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UN ILLUMINISTA IN SICILIA
Attualità di Leonardo Sciascia a 100 anni dalla nascita

Non so se in questo 2021, in occasione del centenario della nascita (8 gennaio 1921), Leonardo Sciascia, le sue opere e il suo pensiero libero, verranno celebrati come meriterebbero. Del resto, se Sciascia non è diventato un evergreen, un classico come Italo Calvino, la ‘colpa’ è in buona parte dello stesso Sciascia: protagonista della scena letteraria e politica dell’Italia degli anni Settanta e Ottanta, ma sempre all’opposizione, inorganico a qualsiasi parte o partito. Un personaggio che non si accomodava a nulla, seguendo solo due stelle interiori: l’acutezza del suo pensiero e della sua lingua, e insieme, il suo grande e sconsolato amore per la sua terra. Per queste ragioni Ferraraitalia ospita con piacere – confidando sia solo il primo di altri contributi – l’intervento di Sergio Reyes, einaudiano e siciliano come Leonardo Sciascia.
(Francesco Monini)

“La Rivoluzione francese ha dimostrato che restano sconfitti coloro che perdono la testa”. Questo aforisma di Stanislav Jerzy Lec descrive in modo sintetico una delle differenze che distinguono la nostra cultura da quella francese.
La ghigliottina, a parte la sua spietatezza, propone una irreversibile cesura fra il ‘prima’ e il ‘dopo’: è infatti problematico rimettere al suo posto la testa del condannato dopo che la lama del boia l’ha staccata dal resto del corpo. Nel nostro cattolicissimo paese, fra gli altri, esiste un sacramento che viene elargito con grande generosità: la confessione. Il successivo pentimento e il perdono conseguente tornano a rendere immacolato il peccatore.
Come dice la Lucia manzoniana “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!”.

Questo percorso un po’ tortuoso ha permesso a tanti politici, sia della Prima che della Seconda Repubblica, ma anche a tanti mafiosi o delinquenti comuni di ritornare vergini nelle braccia amorevoli della Chiesa cattolica. Forse anche per questo, e non solo per la loro inattendibilità, Leonardo Sciascia ha sempre guardato con diffidenza e forte pregiudizio al fenomeno dei pentiti.
Lo scrittore siciliano ha sempre avuto un rapporto molto intenso con la letteratura francese e in particolare con Parigi e non ha mai fatto mistero della sua discendenza culturale dall’Illuminismo.
Io non sono né un critico letterario né un esperto di politica o di sociologia, ma da privato cittadino sento il bisogno di manifestare una mia inquietudine.
Oggi, basta ascoltare un telegiornale, vedere un qualunque talk-show o aprire le pagine di un giornale e perfino sentire parlare le persone per strada o al bar per rendersi conto che viviamo in un mondo di verità preconfezionate e date per scontate e come queste vengano scandite quasi sempre sotto forma di slogan.
In particolare il linguaggio della politica, e soprattutto dei politici di professione, utilizza un vocabolario di poche centinaia di parole e queste, combinandosi fra loro in poche unità, vanno a costituire un puzzle che potrebbe avere come titolo “il non pensiero”.

Una voce come quella di Sciascia sarebbe oggi preziosa non solamente per la sua dirittura morale, ma anche per il suo approccio laico alla ricerca della verità, in quanto non viziato da pregiudizi di qualunque natura. Ha ragione Vittorio Alberti quando, nel suo recente libro Non è un paese per laici, afferma che Sciascia è sempre stato all’opposizione.
Lo è stato nel senso che si è sempre posto di fronte a qualunque enunciato indagando sul suo contrario e cercando una verità terza. Questo è stato un suo metodo di lavoro e, prima ancora, un suo modo di pensare. Lo si riscontra nelle sue opere di narrativa e, ancor più, in quelle di saggistica.
In questa prospettiva il suo libro più rappresentativo è forse L’affaire MoroLa sua indagine, svolta con la puntigliosità dello storico che esamina le fonti, si arricchisce di una pietas e di una passione che sono proprie del letterato e il suo approccio, oltre che laico, è prima di tutto ricco di umanità.
A margine del suo libro Sciascia diceva che la peggiore condanna che Moro avrebbe potuto avere dopo la sua morte sarebbe stata quella del silenzio. Pensiero questo già espresso qualche anno prima da Pier Paolo Pasolini, che vedeva nella ‘indifferenza’ uno dei mali peggiori della nostra società.
A questo proposito Sciascia sottolineava che questo allarme egli lo aveva già dato, “più sommessamente”, mentre Pasolini era in vita ed ora sentiva il bisogno di esprimerlo ad alta voce.

Dal punto di vista del lettore è importante quanto uno scrittore riesce a dire anche dopo la sua morte e quali interrogativi riesce a  sollecitare.
Forse non è un caso che nel 1964 Jean Paul Sartre non abbia accettato il premio Nobel motivando il rifiuto col fatto che solo a posteriori, dopo la morte, fosse possibile esprimere un giudizio sull’effettivo valore di un letterato.
Le indagini svolte da Sciascia  nei suoi romanzi polizieschi, sono sempre svolte all’insegna del dubbio e, non raramente, al contrario di quanto di solito avviene nei gialli, il dubbio rimane non risolto fino alla fine del racconto.
Rivelatore a questo proposito quanto Sciascia scrive di se stesso a proposito del  Consiglio d’Egitto: “volevo, insomma, assumere quel fatto del senno di poi; conferirgli – con sufficiente ambiguità e leggerezza – una forza allusiva, ma un significato sull’attualità, sul presente: sul nostro presente. È un modo per non pacificare il lettore, per lasciarlo con una sorta di inquietudine.
Esemplare in questo senso il finale di Todo Modo. Già l’ambientazione della storia è emblematica, tipica del “detto e del non detto”. La vicenda si svolge all’interno dell’eremo di Zafer, ma sembra di poter riconoscere in esso l’Hotel Emmaus, il mostro edilizio costruito dalla Chiesa e che, dopo avere deturpato irrimediabilmente il lato nord dell’Etna, è visibile da decine di chilometri.
Durante gli Esercizi spirituali che si svolgono al suo interno accadono una serie di omicidi e per gli investigatori la matassa della vicenda pare insolubile; in chiusura non viene rivelato chi ha commesso i vari omicidi e l’eremo-albergo viene sgomberato. Lo stesso narratore fra l’altro, paradossalmente, si “dichiara colpevole” del delitto.
La verità è sotto gli occhi di tutti, ma proprio per questo nessuno la vede. Un’attenta lettura delle ultime pagine permette al lettore di avanzare ipotesi sulla soluzione dell’enigma.

La cultura popolare è una delle strade maestre percorse da Sciascia nella costruzione dei suoi romanzi e soprattutto dei suoi saggi. Ad essa lo scrittore guarda non solo con l’interesse dello studioso del folklore e del demologo, ma anche con umorismo e ironia. Una ironia sempre sotto traccia, mai esposta, affinché il sorriso non sconfini mai in aperta e scomposta risata.
Nel suo breve elzeviro L’ordine delle somiglianze scrive: “… C’è in proposito, in ogni paese siciliano, una ricca tradizione: e quasi sempre riferisce del Cristo che, padre della ragazza che fa la Madonna o la Maddalena, vede dall’alto della croce l’apostolo Giovanni stringersi un po’ troppo a confortare la dolente; e dapprima ammonisce, poi si stacca dalla croce e scende bestemmiando alle cosiddette vie di fatto.”

Leonardo Sciascia con amici a Racalmuto (Wikimedia Commons)

In questo sguardo semiserio Sciascia si serve anche della penna di altri.
In  Feste religiose in Sicilia scrive “Tra il Cinquecento e il Settecento … le popolazioni andavano per le spicce nei riguardi dei patroni. Scrive il Pitrèé: “codesti patroni non sono stati sempre gli stessi. Una occasione qualunque, un infortunio, una pubblica calamità, bastarono per soppiantare con un nuovo il vecchio patrono; e devoti, con armi e bagagli, passarono sotto la protezione di esso. Così vediamo come in un caleidoscopio Santa Rosalia sostituire Santa Cristina, e alla sua volta essere sostituita in Vittoria da San Giovanni Battista… messo da parte in  Gioiosa per San Nicolò di Bari e in Butera per San Rocco, che in Pietraperzia viene dimenticato per la Madonna della Cava. San Nicolò vince in Nicosia, però perde in Noto… Santa Caterina, nel Comune omonimo in provincia di Caltanissetta, scalza San Giulio, ma cede alla Madonna delle Grazie …”. A me par di vedere Leonardo Sciascia che, attraverso le pagine di Giuseppe Pitré, ascolta divertito, ma anche molto interessato, la radiocronaca dell’arrivo di una tappa del giro d’Italia.
E  per dare maggior credito ad una affermazione a lui cara cita un altro scrittore “allora di una città correvo a vedere i musei; ora credo avesse ragione Gide , che bisogna cominciare dai mercati, dai giardini pubblici, dai cimiteri e dai palazzi di giustizia”.

La sua costante ricerca della verità si percepisce anche dallo stile della sua scrittura. In essa ogni aggettivo, avverbio o parola appaiono come un distillato di pensiero. Praticamente tutta l’opera di Leonardo Sciascia è stata scritta prima della pubblicazione delle Lezioni americane di Italo Calvino, ma è come se ne avesse subito l’influenza, in particolare di quella intitolata Esattezza.
La sua sobrietà, la sua riservatezza e discrezione fanno sì che egli appaia come un uomo vagamente “misterioso”, come misteriosa appare la sua sconfinata conoscenza delle letterature e il modo in cui al loro interno egli si muove con naturalezza, con una disinvoltura mai ostentata.

Sebbene tutto il suo cammino sia improntato alla verifica di ipotesi diverse, secondo un solido principio di laicità, quasi sempre, quando egli ha acquisito una verità, l’ha subito messa in discussione considerandola come provvisoria, passibile di ulteriori approfondimenti.
Questa che a volte può apparire come ambiguità, a me sembra la più autentica caratteristica di un figlio dell’Illuminismo, di uno scienziato del pensiero.
Non è un caso che sulla bara di Sciascia, ateo ma religiosamente credente nei valori dell’etica, sia stato posto un crocifisso, anche perché egli aveva un profondo rispetto verso questo simbolo.

In copertina: foto scattata a Leonardo Sciascia nell’estate del 1979 al gruppo parlamentare radicale alla Camera dei deputati (Wikimedia Commons)

SCUOLA:
DAI NATIVI DIGITALI ALLA NEXT GENERATION

 

È trascorso un quarto di secolo dalla nascita di Windows 95. Da allora è stato un continuo avvicendarsi di novità nel campo tecnologico, che hanno fatto da contrappunto alle generazioni che in questo lasso di tempo si sono succedute, dai digital natives, ai millennials, alla generazione Z. Ora siamo alla Generazione Alfa. Generazioni avvezze fin da subito a un diffuso uso di internet, di Google e Wikipedia, dei social media e di ogni altro ritrovato tecnologico. Le generazioni sono mutate, le scuole che hanno frequentato no. Così erano prima, così pressoché sono rimaste dopo.

Per misurare la cesura tra mondi opposti e l’ottusità del secondo, la scuola, basta rileggersi la circolare che nel marzo del 2007 l’allora ministro Fioroni inviava alle istituzioni scolastiche per proibire l’uso dei cellulari in classe, con conseguenti sanzioni disciplinari. Ironia della sorte, non è mancato chi tale ottusità ha pensato bene di ribadirla all’avvio dell’anno scolastico 2019/2020, alla vigilia della pandemia, che avrebbe sfidato le nostre scuole sulle loro potenzialità tecnologiche e digitali.

Mi è capitato in questi giorni tra le mani un volumetto pubblicato da il Mulino nel 2010 dal titolo quanto mai accattivante Un giorno di scuola nel 2020. Un cambiamento è possibile?
Raccoglie gli atti del convegno organizzato nel marzo del 2009 a Torino dalla Fondazione per la Scuola della Compagnia di san Paolo. Un’occasione per guardare oltre e immaginare una scuola ‘più digitale’, a misura di studente, in cui le tecnologie dell’informazione e della comunicazione non rappresentino soltanto un’appendice a una impostazione tradizionale della didattica, ma ricoprano un ruolo specifico e costante nel tempo.

Il 2020 veniva traguardato come orizzonte, come anno limite, entro il quale le istituzioni scolastiche avrebbero dovuto portare a compimento il processo di rinnovamento degli ambienti di apprendimento e delle modalità di trasmissione del sapere a fronte delle mutate esigenze educative di ragazze e ragazzi cresciuti ‘in rete’.
Tutti i sistemi scolastici in giro per il mondo sembrano essere resistenti al cambiamento, ma le relazioni al convegno testimoniano di tante esperienze che già allora aprivano nuove prospettive dando centralità alla personalizzazione, all’apprendimento autorganizzato, alle modalità e al contesto in cui l’insegnamento avviene.

Dieci anni dopo dobbiamo parlare di speranze infrante, con la drammaticità di una pandemia che ha reso sempre più paradossale l’esperienza scolastica delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Norberto Bottani, ricercatore e alto funzionario dell’Ocse, a conclusione di quel convegno avvisava, già allora, che il problema non sono le nuove tecnologie, ma gli insegnanti e gli studenti.
Le nuove tecnologie evolvono a grande velocità e i bambini se ne impossessano con una facilità estrema, non hanno bisogno né di insegnanti né di educatori per farlo.

La questione degli insegnanti è invece davvero complessa e non si è fatto nulla per esplorarla in tutte le sue componenti, ritardando nel tempo la possibilità di individuare soluzioni valide. Una categoria preoccupata di vedere sempre più svilito il proprio ruolo, di perdere autorevolezza agli occhi degli allievi. Così disciplina e mantenimento dell’ordine sono le ancore di salvezza a cui aggrapparsi, mentre crescono le forme di resistenza a mutare l’organizzazione dell’apprendimento (ci saranno ancora le aule, le classi, i voti?), pertanto l’adozione delle nuove tecnologie avviene in un contesto identico a quello tradizionale. Come muterà il profilo professionale, come cambieranno le modalità di selezione e di formazione?

Resta il tema dell’universo studentesco. C’è un abisso tra il modo di pensare degli studenti e il modo di pensare degli insegnanti. La scuola è incapace di trasmettere ciò di cui gli studenti hanno bisogno nelle forme che più convengono loro. Le ricerche condotte da fondazioni come la MacArthur negli Stati Uniti hanno da tempo evidenziato che ragazze e ragazzi delle generazioni in rete possiedono una visione precisa di quel che si aspettano dalla scuola. Migliaia di interviste fatte a studenti di tutti i ceti, di tutte le età e di tutte le nazionalità fanno emergere risposte assai nette. Non tollerano più le lezioni cattedratiche, vogliono essere rispettati, vogliono che si abbia fiducia in loro, vogliono che si tenga conto delle loro opinioni e che li si apprezzi. Chiedono di coltivare le proprie passioni e i propri interessi, di creare utilizzando gli strumenti del loro tempo. Chiedono un’istruzione che abbia le radici nella realtà, chiedono di cooperare, di lavorare in gruppi per realizzare progetti e controllarne l’esecuzione, chiedono di avere un ruolo in classe e al di fuori della scuola.

Siamo arrivati al 2020 con tutto fermo a come era prima. Se non fosse che il virus ha scompigliato tutte le carte. L’emergenza ancora una volta ha impedito di vedere i problemi veri, rinviando a data da destinarsi la risposta alla domanda che oltre dieci anni fa il convegno si poneva e cioè se un cambiamento fosse possibile. Ora i fondi della Next Generation EU ci offrono un’occasione unica e irripetibile, il pericolo vero è che la scuola e la politica si facciano cogliere impreparati con il rischio di non spendere quelle risorse o di spenderle male.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Helgoland: l’isola che c’è ma non si vede

Ho da poco finito di leggere Helgoland di Carlo Rovelli.  Le sue prime pagine mi hanno aperto il cuore. In questi giorni in cui tutti si riempiono la bocca della parola scienza come fosse una fede e una verità assoluta lui scrive: “Ma questo è la scienza: un’esplorazione di nuovi modi di pensare il mondo. È la capacità che abbiamo di rimettere costantemente in discussione i nostri concetti. È la forza visionaria di un pensiero ribelle e critico capace di modificare le sue stesse basi concettuali, capace di ridisegnare il mondo da zero”.
E mi sono detta: iniziamo bene. Potente e coinvolgente l’idea di Rovelli di partire dalla storia del giovane Heisenberg, della sua ricerca della solitudine in un paesaggio nordico, duro, della sua scalata su una roccia per vedere l’alba la notte in cui riesce a far tornare i conti che gli permetteranno di comunicare la sua idea sui quanti. Potente  per introdurre la spinosa e controversa teoria dei quanti.  Affascinante la sua disanima su tanti filosofi, di cui i nomi sono sconosciuti ai più, che hanno animato le discussioni nel 900. Però la teoria resta controversa.
Perché è controversa? Perché da più di 100 anni la teoria dei quanti crea accese discussioni tra gli scienziati e oggi, questo Rovelli lo  sa, anche tra la gente comune come me, proprio sull’uso delle parole che servono a illustrarla. Mentre i numeri tornano, almeno, quelli di Heisenberg continuano a funzionare e sono alla base della meccanica quantistica su cui si fonda la tecnologia odierna, non tornano le parole che danno concretezza alla realtà descritta dalla teoria.
È una teoria aperta a diverse interpretazioni, con il rischio che se ne possa anche fare scempio ‘filosofico’. È come se le parole, in questa teoria, si comportassero come i quanti: corrispondono a significanti molti diversi e costruiscono immaginari diversi in chi prova a leggerla e immaginarla. Rovelli lo ha capito bene e tenta di indirizzare i possibili significati dei significanti, perché ama troppo la sua fisica teorica per vederla strapazzata dalla gente comune.
In un certo senso crea una tabella delle parole possibili, come Heisenberg crea la tabella dei numeri possibili. È onesto Rovelli, nel suo secondo capitolo descrive tre modi diversi di raccontarla, quelli su cui gli scienziati si confrontano e litigano, tre modi che comunque presuppongono a monte un dogma e l’autore si posiziona su quella che gli corrisponde di più, ma non dice il dogma che la caratterizza.

E qui vengo al punto di rottura con  l’autore. Rovelli, a mio modo di vedere fa un errore: fatica a riconoscere che ogni tentativo di descrizione della teoria, anche la mia,  e dunque anche la realtà, è per forza legata a una idea dogmatica interna che abbiamo del mondo. Ed è qui che io sento la mia strada divergere dalla sua. Io non ho alcuna resistenza a riconoscere che le mie teorie partano da un dogma, cioè da una verità che sento dentro  di me, ma che non è spiegabile a parole, da una esperienza mistica, mentre Rovelli si arrovella scusate il gioco di parole, sul modo possibile di eludere il dogma perché se no tutto il castello della scienza illuminista fondata su logos, razionalità e dimostrazione, crollerebbe.
Mi viene da aggiungere che, da buon maschio, vuole disegnare la mappa che porta al tesoro, quella unica possibile, anche se, a me,  la teoria dei quanti  dice proprio che ognuno potrà trovare il tesoro seguendo la sua di mappa. So bene che questa mia definizione farà arrabbiare l’universo maschile, ma da buona femminista interpreto la realtà proprio sotto una lente radicale. La teoria dei quanti a livello filosofico ammette senza se e senza ma che l’osservatore modifica la realtà, e dunque fa rientrare dalla porta quello che la storia ha sempre fatto uscire dalla finestra, e cioè che di un dato fatto storico ci possono essere versioni molto differenti.
Le donne lo sanno bene: troppa storia manca della loro interpretazione. Rovelli  sa che la filosofia,  la scienza e la storia devono dialogare, che le une senza l’altra perdono di senso,  si smaterializzano , diventano solo speculazioni astratte che poi di fatto non cambiano veramente il mondo,  o lo cambiano polarizzando le ideologie al punto da creare scontri violenti, ma resta nel solco della storia lineare. L’uomo (maschio, bianco possibilmente) deve potere trovare l’elemento ultimo per spiegare le leggi che governano la natura così da assicurare il tanto bramato ‘bene comune’.
So bene che la mia accusa di maschilismo a Rovelli suonerà cattiva e ingiusta. In realtà io non credo che lui lo sia in modo consapevole, ma in due frasi del suo libro proprio mi ha fatto arrabbiare: una a pagina 55, quando nella lista  delle cose che vuole indagare e studiare ci mette anche tutte le ragazze: “quando volevo provare tutto, leggere, sapere, vedere, andare: tutti i luoghi, tutti gli ambienti, tutte le ragazze, tutti i libri, tutte le musiche…” e una alla fine del libro quando scrive “sapere che la mia ragazza obbedisce alle leggi di Maxwell non mi aiuta a farla contenta” .
So bene che estrapolare le frasi dal  loro contesto  è operazione discutibile ma  la radice del mio disaccordo con Rovelli sta proprio lì, nello sguardo sul reale, così  differente che caratterizza il mio essere donna e il suo essere uomo.

Gli esseri umani da tempo immemore cercano di trovare il loro modo di stare al mondo in armonia con il cosmo, lo fanno cercando di comunicare le leggi che governano la natura, ma in occidente, da ormai troppo tempo, lo fanno per potere sottrarre alla natura il suo potere. Le leggi cambiano e si fanno rarefatte  nei momenti di grande cambiamento, proprio come in quello che stiamo vivendo,  e la natura, sapiente, le tiene costantemente in movimento vanificando il sogno onnipotente dell’uomo, quello di governare tutto.  Antigone insegna,  tra la legge e lo stare al mondo c’è uno spazio inalienabile, lo spazio della nostra coscienza. E’ ora che la fisica, la scienza e la filosofia   riconosca quello spazio, gli dia un nome, e accetti che è uno spazio concreto e invisibile allo stesso tempo,  con un potere incorruttibile e inaccessibile a livello generale.

PER CERTI VERSI
Il bosco

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

IL BOSCO

Quando la radura
In mezzo
Alle alte mura
Dei fusti alberati
Diventa un chiosco
Di luce
Il bosco
Tra fogli di neve
Mantiene le forme
Della notte gelata
Le orme dei rari ungulati
In cerca di calore
Di stretto contatto
Affetto loro
Le cerbiatte
I cervi i caprioli
E i nervi della luce che imbianca di latte
Il nostro sogno illeso
Dell’innocenza

In copertina: foto di Antonio Gardenghi

L’ACQUA IN BORSA? NO GRAZIE
firma l’appello contro la speculazione sull’acqua bene comune

APPELLO
Quotazione in Borsa dell’acqua: NO grazie

Noi sottoscritte/i ci uniamo alla denuncia del Relatore Speciale dell’ONU sul diritto all’acqua Pedro Arrojo-Agudo che l’11 dicembre scorso ha espresso grave preoccupazione alla notizia che l’acqua, come una qualsiasi altra merce, verrà scambiata nel mercato dei “futures” della Borsa di Wall Street. L’inizio della quotazione dell’acqua segna un prima e un dopo per questo bene indispensabile per la vita sulla Terra.
Si tratta di un passaggio epocale che apre alla speculazione dei grandi capitali e alla emarginazione di territori, popolazioni, piccoli agricoltori e piccole imprese ed è una grave minaccia ai diritti umani fondamentali.
L’acqua è già minacciata dall’incremento demografico, dal crescente consumo ed inquinamento dell’agricoltura su larga scala e della grande industria, dal surriscaldamento globale e dai relativi cambiamenti climatici. E’ una notizia scioccante per noi, criminale perché ucciderà soprattutto gli impoveriti nel mondo.
Secondo l’ONU già oggi un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile e dai tre ai quattro miliardi ne dispongono in quantità insufficiente. Per questo già oggi ben otto milioni di esseri umani all’anno muoiono per malattie legate alla carenza di questo bene così prezioso.
Questa operazione speculativa renderà vana, nei fatti, la fondamentale risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 2010 sul diritto universale all’acqua e, nel nostro paese, rappresenterà un ulteriore schiaffo al voto di 27 milioni di cittadine/i italiane/i che nel 2011 si espressero nel referendum dicendo che l’acqua doveva uscire dal mercato e che non si poteva fare profitto su questo bene.
Se oggi l’acqua può essere quotata in Borsa è perché da tempo è stata considerata merce, sottoposta ad una logica di profitto e la sua gestione privatizzata. Per invertire una volta per tutte la rotta, per mettere in sicurezza la risorsa acqua e difendere i diritti fondamentali delle cittadine/i
CHIEDIAMO al Governo italiano di:
• prendere posizione ufficialmente contro la quotazione dell’acqua in borsa;
• approvare la proposta di legge “Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque” (A. C. n. 52) in discussione presso la Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera dei Deputati;
• sottrarre ad ARERA le competenze sul Servizio Idrico e di riportarle al Ministero dell’Ambiente;
• di investire per la riduzione drastica delle perdite nelle reti idriche;
• di salvaguardare il territorio attraverso investimenti contro il dissesto idrogeologico;
• impedire l’accaparramento delle fonti attraverso l’approvazione di concessioni di derivazione che garantiscano il principio di solidarietà e la tutela degli equilibri degli ecosistemi fluviali.
#acquainborsaNOgrazie

Per firmare l’appello, clicca a questo link [Qui]

CONTATORE: alle ore 23,00 del 7 febbraio avevano firmato in 8.703

FORUM ITALIANO MOVIMENTI PER L’ACQUA

CONTRO VERSO
L’uomo polipo

La segnalazione della ragazzina era arrivata dal padre ai servizi sociali e da questi alla procura e poi al tribunale per i minorenni. Il padre, unico genitore presente, ha chiesto aiuto preoccupato. 13 anni, incinta nella relazione con un maggiorenne che l’assorbiva completamente, la ragazzina aveva rinunciato gradualmente a tutta la sua vita – dalla scuola agli svaghi – per aderire al suo “amore”.

L’uomo polipo

Con tante braccia
mi fa felice.
Vuole che taccia
quando mi dice
che la sua vita
senza di me
è ormai finita.
Ecco chi è:

È l’uomo polipo
sempre romantico
nato a Posillipo.
È telepatico.
Svelto mi anticipa
nei desideri
e mi addomestica
anche i pensieri.

Lui mi guarisce
dal raffreddore.
Non mi ferisce.
È il mio signore.
Sa soddisfare
i miei bisogni
sa interpretare
tutti i miei sogni.

Non ho più sete
fame o fatica.
Nella sua rete
in men che si dica
sono caduta,
caduta in pieno.
Sono perduta
ma soffro meno.

Lui mi aderisce,
sì, come un guanto
e m’impedisce
di chiedermi tanto.

Ho 13 anni
lui più di venti
non faccio danni
e odio i commenti.

Niente più amici
niente lavoro
siamo felici
senza denaro.
Tanto alla spesa
pensa papà
che ormai alla resa
mi lascia qua

Non vado a scuola
ma faccio finta.
Il tempo vola.
Io resto incinta.

È l’uomo polipo
mi si aggroviglia.
Vivo a sproposito.
Nasce una figlia

Ho 13 anni
già tanti affanni
di questa figlia
cosa sarà?
E questo amore
non se ne va.
Ci penso ancora
in comunità.
È l’uomo polipo.
Soffoco già.

La paura del vuoto può ben essere attutita da una relazione d’amore. A un qualche livello probabilmente tutti lo sappiamo. Se questo accade nella forma appena vista, però, si capisce che l’amore è piuttosto dipendenza, rinuncia, blocco nella crescita personale anziché stimolo a diventare se stessi. Non era facile, per la ragazzina, riconoscere la trappola nella quale gongolava contenta.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

PAROLE A CAPO / Francesco D’Angiò:
“Posso guardare dove semina il buio” e altre poesie

“La lettura della poesia non è mai un atto razionale, ma un incontro quasi mistico col suo ritmo segreto, con la sua vita rarefatta.”
(Giorgio Barberi-Squarotti)

I ballerini

Una solitudine a buon prezzo
ci lascia scorrere come falene
accecate dai fari,
conoscendo pressappoco
la distanza tra la luce e la sorte.
Così elargiamo malinconie
che rigano dritte fino alla chiusura
del bandoneón,
con la piaga della carezza
abbarbicata al bacio d’addio
che tornerà a trovarci.

 

Un pezzo alla volta 

Uno sull’altro,
facendo caparbie capriole
sulle sabbie mobili di un volo saturo.
Pennellate di vissuto
e dozzine di vite rastrellate
il giorno che ci ostinammo a pensare
che un pezzo alla volta,
non saremmo mai morti.
L’ambizione ci ha baciato in fronte,
fino a farci espandere tra un parco giochi
ed un terrapieno di santi annunciati,
malmenati per i pochi posti a sedere,
e da chi ci spiega che non ce n’è
per nessuno,
che sono finite le scorte di zolfo
e l’odore che sentiamo non è più
di nessun corpo.
Marginale resta quella storia sull’anima
che pare non avesse nessuna intenzione
di essere così importante.

 

Posso guardare dove semina il buio

Mi faccio di fianco
a ciò che vorrei essere,
e nella pelle dei precipizi
osservo tentato dal vortice
che mi assorbe,
d’improvviso scompare
l’equilibrio della fine.
A ciocche di giorni
si fanno cadute di sole
mentre mi allungo nel corpo
che già sconfina,
so stare male così bene
che mi affitto per i giorni
di festa mancati
per chi li cerca e per chi li ha donati,
faccio gli ultimi bagagli e non vado.
Ho disfatto la schiena consumata
di muro.

Francesco D’Angiò è nato a San Vitaliano (Na) nel 1968, è sposato e risiede a Matera.
Ha pubblicato recentemente, nel mese di ottobre, un romanzo dal titolo “Lo sconosciuto” edito dalla Planet Book. In precedenza aveva esordito nel 1997 con la pubblicazione del racconto “Siamo tutti normali”. E’ presente in alcune antologie poetiche.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Gino Ravenna: un olimpionico ad Auschwitz

di Mirko Rimessi

Sono tante, troppe per essere ricordate un solo giorno all’anno, le storie che i testimoni della Shoah ci hanno raccontato sugli orrori dell’olocausto. Storie di persone che avevano, prima del viaggio della morte, vite di ogni tipo, inserite nella società ad ogni livello. Non sono stati quindi immuni da questi viaggi illustri sportivi, coinvolti per religione o convinzioni politiche, iniziati in maniera più massiccia per il nostro paese dopo l’8 settembre 1943.

Anche la nostra Associazione Sportiva, nel suo piccolo ma grazie alla sua lunga storia, ha dovuto fare i conti con questo nero capitolo della Storia dell’Uomo e per celebrare il Giorno della Memoria, ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata per commemorare le vittime dell’Olocausto, vogliamo raccontarvi una di queste storie. Non quella più famosa, ma a buon fine, che coinvolse Orlando Polmonari, deportato in Germania come punizione per aver dato uno schiaffo a un ufficiale tedesco, ma quella più triste che coinvolge un altro Olimpionico della Palestra Ginnastica Ferrara: Gino Ravenna.

Gino Ravenna (Ferrara 1889-Auschwitz 1944) è stato uno dei 29 campioni della Palestra Ginnastica Ferrara incaricati di rappresentare l’Italia nel concorso generale di ginnastica artistica a squadre di Londra 1908. La PGF infatti, dopo aver vinto le selezioni nazionali, aveva ricevuto dalla FGI questo prestigioso compito, cogliendo nella città britannica un lusinghiero 6° posto con lodi per il metodo dimostrato, e gli atleti furono riabbracciati dalla Città di Ferrara con ogni onore al loro rientro in patria.

La passione sportiva caratterizzò tutta la vita di Gino che, rientrato dalla I Guerra Mondiale, si dedicò al commercio. Tutta la famiglia Ravenna era conosciuta a Ferrara e uno dei 5 fratelli di Gino, Renzo (anche lui, da giovane, Palestrino), fu Podestà di Ferrara dal ’26 al ’38, uno dei due soli podestà fascisti di origini ebraiche in Italia prima dell’introduzione delle leggi razziali. A parte la rinuncia alla carica del fratello, le leggi razziali non causarono troppi problemi per l’attività commerciale e nemmeno nei rapporti sociali, benché anche Gino fosse stato escluso, come tutti, da associazioni, circoli e, naturalmente, dal partito fascista. La svolta fu invece rappresentata, come per la quasi totalità degli Ebrei italiani, con l’8 settembre 1943. Dapprima Gino si rifugiò ad Albarea per continuare a dirigere da lì l’attività, ma l’arresto del figlio Gegio l’8 ottobre fece precipitare gli eventi. Dopo aver provato invano di farlo scarcerare, la famiglia tentò la fuga in Svizzera ma, arrestati a Domodossola, finirono prima nel carcere di via Piangipane, per poi essere condotti, l’11 febbraio 1944, al Tempio di via Mazzini 95, trasformato in campo di concentramento provvisorio per pochi giorni, in attesa che il nuovo rastrellamento degli ebrei ferraresi si tramutasse nel trasferimento a Fossoli. La permanenza nel campo modenese fu breve e la storia diventa tristemente uguale a quella di altre migliaia di persone: il viaggio, durato quattro giorni (dal 22 al 26 febbraio), per Auschwitz e gli eventi che portarono alla morte di quasi tutta la famiglia di Gino: si salvò infatti solo il figlio Gegio, liberato dai russi il 27 gennaio 1945.

È da Gegio quindi che si apprendono i fatti successi in Polonia, pochi per la verità, dove, quello che fu un Olimpionico acclamato per la gloria portata al nostro paese, fu trasformato in un numero, il 174.541. Gino si era salvato dalla prima “selezione” ed era riuscito a rimanere accanto al figlio, aveva lavorato per un mese e mezzo circa, fino a quando le forze lo avevano assistito. Per alcuni giorni rimase nella baracca ma al terzo giorno Gegio non lo trovò più. Un deportato che parlava italiano gli riferì che da poco Gino era stato prelevato. Prima di lasciare la baracca gli aveva raccomandato di dire al figlio che lo salutava e “di tener duro”. Solo che in quel terzo giorno il camino aveva ricominciato a fumare.

Nella foto in copertina la cartolina del “Trionfale ritorno da Londa 1908 della Palestra Ginnastica Ferrara” . Sopra, l’ingresso della Sinagoga di Via Mazzini con la lapide commemorativa di quanti non fecero ritorno, con Gino e gli altri membri della famiglia Ravenna.

Questo breve racconto è stato reso possibile grazie alla documentazione fornita dal nipote Michele Ravenna, ricostruito da varie fonti ed in particolar modo il libro La Famiglia Ravenna: 1943-1945 di Paolo Ravenna, Ferrara, Corbo Editore.

“Son Ebreo ed ebreo rimarrò…”, una poesia scritta da František Bass, piccolo-grande poeta, quando aveva 11 anni, nel campo di Terezin

di Maria Cristina Nascosi

Son Ebreo… è una poesia scritta da František Bass, piccolo-grande poeta, quando aveva 11 anni, in campo di concentramento.

Era nato il 4 settembre 1930, a Brno, oggi seconda città dopo Praga, della Repubblica Ceca e capitale storica dell’antica e cólta regione della Moravia.
Fu veramente un picco-grande poeta: le sue liriche, tradotte in inglese da Edith Pargeretova, son opere di spessore incredibile; il dolore, la sofferenza, specie in un bambino, son esperienze che maturano, rendono adulti anzitempo e Franta – questo vezzeggiativo fu il suo pseudonimo autoriale – le fermò, per sempre, sulla pagina scritta, piccoli capolavori di umanità negata da una delle più atroci prove che l’uomo abbia fatto subire ad un ‘altro’ uomo.
Franta fu condotto a Terezin, (Theresienstadt), il campo di concentramento dei bambini, il 2 dicembre 1941.
Quel campo, il ‘fiore all’occhiello’ di Hitler, fu il gioiello della sua mostruosa e sapiente propaganda: vi si giraron filmati, venivano fatte regolarmente visite da personaggi di spicco, per mostrare loro che il nazismo creava talenti, esprimeva cultura, non morte: in realtà i bimbi venivano poi uccisi – ne furono internati 15.000, si salvarono in 100 !! – prima del compimento del quattordicesimo anno di età.
Ecco perché il piccolo Franta, che ormai aveva oltrepassato, seppur da poco quell’età fatidica, venne condotto ad Auschwitz il 28 ottobre 1944 dove morì dopo soli 2 giorni, otto mesi prima della fine del Secondo conflitto mondiale.
La sua poesia è conservata in una bacheca di vetro nella Sinagoga vecchia di Praga, una delle culle della civiltà mitteleuropea, la capitale della Repubblica Ceca che qualche tempo fa, durante un viaggio, ebbi modo di leggere, per caso.
Mi colpii tanto e volli tradurla per proporla proprio per il Giorno della Memoria di quest’anno.
Grande è il potere di quelle parole, che si potrebbero trasporre in ogni lingua e dialetto del mondo: dietro ognuna di esse, frutto di orgogliosa identità da difendere dalla criminale damnatio memoriae, ci sono un significante ed un significato dal sapore universale.

 

František Franta Bass

Son Ebreo

Son Ebreo ed Ebreo rimarrò.
Anche se morissi di fame,
mai mi sottometterei ad alcuna nazione,
combatterò sempre
per la mia nazione, sul mio onore.
Non mi vergognerò mai
della mia nazione, sul mio onore.
Son fiero della mia nazione,
una nazione più che mai degna d’onore.
Sempre sarò oppresso,
e ancora rivivrò, per sempre.

Ricordare tutte le vittime per rimanere liberi

Giornata della memoria il 27 gennaio: quel giorno nel 1945 è liberato il campo di concentramento di Auschwitz, estrema conseguenza di un pensiero di morte, coerentemente teso fino al genocidio.
In Israele c’è un giorno dedicato, Yom HaShoah, sempre il 27, ma del giorno di Nissan. Per la differenza con il nostro calendario cade in aprile o nei primi giorni di maggio. Si era pensato al 15 di Nissan (rivolta di Varsavia 19 aprile 1943) scartato perché coincidente con l’inizio delle festività pasquali. La giornata internazionale – senza nulla togliere alla straordinarietà della Shoah – è dunque memoria di ogni sterminio.

Importante la ricorrenza in questo periodo in cui più evidenti si fanno tendenze naziste, anche nel nostro Paese. Da tempo le indica Giuliano Pontara, amico della nonviolenza (e mio) e massimo conoscitore di Gandhi. Così, più o meno, le riassume: Mondo, teatro di una spietata lotta per la supremazia; Diritto assoluto del più forte, Politica libera da ogni vincolo morale Suprematismo, Disprezzo per il debole, Violenza glorificata, Obbedienza assoluta, Dogmatismo fanatico. Importante è nel nostro Paese dove il fascismo, padre del nazismo, ha avuto origine. Circostanza dimenticata o sottovalutata, magari accompagnata dal richiamo al vasto sostegno popolare conseguito dal regime. Come se questo non comportasse, proprio perciò, maggiore attenzione alla situazione che si profila. Intanto il dannunziano Vittorio Sgarbi, molto ascoltato dagli amministratori di Ferrara, propone una mostra e l’intitolazione di una strada o piazza in onore di Italo Balbo, squadrista e quadrumviro. Non mi pare fuori luogo pensare a quando il fascismo ha mosso i propri sanguinosi passi, anche nella mia città, giusto cento anni fa.

Nella documentata “Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia”, pubblicata nel giugno del 1921, trovo a Ferrara, nel solo mese di gennaio: il 3 Alfredo Brugnoli è aggredito e bastonato da una trentina di fascisti; il 10 è la volta di Alfredo Brugnoli (che ho ben conosciuto) salvato dall’intervento di compagni e, per una volta, dalle forze dell’ordine; il 18 a Gaibanella squadristi bastonano operai che cantano inni proletari; sempre il 18 aggressione a Giacomo Matteotti, tafferugli tra fascisti e socialisti e socialisti arrestati; il 19 un fornaio che canta Bandiera Rossa è fatto segno di revolverate e ferito a una gamba, il vice commissario perquisisce lui e i suoi compagni. fornai pure loro, nessuno è armato, nessuna ricerca dei responsabili malgrado le indicazioni; il 20 l’assessore comunale Autunno Ravà è insultato e provocato, l’intervento di numerosi compagni evita il peggio; sempre il 20 Matteotti uscendo dall’ospedale, dove ha fatto visita a un operaio ferito, è aggredito a sassate, che colpiscono non lui ma operai accorsi; ancora il 20 a San Martino bastonatura del capo lega; il 23 sempre a San Martino ferito da una revolverata il compagno Fioravante Bernagozzi; ancora il 23 a Cona squadristi assaltano la Camera del Lavoro con scambio di revolverate e due fascisti feriti, i carabinieri arrestano 15 leghisti; il 24, giorno successivo, i fascisti tornano a Cona e incendiano la Lega; sempre il 24 incendiano pure la Lega di San Martino; ancora il 24 a Denore sono feriti cinque operai a revolverate, due gravemente; il 26 è incendiata nella notte la Lega di Fossanova; ancora il 26, nella tarda serata, a Cona una bomba è scagliata contro il Sindacato operaio. Poi sarà peggio, fino alla Marcia su Roma.

Così Matteotti, su  La Lotta di Rovigo del 7 gennaio 1922, commemora i trucidati antifascisti del vicino Polesine: Giù il cappello, signori della borghesia! Sono i nostri poveri compagni che vi guardavano, signori della borghesia! Giù il cappello, e guardateli pur voi questi poveri, che senza odio vissero e nell’angoscia della morte non seppero odiare. Questa è la pagina del ricordo e il ricordo nella nostra umana dottrina è sinonimo di amore. Noi ricordiamo i morti per amore dei vivi, non per odio ai carnefici. Se i morti ci lasciarono un pegno, esso fu di spargere il bene per quelli che rimangono.
Signori della borghesia, guardate i nostri morti! Li uccideste voi, ma sono nostri, guardateli e, se potete, dalla luce dei loro occhi imparate ad amare, ma non li toccate. Essi furono uccisi da voi; ma noi li seppelliremo. Voi apriste le fosse, noi le ricopriremo di fiori; perché li uccideste? Furono uccisi perché vollero essere fra i primi a dire la parola dell’unione, della buona battaglia incruenta in nome dell’Ideale. Furono uccisi, perché alzarono il capo dalla terra e guardarono in faccia il signore. Perché dissero: «Siamo legati alla gleba che amiamo, ma non siamo servi del nostro simile». Non per altra ragione ebbero il cuore trafitto, il cranio spezzato, le povere carni martoriate.
Ognuno cadde presso la sua casa, perché una macchia di sangue restasse sulla soglia e creasse, non il vendicatore, ma il figlio della vittima, ma il successore al posto di combattimento lasciato vuoto dal padre. Ogni vittima è di un paese diverso, perché ogni paese aveva fatto la sua battaglia e perché ogni paese avesse il suo martire. Così vollero i signori della borghesia, per punizione del servo che volle essere uomo e non pensarono che la loro bieca volontà crea uomini d’acciaio.
Dormite in pace, morti gloriosi! Nessuno vi tocca. Altri morti girano per le contrade del Polesine e d’Italia in attesa d’essere vivi. Risorgete in ispirito con loro. Se apriste, gli occhi, non vedreste che rovine. Tante rovine! Lasciate che vi liberiamo le sedi ove parlaste, che vi liberiamo la terra ove lavoraste. I morti che girano, vi ripetiamo, stanno per lasciare la veste del lugubre silenzio, attendete!
Voi non odiaste: amaste soltanto. Vi sarà resa tutta la libertà, tutto l’amore. Non per voi, non per i vostri corpi mortali, ma per il vostro spirito vivente nelle vostre creature.
Giù il cappello, se volete che i figli dei morti partiscano in un’era migliore, coi vostri figli, il pane del lavoro.

L’invito va accolto, anche ora, da chi trae profitto dalla violenza passata e presente e dalla profonda diseguaglianza economica e sociale. La diseguaglianza è alla base – lo ricorda sempre Pontara – del malessere della società, che giunge fino alla barbarie nazista. I privilegiati trovano sempre volonterosi scellerati al loro servizio. La maggioranza volta la testa per non vedere, sperando di non essere vittima. Poi si unisce ai plaudenti. Una presa di coscienza, il rispetto alle vittime sono dunque preliminari alla costruzione di un percorso di liberazione. Verità e riconciliazione è la lezione che si viene dal Sudafrica. Intanto bisogna sapere opporsi in tempo. Nella notte dei cristalli, 9-10 novembre 1938, 267 sinagoghe furono distrutte, non quella di Schiederwindt. Fece scudo con il proprio corpo il Presidente della Provincia. Di fronte alla sua decisione le squadre d’assalto si ritirarono.

Questo articolo è recentemente apparso sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

In copertina: i funerali di Giacomo Matteotti (wikimedia commons)

Vite di carta /
27 gennaio 2021: giornata della memoria

Vite di carta. 27 gennaio 2021: giornata della memoria

Di mercoledì cade in questo 2021 la giornata della memoria. Ai primi di gennaio scrivo diligentemente sul nuovo calendario da appendere in cucina le date notevoli, che vanno rispettate nel nuovo anno. Scrivo le ricorrenze familiari, a partire dai compleanni di chi non c’è più, fino a quelli dei più piccoli, i due nipotini così pieni di futuro. Scrivo le date di qualche visita medica già fissata, o incontri programmati con gli amici, pochi in verità in tempo di Covid. La giornata del 27 gennaio non ha bisogno di essere scritta, è un riferimento fisso e ineludibile. Da insegnante l’ho onorata con le attività da fare a scuola insieme ai ragazzi, come le maratone di lettura che occupavano tutta la mattina nell’atrio grande della scuola. Bisognava iscriversi per tempo per non restare esclusi, si cercavano testi e immagini da condividere. Alcuni si schermivano, ma la più parte degli studenti voleva leggere davanti agli altri anche solo poche righe.

Quest’anno da neopensionata rileggo alcuni testi su cui ho già lavorato, col gusto di ricordare il già fatto e di lasciare altri segni a matita sulle pagine, di impadronirmi di alcuni frammenti in totale libertà di movimento,  senza la bussola della didattica.

Apro Vanadio, il penultimo dei racconti compresi nella raccolta Il sistema periodico uscita nel 1975. Herr Müller risponde cortesemente che una piccola dose di vanadio può facilitare la reazione chimica sperata per le vernici, perché riescano di buona qualità. La sua lettera è la prima di una serie con cui risponde a un chimico italiano di lunga esperienza, persona cortese a sua volta e dotata di grande competenza. Il suo nome è Primo Levi. Ha cominciato lui lo scambio epistolare per segnalare che sembra difettosa una partita di resina fatta venire dalla Germania, dalla prestigiosa fabbrica in cui Herr Müller lavora.

Dalla risposta che ha ricevuto, Levi si accorge che il suo corrispondente tedesco fa un errore di ortografia, scrive Naptylamin anziché Naphthylamin. Anche quel Doktor Müller che veniva spesso a fare ispezione al laboratorio chimico del lager aveva questo vezzo. Era un borghese, dall’aspetto corpulento e autorevole, che controllava il lavoro fatto da Primo e dagli altri due prigionieri specialisti in chimica.

Nelle lettere che seguono avviene lo svelamento: da un ‘pt’ sbagliato esplode la memoria del passato, che in Primo è rimasta intatta, “di una precisione patologica”. Primo manda a Herr Müller il suo libro sul lager, Se questo è un uomo; chiede se Müller conosceva allora gli “impianti” di Auschwitz: non può non andare a fondo nel dialogo che si è riaperto dopo tanti anni – siamo nel 1967 –  “con uno di quelli di laggiù, che avevano disposto di noi, che non ci avevano guardati negli occhi, come se noi non avessimo avuto occhi”.

Nella sua risposta il tedesco dice di deplorare i fatti di Auschwitz, dice di esserci stato per poco tempo e di essersi occupato solo dell’attività del laboratorio. Si è riletto le annotazioni prese a quel tempo e vorrebbe incontrare Primo, di cui ha mantenuto un ricordo speciale. A Primo aveva procurato allora un paio di scarpe, e ora dice di avere provato empatia per lui durante le brevi visite in lager.

Trascrivo le parole di Levi, insostituibili: “Forse, in buona fede, si era costruito un passato di comodo…Durante il suo breve soggiorno ad Auschwitz ‘non era mai venuto a conoscenza di alcun elemento che sembrasse inteso all’uccisione degli ebrei’. Paradossale, offensivo, ma non da escludersi: a quel tempo, presso la maggioranza silenziosa tedesca, era tecnica comune cercare di sapere quante meno cose fosse possibile, e perciò non porre domande… Müller continuava dunque, nel momento in cui scriveva, a non avere ‘keine Ahnung’, a non rendersi conto”.

Quando Primo si accinge a rispondergli, è pieno di perplessità e intende scrivere che non vuole incontrarlo. Può provare rispetto per lui, perché in fondo ha condannato il nazismo, seppure timidamente, non ha cercato giustificazioni, ma non può amarlo né desiderare di rivederlo. Nessuna redenzione dal passato, nessuna distorsione. Il racconto si chiude con la notizia della morte improvvisa del Dottor Lothar Müller, che pone fine a qualunque iniziativa di incontro tra i due.

Dalla raccolta La notte sul mondo (Auschwitz dopo Auschwitz) del mio caro amico Roberto Dall’Olio leggo la poesia dedicata ad Anne Frank, alcuni versi sono particolarmente belli: “non si poteva camminare/nel tuo nascondiglio/se non nelle ore stabilite/la stessa tua casa/oggi calcata da tante scarpe/da tante gambe volti lingue/e folla che omaggio ti reca/avessi tu avuta questa libertà/tenera e dovuta”. La poesia si riferisce al nascondiglio, in cui Anne e la sua famiglia sono stati rifugiati per 761 giorni nel centro di Amsterdam, tra il luglio del 1942 e l’agosto del 1944.

La stanza, in cui Anne ha trascorso il tempo della sua scrittura e dove si è formato il suo celebre Diario, l’ho vista ricostruita in un bellissimo documentario trasmesso da Rai1 sabato scorso, per la regia di Anna Migotto e Sabina Fedeli: Anne Frank. Vite parallele. Dentro la stanza si muove l’attrice Helen Mirren, che ora osserva le pareti e le suppellettili, ora siede e prende tra le mani il diario a scacchi rossi di Anne. Legge le pagine della adolescente che è divenuta il simbolo della Shoah. Intanto si incrociano a questa altre storie di donne che hanno vissuto la deportazione nel lager nazisti, ma sono sopravvissute. Quando appaiono sul video si rivelano anziane donne dall’aspetto curato. Sono i ricordi che liberano guardando la cinepresa a tradire un passato straziante, che non è normale e non è umano. Come è stata la loro vita dopo il lager? Dopo una faticosa rielaborazione del passato, dei sensi di colpa per essere rimaste in vita, si sono poste come testimoni instancabili della shoah. Non ne ricordo il nome, ma ho negli occhi la camminata lenta di una di loro, che ogni settimana fa visita al campo di Terezin. Mentre varca l’ingresso principale vacilla lievemente e si appoggia allo stipite prima di riprendere a muoversi, ha 93 anni e indossa un cappotto pesante contro il gelo di questi mesi invernali. Credo che così facendo compia ancora oggi, così vecchia e stanca, il dovere di ricordare e far ricordare ciò che è stato.

Un breve flash dai telegiornali visti in queste settimane mi riporta la figura di Liliana Segre, che a 90 anni occupa la sua poltrona in Senato. Ha affrontato un lungo viaggio in treno per essere presente e per sostenere col suo voto e col suo profondo senso civico il Governo in questa fase delicata e confusa. La bella faccia di Sami Modiano è comparsa domenica sera su Rai3 durante una intervista a Walter Veltroni, che ha scritto la storia di questo “bambino che tornò da Auschwitz” dal titolo Tana libera tutti appena uscito presso Feltrinelli.

Segre e Modiano sono qui. Come sarebbe stata la vita di Anne Frank se fosse sopravvissuta al lager di Bergen-Belsen, dove invece morì nel febbraio del 1945? Il documentario su di lei e sulle altre cinque sopravvissute pone questa domanda. Una tra le risposte possibili, forse la migliore risposta viene da Katarina, una adolescente di oggi, che nel filmato percorre a ritroso le tappe di quella storia di morte, incontra le testimoni della Shoah e finalmente approda ad Amsterdam alla casa di Anne, alla stanza dove Helen Mirren ha finito la lettura del diario ed esce lasciandole il posto. Scrivere un proprio diario di viaggio attraverso hashtag e sms, entrare nella stanza di Anne Frank è un bel modo di ricordarla.

Anche i ragazzi che Roberto Dall’Olio ha accompagnato al campo di Auschwitz hanno fatto un lungo viaggio; dalle parole finali della prima poesia della raccolta, Auschwitz la prima volta, comprendo che è stato soprattutto un viaggio dentro loro stessi: “schnell schnell juden /siamo in fila/per visitare l’inferno/perché tutto questo? Perché/questo epocale inverno?”

I testi a cui faccio riferimento nel testo sono:

  • Primo Levi, Il sistema periodico, Einaudi, 1975
  • Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, 1958
  • Roberto Dall’Olio, La notte sul mondo (Auschwitz dopo Auschwitz), Mobydick, 2011
  • Walter Veltroni, Tana libera tutti, Feltrinelli, 2021

 

In copertina: particolare di Le foglie cadute di Menashe Kadishman, in mostra permanente al Museo Ebraico di Berlino.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

Le scarpette rosse di Joyce Lussu
Una poesia sulla Shoah

La tragedia della Shoah ha toccato il cuore di moltissimi poeti e autori e quindi sono innumerevoli le poesie e i testi dedicati allo sterminio ebraico. La sottoscritta, negli ultimi anni, soprattutto su questa testata giornalistica, ha pubblicato decine di articoli sugli ebrei e sulla Shoah e, per non ripetermi, quest’anno la mia scelta è caduta sulla struggente e veritiera poesia della scrittrice Joyce Lussu, datata 1944: non esiste nulla di più emozionante e terribile, nella Giornata del Ricordo della Shoah, per non dimenticare. Sì, perché non si può dimenticare lo sterminio di oltre un milione e mezzo di bambini. Un bambino di soli tre anni e mezzo a Buchenwald, con il numero ventiquattro di scarpe, che non potrà più indossare le sue scarpette rosse, praticamente nuove. Lui non sapeva nemmeno cosa significasse essere ebreo, come tutti i bambini nei campi di sterminio. La demenziale politica nazista nei confronti dei bambini fu ancor più crudele e devastante poiché erano proprio i bambini i primi ad essere eliminati.

C’è un paio di scarpette rosse 

C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede
ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”

C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio
di scarpette infantili
a Buchenwald.
Più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
di ciocche nere e castane a Buchenwald.
Servivano per fare coperte per i soldati.
Non si sprecava nulla
e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas.

C’è un paio di scarpette rosse
di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald.
Erano di un bimbo di tre anni, forse di tre anni e mezzo.
Chi sa di che colore erano gli occhi bruciati nei forni,
ma il suo pianto lo possiamo immaginare,
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini
li possiamo immaginare.
Scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti
non crescono.

C’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald,
quasi nuove,
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole…

Esisterà mai una Giornata della Memoria senza atti di antisemitismo, dichiarazioni deliranti a carico di certi personaggi, senza dimenticare i patetici negazionisti? Purtroppo la cronaca ne è piena, dandoci la dimostrazione che la macchina della menzogna e dell’odio verso le diversità è ancora troppo potente. Gli odiatori del popolo ebraico vanno considerati degli Ignorantoni con la i maiuscola, come gli autori della lettera anonima di carattere antisemita recapitata giorni fa al Meis (Museo Ebraismo e della Shoah) di Ferrara a dimostrazione che non è vero che nella nostra città non succede mai niente…

“Coro dei superstiti”:
una poesia di Nelly Sachs 

Coro dei superstiti 

Noi superstiti
dalle cui ossa la morte ha già intagliato i suoi flauti,
sui cui tendini ha già passato il suo archetto –
I nostri corpi ancora si lamentano
col loro canto mozzato.
Noi superstiti
davanti a noi, nell’aria azzurra,
pendono ancora i lacci attorti per i nostri colli –
le clessidre si riempiono ancora con il nostro sangue.
Noi superstiti,
ancora divorati dai vermi dell’angoscia –
la nostra stella è sepolta nella polvere.
Noi superstiti
vi preghiamo:
mostrateci lentamente il vostro sole.
Guidateci piano di stella in stella.
Fateci di nuovo imparare la vita.
Altrimenti il canto di un uccello,
il secchio che si colma alla fontana
potrebbero far prorompere il dolore
a stento sigillato
e farci schiumar via –
Vi preghiamo:
non mostrateci ancora un cane che morde
potrebbe darsi, potrebbe darsi
che ci disfiamo in polvere
davanti ai vostri occhi.
Ma cosa tiene unita la nostra trama?
Noi, ormai senza respiro,
la nostra anima è volata a Lui alla mezzanotte
molto prima che il nostro corpo si salvasse
nell’arca dell’istante –
Noi superstiti,
stringiamo la vostra mano,
riconosciamo i vostri occhi –
ma solo l’addio ci tiene ancora uniti,
l’addio nella polvere
ci tiene uniti a voi. 

Nelly Sachs (1890 – 1970)*
(Traduzione di Ida Porena)

Tratto da: Nelle dimore della morte, in Al di là della polvere”, Torino, Einaudi, 1966

La memoria necessaria

Shemà 

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa.
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Primo Levi (1919 – 1987)

Ritratto della famiglia Levi, gennaio 1927 (Wikipedia Commons)

Vehuda Amichai

Dopo Auschwitz non c’è teologia:
dai camini del Vaticano si leva fumo bianco,
segno che i cardinali hanno eletto il papa.
Dalle fornaci di Auschwitz si leva fumo nero,
segno che gli dei non hanno ancora deciso di eleggere
il popolo eletto.
Dopo Auschwitz non c’è teologia:
le cifre sugli avambracci dei prigionieri dello sterminio
sono i numeri telefonici di Dio
da cui non c’è risposta
e ora, a uno a uno, non sono più collegati.
Dopo Auschwitz c’è una nuova teologia:
gli ebrei morti nella Shoah
somigliano adesso al loro Dio
che non ha immagine corporea né corpo:
Essi non hanno immagine corporea né corpo.
Paul Celan (1920 – 1970)

Paul Celan con Petre Solomon, Bucarest 1947 (wikimedia commons)

VIDEO DELLA SENATRICE A VITA LILIANA SEGRE AL PARLAMENTO EUROPEO

 

In copertina:Treno al Binario 21 nel Memoriale della Shoah di Milano (Wikimedia Commons) 

LO STRISCIONE PER GIULIO REGENI:
un mezzo risarcimento, ma meglio tardi che mai

Oggi è il 25 gennaio del 2021. Sono passati esattamente 5 anni dal rapimento, dalle torture e dalla morte di Giulio Regeni. La verità che la famiglia e tutti gli italiani chiedono non è ancora venuta fuori. Colpa dell’Egitto, ma non solo. L’Egitto è un partner commerciale troppo importante (deve acquistare soprattutto aerei italiani) e, per compiacerlo, il governo italiano si guarda bene dal ritirare il proprio ambasciatore a Il Cairo.
Intanto, da 5 anni, sul palazzo comunale di tantissime città italiane rimane appeso lo striscione giallo di Amnesty International per chiedere la verità sulla morte di Giulio Regeni.
Fino a un anno e mezzo fa a Ferrara lo striscione giallo è rimasto lungo lo scalone del municipio, quando una notte è stato rimosso con un atto vandalico di matrice fascista. In tutto questi mesi si sono moltiplicate le voci di gruppi, associazioni, organi di stampa – anche questo giornale – per chiedere al nuovo Sindaco leghista Alan Fabbri  di ripristinarlo nella medesima posizione. Giunta e Sindaco hanno continuato a fare orecchie da mercante e avanzare scuse risibili.
Solo oggi, dopo più di  500 giorni, lo striscione è stato ripristinato, anche se collocarlo su Palazzo Paradiso appare un risarcimento a metà, perché appeso sul palazzo sede del Comune aveva un valore simbolico diverso e più alto. Bentornato comunque, meglio tardi che mai, senza quello striscione Ferrara era un po’ orfana: oggi, esattamente come cinque anni fa, vogliamo la VERITA’ PER GIULIO REGENI.

In copertina: lo striscione per Giulio Regeni appeso sulla facciata di Palazzo Paradiso, sede della Biblioteca Ariostea – foto di Beniamino Marino

DIARIO IN PUBBLICO
Fragilità, parola mistificata

Nei pochi oggetti di qualità che ornavano la nostra casa un tempo spiccavano alcuni vasi antichi e soprattutto dei piccoli bassorilievi in terracotta. Bambino curioso come pochi mi compiacevo di maneggiarli o di giocarci. Scattava allora l’ammonizione di nonna o di mamma: “Nanin, stai attento che son fragili!”, con immediato ritiro dell’oggetto.

Ora mi ritrovo ‘fragile’ come quegli oggetti e la reazione è rabbiosa perché, purtroppo, da filologo e/o italianista non sopporto più l’abuso stomachevole di alcune parole-simbolo che invadono ogni piega pubblica e privata dell’esserci. E mi viene da imprecare sia contro la seria ammonizione degli scienziati che masticano la parola ‘fragile’ come fosse un biscottino e le infinite interpretazioni che i poco informati speakers o pseudo giornalisti o attori o comparse in tv, sui social, e via enumerando danno di questa parolaccia. E ripensando al senso della parola di fronte, allo svenevole slogan filmato da Tornatore, sorge altissimo l’inno di guerra che incita a dire “Fragil, to nona! Che per i non ferraresi significa Fragile! Un c….o”.

Siamo di fronte al peggio, anche rispetto all’ ‘assolutamente sì/no‘, che ormai viene usato anche nei privatissimi bagni di casa nostra. Travolti dalle ‘problematiche/tematiche’ e dagli imprestiti da lingue straniere (ah, i lockdown!) mi aggiro spaesato nella selva dei segni oscuri e trovo pace nel leggere non solo prosa ma anche poesia.

Forse avrò qualche risposta alla mia domanda, ma non l’ho ancora incontrata oltre la “canna pensante” di Pascal: “L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante”. O questo splendido pensiero di Michelangelo:”Desti a me quest’anima divina e poi la imprigionasti in un corpo debole e fragile, com’è triste viverci dentro”.
Quindi, Illustrissimi, datevi una mossa e smettetela di usare in modo coatto e cretino le parole! Quelle sì sono fragili; più degli oggetti della mia infanzia.

Stiamo per uscire anche dal tormentone provocato dall’assunzione di Ovadia e dalle dimissioni del presidente Resca e del CdA del Teatro Comunale di Ferrara. Per fortuna! A mio piccolo avviso l’unico che ne esce con onore è un membro del dimissionario Cda: Massimo Acanfora Torrefranca. Ne dirò, forse, le ragioni in altro momento. Ora a un non-fragile vecchio, Pier Luigi Pizzi, 91 anni, è stata affidata la Presidenza del Teatro comunale.

Intanto godo come un riccio ad apprendere la nomina di Procida a capitale della cultura. Chi ha letto qualche volta i miei trascorsi letterari forse ricorderà la descrizione dell’isola incantata. E prepotente mi ritorna in mente la raccomandazione che l’Amatissima mi fece dal letto dell’ospedale mentre la salutavo partendo per gli USA: “Gianni, se andrai ancora sulla nostra isola porta un rametto di gelsomino con te e mettilo nella mia casa”. Procida è per me tra i pochissimi luoghi che hanno una valenza, legata soprattutto alla universalità della poesia. E chi vi ha abitato non può che rendersene conto. Così salendo verso la fortezza dei d’Avalos potevi incontrare Beppe Barra, o sua madre e se eri particolarmente fortunato, Elsa con i suoi amici.

Di questa consapevolezza è ora testimone diretto un ricco volume, il n.18, 2020 della rivista Contemporanea, pubblicato sia online che in cartaceo da Fabrizio Serra editore. Il mio paziente e straordinario tecnico (san) Lorenzo Caruso sta cercando di recuperare tutte le testimonianze che affidai al computer del mio soggiorno procidano. Spero che riaffiorino. Semmai sarà la memoria che comincerà il lavoro di riappropriazione del passato e che, se le forze mi sosterranno, sarà l’ultimo atto d’amore per Elsa.

E’ notte. Ho appena visto il film Anne Frank. Vite parallele. Di grande qualità e necessità. Basterebbe solo vedere come Helen Mirren legga le pagine del Diario di Anne, i movimenti della bocca, l’espressione degli occhi per capire che la memoria va preservata e affidata all’arte affinché quest’ultima possa codificarne l’universalità e la necessità.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Per la Giornata della memoria
“L’ebrea! Io, Liliana, ho scelto la vita”
Reading al Microfestival delle storie

Dalle dichiarazioni e dai racconti di Liliana Segre, nasce il reading teatrale, curato dall’associazione Orizzonte degli eventi, L’ebrea! Io, Liliana, ho scelto la vita. Il Microfestival delle storie, in collaborazione con l’associazione no profit, propone per la Giornata della memoria una videotestimonianza in cui viene data voce a quanto vissuto dall’onorevole Segre negli anni della deportazione. Il video sarà trasmesso il 30 gennaio alle 21 sulla pagina facebook del Microfestival delle storie e di Ferraraitalia [Qui] , La proiezione sarà introdotta dal vicesindaco Consuelo Pavani e da Marco Mucci di Orizzonte degli eventi.

Scheda tecnica dello spettacolo a cura di Orizzonte degli eventi

I testi che abbiamo selezionato, tratti dalle dichiarazioni e dai racconti dell’onorevole Segre, formano un corpo teatrale di circa un’ora, in cui quattro donne si avvicendano nel raccontare il percorso della Liliana ragazza, prima, durante e subito dopo i rastrellamenti e la detenzione nei campi di concentramento nazisti. In scena sono presenti anche una quinta voce narratrice (che funge da congiunzione fra le varie interpretazioni) e una costante proiezione sul fondo, che è un’illustrazione di cosa significhi oggi la persecuzione etnica, e funge anche da illuminazione per una azione scenica abbastanza dinamica, ma raccolta. Lo stile narrativo è di impostazione moderna, abbiamo scelto di discostarci dalla lettura troppo drammatica e istituzionale, per fornire un racconto più caldo e vicino allo spettatore, che metta in risalto il dettaglio della memoria e fugga dagli schemi narrativi solitamente scelti per illustrare questo genere di argomenti, non solo per rispetto verso una memoria di cui noi non abbiamo una esperienza diretta, ma anche per avvicinare il documento di presentazione de L’ebrea! Io, Liliana, ho scelto la vita.
La videotestimonianza è diretta da Marco Mucci e Marco Barin, con Giorgia Forno, Rossana Vallese Turrato, Letizia Zambon, Rita Marchioni, Luana Volpe.

In copertina: Liliana Segre con il padre Alberto (Wikipedia commons)

SCHEI
Io ti banno (come la censura privata orienta il pubblico consenso)

Quando CNN e MSNBC hanno deciso di togliere la parola (staccando il collegamento) a Donald Trump, presidente Usa in carica ma perdente, che il 6 novembre 2020 farneticava in diretta televisiva degli inesistenti brogli di cui sarebbe stato vittima, di primo acchito ho esultato: ecco l’informazione libera che si ribella alle fake news, anche se è il tuo Capo di Stato a diffonderle. Poi, a botta fredda, ho iniziato a pensare a come fosse stato possibile che Trump, un uomo che aveva costruito tutta la sua comunicazione sulle fake news diffuse in buona parte attraverso i media, fosse riuscito a diventare il Presidente degli Stati Uniti a dispetto di tutta la “informazione libera”, in primis quella del suo paese. Meglio tardi che mai, si potrebbe dire, se lo scopo è smascherare le falsità di un potente. Temo però che sia legittima anche un’ altra lettura di questo evento: il potente viene bannato, ridicolizzato, censurato solo quando il suo potere sta crollando. Fino a quando è stabilmente sul trono, il teatro della comunicazione ammette il dissenso, ma non discute le fondamenta di cartapesta del Truman Show costruito dal potente. Invece, quando il potente annaspa, abbarbicato al trono che scricchiola, solo allora il mondo della comunicazione fa cadere i proiettori dal soffitto e fa sbrecciare il fondale del finto panorama marino, gli elementi della storia farlocca che il potente ha raccontato ai sudditi per diventare il sovrano. E allora però la sensazione di essere manipolati non diminuisce, ma aumenta.

Nemmeno George Orwell immaginava che alcune sue intuizioni sarebbero state tanto profetiche. Le sue simpatie socialiste e democratiche gli fecero scrivere, sia in termini giornalistici che letterari, parole seminali contro il totalitarismo di Stato, incarnato storicamente da quella Unione Sovietica parodiata ne “La fattoria degli animali”. Eppure, nemmeno il visionario Orwell di “1984” e del “Grande Fratello”  poteva immaginare che il controllo sociale e l’orientamento del consenso sarebbero passati nelle mani di privati, e che quei privati sarebbero diventati più potenti degli Stati sovrani.

Facebook è nato come una piazza virtuale tra universitari per dare i voti alle ragazze. Progressivamente è diventato il social media più influente e capillare del pianeta, e alla fine del giro è diventato il posto nel quale l’ analfabeta funzionale si forma la sua opinione e poi vota Trump, o Salvini o Meloni o Le Pen (sillogismo aristotelico: non tutti coloro che votano questi signori/e sono analfabeti funzionali, sia chiaro; però gli analfabeti funzionali che votano, votano questi signori/e). Come sia stato possibile che l’espansione planetaria di questo strumento abbia disegnato una parabola circolare, che sia stato utilizzato da tutti, compresi gli intellettuali e i geni del pianeta, per poi tornare come in un gioco dell’oca alla casella di partenza dell’ignoranza, Dio solo lo sa (oltre a Zuckerberg). Con la differenza che un social “ignorante” usato da studenti universitari potrebbe essere inteso come una operazione con un senso, seppur frivolo e goliardico, mentre quello che accade adesso sul social network più mainstream fa venire i brividi per l’assoluta inconsapevolezza della propria buaggine da parte di certi leoni da tastiera. Questo non significa che non eserciti un potere immenso sulla mente delle persone: tutto il contrario. Pensate a quanto tempo della vostra giornata “cazzeggiate” su Facebook, e pensate alla genialità totale, perversa, di chi ha intraveduto le potenzialità commerciali di questo strumento: una piazza in cui ognuno può dire la propria opinione, anche se “la propria opinione” non esiste, perchè l’organismo mononeuronale di turno non si è mai messo nelle condizioni di potersi formare una opinione, nonostante le illimitate possibilità attuali, se confrontate con l’analfabetismo di necessità dei nostri nonni o bisnonni. E questa è una responsabilità gravissima sia del soggetto, sia della scuola, sia della società della intermediazione culturale, risultata talmente irrilevante da consentire la proliferazione di questi ultracorpi, dei baccelli che anzichè provenire da un altro pianeta si autoreplicano in casa, doppiando idioti a ripetizione.

Come se, all’improvviso, questi gestori-loro-malgrado della democrazia diretta fossero stati travolti dal senso di colpa per aver consentito ai mostri di moltiplicarsi e diventare anche famosi (a mezzo di manifestazioni di odio razziale, sessuale, religioso, sociale, civile nonché idiozie terrapiattiste et simlia), Facebook Twitter e Instagram hanno iniziato a censurare contenuti e bannare pagine. Il risultato è talvolta paradossale (persino la pagina Facebook di Ferraraitalia è stata mandata negli spogliatoi per diverse settimane a causa di alcuni vocaboli, non offensivi nè turpi, contenuti in un articolo satirico su Sgarbi), talvolta inquietante. L’inquietudine nasce dal fatto che questi social network privati, che hanno raggiunto una diffusione enorme e veicolano “informazione” disintermediata a miliardi di esseri umani, moltissimi dei quali li utilizzano per formare lì la propria (sub)cultura, decidono ormai senza appello a chi dare e togliere la parola. L’autorevolezza e la pericolosità di questa facoltà dipendono entrambe dalla rilevanza sociale e mediatica di questi mezzi, che è divenuta smisurata. L’autorevolezza è, in qualche modo, autoconferita ma anche guadagnata “sul campo”: se un mezzo diventa così potente, il merito è di chi lo ha creato e gestito. La pericolosità è altissima: una società per azioni di private persone decide se dare, togliere o amplificare la voce di un pazzo o di un genio, di un fanatico o di un Nobel, di un genocida o di un Gandhi. Si dirà: è un mezzo privato, potranno decidere quello che può passare o non passare sui loro canali. Se non ti piace, esci e “cambia canale”. Inoltre: tanto lamentarsi dell’odio e dell’ignoranza che viaggiano sul web non può diventare lamentarsi anche del fatto che l’odio e l’ignoranza vengano rimossi dal web. Altrimenti siamo gente che si lamenta di tutto. Anche questo è un ragionamento con una sua coerenza. Tuttavia…

Tuttavia: adesso la censura su Facebook e Twitter sta attraversando un momento di popolarità politically correct, perchè la vittima è Trump (un Trump che ha perso le elezioni, e quindi il potere). Io però mi faccio una domanda: se domani l’algoritmo di Facebook diventasse razzista, come la metteremmo? Se la sua policy prevedesse all’improvviso che si può inneggiare alla mafia o addirittura veicolarne i messaggi e i contenuti, come la metteremmo? Se da domani fosse consentito ridicolizzare e bannare Trump, ma fosse vietato criticare Putin? A nessuno viene il sospetto che il neoprogressismo di queste policy private colpisca i potenti solo quando sono decaduti, finiti, detronizzati?

Trovo molto pericoloso che un Elon Musk o un Mark Zuckerberg possano decidere quali informazioni e opinioni possano circolare, e quali no. Intanto questi media sono diventati mille volte più influenti di una testata editoriale, ma a differenza di questa non sono imputabili per diffamazione, anche se intermediano calunnie – il che fa il paio con il fatto che fatturano mille volte il fatturato di un editore “tradizionale”, ma attualmente si possono permettere, con semplici escamotage, di non pagare le tasse. Ma soprattutto: e se la macchina del consenso e della censura spostasse la sua banda di oscillazione sulla base di impulsi squisitamente “commerciali”? Finché il cavallo è vincente, può dire qualunque enormità suprematista, nazionalista e razzista. Quando il cavallo è perdente, si chiudono quei profili che fino al giorno prima propagandavano teorie complottiste e folli nella più totale libertà.

Questo tipo di atteggiamento al mio naso non profuma di libertà e democrazia, ma puzza di opportunismo. Certo, nel mondo c’è un problema altrettanto grande, enorme e contrario: il fatto che in molti paesi retti da regimi totalitari (Turchia, Cina, Iran) l’accesso ai social network è pesantemente limitato, e i contenuti vengono impediti spesso ben prima di accedere all’analisi delle policy dei social. Tuttavia una questione ugualmente importante rimane aperta: se sia giusto lasciare la valutazione dei contenuti solo ed esclusivamente nelle mani di questi potentissimi neo-capitalisti della comunicazione liquida, che detengono oggi un potere di orientamento del consenso superiore a quello di uno Stato di stampo orwelliano.

 

PER CERTI VERSI
Galaverna

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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GALAVERNA

La magia
La fiaba
Della cauta immobilità
Del fascino ritmico
Dei rami ritti
Dell’erba surgelata
Della miscela
Di nebbia e cielo
Di quella china
Di gelo
Che ripassa
Le ansie dei bordi
I cancelli le reti
Forse lo Yeti
Le tane dei fiordi
Ricorda
Le tue caramelle
Di menta
E cioccolata fondente
È il solo profumo
Il tuo
Che si senta

PRESTO DI MATTINA
Aperuit illis sensum: se apri l’occhio del cuore, puoi vedere l’invisibile

ice un proverbio iraniano: «Se apri l’occhio del tuo cuore, potrai veder cose altrimenti invisibili».

Aperuit illis sensum. Come poco prima aveva fatto ad Emmaus apparendo a due di loro, anche a Gerusalemme Gesù risorto aprì il cuore dei discepoli, la loro mente, i loro occhi. Di più: riaprì loro il cammino del vangelo, rinvigorendo quella buona notizia nascosta come un seme nelle scritture sante, «nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». A quei discepoli turbati e dubbiosi nel cuore, ridonò un’esultanza indicibile, tanto che stentavano a credergli proprio per la gioia di quell’incontro. Quella stessa irrefrenabile gioia, che il vangelo riporta, contornava l’agire salvifico del Signore: come quella volta che in terra straniera, nella Galilea delle genti in pieno territorio delle dieci città (Decàpoli), egli guarì un sordomuto. Proprio come allora, sul punto di lasciare loro il suo Spirito, «guardando verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effatà”», cioè: «Apriti!». E subito anche agli Undici si aprirono loro gli orecchi, si sciolse il nodo della loro lingua perché a Pentecoste potessero comunicare a tutti il buon annuncio della sua passione, morte, risurrezione e del suo ritorno: il vangelo del suo amore.

Venne poi un uomo mandato da Dio il cui nome era Giovanni e, nei pochi anni del suo pontificato, aprì il cuore della gente alla gioia, sino a scardinare anche quello della Chiesa, quando aprendo solennemente il Concilio pronunciò il suo discorso dicendo: «Gaudet mater ecclesia, la santa madre chiesa gioisce, poiché, per singolare dono della Provvidenza divina, è sorto il giorno tanto desiderato in cui il concilio ecumenico Vaticano II qui, presso il sepolcro di san Pietro, solennemente si inizia con la protezione della Vergine santissima, nel giorno stesso in cui si celebra la sua divina maternità… Nell’esercizio quotidiano del nostro ministero pastorale ci feriscono talora l’orecchio suggestioni di persone, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura. Nei tempi moderni esse non vedono che prevaricazione e rovina; a noi sembra di dover dissentire da cotesti profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo. Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani, che, per opera degli uomini e per lo più al di là della loro stessa aspettativa, si volgono verso il compimento di disegni superiori e inattesi; e tutto, anche le umane avversità, dispone per il maggior bene della chiesa», (11 ottobre 1962).

Fu alcuni anni prima, il 25 gennaio 1959, nella basilica di San Paolo fuori le mura, ricorrendo la festa della vocazione/conversione dell’apostolo, in occasione della quale Giovanni XXIII aveva celebrato anche la messa di chiusura della “Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani” (18-25 gennaio), che il Papa rivelò l’intenzione di indire un concilio. Nello stesso giorno, un breve articolo di stampa diceva che il concilio voleva essere anche un invito alle comunità separate per la ricerca dell’unità. Un concilio, dunque, desiderato soprattutto per promuovere l’unità nella famiglia cristiana e umana, ritenendo come un dovere suo proprio «adoperarsi attivamente, perché si compia il grande mistero di quell’unità».

Aperuit illis sono pure le parole di apertura della lettera apostolica con cui Papa Francesco istituisce nella chiesa la “domenica” della parola di Dio, che cade, non a caso, in prossimità della Giornata di dialogo tra Ebrei e cattolici e della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Una scelta che intende segnare un ulteriore passo nel dialogo ebraico-cristiano ed ecumenico, facendo della Parola di Dio il cuore stesso di questo impegno, il progetto già scritto del cammino verso l’unità.

Scrive papa Francesco: «Aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,45). È uno degli ultimi gesti compiuti dal Signore risorto, prima della sua Ascensione. Appare ai discepoli mentre sono radunati insieme, spezza con loro il pane e apre le loro menti all’intelligenza delle Sacre Scritture. A quegli uomini impauriti e delusi rivela il senso del mistero pasquale: che cioè, secondo il progetto eterno del Padre, Gesù doveva patire e risuscitare dai morti per offrire la conversione e il perdono dei peccati (cfr Lc 24,26.46-47); e promette lo Spirito Santo che darà loro la forza di essere testimoni di questo Mistero di salvezza (cfr Lc 24,49). La relazione tra il Risorto, la comunità dei credenti e la Sacra Scrittura è estremamente vitale per la nostra identità. Senza il Signore che ci introduce è impossibile comprendere in profondità la Sacra Scrittura, ma è altrettanto vero il contrario: senza la Sacra Scrittura restano indecifrabili gli eventi della missione di Gesù e della sua Chiesa nel mondo».

Il “logo” della giornata è dato dalla raffigurazione di Gesù che si accompagna ai discepoli di Emmaus. È la Parola di Gesù che apre le scritture e traghetta i due discepoli dall’incredulità alla fede, dalla tristezza a un cuore ardente, dal trovarsi accompagnati a uno sconosciuto a un ritrovarsi familiari a lui, discepoli attorno alla sua mensa. Mi piace pensare che in quella celebrazione liturgica itinerante che fu la strada di Emmaus, prima alla mensa della parola e poi a quella del pane, Gesù fu per loro omileta: spiegò e interpretò loro (interpretabatur illis in omnibus scripturis) ciò che lo riguardava nello stile dell’omelia rabbinica, che consiste nell’intrecciare legami non scontati e spesso ancor meno evidenti, tra un testo e l’altro, tra un passo della scrittura ‘vicino’ che si sta leggendo e un altro testo ‘lontano’ ma vivo, che all’improvviso affiora alla memoria. O partendo da un salmo, per arrivare a un passo della Torah, e da questo ai profeti, o ad un altro salmo o dai profeti per arrivare ai salmi. Non è forse accaduto questo lungo la via al termine della quale i discepoli lo riconobbero allo spezzare il pane?

Scrive Alberto di Mello introducendo le letture dal midrash sui salmi: «Molto spesso, anzi di preferenza, poteva accadere che l’omelia sul brano settimanale scelto si aprisse proprio con un versetto dei salmi o degli altri scritti sapienziali. Per meglio dire: il testo dei Salmi “apriva” quello della Torà. L’“apertura”, nell’omelia rabbinica, non è semplicemente l’inizio, l’esordio dell’omelia, ma questa abitudine di illuminare un testo con un altro, un testo povero con un testo ricco, o anche viceversa, fino talora a inanellare tutta una serie di testi, a farne una collana, passando dalla Torà ai Profeti agli Scritti», (Un mondo di Grazia a cura di A Mello http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/un_mondo_di_grazia1.htm).

È la parola di Gesù che apre il senso delle scritture, e le scritture rivelano il senso del suo destino e della sua storia alla comprensione dei discepoli. Le parole della scrittura sono sempre aperte su Gesù e Gesù ne è l’esegeta, l’interprete e chiave di lettura. Esattamente come si canta nelle antifone e nella novena di Natale che ricalcano il testo di Isaia 22,22: «Chiave di Davide, e scettro della casa di Israele, che apri e nessuno chiude, chiudi e nessuno apre: vieni e fa uscire dal carcere il condannato, che siede nelle tenebre, e nell’ombra della morte». Un testo, quello d’Isaia, commentando il quale Antonio da Padova diceva nel sermone di Natale (§ 13): «Dice il Padre, per bocca di Isaia: “Porrò sulla sua spalla la chiave della casa di Davide”. La chiave è la croce di Cristo, con la quale egli ci ha aperto la porta del cielo».

Sulla stessa linea è il testo particolarmente suggestivo del monaco benedettino Ruperto di Deutz (1075- 1129), in cui egli sovrappone i gesti dello spezzare del pane eucaristico e dello spezzare il pane della Parola di Dio: «Gesù prese il libro e lo aprì, cioè ricevette da Dio tutta la Santa Scrittura per adempierla in se stesso… Il Signore Gesù dunque prese il pane delle Scritture nelle sue mani quando, incarnato secondo le Scritture, subì la passione e risuscitò; allora egli prese il pane nelle sue mani e rese grazie quando, adempiendo le Scritture, offrì se stesso al Padre in sacrificio di grazia e di verità» (In Jo VI). Come a dire che c’è una “presenza reale” di Cristo anche nella Parola di Dio, come del resto sostiene il Concilio nella Sacrosanctum Concilium: «il Cristo è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra Scrittura» (§ 7) e più avanti, afferma che attraverso la Bibbia «Dio parla al suo popolo, Cristo annunzia ancora il vangelo» (§ 33). La parola di Dio dona un’energia di grazia, una potenza interiore che è certamente misteriosa ma realissima: perché è il Cristo stesso nel suo Spirito che parla in noi.

Per questo, domani, la domenica della parola di Dio, ricorreremo un a segno per sottolinearne la centralità: l’intronizzazione del vangelo sulla cattedra, sul seggio di colui che presiederà la celebrazione. Il primato, nella celebrazione, spetta al Cristo, unico Signore e maestro della sua comunità convocata tramite la sua Parola.

Nella storia ecclesiastica raccontata da Teodoreto di Cirro, riferendosi alla chiesa di Antiochia degli anni di poco antecedenti al concilio costantinopolitano del 381, che avrebbe riconfermato il concilio niceno circa la questione trinitaria, egli ci riferisce di una chiesa antiochena ancora lacerata da divisioni; non solo per via della crisi ariana, ma per una molteplicità di lacerazioni interne alla stessa comunità ortodossa. Tanto che i vescovi orientali avevano eletto Melezio e quelli occidentali il vescovo Paolino. Vi era contesa e divisione tra le due comunità, pur essendo quella di Paolino molto più ridotta rispetto all’altra, ed entrambe professassero il credo niceno. In questo contesto, per nulla concorde e comunionale, emerge la grande figura di Melezio che incarna nelle sue scelte pastorali lo stile sinodale e rende “al vivo” la prassi del cammino verso l’unità capace di ricomporre le divisioni: «Melezio, il più mite di tutti gli uomini, in modo amabile e insieme benevolo, disse a Paolino: “Poiché il Signore diede anche a me la cura delle sue pecore e tu ti sei dato pensiero delle altre e il nostro pio gregge è in reciproca comunione, uniamo, o caro, le nostre pecore e componiamo le nostre contese per il primato. Pascolando insieme le pecore, diamo loro una comune cura. Se, poi, è la divisione del seggio a generare la contesa, io tenterò di rimuoverla. Io consiglio che, avendo posto su di esso il santo Vangelo, ci sediamo ai lati di esso. Se sarò io ad accogliere per primo la fine della vita, allora tu avrai da solo la guida del gregge; se, invece, sarai tu, allora secondo le mie forze ne avrò la cura io”» (Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica, Città nuova, Roma 2000, libro V, 3, 13-16).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

Il tempo delle uova d’oro

A casa mia, in fondo al cortile e vicino alla legnaia, c’è la stanza-dispensa. Ha il pavimento di smalto rosso e le pareti di cemento bianco. Due finestre tondeggianti, un piccolo camino che nessuno accende più da almeno dieci anni. Lo aveva voluto mio padre e un suo amico muratore lo aveva aiutato a costruirlo. La sua parte incavata contiene adesso un piccolo deposito di fiori secchi che io porto al cimitero sulle tombe dei nostri parenti morti.
All’interno c’è un grande tavolo su cui sono posizionati cesti di vimini che tengono separate le scorte alimentari, le scorte di frutta e verdura, i detersivi, le uova che ci porta la mia amica Teresa che ha il pollaio. Noi le diamo il pane raffermo per il suo cane e lei ci regala le uova. Lo scambio è impari, ci guadagniamo sicuramente noi. Ma Teresa è una mia amica da sempre. Lo scambio diventa apprezzabile per entrambe, in nome di tale appartenenza.
L’amicizia permette di trovare una parità, dove parità non c’è. Permette di trovare aiuto e tolleranza là dove altrimenti ci sarebbe diffidenza. E’ un sentimento autentico che non si basa su vincoli biologici, parentali o di appartenenza sociale, ma si basa su qualcosa che è molto meno scontato e molto più fondante: la complicità.

Scrittori e scrittrici hanno dedicato tante pagine a questo tipo di relazione, che tutti noi conosciamo. Alcune storie sull’amicizia sono molto conosciute: ‘Uomini e Topi’ di John Steinbeck, ‘Il cacciatori di aquiloni’ di Khaled Hasseini, ‘Occhio di gatto’ di Magaret Atwood, ‘Parlarne tra amici’ di Sally Rooney.
A Teresa non piace quasi nulla di quel che piace a me. Ma questo non è essenziale. Condividiamo però un passatempo, che circa trent’anni fa era diventato un lavoro: il nuoto. Ci eravamo messe ad insegnarlo. Passavamo le estati con bambini schiamazzanti e bagnati che puzzavano di cloro, il disinfettante che si usa per le vasche d’acqua. Amiamo entrambe l’odore del cloro, che per noi evoca ricordi estivi, belle giornate, tanti giochi, i vent’anni di entrambe. Riparliamo sempre del tempo dei corsi di nuoto, di Vincenzo, il direttore della piscina dove insegnavamo che ci regalava un ghiacciolo ogni pomeriggio, a fine lavoro. A Teresa azzurro e a me rosso, tanto per non fare mai nulla di uguale. Insegnare nuoto ai bambini ci piaceva molto, non ci sembrava nemmeno un impegno.
Quella piscina era diventata casa nostra, ci conoscevano tutti, piacevamo a tutti.  Era uno spazio privo di risentimento dove si poteva sentirsi sicuri, dove il futuro appariva ricco di buone promesse.

Sto guardando le uova nella mia dispensa. Stamattina Teresa ne ha portate trenta. Hanno tutte scritto a matita sul guscio la data in cui sono uscite dalla gallina. Lo scrive sua madre, prima di riporle nel cesto dove le conserva. E’ come se in ognuna di quelle uova io potessi vedere un po’ del tempo di questa amicizia.
Prendo in mano un uovo. È bianchissimo, di media misura, ha una crepa. Quella crepa seghettata mi ricorda l’ingresso della piscina. Il cancello era fissato a due colonne di cemento bianche, diroccate. Da quella porta entravano bambini a frotte, insegnanti, inservienti, badanti, istruttori di nuoto, animatori, personale delle pulizie, amministratori e Vincenzo. Pover’uomo non so cosa gli sia successo. A forza di bere Fernet si è rovinato il fegato. Gli è venuta la cirrosi epatica. L’ho incontrato lo scorso anno. Mi ha davvero impressionato. Magrissimo e color marrone. Anni fa era grasso e bianco come un gelato al limone, come una nuvola solitaria nel cielo d’estate. L’alcol uccide, un po’ alla volta, in maniera spietata, senza tregua, lavora sempre.

Ripongo l’uovo, ne prendo un altro.  Il secondo uovo è rosa e piccolo. E’ come Teresa: rosa e piccola. Teresa ha una sclerodermia che assottiglia la pelle, per questo il suo colorito è molto roseo e le sue labbra rossissime. Terry sa tutto di me, siamo cresciute insieme e abbiamo sempre passato molto tempo assieme. Ricordo che quando insegnavamo nuoto, dopo aver finito il lavoro e dopo aver fatto la doccia, Teresa si asciugava i piedi con una meticolosità impressionante. Un dito alla volta. Se le restava tra le dita qualche goccia di acqua e cloro, la pelle le si screpolava, assottigliava, fino quasi a sanguinare. Per questo problema della pelle ammalata, era sempre l’ultima ad uscire dallo spogliatoio. Stava là fino a quando Vincenzo chiudeva l’impianto. Alla fine le avevano dato una chiave di scorta e lei poteva tranquillamente entrare per prima e uscire per ultima.

Il terzo uovo è chiaro, liscio e stranamente grosso. Probabilmente conterrà due tuorli. Quando lavoravamo in piscina avevamo due piccoli nuotatori fratelli gemelli. I fratelli Baffi. Sebastiano e Silvestro Baffi. Erano bambini piccoli, abbronzati, scattanti, dei grandi nuotatori, dei grandissimi divoratori di gelati. Chissà che fine hanno fatto. Teresa ha saputo che uno dei due si è sposato, abita a Verona, si è laureato in scienze motorie, insegna educazione fisica. Assaporiamo l’orgoglio. Forse anche noi abbiamo contribuito a far crescere in quei due cuccioli d’uomo l’amore per il nuoto, per lo sport in generale, per la vita. Un grande risultato, un bel ricordo tra i tanti che condividiamo.

Nella mia stanza-dispensa ci sono sempre le uova di Teresa e con loro un po’ della nostra amicizia, un po’ dei ricordi che rendono questo rapporto insostituibile. Le immagini del passato sono il fondamento e il contenuto del nostro bagaglio amicale, sono il tampone per i momenti di crisi. Se mai ci dovesse capitare di litigare sono sicura che basterebbe ripensare al periodo dei corsi di nuoto, a Vincenzo, ai nostri piccoli campioni e anche  alle sue galline e al suo golden retriver. (la presenza del cane  è una costante della vita di Terry, ne ha avuto diversi nel corso degli anni). Basterebbe ripensare ai ghiaccioli che abbiamo mangiato e alle  molte giornate passate assieme, nuotate con stili diversi, ma prossime nel desiderio di sperimentare e fare.

Guardo le uova e poi penso che devo ricordarmi di portare a Teresa il sacco del pane raffermo per il suo cane. Questa è una delle tante differenze tra noi: io ho due meravigliosi gatti arancione e lei un cane marrone.
Nel frattempo mi sono ricordata di altri  scrittori illustri autori di libri sull’’amicizia:
Niccolò Ammaniti “Io non ho paura”; Elena Ferrante “L’amica geniale”; J. K. Rowling “Harry Potter”; Fred Uhlman“ L’amico ritrovato”; Andrea De Carlo “Due di due”; Siegfried Kracauer “Sull’amicizia”; Herman Hesse “Narciso e Boccadoro”; Joseph Epstein “Amicizia ”. Credo che se ne scrivessi uno io si intitolerebbe: “Il nuoto e le uova”.
Ci sono anche delle splendide canzoni che parlano di amicizia: Lucio DallaCaro amico ti scrivo”; Lucio BattistiUna donna per amico”; Francesco GucciniGli amici”; Giorgio Gaber  “L’amico”; Laura PausiniUn Amico è Così”.

Una volta o l’altra scriverò una canzone sull’amicizia. Ho ben presente una storia amicale che vale la pena di essere raccontata. Può servire da esempio e da conforto. Ho già deciso il titolo: Il tempo delle uova d’oro. Le riguardo adagiate nel loro cesto e le vedo proprio così: d’oro. Le mie uova sono preziosissime, contengono ricordi, permettono di comunicare, di vivificare in ogni momento un sentimento importante, duraturo e sicuro.
Come dice sempre Teresa: “Ciò che è stato nessuno può cambiarlo ed è questo che fa la differenza”.
Ha ragione.

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CONTRO VERSO
Paura del vuoto

Questo bambino era stato segnalato per un insieme di ragioni, ma mi aveva colpito una sua caratteristica: la paura del vuoto che arrivava al rifiuto di andare in bagno. Svuotare le viscere era per lui inaccettabile, voleva dire lasciar andare una parte di sé.

Paura del vuoto

C’è un buco assai profondo
dove finisce il mondo
e dove scivolo anch’io.
Perciò faccio a modo mio.

Sul water non mi siedo,
mi tengo tutto dentro
e quando lo decido
mi sciolgo in un momento.

Mi accorgo di puzzare,
ma che ci posso fare?
Anche se sono grande
mi sporco le mutande.

Diceva la maestra
di aprire la finestra.
Lo dico al professore:
“Mi scusi per l’odore”.

Lo so che i miei compagni
si fidano dei bagni
ma io sono diverso
e mi ritrovo perso.

Piuttosto che restare
sospeso su quel vuoto
trattengo da scoppiare
teso, chiuso e sudato.

“Babbo, guarda, mi mangia!”,
piangevo ancora ieri.
E sento nella pancia
un pieno di pensieri.

Ci proteggiamo con i tic, le abitudini, e anche con i rifiuti. A volte la difesa che ci viene accordata comporta così tanti svantaggi, che non conviene più.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Il Microfestival diventa noir: Paolo Regina apre il MicroNerofestival

Da: Microfestival delle Storie

Il Microfestival delle storie diventa noir: <br> Paolo Regina apre il MicroNerofestival

Sarà lo scrittore ferrarese Paolo Regina con Morte di un cardinale (edizioni Sem) a inaugurare il percorso MicroNerofestival, una rassegna nella rassegna, dedicata ai libri noir. Intervistato da Consuelo Pavani giovedì 28 gennaio alle 21, lo scrittore anticipa l’atmosfera del secondo romanzo, ambientato a Ferrara, con protagonista il capitano della finanza Gaetano De Nittis: “Racconto la borghesia di una città di provincia, le dinamiche sociali, certi misteri che una città murata nasconde”. Il capitano De Nittis, pugliese trapiantato a Ferrara, si trova a indagare sulla morte di un cardinale. A guidarlo per la città e nella ‘ferraresità’, alla stregua di un Virgilio, l’amico giornalista Gianni Bonfatti. Paolo Regina, avvocato di professione, è interessato a raccontare l’animo umano al di là dell’intreccio noir e dell’indagine che fa da sfondo alla vicenda: “Ho una natura di cantastorie, rifletto sulle tipologie umane che la realtà offre, sulla psicologia dell’uomo di fronte al tragico, sui rapporti di potere e la sociopatia delle persone, che poi trasferisco nei personaggi”.

Dai libri di Regina – il terzo uscirà a marzo -, emerge un affresco di Ferrara: “De Nittis, uomo del sud, ha una cultura diversa da quella ferrarese, De Nittis non è ammesso a tutti gli ambienti della città, che sono ambienti esclusivi, paradigmatici della mentalità di questa città”.

La presentazione di giovedì 28 gennaio andrà in diretta sulla pagina facebook del Microfestival delle storie e di Ferraraitalia.

Sinossi Morte di un cardinale di Paolo Regina. Un uomo cammina velocemente sulle sponde del Po. Ha le mani insanguinate. A un certo punto si ferma e lancia una rivoltella nel fiume, dove le acque sono più profonde. Poi si mette a correre. Poco più indietro, sotto i piloni del pontile, c’è un altro uomo con il foro di un proiettile sulla fronte. È il cardinale di Ferrara. Gaetano De Nittis, brillante capitano della Guardia di Finanza, si trova a indagare su questa morte eccellente. Il caso lo trascina nelle sabbie mobili degli interessi dei notabili della città, tra intrighi di palazzo, giochi di potere e grossi accordi economici.

PAROLE A CAPO
Luca Ispani: “Civago” e altre poesie

“Poesia è lotta continua contro silenzio, esilio e inganno”
(Lawrence Ferlinghetti)

Civago

Sono una pietra che rotola
da un fiume invisibile di calcestruzzo.
Scappo dal cemento
dai camion della tangenziale
dal rumore
voglio piantarmi lì
in una casa abbandonata
ascoltare chi passa
dimenticare tutto
tranne i tassi e i gatti che vengono a strusciarsi qui
dove sono io
facendo le fusa.

 

Gazzano Val Dolo

Abitare la gioia
qui nei castagneti
amare fin dentro le ossa dei muri.

Ascoltare il fiume argentino in lontananza
sentire il tuo cuore e il suo avvicinarsi
imparare una poesia che può leggerti un paese.

 

 Sologno (Appennino reggiano)

Abitare le vene dei faggi
berne il sangue
udire il verso del lupo in lontananza.

Trovare un centro
magari una casa vuota
fare un foro
io metto il mio amore
tu metti il tuo amore
separati
li mischieremo
quando gli occhi dei vecchi
ci parleranno
e sentiremo il pellegrino squittire.

 

Luca Ispani (Modena, 1979)
I suoi preferiti sono Whitman, Berry, Tiziano Fratus, Sinisgalli, ed è affascinato dal movimento della beat generation e il suo legame con la musica jazz di cui è appassionato assieme al rock anni ’70 e ’90. Negli ultimi vent’anni si è appassionato alla paesologia, cercando con i suoi scritti di sensibilizzare sulla vita nei campi e sull’Appennino modenese da cui proviene. Inizia a fare letture poetiche nel 2004 per lo più in eventi di arte di strada dove si sente più a suo agio.
Dal 2014 al 2015 ricopre il ruolo di vice-presidente presso l’associazione culturale i poetineranti. Collabora con il collettivo di poesia nazionale Bibbia d’Asfalto dal 2014 al 2016. Da qualche mese segue il progetto “Grungeart” che é la creazione di un vero e proprio spettacolo basato su testi performanti, musica e arte visiva riconducibili al movimento “grunge” dei primi anni ’90.
Parecchi suoi testi sono stati tradotti negli Stati uniti ,in Messico e in Australia. Vincitore e segnalato in numerosi premi nazionali e internazionali, studia da tempo da autodidatta diversi autori. Ha pubblicato nel 2019 con Roundmidnight Edizioni la sua prima raccolta poetica “il rumore dei passi” che sta avendo numerosi riscontri positivi. Parla con gli alberi e li abbraccia.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

Didattica a distanza e didattica in presenza:
Il naufragio del sistema formativo

My dad, il mio papà, il mio paparino oltre manica e oltre oceano. Detta cosi non c’è niente di più familiare e rassicurante della DAD, della didattica a distanza di casa nostra. Essere a scuola, ma sentirsi come a casa propria, circondato dal calore e dalle comodità domestiche. Chi non l’ha desiderato in vita sua? E poi, diciamo la verità, fare colazione in fretta, caricarsi dello zaino, prendere l’autobus, o sfiancarti con un chilometro di strada a piedi per raggiungere la scuola, non è proprio il massimo. A casa tua ti siedi a tavolino, accendi il computer e sei in classe. Hai già risparmiato un sacco di calorie e ciò ti rende più disponibile, più attento, meno affranto di quando arrivavi in aula già stanco e ancora assonnato. Diciamo la verità: la DAD, con il trasferimento della scuola a casa propria, è riuscita là dove hanno fallito anni di progetti ministeriali di ‘Star bene a scuola’. Anche gli insegnanti sono più disponibili, non stracciati dalla pendolarità quotidiana, dagli affanni famigliari, specie quelli mattutini, per non parlare dei rientri a casa sempre troppo tardi. Senza tenere conto del sacco di soldi risparmiati tra abbonamenti al bus, ai treni o al metró, merendine, Red Bull e caffè non consumate ai distributori nei corridoi della scuola. Siamo sinceri, tutta un’altra vita.

Raccontiamola giusta, la didattica a distanza mica l’abbiamo inventata noi dell’era digitale, l’ha inventata Gutenberg con i suoi caratteri mobili. La parola stampata è il medium di massa, che ha posto fine alla ‘didattica in presenza’, ovvero alla ‘tradizione orale’.
La formazione per generazioni è avvenuta sempre a distanza: libri, biblioteche, archivi, musei e poi i mass media. Docenti seduti in cattedra e studenti tenuti a debita distanza nei banchi, a scuola come nelle aule dell’università.

I digital learners, giovani di età compresa tra i 12 e i 25 anni, per i quali la tecnologia è qualcosa di assolutamente scontato, non dovrebbero avere problemi con la DAD. Cellulare e computer sono i loro strumenti usuali di lavoro e di divertimento. Allora non nascondiamoci dietro alla DAD o ai problemi psico-sociali dei giovani, per non vedere il naufragio di un sistema formativo che fa acqua in presenza, come a distanza.

Innanzitutto perché non puoi fare andare la DAD con lo stesso carburante della didattica in presenza, finendo col proporne una brutta copia. Se ibrido deve essere l’insegnamento che ibrido sia. Per intenderci, in una auto ibrida l’elettricità è elettricità e la benzina è benzina, entrambe muovono l’auto, ma si tratta di due energie nettamente differenti tra loro e non confondibili.

La didattica a distanza, che ripropone la copia di quella in presenza con lo zapping tra i saperi, altro non è che la negazione della tecnologia a cui i giovani sono abituati, senza considerare come il modo con cui gli insegnanti usano le tecnologie finisce per influenzare e condizionare l’apprendimento dei loro studenti.

Ci si doveva pensare prima quando c’era tutto il tempo e non è stato fatto. Si sono spacciati i banchi a rotelle come innovazione didattica, si sono spese parole nella retorica della adolescenza privata di tutta la strumentazione sociale per risolvere i conflitti di un’età che ci siamo inventati, di un’adultità ritardata, come se avessimo sottratto ad Ulisse la sua possibilità di fare ritorno al proprio “luogo delle origini”, per dirla con il grande psicoanalista inglese Donald Winnicott.

Ma di quale socializzazione scolastica stiamo parlando, quella della competizione, quella del bullismo, quella dello spinello, quella del conflitto scuola-famiglia?
Dov’è la resilienza parola tanto emblematica e consumata in questo ventunesimo secolo?
Tutti i nodi vengono al pettine, e con l’emergenza era inevitabile che esplodessero.

È esplosa una scuola che così come è non serve a nulla. Anzi ci sta rendendo sempre più poveri ed ignoranti. L’attuale sistema scolastico è semplicemente anacronistico, strutturato per essere perfetto in una situazione sociale in cui si passava dall’analfabetismo all’alfabetizzazione del nostro paese, dall’era agricola a quella industriale.

La realtà delle scuole è ancora costituita da classi formate secondo l’età degli alunni, l’orario delle lezioni è rigido, persiste la netta prevalenza della lezione frontale, l’ora di lezione è fatta di alternanza di spiegazioni e interrogazioni, le valutazioni sono affidate al voto numerico. Questo modo di essere si è preteso di riprodurlo a distanza con l’uso delle nuove tecnologie. Ora l’incongruenza di tutto ciò salta agli occhi anche del più sprovveduto.

Si levano gli appelli a invocare il ritorno alla didattica in presenza, a tornare a rinchiudere i nostri adolescenti nella gabbia ottocentesca delle nostre scuole, spacciandole per i luoghi dell’istruzione, dell’addestramento sociale, della condivisione delle crisi e dei conflitti di un’adolescenza che altrove non ha spazi.

Tutti continuiamo a fingere che si tratti di una narrazione vera, perché non disponiamo di altre trame per affrontare i numerosi segnali che ormai da tempo indicano l’invecchiamento del nostro sistema formativo, facendo presagire che manca poco al suo esaurimento.

Come continuiamo a giocare a mosca cieca con i problemi e i conflitti di adolescenze che non si risolvono col condividerli con i compagnucci di classe, i quali hanno il tuo stesso problema, quello di vivere in una società che non si mostra affatto accogliente nei confronti dei suoi giovani. Così le adolescenze bisogna relegarle nelle scuole, perché è l’unico spazio che gli resta, considerato che le prime ad abdicare e delegare sono le famiglie e intorno c’è il vuoto.

Nascondere una scuola che non funziona, una DAD che funziona peggio dietro i problemi dell’adolescenza è una solenne vigliaccata, che non aiuta né gli uni e né gli altri a ricercare la propria identità e a conquistare la propria autonomia.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Padre Sorge: dalla Primavera di Palermo
allo scontro con Comunione e Liberazione

Il 2 novembre 2020 è morto Bartolomeo Sorge. Aveva compiuto da pochi giorni 95 anni, essendo nato il 25 ottobre 1925 all’Isola D’Elba.
Ad alcuni il nome può dire poco, ma il punto non è tanto elencare quante cose sia stato: gesuita, teologo, politologo, direttore de La Civiltà Cattolica,  Aggiornamenti Sociali e Popoli, protagonista della Primavera di Palermo (1986-1996) all’istituto Padre Arrupe insieme con il gesuita Ennio Pintacuda, collaborato alla stesura dell’Octogesima Adveniens, la Lettera Apostolica di Papa Paolo VI del maggio 1971, e tanto altro.
Ricordarlo significa, piuttosto, mettere a fuoco alcuni snodi, tuttora non digeriti, nella Chiesa e nel cattolicesimo italiani.

Lo spunto è un suo scritto del 2019 per La Civiltà Cattolica, che diresse dal 1973 al 1985: Un probabile sinodo della Chiesa italiana? Dal primo convegno ecclesiale del 1976 a oggi.
Per Giuseppe De Rita, protagonista di Evangelizzazione e promozione umana (Roma, ottobre 1976) insieme con lo stesso Sorge, Filippo Franceschi (vescovo di Ferrara dal 1976 al 1982) e Achille Ardigò, quello fu “il coraggio di osare” (La Civiltà Cattolica ottobre 2020, intervistato dal direttore Antonio Spataro).
Dietro l’avvenimento ci fu la regia del vescovo Enrico Bartoletti, segretario della Cei, che però non fece in tempo a vederne la celebrazione, perché morì improvvisamente nel marzo di quello stesso anno. Tanta fu l’eco, che la Conferenza dei vescovi italiani decise di cadenzare i convegni ecclesiali ogni dieci anni.

Eppure, l’irrompere del vento conciliare nella Chiesa italiana di lì a poco si interruppe.
I motivi furono diversi. Alcuni, cronologici, li enumera lo stesso De Rita nell’intervista a Spataro: il pontificato di Paolo VI volgeva al termine senza più la spalla del fidatissimo Bartoletti, oltre al fatale 1978 con l’epilogo della vicenda Aldo Moro e la morte, il 6 agosto, dello stesso Papa Montini.
Ma furono le due principali proposte di Evangelizzazione e promozione umana che, secondo Bartolomeo Sorge, subirono uno stop: lo stile del convenire e la nuova concezione missionaria.
La non accettazione dei due punti di svolta ebbe il suo epilogo a Loreto nel 1985 (Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini), quando il nuovo pontefice, Giovanni Paolo II, scrisse in preparazione di quel secondo convegno: “l’episcopato abbia il posto che gli compete per istituzione divina”.
Dallo stile del convenire, in cui vescovi e laici riscoprivano la comune radice battesimale della missione e cittadinanza ecclesiali, si tornava a rimettere le cose nella loro tradizionale distanza.

“Da Loreto a Firenze – scrive Bartolomeo Sorge – i convegni che seguirono furono visti come l’occasione propizia per i vescovi di comunicare al popolo di Dio che è in Italia, con autorità – occupando il posto che gli compete per istituzione divina –, il programma pastorale per il successivo decennio”.
Così avvenne per la concezione missionaria. Se nel 1976 si diceva che non bastavano più dichiarazioni, documenti ufficiali dei vescovi e principi dottrinali, per affermare una nuova forma di presenza dei cattolici nella scena sociale e politica, la prospettiva mutò quando arrivò Camillo Ruini.

“Si renda conto – ne ricorda De Rita il monito – che noi siamo qui non per cambiare la società, ma per predicare il Vangelo”.
Parole che fanno il paio con quelle scritte da padre Sorge su Aggiornamenti Sociali (2009), ricordando Giuseppe Lazzati, storico rettore dell’Università cattolica di Milano e autore dell’espressione Città dell’uomo, che il gesuita scomparso lo scorso 2 novembre usò per intitolare la scuola di formazione politica a Palermo.

Sorge ricorda una lettera che i leader di Comunione e Liberazionedon Luigi Negri, don Angelo Scola, Rocco Buttiglione e Roberto Formigoni – gli indirizzarono il 10 febbraio 1977, delusi dal convegno ecclesiale del 1976, per la mancata “conferma – scrissero – che il problema è quello del recupero di un’identità ecclesiale di fronte al mondo, e quindi di un apporto specificatamente cristiano ed ecclesiale alla soluzione dei problemi umani della nostra società”.
In gioco c’era, e c’è, la questione di fondo della partecipazione a pieno titolo dei laici all’unica missione evangelizzatrice della Chiesa, secondo il criterio della laicità, cavallo di battaglia teologico di Lazzati.
Il punto è se si vuole riconoscere senso alle realtà temporali, rispettandone l’autonomia e, appunto, la laicità, oppure se il mondo vada convertito. Da qui il tipo d’impegno dei cattolici nella Città dell’uomo: se cioè vada costruita-ripristinata una società cristiana (nel perdurante mito della cristianità perduta), anche a costo di prove muscolari, oppure se tale impegno debba assumere lo stile del dialogo e della collaborazione con uomini e donne di buona volontà, lontano da ogni collateralismo o nostalgie del partito cattolico.

Per questo Lazzati fu sempre contrario, e con lui Sorge, tanto a strumentalizzare le realtà temporali a fini religiosi, quanto la fede a fini politici.
Fu questo il terreno pastorale su cui si svolse la partita tra la Scelta religiosa’ dell’Azione Cattolica di Vittorio Bachelet e la Presenza di Comunione e Liberazione di don Luigi Giussani, che vide la prima uscirne nettamente sconfitta.
Comunione e liberazione vinse quel confronto con l’appoggio determinante del pontificato di Karol Wojtyla e della Cei durante il lungo regno di Camillo Ruini, secondo il modello di una Chiesa “forza sociale” oltre che spirituale, con tanto di richiami all’unità politica dei cattolici.

Avrebbe dovuto consumarsi per intero quella stagione, fino agli esiti per certi versi emblematici del Celeste Formigoni, prima che un nuovo pontefice riprendesse i fili di quel cammino interrotto. È successo al convegno ecclesiale di Firenze (novembre 2015), quando Papa Francesco nel suo discorso ha detto: “spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme”, quasi volendo ripartire dal quel con-venire che fu il motore di Evangelizzazione e promozione umana.
Qui Bartolomeo Sorge, significativamente dalle pagine di Civiltà Cattolica, ha voluto andare oltre lanciando nel 2019 l’appello di un Sinodo, perché più che un convegno alla Chiesa italiana servirebbe l’andatura del camminare insieme.

Il problema è che i decenni trascorsi hanno fatto tabula rasa di fermenti, riferimenti, idee e speranze, e riprendere i fili di un discorso prosciugato nei contenuti e nei metodi, in un tempo peraltro profondamente cambiato, appare compito – in primo luogo formativo – lungo e arduo, anche per un laicato nel frattempo largamente ridotto a uno stato silente, o quasi.

Cover: Padre Bartolomeo Sorge parla a un seminario (Wikimedia commons)

La pandemia non si combatte coi soldi ma con la buona politica

Le prime istituzioni scese in campo per combattere la pandemia da Covid 19 sono state le Banche Centrali. Lo hanno fatto supportando le crescenti spese e le mancate entrate degli Stati con iniezioni di liquidità nel sistema, attraverso l’acquisto di titoli di stato e la concessione di prestiti a tassi agevolati, a volte addirittura a tasso negativo (cioè regalando soldi).
Rispetto al passato i bilanci delle Banche Centrali si sono gonfiati a dismisura, certo il fenomeno era iniziato già dopo la crisi del 2007-2008 ma i dati confermano che nell’ultimo anno si è notevolmente accentuato. La Bce è passato dai circa 2.000 miliardi di euro del 2008 ai 4.671 miliardi del 2019 (come si può vedere dal grafico di seguito), per arrivare agli oltre 7.000 miliardi di euro a dicembre 2020

Di questi 7.000 miliardi risultanti dal rendiconto del 25 dicembre 2020 risultavano alla voce “Titoli detenuti a fini di politica monetaria” ben 3.704 miliardi, segno che la Bce detiene gran parte del debito sovrano dell’eurozona.
Bankitalia, dal canto suo, aveva chiuso il 2019 con un bilancio di poco più di 960 miliardi, come si vede dall’infografica seguente

Al 31 ottobre 2020 era già a 1.279 miliardi con in pancia ben 523 miliardi di “titoli detenuti per finalità di politica monetaria”, quindi quasi la metà del suo bilancio è costituita dai nostri titoli di stato.
Dall’altra parte dell’Oceano la Federal Reserve non è stata da meno passando dai circa 4.059 miliardi di dollari del bilancio 2019 agli oltre 7.000 miliardi di Agosto 2020

Anche qui, come si vede chiaramente in verde, quasi 4.500 miliardi sono di Treasury Bonds, ovvero titoli del tesoro americano.
Gonfiare i bilanci delle banche centrali è qualcosa che abbiamo scoperto essere possibile dal 2008 anche se la Bce ha cominciato a farlo, con colpevole ritardo, solo dal 2012. Questi bilanci si ampliano comprano titoli di stato e questo permette agli Stati di spendere senza che si alzino troppo gli interessi, il 2020 ci ha dimostrato che si può non solo esagerare ma che quasi la totalità dei deficit messi in atto o programmati dai vari governi possono essere quasi interamente coperti da un’attenta politica monetaria delle banche centrali.
Nel 2021 ci resta da imparare che questo però non basta, che c’è bisogno in contemporanea anche della politica fiscale e programmatica degli Stati. C’è bisogno, insomma, che questi soldi vengano spesi con programmi stabili dedicati alla crescita, alla ricerca sanitaria e scientifica, all’istruzione e ai giovani senza togliere agli anziani, perché non c’è assolutamente bisogno di creare lotte generazionali o di togliere a qualcuno per dare ad altri.
Il 2020 e l’economia monetaria da Covid 19 dovrebbe averci insegnato che i soldi non sempre sono un problema e che il punto non è più come trovarli ma come spenderli in maniera coerente per uno sviluppo sostenibile, solidale e magari anche green. Soprattutto, senza dar vita a conflitti sociali e possibilmente senza lasciarsi dietro troppi cadaveri.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi