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UN PIANO(FORTE) PER LE BIBLIOTECHE FERRARESI
Invece il povero utente è costretto a uno slalom orario

Di Andrea Poli

A volte vorrei essere un giornalista di Report per quella loro capacità di “scovare” carte, cartelle e quant’altro, sia nella Rete che nei documenti svolazzanti. Purtroppo, accontentandomi, digito soltanto su Google questa parola chiave: “piano di riapertura delle biblioteche di Ferrara”. Dopo circa un mese ritrovo ancora le classiche otto ore disinfestanti per la restituzione e il prestito.
Chissà perché mi immaginavo che si fosse pensato e scritto sul web un piano(forte) programmatico che comprendesse varie fasi: la prima di otto ore, poi l’apertura delle altre strutture, poi man mano l’allargamento degli altri servizi bibliotecari.
Ero proprio stupidamente convinto che ci fossero date e punti fermi, ma la prima info sul web riguarda la Biblioteca Ariostea, poi seguono tutte le altre con informazioni poco limpide, ‘senza pietà’ per l’utente che desidera sapere gli orari o se il pianoforte ha ricominciato a suonare.
Se si avevano problemi prima nel districarsi tra le varie aperture giornaliere e settimanali, ora essere i funamboli del tempo diventa una necessità. Entrando nella Home Page del Servizio inizia la Jumanji degli orari. Se vuoi andare all’Ariostea ti vesti da sabato italiano, ma attenzione perché in un’altra Biblioteca va bene anche il mercoledì del lavoratore pendolare. Se hai fretta, il martedì è aperto lo Spid (che si scrive Speed) o se ti piace la movida del giovedì puoi scegliere tra varie strutture.
Digitando la stessa ricerca a Bologna il risultato cambia completamente: Le biblioteche sono aperte negli stessi orari pre-zombie, ma ovviamente con le stesse modalità pandemiche: prenotazione, prestiti, rientri. Non è che Bologna è meglio di Ferrara, ma è mai possibile che il karma degli orari delle biblioteche ferraresi, sia una prerogativa anche durante il mondo a rovescio? Ma l’uniformità o la semplificazione è così difficile? Faccio un appello all’Assessore alla Cultura, non dico per fare la rivoluzione, ma per allinearsi con gli standard generali del momento, quindi aprire come prima (se più di prima, ti amerò) conservando d’accordo maschere, gel e dopobarba, nonché la distanza di due metri (usando il Bluetooth che li misura come gli pare), ma almeno evitare lo slalom orario.
E poi parliamoci chiaro: le discoteche sì e le biblioteche no? Le biblioteche non possono aprire all’utenza e le discoteche si possono mascherare da veicoli di cultura? Ma quando mai! Se il problema sono gli spazi aperti, mi risulta che l’Ariostea, la Bassani, la Luppi di Porotto abbiano punti verdi anche importanti. Questa può essere un’opportunità che riguarda non solo i pianoforti bibliotecari, ma in generale tutte le strutture e i fermenti culturali della città, che possono essere “ripristinati” e alimentati nuovamente, creando anche una sorta di “avanguardia” o punto di riferimento nazionale, sul come e sul perché puntare tutto, né sul nero, né sul rosso, ma sulla formazione intellettuale come modo sempre antico, ma sempre attuale, per cambiare l’etica del mondo.

ABBATTERE STATUE E’ COME BRUCIARE I LIBRI
La memoria di un popolo non si può cancellare

Erano i primi mesi del 2015 quando l’Isis dichiarò guerra al patrimonio archeologico mondiale distruggendo le opere esposte nel museo di Mosul.
Tutto l’anno durò il massacro perpetrato dallo jihadista Stato Islamico: la distruzione delle antiche mura della città di Ninive, delle statue leonine alle porte di Raqqa in Siria, della Porta di Dio a Mosul, fino alla distruzione delle colonne a Palmira, e la lista potrebbe continuare.
La furia iconoclasta porta sempre al medioevo della mente e della cultura, al fanatismo delle fedi, alle anguste visioni del mondo, all’oscurantismo dell’ignoranza.

Ora le manifestazioni di piazza abbattono le statue, come se strappando le pagine di storia se ne potesse cambiare la narrazione. È ciò che abbiamo visto accadere al tramonto di regimi dittatoriali ad opera delle forze vittoriose, come segno di un potere decapitato.
Nessuna manifestazione è più benedetta di quelle contro il razzismo e per i diritti dell’uomo. Ma se l’indignazione e la protesta giungono fino al punto di scaricare la propria rabbia fino ad abbattere le statue, che a giudizio di alcuni costituirebbero la celebrazione di ciò contro cui si sta protestando, allora di fronte alla foga irruenta dei manifestanti è necessario che tutti ci fermiamo a riflettere. Perché abbattere monumenti non è molto distante da bruciare libri in piazza.

Eravamo abituati a manifestazioni che degeneravano nella rottura delle vetrine e in altri atti vandalici, ma l’abbattimento delle statue ci pone di fronte a un fenomeno nuovo, non certo per la storia, ma per il nostro tempo. Subito viene alla mente una considerazione, perché non si è fatto prima? Quelle statue hanno sfidato i secoli. Non si è fatto prima solo perché le coscienze dormivano? È un modo strano di guardare alla storia. Assolvere la propria coscienza, illudendosi che le responsabilità siano anzitutto individuali anziché collettive. Pensare che furono responsabili del colonialismo solo negrieri e mercanti di schiavi è una grande fandonia, perché secoli di civiltà e di ricchezze hanno le loro mani sporche di sangue, e di quei secoli noi siamo i discendenti.

Non serve abbattere le statue, se siamo noi a non cambiare. Il razzismo di oggi è anche responsabilità nostra, e per rendercene conto è sufficiente dare una scorsa al secolo passato e a quello presente. Allora viene da pensare che questa indignazione distruttiva non sia altro che figlia del nostro tempo, una modalità diversa di dar sfogo al populismo e all’ignoranza. Perché dietro a quegli atti violenti contro il patrimonio culturale di un luogo, di una nazione o addirittura mondiale, non si accompagna nessuna riflessione culturale, nessuna considerazione della storia, della narrazione che ha portato alla sua realizzazione, nessuna biografia dell’autore, nessuna considerazione del fatto che monumenti ed altri artefatti fanno degli spazi delle nostre città dei luoghi, anziché dei non luoghi. Molte piazze perderebbero il loro nome, la toponomastica sarebbe un racconto vuoto, senza fatti, avvenimenti, biografie, un luogo vuoto della storia.

Ogni città ha le sue pagine di storia, ogni via, ogni piazza è la convocazione del passato, come il metrò parigino di Marc Augé. L’abbattimento di una statua non è un atto di giustizia, una esecuzione della storia, ma uno sfregio ai luoghi che abitiamo, alla narrazione che altri prima di noi hanno scritto. È un atto da tribunale dell’Inquisizione, è una condanna al rogo, è una condotta tribale, è un imbarbarimento della civiltà e della cultura. È una violenza alla città e alla sua urbanistica, a come siamo e come eravamo. L’abbattimento di una statua non cancella la memoria di un uomo, ma di un’epoca e di un popolo. Se dovessimo fare pulizia delle nostre memorie, temo che ci resterebbe ben poco.

Dobbiamo impedire all’oblio di cancellare ciò che siamo stati, perché la storia dell’uomo non può essere come gli angoli della nostra mente, che contengono ricordi e pensieri che vorremmo dimenticare. La pars destruens ha il suo contraltare nella memoria, che è la pars costruens della storia, l’antidoto culturale contro i nostri errori. L’abbattimento delle statue, come degli idoli dagli altari, i sacrilegi civili, i sacrilegi contro la storia, non saranno mai la catarsi, tanto meno nei confronti del razzismo e delle morti violente, bensì un’altra catastrofe, la soluzione luttuosa di un dramma.

DA LUNEDI’ 22 GIUGNO
via libera ai centri estivi anche per i bambini fino a 3 anni

Da: Regione Emilia Romagna

E’ ufficiale il via libera in Emilia-Romagna alle attività estive anche per i bambini più piccoli, fino a 3 anni, a partire da lunedì 22 giugno. Il presidente della Regione, Stefano Bonaccini, ha firmato oggi una ordinanza che consente nuovamente tali attività nel rispetto del Protocollo regionale definito in stretto raccordo con il territorio. Obiettivo: assicurare la ripresa di tali strutture, fondamentali per genitori e famiglie, garantendo la sicurezza dei bambini e del personale.

In sostanza, potranno operare le strutture già autorizzate nell’ambito dei servizi 0-3 anni in grado di organizzare tali attività – all’interno o in spazi esterni – avvalendosi di educatori e educatrici professionali. Ovviamente rispettando le indicazioni regionali per la sicurezza.

Il nuovo provvedimento arriva dopo l’integrazione e adozione da parte del Governo delle Linee guida nazionali sulle attività estive per la fascia 3-17 anni, riaperte in anticipo in Emilia-Romagna, già dall’8 giugno, che vengono dunque estese ai bimbi più piccoli, recependo le proposte avanzate a fine maggio dalla Regione Emilia-Romagna in stretta collaborazione conenti locali, enti gestori, coordinamenti pedagogici territoriali, esperti universitari e la sanità pubblica.

Le principali regole introdotte

Il Protocollo definito dal tavolo regionale introduce regole per i gestori e indicazioni per le famiglie: accessi e uscite scaglionati, autocertificazione delle condizioni di salute dei bambini, pulizia e disinfezione costante degli ambienti e dei materiali.

Le attività potranno svolgersi in piccoli gruppi composti al massimo di 5 bambini, con la presenza di 1 educatore per ogni gruppo. Tale rapporto può essere potenziato in determinati momenti della giornata o in relazione alle diverse autonomie dei bambini, aumentando la presenza di educatori con specifica qualifica professionale. Nel caso di bambini con disabilità, il rapporto dovrà essere di uno a uno.

In considerazione dell’età dei bambini è inoltre prevista un’adeguata dotazione di personale ausiliario utile a garantire lo svolgimento delle attività, anche tenendo conto dell’organizzazione necessaria al rispetto delle misure di precauzione, igiene e sicurezza. L’indicazione è quella di un rapporto minimo di 1 ausiliario ogni 15 bambini per le strutture che ospitino fino a tre piccoli gruppi, di 1 ogni 10 in quelle che ospitino da quattro gruppi in su.

Anche per i più piccoli è preferibile che le attività vengano svolte prioritariamente all’aperto; non è richiesto, considerata l’età dei bambini, l’utilizzo della mascherina.

DIARIO IN PUBBLICO
Fisiognomica e Via col vento

Il mio omonimo criceto è arrabbiatissimo, anche se m’invita al ragionamento e alla calma. Tutto nasce quando dai profondi recessi della stupidità umana esplode il caso del film Via col vento, sospettato dalla distribuzione Hbo di propagare e diffondere elementi razzisti. L’allarme è lanciato dai giornali e ripreso da Fiorenzo Baratelli nella sua pagina fb. Così reagisce : “Hbo toglie dal catalogo Via col vento perché ha contenuti ‘razzisti’. Stiamo rimbecillendo?”. Immediatamente chi scrive queste note pubblica la sua reazione sull’assurdità delle vicenda riprendendo l’informazione sotto il titolo “Questa è l’idiozia che rafforza il razzismo!” M’informo cos’è Hbo e leggo che è una piattaforma in streaming distributrice di film.

Ma la decisione della piattaforma viene ulteriormente aggravata da una dichiarazione rilasciata alla famosa rivista americana Variety che così suona: “Un portavoce di Hbo Max ha dichiarato al sito Variety che Via col vento è un prodotto del suo tempo e raffigura alcuni dei pregiudizi etnici e razziali che, purtroppo, sono stati all’ordine del giorno nella società americana. Queste rappresentazioni razziste erano sbagliate allora e lo sono oggi e abbiamo ritenuto che mantenere questo titolo senza una spiegazione e una denuncia di quelle rappresentazioni sarebbe irresponsabile.”  Ma allora che facciamo? Rimodelliamo la Divina Commedia perché Dante potrebbe essere considerato islamofobo? E con lui tutte le grandi opere di parola e di arte che abbiano in qualche modo testimoniato le ‘ragioni’ dei vincitori? Questo è non capire la differenza che la storia ci insegna o ci dovrebbe insegnare tra la cronaca che dà impulso a un nuovo tipo di verità e che consideriamo ‘arte’.

Una colossale cantonata che ben si confà al clima che il presidente Trump ha alimentato negli USA dopo l’assassinio di George Floyd e che si accoppia con le frange estreme della violenza antirazzista che come spesso – se non sempre – si accompagna a questi movimenti, quando si dimentica l’elemento guida dell’analisi di certe azioni e provvedimenti, che dovrebbe essere la storia. Tutto ciò porta dunque alla furia iconoclasta, che al massimo potrebbe rivolgersi ai personaggi del Museo delle cere, o ancor meglio a ciò che è non valido esteticamente. Inutile perciò l’abbattimento delle statue e la rimozione di opere, monumenti e la deturpazione di luoghi che potrebbero ricordare il passato razzista e che testimoniano, come si sarebbe portati a credere, non la verità, ma l’elaborazione artistica della verità: un’altra dimensione. Che dire poi della lettera del cardinale Viganò (che da sempre si adopera per le dimissioni di papa Bergoglio) a Trump e al suo sostegno all’azione di repressione dei moti libertari del popolo afroamericano? Da sempre l’universo cattolico americano è diviso sul nome di papa Francesco.

E assieme all’analisi storica la fondamentale capacità in tanti momenti cruciali della fisiognomica. E per farmi capire il concetto il mio criceto mi canta sulle note della celebre canzone di Morandi, La fisarmonica, il pericolo e la verità contenuta nella fisiognomica.

Ritorno ai miei ricordi semi-infantili. Via col vento l’ho visto nel 1951. Mi pare al Cinema Astra  di Ferrara appena costruito. Il film è stato prodotto nel 1939 dall’omonimo libro di Margaret Mitchell uscito nel 1936 ed è l’unico romanzo della scrittrice statunitense, alla cui celebrità ha contribuito l’omonimo colossal cinematografico di Victor Fleming del 1939.                                   
Ora l’editore Neri Pozza già da due anni ha pubblicato una nuova traduzione che superava quella degli anni Trenta; quella tutta infarcita dagli stilemi con cui si pensava allora parlassero e si comportassero i neri. Una nuova versione che appare attenta alla nuova visione storica, con cui s’interpreta il razzismo oggi di estrema attualità dopo l’assassinio di George Floyd. Non va mai dimenticato che il romanzo e il film sono ambientati entro la più grande guerra mai combattuta tra gli stati del Sud, che difendevano la proprietà del commercio dei negri e quelli del Nord che operavano per la loro liberazione (si fa per dire). E basti pensare come padri della patria come Lincoln o Jefferson si comportarono con le loro serve- amanti di colore.

Ma ritorniamo al caso della conoscenza della razza nera o semitica. Da bambini, come tutti in quegli anni, dopo la fine della seconda guerra mondiale sapevamo che l’attrazione femminile o gay per quel popolo, così si favoleggiava, dipendesse dalle dimensioni del loro organo sessuale. Nel 1957 entrai alla Casa dello studente di Firenze. Lì incontrai parecchi studenti arabi iscritti a Medicina. Diventammo amici e la cosa che con riluttanza mi rivelarono era che per il loro olfatto noi puzzavamo: da morto. Ecco dunque rovesciata la dimensione chiamiamola fisiognomica. Nella realtà per loro noi puzzavamo. Da qui poi scaturiva il prendere conoscenza delle rispettive caratteristiche, che non offendevano il ‘particulare’, ma che diventavano storia. Negrieri, città costruite sul traffico dei negri, monumenti, statue, palazzi o città poggiavano su quell’immonda pratica che la storia NON può cancellare. Così potrebbe essere giusto prendere le distanze dalla vita di Rimbaud, divenuto trafficante di schiavi dopo la rottura con Verlaine, ma questo non mi deve impedire di leggere Une saison en enfer.

Cesare de Seta nel suo L’isola e la Senna porta il caso di Nantes. Scrive: “Tra Settecento e Ottocento circa la metà del traffico negriero intrapreso da armatori francesi fece campo a Nantes […]Dunque Nantes si guadagnò un primato nella tratta degli schiavi e i borghesi della città si arricchirono[…] Guillame Grou nel corso di una trentina d’anni considerati i più fruttuosi per questo commercio, nel Settecento accumulò enormi ricchezze[..] il patriarca della famiglia prima di morire volle salvarsi l’anima lasciando una fortuna all’Ospedale per gli orfanelli di Nantes. L’hotel Grou è ancora oggi una delle più eleganti dimore nell’isola Feydeau” (pp.108-109). Che facciamo? Abbattiamo tutto? E anche le parti ottocentesche della meravigliosa Cattedrale costruite con le donazioni dei cittadini negrieri?

Il caso più singolare che richiama l’odierno conflitto su Via col vento è la figura della bambinaia Mami nera e grassa interpretata magistralmente nel film da Hattie McDaniel, cantante attrice che le valse l’Oscar nel 1940, il primo concesso ad un afroamericano.                                                   

Hattie McDaniel

Come recita la sua biografia Hattie McDaniel nacque in una famiglia di ex schiavi, ultimogenita di 13 figli. Il padre, Henry McDaniel, combatté nella Guerra Civile come facente parte del 122º USCT (United States Colored Troops), le truppe composte da soldati afroamericani, mentre la madre, Susan Holbert, era una cantante di musica religiosa. Pur relegata al ruolo che le veniva imposto dalla sua figura fisica, Hattie recitò in ben 30 film, morendo nel 1952, ma non si associò mai alle manifestazione di protesta per i diritti degli afro americani.

Nella vicenda legata alla decisione di Hbo fondamentale – e come non lo potrebbe essere? – il commento della grandissima Natalia Aspesi apparso sulla Repubblica dell’10 giugno dal titolo Perdonaci Rossella ti cancelliamo. L’articolo così si concludeva: “La sera degli Oscar, tra i candidati c’era anche Hattie McDaniel, la grassa cameriera nera che adora Rossella, che concorreva per il premio alla non protagonista assieme a Olivia De Havilland, per lo stesso film: vinse Hattie, la prima donna di colore a ottenere un Oscar, che potè ritirare, senza però potersi sedere con gli altri vincitori bianchi. Negli Stati Uniti non succede più anche se c’è di peggio, ma in Italia c’è qualche eroica signora che insulta sul tram le donne di colore, obbligandole a scendere e qualche vecchio scemo che sul treno pretende di vedere se un ragazzo nero ha il biglietto.”

Il dibattito che ha provocato questa decisione supera la contingenza per affermarsi come momento fondamentale dell’elaborazione storica. La mancanza del processo storico, che è spesso una delle forme negative di quella grande nazione a confronto ad esempio con la nostra europea, forse è dovuto all’eccesso di punti convergenti della loro storia. Non a caso tutta l’epopea americana è una ‘conquista’. Il nome stesso lo dice e lo afferma. E ‘conquista’ è anche ora la reazione degli afroamericani, che dai loro conquistadores hanno imparato la tecnica dell’abbattimento di ciò che ricorda il loro passato. Una pratica pericolosa che dà la possibilità a Trump di insistere sulla necessità di una legalità che spesso potrebbe significare repressione.

Ma il criceto sbrigativamente mi ricorda “Stai ad ascoltare umarèl! Non ti va mai bene niente. Prima t’imbarazza essere attaccato perché hai espresso il tuo dissenso sulla mostra di Banksy. E cosa dovrei dire io che sono scambiato per questione fisiognomica con i suoi amati topi? Lassa perdar…Ricordati che nella tua età di diversamente giovane sei stato invitato il 16 ottobre alla Maison d’Italie a Parigi a inaugurare il convegno europeo sui 70 anni della morte di Cesare Pavese. Poi a Torino per la stessa occasione all’Università in novembre!!! Prega solo che la bestia (alias coronavirus) ci lasci in pace. Ecco Cesarito ti riporta alla missione che solum è tua: quella di studioso. E per finire ricordati che non ti mollo da solo a Parigi!”

PER CERTI VERSI
Attesa a Metz

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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ATTESA A METZ

Sono in attesa
Sono aria sospesa
Sono in attesa
Di te
Che vieni con un cesto di fiori
Nella città fiorita
A Metz
Mi annodi il foulard
del suo fiume
Sono trasparente
Per te
Toglimi l’anima
Prendiamo
La via dei profumi
E sdraiamoci all’ombra
Delle fiamme
Sono gialle
Di girasoli
E poesia

RICCO, PENTECOSTALE E (AUTOMATICAMENTE) SANTO
“Paese che vai, neopentev che trovi”

Un articolo di Civiltà cattolica di un paio d’anni fa, ma che vedo ora, dal titolo Teologia della prosperità, su una corrente teologica neo-pentecostale evangelica e la ricorrenza della Pentecoste, mi hanno indotto a una duplice lettura. Ho imparato cose che non conoscevo – sospettavo sì: non mi stanno simpatici – sui neopentev. Ho riletto con piacere, nella vulgata latina, il brano degli Atti degli apostoli che della Pentecoste tratta.

Il nocciolo teologico sta in un Dio che assicura ai fedeli vita prospera, cioè ricca, sana e felice. Basta fare quello che dicono i pastori, che sono infatti tutti ricchi, sani e felici. Opulenza e benessere indicano la predilezione divina. Il neoliberismo economico l’accompagna.
Nasce negli Usa, ma è ben diffuso in Africa (Nigeria, Kenya, Uganda e Sudafrica), Asia (India, Corea del Sud e Cina), America (Guatemala, Costa Rica, Colombia, Cile, Argentina, Brasile). Paese che vai neopentev che trovi. Così in Corea c’è Paul Yonggi Cho, con la “teologia di quarta dimensione”, che, attraverso visioni e sogni, controlla la realtà e ottiene ogni tipo di prosperità. Leggo (non dall’articolo), di suoi guai con la giustizia coreana, assieme al figlio, per appropriazione indebita di fondi della sua chiesa. Per il figlio il carcere, per lui una multa di 4 milioni di dollari. Un sogno e una visione, e li ha recuperati tutti, credo. In Uganda a Kampala c’è la sterminata Cattedrale del Centro dei Miracoli, Sette milioni di dollari per costruirla. Non sono neanche soldi per i prosperi. Vi esercita il pastore Robert Kayanja. Scritti e video ovunque. C’è una sua pagina su Facebook, impressionante.

Negli Stati Uniti sono “gli evangelici del sogno americano”, tanti, ricchi, influenti, decisivi nell’elezione dei peggiori, a cominciare da Donald Trump. Un anno prima delle elezioni Paula White – ora consigliera spirituale del Presidente – prega per Trump e gli impone le mani. Per Kenneth Copeland, avendo Dio stabilito il patto – la prosperità è tra i lasciti – al credente la prosperità appartiene di dritto. Per Harold Hill: “I figli del re hanno diritto a un trattamento speciale perché godono di un rapporto speciale, vivente e di prima mano con il loro Padre celeste”.
Dare ai buoni pastori è un affare, assicura la predicatrice Gloria Copeland. “Dai un dollaro per l’amore del Vangelo e ti toccano già 100; dai 10 dollari e in cambio ne riceverai 1000 in regalo; tu dai 1.000 dollari e in cambio ricevi 100.000. Se doni un aereo, riceverai cento volte il valore di quell’aereo. Dai una macchina e otterrai così tante macchine che non ti serviranno più per tutta la vita”.

Donald Trump ha le idee chiare: “In God we trust”. Cioè celebriamo le nostre convinzioni, la nostra polizia, i nostri militari e veterani come eroi che meritano il nostro pieno e costante supporto”. Quindi, in poche parole, Dio, l’esercito e il sogno americano. Tutto è semplice, come anche nell’articolo si dice. “Non c’è compassione per le persone che non sono prospere, perché, chiaramente, non hanno seguito le ‘regole’ e quindi vivono nel fallimento e, di conseguenza, non sono amate da Dio”. Joyce Meyer, con il suo programma televisivo “Godersi la vita di tutti i giorni”, raggiunge i due terzi del mondo, tradotto in 38 lingue, per portare la buona novella.

Il dono delle lingue è proprio del giorno di Pentecoste, grazie a un traduttore d’eccezione: Et repleti sunt omnes Spiritu Sancto et coeperunt loqui aliis linguis (E tutti sono pieni di Spirito Santo e prendono a parlare in differenti lingue). Questo desta grande meraviglia perché tutti a Gerusalemme, pur diversi e provenendo da luoghi differenti – Parthi et Medi et Elamitae et qui habitant Mesopotamiam, Iudaeam quoque et Cappadociam, Pontum et Asiam, Phrygiam quoque et Pamphyliam, Aegyptum et partes Libyae, quae est circa Cyrenem, et advenae Romani, Iudaei quoque et proselyti, Cretes et Arabes – “li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua, nella quale siamo nati” (propria lingua nostra, in qua nati sumus). C’è pure chi denigra: Musto pleni sunt isti. Non ci sarebbe bisogno di tradurre: Questi sono pieni di mosto. Solo il rammarico, che una lingua musicale e universale, sia stata soppiantata dall’inglese. Insorge Pietro e alza la voceNon enim, sicut vos aestimatis, hi ebrii sunt, est enim hora diei tertia (Questi non sono ubriachi come voi ritenete, è appena l’ora terza, come dire le nove del mattino, se non mi sbaglio). Non so in Galilea, ma conosco luoghi in cui a quell’ora sarebbe possibile incontrare un dozzina di ubriachi.

Insomma possiamo convenire con i teologi della prosperità che sia meglio essere ricchi e sani, che poveri e malati. Meno ci convince la pretesa di avere una risposta ad ogni problema e che la risposta sia quella indicata. Nell’articolo si cita Gaudete et exsultate. In questa trovo che “lo Spirito Santo ci pervade con tutta la sua potenza e ci libera dalla debolezza dell’egoismo, della pigrizia, dell’orgoglio”. Servirebbe molto anche a me, ma credo dovrò continuare a provarci senza aiuti straordinari. La liberazione indicata è necessaria e da perseguire.

Ancora, trovo scritto da Papa Francesco: “Quando qualcuno ha risposte per tutte le domande, dimostra di trovarsi su una strada non buona ed è possibile che sia un falso profeta, che usa la religione a proprio vantaggio, al servizio delle proprie elucubrazioni psicologiche e mentali”. Nel caso di questi neopentev credo sia proprio così. Ho tutta un’altra idea del sogno americano, diverso dall’incubo che ci viene proposto. È quello di Martin Luther King: il sogno “sociale, inclusivo e rivoluzionario del suo memorabile discorso I Have A Dream”, come ricordano anche gli autori dell’articolo.

Questo articolo è apparso con altro titolo sull’edizione online della storica rivista del Movimento Nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

CONTRO VERSO
L’amore non basta

Si dice: i bambini appartengono ai genitori, e i genitori sono sempre nel giusto perché amano i figli. Beh, a guardarli da vicino concordereste con me: non è vero.

L’Amore non basta

Bisognerà pur dire che non basta l’amore
non bastano spremute di cuore e budella.
Il bimbo strapazzato come uova in padella
va incontro alla crisi più che voi al disonore.

Per crisi io intendo il gusto di bucarsi
di sbagliare gli amori, farsi male, tagliarsi
fidarsi di nessuno, sfuggire agli abbracci
e poi perpetuare i propri catenacci.

Caricarli sugli altri, sulle persone incontrate
sui figli che verranno, sulle persone “amate”
scritte tra virgolette se riesco a spiegarmi.
Mi dico “adesso taci” ma non posso fermarmi.

La vita che ci prende è incompleta per tutti
con i suoi giorni belli, strepitosi e brutti
però un buon inizio è essenziale al cammino.
Incominciamo da qui. Dai diritti del bambino.

Se c’è una lezione che si impara, lavorando nella tutela dei minori, è che l’amore non basta. Crescere, educare un bambino non si risolve nel volergli bene, comprende il rispetto, l’ascolto, la protezione, la capacità di stimolare e accogliere come quella di dare regole. Per questo tutti i genitori vogliono bene ai loro figli – spesso anche i papà e le mamme maltrattanti – ma non tutti i genitori fanno il bene per loro.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario destinate a un pubblico adulto esce su Ferraraitalia tutti i  venerdì.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Sliding doors

L’avvicinamento nell’isolamento e la carica degli ex. Settimane lontani da tutto, rubrica da scorrere avanti e indietro, noia, rigurgiti di ricordi. Più facile sentirsi che vedersi, quasi scontato buttare lì un approccio che tanto non sarà nell’immediato e che, forse, non sarebbe mai avvenuto in tempi normali. Tornano persone che si riaffacciano con un assalto debole, un po’ patetico e poco convinto, ma puntuale.
Il mio amico P., che ho ritrovato dopo anni e svariati giri (suoi) intorno al mondo, mi racconta di non esserci caduto: “L’isolamento credo abbia riaperto la finestra, ma dalla finestra entrano solo i ladri, le cose giuste bussano alla porta”.
Gli do ragione, anche se penso a quante volte l’entrata furtiva di qualcuno non annunciato, non richiesto, possa essere eccitante. “Forse mi serve questa metafora per capirmi meglio”, dice P., “quando si entra veloci e leggeri, temo che allo stesso modo poi si possa andare via”.
Mentre parla, ricordo il vanto di una persona che diceva di praticare solo rapporti free, proprio questa parola stupida usava, come elemento caratterizzante e unico del suo essere.
“Ora preferisco il toc toc alla porta, voglio essere io a dare il permesso se fare entrare e accomodare e così, quella ex, l’ho lasciata fuori”.
Non so se sia l’intuito, l’esperienza o l’essere stato molto sorpreso dalle correnti d’aria, ma P. non ha fatto fatica a chiudere porte e finestre, non ha lottato con il dubbio, nessuna scusa di rivincita con lei, né gioco di pareggio per l’autostima. “Il rischio è sigillarsi troppo, però ho imparato a capire le intenzioni, a seconda di dove uno si presenta”, dice.
E le porte girevoli dove non ci si piglia mai? Quelle mi hanno sempre disorientato, mi sembrava di essere in giostra, ma poi sbagliavo il momento giusto per uscire e facevo un altro giro, inutilmente.
Dove hanno bussato le persone che si sono affacciate alla vostra vita? E come è andata quando non hanno bussato, ma sono entrate e basta?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

Per le tante lettrici e lettori affezionate/i a questa storica rubrica, e per chi la scopre solo ora, I DIALOGHI DELLA VAGINA torna puntualmente ogni mercoledì mattina.
Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

ČERNOBYL
una scodella abbandonata, un papavero sul cemento

Se guardo dalla mia finestra vedo l’orto di Mina incolto. Mina aveva novant’anni ed è morta di Covid-19 quest’inverno. Come tante persone anziane, purtroppo.
In questo orto incolto c’è qualcosa di triste, il ricordo di chi lo coltivava con attenzione e saggezza, ma c’è anche il fascino del cambiamento. La riappropriazione da parte della natura di uno spazio che per un po’ è stato prestato all’uomo.
L’erba sta crescendo, veloce, robusta, indifferente alle avversità climatiche, allo smog delle macchine che passano sulla strada vicina e all’antipatia degli uomini.

Ho visto un documentario sulla città di Černobyl, nel suo stato desolato e selvaggio attuale. E’ l’amplificazione dell’orto di Mina.

Il disastro di Černobyl  è avvenuto il 26 aprile 1986 alle ore 1:23:45 del mattino, presso la centrale nucleare V.I.Lenin situata in Ucraina settentrionale. È stata la più grave sciagura mai verificatasi in centrali di quel tipo. Secondo Greenpeace sono sei milioni i decessi avvenuti negli ultimi trent’anni che dipendono da quel disastro e, contando tutti i tipi di tumori riconducibili all’esplosione del reattore numero quattro della centrale, si arriva ad un numero di persone ammalate o morte impressionante.  Il reattore era di tipo RBMK-1000 un reattore a canali, moderato a grafite e refrigerato ad acqua.

Ciò che fa impressione guardando il documentario è vedere la Černobyl odierna piena di erba, rovi e alberi. Dove prima c’erano case, strade, scuole, centri ricreativi, aziende agricole, ore ci sono i rovi. Enormi, scuri, pungenti. Fanno impressione tanto sono grandi. Amplificano a dismisura il senso di abbandono. Sottolineano una sconfitta umana nei confronti della natura che si è ripresa i suoi spazi, nei confronti di tutto ciò che i nostri simili erano riusciti a fare in quel posto e che adesso non esiste più. Le case sono state abbandonate in seguito all’evacuazione della città e mai più riabitate. Si vedono mobili, piatti, bicchieri, giochi di bambini lasciati improvvisamente per un allontanamento tanto improvviso, quanto definitivo. Ora quei bambini, se sono sopravvissuti, hanno tra i quaranta e i cinquant’anni, chissà cosa ricordano di allora. Chissà se qualcuno si è davvero ripreso e ora sta bene. I bambini hanno sempre grandi risorse, qualcuno ce l’avrà sicuramente fatta.

Riguardo l’orto di Mina che sembra una piccola Černobyl, stanno crescendo i rovi.

Penso che trovarsi di fronte a tali evidenze, potenti nel loro potere evocatorio e anche nella loro forma e colore, aiuti a uscire da alcuni schemi mentali e da molti pregiudizi.  Permetta di vedere le cose con occhi nuovi. Sia Černobyl che l’orto di Mina sono, se si dimentica la tragedia che li ha generati e ci si focalizza semplicemente sul presente, affascinanti. La natura che riconquista i suoi spazi a scapito dell’uomo è travolgente. Ha una forza disumana. Si vede  la prepotenza della vegetazione che perfora il cemento, sbucano fiori sul catrame. Dai finestrini delle macchine parcheggiate a Černobyl in quella triste notte e là rimaste per sempre, crescono le stelle alpine, piccolo e inconsapevole tributo ai tanti morti.
Dalla rete dell’orto di Mina escono le dalie gialle che le piacevano tanto. Sono sopravvissute in mezzo ai rovi.

La natura sa essere selvaggia, aggressiva, incontrollata, primordiale. Lei c’era nella preistoria quando le prime scimmie si sono innamorate, quando il primo uomo ha acceso il fuoco, ha cacciato e costruito capanne. Lei c’era quando i Romani hanno conquistato un impero, quando gli Unni l’hanno invaso, quando è caduto il muro di Berlino. Lei c’era sempre.
E’ fortissima, accompagna la nostra vita, la permette e la sovrasta. Senza vegetazione non ci sarebbe ossigeno e quindi vita. Se si pensa a questo, si guarda tutto con occhi diversi, si trovano interessanti i rovi. Bisogna provare, cercare con convinzione una visione che si esaurisce nel presente, scevra dall’origine del paesaggio desolante, una rappresentazione che abbraccia il mondo vegetale per quello che è, senza addomesticamento alcuno e allora si vede la forza della vegetazione in movimento.
Ciò che resta dopo il disastro umano è spesso questa natura che non risparmia nessuno, aggredisce e porta via. Scava nei tombini, fa scoppiare le fondamenta, si aggroviglia sui tetti delle case e toglie le tegole. Vegetazione ovunque che non conosce paura. Una natura che riprende i suoi spazi.
Aggressiva e libera.
Va dove vuole, fa quello che vuole, con determinazione e senso di rivalsa. In questo c’è del fascino, si riscopre la sua vera forza e la sua longevità. E’ molto  più vecchia di noi, ne sa più di noi, ci soppravviverà, deciderà del nostro futuro.
Una natura che affronta una seconda genesi e che galoppa, mangia il cemento, si mescola a terra e fango, riapre gli scoli per l’acqua, reindirizza la pioggia.  Scoppia forte il fascino per ciò che nessun’uomo controlla, si vede perfettamente quanto siamo piccoli e mortali.
Riguardo l’orto di Mina e ripenso a Černobyl. Questi due drammi si mescolano sulle lenti dei miei occhiali, nel mio cuore di bambina allora, di adulta adesso. Vedo tante foglie e qualche gatto randagio che vive bene anche lì.

Oggi nella zona di Černobyl vivono circa centoquaranta persone. Sono tornate a vivere là. Un po’ per necessità un po’ per recuperare le proprie radici. Dicono che là si sta benissimo, che la vegetazione è ovunque e questo permette una vita molto piacevole. Si sono innamorati di quel posto che è diventato selvaggio. Tra gli alberi, le fogli e i ruderi delle vecchie case si è insediata di nuovo la vita umana. In quel posto c’è il fascino del passato spezzato e di un nuovo corso dell’esistere che illumina tutto.
E’ rinato un mondo con la sua voglia di evolvere, è rinato un senso di appartenenza che abbraccia ambiente e alberi, umanizzandoli, rendendoli una creazione della gente  più delle case rotte e dei ricordi di ciò che è sbagliato e perduto, più della tragedia e di tanti errori umani. Di mattina rispunta il sole tra le foglie degli alberi di Černobyl. Brilla la luce, quasi acceca. Anche sull’erba dell’orto di Mina spunta il sole tutte le mattine e in questo c’è comunque la gioia di una novità che piace, c’è un calore che ritrova la via dell’inizio e dello stupore.

Sono qui e guardo quell’orto incolto cercando di cambiare prospettiva, cercando  di  inquadrare il mondo e la vita in maniera diversa.  I disastri lasciano degli insegnamenti che posso istruire. I fiori nati sul cemento sono stupefacenti e fortissimi, sono coloratissimi e impossibili. Sanno abbagliare. Guardo l’orto di Mina e mi sembra di essere a Černobyl, di camminare in quel posto semi abbandonato, pieno di vegetazione rinata, pieno di morte passata e di vita presente. Mi sembra proprio di essere là. E allora mi siedo per terra sotto un albero, raccolgo una scodella abbandonata lì il giorno della tragedia,  vedo da vicino quello che di grandioso sa fare la natura e mi sorprendo a pensare che per tutti c’è una seconda possibilità, che il mondo sa regalare sia traguardi che nuove partenze, che saremo vivi  finchè ci sarà ossigeno. Saremo vivi grazie anche ai rovi.

Mi rialzo, mi risiedo e poi mi rialzo e mi risiedo e mi rialzo, non riesco ad andarmene da quella visione che è un po’ immaginata e un po’ reale, un po’ visionaria e un po’ suggestiva. Sul modo in cui la natura accompagna la nostra vita e se ne riprende con prepotenza dei pezzetti, c’è da riflette, molto da scrivere.  Nasce un papavero sul cemento.

Come un pensiero

Diamonds on the Inside (Ben Harper, 2003)

Una notte venne a trovarmi mio fratello.

Mio fratello era morto. Era successo due anni prima che io nascessi, aveva otto anni e morì di leucemia.
Non era la prima volta che c’incontravamo io e lui. Accadeva nei miei sogni e ogni volta tutto avveniva allo stesso modo: lui arrivava, salutava e mi sorrideva.

Quella notte l’accolsi con noncuranza, come sempre, come se fossimo sempre vissuti insieme.
E fui io ad attaccar discorso. Gli volli chiedere una cosa che m’aveva sempre incuriosito, una cosa strana, bizzarra in fondo. Ma nella mia testa c’erano tante domande strampalate che esigevano risposta, e chi meglio di lui poteva chiarirmi questi misteri? Dopotutto, se non lo sapeva lui che della materia era un esperto…
Quindi ne approfittai e glielo chiesi: «Senti Nicolas, quanto pesa un’anima?»
«Quanto un pensiero!» rispose prontamente lui.
«E quanto pesa un pensiero?»
«Beh dipende… Se è buono non pesa nulla, se è cattivo pesa come il mondo!»

Ne sapevo come prima, eppure mi sentivo soddisfatto. Era il potere di mio fratello morto, che mi diceva tutto senza dirmi nulla.

Ma da quella notte, per quella vaga risposta, cercai sempre d’aver pensieri buoni.
E devo dire che, in effetti, mio fratello aveva ragione: la vita mi sembrava più leggera!

NIENTE PACE SENZA GIUSTIZIA
Un manifesto per George Floyd nella via di Federico Aldrovandi

Da: Potere al Popolo – Ferrara

Oggi siamo andati ad appendere un manifesto in una strada. Sul manifesto c’è il volto di George Floyd, e la scritta “Per George Floyd, per Soumaila Sacko, per la giustizia sociale”. La strada è Via Ippodromo, luogo dell’uccisione di Federico Aldrovandi. In questo modo abbiamo voluto tendere un filo rosso tra la nostra città, il nostro Paese e le rivolte di popolo che in questi giorni attraversano gli Stati Uniti d’America.

La morte di George Floyd è una storia che unisce repressione, razzismo, questione di classe. Una storia che ci parla di un sistema delle forze dell’ordine che, negli U.S.A come qui da noi, non esitano a usare violenza contro i più deboli e i più poveri, non esitano a usare i mezzi anche più brutali, non esitano ad uccidere. È per questo che abbiamo voluto lasciare il manifesto proprio dove Federico è morto. È una storia che ci parla di una sistematica discriminazione sociale, economica e civile dei neri. È per questo che nell’esprimere solidarietà alle migliaia di neri, bianchi e ispanici che in questi giorni manifestano in tutte le principali metropoli degli Stati Uniti, abbiamo voluto ricordare anche chi nel nostro paese è morto solo per il suo colore della pelle, come Soumaila Sacko, bracciante maliano e sindacalista USB ucciso proprio due anni fa nelle campagne di San Calogero. Infine, la morte di George Floyd e la lotta di popolo che gli sta seguendo, ci parla delle ingiustizie di un sistema socio-economico profondamente classista, che non a caso caratterizza la nazione più avanzata nei meccanismi di sfruttamento del capitalismo. È per questo che, negli Stati Uniti come qui da noi, crediamo che l’unico modo per porre fine a repressione, razzismo e sfruttamento sia lottare per la giustizia sociale.

Abbiamo appeso un manifesto in una strada. Speriamo che quel manifesto, che è proprio vicino alla targa che ricorda Federico, vogliate passare in tanti a guardarlo, per tenere vivo il ricordo delle ingiustizie subite dagli oppressi qui come negli U.S.A. e ricordare quanto sia necessario e urgente opporvisi per costruire una società più giusta.

 

PER CERTI VERSI
Un ricordo

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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UN RICORDO

Non mi piacerebbe
Ma lo penso
Anzi lo odierei
Che non ci vedessimo
che una volta
e mai più
Senza voltarsi
Tenere stretti nel petto
i ricordi
Sapere come eri
Come sei stata
La tua voce squillante inventata
Concedere nemmeno
ai versi
Di zampillare
No sigillare tutto
Sapere che bisogna andare
Andare via
Senza sogni
Con la sola tristezza
Sola
Come un blues
Mentre si fa l’amore

PRESTO DI MATTINA
L’invenzione dei colori: “Dio ha creato gli uomini perché ama i racconti”

Ricordo che da ragazzino mi impressionava molto il suo modo di raccontare.
Lo ascoltavo introdurre le varie puntate dello sceneggiato televisivo sull’Odissea, e mi colpiva il suo modo di pronunciare il nome Ulisse. Così come mi coinvolgeva quando alla televisione leggeva qualche sua poesia, incarnando con esse il sentire del tempo. Ricordo per esempio quando recitò la celeberrima I fiumi, quasi descrivendo un viaggio interiore, l’avanzare sempre di nuovo, mai pago, delle ascensioni dello spirito – ma questo lo imparai molto tempo dopo. Ed era in grado, con le sue parole, di ridestare il senso della memoria, la sua itineranza come risvegliata proprio da quei paesaggi e luoghi in cui aveva vissuto: “Questo è l’Isonzo/ e qui meglio/ mi sono riconosciuto/ una docile fibra/ dell’universo/ Il mio supplizio/ è quando/ non mi credo/ in armonia”. Non per nulla, nel sentire nominare l’Isonzo, mio nonno coglieva l’occasione per raccontarmi della guerra sul Carso e dei fiumi che scomparivano e poi comparivano dalla terra imitando lo scorrere del tempo nascosto e svelato.

Sto parlando ovviamente di Giuseppe Ungaretti (1888-1970), del quale lunedì ricorreva il cinquantesimo dalla morte. Non è per questo però che lo ricordo, qui oggi. Ma per una sua ermetissima poesia dal titolo Casa mia, che forse per la vicinanza con la Pasqua, mi è tornata alla mente in questi giorni. Unitamente a quel suo stile narrante, che sapeva coniugare parole e mimica, attraverso l’espressione del volto e delle mani, non di rado con l’indice alzato quasi come un sacramento: verbum e signum interconnessi.
Una parola – in breve – che si dà a vedere, e un segno che si fa ascoltare. Rappresentazione dell’invisibile nel visibile dell’anima sul volto, che coinvolge e trasforma anche coloro che vi partecipano con lo sguardo e l’ascolto: un narrare performativo, insomma, che fa quello che dice e dice ciò che fa.
Agostino, il retore di Tagaste direbbe, Verbum visibile e signum audibile, ricordando Giovanni l’evangelista: è “quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza” (1Gv 1,1-2). Segni e parole intimamente congiunti, dove le espressioni del volto e i gesti della mano rafforzavano il realismo delle parole, e queste svelavano il segreto nascosto nell’animo, il sentire dell’esperienza che si vuol comunicare, come di testimone che ha vissuto dentro gli eventi e può dire presente, adsumus, siamo davanti.
Ecco allora il testo della poesia di Ungaretti:
Sorpresa dopo tanto
d’un amore,
Credevo di averlo sparpagliato per il mondo.

Ho ruminato queste parole come fanno i monaci con la Scrittura santa. Finché questi pochi versi mi hanno ricordato la stessa concisione di un’altra sorpresa, anche quella di un amore perduto e ritrovato: quello annunciato dall’angelo alle donne impaurite al sepolcro il mattino di Pasqua: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto” (Lc 24, 5-6). Un annuncio, anche quello, sparpagliato per il mondo, che tuttavia raccoglie, riunisce, tiene insieme senza perdere la diversità del molteplice, senza uniformarlo né omologarlo, riuscendoci solo con l’amore.
Sorpresa di un amore: quella che prende il fiato, non te l’aspetti, ma ti ruba il cuore, lo strappa dal suo luogo interiore e lo fa partire alla ricerca di colui senza il quale non può più vivere. Ed è proprio questo partire, lo strappo di una sequela, che lo destina alla sorpresa.

Il poeta è come il mistico: il suo cuore lo fa partire sempre, di nuovo. Non può fare a meno di lasciarsi sorprendere da ciò che è umano, di riscattare la bellezza che segretamente nasconde se non vuol “perdere l’amore”.
E fu proprio per non perdere l’amore nascosto nel Vangelo della Pasqua, nel tentativo di far risplendere tutta la bellezza dei suoi colori agli occhi della gente, che una domenica di quasi vent’anni fa mi venne di raccontare questa storia. E se è vero che un detto rabbinico afferma che “Dio ha creato gli uomini perché Egli – benedetto sia! – ama i racconti”, penso che con quella storia rallegrai anche il cuore di colui che ai miei occhi ha fatto il cielo e la terra.

Ma come si racconta una storia? Cerco di impararlo da un Rabbi il cui nonno era stato discepolo del Baalshem, al quale fu chiesto di raccontare una storia. “Una storia”, disse, “va raccontata in modo che sia essa stessa un aiuto“. E raccontò: “Mio nonno era storpio. Una volta gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro. Allora raccontò come il santo Baalshem solesse saltellare e danzare mentre pregava. Mio nonno si alzò e raccontò, e il racconto lo trasportò tanto che ebbe bisogno di mostrare saltellando e danzando come facesse il maestro. Da quel momento guarì. Così vanno raccontate le storie”. Non ricordo più come andò quella domenica, so solo che dopo tanto tempo mi sorprende ancora.

I colori della Pasqua

In principio, quando Dio creò la luce, vide che era una cosa buona perché la terra, informe e oscura, cominciò ad illuminarsi. Quando poi separò le tenebre dalla luce nacquero il giorno e la notte. Affinché il giorno rimanesse luminoso per tutto il tempo stabilito, accese nel cielo il sole; e perché la notte non fosse troppo oscura, la illuminò con la luna e le stelle.
Solo il sesto giorno, dopo avere creato l’uomo e la donna, si accorse che mancavano i colori, sia alla terra sia al firmamento. Lo capì perché l’uomo e la donna non si guardavano intorno più di tanto e non rimanevano stupiti della sua opera. Per forza! Tra la luce e le tenebre c’era un arcobaleno di grigi, o più chiari o più cupi, da mettere tristezza anche al più allegro dei suoi angeli.
Allora decise subito di rimediare e, convocati sette angeli, diede a ciascuno un colore e li mandò ad abbellire la sua creazione. E così il primo angelo dipinse, all’inizio della settimana, tutta la terra e il cielo di rosso; poi, il giorno successivo, un altro angelo passò sopra il rosso con il giallo e così di seguito fino al settimo angelo, col suo ultimo colore, sino alla fine della settimana.
Ma il risultato non era stato certo dei migliori e l’uomo e la donna rimanevano stupiti sì, ma per la confusione del continuo cambiamento. Allora Dio divise con delle linee la terra e il cielo perché formassero come dei settori e inviò ancora i suoi angeli a colorare e il cielo e la terra. Ma il lavoro non era che a metà quando ordinò di sospenderlo subito. Un mondo fatto ad arlecchino, con tante pezze colorate, non piaceva neppure a Lui.

Non era certo un tipo da avvilirsi; quindi si mise a pensare velocemente poiché stava avvicinandosi il settimo giorno, il giorno del riposo, e non voleva proprio che l’uomo e la donna passassero la festa in una grande malinconia.
Dio chiamò le nubi e in un momento non furono più nere di pioggia, ma rosse, gialle, verdi, blu. Ordinò al vento di disperderle per tutta la terra e cadde così una pioggia di colori su tutta la creazione, ma le gocce, cadendo l’una sull’altra, si mescolavano tutte insieme formando un miscuglio sgradevole e disordinato, una poltiglia cupa.
Eppure l’aveva negli occhi quello stupendo arco che avrebbe posto sopra la terra dopo il diluvio: l’arcobaleno come segno di pace e di armonia fra Lui e gli uomini. Allora decise che sarebbero stati l’uomo e la donna a colorare il mondo. Li convocò alla sua presenza e fece loro dono di tutti i colori dell’arcobaleno. Ma l’uomo e la donna non incominciarono nemmeno perché non riuscivano a mettersi d’accordo: lui, le cose, le voleva colorate in un modo, lei, in un altro. Ed entrambi, per non litigare, abbandonarono i colori in un angolo del paradiso.
Ma Dio non si arrese nemmeno questa volta. Fece scendere su di loro un sonno profondo e, mentre dormivano, mise tutti i colori nei loro occhi. Al risveglio l’uomo e la donna rimasero davvero stupiti. Quando guardavano le cose o i loro volti, questi prendevano colore ed anche gli sguardi dell’uomo e della donna divenivano raggianti. Tutto si trasformava colorandosi appena veniva osservato, ma quando essi si voltavano, tutto ritornava nel grigiore e nell’oscurità. Sembrava allora che mancasse qualcosa per fissare i colori alle cose, o per far sì che, per il mutare della luce, essi non si perdessero. Ma cosa occorreva? Che cosa avrebbe fissato per sempre i colori alla terra, al cielo e sul volto dell’uomo?
Già il sole stava sorgendo sul settimo giorno, era l’alba. Dio si ricordò dei due angeli che aveva creati per annunciare alle donne, il mattino di Pasqua, la risurrezione del suo Figlio. Li chiamò a sé e li mandò a svegliare l’uomo e la donna che dormivano profondamente. Entrambi furono pieni di paura al vederli, ma appena i loro occhi si fissarono in quelli degli angeli, in loro entrò la gioia della risurrezione. “La gioia! – disse Dio – …ecco che cosa mancava!”. E nel settimo giorno Dio creò i colori perché rallegrassero gli occhi ed il cuore dell’uomo e della donna e non si spegnesse mai in loro un ardente ed irresistibile desiderio della bellezza, quella che sarebbe nata dalla gioia della risurrezione di quel silenzioso mattino di Pasqua.

CONTRO VERSO
Lettera alla Maestra

L’accesso alla rete per tutti i bambini è una questione di equità, soprattutto se la scuola si può fare soltanto a distanza.

Filastrocca della lettera alla maestra

Signora Maestra, non sono a lezione
qui non mi arriva la connessione
non avevo i compiti e non ho studiato
però non mi sono dimenticato

di tutti i compagni che non ho più visto
vorrei cercarli e qualche volta insisto
mi manca soprattutto di far l’intervallo:
“Mi ha spinto! Rigore! Ha fatto fallo!”.

La mamma ripete che non posso uscire
d’accordo o no, devo solo eseguire
così la palla è nello sgabuzzino
un posto adatto per ogni bambino.

Io non so proprio dire che cosa sia
quella che tutti chiamano pandemia.
Vorrei dire a lei, lo ripeto alla mamma
son sicuro che no, non era in programma.

Il periodo di quarantena ha necessariamente comportato limitazioni per bambini e adolescenti che hanno visto compressi i loro diritti al gioco, alla socialità, all’apprendimento. La chiusura si è aggravata per chi aveva meno strumenti, innanzitutto informatici, quando la scuola si è trasferita online e non tutti hanno potuto continuare le lezioni.
Secondo il rapporto Istat pubblicato il 20 aprile scorso, in Italia 1 famiglia su 3 non ha né computer né tablet e, anche quando è presente, non è detto sia a disposizione per la didattica a distanza: solo in 1 famiglia su 5 ogni componente del nucleo ha uno strumento tutto per sé. Le differenze geografiche sono molto accentuate: le famiglie senza computer salgono al 41,6% al Sud,mentre quelle con un pc personale per tutti sono 1 su 7.
CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia tutti i venerdì.
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PAROLE A CAPO
Lamberto Donegà: “Oggetto” e altre poesie

Rubrica a cura di Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini

La poesia è sempre diretta, nel suo insieme, ad un destinatario più o meno lontano e ignoto della cui esistenza il poeta non può dubitare senza dubitare di se stesso.”
(Osip Emil’evic Mandel’stàm)

I

Alla fine ti inseguo Narciso
attraverso città di nuvole in una domenica di gennaio.
Sei leggero senza il peso dei pensieri
e guardi libero verso la linea della fortuna.

Hai lasciato vivere a te vicino la notte
con un brivido al collo fino alla schiena
prima di salire una dura ferrata
in cui tutto il cuore è avvolto di rabbia.

Hai passato ore a dimenticare l’amore
per incontrare un fantasma sconosciuto,
amica di un unico viaggio
in un pianto di parole

Dissipato il futuro
manca la dignità di piangere e ascoltare.
Tutto è gesto di morte
per lasciare la vita.

 

II
Oggetto

Oltre la notte non hai forbici per tagliare
l’inverno negli occhi pallidi. Triste,
vivi vicino a un’ombra allontanando
il confine delle feste familiari

Rivivi i colpi di una infinita pazienza
sparsi nelle mie parole
come anni sempre possibili
raccolti in una idea semplice.

C’era tempo per una stagione felice,
adolescente in una metafora viva
con una superba grammatica di pensieri,
metodica fino a sciogliere ogni inganno

La solitudine esclama al posto del nome,
l’essere stati allontanati da un padre
e cercare un ricordo felice
ma servono garze e bende per un vuoto incolmabile.

 

III

Non è ancora possibile
amare
dentro un respiro tra due punti fissi:
fine e inizio del mondo.

L’onorevole resa varrebbe il ritorno
all’innocenza delle certe abitudini,
al loro appoggiarsi alla superficie delle parole
diventando sottilissima favola quotidiana.

La ruga ha cancellato in me le tracce del figlio.
Dove cercare una seconda nascita? Forse
interrompendo la causa della tachicardia
in una infinitesima preghiera nel corpo.

Ogni vantaggio è sospeso,
riceverò nel tempo solo dolore
lasciando di là dai vetri gli anniversari
dispersi da un vento autunnale.

(Oltre la notte – trilogia di poesie (2014), rappresenta una sottile linea poetica dell’essere per vivere).

 

Lamberto Donegà
Nel 1970 Lamberto Donegà pubblica “Domanda”, la sua prima opera. Nel 1976 ne “Il Sollievo del Sole” appare la città di Ferrara in forma bassaniana con i luoghi di un amore visivo struggente. Nel 1980 partecipa a “Poeticamente”, curando diversi numeri monografici di poeti italiani. Nel 1990 cura la messa in scena teatrale dei “Canti Orfici” di Dino Campana a Castelmassa (Rovigo). Dal 2007, l’autore pubblica numerosi libri di poesie tra cui segnaliamo “L’orlo invisibile dei versi” (anche in edizione francese), Ed. Lampi di Stampa, Milano, 2009, con la postfazione di Emanuela Calura. Dal 1980 a tutt’oggi, Lamberto Donegà segue con continuità le attività del campo psicoanalitico lacaniano di Milano e di Roma.

La rubrica di poesia Parole a capo esce tutti i giovedi su Ferraraitalia
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UN’ALTRA DIFESA E’ POSSIBILE
Una Petizione al Parlamento per rilanciare la Campagna

Una Petizione al Parlamento per rilanciare la Campagna “Un’altra difesa è possibile”

In occasione e in preparazione della Festa della Repubblica, e della sua Costituzione che ripudia la guerra, le sei Reti promotrici della Campagna “Un’altra difesa è possibile” (Conferenza Nazionale Enti di Servizio Civile, Forum Nazionale per il Servizio Civile, Rete della Pace, Rete Italiana per il Disarmo, Sbilanciamoci!, Tavolo Interventi Civili di Pace) rilanciano la mobilitazione con una richiesta diretta a Camera e Senato.

Le reti dell’associazionismo italiano che si occupano di pace, disarmo, solidarietà e servizio civile rilanciano unitamente la mobilitazione che chiede riconoscimento e sostegno a chi difende i valori costituzionali senza ricorrere alle armi. La nuova fase della Campagna  Un’altra difesa è possibilevuole aprire un’ulteriore interlocuzione con le istituzioni.

“Ci rivolgiamo a Senato e Camera per offrire un dialogo tra società civile e organi parlamentari sul tema attualissimo e decisivo della difesa della Patria – afferma Mao Valpianacoordinatore della Campagna e presidente del Movimento Nonviolento, intervenendo a nome delle 6 Reti promotrici –. Abbiamo scelto di utilizzare lo strumento della Petizione, previsto dall’articolo 50 della Costituzione, per rivolgerci al Parlamento e chiedere di legiferare per l’istituzione del Dipartimento della difesa civile non armata e nonviolenta“.
Nel corso della 17a legislatura la nostra Campagna era riuscita a raccogliere le firme sufficienti per una Proposta di Legge di iniziativa popolare, successivamente trasformata in Proposta di Legge parlamentare con più di 70 firmatari incardinata nelle competenti Commissioni della Camera dei Deputati. Con il passo odierno chiamiamo di nuovo in causa i Parlamentari della Repubblica, a partire dalla Presidente del Senato On. Maria Elisabetta Alberti Casellati e dal Presidente della Camera dei Deputati On. Roberto Fico a cui abbiamo inviato richiesta di incontro con i rappresentanti della Campagna.

In questi mesi l’intera comunità nazionale ha difeso, con costi e impegno altissimi, la salute individuale e la sanità pubblica. È stato giusto così. Non c’è bene superiore del diritto al vita per tutte e tutti, il resto viene dopo.
La difesa della Patria, cioè l’integrità della nostra comunità, è affidata dalla Costituzione ai cittadini ed è un sacro dovere che riguarda ciascuno. La difesa civile, non armata e nonviolenta è già riconosciuta da diverse sentenze della Corte Costituzionale, ed è presente nella legislazione vigente. Va implementata, va rafforzata, va finanziata; c’è bisogno di un quadro normativo e l’istituzione del Dipartimento è necessaria per avere uno strumento operativo ed efficace al fine di coordinare le varie forme di difesa civile non armata e nonviolenta: dal Servizio Civile universale alla Protezione civile, dai Corpi civili di pace ad un Istituto di ricerca per la risoluzione nonviolenta dei conflitti.

Oggi il bilancio del comparto della Difesa è assorbito interamente dai costi della difesa militare armata, con tutto ciò che ne deriva a riguardo di nuovi sistema d’arma, strutture, esercizio ed anche con un impatto su import ed export militare. Noi chiediamo oggi quantomeno il riconoscimento della parità costituzionale tra difesa militare e difesa civile: pari dignità, pari legittimità. Senza chiedere ulteriori sacrifici ai cittadini, proponiamo una contrazione delle spese militari a vantaggio di maggiori finanziamenti per la difesa civile.
La nostra proposta di Legge prevede, infatti, che ai cittadini contribuenti sia offerta l’opzione fiscale, con la possibilità di scegliere se destinare il proprio contributo al finanziamento del Dipartimento per la difesa civile non armata e nonviolenta. “Il 2 giugno è la festa della Repubblica – conclude Valpiana – concepita nell’urna referendaria, quindi con il più civile dei processi democratici. Queste sono le nostre radici.La Repubblica che ripudia la guerra ha bisogno della Difesa civile non armata e nonviolenta“.

LA PETIZIONE INVIATA AL PARLAMENTO (formato PDF)
QUI UNA SCHEDA CON LA CRONOLOGIA DELLA CAMPAGNA

Le Dichiarazioni dei rappresentanti delle sei Reti promotrici

“Sono centinaia nel mondo gli operatori di pace italiani che oggi gestiscono progetti di riconciliazione, mediazione, dialogo tra fazioni e comunità in conflitto, accompagnamento nonviolento dei difensori dei diritti umani, monitoraggio e denuncia degli attacchi contro i civili. Salvano vite umane ogni giorno e pongono le basi per una pace sostenibile. I più giovani lo stanno facendo come Corpi Civili di Pace in un programma sperimentale del Servizio Civile Nazionale, i più esperti come cooperanti, consulenti di organizzazioni internazionali o di ambasciate di altri paesi. E’ ora che l’Italia riconosca dignità al lavoro di pace nonviolento e che lavori per organizzare a finanziare contingenti di Corpi Civili di Pace nel mondo, a sostegno della società civile locale”.
Martina Pignatti Morano, co-referente Tavolo Interventi Civili di Pace

“Per reagire alle minacce alla nostra sicurezza (clima, salute, lavoro) non servono le armi, serve una difesa civile e nonviolenta. Il Servizio Civile Universale è già oggi, anche se in misura parziale, un’esperienza di difesa civile. Parziale perché per carenza di fondi solo il 50% di giovani che chiede di partecipare è poi avviato al servizio. Ma non solo di soldi si tratta. Stenta a entrare nelle istituzioni la realtà e l’attualità della difesa civile. La proposta di legge generata dalla Campagna Un’altra difesa è possibile è la risposta. Per questo sosteniamo la campagna e sollecitiamo il Parlamento a legiferare in materia, a partire proprio dalla proposta firmata da decine di migliaia di cittadini e depositata in Parlamento.”
Licio Palazzini, presidente Conferenza Nazionale Enti Servizio Civile

“La pandemia ha scoperto le fragilità e le contraddizioni del nostro sistema. Il 2 giugno, festa della Repubblica, ci deve far riflettere su una contraddizione oramai non più giustificabile: la mancanza di un sistema di difesa civile e nonviolenta. Oggi più che mai è indispensabile riordinare le priorità e la spesa pubblica in funzione dei bisogni delle persone e del territorio. Occorre superare un concetto di altri tempi, che vuole la difesa in funzione del nemico, della guerra, del doverci difendere da un esercito invasore, quindi, delegando e relegando la difesa esclusivamente alle armi ed al militare.
Il ripudio della guerra richiede un salto culturale e politico netto a partire proprio dal concetto e dalla pratica della difesa che sempre più deve essere a supporto ed a protezione della collettività, dei diritti umani, del lavoro, dell’ambiente, della solidarietà e della cooperazione tra i popoli”.
Sergio Bassoli, segreteria Rete della Pace

“Riteniamo che prima possibile il Parlamento debba approvare una legge per l’istituzione del dipartimento per la difesa civile non armata e nonviolenta. Serve mettersi a servizio di attività ed iniziative concrete sulla base della consapevolezza del fatto che oggi la vera sicurezza è sociale ed ambientale. Di questo abbiamo bisogno e i rischi e le minacce che vediamo minare le nostre comunità possono essere affrontati solo con impegni e investimenti nella sicurezza che la difesa non armata può portare. Proponiamo un cambiamento radicale anche nell’uso della spesa pubblica”.
Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci!

“La strada che noi indichiamo con questa proposta di legge è quella di coinvolgere i cittadini in azioni di solidarietà, di educazione e promozione culturale, di impegno attivo verso la comunità e a favore dei singoli. Questo è per noi il modello di difesa più efficace, quello che si preoccupa di prevenire i conflitti sociali, di avvicinare le differenze culturali e religiose, di tutelare i diritti dei più deboli. Educando i cittadini a questo garantiremo al futuro di questo paese una pace duratura. Anche in questo caso l’Italia potrebbe mostrare all’Europa e al mondo una buona pratica innovativa”.
Enrico Maria Borrelli, presidente Forum Nazionale Servizio Civile

“Siamo felici di accompagnare le altre sei Reti promotrici in questa nuova fase della nostra mobilitazione. Tutte le nostre altre campagne (per la riduzione delle spese militari, per la riduzione della produzione e commercio di armamenti) saranno completate solamente quando sarà data opportunità a tutti i cittadini e le cittadine di accedere ad una forma istituzionalizzata di difesa non armata e nonviolenta. Dobbiamo costruire una vera salvaguardia: delle persone, delle vite, della salute, dell’ambiente. Ripartiamo con grande slancio tutti insieme”.
Francesco Vignarca, coordinatore Rete Italiana per il Disarmo

Per ulteriori informazioni sui contenuti della Proposta di Legge e sul tema della difesa civile non armata e nonviolenta: www.difesacivilenonviolenta.org

Mail: info@difesacivilenonviolenta.org – tel. 045/8009803 – mobile 348/2863190

IL FABBRICONE: IL LAVORO, LE PERSONE, LA STORIA
E’ uscito il 2° volume di “Ferrara e il suo Petrolchimico”.

di Sergio Foschi

Ferrara e il suo Petrolchimico, volume secondo, edito da CDS Cultura Edizioni, di Ferrara è un volume che illustra, attraverso una rappresentazione giornalistica, temi di attualità che, partendo dall’esperienza del Petrolchimico ferrarese, si irradiano in tutto il territorio.

La crisi del Covid 19 ha impedito la presentazione del libro, già programmata per il 27 febbraio u.s. presso il ristorante aziendale del Petrolchimico e riproposta per il prossimo autunno, mentre nel frattempo, allo scopo di coprire lo spazio temporale CDS Cultura ha avviato il Blog Voci dal Petrolchimico [Qui] che ripropone i temi del volume.

Lo Spheripol in costruzione – lo Splitter – 1983

Il volume, circa 600 pagine formato A4, è presentato dal Prof. Patrizio Bianchi (già Rettore di UNIFE), dal Dott. Alessandro Bratti (Direttore generale di ISPRA) e dall’Ing. Alan Fabbri (Sindaco del comune di Ferrara) ed è realizzato da circa 150 autori.
Fra gli autori 40 sono i dipendenti del Petrolchimico, 70 gli ex dipendenti e la restante quota è rappresentata da professionisti, docenti, giornalisti, amministratori, ecc.
Una numerosa gamma di interventi, oltre il 30%, è fornita da autori di genere femminile che svolgono attività professionali sia all’interno che all’esterno del Petrolchimico.
Obiettivo del libro, il secondo dopo quello uscito nel 2006, è la messa in evidenza delle diverse ‘buone pratiche’ sperimentate e adottate nel Petrolchimico di Ferrara (il primo stabilimento con tale tipologia di produzioni nato in Europa), grazie anche alle propizie relazioni stabilite, pure con un confronto spesso serrato, fra le aziende e i lavoratori, sui temi cruciali dello sviluppo industriale (innovazione e ricerca, formazione continua e rapporti con la scuola e la cultura, riorganizzazioni, valorizzazione del lavoro e livelli occupazionali, risanamento ambientale) e il contributo fornito dalle Amministrazioni pubbliche e dall’Università.

E’ appunto la storia il filo conduttore del libro poiché, come comincia il manifesto sottoscritto lo scorso anno da uno storico, Andrea Giardina, una senatrice a vita, Liliana Segre e uno scrittore, Andrea Camilleri, la storia è un bene comune.

L’impianto Catalloy MPX – il primo al mondo – 1990

La storia è un bene comune vuol dire che è come l’aria, il lavoro, la democrazia e questo bene se non viene continuamente alimentato è in pericolo. Chi non conosce la storia è destinato a ripeterne gli errori, così recita un proverbio ormai dimenticato, perché la storia è anche memoria di quel che siamo stati e quel che possiamo essere. Pertanto conoscere la storia significa soprattutto non dimenticare né gli errori di chi ci ha preceduto, né i loro insegnamenti e i loro successi o le loro “buone pratiche”. È sapere da che punto siamo partiti per misurare quanto ci siamo emancipati… o quanto siamo regrediti. È una categoria dello spirito che ci ricorda quanto sia precaria, incerta e non permanente la nostra condizione. È riconoscere dove va il futuro imparando dal passato.

Queste brevi considerazioni si adattano perfettamente ad un Petrolchimico, come quello di Ferrara, che ha visto trascorrere fra le sue mura decine di migliaia di lavoratori provenienti da ogni parte d’Italia e non solo, che ha prodotto ricchezza e benessere per diverse migliaia di famiglie, ha creato mestieri, competenze, sogni e delusioni, aspri conflitti e deficit ambientali nei primi anni di vita, momenti di intensa vita democratica e culturale, ha contribuito a valorizzare il lavoro indipendentemente dal genere di chi lo esercita, a rispettare l’ambiente nel posto di lavoro e nel territorio che lo accoglie, ha concorso sostanzialmente a trasformare in positivo il territorio ferrarese, immobilizzato da secoli in un destino di drammatico sottosviluppo.

Sergio Foschi è coordinatore del progetto “Ferrara e il suo Petrolchimico” per CDS Cultura

“PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI”… STACCI!
Il caso Enzo Bianchi, allontanato dalla Comunità di Bose

Un ricordo

17 settembre 2017, Modena, piazza Grande. Alle ore 18 ha inizio la  lectio di Enzo Bianchi al Festival della Filosofia di Modena sul tema:  “Maschio e femmina Dio li creò”.
Il mio primo incontro con il fondatore della comunità di Bose non poteva pretendere scenario più suggestivo: la piazza è gremita di gente, moltissimi i giovani, i posti a sedere sono tutti occupati sin dalle prime ore del pomeriggio e, dietro il palco che accoglie i relatori, maestoso si erge il Duomo, la testimonianza più alta dell’arte romanica in Italia.

Enzo Bianchi inizia a svolgere la sua riflessione sull’inizio del libro della Genesi e colpisce immediatamente ancor prima del contenuto delle parole, il suo inconfondibile timbro di voce, profondo, robusto, che attira l’attenzione, qualunque cosa dica, sempre scandita con troppa energia.  Ha detto bene il critico letterario Alfonso Berardinelli: “è una specie di ruggito, un ruggito però che rassicura invece di spaventare.”.
Bianchi parla di “una relazione”, parla “della relazione”.

Wiligelmo, La creazione dell’uomo, della donna e del peccato originale, Duomo di Modena, Bassorilievo

Parla del principio di tutto, dell’inizio, in completa sintonia con quello che ha davanti a sé: le lastre della facciata del Duomo che raccontano le storie di Adamo ed Eva, opera dello scultore Wiligelmo: ancora un inizio! E’ con Wiligelmo infatti che l’uomo riappare sulla scena dell’arte moderna, prima di tutto nella scultura, qui sul Duomo di Modena dell’architetto Lanfranco tra il 1099 e il 1106, con un anticipo impressionante rispetto a quello che avverrà in pittura con Giotto!
Wiligelmo allontana l’astrazione bizantina raccontando per la prima volta una storia di veri uomini, rappresentando il volume dei loro corpi, il loro lavoro, la loro sofferenza; illustra sulla pietra il loro dramma e la loro speranza.

Bianchi parla dei due racconti della creazione avendo ben presente tutto questo. Parla cioè della Vita e solo della vita! Vivere significa non solo venire al mondo, ma abitarlo, stare tra co-creature di cui gli umani devono assumersi una responsabilità. In tutta la piazza risuonano solenni le parole di fratel Enzo:
“Gli umani hanno un corpo come gli animali, sono animali, ma sono anche diversi da loro, innanzitutto nella responsabilità….L’umano è veramente tale quando vive la relazione, ma ogni relazione di differenza comporta tensione e conflitto… Solo nella relazione l’umano trova vita e felicità, ma la relazione va imparata, ordinata, esercitata…”
Proprio queste parole mi sono tornate alla mente quando, pochi giorni or sono, esattamente la sera del 26 maggio,  ho letto incredulo il comunicato  reso noto sul sito monasterodibose.it in cui si parla di un decreto, firmato il 13 maggio dal segretario di Stato vaticano, cardinale Parolin e approvato in forma specifica da papa Francesco che ha disposto, con sentenza definitiva e inappellabile, l’allontanamento da Bose di Enzo Bianchi, fondatore della comunità nel lontano 1965, e di altri due monaci e una monaca.

“Ho fatto un sogno chiamato Bose”

La storia di Bose comincia nel 1965, alla fine del Concilio Vaticano II.
Enzo Bianchi allora è un giovane ventiduenne della Fuci e conseguita la laurea in Economia, decide di ritirarsi, da solo, in una cascina abbandonata di Bose, una frazione del comune di Magnano, nel Biellese.

Fratel Enzo Bianchi non ha mai voluto diventare sacerdote, ma seguire una vita monastica cenobitica, ispirata al principio del primato della comunità. Nel volgere di pochi anni altri fratelli, due giovani e una donna, arrivano a condividere quella esperienza diventata realtà ecclesiale, non senza ostacoli in verità, alla fine del novembre del’68.
Enzo Bianchi vuole risalire alle radici del cristianesimo, alla Chiesa indivisa che non conosce separazioni tra cattolici, ortodossi e protestanti, e aperta alle donne.
Bianchi scrive la «regola» sull’esempio benedettino: una vita di preghiera e lavoro — agricoltura, laboratorio di ceramica e di icone, la falegnameria, una casa editrice — scandita dagli uffici quotidiani e dalla lectio divina, caratterizzata dal dialogo ecumenico e dalla interconfessionalità.
Oggi la comunità conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di cinque diverse nazionalità.
Oggi Enzo Bianchi è consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani; Membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles); collaboratore, opinionista ,recensore, titolare di rubriche per  alcuni quotidiani nazionali; autore di innumerevoli volumi sulla spiritualità cristiana e sul dialogo della Chiesa e il mondo .Fu chiamato da Benedetto XVI al Sinodo dei vescovi del 2008 sulla Parola di Dio in qualità di esperto. Nel 2014 Papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Nel 2018 lo nomina uditore dell’assemblea del Sinodo dei vescovi sui giovani.
Il 26 dicembre 2016 Bianchi  annuncia le dimissioni da priore della Comunità di Bose, con effetto a partire dal 25 gennaio 2017.
Nel 2017 viene scelto come suo successore Luciano Manicardi, maestro dei novizi e successivamente vice priore.

L’inizio della fine?

Delineato così, seppur a grandi linee,  il profilo dell’ex priore di Bose e la storia della comunità, possiamo adesso tornare  all’analisi del comunicato asettico con cui veniamo informati  dell’allontanamento di fratel Enzo  dalla Comunità di Bose. Dalla lettura del testo si comprendono in verità solo i seguenti elementi:

1) il problema riguarda una generica preoccupazione  per una situazione tesa e problematica nella nostra Comunità per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità del Fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno. E per risolvere questo problema si chiede l’intervento del Vaticano. Cosi commenta uno dei più importanti teologi italiani, Giuseppe Ruggieri:
“C’è stata l’ingenuità di essersi appellati al Vaticano per dirimere una questione interna. Purtroppo sono loro ad aver legittimato un intervento che di per sé è illegittimo perché la comunità di Bose non è passibile di una visita apostolica. E’ una comunità di laici che segue soprattutto la tradizione ortodossa che al massimo ha come riferimento il Vescovo locale. L’attuale responsabile, Manicardi, e anche qualcun altro che ha autorevolezza, hanno legittimato questo intervento. Del caso ha approfittato la curia per normalizzare un’esperienza che non rientrava nei ranghi, difficile da gestire dall’esterno”. [Qui]
2) L’intervento del Vaticano si è concretizzato, come si legge nel documento, nella richiesta del Papa di una visita apostolica che si è svolta dal 6 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020. I Visitatori hanno quindi redatto una relazione fatta sulla base delle testimonianze di ogni membro della comunità.
3 ) Sulla base di tale relazione è stato emanato un decreto singolare del 13 maggio 2020 firmato dal Segretario di Stato e approvato dal Papa.
4) Le decisioni contenute nel decreto sono state comunicate in un primo tempo in forma del tutto riservata solo agli interessati.
5) Poiché i destinatari del decreto però hanno rifiutato di conformarsi alle prescrizioni ivi contenute, allora la Comunità ha dovuto esternare pubblicamente i nomi dei destinatari dei provvedimenti, tra cui in primis quello di  Fr. Enzo Bianchi.
6 ) E infine viene comunicato che  ai fratelli coinvolti dal provvedimento si chiede l’abbandono della Comunità.
7) Il comunicato si conclude con l’informazione della esistenza di una lettera della Santa Sede in cui sono state tracciate le linee portanti di un processo di rinnovamento per la Comunità.

Dal canto suo, Bianchi si oppone ai provvedimenti decisi dal Papa, chiede di conoscere le prove delle supposte mancanze e di potersi difendere da false accuse, con  ciò  accrescendo le difficoltà di una decisione che, come abbiamo già detto, il Vaticano in un primo momento aveva cercato di tenere riservata proprio per tutelare l’immagine del fondatore di Bose.
La situazione risulta paradossale e incomprensibile alla luce anche del rapporto saldissimo che c’è sempre stato, fin dalla sua elezione al pontificato, tra Francesco e Bianchi. Il fondatore di Bose, almeno finora, è stato un grande sostenitore di Bergoglio e delle sue scelte.

All’inizio di questa esperienza, Bianchi scrisse parole molto eloquenti, piene di fiducia in particolare rispetto al Papa. Ora in verità, con lo sviluppo della vicenda si sta facendo preminente in lui una sorta di larvata amarezza, come traspare nei tweet del suo seguitissimo profilo social. L’ultimo messaggio che ha lasciato su Twitter, alcuni giorni fa, suona amaro: «Ciò che è decisivo per determinare il valore di una vita non è la quantità di cose che abbiamo realizzato, ma l’amore che abbiamo vissuto in ciascuna delle nostre azioni: anche quando le cose che abbiamo realizzato finiranno l’amore resterà come loro traccia indelebile».

Il dibattito in corso

La decisione di allontanare, seppur momentaneamente, Bianchi dalla sua comunità ha lasciato intanto interdetti tutti i suoi sostenitori e ha aperto un grande dibattito   sulla opportunità di una scelta del genere da parte del Pontefice.
Uno dei più importanti teologi italiani, Giuseppe Ruggieri  sul Fatto Quotidiano del 30 maggio [Qui] ravvisa un cedimento del Papa ad una volontà di normalizzazione della curia che ha approfittato del caso per far rientrare una volta per tutte una esperienza anomala rispetto al quadro istituzionale durata troppo a lungo.
Il prof. Alberto Melloni su Repubblica del 28 maggio individua in quattro punti una manovra vaticana dei tradizionalisti per cui ,il caso in questione, non sarebbe che “un pezzo di quella che un saggio vescovo italiano chiama la “faida vaticana contro Francesco”: aver saputo usare la litigiosità monastica, la Segreteria di Stato e il Papa stesso per togliere di mezzo, come fu per l’allontanamento di don Dario Viganò dalla congregazione delle comunicazioni o del comandante Domenico Giani dalla Gendarmeria, persone vicine al pontefice.”[Qui]
Raniero La Valle, giornalista esperto del Concilio Vaticano II, al contrario, sempre sul Fatto del 30 maggio, non ravvisa nessuna faida vaticana, ma solo un momento di crisi della comunità: “Non c’è alcuna intenzione punitiva o di repressione nei confronti di Bose. Papa Francesco ha sempre apprezzato il cammino intrapreso dalla comunità piemontese. Se si è resa necessaria una decisione come quella che ci ha addolorato evidentemente non è per porre fine o stroncare questo carisma ma per difenderlo, preservarlo e farlo crescere.”.

Alcune considerazioni

Lontani da ogni tentazione dell’attribuzione del torto o della ragione in modo aprioristico o ideologico,  ciò di cui si avverte di più la mancanza, arrivati a questo punto, è soprattutto una certa dose di chiarezza e di coraggio di chi,diciamo, ha condotto questa operazione.
Se il problema è “l’esercizio dell’autorità del Fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno”, si tratterebbe pur sempre di questioni relazionali interne, ed è veramente troppo poco per invocare e per giustificare un intervento così profondo e di alto profilo.
E’ abbastanza chiaro, infatti, che il problema non può essere legato solo alla problematicità delle procedure  regolanti i rapporti tra fondatore e successore , ma implichi scelte di fondo non chiarite, altrimenti sarebbe incomprensibile l’appello al Vaticano e l’intervento dello stesso Papa. Per questo motivo  tutta la diatriba non la si può lasciare alla banalità della cronaca, ma va colta come opportunità per entrare nel vivo di una situazione generale di chiesa.

Ascoltiamo il commento di padre Alberto Simoni  di Koinonia, intervento che tenta di rintracciare le  ragioni della problematicità della questione in gioco:
“L’esperienza di Bose, iniziata alla chiusura del Concilio, è assurta a simbolo di rinnovamento conciliare, ed in questo senso è stata di approdo e di rifugio per tanti, dando vita al tempo stesso ad un fenomeno di eterogenesi dei fini, e quindi a contraddizioni intrinseche esplose solo ora. Ponendosi in immediata continuità col Vaticano II, forse troppo prematuramente, di fatto il fenomeno Bose nasceva in contrasto col Concilio stesso: riproponeva infatti forme di vita cristiana e spirituale datate per quanto aggiornate, simbolo di altre epoche, e cioè di quella cristianità che si voleva oltrepassare…Dunque in causa sembra esserci questo “processo di rinnovamento”: ma allora è da pensare che fosse proprio Enzo Bianchi a intralciare questo “rinnovato slancio alla vita monastica ed ecumenica” della Comunità? Che c’è di male a farlo capire?
Sarebbe l’occasione ottima per dare esempio di quella chiarezza e coraggio di cui avrebbe bisogno una chiesa in apnea senza più capacità di confronto e di dibattito… Nessuno può impedirci di pensare che siamo in presenza di una operazione di normalizzazione in cui purtroppo è coinvolto anche papa Francesco, mentre rimbomba l’assoluto silenzio della chiesa italiana, forse nel tentativo di ridurre tutto a fatto personale di giornata.”. (in Koinonia-forum, 29/5/2020)

L’accettazione

Il 1 giugno sera sul sito della comunità, nelle notizie, appare un comunicato che in verità tutti aspettavano con ansia e che pur mettendo un primo punto fermo a questa vicenda, non la chiude di certo: “All’indomani della solennità della Pentecoste, la Comunità di Bose ha accolto la notizia che il suo fondatore, fr. Enzo Bianchi, assieme a fr. Goffredo Boselli e a sr. Antonella Casiraghi hanno dichiarato di accettare, seppure in spirito di sofferta obbedienza, tutte le disposizioni contenute nel Decreto della Santa Sede del 13 maggio 2020. Fr. Lino Breda l’aveva dichiarato immediatamente, al momento stesso della notifica.A partire dai prossimi giorni, dunque, per il tempo indicato nelle disposizioni, essi vivranno come fratelli e sorella della Comunità in luoghi distinti da Bose e dalle sue Fraternità.”.
Per i due confratelli e la consorella si parla di cinque anni! In Vaticano spiegano che l’allontanamento era necessario per salvare la comunità dal rischio di una spaccatura irrimediabile.
Tutto risolto quindi? Niente affatto. Mancano ancora i due elementi  poco sopra invocati per continuare a sperare in una continuazione di quello spirito originario che ha fatto nascere Bose, mancano chiarezza e coraggio.
Certo dal comunicato sembra emergere che Bianchi e gli altri membri allontanati non saranno espulsi dalla comunità, e che la disposizione abbia una scadenza temporale. Ma il documento con cui il Vaticano ha deciso di allontanare Bianchi non è stato condiviso , e i suoi contenuti sono stati diffusi in parte soltanto dalla comunità di Bose. Adesso che la mediazione del vaticano è stata così legittimata, non penso potrà essere esclusa dalla definizione del futuro della comunità, con tutto quello che ne potrà conseguire.

E Bianchi? In queste ore Enzo Bianchi ha fatto ancora sentire la sua voce via Twitter: “Giunge l’ora in cui solo il silenzio può esprimere la verità, perché la verità va ascoltata nella sua nudità e sulla croce che è il suo trono – scrive –.  Gesù per dire la verità di fronte a Erode ha fatto silenzio. “Jesus autem tacebat!” sta scritto nel Vangelo”.
Per chi fino ad oggi ha visto in Enzo Bianchi un punto di riferimento fondamentale per la propria esperienza di fede, per la meditazione e la cura dell’anima, la prima reazione di fronte a tutto ciò è sicuramente quella di un grande dispiacere.

Tra le tante riporto quella di Massimo Faggioli, nostro concittadino emigrato in America dove insegna Storia del cristianesimo nella University of St.Thomas in Minnesota . Dice in un tweet di poche ore fa: “questa vicenda di Bose, ancora in corso ,rappresenta la lacerazione ecclesiale più grave della mia vita, anche perché il cordone ombelicale con quella comunità è una delle cose che mi ha aiutato a mantenermi in una certa forma spirituale ed ecclesiale  specialmente dal 2008 in poi, Credo che questo sia un trauma con pochi precedenti anche per molti altri cattolici e non cattolici.”.
Non riesco a non pensare al senso di smarrimento che starà circolando tra le migliaia di persone che a Bose hanno volto lo sguardo in tutti questi anni; a chi  considera Bose un miracolo vivente all’interno di un mondo connotato da divisioni fratricide; un luogo di incontro per le religioni di tutto il mondo. Quindi che fare? Cosa credere?
Mi ricordo di aver visto un giorno una scritta su di un muro di una casa diroccata che mi ha particolarmente colpito:
“Padre nostro che sei nei cieli…stacci!”
Questa provocazione sembra voler chiedere a Dio di stare lassù, buono buono, di lasciarci stare qui giù da soli, troppe volte siamo stati illusi da suoi  profeti e comunità.
Per tutta la sua vita, fino ad oggi, Enzo Bianchi per chi lo ha conosciuto è stato il contrario.

Cover e immagine nel testo: Duomo di Modena, Wiligelmo, bassorilievi 1110-1130 (wikipedia commons)

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – La filosofia dello struzzo

Proteggersi scegliendo di rimanere all’oscuro delle cose (anche tradimenti) o affrontare tutto rischiando di perdere tutto? Riccarda e Nickname hanno interrogato i lettori su cosa farebbero se si trovassero a dover scegliere tra la luce e l’oscurità in un rapporto.

Il sesso libero dello struzzo

Cara Riccarda, caro Nickname,
non voglio sapere perché fondamentalmente non mi interessa. Entrambi tacitamente sappiamo che ci sono altre persone nelle nostre vite. Ci basta così.
C.

Caro C.,
tra il mi basta così e il me lo faccio bastare c’è una differenza che solo chi lo dice, sa. Ricordo una scena in cui lui incalzante le chiede, ti basta vero? La sventurata che non aveva il coraggio di dire no, così è troppo poco, rispondeva sì e sapeva che poi i suoi pensieri e le sue azioni sarebbero andati nella direzione contraria, attratti dall’insoddisfazione. E alla fine, aveva ragione lui perché le cose le aveva messe in chiaro sin dall’inizio e, con quella domanda, l’aveva messa nelle condizioni di non chiedere più. E farselo bastare.
Riccarda

Caro C.,
se a te basta così e a lei basta così, bene. Se invece uno dei due se la fa bastare mentendo a se stesso, prima o poi il nodo verrà al pettine. Ad ogni modo, siete entrambe persone adulte e consapevoli. Questa circostanza è fondamentale per minimizzare scrupoli o sensi di colpa. Poi, un legame non è una foto, è un film. Se diventerà un lungometraggio o rimarrà un corto, quien sabes.
Nickname

A me piace farlo a luce accesa!

Cara Riccarda, caro Nickname,
scelgo la luce, soprattutto dopo l’ombra. La discrepanza tra i dettami culturali e le attitudini antropologiche dell’uomo, ci creano qualche problema nella gestione dei rapporti umani. Credo che per istinto l’uomo vivrebbe nella luce, in chiaro e nella libertà, poi però ci si muove nell’ombra a causa della cultura sociale: se l’uomo fosse libero di amare, amerebbe molto di più e alla luce.
N.B.

Caro N.B.,
ci sono anche momenti di luce intermittente o di cortocircuiti che ci creiamo quasi apposta. Ma anche nel buio più pesto, sforzandoci, i contorni si delineano e un orientamento lo si abbozza. C’è chi preferisce adattarsi all’oscurità che può apparire per certi versi confortante e fa percepire solo poche cose, poi per vedere davvero occorre la luce.
Riccarda

Caro N.B.,
le tue considerazioni mi hanno fatto tornare alla mente Wilhelm Reich, psicoterapeuta nato negli anni Venti, freudiano e marxista, la cui teorizzazione della liberazione sessuale come fulcro della rivoluzione contro la società autoritaria e patriarcale divenne un must degli anni della contestazione (1968/1969). Devo dire che di quelle idee è sopravvissuto un precipitato modesto, potresti farti promotore della sua riscoperta.
Nickname

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

I RITI CAMBIATI:
nella pandemia reinterpretiamo la nostra esistenza

Quando si dice che è ‘un rito’, si intende qualcosa che stancamente ripete se stessa. Poi ci sono ‘i riti’, i riti al plurale che sono cerimonie, celebrazioni, culti con le loro liturgie, laiche e religiose. Non possiamo fare a meno dei riti, perché i riti confermano le nostre appartenenze. La famiglia ha i suoi riti, una volta legati al desco. Il corteggiamento ha i suoi riti, fino all’anello di fidanzamento e alla promessa. Il lavoro ha i suoi riti, le entrate e le uscite, le divise come paramenti sacerdotali, le ore di fatica. Anche la memoria ha i suoi riti negli anniversari. A guardarci intorno scopriamo che tutta la nostra esistenza è una costante di riti, procedure, recite, rappresentazioni, liturgie, copioni.

Poi, un giorno accade che il grande palcoscenico della vita improvvisamente prende la forma del coro del dolore e della cavea della paura. Il rito si spezza, si frantuma, il complesso delle norme che lo definiscono e lo descrivono viene meno. È accaduto in questi giorni di eccezionalità, in cui abbiamo dovuto difenderci dal rischio del contagio.
I riti sono cambiati, altri ne sono stati confezionati come l’uso della mascherina e il distanziamento fisico. Altri ancora sono stati negati come la condivisione del lutto. La morte, che una volta era accompagnata dai vivi, per confermare che la vita non si ferma, è stata lasciata sola, tenuta a distanza, perché non sapevamo se la vita avrebbe continuato a scorrere, tanto la morte dominava incontrastata sui nostri timori e sui nostri rifugi.

Le comunità si riconoscono nei loro riti, che sono il racconto dei loro miti e la costruzione delle loro simbologie, le forme che abbiamo dato alla narrazione della nostra cultura. Al posto dei riti sono rimaste le autobiografie, quelle che lasciamo scritte ogni giorno sui social a cui accediamo, a cui affidiamo la trasmissione dei messaggi come parte di noi stessi, di quello che siamo. Lasciamo testimonianza della qualità delle nostre biografie. Qualcuno un giorno studierà le forme che hanno assunto i nostri racconti e i prodotti dei nostri pensieri come l’espressione di una cultura indigena.

Non ci siamo resi conto che si è aperta la porta per uscire dal rito, per uscire dalle nostre autobiografie. Che non abbiamo più nulla da celebrare. Perché quella che abbiamo vissuto non è una pausa, non è una sospensione, ma è stata una rottura delle nostre sacralità, dei riti a cui eravamo convocati, dei nostri sacerdozi. Forse l’ultimo episodio di una stagione che ha rincorso le ombre delle costruzioni che ci siamo eretti. Abbiamo dovuto dismettere le nostre anime colpite dallo stupore della sorpresa, dall’imprevedibilità dell’imperscrutabile, abbiamo scoperto di tremare, di essere come la tribù ancestrale che teme l’ira delle divinità. Abbiamo veduto e ascoltato lo sciamano pronunciare la sua preghiera agli dei, agli idola specus, nello spazio lasciato vuoto pure dal tempo, sotto le intemperie della natura.

Questa rottura è una ferita benefica che ha sollevato il velo sulla nudità che siamo, sulla  fragilità delle nostre liturgie, sull’insensato abbarbicarci alle ridondanze che si infrangono contro l’inatteso e l’improvviso, e non ci sono altari da innalzare e numi da pregare. La nostra solitudine è fuori e dentro di noi, temere la solitudine è come temere se stessi, l’unica speranza è quella di non coltivare speranze per prendere la vita nelle nostre mani. Senza fingerci cammini e mete, continuare ad arare, a coltivare la terra, a piegarci alla fatica per coloro che verranno dopo di noi e forse ce ne saranno riconoscenti, come si usa, nella memoria.

Siamo usciti dai riti e dalle nostre autobiografie per ritrovare il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi. Occorre fare igiene nelle nostre menti, provvedere alla raccolta differenziata dei cascami delle nostre certezze, correre il rischio della pulizia delle nostre presunzioni. Sgombrarle dall’occupazione dei pensieri sedimentati, dagli incartamenti degli incanti. Dimenticare le usanze per far spazio alle incognite, svuotare gli abiti della zavorra di cui li abbiamo caricati, seminare per dare inizio a nuovi raccolti. Ripartire dall’interrogativo socratico Ti Esti, che cos’è? Che cos’è quello di cui parliamo, che cos’è quello che facciamo, che cos’è quello che siamo, che cos’è quello che vogliamo essere.

Il nuovo secolo ancora non aveva posto nell’urna le ceneri del venir meno del sentimento religioso, del tramonto della metafisica e della crisi delle ideologie. La dimensione globale della pandemia ci ha posto con inesorabile prepotenza innanzi al nostro Essere e al nostro Tempo, per dirla con il filosofo, alla sfida nuova, alla capacità di saperla cogliere, alla necessità di dare una svolta ermeneutica alle nostre vite, al coraggio di reinterpretare l’intera dimensione umana. E questo con ogni probabilità è solo il primo capitolo, perché altri ben presto se ne aggiungeranno, e non potremo correre se non ci libereremo delle pastoie che ancora legano le nostre menti.

Il camino e lo spirito di Roman

Mio nipote Enrico dice che nel nostro camino vive lo spirito di un bambino.

Il nostro è un grande camino di mattoni a vista appoggiato a uno dei muri portanti del cortile. Ha una cappa che finisce con una apertura sul tetto, un grande piatto centrale per il fuoco e due piccoli piatti laterali per tenere in caldo le vivande quando si fa la grigliata.  A casa mia si usa  il fuoco del camino per cucinare la carne oppure per bruciare le sterpaglie dell’orto o qualche grande cartone che non sta nei nostri contenitori della raccolta differenziata.

Enrico dice che nel camino abita lo spirito di un bambino. Non si vede di giorno, perché di giorno gli spiriti sono trasparenti e nemmeno si sente perché non vuole essere scoperto. Sta zitto zitto perché solo così può continuare a vivere nel nostro camino e farsi i fatti suoi. Uno spirito anarchico.
Enrico dice che se di notte ci si alza lo si può vedere. Ha le dimensioni di una farfalla ma è tutto rosa, ha braccia  e gambe lunghe che gli permettono di muoversi con molta agilità. E’ lo spirito di un bambino che si chiama Roman. Abita nel nostro camino perché si trova bene lì e fra un po’, quando Enrico sarà più grande, uscirà definitivamente dal camino e giocherà tutto il giorno con lui. Ecco spiegato il perché dello spirito. Enrico vuole un bambino della sua età con cui giocare, in questo periodo di Covid-19 non è andato all’asilo e può stare solo con sua sorella Valeria che ha nove anni più di lui.
Chissà perché mio nipote ha posizionato lo spirito di Roman proprio nel camino e non sotto un albero, in una delle sue casse di giocattoli, nella legnaia.

Eppure è sempre stato così, gli spiriti stanno nei camini. Escono da là nei momenti più impensati e attraversano improvvisamente la vita delle persone. Compiono azioni bizzarre e poi ritornano nel camino da dove sono venuti ricominciando, come se niente fosse,  a fare i silenti spiriti.

Vorrei vedere anch’io Roman con gli occhi di Enrico e invece lo vedo con i miei ed è molto diverso. Quello spirito ha poco di reale e molto di fantasioso, esprime un sogno e forse anche un po’ di malessere per tanta reclusione. Eppure con quel suo continuo parlare dello spirito di Roman mio nipote si connette al mondo. Attraverso quella strada recupera un senso di collettività e di appartenenza  alla terra che sa di saggezza. Intercetta  parte della nostra storia. Attraverso quel sogno compone i tasselli del suo vivere adesso  e i anche i tasselli di quello che tutti siamo e siamo stati. Riesce ad  entrare nell’essenza dell’esistere,  quella calda che appartiene alla vita. Corre verso un desiderio che è sia suo che di molti e, attraverso questo, mantiene salda la sua identità di bambino un po’ solo e anche la sua appartenenza al cosmo che sta fuori, che evolve, spera, crede. Enrico e Roman si incontrano in una mescolanza di desideri che appartiene a loro adesso quanto è appartenuta ad altri in passato. Quei due esprimono, in quel loro surreale mondo, un bisogno di condivisione che sa di necessità e risposta.

Dentro lo spirito di Roman c’è il cuore del mondo che pulsa, che vive molte delle sue contraddizioni ma anche delle sue possibilità. C’è la spinta verso una trascendenza che sa molto di umano e poco di eternità.
Dentro lo spirito di Roman c’è una possibilità di fuga, un desiderio che trova risposta. In un cammino umano che porta a cercare l’altro e a trovarne lo spirito, c’è la creatività della persona che si mette a servizio della sopravvivenza e della felicità.  C’è tutta la fantasia possibile e anche un impulso alla fratellanza che sa di universalità.  C’è l’espressione di un bisogno che trova terreno fertile per nascere, crescere e morire e proprio in questo esprime la sua essenza. C’è la genialità di una soluzione. Lo spirito di Roman è molto  umano, permette di rispondere a un bisogno di socialità e di aiuto.

Una scrittrice che di spiriti ha capito molto è Isabel Allende. In uno dei suoi libri più famosi  La casa degli spiriti riesce a fondere realtà e fantasia, esoterismo e razionalità. E proprio in questa fusione sta la sua genialità. Toglie un confine e annulla molta paura. Alza un tappo, apre la strada al sogno, alle infinite risposte che i cuori delle persone sanno porre alle avversità.  Proprio con quel libro la Allende si è affermata come una delle più importanti voci della letteratura sudamericana. Non a caso. Chi sa oltrepassare un confine mina un muro, apre una nuova via, legittima una nuova conoscenza, una nuova sperimentazione, un nuovo modo di essere tolleranti. La tolleranza insegna molto. Arriva a ciò che è essenziale, a ciò che davvero si può insegnare, tramandare a chi verrà. La Allende è riuscita a spiegare il perché di alcune scelte umane, il senso un po’ allegorico e balzano di alcune abitudini strane. Nel suo mondo è vero ciò che in altri mondi non esiste. E’ santo ciò che permette una preghiera che accompagna il tempo del vivere, che apre spazi di sollievo ad un contorno paesaggistico e di relazioni umane che altrimenti sarebbe disperato e nichilista.

Enrico nel suo mondo di bambino ha creato Roman perché lo aiuta a passare meglio le giornate,  a sognare, a sperare nel futuro. Roman è una parte di lui, della sua vita di adesso. Io che so della sua esistenza e con un po’ di presunzione ne posso capire il motivo, mi sono scoperta ad amare Roman. Quello spirito di bambino deve essere simpatico, diventerà sicuramente un buon compagno di giochi per Enrico. Immagino che saprà fare qual che piace ad entrambi e quindi: correre col monopattino, nuotare, andare a cavallo, in bicicletta, fare le costruzioni, inventarsi storie popolate di animali, aerei e strani mezzi di trasporto che movimentano tutto o niente, dipende dai momenti. Se assomiglia a Enrico, Roman è bellissimo. Incanta.  Come dice Isabel Allende: “Noi Siamo ciò che pensiamo. Tutto quello che siamo sorge dai nostri pensieri. I nostri pensieri costruiscono il mondo” (Isabel Allende: Il regno del drago d’oro).

Anche i miei pensieri costruiscono il mondo, anche quelli di Enrico. A noi piace Roman anche se io so che esiste solo in funzione di una necessità.  Oppure non è così, Roman è vero.  E’ arrivato da noi e ama stare nel nostro camino perché così nessuno lo disturba e può fare quello che vuole. Uno spirito anarchico, appunto.

STALKING NO, STOLTING MAGARI SÌ!
Credevo che un cittadino avesse diritto di sapere…

Dopo un annetto di governo leghista, chi credeva che il ‘metodo naomo’ consistesse solo nel prendere a calci in culo immigrati e stranieri in genere, avrà dovuto ricredersi. Il ‘metodo naomo’ è qualcosa di più grande e complesso. Un modo di comportarsi? Una formula di governo? Ma neppure, è qualcosa di più: una visione del mondo, una filosofia di vita, una risposta automatica a un insopprimibile imperativo categorico.
Che riassumerei così: Io mi chiamo Naomo e comando la piazza di Ferrara, quindi infrango leggi, norme, regolamenti e dico e faccio quel che mi pare e piace, poi – siccome (ve lo siete scordato?) comando Io – alzo muri, metto reti, invento divieti, nego i buoni spesa  e perseguito i poveracci (come ero io una volta, però ora Io comando) e tutti quelli che non hanno il mio colore e che mi sono antipatici.
La morale potrebbe essere questa: non è vero per niente che Destra e Sinistra sono vecchie categorie ideologiche. Le differenze ci sono eccome. Per dirne una: la differenza che passa tra ‘comandare’ e ‘governare’. Ho l’impressione (o è solo speranza?) che dopo un anno di Destra al Comando, dopo un lunga sfilza di stupidaggini, castronerie, prepotenze e vergogne, molti ferraresi se ne stiano rendendo conto. E fortunata Ferrara ad avere un Daniele Lugli che non si rassegna, che non ‘lascia perdere’, e che continua a insistere, con la cortesia del nonviolento e il puntiglio del difensore civico.
(Francesco Monini)

Ritorno – non lo farò più – su una piccola vicenda già illustrata su ferraraitalia [Qui]
Partito dallo sconcerto per l’itinerante concerto nel territorio del comune di Ferrara, promosso dal sig. Nicola Lodi, in arte Naomo il 4 maggio scorso, ho ridotto le mie aspettative. La mia nota a Prefetto e Questore di Ferrara, Presidente della Regione (portata pure a conoscenza di Sindaco, Direttori Azienda Usl e Azienda Ospedaliera Universitaria di Ferrara, nonché Ministero della Salute) del giorno successivo non ha ricevuto risposte. A me è parso che l’iniziativa violasse la normativa in vigore, pur avendo avuto la stessa, proprio quel giorno, un’attenuazione. Perciò ho fatto presente le mie perplessità anche alla Procura della Repubblica. Evidentemente i miei rilievi non sono apparsi tali da meritare né interventi, né risposte. Ne ho preso atto con un po’ di rammarico, ma comprendendo anche che, in un momento così difficile, le istituzioni interpellate hanno cose più urgenti e importanti da fare che rispondere a quesiti, se a ciò non strettamente tenute.

Mi sono rimasti un paio di dubbi: 1) la promozione di riunioni pubbliche tra persone interessate a musica, a canzoni, a brindisi o ad altro ancora è dunque possibile? E allora perché tutto questo discorso sugli incontri solo di congiunti? 2) la lodevole iniziativa, degna di Lodi appunto, è stata dal medesimo promossa come privato cittadino ovvero nella qualità di pubblico amministratore?

Il primo quesito l’ho rivolto, una settimana dopo, al Questore. La normativa nel frattempo è cambiata. Ogni iniziativa va considerata a sé. Se vorrò promuovere riunioni pubbliche avrò certamente risposte chiare. Forse è stata eccessiva la mia pretesa di una risposta articolata. Il secondo quesito mi sembra però più facilmente esaudibile. Si tratta di sapere se c’è un atto attribuibile all’amministrazione comunale alla base dell’iniziativa vietata dal prefetto per il 1° maggio e attuata il 4. Non ne trovo traccia sull’albo comunale online e quindi chiedo alla Segretaria Generale del Comune se un tale atto vi sia. Basta un sì o un no. Dopo qualche giorno rivolgo il medesimo quesito al Prefetto. Nel suo sito trovo “Scrivi al Prefetto”. Lo faccio. La risposta è gentile: “Il Suo messaggio è stato inoltrato all’Ufficio competente. Grazie per la Sua collaborazione”. Sono passate due settimane: risposte nessuna.

Quando ho fatto, anni fa, un mestiere abbastanza simile a quello della Segretaria del Comune (lo svolgevo in Amministrazione Provinciale) ho cercato di contribuire alla trasparenza dell’azione amministrativa, senza venir meno al dovere di riservatezza e discrezione, fino al segreto, quando necessario e come è scritto nel nome: Segretario. La Legge 241/1990 consente a chi abbia un interesse qualificato l’accesso ai documenti amministrativi. Ho fatto il possibile per renderlo più agevole. Allora era una novità. È venuto poi il Decreto legislativo 33/2013, diritto di accesso civico a tutti gli atti oggetto di pubblicazione, senza bisogno di addurre un particolare motivo. Il Decreto legislativo 97/2016 ha introdotto la normativa, detta FOIA (Freedom of Information Act), come parte integrante della riforma della pubblica amministrazione. Garantisce a chiunque il diritto di accedere ai dati e ai documenti posseduti dalle pubbliche amministrazioni, se non c’è pericolo di compromettere interessi, pubblici o privati, indicati dalla legge. Le amministrazioni devono dare prevalenza al diritto di chiunque di conoscere e di accedere alle informazioni dalle stesse possedute, favorire la trasparenza nel rapporto tra le istituzioni e la società civile, incoraggiare un dibattito pubblico informato su temi di interesse collettivo. Così, in modo più ampio e dettagliato, è scritto pure nel sito del Ministero interessato.

Io ho chiesto a amministrazioni, rivolgendomi a chi meglio era in grado di rispondere, un’informazione sull’esistenza o meno di un atto riferibile all’Amministrazione comunale di Ferrara. Si tratta di un’informazione dalle stesse posseduta. Certo sono in grado di dire se loro consta l’esistenza dell’atto in questione.
Nessuna prevalenza, né attenzione è stata data, in questo caso, al mio diritto di conoscere. La normativa è del resto recente, ha solo 4 anni di sperimentazione e segue, solo di 50 anni, quella alla quale esplicitamente si ispira. Il Freedom of Information Act, Legge sulla libertà di informazione. È stata adottata sotto la presidenza di Lyndon B. Johnson. Allora non me ne sono accorto, Come molti miei coetanei era “Johnson boia!”, responsabile dell’escalation, search and destroy, della guerra in Vietnam. È stato dunque anche altro.

La questione che ho posto e nella quale non ho avuto soddisfazione mi dice qualcosa sul funzionamento della FOIA all’italiana, o almeno alla ferrarese. Quanto a me non mi sento preso da alcuna foia, eccitazione, frenesia, smania. Non scriverò più richieste, per quanto riguardose, che possano risultare moleste. Non pratico lo stalking, soprattutto nei riguardi di pubblici funzionari, per i quali sento grande solidarietà. Non li indicherò come alfieri della trasparenza. Eviterò anche di dire “Credevo, credevo di far bene”. Stultum est dicere putabam, me l’avevano pure detto! Mi rammarico dello stolting involontario.

Al cantón fraréś
Luigi Vincenzi: Al Pàlio ad Frara

Scrivendo un poema sul Palio, in dialetto ferrarese e in ottave, Luigi Vincenzi racconta la storia di Ferrara.
Illustrando i significati degli stemmi delle contrade cittadine l’autore espone vicende e personaggi storici in 10 canti (una invocazione, 4 rioni, 4 borghi, un epilogo).
Il piglio narrativo, la scrupolosità documentaria, la ricchezza del lessico, il garbo poetico, ne fanno una gradevole lettura e rilettura.
Di seguito si riportano le prime ottave del poema.
(Ciarìn)

Iηvucazión

I
Oh zirudlàr BUIÀRD, ARIÒST e TASS
ch’avì cantà dil dònn, di cavaliér,
di viaź iη ziél e iη mar e ad tuti i pass
fat veramént o fat sól col peηsiér,
gnim in aiut che ag’ho ‘l zarvèl ‘ch va in fas
par vlér rivìvr adès, cóm s’al fus iér,
al cmaηzipiàr dal Palio e d’ogni imprésa
dal Pòpul fata e dala Córt fraréśa.

II
Ag’ho ad bisógn dla vostra ispirazióη
parché trop grand l’impégn, a mi l’am par,
par il mié sóli fòrz! La presunzión
ad vléram, come tanti, zimentàr
iη chi òt “vèrs” che, iη Vu, i s’è fat caηzóη,
la tiéη beη cónt che forse am putì dar
i scart, il briś dla vostra rima rara
parché aηca mi a canta la mié Frara.

III
Oh, Frara! Frara! Che zità d’incànt!
E nò sól pr al tò Dòm, al tò castèl,
Marfisa e Schifanòia, ch’i è impurtant
coη Ca’ Romèi e Saη Fraηzésch tant bel,
Saη Dmenagh, Saη Cristòfar, i Giamànt,
Saη Paul, Saη Giuliàn e Rigobèl…  (1)
mo chil stradìη zó ‘d maη, chi cantuηzìη,
chil fnèstr iη còt, purtài e balcuηzìη;

IV
cl’architetùra seηza tant pretéś
ch’as véd int ill strad vèci dla zità;
chi cvèi fat con amór, seηza tant spéś
e fórse con uη póch ad vanità,
che ogni tant it làsa uη póch surpréś
e che iη nisùna guida viéη zità.
Al fàsin tò l’è chì, Frara, e al tò cuór!
Chi ‘riva a tgnósrat béη, vibra d’amór!…

V
L’amór par Frara e pr ill sò tradizióη
l’è viv e fòrt in tut i vér frarìś:
pastìz, salama e pan li è creazión,
iηsiém al pampapàt, da paradìś!…
E ogni ann as fa n’evucazión,
iη maģ a Frara, a źura chi av al diś:
a sfila persunaģ tut paludà
con i più bèi custùm di témp andà!

VI
A sfila al PALIO!! – Al PALIO! Mo cus èl? –
-L’è un di più bèi cvèi! ‘Na canunà!
S’t’avdìs par Zvèca che stupénd zapèl
d’òman e dònn ad vlud imburdunà
e ad raś e ad séda! E dòp déntr int l’anèl
dla piaza ad clu d’Ariòst, pin cucunà,
a du par du a cór i òt cavài
a pél muntà e seηza tant źavài! –

VII
Al PALIO ad Frara opur, diś Muradór,  (2)
quél ad Saη Źorź, l’è nat da sètzént’ann
col Śgónd di Ubìzz Esténs, ad Frara Sgnór  (3)
e ad Modna e Reź. D’alóra con dl’afàn
par via di sècul briśa tuti d’òr,
tra silenziosi paś e stus ad cann,
l’è arturnà a sfilàr pr il nòstri strad
mitènd iη sgaźuvìglia il j’òt cuntràd…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Palio di Ferrara ,1970 corsa dei somari

(1)”Rigobel”, torre crollata nel 1550. Ricostruita nel 1928, oggi è denominata Torre della Vittoria.
(2)“Muradór”: Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), storico.
(3) “Obizzo II d’Este” fu il vero primo Signore di Ferrara (1264), Modena (1289) e di Reggio (1290).

Invocazione
I
Oh cantastorie Boiardo, Ariosto e Tasso / che avete cantato delle donne, dei cavalieri, / di viaggi in cielo e in mare e di tutti I passi / fatti veramente o fatti solo col pensiero, / venitemi in aiuto che ho il cervello che va in fascio / per voler rivivere adesso, come se fosse ieri, / il cominciare del Palio e di ogni impresa / fatta dal popolo e dalla Corte ferrarese.

II
Ho bisogno della vostra ispirazione / perchè troppo grande l’impegno, a me pare, / alle sole mie forze! La presunzione / di volermi, come tanti, cimentare / in quelle “ottave” che, in Voi, si son fatte canzoni, / tiene ben conto che forse potete darmi / gli scarti, le briciole della vostra rima rara / perché anch’io canti la mia Ferrara.

III
Oh, Ferrara! Ferrara! Che città d’incanto! / E non solo per il tuo Duomo, il tuo castello, / Marfisa e Schifanoia, che sono importanti / con Casa Romei e San Francesco tanto bello, / San Domenico, San Cristoforo, I Diamanti, / San Paolo, San Giuliano e Rigobello… / ma quelle stradine giù di mano, quegli angolini, / quelle finestre in cotto, portali e balconcini;

IV
quell’architettura senza tante pretese / che si vede nelle vecchie strade della città; / quelle cose fatte conamore. Senza tante spese / e forse con un po’ di vanità, / che ogni tanto ti lasciano un po’ sorpreso / eche in nessuna guida vengono citate. / Il fascino tuo è qui, Ferrara, e il tuo cuore! / Chi arriva a conoscerti bene, vibra d’amore!…

V
L’amore per Ferrara e per le sue tradizioni / è vivo e forte in tutti I veri ferraresi: / pasticcio, salama e pane sono creazioni, / insieme al pampapato, da paradiso!… / E ogni anno si fa una rievocazione, / in maggio a Ferrara, giura chi ve lo dice: / sfilano personaggi tutti paludati / con i più bei costumi dei tempi andati!

VI
Sfila il PALIO!! – Il PALIO! Ma cos’è? – / -È una delle più belle cose! Una cannonata! / Se vedessi per Giovecca che stupenda confusione / di uomini e donne abbigliati di velluto / e di raso e di seta! E dopo dentro l’anello / della piazza d’Ariosto, piena zeppa, / a due per due corrono gli otto cavalli / montati a pelo e senza tanti orpelli.

VII
Il PALIO di Ferrara oppure, dice Muratori, / quello di San Giorgio, è nato da 700 anni / con Obizzo II d’Este, signore di Ferrara / di Modena e Reggio. Da allora con affanno / per via di secoli non tutti d’oro, / tra silenziose paci e cannonate, / è ritornato a sfilare èer le nostre strade /mettendo in gozzoviglia le otto contrade.

Tratto da: Luigi Vincenzi (Tamba), Al palio ad Frara : Uη póch ad storia fraréśa iηmasćiada con uη póch ad fantasia e con uη spizgòt ad ciàcar tramandàdi da padr’ iη fiòl, vista atravèrs il bandiér e il stem dil cuntràd dal nòstar Palio, e cuntàda int una lónga zirudlàza semiseria in utàvi, int al dialèt ad Frara, Ferrara, La Voce di Ferrara, 1987

Luigi Vincenzi (Bondeno 1926 – Ferrara 2011)
Maestro elementare, poeta e studioso del vernacolo, fine dicitore, segretario storico del Tréb dal Tridèl. Aveva due scutmài: Gigi per gli amici, Tamba in ambito dialettale. Altre pubblicazioni: A filò sóta al pónt ad San Źvann (1978), Grépul (2003), Vocabolario italiano – ferrarese (2007), Noz d’arźént col nòstar bel dialèt (2007).

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce regolarmente ogni venerdì.
Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

EL MALEFICIO DE LA MARIPOSA
100 anni fa l’esordio teatrale di un giovanissimo Federico García Lorca:
in scena, contestatissimi, i suoi personaggi-insetti

Di Federico García Lorca molti ricordano i versi dedicati all’amico torero morto durante una corrida, con il famoso incipit “Alle cinque della sera”, le poesie che cantano i gitani, con i coltelli che brillano ‘come pesci’ e la guardia civile sempre incombente, e le atmosfere del paesaggio andaluso: il biancore profumato dei gelsomini in fiore, il gorgogliare delle fontane, il muoversi al vento dei rami degli olivi. Molti ricordano anche i drammi, con personaggi femminili sempre costretti, frustrati e infelici in un mondo chiuso destinato ad esplodere in tragedie improvvise e cruente. Pochi invece conoscono le opere giovanili pensate per l’infanzia e per quel teatro di burattini che lo stesso Lorca, da piccolo, aveva molto amato. Si tratta di un altro aspetto della sua poliedrica ed eccezionale personalità artistica: poeta, drammaturgo, autore di acquarelli e numerosi disegni a china, esperto di musica (il festival del cante jondo organizzato con l’amico Manuel de Falla, le canzoni popolari arrangiate, la passione per il pianoforte), e fondatore negli anni della Repubblica del gruppo teatrale universitario La barraca che portava, nei paesi della Spagna rurale, i grandi classici del teatro spagnolo.

Due scatti giovanili di Federico Garcia Lorca
Disegni di Federico Garcia Lorca (composizione di Laura Dolfi)

Apparentemente. meno legate a tutto questo, sembrano i primi testi teatrali che però riportano anch’essi a quel senso di desiderio irrealizzato, di voler essere quello che non si è, o che non si può essere, ricorrenti nella sua opera drammatica (e non solo). Penso in particolare a una pièce per burattini che  compose quando aveva poco più di vent’anni: Il maleficio della farfalla. Fu l’incontro con un drammaturgo e impresario teatrale a decidere la sorte di quest’operetta, giacché Gregorio Martínez Sierra (questo il suo nome), affascinato dalla storia e dagli insoliti protagonisti, convinse il poeta a trasformare quel testo per burattini in una commedia da rappresentare in teatro. Così, rivisto e corretto, Il maleficio della farfalla si trasformò in una “commedia in due atti e un prologo”. Chissà come reagirebbe il pubblico dei nostri giorni se, recandosi a teatro (Covid-19 permettendo), invece di veder comparire sul palcoscenico i protagonisti di una commedia in certo modo prevedibile – con una ragazza triste e innamorata, un giovane sognatore con ambizioni di poeta, una madre preoccupata di trovare una nuora con una ricca dote, e vari personaggi di contorno -, si trovasse di fronte a degli attori travestiti da insetti: scarafaggi, lucciole, uno scorpione e una farfalla. Quello che è certo, però, è che nella primavera del 1920 (cioè esattamente un secolo fa) gli spettatori del teatro Eslava di Madrid videro proprio questo; e inevitabilmente, benché il teatro nel quale si erano recati fosse noto per essere d’avanguardia, la loro reazione fu piuttosto vivace, c’è addirittura chi racconta che, vedendo queste atipiche figure, dal loggione qualcuno abbia invocato l’uso di un noto insetticida. Anche i quotidiani segnalarono che l’accoglienza non era stata tranquilla: rumorose proteste avevano disturbato la rappresentazione e tra i due gruppi contrapposti (gli amici o sostenitori dell’autore e coloro che dissentivano) si era creata una tale bagarre da  rischiare il nascere di una vera e propria rissa.

Gli attori erano stati bravissimi – lo segnalavano le recensioni – ma né loro, né la ballerina, né le musiche di Grieg appositamente arrangiate erano riuscite a salvare la prima. È evidente che il pubblico non era ancora preparato per questo tipo di spettacolo, la cui rappresentazione invece doveva essere stata veramente fuori del comune: si trattava della prima opera drammatica di un poeta ‘nuovo e molto interessante’ – come aveva annunziato pochi giorni prima la stampa – e molti importanti nomi erano coinvolti: la famosa ballerina “Argentinita” (poi legata al torero Sánchez Mejías a cui Lorca avrebbe dedicato il suo famoso Llanto) impersonava la farfalla caduta che, muovendo le ali, iniziava a danzare, l’altrettanto nota attrice Catalina Bárcena ricopriva il ruolo dello scarafaggino protagonista tormentato nella sua ricerca dell’irraggiungibile, l’artista Rafael Barradas aveva disegnato i costumi e al tanto richiesto scenografo Fernando Mignoni si doveva lo sfondo sul quale si muovevano gli insetti: l’erba di un prato coperta di rugiada, un laghetto circondato da gigli e sassi azzurrini, un sentiero costeggiato dalle tane-case di un “minuscolo e fantastico” paesello.

L’azione iniziava con il rosseggiare dell’alba e con due blatte che conversavano fuori della tana. Bastavano poche battute e il tema base dell’intreccio era delineato mentre i vari insetti che si succedevano sul palcoscenico riproducevano con il loro dialogo, in quel piccolo mondo ‘infimo’, gli stessi sentimenti e desideri che caratterizzano la vita degli esseri umani. Era il  precipitare di una farfalla sul prato l’elemento che scatenava la tragedia: l’ansia inappagata del protagonista trovava in quest’essere bello e irraggiungibile il suo concreto e fatale referente. Alla morte della farfalla seguiva infatti anche la sua, e il suo corpo nero veniva solennemente trasportato su un petalo di rosa da un corteo di lucciole e scarafaggi, mentre la scena si colorava della luce del tramonto e riecheggiava il suono di una marcia funebre.

In realtà di questo finale e del dialogo che l’aveva preceduto sappiamo ben poco poiché parte del II atto è andata perduta; e la stessa commedia – rimasta a lungo inedita – fu resa pubblica in Spagna solo tardivamente, piú di un ventennio più tardi (nel 1954); e inevitabilmente ancora più tardiva fu la sua circolazione in Italia. Bisognerà attendere la I edizione integrale del Teatro di Federico García Lorca stampata da Einaudi nel 1968, dove però il traduttore – Vittorio Bodini – la relegava in appendice proprio perché opera giovanile e, a suo avviso, ancora ‘immatura’. La considerava invece degna d’attenzione il poeta Giorgio Caproni che, tre anni più tardi, scelse di tradurla e di mandarla in onda alla radio restituendole, con una lettura drammatizzata che coinvolgeva una quindicina di attori, un regista e una musica di sottofondo, la sua funzione di testo teatrale.

Quello che è interessante in questa traduzione caproniana naturalmente è il confronto che si venne a creare tra i due poeti, giacché la sensibilità nella lettura e nella resa dei versi (solo il breve prologo è in prosa) era inevitabilmente differente rispetto a quella di un qualunque, sia pur bravo, traduttore. Tra l’altro Caproni aveva riflettuto più volte, non solo sulla difficoltà del tradurre poesia (per quell’impossibilità di riprodurre fedelmente i suoni e i ritmi dell’originale), ma anche sul ruolo del traduttore, più complesso ancora se era a sua volta poeta: si trattava allora – osservava – di mettersi al servizio dell’altro, ma senza dimenticare se stesso. E proprio a queste parole pensavo, preparando per Feltrinelli la ristampa di questa traduzione in un volume appena uscito che riunisce tutte le versioni di Giorgio Caproni dalla poesia spagnola e ispanoamericana. La sua infatti è una versione molto bella, allo stesso tempo autonoma e fedele, costantemente attenta alla parola lorchiana che viene ricreata ricorrendo all’ampia gamma sinonimica offerta dalla nostra lingua e ai più diversi registri (colloquiale, culto, popolare) in modo da offrire ogni volta   l’equivalente migliore per significato e suono.

Né è una casualità che Caproni, dopo averla tradotta nel 1971, si sia ricordato di questa commedia anche negli anni successivi, selezionandone alcuni brani per  il suo Quaderno di traduzioni e facendo ritrasmettere la 1a scena durante una puntata della rubrica radiofonica Il girasole. Anzi, in quest’ultimo caso, la lettura era preceduta da poche ma significative parole con le quali, oltre ad alludere all’intreccio (“È la storia d’un amore impossibile: uno scarafaggino poeta s’è innamorato d’una farfalla ferita, caduta da un cipresso”), concludeva: “Nel teatro di García Lorca Il maleficio della farfalla occupa forse un posto marginale […]; ma non per questo la commedia è priva d’incanto poetico”.

Cover:  documenti relativi a El maleficio de la mariposa di Federico Garcia Lorca e altri materiali lorchiani, composizione di Laura Dolfi per Ferraraitalia. 

“SE SBAGLIO MI CORRIGERETE”
100 anni fa nasceva Karol Wojtyla, il Papa dei record

Il 18 maggio è stato ricordato il centenario della nascita di Karol Wojtyla (1920, Wadowice). Diventato papa nel 1978 dopo il brevissimo pontificato di Albino Luciani (33 giorni), gli storici dicono sia impossibile fare un bilancio definitivo di un pontificato durato 27 anni – il quarto per lunghezza nella storia della Chiesa (1978-2005) – e tanto complesso.
Per svariati motivi Giovanni Paolo II è stato il primo: il primo papa straniero dopo secoli, il primo per i viaggi compiuti (104), il primo a entrare in una chiesa luterana (a Roma nel 1983), a parlare a un’assemblea islamica (1985 a Casablanca), a entrare in una sinagoga (Roma, 1986). Dopo la sua morte (2005) è stato proclamato santo (2014) in tempi non usuali nella Chiesa per le canonizzazioni.

Il nome scelto e quel primo discorso da pontefice accesero subito entusiasmo e speranze. Fu papa Luciani a volersi chiamare Giovanni Paolo, ma non ebbe il tempo di dare corpo a un programma che avrebbe voluto svolgersi nel solco di Giovanni XXIII, che convocò il concilio Vaticano II, e Paolo VI, che lo condusse a termine nonostante le acque agitate di quella storica assemblea.
Subito destarono interesse quelle parole d’esordio: “Aprite le porte a Cristo, non abbiate paura” e “Se sbaglio mi corrigerete”. Un papa che dal balcone di San Pietro chiede di essere corretto? Nella sua prima enciclica Redemptor Hominis (1979) scrisse: “l’uomo è la via della Chiesa, con tutte le attese per una frase che non dice: la Chiesa è la via dell’uomo. E’ stato chiamato ‘l’atleta di Dio’ e ‘globetrotter’, per il vigore fisico con cui seppe dare nuovo appeal al papato che, unitamente all’innata vocazione di ‘bucare lo schermo’, trovò una speciale sintonia innanzitutto con il mondo giovanile, tanto da creare il fenomeno planetario dei papaboys.

Se si volesse tentare una lettura provvisoria del lungo pontificato di Karol Wojtyla, diversi osservatori sostengono che si è sviluppato lungo le due linee della Chiesa ad extra e ad intra. Se riscuote tuttora larghi consensi la prima, la seconda continua a ricevere critiche. Lo storico Alberto Melloni ha elencato Le cinque perle di Giovanni Paolo II (Mondadori 2011). Nel sinodo dei vescovi del 1985 definì il concilio Vaticano II la grazia più grande che la Chiesa abbia avuto nel XX secolo”, a dispetto delle voci insistenti che ne volevano un ridimensionamento.
L’anno seguente incontrò il rabbino ElioToaff nella sinagoga di Roma, dicendo che l’Antica alleanza è eterna e arrivando a chiamare gli ebrei “fratelli maggiori”. In quello stesso 1986 si tenne ad Assisi lo storico incontro di preghiera con i rappresentanti di tutte le religioni.

Fu l’espressione del suo impegno per la pace, ribadito nel 2003 con un appassionato appello contro la guerra in Iraq. Non meno dirompente fu, durante il Giubileo del 2000, la richiesta di perdono per le violenze e ingiustizie commesse nei secoli nel nome della fede. Cinque capitoli di quello che lo stesso Melloni ha definito “magistero dei gesti”, fino alla sofferenza degli ultimi giorni, mostrata come una testimonianza estrema offerta ai fedeli, che già il giorno dei funerali in una Piazza San Pietro stracolma lo volevano “santo subito”. Sofferenza come quella patita a seguito dell‘attentato di Ali Agca, il 13 maggio 1981, la cui mano non è stato mai chiarito del tutto da chi fosse stata armata, anche se diverse piste portano al cuore dell’impero sovietico, il cui crollo Karol Wojtyla era convinto che sarebbe avvenuto per l’inconsistenza delle false radici antropologiche che lo reggevano.

Ma se lo sguardo ad extra è connotato da queste energiche aperture, la serie di decisioni e provvedimenti presi all’interno della Chiesa (ad intra) continuano a rappresentare un contrasto stridente.
Gravida di conseguenze è stata la svista sulla Teologia della liberazione. Un aperto contrasto iniziato già dal gennaio 1979, quando a Puebla (Messico), durante la terza Conferenza generale dell’episcopato latino-americano, l’attacca frontalmente e, il marzo dello stesso anno, è ricevuto in udienza Oscar Arnulfo Romero, che realizza la profonda “incomprensione” di Roma per il suo ministero nella difficile situazione di El Salvador. Il 24 marzo dell’anno seguente l’arcivescovo Romero, mentre celebrava messa, cadde vittima di un attentato degli squadroni della morte.
Con tutta probabilità la biografia di Wojtyla – cresciuto negli orrori dei totalitarismi – ha giocato in maniera decisiva nella sua lettura della Teologia della liberazione. Si volle vedere i pericoli della contaminazione marxista (“un compromesso ideologico inaccettabile” disse in occasione della sua visita in Nicaragua nel marzo 1983), senza considerare che non non si può parlare “della”Teologia della liberazione al singolare, ma delle Teologie della liberazione. Un errore di valutazione che fu all’origine di una lunga sequenza di decisioni nei confronti dei teologi, come Leonardo Boff e Gustavo Gutierrez e criterio per le nomine dei vescovi latino-americani all’insegna della normalizzazione, come il card. Obando y Bravo, arcivescovo di Managua.

La scure disciplinare, con la partecipazione della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) guidata dal fedelissimo card. Joseph Ratzinger, non risparmiò la ricerca teologica in senso più ampio. Il tedesco Bernhard Haering, fra i più autorevoli teologi moralisti del post-concilio, e l’olandese Edward Schillebeekx, fra i grandi nomi della teologia del XX secolo, processato a Roma dalla CDF e mai pienamente riabilitato, sono fra i casi i più eclatanti, accaduti nel 1979 – neppure un anno dopo l’elezione di Giovanni Paolo II – e che inaugurarono una lunga serie di provvedimenti. Lo stesso don Luigi Sartori, fra i più importanti teologi italiani, fu privato (1989) della cattedra di Ecumenismo alla Pontifici Università Lateranense, per decisione della Congregazione dell’educazione cattolica.
Nell’aprile 1987 il comboniano Alex Zanotelli fu costretto a dimettersi dalla direzione del mensile Nigrizia e nel marzo 1989 cosa analoga successe a padre Eugenio Melandri per il mensile dei saveriani Missione Oggi. In entrambi i casi il tema sollevato fu la denuncia della gestione fatta dal governo italiano dei fondi destinati alla cooperazione e in ambedue le situazioni ci fu la mano del prefetto della Congregazione vaticana per l’Evangelizzazione dei Popoli, card. Josef Tomko.

Intanto cresce il malcontento del mondo teologico, che il 6 gennaio di quello stesso 1989 sfocia nella clamorosa Dichiarazione di Colonia, firmata da 163 teologi e teologhe di area tedesca. Contestarono il modo “scandaloso con cui Roma ignorava le richieste delle Chiese locali nella nomina dei vescovi.
Esemplare è ciò che successe all’Azione cattolica italiana (Aci), l’associazione che con Paolo VI fu protagonista, dalla Presidenza di Vittorio Bachelet, nella traduzione pastorale della conciliare scelta religiosa, che intendeva emancipare il laicato cattolico dalle secche del collateralismo politico.
L’inizio della svolta andò in scena tra il 9 e il 13 aprile 1985, quando a Loreto si svolse il II Convegno della Chiesa italiana dal titolo “Riconciliazione italiana e comunità degli uomini”. Con l’adesione del cinquantenne vescovo emiliano Camillo Ruini, l’intervento di papa Wojtyla smentì la linea di Anastasio Ballestrero, presidente della Conferenza episcopale italiana, e del cardinale di Milano Carlo Maria Martini, convinti di una linea ecclesiale a forte impronta conciliare. Il 26 giugno 1986 Ruini fu nominato da Giovanni Paolo II segretario della Cei e iniziò la sua ascesa di uomo forte dei vescovi italiani, fino al 2007. Nel mirino di Vaticano e Cei finì il presidente nazionale dell’Azione Cattolica, Alberto Monticone, contrastato all’interno dell’associazione da Dino Boffo, promosso a dirigere nel 1994 Avvenire, il quotidiano dei vescovi.

Si dice che durante il suo episcopato ferrarese (1982-1995), Luigi Maverna ricevesse periodicamente in palazzo vescovile Boffo e altri esponenti nazionali dell’Azione cattolica. Maverna fu assistente nazionale dell’Aci dal 1972 fino al 1976, quando Paolo VI lo nominò segretario generale della Cei. In quegli stessi anni si svolse in Italia la caldissima vicenda del referendum sul divorzio e il futuro arcivescovo di Ferrara si trovò a gestire la partita delicatissima della posizione dell’associazione che, in omaggio alla ‘scelta religiosa’, decise di esprimersi per la libertà di coscienza, anziché dare esplicite indicazioni di voto. Una decisione che non andò giù a molti vescovi italiani, e alla stessa Santa Sede e forse il conto salato di quello strappo nei confronti delle gerarchie fu presentato nella svolta che andò in scena al convegno di Loreto.
La normalizzazione dell’Aci proseguì con l’inaspettata nomina (1987) ad assistente nazionale di mons. Antonio Bianchin (sconosciuto assistente diocesano di Pisa del Movimento studenti) al posto di un incredulo Fiorino Tagliaferri (poi vescovo a Viterbo). L’annuncio venne dato dallo stesso Camillo Ruini durante un convegno nazionale alla Domus Mariae (Roma), di fronte alle dirigenze dell’Azione cattolica, spiazzate perché fu la prima volta che non fu rispettata la prassi consolidata, fino a Paolo VI, di consultare i vertici dell’Aci prima delle nuove nomine. A Loreto si celebrò, di fatto, il passaggio di consegne nel laicato italiano tra Azione cattolica e Comunione e Liberazione, il movimento fondato da Luigi Giussani che con Giovanni Paolo II trovò una naturale sintonia, per un cattolicesimo più muscolare e identitario, perciò ritenuto  maggiormente capace di incidere nella vita nazionale.

Sul piano dottrinale, il combinato disposto Wojtyla-Ratzinger-Curia romana, si è contraddistinto per una sistematica chiusura sui temi della morale sessuale, dell’omosessualità, della collegialità, della comunione ai divorziati, del sacerdozio e sul ruolo della donna nella Chiesa, con richiami costanti all’obbedienza. Nel 1992, con la lettera Communionis notio (1992), il card. Ratzinger dette un’interpretazione restrittiva del Vaticano II e della collegialità episcopale e l’anno seguente lo stesso Giovanni Paolo II, ampliando l’ambito dell’infallibilità papale definito nel 1870 dal concilio Vaticano I, affermò: “Rientrano nell’area delle verità che il magistero può proporre in modo definitivo quei principi di ragione che, anche se non sono contenuti nelle verità di fede, sono ad esse intimamente connessi”.
Risale al 23 agosto 1982, nonostante l’opposizione di molti vescovi spagnoli, l’istituzione della Prelatura personale di Santa Croce e Opus Dei.
Il 25 marzo 1995 nell’enciclica Evangelium vitae Wojtyla definì tirannici” i parlamenti che approvano leggi che consentono, in determinati casi, l’interruzione volontaria della gravidanza e nel 2000, con una Notificazione, Ratzinger prese di mira il teologo austriaco Reinhard Messner, obbligandolo all’abiura per avere sostenuto che in caso di conflitto è sempre la tradizione che deve essere corretta a partire dalla Scrittura, e non la Scrittura che deve essere interpretata alla luce di una tradizione successiva (o di una decisione magisteriale).

Si possono così comprendere le parole di Bartolomeo Sorge che su Aggiornamenti sociali (ottobre 2018) scrive: “Con l’elezione di papa Wojtyla si ebbe un lungo periodo di ‘normalizzazione‘, durante il quale la riforma della Chiesa ad intra, voluta dal concilio, di fatto fu tenuta in quarantena. Il problema è che su questo punto emerge, a distanza, tutta la debolezza di un’intera strategia. Se ad intra si assiste al sistematico congelamento del cammino riformatore intrapreso dal concilio, ne risente anche l’approccio ad extra, perché all’impostazione della mediazione culturale, del dialogo e della scelta religiosa di papa Montini, si è preferito puntare sulla presenza militante – muscolare (Wojtyla) o dogmaticamente sicura (Ratzinger) – della Chiesa come forza sociale, schierata a difesa dei principi immutabili, assoluti e, alla fine, non negoziabili, oppure su un astratto progetto culturale cristianamente ispirato (Ruini), nel vano tentativo di recuperare sul piano culturale l’egemonia che la Chiesa ha perduto su quello politico.

Con l’elezione di papa Francesco (2013) si è tornati a puntare sulla necessità di innescare processi, piuttosto che occupare spazi. Il problema è che il lungo periodo 1978-2013 (cioè i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI) è stato un potente modello formativo (dai seminari al laicato cattolico, compresi vescovi, Curia e collegio cardinalizio), che ha ottenuto venerazione, ammirazione e adulazione, anche se non l’auspicata primavera spirituale.
Il tempo breve, tutto sommato, del pontificato di Bergoglio è destinato a lasciare aperta la partita tutta interna alla Chiesa di come gestire la complessità degli opposti: dialogo e identità, innovazione e tradizione, verità e carità, lievito e conquista, scelta religiosa e presenza. Una combinazione degli opposti, che oggi nella Chiesa appare sempre più difficile da governare nel segno dell’unità e il modello del doppio binario wojtyliano non sembra più proponibile.

TARGHE RICORDO

Apprendo – da Il Mulino, Marcello Flores, Katyń e la memoria rimossa – che il 7 maggio scorso, mentre la Russia festeggia la vittoria contro il nazismo, a Tver’ sono tolte due targhe dal vecchio palazzo della polizia segreta, collocate nel 1991.Una è “alla memoria dei torturati” passati nelle mani dei militi dell’Nkvd  (polizia segreta sovietica, ndr,) prima di essere uccisi o inviati in un campo del Gulag. L’altra è “alla memoria dei polacchi del campo di Ostaškov” , uccisi dall’Nkvd di Kalinin (così di chiamava allora Tver’), ed è relativa alle fosse di Katyń.

La vicenda è nota e già chiarita fin dal 1943. Migliaia di ufficiali polacchi, in uniforme e con i loro documenti sono trovati in una fossa comune nella foresta. Risultano indubbiamente uccisi dai sovietici, tra l’aprile e il maggio del 1940. Lo accerta una commissione internazionale della Croce Rossa, richiesta pure dal governo polacco in esilio a Londra. La versione sovietica è che i prigionieri polacchi, usati per l’esecuzione di diversi lavori, sono stati catturati dai tedeschi nell’agosto del 1941 e da questi eliminati. Di più: l’Urss richiede che questo crimine sia aggiunto ai capi d’imputazione al processo di Norimberga. La richiesta è respinta dagli alleati per non compromettere, con l’infondato addebito, l’intero impianto accusatorio.

Nel Dopoguerra, l’Urss, il governo comunista polacco e i partiti comunisti, compreso il nostro, negano ogni responsabilità sovietica. In Polonia, nel 1981, Solidarność erige un monumento alle vittime di Katyń, trasformato dall’autorità e dedicato “ai soldati polacchi vittime del fascismo hitleriano”.

Michail Gorbačëv, in coerenza alla glasnost (trasparenza nel raccontare la verità) promuove una commissione polacco-sovietica per accertare i fatti. Segue l’ammissione di responsabilità dell’Nkvd – ordine di Berja e Stalin di giustiziare 25.700 soldati polacchi, tra loro oltre ottomila ufficiali – e l’apposizione delle due targhe.

Putin, nel 2010, rende omaggio ai caduti di Katyń con il primo ministro polacco Tusk e, 10 anni dopo, decide la rimozione delle due targhe. La storia russa deve rappresentare tutto il bene fatto nel passato, così come nel presente. Testimonianze e ricerche in contrario vanno tacitate. Un sondaggio dello scorso anno attesta che per il 71% dei russi Stalin è stato un personaggio positivo. La memoria pubblica deve adeguarsi al sentimento popolare. Conosciamo e sperimentiamo quotidianamente questo comandamento, che richiede costanti, rinnovate falsità.

Dice Hanna Arendt che la menzogna consiste nella deliberata volontà di trattare verità di fatto come se fossero opinioni e, come tali, trascurabili o modificabili secondo convenienza. Se la versione cara al potente di turno cozza irrimediabilmente con i dati di realtà, tanto peggio per i dati e la realtà. Il risultato è una generalizzata incapacità critica, l’abbandono di ogni tensione alla ricerca della verità, senza pretesa di raggiungerla sempre (o peggio di averla raggiunta e possederla indiscutibile). Difficile il formarsi di un’opinione fondata, impossibile un’opinione pubblica all’altezza dei problemi che si presentano.

C’è chi ne sa di più: i servizi segreti, ad esempio. A loro spettano le più delicate attività informative per la salvaguardia della Repubblica, cioè della nostra democratica convivenza. Ogni volta che accade di gettare uno sguardo alla loro attività questa appare volta a tutt’altro: menzogne, coperture, depistaggi. Ci viene detto allora che questi sono “servizi deviati”. Come tali sono finiti pure nel vocabolario. Ad esempio nel Treccani: “Che si è allontanato da una linea di condotta legale: servizî segreti deviati”. Speriamo che i servizi restanti proseguano nel loro compito importante.
Perché i servizi segreti non deviino non debbono anzitutto deviare quelli pubblici. Penso in particolare a quelli dedicati a salute, istruzione, lavoro. La prima cosa – come noto, e pandemia conferma – è la salute, poi bisogna studiare e lavorare. In Costituzione sono segnati come diritti fondamentali. La Repubblica tutela la salute di tutti come diritto individuale e interesse della collettività. Dell’individuo, è scritto, non del solo cittadino. Un sistema sanitario pubblico, integrato in quello europeo ne ha costituito la realizzazione più aggiornata.

La scuola, nelle sue diverse espressioni e gradi, è apparsa, nei momenti migliori, poter essere l’organo costituzionale, vitale, centrale della democrazia, indicato da Calamandrei. “La scuola è aperta a tutti, dice la Costituzione. Di tutti è un diritto, come la salute. Si obietta: “Ma se i soldi non ci sono? Soprattutto nella crisi economica e fiscale dello Stato?”. I soldi ci sono, magari ben custoditi e protetti, in paradisi fiscali se necessario. Quello che sicuramente occorre fare è non umiliare sanità e scuola pubbliche al servizio di interessi privati. Dice Calamandrei “Per aversi una scuola privata buona bisogna che quella dello Stato sia ottima”. L’esperienza ci mostra quanto ciò sia vero pure per la sanità.

E poi c’è il lavoro, che fonda la Repubblica e il cui termine ricorre 19 volte nella Costituzione. Nelle sue multiformi manifestazioni può e deve assicurare le condizioni di mantenimento e sviluppo della collettività, anche di quelli che non sono – ancora, più, comunque – in grado di lavorare. Un servizio civile universale, che tale sia e non si accontenti di ostentare l’aggettivo, ne sarebbe già l’avvio. Anche qui non si deve arretrare dai livelli raggiunti. Chiamare il provvedimento Jobs Act non giustifica l’umiliazione dei lavoratori. Il lavoro, a partire da quello pubblico, è alla base della necessaria solidarietà politica e sociale senza la quale, come sappiamo bene e l’art. 2 della Costituzione ricorda, tutti i diritti inviolabili dell’uomo si polverizzano. Restano al più come targhe, in attesa di essere defisse dal muro della nostra costruzione comune.

Cover: Bassorilievo Palazzo del governo, Livorno (Wikipedia)

PER CRESCERE KARIM
bisognava farsi villaggio

Rileggo La Repubblica, Cronaca Milano 13,35 del 20 maggio: ” MORTO BAMBINO 10 ANNI INCASTRATO IN UN CASSONETTO PER INDUMENTI Nessuno può dirlo con certezza ma Karim, il bimbo di soli 10 anni morto schiacciato in un cassonetto della Caritas, a Boltiere, centro di cinquemila abitanti della Bassa bergamasca, stava cercando probabilmente qualche vestito tra quelli lasciati dentro il contenitore. Qualche indumento per sé e per la famiglia. Il papà, nativo della Costa d’Avorio, e la mamma italiana hanno cinque figli e vivono in una casa comunale non distante dal luogo della tragedia.[…]*.
Le tragedie, da sempre, o sempre di più, sono ‘Il sale’ dell’informazione. Ma è possibile andare oltre, smettere il solito linguaggio gridato che trasmette l’orrore o induce alla inutile ed effimera lacrima, scavare più a fondo, svelare il nostro rimosso collettivo? E’ quello che fa
Elena Buccoliero in questa sua riflessione.
(Effe Emme)

Karim era da solo e ad accorgersi dell’incidente è stata una donna che ha dato subito l’allarme. L’oscenità di un corpo bambino intrappolato tra le lamiere è totalizzante. Lo sguardo resta impigliato alle piccole membra di Karim stritolato dal cassonetto degli abiti usati, oppure fugge via.
Ci vuole un tempo per il dolore, e per il rispetto del dolore. Tutto questo è dovuto e necessario, vorrei solo che non fosse tutto lì. Lasciamo stare la retorica del piccolo angelo. Dobbiamo anche altro a un bambino di 10 anni che muore a quel modo: guardare dentro alle cose, spingere il nostro desiderio di comprensione ad allargare l’inquadratura nel tempo e in profondità senza perdere di vista quel corpo bambino che punta i piedi contro il nostro petto.

Dopo quel 19 maggio qualcosa abbiamo saputo. Provo a riassumerlo.
Karim Bemba è il secondo di cinque figli tra i 2 e gli 11 anni. Vivono con la madre, una donna siciliana di 37 anni, in provincia di Bergamo, mentre il padre, ivoriano, lavora all’estero. Abitano in una casa del Comune e ricevono tutti gli aiuti di cui l’Ente Locale è capace, anche in forza di un decreto del Tribunale per i Minorenni di Brescia che assegna al servizio sociale il compito di sostenere la famiglia senza dividerla. Karim va a scuola e così probabilmente i suoi fratelli, non c’è ragione di credere il contrario. Se la didattica a distanza sia arrivata fino a loro non sappiamo dire. I vicini di casa affermano di temere da tempo che “succeda qualcosa” a quei bambini, li vedono poco curati e spesso in giro da soli, vivono in una casa arruffata.

Dopo la morte di Karim il tribunale per i minorenni emette un nuovo decreto e colloca la mamma e i fratellini in una struttura d’accoglienza. Nella sua scuola, gli insegnanti sospendono la didattica a distanza e si collegano in videoconferenza con la classe per parlare di quello che è successo, ricordano la dolcezza del compagno scomparso, la curiosità, i messaggi d’affetto che confezionava per loro, e capiscono che questo è il lascito, la lezione di Karim.
Questa sintesi racchiude tante cose buone, doverose ma non scontate: l’accompagnamento del servizio sociale e del giudice minorile, il rispetto per l’unità familiare, la frequenza scolastica, l’attenzione degli insegnanti. Che cosa c’è di storto? Tanto altro ancora.

Partiamo dal macro. Nel dicembre scorso – l’altro ieri, e sembra un secolo fa – Save the Children, registrava nel 2019 record negativi sia per la povertà minorile, con più di 1,2 milioni di minori (il 12,5% del totale) in condizioni di povertà assoluta cioè senza i beni indispensabili per condurre una vita accettabile, sia per la natalità. Denunciava diseguaglianze territoriali nella presenza di servizi di qualità per la prima infanzia, con una copertura che raggiunge il 19,6% nei comuni del Nordest ma poco più del 5% al Sud, e un aggravamento dell’abbandono scolastico. Lo affermava mentre apprezzava una manovra governativa che andava in una direzione di maggiore equità investendo più di prima a favore di famiglie e bambini e, aggiungeva, è un segnale positivo, non ancora sufficiente e che deve diventare strutturale.

Il quadro non si è certo addolcito con la crisi sanitaria, educativa, economica e sociale indotta dalla pandemia. Ha cercato di descriverlo ancora Save the Children con la campagna Riscriviamo il futuro [vedi qui] e una campagna sull’impatto del coronavirus sulla povertà educativa.[qui]
Però attenti: i dati razionalizzano, rassicurano, confondono i volti. Non perdiamo di vista Karim, teniamocelo stretto. Noi non sappiamo, l’ho detto in premessa, se lui e i suoi fratelli avessero o meno la possibilità di fare scuola a distanza. In generale possiamo pensare che per un bambino non sia uguale seguire le lezioni o non seguirle, lo dico per tante ragioni, di cui l’apprendimento non è neppure la più importante. Viene prima il suo sentirsi parte della comunità scolastica e il fatto che quella comunità possa oppure no occuparsi di lui.

Dico cose dure. Non so niente di Karim e della sua famiglia, mi pongo tante domande pensando alle molte famiglie che, invece, ho visto da vicino. È poi così ovvio che un bambino povero cerchi di entrare in un cassonetto? Da cosa, da chi è venuta l’idea? Aveva 10 anni, era frequente per lui uscire di casa da solo? È stato trovato alle otto di sera, qualcuno sarebbe andato a cercarlo non vedendolo rientrare? La povertà economica è spesso compagna della povertà educativa ma non c’è un legame necessario: anche famiglie benestanti possono dare poco ai figli, e non sempre le difficoltà concrete implicano carenza di cura.

Le parole dei vicini fanno pensare che la mamma fosse in difficoltà, e come poteva essere altrimenti? Sfido chiunque a occuparsi da solo di 5 bambini tra i 2 e gli 11 anni! Penso agli equilibrismi dei genitori che conosco, e sono in due con un figlio solo, tra accompagnamenti (pre-covid), lezioni a distanza (covid), scelte educative, amicizie da coltivare, giochi e passatempi. Le risorse non sono solo il denaro, sono anche il tempo, lo spazio mentale, la possibilità di condivisione. Nella famiglia di Karim sembra lontana la famiglia allargata – siciliana la mamma, ivoriano il babbo – e i bambini da seguire sono 5, tutti piccoli. Nessuno potrebbe farcela da solo. Siamo in una società che ha bisogno di nonni e zii d’elezione, che per me vuol dire famiglie affiancanti, educatori domiciliari, allenatori, vicini di casa… insomma, rete, non soltanto per risollevare il bilancio familiare. Non basta la povertà economica a spiegare perché un bambino di 10 anni viene ritrovato alle otto sera incastrato in un cassonetto.

Il tribunale per i minorenni di Brescia ha inserito la mamma e i fratelli in una comunità. Ha fatto bene, questo li tiene vicini e li sostiene. Serve infinitamente di più adesso, ciascuno di loro e tutti insieme avranno bisogno di affrontare il vuoto, la mancanza, il senso di colpa, l’ingiustizia, la vergogna per la morte di Karim, e forse serve a prescindere per colmare l’assenza del villaggio.

Un ultimo pensiero voglio dedicarlo al bisogno di angelicare le vittime che si osserva dopo qualsiasi violenza: malattia, guerra, omicidio, cassonetto tritacarne. Non ho conosciuto Karim ma voglio pensare che non fosse un angelo, ma un bambino. Disseminava sorrisi e messaggi d’affetto, me ne congratulo, e per parlarne ai compagni va bene così, ma non dobbiamo avere bisogno di questo. Karim aveva il diritto di vivere non perché era affettuoso e disponibile ma perché era un bambino; fosse stato bizzoso, antipatico, irascibile, monello… non avrebbe tolto o aggiunto niente al fatto che ci fosse un posto per lui. E qualunque cosa fosse diventato: un eroe un perdigiorno o un terrorista.

Il divieto di angelicare le vittime riguarda anche coloro che oggi stanno soffrendo di più. Il dolore non è un merito, quando ci sovrasta sembra scontato che si sia abbattuto sull’innocenza e in un certo senso è vero, nessuna umanissima incompiutezza ci fa meno che innocenti di fronte ad una tragedia. Dico solo che chi ne ha il ruolo e le competenze dovrà interrogarsi su quello che è successo e farà bene a farlo, nell’interesse dei fratellini e per rispetto di tutte le persone coinvolte. Karim incluso.