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Ferrara: un movimento dal basso
per salvare e rilanciare le biblioteche

Si è riacceso il dibattito sul futuro del sistema bibliotecario comunale.
Giusto un anno fa, su iniziativa dell’assemblea delle bibliotecarie dei bibliotecari comunali, sostenuti da CGIL-CISL-UIL di categoria, veniva depositata in Comune una petizione, sottoscritta da più di 2000 cittadini, che sostanzialmente avanzava 3 questioni di fondo: l’impegno a realizzare una nuova e importante struttura bibliotecaria nell’area Sud della città, dopo che l’Amministrazione Comunale, insediata da poco, aveva rinunciato a costruirla presso le Corti di Medoro; la sostituzione del personale pensionato o in procinto di esserlo, che, se non attuta, metteva a repentaglio la tenuta del sistema e dei servizi offerti; l’apertura di una discussione sul modello bibliotecario della città e sul suo futuro, per adeguarlo alle nuove esigenze e alla domanda di partecipazione della cittadinanza.
A fronte di quest’iniziativa, si tenne una riunione tra i primi firmatari della petizione e l’Amministrazione Comunale, rappresentata in primis dal sindaco Fabbri e dall’assessore alla cultura Gulinelli, che dava ampie rassicurazioni sui punti sopraddetti.

E’ passato un anno nel quale si sono svolti confronti di carattere sindacale del tutto inconcludenti, a causa dell’atteggiamento evasivo da parte dell’Amministrazione e, soprattutto, si è andati in direzione del tutto contraria rispetto agli impegni presi. I lavoratori e le lavoratrici pensionate nel 2019-2020 non sono state del tutto rimpiazzate, tant’è che oggi mancano 6-7 persone in organico su circa 50 complessive, l’apertura delle biblioteche, prima delle ultime restrizioni introdotte con il Dpcm di mercoledì, viaggiavano a ritmo ridotto, in particolare per le biblioteche Rodari, Porotto e S.Giorgio,  che ospitavano gli utenti solo un giorno alla settimana, le “promesse” sull’avvio di una nuova importante biblioteca nell’area Sud, nonostante una recente intervista del sindaco che ne riconferma la scelta, rimangono tali, visto che del Tavolo di progettazione congiunto, con rappresentanti sindacali e dei cittadini che doveva essere predisposto in proposito, non si vede neanche l’ombra.
Figuriamoci di una discussione seria sul modello delle biblioteche per gli anni a venire, tema decisamente troppo ostico per chi, in realtà, punta semplicemente a ridimensionare e stravolgere il servizio bibliotecario.
Infatti, nelle ultime settimane, si è appreso che le intenzioni dell’Amministrazione  sono quelle di esternalizzare le biblioteche Rodari, di Porotto e S.Giorgio (e probabilmente anche la videoteca Vigor, struttura che svolge un servizio significativo, troppo spesso dimenticata), mentre ci è toccato pure assistere al triste e squallido spettacolo del consigliere leghista Mosso, che ha invocato il controllo, cioè la censura, dei libri acquistati nelle biblioteche comunali.

Sulla scelta di esternalizzare 

Vale la penna soffermarsi un attimo su questo tema delle esternalizzazioni, cioè delle privatizzazioni, delle “piccole” biblioteche decentrate. Ora, a parte che nessuno ha avuto finora modo di potersi confrontare con quest’ipotesi, avanzata peraltro in modo inusuale, e cioè in sede prefettizia a fronte della proclamazione dello stato di agitazione delle bibliotecarie e bibliotecari alla fine del mese di settembre e poi sulla stampa, non sfugge che l’idea di affidare a soggetti privati parti del sistema bibliotecario presenta due forti controindicazioni.
La prima è che andare in questa direzione significa produrre la scelta di favorire il lavoro povero e precario: infatti, un lavoratore di cooperativa sociale, a cui solitamente vanno gli appalti del settore culturale, ha un salario contrattuale inferiore del 15-20% in meno rispetto agli stipendi, non certo lauti, di un bibliotecario comunale. Parliamo di circa 1100 € mensili, a cui si aggiunge il peso della precarietà, visto che, di norma, gli appalti durano 4-5 anni per poi essere rinnovati, senza garanzie forti per la continuità occupazionale dei lavoratori. Non è un problema che riguarda solo quei lavoratori, ma esso investe l’idea di modello sociale e di tutela del lavoro cui guarda l’attuale Amministrazione. Anzichè assumere l’orientamento di costruire occupazione stabile e di qualità, si preferisce continuare  e aggravare la condizione di bassi salari e precarietà che sta condannando le generazioni giovani a non poter progettare il proprio futuro. Tale scelta è ancora più grave se si considera che l’Amministrazione Comunale, nel corso del 2020, ha ancora la possibilità di spendere più di un 1milione 400mila € per sostituire le uscite di personale dal Comune, mentre a tutt’oggi si sono realizzate una trentina di assunzioni totali a fronte di circa 70 pensionamenti.
La seconda ragione per cui è sbagliata l’esternalizzazione deriva dal fatto che, così facendo, si spezza l’unitarietà del sistema bibliotecario comunale. In quest’ipotesi solo l’Ariostea, Casa Niccolini e la Bassani rimarrebbero a gestione diretta comunale, con la conseguenza che acquisti, iniziative culturali, modelli gestionali farebbero capo a soggetti diversi, con buona pace della possibilità di una progettazione di politiche culturali capace di avere uno sguardo d’insieme e non frammentato, di cui, invece, la città ha grande necessità. Con l’ulteriore effetto che le biblioteche Rodari, di Porotto e S.Giorgio sarebbero inevitabilmente considerate secondarie e relegate ad un ruolo marginale, smentendo tutta la retorica sull’importanza delle “periferie”.

Per il rilancio del sistema bibliotecario

Per fortuna, si sentono voci e si vedono iniziative che intendono contrastare la deriva di disimpegno e disinvestimento che l’Amministrazione attuale sta producendo sulle biblioteche e, più in generale, sulle politiche culturali nella città.
Gruppi di cittadini e utenti si sono mobilitati in queste settimane per il rilancio del sistema bibliotecario, con manifestazioni significative davanti alla Rodari, alla Luppi di Porotto, alla Tebaldi di S.Giorgio e alla Bassani.
Lo stesso sciopero generale di tutti i lavoratori del Comune del 6 novembre promosso da CGIL-CISL-UIL di categoria va in questa direzione, nel momento in cui mette al centro non solo la giusta rivendicazione di assunzioni in grado di sostituire le uscite di personale di questi anni, ma soprattutto la difesa e il rilancio di servizi pubblici fondamentali per la cittadinanza, dai servizi educativi e scolastici alle biblioteche e altri ancora.
L’importanza di tutte queste iniziative che, a mio parere, dovranno ulteriormente rafforzarsi, non sta solo nel provare a mettere un argine alle politiche regressive dell’Amministrazione Comunale. In realtà, questa crescita di partecipazione attorno a queste problematiche è una risorsa decisiva per il futuro: non si dà difesa e rilancio dei beni comuni, come sono le biblioteche, senza un coinvolgimento consapevole e diffuso di chi produce e usufruisce di quei servizi.
E’ qui la chiave di volta anche per pensare ad un nuovo modello per le biblioteche del futuro, luoghi di aggregazione sociale e promozione culturale nel territorio. Qui sta anche un’idea di ricostruzione di legami sociali e del ruolo che l’intervento pubblico ha in essa, legami sociali che si sono andati sempre più affievolendo, lasciando spazio al prevalere di pensieri e pratiche individualiste e competitive, il contrario su cui si costruisce una società coesa e solidale. Ma forse pretendere da quest’Amministrazione una riflessione in proposito è decisamente troppo: però, perlomeno, allora, si fermi e provi a confrontarsi con i tanti che in questi giorni stanno indicando prospettive e ipotesi differenti da quelle che la stessa sembra intenzionata a percorrere.

PERCHE’ SONO CONTRO LA MATERNITA’ SURROGATA

Da quando, e sono tanti anni, mi batto per la messa al bando universale della maternità surrogata mi sento dire che, nelle discussioni,  tiro su muri proprio perché mi esprimo “contro”  una pratica e che questo muro mi impedisce di mettermi in ascolto.  Anni fa quando iniziai a occuparmi di questo tema il mio primo incontro è stato con le famiglie arcobaleno. Gli Incontri, che sono sempre stati segnati dal rispetto reciproco, da subito hanno evidenziato quanto fosse quasi impossibile capirci. Eravamo in una babele.
Le parole cardine per nominare questa pratica, madri, maternità, gestazione , gravidanza, amore, dono, figlio/a, utero, corpo, rimandavano a significanti differenti a seconda di chi le usava e si trasformavano in quel muro che ci impediva di comunicare.
Oggi continuo a riflettere sul quel muro e forse ho trovato” le parole per dirlo” , per spiegarlo concretamente.

Uno degli argomenti più popolari tra coloro che sostengono la maternità surrogata è che se la pratica esiste allora bisogna regolamentarla per evitare che succedano aberrazioni, o almeno limitarne un uso improprio. Il ragionamento che sta dietro a questo assunto è sensato e logico, però, per regolamentare una pratica c’è bisogno di usare le parole.
La legge ha bisogno di parole che siano chiare e comprensibili; ma  per mettere nero su bianco la pratica della maternità surrogata c’è bisogno di disincarnare la parola, si deve usare una parola slegata dai suoi significanti profondi e umani.  Questa legge ha bisogno di slegare le parole dalla carnalità se no non può essere scritta.
Le madri surrogate diventano contenitori, valige in viaggio che portano un pacco … sono de-umanizzate.
Durante la gestazione queste donne, sono affiancate da psicologi che le aiutano a ricordare continuamente che non sono le madri della creatura, ma che stanno compiendo un ”viaggio”  per altri, proprio per evitare quell’attaccamento biologico naturale che si forma nei nove mesi di gestazione, in loro non deve radicarsi in  alcun modo la coscienza di essere gravide. Ma  la parola non è solo una parola di senso che giunge al cervello che, poi, come un software la analizza razionalmente, la parola è anche il pianto del bambino neonato  che appena nasce chiede il contatto con il corpo che lo ha portato in grembo perché è l’universo che conosce, la parola è anche lo strazio di vedere allontanato il frutto del proprio grembo, la parola è la vita e tutte le sfumature emotive che porta con sè.

Quel bambino che nasce da una madre contenitore che si ripete di non esserlo per nove mesi quali parole potrà avere? Quella donna che vende o dona il frutto del suo grembo si ammalerà per questo? Disincarnare le parole ha delle conseguenze su tutti, non solo su chi ne fa un uso, e porta alla famosa disfunzionalità di cui mi sembra sia affetta la società occidentale contemporanea.
E quello che mi è sempre più chiaro è che non ci possono essere parole incarnate per descrivere la maternità surrogata. Dividere la maternità tra gestazione e maternità è disumanizzare tutto il racconto della vita, perché relega la gestazione a un processo puramente meccanico mentre sappiamo che la gestazione è il punto di partenza del lungo viaggio della maternità, un viaggio che prende corpo e che contiene in sé tutti quegli aspetti ambivalenti che fanno parte del mistero della vita.
Dunque questa pratica per essere descritta ha bisogno di sovvertire un ordine simbolico.

Chi come me si schiera “contro questa pratica” mi dice di chiamarla ‘utero in affitto’ proprio per rendere evidente che si sta sfruttando una donna e i suoi organi, ma io mi ostino a chiamarla maternità surrogata perché noi donne durante la gestazione non siamo solo quell’utero, siamo persone con una storia e la maternità non è scissa da quella esperienza gestazionale. Allora poi mi si fa notare che esaltare la gravidanza discrimina le madri adottive – forse loro sono da meno di una madre naturale?  Certo che no! ad alcune di quelle madri adottive (non tutte) mancherà quella esperienza di gestazione (curioso che si parli sempre del dolore di una madre che non può avere figli e quasi mai del padre che non li può avere), ma noi tutti siamo esseri mancanti, tutti prima o poi facciamo esperienza di una mancanza.
È vero alcuni fanno esperienze mancanti durissime altri meno, mistero della vita, ma chi se la sente di mettere in una scala di valori  assoluto le mancanze?
Nessuno è dentro le persone e ne conosce le sofferenze interne
, l’inconscio non fa distinzioni. Per alcuni certe mancanze sono al limite del tollerabile e se non messe in parole diventano tunnel da cui non si esce mai e per me chi non riesce ad avere figli e vuole un figlio a tutti costi in realtà non mette in parola  questa mancanza, non la trasforma in altro.

Eppure la vita terrena non è altro che fare i conti con le mancanze e trasformarle, renderle mancanze feconde, capaci di generare altro! L’adozione è anche questo. Dunque siamo tutti mancanti ma il fatto di esserlo non giustifica il fatto che sia possibile usare qualsiasi mezzo per cancellare quella mancanza. Ricapitolando per mettere in parola questa pratica bisogna de-umanizzare le parole e questo è un processo in atto da tempo che a mio avviso  sta manipolando  la forma mentis delle persone, ecco perché  si deve lavorare sulle narrazioni e svelare quelli che secondo me sono i tranelli narrativi che il  dio mercato utilizza per rendere accettabile una pratica che non lo è.
Il mito transumanista, è al servizio proprio di questo dio mercato, di un dio tecnologia, di  cui la sinistra nel nostro paese curiosamente sta diventando la testimonial!

Basta guardare a cosa sta avvenendo alla Camera in questi giorni di discussione sul DDL Zan, andate a vedere come definiscono le parole sesso, genere e identità di genere; ci sarebbe da ridere se non fosse che  invece è drammatico). In Inghilterra non si può più parlare di donna incinta e si deve dire persona incinta, donna incinta è discriminatorio, non si può più parlare di donne che hanno il ciclo si deve dire soggetti mestruatori. Guardate la campagna della Tampax – il tweet  che voleva essere un inno alla inclusività e a sostegno delle persone transgender “È un fatto: non tutte le donne hanno il ciclo”, si legge nel messaggio del colosso Usa, “un altro dato di fatto: non tutte le persone con il ciclo sono donne.
Celebriamo la diversità di tutte le persone che hanno il ciclo [vedi: #mythbusting , #periodtruths#transisbeautiful ] per fortuna si è trasformato in un boomerang perchè le donne sono insorte!
Ecco è venuto il tempo di capire che con le parole non si scherza. Il femminismo si sta risvegliando. Le donne e i loro corpi non sono merci e gli esseri umani non sono prodotti o pacchi !
Ma per andare a fondo della questione delle parole in tanti campi, per chi è giunto alla fine di questo lungo articolo consiglio questa  conferenza di Nicoletta Dentico (che traduce magistralmente Vandana) con Vandana Shiva dal titolo  Ricchi e buoni? Il volto oscuro della filantropia globale [Vedi qui]– [ perché secondo me mostra  bene come le parole vengano piegate a certi interessi per  somministrare come tollerabili pratiche che altrimenti non lo sarebbero  e come questo avvenga in tutti i campi non solo in quello di cui ho parlato qui sopra.

La logica della costruzione e dei diritti delle cosiddette minoranze (che è la base del progressismo attuale) non può che portare ad un disastro: non sta in piedi ne da un freddo punto di vista logico ne da un più profondo punto di vista emotivo, etico e “spirituale”. E’ esattamente questa logica che sta alla basa del pensiero politicamente corretto (che è palesemente una forma di violenza); ed è sempre questa logica che spinge verso soluzioni transumaniste e manipolazioni di ogni tipo (certo non è il solo fattore). Bisogna pensarci molto seriamente perchè molte cose che sembrano contrarie a questo folle capitalismo neoliberista finanziario che sta portando alla distruzione delle civiltà (e del pianeta) ne sono in realtà i più fortei alleati a livello culturale e sociale.

GLI SPARI SOPRA
Il governatore Toti e i pesi morti della società

“Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del paese, che vanno però tutelate” parole e musica di Giovanni Toti, governatore della Liguria.
Credo che queste parole non debbano essere solamente fonte di indignazione. Queste esternazioni devono essere studiate, perché sono la perfetta sintesi del nostro presente, del nostro sistema, la legge del capitale, dove chi è produttivo merita di essere salvato, mentre chi non lo è può essere sacrificabile: una specie di rupe di Sparta da cui gettare i pesi morti.
Il virus, non è affatto democratico, così come gran parte delle malattie, una infima percentuale di ‘paraculati’ al secondo colpo di tosse viene monitorato, testato, ricoverato e curato con i metodi più moderni, la cure sperimentali, i nosocomi migliori, solo perché possono permetterseli. Miliardari che ogni due giorni sono tamponati, controllati e verificati. Gli esempi si sprecano, dalle multinazionali in pantaloncini corti della serie A, dal Cavaliere mentore del governatore (che è pure ottuagenario, ma indispensabile), a Mr. Billionaire.
Tutti gli altri si ammalano, attendono, chiamano, aspettano, rimangono a casa, poi, quando si aggravano, dopo giorni possono iniziare il loro fottuto protocollo. Un sistema marcio dalle fondamenta. Gli anziani, gli immunodepressi, gli ammalati, possono essere gettati dalla rupe, con un po’ di dispiacere, ma meglio loro di noi. Così ragiona il governatore, così ragionano in molti, così è il sistema.
Una singola ora di vita, un singolo respiro, sono un valore inestimabile, ritenere gli anziani fonte di memoria, cibo contro l’ignoranza della storia, ricordo, favole ed esperienza non indispensabili è una delle più grosse merdate che sia stata partorita dalle menti semplici del nostro ceto dirigente.
Un sistema basato sulla competitività, sulla meritocrazia, sulla forza, sul vigore, sui soldi a discapito di tutto, è quanto di peggio il genere umano abbia mai potuto concepire. Questo è il sistema vincente, questo a detta di molti è la vittoria della storia, questo è quella merda che già da un paio di secoli viene denominato capitalismo.

Non credo in un lapsus o un refuso o in una mancata comprensione del testo scritto. Il governatore voleva dire altro, ma intanto ha scritto quello che aveva in testa e che molti pensano. La dittatura sanitaria, il cattivo governo che ci affama, noi vogliamo la libertà di non proteggerci, perché non ce n’è covid, oppure se c’è colpisce solo gli altri, i vecchi, gli ammalati.
A parte che non è così, i dati, i freddi numeri dicono altro, ma nel sistema che si basa sui tre pilastri del “produci, consuma e crepa” aleggia una sorta di eugenetica latente.

Non tutte le vite sono uguali, non tutti hanno la stessa dignità di esseri umani, la privatizzazione di tutto, spesso ci ha privato di tutto
La sanità pubblica, fortuna nostra che esiste ancora, è anch’essa stata aggredita dal privato, le Aziende Sanitarie Locali, che in questi tempi di pandemia stanno facendo i miracoli, grazie soprattutto alle persone che vi lavorano, sono state non a caso, trasformate in aziende. La sanità, come la scuola non può avere scopo di lucro.
Finanziare con soldi pubblici la sanità privata è ancora mille volte peggio, allo stesso modo dei finanziamenti pubblici alle scuole private. I governi di Centro Destra e Centro Sinistra che si sono susseguiti negli ultimi trent’anni hanno fatto questo.

Produttività, profitto, target, budget, sono il motivo per cui la nostra società ci chiede di correre, come fossimo leoni o gazzelle indifferentemente. Così, quando il leone perde i denti, la gazzella si azzoppa o entrambi cominciano a sentire il peso degli anni nella savana, diveniamo carne sacrificabile sull’altare della ricchezza altrui.
La competitività, la ricerca di una vita performante, la meritocrazia, obiettivi che ci sono imposti dagli altri. Una vita, la nostra, gestita  dall’esterno, tutti petto in fuori, tutti con un ego alla Rocco. Ma è tollerato dal sistema chi invece non ha queste caratteristiche? E’ possibile essere pesci rossi in un acquario di squali? E’ possibile essere deboli o fragili, senza doverne rendere conto al format che ci viene imposto?

Deve per forza esistere qualcosa di meglio, io credo che le persone siano tutte indispensabili, anzi no, chi ritiene il contrario non lo è.

La ricerca dei soldi nasconde l’incapacità di fare politica

I soldi non sono un problema ma, nonostante l’evidenza, si continua a far finta che non sia così. In diverse occasioni, e praticamente tutti gli ultimi governatori della Fed americana, hanno avuto modo di ribadire il concetto che le banche centrali possono creare moneta dal nulla e senza sforzo, ovviamente in presenza di un’economia in grado di creare beni da poter poi acquistare.

Ma nonostante queste dichiarazioni e sebbene anche lo stesso Draghi, in una delle sue ultime conferenze stampa da governatore della Bce, abbia avuto modo di confortare i giornalisti sull’impossibilità che la banca centrale possa finire i soldi, la politica continua a perseverare negli stessi errori e noi a rincorrere i nostri politici nelle loro perversioni interpretative che ci allontanano dall’obiettivo.

In un periodo come questo, in cui una pandemia sta logorando i rapporti economici e di conseguenza quelli sociali, sarebbe molto utile non perdersi dietro schermaglie ideologiche come quelle del Mes e concentrarsi sui reali problemi delle persone. Il difficile non è creare soldi ma creare le condizioni per uscire dalle crisi, oggi come ieri la ricerca dei primi continua a rimanere una questione politica che impedisce la risoluzione delle seconde.

Basta guardare, ad esempio, cosa sta succedendo nelle ultime aste dei nostri titoli di stato. Da qui possiamo trarre alcune importanti evidenze di politica monetaria puntualmente ignorate dall’analisi complessiva: la prima riguarda lo spread che è oramai scomparso dai radar dei catastrofisti, mentre gli interessi sul debito pubblico sono arrivati a livelli bassissimi se non addirittura negativi. Il motivo di questa discesa è noto ed è dovuto al massiccio intervento della Banca Centrale Europea, che ha continuato ad acquistare titoli di debito, coadiuvata in questo dalle dichiarazioni della Commissione Europea pronta a lanciare a sua volta piani di acquisto. Andando più a fondo, per cercare di capire cosa muove davvero gli eventi finanziari e monetari, dovremmo arrivare alla conclusione che per avere sempre i soldi necessari per realizzare i nostri progetti, senza doverci preoccupare di debito e interessi ma solo delle idee, della produzione e della gestione delle capacità, abbiamo bisogno di avere a disposizione, sempre, una banca centrale. Fare in modo, insomma, che politica monetaria e politica fiscale coincidano, cioè che cuore e braccia facciano davvero parte dello stesso corpo.

Bisognerebbe procedere insomma ad una revisione dell’attuale assetto monetario europeo e superare la dicotomia tra chi gestisce la politica fiscale e chi quella monetaria. Rimettere finalmente al servizio degli stati le banche centrali.

Una seconda evidenza attiene al fatto che gli investitori chiedono i nostri titoli e sono disposti ormai a comprarli anche a tasso negativo. Infatti le richieste, da febbraio circa, eccedono l’offerta di almeno 200 miliardi. Non ci sono dunque problemi di finanziamento né di credibilità sui mercati. La vera speculazione sta nel fatto di far credere il contrario, ed è proprio quando si diffondono queste paure che lo spread si allarga e quindi gli interessi aumentano. Paure giustificate dal fatto che quando non si può far leva sui poteri di intervento delle banche centrali, si rimane in balia degli umori del mercato.

Infine, alcuni Paesi, come la Spagna, il Portogallo e la Francia, sembrano intenzionati a non richiedere la parte del Recovery Fund a debito, vorrebbero quindi fermarsi all’incasso della parte sussidio che per l’Italia sarebbe di 120 miliardi. Perché, si chiedono, accendere un mutuo condizionato con la Commissione Europea quando i tassi di mercato sono così vantaggiosi e senza condizioni? Quello che serve, in fondo, non è che questa venda debito agli stati ma che aiuti a tenere bassi i tassi di mercato e imponga alla Bce, laddove serva, di acquistare titoli. Quello che si otterrebbe sarebbe semplicemente che banca centrale e istituzioni europee lavorerebbero per la stabilità dell’economia, e ciò renderebbe possibile attuare le necessarie riforme per la crescita e gli investimenti.

Quindi, se non ci sono problemi di accesso al mercato ma una richiesta di titoli in aumento e a tassi di interesse bassi o negativi, cosa ci impedisce di impegnarci subito in una seria rincorsa al tempo perduto e iniziare ad investire seriamente in ospedali, scuole e lotta alla disoccupazione, senza aspettare Recovery Fund e Mes, considerato poi che anche altri Paesi europei stanno ragionando in tal senso?

Ed ecco che il punto allora è politico, solo politico, e nulla ha a che fare con la disponibilità di denaro.

Il governo, in questi ultimi otto mesi, ha già messo a deficit (cioè speso o preventivato di spendere a debito) nei suoi piani finanziari, e Dpcm vari, circa 70 miliardi senza che si siano visti né progetti né opere concluse.

Non abbiamo un piano serio sui trasporti, sulle scuole e sulla capacità di queste ultime di avere telecamere, internet e quanto serva per la didattica a distanza o la fornitura di adeguati supporti per tutti gli studenti che ne abbiano bisogno. Non ci sono ospedali e terapie intensive che si siano aggiunte in tempo utile a quelle esistenti prima dell’inizio della pandemia, piani di sanità che permettano le cure anche a chi non è affetto da coronavirus, assunzioni di medici e infermieri, insegnanti e personale ausiliario.

Forse l’unico vero motivo per cui si invoca a gran voce l’utilizzo dei fondi europei è davvero la necessità di non dover essere costretti a cimentarsi con sfide al di sopra delle proprie capacità. Legare i destini dell’Italia alle istituzioni europee, attraverso un indebitamento condizionato, potrebbe essere una scelta mirata per lasciare ad altri l’onere di prendere decisioni che non si è in grado di prendere autonomamente.

Selvaggio è il cuore
L’amore raccontato nel Messico della rivoluzione è l’ultimo romanzo di Nicoletta Canazza

Un contesto rivoluzionario in cui si muovono uomini di ideali e donne di volontà. Selvaggio è il cuore è l’ultimo romanzo di Nicoletta Canazza, per la collana Literary Romance. La giornalista de Il Gazzettino, che ha già pubblicato romanzi, racconti e scritto sceneggiature, ama definire ‘rosa’ questo romanzo in cui tutti i canoni del genere sono rispettati, ma le sfumature sono anche altre. È la storia di un’epopea familiare che vive nel Messico di inizio Novecento ed è la vita di donne che rifiutano un futuro preordinato, già deciso e fanno scelte di libertà e di stile molto moderne.
Selvaggio è il cuore è frutto di una revisione dopo essere stato nel cassetto per un po’ di tempo, i mesi di lavoro da casa e di confinamento sono stati l’occasione per dare vita a una storia nata anni prima.
“Il romanzo era quasi compiuto – mi racconta Nicoletta durante una presentazione a una rassegna letteraria –, quando l’ho ripreso in mano i personaggi hanno iniziato a parlarmi, quasi a chiedere che questa storia venisse finita e mandata al suo destino, così l’ho sfoltito e terminato”. E una casa editrice ha subito risposto, mandando in stampa il romanzo. I personaggi si muovono tra scenari esotici evocativi, ciascuno di loro porta in dote intrecci e vite parallele che infittiscono la storia, ma il nucleo centrale è l’amore, fatto di passione e allontanamenti, compromessi e abbandoni. Gabriel ed Helena si cercano, si scelgono e sono complici, di loro Nicoletta fa parlare gli occhi, perché può non servire altro a mandare avanti le situazioni.
“Credo che l’incontro tra due amanti – spiega Nicoletta – debba essere descritto più con l’allusione che con il dettaglio, come al cinema: le cose si devono intuire senza bisogno di spiegarle, questo rende più complice il lettore e più interessante la narrazione”.
In un precedente romanzo, Tanto non ti amerò, ambientato ai giorni nostri, Nicoletta affonda nella disaggregazione suprema a cui una famiglia può arrivare, perché la freddezza del calcolo soppianta il calore del nucleo originario, e così anche in Selvaggio è il cuore, è la famiglia che tutto può, ma anche tutto distrugge, un punto centrifugo e centripeto insieme.
“Le famiglie sono microcosmi in cui avviene di tutto, basta leggere la cronaca, mi ha sempre interessato cogliere certi meccanismi di conflitto che possono sorgere tra consanguinei e in questo romanzo intreccio l’amore, il latifondo, l’eredità, la competizione e il ritrovamento”.
Un libro avvincente fino all’ultima pagina in cui donne e uomini tessono il proprio destino lottando da protagonisti.

SCUOLA: GIOCHIAMO A MOSCA CIECA

Bendare gli occhi, fare l’esperienza della cecità, non per partecipare della disabilità come proposto da anni dal Muse di Trento. Neppure per suggestioni sensoriali, tipo che effetto che fa fare scuola al buio, ascoltare senza vedere o ancora provare l’ebbrezza della didattica a distanza, ciechi dinnanzi al computer nella propria camera e solo percepire gli odori, i sapori e i suoni di casa.
Niente di tutto questo. Neppure il tentativo di giocare a mosca cieca on line, una versione rivisitata e attualizzata della mosca cieca della nostra infanzia.

L’ultimo prodotto degli effetti collaterali del Covid è invitare gli alunni ad autobendarsi per essere interrogati, in palio i voti da zero a dieci. Sembra quasi una trovata da quiz televisivo, da Ruota della fortuna, Scommettiamo che, Ok il prezzo è giusto. Del resto che la didattica a distanza, prima o poi, scimmiottasse la sintassi televisiva era da prevedere.
Non la benda degli antichi sacerdoti e vincitori, ma la benda per non sbirciare. Gli occhi come luogo della concupiscenza, della curiosità malsana, ciechi davanti al sapere, perché la vista potrebbe tradursi in uno strumento al servizio dell’inganno.

La trovata è di una professoressa di latino di uno dei tanti licei della nostra penisola. Sarebbe folcloristica la cosa se non venisse immediatamente da chiedersi quale mente didatticamente perversa può avere concepito una simile trovata.
Le ragazze, interrogate con la benda agli occhi per non essere tentate di vagare lo sguardo su appunti o pagine di testo clandestini, hanno preso nove e pare non si siano sentite umiliate. “La professoressa è stata premurosa e molto professionale” hanno dichiarato le cavie di quello che è stato giustificato come un esperimento, tipo quelli condotti dal professor Zimbardo all’Università di Stanford in quel di Palo Alto.
Sembra di sentire “Com’è umano lei” del ragionier Giandomenico Fracchia; d’altra parte quando le cose non hanno né capo né piedi ci si rifugia nell’esperimento, col quale si può giustificare tutto e il contrario di tutto.

Ciò che dovrebbe preoccupare, a partire dai piani alti di viale Trastevere, è la meschinità della cosa e che la portata di questa meschinità non sia avvertita da nessuno dei protagonisti della vicenda, dagli insegnanti agli alunni, al dirigente scolastico.
Va bene che il latino è una lingua morta, ma questo non giustifica che si continui a professare una didattica che dovrebbe essere defunta perché professionalmente squalificante, che denuncia quanto ancora sia diffusa l’impreparazione di tanti docenti.

La scuola italiana non si rinnova con i banchi a rotelle e con il restyling edilizio, se prima il restyling non passa per la formazione professionale di chi sceglie di insegnare, che non può essere il risultato degli anni di precariato accumulati, come ormai da troppo tempo avviene. Prima dell’edilizia scolastica l’emergenza del nostro sistema formativo, dunque, riguarda la preparazione dei docenti, che non possono pensare di stare in classe allo stesso modo in cui sono stati in classe loro quando erano alunni. Il lavoro dell’insegnante richiede una formazione permanente relativa agli strumenti del proprio mestiere, non solo alla disciplina che si insegna. E questa formazione nel nostro paese manca del tutto.

Occorre chiedersi quale visione della scuola muove un’insegnante che escogita di interrogare le alunne bendate, quale idea ha del suo ruolo e dell’apprendimento. Non c’è dubbio che sia onestamente convinta che il ripetere, semmai mnemonico, il riportare oralmente ciò che è stato ascoltato e spiegato, sia la prova provata che l’alunno ha imparato la lezione. Molto distante dalla necessità che l’apprendimento per non essere formale sia sempre applicativo, si concretizzi nella capacità di usare gli strumenti dell’imparare, a partire da note e appunti, si traduca cioè in una competenza, in un ‘sapere fare’, come da tempo ormai dovrebbe essere generalmente acquisito.

È questo il minimo sindacale. Non mi addentro in altre analisi che potrebbero sconvolgere, turbare e disorientare i cultori dei banchi, delle cattedre e delle predelle. Ma insegnanti come la professoressa di latino, che pratica, sia pure per esperimento, l’interrogazione bendata, dovrebbero essere messi alla porta, solo per l’idea di scuola che coltivano. Dannosa per gli studenti che trovano la cosa ‘normale’, il che significa che tutta la loro esperienza scolastica è stata caratterizzata dalla anormalità di quella normalità. Dannosa per il paese che ha bisogno di generazioni preparate non al passato remoto, ma al futuro che le attende.

La questione è grave. Denuncia quanto ancora il paese sia arretrato in tema di formazione e questa arretratezza altro non è che il rovescio della medaglia di decenni di tagli della spesa per l’istruzione. Pare che il destino della nostra scuola sia quello di procedere per acronimi con la pretesa del nuovo, ora DAD e DDI si aggiungono ai BES ai DSA, al PEI, al RAV, al PTOF, ma nella sostanza tutto resta come prima.
La professoressa del liceo in questione non ha nulla da invidiare agli insegnanti di latino dei miei tempi, nelle sue mani anche le nuove tecnologie si devono arrendere, così i ‘device’ si trasformano in strumenti per la diffusione dei virus più deteriori della didattica tradizionale, integrata o in presenza che sia.

Se i morti parlassero

Ed è proprio nel giorno di commemorazione dei nostri defunti che si dovrebbe dedicare un pensiero al valore della vita, in un momento storico di grande difficoltà e sofferenza.
Si dovrebbe riscoprire la priorità della salute, la responsabilità di mantenerla o riconquistarla e non soltanto perché questa pandemia ci sta inchiodando davanti all’immagine della precarietà, dell’impotenza, dell’estrema vulnerabilità. Lo dobbiamo per rispetto verso noi stessi, chi ci ha generato e chi ci seguirà, verso la comunità a cui apparteniamo, verso il concetto stesso di ‘genere umano’, nell’accezione più ampia del termine.
Ci stiamo sbranando in discussioni pro e contro questo o quello perdendo tempo prezioso, sperperando energie e risorse individuali e collettive, seguendo le scie dell’odio, della ribellione fine a se stessa, dell’intolleranza cieca, del rifiuto del buonsenso.
Stiamo lanciando segnali di cedimento profondo che preannuncia quasi la totale sconfitta nella battaglia per una vita dignitosa, per un futuro affrontabile, per la sopravvivenza stessa di quella società costruita e conquistata nei secoli, abbandonandoci a manifestazioni di sconforto, rabbiosa pretesa, insane e deleterie prese di posizione spesso manipolate da estremismi, partigianerie radicali, illegalità. Vandalismo selvaggio, saccheggio, aggressione armata, sono gli strumenti dell’irrazionalità, della follia di massa, del disfattismo, che non portano nessun effetto risolutivo ma inaspriscono e accentuano l’imbarbarimento.
Dimentichiamo che la priorità è la salute, la tutela della vita.

Se non comprendiamo o accettiamo questo assioma, non abbiamo costruito e interiorizzato nessuna forma di rispetto per l’esistenza. Navighiamo giorno per giorno a vista, appoggiando tesi e prospettive, demolendo ciò che ci sta scomodo ed esaltando quello che ci conviene al momento, aggregandoci spesso alla massa che deborda, preda del risentimento, della paura e del bisogno di far sentire la propria voce, e si lancia in vigliacche invettive sui social, demonizzando i rappresentanti della politica, appoggiando in tifoserie l’uno o l’altro esperto scientifico ospite dei talk e delle trasmissioni generaliste, gettando anatemi su giornalisti e comunicatori.
Le difficoltà, l’indigenza che in questo momento tocca molti, non devono farci dimenticare la nostra dimensione umana, la nostra capacità di sacrificio e ripresa, il buonsenso nel riconoscere lo spartiacque tra legittimità e insensatezza. Se i nostri morti potessero parlare, ci racconterebbero delle due guerre mondiali che hanno stravolto l’esistenza di più generazioni, di epidemie affrontate senza mezzi e conoscenze attuali, di carestie e fame, di condizioni di vita misere e stentate, di una solidarietà che permetteva la sussistenza e la sopravvivenza, di una pietà che univa gli uni agli altri facendoli sentire un tutt’uno, accomunati sotto un unico cielo, di una grande speranza e voglia di aggrapparsi a un pensiero positivo, a un sogno, a un desiderio, nonostante tutte le avversità, senza retorica o romanticismo: mossi semplicemente dalla voglia di vivere. Una Spoon River in cui ciascuno avrebbe qualcosa da raccontare, come fosse un piccolo testamento i cui destinatari siamo noi.

Nel giorno dei Defunti, novembre 2020, molti cancelli dei cimiteri sono rimasti chiusi per comprensibili motivi di sicurezza che dobbiamo accettare e capire: una tristezza, scorgere le tombe dei nostri cari attraverso la recinzione, avvertita da molti quasi come un tradimento. Sarebbe bello se nella nostra Spoon River parlassero storie di solidarietà, comprensione, lealtà e chiarezza, senso della collettività, generosità e coraggio come molti in questo momento stanno costruendo – medici, infermieri, volontari, uomini e donne di pace, associazioni, imprenditori illuminati, politici del buonsenso e non del consenso, … –  e su quella collina passassero le generazioni future, soffermandosi a dedicare un sorriso e un pensiero.

Fermatevi! Lettera dal virus

Il nemico numero uno è il virus” chiosa il presidente Mattarella. “Tutti contro uno” rimbomba,  e subito sento salire dalle viscere un moto di rabbia. La mia non è una critica all’uomo Mattarella, ma al suo sguardo sul mondo, uno sguardo maschile, dal sapore patriarcale, che ha bisogno a tutti i costi di individuare il nemico con la speranza di riunire le armate e di motivarle alla battaglia. Ma noi non siamo un’armata!
Mattarella non è il solo ad avere questo sguardo sul mondo; è uno sguardo che accomuna i potenti della terra, i filantrocapitalisti che ti dicono quali sono i tuoi  problemi, poi  ti dicono cosa devi fare e infine ti vendono, badate bene ti vendono, la soluzione. 

Ma come è possibile continuare a parlare del virus come nemico quando il nemico, cioè la causa di tutti i mali, è il sistema su cui è costruita la nostra comunità e il virus è solo uno dei suoi sintomi? Nel primo lockdown, quando l’invisibile e sconosciuto virus ci ha raggiunto, i cittadini italiani hanno reagito in modo composto e con grande responsabilità e hanno usato il tempo dello stop per promuovere pensiero. Lo stop ha restituito pensiero creativo. Si è parlato della terra che tornava a respirare, della natura che tornava a farsi vedere anche nelle nostre città, dove la cementificazione ne ha cancellato i messaggi inequivocabili.
Splendido a tale riguardo il video che trovate qui: Lettera dal Virus
Guardatelo, voi che ci dite che il virus è il nemico numero uno e parlateci con le parole che usa  la straordinaria autrice della lettera Fermatevi, Darinka Montico.

Le persone che manifestano lo fanno perché non ne possono più di essere trattate come degli ignoranti senza capacità di pensiero critico. Le donne conoscono bene questa condizione. Da tempo immemore la nostra umanità è valutata solo in base alla nostra capacità di riproduzione, per il resto siamo emotive, siamo deboli, incapaci di scindere pensiero razionale dai sentimenti, siamo delle isteriche, insomma siamo più animali che umane etc. e, a volerla dire tutta, se fosse davvero così la realtà delle donne, oggi è solo un valore di cui la società non può fare a meno. È proprio quel sapere viscerale, che può indicarci la strada e non certo ‘il dio tecnologia’ propagandato dall’ideologia transumanista che fa piazza pulita invece della dignità dell’essere umano.

Un anno fa è uscito per Marlin editore il mio primo romanzo Il mio nome è Maria Maddalena, nel quale tratto il tema della maternità surrogata e della natura. La tesi di fondo: la logica estrattivista patriarcale e capitalista oggi si rivolge ai corpi riconoscendogli valore solo perché si possono immettere sul mercato, esattamente come è stato fatto con le risorse naturali, e di cui oggi siamo testimoni dello scempio commesso.
Il ventre della mia protagonista, Maria Maddalena, si innesta nel grande ventre primigenio della foresta amazzonica e la porterà a dire “più mi addentro nella foresta e più mi è chiaro che la conoscenza di queste popolazioni ci può salvare dal buco nero in cui ci siamo cacciati. Non c’è tecnologia che può insegnarci a vivere, dobbiamo ripensarci antropologicamente.”

Tutte le nostre energie oggi non dovrebbero essere rivolte a combattere un virus invisibile, ma se mai quella retorica del capo, del cervello che dice agli arti cosa devono fare, senza tenere conto di quanto siamo tutti interconnessi, virus compresi.

Leggetevi La nazione delle piante di Stefano Mancuso. Alla fine del libro Mancuso cita la teoria endosimbiotica della Margulis detta così “appunto perché prevede una simbiosi , ossia un rapporto favorevole tra due organismi  che vivono uno all’interno dell’altro…”, teoria che spiega l’evoluzione della vita sul nostro pianeta. Ebbene chi più delle donne può attingere a questo sapere biologico e umano nello stesso tempo? Il sapere delle donne è un sapere simile a quello delle cellule, è ancestrale, è simbiotico per l’esperienza che fanno tutti gli esseri umani venendo al mondo, ma di cui le donne portano un sapere nella carne, proprio perché uniche in grado di ripeterla più volte nell’arco di una vita, è inscritta nella loro carne.

La pandemia ha reso evidente quanto manchi ai potenti (per lo più maschi) una visione a lungo termine sul mondo capace di renderci solidali e uniti, simbiotici in una parola, dove non vince il più forte ma coloro i quali sapranno essere simbiotici con l’ambiente che ci circonda, con coloro che sapranno riconoscere che è l’unità tra diversi, che è la biodiversità che ci può salvare. La vera battaglia che ci attende, quella di impedire la sesta estinzione di massa, virus o non virus, è da fare, ma in connessione con tutti gli esseri viventi, senza pensare arrogantemente che l’uomo (aggiungerei maschio bianco) è il migliore e ha diritto a sopravvivere soggiogando le altre specie.

PER CERTI VERSI
Il tuo sorriso

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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IL TUO SORRISO

Il tuo sorriso di ragazza
È un’onda che mi bagna
E si apre
per farmi passare
Sei un monile
Esotico
Una carta elegante
In un luogo
Misterioso
Di Palermo
E l’autostop
Con me
Come zaino
Sui tuoi valichi
E insenature
Il tuo sorriso di ragazza
Lenzuoli annodati
Per evadere
Dal tempo
Dalla morte barocca
Dalle necropoli
Il solo monumento
È un bacio
Nostro
Nel collo
Sotto il mento

Valeria e il negazionismo

“Ma zia Costanza, chi sono questi negazionisti? Perché in televisione dicono che ci sono i negazionisti del Covid-19?”
Mi giro verso Valeria che mi sta guardando con i suoi occhi furbi e la sua faccia da adolescente.
E’ seduta su una sedia della mia cucina e sta sfogliando una rivista che ho comprato sabato per sua nonna Anna. Indossa i jeans a zampa e una strana maglietta a righe verdi e grigie. Ha le calze nere corte, chissà dove sono le scarpe, saranno state scaraventate in qualche punto non precisato del corridoio.

Devo risponderle, le risposte degli adulti sono essenziali per la crescita degli adolescenti, per sviluppare il loro senso critico, per garantire loro un termine di confronto che li aiuti a discriminare, a raccapezzarsi nella selva di pensieri arruffati all’interno della quale si trovano. L’iper-informazione imperversa. Siamo circondati da una ridondanza di notizie e di “possibili” interpretazioni che devasta.  Il rumore dell’iper-informazione è ovunque. Canali ufficiali, meno ufficiali, ufficiosi, racconti di coetanei, di compaesani, di persone “autorevoli”. Tutto mescolato in un calderone mediatico che invade la nostra vita e la sovrasta, lasciando poco spazio all’autenticità del pensiero soggettivo e al rigore che il pensiero scientifico propone.
Non diciamo quasi mai: “Io penso che”, lo sostituiamo quasi sempre con: “Hanno detto che”, “Ha detto che”, “Dicono che”, “Dicevano che”. Ma chi sono tutte queste entità che dicono e che hanno detto e che diranno? Quanta autorevolezza hanno? Chi ha legittimato il loro esserci, credere, narrare e convincere?

Il discorso è molto importante e fondante. Devo rispondere a Valeria. Mi sta guardando con un’espressione interrogativa e con la bocca semi aperta, come un uccellino in attesa del cibo.
“Zia ma mi hai sentito? Perché non mi rispondi?”.
“Stavo pensando alla tua domanda”.
“Fai sempre così, dici che stai pensando. Ma a cosa pensi sempre? Non c’è bisogno di pensare, bisogna fare.”
“No, non è vero, io non potrei vivere senza pensare, cosa può fare una persona se prima non ha pensato alle conseguenze che potrebbero avere le sue azioni? Alla mille sfaccettature che un pensiero rigoroso si ostina ad avere?”.
“Bah. Io veramente ti avevo chiesto del negazionismo”.
“Negazionismo è un termine mutuato dalla seconda guerra mondiale, si riferiva in origine alla negazione della deportazione Ebraica e della Shoah.  E’ una corrente pseudo-storica  e revisionista che, utilizzando a fini ideologico-politici modalità di negazione dei fenomeni storici accertati, nega contro ogni evidenza il fatto storico stesso”.

Valeria mi guarda, sembra pensierosa, sposta un braccio, lo appoggia sulla testa, poi lo riappoggia sul tavolo, tira su una gamba, si gratta le dita di un piede. Guarda una delle sue calze, sembra volerla togliere, poi ci ripensa e si ferma.
“Mah. Mi sembra una cosa difficile, cosa centra questo negazionismo con il Covid-19?” dice.
“Diciamo che è stata una estensione dell’uso del termine. Adesso si chiamano negazionisti anche quelli che dicono che il Covid-19 non esiste, oppure che esiste ma che non è mortale, che esiste ma non servono a nulla le mascherine e la disinfezione delle mani, oppure che l’immunità di gregge non arriverà, che i vaccini se mai ci saranno non serviranno a niente, e così via.”
“Allora in Italia ci sono tanti negazionisti, io queste cose le ho già sentite. Le dicono anche in televisione, mescolate a tutto il resto.”

Questo “mescolate a tutto il resto” mi sembra azzeccato. Valeria ha appena messo in evidenza la pervasività del calderone mediatico all’interno del quale ci muoviamo. Ogni giorno siamo sottoposti a un bombardamento di informazioni con cui dobbiamo ricucire un senso e un sentire soggettivo sul quale appoggiare le nostre giornate, le lunghe ore della nostra quotidianità.
Provo a pensare a qualcosa da dire a Valeria che possa aiutarla. E’ un periodo difficile anche per lei. Lezioni on-line, stop alla sua attività sportiva, stop alle uscite con gli amici, alle pizzate ai giochi in oratorio, ai giri in bici. Stop a quasi tutto per la seconda volta in questo 2020. E lei ha solo 12 anni. Questa vicenda lascerà degli strascichi su questi adolescenti, sugli adulti e sui genitori che diventeranno.

“Credo che tra tutte le cose che vengono dette, le più attendibili siano quelle sostenute da coloro che stanno studiando questa malattia da quando è comparsa. Penso anche che  possa considerarsi autentica la testimonianza di chi lavora a diretto contatto con gli ammalati. Gli ospedali Lombardi sono stati la prima linea di questa esperienza di pandemia, lo sono ancora. Forse varrebbe la pena ascoltare quello che dicono i primari delle nostre rianimazioni. Per quanto possano narrare la stessa vicenda utilizzando termini un po’ diversi che dipendono dalla loro cultura e dalla loro interiorizzazione delle norme, della costruzione del linguaggio e della sua verbalizzazione, dagli accidenti che arrivano dal cos cosmico che ci garantisce la vita, alla fine ciò che uno vede tutti i giorni è comunque più attendibile di ciò che racconta chi ha sentito raccontare che ha sentito raccontare che ha sentito raccontare.”

Valeria mi sta guardando ma non mi sembra particolarmente soddisfatta delle risposta, forse voleva una semplificazione della questione che di fatto non sono riuscita a darle. Forse dipende dal fatto che non la si può semplificare, che un po’ di negazionismo sta da tutte le parti e dipende dal fatto che nessuno sa cogliere la complessità del fenomeno nella varietà delle sue sfaccettature ma ne coglie sono una parte, quella che riesce ad esperire e successivamente a verbalizzare utilizzando i codici di comunicazione che gli sono stati insegnati.

Direi che alla fine è così, siamo in un periodo di forte cambiamento sociale, di forti incognite per il futuro, di forte indeterminatezza da una parte, di fortissimo materialismo dall’altra (ogni sera contiamo i morti).
Il negazionismo in tutti questo brodo mediatico acquisisce molte sfaccettature diverse, si adatta a molte situazioni, si allontana dalla sua etimologia originaria per  assumere una nuova veste. Lo chiamerei in un altro modo.

Ad esempio chiamiamolo: “Rappresentazione fallace”.
Valeria sembra pensierosa, mi dice:
“A me questo negazionismo non piace”
“Nemmeno a me” le rispondo e spero che la risposta così com’è possa avere nel “mondo” di Valeria un senso, possa aiutarla a discriminare, le possa trasmettere l’idea di un fenomeno complesso all’interno del quale la società occidentale si sta  muovendo e che non sappiamo che effettive conseguenze avrà. Il negazionismo si sta ricucendo nuove vesti. Nessuno di noi sa esattamente come saranno.
“Posso dire a scuola che il negazionismo a me non piace?” mi chiede.
“Sicuramente sì” le rispondo e ho l’impressione che abbiamo esaurito il discorso.

DIARIO IN PUBBLICO
La fatica di vivere oggi

Poche cose mi hanno colpito in questo momento storico, dove vanno ripensati tutti – o quasi – i valori e i delitti che si compiono, quanto questo fatto apparentemente minore che si è svolto all’ospedale di Rimini e che inconsciamente auspico sia una bufala, sapendo già che non lo è.

Leggo in QN di lunedì 26 ottobre 2020, p. 12 che all’ospedale di Rimini nel parcheggio riservato agli operatori sanitari settanta macchine, tutte accuratamente scelte tra quelle in possesso di chi lavora all’ospedale, sono state sfregiate, colpite, prese di mira da qualcuno che le aveva accuratamente scelte. Non una di chi non operava all’interno dell’ospedale. L’indizio che si trattava di una miserabile vendetta contro chi opera nel campo medico consiste nel fatto che nulla è stato asportato all’interno dell’abitacolo.

Un gesto così talmente amorale e terribile può essere messo purtroppo in corrispondenza con le convinzioni di coloro che in regimi totalitari operano per la miserabile soddisfazione di una vendetta pericolosa. E i miei connazionali italioti TUTTI,  anche coloro che sono innocenti, portano sulle loro spalle la spaventosa pandemia dell’immoralità. Vergogna a tutti noi che non sappiamo scrollarci di dosso simili immondi esseri.

Mi rendo conto che la conclusione del discorso potrebbe e può colpire chi da sempre ha lottato e lotta contro il diritto del singolo a non essere chiamato in causa in quello che può parere un coinvolgimento totale nelle colpe di un’epoca pur restandone fuori. Penso ad esempio al giusto scatto reattivo dell’amico fraterno Fiorenzo Baratelli. Ma una lunga telefonata ha spiegato (in parte) la possibilità di una coincidenza tra i due pensieri. Non voglio certamente mettere in dubbio il generoso lavoro svolto da chi non vuole essere responsabilizzato in una generica e forse frettolosa sentenza di coinvolgimento. Guai se non ci fossero coloro che operano in quella direzione di distanziamento! Ma la mia provocatoria battuta riguardava chi, essendone venuto a conoscenza, non avesse potuto o voluto distaccarsene e condannarla.

Certo! Quante persone perbene nei paesi coinvolti nell’ideologia nazista ad esempio ignoravano la terribile realtà storica. Diventavano colpevoli solo quando, avendo saputo la verità, non avevano operato in conseguenza. Ecco in qual modo va inteso il giudizio che ho espresso e che si riferiva al fatto che in quanto  ‘a livello teorico’ tutti portiamo sulle spalle “la spaventosa pandemia dell’immoralità”.

Nel frattempo come diceva mia nonna “sono stato regalato” di un dono così prezioso che faccio ancor adesso fatica a rendermene conto: assistere al concerto di Riccardo Muti al Teatro Abbado di Ferrara. Lo attendevo, in quanto ancora una volta devo ribadire che Riccardo e Cristina Muti sono stati e sono tra gli amici più cari della mia lunga vita. La fraterna amicizia che ci lega non è stata mai scalfita da qualche fraintendimento, che nel mondo della cultura non è così difficile ad attuarsi. Il Maestro mi ha stretto in un abbraccio che tanto rivelava della gioia genuina di vedermi, mentre Cristina dagli splendidi capelli azzurri e avvolta in un manto di raso rosa degno (e probabilmente lo era) dell’inventore della moda, il proustiano Poiret, mi ricordava momenti straordinari del nostra giovinezza fiorentina.

A quel punto s’annuncia Vittorio Sgarbi che con la solita irruenza ricorda anche lui il comune tempo fiorentino. Rimango un po’ interdetto, ma gli amici Muti vogliono portare un modus vivendi tra le lontanissime convinzioni che si ergono tra la mia visione della cultura e quella del critico d’arte. Mi racconta di quello che intende fare per una mostra su Giorgio Bassani e l’arte; mi comunica che gli uffici di Ferrara Arte, l’organizzazione che presiede, si sistemeranno al primo piano di Casa Minerbi, lo splendido palazzo dove è situato anche il Centro Studi bassaniani. Chiede notizie di poter conoscere la curatrice del Centro, la professoressa Portia Prebys, che per un vezzo linguistico chiama Portìa e non Pòrtia; annuncia il progetto di una mostra canoviana da far assieme, tra me presidente dell’edizione nazionale delle opere di Canova e lui presidente della Fondazione Canova di Possagno. Si sa che ormai il giro culturale come da sempre si svolge tra presidenze e direzioni… E questo ritorno al passato, che non si spegne nel giro di un giorno o di un anno, ha la sua conclusione proprio in questi giorni, quando il Maestro indirizza una degnissima lettera al capo del Governo Conte, il cui senso è rinchiuso in queste parole:

Chiudere le sale dei concerti e i teatri è decisione grave. Definire come ‘superflua’ l’attività teatrale e musicale è espressione di ignoranza, incultura e mancanza di sensibilità.”
La riflessione di Muti non fa leva, o non solo, sul problema del lavoro, ma insiste su quel tesoro culturale che è il senso vero di ciò che la pandemia di corona virus non deve strappare alla nostra provata esistenza: la cultura come tesoro inalienabile della nostra vita.

Il presidente Conte ha saputo rispondere con altrettanta finezza alla richiesta del Maestro. Lo stesso incipit è diverso: “Gentile maestro Muti”; dove sottolineare la ‘gentilezza’ mi sembra un’ottima occasione d’incontro. Sottolineare poi la ‘gravità’ del problema ne dice il senso ed infine la necessità per ragioni di salute lo conclude. Termina Conte: ”Siamo costretti a fare questi ulteriori sacrifici. Ma non intendiamo affatto rinunciare alla bellezza, alla cultura, alla musica, all’arte, al cinema, al teatro” (Corriere della sera, 27 ottobre 2020, p. 1 e 17.)

E’ proprio leggendo questa corrispondenza che ancor più dolorose appaiono le proteste indubbiamente capibili che hanno sconvolto Napoli, Milano, Torino.
Ma non molliamo! Cerchiamo di essere degni della civiltà che ci ha generato.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

PAROLE A CAPO
Franco Stefani: “Perdersi nella risacca” e altre poesie

“Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione.”
(G.B.Vico)

 

 Allegoria, 1

Un vecchio grida le sue verità in un vicolo cieco
nessuno lo ascolta, nemmeno il sole, che scalda troppo
anche se è quasi inverno. La gente si scambia banalità
e cerca qualcuno che dica cosa fare, dove andare.
Cani, qua e là, si annusano e abbaiano. I loro padroni
partecipano stupidamente  agli incontri tra animali:
anche questo è un modo di socializzare.

Qualcosa di più sensato non c’è, al momento.
Gli Dei si sono nascosti con le Muse
e hanno mandato nel visibile solo poche apparenze.

(4 ottobre, 2018)

 

Ferrara

È nel tepore dell’autunno, mia città
che più mostri le tue bellezze quiete.
Il rosso dei palazzi, le mura
possenti, gli antichi cortili silenziosi
la fresca penombra dei tuoi vicoli
i nobili affreschi rinascimentali.

Non dici altro: esibisci. La Storia
parla per te ai viaggiatori
di ogni parte del mondo. A loro
sussurri d’essere stata un tempo
modello urbano esemplare, teatro
consapevole del genio di Rossetti.

(Poi, quando finisce il giorno,
le tue mille voci volano sul Po
e vanno verso l’Adriatico.
Torneranno profumate di salsedine).

(26 settembre, 2020)

 

Cosa non si inventa

C’é
che sono un uomo solo
casco dentro al gioco
(Luca Carboni, Fabio Liberatori – C’è)

Mi sono innamorato
di una voce di donna
alla fine di una canzone

non so di chi sia la voce
con lei sogno per ore
dentro un arcobaleno

ad una certa età
cosa non si inventa
per un po’ di felicità

(13 febbraio, 2020)

 

Perdersi nella risacca

Perdersi nella risacca
di un mare solitario
in un tempo senza tempo

parole stropicciate
in vecchi giornali
volano sulla sabbia

le navi se ne vanno
e il mio cuore con loro

(24-28 luglio, 2020)

 

Franco Stefani è nato e vive a Cento (Ferrara). Giornalista professionista, scrive versi da molti anni. Ha curato il volume “Io spero che non faccia più il terremoto” (Minerva, 2009) dedicato al sisma che ha colpito l’Abruzzo. Tra i suoi più recenti libri, “Tre sguardi in uno” (Pendragon, Bologna, 2015) e “Istanti” (Genesi Editrice, 2019), che comprendono testi poetici e racconti brevi.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

C’è una alternativa alla didattica a distanza?

Per tutta l’estate abbiamo cercato sia a livello locale che regionale (ma anche nazionale con le proposte di Patrizio Bianchi e della task force al Ministero dell’Istruzione) di indicare quale poteva essere una via alternativa ed efficace alla didattica a distanza che è una forma “minore” (per essere eufemistici) di apprendimento.
Avevamo indicato per i “piccoli” delle elementari l’integrazione alla didattica in aula (da Istruzione) con la didattica all’aperto (da Sperimentazione), che avrebbe consentito di avere gruppi più piccoli di alunni e quindi accrescere la sicurezza e anche la qualità della didattica. Questo avrebbe comportato (almeno per un periodo) più docenti, ma se c’è una cosa che oggi non manca sono i precari della scuola e i soldi per ristorare. Per questo ci eravamo battuti perché già a giugno ci fossero delle sperimentazioni in alcune scuole (almeno del Sud che erano senza contagi) in cui accanto al personale della scuola pubblica lavorassero gli educatori dei campi estivi, i quali ultimi hanno sempre lavorato mentre il personale pubblico no. Misteri e soprattutto scarsa volontà di sperimentare, innovare e di fare (che è da sempre il problema dell’Italia).

Alle superiori avevamo indicato (almeno per gli ultimi 3 anni) il potenziamento dell’alternanza studio-lavoro (che è stata dimezzata come fondi e orari negli ultimi 2 anni) in modo che gli studenti potessero fare una esperienza di qualità nelle imprese seguiti però da una nuova figura che avevamo indicato come “docente di accompagnamento” che avrebbe avuto il compito di individuare le imprese, realizzare gli abbinamenti e accompagnare lo studente all’interno della comunità di pratiche lavorativa con un apprendimento da Sperimentazione. Soluzioni che non sono, peraltro, finalizzate nel periodo del Covid, ma primi passi per una scuola più efficace che innalza la sua qualità e quindi riforme strutturali in modo da coniugare la maggiore spesa pubblica con il rilancio del Paese.

Ciò avrebbe ridotto il problema degli assembramenti sui trasporti su cui il Cds ha lavorato sin dagli anni ’80 con una ricerca, commissionata da ACFT, su come sfalsare gli orari delle scuole in entrata ed uscita proprio per favorire la fluidità del traffico nella città e creare, a parità di studenti trasportati (e bus), un maggiore servizio che oggi sarebbe cruciale perché vedrebbe meno studenti sui bus. Ma nessuno allora considerò la cosa interessante.

Alessandro D’Avenia spiega su Il Corriere che oggi gli studenti sono “demoralizzati, ma la loro tristezza non è però sintomo di un disagio psichico o mancanza di speranza, ma semplice mancanza di ‘carattere’, cioè di scelte”. E oggi uno dei problemi drammatici del nostro Apprendimento da Istruzione è che gli studenti non scelgono mai (al massimo studiano, ripetono, riflettono, fanno dei “like”), mentre nell’Apprendimento da Sperimentazione, nelle pratiche all’interno delle imprese, nel curare un orto, nel bosco e nelle attività all’aperto scelgono in continuazione. “Quando non scegliamo la vita si spegne perché smettiamo di rispondere alla realtà, non siamo più padroni dei nostri atti, ma prigionieri delle circostanze o delle aspettative altrui” scrive D’Avenia. Nella pratica dei Pil (Percorsi di Inserimento al Lavoro dei laureandi) alla domanda su “cosa apprezzavano di più del percorso verso il lavoro” gli studenti universitari rispondevano che non era il lavoro raggiunto (!), ma il poter per la prima volta “scegliere”, che li aveva “fatti crescere”. Erano quindi le continue scelte a cui i ragazzi erano “costretti” (scegliere se fare questo percorso volontario, scegliere con quale impresa fare il colloquio, scegliere dove andare a fare il tirocinio o il lavoro,…) che apprezzavano in particolare.

Torniamo ad educare il carattere dei nostri giovani: cioè a far praticare la libertà, cioè a farli scegliere, dando loro la responsabilità delle scelte e questo si può fare se integriamo l’Apprendimento da Istruzione con quello da Sperimentazione, come dicono gran parte degli esperti di apprendimento di tutto il mondo.

Ah, dimenticavo: i luoghi più sicuri contro l’infezione sono la Scuola e le Imprese.

Il nido delle cicale
l’ultimo romanzo di Anna Martellato parla di rinascita

“Ho incontrato persone e mi sono chiesta perché continuassero a fare proprio quelle scelte, così ne ho scritto, facendo diventare romanzo certi temi che riguardano molti”. Raggiungo al telefono Anna Martellato, collega, conosciuta anni fa a Venezia, quando di lei mi colpì la propensione ad ascoltare e a familiarizzare. Anna Martellato ha pubblicato per Giunti Il nido delle cicale, un romanzo in cui si sentono i profumi e si vedono i colori, come a essere immersi in quella lingua di lago di Garda dove Mia, la protagonista, cresce e cambia pelle.
“Mia è una donna che spesso si gira dall’altra parte, scappa da una gabbia familiare a un nido che, in realtà, è un’altra gabbia ancora, si porta dietro blocchi che a un certo punto vanno affrontati, con non poco dolore, ma poi finalmente sciolti”, spiega Anna che nel romanzo ha voluto parlare di rinascita e mutamento, come quello delle cicale che dopo essere state dormienti sotto terra, escono alla luce in un corpo nuovo. “Le cicale aspettano il momento giusto per uscire, ho preso in mano il guscio e ho visto un taglio chirurgico, vengono fuori proprio da lì e da sole, anche Mia esce da sola da una situazione, affronta il dolore che è quello del rapporto col compagno e quello del passato e dei legami familiari, poi non torna più indietro”.
Nel romanzo, la protagonista si trova davanti a una scelta e prima ancora di decidere come fare, deve decidere se vuole sapere fino in fondo la verità. Una voce allora la guida, mostra, indirizza: come un daimon, un nucleo antico, la voce illumina una crepa, quella parte di vita sconosciuta che Mia può accettare o rifiutare del tutto. “Ognuno di noi ha una saggezza innata – spiega Anna – che a un certo punto si fa sentire, se stiamo in silenzio sappiamo sempre che direzione prendere”. Ed è con questa saggezza che Mia affronta una scoperta dopo l’altra, riprende i legami sospesi con il passato, primo fra tutti con la madre a cui prova a indicare una strada per uscire dal dolore: “Sono convinta che ciascuno abbia le chiavi della propria felicità che non vengono mai consegnate dagli altri e per questo Mia tenta di spiegare alla madre, da cui si era allontanata, che può ancora fare qualcosa di concreto per salvarsi da tutto quel buio, ma deve farlo da sola, come lo sta facendo Mia”.
È una famiglia smembrata dalla perdita, quella di Mia, ma è anche una famiglia da cui si può ricominciare perché c’è una madre che Mia può finalmente affrontare e un padre che l’aspetta sempre preparandone l’arrivo.

Un nuovo patto educativo costruito sulla “premura”

Oltre oceano, l’editorialista del New York Times David Brooks ha recentemente scritto che virtù come gentilezza, correttezza, onestà e rispetto sono sottovalutate e che nessuno si batte più per esse. Il rischio è vivere un futuro in cui leader, media e influencer ci abbiano convinto che tutte le persone sono intrinsecamente manipolatrici, egoiste e meschine. Gli atti di compassione sono per i perdenti. E peggio di tutto, i concittadini non si fidano l’uno dell’altro perché ci è stato insegnato che tutti sono bugiardi, senza scrupoli o imbroglioni e che si preoccupano solo di se stessi.

Si capisce perché negli Stati Uniti si diffondano organizzazioni come Character con l’obiettivo di promuovere nelle scuole l’educazione della personalità e del carattere.
Il suo presidente, Arthur Schwartz, in un articolo, pubblicato da Education Week, lamenta che il tema dell’educazione del carattere e della personalità non appaia nei programmi dei contendenti alle elezioni presidenziali.
La piattaforma dei Democratici, a proposito di scuola, menziona le esigenze di salute mentale degli studenti e il supporto all’apprendimento sociale ed emotivo, mentre quella dei Repubblicani sostiene che le scuole dovrebbero insegnare “l’eccezionalismo americano”, ispirato dalla descrizione di Alexis de Tocqueville della società americana negli anni ’30 dell’Ottocento.

Il papa, nel messaggio inviato al convegno promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali su “Educazione: il Patto Globale”, denuncia che si è rotto il cosiddetto “patto educativo”. Ad essere gravemente malato è il tessuto sociale, quello che la storia ha confezionato finora e all’interno del quale sempre più ci stiamo trasformando in tanti analfabeti della convivenza civile.

Qualcosa non funziona più correttamente nel rapporto tra scuola e società e riunire gli sforzi, ricomporre una alleanza educativa ampia richiede innanzitutto di comprendere, dove il tessuto si è lacerato e perché. Abbiamo fallito nel raggiungere l’obiettivo che il nostro sistema educativo di istruzione e di formazione si era dato: “la crescita e la valorizzazione della persona umana”.

Ora ci accorgiamo di individualismi e di solitudini esasperate, senza renderci conto di essere stati noi a coltivarle, spezzando il legame originale tra Io e Tu, con lo spersonalizzare e il reificare le persone a partire da quel tragitto che ci ostiniamo a chiamare educazione.
Il nostro rapporto con gli altri è un aspetto essenziale del nostro “essere”, ed è proprio questo rapporto ad essere sempre più minacciato. Il crescere esponenziale di una cultura della violenza tra i giovani, non solo nel nostro paese, è la conferma che qualcosa di molto importante si è spezzato.

L’epidemia in tutto il mondo ha riproposto la fragilità delle categorie su cui si fonda il rapporto tra la scuola e la società. Deciso il lockdown degli istituti scolastici, la preoccupazione prima non è stata per gli apprendimenti che bambine e bambini, ragazze e ragazzi avrebbero perduti, ma sul come poter gestire una vita che improvvisamente comprendeva a pieno tempo l’ingombro dei figli. L’incompatibilità tra il mondo quotidiano degli adulti, attivo e produttivo e il pianeta giovani, dall’infanzia all’adolescenza. È emerso con prepotenza lo spettro della scuola come luogo dell’isolamento, della distanza dalla vita degli adulti, della quarantena dei giovani dalla società. Non il luogo dello studio e dell’apprendimento, ma il contenitore della necessaria separazione tra generazioni distanti, dove altri adulti svolgono la funzione di mediare tra i due mondi differenti.

Nessuno ha avvertito che qualcosa di insensato prendeva corpo, come l’ostinarsi nel continuare a crescere i giovani lontani da sé, dagli altri e dal mondo. Divisi da se stessi e dalla loro identità, per assumere quella di scolari, alunni e allievi, in una sorta di schizofrenia istituzionalizzata. Perché è convinzione generale che sia normale procedere così, così si è sempre fatto. Si è sempre fatto di allevare una gioventù in conflitto con gli adulti, salvo poi scandalizzarsi se i conflitti degenerano nei comportamenti di devianza sociale.

Non abbiamo pensato mai che forse si potevano mescolare le vite, che la distanza tra mondo degli adulti e i ragazzi si sarebbe potuta accorciare, se non abbattere, con il vantaggio di farli sentire parte responsabile di quel mondo fin da piccoli, senza la stupida trafila dei riti di passaggio che ci siamo inventati. Non abbiamo bisogno di fare ritorno a lessici abbandonati da tempo come ‘carattere’ e ‘personalità’, forse la chiave per riscrivere quel patto educativo che si è rotto, sta in una parola sola: ‘premura’. Una società che non ha premura per i suoi giovani, finisce che poi li perde per strada, come sta sempre più avvenendo in modo allarmante.
‘Premura’ significa che i giovani devono crescere a fianco degli adulti, non distanti da loro, formarsi sentendo di condividere la medesima vita, ognuno con le proprie peculiarità, che non c’è una vita di serie A che seguirà a una vita di serie B.

Dall’esperienza del Covid dovremmo aver appreso che la premura per i nostri giovani, grandi e piccoli, è ben più complessa dei banchi di scuola da recuperare. Che dovremmo ripensare le nostre città, la loro organizzazione, il nostro modo di vivere tornando a farci carico dell’altro, che per crescere ha bisogno di tutti noi, non solo di insegnanti e scuole a cui delegare quello che non sappiamo più fare.

Non si può educare senza indurre alla bellezza” scrive il papa nel suo messaggio alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, e che “un’educazione non è efficace se non sa creare poeti”. Ma la bellezza o si vive od è puro estetismo, come non si possono formare poeti, se la vita non induce alla poesia. Sono apprendimenti sterili quelli che si ricevono sui banchi di scuola, se bellezza e poesia non scaturiscono dal viverle insieme, coinvolti dagli adulti, in un processo di formazione che non può che essere olistico, dalla cui responsabilità nessuno dei soggetti sociali può sottrarsi.

Per leggere tutti gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

LA SOCIETA’ FERITA DALLA CULTURA CAPITALISTA:
e ora si raccoglie ciò che si è seminato.

E’ sconcertante constatare come la dimensione culturale sia presa se non con leggerezza, quanto meno non considerata nella sua reale valenza nel determinare i comportamenti individuali, ma soprattutto comuni, per non dire di massa.

Dalla caduta del muro di Berlino la proposta storica del socialismo reale è risultata perdente di fronte alla sfida della storia lasciando dilagare il pensiero capitalista che ha come unica finalità, come senso e valore della vita, il denaro e il suo accumulo e la competitività come suo strumento per raggiungere il successo. Il profitto come riconoscimento del merito.

A questa prospettiva si è ridotta tutta la complessità della realtà, dall’ambiente produttivo al commercio, dal mondo della ricerca al linguaggio fino al pensiero, arrivando alla qualità relazionale delle persone a partire dall’educazione. La competitività, quindi il successo personale, è diventata l’obiettivo da raggiungere, a cui dedicare ogni sforzo.

Da almeno venticinque anni i governi, soprattutto di destra, hanno costruito il loro successo elettorale inneggiando alle due parole d’ordine: produttività e competitività, smantellando lo stato sociale e privatizzando. Ora che la produttività ha portato al disastro ecologico e la pandemia virale ha fatto emergere l’errore di prospettiva della scelta capitalistica, dall’opposizione si critica la lentezza delle proposte del governo a rispondere all’urgenza della ricostruzione di una società più equilibrata e democratica.
Non si ricostruisce in un momento ciò che si è smantellato in vent’anni. Dopo aver impoverito, con l’istituzione del numero chiuso all’università, la disponibilità dei professionisti di vario genere dai medici agli insegnanti e non solo, non si può pretendere di rispondere con tempestività per quel che è necessario, alle carenze del servizio sul territorio oggi.

Oggi l’importante è capire qual è la strada da percorrere per costruire una organizzazione sul territorio adeguata alle necessità determinate da probabili ma imprevedibili nuove criticità, dovute proprio alla complessità della civiltà in cui ci siamo evoluti. Questo momento richiede la capacità di correggere scelte non adeguate, se non totalmente sbagliate, per limiti di lungimiranza rispetto alla qualità della vita umana.

La cultura inizia dalla scuola di cui noi per primi determiniamo la qualità. Non si può accusare i giovani di mancanza di rispetto e responsabilità civile, dopo che si è insegnato loro, attraverso la competitività, il successo personale come obiettivo principale.
La qualità civile di una democrazia è l’esercizio della libertà personale in un ambito di relazioni che definiscono la libertà comune come progetto di una società pacifica. L’esperienza della libertà personale nel riconoscimento della medesima qualità nell’altro è frutto di una consapevolezza che ha la profondità della storia, dalle origini dell’umanità ad oggi. Costruire questa consapevolezza è il compito della scuola in una democrazia matura, degna del suo passato. Avere cultura democratica e sapere comportarsi civilmente è frutto di una scelta e di una educazione acquisita e personale.

La civiltà è la consapevolezza di sé e del proprio valore, perché si sa da dove vieni e quante scelte e quanta fatica ci sono volute per raggiungerne la qualità attuale. Quindi, c’è da augurarsi che questa drammatica esperienza conduca a considerare la cultura come un valore da tenere in massima considerazione, irrinunciabile addirittura, su cui investire il massimo delle risorse. Il vero valore di una società è la persona consapevole di sé che sa perciò indirizzare le proprie scelte al bene comune.

Al bar Ghepardi si gioca a scacchi

Oggi al bar Ghepardi c’è un torneo di Scala Quaranta. Si gioca con le carte francesi e viene eliminato chi paga centocinquantuno. Lo zio Giovanni è bravo, esperto di carte e vince spesso, anche se il gioco in cui eccelle è gli Scacchi. Anni fa ha vinto alcuni tornei importanti. Ora ha settantatre anni e dice che i suoi riflessi cominciano un po’ a rallentare, anche se continua ad essere un ottimo giocatore.
Il modo in cui lo zio Giovanni guarda gli scacchi mi ha sempre affascinato. Non so come faccia,  ma fissa la Torre (uno dei “pezzi” con cui si gioca)  con una tale intensità che sembra che stia osservando l’arrivo di Faramir, con il suo intero esercito, ad assediare la Torre per liberare la principessa. Faramir è un personaggio di Arda, l’universo immaginario fantasy, creato dallo scrittore inglese J.R.R.Tolkien nel  Signore degli Anelli.  E’ il figlio minore del sovrintendente di Gondor, Denethor nonché fratello di Boromir e Capitano dei Ramingho dell’ithilien.
Lo sguardo dello zio mentre guarda i “pezzi” degli scacchi  sembra proprio un tramite verso un mondo fantasy dove le pedine sulla scacchiera sono le assolute protagoniste della saga.

Altre volte, invece della Torre, guarda la Regina (altro “pezzo” del gioco) con molta devozione, oppure il Cavallo con curiosità e stupore visto che è il più bizzarro e maldestro dei personaggi degli scacchi. Quel gioco ha qualcosa di tremendo e difficile,  si va avanti per ore, si fanno continue ipotesi sulle mosse proprie e degli avversari e, chi ha una più acuta capacità previsionale e riesce ad intuire con anticipo quali saranno le mosse dell’avversario, vince. E’ un gioco complicato che prevede molta concentrazione, conoscenza di schemi logici, capacità di anticipare le mosse dell’avversario, un grande senso tattico e anche un po’ di fortuna. Davvero un gioco con la “G” maiuscola e davvero bravi i giocatori del bar Ghepardi che, istruiti dallo zio Giovanni, sono diventatati i migliori giocatori di Cremantello.
Quando si gioca tutti tacciono, non sono ammessi commenti, si può solo guardare la partita in assoluto silenzio. Come tutte le regole, anche quelle del Gioco degli scacchi del bar Ghepardi, hanno alcune eccezioni. Ad esempio ogni tanto Costantino può sospirare, oppure può sbarrare gli occhi quando non capisce cosa stia succedendo. Oppure può fare qualche flebile fischio, o spostare il peso da un gamba all’altra. Queste sono le uniche varianti concesse al mutismo e all’immobilità che regna nel bar degli zii durante le partite.

Spesso i bravi giocatori di scacchi sono molto giovani. Serve un cervello molto agile e veloce per fare “scacco matto”. Il più giovane “Grande Maestro” della storia degli scacchi, è stato l’ucraino Sergej Karjakin che all’età di dodici anni e sette mesi divenne, nel 2002, Gran Maestro. Ma anche i campioni che hanno detenuto lo stesso record precedentemente sono tutti giovanissimi: Bu Xiangzhi  (13 anni e 13 giorni), Ruslan Ponomarëv (14 anni e 17 giorni), Etienne Bacrot (14 anni  e  2  mesi), Pèter Léko (14 anni, 4 mesi e 22 giorni), Judit Polgàr (15 anni, 4 mesi e 28 giorni), Bobby Fischer (15 anni e 6 mesi). In campo femminile il primato spetta alla cinese Hou Yifan, che nel 2008 divenne “Grande Maestro assoluto” all’età di 14 anni e 6 mesi. L’età di questi eccellenti scacchisti stupisce. Si diventa  grandi giocatori giovanissimi, intorno ai quattordici  anni. Si vede la loro eccezionalità già durante l’adolescenza e poi li si vede proseguire sulla stessa strada stellata.

L’articolo “Developing Young Chess Masters: What are the Best Moves?” di Kiewra e O’Connor presenta un approfondito studio su questi giovani campioni confermando che il duro lavoro ed un ambiente favorevole sono requisiti necessari per formare un genio degli scacchi.
Riferendosi a giovani maestri, gli autori constatano che “Questi ragazzi, in media, giocano a scacchi circa venti ore a settimana per circa dieci anni per raggiungere il livello di maestro. Anche se sono naturalmente dotati, è comunque necessario un impegno di circa diecimila ore per realizzare questo talento“.
Praticare in solitaria non è sufficiente, occorre un ambiente favorevole per raggiungere ottimi risultati. L’articolo inoltre ipotizza che l’investimento finanziario, necessario per allevare piccoli geni della scacchiera a quadri, sia notevole: “Molti genitori hanno speso tra i $5000 e $10000 annuali per le lezioni, i tornei, i viaggi e i materiali“. Inoltre i giovani maestri hanno “lavorato” con giocatori “di livello elevato” per diversi anni.
Non credo che allo zio Giovanni piaccia tutto questo addestramento da “piccoli mostri”. Credo che continui a considerare gli Scacchi un gioco, un divertimento, un modo per passare del tempo impegnando in maniera costruttiva il cervello. Questi super allenamenti da enfant prodige fanno un po’ orrore, non sembrano adatti a dei bambini, non sembrano rispettosi della loro età e della loro cognizione del mondo,  del loro desiderio di divertirsi.

Una volta Bella, dopo molti tentativi, è riuscita a battere lo Zio, le ci sono voluti  anni di esercizi e centinaia di partite perse. Quando si è resa conto dell’impresa portata a termine,  è quasi svenuta dalla gioia. Le persone presenti si sono spaventate. La ragazza sembrava morta d’infarto dopo aver vinto la partita. In realtà, nel giro di poco tempo, Bella si è ripresa ed è apparsa stupefatta di quello che era riuscita a fare. Non le era mai successo di vincere una partita di scacchi con suo padre. Costantino, dal canto suo, saltava sulla sua unica gamba, e fischiava per la soddisfazione. Si sa che Costantino è un assiduo frequentatore  del bar Ghepardi e un grande estimatore delle mie cugine.
La zia Iris non ha commentato, ma era anche lei contenta dell’accaduto, insomma, in quel pomeriggio al bar Ghepardi, si consumò un vero evento. Lo zio Giovanni perse una delle sue rarissime partite e, tra l’atro, proprio con sua figlia.

Io non riesco a capire fino in fondo il fascino di quei pezzi che si muovono in maniera bizzarra sulla scacchiera a quadri.  Ogni volta che li guardo è come se il mio cervello cercasse un altro gioco, un altro modo di usarli, di farli muovere, suonare, danzare.  Oppure un modo per farne una piramide, un mucchio di mattoncini e, in maniera un po’ macabra e fantasiosa, un plotone di poveri soldati fucilati durante una guerra cruenta. A forza  di architettare soluzioni alternative all’uso di quei pezzi un po’ bianchi e un po’ neri,  a un certo punto ho cominciato a metterli in strane file che non stavano più sulla scacchiera ma che scendevano,  dal tavolo da gioco, come piccole formiche. Come insetti disciplinati si incamminavano lungo il piede del mobile e arrivavano fino a terra, mettendosi tutti in fila come tanti prigionieri appena liberati dal carcere che non sanno dove dirigersi, perché non si ricordano dov’è casa loro, non sanno nemmeno se ne posseggono una da qualche parte. Un’altra cosa che mi piace fare, quando non ci sono tornei in corso, è allineare i pedoni sul vetro del flipper del bar. Il vetro è un po’ in pendenza e luccica in maniera imprevedibile, a seconda dei raggi di luce che riescono a trafiggete la tenda che sta tra il flipper e la finestra.  Dopo averli sistemati a debita distanza, provo a spingere il primo della fila per vedere se riesco ad innescare una “reazione a catena” in modo che tutti i pedoni si rovescino e l’ultimo cada dal flipper. Ops! Uno spettacolo. Oppure mi è capitato di inventare dei giochi “optical”, mettendo in fila un  pedone nero, uno bianco, poi di novo uno nero e poi di nuovo uno bianco. Una regressione al look anni ’70 molto lontana dall’uso che si fa di solito dei pezzi di questo gioco.

Alla fine, dopo tutte le partite di scacchi viste giocare, dopo tutta quella concentrazione e dopo tutto quel silenzio, ho trovato un’alternativa alle regole consolidate e condivise e mi sono inventata nuovi stratagemmi eversivi. Un bravo giocatore, ligio alle regole, potrebbe inorridire. Ne avrebbe motivo. Comunque un gioco è un gioco, la creatività non va censurata e la possibilità di inventare, reinventare e cambiare il setting  fa parte del divertimento, del migliore dei divertimenti possibili. La  novità porta spesso con sé sorrisi e stupore. A volte, se le si guarda bene, le pedine degli scacchi sembrano tante persone un po’ bianche e un po’ nere. Non c’è razzismo in quel gioco e questo mi piace molto.

I veri giocatori di scacchi sono comunque dei grandi puristi, le regole ufficiali sono quelle scritte e tramandate e non si possono cambiare, la scacchiera è standard e non può essere toccata, il tavolo deve avere la misura giusta, il silenzio deve regnare sovrano.
Penso però che a 14 anni sia meglio correre in bicicletta, coi roller, andare a nuotare, a giocare a tennis e a vedere il cinema all’Oratorio. Gli scacchi stanno comunque là, sulla loro scacchiera  e aspettano. Sono molto pazienti, molto duraturi, immortali. Quando il tempo sarà passato e i ragazzini di oggi  avranno cinquant’anni, i pezzi del gioco  saranno ancora là uguali, in attesa. Un rompicapo intramontabile.
Ciò che invece tramonta in fretta è l’età.


N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

 

LA FAMIGLIA DI TUTTI?
Le ultime parole di Papa Francesco

Il Papa apre alle unioni civili e dice che tutti hanno diritto a una famiglia. Da tutte le parti si levano voci di gioia e si dice che questo Papa è visionario e coraggioso. Io credo che in parte lo sia, rompe è vero con certa tradizione cattolica, ma lo fa a metà e facendolo a metà crea dei grandi fraintendimenti.
Da cattolica e cristiana che ha curato, insieme a Cristina Guarnieri, il libro di Teresa Forcades Siamo tutti diversi: per una teologia queer edito da Castelvecchi, trovo che chi davvero teologicamente è stata rivoluzionaria è proprio suor Teresa. Lei nel suo libro argomenta con coraggio il sostegno alla battaglia dei gay e delle lesbiche cattoliche perché venga riconosciuto loro il diritto al sacramento del matrimonio. Non è una questione solamente politica, ma anche teologica, quando per teologia s’intende “l’esperienza umana di Dio”. Il matrimonio non è un sacramento perché la coppia porta in se la riproduzione della specie, ma è sacramento perché l’amore che lega due persone (etero o omosessuali, poco importa) rispecchia sulla terra l’amore di Dio, è un amore sacro dunque, in cui la partecipazione di Dio è intrinseca.
L’amore è creativo sempre, genera in tanti modi (non solo facendo figli) il seme del futuro dell’umanità. Ma, per potere dire forte e chiaro tutto ciò, è necessario rimettere in discussione tutta quella teologia della complementarità che accompagna l’esegesi del matrimonio. Il matrimonio non è sacro perché due, un uomo e una donna, avranno dei figli (non si spiegherebbe come mai una donna che è già in menopausa potrebbe sposarsi in chiesa, se questo fosse il fondamento cardine del matrimonio), ma appunto perché immagine dell’amore di Dio e immagine trinitario dell’amore. L’amore infatti è fecondo se trinitario, nel circolo dunque di una relazione non chiusa ma aperta. Due uno che si incontrano, non due metà che incontrandosi si completano. Questo è quello che io ho capito seguendo “la complessità molto semplice” (sembra un ossimoro ma non lo è: suor Teresa entra nella complessità della vita, ma la rende chiara con ragionamenti facili da seguire), delle sue argomentazioni che le permettono di andare alla radice delle questioni teologiche e antropologiche dei nostri tempi.

Dunque perché il Papa si rivolge alla politica e non dentro la stessa Chiesa, che in tal modo potrebbe davvero diventare evangelica nel suo senso più profondo? Certo facendo così sarebbe una rottura dirompente con le gerarchie ecclesiastiche e le rotture grandi preoccupano la tenuta delle istituzioni. Ma io mi chiedo: Gesù quando agiva si poneva questa questione? non mi pare. La sua azione è stata sempre rivoluzionaria, anche politicamente parlando. Se Gesù è il nostro modello, perché chiedersi sempre quale strategia usare per fare passi avanti, soprattutto quando si parla dell’evoluzione dei sentimenti umani? Perché non agire in conformità al sentire evangelico e avere fiducia nella provvidenza?

E infine il Papa si è spinto oltre e ha parlato di diritto alla famiglia di tutti. Cosa intende con famiglia? S’intende sempre e solo quella di una mamma un papà e dei bimbi, o di una comunità fondata sull’amore? Perché, se s’intende la prima, il diritto alla famiglia di qualsiasi coppia apre al diritto ai figli, che per me non è un diritto, e dunque a quell’abominio che è la pratica dell’utero in affitto, dove alle donne, come nella teologia della complementarità, viene riconosciuto valore solo in virtù della loro capacità riproduttiva e non in quanto esseri umani a pieno titolo.
Se invece si pensa alla seconda definizione (famiglia: comunità fondata sull’amore), allora il Papa è sì rivoluzionario e finalmente nuovo. Ma questo lo doveva specificare. Conoscendo lo sforzo che papa Francesco ha fatto per portare nel mondo il valore delle culture indigene dell’Amazzonia, credo che lui pensasse proprio a questa definizione, ma continuo a chiedermi, perché non lo ha specificato? Perché crede che questa definizione sia sottintesa in un Occidente che invece continua imperterrito la corsa verso gli interessi privati, dei singoli e disinteressandosi di un ben più ampio bene comune?

PER CERTI VERSI
A questa luna

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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A QUESTA LUNA

Come era
Come era bella
Iersera
Quell’unghia di luce
Nel vuoto universo
E le lentiggini
Del cielo emiliano
Senza bava di vento
Un artiglio di pace
Mi prende il bavero
Stretto tra le umide spalle
Non si vede più
Tutto tace
Tra sparse caligini
Si immagina
San Luca
Tu
La prima stella
Che sbuca
La piana sfuma
Non si ribella

BUONI SPESA AD OSTACOLI
Arriva il nuovo bando del Comune di Ferrara

Proviamo a ricapitolare.
Questa primavera, durante la durissima prima emergenza, la vicenda dei Buoni Spesa a Ferrara ha occupato la cronaca dei media locali e sbarcando anche su quelli nazionali. Da subito sono stati criticati i criteri, le modalità, le precedenze, le esclusioni, la non trasparenza con cui Il Comune di Ferrara aveva gestito l’assegnazione dei Buoni. Davanti a una vasta mobilitazione cittadina partita dal basso, la difesa della Giunta è apparsa capziosa, impacciata. Soprattutto non convincente. Da notare tra l’altro che dopo la chiusura dei termini erano avanzati 30.000 Euro e una lunga fila di esclusi.

Si arriva così all’ordinanza del 30 aprile 2020 – confermata anche in sede di reclamo – con la quale il Tribunale di Ferrara ha dichiarato discriminatoria la Delibera del Comune che limitava l’accesso ai Buoni Spesa destinati al sostegno delle famiglie colpite dall’emergenza COVID ai soli stranieri in possesso del permesso di soggiorno per lungo soggiornanti, escludendo quindi i titolari di un permesso ordinario per famiglia o lavoro, i titolari di protezione internazionale, i richiedenti asilo.

La stessa ordinanza  ordina al sindaco Alan Fabbri di “riformulare i criteri e le modalità di assegnazione”, rimuovendo le clausole relative alla durata del permesso di soggiorno e alla residenza e consentendo la presentazione di nuove domande per chi presentava (all’epoca del lockdown) “i requisiti relativi alla condizione di disagio economico e alla domiciliazione nel territorio comunale”.  Il Comune di Ferrara è anche tenuto a pagare le spese legali degli stranieri che avevano fatto ricorso. E veniamo ad oggi .

Il Comune di Ferrara ha dovuto avviare un nuovo bando. Si direbbe però molto di mala voglia

Provare per credere:
Il sito del Comune di Ferrara ha un banner blu in homepage che porta a una pagina dedicata ai Buoni Spesa. Chiunque cliccherebbe quello. Peccato che si arrivi alla pagina del vecchio bando per la distribuzione dei buoni, difatti c’è scritto che la scadenza è il 24 di aprile. https://servizi.comune.fe.it/9568/emergenza-coronavirus-buoni-spesa
Nonostante l’imponente servizio stampa del Comune, nessuno si è preso la briga di cancellarlo.

E il nuovo bando? Per trovarlo nel sito del Comune bisogna impegnarsi parecchio. Invece di metterlo in evidenza e renderlo facilmente raggiungibile, bisogna scorrere tutta la catena dalla homepage. Alla fine ne trovate notizia in un angolino. Ecco il link: https://servizi.comune.fe.it/9693/nuove-domande-buoni-spesa

Tutto a posto? Nemmeno per sogno. Nel nuovo bando si ritrovano alcuni vizi – chiamiamoli errori – del primo. Proprio come in primavera, anche questa volta la richiesta si potrà fare solo telefonicamente, senza possibilità di verificare ufficialmente la propria domanda. Tutti sanno quanti problemi e quante proteste aveva prodotto questa scelta. Eppure il Comune ha deciso di non tenerne conto.
Anche i tempi sono inspiegabilmente strettissimi. Si potrà chiamare solo dal 26 al 30 di ottobre.

PRESTO DI MATTINA
Risonanze

Risonanze di vangelo, parole antiche e sempre nuove, sono per me le poesie di Carlo Betocchi. Il suo è un vangelo vissuto a caro prezzo nel quotidiano; una scrittura incisa nel corpo delle cose, ferita per liberare il soffio d’anima prigioniero in esse. Ma al tempo stesso una scrittura seminata nel tempo ‒ «un passo, un altro passo» ‒ per ritrovare «tracce mutili», frammenti di senso dentro al muto silenzio del quotidiano. Eppure «col suo silenzio/ la mia anima benda le sue ferite./ E crede, infinitamente crede/ al mutamento. E vi scivola/ dentro. Tutto è compiuto/ e tutto è da compire./ Nel mio silenzio» (Tutte le poesie, Milano 1996, 578). Un vangelo compiuto e tutto da compiere ‒ dunque ‒ scevro da compromessi, spoglio da sicurezze, senza difese, né privilegi. Un vangelo al vivo, che rincuora la vita.

Quella di Betocchi è una fede che si consegna in abbandono all’altro che gli viene incontro; scaturita da ferita d’io che guarisce facendosi umiltà d’amore. Solo così ci si può convincere che la stoltezza del vangelo è più sapiente degli uomini e la debolezza del vangelo è più forte della forza degli uomini (1 Cor 1,25): «A me la fede/ non consente che un grido ed una voce:/ è quel poco che so, che sento vero/ dentro di me: ed in quel vero accendo/ l’essere a farsi un uomo che cammina/ solo e con tutti, innanzi a sé pregando» (Ivi, 545).

In particolare, una poesia di Carlo Betocchi mi accompagna da tanti anni, invitandomi all’umiltà d’amore. È un testo generativo di uno stile e di una pratica pastorali, che fanno partire alla ricerca del vangelo celato in qualunque frammento del creato, pure nel sasso, nell’albero, nel fuoco, nella sorgente in un fiato d’aria. Un vangelo tra la gente; un vangelo di vangeli, fuori dai recinti di coloro che si ritengono giusti. Presente pure nelle strade dove tendono agguati i briganti, ma percorse anche dal samaritano della parabola evangelica che, a motivo di quella debolezza forte e di quella stoltezza sapiente che promanano dalla compassione, non passa oltre, restando con l’altro, praticando così lo stesso operare di Dio nel rivelarsi a Mosè: “dì loro che io sono [l’altro], colui che sono accanto, che mi faccio prossimo a voi”.

Eccola: «No, non temere mai nulla da Dio…  Non temere il Signore Dio tuo. Ha detto: “Io sono quello che sono”/ e tu non temere mai nulla: poiché,/ se tu credi, non sarà tua l’esistenza,/ ma sua: né sarà mai protetta, tuttavia,/come tu speri e credi: anzi, gettata/ nelle fosse. Chi crede in Dio/ si appresti ad essere l’ultimo/ dei salvati, ma sulla croce, ed a bere/ tutta l’amarezza dell’abbandono./Poiché Dio è quello che è.
Ma si è già nel Vangelo quando/ non se ne può più uscire:/ e vi si è ancora quando,/ stanati dalle mura della sua Chiesa/ per impossibilità di restarvi,/ allora il Vangelo ci insegue/ come il veltro la preda agognata./ Fra te e la salvezza non/ altre vie che quelle segnate/ dal Vangelo; ma in quelle che vedi/ vanno, fra sciami d’innocenti,/ turbe d’ignavi e d’ipocriti./ E dunque fra te e il Vangelo /non c’è che il nasconderti/ dentro e sotto di lui come gramigna/ nel suolo, a far speco terroso/ in cui si realizza, come si può,/ quel che non esiste che nei fatti:/ qui in terra, e nella carità» (Ivi, 459-461).

Mario Luzi, in un’intervista (Biblia Notiziario 1996), ricordava che quel piccolo demiurgo che è un poeta, quando si accosta al vangelo, lo fa non tanto per la potenza e l’autorità di quella Parola, ma semmai, seguendo la singolarità che gli è propria, quella di smascherare le false parole, di scoperchiare quelle che, come sepolcri imbiancati appaiono all’esterno belle all’udirsi, ma dentro sono parole morte. E tuttavia quelle del poeta sono parole vere perché testimoniano non tanto il Creatore e il Padre nostro che è nei cieli, ma la sua creatura. In tutti i casi, in comune tra loro, la parola del vangelo e quella del poeta hanno l’amore per l’uomo. Talché il poeta, udendo la parola di Dio, ne coglie gli echi profondi e le risonanza che essa tesse con i silenzi degli uomini nel loro umano interrogare. «Il Vangelo – scrive Mario Luzi – è poesia esso stesso, nel senso di poiesis che crea l’esigenza di pensieri, crea pensieri nuovi, esalta l’esistente e l’assente nello stesso tempo. Fa sentire così vivo il mondo, così drammatico».

Ne La poetica dello spazio, Gaston Bachelard, per esprimere gli echi profondi generati nel lettore da un testo poetico, usa una parola francese intrigante: retentissement, da rententir, riempire di un suono forte o di un brusio, come refoli di vento a intervalli costanti in uno spazio che si dilata sempre più. Retentissement deriva dal latino tinnere, tintinnare, risuonare di suoni brevi o allungati, fievoli o rimbombanti; a volte è un bisbigliare da un orecchio all’altro, altre come un’ola nello stadio; un farsi intendere ripetutamente come un’eco, nello stesso perdurare di un’azione come l’andirivieni delle onde nel mare, l’espandersi di odori e profumi o il diffondersi di canti gioiosi, o di lamenti; rumori di officina, pesanti grida o il vagito di un neonato.

Retentissement possiede dunque una ricchezza semantica che non si coglie nella sua traduzione italiana con ‘risonanza’. Teniamo quindi a mente nel leggere quanto osservava al riguardo Bachelard: «Le risonanze si disperdono sui differenti piani della nostra vita nel mondo, il retentissement ci invita ad un approfondimento della nostra esistenza. Nella ‘risonanza’ non facciamo che intendere la poesia, nel retentissement la parliamo, è nostra. Il retentissement opera un cambiamento d’essere: l’essere del poeta sembra diventare il nostro… L’esuberanza è la profonda ricchezza di una poesia sono sempre fenomeni del doppione ‘risonanza-retentissement’: la poesia pare ridestare in noi echi profondi in virtù della sua esuberanza». Questo determina come un risveglio nel lettore, un divenire che lo trasforma: «La immagine che la lettura del poema ci offre, eccola diventare veramente nostra: essa si radica in noi stessi, e, sebbene noi non abbiamo fatto che accoglierla, nasciamo all’impressione che avremmo potuto crearla noi, che avremmo dovuto crearla noi. Essa diventa un essere nuovo del nostro linguaggio, ci esprime facendoci diventare quanto essa esprime, o, in altre parole, essa è al tempo stesso un divenire espressivo ed un divenire del nostro essere», (ivi, 12-13). Così il retentissement costituisce quel fenomeno che fa percepire al lettore ciò che il poeta ha scritto come fosse il proprio dire; lo fa cosciente che in lui abita la capacità linguistica ed espressiva dimorante nel poeta.

Nella traduzione francese della Bibbia ho trovato diverse ricorrenze testuali del nostro termine. In particolare, mi sono soffermato sul Salmo 19, che amplifica e diffonde le risonanze e le voci della creazione che narrano l’opera ‒ poetica anch’essa vien da dire ‒ uscita dalle mani di Dio. Il ritmo è incalzante, crescente, uno sparpagliarsi di suoni. Dai cieli si avvia la narrazione e, come una cascata, risuona sulla terra attraverso il distendersi dei giorni e delle notti, che traghettano nel tempo e lungo la storia quanto hanno udito e ricevuto. Le notizie trasmesse non sono discorsi chiaramente udibili e afferrabili, ma nell’intero spazio terrestre è ‘uscito il loro suono, se ne diffonde la voce’, tanto che fin all’estremità della terra ‘risuona la parola: «Leur retentissement parcourt toute la terre. Leurs accents vont aux extrémités du monde».

In questo ‘passa-parola’ di trasmissione e di recezione della vita, la creazione continua a muoversi, a ricrearsi, come quando in uno stagno d’acqua ferma si gettano sassi, che creano risonanze ondose a forma di cerchi, che vieppiù si espandono ingrandendosi. E incrociando il movimento ondoso provocato dagli altri sassi, essi creano trasformazioni e nuove armonie figurative rispetto alla forma iniziale. I cerchi che vengono così attraversati dalle onde degli altri ne sperimentano le risonanze come fossero le proprie, e forse qui, simbolicamente, ci viene rappresentato il fenomeno ricordato da Gaston Bachelard, che porta il lettore a sentirsi come il poeta, a percepire, almeno un poco, il testo come appartenente anche a lui.

La ricezione di un testo «è la capacità di fare azione, di fare passi incontro, anche quando il movimento sembra partire da altri, come i cerchi nell’acqua, non è ripetizione ma direi intensità nell’azione con cui anche chi riceve prende parte attiva nel far sua la cosa che riceve» (Luigi Sartori).

Padre Marcello dopo ogni colloquio o confessione diceva sempre a chi aveva di fronte: «avanti, avanti». Il mio congedo è simile: «un altro passo». Espressione che rivolgo spesso anche a me stesso la mattina, o quando sto per iniziare qualcosa di impegnativo o faticoso. Non fu allora solo meraviglia quella volta che, saltando qua e là tra le pagine dell’opera poetica di Carlo Betocchi, trovai il titolo di un testo che corrispondeva esattamente al mio quotidiano dire la speranza: Un passo, un altro passo

Un passo, un altro passo,
ivi del cielo il masso
azzurro, la vivente natura,
e l’inferma pietà
che se stessa conosce negli errori,
e la lieve follia, ivi la morte,
il rumore e il silenzio,
e il mio esistere anonimo;
e come dalla pietra sale il canto
di un colore che è muto,
un passo, un altro passo,
e inciampicando nel divino esistere
io giungo a riconoscermi nel sasso
che sospira all’eterno, in alto, in basso.”
(ivi, 286).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

Al cantón fraréś
Giorgio Alberto Finchi: “Al vin di nòstar cò”

L’autore, dopo aver scritto sul magnàr, su erb e piant delle nostre terre, ha compilato un repertorio in poesia dialettale sul mondo del vino nostrano: le pratiche nella vigna e in cantina, il bere all’osteria e la degustazione al ristorante, la selezione dei vitigni, gli abbinamenti gastronomici, le caratteristiche organolettiche delle varie denominazioni. Il tutto con umoristica leggerezza.
Di seguito proponiamo un compendio storico in rima, il ricordo di una antica uva bianca, un breve assaggio di vino rosso locale.

 

Pìcula storia dla vida e dal viη

Fin da la più luntàna antichità,
i m’à sémpar dit a scola,
al vin al jéra rinumà
e l’an è briśa na fòla
parché źa int l’era terziaria
dill piànt ad vida è sta’ truvà
int ill roć ad arenaria
e da alóra l’à “źarmujà”.
Qualcùn diś che la vida
l’as è misa iη salv coη l’arca,
e che Noè al l’à cargàda
iηsiém all besti, su cla barca.
La prima źént ch’là cultivàda,
sémpar stand a la storiografia,
dla Persia a par ch’la sié stada,
źa espert d’agronomia.
Int la penìśula italiana
prima dl’òm l’à mis ill radìś
e acsì iη val Padana,
sémpar stand a quél ch’i diś.
Rivà l’òm, int la preistoria
con di graη bucàj ad vin
al s’è mis a far baldoria
e a cantàr cmè i putìη.
Ma diéś sècul prima ad Crist
j’Etruschi, źént furèst
che da nu iη s’jéra mai vist,
i l’à difùśa in tut al rest,
iη zéntar e setentrióη
śgónd i źir dal so cuntèst
e in ogni altra direzióη.

Piccola storia della vite e del vino (traduzioni dell’autore)
Fin dalla più lontana antichità, / mi hanno sempre insegnato a scuola, / il vino era rinomato / e non è una favola, / perché già nell’era terziaria / piante di vite sono state ritrovate / nelle rocce di arenaria / e da allora ne hanno fatto di cammino. / Qualcuno dice che la vite / si è messa in salvo con l’arca / e che Noè l’ha caricata / insieme alle bestie, su quella barca. / I primi che l’hanno coltivata, / sempre stando alla storiografia, / sembra siano stati i Persiani, / già esperti di agronomia. / Nella penisola italiana / ha germogliato prima dell’uomo / soprattutto nella Valle Padana, / sempre stando a quanto hanno riferito. / Quando giunse l’uomo preistorico / con grandi boccali di vino / ha cominciato a fare baldoria / e a cantare come un bambino. / Ma dieci secoli avanti Cristo / gli Etruschi, popolo sconosciuto, / che ancora non si era visto, / l’hanno diffusa in tutti i territori, / del centro e del settentrione / e in base alla loro diffusione / anche in altre direzioni.

 

Liàdga

Agh jéra un temp
una pianta ad vida
che agh bastava póca cura:
ad sólfana na supiàda,
uη pó d’calzìna e sulfàt ad ram,
e la carséva seηza stòri
avśìn a ca’ o luηgh all tirèli.
La dava di grap cumpì
ad vó źala, bela e brilànta
tanta bòna da magnàr.
La bunéva purasà prest,
adritùra a la fin ad luj,
e par quést la gnéva ciamàda
‘la prima vó’ o ‘vó Liàdga’.

Lugliatica
C’era un tempo / una pianta di vite / che aveva bisogno di poche cure: / una soffiata di zolfo, / un po’ di calce col solfato di rame, / e cresceva senza tante storie / vicino a casa, lungo i filari. / Dava dei grappoli compiuti / d’uva gialla, bella brillante / e tanto buona da mangiare. / Maturava molto presto, / addirittura alla fine di luglio, / e per questo veniva chiamata / ‘prima uva’ oppure ‘uva Lugliatica’.

 

Rós dal Bosco Eliceo

Chì da nu agh è sémpar sta’
dal bóη viη par la vrità:
al teréη l’è ‘η pó sabióś
mò al viη l’è bel curpóś.
Vers al mar, vers a Vulàna
e più iη là, vers a Funtàna,
agh è uη vin da ‘giubilèo’,
al rós, apùnt, dal Bosch Elicèo.
Catàr l’origine ad chi’sta vida
l’è sicùr na bela sfida:
tant studióś i gh’à pruvà
e l’è finì int na bugà.
Fòrsi nata su ill mòt dal litoràl,
acsì salvàdga tal e qual
o cultivàda da quìi ad Spina
e dai Rumàη sira e matìna.
Zèrti i dscór d’Renata d’Francia,
d’j’àltar i diś con titubaηza
che la viéna dal meridióη
coη na bòna uservazióη
che al grap iη riva al mar,
e quést al par bèl ciàr,
al bunìs coη più vigór,
dat ach gh’è uη pó più ‘d calór
e ór ad luś aηch uη pó ad più,
al savévan aηca nu…
. . . . . . . . . . . . . . . .

Rosso del Bosco Eliceo
Qui da noi c’è sempre stato / del buon vino in verità: / il terreno è un po’ sabbioso / ma il prodotto è bello corposo. / Verso il mare, verso Volano / e più in là, verso la Fontana, / esiste un vino da ‘Giubilèo’, / il rosso del Bosco Elicèo. / Scoprire l’origine di codesta vite / non è molto facile, / tanti studiosi hanno tentato / e non ci sono riusciti. / Può essere nata spontaneamente / sulle dune del nostro litorale, / poi coltivata dagli Spineti / e dai Romani in ogni tempo. / Chi ricorda Renata di Francia, / altri dicono con incertezza / che provenga dal meridione / secondo la giusta osservazione / che il grappolo in riva al mare, / e questo è bello evidente, / matura con più vigore, / dato anche che c’è più caldo / e vi sono più ore di luce, / questo lo sappiamo anche noi… / . . . . . . . . . . / . . . . . . . . .

Tratte da: Giorgio Alberto Finchi, Al vin di nòstar cò : storia e poesia dei vini del Delta, Ferrara, Centro di Documentazione Storica, 2004.

Giorgio Alberto Finchi (Porotto 1929 – Ferrara 2008)
Medico condotto a Pontelangorino per 42 anni, socio del Gruppo Mandolinistico Codigorese, dell’Associazione Medici Scrittori Italiani, del Tréb dal Tridèl, del Moto Club Delta… Fra le sue pubblicazioni si ricordano: L’e tuta colpa dal prugress (1997), Al magnàr di nòstar cò (1998), Erb e piant di nòstar co’ (1999), con altri il Vocabolario del dialetto ferrarese (2004), Sanità fra satira e umorismo (2006). Ha composto sette commedie dialettali tutte rappresentate dalla compagnia “Straparót” di Porotto, per la regia di Mario Montano.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Vigneti sul Po. Foto di M. Chiarini 

“Riaprite la Biblioteca Rodari”:
una lettera dei cittadini ancora senza risposta

Come gruppo di “Cittadini in difesa della Biblioteca Rodari” nei giorni scorsi abbiamo inviato una lettera, che riproduciamo qui sotto, per chiedere un incontro sulle problematiche e le prospettive della Biblioteca Rodari, servizio del quale sentiamo gravemente difficoltà e necessità.
Purtroppo a tutt’oggi non abbiamo avuto alcuna risposta.
Speriamo ancora che le promesse di ascolto della società civile altre volte proclamate, trovino presto riscontro; certamente noi non desisteremo dall’occuparci del tema, sempre nel rispetto dei ruoli di ciascuno ma con la convinzione che anche la nostra voce abbia il diritto di essere ascoltata.
Con preghiera di pubblicazione.
Cordiali saluti
Luigi Rasetti
a nome e per conto del gruppo di cittadini a difesa della Rodari
testo della lettera inviata agli Amministratori:
Gentile Sindaco Fabbri,
Gentile Assessore Gulinelli, 

come sapete, il 3 ottobre scorso si è tenuta una pubblica manifestazione davanti alla Biblioteca G. Rodari, alla quale hanno partecipato numerosi cittadini (oltre 170 presenze registrate), che si sono uniti agli organizzatori per esprimere grave preoccupazione per la crisi della Rodari. 
Facendo seguito a tale iniziativa, siamo a chiedere ad entrambi di voler partecipare ad una pubblica assemblea nel quartiere Krasnodar allo scopo di dialogare con i cittadini su: 

1. Riapertura al pubblico della Biblioteca Rodari di v.le Krasnodar 102 ad orario pieno, il prima possibile.
2. Ripristino di personale bibliotecario specializzato (3 postazioni fisse, in presenza) in tempi brevi.
Inoltre, a seguito delle recenti dichiarazioni del sig. Sindaco sulla nuova biblioteca del Sud della città da collocare all’Ippodromo, vorremmo capire ed eventualmente avanzare richieste e proposte su:
3. Individuazione di una più idonea sede della Rodari sempre nel quartiere di V.le Krasnodar e nel contempo condividere una eventuale nuova destinazione d’uso dei locali di V.le Krasnodar102 che, per il vuoto di servizi di comunità che si creerebbe col trasferimento della biblioteca, potrebbe rappresentare un punto di riferimento di incontro a livello civico.

Chiediamo che tale assemblea pubblica possa aver luogo entro le prossime 2-3 settimane. Siamo fiduciosi che la nostra richiesta venga accolta favorevolmente e con spirito costruttivo. Da parte nostra, assicuriamo la massima disponibilità a collaborare ed operare nell’ottica del bene comune. Ringraziando per l’attenzione, restiamo in attesa di un riscontro e porgiamo cordiali saluti.

Cittadini a difesa della Biblioteca Rodari

GLI SPARI SOPRA
“Nessuno si salva da solo”: un ateo dalla parte di Bergoglio

Ci si salva se si agisce insieme e non solo uno per uno” (Enrico Berliguer)

“Nessuno si salva da solo” (Jorge Maria Bergoglio)

Io faccio davvero fatica a capire la religione, dice, per forza sei ateo. No, ma non è assolutamente quello il punto e nemmeno il motivo. La religione funziona per dogmi, funziona quando impone il fanatismo nel giudizio sugli altri. Nella storia gli esempi sono migliaia, parliamo solo della religione cattolica, la santa inquisizione, l’evangelizzazione delle Americhe, dell’Africa e dell’Oceania, e fermiamoci qua. Esistono degli esempi però altrettanto virtuosi, anzi le parole del Gesù fattosi uomo, parlano d’altro, molto spesso, nei secoli sono state modificate per convenienza. Lasciamo perdere le date dei vangeli, non apocrifi, e la storicità degli stessi, ma siamo davvero sicuri che i detrattori del attuale papa Francesco, che non a caso ha scelto il nome del Santo di Assisi, siano credenti?

Mi spiego meglio, la teologia della liberazione ha un grosso punto d’incontro tra cristianesimo e marxismo, ora immagino di far vibrare sulla sedia i bigotti di entrambe le correnti di pensiero, ma io da marxista curioso, gramsciano e non dogmatico, proseguo.
Ricordo male, oppure scavando nei miei lontanissimi anni di catechismo, che quel Ragazzo di Nazareth si schierava sempre e apertamente dalle parte degli ultimi? Vero, forse non era prettamente femminista, ma duemila anni fa, non ricordo che nessuno lo fosse.
Forse mi sogno quando, sempre Cristo, parlava dei ricchi e della cruna dell’ago?

La mia memoria vacilla, quando ricordo la storia dei mercanti e del tempio oppure della rivoluzione nei confronti del potere costituito, contro i soprusi degli oppressori romani in Palestina? Un po’ come l’imperialismo di oggi dello stato di Israele, ma non vorrei andare fuori tema.

Un amico mio scrittore dice che per scrivere occorre partire da un punto A per arrivare a un punto B. Ecco io generalmente, parto per una scrittura senza prima avere in mente quale sarà il mio punto d’arrivo. Ecco perché ho così tanti limiti e forse mai diverrò uno scrittore, rimanendo per l’eternità uno che scrive.

Ritorno alla mia analisi sul pensiero religioso e sul pensiero di papa Francesco, mi chiedo, perché Bergoglio sia più odiato dai credenti che dagli atei?
Continuo, perché è più vicino ai pensieri originari della sinistra, che ai pensieri originari della destra?
Nella mia piccola mente, la risposta pare scontata, forse perché il concetto di religione originario stava sempre e per dogma dalla pare degli ultimi, “ama il prossimo tuo come te stesso”, le parole non sono di Francesco ma del figlio del titolare.
Quando la religione per millenni è stata dalla parte del più forte, dalla parte dell’oppressore, dalla parte del re, della regina, dell’imperatore e dello zar, tutto andava bene. Difendiamo i confini, riprendiamoci il sacro sepolcro, combattiamo gli infedeli, sterminiamo gli adoratori di idoli. Fino qui andava bene a tutti.

Anche ora, secoli dopo, molti finti credenti (la maggioranza?) pensano che Gesù Cristo fosse dei loro, fosse dalla parte dei vincenti.
Ma non è così, fu il primo degli sconfitti, non rinnegò i fratelli o meglio quelli con cui Egli condivise il pane (cum panis), fino al massimo sacrificio.
Perché ora duemila anni dopo, quelle stesse parole, quello stesso verbo danno ancora così fastidio? Magari perché in molti credono in maniera bigotta, senza testa, fissi a testa in giù, continuando ad uccidere, con le armi o con le parole, tanto poi ci si pulisce l’anima con la confessione.
Siamo tutti peccatori, uccidiamo e poi ci pentiamo.
Chi è senza peccato scagli la prima pietra, diceva Lui.

Credo che il pensiero ottuso, di chi pensa alla religione a proprio uso e consumo sia una dei grandi mali dell’umanità da sempre, gli uomini hanno sempre avuto bisogno di un Dio, fatto a propria immagine e somiglianza, al loro servizio, del colore della loro pelle, con gli stessi tratti somatici.
Molto meglio gli idolatri, che non volevano dominare gli dei, ma del sole e della luna ne seguivano i flussi, non pensavano che Dio fosse con loro, il mondo, la terra, il cielo non è di proprietà, ma è in prestito, da restituire migliore alle future generazioni, dicevano i selvaggi.

Avere paura delle parole di papa Bergoglio, criticandolo come blasfemo, solo perché riporta direttamente le parole del Rivoluzionario palestinese, mi sembra veramente una grandissima ipocrisia.
L’ipocrisia di che crede che Gesù Cristo sia bianco, biondo e con gli occhi azzurri.

Non credo di essere particolarmente credibile, da ateo, quando parlo di religione.
Io invidio chi crede in modo laico e ponendosi domande, disprezzo altamente chi ancora si alza il bavero e sostiene che dio sia con lui, e che lui sia come dio (le minuscole qui sono volute).
Credo che le parole siano sempre quelle, sta nell’interpretazione il problema. Quando un uomo, dalla pelle scura, dai tratti orientali e dai capelli lunghi, stando alle scritture e agli atti, un po’ sbiaditi essendo una storia di duemila anni fa, diceva parole rivoluzionarie, che ascoltate ora, dalla voce di un papa, a molti credenti, danno assai fastidio. Forse perché quell’uomo assomigliava molto all’uomo nero di cui hanno tremendamente paura?

PAROLE A CAPO
Marinella Giuni: “Il mio ritorno” e altre poesie

“Come c’è un poeta che canta le violette e i tramonti e un altro che canta i tuoni e le bufere, così ci sono, accanto a poeti che cantano raggelati amori astratti, poeti che cantano tumultuose tragedie sessuali. E a nessuno viene in mente che questo faccia qualche differenza.” (Fernanda Pivano)

 

Perla

Questa lacrima
è una piccola perla
gioiello di un tempo lontano
che scava ora
il tuo viso di marmo
Il sole rapido cala
e nell’ultimo raggio
mi offre la tua mano
Rinunciare
sarebbe follia pura

 

Ogni giorno

Ogni giorno
questo potere
di bloccarti
alla sbarra
mi piace.
Sotto il sole
infuocato
il convoglio rallenta
come sapesse
del nostro incontro.
Ed io
che ne sono certa
godo
del vento
dell’aria leggera
del tuo saluto
sconosciuto.

 

Il mio ritorno

C’è una sola luce
che accende
la mia sera.
La tua finestra
quando illumina
la casa buia.
Dimmi che anche tu
hai amato
il mio ritorno.

 

Marinella Giuni (1961) , abita a Voghera. Laureata in Psicologia Clinica e di Comunità all’Università di Torino, spazia tra diversi interessi sportivi e culturali. Vincitrice e segnalata in diversi concorsi, ha pubblicato “Racconti seri se_veri” con Placebook Publishing e la raccolta di poesie “Nella stanza del te” con Le Mezzelane. Il suo sogno è mollare tutto ed aprire una libreria con le sue amiche lettrici e scrittrici!

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. .\4
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

L’IMPRENDITORE CON LA PASSIONE PER L’ECOLOGIA:
ricordando Aurelio Peccei

In un recente articolo Repubblica ha ricordato Aurelio Peccei, imprenditore e manager con la passione per l’ecologia, che nel 1968 riunì a Roma, assieme allo scienziato scozzese Alexander King, alcuni studiosi presso la sede dell’Accademia dei Lincei dando origine al Club di Roma, associazione non governativa, non profit che da allora persegue “la missione di agire come catalizzatore dei cambiamenti globali, individuando i principali problemi che l’umanità si troverà ad affrontare, analizzandoli in un contesto mondiale e ricercando soluzioni alternative nei diversi scenari possibili” (Wikipedia). Uno dei primi atti dell’attività del gruppo fu la richiesta al Massachussets Institute of Technology di Boston (MIT) di stendere un rapporto sullo stato del pianeta e di prevedere cosa avrebbe provocato la crescita economica che dal dopoguerra ha caratterizzato i paesi sviluppati.
Il rapporto, pubblicato nel 1972, con il titolo I limiti dello sviluppo (The Limits to Growth, o rapporto Meadows, da due degli autori), giungeva alle conclusioni che la Terra nel giro di qualche generazione sarebbe andata incontro ad eventi catastrofici a causa del superamento delle capacità del pianeta di sopportare le attività industriali umane”.

È lo stesso Peccei a sintetizzarne le conclusioni in una intervista rilasciate nel 1973 a Piero Angela (disponibile su futuranetwork.eu, sito che presenta studi, articoli, interviste, segnalazioni di materiali focalizzati sulla necessità di esplorare i possibili scenari e di decidere oggi quale futuro vogliamo scegliere tra i tanti possibili). Per me quello studio fu una illuminazione”, racconta oggi Angela. “All’epoca c’era l’idea di una crescita continua, come l’avevamo conosciuta nel dopoguerra. Ma oggi la cultura di quel rapporto è finalmente stata rivalutata”.

Peccei, dopo esperienze lavorative in Italia e all’estero, in ambito FIAT, nel 1964 entrò come amministratore delegato in Olivetti, che già allora iniziava ad affrontare le prime difficoltà a causa dei profondi cambiamenti in atto nella produzione delle macchine da ufficio. In seguito, non soddisfatto dei risultati ottenuti con Italconsult (una joint-venture tra diversi marchi italiani, quali Innocenti, Montecatini e la stessa Fiat) e con la presidenza dell’Olivetti, concentrò i suoi sforzi anche su altre organizzazioni, come ADELA, un consorzio internazionale di banchieri di supporto allo sviluppo economico dell’America del Sud; inoltre partecipò alla fondazione dell’IIASA (The International Institute for Applied Systems Analysis) con sede a Vienna centro di ricerca per problemi globali come sovrappopolazione, cambiamenti climatici, fame.
Un personaggio straordinario, che, come ricorda Gianfranco Bologna (ambientalista, è stato segretario del Wwf italiano e della Fondazione Aurelio Peccei – Club di Roma Italia) nella sua frequentazione tra il 1976 e il 1984, “ha contribuito a cambiare il modo di intendere il nostro rapporto con il Pianeta che ci ospita”. E’ di quegli anni l’idea e poi la costituzione del Club di Roma.

Nel 1992 (con Peccei morto nel 1984) è stato pubblicato un primo aggiornamento del rapporto, intitolato Beyond the Limits (Oltre i limiti), nel quale si sosteneva che erano già stati superati i limiti della “capacità di carico” del pianeta.

Un secondo aggiornamento, dal titolo Limits to Growth: The 30-Year Update è stato pubblicato nel giugno 2004. In questa versione Donella Meadows, Jørgen Randers e Dennis Meadows, alcuni degli autori del primo rapporto, hanno aggiornato e integrato la versione originale, spostando l’accento dall’esaurimento delle risorse alla degradazione dell’ambiente. Nel 2008 Graham Turner, del Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (CSIRO) Australiano, ha pubblicato una ricerca intitolata Un paragone tra I limiti dello sviluppo e 30 anni di dati reali, in cui ha messo a confronto i dati degli ultimi 30 anni con le previsioni effettuate nel 1972. La conclusione è stata che i mutamenti nella produzione industriale e agricola, nella popolazione e nell’inquinamento effettivamente avvenuti sono coerenti con le previsioni del 1972 di un collasso economico nel XXI secolo.

“Ma, continua l’articolo di Repubblica, come fece Peccei a capire con così grande anticipo? E perché non fu ascoltato?” “Capì, risponde Enrico Giovannini, membro del consiglio direttivo del Club di Roma, e portavoce di ASVIS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile), perché adottò un modello basato su sistemi che interagiscono, a fronte di un approccio che invece privilegiava saperi segmentati: gli economisti si occupavano di economia, i geologi di geologia […] Fu la sua visione sistemica a permettergli di fare simulazioni sul futuro”.

È incredibile come quei modelli ci abbiano azzeccato. Nel 2014 uno studio australiano ha confrontato i grafici del Club di Roma con gli andamenti reali degli ultimi 50 anni: in molti campi (inquinamento, risorse, popolazione) i grafici sono praticamente sovrapponibili. Fa impressione la proiezione sugli abitanti della Terra: prevedeva un picco di 8 miliardi di abitanti nel 2020 che sarebbero scesi a 6 miliardi entro fine secolo: 2 miliardi di persone in meno nel giro di 80 anni. “Oggi, dice Giovannini, siamo drammaticamente vicini ai picchi previsti 50 anni fa dal Club di Roma”. Ma allora i potenti dell’epoca sottovalutarono l’allarme. “Risposero che la tecnologia avrebbe trovato le soluzioni e il mercato si sarebbe adattato”. “Ci fu anche chi accusò Peccei di catastrofismo”, aggiunge Gianfranco Bologna. “ll fronte di quelli che oggi chiameremmo negazionisti si unì contro il Club di Roma, da destra a sinistra”.

Fa poi impressione leggere nell’introduzione di un libro pubblicato negli ultimi anni del secolo scorso (Futuro sostenibile, ed. EMI, Bologna) a cura del Wuppertal Institut für Klima, “tutti i paesi ricchi nei prossimi anni e decenni dovranno affrontare questioni importanti. Come è possibile impedire una ulteriore divisione della società fra alto e basso, ricchi e poveri? Quali cambiamenti politici e quali riforme istituzionali sono necessari? Tutte queste domande attendono una risposta […] in rapporto con le esigenze dell’ecologia e della giustizia globale. […] A quanto pare attualmente l’ecologia ha ancora delle possibilità nel dibattito politico solamente se scende in campo alleata all’innovazione tecnica e alla possibilità di conquistare settori di mercato, altrimenti per lei non c’è nulla da fare”.

Mezzo secolo dopo i potenti ancora faticano ad agire. Ma, dice Giovannini, milioni di giovani in tutto il mondo scendono in strada per scuoterli. Cosa hanno in comune Peccei e Greta Thunberg? “Ascolta gli scienziati” dice oggi Greta come lo diceva 50 anni fa Peccei. Giusto quindi ricordarlo per quello che è stato, per i suoi appelli alla scienza e al costante invito a tutti a salvare la Terra.