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Al cantón fraréś: Dó màdar, dó fiòli…
La figura materna vista da due autrici

La figura materna vista da due autrici ferraresi.

La prima, Graziella Vezzelli, rivede la mamma indaffarata e sporca di bianco o di nero; ne rivede le mani premurose nelle faccende di casa, negli affetti, nel lavoro. E riassapora nel ricordo carezze e baci.
La seconda, Graziella Rossi, pur consapevole della difficile vita della madre vissuta tra patimenti, fame e guerra, confessa in un canto dolente il proprio bisogno di tenerezza, mai appagato.

Ill to maη
Am li arcòrd ill to maη, mama,
sémpar svelti e alźiéri,
come sparpài sóra ‘η źardìη
mai stufi ‘d vulàr.
Sémpar sicuri, int ill caréz
e int al lavór.
Am li arcòrd, impgnà,
con gùcia e fil par arpźàr
pagn unèst e puvrìt,
o intrigà int la tié dla roca a filàr
par tèsar tela ‘d burazìna
ruvida come la vita d’i to temp.
A li rivéd iηfarinà
par impastàr pan o gratìn,
e tinti ad calìźan,
tra i cavdùn dal camìη,
par atizàr al zòch
quand al calàva ‘d vampa.

Ill to maη, mama,
am par ad sentirli aηcora
tramèz ai mié cavì
par farm ill tréz,
o sóra la mié front
par misuràr la fiévra,
e ill to dida freschi
sóta al mié barbùz ad putìna
par alzàram la faza
e darm uη baś.


Le tue mani
(traduzione dell’autrice)
Rammento le tue mani, mamma, / sempre svelte e leggere, / come farfalle in un giardino / mai stanche di volare. / Sempre sicure, nelle carezze / e nel lavoro. / Le ricordo, alacri, / con ago e filo rappezzare / abiti poveri e onesti, / o alle prese con la rocca, / tessere, filando, tela grezza, / ruvida come la tua vita vissuta. / Le rivedo bianche di farina / lavorare pane o pasta, / e nere di fuliggine, / tra gli alari del camino, / per attizzare il ciocco / di legno che s’andava spegnendo. /

Le tue mani, mamma, / mi pare ancora di sentirle / tra i miei capelli / per farne trecce / o sulla mia fronte / se scottava, / e le tue dita fresche / sotto il mio mento di bimba, / a sollevarmi il volto / per darmi un bacio.

Tratto da: Nuove voci della mia terra, premio letterario nazionale “Bruno Pasini”, Ferrara, Festina Lente, 2014.

Graziella Vezzelli (Portomagggiore 1936 – 2012)
Commerciante di abbigliamento intimo, conduceva il negozio “Graziella” a Portomaggiore. Ha pubblicato la raccolta poetica Grap ad Stéll (2007). Altre sue poesie sono inoltre presenti nelle antologie  dei concorsi dialettali nei quali ha ricevuto numerosi premi e segnalazioni.

 

 

 

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At jér dura
At jér dura
mai ‘n abràz,
surìś póchi e mai uη baś…
che mi ‘m arcòrda.

At jér dura
parché la vita niént l’at ha sparamià:
fam, miseria, guèra e smaηgaηlà;
t’jé rastàda seηza mama a nóv ann
e a diéś, sùbit a zarcàrt al pan,
iη meź ai spròch a spigàr,
a sédaś iη fabrica a lavuràr.

At jér dura
A źnóv ann t’ha pèrs al prim putìn
e, al témp dal “fàssio” e dl’oli ad rizìη,
con mié pàdar su iη muntagna,
t’andàvi, ad nòt, a rubàr iη campagna
ill patàch e al furmantón d’i fituàri
e al zùcar dl’”Eridania” sui binari.

At jér dura
La par ‘na fòla, la par… fantasciéηza
ma ‘na fòla indóv ti, mama, at iéri al león
ach difendéva la so tana co’ i uηgióη;
‘na dòna ch’ha fat la “Resisteηza”
e, al gióran dla vitòria,
lè córsa in piazza a far la stòria.

At jér dura
Al benèsser l’è rivà
coi cavì griś e la traηquilità;
ma i ann int ha briśa viηcà,
la scòrza la t’è vaηzada
e, sol coη la bóca, at fasévi qualch ridàda.

At jér dura
Adès che t’aη gh’jé più, purtròp,
adès che più al témp al pasa
e più am vién al gróp,
adès ch’a jò capì tut, finalmènt,
an pós più dìrat quél ch’a sént
e a spandrév tut i mié baiòch
par védar al surìś int i tò òć.
At jér dura!

Eri dura (traduzione dell’autrice)
Eri dura / mai un abbraccio, / sorrisi pochi e mai un bacio… / che mi ricordi. /
Eri dura / perché la vita niente ti ha risparmiato: / fame, miseria, guerra e manganellate; / sei restata senza mamma a nove anni /e a dieci, subito a cercarti il pane, / in mezzo ai campi a spigolare, / a sedici in fabbrica a lavorare. /
Eri dura / A diciannove anni hai perso il tuo primo figlio / e ai tempi del fascismo e dell’olio di ricino, / con mio padre su in montagna, / andavi, di notte, a rubare in campagna / le patate e il frumento degli affittuari / e lo zucchero dell’Eridania sui binari. /
Eri dura / Sembra una fiaba, pare… fantascienza / ma una favola dove tu, mamma, eri il leone / che difendeva la sua tana con le unghie; / una donna che ha fatto la “Resistenza” / e, il giorno della vittoria, / è corsa in piazza a fare la storia. /
Eri dura / Il benessere è arrivato / coi capelli grigi e la tranquillità; / ma gli anni non ti hanno piegata, / la scorza ti è rimasta / e, solo con la bocca facevi qualche risata. /
Eri dura / Adesso che non ci sei più, purtroppo, / adesso che più il tempo passa / e più mi viene il magone, / adesso che ho capito tutto, finalmente, / non posso più dirti quello che sento / e spenderei tutti i miei soldi / per vedere il sorriso nei tuoi occhi. / Eri dura!

Tratto da: Scrittori dialettali di casa nostra : terzo concorso letterario “Mario Roffi” in vernacoli provinciali, a cura  della Circoscrizione via Bologna, Ferrara, Comune di Ferrara, 1999.

Graziella Rossi (Ferrara 1940 – 2012)
Capufficio al Comune di Ferrara, appassionata lettrice di gialli e di fantascienza, componeva rime e zirudele in occasioni conviviali. Partecipando a concorsi dialettali ha ottenuto lunsinghieri riconoscimenti. Autrice di Piera, autobiografia romanzata stampata in proprio.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Maternità (particolare), pastello di Laura Govoni.

PAROLE A CAPO
Giovanna Panzolini: “Lo specchio di Luna” e altre poesie

“La libertà è come la poesia: non deve avere aggettivi, è libertà”
(Enzo Biagi)

 Lo specchio di Luna

Persa in una magica luna che lascia i riflessi ondeggiare nel lago.
Sembra cullata dal debole vento, così come il tempo culla il cerchio dei miei lontani ricordi di te.
Si sfumano, e quando penso di poterli afferrare si perdono, senza toccare la riva.
Nei riflessi, la luna si specchia.
Illumina le notti più scure e sussurra: ”Continua a brillare, nonostante tutto”.

 

Quel soffio

Non sapevi volare leggera,
ma passavi le tue giornate a tentare il volo.
Non riuscivi a dipingere il mondo,
ma ne coloravi gli angoli oltre i confini.
Non potevi cantare la gioia,
ma continuamente la spargevi.
Non fuggivi dalla tristezza,
anzi, la abbracciavi.
E tra le nuvole, avvolta dalla nebbia,
aspettavi paziente quel Soffio
che ti avrebbe fatto atterrare
tra le braccia aperte della Vita.

 

Sono vivo

In un morbido calar del sole,
fiducioso attendo il respiro della notte.
Un tetto di stelle a cullare i miei sogni,
la mente decisa a soccombere al cuore.
Nel giorno combatto una battaglia tra mille disfatte,
nel buio mi arrendo ai ricordi d’amore.
E scende una lacrima in questo vuoto di te,
che corri sulla tua vita mentre ti seguo in disparte.
Lontana sorridi e questo mi basta:
io sono vivo, il cuore batte.

Giovanna Panzolini (Viterbo, 1972)
Ha partecipato a diversi concorsi letterari e corali, tra i quali si menziona: “Scrivendo 2020” (Kubera Edizioni) ottenendo il riconoscimento di merito e l’inserimento di una breve silloge poetica nell’antologia del concorso. Ha recente pubblicato una raccolta dei suoi scritti dal titolo “Nei passi dell’Anima”, PAV Edizioni.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

BIBLIOTECHE AL TEMPO DELLA PANDEMIA
A ogni lettore il suo libro, a ogni libro il suo lettore

Ci voleva forse il Covid per rendersi conto fino in fondo quanto le biblioteche siano realtà trascurate, forse addirittura sconosciute alla classe politica italiana.
Non è un caso che nella serie dei dpcm che dettano via via le disposizioni per zone gialle, arancio e rosse, le biblioteche non sono mai chiamate con il loro nome, ma messe in fondo alla lista, dopo i musei, tra “gli altri istituti di cultura di cui all’articolo…”.
Da dove viene questa incultura, questa ignoranza, questa indifferenza verso le biblioteche? Probabilmente i nostri politici (ed ahimè, su questo risulta difficile distinguere la destra dalla sinistra) non frequentano punto qualcuna delle migliaia di biblioteche sparse per tutto il territorio nazionale. Non hanno cioè nemmeno un’idea di che patrimonio rappresentino.

A volte anche i numeri sono importanti. Il sito dell’ICCU (Istituto Centrale per il Catalogo Unico) [Vedi qui]  riporta l’anagrafe ufficiale delle biblioteche italiane: 11.920 le biblioteche censite (ma il totale generale supera le 18.000 unità), 6.246 sono le biblioteche di enti territoriali (quelle che chiamiamo biblioteche di pubblica lettura) e oltre 1.000 quelle universitarie.
La maggioranza dei Comuni italiani dispone di una o più biblioteche pubbliche. Certo, più al Nord e al Centro rispetto al Sud Italia, ma a guardar bene la presenza delle biblioteche ha un carattere capillare. Una rete diffusa e interconnessa che negli ultimi cinquant’anni non ha smesso di crescere. Credo di più delle stazioni dei Carabinieri che ultimamente hanno pensato (male) di chiudere in tante realtà periferiche.

Solo le scuole sono più numerose delle biblioteche. E, sia detto per inciso, le scuole hanno storicamente condiviso con le biblioteche la medesima disattenzione e indifferenza da parte dei nostri governanti.
Rimane il fatto – per questo i numeri sono importanti – che le biblioteche rappresentano un presidio culturale davvero diffuso, nelle metropoli come nelle città e nei piccoli borghi, nei centri storici come nelle periferie urbane e nei piccoli comuni montani.

Cosa fare di questo grande patrimonio? Come utilizzarlo al meglio? Forse occorrerebbe capire meglio cosa già sono in tanti casi e cosa dovrebbero essere, a cosa e a chi dovrebbero servire  le biblioteche. Cominciando dal nome. Alcuni (io non sono tra questi) suggeriscono un nome ‘aggiornato’ ai tempi, di chiamarle ‘mediateche’, visto che i supporti su cui viaggiano informazioni e cultura si sono moltiplicati. Occorre però scavare più a fondo, raggiungere ed esprimere la vera anima delle biblioteche. Maria Stella Rasetti, direttrice Biblioteche e Archivi della città di Pistoia (sul quotidiano il manifesto dello scorso 8 novembre) chiama le biblioteche “Cittadelle della democrazia”. E scrive della sua realtà: “in una biblioteca del genere (e per fortuna non solo in questa) il «miracolo» va oltre il tradizionale ambito della lettura, per estendersi a uno stare insieme che crea comunità: una comunità che non fonda i suoi legami sulla comunanza delle radici, ma che trova il senso di sé nel voler condividere il futuro. La biblioteca è per definizione luogo del meticciato, della condivisione, della «conversazione», per usare una espressione cara a David Lankes, professore di biblioteconomia americano, che ha sviluppato una specifica teoria sulle biblioteche innovative”.
Non tutte, ma molte delle biblioteche pubbliche italiane hanno ormai fatto proprio questo DNA. Tranne alcune a questo preciso compito preposte, le biblioteche non sono un luogo di conservazione, ma un luogo di incontro (una agora) e un terminale assistito dove si cercano e si scambiano informazioni: Per le biblioteche – per quello che sono e per quello che potrebbero essere – ricordo una bella definizione di Everardo Minardi: “agenzie della democrazia informativa”.

Se è vero che la pandemia non può sospendere l’esercizio della democrazia, la chiusura delle biblioteche pubbliche che i vari dpcm stanno generalmente imponendo, risulta un fatto grave.  Le biblioteche non producono Pil, ma garantiscono l’esercizio della democrazia. Per questa ragione, dal mondo dei bibliotecari – loro sì conoscono la natura e le potenzialità dei presidi bibliotecari – si sono levate da più parti contestazioni e proteste.

La stessa presidente dell’AIB (Associazione Nazionale Biblioteche) Rosa Maiello così scrive il 6 di novembre ai ministri della Repubblica: “Se le biblioteche sono risultate essere – come noi crediamo di poter affermare – tra i luoghi pubblici più sicuri e raccomandabili dove recarsi, potremmo capire l’utilità di una indicazione prudenziale a non consentire il servizio di consultazione in sede, o a effettuare una valutazione caso per caso secondo le caratteristiche della sede e l’entità prevista dell’affluenza. Ma non comprendiamo perché impedire anche il prestito dei volumi, gestito con tutte le dovute cautele a tutela della salute degli operatori e del pubblico e ferma l’ovvia condizione che la biblioteca sia in grado di assicurarle. In questo modo si privano non solo studenti e ricercatori delle fonti necessari per progredire nei loro studi (perché le biblioteche sono strumenti essenziali per l’effettività del diritto allo studio e del diritto alla ricerca), ma tutti i cittadini e in particolare quelli socialmente ed economicamente più svantaggiati di un servizio essenziale, e il tutto proprio in una delle fasi più dure e difficili della loro esistenza.”

Ma tant’è, oggi dobbiamo registrare che, da Aosta a Ragusa, le biblioteche hanno dovuto chiudere le porte al pubblico. Rimane allora da usare bene fantasia e creatività (e tanti bibliotecari e lettori sono già impegnati in questo senso) e sviluppare servizi alternativi per non lasciare i cittadini utenti privi del servizio. Leggo di tante iniziative in tante regioni e città d’Italia: non solo ‘libri su prenotazione’, ma anche ‘libri d’asporto’, ‘libri nel cortile’, ‘libri a domicilio’ e altre virtuose invenzioni.
Se l’utente non va (non può andare) in biblioteca, la biblioteca può e deve andare a casa dell’utente. Secondo il celebre adagio: “ad ogni lettore il suo libro, ad ogni libro il suo lettore”.

DIARIO IN PUBBLICO
Il problema della problematica

Tra le ferree catene del covid-19 alcune sembrano particolarmente salde.
Ecco allora che con moto sinuoso e strisciante le nostre vite vengono invischiate in una serie di problemi che un sciagurato travolgimento delle parole e l’assoluta incuria rivolta verso la lingua italiana assume agli onori del dire questa parola, ora in assoluto la più usata, che trionfalmente si è incastrata come espressione della vita di tutti i giorni assumendo la forma particolarmente odiosa di problematiche. Nessuno se ne salva; perfino illustri italianisti e storici della lingua. Chi l’esprime con la perfezione assoluta è il comico Maurizio Crozza quando imita il dottor Luigi Locatelli e naturalmente il professor Alberto Granzillo. Non è che questa sia una questione di poco conto. Se ne veda la spiegazione nell’Accademia della Crusca:

“Molte persone, della più varia provenienza geografica (da Gamalero a Udine, da Padova a Ragusa, passando per Perugia, Firenze, Ancona), si sono rivolte alla redazione per segnalare l’uso sempre più frequente e indiscriminato della parola ‘problematica’ come sostituto di ‘problema’. La percezione di chi scrive è che si tratti di un ‘abuso’, di un uso ‘scorretto’, ‘arbitrario’; il ‘nuovo  lemma’ viene giudicato ‘inutile e bruttino’: ‘disturba’ e ‘sa molto di politichese’. Ci viene chiesto di esprimere un parere in proposito e di illustrare se le due parole ‘problema’ e ‘problematica’ siano effettivamente sinonimi, quale sia il significato proprio di problematica, se questa parola possa essere usata e in che senso.”

Risposta

“….In tutti questi casi, l’occorrenza di ‘problematica’ si caratterizza non come scelta denotativa, in relazione al significato che si vuole veicolare, ma come scelta di registro: la parola ‘problematica’ viene selezionata al posto di ‘problema’ non perché sia più precisa o più adatta al contesto, ma perché, per chi la usa, assume una connotazione ‘alta’, ‘formale’, che consente una presa di distanza dall’italiano comune e sembra quindi garantire un innalzamento di livello rispetto alla lingua d’uso quotidiano.”

La stessa cosa potrebbe essere applicata a tema-tematica e ancora ad una serie di aggettivi-sostantivi come fragile/i da riferirsi a persone anziane e/o malate seriamente.
Ricordo in tempi lontani come l’accoppiata temi/problemi fosse di uso frequente ma sicuramente l’uso tecnicamente e scientificamente più alto di problematica ha reso il lemma particolarmente indicato in tempi di corona-virus.

Nelle lunghe giornate che trascorro talvolta a scorrazzare tra programmi televisivi che mi promuovono indignazione e sconforto e altre che appaiono, almeno nell’informazione corrette, alcune mi prendono alla gola, come impensabili modi d’essere e di esprimersi di persone che non mi paiono far parte della mia educazione culturale o etica. Per non far nomi le terrificanti vicende esposte in un programma in cui dopo aver sentito incredibili casi polemici un ‘vero’ giudice’ assolve o punisce gli imputati; un’altra dove personaggi (forse) famosi si lanciano in danze fantasiose giudicate da una serie di personaggi il cui tacere è (sarebbe) bello che li rendono celebri l’espace d’un matin.

Naturalmente alcune reti televisive e programmi di attualità ti riportano alla consapevolezza di una dignità dell’informazione pubblica degna di un tale nome. Poi ecco apparire la chioma slavata del perdente Trump tra inni e tripudi dei non rassegnati, o il bel viso di Kamala Harris tra altrettanti balli e contorcimenti poiché gli USA storicamente sono così.
Allora per un momento mi rendo conto che loro potranno sì essere il paese più potente del mondo, ma il contesto storico di chi scrive queste note può scegliere di applicarsi a produrre recensioni di libri colti, o addirittura vedersi affidata l’analisi di un libro che narra le avventure di una straordinaria figura: Barbara Sanseverina, ava di una mia cara amica che ne ha scritto la storia e poi ricordare che a pochi chilometri di distanza, o addirittura dietro l’angolo di casa mia a Ferrara, la sapiente organizzatrice di giochi erotici dirigeva feste per nobili e potenti per poi perdere la vita su di un palco, decapitata non dalla mannaia che si usa per gli umani, ma con il ‘mannarino’ che si usa per gli animali mentre il boia la sculaccia, lei 64enne, a sedere nudo per attirare l’entusiasmo della folla. E di questa signora bella e lasciva Gigliola Fragnito ha scritto la storia, ricordando anche l’innamoramento che di quella donna ebbe Stendhal che la elevò a figura ideale nella Chartreuse de Parme.

Devo ammetterlo. Essere considerato sprezzantemente radical-chic mi riempie di entusiasmo, anche se questa dizione e (forse) il conseguente atteggiamento elitario-culturale sempre più tramonta in una città, la mia Ferrara, che inesorabilmente scivola nella banalità e nella noiosità. Eppure solo pochi anni fa, precisamente nel 2003, questa città fu assunta in Europa a modello di una Renaissance singulière. E non è stato di poco conto .
Ora ci si limita a presentare una rassegna di pittori mediocri che fanno audience, i cui frequentatori possono apparire gli scafati che hanno trovato-ben coadiuvati-il modo di ‘tirarsela’ e di essere à la page. Si gira ansiosamente per il centro vuoto inseguito da colori che virano al rosso, quel colore da evitare, che ricorda un altro rosso, quando chi lo indossava come divisa era indicato qual mangiatore di bambini.

E il compulsare numeri, morti, ricoveri produce la famosa ‘ansia’ che non ci dà pace che in una intelligente nota Aldo Grasso sul Corriere della sera del 15 novembre così commenta, invocando rimedio alla depressione e situando la situazione in “una via di mezzo tra chi suggerisce di non drammatizzare e chi ti getta nell’angoscia! Spingono alla depressione perché con il lockdown non si potrà nemmeno uscire a prendere una boccata d’ansia”.
Questo timore lo trovo irreprensibile!!!

E mentre ancora una volta la divina Martha Argerich, assieme a Seiji Ozawa, mi porta nell’iperuranio suonando il piano concerto 2 di Beethoven, penso con tristezza alle così limitate esigenze dei miei concittadini, connazionali, umani tutti, che si accontentano di piccole sfide, di egoistiche esigenze, di soddisfare soprattutto la ‘panza’ non solo per ricevere cibo. E mi convinco a resistere, a mettere in atto ciò che mi si chiede dalle mascherine al distanziamento, al limitare le uscite. Poi mi affretto alla piazza e trovo la libreria chiusa. Attimi di sconcerto. E’ chiusa perché troppo grande e potrebbe produrre assembramenti…. Non commento, ma nel triste ritorno a casa trovo una scatola nascosta dietro il computer. Piena di libri comprati e non letti. E’ una festa tra la mai letta Principessa Casamassima di Henri JamesIl Ghetto interiore di Santiago Amigorena.

Resta solo così di concludere con un titolo di un capitolo del libro di Francesca Boari Animula blandula, che presenterò in videoconferenza al Libraccio il 23 novembre alle 18.30, che mi coinvolge e a cui per ora non so rispondere: Gli asini preferiscono la paglia all’oro“. E’ un frammento di Eraclito.
Dovremmo anche noi creature laboriose preferire alla movida il raccoglimento nelle nostre case? Penso di sì.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

ALFABETO SIMENON
L’inventore di Maigret raccontato da Alberto Schiavone e Maurizio Lacavalla

“Se esiste il pianeta Simenon infatti, è donna. E una donna non è semplice da spiegare con una sola linea dritta”. Nella prefazione ad Alfabeto Simenon (edizioni Bd), Alberto Schiavone entra già nell’opera che con parole e immagini regala al lettore cosa è stato uno degli scrittori più complessi e ammirati del Novecento. Alfabeto Simenon, che esce oggi in libreria, è il ritratto a fumetti dell’inventore di Maigret e di una personalità mai paga e riposta in romanzi, racconti, articoli. Alberto Schiavone, autore di Dolcissima abitudine (Guanda), Ogni spazio felice (Guanda), La libreria dell’armadillo (Rizzoli) e Maurizio Lacavalla, premiato fumettista, hanno ricreato la vita, le ossessioni, i viaggi nel mondo e dentro la propria inquietudine che non si assopirà mai, di Simenon illuminando, attraverso la citazione della sterminata produzione bibliografica, l’uomo, l’artista, il marito, il figlio, il padre che è stato.
I ventisei capitoli e le altrettante lettere dell’alfabeto si intingono nella vita dello scrittore che è riuscito a raccontare di sé e dell’umanità, della società e degli ultimi, della madre e delle numerose amanti. Il pianeta Simenon è vasto da esplorare, ma con le parole di Alberto Schiavone e le immagini create da Maurizio Lacavalla, l’alfabeto con cui leggerlo si fa strumento: Camilleri, Fellini, e poi Colette, Gide ci parlano di Simenon e noi lo possiamo guardare da vicino con la lente di chi lo ha conosciuto, con le riflessioni di chi lo ha commentato e con ciò che lui stesso non ha mai negato di sé. Alfabeto Simenon miscela romanzi e racconti e li supera: lo scrittore è dentro e oltre ai suoi testi pubblicati, è una vita che indaga, ricerca, ha dipendenze e simbiosi con gli ambienti e le vicende narrate.
Grazie ad Alfabeto Simenon, conosciamo come è nato Maigret, qual è stato il metodo cadenzato, preciso, mai interrotto con cui i romanzi sono nati, e il lessico sempre alla ricerca della parola giusta e diretta. È lo stile Simenon, insomma, che nella sua eleganza asciutta non cerca mai di stupire, non ne ha bisogno.
Alfabeto Simenon sarà presentato in diretta Facebook dalla pagina di Ferraraitalia e del Microfestival delle storie venerdì 20 novembre alle 21. A dialogare con gli autori Alberto Schiavone e Maurizio Lacavalla, Riccarda Dalbuoni e il fumettista Biagio Panzani.

Dove soffia lo Spirito del mondo

Magari non lo chiameremmo così, ma di qualcosa che ci dica che la nostra vita, e quella di tutti, ha un senso sentiamo il bisognoNon vorremmo ripetere con Macbeth: “Life’s but a walking shadow, a poor player, that struts and frets his hour upon the stage, and then is heard no more. It is a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing”La vita è solo un’ombra che cammina: un povero istrione, che si dimena, e va pavoneggiandosi sulla scena del mondo, un’ora sola: e poi non s’ode più. Favola raccontata da un’idiota, tutta piena di strepito e furore, che non vuol dir niente.

Hegel vede lo Spirito del mondo e ne scrive all’amico Niethammer il 13 ottobre 1806. “Ho visto l’imperatore – quest’anima del mondo – uscire dalla città per andare in ricognizione; è davvero una sensazione meravigliosa vedere un uomo siffatto, che, concentrato qui su un punto, seduto su un cavallo, si protende sul mondo e lo domina… Da giovedì a lunedì progressi così grandi sono stati possibili solo grazie a quest’uomo straordinario che è impossibile non ammirare”.
Non è un’infatuazione. Nell’opera che sta scrivendo, La fenomenologia dello Spirito, riappare chiaramente, per quanto il linguaggio del filosofo lo permetta. La Rivoluzione francese illumina e conclude il vecchio ordine. “Il graduale sgretolamento, che finora non alterava la fisionomia della totalità, viene infine interrotto dal sorgere del sole che, come un lampo improvviso, fa apparire in un colpo solo la struttura del nuovo mondo”. Termina così il confronto doloroso tra “il regno della cultura” e il “mondo della fede, il regno dell’essenza”. Questo processo dello Spirito prevede il passaggio dalla Francia alla Germania, “allora lo spirito, prima estraniato completamente entro sé, abbandona questo territorio della cultura e giunge in un’altra terra, nella terra della coscienza morale”.
La rivoluzione può degenerare nell’anarchia e nel terrore perseguendo un’utopia. “La libertà universale non può produrre nessuna opera e nessun atto positivi, e le resta soltanto l’attività negativa. La libertà universale è soltanto la furia del dileguare”. Fortunatamente c’è chi (Napoleone) rimuove la realtà “in modo universale – e quindi per tutti – riproducendo un altro mondo, un altro diritto, un’altra legge e altri costumi, al posto di quelli esistenti”. Le masse, passata l’ubriacatura giacobina, “ritornano a un‘opera particolare e limitata: proprio per questo, però, ritornano alla loro realtà sostanziale.”

Pure Adorno lo vede, in altra forma nel frattempo assunta, e ne scrive nel 1944 citando le V2, Vergeltungswaffe 2, precursore tedesco di tutti i missili balistici. “Come il fascismo, le V2 sono lanciate e senza soggetto nello stesso tempo. Come il fascismo, uniscono la massima perfezione tecnica alla cecità assoluta. Come il fascismo, suscitano il massimo terrore e sono perfettamente vane. Ho visto lo Spirito del mondo, non a cavallo, ma alato e senza testa: e questo confuta, nello stesso tempo, la filosofia della storia di Hegel”. Nessun progresso è assicurato. Adorno l’ha visto mutarsi in regressione proprio “nella terra della coscienza morale”, annuncio di catastrofe per l’intera umanità. La dialettica, il momento negativamente razionale, non apre ad alcuna positività futura. Di fronte al male, che appare invincibile, si pone l’esigenza di resistenza e opposizione, che il pessimismo sull’esito non ferma. A sorreggerla è la tensione verso una realtà altra e migliore, intravvista nei momenti più felici della storia.

Nel 1946 Napoleone ritorna in un’annotazione di Aldo Capitini a proposito delle vicende del Partito d’Azione. “Studi La Malfa la situazione italiana più sotto lo strato politico… vedrà che in Italia non può svilupparsi un Roosevelt o un Napoleone della politica. In Italia bisogna animare una sinistra, trasferire là tutti i fermenti e gli elementi del rinnovamento perché là sia la socialità e libertà e religiosità, perché là sia una capacità creativa pari a quella, immensa, del passato italiano”.

Nel 1947 un allievo di Capitini, Silvano Balboni, scrive sul settimanale socialista da lui diretto un pezzo del quale mi piace riportare qualcosa. “Pestalozzi e Napoleone. Una nuova educazione per un’umanità nuova. Quando Pestalozzi arrivò a Parigi con la Consulta Elvetica, si volle che Napoleone avesse l’occasione di parlare un momento con l’illustre educatore, ma Cesare aveva altro a cui pensare. ‘Non ho il tempo di occuparmi dell’abc’, disse spazientito. Raccontando con arguzia l’episodio, nel suo dialetto zurighese, Pestalozzi concludeva: ‘Ebbene, se io non ho visto Napoleone, neanche lui, dopo tutto, mi ha visto’. È un episodio eloquente sulla differenza dei due metodi, quello del dittatore che vuole organizzare l’ordine umano dall’esterno con la forza e quello del giardiniere spirituale che vuole svilupparlo dall’interno coltivando nell’uomo, ancora bambino, il senso dell’armonia con l’amore. Anche oggi usciamo da un periodo durante il quale Cesare ha cercato di foggiare l’Europa a colpi di bombe e con le torture… Pestalozzi non voleva più chiese che elevano le debolezze dei governati e le peggiori ingiustizie dei governanti al di sopra del vangelo, né scuole praticanti un’educazione meccanica e preoccupate solo della memoria, né stati basati su registri e rapporti senz’anima, redatti da funzionari di ghiaccio”.

A proposito dello spirito universale e della chiesa, nel 1957, in “Discuto la religione di Pio XII” (subito all’Indice) Capitini torna al tema. “Una delle cose prime è di non far fare una brutta figura a Dio; meglio, se no, non nominarlo. Quel tale che disse di aver visto, in Napoleone, lo Spirito universale a cavallo, non lo disse certamente con tutta la calma e il rispetto dovuti”. Forse Pio XII non fa di meglio. Nella “Sertum laetitiae” ai vescovi degli Stati Uniti del 1939 è scritto: “Dio, che a tutto provvede con consigli di suprema bontà, ha stabilito che per l’esercizio delle virtù e a saggio dei meriti vi siano nel mondo ricchi e poveri”. Come noto i vescovi d’America (non solo loro) sono convintissimi di ciò. Meno convinto è Capitini sull’esercizio delle virtù. “Nel pensiero di Pio XII credo che si tratti, per esempio, della carità da parte dei ricchi, e della non invidia da parte dei poveri”. E neppure condivide l’opinione che grazie alla differenza “si possano saggiare i meriti, il valore maggiore o minore delle persone”.

“Quel tale” disinvoltamente citato è stato oggetto di approfondito studio da parte di Capitini. La realtà come si presenta è da lui anche più nettamente avversata e criticata di quanto faccia Adorno. Nel suo pensiero è l’esigenza di una radicale tramutazione di una realtà inadeguata. Può venire solo dall’aggiunta nonviolenta “con spirito e metodo proprio, all’opposizione verso la presente società”. Il senso che cerchiamo, solo un pensiero e una pratica alla nonviolenza ispirati potrebbero, forse, farcelo intravvedere.

Questo articolo è recentemente apparso sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento nonviolento [www.azionenonviolenta.it] 

SPIONI E DIDATTICA A DISTANZA

Col favore del Covid pare che si moltiplichino le specie aliene. Sembra che un popolo di occhiuti spioni stia colonizzando i device degli studenti.
Sono il popolo dei Proctor, provenienti dal pianeta digitale Proctoru, che si scrive con due occhi di gufo sopra la “u”, come una compagnia di security, di vigilanza, una di quelle ditte che installano i sistemi d’allarme antifurto.
Non si tratta di Proctor, il personaggio immaginario della serie cinematografica di Scuola di polizia, leccapiedi e tonto, ma neppure di qualcosa che non gli assomigli. Perché i Proctor sono vigilantes, censori, sorveglianti, godono a beccarti in flagrante sbirciata e a fare subito la spia.

Importato dalle università anglosassoni il Proctor è quello che vigila sulla regolarità degli esami a distanza, verifica che gli studenti non imbroglino. L’insegnante, che a casa nostra è ricorsa al fai da te facendo bendare le sue studentesse, evidentemente, poco pratica di digitale, non era a conoscenza del brulicare in rete di Live Remote Proctoring, software che in tempo di lockdown stanno facendo la fortuna dei loro distributori.

Per le sessioni d’esame di giugno anche le nostre università hanno fatto ricorso al popolo dei Proctor. L’Università statale di Milano dedica una pagina web per fornire istruzioni a quegli studenti che intendono sostenere l’esame a quiz online. Sono invitati a installare sul loro computer l’estensione Proctorio Chrome Extension, oltre a rispettare precise regole e una serie di restrizioni da parte del sistema di controllo remoto. Per l’intera durata della prova, alla faccia della privacy, vengono registrate le informazioni relative alle periferiche, a programmi, funzioni, azioni e dati. Nessuna persona può essere presente nell’ambiente d’esame. Vietato prendere nota su carta e rivolgere domande al proctor remoto. Proibito allontanarsi dalla propria postazione durante l’esame, ogni necessità deve essere espletata precedentemente, al fine di evitare problemi di validità. Durante l’esame guai distogliere gli occhi dallo schermo, ciò potrebbe essere interpretato dal severo proctor spione come tentativo di consultare materiale non autorizzato e potrebbe essere motivo di annullamento dell’esame, anche dopo la fine dell’esame stesso.

L’occhio vigile del censore noterà e bloccherà ogni voce di sottofondo, ogni attività sospetta relativa all’utilizzo di programmi non consentiti, dump dello schermo, tentativi di screen sharing con altri soggetti, sia direttamente, sia in background. Se necessario è possibile dialogare con il proprio proctor, ma solo in inglese, questo del resto è scontato visto che da noi simili software ancora non si producono. Proctor Exam pubblicizza la propria piattaforma con la quale è possibile sostenere un esame in qualsiasi momento e da qualsiasi punto della terra, tramite appositi ‘Organismi di Certificazione’.

Come sempre alla fine la realtà supera la fantasia. Il grande fratello è in ritardo sul millenovecentoottantaquattro, solo perché tecnologicamente si è più raffinato. Al momento pare più un gioco di astuzie tra nativi digitali, che smanettano dall’infanzia e docenti che non sono smanettoni e che per tutelarsi ricorrono a software come Proctorio, utili a colmare gli svantaggi del digital divide tra generazioni.
Non viene la voglia di salutare i progressi della tecnica, quando la tecnica viene usata come modo di raggirare la propria ignoranza, la pigrizia a pensare, pensare ad esempio che forse progresso tecnico e arretratezza culturale cozzano tra loro, che non è detto che le nuove tecnologie debbano servire un modo vecchio di intendere l’istruzione, sempre uguale a se stesso da secoli, dalla penna d’oca ai computer. Si fatica a non notare la discrepanza.

L’esamificio che propone il popolo dei Proctor in rete è quanto di più deteriore vi possa essere, ancora di più degli esamifici tradizionali delle nostre scuole e dei nostri atenei. Il Proctor Exam è una bestia vorace che si nutre solo di item, non dà spazio alle competenze, non c’è posto per spiegare il proprio ragionamento, per formulare un dubbio, per esprimere un commento, una nota a margine, per quel lavoro del cervello che i quiz uccidono.

Complice il lockdown, è l’attacco alle teste ben fatte di Morin quello che si va compiendo con la didattica a distanza, non per colpa delle tecnologie, ma per responsabilità di chi le usa, per responsabilità di chi avrebbe dovuto provvedere a far crescere una cultura della formazione totalmente nuova nelle modalità e negli strumenti. Non usare le tecnologie come il bidello in classe quando l’insegnante non c’è, le tecnologie come ripiego, al servizio di un’idea di istruzione che sta offrendo il peggio di sé.

Tanti sono gli impiegati dell’istruzione, ma pochi sembrano essere i professionisti. Non è sufficiente dire no alla didattica a distanza, se questa è la brutta copia della didattica in presenza. Occorre che qualcuno si faccia sentire e dica come è necessario lavorare, del resto, se nel corso della storia della nostra scuola sono avvenuti cambiamenti, questi sono sempre nati dal suo interno e la politica non ha potuto che prenderne atto.

Per leggere tutti gli articoli della rubrica La Città della conoscenza, la rubrica di Giovanni Fioravanti, clicca [Qui]

OCCHI IGNARI:
gli scherzi notturni di windows

Francesco Reyes

Oggi mi sono svegliato e, come diverse altre volte, ho trovato il mio computer acceso.

Occhi ignari
Windows aveva deciso di aggiornarsi nella notte. Per sua disgrazia (di Windows), il mio computer è impostato con un “double boot”, cioè la possibilità scegliere con quale sistema operativo avviarlo, Linux (scelta automatica) o Windows (se richiesto dall’utente). Windows tenta spesso di modificare aspetti software del computer, lontano dagli occhi ignari del proprietario, con collegamenti a internet e aggiornamenti notturni, che a volte lo portano a multipli riavvii consecutivi. Prima di spegnersi automaticamente, prima del mio risveglio. Nel mio caso, il poveretto si è trovato bloccato da un riavvio impostato di serie su Linux.

Il mio computer?
Riavvio la macchina in Windows e… sorpresina! Il sistema mi annuncia orgogliosamente che mi ha messo a disposizione l’ultimo aggiornamento di Microsoft Edge (un navigatore per internet), il quale si avvia automaticamente e si frappone tra me e l’uso del computer. Mi propone di un tour dell’applicazione obbligatorio. Per riuscire a interromperlo sono costretto a forzarne la chiusura da Gestione attività (Ctrl +Alt + Canc).
L’espropriazione del computer non si ferma qui. Decido di rimuovere l’applicazione, per la quale installazione sul mio computer non ero stato consultato. Ma il pulsante “Disinstalla” risulta disattivato da Installazione Applicazioni. Apparentemente c’è una lobby dentro il mio computer più influente di quello che sono io, che, scioccamente, mi credo ogni volta proprietario di questa macchina sottomessa a voglie di terzi.

Autodeterminazione
Credo di aver esitato abbastanza. E’ il momento che la faccia finita con questo sistema operativo. Nel anno 2020 penso che l’umanità (e io come sua parte) meriti poter gestire autonomamente il proprio computer. E’ il momento che adotti definitivamente un Linux (come peraltro già fanno 2 dei miei coinquilini).
Buona autodeterminazione a tutti

PER CERTI VERSI
Bianco Venezia

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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BIANCO VENEZIA

Tu sei il bianco
Dei cristalli
Di Murano
I gialli spasimanti
Dei suoi autunni
Le nebbie a mezz’asta
Nella laguna
Come se i colori
Fossero morti
Per un’ora
Senza luna
Sei il bianco
Di Burano
E il lenzuolo
Che stendi sul mare
Tappeto che cola
Sulle calle
Incolore
E Venezia vola
Vola
Verso il Catai
Il suo amore
È come il mare
Non dorme mai

SCHEI
Il Profumo dei soldi (pignorati)

Alessandro Profumo è l’amministratore delegato di Finmeccanica (ora Leonardo-Finmeccanica), la prima industria italiana di armi, elicotteri, sistemi di difesa. E’ per dimensioni la terza azienda d’Europa del settore. Il Ministero dell’Economia ne detiene circa il 30%. Un colosso, che non può che essere amministrata dal colosso degli AD. Profumo, appunto. Un uomo talmente potente che si potrebbe credere sia l’eponimo del celebre romanzo di Patrick Suskind “Il Profumo”, appunto, laddove si legge: “Il profumo ha una forza di persuasione più convincente delle parole, dell’apparenza, del sentimento e della volontà. Non si può rifiutare la forza di persuasione del profumo, essa penetra in noi come l’aria che respiriamo penetra nei nostri polmoni, ci riempie, ci domina totalmente, non c’è modo di opporvisi.“

La potenza persuasiva che Unicredit ha dispiegato, piazzando alla clientela durante gli anni della sua reggenza migliaia di contratti per strumenti derivati, evoca davvero il potere del profumo e dell’uomo che ne porta il nome. Alessandro Profumo, infatti, dal 1997 al 2010 è stato Amministratore Delegato del Gruppo Unicredit, che sotto la sua guida è passato da 15.000 a 160.000 dipendenti. Finora la fedina penale di Profumo (che non può essere immacolata, perchè per un manager del suo livello il casellario giudiziale è una tacca del curriculum) contava una condanna a sei anni e mezzo di reclusione (in primo grado) per aggiotaggio e falso in bilancio ma, inopinatamente, non per la gestione Unicredit ma per quella di Monte dei Paschi – è passato anche da lì, dal 2012 al 2015. Adesso la procura di Bari ha rinviato a giudizio Profumo e Ghizzoni (suo diretto successore alla poltrona di AD Unicredit) per la bancarotta fraudolenta dell’azienda Divania, una eccellenza nella esportazione di divani negli Stati Uniti, saltata in aria non per problemi industriali, ma – stando all’accusa – per il dissesto finanziario legato all’andamento in perdita di oltre 200 contratti derivati sottoscritti dal 2000 al 2005 con Unicredit.

Ma cosa sono i “derivati”? Per spiegarlo attingiamo alla fonte derivati.info (un sito con questo nome lo saprà cosa sono, no?): “i derivati non sono titoli muniti di un proprio valore intrinseco bensì derivano il loro valore da altri prodotti finanziari ovvero da beni reali alla cui variazione di prezzo essi sono agganciati: il titolo o il bene la cui quotazione imprime il valore al derivato assume il nome di sottostantei derivati possono assolvere tanto ad una funzione protettiva (ossia di copertura) da uno specifico rischio di mercato quanto ad una finalità meramente speculativa. Nel concreto, non può negarsi che sui mercati finanziari globali i derivati si siano affermati soprattutto quale mezzo di speculazione.” . Eh no, nel concreto non può negarsi che la finalità speculativa (per la banca) abbia nettamente prevalso sulla finalità di copertura da un rischio (per il cliente). Sarebbe infatti curioso che centinaia di aziende private e persino di Comuni abbiano perso milioni di euro per tutelarsi da un rischio. Se ne deduce abbastanza facilmente che lo strumento è stato venduto come copertura da un rischio, ma ha funzionato come fonte di guadagno per la banca e di perdita per il cliente. Non ci spingiamo al punto di dire quello che peraltro tutti pensano: ovvero che ab origine la maggior parte di questi strumenti erano tecnicamente congegnati per far guadagnare la banca e far perdere il cliente. Sta di fatto che questo è quanto è successo, perlomeno nel caso di Divania, azienda che – stando alla Procura di Bari – andava bene, ed è saltata per aria proprio per l’impossibilità di saldare il gigantesco debito accumulato nei confronti della banca (Unicredit) a seguito di una successione di contratti per derivati che l’hanno condotta sul lastrico. Alla faccia della copertura del rischio.

Ma questo non è un articolo di approfondimento finanziario. Mi interessa di più mostrare due caratteristiche di certo top management italico. La prima è la capacità di espandere un business puntando al massimo guadagno possibile (per gli azionisti) a scapito degli altri portatori di interessi, ovvero clienti e dipendenti. I clienti vengono sostanzialmente raggirati con il racconto fasullo della funzione di uno strumento finanziario, che finiscono per sottoscrivere (e quindi formalmente le carte sono spesso in ordine, anche se nel caso Divania sono emerse anche diverse irregolarità formali) ma di cui non hanno capito nulla. La scarsa consapevolezza ed educazione finanziaria della clientela, anche istituzionale, è indubbiamente una concausa di queste pratiche farlocche, ma questo non esclude, anzi aggrava, la responsabilità di chi spinge, con ossessiva pressione, la sua struttura commerciale a collocare in massa certe fregature. La seconda caratteristica di questi capitani d’industria e cavalieri del lavoro (Profumo è stato insignito anche di tale onorificenza) è l’attitudine a risultare nullatenenti, o a nascondere il proprio patrimonio dietro paraventi e coperture che rendono spesso impossibile aggredire le ricchezze, perchè risulta improbo rintracciare le strade oscure attraverso le quali le ricchezze hanno viaggiato fino a rendersi irreperibili. A conferma di ciò sta la circostanza che la Procura di Bari ha disposto il sequestro conservativo dei beni degli imputati, per garantirsi i futuri risarcimenti in caso di condanna dei quattordici banchieri sotto accusa, e nel caso di Profumo cosa ha trovato? Che non risulta intestatario di alcun immobile. Un uomo che ai bei tempi guadagnava circa 9 milioni di euro l’anno e che è andato via da Unicredit con una buonuscita di 38 milioni (di cui due, bontà sua, dati in beneficenza) non risulta proprietario nemmeno di un bilocale al Lido delle Nazioni. Quindi alla procura non è rimasto altro che pignorare il quinto dei suoi emolumenti, dal momento che a lui non è intestato niente che abbia delle fondamenta, nemmeno una prima casa o un garage. Che è un esito quasi comico, visto che la cosiddetta “cessione del quinto” è lo strumento di elezione delle classi meno abbienti per accedere alla possibilità di acquistare una macchina o una televisione.

La cosa più sconfortante è che questo modo di generare profitto, questa determinazione nel vessare la struttura commerciale, spingendola a piazzare prodotti in maniera malandrina pena l’emarginazione dal consorzio lavorativo, l’isolamento, il trasferimento punitivo, questa weltanschauung viene premiata. E passi, se venisse premiata solo dai padroni privati che lucrano dalle spregiudicate e disinvolte gesta di cotanti amministratori. Il fatto è che questi signori vengono chiamati dallo Stato alla guida delle più strategiche industrie pubbliche, o a prevalente capitale pubblico, del nostro Paese. Infatti, Profumo è stato chiamato a “risollevare” le sorti del Monte dei Paschi di Siena e proprio durante la sua Presidenza lo Stato è diventato azionista della Banca (che dal 2017 è detenuta per due terzi dal Ministero dell’Economia e Finanze), e attualmente è l’Amministratore Delegato di una delle maggiori industrie italiana a partecipazione statale: Leonardo-Finmeccanica, detenuta al 30% dal MEF. La grottesca “consolazione” è che adesso gli tocca lasciare il quinto del suo stipendio come capita a noi comuni mortali, che ci indebitiamo per cambiare la macchina o sostituire gli infissi di casa. Con la fatale differenza che il suo stipendio non è quello di un comune mortale, ma gliene basterebbero quattro quinti per comprarsi casa su Marte, se solo non fosse allergico al mattone.

PRESTO DI MATTINA
La Bibbia: una storia di storie

Il volto nelle parole è un libro del critico letterario Ezio Raimondi, che contiene nella premessa una felice citazione di Italo Calvino: «Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni?».

Si inizia così un viaggio alla ricerca di noi stessi, in un faccia a faccia con l’altro, per decifrarne esperienze ed immaginazioni. È una ricerca volta a trovare quel senso che ogni corporeità racchiude: la forma di una spiritualità che si configura attraverso le parole. L’obiettivo è quello ri-trarre, nel senso di tirar fuori dal testo, con il racconto che procede in avanti, come ogni storia, i volti rinchiusi nel passato. Estrarli dalle pagine per farli transitare oltre, attraverso il passante del presente, nell’orizzonte del futuro. Là dove cioè la memoria del passato diventa generativa di nuove invenzioni, creatrice di nuove parole, come diafanie velate di altre spiritualità affioranti dalla materialità dei testi: altri volti da rischiarare.

Tutto ciò rievoca in me la figura dei ‘passatori’ di un tempo, coloro che aiutavano ad attraversare i fiumi o le frontiere. Tali non sono forse anche gli abitanti del passato, i loro testi, traghettati sulla barca del presente di chi li legge, e rilasciati sulla sponda di un altro mare sconosciuto?
Non è solo un’esigenza estetica, quella del passatore che scorre le pagine delle opere per godere di altre voci, immagini, notizie. La sua è anche un’urgenza ‘estatica’: far uscire la vita, la propria e l’altrui, divenuta stretta. Sciogliere di nuovo la libertà di un’esistenza segregata, di un libro chiuso, di una voce prigioniera del silenzio o di un volto velato dall’oblio. Il processo estatico è autenticamente liberatorio solo se diventa responsabilità per gli altri, se è proteso verso un ‘noi’, uno spazio in cui condividere quel patrimonio spirituale comune che s’incrementa nella misura in cui ce ne spossessiamo donandolo.
Gli ‘altri’ che attendono una risposta sono gli anonimi lettori ,traghettati da un libro all’altro per quel patto sottinteso stipulato con l’autore. È così che anche le parole, rivedendo la luce negli occhi del lettore, diventano parole estatiche. Quante volte infatti ri-nasce una parola? Tutte le volte che viene letta.

Scrive Claudio Magris nell’introduzione a Il volto nelle parole: «[Enzo Raimondi] vede e parla con le opere che incontra, le riporta in vita, in un dialogo incessante che restituisce loro un volto e una voce… la [sua] vita stessa appare intessuta, quasi formata dalle esistenze incontrate nei libri o nella realtà – che si incrociano con essa e in essa. “…Ogni [suo] esercizio interpretativo è un racconto”. L’interpretazione è un divenire che trasforma il passato e pure chi lo interpreta: gli eventi dietro l’interprete che li considera “sono nello stesso tempo ombra del suo spazio interiore”» (Il volto nelle parole, Bologna 1988, 8).

Leggendo questi testi non ho potuto non pensare all’aspetto letterario e narrativo della stessa Bibbia. Che ha generato letteratura, perché è essa stessa grande letteratura, una storia di storie, tanto che potremmo dire: “In principio era il racconto”. Non per caso si narra in un antico midrash (in ebraico da dārash investigare, ricercare, studiare, interpretare, narrare) che «Dio ha creato gli uomini perché Egli – benedetto sia – adora i racconti». Per questo non deve sorprenderci che sia proprio nelle storie della Bibbia che Egli abbia scelto di nascondersi, per essere da lì cercato.

Per il vero, solo da poco tempo si è iniziato a parlare di interpretazione narrativa della Bibbia, di un Dio come soggetto e ispiratore di un racconto in cui vicende, personaggi e storie ritornano dal passato solo grazie ai loro lettori. Viene così a generarsi un’alterazione, una via di uscita. Il testo stesso tracima in nuovi spazi, percorre nuovi territori; si contamina con altre immagini, si confronta con differenti situazioni trasformandosi in nuovi ulteriori racconti. Si pensi all’imponente romanzo di Thomas Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, in parallelo al testo biblico delle storie familiari della Genesi.

Da una storia nasce una proliferazione di altre storie: o meglio una ‘storia altra’. Uno spin-off si direbbe oggi nel gergo televisivo; un episodio, una vicenda umana, un evento derivante in modo imprevisto da un’azione o da una situazione interna od esterna al racconto, scaturita da una trama precedente, come da talee nuovi germogli. Papa Gregorio Magno avrebbe spiegato il termine spin-off, riferito alla Bibbia, dicendo che «la Scrittura cresce con chi la legge». Così ogni testo ed anche la Bibbia non va compresa come un punto di arrivo, ma nel suo carattere prospettico, nella possibilità di dare vita ad altre storie. Essa è, nella felice espressione di Northrop Frye, «il grande codice», generativo di cultura e letteratura che ha influenzato profondamente gli stili e i modi di pensare ed agire dei popoli che ha incrociato (Il grande codice. Bibbia e letteratura, Milano 2018).

L’interpretazione narrativa si prende a cuore la ‘lettura’ del testo biblico. Ciò che la interessa non è tanto la Bibbia come documento ma come ‘monumento’ (da mònere = ricordare, far sapere). E questo è possibile solo se un lettore rigenera il ricordo e, nella lettura, fa rivivere la storia, diventandone così testimone. Per questo i rabbini dicono che la Torah ha settanta volti: per sottolineare che non c’è un solo modo di interpretare il testo biblico, ma tanti quanto sono i possibili lettori, i quali, non diversamente da un martello che colpendo la roccia ne fa scaturire scintille, producono una molteplicità di interpretazioni e di sensi.
Come non ricordare, a questo proposito, il lavorio incessante di ruminazione della sacra Scrittura a partire dai Padri del deserto, e poi l’operosità diuturna di tutti gli altri frequentatori e interpreti della sacra Pagina nel medioevo fino ad oggi?
Tutti, ciascuno a suo modo, cercatori del volto nascosto tra le parole di quella storia che li farà a loro volta narratori di buone novelle.

Fu il francescano Nicola di Lira (1270-1349) che, dando forma a tradizioni più antiche nell’interpretazione scritturistica, promosse il ritorno al senso letterale nella lettura e nello studio della Bibbia, senza dimenticare il suo significato nascosto, spirituale. Riprendendo un celebre distico di Agostino di Danimarca, egli seppe così formalizzare i quattro sensi di lettura del testo biblico. Si parte dal “senso letterale”: la lettera insegna i fatti, la storia; poi il “senso allegorico”: l’allegoria insegna ciò che devi credere; ed ancora il “senso morale” ti insegna come comportarti; ed infine il “senso anagogico”, ovvero ciò che sta oltre, al di là, che ti insegna a cosa devi tendere; è il “senso spirituale”, l’esperienza di intimità generata dall’incontro col mistero dell’Altro nascosto nel testo.

Questi differenti significati che si incontrano nella lettura hanno dato origine a quell’esercizio che è detto Lectio divina. È la preghiera liturgica fatta con la Parola di Dio. La lettura delle Scritture porta ad un dialogo con esse, per incontrare colui che, attraverso le Scritture, parla ancora oggi ed invita a fare esperienza della sua amicizia. Il Concilio ha esortato ad apprendere «la sublime scienza di Gesù Cristo» (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. “L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo [Girolamo]» (Dei Verbum, 25).

La Lectio divina è così un percorso di lettura segnato da varie tappe. Si passa da un luogo ad un altro, avvicinandosi sempre di più al luogo dell’incontro. Un itinerario simile a quello descritto da Teresa d’Avila nel Castello interiore: partendo dalla porta del castello che è l’invocazione che ci venga aperto; si passa poi, di dimora in dimora, attraverso una esperienza sempre più profonda della propria umanità e interiorità, che crescono nella relazione all’altro, fino a giungere ed avere parte alla sublime umanità del Cristo. Dall’esteriorità della lettura del testo (lectio) si entra dentro al testo e tramite la meditazione (meditatio) dentro sé stessi. Meditare corrisponde a misurare, soppesare, accostando pensiero a pensiero sino a scoprire il significato di un parola alla luce di un’altra. È come lavorare di notte o percorrere una galleria oscura: alla fine si vedrà la luce, qualcuno ci viene incontro. Nella terza tappa, che prende la forma di un dialogo orante (oratio), si intrecciano parole e silenzi, domande e risposte, suppliche o rendimento di grazie: una preghiera dialogante: nella prossimità di una voce il riconoscimento di una presenza. Si giunge così a contemplare l’altro nel testo (contemplatio) come invitati a prendere posto, introdotti in uno spazio dentro la pagina, una dimora segreta, la cella del vino di cui parlano il Cantico e Teresa: è l’esperienza della intimità, di quel legame dell’amore che libera l’amore. Si sta non come una cartolina o un santino in un libro d’ore. L’intimità dell’amore è piuttosto simile alla condizione della scrittura in pagina: nero e bianco, diversi e distinti, ma intimamente uniti.

Una domanda: “Che cos’è che trasforma la lettura in preghiera, il lettore in discepolo alla mensa della Parola del Maestro interiore?” Un movimento: apri e leggi; vieni e vedi.

Un anno a Trafoi con i ragazzi della parrocchia in una sosta, lungo un ghiaione, mi misi a raccogliere sassi, come se cercassi nello scaffale in biblioteca. Poi le nuvole coprirono tutto, ovattando l’intorno di silenzio e mi ritrovai d’improvviso in una biblioteca di pietre: sassi neri, squadrati, rigati di bianco ai lati, come libri e quaderni di pietra. Biblioteca della montagna! Diari silenti che narravano l’evoluzione e la storia del mondo! Anche breviari filettati d’argento, che pregavano dentro il suo groviglio e il suo dolore. Solo lo sguardo penetrante del desiderio la coltre nebbiosa, in perseverante attesa di qualcuno, come goccia dopo goccia che scava le pagine di pietra, arriva ad aprirle. Solo il cuore che ascolta il silenzio le comprende e le prega.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

CONTRO VERSO
La mamma che non vuole stare senza

La mamma che non vuole stare senza

Ci sono donne che non riescono a staccarsi dal partner violento. Sono troppo prese dalla relazione, sperano di aiutare “lui” a cambiare, sono convinte che i figli non stiano soffrendo e restano lì, si lasciano fare del male ancora un anno, tre, dieci… a volte una vita intera.

Il papà le dà le botte
Lei lo cerca giorno e notte
Sputi e insulti per contorno
Lei lo invoca notte e giorno

Le ha spaccato qualche dente
“Questo? È stato un incidente”
La minaccia col coltello
“Il mio uomo è forte e bello”

Le arrovescia la credenza
Lei non vuole fare senza
Poi le dice: “Amore mio”
E lo vede come un dio

Le hanno detto: “Venga via”
Lei risponde: “È casa mia”
“Quando è amore non fa male”
“La mia vita cosa vale?”

E del bimbo nella culla
non importa proprio nulla.

Sul più grande che va a scuola
lei non dice, lui sorvola

Lui minaccia… poi piú nulla.
Resta un bimbo nella culla.

Ho conosciuto donne che sceglievano di non separarsi per non togliere un padre ai propri figli. E donne che sceglievano di separarsi per non imporre le violenze ai propri figli. A volte erano le stesse donne, a qualche anno di distanza. In breve si direbbe che i bambini sono un rinforzo, quasi un paravento, per la scelta che la donna vuole seguire innanzitutto per se stessa, perché non sempre è pronta per tagliare con una relazione, accettarne il fallimento. È tutto umanissimo e vero. Resta il fatto che i bambini sono esposti alla violenza assistita e a volte subita. Qualche volta mi è sembrato che fossero l’ultimo dei pensieri.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

CIO’ CHE IL COVID-19 CI HA PERMESSO DI VEDERE MEGLIO

Siamo in Novembre ed è arrivata la seconda ondata di Covid-19. La situazione è più o meno la stessa di questa primavera: ospedali in affanno, medici sotto stress, circa quattrocento morti al giorno. Rispetto a questa primavera il virus non è più solo delle regioni del Nord, ma sta attraversando tutt’Italia; nel frattempo i posti in terapia intensiva sono quasi raddoppiati, sono stati assunti più di 30.000 tra medici e infermieri.

Questa malattia ha accelerato alcuni processi di forte trasformazione sociale che stanno attraversando tutto il mondo occidentale e, più in generale, tutta la terra.
Tra le dirette criticità scoperchiate dal ‘maledetto virus’ mi viene da citare per prime:

1- Le disfunzioni del sistema sanitario.  La riforma del titolo quinto della costituzione (delega alle Regioni della gestione della sanità pubblica per il territorio di competenza) e la privatizzazione della sanità hanno determinato una situazione a macchia di leopardo in tutta la penisola. Si sono create alcune disfunzioni di sistema che ora vedono tutti: depotenziamento delle attività di prevenzione, depotenziamento della medicina di base, forte ricorso ai pronto-soccorso per qualsiasi evenienza, forte ricorso ad ambulatori privati.

Il sistema di accreditamento delle aziende private, che di fatto doveva movimentare il sistema d’offerta sanitaria e quindi migliorare la qualità dell’offerta complessiva delle prestazioni sanitarie erogate e garantite, ha incontrato tre grossi ostacoli:
il sistema di convenzioni attraverso il quale il sistema statale/regionale riconosceva al privato sufficienti requisiti per essere considerato alla stregua del servizio pubblico, e quindi erogare le stesse prestazioni attraverso i DRG (diagnosis-related group/raggruppamento omogeneo di diagnosi), non è riuscito a decollare con sufficiente rigore e trasparenza;
Le aziende private hanno continuato a considerarsi tali e, salvo rare eccezioni, ad erogare prestazioni ‘convenienti’ per loro. Ad esempio: ci sono moltissime cliniche private che non hanno il pronto soccorso (il rapporto costi/benefici relativo alla gestione dei pronto soccorso è molto sbilanciato sul versante costi, per non dire che in molti casi va in perdita);
– Il terzo tema riguarda l’aziendalizzazione delle ASL. Da quando le ASL sono diventate vere e proprie aziende (con tanto di pareggio di bilancio come obiettivo) hanno, da una parte ‘razziato il territorio’, deprivando, ad esempio, tutta le gestione dei servizi sociali che faceva capo ai Comuni; dall’altra hanno imposto al sistema una gestione dei servizi socio-sanitari di competenza quasi esclusiva dell’ASL, mentre il sistema prevedeva in origine una concertazione degli interventi e delle risorse attraverso delle cabine di regia ASL/Comuni.

Il sistema che vediamo ora ha iniziato la sua trasformazione circa 20 anni fa su impulso della Lega Nord di Bossi, dei forti interessi economici che nelle regioni del Nord riguardavano la gestione degli ospedali, delle spinte riformatrici dei legislatori (Nazionali/Locali) che, pur animate da buone intenzioni, hanno bucato l’acqua.

Ciò non toglie che: abbiamo ancora un sistema sanitario universale che garantisce le prestazioni di base a tutti, abbiamo ancora degli ospedali e dei reparti di eccellenza che ci invidia tutto il mondo, la nostra classe medica è molto preparata e competente. Dal nostro sistema sanitario (anche così com’è ora) gli altri Stati possono tutt’ora imparare molto. Anche questo fa riflettere.

2- La messa in discussione di una idea di ‘democrazia’ che ha dominato nel mondo occidentale per almeno 50 anni. Democrazia  (dal greco antico: δῆμος,  démos, “popolo” e κράτος,  krátos, “potere”)  significa “governo del popolo”, ovvero sistema di governo, in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente, dal popolo, generalmente identificato come l’insieme dei cittadini che ricorrono a strumenti di consultazione popolare (es. votazione, deliberazioni ecc..). Il sistema democratico è messo in discussione per due ordini di motivi:
– non ci si riconosce più nei sistemi di rappresentanza così come codificati, cioè non ci si sente più rappresentati da nessuno. Classica è l’affermazione: “Non voto nessuno, così se sbagliano io non centro niente”.
Non ci si riconosce più nell’idea che un “governo del popolo” sia una “buona” e auspicabile forma di governo. Da qui molte derive: dal riproporre le oligarchie dei nobili, alle forme di autoritarismo, in cui i poteri si concentrano su una sola persone. Questa ultima tendenza dà ragione dello stato di insicurezza e preoccupazione in cui si trova la popolazione. La storia insegna che in tutti i momenti di forte crisi ‘sociale’ riemergono in maniera prepotente le spinte all’autoritarismo.

3- Un individualismo smodato. Ogni persona pensa per sé. Non c’è più condivisione e poca solidarietà. All’origine di questo ripiegamento sul ‘sentire privato’, che sembra una brutta caratteristica del tempo attuale, ci sono ragioni e giustificazioni e, per fortuna, si registrano anche dei segnali in contro-tendenza che sono il nocciolo di tutte le nostre speranze. L’individualismo smodato è legato a una perdita di ‘valori’ e a una assoluta mancanza di ‘fiducia’, non solo nelle istituzioni Statali o sovra-Statali, ma anche in altre nostre istituzioni fondanti: i sistemi amministrativi territoriali, le Onlus, le Fondazioni, le Ipab, perfino la parrocchia e la famiglia. Un sentire di continua preoccupazione e continua incertezza per il futuro (non c’è più certezza di avere un lavoro, di avere chi ci cura, chi ci accudisce, chi pregherà per noi) hanno portato a questo ripiegamento sull’individualismo, che è all’origine di tutti i nostri mali. Senza un tessuto sociale solido che prevede disponibilità, altruismo e fiducia tutte le società sono destinate a scomparire. Trovo che il tema della fiducia sia sempre fondante. Senza una rete fiduciaria semi-stabile e riconosciuta/riconoscibile qualunque sistema relazionale naufraga nel mare dell’indifferenza e annega. Siccome la parola ‘fiducia’ è spesso usata a sproposito, credo sia necessaria una chiarificazione semantica, che ci permetta di circoscrivere dei comportamenti all’interno di una cornice di significato quasi-univoco, che possiamo utilizzare per ragionare anche in maniera ‘teorica’ su questo concetto (ma anche sentimento e comportamento), di cui si è persa la vera valenza e la conseguente consapevolezza dei suoi effettivi risvolti.

La fiducia è l’aspettativa di un atteggiamento/comportamento/evento ‘positivo’ messa in opera da un attore sociale. L’attribuzione di ‘positività’ può investire il comportamento di un singolo individuo, così come quello di un gruppo o di un sistema sociale.
La positività di tale atteggiamento/comportamento/evento è decisa dal soggetto che compie l’azione di attribuzione di fiducia ed è coerente con la sua aspettativa di riduzione della complessità sociale, con il suo orientamento etico, con la sua idea (in costante ridefinizione) dei corollari che può avere il concetto, di per sé astratto, di ‘verità’.

La fiducia può essere riposta nei confronti di una singola persona e nei confronti di un sistema sociale. La fiducia ha quindi una dimensione ‘personale’ che si concretizza nel fidarsi di un’altra persona. Questo tipo di fiducia presuppone due premesse: la ‘familiarità’ intesa come caratteristica di una relazione (in senso più olistico di un mondo) che conosciamo e di cui riusciamo, almeno in parte, a prevedere gli sviluppi e la ‘conoscenza della storia’ intesa come conoscenza di ciò che è successo come elemento esplicativo, anche se non meccanicistico, di ciò che succerà.

Oppure la fiducia ha una dimensione ‘sistemica’ dipende cioè dal fatto che dei sistemi sociali diventino stabili grazie alla comunicazione intersoggettiva. Sistemi stabili riducono la complessità del mondo e permettono alla fiducia di passare dalla personalità singola al sistema, riponendo aspettative sulla correttezza e prevedibilità delle regole di funzionamento dello stesso. Un tipico esempio di sistema stabile è la scuola. Tale sistema permette di passare dalla fiducia nel singolo (es: l’insegnante di matematica) alla fiducia nel sistema stesso (scuola), in quanto permette di prevedere ciò che succederà, grazie al fatto che esistono regole codificate, chiare e rigide che determinano in larga misura le conseguenze che molte azioni avranno (se un professionista impiegato a scuola si presenta ubriaco verrà allontanato; se uno studente presenta i sintomi di una malattia infettiva, verrà riaccompagnato a casa; se succede un incendio si evacuerà la scuola secondo il piano più volte simulato, se il preside va in pensione verrà sostituito da un altro, e così via …). L’eccezione alla regola è costituita da ciò che si considera anomalo o nuovo, cioè quel possibile dell’accadere che non è ‘riducibile’ in senso sociale.

Questo è un tema sul quale riflettere, questo è il tema centrale di questo nostro mondo confuso.

Oltre a tutto ciò che il Covi-19 ha scoperchiato con grande vigore, esistono anche alcuni problemi che riguardano tutto il mondo e che si interfacciano direttamente con quanto sopra-scritto: i cambiamenti climatici, la crescita demografica esponenziale, il “sistema finanza” che pervade tutto e che relega la politica in una dimensione locale, depotenziata, di grande insofferenza e litigiosità.

C’è quindi speranza per il futuro? C’è sicuramente ed è legata alla fiducia che sapremo creare, costruire, ricostruire e mantenere.

PAROLE A CAPO
Noemi De Lisi: “La stanza vuota”

“La poesia non tollera ipotesi, ma solo l’evidenza dei miracoli.”
(Gianfranco Contini)

X

Mia madre aveva il vizio di mordersi le dita quando soffriva
le macchie rosse sulle mani erano il suo rimprovero, la mia colpa.
In inverno la casa era fredda e tremava sotto i diluvi crollandoci addosso
lei indossava i guanti di lana: “Ho le mani di un cadavere” si lamentava.
In quella stagione mai potevo sapere del suo dolore e mi tormentavo.

Così per calmarmi prendeva le vecchie lettere del nonno e me le leggeva
la carta sembrava disfarsi sotto i suoi occhi, la voce era lenta e lontana.
Cominciavano tutte con: “Mia adorata!” parlavano di guerra, di strani pensieri:
“tornerò, non stare in pena. Tu continua a parlarmi anche se non mi vedi”
“tu sei intatta e bianca come un foglio. Su di te rimango come una firma”
“mi sono ferito a una gamba. La cicatrice non si vede ma ora zoppico”.
Una volta le sfilai via le lettere dalle mani inguantate e le feci a pezzi:
“Le so a memoria, non le sopporto più!”.
Lei guardò i brandelli caduti sul pavimento, strizzò la faccia in un sorriso:
“Hai ragione. Avevano stancato anche me”.

La sera poi si addormentò e io accanto al suo letto non mi davo pace
guardavo le mani di lana, sembravano finte non sembravano sue
e sotto le immaginavo sane, bianche perché lei non mi aveva mai mentito.
Quando il suo respiro fu profondo, lentamente cominciai a sfilare un guanto
lo tirai via: per primo apparve il polso poi il resto, la mano nuda, gelida.
E sul dorso, sul palmo, le dita erano livide, rosse come dopo un lungo applauso.
(Dalla sezione “Io e mia madre”)

 

XIV

Mi ricordo di ogni cosa se la scrivo: Ti ho riconosciuta, Anna. Eri tu.
Tu vivi nelle lettere del tuo nome, e il colpo di polso accanto alla frase
è il punto che ho dato, il segno dove tu finisci, dove io dimentico.

Ogni giorno ti salutavo, mi presentavo come la prima volta: “Mi chiamo così”.
E tu mi tiravi i capelli, mi mordevi la faccia, mi chiamavi bestia, piangevi.
“Perdonami”, ti dicevo, e tu scuotevi la testa, sconvolta, esausta, inorridita.
Non sapevo più dirti come avessi dimenticato tutte quelle cose:
le mie parole sulle tue mani, la cicatrice sul mento, il nome di tua madre.
Non potevo dirti: “È vero, ti ho scordata.”

“Devi sempre farmi arrabbiare. Ma è tutto uno scherzo… non è vero?”
“È tutto uno scherzo”, ripetevo sfregando i denti.
E tu mi sorridevi arrossita, sospirando lenta una mano sul petto.

Tornavo a casa, e quando mia madre si addormentava, accendevo il lume.
Cominciavo a premermi l’unghia dell’indice sul braccio, sul petto, sul collo;
facevo dei piccoli graffi ordinati: quando passavo il dito erano bianchi, poi rossi.

Lo facevo quando ero solo, anche se era un dettato e tu la voce.
I segni formavano delle parole, più premevo, più rimanevano: Anna sei tu.
Era il tuo nome per dirmi ogni volta, il tuo nome al posto del mio.
(Dalla sezione “Io e Anna”)

 

XXVI

Accendevamo le sigarette all’unisono in un gioco di fumo
e sputavamo per terra i pezzi di tabacco rimasti in bocca,
lo facevamo con gesti molli, in silenzio, ricordandoci.
C’era un lamento da soffocare in fondo alla calma:
“Ti ricordi quando ci raccontavamo tutte quelle cose?”
“Lo stai facendo di nuovo. Stai muovendo gli occhi in modo strano.”
“Scusa. Non me ne rendo conto. È così brutto da vedere?”
Ci sforzavamo di ricordare da dove venisse quel rumore,
ci spogliavamo a vicenda per cercarne i segni e rimanevamo delusi.
A ricordare, ci sembrava di inventare qualcosa che non era stato,
eppure quel tonfo era vero: scendeva, ci attraversava, ci finiva.
E buttavamo gli occhi a terra, ci chinavamo, ci graffiavamo le dita
per raccoglierlo. Nello slancio di quella ressa ci toccavamo
per sbaglio, per non perdere quello che avevamo lasciato.
Ed era nel tocco improvviso l’urto di tutta la nostra storia:
“Ti ricordi di quando stavi per cadere e ti ho preso?
Per afferrarti, ti ho slogato un braccio,
tu hai gridato e mi sono spaventato.
Ti sei rannicchiato sul marciapiede,
tenevi il braccio storto vicino al petto.
Mi sono chinato per sederti accanto.
Non dicevi niente, siamo rimasti muti,
tanto non avremmo potuto parlare
con tutto quel rumore addosso.”
(Dalla sezione “Noi”)

Poesie tratte da “La stanza vuota” (Ladolfi Editore, 2017)

Noemi De Lisi (Palermo, 1988)
Nel 2017 ha esordito con la raccolta di poesie “La stanza vuota” (Ladolfi Editore) vincitrice del Premio Solstizio Opera Prima, menzione speciale della giuria al Premio Città di Acqui Terme e al Premio Under 35 Terre di Castelli, finalista ai premi Carducci, Cetonaverde, Maconi, e altri. Le sue poesie e prose poetiche sono apparse su Nuovi Argomenti, Blog RAI Poesia di Luigia Sorrentino, Poetarum Silva, Formavera, Atelier, ecc. https://linktr.ee/noemidelisi

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia.
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I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Tanto per cambiar…

A due piazze fra Riccarda e Nickname che si è accorto di avere cercato di cambiare l’altro. Un errore di cui ammette tutto, anche la difficoltà di cambiare se stesso. Ma poi, dal dolore si può uscire?

N: Uno degli errori che ho commesso è stato cercare di cambiare la persona con cui stavo. Le persone sono come sono. Non siamo noi, per quanto importanti, che possiamo cambiarle. Tanto meno farle diventare come noi o come noi vorremmo che fossero. L’impronta non la diamo noi. Noi arriviamo dopo. È più facile cambiare noi stessi che cambiare gli altri, e già cambiare noi stessi è difficilissimo.

R: Ribalta la cosa. Come ti sei sentito quando qualcuno ha provato a volerti diverso? O magari solo chiederti un ritmo più veloce di quello a cui tu solitamente viaggi? Tu hai risposto che le cose le vuoi fare con i tuoi tempi e le tue cadenze perché solo così puoi riuscirci. E non sei cambiato perché qualcuno te lo ha chiesto, ti sei trovato a un certo punto della vita a guardare indietro e ti sei visto lontanissimo. Ma non lo sai nemmeno tu quale sia stato il punto esatto del cambiamento. Non è definibile, è un processo di cui il motore sei tu. Non ho capito una cosa, cosa vorresti cambiare nell’altro? Un atteggiamento, un’abitudine, una risposta che sei stanco di sentire, cosa?

N: Non vorrei cambiare nulla, tranne il fatto di voler cambiare l’altro. Cerco di imparare dagli errori commessi. Quanto a me stesso: se mi guardo indietro mi vedo lontano da dove sono ora. Sono cambiate le mie aspettative, i miei desideri. Prima volevo uscire dal dolore, adesso voglio provare anche il piacere.

R: Credi si possa uscire dal dolore a piè pari come da una buca o da un inciampo? Una giravolta e si è saltati fuori? Se così fosse, il dolore stesso non avrebbe un senso che è quello di rimanerti sempre un po’ addosso, ma non tanto, solo nella forma di un ricordo, di un monito o di un odore sgradevole che ti fa cambiare direzione.

Cosa ne pensate della pretesa di cambiamento che avete subito dagli altri o che vi siete accorti di fare verso qualcuno?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

QUEL PARADIGMA CHE ABBIAMO ADDOSSO
e l’incapacità di guardare con occhi diversi

Ragazzotto, sui banchi di scuola ad apprendere il latino, nulla mi tormentava di più che portare a memoria i paradigmi dei verbi irregolari: fero, fers, tuli, latum, ferre; volo, vis, volui, velle; eo, is, ivi(ii), itum, ire e tutti gli altri. Divenire, volere, andare, paradigmi della vita, paradigmi dell’emigrazione.
A scuola non ce lo avevano insegnato che il paradigma ce lo abbiamo addosso e che tutto dipende da come coniughiamo la vita. Ancora ci è difficile apprendere a coniugare i paradigmi irregolari della nostra esistenza.

“La vita non vive”, dichiara l’epigramma con cui si apre Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, di Theodor Adorno. Non più la grande etica, ma l’etica minima, non più la gaia scienza, ma la triste scienza. Non abbiamo sconfitto la miseria né ieri né oggi. Le letture della gioventù che si infervorava a immaginare di lottare per tempi nuovi che non sono mai venuti, di una generazione che neppure ha saputo celebrare il funerale alle sue utopie.
Tutto ripercorre il pentagramma dodecafonico di Schönberg in un sistema in cui le regole del tonale sono saltate. Tanti Pierrot Lunaire che non si accorgono di essere immersi in un mondo di incubi.

Pare che la vita non ci accompagni, ma ci preceda sempre, sia costantemente un passo più in là di dove ci troviamo. Ormai le nostre protesi digitali ci aiutano ad inseguire una vita irraggiungibile, in cambio ci offrono ologrammi in quantità. Dosi narcotizzanti che impediscono d’accorgersi che siamo parte della macchina, ingranaggi a nostra volta, incapaci di agire da soggetti.

La vita, come scriveva Adorno del secolo che ha conosciuto due conflitti mondiali, il fascismo e il nazismo, è diventata apparenza, la dissoluzione del soggetto, senza che un nuovo soggetto sia nato nel frattempo dal suo grembo.
Il ventunesimo secolo
anziché diventare il secolo della conoscenza come aveva promesso, è divenuto il secolo delle malattie, il male di vivere ha prodotto la sua trama di infezioni.

Sovranismo, la minaccia dell’altro, le isole da difendere, i muri da costruire, i confini da presidiare. La modernità promessa dall’illuminismo ancora annega nell’irrazionalità, nell’ignoranza e nei fanatismi. Gli dei hanno preso il posto degli uomini, non solo quelli delle confessioni, anche quelli delle religioni laiche predicate dai devoti guardiani della tradizione, dei propri territori, delle proprie arroganze e presunzioni.
I nostri gesti si sono fatti brutali e spietati nell’indifferenza dell’ordinarietà che compone il bozzolo delle nostre esistenze tutte coniugate alla prima persone singolare del presente.

Ancora non sapevo da ragazzo che “paradigma” era una promessa di cambiamento.
Sono i paradigmi a cambiare il panorama della conoscenza e, proprio come all’epoca di Galileo costretto all’abiura, è al cambiamento di paradigma che continua la resistenza del nostro tempo, di quanti non s’avvedono d’essere pianeti con gli altri pianeti che muovono le loro orbite intorno al sole.
Ma la malattia del presente è la povertà di pensiero, la debolezza nel mettere insieme sistemi di pensiero capaci di vincere il tempo, contesti valoriali, prospettive da fare proprie. L’indeterminatezza e la pochezza dominano la nostra epoca di vita da spendere più che da vivere. La tirchieria dei giorni anziché la generosità del tempo. Si sono consegnate le chiavi della polis ai mediocri, ai contratti e ai notai, alle contingenze e ai rattoppi, privandola del respiro lungo del cambiamento. Tutto è provvisorio nell’urgenza  di riparare le lacerazioni, ci sta l’ambiente, ci sta la sostenibilità, ma non c’è posto per l’altro.

Siamo sempre al Finale di partita, quello di Beckett, a combattere tra l’assoluta mancanza di senso e l’altrettanto assoluta necessità di trovarlo.
Ciò che sconforta è che siamo giunti a questo punto della storia con le armi spuntate, con le nostre ideologie da riporre negli archivi del tempo, con occhiali che ci hanno impedito di vedere, col continuare a coltivare il passato per risanarci col balsamo della memoria e delle illusioni tradite. È quel cercare senso dove il senso non si produce più. Dove il senso non serve più alla comprensione. Ora alla conoscenza si guarda con sospetto nel nuovo secolo che in nome della conoscenza si era aperto. Più nessuno è portatore di un paradigma capace di ribaltare le nostre coscienze, di conquistare l’intelligenza, di rimettere al centro l’umanità degli uomini e delle donne.
Tutto si confonde e si omogeneizza nel mito del popolo con il diritto di respingere il cammino dell’altro che si mette in viaggio. Viandante della vita a modo suo, mentre noi difendiamo i luoghi in cui ci siamo accomodati.

Per leggere tutti gli articoli della rubrica La Città della conoscenza, la rubrica di Giovanni Fioravanti, clicca [Qui]

DAL VECCHIO AL NUOVO
La crisi della democrazia nell’era della complessità

E’ ora di incominciare a capire che siamo nell’era della complessità e che si è concluso il tempo della specializzazione esasperata. Questo non vuol dire che tutto l’accumulo di nozioni e della conoscenza enciclopedica sia inutile, anzi sarà il serbatoio da cui si potranno attingere le informazioni utili alla lettura e alla comprensione della realtà complessa, per poter rifondare la società, superando le insufficienze e gli erronei comportamenti, che hanno prodotto questa insostenibile realtà.

La novità governativa che sottolinea una nuova consapevolezza da parte della Presidentessa della Commissione europea Ursula Von der Leyen è l’aver intitolato Next Generation EU il progetto di finanziamento europeo in risposta a questa emergenza. Cioè non ha detto cosa, ma perché progettare e finanziare iniziative europee da parte dei singoli governi che ne sono i destinatari e quale dimensione queste debbano avere, cioè: almeno Europee.

Questa situazione ha accelerato la crisi della democrazia, che era già in atto nell’ormai consunta struttura democratica basata sullo scontro frontale fra forze dell’opposizione e forze di governo; in questi mesi il governo ha dovuto difendersi dai continui attacchi dell’opposizione, che hanno minato in questo modo l’autorevolezza delle scelte fatte e sottratto tempo e creatività al compito di costruire un progetto di fondazione di una nuova società, come richiede la crisi ecologica e la conseguente crisi sociale ed economica dovuta alla pandemia.

Non ha senso che, dal giorno dopo che si è eletto un governo, l’opposizione si senta legittimata ad affermare “da ora lavorerò perché questo governo cada”, come se i propri elettori vivessero in una realtà parallela, in una vita sospesa e non facessero invece parte dell’intera comunità del paese.

Queste due grandi crisi universali, ecologica e sociale, hanno sottolineato definitivamente che la terra è una per tutti e che l’umanità tende ad un’unica direzione. Da qualsiasi punto partano le società umane esse tendono a migliorare le proprie condizioni di vita e di sviluppo, espressione di una sempre maggiore libertà dalle necessità di pura sopravvivenza, fino all’espressione delle proprie caratteristiche individuali. Oggi è sempre più evidente che nessuno si salva da solo e che le scelte compiute dai singoli ricadono e coinvolgono, nel bene e nel male, l’umanità intera.

La pandemia ha messo in evidenza che i due ambiti che meno venivano considerati e che sono stati oggetto di tagli e impoverimento, perché considerati sacrificabili all’altare del PIL, sono i pilastri su cui si fonda la forza della società democratica: la cultura e il suo sviluppo e la salute e la cura della persona, per un continuo miglioramento della qualità della vita. Questi pilastri sono il fondamento della società democratica, perché riguardano il valore della persona umana e quindi la loro natura è complessa ed in continua evoluzione. Per questa ragione si tratta di argomenti che non possono essere affrontati per settori e ambiti separati, ma necessitano di una visione di pari complessità e lungimiranza.

Non si può quindi scindere la sfera dell’educazione della persona e del cittadino dalla sfera dell’espressione artistica e dei luoghi di fruizione di queste espressioni, come non si può separare il mondo della formazione dai luoghi della ricerca fino alla sua applicazione. Non si può sentir dire da Patrizia Asproni, Presidentessa di ConfCultura, che se non moriremo di Covid moriremo di “PEC”, per non essere in grado di accedere ai finanziamenti stanziati a sostegno di questo comparto.

La salute non si può separare dalla qualità della vita, in tutti i suoi momenti e in tutti i suoi aspetti, dalla nascita alla maturità, come pure dalla dimensione della singola persona, alla dimensione di comunità. Non si può accettare che il maresciallo Marco Diana – morto per le conseguenze del contatto con i proiettili all’uranio impoverito durante campagne militari all’estero e che ha dovuto lottare per far riconoscere la sua malattia come professionale – debba affermare in punto di morte: “Non so se è peggio il cancro o la burocrazia.” I funzionari statali dovrebbero, sentendo queste parole, essere i primi a vergognarsi profondamente e domandarsi il senso del loro impiego.

Una classe politica, che accomuna in un unico provvedimento e senza alcuna distinzione i cinema e i teatri alle sale bingo e da gioco, mostra quantomeno la sua incapacità di valutazione delle priorità, e l’appiattimento della lettura della realtà all’unico aspetto della produttività economicistica. Una classe politica che non si affretta a cancellare le complicazioni burocratiche che soffocano sia la democrazia che la capacità imprenditoriale dei cittadini, mostra per lo meno la sua impotenza rispetto al potere delle varie corporazioni, come quella dell’impiego statale, che sono state usate in modo clientelare in tempi di crescita del benessere e che adesso mostrano tutti i limiti di una struttura che si è moltiplicata per legittimarsi su una logica di controllo e di divieti.

Questo momento di crisi, la cui soluzione si basa su cittadini responsabili dei loro gesti e consapevoli del loro valore perché parte di una comunità più ampia, ha messo in evidenza il vero limite strutturale dell’organizzazione burocratica, che con la scusa dell’uguaglianza fonda le scelte sui protocolli dei loro deresponsabilizzando gli organi istituzionali e il singolo cittadino delle conseguenze dei loro comportamenti e delle loro scelte.

C’è bisogno di creare una cultura che dia valore alla persona, come fondamento concreto di una società che vuole dirsi umana. Bisognerebbe cogliere l’occasione per creare una nuova realtà politica come l’Europa Unita, riqualificando il concetto di democrazia in grado di governare il territorio e che abbia come scopo lo sviluppo di una società ecologica, che abbia come finalità la qualità della vita in ogni sua forma e non il Prodotto Interno Lordo.

Non sarebbe ora, quindi, di cogliere questo momento come occasione per darci gli strumenti per uscire dal disorientamento e dall’attuale senso di sconforto e di depressione, puntando sul nuovo anziché aggrapparsi al vecchio?

DIARIO IN PUBBLICO
Elezioni e biblioteche: incontri e scontri

Attendevo il risultato delle elezioni americane. Siamo al 6 novembre e i contendenti ancora non sono d’accordo, se di accordo si può parlare. Ma probabilmente l’anno del covid-19 ha portato ad un totale stravolgimento di ogni pensiero antecedente alla diffusione del virus, o perlomeno attinente a quel modo di ragionare che la pandemia ha spazzato via. Ai milioni di visoni abbattuti nel mondo (sembra che i mustelidi incoraggino il diffondersi del virus), si aggiungeranno anche quelli italiani, di cui però nulla si sa. Insomma come nelle elezioni americane, dato il numero sterminato dei votanti. E finalmente oggi 7 novembre, dopo un intero pomeriggio cominciato alle 17.30 e proseguito fino a mezzanotte, per poi riprendere oggi con la lettura dei giornali, siamo (quasi) sicuri che il nuovo presidente può proclamarsi tale: Joe Biden.

Come in un vecchio film, in cui puoi recuperare il senso del passato attraverso il corteggiamento del ricordo (un metodo che piace molto a Carofiglio), riaffiorano alla memoria le esperienze delle elezioni americane e quella in diretta vissuta al tempo dell’elezione di Ronald Reagan. Era il 1981 e nella sala professori dello Smith College vicino a Boston, dove insegnavo, si udiva e si vedeva una valanga di suspiria e musi lunghi; ma si sa, sono stati proprio loro, gli americani, ad insegnarci le regole fondamentali di ciò che chiamiamo ‘democrazia’ e che avvenimenti tragici e a volte non proprio limpidi hanno scandito nel tempo.

Queste ultime elezioni, ancora più difficili e imbrogliate, hanno visto atteggiamenti risibili, spinti fino al grottesco, fino ad assistere alla sceneggiata di un importante uomo politico italiano, che tifava Trump applicandosi al viso una mascherina col nome e l’incitamento al voto per il presidente americano uscente. Eppure il sunnominato è italiano!

Comunque la nota più importante è data non solo dalla elezione di Biden, ma del trionfo di Kamala Harris. Come scrive Fiorenzo Baratelli in una nota sulla sua pagina Facebook: “Kamala rappresenta, innanzitutto, un cambio generazionale ai vertici della politica americana, così difficile da scalare per chi non è bianco, maschio e di lungo corso. E’ la prima donna ad entrare alla Casa Bianca come vice-presidente, ma è anche la prima afro-americana e la prima americana-indiana. Nessuno meglio di lei impersona l’America che ci piace, quella multietnica e multiculturale.” A questo si associa anche una ‘figura’ che riesce a coinvolgerci con l’aspetto esteticamente bello e col pensiero altrettanto importante: l’asio-americana Jhumpa Lahiri, che insegna a Princeton e per molti anni ha abitato a Roma, scrivendo romanzi nella nostra lingua. Una veramente rara coincidenza di fisiognomiche! Anch’ella è una rappresentante di quel coinvolgimento di razze che ha fatto la gloria degli USA. Ma Kamala ora è riuscita a raggiungere una posizione assolutamente inimmaginabile solo pochissimo tempo fa e ne preannuncia una ancor più eclatante: quella cioè  di un ‘non bianco/a’ che potrebbe approdare al vertice della Casa Bianca. Ma soprattutto donna.

E mentre, sempre con estrema cautela, cerchiamo di interpretare le mosse del ‘Trump furioso’ ( e non ci sta male che ciò avvenga nella patria che ha dato i natali all’Orlando furioso), ecco che la nostra città, fino a poco tempo fa modello irreprensibile di cultura, ci sta coinvolgendo in un deludente e triste problema di aperture e assegnamenti delle biblioteche comunali sempre più affidati a servizi esterni, o ad altre strutture non afferenti al servizio comunale stesso. Tuttavia quello che mi rende sempre più incredulo e veramente offeso è il sistema con cui l’amministrazione sta portando a termine il ruolo e il servizio del Centro Studi bassaniani, di cui sono co-curatore. Il Centro, che ancora una volta va ricordato, è il dono generoso della professoressa Portia Prebys, ultima compagna dello scrittore ferrarese Giorgio Bassani, alla città di Ferrara, dapprima era stato affidato al servizio dei Musei comunali; successivamente con la nuova amministrazione, probabilmente per ragioni di utilità essendo il Centro soprattutto una raccolta di carte e documenti riguardanti la storia e l’attività di scrittore di Bassani, viene trasferito al servizio delle biblioteche comunali, specie alla Ariostea, che è situata esattamente dall’altra parte della strada rispetto al Centro. Da allora una confusa serie di operazioni tiene chiuso il Centro senza che esplicitamente ne venga dimostrata l’afferenza e il ruolo. L’assessore alla cultura tace, il direttore dell’Ariostea rimanda a lui, del Sindaco nulla sappiamo. E questo in presenza di preziosissimo materiale che solo di valore economico ha passato una cifra di due milioni di euro.
Si tratta di igienizzare materiali e ambiente? Si tratta di non trovare il personale per l’apertura? Si tratta di altro che forse si preferisce non mettere in luce? Tutto tace.
Eppure per anni, dal mio punto di vista di studioso, ho con entusiasmo supportato le ragioni che hanno spinto Portia Prebys e parte della famiglia Bassani a donare alla città dello scrittore la presenza tangibile del suo mai interrotto legame.

Leggo anche che nel salone del Municipio si è allestita una mostra che testimonia la presenza degli Ebrei nella prima guerra mondiale. Il Centro possiede documenti importantissimi di ebrei ferraresi e di famiglie ebree che parteciparono alla prima guerra mondiale. A nessuno è stato chiesto nulla.
Sono preso da una tristezza che nulla ha a che fare col covid-19. Sentivo questa sera Saviano che da Fazio presentava la sua raccolta di storie: Gridalo. Metteva in luce la funzione del libro, della testimonianza scritta, della storia e della memoria. Non vorrei che la vicenda orrenda della pandemia avesse strappato l’unico segno di vita che ancora rende la vita e l’agire sociale degni di essere vissuti: la memoria.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Chiesa e unioni civili

Alla Festa del cinema di Roma del 21 ottobre scorso è stato presentato il documentario Francesco, del regista russo Evgeny Afineevsky, contenente un’intervista realizzata nel maggio 2019, in cui papa Bergoglio parla delle unioni civili fra omosessuali.

Sono diverse le traduzioni pubblicate di quelle frasi dette in lingua spagnola. Si va da: “Le persone omosessuali hanno diritto a stare in una famiglia” a: “Le persone omosessuali hanno il diritto di essere in una famiglia”. Differenze minime, che però hanno dato il la a letture diverse. Un conto sono i commenti sui diritti a restare nelle famiglie di origine senza la paura di esserne esclusi, come è stato scritto, un altro sono le prese di posizione sulle unioni civili fra omosessuali.
In verità, le frasi che seguono sembrerebbero togliere ogni dubbio che si tratti della seconda chiave di lettura: “Ciò che dobbiamo creare è una legge sulle unioni civili. In questo modo sono coperti legalmente”.

Comunque sia, le parole del papa hanno scatenato un putiferio. Non si capisce, da lontano, quanto questa uscita del video, a distanza di oltre un anno dal girato, sia stata voluta.
In un clima vaticano avvelenato da scandali e intrighi finanziari, si fatica ormai a capire se la narrazione ecclesiale sia quella che avviene sul palcoscenico, oppure dietro le quinte.
In ogni caso, è stata l’ennesima occasione per un’ondata di critiche al pontefice, tanto che anche alcuni che ne hanno preso le difese si sono affrettati a dire che nulla cambia nella dottrina sulla sessualità e sul matrimonio, da non confondere con le unioni civili.

La dottrina e la sua immutabilità resta il crinale sul quale si continua a misurare il dentro e fuori un’ortodossia, nonostante la pastoralità, il concilio e tanta teologia sulla storicità della stessa parola biblica. Ora anche per il papa in persona, con la conseguenza, forse non del tutto calcolata,  che così si mette inesorabilmente a tema – da destra – lo stesso principio d’infallibilità (il papa sbaglia). Quasi un testacoda sorprendente da chi afferma il criterio indiscutibile dell’autorità gerarchica dentro la Chiesa, con la prospettiva di un varco le cui conseguenze potrebbero essere indesiderate, specie se si pensa alla provenienza dell’innesco.

Prendendo congedo dal piano tattico ed entrando nel senso delle parole di papa Francesco, se non hanno certo la forza di un cambio di paradigma, è tuttavia sensata l’opinione di chi, come il teologo Andrea Grillo su Munera (23 ottobre), vi vede un passaggio epocale. Non solo perché, è stato scritto, è la prima volta che un pontefice si pronuncia a favore di una copertura legale per le relazioni omosex. Per capire il perché occorre partire da lontano.

Sui temi dell’identità sessuale, famiglia e matrimonio – scrive il teologo che insegna a Roma e a Padova – l’astrazione di una “competenza ecclesiale” e di una “civile”, è un’invenzione del novecento che si solidifica con il Codice di Diritto Canonico del 1917. È il tentativo antimodernista (ma con strumenti rigorosamente moderni), di risolvere un “conflitto di competenze” sulle domande fondamentali: chi decide della generazione, Dio o l’uomo? Una domanda “troppo drastica” che ha finito per produrre risposte altrettanto drastiche, sia sul versante ecclesiale che in quello civile.

Da qui l’immaginario diffuso di una sorta di “rivincita” contro la “breccia di Porta Pia”, che avrebbe illuso la Chiesa a ritagliarsi un ambito di autorità (famiglia, matrimonio, figli), su cui dichiararsi competente in ultima istanza: una riserva di temporalità. Ne ha scritto anche Daniele Menozzi nel suo Chiesa e diritti umani, 2012, con la distinzione fra ‘diritti dell’uomo’, maturati lungo la direttrice storico-secolare-illuminista e ‘diritti della persona’, di cui custode è la Chiesa.

Andrebbe letta nella chiave di ‘conflitto di competenze’ anche la stagione italiana delle leggi su divorzio e interruzione volontaria di gravidanza, non a caso vissute in terreno ecclesiale come un duplice trauma: se la legge civile ha solo valore pedagogico, non avrebbe dovuto spingersi in quella che è stata subita come un’invasione di campo. Qui trova origine la non negoziabilità di uno spazio che va a definire una dottrina veritativa, che si fa ‘legge oggettiva’.
Questa tendenza a ‘giuridicizzare’ le questioni, specie in terreno morale, porta alla progressiva definizione di una tradizione da difendere contro ogni intrusione o attacco. Non a caso il tema della ‘laicità’ resta ancora non pienamente digerito nella Chiesa. Se poi la messa in discussione viene ad intra, si può capire lo sconcerto. È quello che sta avvenendo con il pontificato di Bergoglio, in continuità con il Vaticano II: l’approccio definitorio-giuridico-dottrinale, è spiazzato, aggirato, da quello pastorale della misericordia, tenerezza e fraternità.

In Amoris Laetitia del 2016, l’esortazione dopo i due sinodi sulla famiglia del 2014 e 2015, papa Francesco dice: “il magistero non deve definire tutto (3); la famiglia è una pluralità di forme viventi e graduali di comunione (301); la conformità alla legge non implica necessariamente la conformità alla volontà di Dio (304)”. Concetto ribadito nella sua ultima enciclica: “il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace” (74).

Se si aggiungono le immagini del poliedro da preferire all’omogeneità e compattezza della sfera e la superiorità del tempo, generare processi, sugli spazi da occupare (Evangelii Gaudium), prende forma un magistero che, per quanto non sistematico e tutto giocato sulla non (voluta?) definizione, ha la consistenza di un pensiero di indubbia portata teologica, per quanto in itinere. Disegno che, con il magistero sociale dell’ultima enciclica, chiede, propone e invoca, un cambio di mentalità, di rotta, di senso di marcia.

Sta qui, forse, il timbro profetico, e a tratti apocalittico, di un appello rivolto all’umanità, dentro e fuori la Chiesa, in cui rientra il recente episodio sulle unioni civili, comprensibilmente interpretato come un passaggio epocale.
In questa fine linearità, va compreso l’annuncio, all’Angelus del 25 ottobre, del concistoro che si terrà il 28 novembre, con la nomina di 13 nuovi cardinali. Basta scorrere i nomi delle nuove porpore, per rendersi conto della volontà che il cammino appena iniziato, non sia solo una parentesi.

SCHEI
Naufragio universale

In Italia, il terreno che ha consentito al disastro culturale di massa di mettere solide radici ha avuto come nutriente essenziale la televisione commerciale, il cui protagonista indiscusso è stato Silvio Berlusconi. Quello che gli italiani hanno premiato è stato “l’uomo che si è fatto da solo”, l’abile imbonitore, il barzellettiere sempre a caccia di gnocca (lo cito: “Stamani in albergo volevo farmi una ciulatina con una cameriera. Ma la ragazza mi ha detto: “Presidente, ma se lo abbiamo fatto un’ora fa…”. Vedete che scherzi che fa l’età?”), l’imprenditore capace di costruire un impero editoriale “dal nulla”, il non essere un “politico di professione”. Quello che gli italiani hanno messo sotto il tappeto sono le origini della sua iniziale fortuna.
Cito Wikipedia sulla Banca Rasini, di cui suo padre era funzionario: “… la banca è un punto di incontro di capitali lombardi (principalmente quelli della nobile famiglia milanese dei Rasini, proprietaria del feudo di Buccinasco) e palermitani (quelli provenienti da Giuseppe Azzaretto, uomo di fiducia di Giulio Andreotti in Sicilia)….Nel 1970, il procuratore della banca Luigi Berlusconi (padre di Silvio) ratifica un’operazione destinata ad avere un peso nella storia della Rasini: la banca acquisisce una quota della Brittener Anstalt, una società di Nassau legata alla Cisalpina Overseas Nassau Bank, nel cui consiglio d’amministrazione figurano nomi destinati a divenire famosi, come Roberto Calvi, Licio Gelli, Michele Sindona e monsignor Paul Marcinkus”.
La protezione della mafia, Berlusconi l’ha cercata anche in concomitanza della sua discesa in politica; l’ha ottenuta attraverso il plenipotenziario siciliano Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per essere stato ritenuto il mediatore del patto di protezione tra Berlusconi e Cosa Nostra, condannato a 12 anni in primo grado nel processo sulle presunte intese tra Stato e mafia, indagato per le stragi del 1993 con il sodale storico.

Quello che gli statunitensi hanno premiato di Donald “Rockerduck” Trump è stato “l’uomo che si è fatto da solo”, l’abile imbonitore, l’arrapato sempre a caccia di gnocca (cito lui: “sono automaticamente attratto dalla bellezza – inizio subito a baciarle, è così. È come una calamita. Bacio subito. Nemmeno aspetto. Quando sei famoso te lo lasciano fare. Puoi fare tutto. Afferrale dalla figa. Puoi fare tutto”), l’imprenditore capace di costruire torri, grattacieli e casinò, il non essere un “politico di professione”. Quello che gli statunitensi hanno messo sotto il tappeto sono le origini della sua fortuna, la protezione della mafia.
Cito Roberto Saviano: “Nei primi anni ‘80 Cosa Nostra americana gonfiava il prezzo del cemento e bloccava con scioperi i cantieri che non pagavano tangenti. Il calcestruzzo continuò ad arrivare in grande quantità e senza ritardi solo nei cantieri di Donald Trump. Come mai? Perché Trump poteva contare su un asso nella manica: Roy Cohn, un avvocato che oltre ai suoi interessi curava anche quelli di Anthony «Fat Tony» Salerno (capo della famiglia mafiosa dei Genovese) e Paul Castellano (capo della famiglia Gambino), due dei boss accusati dalle autorità federali di gonfiare il prezzo del cemento. Grazie all’intercessione di Roy Cohn, i cantieri di Trump venivano esclusi dagli scioperi dei sindacati,…Trump ha sempre fatto affari con mafiosi. Nel 1984 affidò i servizi elicotteristici dei suoi casinò a una società di proprietà di Joe Weichselbaum, un uomo con precedenti per furto d’auto e appropriazione indebita, che l’anno dopo sarebbe stato incriminato per traffico di droga: utilizzava i suoi velivoli per trasportare cocaina colombiana. … A metà degli anni 2000 il suo partner in importanti progetti immobiliari, tra cui un grattacielo Trump a Soho, era Felix Sater, figlio di un boss della mafia russa di Brooklyn, reo confesso di una truffa azionaria da 40 milioni di dollari realizzata con le famiglie mafiose Genovese e Gambino. Nel 2007 si fece fotografare alla posa della prima pietra del grattacielo Trump a Toronto con il suo socio nell’affare, Alex Shneider, divenuto magnate dell’acciaio in Ucraina dopo la caduta dell’Unione Sovietica e genero di Sergej Mikhailov, il più potente boss della mafia di Mosca”.

Le analogie tra i percorsi (compresa la “discesa in campo” per sfuggire ai guai giudiziari), l’essere divenuti star televisive, il parallelo consenso popolare raggiunto, la incredibile rimozione dal dibattito pubblico della loro alleanza con il potere criminale, rendono quasi naturale un parallelismo nella parabola dei due tycoons. Anche il controllo dei media li accomuna. Purtroppo i grandi media diventano indipendenti dal potere solo quando sta crollando. Infatti la CNN ha oscurato un farneticante Trump, Presidente in carica, mentre sproloquiava senza alcuna prova, a spoglio in corso, sul fatto che la vittoria di Biden era frutto di brogli e illegalità. Una censura della fake new senza precedenti. In Italia non è mai successo, ma nemmeno negli USA sarebbe successo se Trump non stesse cadendo dal trono (mentre scrivo la vittoria di Joe Biden non è ancora matematica, ma quella che appare certa è la sconfitta di Trump).

Spiace semplificare proprio mentre si parla dell’eccesso di semplificazione. Tuttavia sono persuaso che la diffusione massiva di una cultura orizzontale, prima attraverso le tv e poi i social media, abbia contribuito in misura decisiva a formare una “opinione pubblica” completamente piatta, incapace di scendere sotto la superficie ingannevole e pacchiana delle cose. L’analfabetismo funzionale è definito dall’Unesco come «la condizione di una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità». Secondo un recente studio dell’OCSE, il 28% degli italiani tra i 18 e 65 anni è un analfabeta funzionale. “Più della metà degli italiani ha difficoltà a comprendere l’informazione scritta”, ha detto alcuni anni fa l’illustre linguista Tullio De Mauro.

La riduzione della base culturale è un paradosso, se pensiamo alla potenzialmente infinita possibilità di raccogliere, selezionare e collegare fonti di informazione, mai esistita in passato. Questa democratizzazione dell’ignoranza è un fatto drammatico, che ha conseguenze tragiche sulle fondamenta delle democrazie. Succede infatti che una relativa minoranza (ma enormemente numerosa) di esseri umani facenti parte dell’elettorato attivo, esercita questa funzione abbeverandosi a informazioni false, che non è in grado di battezzare come false e che non approfondisce oltre al titolo. E poi va a votare. Prima che il mio ragionamento sia bollato come elitario o provocatorio, vorrei rimarcare, di nuovo, che una minoranza (molto numerosa) di persone condiziona con le sue scelte “politiche”, basate su una sottocultura fake, la vita della maggioranza delle persone. Come se la loro visione del mondo fosse fondata sulla lettura di un continuo Lercio (il più famoso fabbricatore satirico di fake news), cui esse si abbeverano però del tutto inconsapevolmente. In democrazia vince la maggioranza, ed io, come altri, mi sto ponendo la domanda (nient’affatto provocatoria) se la democrazia debba essere intesa, a questo punto, solo come una questione di numeri.
Il suffragio universale, ovvero il principio secondo il quale tutti i cittadini di età superiore ad una certa soglia, in genere maggiorenni, senza restrizioni di alcun tipo a partire da quelle di carattere economico e culturale e altre quali censo, etnia, grado di istruzione, orientamento sessuale e genere, possono esercitare il diritto di voto e partecipare alle elezioni politiche, amministrative e ad altre consultazioni pubbliche, è stato una conquista fondamentale della vita democratica. Adesso lo diamo per scontato, ma fino al 1893 non lo è stato in nessuna parte del mondo, e molte nazioni lo hanno introdotto nel ventesimo secolo. David Harsanyi, scrittore e giornalista per il Washington Post, ha detto: “se non hai la minima idea di ciò che ti sta intorno, hai anche il dovere civile di non soggiogare il resto di noi alla tua ignoranza“.
La soluzione non è semplice: però non comprendo per quale ragione esistano dei test da superare per accedere alla cittadinanza di un paese, e non possa essere concepito un test che non definirei nemmeno culturale, ma cognitivo, di base il cui superamento condiziona la possibilità di votare per chi ci deve governare. Se non ci poniamo seriamente questo problema, temo che il tramonto di potenti come Trump e delle loro cheerleaders (come l’Independent ha definito l’ormai indefinibile Matteo Salvini) sarà fenomeno effimero, e preluderà all’alba di personaggi ancora peggiori.

PRESTO DI MATTINA
Tattiche e strategie

D’estate, il marciapiede di mattoni sconnessi davanti a casa diventava il giardino di mia nonna Bianca. Noncurante del parco e delle belle aiuole dei vicini affollate di iris, gigli e rose multicolori, lei, a fine maggio, seminava sul marciapiede gli ‘amici del sole’ (Portulaca porcellana o ‘fiore del giorno’). Lo faceva così come veniva, tenendo in una tasca del grembiule il mangime dei polli e nell’altra le sementi che aveva raccolto l’anno prima. Come il pròdigo seminatore della parabola non temeva gli uccelli del cielo, né la superfice respingente dei mattoni. Confidava che almeno alcuni semi cadessero tra gli interstizi del selciato, tra pietra e pietra, mescolandosi subito alla terra dopo una passata di annaffiatoio. Poi, in breve tempo, dai piccoli germogli ne spuntavano altri e si diramavano dappertutto moltiplicandosi con rapidità. Così, in piena fioritura, il marciapiede diveniva una tessitura variopinta a trame larghe come vie di un boulevard floreale. Ed io, senza farmi vedere, a volte, saltellavo dentro agli spazi vuoti come nel gioco della campana, in cui si procede su un piede solo, raccogliendo però, al posto di un sasso, un fiore che riponevo poi sulla finestra per mia nonna.

Allora non sapevo che il fare è già un dire e che le pratiche del quotidiano aprono spazi esistenziali e comunicativi che arricchiscono di senso la coscienza. Nell’acume di opera si aprono varchi nell’immediatezza di una situazione inattesa, si scovano vie d’uscita alternative, si acutizza l’astuzia come intelligenza pratica, che muta le contrarietà in un vantaggio, ribalta una perdita in un beneficio; accrescendo la capacità decisionale si fa del quotidiano un luogo d’invenzione.

Aprire spazi era del resto lo stile di mia nonna. Là dove c’era accumulo, accavallamento, occupazione, lei creava spazio per ciò che doveva accadere, disponendosi all’inatteso. Era in fondo la stessa strategia con cui fronteggiava le mie domande, replicandovi con altre domande che aprivano un varco là dove sembrava non ci fosse risposta alcuna: «e tu cosa faresti nel posto dell’altro?». E così insinuava che c’erano ancora margini, degli interstizi in me, in cui celare risposte non prefabbricate; un senso ulteriore oltre il già detto e il già fatto; un dire e un fare inediti nascosti nelle pieghe delle parole conosciute o tra le frange delle azioni già compiute.

Imparavo da lei a praticare con creatività i luoghi ristretti della casa e del cortile, alla ricerca di connessioni nuove, combinando tra loro cose vecchie. Per imparare a leggere, alternavo ai libri di testo il calendario di cucina di frate indovino, il libro delle ricette e quello delle preghiere della nonna, scritto a grandi lettere. Una volta, con i fratelli abbiamo perfino appeso alle travi di una stanza che serviva da sgombero una corda per fare un’altalena con la pladura ormai inutilizzata (una specie di vasca di legno con i manici, in cui si lavava e pelava il maiale prima di farne salami). Salito a bordo a volte pensavo all’olandese volante, a volte a Moby Dick.

Dopo la scuola, finiti i compiti, iniziava la caccia al tesoro. Le tre galline della nonna erano proprio stravaganti, galline vagabonde, facevano le uova in posti impensati: sotto la legnaia o sopra al forno del pane, in una siepe al limite della campagna. Cambiavano sempre posto, e io mi sentivo come un bracconiere. Seguivo gli indizi finché non riuscivo a scovarle. Solo quella che chiamavano la regina faceva sempre l’uovo sul cuscino di una seggiola in cucina, vicino alla stufa, e nessuno si meravigliava di quella differenza; anzi nessuno osava neppure occupare quella sedia, anche quando era vuota.

Oggi questi ricordi mi aiutano a riflettere sullo stile della chiesa in questo tempo di minorità e transizione. Ricordi che si rimescolano ai testi di Michel de Certeau, anch’essi seminati ora negli interstizi del mio fare, tra una pratica pastorale e un’altra, tra un salmo e una visita ai malati.
Ricorda De Certeau che l’essenziale risiede nella pratica comunitaria e nello stabilire relazioni: nell’esercizio fatto insieme per liberare spazi, invece che occuparli, in attesa di ciò che sta venendo, per accogliere ciò che ancora è assente: un nuovo stile, nuove pratiche di chiesa in riforma missionaria. Non si tratta certo di restaurare il passato, non siamo più in regime di cristianità, direbbe papa Francesco, «perché la fede non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune», si trova a vivere in una pluralità diversificata e complessa; serve allora far emergere le differenze tra oggi e ieri e, in questo «cambiamento d’epoca», incoraggiare la gente a prendere la parola e articolare istanze, esperienze, attese attraverso la narrazione dei vissuti e delle pratiche comunitarie poiché non si tratta di cambiare il vangelo di sempre, ma di comprenderlo in un mondo in cambiamento.
Decisiva sarà anche una differente pratica dell’autorità nella chiesa nel rispetto della diversità e dignità dell’altro, coinvolgendolo come soggetto attivo nella forma di una relazionalità non unidirezionale, docente e discente, ma pluriforme, poliedrica, che declini la peculiarità di cui è portatore combinandola con le particolarità degli altri in stile meno gerarchico e più comunionale. Questa è la sfida, tanto per le comunità cristiane quanto per il singolo credente: articolare tentativi e pratiche di sinodalità per riscoprirsi popolo di Dio in cammino con la gente.

«Mai senza l’altro… L’altro mi manca»: con tali espressioni Michel de Certeau fa presente pure che le differenze, là dove non vi è unione sono inerti, non sono più un fermento, ma contrapposizione. Pertanto una comunione, se non rinasce continuamente dalle differenze che la problematizzano e la mettono in questione, resta uno sterile e inutile ideale, un alibi per non rischiarsi nella fatica della relazione. Se essa non abita tra le pieghe del vissuto d’altri e non passa attraverso gli interstizi, affrontando i conflitti e resistendo nei luoghi chiusi per tentare di trovare un passaggio, non inventerà spazi nuovi di corresponsabilità, né muterà i conflitti in crisi di crescenza e luoghi di trasformazione.

Riforma, come formare di nuovo, dice il «legame all’altro, nell’apertura ad una pura differenza chiamata ed accettata con gratitudine». Così lo stile e le pratiche di chiesa vanno cercate nel quotidiano, nei luoghi dove ci si incontra come su un confine, che ad un tempo differenzia ed unisce. Nei «clivaggi» ‒ direbbe De Certeau ‒ in spazi sconnessi, nelle fenditure in cui ricevere, per articolarli, il dire e il fare di ciascuno, confrontando la parola e l’agire, frequentando pure quelle fratture, quelle anomalie e assenze in cui irrompe e si fa trovare come uno straniero l’eccedenza di un Dio e di una Parola più grandi della nostra capacità di contenerli, misurarli, afferrarli.

Con L’invenzione del quotidiano ‒ un classico della sociologia ‒ Michel de Certeau individua nella «gente comune» una intelligenza creativa, generativa di astuzie e stratagemmi; inventiva di tattiche forgiate nel quotidiano, fatte di ordinarietà e consuetudini, per bypassare le strategie commerciali dei produttori volte a orientare i consumatori all’acquisto. Mutando contesto, e “camminando nella città” de Certeau analizza le pratiche creative in riferimento alle aree urbane. Così sono messi a confronto da una parte coloro che, con una strategia a vasto raggio, predispongono mappe e percorsi per visitare luoghi predefiniti, e dall’altra coloro che alterano quelle traiettorie e sensi unici obbligati in cui li vorrebbero incanalare gli urbanisti. De Certeau collega le strategie alle istituzioni, mentre le ‘tattiche’ sono utilizzate dagli individui per creare degli spazi propri negli ambienti definiti dalle ‘strategie’. I singoli si ricavano così uno “spazio altro”, scoprendo percorsi alternativi, inventandosi scorciatoie trasversali rispetto a quelle programmate.

Queste pratiche alternative affiorano per l’apparire di un riferimento, di una immagine che rimanda a sensazioni, ricordi e forme, catturate da odori o suoni, che lungo il cammino, spuntano all’improvviso e così si riscopre la libertà creativa del navigatore di mutare rotta. Scrive de Certeau: «Queste tattiche rivelano anche fino a qual punto l’intelligenza sia indissociabile dagli affanni e dai piaceri quotidiani che sottende, mentre invece le strategie nascondono sotto la parvenza di calcoli obiettivi il rapporto col potere che le sostiene, custodito dal luogo proprio o dall’istituzione», (L’invenzione del quotidiano, Roma 2001, 16). Questo modello sociale che utilizza i concetti di strategia e di tattica può diventare criterio di discernimento anche per le pratiche ecclesiali. Come a dire che una riforma missionaria della chiesa non può prescindere dal situarci nel luogo dell’altro, sensibili a lui prima che a noi stessi o alle istituzioni che rappresentiamo. «Credere non è adottare un programma – scrive de Certeau – è, innanzitutto, trovare la parola. I credenti considerano la loro vita sotto una nuova luce quando diviene la loro risposta a qualcuno. Percepiscono dentro di sé ciò che non avrebbero mai conosciuto senza il misterioso interlocutore che glielo rivela» (Esperienza cristiana e linguaggi della fede, Roma 1968, 20). Allo stesso modo una chiesa in situazione di riforma «deve incessantemente discernere nel mondo ciò che testimonia; deve sempre cercare con gli uomini ciò che insegna loro. Non ha mai la proprietà definitiva ed acquisita della verità, è costantemente strappata da ciò che possiede, in nome di ciò che crede e di ciò che vive. Dio non cessa di esiliarla al di là di se stessa attraverso gli incontri e le solidarietà che dapprima disorientano, ma che poi ricordano e rinnovano quanto essa fa già “in memoria” e come segno dell’alleanza eterna» (Dalla partecipazione al discernimento Impegno cristiano dopo il Concilio Vaticano II, Roma 1968, 90).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

Al cantón fraréś
Francesco Benazzi “Nuvémbar dal quarantatrì”

A Ferrara, all’alba del 15 novembre 1943, le brigate nere di Ferrara, Padova e Verona ammazzarono 11 innocenti cittadini ferraresi come rappresaglia per l’assassinio del federale Igino Ghisellini. L’episodio, ricordato come L’eccidio del Castello, è stato narrato da Giorgio Bassani nel racconto: “Una notte del ‘43” e da Florestano Vancini nel film: “La lunga notte del ‘43”.
I versi di Francesco Benazzi esprimono l’atmosfera di quei momenti di stupore, smarrimento e terrore davanti ai corpi senza vita, lasciati con disprezzo a terra dai fascisti fino al pomeriggio.

Le due lapidi che ricordano i nomi dei cittadini barbaramente fucilati, foto M. Chiarini

 

Nuvémbar dal quarantatrì

Ach nebia cla siràza, ach nebia fita!
Tut a let prest nuàltar ragazìt.
N’uciàda par la strada a maηca e a drita:
in źir aη gh’jéra n’aηma. I s’éva dit
c’l’era mej star iη ca’, “śmorza cla luś,
l’aη sa da védar fóra gnaηc pr’uη buś”.
Sileηzi grand cla not par la zità;
tut pareva tranquil, mo a la matina,
“andè a védar cs’agh è là iηs la salgà
dal castèl, ag ò ancòr la tarmarìna”.
Luηg ill strad, tut iη źir, mo quanti faz
stralunàdi; am avśìn acsì piaη piaη.
Coη ‘sti oć a jò vist, apéna là:
diéś corp stramnà par tera come straz;
diéś òman fuśilà come di caη.
Che vista dop cla not ad nebia fita!
Che quand am vién iη mént dop a tant ann,
am sént ancora uη śgrìsul par la vita.

 

Novembre del quarantatrè (traduzione dell’autore)
Che nebbia quella serataccia, che nebbia fitta! / Tutti a letto presto noialtri ragazzi. / Un’occhiata per la strada a manca e a dritta: / in giro non un’anima. Ci avevan detto / ch’era meglio restare in casa, “spegni quella luce, / non si deve veder fuori neanche per un buco”. / Silenzio grande quella notte per la città, / tutto pareva tranquillo, ma alla mattina, / “andate a vedere cosa c’è sul selciato / del Castello, ho ancora un tremito”. / Lungo la strada, tutto in giro, quante facce / stralunate; mi avvicino così pian piano. / Con questi occhi li ho visti, appena là: / dieci corpi sparsi per terra come stracci; / dieci uomini fucilati come cani. / Che vista dopo quella notte di nebbia fitta! / Che quando mi rammento dopo tanti anni, / mi sento ancora un brivido per la schiena!


Tratto da: Francesco Benazzi, Mi, Frara e Ludvìg, Ferrara, La Carmelina, 2010.


Francesco Benazzi
(Ferrara 1923 – 2019)
Altre notizie biografiche sull’autore nel Cantóη Fraréś su Ferraraitalia del 28 agosto 2020 [Vedi qui]

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Il muretto del Castello Estense, foto M. Chiarini”

CONTRO VERSO
Ciao assistente, sono Alì

Ciao assistente, sono Alì

Queste rime sono dedicate a un bambino nigeriano di 12 anni che, ricongiunto alla mamma in Italia dopo 10 anni di distacco, un giorno ha bussato alla porta dei servizi sociali chiedendo di essere allontanato a causa dei maltrattamenti subiti.

Ciao assistente, sono Alì
e non voglio stare qui.
Sta accadendo un pandemonio!
Mamma dice: “Sei un demonio”
Lei lo pensa seriamente
e mi picchia di frequente.
Se mi agito un pochino
viene col peperoncino,
me lo passa sopra agli occhi
o mi aggredisce a morsi.
La faccenda è molto seria.
La mia terra è la Nigeria.
Son venuto qui da poco
mi aspettavo fosse un gioco.
Dopo anni di distacco
dalla mamma, ecco il suo attacco.
Lei che quasi non conosco
mi combatte come un mostro.
Io non voglio stare là
Meglio la comunità.

Esistono ragazzi, come Alì, che chiedono di essere protetti. Ne parlano con un insegnante di fiducia, un assistente sociale, un amico di famiglia, un allenatore… e rivelano relazioni familiari così dure da non riuscire a immaginare un cambiamento, se non quello di andarsene via.
Quando si parla di botte è frequente che l’allontanamento si risolva in un tempo breve. Quello che serve perché i genitori soprattutto, ma in parte anche i figli adolescenti, imparino a comunicare senza ferirsi troppo e ritrovino l’amore seppellito dalla rabbia.

 

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Ferrara: un movimento dal basso
per salvare e rilanciare le biblioteche

Si è riacceso il dibattito sul futuro del sistema bibliotecario comunale.
Giusto un anno fa, su iniziativa dell’assemblea delle bibliotecarie dei bibliotecari comunali, sostenuti da CGIL-CISL-UIL di categoria, veniva depositata in Comune una petizione, sottoscritta da più di 2000 cittadini, che sostanzialmente avanzava 3 questioni di fondo: l’impegno a realizzare una nuova e importante struttura bibliotecaria nell’area Sud della città, dopo che l’Amministrazione Comunale, insediata da poco, aveva rinunciato a costruirla presso le Corti di Medoro; la sostituzione del personale pensionato o in procinto di esserlo, che, se non attuta, metteva a repentaglio la tenuta del sistema e dei servizi offerti; l’apertura di una discussione sul modello bibliotecario della città e sul suo futuro, per adeguarlo alle nuove esigenze e alla domanda di partecipazione della cittadinanza.
A fronte di quest’iniziativa, si tenne una riunione tra i primi firmatari della petizione e l’Amministrazione Comunale, rappresentata in primis dal sindaco Fabbri e dall’assessore alla cultura Gulinelli, che dava ampie rassicurazioni sui punti sopraddetti.

E’ passato un anno nel quale si sono svolti confronti di carattere sindacale del tutto inconcludenti, a causa dell’atteggiamento evasivo da parte dell’Amministrazione e, soprattutto, si è andati in direzione del tutto contraria rispetto agli impegni presi. I lavoratori e le lavoratrici pensionate nel 2019-2020 non sono state del tutto rimpiazzate, tant’è che oggi mancano 6-7 persone in organico su circa 50 complessive, l’apertura delle biblioteche, prima delle ultime restrizioni introdotte con il Dpcm di mercoledì, viaggiavano a ritmo ridotto, in particolare per le biblioteche Rodari, Porotto e S.Giorgio,  che ospitavano gli utenti solo un giorno alla settimana, le “promesse” sull’avvio di una nuova importante biblioteca nell’area Sud, nonostante una recente intervista del sindaco che ne riconferma la scelta, rimangono tali, visto che del Tavolo di progettazione congiunto, con rappresentanti sindacali e dei cittadini che doveva essere predisposto in proposito, non si vede neanche l’ombra.
Figuriamoci di una discussione seria sul modello delle biblioteche per gli anni a venire, tema decisamente troppo ostico per chi, in realtà, punta semplicemente a ridimensionare e stravolgere il servizio bibliotecario.
Infatti, nelle ultime settimane, si è appreso che le intenzioni dell’Amministrazione  sono quelle di esternalizzare le biblioteche Rodari, di Porotto e S.Giorgio (e probabilmente anche la videoteca Vigor, struttura che svolge un servizio significativo, troppo spesso dimenticata), mentre ci è toccato pure assistere al triste e squallido spettacolo del consigliere leghista Mosso, che ha invocato il controllo, cioè la censura, dei libri acquistati nelle biblioteche comunali.

Sulla scelta di esternalizzare 

Vale la penna soffermarsi un attimo su questo tema delle esternalizzazioni, cioè delle privatizzazioni, delle “piccole” biblioteche decentrate. Ora, a parte che nessuno ha avuto finora modo di potersi confrontare con quest’ipotesi, avanzata peraltro in modo inusuale, e cioè in sede prefettizia a fronte della proclamazione dello stato di agitazione delle bibliotecarie e bibliotecari alla fine del mese di settembre e poi sulla stampa, non sfugge che l’idea di affidare a soggetti privati parti del sistema bibliotecario presenta due forti controindicazioni.
La prima è che andare in questa direzione significa produrre la scelta di favorire il lavoro povero e precario: infatti, un lavoratore di cooperativa sociale, a cui solitamente vanno gli appalti del settore culturale, ha un salario contrattuale inferiore del 15-20% in meno rispetto agli stipendi, non certo lauti, di un bibliotecario comunale. Parliamo di circa 1100 € mensili, a cui si aggiunge il peso della precarietà, visto che, di norma, gli appalti durano 4-5 anni per poi essere rinnovati, senza garanzie forti per la continuità occupazionale dei lavoratori. Non è un problema che riguarda solo quei lavoratori, ma esso investe l’idea di modello sociale e di tutela del lavoro cui guarda l’attuale Amministrazione. Anzichè assumere l’orientamento di costruire occupazione stabile e di qualità, si preferisce continuare  e aggravare la condizione di bassi salari e precarietà che sta condannando le generazioni giovani a non poter progettare il proprio futuro. Tale scelta è ancora più grave se si considera che l’Amministrazione Comunale, nel corso del 2020, ha ancora la possibilità di spendere più di un 1milione 400mila € per sostituire le uscite di personale dal Comune, mentre a tutt’oggi si sono realizzate una trentina di assunzioni totali a fronte di circa 70 pensionamenti.
La seconda ragione per cui è sbagliata l’esternalizzazione deriva dal fatto che, così facendo, si spezza l’unitarietà del sistema bibliotecario comunale. In quest’ipotesi solo l’Ariostea, Casa Niccolini e la Bassani rimarrebbero a gestione diretta comunale, con la conseguenza che acquisti, iniziative culturali, modelli gestionali farebbero capo a soggetti diversi, con buona pace della possibilità di una progettazione di politiche culturali capace di avere uno sguardo d’insieme e non frammentato, di cui, invece, la città ha grande necessità. Con l’ulteriore effetto che le biblioteche Rodari, di Porotto e S.Giorgio sarebbero inevitabilmente considerate secondarie e relegate ad un ruolo marginale, smentendo tutta la retorica sull’importanza delle “periferie”.

Per il rilancio del sistema bibliotecario

Per fortuna, si sentono voci e si vedono iniziative che intendono contrastare la deriva di disimpegno e disinvestimento che l’Amministrazione attuale sta producendo sulle biblioteche e, più in generale, sulle politiche culturali nella città.
Gruppi di cittadini e utenti si sono mobilitati in queste settimane per il rilancio del sistema bibliotecario, con manifestazioni significative davanti alla Rodari, alla Luppi di Porotto, alla Tebaldi di S.Giorgio e alla Bassani.
Lo stesso sciopero generale di tutti i lavoratori del Comune del 6 novembre promosso da CGIL-CISL-UIL di categoria va in questa direzione, nel momento in cui mette al centro non solo la giusta rivendicazione di assunzioni in grado di sostituire le uscite di personale di questi anni, ma soprattutto la difesa e il rilancio di servizi pubblici fondamentali per la cittadinanza, dai servizi educativi e scolastici alle biblioteche e altri ancora.
L’importanza di tutte queste iniziative che, a mio parere, dovranno ulteriormente rafforzarsi, non sta solo nel provare a mettere un argine alle politiche regressive dell’Amministrazione Comunale. In realtà, questa crescita di partecipazione attorno a queste problematiche è una risorsa decisiva per il futuro: non si dà difesa e rilancio dei beni comuni, come sono le biblioteche, senza un coinvolgimento consapevole e diffuso di chi produce e usufruisce di quei servizi.
E’ qui la chiave di volta anche per pensare ad un nuovo modello per le biblioteche del futuro, luoghi di aggregazione sociale e promozione culturale nel territorio. Qui sta anche un’idea di ricostruzione di legami sociali e del ruolo che l’intervento pubblico ha in essa, legami sociali che si sono andati sempre più affievolendo, lasciando spazio al prevalere di pensieri e pratiche individualiste e competitive, il contrario su cui si costruisce una società coesa e solidale. Ma forse pretendere da quest’Amministrazione una riflessione in proposito è decisamente troppo: però, perlomeno, allora, si fermi e provi a confrontarsi con i tanti che in questi giorni stanno indicando prospettive e ipotesi differenti da quelle che la stessa sembra intenzionata a percorrere.

PERCHE’ SONO CONTRO LA MATERNITA’ SURROGATA

Da quando, e sono tanti anni, mi batto per la messa al bando universale della maternità surrogata mi sento dire che, nelle discussioni,  tiro su muri proprio perché mi esprimo “contro”  una pratica e che questo muro mi impedisce di mettermi in ascolto.  Anni fa quando iniziai a occuparmi di questo tema il mio primo incontro è stato con le famiglie arcobaleno. Gli Incontri, che sono sempre stati segnati dal rispetto reciproco, da subito hanno evidenziato quanto fosse quasi impossibile capirci. Eravamo in una babele.
Le parole cardine per nominare questa pratica, madri, maternità, gestazione , gravidanza, amore, dono, figlio/a, utero, corpo, rimandavano a significanti differenti a seconda di chi le usava e si trasformavano in quel muro che ci impediva di comunicare.
Oggi continuo a riflettere sul quel muro e forse ho trovato” le parole per dirlo” , per spiegarlo concretamente.

Uno degli argomenti più popolari tra coloro che sostengono la maternità surrogata è che se la pratica esiste allora bisogna regolamentarla per evitare che succedano aberrazioni, o almeno limitarne un uso improprio. Il ragionamento che sta dietro a questo assunto è sensato e logico, però, per regolamentare una pratica c’è bisogno di usare le parole.
La legge ha bisogno di parole che siano chiare e comprensibili; ma  per mettere nero su bianco la pratica della maternità surrogata c’è bisogno di disincarnare la parola, si deve usare una parola slegata dai suoi significanti profondi e umani.  Questa legge ha bisogno di slegare le parole dalla carnalità se no non può essere scritta.
Le madri surrogate diventano contenitori, valige in viaggio che portano un pacco … sono de-umanizzate.
Durante la gestazione queste donne, sono affiancate da psicologi che le aiutano a ricordare continuamente che non sono le madri della creatura, ma che stanno compiendo un ”viaggio”  per altri, proprio per evitare quell’attaccamento biologico naturale che si forma nei nove mesi di gestazione, in loro non deve radicarsi in  alcun modo la coscienza di essere gravide. Ma  la parola non è solo una parola di senso che giunge al cervello che, poi, come un software la analizza razionalmente, la parola è anche il pianto del bambino neonato  che appena nasce chiede il contatto con il corpo che lo ha portato in grembo perché è l’universo che conosce, la parola è anche lo strazio di vedere allontanato il frutto del proprio grembo, la parola è la vita e tutte le sfumature emotive che porta con sè.

Quel bambino che nasce da una madre contenitore che si ripete di non esserlo per nove mesi quali parole potrà avere? Quella donna che vende o dona il frutto del suo grembo si ammalerà per questo? Disincarnare le parole ha delle conseguenze su tutti, non solo su chi ne fa un uso, e porta alla famosa disfunzionalità di cui mi sembra sia affetta la società occidentale contemporanea.
E quello che mi è sempre più chiaro è che non ci possono essere parole incarnate per descrivere la maternità surrogata. Dividere la maternità tra gestazione e maternità è disumanizzare tutto il racconto della vita, perché relega la gestazione a un processo puramente meccanico mentre sappiamo che la gestazione è il punto di partenza del lungo viaggio della maternità, un viaggio che prende corpo e che contiene in sé tutti quegli aspetti ambivalenti che fanno parte del mistero della vita.
Dunque questa pratica per essere descritta ha bisogno di sovvertire un ordine simbolico.

Chi come me si schiera “contro questa pratica” mi dice di chiamarla ‘utero in affitto’ proprio per rendere evidente che si sta sfruttando una donna e i suoi organi, ma io mi ostino a chiamarla maternità surrogata perché noi donne durante la gestazione non siamo solo quell’utero, siamo persone con una storia e la maternità non è scissa da quella esperienza gestazionale. Allora poi mi si fa notare che esaltare la gravidanza discrimina le madri adottive – forse loro sono da meno di una madre naturale?  Certo che no! ad alcune di quelle madri adottive (non tutte) mancherà quella esperienza di gestazione (curioso che si parli sempre del dolore di una madre che non può avere figli e quasi mai del padre che non li può avere), ma noi tutti siamo esseri mancanti, tutti prima o poi facciamo esperienza di una mancanza.
È vero alcuni fanno esperienze mancanti durissime altri meno, mistero della vita, ma chi se la sente di mettere in una scala di valori  assoluto le mancanze?
Nessuno è dentro le persone e ne conosce le sofferenze interne
, l’inconscio non fa distinzioni. Per alcuni certe mancanze sono al limite del tollerabile e se non messe in parole diventano tunnel da cui non si esce mai e per me chi non riesce ad avere figli e vuole un figlio a tutti costi in realtà non mette in parola  questa mancanza, non la trasforma in altro.

Eppure la vita terrena non è altro che fare i conti con le mancanze e trasformarle, renderle mancanze feconde, capaci di generare altro! L’adozione è anche questo. Dunque siamo tutti mancanti ma il fatto di esserlo non giustifica il fatto che sia possibile usare qualsiasi mezzo per cancellare quella mancanza. Ricapitolando per mettere in parola questa pratica bisogna de-umanizzare le parole e questo è un processo in atto da tempo che a mio avviso  sta manipolando  la forma mentis delle persone, ecco perché  si deve lavorare sulle narrazioni e svelare quelli che secondo me sono i tranelli narrativi che il  dio mercato utilizza per rendere accettabile una pratica che non lo è.
Il mito transumanista, è al servizio proprio di questo dio mercato, di un dio tecnologia, di  cui la sinistra nel nostro paese curiosamente sta diventando la testimonial!

Basta guardare a cosa sta avvenendo alla Camera in questi giorni di discussione sul DDL Zan, andate a vedere come definiscono le parole sesso, genere e identità di genere; ci sarebbe da ridere se non fosse che  invece è drammatico). In Inghilterra non si può più parlare di donna incinta e si deve dire persona incinta, donna incinta è discriminatorio, non si può più parlare di donne che hanno il ciclo si deve dire soggetti mestruatori. Guardate la campagna della Tampax – il tweet  che voleva essere un inno alla inclusività e a sostegno delle persone transgender “È un fatto: non tutte le donne hanno il ciclo”, si legge nel messaggio del colosso Usa, “un altro dato di fatto: non tutte le persone con il ciclo sono donne.
Celebriamo la diversità di tutte le persone che hanno il ciclo [vedi: #mythbusting , #periodtruths#transisbeautiful ] per fortuna si è trasformato in un boomerang perchè le donne sono insorte!
Ecco è venuto il tempo di capire che con le parole non si scherza. Il femminismo si sta risvegliando. Le donne e i loro corpi non sono merci e gli esseri umani non sono prodotti o pacchi !
Ma per andare a fondo della questione delle parole in tanti campi, per chi è giunto alla fine di questo lungo articolo consiglio questa  conferenza di Nicoletta Dentico (che traduce magistralmente Vandana) con Vandana Shiva dal titolo  Ricchi e buoni? Il volto oscuro della filantropia globale [Vedi qui]– [ perché secondo me mostra  bene come le parole vengano piegate a certi interessi per  somministrare come tollerabili pratiche che altrimenti non lo sarebbero  e come questo avvenga in tutti i campi non solo in quello di cui ho parlato qui sopra.

La logica della costruzione e dei diritti delle cosiddette minoranze (che è la base del progressismo attuale) non può che portare ad un disastro: non sta in piedi ne da un freddo punto di vista logico ne da un più profondo punto di vista emotivo, etico e “spirituale”. E’ esattamente questa logica che sta alla basa del pensiero politicamente corretto (che è palesemente una forma di violenza); ed è sempre questa logica che spinge verso soluzioni transumaniste e manipolazioni di ogni tipo (certo non è il solo fattore). Bisogna pensarci molto seriamente perchè molte cose che sembrano contrarie a questo folle capitalismo neoliberista finanziario che sta portando alla distruzione delle civiltà (e del pianeta) ne sono in realtà i più fortei alleati a livello culturale e sociale.

GLI SPARI SOPRA
Il governatore Toti e i pesi morti della società

“Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del paese, che vanno però tutelate” parole e musica di Giovanni Toti, governatore della Liguria.
Credo che queste parole non debbano essere solamente fonte di indignazione. Queste esternazioni devono essere studiate, perché sono la perfetta sintesi del nostro presente, del nostro sistema, la legge del capitale, dove chi è produttivo merita di essere salvato, mentre chi non lo è può essere sacrificabile: una specie di rupe di Sparta da cui gettare i pesi morti.
Il virus, non è affatto democratico, così come gran parte delle malattie, una infima percentuale di ‘paraculati’ al secondo colpo di tosse viene monitorato, testato, ricoverato e curato con i metodi più moderni, la cure sperimentali, i nosocomi migliori, solo perché possono permetterseli. Miliardari che ogni due giorni sono tamponati, controllati e verificati. Gli esempi si sprecano, dalle multinazionali in pantaloncini corti della serie A, dal Cavaliere mentore del governatore (che è pure ottuagenario, ma indispensabile), a Mr. Billionaire.
Tutti gli altri si ammalano, attendono, chiamano, aspettano, rimangono a casa, poi, quando si aggravano, dopo giorni possono iniziare il loro fottuto protocollo. Un sistema marcio dalle fondamenta. Gli anziani, gli immunodepressi, gli ammalati, possono essere gettati dalla rupe, con un po’ di dispiacere, ma meglio loro di noi. Così ragiona il governatore, così ragionano in molti, così è il sistema.
Una singola ora di vita, un singolo respiro, sono un valore inestimabile, ritenere gli anziani fonte di memoria, cibo contro l’ignoranza della storia, ricordo, favole ed esperienza non indispensabili è una delle più grosse merdate che sia stata partorita dalle menti semplici del nostro ceto dirigente.
Un sistema basato sulla competitività, sulla meritocrazia, sulla forza, sul vigore, sui soldi a discapito di tutto, è quanto di peggio il genere umano abbia mai potuto concepire. Questo è il sistema vincente, questo a detta di molti è la vittoria della storia, questo è quella merda che già da un paio di secoli viene denominato capitalismo.

Non credo in un lapsus o un refuso o in una mancata comprensione del testo scritto. Il governatore voleva dire altro, ma intanto ha scritto quello che aveva in testa e che molti pensano. La dittatura sanitaria, il cattivo governo che ci affama, noi vogliamo la libertà di non proteggerci, perché non ce n’è covid, oppure se c’è colpisce solo gli altri, i vecchi, gli ammalati.
A parte che non è così, i dati, i freddi numeri dicono altro, ma nel sistema che si basa sui tre pilastri del “produci, consuma e crepa” aleggia una sorta di eugenetica latente.

Non tutte le vite sono uguali, non tutti hanno la stessa dignità di esseri umani, la privatizzazione di tutto, spesso ci ha privato di tutto
La sanità pubblica, fortuna nostra che esiste ancora, è anch’essa stata aggredita dal privato, le Aziende Sanitarie Locali, che in questi tempi di pandemia stanno facendo i miracoli, grazie soprattutto alle persone che vi lavorano, sono state non a caso, trasformate in aziende. La sanità, come la scuola non può avere scopo di lucro.
Finanziare con soldi pubblici la sanità privata è ancora mille volte peggio, allo stesso modo dei finanziamenti pubblici alle scuole private. I governi di Centro Destra e Centro Sinistra che si sono susseguiti negli ultimi trent’anni hanno fatto questo.

Produttività, profitto, target, budget, sono il motivo per cui la nostra società ci chiede di correre, come fossimo leoni o gazzelle indifferentemente. Così, quando il leone perde i denti, la gazzella si azzoppa o entrambi cominciano a sentire il peso degli anni nella savana, diveniamo carne sacrificabile sull’altare della ricchezza altrui.
La competitività, la ricerca di una vita performante, la meritocrazia, obiettivi che ci sono imposti dagli altri. Una vita, la nostra, gestita  dall’esterno, tutti petto in fuori, tutti con un ego alla Rocco. Ma è tollerato dal sistema chi invece non ha queste caratteristiche? E’ possibile essere pesci rossi in un acquario di squali? E’ possibile essere deboli o fragili, senza doverne rendere conto al format che ci viene imposto?

Deve per forza esistere qualcosa di meglio, io credo che le persone siano tutte indispensabili, anzi no, chi ritiene il contrario non lo è.

La ricerca dei soldi nasconde l’incapacità di fare politica

I soldi non sono un problema ma, nonostante l’evidenza, si continua a far finta che non sia così. In diverse occasioni, e praticamente tutti gli ultimi governatori della Fed americana, hanno avuto modo di ribadire il concetto che le banche centrali possono creare moneta dal nulla e senza sforzo, ovviamente in presenza di un’economia in grado di creare beni da poter poi acquistare.

Ma nonostante queste dichiarazioni e sebbene anche lo stesso Draghi, in una delle sue ultime conferenze stampa da governatore della Bce, abbia avuto modo di confortare i giornalisti sull’impossibilità che la banca centrale possa finire i soldi, la politica continua a perseverare negli stessi errori e noi a rincorrere i nostri politici nelle loro perversioni interpretative che ci allontanano dall’obiettivo.

In un periodo come questo, in cui una pandemia sta logorando i rapporti economici e di conseguenza quelli sociali, sarebbe molto utile non perdersi dietro schermaglie ideologiche come quelle del Mes e concentrarsi sui reali problemi delle persone. Il difficile non è creare soldi ma creare le condizioni per uscire dalle crisi, oggi come ieri la ricerca dei primi continua a rimanere una questione politica che impedisce la risoluzione delle seconde.

Basta guardare, ad esempio, cosa sta succedendo nelle ultime aste dei nostri titoli di stato. Da qui possiamo trarre alcune importanti evidenze di politica monetaria puntualmente ignorate dall’analisi complessiva: la prima riguarda lo spread che è oramai scomparso dai radar dei catastrofisti, mentre gli interessi sul debito pubblico sono arrivati a livelli bassissimi se non addirittura negativi. Il motivo di questa discesa è noto ed è dovuto al massiccio intervento della Banca Centrale Europea, che ha continuato ad acquistare titoli di debito, coadiuvata in questo dalle dichiarazioni della Commissione Europea pronta a lanciare a sua volta piani di acquisto. Andando più a fondo, per cercare di capire cosa muove davvero gli eventi finanziari e monetari, dovremmo arrivare alla conclusione che per avere sempre i soldi necessari per realizzare i nostri progetti, senza doverci preoccupare di debito e interessi ma solo delle idee, della produzione e della gestione delle capacità, abbiamo bisogno di avere a disposizione, sempre, una banca centrale. Fare in modo, insomma, che politica monetaria e politica fiscale coincidano, cioè che cuore e braccia facciano davvero parte dello stesso corpo.

Bisognerebbe procedere insomma ad una revisione dell’attuale assetto monetario europeo e superare la dicotomia tra chi gestisce la politica fiscale e chi quella monetaria. Rimettere finalmente al servizio degli stati le banche centrali.

Una seconda evidenza attiene al fatto che gli investitori chiedono i nostri titoli e sono disposti ormai a comprarli anche a tasso negativo. Infatti le richieste, da febbraio circa, eccedono l’offerta di almeno 200 miliardi. Non ci sono dunque problemi di finanziamento né di credibilità sui mercati. La vera speculazione sta nel fatto di far credere il contrario, ed è proprio quando si diffondono queste paure che lo spread si allarga e quindi gli interessi aumentano. Paure giustificate dal fatto che quando non si può far leva sui poteri di intervento delle banche centrali, si rimane in balia degli umori del mercato.

Infine, alcuni Paesi, come la Spagna, il Portogallo e la Francia, sembrano intenzionati a non richiedere la parte del Recovery Fund a debito, vorrebbero quindi fermarsi all’incasso della parte sussidio che per l’Italia sarebbe di 120 miliardi. Perché, si chiedono, accendere un mutuo condizionato con la Commissione Europea quando i tassi di mercato sono così vantaggiosi e senza condizioni? Quello che serve, in fondo, non è che questa venda debito agli stati ma che aiuti a tenere bassi i tassi di mercato e imponga alla Bce, laddove serva, di acquistare titoli. Quello che si otterrebbe sarebbe semplicemente che banca centrale e istituzioni europee lavorerebbero per la stabilità dell’economia, e ciò renderebbe possibile attuare le necessarie riforme per la crescita e gli investimenti.

Quindi, se non ci sono problemi di accesso al mercato ma una richiesta di titoli in aumento e a tassi di interesse bassi o negativi, cosa ci impedisce di impegnarci subito in una seria rincorsa al tempo perduto e iniziare ad investire seriamente in ospedali, scuole e lotta alla disoccupazione, senza aspettare Recovery Fund e Mes, considerato poi che anche altri Paesi europei stanno ragionando in tal senso?

Ed ecco che il punto allora è politico, solo politico, e nulla ha a che fare con la disponibilità di denaro.

Il governo, in questi ultimi otto mesi, ha già messo a deficit (cioè speso o preventivato di spendere a debito) nei suoi piani finanziari, e Dpcm vari, circa 70 miliardi senza che si siano visti né progetti né opere concluse.

Non abbiamo un piano serio sui trasporti, sulle scuole e sulla capacità di queste ultime di avere telecamere, internet e quanto serva per la didattica a distanza o la fornitura di adeguati supporti per tutti gli studenti che ne abbiano bisogno. Non ci sono ospedali e terapie intensive che si siano aggiunte in tempo utile a quelle esistenti prima dell’inizio della pandemia, piani di sanità che permettano le cure anche a chi non è affetto da coronavirus, assunzioni di medici e infermieri, insegnanti e personale ausiliario.

Forse l’unico vero motivo per cui si invoca a gran voce l’utilizzo dei fondi europei è davvero la necessità di non dover essere costretti a cimentarsi con sfide al di sopra delle proprie capacità. Legare i destini dell’Italia alle istituzioni europee, attraverso un indebitamento condizionato, potrebbe essere una scelta mirata per lasciare ad altri l’onere di prendere decisioni che non si è in grado di prendere autonomamente.

Selvaggio è il cuore
L’amore raccontato nel Messico della rivoluzione è l’ultimo romanzo di Nicoletta Canazza

Un contesto rivoluzionario in cui si muovono uomini di ideali e donne di volontà. Selvaggio è il cuore è l’ultimo romanzo di Nicoletta Canazza, per la collana Literary Romance. La giornalista de Il Gazzettino, che ha già pubblicato romanzi, racconti e scritto sceneggiature, ama definire ‘rosa’ questo romanzo in cui tutti i canoni del genere sono rispettati, ma le sfumature sono anche altre. È la storia di un’epopea familiare che vive nel Messico di inizio Novecento ed è la vita di donne che rifiutano un futuro preordinato, già deciso e fanno scelte di libertà e di stile molto moderne.
Selvaggio è il cuore è frutto di una revisione dopo essere stato nel cassetto per un po’ di tempo, i mesi di lavoro da casa e di confinamento sono stati l’occasione per dare vita a una storia nata anni prima.
“Il romanzo era quasi compiuto – mi racconta Nicoletta durante una presentazione a una rassegna letteraria –, quando l’ho ripreso in mano i personaggi hanno iniziato a parlarmi, quasi a chiedere che questa storia venisse finita e mandata al suo destino, così l’ho sfoltito e terminato”. E una casa editrice ha subito risposto, mandando in stampa il romanzo. I personaggi si muovono tra scenari esotici evocativi, ciascuno di loro porta in dote intrecci e vite parallele che infittiscono la storia, ma il nucleo centrale è l’amore, fatto di passione e allontanamenti, compromessi e abbandoni. Gabriel ed Helena si cercano, si scelgono e sono complici, di loro Nicoletta fa parlare gli occhi, perché può non servire altro a mandare avanti le situazioni.
“Credo che l’incontro tra due amanti – spiega Nicoletta – debba essere descritto più con l’allusione che con il dettaglio, come al cinema: le cose si devono intuire senza bisogno di spiegarle, questo rende più complice il lettore e più interessante la narrazione”.
In un precedente romanzo, Tanto non ti amerò, ambientato ai giorni nostri, Nicoletta affonda nella disaggregazione suprema a cui una famiglia può arrivare, perché la freddezza del calcolo soppianta il calore del nucleo originario, e così anche in Selvaggio è il cuore, è la famiglia che tutto può, ma anche tutto distrugge, un punto centrifugo e centripeto insieme.
“Le famiglie sono microcosmi in cui avviene di tutto, basta leggere la cronaca, mi ha sempre interessato cogliere certi meccanismi di conflitto che possono sorgere tra consanguinei e in questo romanzo intreccio l’amore, il latifondo, l’eredità, la competizione e il ritrovamento”.
Un libro avvincente fino all’ultima pagina in cui donne e uomini tessono il proprio destino lottando da protagonisti.