di iniziazione.

“Fumatrice di oppio” di Gaetano Previati, bozzetto, 1887
“Hashish o Fumatrici di oppio”, olio su tela, Galleria di arte moderna di Piacenza, 1887

Il cambiamento di rotta e di toni avviene nella piena maturità, a 37 anni, quando Previati dipinge il quadro “Nel prato” (1889-90), non a caso inizialmente intitolato “Pace”. In una lettera, spedita al fratello proprio durante l’esecuzione di questo olio su tela, è lui stesso a dichiarare: “È il mio primo tentativo della tecnica nuova della spezzatura del colore, una tecnica che dà l’impressione di una maggiore intensità di luce”. In scena – come lui stesso spiega in quella lettera – ci sono “una mamma con due bambini su un praticello smaltato di fresca verzura. Nella composizione c’è qualche tendenza al giapponesismo e un sentimento di quiete e di semplicità che mi pare giustifichi il titolo: Pace”.

“Nel Prato (o Pace)” di Gaetano Previati, 1889-90

L’opera ha molte affinità con la “Promenade” che Claude Monet ha dipinto (1875) e con le successive versioni di “Donna con parasole” che l’artista impressionista francese dipinge oltralpe quasi negli stessi anni (1886). Scena analoga si ritrova anche nell’olio su tavola “Tra le spighe di grano” (1873) di Giuseppe De Nittis che addirittura precede Monet, e che si può vedere nella mostra dedicata a De Nittis [clicca sul link per leggere la recensione della mostra ai Diamanti] in questo stesso periodo a Ferrara fino al 13 aprile 2020 a Palazzo dei Diamanti.

“Tra le spighe di grano” di Giuseppe De Nittis, 1873, in mostra a Palazzo dei Diamanti di Ferrara fino al 13 aprile 2020

“Il colore sulla tela dipinta da Previati – fa notare la curatrice della mostra ferrarese Chiara Vorrasi – è disposto a trattini in modo che produca maggiore luminosità e anche il riferimento al Giapponismo, che è elemento fondamentale per l’Impressionismo, dimostra la consapevolezza del nuovo clima artistico in cui si cala. Attraverso il divisionismo e l’intensificazione luminosa, l’artista individua la possibilità di interagire con l’emotività dello spettatore”. Il traguardo a cui Previati arriva è quello di “acquisire e fare sua la cifra distintiva di una pennellata capace di evocare un sentimento, uno stato d’animo o delle visioni trascendenti”.

La tela “Nel prato” esposta nella mostra ferrarese dedicata a Gaetano Previati (foto GioM)

Significativa in questo senso l’opera “L’assunzione” (1903), esposta nella stessa sala del castello riservata al tema della ‘Suggestione luminosa’: qui la luminescenza sulla tela è ottenuta grazie a una pittura divisionista che riesce a trasmettere una sensazione illuminante con una valenza di forte spiritualità.

“L’assunzione” di Gaetano Previati, 1903, Museo dell Ottocento – Ferrara

Tanta luce ancora in una tela di grandissime dimensioni come “Armonia” (1908) nella sala delle opere dedicate a ‘L’ispirazione musicale’: un olio su tela di oltre 1 metro e mezzo di altezza per più di 4 metri e mezzo di lunghezza, dove la luce imprime un ritmo circolare che si diffonde per tutta l’opera, assimilandola all’onda sonora.

La tela “Armonia” nell’esposizione ferrarese dedicata a Gaetano Previati (foto GioM)

“Luce e musica – spiega la curatrice – sono per l’artista forme vitali che permeano il creato; il colore viene usato come accordo e la linea come melodia. La sua idea è quella di trasmettere una sintesi di tutte le arti con le quali avvolgere lo spettatore”. Vicina a quest’opera è esposta la tela dedicata a “Paolo e Francesca” (1909): oltre due metri e mezzo di altezza per quasi altrettanti di larghezza con una forma d’onda che attraversa tutto il quadro avvolgendo i personaggi in un movimento vorticoso che può far pensare a una danza. “La passione – spiega la Vorrasi – produce un dinamismo potente e dinamico e la stortura verticale fa procedere il vortice all’infinito. Previati qui lavora a fluidificare le forme e a dare densità allo sfondo. Annulla la separazione tra soggetto e sfondo come accademia  in certe opere di Munch e in ‘Acqua mossa’ di Klimt”.

“Paolo e Francesca” di Gaetano Previati, 1909

Un altro elemento che Previati fa suo e che è da ricondurre all’arte giapponese è quello della composizione asimmetrica, innovativa rispetto ai canoni della tradizione accademica, e legato proprio all’arte orientale. Significativo in questo senso un disegno come “Discesa nel Maelström” (1888-90) che illustra l’omonimo racconto di Edgar Allan Poe.

“Discesa nel Maelström” di Gaetano Previati, carboncino su carta, 1888-90

Il taglio inusuale rievoca il motivo dinamico e spiraloide della “Grande onda” di Hokusai e restituisce la sensazione di terrore che coinvolge il protagonista risucchiato verso il basso.

“Ugo dona una rosa a Parisina”, 1901, matita su cartoncino (Bper)
“Il ritorno dalla caccia”, 1901, matita su cartoncino (Bper)
“Morte di Parisina”, 1901, matita su cartoncino (Bper)

Molto interessanti anche i disegni dedicati alla straziante vicenda di Ugo e Parisina, realizzati a matita nera su cartoncino (1901). “Non sono illustrazioni – fa notare la Vorrasi – ma scene concepite per essere proiettate a corredo dell’ascolto della musica e dei testi di un melologo dedicato a questo celebre e tragico amore con testi di Domenico Tumiati e musiche di Vittore Veneziani. Proprio alle musiche di Veneziani sarà dedicato un concerto in programma venerdì 27 marzo 2020 dalle 18 alle 20 in Castello a cura del Conservatorio”.

“Tra simbolismo e futurismo . Gaetano Previati”, Castello Estense, largo Castello 1, Ferrara – dal 9 febbraio al 7 giugno 2020, ore 9.30-17.30 con ultimo ingresso alle 16.45, chiuso il lunedì

Il TAVOLO FINALMENTE !
Riparte il confronto per ripubblicizzare il servizio rifiuti

Martedì 3 marzo riprende finalmente il confronto che si tiene al Tavolo partecipativo per lo studio della ripubblicizzazione del servizio di gestione dei rifiuti. Era stato attivato con una delibera del Consiglio Comunale del 22 ottobre 2018, dopo che nei mesi precedenti erano state raccolte quasi 1000 firme di cittadini su una proposta di delibera di iniziativa popolare, promossa da vari soggetti, tra cui l’Associazione Ferraraincomune (ora Il Battito della Città. Il Tavolo partecipativo si era riunito due volte nei primi mesi del 2019, per poi fermarsi con l’approssimarsi della scorsa tornata elettorale amministrativa, e ora, dopo un’inerzia poco giustificabile da parte della nuova Amministrazione Comunale, anche grazie alle richieste reiterate, è stato finalmente fissato  l’appuntamento per riprendere quella discussione.

Lo si farà a partire da un documento predisposto da Atersir, l’Agenzia regionale relativa alla gestione del servizio idrico e di quello dei rifiuti. Tale approfondimento, pur di carattere preliminare, ci consegna una serie di elementi che portano a dire che il percorso di ripubblicizzazione del servizio dei rifiuti nel Comune di Ferrara, sottraendolo ad Hera per affidarlo ad un’azienda pubblica di nuova costituzione, è più che fattibile. Infatti, servono circa 6 milioni di Euro per dar vita a una nuova Azienda Pubblica Comunale, risorse che si possono tranquillamente recuperare tramite l’intervento di Holding Ferrara Servizi Srl, che ha un capitale sociale di circa 81 milioni di Euro e riserve per oltre 7 milioni di Euro.

Sarebbe un’operazione del tutto analoga a quella realizzata a Forlì e in altri 12 Comuni limitrofi, che nel 2017 hanno dato vita alla Spa a totale capitale pubblico Alea Ambiente, con un capitale sociale iniziale di 2 milioni di Euro (che si sta portando appunto a 6 milioni) fornito da Livia Tellius Romagna Holding Spa, la partecipata del Comune di Forlì e altri Comuni della provincia, omologa a Holding Ferrara servizi Srl. E’ ovvio, questa è una valutazione importante, ma non consente ancora una decisione definitiva, che può e deve poggiare saldamente sulla messa a punto di un vero e proprio piano industriale, economico e finanziario della nuova azienda pubblica. E’ questo il passaggio che dovrà compiere l’ Amministrazione Comunale di Ferrara e al quale non penso si possa sottrarre, a meno che non ci sia una volontà pregiudiziale di proseguire in una logica di privatizzazione dei servizi pubblici e di subalternità nei confronti di Hera Spa. il colosso Hera che – sarà bene ricordarlo – continua a gestire a Ferrara il servizio dei rifiuti in un regime di proroga, visto che l’affidamento è scaduto alla fine del 2017.

Ma ancor prima che fattibile, la scelta della ripubblicizzazione della gestione del servizio dei rifiuti – come di tutti i servizi che erogano i Beni Comuni, a partire dal servizio idrico – è quella più utile per rispondere ai bisogni dei cittadini e all’interesse generale. Infatti, operare tale scelta significa almeno affermare 3 questioni di fondo che attengono all’organizzazione sociale e alla convivenza nella città.

La prima questione riguarda scegliere con decisione la strada di un’economia circolare e sostenibile dal punto di vista ambientale, fondata anche sul risparmio, il riciclo e il riuso dei prodotti. Per il ciclo dei rifiuti, significa passare attraverso una forte raccolta differenziata per ridurre il rifiuto non riciclabile e, soprattutto, per la riduzione della quantità dei rifiuti prodotti, obiettivi che si possono realizzare se assunti come priorità e finalità proprie, come può fare una gestione pubblica e non una di carattere privatistico, orientata invece alla massimizzazione dei profitti e dei dividendi. E’ appunto quest’ultimo il caso di Hera, una società mista pubblico-privata quotata in borsa: basti pensare che nel periodo 2010-2018 essa ha, in termini cumulativi, realizzato utili pari a 1 miliardo e 714 milioni di Euro e distribuito dividendi ai suoi azionisti per 1 miliardo e 180 milioni di Euro, pari a circa il 70% degli utili. L’ultimo piano industriale 2020-2023 di Hera mette forte enfasi sul fatto che i dividendi aumenteranno costantemente, raggiungendo nel 2023 un incremento del 20% rispetto al 2018. Di contro, si possono citare i risultati raggiunti dall’azienda pubblica forlivese Alea Ambiente Spa che, ad un solo anno dalla sua nascita, è arrivata all’80% di raccolta differenziata e ridotto del 35% il rifiuto totale prodotto. Intanto, nel 2019, Alea ha avviato all’incenerimento oltre 48.000 tonnellate in meno di rifiuto secco non riciclabile rispetto al 2017.

Il secondo punto rilevante è quello di considerare i Beni Comuni, e quindi i servizi che li erogano, come servizi pubblici a tutti gli effetti, da gestire in una logica di pareggio tra costi e ricavi, senza che su di essi gravi un profitto garantito (cioè una rendita) ai soggetti sche ne sono proprietari. Non a caso, invece, l’impostazione privatistica, che esiste anche nel servizio di gestione dei rifiuti, fa sì che venga riconosciuta la cosiddetta ‘remunerazione del capitale investito’ che, nel caso specifico, riconosce ad Hera, per il servizio svolto nel comune di Ferrara, ben 1 milione e 371mila Euro all’anno, a partire dal 2020. Risorse che non avrebbe senso, se non eventualmente in una fase iniziale, riversare sulla nuova azienda pubblica e che invece potrebbero ritornare ai cittadini sotto forma di riduzione tariffaria.

Infine, terzo ma non ultimo per importanza, una nuova gestione pubblica del servizio dei rifiuti potrebbe rappresentare un’occasione per costruire, anche in quest’ambito, forme di democrazia partecipativa, che vedano il protagonismo dei cittadini e dei lavoratori. Da sempre, infatti, quando si parla di Beni Comuni, l’idea della gestione pubblica va di pari passo con il fatto che essa sia anche partecipata. Si potrebbe, ad esempio, pensare di dar vita (almeno in via sperimentale) ad una sorta di Consiglio di Gestione, con la presenza di rappresentanti dei lavoratori e dei cittadini, che affianchi gli organi di direzione dell’azienda nella definizione delle scelte di fondo su cui strutturare il servizio stesso come nella promozione di comportamenti “virtuosi” per la preservazione del patrimonio ambientale.
Insomma, la ripubblicizzazione della gestione del servizio rifiuti può diventare un tassello importante di un progetto di città innovativa, capace di ricostruire legami sociali e identità collettiva: un progetto – e al fondo di esso, una visione, una direzione politica – del tutto alternativo rispetto all’impostazione dell’attuale Amministrazione Comunale che si poggia, invece, su un’idea di città chiusa in sé stessa e incapace di guardare al futuro.

Nota di redazione: chi volesse ricostruire la storia tutta ferrarese della battaglia civile per i Beni Comuni, e quindi per togliere ad Hera Spa il Servizio Raccolta Rifiuti in favore di una Azienda Pubblica Comunale, può rileggere gli articoli dedicati all’argomento usciti su Ferraitalia: Turismo dell’indifferenziata? Autodifesa di un (buon) cittadino ferrarese contro le fatidiche calotte (settembre 2017) ;  Ferrara città verde non smeraldo (dicembre 2017) ; L’era glaciale. Quale gestione dei rifiuti oltre le calotte? (dicembre 2017)Democrazia e rifiuti. La partecipazione fa paura. (ottobre 2018) ;  Ferrara: rifiuti e democrazia Approda in Consiglio la delibera di iniziativa popolare (ottobre 2018) la battaglia sui rifiuti è appena cominciata E per lo studio di fattibilità serve un ente senza ombre (novembre 2018)

 

Chi osa criticare il Pensiero Unico?

La parola frase ‘Pensiero Unico’ ricorre costantemente nelle rappresentazioni che accompagnano quel che resta di una discussione politica la cui presenza mediatica è inversamente proporzionale alla sua reale capacità di affrontare e risolvere i problemi di vasti strati della popolazione.
Secondo Wikipedia questo termine apparve per la prima volta nel gennaio del 1995 in un editoriale di Ignacio Ramonet pubblicato su Le Monde Diplomatique di cui l’autore era direttore responsabile; all’epoca Ramonet era già un personaggio noto nel mondo della sinistra critica, tra i promotori del Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, oggi docente presso la Sorbona, oltre che membro onorario di ATTAC, l’associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie e per l’aiuto ai cittadini, fortemente avversa alle politiche neoliberiste e chiaramente orientata ai valori della dignità umana e della protezione dell’ambiente.

Ramonet definiva il pensiero unico come “la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale”.Attraverso questo tipo di pensiero erano state già poste le basi per accettare culturalmente il primato dell’economia neoliberista sulla politica, e giustificare il successivo dominio della finanza su entrambe.
Questa filosofia, già fatta propria dai governi conservatori di Margaret Thatcher (dal 1979 al 1990) con il celebre “There is no Alternative” (Non c’è alternativa), troverà altrettanto chiara espressione nel meno noto “Es gibt keine Alternativen” (Non ci sono alternative) del cancelliere social democratico tedesco Gerhard Schroeder, dal 1998 al 2005 alla guida di una coalizione SPD-Verdi decisamente collocata verso un progressismo sensibile alle tematiche ambientali.

Su cosa si fonderebbe dunque questo Pensiero Unico al quale né conservatori né progressisti, né destra né sinistra, riescono a trovare un’alternativa? Sempre con l’aiuto di Wikipedia, è abbastanza facile mettere in risalto alcuni assiomi su cui esso si basa.
I ) L’economia di stampo (neo) liberista fondata sulla crescita illimitata (esemplarmente rappresentata dal PIL) è la scienza che regola e governa la società: la politica e tutte le altre scelte culturali tendono in ultima istanza ad essere assoggettate al potere economico.
II ) Il (libero) mercato è il parametro principale che descrive ogni attività umana e ne regola il funzionamento determinandone il successo o l’insuccesso.
III ) Perché la magica mano invisibile del mercato possa risolvere tutti i problemi, è indispensabile che non esistano barriere allo scambio e al movimento di capitali, merci e persone: bisogna pertanto ridurre la presenza dell’intervento statale, eliminando ogni barriera che limiti il dispiegarsi a livello globale delle libere forze dei mercati.
IV ) Tutti i servizi che erano garantiti dallo Stato Sociale (istruzione, sanità, ambiente, pensioni, tutela per i più fragili, etc.) devono essere affidati quanto più possibile all’iniziativa privata e alla legge del mercato che, sola, ne può garantire la necessaria efficienza.
Si coglie in questi assiomi una tonalità che è, ad un tempo, scientifica (il neoliberismo capitalista è la scienza che governa la società mondiale), messianica (alla lunga il dispiegarsi delle libere forze del mercato risolverà ogni problema su scala planetaria) e religiosa (se le cose non funzionano la colpa è di chi si oppone alle benefiche forze del libero mercato, il male che si contrappone al bene).

La critica al Pensiero Unico così difinito era, appunto, critica a questi assiomi e ai corollari che ne derivano; intendeva, cioè, puntualizzare e mettere in risalto la crescente riduzione del dibattito politico sui temi imposti dall’alto da parte di una cultura e di un élite dominante che, già all’epoca in cui Ramonet scriveva, prendeva l’oscura forma di un inquietante Nuovo Ordine Mondiale che andava sostituendosi a quello bipolare, caduto insieme al Muro di Berlino e al comunismo sovietico. La critica concentrava l’attenzione sugli effetti perversi di un capitalismo neoliberista, senza regole ma violentemente orientato ad imporre con qualsiasi mezzo la sua logica di funzionamento a livello planetario; faceva emergere i pericoli insiti in un agenda politica fissata sempre più spesso da soggetti mai eletti e i cui comportamenti si situavano – oggi più di allora – al di fuori di ogni possibile procedura di controllo democratico. Una critica depotenziata man mano che il Pensiero Unico, inizialmente sostenuto da destra (si pensi alle amministrazioni Bush e all’idea di esportare la democrazia anche con la violenza), veniva a trovare terreno assai più fertile a sinistra (si pensi al globalismo progressista della open society così cara al finanziere Soros).

Non a caso le critiche al Pensiero Unico sembrano oggi molto lontane ed inattuali. Se critica onesta ancora esiste essa, appare debole e impotente, anche da parte di quei rari pensatori e di quegli sparuti settori della società civile che si ispirano ancora al paradigma marxiano. Questa critica (da sinistra) è stata infatti squalificata dal Pensiero Unico Dominante e oggi sembra segregata in un angolo buio, dove viene ormai associata al complottismo, alla produzione di fake news e ai vari termini con cui il pensiero mainstream etichetta e si sbarazza di ogni pur lecito dissenso.
Viene allora da chiedersi se, oggi, esista ancora lo spazio per esercitare una critica autentica che possa essere propositiva e costruttiva, se esista ancora quella tensione genuinamente politica che spinge ad esplorare soluzioni alternative, o se, al contrario, la forza del Pensiero Unico e dei suoi assiomi sia tale da assorbire e ricondurre nell’alveo dei propri scopi ogni apparente deviazione; se sia così diffuso e pervasivo da eliminare alla radice ogni ipotesi che non accetta di essere allineata.

Se prendiamo sul serio l’originaria definizione critica di Ramonet per cui il Pensiero Unico sarebbe “la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale”, viene da chiedersi chi siano oggi, in Italia, i sostenitori palesi ed occulti, chi sano i suoi promotori consapevoli e i supporter inconsapevoli; e d’altra parte chi siano i critici e gli oppositori, ammesso che esistano e che abbiano delle idee democraticamente radicate e realmente praticabili.

Che ruolo hanno, rispetto al Pensiero Unico e alla sua possibile critica, i grandi media, televisioni, radio e giornali? Come si posizionano i vari partiti che si contendono il potere in Italia? Come si colloca la Chiesa di papa Francesco? Che significato hanno, alla luce del pensiero unico, le ONG e i vari movimenti sociali che di tanto in tanto riempiono le piazze? Che futuro sta preparando il dominio ormai trentennale di questa potente narrazione? Esistono ancora delle serie alternative a questa prospettiva unipolare oppure siamo davvero, come azzardava nel lontano 1992 il politologo Francis Fukujama, alla fine della storia?
Su queste domande inattuali, credo, sarebbe bello aprire quanto prima una seria discussione.

Lavatevi le mani
ma andate scalzi
e baciate la terra ferita

Una cara amica mi inoltra una poesia che sta girando sui social. Mi è sembrata molto bella, molto giusta, un piccolo antidoto alla frenesia collettiva che ha portato i media a diffondere il contagio della paura, della insensatezza, della irresponsabilità. Non conosco il poeta, Andrea Melis; l’ho ringraziato per messenger a nome di tutta la redazione di Ferraraitalia. Buona lettura. (Effe Emme).

di Andrea Melis

Lavatevi le mani
ma andate scalzi
e baciate la terra ferita.
Starnutite pure nel gomito
ma leccate le lacrime di chi piange.
Non viaggiate a vanvera
ora è tempo di stare fermi
nel mondo
per muoversi in noi stessi
dentro gli spazi sottili
del sacro e l’umano.
Indossate pure le mascherine
ma fatene la cattedrale del vostro respiro,
del respiro del cosmo.
Ascoltate pure il telegiornale
che finalmente parla di noi
e del più grande miracolo
mai capitato:
siamo vivi
e non ci rallegra morire.
Per ogni nuovo contagio
accarezza un cane
pianta un fiore
raccogli una cicca da terra,
chiama un amico che ti manca
narra una fiaba a un bambino.
Ora che tutti contano i morti
tu conta i vivi,
e vivi per contare,
concedi solo l’ultimo istante
alla morte
ma fino ad allora
vivi all’infinito,
consacrati all’eterno.

La vita fugge et non s’arresta una hora

L’aveva promesso l’amico Monini che Ferraraitalia non avrebbe parlato di Coronavirus [qui] ottenendo la mia completa adesione se non fosse che… il mio Diario ne deve per forza parlare proprio per le ragioni uguali e inverse che Francesco citava. Una specie di maledizione s’abbatte sulla settimana che per me doveva essere scientificamente tra le più importanti dell’anno: la partecipazione al Convegno organizzato a Milano per la mostra Canova-Thorvaldsen, la visita a quelle con ascendenti culturali ‘ferraresi’ vale a dire quella su George de la Tour organizzata da Francesca Cappelletti e quelle su de Pisis e de Chirico. Una vera orgia!

E all’ultimo momento, l’insidioso virus cancella tutto. A Ferrara, mesi di preparazione avevano permesso di organizzare una book presentation al Centro Studi Bassaniani per il 4 marzo, giorno dell’anniversario di nascita di Giorgio Bassani. Anche quella è saltata. Ma l’aura malefica s’abbatte anche su comuni imprese, quali quelle legate alla compera di una nuova macchina del caffè e al provvedere alla rottura di un telefono fax. Contatti trepidanti, ora che ho venduto la macchina, ai drivers che mi avrebbero dovuto portare all’acquisto. Incoraggiato dalla disponibilità, mi reco in un centro specializzato dove scelgo l’oggetto forse più amato da mia moglie ma, misteriosamente, l’infernale macchina si rifiuta di eseguire le sue funzioni, allagando piani d’appoggio e procurandoci preoccupanti nevrosi. Riportata al negozio, funziona superbamente! Alla fine faccio la voce grossa e impongo un cambio con una più cara, mi viene riluttantemente concesso, annullando lo sconto del 40% della precedente.

Ben più complessa la vicenda del telefono/fax. Accompagnato da un carissimo amico, straordinario conoscitore di quegli aggeggi, gagliardamente ci avviciniamo al banco e veniamo tacciati di incompetenza con una smorfia di disprezzo: non ne fanno più! Organizza quindi, il competente, un complesso sistema di comunicazione fax che ora mi produce palpiti d’angoscia perché sbaglio desolatamente tutto. Ma verranno tempi migliori, e trionfalmente vincerò come cantava Pavarotti, fregandomene del virus (forse).

Mi reco al Teatro Comunale domenica mattina, riluttante di affrontare folle, ma curioso del concerto della Chamber Orchestra. Ne sono ripagato a iosa. Tra i più belli degli ultimi dieci anni!! Ma il balletto delle distanze era altrettanto impagabile: i baci si mandavano da lontano, gli abbracci vigorosi che di solito sanciscono il ritrovo sotto il segno immortale della musica tra i musicofili, erano sostituiti da finzioni – quasi fosse un racconto di Borges – mentre sventolando salviettine da mani mi rannicchiavo nel mio posto  il primo della fila) e osservavo due meravigliose bambine nel primo palco di non più di 5/6 anni che accompagnavano la musica, fingendo di suonare il piano sull’orlo del palco e stringendosi voluttuosamente nei momenti più alti alla loro bella mamma. Sono andato (come non potevo?) a congratularmi con quelle fatine e all’uscita tutti, dico tutti, si stringevano mani e si abbracciavano presi dal fascino di quella musica. Altro che coronavirus “Pussa via!”.

Alla sera un grave dilemma: vedere Che tempo che fa, invaso da virologhi e cantanti sanremesi senza pubblico, oppure seguire la nuova puntata della stupenda shop opera La vita promessa? Abbiamo optato per un mezzo e mezzo, il che non ha prodotto gran risultati. E mentre laboriosamente l’intero lunedì lo passo a costruire una recensione comme il faut al volume di Vittorio Emiliani dedicato a suo fratello Andrea, tra i miei più cari e indimenticabili amici, la sera ci affrettiamo al cibo per accomodarci in poltrona a seguire la nostra amatissima L’amica geniale. I commenti seguenti sembrano degni di Dante o del film disneyano dove imperava Crudelia Demon. Tengo per la cattivissima e infelice Lila, mentre trovo goffa e stupidella fino al masochismo (come si fa a concedersi per la prima volta all’orrido Sarratore padre infame e orrendo umarél?) la paciosa Lenù. Non mi capacito come Lila avesse potuto sposare il carnoso Stefano, quindi bene ha fatto a consolarsi con lo snello Nino. Certo che brave quelle due ragazzine diventate attrici nel giro di un anno. Medito di andare in libreria a comprarmi i volumi seguenti della Ferrante, ma mi trattiene un pizzico di dignità purtroppo accademica.

Frattanto seguo con ironia e disgusto le vicende culturali ‘fraresi’. Non commento, ma ribadisco che certe situazioni le hanno volute, anzi, evocate e provocate proprio quella parte politica che ora sta all’opposizione.
Parlo con nostalgia e affetto con l’amica Simonetta della Seta che lascerà il Meis per affrontare un importantissimo incarico in Israele, dove la raggiungerò a settembre per compiere l’ormai mitico viaggio in quello stato. Trepido nel frattempo a organizzare il viaggio a Dublino per visitare i miei nipoti, ma anche a dover decidere le vacanze romane di marzo per il mio compleanno. Certo, se non apriranno la mostra di Raffaello alle Scuderie del Quirinale, le rimanderò.
Dai Coronavirus smettila! Lasciami andare incontro alla bellezza. Sto diventando troppo diversamente giovane! La vita fugge et non s’arresta una hora, cantava quel menagramo di Petrarca. E per farsi sentire, sparge il virus sui suoi amati Colli Euganei.

PER CERTI VERSI
Oltre

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

OLTRE

Sono ansioso di viverti
Oltre l’immaginazione
Delle mani
Il liquore chartreuse dei miei occhi
Versare sulle tue labbra goccia a goccia
Per vederti
Oltre i sogni
Di ballare un’intera notte con te sulla spiaggia
E stretti andare tra le dune
Come due cormorani in amore
Sono ansioso di stare in mezzo a te ovunque
Nella laguna
Sulla seggiola impagliata vuota fuori da una casa vuota
In un villaggio abbandonato dell’Istria
Il blu invaderci più che la Normandia
Ma pacificamente
In pace

Cronaca di una visita alla Biblioteca Popolare Giardino

Classe Seconda della scuola Doro di Ferrara

Nel profilo Facebook della biblioteca [qui la pagina fb con gli orari di apertura e l’aggiormento di tutte le iniziative].si legge: “ La Biblioteca Popolare è nata per volontà di un gruppo di cittadini che hanno deciso di impegnarsi per portare nel quartiere Giardino di Ferrara un servizio che contribuisca a migliorare la qualità dei rapporti tra i cittadini residenti in questa zona della città. Il multilinguismo, tipico della composizione di questo quartiere, viene praticato attraverso la lettura come valore da coltivare e arricchimento per tutta la città.”

I bambini e le bambine di classe seconda della scuola primaria Doro sono andati alla scoperta di questo nuovo spazio cittadino. Incontrando Arianna Chendi, una delle promotrici del progetto, hanno compreso cosa significa essere volontari e cittadini attivi, ma soprattutto hanno ascoltato la storia di  Babayaga e preso in prestito bellissimi libri a loro dedicati.

   

     

 

E le nutrie stanno a guardare

Sulla Provinciale che costeggia il canale rallento la corsa del mio diesel che inquina la pianura, una famiglia di nutrie attraversa lentamente la carreggiata, una di loro mi osserva e a me sembra di intuire il suo pensiero: ” Ah! Ecco uno di quei bipedi stupidi che vanno in giro con la mascherina”. Poi ripenso che la nutria non può avere dei pensieri così articolati, che la nutria non capisce una mazza di virus e mascherine, anzi non distingue le parole virus e mascherine, di più, non distingue nessuna parola, al massimo decifra dei suoni emessi dai componenti della famiglia.

E mentre continuo a dissertare da idiota su esseri umani e nutrie, con le mie poche nozioni di etologia, comincio a pensare che i suoni emessi dalle nutrie servono nel caso di pericolo e sono molto funzionali. Le nutrie con i loro squittii proteggono la loro specie e fondamentalmente, a mio avviso, non scazzano mai; al pericolo rispondono con un comportamento che sicuramente le mette in guardia…tranne i casi in cui si fanno maciullare e investire da bolidi condotti da idioti con mascherine…ma questa è un’altra storia… non divagare con i pensieri… stai scrivendo!!!

Tornando a noi e alle nutrie; trovo così allarmante che le nutrie sfuggano dai pericoli con dei segnali prestabiliti. mentre noi, umani intelligenti, rischiamo di farci ulteriormente male quando un altro individuo ci allarma. Stamane, chiacchierando, mi è sopraggiunto il pensiero atroce che in fondo le nutrie siano più intelligenti degli umani, ovvero, credo che in caso di allarme qualsiasi specie animale tranne l’uomo potrebbe cavarsela. Questo perché gli umani, a differenza delle altre specie, hanno inventato (oltre al mio diesel inquinante) una cosa che ci accompagna dalla notte dei tempi, cioè il MALE. Il male che è in ognuno di noi amplifica le paura e viceversa, anzi (ma il mio pensiero non vale nulla).paura e male vanno di pari passo. In questi giorni ognuno di noi potrà valutare attorno a sé il male che lo circonda: fermatevi e osservate attentamente il vostro prossimo, i discorsi, le smanie, le parole, le frasi. Vi accorgerete della vera natura di chi vi circonda. Il Coronavirus è un dilettante messo a nostro confronto. Carissimi umani, temete il vostro prossimo che fa incetta di mascherine ed evitate d’investire le nutrie.

RETE METALLICA? NO GRAZIE!
A bilancio 400mila euro per ingabbiare Ferrara

Si può scherzare con una bruttissima notizia? Ma sì, a volte è terapeutico, almeno riesci a evitare l’incazzatura. Ecco allora un gioco per i fedeli lettori di Ferraraitalia. Non proprio un gioco, un problemino da risolvere, come nella scuola di una volta.
Niente vasca da bagno senza tappo e col rubinetto aperto che butta acqua. E’ un problema differente. Fate conto di essere il Sindaco di Ferrara (o il Vicesindaco, che a Ferrara conta di più). State facendo il bilancio di previsione. E… miracolo!, vi avanzano in cassa la bellezza di 400mila euro. Vi affacciate sullo Scalone e constatate con soddisfazione i brillanti risultati del vostro primo semestre di governo: ‘la situazione è eccellente’, i cittadini son felici, se la passano e se la spassano. E allora, come impiegare quel tesoretto? A quale tema o necessità potete destinare quella somma?

Mentre ci pensate, vi informo (ma l’avrete letto anche voi) che la settimana scorsa il Sindaco di Ferrara, quello vero, ha anticipato al Carlino  la decisione di mettere a bilancio 400.000 euro per reti metalliche. Per acquistarle e metterle in opera. Il Carlino non è solo un giornale tremendo (o è quello che noi ferraresi ci meritiamo?), ma è colpevolmente superficiale. Riportava la notizia in un trafiletto, senza commento, limitandosi a suggerire che un bel po’ di quella rete metallica verrà probabilmente destinata alla grande area verde attorno al Grattacielo. Beh, non ci voleva un genio per avanzare questa ipotesi, Naomo lo va promettendo da mesi.

Infatti ieri – sempre sul Carlino ma questa volta in un articolo a tutta pagina e titolo su 5 colonne – Il Vicesindaco Nicola Naomo Lodi rilancia il suo progetto e promette: “Chiuderemo i parchi entro la fine dell’anno”. Ok, abbiamo capito, il concetto è chiarissimo. Ma i contorni della faccenda rimangono un po’ vaghi. Ad esempio: quanti metri di verde pubblico verranno chiusi a chiave, quali e quante piazze verranno ingabbiate? Per capirlo occorre rispondere alla domanda delle domande. E cioè: quanta rete metallica si può comprare con 400mila euro?

Qui non siamo al Carlino, qui a Ferraraitalia (poveri ma belli) ci piace far le cose sul serio. Così, ho preso foglio, penna e calcolatrice e mi son messo a far dei conti..
Prima però serviva una ricerca in rete: quanto costa al metro la rete metallica?  Mi si è aperto un mondo! Io, bel ignorante, credevo che di reti metalliche ne esistessero di due o tre tipi. Nossignore, le ditte specializzate forniscono ai clienti un catalogo sterminato. Così, trovo le reti zincate, le reti a maglia sciolta, le reti plastificate, le reti su misura, le reti ‘vivagnate sotto e sopra? (cioè?), le reti elettrosaldate. Perfino le ‘reti pastorali’. Queste mi verrebbe subito da scartarle, poi ripenso al nostro Sottomura invaso dalle greggi. Tutto sommato, possono tornare utili.

La faccio breve, Dopo aver confrontato varie ditte e varie offerte, ho concluso che una rete metallica di buona qualità (propenderei per la rete elettrosaldata), altezza 180 centimetri da terra e completa di paletti metallici, viene a costare dai 10 ai 20 euro al metro lineare. Faccio una media: diciamo 15 euro al metro.
La ‘risoluzione’ del problema è ormai a portata di mano. Basta una semplice divisione: 400.000 (la cifra messa a bilancio) fratto 15 (il costo unitario al metro lineare). Il risultato fa 26.666,66. Cioè a dire che, con quella cifra, Alan e Naomo possono recintare (chiudere dentro e/o chiudere fuori) più di 26.000 metri di parchi, giardini pubblici, piazze e aree verdi.
Siamo al cospetto di un’opera ciclopica, un progetto colossale, un’impresa napoleonica. Pensate che le nostre Mura misurano in tutto sei chilometri (6.000 metri) e che con quel popò di rete metallica si può fare il giro delle Mura quattro volte e passa.

Si può fare di più? Si può pretendere di più da questa volonterosa amministrazione a guida leghista?
Forse sì. Si può andare oltre. Spingersi più avanti. Uscire dalla storia ed entrare nella leggenda. Da esperto, quale ormai mi fregio di essere, mi permetto di dare un consiglio, a titolo gratuito, ai nostri amministratori. Sul mercato (www.trovaprezzi.it) c’è un articolo molto più economico. Più pratico. Più adatto allo scopo. Un rotolo di 100 metri di Filo Spinato Zincato (ottimo prodotto) costa meno di 18 euro. Insomma, con la stessa somma (sempre quei 400mila euro) Naomo Lodi potrebbe sbizzarrirsi, recintare Ferrara per più di 2 milioni di metri. Allora sì che potremo aspirare al titolo di città più sicura d’Europa, una città blindata, il più grande campo di concentramento del terzo millennio..

 

Comunicato del Collettivo LAPS

Da: Collettivo LAPS.

Condividendo in toto il comunicato della Curva Ovest, il Collettivo LAPS si schiera ancora una volta contro la indisturbata, ingiustificata e reiterata repressione che da alcuni anni si sta abbattendo sul Movimento Ultras, e nella fattispecie, sulla Curva Ovest, ancora una volta colpita da 11 ulteriori provvedimenti DASPO, per i NON-fatti antecedenti la partita S.P.A.L.-Parma lo scorso 5 ottobre 2019.

Sappiamo già da tempo che il Movimento Ultras è una sorta di laboratorio di repressione a cielo aperto, dove vengono sperimentate tutte le potenziali “tecniche” di limitazione della libertà personale.

La situazione è chiaramente sfuggita di mano.

E la cosa più preoccupante è che nessuno, NESSUNO, tra i media generalisti o “istituzionali”, o le variegate realtà non-ultras in giro per la penisola, si fa carico di comunicare o anche solo di educatamente e civilmente contestare la incostituzionalità di questo tipo di provvedimenti, basati sulla PRESUNTA INTENZIONE, senza nessun tipo di possibilità di difesa o di contraddittorio, solo e semplicemente in mano a una sola figura, che a sua totale e personale discrezione, emette provvedimenti talmente soggettivi da fare sembrare Re Luigi XIV un libertino abituato a delegare.

In un contesto dove il Potere Esecutivo sovrasta e annichilisce il Potere Giudiziario, vi è storicamente il rischio di una deriva discriminatoria e autoritaria, che mette seriamente a rischio la basilare libertà personale del cittadino, che sia Ultras o no, è ininfluente.

E questo è ciò che sta accadendo.

Ancora una volta ci ritroviamo a domandarci cosa succederà quando le maglie della repressione si stringeranno ulteriormente attorno ad altre realtà sociali.

Sta già succedendo, e non solo al Movimento Ultras. Il cosiddetto DASPO di piazza è lì, ed incombe.

E’ nostro dovere civile e morale non tacere, non abbassare la testa e non accettare in silenzio questa totale e reiterata ingiustizia fondata sul pregiudizio e sulla incostituzionalità.

Collettivo LAPS

Paolo Buttini

Enrico Testa

Silvia Pozzati

Filippo Landini

Daniele Vecchi

Federico Pazzi

Maria Lodi

Lorenzo Mazzoni

Michele Frabetti

Luigi Telloli

Cristiano Mazzoni

Enrico Astolfi

Marco Belli

Nicola Bini

Sergio Fortini

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Finire una storia

I dialoghi della vagina, nella versione A due piazze, riprendono con un confronto fra Riccarda e Nickname: come riuscire a gestire la fine di una storia? Con l’eutanasia o come un freddo sicario che agisce senza il morso del senso di colpa?

N: Vi siete mai trovati nella veste di un killer? Si, uno che deve ammazzare qualcun altro, con il metodo e la freddezza che gli viene richiesta per non lasciare il lavoro a metà.
E al posto di una persona dovete ammazzare una storia. Una storia piena di radici, di legami intricati, che deperisce piano, un lungo malinconico addio, un’agonia lenta ma ondivaga, con questi fugaci lampi di vita passata a pugnalare le vostre euforie. Con quel groviglio nero di nuvole gonfie che vi occupa la bocca dello stomaco e vi taglia il fiato. E vorreste, con una specie di disperazione, trasformarvi in un infermiere della dolce morte, per regalare alla storia la sua eutanasia, con amorevole determinazione. Con un particolare: non avete avuto il consenso di procedere.

R: Caro Nick, il killer ammazzastorie che vorresti essere e l’angelo della buona morte che non riesci a diventare, sono entrambi nelle mani di un tiranno più forte di loro: il senso di colpa che li disarma ancora prima che agiscano. Ecco perchè la storia, già finita ma ancora in vita, va avanti: i sicari diventano loro stessi vittime impotenti e inermi.
Far finire una storia, poi, è anche rivolgere l’arma verso se stessi: si è stati in due a costruirla e a crederci, almeno per un po’. Cercare il consenso a procedere verso l’eutanasia di un rapporto, non credi sia scivolare in un’altra più greve tirannia?

N: Mi aggrappo all’idea che una storia può finire, non fallire. Il fallimento è un concetto totale, retroattivo. Travolge tutto. Mentre invece tutto finisce, anche quello che ha un senso, o almeno lo ha avuto. Passare dal senso di colpa al senso di responsabilità verso le proprie emozioni vuol dire essere presi per pazzi, per irresponsabili. Vuol dire anche essere messi su un piedistallo o tirati giù, e in entrambi i casi essere soli.

R: Accettazione, Nick, accettazione: che falliamo, finiamo, cambiamo. La responsabilità credo sia questa, vedere il limite, il finis terrae dove il cammino di quella storia deve terminare perché oltre non c’è niente e non si può andare. Ma da un’altra parte, sì.

Come vi siete posti nel chiudere una relazione? Avete agito come un killer su commissione o avete protratto un’agonia fino a subirla?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

La gloriosa eco di una vittoria… giunta da mezzo millennio fa

E’ la notte tra il 21 e il 22 dicembre del 1509. Le continue scaramucce tra il Ducato di Ferrara e la Repubblica di Venezia si trovano finalmente di fronte a un culmine decisivo. Da un lato, una prestigiosa potenza culturale; dall’altro, una superpotenza marittima, che parte in vantaggio: gioca quasi in casa, nel proprio ambiente naturale. Chi avrà la meglio in questa battaglia sull’acqua?

Quattro lunghe giornate, da giovedì 20 a domenica 23 febbraio, hanno visto protagonista il Palio di Ferrara con il tradizionale Carnevale degli Este, rievocazione storica del carnevale rinascimentale che prendeva vita in una delle più importanti capitali culturali dell’epoca. La Corte di Ferrara, al tempo degli Estensi, era infatti conosciuta nel mondo come l’espressione di bellezza più alta nel campo delle arti figurative, architettoniche e letterarie. Le amate Contrade della città si sono fatte teatro di gioiosi momenti per gente di tutte le età, persone accomunate dal desiderio di rivivere le feste conviviali che avevano luogo a Ferrara nel Quattrocento e Cinquecento. Ma ogni luogo ferrarese, al chiuso e all’aperto, ha avuto modo di respirare, grazie a mille occasioni diverse, il particolare carnevale che la città da secoli propone, con la partecipazione anche di compagnie teatrali provenienti da fuori provincia e fuori regione, nonché di studiose e studiosi locali e nazionali e del Conservatorio Statale di Musica ‘G. Frescobaldi’. Il tema dell’anno è dedicato ai “fratelli trionfanti” Alfonso e Ippolito d’Este, eroi e artefici della battaglia della Polesella, celebrati in due giorni di eventi pure al Museo Archeologico Nazionale. La storica e inaspettata vittoria, raccontata dalle fonti come un’impresa portata a termine da semplici fanti e di cui nemmeno gli Ottomani erano capaci, è stata festeggiata sabato mattina con visite guidate ai soffitti affrescati di Palazzo Costabili, con l’accompagnamento del Gruppo Archeologico Ferrarese in abiti storici: proprio Antonio Costabili fu infatti protagonista del fortunato evento. La mattina successiva, invece, spazio alla poesia: sì, perché se le autorità veneziane optarono inizialmente per una poco efficace strategia del silenzio, la casata estense diede piuttosto il massimo risalto a quella che venne definita la vittoria “più memorabile di tutti i secoli”, non a caso più volte ricordata nel poema ferrarese per eccellenza, ‘L’Orlando furioso’ di Ludovico Ariosto. Largo ai più piccoli, poi, nel pomeriggio della domenica, chiamati a recarsi al palazzo dell’ambasciatore Costabili per fare festa e divertirsi costruendo una maschera rinascimentale, con l’aiuto delle volontarie e volontari del Gruppo Archeologico.

Il Carnevale è una delle feste tipiche italiane tra le più apprezzate nel mondo. In ogni territorio ci si traveste dai personaggi caratteristici della tradizione, intrinsecamente legati alle geniali innovazioni italiane della Commedia dell’arte e del teatro di figura, dando vita a un mondo alla rovescia dove tutto è permesso e nulla è impossibile. Come fermare il tempo al Rinascimento: a Ferrara, tutti gli anni, accade anche questo.

 

Museo Archeologico Nazionale di Ferrara
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Perché Ferraraitalia non parla del Coronavirus

 “E’ il capitalismo ragazzo”, la bomba Coronavirus sembra il frutto avvelenato – l’ultimo, il più brutto – di un Sistema Economico Unico, ubiquo, che comanda il mondo e ci comanda. Nato in Cina, il virus ha viaggiato velocissimo: Corea, Giappone, Iran…  Subito dopo è sbarcato (ma i barconi non c’entrano) in Europa. In Italia, il paese europeo con più scambi con la ‘Terra di Mezzo’, siamo quasi al bollettino di guerra: aumentano i contagi, si contano i primi morti, si moltiplicano gli allarmi e i divieti. La paura rischia di mutarsi in panico.

Che dovrebbe fare un giornale, anche un piccolo giornale come il nostro? La risposta sembrerebbe elementare: dovrebbe ‘fare il suo mestiere’: informare. raccontare, intervistare, commentare… Del resto, ‘l’argomento Coronavirus’ si presta a tutti gli approcci, a tutti i generi giornalistici: dal titolo a caratteri cubitali alla cronaca e alla polemica di piccolo taglio, dal commento paludato all’immagine toccante, dal corsivo pungente alla vignetta dissacrante.  Ce n’è (ce ne sarebbe) per tutti i gusti. Perché, da sempre, le disgrazie sono una vera manna per i media. Più grande è la disgrazia, più aumentano le vendite, più l’audience si impenna.

Ferraraitalia non parteciperà al banchetto mediatico. Non parleremo di Coronavirus. Per due ragioni.

La prima. Perché in Italia i media, tutti i media – dalla televisione, alle radio, ai quotidiani di ogni ordine e grado, ai social media, fino ai più sperduti siti e blog della Rete – stanno dando oggi uno spettacolo indecoroso. Non è vero che informano, non è vero che fanno servizio ai cittadini. Fanno il contrario, come si dice, ‘ci inzuppano il biscotto’.  Forse molti bravi colleghi, molte testate di grande tradizione, non se ne rendono nemmeno conto, ma la realtà è questa. Guardate un telegiornale qualsiasi: dopo qualche parola di un ministro o di un politico a caso (“E’ tutto sotto controllo”) e due battute di un esimio virologo (“Non bisogna cedere al panico”), comincia una lunga serie di ‘servizi sul campo’, di immagini shock, di facce impaurite, di piazze deserte, di supermercati presi d’assalto.

Oggi il nostro sistema mediatico produce confusione, non informazione. Non offre notizie ma semina, coltiva e amplifica il panico. E’ lui il primo, inconsapevole e potentissimo veicolo di contagio.

La seconda ragione per scegliere il silenzio. Perché la situazione è davvero grave. Perché siamo entrati in un tunnel (chiudono fabbriche, mercati, scuole, università) e non sappiamo quando potremo uscirne. Non ce la caveremo in qualche settimana, forse neppure in qualche mese. E gli unici che possono e devono parlare, che devono dirci cosa fare e non fare, sono gli enti preposti a farlo. Il Ministro della Salute, il Presidente della Regione, il Sindaco della nostra città. E le autorità sanitarie, il Servizio di Igiene e di Medicina preventiva della Unità Unità Sanitaria Locale. Per fortuna il nostro sistema sanitario è il più avanzato, competente e democratico del mondo.

Non ha senso, anzi, è sbagliato, confusivo, pericoloso, aggiungere mille voci, mille Grida, mille notizie (vere e false), mille suggerimenti (spesso incompetenti) alle linee guida e alle disposizioni delle autorità preposte.

Amiamo esercitare il dubbio (è uno dei compiti di qualsiasi organo di informazione), quindi le Autorità Competenti non ci hanno mai appassionato. Ma su questo quotidiano troveranno spazio ed evidenza solo i loro comunicati. In questo momento, il momento in cui dobbiamo far funzionare il cervello e  non riempirci la pancia con un polverone mediatico, sul Coronavirus solo loro hanno diritto di parola. Almeno su Ferraraitalia. Ci sarà tempo, dopo, finita l’emergenza, per tutti i racconti, tutte le obiezioni, tutti i commenti.

Con un’ultima raccomandazione, la stessa che mi ripeteva una nonna che tanto amava le sentenze: “Non val l’insegnamento se non c’è il discernimento”. E cioè, le linee guida, le disposizioni provvisorie, le istruzioni per l’uso che ci vengono impartite dalle autorità di cui sopra, non sono ordini da eseguire come automi. Ognuno di noi deve leggerle e interpretarle secondo scienza e coscienza. Perché la responsabilità individuale non ce la toglie nessuno, e anche dal Coronavirus, come da qualunque guerra, ne verremo fuori tutti insieme. O non ne verremmo fuori per niente.

 

 

QUERIDA AMAZONIA

Querida Amazonia (Cara Amazzonia, QA) è il titolo dell’Esortazione Apostolica firmata da papa Francesco e datata 2 febbraio.È il documento pontificio attesissimo, dopo il Sinodo dei vescovi svoltosi a Roma fra il 6 e il 27 ottobre 2019. Attesissimo perché il Documento Finale dell’Assemblea Sinodale (DFAS), intitolato “Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale”, ha attirato una forte attenzione mediatica, e non solo.
In particolare, il dito è stato puntato da molti sul punto n.111 del documento, dove viene messa nero su bianco la possibilità di ammettere al sacerdozio i diaconi sposati (viri probati) e le donne al diaconato.
Un’istanza motivata dalle specifiche esigenze pastorali del vasto contesto amazzonico in relazione alla celebrazione dei sacramenti (e segnatamente l’eucaristia), a causa della scarsità di preti.
Però, se si legge per intero l’Esortazione pontificia, non si trova alcun accenno alla questione sollevata.
A caldo, si è detto e scritto di una brusca e, per certi versi, inattesa frenata di papa Bergoglio.
È principalmente dagli ambienti progressisti che si fatica a nascondere una certa delusione per un passo in avanti che, questa la lettura, il papa non si sarebbe sentito di fare.
Lo storico Daniele Menozzi, per esempio, in un’intervista a Il manifesto (13 febbraio) ha dichiarato: “Il papa prende atto che in questo momento gli equilibri ecclesiali non consentono di realizzare i mutamenti che gli hanno chiesto i settori ecclesiali cui pure si mostra simpatetico”. “Probabilmente – continua – è la costatazione del limite invalicabile cui è giunto il suo governo e un passaggio di consegne al successore”.
Dunque, i motivi di questo stop parrebbero due.
Da una parte, disinnescare il pericolo scisma, parola che durante l’attuale pontificato sta serpeggiando insistentemente, alla luce della distanza crescente fra l’esigenza di riforme impressa dal papa venuto dalla fine del mondo e il fronte tradizionalista, irrigidito sul pericolo di indebolire i punti fermi di una tradizione secolare che ha sorretto l’unità della Chiesa di Roma.
Dall’altra, la consapevolezza del pontefice che realizzerebbe di avere di fronte a sé un orizzonte temporale non sufficientemente lungo, per continuare il proprio cammino riformatore.
Eppure le reazioni a caldo non sembrerebbero esaurire le possibili letture di Querida Amazonia.
Non sono in pochi a valutare il peso tutt’altro che trascurabile dei primi paragrafi dell’Esortazione. Vale la pena ripercorrerli.
Al n. 2, con riferimento al Documento Finale dell’Assemblea Sinodale (di seguito DFAS), si legge testualmente: “Non intendo né sostituirlo né ripeterlo”.
Al n. 3 Bergoglio aggiunge: “Nello stesso tempo voglio presentare ufficialmente quel documento”.
Infine, al n. 4: “[…] che tutta la Chiesa si lasci arricchire e interpellare da questo lavoro, che i pastori, i consacrati, le consacrate e i fedeli si impegnino nella sua applicazione”.
Finora è successo che i documenti finali dei Sinodi lasciassero il posto ai pronunciamenti definitivi del papa sulle questioni sollevate. Tanto è vero che, in gergo ecclesiastico, sono stati chiamati “documenti sacrificali”.
Così non è successo con Querida Amazonia, che fin dal suo esordio, apre una strada ecclesiale del tutto inedita e per certi versi spiazzante.
Per questo, forse, se i progressisti non festeggiano, nemmeno tradizionalisti e ultraconservatori stanno stappando bottiglie di spumante.
Per prima cosa il DFAS rimane vivo anche dopo la parola del papa.
Novità assoluta, a quanto pare, che durante la conferenza stampa di presentazione di QA, ha fatto dire al segretario speciale del Sinodo, il cardinale gesuita Michael Czesny, che in questo modo ci sono due documenti e quello sinodale mantiene “una certa autorità morale”.
Compreso, dunque, il n. 111, verrebbe da dire.
Stessa cosa dice Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica: “L’Esortazione non supera il Documento finale”.
Si potrebbe aprire una parentesi commentando che solo i gesuiti, per formazione e prassi secolare, riescono a trasformare un pertugio in un’autostrada a otto corsie.
In secondo luogo, è rimasto deluso anche chi si aspettava definizioni, dottrina e soluzioni, nella più ortodossa tradizione ex cathedra, da un papa che fin dalla sua prima Esortazione (Evangelii Gaudium, 2013) ha detto, invece, di voler innescare processi, più che dare risposte e che il tempo è superiore allo spazio.
Un incedere che, coerentemente declinato alla circostanza, sembra voler dire che se la Chiesa deve essere sinodale, allora lo sia fino in fondo, senza più definizioni e formule calate gerarchicamente dall’alto, perché vanno cercate e trovate insieme.
Anche il fatto che Querida Amazonia sia stata presentata dalla basilica di San Giovanni in Laterano, sede episcopale del papa, anziché da San Pietro, non sarebbe un caso.
Pare anche smentita la tesi secondo la quale è andato a bersaglio il libro del cardinale Sarah Dal profondo dei nostri cuori, con un contributo di Joseph Ratzinger (papa emerito), pubblicato con tempistica sospetta per blindare il sacerdozio celibatario e prevenire eventuali fughe in avanti. [sulla vicenda vedi qui mio articolo precedente] Iniziativa editoriale che in realtà, così trapela dalla Santa Sede, non avrebbe influito sulla ‘frenata’ di Bergoglio, perché QA sarebbe stata pronta già a dicembre.
Stando così le cose, restano comunque in sospeso diverse questioni: dalla (possibile?) inaugurazione di una vera e propria svolta nella gerarchia delle fonti ecclesiali, fino al fatto che, com’è stato detto, “Roma non locuta, causa non finita”, con tutte le conseguenze del caso.
Se, da un lato, la strada aperta da Bergoglio prefigura uno stile sinodale da percorrere fino in fondo in modo non più gerarchico ma comunitario, dall’altro c’è chi fa presente il rischio che manchi una direzione di marcia.
A luci, ombre, punti interrogativi e letture diverse, rispetto a un documento che si presenta come una lettera affettuosa (Cara Amazzonia) piuttosto che un insegnamento calato dalla cattedra, si aggiungono poi le perplessità di esperti che rilevano la debolezza teologica di alcuni passaggi: dalle porte chiuse al sacerdozio femminile, per non ‘clericalizzare’ le donne, fino alla correlazione degli uomini a Cristo e delle donne a Maria (100-103).
Una cosa è certa: papa Bergoglio sembra proprio destinato a tenersi alla larga dalle secche dell’indifferenza.

 

DOPOELEZIONI Appello da sinistra alla Sinistra:
“Non basta aggiornare i programmi, occorre una grande visione capace di interpretare il mondo nuovo in cui viviamo”

Testo integrale dell’appello

Siamo persone di sinistra che hanno contribuito alla vittoria di Stefano Bonaccini nelle elezioni del 26 gennaio in Emilia Romagna. La destra, egemonizzata dall’aggressività di Matteo Salvini, è stata sconfitta. E’ un risultato importante che va considerato non un punto di arrivo, ma di partenza per innovare contenuti e personale politico e amministrativo. Se non si procede con coerenza su questa strada, si sarà trattato solo di un rinvio di una sconfitta più generale ad opera di una destra che resta forte e pericolosa nella nostra regione e nel Paese.
1Non siamo iscritti a nessun partito, ma guardiamo con interesse al cambiamento annunciato dall’attuale segretario del Pd Nicola Zingaretti che ha vinto le primarie con la parola d’ordine: dobbiamo cambiare tutto! Martedì 11 febbraio, in una iniziativa pubblica molto partecipata e appassionata, Gianni Cuperlo, uno dei massimi sostenitori del nuovo corso, ha ribadito che il cambiamento ha senso solo se aperto a chi è fuori e da fuori attende segnali per allargare il campo del centro-sinistra. Di conseguenza, sono indispensabili una chiarificazione valoriale e un’innovazione radicale nei metodi dell’azione politica per riconquistare la fiducia degli elettori e battere la destra.
2 – Un grande dirigente storico della sinistra italiana, Vittorio Foa, in uno dei suoi ultimi interventi all’inizio della lunga stagione negativa della sinistra italiana ed europea disse: “Se vogliamo che le cose migliorino dobbiamo pensare che possono migliorare: la scelta è fra un mondo di possibilità e un mondo di fallimenti”. E’ in momenti cruciali come l’attuale, per il presente e il futuro della sinistra, che è richiesto ad ognuno di concorrere ad uno sforzo di analisi e di proposta per passare dalle parole ai fatti. Con questa intenzione ci proponiamo di fornire qualche spunto di riflessione. Nella costruzione di un nuovo campo largo e plurale non hanno diritto di parola solo i soggetti organizzati, ma anche singole persone che vivono da anni immerse nel travaglio di una sinistra culturalmente subalterna, politicamente in difficoltà, impaurita dai cambiamenti.
3 – Siamo disgustati dallo stucchevole teatrino della politica in cui si alternano politici capaci solo di inseguire visibilità e ambizioni personali. Siamo stanchi di una sinistra che, limitandosi a criticare il pericoloso populismo della destra, ha finito con il distaccarsi dalla società reale fatta di persone che soffrono per la mancata risposta ai bisogni materiali (al primo posto il lavoro) e alle domande di ideali e valori praticati. La cosa peggiore per la sinistra non è perdere le elezioni, ma perdersi. Il Pd annuncia un congresso nazionale di cambiamento radicale. Cosa vuol dire? C’è la consapevolezza che alle spalle di questo proposito ambizioso c’è una lunga sequenza di sconfitte, delusioni, occasioni mancate? C’è la consapevolezza che questa volta bisogna fare sul serio se non si vuole seppellire per molto tempo nelle menti e nei cuori una ragionevole speranza di nuova vita a sinistra? Siamo convinti che le sconfitte della sinistra e la sua incapacità di governare in modo alternativo alla destra siano derivate da un deficit di conoscenza e partecipazione nelle decisioni. Da troppo tempo la sinistra non è riuscita a leggere e interpretare il presente. Un presente che rappresenta una cesura storica rispetto al secolo precedente. Per questo essenziale motivo siamo convinti che non basta più aggiornare i programmi. Essi sono destinati a restare lettera morta, se non c’è qualcosa che viene prima dei programmi. Ci riferiamo alla necessità di una grande visione capace di interpretare il mondo nuovo in cui viviamo. Qualcosa, ovviamente, di molto diverso dal pensiero con il quale la vecchia sinistra interpretò il Novecento, ma con la stessa ambizione e vastità di orizzonte che permise, nei suoi momenti migliori, di costruire un ‘sentire comune’ e di tradursi in messaggi chiari suscitando convinzioni, lotte, speranze. Il risultato fu la creazione di una vasta comunità di persone che realizzò conquiste sociali e di civiltà ancora oggi importanti da difendere e allargare in un’ottica inclusiva. In questi decenni ha trionfato un ‘pensiero unico’ che ha fatto credere che non esistono alternative ad uno sviluppo che produce disuguaglianze sociali crescenti, conseguenze ambientali devastanti e quello che Giacomo Leopardi chiamava il ‘pestifero egoismo’. Radicale è la sostanza del compito che ci sta davanti in Italia ed in Europa. E’ indispensabile mettere il Paese in condizioni di completare la sua ‘europeizzazione’ ed è necessario rilanciare un’Europa in cui la coesione sociale si regga sul rispetto dell’eguaglianza dei diritti e dei doveri, della solidarietà sociale e delle libertà delle persone. E per fare questo è prioritario riscoprire la politica come un’impresa collettiva che metta fine alla frustrazione delle solitudini di massa.
4 – Sono stati compiuti errori gravi in questi anni a sinistra, ma capire gli errori compiuti non è sufficiente se questa comprensione resta passiva, ossia se non è accompagnata da una persuasione che si concretizzi in un rinnovato protagonismo creativo, fattivo, appassionato. In estrema sintesi la domanda che ci assilla è questa: come si rimotiva un impegno, una militanza politica e morale adeguata ai tempi nuovi in cui viviamo? Non certo ripetendo stancamente elenchi di obbiettivi e buone intenzioni. Una nuova politica della sinistra non si fa strada da sé, per pura autoevidenza. Ogni vera innovazione richiede la modificazione di tutti i termini e dei loro rapporti reciproci: progetto culturale e valoriale; programma politico e sociale; modello di organizzazione; formazione e selezione di un nuovo personale politico competente e credibile. Decisiva è la coscienza che tutto si tiene. Se l’intenzione manifestata dal Pd di aprirsi è sincera, bisogna sapere che non sarà un’operazione indolore per le nomenclature e gli apparati che nei territori sono stati responsabili in questi anni del distacco e della lontananza dalle questioni brucianti che hanno interessato larghi strati popolari e di ceto medio: il lavoro e i suoi diritti; la crescita e la sua sostenibilità; la sicurezza e la vivibilità delle città; l’inclusione e la giustizia sociale; il legame sociale e la solidarietà. In ultima analisi, bisogna costruire una comunità larga e plurale di persone dove la speranza vinca l’indifferenza, l’apatia e la sfiducia.
5 – A Ferrara il risultato delle regionali ha confermato una preoccupante supremazia della destra leghista. A fronte di un piccolo recupero in città, registriamo risultati catastrofici nella provincia. Per questo motivo, a Ferrara, è emergenza assoluta. Insieme alla elaborazione di un progetto politico e culturale alternativo alla destra è necessario preparare per tempo una nuova classe di dirigenti politici e di amministratori. Al confronto elettorale tra quattro anni bisogna presentarsi con volti nuovi e personalità capaci e autorevoli. A questo riguardo, dai risultati positivi delle elezioni del 26 gennaio nella nostra regione è scaturito un segnale di forte rilevanza politica e morale. Le oltre 22.000 preferenze raccolte da Elly Schlein sono la conferma di una domanda di cambiamento di idee e di persone. Teniamo presente questa lezione nella nostra città, per risalire dal baratro in cui è precipitata con la vittoria di una destra egemonizzata da figure arroganti e prepotenti. Bisogna assolutamente evitare di arrivare a ridosso della prossima scadenza elettorale senza aver preparato nuove soluzioni per poi sentirci dire che non si può fare altrimenti che accettare il meno peggio. Per una volta cerchiamo di prepararci al meglio e per il meglio.
Firme
1 – Alebbi Vanna
2 – Alessandrini Nicola
3 – Andreatti Giuliana
4 – Atik Adam
5 – Baratelli Fiorenzo
6 – Barbieri Roberta
7 – Bertone Annamaria
8 – Boari Francesca
9 – Bondi Loredana
10 – Bordini Maria
11 – Cappagli Daniela
12 – Carantoni Cinzia
13 – Carpeggiani Daniela
14 – Chiappini Alessandra
15 – Cuoghi Tito
16 – Dalloca Sergio
17 – Dall’Olio Roberto
18 – Faccini Giuseppe
19 – Faustini Corrado
20 – Fioravanti Giovanni
21 – Franchi Maura
22 – Gambi Silvano
23 – Grandi Enrico
24 – Grisanti Anna Maria
25 – Gessi Sergio
26 – Grossi Alessandro
27 – Guerrini Umberto
28 – Lupetti Sergio
29 – Magnani Gianpiero
30 – Mambriani Paola
31 – Mandini Stefania
32 – Marchetti Lucia
33 – Marzola Roberto
34 – Milani Mario
35 – Mori Antonella
36 – Orlandini Mauro
37 – Pancaldi Maurizio
38 – Passarotto Nicola
39 – Pedretti Daniele
40 – Piacentini Annalisa
41 – Piva Stefano
42 – Pusinanti Cinzia
43 – Seragnoli Daniele
44 – Soddu Sergio
45 – Stefani Piero
46 – Stefanini Milena
47 – Tassi Carlo
48 – Trondoli Adriana
49 – Turchi Marco
50 – Venturi Gianni
51 – Venturi Ivana
52 – Viel Clelia

Al grottesco non c’è limite

Da: Mario Zamorani.

Grotteschi Lupi Mannari si arrampicano sugli specchi con evidente effetto comico.
In data 18 febbraio è stato presentato un Question time da Benito Zocca, presidente del Gruppo consiliare Lega. Si dice che “in data 9 febbraio il Signor M.Z., noto esponente politico ferrarese, posizionava un banchetto per una raccolta firme ecc. …”, sostanzialmente, si dice, in posizione illegale. Poi si chiede “alla Giunta … quali provvedimenti intenda adottare nei confronti del signor M.Z.”.
Sulla stampa cittadina si scrive che avrei avuto la contestazione di una sanzione amministrativa di 170 euro per questo motivo. Allo stato non mi risulta. A questo proposito v edi oltre le parole del Direttore Generale.

Rispondo:

1. Mi chiamo Mario Zamorani e non ho mai nascosto la mia identità: perché mai definirmi M.Z. e per di più in un atto ufficiale? Quell’atto ha validità? Quanto meno induce al sorriso: sembra un atto da sprovveduti, da dilettanti allo sbaraglio.

2 . Il mio permesso, rilasciato a nome dell’associazione fe-nice, è stato concesso “sul marciapiede dell’ex palazzo della Ragione”. Noi eravamo davanti all’ex palazzo della Ragione ma lì erano posizionate 3 grandi automobili (come spesso avviene) e per questo motivo forse, ripeto forse (non dispongo di documentazione fotografica), il tavolo era giusto qualche centimetro fuori dal marciapiede. Faccio presente che in quel punto il confine fra marciapiede e carreggiata, che sono allo stesso livello, è quindi quasi indistinto.

3 . Il capogruppo Lega, signor Benito, davvero non ha di meglio da fare? Non è che esegue direttive?

4 . Quando il tavolo era allestito il signor Lodi, vicesindaco, passò a noi vicino e fedele alla sua nomea di sceriffo ci fotografò.

5 . Mentre eravamo in piazza nessuno ci contestò alcunché. Non un vigile urbano, non pubblico ufficiale e neppure un comune cittadino.

6 Dopo ripetute richieste tutte protocollate senza esiti, f eci una decina di sit-in per avere da Fabbri, il sindaco, una risposta alla mia contestazione di un tavolo illegale della Lega (con foto) sotto il Volto del Cavallo. A lungo non rispose, violando Stat ut o e apposito Regolamento comunale, poi a distanza di vari mesi mi arrivò una risposta firmata dal Direttore Generale Sandro Mazzatorta. Fra le altre cose diceva che il permesso della Lega era stato concesso “fra Corso Martiri della Libertà e Via Cairoli”, che “la presenza di un tavolo sotto il Volto del Cavallo rappresenterebbe una indubbia violazione della concessione amministrativa”, e “… Tuttavia non esiste un verbale di accertamento della presunta violazione a cui Lei fa riferimento e, dunque, manca il presupposto per attivare il procedimento s a nzionatorio. L’accertamento di una occupazione “abusiva” va effettuato con la constatazione da parte di un pubblico ufficiale.

7 . Faccio presente che il tavolo illegale della Lega da me denunciato era a d almeno cento metri di distanza dal luogo che era assegnato allo stesso. Per altro era sotto il Volto del Cavallo, luogo esplicitamente e rigorosamente interdetto ai tavoli dei partiti. E forse, ripeto forse, il mio (permesso per una associazione) era a pochi centimetri dal luogo assegnato (e con il marciapiede con 3 grossi autoveicoli che intralciavano non poco il passaggio). Il Question time di cui parlavo fa proprio riferimento alla mia precedente denuncia con il titolo “Q-T in merito all’incongruenza tra il dire e il fare”.

8. L’effetto complessivo è grottesco. E anche involontariamente comico. Pare sotto la regia del vicesindaco. Viene spesso da pensare che si sia toccato il fondo, ma non è mai così, almeno a Ferrara, in questi tempi .

Cordiali saluti.

Tre storici Assessori alla Cultura contro il monopolio Sgarbi:
non buttiamo via un grande patrimonio culturale, non roviniamo il nome di Ferrara.

di Alberto Ronchi, Francesco Ruvinetti, Massimo Maisto

Lettera Aperta al Sindaco di Ferrara

L’attività, riconosciuta a livello internazionale, delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea del Comune di Ferrara e di Ferrara Arte, attività che, sia pur in tempi diversi, abbiamo conosciuto in modo approfondito nei ruolo di Assessori alle Politiche Culturali del Comune, è stata costruita, si è sviluppata e ha coinvolto almeno tre generazioni di cittadini.
Essa si è basata essenzialmente sulla produzione e organizzazione di mostre originali con collaborazioni e prestiti nazionali ed internazionali; la crescita di un personale specializzato in ogni settore, dallo studio e ideazione all’allestimento, dall’accoglienza del pubblico allo sviluppo della biglietteria e del bookshop, fino alla preziosa attenzione per le attività didattiche; la pubblicazione di cataloghi originali editi da una propria casa editrice con importanti interventi di esperti, ancora una volta, nazionali ed internazionali.
Le tre direzioni che si sono succedute dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso ai giorni nostri – Farina, Buzzoni, Pacelli – hanno certamente espresso modelli culturali e organizzativi diversi che, a volte, hanno suscitato vivaci dibattiti in città, ma sempre, in ogni caso, hanno garantito, ognuno a modo loro, la ricerca, la qualità e l’originalità delle mostre proposte.
Questo lungo lavoro ha portato Ferrara ad essere riconosciuta come una delle città più importanti nel panorama nazionale sul versante espositivo e, di conseguenza, ha fatto crescere in modo esponenziale il turismo con fondamentali ricadute economiche.

Proprio in queste settimane sono in corso due mostre che confermano e raccontano quanto stiamo descrivendo. De Nittis e la rivoluzione dello sguardo è una splendida esposizione che, collegando il lavoro del pittore di Barletta alla nascita della fotografia e del cinema, rivela aspetti inediti nell’opera dell’artista.
La collezione Franco Farina. Arte e Avanguardia a Ferrara 1963/1993 è incentrata sull’inizio di un percorso prestigioso che, con Man Ray, Andy Wharol, Robert Rauschenberg – solo per citare alcuni degli artisti presenti in città all’inaugurazione delle loro personali – ha imposto Palazzo dei Diamanti all’attenzione della critica e del pubblico. Presente e passato, certamente diversi, ma sempre caratterizzati dall’originalità e dalla qualità delle proposte.
La nuova Amministrazione e il nuovo Sindaco, dopo aver assicurato continuità a questa fondamentale esperienza, hanno, di fatto, completamente cambiato rotta. Dopo la nomina dell’On. Vittorio Sgarbi a Presidente di Ferrara Arte, hanno decapitato la struttura non confermando, come direttrice, Maria Luisa Pacelli, nonostante gli ottimi risultati ottenuti, e non prevedendo una nuova nomina in questo ruolo. Lo stesso debordante Presidente ha attaccato pubblicamente l’esposizione dedicata a De Nittis, lamentando “costi eccessivi” e inaugurando l’inedita formula di un Presidente che critica aspramente e ripetutamente il lavoro della Fondazione che presiede. Non solo, lo stesso Presidente ha ritenuto opportuno, fatto inedito, e dal nostro punto di vista molto grave, di utilizzare Palazzo dei Diamanti nella propria campagna elettorale per le recenti elezioni regionali.

Attualmente non risulta vi sia alcuna programmazione delle prossime attività, con un conseguente, possibile, grave danno per l’organizzazione del turismo in città. L’unica mostra annunciata è dedicata allo street artist Banksy che, per le sue caratteristiche, sconvolge completamente e rischia di danneggiare l’immagine, faticosamente costruita, di Palazzo dei Diamanti. Dal 2016, solo in Italia, sono state organizzate ben sette mostre dedicate all’artista inglese, e Metamorfosi, che produce l’esposizione ferrarese, ne ha programmate e/o ne ha in programma altre tre, oltre la nostra, in diverse città italiane. Quel che è peggio è che lo stesso Banksy, sul proprio sito, definisce tutte le ‘personali’ a lui dedicate, compresa quella di Ferrara, con l’aggettivo “fake” che si traduce con “falso”.

Tutto questo ci trasforma, da produttori, e spesso esportatori, in semplici contenitori promiscui di esposizioni realizzate fuori Ferrara, ci toglie il prezioso marchio dell’originalità, rischia di pregiudicare i rapporti con i musei internazionali.
Non possiamo poi non sottolineare come recentemente la Giunta abbia approvato una convenzione con la Fondazione Cavallini Sgarbi per l’utilizzo del Castello. Altri hanno evidenziato le contraddizioni e i punti deboli di questa delibera. Noi ci limitiamo a notare come, anche nel caso di questa Fondazione, la presidenza sia assunta dall’On. Vittorio Sgarbi. Ci pare evidente il rischio di un conflitto di interessi, soprattutto nel caso in cui Ferrara Arte venga chiamata a collaborare, per qualsiasi funzione, con le diverse esposizioni previste in Castello e realizzate con le opere d’arte possedute dalla Fondazione Cavallini Sgarbi.

In conclusione, riteniamo legittimo che una nuova amministrazione proponga alla città una diversa politica culturale, ma questo non può significare lo smantellamento di una eccellenza come Palazzo dei Diamanti, né la consegna monopolistica ad un unico soggetto dell’intera attività espositiva della città.
Per tutte queste ragioni chiediamo al Sindaco di intervenire, riassumendo, in questa delicata fase, la carica di Presidente di Ferrara Arte e individuando, nei modi che ritiene più opportuni, nel rispetto della legge e degli statuti vigenti, un direttore che sia garante della qualità e dell’originalità delle mostre allestite a Palazzo dei Diamanti, permettendo di proseguire un percorso virtuoso che da più di cinquant’anni caratterizza positivamente la nostra città.

Alberto Ronchi è stato Assessore alle Politiche Culturali del Comune di Ferrara dal 1999 al 2005. Ha inoltre ricoperto gli incarichi di Ass.re alla Cultura della Regione Emilia Romagna e del Comune di Bologna.

Francesco Ruvinetti è stato Assessore alle Politiche Culturali del Comune di Ferrara dal 1995 al 1999. Ha inoltre ricoperto gli incarichi di Presidente della Provincia di Ferrara e di Amministratore Unico di Ferrara Arte.

Massimo Maisto è stato Assessore alle Politiche Culturali del Comune di Ferrara dal 2007 al 2019. Ha inoltre ricoperto l’incarico di Vice Sindaco del Comune di Ferrara.

FOTO DI COPERTINA:  Beniamino Marino per Ferraraitalia

Influencer siamo tutti

Esiste una responsabilità precisa e inequivocabile che inchioda il ‘personaggio pubblico’ nelle sue funzioni, ruolo e mandato che gli vengono attribuiti. Non è una questione arbitraria, barattabile e mutevole a seconda delle situazioni, dei casi e delle circostanze: chi rappresenta pubblicamente un modello, un’immagine, una proiezione, incarnando aspettative, speranze, aspirazioni, deve assumersi tutto questo consapevolmente, farsene carico, restituire un feedback onesto.
Il personaggio pubblico deve essere conscio della grande riconoscibilità sociale delle sue parole e dei suoi comportamenti, sottoposta ormai quasi sempre all’amplificazione dei media. Vale per gli esponenti politici e istituzionali, per le rappresentanze religiose, per i personaggi dello spettacolo e dello sport. E in un’epoca, la nostra, in cui gli ‘influencer’ nascono come funghi dalla sera alla mattina, prosperando e battendo record di followers e lauti benefici economici, la responsabilità diventa ancora più necessaria dal punto di vista etico e sociale.
In fondo, a ben vedere, siamo tutti influencer – almeno digitali – di un piccolo pubblico, gruppo di contatti o altro, perché ogni pubblicazione online, commento, articolo, apprezzamento, like o smile ha un impatto su chi legge, con valore che si protrae nel tempo e spesso senza feedback visibile e misurabile nell’immediato.
L’emulazione degli atteggiamenti più negativi è il rischio più diffuso e riscontrabile: si assiste agli eccessi di chi vomita insulti, disprezzo marcato, rabbia, frustrazione esasperata, epiteti, odio, sull’onda di sentori, pregiudizi, convinzioni fuorvianti manovrate e pilotate da linee di pensiero che demoliscono il buonsenso e la costruttività.
Viviamo nell’epoca della deresponsabilizzazione che ha il sopravvento sull’assunzione di responsabilità individuale, perché prevale il dissociarsi dal proprio carico di consapevolezza e impegno, scaricando sugli altri ogni forma di coinvolgimento personale, confondendosi nella mischia.
E’ sufficiente accedere a qualsiasi social network per evidenziare immediatamente questo riscontrare indiscriminato di ogni tipologia di sfogo senza limiti e coscienza che, aldilà dell’oscuramento e censura previsti nei casi più eclatanti, ricade a pioggia su tutti, imbrattando e compromettendo quella che potrebbe essere una fantastica possibilità di scambio, arricchimento, sana crescita collettiva e globale.
La responsabilità è un modo di essere, una filosofia di vita che parte dalla riflessione e dall’onestà intellettuale. Parte soprattutto da se stessi, con la consapevolezza delle conseguenze delle proprie
azioni, per manifestarsi con e in mezzo agli altri, con la comprensione dei sentimenti, delle ragioni e dei risultati che vengono generati. Responsabilità sottende libertà: “la libertà è la volontà di essere responsabili di noi stessi”, affermava Nietzsche.
Margherita Hack scriveva: “Ero vegetariana, ero molto più libera di tutti i miei coetanei, perché avevo dei genitori liberali il cui stile educativo faceva leva sulla mia responsabilità e non sull’imposizione di regole. Anche se avrei preferito molto restarmene in casa a leggere, la sera mi imponevo di uscire per andare a vedere i varietà. Solo per ribadire la mia libertà e la mia indipendenza come individuo e come ragazza”.