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Al cantón fraréś
La notte di San Lorenzo

Il leggendario supplizio sulla graticola di San Lorenzo ed i fenomeni astronomici delle Perseidi nel periodo estivo hanno ispirato artisti e letterati. Molto noti, ad esempio, sono la poesia X agosto di Giovanni Pascoli e il dipinto San Lorenzo di Francisco de Zurbaràn all’Ermitage di San Pietroburgo.
Anche alcuni nostri autori, rievocando le piaghe del santo, le stelle cadenti, i desideri da esprimere in silenzio, hanno rappresentato in dialetto le loro emozioni.

Ecco l’accenno devozionale di Alessandro Corazza (Portomaggiore 1932) in:

Saη Luréηz da la calùra
….
Strisci luśénti ach vóla… sparpajà,
e ch’il sparìs int uη suspìr struzà;
bruśadur fréschi fréschi su pèll viva:
il piàgh ad Saη Luréηz, ech il s’arvìva!
…..
Striscie lucenti che volano… sparpagliate, / e che scompaiono in un sospiro strozzato; / bruciature fresche fresche su pelle viva: / le piaghe di San Lorenzo (le stelle cadenti), ecco si ravvivano!

Ancora, la dimensione affettiva di Alberto Ridolfi (Ferrara 1931- 2012) in;
Saη Luréηz
….
Stasìra
l’è la nòt ad Saη Luréηz.
A sén vanzà alvà
a guardàr in su,
zarcànd ad cójar
na vìrgula, int al ziél,
in mèź a tuti chi puntìn.
…..
Stasera / è la notte di San Lorenzo. / Siamo rimasti alzati / a guardare in su, / cercando di cogliere / una virgola, nel cielo, / in mezzo a tutti quei puntini.

Infine, la sfera intimista di Liana Pagnanelli Medici (Copparo 1930 – 1992)

La not ad Saη Luréηz
Mo che scuηvulzimént iη ziél stasìra,
as a scumbìna tut al firmamént,
squaśi ho paura e a sént la testa ‘ch źira
par stal spetàcul màgich e impunént.

Tut j ann aspèt sta not ad Saη Luréηz
int uη mié nić segrèt fra l’erba spagna
e, par la mié racòlta d’esperiéηz,
a guard, a guard, stand ztésa int la campagna!

Il viàźa il stél in tgnùda da graη sira
con di vestì brilànt e risplendént
la cóa luηga a luηgh al ziél is tira
cumè dil dam, ad quéli dal zinchzént.

Mo cusa pagarésia pr’èsar là
tra cal brilór ad pólvar sideràl
vulàr iηsiém a lor iη libartà
seηza cascàr e seηza fàram mal!

Qualcdùη lasù l’ha vist e l’ha capì
tuta sta vója ach gh’éa ad cal luśór
e una briśulìna al m’n’ha spedì:
una bacióśla ‘ch’m’è vulà in s’al cuór!

La notte di San Lorenzo
Ma che sconvolgimento in cielo stasera, / si scombina tutto il firmamento, / quasi ho paura e sento la testa che gira / per questo spettacolo magico e imponente. /
Tutti gli anni aspetto questa notte di San Lorenzo / in una mia nicchia segreta fra l’erba medica / e, per la mia raccolta di esperienze, / guardo, guardo, stando distesa nella campagna. /
Viaggiano le stelle in abbigliamento da gran sera / con vestiti brillanti e risplendenti / la lunga coda lungo il cielo si tiran dietro / come delle dame, di quelle del ‘500. /
Ma cosa pagherei per esser là / tra quel brillìo di polvere siderale / volare insieme a loro in libertà / senza cadere e senza farmi male. /
Qualcuno lassù ha visto e ha capito / tutta questa voglia che avevo di quel lucore / e una briciolina me ne ha spedito: / una lucciola che mi è volata sul cuore!

Tratta da: Liana Medici Pagnanelli ; Bruno Veronesi, Atmosfera padana, Copparo : Lions Club, Copparo, 1990.
(Altre notizie biografiche su Liana Medici Pagnanelli nel Cantóη Fraréś del 5 giugno 2020)

 

Per concludere un detto popolare:

“Par Saη Luréηz na graη calùra, par Saη Vizéηz na gran fardùra: l’un e l’àltar póch i dura.”
Per San Lorenzo (10 agosto) una gran calura, per San Vincenzo (22 gennaio) un gran freddo: l’uno e l’altro poco durano.

 

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce al venerdì mattina.
Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

Cover:  Canonica della chiesa di S. Lorenzo, Ducentola (Fe). Foto di M. Chiarini, 2016.

IL TEMPO E’ TESTIMONE
Un ricordo di Marco Chinarelli

Marco Chinarelli (1954 – 1987), si è dedicato per anni – senza nulla far conoscere agli altri – all’elaborazione poetica, rinvenendo materia viva nella propria vicenda personale. Se n’è andato troppo presto, scegliendo da solo la parola fine. Ci ha lasciato molti ricordi e un fascio di parole. 

Col procedere del tempo, può succedere di ricordare più nitidamente episodi, particolari molto lontani. Momenti incastonati in un periodo (l’adolescenza) pieno di novità, vitale o in fasi di passaggio/transizione (la gioventù) verso una maturità percepita ancora molto lontana.

La scuola superiore, l’Istituto Magistrale Carducci frequentato, vissuto intensamente. Un periodo di formazione alla vita sociale, di relazione, in cui sono nate amicizie che si sono protratte nel tempo, per molti anni. Oggi rimangono alcune sporadiche frequentazioni mentre altre si sono interrotte bruscamente procurandomi dolore, rimorsi, sensi di colpa, riflessioni e difficili elaborazioni del lutto.
Una persona, un amico che ho frequentato, e con cui ho condiviso quegli anni adolescenziali e della difficile crescita verso l’età adulta, è stato Marco Chinarelli.

Ricordo una mattina di febbraio. Lezione di matematica già iniziata. Un paio di colpi alla porta e l’entrata di Marco col cappotto completamente coperto di neve. La profe Tinarelli, increspando leggermente le labbra e accennando un sorriso:”Non avevi un ombrello per ripararti, Marco?”. “Mi si è rotto signora”. “Va bene, vai a scioglierti in fondo”. La neve cadeva sul pavimento mentre il lento incedere di Marco lo portava in fondo alla stanza. Noi si rideva piano e brevemente perché la Tea aveva ripreso in mano la situazione e il piglio severo di sempre che, invece, con Marco vacillava, diventava quasi affettuoso. In molti di noi c’era un silenzioso rispetto verso “China”…

Anche Faccini che ogni tanto si divertiva stupidamente a pungere col compasso, debitamente disinfettato (sic!), le terga di molti di noi, risparmiava i compagni di cui temeva violente ritorsioni, ma anche Marco che non avrebbe mai avuto tali caratteristiche.

Tanti gli episodi, le situazioni di vita quotidiana di una classe che stava elaborando i cambiamenti tumultuosi di fine anni sessanta con un approccio prepolitico, più giamburrascoso che contestatario. Gli scioperi si facevano, ma poi si subivano le sanzioni scolastiche con fatale rassegnazione. Spesso, capitava che Marco si offrisse volontario per farsi interrogare ed evitare ad altri compagni della classe l’avventura del sicuro brutto voto. Non sempre c’era una sua puntuale preparazione quanto, piuttosto, una sua forte capacità dialettica che spesso ‘ipnotizzava’ il docente di turno. Mentre nei compagni di scuola del corso C era accentuata la presenza di simpatizzanti della sinistra anche nelle sue propaggini più ‘rivoluzionarie’, nel corso A e nella mia classe molti frequentavano le parrocchie e/o le sale da ballo. Tra gli assidui frequentatori di parrocchie c’ero anche io ma la trasposizione automatica tra Chiesa e DC mi stava stretta e mi trovavo spesso a frequentare luoghi, ambienti della sinistra giovanile anche più ‘strana’. Ricordo una sera invernale che andai con Marco ad una ‘lezione di marxismo’ nella sede del Partito Comunista Marxista-leninista in Via Gioco del Pallone. Un’esperienza che non fu ripresa perché da entrambi giudicata pacchiana e un insulto allo stesso Marx…

Poi, Marco tentò l’esperienza nel collettivo di Lotta Continua ed io nei Cristiani per il Socialismo e nel PdUP.
Tantissime le volte che ci siamo incontrati ad ascoltare musica, a parlare e discutere di politica. Io pieno di progetti e Marco sempre più lontano e sfiduciato, ma non avrei mai pensato a una fine tragica come quella da lui scelta.
Nonostante ci fossimo scambiati tante idee, pensieri, non ho mai saputo delle sue prove poetiche. Marco ascoltava e commentava le mie poesie con fare spesso affettuoso e canzonatorio ma non ha mai condiviso con me quel  suo segreto, quel suo passaggio stretto oltre il terreno della teoria politica, della militanza. Una politica che per lui era bruciata, piena di bacche marce contaminate dal veleno di Chernobil. La politica era un tutt’uno con la vita e la sconfitta dell’una era la fine dell’altra.
La notizia della sua morte fu come una pugnalata e mi interrogai per molto tempo sulla mia incapacità di capirne il perché e, soprattutto, intuirne la possibilità di quella scelta.

Nel 1988, nella collana Testi della rivista ferrarese Poeticamente, pubblicammo una piccola raccolta di poesie di Marco Chinarelli, curata da Laura Fogagnolo. Testi quasi sempre contrappuntati da una data o senza titolo.
Una narrazione che ha spesso un linguaggio asciutto, senza fronzoli, con accenni di neofuturismo. Un esempio.

Scotch o erba che sia
la mia mente
come una vagina umida
partorisce sogni
di integrazione borghese
Me ne vergogno ogni mattina
davanti a un libro immobile
come un’obliteratrice
staccando il biglietto
per la nuova giornata.

Lo Zen mi annoia e
il Comunismo
mi ronza nelle orecchie
sulle liquide rotaie del Metrò
Lo vedo brillare
su ogni schermo di home Computer
davanti a nudi corrucciati
volti di bambini maniaci.

(da Poesie,  di Marco Chinarelli, Ed. Poeticamente/Testi,1988)

Poesie scelte da un quaderno di appunti dove Marco annotava stati d’animo, tracce di lezioni universitarie, appuntamenti, poesie e diverse recensioni di film dove si mescolavano elementi di analisi della trama e note autobiografiche. L’influenza del cinema sulla lingua italiana, sulla sua modificazione attraverso, anche, neologismi o immagini facilitate dalla frequentazione visiva col nuovo mezzo, tentativi di ‘esplorazioni’ in territori ibridi tra carta e celluloide. Gore Vidal diceva che “i film sono la lingua franca del XX secolo”.

Un esempio di recensione tra il personale ed il narrativo è Fuoco fatuo di Luis Malle.  Chinarelli riporta una frase-testimonianza del protagonista del film: “Mi uccido perché non mi avete amato perché i nostri rapporti erano vuoti. Uccidendomi voglio dare un senso ai nostri rapporti”. Il film ricostruisce minuziosamente gli ultimi giorni di un suicidio. “(…)…ex soldato che non ha voluto scegliere la carriera militare, roso di non aver mai saputo conquistare le donne, neppure quelle che, apparentemente, lo hanno amato.”
Chinarelli prosegue con questa dura annotazione personale: “Il tema presente e scabroso è trattato con una tale delicatezza di tono da renderlo…sopportabile. Anche per chi come me, certe tematiche non le regge emotivamente. Angoscia, angoscia. Non posso, certi argomenti con la freddezza di una persona normale”. Cercava di vedere il mondo, leggere la realtà anche attraverso il linguaggio filmico, alla ricerca di una narrazione che ponesse un freno alla sua deriva ideale.

Un contesto sociale, quello degli anni ’80, dettato dal riflusso crescente, dal successo degli yuppies, da un terrorismo sanguinario che ufficialmente non intendeva gettare la spugna mentre nella penombra trattava con pezzi di Stato vie vantaggiose d’uscita. Nei territori di provincia, Ferrara non faceva eccezione, c’era un clima che tagliava il fiato ai movimenti di base ed a chi faticava a ritrovare l’inizio del filo, in mezzo ad una realtà piena di elementi drammaticamente leggibili dove molti giovani avevano scelto l’abbandono dell’impegno politico a favore di situazioni di autodistruzione e dipendenza da sostanze psicotrope o dall’alcol. Questi contesti psicologici, però, si presentavano, spesso, molto annebbiati, come l’aria ferrarese d’inverno.

Chi non trovava luoghi, dimensioni di gruppo accettabili e in cui sentirsi accolto nella propria diversità, nella propria ricerca d’identità, si sentiva uno scarto umano, un tassello rotto del mosaico sociale. Ricordo una importante ricerca del 1981 della Joseph Rowntree Foundation, in cui veniva chiesto a gruppi di giovani nati nel 1958 di compilare un questionario sul loro stato di salute mentale. Il 7 per cento di quei giovani aveva una tendenza alla depressione non clinica.
In una pagina del quaderno, Marco scrive: ”Abbiamo conosciuto un periodo in cui i valori preminenti erano l’impegno, la testimonianza personale, la pratica dell’andare contro-corrente. Poi, un altro in cui il valore dominante è divenuta l’integrazione. Chi pensa come me che ciò che domina è un soffocante conformismo, ad onta di coloro che parlano di una rinascita dell’individuo? Sofferenza Sofferenza Mentire dover mentire? Mentire a se stessi e agli altri per poter vivere. Per menare questo straccio di vita che ti avvilisce e ti spegne sempre più. Identità? Essere dei diversi senza sapere di preciso in cosa? Malato? Studente? Disoccupato? Psicopatico?”.

A questa consapevolezza sempre più nitida, se ne affiancava un’altra altrettanto drammatica: perché scrivere? Per chi?

Questa sera lasciatemi in pace
perché la poesia mi ha lasciato.
Questa sera lasciatemi solo
perché i vostri volti mi rattristano
abbandonato e solo voglio restare
Non preoccupatevi per me
e non pensate di dovermi aiutare
Come potreste?
La poesia mi ha lasciato solo
Essa è una solitudine con gli occhi
di smeraldo
La solitudine invece
sa solo di neon e di asfalto.”

(Marco Chinarelli, inedito)

Una scrittura permeata da una crescente, inesorabile convinzione di (provare ad) essere un intellettuale fuori posto, in una sorta di spaesamento brutale, un pesciolino rosso senz’acqua. Le continue riunioni, i collettivi, terminali di grandi idee realizzate (forse) altrove, lontano. Il ‘tutto politico’ che rinviava sempre oltre il desiderio personale di un amore che unisse le due sfere.
Versi che riversano un sordo rancore verso compagni che sembravano vivere la politica come un momento adolescenziale, in attesa della maturità che gli avrebbe donato una stabilità esistenziale.
Sentire una crescente angoscia, “quell’angoscia perpetua che limitava ogni progetto all’indomani” (Cesare Pavese).

In amara sintesi, le cose che ti accadevano vicino, le cose, le situazioni dove non riuscivi ad entrare dove, con tutti i tuoi sforzi, non riuscivi a sentirtici parte. Uno scarto, una pietra gettata nell’acqua senza rimbalzi.

Comacchio Summer Experience: 31 luglio

Da: Ufficio Stampa Madeeventi

Venerdì 31 luglio alle ore 21.30 in Piazzale Caravaggio, a Lido di Spina, appuntamento con Tale e Quale live, organizzato in collaborazione con l’Associazione Lido di Spina, presieduta da Andrea Carletto. Una serata musicale adatta a tutte le età, nata sulla scia del successo dello spettacolo di Rai Uno Tale e Quale Show, condotto da Carlo Conti.

I musicisti porteranno sul palco alcune delle canzoni più celebri della musica italiana con pezzi di Mina, Loredana Bertè, Luciano Ligabue, Caterina Caselli, i Nomadi e tanti altri.

Sempre venerdì 31 continuano anche gli eventi dove il pubblico si potrà immergere in contesti naturalistici di grande fascino.

Alle ore 18 con ritrovo al Bettolino di Foce, nelle Valli di Comacchio, “Camminata e astro-yoga” organizzato in collaborazione con CNA Turismo e Commercio di Ferrara. Riccardo Gennari, guida ambientale-naturalistica e istruttore di yoga, guiderà i partecipanti in un percorso che si snoda nel suggestivo paesaggio delle Valli con una pratica finale di yoga ispirata alle costellazioni. Per info e prenotazioni Po Delta Tourism 0533-81302 – Cell 346 5926555 – Info@podeltatourism.it

Sempre alle ore 18 prosegue anche la rassegna “Musica in Salina”, organizzata in collaborazione con AMF-Associazione Musicisti di Ferrara, una visita guidata che terminerà con le sonorità di Tudandran.

Flavio Piscopo e Lele Barbieri, già collaboratori di musicisti e artisti di livello internazionale nell’ambito jazz pop new Age etno e world, sono due percussionisti in grado di proporre pulsazioni ritmiche, a volte tribali a volte mistiche, con una linea di canto che fa da collante alla cascata di suoni che i due musicisti lasciano cadere idealmente sull’ascoltatore.

Un viaggio attraverso il mediterraneo che tocca luoghi ai quali i nostri artisti sono legati Indissolubilmente, per origine cultura e tradizione. Ospite del concerto in Salina il tastierista e pianista Corrado Calessi. Per info e prenotazioni Salina di Comacchio info@salinadicomacchio.it,

Lara Van Ruijven

[10 Luglio 2020]. Lara van Ruijven (27 anni), campionessa di short track, si stava allenando sui Pirenei con la Nazionale Olandese quando è stata colpita da una malattia autoimmune. Ricoverata d’urgenza, è morta dopo due settimane di coma.” Valeria legge questa notizia ad alta voce e poi mi guarda sbalordita.

“Ma zia Costanza hai sentito?”
“Si Valeria, purtroppo ho sentito. Le persone possono morire a qualunque età.”
“Ma aveva ventisette anni e io ne ho già dodici, se dovessi fare come lei mi resterebbero quindici anni di vita!”
E’ così, non oso dirle che potrebbero restagliene anche meno, sembrerebbe un commento macabro.

Certo la morte di una persona giovane fa impressione. Rattrista nel profondo, crea uno stato di sofferenza tangibile,  apre le porte a una solidarietà che si nutre di angoscia.
Nel dolore di alcune perdite se ne rivitalizzano altre, ognuno di noi ricorda qualche altro campione dello sport morto giovane, questo aumenta lo sgomento, lo dilata a dismisura.
Nella sensazione di dolore c’è sempre qualcosa che noi non riusciamo a comprendere del tutto, qualcosa che ci interroga sul quel sappiamo, su quel che crediamo, su quel che vorremmo sapere e credere.

Spiegare la morte ai bambini è sempre difficile, perché non puoi barare, non puoi edulcorare la cruda verità sul modo  in cui finisce l’esistenza che conosciamo.
Ogni volta che una madre dona a un figlio la vita, gli consegna in dote anche la morte. I genitori hanno sempre una fede incrollabile sulla longevità dei loro figli, è il loro modo di affrontare le giornate con serenità. “I figli moriranno dopo gli ottant’anni”. Farebbero molta fatica a convivere con altre ipotesi.
Riguardo Valeria che mi sta osservando pensierosa.
Sta ancora pensando a Lara Van Ruijven.
“Non pensarci Valeria, non serve a nulla, ormai se ne è andata, starà pattinando in paradiso”. Le dico.
“Ma perché, in paradiso si pattina?”
“ No, non credo, dicevo così per dire”
“Allora non dirlo”.

Bello sport lo short treck, la traduzione italiana è “pista corta”. Fa parte delle gare di velocità del pattinaggio su ghiaccio che si disputano su una pista di 111,12 metri. Una specie  di grande anello di ghiaccio su cui si sfidano da tre a nove pattinatori/pattinatrici per volta, a seconda del tipo di gara. Dal 1992 è uno degli sport del programma dei giochi olimpici invernali e le distanze ufficiali delle varie gare sono: 500 m, 1000 m, 1500 m sia per le donne che per gli uomini. Le staffette vengono corse su distanze di 5000 m per gli uomini e di 3000 per le donne.
Uno sport spettacolare e avvincente. Sicuramente anche molto faticoso. Spinge allo stremo la resistenza e la reattività di muscoli, apparato cardio-circolatorio, nervi.
Su quell’anello di giaccio si muovono velocissimi gli atleti con i loro pattini forniti di lame d’acciaio. Corrono con un braccio appoggiato sulla schiena per essere più aerodinamici. Piegati in avanti, spingono con le gambe come dei forsennati. La velocità è tale per cui si verificano spesso cadute e infortuni, in alcuni casi gravi.

Ma la malattia autoimmune non credo centri nulla con lo short track. E’ arrivata sulla testa di una ragazza di ventisette anni, ingiusta come il caso e irrimediabile come la morte.
Una mannaia senza scampo. Uno stop inaspettato e definitivo. La fine della sua vita.
“Zia ma perchè secondo te è morta proprio lei?”
“Perché si è ammalata e purtroppo esistono malattie gravi a cui i medici non sanno trovare rimedio” le rispondo.
“ Io non credo che la morte arrivi per caso, ci deve essere qualche altro motivo, forse si è meritata il Paradiso prima degli altri.” Dice lei.
“Si forse è proprio così” le rispondo.

La fede resta sempre una grande speranza e la migliore delle scommesse possibili. Forse questo può rasserenare un po’ Valeria.
“Noi non siamo certi di cose ci succederà dopo la morte, ma se proprio dobbiamo scommettere, puntiamo tutto su questa possibilità importante, avvincente e quasi incredibile. Scommettiamo sull’eternità.” dico.
“Si puntiamo tutto sull’eternità” dice lei e mi sembra un po’ rasserenata. Meno male. Data l’età è meglio così.  Fra poco arriverà Sara, una delle sue amiche, si metteranno a giocare a dama cinese, oppure decideranno di uscire a fare un giro in bicicletta o di andare all’oratorio di Pontalba a fare una partita di calcetto. I bambini dimenticano in fretta, hanno molta vita da vivere. Molta energia da mettere in quel che fanno. E poi è estata, fa caldo, non c’è scuola, non ci sono i compiti da fare, le piscine hanno riaperto e anche le gelaterie. Evviva, anche quest’estate avrà una parvenza di normalità nonostante il Covid-19 e nonostante le prospettive non entusiasmanti per il prossimo autunno.

Valeria sta già riprendendosi.  Il suo momento di tristezza sta passando, sta volgendo i suoi pensieri altrove. Lo vedo dalla sua faccia, prende in mano il telefono, digita velocemente qualcosa, poi attende risposta. Dopo poco si sente una vibrazione. E’ la risposta al sue messaggio. Sorride e se ne va. Anche i telefoni hanno la loro utilità. Le amicizie ancora di più.
Io resto là con l’idea della morte che fa da sfondo ai miei pensieri e con alcune immagini dello short treck indelebili nella memoria.
Uno sport elettrizzante, avvincente.
A differenza del classico pattinaggio di velocità, qui non esistono le corsie e i contatti tra gli atleti sono molto frequenti. Il tipo di gara molto veloce, prevede una divisione in batterie dei concorrenti. Esattamente come si fa nelle gare veloci dell’atletica.
Gli atleti di ogni batteria corrono la loro gara e i primi a tagliare il traguardo passano al turno successivo. Si continua così fino ad arrivare, per i migliori, all’accesso i finale che decreterà il podio e i tre medagliati del momento. I contatti continui portano a continue cadute, a volte accidentali, altre volte provocate dagli avversari (che se sorpresi dall’arbitro vengono espulsi).  Tutto questo cadere e rialzarsi causa continui cambi di piazzamento nelle gare. E’ uno sport fatto così.

Ripenso di nuovo a Lara Van Ruijven. Mi sembra di vederla con la sua tuta arancione e la visiere, che protegge dalle scaglie di ghiaccio alzate dalle avversarie, che sfreccia felice in mezzo alle altre. Sta correndo molto bene. Siamo ai mondiali di Sofia nel 2019 e la distanza che sta percorrendo è quella dei cinquecento metri. Sta andando fortissimo. Sempre più forte. La cinese Fan Kexin, e l’olandese Suzanne Schulting restano indietro. Lei continua ad aumentare la velocità e tagli il traguardo per prima. E’ la nuova campionessa del mondo. Bravissima!
Ricordiamocela  così,  quei campionati del mondo lei li ha vinti per sempre.

Favole sotto gli alberi: inizio giovedì 30

Da: Ufficio Stampa “Il baule volante”

 

La sedicesima edizione della rassegna estiva di Teatro per Bambini e Famiglie Favole sotto gli Alberi si aprirà, giovedì 30 luglio alle ore 21,15 presso Factory Grisù (Ferrara, via Poledrelli, 21 – ex caserma dei vigili del fuoco), con lo spettacolo: “Raperonzola” della compagnia bolognese Rosaspina. Un Teatro: un lavoro frizzante e ironico, incentrato sulla celebre fiaba della principessa dalle lunghissime chiome.

 

L’ antica fiaba dei Fratelli Grimm racconta una storia che tanti conoscono e che ha tutti gli ingredienti di una ricetta favolosa: una Bella fanciulla dalle lunghissime trecce d’ oro, un Principe di bell’aspetto e dalla mente sveglia, una Strega malvagia e misteriosa, una Torre senza porta e senza scale: una ricetta semplice ed efficace che, con l’aggiunta di un ciuffo di raperonzoli, incanta da sempre i bambini di tutte le età.

Eccezionalmente in scena per questa scanzonata rappresentazione teatrale, il noto regista Angelo Generali, qui nei panni della strega cattiva: una notevole dimostrazione di autoironia e soprattutto di amicizia da parte di questo artista colto e – solitamente – molto posato che, in queste insolite vesti, sorprende e diverte, non soltanto i bambini.

La storia racconta di una coppia di sposi che viveva accanto a un meraviglioso giardino protetto da alte mura, di proprietà di una potente e terribile strega. Quando la donna rimase finalmente incinta, fu presa da una gran voglia di mangiare alcuni dei raperonzoli che crescevano nel giardino della vecchia megera. Il marito, allora, durante la notte scavalcò le alte mura per procurargliene qualche mazzetto. Alla terza incursione nel giardino, però, il marito si ritrovò faccia a faccia con la temibile strega che, nonostante le giustificazioni dell’uomo, decise di punirlo, consentendogli di tornare a casa con i raperonzoli sottratti a condizione che, una volta nato, il bambino tanto atteso fosse consegnato proprio a lei, che prometteva di trattarlo bene. Disperato, l’uomo alla fine acconsentì.

La bambina che nacque fu presa, così, in consegna dalla strega che la chiuse in un’alta torre senza porte e senza scale nel mezzo del bosco…

Dunque, per la povera bambina, la strada della vita inizia in salita e conduce in cima ad una torre. Ma la fiaba insegna che vale la pena soffrire perché, prima o poi, accadrà l’avvenimento destinato a cambiare la sorte .

Ecco, infatti, un bel giorno passare un principe sotto la solitaria finestrella. Il procedimento da seguire per sbrogliare la matassa non è difficile: liberare la Bella dalla Torre e fuggire lontano dalla Strega . Questo è dunque il compito dei due protagonisti, ma per giungere alla meta è necessario usare il cuore e la ragione.

Senza l’amore tra i due giovani, infatti, nulla potrebbe succedere e senza le loro sagaci trovate non si potrebbe fuggire. Ma cuore e ragione infine non bastano perché, come sempre, tra il dire e il fare c’ è di mezzo… il Male. E così ecco compiersi il triste destino del principe che diviene cieco e della sua Bella, abbandonata e perduta in un deserto.

Per giungere alla felicità definitiva occorrerà scoprire qualcosa che ci sostiene anche quando siamo tristi e soli, qualcosa che fa luce anche quando siamo ciechi: questo ingrediente invisibile e tenace ha un nome bellissimo, si chiama speranza ed ha il verde colore dei dolcissimi e saporitissimi raperonzoli che crescono in primavera.

A differenza degli altri lavori presentati in rassegna, questo spettacolo è realizzato interamente in prosa, con le note e i toni semiseri cari alla compagnia bolognese. Rosaspina. Un teatro, infatti, per la realizzazione di questa originale messa in scena, ha intessuto una stretta collaborazione col lo scrittore Giampiero Pizzol, autore, attore e regista molto noto nell’ambito non solo del teatro per ragazzi ma soprattutto del teatro brillante, grazie ai testi realizzati per molte commedie di successo e anche per produzioni televisive, fra cui le prime edizioni di Zelig Off, con Claudio Bisio.

L’Associazione “Rosaspina. Un teatro”, diretta da Aurelia Camporesi e Angelo Generali, nasce nel 1996 dalla riunione di artisti con più di 15 anni di esperienza nel lavoro teatrale. La compagnia opera a livello nazionale nella produzione di spettacoli, nell’organizzazione di rassegne e festival e nella conduzione di laboratori teatrali. Negli ultimi anni la sua attività si è particolarmente incentrata sulla produzione e organizzazione di spettacoli, laboratori e rassegne dedicati al pubblico dell’infanzia e delle giovani generazioni.

 

Lo spettacolo, che è gradevolissimo anche per il pubblico degli adulti, si rivolge a tutti i bambini dai 4 ai 10 anni.

 

 

L’ingresso, per tutti e 5 gli appuntamenti, costerà € 6,00 per adulti e bambini.

 

In ottemperanza alle direttive anti covid:

La prenotazione sara’ possibile (ed è anzi caldamente consigliata) ai link indicati di volta in volta via social (per il primo appuntamento: www.ilbaulevolante/raperonzola).

I posti non saranno numerati: ogni spettatore sara’ accompagnato da una maschera e gli sara’ assegnato il posto più vicino al palco scenico disponibile al momento dell’arrivo.

Il pagamento dei biglietti sara’ effettuato direttamente in biglietteria.

Gli spettatori che avranno prenotato dovranno presentarsi a ritirare i propri biglietti non oltre le ore 21,15.

Si raccomanda a tutti gli spettatori di presentarsi in biglietteria con gli importi dei biglietti esatti in modo da evitare il più possibile scambi e contatti diretti.

Si raccomanda agli spettatori di portare le mascherine.

Ogni nucleo familiare sara’ separato dagli altri seguendo le distanze indicate dalle disposizioni ufficiali in materia sanitaria.

L’accesso e l’acquisto dei biglietti sara’ possibile anche senza prenotazione.

 

In caso di maltempo gli spettacoli saranno annullati.

 

Informazioni: Il Baule Volante  ilbaulevolante@libero.it

 

TEATRO NUCLEO: QUARANT’ANNI DI MAGNIFICHE UTOPIE
Dal Quijote! al Convegno Internazionale del teatro per gli spazi aperti post Covid-19

Maria Donnoli – responsabile Ufficio Stampa Teatro Nucleo

Un sentiero lungo 40 anni di teatro per gli spazi aperti, iniziato nel 1980 con Luci e attraversato dal 1990 dalla figura di Don Chisciotte. La sua statua che entra in vita è la chiave drammaturgica di Quijote!, spettacolo di piazza che Teatro Nucleo mise per la prima volta in scena nel 1990, trent’anni fa, e il cui portato confluisce oggi nel convegno internazionale Le Magnifiche Utopie organizzato a Ferrara sabato 19 settembre 2020, parte del Festival Totem Scene Urbane.

Lo spazio è quello della vita quotidiana, gli spettatori sono un gruppo eterogeneo di non-spettatori, in cui l’esperienza dello spettacolo risveglia un potenziale, un desiderio di poesia, la facoltà di immaginare, il bisogno di creatività e utopia. L’obiettivo è portare il teatro dove è necessario, anche perché possa ritrovare la sua funzione originaria e nuova linfa. Il teatro negli spazi aperti di Horacio Czertok e Cora Herrendorf, rispettivamente drammaturgo e regista di Quijote!, è un’operazione di giustizia elementare.

L’adattamento per spazi aperti del Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, uno dei capolavori di maggior successo della Compagnia fondata a Ferrara nel 1978. Realizzato in co-produzione con il Theater-am-Turm di Francoforte, Quijote! ha avuto oltre 400 repliche in tre continenti, partecipato a decine di festival internazionali, vinto premi come il Premio della Critica 2002 al Festival Cervantino di Guanajuato, in Messico, ha attraversato borghi e periferie senza teatro. Ancora oggi il Don Chisciotte di Teatro Nucleo continua il suo percorso con Contra Gigantes, monodramma a più voci di e con Horacio Czertok, estratto da Quijote!.

“Un montaggio d’attrazioni, un’allegria sulle macerie” – come lo ha definito Ferdinando Taviani in Il teatro è l’arte di lottare pubblicato sul numero 10 della rivista L’indice (2000) – capace di suscitare l’immediata ed entusiasta adesione dei non spettatori-resi spettatori alla chiamata del teatro negli spazi aperti, in qualsiasi piazza attraversata, che diventa luogo fantastico e della fantasia, in cui i dati forniti dall’immaginazione sostituiscono quelli dell’abitudine. L’adattamento di Quijote! è stato pensato per permettere agli spettatori di qualsiasi città del mondo di proiettare il proprio Chisciotte su quello dello spettacolo, rispettandone la vocazione di personaggio universale. «Con questo spettacolo superammo la dicotomia tra la sala teatrale e la strada, imparammo che si potevano creare spettacoli per gli spazi aperti con la densità, la profondità, i contenuti, la poesia possibili nelle sale chiuse», ricordano i co-fondatori di Teatro Nucleo, il cui teatro si è sempre occupato di utopisti e sognatori, «in quanto le utopie riflettono l’attenzione posta sull’umanità sofferente e tuttavia capace di sognare e di lottare per organizzare la propria vita in relazione a grandi sogni a occhi aperti».

Con Quijote! nacque anche la trilogia delle “magnifiche utopie”: Chisciotte rappresentava l’utopia di una civiltà votata alla Poesia, Francesco l’utopia di una società consacrata alla fratellanza, Mascarò l’utopia di un’umanità libera e giusta. Un percorso che – lungo questa strada – è proseguito per quarant’anni e che il 19 settembre 2020 confluirà nel convegno internazionale Le Magnifiche Utopie 2020 – La scena del teatro per gli spazi aperti nell’era post Covid-19, situato all’interno del Festival Totem Scene Urbane che Teatro Nucleo organizza ponendo in relazione la periferia di Pontelagoscuro e il centro della città estense. Un’apertura alla riflessione su base nazionale e internazionale, resa ancora più necessaria dalle contingenze storiche della pandemia, che spingono a interrogarsi sul futuro del teatro. Domanda a cui il teatro per gli spazi aperti, oggi più che mai, propone risposte forti e concrete.

Per informazioni su Teatro Nucleo: http://www.teatronucleo.org/
Per informazioni su Totem Scene Urbane: http://www.totemsceneurbane.it/ 

Arci:”Torniamo in Circolo!” venerdì 31 luglio e domenica 2 agosto

Da: Ufficio Stampa Arci Ferrara

Nelle serate di venerdì 31 luglio e domenica 2 agosto avrà inizio Torniamo in Circolo!, nuovo progetto di Arci Ferrara APS, ideato in collaborazione con i volontari del Servizio Civile Arci durante il lockdown per rilanciare le realtà affiliate all’Associazione e supportarle nel percorso di ripartenza dopo i difficili mesi di chiusura.

Nato dalla volontà di coadiuvare circoli e associazioni nella ripresa delle attività, il progetto ha comportato un’analisi delle loro criticità e debolezze alla ricerca dei metodi di intervento più adatti, direzionando il Comitato verso la creazione di una rete di contatti e collaborazioni tra le due facce della sua compagine associativa. Quest’ultima vede, da una parte, un cospicuo gruppo di associazioni culturali attive nei settori del teatro, della musica, dell’arte e della danza; mentre, dall’altra, i circoli cosiddetti “tradizionali”, eredi delle prime esperienze aggregative della nostra regione, nei quali si prediligono il gioco delle carte e del biliardo. Raccogliendo la sfida di un nuovo metodo di azione e relazione, verranno organizzati eventi, corsi e attività per unire le diverse forze di queste realtà e per incentivare il ritorno nei circoli e nei paesi di provincia più periferici, di cui spesso questi sono ancora importanti punti di riferimento.

In una fase tanto delicata, oltre a un eventuale aiuto monetario tramite raccolte fondi in loco, appare fondamentale dare un supporto in presenza che riesca a dimostrare vicinanza e sostegno a chi si trova più in difficoltà, attraverso un approccio organizzativo che metta a disposizione il suo ricco capitale umano, in un processo volto alla creazione di legami di senso tra associazioni e circoli, a beneficio delle persone che li compongono.

Le prime realtà coinvolte sono il Circolo Arci Final di Rero, nel Comune di Tresignana, e il Circolo Arci Ruina, nel Comune di Riva del Po, che ospiteranno eventi organizzati grazie alla collaborazione con Ultimo Baluardo “Sonika” ed unbelD’ Design, associazioni che operano rispettivamente nell’ambito della musica e del design creativo.

Dopo questi primi appuntamenti, le collaborazioni proseguiranno anche nei mesi successivi, diversificando le attività proposte ed allargando il raggio d’azione per il coinvolgere un numero sempre maggiore di circoli e associazioni. Torniamo in Circolo! si inserisce infatti in una prospettiva di lungo termine e ha già il programma di continuare in autunno, in concomitanza con la campagna di tesseramento Arci 2020/2021.

Ecco il programma delle giornate:

  • Venerdì 31 luglio, presso il Circolo Arci di Final di Rero, a partire dalle 18.30 – UnbelD’ design terrà il laboratorio di design artigianale UBDzircul – Ci facciamo un’Ape?!? destinato ad adulti e famiglie, per progettare e costruire insieme una vera e propria APEcar in legno e stoffa, mentre si sorseggia un buon aperitivo. Il costo del laboratorio è di 15 euro, comprensivi di kit per costruire e colorare l’apecar. Per iscriversi è obbligatorio inviare una mail a francescaaudino@arciferrara.org.

    Dalle ore 21.00, ad allietare la serata ci sarà il doppio concerto a cura di Sonika con The Dice e, a seguire, MARTA, che spazierà tra le atmosfere power pop/rock&roll dei primi e le influenze jazz/soul, unite a quelle indie, italiane e inglesi, della giovane cantautrice.

    Per i concerti è stata scelta una location molto particolare che si sposa perfettamente con il senso dell’intero progetto, ovvero uno dei campi da bocce recentemente rimessi in sesto da uno dei soci.

    (link evento Facebook: https://www.facebook.com/events/275686910170097 )

  • Domenica 2 agosto è la volta del Circolo Arci di Ruina, dove la serata inizierà con una selezione musicale a cura di Sonika dalle 18.30, mentre dalle 21.00 verrà riproposta la formula del doppio concerto che vedrà suonare Arianna Poli e MAV (leader degli Ivan Alen), per un appuntamento all’insegna della musica d’autore.

    (link evento Facebook: https://www.facebook.com/events/288903455557239 )

 Tutti gli eventi sono riservati ai possessori di tessera Arci, con possibilità di iscrizione in loco alla tariffa ridotta di 7,5 euro e di 5 euro per i bambini.

Le iniziative si svolgeranno nel rispetto delle misure di sicurezza anti-covid e delle linee guida dei protocolli regionali.

Torniamo in Circolo! tornerà a fine agosto con altre date già in programma, una di queste si svolgerà al Circolo Arci Adelante XII Morelli, allestito per l’occasione a cinema all’aperto, con una rassegna cinematografica dedicata a Ennio Morricone: verranno proposti tre titoli che hanno visto la partecipazione del maestro con le sue immortali colonne sonore.

Tale circolo dimostra costante interesse nell’essere uno spazio di condivisione in grado di riavvicinare la comunità alla sua vita associativa, promuovendo l’aggregazione sociale, sormontando il divario generazionale tra i soci e favorendo un inserimento anche ai più giovani.

Si ringraziano per il prezioso sostegno: Arci Emilia-Romagna e il progetto Polimero, di cui Torniamo in Circolo! fa parte all’interno di Fuori Luogo, la Regione Emilia-Romagna e Cassa Padana.

Vite di carta /
Autore, narratore e lettore: da Giulio Cesare a Marco Balzano

Vite di carta. Autore, narratore e lettore: da Giulio Cesare a Marco Balzano

Mi sto dedicando alla rilettura di parti dei Commentarii de bello Gallico scritti da Giulio Cesare, il dux della vittoriosa campagna gallica condotta tra il 58 e il 51 a.C. Il libro secondo in particolare è dedicato allo scontro contro i bellicosi Belgi, che mal sopportano la presenza delle legioni romane in Gallia.

E’ guerra, causata sia dalla volontà di conquista del dux, sia dallo spirito di indipendenza dei Belgi. In questo libro si assiste già a un ottimo saggio delle strategie militari romane, che come si sa nel 57 a.C. risultano già vittoriose.

Nel settimo e ultimo libro Cesare racconterà la sollevazione universale dei  Galli guidati da Vercingetorige e la difficile vittoria sulla città di Alesia, che suggella la supremazia dell’esercito romano. E’ guerra ed è vinta da Cesare: Roma acquisisce una provincia ricca di risorse economiche e di cultura; il triumviro Cesare dal canto suo ottiene potere e uno straordinario prestigio personale.

E’ il racconto della guerra ad attrarmi, non soltanto la campagna di conquista in sé. Sono le tecniche narrative adottate da Cesare ad affascinare il lettore, in primo luogo la scelta di esprimersi in terza persona anche per parlare di se stesso. In questi ultimi anni ho ripensato più volte al narratore dei Commentarii, facendo lezioni di narratologia, o leggendo con le classi opere di narrativa e passi tratti da poemi epici.

Recentemente mi ha colpito la profondità di scrittura di un giovane autore italiano, Marco Balzano: la sua bravura nel gestire la figura del ‘narratore’ mi ha riportato proprio al grande condottiero romano.Nei due romanzi di Balzano che ho letto, L’ultimo arrivato del 2014 e Resto qui del 2018, egli utilizza un narratore in prima persona decisamente dialogante, con se stesso e con il lettore.

A dire ‘io’ nel primo libro è il protagonista che migra a Milano dal sud quando è ancora un bambino e non ha con sé la famiglia; la sua vita successiva si svolge nella grande città tra la fatica dei trentadue anni vissuti in fabbrica, il mettere su famiglia e il buco nero degli anni trascorsi in carcere.

Nella parte finale il protagonista tornato a casa dice di essere diventato “un vecchio spelacchiato”, che sta sulle panchine di Milano a passare le giornate, o sulla sedia del tinello a raccontarsi la propria vita. Qui credo che stia la bravura dello scrittore che si è infilato nei panni di un narratore anziano, piagato dai propri errori, che vive una fase della vita più avanzata rispetto alla sua. E sembra proprio vecchio, ragiona e ha emozioni da vecchio. E’ diventato un vecchio.

Nella prima pagina di Resto qui ritrovo la prima persona: chi scrive ancora una volta dice ‘io’ ed esordisce con queste parole: “Non sai niente di me, eppure sai tanto perché sei mia figlia. L’odore della pelle, il calore del fiato, i nervi tesi, te li ho dati io”. Si tratta di Trina, che scrive alla figlia lontana da molti anni  il racconto della vita che non hanno vissuto insieme. Dunque una narratrice. Una donna e anche una madre, che è stata a lungo la maestra di un piccolo paese di montagna.

Quando ne ho parlato in classe ho insistito su questo scarto: i ragazzi faticano a cogliere la differenza tra l’autore e il narratore in un libro, credono che si tratti della medesima entità, che siano del tutto sovrapposti. Ho spiegato molte volte che sono sovrapponibili, che qualcosa dell’autore può restare nei tratti della voce narrante, o viceversa, ma che sono reciprocamente ‘altro’.

Prima di conoscere Resto qui ho fatto ricorso a esempi plateali, a esercizi di scrittura, in cui gli studenti dovevano proprio fingersi di un’altra età o del sesso opposto, oppure dovevano immedesimarsi in personaggi letterari famosi. Qualche volta ha funzionato bene immaginare di essere la Gertrudina, la futura Monaca di Monza, e di subire nell’infanzia il crudele condizionamento della famiglia verso la scelta del chiostro.

Con la lettura di Resto qui eccolo già pronto l’esempio lampante:  l’autore, Marco Balzano in carne e ossa, non coincide in modo evidente con Trina, la narratrice. Però, con quale sensibilità ne veste i panni. Se leggessimo il libro senza conoscere chi l’ha scritto credo che difficilmente ci accorgeremmo che non è una donna. Nella parte centrale del romanzo mi ha incantata la femminilità dello sguardo di lei sul mondo e sulle sue fatiche, sulle passioni e sui dolori.

E Cesare? Ero partita dal suo resoconto della campagna di Gallia e dal suo narrare che è tutto in terza persona. Che soluzione raffinata. Lo scarto tra il dire ‘io e affermazioni del tipo “Cesare, preoccupato dalle notizie e dalle lettere, arruolò nella Gallia cisalpina altre due legioni” è enorme, è in grado di stravolgere la cifra narrativa dell’opera.

Il narratore e protagonista nomina se stesso da un punto di vista esterno, spostando la lancetta della narrazione, che da soggettiva tende a divenir  oggettiva. Nella struttura dei periodi i verbi coniugati alla terza persona segnalano costantemente gli accadimenti. Sono precisi ed efficaci nel segnalare, per esempio, le tappe con cui si svolgono la preparazione di una battaglia e poi lo scontro stesso. Il lettore si forma un quadro preciso delle situazioni e del loro procedere.

Cesare prende atto delle situazioni, le vaglia e decide come condurre le operazioni militari e anche quelle diplomatiche. Cesare, come se fosse un altro. Un grandissimo stratega e un etnografo che indaga i modi di vivere e di pensare delle tante tribù della Gallia. Che offre misurazioni della realtà, che riferisce le notizie, sapendo discernere quali sono certe e quali costituiscono solo delle voci, dei rumores.

Il massimo dell’efficacia è raggiunto quando il narratore onnisciente esalta le qualità degli avversari, quantifica il numero dei soldati, mette in luce il loro coraggio. E il lettore si domanda: se i nemici sono tanto validi, quanto sono valorosi i soldati romani che li hanno battuti? Ecco l’effetto migliore della raffinata traslazione del narratore.

Se l’ha detto un narratore che sa tutto, la consapevolezza della imbattibile grandezza delle legioni romane diventa certezza. Nel caso di Cesare, attività anche politica, propaganda politica. In fondo, i panni che vestono il dux vittorioso mentre attraversa il Rubicone al suo rientro e intraprende la guerra civile contro Pompeo sono gli stessi del sagace narratore dei Commentarii.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

Le Notti in Rosa di Ferrara dal 3 al 9 agosto

Da: Ufficio Stampa Consorzio Visit Ferrara

 

Le Notti in Rosa di Ferrara scendono sui tetti e sulle strade che circondano il Castello Estense, avvolgendo i vicoli e i passaggi urbani di un fascino inedito e crepuscolare in grado di mutare i connotati architettonici e monumentali nel segno di un ostinato e contagioso tramonto. È il momento del giorno e dell’anno in cui la città offre agli occhi scorci inediti, nuove prospettive e itinerari da indagare col favore di una luce che tende ma resiste al buio e che diventa la condizione ideale per una serie di visite guidate serali in programma tra il 3 e il 9 agosto 2020, in un susseguirsi di sorprese nell’affascinante spettro compreso tra arte, letteratura, sapori e magia.

È stato inoltre predisposto un collegamento via pullman che, nelle due settimane centrali di agosto, permetterà ai turisti presenti sulla costa di godere delle bellezze di Ferrara e, volendo, di abbinare lo spostamento alle visite guidate nelle 4 date specifiche di mercoledì 12 e venerdì 21 agosto, con partenza e ritorno ai Lidi Sud, e di venerdì 14 e mercoledì  19 agosto, con trasferimento da e per i Lidi Nord. Il costo è di 5 euro, o di 10 euro in totale, inclusa l’esperienza. Chi non acquista la visita guidata avrà a disposizione 2 ore di tempo libero per visitare Ferrara o per sorseggiare un drink in uno dei deliziosi locali del centro storico. La prenotazione è obbligatoria e le singole visite guidate partiranno in unico orario alle ore 21.00, con partenze scaglionate a gruppi di 15 persone.

 

«Nel pieno rispetto delle regole sanitarie, la serie delle visite guidate della settimana della Notte Rosa è stata pensata per animare il centro storico in questo difficile momento post-covid per le città d’arte, che già risentono particolarmente nel periodo estivo»:  spiega Ted Tomasi, Presidente del Consorzio Visit Ferrara che, in collaborazione con il Comune di Ferrara ha organizzato l’iniziativa, promossa da Itinerando e NaturalmenteArte, i quali forniranno le guide turistiche per tutti gli appuntamenti.

«Dando ogni sera un’opportunità diversa – continua il presidente Tomasi – andiamo a coinvolgere differenti target, dalle coppie ai giovani, fino agli anziani e alle famiglie con bambini. Scegliendo la formula della visita guidata e creando animazioni ad hoc, promuoviamo inoltre la cultura e rendiamo più accattivante l’esperienza. Tra i motivi che ci hanno spinto ad abbracciare questo format, c’è il tentativo di dare una mano ai nostri imprenditori e soprattutto alle guide e agli organizzatori di eventi, tra le categorie maggiormente colpite durante l’emergenza pandemica». 

 

Lunedì 3 agosto 2020, con doppio turno alle 20.30 e alle 21.00, La Certosa Monumentale, nel silenzio della notte è il primo appuntamento della serie. Alla luce di una torcia, fornita in omaggio a tutti i partecipanti, ci si addentra in un luogo misterioso e suggestivo, tra memorie del passato e capolavori d’arte sacra. La visita, di circa due ore e organizzata col supporto di Ferrara TUA, prevede l’incontro con la guida 10 minuti prima della partenza ai cancelli d’ingresso della Certosa in via Borso. Il costo è di 5 euro a persona.

 

Martedì 4 agosto 2020, storia e letteratura si fondono in Sulle ali dell’Ippogrifo. L’Ariosto a Ferrara, visita guidata di due ore sulle orme del grande letterato rinascimentale, per scoprire la città attraverso le pagine delle sue opere, mirabilmente decantate durante l’itinerario, con letture a cura del Tatro Ferrara OFF. L’incontro con la guida, 10 minuti prima della doppia partenza alle 20.30 e alle 21.00, è previsto presso la colubrina (cannone) in Largo Castello. Il costo è di 5 euro a persona.

 

Misteri e magie di Via delle Volte, organizzato per le 20.30 e le 21.00 di mercoledì 5 agosto 2020 con il supporto di Stileventi Group, è un viaggio alla scoperta di una delle strade più caratteristiche e affascinanti di tutta Ferrara, nel cuore della parte più antica della città. Al termine della visita, la deviazione verso il Chiostro di San Paolo promette di regalare un assaggio di vera magia con il mago Enrico Battaglia. Incontro con la guida 10 minuti prima della partenza presso il Museo della Cattedrale in Via San Romano. Il costo per la visita e lo spettacolo – della durata complessiva di due ore – è di 5 euro a persona.

Si replica mercoledì 19 agosto per chi si muove dai Lidi Nord, con arrivo alle ore 21.00 e ripartenza alle ore 23.00 presso la fermata del Bus&Fly sotto i portici dei giardini di Viale Cavour.

 

Sono invece Favole e scoperte per giovani esploratori al centro di Giocaferrara, originale visita della città rivolta a piccoli indagatori della storia e del mito, per conoscere le vicende legate a Ferrara, le sue leggende e le sue tradizioni in chiave giocosa, in collaborazione con SenzaTitolo. Adatta a famiglie con bambini, la serata è in programma giovedì 6 agosto 2020, con doppio turno alle 20.30 (bambini fino agli 8 anni) e alle 21.00 (bambini dagli 8 anni in su). Incontro con la guida 10 minuti prima della partenza, presso lo scalone di Piazza Municipale. il costo della visita guidata e l’animazione – della durata complessiva di due ore – è di 5 euro a persona per gli adulti e di 3 euro per i bambini.

 

Venerdì 7 agosto 2020, nel consueto doppio turno delle 20.30 e delle 21.00, “Deliziamoci” con gli Estensi propone un tuffo nel passato, per conoscere storie e curiosità degli antichi duchi di Ferrara. L’incontro di raccolta con la guida presso la colubrina (cannone) del Castello Estense è il preludio a una passeggiata serale tra le strade cittadine che culminerà con una degustazione di vino o bevanda analcolica nello splendido giardino e nella Caffetteria di Palazzo Schifanoia, l’unica delle Delizie Estensi in città. Il costo per la visita e la degustazione finale – della durata complessiva di due ore – è di 5 euro a persona.

 

Si replica venerdì 14 agosto per chi si muove dai Lidi Nord e venerdì 21 agosto per chi si sposta dai Lidi Sud, con arrivo alle ore 21.00 presso la fermata del Bus&Fly sotto i portici dei giardini di Viale Cavour e ripartenza alle ore 23.00 dalla fermata dei pullman di Medaglie d’Oro.

 

Come il titolo stesso indica, Pedalata al chiaro di luna è una visita guidata serale in bicicletta che sabato 8 agosto 2020 offre l’opportunità di scoprire le bellezze di Ferrara sotto il cielo stellato. La sorpresa è allora il concerto a illuminazione selenica in scena nel suggestivo palcoscenico della campagna in città, dove il flauto, le voci e il pianoforte del duo Only Friends, composto da Ambra Bianchi e Ricky Doc Scandiani, insegnanti di A.M.F. Scuola di Musica Moderna di Ferrara, porta un evocativo mix di buona musica nel verde di “Terra Viva”. Incontro con la guida 10 minuti prima delle due partenze delle 20.30 e delle 21.00 in Piazza della Repubblica. Il costo per la visita e lo spettacolo – della durata complessiva di due ore – è di 5 euro a persona.

 

Il doppio appuntamento di domenica 9 agosto 2020, alle 20.30 e 21.00, è un gran finale che punta i riflettori verso Il palcoscenico del principe, l’antica Strada degli Angeli. Quello che è un autentico tuffo nel Rinascimento ferrarese, organizzato con il supporto dell’Ente Palio di Ferrara, inizia con l’incontro con la guida, 10 minuti prima delle partenze, presso la Porta degli Angeli, tappa inaugurale di un percorso che attraversa lo straordinario Corso Ercole I d’Este – la via più bella d’Europa – per concludersi con una sorpresa nel cortile del Castello Estense. Il costo per la visita e lo spettacolo – della durata complessiva di due ore – è di 5 euro a persona.

Si replica mercoledì 12 agosto per chi si muove dai Lidi Sud, con arrivo alle ore 21.00 presso la Porta degli Angeli e ripartenza alle ore 23.00 dalla fermata del Bus&Fly sotto i portici dei giardini di Viale Cavour.

 

 

Prenotazione obbligatoria fino a un massimo di 15 persone per turno sul sito https://www.visitferrara.eu. Pagamento in loco.

In caso di pioggia lieve, la visita sarà garantita anche con l’ombrello. Nel caso di maltempo prolungato o temporali, l’organizzazione provvederà a contattare i partecipanti per comunicare l’eventuale annullamento.

 

Ayasofya

Santa Sofia – in lingua turca Ayasofya – non è mai stata ‘solo’ un museo: molti di noi che l’hanno ammirata percorrendone gli spazi, che hanno sostato col capo rivolto alla cupola e ai giganteschi medaglioni circolari in nero e oro, che si sono soffermati su ogni  particolare, hanno sicuramente respirato un’impalpabile aria di religiosa presenza, di sacralità, di solenne luogo di culto che non l’ha mai abbandonata nei tormentati capitoli della sua storia e negli avvicendamenti tra religiosità e laicità. E’ uno di quei rari luoghi destinati a conservare nei propri muri una spiritualità che nessuna riconversione legata alla sua destinazione e funzione potrà mai scalfire.

Non è solo uno dei più potenti simboli di Istanbul e della Turchia: è una presenza in cui chiunque legge miscugli di popoli e religioni e ne riconosce un proprio capitolo. E’ stata la casa di ortodossi, cristiani, musulmani, ottomani, bizantini, romani, crociati, studiosi mediorientali, architetti e manovalanze greche e svizzere, e ne stiamo ancora parlando da quando, il 10 luglio scorso, il presidente Recep Tayyip Erdoğan, con decreto presidenziale, l’ha dichiarata nuovamente aperta al culto islamico, togliendole lo status di museo.
La basilica di Santa Sofia, nota anche come Santa moschea della Grande Hagia Sophia, celebra il culto di Sofia o Sonia, nell’agiografia ufficiale matrona cristiana di origine italica, forse milanese, vissuta nel II secolo, sposa del senatore Filandro e madre di tre figlie dai nomi altamente simbolici: Fede, Speranza e Carità (Pistis, Elpis, Agape).
Alla morte del marito si dedicò al proselitismo e donò i suoi beni ai più bisognosi, attirando accuse di istigazione e adorazione di idoli. Le venne impresso sulla fronte il marchio dell’infamia e le tre figlie vennero decapitate davanti a lei per non aver abiurato rinnegando Cristo. Sofia fece seppellire i corpi delle sue creature a Roma, al 18°milio della Via Aurelia e dopo tre giorni, piangendo e pregando sul posto, morì lei stessa. L’iconografia la rappresenta come una donna vestita a lutto, una madre  che protegge le figlie con il suo mantello.

Un culto sopravvissuto anche là dove il Cristianesimo ha subito eventi storici comuni legati all’epoca, come  Kiev, Novograd, Salonicco. Dal 537 al 1453 fu cattedrale cristiana cattolica di rito bizantino e successivamente ortodossa, con un intervallo tra il 1204 e il 1261, quando i crociati la dichiararono cattedrale cattolica a rito romano. Fu moschea ottomana nel 1453 in seguito alla conquista del sultano Maometto II, ospitando durante i saccheggi donne, bambini e tutti coloro che non potevano difendere la città, tradotti poi in schiavitù dai vincitori. Rimase moschea fino al1931. Nel 1935 fu sconsacrata e divenne museo per volere di Mustafa Kemal Atatürk, primo presidente della repubblica di Turchia, considerato il traghettatore del Paese verso la modernità e l’apertura. Un edificio che ha attraversato peripezie inimmaginabili: incendi devastanti e ricostruzioni, terremoti, editti iconoclasti, saccheggi, profanazioni, ruberie di reliquie, occupazioni, rimozioni e occultamento murario delle decorazioni più prestigiose, recuperate fortunatamente con le sovvenzioni internazionali in tempi più recenti.
Nel 2006, dopo la visita di Papa Benedetto XVI, il governo turco destinò una piccola stanza del complesso museale a luogo di preghiera per tutte le religioni. Ed ora nuovamente moschea. Santa Sofia, non è solo navate, mosaici, portali, urne, gallerie, tappeti, una cupola particolare, muri di grandi porfidi della Tessaglia, marmi egiziani, colonne elleniche provenienti dal tempio di Artemide di Efeso, pietra nera del Bosforo e pietra gialla della Siria: è qualcosa di più, grandioso simbolo di intercultura, interreligione, pagine di storia comune, incontri di popoli, luogo di testimonianza.

Non sarà la sua nuova destinazione a depotenziare la sua immagine, guadagnata in secoli e secoli di eventi tumultuosi, costruita pezzo dopo pezzo da culture e saperi diversi, arricchita di volta in volta fino ad oggi.
D’altro canto, in greco antico, ‘Sofia’ significa sapienza, saggezza.

PER CERTI VERSI
I libri mi hanno fatto…

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

I LIBRI MI HANNO FATTO

i libri mi hanno fatto
Compagnia
Senza leggere una riga
Ma erano lì a distrarmi
Dalla mia sfiga

ANDRÀ TUTTO BENE

gli amici mi hanno portato
Di peso
Sul letto operatorio
Il resto è stato un volto
Vedrà- mi disse-
Andrà tutto bene

SCUOLA A SETTEMBRE
In sicurezza o insicurezza? Non raccontiamoci le favole

di Davide Nani

In sicurezza o insicurezza? Non raccontiamoci le favole

Da insegnante tutti i giorni seguo i media e leggo ipotetiche soluzioni per il rientro a scuola in sicurezza.
Ho rubato all’amico e collega Mauro Presini uno dei suoi giochi di parole nel titolo per definire meglio quello che penso di questa problematica situazione legata alla coda, non si sa quanto viva, del virus che ci affligge da febbraio. In particolar modo, mi riferisco alla possibilità o meno di rientrare a scuola potendo condurre le attività didattiche in presenza. A mio uso e per chi avrà la cortesia di leggermi, ho tentato di fare un’analisi scomponendo, come si dice in matematica, la questione in fattori semplici:

a)
Il virus esiste e prolifera nel resto di quel mondo dal quale nessuno può rimanere isolato a meno che non ci si trasferisca sull’Isola di Pasqua. E non so se basti.

b) Non esiste al momento una cura riconosciuta come universalmente efficace. Tante cure = nessuna cura.

c) Come tutti i virus il Covid si diffonde in comunità e la scuola è una comunità, la prima comunità.

d) Ampliare gli ambienti, diminuire il numero degli alunni, sicuramente è utile per la didattica, ma non preserva nessuno da contagi. Basta essere stati a scuola un anno (e io ci sono da 35) per constatare che ai virus anche più banali non c’è argine in un’aula in cui i bambini stazionano anche otto ore. (eviterei i banchi a rotelle che per carità di Patria non commento)

e) Lo Stato con le sue diramazioni decentrate non può compiere in un mese il miracolo di trasformare aule spesso polverose in piccole sale operatorie e gli alunni in esperti in protezione  N. B. C. ( Nucleare, Batteriologica e Chimica)

Questa mi pare essere la realtà, allo stato attuale che è quello che ci interessa, visto che settembre è domani. Giusto migliorare le scuole, ma non è possibile avere risultati significativi a breve.
Quindi? Mi chiederete…
Quindi torniamo a scuola, ma non raccontiamo favole alla gente e a noi stessi. Ci assumiamo una certa dose di rischio e non è difficile prevedere che l’attività sarà ancora pesantemente condizionata, dal momento che anche un banale raffreddore costringerà insegnanti e bambini a stare a casa e che non sono escluse chiusure a singhiozzo.
La soluzione al momento non c’è, abituiamoci a pensare che a volte l’insicurezza non è colpa di nessuno e che le bacchette magiche non sono mai esistite.

LIBRI CONTRO LA FAME
17 testi da leggere questa estate

Da: Azione contro la fame – Ufficio stampa

Milano, 24 luglio 2020 – Sono saggi, romanzi e testi per bambini. Aiutano a comprendere la società odierna, analizzando o raccontando le cause strutturali della fame, della povertà e della difficoltà di accesso ai beni di prima necessità da parte di milioni di persone. Si tratta dei 17 testi selezionati da Azione contro la Fame nell’ambito del progetto “Libri contro la Fame”. Si tratta dell’iniziativa di sensibilizzazione promossa sottoforma di premio letterario con l’obiettivo di creare un network di scrittori e editori capace di trattare, con l’uso di nuovi linguaggi, i temi della fame e della malnutrizione, oltre che le loro cause strutturali e le dirette conseguenze di queste gravi piaghe globali.Nuovi approcci e testimonianze in merito alla trattazione di una ferita ancora aperta in molti Paesi del Sud del mondo: va ricordato che, secondo le ultime stime diffuse dal SOFI 2020, 690 milioni di uomini, donne e bambini nel mondo soffrono, oggi, di fame e di malnutrizione.

Autori ed autori che hanno aderito all’iniziativa
Numerose case editrici e autori, italiani e internazionali, hanno aderito a “Libri contro la Fame”: l’organizzazione ne ha selezionati 17, suddividendoli in tre categorie: narrativa, saggi e libri per bambini.

  • “La valigia” (Carthusia Edizioni) di Angelo Ruta (illustratore editoriale e autore). Libro, in bianco e nero, che racconta la brutalità della guerra e l’innocenza dei bambini. È la storia di un sogno custodito dentro una grande valigia, che un bambino trascina faticosamente lontano da un mondo desolante, distrutto da violenza e guerre.
  • “Il viaggio di Cam” (Carthusia Edizioni) di Arianna Giorgia Bonazzi (scrittrice). Cam è un seme, piuttosto vivace. Lui però non sa chi è e nemmeno cosa farà da grande. Questa incertezza gli fa intraprendere un viaggio in giro per il mondo, nei luoghi della solidarietà capaci di donare riposo e benessere, lontano dalla guerra, a tanti malati e, soprattutto, ai bambini in cura.
  • “Fame” (Rizzoli Libri) di Michael Grant (scrittore statunitense). Sono trascorsi mesi da quando gli adulti sono scomparsi e i ragazzi sotti i quindici anni sono rimasti intrappolati nella Fase. Il cibo è finito da settimane e i giovani sono affamati, senza una soluzione all’orizzonte. In questo scenario anche i buoni rivelano un lato oscuro. La serie precedente è “Gone”.
  • “L’uccellino rosso” (Iperborea) di Astrid Lindgren (scrittrice svedese). De fratellini orfani e costretti a lavorare duramente nella stalla inseguono un giorno un uccellino rosso arrivando alle porte di Pratofiorito. È il regno della fantasia a diventare il fido alleato di questi piccoli eroi, trasformando anche la sorte più avversa in una storia piena di meraviglie.
  • “Guerra bambina” (Edizioni La Gru) di Simona Novacco (educatrice, scrittrice e giornalista). Se un bambino ti chiedesse cos’è la guerra, cosa risponderesti? Il testo unisce poesia e immagini per dare una risposta a questo interrogativo e dare voce a tutti i bambini che la guerra sono costretti a viverla ogni giorno, ma resistono mentre tutti gli uomini crollano sotto il peso delle loro colpe.
  • “Commossi dal sogno” e “Le frontiere dell’inquietudine” (Il Quaderno edizioni) di Carmine Natale (scrittore, funzionario, formatore). Due testi dove il protagonista è il volontariato internazionale. Catherine Leclerc, per esempio, è una donna che sembra essere commossa dal sogno, affascinata dall’utopia e dalla bellezza della vita vissuta anche nella povertà delle baraccopoli o in contesti drammatici come quello dello sbarco dei migranti.
  • “Dov’è casa mia” (Minimum Fax) di Davide Coltri (scrittore, si occupa di progetti di istruzione nelle emergenze umanitarie). Il testo racconta le storie di Khalat, Anneke e Théogène. Si tratta di persone che l’autore ha incontrato nel corso del suo lavoro in ambito umanitario. Attraverso la loro testimonianza, ci mostra guerre civili e atti di terrorismo ma anche la solidarietà, la resistenza e la speranza di una vita diversa.
  • “Gli anni, i mesi, i giorni” (Edizioni Nottetempo) di Yan Lianke (scrittore di Henan, vive a Pechino). I due romanzi raccolti raccontano la vita contadina ambientata sui Monti Balou, catena immaginaria della provincia cinese del Henan. Lianke esplora la durezza delle esistenze dei suoi protagonisti, alla mercé di destini avversi e di una natura potente, inesorabile, a tratti feroce. 
  • “La linea del colore” (Bompiani) di Igiaba Scego (scrittrice, collabora con riviste che si occupano di migrazioni e di culture e letterature africane). Romanzo dalle tonalità ottocentesche nel quale l’autrice innesta vivide schegge di testimonianza sul presente, e ci racconta di un mondo nel quale almeno sulla carta tutti erano liberi di viaggiare: perché fare memoria della storia è sempre il primo passo verso il futuro che vogliamo costruire.
  • “Ajeneide” (Campanotto Editore) di Anna Bossi (scrittrice e insegnante). Fa parte di “Classicamente attuale”, che racchiude tre racconti che s’ispirano ad altrettanti classici: “L’Eneide”, “L’Orlando furioso”, “Romeo e Giulietta”. In particolare, il testo si concentra sull’Africa sub-sahariana, in villaggi in balia della guerra civile.
  • “Profughi del Clima” (Rubbettino Editore) di Francesca Santolini (giornalista esperta di temi ambientali, collabora con «La Stampa» e la trasmissione di Rai 1 Unomattina). Migranti climatici, rifugiati ambientali, eco profughi, indignados del clima: sono tante le espressioni per definire la nuova migrazione forzata che rischia di trasformarsi nella più grave crisi dei rifugiati dalla Seconda guerra mondiale.
  • “Matrimonio siriano, un nuovo viaggio” (Rubbettino Editore) di Laura Tangherlini giornalista e conduttrice di Rainews24). Come si sopravvive da profughi siriani? Quanto restano forti, dopo otto anni di conflitto, la nostalgia e il ricordo? La guerra è davvero finita? Le risposte a queste domande dalle voci delle vere vittime, di chi scappa e di chi ha paura a tornare. Il loro dramma in un libro di inchiesta, denuncia e amore.
  • “Ricette e precetti” (Casa Editrice Giuntina) di Miriam Camerini (regista, attrice e cantante). Un viaggio alla scoperta dei piatti nelle tre religioni monoteiste. Quarantacinque storie e ricette raccontano del rapporto intricato fra cibo e norme religiose ebraiche, cristiane e islamiche.
  • “Per amore della terra” (Castelvecchi Editore) di Giuseppe De Marzo (economista, giornalista, attivista e scrittore). Mentre ripercorre la geografia delle lotte in atto nel mondo ù, l’autore ci invita a riflettere sul mondo in cui viviamo e sul potere che abbiamo di trasformarlo, in nome dell’amore verso quella casa comune che si chiama Madre Terra che abitiamo.
  • “Fame. Una conversazione con papa Francesco alla luce dei dati della Fao arricchiti da analisi, commenti, testimonianze” (San Paolo Edizioni) di Gianni Garrucciu (giornalista, scrittore e docente). Partendo da una lunga conversazione privata con Papa Francesco, il libro di Gianni Garrucciu, partendo dagli ultimi dati ufficiali della FAO, dà volti e storie a numeri che fanno paura, ma che non possiamo più evitare: 821 milioni di esseri umani oggi patiscono la fame.
  • “Luci in lontananza” (Marsilio Editori) di Daniel Trilling (giornalista britannico, dirige New Humanist). La geografia dei flussi migratori che stanno ridisegnando il Vecchio continente raccontata attraverso le storie di chi sfida la sorte nella speranza di una vita migliore, per portare in superficie ciò che etichette come «richiedenti asilo» e «migranti economici» non sono in grado di restituire.

La fase finale dell’iniziativa

La manifestazione conclusiva si terrà nel mese di novembre. I libri saranno giudicati da una giuria di eccezione, in cui operano insieme diverse “anime”.
Staff di Azione contro la FameAlessandra Favilli (vicepresidente), Giovanni Terzi (membro del board), Simone Garroni (direttore generale), Nicola Giordano ed Elisabetta Dozio (operatori dell’organizzazione).
Personalità di spicco del mondo della letteratura e dell’editoriaGianni Biondillo (scrittore), Ginevra Bompiani (scrittrice, editrice e saggista), Emilia Lodigiani (editrice), Lucio Morawetz (Libreria Utopia), Maria Pace Ottieri (scrittrice e giornalista), Francesco Piccolo (scrittore e sceneggiatore), Christian Raimo (scrittore e traduttore), Elena Stancanelli (scrittrice), Nadia Terranova (scrittrice).
Personalità di spicco del mondo del giornalismo, della cultura e dell’entertainmentAlessandro Banfi (giornalista), Luciano Piscaglia (giornalista), Elena Salem (direttrice della Scuola Letteraria, docente di scrittura creativa e scrittrice), Giovanna Savignano (giornalista e speaker radiofonica), Metis Di Meo (conduttrice televisiva e attrice). 

Azione contro la Fame è un’organizzazione umanitaria internazionale leader nella lotta contro le cause e le conseguenze della fame. Da 40 anni, in circa 50 Paesi, salva la vita di bambini malnutriti, assicura alle famiglie acqua potabile, cibo, cure mediche e formazione, consentendo a intere comunità di vivere libere dalla fame.

Dora, Amalia e l’incendio di via Santoni Rosa

Qui a Pontalba siamo tutti dispiaciuti della morte di Dora, la signora anziana che abitava in via Santoni Rosa a pochi isolati di distanza da casa nostra. Dora era simpatica, ci piaceva tanto. Alla mattina usciva a spazzare davanti al suo grande portone di legno e se mi vedeva, diceva: “Ecco Rebecca, una delle tre meraviglie di via Santoni”  (le altre due meraviglie sono i miei fratelli: Valeria e Enrico). Amalia, la sorella di Dora, è rimasta da poco sola in quella vecchia casa. Ha  novant’anni. Il suo cervello funziona ancora bene, le sue gambe molto meno.

Quando la zia Costanza era piccola, Amalia e Dora erano giovani e arzille. Portavano dei cappellini vivaci con fiori e piume e cantavano come due sirene. La zia se le ricorda sedute vicine nel banco in chiesa, mentre intonavano le canzoni della Messa di Natale. Anche la nonna Anna se le ricorda.
Quando la zia Costanza aveva quattro anni, la zia Rachele tre e mia madre non era ancora nata, la nostra casa in via Santoni Rosa andò a fuoco.
C’era una caldaia a nafta posizionata in uno stanzino tra la cucina e un’ala diroccata dello stesso stabile, proprio lì si scatenò l’incendio.  Alcuni anni dopo quell’ala in disuso fu restaurata ed è diventata  la mia casa attuale. In quella drammatica notte, un grumo di combustibile  intasò la caldaia e causò l’incendio che si propagò per buona parte dell’abitazione e distrusse il fienile. Le esalazioni di nafta fecero morire Lisa, il collie delle zie.

Io sono nata molto tempo dopo, ma di quella vicenda ne ho sempre sentito parlare. Le fiamme erano altissime, i pompieri non arrivavano, né quelli della centrale più vicina, né quelli della città. Si erano persi con le loro autobotti nella notte d’autunno che, nella pianura lombarda, sa essere insidiosa e quasi priva di visibilità. Il fuoco imperversava. I nonni e i bisnonni, tutti ormai svegli e usciti in cortile col solo pigiama addosso, non sapevano cosa fare.

La zia Costanza e la zia Rachele furono portate a casa di Dora e Amalia e là si addormentarono, mentre gli adulti continuarono ad aspettare i pompieri. Le fiamme erano violente, rosse come i tramonti di Luglio, bollenti. I nostri vicini trebbiatori provarono a fermarle  con gli estintori in dotazione a chi lavora con le macchine agricole, ma fu inutile. Quelle bisce di fuoco si abbassarono per un attimo e poi ripresero vigore e si innalzarono nel cielo della notte come draghi inferociti. Un po’ alla volta si svegliò tutto il paese. C’era una strana luce e uno strano calore ovunque. Suonarono le campane a martello per avvisare che c’era un dramma in corso.
Poi finalmente arrivarono i pompieri e spensero il fuoco. La casa rimase bollente, piena di schiumogeno, cenere e resti di nafta fuoriuscita dalla cisterna e parzialmente bruciata, per giorni. Quel nero bruciato si era appiccicato alle pareti e si riuscì a liberarsene definitivamente l’estate dopo, quando con l’intonaco nuovo si risistemarono i muri martoriati.
Mentre tutto questo succedeva  le zie dormivano nel letto di Dora e Amalia. Entrambe, seppur piccole, ricordano di essersi svegliate in quel letto “diverso” e di aver avvertito che la situazione era anomala, ma non ricordano molto di più.

Quando sento parlare di incendi ripenso sempre a quel che le zie e la nonna Anna raccontano di quel fuoco violento che devastò parte della nostra casa, per la precisione la parte che poi è stata ristrutturata e dove noi abitiamo adesso. Ho rischiato di perdere la mia abitazione prima ancora di averla trovata. La nostra grande casa di campagna è divisa in due appartamenti: in uno abita la zia Costanza con la nonna, nell’altra abitiamo io, Valeria, Enrico e i nostri genitori. La zia Rachele abita a Torino perché lavora là.

Anche la signora Amalia ricorda bene quella notte. Una volta mi raccontò che era stato un grande spavento, avevano avuto paura che della nostra casa non restasse nulla, tanto l’incendio era alto e autoalimentato (la nafta continuava ad uscire dal bruciatore e nessuno sapeva come fermarla). Nella caldaia c’era trenta quintali di nafta che bruciavano con ardore.
Un amico della nonna tagliò i fili della corrente elettrica che si stavano surriscaldando e i pompieri iniziarono a bagnare con acqua ghiacciata i muri interni della casa che stavano diventando bollenti. Un dramma che ha sfiorato la tragedia.
Dora e Amalia sono state tempestive, ci hanno aiutato, hanno avvolte le zie in coperte e poi le hanno portate a dormire, hanno costretto i nonni a bere un po’ di grappa.
In quel dramma improvviso si è risvegliato, di notte, un intero paese. Insieme alle fiamme si è riaccesa la solidarietà. Insieme al calore del fuoco, via Santoni Rosa è stata invasa dalla bontà di tanti cuori. Si è riscoperta improvvisamente la fratellanza.

La mattina dopo nella mia casa devastata e nera come il carbone, arrivarono diversi piatti di frittelle fumanti, segno inequivocabile di solidarietà e di partecipazione al damma. Non centrava proprio più la politica, le riunioni condominiali, le candidature a Sindaco del paese, la gestione della cassa dell’oratorio e tutte quelle vicende che allertano gli animi in tempo di pace. Una notte sola aveva spazzato via tutti questi piccoli risentimenti di una vita un po’ banale e un po’ ripetitiva. (Soprassederei sull’effettiva utilità di ingurgitare dolci fritti dopo essere stati una notte al freddo e aver provato un forte stringimento di stomaco causato dalla paura e dalla preoccupazione. Là bontà dei cuori va oltre.)

Credo che sia in momenti come quelli che si riscopre la differenza tra l’abitare in un paese  e nella periferia di una grande città. Tutti gli abitanti di via Santoni Rosa si ritrovarono quella notte per strada, senza vestiti, senza scarpe e cercarono di dare il loro aiuto a seconda delle loro possibilità, della competenza, dell’età e della preoccupazione che, a volte, impedisce di vedere le soluzioni più ragionevoli.
Il papà di Camilla andò sull’angolo della via ad aspettare i pompieri, Amalia chiamò il medico di guardia per il nonno che stava male, gli zii che abitavano in piazza si misero a pregare e accesero delle belle candele suoi loro comodini.
Il parroco arrivò in bicicletta, la farmacista in vespa, il segretario comunale a piedi perchè la sera prima aveva bevuto e vinto a carte all’osteria e, i postumi della sbornia, gli permettevano di fidarsi solo delle sue gambe.
Il giorno dopo a scuola le maestre fecero fare ai bambini della elementari un tema sull’incendio di via Santoni Rosa, mentre quelli delle medie studiarono come funzionava la combustione della nafta.

Tutto il paese partecipò al dramma e la cosa che sollevò gli animi di tutti è che non morì nessuno, né la casa cadde a pezzi, anzi si salvò e venne ristrutturata. Amalia e Dora raccontarono per anni questa storia con molta fierezza come se l’esito positivo della vicenda fosse, almeno un po’, merito loro.  Forse in parte lo era, come lo era di tutti coloro che in quella notte, rossa come il fuoco e accesa come il sole di mezzogiorno, parteciparono al dramma e provarono a dare il loro contributo allo spegnimento dell’incendio.
Ben diversi sono stati gli eventi a causa dei quali, proprio in quegli anni, sono bruciati fienili carichi di fieno e legname. In quei casi  il dramma assumeva proporzioni rilevanti e i danni economici potevano portare alla rovina dei malcapitati colpiti dal fuoco. A volte  gli incendi erano di natura dolosa, ma di questo a me non è mai stato raccontato nulla.

I bisnonni, i nonni, le zie devono ringraziare  Dora e Amalia che, con la loro solerzia e il loro proverbiale altruismo, si sono precipitate a prendere le due bambine della casa che stava bruciando. Ora Dora purtroppo è morta, ma lei è una nostra defunta, fa parte della nostra tomba di famiglia.
Nei paesi di campagna le storie di incendi sono tante, hanno tante cause, tante conseguenze, tante chiacchiere posticce e a volte anche tante polemiche.

Ma Dora  e Amalia hanno sempre ringraziato il cielo che ai  miei parenti non sia successo niente e che alle due bambine di via Santoni Rosa (la zia Costanza e la zia Rachele) sia continuata ad essere garantita una vita serena e protetta. Le due bambine sono infatti cresciute sane e per nulla traumatizzate dal brutto e pericoloso incidente. Le zie sanno quante candele hanno acceso Dora e Amalia per loro. E di questo non si possono dimenticare. Adesso che Dora è morta di Covid-19, ogni tanto, piangono.  Credo ripensino a tutte le volte che Dora le ha cordialmente salutate, ha sorriso loro, regalato qualche caramella e indicato loro i rondoni pronti a spiccare il volo.  Ripensano a quando, in quella notte di terrore, lei e sua sorella Amalia le hanno fatte dormire nel loro letto perché la casa bruciava. Le zie sanno, perché l’hanno provato sulla loro pelle, che è la presenza  di persone buone che cambia il corso della vita, è il loro amore, la loro forza, la loro fiducia e anche un po’ della loro temerarietà.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

CONTRO VERSO
Filastrocca delle frazioni

La pretesa di una divisione matematica del tempo del bambino, al 50% tra la mamma e il papà, è spesso una forzatura che accontenta, forse, gli adulti, ma confonde i figli e irrigidisce le relazioni.

Filastrocca delle frazioni

Ho un piede con il babbo
un altro da mammà.
Mi sveglio e mi domando:
“Perché mi trovo qua?”
La maglia dalla mamma,
dal babbo i pantaloni
con me ci puoi illustrare
per bene le frazioni.
Con mamma storia e atletica
con babbo geometria
frequento l’aritmetica
e la ragioneria
di genitori inquieti,
costantemente persi,
che no, non si perdonano
di essere diversi.
Che più non si ricordano
quando si sono amati
e forse manco sanno
perché si son lasciati.
Che poi, siamo sinceri,
lasciati non sono.
Né divisi né interi
finché non c’è il perdono.

In una famiglia unita, in una condizione di convivenza, è del tutto normale che un figlio si avvicini di più alla madre o di più al padre in periodi diversi della crescita, o per aspetti differenti nel medesimo periodo. È quello che succede quando si tiene conto delle relazioni con una certa naturalezza.
Al momento della separazione sembra che questo sia improvvisamente inaccettabile. Mamma e papà vanno dal giudice col cronometro in mano. Chi resta incastrato, evidentemente, è il figlio. 

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia tutti i venerdì.
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Ddl Zan: femministe omofobe?

Da: Giuliana Bolognesi

 

Circa l’ormai notissimo ddl Zan (che dovrebbe contrastare omofobia,bifobia e transfobia) è stato incredibilmente trascurato il punto di vista di molte femministe che contestano le nuove norme “in fieri” e che si sono espresse nei seguenti termini : «Ci lascia perplesse la definizione ‘identità di genere’ al posto di ‘identità sessuale’, perché finirebbe per negare la specificità femminile. Nel Regno Unito, in Canada, in alcuni Stati Usa le donne che non accettano di condividere i loro spazi con persone di sesso maschile e identità di genere femminile vengono ingiuriate, processate, talvolta licenziate con l’accusa di transfobia. Il linciaggio mediatico della scrittrice J. K. Rowling è il caso più clamoroso, ma non l’unico”.

Che Monica Ricci Sargentini e Marina Terragni si schierino contro il ddl Zan è di certo assai significativo e non solo perché parliamo di esponenti storiche del mondo femminista. Fra l’altro,alle due giornaliste citate potremmo aggiungere altri nomi di scrittrici appartenenti al mondo lesbico o femminista, da Rita Paltrinieri di Arcilesbica Modena a Paola Vitacolonna di Gruppo I-Dee Milano.
La Ricci Sargentini è stata bollata sul web come «omofoba», la Terragni è stata inondata di insulti, e così anche le altre che sostengono le medesime posizioni. Insomma, spira un’aria di intolleranza che non promette nulla di buono. Nel manifestare la mia totale solidarietà a Monica e a Marina ( a cui spero si associ anche Paola Peruffo) mi vien da pensare,purtroppo, che la tolleranza non sia un valore universale bensì particolare: c’è chi se la merita, e chi no, magari solo per il solo fatto di pensarla diversamente.

PAROLE A CAPO
Bruno Montanari: “Ora di cena” e altre poesie

“Molte volte l’impegno che gli uomini mettono in attività che sembrano assolutamente gratuite, senz’altro fine che il divertimento o la soddisfazione di risolvere un problema difficile, si rivela essenziale in un ambito che nessuno aveva previsto, con conseguenze che portano lontano. Questo è vero per poesia e arte, come è vero per la scienza e per la tecnologia”
(Italo Calvino)

ORA DI CENA

E’ come una sponda nel cielo
l’estremo orizzonte lontano,
anche oggi si è tinto di viola
e, poi, lentamente di nero.

Nell’ora di cena
ritornano sfumati i colori
di un tempo remoto.
Respiro l’odore della legna
che brucia,
rivedo mia madre
i tegami sul fuoco.

In quella cucina, mentre lei stirava,
quanti tramonti ho visto arrivare,
le ore del pomeriggio fuggivano
portandosi via le nostre preghiere.

 

SE GUARDO NELLA MENTE

Più brevi si fanno i confini.
L’oggi si fa ieri
e le memorie si addensano
lungo la strada
come bianche farfalle
che danzano nell’aria.

Il ricordo mi è riparo
e dolcezza per l’anima.
Di nuovo s’accende il cuore
per la fine della guerra
e l’ansia dell’attesa
di chi era partito soldato.

Io, bambino, con mia madre
nella vecchia stanza;
in un cantone la legna per il fuoco
ed un sacco con poca farina.

 

FERRARA

Vagare per la  città
mentre si perde il sole
e si aspetta il calare della luna.

Perdersi in un mare di vecchie case
e rivivere la bellezza del passato.
Sentire il vociare lontano
dei bambini
e respirare il profumo dei tigli
che corre nei viali.

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Nel sotto mura
un sentiero di terra pestata.
In bella fila alberi,
colorati fiori
e tratti pungenti di rovi.

Col nuovo sole,
fuggono dall’aria
i profumi di cose lontane
e si nascondono
le presenze dei momenti vissuti.
Maggio,
come un canto che giunge nel vento
porta nuove voci di primavera.

 

LA FEDE

E’ la fine! Ma di che cosa.
Per anni ho seminato
ed ora sono carico di raccolto;
dopo sarà meglio di prima.

Tutto è perduto! Ma non è vero.
La vita si conclude.
Il vecchio terreno resterà incolto,
ma nuova semina germoglierà
in altri campi.

Tutto diventa cenere! Ma è sbagliato.
Si inaridirà la sorgente
ed appassiranno le vecchie rose,
ma un leggero vento soffierà
sui fiori profumati
di un diverso giardino.

Bruno Montanari (1941) di Madonna Boschi / Vigarano Mainarda (FE). L’unione con la poesia è avvenuta nel 2008. Prima non aveva mai scritto. Da allora ha pubblicato 22 libri con diversi editori. Un libro si trova presso la Biblioteca Vaticana e due libri presso la Biblioteca del Presidente della Repubblica. Molti giudizi favorevoli sui suoi lavori sono apparsi per diversi anni nella rivista internazionale “Poeti e poesie”.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
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HA VINTO LA VECCHIA EUROPA NEOLIBERISTA
Nonostante gli applausi, l’accordo non apre verso un futuro federalista e solidale

Dopo più di 4 giorni di discussione, alla fine è arrivato l’accordo sul Recovery Fund europeo. L’accordo prevede che siano disponibili sempre 750 miliardi di euro, rimodulati però tra 390 come sovvenzioni a fondo perduto e 360 come prestiti, rispetto ai 500 dei primi e 250 dei secondi, come precedentemente convenuto. Peraltro, all’Italia spetterebbero 82 miliardi di risorse a fondo perduto, 3 in meno della proposta iniziale, mentre i prestiti salirebbero a 127 miliardi, 38 in più, sempre rispetto a prima. Vengono confermati sconti significativi nei contributi al bilancio europeo a favore di Olanda, Danimarca, Svezia, Austria e Germania. Sul rispetto dello stato di diritto, questioni rivolte in primo luogo ad Ungheria e Polonia, ci sono solo affermazioni e procedure generiche.
Cambia, in modo sostanziale, il meccanismo decisionale per accedere a tali finanziamenti: intanto rispuntano le famose condizionalità per cui gli Stati membri devono presentare propri Piani nazionali di ripresa e resilienza (Recovery Plan) che devono rispettare le raccomandazioni che la Commissione produce sulle politiche economiche e sociali dei singoli Stati. In più, la sede decisionale per l’approvazione di tali Piani passa dalla Commissione Europea al Consiglio Europeo, che li assume a maggioranza qualificata, dando così vita al tanto declamato ‘freno a mano’ rispetto alle scelte nazionali.

Tale complesso di decisioni rappresenta un ulteriore arretramento rispetto alle discussioni precedenti, non tanto sulle risorse stanziate, quanto sui meccanismi decisionali e sulle dinamiche che sono state messe in campo.
A differenza della narrazione che è stata presentata dalla gran parte del nostro sistema mediatico, secondo la quale è stata sostanzialmente bloccata l’offensiva dei Paesi cosiddetti ‘frugali’, in realtà quello che è successo è che l’Europa ha fatto un ulteriore passo indietro rispetto alla possibilità di rispondere in modo utile alle questioni che la crisi sanitaria, economica e sociale propone. Mi riferisco in particolare al meccanismo decisionale definito, che, nei fatti, rimette in piedi l’idea di un’Europa che deve controllare chi si discosta dall’ortodossia delle politiche di matrice mercatista e di vincolo del debito e che si basa sulla mediazione intergovernativa, che è quella che esalta le posizioni dei singoli Stati o di coalizione degli stessi.
Infatti, assumere la condizionalità del rispetto delle raccomandazioni dell’Unione europea implica, prima di tutto, ridare centralità al tema del rientro dal debito pubblico, che è stato il faro da cui sono partite le politiche di rigore e austerità dagli anni ‘90 in poi, oggi sospese, ma destinate ad essere ripresentate una volta superata l’attuale fase di emergenza. Basta pensare che anche le ultime raccomandazioni della UE rivolte all’Italia in piena pandemia, nel maggio di quest’anno, oltre ad indicare alcuni provvedimenti per far fronte ad essa, ricordano che “l’Italia presenta squilibri macroeconomici eccessivi. In particolare l’elevato debito pubblico  e la prolungata debolezza della produttività…”.
Inoltre, il passaggio dell’approvazione dei Piani nazionali dalla Commissione Europea, che, almeno, è organismo che deve essere legittimato dal voto del Parlamento europeo e non rappresenta i singoli Stati membri, al Consiglio Europeo, che, invece, è composto dai capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri ed è  esattamente rappresentativo dei governi nazionali significa proprio legittimare l’idea di un’Europa come assemblaggio di singoli Stati o coalizioni di essi, con la conseguenza di doversi misurare con il possibile potere di veto delle stesse.

Con questo arriviamo alla dinamiche presenti oggi in Europa.
Da una parte, ci sono i Paesi ‘frugali’, la coalizione formata da Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia e Austria. Intanto, bisognerebbe smetterla di continuare ad usare quest’appellativo, che dà un’idea distorta delle posizioni in campo, come se ci fossero i Paesi ‘attenti ai conti’ e quelli, in particolare del Sud dell’Europa, ‘spendaccioni’. Meglio sarebbe definire questa coalizione come quella del ‘neoliberismo nazionalista’, nel senso che essa esplicita un approccio fondato sul dogma dei vincoli di bilancio e sulla preminenza dei singoli Stati nella costruzione europea.
Da qui l’avversione alla concessione di risorse a fondo perduto e l’insistenza sui prestiti (che dovranno essere restituiti) e la sorveglianza sui singoli stati rispetto al loro utilizzo. Del resto, il profilo del loro portavoce, il premier olandese Rutte è esemplificativo al riguardo: ex manager della multinazionale Unilever, strenuo difensore del paradiso fiscale del suo Paese, ben attento a non farsi insidiare dalla forte destra sovranista olandese.

Poi, ci sono i Paesi del cosiddetto ‘blocco di Visegrad’: in testa l’Ungheria, assieme a Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia, interessati in primo luogo a mantenere la propria posizione per cui ricevono, anche in tempi ‘normali’, più risorse dall’Europa di quanto ne versano. Soprattutto, usando questo surplus per costruire il proprio consenso interno con vere e proprie politiche antieuropee e lesive dei diritti umani, dal costruire muri rispetto all’immigrazione extracomunitaria ad attaccare stampa e magistratura. Insomma, sono loro I veri “sovranisti”.

Ancora, i Paesi mediterranei: oltre all’Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e, a fasi alterne, la Francia (che non ha perso la velleità di giocare anche il ruolo di partner minore della Germania), che sono quelli che patiscono di più la crisi, provano, anche se in modo confuso, a perorare la causa di un’Europa più solidale e, dunque, accennano ora a politiche che possano mettere in discussione la linea dell’austerità e della centralità del rientro dal debito.
Potremmo denominarli come gli ‘incerti riformisti’.

A tentare di tenere insieme queste spinte contrapposte e anche tatticamente mutevoli, ci prova la Germania, a cui a volte si associa la Francia, che pare aver compreso che, dentro la crisi, è a rischio la stessa tenuta dell’Unione Europea e che, almeno adesso, occorre mettere in campo iniziative in discontinuità con il recente passato. Peccato che ciò sembra avvenire più per necessità che per virtù: insomma, ‘l’arte suprema della mediazione’. Che quindi si traduce nel trovare un punto di equilibrio tra le varie spinte in campo, peraltro molto distanti tra loro, piuttosto che nella capacità di delineare un progetto compiuto per un’altra idea di Europa per il XXI secolo.

Che, invece, è quello di cui avremmo bisogno e di cui continua a non esserci traccia. Del resto, è evidente che stare su questo terreno comporta un cambio di paradigma, una rottura con le scelte che l’Europa ha compiuto da decenni in qua: significa non semplicemente sospendere, ma abolire il Patto di stabilità, quello che ha imposto i parametri stupidi sui vincoli di deficit e debito pubblico, fare della Banca Centrale Europea una reale banca pubblica, costruire politiche che sul serio assumano il lavoro e i diritti come bussola di fondo per delineare un’altra idea di modello produttivo e sociale, modificare i Trattati europei in queste direzioni.
Qui potrebbero dare un contributo i Paesi del mediterraneo, a partire dal nostro. Certo, non aiuta in questo senso il Programma nazionale di riforma, deliberato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 6 luglio, che dovrebbe costituire la base per l’elaborazione del Recovery Plan italiano da portare in Europa. Purtroppo, il piano governativo si muove troppo in continuità con il passato, parla in modo insufficiente di scuola e sanità, enfatizza le grandi opere e la digitalizzazione come vettori di sviluppo e già si pone l’interrogativo centrale di come uscire dal debito pubblico che è stato creato in questi mesi. Anche da qui si può facilmente capire che il futuro non può semplicemente nascere dai governi e dalle mediazioni tra gli stessi in Europa. Solo uno scatto dei movimenti e della società  nazionale ed europea può mettere all’ordine del giorno il cambiamento che è necessario e, senza il quale, non si possono profilare soluzioni adeguate.

TRASPORTO PUBBLICO: ARIVANO I RIMBORSI
Per il mancato utilizzo di Bus e Treni da parte di Studenti e pendolari

e studenti Da: Ufficio Stampa Regione Emilia-Romagna

Trasporto pubblico. Bus e treni, arrivano i rimborsi a studenti e pendolari per il mancato utilizzo di abbonamenti e biglietti durante il periodo del lockdown imposto dall’emergenza Coronavirus. L’assessore Corsini: “Regole condivise con le aziende dei trasporti pubblici e le associazioni dei consumatori”

Via libera della Giunta alla delibera che fissa gli indirizzi rivolti alle aziende di Tpl per uniformare l’applicazione sul territorio regionale di quanto previsto nel Decreto Rilancio

In arrivo i rimborsi agli abbonati e utenti del servizio ferroviario regionale e del trasporto pubblico locale (bus urbani ed extraurbani) per il mancato utilizzo dei titoli di viaggio durante il periodo del lockdown imposto dall’emergenza Coronavirus. Lo prevede una delibera approvata dalla Giunta regionale che fissa gli indirizzi destinati alle aziende di trasporto pubblico per uniformare l’applicazione sul territorio regionale dell’articolo 215 del Decreto Rilancio, convertito in legge in via definitiva la scorsa settimana dal Parlamento italiano.

“Si tratta di una misura di ristoro sollecitata dalle stesse Regioni- afferma l’assessore regionale ai Trasporti, Andrea Corsini- che va incontro alle legittime aspettative dei pendolari e, più in generale, degli utilizzatori dei mezzi pubblici, oltre a definire un quadro di riferimento certo ai fini del riconoscimento dei mancati ricavi delle aziende di trasporto pubblico locale. Nella stesura della delibera abbiamo tenuto conto delle osservazioni avanzate dalle stesse aziende di Tpl e dalle principali associazioni dei consumatori dopo un approfondito confronto e vigileremo affinché i rimborsi arrivino nel modo più veloce e senza complicazioni burocratiche ai cittadini interessati”.

Hanno diritto al risarcimento, precisa la delibera regionale, gli studenti e i lavoratori-pendolari titolari di abbonamento mensile e annuale, rispettivamente per il periodo 23 febbraio-3 giugno 2020 e 8 marzo-17 maggio 2020. La richiesta va presentata entro il 30 novembre prossimo all’Azienda di trasporto pubblico che ha emesso l’abbonamento, preferibilmente on line sul portale della stessa azienda, allegando alla domanda l’autocertificazione della condizione di studente, se richiesta.

Il rimborso sarà effettuato mediante l’emissione di un voucher rilasciato al massimo entro 30 giorni dalla richiesta, come disposto dal Decreto Rilancio. L’entità sarà calcolata in rapporto ai giorni di mancato utilizzo dell’abbonamento, sia mensile che annuale. In alternativa, possono richiedere il rimborso in contanti, secondo modalità definite da ciascuna azienda di Tpl, gli studenti under 14 già titolari di abbonamento annuale che a partire dal prossimo mese di settembre non lo pagheranno più per la decisione presa dalla Giunta regionale di renderlo per loro gratuito.

Per quanto riguarda i biglietti ferroviari di corsa semplice acquistati prima dell’8 marzo e con scadenza 8 marzo-17 maggio 2020, sarà riconosciuto un voucher di pari valore. Nessun rimborso invece per i biglietti di corsa semplice e i carnet validi sui bus urbani ed extraurbani in quanto per questi titoli di viaggio non è prevista una scadenza di utilizzo.

I voucher rilasciati dalle aziende di trasporto saranno validi fino ad un anno dall’emissione, sono spendibili in un’unica soluzione, non si possono cedere e vanno utilizzati preferibilmente come sconto sull’emissione di un nuovo abbonamento o per l’acquisto di singoli biglietti o carnet di biglietti.

Regole particolari valgono per alcune tipologie di abbonamento. Per quelli mensili, annuali e annuali per studenti della tipologia “Mi muovo anche in città” è previsto il rimborso per la sola tratta ferroviaria pagata dall’utente. La richiesta di rimborso va presentata all’azienda Trenitalia Tper anche se gli abbonamenti sono stati emessi da Tper. Per gli abbonamenti riconducibili a politiche di “mobility management”, le modalità di rimborso saranno definite direttamente tra società di trasporto pubblico e azienda o altra istituzione convenzionata.

Per quanto riguarda gli abbonamenti ferroviari a tariffa sovraregionale, modalità e misura dei rimborsi dovranno necessariamente essere coordinate a livello nazionale e quindi al momento esulano dagli indirizzi regionali. /G.Ma

L’EDUCAZIONE CIVICA TORNA A SCUOLA
Bellissima idea, a patto di prenderla sul serio.

Da bambini era in programma anche l’educazione civica. C’era un libro apposito, adatto a pareggiare i tavoli zoppi. Tutti dicevano che era importante però poi si sa, bisogna finire il programma di storia e di letteratura, recuperare i ponti, e quel giro di interrogazioni saltato con le influenze… L’educazione civica restava all’ultimo posto. Talmente tanto che per un po’ è completamente scomparsa.

La Legge n.92 del 2019 [Qui il testo della Gazzetta Ufficiale] l’ha reintrodotta ma, essendo stata approvata il 30 agosto dello scorso anno – cioè troppo tardi per spiegare in tempo utile come applicarla nell’anno scolastico che iniziava a settembre – dopo qualche polemica non se n’è fatto niente. Quest’anno, il 23 giugno scorso, la Ministra Azzolina ha inviato alle scuole una lettera e delle Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica [Qui] che spiegano che cosa ci si attende. Il Ministero nelle sue articolazioni organizzerà corsi di formazione per dirigenti e insegnanti per supportarli in questo nuovo vecchio compito.

Sono tre gli assi intorno cui muoversi: Costituzione, Sviluppo Sostenibile, Cittadinanza Digitale. Verranno inseriti in tutti gli ordini di scuola a partire dalla materna, entreranno anche nei percorsi dell’istruzione per adulti e saranno affrontati con metodi e contenuti appropriati all’età e alle competenze degli allievi.

Si legge sulle linee guida: “La Carta è in sostanza un codice chiaro e organico di valenza culturale e pedagogica, capace di accogliere e dare senso e orientamento in particolare alle persone che vivono nella scuola e alle discipline e alle attività che vi si svolgono”. La sfera della Costituzione include la conoscenza dell’ordinamento nazionale e locale, i valori di legalità e solidarietà, il contrasto alla cultura mafiosa, la cittadinanza europea ed altro ancora.

Anche lo Sviluppo Sostenibile porta con sé una molteplicità di contenuti, non soltanto in tema ambientale. C’è il rispetto per gli animali, l’attenzione per la raccolta differenziata o la lettura dei complessi problemi energetici e climatici del pianeta, ma c’è anche la sostenibilità delle città o delle società, la capacità di includere le minoranze e le differenze, il rispetto per i diritti di ciascuno.

Nella Cittadinanza Digitale, poi, è inclusa l’alfabetizzazione consapevole all’uso di strumenti che bambini e ragazzi frequentano dalla nascita ma non sempre con competenza, come ha dimostrato l’esperienza recente di didattica online nella quale gli insegnanti hanno spiegato ai nativi digitali come utilizzare l’email e altro di apparentemente scontato, e si parlerà pure dei rischi che si corrono in rete, dalle fake news agli odiatori passando per le svariate forme di bullismo elettronico.

È un bel programma, e dovrà svolgersi in almeno 33 ore scolastiche nel corso dell’anno. Non ci sarà un solo insegnante coinvolto ma un coordinatore che lavorerà con i colleghi secondo un progetto pensato a inizio anno, con obiettivi di apprendimento legati alle linee guida, indicatori da rilevare e valutazioni da svolgere. “Le Istituzioni scolastiche sono chiamate, pertanto, ad aggiornare i curricoli di istituto e l’attività di programmazione didattica nel primo e nel secondo ciclo di istruzione”, si legge nelle Linee guida, “al fine di sviluppare ‘la conoscenza e la comprensione delle strutture e dei profili sociali, economici, giuridici, civici e ambientali della società’ (articolo 2, comma 1 della Legge), nonché ad individuare nella conoscenza e nell’attuazione consapevole dei regolamenti di Istituto, dello Statuto delle studentesse e degli studenti, nel Patto educativo di corresponsabilità, esteso ai percorsi di scuola primaria, un terreno di esercizio concreto per sviluppare ‘la capacità di agire da cittadini responsabili e di partecipare pienamente e consapevolmente alla vita civica, culturale e sociale della comunità’ (articolo 1, comma 1 della Legge)”.

Dedicarsi a questi progetti, se verrà preso sul serio, sarà entusiasmante, e molto proficuo il risultato in termini di formazione dei giovani cittadini. Soprattutto se, come le stesse Linee guida propongono, l’educazione civica non sarà una materia a sé stante ma un altro modo di svolgere l’esperienza scolastica e di vivere le relazioni tra tutti i soggetti.
Significherebbe, a mio avviso, non limitarsi a studiare la democrazia ma viverla davvero, così come nell’educazione alla pace e alla nonviolenza si può, certo, introdurre ‘l’ora di nonviolenza’ e fare lezione su Gandhi o Capitini, ma il loro studio diventa vivo e coinvolgente se abbraccia il modo stesso di fare scuola, di protestare davanti alle possibili ingiustizie, di aprirsi agli altri anziché coltivare egoismi. Nel caso dell’educazione civica, si potrebbe ripartire dando fiato agli organi collegiali ormai sempre più asfittici e asserviti alla logica della scuola-azienda, o della scuola bene-di-tutti-cioè-di-nessuno, e riconsegnare/riassumersi la responsabilità del proprio stare a scuola non solo trasmettendo contenuti ma incarnandoli nella relazione con gli altri.

Bisogna sapere che questo processo, a prenderlo sul serio, può generare conflitto, quello costruttivo, che prelude al miglioramento dei contesti di relazione, a scuola e fuori. Mi torna in mente un episodio avvenuto a Ferrara tanti anni fa. Nella zona con la maggior concentrazione di migranti il Centro di Mediazione Sociale del Comune di Ferrara aveva svolto appunto attività di educazione civica. Un bel giorno una bambina del quartiere, 10 anni, nata da genitori cinesi, si è presentata al Centro con la Costituzione in mano, il libriccino aperto sui diritti fondamentali. Aveva rimostranze sul modo in cui la trattavano in famiglia, e non aveva dubbi che fosse un’ingiustizia: “C’è scritto qui!”.

Questo articolo è apparso con altro titolo anche sull’edizione in rete di Azione nonviolenta, la storica rivista del Movimento nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

PER CERTI VERSI
Di queste cose si può anche guarire

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

DI QUESTE COSE SI PUO’ ANCHE GUARIRE

di queste cose si può anche guarire
erano le diciassette di venerdì
diciassette marzo
millenovecentonovantacinque
non era primavera

SONO PASSATI ORMAI DIECI ANNI

sono passati ormai dieci anni
sai com’è fatta la memoria
si pensa si racconta
si fa storia

E TUTTA LA VITA SI SPANDEVA

si può guarire da certi mali
e tutta la vita si spandeva
liquida nella mente
mi ero fatto piccolo
infinitamente

SOVRANISMO: DIO, PATRIA e ZAR
L’antica ricetta per un nuovo Peron alla milanese e un’Evita all’amatriciana

Dio, patria e Zar. Il sovranismo in tre parole. Nulla di nuovo sotto il sole, aggiungi alcuni concetti a caso tipo famiglia tradizionale, valori cristiani, prima noi, ci stanno invadendo, ospitiamoli a casa loro, autarchia, stampiamo moneta, difendiamo la nostra razza, libertà (intesa come la mia e non la tua), ed ecco pronto un perfetto strumento ideologico per definire i padroni a casa nostra. A piccole dosi, aggiungerei un po’ di insofferenza nei confronti dell’antifascismo (superato perché non c’è più il fascismo – cit.), disagio nei confronti della scienza, ricerca continua e imperterrita del complotto, costruzione del nemico e sua conseguente disumanizzazione e il giochino è fatto.

Il concetto di sovranità nazionale e di confine chiuso ci porta indietro negli anni, nei secoli, in cui il sovrano, lo zar instillava nei sudditi l’amor patrio, come siero per immunizzare il popolo dalle velleità di rivolta. Le dittature si mantengono su questi valori, guerra continua e senza limiti contro nemici veri, verosimili o inventati.

La cultura ad esempio. I professoroni, gli intellettuali, i radical chic, primo ed importante nemico da abbattere e delegittimare.
E come si fa?
Facile.
Ora, nei tempi del tutti connessi è semplicissimo, basta gridare più forte da una tastiera, spammare di continuo fake news costruite ad arte, lanciare input alle bande di sudditi che fanno il lavoro sporco, distruggendo il pensiero civile di chi vuole esprimere un parere discordante o peggio irrispettoso del sultano, su un qualsiasi social network.
E il gioco è fatto. Il primo tassello del domino inizia a cadere.

«Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola», la frase attribuita a Goebbels di non accertata provenienza è l’emblema del concetto del populismo sovranista. La personalità malata del ministro della propaganda nazista tendeva a costrure gigantesche menzogne a cui alla fine credeva pure lui. Quale miglior metodo per convincere gli altri se non quello di essere convinti delle proprie bugie?

I tre elementi cardine che citavo all’inizio continuano a mantenere lo stesso valore dei secoli passati. Attraggono i sudditi come una calamita, facendoli sentire migliori, più forti, parte di un gruppo dominante. Il famoso ‘noi’ è la più grande delle fandonie. Lo zar, quando parla di noi si riferisce a lui, mentre il popolino quando parla di noi non riesce a capire che anch’esso parla di lui. I privilegi di cui sarebbero dotati gli avversari o meglio i nemici, perché le schiere fedeli al sovrano devono proteggere il loro duce da masnade di cattivi, clandestini, esseri contro natura, comunisti che sbucano in ogni dove, peccatori che intaccano le bianche vesti del sultano, non esistonoE quindi vanno costruiti.

I limiti intellettuali di molti sovranisti di casa nostra non sono nemmeno ritenuti limiti dagli accoliti, anzi. Il linguaggio da bar sport, le movenze, l’abbigliamento fintamente trasandato sono prettamente costruiti a tavolino per assomigliare ai propri elettori. “Vedi lui è come me, come noi, dice pane al pane e vino al vino, non come loro che studiano, studiano e non sanno un cazzo”.

E voi? Ma voi chi?
Non sto cercando di analizzare le differenze, con la mia piccola testa, ma sto cercando di raccontare il perché un trinomio vecchio di millenni continua ad essere appetibile alle genti di questo fetente ventunesimo secolo.
Mi sento dire spesso, ma come fai ad essere ancora Comunista? Berlinguer è morto, il Pci non c’è più, il comunismo è stato sconfitto dalla storia. Mi viene da rispondere: “Ma tu, cazzo! che ti ritieni rappresentato dai valori di Romolo, non è che sei più retrogrado di me?”

Qui non parlo di una destra moderna, in quanto i valori sopra enunciati nulla hanno a che vedere con una destra liberale, moderna e repubblicana. Sempre, ovviamente, lontana da me, ma con cui dibatterei volentieri sui tanti valori avversi. Mi riferisco proprio alla maggioranza della destra italiana. Ora, capire perché il popolo italiano, in una sua parte, non so se maggioritaria o meno abbia bisogno di un conducator, di un Peron alla milanese e di una Evita all’amatriciana è materia per sociologi, quello che è decisamente avvilente è capire perché il resto della popolazione italica non sia in grado di smontare le fandonie sovraniste.

Forse se ne esce solamente da sinistra, da una vera sinistra.
Ma anche questo è un tema da dibattere, un po’ come cercare un unicorno in un gregge di mucche. Occorrerebbe un nuovo umanesimo, una compattazione sui valori dell’antifascismo, una riscoperta dei valori fondanti del progressismo. Ma a dire il vero io non vedo luce in fondo al tunnel. Forse quella fioca fiammella che emerge dall’oscurità, sono solo i fari del treno che ci viene addosso.

Al cantón fraréś
Guido Angelo Facchini: “Piaza dal Dòm”

L’autore, Guid’Anzul per gli amici, ha cantato con nostalgia e calore le bellezze di Ferrara. I palazzi, le vie, i monumenti, le mura, i miti, sono presentati con passione in un dialetto nitido, gradevole e schietto. La poesia di oggi è accompagnata, nel volume da cui è tratta, da riproduzioni di E. Baglioni, M. di Shar, A. Pisa, M. Quilici Buzzacchi, G. Barberis.

Piaza dal Dòm

Piaza dal Dòm! L’è ‘l cuór dla mié zità:
na piaza bèla, placida e serena
aηch quand tut i źanìn jè chì al marcà
e i vénd furmént o i compra sac d’avena
propria davanti a cal miràcul d’art
che da ot sècul al sta lì in dispàrt!

Piaza dal Dòm! L’as pòl ben dir parfèta
s’la dèsta in ogni cuór l’amirazióη:
la tór ad Rigobèlo, la turéta,
la statua dla Vitoria e ‘l graη vultóη;
po’, da na part, la nóva pizunàra
e, s’il culòn, i du graη sgnóri ‘d Frara.

Davanti al Dòm agh è du omn ad sass
che, iη zima a di leùn, i fa ‘η graη sforz
par tgnir su la fazàda; lì da bass
as ved cal graη gueriér che l’è Saη Źorź,
ma la cosa più bèla, più divina,
l’è là più iη sù e l’è la Madunìna!

Basta star soquànt dì luntan da Frara
par sintìrs int al cuór uη zèrt śbliśghìη,
na nustalgìa ch’la dvénta na fugàra
sól che ‘s posa sugnàr uη cvèl divìη:
la Madona dil Grazi, al cvèl più bel
ch’agh sia s’la tera e ch’al sta vśin al ziél!

 

Piazza del Duomo (traduzione dell’autore)

Piazza del Duomo! È il cuore di Ferrara: / solare e ariosa, placida e serena / pur se i ‘giannini’ fanno qui cagnara / nel contrattar frumento oppur avena / proprio davanti a quel miracol d’arte / che sta da otto secoli… in disparte. /
Piazza del Duomo! Si può ben dir perfetta / se desta in ogni cuore ammirazione: / la Torre dei Ribelli, la Torretta, / la Vittoria alata e il gran voltone / con, su in alto, i signori di Ferrara; / da una parte, la nuova piccionara! /
Presso il portal due uomini di sasso, / in groppa a dei leon, fan sforzo fiero / per regger la facciata, dove, in basso, / si vede Giorgio, Santo e gran guerriero. / Ma la cosa più bella, più divina / è un po’ più in su ed è la Madonnina. /
Basta che sia Ferrara un po’ lontana / per sentirsi nel cuor un gran languore / di nostalgia che divien caldana / sol che si pensi, pregando con fervore, / alla Madonna, fiore sullo stelo / ch’è qui con noi e sta vicina al cielo.

Tratto da: Guid’Anzul, Il blezz ad Frara, Ferrara, Banca di Credito Agrario, 1976. Presentazione di Luciano Chiappini. Strenna corredata da splendide illustrazioni di artisti molto noti.

 

Guido Angelo Facchini (Ferrara 1904 – Prato 1977)

Laureato in matematica e fisica, giornalista, poeta e storico, direttore artistico della Gazzetta Ferrarese, poi dirigente amministrativo del Corriere Padano.
Il Resto del Carlino del 27 marzo 1977 riporta: “… fu l’appassionato promotore di manifestazioni culturali e artistiche negli anni ’30, quali La settimana ferrarese, L’ottava d’oro, Le Celebrazioni Ariostesche e la ripresa del tradizionale Palio di San Giorgio”. Nel dopoguerra insegnò fisica e matematica; si dedicò anche all’amministrazione e alla consulenza commerciale di aziende tessili. (Note biografiche dall’Archivio Storico di Leopoldo Santini)

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica settimanale curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce al venerdì mattina.
Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

Cover:  Ferrara, piazza Trento Trieste (piazza del Duomo, Listone), foto di Marco Chiarini, luglio 2020)

L’AMICO NASCOSTO DELLA CITTÀ DI FERRARA
Un ricordo di Padre Marcello

Qualche giorno fa, il 13 di luglio, don Andrea Zerbini ha celebrato una messa in ricordo di padre Marcello, di cui di seguito riportiamo il testo dell’omelia. Molti ferraresi, anzi moltissimi – a patto che abbiano superato gli anta – si ricordano di quel frate mistico, mite e gentile, con il pensiero rivolto all’alto e con il dono dell’accoglienza e dell’ascolto.
(Effe Emme)

Padre Marcello dell’Immacolata, carmelitano, potremmo definirlo l’amico nascosto della città di Ferrara. C’era per chiunque fosse segnato dall’afflizione e dal peso della vita, disponibile sempre per chi suonava il campanello del suo confessionale e nessuno se ne andava senza luce, forza e consolazione, rialzato sul cammino arduo della speranza. Un “Avanti”, sorridente era sempre la parola del suo congedo. Al secolo Carlo Zucchetti nasce a Vighignolo, frazione di Settimo Milanese (Mi) il 29 Novembre 1914; nel 1948 è mandato a Ferrara presso il convento di San Girolamo: per trentasei anni la città ha conosciuto l’incessante servizio di carità di Padre Marcello, soprattutto come confessore e direttore spirituale. Nel 1960 diventa Cappellano della Divisione Pediatrica dell’Arcispedale Sant’Anna e qui sperimenta la notte oscura delle famiglie e dei bambini ammalati dell’IPI. Muore nel triduo della festa della Beata Vergine del monte Carmelo il 13 luglio 1984.

Ferrara, Chiesa di San Girolamo

Una domanda mi è nata in cuore: «Chi è Gesù per padre Marcello dell’Immacolata?»
Potremmo rispondere lasciandoci ispirare dai nomi delle poesie di san Giovanni della Croce: Gesù è per lui Fiamma, Cantico, Notte, Fonte.

Fonte cristallina che si infonde nell’anima sprofondata nell’oscurità, presenza di luce. Fiamma viva, come lo sposo del Cantico, l’amico del Vangelo, lo Spirito del Cristo, lo stesso respiro di Gesù: «fiamma che consuma e non dà pena». Ma Gesù è anche notte, dice Giovanni della Croce, «che mi guidasti, oh, notte più dell’alba compiacente! Oh, notte che riunisti l’Amato con l’amata, amata nell’Amato trasformata!». Cantico nuovo è, infine, Gesù quello di un amore inesausto, proprio di chi continua ad amare, anche se cammina per una valle oscura.

Ma non solo. Gesù, per padre Marcello, è la sorgente del suo desiderio di umanità, di libertà di dono: «Cercate – egli scrive – di vivere impostando su Cristo i vostri desideri, le vostre aspirazioni; tenete Cristo come il vostro primo e più caro Amico, a cui confidare ed aprire il vostro cuore; non stancatevi di chiamarlo: è Lui che vi ha chiamati, e più vivrete con Lui, più lo obbligherete a rimanere con voi». «Il desiderio di Dio dispone all’unione con Lui» ci ricorda ancora san Giovanni della Croce; esso è generativo della fede e dell’abbandono in Lui: «La fede, infatti ‒ è ancora padre Marcello ‒ è confidenza e amore, che ci impegna a vedere e sentire anche quando il buio e il chiuso ci circondano: è luce nelle tenebre e armonia serena nel mutismo umano».

L’esatto opposto del sentimento vissuto dal popolo, di cui ci parlano la prima lettura (Is 1,10-17) e il salmo (Sal 49) di oggi. Un popolo senza desiderio, o meglio adulterato dai molti desideri. In esso non arde più un cuore desiderante e amante del proprio Dio, ma un cuore doppio, animato di finta fede e devozione, che recita con le labbra senza tradurre in fatti, che pratica riti vuoti perché privi di un autentico sacrificio, privi del culto spirituale nella vita che è la pratica della giustizia. Gente religiosa che onora con le labbra ma non con il cuore. Essi pongono al centro se stessi, i propri interessi, e così, ricolmi del proprio io, credono di guadagnare il senso della vita senza accorgersi di perderlo perché dimentichi dell’insegnamento del Maestro: «Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, troverà il centro della sua vita».

Diversamente, il vero discepolo di Gesù è colui che ama il maestro più e oltre gli amori umani, pur sempre limitati. È colui che corre fuori di sé alla ricerca di un amore che da dentro il cuore, lo dilata oltre ogni confine, sino a creare una sconfinatezza di bene.

Questo è stato Gesù per padre Marcello. Il centro della sua vita. Ma un centro convesso ‒ per così dire ‒ rivolto verso un altro, dipendente da un altro: «Il centro dell’anima è Gesù». Si è veramente sé stessi nel momento in cui ci immergiamo in lui. La mia risposta, il mio sì di amore mi porta al mio centro, mi unisce a lui, nel centro di me stesso. Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.

L’approdo è strabiliante, ma basta veramente poco per raggiungerlo. Basta anche solo un «bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli», come ci esorta il vangelo di oggi. «Basta un solo grado di amore ‒ ricorda san Giovanni della Croce ‒ perché l’anima si trovi nel suo centro, che è Gesù, essendole sufficiente uno solo per unirsi a Lui per grazia».

E così torno ancora a domandarmi: “Chi è Gesù per padre Marcello?”

Gesù, per padre Marcello, è colui che vuol restare in compagnia nostra. Vuol essere con noi presente e vivo per condividere gioie e speranze, lutti e angosce; per introdurci e renderci partecipi di quella stessa compagnia di amore che si vive nell’intimità trinitaria, dove il Padre e il Figlio escono l’uno verso l’altro, cercano l’uno la compagnia dell’altro grazie a quella vitalità di amore che è lo Spirito santo.

L’amore di p. Marcello per l’umiltà lo si comprende perché ai suoi occhi Gesù è “l’umiltà dell’amore”. Egli ha ricalcato così le orme della pazienza del Cristo e si è immedesimato nell’umanità mite e umile di Gesù vedendo in essa il segno rivelativo dell’amore di Dio per noi: «Sì, per una fede semplice e fiduciosa si richiede umiltà, che non è una virtù degradante, ma considerazione leale e reale di ciò che siamo e di ciò che valiamo. È la virtù della realtà e della verità che offre alla nostra anima sicurezza e prontezza ad accogliere e vivere ciò che Dio ci dice, e a vedere ciò che Dio spera in noi e per noi».

Si scorge in questo pensiero l’esperienza dei Padri del deserto, i quali ritenevano che il demonio può ingannarci e depistarci solo fino a un certo punto. Può imitare tutto ciò che concerne il digiuno, perché egli non mangia, e tutto ciò che concerne il sonno, perché egli non dorme mai. L’umiltà e l’amore però non può mai imitarli. Per questo, padre Marcello non ci ha insegnato né a digiunare né a fare veglie prolungate, ma ha condotto coloro che a lui si sono affidati a camminare sulla via dell’umiltà e dell’amore.

Anche in questo, padre Marcello ricorda il ritratto di quell’amico di Dio ‒ e anche nostro ‒ tratteggiato da San Massimo il Confessore nelle Settime centurie raccolte nella Filocalia: «Un uomo, solo che abbia fede, allontana la montagna del peccato, secondo il Vangelo (Mat. 17, 19-20), con una vita attivamente buona, respingendo da sé i precedenti legami con le realtà dei sensi, incostanti e variabili. Chi è riuscito a divenire un discepolo riceve dalle mani del Verbo frammenti di pani di conoscenza spirituale, ne riempie migliaia di persone e manifesta così con i fatti il potere del Verbo di moltiplicare (Mat. 15, 32-33). Chi è stato capace di divenire un apostolo, risana “ogni genere di malattia e di infermità” e scaccia gli spiriti immondi (Mat. 10,1); bandisce l’attività delle passioni; guarisce le malattie; cioè per mezzo della speranza conduce a rette disposizioni coloro che le avevano perdute».

La gamba di Costantino

Mia madre ha un solo fratello e una sola cognata: lo zio Giovanni Ghepardi e sua moglie Ester. Gli zii hanno tre figlie: Ines, Bella e Guenda Ghepardi, che sono le mie cugine. Ines e Bella sono due ragazze bionde con gli occhi azzurri, simpatiche e socievoli. Gestiscono un bar a Cremantello in provincia di Varese, mentre Guenda fa tutt’altro.
In questo periodo di Covid-19 al bar di Ines e Bella è successo di tutto: prima hanno cominciato ad ammalarsi clienti e non si sapeva cosa avessero, poi è arrivata la clausura, poi la riapertura di solo qualche ora al giorno per i tabacchi, poi la riapertura di sei ore al giorno con distanziamento sociale, poi la riapertura definitiva sempre con distanziamento sociale.  Per fortuna il bar Ghepardi è dotato di uno spiazzo antistante il locale dove è possibile mettere tavolini.  Può così ospitare clienti senza ridurre gli accessi in maniera tanto drastica da rendere inutile la riapertura.

Uno dei clienti più assidui del bar è Costantino, guardiano del museo della ceramica di Cremantello.
Costantino ha una gamba sola, una necrosi ossea ha portato all’amputazione dell’arto sinistro quando aveva vent’anni. Ora ne ha sessanta. Al posto della gamba amputata ha una protesi che lui ogni tanto toglie, appoggiandola al muro più vicino e poi dimenticandosela. Resta tranquillo con una gamba sola e non sa più che l’altro arto non è al suo posto “usuale”.  Quando si rende conto che è ora di andare a casa, non sempre ha voglia di riposizionare l’arto finto e chiede a Ines di  riportarlo a casa. E’ già successo più volte. Ines carica Costantino e la sua gamba sulla sua Twingo e li porta a destinazione. Sono solo cinque minuti di macchina. Bella invece non vuole sapere nulla della protesi di Costantino, credo che le faccia impressione.

Costantino dice che ciò che è importante non è la gamba finta, ma quella vera, visto che ne ha solo una. Credo sia proprio così. Avere una sola gamba, una sola mano, un solo occhio, un solo rene, cambia la vita delle persone. Noi non siamo una mente che prescinde dal corpo. Noi siamo mente e corpo insieme. Se cambia il corpo, cambia anche la mente. Cambia il modo in cui noi percepiamo noi stessi, cambia il modo in cui noi ci approcciamo agli altri e soprattutto cambiano le nostre aspettative nei confronti del mondo. Inoltre resta la paura per ciò che potrebbe succedere al corpo rimasto. Una volta ho provato ad approfondire la questione con Costantino.
E’ come pensavo. Costantino ha cambiato vita nel periodo dell’amputazione. Ha smesso di amare il mondo per come l’aveva sempre amato ed ha dovuto da solo ritrovare il senso dell’esistere. Mi ha raccontato che ha passato un intero anno a guardare la gamba che non c’era. Le parlava addirittura: “Gamba mia, perché te ne sei andata, come potrò vivere senza di te?. Tu che eri parte di me più della mia vita, più del mio sangue e delle mie ossa. Come potrò alzarmi al mattina e non vederti con me, sapere che te ne sei andata per sempre?. So che a volte può capitare, ma ora sono qui solo in questa stanza e guardo il vuoto. C’è uno spazio tangibile che prima era occupato da te e che ora non appartiene più a nessuno: come faccio a gestire un posto che prima era tuo e ora è solo del vento?.” Povero Costantino ha sicuramente passato un periodo molto brutto, era anche molto giovane.

Sua sorella ha raccontato a Ines che, dopo il primo periodo di “quasi-autismo”, Costantino ha ripreso a camminare con le sue gambe: a destra quella di carne, a sinistra la protesi. Su e giù per Cremantello con le stampelle, intanto che il cervello e i muscoli si abituavano alla nuova situazione. Si trascinava con il nuovo arto che non aveva niente di simile al precedente e che non gli piaceva per nulla. Era duro, insensibile, poco adattabile ai cambiamenti, si lasciava dimenticare.
Costantino camminò tanto con quell’arto finto, ma così tanto, che alla fine lui e la protesi diventarono familiari e nell’imparentarsi, si riappacificarono.  Arrivarono a quella specie di indifferenza che li contraddistingue attualmente. Una coppia di fatto, mia troppo felice. A Costantino non importa molto della sua gamba finta, dice che a lei non importa nulla di essere dimenticata.

Sempre curiosa la vita degli uomini.  Nelle menomazioni che possono capitare e nel conseguente riadattamento, c’è sempre molto dolore. Il sentirsi diversi, sfortunati, perseguitati, brutti fa molto male. Un “brutto” che dipende dalla diversità è ancora più drammatico.

In questo momento sono al bar Ghepardi. E’ pomeriggio inoltrato, fa caldo. Guardo i clienti che vanno e vengono, la macchina del caffè che sbuffa mentre lavora a pieno regime. Costantino è là con la sua gamba finta. Se ne sta seduto, parla con tutti, gioca a carte. Chissà come sarebbe stata la sua vita con entrambe le gambe. Magari sarebbe diventato un podista, un motociclista, un grande scalatore. Oppure no, sarebbe comunque stato un guardiano di ceramiche.
Ines dice che Costantino le piace, peccato che abbia sessant’anni e sia troppo vecchio per lei. Dice anche che a lei della protesi non importa nulla e nemmeno della gamba sinistra che non c’è. Costantino sa che è così, per questo va sempre al bar Ghepardi.

Una sera, il giorno del compleanno del guardiano di ceramiche, tutti i clienti più assidui del bar si sono legati una gamba con una corda,  dopo averla girata all’insù sotto il ginocchio, in modo da tenere il piede fermo incollato alla coscia e da sembrare tutti degli amputati. Come tante gru addormentate che stanno su una gamba sola, così i clienti del bar sono diventati tanti Costantini. Quando il vero Costantino è arrivato al bar, ha capito subito cosa stesse succedendo e ha ringraziato per gli auguri. Però non ha riso come gli altri speravano. Il vedere tanta gente come lui non l’ha divertito troppo, anche se ha apprezzato lo scopo buono dell’iniziativa.
Ines ha stappato una bottiglia di vino e tutti sono rimasti in bilico su una gamba sola fino all’orario di chiusura. La mattina dopo al bar c’erano pochissimi clienti. Quello strano tenersi in equilibrio come delle gru senza esserci abituati, aveva lasciato alcune conseguenze. Nella notte erano comparsi ai festaioli dolore ai fianchi, alla schiena e alle gambe. La posizione tenuta il giorno prima li aveva temporaneamente messi fuori combattimento.
Uno dei pochi cliente di quella mattina deserta fu Costantino con la sua gamba finta.  Come al solito, dopo un po’ si levò la protesi, dicendo a Ines: “Al Ghepardi oggi c’è una sola gamba buona, quella che è rimasta a me. In questo momento voi di arti buoni non ne avete, quindi per una volta quello messo meglio sono io”. Poi ha sorriso divertito. Era in vantaggio di una gamba su tutti.  Ines e Bella si sono rasserenate.
E’ brillato il sole sul bar Ghepardi, ed era particolarmente bello.

MORTI DI REGGIO EMILIA
Avevo 19 anni: il mio ricordo per i ventenni di oggi.

«Compagno Ovidio Franchi, compagno Afro Tondelli,
e voi Marino Serri, Reverberi e Farioli
dovremo tutti quanti aver d’ora in avanti
Voialtri al nostro fianco per non sentirci soli»
Fausto Amodei: Per i morti di Reggio Emilia

Mi chiedo cosa dica oggi (e a chi) una vicenda di sessanta anni fa e la canzone che ne fa memoria, Per i morti di Reggio Emilia. I miei ricordi sono più o meno questi.
Con l’amico di sempre, Ranieri Varese, frequento il Consiglio Provinciale della Resistenza, che si occupa di diffondere la conoscenza di quelle vicende tra i giovani. È un argomento pressoché tabù negli anni ’50. Ricordo in particolare, come illuminanti, le conferenze di Riccardo Bauer ed Enzo Boeri. Ranieri ed io siamo i più giovani in quegli incontri preparatori.
Nella primavera del 1960, in un incontro in vista del 25 aprile, vengono espresse preoccupazioni per la situazione del Paese. Si è insediato il governo Tambroni, monocolore democristiano con l’appoggio determinante dei neofascisti. La convocazione del congresso nazionale del MSI a Genova riceve una netta ripulsa dalla città. Viene annullato a fine giugno.

Manifestazioni contro il Governo, per la democrazia e l’antifascismo, si svolgono in varie città nei primi giorni di luglio. Anche a Ferrara, come a Reggio Emilia, la data è il 7 luglio, piazza Municipale strapiena, direi di ricordare una sola camionetta della Celere a garanzia dell’ordine pubblico. Tutto si svolge tranquillamente. Più oratori si susseguono. Saprò poi che la notizia dell’eccidio di Reggio Emilia è giunta al palco, ma è responsabilmente taciuta.

Reggio Emilia, 7 luglio 1960. Le Forze dell’Ordine sparano sulla folla.

Reggio Emilia, 7 luglio 1960. Le Forze dell’Ordine sparano sulla folla.A Reggio Emilia la Celere apre il fuoco sui manifestanti. Muoiono Ovidio Franchi, operaio, 19 anni; Lauro Farioli, operaio, 22 anni, orfano di padre, sposato e padre di un bambino; Marino Serri, pastore, 41 anni, partigiano della 76SAP, primo di sei fratelli; Afro Tondelli, operaio, 36 anni, partigiano della 76a SAP, quinto di otto fratelli; Emilio Reverberi, operaio, 39 anni, partigiano nella 144a Brigata Garibaldi e commissario politico nel distaccamento G. Amendola.

Quest’anno Reggio li ha ricordati con diverse iniziative e in particolare con una manifestazione – promossa da Comune, Provincia, Cgil, Cisl e Uil, Anpi, Alpi-Apc, Anppia, Istoreco e Comitato democratico e costituzionale – il 7 luglio. Partecipava pure Silvano Franchi, il fratello di Ovidio. A Reggio, evidentemente, pensano che la data qualcosa ci dica sessanta anni dopo.

In quel tempo un giovane cantautore, Fausto Amodei, fa servizio militare soldato semplice, Centro Addestramento Reclute di Montorio Veronese. La notizia lo sconvolge e il suo modo di solidarizzare consiste nel comporre una canzone [puoi ascoltarla qui]. Sarà la sua più ascoltata e cantata. Amodei è già attivo nel gruppo di Cantacronache, sorto a Torino nel 1957 tra musicisti, letterati e poeti. Sono le prime canzoni ‘impegnate’ – pure belle – che ho modo di sentire nell’ospitale casa, a Ferrara, di un compagno di Liceo, Afro Maisto. Nella canzone l’autore chiama a una nuova resistenza nel nome dei caduti, già partigiani o loro eredi ideali, i due giovanissimi. Ranieri ed io abbiamo la stessa età di Ovidio!

Di Amodei non dirò altro. Le sue canzoni si possono ancora ascoltare con piacere. Io non le so cantare. Alla cresima, nelle prove del coro, mi dicono “Tu apri solo la bocca!”. Le parole però le so, non solo Per i morti di Reggio Emilia, ma almeno La zolfara, Qualcosa da aspettare, La marcia della pace. Le suggerisco quando qualcuno, chitarra in mano, le intona. Ora non succede più. Di Fausto Amodei, che però non ho mai incontrato, ho condiviso pure una parte di percorso politico: Unità Popolare, Psi, Psiup…

Io sono sicuro che occorre recuperare il meglio dell’Antifascismo e della Resistenza, di fronte al ritorno di un passato infame, nell’esplodere della diseguaglianza sociale, nella negazione delle diversità, nel connubio tra nazionalismo e religione, nella negazione dei diritti fondamentali.
In una intervista Enzo Biagi chiede a Primo Levi: “Come nascono i lager?” “Facendo finta di nulla” è la risposta. È una risposta che condivido e che considero attuale.

Le vicende che ho semplicemente evocato sono state importanti nella mia formazione. Mi piacerebbe parlare ai ventenni di oggi per sentire se a loro questa vecchia storia dica qualcosa di vivo nel loro presente.
Poi penso: se a me, diciannovenne, avessero chiesto di riflettere su un fatto avvenuto sessanta anni prima, nell’anno 1900 cioè, come avrei reagito? Posso pensare all’uccisione di Umberto I o alla Guerra Boera. Alla monarchia si è posto fine con un referendum e non con colpi di pistola e tra coloni olandesi e soldati inglesi i più simpatici sono gli zulù. Sono risposte possibili. Non so se le avrei date.

Questo articolo è apparso con altro titolo anche sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento Nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

Cover: Il corpo di Lauro Farioli, una delle cinque vittime della strage (wikipedia commons)

ABITARE UNA CASA DI VETRO
Cattolici e politica nel Terzo Millennio

Scrive Gregory Bateson: “Dice il proverbio che quelli che abitano in una casa di vetro, soprattutto se vi abitano con altri, dovrebbero pensarci bene prima di tirarsi dei sassi; e penso che sia opportuno ricordare a tutti gli occidentali che leggeranno questo saggio che essi vivono in una casa di vetro… In altre parole, noi tutti abbiamo in comune un groviglio di presupposizioni, molte delle quali hanno origini antiche. A mio parere, i nostri guai affondano le radici in questo groviglio di presupposizioni, molte delle quali sono insensate. Invece di puntare il dito contro questa o quella parte del nostro sistema globale , dovremmo esaminare le basi e la natura del sistema .”.

Vorrei provare, in merito al tipo di testimonianza che potrebbero offrire oggi i cattolici nella vita politica, proprio ad  addentrarmi in quel «groviglio di presupposizioni, molte delle quali sono insensate», «molte delle quali hanno origini antiche», che induce quotidianamente a “tirarci dei sassi”, incolpandoci gli uni gli altri dei «nostri guai», senza accorgerci che il mondo della politica in cui viviamo tutti insieme  è una fragilissima «casa di vetro» e che oggi necessita e più che mai invoca a gran voce un significativo progetto di liberazione. .

Da un punto di vista storico, fino al 1993 la Democrazia Cristiana ha rappresentato il partito di riferimento principale per i cattolici italiani.
Due elementi  ascrivibili agli ultimi decenni del XX secolo poi  hanno impedito oltre quella data alla Dc di continuare a detenere questo ruolo egemone  all’interno dell’elettorato cattolico.
Da un lato la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la disintegrazione dell’Impero sovietico, hanno fatto venire meno il potentissimo collante ideologico anti comunista. Dall’altro le inchieste milanesi di Mani Pulite dell’inizio anni Novanta hanno avuto un ritorno devastante sull’opinione pubblica, all’interno della quale si è arrivati all’ identificazione di una immagine di partito formato da soli corrotti e corruttori.

Il 18 gennaio 1994 segna la data dell’atto di costituzione di un nuovo partito, il PPI, con segretario Martinazzoli. Abbiamo quindi assistito da lì in avanti ad una sorta di ‘diaspora cattolica, con la creazione sia a destra che a sinistra, di tutta una serie di fondazioni e successivo scioglimento, di nuovi gruppi ,partiti, movimenti di ispirazione cattolica la cui ricostruzione però esula dagli intenti di questo scritto.

L’impegno dei cattolici in politica oggi

 Dal Non éxpedit (in italiano: “non conviene), disposizione della Santa Sede con la quale nel 1868  si dichiarò inaccettabile che i cattolici italiani partecipassero alle elezioni politiche del Regno d’Italia e, per estensione, alla vita politica nazionale italiana, il cammino fatto dalla Chiesa in merito all’impegno dei credenti nelle cose del mondo si è evoluto in modo sostanziale.
Non potendo qui riportare tutte le tappe di tale percorso desidero richiamarne il punto di arrivo conclusivo, estrapolandolo però da un documento che, pur non occupandosi in modo diretto di tale questione, riassume magistralmente i caratteri principali su cui oggi la Chiesa legge il suo rapporto con il mondo e conseguentemente la relazione dei credenti  con la politica. Si tratta del Discorso di  Papa Francesco alla Curia Romana tenuto in occasione degli auguri natalizi del 21 dicembre 2019 .

Il punto di partenza di tale documento è il riconoscimento che “quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali”. Si sottolinea quindi che “l’atteggiamento sano è piuttosto quello di lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente e di coglierle con le virtù del discernimento”.
A tal fine viene suggerita una modalità decisamente innovativa rispetto alla tradizione:
”Noi dobbiamo avviare processi e non occupare spazi: Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa. Da ciò siamo sollecitati a leggere i segni dei tempi con gli occhi della fede, affinché la direzione di questo cambiamento risvegli nuove e vecchie domande con le quali è giusto e necessario confrontarsi”.

Nel documento si prende atto della fine di una epoca, l’epoca in cui esisteva il mondo cristiano da una parte e  un mondo da evangelizzare dall’altra: “Adesso questa situazione non esiste più… Nelle grandi città abbiamo bisogno di altre mappe, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti: Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata.“.

E infine il richiamo all’ultima intervista del Cardinal Martini, fatta  a pochi giorni dalla morte, non lascia alcun dubbio interpretativo sul senso della riflessione fatta nel documento e sulla direzione da prendersi:
«La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. […] Solo l’amore vince la stanchezza»”.

Sono affermazioni queste di una portata ‘politica’, nel senso dell’etimo greco del termine, straordinaria, in continuità senza dubbio con la direzione tracciata a suo tempo dal Concilio Vaticano Secondo, ma direi ancora più potenti oggi, poiché parlano direttamente all’uomo del terzo millennio e ad una società diversa da quella a cui si rivolgevano i padri conciliari.
La direzione dell’impegno della chiesa e del credente è chiaramente leggibile in questo documento, ma desidererei renderla ancora più evocativa affiancando una immagine metaforica tratta dal Mito della caverna narrato nel settimo libro de  La Repubblica di Platone.

In estrema sintesi il Mito della caverna descrive la condizione di uomini incatenati in un antro sotterraneo e costretti a guardare solo davanti a sé delle ombre, riflesso di immagini di oggetti che si muovono alle loro spalle. Platone ipotizza che uno di loro riesca a liberarsi dalle catene e quindi a vedere  le ombre per quel che sono, a risalire poi all’apertura e poter ammirare lo spettacolo scintillante delle cose reali. Ovviamente lo schiavo vorrebbe rimanere sempre là, a godere di quella grande bellezza, ma invece decide di tornare dentro la caverna per liberare i compagni, correndo il rischio di non essere creduto.
Platone intende far riferimento indubbiamente al ritorno del filosofo – politico, il quale se seguisse il suo solo desiderio, resterebbe a contemplare il vero, e invece superando il suo desiderio, scende per cercare di salvare anche gli altri: il vero politico, secondo Platone, non ama il comando ed il potere, ma usa comando e potere come servizio per attuare il bene.
Non esiste liberazione se non c’è liberazione anche dell’altro.

Saper ascoltare…

Volendo riassumere in un parola sola tutte le modalità dell’impegno politico del credente, utilizzerei il significato originario di quel “saper ascoltare “ spiegato dal professor Umberto Curi nel suo saggio La porta stretta: Il verbo ascoltare deriva dal greco akounein e nella Bibbia viene utilizzato non soltanto per significare prestare attenzione, ma soprattutto per invitare ad aprire il cuore e mettere in pratica ciò che si è ascoltato.”
Questo ascoltare profondamente è tipico dell’uomo di fede. e non potrà mai essere separato da quella dei bisogni del prossimo.

Se l’impegno politico del credente vuole essere lievito, se vuole essere non un elemento di divisione ma di unione, se vuole essere una ulteriore possibilità per l’altro, allora questo impegno deve essere coraggioso, credibile e creativo.
Ed ecco che una partecipazione coraggiosa, credibile e creativa al progetto di liberazione per il nostro tempo deve essere in grado di rimettere in discussione per lo meno tre antinomie classiche inerenti all’impegno politico del cristiano:
la contrapposizione individuo-comunità, l’opposizione corpo-spirito, il rapporto Chiesa istituzione-popolo.

Per quello che riguarda la prima,quella tra individuo/comunità ,bisogna subito ricordare che è stato il cristianesimo ad introdurre nella cultura occidentale il primato dell’individuo, sconosciuto infatti  sia alla tradizione giudaica dove l’alleanza era tra Dio e il suo popolo, sia alla cultura greca dove alla polis, alla sua salvezza e alle sue leggi, era da subordinare l’interesse individuale. E’ il cristianesimo ad introdurre la salvezza individuale dell’anima: da Agostino in poi la scissione tra individuo e società sarà un suo elemento caratterizzante . E’ questo principio che ha consentito alla Chiesa per secoli di subordinare la politica alla propria visione del mondo. Ma se ascoltiamo il mondo secolarizzato, oggi il rapporto, paradossalmente. si è invertito: il principio del primato dell’individuo introdotto dal cristianesimo, è diventato nel nostro tempo il principio che i cittadini di uno stato laico invocano per esercitare diritti di scelta individuale inalienabile in tema di fecondazione, di fine vita, di unioni civili…fondando così il primato della politica sull’ingerenza ecclesiastica
Il rapporto quindi individuo – comunità deve essere ripensato, poiché oggi non è più sostenibile una salvezza individuale che prescinda da quella collettiva, come ci ha fatto toccare con mano questa ultima emergenza sanitaria. Se esiste il tribunale della coscienza individuale a cui sempre potersi appellare, questa deve tenere conto di una coscienza collettiva a cui rispondere ad esempio in tema di responsabilità ambientale, fiscale, sanitaria e culturale.

Se Antigone, l’eroina della tragedia di Sofocle, da un lato viene presa a modello della difesa di un diritto naturale, di una legge sacra non scritta superiore alle leggi dello Stato, dall’altro ci dobbiamo domandare se è condivisibile la sua scelta di togliersi la vita in nome di quelle idee, ponendo così un ostacolo insormontabile alla possibile apertura di un confronto a causa del suo gesto diventata impossibile.
Solo l’ascolto profondo e reciproco del ‘mondo’ e della ‘fede’ può portare a creare soluzioni inedite dove per entrambi il fine ultimo deve essere comunque il Bene dell’uomo.

Il confronto sulla seconda antinomia, corpo/spirito , può partire dall’ acquisizione  del principio per cui in uno Stato laico le decisioni sul corpo, quelle che riguardano il vivere e il morire, appartengono ai singoli cittadini. “La regola è quella del consenso, dunque della volontà liberamente manifestata da ciascuno”, come ha scritto  Stefano Rodotà in un articolo su Repubblica del 2006.
Al fine però di non permettere la degenerazione di tale principio di autonomia della volontà, in una gestione dell’esistenza dominata da imperativi del consumo e dal narcisismo, serve oggi più che mai dimostrare che le decisioni autonome sul corpo non comportano necessariamente l’appiattimento su una concezione della vita di tipo meramente materialistico, ma che esiste una sua dimensione spirituale non oscurantistica, dove rinuncia, empatia, perdono, sopportazione, dolore possono essere accolte e condivise con dignità.

Infine per introdurre  la terza antinomia Chiesa /popolo può essere utile tornare al recente episodio dell’allontanamento di Enzo Bianchi  dalla comunità di Bose.
Questa dolorosa vicenda ha messo in luce tutta la difficoltà che ha ancora oggi la Chiesa nel gestire in modo efficace le relazioni conflittuali. Per un’autorità  ecclesiale che si impone con criteri di tipo gerarchico piramidale non opponibili e che allo stesso tempo auspica rapporti interpersonali improntati al principio dell’amore evangelico e del servizio, il rischio di mandare messaggi contraddittori, di doppio legame, è altissimo.
Qui la riflessione nelle organizzazioni ecclesiali è carente. Dovrebbe essere fatta finalmente una analisi seria sui meccanismi di esercizio del potere sia a livello di istituzione ecclesiastica, ma anche a livello di rapporti interpersonali, dove invece ci troviamo di fronte ad un vuoto conoscitivo sostituito, a seconda dei casi, da raccomandazioni  alla preghiera, dall’azione dello Spirito, dall’obbedienza se non dal silenzio,  soluzioni che non possono evitare incomprensioni nei fedeli e profonde lacerazioni  nelle comunità.

“Non siamo migliori”

Se l’impegno politico all’interno di un progetto condiviso di liberazione viene esercitato, a vantaggio dell’intera comunità per la destrutturazione di  tutti i meccanismi e le posizioni di potere, allora perde di senso la difesa del proprio particulare, dell’identità specifica cattolica da salvaguardare per esempio nella scelta dei candidati politici, o nelle scelte etiche e  culturali…anche perché “non siamo migliori”. 
“Non siamo migliori” è l’adagio coniato da Enzo Bianchi fin dai primi anni di vita comunitaria, per sottolineare  bene, nel nostro agire, i limiti della nostra umanità; e significativamente è anche il titolo dell’ultima comunicazione della comunità di Bose del 19 giugno scorso, dopo l’applicazione del decreto di allontanamento dello stesso Bianchi.

Illuminante rimane infine sulle modalità di tale impegno politico  uno scritto del’43 di don Primo Mazzolari nel passaggio in cui afferma:
“Ci impegniamo noi e non gli altri, unicamente noi e non gli altri…ci impegniamo senza pretendere che altri si impegni con noi o per suo conto, come noi o in altro modo…ci impegniamo senza giudicare chi non si impegna… Non ci interessa la carriera, non ci interessa il denaro…non ci interessa il successo, né di noi stessi né delle nostre idee…ci interessa perderci per qualche cosa che rimarrà anche dopo che noi saremo passati”.

Cover: foto di Sergio Cebotari