La Pasqua è un evento generativo di fraternità. Nel perdono del Crocifisso, che spezza la spirale di vendetta e rivalsa sui nemici, si origina un processo nuovo di riconciliazione nelle relazioni umane. Si spiega anche così la ragione per cui, a partire dalla Pasqua, i discepoli inizino a chiamarsi e sentirsi ‘fratelli’: tanto che negli Atti degli Apostoli sono ben 27 le ricorrenze di questo termine. D’altro canto, a Pasqua si svela la paternità di Dio. Un Dio che non ha lasciato nella tomba colui che, pur di rivelare la sorgente inesausta di un amore estremo – un amore all’eccesso –, non si è sottratto agli insulti e agli sputi, scegliendo di lasciarsi defraudare di questo amore, pur di manifestarne l’irreversibilità e la smisuratezza.
Un ‘amore all’eccesso‘: lo stesso sperimentato dai mistici che non hanno esitato a dare la vita; l’amore di cui sant’Ambrogio dice: “considera oggi l’eccesso della divina carità, e fin dove osò questo amore incomparabile”. Un amore disarmato – egli continua – in perdita, svuotato di sé stesso. Un amore per cui sant’Ignazio negli Esercizi scrive: “Come mai un Dio di tanta maestà sia giunto a tale eccesso di amore da ritrovare il modo con cui stare continuamente dal cielo a trattare e conversare con noi sì miserabili su questa terra”. La stessa ostinazione di amore che Paolo ricorda ai cristiani di Filippi, usando un termine ormai noto a molti, kenosis (svuotamento), pensando al quale mi viene sempre in mente l’immagine di un masso che precipita in un recipiente pieno d’acqua, e tale ne è la forza d’impatto che lo svuota completamente. È con analoga potenza che m’immagino questo Spirito di amore, questa ‘pesantezza di amore’, questa invadenza di amore, che ama per primo. Amore eccedente e sempre risorgente del Padre nel Figlio, amore che è esondato completamente fuori, senza tenere nulla per sé, per inondare l’intero genere umano e liberarlo dal male e dalla morte. Simile, se si vuole, all’amore di un padre e di una madre per un figlio in pericolo.
Apparentemente un ‘amore a perdere’; e nondimeno, come ricordava il cardinal Henry Newmann, generativo di un rapporto di fraternità. Il Figlio, nel dono di sé, diviene il “Primogenito di una moltitudine di fratelli” (cfr. Rm 8,29; Col 1,15); entrando nel mondo e resosi in tutto simile ai ‘fratelli’, egli non si è mai vergognato di chiamarci ‘fratelli’ (cfr. Eb 1,8; 2,18.11). Quando si ama, si accetta il limite, si rimpicciolisce, per amore dell’altro, per fare spazio all’altro, per poi ritrovarsi arricchiti, cresciuti nell’incontro che fa rinascere e aggiunge fratelli.
Ciò vale, beninteso, anche per noi, che aprendo le porte ai fratelli, è come se le aprissimo al Risorto. Sicché, contagiati anche solo un poco da quell’eccesso di amore che è la Pasqua, riusciremo a risultare ospitali verso l’inatteso, lo sconosciuto che chiede di entrare. Scopriremo così che tra i tanti nomi attribuiti a Dio, quello che più gli si addice è Agape, esplicitato in quel gesto del Risorto che spezza il pane nella taverna sulla strada di Emmaus e lo moltiplica per tutti senza chiedere contropartita in cambio. Questo amore è il sacramento della Pasqua, è il grande segno della Pasqua.
Lo celebra il vangelo di domani, che ci racconta di discepoli inizialmente tristi e delusi, in cammino verso Emmaus, che diventano fratelli gioiosi nell’incontro con lo straniero rivelatosi a loro nello spezzare il pane. Don Primo Mazzolari sottolinea che i due discepoli non conoscevano in anticipo – come noi lettori – l’identità dello straniero che si accompagnava loro. Eppure era rimasto in loro qualcosa di quell’amore all’eccesso che Gesù aveva trasmesso in vita, come un frammento eucaristico, un resto di quella dolce e fraterna amicizia che li aveva incantati, tanto da deciderli a divenire suoi discepoli. Così quella santità ospitale del Maestro che non rifiutava nessuno, li apre quanto basta per invitare lo straniero: “Resta con noi perché viene la sera e il giorno reclina nella notte”. Cresce così in loro, lungo il cammino, la capacità di farsi responsabili dell’altro, di dialogare con lui per ricevere la sua novità. Essi passano dall’estraneità alla comunione, che rimette in cammino; sono vivificati da un’amicizia, perduta e ritrovata, che fa nuove tutte le cose. Per questo da quell’incontro, essi scoprono un nuovo inizio e vanno ad annunciare ai fratelli che Lui è vivo, è tra noi ed è destinato a restarvi per sempre.
Anche taluni libri, dopo che li si è letti, paiono destinati a rimanere sempre con noi: si nascondono in qualche piega dell’anima e poi, ogni tanto, si ripresentano, riaffiorano e chiedono di risorgere attraverso una nuova lettura. Uno di questi è per me il libro di un grande biblista gesuita, padre Luis Alonso Schökel (1920-1998), dal titolo Dov’è tuo fratello. Pagine di fraternità nel libro della Genesi, nel quale peraltro, all’inizio del volume, l’autore racconta la parabola del ‘fratello-libro’, di un uomo in solitudine che incontrò un libro, lo lesse, incominciò a rivolgergli domande e a riceverne, tanto che venne a instaurarsi tra i due un legame spirituale così forte, come di fratellanza (è un’evidente metafora che l’Autore utilizza per indicare la relazione di fraternità che dovrebbe legarci ai libri della Bibbia). Ebbene, con questo lavoro padre Schökel si prefisse di indagare le molte relazioni familiari, e tra fratelli, nella Genesi il termine ricorre ben 38 volte. Relazioni spesso macchiate dall’esperienza traumatica e delirante della violenza omicida, fratricida. E tuttavia, l’autore sottolinea come, sin dagli inizi della creazione, accanto alla presenza di questa violenza omicida, si coglie la presenza di un percorso parallelo tracciato dal Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe volto a riaprire e far ripartire nuovamente la vita e l’alleanza creaturale. Per quanto abortita proprio nel suo sorgere con il gesto di Caino, Dio non manca di rinnovare la speranza (un arco di pace), dando avvio nella storia a una nuova alleanza, che lo indusse a porre la sua tenda in mezzo a dodici tribù nomadi per farne un popolo solo.
Si intravede così un ‘passante’ che va oltre il male; una ‘variante di valico‘ per così dire, o un ‘argine’ sotto altri profili, volto a contenere l’altra storia oscura, tumultuosa, di acque torbide, fragorose, irrefrenabili di conflittualità e sopraffazione tra fratelli. Il tutto ancora una volta alimentato dalla disponibilità amorosa e sempre risorgente di Dio, da cui presero ispirazione i molti patriarchi che non si rassegnarono al male. Tra cui mi piace qui ricordare Isacco, il quale, di fronte agli uomini che chiudevano i pozzi da lui scavati per il suo clan, non scelse di vendicarsi, né di muovere guerra, ma decise di scavarne altrove di nuovi. Recobot è il nome di uno di quei pozzi, in relazione al quale nella genesi si legge: “Si mosse di là e scavò un altro pozzo, per il quale non litigarono; allora egli lo chiamò Recobòt e disse: ‘Ora il Signore ci ha dato spazio libero, perché noi prosperiamo nella terra’”.
Vedete: c’è sempre un’alternativa alla violenza e attraverso le storie dei patriarchi, storie di fratelli quasi sempre in competizione e in conflitto (Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Giuseppe e i suoi fratelli, ecc.), riaffiora la speranza, che altro non è – come ci ricorda un proverbio africano – se non una strada di campagna formatasi perché taluno ha iniziato a percorrerla. Per questa ragione padre Schökel, commentando il versetto di Gen 33,10 (in cui Giacobbe, dopo avere temuto la vendetta del fratello Esaù, scopre il suo desiderio di riconciliazione), sostiene che si tratti di un versetto capitale: nella fraternità si riflette il volto stesso di Dio. “Esaù disse: ‘Ho beni in abbondanza, fratello mio, resti per te quello che è tuo!’ Ma Giacobbe disse: ‘No, ti prego, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, accetta dalla mia mano il mio dono, perché io sto alla tua presenza, come davanti a Dio, e tu mi hai gradito'”.
La fraternità – si badi – nasce pur sempre dalla differenziazione, e non esige omologazioni, ma chiede di essere riconosciuta e perseguita tramite la ricerca di punti di incontro, trattando, adattando, riprovando sempre di nuovo, senza disperare. Un esercizio, questo, che assomiglia a un gioco: ma non a quello del bambino con la palla, o del gatto con il topo. Un gioco paritario, intrapreso da compagni in posizione di eguaglianza fraterna, non antagonistica, tale da generare un’amicizia profonda, in grado di svelare la realtà buona dell’altro come portatore di benedizione, un’amicizia generatrice di creatività e responsabilità per il bene comune.
Sarebbe bene che lo ricordasse di questi tempi anche l’Europa, cui non guasterebbe ripensare alla propria storia alla luce della fraternità narrata dal libro Genesi. Del resto, le dodici stelle che compaiono nella bandiera europea non rappresentano, come taluni credono, il numero degli Stati fondatori – ed è per questo che rimangono sempre le stesse anche se gli Stati aderenti aumentano. Le dodici stelle furono scelte, semmai, proprio perché in alcune culture nazionali, tra cui la nostra, debitrici di quella ebraica, questo numero simboleggia la perfezione e la completezza nella complessità. Furono dodici, infatti, i figli di Giacobbe da cui originarono le tribù di Israele; dodici le stelle sulla corona della Donna dell’Apocalisse, dodici le porte della città futura, sulle quali stanno dodici angeli e i nomi delle dodici tribù dei figli di Israele (Ap 21, 12). E le dodici porte (aperte) sono dodici perle; ciascuna porta era formata da una sola perla (Ap. 21, 21).
Le stelle nel fondo blu dell’Europa fanno pensare al passaggio del Mar Rosso nel midrash a commento dell’Esodo: “le acque del mare si unirono a formare sopra le loro teste delle volte tracciando dodici sentieri – uno per ciascuna tribù –, e diventarono trasparenti come vetro, per cui ognuna di esse riusciva a scorgere le altre durante il cammino”. Come non leggervi nel numero dodici, che si trasforma in tre (1 + 2) il significato di una trasformazione profonda nel tempo, il passaggio ad una nuova età, ad un cambiamento d’epoca? Le tribù diventano nella loro diversità un unico popolo, non si perdono d’occhio anche se percorrono sentieri differenti, ma trasparenti. La stessa unione nella differenza che attraversa molta della storia biblica si coglie, per esempio, anche dal racconto del sogno di Giacobbe, in fuga da un passato conflittuale, in ricerca di una nuova realtà ancora sconosciuta e soltanto promessa.
“Giacobbe prese allora dodici pietre dall’altare sul quale suo padre Isacco era stato legato per il sacrificio, e disse: ‘Benché fosse nel disegno di Dio far sorgere dodici tribù, né Abramo né Isacco le hanno generate. Se ora queste dodici pietre si uniranno e diventeranno una sola, questo sarà il segno che sono io il predestinato a divenire il padre delle dodici tribù’. Ed ecco il prodigio: le pietre si unirono in una sola, e con questa Giacobbe si fece un capezzale, che a contatto col suo capo divenne morbido e soffice come un cuscino di piuma” (L. Ginzberg, Le leggende degli ebrei, vol. I, Dalla creazione al diluvio, Milano, Adelphi, 1995, p. 156 ss.). Quando si addormentava le dodici pietre si univano, quando si alzava le dodici pietre si separavano di nuovo, quasi a dire il dono e la responsabilità di una unione nella differenza.