Skip to main content

PAROLE A CAPO
Silvia Tebaldi: “Verso Natale” e altre poesie

“I nomi sono parole inspiegabili, resistenti ai significati”
(Cesare Viviani)

Verso Natale 

L’avessimo stivata allora l’allegria
come susine dentro la berretta, come
fiori di zucca raccolti nel grembiale
come pastori pecore e stelle di cartone
nella scatola con scritto su Natale
come cose che si possono stivare

allora, quando ce n’era così tanta
senza un perché, fare giochi, cantare
ridere come matti, avessimo potuto
conservarla per questa invernata
per il tempo che inzeppa
i fossi che brina il cielo
tra la Ghiara e i Rampari

ora forse apriremmo il baule
e scopriremmo che era cenere, che era
foglie cadute già da allora
l’allegria
così torniamo fuori nella nebbia
tra le luci di Avvento e le finestre
che bucano la notte

se allora ci toccavamo il viso
– eccoti, sei tu! – con gli occhi chiusi
sappiamo farlo anche ora
naso e bocca coperti
e farlo anche solo col pensiero*
sappiamo ancora ridere
anche senza un perché

poi arriva il solstizio
risalirà la linfa lungo i calami
nasce la Tigre il giorno cresce
quasi un petto di gallo per Natale
un’ora per l’Epifania
poi sarà marzo e luna nuova
al torrione del Barco
agli orti della Consolazione

 

Valeria, come andarono le cose

la sagoma di un camino in rilievo
sul muro lungo via Volte
angolo con via Scienze
emerge come un trilobite
un fossile di mattoni
ci passammo Valeria e io
nel novembre del 2005
quel sole della bassa che ti scioglie
il cuore
la luce satura del tardo autunno
scattammo una foto
da qualche parte ho ancora il negativo
una stampa gliela mandai per posta
c’era
un lutto che ci univa
una reflex
un’amica
due vie che fanno angolo
due amiche
ci penso ora a quelle vie molto spesso
e da lontano
nascite attese vite geloni tregue
quella casa quei ciottoli il camino
nozze silenzi addii
chissà quanti, e la nebbia – però
fu quando ci tornai da sola
nel novembre del 2017
un’ora d’aria in mezzo allo sprofondo
solo voglia di piangere o dormire
e invece mi si aprì innanzi la bellezza
(pura contraddizione) e fu allora
fu quel camino a ricordarmi il detto
fa’ finta di essere felice
prima o poi
lo sarai

 

Visita guidata a Ferrara 

Dietro questa finestra coi gerani
che affaccia dentro il buio della volta
vecchia di più di mille anni
Teresa ascoltò tutta la faccenda
senza fiatare
poi preparò il soffritto e la vendetta
il primo fu pronto in mezz’ora
per la seconda occorsero trent’anni
entrambi riuscirono perfetti

e là, dove si fermano i turisti
a farsi i selfie e taggarsi a vicenda
ci passò Gaiba, di ritorno a notte
dal cantiere: tutto andava in malora
ma lui si mise in mezzo (e si rialzarono
tre anni) perché ogni sera
Gaiba guardava in su
lassù dove si accende
tra i cornicioni il cielo di ponente

qui vedete i Diamanti, o la bellezza
perfetta che si schiude a occidente
e a nord, dove avanza poi si perde
via degli Angeli tra le pioppe e il nulla
fiumi di inchiostro attorno a questi muri
eppure sono così bianchi, eppure sanno
ogni cambio di luce
qui un uomo si fermò a scrivere e minacciò il duca
di fermare il cantiere all’improvviso
se gli operai fossero rimasti
ancora un giorno senza paga:
si chiamava Biagio Rossetti e vedeva il tempo
i progetti il pensiero e la città
fermi e chiari, come tracciati sulla carta

e qui, dove ci siamo fermati ora,
sembra non ci sia niente, solo portici
e negozi: ma qui camminavamo
adagio mia mamma e io, di venerdì tarda mattina
la chiesa era aperta e vuota
io non credevo lei sì siamo entrate
si chiama la chiesa del Suffragio
qualcuno dentro il buio suonava l’organo
un’ora siamo state lì sedute
senza dolore senza dire nulla
dentro l’ora del mondo
poi era quasi ora di far da pranzo
e siamo come l’erba sul limitare
sull’argine del tempo

qui invece, in questo angolo remoto
qualche secolo fa
mi ha tenuto le guance tra le mani
in una sera memorabile: infatti,
come vedete, c’è un’epigrafe
solo che non si legge, tanto consumato
è il marmo
a forza di toccarlo

Silvia Tebaldi, da Ferrara. A Bologna dal 1985. Ha scritto un romanzo (Vuoto centrale, pubblicato nella collana Walkie Talkie diretta da Luigi Bernardi, Perdisa Pop, 2009) e alcuni racconti, pubblicati in antologie (la più recente è Deaths in Venice, a cura di Laura Liberale, edita da Carteggi Letterari nel 2017) e online (su «Poetarum Silva», su «Argo» e su «Malgrado le mosche»). Ha lavorato in diversi uffici, biblioteche e ospedali. Fotografa, apprendista nella scrittura in versi, calligrafa e acquarellista a tempo perso.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]  
Cover: Acquarello di Silvia Tebaldi

DIARIO IN PUBBLICO
Imitazione e verità

Ricordo in tempi paleolitici un intervento di Pasolini che, commentando la cadenza locale dei presentatori televisivi che avrebbero dovuto superare l’imperante toscanismo e fiorentinismo, poneva in guardia sulla inevitabile vittoria della cadenza romana. Cosa che si è puntualmente avverata.
Leggo oggi uno spassosissimo intervento di Aldo Grasso sul Corriere dal titolo Meloni e i draghi che stanno sulla luna, dove si commenta la performance della Meloni che si è esibita nelle vesti di Daenerys Targaryen, l’eroina di un programma Games of Thrones. Recitato nella parlata romana di cui è regina. “Sono Daenerys, nata dalla tempesta. I vostri padroni vi hanno mentito su di me o forse non vi hanno detto niente. Non importa. Non ho niente da dire a loro. Parlo solo a voi.”, che nella mia traslitterazione così suonerebbe “Zono Daenerys nada dalla dembesda. I vostri Badroni vi hanno mendido su di me o forse non vi hanno deddo niende. Non imborda. Non ho niende da dire a loro. Barlo tzolo a voi…”.

Ma ormai la cadenza regionale è diventata fondamentale, quasi un segno di riconoscimento. E se il ministro Franceschini ha saputo correggere il suo ferraresismo con una contaminazione romana, per cui le ‘essce’ ferraresi sono quasi diventate neutre ‘esse’, la violenta natura sgarbiana nella sua incidenza ferrarese e nell’atteggiamento dello spalancamento della bocca produce un ibrido non male esaltato, anche dalla tonalità rauca della emissione vocale.
I miei tentativi poi di evitare la pronuncia ferrarese nella patria della ‘zeta’ perfetta – vale a dire Firenze – hanno prodotto un misto non piacevolissimo, in cui nel luogo in cui mi trovo, sia la Toscana o l’Emilia, sembra nella maggioranza dei casi pronuncia artefatta.

Ma in questo momento pandemico colui che riesce a imitare ogni pronuncia dal Nord al Sud ovviamente è l’inimitabile Crozza, che andrebbe eletto a rappresentante vocale dell’Italia intera. Che imiti Zaia o De Luca, Conte o il Papa Bergoglio è credibile e perfetto. Quanto a Locatelli o a Zangrillo o a Galli chiunque potrebbe prenderlo per veritiero.
L’imitatio, figura fondamentale della retorica antica, è dunque quella che regge l’intero universo esplicativo della pandemia. Si imita tutto perché tutto è imitabile e tutto è replicabile. Allora nasce dal profondo dell’io una specie di scoramento sul problema della verità. La verità è imitabile: quindi l’imitazione è la realtà.
E non è un pensiero confortante.

Cerco di nuovo risposte dai libri; ma non mi rispondono. Anzi sembrano eludere la ricerca. Poi mi immergo in un testo che mi procurava sospetto L’uomo dalla vestaglia rossa di Julian Barnes. Un libro che parla d’arte e dei suoi favolosi protagonisti, in un tempo che venne chiamato la Belle  Époque e che secondo illustri critici anticipa i tempi attuali, che dal mio punto di vista sarei propenso a chiamare quella di oggi la Mauvaise Époque. Manca ogni possibilità di rapportarsi a personaggi che ne caratterizzino il tempo e il senso. Chi sarebbero oggi gli autori che ne possono sostenere il confronto nella musica, nelle arti, nella scrittura?

Comunque non è il tempo di deprimersi nonostante le furiose polemiche che scuotono la piccola città. Ricordate la canzone di Guccini?
“Piccola città bastardo posto
Appena nato ti compresi o fu il fato che in tre mesi
Mi spinse via
Piccola città io ti conosco
Nebbia e fumo non so darvi il profumo del ricordo.”
Ecco il mio rapporto con la Ferrara che ho vissuto e che poco mi ha dato e a cui ho dato molto. Sembra ora che l’intreccio imprevedibile le famose ‘combinaison :che non sono le combinazioni della biancheria intima (ma forse lo sono in senso metaforico).

E allora giù Ovadia, Pazzi, Sgarbi, Fabbri, Resca, e pure Lodi e dietro di lato in fondo, o in avanzamento le truppe corazzate dell’intellighenzia locale.
Però ci potrebbe essere qualcosa di peggiore. Ad esempio un coronavirus modificato in agguato.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Vite di carta /
Il gatto con gli stivali, il violoncello e la bambina

Vite di carta. Il gatto con gli stivali, il violoncello e la bambina

Mi sono fatta prestare dai miei nipoti un loro libro di fiabe che contiene anche Il gatto con gli stivali. Lui, che ha poco più di due anni, mi ha consegnato il volume senza fare una piega. Lei, che ha due anni di più, è parsa titubante: forse sentiva in pericolo la proprietà del libro, oppure mi ha percepita per la prima volta in rapporto di concorrenza e non di condivisione nella lettura. Fatto sta che qui a casa ho riletto la storia dell’ingegnoso gatto che riesce a far diventare ricco e nobile il suo padrone.

La sua storia mi è venuta in mente per due piccoli grandi motivi. Innanzitutto nel secondo romanzo di Alice Cappagli, Ricordati di Bach, la narratrice bambina dedica delle belle immagini al gatto, che è l’animale della mia infanzia e che, tranne qualche anno in cui ho vissuto in città, ho sempre avuto accanto come un compagno di viaggio.

Nel libro la narratrice racconta la storia del suo incontro con il violoncello, che diviene lo strumento-passione della vita. Ora, immaginate la scena: il direttore della scuola di musica a cui la protagonista vorrebbe accedere esegue per lei un breve pezzo col violoncello e lei ne conosce per la prima volta la voce.

Sentite le parole: ”Un suono naturale e familiare come quello della risacca, intimo, un canto un po’ triste che ricordava davvero una voce umana. Sembrava quello dei miei pensieri, ed era tirato fuori dallo strumento da qualcuno che lo amava e lo conosceva come il proprio gatto”.

Mi colpiscono due emozioni contemporaneamente, quella di gioia per Cecilia che incontra nel violoncello i propri pensieri, quella del maestro che fa vedere alla bambina quanto intimo sia il suo rapporto con lo strumento. Lo conosce come il suo gatto. Come io conosco in ogni sfumatura la mia Emily, che è bianca e nera, onnipresente, ma soprattutto è dotata di una fine psicologia.

Nello stesso giorno in cui la storia ha il suo esordio, Cecilia ritrova nella casa del nonno un vecchio violoncello; la bambina, che ha visto quattro teneri gattini allattati dalla “micia bianca e nera” nel garage annesso alla casa, si toglie allora il tutore che le protegge da mesi la mano sinistra. Per la prima volta, dopo l’incidente d’auto e la lunga ingessatura, sente di ”poter fare qualcosa”, deve “grattare il gattino nero fra le orecchie”.

Per la zia che la osserva è un “miracolo”. Per lei è un momento  “meraviglioso”. Il gattino galeotto le ha fatto alzare solo un po’ il dito indice, ma negli anni successivi la tecnica richiesta per suonare il violoncello svilupperà in Cecilia una mobilità straordinaria. Nel punto in cui sono arrivata a leggere ha già fatto progressi impensabili con le dita della mano sinistra nel loro impatto sulle corde dello strumento.

Il violoncello, che riempie dagli otto anni in poi la vita di Cecilia, mi ha riportata alla musica, che è il secondo motivo per cui ho riletto Il gatto con gli stivali. La musica è quella dell’evento che si è tenuto al Teatro Comunale di Ferrara il 16 dicembre, giorno del duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Beethoven.

Alessandro Baricco ha tenuto in esclusiva per le scuole una lezione-spettacolo dal titolo Ludwig van Beethoven. Cinque cose da sapere della sua musica. Mi sono collegata armata di foglio e penna come una studentessa inesperta, il che per quanto riguarda la musica classica corrisponde al vero. Ho ascoltato brani a me noti e altri sconosciuti eseguiti dall’orchestra Canova e via via commentati da Baricco con la sua consueta intensità. Una meraviglia.

Tanto che ho poi voluto riascoltare La appassionata con le indicazioni ricevute: non sono ancora riuscita a percepirvi le mie ossessioni, la dolcezza sì. Conoscevo e conosco La quinta sinfonia, ora so che può essere considerata un’opera introspettiva, in cui Beethoven ci avvia all’idea della complessità, come una delle coordinate della nostra esistenza.

Tornando al gatto che indossa un vistoso paio di stivali, mi pare che stia lì nelle pagine della fiaba a dimostrarci come possa accadere anche l’impossibile, che il figlio di un semplice mugnaio divenga ricco e sposi la figlia del re, oppure che un arto col nervo radiale danneggiato riesca a suonare il violoncello con maestria e grande espressività.

L’insegnamento è di quelli che si sentono dire in mille occasioni, nella vita e nello studio. La novità per me è sforzarmi di attuarlo anche a questa età, farlo davvero. Da qualche mese, da quando sono in pensione, capisco che il calibro degli accadimenti nella mia vita quotidiana si è ridotto: sono piccole le cose che faccio.

Capisco che si sono voltate come un calzino: c’è dentro non l’essere per gli altri, ma l’essere per me, molto più di prima. Non posso però non mantenere intatto il rigore, la qualità dell’impegno; è la spia che rivela che mi sento attiva e ho progetti su di me. L’ultimo è questo: conoscere a mia volta le opere di Beethoven come conosco la mia gatta.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

Screening Covid-19 e scatole della solidarietà dalla coop Castello

Da: Francesca Tamascelli, Ufficio Stampa Lega Coop Estense

Cooperativa di abitanti Castello: screening Covid-19 gratuito per tutti i soci, Scatole della Solidarietà e “tamponi sospesi” per la comunità, per un Natale sicuro e inclusivo
 
Ferrara 23 dicembre 2020 – Sono oltre 250 i soci della cooperativa di abitanti Castello che, negli ultimi giorni, si sono sottoposti allo screening con tamponi rapidi attivato dalla cooperativa. “Un progetto voluto dai nostri soci – afferma il presidente di Castello Loredano Ferrari – che già lo scorso 27 giugno, in occasione dell’assemblea di bilancio, hanno deciso di accantonare risorse per poter effettuare uno screening su tutta la comunità di abitanti, per contribuire a individuare precocemente la presenza di positivi asintomatici e a circoscrivere l’insorgenza di focolai tra i soci assegnatari ed i loro famigliari residenti nei condomini di proprietà della cooperativa”. Quasi totale la negatività al Covid-19, con solo 2 casi accertati di positività, immediatamente affidati ai protocolli sanitari previsti. 
Lo screening è stato effettuato in collaborazione con il Poliambulatorio Canani, direttamente nelle strutture residenziali di Castello. L’adesione, libera e volontaria, è stata gratuita per tutti i soci assegnatari; ai famigliari è invece stato richiesto un piccolo contributo, devoluto all’Associazione Intorno a Te, che si è occupata dell’organizzazione del servizio. Una seconda tornata di test è prevista per la fine di gennaio. “Con questa iniziativa abbiamo voluto dimostrare vicinanza alla nostra comunità di abitanti e rispondere ad un bisogno di sicurezza. Un’iniziativa fortemente apprezzata dai nostri soci, che ha consolidato il loro senso di orgoglio nel sentirsi parte di una comunità sicura di abitanti, che si prende cura di sé e dei bisogni del territorio che ci ospita”.  
Negli stessi giorni, inoltre, Castello è stata impegnata in un’altra iniziativa di solidarietà: grazie alla generosità di tanti soci e abitanti, sono state raccolte 158 Scatole della Solidarietà, pacchi regalo da distribuire in occasione di queste festività alle famiglie più bisognose. Le Scatole sono state consegnate all’Emporio Solidale Il Mantello, che si occuperà della distribuzione. “La cosa che ci ha fatto più piacere – prosegue Ferrari – è che alcuni soci hanno voluto donare un “tampone sospeso”, di cui potranno beneficiare cittadini che non sono in grado di sostenerne il costo”. “Ringrazio la cooperativa Castello – conclude Andrea Benini, presidente di Legacoop Estense – che con queste iniziative dimostra ancora una volta di essere una comunità di abitanti solidale e inclusiva, non solo verso i propri i soci, ma anche nei confronti di tutti i cittadini”.

Regione. Approvato il Bilancio 2021: oltre 9 miliardi di euro alla sanità pubblica, tasse ferme per il sesto anno consecutivo e investimenti per 1,5 miliardi di euro.

Regione. Approvato il Bilancio 2021: oltre 9 miliardi di euro alla sanità pubblica (+600 milioni di euro), tasse ferme per il sesto anno consecutivo e investimenti per 1,5 miliardi di euro. Bonaccini: “In Emilia-Romagna le condizioni per ripartire. Investiremo su lavoro, welfare, ambiente e conoscenza, confrontandoci con tutti: ringrazio maggioranza e opposizione per il dibattito in Aula, toni e modalità giuste per dare risposte concrete all’intera comunità regionale”

Conti in ordine, manovra da oltre 12miliardi di euro. Continua a calare l’indebitamento (-56 milioni). Bus e treni gratuiti estesi agli studenti fino a 19 anni, confermati l’esenzione del ticket nazionale da 23 euro sulle prime visite per le famiglie con almeno due figli, i contributi a fondo perduto alle giovani coppie per l’acquisto o ristrutturazione della casa e il taglio dell’Irap alle imprese nei comuni montani, l’abbattimen to o azzeramento delle rette dei Nidi, il 100% delle borse di studio e dei benefici agli studenti che ne hanno diritto. Sostegno alle attività colpite dalle misure anti-Covid (31,8 milioni) a integrazione dei ristori nazionali. Sale il Fondo regionale per la non autosufficienza (464 milioni). Nuovi investimenti su edilizia sanitaria, trasporto pubblico locale e mobilità sostenibile, Big data e digitale, lavoro, formazione e imprese, attrattività di investimenti, aree interne, scuola, cultura, sport, turismo, commercio, agricoltura

Bologna – Via libera al Bilancio di previsione 2021 e triennale al 2023 della Regione, proposto dalla Giunta e approvato nella serata di ieri dall’ Assemblea legislativa regionale. Una manovra complessiva da 12 miliardi e 484 milioni di euro, di cui oltre 9 miliardi per la sanità regionale, 600 milioni in più rispetto al 2020. Scelte possibili grazie a conti in ordine, -56 milioni di euro l’indebitamento il prossimo anno, lasciando invariate le tasse regionali per il sesto anno consecutivo, alleggerendo anzi il carico fiscale attraverso le misure varate (dall’esenzione ticket nazionale da 23 euro sulle prime visite per le famiglie con almeno due figli al taglio Irap per imprese e attività economiche nei comuni montani, dai mezzi del trasporto pubblico locali gratuiti per gli studenti fino a 19 anni all’abbattimento delle rette dei Nidi). E il rispetto degli obiettivi di finanza pubblica fissati a livello nazionale, pur in periodo Covid, producendo un saldo positivo di oltre 71 milioni di euro.

“Vogliamo aiutare chi ha bisogno adesso, dando risposte concrete a cittadini, famiglie, imprese, e, nello stesso tempo creare basi solide per ripartire il prima possibile e nel modo migliore che si possa fare- ha affermato il presidente Stefano Bonaccini nel suo intervento in Aula al termine del dibattito generale-. Ancora di più adesso è necessario guardare anche al domani, nel momento in cui occorre continuare a gestire la crisi sanitaria e scongiurare a ogni costo una terza ondata del contagio, perché la pandemia c’è ancora e dobbiamo fermarla, insieme. Sapendo che fra pochi giorni partirà la campagna di vaccinazione anti-Covid in Italia e in tutta Europa: un momento storico, per il quale l’Emilia-Romagna è pronta”.
“Qui partiamo da conti in ordine, da un bilancio sano, come ci viene riconosciuto ogni anno dalla Corte dei conti. Questo ci permette decisioni che difficilmente si vedono altrove, come l’abolizione dei superticket sanitari, misura poi diventata nazionale, l’estensione di bus e treni regionali gratis agli studenti fino a 19 anni a partire dal prossimo anno scolastico, il taglio delle rette degli asili nidi, con l’obiettivo entro la legislatura di azzerarle, o tenere ferme le tasse regionali per il sesto anno consecutivo. Un bilancio a cui si affianca una visione chiara: quella di costruire un presente e un futuro diversi, condivisa con tutti i territori, le istituzioni, le rappresentanze economiche e sociali del nostro territorio che hanno sottoscritto con noi il Patto per il Lavoro e per il Clima, unico in Italia. Un Patto per fare dell’Emilia-Romagna la regione della piena sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Con pilastri definiti: sanità pubblica, con ancora più medicina del territorio, nuova e buona occupazione, svolta ecologica, Big data e transizione digitale, scuola, messa in sicurezza del territorio”.

“Conoscenza, lavoro, welfare e ambiente: su questo investiremo, confrontandoci con tutti, in maniera aperta e trasparente. Anche per questo voglio ringraziare tutti i Gruppi consiliari, di maggioranza e opposizione, per il dibattito in Aula. Per le modalità e i toni che ho ascoltato da tutti, pur da posizioni diverse, nel merito dei temi affrontati, per le proposte avanzate. Un patrimonio- ha chiuso Bonaccini- che è di questa Assemblea legislativa, credo il modo migliore per affrontare i mesi che abbiamo davanti”.

Il Bilancio in sintesi
Il provvedimento si inserisce nel contesto più ampio del piano di investimenti per quasi 14 miliardi di euro al 2022, presentato già prima dell’estate, per una ricostruzione partecipata e condivisa da territori e parti sociali, grazie a fondi pubblici (europei, statali, regionali) ai quali si aggiungono cofinanziamenti privati, per opere cantierabili e progetti in corso di definizione con le comunità locali.

Una manovra cresciuta rispetto a quella licenziata dalla Giunta poche settimane fa: si sono infatti aggiunte risorse vincolate per 148 milioni di euro nel triennio (99,69 milioni per il 2021, 30,50 per il 2022 e 17,97 per il 2023). Risorse dello Stato attribuite soprattutto all’ambito sociale, con un significativo aumento (+27,50 milioni) per le politiche sociali, interventi per la disabilità, sul fondo regionale per la non autosufficienza (+6,91 milioni) e per i Caregiver familiare. Ma si sommano anche risorse per il sostegno all’agricoltura e per il trasporto pubblico locale.

Confermate le risorse senza precedenti per il sistema sanitario e ospedaliero dell’Emilia-Romagna: oltre 9 miliardi di euro nel 2021, 600 milioni in più rispetto a quest’anno, con investimenti già programmati per più di 340 milioni nel biennio. E la rete socio-assistenziale dedicata agli anziani e alle persone con disabilità potrà contare su un Fondo regionale per la non autosufficienza fra i più alti nel Paese, che sale così a 464 milioni di euro.

Aiuti agli esercizi (bar, ristoranti, ecc.) e agli operatori (taxisti, Ncc, ma anche piscine, palestre, cultura) che hanno dovuto sospendere o limitare le proprie attività in seguito alle ordinanze anti-Covid (31,8 milioni di euro, aggiuntivi rispetto ai ristori nazionali); la conferma dell’esenzione del ticket nazionale da 23 euro sulle prime visite per le famiglie con almeno due figli (8,5 milioni); aiuto ai nuclei in difficoltà col pagamento dell’affitto (11 milioni); servizi educativi 0-6 anni, con i fondi ai Comuni per la riduzione o l’azzeramento delle rette dei Nidi (31,6 milioni); estensione agli studenti fino a 19 anni della possibilità di viaggiare gratis su bus e treni regionali, già oggi possibile per gli under 14 (44 milioni); borse di studio e benefici garantiti a tutti gli studenti aventi diritto (28 milioni); ‘Bike to work’, percorsi casa-lavoro in bici (1 milione); contributi a fondo perduto alle giovani coppie per l’acquisto o ristrutturazione di case nei Comuni montani (altri 10 milioni di euro che si aggiungono a quelli stanziati nel 2020 per la prima volta); conferma del taglio dell’Irap per imprese, artigiani, commercianti, professionisti e autonomi nelle aree montane (24 milioni). Ancora: 215 milioni per attività produttive, formazione e politiche attive per il lavoro, 45 milioni per l’attrattività di investimenti in Emilia-Romagna e 10 milioni di euro per sostenere il percorso verso un unico sistema fieristico regionale, fondamentale per il tessuto economico emiliano-romagnolo.

Ma anche forti investimenti, per dare fondamenta solide alla ripartenza post-covid: quasi 1 miliardo e mezzo di euro di risorse regionali disponibili nel triennio, la gran parte, l’82%, senza ricorrere ad alcun indebitamento (di questi, oltre 630 milioni già per il 2021). Fra gli interventi previsti tra 2021 e 2023, edilizia sanitaria (150 milioni di euro), Big data e innovazione digitale (24 milioni per il Tecnopolo di Bologna), l’elettrificazione delle linee ferroviarie regionali (60 milioni), il fondo investimenti per gli enti locali emiliano-romagnoli (80 milioni), il Programma straordinario di investimenti per i territori maggiormente colpiti dalla pandemia Covid, i territori montani e le aree interne (40 milioni).

Il natale del professor Uberzeit
(PRIMA PARTE)

Lo strano natale del satanico professor Uberzeit ci porta in giro per l’Europa e per la grande letteratura. Il racconto fantastico, ancora inedito, di Sergio Kraisky comincia oggi e prosegue nei prossimi giorni. Buona lettura.
(La redazione)

La neve cadeva lenta sulla città di Torino, cadeva da due giorni e due notti. Una neve cattiva, acerba, dicembrina. Solo quando la temperatura saliva e il ghiaccio iniziava a sciogliersi, qualche essere umano sbucava da un portone per poi arrancare tra la di fanghiglia in cerca di provviste o di qualche timido svago.
Dopo un primo entusiasmo di fronte al miracolo dell’acqua che si trasforma in neve, uno spettacolo mitologico che ad ogni inizio di stagione lo riempiva di meraviglia, il professor Uberzeit maledisse quella nevicata. Perché quell’uomo aveva un disperato bisogno di passeggiare e di farlo a passo veloce, tutti i giorni, per ore e ore. Era questa la sua unica salvezza dall’emicrania, dal mal di stomaco e dall’insonnia che lo affliggevano per intere giornate, a volte per settimane. Invece quelle strade scivolose lo costringevano a una reclusione innaturale dentro il suo appartamento da studente, come lui stesso lo chiamava, nel quale da tre mesi viveva.
Aveva tentato di renderlo più luminoso appendendo alle pareti delicati dipinti ad acquerello, rivestendo di tappezzeria dai variegati colori pastello le poltrone e il divano del salottino. Ma la conformazione stessa di quell’angusto alloggio, l’ingresso come un tunnel buio, le stanze dal soffitto basso e le finestre incassate nelle pareti come feritoie vanificavano quei suoi tentativi. Non gli restava che accontentarsi, non avrebbe potuto permettersi un alloggio più costoso. In un primo momento quella  sistemazione così centrale, vicino alla splendida Mole Antonelliana, gli era sembrata un vero privilegio. Si era innamorato di Torino in una splendida giornata di fine settembre ed aveva deciso d’impulso di trasferirsi lì, ma era stato un amore di breve durata: presto si trovò a dover fare i conti con l’inverno torinese.
Ormai la sua principale ragione di vita, l’unica autentica gioia residua, erano i suoi pensieri, e se restava troppo a lungo rinchiuso in quella tana i pensieri cominciavano a gonfiarsi contro le pareti del cranio, si aggrovigliavano e poi esplodevano lasciandolo esausto, inebetito, per giorni e giorni. Passeggiando invece i pensieri si purificavano, prendevano il volo e gli regalavano lunghi attimi, a volte intere giornate, di gioia e di esaltazione. E lui aveva bisogno di esaltazione per portare a compimento la sua opera.
Sì, perché il professore era solo, malato di stomaco e di ipocondria, dolorante come un vecchio nonostante avesse solo quaranta anni, ferito nell’amore e nell’amor proprio, pieno di disprezzo per l’umanità e di compassione per se stesso. E lo sapeva, sapeva perfettamente che sbagliava a  prenderla così, leggeva Spinoza e Schopenhauer per convincersi a cambiare umore. Ma tante volte, sempre più spesso, non riusciva ad accettare con eroica gioia il suo destino, nonostante proprio questo, andando ancora oltre i grandi maestri, predicasse la sua filosofia. Anche se ogni giorno si ripeteva a voce alta che quelle erano la sua vita e la sua natura, che toccava a lui soffrire in nome della verità, che la felicità è un bene ambito solo da uomini vili, da spiriti deboli. Che l’unica gioia a lui concessa era quella di poter formulare pensieri inauditi. E se il suo destino ormai era già stato scritto, che senso aveva lamentarsi? Non restava che accoglierlo, come l’amante abbraccia l’amata alla quale tutto si perdona. Ma si sbagliava, perché non poteva certo immaginare quello che di lì a poco quello stesso destino gli aveva riservato.
Si avvicinò alla finestra e scostò la tendina. Un sole livido illuminava a tratti gli spiazzi innevati e il bagliore quasi lo accecò. Il cielo cominciava a schiarirsi, ma non abbastanza per avventurarsi in una delle sue lunghe passeggiate. Oltre l’angolo di Piazza Carlo Alberto intravide una carrozza avvicinarsi e immaginò che fossero in arrivo visite per lui. Un pensiero puerile, patetico. Aveva sparso  in giro la voce che era in viaggio per l’Italia meridionale, proprio per evitare visite e  qualunque tipo di contatto con i suoi familiari o i pochi amici. Solo due o tre persone assolutamente discrete conoscevano il suo indirizzo a Torino.
L’isolamento gli era necessario per portare a termine la sua opera, sapeva che i suoi malanni e il suo umore ne avrebbero sofferto e certe volte, soprattutto di notte, veniva sopraffatto da un doloroso bisogno di amore e di amicizia. Allora cominciava a parlare da solo, si metteva a suonare il pianoforte e a cantare. Spesso gli capitava di piangere, non sapeva se per la solitudine o se per la bellezza della musica. Dopo aver visto quella carrozza passare davanti al suo portone senza fermarsi, con uno scatto tipico del suo temperamento, decise che aveva bisogno di aria, di sole, di mare. E di carne umana. Preferibilmente fresca.
Si diresse in ingresso, indossò un pesante caffettano grigio che gli scendeva fino alle caviglie, uno sciarpone blu per coprirsi la bocca, si infilò sopra il cranio dolorante uno zuccotto di lana grezza e subito sopra, per maggiore sicurezza, un cappellone nero a larghe falde. Poi, sfidando il vento gelido che saliva dalla tromba delle scale, scese in strada. Con gesto brusco fermò la prima carrozza libera e mentre vi saliva gridò al vetturino col suo forte accento tedesco: “Alla stazione centrale!”
Era un giorno di dicembre inoltrato, nel 1888..

(continua)

Seconda parte [Vedi qui]

Terza parte [Vedi qui]

Coronavirus. L’aggiornamento in Emilia-Romagna: 22 dicembre

Coronavirus. L’aggiornamento in Emilia-Romagna: 1.162 nuovi positivi, di cui 655 asintomatici da screening regionali e attività di contact tracing. Quasi 20 mila i tamponi effettuati: il rapporto scende al 5,8%. Oltre 91 mila i guariti (+3.400) e scendono i casi attivi (-2.306)

Eseguiti anche 4.841 tamponi rapidi e 702 test sierologici. Quasi il 95% dei casi attivi è in isolamento a casa, senza sintomi o con sintomi lievi. L’età media nei nuovi positivi è di 46 anni. 68 i decessi

Bologna – Dall’inizio dell’epidemia da Coronavirus, in Emilia-Romagna si sono registrati 158.345 casi di positività, 1.162 in più rispetto a ieri, su un totale di 19.892 tamponi eseguiti nelle ultime 24 ore. La percentuale dei nuovi positivi sul numero di tamponi fatti da ieri scende al 5,8%.
Prosegue l’attività di controllo e prevenzione: dei nuovi contagiati, 655 sono asintomatici individuati nell’ambito delle attività di contact tracing e screening regionali. Complessivamente, tra i nuovi positivi 205 erano già in isolamento al momento dell’esecuzione del tampone, 470 sono stati individuati all’interno di focolai già noti.

L’età media dei nuovi positivi di oggi è 46,1 anni.

Su 655 asintomatici, 381sono stati individuati grazie all’attività di contact tracing, 41 attraverso i test per le categorie a rischio introdotti dalla Regione, 9 con gli screening sierologici, 4 tramite i test pre-ricovero. Per 220 casi è ancora in corso l’indagine epidemiologica.

La situazione dei contagi nelle province vede Bologna con 244 nuovi casi, Rimini (147), poi Modena (139), Ravenna (131), Reggio Emilia (125), Piacenza (117), Ferrara (83), Imola (54), Cesena (49), Forlì (46), Parma (27).

Questi i dati – accertati alle ore 12 di oggi sulla base delle richieste istituzionali – relativi all’andamento dell’epidemia in regione.

Nelle ultime 24 ore sono stati effettuati 19.892 tamponi, per un totale di 2.451.777 A questi si aggiungono anche 702 test sierologici e 4.841 tamponi rapidi effettuati da ieri.

Per quanto riguarda le persone complessivamente guarite, sono 3.400 in più rispetto a ieri. Il totale dei guariti sale dunque a quota 91.411.

I casi attivi, cioè i malati effettivi, a oggi scendono a 59.746 (-2.306 rispetto a ieri). Di questi, le persone in isolamento a casa, ovvero quelle con sintomi lievi che non richiedono cure ospedaliere o risultano prive di sintomi, sono complessivamente 56.645 (-2.290), quasi il 95% del totale dei casi attivi.

Purtroppo, si registrano 68 nuovi decessi: 4 a Piacenza (tre donne di 81,89 e 92 anni e un uomo di 70),7 a Parma (quattro donne: una di 48, due di 83, una di 85; tre uomini di 66, 87 e 89 anni), 11 in provincia di Reggio Emilia (tre donne: due di 92 e una di 94 anni; otto uomini di 67, 69, 73,77, 80 , 84, 90 e 91 anni), 12 nel modenese (cinque donne: una di 83, una di 91, due di 97, una di 100; sette uomini: uno di 52, uno di 68, uno di 77, due di 80, uno di 86 e uno di 94), 13 a Bologna (sette donne: una di 74, due di 81, una di 83, una di 85, una di 88 e una di 92; sei uomini di 61, 64, 65, 69, 75, 92 anni), 3 a Ferrara (una donna di 100 anni, due uomini di 77 e 82 anni), 12 a Ravenna (cinque donne di 74, 78, 84, 86, 89 anni e sette uomini: uno di 67, uno di 81, uno di 82, uno di 84, uno di 86, due di 89 anni), 6 a Forlì-Cesena (una donna di 83 anni e cinque uomini di 81, 82, 84, 90 e 91 anni). Nessun decesso a Rimini.

In totale, dall’inizio dell’epidemia i decessi in regione sono stati 7.168.

Crescono i pazienti ricoverati in terapia intensiva, che sono 210 (+7 rispetto a ieri), 2.891 quelli negli altri reparti Covid (-23).

Sul territorio, i pazienti ricoverati in terapia intensiva sono così distribuiti: 16 a Piacenza (invariato rispetto a ieri), 14 a Parma (invariato), 19 a Reggio Emilia (invariato), 40 a Modena (+1), 55 a Bologna (+4), 7 a Imola (+1), 17 a Ferrara (invariato), 18 a Ravenna (+1), 3 a Forlì (invariato), 2 a Cesena (+1) e 19 a Rimini (-1).

Questi i casi di positività sul territorio dall’inizio dell’epidemia, che si riferiscono non alla provincia di residenza, ma a quella in cui è stata fatta la diagnosi: 14.530 a Piacenza (+ 117 rispetto a ieri, di cui 53 sintomatici), 12.395 a Parma (+27, di cui 15 sintomatici), 22.101 a Reggio Emilia (+125, di cui 44 sintomatici), 28.849 Modena (+139, di cui 93 sintomatici), 31.362 a Bologna (+244, di cui 94 sintomatici), 5.049 casi a Imola (+54, di cui 25 sintomatici), 8.197 a Ferrara (+83, di cui 14 sintomatici), 11.415 a Ravenna (+131, di cui 39 sintomatici), 5.520 a Forlì (+46, di cui 34 sintomatici), 5.375 a Cesena (+49, di cui 39 sintomatici) e 13.552 a Rimini (+147, di cui 57 sintomatici).

Buon Natale

E’ difficile scrivere qualcosa di originale sul Natale. E’ già stato scritto quasi tutto, anche molto bene.
Provo a ricordare dei bei racconti di Natale e me ne vengono in mente diversi.

Il Canto di Natale di Charles Dickens. E’ la storia del vecchio Scrooge e dei tre spiriti del Natale. Molto conosciuta, è stata trasposta più volte al cinema in diverse varianti. Una storia senza tempo capace di far tornare lo spirito del Natale a chiunque, anche ai più duri di cuore.
Il pianeta degli alberi di Natale di Gianni Rodari.  E’ una storia a metà tra il natalizio e la fantascienza. Si racconta di un bambino portato nello spazio da un vascello che sembra un dondolo: nell’universo incontra gli alieni che vivono nel Pianeta della Cuccagna e dedicano la loro vita allo studio delle arti, delle scienze, della politica.
Polar Express di Chris Van Allsburg. Nella notte di Natale tutta la città dorme, tutto è silenzio. Solo un bambino, per strada, decide di salire su un treno che sembra aspettare nient’altro che lui: il Polar Express che lo porta al Polo Nord. Al suo arrivo, il bambino incontra Babbo Natale che promette di donargli qualunque cosa desideri. Il piccolo chiede solo un campanello per la sua slitta ma purtroppo lo perde nel viaggio di ritorno. La mattina successiva lo ritrova, con sorpresa, sotto l’albero di Natale. Il campanello è un dono magico: solo chi crede in Babbo Natale può sentirne il suono.
Il Sarto di Gloucester di Beatrix Potter.  L’anziano sarto di Gloucester deve finire il vestito da sposo per il sindaco della città che convolerà a nozze proprio il giorno di Natale. Un vestito meraviglioso con la giacca color ciliegia arricchita da ricami di rose e viole. Purtroppo, mentre sta lavorando, il vecchio si ammala e deve smettere di cucire.  Ci penserà un gruppo di topolini ad aiutarlo.
L’albero di Natale di Hans Christian Andersen. E’ il racconto di un piccolo abete che non vede l’ora di diventare grande e maestoso come gli abeti adulti che lo circondano. Anche lui, come gli altri, desidera diventare un albero di Natale per decorare le case della città. A un certo punto ci riuscirà anche se l’esperienza si rivelerà un’autentica delusione.

Sono tutte favole, alcune a lieto fine, altre meno. Ma comunque voli di fantasia che si allontanano dalla ripetitività e dalla maestosità barocca dei nostri Natali per volare alte verso un mondo diverso, dove c’è più spazio per la riflessione, per il ripiegamento su una interiorità che impara e insegna.  Quest’anno il Covid-19 cambia molto le prospettive del prossimo Natale. A casa nostra non arriveranno le cugine Ghepardi con genitori, compagni e figli e non sentiremo troppo la mancanza di Suor Guenda, sarà un’assenza tra le tante.

Non andremo alla messa di mezzanotte e non sentiremo i cori dei bambini che cantano davanti al presepe allestito sul sagrato della chiesa parrocchiale di Pontalba.
Spenderemo meno soldi per i regali, per i pasti, per le sciate, per i viaggi necessari a raggiungere mostre di pittura e teatri. Gli spettacoli al Teatro Santelli sono stati per molti anni uno degli appuntamenti delle nostre vacanze natalizie. Negli ultimi anni, avevamo preso l’abitudine di  andare, il 26 Dicembre, ad assistere ad uno spettacolo pomeridiano per bambini. Portavamo Valeria e Enrico in un bel palco del teatro e assaporavamo la soddisfazione di vederli sorpresi e incantati. La magia del teatro riscalda sempre. Non potremo nemmeno andare il primo dell’anno allo spettacolo delle 20,30 portando Rebecca a vedere un musical. Ne abbiamo visti tanti insieme: Grease, Cats, Dirty dancing, Flashdance. Dei bei ricordi davvero.

Con cosa potremo sostituire questi rituali a cui eravamo abituati ormai da tanti anni?  Non  so.
Avremo più tempo per assaporare un Natale diverso festeggiato all’insegna della sobrietà e della riscoperta degli affetti più intimi. Avremo più tempo per un viaggio dentro noi stessi, che scavando dentro, ci porterà nuove verità, nuovi traguardi da raggiungere e nuove consapevolezze.   Ci interrogheremo forse sul senso della vita, sulla sua caducità, sulla sua fine e sulla sua eventuale resurrezione.  Avremo anche molto per cui pregare. Ognuno di noi è, a maggior ragione quest’anno, un sopravvissuto.
Qualche rito ce lo possiamo comunque ancora concedere. Addobbare l’albero con le palline colorate, i nastri luccicanti e gli angioletti dorati; fare il presepe con le vecchie statuine della nonna  e ricoprirne le stradine con il muschio vero che, a Pontalba, si trova sul tronchi dei grandi tigli che accompagnano il viale che porta al cimitero. Potremo fare la pasta in casa e il cappone ripieno, cucinare i biscotti.  Insomma un Natale in famiglia che sa di riscoperta e di tranquillità. Niente da recriminare per tutto ciò.  Anzi, credo che ci sia da ringraziare la buona sorte che ci ha garantito la salute anche quest’anno. In quella notte magica potremo sorridere alle persone a cui vogliamo bene e augurare loro tanta pace, tanta serenità.

In questi giorni ho pensato a voi che leggete le mie storie su Ferraraitalia, le riflessioni che accompagnano questa mia vita un po’ originale e un po’ buffa, un po’ divertente e un po’ preoccupante, molto realista sempre. Vorrei augurare a ciascuno di voi un buon Natale. Vorrei fare gli auguri a chi è ammalto e a chi soffre, ma ancora di più a chi ha un desiderio che non riesce a concretizzare, a chi vive un amore difficile che non può raccontare. Li vorrei fare a chi non trova la forza di cambiare strada, a chi viene schiacciato dalla mediocrità dell’abitudine e dall’oppressione di legami malsani.  Vorrei augurare a chiunque viva nell’omertà la forza di crescere, di guardare in fondo a se stesso e di provare a diventare diverso, cambiando vita. Vorrei augurare a chi subisce violenze, fisiche o psicologiche che siano, di trovare una mano amica che sappia aprire una porta verso la libertà, chiudendo l’antro di oppressione e permettendo una nuova vita sicura e protetta. Vorrei augurare a chi baratta  la sua identità  in cambio di tranquillità, la forza di rompere un argine, andare controcorrente, arrivare in un nuovo mondo, camminare su una terra nuova.

Me ne sto qui e guardo una pallina dorata, la muovo a destra e a sinistra per fare in modo che mandi dei piccoli bagliori di luce sul pavimento bianco del mio soggiorno. I piccoli fasci di luce mi piacciono molto, permettendo al tempo di restare sospeso per un po’ e di muoversi in maniera diversa, su e giù nello stesso istante. Le palline dorate sono come gocce di luce che illuminano l’abete, come tanti pensieri appesi e sospesi, come tanti baci dati e ricevuti che rivivono nella magia del Natale.  Anche io vorrei esprimere un desiderio  legato ai bagliori dorati delle palline appese all’albero, al calore che questa immagine Natalizia sta riverberando su di me. Vorrei un nuovo inizio e una nuova alba di luce, come solo un mattino a Pontalba sa regalare. Vorrei un risveglio di neve con fiocchi bianchi candidi, una mattina pulita che per noi si adagerà un po’ alla volta nel silenzio del giorno che avanza e che ricorderemo per sempre per i suoi fiocchi ghiacciati e leggeri. Vorrei che la neve candida potesse salutare ciascuno di voi, uno ad uno. Sarebbe proprio un bel modo per festeggiare questo silenzioso Natale e per pensare che anche in questo tempo difficile si può trovare, sotto l’albero, la pace.

Vaccino Covid, l’Emilia-Romagna è pronta: si parte il 27 dicembre

Sanità. Vaccino contro il Covid, l’Emilia-Romagna è pronta: si parte, il 27 dicembre in tutt’Italia è il Vaccine Day. Si inizia con 975 professionisti della sanità, che saranno vaccinati da Piacenza a Rimini. Già definiti dalle Ausl i luoghi e i team di vaccinatori. Il presidente Bonaccini e l’assessore Donini: “Domenica giornata storica, tutto organizzato”

Domenica prossima saranno vaccinati per primi i vaccinatori. Sulla variante inglese del virus, già testati gli arrivi di ieri dall’Inghilterra: al momento non risulta alcun positivo

Bologna – Tutto pronto in Emilia-Romagna per il Vaccine Day: domenica 27 dicembre, come stabilito peraltro a livello nazionale, le prime dosi di vaccino Pfizer-BioNtech (9.750 per l’avvio in tutt’Italia) verranno somministrate su tutto il territorio da Piacenza a Rimini, a 975 professionisti della sanità regionale tra medici, infermieri, operatori socio-sanitari.

Nella giornata di domenica verranno vaccinati i medici e gli infermieri, con precedenza ai vaccinatori che saranno in prima linea in questa campagna. L’organizzazione della giornata è in carico alle singole Aziende, con la supervisione dell’assessorato regionale alle Politiche per la salute.

“Ci siamo mossi in tempi rapidissimi- sottolineano il presidente della Regione, Stefano Bonaccini, e l’assessore regionale alle Politiche per la salute, Raffaele Donini- per essere pronti il 27 dicembre, giornata che possiamo definire veramente storica. I primissimi a essere vaccinati, quasi mille in Emilia-Romagna, saranno i medici, gli infermieri, gli operatori socio-sanitari delle strutture sanitarie, quelli che ormai da mesi sono in prima linea nella lotta al virus. Abbiamo lavorato insieme alle Aziende sanitarie, che ringraziamo per la collaborazione e la prontezza di risposta fornita, per mettere in campo un’organizzazione a dir poco complessa, che ci consentirà di avviare il percorso di uscita dalla pandemia. Il 27 dicembre sarà un giorno tanto atteso quanto importante, e siamo certi che tutto andrà per il meglio”.

Da Piacenza a Rimini, i luoghi del Vaccine Day
In Emilia-Romagna ogni Azienda ha già predisposto il luogo esatto, all’interno delle strutture sanitarie presenti sul territorio di competenza, dove il 27 verranno somministrate le vaccinazioni. Piacenza ha scelto il Laboratorio analisi dell’ospedale; Parma vaccinerà presso l’Ospedale Maggiore; Reggio Emilia nei locali dell’ex ospedale Spallanzani; a Modena la somministrazione avverrà presso l’aera di riabilitazione dell’ospedale di Baggiovara. A Bologna le vaccinazioni verranno somministrate presso l’Autostazione e alla Casa di Residenza Cardinal Giacomo Lercaro mentre a Imola il Vaccine Day si svolgerà nel Medical Centre dell’Autodromo, inaugurato a fine ottobre scorso; a Ferrara il luogo identificato è l’Ospedale Sant’Anna di Cona mentre per la Romagna i centri individuati sono il Pala De Andrè a Ravenna, il Quartiere Fieristico di Rimini e Cesena Fiera.

Per quanto riguarda i vaccinatori che presteranno servizio domenica prossima, non esiste un “team tipo” – come ci sarà invece nella campagna vaccinale vera e propria – ma è a discrezione dell’organizzazione aziendale. Tutte le Aziende, peraltro, hanno già individuato, e inviato al ministero della Salute, i nominativi di medici e infermieri che il 27 vaccineranno i propri colleghi.

Vaccine Day, i numeri per Azienda
Un “esercito” di circa 180mila professionisti, da Piacenza a Rimini, tra chi lavora nella sanità (92mila 600 addetti) e chi nelle strutture per anziani e disabili (84mila 600 persone): è questa la prima fascia di popolazione che, come peraltro ha previsto il ministero della Salute in base alla prima quota di vaccino assegnato, sarà sottoposta a vaccinazione. Domenica 27 dicembre si partirà con i primi 975 operatori sanitari (a partire da coloro che poi dovranno effettuare le vaccinazioni sui colleghi) così distribuiti: 50 a Piacenza, 100 a Parma, 100 a Reggio Emilia, 150 a Modena, 225 (+50 per una CRA) Bologna (inclusi il personale degli Istituti Ortopedici Rizzoli), 25 a Imola, 50 a Ferrara e 225 nel territorio dell’Ausl della Romagna.

Una cabina di regia per ogni Azienda sanitaria
Ogni Azienda sanitaria si è dotata di una cabina di regia per l’organizzazione della vaccinazione. Nei territori dove ci sono anche Irccs e Aziende ospedaliero-universitarie, sarà definita un’unica cabina di regia. Coordinata dalla Direzione sanitaria, e composta da un medico della Direzione sanitaria (che svolgerà il ruolo di referente con la Regione), un medico di sanità pubblica, un medico di cure primarie, un responsabile della Direzione assistenziale, un responsabile della Direzione attività socio-sanitaria, un farmacista (responsabile dell’hub che conterrà le dosi vaccinali), un referente del Servizio Ict, un medico competente aziendale, un referente della Protezione civile, un referente dell’Ordine dei medici provinciale.

I vaccini: partenza dal Belgio e arrivo in Italia, ecco il calendario
Le dosi di vaccino con destinazione Italia partiranno dal Belgio giovedì 24 dicembre; saranno consegnate direttamente da Pfizer in un unico punto nazionale, a Roma, all’Irccs Lazzaro Spallanzani, il 26 dicembre, per essere poi ripartite tra le Regioni e le pubbliche amministrazioni dalle Forze Armate. Le dosi saranno distribuite in Cryo – box, all’interno di borse, per mantenere la temperatura di 2-8°. Le borse verranno prelevate dall’Esercito allo Spallanzani e, con diversi mezzi (su gomma, aerei), trasportate nei 20 punti di somministrazione individuati, la mattina del 27 dicembre per consentire l’avvio del Vaccine Day. L’orario di inizio per la vaccinazione in Emilia-Romagna, che sarà lo stesso per tutte le Aziende, sarà definito nei prossimi giorni.

La variante inglese del Coronavirus, la Regione già in campo
Per quanto riguarda la variante inglese del virus, la Regione Emilia-Romagna ha subito attivato i propri laboratori sottoponendo a test chi è rientrato ieri dall’Inghilterra. Come stabilisce l’ordinanza ministeriale emanata ieri, le persone che si trovano nel territorio nazionale e che nei quattordici giorni antecedenti le disposizioni ministeriali hanno soggiornato o transitato nel Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, anche se asintomatiche, sono obbligate a comunicare immediatamente l’avvenuto ingresso in Italia al Dipartimento di prevenzione dell’Azienda sanitaria competente per territorio e a sottoporsi a test molecolare o antigenico.

Attualmente sul territorio regionale non risultano esserci positivi alla variante inglese del Coronavirus tra coloro che sono rientrati da oltre Manica.

Moni Ovadia, perché Ferrara?

Arte e cultura da sole non fanno una Città della Conoscenza, almeno per come è intesa dalla letteratura in argomento. Si può essere città d’arte e cultura senza mai giungere ad essere compiutamente una Città della Conoscenza.
Una città della Conoscenza è tale nella misura in cui è in grado di attrarre, per le opportunità che offre, talenti nell’ambito dell’arte, della cultura, della ricerca e delle scienze.
Se questo accade, non lo si può che salutare con grande soddisfazione, l’avvento non può che essere carico di promesse e la cittadinanza tutta si arricchisce di una importante risorsa.

Se un artista, uno scienziato, un ricercatore eleggono una città come luogo del loro lavoro, come ambiente più idoneo ad esprimere se stessi, significa che in quella città hanno trovato condizioni, atmosfere, relazioni, strutture e clima confacenti con il proprio impegno artistico o scientifico.
Se questo è, benvenuto allora Moni Ovadia nuovo direttore del nostro Teatro Comunale.
Vuol dire che la città ha lavorato bene nel tempo, fino a giungere ad esercitare attrazione nei confronti di artisti della caratura di questo grande “ebreo errante”, non possiamo che esserne riconoscenti ed orgogliosi al contempo.

Non è più tempo di mecenati e protettori. Anzi i ruoli si sono invertiti, i mecenati e i protettori di oggi premono per poter accedere alla corte dell’artista.
Governo e amministrazione di Genova hanno dovuto chiedere accesso alla corte dell’archistar Renzo Piano per ricostruire il ponte Morandi.
Pensare che arte, cultura, ricerca e scienza possano essere ricondotte a una parte piuttosto che a un’altra, è un’idiozia dura a morire. Qualcuno di memoria corta ha dimenticato le lezioni apprese dal ventesimo secolo relativamente al rapporto tra arte, cultura, scienza e regimi.

L’espressione del genio umano non conosce biografie e confini. Sono tempi preoccupanti questi in cui si evocano tribunali dell’inquisizione nei confronti di uomini e donne che, a prescindere dal valore delle loro opere, dal contributo dato all’intera umanità, si vorrebbero condannare all’ostracismo per le eresie della loro biografia.
I prodotti del genio umano, se pure portano un nome e cognome, sono destinati ad essere resi impersonali dallo spazio e dal tempo che se ne impossessano per trasformarli in patrimonio universale a disposizione  di tutti.
Nella produzione del genio umano c’è il capolavoro della sorpresa, della meraviglia, del passo avanti rispetto a dove eravamo, dello sguardo che improvvisamente si accorge di non vedere e altrettanto improvvisamente, per un insight, riacquista la vista.

L’epoca dell’indottrinamento, dei Concili di Trento, delle culture di destra e di sinistra, dei regimi non dovrebbe appartenerci più, neppure sfiorarci il pensiero che l’opera del genio umano possa rientrare nelle categorie di destra e di sinistra, categorie che semmai appartengono al modo di vedere dello spettatore, che non è né artista né scienziato. Di questo spettatore dobbiamo sospettare, come dei ‘muttandari’ del Giudizio universale. L’arte e la scienza sono le vittime privilegiate di personaggi come il sapiente, a cui Brecht nel suo Galileo fa dire: “Aristotele è l’autorità riconosciuta non solo da tutta l’antica sapienza, ma anche dai grandi padri della chiesa”. È qui che nasce il cancro del rapporto tra potere e cultura, tra potere e conoscenza.

Ognuno è libero di interpretare la realtà come più gli aggrada, di accarezzare le ricette che ritiene più opportune per risolvere le contraddizioni e i conflitti del mondo. Può pure pensare che essere ‘mutandaro’ è moralmente più sano e formativo del lasciare che l’opera d’arte si esprima per quello che è, come atto creativo di libertà e di liberazione.
Ma tutto questo è ininfluente, perché la forza dell’arte e della scienza non ha confini, sopravvive e si trasforma in cultura e conoscenza per nuove sfide. È il motivo per cui possiamo ammirare tranquillamente il Giudizio Universale di Michelangelo, come le opere di De Pero, che certo non è ricordato per il suo libro A passo romano, così come il palazzo dei Congressi all’Eur.

Arte e scienza, la cultura, non hanno visioni del mondo a cui aderire, perché il loro compito, per fortuna è quello di nutrire il dubbio, di saper guardare oltre le visioni del mondo che condizionano i nostri occhiali e di offrirci lenti nuove. Poi ognuno è libero di usarle o meno, ma ormai quelle lenti sono state prodotte e nonostante le censure delle proprie visioni di destra o di sinistra, quelle lenti appartengono per sempre alla umanità e alla sua storia.
Se c’è ancora qualcuno che si dilania tra una cultura di destra e una di sinistra lasciamolo alle sue pratiche autolesioniste.
Noi crediamo nel valore dei valori, nell’etica del peso della responsabilità, dove portano a far pendere la bilancia le condotte di ciascuno di noi.

C’è una domanda che ancora è senza risposta, ed è quella da cui ha preso avvio il nostro articolo. Una domanda alla quale non si trova risposta nell’intervista che Moni Ovadia ha rilasciato al quotidiano Libero. Perché Ferrara. Perché la nostra città. In sostanza che cosa della città l’ha condotto tra noi.
Una domanda che ne suscita altre.
Il Moni Ovadia ‘intellettuale’ abiterà con noi, o sarà il ‘consulente’ pendolare pagato dall’amministrazione? Contribuirà a fare della nostra città una capitale della conoscenza che dialoga con le altre capitali? Il discorso si è concluso nel triangolo Fabbri, Sgarbi, Ovadia, o è solo l’inizio per la città di una nuova dialettica?

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Cover: Moni Ovadia a Siena, aprile 2010 (Wikicommons)

FATMA E I RAGAZZI DEL PD:
Come è rinata la politica in via Ortigara

“Il mio nome? Mio padre fece la guerra in Libia e mi raccontò che durante una giornata di riposo, una giornata caldissima, una ragazzina gli offrì una brocca di acqua. Dopo aver bevuto ed essersi così dissetato le chiese come si chiamasse. Fatma era il suo nome. Quando nacqui, il 27 aprile del 1949, volle chiamarmi così!”.

Ho incontrato Fatma per la prima volta alcuni mesi dopo le ultime disastrose elezioni comunali.
Di ritorno dalla mia abituale camminata serale, passando per via Ortigara, avevo notato infatti che la sede del Circolo del Pd era ancora aperta e dentro si trovava una distinta signora seduta dietro ad una scrivania.

Entro e dichiaro subito di non avere un bisogno particolare da soddisfare, ma di essere stato invogliato dal semplice fatto di aver visto la sede ancora aperta, spinto soprattutto dal desiderio di voler  scambiare qualche parola sull’esito della sconfitta elettorale nella competizione cittadina per il nuovo sindaco.
Fatma, questo il nome della signora dietro la scrivania, non si mostra per nulla sorpresa della mia richiesta, mi accoglie con un bel sorriso aperto e mi invita cordialmente  ad accomodarmi.

Cominciamo a parlare conversando amabilmente come se ci conoscessimo da tempo.
Dopo un veloce scambio di sarcastiche battute sull’attuale giunta e sulla consistenza dell’opposizione in consiglio comunale, il discorso si allarga fino ad arrivare alle ragioni della sua presenza lì, nel circolo del PD.

Ascolto la sua storia con grande interesse mentre racconta dell’inizio del suo impegno, a quando nel 2015 cioè il Circolo  era ancora chiuso. Mi spiega che abitando da queste parti si trovava infatti a passare qui di fronte praticamente tutti i giorni e vedere la sede del suo partito con la saracinesca perennemente abbassata proprio non riusciva ad accettarlo.
Mentre racconta, la luce dei suoi occhi mi comunicano una grande determinazione, una forza e una tenacia che le sono servite per riuscire da sola a convincere il partito a riaprire il Circolo!
Tanto fece che la sede di via Ortigara riapre i battenti nel 2015 con la sua presenza garantita inizialmente almeno per una volta alla settimana, poi per tre volte, fino ad oggi.

“Come sei venuto tu questa sera”, continua a raccontarmi, “in questi anni molte persone si sono avvicinate, hanno visto la luce accesa e sono entrate per chiedere informazioni, per scambiare opinioni o anche solo per un breve saluto.”
Nel frattempo il clima politico è cambiato, la zona GAD è diventata territorio di scontro ideologico nella città, a cui Fatma e la realtà del circolo hanno risposto con una porta aperta a tutti, compresa la comunità di extra comunitari che nel frattempo ha preso residenza negli appartamenti  intorno.

Fatma, una donna da sola, insomma è riuscita a rendere concreta una realtà che riposa nel cuore di tanti, quella della presenza continua, non urlata, che si mette a disposizione, che ascolta, facendolo col sorriso sulla bocca e con le maniche rimboccate.
Ci salutiamo promettendoci nuovi incontri.
Ieri sono ripassato.
Fatma mi presenta Maria Teresa vicino ad un lungo tavolo stracolmo di generi alimentari.

Mi spiega che grazie all’impegno di Maria Teresa e di una decina di giovani del PD  la sede di via Ortigare  ha aderito all’iniziativa Solidarietà in circolo lanciata ai primi di dicembre da Nicola Zingaretti per la raccolta di generi di prima necessità a favore di famiglie bisognose di un  aiuto in più.

Fatma ha quindi fatto trovare aperto il Circolo tutti i giorni dalle 15 alle 19 dando così la possibilità a molti cittadini di portare il proprio contributo di solidarietà. Maria Teresa e i suoi amici in queste ore stanno confezionando i pacchi che porteranno a diverse organizzazioni di volontariato della città per la distribuzione poi alle famiglie interessate.
Sarà il Natale, sarà che sto invecchiando ma vedere questi ragazzi lavorare insieme a Fatma mi ha allargato il cuore, mi riconcilia con la Politica, quella vera, quella fatta di semplici gesti  quotidiani ,concreti fatti senza secondi fini solo per ribadire che abitiamo tutti insieme la stessa Terra, giovani e vecchi, italiani e  stranieri.

Saluto, ma non so ancora che mi sta aspettando una ultima sorpresa.
Mi offro per scrivere un articolo sulla loro bella iniziativa per Ferraraitalia. Ci scambiamo i contatti. Chiedo a Maria Teresa il suo cognome per appuntarlo sullo smartphone.
“Mantovani, Maria Teresa Mantovani” mi risponde. La guardo meglio, è la figlia di due amici, vista l’ultima volta  quando era piccolissima.

Colto di sorpresa cerco di evitare in primo luogo di riportare frasi stupide del tipo “ti ho visto nascere” e, mentre penso come continuare, è lei che mi dice di aver cominciato non da molto con la politica attiva, a frequentare il Circolo, quasi a continuare l’impegno politico del padre,  un impegno seriamente e tenacemente portato avanti per tutta la vita, fino alla comparsa di un problema di salute affrontato con lo stesso spirito.

A Fatma, a Maria Teresa e ai ragazzi del Pd  un grosso…grazie!

Quattro curiosità sul Natale

Approfitto dell’uscita settimanale della rubrica “Immaginario” per fare i più sentiti auguri a tutti i lettori e per raccontare quattro curiosità sul Natale.

1)Le origini del panettone
La storia della nascita del celebre dolce natalizio sfuma con la leggenda; sono due le storie che godono di maggior credito:

–Messer Ulivo degli Atellani, falconiere, abitava nella Contrada delle Grazie a Milano. Innamorato di Algisa, bellissima figlia di un fornaio, si fece assumere dal padre di lei come garzone e provò a inventare un dolce: con la migliore farina del mulino impastò uova, burro, miele e uva sultanina, per infornare poi il tutto. Fu un grande successo e qualche tempo dopo i due giovani innamorati si sposarono e vissero felici e contenti.
–Il cuoco al servizio di Ludovico il Moro fu incaricato di preparare un sontuoso pranzo di Natale a cui erano stati invitati molti nobili, ma dimenticò il dolce nel forno e quasi si carbonizzò. Toni, uno sguattero, gli venne in aiuto e propose una soluzione: con quanto era rimasto in dispensa (farina, burro, uova, della scorza di cedro e qualche uvetta) quella mattina aveva preparato dolce. In assenza di altro, si poteva portare quello in tavola. Il cuoco acconsentì titubante e si mise dietro una tenda a spiare la reazione degli ospiti. Tutti furono entusiasti e al duca, che voleva conoscere il nome di quella prelibatezza, il cuoco rivelò il segreto: «L’è ‘l pan del Toni». Da allora è il “pane di Toni”, ossia il “panettone”.

2)Perché ci si bacia sotto il vischio
Rintracciamo le origini di questa usanza nel mondo dei Celti.
La dea Freya, protettrice dell’amore e degli innamorati, era una tra le spose di Odino. I due ebbero come figlio Baldr, il quale era bello, buono e amato fra le divinità. Sua madre decise di proteggerlo chiedendo aiuto agli agenti naturali (Aria, Terra, Acqua, Fuoco), alle piante e agli animali. Tuttavia si dimenticò di rivolgersi al vischio, proprio perché quella pianta non viveva né in cielo né in terra e non sembrava pericolosa.
Fu così che il dio maligno Loki costruì un dardo appuntito proprio con il vischio e lo usò come arma per uccidere Baldr. Freya si mise a piangere sul cadavere del figlio, le sue lacrime diventarono le bacche perlacee del vischio e Baldr tornò in vita. Da allora Freya ringrazia chiunque si scambi un bacio passando sotto al vischio, dandogli la sua protezione nella vita amorosa.
Questa storia è sopravvissuta nei secoli fino ad influenzare la tradizione natalizia, secondo la quale baciarsi sotto al vischio è simbolo di amore e fortuna. In effetti, uno dei significati del Natale è anche questo: ricordarsi che ciò che vale di più nella vita non sono tanto le cose, ma le persone che amiamo!

3)La prima canzone cantata dallo spazio
Il 16 dicembre 1965, i due astronauti Walter Schirra e Thomas Stafford partirono a bordo della Gemini VI per concludere il primo attracco della storia ad un’altra navicella, la Gemini VII. Una volta attraccati, presi dall’euforia, fecero uno scherzo alla stazione di comando, lasciando un messaggio secondo il quale avrebbero avvistato un UFO. Dopo aver svelato la verità, intonarono la celeberrima Jingle Bells con l’ausilio di un filo di campanellini. In questo modo, proprio il famoso motivetto natalizio divenne la prima canzone cantata al di fuori dell’atmosfera terrestre.

4)Il più grande regalo di Natale
Si tratta della Statua della Libertà. Ideata e realizzata tra il 1880 e il 1886 da Frédéric Auguste Bartholdi, con la collaborazione di Gustave Eiffel che ne progettò gli interni, fu donata dai Francesi agli Stati Uniti d’America nel periodo natalizio come segno di amicizia tra due popoli e di commemorazione della Dichiarazione d’Indipendenza avvenuta un secolo prima.

SCHEI
Bancari e clienti di tutto il mondo, unitevi

I pompieri di Chicago Fire, famosa serie televisiva, spengono incendi in mezzo a strade innevate, al punto che il fuoco sembra essere l’unica fonte di calore di una città altrimenti gelida. E’ curioso che le teorie monetariste, di cui Milton Friedman è la punta di diamante, e la McKinsey, principale agenzia di consulenza sui modelli di business finanziario del secolo appena trascorso, abbiano entrambe la loro origine a Chicago (James Mc Kinsey, il fondatore, insegnava all’Università cittadina). Non a caso il filone monetarista di Friedman è chiamato anche “scuola di Chicago”. Evidentemente il clima di questa città, famosa per il suoi inverni rigidi, ha influito sul carattere di alcuni dei suoi abitanti, rendendo la spietatezza un tratto antropologico distintivo di una certa concezione dei rapporti economici, che trovano un paradigma nella dinamica di certe banche. Nel testo Strategic Management: A Stakeholder Approach, Edward Freeman diede la prima definizione degli stakeholders, vocabolo che abbonda sulle bocche degli amministratori delegati e banchieri: “soggetti senza il cui supporto l’ impresa non è in grado di sopravvivere”. Si tratta di una definizione che risale ai primi anni sessanta, ampliata poi in “portatori di interessi” e successivamente oggetto di una divaricazione di senso tra estremi opposti. Ad uno degli estremi, una concezione “etica” per cui l’impresa deve tenere conto delle conseguenze che le sue scelte hanno su soggetti (persone e ambiente) che non sono direttamente coinvolti nel processo di produzione. All’estremo opposto, una concezione “privatistica” imperniata sulla società per azioni. Milton Friedman (che, ricordiamolo, nel 1976 vinse il premio Nobel per l’economia) rifiutò l’idea di una responsabilità sociale dell’impresa. Friedman affermava che i manager sono agenti per conto terzi e dipendenti dei proprietari-azionisti e che devono agire nell’interesse esclusivo di questi ultimi. Utilizzare il denaro degli azionisti per risolvere problemi sociali, anche se l’impresa ne fosse in parte la causa, significherebbe fare della beneficenza con i soldi degli altri, senza averne il permesso. In questa concezione, non solo i portatori di interessi sono tutti dentro l’impresa, ma c’è una rigida gerarchia di importanza: gli azionisti vengono al primo posto (i grandi azionisti, meglio precisare).

Non è difficile dire quale concezione abbia prevalso in questi decenni. Ha talmente prevalso che un altro Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, ha detto che se non si abbandonano le teorie di Friedman, che danno luogo ad una ossessione tossica per i risultati a breve termine, non sarà possibile combattere le crescenti disuguaglianze. Ma senza allargare troppo il campo, rimaniamo in banca. Più volte su queste pagine, nel periodo Covid, abbiamo ricordato (e in qualche modo evocato) esperienze meritorie fiorite nella disperazione, come la Bank of Italy di Amadeo Peter Giannini, nata sulle macerie del terremoto di San Francisco del 1906 come la banca che dava fiducia agli immigrati italiani rimasti senza un soldo. Lo abbiamo fatto perchè la situazione attuale è quella di una economia che ripartirà sulle macerie di un gigantesco terremoto planetario di origine biologica. Il sistema bancario, comprese le regole che ne governano i processi, procede in maniera schizofrenica, e anche questo lo abbiamo già scritto: da una parte, regole che introducono una più sensata e minore ponderazione dei rischi di credito garantiti da stipendi e pensioni (le c.d. cessioni del quinto); dall’altro un inasprimento insensato delle regole che, dopo soli 91 giorni di un modesto sconfino, rendono il debitore un “cattivo pagatore”. I banchieri italiani, dal canto loro, muovono a grandi passi le loro strutture verso aggregazioni progressive miranti alla creazione di due o tre grandi poli bancari (Intesa San Paolo che ha incorporato UBI, Bper-Bpm, forse Unicredit-Monte dei Paschi). Queste megalopoli del credito potrebbero in effetti rafforzare la solidità patrimoniale degli istituti, ma si tratta di una eterogenesi dei fini, l’effetto involontario di un’azione intenzionale. E in cosa consiste l’azione intenzionale?

L’intenzione originaria appare quella di rafforzare la posizione dominante, nella scala di interessi, degli stakeholders ai quali pensava con amorevole premura Milton Friedman: i grandi azionisti. Come se ce ne fosse bisogno. Come se non fosse già così, come se gli altri due portatori di interessi (clienti e dipendenti) non fossero già abbastanza sacrificati sull’altare dei profitti. Tutti gli indici di redditività degli ultimi tre anni delle principali banche italiane segnano un incremento importante, nonostante il basso costo del denaro ed il conseguente modesto differenziale tra tassi attivi e passivi (la tradizionale fonte di guadagno per le banche) sia un dato ormai strutturale. Come è stato possibile? Basta leggere i numeri, ma siccome è noioso, un ottimo succedaneo è il commento ai risultati di bilancio di qualche banca. Quella che citiamo è Intesa, ma potrebbe essere anche un’altra: “…miglioramento della qualità del credito, aumento dell’efficienza puntando sui ricavi commissionali come principale voce di entrata”. Canoni dei conti, commissioni di istruttoria e di incasso rata sui prestiti, costi di ingresso sugli investimenti, retrocessioni sulle polizze.

Sarebbe un prezzo che si paga anche volentieri, se garantisse in generale l’intoccabilità del capitale investito dai clienti; se fosse in generale la contropartita di un incremento dei rendimenti riconosciuti; in sostanza, se le commissioni in aumento fossero il costo che si paga per una prestazione più efficiente. Sfortunatamente, i costi sono certi, i benefici incerti. La pressione assurda, spesso vessatoria, che alcune strutture esercitano sui dipendenti per collocare ai clienti prodotti ad alto ritorno commissionale rende impossibile la vita di molti bancari, ma non migliora quella dei clienti. A questo vanno aggiunte le sempre più ricorrenti inefficienze del sistema, aggravate dal fatto che ormai si verifica una fusione all’anno, ed i problemi di allineamento tra sistemi operativi causano disservizi che si scaricano sulla clientela per settimane o per mesi. Le banche sono ormai delle strade con l’asfalto sempre in manutenzione: dei cantieri costantemente aperti. Il rapporto tra costo e qualità del servizio è spesso drammaticamente inadeguato, ed apre la strada a soluzioni mordi e fuggi, ma di maggiore efficienza e rapidità, almeno in termini di risposta iniziale, con cui molti giganti del web si apprestano a cannibalizzare parte della clientela. Poco importa se la customer care del dopo vendita sarà inesistente: purtroppo anche quella delle banche si sta pericolosamente degradando.

I dipendenti e i clienti al dettaglio delle banche, quelli più colpiti dalla crisi, quelli a volte turlupinati da prodotti opachi o da aumenti di capitale mirati a scaricare sul risparmiatore il rischio di insolvenza dell’istituto, prima o poi la dovranno smettere di guardarsi in cagnesco, di diffidare gli uni degli altri, e comprendere che devono fare un pezzo di strada insieme. Prima succede, meglio è. Prima le associazioni di tutela dei consumatori la smettono di dare dei ladri ai bancari, meglio è. Prima i sindacati dei lavoratori la smettono di considerare i consumatori e le loro associazioni come dei nemici, meglio è. Se non si troverà il modo di saldare gli interessi dei due stakeholders deboli, ovvero clienti al dettaglio (rappresentati dalle loro associazioni e anche dalle istituzioni del territorio) e dipendenti, contro lo strapotere dello stakeholder forte (il capitale di rischio), il futuro delle fusioni bancarie sarà fonte di progressive espulsioni dal mercato dei lavoratori, di ulteriori restrizioni nell’erogazione di credito e di nuovi scandali finanziari.

PER CERTI VERSI
Cappelletti e farfalle

La proposta poetica di questa domenica riguarda un piatto della tradizione culinaria natalizia emiliano romagnola, ed in particolare ferrarese. Un simbolo dell’opulenza e di remote radici racchiuso nei versi di Tonino Guerra ai quali segue una mia poesia che riprende un breve ricordo del poeta romagnolo reduce dai campi di sterminio. Due proposte in forte contrasto ma di cui sono intessute la nostra vita e la nostra storia.

I CAPPELLETTI

Per me il tortello
è una pasta piena di pensieri.

In fondo tutte le paste ripiene,
i tortelli come i cappelletti
sono i sapori principali
che continuiamo a tenere in bocca.

Del resto tutti noi amiamo
la cucina delle nostre mamme
e nessuno può eguagliarle.
Ho sempre affermato
che noi mangiamo l’infanzia.

TONINO GUERRA

Guerra
Usciva dalla guerra
Dal kappazeta
Aveva una fame
Da Eta Beta
Vide una farfalla
Era bella
Viola rossa e gialla
Ma lui aveva fame
Si leccava i baffi
Sporchi di morte
Malefica la sorte
Poi sorrise
Si fermò
Fu una carezza
Nel cielo delle divise
Vinse la bellezza
Non la mangiò

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

Il sasso di Gino Strada

Ho l’impressione che molti italiani si siano stancati di guardare il telegiornale. Anche io, lo confesso, non ne posso quasi più. Colpa, per dirla con Berlusconi, del solito e un po’ rivoltante “teatrino della politica”. Dopo le cifre dei contagi, ricoverati e morti del giorno, dopo l’elenco delle disposizioni per le zone gialle arancioni e rosse, tutti i notiziari  si dedicano  appassionatamente alla cosiddetta  ‘attualità politica’: con una sfilza di dichiarazioni (proclami, sfide, annunci, minacce, promesse) del premier Conte e degli esponenti dei vari partiti. Sullo sfondo di questo teatrino, ci informano i cronisti, ci sarebbero le domande fatali che assillano il Paese: ci sarà la crisi di governo? Magari un rimpasto? Una nuova maggioranza? E chi entra e chi esce?
Naturalmente il Paese, cioè noi, i governati (ora comandati), si stanno ponendo tutt’altre e drammatiche domande. Il morbo che continua a infuriare e a mietere vittime (dentro e fuori dagli ospedali), lo spettro della povertà che continua ad avanzare (fanno fede le ultime cifre del Censis e della Caritas), il lavoro non c’è. Eccetera.
Fateci caso, nessun altro paese europeo esibisce lo spettacolo di un mondo della politica così autoreferenziale, così avulso dalla società reale, così insensibile al dovere di proporre soluzioni per una situazione che si è fatta via via più drammatica.
La lettera, bellissima e durissima, inviata da Gino Strada al quotidiano La Stampa venerdì scorso, mette a nudo la ‘vera verità’ sulle cause del flagello della pandemia nel nostro Paese.
Scrive Gino Strada: “Le riflessioni che sembravano urgenti nei primi mesi della pandemia paiono evaporate. Eppure è ormai evidente che la pandemia ha disvelato le gravi fratture in cui abbiamo vissuto negli ultimi anni. L’ambiente, il sistema economico, la Sanità dovrebbero essere argomento di dibattito quotidiano”. Una riflessione seria, un dibattito informato che risultano invece completamente assenti; dalla scena politica come dal circo mediatico.
Sul Covid e sulla gestione dell’emergenza sanitaria e sociale abbiamo invece assistito (e assistiamo ogni nuovo giorno) a una continua zuffa iper-politica. Lo scontro e il gioco dello scaricabarile fra Regioni e Stato Centrale. La rissa furibonda tra Governo (e dentro il Governo) e Opposizioni. Su cosa si poteva fare e non si è fatto. Su chi e quando e dove e come ha sbagliato: “Ma io l’avevo detto!”. “Non è vero, l’avevo detto prima io!”…
Intanto – i dati Covid ci vengono raccontati quotidianamente – in Italia continuano a morire ogni giorno svariate centinaia di persone: a cominciare come sempre dai più vecchi e dai più deboli. L’Italia si avvicina ormai ai 70.000 decessi e può fregiarsi di un tristissimo primato: nessun paese in Europa conta tanti morti quanto noi. Un solo esempio: la Germania, 83 milioni di abitanti, registra ‘solo’ 25.000 vittime: ma da sempre la Germania ha speso in proporzione molto più di noi per il suo Sistema Sanitario, i suoi ospedali, il suo personale, le sue sale di rianimazione.
Sicuramente degli sbagli – a Roma come in periferia – sono stati commessi in questi 10 mesi, ma la vera grande causa dell’ecatombe che ha colpito l’Italia è nell’attuale e miserevole stato della nostra Sanità Pubblica. Scrive ancora Strada: “ Lo stato deve assicurare a ogni cittadino il diritto a essere curato. Al contrario, la pandemia ha messo in evidenza l’estrema fragilità del nostro sistema sanitario: nel mezzo della pandemia ci siamo resi conto che non avevamo materiali di protezione, che le terapie intensive non erano adeguate, che la sanità territoriale era inesistente, che al di fuori degli ospedali tanti malati non venivano curati ma semplicemente abbandonati al loro destino”.
Oggi (solo oggi?) ci accorgiamo che mancano medici, mancano infermieri, mancano attrezzature. La verità è che negli ultimi 10 anni – lo ricordava anche Corrado Oddi su questo giornale [Vedi qui] – la Sanità Pubblica, come la Scuola, come altri servizi essenziali, sono stati sistematicamente saccheggiati per decine e decine di miliardi di Euro. Questa sistematica e dissennata opera di spoliazione (in politichese si chiama “definanziamento”) ha messo l’Italia e gli italiani pancia a terra.
E’ dentro questa situazione – sempre più insostenibile per milioni di italiani – che si è abbattuta la tragedia Covid. Scrive ancora Gino Strada: “Siamo stati travolti da una emergenza incontestabile, ma non possiamo ignorare che si tratta perlopiù di problemi strutturali, non emergenziali”.
Di questi temi dovrebbe occuparsi la politica, e la Sinistra – se ancora esiste. Occorrerebbe uno sguardo lungo, un impegno concreto a invertire la rotta, un grande piano di rilancio dei servizi pubblici a partire dalla Scuola e dalla Sanità pubblica, una vera svolta nella politica ambientale e di difesa del territorio. Ripensare con coraggio un modello di sviluppo diverso da quello che continua a generare e moltiplicare ineguaglianza e povertà. Se non lo faremo, nemmeno il sospirato vaccino basterà a rimetterci in piedi.
Gino Strada ha buttato il suo sasso nello stagno della politica italiana. Probabilmente non lo ascolteranno. C’è da occuparsi della prossima, probabile o improbabile, crisi di governo.

Cover: Gino Strada con Maurizio Landini, 2013 (Wikimedia commons)

PRESTO DI MATTINA
La luce dell’Avvento

«Chiara una voce dal cielo/ si diffonde nella notte:/ fuggano i sogni e le angosce, splende la luce di Cristo./ Si desti il cuore dal sonno,/ non più turbato dal male; un astro nuovo rifulge,/ fra le tenebre del mondo». Inizia così l’inno mattutino delle lodi dell’Avvento. E, subito affiora il ricordo di un midrash, un dialogo tra un discepolo e il suo maestro: «Nelle pagine di Isaia, disse un giorno Ariel, al suo Rabbi, è scritto che il Santo Benedetto sia, così parlò al profeta: “Io creo la luce e creo le tenebre, io il Signore ho creato tutte le cose”. “Il mondo quale esso oggi si presenta, proseguì Ariel, è un mondo privo di luce”. Poi chiese: “quando cambierà tutto questo?”. Rispose il Rabbi: “sofferma il tuo pensiero su altre parole del Profeta Isaia, e troverai la risposta alla tua domanda”. E il Rabbi proseguì: “Disse il Profeta in nome del Signore: quando darai cibo all’affamato, quando concederai riposo alla angoscia dell’uomo, la luce splenderà nell’ora delle tenebre e nella notte, il cielo sarà luminoso come a mezzogiorno”».

La luce crea uno spazio, un milieu – direbbe Pierre Teilhard de Chardin (1988-1955) gesuita paleontologo, mistico dell’evoluzione – un “ambiente per la luce”, un luogo proprio nella materia stessa che rivela, ai suoi occhi, tutta la sua potenza spirituale. È quanto accade, per intendersi, nel processo di cristallizzazione, in cui affiora e poi si attua l’individualità di una forma. Nel cristallo infatti l’opposizione della materia alla luce viene annullata; ciò che è esterno è accolto al suo interno; in esso la luce arriva fino al suo centro e da lì, in un istante, fa vedere, rifrangendole, tutte le sue bellezze. Nella luce che si unisce alla materia – mantenendosene distinta senza venirne contaminata – sono simboleggiate le direzioni del futuro: la convergenza dell’ ‘in avanti’ (en avant) dell’evoluzione e l’ ‘in alto’ (en haut) della rivelazione cristiana. Quella stessa alleanza tra il cielo e la terra che fa della materia la culla dell’avvento dello spirito e della libertà. Entrambi prendono dimora nella carne del mondo, a guisa di un cristallo che nella sua materialità appare trasformato dalla luce. Così la nostra umanità, in tutte le sue fasi, va socializzandosi e spiritualizzandosi attraverso un processo di ‘complessità-coscienza’ che vede ‘il fenomeno umano’ proteso, pur nella complessità di tentativi, fallimenti, riprese, verso un vertice irreversibile di personalità, amabile e amante, intravisto da Teilhard nel lungo percorso temporale della storia e della fede: «la storia del passato mi ha rivelato il futuro».

Per Teilhard «ogni cosa conserva il volto suo proprio, il moto suo autonomo: la luce, infatti, non cancella i lineamenti di nulla, non altera nessuna natura, ma penetra nell’intimo degli oggetti, anche più profondamente della loro stessa vita». Come l’irrompere della luce che riempie tutti gli spazi manifestandone le forme senza occuparne il posto e sostituirsi ad esse, così è dello spirito nell’evoluzione del cosmo e di quel microcosmo che è il corpo umano. Lo spirito non si sostituisce alla mano, al piede e ad ogni altra parte, ma ne attua il loro dinamismo, li anima dall’interno, li orienta oltre se stessi; lo spirito come la luce non si lascia imprigionare dalle cose e dagli eventi, ma diviene con essi, in una relazione sempre più intima proprio passando oltre e attirando a sé nuovamente: «Misteriosa natura di ogni luce e della luce divina: noi abbiamo un bel cercare di afferrarla, in mille considerazioni, mille formule ammirabili… noi non possiamo imprigionarla… Essa può sempre sfuggire tra le nostre dita, e non lascia tra le nostre mani che un groviglio di parole oscure e inanimate, in cui non troviamo più né illuminazione, né calore», scrive in un Ritiro del 1922.

Il futuro di Dio diviene visibile agli occhi dell’uomo quando egli si affida e tiene aperto il suo destino alla incomprensibilità e oscurità di Dio nel mondo; quando tiene sgombro l’ingresso della sua esistenza dai continui detriti e grovigli che minacciano di ostruirlo ed imprigionarlo o, di fatto, gli sbarrano la strada tagliandolo fuori. Solo allora egli, così affidato alla fede che esiste come speranza, non si ritrova immerso e avvolto in un fallimento, né travolto e annullato nel gorgo oscuro dell’entropia, ma introdotto in un nuovo slancio, inondato da nuova luce ed energia, quella della fede che, sperando contro ogni speranza (Rm 4,18), trova una via di uscita sulle forze distruttive e sul suo destino di morte.

Teilhard de Chardin è stato un cristiano fedele alla terra. Le ragioni del cuore lo facevano certo dell’esistenza di una duplice fede in ciascuno di noi. Una fede nel Mondo, nella Terra, nella Vita. E una fede in Dio, nell’Assoluto, nel Trascendente. Una che scendeva dall’Alto, (foi en l’haut); l’altra, che nascendo dal basso si spingeva in Avanti, (foi en avant) e tutte e due, invece di porsi come antagoniste, insieme si coniugavano nel cuore dell’uomo.

Fu in ragione di Cristo che Teilhard invocò e affermò questa convergenza, che l’Incarnazione rendeva possibile nel cuore stesso di ciascuno di noi. La discesa del Verbo poneva nelle viscere della Terra il mistero dell’Eterno che si fa tempo, in modo tale che l’Universo stesso si scopriva capace di futuro: «Sin dall’Origine delle Cose ha avuto inizio un Avvento di raccoglimento e di fatica, un Avvento durante il quale i determinismi si flettevano e si orientavano, docilmente ed amorevolmente, verso la preparazione di un Futuro insperato eppure atteso. Adattate e manovrate in modo così armonioso che il Supremo Trascendente sembrerebbe essere germinato interamente dalla loro immanenza, le Energie e le Sostanze del Mondo concentrandosi e purificandosi nell’Albero di Jesse. E componevano con i loro tesori distillati e accumulati, la gemma scintillante della Materia, la Perla del Cosmo e suo punto di attacco con l’Assoluto personale incarnato, la Beata Vergine Maria, Regina e Madre di tutte le cose» (La Vita cosmica, 86-87).

Di qui il vivere nell’attesa di un Avvento, insieme al coinvolgersi nella costruzione di una «opera per sempre» diventano le note dominanti di tutta la sinfonia teilhardiana che, se muta di tonalità, lo fa solo per sottolineare che quella pienezza dei tempi che fu la venuta del Cristo è, a sua volta primizia di un nuovo Avvento, di una seconda e definitiva venuta. «E da quando Gesù è nato, è cresciuto, è morto, tutto ha continuato a muoversi perché il Cristo non ha finito di formarsi. Non si è ancora totalmente avvolto nelle pieghe del Manto di carne e di amore che Gli stanno tessendo i suoi fedeli… Il Cristo mistico non ha raggiunto ancora la pienezza, neppure quindi il Cristo cosmico. Entrambi, ad un tempo sono e divengono: e il prolungarsi di questa genesi rappresenta la molla ultima di ogni attività creata. Con l’Incarnazione che ha salvato gli uomini, lo stesso Divenire dell’Universo è stato trasformato, santificato», (ivi).

In questo divenire del tempo, in cui ogni traguardo e ogni termine viene aperto dal mistero di Cristo ad un nuovo inizio e spinto verso un futuro carico di un ulteriore e più profondo compimento, siamo posti pure noi, credenti e non credenti di oggi, chiamati ad un identico compito: attendere e al contempo edificare «l’opera per sempre» che, se per i non credenti rimane ancora ‘Qualcosa’ di non identificato, ma che tuttavia supera e va oltre il semplice orizzonte umano nella direzione di un qualche ultra-umano, per i cristiani assume i lineamenti di ‘Qualcuno’: il Cristo sempre più grande, il Cristo totale e universale.

Per Teilhard de Chardin la modestia della natività rappresenta molto più di un semplice esempio o una lezione di umiltà dataci dal Cristo. In essa si rivela il modo con cui l’essere unisce a sé ed ‘informa’ la materia. E il Natale dice il realismo con cui Dio affronta drammaticamente l’unificazione e la personalizzazione della creazione attraverso il suo Figlio fatto uomo. Per lui celebrare il Natale significa rilanciare la sfida dell’avvenire, anteporre ai propri interessi quelli comuni verso un ulteriore salto di complessità e coscienza nello sviluppo della vita.

«Storicamente – ci ricorda ancora Teilhard – l’attesa non ha mai cessato di guidare come una fiaccola i progressi della nostra fede. Il Natale che avrebbe dovuto far volgere indietro i nostri sguardi e focalizzarli verso il passato, non ha fatto altro che riportarli maggiormente in avanti, verso l’Avvenire. Apparso un istante tra noi, il Messia si è lasciato vedere e toccare solo per perdersi una volta ancora, più luminoso e ineffabile che mai, nelle profondità dell’avvenire. È venuto. Ma ora, dobbiamo ancora e di nuovo attenderlo più che mai (L’Ambiente divino, 122)… E da quando Gesù è nato, è cresciuto, è morto, tutto ha continuato a muoversi perché il Cristo non ha finito di formarsi. Non si è ancora totalmente avvolto nelle pieghe del Manto di carne e d’amore che Gli stanno tessendo i suoi fedeli… Il Cristo mistico non ha raggiunto ancora la pienezza, neppure quindi il Cristo cosmico. Entrambi, ad un tempo, sono e divengono; e il prolungarsi di questa genesi rappresenta la molla ultima di ogni attività creata» (La vita cosmica, 87).

«Un pesce è forte solo nell’acqua» dice un proverbio africano. Lo stesso si dovrebbe dire di un cristiano e di una comunità cristiana, che sono forti della forza del vangelo solo quando vivono il loro tempo come rinnovata attesa di qualcuno che viene.

 

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

CONTRO VERSO
Filastrocca del padre invertebrato

Filastrocca del padre invertebrato

Ci sono lacrime che muovono il desiderio di consolare e altre che instillano un nervosismo brutto venato di compassione. Così è stato con questo padre che candidamente ha ammesso di avere picchiato la moglie, e di sentirsi del tutto estraneo e impotente dentro alla propria vita. Ammalato e incapace di curarsi, disoccupato e bloccato nella ricerca di un lavoro, manteneva un atteggiamento da parassita e succhiava energia dalle poche relazioni vitali che ancora aveva. Al figlio non intendeva dare niente e così è stato.

Esimio Magistrato,
la vedo preoccupato.
È giusto sia informato
di chi ha convocato.

Io sono invertebrato
da quando sono nato
non ho mai lavorato
studiato o immaginato.

Mi sento assai ferito
di essere tradito
Mia moglie l’ho picchiata
e poi l’ho venerata.

Il figlio che è venuto
io l’ho riconosciuto
e non ho mai appurato
se io l’ho generato.

Però sono malato,
malato nel profondo.
Sto raggomitolato
ad invidiare il mondo.

Perfino questo canto
io non lo so portare.
Mi sciolgo nel mio pianto
che non si vuol fermare.

Lo ammetto Vostro Onore,
sono un padre indecente.
Forse neppure un padre
Forse non sono niente.

Si tende a credere che la violenza sulle donne abbia tutta la medesima matrice e che i maschi violenti, in definitiva, si assomiglino. La mia esperienza di ascolto mi fa dubitare di questa semplificazione. Sono tante le strade che portano un uomo ad essere violento con la partner. Questo ad esempio picchiava senza sentirsi il padrone. La sua debolezza era sostanza.
La compagna a propria volta nutriva con questa relazione il desiderio di essere indispensabile a qualcuno, dopo essere stata una figlia rifiutata da entrambi i genitori. È occorso molto tempo e molto impegno personale perché riuscisse a staccarsi da lui.

Lettera Aperta a Moni Ovadia

Caro Moni Ovadia,
mi rivolgo a te con il ‘tu’ perché ti conosco da una vita. Non personalmente, ma attraverso la tua opera. Ti ho sempre stimato come uomo di teatro, come autore di testi e per il tuo coraggio nel sostenere valori e posizioni controcorrente. Insomma, nel campo dell’intellettualità di sinistra hai svolto una funzione di pungolo e anticonformismo che ho sempre apprezzato.
Questa che ti scrivo è una lettera difficile e schietta, come dovrebbe piacerti se ti ho giudicato bene nei decenni. Do per scontato il rispetto della libertà di scelta che è sacro per ciascuno. Forse, meno scontata è la libertà di dirsi apertamente come la pensiamo sulle scelte che hanno un evidente significato pubblico ed etico-culturale. Nella storia travagliata della sinistra (storica e non) si è sempre interpretato il dissenso in termini schematicamente drammatici: o come ‘tradimento’, o come l’anticipazione di una innovazione non capita dai più.
La tua decisione di accettare la proposta di nuovo direttore del teatro Comunale di Ferrara per me non è né l’una, né l’altra cosa. Semplicemente la considero un errore. Vedremo cosa ci riserverà  il futuro, ma già ho notato alcune contraddizioni nel muovere i tuoi primi passi pubblici che stridono rispetto alla tua storia pubblica di decenni. Partiamo dall’autore di questa mossa, indubbiamente intelligente dal suo punto di vista: Vittorio Sgarbi. Leggo queste righe in una tua intervista ad un quotidiano cittadino: “Spesso sono in disaccordo con le posizioni di Sgarbi, quasi un anarco-delirio libertario. Al contempo è un uomo d’eccezione di grandissima cultura, tanto libero quanto eccentrico, con amicizie trasversali. E’ un intellettuale spericolato e sperimentale, cosa che mi piace.” A parte la rituale e obsoleta formula retorica di denunciare dissensi avuti con una persona guardandosi bene dall’indicarne almeno uno preciso, ti rivolgo subito una domanda che riguarda un ‘dissenso’ che dovresti esprimere qui e ora. Il ‘libertario’ Sgarbi ti ha chiesto pubblicamente di muoverti in ambito teatrale e di evitare di fare politica. Non ho letto una tua pronta risposta contro questa intimazione.
E’ vero che la cultura deve aiutare a superare ogni steccato ideologico, ma non a cancellare un valore fondamentale scritto nel suo dna: la libertà di opinione. Di conseguenza ti rivolgo un’altra domanda. Se Sgarbi terrà fede nel portare avanti la sua opera di riabilitazione dello squadrista fascista Italo Balbo, fino a chiedere di intitolargli una via, tu sarai libero di dire pubblicamente forte e chiaro il tuo no come si ricava dalla tua coerente biografia di ebreo antifascista? Un’ultima osservazione su un dettaglio significativo. Ho letto che alla presentazione pubblica della tua nomina hai ringraziato il sindaco e il vicesindaco. Conosci qualcosa delle gesta e delle dichiarazioni fatte in varie circostanze dal vicesindaco Nicola Lodi? Se ti fossi informato, forse avresti ringraziato solo il sindaco. O ti interessa solo la parte che il vicesindaco ha avuto nella tua nomina? Bè, una visuale un po’ ristretta, non ti pare? Certamente bene in sintonia con lo ‘spirito del tempo’ di individualismo assoluto che, in tante occasioni, hai efficacemente criticato con una critica culturale efficace e corrosiva.
Insomma, caro Moni, il vice sindaco Lodi sta alla cultura come il sottoscritto alla conoscenza della fisica nucleare. E non mi riferisco alla cultura intesa come erudizione, ma nel suo profondo significato di rispetto, tolleranza, inclusione, apertura ed empatia verso l’altro.
Sinceramente ti auguro buon lavoro nel campo in cui sei stato nominato. E sono sicuro che le idee e le capacità non ti mancano. Sono meno sicuro che tu possa permetterti di comportarti da persona e cittadino libero di esprimere le proprie opinioni su tutto ciò che riguarda la vita della polis. Ma come insegnava il nostro Gramsci, che cosa diventa la cultura se la separi dalla vita della città e della comunità in cui operi? A cosa si riduce la cultura se, nel rispetto dell’avversario, si inibisce una funzione di civile conflitto aperto e acceso delle idee e delle visioni del mondo?
Lo so che sono considerazioni pesanti, ma conosco questa destra e non posso tacere i miei dubbi e le mie inquietudini.
Con immutata stima e affetto.
Fiorenzo Baratelli – Direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Cover: Moni Ovadia al SoundMakers Festival 2013. Autore della foto Diego Panico (Shootalive) per conto di SoundMakers Festival (Wikicommons)

Al cantón fraréś
Luciana Guberti: “Nadàl e dialèt”

La vigilia è un giorno di aspettative. La vigilia di Natale è attesa, suono di campane, fede, rito e leggenda. Per rendere l’atmosfera nell’aria a Luciana Guberti non servono tante parole, l’invito è lasciarsi trasportare. In una seconda poesia l’autrice si interroga sul perchè pensa e parla in dialetto: i ricordi dell’infanzia, le espressioni dei familiari, il richiamo del focolare, gli angoli del paese sono le radici della sua esistenza.

La vźìlia ad Nadàl

La vźìlia ad Nadàl
l’è uη gióraη speciàl..!
T’al sént int la źént
chi’è tuti cuntént
i t’al diś ill campàη
che a festa li sóna
da vśin e luntàn.
I t’al diś i culór e tant lampadìη
che i s’impìza e i sa śmorza
su fnèstar e zardìη.
La vźìlia ad Nadàl
l’è uη gióraη speciàl…
parché a meźanòt i’ànźul dal ziél
i’arcòrda a la źént,
cmè cla nòt ai pastór,
che a nas nòstar Sgnór
int na stala, col fréd, seηza gnént!
Ma iη véta ala stala
agh’è granda na stéla
coη la cóa luśénta
c’la fa luś aηch par déntar,
e par chi vol capìr,
aη gh’è àltar da dir..!

La vigilia di Natale
La vigilia di Natale / è un giorno speciale..! / Lo senti nella gente / che è tutta contenta, / te lo dicono le campane / che suonano a festa / vicino e lontano. / Te lo dicono i colori e tante luminarie / che si accendono e si spengono / sulle finestre e nei giardini. / La vigilia di Natale / è un giorno speciale… / perché a mezzanotte gli angeli del cielo / ricordano alla gente, / come quella notte ai pastori, / che nasce il nostro Signore / in una stalla, col freddo, senza niente! / Ma in cima alla stalla / c’è grande una stella / con la coda lucente / che fa luce anche dentro, / e per chi vuol capire, / non c’è altro da dire..!

 

Parché al dialèt

“Parché iη dialèt?” al m’à dmandà uη profesór un dì.
Mi, lì par lì, ag ho rispòst: “Parché l’im vien acsì!”.
Ma la risposta giusta, da dar al profesór,
l’era lugàda déntar int al me cuór
e al n’è sta fàzil niaηch par mi, capìr par ben,
al parché acsì l’im vien.
Al me scrìvar in dialèt l’è turnàr int la cuna,
l’è la téta ad me mama,
l’è ciuciàr in sla tomàna
e acsì pulacìda, far aηch uη sunìη,
col me zié e me mama clì zcór piaη pianiη…
L’è al profum dill ciapeli iη sla piastra dla stùa,
l’è l’udór dla calìźna dal camin ad ca’ tóa,
l’è me fradèl, coη mi sóra ill spal,
ch’à rid e al cmand cmè s’al fuss uη cavàl.
L’è me babo c’al riva coη zastìn ad sfuracèl,
l’è me mama c’la sténd coη corda e furzèl.
L’è la Madona ad piazéta, coη set spad int al cuór,
c’l’at guarda int i oć seηza raηcór,
i’è ill radìś dla me vita, iηgumbiàdi int al pet,
che quand i fa uη fiór al zcór in dialèt.

Perché il dialetto
“Perché in dialetto?” mi ha chiesto un giorno un professore. / Lì per lì, gli ho risposto: “Perché mi vien così!”. / Ma la risposta giusta, da dare al professore, / era nascosta dentro al mio cuore / e non è stato facile neanche per me capire bene, / perché così mi viene. / Il mio scrivere in dialetto è tornare nella culla, / è la tetta di mia mamma, / è succhiare sull’ottomana / e così appollaiata, fare anche un sonnellino, / con mia zia e mia mamma che parlano pianino… / È il profumo di fette di frutta sulla piastra della stufa, / è l’odore di caligine del camino di casa tua, / è mio fratello, con me sulle spalle / che rido e lo comando come fosse un cavallo. / È mio babbo che arriva con un cestino di spugnole, / è mia mamma che stende con corda e forcella. / È la Madonna della piazzetta, con sette spade nel cuore, / che ti guarda negli occhi senza rancore; / sono le radici della mia vita, aggrovigliate nel petto, / che quando fanno un fiore parla in dialetto.

Tratte da: Luciana Guberti, La piazéta, poesie recitate dall’autrice, CD, Modena, Forte House, 2006.

Luciana Guberti
(Bondeno 1935) Orologiaia di Bondeno, con la famiglia ha condotto per anni lo storico negozio laboratorio avviato dal padre Leonello nel 1926 e ubicato int al Stracantón (angolo via Turati). Inizia scrivendo zirudele per gli amici e in parrocchia. Socia del Tréb dal Tridèl, ha ricevuto riconoscimenti e premi in concorsi provinciali e regionali.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Davanzale invernale, foto di Marco Chiarini

Il lungo racconto di Piazza Fontana

L’esercizio della memoria è un qualcosa che va coltivato giorno per giorno. Proprio da questa idea nasce l’esigenza di riportare oggi questo “racconto”: una conversazione avuta con una delle firme più autorevoli di questo giornale, Gian Pietro Testa, il 25 aprile del 2019, nell’anno del cinquantennale della strage di Piazza Fontana. A farlo siamo stati in due, lo scrivente, e Simone Buonomo, studente dell’Università di Bologna, con l’intento di recuperare la testimonianza di un giornalista che per primo raccontò la strage e che per primo si dichiarò contrario a percorrere la “pista anarchica”, cercando di capire anche quale fu il rapporto proprio della stampa con la narrazione della strage che avrebbe cambiato per sempre le sorti dell’Italia post bellica.

I fatti

12 dicembre 1969, ore 16.37. Una bomba esplode all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano uccidendo 17 persone, ferendone 105. Ciò segnerà per sempre la storia della Repubblica Italiana. Quello che poteva sembrare un gesto omicida isolato, rappresenterà una commistione di intenti che porteranno all’inizio di quel momento storico in cui si attuò la “Strategia della Tensione.” Anni dopo, in fase processuale, si proverà la partecipazione dei servizi segreti e di membri del Governo unitamente a gruppi di estrema destra nel compimento di alcuni attentati.
Tra i primi ad entrare come giornalista ci fu proprio Gian Pietro Testa.

“Un pomeriggio milanese”

Giampietro, come ricorda quel giorno?
“Era un pomeriggio alla milanese. Io avevo la febbre e avevo avvertito la redazione che non sarei uscito di casa. Casualmente abitavo nei pressi di Piazza Fontana. Mi chiamarono dal giornale parlandomi di un incidente nella Banca dell’Agricoltura e corsi a vedere cos’era successo. Arrivato sulla piazza incontrai un mio collega de “Il Giorno”, il quale mi disse che c’era stato uno scoppio, dovuto dalle caldaie. Riuscii ad entrare facendomi largo tra la polizia, ero il primo giornalista a introdurmi nel luogo della strage e capii subito che non potevano essere state le caldaie ed infatti, chiedendo ad un pompiere, costui mi disse ‘ma quali caldaie? È stata una bomba’. Sotto il tavolone in mezzo alla sala circolare c’era il buco, il cratere dov’era scoppiata. Il Prefetto di Milano, Libero Mazza, intervenne immediatamente addossando le responsabilità del gesto agli estremisti di sinistra e agli anarchici. La stampa iniziò a cucire sulla pelle degli anarchici la storia della strage a partire da quelle affermazioni. Insomma bisognava trovare un colpevole e subito, per tranquillizzare l’opinione pubblica, ed i media non ci misero molto a tessere queste tele che coinvolgevano gli anarchici: erano coloro che avevano, per le loro rivendicazioni ideologiche un identikit perfetto per essere i colpevoli che andavano bene a tutti”.

Probabilmente Piazza Fontana rappresenta lo spartiacque per la Repubblica italiana, ma come si arrivò a questo?
“La strage di Piazza Fontana non è arrivata improvvisamente, era nell’aria da tempo. C’erano stati attacchi furibondi all’Italia. Si è arrivati alla strage perché si voleva fare un’azione propedeutica ad un’azione politica. L’avanzata della sinistra, soprattutto con i giovani, aveva portato all’esasperazione le vecchie strutture mentali del paese. C’era questa situazione incredibile. Prima della strage, nel 1962, bisogna ricordare il primo attacco alla democrazia con la bomba che uccise Enrico Mattei, amministratore dell’Eni, vicenda mai del tutto chiarita. Sette anni lunghissimi, fino al ’69, di attesa, ma l’aria era satura. L’Italia era maciullata dagli scontri politici. Tra l’altro, nel 1969, a causa delle manifestazioni di piazza si era creato un aspro conflitto tra i giovani dell’università e le forze di polizia, e di attentati e crisi della democrazia si parlava spesso. Bisogna ricordare anche gli attacchi degli altoatesini che hanno creato molta confusione. La questione dell’Alto Adige, alla fine degli anni ’50, aveva visto un’escalation di violenza che vide protagonisti i gruppi secessionisti germanofoni. Questa situazione portò a numerosi attentati, come la strage di Cima Vallona il 25 Giugno del 1967. Ci fu una serie continuativa di attacchi che si protrassero addirittura fino al 1988.”

Si parlava spesso di stragi sui giornali?
“Si parlava di attentati tutti i giorni. Erano cominciate le stragi e quella di Piazza Fontana fu solo la prima di un periodo lungo cinque anni fino all’Italicus, in questo periodo nel quale fu attuata la cosiddetta “Strategia della Tensione” si viveva in uno stato di incertezza.”

La stampa e le “piste”

Prima di proseguire con le parole di Testa, bisogna ricordare come la stampa, per la gran parte, seguì la pista degli anarchici, i quali cercarono di difendersi dopo i primi arresti. Quest’ultimi fecero una conferenza stampa il 17 dicembre, in cui fornirono la loro versione dei fatti. Dicevano, sostanzialmente, di essere innocenti sia per quanto riguardava l’attentato alla Fiera Campionaria, avvenuto il 25 aprile dello stesso anno, sia per quanto riguardava la strage di Piazza Fontana.

Rispetto alla bomba alla Fiera Campionaria, poi, possiamo trovare ben due elementi di congiunzione con la strage di Piazza Fontana: in primis le indagini sull’attentato del 25 Aprile 1969 furono assegnate al Commissario Calabresi, lo stesso protagonista delle indagini sulla strage di Piazza Fontana, ed anche in questo caso, Calabresi, puntò sulla pista anarchica. Solo successivamente si scoprì che si era trattato di una strage ordinovista. Il secondo elemento di congiunzione è un articolo del “The Guardian”, pubblicato il 6 dicembre sempre del ’69, nel quale si preannunciavano una serie di eventi terroristici successivi alla fiera e denunciava rapporti tra i gruppi fascisti italiani e i Colonelli Greci. Questo articolo fu quasi del tutto ignorato in Italia, tranne che da pochissime testate, tra le quali proprio “Paese Sera” dove lo stesso Testa ha lavorato.
Tutta la stampa, comunque, iniziò a percorrere la pista anarchica. Anzi, quasi tutta tranne Idro Montanelli, il quale a poche ore dalla strage rilasciò un’intervista a Tv7 nella quale diceva che gli anarchici erano innocenti, e proprio Gian Pietro testa, il quale dopo essere stato sul luogo scrisse l’articolo “Un Infame provocazione” aprendo l’ipotesi della pista nera.

Perché scrisse quell’articolo?
“Ricordo la conferenza stampa che fece in Prefettura l’allora Presidente del Senato Amintore Fanfani, il quale ad un certo punto disse: ‘Come lor signori sanno, noi non smetteremo mai di cercare i colpevoli’. Io lo guardai e gli dissi ‘ma non si vergogna di dire una cosa del genere? Sono anni che abbiamo stragi e voi non avete fatto niente e non fate niente’. Lui voltò le spalle e se ne andò silenziosamente. Comunque io ero convinto che fossero stati i fascisti. Alcuni giornalisti seguirono immediatamente la pista anarchica e spesso si ritrovarono ad essere d’accordo con ciò che dicevano la polizia e le autorità. Io ho visto con i miei occhi l’attentato. Non mi tornava niente di quello che si diceva con le accuse agli anarchici e ho scritto un articolo come provocazione, che poi si è rivelata esatta. Il 13 Dicembre, all’indomani della strage, vennero fermati gli anarchici del gruppo ’22 Marzo’ che furono accusati per la strage. Nelle ore successive la Questura di Milano cercò le prove e interrogò i componenti del gruppo: tra questi c’era anche Giuseppe Pinelli, che poche ore dopo l’arresto morirà precipitando dal quarto piano della Questura. Caduta che non ha trovato mai un vero colpevole.”

Quale fu il ruolo della stampa nella costruzione della figura di colpevole addossata a Pietro Valpreda invece?
Pietro Valpreda era un anarchico che apparteneva al gruppo ‘22 Marzo’. Da anni veniva seguito come uomo socialmente pericoloso ed era in stato di massima sorveglianza, quindi si conoscevano tutti i suoi spostamenti e tutti sapevano che il 12 Dicembre era stato convocato in Tribunale a Milano e che l’11 dicembre aveva viaggiato in treno per recarsi in città. Hanno creato un mostro con Valpreda. Fu una creazione giornalistica, mediatica. Ed anche lui non aveva fatto assolutamente niente. Alcuni colpevoli sono stati costruiti sulla carta. Per esempio, mi viene in mente il caso del ‘Corriere della Sera’, il cui direttore Di Bella diceva, anche a distanza di qualche anno: ‘È stato lui, è stato Valpreda. È stato Pinelli’. E così buona parte della stampa italiana. Dovevano trovare un colpevole e così hanno fatto. Tanto è vero che Valpreda fu riconosciuto forzatamente dal tassista Cornelio Rolandi: in mezzo ad alcuni volti rassicuranti c’era anche Valpreda, riconoscibile nel suo stile anarchico. Rolandi disse ‘È lui’, al che gli chiesero ‘Sei sicuro?’. Rolandi disse: ‘Se non è lui, qui non c’è’. Una frase mai riportata dai verbali.”

Con gli appartenenti ad ordine nuovo va ricordato, a questo punto, che la stampa si comportò in maniera diversa rispetto a come descrisse Valpreda e gli anarchici. Attivò la macchina del fango contro i primi. Successivamente, con le svolte processuali, non si trova la stessa reazione nei confronti degli appartenenti ad ordine nuovo. Non si capisce se il motivo è da ricercare nel fattore temporale, e cioè nella non “mediaticità” della notizia, dopo molti anni dai fatti, o perché non si voleva ammettere che alcuni comparti dello Stato avevano partecipato attivamente alla costruzione di questo disegno stragista.

Giuseppe Pinelli

Va ricordato, ora, però, chi fu la “diciottesima” vittima della strage, gettato dalla finestra della Questura di Milano e come fu raccontato dalla stampa. Anarchico, ferroviere, tra i fondatori del Gruppo “Ponte della Ghisolfa”. Marcello Guida, il Questore di Milano all’epoca, organizzò una conferenza stampa il giorno della caduta di Giuseppe Pinelli dal quarto piano della Questura, alla quale parteciparono anche il dott. Antonino Allegra e il Commissario Luigi Calabresi. La prima versione che fu data alla stampa fu quella che raccontava di un Pinelli incapace di convivere con la responsabilità delle morti causate dalla bomba nella banca, una colpa così grande da decidere di suicidarsi. Fu una versione che la stampa accettò costruendo, sull’onda delle responsabilità degli anarchici nella strage, la personalità pericolosa di Pinelli. Solo a seguito delle contro-inchieste del gruppo anarchico di Pinelli e delle Brigate Rosse, fu riconosciuta la sua estraneità nella strage di Piazza Fontana. La sua morte segnò la storia delll’Italia, non solo per le circostanze misteriose, ma anche perché legata indissolubilmente all’omicidio di Luigi Calabresi e del presunto coinvolgimento dei servizi segreti.

Su tutto questo quale fu la sua idea?
“Io fui convinto da subito che Pinelli fosse stato buttato giù dalla finestra. Il racconto di Calabresi non era credibile. Ricordo la conferenza stampa che fece Calabresi. Venne su nell’ufficio del Questore e cominciò a parlare e dire che era stata tutta colpa di Pinelli ed è iniziata questa storia nella storia. Pinelli fu preso perché erano convinti che i colpevoli fossero gli anarchici, ma non c’entravano nulla in realtà. Bisognava, però, difendere la versione della Questura. Calabresi si tradì l’anno successivo, quando in un’intervista disse che Pinelli era innocente e che da lì a poco sarebbe stato mandato a casa perché non c’erano motivi per trattenerlo. Da questo momento si attivò una macchina del fango mediatica nei confronti di Calabresi che fu accusato, grazie all’intromissione dei servizi segreti, di avere rapporti con la Cia. Calabresi e Pinelli sono i figli della tragedia nella tragedia: entrambi innocenti, ma entrambi vittime di un sistema che stava crollando e che viveva una confusione nella costruzione politica. Mi è dispiaciuto ed è stato un errore uccidere Calabresi, un errore tragico. Calabresi sapeva come stavano le cose, ma non le ha dette e questa è la sua colpa. Gli anarchici lo hanno ammazzato, ma è stato sciocco farlo”.

Ordine nuovo

Arriva, così, il 27 febbraio del 1979. A distanza di dieci anni dalla strage, dopo che il processo fu spostato a Catanzaro per incompetenza territoriale di Milano, la corte d’Assise condanna all’ergastolo: Franco Freda, Giovanni Ventura e Guido Giannettini.

Quale fu la sua idea sullo spostamento del processo e sull’inserimento nello stesso degli ordinovisti?
“Farlo a Bologna e Milano sarebbe stato una provocazione che non si è voluta seguire. Erano momenti di assoluta confusione mentale, con le forze dello Stato particolarmente in difficoltà. Questa era la situazione e si optò, quindi, per il trasferimento a Catanzaro del processo. Le Br, unitamente ai gruppi anarchici, non si fermarono un minuto per trovare i veri responsabili e il Governo si cautelò istituendo la Commissione Stragi. Da lì fu scoperta la verità. La Commissione Parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi indagò e ha una durata di quattro legislature dal 1988 al 2001.”

La vicenda di Piazza Fontana, però, è difficile da analizzare dal punto di vista giuridico. Ci sono stati tanti risvolti e molti episodi successivi che appartengono alla strage, un evento che è iniziato nel 1969 e le ricerche non si sono mai fermate. Si può provare a riassumere così:

  • Prima l’arresto degli anarchici e la responsabilità data a Valpreda;
  • Poi la confusione delle dichiarazioni di Rolandi, il tassista, e la tesi che a mettere la bomba fosse stato Antonino Sottosanti, meglio conosciuto come “Nino il Fascista”, il quale era un infiltrato fascista nei gruppi anarchici, cosa molto diffusa in quegli anni. Ipotesi, però, mai riscontrata.
  • Nel 1974, a Catanzaro, ci fu il primo processo agli ordinovisti e furono condannati all’ergastolo dalla Corte d’Assise Giovanni Ventura, Franco Freda e Guido Giannettini.
  • Freda nel 1978 scappa durante il processo e inizia la sua latitanza in Costa Rica. Sarà trovato l’anno successivo. Per la prima volta Pietro Valpreda fu assolto dall’accusa di aver piazzato la bomba.
  • Nel 1987 la svolta: la Cassazione assolve tutti gli imputati per mancanza di prove. Nonostante varie riaperture delle indagini, le piste ipotizzate che portavano a Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale, ci fu sempre un’assoluzione per mancanza di prove.
  • Il Processo si riaprì nel 2000 e si concluse nel 2005: questa volta le inchieste del Giudice Guido Salvini si incentrarono sulle dichiarazioni di Carlo Digilio, ex neofascista di ordine nuovo. Digilio sosteneva di aver ricevuto una confidenza in cui Delfo Zorzi, altro ordinovista, gli confidava di aver piazzato materialmente la bomba, ribadendo le responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura nella costruzione della strage.
  • Nel processo del 2000 furono condannati all’ergastolo Delfo Zorzi, come esecutore della strage; Carlo Maria Maggi come organizzatore e Giancarlo Rognoni come basista.
  • Il 12 marzo 2004 furono cancellati gli ergastoli per mancanza di prove.
  • Franco Freda e Giovanni Ventura, insieme al gruppo fascista ordine nuovo, furono riconosciuti come ispiratori ideologici della strage di Piazza Fontana, ma non più processabili perché erano stati assolti definitivamente dalla Cassazione nel 1987 per lo stesso reato.

Come commenta la vicenda processuale sulla strage di Piazza Fontana?
“Le ricerche effettivamente sono state molto difficili. Ricordo che Giovanni Ventura mi telefonò più volte per un’intervista che non gli ho mai concesso perché in quegli anni era bene non fidarsi, in quanto c’era da credere a tutti e a nessuno e a mio avviso era un personaggio pericoloso, perché aveva le mani sporche di sangue. Alla fine nessun processo ha evidenziato la persona che materialmente posizionò la bomba. Si è evidenziata solo la cellula che aveva organizzato il tutto, ma sicuramente non da sola.”

Ricostruire la strage di Piazza Fontana, come si legge, è difficile. Alla fine a pagare con la propria vita sono state le vittime innocenti ed è proprio per loro, unitamente alla memoria dell’anarchico Pinelli, che deve essere continuato il racconto della strage del 12 dicembre del ’69 e di tutto quello che ne seguì.

Coloro i quali sono stati riconosciuti colpevoli dall’iter giudiziaro hanno avuto altri destini, invece. Tra questi c’è la storia particolare di Franco Freda, il quale, tra l’altro, nel 2012, nonostante non si fosse mai pentito del suo passato dove si era definito “nazimaoista”, fu chiamato dall’allora direttore Maurizio Belpietro a tenere una rubrica sul quotidiano Libero, chiamata, stranamente, “L’Inattuale”.

Cover: Diapositiva della strage piazza fontana (da: resistenzeintenzazionali.it)

QUALCOSA MANCA

Da Monaco di Baviera, una poesia del nostro collaboratore innamorato di Ferrara.

Qualcosa manca

(Per i miei amici ferraresi )

Manca la nebbia lattiginosa del mattino 
e della sera la fiacca oscurità, 
l’uscita mattutina dal giornalaio di Piazza Travaglio,
il tono familiare del primo suono in lingua straniera,
la camminata attraverso il cimitero ebraico,
il muto conversare coi defunti,
i giri in bicicletta sull’argine del Po,
lo scrutare il cielo oltre le mura cittadine, 
il ritrovarsi degli amici in Piazza Trento-Trieste,
le chiacchiere nel vicolo tra vicini, 
l’organo del maestro Lucarelli nella Chiesa di San Giorgio, 
la Trattoria accogliente.

Quant’è vicina la lontana Ferrara
in quest’anno dolente di distanze.

_________________________________

Carl Wilhelm Macke

(Trad. Antonella Romeo/ Piero Somaglino )

SCHEI
Banchieri, marchesi e plebei

Lo abbiamo già detto: dal primo gennaio 2021 le banche applicheranno le nuove (più restrittive) regole europee sulle “controparti inadempienti”, che in parole povere siamo noi che non riusciamo a rimanere dentro il fido, o sconfiniamo senza fido, o non riusciamo a onorare alla scadenza una rata del prestito. Se siamo un privato o una PMI, lo sconfino di oltre 100 euro per più di 90 giorni ci rende automaticamente inadempienti verso quella banca e segnalati sul sistema; se siamo un’impresa, idem se il nostro ritardo di oltre 90 giorni ci porta a sconfinare per più di 500 euro. L’ esposizione in mora deve anche superare l’1% del totale dell’esposizione verso la banca. Se poi sistemiamo le cose, in teoria la segnalazione viene cancellata. Dico in teoria, perchè la lista di coloro che, per misteriose ragioni, rimangono segnalati in Centrale Rischi per ritardi di mesi o anni prima, poi sistemati, è lunghissima ed è uno dei sintomi dell’inefficienza delle organizzazioni bancarie quando non si tratta di piazzare prodotti ai propri clienti, ma di occuparsene come utenti bisognosi di un servizio. La customer care in banca, purtroppo, somiglia sempre più a quella delle aziende con un numero verde unico per l’assistenza, in cui riesci a parlare con un operatore dopo aver attraversato un labirinto minato; con l’aggiunta che, in banca, se sconfini non sei più un cliente, ma un cattivo pagatore. E queste nuove regole autorizzano, implicitamente, la banca a trattarti come l’equivalente del paria induista, un reietto, un fuori casta.

Molti istituti in questi giorni hanno comunicato ai loro clienti che tra pochi giorni applicheranno le nuove regole. Scelta meritoria, almeno in termini di trasparenza: uomo avvisato, mezzo salvato. Continuo peraltro a chiedermi – per una volta, come fa il capo dei banchieri italiani, Patuelli – per quale ragione l’Europa non abbia ancora deciso di rinviare l’entrata in vigore di queste norme. Le ragioni della opportunità di un simile rinvio sono molteplici, ma si possono compendiare in un solo vocabolo: pandemia. Questa testardaggine è ancora più ottusa se consideriamo che si sta votando, in Europa, la possibilità che per evitare il fallimento di una banca il Fondo Unico di Risoluzione possa chiedere soldi al MES(Meccanismo Europeo di Stabilità). Inoltre, a partire dal 28 giugno 2021, cambia la ponderazione dei prestiti garantiti da una quota di stipendi e pensioni – la cosiddetta “cessione del quinto”: l’assorbimento di capitale associato a questa tipologia di finanziamenti sarà abbassato dall’attuale 75% al 35%.Questo perchè la rischiosità complessiva di tali finanziamenti è considerata più bassa delle altre tipologie di crediti al consumo, per due motivi: 1.esiste una polizza assicurativa che protegge il credito della banca in caso di morte o perdita del posto di lavoro; 2. il rimborso del prestito è direttamente trattenuto alla fonte (ovvero presso il datore di lavoro, pubblico o privato).

Per semplificare: da un lato abbiamo un sistema di regole che cambia “in meglio”, liberando capitale disponibile alle banche(che devono accantonare meno patrimonio per tutelarsi dal rischio dei crediti non pagati) e apprestando una rete di salvataggio (il MES, appunto) in caso di rischio di fallimento. Il combinato di queste due misure consente alle banche di avere più denaro da impiegare, e di poter ricorrere a soldi “pubblici” di fonte europea per evitare di saltare in aria. Questo “lato” è coerente con l’aggravarsi della situazione socio-economica, poichè consente, almeno in teoria, ad una banca di non chiudere il rubinetto del credito proprio quando c’è maggior bisogno che da quel rubinetto esca acqua fresca, risorsa fondamentale per un assetato. Dall’altro lato, invece, si inaspriscono le regole di rimborso, in modo tale da creare pressochè inevitabilmente, in periodo di pandemia, una nuova valanga di crediti inesigibili, che peseranno come un macigno sui bilanci bancari. Questo secondo “lato” appare quindi incoerente con l’aggravarsi della situazione socio-economica, e rischia di vanificare in buona parte l’effetto positivo delle misure espansive.

Tuttavia uno potrebbe dire che questo rigore è benvenuto, perchè gli impegni vanno rispettati e un debito è un impegno che va onorato nei tempi stabiliti. In linea teorica è un ragionamento sensato, introdotto però nel periodo più insensato: sono già milioni gli italiani che, a causa della paralisi dell’economia mondiale e locale, non sanno come sbarcare il lunario nei prossimi mesi, e che, una volta espulsi dal sistema del credito, non vi potranno più accedere per anni. Sarà un disastro per i territori, che vedranno trasformare il rapporto dei privati e delle piccole imprese col sistema del credito, fino ad una situazione (che già evolve, giorno per giorno, in questa direzione) nella quale saranno le agenzie criminali a finanziare l’economia “legale”, in quanto dotate di ingenti somme di denaro riveniente dal traffico di droga, di armi, di rifiuti e di esseri umani. Si realizzerà in questo modo una completa fusione tra economia legale e illegale(anzi, criminale): un salto di qualità da una economia ufficiale innervata da elementi criminali, ad un corpo socioeconomico nel quale non avrà nemmeno più senso distinguere tra economia legale e criminale, perchè la sola economia che sopravviverà sarà quella capitalizzata con o finanziata da soldi sporchi.

Ma se non bastasse questo, c’è anche una gigantesca ipocrisia dietro questo rigorismo di facciata, come si può agevolmente appurare da tutte le statistiche sul tema delle sofferenze bancarie. La Cgia di Mestre ha mostrato già nel 2016 chi sono i “cattivi pagatori” delle banche.  Le grandi imprese rappresentavano l’80% del credito complessivamente erogato alle società non finanziarie, nonostante esse siano appena l’1% del totale. Ebbene, esse erano responsabili del 78% dei crediti sofferenti, mentre il restante 99% delle imprese detiene il restante 22% dei debiti a rischio. Ripeto: l’ 1% dei finanziati ha causato il 78% dei debiti impagati. Le grandi imprese hanno ottenuto grande fiducia, ma dimostrano di averne fatto strame. Anche a Ferrara lo sappiamo molto bene: la Cassa di Risparmio è saltata per la sconsiderata mole di denaro prestata fuori dai nostri territori e a pochissimi debitori, non per i piccoli prestiti dei ferraresi (che però alla fine sono quelli che hanno pagato il prezzo della risoluzione, con buona pace dei professorini di economia che impartiscono lezioni su come si amministrano le banche). Li conosciamo, quelli che succhiano denaro dalle banche restituendolo a loro piacere. Sono la classe dirigente italiana, i Caltagirone, i De Benedetti, i Marcegaglia, i Marchini, gli alfieri di quel capitalismo relazionale che significa: siedo nel CdA di chi mi presta i soldi, quindi i soldi me li prendo e se non mi va non te li restituisco. Tanto a me, qualcuno che presta i soldi ci sarà sempre. Alberto Sordi – con la forza iconica che l’arte trasmette, molto meglio di un saggio di economia – ha mostrato il nocciolo della nostra classe padronale, condensandolo nella battuta del Marchese del Grillo: “io so’ io e voi non siete un cazzo”.

 

PRESTO DI MATTINA
Il richiamo della Parola di Dio: risacca e balbettio di onde

Come bambini che non parlano ancora, sommersi da suoni che non comprendono e tuttavia tentano e ritentano di imitare, così si sta, balbettanti, la domenica dopo l’ascolto del vangelo. Una mareggiata di parole, onda dopo onda, si riversa sull’assemblea, lasciando in ciascuno il suono e, forse, non sempre il senso. Il rintocco pare però sufficiente a risvegliare il desiderio e l’attesa che si manifesti, una volta o l’altra, pure il senso, così da consentire a Colui che nella calca della folla sentì qualcuno toccargli di nascosto il mantello di rivolgere anche a noi le parole dette a una donna da dodici anni malata: «Figlia, la tua fede ti ha salvata, va in pace!» (Luca 8,43-48).

A messa si sta allora fiduciosi come bambini, come infermi che in quel balbettare, rimuginando dentro e fuori, sanno che nascerà la parola, che sgorgherà la sua luce che guarisce. La parola di Dio, il vangelo restano sempre gli stessi, affidabili e compassionevoli come il mare: «Tutto viene a noia, solo a te [mare] non è dato abituarsi, passano i giorni, e gli anni, e mille, mille anni» (Boris Pasternak). Non c’è tempesta che non si calmi, non c’è mare su cui non ritorni la bonaccia per la parola del maestro risvegliato. Non c’è minaccia o guaio nel vangelo che non si muti in un “venite, ritornate a me, affaticati e stanchi, con tutto il cuore”. L’onda invece, direbbe Marina Cvetaeva, non è mai uguale a se stessa e ritorna sempre, ma diversa, quasi fosse la mia onda personale, venuta apposta per me, la parola di qualcuno rivolta solo a me, in intimità, cuore a cuore.

Penso a Pietro e ai suoi amici quella volta che ospitarono il maestro sulla loro barca, come un pulpito di chiesa, un ambone all’aperto sullo sconfinato mare. Parlava a tutti, alla gente sulla spiaggia. Ma poi la parola del maestro si rivolse diretta proprio a Pietro, senza lasciare spazio a una generica risposta. Egli lo chiamò per nome – Simone che poi cambierà in Pietro – fiaccato da una notte di pesca infruttuosa, reti e mani vuote. Ma quel giovane rabbi non si accontentò: voleva lui, e gli chiese di ritornare al mare. Penso che si sentì allora come onda che muore sulla spiaggia. Un uomo venuto dalle alture di Nazaret, falegname per giunta, gli chiedeva di riprendere il largo, di rinascere “onda nuova”. Decise di fidarsi; di affidarsi come al vento le vele in mare a quella parola: «duc in altum», prendi il largo; e avendolo fatto riempì le sue mani e le reti di pesci da non credere. Una sorte identica – ne sono convinto – a quella di coloro che la domenica, divenuti uditori della parola, proveranno a pescare nell’immenso mare del vangelo.

Non ci è dato comprendere del vangelo tutte le parole che ascoltiamo; ma di stare attenti e di intenderne qualcuna almeno, questo sì. Come quando lo sguardo dalla riva vede arrivare le onde e qualcuna più distesa e coraggiosa arriva a bagnarci i piedi. Sentendola tiepida e invitante si fa qualche passo incontro ad essa, aspettandone un’altra e così, onda dopo onda, cresce l’irresistibile richiamo del mare: risacca e balbettio d’onde. All’improvviso un tuffo, e si prende il largo senza sapere chi è abbracciato per primo, tu o l’onda. Così accade con le parole del vangelo.

O come quando da bambino passavo per i campi a giugno, e le spighe indorate e brunite al sole sembravano tutte ugualmente belle, tutte in una, una in tutte, e dopo uno sguardo grato passavo oltre. Poi, una volta, in un ondeggiare di messi alla brezza di terra – quella leggera aria che ritorna durante le ore del giorno fino a sera a sparpagliate un poco i ranghi delle spighe – mi accorsi spuntare tra le cime ondeggianti, sorpresa, i petali scarlatti di un papavero. Allora mi fermai, attendendo che il vento ne scoprisse un altro e poi un altro ancora. Ed insieme a quei piccoli rubini, si palesarono pure intensi lapislazzuli, i fiordalisi, coronati di un blu come il mare nel suo profondo di mistero che non puoi mai dire per intero. Così, allo stesso modo, non allo sguardo ma all’udito, capita talvolta di comprendere l’inesprimibile: il venire a te della Sua parola, inaspettata, ma pure attesa. Bernardo di Chiaravalle cistercense ricorda che il Padre, per farsi comprendere da noi, ha “abbreviato”, ristretto, riavvicinato a noi il suo Verbo (Verbum abbreviatum). Quella medesima Parola, che per la sua estensione riempie il cielo e la terra, nel suo farsi carne, la Parola indicibile del Padre, si è resa dicibile nelle nostre parole e voci umane: Gesù, la Parola “più breve” del Padre.

Come in ogni parola proferita abita lo spirito di colui che l’ha enunciata, così la brezza dello Spirito, la sua rugiada, che dimora tra le pagine del vangelo, trasforma la domenica mattina quelle parole scroscianti, balbettanti, quelle parole imperiture, vaganti per l’assemblea liturgica in una parola rivolta e risuonante in ognuno che ascolta: una parola anche per te.

E scopriamo così che anche Dio balbetta per amore nostro. Lo ricorda Gregorio Magno: «Egli ci viene incontro sempre nelle acque basse e in quelle profonde. Dio si è abbassato per elevarci e la Scrittura non ci innalza se non abbassandosi al nostro umile linguaggio. “La parola di Dio si proporziona alla nostra debolezza; come uno che parla al suo piccino e, per farsi capire, si adatta a balbettare come lui…Si può paragonare la Parola di Dio a un fiume, dalle acque basse e ora profonde: così basse che può attraversarle un agnello, così profonde che vi può nuotare un elefante»  (Commento a Giobbe A Leandro, 4 CCL 143,6). Scrive papa Francesco: «Servono persone che sappiano far emergere dagli sgrammaticati cuori odierni l’umile balbettare: «Parla, Signore» (1 Sam 3,9). Servono ancora di più coloro che sanno favorire il silenzio che rende questa parola ascoltabile» (Discorso, 16 settembre 2016).

E così anche tu, la domenica, ricominci a custodire il silenzio. E poi a balbettare quella parola ineffabile; parola inesprimibile, farfugliata, come quella dei bambini quando continuano a tartagliare cose incomprensibili, suoni indecifrabili, un “non so che”, e proseguono determinati e indefessi perché hanno intuito che in quel groviglio, nella inafferrabilità di quei suoni vi è una parola rivolta a loro, un seme di parola nascosto, una lontanissima e ancora invisibile stella, luce ancora in viaggio nello spazio siderale, che verrà presto come luce aurorale nella notte di Babele.

La notte non è vuota. Contiene il nostro desiderio che le parole vengano alla luce. Così la fede è quel balbettare notturno, in ascolto fiducioso del germinare della parola e del suo battito balbettante, del senso raccolto in essa: «nella notte del senso germina l’Aurora della parola» (Maria Zambrano). Prima della proclamazione del vangelo – che va ascoltata e non letta nel foglietto – mi rammento della preghiera di Anselmo di Aosta nel suo Proslogion (Colloquio): «Orsù dunque, Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come cercarti, dove e come trovarti. Signore, se tu non sei qui, dove cercherò te assente? Se poi sei dappertutto, perché mai non ti vedo presente? Insegnami a cercarti e mostrati quando ti cerco: non posso cercarti se tu non mi insegni, né trovarti se non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti, che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti».

Poeti e mistici. Maria Zambrano si interroga sul balbettio: «Cos’è che chiamiamo balbettare? Cosa si intende per balbettio? Qualcosa che non arriva a dire nulla per insufficienza della parola, o qualcosa che dice tutto per l’immensità dell’amore e del timore, per la prossimità della presenza anche solo intravista? Ed esiste anche il balbettio che sbarra il passo al pianto, che ne interdice la nascita, che annuncia il pianto reprimendolo: allora è il singhiozzo. Il singhiozzo, il più profondo e ampio tra gli umani dire, quello che, nel migliore dei casi, li abbraccia tutti. Nell’interiorità più profonda del regno del singhiozzo, e del pianto, e del gemito, abita talvolta il nucleo, il seme indissolubile, della parola stessa… Il balbettio dell’appena nato si sofferma alla vista di questo che presentito già nello stato nascente, dentro lo stesso balbettare. Quel “un no se qué que quedan balbuciendo” (Giovanni della Croce). Quel “non so che” che resta sospeso, che si sprigiona tanto dai gemiti più profondi come dalle parole più nitide e trasparenti… L’Aurora stessa balbetta, come tutte le creature, un regno di luce e colore, di spazi non esistiti, di tempi popolati da non si sa cosa», (Dell’Aurora, 90-92).

Giovanni della Croce modulando il suo Cantico spirituale sul Cantico dei cantici pure lui allude a un «non so che», a un «balbettio». Sono le parole di coloro che parlano dell’Amato all’amata che lo cerca invano: «Dove ti sei nascosto, Amato? Sola qui, gemente, mi hai lasciata!». Ma queste parole risuonano come un presagio che accresce il suo soffrire; è un parlare che non fa capire: fa solo presentire e desiderare: «E quanti intorno a te vagando, di te infinite grazie raccontando, ravvivan così le mie ferite, e me spenta lascia non so cosa, ch’essi vanno appena balbettando», (strofa 7,9-10). L’amore resta così impaziente, desiderante e ferito per qualcosa che non c’è ancora. E non bastano certo quei frammenti incerti di parole per acquietare il cuore. È un “dire” che non è ancora un “dirsi”, faccia a faccia. Nel disvelarsi degli occhi e nell’udire il dischiudersi lieve delle labbra, solo allora sarà sanata la ferita dell’amata come da «fiamma che consuma, ma non da pena» (Strofa 38).

Di balbettio infine racconta pure Martin Buber in una storia: «Rabbi Levi Isacco arrivò un giorno a una locanda dove alloggiavano molti mercanti che andavano a un mercato. Il luogo era lontano da Berditschew e così nessuno conosceva lo zaddik. La mattina presto gli ospiti vollero pregare; ma poiché in tutta la casa si trovò un unico paio di tefillin, l’uno dopo l’altro se li cinsero e dissero in fretta la preghiera per passarli a un altro. Quando tutti ebbero finito, il Rabbi chiamò a sé due giovani; voleva chiedere loro qualcosa. Essi si avvicinarono, egli li guardò serio negli occhi e disse: “Ma, ma, ma, va, va, va”. “Che volete?” esclamarono i giovani, ma non ebbero altra risposta che i medesimi suoni confusi. Lo presero allora per un pazzo. Ma egli parlò loro: “Come, non capite questa lingua? Eppure poco fa avete parlato a Dio così”. Per un momento i giovani tacquero, turbati, poi uno disse: “Non avete visto un bambino nella culla, che ancora non sa articolare la voce? Non avete sentito come fa ogni genere di rumori con la bocca: Ma, ma, ma, va, va, va? Tutti i saggi e i dotti del mondo non lo possono comprendere. Ma quando arriva la sua mamma, essa sa subito che cosa vuoi dire”. Quando il Rabbi di Berditschew sentì questa risposa si mise a danzare dalla gioia. E quando negli anni seguenti, nei «Giorni terribili», in mezzo alla preghiera s’intratteneva, come era suo uso, con Dio, soleva raccontargli questa risposta» (I racconti dei Hassidim, 191 192).

 

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

PAROLE A CAPO
Franco Stefani: “Magia” e altre poesie

“La poesia è qualcosa di oscuro che fa luminosa la vita”.
(Pier Paolo Pasolini)

 

Magia

È di sera, quando le ombre
tagliano la vita come coltelli
e il silenzio è un macigno
che divento piccolo, piccolo
per nuotare tra le onde dei tuoi capelli
e addormentarmi sul tuo seno

 

Appennino

Alberi. Vento tra i rami.
Sinfonie. Assoli. Controcanti.
Crepitio di legni spezzati
da passi incauti.
Trilli, fischi, cinguettii.
Nel bosco più fitto
si smorzano i raggi del sole.
Pigolii. Semioscuro
silenzio di cattedrale.

 

Dell’isolamento

A Mark Strand

Passo ore al buio, questa stanza mi separa
dalla vita che fuori scorre in qualche modo.
Qui dentro si può fissare il nulla.
Non voglio preoccuparmi se arriveranno le ombre,
se il sole se ne andrà senza aloni dorati,
se il dolore mi tormenterà di nuovo,
se vedrò il futuro nella sua feroce verità.
Penso a quante illusioni mi restano,
a quanti artifici potrò ancora utilizzare,
a quali maschere indossare,
a quale flauto di Pan suonare
quando cadrà la neve. 

 

Languidamente

Languidamente
il tuo giovane corpo attende
lo scendere di questa sera ferrarese
che con movenze viola ci sorprende
lentamente

Nell’aria c’è musica
e un lieve profumo di tigli
tutto troppo perfetto, forse:
un ricordo o un’illusione

L’importante, bella dagli occhi neri
è che tutto scorra, che tutto accada
dolcemente.

Franco Stefani è nato e vive a Cento (Ferrara). Giornalista professionista, scrive versi da molti anni. Ha curato il volume “Io spero che non faccia più il terremoto” (Minerva, 2009) dedicato al sisma che ha colpito l’Abruzzo. Tra i suoi più recenti libri, “Tre sguardi in uno” (Pendragon, Bologna, 2015) e “Istanti” (Genesi Editrice, 2019), che comprendono testi poetici e racconti brevi.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

PANDEMIA E FANTASIA

Oggi 5 dicembre 2020 arrivo un po’ distratto in salotto, pronto a demolire l’imponente fascio di giornali che mi occupano parte della mattinata e che consumo tra letto e poltrona.
Mi accorgo che c’è qualcosa di nuovo nell’aria e il mio sguardo si dirige al tavolino, dove fa pompa di sé un grande mazzo di tulipani. Ma…. ecco che li vedo muoversi, assumere pose strane dentro il vaso verde; poi mi s’illumina la mente. Per forza! Sono tulipani GIALLI e la loro danza emblematizza una data: da domani siamo in ‘zona gialla’. In studio sento però un brontolio sommesso, che proviene a sua volta dal grande mazzo di gigli bianchi che profuma lo stanzone. E dicono “Sempre ai meno importanti è data l’occasione di gioire. Noi nobili mai siamo presi in considerazione”.

Freneticamente i giacinti, sparsi per tutta la casa, fanno il tifo: quello che si riserva a Maradona. Al proposito il mio silenzio su quella perdita va almeno spiegato. Il ‘Divo Diego’ e la sua scomparsa non mi producono in verità alcun significativo sussulto. Invano gli ‘intendenti’ con citazioni dotte – specie quelle che si riferiscono nell’antichità alla divinizzazione di atleti tramite la poesia –  cercano di farmi recedere da quella posizione, anche se suffragata dall’essere, e lo ripeto, da sempre forse l’unico che mai abbia assistito a una partita di calcio, o anche di averla vista integralmente in tv.

Mi distraggo tuttavia nei servizi televisivi a rivedere le immagini della mia adorata Napoli, perdendomi tra le botteghe di san Gregorio Armeno, ripercorrendo con la mente i luoghi di tanta felicità sperimentata: i Bassi, la Galleria, Piazza Dante, Spaccanapoli. E qui il ricordo si fa vivo e urgente. Per un tempo ragguardevole ho viaggiato con i miei cognati e, se la meta era ogni anno la Francia, andammo spesso anche nella mia amatissima Napoli. Qui, per caso, scoprimmo un hotel a Posillipo dal nome invitante: Paradiso. Ci demmo un appuntamento in quanto io ancora guidavo e loro ci raggiunsero il giorno dopo su una macchina appena comprata. La notte stessa il portiere ci avvisò che ‘purtroppo’ avevano tentato il furto, che era stato spaccato il finestrino posteriore e altre amenità, tanto che mio cognato fu obbligato a passare la notte in macchina. Ma il luogo era incantevole e in altre occasioni, quando ad esempio mi recavo a Lipari, era d’obbligo una sosta di un giorno o due nell’amata città. Ma ormai il Paradiso ci veniva negato. Scoprimmo che era diventato il quartier generale di Maradona e che c’era una fila ininterrotta di prenotazioni per recarsi in quell’hotel. A questo punto si sommi la mia indifferenza al calcio, l’essere tenuto lontano da un posto amato e potrete fare la somma di come il nome di quel potente era per me oggetto di stizza.

Frattanto notizie strane arrivano portate dalla stampa nel mio rifugio popolato di fiori. Finisco con sempre più entusiasmo la recensione al magnifico libro di Gigliola Fragnito La Sanseverino, che ancora mi riporta a Napoli, mi esibisco in conferenze on line che mi gettano nel panico per l’uso di questo strumento particolarmente inadatto alle mie capacità, anche se, non so per quale aiuto, forse del mio tecnico formidabile Saint–Laurent, sembra che sappia cavarmela abbastanza bene.

Oggi poi leggo sulla stampa che è indagato il vicesindaco della mia città a seguito di un esposto del rappresentante dei radicali ferraresi Mario Zamorani. Quello che però mi colpisce di più è il nome dell’avvocato che porta avanti l’esposto: Longobucco. Non mi sembra vero, eppure quel cognome è quello di un paese che ho visitato e che è lo stesso dove sono nati e vissuti amici carissimi. Mi attivo e – potenza della storia meravigliosa e affascinante della nostra nazione – mi si dice che nel tempo andato ai bimbi accolti in orfanotrofio veniva dato il cognome del paese da cui provenivano. Uno per tutti Cosenza. Così la storia dei cognomi si inserisce sulla ancor più complicata vicenda testimoniata dall’ebraismo, per il quale da zone ben precise di Marche, Emilia, parte della Lombardia e della Toscana, assumevano i nomi di città e paesi: pure della mia. E così Ferrara, Cosenza, Ravenna, Rimini, Pesaro e anche Longobucco indicano città e dinastie, luoghi e persone.

Mi si domanda come passerò il Natale, visto che è un dovere totale e irrinunciabile fare a meno della riunione familiare. Rispondo “noi due” tra caterve di piante, fiori e panettoni (ne ho scoperto uno fatto da un’azienda ferrarese che è un miracolo di bontà!) dischi, e film d’antan. Uno spasso. Ci siamo dati per le feste i nomi dei due cagnolini che sono entrati in famiglia da poco: zio Benny e zia Frida. I piccolini suoneranno i campanello e nell’androne troveranno una capanna, dove dentro ci sono i regali portati da babbo Natale. Nuovo suono di campanello e attraverso il microfono ci faremo gli auguri fra i ‘bau bau’ dello zio e della zia.

Se lo ricorderanno nel tempo e dalla pandemia sorgerà incantata la fantasia.

FERRARA SI CONFRONTA SUI NUOVI PAESAGGI MIGRATORI
Un convegno che diventa piazza dell’amicizia sociale

Meno male che il numero 19 è ancora possibile associarlo  a eventi straordinariamente belli come il Convegno Franco ArgentoCulture e letteratura dei mondi. Si è tenuto venerdì 4 dicembre grazie  all’impegno costante del CIES Ferrara e della Associazione Cittadini del mondo, con la collaborazione del Comune di Ferrara e dell’IT “V.Bachelet” e con il  patrocinio del MIUR. Il titolo: Nuovi paesaggi migratori.
Si è tenuto nella forma del collegamento su piattaforma Youtube, ma dico subito che è stato possibile percepirlo non come un evento “a distanza”, al contrario. Si sono avvicendati relatori di provenienza, età e formazione culturale diversa: tutti generosi nel far sentire la loro voce e le parole, tutti capaci di coinvolgere gli uditori come attirandoli dentro uno spazio comune, dematerializzato ma palpabile. Ho provato entusiasmo.

Ora vorrei andare con ordine e dare conto della impeccabile conduzione di Paolo Trabucco e degli interventi, anzi mi verrebbe la tentazione di scrivere gli atti del Convegno. Non ho qui lo spazio per farlo e non è detto che ne darei il resoconto più efficace. Alessandro Manzoni insegna: ha evitato di scrivere un secondo libro, pienissimo di ragionamenti, obiezioni e risposte alle obiezioni sul suo I Promessi Sposi, nella convinzione “che di libri basta uno per volta”.
Mi allineo e decido di riportare i momenti che mi hanno entusiasmata. Tanto, il convegno è stato una fucina di idee, di dati rigorosi e di scenari sulla contemporaneità, una rete di pensieri liberi che mi fanno muovere dentro a una piazza ideale. In qualunque punto avvenga il mio ingresso, qualunque sia il percorso che faccio dentro la piazza posso assorbirne le voci e portarle a mia volta in giro caricandole di altre conoscenze, di aspettative e di speranza. Potrebbe essere intitolata all’orizzonte semantico del Convegno e chiamarsi Piazza dell’amicizia sociale. Ci potrei incontrare due insegnanti che hanno, il primo creato, il secondo animato le precedenti edizioni del Convegno: Franco Argento e Alberto Melandri.

Ascolto l’intervento dell’antropologo britannico Iain Chambers, autore tra gli altri del testo Paesaggi migratori, uscito in Italia una prima volta nel 2003 e di nuovo nel 2018, a cui si ispira il titolo del Convegno. La parola migrazione è utilizzata da lui  in modo ampio e libero: la migrazione non riguarda solo il nostro presente, è fenomeno antico, allo sguardo esperto del relatore risulta essere un elemento centrale nella formazione della modernità. La migrazione non segue e non ha seguito soltanto le rotte dall’Africa verso l’Europa, ma linee di movimento diverse e direzioni di marcia opposte a quelle che ci dicono gli stereotipi da cui siamo bendati. L’esempio che fa Chambers riguarda l’Algeria,  dove nel secolo scorso si erano trasferiti circa un milione di stranieri, tra cui numerosi nostri connazionali.
Algeria, così come Tunisia e Libia,  significano Mediterraneo, quel Mare Nostrum che da due millenni almeno viene mappato sulla base di categorie culturali ed economiche eurocentriche. Chi ha diritto di definire, di narrare la storia del Mediterraneo? Perché non superare l’ottica del colonialismo e attivare punti di vista differenti, restituendo simmetria al potere della narrazione, e riconoscendo per esempio alla lingua araba la legittimità di leggere l’assetto attuale di questa area del mondo? E poi, insieme alle lingue e alle letterature, quali mondi e quali integrazioni possono mettere in luce le altre arti! Quale viatico per leggere la complessità del nostro presente. Scorrono sul video immagini di danze, ascoltiamo un brano musicale intenso.  Mentre avverto che la voce e la musica della cantautrice palestinese Kamilya Jubran non mi sono familiari, penso che lo possono diventare.

Intervengono alcuni studenti del Liceo Carducci e più tardi altri del Liceo Ariosto e dell’Istituto ITI Copernico. Scopro che ‘gli Ariosti’ sono di una classe meravigliosa che ho lasciato due anni fa. Ora sono in quarta e li ritrovo sempre sensibili e preparati. Sono commossa, ma questa è un’altra storia.
Qui tutti i ragazzi che parlano sono informati, intensi e propositivi. Riportano l’attenzione al mondo che ci è più vicino, alla nostra provincia, alla nostra città, al Quartiere Giardino sul quale sono stati pubblicati due testi: la Guida turistica e Il viaggio in un quartiere multietnico. Nei loro interventi  sondano le cause della integrazione difficile tra ferraresi e immigrati, forniscono dati ma soprattutto aprono nuovi scenari in cui le differenze sono fonte di ricchezza per la comunità. Espongono le tante attività svolte negli ultimi tre anni da classi di ogni ordine di scuola, da circa mille studenti del nostro territorio. Raccontano le loro esperienze di incontro e di scambio con giovani come loro, con giovani stranieri carichi di storie. Come Kelvin, che viene da una città del Brasile e a Ferrara ha frequentato i corsi del Centro per l’istruzione degli adulti. Kevin propone di rivalutare il Quartiere Giardino anche attraverso le attività artistiche; come lui i ragazzi dell’ITI Copernico sembrano essersi messi d’accordo con Chambers e si esprimono cantano un pezzo rap di cui hanno composto il testo, un intenso testo poetico.

Si alternano ai giovani altri relatori esperti. Resto colpita dal taglio che Federico Faloppa ha dato al suo progetto Beyond the border, dove il concetto di confine viene presentato come uno spazio complesso che non coincide con la linea di frontiera comunemente intesa, ma comprende le aree in cui sostano le persone che migrano, le condizioni in cui vivono nel momento del passaggio, le azioni di controllo su di loro, le sovrapposizioni di lingue e di culture in movimento. I confini sono inoltre di vario tipo: ci sono confini visibili, quelli tracciati sulle carte geografiche, e confini che non si vedono, come quelli interni alle società, segnati per esempio dalle isoipse socioeconomiche.
Ce ne sono nella stessa città di Ferrara, come è emerso dalle parole degli studenti, e separano non solo i ferraresi rispetto agli immigrati ma anche i ferraresi tra loro.
I confini sono altresì studiati da Faloppa  come luogo di interrelazione, come spazio sociolinguistico della intermediazione. Quante lingue parlano correntemente molti migranti, che andrebbero valorizzate e condivise; quanti cartelli scritti in più lingue nei punti di passaggio tra un paese e l’altro, sulle barriere che i migranti cercano di superare mentre sono in fuga da guerre e violenze. Osservo le immagini di individui aggrappati a grappoli alle reti che li separano dalla loro meta, dal paese a cui vorrebbero accedere. Sono senza individualità e senza nome.

Sono flussi, ci ricorda Tahar Lamri: un’altra parola tutt’altro che innocente con cui sono designati. Da chi? Dalla lingua corrente con il suo appiattimento lessicale, dalle testate di alcuni giornali e da altri media. Occhio ai media, allora. Ecco i contributi del gruppo che si è costituito a Ferrara  nel 2010 per costituire un osservatorio sulle discriminazioni verso gli stranieri  che appaiono sui giornali e sugli altri mezzi di comunicazione. Ritrovo Adam e Shazeb: quanta strada hanno fatto le loro indagini sugli stereotipi, sulle fake news, sui titoli dei quotidiani che demonizzano i migranti; quanti incontri nelle scuole, quante pubblicazioni. L’ultimo loro report si occupa di etnic profiling, cioè della tendenza delle forze dell’ordine a intensificare i controlli sulle persone che appartengono a minoranze etniche. In questo periodo Covid, i giornali si sono occupati spesso dei controlli effettuati a causa della emergenza sanitaria; spesso questi controlli sono  mirati sugli stranieri e finiscono per includere i loro documenti e i permessi di soggiorno, come evocando il binomio immigrato uguale contagio.

Eppure, come anche Ibrahim Kane Annour ribadisce col suo stile accorato, sono migranti anche gli svizzeri, i canadesi o gli statunitensi che vengono in Italia. La migrazione resta il sintomo inevitabile degli squilibri tra le aree del pianeta, smettiamola con lo stereotipo del migrante che viene dall’Africa e magari porta con sé il pericolo di malattie. I migranti portano altresì nuove risorse, contribuiscono alle economie dei paesi di arrivo, hanno diritto di esserne parte come cittadini a pieno titolo.

Poi parla Nader Gazvinizadeh: è graffiante come lo ricordavo e attorno alla sua voce il silenzio sembra rapprendersi in una concentrazione totale su di lui. Ha ascoltato con attenzione tutti i precedenti interventi e dice agli studenti e ai giovani di Occhio ai media: per ognuno di voi ci sono migliaia di schiavi che lavorano nelle campagne del sud. Va guardata in faccia la realtà: il problema non è il razzismo, lo sono i crimini fatti in nome del razzismo. Dice: ammetto di essere razzista e per questo devo conoscere e combattere il mio razzismo; a questo scopo devo usare il mio coraggio, non per sbandierare il principio di uguaglianza e fuggire con ciò la diversità.
Come ha detto Chambers, le differenze possono coesistere in uno spazio senza separazione. I confini nel progetto illustrato da Faloppa sono aperti, sono porous borders.

Non posso non riportare almeno le fonti seguenti:
SITO CIES Ferrara: comune.fe.it/vocidalsilenzio/index.htm
Ultimo report di Occhio Ai Media [Vedi qui]

  • Iain Chambers, Paesaggi migratori: cultura e identità nell’epoca postcoloniale, Meltemi editore, 2003 e 2018
  • AAVV, Il giardino del mondo. Viaggio in un quartiere multietnico di Ferrara, Este Edition, 2020
  • AAVV, Il Quartiere Giardino di Ferrara. Guida turistica. Edizione multilingue, Este Edition, 2019

INCERTI TRA PASSATO E PRESENTE
Da Gutenberg a Galileo: la nostra eterna diffidenza verso il Nuovo

Ci racconta Socrate, nel Fedro di Platone, che per Thamus, sovrano dell’Egitto, la scrittura ideata dall’ingegnosa divinità Theuth, anziché sapienza, avrebbe inculcato nell’uomo il germe della dimenticanza. I segni estranei della scrittura erano destinati a produrre solo dei portatori di opinioni, anziché dei sapienti. Mito che riecheggia timori e pregiudizi nei confronti di tutto ciò che per l’uomo è nuovo, che l’uomo non ha ancora sperimentato. Di fronte alle tecnologie e alla scienza prende il sopravvento la parte più primitiva del nostro cervello, la diffidenza, come la repulsione innata verso i rettili.

Ma è che il nuovo, nel senso di modus, di moderno ci scuote nelle fondamenta. Paradigmi e strutture mentali vengono rivoluzionati, il pensiero di prima non è più quello di dopo, neppure le abitudini e le condotte. C’è sempre qualcuno che si affatica a tradere, a trascinarsi dietro la tradizione da consegnare ai tempi nuovi, perché il distacco da ieri non produca l’abbandono della sapienza consolidata, a prescindere dalla sua utilità.
Il nuovo produce accelerazioni, più avanza, più si genera rapidamente. Il secolo breve di Hobsbawm, tra catastrofi, frane e ideologie malate, ha assistito a rivoluzioni nel campo delle tecnologie e della ricerca scientifica mai così impensabili e numerose. Scienza e tecnologia hanno rivoluzionato i nostri paradigmi, le nostre modalità di ragionamento, i nostri approcci con la realtà e con il sapere.

In un secolo abbiamo assistito al sopravvento delle automobili e degli aerei, dei trasporti veloci, fino ai viaggi interplanetari, allo sviluppo della cinematografia, all’avvento della radio e della televisione, sino alle nuove tecnologie informatiche, alla scoperta di cure e vaccini che ci hanno consentito di sconfiggere malattie mai prime debellate, di migliorare la qualità della nostra vita e di prolungarne la durata. Siamo il prodotto di rivoluzioni culturali che hanno inciso sul nostro modo di essere e di pensare e tutto lo abbiamo vissuto come il risultato naturale del progresso, frutto delle ricerche e del genio umano. Una umanità avventurosa nei secoli passati, che ora pare aver paura di se stessa, che ha perduto l’entusiasmo della conquista, come se si fosse sconfitta da sola. La gara con la vita è sospesa, il mito prometeico relegato in soffitta. Diffidenti di noi e degli altri siamo precipitati nel sospetto che tecnologia e scienza siano alleate in un progetto di manipolazione biologica, di mutazione genetica, di controllo delle nostre esistenze, di sfruttamento degli individui, di limitazioni delle libertà personali.

L’uomo si ripete. Il mito di Theuth e Thamus ci racconta delle resistenze nel passare dall’oralità alla nuova tecnica della scrittura: farmaco del ricordo o inibitore della memoria? Così l’avvento della stampa: tecnologia di controllo o tecnologia di libertà? Sarà proprio la stampa della Bibbia che consentirà a Lutero di sperimentare la più grande forma di libertà che l’umanità abbia mai conosciuto: la libertà di pensiero.
Per non parlare della tecnologia del cannocchiale di Galileo che ha portato alla rivoluzione di tutto il sapere, affrancando la conoscenza dalla dittatura delle sacre scritture.

Siamo divenuti schizofrenici. Da frenetici compulsatori di telefonini e computer, al sospetto che le protesi delle nostre vite quotidiane ci si possano rivoltare contro. Abbiamo coniato i ‘nativi digitali’ e la ‘generazione zeta‘ per prenderne le distanze e nello stesso tempo nascondere i nostri sensi di inferiorità. Scordandoci che, noi figli della cultura libresca, dei testi, delle scritture e degli alfabeti, siamo stati gli dei creatori degli idoli di queste ragazze e ragazzi, noi che veniamo dal secolo passato. Pare quasi che misconosciamo le nostre creature, che vogliamo liberarci dalle nostre responsabilità, come se ci fossero sfuggite di mano, scatenando effetti che non avevamo conteggiato. E mentre crescono le cattedrali del digitale, noi ci ritiriamo nelle nostre antiche chiese a contemplare quanto era bello giocare a pallone in mezzo alla strada, anziché trascorrere le giornate a messaggiare col telefonino, o di fronte al desktop del personal computer.

Spendiamo parole di retorica sulla didattica in presenza per quanto manca, condanniamo la didattica a distanza, scordando che quella roba lì l’abbiamo inventata noi del secolo scorso. Non la chiamavamo didattica a distanza, la chiamavamo Telescuola. Un progetto formativo innovativo con quattro milioni di ascolti giornalieri, che dal 1958 al 1966 ha consentito il completamento del ciclo di istruzione obbligatoria ai ragazzi residenti in località prive di scuole secondarie.
Perché, non era forse didattica a distanza Non è mai troppo tardi? A fronte dell’elevato analfabetismo nell’Italia degli anni ’60, le quotidiane lezioni del maestro Manzi hanno permesso a un milione e mezzo di italiani di conseguire la licenza elementare.

Allora il problema non è la didattica a distanza che comunque è una soluzione, il problema invece siamo noi. Lo scriveva uno dei pensatori più originali del Novecento, Vilém Flusser, nel suo La cultura dei media. Viviamo in un mondo che non è più sinonimo di progresso, ormai non racconta più storie e vivere in esso significa smettere di agire.
È possibile che l’avvento della pandemia abbia dilatato questa sensazione, ma l’impressione è che a scomparire siano sempre più i pensieri, le intelligenze, le idee e le riflessioni. La capacità di immaginare domani possibili, un’impotenza a cui pare incatenato il nostro tempo.

La crisi di valori alla quale spesso ci appelliamo, non è una crisi etica, ma una crisi di significato, di significati condivisi. Non sappiamo deciderci a compiere il passo definitivo, incerti tra il nostro mondo di testi, di scrittura alfabetica, di logiche matematiche, ancora del secolo scorso, e il nuovo mondo della tecnologia e dei suoi valori, il mondo delle generazioni che non vengono dal nostro lontano, ma dal nostro vicino, quello a cui ancora guardiamo con dissimulato sospetto.
Da questo stallo dovrebbero liberarci la cultura, la scuola e le università, ma anche loro di fronte al nuovo non stanno dando il meglio di se stesse, prigioniere del passato faticano a scavallare il secolo.

Dalla parte del torto, un po’ di lato

Una donna speciale Lidia durante tutta la sua lunga vita. Ci mancherà: tanto. Pubblico con piacere e commozione questo ricordo dell’amico Piergiorgio Paterlini.
(Effe Emme)

di Piergiorgio Paterlini

Di lei, della carissima Lidia Menapace, portata via dal Covid-19 non importa a che età, sempre troppo presto e davvero tristemente, sentirete dire e leggerete, e avrete già sentito dire e letto, tutto il bene possibile.

So che non dovrei scriverlo, ma non ci riesco. Non solo eravamo molto amici, ma ci volevamo un bene dell’anima, un  affetto forte e più ancora allegro. E io tutta la vita, fin da ragazzino, da questo affetto senza compiacimento mi sono sentito scaldato (a partire da quel diventare ex-cattolici che non era poi una faccenda tanto semplice). E adesso ho più freddo di ieri.

Perché lei sapeva trasmettere affetto, ma era anche sempre tosta, e implacabilmente ironica, una cosa che io amavo infinitamente. Una di quelle rare persone che – non si sa bene come facciano – riusciva a non farti pesare il dolore nel momento stesso in cui te lo raccontava senza sconti e senza alcun falso pudore.

Non lo dovrei scrivere, che eravamo così amici, perché cosa ve ne importa, a voi lettori? Nulla. Giustamente. E non sto mica usando lei, e la sua morte, per parlare di me, tanto meno per vantarmi o crogiolarmi nell’anedottica. E perché lo diranno, lo hanno già detto, lo stanno dicendo a migliaia.

Mi fa piacere?

Sì e no.

Le manifestazioni d’affetto per una persona cara scomparsa commuovono sempre. E che lei avesse tantissimi amici e tantissime persone che le volevano bene è assolutamente vero.

Ma io ne ho già beccati tanti, in queste prime ore di lutto, falsi e bugiardi e ipocriti.

E questo mi fa male e mi fa incazzare e non ho voglia di farlo passare così.

Allora scriverò una sola cosa di lei, una soltanto ma che che sono sicuro – purtroppo – non leggerete mai, da nessun’altra parte.

Se c’era da far fuori qualcuno, in un partito, in un giornale, in un’organizzazione… lei state sicuri era la prima. Se c’era da scegliere fra lei e un altro/a, era l’altro/a che passava davanti e spesso che le passava proprio sopra. Più volte di quanto potreste immaginare, è successo.

Perché è scoprire l’acqua calda che c’è il potere e i ci sono i giochi di potere e le classi e i privilegi e chi frequenta e chi non frequenta anche nelle “sinistre”. Allora sappiate che lei, in questo nostro mondo, era una di quelle che non frequentava e non contava. Non era nata abbastanza bene. Né sposata abbastanza bene. Nonostante l’intelligenza, la cultura, la storia personale, il coraggio, la dedizione, non era mai stata ammessa nel salotto buono della rivoluzione. Poi non era vittimista e ha fatto, questo è vero, a dispetto di tutto e di tutti, una montagna di cose buone e belle nella sua pienissima vita.

Cento anni dalla parte del torto, cara Lidia, con allegria, con ironia, dalla parte del torto come molti di noi, orgogliosamente, ma… anche un po’ di lato, in terza fila, che gli altri posti erano già tutti occupati da persone più importanti di te. Scusa, cara compagna, sei brava, ma… fatti un po’ più in là, per favore.

Quelli che senza tante cerimonie l’hanno sempre scansata, abbiano un po’ di pudore, oggi, nella loro triste retorica, mentre la piangiamo con lacrime che non sono di coccodrillo.

Pubblicato su Nuvole, il blog di Piergiorgio Paterlini [Vedi qui]