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Ferrara film corto festival

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Biblioteche pubbliche e sociali
Una ‘piccola’ petizione popolare pone grandi questioni

Una decina di giorni fa abbiamo depositato 2065 firme a sostegno della petizione sul rilancio del sistema bibliotecario comunale, promossa dalle lavoratrici e dai lavoratori delle biblioteche stesse e fatta propria da CGIL-CISL-UIL di categoria e dalla RSU del Comune.  E’ un fatto molto significativo, quello di aver coinvolto più di 2000 cittadini in neanche un mese di raccolta firme, su un tema come quello del futuro delle biblioteche in città, che propone diverse riflessioni. La prima, naturalmente, è quella relativa all’efficacia di tale iniziativa. Al di là delle pur fondamentali procedure istituzionali, che prevedono che la Giunta o il Consiglio Comunale devono rispondere entro 60 giorni alla petizione presentata, abbiamo già inviato al sindaco una richiesta di incontro per spiegare i contenuti e le motivazioni di questa nostra iniziativa, che pone alcune questioni rilevanti sul futuro del sistema bibliotecario e sulla stessa idea di promozione culturale in città. E cioè che si riprenda e si dia corso alla realizzazione di una nuova e strutturata biblioteca nell’area Sud della città, che si rimpiazzino le lavoratrici e i lavoratori che stanno giungendo al pensionamento per garantire almeno il livello quali-quantitativo dei servizi attualmente offerti e, ultimo ma non certo per ordine di importanza, che si sviluppi una discussione pubblica sulla necessità di innovare e adeguare alle mutate condizioni il sistema bibliotecario e culturale in città.  Misureremo le intenzioni dell’Amministrazione su questi punti, che non possono essere messere facilmente tra parentesi, non solo per il numero significativo di sottoscrittori della petizione, ma ancor più per i suoi contenuti, ai quali ci atterremo strettamente per dare poi il nostro giudizio sulle scelte dell’Amministrazione in questo campo.

Il riscontro positivo della raccolta firme sulla petizione, poi, induce a sviluppare qualche ragionamento più di fondo. Intanto sul significato e il ruolo della partecipazione della cittadinanza alla definizione delle scelte di governo della città, che, ancora una volta, si dimostra essere viva nel momento in cui si affrontano questioni concrete e su cui si può, almeno potenzialmente, influire. Senza troppa enfasi, penso si possa sostenere che la raccolta firme sulla petizione rappresenta un buon tassello per costruire un circuito virtuoso di democrazia partecipativa. Quella che vive in un intreccio tra iniziativa strutturata della cittadinanza e decisione nelle sedi istituzionali proprie, a partire dal Consiglio Comunale, che non contrappone l’una all’altra, ma, anzi, le rafforza vicendevolmente, che non si limita all’espressione del voto una volta ogni 5 anni, ma che non si nutre neanche dell’esaltazione acritica della democrazia diretta. Democrazia partecipativa, che, peraltro, ha bisogno di procedure ancora più precise e forti per favorire l’espressione dei cittadini, di poter avere a disposizione sedi pubbliche di incontro e informazione, di un rilancio di luoghi “istituzionali” diffusi territorialmente che possano ricostruire legami sociali e discussione larga.

Occorre poi mettere a punto un ragionamento più compiuto sul ruolo della produzione e diffusione della cultura nella città. A questo proposito, diventa fondamentale recuperare il concetto di ‘bene comune’ nel suo significato più alto, quello, per intenderci, avanzato in particolare dal compianto Stefano Rodotà e uscire dalla banalizzazioni di cui è stato oggetto. Bene comune è quello che garantisce diritti fondamentali – e la cultura è certamente tra questi- e la cui gestione, necessariamente, è pubblica e partecipata. Pubblica, nel senso che non può soggiacere alle logiche di mercato e profitto, e partecipata, nell’accezione che essa si realizza a partire dalle scelte politiche e amministrativa, ma cammina sulle gambe dei soggetti che producono il bene comune e di quelli che ne usufruiscono, né consumatori, né clienti, ma coprotagonisti delle scelte che si compiono in proposito.

Per stare al tema delle biblioteche, ciò significa orientarsi verso un modello di ‘biblioteche sociali’: luoghi di diffusione e produzione culturale, ma anche di incontro e promozione di attività dei tanti soggetti e associazioni che intervengono in questi campi, con modalità di relazioni e di decisione che mettano al centro queste stesse realtà assieme a chi lavora all’interno delle biblioteche.

Infine, per incrociare un tema di cui si parla molto e ancor più si specula, mi piace affermare che produrre e diffondere la cultura significa anche contribuire a costruire una città ‘sicura’: se solo si riesce ad uscire dallo stereotipo securitario, forse ci si rende conto che vivere sentendosi sicuri passa anche attraverso la comprensione di ciò che accade nella città e nel mondo, dotarsi degli strumenti per farlo, abbattere le diffidenze nei confronti dell’altro e del diverso, costruendo le relazioni e i legami sociali che lo consentano, riappropriarsi della vivibilità del territorio con i necessari presidi pubblici e di socialità che possono sostenere questa prospettiva.

Insomma, anche una ‘piccola’ petizione come quella sul sistema bibliotecario comunale ci può parlare di grandi questioni. Se solo le vogliamo cogliere e, ancor più, tornare a puntare sul confronto e l’incontro tra le persone e mettere da parte il rancore e l’individualismo che troppo continua a circolare e a far male alla nostra città e alla società tutta.

L’universo colorato, surreale e ironico di Gabriele Turola in mostra da IdeArte

Disegni colorati e pieni di rimandi mitologici, surreali e ricchi di giochi di parole e calembour quelli di Gabriele Turola, pittore, poeta, illustratore e saggista scomparso all’improvviso nella sua casa di Ferrara nell’agosto 2019 a 74 anni. A lui e a queste opere ricche di stimoli visivi e intellettivi sarà dedicata la mostra “Le carte di Gabriele” a cura di Lucio Scardino. L’inaugurazione sarà sabato 21 dicembre 2019 alle 18 e rimarrà visitabile fino a venerdì 31 gennaio 2020 alla galleria IdeArte (via Terranuova 41, Ferrara).
Il critico Lucio Scardino spiega: “Con l’amico Paolo Orsatti siamo stati i primi editori di Turola, io delle sue originalissime poesie e lui dei ‘Percorsi magici di Ferrara’, e lo abbiamo seguito per decenni”. Ecco allora l’idea di allestire la sua prima mostra postuma ferrarese. In esposizione ci saranno una quindicina di tempere e chine su carta. “Un caleidoscopio di immagini – racconta Scardino – dove spesso sono protagoniste le vedute della città di Ferrara, trasfigurata in modi imprevedibili e dal taglio assolutamente personale”. È il caso del Castello Estense rappresentato con un volto radioso, della Domus turca in dialogo con la chiesa di San Michele con il leggendario mago Chiozzino che fa la sua comparsa dietro l’angolo. Ci sono poi immagini che reinterpretano miti eccentrici, come la “Leda col cigno” ispirata a quella che eseguì Michelangelo per i camerini di Alfonso I d’Este e collocata da Turola in cielo in una dimensione che il critico definisce di “ideale sospensione tra Meliès e Depero”. Non mancheranno – assicura – figure antropomorfe e neo-surrealismi, il fumetto che si incrocia con la filosofia, la Natura mitizzata e sconfitta, angeli e bestie, Savonarola e i geroglifici 2.0 insieme con miniature che si possono collocare nell’ambito della pop-art. Un’occasione per esplorare quell’universo in cui – conclude Scardino – l’autore voleva tentare di decrittare a modo suo un mondo sempre più incomprensibile.
La mostra è stata resa possibile grazie anche alla collaborazione di Giuliana Artioli, Giuliana Berengan, Paolo Orsatti, Corrado Pocaterra e Massimo Roncarà.

“Le carte di Gabriele” a cura di Lucio Scardino, Galleria Idearte, via Terranuova 41, Ferrara – Da sabato 21 dicembre 2019 (ore 18) fino a venerdì 31 gennaio 2020, aperta dal lunedì al venerdì ore 10-12.30 e 16-19, sabato e festivi su appuntamento allo 0532 186 2076. Ingresso libero.

DIARIO IN PUBBLICO
La nobiltà della cultura (e un pensiero inquietante)

E mentre ascolto la Divina Maria gareggiare con la ‘popputa’ Netrebko (Aspesi dixit) tra Tosca e Mes mi avvio a parlare di un libro importante appena uscito nella nostra Edizione nazionale delle Opere di Canova, le “Lettere 1814” a cura di Carlo Sisi e Silvio Balloni. Il luogo è a Firenze ed è quello dell’Accademia fiorentina che custodisce il David. Da un anno Sisi ne è il presidente. All’arrivo mi rapisce per farmi vedere il gran quadro dei Cinque sensi che ha voluto al sommo della scala. Di scuola ferrarese ‘naturalmente’. Sono emozionato, quasi sull’orlo di una commozione irrefrenabile; vedo infatti la mia casa fiorentina a cento metri dall’Accademia tutta lustra e pettinata e so che l’ho lasciata. Mi raggiunge proprio lì il mio amico e sommo editore Daniele Olschki e mi consegna un libro da lui edito su d’Annunzio e la Commedia dantesca dedicato al ‘Fiorentin fuggiasco’ ovvero a chi scrive queste note. E la commozione cresce. Nella sala del Cenacolo strapiena ritrovo amici, allievi, colleghi d’Università ma il ‘coup de théâtre’ sono le sei principesse, vere, autentiche eredi dei grandi casati fiorentini, di età indefinita. Fanno loro contorno, tra la fitta presenza degli studenti, marchesi e duchi tra cui riconosco il figlio di Memi Ginori che in altri tempi mi offrì una colazione servita nei piatti dalla loro straordinaria fabbrica creati per la regina Margherita. Il mio lato infantilmente snob tra i sorrisi ironici degli amici carissimi si risveglia e mi preparo a una esposizione degna di tal pubblico. E mentre Balloni mi dedica un ringraziamento che – questa volta sì – mi ridà fiducia nell’importanza non artefatta dell’insegnamento mi appresto a gareggiare in ‘scientia et sapientia’ con i curatori e con il grande storico Conti che mi affianca. In prima fila Paola Pinto sorride ai complimenti tutti meritati che Sisi le rivolge parlando del bilico lo strumento che permette di far girare la statua per osservarla dai migliori e più diversi punti di vista e dell’introduzione di questa straordinaria invenzione canoviana per meglio comprenderla e che lei ha fatto rimettere nientemeno alla colossale statua dell’Ercole e Lica nella Galleria romana. Si parla di incendi, il destino incredibile della statua della Sonatrice con i cembali posta al centro della Canova-Saal del principe Razumowsky a Vienna. Il principe già dedicatario del celebre quartetto di Beethoven che porta il suo nome volle illuminarla con un lampadario di più di cento candele che crollò e incendiò il palazzo ma la statua venne salvata perché gettata da una finestra del palazzo in fiamme.
E’ il momento allora di rivendicare i miei crediti con le grandi famiglie che mi hanno dato fiducia e credito. Dagli eredi di Tambroni ancora proprietari di significative testimonianze canoviane ben illustrate dalle lettere canoviane e ancor più dalla mia famiglia adottiva erede di Leopoldo Cicognara, i Giglioli Maffei che da quando ero ragazzo mi hanno aperto l’archivio, la casa e il cuore. Ora una di loro è la mia sorella adottiva e i suoi nipoti sono miei nipoti. O i 25 anni passati a Bellosguardo respirando l’aria di Foscolo e di Canova e dove ancora vive l’altra mia sorella adottiva.

Potrebbero risultare queste note le vicende di una vita privata ma che invece hanno permesso di costruire il nucleo forte dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova. Di riuscire a collegare i maggiori studiosi di Canova e del Neoclassicismo che operano a Bassano, la terza città di cui mi sento cittadino.
Penso allora al significato della cultura nel suo senso che dovrebbe essere il più nobile e nello stesso tempo il più ovvio.
Allora un pensiero inquietante mi assale. Saremo capaci di restituirla agli ‘italiani’ o meglio al mondo?

PER CERTI VERSI
L’eco

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

L’ECO

La tua mancanza
È nello stomaco
Che sprofonda
Ma tu ci sei
Mentre rido da solo
Come una catena nel pozzo
L’eco scuote la schiena
Poi si allarga
in cerchi nello stagno
E quasi scongiuro che non passi qualcuno
Mentre rido solo
E inseguo i cerchi
L’eco

Teresa De Sio e le sue canzoni entrano in carcere

Nel carcere di Ferrara Teresa De Sio doveva arrivare quindici giorni fa. Una brutta influenza l’ha costretta ad annullare il concerto a favore dei detenuti. Ma ci teneva davvero: sembra abbia avuto lo scrupolo di giustificarsi, inviando tanto di certificato medico alla Casa Circondariale Costantino Satta. Una promessa è una promessa, e ieri pomeriggio (12 dicembre) la grande interprete napoletana ha varcato porte e cancelli del carcere di via Arginone. Ad assistere all’incontro-concerto e ad applaudirla, gli agenti, gli educatori, e naturalmente i detenuti; questi ultimi  godevano in via eccezionale di tre ore d’aria (e di musica). Finalmente fuori dalle celle.

Prima del concerto per pianoforte e voce, la proiezione di ‘Crai!’, un bellissimo docufilm, tratto da uno spettacolo ideato una decina di anni fa dalla stessa De Sio insieme al cantautore, scrittore e attivista politico Giovanni Lindo Ferretti, che mette in scena e racconta gli ultimi rappresentanti della tradizione popolare dei Cantori di Puglia. Poi Teresa De Sio incomincia a cantare, accompagnata alle tastiere dal pianista Francesco Santalucia. Canta alcune delle sue canzoni più conosciute: la famosissima ‘Voglia ‘e turnà’ (entusiasmo fra il pubblico) e ‘Chi tene ‘o mare’, un omaggio all’amico scomparso Pino Daniele. Conclude con una canzone nuova, tratta dall’ultimo album ‘Puro desiderio’ che da febbraio porterà in giro per l’Italia. Non è una canzone scelta a caso. Sembra proprio una dedica affettuosa a tutti i carcerati. Si intitola ‘Mia libertà’.
Alla fine (e appena prima degli abbracci e delle foto ricordo), la nuova direttrice del Casa di Detenzione Maria Nicoletta Toscani  – arrivata a Ferrara all’inizio di quest’anno – sottolinea come sia importante portare l’arte e la cultura dentro il carcere. E promette: “Questo è solo il primo di un lungo ciclo: abbiamo in programma trentacinque incontri pubblici con tanti docenti dell’Università di Ferrara, titolo della rassegna: Cultura e Libertà.”.

Fascino e mistero di giardini e labirinti: a Ferrara un percorso iniziatico pubblico

Da millenni giardini e labirinti si configurano come strettamente correlati e non sempre distinguibili. Gli uni possono esistere senza gli altri, e viceversa, ma quando si trovano a coesistere fino a fondersi e confondersi, la curiosità e la voglia di saperne di più non stentano a manifestarsi impetuose.
Partire dalle origini dei termini aiuta a comprenderne il significato più profondo e il punto di partenza della loro storia. Etimologicamente, infatti, giardino vuol dire luogo chiuso, solitamente ornato con colture erbacee o arboree, mentre del labirinto, inteso oggi come intreccio inestricabile, poco si sa. Ripercorrere le ipotesi stilate da esperte ed esperti può essere interessante: visto che la terminazione della parola labýrinthos rimandava in una antica lingua greca al concetto di luogo, si era ipotizzato che il labirinto fosse la casa di un’arma del potere, l’ascia bipenne làbrys – e cioè il Palazzo di Cnosso, la leggendaria reggia di Minosse da cui non era possibile uscire senza una guida. Da qualche tempo, però, l’opinione si è modificata, a favore di un’altra interpretazione nata dal rinvenimento, proprio a Cnosso, di una tavoletta micenea di terracotta risalente al 1400 a.c. In questa iscrizione, “labirinto” si riferirebbe a un insieme di corridoi articolati fra loro e destinati al mondo della danza, simile alla raffigurazione presente su un’altra tavoletta, oppure potrebbe voler dire semplicemente danza, arte che da sempre si pone a imitazione del movimento della natura e dei corpi celesti. Ma oltre alla terminazione, vi è anche la radice di labýrinthos da prendere in considerazione, sì perché avrebbe origini pre-indoeuropee e indicherebbe l’idea molto generale di pietra, che secondo gli antichi Greci costituiva le ossa della Madre Terra. Poteva perciò essere visto come il palazzo di una divinità degli inferi, chiamata “signora del labirinto”, il cui dominio si estendeva su un luogo denominato appunto labirinto, e costituito da grotte, dove avrebbe abitato anche il mitico Minotauro. Ma anche nel caso del mito cretese, il Palazzo di Cnosso era realmente come ci è stato raccontato? Tanto per cominciare, non è neppure chiaro se fosse davvero a Cnosso. E soprattutto, emerge un altro problema: è solo con Platone che il labirinto diventa un percorso ingarbugliato ed è l’ellenistico Callimaco a porvi l’uccisione del Minotauro. In effetti, il dedalo cretese era del tutto semplice e di forma immediata, con un tragitto obbligato che dall’ingresso conduce direttamente al centro, senza inganni. E per giunta, non era una costruzione artificiale, come piuttosto inizierà a essere percepito dall’epoca romana. Il primo a tramandare per iscritto il mito del labirinto di Cnosso fu del resto Callimaco, che lo descriveva come luogo tortuoso, ed è forse proprio a lui che dobbiamo l’inizio della concezione odierna. L’esperienza simbolica del labirinto, vero e proprio viaggio insidioso di iniziazione che dalle ombre circostanti conduce solo chi è pronto alla luce del suo centro, è a Ferrara percorribile da chiunque lo voglia. Tale simbolo visse un momento d’oro nel Rinascimento, avviato urbanisticamente proprio dalla nostra città, che si riempì di giardini di estrema perfezione, ammirati da tutte le persone illustri che poterono visitarli. L’individuo, al centro del proprio universo, era ora libero di intraprendere nei labirinti dei giardini la via che più preferiva, al di là di qualsiasi costrizione esterna. Il Palazzo Costabili, sede del Museo Archeologico Nazionale, è figlio di quel periodo storico, ma il labirinto di bosso che vanta attualmente è in realtà più tardo. Venne aggiunto dopo gli anni Cinquanta, in spazi che prima risultavano vuoti e che nell’età rinascimentale erano adibiti a prati, dove crescevano anche piante spontanee.
Dalla spontaneità del giardino primordiale, l’Eden, alle costruzioni sempre più ingarbugliate e labirintiche, il trait d’union può forse ritrovarsi, sorprendentemente, nell’essere umano, che nel cammino della propria esistenza è sempre chiamato a ricercare il senso delle cose e di se stesso, percorrendo strade tortuose indirizzate alla morte e rinascita nel giardino della Conoscenza.

 

Museo Archeologico Nazionale di Ferrara
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La città: antropologia applicata ai territori

Nel corso del 2007, la popolazione urbana nel mondo ha superato la soglia simbolica
del 50%. Mobilità, eterogeneità socio-culturale e densità abitativa segnano sempre più
anche contesti tradizionalmente considerati folk societies: un dato particolarmente
significativo per un paese a urbanizzazione diffusa come l’Italia, composto per lo più
da città di piccole e medie dimensioni. La retorica della globalizzazione sottolinea
l’accresciuta, quanto asimmetrica tendenza alla mobilità, alla de-territorializzazione e
l’importanza assunta dalla compressione spazio-temporale. Al tempo stesso, le realtà
urbane continuano a rivestire un ruolo significativo per processi di riterritorializzazione
fortemente disomogenei, sia dal punto di vista materiale che socioculturale. Inoltre, le città
sono centri del potere economico, discorsivo e sociale e in
quanto tali si configurano come luoghi della contraddizione e dell’espressione del
conflitto. Eppure, in molti paesi — e in Italia in modo evidente — le amministrazioni
locali e centrali stentano a riconoscere il “sapere urbano” prodotto dalle scienze sociali,
privilegiando consulenze e interventi di natura più tecnica, in particolare di tipo
ingegneristico e architettonico.
L’intento principale di questo Convegno è stimolare un dibattito sui fondamenti teorici,
metodologici e applicativi di un’antropologia capace di confrontarsi in modo maturo
con la ricerca urbana, in considerazione del riconoscimento del nesso fondativo tra
città e democrazia: la qualità di una democrazia si distingue anche in funzione del
governo della città e del soddisfacimento dei bisogni dei suoi abitanti, di chi la vive, la
usa o la attraversa per attività produttive, di svago, di socializzazione e lavoro.
Come antropologi e antropologhe, cosa abbiamo da dire sulla città e in che modo lo
diciamo? Quali sono le strade applicative, tracciate o tracciabili, che si rivelano più utili
per indagare le conformazioni dell’urbanesimo contemporaneo? Come la nostra
disciplina può contribuire a leggere i processi di territorializzazione e deterritorializzazione oggi
in atto? E soprattutto in che modo può intervenire sulle
dinamiche di esclusione e riproduzione della sofferenza sociale che li accompagnano?
La pratica etnografica può aiutarci ad integrare sguardi disciplinari diversi sulla città
e, per questa via, a rinnovare in modo più inclusivo e democratico le strategie di
addomesticamento sociale e di governance della città?
Per rispondere a queste sfide, il Convegno incoraggia il dialogo transdisciplinare tra
antropologi e altri ricercatori: sociologi, geografi, politologi, semiologi, architetti,
storici urbani…. Non solo. Cerca anche di violare alcuni “paletti accademici” per
confrontarsi, ad esempio, con produzioni fotografiche e cinematografiche ma anche
opere letterarie che hanno saputo raccontare le trasformazioni avvenute nelle città,
incidendo sulla costruzione dei nostri “paesaggi urbani immaginari”; oppure per
entrare in relazione con gli esperti e operatori sociali che si spendono per un
miglioramento sostanziale della qualità della vita urbana: animatori di quartiere,
designer, comitati cittadini, urban planner, enti territoriali. Siamo convinti che,
partendo dalla specificità urbana, sia possibile costruire un campo transdisciplinare di
ricerca e azione in cui i saperi e le pratiche antropologiche possano trovare un’utile
applicazione, non solo in specifici settori occupazionali, ma anche nello spazio pubblico
e nella sfera della politica.

TEMATICHE

Città e rappresentazioni
L’utilizzo della fotografia e dell’audiovisivo sono strumenti ormai consolidati all’interno
della pratica etnografica e della riflessione antropologica. Nell’epoca dell’ipermedialità,
dove il linguaggio delle immagini entra nel quotidiano, produce nuove forme espressive e
nuove modalità di rappresentazione, gli spazi urbani contemporanei, luoghi ricchi di una
morfologia sociale variabile, permeati di pratiche in continua trasformazione,
rappresentano un campo di sperimentazione fotografica e documentaria che ben si presta
all’uso di diverse tecniche narrative. Allo stesso tempo, le rappresentazioni mediatiche
delle città alimentano immaginari, discorsi politici e cambiamenti spesso contraddittori,
che necessitano di osservazioni approfondite e analisi consapevoli. In che modo i
linguaggi visivi possono contribuire a re-immaginare lo spazio pubblico? Come può
l’antropologia offrire nuove rappresentazioni dei contesti urbani?

Città e sostenibilità
A oggi più della metà della popolazione mondiale vive in contesti urbani, in spazi che
risultano in molti casi inospitali. Un numero crescente di politiche e pratiche di
pianificazione che intendono risolvere i problemi derivanti dal crescente inurbamento
globale rientrano nella promozione di uno sviluppo definito “sostenibile”. Sviluppo,
crescita, efficienza, attrattività sono solo alcune delle parole utilizzate per promuovere,
spesso in forma “brandizzata”, la sostenibilità dei territori urbani. Ma le città possono
essere o diventare sostenibili? In che modo? Quali sono le criticità che accompagnano gli
attuali processi di rilancio urbano e che ruolo può avere l’antropologia nella promozione
di queste azioni? In che modo l’antropologia può contribuire al miglioramento della
qualità della vita urbana e favorire il benessere della popolazione, nello specifico
nell’attuazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile?

Città e forme della politica
Negli ultimi anni, il confronto politico in ambito urbano sembra esprimersi
principalmente nel contradditorio tra movimenti e partiti politici. Questa tendenza ha
generato dinamiche “localiste” che, da un lato, trovano nell’impiego delle nuove tecnologie
forme di mobilitazione “digitale” le cui implicazioni profonde (rispetto a quelle più
“tradizionali” dei circoli e delle sezioni di partito) non sono ancora state indagate
pienamente e, dall’altro lato, si coordinano sempre più spesso con piattaforme di
mobilitazione nazionale genericamente definite come “sovraniste”. In che modo, nel
tentativo di problematizzare e allargare il campo politico del possibile, l’antropologia può
porsi come sapere applicato capace di promuovere una riflessione sul tema e fornire
strumenti utili alla progettazione e attivazione di nuove forme di partecipazione politica?

Città, mobilità, decentramento
Per quanto i processi migratori non siano esclusivamente urbani, la presenza dei cittadini
stranieri nelle città è andata aumentando negli ultimi anni. Un fenomeno che modifica
inevitabilmente il tessuto socio-economico e culturale, ma anche materiale dei territori.
Nel gioco dialettico “inclusione/esclusione”, attraverso quali saperi e pratiche
l’antropologia può contribuire a rendere le città meno disuguali? In che modo può incidere
sui processi di mobilità che conformano le dinamiche di inurbamento? Le città
contemporanee sono sempre più coinvolte anche in esperienze di cooperazione
decentrata, sia incentrate sui temi dell’integrazione, sia basate su rapporti people-topeople.
Nel tentativo di contribuire al decentramento dell’asse di intervento urbano sulle
reti globali, in che modo l’antropologia applicata può concorrere all’attuazione di questo
indirizzo politico, a partire dalla centralità delle relazioni tra locale e globale?

Città, mutamenti climatici e disastri
In un contesto globale in cui gli equilibri pedoclimatici si stanno pericolosamente
rimodellando, la prevenzione e la gestione dei disastri si collocano al centro dell’agenda
scientifica internazionale (meno spesso di quella politica), soprattutto in un paese come
l’Italia, fortemente esposto al rischio sismico e alluvionale, e nelle aree densamente
abitate, industrializzate o di antica costruzione. Proprio in ambito urbano, l’antropologia
può assumere un ruolo centrale nei processi di prevenzione, mitigazione e intervento,
affiancando altri saperi che si occupano di disastri e pianificando strategie più attente ai
contesti sociali e culturali in cui si è chiamati a operare. Quali sono, in questo senso, i
margini e gli spazi a disposizione della disciplina per elaborare piani e programmi più
efficaci di prevenzione e gestione di rischi e disastri in direzione di una riduzione della
vulnerabilità sociale in ambito urbano?
§ Città e partecipazione pubblica alla salute
In una fase di radicali trasformazioni epidemiologiche, sociali e demografiche,
l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha evidenziato, a più riprese, la necessità di far
fronte a un cambiamento dei sistemi sanitari e assistenziali in un’ottica multidisciplinare e
integrata, capace di fare i conti con il progressivo invecchiamento della popolazione e con
l’aumento delle malattie croniche. A partire dalle dimensioni culturali dell’esperienza di
malattia, l’antropologia medica ha riflettuto a lungo sulle sue possibili forme di
applicabilità. Se la definizione di “promozione alla salute” riveste un ruolo di primo piano
all’interno delle politiche sanitarie, rimane da indagare quali siano le simbologie e gli
spazi collettivi in cui la salute “si crea”. Quale può essere la ricaduta di un’antropologia
della salute pubblica applicata ai nuovi contesti urbani? Quali pratiche e forme di
partecipazione assumono le attività di promozione e prevenzione nelle città
contemporanee?

Città e spazi dell’abitare
La riflessione sull’abitare ha rappresentato un oggetto privilegiato d’analisi non solo nella
storia della disciplina, ma nell’intero campo delle scienze sociali. In dialogo con altri studiosi,
gli antropologi concentrano oggi le loro ricerche sul tema del diritto alla città, sulle
trasformazioni dei tessuti urbani, sulla governance, sulle comunità locali, sull’incontro
culturale e così via. Le città contemporanee rappresentano infatti spazi di convivenza e
coabitazione, anche conflittuale, in continua effervescenza e trasformazione, frutto
complesso di processi locali e globali che si sedimentano nei diversi territori. In che modo
l’antropologia può promuovere forme innovative dell’abitare? Come il sapere e la pratica
antropologica possono contribuire alla promozione di un diritto alla città? Può l’antropologia
porsi come sapere applicato capace di dialogare con attori istituzionali, privati e pubblici che
determinano le forme attuali di governance delle città?

Immaginari turistici e contesti urbani
Diversi contesti urbani sono oggi coinvolti in fenomeni di turisticizzazione di massa, che
sembrano, nella maggior parte dei casi, aderire a un immaginario turistico teso al consumo
dello spazio cittadino a partire dalla fruizione delle tradizioni locali, della diversità, del
patrimonio culturale “autentico”, in molti casi reificati ed essenzializzati. Il legame tra
turismo e città è un fenomeno complesso, ricco di potenzialità, ma anche di rischi che vanno
affrontati con consapevolezza e sensibilità a partire dal significato simbolico e politico dei
diversi immaginari che soggiacciono alle pratiche e politiche di promozione turistica. Come
l’antropologia può contribuire a pensare diversamente il turismo urbano, nello specifico
quando connesso a dinamiche di commercializzazione della diversità, dell’identità locale, del
patrimonio culturale?

Anche quest’anno si rinnova la collaborazione tra SIAA (Società Italiana di Antropologia
Applicata) e ANPIA (Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia) che
partecipa all’organizzazione del convegno.
Il giorno 14 dicembre, al termine del convegno, si terranno le assemblee dei soci delle due
associazioni.
Il convegno è organizzato con la collaborazione del Dipartimento di Studi Umanistici
dell’Università di Ferrara e del Laboratorio di Studi Urbani (LSU); si avvale inoltre della
collaborazione e del patrocinio del Comune di Ferrara.

ENTE PROMOTORE
Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA)

COORDINATORI
Luca Rimoldi, Giuseppe Scandurra, Sabrina Tosi Cambini
COMITATO SCIENTIFICO
Mara Benadusi, Roberta Bonetti, Massimo Bressan, Sebastiano Ceschi, Antonino
Colajanni, Cecilia Gallotti, Lia Giancristofaro, Leonardo Piasere, Bruno Riccio,
Massimo Tommasoli
COMITATO ORGANIZZATIVO
Martina Belluto, Elisabetta Capelli, Enrico Gallerani, Paolo Grassi, Laura Lepore,
Dario Nardini, Silvia Pitzalis, Giacomo Pozzi

Il Cantagiro delle sardine non si ferma. Con tre buone ragioni da portare in piazza

Il 10 dicembre a Torino erano in 40.000: un colpo d’occhio impressionante. Il ‘Cantagiro’ delle sardine non si arresta, anzi, ad ogni tappa il branco si ingrossa. Preoccupa (o spaventa) Matteo Salvini, convinto fino a qualche settimana fa di non avere rivali: nelle piazze, nelle urne, nella testa degli italiani. E imbarazza sempre di più cronisti, commentatori, analisti politici. Chi sono queste sardine? Da dove sbucano? E perché proprio adesso?  In un’Italia infestata dai sondaggisti, non poteva mancare un’ultima, fatidica e stupidissima domanda: quanti voti prenderebbe un futuribile Partito Delle Sardine?

Agli indovinelli sulle sardine di cui sopra, leggo e ascolto risposte di ogni tipo. Spericolate analisi sociologiche e confronti con passati moti di piazza, denunce di infantilismo o accuse di essere il frutto di un diabolico complotto del Partito Democratico. Nessuno però, visti i numeri e la tenuta del movimento, sembra più disposto a ‘sottovalutare il fenomeno’. Nessuno si augura più la fine delle sardine, e se in cuor suo lo spera, si guarda bene dal dirlo. Da Sinistra, ma anche da Destra, si moltiplicano i tentativi di entrare, di aggiungersi, di mettere il proprio segnaposto alla tavolata delle sardine. Perfino Casa Pound (ingoiando anche Bella ciao) vorrebbe andare in piazza San Giovanni con le sardine il prossimo 14 dicembre. Pericolo sventato, per fortuna!

Ogni giorno che passa, ogni piazza che riempiono, le sardine sono sempre più blandite e corteggiate. Per tanti, però, si portano sempre dietro il loro peccato originale. Il peccato di essere solo contro. Di rimanere nel vago, di agitare un desiderio diffuso ma confuso. Di non aver definito un programma, di non indicare proposte concrete per salvare l’Italia. Peggio ancora – e per le sardine sarebbe proprio il colmo – di non essere né carne né pesce.

A me invece il sentiero imboccato dalle sardine sembra chiarissimo. Ci sono comportamenti, gesti, segni, che raccontano molto di più di un programma politico. Ad esempio queste tre ‘piccole’ cose.

Una piazza senza centro. Le piazze delle sardine non hanno un palco, un capo, un comizio, un leader unico arringante con codazzo di comprimari. Non c’è un sopra e un sotto. Non c’è un centro e una periferia. Non ci sono bandiere. Non c’è servizio d’ordine. Non è forse già questa una proposta di nuova democrazia?

Cantare Bella ciao. Un inno, così è stato definito, non si sceglie per caso. Cantare Bella ciao in tutte le piazze è il contrario della nostalgia. Significa togliere dal dimenticatoio l’antifascismo e i suoi valori e metterli al centro del presente, riprendere in mano la nostra Costituzione incompiuta e proporla come guida di una politica italiana immiserita dalle schermaglie dei vecchi partiti. Significa proporre un’idea solidale di patria, come quella di Sandro Pertini, o di Carlo Azeglio Ciampi, o di Giuseppe Dossetti.

Un libro in mano.  Da qualche giorno – l’idea mi pare sia partita con la manifestazione di Ferrara del 9 dicembre – le sardine vanno in piazza con un libro in mano..Anch’io avevo la mia proposta di lettura; e ognuno alzava in alto il suo libro: indicava un tema, un argomento, una denuncia, una proposta. Molto di più di una mozione d’affetto per la cultura – e quanta ce ne vorrebbe per questa Italia distratta – ma una miriade di indicazioni per una classe politica che si occupa di tutt’altro.

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I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Specchio, specchio delle mie brame…

Con chi vi confidate? Amici o perfetti estranei. Nickname e Riccarda, nella puntata precedente di A due piazze, hanno ragionato su cosa sia meglio (e più autentico) fare. Una lettrice ci scrive.

Specchio, specchio delle mie brame…

Cara Riccarda e caro Nickname,
Lo sconosciuto a cui ci raccontiamo è il nostro specchio psicologico, il nostro saggio grillo parlante sulla spalla. Lo sconosciuto mostra la strada della coerenza, dell’equità, dell’onestà emotiva, dell’Eden dei sentimenti… Non so voi ma io ho dato ferie al mio animaletto ed ogni tanto scendo nel purgatorio di chi mi conosce e che è in grado di rimescolarmi nel profondo.
S

Cara S,
Quello sconosciuto di cui parli, così lucido e onnisciente, non mi piace per niente. Dalle ferie passerei direttamente alla quiescenza.
Riccarda

Cara S,
È proprio il fatto di non conoscermi che me lo fa scegliere come confidente. Il grillo di cui parli tu mi conosce fin troppo bene e fa il fenomeno: mi riempie di consigli non richiesti. Peccato che non abbiano mai a che fare con quello che io voglio, ma con quello che gli altri si aspettano da me. In questa speciale abilità non ho bisogno di consigli, quindi… aspettativa a tempo indeterminato per lui. Se mi riuscisse, sarei un signore.
Nickname

La rubrica ‘I Dialoghi della vagina’ va in vacanza, vi aspettiamo mercoledì 22 gennaio per riproporre nuove storie, domande e riflessioni. Buone feste a tutti!
Riccarda e Nickname

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

Il giardino immaginario divenuto reale

Per definizione, la fantasia è sempre capace di superare la realtà. Ma quando riesce anche a divenire reale, lo stupore che suscita è più forte di qualsiasi immaginazione.

Passeggiare per le strade di Ferrara vuol dire attraversare incroci ciottolati, incontrare volte di pietra e ammirare edifici dalle facciate singolari. Se però fossimo in grado di spiccare il volo, i nostri occhi vedrebbero qualcosa di totalmente diverso. Una città immersa in un verde nascosto, che senza timore si estende negli interni delle costruzioni, invisibili da terra. Sì, ma non tutto, fortunatamente, si nega alla nostra vista. L’unico giardino formale, ovvero con predominanza di forme geometriche, compiuto e ancora oggi superstite a Ferrara si trova nel Palazzo Costabili, detto di Ludovico il Moro, ed è aperto al pubblico. Al suo interno, lungo la Via della Ghiara – l’attuale Via XX Settembre – fu realizzato in età rinascimentale un giardino di rappresentanza, che si sviluppava a Est del palazzo, insieme con una stalla e delle fabbriche. Le intricate vicende successive dello splendido edificio estense annoverano modifiche dei terreni, con vendite e novità nelle destinazioni d’uso, le quali non sono riuscite a tramandarci altro che una minima frazione di ciò che doveva essere l’antico giardino. Ma negli anni Trenta del Novecento un nuovo giardino prese forma sul versante meridionale, in pieno stile neorinascimentale e con una estensione minore rispetto all’originale. Fu una sorta di esperimento, ben riuscito, e il laboratorio fu un’area del Palazzone dove in parte si estendevano i vecchi orti. Il terreno, prima dell’opera, si presentava in massima parte senza alberi, con ambienti erbosi molto aperti ma anche segni tangibili di attività umane, come vegetali coltivati o che hanno un legame con ambienti antropici. Numerose erano le graminacee, piante diffuse in tutto il mondo, sia spontanee sia frutto di agricoltura. Già nel Quattrocento la zona del successivo giardino si configurava in tal modo: gli orti erano di medie dimensioni e si alternavano con aree adibite a prati o terreni incolti soggetti a calpestio. Si pensa vi fosse un importante impianto idraulico nelle vicinanze; il paesaggio era infatti alquanto diverso rispetto a oggi, più umido per l’acqua che lambiva Ferrara. Molti cereali, inoltre, erano presenti, o perché coltivati, o perché trasportati nel palazzo. Dal Cinquecento, le coltivazioni dovettero ridursi in maniera consistente, e in contemporanea dovettero subire un incremento gli impianti idraulici attivi, testimoni di una cura maggiore nei confronti dell’area circostante il palazzo. L’incuria dei secoli successivi ha invece cancellato diverse tracce del passato splendore, ma dai documenti e dalle analisi effettuate sappiamo che tra le piante coltivate figuravano la rapa, la bieta, la senape, la cicoria, la lattuga e la menta. Crescevano piante da frutto quali la vite, il noce, il ciliegio e forse arbusti come l’erica. Tra gli alberi, ecco la quercia, il carpino, il nocciolo, il frassino e l’olmo, ma anche il pino e l’abete. Fino agli inizi del secolo scorso l’area fu adibita a orto, anche se tra Sette e Ottocento si verificò la demolizione di un muro di cinta che tagliava trasversalmente il giardino con un ingresso allo spazio esterno, coltivato a orto e frutteto. Completamente immaginaria fu la ricostruzione che un disegnatore tecnico effettuò negli anni Trenta: quella giunta sino a noi è un’invenzione grafica che ambiva a riproporre un modello ideale di giardino rinascimentale ferrarese. Da allora, vari altri interventi, come il famoso labirinto, si sono succeduti, non sempre affini all’originaria identità neorinascimentale del giardino, per giungere infine alla ricostruzione attenta che nel 2010 ha presentato alla cittadinanza un giardino restaurato e pronto a essere vissuto. Grazie a tutto questo, è ancora possibile apprezzare sia il disegno formale del giardino novecentesco sia le aggiunte considerate ormai non più alienabili. E’ il caso del labirinto e della galleria di rose, elementi divenuti tipici del giardino.

Nonostante sia il risultato di un’invenzione fantasiosa, la pregevolezza del giardino attuale non stona con il contesto in cui si trova, ma anzi è segno di un efficace dialogo tra antico e moderno.

 

Museo Archeologico Nazionale di Ferrara
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LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Non tutte le notizie fanno notizia

La notizia è che i nostri quindicenni non sanno leggere, se non fosse che a non saper leggere sono i giornalisti che l’hanno lanciata e quegli onorevoli che siedono alle Camere per i quali i dati Pisa proverrebbero dall’università omonima anziché dal Programme for International Student Assessment promosso dall’Ocse.
Il fatto è che la notizia non fa notizia e che niente di nuovo si muove sotto il sole mediterraneo del bel paese o tra le acque che limacciose esondano da Venezia a Messina.
Gli ultimi dati a confermare quello che già sapevamo, li ha prodotti l’Invalsi di casa nostra, con le prove somministrate per la prima volta, dal 4 al 30 marzo di quest’anno, anche agli studenti di quinta superiore.
Se ne è discusso per l’estate, neppure tanto tempo fa, e la situazione, o meglio la notizia vera, è sempre la stessa: il nostro sistema scolastico non è in grado di colmare gli svantaggi a partire dal divario tra nord e sud, tra chi è benestante e chi non lo è, tra chi frequenta un liceo e chi un istituto tecnico o professionale oltre alle differenze dovute all’appartenenza di genere.
Il sistema dell’istruzione così com’è presenta diverse falle, avremmo bisogno di luminari al capezzale del malato, ma le casse dello stato non ci consentono neppure questa spesa. Debole il paese, debole l’istruzione, difficilmente si può andare da qualche parte.
I nodi da sciogliere sul piano culturale sono tanti, dalla considerazione che questo paese ha delle generazioni che crescono all’attaccamento ad una visione tradizionale dello studio, che ancora identifica nell’istruzione classica il modello massimo di formazione come nel secolo passato e come se il mondo fosse sempre lo stesso.
Terreni che da noi sono di aperto scontro, ma sarà necessario che prima o poi le teste d’uovo nazionali decidano di scontrarsi e di fare questa battaglia una volta per tutte, non si può continuare a trascinarsi nella pigrizia, se mai continuando a cullarsi nelle geremiadi del temporis acti o nella laudatio scamni.
Anche il rapporto scuola e lavoro costituisce una questione strategica per il nostro sistema formativo che non può essere condizionata da ideologie protestatarie o dall’insipienza di qualche imprenditore.
Intanto bisognerebbe preoccuparsi che frequentare un istituto tecnico o professionale non fosse un declassamento, ma l’opportunità di qualificarsi per una specifica identità culturale e formativa.
Invece avviene che la scelta di iscriversi ad un istituto tecnico o professionale è suggerita dai professori a quegli studenti che hanno accumulato insuccessi scolastici. Questa è ancora la mentalità radicata nella nostra scuola e nel paese, per cui tecnici e professionali, impegnando più la pratica che l’astrazione, sono adatti a chi non si rivelerebbe particolarmente portato per gli studi.
Anche questa questione primo o poi si dovrà avere pure il coraggio di affrontarla. Nel frattempo assistiamo impotenti al fallimento del decollo nel nostro paese dell’istruzione tecnica superiore, che potrebbe costituire un nodo strategico per la nostra ripresa economica.
Cito questi temi convinto come sono che sia difficile mettere mano utilmente al nostro sistema formativo se non si liberano le menti da vecchie incrostazioni che durano nel tempo e che condizionano i pensieri del paese sull’istruzione.
Una di queste incrostazioni è la tendenza a identificare l’apprendimento con la scuola, che ci sia un’età del gioco e una dello studio con la sua fatica, come se il gioco dell’infanzia non fosse a sua volta studio e fatica, non a caso abbiamo aperto le “scuole dell’infanzia”, archiviando gli “asili”.
Ho insegnato a leggere a mio figlio che aveva tre anni, con il metodo Doman. Da allora e ancora più oggi sono convinto che non si debbano attendere i sei anni per apprendere a leggere e a scrivere, che i tempi e le occasioni della nostra epoca non sono più quelle di ieri.
Si nasce che si è immersi in un mondo di icone, e tra queste icone tante sono le parole che spuntano da tutte le parti, sui manifesti, sui muri, sugli oggetti, sui libri che passano tra le mani di bambine e bambine, perché rinviare la possibilità di decodificare quelle icone a cui gli adulti danno voce e significato?
L’abitudine come la famigliarità con il libro vanno appresi da subito, più si va avanti, più si rimanda e più sarà difficile famigliarizzare con la curiosità e col leggere non come fatica ma come piacere, come atto spontaneo e naturale.
Certo non si può insegnare a leggere a tre anni come a sei, bisogna saperci fare, darsi da fare per prepararsi e per cambiare.
Si entra nei terreni dell’educazione permanente e dell’educazione incidente, altre questioni che la cultura della scuola ha necessità di affrontare prima di parlare di scuola e dei suoi cambiamenti.
Forse le ricette per invertire gli esiti delle prestazioni in lettura e in scienze dei nostri quindicenni alle prove dell’Ocse Pisa stanno più qui che nell’insistere ad essere come siamo, considerato che dal 2009 al 2018 le nostre performance sono andate peggiorando.

I genitori di tutto il mondo lanciano un appello urgente per un’azione per il clima

Da: Ufficio Stampa Parents For Future Ferrara

222 gruppi di genitori di 27 paesi hanno sottoscritto un accorato appello ai negoziatori del summit sul clima delle Nazioni Unite – COP25 – in corso a Madrid per spingerli a un’azione ambiziosa e urgente sul clima per proteggere la salute dei nostri figli, le loro vite e il loro futuro climatico prima che sia troppo tardi.

I genitori dei gruppi Parents per il Clima di 27 paesi, hanno firmato un sentito appello chiedendo ai delegati di riflettere sul loro amore per I propri figli, e per estensione di agire per il bene di tutti I bambini. Parents For Future Ferrara è uno dei gruppi che ha firmato la dichiarazione.

La dichiarazione chiede ai delegati che stanno negoziando alla COP25 di Madrid, molti dei quali sono genitori, di ricordarsi del loro duplice ruolo di genitori e negoziatori quando lavorano per affrontare l’emergenza climatica che colpirà tutti i bambini di oggi e le generazioni a venire.

“Le catastrofi legate al clima sono diventate la norma e i bambini stanno perdendo la salute, la vita e il futuro a causa del caos climatico. Non possiamo accettare che questo sia il mondo che stiamo consegnando ai nostri figli “, afferma Jesus Garcia, un rappresentante del gruppo climatico Madres Por El Clima dalla Spagna.

La dichiarazione sottolinea che gli attuali impegni politici ci mettono sulla buona strada per un catastrofico aumento della temperatura globale di 3-4 ° C. Ogni ulteriore tonnellata di carbonio emessa ci avvicina a pericolosi punti di non ritorno, che potrebbero minare la civiltà umana nell’arco delle nostre Vite e quelle dei nostri bambini.

“Con ogni tonnellata di carbonio rilasciata, gli impatti climatici saranno aggravati. Milioni di bambini, specialmente nelle aree del mondo in cui i mezzi di sussistenza sono già ridotti da povertà, scarsità d’acqua e siccità, saranno i più colpiti. Questa è un’ingiustizia morale e, come genitori, non staremo a guardare mentre i bambini vengono derubati del loro futuro.”, afferma Cherise Udell, mamma di due figli dello Utah Moms for Clean Air, negli Stati Uniti.

I gruppi firmatari sottolineano che il vertice ONU sul clima è un’opportunità cruciale, soprattutto per i genitori nei negoziati, di difendere i bambini e agire con coraggio per attuare azioni ambiziose per il clima in linea con il mantenimento di un aumento della temperatura globale al di sotto di 1,5 ° C.

“Ogni persona nei negoziati ha la responsabilità di agire per garantire che i diritti dei nostri figli siano salvaguardati e di ignorare gli interessi aziendali acquisiti e lo spettacolo della politica. Abbiamo bisogno di una leadership coraggiosa piuttosto che aspettare che i singoli paesi ci guidino”, afferma Isabella Prata, madre di due figli, del gruppo di genitori per il clima Parents For Future Brasile / Famílias pelo Clima.

“Questa dichiarazione congiunta è il risultato di un’unione di genitori di tutto il mondo per chiedere un’azione per il clima, poiché la mobilitazione dei cittadini sta crescendo in tutto il mondo. Questo è un momento storico e abbiamo bisogno che i decisori politici – in particolare i genitori tra loro – agiscano per conto dei nostri figli “, afferma Frida Berry Eklund, madre di due figli del gruppo svedese di genitori climatici Föräldravrålet.

La dichiarazione completa è stata tradotta finora in 20 lingue e un elenco aggiornato dei firmatari è disponibile su plea.parentsforfuture.org. La dichiarazione rimane aperta per l’adesione di ulteriori gruppi di genitori per il clima. La dichiarazione è nata su iniziativa dei genitori appartenenti ai movimenti Our Kids’ Climate e Parents For Future.

Our Kids’ Climate è una coalizione di 56 gruppi di genitori per il clima di 18 paesi, uniti per l’azione per il clima. Our Kids’ Climate nasce nel 2015 e ha rilanciato la sua collaborazione alle Nazioni Unite nell’aprile 2019

Parents for Future sono tutti i genitori che s’impegnano con il movimento For Future che si ispira a Greta Thunberg, e è ciò ha dato il via agli scioperi scolastici in tutto il mondo con I Fridays For Future. Nell’ultimo anno è cresciuto molto rapidamente e ora ci sono centinaia di gruppi e molte migliaia di genitori che agiscono con gruppi di base in almeno 23 paesi.

PER CERTI VERSI
Stropicciami

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

STROPICCIAMI

Stropicciami
Stropicciami tutto
Completamente
Stropicciami le anche
Stropicciami i pensieri
Le labbra
Le parole di oggi
Di ieri
Stropicciami le pause
I silenzi
Il mare dentro
Stropicciami
Come uno straccio
Un albero
Un giorno nebbioso
Un soffio di luna
Stropicciami
Il cuscino
Le nuvole
Il ventre
I polmoni
Le ossa
I miei maglioni
Stropicciami
Le guardie del corpo
E stendimi come una sfoglia
Sul selciato
Stropicciami gli occhi
Che non ci credo

Santi, Madonne e uso strumentale della fede

Daniela Santanchè (Santadechè, per Roberto D’Agostino) fa il presepe. Lo fa anche Giorgia Meloni.
Matteo Salvini, invece, è in presa diretta nientemeno che con la madonna di Medjugorjie per attaccare il premier Giuseppe Conte (bis): “Per chi crede – ha detto a Porta a Porta da Bruno Vespa – la madonna ha dato un messaggio: le persone si giudicano dallo sguardo. Conte ha lo sguardo di chi ha paura e scappa”, parlando a proposito del meccanismo europeo di stabilità, il Mes.
Inevitabili le reazioni sui social.
A Propaganda Live, la trasmissione tv condotta da Diego Bianchi, qualcuno ha fatto presente al leader della Lega: prima le madonne italiane.
Non è stato da meno Maurizio Crozza che, sull’onda dell’autarchia mariana, gli ha maliziosamente suggerito la madonna di Loreto. Suggerimento subito ritirato perché la madonna è, notoriamente, nera.
Sono solo gli ultimi episodi di un utilizzo a piene mani di simboli religiosi del cristianesimo che dura da mesi: dal cuore immacolato di Maria, ai crocefissi.
È noto il senso che, in netta prevalenza, esponenti della destra italiana da tempo attribuiscono alla riproposizione dei simboli religiosi, funzionali alla riaffermazione orgogliosa di un’identità di popolo, nazione, cultura.
Identità che rischia la diluizione, lo smarrimento, l’irrilevanza, in un processo di globalizzazione che, contrariamente alle euforiche premesse, sta ingrossando le schiere degli sconfitti più che dei vincitori (almeno in Occidente).
Come conferma anche l’ultimo rapporto Censis, basta guardare il retroterra sociologico di chi sostiene, in termini di consenso, la riproposizione di un sovranismo in opposizione a processi d’integrazione ai più vari livelli: europea (sempre più sinonimo di banche e establishment), sociale, culturale, etnica, religiosa.
Così riprendono quota slogan tesi a sdoganare la fierezza di essere parte di un’identità da rivendicare, tutelare e difendere. “Sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana”, ha gridato la numero uno di Fratelli d’Italia lo scorso 18 ottobre a Piazza San Giovanni a Roma.
Parole, analisi e teorie, che da tempo si stanno saldando, fino al pericolo agitato della “sostituzione etnica”, e che fanno presa in un brodo sociale di paure (anche abilmente alimentate da una possente macchina organizzativa) che contraddistinguono il nostro tempo.
Non è facile capire come si possa argomentare un controcanto che abbia chance di successo a una narrazione che, nonostante chi ancora si ostina a sminuirne i più che prevedibili esiti, poggia su un terreno storico particolarmente fertile, sta mietendo consensi e, a quanto pare, può contare su una potenza di fuoco assolutamente da non sottovalutare.
Sul terreno dei simboli religiosi, si potrebbe provare con maggiore e paziente decisione a smontare l’utilizzo strumentale che se ne sta facendo.
Chi utilizza il presepe come simbolo d’identità o come bandiera da contrapporre ad altre identità avversarie, dimostra di non comprenderne il significato, snaturandone e capovolgendone il messaggio.
Lo dicono teologi e biblisti.
Per il vangelo di Luca il presepe – “mangiatoia” – è il venire al mondo del salvatore che si rivela ai pastori, non nel senso bucolico e consumistico troppe volte abusato, con tanto di bestiario variamente e coreograficamente allestito: pecore, galline, oche e altra fauna da cortile.
Pastori sono gli “irregolari”, che non sono i buoni credenti regolari del tempo.
Scrive il teologo Andrea Grillo: “La tensione, in quel testo di Luca, è tra la grandezza del Signore e la piccolezza umana che può riconoscere la gloria di Dio solo attraverso la profezia dell’irregolarità dei pastori”.
Nell’evangelista Matteo la dose sarebbe addirittura rincarata.
“La tensione – prosegue il teologo – è tra la stella e i magi che la seguono, nella loro condizione di stranieri, e l’ostilità viscerale dei residenti regolari e dei Governatori”.
Se leggere il testo biblico con aderenza al senso delle parole vuol dire questo, allora il presepe significa letteralmente che ultimi, stranieri e irregolari, sanno riconoscere Gesù, mentre i potenti (Governatori), regolari e uomini perbene, cercano di ucciderlo.
Altro che “soprammobile borghese” – prosegue il teologo – o vessillo identitario da affermare orgogliosamente in senso escludente e oppositivo.
Il presepe è una provocazione, cui si cerca ancora di mettere il silenziatore proprio perché è una provocazione spiazzante, urticante.
Non quindi la coreografia natalizia di un’italianità fieramente cristiana, ma un messaggio anti-identitario di un dio che si spoglia della propria onnipotenza per manifestarsi agli ultimi, gli esclusi, gli stranieri, gli irregolari.
E lo fa venendo al mondo in una mangiatoia perché, come diceva Elios Mori, per loro (Giuseppe e Maria) non c’era posto altrove. E questo non esserci posto per il salvatore è tuttora il monito più dirompente del presepe di San Francesco a Greccio, come messaggio di pace e di salvezza per l’umanità intera, anche per chi non siede a tavola.
Discorso analogo andrebbe fatto per la morte in croce di Cristo.
Un Dio che prima si fa carne (il cristianesimo è l’unica religione al mondo), cioè l’infinito che si fa finito, e poi – da innocente – accetta, impotente (l’onnipotente) di morire (cioè l’infinito che finisce) in croce come un delinquente.
Cosa c’è di esaltante identità in questa manifestazione estrema di impotente amore, che sul punto di spirare chiede di perdonare i suoi assassini perché non sanno quello che stanno facendo?
E sarebbe bastato ascoltare bene quelle parole per evitare secoli di antisemitismo anche nella chiesa.
Uno che tempo prima aveva detto ai suoi dodici che il vero merito non è tanto quello di amare i propri amici, quando di riuscire ad amare i nemici.
E così, fedele in tutto e fino alla fine, anche sulla croce ha parole di perdono-amore per i propri aguzzini.
La croce più che un segno da usare come una clava identitaria, è il culminante e sconcertante esempio di spoliazione dell’identità; un’ennesima testimonianza di povertà, come avrebbero detto Giacomo Lercaro e Giuseppe Dossetti.
Se, allora, tutto questo ha un senso, perché non si sentono le voci – non tanto dettate dal rancore ma comunque pubbliche – di conferenze episcopali, preti e associazionismo cattolico, per sconfessare quest’uso bestemmiato di simboli religiosi del cristianesimo?
Perché si assiste, invece, al loro clamoroso, esibito e ostentato capovolgimento semantico, funzionale a un discorso la cui portata complessiva non ha alcuna aderenza al testo biblico?
Qui non si tratta della solita divisione nel cattolicesimo tra progressisti e conservatori, ma del significato letterale della radicalità evangelica, che irrompe nelle coscienze come una vera e propria provocazione rispetto a ogni perbenismo accomodante e, ancor meno, operazione di potere.
O deve forse bastare la voce di Camillo Ruini, che usa parole di dialogo con chi torna a usare il cristianesimo con toni da crociata?

De Nittis ai Diamanti, precursore dell’immagine in movimento e della street

Un tovagliolo stropicciato sul bordo della tavola, un boccone di pane spezzato, il succo rosso di una bevanda rimasto nel fondo di un bicchiere. La tavola imbandita della “Colazione in giardino” di Giuseppe De Nittis ha dentro qualcosa che incrina l’equilibrio ordinato ottocentesco e fa vacillare con garbo il canone della descrizione celebrativa. Il quadro, che fa da copertina alla mostra “De Nittis e la rivoluzione dello sguardo” appena inaugurata a Palazzo dei Diamanti di Ferrara, contiene infatti quella dose di scompiglio esemplificativa della carica di rinnovamento portata in Francia dal pittore italiano.

“Colazione in giardino” di Giuseppe De Nittis – olio su tela, 1883

Ai dettagli di piccolo caos quotidiano che esce dai canoni tradizionali si aggiunge la posa del ragazzino che piega la testa verso terra, alla sua destra, contrastando con l’atteggiamento composto ma comunque disinvolto della giovane donna: anche la mossa imprevista va a interrompere la staticità studiata che di norma sarebbe richiesta per la posa davanti al ritrattista di famiglia. Il movimento fa pensare che uno dei personaggi ritratti abbia trasgredito alla necessaria immobilità nell’attimo in cui il fotografo premeva sul pulsante dello scatto. La tela, però, è quella di un quadro dipinto, non una stampa fotografica. Ed è in questi particolari che sta la “rivoluzione dello sguardo” del titolo dell’esposizione, allestita ancora una volta con una capacità sottile di studio e accuratezza non convenzionale dalle curatrici di FerraraArte, che aprono al grande pubblico nuovi scorci della storia dell’arte, mostrando artisti e opere in un contesto che dà informazioni inedite.

“Tra le spighe di grano” di Giuseppe De Nittis, 1873
“Donna col parasole” di Claude Monet, 1886

[cliccare sulle immagini per ingrandirle e guardarle per intero]

In questo caso il visitatore che esce da Palazzo dei Diamanti si arricchisce con la conoscenza di un pittore che – spiega la curatrice Barbara Guidi – “alla sua epoca era ricco e famoso e poi in qualche modo è stato accantonato e dimenticato, perché nel frattempo è arrivata la carica dirompente dell’Impressionismo, che non ha spezzato solo i canoni di quanto viene rappresentato, ma anche il modo e la tecnica di rappresentazione”, smembrando bordi e confini per affidare ad aloni luminosi e sfuocati l’impressione di un insieme che perde la definizione dei tratti. Ecco: una rivoluzione più grande e che, in quel momento, fa piuttosto scandalo finendo per far cadere nel dimenticatoio uno dei protagonisti della storia dell’arte di quell’epoca. Innovatore più moderato è De Nittis, che ora viene riportato sotto i riflettori per raccontarci cosa è successo alla pittura, per mostrare il contributo innovativo di un artista finito all’ombra dei suoi coetanei più estremi, che forse – però – qualche debito con lui ce l’hanno. L’arte comincia ad affacciarsi alla modernità grazie anche al pittore originario di Barletta. Perché De Nittis scardina per primo le regole accademiche della pittura che dominavano fino all’Ottocento. “Non dimentichiamoci – fa notare ancora Barbara Guidi – che la Francia è sempre stato un Paese aperto sì, ma molto nazionalista; e per un italiano diventa più difficile competere con la memoria dei colleghi francesi che sono venuti dopo di lui. Ma tra De Nittis e gli impressionisti ci sono molto analogie, il clima che respirano è lo stesso, con diversi di loro diventa amico e i temi in molti quadri sono identici, solo che lui mantiene una maggiore leggibilità nei tratti, un dettaglio quasi fotografico che loro invece dissolvono”.

“Cantiere” di Giuseppe De Nittis, pastello su tela 1880-83

La fotografia è uno dei riferimenti imprescindibili come chiave di lettura della mostra. Il pittore stesso usa la macchina fotografica (anche se il materiale è stato disperso) e soprattutto è influenzato da questa nuova tecnica e dalla modalità di percepire la realtà che questa gli fornisce.
A dimostrare questo, in una sala è esposto un piccolo paesaggio parigino in bianco e nero che ritrae il quadro di De Nittis intitolato “Place de la Concorde” e che è importante perché la stessa inquadratura denittisiana viene poi ripresa dentro a uno dei bei filmati storici dei fratelli Lumière, proiettati all’interno della mostra ferrarese.

Riproduzione in fotoincisione dell’opera di De Nittis “Place de la Concorde”, 1883

“Quella fotoincisione in bianco e nero – dice la Guidi – è la riproduzione di un quadro di De Nittis del 1883, di cui si sono perse le tracce. De Nittis era così famoso che i Lumière sono voluti ripartire proprio dai suoi quadri, quando una quindicina di anni dopo decidono di fare riprese cinematografiche della città. Così filmano la vita che scorre in place de la Concorde dalla sua stessa angolazione. De Nittis è uno dei punti di riferimento per i Lumière, uno dei fratelli è pittore lui stesso e, comunque, la loro è una cultura è prettamente pittorica”.

Riprese realizzate dai fratelli Lumière prendendo spunto dalle inquadrature dei quadri di De Nittis (foto Giorgia Mazzotti)

“De Nittis – prosegue la Guidi – ha uno stile pre-cinematografico, ha quella capacità propria del fotogramma di fermare la vita e la realtà che passano davanti ai suoi occhi”.

Ritratto di donne dal finestrino di una carrozza di De Nittis

Non a caso in una delle sale della mostra viene dato spazio proprio alle opere dove lui applica la tecnica di ripresa dal vivo del mondo esterno, attraverso l’apertura del finestrino della sua carrozza, quasi uno street-fotografo ante litteram, in un’epoca dove la fotografia si affacciava ancora alla sua fase pionieristica. In questa direzione vanno le tele che rappresentano scorci di città che sono anti-cartoline e che anticipano un’idea documentaria, se non addirittura di avanguardia contemporanea. È il caso delle opere dedicate a siti industriali, con i fumi che escono da una centrale e i capannoni, a partire dal pastello su tela intitolato “Cantiere” (1880-83) che ritrae i fumi di una centrale elettrica, ma anche all’olio coi “Capannoni di una stazione ferroviaria” (1877). Senza dimenticare il quadro che riprende il palazzo avvolto dalle impalcature con i manifesti pubblicitari attaccati alla base: “La place des Pyramides” del 1875. Dire che anticipa l’arte contemporanea di Christo è forse un po’ ardito, anche se quel palazzo imballato fa ricordare i monumenti, i ponti e gli edifici fatti impacchettare dalla coppia di artisti della ‘land art’ contemporanea.

“La place desPyramides” di Giuseppe De Nittis, olio su tela, 1875
“Reichstag impacchettato” di Christo e Jeanne Claude, Berlino 1995

In quest’ottica è perfetto il rimando contenuto nella mostra di sculture in ceramica, esposte alla home gallery di Maria Livia Brunelli, che fa rimbalzare ad oggi gli oggetti al centro delle opere d’arte ottocentesche. Alla Mlb gallery – sulla stessa strada di corso Ercole d’Este, ma al civico 3 anziché al 21 dove è Palazzo dei Diamanti – è allestita l’esposizione “Bertozzi & Casoni. Frammenti di quotidianità” con quelle tazze da tè in porcellana e quelle posate d’argento che sembrano uscite dalla tavola della colazione di De Nittis con un’estremizzazione tutta contemporanea del concetto di disordine e caos.

Tavola con i “Frammenti di quotidianità” di Bertozzi & Casoni alla Mlb gallery di Ferrara (foto GioM)

Ecco allora le tazzine che si accatastano una sull’altra colme di resti di cioccolato e caffè, dentro ai quali galleggiano pillole con intorno bucce di mandarini, banconote accartocciate, cicche di sigarette e ogni genere di residuo dei nostri invadenti consumi. Nature morte che si trasformano in composizioni impudiche ma attraenti, con quel gusto per la decadenza e per gli accumuli che rimanda a certe nature morte seicentesche dove la presenza del teschio ricordava la vanità della vita materiale, ma che rimanda anche agli accumuli trasformati in scultura che tornano nelle opere d’arte contemporanea.

Particolare di “Colazione” di De Nittis, 1883
Compressione di lattine di César, 1991
“Frammento con yogurt” di Bertozzi&Casoni, 2019

[cliccare sulle immagini per ingrandirle e guardarle una per una]

“De Nittis e la rivoluzione dello sguardo”, Palazzo dei Diamanti, corso Ercole I d’Este 21, Ferrara – Aperta dal 1 dicembre 2019 al 13 aprile 2020, tutti i giorni ore 9-19, sito web www.palazzodiamanti.it. Ingresso a pagamento.

“Bertozzi & Casoni. Frammenti di quotidianità”, Mlb Home gallery, corso Ercole I d’Este 3, Ferrara – Aperta dal 30 novembre 2019 al 13 aprile 2020, sabato ore 15-19 e in altri giorni su appuntamento al cell. 346 795 3757 o email mlb@mlbgallery.com, sito web www.mlbgallery.com. Ingresso libero.

Per il calendario delle conferenze e appuntamenti di visita alla mostra in corso a Palazzo dei Diamanti si può consultare anche la pagina del quotidiano online Cronacacomune del Comune di Ferrara al link www.cronacacomune.it/notizie/37834/mostra-de-nittis.html

Duemila firme (+65) per le biblioteche del Duemila: e se a Ferrara fosse nata una nuova opposizione?

Le sei di sera, mi telefonano: sono in ritardo, appena in tempo per portare le firme raccolte tra amici e colleghi. Raggiungo la piccola e attivissima Biblioteca Rodari di viale Krasnodar, il punto di raccolta. Un magro bottino, le mie firme sono diciotto. “E in tutto quante sono?”, domando. “Con le tue siamo a 2.064 firme!!!“. 2065, perché proprio in quel momento un’utente si avvicina al banco prestiti per firmare il foglio della petizione popolare.

Appena venti giorni fa il sindacato promoveva una raccolta di firme per rilanciare e qualificare il sistema bibliotecario cittadino, nuove assunzioni e nuovi investimenti ( vai all’articolo ). Facciamo strada alla cultura, recitava il titolo della petizione e il gran successo della raccolta firme dimostra quanto i ferraresi tengano alla cultura e alle proprie biblioteche. Alla mozione dovrà rispondere direttamente il Sindaco a cui i promotori (venerdì mattina è prevista la conferenza stampa) porteranno in dono le oltre duemila firme. Insieme a una serie di domande scomode. Quali sono i programmi sulle biblioteche della nuova Giunta? Si impegna o no ad assumere almeno 10 nuovi bibliotecari, visto che le biblioteche sono già in emergenza personale e molti operatori andranno in pensione nei prossimi mesi?

E in ballo c’è anche la questione della ‘Grande Rodari’. Dopo che la nuova Giunta ha deciso di concedere il piano terra delle Corti di Medoro al comando dei vigili urbani, cancellando il progetto di aprire lì una grande e moderna biblioteca per servire tutta la zona Sud di Ferrara, Il sindaco Alan Fabbri ha dichiarato che per la nuova biblioteca verrà trovata una nuova collocazione. Ma dove, quando, con quali investimenti? Anche su questo la petizione chiede una risposta precisa.

Per ora si può dire che la nuova Giunta leghista rischia di essere sommersa dalle petizioni e dalle firme dei cittadini ferraresi. Tutto è cominciato con le 1.000 firme per chiedere la ripubblicizzazione del servizio rifiuti, gestito ora da Hera in regime di proroga. La petizione era stata presentata la primavera scorsa al sindaco Tagliani e discussa nel vecchio Consiglio Comunale, non senza qualche imbarazzo anche in casa PD. Ora la patata bollente è passata nelle mani del Sindaco Fabbri e dell’Assessore Balboni che dovrebbe avviare il tavolo partecipato di studio sulla ripubblicizzazione del servizio di raccolta rifiuti. A settembre il Consiglio Comunale non ha deciso nulla, ma nei prossimi giorni l’Assessore Balboni incontrerà i promotori del Battito della Città e si vedranno le reali intenzioni della Giunta.

Dopo quella sulla raccolta rifiuti è stata la volta della firmatissima (con la biro e sul web) petizione popolare pro-panchine, innescata dalla campagna contro le panchine del vicesindaco Nicola Naomo Lodi. Per ora (è nota la recente figuraccia in Consiglio Comunale) sono state riverniciate e ricollocate solo una decina di panchine, ma il vicesindaco ha ribadito i suoi programmi bellicosi. La battaglia pro e contro le panchine è destinata a continuare.

Terza petizione, quella promossa dagli studenti universitari contro la recinzione e chiusura notturna di piazza Verdi, un’altra idea made in Naomo, con l’appoggio del Sindaco e i dubbi del giovane Balboni. Ma, la notizia è di questi giorni, a essere recintata e lucchettata, piazza Verdi non sarà l’unica – viste le dimensioni della stessa, alla fine assomiglierà a un campo di basket in uno slum di New York – perché il vero obbiettivo della ‘campagna parchi sicuri’ rimane la zona del Grattacielo. Anche lì aspettiamoci cancelli, reti e lucchetti. E più telecamere. E più luci. E presto (anche questa è una solenne promessa) le pistole ai vigili urbani.

Bisogna ammetterlo, la nuova Giunta a guida leghista ha grandi progetti per trasformare Ferrara in una ‘città sicura’. L’unico problema è che ai ferraresi, o almeno a molti di loro, questi progetti non piacciono per niente. Ai giovani poi, le maledette sardine, ancora meno.

Nel prossimo futuro, sono sicuro, arriveranno nuove petizioni. Forse sta cambiando qualcosa in città. Nonostante la vittoria schiacciante alle ultime elezioni, a Ferrara l’opposizione non è morta, anzi, sembra viva e vegeta. Ha cambiato solo location: invece che dai banchi del Consiglio Comunale, si esprime altrove: con le firme, le petizioni popolari, i flash mob, i raduni di piazza. E le sardine naturalmente.

Il mondo magico di Anna Darshi Ferraresi

L’arte è da sempre rifugio e fuga per l’uomo; lo trasforma, lo guida a meravigliarsi di fronte a forme nuove, a osservare i colori del mondo in cui viviamo con un’altra consapevolezza.
Le opere di Anna Darshi Ferraresi esprimono vitalità musicale, sicurezza, forza e audacia. Basta osservare una sua qualunque opera per constatare come i diversi elementi siano illuminati da una luce intellettuale piena d’amore. I suoi sono racconti romantici, dove il colore entra in una dimensione poetica attraverso un percorso astratto a esiti informali. La sua pittura è un intreccio di linee, una superficie a profili incisi con un’impostazione grafica.

Anna conferisce alla realtà una dimensione fantastica e fiabesca, calibrando segni grafici e colori, trasmettendo un’intensa musicalità ai segni e alle linee che si muovono sinuosi in una danza che permea molte sue opere.
Indubbiamente la nostra pittrice è affascinata dal colore e dalle forme geometriche: punti, segni, cerchi, spazi aperti e chiusi confinanti, sovrapposti.

La sua “figura del mondo”, pur avendo radici nella decantazione trecentesca, si è via via aggiornata attraverso Kandinskij, Klee, Mirò e le figurette volanti di Chagall.
Anna si diverte a sconvolgere ordini e prospettive, a scomporre forme attraverso le visioni della fantasia.
“La semplicità può essere profondità”, come affermava spesso Mirò.

Per la nostra pittrice non è sufficiente creare interessanti opere astratte ed informali, ma affronta anche l’arte del surrealismo producendo, seppur in numero limitato, i tarocchi dei “gatti magici”, mazzi di carte degli Arcani maggiori che hanno come soggetto il felino più amato e misterioso, il gatto, e che saranno disponibili durante l’evento espositivo.

Anna Darshi Ferraresi sarà ospite alla Sala Nemesio Orsatti di Pontelagoscuro (Fe) dal 7/12/2019 (inaugurazione ore 16:00) al 21/12/2019.

Vite di carta /
La noncuranza con cui lascia cadere nel vuoto le parole

Vite di carta. La noncuranza con cui lascia cadere nel vuoto le parole

Molte cose accadono di mercoledì. Da molti anni registro che accadono perché al mio paese è giorno di mercato: aumentano le auto in circolazione, molte persone escono dalle case o affluiscono dai paesi vicini e dalla campagna per aggregarsi nella piazza.

Abbiamo una piazza grande a Poggio Renatico ed i banchi del mercato sono numerosi e vendono un po’ di tutto. Chi deve fare la spesa settimanale, oppure ha bisogno di andare per uffici aspetta il mercoledì; di mercoledì si possono depennare dalla lista delle commissioni da fare quasi tutte le voci, e se si arriva presto in piazza e non c’è troppa gente si riesce a fare tutto. Viva l’efficienza, che quando siamo indaffarati (e cioè, quasi sempre) diventa un valore.

Per me che ne scrivo il mercato del mercoledì assume da sempre un bel po’ di significati aggiunti. Mi entra in circolo una umanità così piena di umori che mi fa scattare dentro una sorta di corto circuito, e allora vanno a braccetto quotidianità e letteratura.

Anch’io faccio i miei giri entrando e uscendo dalla piazza, e mi fermo a parlare con tutte le persone che mi conoscono; molte di loro riesco a incontrarle solo in questo giorno della settimana. Pure, un doppio fondo nella mia valigia di parole mi accompagna e mi fa sentire la mia voce mentre parlo, mentre ascolto o mentre rispondo a domande. Mi fa stare dentro e fuori al tempo stesso.

Eccomi per esempio in una estate di molti anni fa, durante la mia adolescenza. Sono in piazza con mia madre che è la regina tra le bancarelle, conosce tutti i venditori sia che si tratti di compaesani, sia che vengano dai dintorni.

Il più distante è di San Pietro in Casale (inutile dire che la globalizzazione non c’è ancora) e parla un dialetto bolognese molto marcato. Ha un banco di scarpe molto belle, che espone in base ai prezzi raggruppando sotto la stessa cifra, in lire, i modelli più diversi e dai colori variopinti. Sono tutte scarpe da donna e sono campioni.

Oggi il venditore è più sornione del solito. A chi gli chiede se può provare un certo paio di scarpe risponde sì con la testa; chi invece gli chiede se ha l’assortimento dei numeri di un certo modello non ottiene risposta. Mia madre, che di scarpe e di pellami se ne intende, sferra un attacco dopo l’altro. Gira e rigira tra le mani un bel paio di mocassini color verde tenero, dalla linea affusolata e aggraziata, che mi invita a calzare. E intanto chiede di quale ditta sono, osserva che il pellame è di buona qualità, fa le prove per verificarne la morbidezza, mi sottrae e poi tiene con le due mani la scarpa destra e la piega ad arco trovando che si flette che è un piacere.

Io intanto. Mi trovo in mezzo tra l’entusiasmo di lei, così ciarliera in questo suo giretto del mercoledì (è l’unico svago che si prende durante la settimana, per molte ore ogni giorno la vedo seduta alla macchina per cucire, per cucire la pelle) ed il silenzio incantato che avvolge lui.

E ancora una volta lievito al di fuori dalla situazione; vedo mia madre e il venditore bolognese incastonati come diamanti in una bambagia dorata. Il caldo di luglio è appiccicoso come il miele. Le parole che lei ha pronunciato passano scavando piccoli cunicoli sospesi; sono tutte dirette verso di lui che è raggiunto dai tanti spruzzi di miele sonoro. Ma non parla.

Come? E la comunicazione dov’è? Mi sento indispettita per la noncuranza con cui lascia cadere nel vuoto le parole. Ho nella testa ben demarcate le liste di quello che si fa e di ciò che non si deve fare, come su di una lavagna quando alla scuola elementare tiravamo una riga centrale per scrivere i buoni da una parte e i cattivi dall’altra.

Devono passare molti anni prima che io ritrovi la serena accettazione di mia madre nelle parole di un poeta. Leggo i testi che il grande Eugenio Montale ha scritto per la moglie Drusilla, quando rivela di lei la capacità di capire gli uomini “anche al buio” col suo “radar da pipistrello”. La Drusilla che dando il braccio al poeta ha sceso con lui le scale della vita ed ha mediato sapientemente il rapporto del marito con la quotidianità.

Come la Drusilla, mia madre ha capito che il bolognese è stanco, oggi. Oppure è avvilito per qualcosa. Va comunque lasciato “nel suo”. Le persone sono così: non c’è alcun bisogno di esprimere giudizi per una volta che sono “spastati”.

E così dai miei libri, dai tanti che ho letto, come se una seconda madre mi stesse parlando, ho imparato. E ancora leggo, e imparo ogni volta. Anche se non è mercoledì.
Sono davvero tanti. Da esprimere uno alla volta finché potrà avere vita questa rubrica.

Incomincio.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Confidarsi con l’estraneo…

La confidenza e l’intimità, secondo Nickname, fanno rima con prevedibilità. Ma è sempre così? Dialogo A due piazze fra Riccarda e l’amico Nickname sull’affidarsi a chi non sa nulla di noi .

N: E’ curioso. Quando penso di conoscere del tutto una persona, quando so in anticipo cosa mi risponderà, quando vedo in anticipo la piega di tacita disapprovazione che le si disegnerà sulle labbra, quando la sua prevedibile reazione segnalerà anzitutto la mia, drammatica, prevedibilità, sarà allora che perderò ogni confidenza con lei. La confidenza e la conoscenza diventano allora in proporzione inversa: più conosco una persona, meno le parlo. Meno la conosco, più mi confido. Quest’ultimo rischio contiene un elemento di assurdità: per quale motivo confidarsi con una persona sconosciuta? Credo sia una forma vile di rischio: le persone sconosciute non ci giudicano.

R: E’ un paradosso che funziona. Con le persone conosciute, crediamo di avere già riempito la nostra sagoma e che non ci sia più spazio, con le nuove conoscenze, invece, abbiamo ancora tutto da dire. Non so in quale situazione siamo più autentici: con chi non sa nulla di noi e ce la possiamo giocare ogni volta ma col rischio di riproporre il nostro modello, oppure con chi sa molto, ma sicuramente non tutto? Ed è in quello spazio lì che, credo, dovremmo rimescolare i discorsi e ammettere che possiamo essere cambiati in qualcosa che all’altro potrebbe essere sfuggito. Non è sempre tutto così drammaticamente prevedibile dell’altra persona.

N: A me capita di mettere la mia intimità nelle mani di sconosciuti, incontrati per caso e scelti per intuito. Io, che sono noto per essere riservato fino all’ermetismo. Io, che sono quello che per intuito non sceglie nemmeno il colore del maglione. Ma forse è solo tirchieria: non mi va di raccontarla a uno che ti chiede 50 euro l’ora.

R: Ecco, vedi? Il tuo ermetismo, la tua tirchieria, il tuo pensarti così e non ritrovarti più. Per il colore del maglione, tranquillo, la scelta si limita a poche nuances: il tuo incarnato detta legge.

Pensate anche voi, come Nickname, che sia più facile raccontarsi a uno sconosciuto con cui nulla è prevedibile? E nel rapporto di coppia? L’intimità profonda finisce per limitare la voglia di confidarsi?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Ma in Italia l’apprendimento permanente resta una chimera

Fare campagna perché le persone continuino a istruirsi anche dopo l’età della scuola può lasciare stupiti o dare l’impressione di una pedanteria pedagogica. Così succede nel Regno Unito dove la “Campaign for learning” ha pure un sito web, e pubblico e privato sono impegnati a promuovere l’apprendimento permanente, perché convinti del potere dell’istruzione continua.
Nulla del genere abita in Italia, terra di università popolari e della terza età, ma assolutamente analfabeta in materia di lifelong learning.
Neppure il nostro ministero dell’istruzione, università e ricerca brilla nel campo.
Oltre ai Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti (CPIA), concepiti in chiave puramente scolastica, non va, mentre continua a marcare ritardi nell’attuazione delle disposizioni previste dall’articolo 4, comma 51, della legge 92 del 28 giugno 2012, più nota come la famigerata “legge Fornero”, tanto per intenderci sui livelli di consapevolezza del nostro Paese e della sua classe politica.
Aver riconosciuto che l’istruzione non abita solo tra le mura delle scuole e dell’università perché, oltre ad essere formale, può essere anche non formale e informale, avrebbe dovuto per lo meno portare a promuovere politiche di educazione permanente, di qualificazione, di valorizzazione e di coordinamento di tutto ciò che si muove su questo terreno.
Nessuno al Miur, ma neppure la politica, credo si sia mai posto l’obiettivo di realizzare l’ apprendimento permanente nella nostra società.
Conferenze, tavole rotonde, webinar, eventi culturali e tutto quanto si muove senza un filo conduttore nella brulicante fucina delle iniziative pubbliche e private, invece di andare deserto o sprecato, potrebbe costituire i tanti tasselli di un più vasto programma di istruzione continua. Un modo per consolidare come abitudine sociale l’apprendimento per tutta la vita ai livelli locali come a livello nazionale, con vantaggi notevoli per le comunità, le persone, l’economia e il lavoro.
Mentre ci si occupa d’altro, con gli edifici scolastici precari, oltre al personale che vi lavora, la fuga dei giovani all’estero, e le percentuali di dispersione scolastica che aumentano insieme alla povertà educativa, l’apprendimento, nel frattempo, si è arricchito di aggettivi che prima neppure avremmo preso in considerazione.
A partire dall’apprendimento “verticale”, che suggerisce l’idea di un apprendimento in piedi, dal basso verso l’alto, come la spinta nella vasca di Archimede.
È, appunto, l’apprendimento che accompagna tutta la vita, che ritiene insensato che si possa interrompere l’attività del sapere e dell’imparare una volta abbandonati i banchi di scuola e trovato un lavoro. L’apprendimento come processo che avviene ovunque, dinamico e continuo, che accompagna tutte le età della vita. Che cresce con le persone e fa crescere le persone, rendendole migliori, più attrezzate, più competenti, più ricche dentro, che ha bisogno di offerte e di occasioni, di ambienti stimolanti e propositivi.
Una verticalità che per svilupparsi necessita dunque di orizzontalità. Orizzonti di saperi. L’apprendimento “orizzontale”. È la dimensione spaziale dell’apprendimento e dei suoi luoghi. L’apprendimento come processo diffuso che può accadere in ogni contesto e non solo nei luoghi tradizionalmente deputati alla formazione. L’apprendimento che si allarga a comprendere le esperienze della vita in una dimensione del tempo che è quella delle occasioni che abbracciano la larghezza e l’ampiezza della vita con il succo prezioso delle sue offerte, opportunità e attrazioni. Comprende il tempo e gli spazi dell’esistenza di ciascuno di noi in cui si allargano gli apprendimenti.
In fine il deep learning, espressione sottratta all’intelligenza artificiale, ma utile al nostro discorso.
L’apprendimento “profondo”. Riguarda la nostra vita, la necessità inesauribile di apprendimento. Perché ogni angolo della vita, ogni anfratto ci richiede di sapere, vagliare, criticare. E allora apprendere è una corrente che non si può interrompere, che fa erompere il diritto delle persone a vivere in una società che metta a disposizione di tutti non solo l’informazione ma la formazione, le conoscenze, i saperi, le competenze, soprattutto per gestire l’informazione, che contrariamente ai saperi, ci proviene in abbondanza da tutte le parti.
L’apprendimento profondo è la terza dimensione che consente di partecipare pienamente alla vita della comunità, spiega il senso di una società che promuove l’educazione permanente come recupero pieno del significato dell’istruzione al servizio delle persone e della possibilità di essere se stesse.

DIARIO IN PUBBLICO
A proposito di sardine: il movimento e l’azione

Cerco di arrivare a tempo all’appuntamento con le sardine ferraresi, ma la strada è lunga “eppur bisogna andar”. Sono di ritorno da Bassano dove un’importante riunione ha rimesso in carreggiata l’ingombrantissimo carro dei lavori canoviani. Ma giunto in città erano ormai le venti passate. Mi rimane quindi un’unica possibilità: quella di guardare le foto delle città invase dai pesci. Da Firenze mi giungono le immagini di Dora Liscia, la nipote di Giorgio Bassani, che esibisce – non per nulla è storica dell’arte cosiddetta ‘minore’ – la più bella e raffinata immagine del pesce (vedi immagine di copertina).
A Ferrara Sandra Chiappini fotografa un cartello del Castello insardinato alzato davanti a quello vero; ma ciò che mi piace è la compostezza, la serenità di queste folle che hanno in sé un requisito di cui si era persa da tempo ogni traccia: la gentilezza. Che è un comportamento non ipocritamente insegnato a noi generazioni del passato ma una riconquista dei giovani, stanchi dell’urlo, dell’odio, delle risse televisive che inquadrano bocche urlanti, canine, pronte ad azzannare e a farsi strada con ‘i vers’, avrebbe detto in dialetto mia nonna. Ecco contro chi s’oppone la meglio gioventù delle sardine: a quel film visto fino alla nausea che si potrebbe titolare “L’urlo e il sibilo” ,che come folate di vento distruttore soffia dovunque, da destra, da sinistra impelagandosi in mulinelli micidiali al centro della tempesta politica.
Sorge dunque una speranza. Riusciranno i nostri a imporre un cambiamento; o meglio a suggerirlo?
Non sono eroi per fortuna. Non ne abbiamo bisogno. L’atrocità o meglio la lugubre esaltazione di un eroe della strage del London Bridge dove un assassino accoltella la folla e quello che è divenuto l’eroe dei tabloid inglesi lo insegue e lo blocca. Si scopre che anche lui ha ucciso, spietatamente.
Si è ormai innestata una coerente immagine del movimento che appare finalmente lontana dalle strumentalizzazioni ma porta con sé un grande interrogativo. Ce la faranno questi ragazzi a far coincidere l’impulso della massa-persone con le regole della politica? Domenica sera ascoltavo il portavoce dei quattro ragazzi che hanno coordinato e proposto i raduni delle sardine che incalzato da Fazio non si esponeva, non si voleva esporre alle tentazioni della politica attiva. L’intento è più che nobile. La difficoltà consiste nel trovare quel ‘quid’ che trasformi la proposta, l’offerta in prassi politica. E qui che noi ‘grandi’ d’età, ricordando le lotte passate e le tante proposte avanzate nei decenni che poi si sono estinte proprio perché proposte ammirano e nello stesso auspicano che la flotta delle sardine riesca a risalire il mare e trovare un porto che le accolga e le trasformi in azione politica, solida barriera ai sovranismi e alla istigazione all’odio.

Il giorno dopo…
Rimpianti e buoni propositi di una sardina ritardataria

Quante sardine c’erano sabato sera in piazza? Nessuno si era portato il pallottoliere ma, dentro quel fitto fitto, contarle era un’impresa impossibile. Le stime divergono: una folla, forse 6.000 (La Nuova Ferrara); più di 6.000 (estense.com); per me eravamo di più, quasi 10.000. Diecimila? Ma dai, manco ci stanno 10.000 persone in piazza Castello. Sia come sia, il colpo d’occhio faceva impressione. Non ricordo a Ferrara un appuntamento politico tanto affollato. In piazza Castello è andata in scena la manifestazione più grande degli ultimi decenni. Ed è stata, prima di tutto, una grande festa.

 

Fin qui la cronaca, con una postilla molto istruttiva, il battibecco a distanza tra Lorenzo Donnoli, uno dei giovani promotori delle sardine ferraresi, e il sindaco Alan Fabbri. Fabbri voleva incontrare gli organizzatori, ma Donnoli ha declinato l’invito: “La parola d’ordine è Amore, e a Ferrara abbiamo un sindaco che si fotografa mentre umilia un senza tetto: la sua offerta di dialogo è strumentale, nel momento in cui si è passato il tempo a lucrare sulle difficoltà della nostra città con la narrazione del quartiere Gad.” La risposta valeva anche per l’ultima triste nuova: lo stesso 30 novembre, il sindaco aveva chiuso le strade al traffico per far passare uno sparuto gruppetto di militanti di Forza Nuova, che annunciava ufficialmente il suo insediamento nella città estense.

Che peccato però – questo pensiero credo sia passato per la testa di tutte le sardine (giovani e attempate) stipate in piazza Castello – peccato che a Ferrara la rivoluzione delle sardine sia arrivata con sei mesi di ritardo. Lo scorso 10 giugno la nuova Destra a guida leghista aveva vinto a mani basse le elezioni municipali, e il sindaco di cui sopra aveva raccolto il 56,8% dei voti. La storia non si fa con i se, ma è impossibile evitare qualche rimpianto. Non era già scritto, non è vero che era destino perdere. Io credo che avremmo potuto vincere se, allora, avessimo avuto il coraggio di fare un passo avanti: se avessimo avuto l’innocenza, lo spirito unitario, la libertà di pensiero, l’autonomia dai partiti, la voglia di cambiamento che oggi si esprimono nel movimento delle sardine.

Che c’entra l’innocenza con la politica? Lo spiega benissimo Marco Revelli che la settimana scorsa ha scritto il commento più bello, più acuto e più emozionante sulle sardine. Eccone un brano: “Considero L’INNOCENZA una delle parole chiave che spiegano quanto si è materializzato nelle piazze. Forse “la” parola chiave, che spiega la FORZA di quel primo appello che ha riempito Piazza Grande di una folla fitta e compatta come non se ne vedeva da tempo. Quella massa variegata e multicolore, strabordante e composta, ha risposto in forma così immediata e (possiamo dirlo? “irriflessa”) alla chiamata perché questa rispondeva a un bisogno profondo, vissuto, fino ad allora inespresso e però potente, sentito. Ma anche perché a chiamare erano figure “innocenti”, nel senso di “non compromesse”, come solo chi appartiene alla generazione nata a ridosso del passaggio di secolo può essere, ragazzi che non portano le (tante) colpe di chi in questo ventennio ha assunto responsabilità politiche. O anche solo ha fatto organicamente parte del gran circo della politica politicante, in tutte le possibili sinistre, o i possibili centri, chiese o sette che fossero, e ne ha subito, volente o nolente, i compromessi, gli abbandoni di ideali, le burocratizzazioni e le degradazioni funzionariali, i linguaggi gergali e morti, la separazione dai propri reciproci popoli; chi non ha prodotto delusioni in quanti hanno creduto in loro e non ha subito delusioni da parte di coloro in cui ha creduto, non si è ammalato di frustrazione né di settarismo, di arroganza né di risentimento.[…]”. L’intervento illuminante di Marco Revelli merita di essere letto per intero. Lo trovate Qui

Forse le sardine non dureranno. Forse l’enorme branco di giovani ‘innocenti’ che ora sta invadendo il mare delle piazze di tutta Italia, tornerà alle occupazioni (o alla disoccupazione) di tutti i giorni. Ma sarebbe importante che la Sinistra dei partiti e la società civile progressista, recepissero il cuore del messaggio che le sardine ci trasmettono. Una grande lezione, anzi, forse l’ultimo avvertimento, per non lasciare definitivamente il campo al populismo e all’egoismo sociale.

In parole povere: si tratta di fare il contrario di quanto si è fatto finora. Quello che ci ha fatto perdere tutte, ma proprio tutte le elezioni. Quello che ha regalato a Ferrara  Alan Fabbri, Naomo Lodi e Alessandro Balboni. Alle ultime elezioni comunali la Sinistra, anzi, tutto il campo progressista si è presentato con il solito vestito vecchio. Nel segno della beneamata continuità. I soliti partiti in prima fila, i collaudati uomini politici come capilista, i vecchi programmi un po’ riverniciati. Anche alle affollate assemblee espressione della società civile è mancato il coraggio di ‘nuotare da sole’: invece di unirsi e proporre insieme ai ferraresi un programma nel segno del cambiamento, alla fine si sono accodate alle liste (a quelle di partito o a quelle collegate alle prime). Si poteva così parlare un lingua nuova? No. Si poteva portare al voto i delusi, gli scontenti, i distratti? No. Si poteva vincere? No. Infatti si è perso. Malissimo.

Sono in molti a sperare che le sardine durino almeno fino alla fine di gennaio. Sperano (anche io naturalmente) che questi giovani pesciolini possano portare un po’ di linfa (un po’ di voti), che possano fare da traino per fermare l’avanzata leghista e salvare l’ultimo fortino, la regione Emilia Romagna. A sperare non si fa peccato, è un ragionamento legittimo, ma terribilmente politicista. Talmente miope e di corto respiro che può rivelarsi una ennesima illusione.

Le sardine rappresentano (e chiedono) altro, propongono l’innocenza di cui scriveva Marco Revelli. Chiedono alla Sinistra una muta, cioè di iniziare finalmente a cambiare pelle. Nuovi comportamenti e nuovi rapporti. Nuovi visioni e nuovi programmi. Nuove persone e nuove forme di democrazia partecipata. Comunque sia andata a Ferrara sei mesi fa, comunque vada in Emilia alle elezioni di gennaio, occorrerà partire da questa domanda inevasa. Forse non è troppo tardi per provarci.

 

 

 

 

LA VIGNETTA
Il sistema della frittura mista

Delle sardine in piazza apprezzo una cosa su tutte:
la buona fede!
Purtroppo, la buona fede da sola non basta a cambiare le cose per davvero… specie se si va in piazza per manifestare contro qualcosa e non si ha ben chiaro dove si voglia stare con esattezza!
La cosa che apprezzo meno delle sardine in piazza, in effetti, è la fumosità delle idee!
Tutti siamo capaci di dire “W la democrazia! W la libertà… Abbasso il fascismo, abbasso il sovranismo, abbasso il populismo…” (ammesso e non concesso che essere populisti significa esattamente andare in piazza a fare le sardine, chi non è d’accordo mi dica dove sta la differenza e soprattutto cosa significa “populista”, grazie)
E poi?
Servono proposte, idee concrete su temi concreti… Senza questo la destra vincerà a mani basse!
Alla gente non interessa sentir parlare di fascismo e antifascismo. Spiace dirlo, ma alla gente, alla stragrande maggioranza di essa, non interessa granché nemmeno di ius soli, accoglienza, eccetera. Sembra che i cavalli di battaglia dell’attuale attivismo di sinistra siano antifascismo e integrazione, solo questo!
La sinistra che ho conosciuto io, quella con cui sono cresciuto, difendeva il lavoro, i diritti dei lavoratori, combatteva lo sfruttamento e lottava per l’uguaglianza sociale. Era contro i potentati economici e le lobby, promuoveva la difesa del potere d’acquisto dei salari, tutelava i piccoli risparmiatori, sosteneva l’impresa pubblica e lo stato sociale… e naturalmente era antifascista!
Peccato che questa sinistra (direi l’unica sinistra che io conosca) sia evaporata miseramente!
Queste sardine, oltre ad essere antifasciste e cantare ‘bella ciao’, cosa pensano di tutto il resto?
Oltre a riempire le piazze per fare rave party pacifisti e raccontarsela, queste sardine sono capaci di mettersi contro l’establishment, quello vero, e magari sporcarsi le mani con azioni di protesta vera?
Stiano attente le sardine che il mare è pieno di squali, sia che nuotino a destra sia che nuotino a sinistra!

illustrazione di Carlo Tassi
(tutti i diritti riservati)

OSSERVATORIO POLITICO
Sardine contro l’odio, per una politica seria e responsabile

Piazza Castello stracolma! E’ una bella notizia. Forse la pacchia per Salvini e la destra
sta finendo. Vedremo. Intanto registriamo alcuni fatti. Il movimento delle ‘sardine’ è
nazionale. Le parole d’ordine delle imponenti manifestazioni sono chiare e forti:
contro l’odio, la guerra tra poveri la vincono i ricchi, chiediamo alla politica serietà e
responsabilità, basta con il populismo intollerante e violento, siamo antifascisti e i
valori della Costituzione sono la nostra guida.

Giustamente, i partiti del centro-sinistra partecipano, ma fanno attenzione a non strumentalizzare.
Quando nascono movimenti di questa portata bisogna interpretarli bene. La scintilla che li porta alla
ribalta è sempre occasionale. Ricordiamo Nanni Moretti che anni fa gridò alla piazza:
“Con questi dirigenti non vinceremo mai!”. Da lì nacquero i ‘girotondini’.
Oggi, è stato l’arrogante e spavaldo Salvini ad eccedere e a suscitare la reazione delle prime
‘sardine’ a Bologna. Hanno, poi, preso il largo nel mare grande delle cttà di tutto il
Paese. Vuol dire che sotto la cenere le braci erano accese. Il messaggio è indirizzato
a tutta la politica. Contro l’avversario ben individuato: la destra. Polemico verso il
campo diviso e rissoso della sinistra.

Rispettarne l’autonomia non significa non esprimere gratitudine a chi sta organizzando manifestazioni in tutto il paese.
E non ci esime, a noi vecchi militanti di una sinistra in crisi e stanca, di auspicare che questa
energia fresca e tranquilla diventi decisiva per vincere le elezioni del 26 gennaio.

Unità nella diversità per non consegnare la civile Emilia-Romagna a chi ospita nelle
proprie manifestazioni i fascisti di Forza Nuova e CasaPound. Ma ciò che si è
sedimentato nel profondo della società in questi anni ci fa sperare in una possibile
riscossa di più lunga durata. Vedremo.

Intanto casualmente, ieri a Ferrara, è avvenuto un confronto significativo.
In mattnata, una cinquantina di militanti di Forza Nuova erano al Grattacielo con le cupe,
tragiche e tristi bandiere nere.
In serata, migliaia e migliaia di giovani e persone di ogni età hanno manifestato con
serenità esibendo colori di ogni tipo e simboli gioiosi. E’ un buon inizio e di buon
auspicio. Eravamo stanchi della replica della stessa scena. Salvini chiuso in un teatro
a tenere un comizio. Fuori qualche Centro Sociale incendiava auto o si scontrava con
la polizia. La musica è cambiata. I suonatori, lo spartito e il pubblico fanno ben
sperare in una scena nuova.
Per dirla con un autore della mia giovinezza: “Ben scavato, vecchia talpa!”

PER CERTI VERSI
La mia lotta col cancro

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

LA MIA LOTTA COL CANCRO

Anche questa è una poesia per noi
Ho visto la morte in faccia
Non era male
Anzi era vita
Peggio era il male
Peggio era il dolore ancestrale
Ho dormito i sonni più bianchi
Non era la brina
La neve le nuvole
Il cuscino il letto
Le lenzuola
Ma la morfina
Ho visto persone mai morte mai guarite
E così basta un niente
Una nausea
Che si riaprono le ferite
Ho vomitato l’anima
Strizzata come uno straccio
Fermo ore ed ore
Con la chemio fluida
nel braccio
Ho dato la mia vita
ai medici
per credere in loro
È andata
la guerra è finita
Da quei giorni
mi spaventa
più che la morte
La vita