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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Sardine ovunque: ma nuotare ‘in direzione ostinata e contraria’
è l’unico modo per non farsi mettere in scatola

Novembre Duemiladiciannove: le sardine dilagano in un’Italia allagata.

Dopo ‘La Prima’, andata in scena a Bologna il 14 novembre con 15.000 sardine protagoniste, lo spettacolo si sta ripetendo ovunque. All’appello hanno già risposto più di 60 città (grandi, medie e piccole). Hanno già riempito le piazze di Modena, Sorrento, Reggio Emilia, Palermo, Reggio Emilia, Rimini, Marsala, Parma… Giovedì scorso le sardine manifestavano a Genova, Piacenza e Verona, ieri a Mantova, oggi invece saranno in 20 città: da Milano a Firenze, da Monfalcone a Pesaro, da Rovigo a Treviso, e a La Spezia, Cosenza, La Maddalena, perfino ad Amsterdam.

Sempre oggi, le sardine si sono date appuntamento alle 20 in piazza Castello, a Ferrara, la ‘roccaforte rossa’ (si fa per dire) caduta dopo settant’anni in mano della Lega e del Centrodestra. E da domani si ricomincia: Milano, Padova, Taranto, Avellino, Benevento, Ascoli Piceno, Cagliari, Siena, Taranto, Pescara, Dublino, Bari, Forlì, Torino… fino all’appuntamento del 14 dicembre a Roma, proprio nella storica piazza San Giovanni: dove a ottobre Salvini aveva raccolto 200.000 seguaci, le libere sardine vogliono arrivare al milione.

Fin qui i numeri, davvero impressionanti. E, ancora più sorprendente, è la rapidità e la capillarità con cui questo movimento (io lo chiamo così anche se molti non sono d’accordo) si è diffuso in tutta la penisola. Gli stessi media sono rimasti spiazzati. Esattamente come era successo alcuni mesi fa davanti ai ragazzini del Friday for Future. E sorpreso è stato tutto il mondo dei partiti e della politica, tutta la nomenclatura che, normalmente, si sbraita e si accapiglia in parlamento, in televisione, sui social.

Primo fra tutti – il più sorpreso, il più spiazzato, il più in difficoltà – colui che da molti mesi percorre incontrastato le piazze mediatiche e quelle reali. Negli ultimi due anni Matteo Salvini era stato l’ultimo (il penultimo era stato Beppe Grillo con i suo Vaffa day) a girare per l’Italia accolto da folle osannanti, l’unico a ‘fare il ‘pieno’ in qualsiasi piazza. Tutti gli altri (a sinistra come a destra) nemmeno ci provano a presentarsi sopra un palco all’aperto. Passato all’opposizione del governo giallo-rosso, Salvini ha raddoppiato il suo attivismo e, dopo aver trionfato in Umbria, sta puntando il mirino sulle elezioni di gennaio in Emilia Romagna, la regione simbolo della Sinistra.

In realtà, anche stando all’opposizione – complice quel poderoso vento di destra che agita tutto il pianeta (da Orban alla Le Pen, da Trump a Maldonado) – continua ad avere, anzi, ad essere in maggioranza: la sua narrazione populista e sovranista, il suo ritornello sugli emigranti invasori, sembra sovrastare qualsiasi voce contraria. Finché un giorno, senza nessun preavviso, senza nessuna regia occulta, arrivano quelle maledette sardine: giovani, pacifiche, ironiche, coloratissime. Cantano Bella Ciao, sbeffeggiano il leader leghista, si dichiarano antifasciste, anti-populiste, anti-sovraniste. Così il popolo delle sardine ha occupato il campo e rischia di rubare la scena a Matteo Salvini. Il quale Salvini fa spallucce, ostenta la consueta sicurezza, ma non riesce a nascondere la preoccupazione. Come fai a vincere sulle sardine? Quelle, sono molto più pericolose di Conte, Di Maio e Zingaretti messi insieme.

Finita la sorpresa, sono cominciati i commenti, le analisi, le obiezioni, le critiche. Le insinuazioni. E naturalmente i buoni consigli alle giovani, ingenue e inesperte sardine che si stanno avventurando nel procelloso mare della politica.

La prima obiezione, solo apparentemente fondata, è che le sardine, prendendosela in primis con Salvini, fanno opposizione all’opposizione, invece che al governo in carica. ‘E’ un controsenso’, ripetono tutti gli esponenti della Destra e del Centrodestra. E non solo loro. Anche commentatori e intellettuali progressisti – anche Claudio Pisapia su questo giornale – muovono la medesima obiezione. Senza capire che siamo di fronte a un movimento spontaneo e di massa, non ad un partito o a una formazione politica organizzata. I movimenti fiutano l’aria e si muovono (pro o contro) di conseguenza. Così, le sardine hanno sentito come insopportabile l’egemonia (mediatica, culturale, politica) della narrazione populista, sovranista ed egoista. Contro questa egemonia – che oggi è di fatto in maggioranza in Italia e in Europa – hanno deciso di battere un colpo, di rendersi visibili, di proporre una diversa narrazione. E si sono dati appuntamento in piazza, una esperienza che molti ventenni e trentenni non avevano mai provato in vita loro.

Dietro Greta Thunberg, ad animare il movimento planetario del Friday for Future e del Green Friday (anche ieri è andata in scena una replica in 139 città italiane e in tutto il mondo), sono i teenager, i ragazzini del terzo millennio. Gli inventori e promotori del popolo delle sardine sono invece i ventenni e trentenni, la cosiddetta ‘generazione invisibile’. La grande novità – tutta politica – di questi movimenti sta proprio qui. L’emersione (nel caso delle sardine mi sembra la parola giusta) di nuovi soggetti che fino allora se n’erano stati zitti e buoni, solerti consumatori dell’ultimo articolo immesso sul mercato.

Eppure l’odore delle sardine a molti non piace, storcono il naso. Siete effimeri, un fuoco di paglia destinato a spegnersi rapidamente  Siete infantili, ‘troppo poco politici’, siete solo contro, non proponete niente di concreto. E, visto che affollate le piazze, visto che siete un popolo, siete populisti anche voi. In un talk show ho sentito un giornalista evocare addirittura gli orrori della Rivoluzione Russa e appioppare alle sardine una citazione (storpiata) di Lenin: “L’infantilismo è la malattia del comunismo”. In realtà Lenin diceva che “l’estremismo è la malattia infantile del comunismo”. Beh, tutto si può dire delle sardine, tranne che siano un movimento estremista e violento..

Non so se le sardine avranno una lunga vita, non so che direzione prenderanno nel prossimo futuro, ma la loro navigazione è piena di insidie. Insieme alle critiche, stanno infatti arrivando anche gli applausi e i complimenti. Più o meno interessati. Probabilmente c’è qualcuno che sogna – qualcuno ci prova sempre – di ‘incanalare il movimento’; di metterci sopra il cappello, o la propria bandiera.  Da qui viene il pericolo maggiore, non dai pinguini sovranisti recentemente apparsi sul web.

Per ora le sardine nuotano libere, se però non riusciranno a difendere la loro autonomia, corrono il rischio inscritto nel triste destino di alici e consimili, quello di finire in scatola.

 

Le piazze, le sardine, il populismo… e Salvini vince ancora

Il manifesto delle sardine, che non ha nulla a che vedere con il Manifesto del 1848, recita “Cari populisti, lo avete capito. La festa è finita” e poi “Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto”. Il loro leader si chiama Mattia Santori e in una delle tante interviste che ha concesso, diceva che le sardine vogliono parlare di cose pratiche, della vita reale. Tutte cose per le quali loro hanno già ricevuto attestati di merito.
L’attacco ai populisti che campeggia nel manifesto ittico svela già l’origine e la fine del mistero sulla provenienza e sulle intenzioni di questo “nuovo” movimento sorto proprio nel momento giusto. Elezioni regionali, riforma del Mes, governo in bilico sulla legge di bilancio, pignorabilità più facile dei conti correnti, Germania (con Finlandia e Olanda) all’attacco sul fronte banche e misure espansive. Insomma ci voleva una boccata d’ossigeno ed ecco che le piazze si riempiono. Ma non perché da solo il nuovo Mes rischia di trasformare l’Italia nella Grecia di qualche anno fa, piuttosto e semplicemente perché Salvini sta disturbando la “normalità” delle nostre giornate.
Il problema sono i populisti dunque, anche se loro si sentono popolo, forse. “Cari populisti”, cari voi che vi ispirate a quel movimento che idealizzava il popolo come portatore di valori positivi in contrasto con le élite. A quel movimento culturale e politico sviluppatosi in Russia tra il 19° e 20° secolo, che si proponeva di raggiungere […] un miglioramento delle condizioni di vita delle classi diseredate, specialmente dei contadini e dei servi della gleba, insomma proprio per voi… “la festa è finita” (cit. Enciclopedia Treccani).
Ed è finita allora anche per il povero Chomsky, anche lui ovviamente un sovversivo della destra estrema, che dava la sua “faziosa” definizione di populismo quando diceva che questa parolaccia “significa appellarsi alla popolazione” e spiegava che “chi detiene il potere vuole invece che la popolazione venga tenuta lontana dalla gestione degli affari pubblici”. Vuole insomma che si occupi di mantenere la sua vita “normale”.
Casualmente occuparsi della cosa pubblica una volta significava anche “democrazia” e la democrazia si nutre anche di politica e in politica di solito si riempiono le piazze per protestare contro il governo o per proporre un’alternativa, magari proprio un manifesto che proponga soluzioni diverse rispetto a iniziative governative. Non tanto per rivendicare il proprio diritto alla normalità, cioè svegliarsi, andare a lavorare, tornare a casa, dormire e ricominciare modello George Orwell formato millennial ed oltre.
Rivendicare il proprio diritto alla tranquillità e alla normalità va bene ma non è un progetto politico degno di attenzione, da portare in piazza. A me personalmente piace vedere giovani impegnati in qualcosa che non sia video giochi on line o a seguire gli “amici di Maria”. Ma pretendere la normalità in tempi dove non c’è nulla di normale, dove si attenta al futuro delle persone, richiede qualcosa in più. Magari un Manifesto anche scopiazzato da quello del 1848, potrebbe funzionare meglio. Ma forse risulterebbe troppo populista “Proletari di tutti i Paesi, unitevi!”, figuriamoci. Roba vecchia come il Cynar e il mito del Che Guevara.
L’esercizio della democrazia richiede impegno e va al di là della capacità di riempire una piazza, bisogna anche far capire per cosa lo si fa in maniera chiara e spiegare se si sta scendendo in piazza per i diritti del popolo oppure per i bisogni della casta, che sono sempre gli stessi dai tempi di Marx, ovvero che la massa non si occupi di cose serie come oggi sono le questioni economiche. Non si occupi, ad esempio, della riforma del Mes che attenta ai principi di giustizia sociale, ai diritti acquisiti in anni di lotte sindacali e di quel popolo che voleva contare qualcosa.
La parola populista è diventata sinonimo di demagogia, si è accuratamente storpiata per oscurarne la radice popolare e antisistema. E con le piazze oggi vogliamo far vincere il sistema? Dargli ragione quando pretende che non dobbiamo occuparci del nostro futuro e ritornare alla nostra normalità? Oggi più che mai sta passando il concetto che sia inutile occuparsi di questioni più grandi di noi, che all’Unione bancaria devono pensarci gli esperti come hanno fatto fino a quando poi abbiamo scoperto che esisteva un caso Carife. Quante volte sono scesi in piazza i giovani per le banche fatte fallire da un sistema di potere che vuole addossare le responsabilità di ogni cosa al popolo in stile bail in?
Dobbiamo convincerci che gli interessi popolari, populisti, non siano di nostra competenza e per farlo dobbiamo confonderli con la demagogia. Dobbiamo convincerci che ci sono questioni talmente utopiche, oltre la possibilità di realizzazione, impossibili, come una volta era impossibile immaginare il voto alle donne e quindi cullarci nella nostra normalità, fare volontariato, parlare di accoglienza qui e ora, non preoccuparci del perché le cose succedono. Dobbiamo far diventare contemporaneamente affari seri e imprescindibili questioni come la paura del passato che non potrà mai più tornare, confortati in questo dalle statistiche appena sfornate. Tranne nelle piazze delle sardine e nelle trasmissioni di Lucia Annunziata, ovviamente.
E poi “Occuparsi di cose pratiche”. Il motivo del successo di Salvini sta proprio nel fatto che parla alla pancia della gente, gli parla della quotidianità, delle aziende che chiudono per mancanza di credito, dell’incapacità dimostrata dai vari governi sull’accoglienza, dei tetti delle scuole che cadono, delle difficoltà delle forze dell’ordine nel fare il loro lavoro, della svalutazione del lavoro causata dal sistema della moneta unica, delle ingerenze della Commissione europea, dell’impossibilità di proporre politiche economiche a causa di vincoli europei ritenuti oramai da tutti gli economisti obsoleti e troppo rigidi. E a dirlo sono addirittura Mario Draghi e Christine Lagarde, che scomoda persino San Tommaso per convincere i tedeschi che sono necessarie politiche fiscali espansive.
Ed è su questo che andrebbe contestato Salvini e la sua Lega a cui “l’Emilia non si lega”, sulle cose pratiche e sugli argomenti politici, sulle soluzioni che propone dicendo perché e come invece sarebbe meglio procedere, ma andava fatto quando era al governo. Ora al governo vuole tornare ed occupa le piazze in un gioco che si chiama democrazia e che vede chi è all’opposizione protestare contro il governo. Contro l’opposizione si protesta non andando alle loro manifestazioni. Che senso ha e quanto è democratico fare opposizione all’opposizione? Se ci si sente sulla stessa linea dei partiti che sono al governo li si sostenga, si aiuti il governo ad illustrare quanto bene stanno facendo nell’attuare le loro politiche economiche e sociali. Ve ne saremmo grati, a dir poco.

“Se tu fossi una città”, Roberto Dall’Olio illustra il suo itinerario poetico fra memoria e presente

Se tu fossi una città è il titolo della più recente raccolta di poesie pubblicata da Roberto Dall’Olio, impreziosita dalla prefazione di Romano Prodi: “In quest’opera – scrive il noto statista – si coglie un sentimento ampio, universale, romantico e cosmopolita, ma pur sempre intimo. Con la sua poesia Roberto Dall’Olio mette in scena una continua migrazione, grazie all’uso del ‘leitmotiv’ “Se tu fossi una città saresti…”. Il Diverso, l’Altro diventano valori da esaltare… Ogni città, da Bologna a New York, da Epidauro a Matera, arricchisce il testo a modo suo… Il soggetto principale, l’individuo a cui è rivolto il testo, è un prodotto diretto di questo continuo riaffiorare del passato e delle radici che ci sostengono. Viaggio e memoria…”.

Questo pomeriggio, alle 17,30, il volume edito da l’Arcolaio sarà presentato alle libreria Feltrinelli di Ferrara. Con l’autore dialogheranno Maria Calabrese, Roberta Barbieri (docenti del liceo Ariosto) e Sergio Gessi, direttore di Ferraraitalia.

Dove lo metto Giulio Regeni?

No,non prendete per vera la foto di copertina. Niente facciata del Duomo per adesso. E’ solo una ‘modesta proposta’. L’idea (lo stupendo  fotomontaggio) l’ho presa a prestito da un profilo di un amico su Facebook. Ma la faccio mia senz’altro: è troppo tempo che la verità per Giulio Regeni non ha più casa a Ferrara.

La storia (tremenda e inconclusa) di Giulio Regeni, il giovane dottorando italiano torturato ed ucciso a Il Cairo nel febbraio del 2016, è nota a tutti. La magistratura italiana indaga, il coinvolgimento della polizia e dei servizi segreti egiziani è ormai acclarato, ma le autorità egiziane non sembrano disposte a far piena luce sulle circostanze dell’omicidio Regeni. Pressato dall’opinione pubblica il governo Gentiloni ha insistito (sottovoce, con molto garbo) sul governo egiziano. Il primo Governo Conte molto meno: è rimasto alle cronache il sommo cinismo dell’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini che, nel giugno dell’anno scorso, rispondeva così a una domanda di un giornalista: “Regeni? Sono più importanti i rapporti con l’Egitto.”.

Intanto il nome di Giulio Regeni, la richiesta di arrivare alla verità sulla sua morte, si spargeva in tutte le piazze d’Italia. Ovunque veniva appeso lo striscione giallo di Amnesty International. Anche a Ferrara, dove da oltre tre anni stava appeso allo Scalone di piazza Municipale.

Ci eravamo tanto abituati, che la piazza non sarebbe stata più la stessa senza quella invocazione alla giustizia e alla verità. Poi, dopo la vittoria leghista alle ultime elezioni comunali, quello striscione ha iniziato a diventare scomodo. E qualche volonteroso militante aveva subito pensato a coprirlo con una bandiera di partito.

La storia continua. Per la destra ferrarese quello striscione doveva risultare davvero indigesto, infatti, la notte dello scorso 7 agosto sparisce del tutto. Da allora sono passati più di tre mesi. Il gruppo Amnesty International di Ferrara ha ripetutamente chiesto alla nuova Giunta di ripristinarlo. Senza successo. Sembra proprio non si riesca a trovare un posto per Giulio Regeni. E per la verità.

Proprio ieri il Sindaco Alan Fabbri prendeva altro tempo. Ma siccome Alan Fabbri ama far la parte del poliziotto buono – lasciando al vicesindaco Naomo Lodi il ruolo di poliziotto cattivo – la questione striscione diventa puramente un problema di estetica e di decoro urbano. Lo striscione non tornerà sullo scalone del municipio, ma “la nostra idea – dice il Sindaco rispondendo ad Amnesty International – è di spostarlo in un altra collocazione, altrettanto importante, per ragioni legate all’afflusso turistico e alla attività istituzionale collegati allo Scalone”. Collegati come, non è dato intuire.

Non ci pareva che qualche turista avesse protestato per l’obbobrio di uno striscione civile sul fianco dello Scalone. Non ci sembrava costituire un vulnus alla bellezza di Ferrara. Né che potesse in qualche modo intralciare i lavori del Consiglio Comunale e della Giunta. Ma insomma, vogliamo prendere per buone le intenzioni del Sindaco che da più di 100 giorni si sta lambiccando il cervello per trovare un posticino adatto (“altrettanto importante” ha detto) per Giulio Regeni. L’idea della facciata del Duomo, fasciata a lungo per i lavori di restauro, ci pare un’ottima location. Ci pensi su. E prenda una decisione. Non credo che il vescovo avrà obiezioni.

 

 

Le verità nascoste su piazza Fontana. Oggi a Ferrara il giornalista-scrittore Paolo Morando

Una piccola storia ignobile della giustizia italiana, subito cancellata e rimossa. “Prima di piazza Fontana. La prova generale”, accurata e approfondita analisi condotta dal giornalista e scrittore Paolo Morando raccolta nel recente volume edito da Laterza “Prima di piazza Fontana. La prova generale”, sarà oggetto di confronto e dibattito alla presenza dall’autore, oggi all 18 alla libreria Ibs – Il libraccio di piazza Trento e Trieste. Il volume fa seguito alle due precedenti preziose analisi di Morando sulle radici del nostro anestetizzato presente: “Dancing days: ’78/’79 i due anni che hanno cambiato l’Italia” e “’80, l’inizio della barbarie”.

Sempre oggi, ma alle 16, al Polo di Unife in via degli Adelardi 33, è in programma il seminario (aperto a tutti) dal titolo: “Tensione e distrazione: strategie per il controllo sociale”, nell’ambito del ciclo “l’Etica in pratica” organizzato dal prof. Sergio Gessi a integrazione del suo corso di Etica della comunicazione. A tenerlo sarà proprio il giornalista autore del libro-inchiesta che, a cinquant’anni dai fatti, rivela le verità nascoste di uno dei momenti chiave della storia repubblicana.

La misconosciuta vicenda oggetto del saggio di Paolo Morando fa riferimento ai due ordigni scoppiati a Milano il 25 aprile 1969, alla Fiera campionaria e all’Ufficio cambi della Banca Nazionale delle Comunicazioni della Stazione centrale, che provocarono una ventina di feriti. La tesi dell’autore è che si tratti del primo atto della campagna di attentati che pochi mesi dopo porterà a Piazza Fontana.
Anche in quella circostanza l’Ufficio politico della questura, fin dalle prime ore, punta verso gli anarchici. A condurre le indagini sono il commissario Luigi Calabresi e i suoi uomini, gli stessi che si troveranno nel suo ufficio la notte della morte di Giuseppe Pinelli, nome che nell’inchiesta spunterà di continuo, come quello di Pietro Valpreda, che già qui si profila come futuro capro espiatorio. Nel giro di pochi giorni vengono arrestati tre giovani (e altrettanti nelle settimane successive) e una coppia di noti anarchici milanesi, amici dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, che pure verrà rinviato a giudizio assieme alla moglie. Due anni dopo, con un colpo di scena dietro l’altro, il processo chiarirà le dimensioni della macchinazione anti-anarchica innescata da quegli attentati. Una vicenda determinante per comprendere fino in fondo i misteri di Piazza Fontana. Un racconto serrato di una pagina nera per la giustizia italiana, da allora totalmente rimossa dalla memoria, che assume nuova luce grazie alla scoperta di documenti fin qui inediti.

DIARIO IN PUBBLICO
Sommerso dai ‘d/D’

Una particella del discorso che indica l’appartenenza mi assilla in questo momento. Va aggiunto anche la serissima inchiesta sulla ‘d’ minuscola o maiuscola: de Pisis o D’annunzio? La minuscola indicante la nobiltà del casato, la maiuscola invece negandola. Allora de Pisis, de Chirico, De Nittis, D’Annunzio (all’anagrafe d’Annunzio). E vai col tango e con i filologi!

Ma l’alluvione del de/De non si ferma qui e metaforicamente produce altri dubbi e interrogativi che si esprime in una fulminante e inquietante domanda. Ma noi (forma di pluralis maiestatis) a quale popolo apparteniamo? Le sardine?, il Pd?, a qualche altra formazione non sovranista? La domanda diventa ancor più imbarazzante quando si scatena il (falso) problema dell’illuminazione del Castello, ma soprattutto quello che viene chiamato con un’orrida immagine l’incendio del Castello. Apriti cielo! Cittadini virtuosi m’insultano rinfacciandomi che voglio affossare l’economia e negare a 30 mila innocenti l’innocuo piacere di danzare sotto l’incendio. Tanto cosa vuoi che produca? Qualche lesioncella, qualche caduta di merli (già avvenuta), qualche problema con i quadri in mostra frettolosamente emigrati in luoghi non incendiati. Sono proprio – mi sputano addosso con rancore ( e questo è il meno) – un radical chic! Mi portano l’esempio della Tour Eiffel. Mannaggia che paragone.

Perciò, sempre meno mi sento appartenente ai de/De. La misteriosa scomparsa su Fb del programma del popolo delle sardine ci dice, ma lo sapevamo, in che modo si può manipolare il social quando la decisione è presa. Ma scusate, popolo sardinesco, se rivolgo una obiezione al bel racconto di Francesco Monini su questo giornale (vai all’articolo). Giusto e saggio protestare, ma non avete pensato che tra tutti i colori del Castello forse il meno adatto è quel bel verde con cui è illuminato?

Così la particella d’appartenenza prende vigore e rilievo sul ruolo culturale che Ferara/Ferrara sta assumendo in questo momento. Ferrarese il ministro della cultura, ferraresi nomi importantissimi a capo delle istituzioni culturali, in un embrassons- nous di rara visibilità entro le mura della città pentastellata.

Modestamente esprimerò ancora una volta le mie preferenze. Ottima la mostra di imminente apertura su De Nittis anche se il mio cuore ( organo assai delicato) batte per altri pittori. E mentre il tempo scorre e non s’arresta un’ora, mi ficco a corpo morto nelle mostre guercinesche e sto pensando che il lavoro canoviano che stiamo portando avanti con fatica ma con soddisfazione a Bassano del Grappa è valso sacrifici e ‘magoni’, ma l’edizione delle lettere canoviane, la cui stampa sarà prodotta dal prossimo volume a Ferrara, continua a ritmo trionfale. E ancora una volta Canova vuol dire Leopoldo Cicognara, quel ferrarese Cicognara che riporta nella città estense i problemi e le sfide del centenario della morte- veneziana e non romana- dello scultore.

Così il d/De assume il suo vero senso. E’ l’appartenenza al lavoro umile e sublime di proseguimento e riconferma dell’unica eredità che ci è stata lasciata. Quella della difesa dei luoghi e delle istituzioni dove la Bellezza deve essere protetta e diffusa.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Sulle note del violoncellista…

La storia del violoncellista, pubblicata la settimana scorsa, ha mosso i nostri lettori: il violoncellista dà, non chiede più di quanto lui stesso potrebbe dare e si accorda con chi, dall’altra parte, suona la stessa sinfonia.

Equilibrio armonico e violoncello usa e getta

Cara Riccarda,
io ce l’ho, in questo momento, quel violoncellista ed esattamente come la tua amica, mi basta e non vorrei averlo in nessun altro modo, non mi manca quando non c’è ma assaporo ogni momento quando c’è. Il mio violoncellista mi basta perché so che non c’è niente da mettere in piedi e nemmeno lui si aspetta altro da me, è un equilibrio che si mantiene così: nel momento in cui qualcuno dei due aspetta l’altro, l’altro sparirebbe.
S.

Cara S.,
non aspettare e non aspettarsi, sta tutto lì. Di solito, è chi aspetta a portare un senso di incompiuto che non sempre manifesta per paura. Ho conosciuto donne che hanno custodito e consumato il peso di un amore a metà, come fosse un problema solo loro, fino a non poterne più e, dopo molto tempo, sparire. Mi fai riflettere che, però, anche l’altro può abbandonare quando sente che non ce la fa e non potrà mai: quando, cioè, essere l’oggetto di questa attesa è troppo.
Ricordo che, una decina d’anni fa, un’amica venne lasciata da un uomo che le disse ‘sto diventando troppo importante per te ed è meglio finirla qui’, all’epoca trovai questa frase prepotente. Oggi penso che quando uno dei due non si sente adeguato alle aspettative dell’altro, bene farebbe a lasciare andare.
Riccarda

L’importante? Esser d’accordo

Cara Riccarda,
hai descritto il violoncellista, un’esperienza che ogni donna, che sa stare sola ed è libera di testa, dovrebbe fare.
A.

Cara A.,
facciamo che l’esperienza del violoncellista capiti a quelle donne che sono attrezzate per sapere stare da sole, sono davvero libere di testa e mai riflesse nell’uomo che hanno davanti?
La storia del violoncellista sta capitando a una donna che non conosce la dipendenza e credo sia per questo che riesce a sostenere quel tipo di rapporto, così speculare a lei: ha scelto un uomo e una frequentazione in cui entrambi sono dotati degli stessi strumenti. Se solo uno dei due perdesse qualche accordo, non credo funzionerebbe.
Riccarda

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

Sardine: la fantasia e l’ironia contro l’oscuramento
Confermata la manifestazione di sabato sera in piazza Castello

Ieri sera era domenica sera. Non succede quasi nulla alla domenica sera (a parte qualche normale viadotto crollato). La sera del dì di festa si guardano i risultati delle partite o si apre un libro rimasto a dormire sul comodino: ci si prepara mentalmente alla ripresa della settimana. Che altro? Beh, naturalmente, si butta un occhio ai messaggi sullo smartphone. Arriva così la notizia dell’ oscuramento della pagina Facebook delle sardine. E all’inizio non riesci proprio a crederci. Non siamo a Hong Kong, in Iran o in Turchia. Poi leggi il comunicato ufficiale: la pagina (più di 150.000 followers) sarebbe stata temporaneamente rimossa a seguito di segnalazioni di post offensivi e violenti.

Seguo dalla data della sua creazione, dalla primo raduno ittico a Bologna in piazza Maggiore, la pagina incriminata e non mi è mai capitato di leggere post e commenti di insulti. Mi saranno sfuggiti? Eppure quello che colpisce nel popolo delle sardine è fantasia, la capacità di invenzione linguistica, la scelta di comunicare attraverso l’ironia e la satira. Scorrere la pagina è come entrare in un caleidoscopio, un’opera grafica collettiva. Guardare come questo piccolo pesce azzurro è stato rappresentato, moltiplicato, reinventato, sovraimpresso sull’immagine di questa o quella piazza d’Italia.

     

‘A pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina’, la celebre frase del Divo Giulio ha scalato con merito la classifica dei proverbi. Anche nel caso dell’oscuramento delle sardine viene da pensar male. Come è potuto succedere che una pagina tanto scomoda quanto ironica e pacifista possa essere incappata nella censura automatica di Facebook? E’ noto che Matteo Salvini ha a disposizione una potente macchina social (‘La Bestia’) dove il suo consulente d’immagine, lo spin doctor Luca Morisi  coordina 35 collaboratori lavorano sulla rete H24 per rafforzare l’immagine del leader leghista e affossare quella degli oppositori.

Il dubbio – è solo un’ipotesi ma per nulla strampalata – è che l’oscuramento delle sardine sia stato pianificato nel bunker mediatico leghista. L’impresa è un gioco da ragazzi, non abbisogna di un guru della comunicazione. Fase uno, si mandano alla pagina delle sardine commenti violenti e minacce assortite a Salvini. Fase due, (le stesse persone) segnalano alla equipe di Facebook tali commenti. Fase tre (in automatico), la pagina Facebook viene oscurata.

Tuttavia Il branco delle sardine si ingrossa ogni giorno di più. Riempie il mare e le piazze di tutta la penisola. Mette in scena una nuova opposizione al populismo, l’unica che c’è. O almeno, l’unica che fa paura a Salvini: Allora, non è troppo fantasioso pensare che tra le centinaia di migliaia di sardine cerchi di infiltrarsi qualche squalo. Opportunamente mascherato.

Sia come sia, la marcia sott’acqua prosegue, il popolo delle sardine sembra aver reagito al temporaneo oscuramento raddoppiando ironia e fantasia: combatterle è maledettamente difficile. Il calendario dei prossimi appuntamenti continua a ingrossarsi. A Ferrara, la roccaforte espugnata dalla Lega alle ultime elezioni, gli iscritti al gruppo Fb dedicato (e potenziali partecipanti alla manifestazione del 20 novembre in piazza Castello) sono già più di 9500.[vai al gruppo Fb Sardine Ferrara]

LA PIUMA
Una poesia di Carla Sautto Malfatto dedicata alla Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne

di Carla Sautto Malfatto

LA PIUMA

È una questione di equilibri.
Con una piuma per contrappeso
sostenere un intreccio di bambù spogli
le estremità taglienti
rigidi alle giunture, infidi.
Trovarvi il baricentro per ogni legno,
su questo posarvi altri,
reggerli, mentre si danza la vita
a piedi nudi e concentrata
a non perdere l’attenzione sui prolungamenti
farli girare, a perno, su di me
(e la piuma, sempre più lontana
ma ineludibile compensazione
di miserrimo peso, nemmeno un grammo).
Così, avanzare nel rischio continuo
elegante giocoliere con i calli alle mani,
domani, un’altra gravità, un nuovo legno
da aggiungere all’ultimo punto di forza,
continuare, gravida, del peso degli altri,
mai abbastanza, mai sazi.
Poi giungere al termine, per sottostimata soma,
appoggiarsi a valutare il tenue costrutto,
impalcatura sopraffina
di indicibile strazio e meravigliosa trama.
Se tolgo la piuma, tutto si schianta, fracassa
in un urlo solo e disumano,
se tolgo la piuma, tutta l’esistenza disgrega
nel mirabile intarsio di un’eternità,
tutto di me si seziona in verticale,
se tolgo la piuma – l’amore –
non c’è più una regina
non ci fu mai un re.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

PER CERTI VERSI
Il calco leggero

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

IL CALCO LEGGERO

L’uomo è andato sulla luna
Ma la luna non è mai andata dentro l’uomo
Nella sua mente
È rimasta là
A impollinare gli occhi di meraviglia
A incrociare i desideri dei mortali
Ad affascinare i poeti
Gli innamorati
E quelli come noi
Annuvolati

Contro l’inverno delle biblioteche
Ferrara: si raccolgono le firme su una petizione popolare

Cambiano le stagioni – e cambia la Giunta – e oggi le biblioteche ferraresi rischiano grosso. Si può parlare, infatti, di una vera e propria emergenza, tanto che lo stesso sindacato si è fatto promotore di una petizione popolare ‘Per il rilancio delle biblioteche di Ferrara’.[vedi volantino in calce a questo articolo].Le firme si raccolgono:sabato 23 novembre, piazza Trento Trieste dalle 16,00 alle 19,00 e sabato 30 novembre dalle 16,00 alle 19,00 in via Garibaldi (vicino alla Feltrinelli).

Ma. per capire meglio i termini del problema, facciamo un passo indietro nella storia recente. Dopo una decina di anni piuttosto grigi, c’era stato ultimamente un risveglio di interesse. Due anni fa, proprio su questo giornale, peroravo la causa di ‘una nuova primavera delle biblioteche’ [vai all’articolo] mentre l’anno scorso registravo con favore la ‘riscossa’ delle biblioteche cittadine [vai all’articolo].

Sembrava insomma che, sul finire del mandato, l’’Amministrazione Comunale di Centrosinistra si fosse finalmente convinta che il sistema bibliotecario diffuso non era solo un tesoro prezioso da non disperdere, ma un campo da seminare a nuovo, un settore cruciale su cui riprendere a investire, un modo concreto per promuovere conoscenza e cultura e allargare gli spazi della democrazia e della partecipazione. C’era e c’è ancora molto da lavorare – e anche allora non risparmiavo critiche ai vecchi governi di Ferrara per aver a lungo tralasciato l’impegno per lo sviluppo del sistema bibliotecario – ma nell’ultimo scorcio del mandato di Tiziano Tagliani si vedevano  con chiarezza i segni di un risveglio. La fine dei lavori e l’inaugurazione della Niccolini, la bellissima nuova biblioteca per ragazzi, l’ambizioso progetto di una ‘Grande Biblioteca Rodari’ alle Corti di Medoro, l’impegno più o meno solenne a non diminuire, anzi ad aumentare il numero dei bibliotecari e operatori comunali, più soldi per l’acquisto del materiale documentario.

Avevo anche proposto, insieme a un folto gruppo di amici appassionati, la creazione di una biblioteca multietnica dalle parti del Grattacielo: per affrontare i problemi di quella zona aprendo uno spazio per il dialogo e l’incontro, invece di affidarsi ad una ‘soluzione militare’ [vai all’articolo]. Anche questo sogno si è recentamente avverato. Si è costituita l’associazione culturale ‘Biblioteca Popolare Giardino’ con più di 100 iscritti e la vecchia Giunta ha concesso in uso gratuito un negozio proprio ai piedi del Grattacielo. Così lo scorso maggio la biblioteca è diventata realtà. Una cinquantina di volonterosi volontari la tengono aperta al pubblico e organizzano decine di iniziative culturali e ricreative per adulti e bambini. Proprio qualche giorno fa la BiblioPopGiardino ha festeggiato i primi sei mesi di vita con una affollata castagnata.

Pareva quindi profilarsi un roseo orizzonte per le biblioteche di Ferrara. Purtroppo il clima è cambiato bruscamente: sta arrivando un inverno pieno di nuvoloni neri, tanto che Il nostro sistema sistema bibliotecario rischia nei prossimi mesi il collasso.  La petizione popolare (ad oggi sono state già raccolte oltre 500 firme) indica tre criticità e, insieme tre obbiettivi.

Pima di tutto, l’emergenza personale.  Anche per effetto di Quota Cento, a partire di quest’anno e nel corso del 2020 sonio previsti 10 pensionamenti, un quinto dell’intero personale addetto a biblioteche e archivi. Se non fosse garantito il turn-over integrale, l’assunzione di nuovi addetti al posto di tutti i pensionandi – e la Giunta di Alan Fabbri non ha ancora preso nessun impegno in tal senso – tutto il sistema andrebbe in tilt. Le biblioteche pubbliche rischiano la chiusura, o dovrebbero ridurre drasticamente  le ore giornaliere di apertura (e basta girare per l’Italia per vedere che già ora Ferrara non è certamente in cima alla classifica per ampiezza di orario).

In secondo luogo, la petizione denuncia il dietrofront del governo leghista sulla creazione della “Grande Rodari” e ne chiede con forza la realizzazione. La vecchia Giunta aveva stabilito che al piano terra delle Corti di Medoro (l’ex Palazzo degli specchi) sarebbe sorta una grande e moderna biblioteca per servire la zoa Sud di Ferrara dove risiedono 40.000 abitanti. Al posto della biblioteca e dell’auditorium, il sindaco Alan Fabbri ha deciso di ospitare il nuovo comando dei vigili urbani. Il progetto della grande biblioteca sembra accantonato: nessuna altra localizzazione è stata avanzata dal Comune. Allora “dove leggo?”, scrive il volantino dando voce agli abitanti di via Bologna.

Ma non basta assicurare il mantenimento della pianta organica e riprendere il progetto di una grande biblioteca nella zona Sud, la mozione chiede (prima di tutto al Consiglio Comunale e alla Giunta che secondo regolamento dovrà rispondere alle questioni sollevate dai firmatari) un vero rilancio del sistema bibloteche a Ferrara. Invece di chiudere una porta, occorre aprirne tante altre. Pensare alle biblioteche pubbliche come a un motore della democrazia informativa, come dei centri – disseminati in tutti i quartieri – dove offrire servizi e favorire l’incontro, il dialogo, la cittadinanza attiva.

Mentre scrivo questo articolo, un amico bibliotecario della Bassani di Barco telefona per dirmi che l’auditorium annesso alla biblioteca è stato chiuso sine die per inagibilità. Sul Carlino leggo che sindaco e vicesindaco insistono per chiudere piazza Verdi con un cancello anti-movida. Non tira una bella aria in città: le chiusure prevalgono sulle aperture. E le biblioteche? la petizione popolare chiede ai ferraresi di fare un passo avanti e alzare una mano.

Un castello stile luna park

Gentile Presidente Paron,

accolgo il suo invito, lanciato dalle pagine della cronaca cittadina, a pronunciarsi sulla scritta pubblicitaria apparsa sulle torri del Castello tinto a festa per le sagre natalizie. Dal fondo della memoria risale una filastrocca che noi bambini eravamo usi cantare nelle immancabili visite al monumento più famoso (ma sicuramente non il più bello) della nostra città: “Ma che bel castello marcondirondirondello / Ma che bel castè marcondirondirondà”…
Dove, misteri del caso, il refrain della filastrocca porta il nome dell’assessore alla cultura.
Rispetto all’attenzione a cui sono stati e forse saranno gli edifici più importanti della città estense, il Castello da secoli è sottoposto ad infiniti rimaneggiamenti e ‘stupri’ che lo hanno reso architettonicamente e artisticamente illeggibile. Un luogo da parata, direi, usato per tremende manifestazioni: dall’improvvido incendio, mai abbastanza deprecato, ai manti – più o meno – regali che indossa per ospitare mostre e rassegne, ben più attendibili in altri luoghi. Resta il segno/sogno del popolo ferrarese sempre affascinato dall’idea di entrare nel Castello.
Ma anche al cattivo gusto c’è un limite. E i lividi coloracci con cui lo si fascia conciandolo così per le feste superano ogni pretesa o lontano sospetto di buon gusto. Ricordo ancora l’entusiasmo che noi dell’équipe convocata da Gae Aulenti spendemmo per quella che mio avviso rimane il più importante tentativo di ‘rinnovare’ l’immagine del Castello (le vituperate piramidi di specchi per vedere i soffitti, paragonate da illustri critici d’arte a qualche escamotage degno di pensioni di terz’ordine della costa romagnola); poi s’arrivò a spostare a braccia i quadri per permettere la buffonata dell’incendio.
Che dire dunque della scritta e dei colori con cui s’ammanta il monumento? Boh! Niente di più tremendo di ciò che si fa e si farà del bel Castello dirondello.
Quindi esprimo tutta la mia – peraltro condivisa – preoccupazione riguardo all’intenzione della dottoressa Paron di trasformare il simbolo della città in un giochino buffo e colorato per soddisfare i bambini-spettatori che vogliono entrare nel ‘bel’ Castello.
Come mi disse un tempo un caro amico e illustre studioso ciò che manca a Ferrara è la competenza. La competenza di gestire i tesori che nonostante tutto abbiamo.

Stop all’odio: ricostruiamo un fronte di civiltà

da: Alessandra Tuffanelli

Non posso che condividere il contributo di Sergio Gessi. Nei contenuti e nei toni. Durissimi, quanto necessari. Da tempo sono sempre più disgustata dal livelli infimi raggiunti dal dibattito politico nel nostro paese e nella nostra città. E questo recente episodio è solo l’ultimo, orribile, raccapricciante, intollerabile atto di una commedia dell’assurdo che mai mi sarei aspettata di vivere fino ad una manciata di anni fa.

“Più giù di così / Non si poteva andare / Più in basso di così / C’è solo da scavare / Per riprendermi / Per riprenderti / Ci vuole un argano a motore” (Daniele Silvestri, Salirò)

Parole, quelle scritte da Giangi Franz, inaccettabili, intollerabili. Che mi fanno domandare da chissà quale remoto anfratto della mente umana può scaturire un così profondo e ingiustificato livore nei confronti di perfetti sconosciuti, colpevoli solamente di essere state vittime di una tragedia. “Nessuna compassione per Venezia o per i veneti. Il Veneto è la regione con la più alta evasione fiscale” ha affermato, scrivendolo sul suo profilo Facebook. Ma siamo proprio sicuri che le persone decedute per il maltempo in Veneto, così come i loro familiari che ora li stanno piangendo, fossero degli evasori? Dei delinquenti? E anche lo fossero state, quale enorme somma dovrebbero aver occultato per meritarsi di pagare con la vita? Che responsabilità hanno avuto nel processo di cambiamento climatico imputabile del fortunale scatenatosi contro migliaia di persone che, in una manciata di minuti, han visto spazzare via tutto quanto avevano realizzato in una vita di sacrifici e di lavoro. Case, attività. I ricordi più cari. Io che mi ritengo una persona assolutamente normale, non particolarmente nota come campionessa di bontà, non posso che provare tanta tristezza ed empatia per i fratelli veneti, così per tutti gli altri italiani colpiti, da nord a sud, da questi eventi disgraziati. Le responsabilità? Certo che esistono. Andranno individuate e i responsabili, in caso di colpe accertate, duramente perseguiti e condannati. Ma non ora. Ci sarà un tempo e un modo anche per questo. Ora è il momento della solidarietà, di un unico forte abbraccio che ci unisca tutti. Dell’aiuto disinteressato e delle manifestazioni di affetto sincero.

Se c’è un aspetto positivo in tutta questa triste vicenda, se ci sono degli eroi veri e vincenti, questi sono gli studenti che da tutta Italia si sono mobilitati per portare aiuto alle persone in difficoltà, donando tutto ciò che hanno a disposizione: la loro presenza materiale, la forza delle loro braccia, la loro volontà e instancabile determinazione. Una meravigliosa catena umana che si è costituita spontaneamente e che mostra quanta bellezza ci sia nei nostri giovani: sarà solo grazie a loro se ci sarà un futuro e che loro potranno fare bene laddove noi abbiamo fallito. Davanti a questo esempio di generosa umanità noi abbiamo solo da tacere rispettosamente, guardare e imparare la lezione.

Alla luce di queste riflessioni le parole del professor Franz appaiono ancora più fastidiose. Ingiustificatamente crudeli. Così come sarebbero fastidiosi quei due euro che ha promesso di donare utilizzando un tono talmente irriverente. Per cortesia, se li tenga. Chiunque li dovesse ricevere non potrebbe che sentirsi insultato ed umiliato e sono convinta che preferirebbe farne a meno. Ma, se mi han tanto deluso le sue esternazioni, ancora più doloroso è stato leggere le tante manifestazioni a difesa delle sue crudeli parole, provenienti da tanti amici e conoscenti, persone appartenenti a quella fetta di società che si definisce sinistra progressista e che ogni giorno si batte contro la presenza dei cosiddetti haters in rete. Signori, oggi che gli haters siete voi, in virtù di un odioso e ingiustificabile campanilismo senza senso, come la mettiamo? L’odio, gli insulti, le minacce, la mancanza di pietà e di empatia fanno schifo, vengano queste da sinistra come da destra, dal basso o dall’alto, da nord o da sud. Facciamo tutti un passo indietro per favore. Moderiamo i termini, abbassiamo i toni. Scusiamoci – sinceramente – laddove abbiamo consapevolmente ferito qualcuno. E contiamo fino a 10, 100, 1000 la prossima volta, prima di colpire. Impegniamoci tutti facendo un passo verso la direzione della civiltà. E firmando la petizione “Basta odio in Rete – #ODIARETICOSTA” (vai al link) che ha già raccolto quasi 50mila adesioni. Ma facciamola crescere ancora. È estremamente importante, perché più siamo, meglio è. Costruiamo insieme un enorme fronte enorme di civiltà e di umanità. In modo che possa essere abbattuto mai più.

E quindi ritorniamo da dove eravamo partiti, dal buon Daniele Silvestri: “E resto qui distrutto / Disperato ancora un po’ / Ma prima o poi ripartirò / E salirò …”

Sardine sì, ma anche delfini e salmoni

 

Sardine… E chi se lo sarebbe mai immaginato? L’irrompere sulla scena politica di questo originale, inatteso e ancora magmatico soggetto aggregativo, che raccoglie il sentimento di una sinistra diffusa ma dispersa e orfana di rappresentanza, potrebbe ricreare uno spazio di espressione plurale per chi, oggi, voce non ha (e, solitario, al vento sino a ieri ha affidato il proprio lamento).

La novità, come tale, genera speranze e grandi attese (proporzionali alle tante frustrazioni patite negli ultimi anni); e insieme pure dubbi e ragionevoli timori, in considerazione dei rischi e delle incognite di cui la sfera pubblica è zeppa, nonché dell’imbarbarimento e della degenerazione delle relazioni sociali.

Ecco, allora, alcuni basilari avvisi ai naviganti, utili forse per sventare qualche ostacolo e magari favorire un positivo approdo per le prossime imprese alle quali le sardine s’apprestano.

L’avvertenza preliminare e procedurale, ad uso di coloro che, idealmente, si porranno ‘in testa ai cortei’, quali registi delle mobilitazioni, riguarda i rischi del settarismo, malattia infantile della sinistra, mai debellata: le pratiche inclusive, che sempre e giustamente si invocano quando si tratta di condannare le discriminazioni sociali, andranno coerentemente praticate anche in casa propria. Sarà, quindi, indispensabile essere rispettosi e tolleranti pure con il compagno di lotta (la sardina dell’onda accanto), al quale invece – come la più ‘sinistra’ storia della sinistra tragicamente insegna – spesso non si perdona neppure una divergenza sulle virgole… Serve, dunque, una ragionevole flessibilità: se la direzione di marcia è condivisa, sulle variabili di percorso ci si deve rispettosamente saper confrontare, accettando anche il dissenso (sissignori: pure quello interno, così indigesto a taluni), purché non si perda di vista la meta. La prima condizione di successo di questa inedita sfida che le sardine intraprendono sta quindi nel forzare alcune paratie, proprie degli apparati, che hanno perniciosamente condizionato anche la forma mentis di molti militanti e conseguentemente le loro modalità di azione e di relazione.

Innovativo sarebbe il reale pieno riconoscimento della dignità di espressione a tutte le diverse anime che compongono il diffuso e variegato arcipelago della sinistra: egualitaria, libertaria, solidale, pacifista, nonviolenta, ambientalista, ecologista, animalista, antiproibizionista, inclusiva e non omofoba…
È, questa, una condizione imprescindibile, poiché troppo spesso il battito della sinistra è stato -paradossalmente – soffocato proprio dall’intolleranza e dal settarismo.

Per quanto specificamente attiene alla nuova impresa, le sardine che hanno cominciato a invadere le piazze sono imprescindibili: per istinto naturale garantiscono la compattezza. Ma – stando alla metafora ittica – la loro massa d’urto deve essere potenziata da ‘delfini sapiens’, capaci di navigare nei mari aperti e in acque agitate; e pure da salmoni caparbi, in grado anche di nuotar controcorrente – non per posa, ma quando è giusto e necessario – sfidando il pensiero dominante, i luoghi comuni e le facili illusioni. C’è dunque da augurarsi che fra le sardine via siano anche esemplari di queste differenti specie.

Sardine sì, dunque: per il loro entusiasmo, lo slancio gioioso e giocoso, la capacità di trascinamento e di fare compattamente squadra. Consapevoli però – va ribadito – che la vivace forza del branco va sostenuta dall’intelligenza dinamica e dalla sagacia tattica che si attribuisce al delfino; nonché dall’attitudine a sfuggire i luoghi comuni e le soluzioni scontate, propria del salmone di razza (diffidando dalle tristi e perniciose imitazioni che sovente si infiltrano).

Infine – ma non per ultimo – programmaticamente sarà onesto, doveroso e aggregante dichiarare, oltre a “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”, anche quale idea di convivenza sta a fondamento dell’impresa. E’ necessario, quindi, al più presto, quantomeno tratteggiare pure la ‘pars costruens’, per delineare i tratti del mondo nuovo: i valori che lo sorreggono e il modello di sviluppo auspicato. Schierarsi ‘contro’ è utile ma non basta. È indispensabile chiarire anche ‘per’ cosa ci impegniamo.

E intanto vediamo se, anche a Ferrara, arriva l’onda…

INTERVENTI
Il rispetto delle Istituzioni

da: Francesco Rossi

Gentile Direttore,
recentemente il Presidente della Provincia, la dottoressa Barbare Paron, è stata fortemente criticata per aver abbandonato la cerimonia celebrativa del 4 novembre al momento in cui il rappresentante del Comune, l’Assessore Naomo Lodi, si accingeva a pronunciare il proprio discorso.
In particolare è stato da più parti rimproverato alla Paron il fatto che essa abbia mancato di rispetto alle Istituzioni (Stato, Forze Armate,Bandiera Italiana, Comune di Ferrara, Associazioni Combattentistiche) avendo essa voltato le spalle al Comune in concomitanza dell’intervento del suo Assessore.
Sembrerebbe, quello della Paron, un comportamento del tutto censurabile se non tenessimo distinte le Istituzioni dalle persone fisiche che, nell’occasione, le rappresentavano.
Da come è stato riportato nelle cronache, il Presidente Provinciale, ben lungi dal voler mancare di rispetto alle Istituzioni, è correttamente intervenuta alle celebrazioni per poi allontanarsi, scusandosi preventivamente con il Signor Prefetto, non perché avesse qualche linea di febbre, ma perché la persona che prendeva la parola in quel momento non era meritevole.
Ed allora io mi chiedo chi abbia mancato di rispetto alle Istituzioni: il Presidente della Provincia oppure il Sindaco di Ferrara che, negandosi alla cerimonia, si è fatto sostituire -tra i tanti assessori disponibili- proprio da quello che non più tardi di un anno prima con la nostra bandiera ci si è pulito i fondelli (metaforicamente parlando).
Tant’è vero che alle celebrazioni dell’eccidio del 15 novembre 1943, lo stesso Sindaco è intervenuto di persona accompagnato da altro assessore.
Lascio la risposta all’intelligenza di ciascuno di noi: personalmente penso che la Paron abbia dato concreta sostanza alla forma con un coraggio che, mi dispiace dirlo, non ho visto nella sua stessa area politica di riferimento (che poi è anche la mia).

Il boom degli indici di borsa e la distanza tra finanza e vita reale

La Borsa di Milano ha toccato nell’ultima settimana il massimo dell’anno a 23.829 punti che, sebbene sia meno della metà dei 50.109 punti toccati a marzo del 2000, delinea una corsa che vede un aumento percentuale dell’indice di circa il 28%. Meglio del 24% annuo di Wall Street e dell’ottimo 25% annuo raggiunto dalla Borsa di Francoforte.

Listini borsistici in aumento mentre però cala tutto il resto. Il Pil europeo, per esempio, ha visto un ridimensionamento notevole nelle previsioni di crescita per il 2020, passando dall’1,7% ad un più modesto 1%. Gli Usa caleranno invece, per lo stesso anno, dal 2% al 1,8%.
Il Fondo Monetario Internazionale stima una crescita del Pil italiano nel 2020 dello 0,5% nonché un rallentamento generalizzato del Pil mondiale, soprattutto per quanto riguardo il “gruppo dei 4” (Usa, Zona Euro, Cina e Giappone) e almeno fino al 2024.

Anche l’Ocse fa la sua parte e calcola il Pil mondiale in discesa dal previsto 3,2% al 2,9% nel 2019 e dal 3,4% al 3% nel 2020. Quello della Germania viene dimezzato nel 2020 dall’1,2% allo 0,6%.
A causa poi delle tensioni commerciali il Wto (Organizzazione mondiale del Commercio) prevede volumi dell’interscambio mondiale di merci in calo rispetto alle attese. Per il 2020 un più 2,7% contro il precedente 3%. Ovviamente a meno che le relazioni commerciali tra Stati Uniti e Cina si normalizzino, il che è difficile ma non impossibile.
In Italia, a fronte del 28% di aumento della Borsa di Milano, calano le prospettive occupazionali a causa del sempre più possibile spegnimento degli altiforni dell’ex Ilva e delle centinaia di crisi aziendali ancora da risolvere e non aumentano gli stipendi, che nonostante le dichiarazioni degli esponenti dell’attuale Governo, sono ancora fermi agli anni ’90 del secolo passato, come ci dice l’Ocse

Certo, sono i salari medi e quindi non sarà per tutti così, come mostrano i dati sulla disuguaglianza sociale. Per fortuna però in Europa ancora resiste un modello economico basato sulle politiche di intervento pubblico che si oppone agli attacchi dell’austerità e ci permette di avere situazioni meno estreme di quelle che bisognerebbe affrontare negli Stati Uniti o nei Paesi dell’Est Europa.
Resistono, a fatica, la sanità pubblica, le pensioni e la scuole per tutti, come sottolinea uno studio sulle disuguaglianze del maggio scorso del World inequality database (Wid), un network di un centinaio di ricercatori che fa capo a Thomas Piketty, autore del bestseller “Il capitale nel XXI secolo”.
I successi delle borse indicano uno scollamento totale tra la vita reale e l’andamento finanziario. Uno scollamento dalle conseguenze inesplorate e ad oggi misteriose. Non possiamo far altro che evidenziarne il lato statistico e grafico essendo oramai totalmente incapaci di operare analisi che possano arrivare oltre il cuore e il sentimento momentaneo delle persone. Cosa potrà realmente e finalmente spingere l’essere umano verso la logica interpretazione degli eventi e riconnettere la dicotomia che si è creata tra il bisogno umano e quello che invece prospettavano i banchieri della Jp Morgan negli anni ’80, ovvero il passaggio dalla cultura del bisogno a quella del desiderio, rappresentato oggi dagli indici di borsa? Personalmente lo ignoro.
Possiamo guardare in televisione il sogno a portata di mano per tutti ed identificarci nella realizzazione del desiderio che ne rappresenta, la crescita del nostro portafoglio del 28% in un anno. Più denaro anche per noi per soddisfare il nostro sogno nel cassetto, peccato però che quel grafico non rappresenti la nostra realtà. Siamo sul canale sbagliato.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Il violoncellista, storia di una sinfonia

È un matematico ma lei lo vede come un artista, capace di accordarsi dentro di lei. Mi scrive un’amica, anticipandomi che mi deve parlare di un violoncellista, non le viene altro per citare quell’uomo che incontra di notte e che quando la chiama dopo un lungo viaggio, le chiede se si è scordata di lui. E scordare è un verbo che parla di cuore.
“Non è un amore a metà, mi sazia talmente che non oso chiedere di più, lui non sparisce mai, risponde sempre, il tempo lo trova, ma sa benissimo in che momento sono e non pretende ciò che non posso dare, che poi è quello che lui non può dare a me e che, per la verità, neanche voglio”.
Io le chiedo come sia possibile e come fa a non cadere nell’effetto opposto, nella bulimia di quando ci stai troppo bene con una persona e allora vorresti ancora, vorresti subito, vorresti oggi e domani insieme.
Mi viene in mente L’animale morente di Philip Roth quando lui, il professore, l’intellettuale famoso e non più giovane, vuole oltre ogni limite la giovane Consuela, che già frequenta con passione e attenta osservazione, e pensa “non riesci ad avere ciò che vuoi nemmeno quando riesci ad avere ciò che vuoi”.
Insisto nel volere capire come può bastarle questa tensione, come fa ad assaporare anche il contrario del loro stare insieme notturno e imprevisto, a cosa bisogna arrivare per starci dentro senza guardare fuori da un rapporto così.
Lei ride, ne ha sicuramente passate più di me: “Lui è quello che sa che uno strumento non si può battere troppo perché rovinerebbe la sinfonia, l’accordo con me”, spiega, “mi suona corpo e mente con sapienza, mi raggiunge ovunque sono per fare l’amore mettendo dedizione e generosità, ma la regola che ci governa è sceglierci liberamente”.
La mia amica sta partecipando a un banchetto e si sazia solo di ciò che la soddisfa, il resto via.

Vi è mai capitato un amore così? Un amore che basta a se stesso, non pretende e riempie lo stesso?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

INTERVENTI
“Franz, perché disprezzi i veneti?”

Da: Sergio Bolognesi

Sono rimasto allibito nel leggere le parole pronunciate dal prof. Gianfranco Franz, detto Giangi, che dipinge i veneti come un popolo di evasori fiscali e afferma che Venezia e il Veneto non meritano alcuna compassione e neppure solidarietà.

Perché? Perché da anni votano per il centro-destra e reclamano l’autonomia, come afferma lo stesso docente.

Ancor peggio ha fatto il prof. Franz dopo la burrasca (potremmo dire nubifragio,pensando a Venezia) che ha suscitato con le sue incredibili affermazioni.Si è infatti scusato (forse indotto a ciò dalla moglie, Roberta Fusari, che aveva presentato – pensate un po’ – una mozione a sostegno di Liliana Segre contro ogni forma di odio e di intolleranza) ma con parole che hanno peggiorato la situazione. “Pezo el tacon del buso”, direbbero i veneti che il prof.Franz evidentemente detesta. Il nostro docente ha infatti assicurato, con intento derisorio, che verserà 2 (due!) euro a favore di Venezia!

Ammesso che le scuse siano sincere (ma nessuno ci crede), le parole non si possono cancellare. “Voce dal sen fuggita, poi ritirar non vale/non si trattien lo strale quando dall’arco uscì”, ammoniva Metastasio. Troppo tardi e troppo male,caro professore. Lei era adirato e, come dicevano i Romani, “in ira veritas”!

Una semplice domanda: con quale coraggio guarderà negli occhi i suoi studenti veneti, allorché li incontrerà a lezione?

E come potrà parlare, d’ora in poi, di rispetto, solidarietà e tolleranza per il prossimo? Solo i migranti la meritano? I veneti no?

Se fossi un suo studente la guarderei dritto in faccia, con espressione “serenissima” e griderei, molto educatamente: viva San Marco!

Mario Testi presenta “Inciampare nel cancro e rialzarsi”

Da: Organizzatori

Venerdì 22 novembre 2019, alle ore 17, presso Palazzo Crema (Via Cairoli 13, Ferrara) si terrà la presentazione del libro di Mario Testi “Inciampare nel cancro e rialzarsi. La filosofia del Decathlon come efficace adiuvante alle cure mediche per ostacolare il male”, pubblicato nella collana sportiva della casa editrice ferrarese ‘Faust Edizioni’ di Fausto Bassini.
Motivato dalla speranza che questo libro-diario possa essere utile a quanti, malauguratamente, dovessero inciampare nello stesso ‘ostacolo’, l’autore ha deciso di parlare della sua impegnativa esperienza, ennesima sfida o – come lui la chiama – “Decathlon della sopravvivenza”.
“Sei un combattente, un lottatore, sei una roccia… ce la farai”. È questa la frase più ricorrente che il professor Testi si è sentito ripetere, da amici e conoscenti, nel tentativo di rincuorarlo all’indomani della diagnosi del “brutto male” (Mieloma Multiplo) che sportivamente combatte dal settembre del 2016. Oggi, a tre anni di distanza dalla diagnosi di tumore, a chi incontrandolo gli chiede “come va?”, lui può rispondere, altrettanto sportivamente: “Per il momento sto vincendo ancora io… spero che continui!”.

Ne parleranno con l’autore: Riccardo Modestino e Massimo Masotti dell’Associazione De Humanitate Sanctae Annae.
Il volume si fregia dei prestigiosi patrocini di AIL Sezione di Ferrara; FIDAL (Federazione Italiana di Atletica Leggera); CONI Comitato Regionale Emilia Romagna; Università degli Studi di Ferrara; Comune di Ferrara; Associazione De Humanitate Sanctae Annae; Fondazione Estense. Si fregia, inoltre, del prezioso contributo grafico del creativo ferrarese Dino Marsan e degli amichevoli pensieri-testimonianza di: Alan Fabbri, Antonio Cuneo, Gian Marco Duo, Andrea Maggi, Donato Selleri, Riccardo Modestino, Luciana Boschetti Pareschi, Giancarlo Volpato, Sir John Kirwan, Andrea Stella, Mario Fornasari, Alessandro Bratti, Roberto Di Marco, Leonardo Milani, Stefano Montanari, Dino Marsan, Alessandro Donati, Eugenio Capodacqua, Massimo Magnani, Orlando Pizzolato, Andrea Giannini, Manuela Levorato, Salvatore Buzzelli, Sandra Truccolo, Daniele Scarpa.
Nel corso dell’evento verranno proiettate numerose immagini inedite dagli anni ’50 a oggi.
Tutti i proventi dell’autore derivanti dalla vendita del libro saranno devoluti all’AIL (Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma) – Sezione di Ferrara.
La partecipazione è libera e gratuita.

Mario Testi: titolare della cattedra di Scienze Motorie e Sportive nei licei di Ferrara; consulente tecnico-sportivo della trasmissione ICARUS 2.0 di Sky Sport.

Quando si dice una cosa di sinistra: Zingaretti tira fuori dal freezer lo Ius Soli

Nicola Zingaretti ha tutta l’aria di un uomo tranquillo; il suo esercizio giornaliero sembrava quello di richiamare tutti alla calma, al dialogo, alla ragionevolezza. Ma sono settimane difficili: il governo giallo-rosso è partito in gran salita. Dopo la debacle annunciata in Umbria c’è una Finanziaria da cucire assieme. Intanto Di Maio e i 5 Stelle sono nella bufera, Matteo Renzi si fa largo a spintoni e Calenda fonda il suo partitino. E poi c’è il bubbone Ilva. E l’acqua altissima a Venezia, l’allarme alluvioni, il rischio frane e valanghe…
In mezzo al grande polverone (reale e mediatico), per salvare una maggioranza sempre più traballante, il Pd aveva scelto di stare sulla difensiva. Calma ragazzi, ripeteva il cucitore Zingaretti, se andiamo avanti così, andiamo a sbattere. Insomma, linea morbida su tutto il fronte. Con scarsi risultati.
Finché il segretario arriva a Bologna per lanciare il nuovo statuto dem. Bologna non è una città qualsiasi per la sinistra; e tira una nuova aria, due giorni prima 15.000 sardine avevano stipato piazza Maggiore. Tant’è, quando Zingaretti comincia a parlare sembra un leader diverso. Nei toni e nei contenuti. Stanco di subire il logoramento degli alleati riottosi propone al Pd e al governo una “nuova agenda”.
E dice una cosa inaudita. Fa quella cosa che, inutilmente, Nanni Moretti chiedeva al partito una ventina d’anni fa: “D’Alema, dì una cosa di sinistra!”.
Il ri-lancio di Ius Soli e Ius Culturae – così almeno mi piace credere – può rappresentare una svolta. Reale e simbolica. Un atto di coerenza e di coraggio, una risposta forte a un populismo sgangherato e cialtrone. E il rispetto di una antica promessa, quella fatta da Pier Luigi Bersani (un altro uomo tranquillo, anche troppo) alla vigilia delle elezioni politiche del 2013: “La prima cosa che faremo? Daremo la cittadinanza italiana a tutti i bambini nati in Italia”.
Come è noto, Letta, Renzi e Gentiloni quella promessa se l’erano messa in tasca. Guarda caso: non era mai il momento giusto per provarci. Adesso il nuovo Zingaretti rampante ha pescato lo Ius Soli dalla tasca e l’ha ritirato fuori. Ha detto una cosa di sinistra. Ha raccolto una sfida che sta a cuore – così almeno sembra nella narrazione mediatica – solo a Papa Francesco e a una minoranza degli italiani. Ma Gandhi (uomo tranquillissimo ma assai deciso) aveva ragione, non bisogna aver paura di essere minoranza. Così, solo così, ti può capitare di vincere.

Speciale DIARIO IN PUBBLICO
Venezia, Venice, Venise, Venecia

La tragedia di Venezia è paragonabile a quel gusto tutto contemporaneo della ‘diminutio’. Basta osservare l’uso che di questa figura retorica fanno i cantanti che, assieme ai calciatori, sono gli autentici idoli degli italiani.
Un tempo, ai miei tempi (forse anche più terribili degli attuali) esisteva ancora il concetto del ‘bon ton’ come si può vedere nelle puntate televisive di Downton Abbey o nel bel film che ne è stato tratto, gusto del vestire corretto che durerà almeno fino agli anni Novanta del secolo scorso. Bon ton che la mia generazione ha tentato di scardinare con le minigonne, i pantaloni a zampa d’elefante, il foulard al collo dei maschi. Eppure noi giovani , come del resto tutti, in occasioni formali ci si vestiva correttamente secondo le regole del tempo. Al festival di San Remo o nei concerti-fiume che riempivano stadi, piazze, teatri il cantante e i musicisti vestivano quasi sempre lo smoking, segno di distinzione e di eleganza. Ora la giacca dello smoking rimane, ma sotto c’è la maglietta o al massimo una strana camicia senza collo. L’orrore puro l’ho appena visto in tv. Nello spettacolo in onore di Fabrizio de André un cantante sembra di grido appare vestito come mai mi sarei immaginato. Questo vecchietto con gli occhi pittati, il ciuffo bianco cadente veste la giacca da smoking e sotto una camicia da notte; indossa poi una specie di calzone-calzamaglia, gli stivaletti di vernice e canticchia una bella canzone di De André esibendo quella mise che, nelle più spericolate esibizioni, non si sarebbe permesso nemmeno Renato Zero. Ed è ‘IL’ segno di eleganza: l’eleganza imposta da chi detta la moda e, purtroppo forse una parte non indifferente del cosiddetto pensiero il cui impulso viene dai cantanti e da i calciatori
Che c’entra Venezia? Venezia esibisce lo smoking nei luoghi turistici poi indossa la parodia dello smoking in quelli toccati dalla lebbra turistica.
Osservavo una bella rappresentante di Forza Italia che parlava in politichese ad un recente raduno del suo partito e le sue ciglia finte sconfinavano nell’assurdo. E quelle ciglia finte, quella ‘diminutio’ della giacca da sera sono ciò che il turistame vuole dalla mia Venezia. Ho frequentato i palazzi più esclusivi della città lagunare, il circolo delle contesse, la Venezia segreta che non si oppone ma incita a far soldi con il turismo, che non mette però piede al Danieli o da Cipriani, troppo alla moda, ma che al massimo si spinge per non essere contaminata nelle sale segrete del Gritti o dell’Europa. Anche loro hanno distrutto Venezia per una specie di cinismo e di indifferenza.

Riprendo la polemica che oppone ora in città l’Amministrazione leghista alle dichiarazione del professor Giangi Franz che anche sulla mia pagina fb aveva ripetuto e scritto affermazioni che si riassumono nel concetto per cui i veneti e i veneziani s’arrangino a salvare loro e solo loro Venezia. A leggerle, le ho ben inquadrate in un atto non di cinismo ma di impotente amore che è sì ad un passo dall’odio ma che constata la disperazione di un intellettuale di essere alla fine di un processo di autodistruzione. Da qui la riprovazione ma anche la comprensione. Sembra allora esagerato oppure ‘politicamente corretto’ l’azione della Amministrazione ferrarese? Ricorrere poi alla censura degli organi universitari a cui Franz appartiene è simile ad una barzelletta. E chi scrive ne sa qualcosa delle ‘censure’ universitarie! Mi accorgo di usare una caterva di termini virgolettati quasi a sottolineare quella ‘diminutio’ di parole in smoking ma che nascondono la camicia da notte.

A Venezia si è consumata la tragedia delle grandi navi in cui gente vestita come il cantante dal ciuffo bianco crede di possedere la città più bella del mondo perché la può calpestare, insudiciare con la bava del credersi ‘su’! E riaffiorano immediatamente i ricordi di una città coltissima, di una Università tra le prime in Europa, di biblioteche mozzafiato di musei che producono la sindrome di Stendhal, di chiese deserte e silenziose, dell’intatta Giudecca dove anche ai senza soldi, come me da giovane, venivano serviti piatti eccezionali per pochi spiccioli.
Mi venne offerto di lavorare all’Università veneziana ma a malincuore rinunciai perché vivere a Venezia, come morirvi, è difficilissimo. Thomas Mann aveva capito tutto un secolo fa.

Come si sono comportati allora i politici? Hanno commesso una caterva di decisioni sbagliate dettate anche – e va sottolineato – dalla necessità di adeguamento a una città così difficile, dalla spinta che proveniva dal basso di produrre reddito, ma soprattutto dalla volontà di far soldi con la città più bella del mondo. Piegarsi alle necessità del turismo più pacchiano è stato il loro peccato originale. Ricordo le riunioni a casa di De Michelis, editore e politico di rilevanza, riunioni in cui la minaccia di quello che un tempo si chiamò consumismo di massa restava nello sfondo. Agiva forse ancora una certa ansia sessantottina per cui anche ai meno abbienti era finalmente concesso di frequentare quella città fatta per i ricchi. Poi lo spopolamento e il lento naufragio di istituzioni, attrazioni, bon ton, e modelli di una vita inimitabile che scese fra le strade portando lo smoking e la maglietta.
Venezia risorgerà, a fatica, sempre più usata, forse, e sta a noi che l’amiamo toglierle quella giacca e riscoprirne la bellezza, ristoro unico ai mali del mondo.

PER CERTI VERSI
Ilia

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

ILIA

sì Ilia
la incontrai per le vie di Buda
come una patriota magiara
ma lei era di Creta
era di Troia
era azzurra
blu
come Cnosso
le sue parole in saccoccia
nel flusso termale di Buda
tremavano le barricate del quarantotto
c’erano stati i funerali di Nagy
c’erano le barriere
il filo spinato
l’Ungheria non era più Lei
Ilia mi raccontava
mi raccontava di una sconfitta
di una distruzione
di una rinascita
da dove cominciare
da dove
forse dalla sconfitta
dalla distruzione
Troia era cenere
tutta per terra
come i morti
gli scannati
i divelti
come sempre
gli sconfitti totali
pagano brutalmente
la sconfitta
e ancora si crede
ai vinti
ai vincitori
non so perché
ma mi salvai
un uomo
un uomo nemico
molto importante
mi mise su una nave
qualcuno doveva sopravvivere
ordini venivano da Creta
dovevo diventare regina
di quella terra unica
meravigliosa
ma come potevo
in cuore mio sopravvivere
eppure si sopravvive
si riesce a portare il sangue
dentro il vascello
del pensiero
che ancora ci sono giorni
da vivere
in questa terra
in questa esistenza
giorni diversi
differenti giorni
chiamati da altre cause
non avevo più nulla
se non me stessa
la cenere mi tappava il respiro
mi strozzai di lacrime
avrei voluto combattere oltre
morire sul campo di battaglia
forse meglio sarebbe stato
perché sopravvivere a tale strazio
a tale scempio della vita
forse perché nella donna
c’è il battito della vita
il dono della floridità
della continuità
forse
tutte le ipotesi cadevano
io non sapevo cosa fosse meglio
non avevo parole per dire niente
non avevo più parole
rimasi muta per un tempo incalcolabile
il viaggio non porta ricordi
non mi appare nulla sullo schermo della mente
nel flusso del cuore
nel granaio degli occhi
completamente vuoti
spenti
assenti
eppure tornai
tornai alla vita
con una freddezza così calma
così calda
che mi sorprese ferocemente
con un vigore imperioso
per tutti gli dei
non posso dire altro
che portata nel grembo
di una terra nuova
ricca di bellezza
di fascino
di potente passione per l’arte
in questa
in questa passione
fu possibile per me
tornare alla vita
ricominciare
dare figli al re
al mondo
alla storia
alle mie braccia

DIARIO IN PUBBLICO
Che settimana!

Cerco di raccapezzarmi ricostruendo con il ‘Lego’ della memoria i fatti sconcertanti, inammissibili, crudeli e gloriosi che questa Italietta petulante è riuscita a mettere assieme.
Aggiungere qualcosa al problema Ilva supera di molto le mie possibilità intellettuali, morali e ideologiche: lo strazio del sentimento (e della ragione) di fronte all’implacabile ‘fatto’ dei licenziamenti, del ritiro dei franco-indiani, di una città avvolta nel veleno: reale e metaforico. Tutto è dunque colpa dei politici? Oppure anche il ‘popolo’ ha messo del suo?
Ma quello che m’offende, che trovo privo di alcuna possibilità di riparazione, che dimostra il prevalere dell’odio su tutta la gamma dei sentimenti umani è il caso Liliana Segre e del comportamento della destra rimasta quasi tutta seduta al momento della standing ovation che ha seguito la proposta di una commissione anti-odio proposta dalla senatrice. Da qui la vergognosa necessità di offrire alla Segre la protezione di una scorta che l’accompagni e dissuada da gesti incivili chi ha fatto della politica dell’odio la propria bandiera. A questo ormai ‘sentire comune’ si lega e prende forma una pericolosissima forma di protesta quale quella messa in atto dal sindaco di Predappio che nega il contributo comunale al viaggio ad Auschwitz di due studenti.

Il ribollire della coscienza non serve se non si ha pronta una ferma condanna e una altrettanto ferma risposta. In questo dubbio mi conforta e mi sostiene lo splendido articolo di Fiorenzo Baratelli apparso su questo stesso giornale. Scrive: “Vengo da una tradizione politica che negli anni bui della dittatura fascista distingueva tra il filosofo Gentile e lo squadrista Farinacci. Perché non dovrei praticare la stessa arte della distinzione giudicando la Lega? […] La democrazia funziona così, mediante una dialettica quotidiana che condiziona tutti i protagonisti della vita pubblica e che di volta in volta determina spostamenti in direzioni diverse a seconda della capacità culturale messa in campo dai diversi attori politici. Chi si aspetta vittorie clamorose e definitive non ha capito il carattere ‘grigio’ di un sistema che vive all’insegna di mediazioni, compromessi e non aut-aut da ultima spiaggia”.
La proposta di Alan Fabbri, sindaco leghista di Ferrara, di offrire la cittadinanza onoraria a Liliana Segre e di coinvolgere tutte le forze politiche in questo progetto è encomiabile. Ho appena assistito alla votazione della proposta che ha riscosso l’unanimità. Sulla campagna elettorale ormai iniziata da Matteo Salvini con il pranzo al Petrolchimico di più di 400 persone ovviamente il mio giudizio cambia non approvando per ragione anche di gusto personale (il solito radical chic!) che l’uomo politico Salvini con la sua candidata alla presidenza dell’Emilia Romagna, Borgonzoni, tra tripudi di cappellacci, idromele, e altri prodotti della cucina a chilometro zero tenti la scalata alla presidenza della Regione con questi ‘festival’. Poi, come la stampa locale ha sottolineato la visita ai padiglioni di ‘Usi & Costumi’ dove il leader si scatena a farsi riprendere con il testa l’elmo di centurione alla foto con il sosia del guerriero maya di Apocalypto. Qui Matteo Salvini a suo agio si ritaglia un’ora di bagno di folla. Certo non è facile trovare nell’intera storia italiana dall’unità ad oggi un politico che aspira a diventare Presidente del Consiglio che folleggi come il Nostro dal Bagno Papeete ai costumi pseudo-storici. Ma questo è ciò che il popolo vuole e su questo s’impernia la futura ‘prise de pouvoir’ della, un tempo, Emilia rossa.
E la reazione di chi si considera politicamente di sinistra? Un cupo silenzio salvo il chiacchericcio dell’altro non meno imprevedibile Matteo.

Pregustavo da tempo la visione del film “La belle époque” come un evento a cui partecipare; con Fanny Ardant che adoro. Ormai più vecchio del personaggio principale che rivive la sua storia d’amore degli anni Settanta quella di Victor-Daniel Auteuil volevo provare l’emozione di quella Francia che ho cosi ben conosciuto. Che delusione! L’intellettualismo di cui i francesi sono maestri spinto alle conseguenze estreme: quasi una presa in giro. Dire banale è poco; dire sbagliato s’avvicina al vero. Ormai la douce France sta ripetendo i suoi miti con in più la convinzione d’essere nel vero. Helas! E’ ora di cambiare. Un attento lettore mi fa notare che senza il pensiero francese non potremmo capire la nostra storia contemporanea. Tutto vero e condivisibile ma qui non si tratta di pensiero francese ma di utilizzazione di schemi ormai obsoleti con la ‘nostalghia’ degli anni Settanta rivissuti alla luce dei nuovi mezzi comunicativi. Ecco perché m’arrabbio. Sarebbe come se mi mettessi a singhiozzare sul foulard che portavo al posto della cravatta, sui cineclub, sull’isola d Mann, sull’erba e sui pantaloni a zampa d’elefante. Abbiamo dato. Ora è la proiezione della cultura di massa che preoccupa come ben spiega Fiorenzo Baratelli nel suo ottimo articolo che ho citato.

E quale è la notizia più importante della settimana? Quella che racconta come il ministro Dario Franceschini ha rimesso in gioco e ha restituito quei 25 milioni negati al proseguimento della costruzione del Meis, il Museo dell’Ebraismo e della Shoah a Ferrara. E nel nome di chi? Di Liliana Segre.
Bravo ministro.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
DUE PIAZZE – Amore giusto, perfetto, eterno… La parola ai lettori

Bingo… la persona giusta!

Cara Riccarda, caro Nickname,
impegnativo il concetto di persona giusta! Impegnativo ma non impossibile, un po’ come vincere all’enalotto. L’amore è conoscenza, curiosità, complessità, cabala e gioco se vuoi. Il tutto in un contesto temporale!
S

Caro S,
all’enalotto vinci in un secondo o non vinci. In amore c’è tutto quel che dici: la conoscenza dopo la curiosità e il gioco della cabala. Che ad alcuni fa molta paura.
Riccarda

Caro S,
voglio farti una iniezione di ottimismo: trovare la persona giusta è più probabile che vincere una somma sconsiderata all’enalotto. In entrambi i casi però bisogna giocare con passione: farlo una tantum è garanzia di fallimento. A meno che tu non sia un predestinato: in quel caso, fossi in te, mi preoccuperei perché prima o poi un asteroide ti cadrà in testa.
Nickname

La formula dell’amore perfetto?

Cara Riccarda, caro Nickname,
il per sempre c’è e a volte ti cade addosso a volte lo hai a fianco e te ne innamori passo a passo. Il per sempre è quello che è migliore di te.
Quando guardi chi ti sta accanto e ti accorgi che sei migliore di lui è inutile cercare il buono, vedere il lato positivo, fare l’elenco dei pro e contro.
Lascia stare le cure palliative. Chiudi tutto e vai avanti. L’amore non è una malattia, non va curata, è un sentimento da trattare bene e lo facciamo per noi stessi. L’amore è la persona che hai scelto perché tu la vuoi.
Siamo degli egoisti ecco perché ci innamoriamo. Succede solo e fino a quando il ricavo unitario è maggiore del costo marginale. E’ necessario che la funzione guadagno sia derivabile e l’ascissa del punto massimo si ottiene annullando la derivata prima.
V

Cara V,
non ho sufficienti conoscenze matematiche per comprenderti fino in fondo, tuttavia, hai ragione: l’amore non è una malattia. Però mai come quando si è innamorati, i nostri meno e i nostri più, le nostre somme algebriche così puntuali e rigorose, si sparigliano. E’ quel senso di sconosciuto che ci fa vedere finalmente cosa siamo.
Riccarda

Cara V,
la tua conclusione mi fa sospettare di trovarmi davanti ad una studiosa dell’economia.
In tal caso, potresti rappresentarmi in un grafico con ascisse e ordinate la funzione che ti permette di individuare chi è “migliore” o “peggiore” di te?
Nickname

L’amore eterno? Questione di momenti…

Cara Riccarda e caro Nickname,
un tempo avrei detto che la persona giusta e il rapporto giusto, nascono in un momento, ora credo, più in linea con Nickname, siano il risultato di un tempo condiviso.
N

Caro N,
c’è il rischio del grande bluff ad affidarsi al momento, devo ammetterlo. E anche quello vale la pena conoscerlo. Poi non si sbaglia più.
Riccarda

Caro N,
sarei anche favorevole ad un tempo diviso, che permetta di gustare appieno quello condiviso.
Nickname

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

Trent’anni fa la Bolognina: e tutto fu diverso

La Bolognina, mi colse di sorpresa, stavo regalando il mio anno allo Stato, notizie frammentarie, non c’erano telefonini e le informazioni non esplodevano così velocemente come nel nuovo millennio. Ero un ragazzo, avevo votato per il mio partito solo una volta, ero già tesserato al Pci, come prima lo fui della Fgci. Non ricordo bene quale fu il primo pensiero di mio padre, che fu la mia guida politica dai tempi delle elementari. Mi ricordo cosa disse, nei pochi mesi successivi, anche durante la malattia, forse la sua ultima analisi e il suo ultimo pensiero fu: “Non è importante il simbolo, oppure il nome, importante è che rimangano i nostri valori”.
Purtroppo, non ebbe il tempo per capire, per spiegarmi, la sua vita si interruppe il 23 gennaio 1991, quella del suo partito, come in un rapporto simbiotico si interruppe il 3 febbraio 1991 durante il XX° congresso, quando la maggior parte dei delegati approvò la svolta avvenuta alla Bolognina due anni prima.
Per lunghi anni, per troppo tempo le parole di mio padre mi risuonarono nella testa, forse lui aveva capito prima di me la necessità di questo disfacimento, forse ci sarebbe servito per essere più moderni, per accettare la novità della dissoluzione delle ideologie, forse politica significa mediazione, moderazione, importante è sapere chi siamo e chi rappresentiamo.
Si, forse.
Sinceramente, io credo che il 3 febbraio 1991, sia stato l’inizio della fine. Scissioni, contro scissioni, frammentazione, pulviscolo di idee, disperse nei rivoli di mille però. Nessun partito potrà mai prendere il posto del mio partito, la deriva mai finita ha portato l’ex più grande partito della sinistra Europea ad essere un ex partito di sinistra.
Poche idee, nessun ideale, perdita continua del contatto con la propria gente, fino ad arrivare a regalare la classe lavoratrice ai moderati, alle destre, ai sovranisti.
Quante volte papà, avrei voluto confrontarmi con te, in questi trent’anni passati troppo in fretta, sono sicuro che la tua delusione nei confronti di quello che fu il tuo partito ed il tuo mondo sarebbe stata ancora più cocente e indelebile, di quanto lo sia stata per me. In neanche una generazione, è sparita la voglia di lottare, i traguardi raggiunti col sangue degli operai sono stati erosi a poco a poco, la solidarietà non è più un valore, l’antifascismo non è più scontato, in fabbrica si odiano gli immigrati e non il capitale, in campagna sono riemersi i caporali che aveva sconfitto Di Vittorio.
Ma quale modernità?
Ma quale progresso?
Papà avresti visto un mondo ‘all’arrovescio’, dove i poveri combattono contro i più poveri e i ricchi diventano sempre più ricchi, dove evadere le tasse è un valore, dove il furbo fa carriera, diventa manager, diventa capo, governa.
Esistono politici che non hanno lavorato un ora in vita loro, che fanno diventare un manifesto politico l’odio nei confronti di chi si siede sulle panchine.
Un mondo senza né capo e né coda, papà.
Quando eri in ospedale, un’infermiera ti chiese che mestiere facevi, tu le rispondesti: “un mestierazz…”. Eri sindacalista per vocazione e ne sentivi il peso e la responsabilità, ora in questo mondo senza sinistra, in tanti denigrano e rinnegano il tuo lavoro, tanti operai pensano di difendersi da soli, tanti padroni ci sguazzano in questa melma e votano come i loro dipendenti.
Assurdo.
Senza speranza, un mondo senza lotta di classe, dove gli sfruttati calpestano i diritti degli ultimi arrivati, dove dalle fogne riemerge il guano che pareva sconfitto nell’aprile del ’45.
Lo so che le mie sono solo parole, parole al vento, io per primo non ho la tua forza, papà, tu eri un trascinatore, io scrivo e mi difendo, cerco ancora, tra la polvere del tempo, la tua bandiera. Vorrei pulirla e riconoscendone il colore rosso, la alzerei, gridando al mondo che non siamo morti, non siamo estinti, non siamo superati, siamo ancora lì, ed ora, più che allora ne siamo convinti, trent’anni fa non diventammo moderni, diventammo moderati. Da quella porta cominciò ad entrare il vento freddo della dissoluzione.
E’ da troppo tempo che aspettiamo, torniamo ad essere ciò che siamo.