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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


L’EUROPA E LA SPERANZA:
due settimane decisive per rinascere o morire

Nei prossimi giorni si decide la sorte della prossima Unione Europea.
Il Governo italiano insieme a Francia, Spagna ed altri 7 Paesi – che detengono sia la maggioranza del Pil dell’Eurozona (60%), che della popolazione (65%) – chiedono ai Paesi partner (Germania, Olanda, Austria più il blocco dei Paesi dell’Est Ungheria, Polonia ecc.) di introdurre misure specifiche (tipo Eurobond) per finanziare la ricostruzione dell’Europa dopo la catastrofe causata dal Covid-19.
Tra 2 settimane sapremo se ci sarà questa svolta decisiva. Non si tratta di mettere a carico dei tedeschi il nostro debito pubblico creatosi fino ad oggi, e neppure il nuovo debito che nascerà, ma solo una parte da stabilirsi, che dovrebbe essere sottoscritta da tutti gli europei (risparmiatori e istituzioni finanziarie) con un rischio pari a zero e un tasso di interesse molto basso (proprio per non gravare sui debiti pubblici accumulati).
Ciò consentirebbe di immettere una enorme liquidità ed aiuti una tantum a tutti gli europei per 3 o 4 mesi (imprese, lavoratori, disoccupati, lavoratori in nero da regolarizzare), utilizzando anche forme inedite, ad esempio assicurare a tutti un reddito di base. E successivamente avviare alcune politiche comuni come l’introduzione di un sussidio di disoccupazione europeo, un’indennità comune per i poveri, un consolidamento delle spese per sanità, scuola, lavoro per i giovani, erasmus in tutta Europa: una sorta di primo pilastro di base di welfare europeo uguale per tutti.
Spingono in questa direzione anche le scelte della BCE. la quale ora ha capito che deve aprire i ‘cordoni della borsa’ con misure imponenti, acquistando i titoli nazionali a debito in modo illimitato e, a maggior ragione, lo potrà fare per titoli Europei. Un altro segnale positivo è l’abbandono del Bilancio in Pareggio decisa dai Governi UE e la decisione (per la prima volta) di una maggioranza di Paesi UE di procedere ad azioni comuni, capitanati da Francia, Italia, Spagna. Non dobbiamo ‘impiccarci’ agli Eurobond: potrebbero essere lunghi da farsi, perché visti dagli elettori tedeschi, olandesi e dei Paesi dell’Est, come una ‘resa’ ai Paesi indebitati del Sud. L’importante è inventare un modo per cui ci sia una prima vera forma di ‘fratellanza’ nel finanziare questa crisi a beneficio di tutti, un modo che dia la spinta a costruire gli Stati Uniti d’Europa federali, cioè quello che chiedevano i fondatori come Spinelli.
La Gemania e i Paesi nordici hanno il timore che i titoli del debito europeo facciano salire il loro tasso al livello di quello italiano, ma non è un timore fondato. Ci sono in Europa almeno 40mila miliardi di risparmio cash (tra conti correnti bancari e titoli) nelle mani dei soli cittadini (senza considerare le istituzioni finanziarie) che possono finanziare la Ricostruzione.
Solo mettendo mano al portafoglio si allarga il cuore, si formano quei nuovi valori che fondano una nazione. In passato furono le guerre a formare gli Stati. Ora dobbiamo usare cuore e cervello perché vivremo un periodo di de-globalizzazione, di ritorno ai confini ma solo stando tutti insieme nell’ampio spazio europeo possiamo salvare le nostre economie e le filiere che si sono così allungate nel mondo. Tornando a casa nelle singole nazioni, ci sarebbe un drastico peggioramento del tenore di vita.
Per fortuna Mario Draghi l’ha detto chiaramente: “di fronte a una catastrofe di proporzioni bibliche […] la perdita di reddito del settore privato deve alla fine essere assorbita in tutto o in parte dal bilancio pubblico […] durante la prima guerra mondiale in Italia e Germania tra il 6% e il 15% delle spese di guerra fu finanziato dalle tasse (il resto no, ndr.) non si tratta solo di fornire un reddito di base a chi perde il lavoro, bisogna proteggere l’occupazione e la capacità produttiva […] i livelli di debito pubblico saranno aumentati, ma l’alternativa ad una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale sarebbe molto più dannosa per l’economia e infine per il credito pubblico […] lo shock non è ciclico e il costo dell’esitazione può essere irreversibile. La velocità del deterioramento dei bilanci privati deve essere soddisfatta dalla stessa velocità nello schierare i bilanci pubblici, mobilitare le banche e, in quanto europei, sostenersi a vicenda nel perseguimento di ciò che evidentemente è una causa comune”.
Parole chiarissime che speriamo imprimano la spinta definitiva a cambiare pagina. Se non ora quando?

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

PER CERTI VERSI
Frammenti d’Italia (terza tappa)

La descrizione, frammento dopo frammento, di un paese meraviglioso…
Ma questo paese è il nostro paese!
E proprio questa intensa opera lirica dà la misura della bellezza incomparabilmente varia di una terra ammirata e invidiata da tutti eppure, forse proprio per questo, denigrata da molti.
In un’Italia che in questa drammatica emergenza rischia d’andare in pezzi, ma che – ne sono convinto – saprà riemergere più forte e coesa di prima, è forse arrivato il momento per noi tutti di comprendere quanta fortuna significhi esservi nati e cresciuti, nonché l’onore d’esserne figli. Scopriamolo scrutandone i frammenti nell’omaggio poetico di Roberto Dall’Olio che, per quattro settimane, si rinnoverà ogni domenica e ogni mercoledì.
Buona lettura e buon viaggio.

Carlo Tassi

FRAMMENTI D’ITALIA

XVIII

un colle
un bosco
un cielo
diventano
il colle
il bosco
il cielo

XIX

tu lo credi
non c’è progresso
nell’arte
solo così
il tuo spirito si nutre
dell’Italia che vedi

XX

la cosa più importante
è inusuale:
dipingere con i piedi
quelli giusti
per calzare lo Stivale

XXI

un’idea eretica:
Dio
nell’ebbrezza del riposo
fece l’Italia
di Domenica

XXII

a volte
seriamente
i tuoi colori
sorridono

XXIII

la natura
è immersa
il paesaggio
lo fa la storia
di passaggio

XXIV

hai tolto
il Barocco
come se
fosse sciocco
di fronte all’essenziale
l’Italia classica
Rinascimentale

XXV

gli olivi
hanno le mani
da pianisti
i fianchi di Venere
gli occhi di Enea

XXVI

se si abbandonano
le antiche spoglie
si sentono
cedere
le ossa
del mondo
e il dolore
senza domani

vai alla seconda tappa

vai alla quarta tappa

PRESTO DI MATTINA:
un sogno, una domanda e un “esercizio spirituale”

Buongiorno. Anche in questo sabato di silenzio che conclude una settimana di silenzi. Silenzi vivi però. Quasi a voler anticipare il Sabato Santo: il grande silenzio che avvolge tutta la terra nel giorno in cui il Signore riposa dopo la lotta vittoriosa contro il dragone.

Ho una cosa da chiedervi, anche se so già che molti già la fanno. Pregare penserete voi. Sì anche pregare, perché è importante, importantissimo farlo in questi giorni.  E ricevo numerosi messaggi di persone che m’invitano a ricordare nella preghiera le persone ammalate, quelle sole, i medici, gli infermieri, gli agenti e tutti coloro che lavorano per noi. Ed io rispondo che lo faccio sempre; e alla sera prima di entrare in parrocchia, vado fin sulla porta e sotto le finestre della comunità La luna, vi giro attorno e mentre dico il Pater tocco le pietre del muro una ad una come fossero persone.

Ho sentito anche al telefono il mio medico, che mi ha raccontato che fa il possibile, assieme ad altri suoi colleghi del gruppo medicina, per essere di aiuto a chi chiede loro assistenza. Ma ha aggiunto che i veri eroi sono i medici ospedalieri direttamente a contatto con i malati di Covid. Salutandolo gli ho detto che pregavo per loro e lui di rimando mi ha detto: “Grazie di cuore. Ne abbiamo assoluto bisogno.”.

Ma vi è un’altra cosa di cui c’è bisogno, e non è meno importante del pregare, vale  a dire mettere in pratica la Parola. Sostiene Michel de Certeau che vi è un credere originario, insito nell’umano, nella forma esistenziale: e questo credere è “praticare l’alterità, l’altro”. Quindi vi chiedo – lo chiederei anche i ragazzi del lunedì – di avviare questo esercizio spirituale, per così dire, perché in realtà l’esercizio che vi chiedo coinvolge anche il corpo: ovvero passa dal cuore, arriva allo spirito e solo alla fine affiora sulle labbra, come una risposta a chi hai di fronte.

Ricorderete che nella ricerca del santo Graal, l’unico che lo trova è Parsifal. E questo perché, in ragione della sua ‘trasparenza d’animo’, egli vede con gli occhi del cuore, sa porre la domanda giusta al guardiano che non lascia passare nessuno: e la password che gli permette l’accesso di fronte al guardino anziano e soffrente è “Che cosa ti affligge, qual è la tua sofferenza?”.

Mi ha telefonato anche il papà di Marco, per aggiornarmi sulla situazione in via Assiderato. E – sorpresa! – mi ha riferito che hanno creato una chat per quelli della via, in modo da aiutarsi l’un l’altro tra vicini; si passano le notizie e uno provvede a fare la spesa per tutti. Ecco gli esercizi, le buone pratiche di solidarietà verso coloro che sapete essere soli in casa, scoraggiati o in difficoltà, perché hanno perso il ritmo di prima, anche i giovani ne risentono. Ecco l’opportunità. Pensate a un amico. Pensate ad un vicino. Attivate l’inventiva del quotidiano; e se le strade non sono agibili, escogitate percorsi alternativi nel rispetto del bene comune che è la vita di tutti.

Vi voglio raccontare un’esperienza di tanti, tanti anni fa. Un’esperienza per me così forte che la scrissi nel mio taccuino nel lontano 2000 e poi non dissi a nessuno. Era il primo dicembre, ed ebbi un sogno suscitato da un incontro reale: un sogno che operò in me come un ‘accrescimento di coscienza e di responsabilità’.

Ve lo racconto così come l’ho appuntato.

L’altra notte – scrivevo – ho sognato di essere in un luogo indefinito, un camerone con tanta gente seduta a tavoli piccoli, che non potevi evitare di urtare mentre vi passavi in mezzo, e voltandomi mi accorsi che ad uno di essi era seduto Papa Wojtyła. Con il dito mi fece segno di fermarmi. Quindi mi mostrò un biglietto natalizio con dei lustrini luccicanti, chiedendomi cosa fosse. “Che strana domanda mi fa?”, pensai. “Perché non comprende che è un biglietto natalizio?”. Tenni tuttavia quel pensiero per me e mi fermai per spiegargli cosa fosse. Passò un attimo lunghissimo, e poi sentii come di dovergli chiedere qualcosa: una domanda che porto sempre dentro di me, anche quando dormo o non affiora alla coscienza. Ma diviene martellante, ogni volta che incontro persone imprigionate e scosse dal dolore, dalla malattia, quando ascolto il telegiornale, quando cammino in ospedale o faccio mentalmente l’elenco degli ammalati e delle persone sofferenti della parrocchia. E così chiesi al Papa con un profondo slancio interiore, quasi a voler esigere a tutti i costi una risposta, sicuro che mi sarebbe stata data, come a volermi alleggerire un poco da quella domanda, che a volte è pesante come un macigno, e chiesi – ripetendolo però più volte – “perché tanta sofferenza nel mondo? perché? perché?”. Mi veniva da piangere. Lui però non rispose. Mi alzò in piedi, prese la mia testa tra le mani e l’avvicinò alla sua in modo che le nostre fronti si toccassero. Restammo così un poco, senza guardarci, con gli occhi chini, fronte a fronte. E infine mi svegliai.

Per tutta la giornata pensai al sogno, chiedendomi cosa potesse averlo fatto nascere. Ma niente; non mi veniva una spiegazione. Anche quella sera andando a trovare la nonna di Maria Grazia, lo facevo spesso, che non parlava più a causa di una malattia che l’aveva lentamente paralizzata – tanto che rischiava ogni momento di soffocare, per via della saliva che si fermava nell’esofago oramai immobile e non andava né su né giù – le raccontai il sogno, e dopo avere riferito anche altre cose, ritornai a casa. Il giorno dopo, mentre ero sovrappensiero, ricordai però un gesto a cui non avevo fatto caso la sera prima, né le volte precedenti. E allora compresi. Quando quella signora stava male, fino a soffocare, la figlia o la nuora la sollevavano dalla poltrona mettendola in piedi: poi l’avvicinavano a loro, e fronte a fronte con la mano l’aiutavano a calmarsi e a riprendere il respiro. Ecco da dove veniva il mio sogno. Allora mi sembrò di risentire la domanda: “quanta sofferenza?” e la risposta non c’era, o meglio non era in parole, ma in un gesto piccolo piccolo, che univa due persone nella solidarietà dell’amore: fronte contro fronte, gli occhi chini finché il respiro non ritornava.

Quando morì Giovanni Paolo II, il 2 aprile 2005, mi ritornò vagamente alla memoria del sogno. A farmelo ricordare fu la grande fotografia posta sul sagrato della cattedrale. La foto che lo ritrae con la fronte appoggiata al crocifisso del suo pastorale. Fronte a fronte con il Signore.

Acqua e immagine, argine e luce, pesci e pensieri:
il respiro del mio fiume che resiste alla pandemia

Io abito in un paese piccolo, attraversato da un fiume, nella bassa bresciana martoriata dal virus.  Sono cresciuta vicino al  fiume e di lui so quasi tutto. Ci sono persone che abitano qui che ne sanno anche più di me, alcuni pescatori, gli agricoltori, Marino. Una cosa sorprendente del mio fiume è la sua coerenza. Assomiglia sempre a se stesso. Quando torno da un viaggio, vado sempre a vedere come sta il fiume. Sta sempre lì, più o meno uguale. C’è stato un tempo in cui era cattivo: ogni tanto rompeva gli argini e inondava mezzo paese. Le case, le stalle, le rimesse, i campi. Faceva ribollire i tombini, annegare le lepri, marcire il granoturco. Poi sono stati rifatti gli argini e lui è diventato buono.  Non irrompe più, accompagna.  Accompagna e tace. E’ una presenza fisica e metafisica insieme.

E’ acqua e immagine, fondale e colore, argine e luce, pesci e pensieri, tramonti e passioni. Il fiume accompagna la vita, la guarda mentre cammina, incespica, riprende, finisce. Il fiume è una grande metafora usata da molti scrittori. Uno per tutti: Conrad. E poi Pavese, Soldati, Calvino, Guareschi, Arpino, Levi, Bacchelli.
Il fiume respira. Respira i pensieri della gente che ora sono di speranza. Speranza che questa malattia con tutti i suoi morti finisca, che si interrompa questa peste del 2020 con tutto il suo carico di orrore.
Non credo che la vita sarà più come prima. Non saranno più come prima la finanza, l’economia e il diritto. Non lo sarà la politica con tutto il suo strillare inutile e la ricerca continua della polemica che fa bene ai sondaggi. Non lo sarà la ricerca del divertimento a tutti i costi, delle vacanze di lusso, delle brutte citta outlet.

Invece so che il  fiume resterà tale, camminerà con la sua lunga scia, con le onde increspate dal vento, con il suo gorgogliare e il suo strano arrovellarsi su se stesso. Nel fiume ci sono correnti pericolose che creano vortici violenti. Nel mio paese si racconta di persone morte così.
Tante volte mi sono seduta sulle sponde del fiume, e il mio corpo si è come sollevato,  ho visto il fiume in tutto il suo corso, nella sua completa verità.
Dall’alto del cielo è tutto più chiaro, il sole scotta e gli alberi sono verdi, gialli e rossi.
Ho aperto le ali e sono volata in alto, nel cielo. Sopra il fiume e sopra l’acqua, nel vento e nel tempo. Dall’alto si vede meglio, brilla l’aria. Ho visto le case e le porte chiuse, le finestre e i camini, i tanti cortili. Qui quasi tutti hanno un cortile. Nel cortile si vive e si spera. In tempi di pandemia, si ritrovano ancora delle voci tra le mura di quei recinti.

Nei cortili ci sono le famiglie. Una delle nostre istituzioni fondanti. La famiglia può essere ricettacolo di nefandezze. Ma molto più spesso è fonte di sicurezza, di complicità, di fiducia. E’ la fiducia che gli altri ci saranno sempre per noi che ci permette di partire e tornare. La fiducia nella consolazione e nella complicità. E’ la fiducia che dà senso alla ricerca e alla scoperta, perché, a casa, ci sarà qualcuno che ascolterà e capirà. La famiglia è un nucleo primario che dà forza ai suoi appartenenti. I migliori pensieri vengono da lì. La coralità dei pensieri circoscrive e plasma l’appartenenza che sa poco di biologico e molto di umanità.  La forza  per diventare  mente e corpo che  vede, sente, crea, nasce così. La fiducia è il  motore del mondo. Nella possibile fiducia che una famiglia dona c’è una grande scommessa, una forte aspettativa per il futuro, un po’ del bene che verrà.

Nei cortili ci sono i polli. Io amo i polli. Quando ero piccola giocavo con loro. Adoravo i pulcini. Li adoro tutt’ora. Gli animali da cortile sono uno degli elementi essenziali dell’economia rurale. Sono una parte della famiglia. I polli sono rossi bianchi, corrono veloci, amano i vermi  e il radicchio. I polli mangiano sempre e se vedono un loro simile scavare col becco in un buco, fanno altrettanto. Per invidia, credo. In questo assomigliano alle persone. L’invidia è una delle grandi piaghe dell’umanità. Invidia per chi ha più di noi, per chi è più giovane, più bello, più ricco, “mangia” di più. Un mangiare che acquisisce un senso generico e non si riferisce solo al cibo, ma a una voracità sociale che include tutto l’afferrabile.

Nei cortili ci sono tante piante. I gerani e i campanelli. C’è il prezzemolo e la salvia nei vasi. Le fragole rampicanti, i pomodori. Il nostro polmone verde viene anche da lì. La vegetazione è fondamentale, le piante danno ossigeno, puliscono l’aria. Il rispetto per le piante è fondante. La potatura, l’attenzione ai parassiti, la fioritura, la raccolta. C’è qualcosa di sacro in tutto ciò. C’è l’esperienza dei nonni e c’è la consapevolezza dei saggi. C’è lo stupore dei bambini e c’è l’attaccamento dei più. Nelle piante c’è la linfa, c’è vita. Noi cerchiamo sempre ciò che è vivo, ciò che dà vita, ciò che rafforza con la sua vita la nostra vita e quella di tutti. (I polmoni che non funzionano più muoiono, la polmonite è virale, servono i respiratori).

Senza cortili, animali e alberi perdiamo consapevolezze importanti, rischiamo di non sapere più che uomini e donne siamo.
Il mio volo ritorna sul fiume. Vedo il suo corso, le sue anse strette, il suo incedere elegante. Vedo me da piccola e come sono ora, in un rimescolio del tempo che sa di magia e sorpresa. Vedo la gente che cammina lungo le sponde. Che il fiume accompagni le loro risate e i loro sospiri, li sostenga sempre col suo riparo e la sua acqua.
Il fiume per me c’è sempre e in questa certezza c’è il mondo e l’universo, il qui e ora, il là e il domani. Ciò che sarà. Vicino al fiume c’è la pace di chi si siede e lo guarda, dimentica i guai suoi e del mondo, dimentica che morirà. Questo è la magia del fiume. Ti fa sentire eterno, ti toglie la morte, se la tiene per sé. Il fiume è silenzio, pensiero, accompagnamento, eternità. Lungo il fiume si respira ciò che sarà.

Il volo finisce, torno a terra. Sulla riva. Mi rimetto le scarpe e sto ancora un po’ là.

 

ACCATTATEVILLO! L’arte di sorridere rimanendo seri
(La nuova Certificazione da scaricare e stampare)

L’Italia, si sa, è (anche) il Paese delle barzellette, delle storielle, dei lazzi, delle battute salaci verso i potenti. Da sempre il popolo italiano si esercita nel tiro al bersaglio. E il bersaglio è sempre lassù in alto: Il Re, il Duca, il Conte, Il Marchese (dalle braghe pese). Il Governo, insomma. Quale sia il colore dello stesso: l’altro ieri il Biancofiore democristiano, ieri l’esperimento giallo-verde, oggi (dentro la bufera) il governo giallo-rosso guidato dall’avvocato Giuseppe Conte.
Vuol dire che noi italiani siamo ingovernabili? Incivili, indisciplinati, irresponsabili? Non direi. Gli italiani, semplicemente, si difendono. E sorridere è un modo splendido di difendere la propria vita. Di continuare a vivere. Anche se, appena fuori casa, “il morbo infuria, il pan ci manca”, e il governo (di turno) va avanti a tentativi, aggiustamenti, postille, allegati bis.
Dunque non stupiscono le ironie fiorite sul Nuovo Modulo di Autocertificazione per gli Spostamenti. La quarta edizione in pochi giorni. Ho visto che a Napoli – una città talmente meravigliosa che, se non ci fosse, non riusciremmo a inventarla – la pandemia si gioca al lotto, consultando la smorfia, LA CORONA e IL VIRUS sono un fantastico ambo secco.
Dentro la tragedia, gli italiani stanno dimostrandosi seri, responsabili, solidali. Perché si può essere seri sorridendo. Sorridere è il nostro modo di resistere, di più, è una grande prova di  “resistenza umana”. Vorrei dirlo ai tedeschi, agli olandesi, agli austriaci (non tutti ovviamente, parlo dei loro governi) che non l’hanno proprio capito. Che – senza l’ausilio del sorriso e dell’ironia, immemori del valore della solidarietà, assaliti dall’egoismo della paura – vorrebbero mollare l’Italia e la Spagna al loro destino e uccidere definitivamente il sogno europeo.
Ecco quindi il Nuovo Modulo. Il quarto. Prendiamolo come una preziosa, una rara occasione per regalarci un sorriso “ai tempi del colera”. Ma, sorridendo, non dimentichiamo le nostre responsabiità. Quindi? Quindi: ACCATTATEVILLO!. Stampatelo, compilatelo e usatelo alla bisogna.

 

IL MODULO COMPILABILE DA SCARICARE E STAMPARE 

La firma va però apposta, solo in caso di controllo, davanti al pubblico ufficiale.

nuovo modello autodichiarazione 26.03.2020 editabile

 

PAESE CHIUSO, FABBRICHE D’ARMI APERTE.
La furia del virus illustra la follia della guerra

Il Segretario Generale dell’ONU chiede “un immediato cessate il fuoco globale in tutti gli angoli del mondo.
È ora di fermare i conflitti armati e concentrarsi, tutti, sulla vera battaglia delle nostre vite”. António Guterres ricorda “Il nostro mondo fronteggia un comune nemico: Covid-19. Al virus non interessano nazionalità, gruppi etnici, credo religiosi. Li attacca tutti, indistintamente. Intanto, conflitti armati imperversano nel mondo. E sono i più vulnerabili – donne e bambini, persone con disabilità, marginalizzati, sfollati – a pagarne il prezzo e a rischiare sofferenze e perdite devastanti a causa del Covid-19. Non dimentichiamo che nei Paesi in guerra i sistemi sanitari hanno collassato e il personale sanitario, già ridotto, è stato spesso preso di mira. Rifugiati e sfollati a causa di conflitti sono doppiamente vulnerabili. La furia del virus illustra la follia della guerra”.
Il segretario parla come sempre dovrebbe parlare e agire l’ONU. E’ nata per questo organizzazione: “Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità…”.
I grandi e più che potenti, sono infatti prepotenti, non lo ascoltano. Neppure noi.
l decreto ferma le industrie non essenziali, non quelle che producono armi 
 per continuare i massacri.
Si ferma l’economia civile ma quella incivile continua a lavorare.
di Daniele Lugli

STOP ALLE FABBRICHE D’ARMI: IL TESTO DELL’APPELLO

Governo e Covid-19. È evidente a tutti (tranne che a certi manager e a certi politici): abbiamo bisogno di caschi per la respirazione ventilata, non di caschi per i piloti degli F-35. Abbiamo bisogno di posti letto di terapia intensiva, non di posti di comando nelle caserme. La pubblicazione del Decreto della Presidenza del Consiglio relativo alle più recenti (e dure) limitazioni a causa del coronavirus, in particolare per le attività produttive, ha riservato una sorpresa non gradita a chi si occupa di disarmo. Tra le pieghe delle norme approvate viene infatti prevista la possibilità per l’industria della difesa di rimanere operativa, mentre invece la grande maggioranza delle aziende deve rimanere chiusa.
Sembra davvero che l’industria militare sia intoccabile, e che il governo Conte consideri la produzione di sistemi d’arma tra le attività strategiche e necessarie. Immediata la risposta di chi (come Sbilanciamoci, Rete Disarmo e Rete Pace) ha sottolineato l’insensatezza di mettere a rischio la salute di migliaia di lavoratori con pericolo di ulteriore diffusione del contagio solo per non intaccare i profitti dell’industria delle armi.
È incomprensibile come il governo non abbia il coraggio di ordinare questo stop, se addirittura il presidente della Regione Veneto, il leghista Luca Zaia, ha dichiarato: «Fino a poco tempo fa era considerata strategica l’industria bellica, adesso abbiamo capito che non ce ne frega niente, meglio avere una provetta, un respiratore».
Positive sono state le immediate reazioni dei sindacati, che hanno condotto a diversi scioperi spontanei anche in aziende a produzione militare, a testimonianza del fatto che sempre più spesso sono lavoratori e lavoratrici i primi a vedere chiaramente quali dovrebbero essere le scelte più utili per il Paese. Perché da questa tragica emergenza dobbiamo uscire con prospettive e scelte che si allontanino dalle logiche che hanno determinato la riduzione degli investimenti sanitari (passati dal 7% del Pil al 6,5%) mentre lievitava una spesa militare ormai stabilmente oltre l’1,4%.
Abbiamo bisogno di una reale alternativa, che non può essere che nonviolenta (e quindi di disarmo). Ma cosa c’entra la nonviolenza con l’emergenza sanitaria da Covid-19? C’entra, eccome, perché è scelta non solo etica e morale. La politica della nonviolenza ha senso pieno proprio oggi; «altrimenti non so che farmene», diceva Gandhi, che la pensava come strumento per trovare il pane per gli affamati, come oggi dobbiamo trovare posti letto per i malati.
È una nonviolenza che ha radici antiche. Pensiamo a Raoul Follerau che chiedeva a gran voce «il costo di un giorno di guerra per la pace» o ad Albert Schweitzer che già all’inizio del Novecento comprese il legame stretto tra spese militari e investimenti in salute. Fino a ieri sembravano due sognatori utili solo per farne santini da parrocchia, ma hanno invece anticipato di un secolo quel che oggi, messi al muro dall’evidenza, anche governanti europei sovranisti sono costretti ad ammettere: meglio avere un respiratore automatico in più, e una bomba o un missile in meno.
È evidente a tutti (tranne che a certi manager e a certi politici): abbiamo bisogno di caschi per la respirazione ventilata, non di caschi per i piloti degli F-35. Abbiamo bisogno di posti letto di terapia intensiva, non di posti di comando nelle caserme. L’industria bellica non è un settore essenziale e strategico: questa può essere l’occasione per un ripensamento e una riconversione necessaria (in primo luogo verso produzioni sanitarie).
Per la prima volta, forse, con il nuovo mondo nato dopo il conflitto mondiale che ha sconfitto il nazismo, e fatto nascere l’Onu, ci si rende conto che persino l’economia mondiale, viene dopo la salute individuale.
È una rivoluzione impensabile fino a qualche settimana fa. E tutti capiscono che per tutelare la salute propria e delle persone care, figli, nipoti, amici, è assolutamente indispensabile avere un sistema sanitario pubblico che funzioni. In Europa, nel bene e nel male, ce l’abbiamo, con pregi e difetti; là dove, invece, la sanità è considerata una merce come altre l’impatto della pandemia sarà ancora più devastante.
Per questo l’impegno delle reti e movimenti italiani per la Pace e il Disarmo si basa da tempo sulla richiesta di una drastica riduzione delle spese militari, a favore di quelle sociali. Si tratta dell’obiettivo politico principale della Campagna per la «Difesa civile, non armata e nonviolenta». Quando diciamo: «Un’altra difesa è possibile», significa che è necessario e ormai inderogabile invertire la rotta. Finché non sarà a disposizione delle nostre istituzioni anche una scelta possibile di azione non armata e nonviolenta sarà facile il ricatto di chi chiede soldi per le strutture militari e per le armi.
Mao Valpiana  Presidente del Movimento Nonviolento
Francesco Vignarca  Coordinatore Rete Italiana per il Disarmo

Pubblicato il 24.03.2020 alle ore 23:59

La corona di stelle sopra di noi

Questo corona virus a noi sembra più una corona di spine, come quella che i soldati romani misero per scherno sul capo di Gesù. Ma la corona è anche quella dei sovrani, o la corona di luce dei santi, quella d’alloro dei poeti. Non voglio suonare blasfemo, ma volta per volta, come in un caleidoscopio, intravedo dentro questa nuova situazione tante delle accezioni di ‘corona’.
La corona del martirio ma anche di una laica santità, in capo al personale medico ed infermieristico che combatte con dedizione e una sorta di disperazione dentro un’ autentica trincea, a volte proprio come i soldati francesi nella trincea di Orizzonti di Gloria di Kubrick – senza mezzi adeguati, quasi a mani nude.
La corona dei sovrani senza nobiltà, i fenomeni che si credono liberi da ogni costrizione ed esercitano l’arbitrio della loro vita irresponsabile, tra uno jogging e un aperitivo in compagnia, come se nulla fosse cambiato.
La corona d’alloro dei letterati, da Boccaccio a Manzoni a Camus, che della pestilenza e del contagio hanno scritto con mirabile e terribile concretezza emotiva.
Ma io vedo anche la corona di stelle, sopra di noi. La vedo con una suggestione nuova, con una nitidezza scintillante, che non avevo mai visto prima.
Respiro un’aria tersa, trasparente, cristallina, una fascinosa Sirena atmosferica che nasconde, come nell’Odissea, il nemico invisibile, pronto a colonizzare i nostri alveoli con la laboriosa implacabilità di uno sciame di formiche.
Sento per la prima volta, nel silenzio del genere umano, confinato nelle proprie case, il rumore del mondo prima di noi: lo stormire delle foglie, il canto degli uccelli, il suono della natura. E’ una sensazione di pace, una pace enorme, imposta da un despota, un gigante buono reso tiranno dal tedio per l’uomo dell’antropocene.
Ha l’aria di un messaggio.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Gli strati allo specchio

Sottili, di spessore o stratificati? Un lettore racconta lo specchio a cui si è trovato di fronte.

Gli strati allo specchio

Cara Riccarda,
ci sono persone che ti sembrano leggere, poi ti accorgi che hanno diverse stratificazioni, molte delle quali non sono ammesse e rimbalzano su di te come se fossi tu la causa. C’è chi ha un problema, non lo riconosce, lo stratifica su stesso e dà la colpa agli altri. Gli stratificati si manifestano quando il rapporto si fa più stretto, quando si diventa coppia: lì accade la messa a nudo di chi siamo. In pochi hanno voglia di mettersi allo specchio e capire fin dove arrivano, per me non è stato facile accettare fin dove arrivavo, ma si può fare.
Nicola

Caro Nicola,
lo specchio di noi che gli altri ci rimbalzano è terribile: una rifrazione che ci disturba, però si può scegliere se spegnere la luce o guardarla meglio quell’immagine.
Sono d’accordo con te, la coppia è lo spazio della verità. Per coppia non intendo la breve compagnia che ci si fa in un alcuni momenti della vita, intendo la continuità in cui non esiste volatilità.
Hai ragione, in pochi hanno voglia di mettersi allo specchio, di farsi scalare, di vedere, anche attraverso l’altro, fin dove arrivano o, spesso, non arrivano.
Riccarda

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

PER CERTI VERSI
Frammenti d’Italia (seconda tappa)

La descrizione, frammento dopo frammento, di un paese meraviglioso…
Ma questo paese è il nostro paese!
E proprio questa intensa opera lirica dà la misura della bellezza incomparabilmente varia di una terra ammirata e invidiata da tutti eppure, forse proprio per questo, denigrata da molti.
In un’Italia che in questa drammatica emergenza rischia d’andare in pezzi, ma che – ne sono convinto – saprà riemergere più forte e coesa di prima, è forse arrivato il momento per noi tutti di comprendere quanta fortuna significhi esservi nati e cresciuti, nonché l’onore d’esserne figli. Scopriamolo scrutandone i frammenti nell’omaggio poetico di Roberto Dall’Olio che, per quattro settimane, si rinnoverà ogni domenica e ogni mercoledì.
Buona lettura e buon viaggio.

Carlo Tassi

FRAMMENTI D’ITALIA

X

una pittura
che s-colpisce

XI

il classico
querela
il romantico
la nostalgia
ammalia
lo splendore

XII

Tu hai dietro
l’arte
della memoria
colori di marmo
cieli di vetro

XIII

la tua
antichità lucente
scura
prenatale
soggiace
alla cattura
dell’Italia rinascimentale

XIV

L’Italia
che perdura
forma

XV

culla del tempo
soggiorno di bellezza
apparsa rugiada
dopo la brezza
di Gea e Urano

XVI

pennello d’oltralpe
che incedi
sul terrazzo del mondo
ne dipingi il segreto

XVII

le sue
fattezze eterne
così fragili
così delicate
da spaventare
la morte

vai alla prima tappa

vai alla terza tappa

ALLA FINE, QUALE DEMOCRAZIA RIMARRA’?
Due virus e due emergenze a confronto: Covid-19 e Terrorismo

Le immagini di piazze e strade svuotate dal Covid-19, dove, ogni tanto, si vedono forze dell’ordine che, con diverse modalità, controllano spicchi di territorio fermando passanti e automobilisti, mi rimandano alla primavera del ’78.
Era l’inizio di aprile. Mi trovavo a Roma per alcuni giorni, per la Direzione Nazionale dei giovani delle ACLI. La prima sera, con alcuni amici veneti e romani, siamo usciti per mangiare qualcosa in un’osteria. Le strade del centro erano deserte, un silenzio spettrale. Girato l’angolo di un incrocio di Via Nazionale, ci siamo quasi scontrati con un gruppetto di soldati di pattuglia che camminavano nel mezzo della strada. Eravamo in pieno rapimento dell’on. Aldo Moro e il ‘virus del terrorismo’ si stava espandendo, facendo proseliti e, purtroppo, numerose vittime. Si cercavano covi clandestini, persone ‘infettate’ dal terrorismo, si cercava di liberare l’ostaggio Moro.

Oggi sappiamo una verità molto differente ma non ancora compiuta. Nonostante numerosi processi, commissioni e soprattutto importanti e approfondite indagini giornalistiche, mancano alcuni tasselli fondamentali che possano fare chiarezza su quell’epidemia politica, sugli ‘untori’ (e mandanti), sui diversi aguzzini.

L’emergenza virale che stiamo subendo in questi giorni, per essere vinta ha bisogno di comportamenti responsabili di tutti noi italiani, di lunga o breve appartenenza a questo amato/non amato Paese. Un Paese fatto di comunità dove il triste tributo di vittime è doloroso e sempre inaccettabile. Anche se sembra impossibile, vanno evitate altre ‘unzioni’ di comodo per trarre qualche temporaneo beneficio politico e, soprattutto, c’è bisogno di tempo per far sì che la ricerca scientifica trovi il vaccino che ci porti fuori da questa pandemia.

Diverso è lo scenario per quanto riguarda il 42esimo anniversario della morte dei componenti della scorta e del rapimento e uccisione di Moro, che ricorre in questi giorni. Il fattore tempo, per chi scrive queste brevi note ed è convinto che la parte più indicibile non sia stata svelata, sembra giocare a sfavore. Più ci si allontana dai fatti e meno testimoni restano. Mi si potrà obiettare che ci sono i documenti, le carte, ma ci dovrà essere qualcuno o qualcosa che ti permetta di poterle ‘leggere’ con cura ed intelligenza. La storia degli Anni di Piombo e delle Stragi di Stato è in gran parte una pagina vuota, un buco ancora da riempire di verità.

Molti si ricorderanno che, a suo tempo, una vulgata molto gettonata affermava che i corpi e gli ambiti infetti/infedeli erano stati debellati, sconfitti. Migliaia e migliaia di pagine dissero che il terrorismo, ‘il virus’, era stato sconfitto grazie alla politica della fermezza. Tutto si era risolto per il meglio, si diceva. La cura era stata efficace e la democrazia ne era uscita rafforzata. Una democrazia fatta di rinunce quotidiane anche dure, importanti, fatte per il bene del Paese.
Il giornalista e studioso Giovanni Fasanella, che ha scavato molto fra quelle carte, nei giorni scorsi sui social ha detto che il Caso Moro non fu solo una ’influenza’ e, se portò lo Stato a sconfiggere il “Partito armato’, a disarticolarlo: “vacillò, però, di fronte a un partito più potente, quello della ‘morte politica’ di Aldo Moro, il suo uomo più lucido […] e da allora il Paese è scivolato inesorabilmente verso il baratro”. Un virus che non ci ha aiutati ad uscire dall’emergenza.

Anche in queste settimane, di fronte al Covid-19, le rinunce sono tante. Vengono chiusi molti luoghi della produzione, della socialità, dell’istruzione, dello stare e fare assieme. La democrazia sembra tenere, anche se molte libertà e molti diritti sono messi in sordina. Rimangono però sul tappeto molte domande aperte. Le persone che oggi perdono il lavoro avranno davvero il sostegno delle comunità in cui vivono, delle forze politiche e sociali, del Governo, per ritrovare una nuova stabilità economica? E, alla fine dell’emergenza, quale democrazia rimarrà? Questa situazione avrà fatto ritrovare a tutti noi il senso di essere parte di una comunità, oppure non ci avrà insegnato niente?

Immagine della cover: di Beppe Briguglio, Patrizia Pulga, Medardo Pedrini, Marco Vaccari http://www.stragi.it/index.php?pagina=associazione&par=archivio, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4490241

 

A-pelle figlio di Apollo: una domenica in Rivana

Avevo parlato con Raffaele tre giorni fa, per farmi raccontare la drammatica situazione dei Senza Fissa Dimora e il grande lavoro degli operatori e dei volontari della Associazione Viale K. Poi nel mio articolo [lo puoi leggere QUI] scrivevo: “Lo stanno chiamando per un’altra emergenza, ma nel salutarlo ho anch’io una richiesta per lui: “Non fidarti troppo delle interviste, delle parole riportate, nemmeno di quelle che scriverò io. Trova un po’ di tempo, scrivi tu questa storia, tu sei bravo a scrivere”.
Beh, come avrete intuito, Raffaele corre tutto il giorno come un matto. Non ha punto tempo per darsi alla scrittura. Ma certe notti. Ad esempio questa notte, erano già passate le Due, ha postato ‘A-pelle’ sulla sua pagina Facebook e me l’ha mandato. Buona Lettura.
(Effe Emme)

1,2,3…fai passare prima la signora….8, 9 e 10. Stooop!
Don Domenico fa il vigile davanti al cancello. Il primo gruppo entra in mensa in fila indiana a un paio di metri di distanza l’uno dall’altro in attesa ognuno del proprio vassoio. ‘Romolo il cuoco’, dall’altra parte (profumata e calda) della barricata, pugni ai fianchi e parannanza, da gli ordini: Tu alla pasta asciutta! E a me: Tu ai secondi! un coppino di patate e un quarto di pollo, oppure, un coppino di patate (sempre quello di prima) con i pesciolini fritti. E io: Vabbuò. Francy, tu, tu e tu date i vassoi pieni.
Si comincia. Pasta asciutta, splaf splaaff, pronto anche il secondo. E via così i primi dieci  che poi arrivano i secondi dieci, e avanti così per altre due volte. Totale: 40 persone più qualche bis e piatto da asporto. Tra un secondo e l’altro. quando ormai ci ho preso la mano e ho smesso di contare, dico: Romolo il cuoco sei proprio bravo, il pollo ha tutta la pelle dorata e croccante. A casa le mie figlie litigano a chi si deve mangiare la pelle e a me, alla fine della guerra, tocca il petto tutto asciutto e stopposo tant’è che ci aggiungo la mayo sennò non mi scende. Proprio l’altra sera ho chiesto a mia figlia: Che parte del pollo vuoi? E lei: Quella con il manico! 
Il piccolo esercitino di volontari intorno: Ah ah ah ahhhh La risata collettiva risuona amplificata in tutta la sala, che proprio in quel momento mi accorgo muta come il refettorio del convento delle carmelitane scalze. E scalzo e muto mi son fatto anch’io. Non conto più, guardo i volti di quelle persone dall’altra parte della sala, uomini e donne, adulti e anziani, italiane e immigrate, sedute ai tavoli. E mi chiedo dove saranno mai le loro famiglie, se anche lì si litigava per la pelle di pollo. Uè Rafè svegliaaa! A quello dagli i pesciolini fritti e prepara altri due piatti così.
Finito il servizio vado fuori in fretta che son tre ore che non fumo. Scelgo un angolino isolato, mi siedo sul cordolo del marciapiede. Apro il pacchetto. Cavolo, ultima sigaretta, mè…, questa me la devo godere che è proprio l’ultima e poi me la sono guadagnata. Zip zip ziiip, a occhi chiusi porto la sigaretta alla fiamma e tiro e tiro. Qualcosa non va, puzza di bruciato, il filtro va a fuoco. Sto per imprecare cose che si imprecano quando fai cose così, ma l’uomo con la barba davanti a me ha visto tutto. Si avvicina con un bel sorriso stampato in faccia, si siede accanto a me e mi allunga una delle sue sigarette artigianali. Sai … pausa di silenzio … anch’io avevo una figlia, e gli davo tutta la pelle di pollo ….

SCUOLA O VILLAGGIO VACANZE?
A proposito di valutazione alla scuola primaria

Parto dal presupposto che le difficoltà di questa nuova situazione siano sotto gli occhi di tutti e che, mai come ora, si senta un bisogno forte di scuola: lo sentono gli alunni (anche quelli ‘insospettabili’), lo sentono le famiglie (anche quelle ‘impensabili’), lo sentono gli amministratori (anche quelli ‘insostenibili’), lo sentono i cittadini (anche quelli ‘inimmaginabili’) e lo sentiamo moltissimo anche noi insegnanti (anche quelli ‘incredibili’).

A mio modo di vedere, però, il bisogno di scuola non si soddisfa con la didattica a distanza, anche se ben fatta, perché non si può normalizzare una situazione che normale non è. È ovvio, però, che noi insegnanti continueremo ad attivarci perfezionandola, perché è l’unico modo che abbiamo in questo momento.
Detto questo mi chiedo come qualcuno possa parlare di ‘normale’ valutazione in maniera così superficiale in una situazione che di scuola ‘normale’ ha ben poco.

Per me, adottare la didattica a distanza vuol dire essere costretti a scegliere una modalità di trasmissione delle conoscenze che non è quella che privilegerei se io fossi a scuola. Quindi se questa non è la mia scuola, la nostra scuola, ‘la scuola normale’, cosa pretendono che si valuti dal Ministero?

Se un bambino o una bambina sono capaci di stare davanti ad un monitor per tante ore?
Se sono in grado di usare una piattaforma web?
Se sanno fare ad inviare una mail con gli allegati?
Se sanno fare bene i compiti a casa?
Se sono bravi a fingersi abili col computer nascondendo l’aiuto che ricevono dai familiari

E come vorrebbero che tutto ciò si valutasse?
Si preoccupano di sapere se tutti i bambini e le bambine di una classe hanno a disposizione uno strumento tecnologico idoneo?
Si chiedono se sono tutti nelle condizioni di partecipare attivamente?
Si interrogano su come coinvolgere gli alunni con disabilità mentre il resto della classe è connesso?
Si domandano come arrivare meglio agli alunni che parlano un’altra lingua?
Oppure c’è solo interesse a valutare se le famiglie possono permettersi un tablet, uno smartphone o un computer e la linea veloce?
Che voto si metterà nella pagella di un bambino che non ha un computer, un tablet o uno smartphone?
Che giudizio di comportamento si scriverà a chi ha pochi giga?
Bisognerà mettere “Insufficiente” a chi non ha i mezzi ‘sufficienti’?

È questa la scuola che dobbiamo prepararci a fare? Io spero proprio di no perché la scuola fatta così sembra un ‘villaggio vacanze’ dove un cosiddetto ‘utente’ vi è stato dirottato dopo la chiusura di tutti gli alberghi ed i campeggi, dove desidera fare un soggiorno ‘normale’, ma si ritrova attorno degli animatori che gli propongono/impongono un sacco di attività (alcune più o meno divertenti e coinvolgenti, alcune davvero insulse o addirittura stupide ed umilianti); dove ci sarà sempre chi non può o non vuole partecipare perché preferisce altro oppure è altro; dove i suoi accompagnatori lo vorrebbero intrattenere diversamente; dove le valutazioni ed i premi finali ci saranno solo per alcuni di quelli che, stando al gioco, hanno potuto o voluto partecipare.

Io credo che, in questo difficilissimo momento storico, occorra stare attenti al rischio di incentivare una scuola delle differenze tra chi ha e chi non ha, tra chi è e chi non è, tra chi può e chi non può. Penso che, in questa emergenza, si stia giocando il senso stesso del fare scuola; avverto il pericolo che conquiste avvenute negli anni passino in secondo piano. Molti genitori pensano al proprio figlio, diversi colleghi pensano alla loro classe, alcuni dirigenti pensano al loro istituto… in sintesi, in un momento in cui ci sarebbe bisogno di un pensiero collettivo, in molti pensano individualmente. Credo sia normale farlo in una situazione simile in cui tutti ci sentiamo sotto pressione, ma noi, noi che siamo insegnanti dobbiamo stare attenti a queste spinte egoistiche e provare a dare equilibrio, dobbiamo provare ad allargare le vedute, partendo dalle certezze che abbiamo e che risiedono nel nostro ‘arcipelago di certezze’, rappresentato dalla scuola della Costituzione.

Un prete scomodo, a cui devo molto della mia visione professionale scriveva, insieme ai suoi alunni: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”
Mai come loro la scuola ha bisogno di una politica seria che, dal basso, si attivi per affrontare i problemi enormi che questa emergenza ci consegna.

Passerà questa nottata.
“Il mio Canto Libero dei medici italiani”: guarda il video

Nell’ora più buia, tante candele accese

Qualcuno ha detto che dobbiamo smetterla con le frasi fatte, di incoronare ‘Eroe’ questo o quello. E anche i medici e gli infermieri intervistati in Tv lo ripetono sempre: “Non mi sento un eroe, faccio solo il mio dovere. Come sempre.”.  Quel che è certo è che oggi, ogni giorno di più,” Les héros sont fatigués”, i medici, gli infermieri, i barellieri, tutto il  personale medico e paramedico che sta in prima linea, di fronte al nemico, contro questo minuscolo virus che vuole annientarci, tutti loro sono stanchi. Stanchissimi. Tanti di loro hanno già perso la vita. Assomigliano molto ai poveri ‘fanticini’ della Grande Guerra che stavano nelle trincee del Grappa o del Monte Calvo.
A tutti loro, a chi lavora all’ospedale di Cona, all’ospedale del Delta e quelli del 118, ai medici di guardia e ai medici di famiglia, agli infermieri e a tutto il personale delle cliniche e della case di riposo. A tutti loro: che stiano a Ferrara, o a Bergamo e Brescia, in Italia, in Europa, nel mondo (che è la nostra patria), vogliamo ripetere un semplice GRAZIE, NON MOLLATE. E dir loro che è molto bello sentirli cantare “Il mio Canto Libero”. E’ come vedere delle candele, accese, anche sotto una tempesta di vento.
Qui, nelle retrovie, noi faremo la nostra parte. Il nostro dovere. Passerà questa nottata.
#noirestiamoacasa
#andratuttobene

Effe Emme

 

La tristezza al tempo della peste

Per omologia non più il sorriso ma la tristezza coinvolge le mie note di questa settimana. Una tristezza che non fa ovviamente aggio sul comportamento dei miei simili, ma sulla profonda, sostanziale incapacità di tenere a freno il proprio egoismo, la propria irrinunciabile volontà di essere il solo, l’unico, secondo una atavica propensione che ha fatto e modellato ‘l’essere così’ degli italiani.

Certo questa cifra, connaturata all’individualismo più sfrenato, ne ha fatto il popolo più ‘artistico’ del mondo. L’ha reso fondamentalmente unico. E questo da quando si è creata una coscienza dell’essere così, dalla triade assoluta, Dante Petrarca Boccaccio, ai critici di quell’atteggiamento, che lo hanno rinforzato, come Leonardo che si dichiarava “homo sanza lettere” per sprezzantemente e onnipotentemente dichiararsi con quel rifiuto, l’unico, il sommo. O il più grande di tutti, il conte Giacomo, che predicava il nulla per sapersi il migliore (vero, amico Fiorenzo Baratelli?). Allo stesso tempo l’unicità è declinata dai dittatori come elemento fondante di un popolo. Si spreca e forse in modo non corretto il termine fascismo o neonazismo, per denunciare la volontà di unicità di alcuni leader, come di termini quali sovranismo e .. ‘via col tango’ ( attenzione al modo di dire perché nel termine si annida il coronavirus, come sappiamo dall’infezione propalata dai ‘tanghéri’ – e non ‘tàngheri’ – infettatisi a vicenda all’hotel Astra di Ferrara.

Sul principio di unicità, helas!, si spiegano ma non si comprendono le discese al Sud dei ragazzi pronti a rifugiarsi nelle braccia di nonni e padri in nome della loro sfida: “io sono unico e che me frega del virus: tutte cazzate”. “Dai! Facciamo una corsa, un po’ di bicicletta, andiamo a magnà al mare”. E i vecchietti, molti, che si rispecchiano nella loro adorata prole, a seguirli sorridendo da beoti nelle imprese ginnico-turistiche degli ‘unici’.

Intendiamoci. Questo popolo ferito e incapace di unità, non di unicità, dimostra poi l’eroismo che ogni giorno vediamo esercitarsi negli ospedali, negli aiuti ai più deboli. Ieri però mentre disciplinatamente aspettavo il mio turno agli alimentari, una dama munita di mascherina, quasi imprecando, ululava contro ignari passanti che osavano avvicinarsi a 90 cm invece che a un metro. Saputo poi che in farmacia erano arrivati i gel igienizzanti, con stridii imperiosi chiedeva immediatamente che gliene mettessero da parte almeno due!!!. Le mie fruttivendole, con calma meravigliosa e sorriso incoraggiante, mi chiedono un balletto per l’uva stupenda, ma dietro di me esseri fasciati (umani?) borbottavano chiedendosi cosa erano tutte quelle cazzate. Enrico invece, amico medico meraviglioso in fila dietro di me, mi consiglia le orecchiette con i broccoli. Ho seguito il consiglio e al pomeriggio in casa confeziono, sotto l’esperta guida della moglie, stupendi cappellacci con la zucca, rimandando al domani, o forse a molto più tardi, i severi studi che mi attendono.

Il pazientissimo ‘San Lorenzo’, il mio amatissimo tecnico, mi aiuta seguendomi pazientemente al telefono ad ordinare gli ultimi tre libri di Eshkol Nevo che non ho ancora letto. E sapere che li avrò il 6 aprile mi rende più leggera la clausura. Poi, ieri notte mentre divoravo l’ultimo romanzo dello scrittore israeliano, L’ultima intervista, mi folgora una considerazione che trovo a p. 59 della traduzione italiana:  “Quando hai vent’anni e una sigaretta, un avvertimento è una mosca da scacciare con la mano”. Quindi l’avvertimento di chiusura che vien dato ai giovani di ogni continente diventa una ‘mosca da scacciare’. Si potrebbe allora concludere che al fondo di questi atteggiamenti si potrebbe essere ben innestata la paura: la paura di stare con se stessi, come è universalmente vero in tutte le giovinezze del mondo. Allora la tristezza si muta, nei più avvertiti, in necessità di portare un aiuto che, al di là di quello fisico così generosamente prestato, deve farci riavvicinare a quei giovani che hanno paura e sono tristi.

INTERVISTA ESCLUSIVA al Prof. Giovanni Gugg, Antropologo dei Disastri
“Dentro l’Emergenza dovremmo ripensare tutto: politica e relazioni sociali”

Giovanni Gugg
Giovanni Gugg

In piena crisi da coronavirus è difficile poter fare delle previsioni su cosa potrà aspettarci dopo, soprattutto quando l’emergenza sanitaria non sembra arrestarsi. Abbiamo però provato a dare uno sguardo alla realtà diverso e per farlo ci siamo affidati a Giovanni Gugg, esperto di “Antropologia dei disastri” e docente di “Antropologia Urbana” presso il dipartimento di ingegneria dell’Università di Napoli “Federico II, il quale vive, però, a Nizza, nel Sud-Est della Francia.

Primo punto: com’è la situazione in Francia?
Dal punto di vista sanitario, in Francia la situazione è quella dell’Italia una decina di giorni fa: oggi, 20 marzo, i casi di persone positive al Covid-2019 sono 12.612, grosso modo quante ne aveva l’Italia l’11 marzo (12.462; oggi ne ha 47.021, con un raddoppio ogni 4-5 giorni).
Dal punto di vista politico-sociale si è in ritardo e si sono compiuti errori gravissimi: la Francia aveva a disposizione l’esperienza italiana, ma l’ha ignorata o sottovalutata per molto tempo, addirittura confermando il primo turno delle elezioni municipali, il 15 marzo, per poi, già il giorno successivo, decidere di rinviare a data da destinarsi il ballottaggio, dinnanzi alla scarsissima affluenza degli elettori. Da domenica 15 sono chiusi i locali pubblici, da lunedì 16 le scuole e le università, da martedì 17 c’è la quarantena, da venerdì 20 – almeno a Nizza – c’è il coprifuoco dalle ore 23 alle 5 del mattino: è vietato uscire, se non per emergenza.

Com’è vista la situazione italiana dai nostri cugini d’oltralpe?
Nel giro di pochi giorni lo sguardo francese sull’Italia è cambiato radicalmente: fino a una settimana fa era piuttosto sostenuta l’idea che l’estensione dell’epidemia in Italia fosse dovuta a un lacunoso sistema sanitario e a scelte governative errate. Giusto una settimana fa, un opinionista in tv ha bollato il caso italiano come una “tragedia teatralizzata”. In realtà erano paraocchi con cui evitare di guardare quel che stava accadendo nella stessa Francia, così come in Spagna e in altri Paesei d’Europa: tutti gli esperti di epidemiologia e di statistica ripetevano che ovunque il contagio avanzava ad enorme velocità, eppure si è scelto di attendere, al punto di mantenere le elezioni, come dicevo. Anche per questa ragione io e il giornalista Marco Casa, con cui gestisco “Radio Nizza – Italiani in Costa Azzurra”, un sito di informazione locale e podcast, abbiamo deciso di pubblicare ogni giorno una sorta di newsletter sulla situazione sanitaria in Francia; stiamo finendo la terza settimana di bollettini quotidiani, quindi abbiamo seguito la situazione ben prima della quarantena. La percezione pubblica sulla serietà dell’infezione è cresciuta con i giorni, infatti ora verso l’Italia c’è attenzione profonda: si copiano i decreti del governo Conte e, in qualche caso, li si applica in maniera ancora più stringente, come anche i provvedimenti in campo economico.

Secondo lei Macron sta facendo abbastanza?
Quel che adesso sta facendo il presidente Macron è tentare di recuperare una situazione che probabilmente poteva essere meno grave se avesse avuto maggior coraggio o determinazione, una settimana prima. C’è da dire, però, che per quanto in Francia il capo di stato abbia molto potere, vi è comunque una negoziazione politica come in qualsiasi democrazia europea, per cui, secondo dei retroscena giornalistici, pare che lui volesse rinviare le tanto contestate elezioni municipali, ma che le minoranze si siano fortemente opposte, pretendendole. In ogni modo, è chiaro che la responsabilità prevalente è del presidente, il quale poi ha pronunciato un paio di discorsi alla nazione molto potenti e solenni, ripetendo più volte che quella in corso è una vera e propria “guerra sanitaria”.

Cosa ha pensato allo scoppio dell’epidemia in Italia?
Seguivo l’epidemia con particolare cura fin dalle prime notizie in Cina, non solo attraverso le fonti ufficiali o i giornali più autorevoli, ma anche seguendo gli aggiornamenti di alcune persone specifiche, come Ilham Mounssif, ambasciatrice culturale in Cina che su Instagram racconta ancora oggi il suo quotidiano, oppure dialogando con un dottorando di mia moglie, che è originario proprio di Wuhan. Pertanto, quando l’epidemia è arrivata in Italia mi sono preoccupato immediatamente e ne ho parlato subito in famiglia, agli amici e ai miei studenti. Certo, però, non immaginavo che in qualche settimana l’intero Paese potesse essere chiuso in quarantena perché non si riesce in nessun altro modo a contenere i contagi.

Lei è un antropologo esperto anche del continente africano: ora il Congo è in emergenza per il morbillo, cosa prevede possa accadere se dovesse diffondersi anche lì il coronavirus?
La Repubblica Democratica del Congo è un Paese immenso e di estremo interesse, che dovremmo osservare con rispetto anche per imparare ad affrontare crisi sanitarie gravissime. Attualmente vi sono almeno tre urgenze mediche in corso: il colera, il morbillo e la poliomielite. Si tratta di epidemie concentrate in alcune province, ma dove la precarietà delle infrastrutture, la povertà e la violenza accentuano in maniera indicibile le difficoltà e il dolore. Tuttavia, come dicevo, molti Paesi dell’Africa potrebbero insegnarci la caparbietà e la speranza, la resilienza e la resistenza. Agli inizi di marzo, ad esempio, è stata dimessa l’ultima paziente in cura per ebola nella Repubblica Democratica del Congo, un’epidemia terribile scoppiata un anno e mezzo prima; ora si è in attesa che passino 42 giorni senza nuove infezioni per dichiarare conclusa l’emergenza. Per quanto riguarda il covid-19, invece, bisogna dire che è già arrivato in Africa, generalmente portato da europei asintomatici, e se dovesse diffondersi sarebbe una tragedia difficile da contenere.

Molti pensavano che sarebbe arrivato proprio dall’Africa in Italia, non è stato così. Cosa pensa al riguardo?
Quelle sono state speculazioni vergognose messe in circolo da imprenditori politici della paura, personaggi senza argomenti se non quello dell’odio e senza altro interesse se non il consenso. Tra i primi effetti del nuovo coronavirus c’è stata un’esplosione xenofoba, prima contro i cinesi, poi, appunto, contro gli africani e, in genere, i migranti. Si tratta di una forma di strumentalizzazione piuttosto nota: sono anni che certi ambienti mettono in circolo paure immotivate – negli ultimi anni, ad esempio, in merito alla scabbia e all’ebola –, puntualmente smentite dai controlli sanitari che i migranti ricevono alla frontiera.

Può spiegarci cos’è la “antropologia dei disastri”?
È una branca specifica dell’antropologia culturale, con cui si osserva e analizza il disastro in quanto processo sociale. In altre parole, ponendo attenzione sull’emergenza, cioè su un evento che irrompe nella vita sociale e ne interrompe il flusso regolare, si scorgono i tratti più autentici della normalità, gli elementi più strutturali dell’ordinario. Le crisi, per quanto devastanti e logoranti, sono dei momenti che svelano e, pertanto, che insegnano. Gli scienziati sociali (non solo antropologi, ma anche sociologi, storici, geografi umani…) che si occupano di disastri si focalizzano sulle responsabilità, sulle retoriche, sulla gestione, sulla visione messa a nudo dagli eventi drammatici, come sismi, eruzioni, inondazioni, incendi, frane… o, come nel caso che stiamo vivendo, epidemie e pandemie.

Tutto questo, come cambierà la nostra realtà?
Le crisi profonde mettono in gioco dei rapporti di potere, e una malattia come quella causata dal nuovo coronavirus, insinuandosi nelle maglie del sociale, può far vacillare la legittimità e l’autorità del potere. Storicamente, questo è avvenuto spesso proprio in occasione delle epidemie. Nella nostra società del XXI, la pandemia covid-19 sembra aver fatto svanire l’illusione di onnipotenza a cui il progresso tecnologico e scientifico ci avevano abituati (anche in campo medico); forse era un delirio collettivo, ma certamente non eravamo preparati ad un impatto simile. Anche per le ricadute economiche che il blocco di gran parte del mondo industrializzato sta subendo, è verosimile pensare che quando questa crisi passerà, molte cose saranno cambiate e cambieranno anche su altri piani, come quello politico interno ai Paesi colpiti, geopolitico tra aree del mondo, macro-economico, sociale e culturale. Il punto è sapere quando questa crisi finirà, perché più sarà lunga, più le misure restrittive adottate nelle ultime settimane incideranno e lo “stato di eccezione” sarà ritenuto una normalità, tra confinamenti e coprifuoco, divieti di jogging e chiusure dei supermercati.

Il professor Marco Aime sostiene che ci saranno tantissimi studi su una situazione nuova ed eccezionale come questa, cosa c’è di nuovo rispetto alle altre epidemie vissute dall’essere umano?
Si, ci saranno molti studi soci-antropologici su questa fase, come ce ne sono stati tanti in Giappone in seguito al disastro di Fukushima o, per stare in Italia, al sisma dell’Aquila (evento che, in effetti, ha fatto crescere molto gli studi antropologici sui disastri). Per noi europei questa pandemia è qualcosa di nuovo nel senso che era almeno un secolo che nel continente non si dovevano affrontare epidemie su vasta scala, come la terribile “influenza spagnola” che tra il 1918 e il 1920 uccise decine di milioni di persone. Certo, in realtà successivamente l’Europa ha avuto molte altre epidemie, anche negli anni recenti, ma non erano generalizzate, perché colpivano soprattutto determinate fasce della popolazione o luoghi molto precisi, come l’aids per gli omosessuali o il colera a Napoli.

Come ci si risolleva da una situazione del genere?
Difficile dirlo in poche battute, consapevole che una crisi complessa deve essere affrontata a molteplici livelli. Innanzitutto è necessario uscire dall’emergenza sanitaria, dunque fermare i contagi e curare al meglio tutti i pazienti, ma poi sarà essenziale rialzarci dalla recessione economica che si sta aprendo sotto i nostri piedi, e quindi sarà importante redistribuire e sostenere. Inoltre bisognerà fare una disanima storica delle politiche sociali in Italia e in Europa, tra tagli e austerità che hanno indebolito il sistema sanitario nazionale, palesemente in difficoltà anche nelle regioni più ricche d’Italia, come Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte. Ciò significa che in Italia andrà ricalibrata la politica sociale e andrà abbassato l’enorme debito pubblico che grava sulla nostra credibilità internazionale. Tuttavia bisognerà agire anche sull’Unione Europea e le sue regole sulla stabilità, costruendo uno spirito solidale che oggi fa fatica ad emergere proprio in occasione delle crisi più gravi. Infine, per il bene della democrazia, sarà necessario fare attenzione ai populismi futuri, cioè al ritorno di movimenti neo-identitari che prosperano sulla paura e alle ciniche semplificazioni di chi farà leva sul malcontento e la frustrazione, ancor più di quanto abbiamo visto nell’ultimo decennio.

I rapporti tra gli esseri umani come cambiano nel durante e nel dopo? Si tornerà ad una normalità?
La normalità è un concetto mobile, il “centro di gravità permanente” cantato da Franco Battiato non esiste e, se esiste, è vero solo per un baleno. La normalità a cui molti fanno riferimento è la nostalgia di uno stato di privilegio goduto solo da una parte della società e che l’epidemia ha scombussolato. La nuova normalità che dobbiamo costruire deve essere necessariamente più equa, perché la sicurezza – come stiamo drammaticamente verificando – è un bene comune: se stanno bene gli altri, stiamo bene anche noi. In questo periodo ci sentiamo disorientati, come dopo un disastro: non riconosciamo i nostri luoghi (vuoti come in un film apocalittico) e non ritroviamo la nostra comunità (smembrata e atomizzata in case che sono sia rifugio che prigione). Ciò è particolarmente vero durante queste settimane di quarantena, perché siamo fisicamente isolati e impossibilitati a incontrarci. È per questo che dai balconi tentiamo di conservare la relazione attraverso cori e applausi. Come detto prima, la questione riguarda il quando: fino a quando queste strategie culturali di controllo dell’ansia saranno efficaci? Gli effetti devastanti del virus cominciano ad avvicinarsi, vediamo la fotografia di una colonna di camion pieni di salme a Bergamo e ci passa la voglia di cantare, diventiamo più cupi e irascibili. La tenuta psicologica in queste condizioni è molto fragile, per cui diventa essenziale trovare nuove modalità di socialità.

Lei è anche un docente “viaggiatore”, com’è cambiato il suo modo di fare lezione?
Si, vivo a Nizza e ho un insegnamento a Napoli, per cui durante il secondo semestre viaggio molto tra queste due città. Ma quest’anno sono riuscito a tenere solo una lezione in aula, poiché subito dopo c’è stata la chiusura in Italia delle scuole e delle università. Immediatamente, però, ci siamo organizzati per via telematica, così il semestre non andrà perduto e gli studenti potranno sostenere gli esami, anche se davanti ad un computer.

È ugualmente valida la didattica a distanza?
Io ho la fortuna di avere un ottimo dialogo con i miei studenti, perché anni fa ho creato un gruppo-Facebook del mio corso e, pertanto, ho continui scambi gli studenti e studentesse. La lezione in diretta streaming, però, mi mancava, quindi c’è voluto un po’ per prendere dimestichezza con questo strumento, ma con la disponibilità di tutti stiamo riuscendo a coprire gli argomenti previsti dal corso. La lezione in aula ha un coinvolgimento maggiore, perché vi si riesce a comunicare anche con lo sguardo e la postura, tuttavia ho l’impressione che gli studenti siano molto consapevoli dell’eccezionalità di questa situazione, per cui si sono posti tutti in maniera molto costruttiva e propositiva.

Come vede il futuro? È preoccupato?
Ho i miei timori, certo. Ho due bambine piccole e dei genitori anziani; ho studenti che mi chiedono se andrà bene… Ed io rispondo a tutti che certamente andrà bene, ma ci vorrà tempo, coraggio, capacità di sopportazione. Dall’inizio dell’epidemia, in Italia si sono avuti 4000 morti; un dato destinato a crescere che non può non mettere angoscia. Eppure non possiamo crollare proprio ora, per cui io stesso mi dico di dover resistere e di non cedere allo sconforto.

PER CERTI VERSI
Frammenti d’Italia (prima tappa)

La descrizione, frammento dopo frammento, di un paese meraviglioso…
Ma questo paese è il nostro paese!
E proprio questa intensa opera lirica dà la misura della bellezza incomparabilmente varia di una terra ammirata e invidiata da tutti eppure, forse proprio per questo, denigrata da molti.
In un’Italia che in questa drammatica emergenza rischia d’andare in pezzi, ma che – ne sono convinto – saprà riemergere più forte e coesa di prima, è forse arrivato il momento per noi tutti di comprendere quanta fortuna significhi esservi nati e cresciuti, nonché l’onore d’esserne figli. Scopriamolo scrutandone i frammenti nell’omaggio poetico di Roberto Dall’Olio che, per quattro settimane, si rinnoverà ogni domenica e ogni mercoledì.
Buona lettura e buon viaggio.

Carlo Tassi

FRAMMENTI D’ITALIA

I

si vede
aprirsi fiorita
oltre il nugolo alpino
una fantasia
non cartesiana
del cielo

II

una terra di rugiade
sole e mare
una terra di sabbia e luce
calda terra
di bruma pensante
l’Italia!

III

dorsali alberate
gestualità misteriose
etrusche tracce

IV

la pace
tra i cipressi
da intingere
calamai di stagioni
e piogge di luce

V

Italia
patrimonio
del Mondo
dai pini lunghissimi
l’ombra liquida
a spiagge
infinite

VI

la vecchiezza moderna
degli ulivi
la decrepita lungimiranza
degli Appennini scavati

VII

i calanchi erosi
la tempra fragile
di una terra eterna
saldata al vento
istoriale

VIII

una terra cara
alle angurie dei tramonti
sulle facce intagliate
dei vecchi

IX

o nude colline
mammelle
di un’Italia in fasce
e remota di vita
le arti gemelle
ti accarezzano
infine

vai alla seconda tappa

Giustizia Sociale e Libertà: gli ingredienti per una Europa Unita.
Storia di un progetto lasciato a metà.

di Grazia Baroni

Il progetto politico di costruire una Europa come uno stato democratico unico, con un’unica Costituzione, è la cosa più sensata per dare continuità storica ai popoli che in essa vivono e che hanno fatto la storia di questo continente. Il progetto di costruzione dell’Europa è il passaggio naturale per far sì che le storie e la cultura del popolo europeo siano contemporanee al tempo storico attuale, come nel passato hanno determinato il processo di sviluppo della civiltà fino ai giorni nostri.

La storia dell’Europa comincia con il mito che ci viene tramandato fin dalla civiltà Cretese e Micenea; il mito di Europa e Zeus.
‘Europa’ nasce da un mito pre-storico, dal quale prende origine e che dà profondità e senso alla sua storia. Nel mito di Europa, sono sintetizzate tutte le caratteristiche dei popoli europei.
Figlia di Agenore, nasce da nobile stirpe fenicia, quindi di fatto ha origini nel medio-oriente, e vive di agricoltura e di allevamento. Giove se ne innamora e, sotto forma di toro, la rapisce con l’aiuto di Ermes e la porta a Creta. Il mito raffigura quindi lo spostamento del popolo dalla terra di Oriente alla terra di Occidente, che prende così il nome dalla fanciulla rapita.

Ancora oggi alcuni simboli sono presenti nelle tradizioni di alcuni popoli, come la Corrida in Spagna e la Corsa Camarghese in Francia. La rappresentazione paleolitica del toro di Altamira, quindi, accomuna nel mito i popoli europei che in questa rappresentazione del sacro si riconoscono.
Con la civiltà mediterranea abbiamo dato origine alla cultura umanistica, che è quella che pone l’uomo al centro di qualsiasi progetto di sviluppo e convivenza, inventando anche la forma di governo democratico. Questo rende possibile la pace come condizione necessaria alle civiltà per svilupparsi e guardare al futuro, incontrando altre realtà senza entrare in conflitto.

Come mai non riusciamo a costruire questo progetto unitario, pur avendo le stesse radici tra lingua, usanze e storia?
La più grande forza dell’Europa è sempre stata quella di creare legami tra popoli entro un progetto comune di giustizia e convivenza pacifica.
Le diversità non sono radicali: la nostra cultura, oltre che nel mito, ha radici nella continua ricerca della qualità umana e della sua realizzazione storica testimoniata in maniera evidente nelle cattedrali gotiche, originali delle terre nordiche francesi, si sono irradiate in tutto il continente e sono testimonianza fortissima della cultura europea come concezione comune. Infatti, esse rappresentano non solo un’alta professionalità architettonica e creativa, ma soprattutto descrivono l’ideale a cui i popoli europei aspirano.

La centralità dell’essere umano nasce in Grecia, si rafforza con il cristianesimo, diventa attraente per tutti i popoli nel XVI secolo con l’Umanesimo. Con l’Illuminismo diventa non solo quel linguaggio e cultura del continente europeo, fino agli Urali, ma si apre a tutta la civiltà umana influenzando il nuovo mondo, America del nord e sud e Canada. Inoltre, l’uso della ragione come qualità umana diventa strumento di sviluppo per altre civiltà come quella indiana e cinese.
La storia insegna che finché i potenti non rinunciano alla loro posizione di privilegio e potere, rifiutando di evolversi verso una civiltà più giusta, perderanno tali poteri per violenza. La storia stessa li travolgerà: l’umanità si evolve necessariamente, il processo storico di umanizzazione non si può fermare e prevede la democrazia, come ricerca del bene comune e quindi della giustizia sociale.

Ne consegue che quanto prima costruiremo l‘Europa democratica tanto prima i conflitti e le tensioni diminuiranno e si riuscirà a intervenire con un rapporto armonico con il nostro pianeta. Il non istituire l’Europa è un comportamento irrazionale e anti-scientifico rispetto a tutte le criticità della realtà attuale, a partire dal cambiamento climatico che sta stravolgendo il globo.

E’ da 3.000 anni che l’Europa attende di essere formata, unificata, di diventare una realtà politica. La spinta storica più recente è stata la seconda guerra mondiale con i suoi 60 milioni di morti, frutto della peggiore manifestazione del subumano, negando ciò che la libertà e il valore del singolo rappresentano. D’altronde il potere di per sé, pretendendo il controllo, nega necessariamente la libertà poiché si serve della paura e della menzogna anziché della comunicazione e la trasparenza di fini e di mezzi.

L’Europa sarebbe il primo progetto politico a mettere al centro del suo programma la giustizia sociale e la libertà personale e comune per dare a tutti la possibilità di vivere ciò che ogni essere nato ha il diritto di vivere.

PERCHE’ LUIGI NON RESTA A CASA COME GLI ALTRI?
Per i barbùn di Ferrara la vita è rimasta uguale a prima.

E già domani, il primo giorno di primavera, ma la scorsa notte a Ferrara è arrivata una nebbia spessa, sgarbata, invincibile. L’altra mattina, invece, già all’alba era tutta un’altra città: vuota, vuotissima, ma con i colori del sole e dei suoi mattoni rossi. Le 8 passate da poco, nessuno per strada, Sto andando in ufficio. In giro è un deserto mentre cammino verso la chiesa di San Francesco. Arriva qualcuno, un uomo, un po’ curvo, ancora giovane. Cammina al rallentatore, ogni tanto si volta indietro, si ferma, fa un tiro a un mozzicone di sigaretta, riprende a camminare. Spinge davanti a sé una carrozzina, di quelle che si usano per portare a spasso i neonati. La carrozzina è piena, stracarica di cose, c’è buttata sopra una trapunta che trabocca dalla carrozzina..

Mi fermo. Lo guardo. Mi avvicino. Ora siamo sul piazzale di San Francesco, lo saluto: “Ciao, io mi chiamo Francesco”. Si ferma e si volta verso di me, mi guarda. Siamo a due metri di distanza. La distanza regolamentare. Insisto: “Scusami, tu come ti chiami?”
Alza gli occhi, mi guarda meglio, per due o tre secondi: “Luigi, mi chiamo.”
– Posso chiederti una cosa Luigi?
Non risponde. Fa un passo, poi si ferma, mi guarda di nuovo. Con più attenzione.
– Volevo chiederti se posso farti una foto con il cellulare?
Silenzio
– Non c’è problema Luigi, se non ti va faccio a meno.
Ci sta pensando..
– Sai, mi serviva una foto, per metterla sul mio giornale. Ma è lo stesso.
– Fammi la foto.
– Grazie Luigi. Ecco, alza un po’ gli occhi. Ecco fatto!
Mi fa un sorriso. Piccolo, storto, ma è un sorriso.
– Non mi hai detto dov’è che vai Luigi?
– Per la strada vado.
Rimetto in tasca il telefono, lo saluto e lo guardo attraversare il piazzale, in diagonale, verso via Savonarola. E’ ora di andare in ufficio.

Non sono soddisfatto della foto. Questione di gusti, io non ho mai voluto farli i reportage, tantomeno  i fotoreportage. Certo, magari prima dello scatto si chiede il permesso, ma alla fine è sempre una rapina, un furto dell’intimità altrui. A volte, in caso di tragedia, è molto peggio, senti svolazzare gli avvoltoi. Non li avete visti i cronisti d’assalto all’opera in queste settimane di Coronavirus?
A Telestense non sono né avvoltoi né corvi, ma vanno di fretta. Sul problema dei Senza Fissa Dimora avevano intervistato Raffaele Rinaldi, direttore della Associazione Viale K. (in tutto, 3 minuti e 23 secondi). Poi c’era stata l’intervista, sempre a Raffaele, del Carlino Ferrara. Avevo letto anche quella, ma mi rimanevano molti dubbi, molte domande in sospeso. E, dopo l’incontro dell’altra mattina, una in particolare, piccola ma urgente: “Dove va a dormire Luigi?”. C’è uno spazio, un posto aperto per lui in una città sempre più blindata? C’è una porta a cui bussare? Un letto in cui dormire? Un luogo sicuro e protetto? Una casa dove ‘restare a casa’? Valgono, o per lui non valgono i  decreti, le ordinanze, gli accorati appelli, i severi divieti?

Mando un messaggio al mio amico Raffaele, non lo vedevo e sentivo da mesi: “Possiamo sentirci una mezzora al telefono? Quando hai un buco libero?”. Non sarà un’intervista. Voglio solo sapere. Capire come vive oggi, come vivrà domani e dopodomani Luigi. E gli altri come lui, i barboni, i clochard (se preferite un nome un po’ romantico), i Senza Fissa Dimora. Quelli che la casa non che l’hanno più, che a casa non ci possono stare nemmeno volendo, che percorrono il giorno sulle strade, che dormono dove capita, dove fa un po’ meno freddo, che si portano appresso una coperta, un berretto di lana e tutte le loro poche proprietà. Sembra che i Senza Fissa Dimora, che facevano questa vita prima della pandemia, oggi – ordinanza dopo ordinanza – continuino a fare la stessa identica vita. Ora che il morbo infuria: “Raffaele, dove va a dormire Luigi?”

Parla Raffaele: “Il nostro dormitorio di via Albertina è arrivato al limite massimo, al tutto esaurito, non c’è più posto. Ieri abbiamo accolto gli ultimi due. E dalle segnalazioni che abbiamo, sono almeno una decina a Ferrara quelli che girano per la città senza un posto dove dormire in sicurezza. Ma sono certamente di più, come fai a contarli? Abbiamo fatto un pubblico appello diretto al Sindaco Fabbri, chiedendogli un intervento immediato, concreto, serve una nuova struttura per il ricovero notturno. Stiamo aspettando una risposta”.
14 operatori e una ventina di volontari di Viale K stanno lavorando ‘senza orario’, in emergenza. E molti ‘ospiti’ danno anche loro una mano, per pulire e sanificare i locali, preparare pasti e panini, rispondere alle chiamate.

“Ci vorrebbero altri locali per accogliere chi è ‘rimasto fuori’ – continua Raffaele Rinaldi – lo abbiamo chiesto al Comune, perché rimanendo in giro si espongono al pericolo, anche alle denunce penali, perché girando senza autorizzazione, sono a tutti gli effetti ‘fuorilegge’. E diventano loro stessi un pericolo per gli altri. E’ un lavoro difficile quello degli operatori e dei volontari: alcuni SFD fanno fatica ad accettare di vivere al chiuso, a cambiare le loro abitudini consolidate”.
Lo stanno chiamando per un’altra emergenza, ma nel salutarlo ho anch’io una richiesta per lui: “Non fidarti troppo delle interviste, delle parole riportate, nemmeno di quelle che scriverò io. Trova un po’ di tempo, scrivi tu questa storia, tu sei bravo a scrivere.”.

Dentro una Grande Guerra (e questa non sarà una guerra lampo, ma una lunga battaglia di trincea) sono i più deboli a rimanere ‘senza ombrello’, esposti ai pericoli, lasciati fuori dalla porta, identificati come il male minore e quindi sacrificati, perché i forti possano prevalere ancora di più.  Non c’entra ovviamente il destino, è invece lo spettacolo di una crudele selezione del tutto artificiale. Il meccanismo data millenni, ma nei momenti di crisi emerge e si impone con più evidenza e cattiveria.

Servirà allora ascoltare El portava i scarp del tennis, una delle canzoni più belle, più dure – più anti-borghesi si diceva una volta – di Enzo Jannacci.

 

COME SE FOSSE NORMALE
Una poesia di Carla Sautto Malfatto per la ‘Giornata internazionale della poesia’

di Carla Sautto Malfatto

COME SE FOSSE NORMALE

Come se fosse normale
ad un metro ti dico coraggio
al telefono resto a parlare
che mi manca il tuo abbraccio
a fare boccacce,
della pazienza e del buon senso,
la ricetta della pizza e del pane
e mi sembra che di pensieri
così accanto
non li abbiamo mai avuti.
Io sono qui
ancora mamma e ancora bambini,
la scoperta che si fa seme
chissà poi se attecchirà
diventerà cosa nuova
o rinsecchirà
nella ripresa normalità
di un campo duro e non arato.
Dipende da noi,
dipende da me e da te
sono nelle tue mani
e tu nelle mie,
basterebbe questo capire
a smuovere la zolla
lo è sempre stato
dimenticato,
il meglio e il peggio di noi
ora sotto il sole
che resta sospeso
anche di notte
in un afflato di domani.
E le mani sono piene
di baci lanciati.
Già si chiede
di non dimenticare.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

IL TEMPO DEL SILENZIO
(ancora da Brescia)

Chi si aggira in questi giorni per i paesi e le città del Nord Italia scopre l’intensità del silenzio. Il Covid-19, che costringe tutti a casa, ha svuotato i normali luoghi di socialità. Centri ricreativi, sportivi, cultuali, religiosi completamente vuoti e da oggi chiuse anche quasi tutte le fabbriche. Le scuole sono chiuse da settimane e i ragazzi tutti a casa.
Spazi aperti privi di rumore dilatano l’impressione di vuoto e indeterminatezza, e con il loro nuovo status suggeriscono profonde riflessioni.
Ci sono molte silenzi che si addensano in quelle strade vuote.
Il silenzio di chi ha perso un familiare senza aspettarselo. A volte senza nemmeno capire cosa stesse succedendo. E’ un silenzio doloroso che non trova consolazione immediata ma che anela a una rivalsa nel tempo.
Il silenzio di chi è ammalato e spera di guarire. Per molte persone sarà davvero così e questa esperienza diventerà un racconto ammantato da quella struggente coperta che avvolge i ricordi e li trasforma in storie che qualcuno ricorderà.
Il silenzio di chi ha improvvisamente smesso di lavorare e non riesce a credere che quello che sta succedendo è vero, più vero della fantascienza, del complottismo, delle illusorie convinzioni di sapere cosa davvero ci toccherà. Bisogna prendere atto che nessuno sa cosa succederà e questo annienta molta presunzione e apre le porte all’indeterminatezza e al conseguente timore.
Si respira la sorpresa di chi credeva di conoscere il silenzio e improvvisamente scopre che il silenzio personale è diverso da quello collettivo. Anche qui si svela una presunzione. Quella di pensare che l’esplorazione del silenzio personale esaurisca la possibile esperienza in questo senso. Non è così. Il silenzio di tanti, non è il silenzio di uno solo.
Attraverso il silenzio si riscoprono strade e questa è una risorsa, comunque.

C’è un silenzio che permette di ripensare a ciò che si è fatto e a ciò che si stava facendo e che riverbera come alcune strade intraprese non siano quelle buone. Suggerisce che, se mai ci sarà la possibilità, sarà il caso di tornare indietro, di andare verso ciò che è autentico, ciò che da valore all’esistere, ciò che fa sentire più vivi. Diventa fondamentale riscoprire ciò da cui proviene l’amore.
C’è un silenzio che ti permette di scavare dentro te stesso alla ricerca dei tuoi pensieri poco mediati dalle convenzioni sociali, che ti ricopre affascinato da ciò che sembra un sentire rigoroso e un procedere intellettuale corretto e progressivo. Un procedere non lineare ma circolare dove chi è in pista ritrova un senso profondo dell’esistere.
C’è un silenzio di chi aveva già sofferto tanto e nel vedere l’attuale sofferenza intorno a lui si affranca da un senso di ingiustizia che lo ha annientato a lungo e ritrova improvvisamente la vita. In una dimensione di sofferenza che non è più individuale ma corale si riscopre una vera parità che coglie e ricostituisce gli aspetti profondi dell’essere. Lo stupore della vita è la sua esistenza, è il ritrovare soddisfazione profonda nell’essere persone vive. Tutto ciò è lontanissimo dal consumismo, dai soldi, dalla finanza, dalla dicotomia stato-mercato che non è mai esistita.
C’è il silenzio di una collettività che aspetta l’arcobaleno e mentre aspetta ritrova l’amicizia come valore, la solidarietà come scopo, la sopravvivenza della specie come unico anelito esistenziale.
Il silenzio permette di riscoprire la propria anima e di connettere il proprio vuoto con quello degli altri, ma anche il proprio “sentire” con quello del prossimo.

Non sembrerebbe possibile ma è esattamente così, il silenzio è uno dei maggiori tramiti dove l’esperienza soggettiva diventa esperienza collettiva. E’ come se il silenzio di tutti ampliasse la possibilità di trovare strade nuove per ciascuno. Il silenzio di tutti amplifica il silenzio di uno e gli permette di trovare nuove strade, gli permette di scavare dentro se stesso alla ricerca di una nuova verità che è sua ma anche degli altri, che diventa forte della concomitanza e prossimità dei tanti silenti.
Il silenzio grida forte come una frana, come un tornado in avvicinamento, come il terremoto. E’ una strada per riscoprire ciò che di se stessi e degli altri veramente conta. Il silenzio cerca l’essenziale e in questa sua ricerca è feroce. Una impresa al limite come la scalata di una grande cima, come un’immersione in un fondale profondo, come il troppo freddo, come il troppo caldo e come l’esperienza del deserto che di silenzio si nutre e compiace.

Le grandi passioni si nutrono di silenzio e non di rumore, i sentimenti profondi si nutrono della sospensione del rumore come se questa fosse una linfa vitale che porta forza. Il silenzio fa pulizia tra ciò che è profondo e ciò che solo lo sembra.
Ho ripensato all’amore, a quella passione profonda che diventa desiderio di bene prima individuale e poi universale. A quel sentire che travolge tutto e che stupisce tanto per la sua stessa esistenza e, subito dopo, per la suo voglia illimitata di crescere. Quel sentire propulsivo come l’inizio della vita, come l’eros, come il cammino.
Ciò che noi possiamo trovare nel silenzio è la differenza che esiste tra il poco che nutre la vita ed il tanto che la avvilisce. L’attuale esperienza di silenzio può essere per tanti una strada tortuosa di rinascita, di riscoperta di ciò che è umanamente vero, di ciò che conta almeno per un po’, per quel che potremo vivere.
Immersa nel silenzio delle nostre città del nord, riesco a pensare ai colori del sole e del mare, alle albe e ai tramonti, alla musica, ai piedi che scricchiolano sulle foglie secche e a tutte le volte che ho desiderato qualcuno che non c’era. Quando avrei tanto voluto una sua parola e non ho potuto che respirare il suo silenzio amplificato dal mio.
Immersa nel silenzio delle città del nord ho capito che ci sono silenzi che decidono della vita, del futuro, dell’amore e della sua fine.
Il silenzio è come uno specchio dentro il quale possiamo ritrovare noi stessi oppure perderci definitivamente dentro una verità inutile che qualcuno ha amplificato proprio per noi.

SEMPRE CON ME
Una poesia di Carla Sautto Malfatto dedicata alla Festa del papà

di Carla Sautto Malfatto

SEMPRE CON ME

Il magnifico corpo di mio padre che a passi di danza
si è allungato nella sua vita di molti tramonti
mi spinge con le ginocchia ossute dietro il sedile dell’auto
quando la mia mente è troppo sola.

– Ciao papà, – allora sussurro senza guardare nello specchietto
l’assenza dei suoi occhi indecentemente sinceri
e mentre lo ringrazio della compagnia, mi vergogno
di non riuscire a ricordare il timbro della sua voce.

Nemmeno questo è rimasto di te disperso nel mio sangue,
come il brillio di una meteora confuso, eppure distinguibile
nei suoi picchi e in certe venature di malinconia
che credevo solo mie.

Oggi trasporto te, vedi come sono brava alla guida
di questa esistenza che mi sfianca
ai tornanti, ai semafori sempre rossi,
prima, accelerata e ancora stop, senza un vigile dall’alto
che la faccia scorrere tranquilla alla meta.

Non è quello che volevo, né quello che volevi tu,
e in questo siamo simili e fregati, padre e figlia,
ma almeno il tuo respiro non appanna i vetri
e come il bue del presepe mi riscalda come può.

Guardo fuori dal finestrino la nebbia che scende
e ho sempre più paura all’avvicinarsi del tunnel…

e le tue ginocchia premono più forte dietro la schiena
per dirmi che non mi abbandoni.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)
da ‘Troppe nebbie’, Edizioni Il Saggio, 2019

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Persone di spessore

“E’ uno stratificato, come me”.
“Però a te ci si arriva”.
“È pieno di correnti, limpido a tratti, ma nero per lunghi metri”.
“Si fa attraversare?”
“Da me, sì. Però, proprio come me, a volte spaventa. Perché sai che perdersi può non dipendere da noi”.

Non la sento da qualche giorno B., ma non importa, potremmo riprendere anche ora da quello scambio di messaggi parlando della paura che si provoca negli altri, della confusione tra facilità e fatica nell’arrivare fino in fondo a qualcuno, quando sembra di esserci finalmente e un attimo dopo di non esserci più.
B. dice di avere vicino un uomo stratificato, anche lei lo è: materia che si poggia su materia e fa spessore, lì in mezzo ci puoi trovare tutte le domande del mondo e qualche tentativo di risposta. Penso che sia un bene sommare questi strati e le faccio l’esempio di chi non ne ha proprio, quelli sottili sottili, lamiere taglienti che entrambe abbiamo conosciuto.
Poi la paura, che B. usa in maniera causativa, come lui. In effetti persone così, possono intimorire perché da loro qualcosa arriva. Una rarità, ormai. Più facile lasciare cadere, non rispondere, annacquare. Loro, gli stratificati, invece li trovi sempre, anche quando percorrono quei lunghi metri neri.
Però, cara B., non devi pensare che perdersi possa anche non dipendere da noi, non più. È stato così, è vero. Ma i tuoi strati sono aumentati, ti ci puoi accomodare sopra. Sono morbidi.

Che tipo di persone avete incontrato nella vostra vita? Spesse e stratificate come l’uomo di B., oppure esili e volatili?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

DIVIETO DI PASSEGGIATA
quando la libertà viene trattata con leggerezza

Dubito che la passeggiata (scritto proprio così: “la passeggiata”) rientri nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Se ne parlassero i cahiers de doléances e se fosse in qualche modo inclusa (“la passeggiata”) in una bozza preparatoria della Costituzione del 1789 (Termidoro l’avrebbe però senz’altro abolita). Se Rousseau la includesse nel suo Contratto Sociale. Se ne scrisse Adam Smith, o se ne sia occupato Marx, nel Capitale o in qualche nota a margine dei suoi Grundrisse. Se, infine, i nostri Padri Costituenti (non ho sottomano i verbali dei lavori della Assemblea) ne abbiano almeno discusso, per poi decidere di non inserire il termine “passeggiata” nella prima parte della nostra Costituzione Repubblicana.

Niente “passeggiata” nei sacri testi. Sia stata una colpevole dimenticanza o si sia invece preferito utilizzare un sinonimo, una locuzione, un termine correlato, rimane comunque un fatto. E cioè che “la passeggiata” è tutt’altro che una cosa di poco conto (il dolce suono della parola può ingannare). Non è cosa che attiene all’angolino del nostro ‘tempo libero’. Non è solo materia di cattiva e di buonissima letteratura (specialmente quella di lingua tedesca, dal preromanticismo ad oggi, è ricca di romanzi e racconti magnifici di passeggiate e di passeggiatori). La passeggiata è una cosa terribilmente seria. Fondamentale. Vitale. Un altro modo di dire LIBERTA’. Libertà di muoversi. Libertà di usare il nostro corpo. Libertà di andare a cercare qualcosa o qualcuno. Libertà di immergersi nella natura: aria, sole, erba e tutto il resto. Libertà di andare a zonzo, di incamminarsi e decidere ‘cammin facendo’ se fermarsi, girare a sinistra o prendere il sentiero alla nostra destra.

Siamo nel bel mezzo di una tragedia globale. Da un giorno all’altro siamo stati catapultati in un mondo inedito, intrappolati, per necessità, in uno ‘Stato di Eccezione’, dove le libertà individuali e collettive (che credevamo immutabili quanto scontate) sono state progressivamente limitate, dove anche le fondamenta della democrazia traballano (temporaneamente? Speriamo: anche questo dipende da noi). E dove noi stessi abbiamo accettato, responsabilmente, di cedere un bel pezzo della nostra libertà per salvare la salute, la nostra e quella di tutti.

Ci siamo affidati – fidati – alla scienza, ai medici, alle autorità. Però la Libertà che le varie autorità ci tolgono (temporaneamente e con il nostro silenzio assenso) va trattata con il dovuto rispetto. Con i guanti bianchi. Questo, almeno questo, possiamo chiederlo? Possiamo Pretenderlo? Ecco, nel caso del DIVIETO DI PASSEGGIATA , o della CHIUSURA TOTALE e indiscriminata di TUTTI i parchi, i giardini, le aree verdi (è successo a Ferrara e in altre città d’Italia, per fortuna in tante altre no) a me pare che le Autorità non abbiano avuto questo rispetto. Non è solo questione di portare a spasso il cane (eppure anche il diritto degli animali deve valere qualcosa), è che non si può togliere con leggerezza alle persone l’aria, il cielo, la terra, l’erba, gli alberi. La libertà.

Il Presidente Mattarella ci ha invitato alla FIDUCIA e ci ha chiesto SERIETA’. E’ quello che stiamo cercando di fare: di lui, almeno di lui ci fidiamo. Ma al Governo, ai Governatori, ai Prefetti, Ai Sindaci (compreso il Sindaco di Ferrara Alan Fabbri) chiediamo la medesima serietà. Non la leggerezza, non il pressapochismo, non la fretta e l’ansia proibizionista. Devono pensarci 70 volte 7 (come dice il Vangelo, non ricordo dove) prima di toccare la libertà  La passeggiata è uno dei nomi della libertà. Una libertà quotidiana, domestica, piccola piccola. Preziosa come la nostra vita.

PER CERTI VERSI
La nuvola della libertà

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

LA NUVOLA DELLA LIBERTÀ

La nuvola
Sosta sul confine
Dei nostri denti
La nebbia è un mare pallido e grigio
Ovatta che si strappa e di ricuce
Nei nostri ricordi
Io non so più come sei
A tratti mi dispero
Non esce dal mio pugno
Il sugo della nostra vita
A volte sogno
Di infilare
i pantaloni insieme a te
Dopo colazione
Tenere i pigiami
E andare nel mondo svuotato
Che si svela
Alla ricerca
di un ristoro
Di una cena
al lume
di candela

COVID-19 anni
(da una nuova giovane collaboratrice di Ferraraitalia)

Chi avrebbe potuto immaginare, quando il nostro unico problema era il Festival di Sanremo, che
di lì ad un mese il nostro paese si sarebbe trovato in una situazione del genere?
Non mi dilungherò a parlare dell’emergenza sanitaria, troppe piattaforme d’informazione
giocano a fare gli esperti e cadono nel ridicolo: d’altronde, quando si passa dal “disastro
mediatico” di Bugo e Morgan a problemi di minore importanza quali un’epidemia globale, la
confusione è comprensibile..
Quello che mi interessa è parlare di quello che per esperienza so e che sto vivendo.
La quotidianità si ferma e ci si ritrova catapultati in una realtà ovattata, nella quale ci si può
muovere soltanto se dotati di un permesso autocertificato.
Ho visto amici impazzire al pensiero di starsene segregati in casa, immobili, senza contatti,
ma non era proprio la mia generazione, la cosiddetta Generazione Z, figlia della tecnologia,
quella che stava perdendo sempre più il contatto umano?
Quello che riesco a vedere, che sinceramente mi rattrista, è quanto facilmente la gente
riesca ad annoiarsi quando è costretta a fermarsi. Il nostro mondo è veloce, rapido, dinamico, non
abbiamo tempo per pensare, riposarci, prenderci cura di noi stessi e ci lamentiamo, lamentiamo,
lamentiamo.
Quante volte ho sentito la frase “non ho neanche il tempo di respirare”. Eppure, adesso che
questo tempo ci è stato imposto con la forza, qualcosa da fare lo si deve trovare categoricamente,
altrimenti la testa va in giro e impazzisce.
Si trasgredisce, si fa finta che tutto sia normale, si va avanti come se nulla fosse, come se non vedendo il problema, questo non esistesse, o ancora meglio, scomparisse.
Continua a stupirmi l’abilità con la quale la nostra società, senza sforzo alcuno, riesce a creare un
suo ritratto perfetto: la paura non porta più all’azione ma all’ignoranza. Il problema che emerge da
questa situazione di quarantena è la mancanza di iniziativa e la incapacità di gestire il tempo, unite
al rifiuto di guardare in faccia il problema.
“Io so di scienza certa (tutto so della vita, lei lo vede bene) che ciascuno la porta in sé, la peste, e
che nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune”, La Peste, Albert Camus. In quest’opera,la Peste, l’epidemia per eccellenza, la piaga che ha colpito l’umanità per secoli sparendo e ricomparendo più volte, non è altro che una metafora della Seconda Guerra mondiale. La spietatezza, la morte, l’indifferenza.
Al contrario di quella del capolavoro di Camus, la nostra epidemia è inequivocabilmente reale, ma sotto la sua faccia più superficiale, si nasconde una pandemia ben più infima e contagiosa: l’ignoranza. Nessuno al mondo ne è immune, è vero, ma se in questo momento di forzato riposo non possiamo uscire di casa, cerchiamo almeno una uia d’uscita da questa nostra, ormai solida, gabbia intellettuale.
E respiriamo.

Vite di carta /
Quando al mercato incontri Renzo Tramaglino

Vite di carta. Quando al mercato incontri Renzo Tramaglino

Al mercato del mio paese oggi la gente è poca: colpa del vento insolitamente sferzante e fastidioso? Oppure del coronavirus, pronuncio la parola tutta d’un fiato così la esorcizzo.
Fatto sta che i banchi dei venditori, privi di copertura per le intense folate, sembrano un po’ surreali così esposti alla luce e con una mancanza totale di intimità.

Se ne crea sempre, tra acquirente e venditore, nella penombra del tendone, spesso il cliente abituale condivide con chi gli riempie le sporte di frutta e verdura un piccolo lessico famigliare pieno di sottintesi del tipo ”Dammi il solito mezzo chilo”, oppure, dall’altro lato del bancone, “Ho finito quello dell’altra volta, ma questo è ancora più buono”.

Così  incontro meno esseri umani, ma scambio due chiacchiere si può dire con tutti. È così che porto a casa un bel po’ di complimenti. Saranno almeno tre le persone che, non vedendomi da tempo, si deliziano nel trovarmi “sempre uguale”. “Sei già in pensione?”, è la prima domanda, quella rituale che mi inchioda all’età che ho e che mi viene rivolta dai quasi coetanei, quelli che già se la (s)passano a casa dal lavoro. Seguono le precisazioni sulle rispettive date di nascita.

Anche oggi mi sono sentita raccontare  i dettagli dell’altrui pensionamento. Mi è venuta in mente, allora, una delle pagine finali de I promessi sposi, quando il narratore svela che è Renzo la fonte di tutta la storia, che l’ha raccontata in giro a molti e l’ha anche ‘tenuta piuttosto lunga’.

Non è dunque il manoscritto ritrovato del ”buon secentista” la fonte originaria del libro, ma è stato Renzo a raccontare in giro le proprie avventure, “e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l’avesse sentita da lui più d’una volta”.

E così, come faccio notare agli studenti nel lavoro in classe, eccoci arrivati al penultimo capitolo col suo doppio colpo di scena: da una parte scopriamo il narratore numero uno, Renzo, che scalza lo scrittore anonimo del Seicento (ora al secondo posto) e manda addirittura in terza posizione il nostro narratore, quello che ha avuto a che fare con noi per tutte le pagine del romanzo e che ci ha spesso strizzato l’occhio mentre srotolava la storia facendoci sapere molte più cose rispetto ai personaggi.

”Ma quanti sono in definitiva quelli che hanno raccontato questa storia, profe?”. “Contali, sono tre. Tre che è il numero perfetto ed è un numero altamente simbolico.”.
Secondo colpo di scena del Manzoni: risaliamo alle origini di questo racconto che definiamo romanzo e ci accorgiamo che sono le stesse dell’epica: come nel racconto epico, anche qui avviene il passaggio dalla oralità alla scrittura. Ancora, possiamo spingerci a paragonare Renzo agli aedi che nelle corti dei re andavano narrando  le imprese degli antichi eroi greci, e analogamente mettere Manzoni nei panni di Omero che nell’VIII secolo a.C. ha fissato per sempre quei racconti con la parola scritta. Che potenza ha la scrittura!

Ah, stavo dicendo che la mia ultima interlocutrice la tiene lunga con la storia del suo pensionamento e intanto la mia mente ha cercato rifugio in una maliziosa analogia con i racconti di Renzo. E allora riprendo contatto con questa signora dalla voce squillante nel momento in cui ha finito di narrare le sue vicende e si è messa a vaticinare sul mio delizioso futuro di pensionata, quando toccherà anche a me. E non manca molto.

Intanto, qualche tempo ancora ce l’ho per essere ‘sempre uguale’, per continuare ad insegnare la letteratura italiana. Mentre cammino verso casa, decido di approfittarne: il “non cambi mai” che mi è stato detto prima sprigiona dentro di me una seconda analogia tentatrice. Mentre apro la porta di casa il cuore mi si apre alla speranza che anche nel mio studio ci sia una foto (grandi ritratti alla parete non ne ho) in cui si siano riversate tutte le rughe del mio viso, tutte le pieghe del collo…

Come ne Il Ritratto di Dorian Gray, dove Oscar Wilde vede la bellezza come “la meraviglia delle meraviglie”. La giovinezza di Dorian è il bene più prezioso da preservare: è il suo ritratto a farsi vecchio al posto suo, a riprodurre il passare del tempo e i segni lasciati dal vizio. Lui resta bellissimo ed affascinante per lunghi anni, fino a quando si sente estenuato da una vita dedita ai piaceri e nel disperato tentativo di ‘diventare buono’ uccide il proprio ripugnante ritratto. La fine è nota e comunque non va svelata per omertà verso gli altri lettori.

Arriviamo alla fine anche del mio racconto, al quale manca la suspense del Dorian Gray, e meno male perché alla mia foto devo dare solo una controllata, senza bilanci così funesti sul mio vissuto. Alla prima occhiata non mi sfugge che la mia figura di ventenne vestita di rosso è rimasta intatta. Ok, sono tornata di nuovo in situazione.
Mentre mi sfilo i guanti e ripongo le buste della spesa, penso a Renzo. È pur vero che con lui gli umili hanno fatto il loro ingresso trionfale nella narrativa ottocentesca, ma non esageriamo.

Quanto a Dorian, ho poco da spartire con la sua visione della vita, però in tutti questi anni è stato un piacere conoscerlo. Penso al bene che mi ha fatto e mi fa la letteratura. Oggi l’ho rivisitata con leggerezza, ‘affibbiando’ alla conoscente che mi adulava il confronto con Renzo e alla mia persona il sortilegio che lega Dorian al proprio ritratto. Quanto mi sono divertita.

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