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FERRARA IN QUARANTENA:
la cultura è una rete vuota, senza pesci e pescatori

Un giorno, ho messo in fila sulla carta i luoghi che disegnano il profilo delle occasioni culturali che offre la città di Ferrara, una sorta di rete dell’apprendimento di cui istituzioni culturali, associazioni,  teatri e cinema formano i nodi.
L’inventario mi portò ad elencare, senza dubbio per difetto, duecentocinquanta luoghi di apprendimento formale e non formale. Una rete che attende di essere riconosciuta e valorizzata dentro un progetto di città intelligente.

In questi giorni di clausura, questa rete, che potrebbe essere utile per riempire le nostre giornate, è invece silente, come se non fosse mai esistita. Eppure questa era una buona occasione per stare interconnessi, diffondere le proprie proposte, i risultati delle proprie attività, organizzare webinar. C’è da chiedersi quanto smart sia la nostra città. Se è possibile, oltre allo smart working, la smart knowledge. La risposta ahimè è decisamente negativa.

La rete offre link alla visita virtuale di decine di musei, da quelli Vaticani alla Galleria degli Uffizi, alla Pinacoteca di Brera, oltre ai più importanti musei nel mondo dal Metropolitan di New York  alla National Gallery di Londra. Fino alla visita virtuale alle mostre, a partire da quella di Raffaello.

A Ferrara non c’è museo che offra tutto questo. Nulla a Palazzo Schifanoia, nulla per la Pinacoteca Nazionale; il Museo archeologico nazionale di Spina, più attento alla digitalizzazione, propone percorsi molto statici con fotografie, spiegazioni con audio guide, più una documentazione che una visita virtuale vera e propria. Così il Museo Civico di Storia Naturale di Ferrara si presenta con alcune pagine che sembrano più un album di figurine commentate, anziché essere una scoperta in 3D delle sue sale. I siti del Castello e del Palazzo dei Diamanti non oltrevalicano la dimensione della promozione dei loro eventi. La pagina del Teatro Comunale che pure potrebbe mettere in rete i video di concerti, di prosa e di danza non propone nulla. Per non parlare delle sale cinematografiche, che non riescono a concepirsi, se non per la programmazione in presenza; attraverso i loro siti potrebbero invece offrire rassegne e remake, anche a pagamento, ovviamente. Eppure nulla si muove, come se il Covid 19 oltre a colpire i corpi avesse colpito anche le menti.

Resta attiva la rete delle biblioteche per l’accesso alle librerie digitali. Ma le biblioteche avrebbero potuto farsi promotrici di seminari, conferenze, presentazioni di libri online. Invece di essere creativi si è scelto di essere routinari; eppure sono servizi che dovrebbero fare cultura, ma non sono ancora in grado di concepirsi al di fuori delle loro quattro mura, della loro autoreferenzialità istituzionale.
Neppure associazioni come gli Amici della Biblioteca Ariostea o del Musei e Monumenti Ferraresi brillano per iniziativa, presenza e fantasia. Quasi fossero altro che una accolita di affezionati. Eppure questa era un’occasione per offrire dalle loro piattaforme web iniziative e proposte culturali per tutta la città.
Uniche a  dimostrare intelligenza, iniziativa e invenzione sono le scuole e il CPIA, il Centro Provinciale di Istruzione per gli Adulti, che continuano nella loro offerta di didattica online.

Le attività culturali in rete andrebbero viste come una importante funzione strategica che dovrebbe far parte normalmente dell’impegno e del lavoro corrente delle istituzioni culturali ferraresi: musei, biblioteche, archivi, soprintendenze. Invece tocchiamo con mano quanto siamo distanti, quanto è il ritardo accumulato, quanta miopia nella gestione della cultura. La città della conoscenza, per la quale da queste pagine ci battiamo da anni, è ancora lontana dall’essere compresa, l’idea del sapere diffuso e permanente non appartiene alla città e alle sue istituzioni culturali.

In rete ci sono siti come POSSO, il portale dove ognuno mette a disposizione degli altri il proprio tempo e le proprie conoscenze. Una community dove imparare e condividere ciò che si sa fare, che permette il contatto tra le persone disposte a condividere le proprie competenze quali che siano. Bella idea per condividere una cittadinanza, ma la città interconnessa non esiste e ora ne sentiamo la mancanza.
Da questo punto di vista Ferrara non è una smart city, il sito del Comune non offre nessuna iniziativa, nessuno strumento, nessuna piattaforma per dialogare tra cittadini, perché è un’idea che non si è mai concepita, perché non si è in grado di lanciare il proprio sguardo oltre la gestione della quotidianità. Perché l’idea di una città diversa non è passata a nessuno per la testa  a partire dai nostri amministratori. Perché solo gli eventi straordinari ci fanno scoprire l’ordinarietà delle nostre giornate, dei nostri programmi, la miopia delle nostre prospettive, l’ordinarietà delle politiche nella gestione della città. Ma se non si nutre la creatività nei tempi ordinari, quando giungono quelli straordinari si resta con un pugno di mosche in mano. E qui a fregare è ancora una volta l’assenza di cultura.

PRIMAVERA A DOMICILIO:
scatti di fioriture nelle aree pubbliche di Ferrara

Nel caso non ve ne siate accorti. O siate impossibilitati a verificarlo di persona… questo giornale è lieto di comunicarvi che la Primavera, a Ferrara e ovunque, se ne fotte (con rispetto parlando) del Coronavirus. Continua a fiorire impunemente. E’ evidente che Lei, la Primavera, non sopporta autocertificazioni, quarantene o divieti di sorta.
Un grazie allo ‘straordinario’ – è il caso di dirlo – servizio di Giorgia Mazzotti. E un augurio di buon risveglio a tutti. Presto, si spera.

(Effe Emme)

Il ciliegio in fiore e la sua immagine dipinta e poi fotografata da Simone Bavia nel Giardino del Palazzo Schifanoia, a Ferrara

Le fioriture sono uno spettacolo stagionale, che va colto nel breve arco di tempo in cui le gemme si trasformano nei petali colorati, destinati ad appassire e disperdersi nel giro dei pochi giorni. In questo periodo di isolamento legato all’emergenza sanitaria da Coronavirus è però impossibile – a Ferrara come un po’ ovunque – andare a vedere da vicino quegli alberi che stanno rinnovando la fioritura, colorando con quegli spazi pubblici eppure un po’ segreti e – adesso – segregati.

Fiori del ciliegio giapponese (foto SB)

Per i ferraresi ci sono alcuni luoghi che ogni anno in queste settimane sono meta di pellegrinaggi mirati proprio a cogliere la bellezza delle piante che ci sono: il chiostro del monastero di Sant’Antonio in Polesine, il giardino interno di Palazzo Schifanoia, ma anche parchi pubblici, aree verdi  e i viali alberati che costeggiano le Mura tutt’intorno alla città. A portare una ventata di primavera a domicilio stavolta ci pensa, quindi, un servizio civico che del verde pubblico si occupa in collaborazione con alcuni addetti ai lavori di cura del verde.

Ramo del ciliegio giapponese e di un altro albero nello spiazzo verde di via Podgora a Ferrara (foto GioM)

A fare una ricognizione sulle fioriture degli alberi in aree pubbliche che ora sono inaccessibili viene prima di tutto in soccorso l’Ufficio Verde del Comune.
Una sorta di vedetta in avanscoperta per dare, ai cittadini nostalgici di Mura e di natura, un aggiornamento su quelle piante che normalmente sono oggetto di visite più o meno mirate e che – in questo caso – solo gli addetti ai lavori o i singoli abitanti delle specifiche zone cittadine possono tenere d’occhio in presa diretta.

Albero di Giuda nei giardini dell’Acquedotto
Ciliegio comune nel Sottomura da via Azzo Novello
Ciliegio di Sant’Antonio in Polesine (foto Ufficio Verde)

[Clicca sulle foto per ingrandirle]

“Le alberature che sono in fiore in questi giorni – spiega Giovanna Rio – sono quelle di Ciliegio giapponese (rosa), Albero di Giuda (rosa intenso) e arbusti come la forsizia (giallo)”.

Albero di Giuda all’Acquedotto (foto GioM)
Arbusto di forsizia in via Podgora (foto GioM)

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In esplosione in questa settimana sono le gemme che ogni anno portano una nuvola rosa nel chiostro davanti al monastero di Sant’Antonio in Polesine (via del Gambone 14/a, Ferrara) nel piazzale interno, e ora blindato da un cancello, a metà dell’antica via Beatrice d’Este.

Ciliegio giapponese nel chiostro del monastero di Sant’Antonio in Polesine, a Ferrara (foto GioM)

Uno splendore adesso sono poi le alberature dell’accogliente ed estraniante giardino che si trova nella parte interna di Palazzo Schifanoia (via Scandiana 21, Ferrara), che possiamo vedere grazie al contributo di Simone Bavia, titolare della ‘Caffetteria-ristoro Schifanoia’. Simone racconta che a fiorire in questo momento ci sono il ciliegio comune, con petali bianchi, e il grande ciliegio giapponese con i caratteristici petali rosa.

Panoramica del Giardino di Palazzo Schifanoia a Ferrara (foto Simone Bavia)

“Quello con i fiori bianchi – dice Bavia – è un comune ciliegio da frutta, che fra un mese inizierà a produrre le ciliegie. La sua particolarità è che non essendo mai stato ridimensionato è riuscito ad ingrandirsi molto. Penso che avrà 50 anni ed è alto 25 metri”.

Chiome dei Ciliegi in fiore sul cielo sopra la Caffetteria ristoro Schifanoia, a Ferrara (foto Simone Bavia)

Per quel che riguarda il ciliegio con i fiori rosa, Simone ricorda che “è sempre stato l’attrazione più importante della primavera per i ferraresi e non solo, perché venivano a visitarlo anche da Bologna, da Modena e persino dall’estero. È alto 15 metri e penso che avrà 30 anni. La fioritura, che è ormai al suo apice, dovrebbe restare per alcuni giorni ancora, credo fino al martedì dopo Pasqua, purché nel frattempo non venga a piovere e non si alzi forte vento. A breve fiorirà poi il glicine, che ho potato per dargli una forma molto particolare e suggestiva”.

Ciliegio in fiore nel giardino del Palazzo Schifanoia (foto Simone Bavia)

Ci si domanda anche – mentre si viaggia verso un centro commerciale fuori dalle mura cittadine – che specie sono quegli alberi che di sfuggita sfilano rosei sulla pista ciclo-pedonale di via Padova che collega via Galvani con la pista di pattinaggio tra il quartiere di Barco e Pontelagoscuro. “Quelli – spiega un giardiniere di Ferrara Tua – sono innesti di ciliegio giapponese e altri, uguali, sono stati piantati anche sull’argine del canale di Volano che scorre parallelo a via Darsena dietro allo studentato e al centro commerciale dove c’è la multisala del Cinestar”.

Fiori di ciliegio giapponese lungo l’argine del canale di Volano dietro a via Darsena (foto GioM)

“La scelta del verde – fa notare il giardiniere – risente delle mode. E la tendenza florovivaistica degli ultimi anni ha visto una grande diffusione di questa tipologia di pianta. Negli anni Settanta, invece, andava per la maggiore il Cercis siliquastrum, conosciuto come Albero di Giuda, che è molto bello, ha fiori di un rosa violaceo e un fusto che tende a crescere storto, creando inclinazioni particolari. Tanti di questi alberi sono ora in fiore nei giardini dell’Acquedotto monumentale“.

Due dei numerosi alberi di Giuda che sono attualmente in fiore nei giardini dell’Acquedotto monumentale (foto GioM)

Macchie gialle e rosa pallido colorano le aiuole in via Podgora, fuori dallo spiazzo del giardino dell’Acquedotto, tra piazza XXIV Maggio e corso Isonzo. Quelli gialli quelli sono arbusti di forsizia.

Arbusto di forsizia in via Podgora tra corso Isonzo e l’Acquedotto di Ferrara (foto GioM)

I fiori rosa delle aiuole di via Podgora sono ancora quelli di ciliegi giapponesi piantati in tempi recenti.

Ciliegio giapponesi nell’aiuola di via Podgora (foto GioM)

Ormai sfiorite, invece le magnolie di tipo stellato o lobato e le mimose. I prossimi fiori a sbocciare, tra quelli presenti nelle aree comunali, saranno qi fiori degli ippocastani, la magnolia sempreverde, come quella che si trova nel giardino interno dove ha vissuto lo scrittore Giorgio Bassani, e i glicini violetti come il rampicante che si trova nel giardino della caffetteria di Palazzo Schifanoia, potato dal gestore per dargli un’ampia forma ondulata e decorativa.

PER CERTI VERSI
Frammenti d’Italia (settima tappa)

La descrizione, frammento dopo frammento, di un paese meraviglioso…
Ma questo paese è il nostro paese!
E proprio questa intensa opera lirica dà la misura della bellezza incomparabilmente varia di una terra ammirata e invidiata da tutti eppure, forse proprio per questo, denigrata da molti.
In un’Italia che in questa drammatica emergenza rischia d’andare in pezzi, ma che – ne sono convinto – saprà riemergere più forte e coesa di prima, è forse arrivato il momento per noi tutti di comprendere quanta fortuna significhi esservi nati e cresciuti, nonché l’onore d’esserne figli. Scopriamolo scrutandone i frammenti nell’omaggio poetico di Roberto Dall’Olio che, per quattro settimane, si rinnoverà ogni domenica e ogni mercoledì.
Buona lettura e buon viaggio.

Carlo Tassi

FRAMMENTI D’ITALIA

LII

il bianchello
del Metauro
era alla mano
accompagnando
il profumo
delle sogliole
allo Squero
di Fano

LIII

io sono
più
antifascista
di te
ecco
l’italietta
da caffè

LIV

il silenzio
senza aggettivi
sulla via
degli Angeli
immobile
scorre
non ha bivi

LV

impara l’arte
e finisci in disparte

LVI

l’ambiente
è in prognosi
riservata
frane
piene
plastiche
svastiche

LVII

certi personaggi
della Bassa
li trovi
solo al Po
l’unico fiume
che ha un mondo

LVIII

Canaletto
forse Venezia
la luce
l’acqua
non va
mai a letto

LIX

il colore
del lago
di Tenno
la critica
della ragion pura
gli occhi
di Brenno

LX

in Istria
certe case
invase
dalla solitudine
dal silenzio
fatto di spine
frammenti
d’Italia
oltre confine

vai alla sesta tappa

vai alla ottava tappa

PRESTO DI MATTINA
Nessuno è Straniero: nessuno è escluso dalla rivoluzione della Pasqua.

La sera del venerdì, quando lo deposero dalla croce erano ormai in pochi. Il pittore Gaetano Previati traduce in una tela del 1912, intitolata Trafugamento del corpo di Cristo, una religiosità umanizzata, il momento di una solitudine desolata, di radicale spogliazione di fronte alla morte, per di più una morte crocifissa. L’orizzonte dipinto nel quadro è diviso in due da una linea obliqua: terra ocra il cielo, terra scura la terra. Sullo sfondo tre croci in cima alla collina, una centrale vuota, le altre ai lati coi corpi stilizzati dei due ladroni. E giù per l’erta, in primo piano, come fuggiaschi o ladri tre persone, una delle quali, portata dalle altre, senz’anima. È il deposto dalla croce; ed essi non staccavano lo sguardo da lui e si tenevano per gli occhi.

Poi il sabato di silenzio, inoperoso. Ma il mattino dopo il sabato, fu tutto uno stropicciarsi di occhi increduli. Gli occhi delle donne che portavano gli aromi, arrivate per prime davanti al sepolcro vuoto; e poi quelli degli altri, i seguaci, che faticavano a credere. Erano come “il tamerisco nella steppa che quando viene il bene non lo vede” (Ger 17,16). Increduli all’annuncio delle donne, aspettavano colui che sapeva aprire gli occhi, e quando lo videro, “per la grande gioia – ci narra Luca 24,4,1 – ancora non credevano ed erano stupefatti”. Mi sono chiesto varie volte perché il tamerisco nella steppa non veda il bene. Così un giorno, incrociando il rabbino in via Mazzini, glielo domandai. E la risposta fu tutt’altro che banale: “perché non ha occhi”. Il che mi fece pensare che anche i discepoli, pur dotati di occhi, non erano diversi dal tamerisco, perché lo sguardo di cui parla Geremia è, in realtà, quello della fede in una parola promessa. Eppure Egli disse loro: “non sia turbato il vostro cuore, non abbiate timore, abbiate fede in Dio ed anche in me (…) Vado e tornerò a voi; se mi amaste, vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto adesso, prima che avvenga, perché quando avverrà, voi crediate” (Gv 14,28).

Ma non è facile accogliere un ‘altro da noi’, un nuovo nato, anzi risorto. Non è forse vero che anche quando nasce un bambino, egli risulta straniero persino agli occhi dei suoi genitori. “Che sarà mai di lui”, di Giovanni il precursore, si domandarono Elisabetta e suo padre Zaccaria. Non diversamente, tutti i genitori non sanno nulla del loro neonato, non vedono oltre la sua forma e la figura esterna; sono ciechi rispetto a quel che c’è dietro, anzi dentro, eppure sono chiamati a ospitare anche l’invisibile mistero che lo abita. Così come lui dovrà affidarsi a loro, pur non conoscendone nemmeno il nome, parimenti essi dovranno rischiare e affidarsi a lui e insieme ‘osservare’, che significa prendersi cura, custodire, e avere addosso l’uno gli occhi dell’altro.


Sì, straniero. Il risorto non lo riconobbero; nemmeno quando si accompagnò loro sulla strada di Emmaus. Prima dovettero percorrere molta strada assieme, conversare, con-venire con lui, non solo con le parole e l’ascolto, ma farsi ospitali e condividere la sua solitudine, sino a dirgli “resta con noi, perché si fa sera”. Ma non è tutto quanto dicono e fanno anche due genitori quando nasce loro un figlio? Nel loro abbraccio risuona quel “Resta con noi e piano piano ti sentirai come a casa tua”.

Straniero. C’è un inno della liturgia ortodossa, cantato nella Settimana santa, che lo sottolinea con insistenza, immaginando le parole di Giuseppe di Arimatea quando si recò da Pilato per richiedere il corpo di Gesù: “Vedendo il sole nascondere i suoi raggi e il velo del Tempio squarciarsi alla morte del Salvatore, Giuseppe andò da Pilato, implorandolo, gli disse: Dammi questo straniero, che dall’infanzia fu ospite in questo mondo come uno straniero. Dammi questo straniero, alla vista della cui estranea morte sono meravigliato. Dammi questo straniero, che conobbe come dare ospitalità al povero e allo straniero. Dammi questo straniero, così che possa nasconderlo in una tomba lui, che, come straniero, non ha un luogo dove porre il capo”.

Ma allora cos’è Pasqua? Una rivoluzione dello sguardo dell’uomo in quello della fede che germina, cresce e matura nel tempo. Ci sono voluti cinquanta giorni ai discepoli per riconoscere ed accogliere il Risorto come la loro vita, allo stesso modo dei genitori, che prendono con sé colui che è appena venuto alla luce. Cinquanta giorni evocativi di un tempo lungo una vita come i cinquant’anni del Giubileo biblico.

Ma cos’è la rivoluzione dello sguardo e come si attua? La risposta non è affatto scontata. La trasformazione cui siamo chiamati si compie nella relazione con l’altro, nel guardare e lasciarci guardare, anzi scrutare dagli occhi dell’altro. Solo così, in questa reciprocità, lo riconosceremo nel gesto che condivide e moltiplica: nello spezzare il pane con gli altri. Questa è la rivoluzione dello sguardo: quella che fa entrare il proprio cuore negli occhi, nelle mani, nei piedi dell’altro per indovinarne il bisogno, che diventa in quello stesso istante bisogno nostro e ce ne facciamo carico, magari anche senza che l’altro se ne accorga.

Trasformazione dello sguardo. Lo stesso che accadde anche a Maria di Magdala. Gesù era lì davanti a lei nel giardino, ma lei non lo vedeva e solo quando il Risorto la chiamò per nome, le si aprirono gli occhi e lo riconobbe – “Maestro mio” – per poi correre dagli altri discepoli con il Risorto negli occhi.

Ed anche per Tommaso fu una rivoluzione dello sguardo. Lui, incredulo alle parole degli altri, ostinato nel non fidarsi dei loro occhi, nel pretendere di vederlo: lui, di persona, senza mediatori, anzi addirittura di toccarlo, di mettere il dito nelle ferite dei chiodi e la mano nel costato. Poi gli bastò vederlo in quella umanità ferita, ma vittoriosa, umiliata fino alla morte, ma di nuovo vivente per i suoi e in Dio. Dalla sua ostinazione, egli strappò per noi, pellegrini nel tempo e nella storia, un dono, anzi una beatitudine per tutti “quelli che non hanno visto e hanno creduto.” (Gv 20, 31).

Ma, allora, l’annuncio di Pasqua non sarà solo per i cristiani, ma per tutti. Nessuno è escluso dalla Pasqua: da quella rivoluzione dello sguardo che risana la cecità del cuore e riapre lo sguardo della fede. È sufficiente che si assuma lo stile del Samaritano. Fu questa rivoluzione dello sguardo che caratterizzò l’azione di papa Giovanni XXIII, quando, nell’inverno della Chiesa, seppe intravvedere una primavera che fioriva. Per questo convocò il Concilio, affinché la Chiesa tutta sapesse guardare con occhi nuovi l’umanità, cui da sempre era stata mandata. E a quanti temevano un cambiamento del vangelo egli rispondeva “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Perché per lui il vangelo era inseparabile dalla storia e una più profonda penetrazione della fede della Chiesa avrebbe comportato un rinnovamento pastorale capace di comprendere e vivere con maggiore fedeltà il vangelo.

Anche Paolo VI, lui il cantore della gioia pasquale, venne irriso come uomo triste, quando fu chiamato a guidare la barca della chiesa nelle rapide e fra gli scogli del post-concilio. Ma con fermezza, a quanti lo accusavano che la chiesa al concilio avesse deviato verso l’antropocentrismo, egli nel discorso di chiusura del concilio rispose: “Deviato no! Rivolto lo sguardo sì”, ribadendo così che tutto l’impegno dei padri conciliari fu rivolto a servire l’uomo, l’uomo concreto, storico con le sue vittorie e le sue cadute, tra speranze ed angosce, indicando nell’icona del Samaritano la spiritualità stessa dell’evento conciliare.

Pasqua: una rivoluzione dello sguardo sul dolore della gente, che ritrovo – per concludere – in un testo della tradizione ebraica:
“Se un uomo soffre da solo, è chiaro che la sua pena è solo per lui. Ma se un altro lo guarda e dice:
– Quanto soffri, fratello? che cosa succede?
– Prende il male dell’amico negli occhi suoi
– E anche se è cieco, pensi che possa prenderlo lo stesso?
– Certo, con le orecchie! E se è sordo, con le mani.
E se l’altro è lontano, se non lo può né sentire né vedere e neanche toccarlo, pensi che possa prendere il suo male?
Può forse indovinarlo.
Hai detto bene. Ecco esattamente quel che fa il giusto: egli indovina tutto il male che esiste sulla terra e se lo prende in cuore.
Forse il male della gente va preso senza che quelli se ne accorgano?
Sì, è così che bisogna prenderlo”.

SCHEI
Un incantesimo, anzi un incubo:
economia domestica durante la quarantena

Ti ci è voluta una settimana di clausura perché ci facessi caso. Poi hai iniziato a renderti conto, e poi hai cominciato proprio a farli, i conti. Come se fosse un gioco, anche perché dovevi pure trovarlo un modo per far passare il tempo.

Di benzina, risparmi circa quaranta euro la settimana. Fa centosessanta euro al mese. La spesa la fai, ma la concentri una volta ogni dieci giorni e compri le cose essenziali – quelle definite non essenziali tanto non si possono acquistare. Anzi, compri cose che nessuno comprava più e che adesso vanno a ruba. Farina, lievito: introvabile, sei fortunato se lo trovi sottobanco da qualche fornaio. Lievito e farina, il nuovo petrolio. E’ bizzarro, ma a pensarci non sembra così irragionevole. Col petrolio non ti fai la pizza a casa, la torta di mele, il pane. All’improvviso Masterchef diventa un programma datato. Tutta questa competizione tra veri o presunti fenomeni dei fornelli ti appare sotto una luce diversa, meno sinistramente affascinante di prima. Hai appena scoperto che anche tu sai farti da mangiare, quindi hai ridotto le distanze.

Confronti i tre scontrini con quelli del mese prima. Per la spesa alimentare, in un mese avrai risparmiato cento euro. Non ti sembrano tantissimi, meno di quelli che pensavi, visto che a casa tua non inviti più nessuno per cena (ovviamente catering a domicilio, per fare bella figura) e che non compri più i preparati pronti o le buste surgelate che ti fanno risparmiare tempo ma ti fanno spendere soldi. Sono prodotti costosi non per la loro qualità, costano perché sono comodi: ci paghi sopra il tempo che risparmi a farti la cena, ma adesso di tempo ne hai da vendere. Quindi cucini tu, con acqua, farina, uova, zucchero, sale… Allora, perché non hai risparmiato di più? Ah, ecco. Per il vino. Un buon vino adesso è un genere di prima necessità, e per una bottiglia decente sei euro almeno al supermercato li devi spendere. Al giorno? Sì, al giorno. E che cazzo. Comunque, già duecentosessanta euro risparmiati.

I bar sono chiusi. La colazione con cappuccio e cornetto era uno dei pochi lussi che ti permettevi. Adesso non puoi, e non puoi nemmeno farti al bar il caffè di metà mattina. Sono tre euro e mezzo risparmiati al giorno, trentatrè euro al mese. Duecentonovantatrè. A pranzo adesso sei a casa. Saresti fuori, di solito. Altri dieci euro a botta, vuol dire circa duecentoventi euro non spesi. Aggiungici un paio di pizze e cinque aperitivi al mese, altri cento euro. Somma trecentoventi a duecentonovantatré, fa seicentotredici euro.  Il giornale non lo prendi più. Dovresti uscire apposta, trovare un’edicola aperta, e poi quello che c’è scritto lo ascolti a tutte le ore in televisione. Altri trenta euro abbondanti che ti tieni in tasca. Seicentoquarantatrè.

In casa consumi qualcosa in più di luce, ma le tariffe nel frattempo sono calate. Inconsciamente, visto che sei in modalità spartano, inizi anche a risparmiare sull’acqua. Non è che non ti lavi, ma consumi meno acqua possibile. Dove non è arrivata Greta, è arrivato il virus. Coi consumi domestici tutto sommato fai una patta, via. E poi risparmi quel libro al mese, quella mostra, quel cinema, quel teatro. Siccome non sei un tipo mondano, facciamo che ti tieni in saccoccia altri cinquanta euro. Dimenticavi la palestra. Adesso fai corpo libero a casa, quindi risparmi altri quaranta euro di tessera.

In totale hai risparmiato settecentotrentatré euro. In un mese, il primo mese. Se continua così, in tre mesi ti sei tenuto in tasca uno stipendio. Roba da anni sessanta, quando con sei mesi di cinghia tirata tuo padre si era potuto permettere il Fiat millecento. Ah. Quest’anno non andrai in vacanza. Altro stipendio risparmiato.

A questo punto ti accorgi di quattro cose. Una dietro l’altra. Fino alla terza, sembra un incantesimo.

La prima cosa di cui ti accorgi è che la quantità di oggetti o servizi che hai sempre considerato primari nella tua vita, non lo sono. Ne stai facendo a meno, e non stai morendo (sempre se non finisci in terapia intensiva. Se finisci lì vuol dire che stai rischiando di morire, anche se probabilmente non morirai, perché sei comunque nel posto migliore per evitare di finire sottoterra). Anzi, stai scoprendo che puoi godere di altri piaceri che ti sei sempre negato, perché la tua vita era piena di cose che dovevano farti risparmiare tempo, ma te lo riempivano al punto da non averne mai abbastanza.

La seconda cosa di cui ti accorgi è che il tuo stipendio non è quella miseria di cui ti lamentavi. Improvvisamente, ti basta e avanza. I soldi che guadagni non ti servono tutti, anzi ne puoi mettere da parte per chiudere i debiti, mandare a quel paese i banchieri che ti vogliono prestare soldi e i consulenti che, per farti guadagnare il tre per cento, mettono a rischio il tuo cento per cento. Il cento per cento ti basta e ti avanza, del tre per cento non te ne fai niente.

La terza cosa della quale ti accorgi è che questa condizione, dopo alcuni giorni di comprensibile smarrimento, ti sembra d’incanto incredibilmente naturale, raggiunta senza alcun particolare sforzo, senza alcuna terribile privazione.  Una condizione preindustriale, ma con le comodità della società industriale a portata di mano, pur con le dovute cautele. Una fortuna.

La quarta cosa di cui ti accorgi è che la tua fortuna è a tempo. La data di scadenza non ti è nota, ma arriverà di sicuro. Questo incantesimo non durerà per sempre, soprattutto perché il tuo stipendio, che fino ad un certo momento ti garantisce questa situazione prodigiosa, non è una variabile indipendente. Anzi, più tempo passa in questa situazione, più le fonti di finanziamento del tuo stipendio si assottigliano. E questo nonostante il tuo stipendio, se sei arrivato fino a qui, sia uno di quelli che risentono per ultimi della paralisi totale di tutte le attività economiche legate ai bisogni dell’uomo. Per ultimi, certo. Perché mentre tu sei lì che continui a risparmiare, nel frattempo un mucchio di gente ha già perso un pezzo del suo, di stipendio, oppure ha perso addirittura il lavoro. E tutta questa gente che perde stipendio e lavoro prima di te, inevitabilmente farà sì che, prima o poi, non ci sia più modo di pagare nemmeno il tuo, che dipende, in maniera diretta o indiretta, ma inesorabile, dal loro. Ti rendi anche conto che più la lista dei bisogni dell’uomo si riduce all’essenziale, più breve sarà il tuo incantesimo. Perché il mondo nel quale vivi è troppo interconnesso, troppo incistato al tuo, da permetterti di vivere consumando in autarchia i prodotti del tuo orto (sì, nel frattempo avrai anche iniziato a coltivare un orto). Perché tra un po’ non troverai nemmeno un posto dove acquistare i semi e le piantine.

Tutte e quattro le cose di cui ti accorgi sono vere. Tutte e quattro potrebbero essere uno spunto per un futuro possibile – il tuo futuro, certo. Che poi, ti piaccia o no, è anche quello degli altri.

La prima cosa, se avrai sufficiente memoria per ricordartene quando tutto sarà rientrato (in qualche modo, tutto questo rientrerà, anche se nulla sarà esattamente come lo hai lasciato), è un invito alla sobrietà. Tu pensavi di essere un tipo con poche pretese, ma non è vero. Puoi essere molto più parco nei confronti delle cose, ti lascerà molto più tempo ed energia per dedicarti alle persone. Mica tutte, quelle importanti. Anche sulle persone infatti dovresti operare una selezione, e questo incantesimo, se ti ci concentri, ti ha già consegnato le persone da tenere e quelle da mollare.

La seconda cosa potrebbe suggerirti che i soldi che guadagni, da un certo punto di vista (che chiameremo zenith), non sono mai abbastanza, mentre da un altro punto di vista (che chiameremo nadir) sono sempre abbastanza (naturalmente entro certi limiti, che però questo periodo potrebbe averti indicato come individuare). Il problema non sono i soldi che guadagnavi, ma come li spendevi.

La terza cosa ti suggerisce che ogni condizione è transitoria, e in continuo movimento. Sia essa una situazione che ti fa stare bene, sia essa una situazione che ti mette a disagio, entrambe passeranno, per lasciare il posto ad una situazione nuova, e poi ancora, e ancora. Se questo è lo stato dell’arte fuori di te, e non lo puoi cambiare, il problema è dentro di te. E’ lì che puoi lavorare.

La quarta cosa ti dice che la ‘decrescita felice‘ è un’espressione bucolica ma puramente pubblicitaria, alla quale non corrisponde la realizzazione di un’utopia, piuttosto assomigliando alla concretizzazione di una distopia; una specie di incubo lovecraftiano, che passa dall’inquietarti dalle pagine di un romanzo a morderti direttamente i polmoni in una corsia d’ospedale, o ti sorprende in fila con la tua gavetta ad un centro della Caritas, dove non avresti mai pensato di mettere piede. Però ti suggerisce anche che non esiste una crescita infinita, e che anche se esistesse non sarebbe un obiettivo degno della tua vita. E, pare, nemmeno della vita del pianeta nel quale vivi.

“NON COME GLI ITALIANI”
Cosa pensavano (e cosa pensano ora) i tedeschi degli amici d’Oltralpe

da Monaco di Baviera

Forse sarà una sorpresa per tanti Italiani: in Germania, in questi giorni di feroce, quasi rivoluzionaria, ‘Corona-Crisi‘, si parla molto spesso dell’Italia, come non era mai successo negli ultimi anni. Ma questa esplosione d’interesse è molto ambigua, si alimenta di vecchi clichè e di una nuova ignoranza. Un giudizio, questo, che può essere esteso anche a tanti italiani, che della Germania ammirano la potenza tecnologica ed economica, ma non sanno nulla o quasi nulla dei problemi sociali del paese della Mercedes, di Adidas e di Angela Merkel.

All’inizio dell’epidemia emergeva l’immagine stereotipata del paese sotto le Alpi: gli italiani che sono in grado godere la ‘dolce vita’ sul balcone durante i giorni di coprifuoco; gli italiani che cantano nel cortile, O sole mio‚ Azzurro, Volare o l’inno nazionale quando, fuori dalle case in cui sono bloccati, c’è l’inferno.
Tutti i tedeschi, anche quelli che normalmente sono molto riservati, addirittura anche gli xenofobi, gli anti stranieri sempre e comunque, in quel primo periodo del contagio, hanno elogiato ‘gli amici italiani‘, che fanno pizze fantastiche, quelli che ci hanno donato il Va pensiero di Verdi, lo splendido tenore Luciano Pavarotti, la musica rock di Gianna Nannini o il gentile e amatissimo allenatore Trappattoni. Quel cliché degli Italiani allegri malgrado tutto è sempre stato molto diffuso fra i tedeschi: valeva anche per la mia personale biografia, poiché sono cresciuto in una piccola città del Nordovest, dove i primi stranieri erano i camerieri italiani di una gelateria. Sempre allegri, sempre gentili, parlavano tedesco con un accento strano e divertente. Questo atteggiamento verso gli italiani non si è mai interrotto in Germania, nemmeno nei primi  giorni della Corona-Crisi.  BILD, il giornale boulevard più diffuso in Germania, aveva pubblicato una decina di giorni fa, una pagina intera dedicata solo agli italiani che piangono migliaia di morti a causa del virus orrendo. Lì si leggeva: ”Ciao Italia. Ci rivedremo presto. A bere un caffè o un bicchiere di vino rosso. In vacanza oppure in pizzeria. Italiani, siamo con voi.”

Ma oggi, e sono passati solo pochi giorni, l’attuale Realpolitik della Germania verso gli amici italiani in crisi è diventata diversa, molto diversa. Appena la pandemia è arrivata anche in Germania, con un po’ di ritardo rispetto all‘Italia, il vento della grande amicizia è cambiato profondamente nell’opinione pubblica. Si è iniziato a sentire sempre più spesso, con il ritmo di un rosario: “Non vogliamo una situazione come in Italia“. Una frase che sintetizza quella parte di sentimento negativo che accompagna da sempre il cliché positivo dell’italiano allegro.

Quando le cose vanno molto male (e non solo nel contesto dell’attuale pandemia) tra tantissimi tedeschi, sia al vertice della classe politica, sia nei media, sia tra la gente comune della strada, circola e si ripete sempre la stessa frase: “Non dobbiamo fare le cose come le fanno gli italiani“.
Questo pregiudizio non è un osservazione meramente folkloristica (pregiudizio che in forma diversa esiste anche in Italia contro i Teutonici), ma si concretizza in una proposta di politica fiscale dura, chiusa, tutta indirizzata a difendere gli interessi propri, contro i non tedeschi, anche se costoro, come gli italiani appunto, fanno parte di un stato fondatore dell’Europa d’oggi.
Dire ‘Deutschland zuerst (‘Prima la Germania’) è per i tedeschi, a causa della storia del nazismo, giustamente un tabù. Neppure qualcuno della estrema destra direbbe quello slogan in pubblico. Ma il leitmotiv della politica reale, soprattutto della politica fiscale, in Germana, è sempre un modo per blindare l’economia tedesca, quella delle Grandi Banche, di Mercedes, di BMW, e di Volkswagen. Sono loro ad essere diventati, durante gli ultimi anni del boom, i veri sovrani della politica tedesca. Ne Schröder, il cancelliere del Centro Sinistra, né Angela Merkel, la cancelliera del Centro Destra, potevano e possono fare qualcosa in politica senza l’approvazione da Wolfsburg (VW), da Stoccarda (Mercedes), da Monaco (BMW) o da Francoforte (sede della borsa e delle grandi banche tedesche).

Contro questo blocco di potere è cresciuta negli ultimi anni anche una opposizione nuova: da parte della sinistra e pro Europa, i Verdi, molto forti soprattutto nelle grandi città della Germania Ovest, da parte dell’estrema destra, l’AfD (Alternative für Deutschland), forte soprattutto nella Germania dell’Est. Il partito dei Verdi respinge il ‘Fiscalnazionalismo’ (Philipp Ther) della Grande Coalizione contro l’Italia e la Spagna, ma davanti al ‘matrimonio di fatto’ fra Realpolitik e grandi aziende a Bruxelles, i Verdi non contano molto. Per l’estrema destra invece, la Merkel o la  Von der  Leyen sono rappresentanti odiati di una politica troppo molle verso gli emigrati e anche verso quegli Stati del Sud Europa che non sono in grado di curare il proprio sistema sanitario (vedi la diffusione dell’epidemia) e di eliminare la corruzione nello Stato.

In ogni caso, al di là delle simpatie ed antipatie dell’opinione pubblica tedesca, al di là delle opposizioni di destra e di sinistra, in questo momento storico buio e molto incerto per tutti i paesi d’Europa, cresce anche in Germania un malumore diffuso, che ha trovato voce soprattutto fra i tanti intellettuali, artisti, musicisti, giornalisti, scrittori, scienziati. Al centro delle loro preoccupazioni non è la Germania, né l’Italia o la Spagna, ma l’Europa. Per loro (firmatari di un appello per il Coronabond lanciato anche dalle pagine di questo giornale [Qui]), l’Europa fondata dopo la Guerra era, e resta ancora, una roccaforte contro la rinascita di un nazionalismo che ha distrutto la civilizzazione umana e democratica del Continente, con conseguenze che si sentono ancora oggi. Come europei abbiamo un grande bisogno di una politica comune per risolvere i danni enormi causati dallo tsunami Covid19.
Grande ed emozionante è stato lo spettacolo delle canzoni sui balconi, nobili sono gli atti di Caritas e dei tanti che sono in prima linea nella lotta contro la pandemia, ma per salvare non solo le vite ma anche i valori fondamentali d’Europa ci vuole di più. Per gran parte dell’elettorato tedesco l’Europa è troppo importante anche nel gioco dei grandi poteri globali per lasciarla ai nazionalisti, ai populisti d’ogni genere e ai Big Boss dell’economia capitalistica.

 

USCIRE DALLA GRANDE CRISI: QUANDO E COME

Non bisogna sottovalutare che, oltre all’emergenza sanitaria, c’è una lotta geopolitica in corso. Chi pagherà il prezzo più alto in termini di vite umane sono Spagna e Italia (l’indice dei morti per milione su abitanti è all’8 aprile 269 e 273 –in Spagna in forte ascesa-, rispetto a 30 di Usa –in forte crescita- e 2,5 di Cina –ormai ferma).
L’Italia ha avuto nell’ultima settimana (2-8 aprile) la minor crescita dei contagi (18%) dopo l’Austria (15%). Cina e Sud Corea hanno ormai bloccato il virus e stanno riaprendo tutto. L’Austria ha deciso una prima apertura parziale di scuole, asili e piccoli negozi dal 14 aprile. Anche Repubblica Ceca aprirà parzialmente (scuole e negozi) dall’8 aprile e Danimarca dal 15 aprile. La Germania dal 20 al 27 aprile. Sono Paesi con un tasso di letalità molto basso (1,3/3,8% rispetto a 12% dell’Italia), ma un tasso di crescita dei contagi molto più alto dell’Italia. L’Italia ha quindi l’opportunità di essere tra i primi a ‘riaprire’. Ciò comporta un vantaggio enorme se lo useremo bene e se fatto in sicurezza.

Avremo una probabile de-globalizzazione che costringerà a ridurre la lunghezza (fino a Cina e Asia) di alcune filiere manifatturiere. Aumenteranno quindi le lavorazioni in patria a basso costo che necessitano di politiche di buona programmazione degli immigrati. Su ciò sono attrezzati Paesi di antica immigrazione (Usa, UK, Germania, Nord Europa), mentre noi – con una scarsa esperienza e la recente teoria sovranista di prima gli italiani” – siamo molto impreparati.
Da sempre c’è una correlazione tra crescita economica ed uso intelligente e programmato degli immigrati (di cui c’è necessità). Un esempio è l’agricoltura dove oggi mancano in Italia 200mila lavoratori stagionali, che verranno solo in parte rimpiazzati dai nostri studenti universitari o dai nativi. Un settore che sarà molto colpito dalla crisi sarà il turismo. Saranno favorite le località che organizzeranno meglio il ‘distanziamento’ (le seconde case più degli hotel, quindi i lidi ferraresi più dei romagnoli) e chi parte da spazi ampi (Ferrara più di Venezia o Firenze), sempre che ci si organizzi a dovere (che è il nostro lato B, quello debole).

Gli USA, La CINA e L’EUROPA

L’impatto economico sarà imponente. In Usa le domande di disoccupazione sono salite su base mensile da 650mila del 2008, a 6,7 milioni e si avviano ad avere una disoccupazione di massa come nella Grande Crisi del 1929, poiché non esiste la cassa integrazione e si può licenziare senza pagare indennità. L’ enorme quantità di dollari dallo Stato non è detto che questa volta riesca a far ripartire il Paese così in fretta come è successo con l’ultima crisi, quella del 2008. Ma gli Usa hanno una capacità di reazione enormemente più rapida rispetto all’Europa (così come facilmente si licenzia, altrettanto si assume e si riparte). Gli Usa contano su un grande mercato interno di 320 milioni di consumatori e sul dollaro (moneta forte).
Il grande mercato interno è quello della Cina, già in gran spolvero di ripartenza, possiede metà del debito Usa ed ha una enorme liquidità con cui potrebbe comprare mezza Europa (da qui la Golden Share sulle nostre aziende strategiche).
L’altro grande mercato interno che può mitigare i danni nei singoli Paesi partecipanti è l’Europa. Questa è la ragione principale per cui mai come ora a nessuno conviene uscire dall’Europa. Non a caso che da quando è scoppiata la pandemia la sterlina ha perso il 6% sull’euro.
Nei prossimi giorni è probabile un primo passo dell’Europa verso un prestito e debito comune. In tal senso vanno i 100 miliardi per Sure, la nuova formula di “riassicurazione europea contro la disoccupazione”. Si potrebbe così avviare una discussione tra tutti gli Europei (imprese e sindacati) su come poi costruire una sorta di “cassa integrazione europea”, per tutelare chi perde il lavoro, ridurre gli orari, cercarne un altro lavoro, avere una formazione, etc.. Un unico strumento europeo di tutela sul lavoro. Le imprese e i sindacati tedeschi usano il KurzArbeit (lavoro corto), mentre noi usiamo di più la Cassa Integrazione (ma abbiamo anche i contratti di solidarietà). Una seria discussione tra italiani e tedeschi con tutti gli altri europei porterebbe a forme innovative, meno autoreferenziali e più utili per tutti, un modo di costruire una nuova Europa del lavoro.

Il Piano B ‘alla giapponese’

Su un prestito/debito comune di lungo periodo la soluzione europea è quella di serie A, ma ci sarebbe anche un piano B  italiano ‘alla giapponese’, fattibile solo da noi, ‘in casa nostra’ (come ad alcuni piace dire), che ci farebbe risparmiare moltissimo e che sarebbe una sorta di pre-verifica se ci sia davvero intenzione di uscire dall’Europa. Gli italiani hanno 1.200 miliardi di risparmi in conti correnti bancari più 3.448 di crediti tra titoli e obbligazioni (ma anche 926 miliardi di debiti e mutui); le aziende hanno risparmi complessivi per 1.840 miliardi. In complesso, a parte le proprietà di case e terreni e i debiti, c’è un risparmio italiano privatissimo di 5.288 miliardi.
Il Tesoro italiano ha bisogno ogni anno di circa 400 miliardi di euro per finanziare il debito pubblico (e pagare stipendi e pensioni, che da sole valgono 300 miliardi). Se gli italiani si comprassero tutte le emissioni, comprese quelle aggiuntive europee di cui si parla ora (l’hanno proposto vari in forme diverse, anche Tremonti e Monti), pagheremmo (come i Giapponesi) molto meno interessi per un debito molto più grande. Infatti, i giapponesi pagano il 12,6% delle loro entrate fiscali per un debito del 250% sul PIl, mentre noi italiani il 14% per un debito molto più piccolo (138% del Pil).
Bisogna però vedere se gli italiani siano davvero disposti a questa operazione in uno “Stato povero…abitato da gente ricca che ha dimostrato di non essere per nulla patriottica”. Non è un caso che, a fine 2019, le famiglie e le imprese italiane detengano solo il 5,8% del debito pubblico italiano e sono tutti siano ‘scappati’ dai Bot nazionali quando nel 2008  è iniziata la recessione (allora ne avevano il 22,4%). Non oso pensare quale sarebbe la svalutazione della lira italiana se uscissimo dall’Euro (30%?). Questa è la ragione per cui c’è una vasta area, proprio al Nord, di imprenditori, operai e, ancor più, pensionati contro la cosiddetta Italexit. Per i vantaggi che, con la de-globalizzazione, vengono da un grande mercato interno (Europa, Usa, Cina), penso che per un po’ di tempo nessuno parlerà più di Italexit.

Ripartire il prima possibile: da Ferrara per esempio

Ripartire in fretta è ora il tema urgente. Però in modo sicuro, se no è come fare uno scatto in salita sapendo che tra un km la ruota si buca. Una prima questione sarebbe evitare di partire tutti insieme, se c’è qualcuno che può partire prima in sicurezza. Dovrebbero essere le zone meno contagiate, spesso più periferiche, che sono spesso le più deboli economicamente e nelle quali, peraltro, potrebbe essere più facile (perché più piccole e sperimentali) arrivare ad individuare gli ‘immunizzati’ (coi test che arriveranno).
Tra queste, in Emilia-Romagna, c’è per esempio Ferrara. La Regione dovrebbe dunque essere coerente e ‘favorirci’, avendo detto che si devono aiutare le zone deboli. Si dovranno poi privilegiare le industrie manifatturiere e i servizi vendibili che sono quelli che producono quel valore aggiunto che regge l’intera economia (se chiude una fabbrica il danno per l’intera comunità è molto maggiore di quello della chiusura di un supermercato, che può riaprire se ritorna un reddito diffuso, mentre la cosa non vale per le fabbriche). E sono soprattutto quelle che esportano o che hanno commesse.
In ogni caso, dovrebbero riaprire anche tutti coloro che garantiscono condizioni di sicurezza (librerie, piccoli negozi,…che possono essere sicuri come le edicole, se ci si organizza, così le piccole e medie aziende artigiane che hanno un capannone enorme con pochi dipendenti che possono stare lontani anche 10 metri e non si capisce perché devono stare chiuse). Il problema è che l’Italia ha scarsa cultura organizzativa per cui prevale l’idea di vietare, perché è più semplice che organizzare la complessità e, soprattutto, non ci si prendono delle responsabilità (della serie “chi fa sbaglia, chi non fa non sbaglia”).
Tutti dicono che l’Europa è chiusa…ma in realtà le fabbriche tedesche, olandesi, francesi…sono molto più ‘aperte’ di quel che si dica. E’ certo più complicato e complesso controllare e verificare le condizioni di sicurezza e di distanziamento in fabbriche e negozi (un esempio clamoroso e negativo è stata la Val Seriana a Bergamo) ma, anche sulla base di questi gravissimi errori, si possono organizzare le riaperture in base a criteri solidi e complessi (non si è forse detto che oggi ritorna l’importanza della competenza pluridisciplinare?).
Ne va del nostro futuro economico e anche della vivibilità delle comunità, perché da un tracollo socio-economico saremmo tutti travolti. Non ci si può quindi affidare a decisioni semplici o solo centralistiche, o ai codici Ateco, per selezionare le imprese, e tanto meno ai Prefetti. Occorre mettere a punto la complessità del come fare, indicare criteri, coinvolgere esperti e parti sociali, innalzare la cultura organizzativa: oggi il lavoro sicuro interessa anche alle aziende.

 

IRROMPE NEL MONDO L’INVISIBILE
Questa scienza ha fallito: per un mondo nuovo, serve una nuova scienza

In questi ultimi giorni molti sostengono che dobbiamo fidarci della Scienza. Io, però, vorrei porre una questione. Cosa vuole dire fidarsi della scienza? La scienza è una disciplina umana e come tale  fallibile. Dopo tutto oggi è particolarmente evidente: assistiamo in modo quasi distopico a svariate conclusioni, per niente univoche, sulle grandi questioni contemporanee, malattie, pandemie,  disastri ambientali, crisi climatiche etc.

Ebbene dunque cosa vuole dire fidarsi della scienza?  Personalmente diffido di quella scienza che ha fatto del  materialismo scientifico  il suo orizzonte fino a enunciare che solo ciò che ha un peso, che si tocca, che si vede, esiste. Un’idea meccanicistica del mondo, dei nostri stessi corpi, che cancella dal reale  il valore dell’invisibile. Come donna so bene che l’invisibile prende corpo nel mio corpo per rispondere all’imperativo della continuazione della specie. Prende corpo dentro al nostro corpo e dà la vita. Dunque per me ciò che non è visibile è importante tanto quanto ciò che è visibile e fa parte della realtà.

E allora chiedo, a chi mi intima che mi devo fidare della scienza, di quale scienza mi devo fidare? La scienza che è riuscita a mettere al centro della sua ricerca la narrazione dei corpi e del mondo come fossero solo oggetti meccanici? Quella scienza che oggi invita uomini e donne a ‘donare’ sperma e ovuli, in nome della ricerca per perseguire il sogno onnipotente dell’uomo perfetto?  e poi, andando  oltre,  che invita le donne a ‘donare’ ( immettere sul mercato) la loro  salute , il loro  tempo, il loro ecosistema interno e il loro  potere riproduttivo narrandolo come puro  atto di amore? Questa scienza main stream, ovviamente unitamente ai guru dell’economia, ha indicato ai potenti della terra  il mercato dei corpi come ultima frontiera conquistabile per un capitalismo che altrimenti collasserebbe, nello stesso modo in cui ha indicato la via dello sfruttamento indiscriminato  della natura come unica strada per dare da mangiare a tutti. Questa scienza non vede l’evidente: ha accettato, pur di perseguire il controllo sul tutto e in nome del progresso,  che la vita invisibile, come quella che  viene al mondo dentro un corpo di una donna, venga deliberatamente e violentemente staccata  dal ventre materno, dal suo ambiente. Questa stessa scienza è quella che  non pensa che la terra sia un organismo vivente, e l’umanità cellule viventi dentro a un grande grembo vivente.

Oggi, però, irrompe nel mondo l’invisibile e ci intima uno stop. Chiede a tutti noi di metterci in attesa per dare luce a un altro mondo, più sostenibile , più solidale, più umano, in una parola: vivente.  E, curiosamente, senza essere una scienziata , questo stop mi risuona nel profondo. Dunque, oggi più di prima il mio sguardo si rivolge a quegli scienziati e a quelle scienziate che lasciano spazio, nel loro orizzonte, all’invisibile; che lo contemplano con umiltà e cercano di aiutare l’umanità a orientarsi nel mistero della vita senza dogmi materialistici alle spalle. Molti di questi scienziati però sono tacciati di eresia e addirittura radiati dai loro campi di studi perché non in linea con certa ‘Scienza’.

Dunque torno a porre la questione, cosa vuole dire fidarsi della scienza? Perché io la mia scelta l’ho fatta; mi fido di quella aperta al mistero del vivente, una scienza che non smette di interrogarsi, consapevole di essere in cammino, e che ha il coraggio di cambiare assunti che fino a ieri sembravano verità assolute ma che oggi sono crollate miseramente.

Vite di carta /
L’Arminuta… ecologia e solidarietà

Vite di carta. L’Arminuta… ecologia e solidarietà

Non c’è che L’Arminuta per compensare il vuoto. Anche questo mercoledì la piazza del mio paese è deserta, non ci sono le vocianti bancarelle del mercato e la regola dominante rimane il distanziamento sociale. In realtà la regola numero uno è “Restate a casa”.

Resto a casa e riapro L’Arminuta, il romanzo con cui Donatella di Pietrantonio ha vinto il Premio Campiello nel 2018. Uno di quei libri in cui mentre leggo e capisco che è perfetto divento ancora più vigile. Ingaggio con l’opera una sfida sotterranea: scorro le pagine, seguendo la storia ma sotto, più in profondità, controllo la forma, la sua orchestrazione, le scelte lessicali ed il ritmo, la potenza definitoria di ogni vocabolo, le combinazioni. Alla fine vince lei.

Ma andiamo con ordine. Non è per la scrittura ineccepibile che ho pensato a questo terzo bellissimo romanzo della Di Pietrantonio. La parabola di vita che vi si profila  mi è sembrata funzionale  a tante riflessioni sul presente che leggo dai giornali o sento nei dibattiti infiniti alla tv. Sono le proiezioni sul futuro che vivremo a farmi di nuovo avvicinare al libro.

Al centro della storia c’è un regresso, un processo di peggioramento per la vita della protagonista: ecco la prima somiglianza col nostro presente. Abbiamo cambiato di colpo abitudini e convinzioni; lo spazio vitale coincide con la nostra casa e poco altro. Se c’è una parola che può riassumere la vita che facciamo è ‘rinuncia.

L’Arminuta ha tredici anni e all’improvviso viene restituita, questo è il significato della parola nella parlata abruzzese, alla sua vera famiglia. Dalla bella casa in città, dove ha vissuto fino al giorno prima come figlia unica di una coppia borghese, il padre carabiniere la conduce in un paesino dell’entroterra di Pescara e la lascia coi suoi bagagli, “una valigia scomoda e una borsa piena di scarpe confuse”, dentro la casa povera dove vivono i suoi veri genitori e i fratelli che lei non ha mai saputo di avere.

“La madre” e “il padre”, così per tutto il romanzo chiamerà i genitori che ora conosce e che non la baciano, non l’abbracciano, privi di qualunque comunicazione affettiva. Il padre lavora in una fornace e i soldi che guadagna non bastano a mantenere la moglie, i due figli maschi che sono già adolescenti, il terzo maschio solo nominato per la sua vivacità, la piccola Adriana che aiuta la madre nei lavori di casa ed è una bambina già adulta, l’ultimo nato Giuseppe, che ha pochi mesi di vita e manifesta i segni di un ritardo mentale e ora la figlia restituita da una cugina materna e dal marito, che se l’erano presa e portata a vivere con loro quando aveva solo sei mesi.

La casa è piccola, i figli dormono in un’unica stanza e Adriana divide il letto con la sorella appena arrivata,  la restituita di cui non viene detto il nome. Lascio dire a lei, che narra la sua storia in prima persona, come sono le prime notti e i primi giorni nella nuova famiglia. Non è stato preparato il letto in attesa del suo arrivo: “Domani vediamo, aveva detto il padre, ma poi si è dimenticato. Io e Adriana non gli abbiamo chiesto niente. Ogni sera mi prestava una pianta del piede da tenere sulla guancia. Non avevo altro, in quel buio popolato di fiati.”

“Mi sono impegnata a pulire, quello non era difficile.. ..Le faccende che mi chiedeva di sbrigare non erano molte, in confronto a quelle di Adriana. Forse mi stava risparmiando, o forse si dimenticava che c’ero. Di sicuro non mi riteneva capace, e non aveva torto. A volte nemmeno capivo cosa ordinava, in quel dialetto veloce e contratto”.

In città la sua vita era trascorsa tra la scuola, le amicizie, la danza. A questo pensa con dolore  quando comincia a darsi da fare per essere di aiuto in casa, dovendo rimanere lì dove è stata riportata, con la motivazione che sua madre (quella di città) è seriamente ammalata. Non capisce nemmeno la lingua che si parla in quella casa.

Anche noi ora viviamo in una casa, la nostra, che ci appare diversa, con risorse, angoli o passatempi che non sapevamo che avesse. Anche la nostra lingua si sta modificando, pensiamo ai termini finora poco usati che sono spuntati come funghi sulla bocca degli esperti intervistati dai media.

Ci guardiamo allo specchio e ci chiediamo: – E se fossi ‘un asintomatico’?- E intanto ci atteniamo alle ‘regole draconiane’ imposte dalla ‘pandemia’ e non sfuggiamo (come sarebbe possibile?) alla ‘infodemia’ del momento. E ora che la protagonista ci travolge col suo spaesamento cosa verrà fuori dalla sua storia? E dalla nostra clausura forzata, dalle nostre rinunce cosa risulterà? Ne usciremo peggiori o migliori di prima?

L’Arminuta impiega mesi a entrare nelle dinamiche affettive dei suoi familiari, specie i fratelli. Adriana è il suo sostegno, è quella che le insegna a vivere nella povertà ma che le trasmette anche slanci e piccole felicità. In una delle anticipazioni sparse nel libro la protagonista dice che la somiglianza tra loro due, evidente quando erano piccole, dopo vent’anni non si sarebbe notata quasi più.

Dunque ce l’ha fatta. È entrata poco a poco nel cuore della  famiglia e la famiglia in lei; ha sofferto per la morte tragica del fratello maggiore; è rimasta a vivere nella stessa casa, pur continuando gli studi a spese della madre di città, la madre ricca. Adalgisa, questo è il suo nome,  non è mai stata ammalata: si è separata dal marito e si è sposata con un altro uomo, avendo anche un figlio da lui.

L’Arminuta va a trovarla alla casa sul mare che era stata anche la sua casa. La accompagna Adriana, sempre solidale e preziosa nelle giornate faticose là in paese, e oggi pronta all’avventura di andare una volta tanto in città. Alla protagonista la casa  sembra uguale, ma anche irrimediabilmente cambiata, anche se ad essere cambiata è prima di tutto Adalgisa, felice di avere lì la “figlia”, ma al tempo stesso incerta e soggiogata dal nuovo marito.

Nell’andare via dalla città l’arminuta regala il mare ad Adriana, che non lo conosce. Il libro si chiude sulla scena del bagno che fanno insieme: sono di fronte le due sorelle e l’acqua arriva al petto di una, al collo dell’altra. L’una, l’arminuta, ha appena compreso qual è il suo posto e si è lasciata alle spalle la madre di prima, dell’altra, di Adriana, dice  una cosa bellissima, la definisce “un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia”. E ammette: “Da lei ho appreso la resistenza”.

Ripongo il libro e mi dico che siamo anche noi messi alla prova nel nostro romanzo di formazione e abbiamo la possibilità di uscire dalle peripezie di oggi con una nuova consapevolezza. Per l’eroe di tanta narrativa è la consapevolezza dei propri limiti e della raggiunta maturità, per noi della necessità di ridimensionarci e di un bel po’ di altre cose. Le due più importanti è meglio non ripeterle qui, le ho messe nel titolo e lì devono stare, prima di ogni altra parola.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

PER CERTI VERSI
Frammenti d’Italia (sesta tappa)

La descrizione, frammento dopo frammento, di un paese meraviglioso…
Ma questo paese è il nostro paese!
E proprio questa intensa opera lirica dà la misura della bellezza incomparabilmente varia di una terra ammirata e invidiata da tutti eppure, forse proprio per questo, denigrata da molti.
In un’Italia che in questa drammatica emergenza rischia d’andare in pezzi, ma che – ne sono convinto – saprà riemergere più forte e coesa di prima, è forse arrivato il momento per noi tutti di comprendere quanta fortuna significhi esservi nati e cresciuti, nonché l’onore d’esserne figli. Scopriamolo scrutandone i frammenti nell’omaggio poetico di Roberto Dall’Olio che, per quattro settimane, si rinnoverà ogni domenica e ogni mercoledì.
Buona lettura e buon viaggio.

Carlo Tassi

FRAMMENTI D’ITALIA

XXXXIV

figlio
di Partigia
e Caravaggio
forse
Pontormo
Carracci
quel rosso
alla cappella
Brancacci

XXXXV

l’Italia
è pura
immensa
mente
scialata
la sua
solitaria
bellezza
da Monte Amiata

XLVI

l’italiano
in automobile
si crede
il mondo

XLVII

Castelluccio
visto
col bestiale
azzurro
del Pilato
è L’Italia
la sua bandiera
a perdifiato

XLVIII

Genova
di colpo
brusca di pioggia
una corrente

XIL

o mia terra
delle api
dei fiori
degli inventori
dei furbetti
lestofanti
dei Signori
o mia terra
delle api
bio
diversa
mente
grembo
di mezzo mondo

L

Trinacria
disegno
pitagorico
segreto
di amore
e morte
mare

LI

donna
fu
la mia fresca
faggeta
sul capo
di Piero
della Francesca

vai alla quinta tappa

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I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Un paradosso dal cuore

In A due piazze, Riccarda e Nickname si sono chiesti con quali paradossi viviamo, quali contraddizioni danno senso ai nostri giorni. Un lettore ha raccontato la sua.

Un paradosso dal cuore

Cara Riccarda, caro Nickname,
Il paradosso più assurdo che quotidianamente vivo è l’amore. È qualcosa a cui non riesco a rinunciare e riempie le mie giornate, ma che continuo a ricercare anche quando lo trovo. Manca sempre qualcosa. L’amore è un paradosso: ne abbiamo bisogno, ma a volte lo snobbiamo, quando finisce lo rivogliamo. E quando lo abbiamo, capita che lo rendiamo flebile. Non so perché.
Nicola B.

Caro Nicola,
A me sta bene che l’amore sia un paradosso, anzi, solo così lo conosco (e riconosco): tra ciò che perdo e poi rincorro, rifiuto e riafferro, amo e detesto, capisco e non capisco, domino e subisco. E non c’è un prima e un dopo, capita sempre tutto insieme, confusamente, paradossalmente. Per fortuna. Sì, non voglio doverci ragionare. Non lo voglio come materia di studio, ma solo come oggetto d’amore.
Riccarda

Caro Nicola,
Dal paradosso al casino, oppure all’essenza delle cose. L’amore è passione, ricerca e conquista, per cui si affievolisce allo scemare di queste? Oppure è una costruzione che vuole buone basi ma necessita anche di robusti pilastri, da edificare nel tempo?
Per me, che comunque non lo so, ci sono tutte queste componenti. A meno che tu non sia costituzionalmente votato al rinnovarsi del desiderio, che implica anche il cambio dell’oggetto (o soggetto) del desiderio stesso.
Nickname

NON SENTO INCROCIAR DI SPADE
E non capisco questa guerra alla parola ‘guerra’

Diverse voci in questi giorni si sono levate a deprecare l’uso della parola ‘guerra’ a proposito della pandemia prodotta dal Covid-19. Sarebbe pericoloso e fuorviante, perché la parola guerra, insistentemente ripetuta, è destinata a diffondere un pericoloso clima bellico di contrapposizione, anziché alimentare i sentimenti di responsabilità e di solidarietà di cui ha bisogno ora il paese.
Perfino uno come Gesù Cristo usò termini violenti e, se vogliamo, anche inappropriati per un contesto che voleva significare la lotta contro il Male e contro Satana. Non sappiamo se effettivamente parlò così, o se queste parole gli sono state messe in bocca dagli evangelisti: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada.” (Mt 10,32).

Da tempo all’uso semantico e sintattico delle parole si è aggiunto quello pragmatico, quello perlocutorio, per dirlo con Austin e Searle. Pertanto la scelta di una parola forte come guerra ha la sua giustificazione nel fine comunicativo di indurre tutti i cittadini a comprendere la pericolosità del momento e a combattere tutti insieme il nemico comune. E del resto perché mai edulcorare la realtà in un paese che, segregato nelle case, ogni giorno conta migliaia di vittime, con la sanità in trincea, sì ‘in trincea’, per difendere le nostre vite.
Mi sembra un esercizio futile, da chierici vaganti, da bacchettoni del linguaggio quello di preoccuparsi in questo momento di censurare una parola e di additarne un uso strumentale. Come se il termine guerra fosse, nella volontà di coloro che hanno dato inizio all’uso, un messaggio subliminale volto a renderci più violenti, o ad assuefarci all’idea di una guerra prima o poi.

Del resto lo spettro semantico della parola guerra è così ampio da comprendere diverse accezioni e sfumature. È sufficiente consultare un buon dizionario per rendersi conto che con la parola guerra si vuole significare la ‘lotta di forze contrastanti’, ad esempio la lotta dell’uomo contro gli elementi naturali e comunque tutte le azioni che mirano a rendere inefficace qualcosa. Esattamente quello che si sta facendo nel paese dall’inizio dell’epidemia. Se seguissimo il ragionamento di coloro che osteggiano l’uso della parola guerra, dovremmo pure condannare l’ossimoro della ‘lotta nonviolenta’ per la pace. Per i paladini anti bellum, termini come ‘pandemia’, ‘malattia’, ‘contagio’, ’emergenza’ dovrebbero essere sufficienti al vocabolario del lessico, per descrivere questi giorni e il nostro impegno a debellare (ecco che ricado nel termine ‘guerra’) le cause di questa tragica parentesi della nostra vita.

Pandemia, malattia, contagio, emergenza sono tutti sintomi non sono le cause; la lotta intrapresa è appunto la guerra alle cause, che devono essere combattute, e quando si combatte si conduce una guerra, non il corpo a corpo della lotta, ma in questo caso con le armi della ricerca e della scienza. Allora anche l’uso del termine ‘armi’ a proposito di scienza e ricerca è inopportuno per i suoi rimandi. Il nemico va sconfitto, e per riuscire a sconfiggerlo bisogna combattere, che significa prendere parte attiva a una ‘lotta armata., Si combattono i virus e le malattie, è una guerra che non deve turbare gli animi troppo sensibili, perché si conduce con le armi della medicina.

In questo momento i sofismi non ci aiutano, all’appello è chiamata tutta la nostra intelligenza e la nostra forza d’animo. E che ci sia qualcuno, che pensa di vivere in un paese di sottosviluppati che non sanno attribuire significato alle parole a seconda del contesto in cui vengono usate, mi preoccupa molto di più dell’uso della parola guerra.
Il concetto di guerra non è la sua rappresentazione, non è la ‘guerra di religione’, come non è i ‘conflitti mondiali’. I significati sono quelli che noi attribuiamo alle parole nella costruzione della realtà, nella narrazione che ne facciamo. Adesso non si racconta di guerra ma semmai di ‘peste’, quale tra le due sia la peggiore nella portata semantica ed evocativa, nella diffusione del terrore, è difficile da stabilire. Comunque non si sente incrociare di spade o esplosioni d’armi, è invece un fiorire di citazioni dalla Tebe di Edipo al Decameron, da Manzoni a Camus, fino a Cecità di José Saramago.
In altre parole, più che nutrire spiriti belluini, questa guerra aiuterà qualcuno a farsi una cultura.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

IL PANE DI TUTTI
Questo piccolo giornale e le inutili polemiche

Ecco come siamo. Come dentro una grande tempesta. Come Re Lear, camminiamo dentro una nuvola di tormenta che ci impedisce di vedere anche un breve orizzonte. Non sappiamo cosa ci troveremo davanti, cosa sarà di noi, come sarà il mondo di domani, cosa rimarrà della vita – amata e odiata – che abbiamo attraversato fino ad oggi. Nessun politico, nessun scienziato, nessun profeta è in grado di dircelo.
Prima di Covid, nell’era dell’ Anthropocene, camminavamo senza pensare, continuavamo a mettere un giorno sopra all’altro, un anno dietro all’altro. Venivamo al mondo, qualcuno ci insegnava a parlare e a camminare, qualcuno ci dava il latte, poi la pappa, infine piatto, posate e tovagliolo. A scuola imparavamo a leggere, scrivere e a far di conto. Poi il lavoro, la famiglia, gli amici e tutto il resto: tutto il bello e il brutto che accade nella vita di ognuno. Ma tutto questo senza il bisogno di pensare, perché il mondo ‘andava avanti da solo’; c’era qualcuno che decideva e provvedeva per noi: la politica, il mercato, la finanza. In ogni caso, non c’era bisogno di noi, dei nostri pensieri, delle nostre domande, delle nostre idee o dei nostri sogni. Non era ben chiaro chi comandava, chi ‘mandava avanti tutta la baracca’. Avevamo idee diverse in proposito: a destra e a sinistra. Ma non c’era da preoccuparsi più di tanto: tutti sapevamo che dopo oggi, ci sarebbe stato domani, e un dopodomani, una prossima settimana, un anno venturo. 

Quando sei nella tempesta ti vengono i pensieri. A me, non credo di essere il solo, viene il pensiero di me bambino. Così mi vedo in una lontana domenica mattina, seduto al tavolo di cucina (la mia testa spunta appena dal piano del tavolo), i miei fratelli seduti accanto a me, mia mamma in piedi a prepararci la prima colazione. Vedo benissimo, sento le voci, l’odore del latte caldo, i bisticci coi miei fratelli per il ‘diritto di precedenza’.
Faccio una parentesi colta: chi ha meglio di tutti ha raccontato questa cosa, questo totale e improvviso precipitare nel nostro passato, chi ci ha spiegato per filo e per segno questa epifania, è stato lo scrittore Marcel Proust. Ma tutte le donne e gli uomini del mondo, indistintamente, hanno fatto questa esperienza. E questo giornale – quello che è oggi e quello che diverrà nei prossimi mesi – vuole parlare sia ai lettori di Proust sia a quelli che Proust non l’hanno mai sentito nominare. Chiusa la parentesi.
Dunque è domenica mattina e c’è il burro (gli altri giorni solo il pane, niente burro), mia madre ha vicino a sé un grosso sacchetto di carta con dentro tutti i vecchi crostini di pane avanzati nella settimana, uno alla volta prende in mano un crostino, con il coltello gli mette in punta una piccola porzione di burro, taglia, il pezzo di pane imburrato cade sul tavolo. Ripete l’operazione, velocissima, perché siamo in quattro a contenderci i pezzi di crostino imburrati. Da lì, dal pane – anzi, dal pane con il burronasce la contesa sul diritto di precedenza.

Ora sono tornato: lunedì 6 marzo 2020. Il diritto di precedenza oggi si chiama Ordine di Priorità. L’Italia, al numero 7 nella classifica dei Paesi più industrializzati, si accorge improvvisamente di avere una emergenza alimentare. E scopre i suoi poveri, quelli che anche prima facevano fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, ‘quelli dell’Istat’, quelli che la politica aveva ben altro a cui pensare, quelli che quel ‘comunista’ di Papa Francesco ci ricorda tutti i santi i giorni (non solo a Pasqua), ma che per la maggioranza di noi sono solo un numero, una entità astratta. I poveri, gli affamati, erano chissà dove (in Africa probabilmente), comunque fuori dal nostro campo visivo, fuori dai nostri pensieri, fuori dal piccolo recinto della nostra vita.
Allora il Governo apre il portafoglio e decide “misure urgenti di solidarietà alimentare (buoni spesa)” per soddisfare le gravi necessità dei nuclei familiari in difficoltà. Da Roma arrivano un po’ di soldi in tutti i Comuni d’Italia, per ‘dar da mangiare agli affamati’. Non c’entra necessariamente il vangelo e la carità cristiana, è una misura elementare di umanità e di civiltà. Da quel momento – a Ferrara, a Parma e altrove –  scoppia la protesta e la polemica. Su che cosa? Su un punto fondamentale. A chi dare e a chi non dare il buono spesa? Chi ne ha diritto e chi non ne ha (o non ne avrebbe) il diritto? E chi ne ha diritto per primo e chi deve invece mettersi in coda per vedere se, alla fine, c’è rimasto qualcosa nel fondo della pentola?

Spero non vi sfugga l’enormità e la novità di questi interrogativi. Vi era mai capitato prima di vedere e sentire una cosa del genere, qui, nella nostra Italia ‘grassa e bottegaia’? Sono la perfetta dimostrazione che siamo già arrivati dentro ‘un’altro mondo’. Un mondo strano e terribile, dove a un medico può capitare di dover decidere chi intubare per primo, o dove a un sindaco non viene chiesto di inaugurare una mostra con la fascia tricolore, ma di distribuire buoni spesa, è un mondo che si è già lasciato alle spalle, a mille anni luce, il mondo che fino a ieri ci era familiare.
Davanti a tutto questo –  e al tanto altro che ci aspetta nelle prossime settimane, mesi e anni – confesso di non sopportare quelli che continuano a pensare ‘come prima‘, che parlano e si comportano ‘come se non fosse successo niente’. Pare impossibile ma è così. Accendete la televisione, guardate i giornali, navigate sui social e vedrete tanti politici e altrettanti giornalisti che ragionano con la vecchia logica di bottega. Sotto il grande velo buonista, si coltivano i soliti interessi elettorali, si mandano avvertimenti incrociati, si preparano rivincite, si affilano coltelli, si ricerca la gloria effimera dello scoop.
Politica e Informazione stanno dando una pessima prova di sé, e se la classe politica e i media (vecchi e nuovi) accendono fuochi invece di spegnerli, alimentano il contagio dell’odio e della paura invece di usare serietà e consapevolezza, il rischio è che tutto il Paese, tutti noi, seguiamo questo pessimo esempio.Un rischio reale, tanti commenti truci, tanti scambi di insulti che leggo sui social ne sono la prova.
Nel mio precedente editoriale [Qui] mi occupavo delle decisioni di un Sindaco, lo attaccavo, gli chiedevo di tornare sui suoi passi, arrivavo a proporgli delle onorevoli dimissioni, per aver agito contro il dettato costituzionale e, peggio, contro i più naturali sentimenti di umanità. Non ho cambiato idea ma, leggendo il mare dei commenti, sul giornale e soprattutto sui social media, mi sono accorto che  non mi sono spiegato bene, o non bene abbastanza. L’oggetto dell’articolo non era un sindaco, ma il pane (e la fame). Per questo motivo avevo scelto di mettere il pane in copertina, Anche ora parlo di pane, è questo l’argomento principale: qui a casa, avrei voluto fare una foto: una tazza di latte e un crostino, propaggine estrema e prelibata  della coppia ferrarese.

Il sindaco di Parma Pizzarotti ha chiesto scusa e ha cambiato il modulo per l’assegnazione dei buoni spesa. I poveri che abitano a Parma avranno tutti il medesimo diritto. Anche se uno si dichiara fascista xenofobo? Sì, anche fosse un nazista. Perché il pane non si può negare a nessuno. Invece il sindaco di Ferrara Fabbri continua a difendere il suo Ordine di Priorità e a sostenere la discriminazione verso gli extracomunitari e le persone non in regola con il permesso di soggiorno. Ho scritto, e qui lo ripeto, che mi è parso un atto di incoscienza politica e di pochezza morale. La fame mia vale come la fame tua. Non sopporta classifiche. Occorre spendere altre parole?

Questo piccolo giornale – lo vedrete cambiare nelle prossime settimane e a giugno indossare un vestito nuovo – non ha la pretesa di ‘fare politica’. Non ci passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Certo, ‘tutto è politica’, ma non siamo né un partito né una roba del genere; tanto meno pensiamo di metterci a capo di qualcuno o di qualcosa. Non è questo il compito di un giornale. Ferraraitalia (io e i tanti che vi scrivono) vuole solo avere la libertà di dire quel che pensa, esercitare il diritto di critica: lo abbiamo fatto con la Giunta Tagliani, lo facciamo oggi, cambiato il colore, con la Giunta Fabbri,. Abbiamo però un’altra ambizione, vogliamo fare una cosa di ancora più importante: dentro questa tormenta che sta spazzando via il nostro quotidiano e tutto il mondo conosciuto, vogliamo continuare a pensare, e invitare al pensiero tutti i nostri lettori.
Fra tutti gli hashtag che rimbalzano nella Rete come palline impazzite, ne abbiamo scelto uno. Anzi, l’abbiamo inventato di sana pianta. Se vi interessa una dichiarazione d’intenti, se volete conoscere la mission di questo giornale, se a tutti i costi volete attribuirci una posizione politica, eccola riassunta in questa lunghissima parola: #andràtuttobenesenontorneràtuttocomeprima.

 

Il tempo circolare: i segreti e la lezione dei criceti

In un tempo lontano ho avuto a che fare con quelle bestioline chiamate criceti che era molto comune allevare in molte case ferraresi. Quello che mi affascinava era la presenza di una ruota all’interno della gabbia che come spiega Wikipedia ha una sua funzione precisa:
“La gabbia per un criceto nano (russo) (siberiano) deve essere di almeno 75×47 cm mentre per i roborosky, i dorati e i cinesi almeno 120×60. È essenziale la presenza di una ruota (20 cm per i siberiani e i russi, 28 cm per i dorati, roborosky e cinesi), perché si mantengano fisicamente in salute e di una tana per dormire.”
M’incantavo a vederli muovere con impegno la ruota, anche se la loro fisicità mi procurava un leggero imbarazzo, ma ancor più mi sorprendevo a pensare che quella ruota, che essi giravano con tanto impegno, creava uno spazio/tempo circolare e che, quando improvvisamente la abbandonavano, la dimensione spazio-temporale si fermava e quel che restava a loro era un presente assoluto.

Mentre compio il mio consueto giretto per casa in questi momenti della fase 2, ‘il pianoro’, come si dice usando una metafora paesaggistica, in cui è necessario non trasgredire ai severi provvedimenti per abbattere l’orribile virus (quello che la raffinata amica e grande linguista Portia Prebys mi suggerisce debba essere chiamato come in Inghilterra walk about) mi si presenta la condizione del criceto. A nulla serve per uscirne di pregustare gli impegni più interessanti che mi aspettano: scrivere questo Diario, affrontare il saggio su Magris, telefonare all’universo mondo, chiamare in video conferenza gli amici del cuore e i pronipotini, aprire il cd Steinway Legends rimasto inspiegabilmente inascoltato della mia Martha Argerich.
Mi fermo e rendo così il tempo un eterno presente senza passato e tantomeno senza futuro. Come un criceto che smette di girare la sua ruota. Sarà la mia reale condizione di vecchio che si prepara a sospendere il tempo? Per sempre?

Non è che ogni giorno rifletta sulla mia somiglianza con i criceti. Fossero almeno i miei adoratissimi pelosi cani, o in seconda scelta i gatti, lo tollererei. Ma i criceti….! Eppure questo è ‘ciò che passa il convento’, come sentenziava nonna Adalgisa, mettendomi davanti, io bambino, l’orrenda zuppa di cavolo tra le non amate verdure la più odiata.
E’ dunque meglio pensare ai segreti, una delle mie fissazioni da sempre. I segreti amatissimi che ho sempre adorato divulgare e che ovviamente non sono i ‘veri’ segreti, che non si confessano nemmeno a se stessi, oppure son tali da diventare materia di scrittura per il solito inesorabile principio di credersi helas! scrittore.

Il mio romanziere preferito in questi mesi si chiama Eshkol Nevo, che in L’ultima intervista (Neri Pozza, 2019) tra verità e fantasia spiega cos’è un segreto tremendo di cui il protagonista viene a conoscenza. Narra di uno scrittore famoso di polizieschi, lo svedese Axel Wolf, che viene trovato quasi morto nella sua camera d’albergo e da lui viene soccorso. All’ospedale incontra la moglie di Wolf, Camilla, alla quale chiede cosa significhi una frase che Axel pronunciava in continuazione. La moglie glielo rivela, ma gli dice che sarà costretta ad ucciderlo, perché a sua volta non lo sveli. E’ un segreto, terribile, ma ovviamente non lo spiattello qui per rispetto alla trama del libro. Ma invece è importante commentare, sentendo la rivelazione di Camilla, la sua interpretazione sul significato del segreto. Rivela la donna a p.369:
“Questo mi sembra veramente importante. Affrontare cosa debba essere la consapevolezza del segreto. E tutto il Novecento si nutre di segreti: da Proust a Joyce e soprattutto D’Annunzio, che non esita orgogliosamente di intitolare parte de Le faville del maglio:Secretum’, ponendosi in rapporto diretto con il primo e forse più straordinario custode e diffusore al tempo stesso del segreto, Francesco Petrarca“.

Ma i miei lettori l’avranno già intuito: io propendo per ‘i segretucci’, quelli cioè che sono di necessità svelabili. Sono l’essenza stessa di ciò che chiamiamo ‘cicaleccio’, ‘chiacchiericcio’, il ‘parlar improprio’, quello che è così straordinariamente diffuso tra i politici che ha dato luogo a ciò che la Treccani definisce ‘cicalecciocrazia’, cioè l’improvvisazione sul dilungarsi a parlare seriosamente di ciò che non si sa. E naturalmente gli esempi recenti sono così evidenti, che sarebbe un altro ‘cicaleccio’ esibire i nomi.
Tra costoro che sono poi i più attenti a parlare, usando quei neologismi di cui già riferimmo nel Diario precedente, quelli che fanno più male sono quelli usati dai politici, che s’intromettono nelle decisioni dei provvedimenti assunti dagli specialisti. Nascono così le storie più incredibili: dal virus prodotto in laboratorio, che sfugge al controllo degli scienziati all’uso della mascherina, dei guanti, del tampone. E in questo campo le storie, le rivelazioni, diventano oggetto di possibili e straordinarie novelle o racconti.
Allora rimando ad un delizioso spot dove la dottoressa di turno insegna, con fare suadente e convincente, come si sanificano le mascherine per riusarle, visto la quasi introvabilità delle stesse.
Ma in fondo, in fondo meglio rivelare i ‘segretucci innocenti’ come, ad esempio, che non avevo comprato le paste perché me ne ero dimenticato, mentre ne avevo fatto una scorpacciata terrificante e non lo volevo dire. Poi si sa amor vincit omnia alla fine ho confessato.

 

PER CERTI VERSI
Frammenti d’Italia (quinta tappa)

La descrizione, frammento dopo frammento, di un paese meraviglioso…
Ma questo paese è il nostro paese!
E proprio questa intensa opera lirica dà la misura della bellezza incomparabilmente varia di una terra ammirata e invidiata da tutti eppure, forse proprio per questo, denigrata da molti.
In un’Italia che in questa drammatica emergenza rischia d’andare in pezzi, ma che – ne sono convinto – saprà riemergere più forte e coesa di prima, è forse arrivato il momento per noi tutti di comprendere quanta fortuna significhi esservi nati e cresciuti, nonché l’onore d’esserne figli. Scopriamolo scrutandone i frammenti nell’omaggio poetico di Roberto Dall’Olio che, per quattro settimane, si rinnoverà ogni domenica e ogni mercoledì.
Buona lettura e buon viaggio.

Carlo Tassi

FRAMMENTI D’ITALIA

XXXV

se tutte le ginestre
fossero occhi
e noi ciechi
di luce
vedremmo l’isola
una galassia di soli
sardegna

XXXVI

l’acqua di vetro
di carloforte
il suo verde
nel gelato bianco
delle case
memoria
del tuo
colore
purezza marina
isola
magistrale

XXXVII

bagheria
polare
con siracusa
al maestrale
tutto torna
da Tindari
alle falesie
di san vito
lo capo

XXXVIII

il medioevo
scuro
violento azzurro
giallo
sfrontato
edere di torri
il nudo galante
petroniano

XXXIX

quei bronzi
sapidi
di mare
alteggiano
sui misteri
delle origini

XL

lo so
che da Piazza Maggiore
spiavi
i mandorli
in fiore
il latte
della tua arte

XXXXI

non v’è
silenzio
più chiaro
la via degli Angeli
in ore qualsiasi
quella pace
senza confronti

XXXXII

Wiligelmo
pacca col bianco
l’intonaco
della via
Emilia

XXXXIII

è
come se
la Resistenza
fosse in te
un chiasso
enorme
solo interiore

vai alla quarta tappa

vai alla sesta tappa

Corre nel cielo la nuvola delle parole

Pubblichiamo un contributo illuminato, pur se lieve e gustosissimo: la breve lettera del professor Angelo Azzi, in risposta all’ultimo Diario in pubblico [Qui] del nostro collaboratore professor Gianni Venturi  Confesso di soffrire anche io della medesima malattia, anch’io incantato delle parole, passione, e tormento, che ho trasmesso a mia figlia Amelia. Fosse per me, fosse possibile, smetterei ogni altro negozio e starei beato, seduto su un seggiolone come l’Ariosto, immerso nel colorato mare delle parole. Ecco dunque la lettera.
Effe Emme

Ti ringrazio per lo scritto, sull’uso di certe parole, che Margherita mi ha inoltrato. Intrigante e dilettevole, ma con il risultato che scrivere questa nota mi fa tremar le vene e i polsi.

Dopo mezzo secolo di assenza dall’Italia (e gli ultimi 15 negli Stati Uniti) incontro una lingua italiana con echi del passato che contrastano con il suo uso contemporaneo. Parole che utilizzo in inglese quotidianamente hanno una risonanza differente quando le ascolto in italiano. Nuvola mi fa solo pensare al cielo, e piattaforma mi riconduce a quella superficie piana o quel tavolato su cui si ballava a Jesolo. E applicazione mi ricorda il maestro Manzini che scrisse, nel rapporto di fine anno 1946: “Angelo è molto dotato ma dovrebbe studiare con più applicazione”. E non parliamo di chiave, navigatore, binario, congelarsi, portale, postare, canale, banda e ne avrei ancora moltissime di parole, senza la necessità di dover mettere insieme il pranzo colla cena.

Se le parole sono divisive, le immagini uniscono: penso agli emoji, emoticons, faccine, smileysThe Unicode Consortium ne ha registrate a tutt’oggi 3.304; e queste sono quelle ufficiali. Ma poi c’è un mondo alternativo di incredibile vastità che è stato – e viene costantemente creato – per esprimere emozioni; quelle che molti non sanno più esprimere a parole. Si va da disegnini, a fotografie, a piccoli video (i GIF) che coprono universi di emozioni semplici e ben definite, comprensibili a prima vista. E di questo vive il mondo delle chats, dove tutti si capiscono e dove forse c’è poco da capire. Se non il fatto che quel mondo c’è ed è immenso.

Grazie ancora per il tuo scritto che ha stimolato le riflessioni qui sopra – e me ne scuso; e buona giornata

Angelo Azzi  MD, PhD

Adjunct Faculty Member
School of Graduate Biomedical Pharmacology
and Drug Development Program

Strategic Initiatives Advisor
Office of the Vice Provost for Research
Tufts University – Boston, USA

PRESTO DI MATTINA
La Terra di Mezzo della Domenica delle Palme

Chissà perché il pensiero della Domenica delle Palme evoca in me la ‘Terra di mezzo‘ ideata e descritta con insuperabile creatività e realismo da J.R.R. Tolkien. Una terra abitata da figure antiche e nuove. Un luogo per un verso pacificato dalla mancanza di ombre, verso il quale convergono in alleanza diversità non oppositive, ospitali, generative di quell’amicizia che nasce dall’avere uno scopo comune. Ma al tempo stesso una zona minacciata dall’oscurità caotica, che se custodisce una promessa di vita amabile e dunque capace di nutrire la speranza nel bene che vince sul male, è nondimeno messa alla prova da una moltitudine di ombre inquietanti di tenebra e di morte.

L’immagine non è estranea al realismo della storia biblica nella tradizione giudeo-cristiana. Tanto che in un’analoga ‘terra di mezzo’, si gioca anche la sfida, l’agone della domenica (“Dov’è, o morte, il tuo Pungiglione?”). È il ‘Giorno del Signore’ che intacca la ferialità, che si fa strada nella ombrosità dei giorni. Arginando un tempo senza qualità, la domenica reca con sé un tempo qualificato dalla novità dell’incontro con il Crocifisso risorto, che riapre il sepolcro come un seno materno ed esce fuori, lasciandolo vuoto. Vuoto dalla disperazione e dall’angoscia, così da mandare i Suoi sino ai confini della terra ad accendere un fuoco, quello di Pentecoste, e ad offrire il Battesimo di nuova nascita, perché nell’incontro con il Risorto chi perde la propria vita la ritrova. “Anima mia – scrive padre David Maria Turoldo – non pensare male di Lui: gli è impossibile fare altro. E vedrai il male non vincerà!”.

Forse più di ogni altra, la Domenica delle Palme sta in mezzo come un Vado: tra la domenica della risurrezione di Lazzaro e quella della Pasqua; tra l’arrivo di Gesù al sepolcro dell’amico per farlo nascere di nuovo, e la venuta dell’Angelo di Dio. Angelo inviato dal Padre a riaprire gli occhi del Figlio amato, ripetendo per lui quelle parole che egli, il Nazzareno, già rivolgeva a tutti per le vie della Palestina: “Alzati e va , perché il pungiglione della morte nulla ha potuto e le si è rivoltato contro ripagandola della sua stessa moneta: “dov’è o morte la tua vittoria”, si dirà nella Veglia Pasquale: inghiottita dalla Risurrezione.

È questa pure la domenica dell’ ‘Osanna‘ del popolo che accoglie festante Gesù con rami di ulivo e che grida “osanna, oh sì salvaci”. Del Messia accolto nella città santa e riconosciuto come colui da cui dipendono le sorti: anzi, il ribaltamento della sorte minacciosa del male: “spezzerà le loro spade e ne farà aratri, delle loro lance farà falci” (Is, 2,4). Questa domenica vede l’alleanza tra il mondo degli alberi, la creazione tutta e quello degli uomini di fronte al pericolo del bene comune.

Ma è anche la domenica più umile: quella della gioia umile. Lo sfidante, come già vittorioso, entra nella città santa cavalcando un puledro d’asina e non su carri da guerra. Così lo descrive il profeta Zaccaria (il cui nome significa ‘Dio si ricorda’) invitando all’esultanza: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra. Quanto a te, per il sangue dell’alleanza con te, estrarrò i tuoi prigionieri dal pozzo senz’acqua. Ritornate alla cittadella, prigionieri della speranza!” (Zc 9,9-12).

La domenica delle palme è proprio la piccola Pasqua, la piccola risurrezione che abita la ‘terra di mezzo’ della nostra coscienza. E non diversamente dalla piccola Speranza di Charles Peguy che tiene tra le sue mani le due sorelle, Fede e Carità, è lei, la più piccola, una bambina da nulla, che le traina entrambe, perché senza di lei non si va da nessuna parte. Ma lo stesso può dirsi di ogni domenica, che – come la piccola Speranza – ci accompagna di settimana in settimana e s’intreccia alle nostre giornate affinché nel passaggio da un giorno all’altro, da una settimana all’altra ci ricordiamo di colui che è passato oltre; che ha attraversato la morte; che ha aperto un varco nella morte: “Lui, il capofila, il pastore grande delle pecore che il Dio della pace ha ricondotto dai morti” – dice la lettera agli Ebrei 13,20 – che anche noi seguiremo nella Pasqua. Passando dal cammino quotidiano.

Tutto ciò mi ritorna in mente talvolta quando passo nel chiostro di Santa Maria in Vado davanti a una scritta di saluto rivolta ai pellegrini in cui li si chiama viatores (viaggiatori). Perché la Pasqua – sapete – è proprio questo ‘Vado’, un attraversamento che ci fa uscir fuori. O meglio nascere di nuovo. Anche per nascere infatti bisogna passare oltre, attraversare la soglia che divide il buio dalla luce, che separa l’asfissia soffocante dal soffio che ti riempie i polmoni e li apre, come vele distese al vento della vita. Pasqua è veramente un venire alla luce. Nel racconto di Lazzaro egli è richiamato fuori, alla vita. Ed è Gesù la levatrice di questa nuova vita, che grida a Lazzaro di uscire fuori, che fa slegare le bende del sudario che gli avvolgevano il volto, le mani e i piedi, così da poterlo lasciare andare. Anzi, di più. Gesù agisce, al contempo come una levatrice, favorendo la venuta alla luce dell’amico Lazzaro, ma anche come una madre che vive nel suo corpo le doglie del parto. Per questo Gesù piange l’amico Lazzaro, e con ciò la nostra umanità dolente e mortale. Come una madre, egli si strugge per infondere la vita, per far uscire dall’oscurità e far venire alla luce tutti noi, per condurci dalla morte alla Pasqua di risurrezione. È questo che ci prefigura il racconto di Lazzaro: vi si anticipa la Pasqua del Signore, tramite le quale è dato a tutti noi il dono inestimabile di poter nascere di nuovo nella sua vita.
Del resto, è Gesù stesso – nel Vangelo di Giovanni 16, 21 – che si immedesima nella donna e nell’esperienza del generare; nella madre che è nel dolore perché soffre le doglie del parto, rivelandoci così la consapevolezza che egli avvertiva del suo futuro patire per darci la vita, ma anche la consapevolezza della gioia che ne segue. La donna – dice Gesù – quando partorisce è nel dolore, perché è venuta la sua ora, ma quando ha dato alla luce il bambino non si ricorda più della sofferenza in ragione della gioia per la nascita di un uomo. Così anche voi – riferendosi ai discepoli – siete nel dolore, ma vi vedrò di nuovo, mi sentirete e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno, proprio nessuno, potrà togliervi la vostra gioia. Forse per questo un tempo in campagna, nella mattina di Pasqua, la gente usciva fuori e si bagnava gli occhi con la rugiada della notte. Rugiada memoriale del battesimo. Un gesto simbolico, che diceva della felicità di riaprire gli occhi, rivedere la luce, il cielo, gli alberi, il volto delle persone care.

Un’altra nascita a cui ebbi il dono di partecipare me la regalò Gloria, catechista in parrocchia. La incrociai infatti nel corridoio del vecchio ospedale Sant’Anna, mentre facevo un giro per visitare i malati e mi riferì che Agata, la mamma di Sofia e di William, stava per partorire. Mi disse, però, che Paul, il papà era un po’ in pensiero, perché la situazione sembrava più difficile del previsto. Così Gloria mi disse “vai, vai a trovarlo al reparto maternità”. Arrivai da lui, trovandolo seduto un po’ rannicchiato su una panchina. Era solo e mi sedetti accanto a lui in silenzio, dopo averlo salutato solo con un cenno della testa. Ogni tanto ci guardavamo, come chi non sa cosa dire, e ci stringevamo nelle braccia. Passò molto tempo, e le infermiere andavano e venivano con alcuni bambini in braccio, ma non erano il nostro. Dopo oltre due ore di attesa, iniziai a pensare a una frase di augurio e conforto con cui congedarmi da lui. Ma proprio mentre gliela stavo per dire, lui mi anticipò dicendomi: “mi fa proprio piacere e mi tranquillizza che sei qui con me”. Così io non ebbi più il coraggio di lasciarlo e rimasi con lui. Aspettai come un qualunque altro papà lasciandomi contagiare dalla sua ansia.
Finalmente dopo molto tempo uscì un’infermiera. Guardava verso di noi con lo sguardo interrogante tenendo in braccio un fagottino. Paul fu più veloce di me e prese quel fagottino tra le braccia commosso. Anzi commosso è dire poco, ma non saprei descrivere quel momento di infinita felicità che contagiò anche me. Poi all’improvviso Paul si girò, mi venne incontro di slancio, tanto che io indietreggiai mentre lui avanzava. A un certo punto però mi fermai e allungai il collo per vedere dentro la coperta, da lontano. Ma lui, accostandosi sempre di più, sollevò quel fagottino e me la mise in braccio. Nemmeno io saprei dirvi la grazia e l’emozione che ho provato nel tenere quella vita nuova appena nata tra le braccia. Fu come un nuovo battesimo: una nuova vita che mi era stata donata in quel gesto, e pensai sorridendo dentro di me che ‘ero nella gioia’ come aveva detto Gesù perché era venuto al mondo… una donna, Gloria Marica.

Attenzione e buone pratiche per sostenere le persone con disabilità.
Parla la vicepresidente Elly Schlein

di Regione Emilia Romagna

In piena emergenza Coronavirus le persone con disabilità sono costrette ad affrontare routine stravolte e una quotidianità da reinventare, affrontando grandi difficoltà legate alle limitazioni della mobilità e alla sospensione dei servizi educativi e nei centri diurni. E con essi, le famiglie.
Per questo la Regione Emilia-Romagna nei giorni scorsi è già intervenuta a chiarire, facendo riferimento alle indicazioni del Governo, che la persona con disabilità nei casi strettamente necessari può uscire dal proprio domicilio per attività correlate alla propria condizione di salute (ad esempio per evitare rischi di crisi comportamentali), – a piedi o in macchina, eventualmente accompagnata da un familiare o da chi la assiste – autocertificando negli appositi moduli l’indispensabilità dell’uscita e sempre osservando le regole di distanziamento sociale. Accanto all’autocertificazione la Regione consiglia di dotarsi di certificazione medica, che le AUSL di tutta la regione stanno già rilasciando su richiesta.

Ed è alle persone con disabilità e alle loro famiglie che guarda la lettera che la Regione ha inviato ieri a tutti i Comuni, da Piacenza a Rimini, in occasione della Giornata mondiale della consapevolezza sull’autismo, istituita nel 2007 dall’Assemblea Generale dell’Onu, per richiamare l’attenzione di tutti sui diritti delle persone nello spettro autistico. L’obiettivo della missiva è quello di fare il punto sulle iniziative messe in campo nell’emergenza e chiedere attenzione particolare su tutto il territorio regionale per garantire supporto e vicinanza alle persone con disabilità e alle loro famiglie, a maggior ragione dopo la sospensione, a causa delle misture restrittive di contenimento del Coronavirus, dei servizi educativi e dei centri diurni, che ha portato, per molti, all’interruzione dei percorsi educativi e scolastici e delle relazioni con i propri contesti di cura sociosanitari. Una condizione – quella della prolungata permanenza in casa – che, soprattutto per chi presenta elevate fragilità psichiche e quadri spesso associati a disturbi del comportamento, rischia di causare situazioni particolarmente complesse e difficilmente sostenibili.

“Proprio ieri in cui si è celebrata la Giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo, che quest’anno cade in piena emergenza sanitaria da Coronavirus – sottolinea la vicepresidente con delega alle disuguaglianze, Elly Schlein – abbiamo voluto invitare tutti i Comuni a riflettere insieme a noi sulla condizione di difficoltà e a volte di isolamento in cui stanno vivendo le persone con disabilità e le loro famiglie, a causa delle restrizioni imposte per contenere il diffondersi del contagio e a condividere le buone pratiche messe in campo per il supporto. In molti casi si stanno svolgendo prestazioni educative o assistenziali a distanza. In alcuni territori, come previsto dal decreto “Cura Italia”, per situazioni particolarmente gravose, le sedi dei centri diurni, ancora sospesi, sono state aperte per interventi individuali. Interventi che si svolgono chiaramente nel rispetto delle norme di prevenzione del contagio, senza creare aggregazione e con l’adozione di tutte le misure necessarie per garantire la massima tutela della sicurezza e della salute, sia degli operatori che degli utenti. In altri contesti questo tipo di prestazioni è stato garantito, nei casi più difficili, anche grazie alla collaborazione degli educatori. Tutti insieme – prosegue la vicepresidente – possiamo collaborare al meglio per riuscire a rendere questa emergenza meno gravosa per le persone più fragili e vulnerabili. Per parte nostra, garantiamo non solo ogni sforzo per dare risposte di supporto concreto già in questa fase, ma metteremo il massimo impegno, lavorando fin da ora, per una ripartenza quanto più possibile rapida dell’intera rete dei servizi per la disabilità al termine dell’attuale emergenza. Sarà per tutti- chiude la vicepresidente- una grande sfida, affrontabile solo con grande spirito di collaborazione”.

Chi e come può uscire dal proprio domicilio

La Regione, sulla base delle segnalazioni pervenute dalle associazioni che si occupano di disabilità, è già intervenuta con alcuni chiarimenti, facendo riferimento alle risposte ad analoghe richieste da parte dell’Ufficio per le persone con disabilità della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

In particolare, è stato chiarito che, per evitare il rischio di crisi comportamentali legate alle limitazioni alla mobilità, la persona con disabilità può uscire dal proprio domicilio, a piedi o in macchina, per attività correlate alla propria condizione di salute solo se strettamente necessario e osservando le regole di distanziamento sociale, eventualmente accompagnata da un familiare o da chi la assiste. Come per tutte le uscite da casa per motivi di salute, è indispensabile l’autocertificazione.

La Regione ha suggerito che, a supporto dell’autocertificazione, ci si doti di certificazione medica. Le Aziende sanitarie, su richiesta dell’interessato o del familiare che lo rappresenta, rilasceranno una certificazione attestante la condizione o lo stato di disabilità e le eventuali ulteriori informazioni ritenute necessarie. Ad oggi sono già state prodotte da tutte le Ausl le certificazioni richieste.

Assistenza alle persone con disabilità

Dal monitoraggio dei servizi offerti a livello locale alle persone adulte e minorenni con disabilità, sia fisica che intellettiva, con disturbi psichici e dello spettro autistico, emerge che le Aziende Usl, pur in una situazione di oggettiva difficoltà (oggi vengono garantite solo le prestazioni urgenti e indifferibili) si sono attrezzate per contattare i casi gravi (tra cui le persone con disturbi dello spettro autistico), con colloqui telefonici o videochiamate; sono stati predisposti materiali informativi per le famiglie, spunti per giochi e attività, letture online.

In alcuni casi, come previsto dal decreto “Cura Italia”, per situazioni particolarmente gravose, le sedi dei centri diurni, ancora sospesi, sono state aperte per interventi individuali. Interventi che si svolgono chiaramente nel rispetto delle norme di prevenzione del contagio, senza creare aggregazione e con l’adozione di tutte le misure necessarie per garantire la massima tutela della sicurezza e della salute, sia degli operatori che degli utenti. In altri contesti questo tipo di prestazioni è stato garantito, nei casi più difficili, anche grazie alla collaborazione degli educatori.

Prosegue inoltre la collaborazione tra Regione, Associazione dei Comuni (Anci) e delle Province (Upi), Enti gestori e sindacati per individuare protocolli condivisi per rimodulare parte dei servizi attualmente sospesi in altra forma, proprio per dare risposte concrete alle difficoltà delle persone con disabilità e delle loro famiglie in questa fase di emergenza.

Le buone pratiche già avviate

Alcune esperienze locali e buone pratiche si stanno diffondendo sul territorio regionale e tra queste quella di Rimini, dove la collaborazione tra Comune e Ausl ha portato all’identificazione di uno spazio all’aperto – un parco a gestione privata – dove, con accesso contingentato e senza creare aggregazione, le persone con disabilità in situazione di necessità hanno potuto trovare sollievo trascorrendo un po’ di tempo fuori casa in sicurezza e nel rispetto delle misure restrittive e di distanziamento. Esperienza poi ripresa anche in altri territori.

Allo stesso modo alcune Aziende sanitarie stanno predisponendo soluzioni utili a fronteggiare emergenze legate all’eventuale ricovero del familiare caregiver di disabile, individuando la reperibilità di operatori sociosanitari attivata direttamente dal 118. Anche per quanto riguarda gli eventuali ricoveri di persone autistiche le Aziende sanitarie si stanno organizzando in modo da garantire, compatibilmente con la situazione emergenziale, la presenza di personale con competenze adeguate.

FAMILY NOW
La vita sospesa di ragazzi e genitori: per esempio una chat…

Come stanno i nostri ragazzi? Come stanno vivendo queste settimane di vita sospesa?

Fino a prima dell’epidemia la condizione degli adolescenti e del loro rapporto con gli adulti l’ho trovata ben rappresentata all’interno di un breve apologo raccontato dal romanziere americano D. F. Wallace. scomparso tragicamente nel 2008.
Il 21 maggio 2005 David Foster Wallace tenne un discorso ai neolaureati del Kenyon College, dal titolo Questa è l’acqua. La tipologia usata è quella dei commecement speech, cioè discorsi tenuti da personalità di rilievo ai neolaureati delle più importanti università americane: libere considerazioni sulla vita , sul destino, sulla cultura.
Il titolo This is water deriva dal breve racconto con cui prende il via il discorso:
“Ci sono questi due giovani pesci che nuotano e incontrano un pesce più vecchio che nuota in senso contrario e fa loro un cenno, dicendo: «Salve ragazzi, com’è l’acqua?» e i due giovani pesci continuano a nuotare per un po’ e alla fine uno di loro guarda l’altro e fa: «Che diavolo è l’acqua?» (D. F. Wallace,Questa è l’acqua, Einaudi, 2008, p.140).
Il significato della storiella è che le realtà più usuali e quotidiane, spesso sono anche le più difficili da vedere, proprio perché ci siamo immersi fin dalla nostra nascita, come i pesci nell’acqua. Come la famiglia.
Come la famiglia nei giorni del coronavirus?

Insegno in un istituto di scuola superiore della città e, in questo periodo di lezioni sospese, continuo, facendo di necessità virtù, a mantenere i contatti con i genitori, pur a distanza, con uno strumento che in verità fino ad ora non avevo mai utilizzato: una chat sul cellulare.
Sono emerse considerazioni, suggestioni, riflessioni sui figli che fanno intravvedere ansie, paure, dubbi ma anche speranze, domande, attese di mamme e papà sulla vita dei loro ragazzi, per decreto affidati al caldo del nido famigliare in questi giorni di irreale relazionalità.
Eccone qui alcuna tra le più significative

AD ALCUNI MANCA…AD ALTRI MENO…
Papà di A.V. (classe quarta)
“I miei stanno bene…e nessuno dei due ha voglia di tornare a scuola”
Mamma di A.C. (classe seconda)
“Anche mia figlia sta bene, ma lei ha voglia di venire a scuola”
Mamma di N.B. (classe terza)
“I miei ragazzi hanno voglia di rivedere i loro amici e… alcuni insegnanti!”

GIORNATE PIENE DI…SOLITE COSE E DI PICCOLE GRANDI NOVITA’…
Mamma di E.T. (classe seconda)
“…se fuori fa freddo giocano a ping pong in casa, spostano il divano. aprono il tavolo in soggiorno, cosa che in altri tempi non sarebbe mai stata concessa…”
Mamma di F.L. (classe terza)
“F. se la passa abbastanza bene tra lezioni, play station e addirittura ha letto anche un libro! Alcune sere giochiamo a briscola come ai vecchi tempi…”
Mamma di A.G. (classe prima)
“A. mi dice che non si annoia e sta bene in casa…non è da lei…visto che voleva sempre uscire…mah!”

IL VECCHIO E IL NUOVO SI SOVRAPPONGONO…
Mamma di M.E.P. ( classe prima)
“Questa esperienza mi sta mettendo alla prova…la prima settimana a casa è stata tutta una discussione…adesso devo dire che sono stupita di M.E….mi sembra diventata più responsabile!”
Mamma di J.S. (classe seconda)
“…la cosa diversa è che ogni tanto mi chiede consigli sui compiti cosa che di solito non fa.”
Mamma di T.B. (classe terza)
“Mio figlio ormai non ci sopporta più perché gli stiamo sempre addosso…ma abbiamo riscoperto cose da fare insieme …qualche volta guardiamo anche un film! mai successo!”

TRA OTTIMISMO E PESSIMISMO
Mamma di E.S. (classe terza)
“…sarebbe comunque impossibile dire che va tutto bene…cerchiamo di volta in volta nuove strategie per farcela…”
Mamma di R.S. (classe quinta)
“aiutateci a sconfiggere questo virus… in ospedale abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti!”
Mamma di G.N. (classe quinta)
“I nostri ragazzi hanno una prova difficile da superare…hanno tanta fantasia, sono la nostra forza!”
Mamma di S.B. (classe seconda)
“Arrivo a sera con gli occhi e mente stanchi…comunque prof. se trova qualche appiglio interessante in quello che ho scritto lo usi pure!”
Mamma di C.L. (classe terza)
“Credevo potessero subentrare crisi di pianto: no cinema, no pizza, no amici, no moroso.. e invece devo ammettere che questi ragazzi hanno dimostrato carattere!”

Mentre scorro tutti i messaggi mi tornano nella mente i visi dei genitori che nei nostri incontri mensili avevano espresso la loro incredulità nello sperimentare l’indifferenza dei figli nei loro confronti tra pasti consumati frettolosamente e il silenzio impenetrabile su un mondo a loro precluso.
Adesso pare quasi che quel silenzio sia scappato fuori dalla casa, lungo le vie deserte, a riempire le piazze troppo grandi per quei due o tre passanti frettolosi che le attraversano, ignorando i superbi monumenti oggetto poco tempo prima di tanto ammirato interesse.
Non riesco a condividere l’affresco degli adulti dipinti nella Lettera agli adolescenti nei giorni del coronavirus di Matteo Lancini [puoi leggerla qui], psicoterapeuta, presidente dell’Associazione Il Minotauro di Milano, profondo conoscitore del mondo degli adolescenti. Secondo Lancini, questi adulti non si sono assunti le responsabilità necessarie a garantire ai figli ”un presente stabile e un futuro non troppo fosco”. O per lo meno, diciamo così, a livello di caratterizzazione generale del rapporto adulti/adolescenti, molte delle sue osservazioni sono chiaramente condivisibili; l’analisi dell’inadeguatezza del mondo degli adulti è corretta anche se spietata.

Ma poi ci sono le storie.Le storie personali di tantissimi genitori che non rientrano nelle statistiche dei vari osservatori, libri bianchi, ricerche a tema.
Ed ecco a tal proposito tornare alla mente una immagine dello straordinario film Jojo Rabbit di Taika Waititi, quella in cui il protagonista del film, un bambino di dieci anni appartenente alla Hitlerjugend, alla vista di quattro impiccati penzolanti sulla piazza della città, chiede: “Che cosa hanno fatto?”
“Quello che potevano”, risponde la madre.
Bene, questo verbo all’imperfetto detto dalla madre mi è rimasto dentro, anche se sul momento non ne ho ben capito il motivo. Certo, nel contesto della vicenda narrata era riferito a martiri che avevano fatto quello che era stato umanamente in loro potere per contrastare la follia del nazismo. Ma quell’imperfetto non poteva invece essere riferito anche a se stessa, a lei, come madre intendo? Non è sempre ‘imperfetta’ l’azione di ogni genitore?

Ricordiamo tutti il titolo del lavoro di Bruno Betthelheim, Un genitore quasi perfetto (Feltrinelli,1987), un libro che come pochi altri ha accompagnato generazioni di genitori nella riflessione sull‘importanza della realizzazione di una profonda comunicazione emotiva con i propri figli.
Insomma, leggendo e rileggendo i messaggi della chat dei genitori di questi giorni di forzato isolamento è come se la porta di casa che dà sulla strada di San Giovanni fosse per un po’ rimasta chiusa. La strada di San Giovanni (Italo Calvino, La strada di san Giovanni, Mondadori) è un racconto autobiografico di Italo Calvino, dove si narra delle visioni opposte della vita tra Italo e suo Padre, metaforicamente espresse dalla strada che, partendo dalla loro abitazione, portava, se presa verso l’alto, in campagna, luogo preferito dal padre, e invece verso il basso conduceva verso la città e la marina dove Italo cercava il suo mondo.

Cosa è successo? Cosa ha fatto chiudere la porta delle case?
E’ successo qualcosa che non era mai capitato prima d’ora e che ci fa vivere in una atmosfera irreale.
Come in un lugubre racconto, come in una favola antica, abbiamo visto con angoscia arrivare da molto lontano un essere misterioso e maligno, che ruba il respiro alla gente, seminando morte e paura nelle città. Le storie di tante persone vengono interrotte e anche i ragazzi non possono più continuare a incontrarsi liberamente, ma devono trovar rifugio proprio da dove simbolicamente erano appena partiti, per vedere di metter alla prova la loro vita.
Così, in attesa dell’arrivo del cavaliere che ucciderà la mortifera creatura, passano i giorni dei ragazzi, tutti dentro quella casa, fino a poche settimane sentita un poco stretta rispetto ai ricordi di quando erano bambini.
Certo, sono giorni con momenti di insofferenza e di fastidio, ma inaspettatamente anche di possibilità di ascolto e di ritrovo.

I problemi tra genitori e figli, se ci sono, rimangono, e dovranno essere affrontati prima o poi, se no si ripresenteranno sotto altre spoglie e in modo sempre più contorto. Ma come capita ai figli che si ricordano spesso di cose a cui noi lì per lì non abbiamo dato nessuna importanza, lo stesso succede adesso ai genitori rispetto ai figli: un sorriso, una partita a carte, un film guardato insieme… corrono veloci fin dentro l’anima, fanno bene dentro e cacciano la paura del buio. Quella paura di cui Freud ha detto:
“Il chiarimento sull’origine dell’angoscia lo devo ad un maschietto di tre anni che una volta sentii dire alla zia in una camera al buio: “Zia, parli con me, ho paura del buio”. La zia allora gli rispose: “ Ma a che serve? Così non mi vedi lo stesso”. “Non fa nulla – ribattè il bambino – se qualcuno parla… c’è più luce” (Sigmund Freud, Tre saggi sulla sessualità infantile (1905), in Italia: Boringhieri editore)

MERITO ED EMERITO
Valutiamo pure a distanza, ma di quale merito parliamo?

Leggo ‘Il dilemma’ dei professori: “Impossibile valutare da dietro a uno schermo”. Oltre a far lezione a distanza, i docenti dovranno anche trovare un modo per dare i voti agli studenti (maturità compresa), come specifica una nota del ministero.
Valutare bene è un problema.
Ho simpatia per il merito. Anche quando è attribuito con scarso fondamento. Nel mio caso ad esempio. Le amiche e gli amici del piccolo e caro Movimento Nonviolento mi chiamano, anche pubblicamente, Presidente emerito. Mi sono accorto che il buffo e immeritato appellativo mi piace. E poi il merito è un valore apprezzato anche dalla nostra Costituzione: articolo 34, terzo comma, “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. È la Repubblica impegnata a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” già indicati al secondo comma dell’articolo 3. La Repubblica lo fa apprezzando il merito. Sempre lo stesso apprezzamento induce a chiamate a posti di massima responsabilità: articolo 59, secondo comma, senatori a vita per altissimi meriti, e articolo 106, terzo comma, consiglieri di cassazione per meriti insigni.
Contro l’ideologia del merito (Saggi Laterza, 2019) di Mauro Boarelli induce al sospetto, se non nei confronti del merito come tale, verso l’uso che se ne fa. In definitiva hai quel che meriti e meriti quello che hai, se il confronto è libero e aperto. Lo decide il mercato in ogni “campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, come dice la Costituzione quando è il Presidente della Repubblica a scegliere senatori a vita. È la forma naturale e migliore in cui la società può organizzarsi. Lì si vede il merito all’opera. Da lì può scaturire una società meritocratica. Avanti dunque con privatizzazioni, liberalizzazioni, concorrenza nella scuola, nella sanità, nell’assistenza, nelle condizioni di lavoro… Anche le diseguaglianze che ne derivano non potranno che essere benefiche. Il Merito dà, il Merito toglie, il Merito sia benedetto.
Vaghi ricordi di Sociologia dell’Educazione, coltivata per anni con Alberto L’Abate, mi inducono a pensare si debbano valutare, con attente metodologie, i risultati nel passaggio da insegnamento e apprendimento attraverso la scuola. Non ho pregiudizi quindi nei confronti dell’Invalsi. L’acronimo di Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione poteva essere più felice. Ne ho conosciuto però di più sfortunati: Cagare (Consorzio aziendale gas acqua Reggio Emilia) mutato subito in Acag (Azienda consortile acqua gas). Da qualche anno la gestione è passata, non so se la cacofonia abbia avuto qualche peso, a una multiutiliy dal nome armonioso: Iren. Ho anzi un ricordo piacevole legato a Invalsi. Anni fa, svariati anni fa, mia nipote conduce coetanei a vedermi in spiaggia. Sono sotto l’ombrellone a leggere. Mi salutano. Educatamente si presentano. Vanno via. Le chiedo “Perché sono venuti?” “Ho detto che mio nonno risolve gli Invalsi. Hanno detto che sei un simpatico vecchietto”.
Magari qualche dubbio su come la scuola valuta se stessa ce l’ho. Dai tempi della Lettera a una professoressa non valuta il suo classismo se non in termini di politically correct. La scuola pubblica, quella che Aldo Capitini voleva difesa e sviluppata, è tale perché accoglie tutti e tutti vuole portare ai più alti risultati. Solo nell’eguaglianza di fondo c’è spazio per valorizzare le differenze. Una singola scala di valutazione non può servire. Ci dice una cosa sola: chi è più bravo nel risolvere i quesiti Invalsi. Avessi qualche dubbio ancora e specifico sugli Invalsi, me lo toglie l’amico e ottimo maestro Mauro Presini (dovevamo insieme presentare a Ferrara il numero di Azione nonviolenta dedicato alla scuola, appuntamento rinviato a tempi migliori). Lo conosco da quando, in servizio civile per obiezione di coscienza nei primi anni Ottanta si occupa di integrazione scolastica di alunni portatori di handicap, Lo ritrovo, primi anni novanta, al Provveditorato agli studi di Ferrara nel gruppo di lavoro Interistituzionale per l’integrazione. Non l’ho più perso di vista. È competente e appassionato costruttore di una scuola di tutti e per tutti, in ogni ordine e grado, di una scuola, organo decisivo della nostra Costituzione, secondo la felice espressione di Piero Calamandrei. Ecco un link,  con l’augurio di una proficua e piacevole lettura: mauropresini.wordpress.com [Qui] . Troverete Invalsi è l’anagramma di Salvini, InFalsi d’autore, Test Invalsi da girls & boy…cottare, Invalsi si, Invalsi no…la terra dei cachi, Visi invisi all’Invalsi. Altri ancora mi saranno sfuggiti. C’è poi tantissimo altro e non voglio rovinare la sorpresa.
Per avere un’idea di come l’ideologia del merito si sia impossessata delle menti e dei cuori, che un tempo stavano a sinistra, non trovo di meglio che proporre un breve video di Teresa Bellanova, coetanea di Mauro Presini, giovanissima bracciante e ora Ministro, che sfida gli estremisti del Partito Democratico promotori della congiura degli eguali.[Qui]

L’articolo di Daniele Lugli è apparso su Azione non violenta online con il titolo ‘Mi chiamano Emerito’.………………..….

Comune di Ferrara ed emergenza alimentare
Ferrara si mobilita

Da: Cgil Cisl Uil Ferrara.

Confidiamo sul fatto che possa esserci stata una clamorosa svista in quanto comunicato dal Comune di Ferrara in relazione all’assegnazione delle risorse destinate alla solidarietà alimentare per l’emergenza sanitaria in corso.
Perché se così non fosse ci troveremmo di fronte ad un inaccettabile esercizio di discriminazione, ancor più inaccettabile in tempo di emergenza sanitaria, sociale ed economica.
Prevedere quali requisiti ” elencati in ordine di priorità: avere cittadinanza italiana; avere cittadinanza di uno Stato appartenente all’Unione Europea; essere in possesso della cittadinanza di uno Stato non appartenente all’Unione Europea con permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo; essere in possesso di una carta di soggiorno per familiare, comunitario o extra comunitario, di cittadino dell’Unione Europea”, oltre a rappresentare un odiosa classifica basata su status e non sul bisogno, significa escludere un’importante parte della cittadinanza – quella che vive la condizione di maggiore precarietà – da una fondamentale misura emergenziale di coesione sociale. Per quale motivo dovrebbe essere ignorato da una misura emergenziale alimentare un cittadino straniero che ha perso il lavoro e si trova in difficoltà, solo perché in possesso di un permesso di soggiorno diverso da quello per soggiornanti di lungo periodo? Magari una delle tante colf e badanti che stanno perdendo il lavoro senza essere coperte da alcun ammortizzatore sociale?
Non è tempo di ciechi populismi e di propaganda, è tempo di fare il proprio dovere istituzionale per rispondere alle esigenze di una collettività.
Chi amministra ha il dovere costituzionale di agire per rimuovere le disuguaglianze nell’interesse di tutti, non di vivere il proprio ruolo come esercizio del potere per decidere a proprio piacimento chi lasciare alla fame e chi no.
C’è un limite a tutto, e qui lo si è oltrepassato: ci appelliamo al Prefetto perché intervenga come rappresentante dello Stato per riportare le azioni di questa Giunta all’interno degli obiettivi dell’ordinanza della Protezione Civile e di un ordinamento democratico.

FILASTROCCHE SCACCIAPAURA
4 modi molto astuti per gabbare il virus

1. Gigetto scendiletto

Il virus Gigetto
sta sullo scendiletto.
Sa d’essere invisibile
e si crede invincibile.

Difatti, chi lo vede?
Di certo non un piede!
Ma la festa è finita
con una bella pulita.

L’aspirapolvere lo afferra
e lo solleva da terra
lo manda al suo paese
lui con le sue pretese.

Non tornerà a minacciare i tuoi piedi
questo piccolo virus che non vedi.

 

2. Martina non cammina

Il virus Martina
non corre, non cammina
e dice: “Chi ha il coraggio
di darmi un passaggio?”

Ma stammi ad ascoltare,
non farti incantare.
E voi, state a sentire:
è meglio non uscire.

Il virus Martina
ormai senza benzina
senza arte né parte
ritornerà su Marte.

E se va via qui passa la paura
come al mattino passa la notte scura.

 

3. Gigetto con l’elmetto

Il virus Gigetto
ritorna con l’elmetto.
“Stavolta non mi arrendo,
ti mordo, ti prendo!”

Poi tenta la scalata
ad una fidanzata
che sta nel suo palazzo
e sogna il suo ragazzo

ma lei è intelligente
come tanta altra gente
e sognando il domani
si è lavata le mani.

Guarda Gigetto che bello scivolone
e come ruzzola l’elmetto sul sapone!

 

4. Martina gocciolina

Il virus Martina
sta su una gocciolina
se qualcuno la tocca
può metterselo in bocca.

Ci spera tanto, vorrebbe canticchiare
nella tua gola e lì moltiplicare
con la tua tosse, con i tuoi starnuti
e ogni volta che sorridi o che saluti.

Ma basta solo una bella mascherina
e resta a secco il virus Martina.
Basta lavarsi le mani molto spesso
vedrai che il virus l’avrai fatto fesso.

Metti la maschera e torna il Carnevale
così Martina non potrà farti male.

 

 

 

 

I misteri della pianura
Uno sguardo spassionato all’Emilia Romagna da fuori

Niente è più come prima. O meglio, non è più come ce la siamo sempre immaginata, la tipica Emilia Romagna. Bisogna chiedere agli anziani come era negli anni cinquanta e sessanta, quando non si riusciva a vedere a un palmo dal naso per la nebbia, che in autunno dalla mattina alla sera tuffava le città e i paesini alle sponde del Po in spesse matasse di cotone. “Nebbia e nebbia per giorni” (Attilio Bertolucci). Cosa sarebbero stati i primi film di Michelangelo Antonioni, i romanzi di Riccardo Bacchelli o di Giorgio Bassani, le fotografie di Luigi Ghirri senza l’eterna nebbia? Ci sono ancora, quelle giornate piene di foschia e di nebbia in Emilia, ma bisogna soltanto guardare le ciminiere dell’industria chimica all’orizzonte di Ferrara per capire da dove provengono queste serate d’autunno, appiccicaticce e impenetrabili. Da nessun’altra parte in Italia si vedono così tante biciclette nelle stradine, o perfino in alcune città, come in Emilia. Appena si lasciano però, queste stradine fuori mano, un tir dopo l’altro passa rombante sulle strade ricche di storia come la Via Emilia o la Via Romea. Ci sono ancora anche le bandiere rosse ad ornare molti giardini, ma non ci abitano più i comunisti di una volta, fieri di mostrare le proprie convinzioni politiche.

L’Emilia non è più la “terra rossa”, forse ancora ‘la terra rosa’ . Non si vedono più la falce e il martello, ma l’emblema della Ferrari con la sede principale a Maranello nei pressi di Modena. La famosa in tutta l’Europa, egemonia della sinistra di una volta va svanendo ad ogni votazione. A parte i vecchi compagni d’una volta, qui nessuno vuol esser chiamato “comunista”. Peppone, il funzionario del partito comunista dall’atteggiamento stalinista e di fede cattolica, creato da Giovanni Guareschi, è da tempo divenuto una “figura da cartolina”, come anche la sua astuta controparte cattolica, Don Camillo. Se poi è sempre vero che c’è ancora un prete in ogni paesino, allora al giorno d’oggi, è spesso di origine polacca o africana. Ci sono addirittura chiese dissacrate che ospitano pezzi di antiquariato o che sono diventate in passato cinema a luci rosse. In alcune cittadine vivono ormai tanti musulmani quanti cristiani. Mentre le commemorazioni della Resistenza antifascista sbiadiscono sempre di più, diventando semplici riti di dovere delle autorità politiche locali; i negozietti di souvenir attorno alla tomba del Duce a Predappio non hanno di che lamentarsi perché gli affari non vanno male. Nessuno ha descritto così attentamente, in modo così laconico ma allo stesso tempo molto poetico, lo smantellamento della cultura ebraica in Italia e le deportazioni degli ebrei italiani nei campi di sterminio tedeschi come il ferrarese Giorgio Bassani. Deportazioni di ebrei, di cui però non pochi erano stati fedeli seguaci di Mussolini fino alle leggi razziali del 1938!

Attorno a città come Bologna, Parma, Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Ferrara, Ravenna o Rimini, con le loro splendide piazze e i loro palazzi rinascimentali, si sono formate spesse croste di supermercati, outlet, autolavaggi e discoteche come le si possono trovare dappertutto in Europa. Forse però, i sobborghi italiani sono ancora più noiosi, ancora più commercializzati e ancora più brutti che nel resto d’Europa. Forse qui la distruzione dei paesaggi da parte dell’edilizia selvaggia è talmente deprimente e dolorosa perché le immagini nelle nostre menti sono così ingenue e idilliache.

Nonostante l’evidente uniformazione di tante città e di tanti paesini sul Po, qui è ancora possibile scoprire favolosi misteri. Per la fantasia degli scrittori e degli artisti questa è ancora terra molto fertile. E l’orgoglio della popolazione locale per la ‘bella pasta’, il prosciutto di Parma o la piadina romagnola è tuttora imbattuto. In ogni piccolo paesino c’è una trattoria con un menù che al di là delle Alpi si può soltanto sognare. E anche se le Feste dell’Unità, tradizionalmente feste comuniste, hanno perso il loro nome e ogni significato politico, a queste feste, che possono durare anche delle settimane intere, si cucina ancora come ai tempi delle vecchie cooperative comuniste.

E si è anche orgogliosi della letteratura dell’Emilia Romagna, che ha donato alla cultura italiana opere immortali e scrittori indimenticabili. I libri di scuola sonno pieni di autori nati, cresciuti e morti proprio qui, o che hanno ambientato i loro romanzi o i loro racconti qui. Ariosto, Pascoli, Bassani, Baccelli, Guareschi, Malerba provengono da qui. Pier Paolo Pisolini è nato nel Friuli, a Casarsa delle Delizie, e lì è stato anche sepolto assieme a sua madre, ma anche lui ha vissuto per anni a Bologna. Neanche Umberto Eco è emiliano (è nato in Piemonte, ad Alessandria), è vissuto però per decenni a Bologna e a San Marino, quel minuscolo Stato autonomo in mezzo alla Romagna. Anche Mario Soldati era piemontese, ma amava i paesaggi della pianura padana e così le dedicò alcuni dei suoi più bei racconti di viaggio. Gianni Celati è di Sondrio, in Lombardia, ma come nessun altro scrittore italiano ha dedicato racconti meravigliosamente affettuosi ai “matti padani”, una razza di civette che si trova nei pressi del Po. Le figure letterarie di Ermanno Cavazzoni, nativo di Reggio Emilia, forse sono ancora più bizzarre, più stravaganti e ancor più fantasiose. Chi non ha ancora letto i suoi racconti non riuscirà mai a comprendere le particolarità dei Padani, le loro stranezze, il loro modo di fare spesso un po’ ribelle. Importanti giornalisti italiani come Enzo Biagi, Gianni Brera e Sergio Zavoli sono nati qui. Lo sfortunatamente già deceduto Lucio Dalla e Franceso Guccini, due dei grandi cantautori degli anni settanta e ottanta, sono di Bologna e di Modena. E a Zocca, un paese vicino a Bologna è nato Vasco Rossi, una delle rock star più grandi degli ultimi decenni. Per non dimenticare naturalmente due veri giganti del cinema italiano: Federico Fellini di Rimini e Michelangelo Antonioni di Ferrara. Cesare Zavattini, al di là delle Alpi forse conosciuto soltanto dai cineasti come geniale sceneggiatore (“Umberto D”) e “impresario di cultura”, è di Luzzara, vicino a Parma.
Tonino Guerra, sceneggiatore del film forse più popolare di Fellini “Amarcord” e collaboratore di registi come Angelopoulus, è di Sant’Arcangelo nelle vicinanze di Rimini.

Nei testi di autori d’ogi, come Ugo Cornia, Daniele Benati, Giulia Niccolai o Simona Vinci invece, si sente più forte che la velocissima industrializzazione ha lasciato un segno su questa regione e ne ha distrutto il paesaggio. Ma così come la tenue luce della pianura padana riesce ancora a donarle un aspetto magico, nei testi letterari un po’ più vecchi, e anche meno vecchi, si riesce ancora a trovare un’Italia che forse non esiste più, in questa forma, nella realtà, ma che riesce ad emanare ancora un fascino particolare grazie all’atmosfera malinconica e nebbiosa della pianura e grazie alla comicità surreale che guizza in tanti discorsi. L’Italia reale, poco spettacolare, talvolta perfino un po’ laconica e inaspettatamente silenziosa, allo stesso tempo però sempre fiera della propria storia e cultura, in Emilia Romagna si riesce ancora a trovarla. E se non la si trova (più) nella realtà, sicuramente si trova nella letteratura che questa regione ha fatto nascere.

PER CERTI VERSI
Frammenti d’Italia (quarta tappa)

La descrizione, frammento dopo frammento, di un paese meraviglioso…
Ma questo paese è il nostro paese!
E proprio questa intensa opera lirica dà la misura della bellezza incomparabilmente varia di una terra ammirata e invidiata da tutti eppure, forse proprio per questo, denigrata da molti.
In un’Italia che in questa drammatica emergenza rischia d’andare in pezzi, ma che – ne sono convinto – saprà riemergere più forte e coesa di prima, è forse arrivato il momento per noi tutti di comprendere quanta fortuna significhi esservi nati e cresciuti, nonché l’onore d’esserne figli. Scopriamolo scrutandone i frammenti nell’omaggio poetico di Roberto Dall’Olio che, per quattro settimane, si rinnoverà ogni domenica e ogni mercoledì.
Buona lettura e buon viaggio.

Carlo Tassi

FRAMMENTI D’ITALIA

XXVII

parleremo di nebbie
tra le anguille piccole
quelle gialle
dove terra
finisce

XXVIII

ancora
riprendere
il tuo
colore
dal cielo
il tuo pennello

XXIX

pesticidi
laghi fiumi
canali
d’Italia
infestati
non diciamo più
che siamo
degli animali!

XXX

una volta
la morte
incuneò
satana
tra le dolomie
ne nacque
la superba
fragilità

XXXI

un glicine
espanso
i grappoli
di quel Zeus
tutto tuo
a primavera
le rose
sono esplose

XXXII

la corrotta
imbellettata
società
dei gradassi
che ti mangia
e sputa
sul piatto
dove mangia

XXXIII

biodiversità
vai a a capire
è un tema politico
l’Italia
è
tutta diversa
mi pare
Ravenna
la camera
di Sant’Andrea

XXXIV

la camera di
Sant’Andrea
mi riappare
quel ciuffo
di petali
anni brevi
dove il frantume
si fece eterno
ravennate

vai alla terza tappa

vai alla quinta tappa

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Il paradosso del focolare

A due piazze con Riccarda e Nickname sui paradossi, la mancanza di logica di certe cose che si sentono e non si spiegano.

N: Vivere segregati tra quattro mura per un tempo indefinito non è piacevole. Vivere segregati con qualcuno che non conosci più, o che conosci troppo, è decisamente spiacevole. Vivere separati da qualcuno che ami senza sapere quando lo rivedrai, senza poterlo assistere se sta male, può essere un incubo.Vivere separati da qualcuno che non si è ancora separato è un paradosso zen.

R: E perché non un paradosso di Zenone? Non potresti anche essere Achille affannato dietro una tartaruga in perenne vantaggio? O una freccia che, contro ogni apparenza, resta immobile nello spazio che occupa in quell’istante?

N: Il paradosso di Zenone è valido in matematica, ma in fisica Achille la tartaruga la raggiunge, eccome…In realtà mi riferivo piuttosto al fatto che i koan, gli indovinelli zen, mostrano i limiti della ragione. Usare la logica per spiegare perché accadono alcune cose è inutile. Alcune cose non sono giuste o sbagliate, bianche o nere. Alcune cose si sentono.

R: Mi piacerebbe chiederti cosa senti e come senti, sono sicura non useresti la logica, la cronologia dei fatti, il metodo dimostrativo a cui a volte ricorri.
Pronunceresti un nome, senza bisogno di spiegarti. E non sarebbe un paradosso.

Quali paradossi, contraddizioni avete vissuto? Quali conflitti avete rinunciato a spiegare logicamente?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

ECONOMIA E SOCIETA’ NEL TEMPO DEL CORONAVIRUS:
una storia diversa da quella che ci raccontano

Nulla sarà più come prima”, “E’ come essere in un’economia di guerra” e altre iperboli di questa natura sono diventati commenti comuni nel descrivere quanto sta succedendo a seguito della diffusione della pandemia legata al coronavirus. E questa volta bisogna dire – e avere la consapevolezza – che sarà proprio così, che non siamo in presenza di affermazioni esagerate o sensazionalistiche. La crisi sociale ed economica che deriva dalla pandemia coronavirus, ancora di più di quella iniziata con il 2008 e in realtà mai finita, evidenzia l’insostenibilità del modello neoliberista, del capitalismo rapace e dominato dalla finanza che si è costruito dagli anni ‘80 del secolo scorso e che oggi è giunto al capolinea e non potrà più essere riproposto negli stessi termini.
Come in tutti i passaggi epocali – e oggi siamo di fronte a ciò – usciremo da queste vicende con un quadro economico e sociale molto diverso da quello di oggi, in meglio o in peggio. Per provare ad uscirne costruendo una condizione positiva per le persone, a partire da quelle che vivono una situazione di debolezza e fragilità, occorre  dotarsi se non di una bussola, perlomeno di alcune coordinate per orientarsi in quella che sembra una realtà, se non intellegibile, comunque complessa.
Questo ci serve anche nell’immediato: perché l’emergenza va trattata come tale, con provvedimenti e comportamenti adeguati ad essa, ma la paura e l’angoscia che l’accompagna può essere, almeno in parte, arginata facendo ricorso al sentimento e all’azione di vicinanza e solidarietà, nelle condizioni date, e al pensiero lungo e riflessivo.

Provo ad ordinare alcuni di questi pensieri.
Un primo tema si dipana attorno alla questione della sanità pubblica e, più in generale, dei servizi pubblici. Tutti ora si sperticano a sottolineare il suo ruolo fondamentale e insostituibile e a chiamare eroi tutte le persone che lì vi lavorano. Peccato che veniamo da anni in cui la sanità pubblica è stata dipinta, nel pensiero dominante, come fattore di spreco, settore che assorbiva troppe risorse e che doveva essere razionalizzato: modo elegante per dire che si trattava di operare tagli significativi e ampliare il ruolo dei soggetti privati.
E infatti così è successo: la spesa sanitaria pubblica nel nostro Paese, secondo i dati della Ragioneria dello Stato, cala, in proporzione sul PIL, dal 7% del 2008 al 6,8% del 2017, scendendo al di sotto della media europea (7%), mentre cresce nello stesso periodo in Germania ( dal 6,4% al 7,1%) e in Francia ( dal 7,4% all’8%). Tutto questo avviene mentre l’Italia è il paese europeo con la maggiore percentuale di individui oltre 65 anni, il che si traduce anche nel fatto che, come ci spiega l’Ufficio Parlamentare per il Bilancio, dal 2012 al 2018 la spesa privata delle famiglie per l’assistenza sanitaria per cura e riabilitazione è cresciuta del 25,1 %. Dunque, la spesa complessiva per la salute (e anche l’accesso alle cure) si riduce e grava sempre più sulle singole persone e famiglie.
Questo è ulteriormente testimoniato dall’andamento dei posti letto ospedalieri, che si contraggono da 3,9 per 1000 abitanti nel 2007 a 3,2 nel 2017 ( circa 35.000 in meno in valori assoluti), contro una media europea diminuita da 5,7 a 5, senza che ci sia stato un sufficientemente potenziamento dei servizi territoriali. Infine, il personale a tempo indeterminato del Servizio Sanitario Nazionalegli eroi di oggi, fino a ieri da molte parte inseriti nel novero dei ‘fannulloni’ dell’esercito dei dipendenti pubblici – nel 2017 è risultato inferiore a quello del 2008 per circa 42.800 lavoratori (da circa 689.200 a circa 647.000, con una diminuzione del 6,2 %), per effetto in particolare del blocco del turn-over e del contenimento della spesa.
Insomma, le vicende di questi giorni ci dicono senza equivoci che occorre un’inversione di tendenza radicale rispetto agli orientamenti applicati alla sanità pubblica negli ultimi decenni: da costo insostenibile, da sacrificare sull’altare del rientro dal debito pubblico e sulla base di una falsa presunzione di risorse economiche impossibili da reperire, a investimento essenziale per salvaguardare la vita e la salute delle persone. Diventa necessario affermare questo rovesciamento di paradigma, quello che subordina i diritti fondamentali alle logiche economiche dettate dal mercato e dalla finanza. Come hanno bene argomentato il noto antropologo Jared Diamond e il virologo Nathan Wolfe in un illuminante articolo uscito su La Repubblica del 21 marzo scorso, non possiamo pensare che la pandemia (in questo caso derivante dal coronavirus) sia un fatto unico e eccezionale, ma possa invece ripresentarsi anche nel futuro.

Tutti questi ragionamenti relativi alla sanità vanno necessariamente estesi all’insieme dei servizi pubblici che garantiscono i beni comuni, dall’acqua all’istruzione e alla cultura, dal ciclo dei rifiuti all’energia, tutti sottoposti negli anni passati alla medesima ‘cura’ di privatizzazioni e de-finanziamento pubblico.

Bisogna poi allargare lo sguardo e ragionare su quella che si preannuncia essere una crisi economica ben più grave di quella sviluppatasi a partire dal 2008. Non è certo facile fare previsioni in questo contesto, ma alcuni elementi sono già abbastanza chiari. Innnanzi tutto, appare evidente che questa di oggi assomiglia più alla crisi dell’ultimo dopoguerra piuttosto che a quella apertasi con il 2008. Quest’ultima, infatti, ha preso le mosse da una crisi finanziaria, il fallimento della Lehman Brothers, mentre quella che si prefigura oggi è una crisi dell’economia reale, con una caduta brusca della produzione, dei consumi e dei redditi. Del resto, non casualmente, (come è apparso su Il Sole 24 Ore) nei primi 15 giorni di marzo, i consumi di energia sono crollati nel nostro Paese di circa il 10-15%. Un dato che va preso con le pinze, visto che si riferisce ad un arco di tempo molto limitato, ma che fa correre la memoria molto di più al dopoguerra (nel 1943 i consumi di energia elettrica calarono di circa il 10%), che non alla crisi del 2008-2009, quando questi si ridussero rispettivamente dello 0,1% e del 5,7%.
Un secondo elemento è che questa crisi si innesta su una fragilità del sistema economico mondiale, dominato dalla logica neoliberista, tant’è che molti economisti, già da tempo, si interrogavano non se si sarebbe registrata una nuova situazione di crisi, ma quando essa si sarebbe manifestata. Il fatto è che le ricette messe in campo dopo il 2008-2009 mostravano, già prima della vicenda coronavirus, la loro incapacità di far fronte in modo strutturale ai problemi allora emersi, riproducendo uno scenario simile a quello che aveva prodotto quella crisi. Infatti, a partire dal 2008, il sistema economico è stato inondato di liquidità per gli istituti di credito, i fondi di investimento e le imprese: il famoso Quantitative easing di Draghi fa esattamente parte di questa strategia. Questa ‘cura’  ha fatto sì evitare il fallimento a catena delle banche, ma ha generato un mondo alla rovescia, per cui in molti Paesi i tassi di interesse sono diventati negativi, cioè anziché pagare un interesse per prendere denaro a prestito, si riceve un premio! Una situazione di questo tipo, a sua volta. ha sospinto i vari soggetti economici a livelli di indebitamento molto elevati, favorendo potenti movimenti speculativi, ma mettendoli in una situazione ad alto rischio. Un rischio che diverrebbe triste realtà nel momento in cui questa nuova bolla finanziaria esplodesse e costringesse al rientro dal debito, che oggi a livello mondiale viaggia a cifre stratosferiche, raggiungendo il 226,5% del Pil mondiale nel 2018, a un soffio da 188mila miliardi di dollari (nel 2007 si attestava a meno del 194% del Pil). E’ proprio questa fragilità di fondo del sistema economico-finanziario che ha fatto sì che in queste settimane le Borse di tutto il mondo abbiano conosciuto un vero e proprio tracollo: la Borsa di New York in questi giorni ha ‘bruciato’ tutta la crescita straordinaria degli ultimi 3 anni della presidenza Trump, dovuta alla sfacciata politica protezionista e pro-imprese e finanza della destra reazionaria americana.

In terzo luogo, dopo gli sbandamenti e gli sbagli iniziali – vedi le dichiarazioni di Christine Lagarde – gli stessi governi dei Paesi cosiddetti ‘sviluppati’ sembrano rendersi conto che la nuova crisi necessita di interventi che vanno ben al di là di quanto anche solo pensato finora. Il governo italiano ha messo in campo una manovra, che peraltro non basterà, di 25 miliardi di euro, portando il rapporto tra deficit/PIL al 3,3%, un’ eresia inimmaginabile rispetto al totem del famoso vincolo del 3%. L’Unione Europea sospende il Patto di stabilità e crescita, che contiene anche quella prescrizione, e annuncia interventi per 1.100 miliardi di euro, e persino Trump annuncia un intervento di almeno 2.000 miliardi di dollari, la più massiccia della storia, pari a quasi il 10% del Pil, comprensiva di un assegno diretto alle famiglie (altra eresia, per l’economia mainstream) fino a 3.000 dollari.
Tutto bene, allora? Assolutamente no. Non solo perché queste misure possono essere decisamente insufficienti dal punto di vista quantitativo, ma soprattutto perché esse si muovono in una logica emergenziale, che, se può avere una qualche giustificazione in questa fase, non è però in grado di affrontare il problema alla radice e provare a risolverlo. In realtà, non si potrà uscire da questa situazione senza mettere in campo un nuovo grande intervento pubblico – una sorta di nuovo Piano Marshall, come da più parti si dice – e un forte sostegno al reddito ai cittadini, che deve incrociarsi con un cambiamento profondo del modello produttivo e sociale, fondato sul potenziamento dei servizi pubblici, l’affermazione dei beni comuni e la riconversione ecologica dell’economia.

Qui emergono i nodi di fondo che ci stanno di fronte: un nuovo Piano Marshall, anche nella sua accezione più ristretta, quella che anima i governi, non potrà che essere finanziato in deficit. Visto che non possiamo aspettarci che, come nel dopoguerra, ci venga in soccorso l’America, chiusa su se stessa e comunque in evidente crisi di egemonia, l‘unica risposta non può che venire dallEuropa, che però deve cambiare in profondità le proprie scelte, a partire dall’introduzione degli eurobond, costruendo una solidarietà reale ed evitando di andare in ordine sparso, come sembra fare in questi giorni. E bisogna anche ‘convincere’ i mercati e chi li rappresenta, che da questo momento non sono più loro a comandare, che devono tornare ad essere subordinati all’interesse generale e che la salvaguardia della vita viene prima degli andamenti della Borsa e dello spread.
Per stare alle ‘piccole vicende’ di casa nostra, Confindustria deve farsi una ragione: sarà necessario un ruolo fondamentale dell’intervento pubblico, a differenza di quanto dichiara Carlo Bonomi, nuovo presidente in pectore della stessa, che qualche giorno fa affermava: “Non mi convince affatto l’idea che da questa nuova crisi si uscirà con lo Stato protagonista dell’economia. Lo Stato deve rimanere regolatore, non gestore”. Non si può invece, non si deve continuare a insistere per tenere aperte più fabbriche possibili, anteponendo la creazione di profitto alla salvaguardia della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Insomma, la strada per costruire un nuovo paradigma economico e sociale è tutt’altro che in discesa e comporterà mobilitazione sociale e politica. Ad essa non ci sarà alternativa, se non si vuole che si realizzino le fosche previsioni avanzate in questi giorni dall’Organizzazione Mondiale del Lavoro, secondo la quale, senza interventi opportuni, la nuova grande recessione che si annuncia potrebbe distruggere 25 milioni di posti di lavoro nel mondo, più di quella del 2008, un ulteriore impoverimento dei lavoratori e una sostanziale riduzione del loro reddito assieme alla conseguente caduta dei consumi di beni e servizi.

Infine, non meno importante sarebbe ragionare sul tema del cambiamento climatico, delle possibili implicazioni che esso ha anche nelle vicende del coronavirus e, sopratutto, della sua strategicità rispetto alla costruzione di un nuovo modello produttivo e sociale. E ancora, sul ruolo della politica e della mobilitazione sociale in questo contesto. Ci si potrà tornare sopra, per ora mi pare di aver ‘tediato’ abbastanza il lettore. Mi limito ad una provvisoria conclusione, rubando una citazione dell’economista Raj Patel: Il problema dell’odierna crisi del capitalismo è che a risolverla si candida il capitalismo medesimo”. E’ esattamente così. E’ questo il grande rischio che dobbiamo evitare.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

Il sindaco Fabbri: “Vogliamo raggiungere il maggior numero di famiglie, chiedo a tutti attenzione e correttezza”

Da: Comune di Ferrara.

Comincia domani alle ore 14 la distribuzione gratuita delle 150mila mascherine acquistate dal Comune di Ferrara per i cittadini. Grazie al lavoro dei consiglieri comunali e degli assessori che dalla giornata di domenica sono incessantemente all’opera, le mascherine verranno distribuite all’interno di buste di carta con il logo del Comune di Ferrara, contenenti ognuna tre pezzi. La distribuzione proseguirà fino a venerdì 3 aprile compreso, salvo esaurimento scorte e sarà ripetuta nelle prossime settimane.

“E’ importante che per consentirci di raggiungere il maggior numero possibile di famiglie ogni nucleo familiare ritiri una sola busta, anche in virtù del fatto che nelle prossime settimane verranno organizzate nuove distribuzioni e che cercheremo di andare incontro a tutte le esigenze dei cittadini a partire da quelli più fragili, che in questo momento vanno protetti maggiormente – spiega il sindaco di Ferrara Alan Fabbri -. Abbiamo organizzato una modalità di distribuzione che dà ai cittadini diverse possibilità: di raggiungere a piedi il negozio più vicino o di recarsi in auto presso un checkpoint, o per chi non può muoversi per motivi di salute, di ricevere le mascherine direttamente a casa. Mi aspetto dai ferraresi una dimostrazione di generosità e che sia del tutto infondato il timore che molti cittadini ci hanno espresso relativamente alla possibilità che qualcuno approfitti della distribuzione gratuita per fare incetta di mascherine”.

Ecco dove è possibile ritirare le mascherine:

1) Punti vendita. Gli esercizi commerciali aperti, segnalati dalle Associazioni di categoria e tutte le farmacie del Comune di Ferrara,a partire da domani e nei prossimi giorni fino ad esaurimento scorte, verranno riforniti del materiale da distribuire. Per i cittadini sarà semplice individuare i negozi a cui rivolgersi perché gli stessi esporranno una locandina (in allegato) con le indicazioni del caso. Dalla mattina di mercoledì anche le edicole avvieranno la distribuzione, segnalandola attraverso l’affissione della medesima locandina.

2) Check point. Martedì pomeriggio, nei pressi dei principali centri commerciali della città, verranno attivati 4 check point per la distribuzione delle mascherine. Si tratta di punti di distribuzione fissi a cui se ne aggiungeranno altri che a rotazione toccheranno tutte le frazioni della città (il calendario verrà comunicato nella giornata di domani). I check point fissi saranno attivi tutti i pomeriggi, da martedì 31 marzo fino a venerdì 3 aprile, dalle ore 14 alle ore 18, posizionati all’esterno delle strutture commerciali e raggiungibili esclusivamente in auto. A gestire la distribuzione sarà l’Associazione Nazionale Carabinieri e i check point saranno ben identificabili grazie alla presenza dei mezzi dell’Associazione dell’Arma. In particolare i check point fissi saranno posizionati presso: IPERCOOP IL CASTELLO, ingresso Via Andrej Sacharov IPERCOOP LE MURA, ingresso Via Copparo IPERTOSANO, ingresso Via Diamantina INTERSPAR VIA POMPOSA, ingresso Via Pontegradella. I cittadini dovranno avvicinarsi al banchetto, abbassare il finestrino rimanendo all’interno del veicolo, quindi ricevere la busta con il materiale in piena sicurezza.

3) Spesa a domicilio. Chi già riceve la spesa a domicilio con un servizio gestito da volontari , senza la necessità di farne richiesta, a partire da mercoledì, troverà in aggiunta alle provviste anche la busta con le mascherine. Le associazioni non vanno considerate agenti di distribuzione di mascherine a domicilio e non verranno accettate richieste non realmente motivate da necessità riscontrabili.

4) Consegna a casa. Per chi è temporaneamente impossibilitato per motivi di salute o di età (anziani, malati ecc) a muoversi da casa, il Comune ha attivato il numero 366-8243080 attivo dal lunedì al venerdì dalle 09.00 alle 16.00, utile anche per i sordomuti attraverso il servizio di messaggistica.

Ricordiamo che i checkpoint sono raggiungibili esclusivamente in auto per motivi di sicurezza e che, per evitare assembramenti, i cittadini non devono recarsi nei punti vendita esclusivamente per il ritiro della mascherina, ma considerare questa una opportunità in aggiunta alla normale attività di acquisto. E’ inoltre importante ricordare che mascherine distribuite non vanno considerate dispositivi di protezione individuale, ma si tratta di strumenti comunque utili nello svolgimento delle normali attività quotidiane, da utilizzare in aggiunta alle altre prescrizioni sanitarie (distanza interpersonale, igiene delle mani ecc) per evitare il propagarsi del contagio da Covid 19.